PDF Delitti di lago

Delitti di lago
Antologia di racconti gialli
a cura di Ambretta Sampietro
I diritti d’autore dalle vendite di questo
libro saranno interamente devoluti
al FAI (Fondo Ambiente Italiano)
Delegazione Verbano Cusio Ossola
ENZIMI
Copyright 2015 © Morellini Editore
by Enzimi Srls
via Ambrogio Alciati 7 – 20146 Milano
tel. 02/45491653
www.enzimilab.com
[email protected]
www.morellinieditore.it
facebook.com/morellinieditore
Grafica e impaginazione di CreaLibro di Davide Moroni
Grafica di copertina: Sara Rambaldi
Immagine di copertina: Ambretta Sampietro
ISBN: 978-88-6298-370-9
Data di pubblicazione: marzo 2015
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge
e a norma delle convenzioni internazionali
Indice
Prefazione di Ambretta Sampietro.................................... 7
Il giorno del persico di Cristina Bellon................................9
La Ripa di Angela Borghi...................................................22
La memoria del faggio di Mercedes Bresso.........................32
Sepolcri imbiancati di Rossana Girotto..............................52
Il cielo capovolto di Daniele Grillo....................................72
Ricordo d’infanzia di Alessandra Guzzonato.......................91
Gocce di Riccardo Landini............................................... 109
La luce infranta di Giorgio Maimone............................... 123
Certe mattine di Antonella Mecenero................................ 129
La fonte di Sabrina Minetti.............................................. 153
La Signora del lago di Emile Munch............................... 174
I tratti allarmanti di Emiliano Pedroni.............................. 193
Il tatuaggio rosa di Maurizio Pellizzon.............................. 211
La cena in sospeso di Alberto Pizzi................................. 223
Benvenuto marescià di Liana Righi ............................... 237
L’amaro del Mottarone di Renato Rizzi.......................... 252
Il regalo di Chiara di Sergio Roic.................................... 263
Presenze di Federico Spinozzi............................................ 274
E poi il buio di Gianluca Veltri......................................... 296
L’albergo di Laura Veroni................................................ 310
Gli autori...................................................................... 325
Ringraziamenti....................................................... 334
A Bambi e a Tecla
e ai loro insegnamenti
Prefazione
Prefazione
Delitti di lago è la terza antologia realizzata con racconti
gialli di ambientazione lacustre, dopo le fortunate Delitti
d’acqua dolce e Giallolago.
I racconti sono ambientati sui laghi Maggiore, d’Orta,
di Mergozzo, di Varese e di Lugano.
Alcuni sono stati scelti tra quelli che hanno partecipato all’edizione 2014 di Giallostresa, altri, tra cui
quello della vincitrice Rossana Girotto e di Antonella
Mecenero che si è aggiudicata il premio per l’ambientazione più originale, sono stati scritti appositamente per
questa antologia. Ci sono anche quattro guest star, Mercedes Bresso, Giorgio Maimone, Sergio Roic e Gianluca
Veltri, autori che avevano partecipato alle edizioni precedenti di Giallostresa.
I luoghi sono reali e le storie rigorosamente di fantasia.
Il lago rappresenta l’ambientazione ideale per delitti
e misfatti, è sinonimo di fascino e mistero, cangiante e
mai uguale a se stesso. Nei venti racconti che compongono l’antologia Delitti di lago si trasforma in un originale
“luogo del delitto”. Le acque trasparenti che riflettono
i colori del cielo, delle montagne e della vegetazione
che li circonda fanno da contrappunto alle intricate vicende, tutte originali e con registro narrativo differente.
La tranquillità e la pace vengono sconvolte da intrighi,
atroci delitti, misteri e segreti inconfessabili.
7
prefazione
Gli assassini sono quasi sempre persone insospettabili, spesso gente di lago come le loro vittime. Il giallo è
un punto di vista insolito per conoscere luoghi ameni e
bellissimi frequentati ogni anno da molti turisti. Tutti i
racconti sono inediti, gli autori sono appassionati del genere, scrittori e giornalisti, nomi noti e debuttanti, in comune hanno l’aver partecipato ad almeno una edizione
di Giallostresa, non necessariamente l’ultima.
Spero che anche questi racconti appassionino il lettore e lo invitino a rivivere di persona sul “luogo del delitto” le avventure narrate.
I diritti della vendita saranno devoluti al FAI, impegnato a promuovere in concreto una cultura di rispetto
della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia e tutelare un patrimonio che è parte fondamentale
delle radici e dell’identità italiane. L’intento di Giallostresa è far conoscere la Terra dei laghi agli appassionati
di scrittura affinché la raccontino nei loro scritti ed invoglino chi legge a visitarla.
Ambretta Sampietro
8
Il giorno del persico
di Cristina Bellon
Prima che l’alba lo sorprendesse, si era già allontanato
dalla riva.
Mentre remava, il lezzo acre, che ancora sentiva nelle
narici, si era mescolato con il profumo intenso del lago.
E non era tutto. Ancora i suoni e le voci della terra gli
echeggiavano nella testa.
«Papà, mi vuoi bene?»
«Sì.»
«Papà, faresti qualsiasi cosa per me?»
«Qualsiasi!»
Quelle parole lo tormentavano. Ma ancora per poco.
Avvertiva che il 3 ottobre sarebbe diventato memorabile,
e non solo per i pesci che avrebbe portato a casa.
Si dirigeva a sud, scivolando sulle acque placide e immote, nel silenzio sacro dell’ombra della notte, che ancora perdurava. Era sua abitudine raggiungere l’eremo
di Santa Caterina, abbarbicato sulla roccia a strapiombo
in uno dei posti più profondi del Verbano. E non certo
per ascoltare i canti dei padri benedettini, ma perché in
quel punto si poteva pescare il persico in grande abbondanza. Appena oltre l’eremo, c’erano dei terrazzamenti
sul fondo del lago, che i pesci prediligevano.
Quando giunse a destinazione, disarmò i remi e si distese nella barca a contemplare il cielo, fino allo scomparire delle stelle. Poi si accese una sigaretta in attesa
9
cristina bellon
di una losanga di luce che tagliasse il buio. Ma quella
mattina, quando sfilò dal taschino l’accendino, scosse
la testa, come se volesse cacciare un pensiero che non
gli garbava. Aspirò. Il fumo gli entrò nei polmoni, e
sentì una vampata di caldo. Eppure l’aria ottobrina era
fredda.
L’uomo ebbe l’impressione di avere una fiamma non
solo nella gola, ma più giù nel profondo, nel pozzo insondabile della sua anima. Buttò la sigaretta in acqua ancor prima di finirla. Non l’aveva mai fatto prima d’ora.
Si guardò le mani. Avevano cicatrici che gli erano venute a furia di tener lenze e reti e di sbrogliare tirlindane
ingarbugliate, quando era ancora uno sbarbato e saliva
in barca con il padre. Gli anni più belli, quelli del gioco
e del divertimento, lui li aveva passati sull’acqua a catturare pesci. Con lo sguardo ironico di chi vuol prendere
in giro se stesso, si mise a ridere, gli sembrava di essere
un vecchio: il volto magro e scarno, segnato da anni di
fatica e dai riflessi del sole sul lago, le mani rugose, la
pelle secca e screpolata non si addicevano a un uomo di
quarant’anni.
Giuseppe era nato e cresciuto a Reno, un paesino a un
quarto d’ora di barca dal monastero di Santa Caterina,
in una famiglia di pescatori. Aveva seguito le orme del
padre, perché erano le sole che gli davano la possibilità
di mantenere la famiglia. Qualche rimpianto l’aveva
guardandosi le mani e il viso, ma anche tanti bei ricordi,
come vent’anni prima, quando portò a riva un persico
che pesava un chilo e mezzo.
I pescatori fortunati di quel giorno erano già rientrati
con un bel bottino di pesci e non immaginavano che
Giuseppe li avrebbe umiliati. Quando scese dalla barca,
tale fu l’invidia che lo canzonarono, ma poi, rosi dalla
10
il giorno del persico
curiosità, dovettero abbassarsi a chiedergli dove avesse
pescato il persico. Avrebbero fatto di tutto per conoscere
il luogo magico, superstiziosi com’erano, ma Giuseppe
indicò loro tutt’altra zona. Alcune mattine dopo, lo seguirono, poi si persero d’animo, ma impararono a rispettarlo: lui era il più giovane tra loro, ed era l’unico
giovane in paese che avesse deciso di fare il pescatore e
di negarsi alla cultura. «Tanto morirai nello stesso modo
di un laureato», gli ripeteva il padre.
Era convinto che suo padre avesse ragione, ma dopo
molti anni, quando i suoi coetanei tornarono al paese
con belle macchine e soldi in tasca, lui si morse le mani.
Ma indietro non si poteva tornare e si dovette accontentare delle soddisfazioni che il lago gli offriva.
Così quel giorno, Giuseppe ostentò la propria bravura, chiudendo la bocca agli anziani pescatori che avevano tutti i figli laureati, ma un persico da un chilo e
mezzo non l’avevano mai pescato. Da allora, Giuseppe
venne chiamato il Persico. E la sua vita cambiò, perché
qualche mese dopo trovò moglie. Conobbe una donna
splendida, dai capelli neri e dagli occhi di fuoco. Ma chi
gli aprì il cuore, avvizzito dalla solitudine del lago, fu la
figlia Isabella.
Ed era al futuro di Isabella che pensava quando
nell’oscurità sentì giungere il mattino. Si asciugò le mani
sui calzoni di fustagno marroni, si sistemò gli stivali di
gomma e si alzò in piedi per vedere quanto la Provvidenza gli avrebbe concesso. Impugnò la canna a mulinello. Scelse un’alborella che guizzava viva nel secchio
accanto a lui e la montò sull’amo. La lanciò lontano,
dove i pensieri non potevano arrivare. Recuperò piano,
a lungo, guardando il cielo che si faceva più azzurro.
Era lo stesso azzurro, macchiato di qualche nuvola, del
11
cristina bellon
pomeriggio precedente, quando abbracciava la figlia di
sedici anni e sua moglie guardava. In modo automatico,
così come succedeva con gli odori o le immagini, aveva
registrato le parole che erano state dette. Come poteva
sapere che avrebbe rivissuto quella scena molte altre
volte?
Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo
dettaglio. Non lo fece di sua spontanea volontà, ma perché fu costretto da altri.
La dottoressa Poretti, la psichiatra richiesta dal pubblico ministero, gli avrebbe domandato, spiando ogni
suo movimento:
«Andava d’accordo con sua moglie?»
«Sì.»
«Come la considerava?»
«Una brava donna. Si arrangiava a far tutto.»
«Quando è stata l’ultima volta che avete litigato?»
«Credo mai.»
Giuseppe aveva imparato a mentire bene. Sapeva che
la menzogna era un’ingiustizia contro i diritti dell’umanità intera ma, se serviva a salvare vite umane, allora
diventava un’azione morale, in concreto.
«Non ha mai litigato con sua moglie, nemmeno
quando le ha detto di essere sterile?»
«No. Ci sono rimasto male. Ma poi quando ho saputo
di Isabella, quando l’ho vista così tenera... tutto è passato.»
Isabella era stata adottata. I genitori naturali avevano
già sette figli e non potevano sfamare un’altra bocca. Vivevano in condizioni pietose, e il più delle volte era il
prete del paese a portar loro da mangiare.
Nella baia, sotto l’eremo di Santa Caterina, di colpo la
lenza aveva iniziato a tirare. Giuseppe cominciò a lavo-
12
il giorno del persico
rare con il mulinello e a ondeggiare leggermente avanti e
indietro. Dopo poco il pesce affiorò ma non aveva l’aria
di volersi rassegnare alla cattura. Guizzò da una parte
all’altra per cercare di liberarsi, di sfuggire dalla morte.
Giuseppe cedette un poco e poi tirò di nuovo, dando
ogni volta un paio di giri di mulinello. Per un attimo,
pescatore, canna, lenza e persico si fusero insieme. Poi
le squame argentee brillarono alla luce del sole, mentre
le ultime gocce d’acqua abbandonarono il persico, per
sempre.
Giuseppe lo raccolse con un retino e lo buttò nella
cesta di vimini. Lo fece in modo automatico, perché la
sua testa continuava a fissare le immagini dei mesi precedenti. Cercava di ricostruire la conversazione e di capire perché fosse arrivato a quel punto. Si sentì un amo
in bocca, quello della giustizia.
Tra tutte le frasi, una in particolare gli era rimasta indelebile nella mente.
«Papà, faresti qualsiasi cosa per me?»
In seguito, la psichiatra avrebbe insistito:
«Ma allora sua figlia voleva metterla alla prova?»
Quelle parole riemersero, così leggere e amorevoli allora, così minacciose e letali mesi dopo.
Anche l’avvocato Binda, il suo difensore, sarebbe tornato alla carica.
«Cosa si aspettava sua figlia da lei?»
Giuseppe avrebbe guardato attonito l’avvocato.
«Suppongo che lei abbia capito perché la interrogo
su questioni che in apparenza possono sembrare banali.
Sto cercando di aiutarla. Per questo ho bisogno del suo
aiuto. Le ripeto: sua figlia cosa si aspettava da lei?»
«Che le dicessi che le volevo bene. Capita a tutti i figli
adottivi.»
13
cristina bellon
Nelle acque profonde del lago c’era un gran movimento. Sembrava che anche i pesci si fossero messi a
discutere il caso e, colti alla sprovvista, aggredivano le
alborelle, rimanendo intrappolati all’amo. Giuseppe era
soddisfatto, la prima cesta era piena di pesci. A quel
ritmo, prima di mezzogiorno, avrebbe riempito altre due
ceste. Sarebbe stata felice Isabella di vederlo arrivare da
vincitore e non da vinto. Era così che desiderava vedere
suo padre. A lei non importava che facesse il pescatore.
Molti, fuori dal paese, dicevano che i pescatori conducevano una brutta vita, ma lei era soddisfatta. Aveva un
solo desiderio. Un desiderio che aveva espresso al padre.
«Che tipo di rapporto aveva con sua figlia?» gli avrebbe
chiesto Zamboni, il pubblico ministero incaricato per le
indagini.
«Ottimo.»
«E che tipo di rapporto avevano madre e figlia?»
«Buono» avrebbe risposto. «Isabella era più legata a
me che a Franca. Le figlie femmine sono più legate al
padre.»
Il sole sorse lieve dall’altura rocciosa e Giuseppe vide
altre barche sparse sull’acqua, più in là, in mezzo al lago.
Alcuni dei pescatori più giovani avevano barche a motore
e pescavano con nuove tecniche, ma il loro pesce – forse
era solo una strana sensazione o forse la verità – sembrava meno buono. Bisognava conoscere i fondali adatti,
i mezzi potevano migliorare la pesca, non il talento dei
pescatori. Giuseppe li conosceva i posti giusti, e in alcuni
periodi dell’anno, in base alle correnti e ai venti, le acque
nei pressi del monastero erano le più feconde.
Proprio al monastero di Santa Caterina era cominciato tutto.
«Mi racconti com’è iniziata questa storia.»
14
il giorno del persico
Sempre le stesse domande, dai carabinieri che si erano
recati a casa, dallo psichiatra, dal pubblico ministero,
all’avvocato difensore.
Le stesse parole erano state ripetute per settimane,
mesi, pronunciate da diverse persone, in luoghi diversi.
«Vuole sapere com’è iniziata questa storia? Avevo
venticinque anni, sposato da cinque e io e mia moglie
ci eravamo rassegnati a non aver figli. Poi un giorno, dal
lago, è arrivato Paolino. Lui il lago lo girava in lungo e in
largo e a pescare andava fino a Zenna, al confine con la
Svizzera. Forse, non è importante... Be’, quel giorno era
arrivato con una notizia. C’era una bambina di troppo
in una famiglia e se ne volevano sbarazzare. Insomma,
l’hanno venduta come si vende qualche chilo di pesce:
per poche migliaia di lire. Ce l’ha portata Paolino, in
barca. Franca aveva chiesto che la consegna avvenisse
all’eremo di Santa Caterina. Là conosceva un frate benedettino, che le aveva promesso di battezzare subito la
bambina.»
La prima volta che Giuseppe prese in braccio Isabella, la bimba aveva un anno. I capelli biondi erano
come il grano e gli occhi verdi come le acque del lago.
Sorrideva. Dopo tanti anni, Giuseppe non aveva mai
provato una gioia più grande. Doveva ammettere che
Franca aveva sofferto molto l’incapacità di concepire un
figlio. Lui, invece, aveva sempre finto che non gliene importasse niente. Ma, quando strinse a sé Isabella, i suoi
occhi smisero di mentire e le lacrime della moglie testimoniarono che lei aveva compreso anche quella cosa.
«Isabella sapeva di essere stata adottata?»
«Sì, mia moglie le raccontava le storie di un pesce
che aveva trovato famiglia nel lago. Sa quelle favole che
si raccontano ai bambini, la sera, prima di addormen-
15
cristina bellon
tarsi... Franca spiegava a Isabella che lei era come quel
pesce, che aveva trovato una mamma e un papà che le
volevano bene.»
«Isabella non ha mai chiesto dei suoi genitori naturali?»
«Sì, noi le raccontavamo quello che sapevamo, certo,
con delicatezza.»
«Non avete mai incontrato i genitori naturali?»
«No, nemmeno quando c’è stato da pagare. Abbiamo
consegnato una busta a Paolino, con dentro i soldi.
Dopo due anni, Paolino è morto d’infarto, mentre era in
barca. Pace all’anima sua! Se anche volessi incontrarli,
non saprei dove andare a cercarli... Sì, più o meno so il
paese, ma di famiglie numerose, come quella di Isabella,
che fanno fatica a tirare avanti fino alla fine del mese, il
lago è pieno. Forse con un po’ di buona volontà riuscirei
a trovare i genitori di Isabella, ma lo farei solo se lei me
lo chiedesse.»
Com’è diversa la vita quando la si vive e quando la si
ricorda a distanza di tempo. A questo avrebbe pensato
Giuseppe, alcuni mesi dopo quel fatidico 3 ottobre. Ma
ora l’uomo remava con regolarità verso sud. La superficie del lago era piatta, tranne che a tratti per qualche
mulinello della corrente. Quando guardò l’orologio, si
accorse di essersi spinto troppo in là. Si ricordò che nelle
prime ore del pomeriggio i vecchi del paese avevano previsto brutto tempo. Le nuvole a terra si stavano alzando
e la costa opposta non era che un’ondulata linea verde
di colline, macchiata da piccoli agglomerati di case colorate. Più in fondo ancora, le montagne già spruzzate
di neve.
«Sua moglie era gelosa del rapporto che lei aveva con
la figlia?»
16
il giorno del persico
«No, o almeno non lo manifestava. Io non avevo mai
fatto mancare affetto a Franca. A volte mi prendeva
in giro, diceva che sarei dovuto nascere donna perché
avevo un innato senso materno.»
Negli interrogatori ci furono diverse fasi: la prima a
Reno, quando tornò a casa carico di pesce, la seconda in
cella sotto le torture del pubblico ministero, poi con l’avvocato Binda, che cercava di ricostruire gli spostamenti
di Giuseppe confrontandoli con l’ora del delitto. L’imputato avrebbe poi riconosciuto che la dottoressa Poretti era
la migliore di tutti, forse perché era una donna e aveva
più intuito. A poco a poco gli aveva strappato la verità.
«Aveva rapporti sessuali con sua moglie?»
«Eravamo sposati da vent’anni. Lei era sempre indaffarata nelle faccende domestiche, a curare la bambina.
Io andavo a letto subito dopo cena, perché mi dovevo alzare molto prima dell’alba. Lei ne approfittava per rammendare o per continuare a lavorare. Mia moglie faceva
la sarta. C’era sempre qualche consegna urgente.»
«Avevate rapporti: sì o no?»
«Sì, a volte, cioè no.» Giuseppe si sarebbe vergognato
e avrebbe cercato il coraggio di sostenere la verità, sotto
il torchio della psichiatra, che l’avrebbe costretto a rispondere a domande imbarazzanti e improvvise.
«No! Si può essere sposati lo stesso, senza avere rapporti. Sa quanti non fanno l’amore?»
La dottoressa Poretti era abile nelle tecniche di tortura mentale. La psichiatra, infatti, gli avrebbe sferrato
un colpo basso:
«Da molti anni, lei viveva qualcosa che potremmo definire una relazione extra coniugale.»
Ecco una parola che non gli era mai passata per la
mente. Eppure, se gli accadeva di non fare l’amore con
17
cristina bellon
lei per molto tempo, era ossessionato dal ricordo delle
ore frenetiche e focose trascorse insieme, dal ricordo del
suo odore, del suo corpo giovane e sodo. Quando era
a letto con la moglie non riusciva a prendere sonno, in
preda a delle fantasticherie lascive.
«Da quanti anni durava la sua relazione?»
Giuseppe faceva finta di non capire.
«Perché non dichiara la verità su questo punto, come
ha fatto per gli altri?»
«Da tre anni.»
L’avrebbe confessato un giorno, alla dottoressa Poretti. La psichiatra preferiva fargli visita in cella d’isolamento, piuttosto che nella saletta del parlatorio, durante
l’ora d’aria di cui era stato privato, per il suo comportamento aggressivo. Giuseppe non aveva mai sospettato
che la vita potesse essere così complicata e che Maria
Rota, la vicina di casa, avesse spiato dalla finestra e
avesse dichiarato davanti al pubblico ministero di aver
visto i due amanti in un tumultuoso amplesso.
«Dove facevate l’amore?»
«A casa.»
«Nel letto coniugale?»
«Sì, attendevamo che mia moglie uscisse per delle
commissioni e, poiché era precisa negli orari, sapevamo
con esattezza l’ora in cui sarebbe rientrata.»
«Non si è mai vergognato di quello che faceva?»
Giuseppe la guardò fisso negli occhi. Poi scosse la testa, come se si fosse riconciliato con se stesso e con Dio.
«Ci amavamo! Ci sembrava la cosa più naturale del
mondo.»
La psichiatra faceva fatica a capire certe cose, ma
era il suo lavoro e fingeva di credere che tutto avesse un
nesso logico nella testa dell’imputato. Eppure dai test di
18
il giorno del persico
Rorschach non era risultata nessuna patologia, la mente
di Giuseppe sembrava equilibrata.
«Sono stanca di amarti di nascosto, voglio farlo alla
luce del sole!»
Non era la voce della psichiatra e nemmeno quella
della moglie. L’amante gli aveva parlato, ma lo aveva
fatto sorridendo, ridendo di se stessa e di lui che la stava
contemplando, con un’avidità incontenibile. E Giuseppe
aveva risposto con la superficialità di un uomo che è al
massimo dell’eccitazione:
«Presto mi amerai alla luce del sole.»
Dal quel giorno tutto era precipitato. Quelle frasi gli
erano ronzate nella testa almeno un milione di volte,
quando pescava, quando andava in chiesa la domenica,
quando trascorreva il tempo libero con la moglie e la
figlia. Come avrebbe potuto confessarlo? Sarebbe stato
accusato di premeditazione. I giornali lo avrebbero dipinto come un mostro.
Tutto sembrava inevitabile. Se ne sarebbero stati tutti
là, per giornate intere, seduti a interrogarlo: magistrati,
avvocati, psichiatri, giornalisti.
Ma questo era ancora lontano quando la mattina del
3 ottobre Giuseppe stava pescando. Aveva riempito due
ceste di vimini. Dieci chili di pesce, immaginava con approssimazione. Non era ancora mezzogiorno e il lago
era ancora calmo. Iniziò a remare verso casa. La superficie piatta del lago gli faceva rimbalzare i riflessi del sole
negli occhi provocandogli un dolore acuto, ma continuò
senza fermarsi.
«Il pubblico ministero ha chiuso le indagini. Ho passato il week-end a leggere e rileggere tutti gli atti del suo
fascicolo. Lei è in una brutta situazione. Le prove sono
schiaccianti. Vuole che optiamo per il rito abbreviato?»
19
cristina bellon
«Che cosa significa?»
«Se lei sceglie il rito abbreviato e si riconosce colpevole se la può cavare con vent’anni. Altrimenti verrà
rinviato a giudizio davanti alla Corte d’assise. Se verrà
condannato dalla Corte d’assise rischia seriamente l’ergastolo...»
Giuseppe avrebbe voluto gridare che era innocente.
Ma non lo gridò e smise di pensarlo. Sapeva che se lo
avesse dichiarato la colpa sarebbe ricaduta su di lei. Lei,
la sua metà del cielo.
«Davanti al cadavere di sua moglie» avrebbe detto il
giudice dell’udienza preliminare «ripeto, davanti al cadavere di sua moglie, bruciata viva, lei è rimasto indifferente, senza pronunciare una parola. Ha qualche dichiarazione da fare?»
Quando il silenzio diventò insopportabile, Giuseppe
iniziò ad ascoltare il tonfo dei remi nell’acqua. E vide,
davanti all’isola Madre, una striscia argentea comparire
sulla superficie del lago. Era il mergozzo, un vento improvviso, proveniente dalla Val d’Ossola, che non aveva
pietà né di barche né di pescatori.
Fu più o meno in quel momento che Giuseppe si sentì
assalire dal panico. Un panico che ancora non aveva
provato. Una stretta al cuore, un’inquietudine violenta
lo spronò a remare più forte. Sempre più forte. Pensava
alla figlia, aveva paura che le fosse successo qualcosa. Il
mergozzo si stava avvicinando. Le onde si sollevavano in
una danza frenetica. La riva era ormai vicina.
Giuseppe sapeva che quelle ultime remate segnavano
la fine, la fine di tutto.
Quando approdò al porticciolo, gli altri pescatori iniziarono a urlare:
«È arrivato il Persico!»
20
il giorno del persico
Ma non c’era nessuno ad aiutarlo. Si sentì solo. Ormeggiò la barca meglio che poté, legandola a un anello,
poi scese. Adesso camminava sulla banchina con le ceste in mano. Si fermò un momento e si voltò a guardare
per l’ultima volta il lago, che aveva perso la calma: il
mergozzo stava iniziando a soffiare furioso. Il Persico sapeva che ci sarebbe stato tutto il paese fuori da casa sua;
la gente si sarebbe scostata al suo passaggio, lo avrebbe
guardato con pietà o forse con rabbia, qualcuno gli
avrebbe sputato addosso, sarebbe stato maltrattato dai
carabinieri, alla fine dell’interrogatorio sarebbe stato fermato per omicidio.
Pensò alla figlia, a quando Paolino gliela aveva consegnata tra le braccia. Ricordò la prima volta che Isabella
aveva pronunciato il nome “papà”, i suoi primi passi,
i giochi insieme, la metamorfosi in una ragazza bellissima e troppo attraente.
Poi rammentò la camera da letto, il sudore sulle lenzuola, l’odore di sesso che impregnava l’aria e sua figlia Isabella che entrava nuda e raggiante mostrandosi
quanto più impudica possibile.
«Papà, faresti qualsiasi cosa per me?»
21
La Ripa
di Angela Borghi
Nell’anno del Signore 1624
Gli abitanti dei paesi vicini la chiamavano così, La Ripa,
quella striscia di terra costretta tra la palude e il lago
di Varese. Ammassate sulla riva poche casupole erano
assediate da frassini e ontani e gli occupanti di quelle
case non avevano pensato neppure a un nome per il loro
paese. Era gente di poche parole e vivevano di pesca.
Vendevano anche a chi veniva da paesi più lontani e
mangiavano quasi solo pesce, di cui il lago era generoso,
perché non avevano spazi per coltivare la terra. Sulla riva
la costruzione più importante era il pontile dove erano
attraccate le barche, la loro ricchezza. Un fiumiciattolo
divideva in due il paese e sfociava nel lago, e per tutti era
Il Fosso. Non erano più di quaranta e si conoscevano
tutti, alcuni si odiavano, alcuni si aiutavano tra loro, la
maggior parte pensava agli affari propri. Scoprire un
morto vicino alla riva del lago, un morto senza dubbio
ammazzato, fu un fatto che sconcertò tutti, che li mise
di fronte a qualcosa di nuovo e di inquietante.
Lo avevano trovato gli uomini che andavano a pescare. Portavano fuori le barche di notte, prima che facesse giorno, quando iniziavano a sentirsi le prime grida
degli uccelli della palude. Ma quella volta l’alba li aveva
sorpresi ancora intenti a fissare attoniti quel corpo immerso in una pozza di sangue che le piccole onde del
22
la ripa
lago non arrivavano a lambire, e non riuscivano a lavare.
Era un giovane uomo, riverso tra il pontile e la spiaggia,
gli occhi e le braccia spalancati verso il cielo.
Non sapevano cosa fare e fu Bartolo, il più scaltro di
tutti, che iniziò ad organizzare una reazione. Bisognava
mandare a chiamare gli sbirri del Podestà e non era una
cosa semplice. La città era dall’altra parte del lago e a
mezz’ora di cavallo dalla riva, e nessuno di loro possedeva un cavallo. Ma pure qualcuno doveva andare. Bisognava uscire a pescare qualcosa: quando il sole saliva
oltre i rami del salice iniziavano ad arrivare gli acquirenti del pesce della giornata, e di solito erano tanti. Bisognava spostare al più presto da lì il corpo di Giovanni
Battista.
Il morto ammazzato era un giovane che si era stabilito lì da qualche anno, inventandosi il mestiere di pescatore che, palesemente, non aveva mai fatto prima. Ci
avevano messo un po’ ad accettarlo ma era protetto dal
prete del paese più vicino. Loro non avevano neanche
una chiesa per pregare e non avevano voglia di tirarsi
contro l’unico ministro di Dio del circondario che già
li vessava continuamente con penitenze, oboli, ed il divieto di pescare la domenica. Piano piano aveva iniziato
a farsi rispettare per la sua facilità ad imparare con le
reti, i bertovelli, le barche e oltre ai persici e ai coregoni
aveva anche pescato una fidanzata, tra le poche ragazze
da marito della Ripa. Ecco, bisognava anche dirlo alla
promessa sposa, Cecilia, figlia di Aurelia e Giuseppe,
che abitavano nell’ultima casa del paese, prima della palude.
Però era urgente riuscire a capire che cosa fosse successo e chi fosse stato a colpire al collo con una lama
Giovanni Battista, in modo da fargli uscire tutto il san-
23
angela borghi
gue che aveva in corpo. Non potevano aspettare che fossero gli ufficiali del Podestà a fare le indagini. Intanto
sarebbero arrivati, ad andar bene, non prima del giorno
dopo, sarebbero giunti senza fretta perché intenti ad occuparsi di ben altri delitti, o furti, o assalti di strada, e
senza troppa convinzione perché non si sarebbero curati
di un ammazzamento tra poveri zotici come loro. Anzi,
sarebbe già stata una fortuna se non avessero provocato
qualche guaio con il loro intervento, come qualche volta
accadeva in quei tempi.
Dopo il mercato del pesce, quando anche l’ultima
barca si fu allontanata verso altri lidi, si formò naturalmente una specie di consiglio tra i più anziani e quelli
che contavano qualcosa, alla Ripa. Si radunarono e si
misero a sedere sulle lastre di pietra dove misuravano il
pesce.
Faceva caldo, le canne erano immobili, l’acqua era
piatta e del colore delle pentole di ferro, i cormorani volavano con battiti d’ala lenti e stanchi.
Hieronima era l’unica donna presente e di gran lunga
la più vecchia del paese, aveva visto così tante stagioni
che neppure lei le sapeva più contare. Prese la parola per
prima:
«Mi avete detto che il sangue era ancora liquido e
il corpo caldo, quindi era appena stato ucciso quando
siete arrivati alle barche.» Non attese neppure la risposta
tanto era sicura delle sue parole. «E significa anche che
chi l’ha sorpreso sapeva che andava a pescare sempre
prima degli altri. Sapeva che per qualche momento sarebbe stato solo vicino al pontile.»
«Tutti lo sapevano. Forse aveva un appuntamento con
qualcuno, con qualche donna magari» le rispose una
voce.
24
la ripa
«Non con mia figlia!» Saltò su Giuseppe.
«Non puoi saperlo...»
«Che bisogno avevano di vedersi di nascosto, prima
della pesca, erano promessi.»
«Va bene, magari un’altra donna.»
«No!» Ma la voce dell’uomo non era più così sicura.
«Lo sai anche tu che Giovanni Battista correva dietro alle sottane, prima e dopo essersi fidanzato con tua
figlia.» Intervenne Andrea alzandosi e sputando tra le
canne.
«Era un bravo ragazzo...» tentò ancora Giuseppe, ma
con minor convinzione.
«No, non lo era.» Hieronima concluse quell’argomento di discussione. «Era un bugiardo e non aveva timor di Dio, nonostante fosse protetto dal prete.»
«E poi era un forestiero» aggiunse Andrea.
«Questo non vuol dir nulla, anche Bernardo lo è»
disse Bartolo.
«Ma se Bernardo abita qui fin da quando era bambino» ribatté un altro.
«Visto che lo nominate, Bernardo aveva litigato tante
volte con Giovanni Battista, anche se a ragione, secondo
me, perché quel bastardo gli metteva le reti sempre nelle
acque dove pescava lui.» Andrea non riusciva a star seduto e continuava a camminare con impazienza. Era un
uomo tarchiato, con braccia forti e occhi stretti come
fessure.
«Bernardo non è l’unico ad aver litigato con lui.» Bartolo era quello dotato di più senso pratico di tutti. «Comunque gli chiederemo dov’era quella notte prima della
pesca.»
«Se sei capace di farti rispondere...» sogghignò qualcuno.
25
angela borghi
Hieronima l’avrebbe giurato che qualcuno prima o
poi avrebbe sospettato di Bernardo. Era uno dei due personaggi meno popolari del paese. Una specie di energumeno con i capelli alle spalle, grigio di sporcizia e che si
intendeva a grugniti solo con il suo cane, una bestia dal
pelo grigio come il suo padrone e dal cattivo carattere
quanto quello di Bernardo. Aveva le mani più grosse di
due badili e se avesse voluto uccidere una persona l’avrebbe fatto così, a mani nude, senza bisogno di usare
un coltello.
«Non è stato Bernardo» concluse il ragionamento a
voce alta e dopo aver bevuto un sorso d’acqua da una
caraffa di terracotta. Gli altri non osarono contraddirla.
Ora si aspettava che qualcuno nominasse Sibillia, l’altra persona poco amata dagli abitanti del paese. Invece
lei era segretamente affezionata alla ragazza alla quale
le voci malevole di certe donne avevano attribuito fama
di strega perché aveva i capelli rossi, non abbassava mai
gli occhi e trovava erbe buone per curare quasi tutte le
malattie.
Intanto l’Angelus era passato da un pezzo, il sole
scaldava la terra e illuminava una nuvola di moscerini
sul lago. Qualcuno aveva portato del pane, qualche fetta
di polenta e qualche alborella cotta sulla brace che avevano mangiato seduti sui massi all’ombra della grande
quercia.
I discorsi si trascinarono così senza approdare a nulla.
Si chiedevano chi possedesse un coltello ma giustamente qualcuno osservò che tutti i pescatori e le massaie ne avevano almeno uno, si domandavano chi potesse odiare Giovanni Battista ma scoprirono che molti,
alla Ripa, non lo amavano e qualcuno lo invidiava per la
pesca sempre abbondante che riusciva a fare. Capirono
26
la ripa
che era importante scoprire se qualcuno degli abitanti
del paese sapesse qualche cosa di più.
La svolta della giornata ci fu subito dopo che Bartolo aveva riportato, dall’uomo mandato in città, che
gli sbirri sarebbero arrivati il giorno seguente e avrebbero voluto vedere il corpo. In quel momento Andrea
trascinò proprio Sibillia sulla riva del lago. Si era allontanato poco prima con la missione di chiedere a tutti se
avessero visto qualcosa, nelle ultime ore di quella notte,
aiutati da una luna luminosa che aveva brillato nel cielo
sereno d’estate. L’uomo teneva senza complimenti per
un braccio la ragazza. La lasciò solo quando furono davanti a Hieronima.
«Perché non spieghi a tutti che cosa ci facevi quella
notte prima dell’alba in giro per il paese? Dovevi incontrarti con Giovanni Battista? Me l’ha detto Agnese che
l’ha saputo da Berta che l’ha vista...» aggiunse rivolto al
consesso.
Sibillia si scostò i capelli dalla fronte e raddrizzò le
spalle, puntando gli occhi verdi fissi in viso a chi osava
guardarla.
«Io stavo raccogliendo l’erba di San Giovanni. Va
presa prima dell’alba, quando è ancora bagnata di rugiada. Ma c’era qualcun altro che scappava dal pontile
delle barche, quella notte.»
«Non dire bugie!»
«E la stessa persona, poco dopo, stava lavando qualcosa dentro al Fosso.»
«Chi era?» La voce stentorea di Bartolo aveva anticipato quella degli altri.
«Era Aurelia.»
Il silenzio piombò inaspettato tra loro. Persino dalla
palude non giungevano più le grida dei germani reali
27
angela borghi
e il lago taceva. Hieronima fu la prima a riprendere la
parola, ma dopo un lungo momento.
«Giuseppe, vai a chiamare tua moglie. Le chiederemo
anche come mai oggi indossa il vestito dei giorni festivi
e non il solito vecchio abito grigio che aveva ieri.»
Aurelia arrivò dietro al marito, con il fiato corto e due
rughe di preoccupazione sul viso.
«Ho lavato il vestito perché era sporco di fango» disse
con tono di sfida, quando le ripeterono la domanda.
«Quale fango, se non piove da settimane? E che cosa
ci facevi in giro di notte?» ribatté Andrea.
Hieronima taceva e la guardava. Passò un momento,
nessuno parlava. Aurelia abbassò gli occhi con rassegnazione e prese un lungo respiro.
«L’ho ammazzato io, quel bastardo.» E proseguì in
fretta: «Ma senza intenzione. Volevo solo spaventarlo
per farlo andar via dal paese.»
«Ma perché?»
«Non volevo che sposasse mia figlia dopo che aveva
ucciso mia sorella, la mia sorellina. Voi sapete che io
vengo da un paese sull’altra sponda del lago, a levante
da qui. Ogni anno venivano gli spazzacamini dalle valli
della montagna, a pulire tutti i camini del paese e si fermavano qualche giorno. Erano ancora quasi tutti dei
bambini, piccoli e magri per passare dalle cappe. Un
anno è venuto anche Giovanni Battista, un po’ più grandicello rispetto agli altri. Si è capito subito che era come
una mela bacata. Insidiava tutte le ragazze del paese,
anche quelle più vecchie di lui. Mia sorella Francesca,
la minore di noi, era bella come un angelo e quel porco
le aveva messo fin da subito gli occhi addosso. Una sera
l’aveva seguita e colta di sorpresa dietro ai fienili: le era
saltato addosso come un animale, con violenza, non cu-
28
la ripa
randosi delle sue grida che nessuno di noi aveva sentito,
lasciandola mezza morta e disperata. Prima dell’alba era
già partito con gli altri spazzacamini e non lo vedemmo
più. Francesca non si riprese e qualche giorno dopo si
era buttata nel lago con indosso il vestito azzurro, il più
bello che aveva. Quando l’ho vista galleggiava sull’acqua come un petalo staccato da un fiore.»
Aurelia si pulì dal volto le lacrime e proseguì, anticipando le domande degli altri.
«Quando Giovanni Battista è venuto alla Ripa il suo
viso mi sembrava familiare ma non ho mai capito che
fosse lui, sono passati tanti anni ed è cambiato. Però non
mi piaceva, d’istinto. Purtroppo Cecilia si è invaghita subito e noi eravamo preoccupati perché sappiamo che è
difficile che venga chiesta in sposa, ci rendiamo conto
che non è una bellezza e poi con la sua gamba zoppicante... Così l’abbiamo accettato. Poi, l’altro giorno, gli
ho visto la cicatrice...»
«Quale cicatrice?» chiese Bartolo.
«Una cicatrice a forma di stella che, al mio paese, avevamo visto al fondo della schiena del ragazzo. Lui aveva
raccontato che si era ferito qualche anno prima cadendo
dentro a una cappa di un camino, chissà poi se era la
verità. Comunque qui io non avevo mai visto Giovanni
Battista senza abiti fino a qualche giorno fa. Ero alla
baia del Re chinata a raccogliere i fasci di lino messi
a macerare nel lago quando lui è sbucato dalle canne
accanto a me, nudo, per buttarsi a fare il bagno. Non si
è neppure accorto della mia presenza. Ma io ho visto la
stella sul suo fondoschiena, e allora l’ho riconosciuto.
Ho passato qualche giorno di angoscia e mi sono ritornati tutti i brutti ricordi di quei giorni. Ma sono andata
lì quella notte solo per dirgli di andarsene, di lasciare
29
angela borghi
in pace la mia famiglia, mia figlia. Preferivo che non si
sposasse mai piuttosto che con quel demonio...»
«Perché hai portato il coltello, allora?»
«Per difendermi, avevo paura che mi potesse mettere
le mani addosso. Invece ha fatto di peggio, mi ha riso
in faccia, beffandosi di me, di Cecilia, persino della mia
povera sorella, e io sono impazzita dalla rabbia e l’ho
colpito al collo, pensavo solo di ferirlo... È uscito un terribile getto di sangue e lui è caduto subito a terra e non
ha più parlato, e poi mi sono accorta che avevo addosso
tanto sangue, sulle mani e su tutto il vestito... per questo
poi mi sono pulita e l’ho lavato. Non potevo lasciarlo
così...»
Giuseppe si era seduto, come se fosse senza forze, e
senza più voce emetteva suoni con la gola ma non riusciva a pronunciare una parola.
Fu come sempre Hieronima a riprendersi per prima.
«Porta a casa tua moglie. Domani gli sbirri del Podestà vorranno sapere come sono andate le cose.»
Il piccolo drappello di paesani si disperse silenziosamente. La tristezza del racconto e del sangue versato si
era stesa su tutti. Ora dovevano solo attendere il giorno
successivo, in cui la donna sarebbe stata sicuramente
portata via, verso la città. Ma qualcuno non si decideva
a lasciare la riva del lago.
«Bartolo, dove avete messo il corpo?»
«Dietro le vasche per il ghiaccio. È il posto più fresco
del paese. Non è un bello spettacolo da vedere, Hieronima...»
«Non importa. Vieni con me, andiamoci subito.» La
voce della vecchia era imperiosa.
Si incamminò lenta, con fatica, ma non ci mise molto
a raggiungere il luogo, aiutata da Bartolo. Parlò di nuovo
30
la ripa
solo quando furono davanti al corpo di Giovanni Battista.
«Levagli il farsetto di pelle, gli scarponi e la cintura.
Domani diremo che l’avete trovato così. Seppelliscili in
un posto sicuro» aggiunse dopo che l’uomo ebbe obbedito senza fiatare. Mentre si avviavano di nuovo verso il
paese lo toccò leggermente sul braccio per fermarlo.
«Io ho visto un vagabondo, ieri sera, che si aggirava
alla Ripa, vestito di stracci. Di sicuro avrà voluto rapinarlo. Non lo pensi anche tu?»
Bartolo la guardava attento. «Gli sbirri lo cercheranno, Hieronima, non si accontenteranno della tua testimonianza...»
«Ma lui sarà già lontano da qui!»
Arrivarono alle case mentre la cappa di calore si sollevava ed il sole si abbassava sull’acqua. La brezza della
sera muoveva qualche piccola onda.
Il lago, adesso, aveva il colore dell’oro.
31
La memoria del faggio
di Mercedes Bresso
Da giorni e giorni i bollettini meteo non facevano che
annunciare pioggia. Claude Muller, professore di Geografia del paesaggio all’Università di Pollenzo, accese la
televisione sperando di ascoltare notizie migliori. L’annunciatrice non riusciva neppure a sorridere sapendo di
dovere una volta di più deludere i suoi ascoltatori:
«Continua il maltempo sull’alta pianura padana. Violenti nubifragi si attendono su tutto l’arco alpino e nelle
pianure circostanti. Il livello dei fiumi è costantemente
monitorato, non si contano ormai più i torrenti esondati e le frane. Anche i laghi destano qualche preoccupazione: sul lago d’Orta l’acqua ha invaso le piazze
di Pella e Omegna, mentre sul Lago Maggiore sono a
rischio i comuni di Pallanza, Feriolo e Cannero, dove
l’acqua sta per superare i livelli di guardia. Numerose
frane hanno interessato i versanti collinari. La terra è
impregnata d’acqua e dove la copertura forestale è assente tende facilmente a smottare... La Protezione civile
invita chi non debba assolutamente spostarsi a restare in
casa e a segnalare qualunque situazione preoccupante.
Le piogge dovrebbero diminuire d’intensità nella mattinata di domani, riprendere poi alla sera e, si spera, il sole
potrebbe tornare il giorno successivo...»
Accennò un sorriso e concluse augurando una buona
serata. Al caldo e all’asciutto preferibilmente, aggiunse
32
la memoria del faggio
Claude mentre si alzava per scrutare la pioggia fitta che
da giorni cadeva in continuazione fuori dalla grande vetrata.
Una coppia di amici milanesi lo aveva invitato a trascorrere qualche giorno nella loro villetta a picco sul
lago sopra Stresa e le isole. Era stato attratto dallo splendido panorama che si ammirava dalle foto che gli avevano mostrato e dall’idea di qualche bella passeggiata
nei boschi circostanti, ma... da quando erano arrivati
non aveva fatto che piovere!
Il giorno dopo i padroni di casa sarebbero ripartiti e
lui era indeciso sul da farsi, lo avevano invitato a trattenersi tutta la settimana ma adesso era incerto, l’idea di
restare inchiodato in casa, da solo, non lo attirava molto.
Si chiese se c’era da fidarsi delle previsioni del tempo,
secondo le quali nel giro di due giorni sarebbe tornato il
sole, notizia che lo incitava a restare...
Il suo amico, Gianni, fino ad allora indaffarato in cucina, si affacciò in salotto per commentare quello che
aveva appena sentito:
«Be’, direi che per noi non ci sono speranze, siamo
arrivati e ripartiremo con questa dannata pioggia, per te
però mi pare che si preannunci il sole, se resisti ancora
per un giorno!»
«Stavo appunto chiedendomi se queste previsioni
siano attendibili.» Claude si alzò, prese dal tavolino il
suo cellulare e aprì l’app con le previsioni del tempo per
cercare conferma di quello che aveva appena sentito.
«Ecco, ecco, sembra proprio vero, qui compare per lunedì un bel sole splendente e anche i giorni successivi è
previsto bel tempo, almeno fino a mercoledì...»
«Bene, allora resta. Ho preparato un aperitivo, mentre
aspettiamo il ritorno di Anna che è andata dal parruc-
33
mercedes bresso
chiere. Poi dovremo decidere se uscire o prepararci qualcosa da mangiare, che ne dici?»
Claude aveva pochissima voglia di affrontare la pioggia, sia pure con la prospettiva di una cena nel simpatico
ristorante di Stresa dove di solito andavano a mangiare:
«Personalmente starei volentieri qui, potremmo accendere un bel fuoco nel camino e poi arrostire la bella
costata che avevamo preso per domani.»
Guardò l’ora: erano solo le sei e malgrado in quel
periodo di marzo le giornate si fossero già allungate,
sembrava quasi notte. Quando le luci si accenderanno,
osservò, il panorama con il contrasto delle fiamme del
camino sarà fantastico!
«Restiamo in casa», propose ancora, «se vuoi posso
dare un’occhiata in cucina per mettere insieme una bella
cenetta.»
«Sì, ma aspettiamo il ritorno di Anna per organizzarci... meglio sentire anche lei.»
***
L’auto, una grossa Bmw, si fermò d’improvviso davanti alla montagna di terra che stava precipitando sulla
strada. L’uomo che la guidava scese per vedere che cosa
stesse succedendo ma poté solo capire che l’avevano
scampata bella! Una parte della collina era franata a due
passi dalla loro auto e bloccava la strada.
La moglie, con la quale stava litigando da quando
erano partiti da Milano, aveva voluto partire a tutti i
costi per la loro villa sul lago (avevano un paio di giorni
liberi e il tempo secondo le previsioni sarebbe tornato
bello lunedì) ma a lui era sembrata una follia spostarsi
per così poco tempo, di sabato pomeriggio e sotto l’ac-
34
la memoria del faggio
qua. Così, mentre di malavoglia guidava con prudenza
sotto quel diluvio, lei aveva continuato a criticarlo per
la sua guida, poi era passata a rimproverargli le continue assenze da casa, infine gli aveva ricordato che
la padrona della ditta ereditata dal padre e che dava a
entrambi gradevolmente da vivere era lei e che poteva
cacciarlo quando voleva!
«Lo so che mi tradisci», aveva detto, «ma attento a te!
Se ti scopro, ti butto fuori casa in quattro e quattr’otto!»
Lui aveva pensato, per consolarsi, al seno grande e
morbido di Lena, la giovane rumena che era la sua segretaria e la sua amante e si era chiesto se davvero la
moglie sospettasse qualcosa o se fossero le solite tiritere,
tanto per affermare una volta di più il suo potere su di lui.
Sua moglie era scesa dall’auto mugugnando, quasi
che anche la frana fosse colpa del marito! Poi si era avvicinata alla montagna di terra, un paio di chilometri oltre
la quale si trovava la loro bella villa.
All’improvviso aveva deciso di ucciderla, vicino ai
suoi piedi, c’era una grossa pietra: la sollevò con entrambe le mani e gliela sbatté sulla testa con tutta la
forza che aveva. La moglie si afflosciò come una bambola rotta e, finalmente, tacque.
Il sollievo però durò poco e lasciò il posto al terrore di
non sapere cosa fare. Doveva prendere una decisione e
in fretta: spense i fari dell’auto che illuminavano troppo
vividamente la scena, trascinò come poté la donna inerte
al di là del bordo della strada e la spinse verso la frana,
vide un albero in bilico sul fronte della frana e decise:
trascinò ancora il corpo sotto l’albero e poi, con tutte le
sue forze spinse l’albero, che precipitò sulla donna con
grande fracasso insieme a terra e sassi fino ad allora trattenuti dalle radici.
35
mercedes bresso
Per poco non ne fu travolto anche lui, riuscì tuttavia a
mettersi in salvo e decise di lasciare l’auto dov’era. Stava
già arrivando un’altra auto e non poteva certo farsi vedere. Sarebbe andato a casa a piedi e avrebbe atteso che
qualcuno gli comunicasse il ritrovamento dell’auto e del
cadavere della moglie.
Presa la decisione, tutto divenne più facile: con l’aiuto
della torcia del suo cellulare girò intorno alla frana, ritornò sulla strada dall’altra parte e percorse rapidamente
i due chilometri che lo separavano da casa.
Appena arrivato, si lavò, si cambiò e nascose in cantina gli abiti sporchi. Poi si preparò un drink, accese il
televisore e studiò mentalmente le spiegazioni da dare.
Non successe nulla, intanto fuori continuava a piovere.
***
Nella villetta sul lago, il professore si era installato in
una poltrona di fianco al camino, di fronte alla grande
vetrata e leggeva un romanzo dal grosso volume che
raccoglieva tutte le opere di Vassilij Grossman, un eccellente scrittore russo perseguitato dal regime comunista, che si era portato per il soggiorno sul lago e che, in
mancanza di attività esterne possibili, stava divorando
mentre Gianni era salito nello studio per controllare le
sue mail.
Intento nella lettura, Claude non udì suonare il cellulare dell’amico, così sobbalzò quando lo vide scendere
di corsa ed afferrare l’impermeabile cerato appeso all’ingresso:
«Ha chiamato Anna, sembra che ci sia una frana sulla
strada, subito prima del paese! È bloccata e non riesce a
passare, mi ha chiesto di andare a prenderla, passerebbe
36
la memoria del faggio
a piedi per raggiungere la mia auto e lascerebbe la sua
parcheggiata in uno spiazzo sulla strada. Sembra convinta che, data l’entità dello smottamento, ci vorrà del
tempo per liberare la strada...»
Claude si alzò bruscamente:
«Aspetta, vengo con te!»
E si precipitò verso la stanza degli ospiti a prendere
il suo impermeabile. Prese anche un grande ombrello e
chiese all’amico se aveva una torcia.
«Ne ho una nell’auto...»
«Prendila, può servire, anche se con la pioggia e il
buio orientarsi!»
E, ben intabarrati, i due si avviarono verso il garage.
Gianni dovette guidare con grande precauzione: l’acqua scendeva con violenza e formava quasi un torrente
sulla ripida strada che da Levo risaliva verso l’Alpino dal
piccolo pianoro su cui era collocata la decina di villette
di cui la loro faceva parte. Malgrado i fari abbaglianti la
visibilità era limitata a pochi metri, al di là dei quali si
intravvedeva solo un muro di pioggia.
Raggiunsero la strada principale e procedettero con
precauzione, quasi a tentoni, per tre, quattro chilometri,
poi dopo una curva la videro: una piccola montagna di
terra, sassi, alberi, sbarrava la strada. Al di là si vedevano i lampeggianti di un’auto della polizia e i fari accesi di alcune auto.
Gianni si fermò e chiamò la moglie col cellulare:
«Siamo qui», disse, «adesso cerchiamo di capire come
si può arrivare...»
«La polizia consiglia di passare, con molta precauzione, al di sotto della strada. La frana dovrebbe essere
stata fermata dalla parte piana e dal guardrail verso
valle...»
37
mercedes bresso
«Aspetta», interruppe Claude, «tu resta qui, vado io
a cercare Anna, mi sono infilato gli stivali e ho preso
anche i suoi... prestami la torcia.»
E si avviò con coraggio verso il buio baratro che fiancheggiava la strada verso valle.
La frana era caduta in un tratto dove il bosco di faggi
alti, diritti, di grande bellezza con i loro tronchi grigio
cenere era stato in parte tagliato, probabilmente per
fare spazio a qualche costruzione. La terra, lasciata
scoperta, si era gonfiata d’acqua ed era scivolata verso
valle. Il professore si chiese quanto sarebbe costato ripristinare il passaggio delle auto e delle persone: eppure era un disastro provocato dall’incuria con cui venivano trascurate le più elementari regole sulla difesa
del suolo!
Fece un giro piuttosto largo cercando di trovare i
punti in cui fosse più facile passare per poi ricordarseli al ritorno. Il terreno era reso scivoloso dalle foglie
secche su cui l’acqua scorreva con violenza, cercò con
cura i punti dove dei cespugli bassi permettevano di
appoggiare il piede evitandogli il rischio di precipitare
lungo il ripido pendio. Aveva chiuso l’ombrello, che
usava come bastone per sostenersi e tirato sul capo il
cappuccio.
Impiegò quasi un quarto d’ora per raggiungere l’altro lato della frana dove Anna, in compagnia di alcuni
cantonieri, poliziotti e curiosi, scrutava il buio in attesa.
«Be’, come tempo per andare dal parrucchiere potevi
scegliere di meglio!» Scherzò mentre scavalcava il guardrail e le porgeva gli stivali:
«Infila questi e preparati a una passeggiata poco gradevole...»
38
la memoria del faggio
E mentre la donna si avviava alla sua auto, che aveva
già parcheggiato in un piccolo spiazzo a lato della
strada, per cambiare calzature e prendere la borsa e un
piccolo sacchetto di spese, Claude si fermò a discutere
con i vigili per capire che cosa avrebbero fatto per ripristinare la circolazione.
«Per questa sera, nulla caro signore, domattina vedremo, dobbiamo capire l’estensione della frana e la sua
pericolosità. Verremo con un geologo e un ingegnere
dell’ufficio tecnico della provincia e sentiremo cosa dicono. E questo non è l’unico smottamento, sappia. Ce
ne sono almeno altri tre o quattro sulle strade dell’Ossola
e dei laghi... intanto stasera mettiamo un bel segnale di
strada interrotta dalle due parti e ce ne andiamo a casa,
sperando che non succeda altro!»
Certo che non tutti sono civili come Anna, pensò il
professore guardando le tre o quattro auto parcheggiate
alla rinfusa, alcune persino con le porte aperte, mentre i
proprietari trotterellavano curiosi verso il luogo franato.
Non restava ai due che rifare il percorso all’indietro e
tornarsene anche loro al coperto. Cosa che fecero sotto
degli scrosci sempre più violenti di pioggia.
«C’è qualcosa di strano in questa frana, borbottò
Claude mentre aiutava Anna a scavalcare il guardrail e
a raggiungere l’auto del marito. Domani voglio venire a
vederla di giorno... non capisco una cosa...» Ma le sue
parole si persero, coperte dalle esclamazioni di Gianni
che era corso ad aiutarli.
Lasciarono i poliziotti a installare dei cavalletti con il
divieto di transito e si avviarono verso casa dove si prepararono un bel fuoco e una cena sostanziosa, accompagnata da una eccellente bottiglia di Gattinara, vino prodotto dal vitigno Nebbiolo a poche decine di chilometri
39
mercedes bresso
di distanza e che nelle migliori annate può competere
con i Nebbioli più famosi delle Langhe.
***
Aveva acceso il televisore per cercare di avere notizie
della frana ma evidentemente si trattava di un evento
troppo frequente in quei giorni di pioggia intensa per
meritare una segnalazione al telegiornale. Provò con
la tele Vci ma anche loro diedero solo vaghe notizie di
numerose frane cadute in varie parti del territorio. Neppure le radio locali sembravano occuparsi della sola di
cui avrebbe voluto sentir parlare.
Cominciava a essere preoccupato: doveva fare qualcosa, segnalare la scomparsa di sua moglie: aveva deciso
di dire che era andata a Stresa per una commissione,
ma sperava che fosse la polizia a chiamarlo, per annunciargli la morte... temeva facendolo lui di essere poco
credibile, di commettere qualche errore... ma ormai doveva agire! Erano passate più di due ore da quando era
rientrato a casa, non poteva attendere oltre!
Cercò nella tasca il cellulare, lo aprì e si chiese che
numero dovesse fare per segnalare un’emergenza: il 112,
il 118? O quello dei vigili di Stresa, che ovviamente non
conosceva?
Alla fine si decise: meglio fare il 118, con quella pioggia la possibilità di un incidente sembrava la prima idea
che potesse venire in mente a un marito che non vedeva
rientrare la moglie. Soprattutto non doveva far pensare
che sapesse della frana, visto che nessun media ne aveva
dato notizia.
Compose il 118 e, quando ottenne una risposta, disse
con voce esitante: «Non so se ho fatto il numero giusto,
40
la memoria del faggio
ma mia moglie è partita da qualche ora da casa e non è
ancora tornata. Doveva fare solo qualche commissione
e, con questa pioggia, ho paura che abbia avuto un incidente... il cellulare suona ma nessuno risponde...»
Il suo interlocutore chiese se conoscesse il percorso
approssimativo dell’auto della moglie, poi rispose:
«Guardi, in quella zona non abbiamo avuto segnalazioni di incidenti, se vuole le passo la polizia, che forse
ne sa più di me... in ogni caso... non si preoccupi, non
ci sono stati casi gravi, se no ne saremmo al corrente.»
E gli passò la linea della polizia.
Ripeté il discorsetto che si era preparato e l’uomo
che gli aveva risposto, dopo avergli posto parecchie domande che lo fecero sudare freddo, gli disse che in effetti
c’erano state alcune frane, una anche nella zona dove
probabilmente doveva transitare sua moglie:
«Forse sarà bloccata sulla strada, da quanto sappiamo
non c’è modo di passare, se non a piedi e con molti
rischi... a che distanza si trova casa sua? La frana dovrebbe essere vicino a un bosco di faggi...»
Stava per rispondere «a un paio di chilometri» ma si
bloccò a tempo:
«Mah, i boschi qui sono tanti, ce n’è anche uno piuttosto vicino, è difficile fare una stima sulla base della sua
descrizione...»
«Be’», l’uomo sembrava scocciato, «non so che dirle,
se vuole vada a vedere, può darsi che sia proprio lì, ma
lei è a piedi?»
«Certo, l’auto l’aveva mia moglie...» Si morse la lingua, perché diavolo non aveva usato il presente? Per fortuna l’altro non sembrò rimarcare nulla.
«Bene, grazie, adesso vedo che fare, se avesse notizie...
Posso lasciarle il mio telefono?» E dettò a un signore che
41
mercedes bresso
sembrava poco interessato il numero del suo cellulare e
quello di casa.
Poi tornò in soggiorno (chissà perché aveva chiamato
stando in piedi nell’ingresso), si versò un altro bicchiere
e rifletté su cosa fare. Alla fine decise di telefonare a tutti
i numeri di emergenze varie che trovò su un annuario,
tanto per dare l’impressione di non lasciare nulla di intentato.
La sola cosa che non fece fu di avventurarsi sotto la
pioggia: l’ultima persona al mondo che doveva trovare
sua moglie era proprio lui!
Sul tardi si addormentò davanti al televisore acceso.
Fu solo alle tre del mattino che, finalmente, suonò il
cellulare: i vigili di Stresa gli dicevano di aver trovato
la sua auto aperta, sulla strada davanti a una frana, a
pochi chilometri da casa sua. Ma non c’era traccia di
sua moglie.
«Ma avete cercato?», disse con la voce più angosciata
che riuscì a farsi uscire di bocca.
«Cosa vuole che cerchiamo, caro signore? Con questa
pioggia e nel buio? Ci provi lei, se vuole... ma se ascolta
il mio consiglio, venga domattina, appena farà chiaro.
Se sua moglie è qui la troveremo, può darsi che si sia
rifugiata in qualche casa e che sia senza telefono...»
Gli venne un’idea brillante:
«Ha ragione, se non ha il suo telefono non ricorda
nessun numero, non saprà come chiamare! Grazie farò
come dice lei, appena fa chiaro vado a vedere, lasci le
chiavi dell’auto nel ripostiglio sotto il cruscotto, tanto
non credo che nessuno verrà a portarsela via! Grazie ancora e mi raccomando... Se ha notizie...»
Nel riporre il cellulare si disse che, per il momento, non
era andata troppo male... adesso doveva mettersi a dor-
42
la memoria del faggio
mire vestito, così l’indomani avrebbe avuto l’aria distrutta
come da copione... e poi... si sarebbe affidato all’istinto.
Si sentiva più calmo e, soprattutto, pregustava già i
lunghi anni tranquilli e agiati che gli si profilavano davanti.
***
Il rumore della pioggia che batteva sulle pietre del cortiletto su cui dava la sua camera svegliò Claude.
«Dannazione! Le previsioni ci avevano azzeccato: ancora pioggia e umidità fino a sera!»
Salì in cucina da dove proveniva un buon profumo
di caffè e passando si fermò a guardare il lago sotto la
pioggia: «Una vista romantica e decadente», disse, «ci
vorrebbe un poeta, Rilke ad esempio, per valorizzare
questa deprimente bellezza.»
I suoi ospiti avevano preparato la colazione e il profumo dei croissant che Anna aveva comprato la sera
prima attenuava un po’ la triste sensazione di dover passare un’altra giornata all’umido.
Sedette a tavola e ne prese uno, che addentò famelico:
«Dove hai preso queste meraviglie? Devo segnarmi
l’indirizzo per andare a comprarli nei prossimi giorni.
Sempre che la smetta di piovere, naturalmente!»
La compagnia e la piacevole conversazione che si instaurò con gli amici lo distrassero per un po’ dalla sensazione sgradevole di reclusione.
Verso le undici Claude si aggirava di nuovo per la casa
come un animale in gabbia, stufo di guardare l’acqua
scendere dal cielo per finire nell’altra acqua del lago.
Annunciò che fra poco si sarebbe vestito e sarebbe andato a vedere la frana di giorno.
43
mercedes bresso
«Vorrei capire che cosa è successo, come mai è venuto
giù un pezzo di bosco, chi ha autorizzato il taglio di alberi che chiaramente avevano il compito di consolidare
il terreno. Non so», disse ripetendo la frase della sera
prima senza rendersene conto, «mi pare che ci sia qualcosa di strano... ma che cosa?»
L’amico lo guardava perplesso:
«Non mi pare che ci fosse nulla di strano, in ogni caso
non lo avremmo certo notato, con il buio e la pioggia...»
Poi aggiunse:
«Però se vuoi, vai a dare un’occhiata, potresti distrarti
e intanto vedere se stanno facendo qualcosa per farci
passare. Altrimenti stasera dovremo fare un lungo giro,
sempre che l’unica strada alternativa sia agibile, ieri parlavano di altre frane...»
Claude aveva chiaramente voglia di muoversi. Infilò
stivali e impermeabile e si avviò coraggiosamente sotto
il solito diluvio verso la sua auto, dopo aver chiesto agli
amici se avevano bisogno di qualcosa. Dopo aver visto la
frana si sarebbe recato in paese per comperare dei dolci.
***
Nel luogo della frana c’erano solo alcuni cantonieri che
stavano discutendo fra di loro sul da farsi. Erano in contatto telefonico con l’ingegnere capo che, naturalmente,
aveva poca voglia di recarsi sul posto in una domenica
mattina di pioggia.
Claude se lo fece passare al telefono, gli spiegò che si
trattava di un importante smottamento di terra, dovuto
probabilmente a un taglio di alberi non autorizzato:
«È una cosa piuttosto grave, soprattutto perché il movimento della terra, una volta innescato, non sarà facile
44
la memoria del faggio
da frenare. Prima di decidere sul che cosa fare consiglierei, se mi permette, un sopralluogo di un geologo che
valuti l’entità del movimento in atto. Però... aspetti un
momento, resti in linea... vado a vedere una cosa...»
Aveva visto spuntare da sotto un grosso albero, caduto al di là della strada, una gamba di donna!
Corse verso di lei, chiamando al tempo stesso a gran
voce i cantonieri.
«C’è un altro problema, ben più grave, sotto un faggio
c’è un cadavere, si tratta di una donna, anche se spunta
solo una gamba...»
Intanto i cantonieri avevano immediatamente avvertito la polizia e dopo pochi minuti arrivò rombando
un’auto con a bordo due agenti che iniziarono a fotografare il cadavere e a fare le rilevazioni del caso, mentre
veniva avvertito il commissariato di Verbania per avere
istruzioni.
Ai dipendenti della provincia fu chiesto di mettere
dei cartelli che indicassero la strada interrotta nei luoghi
adatti per consentire delle deviazioni; l’ingegnere capo,
che nel frattempo era arrivato, fu ben lieto di sapere che
nulla poteva essere toccato fino a nuovo ordine: date le
opportune disposizioni ai suoi uomini, se ne tornò a
casa all’asciutto.
Uno dei poliziotti si diede improvvisamente un colpo
alla testa:
«Adesso che mi ricordo, ieri sera un signore ci ha
telefonato più volte perché la moglie, uscita per delle
compere, non era tornata, stava chiamando ospedali e
polizia per sapere se ci fossero stati degli incidenti ma
noi non avevamo nessuna notizia...»
Il collega prese il cellulare e chiamò immediatamente
la sede, avvertendo del ritrovamento di una donna tra-
45
mercedes bresso
volta apparentemente da un albero e chiedendo di rintracciare la chiamata di quello che aveva detto di essere
il marito.
Pochi minuti dopo dalla sede avvertirono che stavano
mandando un’auto a casa della persona che aveva telefonato per portarla lì a identificare la donna. Se ne
sarebbe incaricato il commissario, mentre veniva da
Verbania.
***
Il cellulare suonò strappandolo a un sonno agitato: era
rimasto sveglio fino a tarda notte per ripetere periodicamente le telefonate e anche per riflettere a lungo su quello
che avrebbe dovuto dire. Pensava di essere pronto, ma
quando finalmente la chiamata arrivò si sentì le gambe
tremanti e la testa in fiamme:
«Sì, sono io che ieri e stanotte ho chiamato più volte.
Avete notizie di mia moglie?»
La voce rotta che gli uscì di gola non aveva bisogno
di essere simulata. Bofonchiò un «arrivo subito», poi ricordò che doveva chiedere dove andare e, finalmente,
avute tutte le spiegazioni poté dire che si trovava a poco
distanza e che sarebbe arrivato a piedi. Prese un ombrello e un giaccone e si avviò nella direzione che aveva
percorso all’inverso la sera prima.
Di giorno, con la luce e la fretta che la situazione esigeva non ci mise più di un quarto d’ora e si presentò
dal lato opposto della frana ansimando per spiegare chi
fosse e chiedere a gran voce come avrebbe dovuto fare
per passare dall’altra parte.
«Ma caro signore, come stanno facendo tutti! Passi
da sotto la strada e faccia attenzione a non scivolare...»
46
la memoria del faggio
Esegui prontamente e dopo pochi minuti era davanti
all’albero sotto il quale giaceva sua moglie.
Sembrava, alla luce cruda del giorno e con la pioggia
che continuava a cadere, una ben povera cosa malgrado
le scarpe eleganti e l’impermeabile firmato: solo in quel
momento si rese conto di quello che aveva fatto e cominciò a tremare violentemente.
