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La prima stella della notte
Cover
Marc Levy
LA PRIMA STELLA DELLA NOTTE
Traduzione di Valeria Pazzi
Rizzoli (2010)
Prologo
Mi chiamo Walter Glencorse e sono l’amministratore della Royal Academy di Londra. Ho
conosciuto Adrian poco meno di un anno fa, quando è stato rimpatriato d’urgenza in Inghilterra dal sito astronomico di Atacama, in Cile, dove scrutava il cielo in cerca della stella originale.
Adrian è un astrofisico di grande talento e in questi mesi siamo diventati buoni amici.
Lui aveva un unico sogno: proseguire le sue ricerche sull’origine dell’universo, mentre io
tentavo invano di far quadrare un bilancio disastroso. L’ho convinto così a partecipare a un
concorso organizzato da una fondazione scientifica, che metteva in palio una ricchissima
borsa di studio.
Lavorando alla presentazione del suo progetto per settimane intere, abbiamo finito per affezionarci l’uno all’altro. Ma ho già detto che siamo amici, non è vero?
Il primo posto, purtroppo per noi, se l’è aggiudicato una giovane francese, una paleontologa grintosa e determinata. Era impegnata in uno scavo nella valle dell’Omo, in Etiopia,
quando una tempesta di sabbia aveva distrutto il suo campo costringendola a far ritorno in
patria.
La sera in cui tutto è cominciato, anche lei si trovava a Londra: sperava di vincere la borsa
di studio in modo da poter riprendere in Africa le sue ricerche sull’origine dell’umanità.
Ma i casi della vita sono strani: Adrian conosceva già Keira, avevano vissuto un’intensa
estate di passione, ma da allora non si erano più rivisti.
Passarono quella notte insieme, lei festeggiando la vittoria, lui il fallimento. Keira se ne
andò la mattina dopo, lasciando in regalo a Adrian il ricordo ravvivato del loro amore di
gioventù e uno strano ciondolo proveniente dall’Africa: una specie di pietra trovata nel cratere
di un vulcano da Harry, un ragazzino etiope che Keira aveva quasi adottato, perdendone poi
le tracce prima di lasciare l’Africa.
Durante un temporale notturno Adrian scoprì che il ciondolo aveva strane proprietà:
quando una fonte intensa di luce — un fulmine, per esempio — lo attraversava, proiettava
milioni di puntini luminosi.
Adrian non tardò a rendersi conto di un fatto ancor più singolare, per non dire incredibile:
quei punti corrispondevano a una mappa della volta celeste, e per di più non a una porzione
qualsiasi, ma a un preciso frammento del cielo, un’immagine delle stelle tali e quali erano
sopra la Terra quattrocento milioni di anni fa.
Dopo aver fatto questa scoperta straordinaria, Adrian decise di raggiungere Keira nella
valle dell’Omo.
I due, tuttavia, non erano gli unici a nutrire interesse per quella particolare pietra. Durante
un soggiorno a Parigi, in visita dalla sorella, Keira aveva conosciuto un vecchio professore di
antropologia, un certo Ivory. Quest’uomo mi contattò e riuscì a convincermi — lo confesso,
nella maniera più bieca — a incoraggiare Adrian nelle sue ricerche.
In cambio della collaborazione, mi consegnò una piccola somma di denaro e promise che
se Adrian e Keira avessero portato a termine il lavoro avrebbe fatto una generosa donazione
alla Royal Academy. Accettai l’accordo. All’epoca ignoravo che Adrian e Keira avessero alle
calcagna un’organizzazione segreta che, al contrario di Ivory, era ferocemente determinata a
impedire loro di sciogliere l’enigma e di trovare i frammenti in grado di completare il ciondolo.
Adrian e Keira, indirizzati dal vecchio professore, scoprirono infatti ben presto che la pietra
rinvenuta nell’antico vulcano non era unica nel suo genere: dovevano essercene altre quattro
o cinque disperse per il pianeta, e loro volevano trovarle.
Questa ricerca li portò dall’Africa alla Germania, dalla Germania all’Inghilterra,
dall’Inghilterra al confine con il Tibet; poi, volando clandestinamente sulla Birmania, raggiunsero l’arcipelago delle Andamane. Qui, sull’isola di Narcondam, Keira raccolse una seconda
pietra del tutto simile a quella africana.
I due frammenti, quando furono riuniti, rivelarono nuove e stupefacenti proprietà: si attrassero come due calamite, divennero di un blu molto intenso e sprigionarono miriadi di scin-
tille. Adrian e Keira, elettrizzati per questo passo avanti nella loro ricerca, si recarono in Cina,
malgrado gli avvertimenti e le minacce rivolte loro dall’organizzazione segreta, i cui membri
avevano tutti il nome in codice di una città.
Uno di essi, il lord inglese Sir Ashton, decise infine di agire per conto suo e fermare una
volta per sempre Adrian e Keira.
E io, cosa ho fatto? Perché non ho capito, quando un prete è stato assassinato sotto i
nostri occhi? Perché non mi sono reso conto della gravità della situazione? Perché non ho
detto al professor Ivory che non ero più disposto a continuare? Come ho potuto non avvertire
Adrian che quel vecchio lo stava manipolando… proprio io, che sostengo di essere suo
amico.
Lasciando la Cina, Adrian e Keira furono vittime di un terribile attentato. Lungo una strada
di montagna, un’auto fece precipitare giù da un dirupo la loro 4x4, che andò a finire nelle
acque del Fiume Giallo. Adrian fu tratto in salvo da alcuni monaci che erano lì al momento
dell’incidente, mentre il corpo di Keira non venne ritrovato.
Una volta rimpatriato, dopo la convalescenza, Adrian non tornò al lavoro. Distrutto dalla
perdita di Keira, si rifugiò nella casa d’infanzia sull’isoletta greca di Hydra (è di padre inglese
e madre greca).
Trascorsero tre mesi. Mentre lui soffriva per la perdita della sua amata, io mordevo il
freno, roso dai sensi di colpa, finché un giorno ricevetti presso la Royal Academy un pacco indirizzato a lui. Proveniva dalla Cina ed era privo di mittente.
Lo aprii e al suo interno c’erano gli oggetti che lui e Keira avevano lasciato in un monastero e una serie di fotografie in cui riconobbi subito la giovane paleontologa. Sulla fronte
aveva una strana cicatrice di cui non ricordavo l’esistenza. Ne parlai a Ivory, il quale riuscì a
convincermi che si trattava di una prova del fatto che forse Keira era ancora viva.
Mi sono ripetuto almeno cento volte di tacere, di lasciare in pace Adrian. Ma come nascondergli una notizia del genere?
Sono andato a Hydra e, di nuovo per colpa mia, Adrian è ripartito, pieno di speranza, alla
volta di Pechino.
Scrivo queste righe con l’intenzione di consegnarle un giorno a Adrian, confessandogli la
mia colpa. Ogni sera prego che possa leggerle e perdonarmi per il male che gli ho fatto.
Atene, 25 settembreWalter GlencorseAmministratore della Royal Academy di Sua
Maestà.
Diario di Adrian
Camera 307. La prima volta che ho dormito qui, non ho fatto per niente caso al panorama:
all’epoca ero felice e la felicità rende distratti. Sono seduto a una piccola scrivania, di fronte
alla finestra. Pechino si estende davanti ai miei occhi e non mi sono mai sentito così sperduto. La sola idea di voltarmi verso il letto mi è intollerabile. La tua assenza è come una piccola morte che, inesorabile, si fa strada dentro di me. Una talpa nelle viscere. Ho provato a
zittirla bevendo del baijiu, ma neppure la bruciante acquavite di riso è servita a molto.
Dieci ore d’aereo senza chiudere occhio: devo assolutamente dormire prima di uscire. Pochi attimi di oblio, non chiedo altro, un barlume d’incoscienza durante il quale non rivivrò più i
momenti trascorsi qui con te.
Ci sei ?, mi hai chiesto dalla porta del bagno, pochi mesi fa. Oggi sento solo il gocciolare
continuo dell’acqua che cola da un vecchio rubinetto e picchietta sulla maiolica opaca del
lavandino.
Spingo indietro la sedia, infilo la giacca ed esco dall’albergo. Un taxi mi lascia davanti al
parco di Jingshan. Supero il roseto e attraverso il ponte di pietra su un laghetto.
Sono felice di essere qui.
Anch’io lo ero. Se soltanto avessi saputo verso quale destino ci stavamo catapultando,
così incoscienti, così ansiosi di fare nuove scoperte. Se potessi fermare il tempo, rivivrei quel
preciso istante. Se si potesse tornare indietro, è là che andrei…Sono tornato nel luogo in cui
ho espresso quel desiderio
davanti al roseto bianco, in uno stretto viale del parco di Jingshan. Ma il tempo non si è
fermato.
Entro nella Città proibita dalla porta nord e cammino tra i viali, con qualche ricordo di te
come unica guida.
Cerco una panchina di pietra vicino a un grosso albero, uno scoglio dove, non molto
tempo fa, era seduta una coppia di anziani cinesi. Forse ritrovandoli avrò un po’ di pace. Nel
loro sorriso mi era parso di leggere la promessa di un futuro per noi due. O era solo un sorriso di scherno per il destino che ci attendeva?
Mi sono sdraiato sopra quella panchina. I rami di un salice oscillano nel vento e la loro pigra danza mi culla. Chiudo gli occhi, il tuo viso mi appare intatto. Scivolo nel sonno.
A svegliarmi è un poliziotto, che mi dice di andarmene. Scende la notte, e i visitatori non
sono più i benvenuti.
Torno nella mia stanza d’albergo. Le luci della città scacciano il buio. Ho tolto la coperta
dal letto, l’ho stesa sul pavimento e mi ci sono raggomitolato. I fari delle auto disegnano
strane forme sul soffitto. Ma perché perdere tempo? Tanto non dormirò più.
Ho preso i bagagli, pagato il conto alla reception e recuperato l’auto nel parcheggio.
Il GPS di bordo mi indica la strada per Xi’an. In prossimità delle zone industriali la notte
svanisce, per poi riapparire nel buio delle campagne.
Mi sono fermato a Shijiazhuang per fare il pieno di benzina, senza comprare cibo. Mi
avresti dato del vigliacco, forse non avresti avuto torto, ma visto che non ho fame, perché
sfidare la sorte?
Dopo cento chilometri ritrovo il piccolo villaggio abbandonato in cima a una collina. Mi incammino lungo il sentiero accidentato per guardare il sole che sorge sulla vallata. Si dice che
i luoghi conservino il ricordo degli istanti vissuti dalle persone che lì si sono amate: forse non
è che una fantasia, ma stamattina ho bisogno di crederci.
Percorro i vicoli deserti, oltre l’abbeveratoio della piazza. La coppa che avevi trovato nelle
rovine del tempio confuciano è scomparsa. Proprio come avevi detto tu: qualcuno se l’è portata via e ne avrà fatto ciò che ha voluto.
Mi siedo in cima alla collina e attendo l’arrivo del giorno. E’ immenso. Riprendo il viaggio.
Passare per Linfen è rivoltante come la prima volta, una nuvola acre d’inquinamento mi
brucia la gola. Recupero dalla tasca il pezzetto di stoffa da cui tu allora avevi ricavato delle
mascherine di fortuna. Era fra gli oggetti che mi hanno rispedito in Grecia. Non è rimasta nessuna traccia del tuo profumo, ma mentre lo appoggio sulla bocca, rivedo ogni tuo gesto.
Questa puzza è infernale, ti eri lamentata mentre attraversavamo Linfen, ma tu trovi
sempre una scusa per brontolare. Quanto darei per poter sentire ancora le tue proteste!
E’ stato proprio mentre eravamo qui che ti sei punta il dito frugando nella borsa,
scoprendo il trasmettitore nascosto. Quella sera avrei dovuto fare dietrofront; non eravamo
pronti a quello che ci aspettava, non eravamo degli Indiana Jones: solo due scienziati che si
comportavano come ragazzini incoscienti.
La visibilità è scarsa e devo scacciare i brutti pensieri per concentrarmi sul percorso.
Ricordo che, uscendo da Linfen, ho parcheggiato sul ciglio della strada e mi sono limitato
a buttar via il trasmettitore, senza curarmi del pericolo che rappresentava, preoccupato solo
dell’intrusione nella nostra privacy. È stato allora che ho confessato di desiderarti, è stato allora che ho rifiutato di dirti tutto ciò che amavo in te, per pudore più che per gioco.
Mi avvicino al punto in cui è avvenuto l’incidente, il punto in cui gli assassini ci hanno
spinti giù, e mi tremano le mani.
Fallo passare.
Ho la fronte imperlata di sudore.
Rallenta, Adrian, ti prego.
Mi pizzicano gli occhi.
Non è possibile, quelli ce l’hanno con noi.
Hai allacciato la cintura di sicurezza ?
Sì, hai risposto. Il primo urto ci ha proiettati in avanti. Rivedo le tue dita stringere la
maniglia, così forte che le nocche sono diventate bianche. Quanti colpi ci sono voluti prima
che le ruote urtassero il parapetto, prima che scivolassimo nel baratro?
Ti ho abbracciata mentre le acque del Fiume Giallo ci sommergevano, ho continuato a
guardarti mentre annegavamo, sono rimasto con te fino all’ultimo istante, amore mio.
I tornanti si susseguono, a ogni curva mi sforzo di controllare gesti troppo nervosi, di raddrizzare la traiettoria dell’auto. Ho già superato il bivio da cui si diparte il sentiero che porta al
monastero? Da quando sono partito per la Cina, questo luogo occupa tutti i miei pensieri. Il
lama che ci aveva accolti è la mia unica conoscenza qui. Chi, se non lui, potrà fornirmi una
pista per ritrovarti, darmi un’informazione in grado di alimentare la flebile speranza che tu sia
viva? Una fotografìa di te con una cicatrice sulla fronte non è molto, solo una specie di amuleto che tiro fuori dalla tasca cento volte al giorno. Scorgo sulla destra l’inizio del sentiero. Ho
frenato troppo tardi: l’auto sbanda e vado in retromarcia.
Le ruote della 4x4 affondano nella melma autunnale. Ha piovuto tutta notte. Lascio la
macchina nel sottobosco e proseguo a piedi. Se non ricordo male, attraversando un guado e
salendo sul fianco di una seconda collina, dalla cima dovrei vedere il tetto del monastero.
Ci è voluta un’ora buona di cammino per arrivarci. In questa stagione il livello del torrente
è più alto e guardarlo non è stato facile. Grosse pietre rotonde dalla superficie scivolosa
sporgevano appena dalle acque agitate. Se mi avessi visto in bilico in una posizione così
poco elegante, credo che avresti riso di me.
E’ questo pensiero che mi dà la forza di continuare.
La terra melmosa si appiccica sotto i miei piedi e ho la sensazione di indietreggiare, più
che di andare avanti. Ci vogliono molti sforzi per raggiungere la cima. Bagnato come un pulcino e ricoperto di fango, devo sembrare un vagabondo, e mi chiedo come reagiranno i tre
monaci che mi stanno venendo incontro.
Mi fanno segno di seguirli. Arriviamo davanti alla porta del monastero e uno di loro, quello
che per tutto il percorso ha continuato a controllare che non tagliassi la corda, mi conduce in
una saletta. Assomiglia a quella in cui abbiamo dormito. Mi invita a sedermi, riempie una bacinella di acqua limpida, si inginocchia davanti a me, mi lava il viso, le mani e i piedi. Poi mi
porge un paio di pantaloni di lino, una camicia pulita e se ne va dalla stanza. Non lo rivedrò
più per il resto del pomeriggio.
Poco dopo un altro monaco mi porta qualcosa da mangiare; poi stende una stuoia sul pavimento e a quel punto capisco che questa sarà la mia camera da letto.
Il sole sta calando e, quando gli ultimi bagliori scompaiono sotto la linea dell’orizzonte, finalmente incontro colui che sono venuto a cercare.
«Non so cosa la riporti qui, ma a meno che non intenda fermarsi in ritiro spirituale, la
pregherei di andarsene domattina. Abbiamo avuto molti problemi a causa sua.»«Ha notizie di
Keira, la ragazza che era con me? L’ha rivista?» chiedo in tono ansioso.
«Mi dispiace per ciò che vi è capitato, ma se qualcuno le ha fatto credere che la sua amica sia sopravvissuta a quel terribile incidente, le ha mentito. Non ho la pretesa di essere informato su tutto ciò che accade nella regione, ma una cosa del genere la saprei, mi
creda.»«Non è stato un incidente! Lei ha spiegato che la sua religione le proibisce di nascondere la verità e allora glielo chiedo di nuovo: ha la certezza che Keira sia morta?»«E’ inutile
alzare la voce in questi luoghi: non serve a nulla né con me, né con i miei discepoli. Non ne
ho la certezza, come potrei? Il fiume non ha restituito il corpo della sua amica: non so altro.
Vista la velocità delle correnti e la profondità del corso d’acqua, non c’è da meravigliarsene.
Scusi se mi soffermo su questi dettagli, immagino che sia doloroso, ma volevo rispondere alla
sua domanda.»«E l’auto, l’hanno ritrovata?»«Se davvero ci tiene alla risposta, dovrebbe rivolgersi alle autorità, anche se glielo sconsiglio vivamente.»«Perché?»«Come le accennavo
poco fa, abbiamo avuto molti problemi, a causa vostra…»«Che tipo di problemi?»«Crede
forse che il vostro incidente sia passato inosservato? La polizia ha condotto un’inchiesta. La
scomparsa di una cittadina straniera in territorio cinese è un evento piuttosto insolito. E poich le autorità non amano affatto i nostri monasteri, ci hanno riservato un trattamento piuttosto
sgradevole. I monaci sono stati interrogati in modo rude e abbiamo ammesso di avervi ospitato, poiché ci è proibito mentire. Quindi, come può ben capire, i monaci non vedono di
buon occhio il suo ritorno fra noi.»«Keira è viva! Deve credermi e aiutarmi.»«E’ il suo cuore a
parlare. Comprendo la necessità di aggrapparsi alla speranza, tuttavia rifiutando la realtà lei
alimenta un dolore che finirà per consumarla. Se la sua amica fosse sopravvissuta, sarebbe
ricomparsa da qualche parte e noi ne avremmo avuto notizia. Fra queste montagne si sa
tutto. Purtroppo temo che il fiume l’abbia tenuta con sé: sono sinceramente addolorato e condivido la sua pena. Ora che conosco il motivo del suo viaggio, mi duole essere colui che deve
riportarla alla ragione. E’ difficile elaborare un lutto senza un corpo da seppellire, senza una
tomba su cui piangere, ma l’anima della sua amica è sempre vicino a lei e ci resterà fintanto
che la porterà nel suo cuore.»«Per favore, mi risparmi queste stupidaggini! Non credo in Dio,
né in un Aldilà.»«E’ una sua scelta legittima, ma per essere un uomo senza luce, si ritrova un
po’ troppo spesso fra le mura di un monastero.»«Se il suo Dio esistesse, non avrebbe permesso che accadesse nulla di tutto ciò.»«Se lei avesse dato ascolto al mio consiglio di non
andare sul monte Hua Shan, avrebbe evitato la tragedia per cui oggi soffre tanto. Poiché non
è venuto per un ritiro spirituale, è inutile prolungare il suo soggiorno qui. Questa notte si riposi
e poi se ne vada. Non la sto scacciando, non è in mio potere farlo, ma le sarei grato se non
abusasse della nostra ospitalità.»«Se lei è sopravvissuta, dove pensa che potrei trovarla?»«Se ne vada, la prego» mi ripete il monaco, poi si allontana.
Ho trascorso quasi tutta la notte con gli occhi sbarrati a cercare una soluzione. Quella fotografia non può mentire. Durante le dieci ore di volo da Atene a Pechino, non ho mai smesso
di guardarla e lo faccio anche adesso, alla luce di una candela. La cicatrice sulla tua fronte è
la prova a cui mi aggrappo, la mia unica certezza. Incapace di dormire, mi alzo senza far
rumore e apro il pannello di carta di riso. Una flebile luce mi guida; procedo lungo un corridoio, verso una sala in cui dormono sei monaci. Credo che uno di loro abbia percepito la
mia presenza, perché si volta sul giaciglio e inspira profondamente, ma per fortuna non si
sveglia. Continuo a camminare, supero a passi felpati i corpi distesi sul pavimento e mi ritrovo
nel cortile del monastero. Stasera la luna è quasi piena. C’è un pozzo in mezzo al cortile e mi
siedo sul bordo.
Un rumore mi fa sussultare. Qualcuno mi posa una mano sulla bocca, spegnendo sul nascere ogni parola. Riconosco il lama, che mi fa cenno di seguirlo. Lasciamo il monastero e attraversiamo la campagna fino al grande salice, dove finalmente mi guarda in faccia.
Gli mostro la fotografìa di Keira.
«Quando capirà che ci mette tutti in pericolo, lei per primo? Deve andarsene, ha già combinato abbastanza danni.»«Quali danni?»«Non ha forse detto che il vostro incidente non è
stato tale? Perché pensa che l’abbia portata qui, lontano dal monastero? Non posso più fidarmi di nessuno. Le persone che ce l’hanno con lei non falliranno una seconda volta, se ne
avranno l’opportunità. Lei non è molto discreto e temo che la sua presenza nella regione sia
già stata segnalata; mi stupirei parecchio del contrario. Mi auguro solo che faccia in tempo a
tornare a Pechino e a salire sul primo aereo.»«Non andrò da nessuna parte senza aver ritrovato Keira.»«Doveva proteggerla prima, ora è troppo tardi. Non so cos’abbiate scoperto lei e
la sua amica, né voglio saperlo, ma di nuovo la scongiuro: se ne vada!»«Mi dia un indizio,
anche minimo, una pista da seguire e le prometto che entro l’alba sarò già scomparso.»Il
monaco mi fissa e tace. Si gira e torna verso il tempio. Lo seguo. Poi mi riaccompagna silenziosamente in camera.
E’ giorno fatto: il fuso orario e la stanchezza del viaggio hanno avuto la meglio su di me.
Dev’essere quasi mezzogiorno quando il lama entra nella mia stanza con una ciotola di riso e
una di brodo, appoggiate su una tavoletta di legno.
«Se mi scoprissero a servirle la colazione a letto, mi accuserebbero di voler trasformare
questo luogo di preghiera in un albergo» dice sorridendo. «Le ho portato qualcosa da mangiare prima di rimettersi in viaggio. Perché lei riparte oggi, vero?»Annuisco in silenzio. E’ inutile
ostinarsi, da lui non otterrò altro.
«Allora buon ritorno» e si ritira.
Sollevando la ciotola del brodo, trovo un foglietto piegato. D’istinto lo faccio scivolare nel
palmo della mano e lo infilo discretamente in tasca. Dopo aver mangiato, mi vesto. Muoio
dall’impazienza di leggerlo, ma davanti alla porta ci sono due monaci in attesa di riaccompagnarmi alla mia auto.
Nel salutarmi, mi consegnano un pacco avvolto in carta marrone, chiuso da una cordicella
di canapa. Una volta in macchina, aspetto che i monaci si siano allontanati per aprire il biglietto e leggerne il contenuto.
Ho un’informazione per lei, nel caso decida di non seguire i miei consigli. Ho sentito dire
che alcune settimane dopo il vostro incidente un giovane monaco è entrato nel monastero di
Garther. Forse la notizia non ha nulla a che fare con la sua ricerca, ma è insolito che quel
tempio accolga nuovi discepoli. A quanto ho capito, il giovane non sembrava affatto felice di
trovarsi lì. Nessuno ha saputo dirmi chi sia. Se proprio non vuole abbandonare quest’impresa
assurda, allora si diriga verso Chengdu. Una volta arrivato laggiù, le suggerisco di abbandonare l’auto. La regione verso cui si recherà in seguito è molto povera e la 4x4 attirerebbe
l’attenzione. A Chengdu indossigli abiti che troverà nel pacco: l’aiuteranno a confondersi più
facilmente fra gli abitanti della vallata. Prenda una corriera in direzione del monte Yala. A
questo punto non so più cosa consigliarle: per uno straniero, è impossibile entrare nel monastero di Garther. Ma chissà, forse la fortuna l’assisterà… Sia prudente, non è solo. E, mi raccomando, bruci questo foglio.
Più di ottocento chilometri mi separano da Chengdu, ci vorranno nove ore per arrivarci.
Il messaggio del lama non lascia molte speranze. Può darsi che abbia scritto queste parole allo scopo di allontanarmi, ma non lo credo capace di una simile crudeltà. Quante volte,
sulla strada per Chengdu, mi sono posto la stessa domanda…Sulla sinistra, la catena montuosa estende le sue ombre inquietanti sulla valle grigia e polverosa. La strada attraversa la pianura da est a ovest. Di fronte a me si stagliano le ciminiere di due altiforni.
Liuzhizhen: cave, cielo scuro sopra miniere a cielo aperto, paesaggi di una tristezza infinita, punteggiati di fabbriche in rovina.
Non ha ancora smesso di piovere e i tergicristalli faticano a liberarsi dell’acqua che scorre,
la strada è scivolosa. Quando supero un camion, gli autisti mi guardano in modo strano. Non
devono esserci molti turisti in questa regione.
Ho già duecento chilometri alle mie spalle, mi restano altre sei ore di viaggio. Vorrei
chiamare Walter, chiedergli di raggiungermi; la solitudine mi opprime. Ho perso l’egoismo
della giovinezza nelle acque agitate del Fiume Giallo. Uno sguardo nello specchietto retrovis-
ore: il mio viso è cambiato. Walter direbbe che è la stanchezza, ma io so di aver oltrepassato
un certo limite: non tornerò mai più indietro. Avrei tanto voluto conoscere prima Keira, non
aver perso tutti quegli anni a credere che la felicità fosse nei risultati che ottenevo. La felicità
è qualcosa di molto più semplice: si trova nell’altro.
In fondo alla pianura si scorge la barriera delle montagne. Un cartello, in caratteri occidentali, indica che per Chengdu mancano ancora seicentosessanta chilometri. Una galleria,
l’autostrada penetra nella roccia; ormai è impossibile ascoltare la radio, be’, tanto meglio, le
canzoni pop cinesi sono insopportabili. Per duecentocinquanta chilometri è tutta una successione di ponti che sovrastano profondi canyon. Mi fermerò in una stazione di servizio a
Guangyuan.
Il caffè non è poi così male.
Con una scatola di biscotti sul sedile del passeggero, mi rimetto in viaggio.
Ogni volta che mi inoltro in una piccola valle, mi imbatto in minuscoli villaggi. Sono le otto
di sera passate quando arrivo a Mianyang. In questa città di scienze e tecnologie avanzate, la
modernità è sorprendente. Sulle rive di un fiume si innalzano torri di vetro e acciaio. Scende
la notte e la fatica comincia a farsi sentire. Dovrei fermarmi per dormire, per rimettermi in
forze. Studio la cartina; una volta arrivato a Chengdu, ci vorranno diverse ore per raggiungere
il monastero di Garther in corriera. Pur con tutta la buona volontà, stasera non ci arriverei
comunque.
Ho trovato un albergo. Ho lasciato lì la macchina e sto camminando lungo la strada che
costeggia il fiume. Non piove più. Alcuni ristoranti servono la cena su tavolini umidi, riscaldati
da lampade a gas.
Il cibo è un po’ troppo grasso per i miei gusti. In lontananza, un aereo decolla con un
rumore assordante; sopra la città, compie una virata verso sud. Probabilmente l’ultimo volo
della sera. Chissà dove vanno i passeggeri seduti dietro gli oblò illuminati? Londra e Hydra
sono così lontane. Ricordi malinconici. Se Keira è viva, perché questo silenzio? Perché non
dà sue notizie? Cosa mai le sarà successo, per svanire così nel nulla? Il monaco forse ha ragione, sono un pazzo a illudermi in questo modo. La mancanza di sonno alimenta le idee più
improbabili e il buio della notte mi inghiotte. Ho le mani bagnaticce, sono sudato dalla testa ai
piedi. Sto tremando, ho caldo, ho freddo. Il cameriere si avvicina e intuisco che mi sta
chiedendo se va tutto bene. Vorrei rispondergli, ma non riesco a parlare. Continuo ad asciugarmi la nuca con il tovagliolo, ho la schiena completamente fradicia e la voce del cameriere suona sempre più lontana; la luce diventa diafana, tutto comincia a girarmi intorno, poi il
nulla.
Il buio si dissipa, a poco a poco si fa giorno, sento delle voci: due, forse tre? Mi parlano in
una lingua che non capisco. Qualcosa di fresco si appoggia sul mio viso, apro gli occhi.
I lineamenti di una donna anziana. Mi accarezza una guancia, mi fa capire che il peggio è
passato. Mi inumidisce le labbra e mormora parole rassicuranti.
Mi sento pizzicare la pelle, il sangue circola di nuovo nelle vene. Ho avuto un malore. La
stanchezza, una malattia che sto covando, forse qualcosa che non avrei dovuto mangiare…
sono troppo debole per pensarci. Mi hanno fatto sdraiare su un divano nel retro del ristorante.
Un uomo ha raggiunto l’anziana donna che si occupa di me: suo marito. Anche lui mi sorride,
ha il viso ancora più segnato della moglie.
Cerco di parlare, vorrei ringraziarli.
Il vecchio avvicina una tazza alle mie labbra e mi costringe a bere. La bevanda è amara,
ma credo nella medicina cinese perciò non oppongo resistenza.
Questa coppia di cinesi assomiglia moltissimo a quella che Keira e io abbiamo incontrato
un giorno nel parco di Jingshan: si direbbero gemelli, il che mi rassicura.
Gli occhi si chiudono, sprofondo nel sonno.
Dormire, aspettare di riprendere le forze: è l’unica cosa da fare e mi abbandono.
Parigi
Ivory camminava su e giù per il salotto. La partita di scacchi non stava procedendo a suo
favore: Vackeers aveva appena mosso il cavallo, mettendo in pericolo la regina. Si avvicinò
alla finestra, scostò la tenda e guardò il vaporetto che scendeva lungo la Senna.
«Vuole che ne parliamo?» chiese Vackeers.
«Di cosa?» replicò Ivory.
«Di ciò che la preoccupa.»«Ho l’aria preoccupata?»«Il suo modo di giocare lo lascia intendere, a meno che non desideri farmi vincere; in tal caso, la facilità con cui mi regala questa
vittoria è quasi offensiva. Preferirei che mi dicesse cosa la assilla.»«Niente, ho dormito poco
la notte scorsa. E pensare che una volta potevo restare sveglio e vigile due giorni interi! Cosa
abbiamo fatto a Dio per meritarci una punizione così crudele come la vecchiaia?»«Non per
vantarci, ma per quanto ci riguarda, trovo che Dio sia stato piuttosto clemente.»«Non se la
prenda, ma credo sia meglio porre fine a questa serata. In ogni caso, mi avrebbe dato scacco
matto in quattro mosse.»«In tre. E’ ancora più preoccupato di quanto immaginassi, ma non
voglio insistere. Sono suo amico, mi parlerà di quel che la tormenta quando lo riterrà opportuno.»Vackeers si alzò e si diresse verso l’anticamera. Si infilò l’impermeabile e si voltò: Ivory
stava ancora guardando fuori dalla finestra.
«Riparto domani per Amsterdam: venga a trovarmi per qualche giorno, forse la freschezza
dei canali l’aiuterà a ritrovare il sonno. Sarà mio ospite» disse Vackeers.
«Pensavo fosse meglio non farci vedere insieme.»«Il dossier è chiuso, non abbiamo più
alcun motivo per fare giochetti così complicati. Su, la smetta di sentirsi in colpa, lei non è re-
sponsabile di quanto è accaduto. Avremmo dovuto immaginare che Sir Ashton non sarebbe
rimasto con le mani in mano. Anche a me dispiace per il modo in cui si è conclusa la faccenda, ma non può più farci nulla.»«Tutti pensavano che Sir Ashton sarebbe intervenuto,
prima o poi, e questa ipocrisia andava bene a tutti. Lo sa quanto me!»«Le giuro, Ivory, che se
avessi avuto il minimo sospetto dei suoi metodi sbrigativi, avrei fatto tutto ciò che era in mio
potere per bloccarlo.»«E cos’era in suo potere?»Vackeers fissò Ivory, poi abbassò gli occhi.
«L’invito a Amsterdam è sempre valido, venga quando vuole. Un’ultima cosa: vorrei che la
partita di stasera non fosse segnata nel tabellino dei risultati. Arrivederci, Ivory.»Ivory non rispose. Vackeers chiuse la porta dell’appartamento, entrò in ascensore e premette il pulsante
del piano terra. I suoi passi sul pavimento risuonarono nell’atrio; tirò verso di sé il pesante
portone d’ingresso e attraversò la strada. La notte era mite. Vackeers camminò lungo il Quai
d’Orléans e si girò verso la facciata dell’edificio; al quinto piano, le luci del salotto di Ivory si
erano appena spente. Si strinse nelle spalle e riprese a camminare. Quando svoltò all’angolo
della Rue Le Regrattier, due brevi lampeggi lo attirarono verso una Citroen parcheggiata
lungo il marciapiedi. Vackeers aprì la portiera del passeggero e salì a bordo. Il guidatore portò
la mano alla chiave di avviamento, ma Vackeers bloccò il suo gesto.
«La prego, aspettiamo un momento.»I due uomini rimasero in silenzio. Quello al volante
prese un pacchetto di sigarette dalla tasca, se ne mise una fra le labbra e accese un fiammifero.
«Cosa ha attirato la sua attenzione?»«Per favore, spenga quella sigaretta.»«Da quando in
qua le dà fastidio il fumo?»«Il fumo no, ma il mozzicone incandescente sì.»Un uomo camminava sul lungofiume; si fermò e appoggiò i gomiti sul parapetto.
«E’ Ivory?» chiese l’autista di Vackeers.
«Certo che è lui.»«Parla da solo?»«E’ al telefono.»«Con chi?»«Ma non ci arriva proprio?
Se esce di casa nel cuore della notte per fare una telefonata lungo il fiume, forse è perché
non vuole che nessuno sappia con chi sta parlando.»«Scusi, ma allora a cosa serve rimanere
di guardia, se non possiamo ascoltare la conversazione?»«A verificare un’intuizione.»«Ora
che ha verificato la sua intuizione, possiamo andare?»«No, sono interessato anche a quello
che succederà dopo.»«Ah, perché sa cosa succederà dopo?»«Quante chiacchiere, Lorenzo!
Quando interromperà la comunicazione, getterà la scheda del cellulare nella
Senna.»«Intende tuffarsi nel fiume per recuperarla?»«Lei è proprio un idiota, amico
mio.»«Anziché insultarmi, vorrebbe gentilmente spiegarmi cosa succederà?»«Lo scoprirà fra
pochi istanti.»
Londra
Uno squillo imperioso risuonò nell’appartamentino di Old Brompton Road. Walter si alzò
dal letto, infilò una vestaglia e andò in salotto.
«Arrivo, arrivo!» brontolò, avvicinandosi al tavolino su cui si trovava il telefono.
Riconobbe subito la voce del suo interlocutore.
«Ancora niente?»«No, signore, sono rientrato da Atene nel tardo pomeriggio. Sono trascorsi soltanto quattro giorni da quando è arrivato lì: spero che avremo presto buone notizie.»«Lo spero anch’io, ma non posso fare a meno di essere preoccupato: stanotte non ho chiuso occhio. Mi sento impotente.»«A dirla tutta, signore, nemmeno io dormo molto negli ultimi
tempi.»«Crede che sia in pericolo?»«Mi dicono il contrario, che bisogna avere pazienza, ma è
dura vederlo in quello stato. La prognosi è riservata, c’è mancato davvero poco.»«Voglio
sapere se c’è qualcuno dietro tutto questo. Farò in modo di scoprirlo. Quando tornerà a
Atene?»«Domani sera, al massimo dopodomani: dipende dai miei impegni alla Royal
Academy.»«Mi chiami quando sarà arrivato, e cerchi di riposare.»«Anche lei, signore. A
domani, spero.»
Parigi
Ivory si sbarazzò della scheda del cellulare e tornò sui suoi passi. Vackeers e il suo
autista, per riflesso, si rannicchiarono sui sedili; ma, da quella distanza, era improbabile che
potesse vederli. Il profilo di Ivory scomparve dietro l’angolo della via.
«Bene, ora possiamo andare?» chiese Lorenzo. «Ho passato tutta la sera a marcire qui e
ho fame.»«No, non ancora.»Vackeers sentì il ronzio di un motore appena avviato. Due fari illuminarono il lungofiume. Un’auto si fermò nel punto in cui si trovava Ivory fino a pochi istanti
prima. Un uomo scese dalla vettura e andò verso il parapetto. Si sporse in avanti a guardare
oltre l’argine, si strinse nelle spalle e risalì a bordo. Gli pneumatici stridettero e si allontanò.
«Come faceva a saperlo?» domandò Lorenzo.
«Un brutto presentimento. E adesso che ho visto la targa, è anche peggio.»«Cos’ha che
non va, quella targa?»«Ma lo fa apposta, o ha proprio deciso di rovinarmi la serata? Quel
veicolo appartiene al corpo diplomatico inglese. Capisce ora?»«Sir Ashton fa seguire
Ivory?»«Credo di aver visto e sentito abbastanza per stasera. Sarebbe così gentile da riaccompagnarmi in albergo?»«Basta così, Vackeers, non sono il suo autista. Mi ha chiesto di
aiutarla dicendo che si trattava di una missione importante; sono rimasto qui a gelare per due
ore mentre lei sorseggiava un cognac al calduccio; e l’unica cosa che ho visto è che il suo
amico è venuto a buttare - non so per quale motivo - una scheda telefonica nella Senna e che
un’auto dei servizi consolari di Sua Maestà lo ha spiato mentre compiva questo gesto, la cui
portata tuttora mi sfugge. Allora, o se ne torna a piedi, o mi spiega cosa c’è
sotto.»«D’accordo, mio caro Roma, ma non si scaldi tanto! Dunque, se Ivory si prende la
briga di uscire a mezzanotte per telefonare dalla sponda della Senna, vuol dire che è molto
prudente. Se gli inglesi fanno la posta sotto casa sua, significa che la vicenda di cui ci siamo
occupati negli ultimi mesi non è classificata come tutti noi vogliamo credere. Mi segue fin
qui?»«Non mi tratti da stupido» ribatté Lorenzo mettendo in moto.
L’auto percorse il lungofiume e superò il Pont Marie.
«Ivory si comporta in modo circospetto, quindi presumibilmente è avanti di una mossa»
continuò Vackeers. «E io che ero convinto di aver vinto la partita stasera! Quell’uomo non
finirà mai di stupirmi.»«Cosa intende fare?»«Per il momento nulla, e silenzio assoluto su ciò
che ha scoperto questa notte. E’ troppo presto. Se avvisiamo gli altri, ognuno complotterà per
conto proprio; com’è avvenuto in passato, nessuno si fiderà più di nessuno. So di poter contare su Madrid. E lei, Roma, da che parte starà?»«Ora come ora, mi sembra di essere proprio
accanto a lei. Le basta come risposta?»«Dobbiamo trovare al più presto quell’astrofisico.
Scommetto che non è più in Grecia.»«Torni su a interrogare il suo amico. Se lo stuzzica,
forse mollerà l’osso.»«Ho il sospetto che non ne sappia molto più di noi, deve averne perso le
tracce. Era distratto. Lo conosco da troppo tempo per lasciarmi ingannare, c’è sotto qualcosa.
Ha ancora accesso ai suoi contatti in Cina? Possiamo rivolgerci a loro?»«Dipende tutto da
cosa ci aspettiamo e da cosa siamo disposti a dare in cambio.»«Cerchi di scoprire se il nostro
Adrian recentemente è atterrato a Pechino, se ha noleggiato un veicolo e se, per caso, ha usato la carta di credito per prelevare contanti, pagare un albergo o altro.»Non parlarono più.
Parigi era deserta; dieci minuti dopo, Lorenzo lasciò Vackeers davanti all’Hotel Montalembert.
«Farò del mio meglio con i cinesi, ma ricordi: a buon rendere!» disse parcheggiando.
«Prima di presentare il conto, mio caro Roma, aspettiamo di vedere i risultati. A presto e
grazie per il passaggio.»Vackeers scese dalla Citroen ed entrò in albergo. Chiese la chiave
all’addetto alla reception, che gliela consegnò insieme a una busta.
«Hanno lasciato questa per lei, signore.» «Quando?» chiese Vackeers stupito. «Un
tassista me l’ha consegnata pochi minuti fa.» Incuriosito, Vackeers si diresse verso
l’ascensore. Una volta giunto nella sua suite al quarto piano, aprì la lettera.
Caro amico,purtroppo temo di non poter accettare il suo gentile invito a Amsterdam. Mi piacerebbe molto poterlo fare - e anche riscattarmi per la pessima partita di stasera — ma
come lei sospettava ci sono questioni che mi trattengono qui a Parigi.
In ogni caso, spero e sono convinto che ci rivedremo presto.
Con stima; e amicizia, Ivory
P.S.: A proposito della mia passeggiatina notturna, mi aveva abituato a una maggior discrezione. Chi fumava accanto a lei in quella bella Citroen nera, o forse era blu scuro? Sa
com’è, la mia vista cala di giorno in giorno…
Vackeers ripiegò la lettera e non potè trattenere un sorriso. La monotonia delle giornate gli
pesava. Sapeva che quell’operazione sarebbe stata probabilmente l’ultima della sua carriera;
l’idea che Ivory avesse trovato un modo, non importa quale, per rimettere in moto gli eventi
non gli dispiaceva affatto, anzi. Vackeers si sedette alla piccola scrivania della suite, sollevò il
ricevitore e compose un numero spagnolo. Si scusò con Isabel per averla disturbata nel
cuore della notte, ma aveva tutti i motivi per credere che la situazione si fosse capovolta e ciò
che aveva da dirle non poteva aspettare.
Mianyang, Cina
Mi sono svegliato alle prime luci dell’alba. L’anziana donna che mi ha assistito per tutta la
notte si è assopita su una poltrona. Mi tolgo di dosso la coperta e mi alzo. Lei apre gli occhi,
mi rivolge uno sguardo benevolo e porta l’indice alle labbra, come per dire: non faccia
rumore. Poi va a prendere una teiera appoggiata su una stufa di ghisa. Un tramezzo
pieghevole separa la stanza in cui ci troviamo dal ristorante; intorno a me vedo i membri della
sua famiglia che dormono su materassi stesi sul pavimento. Vicino all’unica finestra ci sono
due uomini sulla trentina. Riconosco quello che mi ha servito la cena ieri sera e il fratello impegnato in cucina. La sorella minore, che avrà più o meno vent’anni, sta ancora dormendo su
un lettino vicino alla stufa a carbone; il marito della mia ospite di fortuna è sdraiato su un tavolo, con un cuscino sotto la testa e una coperta addosso, oltre a un maglione e a una giacca
pesante. A quanto pare ho occupato il divano letto che la coppia apre alla sera. E in caso di
necessità la famiglia trasforma i tavoli del ristorante in letti di fortuna. Mi sento terribilmente a
disagio per aver invaso così la loro privacy, se di privacy si può parlare. Chi, nel mio quartiere
a Londra, avrebbe rinunciato al suo letto per lasciarlo a un estraneo?
La vecchia signora mi serve un tè fumante. Possiamo comunicare solo a gesti.
Prendo la tazza e vado verso la sala. Lei chiude il tramezzo alle mie spalle.
Esco dal ristorante.
La sponda è deserta; arrivo fino al parapetto che costeggia il fiume e guardo il corso
d’acqua che scorre verso ovest. Lo scenario è immerso in una nebbiolina mattutina. Una piccola imbarcazione simile a una giunca scivola lentamente sull’acqua. Un uomo dalla prua mi
rivolge un cenno di saluto, a cui rispondo subito.
Ho freddo. Infilo le mani in tasca e sento la foto di Keira sotto le dita.
Perché proprio adesso mi torna in mente la nostra serata a Nebra? Ricordo bene quella
notte passata insieme, senza dubbio movimentata, ma che ci ha avvicinati tanto.
Partirò per il monastero di Garther. Non so quanto tempo mi ci vorrà per arrivare, né come
entrerò. Non ha importanza; è l’unica pista per ritrovarti, se sei ancora viva.
Perché mi sento così debole?
C’è una cabina telefonica a pochi passi da me. Ho voglia di sentire la voce di Walter. La
cabina ha un aspetto kitsch anni Settanta. Il telefono accetta le carte di credito. Non appena
compongo il numero sulla tastiera, il segnale risulta già occupato; è probabile che non si
possa chiamare all’estero da questa città. Dopo altri due tentativi, mi arrendo.
E’ ora di andare a salutare i miei ospiti, pagare il conto per la cena di ieri sera e rimettermi
in marcia.
Rifiutano il mio denaro. Li ringrazio più volte e poi proseguo il viaggio.
In tarda mattinata arrivo finalmente a Chengdu. La metropoli è inquinata, frenetica, aggressiva. Eppure, in mezzo alle torri e ai grandi complessi immobiliari, sopravvivono casette
decrepite. Cerco la stazione delle corriere.
Jinli Street-acchiappaturisti: forse avrò la fortuna di imbattermi in un occidentale in grado
di indicarmi la strada.
Parco Nanjiao. La vegetazione è bella, barche uscite da un’altra epoca navigano pacifiche
su un lago, all’ombra di malinconici salici.
Noto una giovane coppia: dal loro aspetto capisco che si tratta di americani. I due studenti
mi spiegano di essere venuti a Chengdu per approfondire i loro studi, nell’ambito di uno
scambio universitario.
Ben felici di sentire qualcuno che parla la loro lingua, mi dicono che la stazione si trova
dalla parte opposta della città. La ragazza prende un bloc-notes dallo zaino e scrive alcune
parole su un foglio, che poi mi porge. Riproduce gli ideogrammi in modo perfetto. Ne approfitto per chiederle di scrivermi anche il nome del monastero di Garther.
Avevo lasciato l’auto in un parcheggio. Prendo i vestiti che mi ha dato il lama, mi cambio
all’interno dell’abitacolo e metto in una borsa un maglione e poco altro. Decido che la 4x4
resterà lì; preferisco prendere un taxi.
Il conducente legge il biglietto che gli mostro e mezz’ora dopo sono davanti alla stazione
di Wuguiqiao. Mi presento a uno sportello con il prezioso biglietto scritto in cinese e l’addetto
mi dà un biglietto dal costo di venti yuan; poi indica la banchina numero 12 e, agitando la
mano, mi esorta a sbrigarmi, la corriera sta per partire.
Il mezzo non è dei più moderni; sono l’ultimo a salire e trovo posto soltanto in fondo, incastrato fra una donna corpulenta e una gabbia di bambù occupata da tre anatre in ottima
forma. Una volta giunte a destinazione, le poverette finiranno probabilmente in padella, ma
come avvisarle del destino che le attende?
Attraversiamo un ponte sul fiume Funan e ci lanciamo lungo una strada ripida con un gran
stridore di marce.
La corriera si ferma a Ya’an; scende un passeggero. Non ho la minima idea della durata
del viaggio, che mi pare interminabile. Mostro il biglietto alla mia vicina e indico il quadrante
dell’orologio. Lei picchietta col dito sulle sei. Quindi arriverò quasi al tramonto. Non so dove
dormirò.
La strada procede serpeggiando verso i rilievi montuosi. Se il monastero Garther si trova
a una certa altitudine, farà molto freddo; dovrò trovare al più presto un posto in cui passare la
notte.
Più il paesaggio diventa arido, più sono assalito dai dubbi. Cos’avrebbe potuto spingere
Keira a venire in un luogo così remoto? Soltanto la ricerca di un fossile sarebbe stata in grado
di portarla sino ai confini del mondo: non vedo altra spiegazione.
Venti chilometri dopo, la corriera si ferma davanti a un ponte in legno in pessimo stato
sospeso a due cavi d’acciaio. L’autista ordina a tutti i passeggeri di scendere: bisogna alleggerire il mezzo per ridurre i rischi. Osservando il burrone dal finestrino, non posso fare altro
che lodare la sua saggezza.
Seduto su uno dei sedili in fondo, sarò l’ultimo a scendere. Quando mi alzo, la corriera è
ormai quasi vuota. Con il piede faccio scorrere l’asticella di bambù che chiude la porta della
gabbia in cui starnazzano i volatili, abbandonati al loro destino. La libertà è in fondo al corridoio a destra; ora possono scegliere di tagliare la corda passando sotto i sedili, dipende
tutto da loro. Le tre anatre mi stanno allegramente alle calcagna. Ciascuna sceglie la sua
strada: una nel corridoio, un’altra lungo la fila di sedili a destra, la terza taglia a sinistra. Basta
che mi lascino uscire prima di loro, o mi accuseranno dell’evasione! In realtà non ha importanza: la proprietaria è già sul ponte, si aggrappa alla balaustra e procede lenta con gli occhi
socchiusi, lottando contro le vertigini.
Non mi rivelo molto più coraggioso di lei. Una volta superato il ponte, i passeggeri si ritengono in obbligo di guidare, a forza di grida e gesti, il nostro coraggioso autista, che procede a
passo d’uomo sulle traversine di legno traballanti. Si sentono schiocchi allarmanti, i cavi gemono, il piano del ponte oscilla pericolosamente, però resiste; un quarto d’ora dopo, ciascun
passeggero può tornare al suo posto. Tutti, tranne me. Ho colto l’occasione per occupare il
sedile lasciato libero in seconda fila. Il pullman riparte; due anatre mancano all’appello,
mentre la terza spunta in mezzo al corridoio e va stupidamente a gettarsi fra le gambe della
sua padrona.
Attraversando Dashencun, sorrido nel vedere la donna in carne risalire a quattro zampe il
corridoio alla ricerca dei due volatili scomparsi. Ci saluterà a Duogong, ancora di pessimo
umore.
Shabacun, Tianquan, città e villaggi si alternano nel languore del viaggio; seguiamo il
corso di un fiume, la corriera continua a inerpicarsi verso altezze vertiginose. Non sto ancora
bene, sono percorso dai brividi. Cullato dal ronzio del motore, a tratti riesco ad assopirmi,
finché uno scossone improvviso mi strappa dal sonno.
Alla nostra sinistra, il ghiacciaio di Hailuogou sfiora le nuvole. Ci stiamo avvicinando al
famoso passo di Zheduo, punto culminante del tragitto. A quota 4300 metri sento pulsare le
tempie e mi torna l’emicrania. Ripenso a Atacama. Che fine avrà fatto Erwan? E’ da tanto che
non ho sue notizie. Se non avessi avuto quel malore in Cile, se non avessi violato le norme di
sicurezza, se avessi dato ascolto a Erwan, ora non mi troverei qui e Keira non sarebbe scomparsa nelle acque del Fiume Giallo…Ricordo che, a Hydra, una volta mia madre mi disse:
Perdere una persona amata è terribile, ma sarebbe peggio non averla mai incontrata. In quel
momento stava pensando a mio padre. Una frase del genere, tuttavia, assume un altro significato se ci si sente responsabili della morte di chi si ama.
Il lago di Moguecuo riflette le cime innevate nello specchio delle sue acque placide. Abbiamo ripreso un po’ di velocità tuffandoci verso la valle di Xinduqiao. A differenza del deserto
di Atacama, la vegetazione qui è lussureggiante. Greggi di yak pascolano in mezzo a prati
verdi. Olmi e betulle bianche si fondono armoniosamente in questa vasta prateria incuneata
fra le montagne. Siamo tornati sotto i quattromila metri e l’emicrania allenta la sua morsa. E
poi, all’improvviso, la corriera si ferma. L’autista si volta verso di me: è ora di scendere. La
strada è finita; vedo soltanto un sentiero pietroso che va in direzione del monte Gongga
Shan. L’uomo agita le braccia e bofonchia qualcosa; deduco che mi stia pregando di continuare le mie riflessioni dal lato opposto della portiera a fisarmonica che ha appena aperto, lasciando penetrare l’aria gelida.
Con lo zaino ai piedi e le guance intirizzite dal freddo, battendo i denti guardo la corriera
che si allontana, fino a scomparire in lontananza oltre la curva di un tornante.
Mi ritrovo tutto solo in questa vasta pianura spazzata dal vento. Paesaggi fuori dal tempo,
le cui terre hanno assunto il colore dell’orzo tostato e della sabbia… ma non vedo nessuna
traccia del monastero che cerco. Non prendo neanche in considerazione l’idea di dormire
all’aperto; rischierei di morire congelato. Devo muovermi. Ma in quale direzione? Non lo so.
Continuo a camminare per contrastare il torpore dovuto al freddo.
Nella speranza assurda di fuggire alla notte, mi affretto sempre più, passando da versante
a versante in direzione del sole che tramonta.
In lontananza, simile a un’oasi nel deserto, scorgo la tela nera di una tenda nomade.
In mezzo a questa immensa pianura, una bimba tibetana mi viene incontro. Avrà tre o
quattro anni, un esserino con le guance rosse come due mele e gli occhi che scintillano. Non
ha paura dello sconosciuto sbucato dal nulla e nessuno sembra temere nulla per lei, è libera
di andare dove vuole. Scoppia a ridere, divertita dalla mia diversità, e la sua risata riempie la
valle. Spalanca le braccia, si mette a correre verso di me, si ferma a pochi metri e torna sui
suoi passi. Un uomo esce dalla tenda e mi raggiunge. Gli tendo la mano, lui unisce le sue, fa
un piccolo inchino e mi invita a seguirlo.
Pesanti falde di tela nera sostenute da pali di legno formano una sorta di ingresso.
L’interno è spazioso. Su un fornello di pietra dove crepitano fascine di legno secco, una
donna prepara qualcosa di simile allo spezzatino e il profumo aleggia in tutto l’ambiente.
L’uomo fa cenno di sedermi; mi offre un bicchierino di liquore di riso e beve con me.
Condivido il pasto con la famiglia nomade. Il silenzio è interrotto solo dalle risate della
bimba. Più tardi si addormenta, raggomitolata accanto alla madre.
Poi - ormai è buio - il nomade mi porta fuori dalla tenda. Si siede su una pietra e mi offre
una sigaretta che ha arrotolato fra le dita. Insieme guardiamo il cielo. Era da tanto che non mi
capitava di contemplarlo così. Individuo una delle costellazioni più belle che ci offre il cielo autunnale, a est di Andromeda. Punto il dito verso le stelle e dico ad alta voce: «Perseo». Il nomade segue il mio sguardo e ripete: «Perseo». Si mette a ridere, la stessa risata limpida della
figlia, come limpido è il bagliore delle stelle nella volta celeste sopra di noi.
Ho dormito nella loro tenda, al riparo dal freddo e dal vento. All’alba mostro il foglietto di
carta al mio ospite, che però non sa leggere e non presta nessuna attenzione agli ideogrammi; sta per iniziare una nuova giornata e lui ha moltissime cose di cui occuparsi.
Mentre lo aiuto a raccogliere rami per il fuoco, gli ripeto più volte la parola «Garther»,
modificando ogni volta la pronuncia nella speranza di trovare quella giusta. Niente da fare,
nessuna reazione.
Dopo la legna, bisogna procurarsi l’acqua. Il nomade mi porge un otre vuoto, se ne issa
uno sopra la spalla mostrandomi come sistemarlo; poi ci incamminiamo lungo un sentiero che
va verso sud.
Ci mettiamo due ore buone. Dall’alto della collina, vedo un fiume che scorre in mezzo ad
alti ciuffi d’erba. Lui ci arriva molto prima di me. Quando lo raggiungo, è già in acqua. Mi tolgo
la camicia e lo imito. L’acqua è gelida, forse scende da uno dei ghiacciai che si scorgono in
lontananza.
Il nomade tiene l’otre sott’acqua. Imito i suoi gesti e ben presto i due recipienti si riempiono; faccio molta fatica a portare il mio fino a riva.
Poi l’uomo strappa le foglie di una pianta e si strofina con forza il corpo. Una volta asciutto, si riveste e si siede per riposarsi un po’. «Perseo» dice il nomade sollevando il dito
verso il cielo. Poi la sua mano indica un’ansa del fiume, più a valle di un centinaio di metri
rispetto a noi. Una ventina di uomini sono in acqua, altri quaranta circa arano la terra, ognuno
spinge un vomere tracciando lunghi solchi perfettamente diritti. Tutti indossano un abito che
subito riconosco.
«Garther» mormora il mio compagno di strada.
Lo ringrazio e sto per correre verso i monaci, quando lui si alza e mi trattiene per il braccio. I suoi lineamenti si sono incupiti. Con un cenno del capo mi fa segno di non andare. Mi
tira per la manica, indicando la via del ritorno. Ha la paura impressa sul volto, perciò
obbedisco, seguendolo lungo il sentiero in salita. Giunto in cima alla collina, mi giro verso i
monaci. Quelli che prima si lavavano nel fiume hanno rimesso le vesti e ripreso il lavoro, tracciando solchi bizzarri, oscillando come i tracciati di un gigantesco elettrocardiogramma. Poi
cominciamo la discesa sull’altro versante del colle e i monaci scompaiono dalla nostra
visuale. Appena capirò di poterlo fare senza offendere i miei ospiti, lascerò la tenda dei nomadi e tornerò in questa vallata.
Secondo le loro tradizioni devo dimostrare di meritarmi il cibo che mi offrono.
La donna è uscita dalla tenda e mi ha accompagnato alla mandria di yak che pascolavano
in un campo. Non ho notato il recipiente che trasportava canticchiando, fino al momento in cui
si è inginocchiata davanti a uno degli strani quadrupedi e ha cominciato a mungerlo. Pochi
istanti dopo mi cede il posto: a quanto pare crede che la lezione sia durata abbastanza. Mi
lascia lì da solo, e lo sguardo che lancia al secchio mentre se ne va mi fa capire che dovrò
tornare soltanto quando sarà pieno.
Capisco subito che è stata un po’ troppo ottimista. Non so se il problema sia la mia mancanza di sicurezza o il pessimo carattere di questa stupida vacca asiatica, che non ha nessuna intenzione di farsi toccare dal primo sconosciuto di passaggio, ma ogni volta che la mia
mano si avvicina alle mammelle, l’animale avanza di un passo o indietreggia… Le provo tutte:
parole dolci, ordini bruschi, suppliche, tono indispettito, broncio. Niente da fare.
Mi viene in soccorso la bambina nomade; sì, a quattro anni ne sa più di me, è dura da accettare. Con le sue guance tonde e rosse appare all’improvviso in mezzo ai campi; credo che
si stia godendo lo spettacolo da un bel po’ e chissà quanto si è trattenuta prima che una
risata cristallina tradisse la sua presenza. Come per scusarsi di essersi presa gioco di me, mi
viene accanto e mi dà un colpetto di spalla allontanandomi, afferra con un gesto rapido la
mammella dello yak e di nuovo ride di gusto quando il latte comincia a schizzare nel secchio.
Ma allora è facile! Non mi resta che accettare la sfida e mi sposto verso il fianco dello yak. Mi
inginocchio, lei mi osserva e applaude quando finalmente riesco a far colare alcune gocce di
latte. Si sdraia sull’erba a braccia incrociate e rimane così a tenermi d’occhio. Benché sia
tanto piccola, la sua presenza mi rassicura. E un pomeriggio davvero sereno e gioioso. Più
tardi torniamo «a casa».
Altre due tende sono state montate vicino a quella in cui ho dormito la notte scorsa: ora ci
sono tre famiglie riunite intorno a un grande fuoco. Quando arrivo insieme alla mia piccola
salvatrice, gli uomini ci vengono incontro; il mio ospite fa cenno di non fermarmi. Loro vanno a
radunare il bestiame, e lasciano me con le donne. Mi offende l’idea di essere escluso dal
gruppo degli uomini e dai compiti più virili.
Si è fatto tardi: guardo il sole, fra un’ora al massimo sarà buio. Ho in mente solo una cosa:
congedarmi dai nomadi e andare a vedere cosa succede nella vallata oltre la collina. Voglio
seguire i monaci fino al monastero. Ma nel frattempo arriva l’uomo che mi ha accolto. Bacia la
moglie, solleva la figlia e la stringe fra le braccia prima di entrare nella tenda per qualche
istante. Quando esce di nuovo e mi vede in disparte, intento a fissare la linea dell’orizzonte, si
siede accanto a me e mi offre una sigaretta. No, grazie, non ho voglia di fumare. Accende la
sua e anche lui guarda la cima della collina, in silenzio. Non so perché mi viene voglia di
mostrargli il tuo viso. Forse perché mi manchi da morire, perché è una scusa buona per tirar
fuori ancora una volta la tua foto. E’ la cosa più preziosa che posso condividere con lui.
Mi sorride quando me la restituisce. Poi emette una lunga boccata di fumo, schiaccia il
mozzicone fra le dita e se ne va.
Per cena mangiamo lo spezzatino insieme alle altre due famiglie che si sono unite a noi.
La bimba si siede accanto a me; né il padre né la madre sembrano seccati per questa complicit fra noi, anzi. Mentre le accarezza i capelli, la mamma mi dice il nome della figlia. Si chiama
Rhitar. In seguito scoprirò che è il nome dato a un bambino quando il fratello maggiore è
morto, per esorcizzare la malasorte. E forse per compensare la dolorosa tragedia avvenuta
prima della sua nascita che Rhitar ha una risata così cristallina? E per ricordare ai genitori
che ha riportato la gioia nel loro nido? Rhitar si è assopita sulle ginocchia della madre; perfino
immersa in un sonno che sembra profondissimo, continua a sorridere.
Terminata la cena, gli uomini indossano pantaloni comodi, le donne srotolano le maniche
destre delle loro tuniche e le lasciano ondeggiare al vento. Poi si prendono per mano formando un cerchio: uomini da una parte, donne dall’altra. Tutti cantano, le donne agitano le
maniche e, quando il canto cessa, i danzatori lanciano un forte grido in coro. Il girotondo riparte nel senso opposto, si grida e si canta fino allo sfinimento. Vengo coinvolto anch’io e mi
lascio trascinare nell’ebbrezza di un liquore di riso e di un girotondo tibetano.
Una mano mi scuote leggermente la spalla. Apro gli occhi e riconosco nella penombra il
viso del nomade. In silenzio, mi chiede di seguirlo fuori dalla tenda. La vasta pianura è immersa nella luce cinerea di una notte che volge al termine. L’uomo ha recuperato il mio bagaglio e lo porta in spalla. Non so quali siano le sue intenzioni, ma intuisco che mi sta conducendo là dove le nostre strade si separeranno. Abbiamo ripreso il sentiero percorso il
giorno prima. Non dice una parola a proposito del tragitto. Camminiamo per un’ora buona e,
quando raggiungiamo la cima della collina più alta, il nomade gira a destra. Attraversiamo un
bosco di olmi e noccioli, di cui sembra conoscere ogni sentiero, ogni pendio. Quando ne usciamo, il sole non è ancora spuntato. La mia guida si sdraia sul terreno e mi fa cenno di imitarlo; mi ricopre di foglie e terriccio, mostrandomi come ci si nasconde. Rimaniamo così in silenzio, come in agguato, ma non ho idea del perché. Suppongo che si tratti di una battuta di
caccia e mi chiedo quale animale sarà la nostra vittima: non abbiamo armi. Forse è venuto a
recuperare le trappole che ha piazzato nella zona.
Niente di tutto questo, ma dovrò pazientare ancora a lungo prima di capire il motivo per
cui mi ha trascinato fin qui.
Finalmente si fa giorno. Nella luce ancora incerta si delineano di fronte a noi le mura che
circondano un gigantesco monastero, quasi una città fortificata.
«Garther» mormora.
La prima sera, gli ho regalato il nome di una stella sospesa nel cielo sopra la sua pianura;
in quest’alba, il nomade tibetano mi restituisce il favore, nominando il luogo che desidero trovare più di qualsiasi astro nell’immensità dell’universo.
Il mio compagno tibetano mi lascia intendere che devo restare immobile, sembra terrorizzato all’idea che ci scoprano. Dal mio punto di vista non c’è motivo di preoccuparsi, il
tempio è a più di cento metri. Ma appena i miei occhi si sono abituati alla penombra, scorgo
sulle mura del monastero il profilo di alcuni monaci che percorrono un cammino di ronda.
Quali pericoli potrebbero mai esserci? Vogliono proteggersi da un’incursione di cinesi,
pronti a perseguitarli anche in questi territori fuori dal mondo? Io non sono un nemico. Se
fosse per me, mi alzerei subito e correrei verso di loro. Ma il nomade appoggia il braccio sul
mio e mi trattiene con fermezza.
Le porte del monastero si sono appena aperte e una colonna di monaci operai si incammina lungo il sentiero che scende verso i frutteti a est. Le pesanti porte si chiudono alle loro
spalle.
Il mio compagno tibetano si alza all’improvviso e ripiega verso il bosco. Al riparo dei
grandi olmi, mi restituisce il bagaglio e capisco che mi sta salutando. Prendo le sue mani e le
stringo fra le mie. Questo gesto d’affetto lo fa sorridere; mi fissa per un istante e se ne va.
Non ho mai provato un senso di solitudine così profondo come su quegli altopiani,
quando, sceso dalla corriera di Chengdu, camminavo fuggendo dalla notte, fuggendo dal
freddo. A volte sono sufficienti uno sguardo, una presenza, un gesto, perché nasca
un’amicizia, al di là delle differenze che ci trattengono e ci spaventano. Basta una mano tesa
perché in noi rimanga impresso il ricordo di un viso che il tempo non cancellerà mai. So che
fino all’ultimo dei miei giorni porterò con me il volto del nomade tibetano e quello della sua
bimba dalle guance rosse come due mele.
Avanzando lungo il limite del bosco, seguo a distanza di sicurezza il corteo dei monaci operai che si dirige verso il fondovalle. Dal punto in cui mi trovo, riesco a vederli facilmente e ne
conto almeno una sessantina. Come ieri, prima di mettersi al lavoro si svestono e si immergono nelle acque limpide del fiume.
La mattinata trascorre lenta. Quando il sole è già alto, percepisco di nuovo quella terribile
sensazione di freddo e di sudore che mi scende lungo la schiena. Il mio corpo è scosso dai
brividi. Frugo nella sacca e trovo un pezzo di carne secca, dono dell’amico nomade. Ne man-
gio metà, tengo il resto per la sera. Quando i monaci se ne saranno andati, correrò al fiume
per bere; nell’attesa, dovrò tenere a bada la sete acuita dalla carne salata.
Perché questo viaggio porta all’estremo tutte le mie sensazioni, la fame, il freddo, il calore,
la stanchezza? Dev’essere a causa dell’altitudine. Trascorro il resto del pomeriggio a cercare
un modo per penetrare nel monastero. Sono assalito dalle idee più folli, sto forse perdendo la
ragione?
Alle sei i monaci smettono di lavorare e prendono la via del ritorno. Non appena scompaiono dietro la cresta di un colle, lascio il mio nascondiglio e corro fino alla riva del fiume,
dove bevo a sazietà.
Dopo aver placato la sete, rifletto sul luogo in cui trascorrere la notte. La possibilità di
dormire nel sottobosco non mi attira affatto. Tornare nella pianura, dai miei amici nomadi,
sarebbe un’ammissione di fallimento e, peggio ancora, significherebbe approfittare della loro
generosità. Nutrirmi per due sere di fila dev’essere già costato loro parecchio.
