QUELLO CHE ACCADE NEL BUIO

QUELLO
CHE ACCADE
NEL BUIO
CAROL O’CONNELL
QUELLO
CHE ACCADE
NEL BUIO
Traduzione di
Maria Clara Pasetti
Titolo originale:It happens in the dark
Copyright © 2013 by Carol O’Connell
All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any
form. This edition published by arrangement with G.P. Putnam’s Sons, a member of
Penguin Group (USA) LLC, a Penguin Random House Company.
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni
dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi
utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive
o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
ISBN 978-88-566-3792-2
I Edizione 2015
© 2015 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2015-2016-2017   -   Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)
FOTO RICORDO
Ho una fotografia in bianco e nero di quattro bambini su una
spiaggia in Paradiso. È così che ricordavano gli anni della loro
infanzia ai tropici, sull’isola di Pines, dov’è ambientata L’isola
del Tesoro di Robert Louis Stevenson.
Ci sono palme sullo sfondo e i bambini sono in costume da
bagno. Appollaiata su un ramo portato a riva dalla corrente,
Marion sorride e coccola la sorellina Martha. Dietro di loro c’è
Norman, il più grande, quello serio. In primo piano c’è il piccolo George, che racconta storielle tremende e riesce comunque a
far ridere.
Una giornata perfetta. Il Paradiso in un’istantanea.
In seguito l’aranceto di famiglia andrà distrutto in un incendio e il padre dovrà lavorare in una fabbrica di zucchero per
guadagnare il denaro necessario per tornare a Boston. Sulla nave che li riporterà a casa i bambini dimenticheranno tutte le
parole spagnole che conoscevano. Nel loro futuro c’è una guerra
mondiale, uniformi, armi e matrimoni. Sale da ballo per le truppe, jazz e swing. Un periodo eccitante per essere vivi... così vivi.
Una bomba atomica cadrà facendo spuntare una nuvola a forma
di fungo. Le loro famiglie cresceranno in mezzo ad altre guerre,
a una rivoluzione tecnologica e sociale, con altri matrimoni, funerali, molti battesimi; mentre loro quattro, fratelli e sorelle,
camminano nella storia.
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Uno dei bambini di quella fotografia sulla spiaggia, Martha
Olsen, è morta lo scorso settembre. Era mia zia. Era l’ultima. Se
ne sono andati tutti.
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1
rollo:
Per rubare un verso a Blake: «Meglio strangolare un bambino nella culla
che nutrire desideri non realizzati».
(Si gira verso Susan)
Oh, scusami. Ti ho innervosita?
Il letto di ottone, Atto I
Il quartiere dei teatri non chiudeva per una bufera di neve. A
est e a ovest di Broadway le strade sfavillavano di luci e il bagliore delle insegne animate annunciava commedie e drammi,
danze e musica. Lungo i marciapiedi chi aveva comprato i
biglietti si riparava gli occhi con guanti e muffole per scrutare
sotto i tendoni colorati davanti agli ingressi.
Con le mani nude infilate in tasca e la testa china, Peter
Beck vedeva solo il marciapiede. La sciarpa incrostata di
ghiaccio era una debole protezione contro la fitta nevicata ma
serviva a nascondere le labbra in movimento del drammaturgo. La voce era bassa e non percettibile dai passanti. Se qualcuno lo avesse guardato in faccia, lo avrebbe giudicato strano,
ma se avesse potuto ascoltare quello che stava dicendo, si sarebbe tenuto a distanza da quell’uomo che borbottava parole
ora irate ora malinconicamente folli.
Il berretto di lana gli fu strappato dal capo ed egli si voltò
per vederlo volare sopra un lampione all’angolo tra la Quarantanovesima e Broadway. Alzò una mano nuda e a fatica
chiuse a pugno le dita intirizzite. «Vento ladro!»
Gli altri suoi nemici erano tutti i teatranti.