Il commissario che si stava avvicinando, accelerò
il passo e riuscì ad acchiapparlo prima che finisse per
terra:
«Credo non ci sia bisogno di chiederle conferma che
si tratta di sua moglie», gli disse con gentilezza mentre
lo accompagnava verso la sua auto e lo faceva sedere, «si
riprenda un attimo, purtroppo dovrà restare qui per tutte
le formalità. Dobbiamo attendere che si concludano i rilevamenti, poi potrà andare a casa e ci vedremo domani,
con calma. Mentre aspettiamo avrei intanto bisogno di
farle qualche domanda, anche se le condizioni dell’incidente sembrano evidenti.»
Le cose si stavano mettendo sul binario previsto, rifletté l’interessato che ripassò ancora una volta mentalmente il racconto che si era preparato.
***
Claude intanto si era avvicinato al luogo dove giaceva
il cadavere. Dopo le foto di rito i poliziotti, aiutati dai
cantonieri, stavano delicatamente spostando l’albero per
liberare il corpo.
La donna era caduta in avanti spinta dall’albero e
dalla massa di terra, piuttosto modesta, che lo aveva seguito. Era stata colpita alla testa dove si vedeva la contusione principale che ne aveva probabilmente causato la
47
mercedes bresso
morte, ma anche il resto del corpo, le spalle e la schiena
dovevano avere subito l’urto, anche se non era possibile
valutarne l’entità a causa degli abiti che, protetti dal faggio, erano asciutti.
Si chiese a che ora fosse successo l’incidente. Quando
era passato prima solo, poi accompagnando Anna, la
donna era già lì? Era ancora viva? In tal caso, se l’avesse
vista, avrebbe potuto forse salvarla?
Cercava di ricordare il percorso fatto sotto la pioggia:
sì certamente aveva fatto il giro più largo in quel punto
e probabilmente proprio a causa di quella piccola frana
aggiuntiva, di cui non si era reso conto. Ma l’incidente
doveva essere avvenuto prima, quando ancora non c’erano altre auto, né i cantonieri, altrimenti qualcuno se
ne sarebbe accorto. Quindi era stato molto presto...
Si avvicinò all’auto della polizia, dove il commissario
stava interrogando il marito:
«Siamo partiti da Milano ieri pomeriggio, mia moglie voleva venire per occuparsi di alcuni lavori e poiché
avevamo qualche giorno libero abbiamo deciso di scommettere sul miglioramento del tempo. Siamo arrivati a
casa, poi lei ha deciso che mancava non so cosa e che
doveva scendere a Stresa. Io ero stanco e ho lasciato che
andasse da sola», si prese la testa fra le mani, «se fossi
andato anch’io forse non sarebbe successo»
Claude rifletteva. Si allontanò per tornare a parlare
con i cantonieri:
«Quando siete stati avvertiti ieri? E quando siete arrivati sul posto?»
Rispose quello dei due che era stato in servizio anche
il pomeriggio precedente:
«Mah, saranno state le sei, io e il mio collega siamo
arrivati verso le sei e mezzo, direi, abbiamo cominciato
48
la memoria del faggio
a segnalare la frana poco dopo, c’erano già alcune auto
ferme e gli autisti cercavano di decidere cosa fare...»
«E la Bmw c’era?»
«Certo, l’abbiamo notata perché era una bella macchina, tutta nuova doveva essere stata la prima a fermarsi perché era davanti a tutte, ma dentro non c’era
nessuno.»
Claude cercò di immaginare quella donna da sola,
che vedeva la frana, scendeva, cercava di capire che cosa
fosse successo, si avventurava nel bosco e... il mondo le
precipitava addosso!
Girellò un po’, andando avanti e indietro, dal ciglio
della strada per guardare verso il luogo dell’incidente,
alla grossa auto.
I cantonieri lo guardavano un po’ sospettosi.
«Ma la Bmw aveva i fari accesi quando l’avete vista?
Li avete spenti voi, per caso?»
I due sembravano perplessi:
«No, disse quello che era presente la sera prima, nessuno ha toccato nulla, si figuri, un’auto così!»
«Ma allora la batteria dell’auto dovrebbe essersi scaricata! Avete provato?»
«No, no, funziona, un poliziotto l’ha provata poco fa...»
«Curioso, una persona che si avventura fuori dall’auto
lascia i fari accesi, d’altronde vicino al cadavere non
c’era neppure una pila...»
Si avvicinò di nuovo al cadavere, borbottando tra sé:
«Ma che senso ha, se è stata colpita mentre avanzava
verso il bosco avrebbe dovuto ricevere il colpo sul lato
sinistro del capo, se mentre tornava, sul destro o, al massimo, sul davanti... se senti un fracasso non giri le spalle
ma ti volti per vedere che cosa succede! È tutto molto
illogico!»
49
mercedes bresso
Intanto i poliziotti aveva finito di spostare l’albero e
stavano portando via il cadavere.
Il professore si chinò sul terreno fino ad allora coperto dal grande faggio caduto: si vedevano, abbastanza
nette, al di sotto dello spazio prima occupato dal faggio,
delle impronte di scarpe maschili, con delle suole che
non sarebbe stato difficile riconoscere. Guardò ancora:
non vedeva invece tracce di scarpe femminili, eppure...
Se l’albero cadendo aveva protetto dalla pioggia e dalla
terra caduta quelle orme, perché non ne aveva conservata nessuna della donna?
Senza farsi troppo notare prese dalla tasca il cellulare e fotografò con cura le impronte e tutto il terreno
lì intorno, dove si vedevano anche altri segni il cui significato al momento gli pareva oscuro, poi sempre con
molta discrezione, chiese ai due cantonieri di trovare
qualcosa per coprire bene quella parte del terreno: un
telo, un foglio di plastica, disse, per non cancellare del
tutto le tracce del luogo dell’incidente e poterlo meglio
ricostituire.
Poi si fermò un attimo a riflettere sul significato di
quello che aveva scoperto.
***
Anche da piuttosto lontano, dove si trovava, il marito
capì immediatamente: qualcosa stava andando storto;
seguì lo sguardo di Claude diretto alle sue scarpe e...
accidenti! Quelle non le aveva cambiate, non ne aveva
altre sottomano. Le spalle gli si incassarono e si prese la
testa fra le mani, cercando disperatamente di ripensare a
tutte le sue dichiarazioni e agli atti compiuti.
50
la memoria del faggio
***
Dopo qualche minuto il professore si decise. Si avvicinò
all’auto della polizia, all’interno della quale il commissario stava parlando al cellulare con un giornalista:
«Certo ! Un gravissimo incidente, una signora di Milano che, tornando a casa, è stata travolta da una frana...
sì, era scesa a vedere... no, non c’è stato nulla da fare...
d’altronde ce ne siamo accorti solo stamane.»
S’interruppe e guardò con stupore Claude che gli batteva una mano sulla spalla:
«Commissario, forse è meglio che aspetti a fare delle
dichiarazioni... sa, il faggio ha conservato la memoria di
ciò che è realmente successo ieri sera... ci sono delle verifiche da fare, che solo voi potete, ma credo proprio che
non si tratti di morte naturale, venga con me la prego.»
E mentre si avviava con il commissario verso l’albero
gli disse con un mezzo sorriso:
«Quel povero faggio ci tiene a discolparsi!»
51
Sepolcri imbiancati
di Rossana Girotto
Fissavo la videata bianca e luminosa e mi sentivo come
un miscredente dinanzi al Muro del Pianto.
Per uno così, intendo dire, quel Muro è soltanto un
muro. Un insieme di mattoni, pietre e malta, senza significato. Qualunque cosa ci facciano gli altri – toccarlo,
infilarci foglietti, pregare – è una cosa senza senso che non
dà alcuna emozione. Io mi sentivo così, guardando lo
schermo del mio portatile.
Anzi no, un’emozione ce l’avevo: ansia. Il mio romanzo era lì dentro, pieno di parole, di azioni, di storie
e di persone, fino alla pagina precedente. E adesso, come
quel senzadio al Muro del Pianto, forse anch’io non ci
credevo più.
Mi alzai dalla scrivania e andai alla finestra. La nebbia avvolgeva il freddo pomeriggio ottobrino.
Un leggero profumo di caldarroste riempiva l’aria,
ma non riusciva a riempire la mia anima.
Mi sentivo apatico. No, così non andava, proprio non
mi piacevo. Malinconia per malinconia, meglio il lago.
Presi il telefono e chiamai il mio vecchio amico Emidio
Soncini a Porto Valtravaglia. Mentre ascoltavo la sua voce
dolce e affaticata dalla malattia, lo immaginavo nella sua
villa adagiata sulla riva del Verbano, tra le tele ferite da
pennellate vermiglie e le sculture di alluminio ritorto che
lo avevano elevato sull’altare dell’arte contemporanea.
52
sepolcri imbiancati
«Ti ospiterei volentieri, lo sai caro Loris. Ma ormai
sono un eremita, non esco più, vivo in salotto, viene una
signora a prepararmi da mangiare, e un infermiere una
volta alla settimana. Non sono in grado di aver gente
per casa.»…
«Non ti preoccupare. Troverò un posto dove stare, ma
tu dovrai sopportare le mie visite quotidiane.»
Sapevo che gli avrebbe fatto piacere la mia compagnia. Il suo isolamento era una scelta di vita, ma l’apologia della solitudine era una posa.
Emidio aveva avuto tutto dalla vita: la nascita in una
famiglia ricca e nobile, l’infanzia trascorsa fra Milano,
il Lago Maggiore e la Versilia, la giovinezza a Montecarlo, la maturità nelle gallerie d’arte e nei musei più
prestigiosi del mondo. E poi, quasi sessantenne, il matrimonio con Carlina Colombo, una delle donne più in
vista del paese, imprenditrice e filantropa, e più giovane
di lui di vent’anni. Un matrimonio durato tre mesi.
Io, che ero tra i pochi fidati amici di Emidio, e conseguentemente di Carlina, non avevo mai saputo che cosa
fosse successo di tanto grave tra i due. La rottura era
avvenuta poche settimane dopo il ritorno dal viaggio di
nozze. Lui si era isolato nel suo mondo d’artista, chiedendole però un enorme indennizzo per danni morali.
Una cifra enorme, che lei gli aveva accordato, rafforzando la sua immagine di donna di classe in odore di
santità. Eccentrico, infantile, egoista e volubile, così lo
avevano dipinto i familiari e i giornalisti. Depresso, così
lo avevo visto io. Rifiutava ogni aiuto, a parte quello di
alcool e marijuana. E quando era giunta la malattia, il
corpo aveva assorbito la fragilità dell’anima.
«Sai che faccio Loris? Provo a chiamare quelli dell’Albergo del Sole. Sono amici, e in questa stagione non
53
rossana girotto
vedono certo molti clienti. Sento se possono darti una
buona sistemazione.»
«Grazie, Emidio. Pensavo di chiedere a Fulvio di venire con me, o di raggiungermi nel fine settimana...»
«Fulvio! Sarei contento di rivederlo!»
***
La mia ragazza, Stefania, si trovava a Siena. Il suo lavoro di restauratrice, che me l’aveva fatta incontrare due
estati prima all’Isola dei Pescatori, la portava spesso
lontano da me. Contavo allora di invitare il mio amico
Bellani, lo scrittore.
Li avvisai entrambi della mia decisione di trasferirmi
al lago per finire il mio libro, un reportage sui nomadi nel
nostro paese a cui stavo lavorando da parecchio, troppo,
tempo. Il tema difficile che avevo scelto mi aveva reso
ancora più sensibile e malinconico di quanto già fossi
per carattere, e ora che stavo affrontando i capitoli dedicati ai minori trovavo ostacoli nella mia stessa scrittura.
Più volte ero stato sul punto di lasciar perdere, ma poi
il mio senso civico e morale avevano, fortunatamente,
ripreso il sopravvento. Fulvio mi stava vicino in questa
costante lotta con me stesso. E accettò di passare con me
qualche giorno “ma solo quando avrai ripreso i fili della
storia e messo a posto un po’ di cose”, sottolineò.
Mi aspettavano giorni di intenso lavoro, nella speranza che l’acqua del lago alleviasse come un balsamo
le mie inquietudini, e che la compagnia di un grande
artista fosse di impulso per la mia arte.
***
54
sepolcri imbiancati
Il direttore dell’Albergo del Sole mi aveva riservato una
stanza all’ultimo piano. Lassù c’ero solo io.
Lavoravo in terrazza, con il portatile e gli appunti.
Trascorsi così una quindicina di giorni, nella quiete assoluta di una Porto Valtravaglia immobile nel cielo di ottobre, scrivendo e guardando le foglie degli ippocastani
volteggiare e cadere, e le persone muoversi come fantasmi sul lungolago. Dopo cena raggiungevo Emidio nel
suo salotto. Chiacchieravamo dei suoi giorni migliori
bevendo cognac davanti al camino acceso. Stavamo
bene, ma durò poco.
Una sera trovai il mio amico agitato. La sua ex moglie era tornata in paese e anche se non si frequentavano
più, lei gli volteggiava intorno come un avvoltoio e la
sua presenza “sotto lo stesso cielo”, come diceva lui, lo
metteva in ansia.
Dopo il divorzio Carlina era andata a vivere sul lago
d’Orta, in un bel palazzo antico alle porte di Omegna,
ma ogni tanto faceva qualche puntata nella casa di famiglia a Porto Valtravaglia.
Il suo impegno nel sociale spaziava in più province.
Era presidente di un numero imprecisato di associazioni benefiche: riusciva ad arrivare ovunque la portassero il suo allure angelico e la sua Mercedes Pagoda
del 1966.
La vidi la mattina seguente, al bar accanto all’edicola.
Grazie alle sue attività, Carlina mi aveva dato un grande
aiuto per il mio reportage e nonostante la sua vicenda
personale con Emidio, la consideravo una buona amica.
Anch’io ero affascinato, quasi incantato, da quell’aura
di empatia e solidarietà che emanava. Carlina non solo
sapeva ascoltare e comprendere i problemi altrui: spesso
riusciva a risolverli.
55
rossana girotto
«Dunque, Loris, stai finendo il libro, finalmente?» mi
chiese con il suo luminoso sorriso, e io mi ritrovai a raccontarle tutti i miei sforzi e le mie difficoltà.
Ma quando a pranzo, davanti al faldone dei miei appunti e alle bozze del libro, le parlai degli ultimi capitoli
dedicati alla condizione degli adolescenti, il sorriso che
mi rivolse era di tutt’altro genere.
Capii tutto il giorno dopo, andando con lei a Omegna,
tra i nomadi rom assistiti da una delle sue associazioni.
Tornai in albergo, la sera tardi, e chiamai Fulvio sconvolto.
Dopo due giorni lui mi raggiunse al lago.
***
Usciti dalla stazione, mi prese sottobraccio mentre io
trascinavo il suo piccolo trolley. Mi sovrastava di una
testa, e sotto la coppola di tweed irlandese il suo volto
vestiva ancora l’abbronzatura della sua estate amalfitana.
«Amico mio, di solito sei tu che corri in mio soccorso.
È una situazione strana, irreale direi.»
«A me sembra irreale ciò che ho scoperto, Fulvio.»
Lui si diede un’occhiata intorno, accendendosi l’immancabile sigaro. Il tramonto colorava di viola le montagne. Incontrammo solo due anziani che portavano a
spasso il cane, lungo la strada che ci separava dall’albergo. Il paese era praticamente deserto. Rabbrividii.
«Sinceramente, Loris, questa tua fissa del lago fatico
a capirla. Sei già fin troppo romantico e malinconico di
tuo, dubito che quest’atmosfera possa farti bene. A te, e
al tuo lavoro.»
«Inizio a darti ragione...»
56
sepolcri imbiancati
«Bravo. Ma ormai siamo qui, e abbiamo un paio di cose
da risolvere. Soprattutto, dobbiamo parlare con Soncini.»
Fulvio si sistemò nella stanza accanto alla mia. Durante la cena, il direttore e il personale si scattarono
delle foto con lui. Spuntarono anche un paio di libri da
autografare. Come sempre, il mio amico scrittore fu disponibile e simpatico con tutti.
Quella sera non andammo da Emidio. Lo avvisammo
dell’arrivo di Fulvio dandoci appuntamento per l’indomani.
Seduti sul letto in camera mia, bevendo tisana e whisky, parlammo della situazione incredibile in cui mi ero
trovato, cercando di trarre delle conclusioni e soprattutto, come disse Fulvio, di pensare a un piano d’azione.
«E che facciamo con Carlina? Era la mia maggiore
preoccupazione. Certo, non sarei più riuscito a guardarla con gli stessi occhi di prima.»
«So che è difficile, ma dobbiamo far finta di niente. Intanto ci pensiamo su, la studiamo forse le cose si svilupperanno da sole. Conosco abbastanza l’animo umano
per sapere che al primo passo falso ne seguono altri. Il
cammino è iniziato.»
Fulvio aveva ragione. Mi mossi prudentemente nei
giorni seguenti, la scusa del libro divenne un’ottima copertura per quelle che lui definì “piccole indagini tra amici”.
Io tornai alla residenza protetta di Omegna un paio
di volte, rientrando in albergo pallido e con lo stomaco
chiuso. Fulvio restava immerso nella noia nebbiosa di
Porto Valtravaglia, spesso con Emidio, qualche volta
con Carlina. Trascorsa una settimana dal suo arrivo,
mi apostrofò: «Ho pensato di invitarla a cena, qui, in
albergo. Dopodomani, che dici? Per festeggiare il tuo
compleanno e la fine del tuo romanzo».
57
rossana girotto
«Ma io ho compiuto gli anni il mese scorso, e il mio
romanzo non è per niente finito, lo sai.»
«Certo che lo so, ma festeggiare le foglie secche che
si appiccicano alla suola delle scarpe e i ricci di ippocastano che ti cadono in testa mentre passeggi sul lungolago può andar bene a te, malinconico romanticone
lacustre, non a me. Ci serve un momento conviviale,
una conversazione leggera e distesa intorno a qualche
pietanza ben cucinata. Può uscirne qualcosa di interessante.»…
«Se lo dici tu. Oddio, avevo qualche dubbio sul termine “conversazione distesa”, considerato il mio stato
d’animo.»
***
Arrivò la sera della cena. I clienti dell’albergo e del ristorante al suo interno erano davvero pochi, e Fulvio
invitò al nostro tavolo il direttore stesso con la moglie.
Inizialmente, Carlina si comportò in modo squisito, raccontando del suo lavoro e delle persone con cui veniva
in contatto, coinvolgendomi spesso nei suoi discorsi, visto le esperienze che aveva condiviso con me per il mio
libro. Fulvio infilava qua e là domande con noncuranza,
era il regista della conversazione. Dopo il dolce, aprì il
giro di liquori, assistito dal direttore, e portò Carlina a
parlare del suo rapporto con Emidio. Lo fece intenzionalmente, ma non credo si aspettasse che la serata prendesse una piega tanto imbarazzante. La nostra dolce
amica si trasformò in una piccola furia, regalandoci
commenti alquanto sgradevoli sul suo ex marito.
Il direttore si alzò dal tavolo con la scusa di dover
organizzare la cucina quando Carlina asserì che Emi-
58
sepolcri imbiancati
dio “si meritava la morte per averla ridotta in miseria”
e la moglie si eclissò silenziosamente all’ennesimo insulto.
Mentre il dopocena si estingueva nel silenzio mio e di
Fulvio, Carlina si calmò. Feci portare il caffè, e quando
l’accompagnai all’ingresso, aveva ripreso il suo aspetto
angelico. Senza scusarsi, però.
«Devo accompagnarti a casa?»
«No, grazie Loris. Ho la macchina poco più avanti.»
Rientrai nel ristorante. Fulvio stava scambiandosi la
buonanotte con i proprietari. Mi sentivo affaticato e infelice, ma non avevo sonno.
Proposi a Fulvio una partita a scacchi, nel salottino
dell’albergo.
Lui scrollò la testa. «Lo sai che non gioco mai a niente.
Guarda, c’è un vecchio albo di Tex qui, sullo scaffale dei
libri. Leggitelo, ti rilasserà. Io mi faccio l’ultimo whisky.»
Accettai il consiglio, salii in camera e mi immersi
nella lettura. Poco dopo mi addormentai.
Mi svegliai dopo un’ora, con la voce delle sirene e
quella di Fulvio che bussava alla mia porta.
Colonne di fumo e bagliore di lampeggianti provenivano dalla proprietà dei Soncini.
Percorremmo il brevissimo tragitto correndo, in silenzio. Il paese era in subbuglio.
All’inizio della strada privata incontrammo Carlina,
pallida e tremante. Indossava ancora gli stessi abiti della
sera prima.
«Ho lasciato la macchina al parcheggio, ieri sera,
e sono andata a casa a piedi. Sul lungolago. C’era la
luna, era una bellissima nottata, così sono scesa fino
alla spiaggia, sotto al muretto che chiude il parco dei
59
rossana girotto
Soncini. Quando sono arrivata all’altezza della villa ho
alzato lo sguardo e ho visto la luce alla sua finestra.»
«La finestra di Emidio?»
«Sì, la finestra del salone.»
«Sei passata di là di proposito? Per vederlo, magari
incontrarlo?»
«No, nemmeno per idea.» Alzò la voce, in un tono
isterico. Mi stupii di tanta veemenza.
«Non l’ho ucciso io. Dovete credermi. È vero, ho detto
che avrei voluto vederlo morto, ma non l’ho ucciso io.»
«Eppure è morto, lo hai detto tu.»
«Bruciato vivo... È terribile, Loris.» Rabbrividì e
chiuse gli occhi.
«Cos’è successo, Carlina? Su, fatti forza, e raccontaci.»
«Dalla spiaggia, come ho detto, ho alzato gli occhi
verso la sua casa. Ho visto la luce accesa, e allora mi
sono avvicinata al muretto e mi sono arrampicata per
guardare meglio. La spiaggia resta un po’ più in basso
rispetto al parco, e la villa è oltre il prato ci sono dei
sassi e delle sporgenze così, arrampicandomi un po’
sono riuscita ad avere la testa oltre la balaustra di pietra.
Lo ammetto, per un momento ho pensato di aprire il
cancelletto, è difettoso lo so, attraversare il giardino e
presentarmi alla porta. Ma non l’ho fatto.
Ve lo giuro. Non l’ho fatto.
Sono scesa dal muretto, e mi sono seduta a guardare il
lago. Pensavo a noi due, alla nostra storia finita.
Mi sono persa in mille pensieri... E poi ho sentito le
sirene dei carabinieri, dell’ambulanza, dei pompieri,
ancora in lontananza. Mi sono voltata, e la villa... C’erano fiamme che uscivano dalla finestre. Il salotto stava
andando a fuoco. Sono salita verso il cancelletto, gli
ho dato una spinta e si è aperto. È lì che mi si è strap-
60
sepolcri imbiancati
pata la giacca. La porta d’ingresso, che dà sul giardino,
era chiusa. Allora mi sono arrampicata sul davanzale
della finestra e proteggendomi le braccia con la giacca
ho rotto i vetri e mi sono sporta all’interno... Lui era
là, sdraiato davanti al caminetto, il viso cancellato dal
fuoco, i capelli in fiamme... Mio dio!»
«E poi?»
«Il fuoco non sono riuscita ad avanzare, a entrare sono
saltata indietro, in giardino, e correndo sono tornata in
spiaggia ho sentito le sirene vicinissime, e poi fermarsi
al cancello principale. I pompieri scendere e scardinare
l’entrata. Mi sono fatta prendere dal panico. Sono scappata, tornando indietro sul lungolago. La piazzetta era
già piena di curiosi e di macchine con il lampeggiante.»…
«Carlina», dissi, «devi raccontare tutto anche ai carabinieri, alla polizia, ai pompieri... A chiunque stia seguendo le prime indagini. Se non lo fai, o più aspetti a
farlo, più il tuo comportamento risulterà sospetto.»
«Io sono innocente!»
Fulvio taceva. Sembrava totalmente assorto nella contemplazione di Carlina. La guardava fisso, studiandole
il viso, poi le mani, poi gli stivali di Prada imbiancati dal
ghiaietto della spiaggia, poi i vestiti sgualciti e impregnati dell’odore di fumo, poi di nuovo il viso. Lei teneva
gli occhi chiusi e la testa china. La sua pelle era chiara e
perfetta sotto il trucco leggero.
Ci avvicinammo a piedi verso la cancellata che delimitava l’intera proprietà, un grande parco che affiancava il
lago, all’interno del quale la famiglia aveva costruito, in
tempi diversi, tre ville. Una per ogni ramo della dinastia.
Fulvio si avvicinò al carabiniere di guardia al cancello
tenendo Carlina sottobraccio. Chiese di parlare con gli
investigatori, presentandola come testimone.
61
rossana girotto
Si fece avanti un uomo alto, sulla quarantina, dai capelli rossicci.
«Sono il maresciallo Mainini. Cosa posso fare per voi?»
«Siamo qui perché la signora deve dirvi qualcosa riguardo alla notte scorsa.»
«Mi chiamo Carlina Colombo.»
«Ah», fece lui, stringendole la mano, «l’ex moglie del
signor Soncini.»
Si interruppe con un respiro profondo.
«Temo di avere brutte notizie per lei...»
«Le sappiamo», Fulvio porse a sua volta la mano al
maresciallo, «io sono Fulvio Bellani, e lui è Loris Paolini. Siamo amici di Emidio Soncini, e della signora. Lei
era fuori della casa, quando è divampato l’incendio.»
«Interessante...», Mainini strinse gli occhi chiari, «lo
sa, vero, che dovrà farci una deposizione.»
«Sì, lo so.» Abbassò lo sguardo.
«Ha qualche timore. La situazione è delicata.»
«Immagino. Se ricordo bene ci sono stati parecchi
problemi tra voi due, quando vi siete separati.»
«Sì. Ci siamo amati molto. E sono arrivata a odiarlo.
Ma da qui ad augurargli una fine così tremenda...»
«In effetti è stata una morte orribile.»
«Ma è stato un incidente, no?», azzardai.
«Così sembra. I vigili del fuoco stanno facendo i rilievi, per ora non posso dirvi molto. Era solo in casa, le
porte chiuse a chiave. Prima di andare a letto si è versato
del cognac, ha bevuto molto si è avvicinato troppo al
camino, la lunga vestaglia ha preso fuoco e le fiamme lo
hanno avvolto, velocemente.»
«Potremmo dare un’occhiata?»
«Non c’è nulla da vedere. La stanza è quasi completamente bruciata. I pompieri sono arrivati velocemente,
62
sepolcri imbiancati
da Luino e da Laveno, l’incendio poteva estendersi a
tutta la casa.»
«Chi ha dato l’allarme?»
«Un pescatore, dal lago, ha visto le fiamme e il fumo...»
***
Ci incamminammo sul vialetto di beole che circondava
l’edificio, raggiungemmo il giardino e quindi l’ingresso.
La casa di Emidio era forse la più piccola di tutte, sicuramente la più bassa: solo due piani, più un sottotetto.
Ricordava uno chalet di montagna, molto semplice ed
elegante. Fortunatamente era sopravvissuta al fuoco, i
danni si concentravano tutti nel salone del pianterreno.
I vetri delle due grandi finestre erano rotti e gli infissi
consumati dalle fiamme. Le pareti della stanza erano
annerite dal pavimento al soffitto, gli arredi e le opere
d’arte quasi completamente distrutti.
Un uomo in divisa da vigile del fuoco si avvicinò a
Mainini. Alto e prestante, con i capelli brizzolati, il viso
abbronzato e lo sguardo grigio serissimo, sprizzava affidabilità da tutti i pori.
«Vi presento l’ingegner Vanetti, caposquadra. È il responsabile del N.I.A., nucleo investigativo antincendio,
e collabora con noi per le indagini.»
«Tutto aveva un grande valore, qui dentro...» osservai,
facendo correre lo sguardo sui moncherini dei mobili
e sui frammenti bruciacchiati di stoffe che sapevo preziose.
«Sì, certo. Non parliamo solo delle sue opere, ma di
tutto ciò di cui Soncini si è circondato. Antiquariato,
arredi, tappeti, sete, argenti, cristalli, libri e stampe...»,
spiegò il maresciallo.
63
rossana girotto
«Conosciamo bene la famiglia, tra le più facoltose
della zona. Qualche anno fa dei ladri si introdussero
nella proprietà e rubarono in due ville. Ma cercavano
denaro e oggetti di facile smercio, portarono via del contante e qualche gioiello. Non si resero conto di ciò che
avevano intorno, per fortuna.»
«Chi sono gli eredi di Emidio?» volle sapere Fulvio
mentre io continuavo a guardarmi intorno.
«Quando eravamo sposati», rispose lentamente Carlina, «aveva fatto testamento in mio favore, ma date le
circostanze...»
«Qualsiasi cosa abbia da dire, signora, le consiglio di
chiamare il suo avvocato.»
Fulvio si alzò sulle punte dei piedi per guardare meglio l’interno.
«Dove è stato trovato il corpo?»
«Proprio davanti al caminetto. Là, vedete, c’è quella
parte di pavimento in pietra che non era coperta dai tappeti. Il resto è tutto parquet.»
«E com’era? Lei lo ha visto?»
«Certo che l’ho visto!»
«Si ricorda com’era? Sdraiato sulla pancia o sulla
schiena? E la testa da che parte? E i piedi?»
«Sulla schiena... la testa completamente bruciata, i
piedi di qui, verso la porta.»
«Aveva gli occhi aperti o chiusi?»
«Oddio... aperti. Ma adesso, per favore...»
«È come ricordavi tu, Carlina?»
«Sì. Proprio così», sospirò, «era un vero inferno.»
«Non è il caso che stiate ancora qui. Lei, signora, deve
fare la sua deposizione. Chiami l’avvocato, subito.»
Improvvisamente, Fulvio scoppiò a ridere. Una risata
aspra, alta e sarcastica. Strinse il braccio di Carlina e la tra-
64
sepolcri imbiancati
scinò sotto il gazebo, in giardino. Con una spinta la fece cadere su una sedia di ferro battuto. Le porse il suo cellulare.
«Sì, chiama l’avvocato, mia cara. E noi lo aspetteremo qui, tutti insieme. Vero, Loris?»
Lo guardai senza rispondere.
«Cosa diavolo succede, signor Bellani?», chiese il maresciallo.
«Io credo di aver capito...» Vanetti si avvicinò, appoggiò le mani allo schienale della sedia di Carlina. Lei si
irrigidì.
Fulvio amava essere al centro dell’attenzione. Adoravo la sua teatralità, e non potei fare a meno di ammirarlo anche questa volta, nonostante la situazione tristissima in cui ci trovavamo e la prostrazione assoluta che
provavo.
Lentamente, i suoi occhi passarono in rassegna i nostri. Attenti e sicuri quelli del maresciallo Mainini e
dell’ingegner Vanetti, inespressivi quelli di Carlina.
Fu proprio a lei, direttamente e senza mezzi termini,
che Fulvio si rivolse:
«La sera in cui Soncini è morto, tu te ne sei andata
dal nostro albergo a piedi. Sei passata intenzionalmente dal lungolago scendendo poi in spiaggia. Hai
guardato verso la villa del tuo ex marito, hai visto la
luce nel salone, dove lui, da qualche tempo, aveva fatto
mettere un letto. Preferiva non fare le scale, visti i suoi
problemi di salute. Al pianterreno c’era tutto ciò di cui
aveva bisogno: una cucina, un bagno, una stanza con i
suoi caftani e le sue vestaglie. Tu hai aperto il cancelletto, sapevi che bastava insistere con forza, e hai bussato alla sua porta. Lui ti stava rovinando, e ricattando.
Ha lasciato credere al mondo che la sua facciata di
eccentricità e misoginia fosse la causa del vostro irre-
65
rossana girotto
cuperabile disaccordo, ma ti chiedeva cifre enormi per
non rovinare la tua reputazione. Ti ha fatto entrare e tu
lo hai ucciso, in un attimo, senza pietà, senza alcuna
esitazione, a sangue freddo.»
Carlina si passò una mano sul viso: «Pensavo fossimo
amici... Tu, Loris...»
Evitai il suo sguardo.
«E come l’avrei ucciso?»
«Era un uomo malato, debole, malfermo sulle gambe,
con problemi di equilibrio. Non serviva molta forza.
Probabilmente lo hai colpito con un oggetto, e quando è
caduto lo hai strangolato. Soncini aveva gli occhi aperti
quando è stato trovato, lo ha confermato il maresciallo
Mainini.»
«Portavi una sciarpina di voile, a cena, e quando sei
tornata da noi, raccontandoci dell’incendio, non l’avevi
più», intervenni io, «ci hai detto della giacca strappata, e
l’abbiamo notata, insieme con l’odore di fumo. Un po’
troppo odore di fumo, in effetti, per una persona che
si era soltanto affacciata alla finestra. Hai usato quella
sciarpina, per strangolarlo. E poi l’hai buttata nel camino. Probabilmente ci saranno tracce, o magari no, visto che era di tessuto sintetico.»
«Esatto.» Fulvio annuì.
«Pazzesco!», borbottò l’avvocato.
Fulvio riprese la storia: «Hai ucciso Emidio e hai sistemato il cadavere vicino al parafuoco. Sei tornata alla
porta e l’hai chiusa bene da dentro. Hai versato del cognac su di lui e sul tappeto accanto, e con un tizzone
infuocato hai appiccato il fuoco alla vestaglia del tuo
ex marito. Hai atteso che le fiamme si alzassero prima
di fuggire. Lo hai guardato bruciare e poi sei scappata
rompendo la finestra. Ho notato vetri anche all’esterno,
66
sepolcri imbiancati
mentre se l’avessi rotta per entrare sarebbero stati quasi
esclusivamente all’interno. È vero, non erano molti, ma
c’erano. Siccome la finestra è doppia credo che tu, furbescamente, abbia rotto prima un vetro e dopo, sporgendo
il braccio coperto dalla giacca e aiutandoti con qualcosa,
abbia colpito da fuori l’altro vetro.»
«No!», gridò Carlina, «è stato un incidente! La sua
vestaglia ha preso fuoco!»
«È un po’ irragionevole, non è vero, ingegner Vanetti?»
«Infatti. Se i suoi abiti avessero preso fuoco per un
incidente, il suo corpo non sarebbe stato trovato accanto
al camino. Se uno si accorge di avere i vestiti in fiamme
non rimane certo vicino alla sorgente di quelle fiamme.
Scappa via, tenta di spogliarsi. Il corpo di Soncini è stato
trovato là, davanti al camino, perché è là che la signora
Colombo l’ha messo. Dai rilievi emergerà che il liquore
è stato usato come acceleratore.»
Mainini e Vanetti si scambiarono un’occhiata.
«Credo proprio che verrà indagata per omicidio.»
«E anche per altro.» Fulvio sventolò la mano destra.
«Sì, c’è dell’altro, signori. La storia non è finita.
Manca il motivo, per questo orrendo delitto.»
«Già.», dissi io. «L’ha ucciso per metterlo a tacere.
Perché lui conosceva il suo segreto.»
«Tutti hanno i loro segreti», constatò Vanetti pacatamente.
«Ma certo», ammise Fulvio. «Ed Emidio aveva scoperto il segreto di sua moglie poco dopo il ritorno dal
viaggio di nozze. Immediatamente, ha chiesto la separazione e il divorzio. Senza dare motivi, lasciandosi tacciare di avere un carattere eccentrico, volubile. Di essersi
comportato da artista, secondo i pregiudizi comuni. Ha
voluto prendere le distanze da questa donna, tuttavia la
67
rossana girotto
ricattava e lei, in silenzio, pagava. Ultimamente, però,
Emidio stava scrivendo le proprie memorie, e ci avrebbe
messo dentro tutto. Carlina lo sapeva. L’incendio doveva servire anche a distruggere il diario. Probabilmente
lo ha fatto, ma quello che lei non sapeva era che Emidio
trascriveva periodicamente tutto su un pc portatile, che
teneva nel guardaroba. E il giorno prima di morire mi
ha dato una chiavetta, perché la consegnassi a Loris.»
«E dunque? Quale sarebbe questo tremendo segreto?»
Fulvio si accese il sigaro. Fumò lentamente, con gli
occhi socchiusi. Espirò il fumo azzurrino dalle labbra
socchiuse. Sembrò metterci un’eternità, noi eravamo
tutti sulle spine. Il maresciallo Mainini quasi aveva
smesso di respirare, tenendo lo sguardo fisso su Carlina.
«La signora Colombo traffica nella prostituzione minorile. La sua ben conosciuta attività di beneficenza
e assistenza alle famiglie disadattate e nei campi rom
sconfina nel meno nobile affitto di ragazzini sfortunati a
una clientela che, ahimè, temo sia vasta. Un lupo travestito da agnello, un demonio con l’aspetto di un angelo.»
«Come lo ha scoperto?»
«È stato un caso. Un’imprudenza di Carlina stessa.
Credo sia un meccanismo psicologico che prima o poi
si infiltra nelle menti criminali. Arrivano a pensare di
essere più furbi, più intelligenti. Si convincono di essere
intoccabili. Hanno la presunzione di essere impunibili.
Così finiscono per far intravvedere il proprio lato oscuro
anche agli amici, a coloro che quotidianamente avallano
la loro immagine perfetta.»
Fulvio posò il suo sguardo caldo nei miei occhi, incoraggiandomi a continuare.
«Sto scrivendo un romanzo-verità ambientato tra i
rom. Ho raccolto testimonianze, ho visitato alcuni campi
68
sepolcri imbiancati
e palazzi occupati abusivamente. Sono venuto a contatto
con il degrado più assoluto. Carlina è stata il mio aggancio in alcune situazioni, ma quando ho voluto soffermarmi sulla realtà dei più deboli, i bambini, ha travisato
le mie intenzioni. Non potevo crederci... Mi ha proposto
incontri con ragazzini e ragazzine, schiavi sessuali. Non
sapevo cosa fare. Proprio lei... Ne parlai con Fulvio.»
«Sì. Pensammo di tenderle una trappola, per poi denunciarla. Ma non era facile. Sembrava tutto così assurdo.»
«Decidemmo di saperne di più, per vie traverse. C’è
questa Maja ospitata in una struttura protetta a Omegna, gestita da un’associazione in cui è presente Carlina.
Ora ha quattordici anni. Intelligente, molto pacata, sempre malinconica. Capii presto perché. Glielo chiesi, direttamente, brutalmente.
E altrettanto direttamente mi raccontò tutto. Dio
mio... Era a disposizione di Carlina da anni. Non teneva più il conto di quanti uomini le avesse fatto... incontrare.»
Vanetti impallidì. Sembrò vacillare. Lo guardai.
«La capisco. Io stesso mi sono sentito male.»
«Ma la piccola disse a Loris un’altra cosa interessante.
Gli parlò del marito di Carlina.»
«Il Soncini... era coinvolto?»
«Non come si può pensare, maresciallo. Ricorda quel
che le ho detto, della presunzione malata del criminale?
Ebbene, Carlina si scoprì con il suo stesso marito.»
«Gli offrì una minorenne?»
«Già. Ma fu quasi per errore. Quando Loris mi raccontò tutta la vicenda, capimmo che forse c’entrava con
il comportamento di Emidio. Si era innamorato perdutamente di Carlina, che la vedeva come un angelo,
una donna buona, altruista, amorevole. Eravamo stati
69
rossana girotto
al matrimonio, e quella separazione dopo pochi mesi ci
sorprese come un fulmine a ciel sereno. Con la maggior
delicatezza possibile cercammo di tastare il terreno, per
capire se lui sapesse. Lo sapeva.»
«Ne venne a conoscenza nel peggiore nei modi», intervenni io. «Emidio voleva realizzare un dipinto sacro,
amava le madonne di Leonardo e di Raffaello. Cercava
una giovane modella. Carlina le portò Maja, allora
aveva solo dodici anni. Ma la piccola non sapeva di dover posare per un pittore.
Emidio ci raccontò che non fece in tempo a girarsi per
sistemare tela e colori, che la bambina si era spogliata
completamente e gli si era avvicinata, con lo sguardo
basso. E poi...», deglutii, con quella scena nella mente,
«gli diede le spalle e... si abbassò.»
«Lui capì subito. Gli bastarono alcune domande. Su
di lei, sulla sua vita disgraziata. Su Carlina. Il resto è
nella loro storia privata, divenuta in parte pubblica, che
già sapete.»
«Come vi ha detto Fulvio, Emidio ricattava la sua ex
moglie. Nemmeno lui era senza peccato, in questa storia. Poi i soldi passarono in secondo piano: aveva iniziato a scrivere la sua biografia, e per Carlina non ci sarebbe stato scampo. Il giorno della cena, quando Fulvio
è andato a trovarlo, gli ha dato il file perché me lo portasse. Voleva il mio aiuto per la stesura. È rimasto “dimenticato” in camera per un po’, viste le circostanze.»
Avevo le lacrime agli occhi. Vanetti mi posò una mano
sulla spalla. Continuai a fatica.
«Leggendolo, abbiamo capito tutto. I nostri amici...»
«Sepolcri imbiancati. Entrambi.»
***
70
sepolcri imbiancati
Preparai i bagagli con un dolore rabbioso. Non mi consolava il fatto di aver praticamente finito il libro.
Mi sentivo tradito. Non solo da Carlina ed Emidio.
Il lago stesso mi aveva tradito, con la sua superficie
increspata di romanticismo e dolcezza, con la sua immobilità bugiarda che nasconde insidie d’alghe e di corrente.
Un particolare ringraziamento al comandante Fulvio Vanetti,
capo distaccamento Vigili del fuoco di Busto-Gallarate.
71
Il cielo capovolto
di Daniele Grillo
Almeno cento mergozzesi si erano assiepati sull’immaginaria linea di separazione tra acqua e spiaggia. I loro
volti rispecchiavano esattamente il colore di un cielo impietoso, freddo, livido e distante. Se ne stavano spalla
contro spalla, ad aspettare che l’incubo assumesse forme
umane, concrete, al di là delle parole. Al di là dei metri di legno del pontile, quelli che appena un paio d’ore
prima erano stati calpestati da una corsa forsennata,
scomposta, atterrita. Non c’era voyeurismo, non c’era
voglia di argomenti da passare di bocca in bocca, questa
volta. No. C’era un limite superato, un punto di non ritorno, un affronto all’umana tolleranza, al buon senso,
alla capacità di dimenticare. Cinque figli del lago, cinque speranze di futuro. Decine di volti a interrogarsi,
in silenzio, se i contorni del dramma potessero davvero
essere quelli descritti dagli occhi di Saveria.
Lei, la prima testimone, era là. Oltre i compaesani, a
metà del nastro di pali e assi che osava allungarsi verso
il cuore del lago. Braccia conserte e sguardo assente,
sembrava molto più vecchia della sua età, nel grigiore
di quell’assurdo pomeriggio fuori dal tempo. Più avanti
della sua figura, sull’estremità protesa del ponte, quattro
o cinque uomini erano intenti a raccogliere dati e a scattare fotografie. Per la prima volta, il maresciallo Corrado Pacone rimpianse i tempi di Rosarno. Poco sotto
72
il cielo capovolto
i suoi piedi, oltre le tavole di legno chiaro, i cinque visi
degli angeli sfioravano il pelo dell’acqua. Tre maschi e
due femmine, i piedi probabilmente legati a un masso o
a un’ancora gettata sul fondo, avevano gli occhi aperti
sul terrore della loro fine. Si trovavano a poca distanza
gli uni dagli altri, e la lunghezza delle corde e degli
ancoraggi era stata calcolata perché neppure la punta
del naso potesse emergere. A Pacone per il momento
interessava soltanto una cosa: togliersi di dosso il più
presto possibile i troppi sguardi allineati sulla riva. Ben
sapendo che non sarebbe bastato allontanare le teste, le
persone: quegli sguardi li avrebbe avuti addosso per tutta
la permanenza a Mergozzo.
«Sono tutti del posto?» chiese a un giovane carabiniere.
«Quattro mergozzesi e uno di una località vicina,
Montorfano, maresciallo.»
«E chi ce li ha messi sott’acqua, appuntato?»
L’altro lo guardò negli occhi per tentare di capire se
scherzasse. Realizzò che no, l’espressione del suo capo
non era quella di chi ha molta voglia di scherzare, non
lo era e non lo poteva essere. Era piuttosto una maschera
malinconica, di partecipazione. Sembrava quasi pregare
il più semplice tra i suoi soldati di risolvergli il caso lì,
su due piedi.
«Non lo so, maresciallo», rispose l’appuntato Giorgio
Crovi dopo una pausa infinita.
«Lo dovremo sapere presto», gli mise una mano sulla
spalla l’altro, «questo accidente di paese deve tornare nel
più breve tempo possibile a spettegolare su tradimenti
coniugali, calcio e tempo. Il tempo, capisce? Quei fantasmi pallidi sul bagnasciuga, là dietro, devono tornare a
occuparsi del maledetto tempo.»
73
daniele grillo
Il sottoposto lo guardò per qualche istante. Negli occhi del maresciallo scorse un abisso inesplorato. Profondo, sconosciuto. Annuì lentamente, poi Pacone distolse lo sguardo.
«Tirateli fuori. Non prima di aver fatto allontanare
la gente al di là della linea delle case, però. Ah, Crovi.
Chieda lei a Curreri di andare alla stazione a prelevare
il dottor Santolamazza. Mi ha dato retta e le autopsie
le farà qui. I suoi arriveranno in macchina, lui come al
solito ha voluto prendere il treno.»
«Ok. Ma non saprei dove allestire la camera per...»
«Per tagliare i morti?»
«Sì...»
«Se il parroco accetta, fatevi dare una cappella o un
pezzo di canonica da qualche parte. Eviterei l’asilo, anche perché ci toccherebbe chiuderlo per qualche giorno.
Ma se fosse l’unica possibilità non fatevi scrupoli. Procurate al dottore tutto ciò di cui ha bisogno. Tempo, ragazzi. Corriamo.»
***
Gli esami sui corpi non consegnarono nulla di rilevante.
I ragazzini erano morti annegati, punto e basta. Nell’acqua fredda, quasi certamente nottetempo, c’erano finiti
vivi, a impedire loro di riemergere cinque piccoli ma
pesantissimi blocchi di cemento armato legati a una
caviglia, sempre la destra. Sulla bocca, per evitare che
urlassero, a ciascuno era stato applicato del nastro adesivo trasparente. Nella fredda canonica messa a disposizione dal prete si era creato un gran via vai di esperti
dell’Arma. I cinque cadaveri, stesi su altrettanti banchi
di fortuna opportunamente protetti con speciali teli di
74
il cielo capovolto
cerata, avevano un colorito biancastro, reso ancor più
spettrale dalla scarsa luce dell’ambiente. Pacone entrò
nello stanzone tappezzato con inquietanti immagini sacre, e istintivamente portò la mano destra a disegnare su
petto e fronte un segno della croce. Si avvicinò al primo
corpo, un ragazzino piuttosto alto, e attese che il più fidato dei suoi, il brigadiere Agostino Acquati, gli allungasse la cartellina di pelle nera con i risultati delle prime
rilevazioni.
«Santi Alessandro, dieci anni» esordì il carabiniere.
«È stato l’ultimo a sparire, un paio di giorni fa.»
«La famiglia com’è?»
«Gente a posto, maresciallo, ma tenga conto che questi cinque erano tutti di buona famiglia.»
Il ragazzino aveva il naso aquilino e le orecchie a
sventola, in parte ancora accarezzate da ostinate gocce
d’acqua del lago. Aveva gli occhi chiari e vuoti.
«Fasano Eleonora Maria, undici.»
La seconda vittima di quella follia era una ragazzina
dalla bellezza angelica. Anche nella foto a colori allegata al dossier in cartellina, aveva la pelle color latte.
Pure lei aveva gli occhi chiari, anche se la lucentezza del
loro azzurro meraviglioso era scivolata via per sempre
nell’acqua salmastra del lago.
«È molto bella», disse il maresciallo, «anche lei di
qui?»
«Sì, la madre è all’ospedale, non ha retto. Il padre invece è qui fuori, molto lucido e collaborativo.»
«Quando è scomparsa da casa?»
«L’altro ieri notte. Era uscita per portar fuori l’immondizia, lo faceva spesso.»
«No ma dico, erano già spariti quegli altri due, no?»
«I gemelli, sì.»
75
daniele grillo
«E questo padre così collaborativo, perfetto e lucido la
lascia uscire così, la sua bambolina, di notte?»
«Ascolti, maresciallo», rispose il brigadiere, «non voglio in nessun modo condizionare le sue considerazioni,
ma è bene che le dica che le informazioni sono corse con
una certa lentezza, in paese.»
«Cosa vuole dire?»
«Che dalla sparizione dei primi due ragazzini a quella
dell’ultimo, in pochissimi sapevano delle scomparse già
avvenute. Tenga conto che prima di quarantotto ore non
scatta la denuncia vera e propria di sparizione, e consideri pure che in un paese come Mergozzo ognuno si fa
gli affari suoi...»
«Ok, verosimile. Più o meno. Passiamo al terzo.»
Era un piccoletto piuttosto in carne, una manciata di
lentiggini a stemperare un volto quasi irlandese. Aveva
indosso qualcosa di molto simile a un pigiama.
«Federici Raphael, dieci. Suo padre è un impresario
edile della zona, la mamma vive in Francia. Dicono che la
donna lavori là, ma secondo qualcuno stavano meditando
la separazione. È stato il penultimo a sparire. Tre giorni
fa, dalla finestra di camera sua, probabilmente nel sonno.»
Gli ultimi due erano un maschio e una femmina
molto simili. Entrambi erano assai magri, entrambi avevano gli incisivi piuttosto esposti.
«Ed ecco i gemelli», sospirò Pacone.
«Undici anni, Silvia e Rodrigo Roversi. I primi a non
fare ritorno a casa.»
Il maresciallo fece qualche passo in direzione dell’uscita della canonica, si voltò nuovamente verso i cadaveri e con gli occhi li passò in rassegna un’ultima volta.
Con la mano destra si aggiustò il cappello e uscì, lieto di
incontrare l’aria fresca della sera.
76
il cielo capovolto
«Una roba così non l’avevo mai vista prima», disse ai
suoi con un filo di voce. «Il tumore va estirpato, ragazzi.
In maniera rapida e non necessariamente indolore.»
***
L’intero paese era caduto preda di una paura ragionevole. La sentiva sulla pelle, perché quel demone uscito
dall’acqua si era portato via la spensieratezza di un luogo
abituato a problemi piccoli e timori inesistenti. Ma cosa
avevano in comune, tra di loro, i figli di Mergozzo portati
via al loro futuro? Quali frequentazioni, quali abitudini?
«Si conoscevano tutti, maresciallo», aveva risposto
Sergio Mantovani, professore della media del paese e
padre di Eleonora Maria, «in un modo o nell’altro avevano frequentato la stessa scuola, il catechismo o il maestro di musica.»
«Il maestro di musica?», chiese aggrottando le sopracciglia Pacone, «ce n’è uno solo?»
«Praticamente vanno tutti da lui, maresciallo.»
«E il prete?»
«Don Gianni? È uno a posto, credo. Guardi, qui
siamo sempre stati diffidenti di chiunque, eppure di lui
non ho mai sentito parlare. Né bene né male.»
L’insegnante di musica era un uomo di bell’aspetto.
Occhialini da intellettuale, stempiato, era ordinato e
apparentemente discreto. Fornì con un certo livello di
dettaglio i suoi ultimi spostamenti. Con sé, quando i carabinieri lo sentirono, portò un’agenda nella quale aveva
annotato tutte le lezioni dei ragazzi che seguiva.
«Erano i più capaci, maresciallo», riferì ai carabinieri
l’uomo, «è come se avessi perso una parte di me stesso,
mi creda.»
77
daniele grillo
Il prete non era di quegli uomini di fede capaci di incontrare immediatamente l’altrui simpatia. Nemmeno
in quell’occasione ci riuscì.
«Li ho visti tutti a catechismo, certo. Ma non può
pretendere che me li ricordi singolarmente... Per me i
ragazzi sono tutti uguali.»
La donna del circolo del paese era al contrario una
persona di incontro, affabile e gentile anche in quel frangente. Un po’ troppo rilassata, forse.
«Che le dovrei dire? Venivano sempre dopo il catechismo, a comprare un pacchetto di patatine o le gomme da
masticare. Ragazzi normali. Li vedevo sì e no una volta
la settimana.»
Pacone terminò quella giornata di cadaveri e colloqui
con un groppo in gola. Non riusciva togliersi dagli occhi
il colore viscido di lago di quei giovani corpi.
***
La mattina successiva Mergozzo si svegliò sotto un sole
irreale, vuoto di gioia. Era come se qualcuno ne avesse
svuotato i raggi, privi del benché minimo accenno di calore. E il cielo, il cielo pareva capovolto, come se il lago
avesse occupato anche lo spazio soprastante intaccandone il colore, scuro nonostante il sereno. Ci sarebbero
state di nuovo belle giornate, sul lago di Mergozzo?
«Sì», rispose meccanicamente il maresciallo al barista
che gli stava servendo un caffè doppio.
Sulla superficie bruna del liquido trovò una macchia
di latte e schiuma che non sapeva di aver chiesto. Fece
una smorfia, trangugiò tutto in un secondo e uscì. Sul
pontile transennato era sempre un gran brulicare di
bande rosse e camici bianchi.
78
il cielo capovolto
«Voi due, con me», esclamò all’indirizzo di Crovi e
Acquati. «Andiamo a casa del primo rapito, e subito
dopo degli ultimi due, i gemelli. Se una pista c’è, la troveremo tra le cose dei ragazzi.»
Enrico Santi, padre di Alessandro, era uno dei più importanti importatori di materie prime tessili d’Europa.
Chiunque volesse produrre vestiti di qualità doveva passare da lui. Il figlio era l’unico erede dell’impero, e nelle
intenzioni del padre si sarebbe solo dovuto godere la fortuna accumulata per lui in anni di attento e scrupoloso
lavoro. Alessandro era tuttavia un bambino sveglio e volenteroso. Che sognava di eccellere in tutto, dall’arte alla
matematica, dallo sport alle parole crociate. E a detta
di qualsiasi tutore o insegnante, riusciva bene nel suo
intento, senza mai una distrazione o un incidente di percorso. La villetta dei Santi si trovava sulla statale, aveva
un giardino dignitoso ma per il resto non comunicava la
ricchezza del proprietario. Ad aprire la porta ai carabinieri fu una donna di servizio.
«Il signor Santi non sta bene», si scusò subito la governante, «è nella sua stanza, di sopra, e mi ha pregato di
dirvi che se avete bisogno di lui scende.»
«Potrebbe non essere necessario, signora», rispose il
maresciallo, «ci farebbe soltanto dare un’occhiata alla
stanza del ragazzo?»
La cameretta di Alessandro era meno sobria di quanto
si aspettassero. I muri erano stracolmi di poster raffiguranti idoli diversissimi tra di loro. Ci trovavi Biagio
Antonacci come Giuseppe Verdi, Einstein come papa
Bergoglio. La scrivania era al contrario ordinatissima,
come pure la libreria di legno grezzo, piena zeppa di
volumi catalogati ad uno ad uno e messi in rigoroso ordine alfabetico. I due sottoposti iniziarono a perlustrare
79
daniele grillo
l’ambiente, mentre il maresciallo si soffermò sullo zaino
di scuola di Alessandro. Iniziò a sfogliare il diario del
ragazzo, sperando di trovarvi dentro un indizio, una
confidenza. Invece ne cavò soltanto una serie di appuntamenti. Uno dei due carabinieri a un certo punto scovò
qualcosa di potenzialmente importante. Si trattava di
una pila di foglietti quadrati attraverso i quali il ragazzino collezionava una cosa semplice: frasi.
«In quell’armadio laggiù ne troverete altri», disse una
voce priva di ogni emozione all’ingresso della stanza.
Enrico Santi era un uomo distrutto dal dolore e dal
pianto. Stava appoggiato alla cornice della porta senza
riuscire a guardare i militari negli occhi.
«Grazie, signor Santi.»
«Lo chiamano già il mostro del lago, sa?», rispose
quello, «ma per questo figlio di puttana non esiste definizione. Ha scelto troppo bene, portandosi via i nostri
ragazzi. Ha scelto troppo bene per essere un comune
pazzo da serie televisiva.»
Il maresciallo aprì l’armadio indicato dal padre del ragazzo, e si accorse che una montagna di frasi erano state
accuratamente catalogate per giorno, mese e anno. Una
selezione ragionata: i fogli sulla libreria, probabilmente
più datati, dovevano rappresentare gli “scarti”, o qualcosa di simile. Tra gli ultimi foglietti scritti a mano dal
ragazzo ce n’erano diversi con frasi di Battiato e Tolkien,
frutto probabilmente delle ultime frequentazioni culturali del ragazzino, che sul comodino aveva guarda caso
un disco del cantante e un grosso libro dello scrittore.
In mezzo, però, c’erano anche altri “autori” meno noti
al di fuori di Mergozzo. C’era una frase dell’insegnante
di musica, che di nome faceva Hans Kroning, che recitava così: “Fino alla nona ci arrivano tutti. Ma alla
80
il cielo capovolto
decima... Questa è roba da musicisti che vogliono un
posto nella storia”. A cosa si riferisse, non era dato sapere. Ma del resto anche una frase di Pietro Amarenghi,
il sacrestano, appariva abbastanza criptica: “Ragazzi,
Gesù mica è sceso dalla croce per sentire queste robe
qui, eh? Ripartiamo dal numero 16”. O quella di “mister
E.”, che forse era il padre: “Stai fresco, te, che ti lascio
scolare la cedrata così. Giocatela a carte, la fine della
bottiglia”. Ancora, il sacerdote della Parrocchiale, don
Gianni Peschiera: “Non credete mai a chi afferma che
le penitenze sono soltanto atti dolorosi”. Parole che avevano costruito un piccolo tesoro, per quella giovane vita.
Ma che ora erano soltanto lettere ed emozioni chiuse
dietro le ante di un armadio.
***
I gemelli Roversi erano ovunque, nel soggiorno dell’appartamento dei genitori. Non era una casa modesta,
quella. Vi si respirava, piuttosto, un’aria diversa, professorale. I visi di Silvia e Rodrigo erano ovunque, quasi a
voler esorcizzare una bruttezza che solo un buon dentista avrebbe potuto tentare di scalfire.
«Vorrei che mi raccontasse se negli ultimi giorni aveva
notato qualcosa di strano, nei ragazzi», disse Pacone
all’indirizzo della madre, una donna esile e non più giovanissima, comprensibilmente distrutta dal dolore.
«Strano? Che dovrei dire...»
«Ascolti. Se ora poco le può importare, di trovare
quell’assassino, le assicuro che nei prossimi mesi diventerà una delle uniche ragioni per alzarsi la mattina.
Vorrei solo che mi riferisse qualsiasi tipo di particolare
sull’umore e i movimenti dei suoi figli.»
81
daniele grillo
La donna strinse forte le mani al petto, incrociandole
come a voler trattenere un magone insopportabile, doloroso per il cuore. Poi allentò i muscoli, chiuse le palpebre sui piccoli occhi scuri e iniziò a parlare.
«Silvia non ci ha mai dato da pensare. Era una ragazza forte e determinata. L’abbiamo solo vista studiare
molto, moltissimo, negli ultimi tempi. Stava ore su internet a cercare non so cosa, ma sempre materiale della
scuola o roba del genere, perché passando davanti alla
sua camera non ho mai notato nulla di strano.»
«Non si ricorda di che argomenti si trattasse?»
«No, non ho fissato lo sguardo su quelle schermate.»
«E poi, signora?»
«E poi a volte si metteva a scrivere.»
«Un diario?»
«No, un quaderno rosso, più grande rispetto ai normali formati. Se l’era comprato da sola, o glielo aveva
dato qualcuno, perché insieme non l’abbiamo mai acquistato.»
Senza osare disturbare la donna per chiederle il permesso di far rovistare nelle stanze dei due ragazzi, Pacone annuì nascostamente ai due carabinieri quando
uno di essi indicò la prima delle camere da ispezionare.
«Mi parli di Rodrigo.»
«Rodrigo era preoccupato. Confabulava spesso con la
sorella, che invece pareva in trance, con quel quaderno
rosso e le sue ricerche su internet. Qualche giorno fa
hanno discusso a tavola.»
«Si ricorda cosa si dissero?»
«Rodrigo disse: “Non ce la farete mai, glielo dovreste
dire”, qualcosa del genere.»
«E la ragazza?»
«Silvia rispose seccamente dicendo “solo perché tu
82
il cielo capovolto
ci hai rinunciato non significa che non ce la si possa
fare”.»
«Non reputò che fosse il caso di capire di più, di quella
faccenda?»
«Non sa quanto ci penso oggi, maresciallo, ma allora la relegai a un semplice diverbio tra ragazzi. In più
fummo disturbati dallo squillo del telefono. Era mia sorella, che voleva dirmi di stare attenta ai ragazzi, perché
parlavano di una o due sparizioni...»
«E poi?»
«Lei mollò il cucchiaio sul tavolo, poi si alzò e si chiuse
in camera. Lui poco dopo la seguì, lei gli aprì docilmente
la porta e sentii soltanto che si scusò dicendo “non è vero
che ci ho rinunciato, Silvia”. Poi disse qualcosa a proposito di una telefonata con Eleonora Fasano.»
«Un’altra delle bambine rapite... Frequentavano la
stessa scuola?»
«Non più, Eleonora aveva cambiato istituto.»
«Come mai?»
«Il padre la iscrisse a una scuola privata. Non so neppure bene dove sia.»
«Catechismo?»
«No, i miei non li mandavo più. Quel prete metteva
loro strane cose in testa, così ci siamo detti: ci penseranno da adulti, a mettersi in pari con i sacramenti.»
«Strane cose?»
«Diceva che Gesù era una roba per pochi, e che per meritare la sua vicinanza bisognasse frequentare la parrocchia tutti i giorni. Non faceva per noi, tutta questa chiesa.»
Nel frattempo i due carabinieri erano usciti dalle camere di Silvia e Rodrigo. Pacone si rivolse a loro, cosciente del fatto che la donna si fosse accorta della loro
momentanea scomparsa dal salone.
83
daniele grillo
«Se avete fatto quello che dovete fare ringraziamo la
signora e andiamo, ragazzi. Li scuserà se hanno messo
qualcosa fuori posto, ma...»
«Fate quello che dovete. Anzi, se ne avete bisogno
prendetevi un pomeriggio intero, un giorno. Ma dopo
non tornate più.»
Usciti dall’appartamento, Pacone chiese ai colleghi
cosa avessero trovato. Poco, o nulla, di interessante.
Nessun diario, nessun appunto.
«Eppure la ragazza scriveva su un quaderno rosso dal
formato particolare, pensavo aveste sentito mentre ne
parlavo con la madre. Non avete visto nulla del genere?»
Avevano sentito, certo. Ma nulla del genere, il quaderno non c’era. Le due stanze erano ordinate e pulite,
ma all’apparenza non erano state toccate. Pochi gli oggetti
personali lasciati fuori posto, e nei diari di scuola e nelle
cartelle non avevano trovato nessun appunto sospetto.
«La cronologia di internet?»
«Abbiamo fornito una serie di coordinate sul computer e la connessione ai colleghi di Parma. A distanza
frugheranno un po’ nelle cartelle del pc dei ragazzi, in
questo modo non dovremo disturbare più i genitori.»
***
Per un motivo incomprensibile, il parroco aveva scelto di
sottolineare il dolore del paese in maniera curiosa e incessante, chiedendo al sacrestano di suonare le campane
a morto ogni mattina, all’ora esatta del ritrovamento dei
bambini. Il maresciallo Pacone si svegliò di buon’ora,
come sempre, e mentre i rintocchi echeggiavano, solo
parzialmente ovattati dai doppi vetri dell’appartamento
messo a disposizione dal sindaco, disse a se stesso che
84
il cielo capovolto
quello poteva e doveva essere il giorno buono per trovare
uno straccio di pista. Si preparò un caffè e attese che la
moka iniziasse a gorgogliare rimanendo con lo sguardo
fisso sulla caffettiera. Tra i gemelli Roversi ed Eleonora
Fasano non coincideva una delle frequentazioni che parevano comuni ai ragazzi, e questo era un elemento che
se non altro escludeva qualcosa. Poi c’erano le frasi di
Alessandro Santi, una delle quali gli era parsa da subito
particolarmente interessante. Girò la manopola del gas
soffocando la fiamma, prese il cellulare e compose il numero di Acquati.
«Agostino?»
«Sì, maresciallo», rispose una voce assonnata dall’altra parte.
«Quelli di Parma hanno risposto?»
«Non credo... Avranno bisogno di un po’ di tempo...»
«Può guardare? Ieri sera ho chiamato Santiriboli, il
loro capo, inventandomi che forse c’era un altro rapito e
che dovevano muoversi.»
«Aspetti un secondo... Sì, maresciallo. C’è una mail di
Santiriboli con un allegato. Gliela giro?»
Riattaccò il telefono, poi si mise ad armeggiare col display e ne cavò la relazione dei colleghi di Parma sugli
ultimi movimenti “virtuali” di Silvia Roversi. Ingrandì i
caratteri unendo e subito dopo separando pollice e indice
della mano destra. Rimase quasi immobile per un paio
di minuti, poi corse in camera a indossare l’uniforme.
Qualche minuto dopo, mentre si specchiava con indosso
un sorrisetto curioso, gli venne in mente il caffè sui fornelli. Ancora scalzo si portò di nuovo in cucina, versò
il liquido nero in una tazzina e se la portò alle labbra.
Mezzo sorso bastò per rendersi conto che era gelido, il
resto del caffè se lo bevve il tubo di scarico del lavandino.
85
daniele grillo
«Ok, ragazzi», disse salendo sulla gazzella, «la modalità che innestiamo adesso è quella dell’arresto.»
Gli altri due lo guardarono sorpresi, come a dire “è
sicuro?”. Sì, era sicuro, dannatamente. E determinato.
Ci credeva, in una fine dell’incubo rapida. Indolore no,
perché di dolore in questa storia ne era stato pagato fin
troppo. Modalità arresto ma niente sirene. Solo una
chiamata di avviso a un paio di pattuglie di rinforzi, così
da star tranquilli, con le spalle coperte. Dalle finestre
aperte della grande villa di Hans Kroning risuonavano
le note di un pianoforte. Una musica pulita e straordinaria, senza esitazioni, da professionista. Si sarebbe potuta confondere con un’incisione, giradischi e vinile. Al
suono del campanello, invece, la melodia si interruppe.
«Buongiorno...»
«Prevengo subito la sua richiesta: siamo qui per farle
un paio di altre domande.»
«Accomodatevi.»
Li fece sedere sul sofà di una sala dalle dimensioni
inaudite. C’erano, addirittura, due pianoforti a coda, oltre a una decina di scaffali e a qualche tavolino sul quale
stavano impilati, in bell’ordine, decine di spartiti.
«Posso offrirvi qualcosa?»
«No, grazie», rispose secco Pacone, «davvero. Si sieda
anche lei, per cortesia.»
Così fece, a questo punto preoccupato, il signor Hans
Kroning.
«Andrò subito al dunque. Mi sa dire cos’è la “decima”
e quale relazione ha con la sparizione e l’uccisione di
cinque ragazzi a Mergozzo?»
«Decima? Non capisco nulla di quello che mi sta dicendo, e la seconda parte della sua domanda non mi è
piaciuta per niente...»
86
il cielo capovolto
«Nemmeno ai famigliari e ai diretti interessati, se è
per questo. Comunque risponda almeno alla prima
parte della domanda, per la seconda vedremo. Ripeto e
aggiungo: cos’è la decima sinfonia?»
«Non capisco di cosa parla, maresciallo Pacone. E il
suo tono è a dir poco irritante...»
«Non si irriti, altrimenti lo faccio io. E noi siamo in
tre, armati e più o meno istituzionalmente autorizzati a
usare anche altri metodi, in caso di necessità. Lei non
può non capire, professore, perché di decima sinfonia
ne parla lei stesso in una mail scritta a Silvia Roversi,
una delle ragazze uccise. Che poi mi risulta essere stata,
come tutti gli altri, una delle sue privatiste. Non è così?»
«Sì, lo era e lo erano tutti, come le ho già detto. Questo fa di me un assassino?»
«Questo non basta, in effetti», riprese il carabiniere,
«perché di frequentazioni comuni, i ragazzi, ne avevano
pure altre. In chiesa, però, almeno due dei cinque non
andavano più da qualche mese, e quindi per il momento
escludiamo il parroco. Il circolo? Ci andavano, ma
non così assiduamente. C’è poi l’insegnante di musica,
quello sì che è interessante.»