Alla fine trovo un anfratto sul fianco della collina. Scaverò lì la mia tana e mi ci rannicchier dentro coprendomi con la mia sacca; così soprawiverò alla notte. Aspettando che il buio invada il cielo, finisco il resto della carne secca e attendo la comparsa della prima stella, come
si attende l’arrivo di un’amica che aiuterà a scacciare i brutti pensieri.
Scende la notte. Percorso dall’ennesimo brivido, mi addormento.
Quanto tempo passa prima di essere svegliato da un fruscio? C’è qualcosa che si avvicina. Devo resistere alla paura. Se un animale selvatico è a caccia nei paraggi, non è il caso
di diventare la sua preda; ho più possibilità di sfuggirgli rimanendo nascosto nel mio buco,
che brancolando nell’oscurità. Una logica impeccabile, ma difficile da mettere in pratica
quando il cuore batte all’impazzata. Di quale predatore si tratta? Cosa ci faccio qui, acquattato nel buio a migliaia di chilometri da casa? Cosa ci faccio qui, con i capelli sporchi, le dita
gelate, il naso che cola? Cosa ci faccio qui, sperduto ai confini del mondo, a inseguire il fantasma di una donna che amo alla follia, ma che fino a sei mesi fa non faceva neanche parte
della mia vita? Vorrei ritrovare Erwan e l’altopiano di Atacama, la quiete del mio appartamento e le vie di Londra. Vorrei essere altrove, ovunque, pur di non farmi sbranare da un
maledettissimo lupo. Non muoverti, non tremare, non respirare, chiudi le palpebre per evitare
che la luce della luna si rifletta nel bianco degli occhi. Pensieri molto saggi, ma impossibili da
mettere in pratica quando la paura ti afferra per il collo e ti scuote con violenza. Ho
l’impressione di avere dodici anni, di aver perso ogni difesa, ogni sicurezza. Intravedo una
torcia, forse si tratta solo di un ladruncolo venuto a rubare le mie poche cose. E chi mi vieta di
difendermi?
Devo uscire da questo buco, abbandonare la notte e affrontare il pericolo. Non ho fatto
tutta questa strada per lasciarmi rapinare da un ladro o uccidere come una vittima sacrificale.
Apro gli occhi.
La luce avanza verso il fiume. La persona che la sorregge sa perfettamente dov’è diretta;
ha l’andatura sicura di chi non teme nessuna trappola, nessuna imboscata. La torcia viene piantata nel terreno, vicino alla riva. Due ombre appaiono alla luce della fiamma. Una appena
più esile dell’altra, due corpi il cui profilo fa pensare a due adolescenti. Uno si ferma, l’altro
raggiunge la riva, si toglie la veste ed entra nell’acqua fredda. Alla paura subentra la speranza. Forse questi due monaci hanno sfidato le regole del monastero per venire a fare il
bagno con il favore delle tenebre, e forse potranno aiutarmi a penetrare nella cinta della città
fortificata. Mi faccio strada fra le erbacce, avvicinandomi al fiume, e all’improvviso trattengo il
fiato.
Conosco ogni centimetro di quel corpo esile. La forma delle gambe, la rotondità delle natiche, la curva della schiena, il ventre, le spalle, la nuca, quel portamento fiero del capo.
Sei lì, davanti a me, a fare il bagno nuda in un fiume simile a quello in cui ti ho visto morire. Il tuo corpo al chiaro di luna è come un’apparizione, ti avrei riconosciuta fra mille. Sei lì, a
pochi metri da me, ma come raggiungerti? Posso sbucare dal mio nascondiglio senza
spaventarti, senza che ti metta a urlare? Il fiume ti copre fino alle anche, le mani raccolgono
l’acqua e la fanno scivolare sul viso. Anch’io mi avvicino al fiume, anch’io mi lavo la terra dalle
guance.
Il monaco che ti accompagna mi concede questo piacere, poiché ti dà le spalle. Si tiene a
una certa distanza, per timore forse di posare lo sguardo sulla tua nudità. Mi avvicino ancora
un po’, con il cuore che martella nel petto e la vista offuscata. Torni verso la riva, proprio
verso di me. Quando i tuoi occhi incrociano il mio sguardo, ti fermi, la testa si inclina leggermente di lato, mi scruti, mi passi davanti e poi prosegui, come se io fossi trasparente.
Il tuo sguardo era assente. No, peggio ancora: non era il tuo sguardo quello che ho visto
nei tuoi occhi. Ti sei rimessa la veste in silenzio, come se nessun suono potesse uscire dalla
tua gola, e ti sei voltata verso l’uomo che ti ha condotta fin qui. Il tuo accompagnatore ha ripreso la torcia e siete risaliti lungo il sentiero. Vi ho seguito senza tradire la mia presenza;
soltanto una volta, forse, sentendo il rumore di un ciottolo sotto i miei piedi, il monaco si è girato, ma poi avete ripreso a camminare. Giunti davanti al monastero avete costeggiato le
mura, superato le grandi porte, dopodiché le vostre figure si sono dileguate. La fiamma vacillava, poi si è spenta. Ho atteso finché ho potuto, paralizzato dal freddo. Alla fine mi sono precipitato verso il punto in cui siete scomparsi, nella speranza di trovare un passaggio, ma c’era
solo una piccola porta di legno sbarrata. Mi sono fermato a riprendere fiato. Poi sono tornato
nella mia tana al margine del bosco, come un animale selvatico.
Più tardi, durante la notte, un senso di soffocamento mi strappa dal sonno. Ho le membra
intorpidite. La temperatura è brutalmente scesa. Impossibile muovere le dita per disfare il
nodo che chiude la borsa e prendere qualcosa con cui coprirmi. La debolezza rallenta i gesti.
Mi tornano in mente le storie di alpinisti cullati dalla montagna prima di addormentarsi per
sempre. Siamo a quattromila metri, come ho potuto credere che sarei sopravvissuto alla
notte? Morirò in un boschetto di olmi e noccioli, dalla parte sbagliata del muro, a pochi metri
da te. Si dice che, in punto di morte, ci si ritrovi in un tunnel oscuro in fondo al quale splende
una luce. Non vedo niente del genere, l’unico bagliore sarà quello di averti rivista mentre ti immergevi nelle acque del fiume.
In un ultimo frammento di coscienza, sento delle mani che mi afferrano e mi tirano fuori
dal buco. Mi stanno trascinando, non riesco ad alzarmi né a sollevare la testa per vedere chi
mi trasporta. Mi tengono per le braccia, procediamo lungo un sentiero, perdo conoscenza più
volte. L’ultima immagine di cui ho memoria è quella delle mura del monastero e di una grande
porta che si apre di fronte a noi. Forse sei morta e finalmente ti raggiungo.
Atene
«Se non fosse così preoccupato, non avrebbe corso il rischio di presentarsi qui. E non mi
venga a raccontare che mi ha invitato a cena perché non voleva trascorrere la serata da solo!
Sono convinto che il servizio in camera del King George sia decisamente migliore di questo
ristorante cinese. Fra l’altro, date le circostanze, trovo inappropriata la scelta del tavolo.»Ivory
gettò una lunga occhiata a Walter, prese una fettina di zenzero e ne offrì una al suo ospite.
«Come lei, comincio a pensare che si stia tirando un po’ troppo per le lunghe. E la cosa
peggiore è non poter fare niente.»«Ha scoperto se c’è Sir Ashton dietro tutto questo?» chiese
Walter.
«Non ne ho la certezza. Non riesco a credere che si sia spinto così oltre! La scomparsa di
Keira avrebbe dovuto bastargli, a meno che non abbia saputo del viaggio di Adrian e abbia
deciso di giocare d’anticipo. E’ un miracolo che non abbia raggiunto il suo scopo.»«C’è mancato poco» borbottò Walter. «Crede che il lama abbia rivelato a Sir Ashton ciò che sapeva di
Keira? Ma perché lo avrebbe fatto? Se la sua intenzione era quella di non aiutare Adrian a ritrovarla, perché restituire i suoi effetti personali?»«Non abbiamo nessuna prova certa che quel
pacco provenisse dal lama. E’ possibile che qualcuno intorno a lui abbia rubato la macchina
fotografica, scattato l’istantanea della nostra amica archeologa che si immergeva nelle acque
del fiume e rimesso le cose a posto, senza che nessuno si accorgesse di nulla.»«Chi potrebbe averlo fatto e perché avrebbe corso questi rischi?»«Forse un monaco della comunità
ha assistito al bagno e si è rifiutato di tradire i principi a cui ha giurato di attenersi…»«Quali
principi?»«Per esempio, quello di non mentire mai. Tuttavia, è anche possibile che il nostro
lama, vincolato al segreto, abbia convinto uno dei suoi discepoli a fare da messaggero.»«Non
la seguo più.»«Caro Walter, dovrebbe imparare a giocare a scacchi! Non basta essere avanti
di una sola mossa, ne servono almeno tre o quattro. Per vincere, bisogna giocare d’anticipo.
Torniamo al nostro lama. Forse è combattuto fra due precetti che, in un contesto particolare,
potrebbero non essere più conciliabili: non mentire e non fare nulla che possa nuocere a una
vita. Supponiamo che la sopravvivenza di Keira dipenda dal fatto che alcune persone di nostra conoscenza la credano morta: un’evenienza del genere metterebbe il nostro saggio in
grave difficoltà. Se dice la verità, mette a repentaglio la sua vita e contraddice così quanto c’è
di più sacro nella sua religione. D’altro canto, se mente, lasciando credere che sia morta
quando in realtà è viva, infrange un altro precetto. Un bel problema, non le pare? Negli scacchi si direbbe che è “in stallo”. Una situazione che il mio amico Vackeers non sopporta.»«Come hanno fatto i suoi genitori a concepire una mente contorta come la sua?»
chiese Walter, prendendo a sua volta una fettina di zenzero.
«Terno che i miei genitori non c’entrino nulla; mi sarebbe piaciuto molto attribuire il merito
a loro, ma purtroppo non li ho mai conosciuti. Se non le dispiace, le racconterò della mia infanzia un altro giorno.»«Lei ritiene che il nostro lama, di fronte a un dilemma del genere, abbia convinto un monaco a rivelare la verità, mentre lui proteggeva la vita di Keira tacendo?»«Il
punto essenziale non è il lama. Mi auguro non le sia sfuggito questo dettaglio.»L’espressione
sul volto di Walter non lasciava dubbi: il ragionamento di Ivory gli sfuggiva totalmente.
«Lei è esasperante, amico mio» disse il professore.
«Può darsi. Però sono stato io a notare la particolarità della foto messa in cima alla pila, io
a confrontarla con le altre e io a trarre le conclusioni del caso.»«Questo glielo concedo ma,
come ha sottolineato lei stesso, era in cima alla pila!»«Avrei fatto meglio a tacere, come il
lama. Non saremmo qui ad aspettare con ansia notizie di Adrian, sempre che possa ancora
darcene.»«A rischio di suonare ripetitivo, quella foto si trovava in cima alla pila. Difficile credere a una semplice coincidenza, si tratta senza dubbio di un messaggio. Resta da capire se
anche Ashton ne sia a conoscenza.»«O magari siamo noi a tutti i costi a vederci un messaggio! Sospetto ormai che se anche lo avessimo trovato nei fondi di caffè, gli avremmo dato la
stessa importanza. Lei avrebbe comunque resuscitato Keira pur di spingere Adrian a continuare le sue ricerche…»«Per favore, non esageri! Preferirebbe vederlo sprecare i suoi talenti
crogiolandosi nella malinconia sul suo isolotto greco, nello stato pietoso in cui lo abbiamo
visto?» chiese Ivory, alzando a sua volta la voce. «Pensa davvero che sarei stato così
crudele da convincerlo a partire alla ricerca della sua amica se non fossi stato davvero convinto che è viva? Mi crede un mostro?»«Non intendevo dire questo» replicò Walter con la
stessa veemenza.
Il loro breve alterco aveva attirato l’attenzione dei clienti che cenavano a un tavolo vicino.
Walter continuò abbassando la voce. «Ha detto che il punto essenziale non è il lama. Ma
allora chi è, se non lui?»«La persona che ha messo in pericolo la vita di Adrian, la persona
che non voleva che trovasse Keira, la persona che, in questo caso, sarebbe disposta a tutto.
Non le viene in mente nessuno?»«Non c’è bisogno di usare quel tono altezzoso, non sono un
suo subalterno.»«Rifare il tetto della Royal Academy costa un patrimonio. Non trova che il
generoso benefattore che ha miracolosamente rimesso in sesto il budget, evitando di rivelare
ai suoi superiori l’inefficienza della sua gestione, meriti di essere preso in considerazione?»«Va bene, ho colto l’antifona. Secondo lei, il colpevole è Sir Ashton.»«Sa che
Keira è ancora viva? Possibile. Non intende correre il minimo rischio? Probabile. Devo confessarle che, se mi fosse venuto in mente prima, non avrei mandato Adrian così allo
sbaraglio. Adesso sono più preoccupato per lui che per Keira.»Ivory pagò il conto e si alzò dal
tavolo. Walter prese i loro soprabiti dall’attaccapanni e lo raggiunse in strada.
«Ecco il suo impermeabile, lo stava dimenticando.»«Farò un salto domani» disse Ivory,
fermando un taxi con un cenno della mano.
«Non sarà imprudente?»«Sono già venuto fin qui, e poi mi sento responsabile, devo
vederlo. Quando avremo i prossimi risultati delle analisi?»«Arrivano ogni mattina. I valori
stanno migliorando, il peggio sembra superato, ma c’è sempre il rischio di una
ricaduta.»«Quando sa qualcosa, mi chiami in albergo. Mi raccomando, non con il cellulare,
ma da una cabina.»«Crede davvero che la mia linea sia sotto controllo?»«Non ne ho la più
pallida idea, caro Walter. Buonanotte.»Ivory salì sul taxi. Walter decise di rientrare a piedi.
L’aria di Atene era ancora mite in quel tardo autunno, un venticello lieve soffiava sulla città:
un po’ di fresco lo avrebbe aiutato a riordinare le idee.
Arrivando in albergo, Ivory chiese al portiere di far portare in camera sua la scacchiera
che si trovava nel bar; dubitava che un altro cliente la stesse usando a quell’ora della notte.
Un’ora dopo, seduto nel salottino della sua suite, Ivory abbandonò la partita che giocava
contro se stesso e si coricò. Sdraiato nel letto, con le braccia incrociate dietro la nuca, passava in rassegna tutti i contatti stabiliti in Cina durante la sua carriera. La lista era lunga, ma
ciò che lo contrariava in quell’archivio sui generis era che nessuno era ancora vivo. Riaccese
la luce e scostò la coperta: era troppo pesante. Si sedette sul bordo del letto, infilò le pantofole e si contemplò nell’anta a specchio del guardaroba.
Ah, Vackeers, perché non posso contare su di lei proprio quando ne avrei più bisogno?
Perché non puoi contare su nessuno, vecchio imbecille, perché non sei capace di fidarti di
nessuno! Guarda dove ti ha portato tutta la tua arroganza… Sei solo, e sogni ancora di condurre le danze.
Si alzò e cominciò a camminare su e giù per la stanza.
Se è un avvelenamento, la pagherà molto cara, Ashton.
Con un colpo improvviso ribaltò la scacchiera.
Quel secondo moto d’ira della serata lo fece riflettere a lungo. Guardò i pezzi sparsi sulla
moquette. L’alfiere nero e quello bianco si trovavano l’uno accanto all’altro. All’una del mattino
decise di infrangere una regola che si era imposto: prese il telefono e compose un numero di
Amsterdam. Quando rispose, Vackeers si sentì porre una domanda molto singolare: esisteva
un veleno in grado di provocare i sintomi di una polmonite acuta?
Vackeers non lo sapeva, ma intendeva scoprirlo il più presto possibile. Semplice tatto o dimostrazione di amicizia, non chiese nessuna spiegazione a Ivory.
Monastero di Garther
Due uomini mi sostengono, mentre un terzo mi massaggia il petto con vigore. Seduto su
una sedia, i piedi in una bacinella di acqua tiepida, ho ripreso in parte le forze e riesco quasi a
reggermi sulle mie gambe. Mi hanno tolto i vestiti umidi e sporchi, dandomi in cambio una
specie di sarong. La temperatura è quasi piacevole, anche se ogni tanto batto ancora i denti.
Un monaco entra nella stanza e appoggia sul pavimento una ciotola di brodo e un’altra di
riso. Portando il liquido alle labbra, mi rendo conto della mia estrema debolezza. Subito dopo
aver finito il pasto, mi sdraio su una stuoia e sprofondo nell’oblio.
All’alba un altro monaco viene da me, pregandomi di seguirlo. Procediamo lungo un corridoio, sotto una serie di arcate. Ogni dieci metri ci sono porte che si aprono su grandi sale in
cui alcuni discepoli seguono l’insegnamento dei maestri. Mi sembra di essere in un collegio
gestito da religiosi della mia vecchia Inghilterra. L’ultima ala di questo gigantesco quadrilatero
sembra essere un’interminabile galleria; una volta giunti in fondo, mi fanno entrare in una
stanza vuota.
Mi lasciano da solo, chiuso lì per buona parte della mattinata. Una finestra dà sul cortile
interno del monastero e assisto a uno strano spettacolo. Un gong ha appena suonato il
mezzogiorno: un centinaio di monaci arrivano disposti in lunghe file, si siedono a distanza
uguale gli uni dagli altri e si raccolgono in meditazione. Non posso fare a meno di immaginare
Keira, celata sotto una di quelle vesti. Se il ricordo di ciò che ho vissuto la notte scorsa è
reale, dev’essere nascosta in questo tempio, forse addirittura da qualche parte in quel cortile,
fra i monaci tibetani riuniti in preghiera. Perché la trattengono? Il mio unico pensiero è ritrovarla e portarla via di qui.
Un raggio di luce filtra nella stanza. Mi volto, un monaco è in piedi sulla porta; un discepolo gli passa davanti e viene verso di me, con il volto coperto da un cappuccio. Lo solleva e
non credo ai miei occhi.
Hai una lunga cicatrice sulla fronte, che non deturpa la tua bellezza. Vorrei abbracciarti,
ma fai un passo indietro. Hai i capelli corti e la carnagione più pallida del solito. Guardarti
senza poterti toccare è la più crudele delle penitenze, sentirti così vicina e non poterti
stringere fra le braccia, una frustrazione insopportabile. Mi fissi, non permetti che mi avvicini,
come se l’epoca degli abbracci fosse finita, come se la tua vita avesse imboccato una strada
lungo la quale non posso seguirti. Poi, le tue parole sono ancora più dolorose della distanza
fisica che mi imponi e non lasciano spazio ai dubbi.
«Devi andartene» mormori con voce priva di emozione.
«Sono venuto a cercarti.»«Non ti ho chiesto niente! Devi andartene e lasciarmi in pace.»«I
tuoi scavi, i frammenti… puoi anche rinunciare a noi, ma non a questo!»«Non ne vale più la
pena. E’ il ciondolo che mi ha condotto qui, dove ho trovato ben più di quanto cercassi altrove.»«Non ti credo! La tua vita non è in questo monastero sperduto ai confini del
mondo.»«Questione di punti di vista. Tu lo sai meglio di chiunque altro. Quanto alla mia vita,
ho rischiato di perderla per colpa tua. Siamo stati incoscienti, non ci sarà una seconda opportunit. Vattene, Adrian.»«Non finché non avrò mantenuto la promessa che ti ho fatto. Ho giurato di riportarti nella tua valle, la valle dell’Omo«Non ho nessuna intenzione di tornarci. Ora
vai via!»Ti rimetti il cappuccio, abbassi la testa e ti allontani a passi lenti. All’ultimo momento ti
volti verso di me, con il viso impenetrabile.
«Le sue cose sono a posto» dici guardando lo zaino che il monaco ha appoggiato a terra.
«Puoi passare la notte qui, ma domattina partirai.»«E Harry? Rinunci anche a Harry?»Vedo
una lacrima scintillare sulla tua guancia e comprendo l’appello silenzioso che mi rivolgi.
«Quella porticina che dà sul fossato, quella da cui esci per recarti al fiume di notte, dove si
trova?» ti chiedo.
«Nei sotterranei, proprio sotto di noi, ma non cercarla, ti prego.»«A che ora si apre?»«Alle
ventitré» mi rispondi e poi te ne vai.
Passo il resto della giornata chiuso in questa stanza in cui ti ho rivista per poi perderti
subito. Passo il resto della giornata a girare in tondo, come una belva in gabbia.
Quando è quasi sera un monaco viene a prendermi e mi conduce in cortile; ho il permesso di fare due passi all’aria aperta dopo che i discepoli hanno finito l’ultima preghiera. Fa
già piuttosto freddo e mi rendo conto che la notte sarà la vera guardiana di questa prigione. E’
impossibile attraversare la pianura senza essere uccisi dal gelo, come già ho avuto modo di
sperimentare. Eppure devo trovare una soluzione.
Approfitto della passeggiata che mi hanno concesso per studiare il luogo. Il monastero si
sviluppa su due livelli, tre contando i sotterranei di cui mi ha parlato Keira. Venticinque
finestre si aprono sul cortile interno. Alte arcate fiancheggiano i corridoi del piano terra. A ogni
angolo c’è una scala a chiocciola di pietra. Riconto i passi. Per raggiungerne una dalla mia
cella ci vorranno cinque, al massimo sei minuti, a patto di non incontrare nessuno lungo il
cammino.
Dopo aver cenato, mi sdraio sulla stuoia e fìngo di dormire. Il mio guardiano ben presto
comincia a russare. La porta non è chiusa a chiave, nessuno si sognerebbe di allontanarsi dal
monastero in piena notte.
Il cortile è deserto. I monaci che fanno la ronda lungo le mura non possono vedermi, è
troppo buio. Cammino rasente le pareti.
Il mio orologio segna le 22.50. Se Keira mi ha davvero dato appuntamento, se ho interpretato bene il suo messaggio, mi restano dieci minuti per trovare un modo per raggiungere i
sotterranei e ritrovare la porticina intravista ieri dal bosco.
Sono le 22.55, finalmente raggiungo la scala. Una porta, ben chiusa da un gancio di ferro,
ne blocca l’accesso. Devo riuscire a sollevarlo senza far rumore, venti monaci stanno
dormendo nella stanza accanto. La porta cigola sui cardini, la socchiudo e mi intrufolo nel
pertugio.
Procedendo a tentoni nel buio, scendo lungo gradini di pietra, consumati e scivolosi. Non
è semplice mantenere l’equilibrio e non so quale sia la distanza che ancora mi separa dalle
viscere del monastero.
Le lancette fosforescenti dell’orologio indicano le ventitré. Ora i miei piedi poggiano su un
pavimento di terra battuta; pochi metri più in là, una torcia fissata al muro illumina debolmente
un passaggio. Ne scorgo un’altra e proseguo. All’improvviso sento un fruscio alle spalle; faccio appena in tempo a voltarmi e uno sciame di pipistrelli comincia a svolazzarmi intorno. Le
loro ali mi sfiorano, mentre le ombre tremolano nel fascio di luce della torcia. Devo proseguire, sono già le 23.05, sono in ritardo e ancora non vedo la porta. Ho forse sbagliato
strada?
Non ci sarà una seconda opportunità, ha detto Keira. Non posso essermi sbagliato, non
ora.
Una mano mi afferra la spalla e mi attira di lato, in una rientranza. Nascosta sotto un arco,
Keira mi abbraccia e mi stringe a sé.
«Dio, quanto mi sei mancato» mormori.
Non rispondo, ti prendo il viso fra le mani e ci baciamo. Un lungo bacio che sa di terra e di
polvere, di sale e di sudore. Mi appoggi la testa sul petto, ti accarezzo i capelli, scoppi in lacrime.
«Devi andartene, Adrian, devi assolutamente partire, ci metti entrambi in pericolo. Sei
sopravvissuto solo perché mi hanno creduta morta; se scoprono che sei qui, che ci siamo rivisti, ti uccideranno.»«I monaci?»«No» rispondi ansimando, «loro sono nostri amici: mi hanno
salvata dal Fiume Giallo, curata e nascosta qui. Parlo di quelli che hanno tentato di ucciderci,
Adrian: non si arrenderanno. Non so cosa abbiamo fatto, né perché ci diano la caccia, ma
non si fermeranno davanti a niente pur di impedire che le nostre ricerche proseguano. Se ci
scoprono di nuovo insieme, ci ritroveranno. Il lama che abbiamo incontrato, l’uomo che ci
prendeva bonariamente in giro quando cercavamo la piramide bianca, è lui il nostro salvatore… e io gli ho fatto una promessa.»
Atene
Ivory sussultò. Avevano suonato alla porta. Un cameriere ai piani gli consegnò un fax urgente: qualcuno aveva telefonato alla reception per chiedere che gli venisse consegnato immediatamente. Ivory prese la busta, ringraziò il ragazzo, aspettò che si fosse allontanato e
poi lesse il messaggio.
Roma chiedeva di essere chiamato il prima possibile da una linea sicura.
Ivory si vestì in fretta e scese in strada. Acquistò una scheda telefonica all’edicola di fronte
all’hotel e chiamò Lorenzo da una cabina vicina.
«Ho delle notizie interessanti.»Ivory trattenne il fiato e ascoltò con attenzione
l’interlocutore.
«I miei contatti cinesi hanno ritrovato le tracce della sua paleontologa.»«Viva?»«Sì, ma
non tornerà in Europa tanto presto.»«Perché?»«Si prepari, sarà dura da digerire: è stata arrestata e incarcerata.»«E’ assurdo! Per quale motivo?»Lorenzo, alias Roma, completò un
puzzle di cui a Ivory mancavano ancora molti tasselli. I monaci del monte Hua Shan si
trovavano sulla sponda del corso d’acqua quando la 4x4 di Adrian e Keira era precipitata nel
Fiume Giallo. Tre di loro si erano tuffati per salvarli. Adrian era stato estratto dall’auto per
primo e trasportato d’urgenza all’ospedale da alcuni operai che passavano a bordo di un
camion. Ivory conosceva il seguito: era partito per la Cina per occuparsi di lui e gestire il rimpatrio. Per Keira, le cose erano andate diversamente. I monaci avevano dovuto fare tre tentativi prima di riuscire a liberarla dall’abitacolo dell’auto. Quando l’avevano riportata a riva, il
camion era già ripartito. Era stata condotta esanime fino al monastero. Il lama scoprì quasi
subito che i mandanti di quel tentato omicidio appartenevano a una triade della regione, le cui
ramificazioni criminali si estendevano fino a Pechino. Nascose Keira e subì le violenze di alcuni individui che si presentarono da lui pochi giorni dopo. Giurò che i suoi discepoli si erano
sì tuffati per cercare di salvare i due occidentali dall’annegamento, ma che non avevano potuto fare nulla per la ragazza, che era morta. I tre monaci che l’avevano soccorsa subirono lo
stesso terzo grado, ma nessuno di loro parlò. Keira rimase per dieci giorni in condizioni disperate; un’infezione ne rallentò la guarigione, ma grazie alle cure dei monaci dopo qualche
tempo si riprese.
Appena si ristabilì e fu in grado di viaggiare, il lama la fece allontanare dal monastero,
dove c’era ancora il rischio che venissero a cercarla. In attesa che le acque si calmassero,
aveva pensato di farla travestire da monaco.
«E poi cos’è successo?» chiese Ivory.
«Non ci crederà mai» rispose Lorenzo. «Purtroppo il piano del lama non è andato affatto
come previsto.»Il colloquio durò ancora dieci minuti. Quando Ivory riappese, non c’era più
credito sulla scheda telefonica. Si precipitò in albergo, chiuse le valigie e saltò su un taxi.
Lungo la strada chiamò Walter con il cellulare per avvertirlo che stava andando da lui.
Ivory arrivò mezz’ora dopo ai piedi del grande edificio appollaiato sulla collina di Atene.
Prese l’ascensore fino al terzo piano e si precipitò nel corridoio alla ricerca della stanza 307.
Bussò alla porta ed entrò. Walter ascoltò a bocca aperta il racconto di Ivory.
“Ecco, mio caro Walter, adesso sa tutto, o quasi.”Santo cielo… Ha qualche idea su come
fare a liberarla?»No, neanche una. Ma guardiamo il lato positivo della faccenda: ora almeno
abbiamo la certezza che è viva.»Mi chiedo come reagirà Adrian alla notizia, ho paura che
sarà un altro duro colpo per lui.»«Sarebbe già un grande sollievo se potesse saperlo» rispose
Ivory sospirando. «Quali notizie abbiamo su di lui?»Purtroppo nessuna, se non che tutti sembrano ottimisti; mi dicono che è ormai questione di un giorno, se non di poche ore, prima di
potergli parlare.»Speriamo che questo ottimismo sia giustificato. Oggi torno a Parigi, devo trovare un modo per tirar fuori Keira di lì. Lei si occupi di Adrian; se per caso riuscirà a comunicare con lui, per il momento non gli riveli nulla.»Non potrò tenergli nascosta la sorte di Keira…
E’ impossibile, mi strangolerebbe.»Non intendevo questo. Non lo renda partecipe dei nostri
sospetti, è ancora troppo presto; ho i miei buoni motivi per chiederglielo. A presto, Walter, la
contatterò io.»
Monastero di Garther
«Che cosa hai promesso al lama?»Mi guardi con aria contrita e ti stringi nelle spalle. Mi
riferisci che quelli che hanno attentato alla nostra vita riprenderebbero a braccarci in qualunque angolo del pianeta, se scoprissero che sei sopravvissuta. Se non avessero modo di
mettere le mani su di te, si vendicherebbero su di me. In cambio del suo aiuto, il lama ha chiesto di regalargli due anni della tua vita. Due anni di ritiro spirituale, durante i quali potrai riflettere e decidere cosa fare della tua esistenza. Non ci sarà una seconda opportunità, ti ha
detto. Due anni per fare il punto su una vita che si è rischiato di perdere non mi sembrano un
tempo troppo lungo. Quando le acque si saranno calmate, il lama troverà il modo di farti oltrepassare la frontiera.
«Due anni per salvare le nostre vite: è tutto ciò che mi ha chiesto, e io ho accettato. Ho
resistito perché tu eri salvo. Se sapessi quante volte in questo eremo ho immaginato le tue
giornate, rivisitato i luoghi in cui siamo stati; se sapessi quanti momenti ho trascorso nella tua
casetta di Londra… Ho popolato le mie giornate con questi sogni a occhi aperti.»«Ti prometto
che…»«No, Adrian» mi dici, appoggiandomi una mano sulla bocca. «Domani te ne andrai. Mi
rimangono altri diciotto mesi. Non preoccuparti per me, la vita qui non è così insopportabile.
Vivo all’aria aperta, ho tempo per riflettere, molto tempo. Non guardarmi come se fossi una
santa o un’illuminata. Non lo faccio per te, ma per me.»«Per te? Cosa ci guadagni?»«Non
perderti una seconda volta. Se non avessi segnalato la tua presenza ai monaci, saresti morto
nel bosco la notte scorsa.»«Sei stata tu ad avvisarli?»«Avresti preferito morire assiderato?»«Mi spiace per la tua promessa, ma ora andiamocene da qui. Ti porto via con me, a
costo di trascinarti di peso.»Finalmente rivedo il tuo sorriso, un vero sorriso. Con la mano mi
accarezzi la guancia.
«D’accordo, leviamo le tende. Non riuscirei più a resistere qui, se ti vedessi andare via. E
in più, ti odierei per avermi lasciata qui.»«Quanto tempo ci vorrà prima che i tuoi carcerieri si
accorgano che non sei più in cella?»«Ma non sono carcerieri, sono libera di andare dove
voglio.»«E il monaco che ti accompagnava al fiume, non era lì per sorvegliarti?»«Per proteggermi, nel caso mi fosse capitato qualcosa lungo il tragitto. Essendo l’unica donna di questo
monastero, per lavarmi vado ogni notte al fiume. O meglio, l’ho fatto per tutta l’estate e
l’autunno, ma ieri sera era l’ultima uscita.»Apro la sacca, tiro fuori un maglione e un paio di
pantaloni.
«Cosa fai?»«Mettiti questi vestiti, ce ne andiamo via subito.»«L’esperienza di ieri non ti è
bastata? Là fuori la temperatura dev’essere già intorno allo zero e fra un’ora saremo a meno
dieci. Non abbiamo nessuna possibilità di attraversare la pianura di notte.»«Ma di giorno rischiamo di essere visti. E’ un’ora di cammino, pensi che possiamo farcela?»«Il primo villaggio
è a un’ora in macchina! E noi siamo a piedi.»«Più che a un villaggio, sto pensando
all’accampamento dei nomadi.»«Se si tratta di nomadi, è probabile che si siano già
spostati.»«Ci sono ancora, e sono sicuro che ci aiuteranno.»«D’accordo» dici infilandoti
maglione e pantaloni.
«Dove diavolo è la porta per uscire da qui?» chiedo.
«Proprio davanti a te… Manca poco.»Una volta fuori ti conduco verso il bosco, ma tu mi
prendi per il braccio e mi porti sul sentiero che conduce al fiume.
«Non è il caso di perderci fra gli alberi, ci resta poco tempo prima che la temperatura
scenda sottozero.»Sei qui da prima di me: obbedisco e ti lascio guidare la marcia. Giunti al fiume, trovo il sentiero che sale verso la collina. Ci vorranno dieci minuti per arrivare e altri tre
quarti d’ora per superare il colle e raggiungere la grande vallata in cui si trova
l’accampamento. Cinquantacinque minuti e saremo in salvo.
La notte è più gelida di quanto avessi immaginato. Sto già tremando e ancora non si vede
il fiume. Tu non parli, tutta concentrata sulla strada da seguire. Non posso rimproverarti
questo silenzio: fai bene a risparmiare le forze, mentre le mie si affievoliscono a ogni passo.
Quando arriviamo in fondo al campo che i monaci coltivano durante il giorno, comincio a
pentirmi di averti trascinata qui fuori a queste temperature. Per procedere devo lottare contro
una spossatezza che cresce a ogni passo.
«Non ce la farò mai» annunci ansimando.
Una nuvoletta biancastra esce dalle tue labbra. Ti stringo contro di me e ti massaggio la
schiena. Vorrei baciarti, ma ho le labbra gelide. Mi richiami subito all’ordine.
«Non abbiamo un minuto da perdere! Dobbiamo raggiungere il più in fretta possibile
l’accampamento o moriremo congelati.»Brividi violenti mi scuotono.
Il fianco della collina sembra allungarsi a mano a mano che saliamo. Bisogna tener duro,
ancora un piccolo sforzo, massimo dieci minuti alla cima; da lassù, in questa notte limpida,
vedremo sicuramente le tende in lontananza. La sola idea del calore che ci attende ci ridarà
forza. Poi per scendere verso la vallata impiegheremo non più di un quarto d’ora. E anche se
saremo sfiniti, i nomadi verranno in nostro soccorso. Con un po’ di fortuna, sentiranno le
nostre grida nella notte.
Cadi due, tre volte e ogni volta ti aiuto a rialzarti; alla quarta, il tuo viso è di un pallore
agghiacciante. Hai le labbra blu, come quando stavi annegando sotto i miei occhi nelle acque
del Fiume Giallo. Ti sollevo, ti passo il braccio sotto l’ascella così ti appoggi a me. Ti urlo di
resistere, di non addormentarti.
«Smettila di strillarmi nelle orecchie» protesti. «E’ già abbastanza dura così. Ti avevo
detto che non era il caso, ma non hai voluto darmi retta.»Cento metri, mancano solo cento
metri alla cima. Accelero il passo e sento che diventi più leggera, hai recuperato un po’ di
forze.
«L’ultimo respiro» mi dici, «un ultimo sussulto prima di morire. Su, sbrigati, anziché guardarmi con quell’espressione abbattuta. Non riesco più a farti ridere?»Fai la spavalda, con le
labbra intorpidite che faticano ad articolare le parole. Poi non so come ti risollevi, mi spingi via
e ti rimetti in marcia davanti a me.
«Batti la fiacca, Adrian, batti la fiacca!»Cinquanta metri! Mi stai distanziando, per quanto
mi sforzi non riesco più a recuperare; arriverai in cima molto prima di me.
«Allora vieni, sì o no? Su, sbrigati!»Trenta metri! La cima non è lontana, ci sei quasi. Devo
raggiungerla prima di te, voglio essere il primo a vedere l’accampamento che ci salverà la
vita.
«Stai mangiando la polvere, Adrian! Forza, datti una mossa!»Dieci metri! Ecco, sei sulla
cima della collina: dritta e austera con le mani sui fianchi. Ti vedo di spalle, contempli la vallata, senza dire una parola. Cinque metri! Mi scoppieranno i polmoni. Quattro metri! Non sono
tremiti, ma spasmi quelli che squassano il mio corpo. Non ho più forze, mi accascio a terra.
Non mi presti alcuna attenzione. Devo rialzarmi, mancano solo due o tre metri, ma la terra è
così dolce e il cielo così bello sotto la luna piena. Sento la brezza accarezzarmi le guance e
cullarmi.
Ti chini verso di me. Un terribile accesso di tosse mi scuote il petto. La notte è bianca,
così chiara da sembrare giorno. Dev’essere il freddo, sono abbagliato. La luce è quasi insopportabile.
«Guarda» mormori, indicando la vallata. «Te l’avevo detto, i tuoi amici se ne sono andati.
Non dobbiamo prendercela con loro, Adrian, sono nomadi: amici o no, non restano mai a
lungo nello stesso posto.»Apro gli occhi, mi sforzo di guardare e in mezzo alla pianura, al
posto delle tende dove avremmo dovuto trovare riparo e calore, vedo i contrafforti del monastero. Abbiamo girato in tondo, siamo tornati sui nostri passi. Ma no, è impossibile, non siamo
nella stessa valle, non vedo il bosco…«Mi dispiace» dici, «non è colpa tua. Avevo promesso,
e ogni promessa è debito. Avevi giurato di riportarmi a Addis Abeba; se potessi rispettare
quel giuramento, lo faresti, vero? Vedo quanto soffri per la tua impotenza, so che puoi capirmi. Perché tu mi capisci, vero?»Mi baci sulla fronte. Le tue labbra sono ghiacciate. Sorridi e
ti allontani. I tuoi passi sembrano talmente decisi, come se all’improvviso il freddo non avesse
alcun effetto su di te. Avanzi nella notte, diretta al monastero. Non ho più la forza di trattenerti, né di continuare a seguirti. Sono prigioniero di un corpo che rifiuta ogni movimento, come
se braccia e gambe fossero legate. Impotente, così hai detto prima di abbandonarmi. Quando
arrivi davanti alle mura del monastero, le due immense porte si aprono, ti giri un’ultima volta e
poi entri.
Sei troppo lontana perché io possa sentirti, eppure il suono limpido della tua voce mi raggiunge.
«Non essere impaziente, Adrian. Un giorno ci ritroveremo. Diciotto mesi non sono troppi
quando ci si ama. Non temere, ce la farai. Hai tanta forza dentro di te, e poi sta arrivando
qualcuno, abbi fiducia. Ti amo, Adrian. Ti amo.»Le pesanti porte del tempio di Garther si richiudono sulla tua esile figura.
Urlo il tuo nome nella notte, urlo come un lupo preso in trappola che vede arrivare la
morte. Mi dibatto, tiro con tutte le mie forze, malgrado le membra intorpidite. Grido e grido
ancora, quando sento una voce in mezzo alla pianura deserta: «Si calmi, Adrian». Questa
voce mi è familiare, è quella di un amico. Walter ripete un’altra volta questa frase del tutto
priva di senso.
«La prego, Adrian, si calmi! Se continuerà ad agitarsi così finirà per farsi del male!»
Atene, ospedale universitario
«La prego, Adrian, si calmi! Se continuerà ad agitarsi così finirà per farsi del male!»Aprii
gli occhi e tentai di alzarmi, ma ero legato. Walter era chino su di me con espressione preoc-
cupata.
«E’ davvero tornato fra noi, o è in preda a un’altra crisi di delirio?»«Dove siamo?» mormorai.
«Prima risponda a una domanda facile: con chi sta parlando? Chi sono io?»«Senta un
po’, Walter, è per caso impazzito?»Walter si mise ad applaudire. Non capivo perché fosse
così entusiasta. Si precipitò verso la porta e urlò nel corridoio che mi ero svegliato, e questa
notizia sembrava riempirlo di gioia. Rimase con la testa fuoii dalla porta e si voltò con aria indispettita.
«Non so proprio come facciate a vivere in questo paese: all’ora di pranzo tutto si blocca!
Non è possibile, neanche un’infermiera. Ah già, non le ho ancora detto dove siamo. Siamo al
terzo piano dell’ospedale di Atene, reparto di Pneumologia, camera 307. Quando potrà,
venga a godersi il panorama. La sua finestra si affaccia sulla rada. Niente male, per essere
una stanza di ospedale. Sua madre e la deliziosa zia Elena hanno mosso mari e monti per
ottenere una camera singola. Davvero due sante donne.»«Ma cosa faccio qui? E perché
sono legato?»«Mi creda, Adrian, la decisione di legarla non è stata presa a cuor leggero. E’
stato colpito da crisi di delirio talmente violente che era necessario proteggerla da se stesso.
Si agitava tanto che rischiava sempre di cadere dal letto. Be’, immagino di non averne il diritto, ma visto che tutti fanno la siesta, mi considero l’unica autorità competente e quindi adesso la slego.»«Walter, vuole dirmi perché mi trovo in una stanza d’ospedale?»«Non ricorda
nulla?»«Se ricordassi qualcosa, non le farei questa domanda!»Walter andò verso la finestra e
guardò fuori.
«Non so» disse pensoso. «Preferirei che prima avesse recuperato le forze… poi parleremo, glielo prometto.»Mi misi seduto sul letto, poi ebbi un capogiro e Walter si precipitò a
sorreggermi.
«Ha visto, cosa le avevo detto? Su, si sdrai e stia tranquillo. Sua madre e la sua adorabile
zia si sono date tanta pena che forse sarebbe il caso di farsi trovare sveglio quando verranno
a trovarla a fine pomeriggio. Niente sforzi inutili. Shhh, è un ordine! In assenza dei medici,
delle infermiere e di tutta Atene che ronfa, sono io che comando!»Avevo la bocca riarsa: Walter mi diede un bicchiere d’acqua.
«Solo un sorso, vecchio mio! E’ sotto flebo da molto tempo, non so se può bere. Sia
prudente, la prego!»«Walter, le do un minuto per dirmi in quali circostanze sono arrivato qui,
altrimenti mi strappo tutti questi tubi!»«Non avrei mai dovuto slegarla.»«Cinquanta
secondi!»«Non è gentile da parte sua ricattarmi così. Lei mi delude, Adrian!»«Quaranta!»«Non appena avrà visto sua madre…»«Trenta!»«D’accordo, quando saranno passati i medici e mi avranno confermato che si è ripreso.»«Venti!»«La sua impazienza è
intollerabile. Sono giorni che sto al suo capezzale: che modi sono questi?»«Dieci!»«Adrian!»
urlò Walter. «Tolga immediatamente quella mano dalla flebo!»«Cinque!»«Va bene, ha vinto
lei, le dirò tutto; ma sappia che questa non gliela perdono.»«Coraggio, Walter, inizi a spiegarmi.»«Davvero non ricorda nulla?»«Niente di niente.»«Il mio arrivo a Hydra?»«Sì, questo
me lo ricordo.»«Il caffè che abbiamo bevuto al tavolino del locale vicino al negozio della sua
deliziosa zia?»’
«Sì, anche questo.»«La foto di Keira che le ho mostrato?»«Certo che me la ricordo.»«Buon segno. E poi?»«E’ tutto piuttosto vago. Abbiamo preso il traghetto per Atene e
ci siamo salutati all’aeroporto: lei rientrava a Londra, io andavo in Cina. Ma forse è stato solo
un lungo incubo.»«No, no, mi creda, era tutto vero: lei ha preso l’aereo, anche se non ha fatto
molta strada. Ma torniamo al mio arrivo a Hydra. Be’, in effetti, perché perdere tempo? Ho
due notizie da darle.»«Cominci da quella cattiva.»«Impossibile. Senza conoscere prima
quella buona, non avrebbe senso.»«Okay, visto che non ho scelta, vada per la buona notizia.»«Keira è viva: non è più un’ipotesi, ma una certezza.»Feci un salto nel letto.
«Bene, ora che sa l’essenziale, perché non si riposa un po’ prima della visita di sua
madre, o dei medici, o magari di entrambi?»«Non prenda tempo, Walter! Qual è la brutta notizia?»«Una cosa alla volta! Mi ha chiesto cosa ci fa qui e allora lasci che glielo spieghi. Sappia, per inciso, che ha fatto cambiare rotta a un 747, un’impresa non alla portata di tutti. Deve
la vita solo alla presenza di spirito di una hostess. Un’ora dopo il decollo del suo aereo, ha
avuto un brutto malore. E’ probabile che, durante il tuffo nel Fiume Giallo, si fosse preso un
batterio che poi le ha provocato un’infezione polmonare. Ma torniamo al volo per Pechino.
Sembrava tranquillamente addormentato, seduto al suo posto, quando però le ha portato il
vassoio con il pasto, la hostess si è preoccupata per il suo pallore e per il sudore che le imperlava la fronte. Ha cercato di svegliarla, senza successo. Lei respirava a fatica e il polso era
molto debole. Di fronte alla gravità della situazione, il pilota ha fatto dietrofront e l’hanno trasportata d’urgenza qui. Io l’ho saputo il giorno dopo il mio arrivo a Londra e sono subito ripartito.»«Dunque non sono mai arrivato in Cina?»«Purtroppo no, mi dispiace.»«E Keira
dov’è?»«E’ stata salvata dai monaci che vi avevano accolti vicino a quella montagna di cui
non ricordo il nome.»«Lo Hua Shan.»«Sì, sì. L’hanno curata, ma purtroppo, una volta guarita,
è stata fermata dalla polizia. Otto giorni dopo l’arresto è comparsa davanti a un tribunale ed è
stata condannata per essere entrata e aver circolato in territorio cinese senza documenti, e
dunque senza autorizzazione governativa.»«Ma non poteva avere i documenti con sé, si
trovavano sull’auto in fondo al fiume!»«Pienamente d’accordo con lei, ma temo che l’avvocato
d’ufficio abbia sorvolato su questo dettaglio durante la sua arringa. Keira è stata condannata
a diciotto mesi di carcere duro; si trova a Garther, un ex monastero trasformato in penitenziario, nella provincia del Sichuan, non lontano dal Tibet.»«Diciotto mesi?»«Sì, e secondo il
nostro consolato, che ho subito contattato, avrebbe potuto andarle anche peggio.»«Peggio!?
Diciotto mesi, Walter! Si rende conto di cosa significa passare diciotto mesi in una prigione
cinese?»«In effetti il sistema penitenziario cinese gode di una pessima fama.»«Qualcuno
tenta di ammazzarci ed è lei a finire dietro le sbarre?»«Per le autorità cinesi, Keira è colpevole. Andremo a perorare la sua causa nelle ambasciate, faremo tutto il possibile. Avrà il mio
pieno sostegno.»«Crede davvero che le ambasciate si lasceranno coinvolgere, rischiando di
compromettere gli interessi economici dei loro Paesi per farla liberare?»Walter tornò alla
finestra. «Temo che né il suo dolore, né quello di Keira suscitino grande interesse. Bisognerà
armarsi di tanta pazienza e sperare che Keira sopporti al meglio la condanna. Mi dispiace
davvero, Adrian, so quanto sia difficile questa situazione, ma… Cosa diavolo sta facendo con
quella flebo?»«Me ne vado. Devo raggiungere la prigione di Garther, devo farle sapere che
mi batterò per la sua liberazione.»Walter si precipitò su di me e mi bloccò entrambe le braccia. Dovetti arrendermi: ero ancora troppo debole per lottare.
«Mi ascolti bene, Adrian! Quando è arrivato qui non aveva più difese immunitarie,
l’infezione peggiorava di ora in ora. Ha delirato per giorni, con attacchi di febbre che ogni
volta facevano temere per la sua vita. I medici hanno dovuto indurle un coma farmacologico,
per salvaguardare l’attività cerebrale. Sono rimasto accanto al suo letto, alternandomi nella
veglia con la deliziosa zia Elena e con sua madre, che è invecchiata di dieci anni in dieci
giorni: la smetta con i colpi di testa, si comporti da adulto!»«Va bene, Walter, ho capito. Adesso però mi lasci andare.»«Se vedo la sua mano avvicinarsi a quel catetere, mi troverò
costretto a darle una sberla. La avviso!»«Le prometto di stare tranquillo.»«Me lo auguro. I
suoi deliri mi hanno messo a dura prova.»«Non ha idea di quanto fossero strani i miei
sogni.»«Mi creda, fra venire a controllare come andava la febbre e i pasti immondi al bar, ho
avuto il piacere di ascoltare non pochi dei suoi vaneggiamenti. Unico conforto in questo inferno, i dolci che mi portava la sua deliziosa zia Elena.»«Mi scusi, Walter, ma cos’è questa
novità con Elena?»«Non so di cosa stia parlando.»«Da quando in qua è “deliziosa”?»«Avrò
pure il diritto di trovare sua zia deliziosa, o no? Ha un senso dell’umorismo irresistibile, cucina
in modo divino, la sua risata e la sua conversazione sono affascinanti: non vedo quale sia il
problema!»«Ha vent’anni più di lei…»«Ah, complimenti, che mentalità aperta. Non la credevo
così retrogrado! Keira ha dieci anni meno di lei, ma in questo caso non c’è nulla da ridire, o
sbaglio? Lei è ingiusto, ecco cos’è!»«Non mi starà mica confessando che il fascino di mia zia
ha colpito ancora? E che fine ha fatto Miss Jenkins?»«Con Miss Jenkins ci limitiamo ancora a
parlare dei rispettivi veterinari: ammetterà che non è proprio il massimo della sensualità!»«Ah,
perché, con mia zia… c’è sensualità? Oddio no, non mi risponda, non voglio saperlo!»«E lei
non mi metta in bocca cose che non ho detto! Sua zia e io parliamo di tutto, divertendoci. Non
può certo rimproverarci se ci rilassiamo un po’, dopo le preoccupazioni che ci ha dato.
Sarebbe davvero il colmo!»«Certo, certo, fate come preferite. Del resto, non sono affari che
mi riguardano…»«Mi fa piacere sentirglielo dire.»«Walter, ho una promessa da mantenere,
non posso restare con le mani in mano. Devo andare da Keira in Cina e devo riportarla nella
valle dell’Omo. Non avrei mai dovuto trascinarla via da lì!»«Cominci a rimettersi in forze e poi
ci penseremo. I medici saranno qui a breve; cerchi di riposarsi, ho alcune commissioni da
sbrigare.»«Walter?»«Sì?»«Cosa dicevo nel delirio?»«Ha nominato Keira 1763 volte, una più,
una meno. In compenso ha chiamato me solo tre volte, il che è a dir poco offensivo. Poi, più
che altro, pronunciava frasi incoerenti. Fra una crisi convulsiva e l’altra capitava che aprisse
gli occhi, con lo sguardo perso nel vuoto: era terribile! Poi ricadeva
nell’incoscienza.»Un’infermiera entrò in camera. Walter si sentì sollevato.
«Finalmente si è svegliato» disse la donna cambiando la flebo.
Mi infilò un termometro in bocca, mi avvolse un misuratore di pressione intorno al braccio
e annotò su un foglio i valori rilevati.
«I medici passeranno fra poco» mi informò l’infermiera.
Il suo viso e il fisico corpulento mi ricordavano qualcuno. Quando uscì dalla stanza
ancheggiando leggermente, mi parve di riconoscere la passeggera di una corriera diretta
verso Garther. Un addetto alle pulizie impegnato nel corridoio passò davanti alla porta e
rivolse un gran sorriso a Walter e a me. Assomigliava come una goccia d’acqua al marito di
una ristoratrice incontrata in uno dei miei deliri febbrili.
«Ho avuto visite?»«Sua madre, sua zia e io. Perché me lo chiede?»«Niente. L’ho
sognata, Walter.»«Ma per carità! Le proibisco di raccontarlo in giro!»«Non faccia lo stupido.
Era in compagnia di un anziano professore che ho incontrato a Parigi, una conoscenza di
Keira; non so più dove sia il confine tra sogno e realtà.»«Non si preoccupi, vedrà che le cose
piano piano si faranno più chiare. Riguardo al professore, mi dispiace, non so cosa dirle. In
ogni caso non riferirò mezza parola a sua zia: potrebbe offendersi sapendo che in sogno lei
l’ha fatta diventare un vecchio.»«Colpa della febbre, immagino.»«Probabile, ma non credo
che le basterebbe come spiegazione… Adesso si riposi, abbiamo parlato troppo. Tornerò più
tardi. Vado a telefonare al consolato e a sollecitare un intervento per Keira, lo faccio tutti i
giorni a un orario fisso.»«Walter?»«Cosa c’è ancora?»«Grazie.»«Non c’è di che.»Walter uscì
dalla stanza e io cercai di alzarmi. Avevo le gambe malferme, ma appoggiandomi prima alla
spalliera della poltrona vicino al letto, poi al tavolino con le rotelle e infine al calorifero, riuscii
a raggiungere la finestra.
Il mio amico aveva ragione: il panorama era meraviglioso. L’ospedale, costruito a ridosso
della collina, sovrastava la baia. In lontananza si scorgeva il Pireo. L’avevo visto tante volte,
quel porto, senza mai guardarlo davvero. La felicità rende distratti. Ma oggi, dalla finestra
della stanza 307 dell’ospedale di Atene, lo osservo con occhi diversi.
In basso, sulla strada, vedo Walter entrare in una cabina telefonica. Certo, sta chiamando
il consolato.
Nonostante i suoi modi maldestri, è una persona straordinaria. Sono davvero fortunato ad
averlo come amico.
Parigi, Ile Saint-Louis
Ivory si alzò e rispose al telefono.
«Ci sono notizie?»«Una buona e una cattiva.»«Cominci dalla seconda.»«Siete tutti
uguali.»«In che senso?»«Con questa mania di scegliere la brutta notizia per prima. Comincer da quella buona, altrimenti l’altra non avrebbe senso! Stamattina è scesa la febbre e si è
svegliato.»«In effetti è una splendida notizia, ne sono felice. Mi sento liberato da un peso
enorme.»«E soprattutto può rimettersi a fare piani per il futuro… senza Adrian, ogni speranza
di veder continuare le sue ricerche sarebbe svanita, o sbaglio?»«Ero davvero preoccupato
per la sua salute. Crede forse che mi sarei arrischiato a venire a trovarlo?»«Non so se ha
fatto bene. Ho paura che abbiamo parlato un po’ troppo vicino al suo letto: a quanto pare, ha
colto alcuni brandelli della nostra conversazione.»«Se ne ricorda?» chiese Ivory.
«In modo impreciso. L’ho convinto che delirava.»«Che leggerezza imperdonabile!»«Voleva vederlo senza essere visto, e poi i medici erano certissimi che non fosse cosciente.»«La medicina è una scienza ancora approssimativa. E’ sicuro che non sospetti
nulla?»«Stia tranquillo, ha in mente ben altro.»«E’ questa la cattiva notizia?»«No, mi allarma
di più la sua ferma intenzione di andare in Cina. Le avevo detto che non sarebbe mai rimasto
con le mani in mano per diciotto mesi ad aspettare Keira. Preferirà trascorrerli sotto la finestra
della sua cella. Finché lei sarà in prigione, la liberazione sarà il suo chiodo fisso. Non appena
avrà il permesso di uscire, volerà a Pechino.»«Non otterrà mai il visto.»«Se fosse necessario,
andrebbe a Garther attraversando il Butan a piedi.»«Deve riprendere le sue ricerche, non
posso aspettare diciotto mesi!»«Adrian mi ha detto lo stesso riguardo alla donna che ama.
Mio caro Ivory, temo che dovrà portare pazienza, proprio come lui.»«Diciotto mesi assumono
un valore completamente diverso alla mia età: non posso mettere la firma sul fatto di avere un
tempo così lungo davanti a me.»«Ma si figuri, è in ottima forma. E poi la vita è imprevedibile»
continuò Walter. «Uscendo da questa cabina, potrei essere investito da un autobus.»«Lo trattenga, costi quel che costi! Lo convinca a non agire, almeno per i prossimi giorni. Ma soprattutto non gli permetta di entrare in contatto con un consolato, né tanto meno con le autorità
cinesi.»«Perché?»«Perché in questa partita ci vuole diplomazia, e non si può certo dire che
sia il suo forte.»«Posso sapere cos’ha in mente?»«Negli scacchi si chiama arrocco; la ragguaglier fra un giorno o due. Arrivederci, Walter, e faccia attenzione quando attraversa la
strada!»Dopo aver riagganciato, Walter uscì dalla cabina e andò a sgranchirsi le gambe.
Londra, Saint James Square
Il taxi nero si fermò davanti all’elegante facciata vittoriana di una residenza privata. Ivory
scese dall’auto, pagò il conducente, prese la valigetta e attese che la vettura si allontanasse.
Tirò una catenella che pendeva sul lato destro di un portone in ferro battuto. Si udì il trillo di
un campanello, poi un rumore di passi e infine un maggiordomo aprì la porta. Ivory gli consegn un biglietto da visita su cui era scritto il suo nome.
«Mi farebbe la cortesia di avvertire il suo datore di lavoro che gradirei essere ricevuto? Si
tratta di una questione piuttosto urgente.»Il maggiordomo si disse dispiaciuto, ma il signore
non si trovava in città e non era neppure raggiungibile.
«Non so se Sir Ashton sia nella sua residenza del Kent, nella tenuta di caccia o da una
delle sue amanti e, a dire il vero, non me ne importa nulla. Quello che so è che se dovessi andarmene senza averlo incontrato, il signore, come lo chiama lei, potrebbe serbarle rancore
per molto tempo. Pertanto la esorto a contattarlo; farò il giro del vostro prestigioso isolato e,
quando tornerò a suonare a questa porta, mi comunicherà l’indirizzo a cui Sir Ashton si farà
trovare.»Ivory scese i pochi gradini che portavano in strada e andò a fare una passeggiata,
con la valigetta in mano. Dieci minuti dopo, mentre indugiava davanti ai cancelli di una
piazza, una lussuosa berlina si accostò al marciapiedi. Un autista scese dall’auto e gli aprì la
portiera: aveva l’incarico di condurlo in una località a due ore da Londra.
La campagna inglese era bella come nei più antichi ricordi di Ivory; non così vasta o verdeggiante come i pascoli della sua terra natale, la Nuova Zelanda, ma il paesaggio che sfilava davanti ai suoi occhi era davvero piacevole.
Comodamente seduto dietro, Ivory approfittò del viaggio per riposare un po’. Era quasi
mezzogiorno quando lo stridio degli pneumatici sulla ghiaia lo strappò dalle sue fantasticherie. L’auto percorreva un maestoso viale costeggiato da siepi di eucalipto potate alla perfezione e si fermò davanti a un ingresso con colonne ricoperte di rose rampicanti. Un domestico lo condusse attraverso la dimora, fino al salottino in cui lo attendeva il padrone di casa.
«Cognac, bourbon, gin?»«Un bicchier d’acqua, grazie. Buongiorno, Sir Ashton.»«Sono
vent’anni che non ci vediamo?»«Venticinque, e non mi dica che non sono cambiato!
Guardiamo in faccia la realtà: siamo invecchiati entrambi.»«Immagino non sia questo il
motivo che l’ha condotta fin qui.»«Ma certo che sì! Quanto tempo abbiamo?»«Me lo dica lei,
visto che si è autoinvitato.»«Parlavo del tempo che ci rimane a questo mondo. Alla nostra età,
quanto può essere, dieci anni al massimo?»«Chi può saperlo? In ogni caso preferisco non
pensarci.»«Che tenuta magnifica» continuò Ivory guardando il parco che si estendeva dietro
le grandi finestre. «A quanto pare, la residenza del Kent non ha nulla da invidiare a
questa.»«Farò i complimenti agli architetti da parte sua. E ora che ne dice di passare al
dunque?»«Il problema, con tutte queste proprietà, è che non si possono portare nella tomba.
Tante ricchezze accumulate a prezzo di sforzi immani e di sacrifici, che si rivelano vani
nell’ora finale! Neppure parcheggiando la sua bella Jaguar davanti al cimitero… Ah, detto
inter nos, è una meraviglia, ho apprezzato molto gli interni in cuoio e radica.»«Tutte queste
ricchezze, mio caro, saranno trasmesse alle generazioni successive, così come i nostri padri
le hanno lasciate a noi.»«Nel suo caso una gran bell’eredità, non c’è dubbio.»«Gradisco la
sua compagnia, Ivory, ma le mie giornate sono molto piene: vuole dirmi perché è venuto
qui?»«Guardi, i tempi sono cambiati, ci riflettevo proprio ieri leggendo i giornali. I gran tesorieri si ritrovano dietro le sbarre e marciscono sino alla fine dei loro giorni in minuscole celle.
Addio palazzi e tenute lussuose! Nel frattempo gli eredi scialacquano tutto, tentando di cambiar nome per lavare via l’onta lasciata in eredità dai genitori. Il problema è che nessuno può
più ritenersi al sicuro, l’impunità è diventata un lusso che non si può comprare, perfino per i
ricchissimi e i potentissimi. Le teste cadono una dopo l’altra. Lei lo sa meglio di me, i politici
non hanno più idee e, quando ne hanno, non sono realizzabili. E allora cosa c’è di meglio, per
mascherare la carenza di veri progetti sociali, che alimentare il risentimento popolare?
L’estrema ricchezza di pochi è responsabile della povertà di tanti, ormai lo sanno
tutti.»«Spero non sia venuto a disturbarmi in casa mia per tenere un comizio rivoluzionario e
comunicarmi la sua sete di giustizia sociale.»«Comizio rivoluzionario? Lei si sbaglia, non c’è
nessuno più conservatore di me. Il termine giustizia, viceversa, mi onora.»«Sto cominciando
a seccarmi sul serio.»«Ho un accordo da proporle, qualcosa di equo. Le offro la chiave della
cella in cui lei potrebbe finire i suoi giorni se inviassi al “Daily News” o all‘“Observer” il dossier
che ho su di lei, in cambio della libertà di una giovane archeologa. Adesso ha capito di cosa
voglio parlare?»«Quale dossier? E con quale diritto viene a minacciarmi in casa
mia?»«Millantato credito, interessi privati in atti d’ufficio, finanziamenti occulti alla Camera dei
Comuni, conflitti di interesse nelle sue varie società, abuso di beni sociali, evasione fiscale: lei
è un fenomeno, vecchio mio, non si ferma davanti a nulla, neppure ordinare l’omicidio di uno
scienziato le crea problemi di coscienza. Che genere di veleno ha usato il suo sicario per liberarla di Adrian, e come gliel’ha somministrato? In una bevanda consumata all’aeroporto, nel
bicchiere che gli hanno servito prima del decollo? O si tratta di un veleno di contatto? Una
leggera puntura durante i controlli di sicurezza? Ora può dirmelo, sono curioso di
saperlo.»«Lei è ridicolo. Un vecchio assurdo e patetico.»«Embolia polmonare a bordo di un
aereo diretto in Cina. Un titolo un po’ troppo lungo per un giallo, ma soprattutto il delitto è
tutt’altro che perfetto!»«Le sue accuse gratuite e infondate non mi turbano minimamente. Se
ne vada subito, prima che la faccia allontanare dai miei uomini!»«Ai giorni nostri, la stampa
non ha più il tempo di verificare le sue informazioni, il rigore editoriale di una volta viene sacrificato sull’altare dei titoloni. Non si può biasimarli, la concorrenza è spietata nell’epoca di In-
ternet. Un lord come lei, messo alla berlina: le vendite saliranno alle stelle! Non si illuda che,
pervia dell’età, non vedrà la conclusione dei lavori di una commissione d’inchiesta. Il potere
reale non è più nelle aule di tribunale o nelle assemblee: sono i giornali ad alimentare i processi, fornire le prove, far testimoniare le vittime; ai giudici non rimane altro che pronunciare
la sentenza. Quanto agli appoggi e alle amicizie, non si può più contare su nessuno. Nessuna
autorità correrebbe il rischio di compromettersi, soprattutto per uno dei suoi membri. Troppa
paura della cancrena. La giustizia ormai è indipendente: non risiede in questo principio tutta
la nobiltà delle nostre democrazie? Guardi quel finanziere americano responsabile della più
grande truffa del secolo: in due, tre mesi lo hanno sistemato per bene.»«Cosa vuole da me,
maledizione?»«Ma allora non mi ascolta. Glielo ripeterò ancora una volta: usi il suo potere
per far liberare la giovane archeologa. Da parte mia, avrò la bontà di non rivelare ai nostri
amici cos’ha combinato a lei e al suo amico. Se comunicassi loro che, non contento di aver
cercato di assassinarla, l’ha fatta imprigionare, verrebbe buttato fuori dal consiglio e sostituito
con qualcuno di più rispettabile.»«Lei è davvero ridicolo e le sue minacce non mi intimoriscono.»«Dunque non mi resta altro che salutarla, Sir Ashton. Posso approfittare ancora della
sua generosità? L’autista può riaccompagnarmi almeno fino a una stazione? Non è che abbia
problemi a camminare, è solo che se mi capitasse qualcosa lungo il percorso, le conseguenze sarebbero alquanto sgradevoli.»«La mia auto è a sua disposizione. Si faccia portare dove
le pare, ma se ne vada da qui!»«E’ molto generoso da parte sua, il che mi spinge a esserlo
altrettanto. La lascio riflettere fino a stasera; io alloggio al Dorchester, non esiti a chiamarmi. I
documenti affidati questa mattina al mio incaricato saranno portati a destinazione solo
domani, a meno che, ovviamente, io non mi faccia vivo prima. Le assicuro che, in confronto
alle possibili ripercussioni, la mia richiesta è più che ragionevole.»«Se crede di potermi ricattare in questo modo, commette un grave errore!»«Chi ha parlato di ricatto? Non ricavo alcun
vantaggio personale da questo piccolo scambio. Bella giornata, vero? Se la goda.»Ivory
prese la sua valigetta e riattraversò da solo il corridoio che conduceva alla porta d’ingresso.
L’autista fumava vicino al roseto; quando vide il suo passeggero, si precipitò verso la berlina
e aprì la portiera.
«Finisca pure la sua sigaretta, amico mio» gli disse Ivory salutandolo. «Non ho
fretta.»Dalla finestra del suo studio, Sir Ashton guardò Ivory salire sul sedile posteriore della
Jaguar e imprecò mentre l’auto si allontanava lungo il viale. Una porta celata nella biblioteca
si aprì e un uomo entrò nella stanza.
«Non ho parole, le confesso che non mi aspettavo un gesto del genere.»«Quel bastardo è
venuto a minacciarmi a casa mia: ma chi si crede di essere?»L’ospite di Sir Ashton non rispose.
«Be’? Perché fa quella faccia? Adesso non ci si metterà anche lei!» tuonò Sir Ashton. «Se
quel vecchio esaltato oserà lanciare la benché minima accusa, un plotone di avvocati se lo
mangerà vivo: io non ho nulla da rimproverarmi. Lei mi crede, vero?»L’ospite di Sir Ashton
prese una caraffa di cristallo e si servì una dose abbondante di porto, che bevve tutto d’un fiato.
«Vuol dirmi qualcosa, sì o no?» si alterò Sir Ashton.