Aveva smesso di piangere ma le lacrime non si erano asciugate. Si erano congelate. Borbottando, tremando, Peter passò
davanti all’entrata principale del teatro dove forse gli avreb-
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bero chiesto di fare la fila. Si fermò più avanti, all’ingresso
degli artisti, ma preferì evitare l’umiliazione di dover dimostrare a una guardia chi era, col rischio di essere respinto se il
suo nome non compariva nell’elenco degli eletti.
Girato un angolo e poi un altro, entrò in un vicolo cieco,
col vento alle spalle che lo costringeva a piegarsi in quello
stretto passaggio di uscite di sicurezza e bidoni della spazzatura, e raggiunse la porta in fondo. Ed ecco la maledetta guardia che aveva sperato di non incontrare. Lo sconosciuto col
berretto a tre punte che se ne stava acquattato sotto una lampadina ingabbiata nel vetro a fumare una sigaretta.
Lo avrebbe fermato? Oh, che ci provasse.
Mentre allungava la mano verso la porta Peter capì che non
ci sarebbe stata discussione. Per la guardia era invisibile. Al
massimo lo avrebbe giudicato insignificante. E poi c’era
quell’altra parola, quella che le donne usano per castrare gli
uomini: innocuo.
Be’, non stasera!
Calato il sipario, tutta la compagnia, dagli attori ai manovali, si sarebbe inchinata davanti a lui, si sarebbe pisciata addosso prima di allontanarsi strisciando.
Appena entrato, la porta si richiuse rumorosamente alle
sue spalle mentre le dita di Peter, rosse come aragoste, armeggiavano con i bottoni del cappotto. Quando avanzò verso i
fondali, le luci dietro le quinte vacillarono. Evidentemente il
difetto dell’impianto elettrico era permanente. Alzò gli occhi
per vedere il giovane tecnico delle luci, uno spilungone con
grossi piedi, che stava scendendo da una scaletta per raggiungere un macchinista foruncoloso. Nessuno dei due degnò di
un cenno l’uomo triste intabarrato in lana nera bagnata.
Fosse stato completamente nudo, non lo avrebbero riconosciuto. La neve si scioglieva sulle spalle di Peter e sulla testa
senza cappello e quasi priva di capelli. Togliendosi la sciarpa
mentre camminava, lanciò un’occhiata alla lavagna sul muro
dietro la scrivania del direttore di scena.
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Si fermò.
E il suo cuore si arrestò...
Per un battito...
Due battiti.
Nuove modifiche alle battute erano scarabocchiate sulla
lavagna in bianche lettere a stampatello. La sera della prima
era passata, ma il copione continuava a mutare a opera di una
mano invisibile, un fantasma armato di gesso che dava un significato nuovo alla parola ghostwriter.
Il drammaturgo ruttò. Poi gli venne il singhiozzo. Il pavimento s’inclinò e cominciò a ruotare.
Ore prima Peter Beck era uscito dal suo appartamento,
ubriaco fradicio, e poi aveva perso i guanti in due diversi bar
tra casa e il teatro. Barcollò e quasi cadde quando udì l’annuncio: «Sipario fra trenta minuti!». Rischiando di inciampare a ogni passo, scese furtivamente i gradini per trovare il suo
posto tra il pubblico prima che...
Le porte del foyer si spalancarono e la gente cominciò a
entrare in platea.
Peter trovò il cartello riservato su una poltrona in prima
fila... ma non al centro della fila. Era stato spostato contro il
muro, spazzato via dalla disposizione dei posti decisa da un
lacchè. Le tre poltrone adiacenti contrassegnate da cartelli,
erano destinate agli ospiti del drammaturgo, ma lui non aveva
invitato nessuno.