«Se continua in questo modo la metto alla porta e se
la vedrà col mio avvocato...»
«Le sto solo facendo alcune domande, non complichi
le cose più di quanto lo siano già. Ripeto, mi spiega questa storia della decima sinfonia?»
«Ora ricordo», si calmò Kroning, «era una sorta di
scherzo che facevo con i ragazzi, sfidandoli a inventarsi
le note della sinfonia che Beethoven non ha mai finito.»
«Leggo da una ricerca fatta dai miei che lei è uno
dei massimi esperti della storia musicale di Beethoven.
Leggo che fino a quindici anni fa era anche considerato
87
daniele grillo
uno dei più apprezzati interpreti della sua musica, noto
in tutto il mondo per i suoi concerti. Poi, però, a un
certo punto si è ritirato qui...»
«È un reato?»
«No, affatto. L’Italia è così bella. E questo lago... Sa
che è il più pulito del paese? Ed è così meravigliosamente rilassante! Non fosse per quel pezzo di merda che
stiamo cercando, lui sì che ha rovinato tutto.»
«La cosa non mi tocca, non cercate qui l’assassino di
quei ragazzi. Erano molto bravi e interessati, sa? I migliori studenti che io abbia mai avuto.»
«Lo so, me lo testimoniano le sue stesse parole,
quando l’altro giorno mi ha detto che è come se fosse
morta una parte di lei. Io credo che invece siano morti
perché una parte di lei la stavano per offuscare, nascondere, superare, professore.»
«La smetta!» urlò l’altro spostandosi rapidamente verso
una credenza sulla quale era appoggiato un telefonino.
Pacone si alzò dal divano e i colleghi pure, mettendosi
tra l’uomo e il cellulare. Hans Kroning, per un attimo,
parve a un passo dall’alzare le mani. Pacone mantenne
la posizione di sfida senza muoversi. Gli serviva tenerlo
con i nervi tesi, non farlo trascendere in atti violenti.
«Mi tocchi e lei ci finisce comunque, in galera», disse
il maresciallo.
L’altro fece un passo indietro e si mise le mani sulle
tempie, come a volersi controllare.
«Non era affatto uno scherzo, per lei, la storia della decima sinfonia di Beethoven», continuò Pacone, «sappiamo
che andò pure in cura, a causa di questa ossessione. Voleva diventare ricco e famoso, ricomponendo attraverso
antichi spartiti e frammenti di storia la decima opera del
compositore. La sua convinzione, dicono alcuni giornali
88
il cielo capovolto
dell’epoca, era che ci fossero indizi e testimonianze e a sufficienza in grado di confermare che, sì, quella sinfonia era
stata finita. Lei voleva farla riemergere, ricomporla come
un puzzle di elementi e suggestioni. Ma non ci riuscì mai.»
«È vero, ma cosa c’entra con quei ragazzi?», disse con
un filo di voce, in lacrime, il professor Kroning.
«C’entra che ai ragazzi lanciò una sfida vera, quella
che lei aveva fallito. Uno di loro, Alessandro, amava annotare frasi su piccoli fogli. Una di queste è sua, e diceva:
“La decima... Questa è roba da musicisti che vogliono
un posto nella storia”. Lei li ha sfidati, perché il livello
di questi piccoli virtuosi del pianoforte era davvero alto.
La seguivano in maniera attenta, e a loro affidò parte di
quel puzzle che la sua mente non era riuscita a mettere
insieme, portandola all’esaurimento.»
«Che male c’è a condividere un sogno?», continuò in
lacrime Kroning, «che male c’è?»
«C’è che ce la fecero, professore. Non è vero? Rimisero insieme, sotto la sua guida ma con i loro piccoli e
svegli cervelli, la decima sinfonia di Beethoven. Solo che
quando Silvia Roversi le mostrò il suo quaderno rosso,
con uno spartito perfettamente compilato, col suo sogno
messo lì, nero su bianco, lei passò subito da uno stato di
euforia a qualcos’altro.»
Kroning si sedette singhiozzando, le grandi mani da
pianista a chiudere il volto. Pacone lo lasciò decantare
un attimo.
«Non poteva sopportare che loro ce l’avessero fatta
e lei no», riprese il carabiniere, «il giovane e spietato
sognatore ha prevalso in maniera violenta sul buon
maestro che avrebbe dovuto gioire per un risultato che
avrebbe fatto diventare famosi tutti e sei, non è vero? La
testa fa strani scherzi, professore.»
89
daniele grillo
«Sì», si riprese un attimo Kroning, «li ho uccisi io. Li
ho uccisi tutti io.»
«Prima ha chiuso da qualche parte i gemelli, quando
vide quel quaderno, non è vero?»
«Sì, in cantina.»
«Poi prese anche gli altri. Perché?»
«Sapevano tutti quanti di quel quaderno, lì dentro c’erano i frutti delle intuizioni di ciascuno di loro.»
«Li ha messi sul fondo del lago, poi. Questo non me
lo spiego.»
«Non volevo sentirli, maresciallo. Urlavano ininterrottamente. E dove li avevo messi, giù di sotto, non mi
davano pace. Così una notte li ho caricati a uno a uno in
auto, ho fissato delle pietre alle loro caviglie e li ho messi
là sotto. Nell’acqua non potevano più urlare.»
«Come riteneva possibile che nessuno li trovasse, in
quel posto?»
«L’avrei fatto ancora, forse. Volevo dare una possibilità a qualcuno di fermarmi.»
Hans Kroning appaiò spontaneamente i polsi, così
da consentire a Crovi di ammanettarlo. Chiese a uno
dei due carabinieri di porgergli gli occhiali, e Acquati
glieli inforcò. L’assassino procedette a capo chino verso
la porta della sua immensa casa, un rifugio da se stesso
e dalle sue pulsioni che evidentemente non aveva retto.
«Non le ho chiesto dove ha messo il quaderno di Silvia, professore.»
«Lo troverà nel caminetto, bruciato.»
«Mi tolga un’altra curiosità. Quella che stava suonando quando siamo arrivati era la decima sinfonia?»
«Sì», rispose quello sollevando la testa e guardandolo
dritto negli occhi, «non è bellissima?»
90
Ricordo d’infanzia
di Alessandra Guzzonato
Il giovane mise piede sulla banchina della stazione di
Stresa quando il sole stava ormai tramontando.
L’odore della sua infanzia lo investì come uno schiacciasassi ed egli si trovò in balia di emozioni che aveva
seppellito da lungo tempo in qualche luogo recondito
della sua mente e del suo cuore.
Erano emozioni legate al profumo intenso del glicine
appena fiorito, ai colori vividi delle azalee che spuntavano come macchie di pittura fresca sui pendii, nei giardini nascosti, là, tra il verde e il marrone degli alberi;
all’odore inconfondibile delle acque del lago, portato
dalla dolce brezza primaverile.
Si stropicciò gli occhi al di sotto degli occhiali e per un
istante il mondo divenne confuso, lontano, e mentre le
persone che erano scese dal treno con lui scomparivano
ingoiate dal sottopasso che conduceva all’uscita sull’altro lato della banchina, lui, Andrea Montani, rimase
immobile, frastornato dal tumulto interiore di cui il suo
animo era preda.
Aveva amato Stresa.
L’aveva amata come si può amare solo il luogo caro
all’infanzia, quello che riesce a conservare i momenti
felici come un tesoro segreto, e a cui si può tornare in
cerca di un rifugio sicuro dall’incertezza del vivere quotidiano.
91
alessandra guzzonato
Andrea strinse i pugni. Avrebbe dovuto essere così.
Sarebbe dovuto scendere da quel treno e gioire del ritorno, della quiete, e di tutto ciò che aveva significato
per lui la Stresa di quando era bambino, e credeva che la
felicità sarebbe durata per sempre.
Invece l’unico sentimento che provò in quel momento
fu la tristezza del tempo rubato e degli affetti perduti.
Un giorno Stresa gli aveva portato via tutto e, dopo
diciassette anni, Andrea non sapeva ancora come e perché.
Decise finalmente di incamminarsi, ora che anche il
treno era lontano e la stazione era ripiombata nel silenzio. Andrea si sentì a disagio.
Guardò l’ora e fu per un attimo tentato di fermarsi
sulla banchina dall’altro lato e prendere il prossimo
treno per Milano. O per qualsiasi altra destinazione,
l’importante era allontanarsi il prima possibile da lì.
Tuttavia non si fermò e proseguì fino all’edicola che
si trovava a fianco della biglietteria. Comprò un paio di
riviste e una raccolta di racconti di Simenon, e poi, imboccato il passaggio ad arco che attraversava l’edificio,
si ritrovò finalmente sulla strada.
Si guardò attorno, e mentre s’incamminava lungo il
viale alberato alla sua sinistra, si sentì di nuovo bambino, quando percorreva quella stessa strada per mano
a sua madre.
Non credeva che il ricordo potesse essere così vivido
dopo tanti anni. Eppure riusciva a percepire ancora il
suo profumo, e il fruscio della gonna leggera sulla sua
pelle mentre camminavano fianco a fianco.
Sua madre, Maria, indossava sempre gli occhiali scuri
per via delle frequenti emicranie di cui soffriva, e aveva
vestiti bellissimi.
92
ricordo d’infanzia
Andrea camminava, e sentiva la mancanza di sua madre, che era morta solo due anni prima, ma che gli era
mancata per tutti quei diciassette anni.
E camminando pensò anche a suo padre, Franco,
l’uomo severo che era stato, ma anche l’amico e complice di giochi. Un tempo, almeno, era stato così.
La loro vita era stata serena, simile probabilmente a
quella di tante altre famiglie di quegli anni.
Avevano abitato a Milano da sempre. Franco Montani era stato commissario dei carabinieri e, per quanto
ne ricordasse Andrea, il lavoro, un po’ per necessità e
un po’ per scelta, era sempre venuto prima di qualsiasi
altra cosa.
Ma poi arrivavano le vacanze ed era allora che la famiglia si trasferiva sul lago. Suo padre, tramite un amico
e collega che lavorava proprio a Stresa, aveva preso in
affitto una villetta a Carciano, appena fuori dalla cittadina. All’inizio si era trattato solo del periodo estivo,
ma la famiglia vi si era trovata così bene che in seguito
l’affitto si era esteso all’intero anno e, già da Pasqua,
Andrea, che era stato un bambino timido e introverso,
poteva tornare a godere di quel mondo così lontano dal
caos cittadino, e soprattutto della compagnia esclusiva
del padre.
La villetta era circondata da un giardino delizioso,
costellato di cespugli di azalee e ortensie, e da piccoli
gruppi di palme che offrivano lo spunto per creare fantasiosi nascondigli.
Andrea aveva trascorso all’aperto giornate intere,
giocando da solo mentre i genitori leggevano il giornale
nel piccolo gazebo appena fuori di casa; e poi con suo
padre, passeggiando per il prato, osservando le fioriture
e gli insetti che le popolavano, oppure spingendosi fin
93
alessandra guzzonato
nella parte bassa del giardino, che costeggiava la ferrovia, e da cui si poteva vedere passare i treni.
Sua madre soffriva molto meno in quei periodi, e sorrideva di più. Preparava dolci profumati per la merenda
sull’erba e stendeva il bucato al sole canticchiando un
motivetto sentito alla radio.
Tutto era stato perfetto.
***
Andrea giunse alla fine della strada e, al semaforo che
regolava le varie direzioni, si tenne sulla sinistra e cominciò a salire verso il centro di Carciano. Solo quando
si trovò in prossimità della chiesa, proprio sopra la ferrovia, si fermò.
Da lì, guardando giù, poteva vedere proprio lo stesso
tratto di binari che vedeva da bambino; poco oltre, la
rete di recinzione di quello che era stato il suo giardino;
oltre ancora fu in grado di scorgere la sua vecchia casa
di mattoni rossi.
Era ancora lì, proprio come se la ricordava. Immaginò che qualcuno potesse viverci, o passarci le vicine
vacanze pasquali, come faceva lui da piccolo. Per il momento però gli apparve silenziosa, addormentata tra le
eterne azalee che cominciavano a colorare il giardino.
***
Era successo d’estate.
Andrea, una mattina, era stato svegliato dal suono incessante e ripetuto delle sirene.
Suo padre era in cucina, quando era sceso, e si stava
allacciando le scarpe.
94
ricordo d’infanzia
«Cos’è successo?» aveva chiesto Andrea, confuso e
assonnato.
«Non lo so, sto andando a vedere» gli aveva risposto.
Aveva poi preso la giacca leggera e lo aveva guardato.
«Rimani qui. Tua madre è a letto con una delle sue
emicranie, per cui cerca di non far rumore. Fuori ce ne è
già a sufficienza» gli aveva detto.
Ma una volta che Franco fu uscito, Andrea non aveva
saputo resistere alla curiosità; si era prima vestito e dopo
essersi accertato che sua madre stesse dormendo, era andato in giardino.
Il suono acuto delle sirene proveniva dalla proprietà
dei Tailly, che si estendeva proprio oltre il muro di cinta.
Andrea si era arrampicato quel tanto che bastava per poter vedere dall’altra parte e, tra gli alberi, aveva scorto
un gruppo di poliziotti aggirarsi per l’ampio prato antistante la villa.
«Deve essere successo qualcosa di grave» era stato il
suo primo pensiero.
La sera precedente c’era stato un forte temporale e,
arrampicandosi, Andrea si era sporcato di terra e muschio il risvolto dei pantaloncini corti. Avrebbe dovuto
spiegarlo a suo padre, ma forse, se quello che stava accadendo laggiù fosse risultato davvero grave, suo padre avrebbe tardato e lui si sarebbe potuto cambiare in
tempo.
Aveva dato un’occhiata verso la finestra della camera
da letto dei suoi genitori per assicurarsi che sua madre
non lo stesse cercando, poi era tornato a guardare verso
la villa.
Voleva sapere che cosa fosse successo.
Così aveva costeggiato il muro, fino a scendere verso la
ferrovia. Lì il giardino piegava verso destra per un tratto
95
alessandra guzzonato
lungo e stretto, al termine del quale sorgeva un vecchio
cancello arrugginito, che una volta doveva essere stato
un ingresso secondario alla proprietà dei Tailly.
Era stato proprio qui che Andrea aveva conosciuto
Sophie Tailly, che allora aveva undici anni. Sophie era
la secondogenita dei Tailly, e, per Andrea, che di anni
ne aveva dieci, quella ragazzina dai lunghi capelli castani, e dagli occhi incredibilmente verdi, aveva rappresentato la scoperta di un universo tutto nuovo e molto
affascinante. Sophie era totalmente diversa da tutte le
sue compagne di scuola. Passava dietro a quel cancello
come un’ombra, e rideva, oppure rimaneva lì a fissarlo
senza dire nulla.
Andrea non aveva mai raccontato ai suoi genitori di
Sophie, perché i Tailly avevano fama di essere strani, almeno da quello che si diceva in paese.
Il capofamiglia, François Tailly, era considerato un
donnaiolo e un giocatore d’azzardo. Migrato dal nord
della Francia all’inizio degli anni ’70, aveva sposato la
giovane Rebecca, figlia di un imprenditore novarese.
Era stato proprio il suocero a regalargli la villa, tuttavia la gente del posto si domandava come i Tailly potessero mantenere una proprietà del genere, dato che
entrambi sembravano essere dediti più a una vita frivola
che all’onesto lavoro.
Gli unici posti in cui si potevano incontrare erano
i golf club, o le feste private. Per il resto, nessuno era
in grado di capire che cosa succedesse all’interno della
villa. I Tailly, all’epoca dei fatti, erano un vero mistero.
La giovane Sophie non era da meno: quando s’incantava a guardare Andrea da dietro il cancello, con gli
occhi sgranati e il nasino all’insù, pareva spiritata. Poi
rideva senza motivo, e bisbigliava.
96
ricordo d’infanzia
Allora Andrea era costretto ad avvicinarsi per sentire
quello che diceva, e a quel punto lei scompariva tra gli
alberi. Però una volta gli aveva chiaramente detto: «Perché non vieni qui a giocare con me?» Andrea sulle prime
non aveva compreso, il cancello era chiuso con una pesante catena e un grosso lucchetto; non sembrava esserci
modo di oltrepassarlo, nemmeno scavalcandolo.
Sophie si era portata un dito sulle labbra, facendogli
intendere che non avrebbe dovuto dirlo a nessuno, poi
gli aveva fatto cenno di avvicinarsi alla sinistra del cancello. Proprio in quel punto, nascosto sotto un pesante
manto di edera rampicante, si celava un varco nel muro,
sufficientemente grande perché Andrea potesse passare.
Era stato eccitante intrufolarsi dall’altra parte, anche
se, sia quella volta sia le successive, Andrea non si era
mai spinto oltre la piccola radura tra gli alberi che sorgevano appena oltre il cancello. Sapeva bene cosa sarebbe
potuto succedere se i suoi o – peggio – i Tailly stessi,
lo avessero scoperto. Inoltre temeva Victor, il fratello
maggiore di Sophie. Con lui non aveva mai parlato, né
lo aveva visto da vicino. Gli era capitato solamente di
intravederlo nei pressi della villa, o nel giardino, e aveva
sempre avuto l’impressione che, quel ragazzo alto e
pallido, dallo sguardo glaciale, sapesse esattamente che
Andrea in quel momento fosse lì a osservarlo. Gli aveva
sempre fatto venire i brividi.
Comunque, la mattina in questione, fu proprio attraverso il varco mostratogli da Sophie che Andrea era
potuto entrare nel giardino dei Tailly. Si era spinto fin
sul limitare del prato grande, quello dove aveva visto
i poliziotti. Protetto dagli alberi, si era messo a osservare la scena: la polizia che andava e veniva, uomini
che cercavano tra l’erba, che scattavano fotografie, che
97
alessandra guzzonato
trattenevano padre e madre Tailly sul patio, mentre altri
tiravano nastri di isolamento nella parte bassa del giardino, dove sorgeva una piccola fontana e alcune panche
di pietra disposte a semicerchio.
Suo padre era in piedi proprio in quel punto e, accanto a lui, c’era il suo amico, Antonio Banti, che poi
altri non era che il maresciallo dei carabinieri di Stresa.
Per Andrea, Antonio era una presenza famigliare, poiché all’inizio dell’estate era stato diverse volte a casa
loro per il tè, con la moglie e la figlia quindicenne. Ultimamente invece, forse a causa degli impegni di lavoro,
non era più passato a trovarli. Così era stato suo padre
a uscire la sera dopocena per incontrarlo, e in quelle occasioni era rientrato sempre piuttosto tardi; Andrea, per
quanto avesse tentato di rimanere sveglio, non era mai
riuscito a udirlo rincasare. Tranne una volta, quando,
disubbidendo a sua madre, aveva bevuto troppa Coca
Cola, rimediandosi così un sonno difficile e agitato. Allora lo aveva sentito, o meglio aveva distinto gli scatti
della serratura della porta. Non una, ma ben due volte a
dire il vero. Tuttavia, nel dormiveglia, era probabile che
si fosse sbagliato.
Comunque, quella mattina aveva visto suo padre e
il maresciallo Banti che si inginocchiavano proprio accanto alla fontana. Ai loro piedi una massa scura, immobile, adagiata tra l’erba.
Andrea aveva capito subito che si era trattato di un
cadavere, era riuscito a vederne le scarpe, scarpe da
donna. «Chi poteva essere?» si era chiesto, affascinato
dalla scena.
Solo che, nel tentare di vedere di più, aveva inaspettatamente incontrato gli occhi di suo padre.
Ad Andrea si era gelato il cuore e, non riuscendo a
98
ricordo d’infanzia
distogliere lo sguardo dall’espressione attonita del genitore, aveva cominciato ad arretrare per poi voltarsi e
mettersi a correre a perdifiato fino al varco, che aveva oltrepassato buttandosi in mezzo all’edera, e annaspando
in essa per uscire.
Stava cercando di rialzarsi quando una voce alle sue
spalle lo aveva fatto fermare, costringendolo a voltarsi.
Era Sophie. Bellissima, i capelli sciolti e scarmigliati
sulla schiena, le gote rosee, gli occhi che brillavano. Indossava una lunga camicia da notte bianca, bordata di
pizzo sangallo, ed era scalza sull’erba.
«C’est Nené» gli aveva sussurrato. «Elle a été tué.»
Aveva l’abitudine di pronunciare alcune frasi in francese, anche se parlava correttamente l’italiano. Andrea
aveva capito che il corpo che aveva visto poco prima apparteneva alla bambinaia, che Sophie chiamava Nené.
Era stata uccisa.
Sophie aveva emesso un risolino acuto, per poi afferrare con entrambe le mani le inferriate del cancello e
sporgersi in avanti. Aveva guardato Andrea dritto negli
occhi.
«Io lo so chi è stato» aveva detto a bassa voce. Poi era
scomparsa tra gli alberi come era solita fare. Quella era
stata l’ultima volta che Andrea aveva visto Sophie.
Era tornato a casa di corsa, scendendo subito in lavanderia per togliersi i pantaloni sporchi. Nella fretta
aveva urtato le scarpe di sua madre, che erano sporche
di fango, e, cadendo, avevano sparpagliato il terriccio sul
pavimento lindo. Andrea le aveva rimesse in ordine, cercando di pulire alla buona il pavimento. Anche se ormai
non avrebbe avuto scampo con suo padre, un pasticcio
come quello, sommato ai pantaloni macchiati, avrebbe
potuto farlo veramente infuriare.
99
alessandra guzzonato
Era tornato poi di sopra, si era cambiato e aveva controllato di nuovo sua madre che ancora dormiva con un
fazzoletto scuro sugli occhi.
Alla fine era sceso in cucina, preparato ad affrontare
l’inevitabile.
Quando però suo padre era rientrato, Andrea si era
trovato a che fare con una reazione molto lontana da
quella che si era aspettato.
Franco Montani si era seduto sulla sedia di fianco a
lui e aveva sospirato. Ad Andrea era sembrato molto più
stanco, e vecchio.
«Io non ti ho visto, non voglio nemmeno sapere come
sei entrato, Andrea» aveva detto. Poi lo aveva guardato:
«Tu non sei mai stato lì».
«Ma papà...» aveva cercato di obiettare. Voleva dirgli
quello che Sophie aveva detto a lui. Poteva essere importante e magari suo padre avrebbe potuto risolvere il caso
grazie al suo aiuto.
«Niente ma.» Era stato duro e perentorio. «Non è un
gioco, Andrea. Si tratta di un omicidio. Hai capito bene?
Omicidio. Ora mi ascolti bene. Vai in camera tua e comincia a radunare le tue cose. Appena la mamma sarà
in grado di affrontare il viaggio, torneremo a Milano.»
Il mondo gli era crollato addosso. Perché suo padre
faceva così? Aveva paura che potesse accadere loro qualcosa? O temeva che se la polizia avesse scoperto che lui
era lì avrebbe potuto pensare che fosse implicato, o che
potesse avere visto qualcuno?
«Io non c’entro niente, papà» aveva detto, con lo stomaco stretto per la rabbia.
«Saresti dovuto rimanere qui, come ti avevo chiesto
di fare. Adesso non possiamo rimanere; in ogni caso tua
madre ha bisogno di riposare e con quello che è suc-
100
ricordo d’infanzia
cesso, nei prossimi giorni qui si scatenerà il putiferio.
Meglio rientrare il prima possibile. Adesso vai.»
Andrea si era incamminato verso le scale, con le lacrime che pungevano ai lati degli occhi, spingendo per
uscire. Ma non aveva voluto piangere.
Ora, diciassette anni dopo, avvertì quelle stesse lacrime, ormai libere, rigargli il viso, e mentre il sole scompariva dietro le montagne, il macigno che aveva tenuto
sul cuore finalmente si sgretolò e Andrea poté tornare a
respirare.
***
Più tardi, quella stessa notte, se ne stava sdraiato a occhi
aperti sul letto, ad ascoltare la pioggia.
Si trovava nella camera di una pensione nei pressi
della stazione, un posto di poche pretese, ben lontano
dalla realtà dei fastosi alberghi che dominavano il lungolago.
Non riusciva a prendere sonno, perché le vicende
di quel giorno lontano, represse per così tanto tempo,
adesso non volevano più smettere di tormentargli la
mente.
Tornavano ancora e ancora e, laddove si offuscava un
dettaglio, un altro diveniva invece più chiaro.
Una volta rientrati in città, i suoi genitori non avevano
mai parlato di quello che era successo e Andrea aveva
sempre pensato che la colpa fosse sua, per aver disobbedito, per aver frequentato Sophie senza dire niente a nessuno, per essersi intrufolato di nascosto in un giardino
che non era il suo.
Aveva pensato che suo padre si fosse vergognato di
lui. Come avrebbe potuto spiegare che proprio suo figlio
101
alessandra guzzonato
si era trovato sul luogo di un omicidio e nella proprietà
di gente che era sulla bocca di tutti? Che cosa avrebbero
pensato i suoi colleghi quando avessero scoperto che genere di educazione gli aveva saputo dare?
Era questo quello di cui Andrea si era convinto, guardando suo padre sempre più preso con il suo lavoro,
sempre più assente. E sua madre, che non gli aveva mai
detto niente, ma che si era fatta ancora più silenziosa,
più triste e lontana da lui.
Non gli avevano fatto mai mancare niente, tuttavia
aveva percepito un cambiamento sottile nella loro vita,
nei loro modi, nei piccoli gesti. Poi, come in tutte le
cose, ci si fa l’abitudine e si cresce e, a un certo punto si
arriva a dimenticarne il motivo.
Fino a che un giorno, Andrea, ormai uomo, aveva trovato le vecchie foto che sua madre conservava nei cassetti del comodino. Foto di loro tre, felici, nel giardino
della villetta, con il lago sullo sfondo. E si era reso conto
che aveva dimenticato quel periodo proprio per proteggersi dal ricordo della gioia che un tempo c’era stata.
Come poteva essere stata solo colpa sua? Non era
plausibile, e solo in quel momento gli era stato chiaro
che doveva pur esserci dell’altro, e che il solo modo di
ritrovare la sua famiglia, e se stesso, era tornare a Stresa
e ripartire da dove tutto si era interrotto.
Qualche giorno prima della partenza aveva cercato
informazioni sui Tailly, perché all’epoca non era mai riuscito a sapere che cosa fosse successo alla bambinaia, e
cosa ne fosse stato della famiglia.
L’articolo sulla morte di Renata Benedetti, bambinaia della famiglia Tailly, riportava una presunta ricostruzione dei fatti, in cui uno o più ignoti, entrati nel
giardino per arrivare alla villa, erano stati scoperti dalla
102
ricordo d’infanzia
donna che a quell’ora faceva la sua consueta passeggiata
serale e, spaventati dalle sue grida, l’avevano colpita con
una delle grosse pietre che contornavano le aiuole nei
pressi della fontana. Non era mai stata trovata alcuna
prova che conducesse ai responsabili e il caso era rimasto insoluto.
Le indagini tuttavia avevano fatto venire a galla
l’implicazione di François Tailly in un contrabbando
di opere d’arte su cui la polizia stava investigando da
tempo, e la famiglia era finita nel mezzo di un grosso
scandalo.
Rebecca Tailly, dopo l’arresto del marito, aveva lasciato Stresa assieme ai due figli, per tornare presumibilmente a Novara dai genitori.
Alcuni anni dopo Victor Tailly morì in un incidente
stradale in Francia, causato dall’abuso di alcolici e sostanze stupefacenti.
Di Sophie invece non trovò traccia alcuna. Pareva
scomparsa così come, da bambina, era solita scomparire
tra gli alberi.
***
La pioggia continuava a cadere.
Andrea si rigirò più volte, alla ricerca di quel sonno
che tardava a venire.
Le palpebre erano pesanti e tutto il suo corpo stava
lentamente scivolando nel torpore. Ma la sua mente non
ne voleva sapere.
Continuava a tornare sugli stessi dettagli: la frase di
Sophie, quella mattina, e il suo modo di afferrare le
sbarre del cancello e protendersi verso di lui. Perché non
aveva mai detto niente a nessun altro, se davvero aveva
103
alessandra guzzonato
visto qualcosa? O forse lo aveva detto e non era stata
creduta? “Io so chi è stato” erano state le sue parole. Il
modo in cui aveva pronunciato il chi aveva dato da pensare ad Andrea. Sophie, a suo avviso, aveva visto qualcuno che conosceva. Certo, avrebbe potuto benissimo
essere il giardiniere, o l’idraulico di turno, che ingolosito
dalla villa, aveva deciso di tornare per un furto.
Se ne era vantata con lui, come a dirgli “io so qualcosa che tu non sai”. Proprio con lui, che con quella
villa non c’entrava niente.
E poi c’erano gli occhi di suo padre, quell’espressione
così esterrefatta quando lo aveva visto nel giardino.
L’Andrea bambino l’aveva associata al proprio comportamento; da adulto, invece, non poteva credere che si
trattasse solo di quello.
Gli occhi gli si chiusero finalmente, confortato dal
fatto che la mattina seguente avrebbe incontrato Antonio Banti, ormai in pensione.
L’ex maresciallo era stato felice di sentirlo e si ricordava di lui, benché non avesse più avuto notizie di suo
padre.
Forse sarebbe riuscito a sbrogliare la matassa in cui si
trovava aggrovigliato.
La pioggia cadeva e cadeva, bagnando i giardini,
che il mattino seguente avrebbero emanato il fragrante
aroma di terra umida...
Terra umida.
Andrea aprì gli occhi di scatto e si levò a sedere col
cuore che batteva all’impazzata.
Terra umida. Ecco il tassello mancante.
Sembrava assurdo... Ma sì, tutto tornava... e...
Andrea seppe in quel momento di avere, dopo diciassette anni, finalmente scoperto la verità.
104
ricordo d’infanzia
Epilogo
La brezza profumava di lago, ed era fresca, corroborante.
Andrea ascoltava Antonio Banti che, seduto dinnanzi
a lui, al tavolino di un bar sulla passeggiata di Stresa, gli
stava raccontando della mattina dell’omicidio di Renata
Benedetti.
Andrea era convinto che ormai non ci fosse più niente
che l’ex maresciallo potesse dire di significativo; non poteva sapere, così come non lo scoprì allora, quale storia
si celasse dietro la morte di una giovane e anonima bambinaia.
Ma, con sua sorpresa, l’uomo riuscì lo stesso a destare
la sua attenzione, fornendogli, senza rendersene conto,
una risposta agli interrogativi rimasti irrisolti.
Gli disse che le due settimane precedenti all’omicidio
era stato in vacanza con la famiglia, e che aveva ripreso
servizio solo il giorno precedente ai fatti in questione.
«Era da un po’ che non vedevo tuo padre,» gli raccontò, «e lo trovai, come dire, diverso. Sembrava preoccupato. Così gli chiesi se era tutto a posto, e lui allora mi
disse che tua madre non si sentiva bene e che era incerto
sul da farsi. Poi il discorso cadde, perché eravamo sulla
scena di un delitto. Ma poco prima di salutarci mi disse
che pensava di tornare a Milano, forse anche il giorno
stesso. Voleva farla visitare il prima possibile. Certo mi
dispiacque, ma come biasimarlo, avrei fatto lo stesso per
mia moglie.
Comunque fu l’ultima volta che lo vidi, e poi, sì, lo
sentii per telefono, ma qui non veniste più. Tua madre
non sopportava di dover viaggiare in auto, vero?»
La domanda rimase lì, a mezz’aria, in sospeso.
105
alessandra guzzonato
Come raccontargli, che, no, sua madre in macchina ci
andava volentieri, ed era vero, soffriva di emicranie, ma
almeno in quel periodo e negli anni a seguire non fu mai
così debilitante?
Come spiegargli che uno dei motivi per cui non tornarono più a Stresa era che suo padre aveva mentito dicendo di incontrarsi con lui – che invece si trovava in
vacanza altrove?
Che aveva cominciato, forse per caso, a frequentare
una donna più giovane, che di nome faceva Renata Benedetti, che la sera lo faceva entrare di nascosto nel giardino dei suoi datori di lavoro, i Tailly, dove si intrattenevano presso quella fontana?
Che rientrava sempre così tardi che suo figlio, per
quanti sforzi facesse, non riusciva mai ad aspettarlo?
A parte quella sera, quando aveva sentito la serratura
scattare per due volte e, adesso, la sua mente visualizzava sua madre che rientrava qualche minuto prima di
suo padre, perché forse si era insospettita e lo aveva seguito.
E certo non avrebbe mai potuto rivelargli che quella
mattina suo padre non era preoccupato per le emicranie
della moglie, ma perché vedendo suo figlio nel giardino
aveva realizzato improvvisamente che c’era un altro
modo per entrare, e se Renata non ne era a conoscenza,
dato che faceva entrare lui dal cancello principale con la
scusa della passeggiata, chi poteva esserlo?
Maria Montani in tutta questa storia era sempre rimasta in disparte. Andrea aveva vissuto la sua presenza
come qualcosa di scontato, di discreto.
Invece ora si rendeva conto di avere sbagliato tutto.
E mentre il resto poteva essere solo una fantasiosa illazione, quelle scarpe sporche di fango che aveva trovato
106
ricordo d’infanzia
in lavanderia la mattina dell’omicidio, quelle erano un
fatto concreto.
Ricordava bene che sua madre non le aveva mai
indossate, perché si lamentava che una delle due le
faceva male. E poi non aveva piovuto da almeno tre
settimane. Era stata un’estate molto calda e secca, fino
a quel temporale. La terra era bagnata e fangosa, soprattutto sotto il manto di edera, attraverso il varco.
Sua madre era minuta, ci sarebbe potuta passare benissimo.
Ecco perché suo padre aveva avuto quell’espressione
così sbalordita, ecco perché Sophie si era protesa verso
di lui. Non era stato qualcuno che aveva a che fare con
la villa, era stato qualcuno che aveva a che fare con lui:
sua madre.
Non avevano lasciato Stresa per causa di Andrea, ma
perché suo padre aveva capito che la moglie lo aveva
visto con Renata, e quella notte, forse guidata dall’esasperazione, l’aveva uccisa. Non era stato un omicidio
premeditato, ma solo il tentativo di riprendersi il proprio marito e proteggere la propria famiglia. Franco
Montani aveva fatto lo stesso: li aveva portati lontani e
fatto in modo che nessuno più parlasse di quella storia,
custodendo un segreto che, scontrandosi con i valori in
cui credeva, aveva logorato il suo animo, e creato un rimorso quasi impossibile da sostenere.
Andrea guardò Antonio Banti, e lo invidiò, invidiò la
sua famiglia che non aveva mai dovuto scegliere tra due
mali in egual modo distruttivi.
Salutandolo si domandò se si fosse mai chiesto perché suo padre avesse interrotto così bruscamente ogni
rapporto.
Ma dopotutto che importanza poteva avere adesso?
107
alessandra guzzonato
I suoi genitori erano morti, e quel segreto era morto
con loro.
Andrea s’incamminò per la passeggiata che costeggiava il lago, sentendosi un uomo diverso.
Stresa gli aveva restituito la libertà, e avvertì che non
aveva più voglia di salire su un treno.
Quello che voleva fare adesso era tornare alla sua
vecchia casa, entrare, se fosse stato possibile; sedersi nel
giardino.
E aspettare Sophie, che solo ora comprese, lo aveva
protetto.
Come nei suoi sogni di allora, lei sarebbe apparsa, ancora una volta, dietro quel cancello, e, tornati bambini,
si sarebbero messi di nuovo a giocare, fino a scomparire
tra gli alberi.
Finalmente insieme.
108
Gocce
di Riccardo Landini
Goccia dopo goccia dopo goccia... Le gocce formano un
rivolo che diventa torrente che ingrossa in fiume e infine
crea il lago. Lo chiamano Maggiore. Incastrato come
una serpe tra le montagne e i boschi che ne segmentano
le coste, spazzato dal Mergozzo e dall’Invernone, gonfio
di segreti che nessuno può svelare. Oggi io mi trovo qui
sulle sue rive, rifletto la mia immagine nelle sue acque,
lascio che il mio sguardo si appanni tra le sue onde.
Goccia dopo goccia dopo goccia... Le gocce formano
il risentimento che diventa livore che ingrossa in collera
e infine crea l’odio. E, assieme all’odio, giunge, deve
giungere, la vendetta. Stille di infida malvagità che si
raggrumano, che imbevono un cuore troppo sfregiato
per smettere di battere. No, io non sono morto, ma qualcuno presto cesserà di vivere. E, giuro, sarà in modo assai doloroso.
***
La mattina è tersa, consentendo al lago di assumere quel
colore verde chiaro che ne rende l’aspetto meno cupo
rispetto alla normalità delle giornate autunnali, quando
pare che sotto la superficie si estenda un muro di pietra
e ghiaccio che abbraccia ogni profondità. Il traffico a
Stresa è sempre intenso, difficile trovare un posto dove
109
riccardo landini
parcheggiare in piazzale Marconi, intorno all’imbarcadero o più su, verso via Sempione Nord.
È per questo che Saverio Bertoli ha preferito lasciare
la sua Alfa Romeo in una via secondaria della zona
alta per poi scendere a piedi, attento a non calpestare
le numerose pozzanghere sul selciato con le Florsheim
nuove. È piovuto per tutta la notte, chi avrebbe potuto
prevedere una giornata così gonfia di sole?
L’appuntamento con Nadia è fissato per le undici nei
pressi di un negozio di liquori in piazza Cadorna, mancano ancora cinque minuti. L’uomo osserva la vetrina,
è attratto da una bottiglia dalla forma inusuale che racchiude un whisky invecchiato dai riflessi d’ambra.
«Ciao, eccomi!»
La voce lo coglie di sorpresa, si gira e vede la donna
con cui ha l’appuntamento a pochi metri da lui, avvolta
da un morbido cappotto beige e con una sciarpa viola
che l’accarezza al ritmo dei passi. È mora, dai lineamenti pacatamente orientali, con il taglio degli occhi
sottili luccicante d’azzurro. Il sorriso è un morso di sensualità.
«Sei in orario. Fatico a crederci.» Le dice l’uomo, accogliendola tra le braccia per un bacio fugace sulle labbra.
«Stupido, non sai che quando voglio ci riesco?» Gli
risponde lei, staccandosi dall’abbraccio.
Intorno ai due, l’andirivieni di gente frettolosa colora
la piazza di movimento, di un brusio indistinto e lontano.
«Adesso mi spiegherai», riprende Saverio con un sogghigno che gli increspa il viso abbronzato, «il motivo di
questo nostro incontro e il perché di tanto mistero... Il
tuo divieto di telefonarti prima di vederci ricorda tanto
i film di 007.»
110
gocce
Nadia inclina leggermente la testa, lo sguardo stupito.
«Veramente stavo per rivolgerti la medesima domanda.»
«Ma che dici?»
«Ieri sera ho ricevuto la tua mail. Mi hai scritto: vediamoci domani alle undici a Stresa, davanti al negozio di liquori
di piazza Cadorna. Non telefonarmi assolutamente prima di
avermi visto. Non rammenti ?»
«Guarda che è la stessa che tu hai mandato a me!»
L’uomo prova un brivido alla base della schiena, qualcosa che gli accende una luce in un angolo del cervello.
«Che sia uno scherzo? Non ne capisco lo scopo...»
Mormora Nadia.
Senza replicare, Bertoli estrae il suo smartphone e
controlla le mail ricevute. Ce n’è una appena pervenuta,
la apre.
Ti aspetto alla villetta di Magognino dove due anni fa abbiamo passato giorni splendidi. L’account da cui arriva è
quello di Nadia. Mostra il display alla donna, le fa notare il mittente.
«Io non sono stata! Non ti ho mai spedito questa
mail.»
«Lo so, mi è pervenuta tre minuti fa e tu eri qui al mio
fianco.»
Passano gli istanti e un’idea si fa strada nella mente di
entrambi che quasi all’unisono pronunciano un nome:
«Sergio!»
«Già», prosegue Saverio, «chi è un vero mago dei
computer, conosce i nostri indirizzi e, a quanto sembra,
anche i nostri segreti, se non tuo marito Sergio?»
«Non può essere! E poi oggi mi ha detto che andava
a Como per lavoro, è partito prestissimo. Tu dovresti esserne al corrente dato che sei il suo capo...»
111
riccardo landini
L’uomo non risponde, prende sotto braccio la sua
amante e si incammina verso il lungolago. La coppia
giunge a due metri dall’acqua, c’è un vago profumo di
tiglio nell’aria, novembre si stende ostinato oltre il Mottarone creando un quadro di Matisse che nessun museo
al mondo possiede.
Entrambi tuttavia seguono pensieri che li conducono
altrove.
«Non capisco cosa stia combinando, ma temo che dovremo andare in quella villetta per scoprirlo.»
«Lui ci ha beccati, Saverio. Ci sta coinvolgendo in
qualche suo gioco stupido per vendicarsi. È meglio se ce
ne andiamo via, se torniamo a casa, a Milano.»
«No, stavolta questo scherzo gli costerà caro. Mi sono
stancato di averlo tra i piedi, con il suo sguardo da cagnone infelice. Come minimo lo faccio licenziare.»
Bertoli afferra la mano della donna e la trascina via,
incurante delle sue proteste. Si dirige con passo deciso
verso il luogo dove ha lasciato la vettura che li condurrà
a Magagnino, a circa otto chilometri da Stresa.
Il tragitto con l’Alfa Romeo che aggredisce grintosa
ogni curva lo passano in silenzio; un cd di Marvin Gaye
in sottofondo scalfisce appena il rumore della strada. La
loro meta si trova in una zona poco abitata, a mezza
costa, immersa in una selva di ontani e tassi selvatici.
Quando vi arrivano, la villetta sembra disabitata da
tempo, le imposte chiuse, i muri sporchi d’umidità. Il
cancello tuttavia è socchiuso, la catena sciolta e il lucchetto appoggiato a terra. Non ci sono altre vetture parcheggiate nel piccolo piazzale antistante.
«Credi che lui sia qui?» Domanda la donna, attraversando il cortile che conduce all’ingresso. Bertoli, che la
precede, scuote la testa, la mandibola serrata per la ten-
112
gocce
sione. Verifica se sia possibile entrare in casa, la porta
risulta aperta, una lampadina a filamento illumina le
scale che conducono al primo piano.
«Se c’è, ci attende di sopra.» Osserva l’uomo.
Salgono i gradini, uno dopo l’altro, con circospezione. Entrano nella prima stanza che incontrano. È la
camera da letto. Quella stessa dove due anni prima avevano passato ore a soddisfare la sete dei loro corpi, incuranti del panorama che si apriva davanti alle finestre, del
richiamo incessante del lago.
«Eccovi finalmente!»
La voce suona familiare per entrambi. Sergio Oddone, un quarantenne dall’aspetto grigio come la tuta
che indossa, stempiato e magrissimo, che Nadia dovrebbe chiamare marito e Saverio amico di una vita. Il
termine con cui lo apostrofa invece è ben diverso.
«Tu, idiota! Che cavolo stai combinando?»
L’altro scoppia in una risata, sgangherata, di pancia.
La moglie arretra di un passo, quasi non lo riconosce.
Nota che suo marito indossa dei guanti in lattice, tipo
quelli da chirurgo, il che le appare senza senso.
«Voi pensate davvero che io sia un povero stronzo,
un rifiuto che si può gettare a terra e calpestare a piacimento... Be’, notizia dell’ultima ora: non è così!»
Bertoli si fa avanti come volesse sferrargli un ceffone
in faccia, lo sovrasta per altezza e per stazza. Oddone
estrae un rasoio dal taschino e lo mostra al rivale.
«Fermati e ascoltami! Voi dovete pagare per quello
che mi avete fatto... Mi avete tradito, sbeffeggiato, umiliato, ridotto la mia esistenza a uno schifo. Non mi serve
più una vita così...»
Con un rapido movimento il rasoio si muove sulla
gola dell’uomo facendo sprizzare un liquido rosso,
113
riccardo landini
denso. Sergio Oddone barcolla, si appoggia alla porta
del bagno che si spalanca, infine cade all’indietro. La
porta si richiude, bloccata all’interno dal corpo esanime.
Bertoli è rimasto come paralizzato a osservare la
scena, Nadia è sconvolta, le mani nei capelli e il trucco
che scivola inesorabile dagli occhi verso le gote.
«Lo sapevo che era pazzo, un demente... Guarda
cosa ha fatto... Questo mi rovina... Cosa diranno in
azienda...» Mormora l’uomo in piedi vicino alla finestra, osservando le tracce rosse sul pavimento.
«È tutta colpa tua», esplode la donna, «solo tua!»
«Che cazzo dici, stupida?» Il ceffone parte improvviso e raggiunge Nadia in pieno viso, facendola cascare
a terra. Lei continua a urlare, ancora più esasperata.
«Andavi a scuola con Sergio, era tuo amico, è stato
lui a farti assumere in ditta, ad aiutarti in ogni modo
quando eri in difficoltà. E tu come l’hai ringraziato?
Mettendo in giro voci e sospetti su di lui e soffiandogli
la promozione a direttore cui aveva più diritto di te. E
non contento ti sei preso anche me, la bella moglie russa
del tuo amico! Bastardo, bastardo che sei, figlio di...»
L’ultimo insulto viene interrotto da una gragnola di
calci violenti, cattivi, che la raggiungono al costato, sulle
braccia, al volto, spaccandole un labbro e uno zigomo,
sino a renderla incosciente. Bertoli si ferma solamente
quando avverte un rumore alle sue spalle.
***
Goccia dopo goccia dopo goccia... Il timore si trasforma
in paura che diviene terrore sino a raggiungere il parossismo della follia... Il dolore intaglia gli uomini, li rende
simili a pietre scolpite che giacciono inerti, che vengono
114
gocce
scavate dalle gocce della pioggia. La loro mente si deforma come in uno specchio di luna park sino ad assumere i caratteri della genialità, a oltrepassare il limite, sì,
ogni limite possibile.
Goccia dopo goccia dopo goccia... Dalla mia gola scivolano gocce rosse sul parquet, ma non è sangue, è qualcosa di simile a quello che si usa sui set cinematografici.
***
«Stupito? Pensavi che mi fossi levato di mezzo per sempre? Be’, la notizia è che invece sarai tu a morire!»
Oddone incide la carne del collo del suo rivale con
una mossa rapida, gli recide la carotide che inizia a
spruzzare sangue come una fontana. L’uomo crolla a
terra tenendosi la gola, cercando di strappare altri secondi a quella vita che sente scappargli veloce, goccia
dopo goccia.
L’altro sogghigna, fermandosi a osservarlo per qualche istante. In un confronto diretto non avrebbe avuto
speranze, doveva coglierlo di sorpresa per sopraffarlo.
Quindi si avvicina alla moglie che giace esanime ai piedi
del letto. Le solleva il capo con delicatezza, percorre con
gli occhi le ferite provocate dai calci di Saverio.
«Povera Nadia...» Bisbiglia. Le taglia la gola con precisione, questa volta con movimento rallentato, gustando
ogni momento in cui avverte la pelle strapparsi, la carne
lacerarsi, così come aveva fatto lei quando decise di stracciargli il cuore, riducendolo a brani, a pezzetti invisibili.
La donna ha uno scatto leggero, quindi ricade inerte.
L’assassino si rialza, deve allestire la scena per chi,
un giorno, scoprirà quei corpi. Si accorge che Bertoli è
ancora cosciente, che lo può ascoltare.
115
riccardo landini
«Amico mio», gli si rivolge con voce gentile, «mi hai
proprio facilitato il compito. E forse ti domanderai il
perché di tutto questo. Hai il diritto di saperlo, è giusto.
Vedi, sono mesi che ho scoperto la tua tresca con mia
moglie, mesi in cui ho sopportato le vostre menzogne, i
tradimenti, nonché tutti i tuoi sotterfugi malevoli sul lavoro, giusto per farmi le scarpe e passarmi davanti. Credevo di meritare qualcosa di diverso, da te come da lei,
ma mi sbagliavo... Allora, nelle mie notti insonni, screpolate d’angoscia e sofferenza, ho pensato a una sola
cosa: vendicarmi. Ma non l’avrei considerato sufficiente
e forse non sarei stato neppure in grado di combattervi
con le vostre stesse armi; desideravo qualcosa di meglio,
un finale col botto, come si dice. Così vi ho attirati qui,
sfruttando la vostra supponenza, l’ingenuità di chi si
sente superiore agli altri e mai riterrebbe di poter essere
ingannato, colpito, affondato.»
Nota che Bertoli non è più in grado di sentirlo, ma
continua a parlare.
«Quello che ho usato su di me era un rasoio finto,
con una pompetta nel manico che fa uscire sangue altrettanto fasullo. Quello con cui vi ho affettato», con un
gesto lo mostra ai due corpi immobili, poi lo appoggia
nella mano destra dell’amante della moglie stringendogli
le dita intorno all’impugnatura, «è malauguratamente
vero e affilatissimo, come avete potuto constatare. Dovrebbe risultarne un bell’omicidio-suicidio tra amanti,
un caso che piace tanto ai telespettatori dei talk show...»
Ride ancora, l’assassino, quindi comincia a concentrarsi su ciò che deve fare. Per prima cosa si infila un
paio di soprascarpe in PVC, in modo da non lasciare impronte con le scarpe. Controlla che i guanti che indossa
siano ancora integri, quindi cancella le poche tracce che
116
gocce
ha lasciato in bagno e sul pavimento, soprattutto i resti
del liquido contenuto nel serbatoio del rasoio finto. Infine estrae dalla borsa di Nadia il cellulare e digita il proprio numero. Ha lasciato il telefono in una stanza della
pensione di Como dove ha affittato una camera, per cui
lo lascia squillare due o tre volte prima di riattaccare e
gettare l’apparecchio per terra.
«L’ultima chiamata della moglie prima della fine...
Suona bene come titolo.»
Si guarda intorno, sembrerebbe tutto perfetto. Nota la
sua tuta completamente imbrattata e questo gli suggerisce un ultimo tocco. Sposta il cadavere di Nadia quasi
addosso a quello del suo amante, poiché sembrerebbe
strano se Bertoli non avesse sui vestiti neppure una goccia di sangue della sua vittima.
Osserva per l’ultima volta il quadro che ha composto
nella camera, i cadaveri inerti appaiono persino geometricamente compatibili, come parti di un puzzle che si
incastrino tra loro.
«Anche da morti state bene assieme», mormora, «si
vede che era destino...»
Sergio sa che, da ora, il tempo dovrà essere scandito
con scrupolo in ogni suo movimento, in ogni atto. È
necessaria la precisione, la sicurezza, anche la fortuna,
poiché il suo piano presenta comunque dei punti grigi.
Esce dalla casa non senza prima aver controllato l’eventuale presenza di qualcuno all’esterno. La zona è
piuttosto isolata, tuttavia dalla strada più in basso un
passante potrebbe notare la bianca Alfa Romeo di Saverio. Quando questo succederà è probabile che la notizia venga riferita al proprietario della villetta che verrà a
controllare, poiché egli la concede in locazione esclusivamente nel periodo che va da maggio a settembre. Od-
117
riccardo landini
done glielo aveva espressamente domandato quando, alcuni mesi prima, aveva preso in affitto per una settimana
l’edificio, approfittando del periodo per far realizzare un
duplicato delle chiavi.
Si muove velocemente verso il retro da dove si diparte
un sentiero che attraversa il bosco sino a una carraia
ove ha lasciato la propria Ford Focus. Questo è uno dei
punti critici del suo piano: se qualcuno l’avesse vista,
avrebbe potuto annotarne il numero di targa. Conta sul
fatto che, con la pioggia degli ultimi giorni, la presenza
del fango e delle pozzanghere scoraggi qualsiasi occasionale escursionista.
Quando, mezz’ora dopo, giunge alla macchina, estrae
dal bagagliaio il sacco della spazzatura dove infila i propri abiti sporchi, i guanti e i soprascarpe che getterà in
un cassonetto appena sarà lontano dalla zona. Indossa
altri vestiti e parte verso Como. Per i circa ottanta chilometri che percorre mantiene una velocità non eccessiva,
seguendo spesso strade secondarie; non deve essere notato, non può rischiare di essere fermato dalla Stradale.
Nei pressi di Olgiate Olona, nota una serie di cassonetti
in una via stretta, lontana da occhi curiosi. Vi si ferma
accanto e si libera del sacco degli indumenti.
Quando arriva nella città lariana sono le sedici e venti.
Posteggia la Ford in una piazzetta di periferia, lontano
da videocamere di sicurezza. Quindi si dirige a piedi,
con passo svelto verso la pensione ove ha prenotato una
singola.
L’ha scelta perché ha verificato come sia facile penetrare all’interno della struttura e salire alle camere
senza farsi notare. Quella mattina stessa, dopo essersi
registrato alla reception e aver lasciato la valigetta e il
cellulare nella stanza, è riuscito ad andarsene senza che
118
gocce
il portiere se ne accorgesse, per poi raggiungere in auto
Stresa.
Ecco la pensione Rosetta. Entra con circospezione da
un ingresso laterale, attraversa pochi metri di corridoio e
si infila su per le scale di servizio sino al secondo piano.
Un lontano rumore di piatti in cucina è l’unica presenza
umana di cui s’accorge.
Ha dato precise disposizioni di non essere disturbato
per nessun motivo, spiegando che intendeva riposare,
eliminando il rischio che una cameriera entrasse in camera per riassettare.
La numero ventuno, è la sua. Apre la porta, è dentro.
Si siede sul letto, aspetta che il cuore rallenti le pulsazioni. Sembra un treno in corsa, gli batte sulle tempie
con ritmo forsennato. Il sudore gli cola lungo la schiena,
goccia dopo goccia, la sua camicia è fradicia.
Attende che il respiro si normalizzi, che all’ansia per
la perfetta esecuzione del suo progetto si sostituisca il
senso di trionfo per ciò che è riuscito a realizzare.
«La vendetta, signori, la vendetta...» Recita, scandendo le parole.
Si rammenta che alle diciotto ha l’appuntamento con
un cliente, il motivo per cui ufficialmente si trova lì. Se
gli chiederanno spiegazioni sul perché, se l’incontro è
verso sera, sia partito da Milano prima dell’alba, ha già
pronta la risposta.
Prende il cellulare e compone il numero di Nadia, lascia squillare sino a che non si innesta la segreteria.
«Pronto, amore, mi spiace che non ho sentito la tua
chiamata di prima, ma mi sono svegliato adesso. Avevi
proprio ragione: dormire in un altro letto mi ha fatto bene,
sono riuscito a riposarmi finalmente. Ti ritelefono più
tardi e, comunque, ci vediamo domattina quando torno.»
119
riccardo landini
Potrà spiegare di soffrire di insonnia e di come la moglie gli avesse suggerito di provare a riposare di giorno
in albergo, dove nessuno lo potesse disturbare. Poi potrà
aggiungere che Nadia probabilmente l’aveva spinto a far
così per poter essere libera di andarsene a Magagnino
con l’amante, inconsapevole che questi l’avrebbe uccisa
in un impeto di gelosia.
«Credo avesse deciso di lasciarlo, aveva compreso
di amare solo me tanto che desiderava mettessimo al
mondo un figlio... Povera cara, come farò senza di te?»
Improvvisa, la voce rotta, quasi fosse davanti ai microfoni delle tv. E sghignazza malignamente, consapevole
di ogni gesto compiuto, del piacere che ne ha ricavato.
Disfa il letto, deve apparire che ci ha effettivamente
passato delle ore. Si spoglia per fare una doccia e cambiarsi la camicia sudata. Per fortuna ne ha portata un’altra con sé.
Nello specchio sopra il lavandino si accorge che, sulla
fronte, ha una serie di macchioline di sangue rappreso.
Sembrano formare una S.
S come Sergio o come Saverio, S come Sangue o
come Sorte, S come Silenziosa vendetta, come Successo
impunito.
Si infila nel box della doccia. Gocce d’acqua cancellano per sempre l’unica prova del suo delitto.
***
Una donna anziana sta camminando reggendo due
sacchi di immondizia. Si dirige verso i cassonetti che
distano una cinquantina di metri da casa sua, in una
viuzza laterale. L’andatura è un po’ barcollante, figlia
dell’artrite e della sciatica che la perseguitano. Per la
120
gocce
strada incontra una ragazza che conosce, è la moglie
del macellaio che gestisce il negozio all’angolo, quello
dove, quando le scarse finanze glielo permettono, si
reca a acquistare qualche costina di maiale da preparare in umido con le patate. È la giovane a salutarla
per prima.
«Buonasera, signora Carla, come sta?»
«Starei meglio», risponde, «se non avessi questi dolori
alle gambe...»
«Si lasci aiutare, le butto io il pattume.»
La giovane le prende i due sacchetti dalle mani e la
accompagna verso i contenitori azzurri e grigi. Apre
il coperchio e li getta all’interno. Nel movimento, il
braccialetto di perline multicolori che porta al polso si
slaccia.
Gocce di vetro cadono come pioggia colorata nel
cassonetto, gocce che riflettono la luce del lampione, in
mezzo ai rifiuti.
«Cavolo... Che disdetta.» Sbotta la ragazza che si allunga per recuperarne quante può. La mano scivola su
un sacco mal chiuso, da cui emerge una tuta grigia.
«Guarda se la gente deve buttar via dei vestiti ancora
buoni...» Osserva la vecchia che le è a fianco, afferrando
l’indumento per una manica.
«Ma quello è sangue, Carla!»
«Cosa?»
«Queste macchie sono di sangue, di tanto sangue. Se
non lo so io che ne vedo tutti i giorni nel negozio di mio
marito.»
«Oddio!»
La ragazza estrae dal sacco il resto del contenuto:
pantaloni grigi, calze, dei guanti da dentista... Sangue
ovunque.
121
riccardo landini
«Chi può aver gettato questa roba? Credo occorra avvertire i carabinieri, per fortuna qui a Olgiate Olona c’è
la caserma. Conosco bene il maresciallo.»
Afferra il cellulare e forma il numero. Spiega quello
che ha trovato.
«Tra cinque minuti», dice poi dopo aver riattaccato,
«arrivano.»
«Che sarà successo?»
«Temo qualcosa di brutto, molto brutto... Ma chiunque sia stato a gettare questa roba non deve essere uno
del paese.»
«E come fai a saperlo?» Le chiede la vecchia.
«Guardi là», le risponde indicando con il dito una
videocamera di sorveglianza montata a pochi metri di
distanza. «L’hanno messa dopo che hanno tentato di
scardinare la porta di servizio del supermercato qui di
fianco.»
«Allora adesso sta riprendendo anche noi?»
«Riprende tutti quelli che entrano in questa via, compreso chi ha buttato questi abiti.»
«Pensi che i carabinieri capiranno cosa c’è sotto?»
«Credo che esamineranno le immagini, individueranno chi è stato a buttare questa roba, magari riusciranno pure a leggere il numero di targa della macchina
da cui è sceso. E poi faranno l’esame del DNA al sangue, vedrà che scopriranno tutto...»
L’anziana donna osserva sgomenta la maglia della
tuta grigia. Uno schizzo denso e cupo sembra aver disegnato una lettera.
Le gocce di sangue hanno formato una C, C come
Castigo.
122
La luce infranta
di Giorgio Maimone
Giocavo tra i brividi della sua schiena senza rendermi
conto che il tempo passava. Fuori il sole giocava a ferire
i sassi disposti in file imprecise sul bordo di strade bianche di sale. Il caldo faceva sfumare lontano, come un miraggio, la baracca delle granite alla menta. L’azzurro del
cielo sfumava nel verde del monte che, a sua volta, in picchiata, si immergeva in altrettanto blu di lago. La mosca
ronzava senza darsi pena di un’estate ancora da passare.
Stancamente, ancora più lontano, madri richiamavano i
figli a casa. E io perdevo tempo a giocare tra i brividi
della sua schiena. Seguivo traiettorie bizzarre. Univo con
rette immaginarie i punti formati dai nei sulla sua pelle
dorata di sole: cercavo di immaginare che disegno ne sarebbe uscito. Un paesaggio, forse, così simile al nostro...
La luce infranta bagna d’oro il lago,
una leggera cipria opalescente
... e poi? Come continua? Al negozio stamani, con il
giornale e la posta del mattino, sono arrivate le olive pugliesi. Forti come una schioppettata! Quelle che coltivo
io sono anemiche. Non reggono il confronto. 25 lire il
giornale, 40 il caffè, 150 lire un chilo di pane e 120 lire
un etto di olive. E come ci sto dentro a questi conti? Per
comprarmi una 600 mi ci vorrebbero 15 anni di cam-
123
giorgio maimone
biali! Per comprarmi i suoi baci... niente. Baci gratis e
sono morbidi e avvolgenti. Una bocca in cui perdersi,
annegare, buttarsi senza ciambella di salvataggio. Lei
non bacia, divora! Ma convincendoti che farsi divorare
è un privilegio. Un privilegio, ora, solo mio.
I suoi capelli mi catturano le mani, mi attorcigliano
le dita; come fili di seta, si dice, ma questi davvero sono
seta! Sottili, neri, tela di ragno. La tela con cui mi ha
preso, mi ha avvinghiato a lei, senza darmi più lo spazio per respirare, per vivere, per esistere, senza averla nei
dintorni, a pochi passi, a tiro di respiro, a tiro di labbra.
Un bacio come pozione eterna di vita. Un bacio per vivere, per tornare a sentire crescere l’emozione, per avere
mani da stringere e un cuore che, oltre a saltare tutti i
ritmi dispari, impari di nuovo a palpitare per amore.
Amore? Passione! Passione divorante. Desiderio pieno
come una luna piena, follia dei sensi, febbre...
... una cipria opalescente
dall’alto va a posarsi lentamente là
dove l’immenso incontra l’infinito.
Anche la memoria non è più quella di un tempo.
Come i capelli. Se ne è andata a poco a poco come se
ne vanno i capelli. Ogni capello un pensiero perso, un
ricordo che non c’è più. Le mie narici si avvicinano
alle pelle, ne assaporano l’aroma di sapone... Camay?
Quello del “delicato profumo francese”? Sarà quello? Io
conosco più il sapone di Marsiglia, l’odore del Tide o
dello Spic e Span. Conosco gli odori di drogheria. Ma
giù in paese noi non lo teniamo il Camay. Chi lo usa da
queste parti? Non siamo gente di città... Siamo
124
la luce infranta
villaggi seminascosti nelle pieghe
come perline rotolate a valle.
E come perline continuiamo a rotolare. Biglie di vetro. Senza valore. O perline per gli indigeni. E quelli che
ti vendono l’America! D’altra parte fosse arrivato qui
qualcuno dalle pianure o da oltre i monti, con la pelle di
colore diversa, con la barba grande come una cattedrale,
parlando un’altra lingua e con in faccia dipinta l’esaltazione di chi crede che Dio in persona gli abbia mostrato
la strada, non glielo avremmo venduto anche noi questo
angolo di mondo...
Dove l’azzurro tenue si accende di smeraldo
lambisce calmo il taglio netto della costa,
nastro di terra chiara sdraiata sotto i monti,
simili a increspature sul morbido velluto verde?
Oh sì, sì che l’avremmo venduto. Ma non solo Tapigliano. Anche le nostre madri, le nostre donne... Non lei.
Lei non voglio dividerla con nessuno, non posso dividerla
con nessuno. Non con quel carciofo di marito che tiene!
L’unico marito-Cynar di tutta la costiera. Guarda che
fianchi, guarda che curve! Guarda che donna, per l’amor
di Dio! Non può che essere mia. Non può essere che mia.
Leggero leggero le lecco le natiche curve e gonfie. Sapore
di basilico, di timo. Donna-aroma. Una punta di agro in
un mare di spezie, come quei vini bianchi delle colline
novaresi che sanno di erba, che hanno catturato nel vetro
il ritmo dei venti e i cambi di rotta dei banchi di pesci.
L’aria si è fatta appena più fresca. Vedo il tempo che
trascorre col sole sul muro di fronte, un muro bianco di
125
giorgio maimone
calce, muro per rampicanti, per un bel glicine, perché lasciarlo nudo? Solo perché mi faccia meridiana col sole?
Le madri gridano ancora verso le spiagge, capibranco
alla ricerca dei propri cuccioli. Ma le grida sono anche
richiami, il modo per parlarsi tra una casa e l’altra. Vincono le distanze col potere della voce! Quando le gambe
si rifiutano di salire le lunghe scalinate in pietra che
vengono via dal lago e salgono al paese, le voci suppliscono al loro movimento. Potessero andare solo le voci
in chiesa la domenica mattina! Così potrei tenere chiuso
il negozio. E invece no. Sette giorni di attività su sette.
Chiusura qualche pomeriggio: domenica e giovedì.
Stamane sul giornale un titolo grosso, nero sotto la
testata rossa: “Stalin è morto”. “Josip Stalin è morto
alle 9.50 di ieri (ora di Mosca) al Cremlino, all’età di
settantatré anni. È stato al potere ventinove anni”. Pover’uomo. Anche i potenti muoiono. E con loro se ne
va un’altra parte di noi. Ma perché siamo destinati a
disperderci in piccole parti? Non sarebbe meglio spegnerci all’improvviso come una lampadina? Mi sembra
di essere il partito monarchico di Covelli: 6,8%, 2,6%,
0,8%... Pezzo per pezzo non resta più nulla.
Lei non si muove ancora. La stringo più forte. Il braccio che le passa sotto il capo si sta addormentando. Devo
toglierlo, ma adagio adagio. Così potrei alzarmi, vestirmi
in silenzio e uscire prima che faccia sera, a vedere...
La luce infranta che bagna d’oro il lago,
la leggera cipria opalescente
che dall’alto va a posarsi lentamente là
dove l’immenso incontra l’infinito.
126
la luce infranta
Ancora un po’ e poi mi alzo. Una radio canta piano:
Vola, colomba bianca vola
Diglielo tu che tornerò
Dille che non sarà più sola
E che mai più la lascerò.
Sembra la mia storia. Mi commuove. Una lacrima
potrebbe anche correre, ma ho paura a muovermi di interrompere l’incanto. Trattengo anche il fiato. La mosca
continua a ronzare. Ha trovato l’ambiente giusto. “Gli
uomini preferiscono le bionde” diceva il cartello del cinema... quel film appena uscito con Jane Russell e la
biondona, la Monroe... Gli uomini forse, gli altri. Io amo
questi capelli serici, questi fili di ragnatela, queste alghe
avviluppanti che mi trascinano a fondo con lei. Sto affogando. In terra ferma. Sto affogando in un letto di altri.
Mi manca il respiro, non riesco ad approdare. Appena mi
svincolo le alghe dei capelli mi afferrano e mi tirano giù,
più giù, più giù. Il gorgo della passione! Mai avrei immaginato potesse essere così realistico. Una figura retorica!
Fregato da una figura retorica. Dal silenzio della strada
sale il rombo solitario di un’Alfa 190, la Pantera della polizia. Stanno arrivando qui. Richiamati dall’odore di sangue? O dalla mosca? Mosca cocchiera e mosca spiona?
Dovrei alzarmi, dovrei scappare. Sono ancora due
o tre curve sotto. Potrei fare in tempo. Fuggire portandomi via il cuore del mio amore. E prima di scappare
guardare ancora:
Il taglio netto della costa,
nastro di terra chiara sdraiata sotto i monti,
simili a increspature sul morbido velluto verde.
127
giorgio maimone
Ma è il mio amore che si alza. Si veste rapida. Che
bella quando si veste! Uno spogliarello fatto all’incontrario! Dal comodino scivola a terra, danzando nel volo
con la mosca, il foglio con la sua poesia. “La luce infranta bagna d’oro il mare, / una leggera cipria opalescente.” Ah, Ines, come sei bella! Si lega i capelli.
Mi guarda.
Mi sfila il coltello dal cuore e se ne va, lasciandomi
solo.
Morto.
Nel letto del mio ultimo amore.
128
Certe mattine
di Antonella Mecenero
Vibrazione del cellulare. Messaggio.
Come stai?
Mamma.
Altra vibrazione. Messaggio.
Non riesco a venire. Casini al lavoro. Mi spiace. Bacio.
Sandra.
Giovedì sarò a Milano. Dobbiamo parlare.
Certe mattine, pensò Roberto mentre inviava l’sms,
faresti qualsiasi cosa per non doverle attraversare per
giungere a un giorno di cui si vorrebbe fare a meno.
Certe mattine, pur di spezzarne questo grigio incombente, appiccicoso come afa, ci vorrebbe un morto.
Altra vibrazione. Messaggio.
Trovato corpo di ragazza nel lago. Vieni subito.
Riccardo.
Ecco, adesso si sentiva in colpa.
Quale lago?
Avrebbe mai immaginato, tre anni prima, di finire assegnato a un posto dove di laghi ce n’erano troppi?