«Preferirei non esprimermi, così la nostra amicizia ne risentirebbe solo per pochi giorni,
poche settimane al massimo.»«Si levi dai piedi, Vackeers, fuori di qui, lei e la sua arroganza.»«Le assicuro che non era mia intenzione sembrare arrogante. Mi dispiace davvero per
ciò che le sta capitando; fossi in lei, non sottovaluterei Ivory. Come ha detto lei stesso, è un
po’ pazzo, il che lo rende ancora più pericoloso.»Vackeers se ne andò senza aggiungere altro.
Londra, Hotel Dorchester, sera
Squillò il telefono. Ivory aprì gli occhi e controllò l’ora sulla pendola appoggiata al caminetto. La conversazione fu breve. Attese alcuni istanti, poi compose un numero sul cellulare.
«Volevo ringraziarla. Lui ha chiamato, ho appena riagganciato; il suo aiuto è stato
prezioso.»«Non ho fatto granché.»«E invece sì! Che ne direbbe di una partita a scacchi?
Giovedì prossimo a Amsterdam, a casa sua. D’accordo?»Dopo aver concluso la comunicazione con Vackeers, Ivory fece un’ultima chiamata. Walter ascoltò con attenzione le istruzioni impartite da Ivory e si complimentò con lui per quel colpo da maestro.
«Non si faccia troppe illusioni, Walter, i nostri problemi non sono finiti. Anche se riuscissimo a farla rientrare, Keira non sarebbe comunque fuori pericolo. Sir Ashton non si arrender; l’ho strapazzato ben bene, e per di più sul suo terreno, ma non avevo scelta. Si fidi
della mia esperienza: non appena ne avrà l’occasione, si vendicherà. Mi raccomando, che
questo resti fra noi: per il momento è inutile far preoccupare Adrian. E meglio che non sappia
perché è finito in ospedale.»«E riguardo a Keira, cosa devo raccontargli?»«Si inventi qualcosa» disse Ivory prima di riagganciare.
Atene il giorno dopo
Zia Elena e mia madre avevano trascorso la mattinata al mio capezzale; come ogni giorno
da quando ero stato ricoverato, avevano preso il primo traghetto che partiva da Hydra alle
sette del mattino. Arrivate al Pireo alle otto, avevano fatto una corsa per salire sull’autobus
che mezz’ora dopo le avrebbe lasciate davanti all’ospedale. Dopo una breve colazione al bar,
erano entrate nella mia stanza cariche di viveri, fiori e auguri di pronta guarigione da parte degli abitanti del villaggio. E come ogni giorno, sarebbero andate via nel tardo pomeriggio,
avrebbero ripreso l’autobus e, una volta al Pireo, si sarebbero imbarcate sull’ultimo traghetto
per rientrare a casa. Da quando mi ero ammalato, zia Elena non aveva più aperto il negozio e
mia madre trascorreva il tempo a cucinare con amore e speranza piatti per allietare le infermiere che vegliavano sulla salute di suo figlio.
Era già mezzogiorno e le loro chiacchiere incessanti mi sfinivano anche più dei postumi di
quella brutta polmonite.
Tuttavia, quando si sentì bussare alla porta, tacquero entrambe. Non mi era mai capitato
di assistere a quel fenomeno, decisamente strano, come se le cicale avessero smesso
all’improvviso di cantare nel bel mezzo di una giornata di sole. Entrando, Walter notò la mia
espressione attonita.
«Ehi, che succede qui?» chiese.
«No, niente» risposi.
«Come niente? Guardi che a me non la dà a bere!»«Ma si figuri, stavamo chiacchierando,
poi è entrato lei, tutto qui.»«Di cosa parlavate?»«Stavo dicendo che questa malattia potrebbe
avere conseguenze inaspettate» rispose mia madre.
«Ah, sì?» chiese Walter preoccupato. «Cos’hanno detto i medici?»«Oh, secondo loro potrebbe uscire la settimana prossima. Io invece sono convinta che a mio figlio abbia dato di
volta il cervello. Ecco qual è la mia diagnosi! Forse sarebbe il caso che andasse a bere un
caffè con mia sorella, caro Walter, mentre io dico due o tre cosette a Adrian.»«Ne sarei lieto,
prima però ho bisogno di parlare con lui; non se la prenda, ma è un discorso da uomo a
uomo.»«Visto che le donne non sono più le benvenute» disse zia Elena alzandosi,
«andiamocene!»Trascinò via mia madre e ci lasciò soli.
«Ho delle splendide notizie» esordì sedendosi sul bordo del letto.
«Cominci lo stesso da quella brutta.»«Abbiamo bisogno di un passaporto nel giro di sei
giorni ed è impossibile ottenerlo in assenza di Keira!»«Non capisco di cosa stia parlando.»«Non avevo dubbi, ma è stato lei a chiedermi di iniziare da quella brutta. Questo continuo pessimismo è davvero irritante! Ora mi ascolti, perché sono serio quando le dico che ho
una bella notizia per lei. Le avevo parlato dei miei buoni agganci nel consiglio di amministrazione della Royal Academy?»Walter mi spiegò che la Royal Academy aveva avviato programmi di ricerca e di scambio con alcune grandi università cinesi. Non lo sapevo. Inoltre,
viaggio dopo viaggio, si erano instaurati alcuni legami a vari livelli della gerarchia diplomatica.
Mi confidò poi di essere riuscito, grazie alle sue conoscenze, a mettere in moto un meccanismo discreto ed efficiente, le cui componenti non avevano mai smesso di funzionare… Da
una studentessa cinese in procinto di finire il dottorato alla Royal Academy, e il cui padre era
un giudice ben visto dalle autorità, ad alcuni diplomatici che lavoravano al servizio rilascio
visti di Sua Maestà, passando per la Turchia, dove un console che aveva trascorso gran
parte della sua carriera a Pechino conosceva ancora alcuni personaggi influenti, gli ingranaggi avevano continuato a ticchettare, di paese in paese, di continente in continente, fino
all’ultimo scatto, nella provincia del Sichuan. E le autorità locali, decisamente ammorbidite, si
erano poi chieste se l’avvocato che aveva difeso una giovane occidentale non avesse tralasciato qualcosa durante le udienze preliminari del processo. Le barriere linguistiche tra la cliente e l’avvocato potevano forse spiegare per quale motivo questi avesse omesso di dire al
giudice incaricato del caso che la cittadina straniera condannata per mancanza di documenti
aveva in realtà un passaporto in perfetta regola. Essendo stata quindi accertata la buona fede
e con l’aiuto di una promozione al giudice, Keira avrebbe ottenuto la grazia, a patto di
presentare in tempi brevi la nuova prova alla corte di Chengdu. Poi non sarebbe rimasto altro
che andare a prenderla per condurla fuori dai confini della Repubblica popolare.
«Dice sul serio?» chiesi alzandomi di colpo e prendendo Walter fra le braccia.
«Ho l’aria di uno che scherza? Ma se non faccio altro che prodigarmi per il suo bene, e
per quello di Keira!»Ero così felice che lo trascinai in una danza sfrenata. Stavamo ancora
ballando in mezzo alla camera d’ospedale quando entrò mia madre. Ci guardò entrambi e
chiuse la porta.
La sentimmo trarre un lungo sospiro nel corridoio, mentre zia Elena diceva: «Non vorrai
ricominciare, eh!».
Mi girava un po’ la testa e dovetti tornare a letto.
«Quando sarà libera?»«Gliel’ho già detto. Il magistrato cinese accetta di liberare Keira a
patto che presentiamo il suo passaporto nel giro di sei giorni. Poiché il prezioso lasciapassare
si trova sul fondo di un fiume, ce ne servirebbe uno nuovo di zecca. In assenza
dell’interessata, e con un preavviso così breve, è un’impresa quasi impossibile. Ora le è più
chiaro il problema?»«Abbiamo solo sei giorni?»«Meno quello che ci serve per raggiungere il
tribunale di Pechino, ne rimangono soltanto cinque. Ci vorrebbe un miracolo per riuscirci.»«Il
passaporto dev’essere per forza nuovo?»«In caso non se ne fosse accorto, non sono un
doganiere, ma credo di sì. Perché?»«Perché Keira ha la doppia nazionalità, francese e
inglese. Ricordo benissimo che siamo entrati in Cina con il suo passaporto britannico: su
quello sono stati apposti i nostri visti, ero andato io a ritirarli in agenzia. Keira lo teneva
sempre con sé. Quando abbiamo trovato il trasmettitore, abbiamo capovolto la sua borsa e il
passaporto francese non c’era, ne sono sicuro.»«Ottima notizia, ma dov’è? Non per essere
pedante, ma abbiamo davvero pochissimo tempo per recuperarlo.»«Non ne ho idea.»«Be’,
questo è già un progresso. Farò un paio di telefonate prima di tornare da lei. Sua zia e sua
madre aspettano fuori e non vorrei sembrare maleducato.»Walter uscì dalla stanza e subito
dopo entrarono mia madre e zia Elena. Mamma si accomodò in poltrona, accese la televisione appesa al muro di fronte al mio letto e non mi rivolse la parola, il che fece sorridere zia
Elena.
«Walter è un tipo affascinante, vero?» osservò mia zia prendendo posto in fondo al letto.
Le rivolsi uno sguardo eloquente. Forse non era il momento più adatto per affrontare
quell’argomento, così, davanti a mamma.
«È un bell’uomo, non trovi?» continuò, ignorando le mie suppliche.
Senza spostare gli occhi dallo schermo, mamma rispose al posto mio.
«E’ anche troppo giovane, se vuoi il mio parere… Ma fate pure come se non ci fossi!
Dopo una conversazione fra uomini, niente di più naturale di un téte-à-tète fra zia e nipote;
tanto le madri non contano nulla! Quando il programma sarà finito, andrò a fare due chiacchiere con le infermiere. Chissà, magari loro saranno così gentili da darmi notizie di mio
figlio.»«Capito perché si parla di tragedia greca?» disse Elena lanciando un’occhiata in tralice
a mia madre, che continuava a darci le spalle, incollata alla televisione a cui aveva però tolto
il volume per non perdersi neanche una parola della nostra discussione. Il canale trasmetteva
un documentario sulle tribù nomadi degli altopiani tibetani.
«Che noia, sarà la quinta volta che lo mandano in onda» sospirò mia madre spegnendo il
televisore. «Ehi, perché fai quella faccia?»«C’è una bambina in quel documentario?»«Non lo
so. Perché?»Preferii non rispondere. Walter bussò alla porta. Elena si offrì di accompagnarlo
al bar, in modo che sua sorella potesse godersi il figlio. Walter non se lo fece ripetere due
volte.
«Perché possa godermi mio figlio… sì, come no!» esclamò la mamma non appena la
porta si richiuse. «Dovresti vederla: da quando ti sei ammalato e il tuo amico è arrivato qui,
sembra una ragazzina. E’ ridicolo!»«L’amore non ha età, l’importante è che sia felice.»«Non è
l’amore a renderla felice, ma l’idea che qualcuno la corteggi.»«Tu, piuttosto, hai mai pensato
di rifarti una vita? Sei in lutto da troppo tempo! Guarda che far entrare un altro uomo in casa
non significa scacciare papà dal tuo cuore.»«Proprio tu me lo vieni a dire? Ci sarà sempre un
solo uomo nella mia casa, e quell’uomo è tuo padre. Anche se riposa al cimitero, continua a
far parte della mia vita; gli parlo tutti i giorni appena mi sveglio, gli parlo in cucina, sulla terrazza quando mi prendo cura dei fiori, sul sentiero verso il villaggio, e anche la sera quando
vado a dormire. Il fatto che tuo padre non ci sia più non significa che sia sola. Per Elena è diverso, lei non ha mai avuto la fortuna d’incontrare un uomo come mio marito.»«Motivo in più
per lasciarla libera di farsi corteggiare, non credi?»«Non mi oppongo certo alla felicità di mia
sorella, ma preferirei che non la trovasse insieme a un amico di mio figlio. So di essere un po’
vecchio stampo, ma ho il diritto di avere i miei difetti. Ci mancava solo che si invaghisse
dell’amico di Walter che è venuto a trovarti.»Mi sollevai sul letto. Mia madre ne approfittò
subito per sistemare i cuscini.
«Quale amico?»«Non lo so, l’ho visto nel corridoio qualche giorno fa, non ti eri ancora risvegliato. Non ho avuto modo di salutarlo, se n’è andato mentre arrivavo. In ogni caso era un
signore distinto, con la carnagione ambrata, l’ho trovato molto elegante. E poi, anziché avere
vent’anni in meno di tua zia, ne aveva altrettanti in più.»«E non hai idea di chi fosse?»«Ci
siamo a malapena incrociati. Adesso riposati e rimettiti in forze. Cambiamo argomento, sento
i due colombi tubare in corridoio: a momenti saranno qui.»Zia Elena era venuta a recuperare
mia madre: dovevano sbrigarsi, se non volevano perdere l’ultimo traghetto per Hydra.
Walter le riaccompagnò agli ascensori e pochi istanti dopo fu di nuovo da me.
«Sua zia mi ha raccontato due o tre episodi della sua infanzia: è una donna esilarante!»«Se lo dice lei.»«Qualcosa la preoccupa, Adrian?»«Mia madre mi ha raccontato di averla
vista alcuni giorni fa in compagnia di un amico che sarebbe venuto a trovarmi. Chi era?»«Sua
madre si sbaglia, dev’essersi trattato di uno sconosciuto che chiedeva informazioni. Aspetti,
ora ricordo, è proprio così: un signore anziano che cercava una parente, l’ho indirizzato alla
postazione delle infermiere.»«Credo di sapere come mettere le mani sul passaporto di
Keira.»«Ah, ecco un argomento decisamente più interessante! Sono tutt’orecchi.»«Jeanne, la
sorella di Keira, potrebbe aiutarci.»«Sa come contattarla?»«Sì, cioè no» risposi piuttosto contrariato.
«Sì o no?»«Non ho mai trovato il coraggio di chiamarla per dirle dell’incidente.»«Non ha
dato notizie di Keira a sua sorella, neanche una telefonata in tre mesi?»«Dirle per telefono
della morte di Keira era impossibile, e recarmi a Parigi di persona al di là delle mie
forze.»«Che vigliacco! E’ terribile, riesce a immaginare quanto sarà preoccupata? Ma com’è
possibile che non si sia mai fatta viva?»«Capitava che Keira e Jeanne non si sentissero per
lunghi periodi.»«Be’, la invito a contattarla il più presto possibile, e con questo intendo oggi
stesso.»«No, devo vederla di persona.»«Non sia ridicolo, lei è inchiodato a un letto
d’ospedale e non abbiamo tempo da perdere» ribatté Walter porgendomi la cornetta del telefono. «Veda di arrangiarsi con la sua coscienza e faccia subito quella telefonata.»Riuscii
bene o male a venire a patti con la mia coscienza. Non appena Walter fu uscito dalla mia
stanza, trovai il numero del Museo di Quai Branly. Jeanne era in riunione, non poteva essere
disturbata. Ricomposi ancora e ancora il numero, finché la centralinista mi fece notare che
era inutile assillarla. Intuii che Jeanne non aveva fretta di parlarmi, che mi considerava complice del silenzio di Keira e che ce l’aveva anche con me per non averle dato notizie. Riprovai
un’ultima volta e spiegai alla receptionist che dovevo assolutamente parlare con Jeanne, era
una questione di vita o di morte che riguardava sua sorella.
«E’ successo qualcosa a Keira?» chiese Jeanne con voce incerta e preoccupata.
«E’ successo qualcosa a tutti e due» le risposi con il cuore gonfio. «Ho bisogno del suo
aiuto, Jeanne, adesso.»Le raccontai la nostra vicenda, minimizzai l’episodio tragico del Fiume
Giallo, le parlai dell’incidente senza indugiare sulle circostanze in cui era avvenuto. Le assicurai che Keira era fuori pericolo, le spiegai che a causa di un banale problema di documenti era stata arrestata e veniva trattenuta in Cina. Non pronunciai la parola prigione, sentivo che a ogni mia frase Jeanne incassava il colpo; più volte trattenne i singhiozzi e più volte
dovetti a mia volta trattenere l’emozione. Inutile, mentire non è il mio forte. Jeanne capì subito
che la situazione era ben più preoccupante di quanto volessi rivelarle. Mi fece giurare in più
occasioni che la sua sorellina era in buona salute. Le promisi di riportarla a casa sana e
salva, e le spiegai che, per farlo, avevo bisogno del suo passaporto il prima possibile. Jeanne
non sapeva dove fosse, ma avrebbe lasciato subito l’ufficio e, se necessario, avrebbe ribaltato l’appartamento da cima a fondo; mi avrebbe richiamato al più presto.
Dopo aver riagganciato, mi assalì la malinconia. Parlare di nuovo con Jeanne aveva ravvivato il senso di mancanza, il peso dell’assenza di Keira.
Jeanne non aveva mai attraversato Parigi così in fretta. Bruciò tre semafori sul lungosenna, evitò per un pelo un camioncino, sbandò sul Pont Alexandre III, riuscendo all’ultimo
a riprendere il controllo della sua piccola auto in mezzo a un coro di clacson infuriati. Imboccò
tutte le corsie preferenziali, salì su un marciapiedi in un viale troppo intasato, rischiò di investire un ciclista, ma alla fine arrivò miracolosamente illesa a casa sua.
Nell’atrio dell’edificio, bussò alla portineria e chiese a Madame Hereira di darle una mano.
La portinaia non aveva mai visto Jeanne in quello stato. L’ascensore era occupato da alcuni
fattorini al terzo piano; le due donne fecero le scale salendo i gradini quattro alla volta. Appena entrate nell’appartamento, Jeanne ordinò a Madame Hereira di passare da cima a
fondo il salone e la cucina, mentre lei si sarebbe occupata delle camere. Dovevano aprire tutti
gli armadi, vuotare i cassetti, frugare ogni angolo, e ritrovare il passaporto di Keira, ovunque
fosse.
Tempo un’ora, e avevano messo a soqquadro l’appartamento. I libri della biblioteca erano
disseminati sul pavimento e i vestiti sparpagliati nelle stanze; avevano ribaltato le poltrone e
perfino disfatto il letto. Jeanne stava ormai perdendo la speranza quando sentì Madame
Hereira urlare dall’ingresso. Corse subito da lei. La consolle che fungeva da scrivania era ricoperta da un indescrivibile caos di carte, ma la portinaia agitava vittoriosa il prezioso libretto
dalla copertina bordeaux. Jeanne la strinse fra le braccia e la baciò su entrambe le guance.
Quando Jeanne mi richiamò, ero solo in camera; Walter nel frattempo era già tornato in
albergo. Rimanemmo a lungo al telefono; la feci parlare di Keira, avevo bisogno che colmasse il vuoto della sua assenza raccontandomi qualche episodio della loro infanzia. Jeanne
mi accontentò, credo sentisse la sua mancanza tanto quanto me.
Promise di inviarmi il passaporto per corriere espresso. Le dettai il mio indirizzo,
all’ospedale di Atene, e solo a quel punto lei mi chiese come stavo.
Il giorno seguente, la visita dei medici durò più a lungo del solito. Il primario di Pneumologia si lambiccava ancora il cervello sul mio caso. Nessuno riusciva a spiegarsi come
un’infezione polmonare così virulenta avesse potuto manifestarsi senza alcun sintomo premonitore. In effetti, ero in perfetta salute quando ero salito a bordo di quell’aereo. Il medico mi
garantì che se la hostess non avesse avuto la presenza di spirito di avvertire il comandante di
bordo, e se quest’ultimo non avesse fatto dietrofront, probabilmente sarei morto prima di raggiungere Pechino. La sua équipe non riusciva a fornire una diagnosi precisa: non si trattava di
un virus e, in tutta la sua carriera, non aveva mai visto niente del genere. L’essenziale, disse
scrollando le spalle, era che avevo reagito bene alle cure. C’era mancato poco, ma ormai ero
fuori pericolo. Ancora pochi giorni di convalescenza, poi avrei potuto riprendere una vita normale. In settimana sarei stato dimesso. Era appena uscito dalla mia stanza quando arrivò il
passaporto di Keira. Aprii la busta che conteneva il prezioso documento e trovai un bigliettino
di Jeanne.
Me la riporti presto a casa! Conto su di lei, Keira è la miasola famiglia.
Jeanne
Piegai il biglietto e aprii il passaporto. Keira sembrava un po’ più giovane nella foto.
Mi stavo vestendo quando Walter entrò in camera, trovandomi in boxer e camicia. Mi
chiese cosa intendessi fare.
«Vado a prenderla, e non provi a dissuadermi, sarebbe fatica sprecata.»Non soltanto non
ci provò, anzi mi aiutò a evadere. Si era lamentato a sufficienza del fuggi fuggi generale
all’ora della siesta per non approfittarne ora che la situazione volgeva a nostro vantaggio. Rimase di guardia in corridoio mentre raccoglievo le mie cose e mi scortò agli ascensori, nel
caso fossimo stati sorpresi da qualcuno lungo il tragitto.
Passando davanti alla stanza accanto, incontrammo una bambina in piedi tutta sola sulla
porta. Indossava un pigiama a coccinelle e rivolse un saluto con la mano a Walter.
«Che ci fai qui, birbantella?» disse avvicinandosi a lei. «La tua mamma non è ancora arrivata?»Walter si voltò verso di me e capii che conosceva bene la mia piccola vicina di
stanza.
«Ogni tanto è venuta a trovarla» spiegò, facendole l’occhiolino.
Mi chinai per salutarla. Lei mi guardò con aria maliziosa e scoppiò a ridere. Aveva le
guance rosse come due mele.
In ascensore avevamo incrociato un barelliere, che però non ci aveva degnato di particolare attenzione. Quando le porte della cabina si aprirono sull’atrio, ci ritrovammo davanti a mia
madre e zia Elena. Mamma cominciò a strillare, chiedendomi cosa ci facessi in piedi. La presi
per il braccio e la supplicai di seguirmi fuori senza fare scenate. Se l’avessi invitata a ballare
un sirtaki, avrei avuto maggiori chance di convincerla.
«I medici gli hanno dato il permesso di fare una passeggiata» intervenne Walter, nel tentativo di rassicurare mia madre.
«E per fare una passeggiata, c’è bisogno di una sacca da viaggio? Già che ci siete,
perché non mi trovate un letto in Geriatria?» tuonò lei.
Si voltò verso due barellieri che passavano di lì e intuii subito le sue intenzioni: farmi riportare in stanza, se necessario con la forza.
Guardai Walter. Ci capimmo al volo. Mia madre si mise a sbraitare, noi ci lanciammo a
tutta velocità verso le porte dell’atrio e riuscimmo a varcarle prima che la sicurezza avesse reagito agli ordini di mamma, che strepitava perché mi riacchiappassero.
Non ero molto in forma. All’angolo della via sentii il petto bruciarmi e mi colse un violento
accesso di tosse. Facevo fatica a respirare, il cuore mi batteva all’impazzata e dovetti fermarmi per riprendere fiato. Walter si voltò e vide due agenti della sicurezza correre verso di
noi. La sua presenza di spirito rasentò la genialità. Si precipitò claudicando verso i due uomini
e dichiarò, con aria allarmata, di essere stato urtato con violenza da due tizi che poi erano
scappati nella via adiacente. Mentre gli agenti si precipitavano in quella direzione, Walter
chiamò un taxi e mi fece cenno di raggiungerlo.
Durante il tragitto non proferì parola. Mi preoccupai per il suo improvviso silenzio, di cui
non capivo il motivo.
La sua camera d’albergo divenne il quartier generale, dove avremmo preparato il mio
viaggio. Il letto era abbastanza grande per dormirci in due. Walter aveva messo un cuscino in
mezzo, per delimitare i rispettivi territori. Mentre io mi riposavo, lui passava le giornate al telefono; ogni tanto usciva, a prendere aria, diceva lui. Era quasi l’unica frase che si degnasse di
dirmi, mi rivolgeva appena la parola.
Non so per quale prodigio, ma ottenne dall’ambasciata cinese che mi rilasciassero un
visto nel giro di quarantott’ore. Lo ringraziai all’infinito.
Da quando eravamo evasi dall’ospedale, Walter non era più lo stesso.
Una sera, mentre cenavamo in stanza, accese il televisore senza rivolgermi nemmeno
una parola. A quel punto presi il telecomando e spensi l’apparecchio.
«Si può sapere cosa c’è?»Walter mi strappò il telecomando dalle mani e riaccese la tv.
Mi alzai, tolsi la spina dalla presa e mi piazzai davanti a lui.
«Se ho fatto qualcosa che l’ha disturbata, parliamone una volta per tutte.»Lui mi guardò a
lungo e, senza degnarmi di una risposta, andò a chiudersi in bagno. Bussai a lungo alla porta,
ma si rifiutò di aprire. Riapparve pochi minuti dopo con un pigiama a quadretti vecchio stile,
avvisandomi che, se avessi osato fare la minima ironia sulla sua tenuta notturna, avrei
dormito sul pianerottolo. Poi si infilò sotto le coperte e spense la luce senza nemmeno dire
buonanotte.
«Walter» lo chiamai nel buio, «che cos’ho fatto, cosa succede?»«Succede che, in qualche
caso, aiutarla è molto impegnativo.»Cadde di nuovo il silenzio e mi resi conto che non lo
avevo ringraziato abbastanza per tutto ciò che aveva fatto negli ultimi tempi. La mia ingratitudine doveva averlo ferito e me ne scusai. Walter rispose che non sapeva cosa farsene delle
mie belle parole. Ma se avessi trovato un modo, aggiunse, per chiedere perdono a mia madre
e alla mia adorabile zia per la nostra condotta inammissibile avrebbe gradito molto. Detto
questo, si voltò e tacque.
Riaccesi la luce e mi sollevai sul letto.
«Cosa c’è ancora?»«Lei ha davvero una cotta per zia Elena?»«E’ forse affar suo? Lei non
pensa che a Keira, si preoccupa solo della vostra storia, esistete voi due e basta. Quando
non si tratta delle vostre ricerche e dei vostri stupidi frammenti, è la sua salute; quando non è
più la sua salute, è la sua paleontologa e, ogni volta, da chi va a chiedere aiuto? Dal bravo
Walter. Walter di qui, Walter di là, però se tento di confidarmi con lei, mi manda a quel paese.
Ora non venga a dirmi che i miei problemi sentimentali le interessano, perché l’unica volta
che mi sono aperto con lei, mi ha preso in giro!»«Le giuro che non era mia intenzione.»«Be’,
non l’avevo capito! Ora si può dormire?»«No, finché non avremo finito questa discussione.»«Ma quale discussione!» si alterò Walter. «Sta parlando soltanto lei.»«Walter, ma lei è
davvero innamorato di mia zia?»«Sono irritato per averla contrariata aiutando lei a lasciare
l’ospedale in quel modo: le va bene come risposta?»Mi grattai il mento e riflettei per alcuni
istanti.
«Se facessi in modo di discolparla totalmente e indurre mia zia a perdonarla, lei smetterebbe di avercela con me?»«Lo faccia, e poi vedremo!»«Me ne occuperò domattina. Ha la mia
parola.»I lineamenti di Walter si distesero: mi concesse perfino un piccolo sorriso e si voltò
spegnendo la luce.
Cinque minuti dopo la riaccese e si sollevò di colpo sul letto.
«Perché non scusarsi stasera?»«Vuole che chiami zia Elena a quest’ora?»«Sono soltanto
le dieci. Io, per lei, ho ottenuto un visto per la Cina in due giorni; lei potrà pure ottenere il perdono di sua zia per me in una sera, o no?»Mi alzai e chiamai mia madre. Ascoltai le sue rimostranze per un quarto d’ora buono, senza poter ribattere in alcun modo. Quando fu a corto
di parole, le chiesi se, indipendentemente dalle circostanze, non sarebbe andata a cercare
mio padre in capo al mondo se lui fosse stato in pericolo. La sentii riflettere. Non c’era
bisogno di vederla per sapere che stava sorridendo. Mi augurò buon viaggio e mi pregò di
non attardarmi lungo la strada. Durante il mio soggiorno in Cina, avrebbe preparato alcuni piatti degni di questo nome per accogliere Keira al nostro ritorno.
Stava per riagganciare quando mi tornò in mente il motivo della telefonata, e le chiesi di
passarmi zia Elena.
Si era già ritirata nella camera degli ospiti, ma la supplicai di andare a chiamarla.
Zia Elena pensava che la nostra evasione fosse stata avventurosa e affascinante. Walter
era davvero un amico raro, pochi altri avrebbero corso un rischio del genere. Mi fece promettere di non riferire mai a sua sorella ciò che stava per confidarmi.
Andai da Walter, intento a camminare su e giù per il bagno.
«Dunque?»«Dunque, credo che il prossimo weekend, mentre io sarò in volo per Pechino,
lei potrà recarsi a Hydra. Mia zia l’aspetta per un pranzo al porto; le consiglio di ordinare una
moussaka, è il suo piatto preferito, ma mi raccomando, io non le ho detto nulla.»A quel punto,
esausto, spensi la luce.
Il venerdì di quella settimana, Walter mi accompagnò all’aeroporto. L’aereo decollò puntuale, e mentre si sollevava nel cielo di Atene, guardai il mar Egeo sparire sotto le ali e provai
una strana sensazione di déjà-vu. Entro dieci ore sarei stato in Cina.
Pechino
Una volta sbrigati i controlli doganali, presi un altro volo per Chengdu.
All’aeroporto c’era un giovane traduttore inviato dalle autorità cinesi, che mi condusse attraverso la città fino al tribunale. Seduto su una panca scomoda, trascorsi lunghe ore ad aspettare che il giudice incaricato del caso di Keira accettasse di ricevermi. Quando la mia testa
ciondolava in avanti (non chiudevo occhio da circa venti ore), il mio accompagnatore mi tirava
una gomitata; e ogni volta lo vedevo sospirare per farmi capire che trovava inaccettabile la
mia condotta. Nel tardo pomeriggio, finalmente, la porta davanti alla quale attendevamo con
pazienza si aprì. Un uomo corpulento uscì dall’ufficio con una pila di dossier sotto il braccio,
senza degnarci della minima attenzione. Mi alzai di colpo e gli corsi incontro; il traduttore raccolse in fretta le sue cose e si precipitò alle mie calcagna.
Il giudice si fermò e mi squadrò da capo a piedi, come se fossi un animale raro. Gli spiegai lo scopo della mia visita: in base agli accordi, ero venuto a esibire il passaporto di Keira,
un documento valido e in corso, affinché annullasse la sentenza emessa a suo carico e ne
firmasse la scarcerazione. Il traduttore faceva del suo meglio, ma il tremolio nella voce tradiva
la soggezione nei confronti dell’uomo a cui mi stavo rivolgendo. Il giudice sembrò seccato.
Non avevo un appuntamento e lui non aveva tempo da dedicarmi. Il giorno dopo sarebbe
partito per Pechino, dov’era stato trasferito, e aveva ancora molto lavoro da sbrigare.
Gli sbarrai la strada e, complice la stanchezza, persi un po’ la calma.
«E’ necessario essere crudeli e indifferenti per farsi rispettare? Amministrare la giustizia
non le basta?» chiesi al giudice.
Il traduttore impallidì, cominciò a balbettare e si rifiutò categoricamente di tradurre le mie
parole.
«E’ diventato matto?» mi redarguì dopo avermi trascinato in un angolo. «Sa a chi si sta
rivolgendo? Se traduco ciò che ha appena detto, stasera passeremo anche noi la notte in
cella.»Infischiandomene dei suoi avvertimenti, corsi di nuovo verso il giudice che si allontanava già lungo il corridoio. Di nuovo gli bloccai la strada.
«Stasera, quando farà un brindisi per celebrare la promozione, dica a sua moglie che è diventato un personaggio così prestigioso, così importante, da poter ignorare senza alcun
rimorso di coscienza il destino di un’innocente. E parli anche ai suoi figli: del senso dell’onore,
della morale, della rispettabilità, del mondo che lascerà loro, un mondo in cui donne innocenti
possono marcire in prigione perché i giudici hanno di meglio da fare che amministrare la giustizia. Dica alla sua famiglia tutto questo da parte mia, così anch’io e Keira parteciperemo alla
festa!»Di nuovo il traduttore mi trascinò via, supplicandomi di tacere. Mentre ancora mi faceva
la predica, il giudice ci guardò e alla fine si rivolse a me.
«Parlo perfettamente la sua lingua, ho studiato a Oxford. Il traduttore non ha torto, le
manca un po’ di educazione, ma di faccia tosta ne ha in abbondanza.»Il giudice controllò
l’ora.
«Mi dia il passaporto e aspetti qui. Vado a occuparmi del caso.»Gli tesi il documento. Me
lo strappò dalle mani e tornò svelto nel suo ufficio. Cinque minuti dopo spuntarono due poliziotti alle mie spalle; feci appena in tempo a rendermi conto della loro presenza che mi ritrovai
in manette e fui spintonato e condotto via. Il mio traduttore, sconvolto, mi seguì, giurando che
l’indomani avrebbe avvisato l’ambasciata. I poliziotti gli ordinarono di allontanarsi. Io fui
costretto a salire a bordo di una camionetta. Tre ore di strada dissestata e arrivai nel cortile
della prigione di Garther, che non aveva nulla della magnificenza del monastero immaginato
nei miei deliri.
Mi confiscarono borsa, orologio e cintura dei pantaloni. Libero dalle manette, fui condotto
sotto scorta fino a una cella in cui feci la conoscenza del mio compagno di prigionia. Aveva
passato la sessantina ed era completamente sdentato, neppure l’ombra di un moncone sulle
gengive. Avrei voluto sapere quale crimine avevo commesso per essere rinchiuso lì, ma la
conversazione si annunciava difficile. Poiché occupava la parte superiore del letto a castello,
mi sdraiai sotto; la cosa mi era abbastanza indifferente, finché non vidi un grosso topo grigio
girare nel corridoio. Ignoravo il destino che mi attendeva, ma Keira e io ci trovavamo entrambi
in quell’edificio e l’idea mi permise di resistere in quel posto, in cui l’unica stella era rossa e
cucita sul berretto dei secondini.
Un’ora dopo aprirono la porta e seguii il mio compagno di cella. Ci accodammo a una
lunga fila di prigionieri intenti a scendere a passo cadenzato le scale che conducevano al
refettorio. Entrammo in una sala immensa, dove l’arrivo di un detenuto dalla pelle bianca creò
un certo scalpore. I carcerati seduti al tavolo mi osservarono e temetti il peggio, ma dopo aver
riso un po’ di me, ognuno di loro rituffò il naso nel piatto. Vedendo il brodo, in cui galleggiavano qualche chicco di riso e pezzi di carne non meglio identificata, decisi all’istante che un
po’ di digiuno mi avrebbe giovato. Approfittando del fatto che tutte le teste erano abbassate,
guardai verso la lunga inferriata che ci separava dalla zona del refettorio riservata alle donne.
Il cuore si mise a battere fortissimo: Keira doveva trovarsi da qualche parte tra le prigioniere a
pochi metri da noi. Come informarla della mia presenza senza farmi scoprire dalle guardie?
Parlare era proibito, il mio vicino di tavolo si era preso una bacchettata sulla nuca per aver
chiesto al compagno di passargli il sale. Immaginai la punizione che mi sarebbe toccata, ma,
non resistendo più, d’un tratto mi alzai e gridai: «Keira!».
Nessun tintinnio di posate, nessun rumore di masticazione. I secondini scrutarono la sala,
senza muoversi. Nessuno di loro era riuscito a localizzare chi aveva osato infrangere la
regola. Quel silenzio di piombo durò alcuni istanti. All’improvviso sentii una voce familiare
chiamare: «Adrian!».
Tutti i carcerati voltarono la testa verso le carcerate e viceversa; anche i guardiani e le
guardiane fecero lo stesso. Da entrambi i lati della grande sala, ci si osservava a vicenda.
Mi alzai e andai verso l’inferriata; tu, lo stesso. Di tavolo in tavolo, camminavamo uno
verso l’altra, nel silenzio assoluto.
Le guardie erano così stupefatte che nessuno si mosse.
I detenuti gridarono «Keira!» in coro, le detenute risposero all’unisono «Adrian!».
Ormai eri a pochi metri da me. Eri pallida, piangevi e io anche. Ci avvicinammo
all’inferriata; quel momento così atteso ci dava una tale forza che non ci preoccupavamo delle
bastonate che probabilmente avremmo preso. Le nostre mani si unirono attraverso le sbarre,
le dita si strinsero; incollai il viso all’inferriata e la tua bocca si posò sulla mia. Ho detto: «Ti
amo» nella mensa di una prigione cinese. Tu hai mormorato: «Anch’io ti amo». E poi mi hai
chiesto cosa ci facessi lì. Ero venuto a liberarti. «Dall’interno della prigione?» hai esclamato.
Devo ammettere che, nell’impeto dell’emozione, avevo trascurato questo piccolo dettaglio.
Non ho avuto tempo di pensarci: un colpo dietro le cosce mi ha fatto piegare le ginocchia, un
altro sulle reni mi ha schiantato al suolo. Ti hanno portato via a forza, urlavi il mio nome; mi
hanno portato via a forza, urlavo il tuo.
Hydra
Walter si scusò con Elena: era una circostanza particolare, non avrebbe mai lasciato il
cellulare acceso se di lì a breve non avesse atteso notizie dalla Cina. Elena lo pregò di
rispondere. Walter si alzò e si allontanò dal tavolino del ristorante, facendo alcuni passi verso
il porto. Era Ivory che chiedeva ragguagli.
«No, signore, ancora niente. Il suo aereo è atterrato a Pechino. Se i miei calcoli sono
esatti, a quest’ora dovrebbe avere già incontrato il giudice ed essere in viaggio verso la prigione; forse si sono già riuniti. Lasciamo che si godano un meritato momento di intimità.
Pensi quanto saranno felici di ritrovarsi! Le prometto di telefonarle appena saprò qualcosa da
Adrian.»Walter terminò la telefonata e tornò al tavolo.
«Mi scusi» disse a Elena. «Era un collega della Royal Academy che aveva bisogno di
un’informazione.»Ripresero a parlare davanti al dessert che Elena aveva ordinato.
Prigione di Garther
L’insubordinazione durante il pasto alla mensa mi aveva attirato la simpatia degli altri detenuti. Mentre tornavo in cella, scortato da due guardie, ricevetti alcune pacche amichevoli
dagli uomini che tornavano nelle loro gabbie. Il compagno di cella mi offrì una sigaretta: in un
posto del genere, doveva trattarsi di un regalo di grande valore. L’accesi convinto, ma, a
quanto pare, i miei polmoni non erano ancora a posto, perché fui colto da un violento accesso
di tosse che suscitò l’ilarità del sessantenne.
Sulla panca di legno che fungeva da letto era sistemato un pagliericcio poco più alto di
una coperta. Il dolore delle bastonate si riacutizzò quando mi sdraiai, ma ero così stanco che
mi addormentai subito. Avevo rivisto Keira, e il suo viso mi accompagnò durante tutta quella
notte squallida.
Il mattino seguente fummo svegliati da un gong che risuonò in tutta l’area della prigione. Il
mio compagno scese dal suo giaciglio e si infilò i pantaloni e le calze appese alla spalliera del
letto.
Sentimmo aprirsi la porta della cella, il mio compagno prese la gamella e uscì in corridoio,
mentre il secondino mi ordinava di non muovermi. Capii che, a causa della mia insubordinazione del giorno prima, la mensa mi era proibita. Fui invaso dalla tristezza: avevo contato
le ore per rivedere Keira al refettorio, avrei dovuto aspettare ancora.
Nel corso della mattinata, pensai con inquietudine alla pena che le era stata inflitta. Era
così pallida! Ed ecco che io, ateo, caddi in ginocchio davanti al letto, rivolgendomi al buon Dio
come un bambino, pregando che Keira potesse sfuggire a quell’inferno.
Sentii le voci dei carcerati in cortile. Doveva essere l’ora d’aria. Per me, niente. Rimasi lì,
roso dall’angoscia per il destino di Keira. Saltai su uno sgabello per arrivare alla finestrella,
nella speranza di vederla. I detenuti camminavano in fila, diretti verso un portico. In equilibrio
sulla punta dei piedi, scivolai e mi ritrovai per terra; quando riuscii a rialzarmi, il cortile era
vuoto.
Il sole era alto nel cielo, doveva essere mezzogiorno. A quanto pare, mi avrebbero fatto
patire la fame per inculcarmi la disciplina. Non contavo sul traduttore per uscire da lì. Pensai
a Jeanne: l’avevo chiamata prima di decollare per Atene e le avevo promesso di darle notizie
non appena fossi arrivato in Cina. Forse avrebbe capito che mi era successo qualcosa, forse
avrebbe avvisato l’ambasciata.
Con il morale a terra, sentii dei passi nel corridoio. Una guardia entrò nella cella e mi ordin di seguirla. Attraversammo il corridoio, scendemmo le scale metalliche e mi ritrovai
nell’ufficio dove il giorno prima mi avevano confiscato gli effetti personali. Me li restituirono, mi
fecero firmare un modulo e, senza che capissi cosa stesse succedendo, mi portarono in
cortile. Cinque minuti dopo le porte del penitenziario si chiusero alle mie spalle: ero libero.
Un’auto era parcheggiata nel posteggio visitatori; la portiera si aprì e il traduttore mi venne incontro.
Lo ringraziai per essere riuscito a farmi uscire e mi scusai per aver dubitato di lui.
«Non è merito mio» disse. «Dopo che i poliziotti l’hanno portata via, il giudice è uscito di
nuovo dall’ufficio e mi ha detto di venire a prenderla oggi a mezzogiorno. Mi ha inoltre chiesto
di riferirle che sperava che una notte in prigione le avrebbe insegnato la buona educazione. Io
mi limito a tradurre.»«E Keira?» chiesi subito dopo.
«Si giri» rispose placido il traduttore.
Vidi le porte riaprirsi: poi sei comparsa tu. Portavi il tuo fagotto in spalla, lo hai appoggiato
a terra e sei corsa verso di me.
Non dimenticherò mai il momento in cui ci siamo abbracciati davanti alla prigione di
Garther. Ti stringevo così forte che quasi soffocavi, però ridevi e giravamo in tondo, ebbri di
felicità. Il traduttore tossicchiava nel tentativo di richiamarci all’ordine, ma nulla avrebbe potuto interrompere il nostro abbraccio.
Fra un bacio e l’altro ti ho chiesto scusa, scusa per averti trascinata in questa folle avventura. Con la mano mi hai sfiorato la bocca per farmi tacere.
«Sei venuto, sei venuto a prendermi» hai mormorato.
«Avevo promesso di riportarti a Addis Abeba, non ricordi?»«In realtà quella promessa te
l’avevo strappata io, ma sono contenta che tu l’abbia mantenuta.»«Dimmi, come hai fatto a
resistere per tutto questo tempo?»«Non lo so, è stato lungo, terribilmente lungo, ma ne ho approfittato per riflettere, non avevo nient’altro da fare. Non mi riporterai subito in Etiopia,
perché credo di sapere dove trovare il prossimo frammento, e non è in Africa.»Siamo saliti a
bordo dell’auto del traduttore. Ci ha riportati a Chengdu, dove abbiamo preso tutti e tre
l’aereo.
A Pechino hai minacciato il traduttore di non lasciare il paese se non ci avesse portati in
un albergo in cui poter fare una doccia. Ha guardato l’orologio e ci ha concesso un’ora, solo
per noi.
Camera 409. Non ho prestato la minima attenzione al panorama: l’ho già detto, la felicità
rende distratti. Sono seduto a una piccola scrivania, di fronte alla finestra. Pechino si estende
davanti a me e non mi interessa, non voglio vedere altro se non il letto in cui riposi. Di tanto in
tanto apri gli occhi e ti stiracchi, dici che non ti sei mai resa conto di quanto sia bello crogiolarsi in lenzuola pulite. Stringi il cuscino fra le braccia e me lo lanci sul viso; ho ancora voglia
di te.
Il traduttore dev’essere infuriato: è ben più di un’ora che siamo qui. Ti alzi, ti osservo
mentre cammini verso il bagno, mi dai del guardone, non cerco di negarlo. Noto delle cicatrici
sulla schiena, altre sulle gambe. Ti giri e ti leggo negli occhi che non vuoi parlarne, non ora.
Sento scorrere l’acqua, il rumore della doccia mi ridà forza e impedisce a te di sentire questa
tosse che torna come un brutto ricordo. Ci sono cose che non saranno più come prima, in
Cina ho perso un po’ di quell’indifferenza che trovavo così rassicurante. Ho paura di rimanere
solo in questa stanza, anche se per pochi istanti, separato da te da un semplice muro, ma
non ho più paura di confessartelo, non ho più paura di alzarmi per venire da te e non ho più
paura di confidarti quello che provo.
All’aeroporto ho mantenuto un’altra promessa; una volta fatte le carte d’imbarco, ho cercato una cabina telefonica e abbiamo chiamato Jeanne.
Non so chi di voi due abbia cominciato per prima, ma in mezzo a quel grande terminal ti
sei messa a piangere. Ridevi e singhiozzavi.
Ma non c’era tempo, dovevamo andare. Hai detto a Jeanne che le vuoi bene, che la richiamerai quando saremo a Atene.
Dopo aver riagganciato, sei scoppiata di nuovo in singhiozzi e ho cercato in tutti i modi di
consolarti.
Il traduttore sembrava più stravolto di noi. Abbiamo superato il controllo passaporti e a
quel punto l’ho visto sollevato. Doveva essere così contento di sbarazzarsi di noi che non la
smetteva più di salutarci al di là della vetrata.
Era ormai notte quando siamo saliti a bordo. Hai appoggiato la testa contro l’oblò e ti sei
addormentata prima ancora che l’aereo decollasse.
Mentre iniziava la discesa verso Atene, abbiamo attraversato una zona di turbolenze. Mi
hai preso la mano, la stringevi fortissimo, come se l’atterraggio ti preoccupasse. Allora, per
distrarti, ho tirato fuori il frammento che avevamo scoperto sull’isola di Narcondam, mi sono
chinato verso di te e te l’ho mostrato.
«Hai detto di aver capito dove dovrebbe trovarsi uno degli altri frammenti.»«Ma gli aerei
sono davvero fatti per resistere a questo genere di scossoni?»«Stai tranquilla, non c’è nulla di
cui preoccuparsi. Allora, il frammento?»Con la mano libera - l’altra stringeva la mia sempre
più forte - hai tirato fuori il ciondolo. Eravamo indecisi se avvicinarli e abbiamo rinunciato nel
momento in cui un vuoto d’aria ce ne ha fatto passare la voglia.
«Ti racconterò tutto quando saremo a terra» hai detto.
«Dammi almeno un indizio.»«Il Grande Nord, da qualche parte tra la baia di Baffin e il
mare di Beaufort. Sono migliaia di chilometri da esplorare, ti spiegherò perché. Ma prima mi
porterai in giro per la tua isola.»
Hydra
A Atene abbiamo preso un taxi e, due ore dopo, ci trovavamo a bordo del traghetto per
Hydra. Tu sei andata in cabina, mentre io ho raggiunto il ponte a poppa.
«Non dirmi che soffri di mal di mare…»«Mi piace stare all’aria aperta.»«Tremi come una
foglia, ma vuoi stare all’aria aperta? Confessa, soffri di mal di mare: perché non lo ammetti?»«Perché è una vergogna, per un greco e… non vedo cosa ci sia di così divertente!»«Ho conosciuto qualcuno che si prendeva gioco di me, non molto tempo fa, perché
avevo paura di volare…»«Non mi prendevo gioco di te» risposi, piegato sul parapetto.
«Sei pallidissimo e hai i brividi. Su, vieni, torniamo in cabina, o finirai per ammalarti sul
serio.»Dopo un nuovo accesso di tosse, ho lasciato che mi accompagnassi dentro; sentivo
che la febbre stava salendo, ma ero così felice di portarti a casa mia che non avrei permesso
a nulla al mondo di rovinare quel momento.
Non ho avvertito mia madre se non quando siamo stati al Pireo, e mentre il traghetto si
avvicinava a Hydra, immaginavo già i suoi rimproveri. L’avevo pregata di non organizzare
festeggiamenti.
Eravamo stravolti e avevamo un unico desiderio: dormire a sazietà.
Mamma ci accolse a casa sua. Per la prima volta in vita mia l’ho vista intimidita. Non
avevamo un bell’aspetto, così ci preparò un pasto leggero in terrazza. Zia Elena aveva
preferito restare al villaggio, per non disturbarci. Una volta a tavola, mia madre ti subissò di
domande; malgrado le mie occhiatacce, non ci fu niente da fare. Tu sei stata al gioco e hai
risposto di buon grado. A un certo punto ebbi un nuovo attacco di tosse che pose termine alla
serata. Mia madre ci condusse in camera mia. Le lenzuola avevano un buon profumo di
lavanda, ci addormentammo al suono delle onde contro gli scogli.
All’alba ti alzasti in punta di piedi. Il periodo trascorso in prigione ti aveva fatto perdere
l’abitudine a rimanere a letto fino a tardi. Ti sentii uscire dalla stanza, ma ero troppo debole
per seguirti. Parlasti con mia madre in cucina e sembrava che vi capiste al volo; poi mi riaddormentai.
Seppi in seguito che Walter era sbarcato sull’isola in tarda mattinata.
Zia Elena gli aveva telefonato il giorno prima per avvisarlo del nostro arrivo e lui aveva
preso il primo aereo. Una volta mi confidò che i continui viaggi fra Londra e Hydra a cui lo
avevo costretto avevano seriamente intaccato i suoi risparmi.
Nel primo pomeriggio Walter, Elena, Keira e mia madre entrarono nella stanza. Avevano
tutti un’espressione sconvolta mentre mi guardavano giacere esanime sul letto, arso dalla
febbre. Mamma mi applicò sulla fronte una garza imbevuta di decotto di foglie di eucalipto:
uno dei suoi vecchi rimedi che non sarebbe bastato a sconfiggere il male che mi assaliva.
Poche ore dopo ricevetti la visita di una donna che pensavo non avrei più rivisto, ma Walter
aveva l’abitudine di prender nota di tutto: così il numero di una dottoressa, all’occorrenza pilota d’aerei, era finito fra le pagine del suo taccuino. Sophie Schwartz si sedette sul letto e mi
prese la mano.
«Stavolta purtroppo non finge: ha un febbrone da cavallo, poveretto.»Auscultò i polmoni e
diagnosticò subito una ricaduta dell’infezione polmonare di cui gli aveva parlato mia madre.
Avrebbe preferito che mi portassero subito a Atene, ma le condizioni meteo non lo permettevano. Si stava alzando una tempesta, il mare era in burrasca e nemmeno il suo aereo
sarebbe potuto ripartire. In ogni caso, non ero nelle condizioni di viaggiare.
«A mali estremi, estremi rimedi» disse a Keira. «Dovremo arrangiarci con quello che abbiamo.»La tempesta durò tre giorni. Settantadue ore durante le quali il meltemi soffiò
sull’isola. Il forte vento delle Cicladi faceva piegare gli alberi, la casa scricchiolava e dal tetto
si staccarono alcune tegole. Dalla mia camera sentivo le onde infrangersi contro le falesie.
Mia madre aveva sistemato Keira nella camera degli ospiti, ma quando si spegnevano le
luci, Keira sgattaiolava da me e si sdraiava al mio fianco. Nei rari momenti di riposo che si
concedeva, la dottoressa le dava il cambio e mi vegliava. Sfidando le raffiche, Walter saliva in
collina a dorso d’asino due volte al giorno per venire a trovarmi. Lo vedevo entrare nella mia
stanza bagnato come un pulcino. Si lasciava cadere su una sedia e mi raccontava
dell’inattesa occasione che gli era stata offerta da quella tempesta. Il tetto della pensioncina
in cui aveva alloggiato durante le sue precedenti visite all’isola era stato parzialmente portato
via dal vento. Elena si era offerta di ospitarlo. Mi seccava molto che la mia ricaduta avesse
rovinato la prima volta di Keira a Hydra, ma la presenza di tutti loro mi fece capire che la
solitudine degli altopiani di Atacama apparteneva ormai a un passato remoto.
Il quarto giorno il meltemi si placò e la febbre se ne andò con lui.
Amsterdam
Due colpi alla porta distolsero Vackeers dall’e-mail che stava rileggendo. Poiché non attendeva visite, aprì istintivamente il cassetto della scrivania e vi infilò la mano. Ivory entrò con
un’espressione cupa sul viso.
«Avrebbe potuto avvisarmi che era in città, avrei mandato un’auto all’aeroporto.»«Ho
preso il treno, avevo da leggere.»«Non ho fatto preparare nulla per cena» riprese Vackeers,
chiudendo discretamente il cassetto.
«Vedo che è sempre molto sereno» sbuffò Ivory.
«Ricevo pochissime visite qui al palazzo, tanto meno senza preavviso. Andiamo a cena,
poi ci metteremo a giocare.»«Non sono qui per sfidarla a scacchi.»«Che tono serio! Ha l’aria
preoccupata, amico mio.»
«Mi perdoni se sono piombato qui all’improvviso, ma avevo i miei buoni motivi e avrei
bisogno di parlarle.»«C’è un tavolo tranquillo, in un ristorante qui vicino. Mi segua, parleremo
strada facendo.»Attraversarono la grande sala del Palazzo Reale di Piazza Dam. Ivory si sofferm a guardare le tre immense carte geografiche che, sul pavimento di marmo, rappresentavano una l’emisfero occidentale, l’altra quello orientale, mentre la terza era una carta
delle stelle.
«Le ricerche riprenderanno» disse solennemente al suo amico.
«Non mi dica che ne è sorpreso, ha fatto di tutto perché ciò avvenisse.»«Spero di non
dovermene pentire.»«Perché quell’aria ansiosa? Non la riconosco più, lei di solito trae piacere dallo sconvolgere l’ordine stabilito. Ha sollevato un bel vespaio, dovrebbe esserne felice. Peraltro mi chiedo quali siano le sue motivazioni recondite in quest’avventura: scoprire la
verità sull’origine del mondo, o prendersi la rivincita su qualcuno che l’ha ferita in passato?»«Suppongo che all’inizio fossero un po’ per un motivo e un po’ per l’altro; ma ormai
non sono più solo in questa ricerca e le persone che ho coinvolto hanno rischiato la vita, e
sono tuttora in pericolo.»«E questo la spaventa? Allora è invecchiato parecchio negli ultimi
tempi.»«Non ho paura, ma mi trovo di fronte a un dilemma.»«Questa sala è magnifica, caro
amico, ma le nostre voci riecheggiano un po’ troppo per una conversazione del genere. La
prego, usciamo.»Vackeers procedette verso l’estremità ovest del salone fino a una porta segreta nel muro in pietra, poi discese una scala che conduceva nei sotterranei del Palazzo
Reale di Piazza Dam. Guidò Ivory lungo le passerelle di legno che sovrastavano il canale sotterraneo. Il luogo era umido e i gradini scivolosi.
«Faccia attenzione a dove mette i piedi, non vorrei che cadesse in quell’acqua sporca e
gelida. Mi segua.» Vackeers accese una torcia.
Passarono davanti all’asse di legno dove un chiodo azionava un meccanismo che permetteva a Vackeers di entrare nel locale informatico.
«Ecco» disse a Ivory, «ancora pochi passi e sbucheremo in un cortiletto. Non so se qualcuno l’abbia vista entrare nel palazzo, ma stia pur certo che nessuno la vedrà uscire.»«Che
strano labirinto, non ci capirò mai nulla.»«Avremmo potuto prendere il passaggio verso la
Chiesa Nuova, ma è ancora più umido e ci saremmo ritrovati con i piedi bagnati.»Vackeers
spinse una porta, pochi gradini, e si ritrovarono all’aria aperta. Furono accolti da un vento glaciale e Ivory sollevò il bavero del cappotto. I due vecchi amici risalirono a piedi Hoogstraat, la
via che costeggia il canale.
«Dunque, cosa la tormenta?» chiese Vackeers.
«I miei due protetti si sono riuniti.»«Be’, direi che è una bella notizia. Dopo il brutto tiro che
abbiamo giocato a Sir Ashton, dovremmo festeggiare, anziché avere queste facce da funerale.»«Dubito che il nostro amico inglese rimarrà con le mani in mano.»«Temo lei abbia esagerato, provocandolo a casa sua; le avevo suggerito una maggior discrezione.»«Era urgente
liberare la giovane paleontologa. Era rimasta dietro quelle sbarre troppo a lungo.»«Quelle
sbarre avevano il vantaggio di tenerla lontana dalle grinfie di Ashton e, di conseguenza, di
proteggere anche il suo astrofisico.»«Quel pazzo se l’è presa anche con lui.»«Ne ha le
prove?»«Ne sono sicuro, lo ha fatto avvelenare! Ho visto grandi quantità di belladonna nei viali della proprietà di Ashton. Il frutto di questa pianta provoca gravi complicazioni polmonari.»«Sono certo che molte persone hanno un giardino in cui cresce la belladonna senza per
questo essere degli assassini.»«Vackeers, sappiamo entrambi di cos’è capace
quell’individuo! Forse ho agito in modo impulsivo, ma non senza criterio, pensavo sinceramente…»«Pensava che fosse ora di far ripartire le ricerche! Mi ascolti, Ivory, capisco le sue
ragioni, ma procedere è molto rischioso. Se i suoi protetti si rimettono sulle tracce di un nuovo
frammento, sarò tenuto a informarne gli altri. Non ho nessuna intenzione di farmi accusare di
tradimento.»«Adrian ha avuto una brutta ricaduta, per il momento lui e Keira sono bloccati in
Grecia.»«Speriamo che questa pausa duri il più a lungo possibile.»Ivory e Vackeers percorsero un ponte. Ivory si fermò e appoggiò i gomiti alla balaustra.
«Che luogo incantevole» sospirò Vackeers. «Trovo sia il più bello di tutta Amsterdam.
Guardi che panorama!»«Ho bisogno del suo aiuto, Vackeers. So che è un uomo leale e non
le chiederei mai di tradire l’organizzazione; ma, come in passato, prima o poi si formeranno
delle alleanze. Sir Ashton farà la conta dei nemici…»«Anche lei la farà, e siccome non è più
un membro del gruppo, vorrebbe che io fossi il suo portavoce, la persona che convincerà gli
altri. E’ questo che si aspetta da me?»«Questo e qualcos’altro» ammise Ivory sospirando.
«Sta scherzando?» esclamò Vackeers stupito.
«Ho bisogno di disporre di mezzi a cui non ho più accesso.»«Di quali mezzi sta parlando?»«Il suo computer, per entrare nel server.»«No, non sono d’accordo! Ci scoprirebbero
subito e la mia posizione risulterebbe compromessa.»«Non se accettasse di collegare al suo
terminale un piccolo dispositivo.»«Quale genere di dispositivo?»«Un apparecchio che permette di aprire un link tanto discreto quanto irrilevabile.»«Lei sottovaluta l’organizzazione. Gli
informatici vengono reclutati fra i migliori nel loro campo e alcuni sono addirittura ex hacker.»«Entrambi giochiamo a scacchi meglio di qualsiasi giovane d’oggi. Si fidi di me!» Ivory
porse una scatoletta a Vackeers.
Vackeers guardò l’oggetto con un certo disgusto.
«Vuole mettermi sotto controllo?»«Voglio soltanto usare il suo codice per accedere alla
rete, le assicuro che non rischia nulla.»«Se qualcuno dovesse sospettare qualcosa, rischio di
essere arrestato e trascinato in tribunale.»«Vackeers, posso contare su di lei sì o
no?»«Rifletterò sulla sua richiesta e le farò sapere. Questa conversazione mi ha tolto completamente l’appetito.»«Nemmeno io avevo molta fame» confessò Ivory.
«Ma ne vale davvero la pena? Ha una vaga idea di quali siano le loro probabilità di successo?» chiese Vackeers con un sospiro.
«Da soli, neanche una; ma se metto a loro disposizione le informazioni che ho accumulato
in trent’anni di ricerche, allora non è impossibile che trovino i frammenti mancanti.»«Dunque
lei saprebbe dove cercarli?»«E’ curioso, Vackeers, fino a poco tempo fa lei dubitava della loro
stessa esistenza e ora mi chiede dove sono nascosti…»«Non ha risposto alla mia
domanda.»«E’ impaziente, amico mio. Vediamo… il primo fu scoperto al centro, il secondo a
sud, il terzo a est: le lascio indovinare dove potrebbero essere gli ultimi due. Rifletta su
quanto le ho detto, Vackeers. Mi rendo conto di chiederle molto, ma glielo ripeto per
l’ennesima volta: ho bisogno di lei.»Ivory salutò l’amico e si allontanò; Vackeers lo raggiunse.
«E la nostra partita a scacchi? Non può andarsene così ! »«Riesce a mettere insieme uno
spuntino a casa sua?»«Dovrei avere del formaggio e qualche toast.»«Con un bicchiere di
buon vino, sarà perfetto. Ma si prepari a perdere, mi deve una rivincita!»
Hydra
Keira e io eravamo seduti sulla terrazza. Grazie alle cure della dottoressa, mi stavo rimettendo in forze e per la prima volta avevo trascorso una notte senza tossire. Il viso aveva
ripreso un po’ di colore, quasi al punto da rassicurare mia madre. Sophie Schwartz aveva approfittato del suo soggiorno forzato per visitare anche Keira e prescriverle decotti di piante e
integratori vitaminici. Il periodo trascorso in carcere l’aveva molto indebolita.
Quel giorno il nostro medico avrebbe potuto ripartire a bordo del piccolo aereo. Il mare infatti si era calmato e il vento placato.
Ci ritrovammo intorno al tavolo su cui mia madre aveva imbandito un banchetto regale.
Durante la mia malattia, avevano passato lunghe ore a scambiarsi racconti e ricordi fra la cucina e il salotto. Mamma si era appassionata alle avventure di quella donna, medico volante,
che si spostava di isola in isola al capezzale dei pazienti. Nell’andarsene, la dottoressa mi
fece promettere di prolungare di alcuni giorni ancora la mia convalescenza prima di rimettermi
in viaggio; consiglio che mia madre le fece ripetere due volte nel caso non avessi sentito
bene. La riaccompagnò alla porta, lasciandoci finalmente alcuni istanti d’intimità.
Non appena fummo soli, Keira venne a sedersi accanto a me.
«Hydra è un’isola stupenda, Adrian, tua madre è una donna meravigliosa, adoro tutti qui,
ma…»«Anch’io non ne posso più» la interruppi. «Non vedo l’ora di tagliare la corda. Questo ti
rassicura?»«Oh sì!» sospirò Keira.
«Dopo essere evasi da una prigione cinese, scappare da qui sarà un gioco da
ragazzi.»Keira guardò il mare in lontananza.
«Stanotte ho sognato Harry.»«Vuoi tornare laggiù?»«Desidero tanto rivederlo. Non è la
prima volta che lo sogno, Harry è venuto spesso a trovarmi nelle mie notti in carcere a
Garther.»«Torniamo nella valle dell’Omo, se è questo ciò che vuoi. Avevo promesso di riportarti lì.»«Non so neanche se ho ancora un posto laggiù, e poi ci sono le nostre ricerche.»«Ci
sono già costate abbastanza, non voglio più farti correre rischi.»«Ti faccio notare che sono
tornata dalla Cina più in forma di te. Tuttavia suppongo che la decisione di andare avanti o no
spetti a entrambi.»«Sai come la penso.»«Dove si trova il tuo frammento?»Mi alzai e andai a
prenderlo nel cassetto del comodino. Quando tornai sulla terrazza, Keira si tolse la collana e
appoggiò il ciondolo sul tavolo. Avvicinò i due pezzi e, non appena furono riuniti, si verificò di
nuovo il fenomeno di cui eravamo stati testimoni sull’isola di Narcondam.
I frammenti assunsero il colore del cielo notturno e si misero a brillare con un’intensità indescrivibile.
«Vuoi che ci fermiamo qui?» mi chiese Keira fissando i due frammenti uniti mentre lo scintillio diminuiva progressivamente. «Se tornassi nella valle dell’Omo senza sciogliere questo
enigma, non potrei più fare bene il mio lavoro; passerei le giornate a chiedermi cos’avremmo
scoperto se avessimo riunito tutti i frammenti. In nome della ricerca. Ricordi?»«Sì, lo ricordo,
Keira, ma è stato prima che un prete venisse ucciso sotto i nostri occhi, prima che rischiassimo di cadere in un burrone, prima che la nostra auto venisse catapultata in un fiume e
prima che tu finissi in una prigione cinese… E poi, non abbiamo la benché minima idea della
direzione da prendere.»«Te l’ho detto, il Grande Nord; ancora niente di preciso, ma è sempre
una pista.»«Perché lì e non da un’altra parte?»«L’ho dedotto dal testo scritto in lingua ge’ez:
ci ho riflettuto molto mentre languivo a Garther. Dobbiamo tornare a Londra, ho bisogno di
consultare alcuni volumi nella biblioteca dell’Accademia delle Scienze, e poi devo fare ancora
qualche domanda a Max.»«Vuoi rivedere il tuo caro tipografo?»«Non fare quella faccia, sei
ridicolo! Ha lavorato alla trascrizione di quel manoscritto: se ha scoperto qualcosa, le sue informazioni saranno molto utili. Ma soprattutto ho intenzione di verificare una cosa con
lui.»«Va bene, torniamo. Londra ci offrirà un buon pretesto per lasciare Hydra.»«Se fosse
possibile, vorrei andare a Parigi per qualche giorno.»«Per vedere Max, vero?»«Ma no! Per
vedere Jeanne! E anche per andare a trovare Ivory.»«Credo che il vecchio professore abbia
lasciato il museo e intrapreso un viaggio.»«Anch’io ho intrapreso un viaggio e, come vedi,
sono tornata. Chissà, magari anche lui farà lo stesso.»Dopodiché Keira andò a preparare i
bagagli e io informai mia madre che stavamo per lasciare l’isola. Walter ne fu molto dispiaciuto. Aveva esaurito tutte le sue ferie per i due anni a venire, ma sperava di poter
comunque trascorrere il weekend a Hydra.
Lo esortai a non cambiare i suoi piani: l’avrei ritrovato con piacere la settimana successiva
alla Royal Academy, dove avevo deciso di andare anch’io.
Stavolta non avrei lasciato Keira a compiere le sue ricerche da sola, soprattutto dopo che
mi aveva detto di voler passare da Parigi. Così acquistai due biglietti per la Francia.
Amsterdam
Ivory si era assopito sul divano del salotto. Vackeers lo aveva coperto con un plaid e si
era ritirato in camera sua. Aveva trascorso gran parte della notte a rigirarsi nel letto, i troppi
pensieri gli impedivano di prendere sonno. Il suo ex alleato gli chiedeva aiuto, ma accontentarlo equivaleva a compromettersi. I pochi mesi a venire sarebbero stati gli ultimi della sua
carriera e non voleva di certo macchiarsi di tradimento. All’alba andò a preparare la colazione. Il fischio del bollitore svegliò Ivory.
«La notte è stata breve, non è così?» disse accomodandosi al tavolo di cucina.
«Può giurarci, ma per una sfida del genere ne è valsa la pena!» rispose Vackeers.
«Non mi sono reso conto di essermi addormentato, è la prima volta in assoluto che mi
capita! Mi dispiace di aver invaso così la sua privacy.»«Si figuri, spero piuttosto che quel vecchio Chesterfield non le abbia spezzato la schiena.»«Temo di essere più vecchio di lui»
scherzò Ivory.