Gli mancava l’energia per liberarsi dal cappotto pesante e,
volendo risparmiare le forze per l’ultimo atto, si sedette e si
assopì. Di tanto in tanto apriva gli occhi acquosi per guardarsi attorno. Alla sua destra la fila era al completo, a sinistra restavano vuoti i tre posti omaggio, segnale evidente che lui era
un uomo senza amici, di sicuro non ne aveva tra gli attori e gli
addetti ai lavori. Non si era presentato alla prima, e nessuno
di quei bastardi si era preoccupato di chiamarlo per sapere se
stava bene... o aveva fatto a tutti loro il favore di uscire di
scena, magari buttandosi da un piano alto.
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Emergendo dal torpore per girare lentamente la testa, contò gli spettatori. Secondo l’unico critico presente, la prima
recita aveva avuto un pubblico di una ventina di anime in uno
spazio costruito per ospitarne più di mille, comunque non un
brutto risultato considerando il tempo orribile, un teatro con
un ingresso disadorno e uno spettacolo non pubblicizzato.
Ah, ma grazie a quella bizzarra recensione sull’«Herald», stasera la gente era aumentata. Almeno settanta persone avevano
sfidato una seconda serata di vento e di neve. Gli spettatori
erano raggruppati nelle file centrali e tutti godevano di una
vista del palcoscenico migliore della sua.
Le luci si abbassarono. Il sipario si alzò. Le palpebre di
Peter calarono e si chiusero. Le risate lo risvegliarono a tratti,
mentre il primo atto si avviava alla conclusione. Si svegliò del
tutto per le grida del pubblico, provocate da un attore che
agitava una mazza da baseball.
Una mazza? E quando quell’aggeggio era stato aggiunto
agli oggetti di scena?
Le luci si spensero. Tutte le luci. Stranamente, persino
quelle rosse delle uscite di sicurezza. Peter sudava nel suo pesante cappotto di lana e quando girò la testa per sciogliere la
tensione del collo, fu assalito da una rapida fitta di dolore. Il
colletto della camicia era fradicio, eppure sentiva il corpo insolitamente elastico e la mente che fluttuava. L’unico suono
giunse da un piccolo oggetto che colpiva il pavimento. Poi,
come l’oscurità, il silenzio diventò assoluto.
Quando si accesero le luci di scena, la donna seduta alla
destra di Peter fu l’unica a gridare, ma non guardava il palcoscenico. Gridava guardando lui. Lui si girò verso di lei e gorgogliò una risposta, mentre il mento gli ricadeva sul petto.
Sul palcoscenico due attori, tradendo la loro parte, si rivolsero all’invisibile quarta parete. Scrutando il pubblico videro il
corpo insanguinato del drammaturgo accasciato sulla poltrona
e uno dei due disse all’altro: «Oh, merda. Un’altra volta!».
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2
rollo:
È bloccata. I miei fratelli aprono raramente la finestra. Temono che le mosche possano uscire.
Il letto di ottone, Atto I
L’uomo dell’Unità Crimini Speciali aveva tutto il necessario:
capelli sale e pepe da decano, distintivo d’oro in evidenza e
occhi socchiusi che dicevano a chiunque incontrasse quella
sera: Sono armato. Non farmi incazzare. Ciò nonostante, dovette farsi strada a spallate nel foyer affollato dove gli spettatori rilasciavano deposizioni agli agenti in uniforme. Purtroppo il detective Riker aveva bevuto moderatamente quella sera,
solo due bicchieri di birra al ricevimento di nozze di sua nipote, il che non bastò certo ad attutire l’effetto della gomitata di
uno spettatore nel fegato.
Un ometto con la metà dei suoi anni tallonava Riker, urlando per farsi sentire in quel frastuono e identificandosi come il
galoppino della compagnia teatrale. «Mi occupo di questo e
di quello. Qualunque cosa serva.» Lo chiamavano Bugsy, disse: «Perché devo infastidire tutti come un insetto per ottenere
le cose», e poi aggiunse: «La detective Mallory è già qui. È
arrivata prima della polizia di zona».
Naturalmente! Dall’Upper West Side aveva vinto la corsa
con un handicap di quaranta isolati. Guidatrice spericolata.