Mergozzo.
129
antonella mecenero
Il più piccolo, dalle acque tranquille e sicure, vietato
alle barche a motore.
Suicidio o omicidio.
L’afa, con i suoi cieli d’agosto color del latte, era un
ricordo di Milano.
Certe mattine d’estate, in quell’angolo di Piemonte,
sembravano giocare a stupire, con il cielo di una limpidezza invernale e le rondini nell’aria fresca. Si abbassavano, volando veloci, fino a sfiorare le acque del lago.
Un’immagine così perfetta che Roberto, prima, pensava
che potesse esistere solo nelle pubblicità. Si sistemò meglio gli occhiali scuri, bastava guardare la riva per capire
che invece era reale.
«Annegamento, Maresciallo. Senza alcun dubbio. Il
resto glielo comunico dopo l’autopsia», disse il medico
legale, alzandosi.
Da viva, la ragazza doveva essere stata splendida, perché era bella anche in quel momento, col corpo gonfio
e il viso congestionato. Non poteva avere più di diciotto
anni, alta, ben fatta, con lunghi capelli castani. Indossava un costume intero, nero, di marca. Le unghie di
mani e piedi erano azzurre, impeccabili, come andava
di moda quell’estate.
«Era bella, giovane, curata. Come si fa ad ammazzarsi quando si ha la vita davanti?», si lasciò scappare il
brigadiere Riccardo Strani.
Già, come si fa? Si chiese Roberto.
«Com’è che sei finito a fare il carabiniere, se ti stupisci
ogni volta?», lo punzecchiò.
Riccardo arrossì, sembrando più giovane dei suoi
quasi trent’anni. Si stupiva ogni volta, quando trovavano
un’azienda non in regola, un’evasione fiscale, un furto o
130
certe mattine
una truffa. Perché il brigadiere Strani era in sostanza e
fin nel midollo un uomo buono, che non si capacitava
del fatto che non tutti fossero come lui.
«E magari l’hanno ammazzata. O si è sentita male»,
aggiunse Roberto, senza convinzione.
Una ragazza così al lago non ci andava da sola. Se si
fosse sentita male non ne avrebbero scoperto la morte
per caso al mattino, perché un pensionato ne aveva visto
il corpo galleggiare dalla sua barca a remi.
Come ci si annega senza un peso a tenerti sotto? Solo
per volontà? Si chiese Roberto. Non sapeva se lui ne
avrebbe avuto la forza. Se anche la mente vuole morire,
il corpo invece vuole vivere, sempre.
Il brigadiere richiamò la sua attenzione con un gesto.
«Cosa facciamo adesso, Maresciallo?»
«Cerchiamo i suoi abiti. A meno che non abitasse in
una delle case che hanno l’accesso diretto al lago, non vi
sarà arrivata già in costume.»
Costume...
Andava di moda, quell’estate, il costume intero?
Avrebbe dovuto chiederlo a Sandra. Almeno avrebbe
avuto qualcosa da dirle, per fingere una conversazione
normale.
Vibrazione di risposta.
A diciotto anni costume intero solo se sei una balena o hai
una cicatrice da nascondere.
Sandra.
Niente sulle spiagge. Si faceva in fretta a girarci attorno, al lago di Mergozzo. Poco più di una pozzanghera, all’apparenza. Neanche due chilometri quadrati,
quasi ottanta metri di profondità. Una pozzanghera
ingannevole, moltissima acqua nascosta, scura e quasi
131
antonella mecenero
ferma. Acqua fredda e antica, come la tristezza dietro
certi sorrisi, pensava Roberto. Le spiagge, tuttavia, non
erano difficili da controllare e nessuno aveva segnalato
vestiti da donna dimenticati o una borsetta. O la ragazza
abitava in una casa con l’accesso diretto al lago, oppure
qualcuno aveva preso i suoi abiti.
Adesso davanti a lui e al brigadiere Strani c’era una
diciassettenne che aveva visto portar via il corpo e che
pensava potesse essere quello di una sua amica che non
rispondeva al cellulare e che abitava fuori dal paese, a un
paio di chilometri dal lago.
«Non posso credere che Lisa si sia uccisa. Non lo
posso credere», stava singhiozzando la ragazza, davanti
a lui.
Era una biondina dalle forme abbondanti, una di
quelle a cui Sandra avrebbe consigliato il costume intero,
ma col viso buono congestionato dalle lacrime e Roberto
non sapeva cosa dirle. Che il riconoscimento del corpo
non era ancora stato fatto? Non era cosa a cui avrebbe
mandato una ragazzina o la nonna ottantacinquenne di
Lisa Argani, la presunta vittima, i cui genitori stavano
tornando in tutta fretta dalla Calabria. Come si consola
un’adolescente che ha improvvisamente scoperto che
l’immortalità è un’illusione? Dall’alto dei suoi trentaquattro anni, Roberto si sentì infinitamente vecchio.
«Anna, sei sicura che sia lei?», le chiese Strani.
«Ho visto il corpo, prima che lo coprissero. E lei non
risponde ai miei messaggi da ieri sera.»
«Perché non pensi che si sia uccisa?», si intromise
Roberto, guardandola bene in faccia, concentrato sulle
risposte.
«Lisa era una ragazza generosa e voleva bene ai suoi,
a me. Solo gli egoisti si suicidano, perché pensano che il
132
certe mattine
dolore a cui vogliono sfuggire sia maggiore di quello che
infliggeranno a chi resta.»
«A quali dolori stava sfuggendo Lisa?»
Anna fece un gesto vago.
«Siamo amiche... fin dall’asilo. Sempre in classe assieme. Alle elementari, alle medie. E adesso all’alberghiero, a Stresa. Però Lisa non parla spesso di sé, non
è... era una di quelle amiche che ti confidano tutto...
Ascoltava, ma non diceva molto, bisognava intuire tutto
dai sorrisi, o dai silenzi. Penso che abbia avuto una storia complicata nei mesi scorsi.»
«Con chi?»
«Non con qualcuno dei ragazzi con cui uscivamo.
Non con qualcuno che vedesse il sabato sera o la domenica in oratorio. Una storia difficile, la definiva. Secondo me lui aveva un’altra e lei non voleva illudersi.
Presentarmelo avrebbe reso tutto reale e lei avrebbe sofferto ancora di più.»
«Perché parli dei mesi scorsi?»
«È finita più o meno con la fine della scuola. Lei stava
malissimo. Anche fisicamente. Vomitava di continuo,
sembrava un fantasma. Ma adesso le cose andavano meglio. Un nostro compagno di classe le faceva la corte,
Fabrizio, ma credo che a lei piacesse di più il suo amico,
Andrea.»
Roberto annuì, mentre Riccardo prendeva nota di
nomi e recapiti dei due ragazzi.
L’adolescenza, pensò, quando la si attraversa è come
una palude. Ci sono incontri ingannevoli, fintamente
placidi, come il lago. Proprio come il lago, possono nascondere abissi di dolore. Da ragazzi non si sanno intuire le sabbie mobili, non si ha alcuna esperienze dei sentieri della vita, né calli induriti a proteggerti l’anima. È
133
antonella mecenero
tutto più esposto, più fragile e per questo ogni emozione
è più preziosa e più tagliente.
Lisa Argani era una bella ragazza ricca di paese. Una
che trovavi a scuola puntuale tutte le mattine e la domenica in oratorio con l’amica grassottella e remissiva.
Quale passo falso aveva fatto in quel canneto informe
di emozioni ancora indefinite per trovarsi in una notte
d’estate con le acque del lago sopra la propria testa?
Da quanto tempo stava affondando, senza che nessuno
riconoscesse il suo grido d’aiuto, come il verso di una
creatura sconosciuta nella notte, che nessuno riesce a
identificare?
Intanto, Riccardo stava chiedendo ad Anna se fossero
soliti, lei e i suoi amici, andare al lago di notte.
«Lo abbiamo fatto una volta il bagno di mezzanotte,
la settimana scorsa, quando faceva quel caldo tremendo.
Ci siamo trovati io, lei, Fabrizio e Andrea alla spiaggetta
fuori dal paese. Lisa è arrivata in bicicletta. Abbiamo
fatto il bagno, schizzandoci come bambini. Poi, sulla
spiaggia, avremmo voluto accendere un fuoco, ma nessuno sapeva come fare.»
«E poi sarebbe vietato», aggiunse Riccardo.
«Appunto. Abbiamo aspettato di vedere l’alba e poi
siamo andati a fare colazione al bar con i cornetti caldi
alla crema.»
Roberto fu quasi colto dall’invidia per quell’adolescenza lacustre. Una volta, più o meno all’età di Lisa
e Anna, era andato a vedere l’alba al Parco Sempione,
non esattamente la stessa cosa. O forse sì, a quell’età non
guardi i voli delle rondini o i riflessi sull’acqua. Franco,
il suo amico, ci aveva portato due ragazze, entrambe interessate a lui. L’alba l’aveva colto abbracciato alla più
bionda, Samantha, mentre Roberto e l’altra ragazza,
134
certe mattine
una brunetta imbronciata, erano in piedi, imbarazzati
e distanti. Aveva l’impressione che ad Anna fosse andata più o meno nello stesso modo. La grande illusione
dell’uscita a quattro. Certe mattine, ragionò, non cambiano se guardate da un lago o dal Parco Sempione.
***
Il pomeriggio trascorse lento, con la pesantezza torrida
dell’estate.
Anche se non c’era afa, negli uffici della caserma di
Gravellona Toce si formava uno speciale microclima
umido che non aveva nulla da invidiare a Milano, creato
da stanze non arieggiate, carabinieri sudati in uniformi
troppo pesanti e attesa.
Roberto attendeva i genitori di Lisa per il riconoscimento, la perizia del medico legale, gli interrogatori dei
ragazzi e giovedì e Milano e tutto quello che avrebbe
portato. Intanto, guardava il profilo Facebook di Lisa.
Era davvero una bella ragazza. La più alta della sua
classe, a giudicare dalla foto di adolescenti sorridenti
con sullo sfondo un edificio triste che poteva essere solo
una scuola o una caserma, postata il tredici giugno. Era
il momento in cui, secondo Anna, Lisa era in crisi per
la sua “storia difficile”. Eppure nelle foto sorrideva. Sorrideva davanti alla lavagna, l’ultimo giorno di scuola.
Sorrideva, in gita, sotto la torre di Pisa. Sorrideva, a
casa, abbracciata a un Labrador. Gli adolescenti sono
magistrali nel fingersi felici.
C’erano anche post, link, video musicali e frasi da Smemoranda. Chissà se la usavano ancora, la Smemoranda?
Il quindici maggio Lisa aveva postato una poesia.
135
antonella mecenero
Avremo letti intrisi di sentori
tenui, divani oscuri come avelli,
sulle mensole nuovi e strani fiori,
nati per noi sotto cieli più belli.
Consumandosi a gara, i nostri cuori
come due grandi torce due ruscelli
verseranno di vampe e di fulgori
nei nostri spiriti, specchi gemelli.
Aveva suscitato commenti contrastanti. Qualcuno
chiedeva cosa fossero gli “avelli”. Di certo era piuttosto
lontana dal gergo adolescenziale e non si trattava neppure di una di quelle citazioni dal Romeo e Giulietta o
da Catullo che da sempre gli adolescenti si tramandano,
come una strana torcia olimpica di poesia e sentimentalismo.
Una rapida ricerca su internet bastò a individuarne
la fonte. La morte degli amanti. Baudelaire. L’unico riferimento alla morte in tutta la pagina Facebook di Lisa.
Ma con quei verbi tutti al futuro, la relegava lontano,
persa in un tempo indefinito.
La porta del suo ufficio si aprì.
«Maresciallo, sono arrivati i due nuotatori notturni.»
***
Roberto sentì prima l’aspirante fidanzato, Filippo Strozzini, e poi l’amico con più speranze, Andrea Cannizzo.
Entrambi con lo sguardo perso e la lacrima incipiente.
Entrambi confermarono le informazioni di Anna, la
nuotata notturna della settimana prima, l’interesse di
Filippo per Lisa e quello di Lisa per Andrea.
136
certe mattine
«Però non voleva una storia seria», puntualizzò Andrea. «È stata piuttosto chiara su questo, quella sera. Voleva una storia estiva e poi all’inizio della scuola ognuno
per la sua strada. Ha detto che voleva un po’ di spensieratezza, prima che la sua vita cambiasse. Ha detto che
non l’ha mai avuta, una storia spensierata.»
Roberto annuì. Una storia in cui si citava Baudelaire
poteva essere molte cose, ma non spensierata.
«Perché la sua vita doveva cambiare?», chiese.
«Che ne so? Io non ci provo neppure a capirle, le ragazze.»
«Quindi una storia estiva ti stava bene.»
«Io volevo trombare, maresciallo. La ragazza più
bella della scuola mi chiede una storia di solo sesso e io
ci sto anche a pensare? Mi spiaceva per Fabrizio, però,
che era cotto.»
Roberto annuì di nuovo. A diciassette anni a lui nessuna ragazza, neppure la più brutta della scuola, gli
aveva offerto una storia di solo sesso. Col senno di poi,
le serate a parlare di fumetti e videogiochi con gli amici
erano state comunque le cose migliori della sua adolescenza. E alla fine la storia di solo sesso era proprio
quello che aveva ottenuto, da Sandra. E gli spiaceva per
se stesso, perché era davvero cotto. O lo era stato.
«E questa storia bollente come stava andando?»,
chiese.
«Non era neanche cominciata, maresciallo. Lo sa
come sono le ragazze? Non sono dell’umore. Ho la
riunione all’oratorio. Dico, la riunione in oratorio, a
pregare! Ma si può? Il cinema con Anna, gliel’ho promesso, dopo averci retto il moccolo l’altra notte, glielo
devo. Così quelle due sono andate da sole a sbavare sugli addominali di Wolverine. La sera dopo la veglia di
137
antonella mecenero
preghiera, le ipocrite. Quattro giorni e le avrò dato sì e
no tre bacetti, di pomeriggio, dopo il gelato, in piazza.»
Il telefono sulla scrivania di Roberto squillò.
Con un cenno, il maresciallo invitò Riccardo a rispondere. Il brigadiere prese il cordless e uscì dalla stanza.
Poco dopo, mentre Andrea ribadiva che Lisa non
sembrava in alcun modo depressa o intenzionata al suicidio, Riccardo si affacciò alla porta dell’ufficio, facendo
segno a Roberto di uscire.
«Era il medico legale», disse il brigadiere. «Ci sono dei
lividi che potrebbero indicare una colluttazione, ma c’è
anche un’altra cosa.»
«Era incinta», disse Roberto.
«Come l’ha capito, maresciallo?»
«Costume intero. “Un po’ di spensieratezza, prima
che la sua vita cambiasse”.»
«... Ha davvero fiuto, come si dice nei gialli!»
«Sì, meglio della Signora in Giallo», replicò Roberto,
sarcastico. «Quanti mesi?»
«Tre.»
«Giusto. Nausee il secondo mese, per la fine della
scuola. Concepito a fine aprile. Frutto della storia complicata.»
«Abbiamo una spiegazione per un suicidio o il movente di un omicidio?»
«Non so.»
Oratorio tutte le domeniche. Cattolica, anche se non
troppo ligia alle regole, a quanto pareva. Un po’ di spensieratezza, prima che la sua vita cambiasse. Personalmente, propendeva per la seconda ipotesi.
***
138
certe mattine
Certe mattine...
Certe mattine si scopre che ci sono persino occhi più
difficili da affrontare dei propri, riflessi allo specchio.
Certe mattine, si farebbe di tutto per rimandarne l’incontro...
Certe mattine, non ci dovrebbe essere il sole, mentre
si parla a due genitori stravolti, perché si è trovata la loro
figlia morta nel lago, incinta. E le rondini non dovrebbero volare contro un azzurro troppo terso, all’uscita
dell’ospedale, dopo aver riconosciuto il corpo.
Almeno quello, pensò Roberto, era un dolore che non
avrebbe affrontato. Scarsissime possibilità di avere figli.
Infinitesimali che la madre potesse essere Sandra.
Non aveva alcuna verità da offrire ai coniugi Argani.
Nessuno sembrava sapere chi fosse il misterioso ragazzo
con cui Lisa si era vista, in primavera. Anna, Andrea e
Fabrizio erano stati ugualmente nebulosi con le ipotesi.
Tutti e tre escludevano un compagno di scuola o un amico
della loro cerchia. Roberto aveva passato la serata e parte
della notte a controllare i profili Facebook degli amici di
Lisa. Erano 480. Aveva escluso tutte le femmine e i parenti. Rimanevano 193 contatti. Aveva guardato un’ottantina di pagine prima che gli cedessero gli occhi, mentre
gli sms di sua madre gli raccomandavano di non lavorare
troppo. Nessuna di quelle pagine apparteneva a qualcuno
che avrebbe potuto apprezzare una poesia di Baudelaire.
Otto versi che erano praticamente il loro unico indizio.
I genitori avevano tracciato il ritratto di una ragazza
seria, dal buon rendimento scolastico, dalle letture impegnative, che non andava in discoteca, non beveva e non
fumava. Ma cosa sapevano davvero i genitori degli adolescenti? A Roberto venne di nuovo in mente un canneto,
in cui si intravedono figure, si percepiscono movimenti
139
antonella mecenero
e si immaginano sagome. Erano davvero così i rapporti
umani? Ci si inseguiva, persi in paludi di sentimenti incerti, immaginandosi, più che vedendosi davvero, fino
a creare nella propria mente figure che poco avevano a
che fare con la realtà. I coniugi Argani avevano visto la
figlia stare male, verso la fine della scuola. Lo stress, avevano pensato. O un’intossicazione alimentare. A tutto
avevano pensato, meno che la loro figlia perfetta fosse
incinta. E se lei avesse voluto tenerlo? Aveva chiesto.
Marito e moglie si erano guardati con infinita tristezza.
L’avrebbero aiutata. Da buoni cattolici, quella era l’unica scelta giusta. Roberto, però, dava un peso relativo
alla risposta. In quel momento avrebbero fatto di tutto
pur di avere di nuovo la figlia, la loro prospettiva era
completamente cambiata. Forse a Lisa, all’ultimo momento, era mancato il coraggio per quella confessione e
aveva preferito farla finita prima del loro ritorno.
Tornato in caserma, Roberto fu informato da Riccardo che Anna aveva telefonato per sapere se l’indagine
fosse approdata a qualcosa.
«È disperata», disse il brigadiere buono, con quella
sensibilità che il lavoro non riusciva a strappargli. «Gli
amici, in questi casi sono quelli che soffrono di più.
Quando c’è un suicidio, sono sempre convinti che toccasse a loro prevenirlo.»
«Sono sempre meno convinto che sia un suicidio.»
«Allora è sicuramente omicidio.»
«Mi stai prendendo in giro, brigadiere?»
«È lei che ha ammesso di essere meglio della Signora
in Giallo!»
Roberto sospirò, ma la bontà di Riccardo sembrava
qualcosa di solido e tangibile a cui attaccarsi in mezzo
alla palude.
140
certe mattine
«Mi piacerebbe chiudere l’inchiesta entro giovedì.»
Lasciare le cose in ordine.
Riccardo parve voler replicare, ma poi non disse niente.
Vibrazione del cellulare. Messaggio.
Ho prenotato il ristorante per giovedì sera.
Sandra.
L’attimo di leggerezza prima del cambiamento... No,
sarebbe stato troppo tardi... Roberto sospirò, cercando
di farsi venire un’idea.
Era stato a casa di Lisa. La bicicletta della ragazza
era nel garage. Era andata al lago a piedi o qualcuno
l’aveva accompagnata. I genitori avrebbero controllato
se mancavano dei vestiti, ma Roberto dubitava che degli
adulti avessero un gran controllo sul guardaroba di una
diciassettenne.
Aveva visto la sua camera. Pochi poster alle pareti.
Qualche peluche, non troppo lezioso. Molti libri. La
stanza di una ragazza seria, di quelle che raramente si
cacciano nei guai. Vi dominava il color nocciola e non
sembrava davvero nascondere segreti. Roberto aveva
trovato la poesia di Baudelaire. Era riportata nel libro di
testo di francese, evidenziata di rosa.
Il maresciallo sospirò, davanti allo schermo del proprio computer, in caserma. Gli facevano male gli occhi,
ma questa non era una novità, e presto avrebbe dovuto
desistere. Un appuntato stava lavorando sul portatile
della ragazza, in un’altra stanza. Si chiese se avesse
qualcos’altro da fare, relazioni da sistemare, ma si era
portato avanti col lavoro. A parte il caso Argani, giovedì
tutto sarebbe stato in ordine.
Tornò alla pagina Facebook della ragazza. Cosa
avrebbe fatto un profiler, uno di quelli come i prota-
141
antonella mecenero
gonisti di Criminal Minds? Uno di quelli che Roberto
avrebbe voluto diventare, se avesse avuto ancora spazio per i sogni? Avrebbe fatto un profilo e ristretto il
campo.
Una come Lisa, con la stanza nocciola, Flaubert sul
comodino, pochi peluche, bella, ma con le gonne al ginocchio, avrebbe potuto perdere la testa per un ragazzo
più grande che fosse anche uno stimolo intellettuale.
Qualcuno a cui piacesse la letteratura francese, che, infatti, sul profilo Facebook della ragazza risultava tra gli
interessi, anzi, Lisa era stata ancora più specifica. Letteratura francese dell’Ottocento. Chi altri tra i suoi amici?
Oscar Mertelli, trentotto anni, sposato. Occupazione:
docente di francese presso Istituto Alberghiero, Stresa.
Ovvio.
Il professor Mertelli sul suo profilo postava foto del figlioletto di due anni, pochissime della moglie. A giugno
le foto con le classi. Quella di Andrea e quella di Lisa e
Anna. La ragazza e il professore erano agli estremi opposti e sorridevano. Poche cose sono finte come le foto di
gruppo. Mertelli postava anche parecchie citazioni da poesie e opere letterarie, secondo il suo umore. Sedici maggio:
Una sera di rosa e azzurro mistico,
un lampo solo ci vedrà commisti,
lungo singhiozzo carico d’addio.
Un Angelo, schiudendo indi le porte,
a ravvivar verrà, gaudioso e pio,
gli specchi opachi e le due fiamme morte.
Il finale de La morte degli amanti.
142
certe mattine
Oscar Mertelli aveva capelli ricci, occhiali tondi e
modi eccessivamente gentili che a Roberto parvero
odiosi. Era stato l’amante di Lisa, ma la notte della
sua morte era a Stresa a una cena con la moglie e degli amici. Erano rincasati all’alba. La sicurezza datagli
dall’alibi era il sentimento che sembrava prevalere, non
lo sgomento per la morte di una diciassettenne che era
stata sua allieva e sua amante.
«È stata una sbandata», stava dicendo, seduto davanti
a lui e a Riccardo. Continuava a sistemarsi gli occhiali.
«Lisa era bella, sembrava più matura... All’inizio parlavamo solo, letteratura, Francia, viaggi... Poi... è successo... Ma non è una cosa che si deve sapere in giro, che
ho avuto una storia con un’alunna, no?»
Roberto guardò la fede al dito del professore. Oro
giallo, spessa. Gli dava l’impressione di un uomo a cui
alcune cose, come trovarsi a baciare donne che non fossero sua moglie, capitassero con una certa frequenza.
«Lisa era incinta», disse.
Gli sarebbe piaciuto essere come il protagonista di
quell’altro telefilm, Lie to me, e capire dal linguaggio del
corpo se il professore stesse mentendo.
«Non lo sapevo.»
Appunto.
«E se lo avesse saputo?»
«... Una ragazza di diciassette anni, brillante, con
tutta la vita davanti... Non avrebbe dovuto rovinarsela...
L’avrei aiutata a risolvere il problema.»
«E se non avesse voluto abortire?»
«... Non lo so.»
Il professor Mertelli era sudaticcio e continuava a giocherellare con gli occhiali mentre Riccardo proseguiva
nell’interrogarlo sulla relazione. Era a disagio. Come un
143
antonella mecenero
qualsiasi professore di cui venga trovata morta l’alunna
che si portava a letto. Roberto ragionò che si poteva essere viscidi e sgradevoli anche senza essere assassini. E
che è difficile annegare una ragazza in un lago quando
si è a cena su un altro. C’erano troppi laghi, lì. E tutti
erano profondi, con le loro acque fredde e antiche sotto
superfici ingannevoli...
***
Roberto non ne poteva più dell’afa ristagnante della caserma.
Gravellona Toce, il paese dove era situata la caserma,
non era lambito direttamente da nessuno dei troppi laghi
della zona. Aveva il fiume, però, le cui rive terminavano
in ampi canneti dove nidificavano gli uccelli palustri.
C’era un sentiero che costeggiava le rive, di mercoledì
mattina era deserto. C’era giusto qualche turista tedesco
in bicicletta, che si fermava di tanto in tanto per osservare il paesaggio col binocolo.
I colori si confondevano negli occhi di Roberto. Il
verde giallastro delle canne con i riflessi delle acque e
il cielo troppo limpido. Intuiva dei movimenti, ma non
riusciva a individuare l’animale che li produceva.
Si sentiva vulnerabile e solo.
Si era sentito così anche il professore, quando Lisa gli
aveva detto di essere incinta e non intenzionata ad abortire? Di questo era ragionevolmente certo. Lisa era una
ragazza ricca di paese, brava a scuola, impegnata all’oratorio. Una ragazza pratica. Voleva un’ultima estate di
leggerezza, finché un costume intero poteva bastare a
nascondere il suo segreto, ma si stava già attrezzando
all’autunno. Non aveva ancora detto nulla alla sua mi-
144
certe mattine
gliore amica, né ai genitori, ma al suo amante di certo
aveva parlato.
Per un professore, un figlio da un’alunna diciassettenne era molto di più di una crisi famigliare. Era la rovina sociale. Ma lui era andato a cena con gli amici, il
figlio in una mano, la moglie nell’altra.
Quando senti che la tua vita ti sta sfuggendo di mano,
cosa faresti per riaverla indietro tutta intera?
Certe mattine, alcune risposte sono fin troppo facili.
Qualsiasi cosa.
L’etica diventa improvvisamente fragile di fronte al
tuo presente che si sgretola.
Roberto prese il cellulare e mandò un sms a Riccardo.
Sono arrivati i tabulati telefonici del professore?
Vibrazione.
Sì. Amava proprio chiacchierare con i suoi studenti.
***
Andrea aveva perso tutto il suo fare da playboy e sembrava di colpo molto giovane e vulnerabile. Aveva diciassette anni. Era quasi un adulto, ma anche quasi un
bambino. In quel momento era questa seconda metà a
prevalere. Indossava una camicetta a mezze maniche a
righe sopra a bermuda di marca e si era pettinato i capelli in un taglio ordinato; lo accompagnavano il padre e
l’avvocato di famiglia. Sembrava un ragazzino a una cerimonia importante di cui non capiva bene il significato.
La sala che usavano per gli interrogatori era troppo piena
e questo aumentava la tensione e il disagio di Roberto.
«Sei stato rimandato in francese, col quattro. Una sola
materia, ma che rischia di farti ripetere l’anno», esordì,
con tono piatto.
145
antonella mecenero
«Sì», rispose il ragazzo, dopo aver cercato con lo
sguardo l’assenso dei due adulti che lo accompagnavano.
«Io alle superiori andavo male in fisica», continuò
Roberto. «Sono ancora convinto che il professore fosse
uno stronzo. Non ricordo di aver mai parlato con lui al
telefono. Mentre ci sono tre telefonate verso il tuo cellulare fatte dal professor Mertelli nei giorni precedenti alla
morte di Lisa.»
«Ho suggerito io a mio figlio di chiamare il professore», disse il padre. «Per farsi spiegare bene quali parti
del programma approfondire, cosa ripassare con più attenzione.»
«Queste sono informazioni che si possono ottenere
con una sola telefonata», interloquì Riccardo, con i tabulati in mano. «Invece ce ne sono tre, piuttosto lunghe,
anche. Otto minuti, sette e mezzo. Undici addirittura,
nell’ultima.»
«Volevo essere sicuro di passare l’esame», replicò Andrea.
Roberto annuì.
Andrea aveva le spalle larghe. Praticava nuoto a livello agonistico, in odore di convocazione in nazionale,
a quanto aveva appurato. Un rendimento scolastico dignitoso, a parte francese. E un padre in giacca e cravatta
anche ad agosto, nell’ufficio senza aria condizionata,
senza neppure un cenno di disagio. Roberto era cresciuto
senza padre, ma pensò che contro un genitore così ci si
potesse infrangere e accettare di percorrere qualsiasi via
per attraversare il canneto, fino a un suo sorriso.
Con a fianco un padre così, però, non si cedeva. Ci
volevano prove e di prove Roberto non ne aveva.
«Come ti sei fatto quel graffi?», chiese Roberto, notando i segni rossi sul braccio del ragazzo.
146
certe mattine
Non prestò attenzione alla risposta.
«Sai», disse invece, «sono state trovate tracce di pelle
sotto le unghie di Lisa. Stiamo aspettando le analisi.»
Non era vero o, almeno, lo era solo in parte. Le acque
del lago avevano portato quasi ogni prova. Sul corpo di
Lisa erano rimasti dei lividi e tracce di DNA dalla provenienza quanto meno dubbia. Non erano in una puntata di CSI, con prove del genere le perizie incrociate di
accusa e difesa avrebbero potuto farsi battaglia per anni
nei tribunali.
Ma sia Roberto sia Riccardo videro il ragazzo farsi
ancora più pallido sotto l’abbronzatura e boccheggiare
come un pesce sulla riva. In trappola, tra suo padre e se
stesso, senza via di fuga.
Roberto si chiese se quell’uomo in giacca e cravatta
fosse consapevole di coprire un omicidio volontario.
Forse sì. Forse non lo faceva neppure per amore paterno. Un figlio omicida non giova molto alla carriera.
***
«È possibile? Che un ragazzo l’abbia annegata in cambio di una promozione?»
La bontà di Riccardo era andata a schiantarsi contro
quell’interrogatorio come un’onda sugli scogli. Ne rimanevano gocce sparpagliate e schiuma ribollente d’indignazione.
«Non lo proveremo mai», replicò Roberto. «La famiglia di Andrea giurerà in blocco che la notte della morte
di Lisa non è uscito. Ci vogliono prove certe e noi non
le abbiamo. Ne uscirà un pantano all’italiana, uno di
quei casi infiniti come a Perugia o a Cogne. Oppure alla
fine l’inchiesta verrà chiusa con l’ipotesi di un proba-
147
antonella mecenero
bile suicidio. Ci penserà il mio sostituto, in ogni caso. Il
professor Mertelli, se è furbo, chiederà il trasferimento e
prima o poi si porterà a letto un’altra studentessa. Magari aspetterà che sia maggiorenne. Andrea andrà avanti
a studiare e a fare sport fino a sbriciolarsi del tutto contro un padre in giacca scura a trentotto gradi.»
Riccardo sembrava anche lui un bambino. Uno che
avesse appena bevuto una medicina pessima.
«Anna, l’amica, ha telefonato anche oggi per sapere
se ci fossero novità. Se continuiamo li inchiodiamo in
qualche modo. Lei...»
«Io non posso fabbricare prove che non ho. Abbiamo
solo un ragazzo impallidito di fronte a una menzogna
e delle telefonate giustificabili. Non avrei neanche dovuto iniziarla questa indagine. Non sono affidabile, in
un eventuale processo verrebbe detto anche questo. Da
domani vi conviene incominciare tutto da capo.»
Sospirò.
Pensò a Lisa.
Come si era sentita, uscendo di casa, con quel ragazzo
che le prometteva un bagno di mezzanotte e fare l’amore
sulla spiaggia? Come aveva guardato la notte che le stava
intorno? Era una ragazza seria con programmi precisi.
Scuola alberghiera e una vita in giro per il mondo. Tutto
destinato a svanire, per quella piccola vita che si portava dentro. E poi? Anna, l’amica, aveva detto che Lisa
non era una nuotatrice esperta, ma che Andrea, quando
erano andati tutti e quattro a fare il bagno di mezzanotte,
l’aveva convinta ad andare al largo con lui, fino a che
avevano avuto sotto di loro decine di metri d’acqua...
Riccardo si girò verso la porta.
«Hanno bussato.»
«Sì?», chiese Roberto.
148
certe mattine
Si affacciò un appuntato.
«C’è qui la signora Mertelli. Vuole parlare con lei,
maresciallo.»
Era una bella donna, con i capelli chiari e gli occhi
azzurri lucidi di pianto.
«Io ho sentito una telefonata di mio marito. Ci ho
pensato solo adesso. Non voglio che si avvicini mai più
a nostro figlio.»
***
Roberto camminava nella notte calda di Milano verso il
ristorante.
L’umidità gli appiccicava la camicia alla pelle. Aveva
in mano dei fogli, ma non voleva pensarci. Camminava
vicino al muro, stordito dai suoni confusi della città, che
non sapeva più decodificare.
Non era riuscito a chiudere l’indagine. Senza qualche altro miracolo, si sarebbe con ogni probabilità
arenata in tribunale. La signora Mertelli aveva sentito il marito promettere la promozione in cambio di
qualcosa. Cosa, di preciso, il professore non era stato
così idiota da dirlo al telefono. La notte della morte di
Lisa, mentre l’uomo guidava per tornare a casa dalla
cena, aveva ricevuto un sms. Pensando di fargli un
piacere, la moglie glielo aveva letto ad alta voce, in
auto.
Fatto.
Il numero era quello di Andrea.
Ma il ragazzo o, meglio, padre e avvocato si sarebbero
inventati una cosa qualsiasi. Una traduzione, un testo da
leggere. Qualche compito scolastico che il ragazzo aveva
portato a termine nella notte proprio sotto gli occhi del
149
antonella mecenero
genitore. Se non fosse emerso un altro testimone, magari in grado di collocare i due adolescenti insieme sulla
strada verso il lago, non si sarebbe evitato il pantano.
E Andrea aveva troppa paura di suo padre per crollare.
Aveva venduto l’anima per una promozione e forse ancora non se ne rendeva conto. Gli omicidi, Roberto lo
sapeva, o si risolvono subito o non li si risolve più. I
ricordi si appannano, le prove diventano ambigue e ci si
abitua persino al rimorso.
Non era più un problema suo, in ogni caso. Da quella
mattina il maresciallo Roberto Desideri non era più in
servizio.
Sandra lo aspettava seduta al tavolo del Sushi Bar.
Era bellissima. Aveva capelli biondo scuro che cadevano morbidi sulle spalle che l’abito estivo lasciava scoperte. Aveva un fisico elegante dalle forme non abbondanti, ma ben delineate. Era china sul suo smartphone.
Chissà con chi stava chattando o messaggiando? Era già
perfettamente attrezzata per il futuro. Quindi non aveva
senso tergiversare.
«È finita», le disse, appena le fu davanti. «Non sentirti
in colpa. Non sei nata per fare l’infermiera e io non ho
intenzione di costringerti.»
Lei replicò, ma Roberto non aveva energie per interpretare la risposta dal movimento delle sue labbra per
riempire i vuoti tra i suoni che non riusciva a cogliere.
La dottoressa quella mattina era stata gentilissima. A
suo modo aveva voluto essere rassicurante.
I disturbi all’udito e alla vista avevano quasi certamente un’origine genetica. Una malattia dal nome complicatissimo che non riusciva a ricordare. Se n’era stata
tranquilla, in attesa dentro le sue cellule, fino a quel
momento. Bisognava fare ulteriori accertamenti e c’e-
150
certe mattine
rano cose peggiori che potevano capitare. Roberto non
aveva dubbi che un’esperta in malattie rare vedesse ogni
giorno cose peggiori.
L’udito era compromesso, ma si poteva intervenire
con protesi o un intervento dalla tecnologia complicata
di cui Roberto aveva perso metà spiegazione. Se le analisi avessero confermato la diagnosi, c’erano farmaci
che avrebbero fermato o rallentato i problemi alla vista.
Farmaci per tutta la vita, una lunga lista di effetti collaterali, ma la dottoressa continuava a ripetere che c’erano
cose peggiori e Roberto continuava a essere sicuro che
fosse vero. C’erano sicuramente moltissime mansioni
che avrebbe potuto svolgere all’interno dell’Arma, con i
tempi che correvano, era davvero fortunato ad avere un
simile impiego. In ogni caso adesso doveva restare tranquillo, finire gli accertamenti, iniziare le cure, valutare
l’intervento dalla tecnologia complicata.
***
Uscì dal ristorante con una sorta di desolata leggerezza
addosso. Non aveva prestato attenzione neppure a un
quarto delle parole di Sandra. Non era per la malattia.
Lui era distante e lei non voleva lasciare Milano. Si erano
allontanati ben prima che lui iniziasse ad avere problemi.
Si era chiesto se fosse vero e, se sì, come mai non se
ne fosse accorto.
Alzò gli occhi al cielo. A Milano, nelle notti d’estate,
non si vedevano le stelle. O forse non le avrebbe viste in
nessun luogo.
Certe notti, pensò, sono buie comunque, perché
stanno prima di mattine che non si vogliono raggiungere.
Vibrazione del cellulare. Messaggio.
151
antonella mecenero
Anna ha chiamato ancora. Non se ne dimentichi.
Riccardo.
Buono e tenace, nonostante tutto.
Ma non toccava più a lui. Qualcun altro avrebbe
preso in mano l’indagine. Qualcuno di più lucido forse
avrebbe trovato le prove e forse avrebbe dato pace a
quella ragazza.
Non c’era aria a spettinargli i capelli sudati. Neppure
lì, sul cavalcavia.
Roberto non aveva bene idea di dove fosse. Si era
perso nella notte senza stelle.
Un’altra vibrazione. Messaggio.
Non si dimentichi di Anna.
Non era solo per l’indagine.
L’amica rimasta sola sulla riva. La desolazione di chi
resta.
Riccardo era buono oltre ogni ragionevole limite.
Non era uno stupido.
Roberto si chiese se avrebbe continuato così, tutta la
notte, con la stessa naturalezza con cui rispondeva al telefono, lo passava a prendere e gli ripeteva le cose scandendo le parole.
Pensò alla moglie del professore che stava mettendo
insieme minuti tasselli di un mosaico orribile che, forse,
aveva fatto finta di non vedere per anni. Ai genitori di
una ragazza seria e a un’amica grassottella e testarda,
che attendevano verità. Forse non stava più a lui cercarla, ma poteva condividere la loro attesa.
No, non me ne dimentico.
Certe mattine, si fa una fatica terribile a raggiungerle,
attraverso notti senza stelle, e si può solo sperare che ne
valga la pena.
152
La fonte
di Sabrina Minetti
A Maria,
che amò perdutamente il maresciallo Giuseppe Minetti.
A Rosa,
che in un campo di grano in Moldavia vide l’ombra di due stivali,
ma riuscì a non farsi scorgere.
Guardo obliquo il telefono. Un guscio bianco inoffensivo. Invece ha appena fatto da tramite all’ennesima
discussione con Laura. Lei al lavoro, io a casa. Troppi
giorni di ferie arretrati e ho dovuto prendermi una settimana. Ultimamente le cose, fra noi, non vanno affatto
bene. Stella, la nostra bambina, sta crescendo. Forse l’umore di mia moglie risente di tutto l’impegno che allevarla le richiede. Anche se la causa dei nostri litigi è
invariabilmente il mio lavoro. Fare il comandante della
stazione dei carabinieri di Stresa assorbe le mie giornate,
anche più del dovuto. Del resto io sono fatto così. Non
riesco a staccare se non ho finito. In realtà Laura non ha
mai mandato giù il fatto che io abbia scelto l’Arma, anziché una carriera da avvocato. E ora se l’è presa perché
le ho detto che nel pomeriggio voglio passare dall’ufficio. Ma, credo, soprattutto perché le ho confermato che
come ogni mattina sono andato a correre sul lungolago.
Anche Doriana, l’appuntato Doriana Nicolosi, la mia
153
sabrina minetti
collega, ha la stessa abitudine. E Laura questa cosa non
la sopporta.
Il suono del cellulare interrompe i miei pensieri. È il
numero della caserma e rispondo.
«Maresciallo Noveraschi, mi dispiace disturbarla.»
Ci vediamo ogni giorno, da tre anni. Andiamo a correre insieme tutte le mattine. E tutte le mattine facciamo
colazione insieme. Eppure Doriana continua a darmi
del lei. E io continuo a non proporle di passare al tu.
«Non mi disturbi. Dimmi.»
«Il maresciallo De Robertis. Il comandante della stazione di Lesa. L’ha cercata adesso qui in ufficio. Gli ho
detto che lei è in ferie e mi ha chiesto di mettervi in contatto. Non sapevo se potevo dargli il suo cellulare. Mi ha
lasciato il suo.»
«Potevi, ma grazie. Dammi il numero. Ti ha detto
cosa voleva?»
«No, ma mi è sembrato preoccupato.»
«Va bene, lo chiamo. Grazie, Doriana.»
«Di nulla, maresciallo. Dovere.»
Mette giù. Una comunicazione di servizio. Se c’è una
cosa a cui sono arrivato, alla mia età, è a essere sincero
con me stesso. E se una volta non accettavo le sfuriate di
Laura, ora devo ammettere che mia moglie non ha tutti
i torti. Una volta sbagliava a essere gelosa. Ma adesso
è vero: mi piace sentire Doriana. Mi piace vederla. Mi
piace. Doriana mi piace. Ed è un maledetto casino.
Guardo la mia immagine, riflessa nel vetro della finestra. I miei capelli, precocemente brizzolati già dai miei
trent’anni, stanno diventando completamente bianchi.
***
154
la fonte
«Pronto?»
«Ciao, De Robertis.»
«Noveraschi. Mi hai detto di far conto su di te, se
avessi avuto bisogno. E. Ecco.»
«L’ho detto e te lo ripeto. Cosa posso fare?»
«Abbiamo trovato una cosa. Hanno trovato una cosa.
In una villa lungo la via per Massino. Con le piogge dei
giorni scorsi. È venuta giù una frana. Hanno dovuto
entrare in casa, per controllare che non ci fosse dentro
nessuno. Che nessuno si fosse fatto male.»
«E?»
«Una cosa molto strana.»
«Cosa? Cosa avete trovato?»
«Verresti qui, Noveraschi? La casa è la prima con la
facciata gialla salendo dal lungolago.»
***
La casa splende colpita dal sole su un terrapieno verdeggiante a mezza costa. Nel giardino la frana ha divelto in
parte i roseti, carichi di fiori dalle tante sfumature.
Maurizio De Robertis sta parlando con due carabinieri e con alcuni uomini della Protezione civile. Si voltano all’unisono quando mi vedono parcheggiare.
De Robertis mi aspetta in cima alla scalinata che dalla
strada sale lateralmente su per il prato, l’espressione corrucciata, in maniche di camicia, arrotolate fino ai gomiti.
«Vieni», taglia corto, ravviandosi il ciuffo di capelli
mossi che gli ricade sulla fronte.
Faccio appena in tempo a guardare l’azzurro del lago,
in distanza, e mi viene in mente Doriana. E questa mattina. Quando sullo sfondo delle onde sfavillanti di sole
stavo per baciarla.
155
sabrina minetti
Lo seguo fra gli sguardi silenziosi degli altri.
Entriamo nel salone a piano terra, devastato dal
fango, e gli vado dietro oltre un varco che si apre sulla
sinistra. Doveva essere il vano di una porta, poi murato,
e con l’allagamento è crollato. Dà su una scala annerita
dal tempo. Al fondo hanno posizionato un faretto che
mi abbaglia. Scendiamo in uno scantinato, che si prolunga in una specie di grotta scavata nella roccia, quasi
interamente occupata da una vasca in pietra, colma
d’acqua, alimentata da un bocchettone di ottone infisso
nel muro. Una lenta cascata tracima dall’orlo e precipita
con uno sciabordio quieto in una fessura che ferisce il
suolo. Da questa mattina ha smesso di piovere, ma con
tutto quello che è venuto giù dal cielo nei giorni scorsi
probabilmente l’acqua ha impregnato la montagna, poi
attraverso la fonte ha inondato lo scantinato ed è arrivata al piano superiore. Ecco perché la porta murata si è
letteralmente sbriciolata.
«Vieni», mi dice De Robertis, mentre si addentra nella
grotta, e io lo imito.
«Guarda.»
Con una torcia illumina uno scheletro sul fondo della
vasca di pietra. Deglutisco, per mandare giù lo stupore.
«E lì», aggiunge. Ferma il fascio di luce e, ricoperta
da una patina opaca, distinguo una croce di ferro, più o
meno all’altezza del punto in cui un tempo, protetto da
quelle ossa, batteva un cuore.
Mi coglie un breve capogiro.
***
Oggi qui sul lago non si parla d’altro. Ieri, dopo lo sconcertante sopralluogo nella villa, ho consigliato a De Ro-
156
la fonte
bertis quello che doveva fare. Niente di straordinario.
Aveva solo bisogno di qualcuno che gli confermasse che
non stesse commettendo errori. Come procedere con i
resti ritrovati nella villa, come avvisare il magistrato, chi
contattare per far eseguire gli esami del caso. E come
gestire i giornalisti.
Mi ha ascoltato. Non si è troppo sbilanciato e le sue
dichiarazioni asciutte sono riportare fedelmente nei notiziari. I titoli a effetto tuttavia si sprecano. Scheletro di un
ufficiale nazista ritrovato in una grotta segreta sotto una villa
sul Lago Maggiore. Chi è l’uomo della fonte segreta? Si infittisce
il mistero della villa di Lesa: chi è lady O’Neil? Non si trova la
misteriosa scozzese proprietaria della villa dello scheletro di Lesa.
Grisandole Rose O’Neil. A lei è intestata la villa sulla
via per Massino che frotte di esperti stanno passando al
setaccio in cerca di indizi. Ci vorrà del tempo per avere
i risultati delle analisi, ad esempio per sapere di cosa sia
morto l’uomo con la croce di ferro. Annegato? O ucciso e poi gettato nella vasca? La faccenda è parecchio
sensazionale e sono certo che le indagini avranno un’accelerata. Il collegamento lo hanno fatto tutti. I resti potrebbero appartenere a un tedesco implicato nei rastrellamenti di ebrei che funestarono queste zone nel 1943.
C’era un comando delle SS a Villa Ducale. L’avvocato
stresiano Tullio Massarani con sua sorella e poi il commerciante Giuseppe Ottolenghi con sua figlia, sfollati da
Genova, furono portati lì e non se ne seppe più nulla.
Altri riuscirono a scappare prima della cattura. Una vendetta sarebbe l’ipotesi più probabile. E poiché la casa è
stata costruita negli anni Venti, ed è di proprietà della
famiglia O’Neil da allora, se lo scheletro è lì dal ’43,
Grisandole Rose O’Neil, che di anni a quell’epoca ne
aveva venti, della faccenda potrebbe saperne qualcosa.
157
sabrina minetti
Il problema è che Grisandole non si trova. Con De
Robertis siamo risaliti alla sua residenza. Ufficialmente
abita in Scozia, nei dintorni di Oban. Il mio collega ha
preso contatti con la polizia di lì. L’ispettore Arthur
McKenna ha mandato i suoi uomini a casa della O’Neil,
ma non ci hanno trovato nessuno. Un piccolo cottage
solitario. La O’Neil, dunque, non ha vicini. E non ha
parenti in vita. Non ha mai fatto parlare di sé. McKenna
sta cercando di ottenere le autorizzazioni per forzare la
serratura ed entrare in casa. È piuttosto complicato da
quelle parti violare la proprietà privata. Anche se c’è di
mezzo una faccenda così pesante.
L’unico collegamento con la O’Neil è Luisa Rimella,
una mia anziana concittadina che, nonostante l’età – ha
tre anni in più della O’Neil, quindi novantaquattro – si
occupa praticamente da sempre del giardino della villa.
Agli uomini di De Robertis la Rimella ha detto
che la O’Neil veniva in Italia tutti gli anni, in maggio.
E McKenna ha verificato che è proprio così. Anche
quest’anno Grisandole Rose O’Neil è salita su un volo
Edimburgo-Milano esattamente lo stesso giorno in cui
la Protezione civile ha scoperto la grotta segreta. Solo
che a Lesa non si è fatta viva. Né ha preso contatti con
Luisa. Forse ha saputo dai giornali che il segreto nascosto fra le fondamenta della sua villa è stato scoperto e
ha fatto perdere le sue tracce. Probabile. In tal caso ora
si trova in Italia. Ma dove? La Rimella è una specie di
governante per lei. Ma potrebbero essere amiche. Due
donne molto simili. Più o meno la stessa età. Entrambe
sole. Forse la Rimella la sta aiutando a nascondersi.
Di sicuro non qui a casa sua, dove De Robertis e
io siamo venuti per farle qualche domanda. Abbiamo
158
la fonte
riguardo per quest’anziana signora, abbiamo deciso
di non convocarla in caserma, di venire noi da lei, ma
non siamo degli sprovveduti. La sera stessa del ritrovamento dello scheletro e dopo aver appreso che è la Rimella a occuparsi del roseto della villa abbiamo messo
la donna sotto una discreta sorveglianza. Nessuno le
ha fatto visita. Nessuno le ha telefonato. Evidentemente Grisandole ha trovato riparo altrove. Anche se
ufficialmente non risulta essere ospite di nessuna struttura ricettiva. Del resto, se anche qualcuno le avesse
dato ospitalità senza registrarla, dopo tutto quello che è
uscito nei notiziari, qualche soffiata ci sarebbe arrivata.
Forse ha qualcun altro, oltre a Luisa, qui in Italia, da
cui andare.
Luisa Rimella è residente a Stresa, perciò la competenza è anche mia. In ogni caso sono ben contento di
affiancare De Robertis. L’ho raccontato a Laura, che lui
mi ha chiesto aiuto, perché mi vede come un punto di
riferimento. Mi sembra una bella cosa che un collega
giovane, da poco promosso, si fidi di me. Ma lei ha liquidato la notizia con una smorfia di supponenza. Se ne
approfitterà, e poi si prenderà tutto il merito, ha detto.
Non è mai stata così cinica. Ho lasciato perdere.
Dalle finestre aperte entra uno scroscio di cicale e il
profumo delle rose. Su questo lato della casa le fronde
degli alberi producono un’ombra fresca che riempie la
stanza di una traslucida luce verde.
«Signora Rimella...», comincia De Robertis, dopo essersi schiarito la voce.
Lei ci guarda con occhi celesti, ingigantiti dalle lenti
da presbite, incastonate in una pesante montatura nera,
i capelli candidi, come arruffati dalla tempesta. Ha il
159
sabrina minetti
mento sporgente, gli angoli della bocca a ferita piegati
all’ingiù.
«Mi dica», soffia fuori, arcigna, la voce roca, maschile.
Indossa una camicia a scacchi e dei pantaloni da lavoro, con le tasche applicate a mezza gamba, infilati
in un paio di stivali di gomma. Quando siamo arrivati
stava lavorando in giardino della sua casa un po’ discosta dalla strada, sulla via Mottarone. Ci è venuta incontro e senza dire una parola ci ha fatto strada fin qui, nel
soggiorno.
«Lei si occupa di villa O’Neil, vero?», prosegue De
Robertis.
«Sì.»
«Cosa fa nella villa?»
«Curo le rose.»
«Da tanto tempo?»
«Da sempre.»
«Cosa intende?»
«Da sempre. Da quando ero signorina.»
«Come ci va alla villa?»
«Prendo il pullman, e poi salgo a piedi.»
«E poi?»
«Cosa?»
«E poi fa qualche altro lavoro per la signora O’Neil?»
«Quando viene in vacanza sto alla villa. E la aiuto.»
«La aiuta?»
«Sì. Pulizie. Far da mangiare. La spesa. Apro la casa
quando arriva. La chiudo.»
«Siete amiche con la signora O’Neil?»
Vedo Luisa esitare solo un istante. Finora è stato tutto
un botta e risposta. De Robertis cortese e accurato, la
donna secca, sparando scorbutica le risposte, come
schioppettate. È straordinariamente lucida per la sua età.
160
la fonte
«Lavoro per lei.»
«Riceve dei soldi per quello che fa alla villa?»
«Mi rimborsa le spese.»
«Se la O’Neil la paga può dirlo. Non siamo qui a sindacare sulla sua dichiarazione dei redditi.»
«Mi rimborsa le spese», insiste, «mi piace curare i
fiori. E quando viene sul lago mi piace stare alla villa»,
esita, «ci facciamo un po’ di compagnia. Siamo sole entrambe.»
Questo De Robertis e io lo sappiamo. I genitori di
Grisandole sono morti da tempo. Luisa è cresciuta in
un orfanotrofio a Milano, prima di trasferirsi qui, come
cameriera. Ora è in pensione, da trent’anni. Non si è
mai sposata. Come la O’Neil, del resto.
«Signora», il tono di De Robertis si è fatto più guardingo, «lei sapeva che sotto la villa ci fosse una fonte?»
«No.»
«Sapeva che la signora O’Neil sarebbe partita per venire al lago l’11 maggio?»
«No.»
«Non la avvisa quando arriva?»
«No. Più o meno io lo so quando arriva. In maggio.
Vado a guardare le rose e vedo che c’è e mi fermo lì.»
«Mi sembra strano, signora.»
Luisa non dà segno di scomporsi. Fissa De Robertis,
imperterrita.
«È casa sua», si limita a rispondere, burbera.
«Signora, in effetti è un po’ strano...», intervengo, cercando di smorzare la tensione, perché è evidente che,
se la Rimella sapeva della grotta o persino dello scheletro, non è trattandola aggressivamente che le estorceremo qualcosa. In realtà non so bene neanch’io come
andare oltre il punto in cui siamo arrivati. Questa donna
161
sabrina minetti
così anziana emana una forza misteriosa. Sembra non
temere nulla. Forse perché non ha nulla da perdere. Se
nasconde qualcosa, se è, in qualche modo, complice
della O’Neil, a novantaquattro anni, che conseguenze
la attendono?
Luisa ha spostato lo sguardo su di me e punta le pupille troppo grandi contro le mie.
«A volte le cose ci sembrano strane perché non le conosciamo. Io ero abituata. A me non sembrava strano.»
«Perché parla al passato, signora Rimella?»
«Perché adesso mica mi lascerete più andare alla
villa», abbaia.
***
Prima di andarcene dalla casetta della Rimella ci siamo
fatti promettere che se dovesse sentire la O’Neil ci avvertirà. E che le dirà di mettersi in contatto con noi. Ha
annuito, muta.
Che Grisandole c’entri qualcosa con lo scheletro della
fonte è altamente probabile. Il muro che nascondeva
l’accesso alla cantina risulta costruito con tecniche dei
tempi andati. De Robertis sta cercando di rintracciare chi
abbia potuto edificarlo a suo tempo. È difficile, roba di
settant’anni fa, se le ipotesi che lo scheletro appartenga
davvero a un ufficiale nazista dei tempi dei rastrellamenti
del ’43 sono esatte, ma qualcuno potrebbe averne sentito
parlare dai propri padri o nonni. In ogni caso la casa è
nella disponibilità di Grisandole da sempre. Il fatto che sia
partita per l’Italia, ma sia scomparsa da quando lo scheletro è stato scoperto, non depone a suo favore. Luisa forse
le è complice, ma non abbiamo alcuna prova in tal senso.
Il magistrato che segue le indagini si è limitato a disporre
162
la fonte
che la Rimella si tenga a disposizione degli inquirenti. Del
resto Luisa non dà certo segnali di volersi defilare.
Abbiamo un appuntamento su Skype con il notaio
al quale la O’Neil ha delegato la gestione di qualunque
incombenza relativa alle sue proprietà. McKenna lo ha
rintracciato grazie ai tabulati della linea telefonica del
cottage di Oban. È l’unico numero verso il quale siano
partite delle chiamate. E l’unico da cui Grisandole ricevesse telefonate. In realtà la prassi vorrebbe che superassimo qualche formalità per parlare in via ufficiale dall’Italia con il notaio, ma McKenna è un tipo sbrigativo.
Ci ha passato i recapiti di Edward McCormac, notaio
in Edimburgo. Potreste averli rintracciati anche senza il
mio aiuto, ha tagliato corto.
De Robertis clicca col mouse sull’icona con l’immagine
di una cornetta del telefono, verde. Si sentono gli squilli,
la linea che prende e sullo schermo appare McCormac.
Sta muovendo la webcam, per inquadrarsi. È corpulento,
rosso di capelli, il volto cosparso di lentiggini.
«Buongiorno, notaio McCormac», dice De Robertis.
Mi dispongo a restare concentrato, non sono fluente
come lui in inglese.
«Buongiorno a voi.» Ha una voce pastosa, di gola.
«Il mio collega e io vorremmo che ci confermasse
quanto mi ha accennato nella sua mail.»
De Robertis è davvero brillante. L’Arma sta facendo
grandi passi avanti e io sono fiero di farne parte. È Laura
che non apprezza. Il pensiero del nostro ultimo litigio
mi morde allo stomaco. Lo caccio via.
«Dunque. Il mio studio ha mandato per l’ordinaria
e la straordinaria amministrazione degli affari della signora O’Neil.»
163
sabrina minetti
«Da quando?»
«Da sempre, possiamo dire. Ho ereditato lo studio da
mio padre. E la O’Neil era già cliente.»
«Lei è in possesso di un suo testamento?»
«Non so se. Se posso.»
«Notaio McCormac. Credo che l’ispettore McKenna
le abbia parlato. Il ritrovamento dello scheletro nella
villa può significare qualcosa di molto grave. E la signora O’Neil è scomparsa. Dobbiamo capire.»
«Ok. No. Non ha mai fatto testamento.»
«Quando l’ha sentita l’ultima volta?»
«Il 24 aprile. Ho controllato. La mia segretaria tiene
un registro delle telefonate.»
«E?»
«Ci siamo accordati per incontrarci nel mio studio.»
«Per quando? »
«Per il 10 maggio. Veniva da me una volta l’anno. Per
firmare ciò che serviva per gestire i suoi affari. Prima di
partire per l’Italia.»
«In effetti risulta che il giorno dopo abbia preso un
volo per Milano.»
«Sì. Così era previsto. Non è esattamente un lavoro
da studio notarile. Ma Anne, la mia assistente, si occupa
di prenotarle i voli, ogni primavera. E l’albergo, qui a
Edimburgo, per la notte che precede la partenza per l’Italia e per quella del suo rientro. E la vettura con autista,
per il tragitto da Oban. E viceversa.»
In effetti coincide tutto. Grisandole ha affettivamente
dormito al Ten Hills Hotel, come fa dal 2006, ogni anno
a maggio. McKenna sarà sicuramente capace di scoprire
dove sia scesa negli anni precedenti, ma in questo momento la cosa è relativamente importante. Del resto la
O’Neil non ha certo problemi di denaro. Oltre alle case
164
la fonte
dispone di più di due milioni di sterline fra depositi e
titoli, che McCormac amministra.
«Notaio McCormac. Può confermarci che a ogni sua
visita lei provvedesse a consegnare alla signora O’Neil
dei contanti, con i quali lei affrontava le spese correnti
dell’anno?»
«Sì. È così. Prelevavo a suo nome e le consegnavo il
contante per le sue esigenze annuali quando ripassava
dallo studio tornando dall’Italia.»
McKenna ha controllato, non risultano altri prelievi
dal conto inglese della donna. McCormac non ha mai
approfittato della sua delega. Ci sono invece alcuni prelievi bancomat dal conto che la O’Neil aveva in una
banca di Stresa, compatibili con i suoi soggiorni sul lago.
De Robertis e McCormac continuano a conversare
animatamente, e io mi domando per l’ennesima volta
dove si trovi ora Grisandole. E perché non si servisse di
un bancomat o di una carta di credito anche a Oban. L’unica spiegazione è che non volesse essere tracciabile nei
suoi spostamenti, ma soltanto quando non era a Stresa.
Ma quando non si trovava in Italia, davvero abitava a
Oban? E se non lì, dove risiedeva? Chi era quella donna,
nella cui villa si celava uno scheletro, e che a novantuno
anni suonati sembrava comportarsi come una spia?
«Sono rimasto sconvolto quando ho saputo», sta dicendo il notaio.
«Lo immaginiamo», intervengo io, «in effetti questa
storia ha dell’incredibile.»
«È stanco, maresciallo? Ci mancava solo questa cosa
della villa di Lesa, vero?»
Doriana si è affacciata sulla soglia del mio ufficio.
Mi ha colto a capo chino, la testa fra le mani. In realtà
165
sabrina minetti
non è la stanchezza, o il lavoro aggiuntivo per dare una
mano a De Robertis ad affliggermi. Io e Laura continuiamo a litigare. Tornare a casa la sera è una pena. E io
non faccio altro che pensare a Doriana e a quello che
potrebbe essere. Vederla lì, ora, bella, desiderabile, pensiero fisso che non riesco a scacciare, mi devasta. Ormai
mi è chiaro. Devo farmi violenza per non esplodere. Per
non dirle nulla. E per costringermi a pensare che la sua
premura, che il suo approccio, ora, mentre in caserma
c’è solo Virdis, giù, di piantone, sia solo cortesia. Per
forzarmi a non illudermi che ci sia qualcosa di più che
amicizia in lei, nei miei confronti.
Scuoto la testa. Non dico nulla. E Doriana se ne va.
«Maresciallo De Robertis?»
È una voce lieve, anziana, gentile. La telefonata me l’ha
passata Virdis. Una signora che chiede di lei, mi ha detto.
«Sono io, chi parla?»
«Sono Grisandole O’Neil.»
Avverto fisicamente l’aria che mi asciuga gli occhi,
che ho sbarrato per lo stupore.
«Signora O’Neil! Dove si trova?»
«Non lontano da lei. Vorrei venire a trovarla.»
Forse si tratta solo di una mitomane. O è davvero lei?
Mi sembra di essere in un film. Una mosca ronza sospesa nel quadro della finestra spalancata, contro l’azzurro carta da zucchero della sera.
«Se mi dice dove si trova veniamo... le veniamo incontro.»
«Non ce n’è bisogno. Conosco la strada», dice, enigmatica, prima di chiudere la comunicazione.
Telefono a De Robertis, ma ha il cellulare spento.
Provo in caserma e mi informano che ha dovuto assen-
166
la fonte
tarsi all’improvviso per portare la moglie in ospedale. Le
si sono rotte le acque, un po’ in anticipo. Saluto, trafitto
dal ricordo di quando nacque Stella. Eravamo felici, io e
Laura, allora. Oppure credevo che lo fossimo?
Vado ad affacciarmi alla finestra, tormentato da questi pensieri foschi, che rendono ancora più struggente la
bellezza del tramonto, la dolcezza dell’aria, intrisa dal
profumo dei fiori. Tra poco, al cancello che intravedo
da quassù, si profilerà Grisandole. E se lei ha deciso di
venire spontaneamente qui, non può esserci che un motivo: che voglia raccontare la verità sulla fonte segreta e
sullo scheletro.
Sobbalzo, il cuore in gola, nello scorgere un’ombra
profilarsi all’ingresso, ma è solo Luisa Rimella. Che ci
fa qui? Forse la O’Neil le ha detto che desiderava consegnarsi. Forse è stata proprio Luisa a convincerla.
Il suono del citofono attraversa la caserma. Sento il
rumore metallico della serratura che si apre. Luisa scompare alla mia vista. Le voci riecheggiano giù all’ingresso,
si avvicinano, poi sulla soglia appare Virdis, con lei.
«La signora dice che avete appuntamento», mi fa il
mio sottoposto.
Non ho nessun appuntamento con la Rimella, tuttavia le faccio segno di sedersi davanti a me.
«Sto aspettando la signora O’Neil. Mi ha telefonato
per dirmi che sta venendo qui. Ne sa qualcosa? È stata
lei a rintracciarla e a convincerla?»
«Fa caldo», sbotta Luisa, brusca.
«Vuole darmi l’impermeabile?», le chiedo, accennando ad alzarmi.
«No. Faccio da sola», ringhia.
Si sbottona, sfila le maniche, lascia ricadere il soprabito sullo schienale. Poi comincia a slacciare la saha-
167
sabrina minetti
riana maschile in cui è infagottata. La guardo sbalordito. Sotto indossa una camicetta bianca, a collo alto,
una rouche di sangallo a bordarle la pettorina. Prende
qualcosa dalla borsetta che tiene sulle ginocchia. Una
spazzola. Si ravvia i capelli, lisciandoli dietro le orecchie. Ripone la spazzola ed estrae un cerchietto di madreperla che infila sulla testa, catturando le due soffici
ali che le si aprono sulla fronte.
Non riesco a capire. Ha preso un piccolo cilindro dorato dalla borsa, lo apre, è un rossetto color geranio. Se
lo passa sulle labbra sottili. Mi guarda. E il suo mento
non è più sporgente. Infine toglie gli occhiali e i suoi occhi azzurri lampeggiano nei miei, nella loro dimensione
naturale, non più giganteschi.
«Eccomi qui», mi dice, con la voce lieve, gentile,
che aveva poco fa al telefono, e in cui ora rilevo una
lontanissima inflessione. «Ecco qui Grisandole Rose
O’Neil.»
Ho la bocca asciutta. Se non fosse per il battito del
cuore, che sento distintamente, accelerato, in petto, e
per la mosca, che è tornata a ronzare sul davanzale, mi
direi che sto sognando. Ma non è così. Davanti a me si
è appena svelato il mistero. Luisa e Grisandole sono la
stessa persona.
«Cosa significa?», riesco solo a balbettare.
«Lei sicuramente conosce il detto, maresciallo. Nomen omen.»
Non le rispondo. Sarei meno atterrito se qualcuno mi
puntasse contro una pistola.
«Sa che cosa significa Grisandole? Il mio nome? Una
principessa che si vestiva da uomo. Non è esattamente
così, ma ho passato la mia vita nei panni di un’altra.
Non so come fosse la vera Luisa Rimella, ma ne ho fatto
168
la fonte
il mio opposto. Io femminile, romantica, educata all’eleganza, divorata dal sentimento. Lei un maschiaccio,
rude, trascurata, impermeabile all’amore.»
Mi dico che forse Luisa Rimella è pazza. Che sta inventando questa agghiacciante messinscena. Che forse
la O’Neil è sparita perché Luisa l’ha uccisa, al suo arrivo, dopo la scoperta dello scheletro. Tutto può essere.
Cerco di riprendere il controllo della situazione.
«Ora deve spiegarmi tutto.»
«Lo farò, maresciallo. È arrivato il momento. Nulla
succede mai per caso. Neanche le frane. Neanche il
crollo di un muro che ha resistito per più di settant’anni.
Se la frana ha fatto scoprire la fonte e i resti di Hans
ci deve essere un motivo. Si vede che era giunto il momento di porre fine al mio segreto.»
«Prosegua», la esorto.
«Non ha bisogno di darsi un tono con me. Io la rispetto. Le chiedo solo di non farmi domande. Ho intenzione di dire tutto.»
Non reagisco. Semplicemente resto in attesa.
«Mio padre Thomas John O’Neil era un colonnello
dell’esercito britannico. Mi ha avuta tardi, da una donna
molto più giovane di lui. Linda Interlenghi. Era italiana.
Aveva trent’anni, e lui sessanta, quando mi diede alla
luce. Da bambina sono cresciuta con lei, in Scozia, nel
cottage di Oban. L’estate venivamo a Lesa, alla villa,
a trascorrere le vacanze. Mio padre aveva combattuto
con onore durante la Grande guerra. Aveva rimediato
una ferita alla gamba, che lo aveva reso zoppo. In seguito girò il mondo. Diplomatico, questo ufficialmente
era il suo lavoro. Ogni tanto veniva a trovarci. Dopo lo
scoppio della seconda guerra mondiale, mia madre si
ammalò. Una polmonite dopo l’altra. I medici ci dissero
169
sabrina minetti
che doveva cambiare clima. E la villa di Lesa era la soluzione. Ma il Regno Unito era in guerra con l’Italia. I
miei divorziarono, perché mia madre potesse tornare in
patria senza pericolo di ritorsioni. Mio padre riusciva a
raggiungerci di tanto in tanto. Fu lì che ebbi il sospetto
che, più che un diplomatico, fosse una spia. Me lo confermò quando riuscì a presenziare al funerale di mia
madre, nell’agosto del 1943. Aveva avuto una ricaduta e
non ne era uscita. La sera stessa mio padre mi diede la
buonanotte e scese nel salone. Disse che avrebbe letto un
po’, prima di andare anche lui a dormire. Non riuscivo a
prendere sonno. Il dolore per la morte di mia madre mi
tormentava. Scesi da lui, per cercare consolazione, e lo
sorpresi a conversare con un ufficiale delle SS. La divisa,
la croce di ferro erano inconfondibili. Scappai in camera
mia, scioccata. Mio padre mi raggiunse e mi parlò. Se
poteva muoversi liberamente, mi disse, era grazie alla
sua segreta alleanza con Hans. Hans Luneburg, ufficiale
delle SS, di stanza nel Verbano, faceva il doppio gioco,
legato ai congiurati che in Germania progettavano di far
cadere Hitler. Hans poteva sapere in anticipo delle azioni
di rastrellamento. Mio padre, in contatto con i partigiani
delle valli vicine, avrebbe aiutato gli ebrei nascosti qui
nella zona a fuggire. Puoi fidarti, mi disse, Hans detesta
il nazismo, e se continua a vestire quella divisa è solo
per minarne dall’interno l’orribile progetto. Gli credetti.