«Non credo, è un divano che ho ereditato da mio padre.»Cadde il silenzio. Ivory fissò
Vackeers, bevve la sua tazza di tè, addentò una fetta biscottata e si alzò.
«Ho già abusato troppo della sua ospitalità, torno in albergo.»Vackeers non replicò e
guardò Ivory dirigersi verso l’ingresso.
«Grazie per la magnifica serata, amico mio» continuò Ivory recuperando il soprabito.
«Entrambi abbiamo un aspetto orribile, ma devo ammettere che è stata una partita memorabile.» Infilò le mani in tasca, mentre Vackeers si ostinava a non rispondere nulla.
Ivory scrollò le spalle e tolse il chiavistello; fu allora che notò un biglietto messo bene in
evidenza sul tavolino vicino alla porta; Vackeers non gli staccava gli occhi di dosso. Ivory
esitò, prese il foglietto e vide una sequenza di numeri e lettere. Vackeers lo fissava dalla sedia della cucina.
«Grazie» mormorò Ivory.
«Di cosa?» ribatté Vackeers. «Mi sta forse ringraziando per aver approfittato della mia ospitalit per frugare nei cassetti e impossessarsi della password del mio computer?»«No, certo
che no.»«Benissimo, ora mi sento più sollevato.»Ivory si chiuse la porta alle spalle. Aveva
giusto il tempo di ripassare in albergo a recuperare le sue cose e poi riprendere il treno. In
strada, chiamò un taxi con un cenno della mano.
Vackeers percorreva a grandi passi il suo appartamento, dall’ingresso al salotto. Appoggiò
la tazza di tè sul tavolino e andò verso il telefono.
«Qui Amsterdam» disse non appena l’interlocutore ebbe risposto alla chiamata. «Avvisi gli
altri, dobbiamo organizzare una riunione; stasera alle venti, conferenza telefonica.»«Perché
non passiamo dalla rete informatica come facciamo di solito?» chiese II Cairo.
«Perché ho il computer guasto.»Vackeers riappese e andò a prepararsi.
Parigi
Keira si era precipitata da Jeanne e io avevo preferito lasciarle sole. Mi ero ricordato di un
antiquario nel Marais che vendeva i più begli strumenti ottici della capitale: ricevevo i suoi
cataloghi una volta all’anno al mio indirizzo di Londra. La maggior parte dei pezzi esposti era
ben oltre le mie possibilità economiche, ma guardare non costava nulla e avevo tre ore libere.
Quando entrai nel negozio, il vecchio antiquario si trovava dietro il suo tavolo, intento a pulire
uno splendido astrolabio. All’inizio non mi prestò la minima attenzione, finché non mi bloccai
davanti a una sfera armillare di squisita fattura.
«Il modello che guarda, giovanotto, è stato ideato da Gualterus Arsenius, o se preferisce
Gauthier Arsenius, secondo alcuni con la collaborazione del fratello Regnerus» mi spiegò
alzandosi. Si avvicinò e aprì la vetrina, porgendomi il prezioso oggetto.
«Si tratta di una delle più belle opere uscite dai laboratori fiamminghi del sedicesimo
secolo. Nell’ambiente, gli artigiani di nome Arsenius erano più di uno, e tutti specializzati nella
realizzazione di astrolabi e sfere armillari. Gauthier era parente del matematico Gemma Frisius: uno dei suoi trattati, pubblicato a Anversa nel 1553, contiene la più antica presentazione
dei principi della triangolazione e un metodo per determinare la longitudine. Quello che sta
guardando è un pezzo rarissimo e vale il suo prezzo.»«Ovvero?»«Se fosse l’originale, ovviamente inestimabile» rispose l’antiquario riponendo l’astrolabio nella vetrina. «Purtroppo
questo è soltanto una copia, probabilmente realizzata verso la fine del diciottesimo secolo da
un ricco mercante olandese che voleva impressionare il suo entourage.» Poi sospirò: «Le va
una tazza di caffè? Sono secoli che non ho il piacere di parlare con un astrofisico».
«Come fa a conoscere la mia professione?» chiesi stupefatto.
«Poca gente sa manipolare con tanta disinvoltura strumenti del genere, e lei non sembra
affatto un mercante. Insomma, ci sono arrivato per esclusione. Quale tipo di oggetto è venuto
a cercare nel mio negozio? Ho alcuni pezzi il cui costo è molto più abbordabile…»«Probabilmente la deluderò, ma mi interessano soltanto i vecchi corpi di macchine fo-
tografiche.»«Che strana idea, ma non è mai troppo tardi per iniziare una nuova collezione!
Venga, lasci che le mostri qualcosa che le piacerà molto, ne sono certo.»Il vecchio antiquario
si diresse verso una libreria da cui prese un grosso tomo rilegato in cuoio. Lo appoggiò sulla
scrivania, si aggiustò gli occhiali e lo sfogliò con infinite precauzioni.
«Ecco» disse, «quest’incisione raffigura una sfera armillare di pregiatissima fattura. E opera di Erasmus Habermel, che realizzava strumenti matematici per l’imperatore Rodolfo II.»Mi
chinai sulla pagina e scoprii con stupore una riproduzione che assomigliava a ciò che Keira e
io avevamo scoperto sotto la zampa del leone di pietra in cima al monte Hua Shan. Mi accomodai sulla sedia offerta dall’antiquario e studiai più da vicino quel disegno stupefacente.
«Osservi» riprese l’antiquario «l’incredibile accuratezza della lavorazione. Ciò che mi ha
sempre affascinato nelle sfere armillari non è tanto il fatto che permettano di stabilire la posizione degli astri nel cielo in un determinato momento, quanto piuttosto ciò che non mostrano e
che tuttavia possiamo indovinare…»Sollevai la testa dal prezioso volume e lo guardai,
curioso di sentire come avrebbe proseguito.
«Il vuoto e il tempo suo amico!» concluse baldanzoso. «Davvero uno strano concetto, il
vuoto. Il vuoto è pieno di cose a noi invisibili. Il tempo, da parte sua, passa e cambia tutto,
modifica la corsa delle stelle, culla il cosmo con un movimento permanente e anima il gigantesco ragno della vita che cammina sulla tela dell’universo. Non è una dimensione affascinante, questo tempo di cui ignoriamo tutto? Lei mi è simpatico con quella sua aria stupita, le
lascio quest’opera al prezzo che mi è costata.» L’antiquario si avvicinò al mio orecchio e sussurr la cifra a cui me l’avrebbe venduto. Non seppi resistere alla tentazione.
«Torni a trovarmi quando vuole» disse l’antiquario riaccompagnandomi all’entrata. «Ho
altre meraviglie da mostrarle. Non se ne pentirà, glielo assicuro» concluse allegramente.
Chiuse la porta a chiave alle mie spalle e io lo vidi, oltre la vetrina, scomparire nel retrobottega.
Mi ritrovai in strada con quel grosso tomo sotto il braccio, chiedendomi perché mai lo
avessi acquistato. Il cellulare vibrò in tasca. Risposi e sentii la voce di Keira. Mi proponeva di
raggiungerla più tardi da Jeanne, che era felicissima di invitarci a cena e ospitarci per la notte.
Io avrei dormito sul divano del salotto, mentre le due sorelle avrebbero condiviso il letto. E
come se tutto questo non bastasse, mi annunciò che sarebbe andata a trovare Max. La sua
tipografia non era lontana da casa di Jeanne, a piedi ci avrebbe impiegato dieci minuti. Aggiunse che doveva assolutamente verificare alcune cose con lui e promise di chiamarmi appena avessero finito.
Mi ci volle qualche istante prima di riuscire a bofonchiare che ero felice dell’invito di sua
sorella.
Riattaccai e rimasi all’angolo di Rue des Lions Saint-Paul, senza sapere cosa fare né
dove andare.
Avevo del tempo libero - in teoria un bene prezioso -, ma nessuna idea di come riempirlo.
In quel tardo pomeriggio, mentre passeggiavo lungo le rive della Senna, provavo la strana e
sgradevole sensazione di trovarmi tra due momenti della giornata che rifiutavano di incastrarsi fra loro.
Avrei voluto mandare un messaggio a Keira, ma mi trattenni. Walter me lo avrebbe fortemente sconsigliato. Avrei voluto raggiungerla nella tipografìa di Max. Da lì, avremmo potuto
recarci insieme da Jeanne, comprarle magari un mazzo di fiori. Senza nemmeno accorgemene mi stavo dirigendo verso l’Ile Saint-Louis. Ma se mi fossi presentato dal suo ex professore, Keira mi avrebbe accusato di essere geloso, il che non era affatto vero, o no?
Andai a sedermi sotto la tenda di un piccolo caffè all’angolo di Rue des Deux Ponts. Aprii
il libro e mi tuffai nella lettura, controllando l’ora di tanto in tanto. Un taxi si fermò davanti a me
e ne scese un uomo. Indossava un impermeabile e aveva una valigetta in mano. Si allontanò
a passi svelti in Quai d’Orléans. Ero sicuro di averlo già visto, senza però ricordare dove. La
sua figura scomparve dietro un portone.
Keira si era seduta sull’angolo della scrivania.
«Accomodati pure in poltrona» disse Max, sollevando gli occhi dal documento che stava
esaminando.
«Negli ultimi tempi ho perso l’abitudine a certe comodità.»«Hai passato davvero tre mesi
in prigione?»«Devo ripetertelo un’altra volta, Max? Concentrati su quel testo e dammi il tuo
parere.»«Penso che da quando frequenti quello che, stando alle tue parole, è solo un collega,
non hai avuto altro che problemi. Non capisco neppure perché continui a vederlo dopo quello
che ti è successo. Santo cielo, Keira, ha mandato all’aria le tue ricerche, per non parlare del
finanziamento che avevi ottenuto. Un regalo del genere non capita due volte. E a te sembra
tutto normale!»«Senti, Max, ho già una sorella specializzata in prediche non richieste. Lascia
perdere, per favore, e dimmi invece cosa pensi della mia teoria.»«Se ti rispondo, cosa farai?
Andrai a Creta a sondare il Mediterraneo, nuoterai fino in Siria? In Cina avresti potuto lasciarci la pelle, sei davvero un’incosciente.»«Okay, ma come vedi sono viva e vegeta. E
persino piuttosto in forma…»«Non è il momento di scherzare, Keira.»«Mmm, caro Max,
quanto mi piace quando assumi un tono da professore con me! Credo che fosse ciò che mi
seduceva di più quando ero tua allieva, ma adesso non lo sono più. Non sai nulla di Adrian né
del viaggio che abbiamo intrapreso, quindi se il piccolo favore che ti ho chiesto ti costa
troppo, non c’è problema: restituiscimi il foglio e tolgo subito il disturbo.»«Guardami negli occhi e spiegami una cosa: in che modo questo testo ti sarà d’aiuto nelle ricerche che conduci
da anni?»«Dimmi, Max, non eri un professore di archeologia? Quanti anni hai dedicato alla
ricerca e poi all’insegnamento, prima di diventare tipografo? Guardami negli occhi e spiegami
tu una cosa: in che modo il tuo nuovo mestiere ha un legame con il tuo passato? La vita è
piena di imprevisti, Max. Mi sono lasciata allontanare due volte dalla valle dell’Omo, forse era
giunta l’ora che mi ponessi delle domande sul futuro.»«Sei così presa da quel tizio? Ma ti
senti quando parli?»«Quel tizio, come lo chiami tu, sarà anche pieno di difetti, è distratto, a
volte completamente distaccato dalla realtà, maldestro all’inverosimile, ma ha qualcosa che
non ho mai trovato prima d’ora. Mi scombussola, Max. Mi fa ridere, mi coinvolge, mi provoca
e mi rassicura.»«Allora è ancora peggio di quanto pensassi. Tu lo ami.»«Non mettermi in
bocca parole che non ho detto.»«Invece le hai dette, e se non te ne rendi conto, è perché sei
sciocca.»Keira si alzò dalla scrivania e andò verso la vetrata che sovrastava la tipografia.
Guardò le rotative in cui i lunghi rotoli di carta giravano velocissimi. Il rumore delle piegatrici
riecheggiava fino al mezzanino. Poi a un tratto si fermarono e scese il silenzio nella tipografia
che chiudeva.
«Sei turbata?» continuò Max. «E che ne è della tua libertà?»«Puoi esaminare quel testo,
sì o no?» mormorò lei.
«Dall’ultima volta che sei stata qui, l’ho analizzato almeno un centinaio di volte. Era un
modo per starti vicino.»«Max, ti prego, evita.»«Evitare cosa? Di provare ancora dei sentimenti
nei tuoi confronti? Per te che differenza fa? E’ un problema mio, non tuo.»Keira si diresse
verso la porta dell’ufficio; girò la maniglia e si voltò.
«Resta qui, stupida!» ordinò Max. «Torna a sederti sull’angolo della scrivania, ti dirò cosa
ne penso della tua teoria. Forse mi sono sbagliato, anche se l’idea che l’allieva superi il
maestro un po’ mi disturba. È possibile che, nel tuo testo, la parola “apogeo” sia stata confusa
con “ipogeo”, il che ovviamente cambia il senso complessivo. Come tu ben sai, gli ipogei
sono antiche sepolture costruite dagli egizi e dai cinesi, con una peculiartà: pur trattandosi di
camere funerarie a cui si accede attraversando un corridoio, si trovano sotto terra e non, per
esempio, nel cuore di una piramide. C’è almeno un elemento che tornerebbe in questa interpretazione. Il manoscritto in lingua ge’ez risale forse al quarto o quinto millennio avanti Cristo:
ci troviamo in piena protostoria, al momento della nascita dei popoli asianici.»«Ma i sumeri, i
probabili autori del testo, non facevano parte dei popoli asianici, se i miei ricordi universitari
non sono troppo confusi…»«A lezione stavi più attenta di quanto pensassi. No, in effetti la
loro lingua era afroasiatica, imparentata con quella dei berberi e degli egizi. Sono apparsi nel
deserto della Siria nel sesto millennio avanti Cristo. Ma sicuramente hanno interagito, è possibile che gli uni abbiano raccontato la storia degli altri. Quelli che ci interessano nel contesto
della tua teoria, appartengono a un popolo di cui ho parlato poco a lezione: i pelasgi degli ipogei. All’inizio del quarto millennio, alcuni pelasgi provenienti dalla Grecia si stabilirono
nell’Italia meridionale. Li ritroviamo in Sardegna. Si spinsero fino in Anatolia, da cui presero il
mare per andare a fondare una nuova civiltà sulle isole e le coste del Mediterraneo. E’ possibile che abbiano proseguito la traversata verso l’Egitto, passando per Creta. Ciò che intendo dire è che i semiti o i loro antenati avrebbero potuto benissimo raccontare in questo
testo un evento relativo alla storia dei pelasgi degli ipogei.»«Credi che uno di questi pelasgi
avrebbe potuto risalire il Nilo fino al Nilo Azzurro?»«Fino in Etiopia? Ne dubito; in ogni caso,
un viaggio simile non sarebbe certo stato compiuto da un singolo individuo, ma da un gruppo.
Nell’arco di due o tre generazioni, il periplo sarebbe stato condotto a termine. Comunque,
propenderei più per il percorso contrario, ovvero dalla sorgente al delta. E’ possibile che qualcuno abbia portato il tuo misterioso oggetto ai pelasgi. Ma se vuoi che davvero ti aiuti, Keira,
devi darmi maggiori informazioni.»Al che lei cominciò a passeggiare su e giù per la stanza e
sbalordì il suo ex professore annunciando: «Circa quattrocento milioni di anni fa, cinque frammenti costituivano un unico oggetto dalle proprietà stupefacenti».
«Ma è ridicolo, Keira!» protestò Max, indignato. «A quell’epoca nessun essere vivente era
abbastanza evoluto da modellare un qualsiasi materiale. Sai bene, come me, che è impossibile!»«Se Galileo avesse affermato che un giorno avremmo inviato un radiotelescopio ai
confini del sistema solare, lo avrebbero mandato al rogo prima ancora che terminasse la
frase; se l’ingegnere francese Ader avesse affermato che avremmo camminato sulla Luna,
avrebbero distrutto il suo aeromobile prima che si levasse in volo. Solo vent’anni fa, tutti concordavano sul fatto che Lucy fosse la nostra antenata più vecchia: se tu avessi sostenuto che
la madre dell’umanità aveva dieci milioni di anni, ti avrebbero tolto immediatamente la cattedra!»«Vent’anni fa stavo ancora studiando!»«Se dovessi tirar fuori tutte le cose dichiarate
impossibili che poi si sono dimostrate vere, dovremmo trascorrere molte notti insieme per
farne un elenco.»«Una sola mi riempirebbe già di gioia…»«Non ci provare, Max! Ciò di cui
sono certa è che quattro o cinquemila anni prima della nostra èra, qualcuno ha scoperto
l’oggetto. Per ragioni che ancora non mi spiego, tranne forse la paura suscitata dalle sue propriet, la persona o le persone che lo trovarono decisero, non potendo distruggerlo, di separarne i frammenti. Ed è proprio quello che sembra rivelarci la prima riga del manoscritto.»Ho
disgiunto la tavola dei ricordi e affidato ai capi delle colonie le parti che essa unisce…«Non
vorrei interromperti, ma “tavola dei ricordi” si riferisce molto probabilmente a una conoscenza,
un sapere. Assecondando il tuo ragionamento, aggiungerei che forse l’oggetto è stato smembrato affinché ciascun frammento recasse un’informazione ai confini del mondo.»«Possibile,
ma non è ciò che suggerisce la fine del documento. Per tagliare la testa al toro, occorre
sapere dove si trovano i frammenti dispersi. Ne abbiamo due, ne è stato trovato un terzo, ma
ne mancano altri. Adesso ascolta, Max, mentre ero in prigione ho continuato a riflettere sul
testo in ge’ez, più precisamente su una parola contenuta nella seconda parte della frase: affidato ai capi delle colonie. Secondo te, chi sono questi capi?»«Eruditi. Probabilmente capi di
alcune tribù. Ma il capo è anche un maestro.»«Tu sei stato il mio capo?» chiese Keira in tono
ironico.
«Sì, più o meno.»«Allora ecco la mia teoria, caro capo» continuò Keira. «Un piccolo frammento è riapparso in un vulcano nel bel mezzo di un lago, al confine fra Etiopia e Kenya. Ne
abbiamo rinvenuto un altro, sempre in un vulcano, questa volta sull’isola di Narcondam,
nell’arcipelago delle Andamane: quindi uno a sud e uno a est. Entrambi si trovavano a poche
centinaia di chilometri dalla sorgente o dall’estuario di grandi fiumi. Il Nilo e il Nilo Azzurro nel
primo caso, l’Irrawaddy e lo Yang tzé nell’altro.»«E quindi?» l’interruppe Max.
«Supponiamo che, per un motivo ancora a me ignoto, l’oggetto sia stato volutamente suddiviso in quattro o cinque frammenti, ognuno dei quali lasciato in un punto del pianeta. Uno
viene ritrovato a est, l’altro a sud, il terzo, che poi è stato il primo a essere stato scoperto venti
o trent’anni fa…»«Dov’è?»«Non lo so. Smettila di interrompermi, Max. Sarei pronta a scommettere che i due oggetti restanti si trovino uno a nord e l’altro a ovest.»«Scusa se te lo faccio
notare, ma nord e ovest mi sembrano concetti un po’ vaghi.»«Senti, se devi prendermi in giro,
tanto vale che me ne vada.»Keira si alzò di colpo e si diresse alla porta.
«Basta, Keira! Smettila di comportarti come una bambina permalosa! E’ un monologo o
una conversazione? Su, procedi con il tuo ragionamento, non farò più commenti.»Keira tornò
a sedersi accanto a Max, prese un foglio di carta e disegnò un planisfero, riproducendo grossolanamente le masse continentali.
«Conosciamo le grandi rotte seguite durante le prime migrazioni che popolarono il pianeta. Partendo dall’Africa, una prima colonia si diresse verso l’Europa e una seconda andò
verso l’Asia» continuò Keira tracciando una grande freccia sul foglio di carta, «dividendosi in
due gruppi. Uno proseguì verso l’India, attraversò la Birmania, la Thailandia, la Cambogia e
poi ancora Vietnam, Indonesia, Filippine, Nuova Guinea e Papua Nuova Guinea, giungendo
in Australia; l’altro» disegnò una nuova freccia «andò verso nord, attraversando Mongolia e
Russia, risalendo il fiume Yana in direzione dello stretto di Bering. In piena èra glaciale, la
terza colonia circumnavigò la Groenlandia, proseguendo lungo le coste ghiacciate fino a toccare, fra i quindici e i ventimila anni fa, le coste comprese fra l’Alaska e il mare di Beaufort.
Poi ci fu la discesa del continente nordamericano fino al Monte Verde, dove la quarta colonia
giunse fra i dodici e i quindicimila anni fa. Forse chi ha trasportato i frammenti, quattromila
anni fa, ha seguito le stesse rotte. Una tribù di messaggeri diretti alle Andamane, terminò il
viaggio sull’isola di Narcondam; un’altra si recò alle sorgenti del Nilo, fino al confine tra il
Kenya e l’Etiopia.»«Ne deduci che altri due “popoli messaggeri” si siano diretti a nord e a
ovest per nascondere gli altri frammenti?»«Il testo dice: Ho affidato ai capi delle colonie le
parti che essa unisce. Ogni gruppo di messaggeri - un viaggio di questa portata non poteva
essere condotto a termine in una sola generazione - è andato a portare un frammento simile
al mio ciondolo ai capi delle prime colonie.»«La tua ipotesi regge, ma questo non significa
che sia giusta. Ricorda ciò che ti ho insegnato all’università: il fatto che una teoria sembri logica non la rende necessariamente vera.»«Mi hai anche spiegato che il fatto di non trovare
una cosa non significa che la cosa in questione non esista!»«Cosa vuoi da me, Keira?»«Cosa
faresti al mio posto?» fu la risposta alla sua domanda.
«Non avrò mai la donna che sei diventata, ma vedo che non perderò mai una parte
dell’allieva che sei stata. E’ già molto.» Max si alzò e cominciò a sua volta a fare avanti e indietro per la stanza. «Keira, non lo so proprio, non so cosa farei al tuo posto. Se fossi stato
portato per questo genere di indovinelli, avrei abbandonato volentieri le aule polverose
dell’università per esercitare il mio mestiere, anziché insegnarlo.»«Avevi paura dei serpenti,
detestavi gli insetti e non volevi rinunciare alle comodità: non è che ti mancasse la capacità
logica, Max, ti eri solo un po’ impigrito. Ecco tutto.»«Se ti fa piacere, mettiamola pure
così!»«Torniamo al punto: cosa faresti al mio posto?»«Mi hai parlato di un terzo frammento
scoperto trent’anni fa. Per cominciare cercherei di scoprire dov’è stato trovato esattamente.
Se è stato rinvenuto in un vulcano a un centinaio di chilometri da un grande fiume, puoi segnare un punto a favore del tuo ragionamento. Se invece era in piena Provenza, o in mezzo a
un campo di patate nella campagna inglese, la tua ipotesi finisce nella pattumiera e devi ripartire da zero. Ecco cosa farei prima di ripartire per chissà dove. Keira, stai cercando un ciottolo nascosto da qualche parte sul pianeta: pensare di trovarlo è un’utopia!»«Passare la vita
in un’arida vallata per scavare alla ricerca di ossa vecchie centinaia di migliaia di anni,
guidata solo dall’intuizione, non è un’utopia? Sperare di imbattersi in una piramide sepolta
sotto la sabbia del deserto non è un’altra utopia? Il nostro mestiere non è altro che una gigantesca utopia, Max, ma per ciascuno di noi è il sogno di una scoperta che tentiamo in tutti i
modi di trasformare in realtà!»«Non è il caso di prendertela così! Ho solo risposto alla tua
domanda. Scopri dov’è stato ritrovato il terzo frammento e saprai se stai percorrendo la via
giusta.»«E se così fosse?»«Torna a trovarmi e rifletteremo insieme sulla strada da intraprendere per inseguire il tuo sogno. Ma adesso devo dirti un’altra cosa che potrebbe innervosirti.»«Cosa?»«Quando sei con me non ti accorgi del tempo che passa, il che mi rende
felice, ma sono le nove e mezza e ho molta fame: ti porto fuori a cena?»Keira guardò
l’orologio e balzò in piedi.
«Jeanne, Adrian! Accidenti!»Erano quasi le dieci di sera quando Keira suonò il campanello dell’appartamento della sorella.
«Non avrai intenzione di mangiare?» chiese Jeanne aprendo.
«Adrian è qui?» chiese Keira cercandolo con lo sguardo oltre le spalle della sorella.
«A meno che non abbia il dono del teletrasporto, non vedo come avrebbe potuto arrivare
fin qui.»«Gli avevo dato appuntamento…»«E gli avevi lasciato il il mio indirizzo?»«Non ha
chiamato?»«Gli hai dato il numero di casa?»Keira rimase in silenzio.
«Allora può darsi che mi abbia lasciato un messaggio in ufficio. Peccato solo che io sia
uscita presto per preparare una cena che a questo punto è finita nella pattumiera. Dopo ore di
ritardo, era impresentabile.» Jeanne incenerì la sorella con lo sguardo.
«Ma dov’è Adrian?»«Credevo fosse con te, pensavo aveste deciso di passare la serata
come due piccioncini.»«Ma no, ero con Max…»«Di bene in meglio! Posso sapere
perché?»«Non cominciare, Jeanne, era per le nostre ricerche. E adesso cosa faccio?»«Chiamalo!»Keira corse al telefono, mi chiamò e trovò la segreteria. Avevo un minimo di
amor proprio, e che cavolo! Mi lasciò un lungo messaggio: «Mi dispiace, non mi sono accorta
del tempo che passava, sono imperdonabile, ma devo subito raccontarti le ultime novità.
Dove sei? So che sono le dieci passate, ma richiamami, richiamami, richiamami!». Poi un
secondo messaggio in cui mi diede il numero di casa della sorella. Un terzo in cui si diceva
davvero preoccupata perché non aveva mie notizie. Un quarto in cui era un po’ irritata. Un
quinto in cui mi accusava di avere un brutto carattere. Un sesto verso le tre del mattino, e un
ultimo in cui mise giù senza dire una parola.
Avevo dormito in un piccolo albergo dell’Ile Saint-Louis. Dopo aver fatto colazione, raggiunsi in taxi la casa di Jeanne. C’era una panchina sul marciapiedi di fronte, andai a sedermi e
mi misi a sfogliare il giornale.
Dopo qualche minuto, Jeanne uscì dall’edificio. Mi riconobbe e venne verso di me.
«Keira è davvero su tutte le furie!»«Be’, siamo in due!»«Mi dispiace» disse Jeanne.
«Anch’io sono arrabbiatissima con lei.»«Io non sono arrabbiatissimo» replicai subito.
A quel punto Jeanne mi salutò e si allontanò di qualche passo, poi tornò indietro.
«L’incontro di ieri con Max è stato puramente professionale, ma io non le ho detto niente!»Rimasi sulla panchina a leggere il giornale fino all’ultima pagina, poi entrai in una piccola panetteria all’angolo della strada e comprai alcuni croissant.
Keira mi aprì la porta con gli occhi ancora gonfi di sonno.
«Ma dov’eri?» chiese sfregandosi le palpebre. «Sono morta di paura!»«Croissant? Pane
al cioccolato? Tutt’e due?»«Adrian…»«Fai colazione e vestiti; c’è un Eurostar che parte a
mezzogiorno, facciamo ancora in tempo a prenderlo.»«Prima devo andare da Ivory, è molto
importante.»«In effetti, c’è un Eurostar ogni ora… va bene, facciamo una visita a Ivory.»Keira
preparò il caffè e mi raccontò della teoria che aveva esposto a Max. Intanto io ripensavo alle
parole dell’antiquario riguardo alle sfere armillari. Non so perché, ma avrei voluto chiamare
Erwan per parlargliene. La mia momentanea distrazione non sfuggì a Keira, che richiamò
subito la mia attenzione.
«Vuoi che ti accompagni dal vecchio professore?» proposi.
«Mi puoi dire dove hai passato la notte?»«No, o meglio: potrei, ma non te lo dirò» risposi
con un gran sorriso sulle labbra.
«Mi è del tutto indifferente.»«Allora non parliamone più… Torniamo a Ivory: è a lui che
eravamo rimasti, vero?»«Non è tornato al museo, ma Jeanne mi ha dato il suo numero di
casa. Adesso lo chiamo.»Mentre andava verso la camera della sorella, dove si trovava il telefono, Keira si voltò e mi chiese di nuovo: «Dove hai dormito?».
Ivory aveva accettato di riceverci a casa sua. Abitava in un appartamento elegante sull’Ile
Saint-Louis, a due passi dal mio albergo. Quando aprì la porta, riconobbi l’uomo che il giorno
prima era sceso da un taxi mentre sfogliavo il libro al tavolino di un bar. Ci fece accomodare
in salotto e ci offrì tè e caffè.
«E’ un piacere rivedervi, cosa posso fare per voi?»Keira andò dritta al punto: gli domandò
se sapesse dov’era stato scoperto il frammento di cui le aveva parlato al museo.
«E se prima mi dicesse perché le interessa?»«Penso di aver fatto progressi
nell’interpretazione del testo in lingua ge’ez.»«La cosa mi incuriosisce molto. Cos’ha
scoperto?»Keira gli espose la teoria sui popoli degli ipogei. Nel quarto o quinto millennio avanti Cristo, alcuni uomini avevano trovato l’oggetto nella sua forma intatta e lo avevano
smembrato in più pezzi. Secondo il manoscritto, si erano costituiti poi dei gruppi incaricati di
portare i vari frammenti nei diversi continenti.
«E’ un’ipotesi molto suggestiva» esclamò Ivory. «Forse non del tutto insensata. Immagino
però non abbia idea del motivo di tali viaggi, tanto pericolosi quanto improbabili…»«Un’ipotesi
ce l’ho» rispose Keira.
Basandosi su quanto le aveva detto Max, suggerì che ogni pezzo fosse testimone di una
conoscenza, di un sapere che doveva essere rivelato.
«Non sono d’accordo, propendo più per il contrario» ribatté Ivory. «La fine del testo induce
a credere che si trattasse di un segreto da mantenere tale. Legga lei stessa: Che restino
celate le ombre dell’infinito.»Mentre Ivory discuteva con Keira, le ombre dell’infinito mi fecero
ripensare all’antiquario del Marais.
«L’aspetto affascinante delle sfere armillari non è tanto il fatto che permettano di stabilire
la posizione degli astri nel cielo in un determinato momento, quanto piuttosto ciò che non
mostrano e che tuttavia possiamo indovinare» mormorai.
«Prego?» chiese Ivory girandosi verso di me.
«Il vuoto e il tempo» risposi.
«Di cosa stai parlando, Adrian?» intervenne Keira.
«Niente, un’idea che non c’entra con il vostro discorso, ma che mi è passata per la
mente…»«Dove pensa di cercare gli elementi mancanti?» riprese Ivory.
«Quelli in nostro possesso sono stati scoperti nel cratere di un vulcano, a poche decine di
chilometri da un grande fiume, uno a est e l’altro a sud. Sento che gli altri sono nascosti in
luoghi simili a ovest e a nord.»«Avete i due frammenti con voi?» domandò Ivory, con gli occhi
che scintillavano.
Keira e io ci scambiammo uno sguardo, poi lei prese il ciondolo e io tirai fuori quello che
conservavo gelosamente nella tasca interna della giacca; li appoggiammo entrambi sul tavolino. Keira li unì e assunsero quel colore blu profondo che non finiva mai di sorprenderci;
ma questa volta notai che lo scintillio era meno intenso, come se il loro sfavillio si stesse via
via consumando.
«E’ stupefacente!» esclamò Ivory. «Ancora più di quanto avessi immaginato.»«Cosa
aveva immaginato?» replicò Keira incuriosita.
«No, niente di particolare» borbottò Ivory. «Ma è un fenomeno davvero incredibile, soprattutto conoscendo l’età dell’oggetto.»«Ora ci vuole finalmente dire dove fu scoperto il suo, professore?»«Non è il mio, purtroppo. Fu trovato trent’anni fa nelle Ande peruviane, ma,
purtroppo per la sua teoria, non nel cratere di un vulcano.»«E allora dove?» chiese Keira.
«Circa centocinquanta chilometri a nordest del lago Titicaca.»«Com’è successo?»
domandai.
«Durante una spedizione di geologi olandesi che risalivano verso le sorgenti del Rio delle
Amazzoni. L’oggetto fu individuato per la sua forma singolare, all’interno di una grotta in cui
gli scienziati si erano fermati per ripararsi dal brutto tempo. Non avrebbe attirato troppo
l’attenzione, se il capo della spedizione non fosse stato testimone dello stesso fenomeno a
cui avete assistito voi. Durante quella notte tempestosa, la luce dei lampi provocò la famosa
proiezione di puntini luminosi su una parete della sua tenda. Rimase ancor più esterrefatto
quando la mattina si accorse che la tela era diventata permeabile alla luce. Si erano formati
migliaia di piccoli fori. Poiché i temporali erano frequenti nella regione, l’esploratore ripetè
l’esperienza diverse volte e ne dedusse che non poteva trattarsi di un semplice ciottolo. Portò
con sé il frammento e lo fece esaminare.»«E’ possibile incontrare questo geologo?»«E’ morto
alcuni mesi dopo, in seguito a un banale incidente nel corso di un altro viaggio.»«Dove si
trova il frammento?»«Da qualche parte in un luogo sicuro, ma non so esattamente dove.»«La
scoperta non quadra con il vulcano, ma in compenso si è verificata a ovest.»«Sì, è vero.»«E
a poche decine di chilometri da un affluente del Rio delle Amazzoni.»«Esatto» commentò
Ivory.
«Due ipotesi su tre verificate: non male!» disse Keira.
«Temo che questo non le sia di grande aiuto per trovare gli altri frammenti. Due furono
rinvenuti accidentalmente. Per quanto riguarda il terzo, ha avuto molta fortuna.»«Mi sono ritrovata sospesa nel vuoto a oltre duemila metri di altitudine, abbiamo sorvolato rasoterra la
Birmania a bordo di un aereo che si poteva definire tale solo per le ali, ho rischiato di annegare e Adrian di morire di polmonite, senza dimenticare tre mesi di prigione in Cina: mi
spieghi un po’ dov’è la fortuna in tutto questo!»«Non volevo minimizzare i vostri sforzi! Mi
lasci riflettere qualche giorno sulla vostra teoria. Mi ritufferò nella lettura: se trovo la minima
informazione che possa risultare utile per le ricerche, la contatterò.»Keira scrisse il mio numero di telefono su un foglio di carta e lo porse a Ivory.
«Dove pensate di andare?» chiese l’anziano professore riaccompagnandoci alla porta.
«A Londra. Anche noi abbiamo delle ricerche da portare avanti.»«Buon soggiorno in
Inghilterra! Un’ultima cosa prima di congedarci: poco fa aveva ragione, la fortuna non è stata
mai dalla vostra parte. Le raccomando la massima prudenza: tanto per cominciare, non
mostri a nessuno il fenomeno di cui sono appena stato testimone.»Salutammo il vecchio professore e recuperammo il mio bagaglio all’hotel, dove Keira non fece alcun commento sulla
sera prima; poi la accompagnai al museo, per un ultimo abbraccio a Jeanne prima di partire
per Londra.
Londra
Non avevo prestato loro molta attenzione sulla banchina della Gare du Nord, quando mi
avevano urtato senza scusarsi, ma mentre cercavo di raggiungere il vagone ristorante notai di
nuovo quella coppia quanto meno bizzarra. Di primo acchito, soltanto un giovane inglese e la
sua compagna, entrambi infagottati. Mentre mi avvicinavo alla cassa, il ragazzo mi guardò in
modo strano; poi lui e la sua amica risalirono il convoglio verso la motrice. Il treno si sarebbe
fermato a Ashford quindici minuti dopo; ne dedussi che stessero andando a recuperare i bagagli per scendere alla fermata successiva. L’addetto al minibar osservò allontanarsi i due
giovani con la testa rasata sospirando.
«Il taglio di capelli non fa il monaco» gli dissi ordinando un caffè. «Magari, una volta conosciuti, sono anche simpatici.»«Può darsi» rispose il cameriere in tono dubbioso, «ma il
ragazzo ha trascorso tutto il viaggio a pulirsi le unghie con un coltello a serramanico, e la
ragazza a guardarlo fare. Non viene molta voglia di attaccare bottone!»Pagai il conto e tornai
al mio posto. Entrando nel vagone in cui Keira si era assopita, incrociai di nuovo i due vicino
al compartimento bagagli dove avevamo lasciato le nostre borse. Mi avvicinai e il ragazzo
fece un cenno all’amica, che si voltò sbarrandomi la strada.
«E’ occupato» disse in tono arrogante.
«Occupato da cosa?» replicai.
Il ragazzo intervenne e tirò fuori il coltello dalla tasca, sostenendo che non gli era piaciuto
il tono con cui mi rivolgevo alla sua compagna.
Quand’ero giovane ho trascorso molto tempo a Ladbroke Grove, dove abitava il mio
migliore amico dell’università. Ho imparato a riconoscere i marciapiedi riservati ad alcune
bande, gli incroci che non potevamo attraversare, i bar in cui era meglio non andare a giocare
a calcio balilla. Sapevo che quei due cercavano la rissa. Se mi fossi mosso, la ragazza mi
avrebbe attaccato alle spalle per bloccarmi le braccia, mentre il compagno mi avrebbe
riempito di botte. Una volta a terra, mi avrebbero preso a calci nelle costole. L’Inghilterra della
mia infanzia non era fatta solo di giardini con bei prati verdi e, da quel punto di vista, i tempi
non erano troppo cambiati. E’ sempre difficile seguire l’istinto quando si hanno dei principi,
ma alla fine mollai un ceffone formidabile alla ragazza, che cadde sulle valigie massaggiandosi la guancia. Stupefatto, il ragazzo mi balzò davanti, facendo passare la lama da una
mano all’altra. Era giunta l’ora di dimenticare l’adolescente dentro di me e agire come l’adulto
che in teoria ero diventato.
«Dieci secondi» parlai con calma. «Fra dieci secondi ti confisco il coltello e, a quel punto,
scendi nudo dal treno. Ti piace l’idea? O forse preferisci rimetterlo in tasca e fare il bravo?»La
ragazza si rialzò furiosa e si mise a inveire; il suo compagno era sempre più nervoso.
«Fallo a pezzi!» gridò. «Aprilo in due, Tom!»«Tom, dovresti dar prova di maggiore autorità
con la tua ragazza! Metti via quell’affare, prima che uno di noi due si faccia male.»«Cosa sta
succedendo?» chiese Keira arrivandomi alle spalle.
«Una piccola lite» risposi costringendola a indietreggiare.
«Vuoi che chiami aiuto?»I due ragazzi non si aspettavano che arrivassero i rinforzi; il
treno stava rallentando, era già in vista la banchina della stazione di Ashford. Tom trascinò
verso di sé la compagna, continuando a minacciarci con il coltello a serramanico. Keira e io
restammo immobili, con lo sguardo fisso sull’arma che piroettava davanti a noi.
«Fottetevi!» ringhiò il ragazzo.
Non appena il treno fu fermo si precipitò giù, dandosela a gambe insieme all’amica.
Keira rimase ammutolita; i passeggeri che volevano scendere ci costrinsero a spostarci.
Tornammo ai nostri posti e il treno ripartì. Keira voleva che avvisassi la polizia, ma ormai era
troppo tardi, i due delinquentelli erano già spariti e poi il mio cellulare era nella borsa. Mi alzai
per andare a controllare che ci fosse ancora. Keira mi aiutò a ispezionare i nostri bagagli; il
suo era intatto, il mio era stato aperto: a parte un po’ di disordine, sembrava non mancasse
niente. Presi il telefono e il passaporto e li infilai nella giacca. Quando arrivammo a Londra,
l’incidente era già dimenticato.
Provai una gioia immensa davanti alla porta della mia casetta. Cercai le chiavi nelle
tasche: eppure ero certo di averle, quando avevamo lasciato Parigi! Per fortuna la vicina mi
vide dalla finestra e mi invitò a passare dal suo giardino.
«La scala sa dov’è» mi disse. «Adesso sto stirando; non si preoccupi, chiuderò quando
avrò finito.»La ringraziai e, pochi istanti dopo, scavalcai lo steccato. Non avendo ancora fatto
riparare la porta sul retro, diedi un colpetto secco alla maniglia e finalmente fui in casa. Dopodich aprii a Keira che mi attendeva in strada.
Passammo il resto del pomeriggio a fare compere nel quartiere. La fornitissima e variopinta bancarella di un venditore ambulante di frutta e verdura suscitò l’entusiasmo di Keira, che
acquistò una quantità di viveri sufficiente a sfamare un esercito. Ma quella sera, purtroppo,
non riuscimmo a cenare.
Io mi trovavo in cucina, intento a tagliare le zucchine a dadini regolari, come mi aveva ordinato Keira, mentre lei stava preparando una salsa di cui non voleva svelarmi la ricetta.
Squillò il telefono. Non il cellulare, ma la linea fissa. Keira e io ci guardammo, perplessi. Andai
in salotto e sollevai la cornetta.
«Allora è vero! Siete tornati!»«Siamo arrivati da poco, mio caro Walter.»«Grazie mille per
avermi avvisato, è stato davvero gentile da parte vostra.»«Siamo appena scesi dal
treno…»«Però è proprio il colmo che io debba venire a sapere dell’arrivo in città del mio più
caro amico da un fattorino della FedEx!»«Un fattorino l’ha informata del nostro ritorno? Davvero strano.»«Qualcuno ha fatto lasciare alla Royal Academy un plico alla sua attenzione…
In realtà il nome sulla busta è quello della sua amica e sotto c’è scritto: Ne abbia cura. E si
precisa anche: Da consegnare con la massima urgenza. Dal momento che a quanto pare
sono diventato il suo postino ufficiale, vuole che passi a portarle questa busta?»«Rimanga in
linea, ne parlo a Keira.»«Una busta a mio nome, spedita alla Royal Academy? Ma che storia
è mai questa?» si accigliò lei.
Non ne avevo la minima idea; le chiesi se voleva che Walter ce la portasse, come si era
offerto gentilmente di fare.
Keira fece ampi gesti e non ebbi difficoltà a capire che era l’ultima cosa di cui aveva
voglia. Tra Walter che mi parlava nell’orecchio e Keira che mi lanciava occhiatacce, mi sentivo preso tra due fuochi. Poiché bisognava prendere una decisione, pregai Walter di aspettarmi all’Accademia delle Scienze: non se ne parlava neanche di fargli attraversare Londra, sarei andato io recuperare il plico. Riagganciai, soddisfatto di quello che mi sembrava un
ottimo compromesso. Tuttavia, quando mi voltai, capii che Keira non condivideva il mio
entusiasmo. Le promisi che non ci avrei messo più di un’ora. Infilai un impermeabile, presi il
doppione delle chiavi nel cassetto della scrivania e tornai in strada, verso il piccolo box in cui
dormiva la mia vecchia auto.
Mentre salivo, ritrovai il profumo inebriante della pelle dei sedili. Uscendo dal garage,
dovetti frenare bruscamente per non investire Keira, che mi si parò davanti.
«Non poteva aspettare fino a domani, quella lettera?» disse salendo accanto a me e sbattendo la portiera.
«Sulla busta c’è scritto Urgente… Col pennarello rosso, ha precisato Walter. Ma posso
andarci benissimo da solo, non sei obbligata…»«Quella lettera è indirizzata a me e non voglio
che tu ti perda in chiacchiere con il tuo amico.»Fortunatamente non c’era molto traffico, ma
lungo la strada si mise a piovere, uno di quei violenti acquazzoni che spesso si riversano
sulla città. Walter ci aspettava davanti al portone principale della Royal Academy; aveva i
pantaloni e la giacca bagnati, e la sua faccia dei giorni peggiori. Si chinò verso la portiera e ci
tese il plico. Non potevo neanche offrirmi di riaccompagnarlo a casa: la mia macchina, un
coupé, ha solo due posti. Comunque decidemmo di aspettare che trovasse un taxi. Non appena ne passò uno, Walter mi salutò freddamente, ignorò Keira e se ne andò. Ci ritrovammo
seduti in auto sotto una pioggia battente, con la busta appoggiata sulle ginocchia di Keira.
«Non la apri?»«E’ la calligrafia di Max» mormorò lei.
«Quel tizio dev’essere telepatico!»«Perché?»«Secondo me ha visto che stavamo preparando una cenetta da innamorati, ha aspettato il momento in cui la tua salsa era pronta e a
quel punto ti ha mandato una lettera, all’unico scopo di rovinare la nostra serata.»«Non sei
spiritoso…»«Forse, ma ammetti che se fossimo stati disturbati da una delle mie ex amanti,
non avresti preso la cosa con altrettanto senso dello humour.»Keira passò la mano sulla
busta.
«Quale ex amante potrebbe mai scriverti?»«Non ho detto questo.»«Rispondi alla
domanda.»«Non ho ex amanti.»«Eri vergine quando ci siamo incontrati?»«Intendo dire che,
quando ero all’università, non sono andato a letto con nessuna delle mie professoresse!»«Grazie mille per la sottile allusione.»«Vuoi aprire questa busta, sì o no?»«Hai detto:
“cenetta da innamorati”, ho sentito bene?»«Sì, è possibile che lo abbia detto.»«Sei innamorato di me, Adrian?»«Apri quella busta, Keira!»«Lo prendo per un sì. Torniamo a casa e
saliamo direttamente in camera. Ho molta più voglia di te che di un piatto di zucchine.»«Lo
prendo per un complimento! E la lettera?»«Aspetterà fino a domattina, e anche Max.»Quella
prima sera a Londra risvegliò moltissimi ricordi. Dopo l’amore, ti sei addormentata; le persiane della camera erano socchiuse; seduto, ti guardavo, ascoltando il tuo respiro tranquillo.
Vedevo sulla tua schiena le cicatrici che il tempo non avrebbe mai cancellato. Le sfioravo con
le dita. Il calore del tuo corpo risvegliò il desiderio, con la stessa intensità di poco prima. Ci fu
un piccolo lamento da parte tua, io tolsi la mano, ma tu la riafferrasti, chiedendomi con voce
impastata perché avevo interrotto la mia carezza. Appoggiai le labbra sulla tua pelle, ma ti eri
già riaddormentata. Ti ho confessato che ti amavo. «Anch’io» hai mormorato.
La mia voce era stata appena un sussurro, ma quelle due parole ti avevano raggiunta nel
sonno.
Era quasi mezzogiorno quando riaprii gli occhi. Non eri al mio fianco nel letto, così venni a
cercarti in cucina. Indossavi una mia camicia e un paio di calze che avevi recuperato in un
cassetto. Una sorta di disagio, un pudore momentaneo che ci allontanava si era creato dopo
le confessioni della notte. Ti chiesi se avessi letto la lettera di Max. Con lo sguardo, la indicasti sul tavolo: era ancora intatta. Non so perché, ma in quel momento avrei voluto che
non l’aprissi mai. L’avrei volentieri infilata nel dimenticatoio. Non volevo che quella corsa folle
riprendesse, sognavo di passare del tempo con te, soli nella mia casa, uscendo solo per andare a bighellonare lungo il Tamigi, visitare i negozietti di Camden, fare una scorpacciata di
focacce in un localino di Notting Hill, ma tu apristi la busta e mi leggesti il messaggio che
conteneva, forse per dimostrarmi che d’ora in poi tra noi due non ci sarebbero più stati segreti.
Keira,la tua visita in tipografia mi ha lasciato una grande tristezza. Da quando ci siamo
rivisti alle Tuileries, i sentimenti che credevo spenti sono rinati. Non ti ho mai detto quanto la
nostra separazione fu dolorosa, quanto ho sofferto per la tua partenza, i tuoi silenzi, la tua.
assenza. Soprattutto il saperti felice, incurante di ciò che c’era, stato fra. noi. Ma dovevo arrendermi all’evidenza: sei una. donna capace di regalare tanta felicità,ma il tuo egoismo lasciava un vuoto difficile da colmare. Alla fine ho capito che è inutile cercare di trattenerti, nessuno ci riesce; tu ami sinceramente, ma, il tuo è un amore a termine. Poche stagioni di gioia
sono già molto, anche se le cicatrici che lasci alle persone che abbandoni fanno male a
lungo.
Preferirei che non ci vedessimo più. Non darmi tue notizie, non venire a trovarmi quando
sei a Parigi. Non è l’ex professore a ordinartelo, ma l’amico a chiedertelo. Ho riflettuto molto
sulla nostra conversazione. Eri un ‘allieva insopportabile, tuttavia, come ti ho già detto, hai
istinto, una dote preziosa nella tua professione. Sono fiero del percorso che hai compiuto, pur
non avendo avuto nessun ruolo in questo: qualunque professore si sarebbe accorto del potenziale della paleontologa che sei diventata. La teoria che mi hai esposto non è impossibile,
anzi: ho quasi voglia di crederci. Forse ti stai avvicinando a una verità il cui senso ancora ci
sfugge. Segui la via dei pelasgi degli ipogei, non escludo che ti conduca a qualche risultato.
Dopo che te ne sei andata, sono tornato a casa, ho riaperto libri chiusi da anni, tirato fuori
i quaderni archiviati, esaminato gli appunti. Sai quanto sono maniacale, come tutto sia classificato e ordinato nell’ufficio in cui abbiamo trascorso tanti bei momenti. In un taccuino ho
trovato il riferimento a un uomo le cui ricerche potrebbero esserti utili. Ha dedicato la vita a
studiare le grandi migrazioni dei popoli, ha scritto numerosi testi sugli asianici, anche se ne ha
pubblicati pochissimi, limitandosi a tenere conferenze in sale isolate, a una delle quali mi capit di partecipare tanto tempo fa. Anche lui proponeva idee innovative sui viaggi intrapresi dalle
prime civiltà del bacino mediterraneo. Contava numerosi detrattori, ma nel nostro ambiente
chi non ne ha? C’è così tanta invidia fra i nostri colleghi. L’uomo di cui ti parlo è un grande
erudito, nutro per lui un infinito rispetto. Vai a trovarlo, Keira. Ho saputo che si è ritirato a Yell,
un’isoletta dell’arcipelago delle Shetland, sulla punta settentrionale della Scozia. Sembra che
viva da eremita e si rifiuti di parlare del suo lavoro a chiunque, è un uomo ferito. Forse il tuo
carisma riuscirà a tirarlo fuori dalla tana e a farlo parlare.
La famosa scoperta a cui aspiri da sempre, quella a cui sogni di dare il nome, forse è finalmente alla tua portata. Ho fiducia in te, arriverai in fondo.
Buona fortuna, Max
Keira ripiegò la lettera e la mise nella busta. Si alzò, portò le tazze della colazione nel
lavandino e aprì il rubinetto.
«Vuoi che ti prepari un caffè?» chiese, voltandomi le spalle.
Non risposi.
«Mi dispiace, Adrian.»«Che quell’uomo sia ancora innamorato di te?» «No, di come mi ha
descritta.» «Ti riconosci in quella donna?»«Non lo so, forse ora non più, ma la sua sincerità
mi porta a credere che ci sia un fondo di verità.»«In sostanza dice che preferisci ferire la persona che ti ama, anziché intaccare la tua immagine.» «Anche tu pensi che sia un’egoista?»
«Non ho scritto io quella lettera. Ma questo tuo atteggiamento lo riconosco: quando tu stai
bene, in un certo senso ti autoconvinci che stiano bene anche le persone che ti vogliono
bene. Del resto non c’è bisogno che spieghi a una paleontologa come te il meraviglioso istinto
di sopravvivenza dell’uomo.» «Il cinismo non ti dona.»«Sono per metà inglese, immagino sia
nel mio DNA. Per favore, cambiamo argomento. Farò due passi fino all’agenzia viaggi, ho
bisogno di prendere aria. Vuoi andare a Yell, vero?»Keira mi accompagnò in agenzia e decidemmo di partire l’indomani. Avremmo fatto scalo a Glasgow prima di atterrare a Sumburgh, sull’isola principale dell’arcipelago delle Shetland. Poi, da lì, un traghetto ci avrebbe
condotti a Yell.
Con i biglietti in tasca, andammo a fare un giro a King’s Road. Ho le mie piccole abitudini
nel quartiere, mi piace risalire la grande arteria commerciale fino a Sydney Street, per poi
passeggiare nel Chelsea Farmers Market. Avevamo dato appuntamento a Walter in una tavola calda. La lunga camminata mi aveva messo appetito.
Dopo aver attentamente studiato il menu e ordinato un doppio hamburger, Walter si avvicin al mio orecchio.
«La Royal Academy mi ha dato un assegno per lei, l’equivalente di sei mesi di stipendio.»«A cosa devo tale onore?» chiesi.
«Adesso arriva la brutta notizia. Tenuto conto delle sue continue assenze, la sua cattedra
diventa solo onoraria, lei non è più di ruolo.»«Mi hanno licenziato?»«No, non proprio; ho per-
orato la sua causa meglio che ho potuto, ma siamo in piena fase di tagli al budget e il consiglio di amministrazione ha avuto l’ordine di eliminare tutte le spese inutili.»«Devo quindi
concludere che agli occhi del consiglio sono una spesa inutile?»«Adrian, gli amministratori
non sanno neppure che faccia abbia! Da quando è tornato dal Cile, non ha praticamente
messo piede nell’edificio. Non c’è da biasimarli.» Walter assunse un’aria ancora più cupa.
«Cos’altro c’è?»«Dovrebbe liberare il suo ufficio: mi hanno chiesto di far mandare tutto a
casa sua, una persona deve entrarci già dalla settimana prossima.»«Hanno già assunto il mio
sostituto?»«No, non è esattamente così, diciamo che hanno assegnato la classe destinata a
lei a un suo collega, che si è distinto per la presenza assidua. Ha bisogno di un posto in cui
preparare i corsi, correggere i compiti, ricevere gli studenti e così via. Il suo studio si adatta
perfettamente allo scopo.»«Posso sapere chi è il delizioso collega che mi pugnala alle
spalle?»«Non lo conosce, è all’Accademia delle Scienze da tre anni.»Da quest’ultima frase di
Walter, capii che l’amministrazione mi stava facendo pagare la libertà di cui avevo abusato.
Walter era mortificato, Keira evitava il mio sguardo. Presi l’assegno, ben deciso a incassarlo
subito. Ero furioso e potevo incolpare solo me stesso.
«Lo shamal ha soffiato fino all’Inghilterra» mormorò Keira.
La piccola allusione agrodolce al vento che l’aveva scacciata dagli scavi in Etiopia mi fece
capire che la tensione dopo la discussione della mattina non si era ancora smorzata.
«Cosa conta di fare?» chiese Walter.
«Be’, visto che sono ufficialmente disoccupato, Keira e io andremo a farci un
viaggetto.»Keira lottava con un pezzo di carne che opponeva resistenza e teneva lo sguardo
basso nel disperato tentativo di sfuggire a quell’imbarazzante conversazione.
«Abbiamo avuto notizie di Max» riferii a Walter.
«Max?»«Un vecchio amico della mia ragazza…»La fettina di roast-beef volò via sotto la
lama del coltello di Keira e percorse una distanza non trascurabile, prima di atterrare fra le
gambe di un cameriere.
«Non avevo fame» bofonchiò lei, «ho fatto colazione tardi.»«Si tratta della lettera che vi
ho consegnato ieri?» chiese Walter.
Keira bevve un sorso di birra, che però le andò di traverso, facendola tossire rumorosamente.
«Continuate pure, fate come se non ci fossi» disse asciugandosi la bocca.
«Sì, proprio quella.»«Ed è legata ai vostri progetti di viaggio? Andrete lontano?»«A nord
della Scozia, nelle Shetland.»«Conosco benissimo il posto: ci trascorrevo le vacanze da piccolo, mio padre portava tutta la famiglia a Whalsay. E’ una terra arida, però magnifica in estate; non fa mai caldo, papà non sopportava l’afa. So che gli inverni sono molto rigidi, anche
se non le ho mai visitate in quella stagione. Su quale isola andate?»«Yell.»«Sono stato anche
lì! Sulla punta nord c’è Windhouse, la casa più infestata del Regno Unito. Come indica il
nome, è una dimora in rovina battuta dai venti. Ma perché proprio lì?»«Andiamo a trovare un
conoscente di Max.»«Ah sì, e cosa fa questo signore?»«E’ in pensione.»«Perfetto, è tutto
chiaro: andate nel nord della Scozia a trovare un pensionato amico di un vecchio amico di
Keira. Dev’esserci un senso in tutto ciò. Mi sembrate tutti e due strani: c’è qualcosa
sotto?»«Lo sapeva, Walter, che Adrian ha un pessimo carattere?» sbottò all’improvviso Keira.
«Sì» rispose lui, «me n’ero accorto.»«Visto che lo sa già, non c’è sotto nient’altro.»Keira
mi chiese di darle le chiavi di casa: preferiva tornare a piedi e lasciar terminare a noi uomini
quella bella conversazione.
Salutò Walter e uscì dal ristorante.
«Avete litigato di nuovo, vero? Stavolta cos’ha combinato, Adrian?»«Ma pensa un po’,
perché dev’essere per forza colpa mia?»«Perché è stata Keira ad andarsene. Su, mi dica,
cos’ha fatto questa volta?»«Niente, a parte ascoltare stoicamente le frasi melense del tizio
che le ha scritto la lettera.»«Ha letto la lettera indirizzata a Keira?»«E’ stata lei a farlo!»«Be’,
se non altro è una prova della sua sincerità. Ma questo Max non era semplicemente un
amico?»«Un amico che condivideva il suo letto qualche anno fa.»«Senta un po’, vecchio mio,
neanche lei era alla prima esperienza quando vi siete incontrati. Vuole che le ricordi cosa mi
ha confidato? La dottoressa, il matrimonio con la sua collega, la panettiera…»«Non sono mai
stato con una rossa che serviva in un bar! »«No? Ah sì, forse quello ero io. Poco importa, non
mi dica che è così stupido da essere geloso del passato!»«D’accordo, non glielo dico.»«Ma
scusi un po’, lei dovrebbe benedire Max, anziché detestarlo.»«E per quale motivo?»«Perché
se non fosse stato così stupido da lasciarsela scappare, oggi lei e Keira non stareste insieme.»Guardai Walter, riflettendo: il suo ragionamento non era del tutto privo di senso.
«Su, mi offra un dessert e poi corra a scusarsi. Quanto è goffo, certe volte!»La mousse al
cioccolato doveva essere squisita: Walter mi pregò di perdonare la sua golosità mentre ne ordinava un’altra. In realtà, credo cercasse di rimandare la nostra separazione per parlarmi di
zia Elena, o meglio, perché io gli parlassi di lei. Progettava di invitarla a passare qualche
giorno a Londra e voleva sapere se credevo che avrebbe accettato. In base ai miei ricordi, la
zia non si era mai avventurata al di là di Atene, ma ormai non mi stupivo più di niente e, da
qualche tempo, tutto rientrava nell’ambito del possibile. Tuttavia raccomandai a Walter di procedere per gradi. Lasciò che gli prodigassi mille consigli e alla fine mi confidò, quasi confuso,
che gliel’aveva già chiesto e lei aveva risposto che sognava di visitare Londra da una vita.
Avevano pensato di organizzare il viaggio a fine mese.
«Perché mi ha chiesto consiglio, se aveva già risolto da sé la faccenda?»«Perché volevo
essere certo che la cosa non la disturbasse. Essendo l’unico uomo della famiglia, era normale che le chiedessi il permesso di frequentare sua zia.»«Non mi pare che l’abbia
fatto.»«Diciamo che ho sondato il terreno. Quando le ho chiesto se avevo qualche possibilità,
se avessi percepito la minima sfumatura ostile nella sua risposta…»«Avrebbe rinunciato ai
suoi progetti?»«No» confessò Walter, «ma avrei pregato Elena di convincerla a non nutrire
rancore nei miei confronti. Adrian, sa bene quanto le sono affezionato e non vorrei mai correre il rischio di offenderla, la nostra amicizia è davvero preziosa per me.»«Walter» dissi
guardandolo negli occhi.
«Cosa c’è? Pensa che la mia relazione con sua zia sia sconveniente, non è così?»«E’
meraviglioso che mia zia abbia finalmente trovato con lei la felicità che merita. Aveva ragione
a Hydra: se fosse lei ad avere vent’anni più di Elena, nessuno avrebbe nulla da ridire. Smettiamola con questi pregiudizi ipocriti e provinciali!»«Non è colpa della provincia, temo che la
gente di Londra non sia molto più aperta.»«Niente vi obbliga a baciarvi appassionatamente
sotto le finestre del consiglio di amministrazione dell’Accademia delle Scienze..,, anche se
l’idea, a essere sincero, mi divertirebbe molto.»«Quindi ho la sua approvazione?»«Non ne
aveva bisogno.»«In un certo senso sì. Elena preferirebbe che fosse lei a parlare a sua madre
del nostro piccolo progetto di viaggio, però ha precisato: solo se è d’accordo.»Il telefono vibrò
in tasca. Vidi sul display il numero di casa: Keira doveva essere spazientita. Be’, avrebbe potuto rimanere con noi.
«Non risponde?» chiese Walter preoccupato.
«No. Dov’eravamo rimasti?»«Al piccolo favore che sua zia e io vorremmo da lei.»«Vuole
che racconti a mia madre gli affari di cuore di sua sorella? Ho già problemi a parlarle dei miei,
ma farò quel che posso, glielo devo.»Walter mi prese le mani e le strinse con vigore.
«Grazie, grazie, grazie» disse calorosamente.
Il telefono vibrò di nuovo; lo lasciai sul tavolo dove lo avevo appoggiato e mi girai verso la
cameriera per ordinare un caffè.
Parigi
Una piccola lampada illuminava l’ufficio di Ivory. Il professore stava aggiornando i suoi appunti. Squillò il telefono, si tolse gli occhiali e rispose.
«Volevo informarla che ho consegnato la lettera alla destinataria.»«L’ha letta?»«Sì,
questa mattina stessa.»«E come ha reagito?»«E’ ancora troppo presto per dirlo…»Ivory
ringraziò Walter. Compose un numero e attese che l’interlocutore rispondesse.
«La sua lettera è arrivata a destinazione: volevo ringraziarla. Ha seguito le mie istruzioni?»«Ho ricopiato ogni sua parola, mi sono semplicemente permesso di aggiungere
qualche riga in più.»«Le avevo chiesto di non cambiare niente!»«E allora perché non l’ha
mandata lei stesso, perché non dirle tutto di persona? Perché servirsi di me come intermediario? Non capisco a quale gioco stia giocando.»«Quanto vorrei che fosse solo un gioco! Keira
nutre per lei la massima stima, molto più che per qualsiasi altra persona. Con questo non
voglio adularla, Max, ma lei è stato il suo professore, non io. Quando la chiamerò fra pochi
giorni per avvalorare le informazioni che otterrà a Yell, ne sarà sempre più convinta. Due
opinioni valgono più di una, non è così?»«Non quando le due opinioni provengono dalla
stessa persona.»«Questo lo sappiamo soltanto lei e io. Nel caso si sentisse un po’ turbato,
pensi che agisco così per la loro sicurezza. Mi avvisi quando Keira la richiamerà. Lo farà, ne
sono certo. E come d’accordo, lei sarà irraggiungibile. Domani le comunicherò un nuovo numero a cui contattarmi. Buonanotte, Max.»
Londra
Partimmo molto presto. Keira ciondolava dal sonno. Si riaddormentò in taxi e per svegliarla dovetti scuoterla all’arrivo a Heathrow.
«Mi piace sempre meno l’aereo» disse mentre decollavamo.
«E’ il colmo per un’esploratrice! Hai intenzione di raggiungere il Grande Nord a piedi?»«Ci
sono le navi…»«In inverno?»«Lasciami dormire.»Avevamo tre ore di scalo a Glasgow. Avrei
voluto portare Keira a visitare la città, ma c’era brutto tempo. Keira era preoccupata per il
volo. Il cielo si tingeva di nero, grosse nuvole oscuravano l’orizzonte. Di ora in ora, una voce
annunciava i ritardi e invitava i passeggeri a pazientare. Un forte temporale si abbatté sulla
pista; parecchi voli erano stati annullati, ma il nostro era ancora sul tabellone delle partenze.
«Secondo te, quante possibilità abbiamo che il vecchio ci riceva?» chiesi mentre il bar
dell’aeroporto chiudeva.
«Secondo te, quante possibilità abbiamo di arrivare sani e salvi nelle Shetland?» ribatté
Keira.
«Non ci faranno correre rischi inutili.»«La tua fiducia negli essseri umani mi stupisce ogni
volta» replicò lei.
L’acquazzone si allontanava. Approfittando di una breve tregua, la hostess ci invitò a raggiungere il più in fretta possibile la zona d’imbarco. Keira imboccò la passerella di malavoglia.
«Guarda» le dissi, indicando con un dito attraverso l’oblò. «C’è una schiarita, ci
passeremo in mezzo ed eviteremo le turbolenze.»«La tua schiarita ci seguirà fino
all’atterraggio?»Il lato positivo dei vuoti d’aria che ci sballottarono durante i cinquantacinque
minuti del volo fu che Keira non lasciò il mio braccio per un solo istante.
Arrivammo nell’arcipelago delle Shetland a metà pomeriggio, sotto una pioggia battente.
L’agenzia mi aveva consigliato di noleggiare un’auto all’aeroporto. Percorremmo novanta
chilometri di strada attraverso pascoli di greggi. Poiché le pecore vivono in libertà, ogni allevatore tinge la lana del proprio bestiame per distinguerlo da quello dei vicini. Il risultato è un
tripudio di colori in mezzo alla campagna che contrasta con il grigiore del cielo. A Toft ci im-
barcammo su un traghetto diretto a Ulsta, un piccolo villaggio sulla costa orientale di Yell; sul
resto dell’isola, in pratica, ci sono solo piccole frazioni isolate.
Avevo prenotato una stanza in un Bed and Breakfast a Burravoe, credo l’unico dell’isola.
Il B&B in questione era una fattoria con una camera messa a disposizione dei rari visitatori.
Yell è un’isola in capo al mondo, un lembo di terra lungo trentacinque chilometri e largo
appena dodici. Ci vivono 957 persone: il numero è preciso, poiché ogni nascita o morte influisce sensibilmente sulla demografia. Ci sono più lontre, foche grigie e sterne artiche che esseri umani.
La coppia di contadini che ci accolse sembrava piuttosto gentile, nei limiti in cui il loro accento mi permetteva di capire ciò che dicevano. La cena veniva servita alle sei e, alle sette,
Keira e io ci ritrovammo nella nostra camera, illuminata solo da due candele. Il vento soffiava
a raffiche, le imposte sbattevano, una pala a vento arrugginita cigolava nel buio e la pioggia
batteva contro i vetri. Keira si rannicchiò contro di me; fu un momento molto tenero anche se
non facemmo l’amore.
Tutto sommato non mi dispiacque affatto aver dormito, poiché il risveglio fu traumatico:
belati di pecore, grugniti di maiali, schiamazzi di volatili di ogni genere, mancava solo il muggito di una vacca a completare il concerto, ma le uova, il bacon e il latte di capra che gustammo a colazione avevano un sapore che da allora non ho mai più ritrovato. La padrona di
casa ci chiese cosa ci avesse portato lì.
«Siamo venuti per incontrare un antropologo che si è ritirato sull’isola, un certo Yann
Thornsten. Lo conosce?» domandò Keira.