Magari le ambulanze e i carri dei pompieri potessero eguagliare la velocità di Mallory nelle strade di Manhattan. Riker
non possedeva un’auto. Messo di fronte alla facile scelta tra
bere e guidare, aveva lasciato scadere la patente da un secolo.
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E aveva chiesto un passaggio in città a un ospite del matrimonio, uno che guidava più lentamente della sua collega, uno
che badava alle strade gelate e alla vita umana.
Riker attraversò le porte del foyer e gli apparve uno spazio
ampio, sfavillante come in technicolor. A metà del corridoio
coperto da uno spesso tappeto rosso alzò gli occhi e, sopra la
balconata, vide il soffitto decorato con ballerini sgambettanti
in pose acrobatiche che si mescolavano incongruamente con
urne greche di stucco sui muri. Un’infinità di elaborati candelabri illuminava le file di poltrone di velluto rosso. Non essendo un poliziotto che frequentava Broadway – gran parte della
sua esperienza teatrale derivava dai film di Hollywood – gli
sembrava di camminare dentro un vecchio film girato prima
della sua nascita. Roba da restarci secchi; non era un’espressione che avrebbe pronunciato, ma era proprio così.
Eccola.
Incorniciata dal sipario rosso, la sua giovane collega Kathy
Mallory era al centro del palcoscenico, immobile sotto una
luce che non la valorizzava e la faceva apparire piatta come
una sagoma di cartone. Ma subito altre luci le caddero addosso, da angolature che donavano ai riccioli biondi un riflesso
arcano, scolpivano gli alti zigomi da gatto e arrotondavano la
sua figura slanciata e sottile... dandole vita.
Il detective Riker non potè a meno di sorridere.
Il tecnico delle luci, chiunque fosse, si stava innamorando
di Mallory.
Accanto a lei, un panciuto detective di Midtown North,
Harry Deberman, agitava le braccia e sbraitava nell’ombra,
evidentemente non amato dal tecnico delle luci. Anche Mallory ignorava il poliziotto di zona, sebbene fosse lei l’intrusa
in quel distretto.
Riker seguì la sua guida fino in fondo al corridoio. Il galoppino si muoveva in fretta ma non era un velocista, sembrava
piuttosto che strisciasse. Anni dopo, ogni volta che gli capitava di pensare a quel giovanotto, avrebbe scordato i capelli
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chiari arruffati e gli occhi azzurri fin troppo brillanti; Riker
avrebbe sempre immaginato Bugsy con dei baffoni e la coda.
Non c’era bisogno che gli indicassero il cadavere, era attorniato dalla squadra del medico legale e da quella della Scientifica. Il poliziotto di Midtown North scese dal palcoscenico,
si avvicinò al gruppo, si tirò su i pantaloni, allargò le mani e
urlò: «Ehi, dateci dentro! Io qui devo lavorare, ragazzi!».
Nessuno ubbidì a Harry Deberman. Nessuno si mosse, se
non per levare lo sguardo verso Mallory che, autorevole nel
suo cerchio di luce, con le braccia incrociate, aveva chiaramente assunto il comando della situazione. Avrebbe anche
vinto la gara di chi era vestito meglio. Il blazer di cachemire
era confezionato su misura e persino i jeans griffati erano di
sartoria. Il suo codice di abbigliamento che trasudava denaro
avvertiva: State attenti! E tutti stavano attenti. Il pubblico,
quello vestito secondo lo stipendio da dipendente statale,
aspettava un suo cenno per portare via il corpo e ispezionare
la scena del crimine... la sua scena del crimine.
A causa del suo collega, Mallory aveva ritardato la rimozione del cadavere insanguinato di Peter Beck di un’ora buona.
Quanta dolcezza. Quanta premura.