Hans venne altre volte, e in quelle occasioni presenziai
ai loro incontri. Era un uomo bellissimo, marziale, cortese. Me ne innamorai. Mi faceva visita di nascosto. Ma
poi successe qualcosa. Una sera mio padre rincasò scuro
in volto e mi annunciò che dovevamo andarcene. Non
volle spiegarmi nulla. Solo il giorno dopo, il 17 settembre, venni a sapere dei rastrellamenti degli ebrei che si
170
la fonte
nascondevano a Stresa. Mio padre era stato ingannato.
Mi disse di fare i bagagli. Uscì per cercare aiuto per
organizzare il nostro trasferimento. Ma non fece più
ritorno. Lo aspettai invano, terrorizzata. Nel pomeriggio vennero a casa, un carabiniere e il parroco, a dirmi
che la sua giacca e i suoi documenti erano stati trovati
sulle sponde del lago. Che probabilmente si era ucciso.
Li cacciai via, mi rifugiai in cantina. Non sapevo cosa
fare. Ero sola al mondo. Probabilmente alla fine persi
conoscenza. Mi risvegliarono delle voci, dal salone, il
mattino dopo. Salii fin dietro alla porta e riconobbi la
voce di Hans. Pensava che non fossi in casa e parlava
con qualcuno in italiano. Fu così che seppi che in realtà
fingeva soltanto di fare il doppio gioco. Aveva ingannato
mio padre, che era stato eliminato. E ora cercavano me.
Dissero che probabilmente sapevo qualcosa, che avrei
potuto portarli ai partigiani. A me dirà tutto, sentii sghignazzare Hans. Non so perché non pensarono di cercarmi in cantina. Probabilmente dettero per certo che
fossi fuori casa. Se ne andarono. Avrei potuto fuggire.
Ma decisi di aspettare che Hans tornasse per mettere in
atto il suo piano. Venne quella sera. Mi finsi bisognosa
del suo conforto, completamente affidata. Lo feci bere.
Mi concessi a lui come non avevo mai fatto prima. Lo feci
bere ancora. Si addormentò. Lo pugnalai con un coltello
da cucina. Lo trascinai nella cantina, lo gettai nella vasca. Sapevo il nome di un partigiano. Me lo aveva detto
mio padre, quando mi aveva svelato la sua vera attività.
Andai a cercarlo, nel cuore della notte. Chiesi a lui di
trovare qualcuno che murasse la porta dello scantinato
e rendesse invisibile quella dissimulazione. È inutile che
le dica di chi si tratta. Sono persone morte da tempo.
Mi aiutarono a fuggire, con i documenti di una ragazza
171
sabrina minetti
portata via da alcune SS durante una scorribanda, che
non aveva più fatto ritorno. Si chiamava Luisa Rimella.
Lasciai l’Italia, con la sua identità, e dopo la fine della
guerra tornai. Mi misi a lavorare come cameriera, presi
casa sulla via Mottarone. Ogni anno tornavo in Scozia,
esibendo i documenti di Luisa, e subito ripartivo, con
quelli di Grisandole O’Neil, per mantenere in vita il suo
personaggio. Poi facevo ritorno, con la sua identità, e
tornavo qui, come Luisa. È da allora che vado avanti
così.»
Smette di parlare, come un disco che resti a girare a
vuoto sul piatto.
«Perché ha voluto vivere qui?», le domando, «qui ci
sono i suoi ricordi più terribili.»
«Perché questo lago», fa segno con la mano come se le
sponde fossero qui fuori, come se le acque lambissero la
caserma, «è l’unica cosa bella della mia vita.»
Taccio e lei riprende:
«Vuole sapere perché mi sono decisa a confessare? E
perché ho voluto parlarne con lei?»
«Perché?»
«Perché ho trascorso la mia esistenza a nascondere
un segreto.»
«E quindi?»
«La mia vita, così vissuta, è stata inutile. Ma c’è qualcosa che ho imparato. A riconoscere chi come me nasconde qualcosa. Lei, ad esempio. Non è così?»
Non rispondo. Sono inchiodato alla sedia da una
forza che sta fra il vuoto assoluto e la disperazione. Perché Grisandole ha ragione.
«La mia vita è stata inutile», ripete, «ma forse ho
un’ultima possibilità per far sì che aver vissuto tutti
questi anni abbia un senso. Evitando che qualcuno ri-
172
la fonte
peta il mio errore. Lei ha un segreto, maresciallo. Non
so di cosa si tratti. Lo sa lei. Lo tiri fuori. Lo affronti.
Non lasci che il suo segreto la divori. O sarà per sempre
solo.» Si sporge in avanti, una mano sull’orlo della scrivania, l’altra aperta sul ripiano. «Come lo sono stata
io.» Mi posa le dita sul polso. «Non faccia come me. I
segreti, maresciallo, sono una fonte inesauribile di solitudine.»
Grisandole mi lascia il braccio. Arretra e si abbandona sulla sedia.
Io faccio lo stesso.
Restiamo così, senza dir nulla, per molti silenziosi
minuti.
Grazie a Carlo Alfieri, che spesso mi regala una sua prima lettura, in questo caso per la consulenza scientifica. Grazie a Stefano Salina, con cui, oltre che di lavoro, parliamo di molte cose.
Ad esempio di ciò che può capitare ristrutturando una casa...
173
La Signora del lago
di Emile Munch
Parigi, 25 aprile 2014
Dire che la casa fosse a soqquadro sarebbe stato riduttivo: nell’appartamento al numero 48 di rue Nollet non
c’erano più mobili o suppellettili integri.
Il responsabile della squadra omicidi parigina si
muoveva con attenzione in mezzo a quello che sembrava un campo di battaglia. La vittima giaceva a terra
in posizione fetale, appena dietro al divano. Recava
evidenti i segni delle sevizie subite. Chi si era occupato
di quel poveretto doveva essere un professionista della
tortura.
«Accidenti!» Esclamò in italiano, la lingua delle origini, il commissario Diego Martini. Era abituato a esaminare cadaveri. Ma quella scena era davvero raccapricciante: la vittima era nuda, il corpo presentava piccole
ferite e bruciature ovunque. Il carnefice aveva anche infierito su dentatura, capelli e unghie.
«Un servizio completo», commentò Martini, rivolgendosi al fedele ispettore Touret.
«Sappiamo poco di questo signore», gli rispose il sottoposto consultando un taccuino, «ha affittato questa
casa da poco più di un mese dalla famiglia Neilly, gente
irreprensibile. Il morto si chiamava Hans Grabuer, berlinese. Ho chiesto notizie all’Interpol. Mi sta ascoltando,
signor commissario?»
174
la signora del lago
Martini si era nel frattempo chinato e stava osservando in controluce i tasti della segreteria telefonica
poco distante dal cadavere.
«Abbiamo già controllato: non ci sono messaggi»,
disse Touret.
«...in entrata, vorrà dire...», lo corresse il commissario. Così dicendo Martini premette sul pulsante d’ascolto, avendo cura di non alterare eventuali impronte.
«Qualcuno ha utilizzato il tasto della registrazione. E
quel qualcuno aveva le dita insanguinate.»
L’apparecchio emise un paio di bip e un lungo fruscio interrotto da una serie di ansimi. Quindi una voce
rotta dalla paura della morte pronunciò una sola parola:
«Hagen».
Ascona, Lago Verbano 2 giugno 1936
L’auto, una Bugatti 22 Brescia, si era infilata a tutta velocità tra le file di case basse che costeggiavano la strada
statale a Cannobio. Poco lontano, il Lago Maggiore rifletteva i raggi dorati di un sole già caldo. Il giovane,
impegnato nella guida del bolide, non prestava grande
attenzione alla ragazza al suo fianco.
«Non ti sembra di andare troppo forte, Marco?»,
chiese la ragazza senza mai abbandonare la stretta sul
foulard.
«Siamo in terribile ritardo, Claire, e non è salutare
per nessuno fare aspettare il generale Grauber. La mia
fedele Brescia», aggiunse poi, «sarà pur vecchiotta ma,
quando si tratta di tirare fuori la grinta, non è seconda a
nessuna fuoriserie.»
Marco Schmuklerski non aveva torto: il propulsore
a quattro valvole per cilindro rispondeva come un orologio anche alle più esigenti sollecitazioni. L’auto era
175
emile munch
stata fabbricata dalle officine Ettore Bugatti a Nancy
undici anni prima, aveva conosciuto un paio di proprietari, per finire tra le braccia di un appassionato
come l’architetto svizzero di origini polacche, dopo
che si era specializzato all’École des Beaux Artes nella
capitale francese.
L’uomo era seduto nel dehors del Grand Hotel des
Iles Borromées Stresa, estrasse l’orologio dal panciotto
e si guardò intorno spazientito. Non ci voleva molto per
capire che un alto ufficiale come lui era abituato alla
puntualità. Appena riconobbe il rombo della Bugatti
che si stava avvicinando parve rasserenato.
Otto Grauber si alzò in piedi e spostò galantemente
la sedia per consentire a Claire Neilly di sedersi. Il generale tedesco aveva conquistato sul campo la fiducia
del Führer distinguendosi in operazioni di particolare
importanza sul fronte del Reno.
«Tutto è pronto, architetto. Potete lasciare qui l’auto.
Ve la restituiremo domattina.»
«E a mia volta la riconsegnerò a Zurigo, come concordato», rispose l’altro.
«Contestualmente riceverete quanto pattuito», disse
ancora il tedesco.
Il generale Grauber fece un cenno a un individuo seduto in un tavolino poco distante. L’uomo, dall’aspetto
poco raccomandabile, si alzò, salì sulla Bugatti, mise in
moto e partì. A quel punto anche il generale si congedò
con queste parole: «Domattina, alle dodici in punto qui
in piazza.»
Rimasti soli, fu Claire Neilly la prima a parlare: «Sei
sicuro non sia pericoloso, Marco? Quei due nazisti mi
piacciono davvero poco.»
176
la signora del lago
«Vogliono solo contrabbandare dei valori in Svizzera.
Nulla di più. Come fa la stragrande maggioranza dei
ricconi del mondo...»
«Ma quelli sono dei fanatici, non dei milionari...»
«Tuo zio reclama il pagamento della sua Bugatti da
Parigi. Vuoi che gli risponda che ho avuto dei problemi
di coscienza e lo salderò più avanti?»
«Sai bene che non ti darebbe tregua. Ti ha già concesso una dilazione. Sono sicura che zio Georges Nielly
si verrà a riprendere la sua Bugatti e ti porterà in giudizio in eterno se dovesse mancare un solo centesimo di
quanto avete pattuito.»
«Era compresa anche la dolce nipotina nel prezzo?»,
chiese Marco sorridendo.
«Quella è oggetto di trattativa separata», rispose
Claire sfiorandogli le labbra con le sue.
Un’altra coppia stava camminando sul lungolago di
Stresa. Sembravano due turisti intenti a osservare l’incantevole panorama. La donna si mise in posa, con
la maestosa facciata di un hotel sullo sfondo, mentre
l’uomo scattava un’istantanea.
«Hai immortalato il generale?», chiese la donna.
«Certo! Lui e il suo scagnozzo Krug ci stanno facendo trottare per mezza Europa. Guarda... Krug
si è alzato ed è salito sulla Bugatti con cui sono arrivati i due giovani... Prima di tornare in albergo mi
piacerebbe sapere dove sono diretti il tedesco e quella
fuoriserie. Poi prepariamo un rapporto in codice e lo
mandiamo a Londra. Sono certo che anche i grandi
papaveri dell’MI6 saranno interessati a questi particolari singolari.»
177
emile munch
Parigi, 26 aprile 2014
«Hagen... Hagen... Perché un moribondo lascia come ultimo messaggio il nome di una città tedesca?», si chiese
ancora una volta l’ispettore Martini ascoltando la registrazione. «Probabilmente», aggiunse tra sé, «avrebbe poi
voluto completare il suo messaggio, ma non ne ha avuto
il tempo. Ancora pochi secondi di vita e mi avrebbe fornito la soluzione del mistero a portata di mano. Tanto
vale pensarci a cena.»
Diego Martini sedette al suo solito tavolo del La Brocante. Il ristorante era appartenuto ai suoi genitori, immigranti italiani, sino a che lui aveva deciso di prendere
una strada diversa e arruolarsi in polizia. Da allora il
locale era stato ceduto a Paul Verdin, un ottimo ristoratore, un amico del commissario ma, soprattutto, una
fonte inesauribile di suggerimenti ogni volta che Martini
brancolava nel buio. E di fronte all’omicidio Grauber si
sentiva disarmato.
Il commissario spizzicò senza mostrare troppo appetito
una choucroute, preparata con verza, vino bianco, ginepro, salsicce e carne di maiale. Appena Paul gli fu a tiro,
chiese a bruciapelo: «La parola Hagen ti dice qualcosa?»
Verdin rispose quasi d’istinto: «Wagner!»
«Wagner?», chiese Martini.
«Si vede che non frequenti l’opera, amico mio. Dovresti invece farlo: non sai quanti spunti riesca a regalare
anche una semplice cavatina. Per non parlare di Wagner: ogni suo brano è ricco di riferimenti storici e mitologici e su ogni componimento aleggia il mistero. Nel
Crepuscolo degli Dei, Hagen accoppa il fratello Sigfrido
per impadronirsi dell’oro del Reno...»
«Non credo sia questa la pista giusta, amico mio.
Comunque ti ringrazio. Devo andare a ricevere i fa-
178
la signora del lago
miliari di un morto ammazzato e la cosa non è mai
piacevole.»
Non appena in ufficio, Martini lesse il fascicolo che
qualcuno aveva arricchito con ulteriori informazioni:
«Hans Grauber, 67 anni, incensurato, scapolo e senza figli. Un lavoro che gli consentiva di vivere decorosamente
e l’appartenenza, in gioventù, a gruppi dell’estrema destra tedesca che gli aveva fruttato il coinvolgimento in
alcuni processi penali da cui era uscito indenne. Diversamente da suo fratello Gerard che aveva trascorso qualche
mese di vita in gattabuia per reati politici e violenze. I
due erano figli di un eroe dell’alba nazista, un generale
che si era distinto nell’invasione della Renania nel marzo
del 1936», Martini chiuse il dossier e commentò a voce
alta: «Non ci voleva certo un genio militare per invadere
un territorio dove non si è quasi sparato un colpo. Chissà
di quali meriti si è fregiato il nostro generale. Ma adesso
prepariamoci a ricevere il fratello nazista del morto...»
Gerard Grauber aveva tre anni più di Hans, i capelli
candidi e un’espressione che l’età non aveva addolcito.
Mantenne un atteggiamento scostante per tutto il colloquio: da ogni sua parola trapelava la scarsa fiducia che
nutriva nei confronti degli inquirenti parigini.
«Quando potrò riportare a casa mio fratello, commissario?»
«Non appena avremo il benestare del giudice. Domani ci sarà l’autopsia. Ancora qualche giorno al massimo, credo.»
«Lo spero. Ho la sensazione che non stiate procedendo a passi da gigante con le indagini. Forse solo perché si tratta di uno straniero... Mi auguro che arriviate
presto a catturare quei maledetti assassini.»
179
emile munch
Agathe Nielly fece accomodare Martini in salotto e
gli servì un caffè leggero. Era una signora dai modi assai
gentili e dalla memoria di ferro.
«Conosceva Hans Grauber, signora Nielly?», chiese
Martini scorrendo l’agendina Moleskine.
«Avevo appena messo in mercato la casa in rue Nollet, si tratta della casa di famiglia e volevo affittarla a
una persona raccomandabile. E il signor Grauber mi
sembrava facesse proprio al caso mio: elegante, modi
educati. Nessuno, in questi due mesi, lo ha quasi notato.
Alcuni inquilini del palazzo mi hanno poi riferito di
aver udito dei rumori di notte, come se qualcuno stesse
usando degli utensili. Ma sa, commissario, dopo una disgrazia di quella portata, tutti hanno sentito tutto e tutti
sospettavano atrocità...»
«Ha mai avanzato richieste singolari?»
«Nessuna, per quelle poche ore che abbiamo trascorso insieme. Non ha trattato sul prezzo e ha saldato
regolarmente l’affitto alla scadenza... Però... Mi lasci
ricordare... La Bugatti del Lago: era ben preparato sul
singolare destino di quell’auto.»
«Quale auto, signora Nielly?»
«Una Bugatti Type 22 Brescia che era appartenuta a
mio nonno. Sono risaliti a noi pochi anni fa, quando
una prima spedizione subacquea per recuperare l’auto
dal fondale del lago Maggiore ha rinvenuto una targhetta con le generalità di mio nonno e il suo indirizzo
in rue Nollet 48. Proprio l’appartamento dell’omicidio.»
«Un’auto così preziosa sott’acqua?»
«Sì, un vero mistero sul quale si susseguono ancor
oggi le ipotesi più svariate. Le operazioni di recupero furono ultimate nel luglio del 2009. L’auto, ripescata dopo
73 anni a oltre 50 metri di profondità, si presentava in
180
la signora del lago
uno stato di conservazione accettabile, se comparato
alle vicissitudini subite: il venti per cento dei pezzi originali venne considerato recuperabile. L’intero blocco motore e il radiatore si erano dissaldati dal telaio e furono
salpati in un secondo momento. Messa in asta con una
base prossima ai centomila euro è stata aggiudicata a
un collezionista americano per un valore quasi triplo.
La somma è stata devoluta alla fondazione che porta
il nome di un giovane subacqueo tragicamente scomparso.»
«Una storia interessante, signora Nielly», disse Martini, convinto che le avventure di una blasonata Bugatti
poco c’entrassero nel caso di omicidio sul quale stava
indagando.
«Vero, commissario Martini. Molto interessante. E
così la pensava anche il signor Grauber, almeno a giudicare dall’insistenza delle sue domande sull’argomento.
Si era qualificato come un esperto conoscitore di auto
d’epoca. Ma mi pareva interessato solo a quella Bugatti.
Tanto è vero che... gli ho taciuto alcuni particolari.»
«E quali particolari ha taciuto, signora Nielly?»
«Mia zia Claire mi raccontava spesso di un suo spasimante, un giovane architetto svizzero di origini polacche che acquistò la Bugatti da mio nonno. O meglio,
consegnò un acconto nelle mani del nonno e poi sparì
dalla circolazione, mandando il rigido Georges Nielly
su tutte le furie. Anche zia Claire pagò le conseguenze
dell’insoluto: la sua frequentazione con l’architetto le
era valsa lo status di garante e il nonno, quando non
sapeva con chi prendersela, se la prendeva con lei rinfacciandole di avergli messo tra i piedi quel “polacco”,
così lo chiamava. Mi raccontò anche una storia di un
tedesco che voleva contrabbandare valori oltre il confine
181
emile munch
svizzero e utilizzando proprio la Bugatti... Ma non si
dilungò nei particolari...»
«Un tedesco? Ne ricordate il nome?»
«No, non penso neppure di averlo mai saputo. Ricordo soltanto che mia zia parlava di un militare... Un
generale del Reich molto vicino ad Adolf Hitler agli albori del nazismo...»
Stresa, 3 giugno 1936
Krug non era un uomo di molte parole. Arrestò la
Bugatti poco distante, scambiò un cenno d’intesa con
Marco Schmuklerski e si allontanò sul lungolago. Il giovane architetto rivolse un sorriso alla sua compagna e la
invitò a prendere posto sull’auto.
Poco più tardi la vettura correva lungo la strada panoramica che conduce al confine.
Marco scherzò e rise per buona parte del tragitto ma,
appena passato San Bartolomeo, si fece serio a mano a
mano che si avvicinava al valico.
La sua agitazione risultò in parte ingiustificata: gli
italiani parvero più interessati all’auto che ai documenti
dei due giovani, mentre gli svizzeri, viste le targhe francesi della Bugatti, suggerirono all’architetto di immatricolare al più presto la vettura in Svizzera, onde evitare
salate sanzioni.
Pochi istanti più tardi un uomo e una donna raggiunsero il posto di frontiera a bordo di un’Alfa Romeo, proprio mentre la Bugatti stava ripartendo. Sbrigarono anche
loro velocemente le pratiche e ripresero la strada all’inseguimento di Schmuklerski e della sua misteriosa auto.
«Il sergente Krug ha riconsegnato l’auto al suo proprietario questa mattina poco prima di mezzogiorno»,
disse la donna.
182
la signora del lago
«Non abbiamo idea di che cosa abbiano combinato
nell’autofficina dove l’hanno ricoverata per l’intera
notte», rispose l’agente britannico.
«Per certo non hanno mai smesso di lavorare: le luci
all’interno sono rimaste sempre accese.»
Marco aveva ridotto l’andatura: ormai il peggio era
passato e non aveva nessuna intenzione di dare nell’occhio con passaggi ad alta velocità. Abbracciò la giovane
al suo fianco e si lasciò distrarre dalla guida. Se non l’avesse fatto si sarebbe accorto di una Alfa Romeo scura
che, dopo aver riguadagnato terreno, adesso li seguiva
tenendosi a distanza di sicurezza.
«Eccoli!», esclamò l’agente inglese. «Adesso non me li
lascerò più sfuggire.»
La Bugatti affrontava la serie di curve del lungolago
come fosse cullata dalle onde. «Dopodomani potrò finalmente saldare il debito con tuo zio. Dobbiamo solo
arrivare a Zurigo e consegnare l’auto ai tedeschi», disse
l’architetto.
«Non ci pensavo quasi più. Quei due mi fanno paura»,
rispose Claire.
«Sarà un’operazione indolore e durerà poco: sino a
che non alleggeriranno l’auto dal suo contenuto.»
L’auto sportiva azzurra superò una stradina sterrata
posta sulla destra. Poco dopo anche la berlina con i due
agenti inglesi sorpassò l’incrocio. Dalla strada sterrata
sbucò rombando una potente Mercedes 500 K.
I due inglesi ebbero appena il tempo di accorgersi
dell’auto che li seguiva. Krug, arrivato a un paio di metri dal paraurti dell’Alfa, premette sull’acceleratore. La
Mercedes balzò in avanti come una belva famelica e
colpì il posteriore dell’auto delle spie britanniche. L’au-
183
emile munch
tista si sforzò per tenere l’Alfa in carreggiata. Mentre
la donna non ebbe esitazione nell’estrarre la sua pistola
d’ordinanza e incominciò a sparare fuori dal finestrino.
«Che cosa sta succedendo là dietro?», chiese Claire
non appena percepì distinti i colpi d’arma da fuoco e lo
stridio degli pneumatici. «Vedo gli occupanti di due auto
che si stanno dando battaglia...»
«Penso sia meglio allungare il passo: non possiamo
farci coinvolgere in una sparatoria», rispose Marco.
«Sono anche certa che la cosa ci riguardi direttamente: alla guida di una delle auto ho riconosciuto lo
scagnozzo del generale.»
Nello specchietto retrovisore l’agente inglese riusciva
a distinguere il volto impassibile di Krug e leggere la sua
determinazione nel volerli uccidere.
La Mercedes si affiancò in uno dei rari tratti rettilinei,
Krug sterzò violentemente a destra, costringendo l’Alfa
Romeo a rasentare i paracarri che separavano la strada
dalla scarpata. Fu mentre le due auto erano ancora affiancate che il tedesco alzò la mano destra e puntò la
Luger. A pochi passi di distanza non poteva sbagliare.
La testa dell’inglese esplose come un’anguria matura.
La donna afferrò il volante e cercò di mantenere l’auto
in strada. Tutto fu inutile e l’Alfa Romeo colpì un paracarro prima di inabissarsi nel lago.
Claire e Marco avevano seguito atterriti tutta la scena.
Improvvisamente il giovane architetto si rese conto di
essere diventato l’ingranaggio di un meccanismo troppo
grande per lui. Decise che avrebbe portato comunque a
termine la missione: se non l’avesse fatto quei brutti ceffi
gli avrebbero fatto la pelle.
184
la signora del lago
Parigi, 30 aprile 2014
Diego Martini osservò la fotografia della Bugatti Type
22 Roadster appena ripescata dalle acque del lago dopo
73 anni in immersione. Prima di inabissarla l’avevano
legata a una catena, forse per recuperarla in un secondo
tempo, ma la catena si era spezzata e la fuoriserie era
rimasta sul fondo. L’auto era in pessime condizioni, ma
in alcuni punti era ancora visibile la verniciatura originale color blue France.
E, così come l’avevano ripescata, era andata all’incanto. L’asta si era tenuta a Parigi alcuni anni prima
nell’ambito di una tra le più importanti mostre mondiali
del settore e si era tramutata una vera e propria corsa al
rialzo. Le offerte si erano susseguite sino all’aggiudicazione, avvenuta a quasi trecentomila euro. Più del triplo
della stima base.
Il commissario Martini scrollò le spalle e si alzò senza
pensarci troppo: con i pochi indizi a sua disposizione,
doveva seguire ogni pista. Anche quella di un rottame
emerso dal lago dopo decenni di oblio.
«In che cosa posso esserle utile, signor commissario?», gli chiese un addetto della casa d’aste dopo averlo
invitato ad accomodarsi.
«Vorrei avere notizie di quest’auto, monsieur De
Gare. Mi dicono che voi eravate il battitore.»
«Certo, certo. Non potrei dimenticare quella vendita
così singolare. Il prezzo lievitò sino a triplicare. Ci fu
una vera e propria battaglia per aggiudicarsi la Bugatti...
O meglio, ciò che ne restava. Alla fine fu venduta per un
prezzo assai superiore a quello di un modello perfettamente funzionante. Ma quell’auto aveva un’anima.»
«Ricordate chi si aggiudicò la Bugatti?»
185
emile munch
«Certo, un collezionista americano. Uno tra i nostri
migliori clienti. Ma a stupirmi non fu lui: dopo tanti anni
di mestiere credo di conoscere vizi e debolezze di buona
parte degli appassionati del settore. Chi fece impazzire le
quotazioni fu invece uno sconosciuto, un appassionato
tedesco che replicò a ogni offerta sino alla fine...»
«Sa dirmi il nome, signor De Gare?»
«Aspetti... Mi lasci dare un’occhiata al registro degli
accreditati per quell’asta... Eccolo qui... Si chiamava
Hans Grauber.»
«Bingo!», sussurrò Martini tra i denti. «Mi rimane
solo da ricollocare l’auto nel suo contesto storico e cercare di capire che cosa può essere successo: ormai ne
sono sicuro, la Bugatti del Lago è la protagonista di questo mistero.»
«Non è facile, commissario Martini, risalire alle mansioni degli ufficiali nazisti: il Reich in ritirata mise al
rogo tonnellate di documenti e stati di servizio, proprio
per disperdere ogni traccia dei crimini commessi dai
suoi uomini», gli rispose al telefono una cortese ricercatrice del BArch, l’archivio federale tedesco di Coblenza.
«Cercherò comunque di accontentarla e di trovare notizie del generale Grauber. Le invierò quanto sono riuscita a reperire via posta elettronica tra qualche ora.»
Il rapporto ero stringato: Otto Grauber si era distinto,
sino a meritare una serie di promozioni, nella campagna
della Renania. E null’altro. A corredo del curriculum
l’archivista aveva allegato anche una foto dell’estate del
1935 in cui era ritratto un ufficiale nazista in divisa da
maggiore.
«Alla faccia dei meriti sul campo: il nostro eroe è passato dal grado di maggiore a quello di generale in pochi
186
la signora del lago
mesi», rimuginò Diego. «Certo che queste informazioni
e niente da cena sono la stessa cosa... A proposito forse
è ora di cenare... Ma quello cos’è?», così dicendo Martini ingrandì un particolare della foto: si trattava di una
spilla insolita che l’ufficiale aveva appuntata sul petto.
«Ti vedo pensieroso, amico mio», gli disse poco più
tardi Paul Verdin al La Brocante.
«Che cosa potrebbe essere, secondo te?», chiese Martini, mostrando la foto della spilla in cui era raffigurato
un pugnale fasciato da una fettuccia.
«C’è scritto sopra che cos’è», rispose Paul ripercorrendo col dito i caratteri runici scarsamente leggibili.
«Deutsches Ahnenerbe.»
«Che cosa?»
«Si tratta di un’associazione fondata da Himmler e
dai suoi più stretti seguaci per la ricerca ancestrale. In
realtà un gruppo di sanguinari nazisti, appassionati
d’esoterismo, era stato sguinzagliato per recuperare leggendari tesori e preziose reliquie. Venne fondata, credo,
nell’estate del 1935...»
«Sei un pozzo d’informazioni, mio buon Paul. Non
cesserai mai di stupirmi. Lasciami ricapitolare: un maggiore, promosso generale in pochi mesi, faceva parte del
nucleo iniziale dell’associazione. Era quindi persona assai vicina ai vertici del Reich. La motivazione ufficiale
delle promozioni è che Grauber si distinse nell’occupazione della Renania nel marzo 1936. In realtà fu un’invasione priva di tattiche o strategie militari di rilievo. Ma
il compito “statutario” di Otto Grauber era quello di riportare alla luce tesori e reliquie...»
«Te l’avevo già detto: Wagner è la soluzione», mormorò Paul.
«Che dici?»
187
emile munch
«L’oro del Reno! Nell’opera di Wagner Hagen accoppa Sigfrido per accaparrarsi il tesoro dei Nibelunghi!»
Zurigo, 5 giugno 1936
L’architetto Schmuklerski non vedeva l’ora che quella
maledetta vicenda si concludesse: ci si era infilato con
eccessiva leggerezza e, quando aveva visto l’auto speronata dai nazisti inabissarsi nel lago, si era improvvisamente reso conto che la sua vita era in pericolo.
L’hotel Alden si trova nel centro di Zurigo, a pochi
passi dal lago. Nel bar esterno, pochi avventori. Il generale Grauber era seduto quasi al centro della terrazza,
poco dietro di lui l’immancabile Krug.
L’architetto li raggiunse, si guardò attorno nervoso e
si mise a sedere. Era invece calmo il generale che estrasse
l’orologio dal taschino e commentò:
«Quasi mezz’ora di ritardo, signor Schmuklerski. Lei
sa quanto io apprezzi la puntualità.»
«Ho avuto una serie di impedimenti, generale.»
«Spero non gravi, architetto. Anche se vedo che, a
differenza di quanto pattuito, non si è recato qui con
l’auto...»
«Ho lasciato la Bugatti in un luogo sicuro e ve la consegnerò non appena avrò ricevuto ciò che mi spetta.»
«I patti recitavano diversamente. Non le conviene giocare questa partita con noi: siamo assai più esperti di lei
nei... ehm, rapporti di forza.»
«Crede che non abbia visto come avete liquidato i
miei inseguitori, generale? Io non ho alcuna intenzione
di finire in fondo al lago. Vi consegnerò la Bugatti per
prelevare ciò che vi interessa solo se riceverò determinate garanzie.»
188
la signora del lago
«L’unica garanzia che le posso dare, signor Schmuklerski, è che in questo istante il mio attendente la sta
tenendo sotto tiro con la sua arma d’ordinanza nascosta dentro la tasca della giacca. Il buon Krug non vede
l’ora di colorare di rosso questa monotona giornata di
tranquillità tipicamente elvetica Non prenda decisioni
avventate e si alzi con naturalezza. Sono convinto che
vorrà cortesemente accompagnarci sino a dove ha lasciato l’auto e consegnarcela.»
La donna era seduta poco distante e sembrava affaccendata a scorrere un quotidiano, invece non aveva
perso un solo particolare. Si alzò di scatto impugnando
la pistola: gli assassini del compagno di tante missioni
l’avrebbero finalmente pagata. L’aveva visto morire al
volante, mentre la loro auto speronata dai nazisti carambolava nel lago. Lei era salva per miracolo, adesso
era il momento della sua vendetta. L’agente inglese
prese la mira. Krug si accorse che qualcosa non stava
marciando per il verso giusto un attimo prima che il
proiettile lo centrasse in piena fronte. Quindi fu la volta
del generale che cadde a terra crivellato di colpi. Finita
la carneficina la donna ripose l’arma nella borsetta e
si dileguò. Anche Schmuklerski approfittò della confusione e fuggì via.
Quando Claire lo vide arrivare confuso e impaurito
non disse nulla, e rimase in silenzio sino a che, a gran
velocità, non si furono allontanati da Zurigo. Quindi si
fece raccontare che cosa fosse accaduto.
«Dobbiamo liberarci dell’auto e metterla al sicuro.
Magari potremo recuperarla in un secondo momento
quando le acque si saranno calmate.»
«Acque... Che ne dici di lasciarla affondare nel lago
proprio di fronte a casa tua ad Ascona?»
189
emile munch
«Potremmo far emergere un segnale in superficie per
individuarla in un secondo momento. Così riusciremo
finalmente a scoprire che cosa hanno nascosto i nazisti
nella carrozzeria della Bugatti. Appena affondata l’auto
scriverò una lettera a tuo zio per tranquillizzarlo e dirgli
che salderò il mio debito appena possibile.»
Ascona, 2 maggio 2014
«È sicuro di volersi immergere a cinquanta metri, commissario?», chiese il subacqueo.
«Ho frequentato corsi avanzati di diving: questa vicenda ha radici lontane e sono convinto che gli indizi si
possano trovare soltanto dove è rimasta la protagonista
della storia per più di settant’anni», così dicendo Martini indossò la maschera da subacqueo, fece un cenno
d’assenso al suo accompagnatore e si calò dal bordo
della barca d’appoggio.
L’acqua era particolarmente limpida. In pochi minuti
raggiunsero il punto esatto da cui era stata prelevata
l’auto, i tempi di decompressione consentirono loro di
tracciare solamente un rettangolo con un nastro per circoscrivere la zona delle ricerche.
Il mattino seguente, Martini e il sommozzatore si immersero di nuovo, ma con scarsi risultati.
Fu il terzo giorno che, poco distante da dove giaceva la
Bugatti, la sorbona utilizzata dal commissario scoprì nel
fango una scatola stagna d’acciaio di una trentina di centimetri per lato. Lui e l’altro subacqueo ne rinvennero altre
tre e le portarono immediatamente in superficie. Nessuno,
preso dall’entusiasmo al tempo del recupero, si era preoccupato di cercare nei pressi della carcassa sommersa.
Una volta a bordo del cabinato d’appoggio, Martini
deterse le cassette con acqua corrente. Il marchio che vi
190
la signora del lago
era stampigliato sopra ebbe il potere di metterlo a disagio. Lo riconobbe immediatamente: un pugnale avvolto
in una fettuccia, il simbolo dell’Ahnenerbe!
«La apra, commissario, forzi la serratura», lo incoraggiò il subacqueo.
L’oro brillò nella luce primaverile, ammaliando con
i suoi riflessi i due scopritori. Si trattava di oggetti antichissimi e di enorme valore. Manifatture ancora incerte,
ma pregiatissime, pietre rozzamente tagliate, statuette,
monili.
«L’oro del Reno!», esclamò Martini.
«Esatto, commissario. L’oro del Reno: nostro padre
l’aveva nascosto nella coda, sotto al serbatoio della Bugatti, per contrabbandarlo in Svizzera a disposizione dei
camerati nazisti. Purtroppo qualcuno ci ha rovinato la
festa. Ma voi mi avete concesso un grande aiuto: non
ho il piede marino e non so davvero a chi avrei potuto
affidarmi per il recupero.» Gerard Grauber stringeva la
pistola nella mano destra. Un lampo malvagio negli occhi lasciava intendere che non avrebbe esitato a usarla.
«Quello stupido di mio fratello voleva tenere tutto per
sé. Nella casa di Neilly a Parigi aveva trovato una lettera
in cui si parlava dell’auto e del tesoro che conteneva.
Me lo ha riferito solo dopo ore di tortura e poco prima
che lo accoppassi. L’oro dei Nibelunghi appartiene al
Quarto Reich.»
«Lei è un pazzo, Grauber!», disse Martini
«Le servirà a poco insultarmi. Si prepari invece a morire.»
L’onda provocata da un battello di passaggio colse
Grauber di sorpresa. La sua indecisione fu sufficiente
a Martini per scagliarsi sul tedesco afferrando la pistola
per la canna. Grauber cercò di reagire. I due lottarono
191
emile munch
avvinghiati e, prima che l’altro subacqueo potesse dare
manforte al francese, dall’arma partirono due colpi.
Quindi, sulle placide acque del lago, calò nuovamente
il silenzio.
Ascona, 25 maggio 2014
«Mi corre quindi l’obbligo», disse il primo cittadino della
cittadina affacciata sul Lago Maggiore, «di consegnare,
oltre all’encomio solenne del presidente della Confederazione Elvetica, anche la consistente ricompensa per
aver contribuito a recuperare un tesoro antichissimo e
leggendario come quello dei Nibelunghi. Per fortuna le
ferite da lei riportate si sono risolte positivamente e in
breve tempo. Ha avuto la peggio il suo avversario, ma la
sua morte ha consentito agli inquirenti tedeschi di sgominare una pericolosa organizzazione di neonazisti.»
Toccò quindi al commissario Martini prendere la parola.
«La ringrazio, signor sindaco. Sono un servitore della
giustizia e ho fatto soltanto il mio dovere. A suo tempo,
quanto incassato dalla vendita all’asta della Signora
del Lago, fu conferito in beneficenza a un’associazione
intitolata a uno dei compianti scopritori della Bugatti.
Chiedo che anche la mia ricompensa segua lo stesso
percorso e venga devoluta alla Fondazione Tamagni per
la lotta contro la violenza sui giovani. Per me terrò la
grande soddisfazione di aver contribuito a far luce su un
mistero così... profondo.»
192
I tratti allarmanti
di Emiliano Pedroni
A Veronica, Luca e la piccola Alice
Maggio 2014
Sul lungolago di Stresa l’agente investigativo Giulia De
Rossi e il maresciallo Antonio Lepore prendevano un
caffè a un tavolino della Verbanella, al riparo dagli ultimi raggi di sole di una delle tipiche calde giornate primaverili. Erano buoni amici oltre che colleghi di lavoro.
In quel periodo però non c’era spazio per divagazioni, la
situazione era critica. Le preoccupazioni del lavoro non
li lasciavano neppure in quel momento di pausa, stavano
ancora discutendo sugli efferati omicidi di donne single
dei mesi precedenti e di come l’autore, soprannominato
“Il Macellaio” per il suo terribile modus operandi, fosse
ancora senza un volto.
«Non è possibile», esclamò l’investigatrice posando
la tazzina del caffè, «un essere del genere non può non
lasciare indizi. Sembra che abbiamo a che fare con un
fantasma, nessuno lo ha mai notato e nessuna donna
ha mai parlato di lui con le amiche. Sono sicura che
non scelga a caso le sue vittime, però non capisco come
le adeschi. Non penso agisca d’impulso, per me è un
freddo calcolatore.»
«Lo so, hai ragione, cinque donne diverse nell’aspetto,
diverse per età e professione, diverse persino per nazio-
193
emiliano pedroni
nalità... A oggi, malgrado il ritrovamento dei cadaveri a
brandelli non abbiamo in mano ancora nulla, neppure
un elemento. Neppure un piccolo indizio ci collega a un
qualsiasi sospettato», e il maresciallo vuotò d’un fiato il
bicchiere d’acqua prima di assaporare il caffè.
«Abbiamo preso in considerazione tutte le amicizie delle cinque vittime. Maria Luisa, Antonella, Olga,
Laura e Gabriella, non avevano nulla in comune se non
il fatto di essere donne single. I loro cadaveri martoriati
sono stati ritrovati nei pressi di Stresa, ma non abbiamo
neppure la certezza che i delitti siano avvenuti in città. Le
vittime scompaiono nel nulla poi, qualche giorno dopo,
compaiono i loro cadaveri spaventosamente mutilati. A
nulla hanno portato i controlli e i pedinamenti di parenti,
ex fidanzati, amici e conoscenti delle vittime. Niente, il
killer non era uno di loro», affermò seccata Giulia giocherellando con la bustina dello zucchero e osservando i
turisti che passeggiavano sull’incantevole lungolago, reso
più spettacolare dalle centinaia di fiori. «Guardali, magari tra quei turisti si aggira l’assassino. Probabilmente
starà già puntando una nuova preda. Dobbiamo arrestarlo, prima che compia ancora un crimine, non sopporto l’idea di ritrovare un’altra donna fatta a pezzi.»
«Siamo a un punto morto», affermò il maresciallo distogliendo lo sguardo dai turisti e fissando il viso pensoso della collega, «abbiamo interrogato anche i negozianti e i direttori degli alberghi e proprietari dei ristoranti qui a Stresa e nei dintorni dove le vittime erano
conosciute. Nessuno ricorda di aver visto qualcuno in
loro compagnia.»
«I primi sono stati gli hotel... aspetta», Giulia controllò sfogliando i suoi appunti, «ecco qua! Non hanno
saputo dirci nulla di utile né il direttore né i dipendenti
194
i tratti allarmanti
sia dell’Hotel La Palma che del Bristol o dell’Astoria
dove Olga, la tedesca, aveva alloggiato durante le sue
permanenze in Stresa. Al ristorante del Regina Palace
e al bar del Des Iles Borromées Laura aveva lavorato
per qualche stagione, ma anche lì nulla di nulla. Anche
all’Hotel Lido La Perla Nera abbiamo cercato di individuare un qualsiasi ospite sospettabile, ma neanche lì è
emerso nulla. Deve essere uno del posto.»
Sconfortata Giulia infilò le sue annotazioni nella borsa.
«Ci vediamo domani. Vedrai che prima o poi lo cattureremo», asserì il maresciallo mentre lasciavano il bar.
«Lo spero, per il bene di tutti», aggiunse l’investigatrice e
con calma prese la direzione dell’imbarcadero. Poco dopo
si fermò, appoggiò la borsa alla ringhiera del lungolago,
stette a lungo a osservare i turisti di ritorno dalle Isole Borromee che scendevano allegri e sorridenti dai battelli.
Questo, di certo, era il territorio di caccia del “Macellaio”.
Era convinta che lui sfruttasse la bellezza dei luoghi
per adescare le sue vittime, ma come provarlo? Appena
chiuso il caso anche lei, come gli spensierati turisti, si
sarebbe concessa un’intera giornata sulle isole.
All’Isola Madre, camminando nel ricco giardino botanico con piante provenienti da tutto il mondo, avrebbe
trovato la pace desiderata. Tra i vicoli dell’Isola dei Pescatori avrebbe ammirato la semplice architettura delle
abitazioni di quello che fu un tempo il più operoso centro
di pesca del lago. All’Isola Bella le sarebbe piaciuto rivedere, sul punto più alto dell’isola, il Liocorno, l’antico
simbolo dei Borromeo. Quell’isola l’aveva sempre affascinata e fatta sognare. Quando era piccola aveva immaginato di essere lei la nobildonna che viveva nelle grandi
sale del palazzo rinascimentale. Erano suoi i pregevoli
195
emiliano pedroni
arredi ed erano suoi tutti i personaggi del teatrino esposto
nelle grotte che allora le erano parse addirittura immense.
Pensierosa e avvolta in quei dolci ricordi decise di andare in piazza Cadorna. Ora aveva un gran desiderio di
dimenticare il lavoro perdendosi tra le viuzze del centro,
curiosando fra le vetrine e le bancarelle dove gli artigiani
locali esponevano i loro prodotti tipici. Aveva finito la
“Tisana di Stresa” perciò colse l’occasione per passare
da Antonella, all’erboristeria La Regina dei Prati, per
farne scorta e scambiare due chiacchiere. Si domandò
se anche le vittime del Macellaio avessero fatto il suo
stesso tragitto, fatto i suoi stessi acquisti e ammirato le
stesse bellezze della città che in quel momento offriva
uno splendido spettacolo di sé.
Non aveva cenato, aveva avuto un sonno agitato e
ora, mentre stava facendo colazione, ecco squillare il
cellulare.
Sul display: Lepore.
«Sto arrivando, Antonio», rispose prima ancora che
lui aprisse bocca.
«Cerca di raggiungere la caserma il prima possibile»,
la sollecitò il maresciallo.
«Cos’è successo... non dirmi che c’è stato un altro
omicidio?»
«No, no, però c’è qui una persona che dice di avere
delle informazioni sul possibile “Macellaio”.»
«Volo!», stringò l’investigatrice troncando la comunicazione.
Nello studio del maresciallo una signora giovane di
bell’aspetto, dai lunghi capelli biondi, era seduta con un
braccio appoggiato sulla scrivania. Indossava una camicia rosa tenue e un paio di pantaloni attillati bianchi.
Niente trucco.
196
i tratti allarmanti
Il maresciallo seduto dietro la scrivania gliela presentò: «Lei è la signora Alessia Bianchi».
Mentre accingeva a sedersi accanto alla signora Giulia le disse: «Qualsiasi cosa possa aiutarci a dare un
volto a quell’assassino è sempre bene prenderla in considerazione».
Sospirando, Alessia iniziò sicura. «Io di professione
sono grafologa.»
Il maresciallo ascoltava senza intervenire.
«Tutte le mattine vado a far colazione al Gigi Bar Pasticceria, in corso Italia. Proprio lì incontro solitamente
alcuni clienti, habitués del locale. In particolar modo ho
conosciuto un certo Angelo, un bell’uomo, deve aver superato da poco i quarant’anni.»
Giulia tagliò corto. «Cos’ha di così particolare questo
Angelo?»
«Quest’uomo è veramente una persona affabile, educata, dai modi cortesi e dallo sguardo davvero seducente.»
«Signora Alessia», il maresciallo non riuscì a trattenersi, «anche se dal profilo dei criminologi il killer deve
essere senz’altro una persona di bell’aspetto e di belle
maniere, non possiamo sospettare di tutti i bellocci di
Stresa! Credo che lei capisca, vero?»
«Ma certo signor maresciallo, ma questo individuo mi
ha sconvolto.»
Il maresciallo fece una smorfia più eloquente di molte
parole: “Quel tipo non l’ha considerata e lei lo vuol bastonare.”
«In che senso l’ha sconvolta?», domandò Giulia incuriosita.
«Mi ha impressionato la sua scrittura.»
«La sua scrittura? Tutto qua?», esclamò Lepore che
era arrivato al fondo della sua pazienza, «lei è venuta
197
emiliano pedroni
qui per dirmi che è rimasta scioccata dalla scrittura di
un bell’uomo sulla quarantina? Il colloquio per me è terminato.»
«Non gli badi, signora, il maresciallo usa spesso modi
un po’ troppo bruschi», commentò Giulia nel tentativo
di giustificare l’inopportuno intervento del collega.
Calò un gelido silenzio e Alessia appariva giustamente contrariata.
Giulia, cercando di mostrare un sincero interesse, chiese
alla grafologa se Angelo le avesse scritto un biglietto.
«No, no», Alessia prese la borsa che aveva con sé ed
estrasse un foglio bianco piegato in più parti. Aprendolo,
l’appoggiò sulla scrivania, «questo è il pezzo di carta che
gli è caduto dalla tasca mentre cercava delle monete per
pagare la consumazione. Io in quel momento stavo parlando al telefonino, gli ho fatto segno di guardare per
terra ma c’erano talmente tanti clienti che lui non ha
visto i miei gesti.»
«E quindi lei lo ha raccolto», l’anticipò Giulia.
«Esatto, avevo intenzione di restituirglielo il giorno
dopo.»
«Ma?» Finalmente il maresciallo pareva interessarsi.
«Io non avrei nemmeno aperto il foglio per leggere
che cosa ci fosse scritto, ma la pagina era stata piegata
in un modo che si poteva intravedere parte dello scritto.
Quando mi sono chinata per raccoglierlo sono rimasta
immediatamente impressionata da quello che avevo davanti, perciò l’ho infilato nella borsa con l’intenzione di
studiarlo con calma. Però, vi dico la verità, non credevo
fosse steso di suo pugno tanto cozzava con quello che lo
scrivente appariva.»
«Ma cosa c’era scritto di così allarmante?», domandò
spazientito e contrariato il maresciallo.
198
i tratti allarmanti
«Non è tanto il contenuto quanto tutto l’insieme della
scrittura che mi ha lasciato profondamente sconcertata.
Ci ho pensato molto prima di venire qui. È da tre giorni
che ho questo pezzo di carta tra le mani», dichiarò la
grafologa sventolandolo davanti al viso di Giulia, «e mi
sento in dovere di fare questa segnalazione. Magari non
servirà a nulla, ma da grafologa vi posso assicurare che
la persona che incontro abitualmente al Gigi Bar non è
la persona che ho visto nella scrittura.»
«E allora sentiamo un po’, cos’ha visto in questo
scritto? Ci ha tenuto fin troppo tempo con il fiato sospeso, signora Alessia», sentenziò Lepore sempre più
seccato.
Il maresciallo, che era di fronte alla grafologa, si alzò
dalla sedia, si chinò e appoggiò le braccia sulla scrivania
aspettando che l’esperta iniziasse a svelare chissà quale
arcano mistero fosse celato dietro a quelle righe.
Anche Giulia si avvicinò con il viso al foglio per osservarlo meglio ed esaminarlo con gli occhi dell’esperta.
La grafologa, finalmente, iniziò a spiegare quei segni
che l’avevano profondamente turbata.
«Vedete, guardate qui«, la professionista evidenziava i
segni con l’indice della mano destra, «ha il tratto molto
appoggiato con angolosità nelle basi. È una scrittura artificiosa, immobile, molto controllata, convenzionale.
Guardate qui – spostò il dito su altre lettere – ci sono infangamenti, impastamenti, numerose occlusioni, leggeri
tremolii, spasmi. Ci sono molti lacci, mazze, clave, acuminazioni. In questa scrittura c’è morbosità, c’è inquietudine, aggressività. Vi posso assicurare che Angelo non
è la persona che appare agli occhi degli altri. Qui c’è una
scissione tra la persona che ho conosciuto e questo scritto,
ma la vera identità del soggetto sta in queste righe.»
199
emiliano pedroni
«Tutto questo a me pare fantascienza», sostenne incredulo il maresciallo spostandosi dal tavolo, «qui andiamo a toccare il mondo della grafomanzia più che
della grafologia.»
«Lo so che può apparirvi assurdo, ma vi ripeto che da
grafologa vi posso assicurare che questo soggetto è sicuramente un’altra persona. Con questo non vi sto dicendo
che lui potrebbe essere il potenziale assassino, ma sicuramente potrebbe essere una persona su cui indagare.»
«Tutto qua?», sospirò il maresciallo
«Abbiamo guardato i tratti allarmanti, ma voi potete
anche vedere quello che Angelo ha annotato.»
«Fammi leggere», e Lepore prese il foglio. Spese del
meccanico contestare i lavori, ritagliare articoli, spedire i
documenti, regalo Gabriella, ritirare camicie lavanderia,
scadenza assicurazione Audi, spostare l’appuntamento
dal dentista, pagare fiorista. Una lunga serie di appunti.
«Gabriella!», esclamò Giulia, «una delle vittime si
chiamava così!»
«Ha annotato il nome Gabriella», finalmente Lepore
trovava qualcosa di inerente al caso, «si chiamava proprio così l’ultima vittima, però chissà quante Gabriella
ci sono a Stresa. Magari è solo una coincidenza, nient’altro che una coincidenza.»
«Signora Alessia», domandò l’investigatrice, «questo
Angelo le ha mai detto dove abita o che lavoro svolge?»
«Non so niente di lui, della sua vita non mi ha mai
raccontato nulla e, a dir la verità, non gli ho mai chiesto
niente di personale.»
«Qui, nell’elenco, si parla di un’autovettura,
un’Audi?», domandò Antonio.
«Sì, ha un’Audi A4 station wagon nera.»
«E la targa... se la ricorda?»
200
i tratti allarmanti
«No signor maresciallo, non ci ho fatto caso.»
«E lei lo vede tutte le mattine a far colazione al Gigi
Bar?», domandò Giulia.
«Quasi tutte le mattine, verso le otto.»
«Bene, domani mattina eseguiremo un sopralluogo,
se ci dovesse vedere faccia finta di non conoscerci, ok?»
«D’accordo, a domani», disse la grafologa congedandosi.
La donna aveva appena lasciato l’ufficio quando Antonio sbottò. «Non crederai a queste stupidaggini? “Lacci”,
“mazze”, “clave”, “infangamenti” e quant’altro.»
«E invece sì, ci credo. E controlleremo, che ti piaccia
o no», affermò Giulia in tono ironico.
«Tanto alla fine si fa sempre quello che dici tu, quindi
è inutile discutere. Ricordati però che più di una volta
per colpa delle tue molte “stramaledette intuizioni” sei
finita nei guai e se non fossi arrivato io...»
«Sì, lo so», sbuffò spazientita Giulia, «più di una volta
ho commesso azioni azzardate, e se tu non fossi arrivato
tempestivamente mi avrebbero già fatto la pelle più di
una volta.»
«Meno male che almeno non lo neghi.»
L’indomani mattina alle sette e quaranta il maresciallo e l’investigatrice aspettavano l’arrivo di Angelo
tranquillamente seduti a un tavolino all’esterno del Gigi
Bar.
Alle sette e cinquanta videro la grafologa attraversare
le strisce pedonali davanti al bar e prendere posto a un
tavolino accanto al loro.
Dopo più di mezz’ora di Angelo nemmeno l’ombra.
Quando stavano per rinunciare, ecco parcheggiare a
pochissimi metri da loro un’Audi A4 station wagon nera
da cui scese un uomo molto elegante e disinvolto.
201
emiliano pedroni
Giulia incrociò lo sguardo di Alessia che le fece un
segno di assenso col capo.
«È lui», bisbigliò Giulia prendendo nota della targa su
un post-it per poi passarlo ad Antonio.
«Vediamo subito a chi appartiene il mezzo», affermò
Lepore alzandosi e allontanandosi con il cellulare in
mano.
Appena varcata la soglia del bar Angelo salutò con
sorriso accattivante Alessia, che contraccambiò con altrettanta gentilezza.
Giulia sorseggiava un caffè e contemporaneamente, dietro gli occhiali scuri, non perdeva di vista il soggetto che, al
bancone, faceva colazione con cappuccino e brioche.
Ne controllava i movimenti, studiava l’atteggiamento
verso il barista e gli altri clienti, osservava ogni sua movenza, ma tutto era inappuntabile, non un gesto fuori
posto.
Ritornò Antonio, la macchina era intestata proprio
ad Angelo Ottolini.
Non risultava schedato.
Nessun precedente penale a suo carico.
Nessun problema con la giustizia.
«Dove abita?», domandò la detective.
«Vive da solo in via per Gignese.»
«Conosco molto bene quella zona.»
«E adesso che sappiamo chi è, che cosa vuoi fare?»
«Non lo perderemo di vista. Anzi chiama gli appuntati, Pietro e Carmine, non lo devono mollare mai.»
«Ok, provvedo subito.»
Angelo Ottolini fu messo sotto sorveglianza.
***
202
i tratti allarmanti
Per giorni Carmine e Pietro, i due uomini incaricati del
pedinamento, non riscontrarono nulla di particolare
nella vita di Angelo. Però, alcuni giorni dopo, mentre
Giulia conduceva indagini parallele interrogando ancora dei negozianti del luogo, le giunse una telefonata.
«Sì, Antonio.»
«Ci sono novità su Angelo!»
Giulia capì dal tono teso del maresciallo che aveva da
riferirgli qualcosa di sicuramente interessante. Si conoscevano da molto tempo e si capivano al volo.
«Dimmi.»
«Mi ha appena chiamato Pietro: Ottolini si è recato
da un rivenditore di mezzi agricoli e ha acquistato una
motosega.»
«Allora chiediamo un mandato di perquisizione?»
«E su quali elementi probatori il giudice ce lo potrebbe
concedere? Sulla scrittura analizzata da un’esperta grafologa? Sull’acquisto di una motosega? Ci riderà in faccia. Anzi ci solleverà perfino dal caso.»
«Lui è un consulente informatico. Di certo la motosega non gli serve per lavoro, e nel suo giardino non ci
sono alberi da abbattere. Questo acquisto insospettisce.»
«Sì, hai ragione, ma non abbiamo nulla di decisivo,
cavoli!», esclamò il maresciallo.
«Se lui è il nostro uomo, se Angelo Ottolini è “Il Macellaio”, prima o poi commetterà un passo falso, ne puoi
stare certo. Non possiamo permetterci un altro omicidio, ha già ucciso e fatto a pezzi troppe donne, non permetterò che ne massacri altre. Adesso lui dov’è?»
«Mi hanno detto che è uscito di casa, pochi minuti fa,
sta facendo jogging. Tutti i giorni esce a correre e rientra
nell’abitazione dopo circa un’ora e mezzo. Pronto, ci sei
Giulia?»
203
emiliano pedroni
«Sì... sì, scusami stavo riflettendo. Va bene, tienimi
aggiornata.»
Pensierosa Giulia, con lo sguardo fisso nel vuoto,
lentamente fece scivolare il cellulare nella tasca della
giacca.
Guardò per un attimo l’orologio: “Devi muoverti, ora
o mai più”.
Raggiunse frettolosa la sua vettura e, in men che non
si dica, si indirizzò verso via per Gignese.
Dopo una serie di curve raggiunse la casa di Ottolini,
rallentò, si fermò e spense il motore.
Si guardò intorno: non c’era nessuno nei paraggi.
Decise di scendere dalla vettura e a passo veloce attraversò il vialetto sterrato che conduceva alla residenza di
Angelo Ottolini.
La grande casa dalla facciata bianca era circondata da
un bel prato all’inglese con aiuole di fiori multicolori. Le
persiane erano quasi tutte aperte.
Fece un giro intorno all’abitazione e, con la mano appoggiata alla fronte, si accostò al vetro di una finestra
cercando di scrutare nel locale. Voleva semplicemente
dare una rapida occhiata all’interno dell’abitazione, dopodiché se ne sarebbe andata di volata.
La mano, toccando il vetro, fece aprire la finestra.
«Non l’ha chiusa», constatò sorpresa.
Stette immobile di fronte all’apertura. La tentazione
di entrare era forte. Esitò ancora un attimo ma alla fine
con un balzo scavalcò il davanzale.
All’interno tutto era in perfetto ordine. Su un tavolino
accanto al divano erano appoggiate delle riviste sportive.
«Mamma mia, è tutto così tremendamente lustro e in
ordine», si rese conto guardandosi intorno, «certo che
tiene la casa pulita meglio di me.»
204
i tratti allarmanti
Fece titubante qualche passo fino ad arrivare alla
porta in fondo al corridoio.
Si sentiva a disagio, un brivido di freddo la pervase, temeva di sapere il perché di quella sensazione così forte.
Allungò la mano e afferrata la maniglia esitò ad aprirla.
Quando decise di abbassarla, un sinistro cigolio accompagnò il movimento della porta.
Una lunga serie di gradini sembrava scendere nelle
tenebre.
Le pareti erano rovinate e la scala era sudicia. C’era
polvere ovunque.
“Che contrasto!”
Le stanze al piano terra erano immacolate e luminose,
invece quel passaggio sembrava conducesse negli inferi.
Nervosa, scese lentamente i gradini. Solo il rumore
dei suoi passi risuonava in quell’ambiente tetro.
Guardò velocemente l’orologio.
Aveva ancora una buona mezz’ora prima del probabile ritorno di Angelo.
Doveva agire in fretta.
Era sempre più agitata, non le era mai capitato di provare un’emozione così forte come in quel momento.
La scala terminava davanti a un’altra porta.
Determinata, l’aprì.
Un ampio locale era rischiarato solo dal fascio di luce
proveniente da una finestrella.
Dal soffitto, pendevano delle catene.
Un tavolo di ferro aveva dei lacci di cuoio posizionati
opportunamente per tenere legate mani e caviglie.
Una motosega nuova era appoggiata su una mensola
insieme a tenaglie, scalpelli, seghe e coltelli con lame di
ogni tipo. Sulle pareti macchie scure.
«Bingo!», esclamò con voce strozzata. «Angelo Otto-
205
emiliano pedroni
lini, sei tu “Il Macellaio”! Devo dirlo ad Antonio, dobbiamo intervenire immediatamente!»
Voltandosi, afferrò velocemente il telefonino nella tasca della giacca.
Un uomo in pantaloncini corti e con una maglietta
nera la fissava con una pistola puntata contro di lei.
Non c’era più tempo per chiamare Antonio.
La detective si immobilizzò.
Non sarebbe riuscita ad arrivare in tempo alla pistola.
Lui l’avrebbe colpita prima che lei riuscisse nel suo intento.
«Nessuno ti ha insegnato che non bisogna ficcare il naso
nelle abitazioni altrui? Passami quel telefono! Muoviti!»
Con riluttanza lo lanciò ai piedi del killer.
L’uomo con una pedata lo scagliò violentemente da
un lato.
«Angelo Ottolini, costituisciti! Ti prenderanno! Il maresciallo con i suoi uomini tra pochi minuti sarà qui!»,
mentì per guadagnare tempo, «per te è finita!»
«Sei una bugiarda! Sei venuta di tua iniziativa, nessuno sa che sei qui!», disse con un sorriso malefico.
Sul volto di Giulia, si riprodusse il ritratto della disfatta, di chi, ormai, era vinto, di chi era stato braccato e
non aveva più alcuna via di fuga.
“È finita”, pensò.
«Come hai fatto a capire che il “Il Macellaio” ero io?
Non ho mai lasciato tracce! Ora sarai tu la mia prossima
vittima. Già mi immagino i titoli sui giornali!»
L’istinto di sopravvivenza era forte in lei, voleva e doveva uscire da lì a tutti i costi. Lui non glielo avrebbe permesso. Al minimo cenno di fuga il killer le avrebbe sparato.
Morire per morire, valeva la pena tentare l’impossibile.
Giulia cercò di impugnare la sua pistola con la massima rapidità di cui era capace.
206
i tratti allarmanti
Un colpo, seguito da un grido di dolore, riecheggiò in
quel luogo.
A terra giaceva l’investigatrice che con la mano sinistra cercava di tamponare la spalla destra ferita.
Raggomitolata su se stessa penava dal dolore.
«Devi morire lentamente, con te ho appena iniziato.»
“Adesso è proprio finita” sentenziò.
Era ormai costretta a rassegnarsi al suo infausto destino: “Il Macellaio” l’avrebbe fatta franca ancora una
volta. L’uomo fece qualche passo verso di lei. Con aria
soddisfatta adesso le puntava l’arma alle gambe.
«Adesso ti faccio due bei piercing sopra le ginocchia!»,
la sua voce era fredda, priva di emozione.
Giulia, sofferente, lo scrutava ansimando.
All’improvviso, risuonò un altro colpo di pistola.
A terra, vicino al volto della detective, Angelo giaceva
morente.
Il maresciallo era giunto silenziosamente alle spalle
del killer e gli aveva prontamente impedito di nuocere
ancora.
«Stai perdendo sangue», disse rivolto a Giulia, «ma
non mi sembra una ferita profonda, ti chiamo un’ambulanza», e l’aiutò a tamponarla.
Giulia gli rispose con un sorriso sforzato. Il bruciore
della ferita le aveva mozzato il fiato.
Guardò l’assassino morente accanto a lei. «Non hai
vinto tu... ha vinto la giustizia», gli sussurrò con voce
flebile unita a una smorfia di dolore.
Lei guardò le catene pendenti, il suo dolore non era
nulla in confronto a quello che “Il Macellaio” aveva fatto
provare a quelle cinque sventurate donne. Le sembrava
di sentire riecheggiare per la stanza le urla strazianti di
quelle povere vittime.
207
emiliano pedroni
“Quanto strazio devono aver provato...” rifletté sconfortata incolpandosi per non essere riuscita a salvarle
“quanta malvagità hanno dovuto subire per mano di un
folle. Perché questa crudeltà? Perché un individuo deve
prevaricare su un altro essere umano annientandolo?”
«È tutto finito», la rassicurò Antonio, «ora “Il Macellaio” ha chiuso bottega.»
Il suono dell’ambulanza, in lontananza, non fu mai
così rassicurante.
Giulia sarebbe stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico per estrarre la pallottola.
Qualcuno bussò alla porta della camera 23.
«Avanti.»
Il viso sorridente di Antonio fece capolino: «I medici
hanno detto che devi riposare.»
Giulia che aveva perso molto sangue, ma si sarebbe
ben presto ripresa, era felice di vederlo, era stato il suo
tempestivo intervento a salvarle la vita.
«Come hai fatto a capire che ero a casa di Ottolini?
Non ti avevo detto nulla.»
«Quando, per telefono, ti avevo informata che Angelo
era uscito per fare jogging tu sei rimasta in silenzio. A
quel punto avevo dovuto sollecitarti per continuare la
conversazione e tu avevi replicato: “Sì, scusami stavo riflettendo.” Ricordi?»
«Sì, certo.»
«Come se non ti conoscessi. Sei famosa per ficcarti
sempre nei guai. In quella pausa di riflessione ho capito
che stavi già pensando di andare a curiosare nella sua
abitazione. Non è la prima volta che agisci di testa tua.
Non so perché, ma il mio sesto senso mi diceva che ti
saresti cacciata nei guai. E così è stato. Ci ho pensato un
attimo ma poi ho deciso di andare a casa del sospettato.
208
i tratti allarmanti
Sapevo che ti avrei trovata lì e mi ripromettevo che se ti
avessi beccata spiarlo te ne avrei dette di tutti i colori.»
«E anche questa volta con le mie “stramaledette intuizioni” sono finita nei guai.»
«E io un’altra volta ti ho soccorsa», disse il maresciallo
compiaciuto.
«Sei il mio angelo!»
«No, grazie. Quel nome comincia a darmi fastidio»,
obiettò immediatamente.
Giulia si mise a ridere, ma la spalla operata le procurò
una fitta lancinante: «Hai letto i giornali?» Prese l’Eco
Risveglio che aveva appoggiato sul letto e glielo passò.
«Te lo riassumo», stringò Giulia, «riporta che “Il Macellaio” è stato smascherato grazie a un’esperta grafologa.»
«Devo proprio ammetterlo, la grafologa Bianchi ci è
stata di grande aiuto.»
«È solo grazie a lei e ai tratti allarmanti che ha visto
in quello scritto che siamo riusciti ad arrivare ad Angelo
Ottolini.»
Antonio annuì.
«Mi ero informata sulla grafologia e avevo saputo che
da poco era stata riconosciuta, approvata dalla Camera
dei deputati e inserita nell’elenco di quaranta nuove professioni. Questa legge ha rivalutato la professione del
grafologo. Attraverso il gesto grafico studiano l’individuo con i suoi punti più forti ma anche con i suoi punti
più deboli, con i suoi aspetti consci ma anche quelli inconsci. Attenzione, non è che tutti quelli che scrivono
come Angelo Ottolini siano dei serial killer, quello che è
sicuro è che la nostra grafologa ha “avuto naso”.»
«E che naso!», esclamò convinto, «d’ora in poi prenderò più seriamente questa materia, te lo posso as-
209
emiliano pedroni
sicurare. Ah, prima che mi dimentichi», con la mano
estrasse dalla giacca una busta, «questo è per te», disse
porgendoglielo.
«Cos’è?» Rigirò curiosa più volte tra le mani la busta
celeste.
«Apri e vedrai.»
Ne tirò fuori un cartoncino bianco che riportava la
scritta: “Soggiorno per otto giorni all inclusive presso
Hotel Ristorante ‘Il Giardinetto’ - Pettenasco”.
«Non ci posso credere. L’Hotel Il Giardinetto è direttamente sulle sponde del lago d’Orta. Un luogo di assoluta quiete con un panorama mozzafiato. Tu sei proprio
matto. Grazie di cuore. Ti abbraccerei ma non riesco.»
«Ti ho prenotato una stanza vista lago. Mi avevi detto
di non aver mai visitato l’Isola di San Giulio; ora potrai
soddisfare la tua curiosità nell’ammirare la suggestiva
basilica romanica, il Monastero, il Palazzo della Comunità e le affascinanti ville: Crespi, Perone, Tallone. Se ti
fa piacere potrò farti da cicerone.»
Giulia sorrise compiaciuta.