La donna alzò le spalle e uscì dalla cucina. Keira e io ci guardammo interdetti.
«Ieri mi hai chiesto quante possibilità abbiamo di essere ricevuti da questo tizio. Ho appena rivisto le previsioni al ribasso» mormorai.
Dopo aver fatto colazione, mi recai alla stalla per salutare il marito della nostra ospite.
Quando parlai di Yann Thornsten, l’allevatore fece una smorfia.
«Vi aspetta?»«No, non proprio.»«Allora vi riceverà a fucilate. L’olandese è un tipo scontroso, per non dir di peggio. Quando viene al villaggio una volta la settimana per fare le provviste, non parla con nessuno. Due anni fa, la famiglia che abita nella fattoria accanto alla sua
ha avuto un terribile incidente. La donna ha partorito in piena notte, all’improvviso, ma sono
sorte delle complicazioni. Avevano bisogno del medico e l’auto del marito non voleva saperne
di partire. L‘uomo ha attraversato la landa per andare a chiedergli aiuto, un chilometro sotto la
pioggia, e l’olandese gli ha sparato addosso con la carabina. Il bimbo non è sopravvissuto.
Gliel’ho detto, quel Thornsten è un brutto tipo. Il giorno che lo porteranno al cimitero ci saranno solo il prete e il falegname.»«Perché il falegname?» chiesi.
«Perché è lui il proprietario del carro funebre, ed è suo il cavallo che lo traina.»Riferii la
conversazione a Keira e decidemmo di fare un giro lungo la costa per mettere a punto una
strategia.
«Ci andrò da sola» dichiarò Keira.
«Sei impazzita? Non se ne parla nemmeno!»«Non sparerà contro una donna, non ha nessun motivo per sentirsi minacciato. Senti, le storie sui vicini malvagi sono un classico in
queste isole: quell’uomo non è certo il mostro che hanno descritto. Conosco più di una persona che sparerebbe contro un estraneo che si presenta a casa sua in piena
notte.»«Frequenti gente strana!»«Portami davanti alla sua proprietà e al resto penso io.»«E’
fuori discussione!»«Non sparerà, credimi. Ho più paura del volo di ritorno che di incontrare
quest’uomo.»La discussione continuò per tutta la durata della passeggiata. Camminavamo
lungo le scogliere, scoprendo piccole baie selvagge. Keira si innamorò di una lontra; l’animale
non era scontroso, anzi sembrava quasi divertito dalla nostra presenza e ci seguiva a pochi
metri di distanza. Ci fece compagnia per più di un’ora. Il vento era glaciale, ma non pioveva.
Lungo la strada, incontrammo un uomo che tornava dalla pesca e gli chiedemmo informazioni.
Il suo accento era ancora più incomprensibile di quello dei nostri ospiti.
«Dove siete diretti?» grugnì fra i peli della barba.
«A Burravoe.»«E’ a un’ora di cammino, dietro di voi» disse allontanandosi.
Keira mi lasciò dov’ero e lo rincorse.
«E un bel posto» insistette raggiungendolo.
«Sì, volendo» rispose l’uomo.
«Immagino che gli inverni siano rigidi» continuò Keira.
«Basta con le chiacchiere! Non ho tempo da perdere.»«Signor Thornsten?»«Non conosco
nessuno con quel nome» tagliò corto lui, accelerando il passo.
«Non c’è molta gente sull’isola, stento a crederle.»«Creda quello che le pare e mi lasci in
pace. Voleva che le indicassi la strada? Be’, sta andando dalla parte opposta, quindi faccia
dietrofront.»«Sono una paleontologa. Siamo venuti da lontano per incontrarla.»«Paleontologa
o no, la cosa mi è del tutto indifferente, le ho detto che non conosco nessun Thornsten!»«Le
chiedo solo di dedicarci alcune ore: ho letto le sue ricerche sulle grandi migrazioni del Paleolitico e ho bisogno del suo aiuto.»L’uomo si bloccò e squadrò Keira.
«Lei ha la faccia di una scocciatrice e io detesto gli scocciatori.»«E lei ha la faccia di un
tipo acido e odioso.»«Sono perfettamente d’accordo» rispose l’uomo sorridendo, «ragion per
cui noi due non faremo conoscenza. In quale lingua devo dirle di lasciarmi in pace?»«Provi
con l’olandese! Qui sono in pochi quelli con un accento come il suo.»L’uomo le voltò le spalle
e si incamminò di nuovo, sempre tallonato da Keira.
«Continui pure a fare il testardo, non c’è problema! Le starò alle calcagna fino a casa sua,
se necessario. Cosa farà quando arriveremo davanti alla porta, mi caccerà a fucilate?»«Sono
stati gli allevatori di Burravoe a raccontarglielo? Non creda a tutte le sciochezze che sentirà
sull’isola, qui la gente si annoia e ha molta fantasia.»«L’unica cosa che m’interessa» continuò
Keira «è ciò che lei ha da dirmi, e nient’altro».
Per la prima volta, l’uomo sembrò accorgersi della mia presenza. Ignorò momentaneamente Keira e fece un passo verso di me.
«E’ sempre così rompipalle, o mi sta riservando un trattamento di favore?»Io non avrei
messo le cose in questi termini, ma mi limitai a sorridere e gli confermai che Keira aveva un
temperamento piuttosto determinato.
«E lei cosa fa nella vita, a parte seguirla?»«Sono astrofisico.»Il suo sguardo all’improvviso
cambiò, gli occhi di un azzurro profondo si spalancarono leggermente.
«Mi piacciono così tanto, le stelle» mormorò. «In passato mi hanno guidato…» Thornsten
si guardò la punta delle scarpe e lanciò in aria un sassolino. «Anche a lei piaceranno, visto il
lavoro che fa» continuò.
«Direi proprio di sì» risposi.
«Venite con me, abito in fondo alla strada. Vi offro qualcosa da bere, lei mi parla un po’
delle stelle e poi mi lasciate in pace: affare fatto?»Ci stringemmo la mano per suggellare
l’accordo.
Un tappeto liso sul pavimento di legno, una vecchia poltrona davanti al camino, alle pareti
due librerie che crollavano sotto il peso dei volumi e della polvere, in un angolo un letto di
ferro battuto ricoperto da una trapunta scolorita, una lampada e un comodino: ecco
l’arredamento della stanza principale del nido d’aquila di Thornsten. Il nostro ospite ci fece
sedere al tavolo della cucina; ci offrì un caffè nero, forte senza zucchero. Accese una sigaretta arrotolata a mano e ci fissò.
«Cosa siete venuti a cercare?» chiese spegnendo con un soffio il fiammifero.
«Informazioni sulle prime migrazioni umane passate dal Grande Nord per arrivare fino in
America.»«Questi flussi migratori sono un argomento controverso, il popolamento del continente americano è una faccenda ben più complessa di quanto possa sembrare. Ma tutto
questo è nei libri, non c’era bisogno di venire fin qui.»«Ritiene possibile» continuò Keira «che
un gruppo abbia lasciato il bacino del Mediterraneo per raggiungere lo stretto di Bering e il
mare di Beaufort passando dal Polo?»«Accidenti!» si stupì Thornsten. «E secondo lei come
avrebbero fatto questo viaggio, in aereo forse?»«Professore, le sarei grata se ci risparmiasse
le battute e rispondesse alla mia domanda.»«In quale periodo avrebbe avuto luogo questa
epopea, a suo avviso?»«Fra quattro e cinquemila anni prima della nostra èra.»«Mai sentito
parlare di un’ipotesi del genere. Perché questo periodo in particolare?»«Perché è quello che
mi interessa.»«Dunque, all’epoca i ghiacci erano molto più estesi di quanto siano oggi e
l’oceano più piccolo… spostandosi in periodi favorevoli, sì, sarebbe stato possibile. Adesso
mettiamo le carte in tavola: lei dice di aver letto i miei lavori, ma non so come abbia potuto accadere un prodigio del genere, poiché ho pubblicato pochissimo e lei è troppo giovane per
aver assistito a una delle rare conferenze che ho tenuto sull’argomento. Se davvero ha studiato quelle opere, mi ha posto una domanda di cui conosceva la risposta prima di venire qui,
poiché si tratta proprio delle teorie che ho difeso e che mi hanno valso la messa al bando
dalla Società degli Archeologi. Ora tocca a me farle due domande. Cos’è venuta davvero a
cercare a casa mia e a quale scopo?»Keira bevve in un sorso tutto il caffè.
«D’accordo» disse, «giochiamo a carte scoperte. Non ho mai letto nessuna sua pubblicazione e, fino alla settimana scorsa, ne ignoravo perfino l’esistenza. E’ stato un professore, mio amico, a consigliarmi di venire da lei dicendo che avrebbe potuto darmi informazioni
sulle grandi migrazioni che suscitano opinioni discordi fra i colleghi. Ma io ho sempre cercato
là dove gli altri si erano arresi. Oggi spero di trovare un passaggio attraverso il quale piccoli
gruppi di individui avrebbero potuto attraversare il Grande Nord nel quarto o quinto millennio
avanti Cristo.»«Perché mai avrebbero intrapreso un viaggio simile?» domandò Thornsten.
«Cosa li avrebbe spinti a rischiare la vita? E’ questa la domanda chiave, ragazza mia, quando
si vogliono approfondire le migrazioni. L’uomo migra solo per necessità, perché ha fame o
sete, perché è perseguitato: è l’istinto di sopravvivenza che lo costringe a spostarsi. Prendiamo voi, per esempio: avete lasciato un nido confortevole per venire in questa vecchia
baracca perché avevate bisogno di qualcosa, o sbaglio?»Keira mi guardò, cercando nei miei
occhi la risposta a una domanda che intuivo. Dovevamo fidarci di quell’uomo oppure no? Potevamo arrischiarci a mostrargli i nostri frammenti e unirli di modo che fosse testimone dello
strano fenomeno? Avevo notato che, ogni volta che lo facevamo, l’intensità diminuiva. Decisi
che era meglio risparmiare l’energia, preferendo che il minor numero di persone fosse al corrente di ciò che tentavamo di scoprire. Feci un cenno con la testa che lei capì al volo. Si girò
verso Thornsten.
«Allora?» insistette lui.
«Per andare a portare un messaggio» rispose Keira.
«Che genere di messaggio?»«Un’informazione importante.»«E a chi?»«Ai capi delle
civiltà presenti su ciascuno dei grandi continenti.»«Come avrebbero potuto immaginare che, a
distanze simili, ci fossero altre civiltà oltre alla loro?»«Non potevano averne la certezza, ma
non esiste esploratore che al momento della partenza sappia cosa troverà all’arrivo. Tuttavia,
i messaggeri che ipotizzo avrebbero incrociato un numero sufficiente di popoli diversi dal loro
per supporre che, in terre lontane, vivessero altri esseri viventi. Ho già le prove che tre viaggi
analoghi furono intrapresi nella stessa epoca e su distanze considerevoli. Uno verso sud,
l’altro verso est fino in Cina, un terzo verso ovest. Resta soltanto il nord per confermare la mia
teoria.»«Ha davvero la prova che tali viaggi ebbero luogo?» chiese Thornsten in tono diffidente.
La sua voce era cambiata. Avvicinò la sedia a quella di Keira e appoggiò la mano sul tavolo, raschiando il legno con le unghie.
«Non le mentirei.»«Non per due volte consecutive, intende.»«Poco fa volevo solo ammansirla, ci avevano detto che non era un tipo facile da avvicinare.»«Vivo come un eremita,
ma non sono una bestia!»Thornsten fissò Keira. I suoi occhi erano circondati di rughe e lo
sguardo era così profondo che risultava difficile sostenerlo. Si alzò e ci lasciò soli per un
istante.
«Parleremo in seguito delle sue stelle, non ho dimenticato il nostro accordo» urlò dal
salotto.
Tornò con un lungo tubo da cui estrasse una carta che spiegò sul tavolo. Ne bloccò gli angoli recalcitranti con le tazze da caffè e un posacenere.
«Ecco» disse, indicando il nord della Russia sul grande planisfero. «Se il viaggio ha veramente avuto luogo, i vostri messaggeri avrebbero potuto percorrere diverse strade. Una,
risalendo attraverso la Mongolia e la Russia fino a raggiungere lo stretto di Bering, come ha
suggerito anche lei. A quell’epoca, i popoli sumeri avevano già messo a punto imbarcazioni
abbastanza robuste da poter costeggiare la rotta degli iceberg e solcare il mare di Beaufort,
benché non ci siano prove che ciò sia avvenuto. Altra rotta possibile: passando per la Norvegia, le isole Faer Oer, l’Islanda o navigando lungo le coste della Groenlandia e la baia di
Baffin, avrebbero potuto approdare nel mare di Beaufort… a patto di sopravvivere a temperature polari, nutrirsi di pesce durante il viaggio e non farsi divorare dagli orsi, ma tutto è possibile.»«Possibile o plausibile?» insistette Keira.
«Ho sostenuto la tesi che simili viaggi siano stati intrapresi da uomini di origine caucasica
più di ventimila anni prima della nostra èra e che la civiltà dei sumeri non fosse apparsa sulle
rive del Tigri e dell’Eufrate semplicemente perché avevano imparato a conservare il farro in
magazzino, ma nessuno mi ha mai creduto.»«Perché mi parla dei sumeri?» chiese Keira.
«Perché è una delle prime civiltà, se non la prima in assoluto, ad aver elaborato la scrittura, a essersi dotata di un mezzo che permettesse agli uomini di trascrivere la propria lingua.
Insieme alla scrittura, i sumeri hanno inventato l’architettura e costruito imbarcazioni degne di
questo nome. Cerca le prove di un grande viaggio che avrebbe avuto luogo millenni fa e
spera di trovarle così, come per magia, come se Pollicino avesse segnato il sentiero con i
sassolini? E’ di un’ingenuità disarmante. Qualunque cosa stia cercando, se davvero è esistita,
è nei testi scritti che ne troverà traccia. Adesso vuole che le dica qualcosa in più, o intende
ancora interrompermi per parlare a vanvera?»Presi la mano di Keira e la strinsi: era il mio
modo per pregarla di lasciarlo proseguire.
«Alcuni sostengono che i sumeri si siano sedentarizzati sul Tigri e sull’Eufrate, perché in
quelle zone il farro cresceva in abbondanza e loro avevano imparato a immagazzinare questo
cereale. Potevano conservare i raccolti che li nutrivano nei mesi freddi e poco fertili e non
avevano più bisogno di vivere da nomadi per procurarsi il cibo quotidiano. E’ ciò che le stavo
spiegando: la sedentarizzazione testimonia che l’uomo passa da una condizione di sopravvivenza a una di vita. Nel momento in cui diventa stanziale, cerca di migliorare il quotidiano
ed è solo in quel momento che le civiltà cominciano a evolvere. Se uno sconvolgimento geografico o climatico distrugge quest’ordine, se l’uomo non trova più il pane quotidiano, ecco
che immediatamente si rimette in marcia. Esodi e migrazioni, perfino le guerre: il motivo è
sempre lo stesso, la sopravvivenza della specie. Ma le conoscenze dei sumeri erano già
troppo avanzate perché si sia trattato di semplici agricoltori divenuti all’improvviso stanziali.
Ho avanzato la teoria secondo la quale la loro civiltà fortemente evoluta fosse nata
dall’unione di vari gruppi, ognuno latore di una propria cultura. Alcuni provenienti dal subcontinente indiano, altri arrivati via mare costeggiando il litorale iraniano, e infine un terzo gruppo
dall’Asia Minore. Azov, Nero, Egeo e Mediterraneo: questi mari non erano affatto distanti gli
uni dagli altri, in certi casi addirittura comunicanti. Tutti questi migranti si sono uniti per fondare una straordinaria civiltà. Se un popolo ha potuto intraprendere il viaggio di cui parla, non
possono che essere stati i sumeri! E se così è stato, lo avranno sicuramente raccontato. Ritrovi le tavolette con tali scritti e avrà la prova dell’esistenza di quello che cerca.»«Ho disgiunto
la tavola dei ricordi…» sussurrò Keira.
«Cosa sta dicendo?» chiese Thornsten.
«Abbiamo trovato un testo che inizia con questa frase: Ho disgiunto la tavola dei ricordi.»«Quale testo?»«E’ una lunga storia, ma fu redatto in lingua ge’ez e non in
sumero.»«Ma quanto è sciocca!» tuonò Thornsten pestando i pugni sul tavolo. «Ciò non significa che non sia stato ritrascritto in contemporanea al viaggio di cui parla. Ma è davvero
laureata? I racconti si tramandano di generazione in generazione, varcano le frontiere, i
popoli li trasformano e se ne impadroniscono. Ignora forse la gran quantità di prestiti presenti
nel Vecchio e nel Nuovo Testamento? Frammenti di storie, rubati ad altre civiltà molto più antiche dell’ebraismo e del cristianesimo, che le hanno adattate. L’arcivescovo irlandese James
Ussher pubblicò fra il 1625 e il 1656 una cronologia che situava la nascita dell’universo
domenica 23 ottobre del 4004 avanti Cristo: un’emerita fesseria! Dio aveva creato il tempo, lo
spazio, le galassie, le stelle, il Sole, la Terra, gli animali, l’uomo e la donna, l’inferno e il paradiso. La donna creata da una costola dell’uomo!» Thornsten scoppiò a ridere. Si alzò per andare a prendere una bottiglia di vino, la stappò, riempì tre bicchieri e li appoggiò sul tavolo.
Bevve il proprio tutto d’un fiato e se ne versò ancora.
«Ha idea di quanti cretini credono ancora che gli uomini abbiano una costola in meno
delle donne? Eppure questa favola si ispira a un poema sumerico, è nata da un semplice
gioco di parole. La Bibbia è piena di questi prestiti, fra cui il diluvio e l’arca di Noè, un altro
racconto scritto dai sumeri. Dimentichi i popoli degli ipogei, è una falsa pista. Nella migliore
delle ipotesi, si tratta di semplici intermediari; soltanto i sumeri avrebbero potuto costruire imbarcazioni in grado di compiere il viaggio di cui parla. I sumeri hanno inventato tutto e gli egizi
hanno solo copiato: dalla scrittura a cui si sono ispirati per i geroglifici all’arte navale e a
quella di edificare città di mattoni. Se il viaggio ha davvero avuto luogo, è partito tutto da qui!»
affermò Thornsten indicando l’Eufrate. Si alzò e si diresse verso il salotto. «Restate qui, vado
a prendere una cosa e torno.»Nel breve attimo in cui restammo soli in cucina, Keira si chinò
sulla carta e seguì con il dito il corso dell’Eufrate. Sorrise e mi confidò a bassa voce: «Il vento
shamal nasce proprio qui. Se ci pensi è buffo: mi ha cacciato dalla valle dell’Omo solo per
farmi tornare da lui».
«Il battito delle ali di una farfalla…» risposi facendo spallucce. «Se lo shamal non avesse
soffiato, in effetti non saremmo qui.»Thornsten riapparve in cucina con un’altra carta, che rappresentava in modo più dettagliato l’emisfero nord.
«Qual era la vera posizione dei ghiacci a quell’epoca? Quali rotte erano chiuse e quali
aperte? Ci sono soltanto supposizioni. Ma l’unica cosa che confermerà la sua teoria sarà ritrovare le prove di questi passaggi se non nel punto di arrivo, per lo meno nel punto in cui i
messaggeri si sono fermati. Nulla dice che abbiano raggiunto la meta.»«Quale di queste due
rotte prenderebbe lei, se volesse seguirne le tracce?»«Temo che non ce ne siano più, di
tracce, a meno che…»«A meno che?» lo incalzai.
Era la prima volta che mi permettevo di partecipare alla conversazione; Thornsten mi
guardò, come se si fosse dimenticato di me.
«Stando alle sue teorie, il primo gruppo di uomini sarebbe giunto in Cina, e da lì avrebbe
potuto poi proseguire attraverso la Mongolia e, in tal caso, il percorso più logico sarebbe stato
quello di risalire verso il lago Bajkal. Da lì, sarebbe bastato farsi trasportare dal fiume Angara,
fino al punto in cui si getta nel Jenisej; il suo estuario si trova nel mare di Kara.»«Ma allora
era fattibile!» si entusiasmò Keira.
«Vi consiglio di recarvi a Mosca. Presentatevi alla Società degli Archeologi e cercate di
ottenere l’indirizzo di un certo Vladenko Egorov. E’ un vecchio alcolizzato che vive da eremita, come me, in una capanna, credo, sulle rive del lago Bajkal. Presentandovi a nome mio e
restituendogli i cento dollari che gli devo da oltre trent’anni, dovrebbe ricevervi.»Thornsten
frugò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori una banconota arrotolata da dieci sterline.
«Dovrete anticipare voi per me i cento dollari! Egorov è uno dei pochi archeologi russi
ancora in vita (o almeno spero) che abbia potuto condurre ricerche con l’appoggio del gov-
erno in un’epoca in cui era proibito tutto. Ha diretto per alcuni anni la Società degli Archeologi
e ne sa molto di più di quanto non abbia mai voluto confessare. Ai tempi di Chruscév era
meglio non brillare troppo, né tanto meno rivelare le proprie teorie sulle origini del popolamento della Madre Patria. Se alcuni scavi hanno rivelato traccia del passaggio dei vostri migranti vicino al mare di Kara nel quarto o quinto millennio avanti Cristo, lui ne saprà senza
dubbio qualcosa. Secondo me, soltanto Egorov è in grado di dirvi se siete sulla strada giusta
oppure no. Bene, ora che è scesa la notte» continuò Thornsten pestando di nuovo i pugni sul
tavolo, «vi presterò qualcosa per non congelare e poi usciamo. Stasera il cielo è limpido e ci
sono alcune stelle a cui vorrei riuscire a dare un nome.»Prese due parka dall’appendiabiti e
ce li lanciò.
«Infilateveli e, quando avremo finito, aprirò dei barattoli di aringhe che vi lasceranno a
bocca aperta! »Le promesse vanno mantenute, soprattutto se ci si trova in capo al mondo e
se l’unica anima viva nel giro di dieci chilometri cammina al tuo fianco con un fucile carico.
«Non mi guardi come se volessi riempirvi le chiappe di pallettoni! Quest’isola è selvaggia,
non si sa mai quali animali si possono incontrare di notte. State al mio fianco! Avanti, guardi
la stella che brilla lassù e mi dica come si chiama!»Siamo rimasti a lungo a camminare nella
notte. Di tanto in tanto, Thornsten alzava la mano e indicava una stella, una costellazione o
una nebulosa. Gliene dicevo i nomi, e ne aggiungevo altri di alcune invisibili a occhio nudo.
Sembrava davvero felice, non era più lo stesso uomo che avevamo incontrato poco prima.
Le aringhe non furono poi così malvagie: le patate che Thornsten fece cuocere fra la
cenere ne attenuarono il sapore forte e salato. Durante la cena, non staccò gli occhi da Keira:
doveva essere un bel po’ che non vedeva una donna così graziosa, se mai ne era passata
una, in un luogo così sperduto. Più tardi, davanti al camino, mentre gustavamo un brandy che
bruciava palato e gola, Thornsten si chinò di nuovo sulla cartina che aveva steso sul tappeto
e fece cenno a Keira di andare a sedersi per terra, accanto a lui.
«Mi dica cosa cerca davvero.»Keira non gli rispose. Thornsten le prese le mani e guardò i
palmi.
«La terra lascia sempre il segno.»Girò i suoi e li mostrò a Keira.
«Tanto tempo fa, anche le mie mani hanno scavato.»«In quale angolo del mondo?»
domandò Keira.
«Non ha importanza. E’ stato davvero tanto tempo fa.»A sera inoltrata ci portò nel fienile,
dove ci fece salire a bordo del suo pick-up. Ci lasciò a duecento metri dalla fattoria in cui
dormivamo. Raggiungemmo la nostra camera in punta di piedi, alla luce di un accendino che
ci aveva venduto per cento dollari, tondi tondi. Un vecchio Zippo che ne valeva almeno il doppio, giurò augurandoci buon viaggio.
Avevo appena spento la candela e tentavo di riscaldarmi in quelle lenzuola fredde e
umide, quando Keira si girò verso di me per farmi una strana domanda.
«Ricordi di avermi sentito parlare con lui dei popoli degli ipogei?»«Non lo so, forse…
perché?»«Perché, prima di chiederci di andare a saldare il debito con il suo vecchio amico
russo, mi ha detto: Dimentichi i popoli degli ipogei, è una falsa pista. Per quanto ripensi alla
nostra conversazione, sono quasi certa di non averli mai menzionati.»«Probabilmente lo hai
fatto senza rendertene conto. Entiambi avete chiacchierato molto.»«Ti sei annoiato?»«No,
per nulla, è un tipo strano, piuttosto interessante. Mi sarebbe piaciuto sapere perché un olandese ha scelto di esiliarsi su un’isola così remota della Scozia settentrionale.»«Anche a me.
Avremmo dovuto chiederglielo.»«Non sono sicuro che ci avrebbe risposto.»Keira tremava e
venne a rannicchiarsi accanto a me. Stavo riflettendo sulla sua domanda. Per quanto
ripensassi alla conversazione con Thornsten, in effetti non riuscivo a ricordare quando avesse
parlato dei popoli degli ipogei. Ma lei non sembrava più turbata: il respiro era regolare, si era
addormentata.
Parigi
Ivory passeggiava sulle rive della Senna. Vide una panchina vicino a un grosso salice e
andò a sedersi. Un vento gelido spirava sul fiume. Il vecchio professore alzò il colletto del
cappotto e si massaggiò le braccia. Il cellulare vibrò nella tasca: era tutta la sera che aspettava quella chiamata.
«Fatto!»«Sono riusciti a trovarla senza troppe difficoltà?»«La sua amica sarà anche la brillante paleontologa di cui mi ha tanto cantato le lodi, ma se avessimo aspettato che quei due
arrivassero a me, saremmo già a fine inverno. Ho fatto in modo di trovarmi sulla loro
strada…»«Com’è andata?»«Esattamente come mi aveva chiesto.»«E lei crede…»«Di averli
convinti? Penso di sì.»«Grazie, Thornsten.»«Non c’è di che. A questo punto direi che siamo
pari.»«Non le ho mai detto che mi doveva qualcosa.»«Ivory, lei mi ha salvato la vita. Era da
tempo che sognavo di poter estinguere il debito nei suoi confronti. La mia esistenza non è
stata sempre piacevole in questo esilio forzato, ma certo meno noiosa che se fossi stato al
cimitero.»«La prego, Thornsten, non giova a nessuno rivangare il passato.»«Oh sì, invece, e
non ho ancora finito, mi ascolterà fino in fondo. Lei mi ha strappato dalle grinfie di quei balordi
che volevano farmi la pelle quando ho trovato quel maledetto ciottolo in Amazzonia. Mi ha
salvato da un attentato a Ginevra: se non mi avesse avvertito, se non mi avesse fornito i
mezzi per scomparire…»«Ormai è acqua passata» lo interruppe Ivory con voce triste.
«Non così passata, altrimenti non avrebbe mandato da me le sue due pecorelle smarrite
affinché le riportassi sulla retta via. Ma ha valutato bene i rischi che stanno correndo? Li sta
mandando al macello e lo sa perfettamente. Quelli che hanno cercato di uccidere me riserver-
anno lo stesso trattamento a loro, se si avvicineranno troppo alla meta. Mi ha reso suo complice: da quando li ho salutati non ho pace.»«Non succederà nulla, glielo assicuro. I tempi
sono cambiati.»«Ah sì, e allora perché sono ancora a marcire qui? Quando lei avrà ottenuto
ciò che vuole, aiuterà anche loro a cambiare identità? Anche loro dovranno andare a seppellirsi in un buco sperduto per non essere trovati mai più? E’ questo il suo piano? Qualunque
cosa abbia fatto per me in passato, ora siamo pari: volevo dirle soltanto questo. Non le devo
più nulla.»Ivory udì un clic, Thornsten aveva riagganciato. Sospirò e gettò il cellulare nella
Senna.
Londra
Ritornati a Londra, dovemmo pazientare qualche giorno prima di ottenere i visti per la
Russia. L’assegno che gli amministratori mi avevano generosamente versato mi permetteva
di continuare a finanziare il viaggio. Keira trascorreva la maggior parte del suo tempo nella
grande biblioteca dell’Accademia delle Scienze; grazie a Walter avevo ancora il permesso di
accedervi. Il mio lavoro consisteva principalmente nell’andare a prendere negli scaffali le
opere che chiedeva, e poi tornare a rimetterle a posto quando non ne aveva più bisogno;
cominciavo seriamente ad annoiarmi. Avevo preso un pomeriggio di pausa e mi ero messo al
computer per riprendere i contatti con due cari amici che non sentivo da tempo. Inviai una
mail sotto forma di enigma a Erwan. Sapevo che, nel momento in cui avesse aperto la posta,
la sola vista del mio indirizzo avrebbe provocato una sfilza d’imprecazioni. Probabilmente si
sarebbe rifiutato di leggere il messaggio, ma prima di sera la curiosità avrebbe avuto il
sopravvento. Avrebbe riacceso il computer e avrebbe riflettuto sulla domanda che gli ponevo.
Subito dopo aver premuto il tasto INVIO, presi il telefono e chiamai Martyn
all’Osservatorio Jodrell.
Fui sorpreso dalla freddezza con cui mi rispose: non era da lui parlarmi così. Con voce
non troppo cortese, disse che aveva molto lavoro e riattaccò. Questa conversazione interrotta
mi lasciò un’impressione sgradevole. Martyn e io avevamo sempre avuto rapporti cordiali,
spesso complici, e non mi spiegavo un simile atteggiamento. Forse aveva problemi personali
che non voleva condividere con me.
Verso le diciassette avevo sbrigato la corrispondenza, pagato le bollette scadute e offerto
una scatola di cioccolatini alla vicina per ringraziarla dei favori che mi faceva tutto l’anno. A
quel punto decisi di fare un salto alla drogheria all’angolo per riempire il frigorifero.
Stavo gironzolando fra i corridoi del minimarket quando il proprietario mi si fece vicino,
con il pretesto di rifornire uno scaffale di scatolette.
«Non si giri mentre le parlo, ma c’è un tizio che la sta osservando dal marciapiedi di
fronte.»«Scusi?»«Non è la prima volta, l’avevo già notato quando è venuto qui con la sua
ragazza. Non so in quale pasticcio si sia cacciato, ma si fidi della mia esperienza, quello è un
brutto ceffo.»«Perché?»«Ha l’aria di uno sbirro, il comportamento di uno sbirro, ma non lo è.
Quel genere d’individuo è feccia allo stato puro.»«Come fa a saperlo?»«Ho dei cugini dietro
le sbarre; nulla di grave, solo traffico di merci malauguratamente cadute dal camion.»«Secondo me si sbaglia» dissi guardando oltre le sue spalle.
«Faccia come crede, ma se cambia idea, il deposito in fondo al negozio è aperto. C’è una
porta che dà sul cortile. Da lì, può passare nell’edificio accanto e uscire in strada dal
retro.»«Molto gentile da parte sua.»«Tenendo conto da quanto tempo fa la spesa qui, mi dispiacerebbe perdere un buon cliente.»Il proprietario del negozio tornò alla cassa. Con aria indifferente mi avvicinai a un banco vicino alla vetrina, presi un giornale e ne approfittai per
dare un’occhiata alla strada. Il droghiere non aveva tutti i torti: al volante di un’auto parcheggiata lungo il marciapiedi opposto, un uomo sembrava proprio intento a sorvegliare me. Decisi di prendere il toro per le corna. Uscii e andai dritto verso di lui. Mentre stavo per attraversare la strada, sentii rombare il motore della sua berlina, che partì a razzo.
Sull’altro lato della strada, il padrone del minimarket mi guardò stringendosi nelle spalle.
Tornai per pagare i miei acquisti.
«Devo ammettere che è piuttosto strano» osservai tendendogli la carta di credito.
«Per caso ha fatto qualcosa di illegale negli ultimi tempi?» chiese.
La domanda mi parve abbastanza sconveniente, ma era stata posta con tale candore che
non mi sentii per nulla offeso.
«Non che io sappia» risposi.
«Farebbe meglio a correre a casa.»«Perché?»«Quel furfante mi dava l’aria di essere un
palo, forse per garantire una copertura.»«Quale copertura?»«Mentre lei è qui, si è certi che
non è altrove, se capisce cosa intendo.»«E dove non sarei?»«A casa sua, per esempio.»«Crede che…?»«Che se continua a perdersi in chiacchiere, arriverà troppo tardi? Può
giurarci.»Agguantai il mio sacchetto e rientrai in tutta fretta. La casa era tale e quale l’avevo
lasciata: nessuna traccia di effrazione sulla porta e nulla all’interno che confermasse i sospetti
del droghiere. Misi a posto la spesa in cucina e decisi di passare a prendere Keira
all’Accademia delle Scienze.
Keira si stiracchiò sbadigliando e si fregò gli occhi, segno che per quel giorno aveva lavorato abbastanza. Chiuse il libro che stava studiando e andò a metterlo in bella vista su uno
scaffale. Lasciò la biblioteca, passò a salutare Walter in ufficio e si infilò in metropolitana.
Era la tipica serata invernale di Londra: cielo grigio, pioggerellina, marciapiedi scivolosi. Il
traffico era spaventoso. Quarantacinque minuti di ingorgo prima di arrivare a destinazione e
altri dieci per trovare un posto dove parcheggiare. Stavo chiudendo la portiera dell’auto,
quando vidi Walter uscire dall’Accademia delle Scienze. Anche lui mi aveva visto: attraversò
la strada e venne a salutarmi.
«Ha tempo per bere qualcosa?» propose.
«Vado a cercare Keira in biblioteca e poi la raggiungiamo al pub.»«Ah, non credo proprio,
è uscita mezz’ora fa, forse un po’ prima.»«Ne è sicuro?»«E’ venuta a salutarmi e siamo rimasti a chiacchierare un po’ nel mio ufficio. Allora, questa birra?»Guardai l’orologio: era
l’orario peggiore per riattraversare Londra. Una volta al pub, avrei chiamato Keira per avvisarla che avrei tardato un po’.
Il locale era pieno zeppo, Walter si fece strada verso il bancone a suon di gomitate; ordinò
due pinte e me ne porse una al di sopra della spalla di un tizio che si era intrufolato fra noi.
Poi mi trascinò in fondo alla sala, dove si stava liberando un tavolo. Prendemmo posto in
mezzo a un frastuono insopportabile.
«Allora, com’è andato il viaggio in Scozia?» urlò Walter.
«Divinamente, se le piacciono le aringhe. Credevo che a Atacama facesse freddo, ma il
clima di Yell è ancora più gelido e molto, molto umido!»«Avete trovato quello che cercavate?»«Keira sembrava entusiasta, ed è già molto; temo che presto dovremo ripartire.»«Questa storia finirà per rovinarvi» gridò Walter, tentando di sovrastare il brusio di
sottofondo.
«Già fatto.»Il cellulare vibrò in fondo alla tasca; lo presi e lo incollai all’orecchio.
«Hai frugato nelle mie cose?» chiese Keira con voce turbata.
«Certo che no, perché avrei dovuto fare una cosa del genere?»«Non hai aperto la mia
borsa, ne sei sicuro?»«Me lo hai appena chiesto: la risposta è sempre no.»«Avevi per caso
lasciato la luce accesa in camera?»«No, neanche. Ma insomma, cosa succede?»«Credo di
non essere sola in casa…»Il sangue mi si ghiacciò nelle vene.
«Esci di lì, Keira!» urlai. «Scappa subito, corri fino alla drogheria all’angolo di Old Brompton e aspettami lì, hai capito bene? Keira, mi senti?»La comunicazione era stata interrotta.
Prima che Walter avesse il tempo di capire qualcosa, attraversai la sala del pub, urtando tutto
e tutti, e mi precipitai fuori. Un taxi era bloccato nel traffico e una moto stava per superarlo: mi
gettai praticamente sotto le sue ruote e costrinsi il motociclista a fermarsi. Gli spiegai che si
trattava di una questione di vita o di morte e promisi di ricompensarlo se mi avesse accompagnato all’incrocio fra Old Brompton e Cressel Garden. Mi fece montare in sella, inserì la
marcia e accelerò.
Le strade scorrevano a tutta velocità, la Marylebone e la Edgware Road, il Marble Arch, gli
incroci erano affollatissimi, autobus e taxi sembravano invischiati in un’inestricabile partita di
domino.
Il motociclista salì sul marciapiedi; non avevo avuto spesso l’occasione di andare in moto,
ma cercavo di assecondarlo come meglio potevo quando ci inclinavamo in curva. Furono
dieci minuti di corsa interminabile; attraversammo Hyde Park sotto una pioggia battente, risalimmo Carriage Drive fra due file di auto, con le ginocchia che talvolta sfioravano le carrozzerie. Serpentine, Exhibi- tion Road, la rotonda della stazione di South Kensington e finalmente Old Brompton, ancora più intasata delle vie precedenti. All’altezza di Queens Gate
Mews, il motociclista accelerò ulteriormente e superò l’incrocio nel momento in cui il semaforo
passava dal giallo al rosso. Un camioncino aveva anticipato il verde, lo scontro sembrava inevitabile. La moto si inclinò su un fianco, il pilota si aggrappò al manubrio, io partii di schiena
come una trottola, schizzando verso il marciapiedi.
Mi parve di vedere i volti immobili dei passanti, testimoni terrorizzati della scena. Fortunatamente la mia corsa si concluse senza troppi urti contro le ruote di un camion fermo. Ammaccato ma intatto, mi rialzai; il motociclista era già in piedi e tentava di risollevare la moto.
Lo ringraziai con un cenno. La stradina in cui vivevo era ancora a un centinaio di metri di distanza. Urlavo alla gente di spostarsi, urtando una coppia e facendomi insultare. Infine vidi la
drogheria e pregai che Keira fosse lì ad aspettarmi.
Il padrone sobbalzò vedendomi fare irruzione nel suo negozio; ero tutto bagnato, ansimante, dovetti ricominciare due volte da capo prima che capisse cosa gli stavo chiedendo.
Inutile aspettare la risposta, c’era soltanto una cliente e si trovava in fondo al negozio; risalii il
corridoio di corsa e la presi teneramente fra le braccia. La ragazza lanciò un grido e mi assest due sonori ceffoni, forse tre, non ebbi il tempo di contarli. Il proprietario prese il telefono
e, mentre uscivo di nuovo dal negozio, lo pregai di avvisare la polizia, chiedendo che venissero al più presto al 24 di Cresswell Place.
Lì trovai Keira, seduta sul parapetto davanti all’ingresso.
«Ma che cos’hai? Hai le guance tutte rosse, sei caduto?» chiese.
«Su una che ti assomigliava… di spalle» risposi.
«Hai la giacca strappata! Ma cosa ti è successo?»«Stavo per farti la stessa
domanda.»«Temo che abbiamo avuto visite in nostra assenza» disse Keira. «Ho trovato la
mia borsa aperta in salotto; il ladro era ancora in casa quando sono entrata, perché ho sentito
dei passi.»«L’hai visto andar via?»Un’auto della polizia si fermò davanti a noi e ne scesero
due poliziotti. Spiegai loro che avevamo buoni motivi per credere che ci fosse un ladro in casa
nostra. Ci ordinarono di rimanere in disparte ed entrarono a perlustrare i locali.
I poliziotti uscirono pochi minuti dopo, senza aver trovato nulla. Se davvero c’era stato, il
ladro doveva essere fuggito dal giardino. In queste vecchie casette il primo piano non è mai
molto alto, due metri appena, e il praticello sotto le finestre attutisce la caduta. Ripensai alla
maniglia che non avevo mai fatto riparare. Probabilmente il ladro si era introdotto dal retro.
Bisognava fare l’inventario di ciò che era stato rubato e andare in commissariato per firmare una denuncia.
I poliziotti promisero di fare un giro di ronda e di informarmi nel caso avessero arrestato
qualcuno.
Keira e io ispezionammo ogni stanza. La collezione di macchine fotografiche era intatta, il
portafogli che lasciavo sempre nel portaoggetti all’ingresso era al suo posto, tutto era in ordine. Mentre esaminavo la camera, Keira mi chiamò dal pianterreno.
«La porta del giardino è chiusa con il catenaccio» mi disse. «Sono stata io a chiuderla ieri
sera. Ma allora il ladro come ha fatto a entrare?»«Sei sicura che ci fosse qualcuno?»«A meno
che casa tua non sia infestata dai fantasmi, sì.»«Ma da dove può essere passato?»«Adrian,
non lo so proprio!»Promisi a Keira che nient’altro avrebbe turbato la cenetta da innamorati di
cui eravamo stati privati qualche giorno prima.
L’importante era che non le fosse successo nulla, tuttavia ero preoccupato. Il ricordo dei
brutti momenti vissuti in Cina mi tormentava. Richiamai Walter per condividere con lui le mie
ansie, ma la linea era occupata.
Amsterdam
Ogni volta che attraversava la grande sala del Palazzo Reale di Piazza Dam, Vackeers
rimaneva colpito dalla bellezza dei planisferi scolpiti sul pavimento di marmo, benché le sue
preferenze andassero al terzo disegno, quello che rappresentava una gigantesca mappa
delle stelle. Uscì in strada e superò la piazza. Era già scesa la notte, i lampioni erano appena
stati accesi e le acque tranquille dei canali della città ne riflettevano l’alone. Risalì Hoogstraat
per rientrare a casa. Una moto di grossa cilindrata era parcheggiata su un marciapiedi
all’altezza del numero 22. Una donna spingeva una carrozzina: sorrise a Vackeers, che contraccambi proseguendo per la sua strada.
Il motociclista abbassò la visiera del casco e lo stesso fece il passeggero. Il motore ruggì
e la moto si lanciò nel controviale.
Due giovani innamorati si abbracciavano appoggiati a un albero. Un camioncino in doppia
fila bloccava il traffico. Solo le biciclette riuscivano a intrufolarsi.
Il passeggero sul sedile posteriore della moto prese la mazza nascosta nella manica del
giaccone.
La donna che spingeva la carrozzina si girò, gli innamorati si sciolsero dall’abbraccio.
Vackeers stava camminando su un ponte quando all’improvviso sentì un colpo terribile in
mezzo alla schiena. Rimase senza fiato, l’aria non arrivava più ai polmoni. Cadde in ginocchio, tentò di aggrapparsi a un lampione, ma invano. Crollò faccia a terra. Avvertì in bocca il
sapore del sangue. Non aveva mai provato un dolore simile. A ogni respiro, l’aria gli bruciava
i polmoni. Il sangue sgorgava a fiotti dai reni spappolati, l’emorragia interna comprimeva
sempre più il cuore. Uno strano silenzio lo circondava. Riuscì a raccogliere le poche forze che
gli restavano e sollevò la testa. Alcuni passanti accorsero in suo aiuto; in lontananza sentì
l’urlo di una sirena.
La donna con la carrozzina non c’era più. La coppia di innamorati era scomparsa, l’uomo
con la mazza gli fece un gestaccio mentre la moto svoltava veloce l’angolo della strada.
Vackeers afferrò il cellulare in fondo alla tasca. Premette un tasto, avvicinò faticosamente
il telefono all’orecchio e lasciò un messaggio sulla segreteria di Ivory.
«Sono io» bisbigliò. «Temo che il nostro amico inglese non abbia gradito affatto il tiro
mancino che gli abbiamo giocato.»Un accesso di tosse gli impedì di proseguire: il sangue gli
colava dalla bocca, ne avvertì il tepore e si sentì meglio; aveva freddo e il dolore diventava
sempre più forte. Sul volto di Vackeers si disegnò una smorfia.
«Ho paura che non potremo più giocare insieme. Mi mancherà, amico mio, e spero che
anche per lei sarà lo stesso.»Fu travolto da un nuovo attacco di tosse, accompagnato da un
bruciore insopportabile. Il telefono gli sfuggì dalle dita, ma riuscì a riprenderlo ancora per un
istante.
«Sono contento del piccolo regalo che le ho fatto l’ultima volta che ci siamo visti, ne faccia
buon uso. Mi mancherà, vecchio amico mio, molto più delle nostre partite. Sia prudente e abbia cura di sé…»Vackeers sentì le forze abbandonarlo, ma riuscì a cancellare il numero appena chiamato. La mano allentò la presa, non vide e non sentì più nulla, la testa ricadde
sull’asfalto.
Parigi
Ivory stava rientrando nel suo appartamento di Parigi, dopo uno spettacolo teatrale che lo
aveva profondamente annoiato.
Appese il cappotto nell’ingresso e si diresse verso il frigorifero per prepararsi uno
spuntino; gli era venuto appetito. Tirò fuori un piatto di frutta, si versò un bicchiere di vino e
tornò in salotto.
Dopo essersi accomodato sul divano, sciolse i lacci delle scarpe e allungò le gambe
stanche cercando il telecomando del televisore.
Solo allora notò la luce che lampeggiava sulla segreteria telefonica. Incuriosito, si alzò e
premette un tasto.
Riconobbe subito la voce del suo vecchio amico.
Al termine del messaggio, Ivory sentì le gambe cedere. Si appoggiò alla libreria, facendo
cadere alcuni volumi antichi sul pavimento lucido. Riacquistò l’equilibrio e strinse le mascelle
più forte che potè.
Niente da fare, le lacrime gli scorrevano lungo le guance. Per quanto le asciugasse con il
dorso della mano, ben presto non riuscì a trattenere i singhiozzi che lo scuotevano mentre si
aggrappava ancora alla libreria sopraffatto dall’emozione.
Prese dallo scaffale un vecchio trattato di astronomia, lo aprì sulla pagina di guardia,
dov’era riprodotta in filigrana una carta del cielo risalente al diciassettesimo secolo e rilesse la
dedica.
So che questa opera le piacerà: non manca nulla, poiché in essa si trova tutto, perfino la
testimonianza della nostra amicizia.
Il suo fedele compagno di scacchi,Vackeers
All’alba, Ivory preparò la valigia, chiuse dietro di sé la porta dell’appartamento e andò in
stazione per prendere il primo treno in partenza per Amsterdam.
Londra
Quel mattino presto l’agenzia mi chiamò per avvertirmi che i visti erano finalmente pronti:
potevo passare a recuperare i passaporti. Keira dormiva profondamente; decisi di andarci
solo e di comprare lungo la strada un po’ di pane e latte fresco. Faceva freddo, il pavé di
Cresswell Place era scivoloso. Arrivando all’angolo della strada, feci un piccolo cenno al
droghiere, che ricambiò il saluto con una strizzatina d’occhio. In quel momento suonò il cellulare. Forse Keira non aveva ancora letto il bigliettino che le avevo lasciato in cucina. Con mio
grande stupore, sentii la voce di Martyn.
«Mi dispiace per l’altro giorno» esordì.
«Non si preoccupi, mi chiedevo solo cosa fosse successo per metterla così di cattivo
umore.»«Per poco non perdevo il mio posto di lavoro, Adrian: a causa sua, o meglio della visitina che mi ha fatto all’Osservatorio, e di alcune ricerche che ho condotto per lei con i mezzi
di cui disponiamo a Jodrell.»«Ma cosa sta dicendo?»«Con la scusa di aver lasciato entrare
qualcuno che non faceva parte del personale, nella fattispecie il suo amico Walter, hanno
minacciato di licenziarmi appellandosi a una grave mancanza professionale.»«Ma di chi si
tratta?»«Di chi finanzia l’Osservatorio: il nostro governo.»«Accidenti, Martyn, quella visita era
del tutto insignificante, e poi Walter e io siamo entrambi membri della Royal Academy. Tutto
ciò non ha alcun senso!»«Sì che ne ha, Adrian, ed è per questo che ci ho messo un po’ a richiamarla, ed è sempre per questo che lo faccio stamattina da una cabina pubblica. Mi hanno
lasciato chiaramente intendere che d’ora in poi mi è vietato soddisfare ogni sua richiesta, per
quanto minima, e che l’accesso ai nostri locali è strettamente vietato ai non addetti. Ho
saputo del suo licenziamento solo ieri. Non so in quali guai sia finito, ma porca miseria, Adrian, non si può cacciar via una persona come lei, non in questo modo! A questo punto anche
la mia carriera è appesa a un filo, lei è dieci volte più competente di me!»«E’ molto gentile da
parte sua, Martyn, e fin troppo lusinghiero, ma se ciò può tranquillizzarla, lei è l’unico a
pensarlo. Non so cosa stia succedendo, nessuno mi ha comunicato in modo ufficiale che
sono stato licenziato, ma solo che momentaneamente non sono più di ruolo.»«Apra gli occhi,
Adrian, l’hanno buttata fuori! Ho ricevuto due chiamate che avevano lei come argomento principale: non ho più neppure il permesso di parlarle al telefono. Cosa ne sarà di lei, Adrian?»«Non si preoccupi, Martyn, non ho proposte di lavoro in vista, e quasi più niente in
banca, ma da un po’ di tempo a questa parte mi sveglio accanto alla donna che amo. Mi sorprende, mi fa ridere, mi scuote e mi appassiona, il suo entusiasmo mi accompagna tutto il
giorno e la sera, quando si spoglia, mi fa terribilmente… come dire… mi turba; come vede,
sono un uomo fortunato. Non sono mai stato così felice in vita mia.»«Sono contento per lei,
Adrian. Sono suo amico e mi sento in colpa per aver ceduto alle pressioni, interrompendo
ogni contatto con lei. Cerchi di capire, non posso permettermi di perdere il posto, la sera non
c’è nessuno che mi scalda il letto e nella mia vita c’è solo la passione per il lavoro. Se avrà
bisogno di parlarmi, mi lasci un messaggio in ufficio con il nome Gilligan, e sarò io a richiamarla non appena potrò.»«Chi è Gilligan?»«Il mio cane, un meraviglioso bassotto;
purtroppo ho dovuto farlo sopprimere l’anno scorso. A presto, Adrian.»Quella conversazione
mi aveva un po’ turbato, quando una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare in mezzo alla
strada.
«Pensi davvero questo di me?»Mi girai e vidi Keira; aveva preso di nuovo in prestito uno
dei miei maglioni e si era messa il mio cappotto sulle spalle.
«Ho trovato il messaggio in cucina e mi è venuta voglia di raggiungerti all’agenzia. Volevo
fare colazione in un bar, sai, ci sono soltanto verdure nel tuo frigorifero, e le zucchine appena
sveglia… Eri così assorto che mi sono avvicinata silenziosamente per sorprenderti al telefono
con la tua amante.»Entrammo in un bar in cui servivano deliziosi cornetti: i passaporti potevano aspettare.
«Ah, quindi la sera, quando mi spoglio, ti mando fuori di testa?»«Non hai vestiti tuoi, oppure i miei hanno qualcosa che ti attira?»«Con chi eri al telefono, per parlare di me in maniera
così dettagliata?»«Un vecchio amico. So che ti sembrerà strano, ma lo preoccupa il fatto che
io abbia perso il lavoro.»Nel bar, mentre Keira era alle prese con il suo secondo croissant alla
mandorla, io mi chiedevo se fosse saggio condividere con lei le mie preoccupazioni, che non
riguardavano semplicemente la perdita del posto di lavoro.
Entro due giorni saremmo saliti sull’aereo per Mosca: l’idea di allontanarmi da Londra non
mi dispiaceva.
Amsterdam
Non c’era quasi nessuno quella mattina al cimitero, quasi nessuno a seguire il carro funebre che scortava una lunga bara laccata. Un uomo e una donna camminavano a passi lenti
dietro il feretro. Non c’era nessun prete a officiare il funerale; quattro impiegati municipali calarono la bara nella fossa con lunghe corde. Quando toccò il fondo, la donna lanciò una rosa
bianca e una manciata di terra; l’uomo insieme a lei fece lo stesso. Si salutarono e ciascuno
andò per la sua strada.
Londra
Sir Ashton riunì la serie di fotografie allineate sulla sua scrivania. Le infilò in una custodia
e richiuse la cartelletta.
«E’ venuta bene in queste foto, Isabel. Il lutto le dona.»«Ivory non è stupido.»«Lo spero
bene, era un messaggio rivolto a lui.»«Non so se lei ha…»«Le ho chiesto di scegliere fra
Vackeers e i due giovani scienziati, e lei ha deciso per il vecchio! Ora non venga a lamentarsi.»«Era proprio necessario?»«Non capisco perché continui a domandarselo! Sono davvero
l’unico a pensare alle conseguenze delle sue azioni? Si rende conto di cosa succederebbe se
i due protetti raggiungessero il loro scopo? Non crede che il gioco valga il sacrificio degli ultimi anni di un vecchio?»«Lo so, Ashton, me l’ha già detto.»«Isabel, non sono un pazzo sanguinario, ma quando è strettamente necessario, non ho alcuna esitazione. Nessuno di noi, lei
compresa, può averne. Il nostro intervento ha salvato moltissime vite, a cominciare da quella
dei due esploratori, sempre che Ivory rinunci una volta per tutte al suo progetto. Non mi
guardi così! Ho sempre agito nell’interesse della maggioranza, molto probabilmente ciò che
ho fatto non mi aprirà le porte del paradiso, ma…»«La prego, Ashton, non sia così sarcastico,
non oggi. Volevo davvero bene a Vackeers.»«Anch’io lo stimavo, sebbene in molte occasioni
ci siamo trovati in disaccordo. Lo rispettavo e voglio augurarmi che questo sacrifìcio - che
costa tanto a me quanto a lei - porterà i frutti sperati.»«Ivory sembrava distrutto ieri mattina.
Non l’ho mai visto in quello stato, ha perso dieci anni di vita in una notte.»«Se potesse perderne altri dieci e quindi spirare, sarebbe l’ideale.»«Ma allora perché non ha sacrificato lui,
anziché prendersela con Vackeers?»«Ho le mie buone ragioni.»«Non mi dica che è riuscito a
sfuggire dalle sue grinfie!»«Se Ivory fosse morto, la paleontologa sarebbe stata ancora più
motivata. E’ troppo furba per credere a un incidente. No, sono convinto che abbiamo eliminato la pedina giusta. Ma l’avverto, se le cose cominciassero ad andare nel verso sbagliato,
se le ricerche continuassero, non ci sarà bisogno che le fornisca i nomi dei prossimi due da
eliminare.»«Sono sicura che Ivory ha recepito il messaggio» sospirò Isabel.
«In caso contrario, sarà la prima a esserne informata. Lei è l’unica della quale ancora si
fidi.»«La nostra messinscena a Madrid è stata ben congegnata.»«Le ho permesso di assumere il comando del consiglio, questo me lo deve.»«Non agisco per riconoscenza verso di
lei, Ashton, ma perché condivido il suo punto di vista. E’ troppo presto perché il mondo sappia, davvero troppo presto. Non siamo ancora pronti.»Isabel prese la borsa e raggiunse la
porta. «Dobbiamo recuperare il frammento che ci appartiene?» chiese prima di uscire.
«No, è al sicuro dove si trova, forse ancora di più adesso che Vackeers è morto. E poi
nessuno saprebbe come accedervi: proprio ciò che volevamo. Ha portato il suo segreto nella
tomba, va benissimo così.»Isabel scosse la testa e lasciò Ashton. Mentre il maggiordomo la
riaccompagnava alla porta della residenza privata, il segretario di Sir Ashton entrò nello studio con una busta in mano. Ashton la aprì e sollevò la testa.
«Quando hanno ottenuto i visti?»«L’altroieri, signore. A quest’ora saranno già sull’aereo,
anzi no» si corresse il segretario guardando l’orologio, «sono già atterrati a Seremet’evo.»«Perché non siamo stati avvertiti prima?»«Non lo so. Se lo desidera, condurrò
un’indagine. Volete che richiami la sua ospite? E’ ancora in casa.»«Lasci stare. Avvisi invece
i nostri uomini in loco. I due uccellini non devono assolutamente volare oltre Mosca. Ne ho
abbastanza. Eliminiamo la ragazza: senza di lei, l’astrofisico è innocuo.»«Dopo l’incidente in
Cina, è sicuro di voler procedere in questo modo?»«Se potessi sbarazzarmi di Ivory, non esiterei un secondo di più, ma è impossibile e non sono convinto che ciò risolverebbe il problema in modo definitivo. Segua i miei ordini, e riferisca ai nostri uomini di non risparmiare sui
mezzi: questa volta preferisco l’efficacia alla discrezione.»«In tal caso, dobbiamo avvisare i
nostri amici russi?»«Ci penserò io.»Il segretario si allontanò.
Isabel ringraziò il maggiordomo che le apriva la portiera del taxi. Si girò per osservare la
maestosa facciata della dimora londinese di Sir Ashton. Chiese all’autista di condurla
all’aeroporto della City.
Seduto su una panchina del parchetto situato proprio di fronte alla dimora vittoriana, Ivory
guardò l’auto allontanarsi. Cominciò a cadere una pioggerella sottile; il vecchio professore si
appoggiò all’ombrello per alzarsi e se ne andò.
Mosca
La camera dell’Hotel Metropol Intercontinental odorava di tabacco. Appena arrivata, e
nonostante la temperatura che sfiorava lo zero, Keira aveva spalancato la finestra.
«Mi dispiace, era l’unica disponibile.»«La puzza di sigaro è disgustosa!»«E per di più di
pessima qualità» aggiunsi. «Vuoi cambiare albergo? Vado a chiedere altre coperte o giacche
a vento?»«Non perdiamo tempo, andiamo subito alla Società degli Archeologi. Prima riusciremo a parlare con Egorov e prima potremo andarcene da qui. Santo cielo, quanto mi mancano i profumi della valle dell’Omo!»«Ti ho promesso che un giorno ci torneremo, non appena
questa storia sarà finita.»«A volte mi domando se questa storia, come la chiami tu, avrà mai
fine» borbottò Keira richiudendo la porta.
«Hai l’indirizzo della Società degli Archeologi?» le chiesi in ascensore.
«Non so perché Thornsten continui a chiamarla così, la Società degli Archeologi è stata
ribattezzata Accademia delle Scienze di Mosca alla fine degli anni Cinquanta.»«Accademia
delle Scienze? Forse potrei trovare un impiego qui, non si sa mai!»«A Mosca? Ci manca solo
questo!»«Sai, a Atacama avrei potuto lavorare per una delegazione russa: le stelle se ne
fregano della nazionalità.»«Sì, certo, e vuoi mettere la praticità! Ti voglio prorpio vedere digitare le tue relazioni su una tastiera in cirillico.»«Per te avere ragione è una necessità o
un’ossessione?»«Le due cose non sono incompatibili! Andiamo?»Il vento era gelido, così ci
infilammo in un taxi. Keira cercò di spiegare la nostra destinazione al conducente e, poiché lui
non capiva una parola, aprì una cartina della città e gli mostrò l’indirizzo. Chi critica la cortesia
dei tassisti parigini non ha mai avuto modo di sperimentare quella dei loro colleghi moscoviti.
Il gelo invernale si era già formato sulle strade. La cosa non sembrava creare problemi al
nostro autista: la sua vecchia Lada sbandava spesso, ma con una piccola sterzata lui la rimetteva in asse.
Keira si diresse nell’atrio dell’edificio e si presentò. Il guardiano la indirizzò verso la segreteria amministrativa. Una giovane assistente di ricerca, che parlava un inglese accettabile, ci
ricevette con grande gentilezza. Keira le spiegò che cercavamo di metterci in contatto con il
professor Egorov, che aveva diretto la Società degli Archeologi negli anni Cinquanta.
La donna rimase stupita, non aveva mai sentito parlare di una società del genere, e gli
schedari dell’Accademia delle Scienze non risalivano oltre la data della sua fondazione: il
1958. Ci chiese di pazientare e tornò mezz’ora dopo in compagnia di uno dei suoi superiori,
un uomo sulla sessantina. Si presentò e ci invitò a seguirlo nel suo ufficio. La giovane assistente, che si chiamava Svetlana, ci salutò prima di allontanarsi. Keira mi sferrò un calcio
chiedendomi se avevo bisogno del suo aiuto per avere il numero di telefono della graziosa
russa.
«Ma che ti prende?» sospirai massaggiandomi la tibia.
«Non sono mica scema!»L’ufficio in cui entrammo avrebbe fatto impallidire d’invidia Walter: una grande finestra lasciava entrare una splendida luce, mentre grossi fiocchi di neve cadevano dietro il vetro.
«Non è la stagione migliore per farci visita» osservò l’uomo invitandoci a sedere. «E’ prevista una bella tempesta di neve per questa notte, domattina al più tardi.»L’uomo svitò il tappo
di un thermos e ci servì un bicchiere di tè fumante. «Forse ho trovato le tracce del vostro professor Egorov» riprese. «Posso sapere per quale motivo volete incontrarlo?»«Sto conducendo delle ricerche sulle migrazioni umane in Siberia nel corso del quarto millennio e mi
hanno riferito che lui è il massimo esperto sull’argomento.»«E’ possibile» replicò l’uomo,
«anche se avrei alcune riserve.»«Perché?» chiese Keira.
«Con il nome in codice di Società degli Archeologi ci si riferiva a un gruppo scelto dei servizi segreti. Durante il periodo sovietico, gli scienziati non erano meno sorvegliati di tutti gli altri cittadini, anzi. Sotto copertura, questa cellula era incaricata di recensire i lavori intrapresi
nel campo archeologico e, più in particolare, di inventariare e confiscare tutto ciò che poteva
essere rinvenuto sotto terra. Molti oggetti sono scomparsi… La corruzione e il miraggio del
guadagno» aggiunse l’uomo, vedendo la nostra espressione stupita. «La vita era dura in
questo paese, lo è ancora oggi, ma all’epoca una moneta d’oro riportata alla luce durante gli
scavi poteva garantire mesi di sopravvivenza per chi la ritrovava; lo stesso valeva per i fossili,
che superavano le frontiere più facilmente degli uomini. A partire dal regno di Pietro il Grande,
il vero mecenate delle ricerche archeologiche in Russia, il nostro patrimonio è stato continuamente saccheggiato. L’organizzazione messa in piedi da Chruscèv per proteggerlo finì col diventare, ahimè, uno dei più grandi traffici di antichità mai visti. Non appena rinvenuti, i tesori
che la nostra terra aveva conservato venivano spartiti tra i funzionari del Partito e andavano
ad alimentare le collezioni dei ricchi musei occidentali, quando non erano venduti a privati.
Tutti si servivano lungo la catena: dall’archeologo che si occupava degli scavi al capo spedizioni, passando per gli agenti della Società degli Archeologi incaricati della sorveglianza. Il
vostro Vladenko Egorov dev’essere probabilmente stato un pesce grosso in questo commercio in cui tutto era concesso, compreso uccidere, ovvio. Se parliamo dello stesso uomo, la
persona che desiderate incontrare è un ex criminale che deve la sua libertà alle personalità
influenti ancora al potere. Se volete attirarvi l’antipatia di tutti gli archeologi onesti vi basterà
citare il suo nome. Così, prima di darvi il suo indirizzo, volevo sapere quale tipo di oggetto intendevate far uscire dalla Russia. Sono sicuro che ciò interesserà moltissimo alla polizia, a
meno che non preferiate dirglielo voi stessi» concluse l’uomo sollevando la cornetta.
«Si sta sbagliando! Dev’essere sicuramente un caso di omonimia!» gridò Keira appoggiando la mano sulla tastiera del telefono.
Neanch’io riuscivo a credere a una sola parola. Il nostro ospite sorrise e compose nuovamente il numero che stava per fare prima.
«Si fermi, maledizione! Crede che se mi dedicassi al traffico di antichità, verrei a chiedere
l’indirizzo del mio fornitore all’Accademia delle Scienze? Le sembro davvero così stupida?»«Devo convenire che sarebbe una sciocchezza» disse l’uomo riagganciando. «Chi vi
ha fatto il suo nome e a quale scopo?» riprese.
«Un vecchio archeologo, e per i motivi che le ho spiegato. Prima non stavo mentendo.»«Allora si è preso gioco di voi. Posso comunque mettervi in contatto con uno dei nostri
specialisti in materia. Sono molti i nostri collaboratori che si interessano alle migrazioni
umane che popolarono la Siberia. Stiamo preparando un convegno su questo argomento,
che si terrà l’estate prossima.»«Ho bisogno di incontrare Egorov, non di tornare all’università»
rispose Keira. «Cerco delle prove e il suo pseudo-trafficante forse le ha a portata di
mano.»«Posso avere i vostri passaporti? Se devo aiutarvi a entrare in contatto con un individuo del genere, voglio almeno segnalare i vostri nominativi alle dogane; non prendetevela,
è un modo per tutelarmi. Per qualunque ragione siate venuti qui, non voglio averci nulla a che
fare e tanto meno essere accusato di complicità. Facciamo uno scambio: voi mi date la fotocopia dei documenti di identità e io vi rivelo l’indirizzo che state cercando.»«Abbiamo consegnato i passaporti all’arrivo in albergo e non li abbiamo ancora recuperati» spiegò Keira.
«E’ la verità» intervenni io. «Sono al Metropol Intercontinental, chiami la reception se con
ci crede, forse possono inviare le fotocopie via fax.»Bussarono alla porta e un giovanotto
scambiò qualche parola con il nostro interlocutore.
«Scusatemi» disse, «torno tra un momento. Nell’attesa, usate il telefono sulla scrivania e
fate mandare i vostri documenti a questo numero.»Scarabocchiò una serie di cifre su un
foglio di carta, che mi diede prima di uscire. Keira e io restammo da soli.
«Che bastardo, quel Thornsten!»«In ogni caso» provai a difenderlo, «non aveva nessun
motivo per rivelarci il passato del suo amico e poi non sappiamo se ha partecipato anche lui a
quel traffico.»«E i cento dollari, credi servissero per comprare caramelle? Sai quanto valevano cento dollari negli anni Sessanta? Fai la telefonata e poi andiamocene, questo ufficio
mi mette a disagio.»Siccome non mi muovevo, Keira sollevò lei la cornetta dalle mani, ma
gliela strappai di mano per rimetterla al suo posto. «Questa situazione non mi piace per niente» dissi. Mi alzai per avvicinarmi alla finestra.
«Posso sapere cos’hai in mente?»«Stavo ripensando al dirupo sul monte Hua Shan: a
duemilacinquecento metri, ricordi? Te la sentiresti di ricominciare con solo due piani sotto i
piedi?»«Di cosa stai parlando?»«Ho il sospetto che il nostro amico sia andato ad accogliere i
poliziotti sulla scalinata dell’edificio, e temo che nel giro di pochi minuti verranno ad arrestarci.
La loro auto è parcheggiata in strada, proprio qui sotto, un modello Ford con una bella fila di
lampeggianti sul tetto. Chiudi la porta a chiave e seguimi!»Avvicinai una sedia alla parete,
aprii la finestra e valutai la distanza che ci separava dalla scala di emergenza situata
all’angolo dell’edificio. La neve rendeva scivolosa la superficie del cornicione, ma c’erano
sicuramente più appigli tra le pietre di taglio della facciata che sulle pareti lisce del monte Hua
Shan. Aiutai Keira a salire sul davanzale e feci lo stesso anch’io. Mentre ci stavamo avventurando sul parapetto, sentii bussare alla porta dell’ufficio; non ci sarebbe voluto molto prima che
scoprissero la nostra fuga.