Riker si chinò davanti alla poltrona in prima fila che conteneva il morto, un uomo quasi calvo, sulla quarantina o forse
meno. La faccia aveva qualcosa di incompiuto: labbra inesistenti, un tratto di matita al posto della bocca, naso piccolo,
un naso da bambino che non è cresciuto con il resto. Il cappotto di lana nera era aperto sulla camicia impregnata del sangue sgorgato dalla gola tagliata. A terra, ai piedi della vittima,
c’era un rasoio a serramanico, e il cadavere puzzava comprensibilmente di alcol... coraggio liquido necessario per infliggersi quel taglio lungo e profondo.
Be’, era proprio così?
Il detective Deberman gli parlò all’orecchio. «Cosa ci fate
nel mio cortile? La tua collega non vuole dirmi niente.»
In effetti, Riker non aveva idea del perché la sua unità fosse
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stata chiamata, così alzò le spalle. «Io vado dove mi mandano.
Faccio quello che mi ordinano.»
Harry Deberman si piegò sulle ginocchia e indicò l’arma
insanguinata sul pavimento. «Pare... che appartenesse al mio
cadavere. Quelli del teatro mi dicono che questo imbranato si
vantava di radersi con un rasoio a serramanico. Ho tutto sotto
controllo... Voi potete andare.»
Il taglio sembrava vibrato da destra a sinistra.
«Hai detto che conoscevi quest’uomo?» Riker alzò gli occhi per cogliere un cenno da parte di Bugsy. «Era mancino?»
«Già, già» disse Deberman, anticipando la risposta del galoppino. «E l’angolatura del taglio farebbe pensare a un mancino. Ma annusa. Lo senti, l’alcol? Questo tizio ha dovuto
sbronzarsi ben bene per farlo. Quindi non c’è niente per voi
qui. Tutto collima con un suicidio.»
«Omicidio» disse Mallory con tono di disapprovazione.
L’uomo di Midtown North balzò in piedi, ruotò su se stesso e si trovò faccia a faccia con la collega di Riker. Non l’aveva
udita scendere dal palcoscenico e avvicinarsi silenziosamente.
Anche chi aveva l’opportunità di vederla arrivare sobbalzava
di fronte ai suoi occhi allungati. Erano di un verde elettrico.
Se un automa avesse gli occhi...
Mallory guardò il cadavere. «Deberman ha preso una chiave dalla tasca della giacca. La tasca destra di un mancino.»
Voltandosi verso il detective di zona, disse: «Credevi che non
l’avrei notato?».
«Solo una chiave.» Riker si infilò i guanti di lattice e frugò
sotto il cappotto del morto cercando le tasche dei pantaloni e
sentì un rigonfiamento con i contorni rigidi di un portachiavi.
A New York, città blindata, le chiavi di casa solitamente viaggiano a gruppi di cinque: quella della cassetta delle lettere,
quella del portone e altre tre per le serrature che chiudono la
porta dell’appartamento. La chiave sciolta del cappotto era
diventata più interessante. Riker si raddrizzò, tese la mano e
disse: «Dammela».
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Dopo qualche istante, stizzito, Harry Deberman gli consegnò una busta contenente la chiave. Prima che gli chiedessero
cos’altro avesse rubato, l’uomo retrocesse mescolandosi tra i
collaboratori del medico legale e della Scientifica. Con la scusa
di dover andare a occuparsi di faccende più urgenti, Deberman controllò due volte l’orologio e sparì lungo il corridoio.
«Meglio che ti togli di mezzo» commentò Mallory, ma a
voce bassa, e ormai il detective non poteva più sentirla.
«Bel colpo.» Sfilandosi i guanti, Riker si staccò dal cadavere e fissò l’arma insanguinata sul pavimento. «Ma non abbiamo le caratteristiche di un omicidio, se risulta che il rasoio gli
apparteneva.»
Mallory sollevò una mano chiusa, da cui spuntava l’angolo
di un biglietto da venti dollari. «Io dico che quella chiave è
stata messa lì di proposito. La tasca del cappotto era l’unico
posto cui l’assassino poteva arrivare.»