«Durante il soggiorno, tu che ami la musica classica,
potrai seguire il Festival Cusiano di Musica Antica. Vedrai che in quel posto fatato ti ristabilirai in fretta. In
questo modo potrai rimetterti molto presto un’altra
volta nei guai.»
«Ma tanto poi ci sarai sempre tu a soccorrermi, giusto?», ribatté.
Antonio, divertito, le fece l’occhiolino.
Si ringrazia per la consulenza la dottoressa Elena Manetti,
grafologa.
210
Il tatuaggio rosa
di Maurizio Pellizzon
Il piccolo executive bianco era atterrato a Malpensa con
il sibilo tipico delle turbine dei motori a reazione che
ruotano al contrario.
Per le persone affacciate alle vetrate dell’aeroporto
costituiva uno spettacolo affascinante: per l’elegante
manovra di quell’uccello metallico dalla sagoma di gabbiano, per i personaggi trasportati, sicuramente importanti, almeno per lo spessore del portafoglio.
Una delegazione russa, guidata da Alexandre Mendeleiev, arrivava in Italia con molteplici interessi: la grande
manifestazione motonautica di Stresa, contatti con
un’azienda leader nel mondo dell’aviazione e, perché
no, un po’ di turismo e bella vita. Era anche l’occasione
per allentare lo stress di Alexandre in un momento di
particolare tensione fra Russia e Ucraina.
Dall’aereo scesero per primi le guardie del corpo, un
paio di ragazzi biondi in inappuntabile completo grigio
fumo di Londra, camicia bianca e cravatta nera. Ai due
seguirono una corpulenta bionda in tailleur scuro ed
una donna più giovane, prorompente di una bellezza un
po’ perversa, tipica di chi sembra avere scritto in volto:
farei di tutto per il denaro e la bella vita.
Dietro lei, alcuni personaggi insignificanti dall’abbigliamento informale, insicuri mentre scendevano dalla
scaletta, disorientati, come fosse la prima volta. Si guar-
211
maurizio pellizzon
davano intorno come fossero sbarcati sulla luna, ruotando gli occhi come animali spauriti.
Per ultimo scese l’indiscutibile capo della comitiva,
Alexandre Mendeleiev.
Come in un film di spionaggio, una limousine nera li
stava attendendo sull’asfalto torrido all’uscita business
executive seguita da un pulmino per i personaggi insignificanti.
Gli automezzi lasciarono l’aeroporto da un’uscita di
servizio diretti verso il terminal riservato ai cargo.
Alexandre voleva assicurarsi che il suo superpotente
fuoribordo per gare d’altura fosse arrivato integro
dopo il viaggio su un Cargo Antonov dell’aeronautica
russa.
Alexandre Mendeleiev, oltre ad essere un potente magnate della siderurgia, era anche il Ministro della Difesa di un paese che ha il coraggio di chiamare “difesa”
quello che da altre parti chiamerebbero “offesa”.
Dopo la breve tappa alla zona cargo, il piccolo corteo
si avviò in direzione del Lago Maggiore.
Pochi chilometri di autostrada, uscita ad Arona,
l’ultimo tratto costeggiando il lago, perché Alexandre
voleva mostrare tutta la bellezza del Verbano alla sua
nuova fiamma.
Una suite al Grand Hotel des Iles Borromées li stava
aspettando, al suo interno lo staff stava sistemando le ultime cose per rendere ancora più piacevole il soggiorno
degli ospiti: cioccolatini sui cuscini, accappatoi in morbida spugna nell’elegantissimo bagno in marmo e una
bottiglia di champagne sul tavolo del salottino.
***
212
il tatuaggio rosa
Sergej Romanoff, un ometto insignificante che lavorava
al Ministero della Difesa russo, era arrivato in Italia con
l’aereo di Mendeleiev. Non aveva seguito la comitiva. Aveva l’incarico speciale di scambiare una valigetta con
un milione di dollari con un’altra identica, contenente il
nuovo software di puntamento dei missili caricati sugli
elicotteri. Lo scambio sarebbe avvenuto al Gigi Bar, sul
lungolago di Stresa. Sergej aveva chiesto anche una fornitura extra da consegnarsi in una suite all’Hotel Regina
Palace. A scambio avvenuto aveva raggiunto l’hotel, dove,
oltre la porta della suite, la fornitura extra lo attendeva.
Aveva fatto delle richieste precise. Sergej aveva gusti
classici: la fornitura doveva essere giovane, con lunghi
capelli neri, gambe slanciate e fianchi stretti, seno florido ed un sedere generoso. Bella, anzi bellissima e con
le caviglie affusolate.
La stanza era pervasa da un profumo fortemente speziato, la fornitura era appoggiata allo stipite della porta
del bagno in posa suadente e sorriso abbozzato a labbra
chiuse.
Sergej stava analizzando con occhio radiografico
quella figura e conveniva sul fatto che il suo partner
aveva un’eccellente esperienza di casting: tutto corrispondeva alle sue richieste.
Le gambe, lunghissime, indossavano un paio di calze,
trama otto denari avrebbe detto Sergej, che di denari se
ne intendeva, e non solo nel senso di banconote. Un reggicalze le tendeva verso l’alto, deformando la loro estremità ma non deformando minimamente la coscia che
sembrava avere la consistenza del marmo.
Un particolare aveva ulteriormente accentuato le fantasie erotiche di Sergej: una sottilissima caviglia era sovrastata da un piccolo tatuaggio, una farfalla rosa.
213
maurizio pellizzon
Indossava un baby-doll che faceva trasparire gli indumenti intimi e le perfette sagome dei seni e dei fianchi. Dopo essersi fatta osservare, con un colpo di scena,
scomparendo nel bagno e riapparendo, era rimasta nuda.
Gli si era avvicinata, aveva incominciato a spogliarlo,
sbottonandogli la camicia ed i pantaloni, abbassandogli la cerniera. Lui aveva provveduto a togliersi il resto,
impaziente di impossessarsi dello splendido regalo. Sul
comodino c’erano due coppe di champagne, lei gliene
aveva offerta una prima di infilarsi nel letto.
***
Il capitano Passoni fu convocato dalla locale stazione
dei carabinieri; arrivato sul posto non poté che constatare la morte di Sergej Romanoff, così c’era scritto
sul passaporto che giaceva a fianco di una valigetta in
pelle vuota e misteriosamente aperta. Il medico legale
dispose l’autopsia per conoscere le cause della morte,
anche se quel bicchiere sul comodino era piuttosto sospetto e sarebbe stato oggetto di indagine farmacologica. All’interno dell’hotel nessuno aveva potuto dare
notizie utili, la vittima era arrivata sola a tarda sera e
aveva esibito un passaporto diplomatico.
***
Il giorno successivo la notizia era riportata dai giornali
e sulle locandine campeggiavano due titoli che avevano
indispettito gli amministratori locali: “Trovato morto
diplomatico russo in un hotel di Stresa” e “Domani
grande evento di motonautica a Stresa”. L’amministrazione aveva fatto grandi sforzi economici e di comunica-
214
il tatuaggio rosa
zione per promuovere la manifestazione nautica ed ecco
che un fastidioso contrattempo stava stendendo un’ombra su quella che doveva essere l’unica attrazione.
***
Passoni aveva dedicato l’intera giornata alle indagini
sull’omicidio. Aveva scoperto che il Romanoff era arrivato il giorno prima in Italia, ma non era ancora riuscito a sapere dove e come; il passaporto diplomatico
rendeva difficile avere notizie precise. Il medico legale
non gli aveva ancora comunicato l’esito dell’autopsia,
né quello degli esami sul bicchiere sospetto. “Se parlano
dell’inefficienza pubblica hanno proprio ragione….”, pensava
il capitano mentre scendeva le scale dell’Hotel Simplon in cui era alloggiato. Era un piccolo albergo, a due
stelle, la cui tariffa ben si conciliava con il contenutissimo rimborso spese a cui aveva diritto. Aveva inoltre
il grande vantaggio di essere collocato direttamente sul
lungolago, in prossimità dell’imbarcadero. Non poteva
fare molto, anzi quasi nulla, a quell’ora tarda della sera,
decise quindi di fare una camminata prima di recarsi
alla serata di gala per l’inaugurazione dell’evento motonautico. Glielo aveva consigliato il maresciallo della
stazione di Stresa e nel frattempo aveva scoperto che fra
i partecipanti alla gara c’era una squadra russa. “Qualche
legame con il Romanoff forse lo scoprirò”, pensò il Passoni.
La sua mente continuava a lavorare distraendolo
dall’incantevole spettacolo del lago; aveva percorso tutta
la passeggiata sul lungolago superando i grandi alberghi: il Regina Palace, l’Astoria, il La Palma, il Des Iles
Borromés e il Bristol. Aveva del tempo a disposizione
prima della serata di gala e si spinse quindi fino al Lido
215
maurizio pellizzon
di Carciano. Arrivato al piazzale del parcheggio lo spettacolo lo costrinse ad abbandonare le sue riflessioni; le
due isole, Bella e dei Pescatori, per effetto del tramonto
sembravano galleggiare sull’acqua dorata. Sembravano
così vicine da poterle toccare. Che non fossero così a
portata di mano se ne accorse quando si soffermò ad
ammirare un piccolo battello che si stava staccando in
quel momento dall’isola dei Pescatori. Lo seguì con
sguardo incantato navigare fino all’Isola Bella e, successivamente, dirigersi verso l’imbarcadero di Carciano
“Dovrei ritornarci per qualche giorno di vacanza”, rifletteva,
mentre il battello si stava avvicinando. Guardò l’orologio e si rese conto che la serata di gala sarebbe incominciata a breve. Era meglio essere in anticipo per veder
arrivare i vari personaggi, studiare i loro volti e le loro
azioni; ecco, era ritornato al dovere. “Però ci devo proprio
tornare!”, pensò in un barlume di serenità prima di ripiombare nel grigio incarico. Si stava stancando di quel
lavoro che un tempo lo aveva appassionato, ne aveva viste di tutti i colori ma ora tutto gli appariva grigio. Era
arrivato alla conclusione che il suo era un lavoro ingrato
e che “non avrebbe cambiato il mondo” come pensava
da giovane; anzi il mondo stava cambiando lui, rendendolo grigio, non solo nel colore dei capelli.
La sala dell’Hotel des Iles Borromées era illuminata a
giorno dai lampadari ma brillava anche per effetto delle
paillettes che luccicavano sugli abiti da sera. Passoni si
era recato al bancone del bar dove erano collocati i vassoi con gli aperitivi, la camminata lo aveva leggermente
assetato. Al bar c’era anche un lungo, anzi lunghissimo
paio di gambe che uscivano da un abito nero con un
generoso spacco. Abito lungo, spacco profondo, gambe
lunghe, capelli sciolti; c’erano tutti gli ingredienti per at-
216
il tatuaggio rosa
tirare l’attenzione, e un tatuaggio rosa a forma di farfalla
rendeva ancora più conturbante la visione.
“Capitano, ritorna in te, stai lavorando!”. La sua mente
razionale stava ancora una volta prendendo il sopravvento e, mentre la riflessione era ancora in corso, le
gambe scomparirono dallo spacco e si incamminarono
verso un gruppo in abito nero. Dai tratti somatici dei
personaggi e dal biondo dei loro capelli doveva trattarsi
della delegazione russa. Uno speaker dal palco dava il
benvenuto al Ministro della Difesa russo. Il tatuaggio
rosa era scomparso tra la folla.
***
«Ministro, mi concede un’intervista? Sono un’inviata
della Pravda.»
«Come potrei negare un’intervista a un giornale così
prestigioso e così ... seducente!» Lo sguardo del ministro
percorse la giornalista dai capelli al tatuaggio rosa.
«Le rubo solo pochi minuti nell’attesa dell’inizio della
cena. Se cortesemente volesse raggiungermi, abbiamo a
disposizione un salottino, per sottrarci da questa folla:
quarto piano, suite 407.»
L’intervista era stata molto professionale, al Ministro
erano state rivolte alcune domande sulla tesa situazione
politica fra Russia e Ucraina alle quali aveva risposto
con molta diplomazia, si era invece infervorato nel descrivere la sua eccitazione per la gara di offshore. Era la
sua prima gara con il nuovo motoscafo d’altura costruito da un prestigioso cantiere italiano. Lo avrebbe guidato lui stesso affiancato da un pilota italiano esperto.
Gli sarebbe servito per allontanare, almeno per qualche
giorno, la tensione della politica. Da ex-funzionario del
217
maurizio pellizzon
KGB, amava i rischi, le sfide e le vittorie. Avrebbe voluto
presentarsi da vincitore alla sfilata che si sarebbe svolta
il giorno successivo nel golfo di Locarno. Entrambi avevano accuratamente evitato di affrontare l’argomento
del concittadino trovato morto in un albergo della città;
evidentemente ciascuno di loro aveva buoni motivi.
Mendeleiev aveva gradito l’intervista e l’intervistatrice,
della quale gli erano rimasti impressi le gambe, la curiosa farfalla rosa sopra la caviglia e lo spacco sull’abito
nero, uno spacco così profondo che lasciava intravedere
quello che Sharon Stone lasciava intravedere in “Basic
Instinct”. Dal canto suo l’intervistatrice, oltre alla preziosa intervista, strappò al Ministro un passaggio per
Locarno sulla sua barca il giorno seguente.
***
Per l’occasione Stresa si era regalata una splendida giornata di sole e una leggera brezza rendeva limpida l’aria
e scandiva i contorni fra acqua e terra. La luce incidente
del mattino e il cielo azzurrissimo si rispecchiavano nelle
acque immobili scalfite solo dalla scia bianca di un motoscafo che perlustrava il percorso di gara. I bolidi d’altura facevano bella mostra di sé, a poche decine di metri
dalla riva, con colori sgargianti per attirare l’attenzione
degli spettatori: sembravano modelle su una passerella
di alta moda. Anche i loro profili, sottili e sinuosi, affascinavano l’osservatore che li scrutava con la stessa malizia con cui si osservano le sottili e sinuose mannequin,
chiedendosi cosa ci fosse oltre quegli affascinanti colori.
Oltre, c’erano potenti motori, tanta tecnologia e uomini
che erano accomunati da un alto tasso di adrenalina da
competizione.
218
il tatuaggio rosa
Ad uno ad uno i motori si accesero e salirono di giri:
rombi inquieti per il turista tranquillo, musica affascinante per gli amanti della meccanica. Un gruppo di motociclisti appostati sul piazzale dell’imbarcadero rispose
a quei rombi pluricilindrici con accelerate sorde delle
loro più modeste bicilindriche Harley Davidson.
***
Il capitano Passoni aveva proseguito le sue indagini con
la meticolosità che lo contraddistingueva; aveva rintracciato dove alloggiava la farfalla tatuata e si era appostato
nella hall del suo albergo per poter seguire le sue mosse.
Gli sembrava un personaggio da tenere sotto controllo,
anche se si domandava, fra sé e sé, se il vero motivo fossero le indagini in corso. Lei era scesa dall’ascensore con
un abito svolazzante rosso rubino; ricordava molto “la
signora in rosso” dell’omonimo film. Si era diretta verso
l’uscita, non senza attirare l’attenzione di qualche maschio presente nella hall, attenzione ricambiata da feroci
occhiate di mogli e fidanzate.
Passoni non la perse di vista, la seguì mentre camminava sul lungolago e mentre infilava l’ingresso dell’Hotel La Palma. Attese qualche attimo, entrò anche lui,
guardò in giro senza scorgere macchie di rosso, perlustrò tutto il locale, rassegnandosi alla fine a chiedere
aiuto alla reception: «Avete visto una signora con un
abito rosso?».
«Certo, ha preso l’ascensore per la terrazza, quella del
settimo piano.»
L’ascensore era stipato, l’alito pesante di una vecchia
signora lo accompagnò nella salita e poi finalmente ritrovò l’aria pura.
219
maurizio pellizzon
Lo spettacolo era a dir poco incantevole e non stava
osservando la signora in rosso; si trattava proprio del
panorama che la terrazza offriva, vista integrale sul
lago, per effetto dei cristalli che fungevano da parapetto. La spettacolarità del posto era quasi indescrivibile, come essere a bordo di un elicottero ed osservare
il panorama dall’alto. La gara era in pieno svolgimento,
lo dimostravano le lunghe scie bianche di schiuma che
seguivano le veloci macchie colorate a metà lago. Il
rumore sordo dei motori pervadeva l’aria e copriva il
brusio della folla stipata di fronte al lago. La signora in
rosso, appoggiata al bancone del bar, sembrava disinteressarsi alla manifestazione bevendo un Martini, rosso
naturalmente. Una vibrazione nella tasca del capitano indicava che
il telefonino stava squillando; si dovette richiudere nel
bagno per ricevere la comunicazione a causa della ressa
e del rumore. Era il medico legale, che finalmente gli
comunicava i risultati dell’autopsia sul cadavere e le
analisi sul contenuto del bicchiere sospetto. In entrambi,
bicchiere e cadavere, era stato rilevato un derivato del
cianuro. La notizia non lo aveva certo meravigliato, ma
non aveva la minima idea di come quel cianuro fosse
arrivato in quel bicchiere.
Terminata la breve e sintetica conversazione, Passoni
uscì tra la folla, ancor più compatta di prima, per poi
rendersi conto che la signora in rosso non c’era più. La
cercò in ogni angolo della terrazza, nella zona attigua
alla piscina, persino nel bagno delle signore, ma non
c’era più traccia di quel rosso sgargiante.
***
220
il tatuaggio rosa
Sul lungolago di Locarno, il bolide rosso che aveva vinto
la manifestazione di Stresa era circondato da una corona di curiosi, la bandiera russa sventolava orgogliosa
a poppa, affiancato dalle bandiere di cortesia svizzera e
italiana. Nello stesso momento in un luogo appartato
Alexandre stava rispondendo alle domande della professionalissima giornalista della Pravda che metteva in
bella mostra il suo tatuaggio rosa e buona parte della
gamba che lo sovrastava. Le domande vertevano sui
suoi interessi extraprofessionali e dalla conversazione
ben presto si era passati alla pratica …
Alla fine lei gli aveva offerto un calice di champagne
per brindare all’incontro.
***
Il capitano Passoni si stava consolando con una pizza,
divorata golosamente in un locale che lo aveva attirato
per l’insegna colorata, che spiccava sopra le altre nel
mezzo di un vicolo affollato di turisti.
Si trattava proprio di un ristorante per turisti; se ne
era reso conto appena entrato, ma il suo appetito e il
momento di profonda delusione avevano avuto il sopravvento e non aveva avuto né la voglia, né il coraggio
di replicare negativamente al cameriere che, con esperienza del mestiere, gli aveva rivolto un: «Solo? Venga
con me, ho un posticino tranquillo adatto a chi vuole
stare in pace!».
Rientrò nella sua stanza dell’Hotel Simplon quasi a
mezzanotte. Accese la televisione e iniziò un annoiato
zapping. Si fermò su un canale che trasmetteva immagini da Locarno, la prima inquadratura mostrava un
lussuoso albergo sul lungolago e motoscafi d’altura sul
221
maurizio pellizzon
pontile prospiciente. Lo speaker, commentando i risultati della manifestazione di Stresa, riferiva della misteriosa morte di uno dei piloti, ministro e imprenditore
russo il cui cadavere era stato rinvenuto in circostanze
poco istituzionali.
Nell’inquadratura successiva la splendida creatura
che aveva incrociato nella hall dell’Hotel des Iles Borromeés, la signora in rosso che aveva seguito sulla terrazza
dell’Hotel La Palma stava salendo sulla scaletta di un
aereo mentre il cronista commentava: «La delegazione
ucraina rientra in patria dopo un incontro con i rappresentanti dei paesi europei».
E mentre Passoni si tormentava nella sensazione che
stavolta non sarebbe riuscito a risolvere il caso, l’agente
segreto ucraino Karina Shadova, sull’aereo destinato a
Kiev, osservava con noncuranza il suo tatuaggio sulla
caviglia e rifletteva con soddisfazione per il suo duplice
successo. “Ho con me il sistema di puntamento per i missili
e ho eliminato Mendeleiev”. Tutto questo qualche attimo
prima che il capo della sua delegazione, seduto nel sedile a fianco, le consegnasse i gradi da Colonnello.
222
La cena in sospeso
di Alberto Pizzi
Con il mio lavoro di rappresentante, o meglio di “viaggiatore”, come avrebbe detto mia madre, impegnato a
girovagare su e giù per l’Italia, di storie curiose da raccontare ne ho vissute molte. Forse la più strana mi è capitata una sera d’inizio estate di molti anni fa, in quella
che da pochi mesi era diventata la nuova provincia del
Verbano Cusio Ossola.
Trovandomi dalle parti di Stresa, quel giorno decisi di
cenare in una trattoria poco distante dall’hotel dov’ero
alloggiato. Un locale di poche pretese ma dal nome accattivante: Il sorcio allegro o qualcosa del genere.
Entrai, presi posto a un tavolo e ordinai un abbondante fritto di pesce persico, accompagnato da un buon
bicchiere di vino bianco.
L’oste arrivò sorridente, con una bottiglia di arneis in
mano. «Ne beva quanto vuole, qui si paga a consumo»
mi disse con tono cordiale.
Stavo riempendo il mio bicchiere quando d’un tratto
si avvicinò al mio tavolo un anziano signore, dal viso
scolpito dal sole e dal trascorrere del tempo. Immaginai
che fosse un vecchio barcaiolo o forse un pescatore oramai in pensione. Fu lui il primo a parlare e lo fece scandendo lentamente le parole: «Lei che è forestiero, me lo
offre un calice di vino se le racconto di quella volta che
dal Lago Maggiore sparì il persico?»
223
alberto pizzi
Trasalii. Scomparso il pesce persico dal Lago Maggiore? Possibile che non mi ricordassi di un fatto così
clamoroso? «Mi sembra inimmaginabile! Dice davvero?», esclamai meravigliato.
Interpretando la mia domanda come un esplicito assenso, lo sconosciuto prese comodamente posto al mio
tavolo. Con decisione afferrò la bottiglia di arneis e se
ne versò una buona dose, che trangugiò all’istante. Poi,
strofinandosi una mano sulla bocca per non sprecarne
neanche una goccia, riprese a parlare.
«Certo che è accaduto, ed è strano che lei non ne
abbia mai sentito parlare. È una storia lunga, successa
all’inizio di maggio del ’76. Dopo un inverno lungo e
freddissimo aveva iniziato a fare caldo da poco, un caldo
eccezionale per quel periodo, fatto sta che una mattina
non si trovò più il persico da nessuna parte. Lo cercarono ovunque: giù al porto, nei ristoranti, nei negozi,
ma invano. Furono ispezionate palmo a palmo tutte le
rive del lago, sino a raggiungere la sponda lombarda,
ma ogni iniziativa si rivelò inutile: il persico era letteralmente svanito nel nulla.»
Nel frattempo arrivò il vassoio con il fritto e improvvisamente, come per magia, comparve in tavola un secondo piatto. Stupito, sospettai che il mio ospite se lo
fosse portato appresso da casa, magari nascosto sotto la
giacca.
Con disinvoltura si servì prendendo il pezzo di pesce
più grosso e invitante e proseguì il racconto masticandolo compiaciuto.
«Non appena in città si sparse la voce della sua sparizione, tutti si allarmarono. A memoria d’uomo, da queste parti non era mai accaduto un fatto simile. Dapprima
furono allarmati i barcaioli, nel caso lo scorgessero da
224
la cena in sospeso
qualche parte, poi scandagliati i fondali con un batiscafo
della Marina militare fatto arrivare appositamente da La
Spezia. Ma fu tutto vano: del persico non trovarono neppure l’ombra!»
A quel punto il mio ospite fece un lungo sospiro, poi
socchiuse gli occhi e si lasciò andare all’indietro contro lo schienale della sedia, quasi stesse rivivendo con la
mente gli avvenimenti di quei giorni.
Per mia fortuna si riprese in fretta. «Giovanotto, bisognava essere qui allora per capire l’aria che si respirava
a Stresa e in tutto il Lago Maggiore! Pensi che a quel
tempo il ristorante più in voga della zona era il Borromeo. Oggi, purtroppo, non esiste più, ma a quel tempo
stava sull’Isola Pescatori ed era stupendo e di grande fascino. Aveva ottenuto due stelle Michelin grazie al suo
piatto forte: il risotto ai filetti di pesce persico dorato,
una ricetta che in cucina si tramandavano di generazione
in generazione. Una vera delizia per il palato! Arrivava
gente da tutto il mondo per sedersi ai suoi tavoli e se non
prenotavi con mesi di anticipo rischiavi di non trovare
neppure un posto accanto alla cucina. Non ti restava
che sederti sulla riva dell’isola e guardare gli altri intenti
a mangiare!» Sorrise compiaciuto a quella sua battuta.
«Deve sapere che in quei giorni al Borromeo erano così
disperati per la mancanza del persico che chiusero il ristorante. Un episodio difficile da dimenticare!»
La storia mi stava intrigando sempre più. Non solo il
pesce persico scomparso dal Lago Maggiore, ma anche
un ristorante con due stelle Michelin chiuso! Come mi
era potuta sfuggire una notizia simile? Divenni curioso:
«Alla fine si riuscì a scoprirne il motivo?»
Il mio interlocutore scosse la testa: «Non subito. Nei
giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa
225
alberto pizzi
circolarono diverse ipotesi, che però si rivelarono ben
presto completamente infondate. Poi qualcuno iniziò a
mettere in giro la voce che dietro al fatto ci fosse la regia
di alcuni commercianti svizzeri o addirittura americani.
Si fantasticò a lungo su una partita di quasi cento quintali di filetti di persico esportata nottetempo all’estero
eludendo i controlli doganali. Una spedizione illegale,
secondo alcuni inviata in Brasile, secondo altri, invece,
addirittura in Giappone...» S’interruppe di colpo, lasciando vagare la frase nel vuoto.
Abboccai come un pesce. «Fu realmente questa la
causa?»
«Calma, calma. Non tragga conclusioni affrettate.
Le cose non andarono come lei immagina... non abbia
fretta... le ho detto che è una storia lunga...»
In effetti, anche se il racconto mi stava appassionando, dovetti riconoscere che un po’ di fretta ce l’avevo
davvero. Era mia intenzione di terminare la cena e tornarmene in albergo, l’indomani mi attendeva un’altra
impegnativa giornata di lavoro. Decisi comunque di
rimanere ad ascoltarlo sino a quando non avessi conosciuto il finale. Ribattei allora un po’ risentito: «Le ho
solo chiesto se con la sparizione del persico erano veramente coinvolti quei trafficanti stranieri!»
Lo sconosciuto scosse leggermente la testa, soddisfatto nel poter proseguire sia il racconto che l’annientamento del mio fritto. «No, non fu questa la vera
ragione!», esclamò. «Man mano che le indagini proseguirono ci si rese ben presto conto che quella non era
una pista attendibile. Le voci su quella partita di pesce
servirono solamente a riempire le pagine di cronaca dei
giornali locali, con l’unico risultato di far cadere i sospetti sull’Istituto italiano di Idrobiologia di Pallanza,
226
la cena in sospeso
dove da anni vengono studiate e monitorate le acque del
lago. Dal ministero inviarono in fretta e furia a Verbania
un loro funzionario con lo scopo di fugare ogni dubbio».
Sospirò. «Purtroppo l’arrivo da Roma di quell’ispettore non servì a molto... anzi, fu la causa dello strano
incidente che capitò di lì a poco...»
Un misterioso incidente? Per di più legato alla sparizione del persico? La faccenda si stava facendo di minuto in minuto più intrigante. Dovetti riconoscere che
il mio interlocutore aveva colpito nel segno: era riuscito
a sollecitare il mio interesse. Stavo letteralmente pendendo dalle sue labbra!
«Che cosa accadde di così grave?» fu la mia domanda
più ovvia.
Prima di rispondere si divorò un altro bel pezzo di
fritto.
«Successe una disgrazia, che sul momento apparve a
tutti inspiegabile e imprevedibile. E a restarne vittima
fu il professor Edoardo Sanna Bertola, allora direttore
dell’Istituto italiano di Idrobiologia. Ciò che però fece
più scalpore fu che la sua tragica morte avvenne esattamente dieci giorni dopo la sparizione del persico e, badi
bene, il giorno immediatamente successivo all’arrivo a
Verbania dell’ispettore ministeriale!»
«Posso sapere che cosa capitò esattamente?»
«Una mattina il professore, mentre si stava dirigendo
con il traghetto da Intra a Laveno, cadde inspiegabilmente in acqua e l’elica dello scafo lo ridusse letteralmente a brandelli. Deve sapere che il Sanna Bertola era
una brava persona, apprezzata per la passione e l’impegno che metteva nel suo lavoro. Originario di Genova, dov’era nato e cresciuto e dove per un decennio
aveva insegnato all’università, da qualche anno aveva
227
alberto pizzi
accettato di trasferirsi sul Lago Maggiore per dirigere
l’istituto. Una vita normalissima e all’apparenza senza
ombre, tanto che sul momento tutti credettero a un malaugurato incidente, causato probabilmente da un suo
improvviso malore... poi, con il passare dei giorni, ci fu
chi cominciò a dubitare che le cose fossero andate realmente in quel modo...»
«Ossia?»
«S’iniziò a sospettare che il professore fosse stato
spinto in acqua da qualcuno...»
Un omicidio premeditato? Pensai.
Allora lo incalzai, ancor più incuriosito di prima:
«Immagino che questa ipotesi colpì molto l’opinione
pubblica!»
«Certamente! Per giorni in provincia non si parlò d’altro, tanto che passò in secondo piano anche la scomparsa del persico. Non c’era persona che volesse credere
alla tesi dell’omicidio, anche perché nessuno tra chi lo
conosceva gli avrebbe augurato una fine così atroce.
Una morte che non si era meritato di subire...»
Lo interruppi. «L’incidente fu messo in relazione con
l’arrivo dell’ispettore da Roma?»
Egli approvò convinto. «Certo che fu collegato! Anche perché il professor Sanna Bertola stava lavorando
a un’importante indagine sullo stato dell’inquinamento
del lago. Un rapporto che avrebbe reso pubblico di lì a
poco e che, dalle prime anticipazioni, s’ipotizzava che
avrebbe creato parecchi problemi a molti, soprattutto
alle aziende chimiche del luogo, sospettate di scaricare
direttamente in acqua gli scarti delle lavorazioni. Veleno
allo stato puro per la fauna del lago! Non dimentichiamoci che la mattina in cui morì il professore era diretto
a Laveno per un ultimo rilevamento legato proprio a
228
la cena in sospeso
quella ricerca. Per questo motivo si era fatto accompagnare dall’inviato del ministero, che assistette in diretta
alla sua tragica fine. Uno spettacolo raccapricciante a
sentirlo raccontare, da far venire i brividi solo a pensarci.»
«La sua relazione alla fine fu pubblicata?»
«No. Non fu mai divulgata, anche perché non fu mai
ritrovata. Il professore la teneva gelosamente custodita
dentro la sua valigetta di lavoro, che però svanì nel nulla.
Eppure le giuro che la cercarono ovunque! Sfortunatamente in quel mese di maggio del ’76 c’erano parecchie
imbarcazioni di turisti sul lago e, non appena dato l’allarme, diverse barche si avvicinarono al traghetto nel
tentativo di prestare soccorso. In tanti ebbero il tempo
di impossessarsene e farla sparire prima dell’arrivo della
polizia.»
Un’altra prelibata forchettata di fritto emigrò velocemente dal vassoio di portata al suo piatto, accompagnata da un altro bicchiere di arneis.
«Fu eseguita l’autopsia sul corpo?»
«Secondo lei? Che domanda stupida! Certo che la fecero. Ma purtroppo servì a poco, se non a perdere tempo
prezioso. Il medico legale impiegò più di cinque giorni
per scribacchiare nel referto ciò che a tutti era parso ovvio sin dai primi minuti: visto com’era ridotto il corpo,
nessuno sarebbe mai stato in grado di stabilire con certezza se quel poveretto era stato gettato in acqua da
qualcuno o c’era finito da solo. Allora la procura iniziò
a indagare inseguendo ogni supposizione possibile.»
«Dev’essere stata un’indagine complicata...»
«Fu davvero così. Ci vollero giorni prima di riuscire a
capirci qualcosa, anche perché gli interessi in ballo erano
molto forti. Altro che commercio illegale del pesce! Ora
229
alberto pizzi
si parlava di multinazionali della chimica con fatturati di
miliardi di lire... con centinaia di posti di lavoro a rischio
e intere famiglie che dipendevano da quelle aziende. In
molti tremarono, sino a quando...»
«Sino a quando?»
Si fece più cupo in viso. «Fu grazie alle indagini dei
carabinieri se alla fine si riuscì a far luce su ciò che era
veramente accaduto e, le assicuro, fu davvero una grande
sorpresa per tutti.»
«Ossia?»
«Spulciando nell’archivio privato del Sanna Bertola, gli
inquirenti scoprirono che da circa un anno aveva aperto
a suo nome un conto corrente cifrato in Svizzera e che su
quel conto era transitato un fiume di denaro. Trovarono
traccia di decine di bonifici, sia in entrata sia in uscita.
Bonifici da milioni di lire ciascuno! Che non sarebbero
dovuti esistere... e che invece c’erano... Mi capisce?»
Mi fece un occhiolino e rise. Da quel gesto capii che
eravamo divenuti amici o, almeno, stavamo entrando
più in confidenza. Forse di lì a poco avremmo iniziato
anche a darci del tu.
Allora mi sentii in dovere di intervenire. «Certo che la
comprendo! In fondo la Svizzera non è troppo lontana
da qui. Di che bonifici si trattava? Soldi sporchi pagati
dalle industrie chimiche per addomesticare la sua relazione? Il professore era dunque corrotto?»
Ridacchiò. «Corrotto quello? Neppure per sogno! Lei
è giovane e si vede che non l’ha mai conosciuto. La verità venne a galla di lì a poco, quando i carabinieri svelarono che i bonifici in entrata su quel conto svizzero era
stato lui stesso ad averli ordinati!»
«Ciò significa che si corrompeva da solo?» Questa
volta toccò a me sghignazzare.
230
la cena in sospeso
«Sbagliato! Le cose non stavano come lei pensa! Le
ho già detto, e le riconfermo, che il professore era una
persona seria e rigorosa e non si sarebbe mai lasciato
comprare. Neppure era un evasore smanioso di portare
i propri risparmi oltre confine. Gli inquirenti scoprirono che quei soldi, non appena giunti alla banca svizzera, riprendevano immediatamente la strada di casa.
Ha capito bene? Rientravano nel giro di poche ore in
Italia!»
Cominciavo a non capirci più nulla. Per fortuna fu lui
a proseguire.
«Gli investigatori impiegarono poco a ricostruire che
tutto quel flusso di denaro era servito esclusivamente
per eseguire altrettanti bonifici di pari importo a favore
di un altro conto, questa volta invece aperto in Italia e
intestato a una donna...»
«Una donna?» Sobbalzai. «Il professore aveva dunque
un’amante?»
Sorrise a labbra socchiuse. «No, non era una sua
amante. Anzi, mi correggo: lo era stata... ma per un
breve periodo o addirittura per una sola sera. Dopodiché, per lui quella storia aveva preso una cattiva piega...»
Azzardai: «Allora era ricattato?»
«Tombola!», esclamò soddisfatto. «Devo ammettere
che questa volta ha indovinato! Vedo che sta migliorando! Ma torniamo a quei giorni: presto fu chiaro a
tutti che il Sanna Bertola era ricattato da una signora
con cui in passato aveva intrattenuto una relazione extraconiugale. Fonti ben informate riferirono dell’esistenza
di fotografie con lui ripreso in situazioni imbarazzanti
che, se inviate alla moglie, gli avrebbero fatto perdere la
famiglia e distrutto la carriera. E non era ancora tutto...
il meglio doveva ancora venire...»
231
alberto pizzi
Prima di proseguire, incurante della mia presenza, si
servì di un altro bel boccone di pesce. Adesso era lui a
trovarsi al centro della scena e dovetti riconoscere che
come attore non era niente male. Mi domandai se in
gioventù avesse recitato in qualche teatro di paese.
«Che altro emerse?» Gli chiesi.
«L’ispettore inviato dal ministero ci mise poco a far
venire alla luce rilevanti ammanchi di denaro dalle casse
dell’istituto, corrispondenti come data e come importo
ai bonifici spediti in Svizzera dal direttore. Fu presto
chiaro a tutti che quelle somme erano state sottratte dal
professore per sottostare alle richieste ricattatorie della
donna. Sfortunatamente per lui, l’improvvisa sparizione
del persico e il conseguente arrivo da Roma di quel funzionario scombussolarono i suoi piani.»
«Allora perché lo hanno ammazzato?»
Batté un pugno sul tavolo. «Non è stato un omicidio!
Da quel momento fu palese che quel poveretto si era
suicidato! Ha compreso ora? Si era tolto la vita di sua
iniziativa, per la vergogna e la paura della reazione che
avrebbero avuto la moglie e le figlie nell’apprendere sia
del tradimento che dei furti commessi!»
«Suicidato?», esclamai.
«Certo. Suicidato! Aveva fatto tutto da solo!»
Non mi accontentai di quella risposta troppo sintetica: «Ritrovarono un suo messaggio d’addio? Magari
una confessione?»
«Che io sappia non lasciò alcuna lettera. O almeno,
nel caso l’avesse veramente scritta, non fu mai rinvenuta. Si disse che prima di farla finita il Sanna Bertola
avesse infilato dentro la sua borsa di lavoro un foglio
indirizzato alla moglie ma, come le ho già detto, la borsa
andò persa durante l’incidente.»
232
la cena in sospeso
Ero sorpreso e nello stesso tempo stupito. «Riuscirono
almeno a scoprire l’identità della donna che lo aveva ricattato?»
«Naturalmente! Una poco di buono, ma è qui che
viene la parte più interessante! Fu grazie a quella donna
se si riuscì, con un po’ di fortuna, a risolvere il mistero
della sparizione del persico.»
S’interruppe. «Mi passa il sale per favore? Questa sera
il cuoco ha tenuto la mano leggera...»
Eseguii l’ordine. Ero totalmente al suo servizio.
«Era risaputo da tempo che quella donna era solita
circuire persone benestanti per poi estorcere loro del denaro. Non c’è che dire: una vera professionista in questo
genere di reati. Una volta individuata la possibile vittima, con uno stratagemma l’avvicinava e in poco tempo
ne conquistava la fiducia. Il passo immediatamente successivo era un invito a cena, meglio se in un ristorante
di lusso e a lume di candela. A quel punto diventava soltanto questione di tempo: quanto prima attirava il malcapitato in camera da letto, dove recitava la parte della
donna follemente innamorata e gli concedeva i suoi
favori all’istante. Era in quel frangente, grazie all’aiuto
di un complice, che riusciva a scattare quattro o cinque
fotografie di lui in pose compromettenti e il puzzle era
completato. Da lì in avanti, alle sue sfortunate vittime
non restava che sottostare al ricatto e versare alla donna
ingenti somme di denaro, oppure rischiare di tornare a
casa e trovarsi la moglie con uno di quegli scatti in mano
e la valigia con i vestiti già pronta sull’uscio...»
Rabbrividii al pensiero di mia moglie alle prese con
una di quelle fotografie. Meglio non pensarci!
«Tuttavia, fu proprio indagando su quella signora e per
merito dell’intuizione di un maresciallo dei carabinieri che
233
alberto pizzi
seppe collegare tra loro i due fatti di cronaca, che si riuscì
a giungere a una spiegazione sulla scomparsa del persico.
I militari si misero d’impegno e pedinarono la donna per
giorni e giorni, sino a che una sera, quando già stavano
perdendo ogni speranza, la videro entrare di soppiatto in
una pescheria sulla strada per Belgirate, poco distante dal
centro di Stresa. Non c’era alcun motivo valido per cui
dovesse trovarsi in quel posto e a quell’ora insolita della
notte. Perciò, insospettiti dal suo comportamento, i carabinieri fecero irruzione nel retro del magazzino e, dove
c’erano le vasche per la riproduzione del pesce, ritrovarono il persico. Ed era vivo! Era trascorso quasi un mese
dalla sua sparizione e, non appena la notizia divenne di
dominio pubblico, la gente in città tirò un sospiro di sollievo. All’indomani del ritrovamento il ristorante Borromeo riaprì i battenti e ricominciò a servire il suo delizioso
risotto ai filetti di pesce persico, per la felicità dei clienti.»
Inaspettatamente lo sconosciuto s’interruppe. Un
po’ deluso mi scrutò dritto negli occhi e mi disse: «Non
mi crede vero? Sta pensando che mi sia inventato tutto
quanto le ho raccontato?»
Annuii, mentre lui addentava anche l’ultimo pezzo di
pesce rimasto. Rivolsi per un attimo lo sguardo al vassoio del fritto, ormai desolatamente vuoto.
«Eppure è accaduto veramente...»
Fu allora che si alzò in piedi ed estrasse di tasca un
foglio di giornale ingiallito dal tempo e me lo porse.
Era un articolo de «La Stampa» di sabato 29 maggio
1976. Lo lessi.
Liberato il cuoco rapito
Piero Persico, il cuoco di Stresa di cui non si avevano notizie
da circa un mese, è stato liberato questa notte grazie all’inter-
234
la cena in sospeso
vento dei carabinieri che hanno fatto irruzione in una pescheria
poco distante dal centro città, dove il poveretto era tenuto segregato all’interno di un magazzino. L’uomo, conosciuto da tutti
in città come “il Persico”, è proprietario del rinomato ristorante
Borromeo, situato sull’Isola Pescatori e che oggi stesso riaprirà
al pubblico. Dalle prime notizie trapelate, pare che il rapimento
del Persico sia stato organizzato da una donna e da un suo complice, i quali sono stati arrestati nella notte. Sembra che l’uomo
sia stato rapito per essersi rifiutato di sottostare al tentativo di
estorsione ideato dalla donna, con la quale in passato aveva
intrattenuto una breve relazione clandestina. Recentemente la
stessa era stata già indagata per il suo coinvolgimento nel suicidio del professor Sanna Bertola, direttore dell’Istituto italiano
di Idrobiologia di Verbania, avvenuto nei giorni scorsi mentre
con il traghetto si stava recando da Intra a Laveno. Maggiori
informazioni saranno rese note durante la conferenza stampa
indetta dagli inquirenti per la giornata di domani.
Lo sconosciuto si riprese il giornale, bevve l’ultimo
sorso di vino e si allontanò in silenzio.
Restai basito e lo fissai mentre si allontanava.
Fu allora che mi si avvicinò l’oste.
«Ha rifilato anche a lei la storia del persico?»
«Sì. Come fa a saperlo?»
«È il suo modo di guadagnarsi la cena ogni sera...»
«Devo riconoscere che è stato convincente.»
«Lo fa da anni. È un vecchio pescatore del posto, che
durante la guerra ha aiutato mio padre a sfamare la famiglia e lui per gratitudine, prima di morire, si raccomandò che ogni sera il suo amico avesse il pasto assicurato. Io lo lascio fare con i clienti, poi, se non ci riesce,
ci penso io.»
Mi alzai da tavola, pagai il conto e uscii all’aria aperta.
235
alberto pizzi
All’improvviso fui avvolto da un profumo intenso,
un’essenza forte e intrisa di pesce, trasportata dal sottile
venticello che spirava dal lago. Veniva forse dall’Isola
Pescatori dove una volta si trovava il ristorante del Persico?
Sorrisi, per aver frainteso le parole del mio commensale.
Allora rientrai nella trattoria e diedi venti euro all’oste.
«Sono per la sua cena di domani, così per una sera
non dovrà raccontare la storia del persico a nessun
cliente», gli spiegai.
L’oste scosse la testa.
«Non lo farà. Lo conosco bene, senza quella storia
si sentirebbe inutile. I venti euro li terrò per l’inverno,
quando non ci saranno più turisti in giro ai quali scroccare una cena...»
Dopodiché, senza aggiungere altro, riempì due calici
di vino e brindammo in silenzio, con il miglior arneis al
mondo al retrogusto di pesce persico.
236
Benvenuto marescià
di Liana Righi
Anche se dalla finestra non si vede il lago e sono circondato di scatoloni, ci sarà tempo per disfarli, un urlo di
gioia mi nasce dal profondo: “Stresa, eccomi qui finalmente, attenti stresiani, il tutore dell’ordine è arrivato!”,
ma lo trattengo dentro di me: “d’altronde sono un carabiniere, un carabiniere tosto. Dopo gli anni passati a respirare lo smog di Milano ci voleva un po’ d’aria buona
e un po’ di meritato riposo dopo tutto il correre per Milano e hinterland”.
«Maresciallo Comunale, maresciallo!», il piantone mi
corre incontro ansando
«Sì? Mi dica appuntato.»
“Non c’è bisogno che ti affanni così per darmi il benvenuto”, penso.
«Maresciallo, al Des Iles è successo il finimondo. C’è
un cadavere nella junior suite. Lei è appena arrivato e
sono costretto a disturbarla mentre sta disfando le valigie. Mi scusi, sono costernato, proprio non ci voleva.
Mai successo qui, mai! Bisognerà chiamare Verbania,
transennare il sito. Lei pensa sia il caso di avvertire la
scientifica? Comandi maresciallo.»
L’appuntato sbatte i talloni, si mette sull’attenti, e porta
la mano tesa alla fronte. «Marescià, comandi che eseguo.»
“A posto siamo! A Milano almeno le valigie le ho sempre disfatte. Dalla padella nella brace, direbbe qualcuno
237
liana righi
che conosco; e non avrebbe tutti i torti! Ordine, ci vuole
ordine. Ma ora che cavolo faccio? Ormai sono io il capo.”
«Appuntato, mi riferisca tenendo conto che sono appena arrivato e non conosco il territorio. Il cadavere e la
junior suite su quale isola sono? A che ora è successo?
Ci sono segni evidenti? È già arrivata l’ambulanza? Ora
mi accompagni sul posto e mi spieghi esattamente cosa
è successo.»
«Allora maresciallo, ecco... esattamente stiamo andando al Des Iles Borromees. È il più antico Hotel di
Stresa, il più lussuoso, un vero 5 st...»
« Appuntato, la prego, eviti di fare la guida turistica e
si attenga ai fatti.»
«Ah già, mi scusi. Ogni tanto divago. Insomma ci
hanno chiamato perché hanno trovato un uomo morto
in una camera.»
«Questo l’avevo capito, ma cosa le hanno riferito in
concreto?»
«Che hanno trovato un uomo morto nella junior suite.»
«E...?»
«Non hanno aggiunto altro. La tempestività in questi
casi è importantissima e gli ho ordinato perentoriamente
di non toccare niente, che arrivavamo, e ho chiuso la telefonata per informarla immediatamente senza perdite
di tempo.»
“Benvenuto maresciallo Edotto Comunale. Ecco la
punizione per essere fuggito da Milano! Trovi un puro
italo/franco/latino che divaga per diletto ma, in fondo,
molto in fondo, essenziale sul lavoro. Complimenti, sei
arrivato dove desideravi: luogo piccolo e tranquillo con
collaboratori preparati.”
Giunti all’Hotel parcheggiamo nel piazzale retrostante,
dove troviamo la direttrice sulla porta che ci aspetta.
238
benvenuto marescià
«Benvenuto Maresciallo, venga», voltandosi si avvia
velocemente. Seguo il suo didietro fasciato nell’aderentissimo tubino nero dell’elegante tailleur.
«La cameriera del piano», mi spiega trafelata camminando spedita, «quando ha aperto la porta della suite
ha visto il cadavere alla scrivania ed ha iniziato a urlare!
Io, sentendo un gran trambusto, sono corsa di sopra
in fretta e furia. Ho trovato la cameriera, bianca come
un fantasma, sorretta dall’addetto ai piani, sulla soglia
della junior suite. Il battente era spalancato e all’interno
si vedeva un uomo immobile, con la testa riversa sullo
scrittoio e una mano penzoloni. Ho capito subito che
non dovevo inquinare la scena... sa guardo RIS. Poi vi
ho chiamato col cellulare e ho chiuso la stanza a chiave,
ordinando alla cameriera e al collega di piantonare la
porta fino a nuovo ordine.»
“Questa deve essere un’altra che si lascia suggestionare dai thriller come mia madre. Se il poveraccio aveva
ancora una minima possibilità di salvarsi, l’improvvisata detective lo faceva morire! Manca solo che mi dica
di fare i rilievi a scacchiera e siamo a posto. Una cosa è
certa, non sono più a Milano. Ma il dubbio è: sono fuori
o dentro un manicomio?”
«L’ambulanza non è ancora arrivata?», chiedo speranzoso.
«L’ambulanza?» Si blocca e si gira fissandomi con i
suoi occhioni da cerbiatta a bocca aperta, quasi senza
respirare.
“Beccata! Cara la mia direttrice/detective in erba questo è un errore grave, gravissimo.”
«Certo, l’ambulanza, l’avete chiamata, vero?»
«Ecco, veramente... ho pensato che avreste provveduto voi.»
239
liana righi
“Già, lei è Kay Scarpetta, perché deve chiamare
un’ambulanza?”
Sono fuori di me: l’arrivo alla porta della suite presidiata dai suoi aiutanti di campo la salva dalle mie ire.
Lei, tremando, estrae dalla tasca la chiave e me la fa vedere infilandomela quasi nell’occhio. Gliela strappo di
mano, apro e mi affaccio nel salotto stile impero, dove
i toni dell’azzurro si perdono nel blu del lago attraverso
la finestra spalancata sul terrazzo. Mi basta un’occhiata
per constatare che il corpo accasciato sullo scrittoio è
morto stecchito che più non si può. “Almeno su questo
punto la bella direttrice ci ha azzeccato”, penso.
Occhi spalancati! “Che ore sono?” Dalla finestra non passa
un filo di luce. “È ancora notte, pensa positivo, pensa positivo”, mi ripeto. “Dormi ancora un po’. Ma cavolo, quel tonto
dell’Iscariota doveva proprio spiattellare tutto? Mai fidarsi dei
sottoposti, gli dai tutto, premi di produzione, benefit, chiudi
gli occhi sui loro truschini e poi arriva la pugnalata: invece di
lealtà e fedeltà ti pugnalano alle spalle. Sono le sei, mi alzo?
No, non ce la faccio più! Voglio dormire, voglio dimenticare!”
Suona la sveglia. “Finalmente le sette, alzati, dai!” Via le
coperte, una gamba dopo l’altra scendo dal letto. “Dai che c’è
il sole, vedrai che la vita ti sorriderà e, come sempre, the complicated situation sarà solo una nuvola passeggera.”
L’ufficio è nel caos. Sarà meglio parlare chiaro con i Capi
Area, così che lo sputtanamento dell’Iscariota sia contrastato e,
soprattutto, siano limitati i danni.
Ingiungo alla segretaria di convocare immediatamente un
briefing preparatorio per la riunione del CDA e di prenotarmi
la solita suite al Des Iles per domani sera.
Pausa pranzo. Ho le budella attorcigliate, il Colle non risponde al telefono. Siamo alle solite! E il CDA si riunisce tra
240
benvenuto marescià
cinque giorni, merda! Domani the ugly affair dovrà essere risolto definitivamente, gli occhi del mondo sono puntati su di me.
“È inevitabile, anche stasera devo fare la solita apparizione
pubblica con quella vacca di moglie che mi ritrovo, maledizione, è da anni che mi succhiano il sangue, lei e il suo bello.
Certo, fanno parte della messinscena che sono obbligato a portare avanti altrimenti gli amici mi tagliano le palle. Ma cari
amici miei, forse non lo sapete ma sono io a tenervi per i cosiddetti. Arriverà il momento in cui le vostre vuote scatole cinesi
saranno aperte una a una, e lì arriverò io con le prove dei mille
inciuci politico finanziari che vi legano alla loggia.”
«Cosa mi può dire del morto? Chiedo alla detective
dentro.»
Lei, più pallida del cadavere, mi spiega che è un
cliente abituale ed è solito soggiornare qualche giorno,
ogni tanto, per rigenerarsi utilizzando la meravigliosa
spa dell’Hotel.
“Ecco un altro spot pubblicitario campanilistico, ma
dove sono capitato?”
«È arrivato ieri nel primo pomeriggio ed è salito subito in camera, non mi sembra di ricordare di averlo visto in giro per l’hotel.»
Vedo una bottiglia di champagne rosé piena a metà
sul vassoio vicino a due bicchieri. «Mi trovi chi ha portato lo champagne», dico alla direttrice.
«È stata ordinata al momento della prenotazione
dalla sua segretaria, che ha chiesto di fargli trovare il
rosé ghiacciato, invece del solito krug, in camera; la bottiglia è stata messa nella suite mentre faceva il check-in
di sotto.»
“Strano, un uomo che cambia il solito con un rosé,
sicuramente più amato dalle donne.”
241
liana righi
Intanto che aspetto il medico legale, ispeziono il salotto e il balcone semicircolare, lo sguardo va all’Isola
Bella: l’impressione è quella che basti allungare il braccio per accarezzarla. “Per fortuna questo splendore sarà
la mia quotidianità.”
Occhi spalancati! “Che ore sono?” Dalla finestra non passa
un filo di luce, ancora notte, ancora pensieri che mi aggrediscono, un altro giorno da affrontare.
“Per fortuna stanotte niente apparenza. Solo io e lei... lei
finalmente tra le mie braccia e, come la venere di Botticelli,
mi avvolgerà nel suo profumo. Non vuole nulla da me, nessun
regalo. Anzi, mi ha vietato di portarle qualsiasi cosa: vuole solo
me. Ma io le farò trovare una bottiglia del suo champagne preferito, e con questo dolce pensiero mi riaddormento.”
Suona il cellulare. Accidenti, mia madre, proprio non
ci voleva! Oggi mi va tutto storto!
Rispondo. «Ciao, dimmi.»
«Edo caro!»
“Già, perché lei prima m’impone il nome Edotto, che
accoppiato al bellissimo cognome Comunale è tutto un
programma, e poi non ha il coraggio di chiamarmi per
nome!”
«Come sono contenta che finalmente tu abbia lasciato
Milano, avvicinandoti a casa. Inoltre, fortunello, ho saputo che hai già un bel cadavere per le mani.»
«Sai che fortuna! Comunque ci sentiamo dopo», tento
di tagliare corto.
«Edo... aspetta!»
«Sono impegnato, ti chiamo tra cinque minuti», e
chiudo il cellulare. “Tanto qui è un manicomio, sono
tornato a casa no?”
242
benvenuto marescià
Il medico legale ha finito i rilievi e mi farà sapere
dopo l’autopsia. Il cadavere è stato rimosso, andiamo
a parlare col capitano a Verbania e poi finalmente sarà
finita la mia prima giornata da maresciallo Capo nella
ridente e tranquillissima perla del Lago Maggiore. “Ma
chi me l’ha fatto fare di venire qua?”
Suona la sveglia. “Già le sette? Alzati su! Giornata di cacca,
lo sento nelle viscere.” Accendo la TV e, dal TG, il faccione
dell’Iscariota mi fissa con il suo sguardo da pesce lesso. Sotto
scorre la scritta: confermato dal GIP il fermo cautelativo.
Bloccato il rischio inquinamento prove.
Non riesco nemmeno a digerire la notizia che appaio io al braccio di mia moglie. “Ma proprio dopo la notizia dell’Iscariota dovevano mettermi? L’hanno fatto apposta? Sospettano qualcosa?
“Ma dai, non essere sospettoso, è tutto a posto. Ieri sera sembravi
proprio in forma, guarda la Vaccona, veramente esplosiva! Non
fosse così adatta al ruolo, me ne sarei liberato da tempo.”
Più tranquillo mi dirigo in bagno pensando alla bella serata
che mi attende, ma il pensiero torna sempre lì. “Ma quali rischi
d’inquinare le prove? Bah! È solo un deficiente che non sa proprio niente, una pedina usata e riusata a sua insaputa. Sono
sicuro che la linea condivisa nella riunione di ieri è vincente,
deve esserlo per forza altrimenti la nave affonda. Merda, non
farò peggio di Schettino!”
«Maresciallo», urla l’appuntato dall’altra stanza, «è
arrivato il risultato dell’autopsia con gli interrogatori dei
collaboratori del De Cuius.» E facendo capolino nella
porta del mio studio, guardandomi negli occhi continua:
«Sua madre ha lasciato detto che l’aspetta per una pizza
nella piazzetta stasera.»
“Du Cuiun, ecco cosa mi aspetta!”
243
liana righi
«Appuntato, lasci pure tutto sulla mia scrivania grazie.»
“Devo mettere un freno alla parentela altrimenti non mi
salvo più”. Una rapida lettura dell’autopsia dà conferma
ai miei sospetti: aveva usato del veleno per suicidarsi.
Guido come in trance fino all’Hotel. Finalmente sono arrivato: posteggio nel garage sotterraneo e mi sento completamente distrutto.
L’atrio, nel suo antico splendore, mi avvolge come un abbraccio materno, al banco Giuseppe mi sorride.
«Bentornato dottore, ecco la chiave della sua suite, le auguro
un buon soggiorno.»
Salgo al primo piano, entro, la porta si chiude alle mie spalle.
Mi ci appoggio svuotato di ogni energia, getto il trolley in un angolo. D’improvviso devo correre in bagno, sono scosso dai conati.
Lo specchio riflette una faccia che non è la mia, non può essere la
mia! Quello che mi guarda è un cadavere, uno zombie, non sono io.
Una doccia gelata mi riporta alla realtà.
“Pensa positivo, pensa positivo”, mi ripeto mentre mi getto
sul letto e mi avvolgo nel copriletto azzurro come in un caldo
abbraccio ristoratore.
Accidenti sono troppo teso, arrivi o no?
Controvoglia, ma costretto dall’ansia dell’attesa, accendo la
TV; la faccia da schiaffi dell’Iscariota ancora una volta mi fissa
dallo schermo: ha consegnato le prove in suo possesso, sono stati
messi i sigilli agli uffici dirigenziali, s’ipotizza truffa ai danni
della banca con possibili concussioni politiche, inquisito il CDA.
“Cazzo! Io sono l’AD! Allora Roma mi ha incastrato!”,
esclamo inconsapevolmente ad alta voce.
Eccola, seduta come al solito, al tavolo vicino al forno
della pizza: anche se fuori ci sono 30° lei ha sempre
freddo, mannaggia!
244
benvenuto marescià
«Ciao Edo, ma sei solo? Samy e i piccoli non sono
venuti?»
«Sono in montagna, ma vedo che anche tu sei sola. Il
papà?», mi chino per ricevere il solito stritolamento simil
abbraccio materno.
«È a lavorare. Io ne ho approfittato per una piccola
messa in ordine alla carrozzeria, e...»
«E?», intanto mi divincolo dai suoi tentacoli.
«E ti ho risolto il caso del delitto del Des Iles; brava la
tua mamma, vero?»
«Ma che dici, non leggi i giornali? Era un suicidio,
SUICIDIO, comprendi? Sei connessa? Punto! Caso
chiuso! Fammi il piacere di non intrometterti nel mio
lavoro, intesi? Tieni le tue fantasie criminali nel cassetto
e in caso ti chiedessero il nostro grado di parentela...
Adozione a distanza!»
«Edo, sai che la tua mamy non sbaglia mai. Si purtroppo è solo un omicidio e non un bel serial killer, ma
come benvenuto possiamo accontentarci no?»
“Se avessi saputo che era sola col piffero che venivo.”
«Come avrai letto e sentito dai telegiornali, aveva problemi finanziari e la moglie che voleva lasciarlo per il
suo più caro amico Presidente della più grande Banca
d’Italia. In aggiunta, era in cura da anni con psicofarmaci. È stato un suicidio da manuale con foglio d’addio
conciso e chiaro in tasca.»
«Edo, Edo, sei mio figlio o cosa?»
«Mah, dei dubbi li avrei...»
Nessuno la vede lasciare la spa, invece di scendere nell’atrio,
sale al primo piano. Nessuno direbbe che quella bionda evanescente fa la killer di professione. Nessuno la immaginerebbe
spietata e impassibile in una suite di lusso. Eppure nessuno
245
liana righi
meglio di lei è capace di eliminare gli ostacoli sul cammino dei
potenti.
«Guardami, oggi ho fatto una piacevole seduta di restyling alla spa del Borromeo, guardami», mi sorride ruotando le spalle e la testa come una modella. «Va be’, lasciamo perdere, tu per i complimenti a tua madre sei come
il Sacro Graal: cerca cerca e mai lo trovi. Comunque sono
stata quasi tre ore e mezzo sotto le mani di due estetiste, più
venti minuti di attesa e un altro quarto d’ora a pagare e ho
potuto parlare con tutte. Sì, ho proprio parlato con tutte.»
«Non metto in dubbio che tu abbia parlato, parlato e
parlato con tutte, e anche che hai impiegato un quarto
d’ora a pagare. Già vedo la faccia di papà quando controllerà l’estratto conto della carta di credito.»
«Tanto non mi distrai, no, no, no. L’argomento era il
morto: sembra che le ultime due volte che lui è andato
alla spa si sia incontrato, tra un trattamento e l’altro, con
una ragazza molto bella. Si sono salutati come se non
si conoscessero ma l’aria intorno a quei due trasudava
sesso, sesso puro.»
«No! Non mi dire! Dovrò far analizzare l’aria della
spa dopo aver delimitato l’area per proibire l’ingresso ai
minori di diciotto anni.»
«Tu lo sai che noi donne abbiamo un senso particolare per gli intrighi amorosi, ne sentiamo l’odore da
lontano. Ci basta vedere uno sguardo scambiato e, tac,
abbiamo capito tutto. E alla spa hanno capito! Poi, se
aggiungi quello che hanno saputo dalla cameriera dei
piani...», chinandosi verso di me mi stringe il polso per
impedire una mia fuga, e continua sottovoce: «In camera della ragazza, una economica piano alto con vista
giardino, prenotata con le offerte internet, non era stato
246
benvenuto marescià
usato né il letto né un asciugamano. Per cui la seconda
volta che è arrivata alla spa hanno rizzato le antenne e
sono state ancora più attente. I due entrano nella spa
negli stessi orari. Escono dall’hotel negli stessi orari, la
camera della ragazza non usata, camera di lui con “non
disturbare” appesa sempre sulla porta, e lenzuola usate,
anzi strausate, come pure gli asciugamani.»
«E allora? Il fantasma della ragazza è rimasto nell’aria aspettando il ritorno del riccone e questa volta invece
del sesso l’aria era intrisa di veleno e l’ha ucciso?»
E qui l’ava di cotanto maresciallo si blocca e mi fissa
sgranando gli occhi.
«Va bene che i carabinieri devono sempre essere in
due per ovvie ragioni di opportunità, ma tu sei fortunato: hai la tua mamma e non hai bisogno dell’altro, con
grande risparmio dell’Arma, dillo al tuo Generale, mi
raccomando, magari mi dà una medaglia.»
«Sai cosa dirò all’appuntato e a tutta la caserma? Che
sono orfano e che c’è una pazza psicopatica che si sta
spacciando per mia madre, e pertanto di stare in campana. Io lavoro hai capito? IO LAVORO!»
«E io ti aiuto caro. Tu lo sai che il giorno dell’omicidio...»
«Suicidio.»
«Omicidio, la bella era alla spa fino alle 15.30. Lo sai
che era molto nervosa?»
«No, non lo so e non lo voglio sapere. E poi è forse
vietato fare trattamenti di bellezza ed essere tesi? Tu sei
un’assassina perché li fai?»
Finalmente la porta si apre. Eccola: entra evanescente e leggera con tutta la sua dirompente bellezza. Il suo profumo m’inebria e come per magia il mondo è tutto mio, sono ancora e
sempre il re della finanza, e la politica è al mio servizio.
247
liana righi
Ci abbracciamo e ridendo abbracciati balliamo fino a cadere
sul letto.
“La voglio”, penso beato.
Lei armoniosamente si scioglie e mi prende per mano alzandosi. «Amore mi sei mancato tanto, non immagini quanto!»
Sorride, fa finta di scappare, la raggiungo, l’abbraccio, la bacio, siamo vicini allo scrittoio, mi siedo e la attiro sulle mie gambe.
«Oh caro, il rosé! Per me, vero? Come ti amo!»
E brindiamo.
***
«Stai a sentire, sciocco: il giorno dell’omicidio lei era
qui, verso le 15.30 è uscita dalla spa, che si trova al
mezzanino che è collegato alle camere da un corridoio,
e questa volta non aveva la solita camera economica.
NON AVEVA CAMERA, inizi a capire?»
«Capisco che devo parlare col papà e farti ricoverare,
basta sprechi nelle spa iniziamo a curare l’Alzheimer.»
«Edo, ma si dice così alla tua mamma? Immagina la
hall dell’hotel: lei entra dalla porta sul lago, pochi metri, supera il corridoio che porta alle sale da pranzo,
sale nella spa e, finiti i trattamenti di bellezza non esce
ma, passando dal corridoio che collega le camere alla
spa, raggiunge la junior suite e lo ammazza. Finito il
lavoretto si allontana tranquilla ripercorrendo il tragitto
inverso. Ti faccio notare, maresciallo carissimo, che se
non ha incontrato nessuno nei corridoi, nessuno la vede,
essendo la reception sul retro, e puff, sparisce. Allora,
cosa mi dici?»
Rimango senza fiato, la nuvola scura che aleggiava
nella mia testa diventa più chiara. “Se è vero ciò che dice
questa donna, che in fin dei conti, forse, mi ha dato i na-
248
benvenuto marescià
tali, potrebbe non essersi suicidato col rosé. Per di più,
onestamente, ho sempre dubitato del suicidio.”
«Edo, taci perché sei orgoglioso della tua mamma e
non sai come ringraziarla?»
«Taccio perché voglio finire la pizza fin che è calda e
andarmene a casa a riposare. Ti consiglio di fare altrettanto e cerca di non insegnare ai gatti a rampicare.»
“Se non la ridimensiono un po’ questa qui va a finire che si stabilisce in caserma! Così fuochi d’artificio
a Gogò tutto l’anno con mia moglie, allegria! Però domani devo fare un giretto al GH.”
«Anzi, fammi un favore, prestami la scopa che faccio puff anch’io.» E con mossa abile delle spalle evito lo
scappellotto materno
***
Ho chiamato il capitano accennandogli alcune novità
sul caso e lui è stato veramente disponibile a ricevermi
subito, così, senza preavviso. Ora come la metto giù?
Mica posso dirgli che le indagini di quella folle di mia
madre, fanatica lettrice di thriller, hanno portato alla
luce elementi per i quali sarebbe necessario un supplemento d’indagini, porca miseria! Non posso dirgli così.
«Maresciallo buongiorno, si accomodi, la sua telefonata ha preceduto di poco la mia. Avevo proprio bisogno di vederla di persona per congratularmi con lei per
come ha gestito il caso del suicidio del Des Iles. Ottimo
lavoro, complimenti, tenuto conto dell’importanza del
personaggio coinvolto e degli interessi nazionali legati al
defunto, in questo delicato momento politico, non posso
che dirle bravo Maresciallo capo!»
«Capitano, la ringrazio per il suo elogio, ma come le
249
liana righi
ho accennato al telefono, ero venuto a parlare proprio di
questo caso poiché dei nuovi elementi potrebbe...»
«Allora mi dica maresciallo, come si trova a Stresa? È sistemato bene? Devo dirle che sono davvero felice di averla
qui, soprattutto per la professionalità e la discrezione con
cui ha gestito il problema nato proprio il giorno del suo
insediamento al Comando della Stazione di Stresa.»
«Così m’imbarazza capitano. Sono onorato che lei
abbia voluto me come comandante della stazione di
Stresa e assicuro il massimo dell’impegno. Come le ho
accennato al telefono...»
«Caro maresciallo, sono ancora più convinto della
bontà della scelta nel darle il suo primo comando qui, e
spero, che rimarrà per lungo tempo con la sua famiglia.
I suoi bambini vanno alle elementari, vero?»
«Sì, capitano, tutto a posto, tuttavia...»
«Detto tra noi, maresciallo, so per certo che avrà a
breve un avanzamento di carriera, il Generale mi ha
confermato che sarà nominato luogotenente.»
«Grazie dell’apprezzamento, agli ordini, chiederei mi
fosse concesso il permesso di dire che...»
«Certamente, però ora devo proprio lasciarla, me lo
dirà la prossima volta, intanto si riposi, se lo merita dopo
l’ottimo lavoro svolto, si guardi in giro con calma senza
fretta, prenda possesso del territorio, buona giornata.»