Keira si muoveva lungo il muro con un’agilità sconcertante; vento e neve frenavano la sua
marcia, però teneva duro e io non ero da meno. Pochi minuti dopo ci aiutammo a vicenda a
saltare sulla scala di emergenza. Una cinquantina di gradini in ferro battuto e ricoperti di ghiaccio ci separavano dalla strada. Keira si sdraiò per tutta la sua lunghezza sulla piattaforma
del primo piano, si attaccò alla balaustra e imprecò rialzandosi. L’addetto alle pulizie, intento
a lucidare il grande corrimano, rimase sconvolto vedendoci passare dall’altro lato del vetro; gli
feci un cenno per rassicurarlo e riacchiappai Keira. L’ultimo tratto consisteva in una scaletta
pieghevole che scendeva fino al marciapiedi. Keira tirò la catena per liberare i ganci che la
tenevano chiusa, ma il meccanismo era inceppato e noi ci ritrovammo bloccati a tre metri dal
suolo; troppo per tentare gesti azzardati senza rischiare di romperci l’osso del collo. Mi tornò
in mente un compagno dell’università che, dopo essersi lanciato dal primo piano per scavalcare un muro, si era trovato disteso al suolo con le tibie che uscivano ad angolo retto dal
polpaccio. Quell’immagine dal passato mi fece rinunciare all’idea di giocare a James Bond. A
forza di pugni, cercavo di spaccare il ghiaccio che bloccava la scala, mentre Keira ci saltava
sopra a piedi uniti urlando: «Devi cedere, stronza!», testuali parole! Alla fine riuscimmo nel
nostro intento: sul ghiaccio tutto d’un colpo si formò una crepa e vidi Keira attaccata alle barre
della scala precipitare sulla strada.
Cadde sul marciapiedi e si rialzò imprecando. La testa del nostro ospite spuntava dalla
finestra dell’ufficio: anche lui aveva l’aria furiosa. Raggiunsi Keira e ci dileguammo come due
ladri verso una fermata della metropolitana a cento metri da noi. Keira corse nel sotterraneo e
prese la scala che conduceva sull’altro lato del viale. A Mosca un buon numero di automobilisti si improvvisano tassisti, per arrotondare a fine mese. Basta sollevare la mano perché una
macchina si fermi e, una volta trovato l’accordo sul prezzo, l’affare è fatto. Per venti dollari il
conducente di una Zil accettò di farci salire a bordo.
Avevo testato il suo livello di inglese dicendo con un gran sorriso che la sua auto puzzava
terribilmente di capra, che lui assomigliava come una goccia d’acqua alla mia bisnonna e infine che, con mani come le sue, mettersi le dita nel naso non doveva essere una questione
da poco. Siccome mi aveva risposto per tre volte «Da», avevo concluso che potevo parlare
tranquillamente con Keira.
«Cosa facciamo adesso?» chiesi.
«Recuperiamo le nostre cose all’hotel e andiamo alla stazione dei treni prima che la polizia ci arresti. Dopo la prigione cinese, preferisco ammazzare qualcuno piuttosto che tornare in
cella.»«E dove andiamo?»«Al lago Bajkal. Ne ha parlato Thornsten.»L’auto accostò davanti
al Metropol Intercontinental. Ci precipitammo alla reception, dove un’affascinante receptionist
ci restituì i passaporti. La pregai di prepararci il conto, scusandomi per il fatto di dover abbreviare così il nostro soggiorno, e ne approfittai per chiederle se era possibile prenotare due
cuccette a bordo della Transiberiana. Si chinò verso di me per dire a bassa voce che due poliziotti le avevano appena fatto stampare la lista dei cittadini inglesi presenti in albergo. Si
erano seduti su un divanetto nella hall e stavano consultando l’elenco. Aggiunse che il suo
ragazzo era inglese, che l’avrebbe portata a vivere a Londra dove si sarebbero sposati a
primavera. Mi congratulai con lei per la stupenda notizia e lei mi sussurrò «God save the
Queen», con una strizzatina d’occhio complice.
Trascinai Keira verso l’ascensore, lungo il tragitto le giurai sul mio onore che non avevo
flirtato con la ragazza e le spiegai perché avevamo così poco tempo per tagliare la corda.
Fatti i bagagli, stavamo per lasciare la camera quando squillò il telefono. La ragazza alla
reception confermò che avevamo due posti riservati sulla vettura 7 della Transiberiana, in
partenza dalla stazione centrale alle 23.24. Mi comunicò il numero di prenotazione: dovevamo solo ritirare i biglietti alla stazione, li aveva segnati sul nostro conto e addebitato il tutto
sulla mia carta di credito. Attraversando il bar, avremmo potuto lasciare l’hotel senza dover
passare dalla hall.
Londra
Il notiziario della notte scorreva sullo schermo. Ivory spense il televisore e si avvicinò alla
finestra. Aveva smesso di piovere, una coppia usciva dal Dorchester: la donna salì su un taxi,
l’uomo attese che la vettura si allontanasse prima di tornare verso l’albergo. Una vecchia signora passeggiava con il suo cane in Park Lane e salutò l’autista mentre gli passava davanti.
Ivory lasciò il suo punto d’osservazione, aprì il minibar, prese una scatola di cioccolatini, la
aprì e l’appoggiò sul tavolino. Andò in bagno, frugò nell’armadietto, prese la boccetta dei sonniferi, fece scivolare una compressa nel cavo della mano e si guardò allo specchio.
«Vecchio stupido, ignoravi davvero la natura della posta in gioco? Non sapevi quali rischi
stavi correndo?»Inghiottì la pillola, bevve un bicchiere d’acqua del rubinetto e tornò nel
salone, davanti alla scacchiera.
Diede un nome a ciascuno dei pedoni avversari: Atene, Istanbul, Il Cairo, Mosca, Pechino,
Rio, Tel Aviv, Berlino, Boston, Parigi, Roma e battezzò il re «Londra» e la regina «Madrid»;
poi rovesciò tutti i pezzi del suo campo sul tappeto, eccetto Amsterdam. Questo, lo arrotolò
nel fazzoletto e lo mise con delicatezza in fondo alla tasca. Il re nero indietreggiò di una casella, il cavallo e il pedone non si mossero, ma Ivory fece avanzare i due alfieri fino alla terza linea. Contemplò la scacchiera, si tolse le scarpe, si sdraiò sul divano e spense la luce.
Madrid
Il consiglio era appena terminato e i partecipanti si accalcavano intorno al buffet. La mano
di Isabel sfiorò furtiva quella di Sir Ashton.
Se durante l’ultimo consiglio la maggior parte dei voti era stata a favore della prosecuzione delle ricerche, questa volta il lord inglese era riuscito a far passare dalla sua parte
quasi tutti i partecipanti; non solo, l’alleato più prezioso del momento accettava di collaborare:
Mosca avrebbe messo a sua disposizione tutti i mezzi per localizzare e fermare i due scienzi-
ati. Li avrebbero rispediti a Londra con il primo aereo e in futuro non avrebbero più ottenuto
nessun visto turistico. Ashton avrebbe preferito misure più drastiche, ma i compagni non
erano ancora pronti a votare una mozione del genere. Per tranquillizzare la coscienza di tutti,
Isabel aveva fatto una proposta che era stata ben accolta. Se fino a quel momento non si era
riusciti a dissuadere con la forza i due ricercatori, perché non distoglierli dalla ricerca facendo
a ciascuno di loro una proposta che non avrebbero potuto rifiutare, una proposta che li
avrebbe allontanati de facto l’uno dall’altra? La coercizione non sempre si rivelava il sistema
migliore. La presidentessa della seduta riaccompagnò gli invitati fino ai piedi della torre. Una
fila di limousine lasciò Piazza dell’Europa in direzione dell’aeroporto di Barajas; Mosca aveva
offerto a Sir Ashton di utilizzare il suo aereo privato, ma il lord aveva ancora alcune faccende
da sbrigare a Madrid.
Mosca
La stazione Yaroslavl era invasa dai poliziotti. Che andassimo verso i marciapiedi, verso
la fila di piccoli venditori ambulanti o verso il deposito bagagli, erano sempre lì, a gruppi di
quattro, a scrutare la folla. Keira percepì la mia apprensione e mi rassicurò.
«Dopotutto non abbiamo svaligiato una banca!» disse. «Se un poliziotto viene a cercarci
al nostro hotel è una cosa, ma da qui a immaginare che abbiano accerchiato stazioni e aeroporti come se fossimo due ricercati, be’, non esageriamo! E poi, come potrebbero sapere che
siamo qui?»Mi pentii di aver prenotato i biglietti ferroviari tramite l’albergo. Se il detective che
ci stava pedinando aveva messo le mani su un duplicato della nostra fattura, e avevo buoni
motivi per ritenere che fosse così, gli davo dieci minuti al massimo per far cantare la receptionist. Quindi non condividevo affatto l’ottimismo di Keira e temevo che le forze dell’ordine
fossero lì proprio per noi.
La fila di macchinette automatiche era a pochi metri. Lanciai una rapida occhiata alle biglietterie; se avevo ragione, gli addetti erano già stati allertati e avrebbero segnalato i primi
stranieri che si fossero presentati allo sportello.
Un lustrascarpe camminava lentamente davanti a noi, con la cassetta del materiale a
tracolla, alla ricerca di un cliente. Era già passato diverse volte davanti a me sbirciando i miei
stivali; gli feci un cenno e gli proposi uno scambio di altro genere.
«Cosa fai?» chiese Keira.
«Sto controllando una cosa.»Il lustrascarpe incassò i dollari che gli avevo offerto come acconto. Una volta ritirati i biglietti dal distributore automatico e dopo averceli consegnati, gli
avrei dato il resto.
«E’ davvero un colpo basso mettere nei guai quel poveretto mandandolo a fare la spesa
per conto tuo.»«Non corre nessun rischio, visto che non siamo dei ricercati!»Non appena il
lustrascarpe batté il codice della nostra prenotazione sullo schermo del distributore, sentii
gracchiare i walkie-talkie di numerosi poliziotti, mentre una voce urlava istruzioni di cui
purtroppo intuivo il senso. Keira capì cosa stava succedendo e non potè fare a meno di gridare al ragazzo di darsela a gambe. Ebbi a malapena il tempo di afferrarla per un braccio e
spingerla con fermezza in un angolo. Quattro uomini in uniforme ci superarono e si misero a
correre verso la fila di biglietterie automatiche. Keira era allibita. Ormai non potevamo fare più
molto per il lustrascarpe, che era già in manette, però la rassicurai, le dissi che la polizia
l’avrebbe trattenuto al massimo poche ore; in compenso, nel giro di pochi minuti, avrebbe fornito il nostro identikit.
«Togliti il giubbotto!» ordinai a Keira, mentre facevo lo stesso con il mio.
Infilai il tutto nello zaino, le diedi un maglione pesante e ne presi uno per me. Poi la trascinai verso il deposito bagagli cingendole la vita. La baciai e le chiesi di aspettarmi dietro una
colonna. Sgranò gli occhi vedendomi andare dritto verso i distributori. Ma era proprio l’ultimo
posto in cui la polizia ci avrebbe cercato. Mi intrufolai, chiesi educatamente a un ufficiale di
lasciarmi passare e mi diressi verso una macchinetta che, per fortuna, offriva ai turisti istruzioni in inglese. Prenotai due posti su un treno, pagai in contanti e tornai a prendere Keira.
Al commissariato della stazione, gli impiegati che sorvegliavano le transazioni dei terminali non avrebbero prestato nessuna attenzione a quella che avevo appena eseguito.
«Cosa andiamo a fare in Mongolia?» commentò Keira, osservando il biglietto.
«Prenderemo la Transiberiana come previsto e, una volta a bordo, spiegherò al controllore che ci siamo sbagliati e, se necessario, pagherò la differenza.»Ma la partita non era
ancora vinta: dovevamo salire sul treno. I poliziotti probabilmente disponevano solo di un
identikit, nella peggiore delle ipotesi di una foto ricavata dai passaporti, ma la morsa non
avrebbe tardato a chiudersi non appena ci fossimo avvicinati a un vagone. Inutile attirare
l’attenzione: poiché le forze dell’ordine cercavano una coppia, Keira camminò cinquanta metri
davanti a me. La Transiberiana numero 10 in partenza per Irkutsk avrebbe lasciato la
stazione alle 23.24, quindi dovevamo sbrigarci. La ressa conferiva al luogo l’aspetto di un villaggio di campagna in un giorno di mercato. Gabbie di volatili, bancarelle di formaggi e di
carne secca, viveri di ogni genere si mescolavano a valigie, bauli e pacchi che ingombravano
la banchina. I viaggiatori del vecchio treno che avrebbe attraversato l’Asia in sei giorni
tentavano di aprirsi un varco attraverso il caos degli ambulanti. La gente bisticciava, inveiva in
tutte le lingue: cinese, russo, manciù, mongolo. Alcuni ragazzini vendevano abusivamente articoli di prima necessità: cappelli, sciarpe, rasoi, spazzolini da denti e dentifrici. Un poliziotto
avvistò Keira e si avvicinò. Accelerai il passo e lo urtai, scusandomi platealmente. Il poliziotto
mi rimproverò; quando si voltò di nuovo verso la folla, Keira era scomparsa dal suo campo
visivo, e anche dal mio.
Una voce dagli altoparlanti annunciò la partenza imminente del treno: i viaggiatori ancora
sulla banchina si affrettarono a salire a bordo. I controllori non sapevano più a chi dar retta.
Ancora nessuna traccia di Keira. Mi ero ritrovato in fila davanti al vagone numero 7: vedevo,
attraverso i finestrini, i corridoi sovraffollati dove ognuno cercava il proprio posto, ma continuavo a non scorgere il viso di Keira. Toccava a me, un’ultima occhiata alla banchina e poi
non mi restò altro da fare se non lasciarmi trasportare dall’onda umana che si accalcava
all’interno del vagone. Se Keira non fosse stata a bordo, sarei sceso alla prima fermata e
avrei trovato un modo per tornare a Mosca. Mi pentii di non aver stabilito un punto di incontro
nel caso ci fossimo persi di vista, e cominciai a pensare a quale punto avrebbe potuto scegliere lei. Mentre risalivo il corridoio, un poliziotto arrivava in senso contrario. Mi infilai in uno
scompartimento, ma lui non mi prestò la minima attenzione. Ognuno cercava la propria poltroncina, per il momento i due impiegati della compagnia avevano ben altro da fare che controllare i biglietti. Mi sedetti accanto a una coppia di italiani; lo scompartimento successivo era
occupato da francesi e, durante il viaggio, avrei incrociato un buon numero di inglesi. La
Transiberiana attirava in ogni stagione dell’anno moltissimi turisti stranieri, il che andava tutto
a nostro vantaggio. Il treno si mise in moto lentamente, mentre alcuni poliziotti continuavano a
pattugliare il marciapiedi deserto; la stazione di Mosca ben presto sparì, lasciando il posto a
una periferia grigia e tetra.
Dopo aver chiesto ai vicini di dare un’occhiata al mio zaino, andai in cerca di Keira. Non la
trovai nella vettura successiva, né in quella dopo. Oltrepassata la periferia, fuori dal finestrino
cominciò a defilarsi la pianura. Il treno procedeva ad andatura sostenuta. Terza vettura,
ancora nessuna traccia di Keira. Attraversare i corridoi affollati richiedeva una certa pazienza.
In seconda classe il trambusto era notevole: i russi avevano stappato birre e bottiglie di
vodka, si beveva in allegria a suon di canzoni e grida. Il vagone ristorante era altrettanto animato.
Un gruppo composto da sei ucraini piuttosto corpulenti alzavano in aria i bicchieri gridando: «Viva la Francia!». Mi avvicinai e finalmente trovai Keira, piuttosto brilla.
«Non guardarmi così, Adrian!» esclamò. «Sono molto simpatici.»Si spostò in modo che
potessi sedermi intorno alla tavola e mi spiegò che i nuovi compagni di viaggio l’avevano
aiutata a salire sul treno, nascondendola con il proprio corpo alla vista di un poliziotto un po’
troppo interessato alla sua fisionomia. Senza di loro, sarebbe stata sicuramente fermata. Difficile non ringraziarli offrendo loro da bere. Non avevo mai visto Keira in uno stato del genere.
Ringraziai i suoi nuovi amici e cercai di convincerla a seguirmi.
«Ho fame e siamo nel vagone ristorante, e poi sono stufa di correre, quindi siediti e
mangia!»Ordinò un piatto di patate e pesce affumicato, ingurgitò altri due bicchieri di vodka e,
un quarto d’ora dopo, si accasciò sulla mia spalla.
Aiutato da uno dei sei giovanotti, la accompagnai fino al mio scompartimento. I nostri vicini italiani trovarono la situazione molto divertente. Sdraiata nella cuccetta, Keira borbottò
qualche parola incomprensibile e si riaddormentò subito.
Trascorsi una parte di quella prima notte a bordo della Transiberiana a guardare il cielo attraverso il finestrino. Ogni vagone è provvisto di un piccolo locale dove una provonitsa, la responsabile della carrozza, stava tutto il giorno davanti a un samovar, offrendo acqua calda e
tè. Andai a servirmi e ne approfittai per chiedere informazioni sulla durata del viaggio fino a
Irkutsk. Ci sarebbero voluti tre giorni e quattro notti, compresa quella, per percorrere i quattromilacinquecento chilometri che ci separavano dalla città siberiana.
Madrid
Sir Ashton appoggiò il cordless sul tavolo del salotto; sciolse la cintura della vestaglia e
tornò verso il letto.
«Quali sono le ultime novità?» chiese Isabel chiudendo il giornale.
«Sono stati localizzati a Mosca.»«Dove?»«Si trovavano all’Accademia delle Scienze per
chiedere informazioni su un vecchio trafficante di antichità. Il direttore si è insospettito e ha informato la polizia.»Isabel si mise a sedere sul letto e accese una sigaretta.
«Sono stati arrestati?»«No. La polizia ha rintracciato l’hotel dove alloggiavano, ma è arrivata troppo tardi.»«Hanno perso le loro tracce?»«A dire il vero non lo so, hanno cercato di
prendere la Transiberiana.»«Cercato?»«I russi hanno bloccato un tizio che ritirava due biglietti a nome loro.»«Quindi sono sul treno?»«La stazione pullulava di poliziotti, ma nessuno li
ha visti salire.»«Se si sentono braccati, forse hanno voluto mettere gli inseguitori su una pista
falsa. La polizia russa non deve immischiarsi nelle nostre faccende, complicherebbe solo la
situazione.»«I nostri scienziati non sono poi tanto furbi. Penso che siano su quel treno, il tizio
che cercano vive sul lago Bajkal.»«Perché vogliono incontrare un trafficante di antichità? Che
idea strana, lei crede che…»«… che sia in possesso di un frammento? No, l’avremmo già
saputo; tuttavia, se si danno tanta pena per incontrarlo, probabilmente quel tizio è in possesso di informazioni preziose.»«Be’, mio caro, non le resta che metterlo a tacere prima che
la coppia arrivi a lui.»«Non è così semplice, l’uomo in questione è un ex membro del Partito e,
tenuto conto del suo passato, il fatto che trascorra una serena vecchiaia in una dacia in riva al
lago significa che può contare su persone molto influenti. A meno di non inviare qualcuno
dall’esterno, non troveremo nessuno in loco disposto a immischiarsi in questa faccenda.»Isabel spense il mozzicone nel posacenere sul comodino, prese il pacchetto delle
sigarette e ne accese un’altra.
«Ha un piano per impedire questo incontro?»«Mia cara, lei fuma troppo» disse Sir Ashton
aprendo la finestra. «Isabel, lei conosce i miei progetti meglio di chiunque altro, però ha pro-
posto al consiglio un’alternativa che ci fa perdere tempo.»«Siamo o no in grado di intercettarli?»«Mosca me l’ha promesso. Concordiamo sul fatto che è meglio che le nostre prede
si sentano meno il fiato sul collo. Intervenire a bordo di un treno non è facile come sembra.
Non solo: quarantotto ore di tregua dovrebbero dar loro l’impressione di essere passati attraverso le maglie della rete. Mosca è pronto a muovere una squadra che si occuperà di loro
all’arrivo a Irkutsk. Ma tenuto conto delle decisioni prese durante il consiglio, i suoi uomini si
limiteranno a bloccarli e a rimetterli a bordo di un aereo per Londra.»«Ciò che ho proposto al
consiglio orientava opportunamente i voti a favore di un’interruzione delle ricerche, senza
contare che allontanava da lei ogni sospetto riguardo a Vackeers…»«Devo quindi dedurre
che non sarebbe contraria a misure più drastiche?»«Pensi quello che le pare, ma per favore
la smetta di andare avanti e indietro, mi fa venire mal di testa.»Ashton andò a richiudere la
finestra, si tolse la vestaglia e si infilò sotto le lenzuola.
«Non ricorda più i suoi doveri?»«E’ inutile, l’essenziale è stato fatto, avevo già deciso.»«Deciso cosa?»«Di intervenire prima dei nostri amici russi. La questione sarà sistemata
domani, quando il treno ripartirà da Ekaterinburg. A cose fatte informerò Mosca per pura
cortesia, diciamo per evitare che i suoi uomini intervengano inutilmente.»«Il consiglio non la
prenderà affatto bene.»«Lascio a lei il compito di mettere in scena la commedia che
preferisce. Potrà condannare il mio individualismo o la mia incapacità di rispettare le regole;
mi farà la morale, io presenterò le mie scuse giurando che i miei uomini hanno agito di testa
loro e, mi creda, tempo quindici giorni e nessuno ne parlerà più. La sua autorità sarà salva e i
nostri problemi risolti: cosa vuole di più?»Ashton spense la luce.
Transiberiana
Keira aveva trascorso la giornata sdraiata nella cuccetta con una forte emicrania. Mi ero
ben guardato dal fare il minimo rimprovero riguardo agli eccessi della sera precedente, anche
quando mi aveva pregato di darle una botta in testa perché non sopportava più il dolore. Ogni
mezz’ora andavo all’inizio del vagone, dove la responsabile del samovar mi riforniva gentilmente di garze tiepide che andavo subito ad applicare sulla fronte di Keira. Non appena si addormentava, incollavo il viso al finestrino e osservavo la campagna sfilare davanti ai miei occhi. Di quando in quando, il treno passava accanto a un villaggio di case costruite con tronchi
di betulla. Quando si fermava nelle piccole stazioni, i contadini del luogo si accalcavano sulla
banchina per vendere ai viaggiatori i loro prodotti locali: insalate di patate, piadine con tvarok,
marmellate, frittelle di cavolo o di carne. La sosta non durava mai a lungo; poi il treno riprendeva la corsa attraverso le grandi pianure desertiche degli Urali. Nel tardo pomeriggio Keira
cominciò a sentirsi un po’ meglio. Bevve un tè e sgranocchiò un po’ di frutta secca. Ci avvicinavamo a Ekaterinburg, dove i nostri vicini italiani scesero per prendere un altro treno,
diretto a Ulan Bator.
«Mi sarebbe piaciuto tanto visitare questa città» sospirò Keira. «La Cattedrale sul sangue
deve essere davvero magnifica.»Strano nome per una chiesa, ma era stata costruita sulle
rovine della villa dove lo zar Nicola II, sua moglie Aleksandra Fèdorovna e i loro cinque figli
erano stati giustiziati dai rivoluzionari nel luglio del 1918.
Purtroppo non avevamo tempo di fare i turisti: il treno si sarebbe fermato solo mezz’ora,
per cambiare locomotiva, mi aveva confidato la responsabile del vagone. Avremmo
comunque potuto andare a sgranchirci le gambe e comprare qualcosa da mangiare, a Keira
avrebbe fatto bene.
«Non ho fame» gemette lei.
Comparve la periferia, simile a quella di tutte le grandi città industriali; poi il treno rallentò
in avvicinamento alla stazione.
Keira accettò di lasciare la cuccetta per fare due passi. Era scesa la notte, sul binario le
babuske vendevano le loro merci all’asta. Nuovi viaggiatori salirono a bordo, mentre due poliziotti facevano la ronda; il loro atteggiamento rilassato mi rassicurò, sembrava che i nostri
guai fossero rimasti a Mosca, da cui ormai ci separavano più di millecinquecento chilometri.
Nessun fischio annunciava la partenza, si intuiva però dal movimento della folla che era
ora di salire in carrozza. Avevo comprato una cassa di acqua minerale e alcuni pirojki che
mangiai da solo. Keira era tornata a sdraiarsi nella cuccetta, riaddormentandosi. Finita la
cena, mi coricai anch’io e il dondolio del treno, il rumore regolare delle ruote mi fecero sprofondare in un sonno tranquillo.
Erano le due del mattino, ora di Mosca, quando sentii uno strano rumore alla porta: qualcuno cercava di entrare nel nostro scompartimento. Mi alzai e scostai la tenda, misi fuori la
testa ma non vidi nessuno: il corridoio era deserto, insolitamente deserto, anche la provonitsa
aveva abbandonato il samovar.
Chiusi a chiave e decisi di svegliare Keira, qualcosa non quadrava. Lei sobbalzò, le misi
una mano sulla bocca e le feci segno di alzarsi.
«Cosa c’è?» chiese sottovoce.
«Ancora non lo so, ma vestiti in fretta.»«Per andare dove?»La domanda non era priva di
senso. Eravamo bloccati all’interno di uno scompartimento di sei metri quadrati, il vagone ristorante si trovava a sei vetture di distanza dalla nostra e l’idea di raggiungerlo non mi piaceva
affatto. Vuotai lo zaino, imbottii le cuccette con le nostre cose e tirai su le lenzuola. Poi aiutai
Keira a salire nel vano portabagagli, spensi la luce e mi sdraiai al suo fianco.
«Posso sapere cosa succede?»«Non fare rumore, mi raccomando.»Trascorsero dieci
minuti, sentii di nuovo trafficare con il lucchetto. La porta del nostro scompartimento si aprì,
risuonarono quattro colpi secchi e poi si richiuse. Restammo rannicchiati l’uno accanto
all’altra per un bel po’, finché Keira mi avvertì che un crampo alla gamba l’avrebbe fatta urlare
di dolore di lì a poco. Abbandonammo il nostro nascondiglio. Keira voleva riaccendere la luce,
ma glielo impedii e scostai un poco la tenda per lasciar filtrare la luce del chiaro di luna.
Quando vedemmo i fori sulle lenzuola, proprio nel punto in cui avrebbero dovuto trovarsi i
nostri corpi addormentati, impallidimmo. Qualcuno si era introdotto nella nostra cabina per ucciderci. Keira si inginocchiò davanti alla cuccetta e passò il dito attraverso lo squarcio del lenzuolo.
«Ma è spaventoso…» mormorò.
«Sì, temo che ci siamo giocati la biancheria.»«Chi ce l’ha così tanto con noi? Non sappiamo nemmeno noi cosa cerchiamo, né tanto meno se un giorno lo troveremo!»«E’ probabile che le persone che ce l’hanno con noi ne sappiano di più. Dobbiamo mantenere la
calma per uscire vivi da questa trappola.»Valutammo la situazione: l’assassino era sul treno e
ci sarebbe rimasto fino alla fermata successiva, a meno che non decidesse di aspettare che
scoprissero i nostri corpi, per accertarsi che la missione fosse riuscita. Nel primo caso,
sarebbe stato meglio se fossimo rimasti chiusi nello scompartimento; nel secondo, sarebbe
stato più saggio scendere prima di lui. Il treno stava rallentando, dovevamo trovarci in
prossimità di Omsk, poi avrebbe effettuato altre fermate e all’alba saremmo entrati nella
stazione di Novosibirsk.
Il mio primo istinto fu quello di trovare un modo per bloccare la porta: misi la cintura dei
pantaloni intorno alla maniglia e la legai al montante della scaletta che permetteva di accedere al portabagagli. Il cuoio era abbastanza robusto per impedire a chiunque di farla scorrere. Poi ordinai a Keira di abbassarsi, di modo che potessimo sorvegliare il binario senza essere visti.
Il treno si fermò. Dalla nostra posizione, era difficile vedere chi scendeva, e non avevamo
notato nulla che facesse sperare che il killer fosse sceso.
Nelle ore successive rifacemmo i bagagli, prestando attenzione a ogni minimo rumore.
Alle sei del mattino udimmo delle grida. I viaggiatori degli scompartimenti vicini uscirono nel
corridoio. Keira si alzò di colpo.
«Non ne posso più di stare qui dentro» disse liberando la maniglia.
Aprì la porta e mi lanciò la cintura.
«Usciamo! C’è troppa gente là fuori, non corriamo alcun pericolo.»Un passeggero aveva
trovato la responsabile del vagone distesa esanime ai piedi del samovar, con una brutta ferita
in fronte. La sua collega, che garantiva il servizio diurno, ordinò a tutti di rientrare nelle cuccette: la polizia sarebbe salita sul treno a Novosibirsk. Nel frattempo, i passeggeri erano pregati di rimanere nei propri scompartimenti.
«Di nuovo alla casella di partenza» borbottò Keira.
«Se i poliziotti decideranno di ispezionare le cabine, è meglio nascondere le lenzuola»
dissi rimettendomi la cintura, «non è il momento giusto per attirare l’attenzione.» «Credi che
quel tizio sia ancora nei paraggi?» «Non lo so, ma adesso è inoffensivo, non può rischiare di
farsi beccare.»Alla stazione di Novosibirsk, i passeggeri furono interrogati a turno da due ispettori: nessuno aveva visto nulla. La giovane provonitsa fu portata via in ambulanza e
sostituita da un’altra impiegata della compagnia. Poiché sul treno c’erano moltissimi stranieri,
la nostra presenza non suscitò particolare interesse nelle autorità. Nel nostro vagone c’erano
olandesi, italiani, tedeschi e perfino una coppia di giapponesi: in mezzo a loro, eravamo solo
due turisti inglesi. Dopo aver preso nota delle nostre generalità, gli agenti di polizia
ridiscesero e il treno ripartì.
Attraversammo una zona di acquitrini ghiacciati e poi montagne innevate, a cui succedettero di nuovo le pianure della Siberia. A metà giornata il treno percorse un lungo ponte metallico che attraversava l’imponente fiume Jenisej; la sosta a Novosibirsk durò mezz’ora. Avrei
preferito non uscire dallo scompartimento, ma Keira non ce la faceva più. La temperatura sul
binario raggiunse quasi dieci gradi sotto zero. Approfittammo di quella piccola passeggiata
per acquistare qualcosa da mangiare.
«La situazione mi sembra rientrata» disse Keira addentando voracemente una frittella di
verdure.
«Speriamo che continui così fino a domattina.»I passeggeri stavano risalendo sul treno;
gettai un’ultima occhiata intorno a noi e aiutai Keira a issarsi sul predellino. La nuova provonitsa urlò di affrettarci e la porta si chiuse alle mie spalle.
Proposi a Keira di trascorrere la nostra ultima serata a bordo della Transiberiana nel
vagone ristorante. Russi e turisti ci passavano tutta la notte a bere; più gente c’era, più
saremmo stati al sicuro. Keira accolse la mia proposta con sollievo. Trovammo un tavolo che
condividemmo con quattro olandesi.
«Arrivati a Irkutsk, come riusciremo a trovare il nostro uomo? Il lago Bajkal si estende per
oltre seicento chilometri.»«Una volta là, cercheremo un Internet point e faremo qualche
ricerca. Con un po’ di fortuna, lo scoveremo.»«Da quando in qua conosci il cirillico?»Guardai
Keira e il suo sorriso malizioso: era bellissima. In effetti, forse avremmo dovuto ricorrere a un
interprete.
«A Irtkutsk» continuò, prendendomi in giro, «andremo da uno sciamano, che ci darà molte
più informazioni sulla regione e sui suoi abitanti di qualsiasi motore di ricerca di Internet!»Mentre cenavamo, Keira mi spiegò perché il lago Bajkal era diventato un luogo di
elezione per la paleontologia. La scoperta all’inizio del ventunesimo secolo di accampamenti
del Paleolitico aveva permesso di accertare la presenza di uomini della Transbaikalia, che
avevano popolato la Siberia venticinquemila anni prima della nostra èra. Sapevano utilizzare
un calendario e celebravano già riti religiosi.
«L’Asia è la culla dello sciamanesimo. In queste regioni» proseguì Keira «è considerato la
religione originale dell’uomo. Secondo la mitologia, lo sciamanesimo è nato addirittura con la
creazione dell’universo e il primo sciamano era il figlio del Cielo. Come vedi, le nostre due scienze sono collegate dalla notte dei tempi. I miti cosmogonici siberiani sono numerosi. Nella
necropoli dell’isola delle Renne sull’Onega è stata rinvenuta una scultura d’osso risalente al
quinto millennio prima della nostra èra. Rappresenta un copricapo sciamanico decorato con
un muso d’alce. Questo copricapo era indossato da un officiante che, circondato da due
donne, si elevava verso la volta celeste.»«Perché mi racconti tutto ciò?»«Perché qui, come in
tutti i villaggi buriati, per sapere qualcosa bisogna chiedere udienza a uno sciamano. Ora vuoi
dirmi per quale motivo mi stai toccando la gamba sotto il tavolo?»«Non ti sto toccando!»«Allora cosa fai?»«Cerco la guida turistica che devi aver imboscato da qualche parte.
Non dirmi che sapevi già così tante cose sugli sciamani, non ci credo!»«Non essere stupido»
rise Keira, mentre le accarezzavo le cosce. «Non ho nessun libro sotto il sedere! Ho i miei
buoni motivi per conoscere la lezione a memoria… E non è neanche fra le mie tette. Smettila,
Adrian!»«Quali motivi?»«Quando ero all’università ho avuto una fase molto mistica, ero
molto… sciamanizzata. Incensi, pietre magnetiche, danze, estasi, trance: un periodo della
mia vita molto New Age e ti proibisco di prendermi in giro. Adrian, piantala, mi fai il solletico,
nessuno andrebbe a nascondere un libro in quel posto!»«E come troveremo uno sciamano?»
chiesi.
«Non ti preoccupare, il primo ragazzino per strada ci dirà dove vive lo sciamano del posto.
Quando avevo vent’anni, ho desiderato moltissimo fare un viaggio del genere. Per alcuni il
paradiso si trovava a Kathmandu; io, invece, sognavo di venire qui.»«Davvero?»«Sì, davvero.
Ora sarò felice che tu approfondisca le tue ricerche, ma prima torniamo in cabina.»Non me lo
feci ripetere due volte. All’alba avevo ispezionato con grande minuzia tutto il corpo di Keira e
nessuno dei due era troppo dispiaciuto per non aver rinvenuto alcuna guida turistica. Anzi.
Londra
Sir Ashton era seduto nella sala da pranzo e leggeva il giornale del mattino, sorseggiando
il tè. Il segretario particolare entrò nella stanza e gli porse un cordless su un vassoio
d’argento. Ashton prese l’apparecchio, ascoltò il messaggio del suo interlocutore e rimise il
telefono sul vassoio. Il segretario avrebbe dovuto, come d’abitudine, ritirarsi subito, ma sembrava voler aggiungere qualcosa e aspettava che Sir Ashton si rivolgesse a lui.
«Cos’altro c’è? Non posso fare colazione senza essere importunato?»«Signore, il capo
della sicurezza desidera parlare con lei il prima possibile.»«Va bene, che venga a trovarmi
nel pomeriggio.»«E’ nel corridoio, signore, sembra che sia urgente.»«Il capo della sicurezza è
venuto a casa mia alle nove del mattino? Che storia è mai questa?»«Suppongo, signore, che
voglia parlargliene di persona: non ha voluto anticiparmi nulla, se non che doveva vederla al
più presto.»«Allora lo faccia entrare anziché blaterare, cosa che trovo molto irritante, e ci faccia servire un tè alla temperatura giusta, non la brodaglia tiepida che mi è toccata stamattina.
Si sbrighi!»Il segretario si ritirò, lasciando posto al capo della sicurezza.
«Cosa vuole?»Il capo della sicurezza consegnò una busta sigillata a Sir Ashton. Il lord
l’aprì e trovò una serie di fotografie. Riconobbe Ivory, seduto su una panchina nel giardinetto
di fronte a casa sua.
«Cosa ci fa lì quell’idiota?» chiese Sir Ashton andando alla finestra.
«Sono state scattate ieri nel tardo pomeriggio, signore.»Sir Ashton lasciò la tenda e si
voltò verso il capo della sicurezza.
«Se quel vecchio rimbambito si diverte a dar da mangiare ai piccioni di fronte a casa mia,
sono affari suoi; spero che non mi abbia disturbato a quest’ora del mattino per questa sciocchezza! »«L’operazione in Russia dovrebbe essersi conclusa come aveva richiesto.»«Be’,
perché non iniziare subito con questa splendida notizia? Vuole una tazza di tè?»«La
ringrazio, signore, ma ora devo proprio andare, ho molto da fare.»«Aspetti un momento,
perché ha usato il condizionale?»«Il nostro emissario ha dovuto lasciare il treno prima del
previsto; è tuttavia sicuro di aver colpito a morte i due obiettivi.»«Eccellente.»
Irkutsk
Non ci dispiaceva affatto interrompere il viaggio sulla Transiberiana. Tranne l’ultima notte
passata a bordo, non ne avremmo conservato un bel ricordo. Attraversando la stazione, mi
guardai attorno, senza notare nulla di sospetto. Keira scorse un ragazzino che vendeva sigarette abusivamente. Gli offrì dieci dollari in cambio di un piccolo favore: portarci dallo
sciamano. Il ragazzo non capiva una parola di ciò che Keira gli chiedeva, ma ci accompagnò
fino a casa sua. Il padre aveva una piccola bottega di conceria in un vicolo del centro storico.
Fui colpito dalla diversità etnica del luogo. Mille comunità convivevano in perfetta armonia.
Irkutsk, città dalla storia particolare con le sue antiche case di legno inclinate che affondano
nel terreno prima di cadere a pezzi per mancanza di ristrutturazioni; Irkutsk e il suo vecchio
tram senza stazione, che si ferma in mezzo alla strada; Irkutsk e le vecchie buriate con
l’immancabile scialle di lana annodato sotto il mento e la sporta al braccio. Ogni vallata e ogni
montagna ha il suo spirito, si venera il cielo e, prima di bere alcol, si versano alcune gocce sul
tavolo per brindare con gli dèi.
Il conciatore ci accolse nella sua modesta dimora. In un inglese rudimentale spiegò che la
sua famiglia viveva lì da più di tre secoli. Suo nonno era pellicciaio nell’epoca in cui i buriati
commerciavano ancora pellicce nei centri di scambio della città, ma tutto ciò apparteneva al
passato: zibellini, ermellini, lontre e volpi erano scomparsi e nel piccolo laboratorio situato a
pochi passi dalla cappella di Santa Paraskeva si producevano solo borse di cuoio, difficili da
vendere nel vicino bazar. Keira chiese al nostro ospite se conosceva un modo per ottenere
udienza da uno sciamano. Il migliore, secondo lui, si trovava a Listvianka, una cittadina sulle
rive del lago Bajkal. Un pulmino ci avrebbe permesso di andare laggiù con poca spesa.
taxi costavano una cifra esorbitante, ci disse, e non erano nemmeno comodi. Ci offrì da
mangiare; in queste terre impoverite dallo strapotere dei pochi ricchi, vigeva una sola legge:
quella dell’ospitalità. Carne bollita, qualche patata, un tè al burro e una fetta di pane. Me ne ricordo ancora, di quel pranzo invernale nella bottega di un pellicciaio di Irkutsk.
Keira aveva stretto amicizia con il ragazzino, insieme giocavano a ripetere parole sconosciute a entrambi, in inglese o in russo, e ridevano sotto lo sguardo intenerito dell’artigiano. Nel
pomeriggio, il ragazzo ci accompagnò fino alla fermata del pullman. Keira voleva dargli i dollari promessi, ma lui li rifiutò. Allora si tolse la sciarpa e gliela regalò. Lui se la arrotolò intorno
al collo e andò via correndo. In fondo alla strada si voltò e agitò la sciarpa in segno di saluto.
Sapevo che Keira aveva il cuore gonfio, che Harry le mancava, intuivo che rivedeva i suoi occhi nello sguardo di ogni ragazzino che incrociavamo per strada. La presi fra le braccia in un
gesto un po’ maldestro, ma lei appoggiò la testa sulla mia spalla. Sentii la sua tristezza e
all’orecchio le sussurrai la promessa che le avevo fatto. Saremmo tornati nella valle dell’Omo
e, non importa quanto tempo ci sarebbe voluto, avrebbe rivisto Harry.
pulmino costeggiava il fiume, attraversando paesaggi stepposi. Alcune donne camminavano sul ciglio della strada, portando in braccio i figli addormentati. Durante il viaggio
Keira mi insegnò qualcosa in più sugli sciamani e sulla visita che ci attendeva.
«Lo sciamano è un guaritore, uno stregone, un prete, un mago, un indovino e un posseduto. Cura le malattie, fa abbondare la selvaggina e fa piovere, talvolta ritrova perfino un oggetto smarrito.»«Dimmi, il tuo sciamano non potrebbe indirizzarci direttamente verso il frammento? Così eviteremmo di andare a trovare Egorov, risparmiando tempo prezioso.»«Ci vado
da sola!»La ragazza era suscettibile e non apprezzava le battute. Ascoltai quindi attentamente le sue spiegazioni.
«Per entrare in contatto con gli spiriti, lo sciamano va in trance. Le convulsioni testimoniano che uno spirito è entrato nel suo corpo. Quando finisce la trance, lo sciamano crolla e va
in catalessi. E’ un momento di grande pathos per i presenti, perché non vi è mai la certezza
che lo sciamano ritorni fra i vivi. Quando si sveglia, racconta dov’è stato. Fra i suoi viaggi, ce
n’è uno che dovrebbe piacerti: quello che lo sciamano compie verso il cosmo. Si chiama volo
magico. Lo sciamano rasenta “l’estremità del cielo” e passa attraverso la Stella Polare.»«Sai
bene che abbiamo bisogno solo di un indirizzo; potremmo limitarci a chiedere un servizio
ridotto.»Keira si girò verso il finestrino del pullman, senza più rivolgermi la parola.
Listvianka
La città è interamente costruita in legno, come molti villaggi della Siberia; anche la chiesa
ortodossa è fatta con i tronchi delle betulle. La casa dello sciamano non faceva eccezione.
Quel giorno non eravamo gli unici che erano andati a trovarlo. Avevo sperato di dover scambiare con lui solo poche parole, un po’ come quando ci si rivolge al sindaco di un paesino, ma
dovemmo assistere al rito appena cominciato.
Prendemmo posto in una stanza in mezzo ad altre cinquanta persone sedute in cerchio su
alcuni tappeti. Lo sciamano entrò, vestito con un abito da cerimonia. I presenti erano silenziosi. Una ragazza di non più di ventanni era sdraiata su una stuoia. Soffriva di un male che le
provocava una febbre altissima. Aveva la fronte imperlata di sudore e gemeva. Lo sciamano
prese un tamburo. Keira, sebbene fosse ancora arrabbiata con me, mi spiegò - benché non
gliel’avessi chiesto - che il tamburo era indispensabile allo svolgimento del rito poiché aveva
una doppia identità sessuale: la pelle era maschio e la cornice femmina. Fui così stupido da
ridere e mi beccai un sonoro ceffone.
Lo sciamano iniziò scaldando la pelle del tamburo, sfiorandola con la fiamma di una torcia.
«E’ decisamente più complicato che chiedere informazioni» sussurrai all’orecchio di Keira.
Lo sciamano alzò le mani e il corpo cominciò a ondeggiare al ritmo dei rulli del tamburo. Il
suo canto era ammaliante, mi era passata completamente la voglia di fare lo spiritoso, mentre
Keira era del tutto assorbita dalla scena che si svolgeva sotto i nostri occhi. Lo sciamano entr in trance, il suo corpo fu scosso da violenti spasmi. Nel corso della cerimonia il viso della
ragazza malata cambiò, come se la febbre la stesse abbandonando: un colorito sano riapparve sulle sue guance. Keira era affascinata e io altrettanto. Il rullo del tamburo cessò e lo
sciamano crollò a terra. Nessuno parlava, neanche un rumore a turbare il silenzio. I nostri occhi erano inchiodati sul suo corpo inerte. Quando tornò in sé e si rialzò, l’uomo si avvicinò alla
ragazza: le appoggiò le mani sul viso e le chiese di alzarsi. In piedi, seppur vacillante, sembrava del tutto guarita. I presenti acclamarono lo sciamano, la magia aveva funzionato.
Non ho mai saputo quali fossero i veri poteri di quell’uomo: il fenomeno di cui fui testimone
quel giorno nella dimora dello sciamano a Listvianka rimarrà sempre un mistero per me.
Dopo il rito, la gente si disperse. A quel punto Keira avvicinò lo sciamano e gli chiese udienza; lui la invitò a sedersi e a porgli le domande per cui era venuta.
Scoprimmo così che l’uomo che cercavamo era un notabile della regione. Un benefattore
che donava molto denaro per i poveri, per la costruzione di scuole; aveva anche finanziato la
ristrutturazione di un dispensario che da allora era diventato un piccolo ospedale. Lo
sciamano esitava a darci l’indirizzo, preoccupato per le nostre intenzioni. Keira giurò che volevamo soltanto avere alcune informazioni. Gli spiegò quale fosse il suo mestiere e in cosa
Egorov avrebbe potuto esserci utile. La sua ricerca era puramente scientifica.
Lo sciamano fissò il ciondolo di Keira e le chiese da dove venisse.
«E’ un oggetto molto antico» gli confidò senza alcuna reticenza. «È il frammento di una
mappa stellare di cui cerchiamo le parti mancanti.»«A quando risale questo oggetto?»
domandò lo sciamano, chiedendo di vederlo più da vicino.
«A milioni di anni fa» rispose Keira, porgendoglielo.
Lo sciamano sfiorò delicatamente il ciondolo e, all’improvviso, il suo viso si irrigidì.
«Non dovete proseguire il viaggio» sentenziò con voce grave.
Keira si voltò verso di me con aria interrogativa. Cosa aveva turbato quell’uomo?
«Non potete tenerlo con voi. Non avete idea del rischio che correte» continuò.
«Ha già visto un oggetto simile?» chiese Keira.
«Siete in pericolo!» disse lo sciamano.
Il suo sguardo si era ulteriormente incupito.
«Non capisco» rispose Keira riprendendo il ciondolo. «Noi siamo scienziati.»«Siete degli
ignoranti! Avete forse l’ardire di mettere in discussione gli equilibri dell’universo?»«Ma cosa
sta dicendo?» insorse Keira.
«Andatevene da qui! L’uomo che volete incontrare abita a due chilometri di distanza, in
una dacia rosa con tre torrette: non potete sbagliarvi.»Alcuni ragazzi pattinavano sul lago Bajkal lontano dalla riva dove le onde intrappolate dall’inverno erano gelate, formando sculture
dall’aspetto minaccioso. Prigioniero dei ghiacci, un vecchio cargo con lo scafo arrugginito giaceva sul fianco.
Keira aveva affondato le mani in tasca.
«Cosa tentava di dirci lo sciamano?» mi chiese.
«Non lo so, sei tu l’esperta di sciamanesimo. Penso che la scienza lo preoccupi, ecco
tutto.»«La sua paura non era irrazionale; sembrava sapere di cosa stava parlando, come se
volesse metterci in guardia da un pericolo.»«Keira, non siamo degli apprendisti stregoni.
Nelle nostre discipline non c’è spazio né per la magia, né per l’esoterismo. Entrambi
seguiamo un approccio puramente scientifico. Disponiamo di due frammenti di una mappa
che cerchiamo di completare, ecco tutto.»«Di una mappa che secondo te fu elaborata quattrocento milioni di anni fa. Non abbiamo idea di cosa potrebbe rivelarci.»«Potremmo scoprire
che un’antica civiltà disponeva di un sapere astronomico molto superiore alle nostre aspettative. Guarderemo alla storia dell’umanità in modo totalmente nuovo, ma comunque razionale.
Non è ciò che ti appassiona da sempre?»«E tu, cosa speri?»«Se questa mappa mi
mostrasse una stella ancora sconosciuta, sarebbe già un enorme successo. Cosa c’è Keira,
cosa ti turba?»«Ho paura, Adrian. Le mie ricerche non mi avevano mai messo di fronte alla
violenza degli uomini e ancora non capisco le motivazioni dei nostri persecutori. Lo sciamano
non sapeva nulla di noi: il modo in cui ha reagito toccando il ciondolo è stato… spaventoso.»«Ma ti rendi conto di quello che gli hai rivelato e dell’importanza che ha per lui?
Quell’uomo è un oracolo, l’aura e il potere che detiene si basano sul suo sapere e
sull’ignoranza delle persone che lo venerano. Noi spuntiamo all’improvviso a casa sua, sbandierandogli sotto il naso la testimonianza di una conoscenza di gran lunga superiore alla sua.
Lo metti in pericolo. Mi aspetterei una reazione analoga da parte dei membri della Royal
Academy, se facessimo una rivelazione del genere. Se un medico arrivasse in un villaggio
fuori dal mondo dove la modernità non è mai arrivata, se curasse i malati con le medicine,
sarebbe venerato come un dio.»«Grazie per la lezione, Adrian. È la nostra ignoranza che mi
terrorizza, non quella degli autoctoni.»Arrivammo davanti alla dacia rosa. Era esattamente
come lo sciamano l’aveva descritta, e aveva detto il vero: sarebbe stato impossibile confonderla con un’altra casa, tanto la sua architettura era ostentata. Il proprietario non aveva
fatto nulla per celare la sua ricchezza, anzi: la metteva in bella mostra come un trofeo.
Due uomini, ciascuno con un Kalashnikov a tracolla, sorvegliavano l’ingresso. Mi presentai e chiesi di essere ricevuto dal padrone di casa. Spiegai che Thornsten, un suo vecchio
amico, ci aveva mandato per saldare un debito. La guardia ci ordinò di attendere davanti alla
porta. Keira saltellava sul posto per riscaldarsi, sotto lo sguardo divertito dell’altro uomo, che
la sbirciava in un modo che non mi piaceva affatto. La presi fra le braccia e le massaggiai la
schiena. La prima guardia tornò pochi istanti dopo: ci riservarono un’ispezione in piena regola
e, alla fine, ci lasciarono entrare nella fastosa dimora di Egorov.
I pavimenti erano in marmo di Carrara, i muri rivestiti con pannelli di legno importati
dall’Inghilterra, spiegò il padrone di casa accogliendoci nel salone. Quanto ai tappeti, arrivavano dall’Iran, oggetti di grande valore, puntualizzò l’uomo.
«Credevo che quel bastardo di Thornsten fosse morto da un bel pezzo» esclamò Egorov
servendoci un bicchierino di vodka. «Bevete» disse, «vi riscalderà.»«Spiacente deluderla»
replicò Keira, «ma è sano come un pesce.»«Tanto meglio per lui» rispose Egorov. «Quindi siete venuti a portarmi il denaro che mi deve?»Tirai fuori il portafogli e gli allungai cento dollari.
«Ecco» dissi, appoggiando la banconota solitaria sul tavolo. «Il debito è saldato.»Egorov
osservò il biglietto verde con disprezzo. «E’ uno scherzo, vero?»«È esattamente la somma
che ci ha chiesto di consegnarle.»«E’ ciò che mi doveva trent’anni fa! In base all’inflazione, e
senza calcolare gli interessi, bisognerebbe moltiplicarla per cento. Vi concedo due minuti per
lasciare la mia casa, se non volete rimpiangere di essere venuti qui a prendermi in
giro.»«Thornsten ha detto che lei avrebbe potuto aiutarci. Sono una paleontologa e ho
bisogno di lei.»«Mi dispiace, ormai non mi occupo più da molto tempo di oggetti antichi, le
materie prime sono molto più redditizie. Se avete fatto questo viaggio nella speranza di comprare qualcosa da me, vi siete scomodati per nulla. Thornsten ci ha fregato tutti. Riprendete
quella banconota e andatevene.»«Non capisco il suo astio nei confronti di Thornsten, lui parlava di lei con grande rispetto, anzi: con ammirazione.»«Ah, davvero?» Egorov parve
lusingato dalle parole di Keira.
«Perché le doveva del denaro? Trent’anni fa cento dollari erano una bella sommetta in
questa regione» aggiunse Keira.
«Thornsten era solo un intermediario, agiva per conto di un acquirente di Parigi, che voleva acquistare un’antica stele.»«Una stele di che tipo?»«Si trattava di una lastra di pietra incisa trovata in una tomba ghiacciata in Siberia. Lei dovrebbe sapere meglio di me che negli
anni Cinquanta furono scoperte numerose sepolture, tutte traboccanti di tesori perfettamente
conservati dai ghiacci.»«E furono tutte saccheggiate da cima a fondo.»«Purtroppo sì» disse
Egorov, sospirando. «L’avidità umana non conosce limiti. Quando si tratta di denaro, non c’è
più nessun rispetto per le bellezze del passato.»«E lei braccava i saccheggiatori di tombe,
non è così?» proseguì Keira.
«Lei ha un bel fondoschiena, signorina, e un indubbio fascino, ma non abusi troppo della
mia ospitalità.»«Ha venduto quella pietra a Thornsten?»«Gli ho rifilato una copia! Il suo committente non si è accorto di nulla. Siccome sapevo che non mi avrebbe pagato, mi sono limitato a consegnargli una riproduzione, benché di ottima fattura. Riprendetevi il denaro e spendetelo per brindare alla mia salute. Dite a Thornsten che siamo pari.»«E l’originale ce l’ha
ancora lei?» chiese Keira con un sorriso.
Egorov la squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulle curve del suo corpo. Ricambiò il
sorriso e si alzò.
«Poiché siete venuti fin qui, seguitemi: vi mostrerò di cosa si trattava.»Giunto alla libreria
che abbelliva le pareti del salone, prese una scatola ricoperta di pelle pregiata, l’aprì e la rimise al suo posto.
«Non è qui, ma dove accidenti l’avrò messa?»Esaminò altre tre custodie dello stesso tipo,
poi una quarta e una quinta da cui tirò fuori un oggetto avvolto in un panno. Slegò la cordicella che tratteneva la stoffa e ci mostrò una pietra di venti centimetri di lunghezza per altrettanti di larghezza, che appoggiò con delicatezza sulla scrivania prima di farci avvicinare. La
superficie lucida era ricoperta di caratteri simili a geroglifici.
«E’ sumerico, questa pietra ha più di seimila anni. Il committente di Thornsten avrebbe
fatto meglio a pagarmela all’epoca, quando il prezzo era ancora abbordabile. Trent’anni fa
avrei venduto il sarcofago di Sargon per qualche centinaio di dollari; oggi questa pietra ha un
valore inestimabile e paradossalmente è invendibile, se non a un privato che la custodirebbe
in segreto. Questo genere di oggetti non può più circolare: i tempi sono cambiati, il traffico di
antichità è troppo pericoloso. Ve l’ho già detto, il commercio di materie prime rende di più con
molti meno rischi.»«Qual è il significato di queste incisioni?» chiese Keira, affascinata dalla
bellezza della pietra.
«Niente di che, si tratta probabilmente di una poesia o di una leggenda, ma la persona
che voleva acquistarla sembrava attribuirvi grande importanza. Dovrei avere una traduzione.
Ah, eccola!» disse frugando nella cassetta. Diede a Keira un foglio che lei mi lesse ad alta
voce:
Vi è una leggenda secondo la quale il bambino nel ventre della madre consosce tutto sul
mistero della creazione, dall’origine del mondo fino alla fine dei tempi. Alla nascita, un messaggero passa sulla culla e gli posa un dito sulle labbra affinché non sveli mai il segreto che
gli è stato affidato, il segreto della vita…
Come nascondere il mio stupore, nell’udire quelle parole che risuonavano nella mia mente
e mi facevano ricordare un viaggio fallito? Le ultime parole che avevo letto a bordo di un
aereo in partenza per la Cina, prima che perdessi conoscenza e che l’aereo invertisse la
rotta. Keira aveva smesso di leggere, preoccupata per il mio turbamento. Presi il portafogli
dalla tasca, tirai fuori un biglietto che spiegai davanti ai suoi occhi. A mia volta lessi ad alta
voce la fine di quello strano testo:
Quel dito appoggiato che cancella per sempre la memoria del bambino lascia un segno.
Quel segno lo abbiamo tutti sul labbro superiore, io invece no.
Il giorno in cui sono nato, il messaggero ha dimenticato di farmi visita, e ricordo tutto.
Keira e Egorov mi fissavano esterrefatti. Spiegai loro in quali circostanze avevo ricevuto il
biglietto.
«È stato il tuo amico, il professor Ivory, che me l’ha fatto avere, subito prima che venissi a
cercarti in Cina.»«Ivory? Qual è il suo ruolo in tutta questa storia?» si domandò Keira.
«Ma è il nome di quello stronzo che non mi ha mai pagato!» esclamò Egorov. «Credevo
che anche lui fosse già morto.»«Ma allora è una mania, quella di voler seppellire tutti?» disse
Keira. «Non credo proprio che l’uomo di cui stiamo parlando abbia a che fare con il suo disgustoso commercio di oggetti trafugati dalle tombe.»«E io le dico che il suo professore, apparentemente insospettabile, è proprio l’uomo che me l’ha comprata! E la prego di non
contraddirmi: le persone sciocche che osano mettere in dubbio la mia parola mi irritano. Aspetto le sue scuse!»Keira, offesa, incrociò le braccia e si voltò. La presi per le spalle e le ordinai di scusarsi subito. Keira mi fulminò con lo sguardo e borbottò uno «Scusi» all’indirizzo
del padrone di casa, che per fortuna sembrò accontentarsi e accettò di raccontare qualcosa
in più.
«Questa pietra fu ritrovata nella zona nordoccidentale della Siberia, nel corso di una campagna di scavi in tombe coperte dai ghiacci. La regione ne è piena. Le sepolture protette dalle
nevi per millenni si rivelarono ben conservate. Bisogna però contestualizzare gli eventi:
all’epoca tutti i programmi di ricerca dipendevano dall’autorità del comitato centrale del
Partito. Gli archeologi percepivano stipendi da fame e lavoravano in condizioni estremamente
difficili.»«Non siamo messi meglio in Occidente, ma non per questo saccheggiamo i terreni di
scavo!»Avrei preferito che Keira tenesse per sé questa osservazione.
«Tutti trafficavano per mantenersi» spiegò Egorov. «Dal momento che io occupavo un
posto piuttosto in alto nella gerarchia del Partito, tutti i rapporti, le autorizzazioni e le decisioni
dove destinare le risorse passavano da me; avevo l’incarico di selezionare, fra le varie
scoperte, quelle che destavano sufficiente interesse da essere trasferite a Mosca e quelle che
invece potevano rimanere nella regione. Il Partito era il primo a saccheggiare le repubbliche
dell’Unione Sovietica dei tesori che spettavano loro di diritto; noi ci limitavamo a prendere una
sorta di piccola commissione di transito. Alcuni oggetti non arrivavano a Mosca e finivano per
arricchire le collezioni di acquirenti occidentali. E’ così che un giorno ho conosciuto il vostro
amico Thornsten. Lui agiva per conto del professor Ivory, uno studioso affascinato da tutto ciò
che riguardava le civiltà degli sciti e dei sumeri. Sapevo che non sarei mai stato pagato; nella
mia équipe c’era un epigrafista di talento e gli ho commissionato una riproduzione della pietra
in un blocco di granito. Ora volete dirmi cosa vi porta qui? Non credo che abbiate attraversato
gli Urali solo per restituirmi cento dollari.»«Sto cercando di seguire le tracce dei nomadi che
pare abbiano intrapreso un lungo viaggio, quattromila anni prima della nostra èra.»«Per andare da dove a dove?»«Sono partiti dall’Africa e hanno raggiunto la Cina, di questo ho le
prove; in seguito, sono soltanto ipotesi. Suppongo che abbiano deviato verso la Mongolia, attraversato la Siberia, risalendo lungo il fiume Jenisej fino al mare di Kara.»«Accidenti, che
viaggio! Perché i vostri nomadi avrebbero percorso così tanti chilometri?»«Per varcare la
rotta dei Poli e raggiungere il continente americano.»«Non ha risposto alla mia
domanda.»«Per portare un messaggio.»«E lei pensa che potrei aiutarla a dimostrare la veridicit di questa teoria? Chi le ha messo quest’idea in testa?»«Thornsten. Secondo lui, lei era
uno specialista di civiltà sumeriche; immagino che la pietra che ci ha mostrato poco fa ne sia
la conferma.»«Come mai si è messa in contatto con Thornsten?» chiese Egorov con
un’espressione furba.
«Un amico ci ha consigliato di andare a trovarlo.»«Molto divertente.»«Non vedo cosa ci
sia di così divertente!»«E il suo amico, per caso, non conosce Ivory?»«Non che io sappia!»«Sarebbe pronta a giurare che non si sono mai incontrati?»Egorov porse il telefono a
Keira, sfidandola con lo sguardo.
«O lei è un’idiota, o tutti e due siete di un’ingenuità disarmante! Chiami questo amico e
glielo chieda!»Keira e io guardavamo Egorov, senza capire dove volesse andare a parare.
Keira prese il telefono, compose il numero di Max e si allontanò, il che, devo ammetterlo, mi
fece molto irritare; tornò pochi istanti dopo, con l’aria abbattuta.
«Quindi sai il suo numero a memoria» osservai.
«Non è il momento, Adrian.»«Ti ha chiesto come sto?»«Mi ha mentito. Gli ho fatto la
domanda a bruciapelo e lui mi ha giurato di non conoscere Ivory, ma so che non è stato sincero.»Egorov andò verso la libreria, esaminò gli scaffali ed estrasse un grosso libro.
«Se ho capito bene» riprese, «il vostro professore vi spedisce tra le grinfie di un amico
che a sua volta vi indirizza a Thornsten, il quale poi vi manda da me. E, guarda caso,
trent’anni fa lo stesso Ivory ha cercato di acquistare la pietra in mio possesso su cui è inciso
un testo in sumerico, testo di cui vi ha già fornito una trascrizione. Tutto ciò, naturalmente, è
solo una coincidenza…»«Che cosa intende dire?» chiesi.
«Siete due marionette di cui Ivory tira i fili a suo piacimento; vi fa andare da nord a sud e
da est a ovest, a seconda dei suoi capricci. Vi ha usato, e se non lo avete ancora capito siete
più stupidi di quanto pensassi.»«Era già chiaro che ci considerasse due imbecilli, senza
bisogno di essere così diretto» sibilò Keira, «ma perché Ivory dovrebbe fare una cosa del
genere? Cosa ci guadagnerebbe?»«Non so cosa cerchiate esattamente, ma suppongo che il
risultato debba interessargli parecchio. State portando avanti l’opera che lui ha lasciato incompiuta. Non è necessario essere un genio per capire che lavorate per lui senza neanche
rendervene conto.»Egorov aprì il grande tomo e spiegò un’antica carta dell’Asia.
«La prova che cercavate» continuò «è sotto i vostri occhi: è la pietra su cui si trova questo
testo sumerico. Il vostro Ivory sperava che ce l’avessi ancora io, e ha fatto in modo di farvi arrivare fino a me.»Egorov si sedette dietro la scrivania e ci invitò ad accomodarci su due
maestose poltrone di fronte a lui.
«Le ricerche archeologiche in Siberia iniziarono nel diciottesimo secolo, su iniziativa di
Pietro il Grande. Fino a quel momento i russi non avevano mostrato nessun interesse per il
loro passato. Quando dirigevo la sede siberiana dell’Accademia delle Scienze, mi strappavo i
capelli per convincere le autorità a salvaguardare tesori inestimabili; non sono lo squallido
trafficante che immaginate. Certo, avevo la mia rete di contatti, ma è grazie a questi ultimi che
ho salvato migliaia di pezzi e ne ho fatto restaurare altrettanti che, senza di me, sarebbero
stati condannati alla distruzione. Credete forse che questa pietra sumerica esisterebbe
ancora, se non ci fossi stato io? Probabilmente sarebbe servita, insieme a mille altre, a puntellare il muro di una caserma o a riassettare una strada.
Non nego di aver tratto vantaggi da questo piccolo commercio, ma ho sempre agito
sapendo quel che facevo. Non vendevo le vestigia della nostra gloriosa terra a chiunque. Il
professore, in effetti, non vi ha fatto venire fin qui inutilmente: nessuno meglio di me conosce
le civiltà sumeriche e sono sempre stato convinto che avessero viaggiato ben oltre i limiti
ipotizzati. Nessuno dava credito alle mie teorie, mi hanno sempre giudicato un visionario.
L’artefatto che cercate, la prova che i vostri nomadi hanno effettivamente raggiunto il Grande
Nord, è sotto i vostri occhi. E sapete a quando risale il testo inciso sulla sua superficie? Al
4004 prima della nostra èra. Verificatelo voi stessi» disse, indicando una linea più piccola
delle altre nella parte superiore della pietra. «E’ una datazione formale. Ora vorreste spiegare
anche a me per quale motivo, secondo voi, avrebbero tentato di raggiungere il continente
americano? Visto che siete qui, suppongo che lo sappiate.»«Gliel’ho già detto» rispose Keira,
«per portare un messaggio.»«Grazie, non sono sordo, ma quale messaggio?»«Non lo so, era
destinato ai capi delle civiltà antiche.»«Crede che i messaggeri abbiano raggiunto la
meta?»Keira si chinò sulla mappa, indicò col dito l’angusto passaggio dello stretto di Bering,
poi fece scorrere l’indice lungo la costa siberiana.
«Non lo so» mormorò, «è proprio per questo che ho così tanto bisogno di seguirne le
tracce.»Egorov afferrò la mano di Keira e la spostò lentamente sulla mappa.
«Man-Pupu-Nyor» disse, bloccandola a est della catena degli Urali, su un punto situato a
nord della repubblica dei Komi. «Il sito dei Sette Giganti degli Urali, è lì che i messaggeri si
sono fermati.»«Come fa a saperlo?» chiese Keira.
«Perché è proprio in quel luogo, nella Siberia occidentale, che è stata rinvenuta la pietra.
Non era il fiume Jenisej che i vostri nomadi discendevano, bensì l’Ob, e non era verso il mare
di Kara che si dirigevano, ma verso il Mar Bianco. Per giungere a destinazione, la rotta della
Norvegia era più breve, più accessibile.»«Mi scusi: perché ha detto “è lì che i messaggeri si
sono fermati”?»«Perché ho buoni motivi per credere che il viaggio si sia concluso lì. Ciò che
sto per confidarvi non l’abbiamo mai rivelato a nessuno. Trent’anni fa conducevamo una campagna di scavi in quella regione. A Man-Pupu-Nyor, su un vasto altopiano in cima a una
montagna spazzata dai venti, ci sono sette pilastri di pietra alti ciascuno da trenta a quaranta
metri. Hanno l’aspetto di immensi menhir. Sei formano un semicerchio, il settimo sembra
guardare gli altri sei. I Sette Giganti degli Urali rappresentano un mistero tuttora irrisolto. Nessuno sa perché si trovano lì e l’erosione non può essere l’unica artefice di un’architettura del
genere. Questo sito è l’equivalente russo della vostra Stonehenge, tanto più che le rocce
sono di dimensioni non comuni.»«Perché tenerlo segreto?»«Per quanto strano possa sembrarle, abbiamo ricoperto tutto e rimesso il sito nelle condizioni in cui lo abbiamo trovato. Abbiamo deliberatamente cancellato ogni traccia del nostro passaggio. All’epoca il Partito se ne
infischiava delle nostre ricerche. Ciò che avevamo portato alla luce sarebbe stato ignorato dai
funzionari incompetenti di Mosca. Nella migliore delle ipotesi, le nostre straordinarie scoperte
sarebbero state archiviate senza nessuna analisi, senza nessun desiderio di preservarle.