«Non scommetto» disse Riker. Il cappotto nero aveva
l’aspetto sciupato di chi ci dorme dentro. Una tasca era schiacciata sotto la coscia sinistra di Peter Beck, e neppure l’assassino con le dita più leggere sarebbe riuscito a infilarle nelle
tasche dei pantaloni aderenti. Sollevò la busta con la chiave
in una mano, come per valutarne il peso di prova in tribunale.
Ci voleva ben altro. Gli bastò inarcare un sopracciglio per
comunicare alla sua collega: So che mi nascondi qualcosa.
Mallory fece un rapido cenno all’uomo del medico legale,
quello che reggeva un lungo sacco con chiusura lampo per
trasportare il cadavere. Mentre i tecnici forensi si avvicinavano al morto, lei infilò un braccio sotto quello di Riker e lo
condusse in disparte per mostrargli i soldi della scommessa.
«Io dico che la chiave sciolta apre la porta di casa della vittima, e il rasoio appartiene veramente a lui. Quindi è omicidio.»
Marmocchia criptica.
Lui scosse il capo, non gli bastava per abboccare. «Ma perché chiamare noi?» Una morte di quel genere raramente attirava l’attenzione della Crimini Speciali. La loro unità preferi-
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va situazioni con un numero più alto di cadaveri. «Io dico...
lasciamo la faccenda alla polizia di Midtown.»
E sorrise. Mallory no.
«A meno che non ci sia altro.» Il sorriso di Riker si allargò,
segno che lei avrebbe dovuto intascare i venti dollari e lasciar
perdere. Per farglielo capire guardò l’orologio. «Perché perdere tempo per una...»
«Ieri sera c’è stata la prima,» disse Mallory «ma lo spettacolo si è interrotto alla fine del primo atto. Tra il pubblico
c’era un consigliere municipale, che è tornato stasera per vedere il seguito. E di nuovo la recita si interrompe prima della
fine. Così lui chiama un amico... un caro amico. Ha il numero
del telefono di casa del comandante, e Beale conviene con lui
che due morti, uno per recita, sono un po’ troppo.»
«E Beale tira dentro la Crimini Speciali.» Dunque non era
stata solo la guida spericolata a fare arrivare la sua collega
sulla scena prima della polizia di zona. E ora capiva anche
perché il poliziotto di Midtown North avrebbe tanto voluto
occuparsi di quell’omicidio. Per un detective mediocre come
Harry Deberman presentava tutti gli elementi per fare carriera.
E ora erano in gioco.
Riker si sentì toccare la spalla e, voltandosi, vide un giovane uomo con lunghi capelli scuri. Non fosse stato per il blocnotes e per le cuffie microfonate, pareva uscito da un dagherrotipo ottocentesco. La camicia aveva un colletto vecchio stile
e portava un cravattino texano. Il detective già sapeva che,
abbassando gli occhi, avrebbe visto stivali a punta. Infatti. Il
tipo era di bell’aspetto e con denti da divo del cinema ma si
presentò come il direttore di scena, Cyril Buckner.
Il cowboy di città si rivolse a Mallory. «Temo vi siate fatti
un’idea sbagliata su...»
«L’ho cercata» replicò lei. «Dov’è stato tutto questo tempo?»
«Ero bloccato nel foyer con il pubblico.» Solo adesso, spiegò, gli agenti lo avevano lasciato libero con l’ordine di presen-
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tarsi da lei. E dopo essersi scusato per aver origliato, Cyril Buckner aggiunse: «Questo è un suicidio. L’altra morta non conta».
«Eh?» fece Riker.
«La donna di ieri sera è morta d’infarto.» Il direttore di
scena estrasse un foglio di giornale dal bloc-notes. «Ecco perché abbiamo avuto questa recensione straordinaria.» Lo tenne in modo che entrambi potessero leggere le parole in neretto. Uno spettacolo da morire. «Il critico ha recensito solo i
primi trenta minuti. Cioè fino a quando la donna è crollata e
la polizia ci ha fatto chiudere. E neppure stasera siamo arrivati oltre il primo atto.»