Gstaad, Chalet isolato nella frazione quasi eterea di Abländschen: nel caldo salotto affacciato sul balcone con piscina da cui
salgono ali di vapore, ci sono un uomo e una bella donna, ma
la scena non ha nulla di particolarmente romantico. L’uomo
è seduto, indifferente e serio porge una piccola Vuitton alla
donna, dalla quale lei estrae dei fogli simili a estratti bancari.
La donna li controlla attentamente e finalmente sorride.
250
benvenuto marescià
«Soddisfatta?», osserva con un sogghigno l’uomo.
«Okay», risponde lei.
«Hai seguito le istruzioni per arrivare qua?»
«Certo, alloggio in un modesto alberghetto prenotato via internet, oggi ho fatto la solita sciata, ho lasciato le mie amiche al
bar sulle piste dicendo che avevo un po’ di mal di testa, e che ci
ritroviamo stasera per cena e domani partiremo.»
«Bene, allora non abbiamo più niente da dirci. Addio.»
Buona giornata un cavolo! Liquidato dal capitano
con un elogio, una botta sulla spalla e una probabile
promozione in arrivo. Che cosa vuoi di più Maresciallo
Edotto Comunale? Miss Marple non può avere ragione,
accidenti a lei! In fin dei conti il maresciallo sei tu. Maresciallo con la M maiuscola e una madre semi inferma
mentale che si sente Miss Marple non può metterti in
crisi con le sue fantasie di un caso Calvi a Stresa.
Mettendosi il cappello in testa sale sull’auto dei Carabinieri e, fischiettando, torna in caserma. “D’altronde
statisticamente il Lago Maggiore in confronto a Milano
è un’isola felice e, con quanto è successo, sono a posto
per almeno 15 anni”.
Suona il cellulare. “Accidenti, neanche alla guida
della carambaspider posso stare tranquillo.”
«Sì? Pronto!»
«Maresciallo, maresciallo!»
Ma sto appuntato è sempre angosciato?
«Dica appuntato, sto tornando da Verbania.»
«Marescià, quaquattro mo, quattro mo...»
«Cosa? Quattro motoscafi, cosa hanno fatto?»
«Marescià, quattro morti, ancora quattro morti.»
E un urlo incontenibile esce profondo e violento dalle
mie labbra. «No!»
251
L’amaro del Mottarone
di Renato Rizzi
«Avrei voglia di un gutìn di Amaro del Mottarone.»
Così aveva detto don Marco prima di bere un bicchiere di amaro del Mottarone e prima di trovare il silenzio che desiderava. Per sempre, però.
Era la stessa storia che il Menga, sacrestano della
chiesa San Giovanni di Montorfano, sopra Mergozzo,
raccontava ai turisti che visitavano la chiesa romanica a
croce latina.
Si soffermava più su questo che sulle origini paleocristiane e sulle caratteristiche storiche e architettoniche
della bella chiesa.
Il Menga lo faceva per ammantare di mistero una
morte da tutti considerata più che naturale, considerata
l’età pluriottuagenaria del prete e l’assenza di benché
minime maldicenze.
Quel sabato i turisti erano in realtà un manipolo di
amici appartenenti al «Gruppo Antichi Piloti» che, grazie a un organizzatore di primo livello in percorsi panorama-cultural-gastronomici, come li chiamava lui,
Rinaldo, in primavera organizzava gite nei dintorni del
Lago Maggiore. Quell’anno avevano visitato Vogogna,
le Cento Valli, le cascate del Toce. Si chiamavano così
perché, oltre che antichi – i più giovani avevano sessanta, i più antichi ottantaquattro anni – erano tutti appassionati proprietari chi di una, chi di quattro, chi di
252
l’amaro del mottarone
addirittura quattordici auto d’epoca . Arrivavano all’appuntamento soli o accompagnati da consorte, figli, nipoti. Un equipaggio era composto dal pilota sessantanovenne e madre novantatreenne un po’ incerta sugli
arti ma grande divoratrice di antipasti, primi, secondi,
contorni, dessert, vino, acqua, caffè, liquorino.
Sergio Polverieri andava sempre da solo. Aveva persino partecipato alla Mille Miglia con una Balilla Coppa
d’Oro, ma ormai non si iscriveva più ai raduni, preferendo seguire il suo amico Rinaldo organizzatore e creatore del gruppo. Quel sabato era arrivato a bordo di una
fiammante Flaminia Zagato Superleggera e ascoltava
incuriosito il racconto del Menga. Ex produttore di profilati di alluminio – aveva venduto macchinari e magazzino a un polacco che parlava solo la propria lingua – si
incuriosì, abituato com’era alla precisione.
Si chiedeva perché mai l’amaro del Mottarone fosse
così potente da avviare al Creatore un pur attempato suo
servitore in men che non si dica.
Non prestò infatti attenzione alla battaglia tra il
Menga e Rinaldo, il quale, forte di una accurata preparazione, aveva svolto ricerche sia sul borgo che sulla chiesa
e infatti declamò, senza leggere, ma andando a braccio,
con una memoria prodigiosa ma dalla durata limitata:
«Uno dei primi riscontri storiografici risalente al 1603
indica un luogo dove – e qui si mise in posa come un
attore di Strehler – vi è una villetta de dodici fuochi, dove si
vede una chiesa antichissima di San Giovanni la quale fu fatta
al tempo degli Apostoli, et vi sono molte sante reliquie de diversi
santi et è sottoposta alla cura di Mergozzo et ivi sopra v’era un
fortissimo castello del quale anco si vedono i fondamenti et appresso in detto luogo v’era anticamente un monastero et detta
chiesa aveva molte entrate.»
253
renato rizzi
Colpito da tanta erudizione il Menga si aggiustò il
cardanel – un tipico cappello a lobbia – e, piccato, disse
quasi gridando: «Ancora prima nell’anno 885 dopo Cristo un testamento indica la necessità di provvedere per
l’olio che occorreva alla illuminazione per la festa di
Santa Maria di Novara, cioè il duomo, attraverso la produzione di olivi posti proprio nel territorio di Mergozzo
che aveva per confine da un lato la terra di San Giovanni
e dall’altro la terra che spettava alla corte di Pallanza
e inferiormente il lago Stacionense. Sì, perché allora il
Lago Maggiore e quello di Mergozzo erano uniti.»
Gongolando guardava il Rinaldo come dire «eh? Che
ne so più di te?»
Prima di avviarsi verso l’unica trattoria, vero scopo
della combriccola di amici, dopo che ciascuno aveva lasciato nel piazzale le amate auto d’epoca, si incamminò
da solo sulla piana, contornata dal bosco ricco di castagni, betulle, querce e percorsa da un ruscello che bagna
due antichi lavatoi.
Il borgo, contò il Sergio, era composto da nove nuclei abitati antichi e quattro recenti ed era percorso dalla
strada detta il Ronco del Vescovo, che portava alla trattoria superato il ponticello costruito sopra il ruscello,
una fontana, il lavatoio.
Percorso il Ronco, il Sergio Polverieri, sempre rimuginando e ripromettendosi di provare anch’egli il famoso
amaro, si imbatté in un gruppo composto da una ventina di ragazzoni, vestiti alla boy scout, ma tutti più sul
versante sbagliato della trentina che su quello della adolescenza.
Non sembravano italiani. Infatti l’accento teutonico
faceva trasparire una origine svizzera, tedesca o tutt’al
più scandinava.
254
l’amaro del mottarone
Si domandò che cosa ci facessero in un posto come
quello e decise di seguirli, con un fare da allocco. Per
sicurezza s’intende.
Il gruppo proseguiva cantando con un tono religioso-militaresco fino a scomparire dietro una radura in
una sorta di area recintata sormontata da un cartello
dalla scritta «Gemeindezentrum Rezeption». Sulla porta
di una bella, solida, rustica abitazione un poco scolorita
appariva la scritta «Evangelische Kirche».
Il Sergio si fermò accigliato, tornò farfugliando sui
suoi passi, proseguì lungo il Ronco del Vescovo e si
trovò su un sentiero che portava a una stalla ospitante
degli asinelli.
Si sedette su una roccia fumando una Gauloises
quando fu spaventato da un «Gesundhetsbewusste.
Tod erwartet den sunder» gridato da uno spiritato dalla
lunga, sporca, grigiastra tonaca.
Il Sergio gridò «aiuto aiuto» facendo correre via lo spiritato e accorrere il Roncaccio, proprietario della stalla.
«Ma cusa l’è sucèss?» Chiese il villico.
«Ho visto il diavolo che mi diceva cose tremende in
una lingua tremenda» rispose il Sergio.
«Avrà detto che devi morire, come al solito» rispose
calmo il Roncaccio.
«Ah meno male, adesso mi sento più tranquillo.»
«Ma no, dai! È un tipo matto. Ma non è pericoloso.
Oh, ma sento là in fondo che qualcuno chiama Sergio
Sergio.»
«Sono i miei amici. Arrivederci. Grazie.»
Ancora un po’ scosso, fece il sentiero a ritroso e raggiunse quella decina di amici con rispettive consorti,
una vecchia madre, due bambini per finalmente mettere
i piedi sotto al tavolo.
255
renato rizzi
Anna e Giosuè, i due ristoratori, portarono i loro prodotti che i commensali divorarono e alla fine del pasto
Sergio chiese loro se avessero il famoso amaro del Mottarone.
Entrambi lo guardarono meravigliati e dissero che
lì nel borgo solo padre Hans, il prete spretato della ex
chiesa protestante, era solito berne un goccio.
«Come spretato?» Domandò il Sergio.
«Eh be’, è una storia lunga», fece Giosuè. «Il padre
Hans venne qui saranno ormai trent’anni fa, acquistò
una bella casa, restaurò quella bella chiesa di granito che
si vede ancora e rimise in piedi la scuola. Devi sapere
che questa zona alla fine dell’Ottocento era piena di protestanti, tanto che a Intra c’è una chiesa Metodista con
un bel campanile che si vede sia dalla strada che attraversando il lago. Insomma, i predicatori protestanti fino
alla prima guerra mondiale si rivolgevano ai più poveri,
agli operai, con i soldi degli imprenditori svizzeri, protestanti, che avevano messo su fior di industrie sul lago.
Quando cominciarono a costruire il traforo del Sempione, gli operai impegnati nel lavoro trovarono nei predicatori protestanti la soluzione a tanti problemi, tipo
una scuola, la biblioteca, un dopolavoro e una sala di
culto. Montorfano alla fine dell’Ottocento si convertì totalmente al protestantesimo grazie al lavoro del pastore
di Intra e così venne costruita la chiesa dagli operai che
lavoravano il granito e una scuola che rimase aperta fino
alla seconda guerra mondiale.
Pensa che qui ancora oggi sono grati alla chiesa protestante, che esiste ancora a Intra, perché loro furono i
primi a costruire un ricovero per bambini poveri, una
specie di asilo-orfanotrofio per i bambini discriminati o
rimasti orfani.
256
l’amaro del mottarone
Padre Hans venne qui verso la fine degli anni Settanta
e accolse gruppi di fedeli che si misero a disposizione dei
«minimi», come dicevano loro. Rifugiati, immigrati. Era
benvoluto da tutti. Andava in giro con una tonaca, sempre, anche quando faceva freddo. Forse si metteva uno
scialle di lana, ma solo quando era proprio tanto tanto
freddo. Faceva l’orto, curava le piante da frutto, allevava
polli e conigli, vendeva un po’ di cose artigianali di legno
al mercato che scambiava con pane, olio, vino, vestiti.
Insomma, una gran bella persona. Severo, taciturno,
ma generoso. Non chiedeva mai. Non ne aveva bisogno.
La gente andava da lui e gli faceva un’offerta senza una
parola e senza chiedere nulla in cambio. Perché lui era
di esempio. E andava d’accordo anche con don Marco,
nonostante la differenza di età. Era bello vederli passeggiare e pregare insieme. Poi si mettevano a giocare
a scacchi, discutendo e bevendo un po’ di amaro che
piaceva da matti a tutti e due. Insomma non si facevano
concorrenza, anzi si aiutavano e aiutavano gli altri senza
chiedere se uno era cattolico, protestante, indù o quel che
l’è. Bei tempi.»
E così dicendo si pulì le mani sul grembiule color cibo
e se ne andò dentro il locale.
Gli amici guardarono Sergio e gli chiesero il perché
di tanto interesse. Soprattutto Rinaldo, che sulle cose di
storia e di chiesa era proprio affamato.
«Ma no, niente, solo curiosità» tagliò corto il Sergio
e intanto sbirciava per vedere se l’oste riappariva o no
dalla porta. Passati dieci minuti senza speranza si alzò
ed entrò gridando:
«Giosuè, e allora?»
Lo guardarono meravigliati i quattro avventori sonnacchiosi che stavano facendo un bello scopone scienti-
257
renato rizzi
fico, mentre il padrone ridendo rispose: «Oh, se l’è proprio presa brutta, eh?»
«Che cosa c’entra? Voglio almeno sapere cos’è che
l’ha fatto andare fuori di testa come un balcone.»
«È successo che un certo giorno arrivò un gruppo di
rifugiati dall’Albania. Tra questi c’era una famiglia composta da un padre un po’ acciaccato di gambe, una madre un po’ acciaccata di testa, un figlio con l’aria truce
e preoccupata e un tusanin con dei cavei negher, ma inscì
negher che neanche i corvi. E un visino così bello, pulito, che sembrava una di quelle madonne che facevano
i pittori del Cinquecento, sai no? Assomigliava a quella
giovane afghana che aveva fotografato quel fotografo
americano, sai?»
«Ah sì, Steve McCurry! Quella con gli occhi d’oro.»
«Sì, proprio quella. Anche lei aveva occhi dorati, limpidi, sinceri, Katarina. La pura. Così significa.
E padre Hans li ospitò, diede loro da mangiare, da
vestire. Al padre insegnò a impagliare le sedie, la madre
aiutava in cucina, il figlio doveva curare i mirtilli, che
caso volle quell’anno lì non fecero nessun frutto. E si
prese cura della giovane. Non voleva che facesse i mestieri, che si rovinasse le mani. Le faceva fare solo dei
ricami, che poi avrebbe venduto al mercato. E la vestiva
bene e poi le insegnò tutto, a leggere un mucchio di libri,
a parlare, a ridere, a sperare nel futuro.
Pensa che anche don Marco le insegnò le note e a
cantare. Riusciva così bene che aveva una voce così melodiosa, flessuosa, sinuosa e anche conturbante. E celestiale. Venivano i paesani dei dintorni a sentirla cantare
e don Marco la accompagnava con un organetto e il Pigi
con la fisarmonica e il Cleto con la chitarra. Erano proprio delle belle funzioni.»
258
l’amaro del mottarone
«Sì, sì va bene e poi?»
«Poi, poi. I genitori e il fratello dissero che dovevano
andare a trovare dei parenti che erano dall’altra parte
del lago. Stettero via due, tre mesi, forse qualcosa di più.
Quando tornarono Katarina era diversa. Magra, spaventata, disorientata. Gli occhi avevano perso tutta la
purezza, erano vuoti. Sembrava non guardasse da nessuna parte. E poi...»
«Poi cosa?»
«La ragazza era incinta. E dissero, ma non lei, gli altri, che era stato padre Hans. Uno scandalo, come puoi
immaginare. Arrivò il pastore maggiore, insomma quel
che cumanda da Intra, fece un ambaradan che se lo ricordano. Insomma venne spretato. Lui si fustigò, si denudò
e una notte per la vergogna fuggì, si rifugiò sui monti per
tanto di quel tempo. Poi si seppe che la povera ragazza
era stata violentata e costretta ad andare a battere e i
rifugiati se ne andarono via quasi presi a randellate dalla
gente. Ma ormai la frittata era fatta.»
«Basta così? Ci sarà un seguito.»
«Sì, ma devo andare, se no Anna, la mia signora, mi
fa una menata.»
«Dai su, forza, dimmi come è andata a finire.»
«Be’, in due parole. Don Marco organizzò delle battute, chiese ai sui colleghi parroci di dargli una mano,
prima giorno e notte, poi da solo vagava per i boschi,
su per i pascoli e poi ancora più su... Lo cercò per settimane, per mesi anzi, e alla fine portandosi dietro il
cane di padre Hans, un brutto cagnone con l’aria minacciosa ma buono come il pane e cioccolato, lo trovò
in una grotta, lo ripulì, lo convinse a ritornare. Solo
che da allora era un po’ ammattito e sembrava che ce
l’avesse con tutto il mondo. E con il nostro sacerdote,
259
renato rizzi
soprattutto. Non gli parlava, si allontanava quando lo
vedeva. Non gli perdonava di averlo portato indietro o
forse d’altro.»
Si fermò, guardò Sergio, si ricordò della sua prima
domanda e finì con: «Ma se gli dai una lauta offerta per
la sua comunità, volentieri ti offrirà un bicchiere dell’amaro che cerchi.»
Sergio decise di accettare il consiglio.
Si avviò quindi verso il Centro, suonò un campanello.
Gli aprì un’anziana altezzosa guardandolo con meraviglia. E poi un paio di ragazzoni vestiti con una specie di
saio che lo guardarono sorpresi e sospettosi.
Lui chiese di padre Hans, che subito apparve quasi
dal nulla, come se lo aspettasse. Sembrava meno spiritato di quanto fosse su sull’alpeggio, ma con la stessa
tonaca polverosa e unta.
Sergio gli diede dieci euro, chiedendo se potesse bere
la famosa bevanda.
Il prete annuì quasi con un grugnito, lo condusse in
una sorta di serra dove vari bottiglioni scuri convivevano
con grappe, liquori, misture varie.
Si intascò la banconota e stette per versare un liquido
scuro da un contenitore di vetro a forma di rana senza
alcuna etichetta.
«No, no. Voglio l’Amaro Mottarone» disse gridando –
come se fosse sordo e non straniero – e scandendo bene
le parole con in mano una banconota da venti.
«Non sono sordo, solo straniero. Ma so bene l’italiano» rispose padre Hans.
Sergio lo guardò inebetito e disse: «E come la mettiamo con don Marco?»
«Che cosa vuoi dire?»
«Katarina, voglio dire e tutta la storia.»
260
l’amaro del mottarone
«Aspettavo qualcuno che finalmente venisse a chiedermelo. Come ti chiami?»
«Sergio.»
«Ah, Sergio. Sai che significa Sergio? Curatore, guaritore. Sei un segno del destino, forse divino ovviamente.
A quella cosa lì, a quello che è successo ci penso sempre,
anche di notte, non dormo più, mi dispero, ma adesso
mi posso liberare. Tu sei venuto a curarmi, a guarirmi.
Don Marco continuava con la storia del perdono. I cattolici sono così. Insistono con il perdono. Mi diceva
«devi perdonarti». Ma come facevo io a perdonare me
se non so come si fa a perdonare gli altri. E insisteva.
Proprio lui che ha cercato di portarmi via la piccola Katarina. Le insegnava a cantare, diceva. Ma poi le faceva
mettere vestitini bianchi trasparenti così sembrava un
angelo, diceva. E poi sai cosa è successo? Lo sai tu che
vieni qua a cercare di sapere, a chiedere spiegazioni, a
darmi una occasione? A Katarina, così pura, così innocente è stata strappata l’innocenza, il sorriso, la vita. E
allora dovrei perdonare? Chi, che cosa? Che sono stato
accusato ingiustamente? Ma non è questo che mi importa. No, non sono capace di perdonare. Ho sempre
addosso un rancore che mi viene difficile da governare.
E allora dopo che don Marco continuava continuava insisteva insisteva l’ho invitato a bere ’sto amaro che vuoi
anche tu.»
Il prete porse la mano, arraffò la banconota e gli porse
una bottiglia sigillata con l’etichetta in bella mostra
«Amaro del Mottarone» che occupava il posto accanto a
un bottiglione su cui appariva la scritta gotica «Bromadiolone».
Sergio si versò una mezza dose di amaro, aggiunse
una mezza dose di Bromadiolone in un bicchiere e,
261
renato rizzi
mosso da qualcosa che non sapeva se chiamare pietà, la
offrì al vecchio pastore, che la bevve avidamente come
se la aspettasse da tempo...
Si sedette su una sedia di legno scalcinata e attese pazientemente in attesa che padre Hans arrivasse a tener
compagnia a don Marco in presenza del Creatore.
Nota dell’Autore
Naturalmente Montorfano, la chiesa, i luoghi, la storia religiosa sono più o meno veri e realmente accaduti. Il racconto,
invece è puro frutto di fantasia.
262
Il regalo di Chiara
di Sergio Roic
Ogni volta che mia figlia Chiara mi portava i suoi “regalini”, alla domanda “dove li hai trovati?” rispondeva:
«Nel lago». Si trattava di bottoni smangiati dall’acqua, di
una chiave arrugginita, di un paio di occhiali rotti. Questi improbabili cimeli erano emersi, a detta di Chiara,
dalle acque in quel tratto di spiaggia che costeggia la
nuova casa di sua madre.
Sua madre è Beatrice, da cui sono separato da un anno
ormai. Quando, la domenica mattina, passo a prendere
Chiara, ci evitiamo elegantemente rivolgendoci una parola o due, non dicendo niente.
Con Chiara, anche se la vedo una volta la settimana,
ho sviluppato una complicità che non sarebbe stata possibile se avessimo continuato a vivere assieme: lei mi
racconta tutto, ma proprio tutto ciò che l’ha emozionata
durante la settimana, ogni volta mi porta un “regalino”
dalla spiaggia.
Credereste possibile che io, un agente della polizia
cantonale di Lugano, non mi sia insospettito di tutti
quegli oggetti che il nostro pacifico lago ributtava sulla
spiaggia del quartiere dove abita mia figlia?
Mi sono preoccupato per Chiara? Sì, mi preoccupava
il mondo che la circondava, visto che io, ormai, ero un
assente, uno spettro, un’ombra che, certo, vegliava sempre su di lei, ma da lontano, incontrandola solo la do-
263
sergio roic
menica mattina per una gita in macchina oppure, nella
stagione buona, per la traversata del lago sulla mia barca
a vela.
La prima volta che, da solo, la sera, mi sono avvicinato a quella costa con la barca, ho saputo di essere diventato prigioniero di una storia, la storia dei regali di
Chiara.
***
Mi chiamo Marcello Palumbo, mio padre è stato un
ristoratore di successo che, avendo un bel giorno venduto il suo esercizio, si era trasferito armi e bagagli al
Nord. Qui, al Nord, mia sorella maggiore e io siamo diventati grandi. Lei era una secchiona e prendeva ottimi
voti a scuola. Io soffrivo l’assenza del mare, la diversità
della parlata, gli sguardi obliqui che mi intercettavano
quando mi recavo a scuola. Un giorno la maestra mi
sorprese a fantasticare, lo sguardo perso fuori dalla finestra. Disse: «Stai attento, Marcello!» Un compagno di
classe commentò: «Signora maestra, Marcello sogna la
Terronia.» E giù una sonora risata. Col tempo diventai
il più nordico di tutti loro: leggevo i fumetti con gli eroi
vichinghi, tenevo alle squadre di calcio di Zurigo e di
Monaco, mi tagliai i capelli e, proprio sopra la fronte,
colorai di biondo un ciuffo lungo e ribelle.
Ero alto e prestante ed eccellevo nelle gare sportive.
Mi appassionai agli innumerevoli telefilm d’azione che
spopolavano in tv. Con la fantasia inseguivo i ladri e i
delinquenti, se necessario, fino al loro naturale luogo
d’origine, la Terronia.
Completai la scuola di commercio. La scuola di polizia fu una passeggiata. Avevo imparato il dialetto locale
264
il regalo di chiara
e tutti quanti mi chiamavano Max. La prima volta che
indossai l’uniforme, mi dissero che ero il testimonial del
poliziotto perfetto. La mia voce, dalla mattina alla sera,
si fece tonante. Poi, fu tutto facile: avevo cervello, mi
proposero e io acconsentii a portare a termine la formazione di agente investigatore.
Beatrice era una ragazza arguta e divertente. Bionda,
sarcastica, pungente, amabile, spesso bella, mi incrociava in sella alla sua Vespa sorridendomi con un saluto
muto. L’ho incontrata talmente tante volte, nel centro
della città, da sentire un vuoto nella testa e nella pancia il giorno in cui non vedevo comparire il suo casco
azzurro, la sua chioma bionda. Abbiamo parlato della
scuola di polizia, del suo impiego in banca, poi di cinema, vacanze, moda, sport e poi ancora della sua famiglia, i Bernasconi, che non stravedevano per gli stranieri, ma tant’è, al cuore non si comanda, che cos’è una
famiglia riottosa rispetto all’amore della tua vita? Ci
siamo sposati una domenica di aprile, in chiesa, con i
testimoni, il prete, il suo abito bianco e il mio sorriso,
gioviale e sicuro, il sorriso di un uomo arrivato. Chiara
è arrivata l’anno dopo. Altri quattro anni e con Beatrice
ci siamo separati.
***
Chiara mi portò un cappello bucato e ammuffito. Poi un
taccuino dalle pagine slavate: ci ricavai tre parole mozze
e alcune cifre. Le chiesi di indicarmi il punto esatto dei
suoi ritrovamenti. Mi portò sulla spiaggia, mi disse: «qui
e qui e qui, affiorano dall’acqua, li ritrovo fra i sassolini
della spiaggia». La sera, uscendo dal palazzo di giustizia, mi ritrovavo sull’altra sponda del lago, nel portic-
265
sergio roic
ciolo dove issavo la vela attingendo a una brezza per costeggiare fino alla spiaggia, alla nuova casa di Beatrice e
di Chiara, al luogo di quel mistero che si materializzava
negli oggetti raccolti da mia figlia, un’affiorante storia
che non usciva più dalla mia testa.
Cominciai a guardarmi in giro, a osservare. Che cosa
poteva collegare quegli affioramenti – avrei dovuto far
scandagliare il fondo del lago, chiedere l’aiuto dei sommozzatori? – alla realtà del luogo? Lì attorno c’era un
bar-ristorante, un piccolo parco pubblico, una dismessa
“officina navale: fabbrico le barche del lago” di un certo
Natalino Ruotolo. Un uomo del Sud, evidentemente, e
un barcaiolo. Prima di far scandagliare il lago avrei cercato quell’uomo, gli avrei parlato in privato.
***
Infine, Beatrice si accorse della mia vela serale, mi rampognò, mi convocò nel bar-ristorante a due passi da casa
sua per dirmi di non importunarla col passato, l’amore
di un tempo, la nostalgia. Altrimenti avrebbe fatto in
modo che non vedessi più Chiara. Era dura, decisa, implacabile. Mi disse che si vedeva con un altro uomo. Un
uomo del luogo, sicuro di sé, importante. Era la prima
volta che usava quell’espressione, “un uomo del luogo”,
decisi che quella non poteva essere la mia Beatrice, lo
diceva solo per farmi male.
E così pensai che quella piccola storia di oggetti ritrovati, una storia con cui Chiara mi aveva legato alla
sua nuova casa, a sua madre e alla spiaggia che dava sul
lago, era arrivata a una logica conclusione. Ogni legame,
ogni amore segue, tallona, come la scia di una barca,
il moto della persona abbandonata, delusa. Si cerca di
266
il regalo di chiara
fuggire, ci si allontana, ma la scia bianca, voltando la
testa, è un solco di rimpianti che si cancella solo con una
decisione netta.
Smisi di pensare a quella storia. Continuavo a portar
fuori Chiara, la domenica mattina. Come per un tacito
accordo, anche i “regalini” del lago si fecero più rari e
alla fine non ce ne furono proprio più.
***
Conobbi Natalino Ruotolo nell’autunno dell’anno successivo. Era un uomo anziano, zoppicante, che si sedeva
sulle panchine rosse del lungolago con lo sguardo perduto nel vuoto. Me lo indicò l’agente Pedrazzi, Ruotolo
aveva costruito la barca di suo padre, molti anni fa. Mi
sedetti, sera dopo sera, al freddo, col buio, sulle stesse
panchine, osservai il lago intabarrato nel mio cappotto.
Alla seconda settimana di quello strano pedinamento,
il vecchio si avvicinò, mi chiese il permesso di sedersi
accanto a me. Credeva di sapere chi fossi, no, non mi
conosceva di persona, ma intuiva, sapeva, voleva che
fossi un poliziotto. Lo ero. Cominciò a raccontarmi, lì
al freddo, su una panchina di fronte al lago, la sua storia.
La terribile storia che ancora oggi non riesco a separare
dalla tenerezza dei “regalini” di mia figlia Chiara.
***
«Costruire una barca», disse Natalino Ruotolo, «è
un’arte. Dapprima bisogna immaginarne la forma, una
forma canonica, naturalmente, un equilibrio di lunghezze e larghezze, di curvature e profondità, di assi
e, se la barca è grande, di alberi e vele. Ho cominciato
267
sergio roic
a immaginare barche da bambino mentre le guardavo
sfrecciare davanti al lungomare di Salerno. Le disegnavo
sui quaderni di scuola, confrontavo i diversi modelli di
velieri, i libri di mare mi raccontavano di viaggi favolosi a bordo di piroghe e tartane. La prima barca che
costruii fu un gozzo. Ne ero talmente orgoglioso che
passai la mano di pittura io stesso. Lo vidi pescare al
largo del porto per un’intera estate. Poi progettai un trabiccolo e assistetti all’installazione del motore, al varo, a
quella piccola cerimonia del matrimonio col mare. Ero
giovane, giovanissimo, sognavo lunghi viaggi per mare,
che non ho mai fatto. Come dono di nozze i familiari di
mia moglie mi regalarono un libro sul viaggio attorno
al mondo compiuto da Magellano. A Salerno ero conosciuto e stimato, ma lavorare non era facile: per ogni
barca costruita dovevo pagare una tangente, un pizzo,
una percentuale a gente che nemmeno conoscevo, che
mi garantiva, nel mio lavoro, sul cantiere, protezione. La
famiglia della moglie, che si era trasferita in Svizzera, ci
chiamò, insistette: seguiteci, venite a Lugano anche voi.
Mi trovarono un lavoro, la notte, in un albergo da dove
avrei avuto una libera vista sul nero piatto luccicante
del lago sottostante. Lavorai in quell’albergo per dieci
anni, prima di notte, poi di giorno. Mi licenziai e presi
in gestione un negozio, alla fine il negozio diventò mio.
Quando i figli furono grandi, vendetti tutto e sulla riva
del lago impiantai la mia piccola officina navale. I connaisseurs del lago e delle barche venivano da me. Discutevamo per ore. Con un buon anticipo, ogni contratto di
costruzione poteva considerarsi firmato.»
Il vecchio si strinse nel suo cappotto. Gli consigliai
di continuare a raccontare nel bar di fronte, attraversata la strada, davanti a una tazza di caffè che, via via,
268
il regalo di chiara
sarebbe stata sostituita da un bicchiere di vino, poi da
un altro.
«Ne ho costruite di barche, qui sul lago. Barche da pesca e da diporto. Lente, veloci, eleganti, stabili. Ho parlato con molta gente, in tutti questi anni. Del caldo, del
freddo, della consistenza dell’acqua, dei pericoli della
navigazione, dei venti. Ho parlato con molta gente, ma
quei due, il Berra e il Rota, non li scorderò mai. Comparvero un mattino nel cantiere e cominciarono a fare
domande. Si interessavano di tutto, entravano nei dettagli, guardavano i legni e i modelli, mi facevano tanti
complimenti. Mi chiesero di costruire la barca perfetta
per questo lago. Avrebbe avuto una vela adatta al vento
di Tramontana, sarebbe stata rapida, filante, bella, elegantissima – loro, il Berra e il Rota, volevano portarci
della gente importante. Disegnai per loro un cabinato
veloce e leggero, la Stella. Aveva una vela ed era in
grado di correre sulle ali del vento, la sera, d’estate,
piegando con destrezza la sua anima di legno. Berra
e Rota mi diedero l’incarico di costruirla, la barca. Al
momento del varo mi pagarono, anzi, mi diedero più
del dovuto. L’unica cosa che non potevo accettare era
la loro amicizia, mi invitarono a veleggiare con loro ma
io dissi sempre di no.»
Natalino Ruotolo, al secondo bicchiere di vino, mi
guardò dall’altra parte del tavolo. Si passò una mano
sulla faccia.
«Lei, signor poliziotto, mi crede, vero, quando le dico
che in quei due c’era qualcosa che non andava? Giravano con certe donne, uscivano da certe macchine...
Per un po’ pensai a una storia di contrabbando, ma poi
mi sembrò del tutto improbabile, con quella barca non
avrebbero potuto trasportare granché. Non si trattò di
269
sergio roic
una storia di contrabbando, infatti, ma di un abile traffico di persone che spostavano da questa all’altra parte
del lago, in territorio italiano. Fu più forte di me, cominciai a osservare quegli imbarchi furtivi, le facce di persone ben vestite che davano un’occhiata al lago prima di
entrare nel cabinato. La mia sorpresa fu grande, quando
riconobbi alcuni di quei volti. Li avevo visto sui giornali,
alla televisione, erano famosi. Una sera, all’imbarco
della Stella, vidi un uomo che assomigliava come una
goccia d’acqua a Don Calogero, il vecchio boss di Salerno. Era a braccetto con una donna vistosa, il Berra e
il Rota li aiutavano, si inchinavano.»
Il vecchio, lì nel bar, al caldo, si mise a singhiozzare
davanti al bicchiere di vino. Gli diedi delle pacche sulla
spalla, lo consolai, ci mancò poco che lo abbracciassi.
Lo guardai e mi dissi: potrebbe essere un mio nonno, o
un vecchio zio. Gli dissi di andare avanti, doveva vuotare il sacco, adesso che aveva cominciato a raccontare.
Dopo si sarebbe sentito meglio. Da me non doveva temere niente. Lui, Natalino Ruotolo, non aveva fatto
niente di male, vero?
Il vecchio tirò sul col naso, fece uno stanco sorriso.
«Mi chiesero di costruire una seconda barca. Più
grande, più veloce, più sicura. Mi diedero un mucchio
di soldi. Mi dissero che si trattava di una faccenda delicata: loro non erano dei navigatori provetti e un paio di
volte, la notte, erano finiti addosso alle rocce dall’altra
parte del lago. Sorrisero: non potevano, assolutamente,
perdere il loro carico. Non volevo, proprio non volevo
fargli da capitano?»
***
270
il regalo di chiara
Un’ora dopo, camminando sul lungolago, stringendomi
nel mio cappotto, fui certo di essere un altro uomo. Ciò
che mi raccontò Natalino Ruotolo mi aveva scosso al
punto da farmi riconsiderare tutta la mia vita, l’intero
passato. Mi guardai allo specchio, lì in riva al lago ventoso, e vidi un me stesso diverso, quello che sarei stato
d’ora in poi. Migliore, più schietto, più vero.
Il vecchio mi raccontò delle privazioni che aveva subito. Aveva dovuto abbandonare la sua terra, rinunciare
al suo lavoro, aveva dovuto andarsene, chinare il capo.
Non che si trovasse male nella sua nuova città, Lugano.
Si guadagnava da vivere, aveva una famiglia, alla fine,
con un po’ di ingegno, era riuscito, qui sul lago, a riannodare quel filo spezzato: lui era un costruttore di barche, era nato barcaiolo, lo sarebbe stato fino alla morte.
E però il suo passato, quel passato del Sud, quei volti,
quelle facce, quei traffici lo avevano raggiunto anche qui,
al Nord. Con i suoi occhi aveva visto salire sulla barca
Stella, costruita con le sue mani, Don Calogero, il vecchio boss di Salerno. A un tratto, tutto gli parve assurdo,
grottesco. I soldi per la seconda Stella li aveva presi, la
barca l’aveva progettata. L’avrebbe costruita, con l’aiuto
dei carpentieri di fiducia, il tempo di un’estate, magari
anche prima. Con Berra e Rota nicchiava: era troppo vecchio, non se la sentiva di costruire un’altra barca. Per apparire convincente chiuse il cantiere, il suo cantiere “officina navale”; lui quel mestiere non lo sapeva più fare.
Ma quelli insistettero, lo minacciarono, dissero che si era
preso l’impegno, che lo avevano pagato, non accettarono
di riprendersi i soldi che gli avevano dato. Lo tormentarono, lo seguirono, andarono a parlare con i figli, senza
dire niente di particolare, ma erano sempre lì e parlavano,
trafiggevano con gli sguardi, minacciavano con i volti.
271
sergio roic
Alla fine gliela costruì, la barca. La vararono. La provarono. Gli acquirenti erano soddisfatti, gli davano pacche sulle spalle, gli dicevano: «Sei vecchio, ma un gran
vecchio.» La barca andò a fondo alla prima tempesta,
come Natalino Ruotolo aveva previsto. La chiglia era
difettosa, imbarcava acqua, Natalino l’aveva costruita
così, malfatta, per dimostrare che non era più capace,
perché lo lasciassero stare. L’ultima barca che fece con
le sue mani colò a picco, di notte, col suo carico di uomini e donne: colò a picco tanto in fretta che nessuno
se ne accorse, al di fuori del vecchio che con lo sguardo
pattugliava il lago. Non vide mai più la sua barca, la
seconda Stella, né Berra e Rota: chissà, forse erano stati
intrappolati nel cabinato, forse avevano trascinato con
sé, sul fondo del lago, qualche cliente, una donna appariscente, un mafioso... Quando gli raccontai dei “regalini”
di Chiara, mia figlia, disse di sì, scosse il capo, disse: «Sì,
sì, sì, sì, è tutta colpa mia, sono stato io». Voleva consegnarsi a me, alla polizia, voleva espiare, voleva essere
arrestato, mi benediceva, lì sulla soglia del bar, benediceva il momento in cui lo aveva individuato, inseguito,
bloccato. Aveva consegnato una barca avariata e... Lo
spinsi fuori dal bar, mi feci spiegare, in fretta, il gioco
delle correnti del lago. La barca doveva essere colata a
picco poche decine di metri al largo della costa dove vivevano Beatrice e Chiara. Dopo tutti questi anni, col cedimento di un oblò o di una paratia, venivano alla luce
gli indumenti e le cose che erano appartenuti a quegli
uomini annegati.
Mandai Ruotolo a casa dicendogli che, se apriva
bocca, avrebbe passato guai davvero grossi, che non immaginava nemmeno. Glielo dissi con quel speciale accento del Sud, che fa tanto effetto. Il vecchio piegò la
272
il regalo di chiara
testa e partì. Il momento dopo, io, Marcello Palumbo,
detto Max, ero un altro.
Camminai lungo il lago. Mi misi a ridere. Piansi anche un po’. Tiravo di quei pugni nell’aria fredda della
notte. Era stato tutto un equivoco. E il regalo di Chiara,
mia figlia, mi aveva permesso di riconoscere la natura
dell’inganno. Mi aveva regalato una storia, quella di
Natalino Ruotolo, che aveva giocato un brutto tiro al
destino. E il destino, ora lo sapevo, ne ero certo, non
era una forza cieca che ci avrebbe inghiottito, sempre e
comunque, malgrado tutto.
Il fatalismo della gente del Sud si dileguò, mentre
camminavo sul lungolago. Se ci era riuscito Natalino
Ruotolo...
***
Cambiai. Diventai un altro. Al palazzo di giustizia imitavo la parlata meridionale prendendomi in giro. Facevo
battute sulla gente del Sud e nel giro di pochi giorni i
colleghi si misero a ingigantire i difetti loro, quelli dei
ticinesi. Un certo Ticozzi, con cui non avevo mai legato,
mi invitò a cena a casa sua, mi disse: «Max, da quando
hai smesso di voler essere un altro sei mio amico». Mi
presentò Enza, una ragazza del Sud. La corteggiai. La
conquistai. Andavamo a prendere Chiara insieme: mia
figlia rideva imparando il dialetto del meridione. Era
una Palumbo, in fin dei conti, e quello, insegnarle la lingua degli avi, era il mio ringraziamento per i suoi “regalini”. Alla fine e per un portentoso caso, quello che mi
aveva legato, la lunghezza di una fredda sera, alla vita di
Natalino Ruotolo, il regalo di Chiara mi aveva aperto gli
occhi, mi aveva riportato a me stesso.
273
Presenze
di Federico Spinozzi
Era l’alba. Un’alba d’autunno. La foschia copriva l’intera vallata. Pigri fili di fumo si innalzavano nell’aria
immota. Villadossola dormiva ancora.
Le montagne, che la proteggevano dai venti gelidi del
nord, erano mute sentinelle poste a difesa del suo riposo.
Le foglie degli alberi avevano cambiato il colore delle
loro livree, il verde della vita si era trasformato nel giallo-rossiccio della morte imminente.
Attendevano, con rassegnazione, la brezza che le
avrebbe strappate per sempre dai rami, che erano stati
il loro balcone sul mondo, per riposare in eterno fra le
radici del padre albero.
Un volo di passeri alla ricerca di cibo diede, per un
attimo, una fugace parvenza di vita; poi tutto tornò a
immobilizzarsi.
Il suono ovattato di una campana spezzò quell’atmosfera di pace. Un suono lontano, forse giungeva dall’altra parte della valle. Di nuovo tornò il silenzio.
Il torrente Ovesca scorreva pigro trascinando a valle
foglie e piccoli rami che avevano vissuto lassù, nell’alta
Valle Antrona, nel suo lago le cui acque custodivano per
sempre l’antico paese sommerso.
L’acqua, saltando di roccia in roccia, faceva sentire
la sua voce: narrava, monotona e afona, del suo lungo
viaggio verso il mare.
274
presenze
La chiesa di San Bartolomeo, sulla sponda del torrente, aspettava che i fedeli tornassero a lei, sotto l’ombra del campanile, per cantare la gloria del Signore.
Avrebbe atteso invano; la nuova chiesa le aveva sottratto
il ruolo che le competeva sin dalla nascita di quel piccolo
nucleo di case, di cuori, di speranze. San Bartolomeo
avrebbe dormito in eterno nel silenzio e nell’abbandono.
Villadossola dormiva. Nessuno avrebbe disturbato il
suo sonno. Nessuno avrebbe interrotto i suoi sogni.
Nessuno.
Nessuno?
Presenze, nell’aria... Attendevano.
Era piccola, molto piccola. Silvia Sinetti aveva solo
sei anni. Una bambina come tante. Una bambina che viveva l’età delle meraviglie. Ai suoi occhi il mondo, quel
piccolo mondo che lei conosceva appena, era bellissimo:
una fiaba fantastica. Dalla finestra della sua camera vedeva case che i suoi occhi trasformavano in castelli e i
boschi della montagna erano foreste incantate dove elfi,
fate e gnomi vivevano la loro vita spensierata.
Sapeva, glielo diceva il suo giovane cuore, che al di là
dei monti vi era un paese straordinario dove anche i giocattoli potevano vivere come uomini: dove le marionette
correvano felici senza essere limitate dai fili che impedivano la loro libertà, dove i cani di peluche parlavano
e dove le ballerine dei carillon erano libere di correre
incontro all’amore e le madri non morivano mai.
Sua madre. Come le mancava. Ricordava ancora il
giorno in cui le dissero che era morta.
Dolore, tristezza, solitudine. Se la ricordava appena.
Non riusciva più a ricordarne il volto.
Più si sforzava di ricordare e più il ricordo sbiadiva
nella sua mente.
275
federico spinozzi
No, non vedeva più il suo viso.
La nebbia sembrava ricoprirlo; quella nebbia che cancellava lentamente i sogni.
Non poteva permettere che il ricordo della madre sparisse per sempre, doveva fare qualcosa per farla vivere
nella sua mente. Doveva trovare un modo per tenerla
sempre con sé.
Lo trovò.
La bambola di pezza che amava tanto era diventata la
sua mamma, aveva riversato in quell’ammasso di stracci
i suoi ricordi, i suoi sogni, le sue illusioni e il miracolo
avvenne.
La bambola era diventata, per lei, la sua mamma: ora
sarebbe rimasta con lei per sempre.
Avrebbe continuato a vivere nella fiaba che aveva creato.
La “sua” fiaba, quella fiaba piena di principi e principesse, di maghi e fate, di guerrieri e contadini.
Nella sua favola non c’era posto per il buio, era stato
bandito per sempre, nessun bambino avrebbe mai più
avuto paura dei mostri che popolavano le tenebre.
E l’orco?
Poteva mancare l’orco in una favola seria?
No, decise Silvia, l’orco doveva esserci.
Che fiaba poteva mai essere se non vi era nemmeno
un cattivo con cui combattere?
Come avrebbe potuto il principe liberare la principessa
dal cattivo se egli non fosse vissuto in quella storia?
Silvia decise che l’orco doveva vivere: e l’orco divenne
protagonista della sua storia.
L’orco così cattivo, così malvagio e crudele ma così
indispensabile in una fiaba che si rispetti.
L’orco.
276
presenze
E l’orco visse: era suo padre Fulvio.
Papà non era sempre stato cattivo così come lo era
adesso, ricordava Silvia, anzi le veniva ancora in mente
di come fosse buono tanti e tanti secoli fa.
Giocava con lei, rideva con lei e quando la metteva a
letto le narrava mille favole.
Era da poco che l’orco aveva fatto la sua comparsa, ma
sembrava tornare sempre più spesso nella vita della bimba.
Forse era apparso dopo la morte della mamma.
O forse era stato un mese dopo che la mamma l’aveva
lasciata quando la grande fonderia aveva chiuso per
sempre i suoi cancelli e suo padre, come tanti altri, era
rimasto senza lavoro e con scarse prospettive di trovarne
uno nuovo.
Si ricordava solamente che a un certo punto suo padre
si era messo a bere sempre di più e che quando beveva
diventava cattivo.
Forse l’orco si nascondeva nella bottiglia di vino?
Probabile, molto probabile.
Anzi, Silvia ne era certa: l’orco era nella bottiglia e
Silvia sapeva anche il perché.
La bottiglia dormiva sempre in cantina e in cantina
era buio.
I mostri vivono sempre nel buio.
L’orco si nascondeva nel vino, forse gli piaceva dormire in quel liquido scuro, e quando suo padre beveva
dalla bottiglia il mostro si svegliava, entrava nel suo
corpo e si arrabbiava perché era stato disturbato: non
bisognava svegliarlo, voleva essere lasciato in pace per
continuare a dormire nelle tenebre.
Fosse stato per lei non solo non avrebbe più preso il
vino ma non sarebbe scesa mai più in quel regno buio di
terrore che era la cantina di casa sua.
277
federico spinozzi
Per lei l’orco avrebbe potuto continuare a dormire nel
vino per tutta l’eternità.
Comunque Silvia aveva imparato in fretta a convivere con l’orco, non che non avesse paura ogni volta
che se lo vedeva davanti, ma appena vedeva il padre
attaccarsi alla bottiglia correva in camera sua e non si
faceva vedere sino a che il mostro non se ne andava a
dormire; il mattino successivo l’orco aveva lasciato la
sua casa.
D’altronde le principesse delle sue favole sopportavano la presenza dell’odioso essere perché non avrebbe
potuto fare altrettanto lei?
«Silvia», gridò il padre (l’orco). «Vieni subito qua.»
La bimba strinse forte la sua bambola (la mamma)
e corse in cucina dove l’uomo, già ubriaco, l’aspettava
fremendo.
«Vai in cantina a prendere una bottiglia di vino», ordinò l’orco (il padre).
«In... can... tina...», balbettò la piccola
«Sì, in cantina», ruggì l’orco. «Sei scema? Non hai
ancora capito che quando ti dico una cosa la devi fare
immediatamente senza fiatare?»
«In... can... tina... è... è... bu... io.»
«Lo so che è buio, un giorno o l’altro devo decidermi
a riparare quel maledetto impianto. Prendi la torcia elettrica.»
«Papà... non... farmi... anda... re... in... canti... na», lo
supplicò singhiozzando la bimba stringendo sempre più
forte la mamma (la bambola).
«Fila», urlò rabbioso l’orco diventando paonazzo.
«Corri subito giù.»
«Ho... pau... ra... del... bu... io...», piagnucolò Silvia.
Fulvio scattò come una molla, prese per il bavero del
278
presenze
vestitino la piccola e la sollevò da terra portando quegli
occhi innocenti alla stessa altezza dei suoi.
«Io ti faccio più paura del buio, vero?», sibilò sottovoce l’orco. «Scendi in cantina prima che ti faccia nera
di botte.»
Aveva più paura dell’orco che non del buio, questo
era certo: fece più volte segno di sì alzando e abbassando il capo.
L’uomo la rimise a terra.
Silvia strinse con il braccio sinistro la madre e prese
nella mano destra una grande torcia nera.
Aprì la porta che dava sull’inferno e scese le ripide scale.
La lunga rampa finiva in un vasto locale completamente buio. Il fascio di luce della pila fece vivere, per
un attimo, esseri mostruosi. Il vecchio materasso e la
damigiana rotta sembravano esseri abominevoli pronti
a balzarle addosso.
L’appendiabiti scollato era l’uomo nero che la seguiva
silenziosamente.
Gli occhi di Silvia erano spalancati, le sue orecchie
erano tese a percepire anche il più debole rumore.
Il buio era tutto intorno a lei.
Il suo mondo di luce e di colori era svanito, rimanevano solo le tenebre.
Sentiva il cuore battere velocemente nel petto, le orecchie pulsavano, il respiro si era fatto affannoso.
Cominciò a camminare, lentamente, verso lo scaffale facendo ondeggiare per tutto l’antro il fascio di luce
della torcia elettrica.
Le venne in mente all’improvviso che la pila poteva
spegnersi...
Non doveva pensarci, doveva andare avanti, fare il
più in fretta possibile.
279
federico spinozzi
Sentiva l’eco, smorzata, di piccoli passi; “I miei passi”
pensò facendosi coraggio.
La mamma, la “sua” mamma, era l’unico conforto;
la teneva ben stretta al corpo.
Arrivò allo scaffale dopo molti anni, allungò la mano
destra e strinse le dita sul collo della bottiglia, illuminò, per
qualche secondo, il liquido scuro e scrutò con attenzione
per cercare di vedere il malefico abitatore di quel recipiente.
Non si vedeva nessuno all’interno della bottiglia,
sembrava vuota ma Silvia sapeva che l’orco era lì dentro
che dormiva.
Si girò su se stessa e fece per ripercorrere il tragitto
che l’aveva portata nel regno del buio: fu in quel momento che lo sentì.
Un ringhio.
Era appena percettibile.
Un ringhio sordo, brutale, malvagio.
Sciabolò in ogni dove il fascio luminoso della torcia
elettrica.
Nessuno: non vide nessuno.
Il ringhio aumentò d’intensità.
La bimba sentiva il terrore serpeggiarle su e giù lungo
la spina dorsale, il cuore venne stretto in una morsa d’acciaio, il respiro si fermò.
Stringendo ancora con più forza la mamma al petto,
fece un primo passo in direzione delle scale.
Il suono orrendo divenne più forte.
Fece un altro passo.
Il ringhio si fece più vicino.
Un altro passo.
Era ancora più vicino.
Due passi.
Lo sentiva proprio dietro di sé.
280
presenze
Ancora due passi.
Era al suo fianco.
Si lanciò in una corsa disperata e infilò, a due a due, i
ripidi gradini che portavano alla salvezza.
Il ringhio malefico le era ormai addosso.
Silvia correva disperatamente per fuggire dal mostro
che le dava la caccia.
L’urlo bestiale era su di lei.
Stava quasi per afferrarla...
L’aveva presa.
La piccola uscì dal varco che dava sulla cucina alla
stessa velocità di una pallottola sparata da una pistola.
Chiuse, rapidamente, la porta dietro di sé.
Il ringhio si spense.
Silenzio.
Silvia era salva.
Fulvio si alzò dalla sedia e aprì la porta della cantina
per vedere cosa avesse tanto terrorizzato quella “scema”
di sua figlia.
Le scale erano completamente buie.
Non si vedeva nessuno.
Non c’era proprio nessuno.
Nessuno.
Nessuno?
Presenze nelle tenebre.
Ridevano.
***
Era un rito.
Ogni sera, alle venti e trenta, tutti al Sagy Bar.
Si conoscevano da anni, fin dai tempi della scuola, fin
dai tempi dell’asilo.
281
federico spinozzi
Avevano sempre vissuto a Villadossola, non sarebbero stati neppure in grado di pensare di poter vivere
lontani dal loro paese.
In quel paese ci si conosceva tutti, si viveva a stretto
contatto con gli altri, ci si incrociava ogni giorno, ci si
vedeva ogni giorno.
Per forza di cose o si diventava amici o ci si detestava
cordialmente.
Non c’erano vie di mezzo.
Anche quella sera, come tutte le sere precedenti, la
compagnia si trovò, al gran completo, nella saletta posteriore del bar.
Il tavolo era sempre il solito.
Si parlava di tutto, dalla situazione mondiale alle prostitute nigeriane, dalla guerra in Medio Oriente alla crisi
dell’industria, dallo sport alle questioni puramente teologiche.
A tutto veniva data una risposta, a tutto si trovava una
soluzione.
Problemi che si trascinavano da decenni e che nessuno era mai riuscito a dirimere lì, in quel bar, venivano
risolte in un batter d’occhio.
Quella sera, come molte altre in verità, la discussione
verteva su qualcosa di molto vicino a loro e per questo
molto più importante delle risoluzioni dell’ONU rivolte
a imbrigliare qualche lontano paese animato da insane
manie di espansionismo.
La chiesa di San Bartolomeo: il simbolo di Villadossola.
«Non si può lasciarla andare in rovina», disse Giorgio
Luzzi, avvocato abbastanza affermato che “vantava”
uno studio ben avviato nella vicina Domodossola. «Un
monumento ai nostri padri, il pezzo più importante della
storia di Villadossola è là, chiuso, che va in rovina.»
282
presenze
«Non bisognava costruire la nuova chiesa», sentenziò suo fratello Gino, anch’esso avvocato e socio di
Giorgio.
«Ma se ci pioveva dentro», puntualizzò don Aldo
Mainardi, parroco del paese e coscienza storica della
comunità. «Per sentire la messa nei giorni di pioggia dovevi tenere aperto l’ombrello; e per non parlare, poi, di
quando soffiava il forte vento da nord, sembrava di andare in moto e invece eri seduto sulle panche di legno. E
che dire poi del riscaldamento? A fiato.»
«Di cosa ti lamenti?», sbottò, ridendo, Artemio Bianchetti, macellaio. «Anche il tuo principale è stato riscaldato dal fiato del bue e dell’asinello nella fredda grotta
di Betlemme.»
Le risate riempirono la sala.
«E senz’altro», riprese don Aldo, «quell’asino era un
tuo antenato.»
Altre risate.
«Non si poteva continuare così», intervenne Germano
Lanetti, sindaco di Villadossola, «occorre sempre guardare in avanti, il paese deve essere proiettato verso il futuro, una nuova chiesa...»
«Ehi sindaco», lo interruppe Mario Biondi, geometra
e grande amico di Germano ma anche il suo maggior
antagonista politico in quanto consigliere di minoranza,
«guarda che non sei in campagna elettorale, qui puoi
dire tutto ciò che pensi veramente.»
«Ma io la penso proprio così», rispose Lanetti, «don
Aldo ha ragione, in inverno faceva un freddo boia nella
vecchia chiesa e ormai era più la gente che si ammalava
di quella che partecipava alle funzioni religiose.»
«Allora ditelo che ce l’avete con me», subentrò nella
discussione Franco Armeni, il medico del paese, «se non
283
federico spinozzi
ci sono ammalati cosa mangio io, ostie? San Bartolomeo era una fonte inesauribile di pazienti.»
Risate si alzarono dal gruppetto.
«Almeno si potrebbe cercare di ristrutturarla», sbottò
Luigi Pidroni, impresario edile. «Fare dei lavori per impedire che crolli, non si può lasciarla andare in rovina.»
«Ha parlato il disinteressato», lo sfotté don Aldo, «e
scommetto che i lavori sarebbero stati dati alla tua impresa.
La nostra è una parrocchia povera, non riusciremo mai a
trovare i fondi necessari per sistemare San Bartolomeo.»
«Però i soldi per quella nuova, che non è granché», lo
incalzò Luigi, «quelli sei riuscito a trovarli.»
«Michelangelo, sentitelo, ha parlato Michelangelo»,
lo derise il prete, «i tuoi palazzi sono degli obbrobri,
sembrano case del fascio, scatoloni grigi e squallidi.»
La discussione era ormai degenerata, urla, risate, battute velenose.
All’una di notte le varie discussioni ebbero termine,
salutarono il proprietario del Sagy, e uscirono.
Si fermarono a parlare sotto un lampione della piazza
deserta.
Cominciò a scorrere il fiume dei ricordi.
Ancora una volta rivissero lo scherzo fatto al vecchio professore di italiano delle medie, compirono ancora, con il ricordo, il furto di ciliegie ai danni di quel
contadino incattivito dalle continue incursioni nel suo
podere, con dolcezza rivissero le carezze dell’Anna, la
nave scuola che li aveva iniziati alle delizie del sesso e li
aveva fatti diventare uomini.
Risate nella notte, pacche sulle spalle, imitazioni di
persone dimenticate, ormai, da tanti anni.
Ricordi di quando si era più giovani.
Ricordi che lasciavano un velo di tristezza o di gioia.
284
presenze
Ricordi.
Un ultimo saluto, la compagnia si sciolse: ognuno riprese la via di casa.
Non c’era nessuno nella piazza oltre loro.
Nessun rumore turbava la tranquillità di quella notte
di paese.
Nessuno.
Nessuno?
Presenze nella notte.
Osservavano.
***
Era tempo di funghi.
La terra regalava gli ultimi frutti prima del letargo invernale.
L’autunno era, per Renato Riva, la stagione più bella.
Amava camminare fra gli alberi di castagno e gli alti
faggi alla ricerca dei porcini dalle grosse cappelle marroni, amava cercarli in posti poco battuti.
Alle cinque del mattino aveva preso la via dei monti,
aveva superato il Piaggio, proseguito sino a Gagitti e da
qui si era spostato sulla destra della montagna e l’aveva
costeggiata sul versante che dava sulla Valle Antrona.
Vedeva scorrere l’Ovesca, laggiù sul fondovalle, l’acqua, bianca di ghiacciaio, turbinava nelle gole profonde
superando salti e aggirando massi caduti nel suo letto
all’inizio dei tempi.
Solo nei boschi era felice.
Annusava l’aria come per imprimersi bene nella memoria gli odori che sentiva, diceva sempre che tutte le
stagioni avevano un loro odore, un qualcosa di caratteristico che le distingueva l’una dall’altra.
285
federico spinozzi
L’autunno sapeva di muschio, di foglie cadute, di
brina, di erba bagnata, di resina: era il suo profumo preferito.
Vide, in mezzo alle foglie morte, spuntare la sagoma
inconfondibile di un grosso porcino.
Spazzò via le foglie, il fungo svettava in tutto il suo
splendore.
Che soddisfazione provò in quel momento, che gioia,
era qualcosa che sentiva nel profondo del cuore, un
senso di esultanza che si trasmetteva per tutto il corpo,
quasi una sensazione di piacere fisico.
Prese con estrema delicatezza il fungo, lo pulì per
bene e lo ripose nel cesto di vimini che stringeva nella
mano sinistra.
Com’era felice, lì, nei boschi.
Erano la sua casa, in nessun altro posto si sarebbe trovato a proprio agio così come su quelle pendici piene di
vegetazione e di grandi alberi.
Sì, era felice.
Il ricordo affiorò.
Si vedeva lavorare alle bocche di colata dei grandi
forni, risentì l’odore aspro e duro dell’acciaio fuso che
scivolava nelle forme, sentiva ancora la pelle raggrinzirsi
sotto l’onda del furioso calore che ardeva nel forno, avvertiva ancora il sudore scorrergli lungo la schiena.
Ora era finita poteva dedicarsi alle sue passioni; i funghi e le montagne.
Un tremito di nostalgia.
Sentiva ancora nostalgia per i quarant’anni passati
nella fonderia, i sessantadue anni che portava sulle
spalle erano stati vissuti, per lo più, nella grande fabbrica, come potevi non aver nostalgia di qualcosa che
avevi fatto per tutta la vita?
286
presenze
Non avrebbe mai potuto dimenticare l’amico Gigi
con il quale divideva sia il turno di lavoro che il tempo
libero.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le risate durante
la pausa mensa.
Non avrebbe mai potuto dimenticare le serate passate
insieme a fantasticare.
Non avrebbe mai potuto dimenticare il giorno in cui
l’amico gli aveva detto di aver deciso di andare in pensione e lo aveva incoraggiato a fare altrettanto.
Avrebbero avuto tutto il tempo necessario per coltivare
i loro interessi, i loro hobby, e non avrebbero più dovuto
rendere conto a nessuno di quello che avrebbero fatto.
Era tempo di iniziare a vivere, aveva sentenziato Gigi.
Renato decise che l’amico aveva pienamente ragione.
Si era recato all’ufficio del personale, aveva dato gli
otto giorni di legge e aveva firmato il modulo di dimissioni.
Una settimana, una sola settimana e poi... libero
come l’aria.
Era felice, felice...
Fu in quel momento che sentì la terribile esplosione.
Corse come un pazzo verso il suo reparto.
Arrivò sulla grande porta che immetteva alle bocche
del forno.
Lo vide subito.
Lo vide fra le fiamme e il fuoco che sibilavano feroci
dallo squarcio enorme che si era aperto sulla parete del
forno.
Capi immediatamente che era morto.
I camion dei pompieri correvano urlando, le ambulanze facevano la spola per portare via i feriti, la gente
gridava.
287
federico spinozzi
Lui rimase immobile a fissare l’amico morto.
Non riusciva a pensare più a nulla: Gigi era morto.
Completamente carbonizzato, un manichino privo di
vita.
Renato era rimasto solo a vivere l’ultima avventura:
la vecchiaia.
Gigi, l’unico amico che avesse mai avuto, l ‘unica
persona che aveva diviso con lui la morte della moglie
avvenuta tanti anni prima, quando era ancora giovane.
Il suo tormento era che la moglie non gli avesse lasciato un figlio con cui dividere parte della sua vita, per
fortuna gli era rimasto Gigi che era più di un amico, più
di un fratello.
Gli era rimasto solo Gigi.
Gigi il compagno di scuola, Gigi il compagno di giochi, Gigi il compagno di battaglie nelle brigate partigiane, Gigi il compagno di lavoro, Gigi il compagno di
bisboccia.
Gigi... non c’era più, l’aveva lasciato solo.
Riprese a camminare nel bosco cercando di scacciare
quel ricordo che ancora gli dava tanto dolore.
Si addentrò in una macchia, molto fitta, formata da
rovi di more.
Fu allora che lo sentì.
Si immobilizzò sorpreso.
Era un canto...
No, una filastrocca.
La voce era quella di una bambina.
“AMBARABÀCICCÌCOCCÒ TREE CIVETTE
SUL COMÒ...
Capì subito che la piccola doveva essersi persa sui
monti.
Cantava per farsi coraggio.
288
presenze
Ma che ci faceva una bimba così lontana da qualsiasi
paese, da qualsiasi baita abitata? In un posto così isolato
e deserto?
Forse era salita fin lassù con i genitori e si era smarrita.
Doveva aiutarla.
Accelerò l’andatura in direzione della vocina.
“CHE FACEVANO L’AMORE CON LA FIGLIA
DEL DOTTORE...
Sbucò dai cespugli, il grande prato declinava lentamente sino a scomparire in un burrone.
La vide.
Era proprio sul ciglio del grande salto, indossava un
vestitino bianco, i capelli erano colore del grano maturo,
stringeva al petto un orso di peluche.
“IL DOTTORE SI AMMALÒ AMBARABÀClCCÌ­
COCCÒ.”
La piccola voce si spense, tornò il silenzio.
La bimba sorrise al vecchio cercatore di funghi.
Renato si avvicinò a quell’esserino sperduto, la allontanò di qualche passo dal burrone prendendola delicatamente per un braccio.
«Ti sei persa?», le chiese.
La bambina continuò a sorridere senza rispondere.
«Dove sono i tuoi genitori, dove abiti?»
Nessuna risposta,solo un sorriso.
«Vieni ti porto a casa.»
La piccola smise di sorridere.
Il volto innocente si trasformò.
I capelli biondi divennero neri e bruciati, i denti penzolavano, dalla bocca devastata, appesi a lunghi fili di
carne sanguinolenta, la pelle era nera e dura, come pietra, gli occhi scomparvero, solo due orbite vuote e scure
lo fissavano malignamente.
289
federico spinozzi
Gigi: era l’amico nel momento della morte.
Era Gigi: il volto deturpato dall’acciaio liquido, le
membra contorte rivolte verso l’alto come in una muta
preghiera, il corpo orrendamente devastato.
Qualcuno lo spinse forte sulla schiena, il terreno era
scomparso. Cadde nel burrone.
Urtò uno sperone di roccia, sentì il dolore trapassargli
il cervello mentre il braccio si rompeva.
Sbatté la gamba contro una lastra di granito tagliente
come una lama; piede e scarpa volarono lontane.
La testa incontrò una roccia sporgente. Sciaff.
Si ruppe come un melone maturo lasciato cadere a
terra.
Morì in quell’istante. Sangue e materia cerebrale imbrattarono la ripida parete, il corpo privo di vita cadde
per un’altra decina di metri. Tumpf, si inabissò nell’Ovesca.
Nessuno vide la sua morte.
Nessuno sentì le sue grida.
Nessuno!
Nessuno?
Presenze sulla montagna.
GIOIVANO.
***
Era notte.
Una notte chiara, illuminata dai raggi argentati della
luna.
Amilcare Tosini compiva, per la seconda volta, il suo
giro.
Era incavolato come una bestia.
Che merda di lavoro si era trovato.
290
presenze
A trent’anni era diventato una specie di animale notturno.
Quando le persone per bene scivolavano fra le coperte
per gustarsi il meritato riposo, per lui era tempo di uscire
di casa.
Porca vacca, pensò, guarda come mi sono ridotto.
D’altronde era l’unico lavoro che era riuscito a trovare.
La chiusura della fonderia l’aveva costretto ad accettare quello schifo di posto.
E si reputava ancora fortunato; molti suoi compagni
di fabbrica non avevano trovato niente e si sbattevano
dalla mattina alle sera alla ricerca di un lavoro che potesse dare una certa sicurezza economica.
Altri ancora si erano trasferiti in Svizzera e tornavano
a casa, dalle loro famiglie, solo una volta ogni tanto.
Be’, tutto sommato, era meglio fare il metronotte che
stare lontano per tanto tempo dalla sua Lisa.
Si erano sposati già da tre anni ma si amavano ancora
come se fosse stato il primo giorno.
Lisa.
Strinse forte il manubrio della bicicletta.
Aveva ancora da controllare il supermercato ed i negozi della piazza mercato e poi...
... via di corsa a letto con sua moglie.
Pensò alla ragazza distesa nel letto, calda, sensuale, i
seni sodi che spingevano con forza la leggera camicia da
notte, le cosce tornite.
Sospirò e pigiò con più forza sui pedali acquistando
velocità.
Come avrebbe voluto esserle accanto, come avrebbe
voluto accarezzarne il corpo...
Non doveva pensarci, doveva lavorare.
291
federico spinozzi
Passò accanto alla chiesa di San Bartolomeo ed iniziò
la discesa che immetteva sulla statale del Sempione.
Sentì qualcuno piangere.
Sembrava la voce di una bambina.
Tirò i freni e svoltò a destra sul pavé della piazza della
chiesa.
Si fermò sotto l’alto campanile romanico.
Tese le orecchie per sentire ancora il suono che aveva
interrotto le sue fantasticherie.
Singhiozzi.
Il pianto proveniva dal Parco delle Rimembranze.
Accidenti, quel luogo gli aveva fatto sempre un po’
paura.
Non avrebbe saputo dire perché ma, quando pensava
al parco o gli passava accanto durante i suoi giri notturni, sentiva agitarsi dentro qualcosa di inquietante.
Sapeva che quel luogo era stato costruito per ricordare i figli di Villadossola caduti durante la prima guerra
mondiale, e sapeva, e sperava, che lì non erano stati sepolti i resti di quegli uomini, eppure...
Eppure quel posto gli ricordava un cimitero, e lui era
allergico all’atmosfera che si respirava nei cimiteri.
Anche di giorno lo inquietava girare per i vialetti del
parco, quelle croci di ferro con incisi i nomi dei morti,
quegli alberi che impedivano alla luce del sole di rischiarare le panchine, quel monumento funebre eretto a imperituro ricordo di quegli sfortunati.
Sì, era un luogo che l’aveva sempre intimorito, fin da
bambino.
Se fosse stato per lui l’avrebbe raso al suolo, non si
poteva tenere un cimitero in mezzo al paese.
Il pianto tornò a farsi sentire.
Si fece coraggio.
292
presenze
Una piccola aveva bisogno di aiuto e, paura o non
paura, doveva aiutarla.