Sarebbero finite a marcire in semplici casse, dimenticate nei sotterranei di un anonimo edificio.»«Cos’avevate trovato?» domandò Keira.
«Resti umani risalenti al quarto millennio, una cinquantina di corpi perfettamente conservati grazie al ghiaccio. La pietra sumerica era sepolta nella tomba. Gli uomini di cui segue le
tracce sono stati sorpresi dall’inverno e dalla neve e sono tutti morti di fame.»Keira si voltò
verso di me, eccitatissima.
«Ma è una scoperta straordinaria! Nessuno è mai stato in grado di dimostrare che i sumeri
si fossero spinti così lontano; se avesse pubblicato le sue ricerche con simili prove a supporto, la comunità scientifica internazionale le avrebbe riservato ogni onore!»«Lei è gentilissima, ma troppo giovane per sapere di cosa parla. Anche supponendo che la portata di
questa scoperta avesse avuto la minima eco presso i nostri superiori, saremmo stati subito
deportati in un gulag e i nostri lavori sarebbero stati attribuiti a funzionari del Partito. Il termine
“internazionale” non esisteva in Unione Sovietica.»«E’ per questo motivo che avete riseppellito tutto?»«Lei cosa avrebbe fatto al nostro posto?»«Riseppellito quasi tutto… se posso permettermi» intervenni io. «Suppongo che questa pietra non sia l’unico oggetto che ha tenuto
per sé…»Egorov mi lanciò un’occhiata truce.
«C’erano anche alcuni effetti personali appartenuti ai viaggiatori. Ne abbiamo conservati
pochissimi, per ciascuno di noi era fondamentale la massima discrezione.»«Adrian» intervenne Keira, «se il viaggio dei sumeri si è concluso così, è probabile che il frammento si trovi
da qualche parte sull’altopiano di Ma-Pupu-Nyor.»«Man-Pupu-Nyor» la corresse Egorov, «ma
potete anche dire Manpupuner, è così che lo pronunciano gli occidentali. Di quale frammento
parla?»Keira mi guardò e poi, senza attendere una mia risposta, si tolse la collana, mostrò il
ciondolo a Egorov e gli raccontò quasi tutto sulla ricerca che avevamo intrapreso.
Entusiasta, Egorov ci invitò a restare per cena e mise a nostra disposizione una camera.
Durante la cena che ci fu servita in una sala da pranzo le cui dimensioni ricordavano
quelle di un campo da tennis, Egorov ci tempestò di domande. Quando finii per confidargli ciò
che succedeva quando si univano i frammenti, ci pregò di mostrargli il fenomeno. Era difficile
rifiutargli qualcosa, quindi Keira e io lo accontentammo. Il colore azzurrino sprigionato era
ancora più pallido dell’ultima volta. Egorov sgranò gli occhi, il suo volto sembrava ringiovanito;
lui, fino a quel momento così calmo, sembrava un bambino alla vigilia di Natale.
«Cosa succederebbe, secondo voi, se tutti i frammenti fossero riuniti?»«Non ne abbiamo
idea» risposi anticipando Keira.
«Siete certi che queste pietre abbiano quattrocento milioni di anni?»«Non sono pietre» rispose Keira, «però sì, siamo sicuri della loro età.»«La superficie è porosa, costellata da milioni
di microfori. Quando sono esposti a una fortissima sorgente luminosa, i frammenti proiettano
una mappa delle stelle, la cui posizione corrisponde esattamente a quella presente in cielo
nel periodo in questione» spiegai. «Se avessimo a disposizione un laser abbastanza potente,
potrei dargliene una dimostrazione.»«Mi sarebbe piaciuto moltissimo vederlo, ma purtroppo
non dispongo di un’apparecchiatura del genere, qui a casa.»«Mi avrebbe preoccupato il contrario» ribattei.
Finito il dessert, un dolce di consistenza spugnosa imbevuto di liquore, Egorov si alzò da
tavola e prese a camminare avanti e indietro per la stanza.
«Quindi credete che uno dei frammenti mancanti possa trovarsi nella zona dei Sette Giganti degli Urali? Ma sì, certo che lo pensate, che domanda!»«Mi piacerebbe tanto poter
rispondere» disse Keira.
«Ingenua e ottimista! Lei è veramente deliziosa.»«E lei…»Prima che terminasse la frase,
le assestai una leggera ginocchiata sotto la tavola.
«Siamo in inverno» riprese Egorov, «l’altopiano di Man-Pupu-Nyor è spazzato da venti
così freddi e secchi che la neve riesce a malapena a rimanere al suolo. La terra è gelata: intendete condurre gli scavi con due piccole pale e un setaccio per i metalli?»«La sua aria di
sufficienza è esasperante! E poi, per sua informazione, i frammenti non sono di metallo» replic Keira.
«Non vi sto proponendo un metal detector per dilettanti alla ricerca di monete sepolte
nella sabbia» ribatté Egorov, «ma un progetto molto più ambizioso.»Egorov ci fece accomodare nel salone, che non aveva nulla da invidiare alla sala da pranzo. Il pavimento di marmo
aveva lasciato posto a un parquet di quercia, i mobili provenivano dall’Italia e dalla Francia.
Prendemmo posto in comodi divani, di fronte a un monumentale camino dove crepitava un
fuoco le cui fiamme raggiungevano un’altezza ragguardevole.
Egorov propose di mettere a nostra disposizione una ventina di uomini e tutto il materiale
di cui Keira avesse avuto bisogno per i suoi scavi. Le promise molti più mezzi di quanti ne
avesse mai avuto. La sola condizione a quell’aiuto insperato era di essere costantemente informato su tutte le scoperte.
Keira precisò che non ci sarebbe stata alcuna prospettiva di guadagno. Ciò che speravamo di trovare non aveva alcun valore commerciale, ma solo un interesse scientifico. Egorov si
adombrò.
«Ho forse parlato di denaro?» sbottò furibondo. «E’ lei che non parla d’altro. Ho forse
accennato a una qualche ricompensa?»«No» rispose Keira confusa - e credo che fosse davvero sincera -, «ma entrambi sappiamo che i mezzi che mi sta offrendo rappresentano un investimento enorme e finora, nella mia carriera, mi sono imbattuta in ben pochi filantropi.» In
qualche modo, Keira gli stava porgendo le sue scuse.
Egorov aprì una scatola di sigari e ce ne offrì uno. Stavo per farmi tentare, quando lo
sguardo cupo di Keira mi fece cambiare idea.
«Ho dedicato la maggior parte della mia vita a ricerche archeologiche» riprese Egorov «in
condizioni molto peggiori di quelle che potrete mai sperimentare. Ho rischiato la vita sia fisicamente sia politicamente; ho salvato un gran numero di tesori, in circostanze che ho già avuto
modo di spiegarvi e, come unico ringraziamento, quei bastardi dell’Accademia delle Scienze
mi considerano un volgare trafficante. Come se le cose fossero cambiate, oggi! Che ipocriti! A
breve saranno tre decenni che mi gettano fango addosso. Se il vostro progetto avrà successo, guadagnerò ben più del denaro. Sono finiti i tempi in cui si seppellivano i morti con i
loro beni: non porterò con me nella tomba né questi tappeti persiani, né i dipinti del diciannovesimo secolo che abbeliscono le pareti della mia casa. Vi chiedo di restituirmi un po’ di rispettabilit. Trent’anni fa, se non avessimo avuto paura dei superiori, la pubblicazione delle nostre
ricerche, come lei giustamente osservava, mi avrebbe reso uno scienziato famoso e
rispettato. Non passerò due volte accanto alla fortuna che mi viene offerta. Quindi, se siete
d’accordo, condurremo insieme questa campagna e se troviamo qualcosa che avvalori le
vostre teorie, se la sorte starà dalla nostra parte, presenteremo alla comunità scientifica il
frutto delle nostre scoperte. Allora, cosa ne pensate di questo piccolo affare?»Keira esitò.
Nella situazione in cui ci trovavamo, era difficile voltare le spalle a un alleato del genere. Se
Egorov intendeva farsi accompagnare dai due gorilla armati che ci avevano accolto al nostro
arrivo, avremmo potuto adeguatamente rispondere a ulteriori tentativi di farci fuori.
Keira e io ci scambiammo una serie di sguardi. La decisione spettava a entrambi, ma per
galanteria volevo che fosse lei a parlare per prima.
Egorov fece un gran sorriso a Keira.
«Mi ridia i cento dollari» disse in tono serissimo.
Keira tirò fuori la banconota e Egorov se la mise immediatamente in tasca.
«Ecco, ha contribuito al finanziamento del viaggio, ormai siamo soci; ora che i problemi
economici che sembravano preoccuparla così tanto sono stati sistemati, possiamo, fra scienziati, concentrarci sui dettagli dell’organizzazione, affinché questa portentosa campagna di
scavi vada a buon fine?»Si sedettero intorno al tavolino. Per un’ora, i due stilarono un elenco
di tutte le attrezzature necessarie. Dico «i due», perché mi sentivo escluso dalla conversazione. Approfittai del fatto che mi ignorassero per andare a curiosare più da vicino gli scaffali della libreria. Trovai numerose opere di archeologia, un antico manuale di alchimia del diciassettesimo secolo, un altro di anatomia altrettanto antico, l’opera completa di Alexandre
Dumas, un’edizione originale del Rosso e il Nero. Quella collezione doveva valere
un’autentica fortuna. Un trattato di astronomia del sedicesimo secolo mi tenne occupato
mentre Keira e Egorov mettevano a punto i dettagli della campagna.
Notando infine la mia assenza, quando ormai era quasi l’una di notte, Keira mi si avvicinò
chiedendomi cosa stessi facendo.
«Adrian, è fantastico, avremo tutto il materiale necessario per eseguire gli scavi. Non so
quanto tempo ci vorrà, ma con un’attrezzatura del genere, se il frammento si trova davvero
fra quei menhir, abbiamo molte possibilità di trovarlo.»Diedi un’occhiata alla lista che aveva
stilato con Egorov: cazzuole, spatole, fili a piombo, pennelli, GPS, metri, picchetti di carotaggio, griglie di rilevamento, setacci, bilance, apparecchi di misura antropometrici, compressori,
aspiratori, gruppi elettrogeni e torce per lavorare di notte, tende, marker, macchine fotografiche… Sembrava che non mancasse proprio nulla a quell’inventario degno di un negozio
specializzato. Egorov prese la cornetta del telefono appoggiato su un tavolino basso. Alcuni
istanti dopo due uomini entrarono nel salone; Egorov consegnò loro la lista e poi sparirono.
«Sarà tutto pronto domani prima di mezzogiorno» dichiarò Egorov stiracchiandosi.
«Come riuscirà a mettere in moto tutto il meccanismo?» osai chiedergli.
Keira si voltò verso Egorov, che mi guardò con aria di trionfo.
«E’ una sorpresa! Ma adesso è tardi, abbiamo tutti bisogno di dormire. Ci vediamo a colazione: siate pronti, partiremo in tarda mattinata.»Una guardia del corpo ci accompagnò nella
nostra stanza. La camera degli ospiti era davvero principesca. Il letto era enorme e ci
saremmo potuti sdraiare sia per il lungo, sia per il largo. Keira saltò sull’alto piumino invitandomi a raggiungerla. Non l’avevo mai vista così felice da… A pensarci bene, non l’avevo mai
vista così felice. Avevo rischiato molte volte la vita, percorso migliaia di chilometri per ritrovarla. Mi sentivo davvero fortunato a vedere la felicità negli occhi della donna che amavo.
Keira si allungò sul letto, si sfilò il maglione, slacciò il reggiseno e mi fece maliziosamente
cenno di non perdere tempo. Non ne avevo la minima intenzione.
Kent
La Jaguar procedeva a velocità sostenuta sulla stradina che conduceva al maniero. Seduto dietro, alla luce della piccola plafoniera, Sir Ashton studiava un dossier. Lo chiuse
sbadigliando. Il telefono a bordo suonò: l’autista annunciò una chiamata da Mosca e gliela
passò.
«Non siamo riusciti a intercettare i vostri amici alla stazione di Irkutsk. Non so come abbiano fatto, ma sono sfuggiti alla vigilanza dei nostri uomini» spiegò Mosca.
«Maledizione!» gridò Ashton.
«Si trovano sul lago Bajkal, in casa di un trafficante di antichità» continuò Mosca.
«Allora cosa aspettate a fermarli?»«Che escano da lì. Egorov ha buoni appoggi nella regione, la sua dacia è protetta da un piccolo esercito: non vorrei che un semplice arresto si
trasformasse in un bagno di sangue.»«Non credevo fosse così cauto.»«So che per lei è difficile accettarlo, ma abbiamo delle leggi nel nostro paese. Se i miei uomini intervengono e
quelli di Egorov reagiscono, sarà difficile spiegare alle autorità federali i motivi di un’irruzione
in piena notte, soprattutto senza aver chiesto prima un mandato. In fondo, da un punto di
vista legale, non abbiamo nulla contro i due scienziati.»«Il fatto che si trovino nella casa di un
trafficante di antichità non è sufficiente?»«No, non è un crimine. Abbia pazienza. Quando usciranno dalla tana, li cattureremo. Prometto di spedirglieli in aereo entro domani sera.»La
Jaguar sbandò pericolosamente, Ashton scivolò sul sedile e quasi gli cadde di mano il telefono. Si aggrappò al bracciolo, si raddrizzò e picchiò sul vetro divisorio per manifestare il suo
disappunto all’autista.
«Una domanda» riprese Mosca. «Per caso, ha azzardato qualche mossa senza avvertirmi?»«A cosa allude?»«A un piccolo incidente accaduto sulla Transiberiana. Un’impiegata
della compagnia è stata colpita con violenza alla testa. E ancora ricoverata all’ospedale, con
un brutto trauma cranico.»«Assolutamente no, vecchio mio. Il mio codice d’onore mi impedisce di far del male a una donna.»«Se la paleontologa e il suo amico non fossero stati a
bordo di quel treno, non dubiterei della sua sincerità, ma l’inqualificabile aggressione si è verificata nel vagone in cui viaggiavano proprio loro due. Che strana coincidenza! Non avrebbe
mai fatto una cosa del genere, tanto meno sul mio territorio, vero?»«Ma certo che no» rispose
Ashton. «La sola idea che possa pensarlo mi offende.»La vettura sbandò di nuovo con violenza. Ashton aggiustò il nodo del papillon e picchiò di nuovo sul vetro di fronte a sé. Quando
riprese in mano il telefono, Mosca aveva riattaccato.
Ashton premette un bottone: il séparé a vetri si abbassò dietro il sedile dell’autista.
«Ha finito di sballottarmi a destra e a sinistra? Guida come un pazzo! Non siamo mica su
un circuito automobilistico!»«No signore, ma stiamo percorrendo una strada in forte pendenza
e i freni non rispondono! Faccio del mio meglio, ma le suggerisco di allacciare la cintura, temo
che dovremo buttarci in un fosso appena possibile, o questa maledetta auto non si fermerà
mai più!»Ashton alzò gli occhi al cielo e fece ciò che l’autista gli aveva consigliato. L’uomo
riuscì ad affrontare decentemente la curva successiva, ma non ebbe altra scelta se non abbandonare la strada e gettarsi in un campo per evitare il camion che arrivava in senso contrario.
L’autista aprì la portiera di Sir Ashton e si scusò per l’inconveniente. Non riusciva a capire,
l’auto era stata appena revisionata, era andato a ritirarla in garage appena prima di partire.
Ashton gli domandò se ci fosse una torcia nell’auto; l’autista aprì il vano portaoggetti e gliene
porse una.
«Dia un’occhiata sotto il pianale!» ordinò Ashton.
L’autista si tolse la giacca e obbedì. Pochi istanti dopo, l’uomo riapparve da sotto il veicolo
inzaccherato dalla testa ai piedi e dichiarò, molto a disagio, che la scatola del circuito frenante
era stata bucata.
Ashton rimase un attimo dubbioso, era impensabile che qualcuno lo prendesse di mira in
modo così deliberato e grossolano. Poi ripensò alla fotografia che gli aveva mostrato il capo
della sicurezza. Seduto sulla panchina, Ivory sembrava fissare l’obiettivo e, oltretutto, sorrideva.
Parigi
Ivory stava consultando per l’ennesima volta il libro che gli aveva regalato il suo vecchio
compagno di scacchi. Ritornò alla prima pagina e rilesse più volte la dedica:
So che questa opera le piacerà: non manca nulla, poichéin essa si trova tutto, perfino la
testimonianza della nostra amicizia.
Il suo fedele compagno di scacchi,Vackeers
Era perplesso. Controllò l’ora e sorrise. Infilò il cappotto, si annodò una sciarpa intorno al
collo e uscì per la solita passeggiata notturna in riva alla Senna. Quando arrivò al Pont Marie,
chiamò Walter.
«Ha cercato di contattarmi?»«Diverse volte, ma invano; temevo di non riuscire a parlarle.
Adrian mi ha chiamato da Irkutsk: sembra che abbiano avuto dei problemi lungo il tragitto.»«Quale genere di problemi?»«Piuttosto gravi, visto che hanno tentato di ucciderli.»Ivory
guardò verso il fiume, facendo del suo meglio per mantenere la calma.
«Bisogna farli tornare» riprese Walter. «Non me lo perdonerei mai, se dovesse capitare
loro qualcosa.»«Non me lo perdonerei neanch’io, Walter. Sa se hanno incontrato
Egorov?»«Penso di sì, stavano andando a cercarlo quando abbiamo interrotto la comunicazione. Adrian sembrava molto preoccupato. Se Keira non fosse stata così decisa,
avrebbe sicuramente fatto marcia indietro.»«Le ha detto di averne l’intenzione?»«Sì, ha espresso più volte questo desiderio, e io ho fatto molta fatica a non assecondarlo.»«Walter,
ormai è solo questione di giorni, al massimo di poche settimane; non possiamo mollare, non
ora.»«Non ha nessun modo per proteggerli?»«Domani contatterò Madrid, lei è l’unica che ha
una certa influenza su Ashton. Non ho il minimo dubbio che ci sia lui dietro a tutto questo. Ho
fatto in modo di mandargli un piccolo messaggio stasera, ma penso che non basti.»«Allora mi
lasci dire a Adrian di tornare in Inghilterra, non aspettiamo quando sarà troppo tardi.»«E’ già
troppo tardi, Walter. Gliel’ho detto, non possiamo mollare ora.»Ivory riappese. Immerso nei
suoi pensieri, mise il telefono nella tasca del cappotto e rientrò in casa.
Russia
Il maggiordomo entrò in camera e tirò le tende: era una bella giornata e la luce del sole ci
abbagliò.
Keira nascose la testa sotto le lenzuola. Il maggiordomo appoggiò il vassoio della colazione ai piedi del letto, facendo notare che erano quasi le undici: eravamo attesi a
mezzogiorno nell’atrio, con le valigie pronte. Poi si dileguò.
Vidi riemergere gli occhi di Keira che sbirciavano il vassoio: tese il braccio, prese un croissant e lo fece sparire in tre morsi.
«Non potremmo restare qui uno o due giorni?» gemette sorseggiando il tè che le avevo
appena versato.
«Che ne dici di tornare a Londra? Ti offro una settimana in albergo senza mai uscire dalla
stanza.»«Non hai voglia di continuare, vero? Siamo al sicuro con Egorov» disse Keira, addentando un altro croissant.
«Non credi di aver riposto troppo rapidamente la tua fiducia in questo tizio strampalato?
Ieri non lo conoscevamo neanche, e oggi siamo suoi soci: non so né dove andiamo, né cosa
ci aspetta.»«Neanch’io, ma sento che siamo vicini alla meta.»«A quale meta, Keira: le tombe
sumere o le nostre?»«Okay» ribetté lei, rivoltando le lenzuola e alzandosi di scatto.
«Torniamo a Londra! Vado a dire a Egorov che rinunciamo e, se le guardie del corpo ci lasceranno uscire, salteremo su un taxi diretto all’aeroporto e prenderemo il primo aereo per
Londra. Farò un salto a Parigi per iscrivermi alle liste di disoccupazione. A proposito… tu hai
diritto all’indennità di disoccupazione in Inghilterra?»«Non è il caso di colpire così in basso!
D’accordo, andiamo avanti, ma prima promettimi una cosa: al primo pericolo, torniamo a
casa.»«Cosa intendi per “pericolo”?» chiese lei, rimettendosi a sedere sul letto.
Le presi il viso tra le mani e risposi: «Se qualcuno cerca di ucciderti, vuol dire che sei in
pericolo. So che la tua sete di conoscenza supera ogni ostacolo, ma devi renderti conto dei
rischi che corriamo».
Egorov ci aspettava nell’atrio della casa. Indossava un lungo mantello di pelliccia bianca e
un colbacco in testa. Mi sembrava di essere al cospetto di Michele Strogoff, uscito
direttamente dal romanzo di Jules Verne.
«Farà davvero molto freddo. Preparatevi, la partenza è prevista tra dieci minuti; i miei
uomini si occuperanno dei vostri bagagli. Seguitemi e scendiamo nel parcheggio.»L’ascensore si fermò al secondo livello, dove una collezione di auto che andavano dal
coupé sportivo alla limousine presidenziale erano parcheggiate in perfetto ordine.
«Vedo che non si occupa solo di commercio di antichità» osservai.
«In effetti, no» rispose lui aprendo la portiera.
Due berline ci precedevano, altre due chiudevano la fila. Ci immettemmo sulla strada e il
corteo costeggiò il lago.
«Mi scusi l’obiezione» dissi poco dopo, «ma la Siberia occidentale è a tremila chilometri
da qui: ha previsto una sosta per fare pipì, o facciamo una tirata unica?»Egorov fece segno
all’autista, la vettura frenò bruscamente, poi si girò verso di me.
«Ha intenzione di rompere i coglioni a lungo? Se questo viaggio l’annoia, è libero di
scendere.»Keira mi lanciò un’occhiata più nera delle acque del lago. Domandai scusa a
Egorov, che mi tese la mano. Come rifiutare una stretta di mano quando si è tra gentiluomini?
La vettura ripartì e nessuno parlò per la mezz’ora successiva. La strada si inoltrò in un bosco
innevato. Poco dopo arrivammo a Koty, un villaggio delizioso. Il convoglio rallentò e imboccò
un sentiero laterale in fondo al quale si stagliavano due hangar, invisibili dalla strada. Dopo
aver parcheggiato le auto, Egorov ci invitò a seguirlo. All’interno degli edifici si trovavano due
elicotteri, di quei grossi modelli che l’esercito russo usa per trasportare le truppe e i materiali.
Ne avevo già visti di simili in alcuni reportage sulla guerra che l’URSS aveva combattuto in
Afghanistan, ma mai così da vicino.
«Voi non ci crederete» disse Egorov, avanzando verso il primo apparecchio, «ma li ho
vinti al gioco.»Keira mi guardò divertita e salì sulla scaletta che conduceva in cabina.
«Ma lei chi è in realtà?» domandai a Egorov.
«Un alleato» rispose lui dandomi una pacca sulla schiena, «e riuscirò a convincerla, prima
o poi. Sale, o preferisce restare nell’hangar?»L’abitacolo ricordava quello di un aereo di linea,
tanto era vasto. Alcuni carrelli elevatori salivano dal portellone posteriore, appoggiando grandi
casse nella stiva dove gli uomini di Egorov le stavano fissando saldamente. Lo scompartimento, dotato di sedili, poteva accogliere venticinque passeggeri. Il Mil Mi-26 era equipaggiato con un motore da 11240 cavalli e la cosa sembrava inorgoglire il proprietario. Avremmo
fatto quattro scali per rifornirci di carburante. Con la nostra capacità di carico, l’elicottero
aveva un’autonomia di seicento chilometri; tremila ci separavano da Man-Pupu-Nyor, che
avremmo raggiunto in undici ore.
I montacarichi fecero dietrofront, gli uomini di Egorov controllarono un’ultima volta le
cinghie che bloccavano le casse di materiale, poi la porta della stiva si richiuse e
l’apparecchio fu trainato fuori dall’hangar.
La turbina si mise a fischiare; il rumore nell’abitacolo divenne assordante non appena le
otto pale del rotore si misero a girare.
«Ci si fa l’abitudine» gridò Egorov. «Godetevi lo spettacolo. Sono in pochi quelli che hanno avuto l’opportunità di ammirare una simile visuale della Russia.»Il pilota si girò per farci
segno con la mano e l’elicottero si alzò.
A cinquanta metri dal suolo, la parte anteriore si inclinò e Keira si ritrovò incollata al finestrino.
Dopo un’ora di volo, Egorov ci mostrò la città di Ilanskij, in lontananza sulla sinistra; poi
sarebbe stata la volta di Kansk e Krasnojarsk, da cui però ci saremmo tenuti alla larga per
non entrare nel raggio radar dei controllori di volo. Il nostro pilota sapeva il fatto suo, sor-
volavamo soltanto distese bianche che sembravano infinite. Di tanto in tanto, un fiume gelato
solcava la terra come un filo argentato.
Ci fermammo per il primo rifornimento lungo il fiume Uda; la città di Atagay si trovava a
pochi chilometri dal punto in cui si posò l’elicottero. I due camion cisterna che riempirono i
nostri serbatoi erano partiti da lì.
«E’ tutta questione di organizzazione» disse Egorov, guardando gli uomini che si davano
da fare. «Non c’è spazio per l’improvvisazione quando fuori ci sono venti gradi sotto zero. Se
il rifornimento non fosse nel luogo prefissato e ci trovassimo bloccati a terra, moriremmo nel
giro di poche ore.»Approfittammo dello scalo per sgranchirci le gambe. Egorov aveva ragione, il freddo era insopportabile.
Risalimmo a bordo, mentre i camion si stavano già allontanando su una pista che correva
verso la foresta. La turbina ricominciò a fischiare e tornammo in quota, lasciando sotto la
carlinga le tracce del nostro passaggio, che ben presto il vento avrebbe cancellato.
Ero abituato alle turbolenze in aereo, ma non in elicottero. Non era il mio battesimo
dell’aria con quel genere di mezzo; a Atacama mi era capitato diverse volte di prenderne uno
per tornare a valle, ma mai in condizioni simili. Una tempesta di neve veniva verso di noi.
Fummo sballottati a lungo, l’apparecchio oscillava in tutte le direzioni, ma non leggevo nessuna preoccupazione sul volto di Egorov e conclusi che non correvamo rischi. Poco dopo, tra
scossoni ancora più forti, mi chiesi se, di fronte alla morte, Egorov avrebbe mostrato qualche
segno di paura. Quando tornò la calma, dopo il secondo rifornimento, Keira si addormentò
sulla mia spalla. La presi tra le braccia così che fosse più comoda e colsi nello sguardo di
Egorov una sorta di tenerezza nei nostri confronti, una benevolenza che mi sorprese. Gli
rivolsi un sorriso, ma lui si voltò verso il finestrino, facendo finta di niente.
Al terzo rifornimento era impensabile scendere: eravamo in piena tempesta e non si vedeva niente. Era troppo rischioso allontanarsi dall’elicottero, anche solo di pochi metri. Egorov
sembrava preoccupato: si alzò e andò nella cabina di pilotaggio. Si chinò verso il finestrino e
si rivolse al pilota in russo. Si scambiarono frasi di cui non capivo il senso. Tornò pochi istanti
dopo e si sedette di fronte a noi.
«C’è qualche problema?» chiese allarmata Keira.
«Se i camion non riescono a individuarci in questa distesa di bianco, sì, avremo un grosso
problema.»Guardai anch’io fuori dal finestrino: la visibilità era nulla. Il vento soffiava a raffiche, sollevando in continuazione vortici di neve.
«L’elicottero non rischia di coprirsi di brina?» chiesi.
«No» mi rassicurò Egorov, «le prese d’aria dei motori sono dotate di riscaldatori per assicurare lo sbrinamento durante le missioni a queste temperature.»Un fascio di luce gialla illumin la cabina. Egorov si alzò di nuovo e constatò con sollievo che si trattava dei potenti fari
dei camion per il rifornimento. Il pieno di carburante richiese la mobilitazione di tutti gli uomini.
Dopodiché, il pilota rimise in moto il velivolo; la temperatura si sarebbe dovuta alzare, prima
di poter decollare. La tempesta durò altre due ore. Keira non si sentiva bene, io tentavo di
calmarla, ma eravamo prigionieri in una scatoletta di sardine. Finalmente il cielo schiarì.
«Capita spesso quando si sorvola la Siberia in questa stagione» ci spiegò Egorov. «Il peggio è passato. Riposatevi, ci restano ancora quattro ore di volo e, una volta arrivati, avremo
bisogno di tutte le forze per allestire l’accampamento.»Ci offrirono un pasto, ma avevamo lo
stomaco troppo sottosopra per accettare del cibo. Keira appoggiò la testa sulle mie ginocchia
e si addormentò. Era la cosa migliore da fare per ingannare il tempo. Mi chinai di nuovo verso
il finestrino.
«Siamo a soli seicento chilometri dal mare di Kara» mi informò Egorov indicando verso
nord. «Ma mi creda, i sumeri ci hanno messo molto più di noi per arrivare fin là!»Keira si raddrizz e tentò a sua volta di vedere qualcosa. Egorov la invitò nella cabina di pilotaggio. Il copilota le cedette il posto e la fece accomodare sul suo sedile. Io la raggiunsi, rimanendo alle
sue spalle. Era affascinata, sbalordita e felice: vedendola così, svanì ogni dubbio sulla decisione di continuare il viaggio. L’avventura che stavamo vivendo insieme ci avrebbe lasciato
ricordi meravigliosi, alla fine, ne ero sicuro, ne sarebbe valsa la pena.
«Se un giorno lo racconterai ai tuoi figli, non ti crederanno» gridai a Keira.
Lei non si voltò, ma rispose nel tono che avevo imparato a riconoscere.
«E’ il tuo modo per dirmi che vorresti dei figli?»
Hotel Baltschug Kempinski
Sull’altro lato del ponte che attraversava la Moscova e raggiungeva la Piazza Rossa, Mosca prendeva un tè in compagnia di una giovane donna che non era sua moglie. La hall
dell’albergo era gremita di gente. I camerieri in divisa facevano lo slalom tra le poltrone, servendo bevande e biscotti ai turisti o agli uomini d’affari che frequentavano quel luogo elegante
ed esclusivo della città.
Un uomo andò al bancone e si mise a fissare Mosca, aspettando che i loro sguardi si incrociassero. Non appena lo vide, quest’ultimo si scusò con la sua ospite e lo raggiunse al bar.
«Cosa diavolo ci fa qui?» chiese prendendo posto sullo sgabello vicino.
«Mi dispiace disturbarla, signore. Stamattina non è stato possibile intervenire.»«Siete degli incapaci, ho promesso a Londra che la questione sarebbe stata sistemata entro stasera!
Pensavo fosse venuto a dirmi che erano a bordo di un aereo in volo per l’Inghilterra.»«Non
abbiamo potuto agire perché sono usciti dalla proprietà di Egorov scortati da un convoglio di
vetture, prima di alzarsi in volo con lui in elicottero.»Mosca odiava quella sensazione di impotenza. Finché Egorov e i suoi uomini li proteggevano, era impossibile intervenire senza provo-
care un bagno di sangue.
«Dove sono diretti?»«Egorov ha consegnato un piano di volo stamattina: avrebbe dovuto
atterrare a Lesosibirsk, ma l’elicottero ha deviato dalla rotta ed è sparito poco dopo dagli
schermi radar.»«Se soltanto si fossero schiantati!»«Non è un’eventualità così remota, signore, c’è stata una fortissima tempesta di neve.»«Forse sono rimasti a terra fino a quando la
tempesta non si è placata.»«E’ possibile, ma il velivolo non è più riapparso sugli
schermi.»«Oppure il pilota ha fatto in modo di volare al di sotto del raggio radar e noi li abbiamo perduti.»«Non è detto, signore. Ho considerato questa possibilità: due camion cisterna
con dodicimila litri di carburante hanno lasciato Pjt’-Jach nel primo pomeriggio e sono rientrati
alla base quattro ore dopo. Se hanno rifornito l’elicottero di Egorov, ciò dev’essere avvenuto a
metà strada con Khanty-Mansijsk, più precisamente a due ore di strada da Pjt’-Jach.»«Ma
non sappiamo ancora verso quale destinazione volasse l’elicottero.»«No, ma ho proseguito
con i miei calcoli. Il Mil Mi-26 ha un raggio d’azione di seicento chilometri, ed è il massimo
considerando i venti contrari. Dal punto di partenza, hanno dovuto seguire una linea retta per
raggiungere il luogo in cui sono atterrati come concordato. Se continuano sulla stessa traiettoria, e tenendo conto del loro raggio d’azione, giungeranno a tarda sera nella repubblica dei
Komi, nei dintorni di Vuktyl.»«Ha una vaga idea di cosa li spinga ad andare lì?»«No, signore,
ma per aver percorso circa tremila chilometri e fatto undici ore di volo, devono avere un’ottima
ragione. Facendo decollare un Sikorsky da Ekaterinburg domani mattina, potremmo cominciare dei turni di ricerca da mezzogiorno in poi.»«No, procediamo diversamente. Non devono
accorgersi di noi. Cerchi di capire dove possono essere atterrati. Faccia interrogare gli abitanti della regione dalla polizia locale, cerchiamo di scoprire se qualcuno ha visto o sentito
quell’elicottero. Quando ne saprà di più, mi chiami sul cellulare, a qualsiasi ora. E tenga
pronta una squadra di intervento: se quegli ingenui si sono nascosti in un luogo sufficientemente isolato, potremo intervenire senza nessun indugio.»
Sito di Man-Pupu-Nyor
Il pilota annunciò che stavamo per atterrare. Noi tornammo ai nostri posti e il copilota al
suo, ma Egorov ci invitò a rialzarci per vedere attraverso la cabina del pilota ciò che si profilava davanti a noi.
A nord degli Urali, su un altopiano che si confondeva con la linea dell’orizzonte, si alzavano sette colonne di pietra. Avevano l’aspetto di giganti immobilizzati nell’atto di camminare.
La natura li ha modellati per duecento milioni di anni, regalandoci una delle più stupefacenti
eredità geologiche del pianeta. I sette colossi non colpiscono solo per le dimensioni, ma
anche per la collocazione: sei totem disposti a semicerchio intorno al settimo che li fronteggia.
In questa stagione, sono coperti da una spessa coltre bianca che sembra proteggerli dal
freddo.
Mi girai verso Egorov, che era visibilmente emozionato. «Non pensavo che un giorno
sarei tornato» sospirò. «Qui ho molti ricordi.»L’elicottero scendeva di quota. Grosse volute di
neve si sollevavano sempre di più man mano che ci avvicinavamo al suolo.
«In mansi Man-Pupu-Nyor significa “la piccola montagna degli dèi”» riprese Egorov. «Un
tempo, l’accesso al sito era riservato esclusivamente agli sciamani del popolo mansi. Ci sono
molte leggende sui Giganti degli Urali. La più famosa narra di una lite che sarebbe scoppiata
fra uno sciamano e i sei colossi usciti dagli Inferi per attraversare la catena montuosa. Lo
sciamano li avrebbe trasformati in questi mostri di pietra, ma la stessa sorte sarebbe toccata
anche a lui: imprigionato nel settimo monolite, quello di fronte agli altri. In inverno, l’altopiano
è inaccessibile senza un’adeguata preparazione, a meno di non arrivare per via
aerea.»L’elicottero si posò, il pilota fermò le turbine e a quel punto sentimmo solo il vento che
si abbatteva selvaggio sulla carlinga.
«Andiamo» ordinò Egorov, «non abbiamo tempo da perdere!»I suoi uomini sciolsero le
cinghie intorno alle grandi casse e cominciarono a svitare i pannelli. I primi due contenevano
sei motoslitte, ciascuna delle quali poteva trasportare tre passeggeri. In altre casse erano
stipati ganci ricoperti da grossi teli impermeabili. Quando il portellone dell’elicottero si aprì, un
vento glaciale penetrò nell’abitacolo. Egorov fece segno di affrettarci, ognuno doveva fare la
sua parte se volevamo allestire l’accampamento prima che calasse la notte.
«Sa guidare questi veicoli?» chiese Egorov.
Certo, ho attraversato Londra in moto, ma… come passeggero!, pensai. Dotato di sci e
cingolo, il mezzo era sicuramente più stabile. Risposi di sì con un cenno della testa. Egorov
non sembrava convinto delle mie doti di pilota: alzò gli occhi al cielo, mentre cercavo sul lato
la levetta del motore e mi mostrò dove si trovava l’avviamento.
«Non c’è né folle, né frizione e non si accelera ruotando il polso, ma premendo sul pulsante che si trova sotto il freno. È sicuro di sapersela cavare?»Lo rassicurai e invitai Keira a
montare in sella. Mentre pattinavo sulla neve - giusto il tempo di familiarizzare con il nuovo
mezzo -, le squadre di Egorov stavano già installando la fila di luci, delimitando il perimetro
del nostro campo. Quando fecero partire i due gruppi elettrogeni, gran parte dell’altopiano si
ritrovò illuminata come in pieno giorno. Tre uomini portavano sulla schiena bombole collegate
ad aste da cui usciva una vampata di fuoco. In tempo di guerra le avrei definite dei lanciafiamme, ma Egorov le chiamava «scaldini». Dopodiché, spazzarono il terreno con l’ausilio
di quelle potenti torce. Una volta ammorbidito il ghiaccio, furono montate una dozzina di tende
perfettamente allineate. Il rivestimento era fatto di materiale isotermico grigiastro e l’insieme
assomigliò ben presto a una base lunare. Pur in un contesto del tutto estraneo, Keira riacquist la sua professionalità da paleontologa. In una tenda allestì un laboratorio. Cominciò
subito a sistemare l’attrezzatura, mentre i due uomini assegnati a lei vuotavano alcune casse
contenenti più materiale di quanto non ne avesse mai visto. Io fui incaricato della selezione: le
scritte erano in cirillico e me la cavavo come potevo, ignorando i rimproveri che mi venivano
rivolti quando mettevo una cazzuola nel cassetto riservato alle spatole.
Alle nove di sera Egorov ci invitò alla tenda-mensa. Il mio amor proprio subì un duro
colpo: nel lasso di tempo in cui io avevo messo in ordine il contenuto di dodici scatoloni, il cuciniere aveva allestito una cucina da campo degna di un esercito.
Ci venne servito un pasto caldo. Gli uomini di Egorov parlavano tra di loro, senza prestarci
la minima attenzione. Cenammo al tavolo di Egorov, l’unico in cui la birra era stata sostituita
da vino rosso. Alle dieci si riprese a lavorare. Seguendo le istruzioni di Keira, una decina di
uomini sistemarono la quadrettatura sul terreno di scavo. A mezzanotte suonò una campanella: fine delle prime operazioni, il campo era operativo. Tutti andarono a dormire.
A me e Keira erano state destinate due brande un po’ in disparte in fondo a una tenda che
ne ospitava altre dieci. Solo Egorov aveva diritto a una tenda personale.
Cadde il silenzio, rotto solo dal russare degli uomini sprofondati subito nel sonno. Vidi
Keira alzarsi e venire verso di me.
«Spostati» mormorò infilandosi nel mio sacco a pelo, «in due ci terremo più caldi.»Si assop, esausta per la serata che avevamo trascorso. Il vento soffiava sempre più forte, gonfiando a intermittenza la tela della nostra tenda.
Hotel Baltschug Kempinski
Un led blu lampeggiava sul comodino. Mosca prese il cellulare e lo aprì.
«Li abbiamo localizzati.»La ragazza che dormiva accanto a lui si rigirò nel letto, appoggiando la mano sul viso di Mosca; lui la respinse, si alzò e andò nel salottino della suite.
«Come pensa di procedere?» chiese l’interlocutore.
Mosca prese il pacchetto di sigarette lasciato sul divano, ne accese una e si avvicinò alla
finestra. Le acque del fiume erano senz’altro gelide, ma il ghiaccio non aveva ancora bloccato
il corso della Moscova.
«Organizzi un’operazione di salvataggio» rispose Mosca. «Dirà ai suoi uomini che i due
occidentali che devono liberare sono scienziati di fama internazionale: la loro missione è recuperarli sani e salvi. Non devono avere alcuna pietà per chi li tiene in ostaggio.»«Astuto. E
per quanto riguarda Egorov?»«Se sopravvive all’assalto, tanto meglio per lui; in caso contrario, lo faccia seppellire con gli altri. Non lasciate nessuna traccia dietro di voi. Nel momento
in cui i soggetti saranno al sicuro, vi raggiungerò. Li tratti con rispetto, ma che nessuno abbia
contatti con loro prima del mio arrivo. Ribadisco, nessuno!»«Il territorio in cui dovremo intervenire è ostile. Ho bisogno di tempo per preparare una simile operazione.»«Dimezzi il tempo
e richiami quando sarà tutto finito.»
Man-Pupu-Nyor
All’alba la tempesta si era placata. Il suolo era ricoperto di neve; Keira e io uscimmo dalla
nostra tenda vestiti come due esquimesi. Ci separavano solo pochi metri dalla mensa, ma
avevo l’impressione di aver già bruciato tutte le energie accumulate durante la notte solo per
raggiungerla. La temperatura era polare. Egorov ci assicurò che nel giro di alcune ore l’aria
sarebbe diventata più secca e il freddo meno pungente. Dopo aver fatto colazione, Keira si
mise all’opera e io le diedi una mano. Doveva adattarsi a quella situazione. Uno degli uomini
di Egorov le faceva da guida e traduttore. Parlava un inglese abbastanza corretto. Il terreno
da scavare era stato ben delimitato. Keira fece un giro di esplorazione e scrutò con attenzione i colossi di pietra. I giganti erano davvero impressionanti. Mi chiesi se la natura fosse
l’unica responsabile della forma che avevano assunto. Duecento milioni di anni durante i quali
piogge e vento li avevano inesorabilmente modellati.
«Credi davvero che ci sia imprigionato uno sciamano?» mi domandò Keira avvicinandosi
al totem solitario.
«Chi lo sa?» risposi io. «Nelle leggende c’è sempre un fondo di verità.»«Ho l’impressione
che ci osservino.»«I giganti?»«No, gli uomini di Egorov! Fanno finta di non prestarci attenzione, ma mi sono accorta che a turno ci tengono d’occhio. Che sciocchezza! Dove potremmo scappare?»«È proprio questo che mi preoccupa: siamo in libertà condizionata nel bel
mezzo di un paesaggio ostile, alla completa mercé del tuo nuovo amico. Se troviamo il frammento, chi ci garantisce che non se ne impadronirà lui e poi ci abbandoni qui?»«Non avrebbe
alcun interesse a farlo, ha bisogno del nostro avallo scientifico.»«Sempre che non ci nasconda qualcosa.»Cambiammo argomento, Egorov ci stava raggiungendo.
«Ho riletto i miei appunti dell’epoca: dovremmo trovare le prime tombe in questa zona»
disse indicando lo spazio compreso tra gli ultimi due giganti di pietra. «Cominciamo a scavare, il tempo stringe.»La memoria di Egorov era decisamente ottima o, quanto meno, i suoi
vecchi appunti molto ben conservati. Intorno a mezzogiorno, gli scavi portarono a una prima
scoperta che lasciò Keira ammutolita.
Avevamo trascorso la mattinata a rivoltare e spalare terra fino a una profondità di ottanta
centimetri circa, quando all’improvviso apparvero i resti di una sepoltura. Keira grattò il terreno, trovando un panno di tessuto nero. Con l’aiuto di una pinzetta prelevò alcune fibre e le
dispose in tre provette di vetro che richiuse immediatamente. Poi riprese il suo lavoro,
spostando da parte il ghiaccio. Un po’ più lontano, gli uomini di Egorov imitavano ogni suo
gesto.
«Se si tratta davvero di sumeri, è semplicemente fantastico!» esclamò rialzandosi. «Un intero gruppo di sumeri a nordovest degli Urali! Ti rendi conto, Adrian, della portata di questa
scoperta? E il loro stato di conservazione è eccezionale. Potremo studiare come si vestivano,
cosa mangiavano.»«Credevo fossero morti di fame!»«Gli organi disseccati ci forniranno
tracce di batteri legati alla loro alimentazione, le ossa i segni delle malattie da cui erano più
comunemente colpiti.»Per sfuggire a quelle noiose spiegazioni, andai a prendere un thermos
di caffè. Keira si scaldò le dita stringendo la tazza: erano già due ore che lavorava sul ghiaccio. La schiena le doleva, ma si inginocchiò di nuovo e riprese da dove era rimasta.
A fine giornata avevamo portato alla luce dodici tombe. I corpi erano mummificati dal
freddo e si pose subito il problema di come conservarli. Keira ne parlò a cena con Egorov.
«Cosa conta di fare per proteggerli?»«Con la temperatura attuale, al momento non rischiano nulla. Li metteremo sotto una tenda non riscaldata. Fra due giorni, farò portare qui con
l’elicottero dei contenitori stagni e manderemo due corpi a Pecora. Credo sia importante che
restino nella repubblica dei Komi. Non c’è alcun motivo per cui i membri dell’Accademia di
Mosca debbano metterci le mani sopra; se vogliono vederli, non dovranno fare altro che mettersi in viaggio.»«Cosa faremo degli altri corpi? Ha parlato di cinquanta tombe, ma su questo
altopiano potrebbero essercene anche di più.»«Filmeremo quelle che abbiamo aperto e le
richiuderemo finché non avremo annunciato alla comunità scientifica, prove alla mano, i clamorosi risultati delle nostre ricerche. A quel punto regolarizzeremo le opere di scavo presso le
autorità competenti e ci accorderemo per le disposizioni necessarie. Non voglio che mi accusino di essere venuto a saccheggiare il sito. Però le ricordo che non è l’unica cosa per cui
siamo qui. Non è il numero di sepolture nel ghiaccio che ci interessa, ma individuare quella in
cui si trova il frammento. Bisogna dedicare meno tempo ai corpi e concentrare l’attenzione su
ciò che sta intorno.»Vidi Keira sovrappensiero; allontanò il piatto, con lo sguardo perso nel
vuoto.
«Cosa c’è?» le chiesi.
«Questi uomini sono morti di freddo e di fame, è la natura che li ha sepolti. Sicuramente
non avevano più la forza di scavare la fossa per chi aveva perso la vita prima di loro. E poi,
eccetto i vecchi e i bambini, devono essere morti tutti a poca distanza l’uno dall’altro.»«Dove
vuole arrivare?» domandò Egorov.
«Rifletta! Lei e il suo gruppo avete percorso migliaia di chilometri per andare a portare un
messaggio, un viaggio lungo diverse generazioni. Immagini che siate gli ultimi sopravvissuti di
questa incredibile avventura; vi rendete conto di essere in trappola e che non arriverete al termine del viaggio. Cosa fate?»Egorov mi guardò come se avessi io la risposta: era la prima
volta in assoluto che si interessava a me! Mi servii una porzione di spezzatino, peraltro disgustoso, per guadagnare tempo.
«Be’» dissi a bocca piena, «pensandoci bene, in ogni caso…»«Se aveste affrontato migliaia di chilometri per portare un messaggio» mi interruppe Keira, «se aveste sacrificato la vita,
non fareste tutto il possibile affinché giunga a destinazione?»«Be’, l’idea di metterlo sotto
terra non sarebbe molto saggia» dissi, lanciando un’occhiata trionfante a Egorov.
«Proprio così!» esclamò Keira. «Quindi usereste le vostre ultime forze per metterlo in
evidenza in un punto in cui possa essere trovato.»Egorov e Keira si alzarono di scatto, indossarono il parka e si precipitarono fuori; nel dubbio, decisi di seguirli.
Le squadre si erano già rimesse al lavoro.
«Ma dove?» chiese Egorov, scrutando il paesaggio.
«Non sono specializzato in scavi, come voi due» intervenni con molta umiltà, «ma se fossi
sul punto di morire di freddo, cosa peraltro vera, e volessi evitare che un oggetto rimanga
sepolto dalla neve… be’, sceglierei l’unico nascondiglio possibile, che sta esattamente davanti ai nostri occhi…»«I giganti di pietra» concluse Keira. «Il frammento dev’essere in uno dei
totem!»«Non per fare il guastafeste, ma l’altezza media di questi blocchi di pietra è di circa
cinquanta metri e il loro diametro di dieci: dunque 3,14 x 10x50, il risultato è una superficie di
1571 metri quadrati per totem da esplorare, senza contare gli anfratti, e sempre che si sciolga
la neve che li ricopre e si trovi il modo di salirci sopra. Mi sembra un progetto come minimo
delirante!»Keira mi guardò in modo strano.
«Be’, cos’ho detto di male?»«Sei un guastafeste!»«Però non ha torto» convenne Egorov.
«Non abbiamo i mezzi per liberare i giganti dal loro mantello di ghiaccio: bisognerebbe
montare stufe gigantesche e avremmo bisogno di un numero di uomini dieci volte superiore.
E’ impossibile.»«Aspetti. Riflettiamo ancora.»Si mise a camminare lungo la quadrettatura.
«Io sono colui che ha il frammento» ragionò a voce alta. «I miei compagni e io siamo bloccati su questo altopiano su cui abbiamo avuto l’imprudenza di salire per vedere in lontananza
la direzione da prendere. Le pareti della montagna sono ghiacciate e non possiamo più
scendere. Niente selvaggina, niente vegetazione, niente cibo: mi rendo conto che moriremo
di fame. I cadaveri sono già ricoperti di neve. Con la consapevolezza che ben presto verrà il
mio turno, decido di usare le forze rimanenti per scalare uno dei colossi e mettere nella roccia
il frammento che mi è stato affidato. Spero che un giorno qualcuno lo ritrovi e continui il
viaggio.»«Descrizione avvincente» commentai. «Mi sento molto vicino all’eroe che ha sacrificato la sua vita, ma questo non ci dice quale gigante abbia scelto, né da quale parte sia
salito.»«Dobbiamo fermare gli scavi al centro dell’altopiano e concentrare gli sforzi intorno
alla base dei colossi; se troviamo un corpo, siamo a cavallo.»«Cosa glielo fa pensare?»
chiese Egorov.
«Anch’io mi sento molto vicina a quell’uomo» spiegò Keira, «e se avessi spinto la mia missione fino ai limiti della resistenza fisica, una volta incastonato il frammento nella pietra,
vedendo i miei amici morti, mi sarei lasciata cadere nel vuoto per abbreviare le sofferenze.»Egorov si fidò dell’istinto di Keira: ordinò ai suoi uomini di abbandonare le ricerche e di
radunarsi, aveva nuove istruzioni da impartire.
«Da dove vuole che cominciamo?» chiese Egorov a Keira.
«Conosce il mito dei Sette Saggi?» Keira rispose con una domanda.
«Gli Abgal? I Sette Saggi sono esseri metà uomo e metà pesce che si ritrovano in molte
civiltà antiche sotto forma di dèi civilizzatori. Il gruppo dei Sette Guardiani del Cielo e della
Terra che portano il sapere agli esseri umani. Vuole mettere alla prova le mie conoscenze
sumeriche?»«No, ma secondo lei, se i sumeri avessero creduto di riconoscere in questi colossi i sette Abgal…»«In quel caso» la interruppe l’uomo, «avrebbero sicuramente scelto il
primo, quello che guidava la marcia.»«Il colosso che fronteggia gli altri sei?» chiesi a Egorov.
«Sì, lo chiamavano Adapa.»Egorov ordinò ai suoi uomini di raggrupparsi intorno alla base
del totem gigante e di cominciare a scavare. Mi trovai a sperare che l’eroico sumero che
aveva tentato l’impresa di scalare il colosso si fosse congelato prima di arrivare alla meta e
fosse caduto con il frammento in mano. Era un’ipotesi surreale, ma avremmo risparmiato un
sacco di tempo, e poi un colpo di fortuna può sempre capitare, no? Sospettavo che Keira
avesse avuto la stessa idea, pregò infatti gli uomini di Egorov di esplorare il terreno con la
massima attenzione.
Le condizioni atmosferiche peggioravano di ora in ora: cadeva più neve di quanta non ne
riuscissimo a spalare. Si alzò una nuova tempesta, peggiore della precedente, che ci
costrinse a interrompere le ricerche. Ero sfinito, esausto, e sognavo un bagno caldo e un materasso morbido. Egorov autorizzò tutti a prendersi una pausa; non appena il maltempo si
fosse placato, ci avrebbe chiamato a raccolta, anche in piena notte. Keira era in preda a un
singolare entusiasmo e imprecava contro la tempesta che le impediva di proseguire le ricerche. Voleva lasciare la tenda per andare in laboratorio e cominciare ad analizzare i primi
campioni prelevati. Mi ci volle una gran opera di convincimento per dissuaderla. Non si vedeva a cinque metri di distanza: avventurarsi fuori, in quelle condizioni, era da incoscienti.
Alla fine mi diede retta e accettò di distendersi accanto a me.
«Sono perseguitata dalla sfortuna!»«E’ soltanto una tempesta di neve, in pieno inverno e
nel bel mezzo della Siberia: non credo che si possa parlare di sfortuna. Sono sicuro che il
tempo domani migliorerà.»«Egorov mi ha fatto capire che potrebbe durare diversi giorni» si
lamentò Keira.
«Hai un’aria distrutta, dovresti riposarti; se anche la tempesta dovesse continuare per
quarantott’ore, non sarebbe la fine del mondo. Le scoperte che hai fatto questa mattina sono
inestimabili.»«Perché ti escludi sempre? Senza di te, non saremmo mai arrivati qui.»Ripensai
agli eventi delle ultime settimane e l’osservazione, peraltro generosa, mi lasciò perplesso.
Keira si rannicchiò al mio fianco. Io rimasi sveglio a lungo ad ascoltare il suo respiro.
Fuori il vento raddoppiava di intensità: dentro di me benedicevo il cattivo tempo, per la
tregua che ci concedeva e per quegli attimi di intimità.
Il giorno seguente fu buio quasi come la notte. La tempesta non dava tregua. Per raggiungere la mensa, bisognava camminare guidati da una potente torcia elettrica, lottando contro violente folate di vento. Alla fine del pomeriggio, Egorov annunciò che il peggio era passato. La depressione atmosferica non si estendeva oltre la regione in cui ci trovavamo, e i
venti nordici l’avrebbero scacciata.in fretta. Sperava di poter riprendere le ricerche già
l’indomani. Keira e io tentavamo di valutare la quantità di neve che avremmo dovuto spalare
prima di poter riprendere a scavare. Non c’era nulla da fare per ingannare il tempo, se non
giocare a carte. Keira abbandonò più volte la partita per andare a controllare l’evoluzione
della tempesta e ogni volta la vedevo tornare con un’aria afflitta.
Alle sei del mattino fui svegliato da un rumore di passi vicino alla nostra tenda. Mi alzai piano, abbassai delicatamente la cerniera lampo e infilai la testa attraverso l’apertura. La tempesta aveva lasciato posto a una neve finissima che cadeva dal cielo grigio; il mio sguardo si
spostò sui colossi di pietra che finalmente riapparivano alla luce dell’alba. Qualcos’altro però
attirò la mia attenzione, qualcosa di cui avrei preferito non essere testimone. Ai piedi del solitario gigante di pietra che stando alla leggenda celava il corpo di un antico sciamano giaceva
quello di un mio contemporaneo, in mezzo a una pozza di sangue che macchiava la neve.
Spuntando dalla parete montagnosa con un’agilità sbalorditiva, una trentina di uomini in
tuta bianca avanzavano verso di noi, accerchiando il campo. Una nostra guardia del corpo
uscì: lo vidi immobilizzarsi, fulminato da una pallottola in pieno petto. Ebbe appena il tempo di
sparare un colpo prima di crollare a terra.
L’allarme era stato lanciato. Gli uomini di Egorov schizzarono fuori dalle tende e vennero
falciati da una serie di colpi dalla precisione quasi militare. Fu un’ecatombe. Quelli rimasti al
riparo rispondevano al fuoco con fucili a pompa la cui gittata sembrava piuttosto scarsa. Lo
scontro continuava, gli assalitori guadagnavano terreno, strisciando verso di noi. Due di loro
furono colpiti.
Gli spari avevano svegliato Keira, che si alzò di scatto sul letto e vide il mio pallore. Le ordinai di vestirsi immediatamente. Mentre si infilava le scarpe, analizzai la nostra situazione:
nessuna speranza di fuga, impossibile scappare dal retro, il telo della nostra tenda era fissato
troppo saldamente. In preda al panico, presi una pala e cominciai a scavare. Keira si avvicinò
al passaggio che avevo lasciato aperto, mi girai e la riportai bruscamente all’interno.
«Sparano a bruciapelo su tutto ciò che si muove, rimani lontana dalle pareti e
aiutami!»«Adrian, il ghiaccio è duro come il marmo, stai perdendo tempo. Chi sono quegli
uomini?»«Non lo so, non hanno avuto la cortesia di presentarsi prima di spararci ad-
dosso!»Seguì un’altra raffica di colpi. Non potevo più ignorarli e d’istinto feci proprio quello
che avevo cercato di impedire a Keira. Mettendo di nuovo la testa fuori, fui testimone di una
carneficina. Gli uomini in bianco si avvicinarono a una tenda e vi infilarono rasoterra un cavo
che permetteva di vedere all’interno; alcuni istanti dopo vuotarono i caricatori sulla tenda e
passarono a quella successiva.
Chiusi la cerniera, mi avvicinai a Keira e mi chinai su di lei per proteggerla con il mio
corpo.
Lei sollevò la testa, sorrise tristemente e mi baciò sulle labbra.
«E’ molto nobile da parte tua, amore mio, ma temo che non serva a molto. Ti amo e non
rimpiango nulla» disse, abbracciandomi forte.
Non c’era altro da fare se non attendere il nostro turno. La strinsi fra le braccia e mormorai
che anch’io non avevo alcun rimpianto. Le nostre confidenze amorose furono interrotte
dall’entrata improvvisa di due uomini armati di fucili d’assalto.
Ponte di Luzkov
Il canale Vodootvodny era gelato. Una dozzina di pattinatori lo risalivano, scivolando veloci sullo spesso strato di ghiaccio. Mosca si stava recando a piedi nel suo studio. Una Mercedes nera lo seguiva a distanza. Prese il cellulare e chiamò Londra.
«L’operazione è conclusa» comunicò freddamente.
«Le cose sono andate come speravamo?»«Non del tutto, la situazione era difficile.»Ashton trattenne il respiro, aspettando che l’interlocutore gli raccontasse il seguito degli
eventi.
«La squadra di Egorov si è difesa strenuamente, abbiamo perso degli uomini» riferì Mosca.
«Me ne frego dei suoi uomini» ribatté Ashton. «Mi dica cosa ne è stato dei nostri scienziati!»Mosca riappese e chiamò l’autista: la vettura arrivò accanto a lui, la guardia del corpo
scese e gli aprì la portiera. Mosca si accomodò sul sedile posteriore del veicolo, che partì a
tutta velocità. Il telefono suonò più volte, ma lui si rifiutò di rispondere.
Dopo una breve sosta in ufficio, Mosca si fece portare all’aeroporto di Seremet’evo, dove
un aereo privato lo attendeva davanti al terminal dei voli commerciali; la vettura attraversò la
città a sirene spiegate, facendosi strada negli ingorghi. Mosca sospirò e controllò l’ora: non
sarebbe arrivato a Ekaterinburg prima di tre ore.
Man-Pupu-Nyor
Dopo aver fatto irruzione nella nostra tenda, ci trascinarono fuori. L’altopiano dei Sette Giganti degli Urali era cosparso di corpi insanguinati. Soltanto Egorov sembrava sopravvissuto
all’attacco: giaceva pancia a terra, con polsi e caviglie ammanettate. Sei uomini equipaggiati
di fucile a tracolla gli facevano la guardia. Sollevò la testa per rivolgerci un ultimo sguardo, ma
ricevette subito un violento calcio sulla nuca. Sentimmo il rumore sordo di un rotore, la neve
si sollevò davanti poi si posò a pochi metri da noi.
I due assalitori che ci scortavano ci guidarono verso l’apparecchio a passo di corsa.
Mentre salivamo a bordo, uno di loro fece un segno, pollice alzato al cielo, come per complimentarsi con noi. Il portellone si chiuse e l’elicottero si alzò subito in volo. Il pilota compì un
cerchio sopra il campo e Keira si chinò verso il finestrino per dare un’ultima occhiata.
«Stanno distruggendo tutto» disse rimettendosi a sedere, visibilmente alterata.
Guardai a mia volta e presi atto del terribile spettacolo. Una dozzina di uomini in tuta bianca richiudevano le tombe sumere, gettandovi dentro i corpi inerti degli uomini di Egorov; altri cominciavano già a smontare le tende. Non c’era nulla che potesse consolare Keira.
A bordo dell’elicottero c’erano sei membri dell’equipaggio, ma nessuno ci rivolse la parola.
Ci offrirono bevande calde e sandwich, ma non avevamo né fame, né sete. Presi la mano di
Keira e la tenni saldamente tra le mie.
«Non so dove ci stiano portando, ma credo proprio che stavolta le nostre ricerche siano finite.»Io l’abbracciai, ricordandole che eravamo ancora vivi.
Dopo due ore di volo l’uomo seduto davanti a noi ci chiese di allacciare le cinture di
sicurezza. Stavamo per atterrare. Non appena le ruote toccarono terra, il portellone si aprì.
Ci ritrovammo davanti all’hangar di un aeroporto di media grandezza, dentro al quale era
parcheggiato un bireattore con la bandiera russa sulla deriva e sprovvisto di numero di identificazione. Mentre ci avvicinavano, si abbassò la scaletta. All’interno della cabina, due uomini
in uniforme blu ci stavano aspettando. Il meno corpulento si alzò e ci rivolse un enorme sorriso.
«Felice di vedervi sani e salvi» ci accolse in perfetto inglese. «Dovete essere sfiniti, partiamo subito.»I reattori furono attivati: pochi istanti dopo, l’apparecchio si portò sulla pista e
decollò.
«Ekaterinburg, una città davvero graziosa» proseguì l’uomo mentre l’aereo prendeva
quota. «Fra un’ora e trenta minuti atterreremo a Mosca. Lì vi attende un aereo di linea per
Londra. Avete due posti prenotati in business class. Non ringraziate: dopo le prove che avete
affrontato in questi giorni, questo è il minimo. Due scienziati del vostro calibro meritano il
massimo riguardo. Nel frattempo, vi pregherei di consegnarmi i passaporti.»L’uomo li infilò
nella tasca della giacca e aprì uno sportello che celava un minibar. Ci servì della vodka; Keira
bevve il suo bicchiere tutto d’un fiato e lo tese affinché lo riempisse di nuovo. Buttò giù il
secondo bicchiere, senza dire una parola.
«Potrebbe fornirci qualche spiegazione?» chiesi all’uomo.
Lui alzò il suo bicchiere per brindare.
«Siamo soddisfatti di essere riusciti a liberarvi dalle mani dei vostri rapitori.»Keira sputò la
vodka che aveva appena messo in bocca. «I nostri rapitori? Quali rapitori?»«Siete stati fortunati» continuò, «gli uomini che vi trattenevano erano molto pericolosi; siamo intervenuti in
tempo, dovete essere molto grati alla nostra squadra, che ha corso così tanti rischi per trarvi
in salvo. Due dei miei migliori agenti hanno sacrificato la vita.»«Ma nessuno ci teneva prigionieri!» si infuriò Keira. «Eravamo lì di nostra spontanea volontà, stavamo partecipando a
degli scavi archeologici che i vostri uomini hanno rovinato. Abbiamo assistito a una vera e
propria carneficina, una barbarie senza precedenti! Come osa?»«Sappiamo che prendevate
parte a scavi illegali, organizzati da alcuni malfattori al solo scopo di saccheggiare vergognosamente i tesori della Siberia. Egorov è un uomo della mafia russa, signorina, lo
sapeva? Due scienziati della vostra fama non potevano collaborare a simili atti criminosi
senza esserci stati costretti con la forza, senza essere stati minacciati di morte dai loro rapitori al primo tentativo di ribellione. I visti attestano che siete entrati in Russia esclusivamente
come turisti e siamo lusingati che abbiate scelto il nostro paese per distrarvi. Sono sicuro che
se aveste avuto la minima intenzione di lavorare nel nostro territorio, avreste sicuramente
agito in ambito legale, non è così? Conoscete meglio di chiunque i rischi a cui vanno incontro
i saccheggiatori che prendono di mira il nostro patrimonio nazionale. Le pene variano da dieci
a vent’anni di prigione, a seconda della gravità dei reati. Siamo quindi d’accordo sulla versione che vi ho esposto?»Gli confermai subito che non avevamo nulla da obiettare. Keira
restò in silenzio, un attimo solo, poi non potè fare a meno di preoccuparsi per la sorte di
Egorov, cosa che fece sorridere il nostro interlocutore.
«Questo, signorina, dipenderà esclusivamente dalla sua volontà di collaborare
all’inchiesta che verrà condotta. Ma non si dia pena per quell’individuo, le assicuro che era
poco raccomandabile.»L’uomo si scusò per non poter parlare più a lungo con noi, ma aveva
del lavoro da sbrigare. Prese un dossier dalla borsa e vi si immerse fino all’arrivo a Mosca.
L’elicottero cominciò la discesa verso la capitale russa. Una volta atterrati, l’uomo, a bordo
di una vettura, ci condusse fino ai piedi di una scaletta agganciata a un aereo della British Airways.
«Due avvertimenti prima di congedarci. Non ritornate in Russia: non potremo più garantire
la vostra sicurezza. E ora, ascoltate bene quel che ho da dirvi, perché così facendo infrango
una regola, ma mi siete simpatici e colui che tradisco lo è molto meno. A Londra c’è qualcuno
che vi aspetta, e temo che il giro che vi proporranno non sia per nulla paragonabile al piacevolissimo viaggio appena compiuto insieme. Se fossi in voi, eviterei di indugiare a Heathrow;
una volta passata la dogana, me la darei a gambe. Se poi trovaste il modo di non passare la
dogana, sarebbe ancora meglio.»L’uomo ci restituì i passaporti e ci invitò a salire sulla
scaletta. La hostess ci accompagnò ai nostri posti. Il perfetto accento inglese della giovane
assistente di volo era delizioso e io la ringraziai per la gentile accoglienza.
«Vuoi il suo numero di telefono?» chiese Keira allacciando la cintura di sicurezza.
«No, grazie ma se tu riuscissi a convincere il tizio seduto dall’altra parte a prestarti il suo
cellulare, sarebbe il massimo.»Keira mi guardò stupita, poi si voltò verso il vicino, intento a
scrivere un messaggio sulla tastiera del telefono. Sfoggiò il suo fascino in modo a dir poco indecente e, due minuti dopo, mi allungò il cellulare.
Londra
Il Boeing 767 atterrò a Heathrow quattro ore dopo la partenza da Mosca. Erano le dieci e
mezza di sera, forse la notte sarebbe stata nostra alleata. L’aereo si fermò in un’area di
parcheggio lontano dal terminal. Attraverso l’oblò vidi due autobus ai piedi della scaletta; pregai Keira di fare con calma, saremmo scesi con la seconda ondata di passeggeri.