Mallory, la detective che non aveva bisogno di occhiali per
leggere, strappò il foglio dalla mano di Buckner. Dopo aver
scorso l’articolo sorrise, per nulla turbata da una morte per
cause naturali. «Anche la donna morta ieri aveva un posto in
prima fila... e anche lei è morta alle otto e trenta.» Mallory
sollevò il mento di un centimetro per chiedere al suo collega
se credeva a quel genere di coincidenze.
Non ci credeva.
Si spalancò una porta del foyer e un giovane agente arrivò
di corsa gridando: «Abbiamo parlato con tutti!». Agitando le
braccia come un ragazzino che raggiunge la casa base in una
partita di baseball, si fermò accanto a Mallory. «Non c’era
nessuno seduto dietro al morto. C’era una signora nel posto
accanto. Ha del sangue nei capelli. Ma non ha visto niente...
finché le luci non si sono accese. La sala è stata completamente al buio per forse un minuto.»
Mallory girò lentamente il capo e puntò gli occhi su Bugsy,
l’ometto che fungeva da fattorino per tutti, bloccandolo a metà di un passo. «Dov’è il tecnico delle luci» gli gridò. «Fallo
venire qui.»
Prima che Riker arrivasse, il galoppino aveva avuto modo
di conoscere Mallory e si precipitò a eseguire l’ordine. Nonostante le gambe corte, salì i gradini del palcoscenico alla velocità della luce. Superate le luci di proscenio, piegò la testa
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all’indietro e gridò verso l’alto: «Gil, vieni giù! Ti vuole lei!».
Inutile dire il nome; era ovvio che si riferiva a Quella Che Mi
Fa Paura.
Alcuni fogli di carta scesero lentamente dall’alto, da un
punto imprecisato. Pareva che Mallory rendesse nervoso anche il tecnico delle luci. Dopo uno scalpiccio sulla scaletta,
apparve sul palcoscenico un giovane alto, goffo, con piedi
enormi, in jeans e felpa. Aveva occhi solo per lei... occhi sbarrati.
Mallory indicò una fila di piccole lampadine collocate a
terra che conducevano alla luce rossa di un segnale di uscita.
«Quando si spengono le luci in sala, che intensità hanno quelle luci di sicurezza?»
«S-s-solo quanto basta perché la gente trovi l’uscita» disse
Gil. «Tranne che alla fine del primo atto... quello era il momento del blackout. Tutte le luci restano spente per quaranta
secondi. Anche nel foyer. Anche le uscite di sicurezza.»
Il direttore di scena sbraitò: «Così si viola il regolamento
antincendio! Cosa diavolo credevi...».
«Io ho seguito le sue istruzioni, okay?» Gil cadde in ginocchio e cercò disperatamente tra le pagine sparse sul palcoscenico. Ne afferrò una e la sventolò come una bandiera bianca.
«Ecco! Controlli. È stato lei ad aggiungere questa nota alle
mie...»
«No» disse Cyril Buckner. «Io non ho apportato alcuna
modifica alle indicazioni per le luci.»
«Quindi quelle lampadine sono sempre state accese ieri sera,» disse Mallory «ma non stasera.» Guardò il direttore di
scena, sfidandolo a mentirle. «Chi altro può apportare modifiche di questo tipo?»
«Il ghostwriter.»
Dietro le quinte una scala di legno conduceva a una piattaforma nel sottotetto. Lungo il corridoio bordato da una ringhiera c’erano i camerini, e Mallory desiderava vedere cosa si
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nascondeva dietro quelle porte chiuse, ma il capo della Scientifica si era sentito male ed era stato portato via e lei non era
ancora riuscita a convincere il resto della squadra a violare il
regolamento concernente perquisizioni e confische.
Forse più tardi.