Appoggiò la bicicletta contro la recinzione del parco,
accese la torcia elettrica.
Si avviò verso il cancello. Era aperto, strano quel cancello era sempre tenuto ben chiuso da una robusta catena e da un grosso lucchetto. Strano. Entrò nel parco. Il
pianto si fece più sommesso.
“Chissà da quanto tempo piange quella povera piccola”, pensò.
Percorse velocemente il vialetto in direzione del monumento: il suono gli sembrava proprio giungere da quel
punto.
Mentre camminava velocemente vedeva scorrere ai
suoi fianchi le croci di ferro.
I singhiozzi smisero improvvisamente; un silenzio di
tomba scese sul parco.
Arrivò al monumento, era deserto.
Fece luce tutt’intorno: nessuno.
“Che sia diventato pazzo? Eppure ho sentito qualcuno piangere” disse a se stesso.
Sentì un rumore alle sue spalle: passi, piccoli passi.
Si girò su se stesso proiettando innanzi a sé il fascio
luminoso della pila.
La bimba era lì, davanti a lui.
Grosse lacrime strisciavano sul suo viso, il vento notturno giocava con i suoi capelli biondi, il vestito bianco
era macchiato di terra in più punti.
In mano stringeva una lunga asta appuntita.
«Piccola, mi hai fatto prendere un colpo», disse rincuorato. La bimba singhiozzò un paio di volte.
«Hai paura? Io non ti faccio paura, vero?»
La piccola scosse il capo; no, non aveva paura di lui.
293
federico spinozzi
«Cosa è successo, cosa fai qui? È pericoloso.»
La bambina non rispose.
«Vuoi che ti porti a casa?»
Il capino fece segno di sì più volte.
«Bene, allora dimmi dove abiti.»
La piccola indicò con il braccio teso un punto alla sua
destra.
«Ah, abiti al Rogolo.»
No, fece la bimba col capo.
«No?», esclamò perplesso Amilcare. «Ma dove hai indicato c’è solo il Rogolo.»
La piccola indirizzò il braccio con più decisione.
L’uomo rimase interdetto; possibile che indicasse
proprio...
«La chiesa?»
Sì, sì, fece ondeggiare in su e in giù la testa la piccola.
«A San Bartolomeo? Non è possib...»
Amilcare fece un passo indietro spaventato. La piccola tese le braccia dinnanzi a sé spingendo con forza
la lancia appuntita nel ventre dell’uomo... La bambina
compì un’orribile metamorfosi.
Gli occhi si tramutarono in pozzi di tenebra in cui vivevano rossi tizzoni ardenti, i capelli in nido di serpenti,
la bocca si aprì orrendamente da un orecchio all’altro.
L’incubo spinse con più forza l’asta dentro il suo ventre:
sentiva uscire una risata maligna dalla gola di quell’essere infernale.
La torcia gli cadde di mano, ora solo la luce della luna
rischiarava, a malapena, il viottolo.
Cadde a peso morto su una delle tante croci di metallo. Sentì la punta di ferro lacerargli la schiena.
294
presenze
Sentì la risata risuonargli vicino all’orecchio. Si girò
verso l’incubo che l’aveva ucciso: era scomparso.
Amilcare rimase solo con il suo dolore. Rimase solo
con il suo terrore.
Gridò come un pazzo. Gridò, gridò, gridò. Svenne.
Nessuno aveva visto quello che era accaduto. Nessuno
aveva sentito le sue grida.
Nessuno.
Nessuno?
Presenze nel buio. CANTAVANO.
***
E ancora una volta il corteo funebre attraversò Villadossola, la gente intimorita si guardava intorno nell’aria,
aveva paura di incrociare gli sguardi. Vi era un assassino
fra di loro. Ma chi? Chi poteva essere.
Una piccola bimba bionda seguiva il feretro canticchiando una filastrocca. I carabinieri scrutavano quel
lento corteo chiedendosi chi fosse il colpevole, chi avesse
visto qualcosa: nessuno aveva visto nulla, nessuno sembrava sapere.
Nessuno.
Nessuno?
295
E poi il buio
di Gianluca Veltri
Ecco, è successo ancora! Mi sono perso anche questa
volta.
Fosse la prima, poi. Mi capita spesso, la nebbia, qualche bicchiere di troppo, e queste maledette autostrade,
che ti basta prendere l’uscita sbagliata e ti ritrovi chissà
dove. E pensare che non ho mai amato il lago. Anzi,
a dire il vero l’ho sempre evitato come la peste. Nessuna eccezione. Alpini, di origine vulcanica, faraonici
o minuscoli. Naturali o artificiali. Per me i laghi hanno
sempre rappresentato una brutta imitazione del mare, il
cui fascino è unico e impareggiabile. Non ci sono particolari motivazioni a giustificare la mia avversione. Nessuna gita scolastica finita con il cuore infranto sulle rive
di qualche bacino lacustre, per un due picche ricevuto
dalla più bella della classe, né una casa dei nonni da
frequentare, tutte le estati, obbligatoriamente, fino alla
maggiore età. E poi, i miei nonni, non li ho neanche
mai conosciuti. Purtroppo. La mia avversione è sempre stata di natura estetica, quasi concettuale, dovuta
al fatto che trovavo di una brutalità inaudita la volontà
del grande architetto di porre dei confini, dei limiti invalicabili all’acqua. Che poi si è già visto troppe volte,
quando le girano, non ce n’è per nessuno. Altro che barriere.
Poi, è arrivata lei.
296
e poi il buio
Un amico in comune mi invita a festeggiare il suo
compleanno in una pizzeria di Baveno, e io, più per cortesia che per piacere, accetto l’invito. Ricordo ancora
quella stretta di mano. Era molto emozionata, chissà
perché poi, ed io più di lei.
«Ciao, mi chiamo Sara e sono di Stresa.»
Rimasi in silenzio a guardarla per qualche attimo, incapace di formulare qualunque pensiero degno di nota,
con un sorriso idiota sul volto. Avevo conosciuto tante
ragazze, e qualcuna ero pure riuscito a farla innamorare,
ma solari come lei non ne avevo mai incontrate. Se sulle
sponde di un lago, pensai, era nata una creatura così
straordinariamente bella, allora significava che dovevo
rivedere le motivazioni della mia avversione.
«Ciao», balbettai, «mi chiamo Samuel e sono di Milano.»
Mi sorrise, mostrandomi la più bella dentatura che
avessi mai visto fino a quel momento, e da allora non
ci siamo più separati. Sono passati dieci anni ormai,
e stiamo molto bene insieme. Come passa il tempo
quando stai bene. Devo aver letto da qualche parte che
quando non ci accorgiamo del tempo che passa è perché
lo stiamo spendendo al meglio, e lui ci ricompensa con
una sorta di anestetico temporale, che non ci fa sentire il
fruscio della sabbia nella clessidra. Mah, sarà. Di certo
però, saranno ormai una quindicina di minuti che fisso
attonito il treno fermo oltre la sbarra di questo passaggio a livello, che non dovrebbe neanche trovarsi qua, o
meglio, sono io che non dovrei trovarmi qua, e il tempo
sembra non passare mai. Sara mi rimprovera spesso di
essere sempre con la testa altrove. Ma cosa posso farci?
Sono un inguaribile sognatore. Sono ormai sei anni che
passo i weekend a Stresa, a casa di Sara. È il nostro nido
297
gianluca veltri
d’amore. Certo, è solo un piccolo bilocale, a pochi passi
dall’imbarcadero, ma per noi è più che sufficiente, e poi
devo ammettere che mi trovo davvero bene al lago. Chi
lo avrebbe detto. Devo decidermi a lasciare Milano per
trasferirmi da lei. È tanto che me lo chiede e i tempi
sono maturi, e poi anche il mio lavoro di rappresentante, che mi porta spesso su e giù per la Lombardia, ne
trarrebbe giovamento. Meno code in autostrada, e più
tempo per noi.
Ma perché questo treno non riparte? Mannaggia. Mi
attaccherei al clacson, se non fosse che, essendo l’una
di notte, rischierei di disturbare il sonno di persone incolpevoli che nulla hanno a che fare con la mia sbadataggine. Che poi, a dire il vero, non c’è nessuna casa
nei paraggi, solo piante spoglie a costeggiare la strada e
questa nebbia un po’ soffocante. Castelletto Ticino, mi
pare di avere letto qualche chilometro fa. Non so neanche dove si trovi, ma, vado per deduzione, dev’essere
vicino al fiume. Avessi almeno il mio navigatore.
Vedo una ragazza, finalmente qualche forma di vita.
Sembra arrivare dal treno, ma da dove sarà scesa? È
chiuso ermeticamente come un barattolo di marmellata.
È al telefono e gesticola animatamente, troppo per i miei
gusti. Sembra indemoniata. Mi si avvicina ondeggiando
sui tacchi, e che tacchi. A giudicare dal vestito, bianco e
un po’ troppo corto, sembra appena uscita da una discoteca. Ma non avrà freddo? Capisco la concitazione della
discussione, ma è pur sempre metà novembre. Ripone
il telefono nella borsetta a tracolla e viene verso di me,
minacciosa. Mi passa di fianco, fingo di non vederla.
La seguo incuriosito dallo specchietto. È davvero molto
bella, provocante e formosa. Ma che fa? Si è fermata
davanti a un viottolo sterrato che porta verso il bosco.
298
e poi il buio
Sembra titubante, non vorrà mica entrarci? Pare averci
ripensato. Sta tornando indietro a gran passi. Continuo
a seguirla con lo sguardo. Non la vedo passare, però.
Dov’è finita?
«Sei stato tu, non è vero?», strilla all’improvviso.
Ma con chi parla? Non c’è nessuno, lo dicevo io che
eri una tipa strana. Mi volto d’istinto, e, sgomento, scopro che sta parlando con me. A volte l’alcool fa dei brutti
scherzi, penso mentre la osservo confuso.
«Rispondi bastardo, mi hai rubato tu lo zainetto sul
treno?»
Ha gli occhi fuori dalle orbite. Un brivido freddo mi
percorre la schiena. Non ho mai avuto molta dimestichezza con i matti.
«Scusa ma di cosa parli?», chiedo cortese, abbassando
di poco il finestrino, ostentando una sicurezza che non
ho.
«Sei stato tu, lo so! Ero sola sul treno, e in giro non
c’è nessuno.»
La guardo basito. Respiro a fondo e cerco di prendere
tempo.
«Scusa ma come avrei fatto a rubarti lo zainetto se
sono seduto sulla mia auto?», mi ostino nell’ostentare
sicurezza.
«E allora come fai a sapere che mi hanno rubato lo
zainetto?»
Me l’hai appena detto tu! Sei completamente fusa.
Che faccio? Giro l’auto e me ne vado o scendo e cerco
di capire?
E adesso che fa? Si è accasciata e sta piangendo a dirotto. Lo so, dovrei andarmene, sento puzza di guai, ma
non me la sento. Come faccio a lasciare una svitata sola
e in quelle condizioni, in mezzo al nulla. Ecco lo sa-
299
gianluca veltri
pevo, sono il solito stupido. Apro e scendo. Mi avvicino
con cautela, la prendo delicatamente per un braccio e la
invito ad alzarsi. Piange a dirotto.
«Ti prego, se me l’hai rubato tu, restituiscimelo subito. È troppo importante.»
Ancora con questa storia? È davvero fuori di sé. Ricominciamo da capo.
«Mi chiamo Samuel», le dico cortese cercando di calmarla, «posso sapere come ti chiami?»
«Maria, mi chiamo Maria», risponde singhiozzando,
dopo un attimo di esitazione.
«Senti, Maria, sono fermo sulla mia auto davanti
a questo passaggio a livello da una ventina di minuti,
come posso averti rubato lo zainetto?»
Alza la testa e mi fissa pensierosa. Ha i tratti sudamericani. Da così vicino è ancora più bella. Il rimmel,
colando sul viso, le ha disegnato due solchi neri. Sembra
una maschera di Pierrot in versione carioca.
«Dimmi la verità, sei amico di Pavel? Ti manda lui?»
Ma chi è adesso questo Pavel?
«Mi spiace, ma non so di chi parli. Sto andando a Milano, torno dalla mia ragazza, vive a Stresa, sul Lago
Maggiore e mi sono perso. Ogni tanto mi capita...»
Ricomincia a piangere, si porta le mani al viso e si
accascia ancora sulle gambe di gomma. Mi siedo di
fianco a lei, e mi sento un po’ stupido. Chissà cosa penserebbe di me, vedendomi in questa situazione, Leo, il
mio fedele coinquilino. A volte mi stupisce, più che un
canarino giallo, sembra un rapace astuto e riflessivo, con
quegli occhietti vispi e quell’ugola possente.
«Stavo tornando dalla Svizzera», riprende Maria,
«quando il treno si è fermato improvvisamente a questo
passaggio a livello. Qualcuno deve avere tirato il freno di
300
e poi il buio
emergenza.» Noto che, per essere sudamericana, parla
molto bene l’italiano. «C’è stato un black out, pochi secondi, forse di più, e quando è tornata la luce, mi sono
accorta che non c’era più né il mio cappotto, né lo zainetto.» Adesso mi fissa. «E Pavel mi aspetta alla prossima fermata.»
Mi infilo una mano in tasca, prendo il pacchetto di
fazzoletti e gliene passo uno.
«Sei sicura che eri sola nello scompartimento?», domanda sciocca, ma non me ne vengono altre.
«Sicurissima. Mi sembra.»
«Sicurissima, o ti sembra?», ripeto come un pappagallo.
«Penso di sì, ma credo di essermi addormentata.» Sospira, e riprende a singhiozzare, «dio, come sono stupida!»
Maria! Pure tu però, te ne vai in giro di notte, in treno,
sola e vestita come una ballerina di night e ti addormenti
pure?
«Cosa c’era nello zainetto, abiti? Soldi?»
Ora mi guarda con sospetto.
«Perché mi fai queste domande?», farfuglia. «Tu sei
un amico di Pavel, me lo sento, mi volete fregare.»
«Ancora con questo Pavel? Come te lo devo dire che
non conosco nessun Pavel?»
Silenzio.
«Pavel è cambiato. Prima mi voleva bene, poi quando
gli ho detto che aspettavo un figlio da lui, ha cominciato
a ignorarmi e a trattarmi male.»
Ecco, ci mancava pure la gravidanza indesiderata.
«Scusa, ma chi è Pavel, il tuo fidanzato?»
«Il mio fidanzato?» E scoppia a ridere, isterica. «Mi
prendi in giro? E poi a te che te ne importa!»
301
gianluca veltri
Maria sei tu che me ne stai parlando! Questa è proprio
matta, e quel che è peggio è che non sembra né ubriaca
né strafatta. Sono sempre stato un pessimo psicologo,
ma questa pazzoide mi sembra davvero sotto shock. E
che shock!
All’improvviso si alza di scatto e barcollando cerca di
raggiungere il vialetto che conduce all’ingresso del boschetto. La afferro per un braccio cercando di fermarla,
facendo attenzione a non stringere troppo. Ci manca
solo che pensi che voglia farle violenza. Cerca di liberarsi dimenandosi con forza, sembra un pesce appena
pescato. Riesco a stento a trattenerla.
«Maria, credo sia meglio chiamare la polizia», le propongo affabile.
«Non dire sciocchezze!», esclama stizzita. «Cosa vuoi
che ne sappiano loro...»
Nel frattempo alcune auto si sono incolonnate dietro la mia. Qualche fischio di approvazione, e qualche
complimento non proprio elegante. Devono averla presa
per una prostituta, del resto, l’abbigliamento non aiuta.
Mi volto sorridente cercando di fare intendere che non
è come pensano, mentre con la coda dell’occhio la vedo
partire determinata verso il vialetto sterrato. Un balzo,
la raggiungo, e la blocco.
«Dove stai andando?» Comincio a spazientirmi.
«Se non sei stato tu, allora non può che essersi nascosto nel bosco.»
«Ma chi?», esclamo nervoso, l’adrenalina mi galoppa
in corpo.
«Come chi? Il ladro!»
Per un attimo mi sfiora l’idea di accompagnarla a fare
un sopralluogo, ma per fortuna ci ripenso immediatamente.
302
e poi il buio
«Senti, adesso mi hai davvero scocciato.» Mi accorgo
di avere i pugni serrati dal nervoso. «Ora chiamo la polizia.»
«Non lo fare, ti prego», m’implora congiungendo le
mani.
Non faccio in tempo a risponderle che si materializzano alle nostre spalle due carabinieri in uniforme. Sono
ben piazzati e hanno lo sguardo truce, oltre il limite
dell’accettabile. Lavorare in strada deve essere piuttosto
logorante, penso scrutandoli.
«Buonasera agente», esordisco benevolo. «Questa
ragazza, Maria, si chiama così, dice di aver subito un
furto, in treno.»
«Zitto, stai zitto!», m’interrompe Maria.
I due carabinieri si scambiano qualche occhiata. L’altro, quello rasato, abbozza un sorriso malizioso che non
mi piace.
«Dice che c’è stata una frenata brusca», riprendo da
dove mi ha interrotto Maria, «probabilmente causata da
qualcuno che ha tirato il freno di emergenza. Qualche
attimo di black out e, quando il treno si è fermato ed è
tornata la luce, non ha più trovato né il cappotto né lo
zainetto. È molto agitata, credo sia sotto shock. Ho cercato di farla ragionare ma...»
«Lei conosce questa ragazza?», m’interrompe autoritario l’agente corpulento.
«No...», mi accorgo che mi trema la voce, «stavo tornando da Stresa, la mia ragazza vive lì, io sono di Milano, e mi sono perso. Sono un po’ distratto, e ogni tanto
mi capita...»
«Vada a casa», m’interrompe ancora, «ci pensiamo
noi.»
303
gianluca veltri
«Certo, certo, ho visto che era in difficoltà e ho solo
cercato di aiutarla.»
«E ha fatto bene, ma ora ci siamo qui noi, quindi se ne
vada e ci faccia lavorare.»
Dio, che antipatico!
«Mi scusi, ma chi vi ha chiamato?», chiedo titubante.
«Le ho detto di andarsene, e poi le domande le facciamo noi», conclude lapidario, mentre noto che quello
rasato osserva con insistenza la mia auto.
Guardo Maria, le sorrido e le accarezzo una spalla.
Sento la sua pelle incresparsi sotto il vestito.
«Stai serena, ti aiuteranno loro», le dico affabile.
Maria fa sì con il capo, ma non sembra per nulla persuasa, mi fissa, pare rassegnata, poi abbassa lo sguardo
e ricomincia a singhiozzare. Le allungo il pacchetto di
fazzoletti, mi volto e me ne vado. Salgo in auto, faccio inversione e riparto lentamente. Le altre auto mi seguono a
ruota, lo spettacolo è finito. Qualche dubbio e tanti pensieri, troppi, e non mi piace. Vedrai Maria che si risolverà
tutto, esclamo poco convinto, poi inserisco l’ultimo cd
dei Subsonica nell’autoradio e vado alla traccia numero
due, la mia preferita. Un attimo dopo, partono le note
di Tra le labbra, e comincio a ripetere come un mantra la
frase iniziale: Vorrei saper parlare con le mie ombre scure...
mentre, perso tra mille pensieri, proseguo la ricerca per
trovare la strada di casa. Chissà se Leo dorme, arruffato
tra le sue piume, o se mi aspetta sveglio e cinguettante.
***
Una settimana dopo
Ho il fiato corto. Incredulo e sgomento continuo a fissare la pagina del Corriere Lombardia. Non so quante
304
e poi il buio
volte ho già riletto le prime righe dell’articolo e non riesco a darmi pace. Ho un macigno sul petto e la testa così
vuota che i pochi pensieri che mi passano rimbombano
come il suono di un tamburo. E poi la sua foto.
Ieri sera, intorno alle ventitré, in un boschetto, a pochi chilometri da Castelletto Ticino, è stato ritrovato il corpo senza vita
di Ana Maria Ribeiro de la Cruz. La ventiseienne, originaria
del Brasile, già nota alle forze dell’ordine per via del suo passato legato allo sfruttamento della prostituzione e allo spaccio
di droga, era da qualche tempo sotto il mirino della magistratura. Ultimamente aveva intensificato la sua collaborazione
con dei narcotrafficanti dell’Est Europa, specializzati nel trasporto di cocaina, proveniente dalla Spagna e diretta in Austria
e Germania. Data l’efferatezza dell’omicidio, un colpo al cuore
inferto con arma da taglio, si pensa a un regolamento di conti
tra clan rivali. Tuttavia gli inquirenti non escludono la pista
passionale. La morte sembrerebbe risalire a una settimana fa,
e il buon stato di conservazione del corpo farebbe pensare che il
decesso sia avvenuto di notte, quando le temperature stagionali
sono vicine allo zero. Oggi l’autopsia. Il macabro ritrovamento
è avvenuto grazie...
Non riesco neanche a finire il cappuccino. Mi si è
chiuso lo stomaco. Saluto il barista con un sorriso tirato
e gli faccio segno di aggiungerlo alla lista. Passerò domani a saldare. Mi gira la testa e sudo freddo. Devono
essere i sintomi di un attacco di panico. Ho paura di
perdere i sensi. Aria, ho bisogno di aria. Esco e comincio a camminare a testa bassa verso casa. Ho bisogno
di sentirmi al sicuro. Ho il passo veloce, troppo. Lo so,
dovrei rallentare il ritmo, ma non ci riesco. Mi manca
il fiato e ho il cuore che pompa come una locomotiva.
305
gianluca veltri
Povera Maria, cosa ti hanno fatto. Forse dovrei andare
alla polizia, ma per dirgli cosa? In fin dei conti quando
me ne sono andato era con due carabinieri. Certo, non
proprio rassicuranti, ma pur sempre due agenti. Mah...
Non ricordo di avere visto nessuna luce blu lampeggiante, né l’auto dei carabinieri. Non è che magari?...
Ma no, Samuel, non pensare male, sei solo sotto stress.
Lo sai che la mente fa brutti scherzi, ricordi quante volte
ci hai scherzato su con Sara? Continuo a sudare freddo
e ho la vista annebbiata. Forse è meglio che mi appoggi
a quell’auto, sento che mi stanno per cedere le gambe.
Ecco Samuel, siediti, prendi fiato e respira profondamente, come dal dottore. Uno due, uno due. Lo vedi?
Stai già meglio, ancora qualche metro e sei arrivato, comincia a cercare le chiavi di casa nel borsello. Trovate!
Ancora un piccolo sforzo e finalmente potrò buttarmi
sul letto. Devo chiamare Sara. Voglio raccontarle tutto.
Lei riesce sempre a darmi serenità, chissà come le riesce.
Ci ho pensato tante volte, e secondo me il segreto sta
nella sua voce. Sì, deve essere proprio così, la sua voce,
dolce e musicale, e poi non perde mai le staffe, beata
lei. Ma dove ho messo il cellulare? Accidenti, l’ho lasciato a casa. Il solito sbadato! Ecco, ci siamo. Mi trema
la mano, non riesco neppure a infilare la chiave nella
toppa del portone, speriamo non passi nessuno che mi
conosce, potrebbe pensare che sono ubriaco, e di prima
mattina. Che figuraccia. Bravo Samuel, ora ti rimane
da aprire la porta del tuo appartamento. Dai ancora un
piccolo sforzo, l’ultima mandata ed è fatta. Hai visto?
È stato più facile di quanto temessi. Entra, vai in camera e buttati un po’ sul letto, hai bisogno di riposare.
Ecco il telefono, l’hai lasciato sul tavolo della cucina,
prendilo e chiama subito Sara. Lo prendo e guardo il
306
e poi il buio
display, nessuna chiamata. Ma cosa mi succede, tremo
come una foglia, ho la gola secca e le vertigini. Ancora
il panico, maledetto. Ma perché? Qui sei al sicuro, non
ricordi? Eppure... Ho una strana sensazione, sgradevole.
Qualcosa non mi torna. Ma cosa? Dai Samuel smettila e
cerca di riprenderti, sei solo molto spaventato. Guardati
attorno, è tutto come piace a te, il solito caos. Quante
volte ti rimprovera Sara di essere disordinato? Anche la
tv è accesa come l’hai lasciata prima di andare al bar, e
sintonizzata sullo stesso canale. Chissà cosa penserebbe
Sara se scoprisse che la mattina ti piace guardare i cartoni animati di Kung fu Panda. Eppure qualcosa non
torna.
Leo! Mi accorgo di aver urlato il nome del mio fedele
pennuto, anche se la mia voce mi sembra giungere da
chissà dove. Perché non canti amico mio? La tua ugola
non mi ha dato il bentornato, ecco l’anomalia. Sto correndo verso il soggiorno, voglio assicurarmi che stia
bene. Ciao Leo, che piacere vederti ondeggiare sulla tua
altalena. Perché mi fissi in quel modo? Sembri spaventato. Mi volto d’istinto e vedo una sagoma avvicinarsi lesta e minacciosa. Mi colpisce con un violentissimo calcio
nello stomaco. Mi accascio dal dolore. Dio, che male! Mi
rialzo a fatica, il tizio si abbassa il cappuccio della felpa.
Lo conosco, anzi, lo riconosco: è quello rasato.
«Ma tu... sei il carabiniere di una settimana fa!»
«Il finto carabiniere», replica beffardo. «Ci ho messo
un po’ a trovarti, ma alla fine, come vedi, ci sono riuscito. Non si sfugge a Pavel.»
«Ma si può sapere chi è questo maledetto Pavel?»,
strillo stizzito.
«È il capo, ed era anche il capo di Maria. Purtroppo
per te, sei un testimone scomodo.»
307
gianluca veltri
Mi cedono le gambe, sto per svenire. Spero di chiudere gli occhi e di risvegliarmi tra qualche ora, giusto il
tempo necessario per dimenticare questo incubo. Non
so perché, ma comincio a ridere. Deve essere l’adrenalina, o quello strano ormone della felicità che ci invade
il corpo, dandoci un senso di serenità, quando sentiamo
di essere spacciati. Mi sento un idiota. Uno sconosciuto
si è introdotto in casa mia e mi ha appena colpito con un
calcio alla bocca dello stomaco, ed io me ne sto piegato
in due dal dolore, a ridere. Alzo lo sguardo e lo fisso,
noto che il sorriso beffardo di un attimo fa ha lasciato il
posto a un’espressione feroce, e crudele. Estrae un coltello dalla tasca della felpa, fa scattare la lama e mi si
avvicina minaccioso ondeggiando un po’, con la testa
bassa e le braccia aperte. È a un passo da me, fa un balzo
e m’infila con forza la lama nella pancia.
«Mi spiace fratello, niente di personale», mi sussurra
all’orecchio.
Estrae la lama procurandomi una fitta tremenda di
dolore che si espande in ogni angolo del mio corpo, che
non pensavo neppure di avere. Mi accascio a terra in una
pozza di sangue.
«Che morte di merda!», esclamo con un sorriso rassegnato sul volto. Lo stesso che ho visto sul volto di
Maria, quando l’ho salutata una settimana fa. Penso a
Sara, al suo sorriso meraviglioso e spensierato e ai nostri progetti. Sorry darling, avrei voluto darti il mondo,
e renderti felice, ma non ci sono riuscito. Poi penso al
mio amico Leo. Chi si prenderà cura di lui? Chissà, magari anche quest’assassino ha la passione dei canarini,
come me... e penso a Stresa, al nostro nido d’amore, e
a quelle meravigliose serate passate sul terrazzo di Sara
a contemplare in silenzio il Lago Maggiore illuminato
308
e poi il buio
dalla luna. Non so cosa mi aspetti, ma sono certo che
mi mancherai un sacco Sara, e anche tu Leo, e anche tu
lago. Mi si chiudono gli occhi, sento le palpebre pesanti
e ho sonno, tanto sonno. Lo so, non dovrei farlo, nei
film c’è sempre qualcuno che implora il moribondo di
non farlo, ma non riesco a oppormi. Chiudo gli occhi...
e poi il buio.
309
L’albergo
di Laura Veroni
Cercava di inspirare più aria possibile dal naso, ma sembrava non essere mai abbastanza per riempire i polmoni.
I polsi le dolevano, stretti nella morsa della corda.
Così pure le caviglie. Il nastro adesivo si gonfiava sulla
bocca, con movimento ritmico: rientrava e usciva, rientrava e usciva... La benda sugli occhi le impediva di
vedere dove si trovasse. Tutti i muscoli del corpo erano
contratti e la testa intontita. Aveva l’impressione che,
ovunque fosse, tutto stesse girando intorno a lei. Se non
fosse stato per la paura, avrebbe creduto di essere su una
giostra del luna park.
Cercava di muoversi, ma le corde impedivano qualunque movimento e tutto era buio intorno e dentro la
sua testa.
Il cuore martellava furiosamente. Aveva bisogno di
capire che cosa le stesse succedendo.
Cercò di concentrarsi sui rumori di sottofondo, ma
era tutto silenzio. Provò a dare uno strattone con le braccia, per cercare di smollare la corda: tutto inutile. Prese,
allora, a sollevare il bacino, inarcando il più possibile
la schiena, per spingerlo poi verso il basso, cercando di
fare rumore e magari richiamare l’attenzione, caso mai
ci fosse stato qualcuno nei paraggi.
Era una branda, quella su cui giaceva, lo sentiva dal
cigolio delle molle al suo divincolarsi. Provò ad agitarsi
310
l’albergo
più freneticamente, così da farla spostare, ed emise un
grido muto.
Nulla. Nessuno. Il silenzio più assoluto.
Com’era finita lì? Cercò di mettere a fuoco gli ultimi
ricordi, prima di quel traumatico risveglio: Paolo, la lite,
la fuga, poi Orta. Sì, giusto, Orta! Si trovava a Orta! Almeno era lì che si fermava il suo ultimo ricordo. La cena
in quel ristorante in riva al lago... come si chiamava? Ah,
sì, il Leon D’Oro! La piazza, dove al pomeriggio c’era
stato il mercato, il giardino sul lago, la chiesa in cima a
quella scalinata... Ma prima? Prima cos’era successo? Si
rivide nell’atto di percorrere la via Panoramica, fino ad
arrivare al grande parcheggio. Era scesa, aveva messo un
po’ di monete nel parchimetro e si era diretta al bar nello
spiazzo per bere un caffè e chiedere informazioni su un
hotel a buon prezzo dove poter pernottare. La signora
del bar era stata gentile. Le aveva consigliato il Piccolo
Hotel Olina.
«Deve scendere in paese, verso il lago, nel borgo vecchio», le aveva detto. Poi aveva proseguito: «È mai stata
qui, prima d’ora?»
No, per la verità non c’era mai stata, però aveva sentito spesso parlare di Orta e dell’isola di San Giulio. Le
avevano parlato di un vecchio convento dove le suore
facevano il pane col cioccolato. Era un luogo di pace,
che quietava l’animo: questo si diceva in giro. E in quel
momento, Ambra aveva un bisogno disperato di quietare il proprio.
Paolo le aveva giurato che avrebbe lasciato la moglie
e che sarebbe andato a vivere con lei. Invece... una gravidanza indesiderata, le aveva detto, un incidente di percorso. Non poteva abbandonarla in quelle condizioni,
per cui sarebbe stato meglio chiudere la loro storia.
311
laura veroni
Come aveva potuto farle questo? Bugie, tutte bugie
quelle che le aveva raccontato fino ad allora!
Scappare, andarsene lontano da tutto e da tutti per
qualche tempo, cercare di dimenticare. Era solo quello
che voleva.
E ora? Ora si trovava lì, legata e imbavagliata, vittima
della follia di qualche squilibrato.
C’era una puzza terribile, intorno a lei: odore di marcio, di putrefatto, un olezzo che ricordava l’acqua stagnante dei fiori appassiti nei vasi.
Ebbe un conato di vomito. Il boccone acido risalì
lungo l’esofago, fino ad arrivare nella bocca. Cercò di
sollevare la testa per non soffocare. Avrebbe voluto sputare quel rigurgito di cibo, ma il nastro adesivo glielo
impediva. Ebbe paura di morire. Inghiottì. L’odore
acido le risalì per il naso. Cominciò a piangere silenziosamente.
Perché le stava capitando tutto questo? Quanto sarebbe durata quella prigionia? Che cosa le sarebbe accaduto? Sarebbe sopravvissuta a quell’orribile esperienza?
Che cosa voleva da lei l’artefice di quella follia?
Le ore sembravano non trascorrere mai. La sua mente
vacillava. Aveva paura di impazzire. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere libera di muoversi e di vedere.
Cercò di immaginarsi la stanza nella quale si trovava:
oltre la branda, che cosa poteva esserci? Un comodino,
forse, se si trattava di una camera da letto, un armadio,
una finestra, molto probabilmente.
Cercò di concentrarsi sulla temperatura all’interno
dell’ambiente: non c’erano spifferi d’aria, ma faceva
piuttosto freddo. Evidentemente non c’era riscaldamento. Strano, per essere febbraio. Normalmente i ca-
312
l’albergo
loriferi erano accesi, in quella stagione. Il suo carceriere
non le aveva nemmeno dato una coperta. Chissà che ore
erano? Era giorno oppure notte? Quante ore aveva dormito, prima di risvegliarsi in quell’incubo?
Riprese ad agitarsi. Il suo corpo venne scosso da violenti tremiti, finché, sfinita, si assopì.
Trascorse qualche ora, prima di riaversi. Quando si
svegliò, si rese conto di avere le mani libere: qualcuno
era stato lì e le aveva sciolto le corde ai polsi.
La prima cosa che fece fu togliersi la benda dagli occhi.
La stanza giaceva nell’oscurità più assoluta.
Quindi strappò il nastro adesivo che le chiudeva la
bocca e prese un’ampia boccata di ossigeno: la puzza
della stanza le invase i polmoni.
«Aiuto!», gridò.
Provò ad alzarsi in piedi, ma cadde rovinosamente a
terra: le caviglie erano ancora legate. Cercò con le mani
di sciogliere i nodi: troppo stretti.
Si mise in ginocchio e cominciò a esplorare a tentoni
la stanza, brancolando nel buio.
Avanzava, strisciando sul pavimento ruvido e impolverato. C’era terra dappertutto, sentiva piccoli sassi pungere la pelle sotto le rotule. Riuscì a toccare il muro: l’intonaco si staccò, sporcandole le mani di calce e gesso.
Non c’era mobilia, non c’era nulla, nello spazio che
stava perlustrando. Tutto dava l’impressione di trattarsi
di un luogo fatiscente, abbandonato.
«C’è qualcuno? Mi sentite?», gridò. L’eco rimbombò
per la stanza. Ne dedusse che l’ambiente doveva essere
molto ampio e il soffitto alto.
«Aiuto! Mi sentite?», riprese.
313
laura veroni
I vestiti! Solo allora realizzò di non avere addosso i
vestiti con i quali era arrivata. Quella che aveva addosso
era una vestaglia. Sotto, il corpo era nudo.
Perché? Perché chi l’aveva portata lì le aveva tolto i
vestiti? Che cosa le aveva fatto? Istintivamente, si portò
una mano in mezzo alle cosce e strinse forte. Sentì
umido, bagnato. Le mani erano appiccicose. Le portò
alle narici e annusò: sangue. L’odore era inconfondibile.
«Aiuto! Vi prego, aiutatemi!», gridò con quanto fiato
aveva in gola.
Nessuno parve sentirla.
Riprese a ispezionare la stanza: da qualche parte doveva pur esserci una porta.
Si domandò come mai il suo carceriere le avesse liberato le mani. Qual era il suo piano?
Annaspando nel vuoto, a un tratto, toccò qualcosa
e si ritrasse di soprassalto: una mano. C’era qualcuno
nella stanza con lei!
Un grido le uscì soffocato dalla bocca, con un suono
gutturale che aveva poco di umano.
«Chi c’è?», domandò. «Chi sei?»
Non giunse nessuna risposta.
Rimase immobile, impietrita dal terrore.
«Aiuto...», sibilò piano, quasi avesse paura del suono
della sua stessa voce.
Si fece coraggio e tornò nel punto in cui aveva urtato
quella mano. Agitava le braccia nel buio, senza incontrare ostacoli. Poi, di nuovo, lo stesso tocco di prima.
Indietreggiò di nuovo, poi si fece forza e la afferrò.
«Chi sei? Ti prego, rispondimi!», supplicò. «Sei tu che
mi hai portata qui?»
L’arto era freddo e rigido. Ambra fece scorrere la pro-
314
l’albergo
pria mano lungo il braccio di quella presenza misteriosa,
finché...
«Oddio, no!», gridò.
Il braccio non era attaccato a un corpo: era solamente
un braccio, un pezzo di carne monca, con l’osso che
sporgeva nudo, alla sua estremità.
Ambra lo lanciò lontano da sé.
Dov’era finita? In un mattatoio, in una stanza degli
orrori?
Indietreggiò, strisciando con i glutei per terra, finché
urtò contro un altro ostacolo: un piede attaccato a una
gamba, anche questa senza un corpo.
Ecco che cos’era quella puzza! Cadaveri. Si trovava in
una stanza piena di cadaveri.
Sarebbe stata lei la prossima vittima?
Cercò di tornare con la memoria al suo ultimo giorno
di libertà. Ricostruì passo per passo le ore di quel pomeriggio e della sera, ma non riusciva a ricordare assolutamente nulla da un certo punto in poi.
L’Hotel Olina... lo aveva visto soltanto da fuori. Che
stupida era stata a non avere prenotato subito una stanza
e ad avere rimandato alla sera! Se almeno lo avesse fatto,
qualcuno avrebbe saputo che lei era stata lì. Così, invece,
le sue tracce si perdevano nel nulla. Nessuno sapeva
dove fosse, nessuno l’aveva vista arrivare o partire. Chi
avrebbe mai potuto mettersi in cerca di lei?
Era stata a visitare il giardino sul lago, quello nel cortile interno del palazzo municipale, con quella terrazza
panoramica sull’isola di San Giulio. C’era un matrimonio: due ragazzi giovanissimi con una bambina in braccio. Un altro incidente di percorso, sicuramente. Ma loro
sembravano felici. Si era fermata a osservarli, tenendosi
315
laura veroni
discretamente a distanza, sotto il pergolato, mentre il
vice­sindaco pronunciava la formula di rito. Aveva pensato a Paolo, in quel momento, e lo aveva maledetto con
tutte le sue forze.
Poi? Che cosa aveva fatto? Sì, un giro per il mercato...
Non aveva comprato niente. Altro errore: nessun ambulante avrebbe potuto testimoniare di averla vista.
Aveva vagato per le viuzze del borgo vecchio, ma non
era entrata in nessun negozio, non era stata in nessun
bar... Un momento! Il bar! Certo, quello della strada
Panoramica! Lì si era fermata a prendere un caffè e a
chiedere informazioni! La signora avrebbe potuto testimoniare di averla vista! E, se così fosse stato, avrebbero
trovato anche la sua auto, parcheggiata poco più in là!
Ma certo! Qualcuno, a casa, avrebbe denunciato la sua
scomparsa e la sua foto sarebbe apparsa su tutti i tg delle
reti nazionali. Era l’unica speranza alla quale aggrapparsi. E poi c’era quel tizio, sì, quello giovane che aveva
incontrato al ristorante e che le aveva offerto la cena!
Anche lui avrebbe potuto...
Un momento... che fine aveva fatto il tipo?
Ecco, era a lui che si fermavano i suoi ricordi. L’ultima cosa che aveva visto era stata la sua faccia, poi, il
buio. Era stato un incontro casuale. Lei aveva ordinato
un fritto misto, lui era entrato nel locale e aveva notato
la sua presenza, l’aveva avvicinata, le aveva chiesto se
poteva sedersi al tavolo con lei... Le aveva detto di essere
un turista e di essere solo. Era sembrato gentile. Le aveva
chiesto se non fosse inopportuno da parte sua chiederle
il piacere della sua compagnia per la cena. Avevano parlato a lungo. Lui aveva ordinato un vino bianco, fresco.
Era stato un piacere berlo! E piacevole le era sembrata
la conversazione con quel tizio. Avevano bevuto tutta la
316
l’albergo
bottiglia. Ricordava quel senso di stordimento, i sensi
molli, la testa leggera. Lui l’aveva aiutata ad alzarsi e
le aveva porto il braccio. «Si aggrappi a me!», le aveva
detto. Sembrava un ragazzo così educato, così per bene!
Le aveva persino dato del lei e aveva insistito per pagarle
la cena. Avevano passeggiato per il borgo, poi si erano
seduti su una panchina in riva al lago, a osservare lo
spettacolo sull’acqua: il riflesso dei lampioni, le luci di
San Giulio in lontananza, lo sfavillio delle stelle nel nero
del cielo. Lui le aveva fatto un sacco di domande sul
suo conto e lei, ebbra di vino e di tante attenzioni, si era
lasciata andare a confidenze intime, gli aveva raccontato
di trovarsi lì all’insaputa di tutti, gli aveva detto che era
scappata da un amore infelice, senza dire nulla a nessuno di quella partenza. Che stupida! Era caduta nella
sua trappola! Non ricordava nemmeno come le avesse
detto di chiamarsi.
Glielo aveva detto?
Un rumore! Dei passi! Sembrava che qualcuno stesse
salendo una scala. Il fiato le si fermò in gola. Sentiva i
passi sempre più distinti, sempre più vicini. Rimase immobile, in attesa. C’era qualcuno lì fuori. Era lui? Non
sapeva se gridare o restare zitta. Sentì una chiave girare
nella serratura, poi una fessura di luce, una striscia sottile. Se solo avesse avuto le caviglie libere, si sarebbe
precipitata verso la porta e avrebbe tentato di fuggire,
aggredendo il suo carceriere.
Intravide una sagoma scura.
La porta si richiuse immediatamente. La stanza
venne pervasa dal fascio di luce di una torcia elettrica.
Udì i passi rimbombare sul pavimento: rumore di tacchi
da uomo, di scarpe di cuoio.
«Chi sei?», domandò.
317
laura veroni
Non giunse alcuna risposta da quella presenza. Le
depose vicino una ciotola con dentro del cibo e un bicchiere d’acqua.
«Perché?», domandò. «Perché mi fai questo? Che cosa
vuoi da me?»
L’uomo tornò silenziosamente sui propri passi, dirigendosi verso la porta.
«No, ti prego!», lo supplicò. «Non lasciarmi qui! Lasciami andare! Ti prego!» Proruppe in un pianto disperato.
La porta si richiuse e la stanza ripiombò nel buio.
Perché le aveva portato del cibo e dell’acqua? Significava che voleva tenerla in vita?
Ambra non trovava risposte. Prese l’acqua e bevve
un sorso, lentamente, dopo averlo cautamente annusato: non aveva alcun odore, non aveva alcun sapore.
Forse poteva fidarsi. Aveva la bocca secca, la gola che
bruciava. Si portò alle narici la ciotola: odore di pasta
col sugo, probabilmente gli avanzi di una cena. Aveva lo
stomaco chiuso e la allontanò da sé.
Si domandò se in quella stanza ci fossero finestre:
aveva bisogno d’aria e di luce. Ma non c’era il benché
minimo spiraglio.
Campane. Voci confuse. Da dove provenivano? C’era
della gente da qualche parte!
Aveva dormito, nemmeno lei sapeva per quanto, e
ora si era svegliata al suono delle campane. C’era una
chiesa, lì vicino! Allora era in un posto abitato. «Aiuto!»
Gridò forte. Fu in quell’istante che percepì un suono
muto nella stanza. Sobbalzò.
«C’è qualcuno?», domandò.
«Umm... umm...» Udì.
C’era qualcuno nella stanza con lei, non era sola.
318
l’albergo
«Dove sei?», domandò.
«Umm... umm...»
Strisciò sulle ginocchia, avanzando verso quel suono.
«Continua a parlare!», disse. «Fammi sentire dove sei!»
«Umm... umm... umm...»
Finalmente raggiunse la fonte di quel suono e poté
toccarla: una persona, viva.
Esplorò quel corpo con le mani: era legato polsi e
caviglie e aveva un nastro adesivo sulla bocca, proprio
come era stato per lei. Sentì i capelli sotto le dita: erano
lunghi. Si affrettò a strappare il nastro dalla bocca.
L’altra respirò in un rantolo.
«Chi sei?», chiese la sconosciuta con voce terrorizzata. «Dove sono?»
«Benvenuta all’inferno!», le disse Ambra. «Non so
dove ti trovi. Mi dispiace tanto per te, ma devo confessarti che sono felice che tu sia qui.»
Erano in due adesso, entrambe vive. Una presenza
con la quale parlare, una presenza alla quale appoggiarsi. Magari insieme ce l’avrebbero potuta fare a fuggire di lì.
Le slegò i polsi e le liberò le mani, ma, anche per lei, i
nodi alle caviglie erano troppo stretti.
«Come sei finita qui?», le domandò.
«Non lo so, non me lo ricordo. E tu?»
«Lo stesso», rispose. «Ti ricordi di un tipo alto, moro,
con gli occhi neri, distinto sui trent’anni?»
L’altra rimase un istante in silenzio. «Forse, non ne
sono certa. Ho la testa confusa. Però... sì, mi sembra di
sì... ero in un bar... Ora ricordo: mi ha offerto un caffè,
poi sono uscita dal bar... lui era con me...»
«Sei di queste parti?»
«No.»
319
laura veroni
«Sei una turista? Sola?»
«Sì.»
«Qualcuno sa che sei qui?»
«No.»
«Ok, ok... Siamo di fronte a un maniaco», osservò
Ambra.
L’altra ragazza sussultò. «Un che? Stai forse dicendo...»
«Sì, sto proprio dicendo quello. Ascolta...» Le prese
le mani come a farle coraggio. «In questa stanza ci sono
dei cadaveri. La senti la puzza?»
«Oddio...» Cominciò a piangere l’altra.
«No, ti prego, non fare così! Dobbiamo essere forti, se
vogliamo farcela. Hai capito?»
L’altra si abbandonò ai singhiozzi.
«Hai capito?» La scosse per le spalle. «Dobbiamo studiare un piano. Dobbiamo trovare il modo di uscire di
qui. Tu hai idea di dove ci troviamo?»
«No», rispose in un soffio.
«Cos’è stata l’ultima cosa che hai visto? Pensaci! Sforzati, ti prego!»
«Non lo so. Non lo so.»
«Dai, provaci! Pensa... Come sei arrivata qui? Ti ha
fatto bere? Ti ha dato una botta in testa? Ti ha narcotizzata?»
«Aspetta!» D’un tratto smise di piangere. «Ricordo
che stavo ammirando la facciata di un hotel.»
«Quale hotel? Come si chiama?»
«Albergo Orta, mi pare. In piazza San Giulio. Un vecchio albergo abbandonato.»
«Bravissima!», esclamò Ambra. «Bravissima!»
Era plausibile che si trovassero proprio lì: un vecchio albergo vuoto, in evidente stato di abbandono, proprio come
320
l’albergo
facevano presumere la polvere, la terra sul pavimento, i calcinacci, il riscaldamento spento. E poi il suono delle campane. Ricordava di avere visto una chiesa, lì nei paraggi.
«Come ti chiami?», domandò.
«Carola.»
«Ok, Carola, sentimi bene: dobbiamo assolutamente
trovare una finestra. Se è vero che siamo nell’albergo,
deve esserci per forza. Dobbiamo trovarla a tutti i costi,
prima che torni lui.»
«Tornare?»
«Certo. Tornerà. A portarci cibo, come ha già fatto,
oppure a...»
«No, ti prego, non dirlo!»
«Dobbiamo riuscire a slegare queste corde alle caviglie. Sono giorni che ci provo e non riesco...»
«Giorni? Da quanto sei qui?»
«Non lo so: ho perso la nozione del tempo ormai.
Non riesco nemmeno a capire se sia giorno o notte con
questo buio.»
Provarono a sciogliere i nodi, ma senza successo.
«Dobbiamo trovare qualcosa... Un momento! Il bicchiere!», esclamò Ambra. «Lui mi ha portato del cibo e
dell’acqua. Se rompiamo il bicchiere, possiamo segare le
corde con i vetri! Aiutami a cercarlo!»
Perché non ci aveva pensato prima?
Fu Carola a trovarlo. «Eccolo!»
«Bene! Ora rompilo! Attenta a non tagliarti!»
Un colpo secco, uno schianto sul pavimento.
«Tieni!» Le passò un pezzo di vetro.
«Ora taglia! Taglia taglia taglia!»
Non le pareva vero di poter camminare: finalmente
riusciva a stare in piedi!
321
laura veroni
«Carola», disse, «ascoltami bene, adesso! Dobbiamo
avvicinarci al muro e perlustrarlo tutto in cerca di una
finestra, d’accordo? Sono sicura che ci sia, magari anche
più di una. Probabilmente le avrà oscurate, ma a noi basta trovarne una sola. D’accordo?»
«Va bene», rispose docile.
«Un’altra cosa: non so che cosa si presenterà ai nostri
occhi, quando saremo in grado di vedere, ma, qualunque cosa sarà, non sarà certo un bello spettacolo. Promettimi che sarai forte e che farai come ti dirò io.»
«Te lo prometto», disse.
«E io ti prometto che usciremo vive da qui.»
«Ho trovato qualcosa!», esclamò a un tratto Carola.
«Dove?»
«Qui, dove sono io! Vieni! Sembra una finestra chiusa
con delle assi di legno inchiodate al muro.»
Ambra la raggiunse. «Hai ragione! Forza, dobbiamo
staccare le assi! Aiutami! Tira forte!»
L’asse si staccò di netto dal muro e le due ragazze
caddero a terra.
«Fatta male?», domandò Ambra.
«No, va tutto bene.»
«Coraggio, stacchiamone un’altra!»
Dietro le assi, una pesante tenda scura ricopriva la
finestra. La scostarono. Dietro quella, le persiane. Le
aprirono e, finalmente, la luce.
Si voltarono contemporaneamente e videro l’orrore:
corpi straziati, fatti a pezzi, disseminati qua e là per la
stanza.
Carola ebbe un mancamento. Ambra si portò le mani
alla bocca, in preda a conati di vomito.
«Dobbiamo andarcene subito di qui!», disse.
322
l’albergo
Aprirono la finestra: ultimo piano.
«Come facciamo?»
«Aspettiamo che lui arrivi. Quando entrerà, lo aggrediremo, lo prenderemo di sorpresa. Lui non si aspetta
che siamo riuscite a liberarci.»
Raccolse un vetro da terra. «Se sarà necessario, gli taglieremo la gola. Possiamo farcela! Ora, però, dobbiamo oscurare di nuovo la finestra: tutto dovrà sembrare come prima.»
«Che cos’è quella?», domandò Carola, voltandosi
verso la parete opposta.
«Che cosa?»
«Quella!» Indicò col dito.
«Mio Dio: una telecamera!», sussultò Ambra. «Ci sta
osservando!»
Rumore di passi sulle scale e lungo il corridoio, poi
la chiave nella serratura e la porta si aprì. Lui comparve
sulla soglia, l’ascia tra le mani. Un colpo secco e la testa
di Carola si staccò di netto dal collo.
Ambra non ebbe nemmeno il tempo di reagire: lui la
tramortì con un colpo alla nuca.
Quando riaprì gli occhi, era di nuovo legata mani e
piedi alla branda, il nastro adesivo le chiudeva la bocca
e una benda le oscurava la vista. Tutto era buio.
L’aula magna era affollata di gente in fermento per la
proclamazione del dottorato.
Le ragazze, elegantissime nei loro abiti di gran gala,
portavano in testa la corona d’alloro, i ragazzi, in giacca
e cravatta, portavano il cappello del laureando.
Il Magnifico Rettore chiamava i candidati al centro
della sala e recitava la formula di rito, consegnando la
pergamena con la medaglia dell’università.
323
laura veroni
«Giorgio Lo Mastro, con i poteri conferitemi dallo
Stato, La proclamo dottore in Psichiatria. Congratulazioni!»
Foto di routine, uno scroscio di applausi e le felicitazioni di parenti e amici.
«E bravo Giorgio!», si congratulò un amico. «Dottore
con il massimo dei voti e la lode!»
«Grazie, grazie...» Sorrise soddisfatto.
«Che tesi hai fatto?»
«Una tesi sugli effetti della paura delle vittime di maniaci seriali.»
«Interessante! Immagino non sarà stato semplice reperire materiale per la stesura.»
«Niente affatto: è stato molto più semplice di quanto
tu possa credere.»
324
Gli autori
Delitti di lago
Ambretta Sampietro – Scrive di libri cinema e teatro
per un quotidiano e testate web. Ha ideato e organizza
il premio Giallostresa e ha curato le antologie di racconti gialli Delitti d’acqua dolce e Giallolago. Dal 2009 al
2014 ha organizzato il festival letterario Stresa, un aperitivo con ... e presentazioni letterarie a Stresa, Varese e
Lugano. Un suo racconto è contento nell’antologia 365
storie cattive.
***
Cristina Bellon – Nata a Somma Lombardo vive a Induno Olona. È opinionista e critico letterario per ArcipelagoMilano. Si occupa di divulgazione scientifica nella
sua collaborazione con Le Scienze e Panorama. Per Mondadori, ha pubblicato il saggio Il futuro spiegato ai ragazzi
(2012, tradotto anche in spagnolo El futuro explicado a los
niños (Siruela, Madrid, 2013) e per Gruppo B Editore, il
romanzo L’Ora Breve.
Angela Borghi – È medico internista e dirige il Pronto
soccorso dell’ospedale di Cittiglio. Vive a Buguggiate con
il marito e tre cani. È una lettrice appassionata, soprattutto di gialli, noir e dei... serial killer. È autrice del romanzo giallo Delitto al Sacro Monte (Macchione Editore).
325
delitti di lago
Mercedes Bresso – Professore di Economia al Politecnico di Torino, ha insegnato anche a Pavia e Udine. Ha
ricoperto varie cariche istituzionali ed è Grande Ufficiale Ordine al merito della Repubblica Italiana. È stata
deputata europea nel 2004/2005 ed è stata rieletta nel
2014. È stata presidente dell’Unione europea dei federalisti. Dal 2005 al 2010 è stata presidente della Regione
Piemonte. Ha presieduto il Comitato delle Regioni
dell’Unione europea fino alle ultime elezioni. Grande
appassionata di gialli, ha pubblicato Il profilo del tartufo
(Rizzoli), Il lato in ombra del lago e Missione Last Flower
(Pietro Pintore). Un suo racconto è contenuto nell’antologia Delitti d’acqua dolce ed è anche autrice di diversi
saggi economici.
Rossana Girotto – È la vincitrice di Giallostresa 2014.
Vive a Sesto Calende e collabora con il marito nel negozio di gemme e minerali preziosi creando gioielli. Ha
vinto alcuni concorsi letterari, scrive favole e racconti alcuni dei quali sono diventati performance teatrali. Collabora con alcune testate e radio locali. Ha pubblicato
Lo gnomo di Curiglia (Colibrì), Ofelia sapeva nuotare ed Effetti personali (Edizioni RSWItalia). Suoi racconti sono
contenuti nelle antologie Delitti d’acqua dolce e Giallolago.
Daniele Grillo – Genovese, è laureato in Giornalismo,
editoria e comunicazione multimediale, dal 2006 ha la
fortuna di raccontare la sua città sulle pagine de Il Secolo
XIX. È autore dei romanzi L’isola delle chiatte e Il dolore del
fango (Fratelli Frilli) insieme alla moglie Valeria Valentini.
Alessandra Guzzonato – È nata a Monza ed è cresciuta
a Sesto San Giovanni. Dopo aver conseguito la laurea
326
gli autori
in Relazioni pubbliche e Pubblicità presso l’Università
IULM di Milano, si è trasferita a Londra dove ha cominciato a lavorare come pittrice. Nel 2009 ha conseguito un diploma in Illustrazione di libri per bambini
presso il London Art College. Nel 2012 si è trasferita in
Svizzera. Vive a Banco di Bedigliora, nel luganese, con
la famiglia e continua la sua attività artistica. Nei fine
settimana è spesso a Stresa. Alcuni suoi lavori sono visibili sul sito www.animalartfactory.jimdo.com.
Riccardo Landini – Vincitore di Giallostresa 2013. Avvocato, vive a Reggio Emilia. È appassionato di cinema
italiano degli anni ’60-’70. Insegna Storia del cinema e
organizza rassegne cinematografiche. E verrà la morte
seconda (SBC Edizioni) è il suo primo romanzo. Vincitore di alcuni premi letterari, nel 2000 ha scritto e diretto
il film Buiomorte, horror argentiano molto splatter. Ha
pubblicato alcuni racconti in antologie edite da Aliberti,
Prospettiva, Giulio Perrone e Sarapar. Suoi racconti
sono contenuti nelle antologie Delitti d’acqua dolce e Giallolago.
Giorgio Maimone – Milanese di origine varesina, vive
tra Milano, Vedano Olona e Vacciago. Berchettiano irriducibile, è stato caporedattore de Il Sole 24 ore per oltre
30 anni. Ha lavorato in teatro, ha diretto la prima radio libera della sinistra milanese, Radio Canale 96 e, in
seguito, Radio Regione. Ha fondato e dirige il portale
della canzone d’autore La Brigata Lolli (www.bielle.org),
ha lavorato sulle reti Mediaset come ideatore e autore di
programmi. Si occupa di recensioni librarie e discografiche per il settimanale Gioia e fa parte della giuria del
Premio “Tenco”. Insieme a Erica Arosio è autore dei
327
delitti di lago
romanzi Vertigine (Baldini & Castoldi) e L’amour gourmet
(Mondadori). Un suo racconto è contenuto nell’antologia Giallolago.
Antonella Mecenero, nata a Busto Arsizio, vive a Briga
Novarese. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali, insegna lettere e ha frequentato la scuola Holden di
Torino. Collabora con l’Ecomuseo del Lago d’Orta e del
Mottarone e con la rivista on-line www.kultural.eu. È la
vincitrice di “Giallo Mensa-Mondadori” 2012 ed è stata
finalista al premio Tedeschi 2013. Ha pubblicato i romanzi Una roccia nel cuore (Interlinea) e Sherlock Holmes e
il mistero dell’uomo meccanico (Delos). Suoi racconti sono
stati pubblicati in varie antologie tra cui Delitti d’acqua
dolce e Giallolago.
Sabrina Minetti – Milanese, il suo romanzo L’isola dei
voli arcobaleno (Autodafé Edizioni 2011) è stato finalista a Casa Sanremo Writers 2012 e ha vinto il premio
Lago Gerundo 2014, premio vinto anche nella sezione
racconti inediti. Suoi racconti sono contenuti in parecchia antologie tra cui 365 Storie cattive (Ilmiolibro 2010),
Milano forte e piano 1 e 2 (Happy Hour edizioni, 2011,
2012), Morto e mangiato (Ilmiolibro, 2013), Il negozio, I
sommersi, Racconti mondiali (Autodafè Edizioni, 2014),
Delitti d’estate (Novecento Edizioni, 2014), 10 novelle in
cerca di sogni (B&B Edizioni, 2014 – finalista Premio Mirella Ardy 2014), Delitti d’acqua dolce e Giallolago. Collabora all’organizzazione del Festival Letteratura di Milano e di “Stresa un aperitivo con...”. Lavora come insegnante di comunicazione e progettista di formazione
presso il Capac Politecnico del Commercio di Milano. È
tutor e cultrice della materia presso la facoltà di Scienze
328
gli autori
Politiche dell’Università degli Studi di Milano. È stata
per tre volte finalista di Giallostresa. Nel 2012 suoi monologhi sono stati trasposti per il teatro da Creatheater.
Ha ideato e condotto Chef per una sera, presentazioni di
libri con l’autore in veste di chef, e ha presentato Sapore d’autore, cene con scrittori in diretta TV, e Segreta
è la notte, rassegna di incontri a sorpresa con scrittori in
libreria). È attiva nell’organizzazione del. Con lo chef
Franco Marino è stata ospite di una serie di puntate
della trasmissione TV Top Gusto di Telelombardia, per
parlare di cibo e cultura. È socia e editor di dEste Edizioni e culture provider dell’acceleratore d’impresa Rancilio Cube. Scrive su Mondo Rosa Shokking ed è stata
caporedattrice della rivista letteraria Torno Giovedì.
Emile Munch – La sua biografia è assai scarna. Per certo
si sa che è parigino, cinquantenne e figlio di immigrati
cecoslovacchi. Il suo editore, unico autorizzato a fornire
cenni biografici, si è sempre premurato di smentire le
notizie più disparate che sono circolate sulla sua figura
ammantata di leggenda: si dice che si tratti di un famoso
autore francese che scrive sotto pseudonimo o che, viceversa, Munch firmi sotto pseudonimo molti romanzi di
successo; che Munch sia il diretto discendente del pittore ottocentesco autore dell’Urlo; che abbia fatto parte
dei servizi segreti dei paesi dell’Est. Fatto sta che, ancor
oggi, non esiste una foto in cui lo scrittore parigino sia
ritratto in primo piano. I pochi cenni biografici sono velati da luci e ombre di una vita avventurosa, simile a
quella dei personaggi da lui creati.
Emiliano Pedroni – vive a Inarzo. Lavora come magazziniere presso la Gemini Technologies S.p.a a Bodio
329
delitti di lago
Lomnago. Ha pubblicato i romanzi La Recluta del Male
e Le oscure presenze con l’Editore XY.IT di Arona. Studia Grafologia e Perizia Grafica Giudiziaria presso Arigraf
a Milano. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie
Delitti d’acqua dolce e Giallolago. Maurizio Pellizzon – Veneto di origine, è cresciuto a
Milano e vive nell’hinterland milanese. Laureato in Ingegneria Chimica presso il Politecnico di Milano, ha
lavorato per società chimiche multinazionali ed importanti società a livello nazionale. È stato direttore di uno
stabilimento chimico a Villadossola, è presidente per
la sezione Chimica all’Unione Industriale del VCO e
attualmente si occupa delle tematiche Sicurezza-Ambiente, di oltre 60 stabilimenti distribuiti in 33 paesi, di
un noto gruppo chimico italiano. Si dedica alla scrittura
come appassionante attività alternativa al contesto tecnico. È autore del romanzo breve Meglio non parlarne che
fa parte della raccolta Tre Gialli in villa (Edizioni La Pagina), giallo ambientato nella storia industriale di Villadossola. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie
Delitti d’acqua dolce e Giallolago.
Alberto Pizzi – Nato a Ramate di Casale Corte Cerro, è
libero professionista nel settore finanziario. Fin da giovane ha maturato una grande passione per la corsa a
piedi, che pratica tuttora, e la lettura. Ha pubblicato per
Edizioni Buk due romanzi: Quell’hotel sull’oceano (2011)
e Il segreto di Mila (2012), entrambi scritti seguendo alla
lettera le sue tre regole di vita: fiducia in se stessi, fiducia
in chi ti sta vicino, fiducia nel domani. Un suo racconto
è contenuto nell’antologia Giallolago (Eclissi).
330
gli autori
Liana Righi – Vive a Domodossola, è sindacalista di
professione ed è impegnata nel sociale. Condivide con
il marito la passione per la scrittura e collabora con lui
ed alcuni amici nell’organizzazione di eventi letterari
nell’Ossola e sul Lago Maggiore. Appassionata del genere giallo, si è cimentata con un racconto semiserio
ispirato alla figura di un maresciallo dei carabinieri nei
cui casi si intromette la madre pasticciona. Ha curato
l’antologia di racconti gialli Nudi e Crudi (Eclissi Editrice).
Renato Rizzi – Vive tra Milano e Brovello Carpugnino.
È laureato in Medicina e Chirurgia, con dottorato di ricerca in Tossicologia e Farmacologia, specializzazione
in Farmacologia Clinica, Specializzazione in Oncologia
e seconda laurea in Psicologia. Ha insegnato nelle Università di Milano, Pavia e Urbino. Ho fatto il ricercatore universitario fino al 1992 e poi libera professione
in Clinica. Ha pubblicato più di un centinaio di lavori
scientifici, una quindicina di testi universitari e divulgativi in ambito medico e ultimamente psicologico sulle
emozioni (Itinerari del rancore per Bollati Boringhieri,
2008, Itinerari del perdono, Unicopli, 2010). Il suo primo
romanzo è Berto il cialtrone (Edizioni Ets).
Sergej Roic – Svizzero, originario di Hvar in Croazia,
vive a Lugano. È responsabile delle relazioni fra Italia
e Svizzera per l’associazione milanese «Globus et Locus». È opinionista e collabora alla pagina culturale del
«Corriere del Ticino» e recensisce libri per il settimanale Extra. È lo slavista responsabile della casa editrice
Zandonai. È segretario generale del PEN International
Club, sezione della Svizzera italiana e retoromancia. È
331
delitti di lago
membro di comitato di Coscienza Svizzera. È autore di
alcuni romanzi, tra cui Il gioco del mondo (OperaNuova,
Lugano – premio «Impronta Viola 2012», Locarno) e
Achille nella terra di nessuno (Zandonai), di Omaggio a Pail
Klee (Zandonai) e di libri intervista pubblicati da Giampiero Casagrande. Un suo racconto è contenuto nell’antologia Delitti d’acqua dolce.
Federico Spinozzi – Nato a Chieti vive a Domodossola. Funzionario di dogana, ha scritto alcune fiabe ambientate nell’Ossola e pubblicate nei volumi Storie vere
dell’Ossola che non c’è, Dal bianco al nero, Una fiaba per la
vita. Nel 2011 ha pubblicato il suo primo romanzo fantasy: Rual, (Maremmi Editore). Il suo racconto fantasy
Il Guerriero lucente è stato premiato al VII premio Courmayeur Fancon ’94. Suoi racconti sono contenuti nelle
antologie Delitti d’acqua dolce e Giallolago.
Gianluca Veltri – È nato a Milano dove tuttora vive. È
titolare di Anadema Haircut, prestigioso indirizzo dedicato al binomio arte e capelli. Da oltre quindici anni
organizza eventi culturali nel capoluogo meneghino.
Ha pubblicato una raccolta di racconti, Amore e altri scarabocchi (Kipple), i romanzi L’odore dell’asfalto (Nobeer), La dimora del Santo (Happy Hour e allegato nel gennaio
2014 al quotidiano “Il Sole 24”), Mi ricordo il tuo profumo
(Piemme Mondadori e-book), e la riedizione de L’odore
dell’asfalto (Piemme Mondadori e-book). Ha partecipato
con diversi racconti a numerose antologie, un suo racconto è contenuto nell’antologia Delitti d’acqua dolce.
Laura Veroni – È nata e vive a Varese dove è docente
di lettere. È laureata in Pedagogia presso l’Università
332
gli autori
Cattolica del “Sacro Cuore” di Milano. Su www.lulu.
com ha pubblicato alcuni romanzi: I ricordi di Lalla, Il
cielo è pieno di stelle e Volevo solo essere felice. Anche un saggio di psicopedagogia: Lettera ad uno psichiatra e un libro
di Didattica Tema, che passione!. Canta nel gruppo rock
Classe F. Ha un sito didattico: “La prof Veroni e i suoi
alunni” (https://sites.google.com/site/laprofveronieisuoialunni/) e un blog: “Tutti i colori di Laura” (http://
tuttiicoloridilau.blogspot.it/). Un suo racconto è contenuto nell’antologia Giallolago.
333
Ringraziamenti
Grazie a: Franco Forte, Mariangela Camocardi, Carmen
Giorgetti Cima, prof. Alberto Bellocco, Barbara Bottazzi, Piero Crespi, Oreficeria Iaria Domodossola, ristorante Posta e Locanda Nelia Baveno, b&b Bosco Tenso
Premosello Chiovenda, hotel la Palma Stresa, hotel Ancora Verbania, hotel Miramonti Santa Maria Maggiore,
dimora storica Casa Vanni Viganella, b&b Giardino
degli Abeti Arizzano, b&b Tiffany Domodossola, b&b
Popai 10 Montecrestese, camping 7 camini di Gignese,
Piccolo Lago Verbania, hotel Astoria di Stresa, hotel
La Capannina Massino Visconti, ristorante Giardinetto
Pettenasco, hotel ristorante Eden Mottarone, albergo
ristorante Luina Stresa, Gennaro D’Avanzo, Festival
Umberto Giordano, Patrizia Ridolfo, Andrea Lazzarini,
Amministrazione Borromeo, Consorzio Motoscafisti
CMA, Antonio Longo Dorni, Silvia Longo Dorni, Distretto Turistico dei Laghi, Maddalena Ramponi, Elena
Leoni, Pro Loco Stresa, Città di Stresa, Provincia VCO,
Amadio Taddei, Città di Omegna, Leggittima Difesa,
Paolo Ferraro, Associazione Italiana Sommelier – Sezione VCO, Verbano Yacht Club Stresa, Giorgio Finetti,
Associazione ASSOLO Musica, Antonella Padulazzi.
334