Mallory era tra le quinte con il galoppino. Dalla scrivania
di Cyril Buckner si vedeva il palcoscenico tramite un’apertura
praticata in un fondale, Mallory però guardava dall’altra parte, leggeva le parole su una grande lavagna appesa a un solido
muro di mattoni.
«Quella lavagna è vecchissima» disse Bugsy. «È là da sempre. Il ghostwriter è l’unico a usarla. È il suo modo per comunicare con noi.»
«Finora non aveva mai sconfinato nel lavoro dei tecnici.»
Cyril Buckner arrivò alla fine della conversazione, accompagnato da un poliziotto in uniforme. Il direttore di scena si girò
per leggere il messaggio sulla lavagna. «Oh, merda! Be’, sappia che questo è nuovo.» Fece scorrere le immagini sul cellulare per mostrare alla detective cosa c’era scritto prima.
Mallory confiscò il telefono e, a un suo cenno, l’agente portò via il direttore di scena. Bugsy rimase, senza mai staccarsi
da lei, come legato a un guinzaglio. Ora quell’ometto era la
sua creatura.
Con la schiena rivolta alla lavagna, la detective scrutò attraverso l’apertura nel fondale. Tra gli arredi di scena – un letto
di ottone, un tavolo e una sedia a rotelle – gli uomini della
Scientifica stavano in piedi su delle X disegnate a terra in corrispondenza con le posizioni degli attori per ricostruire il momento in cui il corpo del drammaturgo era stato scoperto in
prima fila. Gli attori e i macchinisti, tenuti d’occhio dagli
agenti, erano seduti in platea su poltrone molto distanti tra
loro. Ma uno, e solo uno, era riuscito ad allontanarsi per un
po’. Il teatro echeggiava dell’andirivieni di poliziotti e tecnici,
e nessuno aveva notato il fuggiasco che scriveva sulla lavagna.
«Quel fantasma è l’unico che usa il gesso» disse Bugsy. «Il
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direttore di scena usa il computer.» Aprì un cassetto della
scrivania e sollevò un portatile per mostrarle una pila di fogli
stampati. «Ecco. Appunti sulle prove, indicazioni per le luci,
cambiamenti di battute. Li appendo in bacheca accanto all’ingresso artisti.»
Riker si avvicinò mentre il galoppino narrava la strana storia di un copione che ne sostituisce un altro, battuta dopo
battuta, tramite cambiamenti anonimi scritti sulla lavagna.
Il suo collega lo stava ascoltando? No, per niente.
Riker si tolse il cappotto e si sedette sul bordo della scrivania. Gli ci volle solo un istante per leggere le parole sulla lavagna, tuttavia continuò a fissarle mentre Mallory lo osservava
sbalordita. Non c’erano pieghe o macchie sul vestito, sebbene
lui ricorresse alla tintoria solo quando gli indumenti erano da
buttare. Un vestito nuovo? Solo un matrimonio in famiglia
avrebbe meritato quella misura straordinaria; ai funerali Riker era più trascurato. Lei non era stata invitata, forse perché
non partecipava mai a eventi sociali. Ma quando lui si era
stancato di chiederle di accompagnarlo?
«Guarda qui.» Gli porse il cellulare del direttore di scena
per mostrargli la piccola fotografia che riproduceva i caratteri
in stampatello tracciati col gesso bianco. «Il ghostwriter stava
riscrivendo il dramma di Peter Beck.»
Giacché non portava gli occhiali in pubblico, Riker si limitò ad annuire, senza staccare gli occhi turbati dalla lavagna
che gli stava di fronte.
Bugsy si chinò per vedere la fotografia sul piccolo schermo.
«Oh, quella è la modifica del fantasma per il secondo atto.»
Le parole scritte col gesso erano state cancellate e sostituite
da un nuovo messaggio: buonasera, detective mallory. sei
la mia ispirazione. perdonami, musa. è crudele, lo so, ma dovrai perdere la tua bella testa. oh, che cose cruente faccio
per l’arte.
«Molto formale» commentò Riker. «Persino per un primo
appuntamento.»
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