Salimmo sull’autobus e invitai Keira a restare accanto alla porta; avevo infilato la scarpa
fra i soffietti per impedire che scattasse la chiusura di sicurezza. L’autobus procedeva
sull’asfalto e imboccò un tunnel che correva sotto le piste; l’autista dovette frenare per lasciar
passare un mezzo che trainava dei carrelli portabagagli. Ora o mai più. Aprii bruscamente la
porta a soffietto e tirai Keira per mano. Una volta fuori, corremmo nella penombra del tunnel
verso il convoglio che si allontanava e saltammo in un container. Keira si ritrovò appiattita
contro due grosse valigie, io sdraiato su alcuni zaini. A bordo dell’autobus, i passeggeri testimoni della nostra fuga restarono a bocca aperta; immagino che abbiano provato ad avvertire
il conducente, ma il nostro trenino si stava già allontanando in direzione opposta e pochi
istanti dopo imboccò i sottopassaggi del terminal. Considerata l’ora tarda, non c’era più molta
gente nella zona di scarico: solo due squadre erano al lavoro, ma erano lontane e nessuno
poteva vederci. Il mezzo procedeva a zigzag fra le rampe di carico dei bagagli.
Scorsi un montacarichi a pochi metri di distanza e scelsi quel momento per abbandonare
il nostro nascondiglio. Purtroppo, arrivato davanti al montacarichi, mi accorsi che il pulsante di
chiamata era chiuso da una serratura; senza chiave, era impossibile manovrarlo.
«Hai qualche idea su come uscire da qui?» mi interrogò Keira.
Mi guardai intorno e vidi solo un intreccio di nastri trasportatori, la maggior parte dei quali
era ferma.
«Laggiù!» esclamò Keira indicando una porta. «E’ un’uscita di sicurezza.»Temevo che
fosse murata, ma la fortuna era dalla nostra parte e ci ritrovammo in fondo a una scala.
«Non correre» dissi a Keira. «Comportiamoci come se nulla fosse.»«Non abbiamo un
badge» mi fece notare. «E se incrociassimo qualcuno?»Controllai l’ora: il bus era sicura-
mente arrivato al terminal. Alle undici di sera non ci sarebbe stata molta gente alla dogana e
l’ultimo passeggero del nostro volo sarebbe giunto ben presto al controllo immigrazione.
Avevamo poco tempo prima che le persone che ci aspettavano si rendessero conto della nostra fuga.
In cima alle scale, un’altra porta ci sbarrava il passo; non appena Keira spinse la barra
trasversale, una sirena si mise a ululare.
Uscimmo nel terminal fra due nastri trasportatori, uno dei quali girava a vuoto. Un addetto
ci vide e rimase interdetto. Il tempo di dare l’allarme e io presi Keira per mano, correndo a
gambe levate. Suono di un fischietto. Non potevamo voltarci, ma continuare a correre.
Dovevamo a tutti i costi raggiungere le porte scorrevoli che davano sul marciapiedi. Keira inciamp e lanciò un grido, l’aiutai a rialzarsi, trascinandola via. Alle nostre spalle, passi precipitosi, suoni di fischietti sempre più vicini. Fermarsi era impossibile, né cedere alla paura: la
libertà era ormai a pochi metri. Keira era a corto di fiato. Usciti dal terminal, c’era un taxi
fermo. Dopo esservi saliti, pregammo l’autista di mettere in moto.
«Dove andate?» chiese voltandosi verso di noi.
«Parta, la prego! Siamo in ritardo» supplicò Keira, affannata.
L’autista obbedì. Vietai a me stesso di voltarmi, immaginando i nostri inseguitori fuori di sé
sul marciapiedi mentre vedevano allontanarsi il nostro black cab.
«I nostri guai non sono ancora finiti» sussurrai a Keira.
«Vada verso il terminal due» dissi al tassista.
Keira mi guardò stupita.
Alla seconda rotonda, chiesi al conducente di fermarsi. Come scusa raccontai che mia
moglie era incinta e che aveva un terribile attacco di nausea. L’autista frenò immediatamente.
Gli diedi un biglietto da venti sterline e dissi che avremmo preso un po’ d’aria sulla banchina
pedonale. Era inutile aspettarci, ormai ero abituato a quei malesseri: potevano durare anche
parecchio, avremmo proseguito a piedi.
«E’ pericoloso passeggiare da queste parti» ci avvertì. «Fate attenzione ai camion, ne arrivano da tutte le parti.»Si allontanò con un piccolo cenno della mano, estasiato per l’importo
che aveva incassato con quella corsa.
«E ora che ho partorito» disse Keira, «cosa facciamo?»«Aspettiamo!» risposi.
«Chi?»«Vedrai.»
Kent
«Cosa? Vi sono sfuggiti? Ma i vostri uomini non li aspettavamo nella zona arrivi?»«Sì, signore, ma i due scienziati non erano sull’aereo.»«Ma che diavolo sta dicendo? Il mio contatto
ha assicurato di averli fatti imbarcare personalmente a bordo di quel volo.»«Non avevo nes-
suna intenzione di mettere in dubbio la sua parola, ma i due soggetti che dovevamo fermare
non si sono presentati al controllo della polizia doganale. Eravamo in sei: impossibile per loro
sfuggire alla rete.»«Adesso non mi dirà che si sono lanciati con il paracadute mentre l’aereo
sorvolava la Manica?» urlò Sir Ashton al telefono.
«No, signore, l’aereo avrebbe dovuto essere agganciato a un finger, ma all’ultimo momento lo hanno dirottato verso un’area di parcheggio; non eravamo stati avvertiti. I due soggetti sono fuggiti dall’autobus che assicurava il collegamento con il terminal dove noi li attendevamo. Non abbiamo potuto intervenire, sono fuggiti attraverso i sotterranei.»«Può avvisare fin d’ora i responsabili della sicurezza di Heathrow che alcune teste cadranno.»«Ne sono
certo, signore.»«Idioti! Vada subito a casa loro anziché chiacchierare, setacci la città, verifichi
tutti gli alberghi, faccia quel che vuole, ma li arresti stanotte, se ci tiene un minimo al suo lavoro. Le concedo fino a domani mattina per trovarli, intesi?»L’interlocutore di Sir Ashton
rinnovò le sue scuse e promise di rimediare al più presto al fiasco dell’operazione di cui era a
capo, e nel minor tempo possibile.
Rotonda del Concorde, Heathrow
La Fiat 500 parcheggiò lungo il marciapiedi. Il conducente si chinò e aprì la portiera.
«E’ da un’ora che giro in tondo» si lamentò Walter, spostando in avanti il sedile in modo
che potessi infilarmi dietro.
«Non aveva un’auto più piccola?»«Ha una bella faccia tosta! Non solo mi dà appuntamento a una rotonda in mezzo al nulla e a un orario assurdo, ma ha pure il coraggio di protestare!»«Be’, per fortuna non abbiamo bagagli.»«Suppongo che, se ne aveste avuti, mi
avreste dato appuntamento davanti al terminal come tutte le persone normali, anziché
costringermi a farne dieci volte il giro mentre vi aspettavo!»«Avete intenzione di punzecchiarvi
ancora a lungo?» intervenne Keira.
«Ma che bello rivederla!» rispose Walter tendendole la mano. «Com’è andato il vostro
viaggetto?»«Male!» rispose lei. «Vogliamo andare?»«Volentieri, ma dove?»Stavo per
chiedere a Walter di accompagnarci a casa mia, quando due auto della polizia ci superarono
a sirene spiegate e a quel punto giudicai l’idea poco saggia. Chiunque fossero i nostri nemici,
avevo buoni motivi per credere che conoscessero il mio indirizzo.
«Allora, dove andiamo?» si informò Walter.
«Non lo so.»Walter imboccò l’autostrada. «Non ho problemi a guidare tutta notte» disse,
«ma bisognerà fare il pieno.»«Questa piccola auto è sua?» chiese Keira. «E’ proprio
bella.»«Sono contento che le piaccia, l’ho appena comprata.»«Con quali soldi? Credevo che
fosse al verde» chiesi io.
«Si è trattato di un’occasione e, dato che la sua deliziosa zia arriverà venerdì, ho sacrificato i miei ultimi risparmi, così potrò portarla in giro per la città.»«Elena viene a trovarla questo
weekend?»«Sì, gliel’avevo detto, non si ricorda?»«Abbiamo avuto una settimana un po’ impegnativa» risposi. «Non se la prenda se avevo la testa altrove.»«So dove possiamo andare»
ci interruppe Keira. «Walter, in effetti sarebbe meglio che si fermasse a una stazione di servizio a fare il pieno.»«Posso chiederle quale direzione devo prendere»? domandò. «Vi avverto, voglio essere di ritorno entro domani al massimo, ho appuntamento con il barbiere!»Keira lanciò un’occhiata interrogativa al cranio semicalvo di Walter.
«Sì, lo so» disse lui, alzando gli occhi al cielo. «Ma devo liberarmi di questo ciuffo ridicolo,
e poi stamattina ho letto un articolo sul “Times” in cui si dice che le prestazioni sessuali dei
calvi sono superiori alla media!»«Se ha un paio di forbici, posso occuparmene io subito» propose Keira.
«Non se ne parla nemmeno, sacrificherò i miei ultimi capelli solo nelle mani di un professionista. E ora vuole dirmi dove devo portarvi?»«A Saint Mawes, in Cornovaglia» rispose
Keira. «Laggiù saremo al sicuro.»«A casa di chi?» domandò Walter.
Keira rimase in silenzio. Indovinai la risposta e chiesi a Walter se accettava di cedermi il
volante.
Approfittando delle sei ore di viaggio, feci a Walter il resoconto delle nostre avventure in
Russia. Rimase sconvolto quando seppe ciò che era successo sulla Transiberiana e
sull’altopiano di Man-Pupu-Nyor. Mi fece molte domande sull’identità di chi aveva voluto ucciderci, ma non ero in grado di dirgli granché, non ne sapevo nulla. La mia unica certezza era
che la volontà di farci del male era legata all’oggetto che cercavamo.
Keira non disse una parola lungo tutto il tragitto e all’alba, quando arrivammo a Saint
Mawes, ci fece fermare in una viuzza che saliva verso il cimitero, davanti a una piccola locanda. «E’ lì» disse.
Salutò Walter, scese dalla macchina e si allontanò.
«Quando ci rivedremo?» chiese Walter.
«Si goda il weekend con Elena e non si preoccupi per noi. Credo che alcuni giorni di riposo siano quel che ci serve.»«E’ un luogo tranquillo» osservò Walter, guardando la facciata
del Victory. «Vi troverete bene, ne sono sicuro.»«Lo spero.»«Sembra molto provata…» comment Walter, indicando Keira che saliva a piedi lungo la stradina.
«Sì, gli ultimi giorni sono stati particolarmente faticosi, e poi è molto scossa per
l’interruzione improvvisa delle ricerche. Eravamo davvero vicinissimi alla meta.»«Però siete
vivi, e questo è ciò che conta. Al diavolo questi frammenti! Basta, avete già corso fin troppi
rischi. E’ un miracolo che non siate stati uccisi.»«Se fossimo riusciti a radunare tutti i frammenti, avremmo probabilmente fatto una scoperta senza precedenti.»«Sta ancora pensando
alla sua prima stella? Che rimanga lassù in cielo e voi sulla terra, in buona salute: non chiedo
altro.»«È un pensiero molto gentile da parte sua, Walter, ma eravamo vicinissimi dallo
scorgere i primissimi istanti dell’universo, forse avremmo scoperto finalmente da dove veniamo, chi furono i primi uomini a popolare il pianeta. Keira ha cullato questo sogno per tutta
la vita. E oggi la sua delusione è immensa.»«Allora la raggiunga subito, anziché restare qui a
parlare con me. Ha bisogno del suo appoggio. Si occupi di lei e dimentichi le sue assurde
ricerche.»Walter mi abbracciò e riavviò il motore della Fiat 500.
«Non è troppo stanco per rimettersi in viaggio?» mi assicurai, chinandomi sulla portiera.
«Stanco di cosa? All’andata ho dormito.»Guardai l’auto allontanarsi sulla strada panoramica che costeggiava il mare, finché le luci posteriori non scomparvero dietro una casa dalla
parte opposta del paese.
Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere Keira; andai a cercarla e salii lungo il pendio. In
fondo alla stradina, il cancello di un cimitero era semiaperto: entrai e percorsi il viale principale. Non era grande, nel cimitero di Saint Mawes riposavano al massimo un centinaio di
anime. Keira era inginocchiata vicino a un muro su cui si arrampicavano i tronchi intrecciati di
un glicine.
«In primavera fa tanti bei fiori viola» mi accolse Keira, alzando la testa.
Guardai la tomba: la scritta dorata era quasi completamente cancellata, ma si riusciva
ancora a distinguere il nome di William Perkins.
«Jeanne se la prenderà perché ti ho portato qui senza prima avergliene parlato.»La cinsi
con il braccio e rimasi in silenzio.
«Ho girato il mondo in lungo e in largo per dimostrargli ciò di cui ero capace, e l’unico risultato è che mi trovo di nuovo qui, a mani vuote e con il cuore gonfio. Credo che sia lui che
cerco da sempre.»«Sono sicuro che è orgoglioso di te.»«Non me l’ha mai detto.»Keira
spolverò la lapide e mi prese la mano.
«Mi sarebbe piaciuto che lo conoscessi: era un uomo così schivo, così solitario al termine
della sua vita. Da piccola, lo assillavo con domande a cui si sforzava sempre di rispondere.
Quando il problema era troppo difficile, si limitava a sorridere e mi portava a fare una passeggiata sulla spiaggia. Di sera mi alzavo in punta di piedi e lo trovavo seduto al tavolo di cucina,
immerso nell’enciclopedia. Il giorno dopo, a colazione, mi diceva: “Ieri mi hai fatto una
domanda e, siccome abbiamo dovuto cambiare argomento, mi sono dimenticato di darti la risposta, eccola…”.»Keira rabbrividì. Mi tolsi il cappotto e glielo appoggiai sulle spalle.
«Adrian, non mi hai mai raccontato nulla della tua infanzia.»«Perché sono schivo come
tuo padre, e poi non mi piace parlare di me.»«E’ necessario che tu faccia uno sforzo» disse
Keira. «Se dobbiamo percorrere un tratto di strada insieme, non voglio che ci siano segreti fra
noi.»Keira mi fece strada fino all’albergo. La sala da pranzo del Victory era ancora deserta; il
padrone ci fece accomodare a un tavolo vicino alla vetrata e servì un’abbondante colazione.
Mi sembrò di avvertire una certa complicità fra lui e Keira. Poi ci accompagnò in una piccola
camera al primo piano, affacciata sul porticciolo di Saint Mawes. Eravamo gli unici clienti
dell’albergo: anche in inverno il luogo aveva un fascino incredibile. Mi avvicinai alla finestra, la
marea era bassa e le imbarcazioni dei pescatori riposavano sulla spiaggia con lo scafo rivolto
verso l’alto. Un uomo camminava sulla battigia, tenendo per mano il suo bambino. Keira
venne ad appoggiarsi al parapetto, proprio al mio fianco.
«Anch’io sento la mancanza di mio padre» le confidai, «mi è sempre mancato, anche
quando era in vita. Non riuscivamo a comunicare; era un uomo molto in gamba, che però lavorava troppo per accorgersi che aveva un figlio. Se ne è ricordato troppo tardi: me n’ero appena andato di casa. Ci siamo solo sfiorati, senza tuttavia riuscire a incontrarci davvero. Ma
non posso lamentarmi, mia madre mi ha dato tutta la tenerezza e l’amore di cui era capace.»Keira mi guardò a lungo e chiese perché avessi voluto diventare astrofisico.
«Durante l’infanzia, quando vivevamo a Hydra, mia madre e io avevamo un rituale prima
di andare a letto. Ci mettevamo vicini alla finestra, come noi due in questo momento, e osservavamo il cielo. Mamma inventava i nomi da dare alle stelle. Una sera le ho chiesto com’era
nato il mondo, perché l’alba sorgeva ogni mattina, se la notte calava sempre. Mi ha guardato
e ha risposto: “Nell’universo ci sono tanti mondi diversi quante sono le vite; per me il mondo è
cominciato quando sei nato tu, nel momento in cui ti ho tenuto fra le braccia”. Fin da allora,
sogno di sapere dove comincia l’alba.»Keira si voltò e mi abbracciò.
«Sarai un padre meraviglioso.»
Londra
«Lunedì rivenderò l’auto, la rimborserò e comprerò un paio di stivali e al diavolo il tetto del
mio ufficio! Basta così! Non farò più nulla per convincerli a continuare. Non conti più sul mio
aiuto. Ogni mattina, quando mi guardo allo specchio, mi sento un lurido verme a tradire la fiducia di Adrian. Non insista, nulla di ciò che può dire mi farà cambiare idea. Avrei dovuto
mandarla a quel paese già da un pezzo. E se lei insisterà, spiffererò tutto, anche se in fin dei
conti non so quasi nulla di lei.»«Parla da solo, Walter?» chiese zia Elena.
«No, perché?»«Mah, mi è parso che stesse mormorando qualcosa.»Il semaforo diventò
rosso. Walter frenò e si voltò verso Elena.
«Questa sera devo fare una telefonata importante e ripetevo ciò che devo
dire.»«Qualcosa di grave?»«No, no, anzi, è proprio il contrario.»«Per caso mi nasconde qualcosa? Se nella sua vita c’è un’altra, una più giovane, per esempio, posso capirlo, ma preferirei saperlo, ecco tutto.»Walter si avvicinò a Elena.
«Non le nascondo assolutamente nulla, non mi permetterei mai di fare una cosa del
genere. Per me nessuna donna è più desiderabile di lei.» Subito dopo questa confessione,
arrossì e cominciò a balbettare.
«Mi piace molto la sua nuova pettinatura» disse zia Elena. «Mi sembra che sia scattato il
verde e sento dei clacson dietro di noi: dovrebbe ripartire. Sono così emozionata: visiteremo
Buckingham Palace! Crede che riusciremo a vedere la regina?»«Forse, se esce di casa» rispose Walter. «Non si può mai sapere!»
Saint Mawes
Avevamo dormito per gran parte della giornata. Quando aprimmo le imposte, il cielo stava
già assumendo i colori del crepuscolo. Avevamo fame. Keira conosceva una sala da tè non
lontana dall’albergo: ne approfittò per mostrarmi il paesino. Osservando le casette bianche
abbarbicate sulla collina, cominciai a fantasticare di trasferirmi lì un giorno o l’altro. Io che
avevo passato la vita a girare il mondo, alla fine mi sarei fermato in un piccolo villaggio della
Cornovaglia? Mi dispiaceva per la distanza che si era creata con Martyn, gli avrebbe fatto
sicuramente piacere venire a trovarmi ogni tanto. Saremmo andati a bere una birra al porto,
ricordando i vecchi tempi.
«A cosa pensi?» chiese Keira.
«A nulla di particolare» risposi.
«Sembravi assente. Ci siamo promessi “niente segreti”.»«Se proprio vuoi saperlo, mi
domandavo cosa faremo la settimana prossima, e quelle successive.»«Perché, hai idea di
cosa faremo domani?»«No!»«Io sì!»Keira si mise di fronte a me e inclinò la testa di lato.
Quando fa così, significa che ha qualcosa di importante da dirmi. Alcune persone assumono
un tono solenne; Keira, invece, inclina la testa di lato.
«Voglio chiarire la faccenda con Ivory, ma ho bisogno della tua complicità e di una piccola
bugia…»«Ovvero?»«Voglio fargli credere che siamo riusciti a lasciare la Russia con il terzo
frammento.»«A quale scopo? A cosa ci servirebbe?»«A fargli confessare dove si trova quello
scoperto in Amazzonia.»«Ci ha detto di non saperlo.»«Quel vecchietto ci ha raccontato molte
cose, ma ce ne ha tenute nascoste tante altre. Egorov non aveva tutti i torti quando accusava
Ivory di averci manipolati come due marionette. Se gli facciamo credere di essere in possesso di tre frammenti, non resisterà alla tentazione di completare il puzzle. Sono certa che
ne sappia molto di più di quanto voglia ammettere.»«Comincio a chiedermi se tu non sia
ancora più manipolatrice di lui.»«Lui è più bravo di me, ma non mi dispiacerebbe prendermi
una piccola rivincita.»«Va bene, immaginiamo di riuscire a convincerlo, e supponiamo che ci
sveli dove si trova il quarto frammento: mancherebbe sempre quello che si trova da qualche
parte sull’altopiano di Man-Pupu-Nyor, la mappa delle stelle rimarrebbe incompleta. Perché
allora darsi così tanta pena?»«Anche se a un puzzle manca un pezzo, ciò non significa che
non si possa risalire all’immagine completa. Quando scopriamo resti fossili, raramente sono
intatti, anzi, non lo sono quasi mai. Tuttavia, partendo da un numero sufficiente di ossa, indoviniamo quali sono gli elementi mancanti e riusciamo a ricostruire quasi interamente lo
scheletro. Quindi, aggiungendo il frammento di Ivory ai nostri due, forse riuscirai a capire
cosa dovrebbe rivelarci la mappa. In ogni caso, a meno che tu non abbia in mente di trascorrere il resto dei tuoi giorni in questo paesino dedicando le tue giornate alla pesca, non vedo
altre soluzioni.»«Che idea assurda.»Tornati in albergo, per prima cosa Keira chiamò sua
sorella. Rimasero al telefono a lungo. Keira non accennò nemmeno alla nostra avventura in
Russia, si limitò a informarla che ci trovavamo a Saint Mawes e che presto sarebbe andata a
trovarla a Parigi. Preferii lasciarle parlare da sole. Scesi al bar dell’albergo e, nell’attesa, ordinai una birra. Keira tornò da me un’ora dopo. Posai il giornale e le chiesi se fosse riuscita a
parlare con Ivory.
«Nega in toto di aver influenzato le nostre ricerche. Si è quasi offeso quando ho insinuato
che si è preso gioco di me fin dal primo giorno in cui ci siamo incontrati al museo. Sembrava
sincero, ma non sono certa che lo fosse davvero.»«Gli hai detto che abbiamo con noi il terzo
frammento russo?»Keira prese il mio bicchiere di birra e annuì, bevendolo tutto d’un fiato.
«Ti ha creduto?»«Ha smesso subito di rimproverarmi, non vedeva l’ora di darci un appuntamento.»«Come farai a sostenere la bugia quando ci troveremo a tu per tu?»«Gli ho
detto che abbiamo nascosto l’oggetto in un luogo sicuro: glielo mostreremo solo quando ci
avrà fornito maggiori informazioni sul frammento scoperto in Amazzonia.»«E lui cos’ha risposto?»«Che più o meno sa dove si trova, ma che non ha idea di come accedervi. Mi ha proposto di aiutarlo a risolvere un enigma.»«Quale genere di enigma?»«Non ha voluto parlarne
al telefono.»«Verrà qui?»«No, ci vedremo a Amsterdam fra quarantotto ore.»«Come faremo a
raggiungere Amsterdam? Sinceramente, non ho molta voglia di farmi arrestare alla dogana di
Heathrow…»«Lo so, gli ho raccontato cosa ci è successo; ha consigliato di prendere un traghetto diretto in Olanda. Secondo lui, provenendo dall’Inghilterra via nave, i controlli sono
meno stretti.»«E dove si prende un traghetto per Amsterdam?»«A Plymouth, a un’ora e
mezza di auto da qui.»«Ma noi non abbiamo un’auto.»«Ci sono sempre i pullman. Perché sei
così restio?»«Quanto dura la traversata»?
«Dodici ore.»«Proprio quello che temevo.»Keira assunse un’aria dispiaciuta e mi accarezz teneramente la mano.
«Cosa c’è?» le chiesi.
«Adire il vero» ammise, un po’ imbarazzata, «non sono veri e propri traghetti, si tratta più
che altro di cargo. La maggior parte accetta passeggeri a bordo, ma… traghetti o cargo, chissenefrega, giusto?»«Dal momento che c’è un ponte di prua in cui potrò morire di mal di mare
durante le dodici ore di traversata, giusto, chissenefrega!»Il pullman partiva alle sette del mattino. Il proprietario dell’albergo ci aveva preparato qualche panino per il viaggio. Prima di
salutarci, promise a Keira che all’arrivo della primavera sarebbe andato a pulire la tomba del
padre. Sperava di rivederci presto e, se lo avessimo avvertito con sufficiente anticipo, ci
avrebbe tenuto la stessa camera.
A Plymouth ci recammo alla capitaneria del porto. Il funzionario ci indicò un cargo battente
bandiera inglese che sarebbe salpato per Amsterdam un’ora dopo. Stavano finendo di caricarlo. Ci indirizzò al molo 5.
Il capitano del cargo pretese cento sterline a testa in contanti. Incassata la somma, ci invit a seguire il corridoio esterno fino al quadrato. Una cabina negli alloggi dell’equipaggio era
a nostra disposizione. Gli spiegai che preferivo sistemarmi sul ponte, di prua o di poppa, dove
sarei stato di minore intralcio.
«Come desidera, ma farà un freddo boia quando saremo al largo, e la traversata dura
venti ore.»Mi girai verso Keira.
«Non avevi parlato di dodici ore al massimo?»«Su una nave ultraveloce, forse» esclamò il
capitano scoppiando a ridere, «ma con queste vecchie carrette, si superano raramente i venti
nodi, e con vento a favore. Se soffre il mal di mare, resti all’esterno! Non vorrei che sporcasse
la mia nave! E si copra!»«Ti giuro che non lo sapevo» si scusò Keira incrociando le dita a mo’
di supplica.
Il cargo salpò. Il mare era calmo sulla Manica, ma la pioggia cadeva incessantemente.
Keira mi aveva tenuto compagnia per più di un’ora prima di tornare all’interno della nave,
faceva davvero troppo freddo. L’ufficiale in seconda ebbe pietà di me e incaricò il tenente di
servizio sulla plancia di portarmi una cerata e un paio di guanti. L’uomo ne approfittò per fumare una sigaretta sul ponte e, per distrarmi, si mise a chiacchierare.
Trenta uomini lavoravano a bordo della nave: ufficiali, meccanici, capo equipaggio, cuochi, mozzi. Il tenente mi spiegò che il carico dei cargo era un’operazione molto complessa da
cui dipendeva la sicurezza del viaggio. Negli anni Ottanta cento navi come questa erano colate a picco così velocemente che nessun marinaio era riuscito a sopravvivere. Seicentocinquanta uomini erano morti così in mare. Il pericolo maggiore è che il carico si muova. In tal
caso la nave sbanda, si sbilancia e scuffia. Gli escavatori che vedevo rimestare il grano nelle
stive lo facevano proprio per evitare un’eventualità del genere. Non era l’unico pericolo che ci
minacciava, continuò il tenente aspirando una boccata di fumo. Se l’acqua entrava dai grandi
boccaporti a causa di un’onda un po’ troppo alta, il peso aggiunto nelle stive poteva spezzare
in due lo scafo. Stessa storia: la nave sarebbe colata a picco in pochi minuti. Quella notte la
Manica era tranquilla, a meno di un colpo di vento improvviso non correvamo rischi del
genere. Il tenente di servizio alla plancia gettò il mozzicone di sigaretta fuori bordo e tornò al
lavoro, lasciandomi solo e pensieroso.
Keira venne più volte a trovarmi, pregandomi di raggiungerla in cabina. Mi portò dei panini
che rifiutai e un thermos di tè. Verso mezzanotte andò a dormire, dopo avermi ripetuto che
ero ridicolo a restare lì e che rischiavo di lasciarci la pelle. Stretto nella cerata, raggomitolato
ai piedi dell’albero maestro su cui erano accesi i fanali, mi assopii, cullato dal rumore della
prua che fendeva il mare.
Keira mi svegliò all’alba. Ero sdraiato con le braccia incrociate sul ponte di prua. Pur
avendo un po’ fame, l’appetito svanì non appena misi piede nella cambusa. Un odore di
pesce e di fritto rancido si mischiava a quello del caffè. Ebbi un conato di vomito e mi precipitai all’esterno.
«In lontananza si intravedono le coste olandesi» disse Keira raggiungendomi. «Il tuo calvario è quasi finito.»La sua valutazione si rivelò piuttosto ottimistica: ci vollero ancora quattro
ore prima che risuonasse la sirena da nebbia e che sentissi le macchine ridurre la velocità. La
nave fece rotta verso terra ed entrò poco dopo nel canale che risaliva fino al porto di Amsterdam.
Non appena il cargo attraccò, scendemmo. Un funzionario della dogana aspettava ai piedi
della scaletta: esaminò rapidamente i passaporti, frugò negli zaini, che contenevano solo alcuni oggetti acquistati in un negozietto di Saint Mawes, e ci autorizzò a passare.
«Dove andiamo?» chiesi a Keira.
«A fare una doccia!»«E poi?»Guardò l’orologio.
«L’appuntamento con Ivory è alle sei di sera in un bar…»Tirò fuori dalla tasca un foglietto.
«… di un palazzo che si affaccia su Piazza Dam.»
Amsterdam
Avevamo preso una camera al Grand Hotel Krasnapolsky. Non era l’albergo più economico della città, però aveva il pregio di trovarsi a cinquanta metri dal luogo in cui avevamo
appuntamento con Ivory. Nel tardo pomeriggio Keira e io andammo nella grande piazza, dove
ci mescolammo alla folla. C’era una lunga fila di visitatori in attesa davanti al museo di Madame Tussauds, alcuni turisti si rifocillavano sulla terrazza dell’Europub riscaldata da funghi a
gas, ma Ivory non era fra questi. Fui io a scorgerlo per primo. Ci raggiunse al nostro tavolo,
proprio accanto alla vetrina.
«Sono proprio contento di vedervi» disse sedendosi. «Che viaggio!»Keira lo squadrò gelida, e il vecchio professore sentì subito di essere in territorio ostile.
«Ce l’ha con me?» chiese con aria vagamente beffarda.
«Perché dovrei avercela con lei? Abbiamo rischiato di finire in un burrone, per poco non
annegavo in un fiume, ho trascorso alcune settimane in una prigione cinese, ci hanno sparato
su un treno e siamo stati espulsi dalla Russia da un commando militare che ha ucciso una
ventina di uomini sotto i nostri occhi. Le risparmio l’elenco delle condizioni estreme in cui abbiamo viaggiato negli ultimi mesi: aerei che cadevano a pezzi, macchine scassate, autobus
traballanti, senza dimenticare il montacarichi dove mi sono ritrovata incastrata fra due Samsonite. E mentre ci faceva girare come trottole a suo piacimento, lei se ne stava tranquillo nel
suo confortevole appartamento ad aspettare che svolgessimo tutto il lavoro sporco, vero? Ha
cominciato a fottermi il giorno in cui mi ha accolto nel suo ufficio al museo, o è successo poco
dopo?»«Keira» il tono di Ivory era diventato duro e autorevole, «abbiamo già discusso di
questa faccenda l’altro giorno al telefono. Lei si sbaglia! Forse non ho ancora avuto modo di
spiegarle tutto, ma non l’ho mai manipolata, anzi: non ho mai smesso di proteggerla. E lei che
ha deciso di intraprendere queste ricerche. Non ho dovuto convincerla, mi sono limitato a
segnalarle alcuni fatti. Quanto ai rischi che avete corso entrambi… sappia che sia per
ottenere il rimpatrio di Adrian dalla Cina, sia per fare uscire lei di prigione, anch’io me ne sono
assunti parecchi. E in tutto questo ho perso un carissimo amico, che ha pagato con la vita la
vostra liberazione.»«Quale amico?» domandò Keira.
«Il suo ufficio si trovava nel palazzo qui di fronte» rispose Ivory con voce triste. «E’ per
questo motivo che le ho chiesto di incontrarci qui. Avete veramente riportato dalla Russia un
terzo frammento?»«Do ut des» replicò Keira. «Su questo punto mi sembra di essere stata
chiara. Glielo mostrerò quando ci avrà detto tutto a proposito di quello ritrovato in Amazzonia.
Lei sa dove si trova e non provi a imbrogliarmi!»«E’ davanti a voi» sospirò Ivory.
«La smetta con gli indovinelli, professore, sta tirando troppo la corda. Non vedo nessun
frammento sul tavolo.»«Non sia sciocca, alzi gli occhi e guardi di fronte a lei.»I nostri sguardi
si spostarono sul palazzo che si ergeva dall’altro lato della piazza.
«E’ in quell’edificio?» chiese Keira.
«Sì, ho tutte le ragioni per crederlo, ma non so dove con precisione. Il mio amico, quello
che è morto, l’aveva in custodia, ma ha portato con sé nella tomba la chiave dell’ enigma che
ci permetterebbe di scoprire dove lo ha nascosto.»«Come fa a esserne così sicuro?» intervenni io.
Ivory si chinò verso la borsa che si trovava ai suoi piedi, l’aprì e ne tirò fuori un grosso
libro che appoggiò sul tavolo. La copertina attirò immediatamente la mia attenzione: sì trattava di un antico manuale di astronomia. Lo presi in mano e lo sfogliai.
«E’ un’opera magnifica.»«Sì» rispose Ivory, «ed è un’edizione originale. E’ un regalo di
quell’amico, a cui tengo molto; ma osservi in modo particolare la dedica che mi ha
scritto.»Tornai all’inizio del libro e lessi ad alta voce il messaggio scritto a penna sulla pagina
di guardia.
So che questa opera le piacerà: non manca nulla, poichéin essa si trova tutto, perfino la
testimonianza, della nostra amicizia.
Il suo fedele compagno di scacchi,Vackeers
«La soluzione dell’enigma è nascosta in queste poche righe. So che Vackeers cercava di
comunicarmi qualcosa, non è una frase casuale. Ma quale sia il significato recondito, proprio
non lo comprendo.»«Come potremmo aiutarla? Non abbiamo mai conosciuto Vackeers.»«Credetemi, è un vero peccato, avreste avuto molta stima di lui, era un uomo di rara intelligenza. Poiché questo è un trattato di astronomia, mi sono detto che forse lei, Adrian,
avrebbe potuto capirci qualcosa.»«Sono più di seicento pagine» gli feci notare. «Se devo trovarci qualcosa, non mi basteranno poche ore: avrò bisogno di alcuni giorni. Non ha nessun
altro indizio, nulla che possa guidarci?»«Seguitemi» disse Ivory alzandosi, «vi condurrò in un
luogo a cui non ha accesso nessuno, o meglio, quasi nessuno. Solo Vackeers, il suo segretario particolare e io ne conoscevamo l’esistenza. Vackeers sapeva che avevo scoperto il suo
nascondiglio, ma fìngeva di ignorarlo; suppongo che questa gentilezza fosse una testimonianza di amicizia da parte sua.»«Non è esattamente ciò che le dice nella dedica?» commentò
Keira.
«Sì» sospirò il professore. «Ed è proprio per questo che siamo qui.»Pagò il conto, poi lo
seguimmo sulla grande piazza e, siccome non prestava nessuna attenzione al traffico, Keira
per poco non fu travolta da un tram, che peraltro aveva suonato più volte la campanella.
L’agguantai per un pelo.
Ivory ci fece entrare in chiesa dalla porta laterale e attraversammo la sontuosa navata fino
al transetto. Stavo ammirando la tomba dell’ammiraglio de Ruyter, quando un uomo in abito
scuro ci raggiunse nell’absidiola.
«Grazie per essere venuto all’appuntamento» bisbigliò Ivory per non disturbare le poche
persone in preghiera.
«Lei era il suo unico amico, so che il signor Vackeers avrebbe voluto che rispondessi alla
sua richiesta. Conto sulla sua discrezione: andrei incontro a grossi problemi, se venissi
scoperto.»«Ci conti» rispose Ivory, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. «Vackeers la
teneva in alta considerazione. Quando mi parlava di lei, sentivo nella sua voce… come dire?,
un sentimento di amicizia. Sì, è proprio così: Vackeers le aveva concesso la sua amicizia.»«Davvero?» chiese l’uomo, in un tono commovente nella sua sincerità.
Prese una chiave dalla tasca, fece girare il lucchetto di una porticina situata in fondo alla
cappella e scendemmo una scala che si trovava subito dietro. Cinquanta gradini più in basso,
ci trovammo in un lungo corridoio.
«Questo sotterraneo attraversa la grande piazza e arriva direttamente all’interno del
Palazzo Reale di Piazza Dam» ci spiegò l’uomo. «L’ambiente è piuttosto buio e lo diventa
sempre di più a mano a mano che si procede, quindi non allontanatevi da me.»Sentivamo
solo l’eco dei nostri passi e più ci inoltrammo in quel passaggio, più la luce diminuiva, finché il
buio si fece totale.
«Cinquanta passi e rivedremo la luce» ci rassicurò la nostra guida, «seguite il canaletto di
scolo centrale. Lo so, non è molto gradevole, detesto percorrere questa via.»Un’altra scala si
profilò davanti a noi.
«Fate attenzione, i gradini sono scivolosi: aggrappatevi alla corda che corre lungo il
muro.»Una volta in cima, ci ritrovammo davanti a una porta di legno rinforzata da pesanti
sbarre di ferro. L’assistente di Vackeers ruotò due grosse manopole e un meccanismo liberò
la stanghetta del chiavistello. Tre mappe immense erano scolpite nel marmo bianco della
grande sala. Una rappresentava l’emisfero occidentale, la seconda quello orientale e la terza
era una mappa delle stelle di una precisione sbalorditiva. Mi avvicinai per osservarla più attentamente. Il mio sguardo passava da Cassiopea a Andromeda: ero felice come un bambino
e saltellare di galassia in galassia era piuttosto divertente. Keira tossicchiò per richiamarmi
all’ordine. Ivory e la nostra guida mi guardarono costernati.
«Da quella parte» indicò l’uomo in abito scuro.
Aprì un’altra porta e scendemmo un’ulteriore scala che conduceva nello scantinato del
palazzo. Ci vollero alcuni istanti per riabituarci alla penombra. Davanti a noi, una rete di
passerelle sovrastava l’acqua di un canale sotterraneo.
«Ci troviamo proprio sotto la grande sala» ci informò l’uomo. «Fate attenzione a dove
mettete i piedi: l’acqua del canale è gelida e non so quanto sia profonda.»Premette una
chiave in ferro battuto su un travetto di legno. Due tavole ruotarono, rivelando un passaggio
che permetteva di raggiungere il muro in fondo. Solo avvicinandosi un po’ di più era possibile
distinguere una porta celata nella pietra e invisibile al buio. La nostra guida ci fece accedere
in una stanza. Accese la luce. L’unico mobilio era costituito da un tavolo in metallo e da una
poltrona. Uno schermo piatto era appeso al muro, la tastiera di un computer era appoggiata
sul tavolo.
«Ecco, non posso fare altro per voi» disse il segretario di Vackeers. «Come vedete, qui
non c’è molto.»Keira accese il computer, lo schermo si illuminò.
«L’accesso è protetto» constatò Keira.
Ivory tirò fuori un foglietto dalla tasca e glielo porse.
«Provi con questa password. Ho approfittato di una partita di scacchi a casa sua per sottrargliela.»Keira inserì la sequenza alfanumerica e ottenemmo l’accesso al computer di Vackeers.
«E ora?» chiese.
«Non lo so» rispose Ivory. «Guardi cosa contiene il disco rigido, forse troveremo qualcosa
che ci indirizzerà verso il frammento.»«Il disco rigido è vuoto, vedo solo un programma di
comunicazione. Questo computer doveva servire solo come postazione per videoconferenze.
C’è una piccola telecamera sopra lo schermo.»«No, è impossibile» disse Ivory. «Cerchi
meglio, sono sicuro che la chiave dell’enigma si trova nel computer.»«Mi dispiace contraddirla, ma non c’è niente, nessun dato!»«Provi a ricopiare la dedica:
So che questa opera le piacerà: non manca nulla, poiché in essa si trova tutto, perfino la
testimonianza della nostra amicizia. Il suo fedele compagno di scacchi, Vackeers.»
Sullo schermo apparve comando sconosciuto.
«C’è qualcosa che non quadra» si accorse Keira. «Guardi, il disco è vuoto, eppure il
volume è metà pieno. C’è una porzione nascosta. Non conosce un’altra password?»«No, non
mi viene in mente nulla» rispose Ivory.
Keira guardò il vecchio professore, si chinò sulla tastiera e digitò ivory. Una nuova finestra
si aprì sullo schermo.
«Credo di aver trovato una testimonianza di amicizia, ma ci manca ancora un codice.»«Non ce l’ho» sospirò Ivory.
«Rifletta, pensi a qualcosa che vi legava.»«Non ne ho idea, avevamo talmente tante cose
in comune, come fare una scelta in così tanti ricordi? Non so, provi con “scacchi”.»Sullo
schermo apparve di nuovo la scritta comandosconosciuto.
«Provi ancora» lo incalzò Reira, «pensi a qualcosa di più sofisticato, una cosa a cui solo
voi due sareste potuti arrivare.»Ivory cominciò ad andare su e giù per la stanza, con le mani
dietro la schiena, borbottando a bassa voce.
«A dire il vero, c’è quella partita che abbiamo giocato un’infinità di volte…»«Quale
partita?» chiesi.
«Un celebre scontro che impegnò due grandi giocatori del diciottesimo secolo, Frangois-André Danican Philidor contro il capitano Smith. Philidor era forse il più grande giocatore e
maestro di scacchi della sua epoca. Pubblicò un libro, Analisi del gioco degli scacchi, che fu
considerato a lungo una pietra miliare in materia. Provi a digitare il suo nome.»L’accesso al
computer di Vackeers continuava a esserci vietato.
«Mi parli di questo Danican Philidor» lo esortò Keira.
«Prima di trasferirsi in Inghilterra, giocava in Francia al Café de La Régence: era il luogo
in cui si incontravano i migliori giocatori di scacchi.»Keira digitò régence e café de la régence,
ma senza successo.
«Era allievo di Monsieur de Kermeur» proseguì Ivory.
Keira digitò kermeur, ma invano.
Ancora una volta sullo schermo apparve la scritta di accesso negato. All’improvvisò Ivory
sollevò la testa.
«Philidor divenne celebre battendo il siriano Philippe Stamma… no, aspetti, la sua fama si
consolidò quando vinse un torneo in cui giocò con gli occhi bendati su tre tavoli contemporaneamente e contro tre avversari diversi. Realizzò questa impresa al Club degli scacchi di
James Street, a Londra.»Keira digitò st. James Street. Di nuovo nulla!
«Forse non stiamo seguendo la strada giusta, forse dovremmo interessarci al capitano
Smith? Oppure, non so… Quali sono le date di nascita e di morte di Philidor?»«Non ne sono
certissimo, a me e a Vackeers interessava soltanto la sua carriera di giocatore di scacchi.»«Quando ebbe luogo esattamente la partita fra il capitano Smith e il suo compare
Philidor?» chiesi.
«Il 13 marzo 1790.»Keira digitò la sequenza di numeri 13031790. Rimanemmo sbalorditi.
Un’antica mappa celeste apparve sullo schermo. A giudicare dal grado di precisione e dagli
errori che vi notai, doveva risalire al diciassettesimo o diciottesimo secolo.
«E’ incredibile!» esclamò Ivory.
«E’ un’incisione stupenda» osservò Keira, «ma non ci indica dove si trova ciò che stiamo
cercando.»L’uomo in abito scuro sollevò la testa.
«E’ la carta incisa nel salone del palazzo, al piano terra» disse avvicinandosi allo
schermo. «A parte qualche dettaglio, le assomiglia molto.»«Ne è sicuro?» domandai.
«Ci sono passato sopra migliaia di volte. E’ da dieci anni che sono al servizio del signor
Vackeers e lui mi dava sempre appuntamento nel suo ufficio al primo piano.»«In cosa consiste la differenza?» chiese Keira.
«Non sono esattamente gli stessi disegni. Le linee che collegano le stelle fra di loro non
sono collocate nello stesso modo.»«Quando fu costruito questo palazzo?» chiesi io.
«Fu terminato nel 1655» rispose l’uomo in abito scuro.
Keira digitò immediatamente le quattro cifre. La carta sullo schermo si mise a ruotare e
sentimmo un rumore sordo che sembrava provenire dal soffitto.
«Cosa c’è sopra di noi?» volle sapere Keira.
«La Burgerzaal, la grande sala in cui si trovano le carte incise sul lastrone di marmo» ci
spiegò l’uomo.
Tutti e quattro ci precipitammo verso la porta. Il segretario privato di Vackeers ci invitò alla
prudenza, mentre correvamo sul dedalo di travi situate a pochi centimetri dall’acqua del
canale sotterraneo. Cinque minuti dopo arrivammo nell’atrio del Palazzo Reale di Piazza
Dam. Keira si precipitò verso la carta incisa nel pavimento che rappresentava la volta celeste.
Stava eseguendo una lenta rotazione in senso antiorario. Dopo aver compiuto un semicer-
chio, si bloccò. Improvvisamente la parte centrale si sollevò di pochi centimetri rispetto al
lastrone. Keira infilò la mano nell’interstizio che si era creato e tirò fuori trionfante il terzo
frammento, simile ai due che avevamo.
«Vi prego» ci esortò l’uomo in abito scuro, «bisogna rimettere tutto com’era prima. Se
domani, alla riapertura del palazzo, dovessero trovare l’atrio in questo stato, correrei seri
problemi!»Ma la nostra guida non dovette preoccuparsi a lungo. Aveva appena finito di parlare che il coperchio della cavità segreta si abbassò, la mappa si mise a ruotare in senso inverso e ritornò nella posizione originale.
«E ora» intervenne Ivory, «dov’è il quarto frammento che avete riportato dalla Russia?»Keira e io ci scambiammo un’occhiata, entrambi eravamo molto imbarazzati.
«Non per fare il guastafeste» intervenne di nuovo l’uomo in abito scuro, «ma se vi fosse
possibile parlarne all’esterno del palazzo, mi sentirei più sollevato. Devo ancora chiudere
l’ufficio del signor Vackeers. La ronda dei guardiani comincerà fra poco, bisogna proprio che
ve ne andiate.»Ivory prese Keira per un braccio. «Ha ragione. Usciamo di qui. Abbiamo tutta
la notte davanti a noi per discuterne.»Di ritorno all’hotel Krasnapolsky, Ivory ci chiese di
seguirlo nella sua camera.
«Mi avete mentito, vero?» disse, chiudendo la porta dietro di sé. «Oh, per favore, non trattatemi da stupido, poco fa non mi è sfuggita la vostra aria smarrita. Non siete riusciti a riportare il quarto frammento dalla Russia.»«In effetti, no» risposi arrabbiato. «Eppure sappiamo dove si trova, eravamo addirittura a pochi metri dal recuperarlo, ma, purtroppo, nessuno ci ha avvisato di quello che ci aspettava. Ha evitato accuratamente di metterci in guardia
sull’accanimento di chi è alle nostre calcagna! Da quando ci ha spedito sulle tracce di questi
frammenti, abbiamo rischiato di essere uccisi, e ora non pretenda pure le nostre
scuse!»«Siete due irresponsabili! Venendo qui, mi avete fatto muovere una pedina che
avrebbe dovuto avanzare solo in caso di estrema necessità. Credete forse che la nostra visita
sia passata inosservata? Il computer in cui siamo penetrati appartiene a una rete sofisticatissima. In questo preciso istante, decine di tecnici informatici hanno sicuramente comunicato ai
loro superiori che il computer di Vackeers è stato acceso, e dubito che qualcuno crederà che
sia stato il suo fantasma!»«Ma, per una buona volta, vuole dirci chi sono queste persone?»
urlai in faccia a Ivory.
«Calmatevi, non è questo il momento per un regolamento di conti» intervenne Keira.
«Rinfacciarvi le cose non serve a nulla. Non le abbiamo mentito del tutto, sono stata io a convincere Adrian a raccontarle una piccola bugia. Spero che tre frammenti possano fornirci elementi sufficienti per procedere nella ricerca. Quindi, anziché accapigliarvi, cosa ne dite di
unirli?»Keira tolse il ciondolo, io presi il frammento che si trovava nella mia tasca, aprii il
fazzoletto in cui lo tenevo avvolto e li accostammo a quello che avevamo rinvenuto sotto il
lastrone del Palazzo Reale di Piazza Dam.
Fu un’immensa delusione per tutti e tre, perché non accadde nulla. La luce blu che
speravamo così tanto di vedere non apparve. Non solo, l’attrazione magnetica che fino ad allora aveva caratterizzato i primi due frammenti sembrava svanita. Erano diventati dei banali
cocci inerti.
«Ma che bel passo avanti!» sbraitò Ivory.
«Com’è possibile?» esclamò esterrefatta Keira.
«Credo che, a forza di manipolarli, abbiamo esaurito la loro energia» risposi.
Ivory si ritirò in camera sua sbattendo la porta, lasciandoci soli nel salottino.
Keira raccolse i frammenti e mi condusse fuori dalla suite.
«Ho fame» disse nel corridoio. «Ristorante o servizio in camera?»«Servizio in camera»
scelsi senza esitazioni.
Keira decise di rilassarsi concedendosi un bel bagno caldo, mentre io avevo disposto i
frammenti sulla piccola scrivania della nostra stanza e li osservavo, ponendomi dieci
domande al secondo. Bisognava forse esporli a una fonte di luce intensa per ricaricarli?
Quale energia avrebbe potuto ricreare la forza che li attirava uno verso l’altro? Sentivo che ci
sfuggiva qualcosa. Li esaminai più da vicino. Il frammento triangolare era simile agli altri due,
lo spessore assolutamente identico. Stavo rigirando l’oggetto in mano quando un dettaglio sul
bordo attirò la mia attenzione. Una scanalatura correva lungo la parte esterna, come un
solco, una tacca orizzontale e circolare. La regolarità non poteva essere accidentale. Avvicinai di nuovo i tre frammenti sul tavolo e ne studiai attentamente la sezione: la scanalatura
proseguiva in modo perfetto. Un’idea mi balenò nella mente: aprii il cassetto dello scrittoio e
trovai quello che cercavo, una matita nera e un bloc-notes. Strappai un foglio di carta, appoggiai sopra i frammenti e li unii. Cominciai a seguire il bordo esterno con la punta della matita.
Quando guardai il disegno tracciato sul foglio, scoprii i tre quarti della circonferenza di un cerchio perfetto.
Mi precipitai in bagno.
«Mettiti un accappatoio e vieni di là.»«Cos’è successo?» chiese Keira.
«Sbrigati!»Arrivò pochi istanti dopo, con un asciugamano annodato sotto le ascelle e uno
intorno ai capelli.
«Guarda» dissi, mostrandole il disegno.
«Riesci quasi a disegnare un cerchio: grandioso! E per questo che hai interrotto il mio
bagno rilassante?»Presi i frammenti e li misi al loro posto sul foglio.
«Non noti nulla?»«Sì, che ne manca uno.»«Questa in effetti è un’informazione importantissima. Finora non sapevamo con assoluta certezza da quanti frammenti fosse composta la
mappa, ma guardando questo foglio, l’hai detto tu stessa, la cosa diventa evidente: ne manca
solo uno, e non due, come sospettavamo prima.»«Però ne manca sempre uno, Adrian, e
quelli in nostro possesso non hanno più nessun potere. Posso tornare al mio bagno, prima
che l’acqua si freddi?»«Non vedi nient’altro?»«Hai intenzione di giocare ancora per molto agli
indovinelli? No, vedo solo un tratto di matita: dimmi cosa sfugge alla mia intelligenza, decisamente inferiore alla tua!»«Ciò che è interessante in una sfera armillare non è ciò che mostra,
ma quello che è nascosto e che noi dobbiamo sforzarci di indovinare.»«E questo cosa significa, in parole povere?
«Gli oggetti non reagiscono più perché manca un conduttore, il quinto pezzo per completare il puzzle! Questi frammenti erano montati su un anello metallico in grado di
trasmettere la corrente.»«Ma allora perché finora i primi due si sono sempre illuminati?»«Perché avevano accumulato energia grazie al fulmine. A forza di avvicinarli, abbiamo esaurito le loro riserve. Il funzionamento è elementare, segue il principio che si applica
a ogni forma di flusso, e cioè uno scambio di ioni positivi e ioni negativi.»«Ho bisogno che tu
mi fornisca maggiori informazioni» disse Keira, sedendosi accanto a me. «Non so nemmeno
cambiare una lampadina.»«Una corrente elettrica è uno spostamento di elettroni all’interno di
un materiale conduttore. Qualsiasi corrente, dalla più forte alla più debole - come quella che
percorre il tuo sistema nervoso -, non è altro che un trasferimento di elettroni. Se gli oggetti
non reagiscono più, è a causa della mancanza del conduttore. E questo conduttore è proprio
il quinto pezzo mancante di cui ti parlavo, un anello che molto probabilmente circondava
l’oggetto nella sua forma originaria. Dev’essersi rotto nel momento in cui si è deciso di dividerlo in quattro pezzi. Dobbiamo costruirne uno nuovo, in modo che si adatti perfettamente
alla circonferenza dei frammenti: in quel caso sono certo che riacquisteranno il loro potere luminescente.»«E come?»«Rivolgendoci a un restauratore di sfere armillari! Le più belle furono
create a Anversa e conosco una persona, a Parigi, in grado di fornirci informazioni.»«Ne parliamo a Ivory?» domandò Keira.
«Certo che sì. Ma soprattutto avremo bisogno della persona che ci ha accompagnati al
Palazzo Reale di Piazza Dam: potrà rivelarsi molto utile, visto che noi non parliamo nemmeno
una parola di olandese.»Dovetti convincere Keira a fare il primo passo. Chiamò Ivory e gli
comunicò che avevamo buone notizie. Il vecchio professore era già a letto, ma accettò di
alzarsi e ci pregò di raggiungerlo nella sua suite.
Gli esposi il mio ragionamento che, se non altro, sortì l’effetto di dissipare il suo cattivo
umore. Preferiva che non andassimo dall’antiquario del Marais, a cui avevo inizialmente
pensato di rivolgermi. Il tempo stringeva e temeva che presto la gente che ci cercava ci
avrebbe rintracciati. Accolse positivamente l’idea di recarsi a Anversa: più ci fossimo spostati,
più saremmo stati al sicuro. Telefonò al segretario di Vackeers in piena notte e gli chiese di
trovare un artigiano in grado di restaurare uno strumento astronomico molto antico.
Quest’ultimo promise di fare delle ricerche e disse che ci avrebbe contattato il giorno dopo.
«Non vorrei essere indiscreta» intervenne Keira, «ma questo signore ha un cognome, o
almeno un nome? Se dobbiamo rivederlo domani, gradirei sapere a chi mi sto rivolgendo.»«Per il momento accontentatevi di Wim. Fra qualche giorno, probabilmente si chiamer Amsterdam e non potremo più contare sul suo aiuto.»Il giorno successivo ritrovammo
l’uomo chiamato Wim. Indossava gli stessi abiti e cravatta del giorno precedente. Mentre
bevevamo un caffè nella hall dell’albergo ci spiegò che non era necessario che andassimo a
Anversa. A Amsterdam c’era un laboratorio di orologeria, il cui proprietario si diceva fosse discendente diretto di Erasmus Habermel.
«Chi è questo Erasmus Habermel?» chiese Keira.
«Il più famoso fabbricante di strumenti scientifici del sedicesimo secolo» rispose Ivory.
«Come fa a saperlo?» gli domandai.
«Nel caso le fosse sfuggito, sono professore; essere colto è indispensabile nel mio
mestiere.»«Sono proprio contenta che abbia tirato fuori l’argomento» disse Keira. «Cosa insegnava, per la precisione? Ce lo siamo chiesti più volte, Adrian e io.»«Sono lieto di sapere
che la mia carriera interessa a entrambi, ma non stavamo cercando un restauratore di antichi
strumenti astronomici? O preferite trascorrere la giornata parlando del mio curriculum vitae?
Dunque, cosa stavamo dicendo a proposito di Erasmus Habermel? Poiché Adrian sembra
stupito della mia erudizione, lasciamo a lui la parola: vediamo se sa la lezione!»«Gli strumenti
usciti dai laboratori di Habermel non hanno rivali sia per la qualità della fattura, sia per la
bellezza» ripresi, incenerendo Ivory con lo sguardo. «L’unica sfera armillare che sia attribuibile con certezza a lui si trova, se non erro, nelle collezioni dell’Assemblea Nazionale a
Parigi. Habermel era in contatto con i maggiori astronomi della sua epoca, Tycho Brahe e il
suo assistente Giovanni Keplero, e con il grande orologiaio svizzero Joos Burgi. Sembra inoltre che abbia lavorato con Gualterus Arsenius, il cui laboratorio si trovava a Louvain. Sono
fuggiti entrambi dalla città a causa della grande epidemia di peste nera del 1580. Le somiglianze stilistiche fra gli strumenti di Habermel e quelli di Arsenius sono così evidenti
che…»«Molto bene, l’alunno Adrian si merita un bel dieci, ma non siamo qui per ascoltarlo
mentre fa sfoggio della sua cultura. Ciò che ci interessa è lo stretto legame fra Habermel e
Arsenius. Grazie a Wim, ho scoperto che uno dei suoi discendenti diretti guarda caso abita a
Amsterdam; quindi, se non avete nulla in contrario, propongo di sospendere la lezione e andare a conoscerlo il prima possibile. Prendete i vostri cappotti, ci ritroviamo fra dieci minuti qui
nella hall.»Keira e io lasciammo Ivory diretti alla nostra camera.
«Come facevi a sapere tutte quelle cose su Habermel?» mi chiese Keira in ascensore.
«Ho letto un libro che ho comprato da un antiquario del Marais.»«Quando?»«Il giorno in
cui mi hai abbandonato per trascorrere una serata con il tuo Max e io ho dormito in albergo,
ricordi? Ho avuto a mia disposizione una notte intera!»Scendemmo tutti e quattro dal taxi in
una viuzza della città vecchia. In fondo a un vicolo cieco c’era la bottega di un orologiaio.
Dalla vetrina si vedeva un uomo anziano chino sul banco da lavoro, intento a riparare un pendolo. Il meccanismo che stava assemblando con estrema meticolosità era composto da un
numero impressionante di minuscoli pezzi, perfettamente allineati davanti a lui. Quando
spingemmo la porta, un campanello tintinnò. L’uomo sollevò il capo. Portava occhiali che
facevano apparire i suoi occhi enormi e gli conferivano l’aspetto di un buffo animale. Si percepiva l’odore di legno vecchio e polvere.
«In cosa posso esservi utile?» ci accolse l’orologiaio.
Wim gli spiegò che stavamo cercando qualcuno in grado di fabbricare un pezzo necessario per completare uno strumento molto antico.
«Che genere di pezzo?» chiese, togliendosi i bizzarri occhiali.
«Un cerchio, in ottone o in rame» risposi.
L’uomo si girò e si rivolse a me in un inglese dal forte accento germanico.
«Quale diametro?»«Non sono in grado di risponderle con precisione.»«Può mostrarmi lo
strumento antico che vorrebbe riparare?»Quando Keira si avvicinò al tavolo da lavoro, l’uomo
la fermò alzando le braccia al cielo. «Non da lì, per l’amor di Dio, così mette tutto in disordine!
Mi segua» disse, indicando il centro del laboratorio.
Non avevo mai visto così tanti strumenti astronomici. L’antiquario del Marais sarebbe diventato verde d’invidia. Astrolabi, sfere, teodoliti e sestanti erano appoggiati su alcuni scaffali,
in attesa di ritrovare la giovinezza perduta.
Keira posò i tre frammenti sul tavolo indicato dal vecchio artigiano, li unì e fece un passo
indietro.
«Che strano apparecchio» osservò il vecchio. «A cosa serve?»«E’ una sorta di astrolabio» spiegai, avvicinandomi a lui.
«Di questo colore e in questo materiale? Non ne ho mai visto uno simile. Sembrerebbe
onice, ma è evidente che non lo è. Chi l’avrebbe fabbricato?»«Non lo sappiamo.»«Siete
proprio dei clienti strani! Non sapete chi l’ha fabbricato, non sapete di cosa è fatto, ignorate
perfino a cosa serve, però volete ripararlo… ma come si fa a riparare un oggetto di cui non si
conosce il funzionamento?»«Vogliamo completarlo» intervenne Keira. «Se lo guarda da vicino, si accorgerà che c’è una scanalatura lungo il bordo di ogni pezzo; siamo sicuri che in
quel punto si inseriva un cerchio, probabilmente una lega conduttrice su cui erano montati i
frammenti.»«Può darsi» ammise l’uomo, che sembrava molto incuriosito. «Diamo
un’occhiata» aggiunse, sollevando la testa.
Una moltitudine di attrezzi dondolava appesa a lunghe corde che scendevano dal soffitto.
«Non so più dove mettere gli strumenti, quindi bisogna escogitare soluzioni nuove. Ah,
ecco quello che cercavo!»L’orologiaio afferrò un lungo compasso con asticelle telescopiche
unite da un arco graduato. Rimise gli occhiali e si chinò sui nostri frammenti.
«Singolare. Molto singolare.»«Cosa?» chiese Reira.
«Il diametro è 31,4115 centimetri.»«E cosa c’è di singolare?» replicò Keira.
«E’ il valore esatto del Pi greco moltiplicato per dieci. Pi greco è un numero trascendente:
lo sapeva, vero?» chiese l’orologiaio. «E’ il rapporto costante fra l’area di un cerchio e il quadrato del suo raggio, o, se preferisce, fra la circonferenza di un cerchio e il suo raggio.»«Probabilmente il giorno in cui l’hanno spiegato ero assente» confessò Keira.
«Non è grave» disse l’orologiaio, «ma non mi era mai capitato di trovare uno strumento
con un diametro preciso al millimetro. È molto ingegnoso. Non sapete proprio a cosa
serva?»«No!» gridai io, per frenare gli slanci di sincerità a cui Keira mi aveva abituato.
«Realizzare un cerchiaggio non è molto difficile, dovrei riuscire a fare il lavoro per duecento fiorini, equivalenti a…»L’uomo aprì un cassetto e tirò fuori una piccola calcolatrice.
«Novanta euro. Scusate, non riesco ad abituarmi alla nuova moneta.»«Quando sarà
pronto?» chiesi.
«Devo finire di rimontare il pendolo a cui lavoravo quando siete arrivati. Deve ritrovare il
suo posto sul frontone di una chiesa e il curato mi telefona tutti i giorni per sapere a che punto
sono. Ho anche tre orologi antichi da riparare, quindi potrei dedicarmi al vostro oggetto a fine
mese. Può andarvi bene?»«Mille fiorini se si mette all’opera subito» intervenne Ivory.
«Avete molta fretta, eh?» chiese l’artigiano.
«Sì» ribatté Ivory. «Raddoppio la somma se il cerchiaggio è pronto per stasera.»«No» rispose l’orologiaio, «mille fiorini sono più che sufficienti, e poi sono già in ritardo con il resto del
lavoro che un giorno in più o in meno non farà differenza… Tornate verso le
sei.»«Preferiremmo aspettare qui. Per lei ci sono problemi?»«Oh, santo cielo! Basta che non
mi disturbiate. Dopotutto, un po’ di compagnia male non fa.»Il vecchio artigiano si dedicò
subito ai nostri frammenti. Aprì i cassetti uno dopo l’altro e scelse un’asticella di ottone che
sembrò fare al caso suo. La studiò attentamente, ne confrontò la larghezza con lo spessore
del bordo dei frammenti e annunciò che era quella giusta. La appoggiò sul tavolo da lavoro e
cominciò a sagomarla. Con l’ausilio di una rotella scavò un solco su un lato e, quando rigirò
l’asticella, ci mostrò la scanalatura che si era formata su quello opposto. Tutti e tre eravamo
incantati dalla sua abilità. L’orologiaio verificò che combaciasse con la scanalatura dei frammenti, ripassò avanti e indietro la rotella per approfondire il solco e agguantò un calibro fissato a una catenella. Con un minuscolo martelletto, cominciò a curvare l’asticella di ottone
seguendo il contorno.
«Lei discende davvero da Habermel?» chiese Keira.
L’uomo sollevò la testa e le sorrise.
«Cambia qualcosa?»«No, ma tutti questi vecchi strumenti nel suo laboratorio…»«Se
vuole che termini il cerchiaggio, dovrebbe lasciarmi lavorare in pace. Sarà un piacere raccontarle dei miei antenati più tardi.»Restammo in un angolo, senza dire una parola, limitandoci
ad ammirare l’abilità con cui il vecchio artigiano eseguiva il suo lavoro. Rimase chino sul tavolo da lavoro per due ore, maneggiando gli strumenti con la precisione di un chirurgo. Poi, a
un tratto, fece girare il suo sgabello e si voltò verso di noi.
«Ecco, ci siamo. Volete avvicinarvi?»Ci chinammo sul tavolo da lavoro: il cerchio era perfetto. Lo lucidò su una spazzola metallica azionata da un motorino e poi lo pulì con un panno
morbido.
«Vediamo se gli oggetti ci entrano» disse, prendendo il primo frammento.
Poi collocò il secondo e infine il terzo.
«E’ evidente che ne manca uno, ma ho dato abbastanza tensione al cerchiaggio e i tre
frammenti non si staccheranno, a patto ovviamente di non bistrattarli.»«Sì, ne manca uno»
risposi, sforzandomi di celare la delusione.
Contrariamente a ciò che avevo sperato, non si era verificato nessun fenomeno elettrico.
«Peccato» continuò l’artigiano, «mi sarebbe proprio piaciuto vedere questo strumento al
completo. Si tratta di una specie di astrolabio, vero?»«Esatto» rispose Ivory, mentendo spudoratamente.
Il vecchio professore allungò cinquecento euro sul tavolo e ringraziò l’artigiano.
«Secondo voi, chi l’ha fabbricato?» chiese l’orologiaio. «Non ricordo di averne visto di
simili.»«Lei ha eseguito un lavoro eccellente» rispose Ivory. «Ha le mani d’oro, non mancherò
di raccomandarla agli amici che dovessero aver bisogno di far riparare un oggetto
prezioso.»«Purché non siano impazienti come lei, saranno i benvenuti» disse l’artigiano, riaccompagnandoci alla porta del laboratorio.
«E adesso» riprese Ivory quando fummo in strada, «avete qualche altra splendida idea
per farmi spendere soldi? Finora non ho visto nulla di trascendente!»«Ci serve un laser» annunciai. «Un laser abbastanza potente sarebbe in grado di fornire energia sufficiente a ricaricare i pezzi e così otterremo una nuova proiezione della carta. Magari ciò che apparirà attraverso il terzo frammento ci rivelerà qualcosa di nuovo.»«Un laser molto potente, niente meno.
E dove accidenti lo troviamo?» esclamò Ivory esasperato.
Wim, che non aveva aperto bocca per tutto il pomeriggio, fece un passo avanti.
«Ce n’è uno all’Università di Vrije, all’LCVU, a disposizione dei dipartimenti di fìsica, astronomia e chimica.»«LCVU?» chiese Ivory.
«Centro Laser dell’Università di Vrije» spiegò Wim, «creato dal professore Hogervorst. Ho
studiato in quell’università e sono stato un allievo del professor Hogervorst; ora è in pensione,
ma posso chiedergli un favore, in modo da poter accedere agli impianti del campus.»«Be’,
cosa sta aspettando?» chiese Ivory.
Wim tirò fuori un’agendina dalla tasca e sfogliò nervosamente le pagine.
«Non ho il suo numero, ma chiamerò l’università: sono certo che sanno come contattarlo.»Wim rimase circa mezz’ora al cellulare, facendo varie telefonate alla ricerca del professor Hogervorst. Ritornò da noi con aria depressa.
«Sono riuscito a ottenere il suo numero di casa, e non è stata un’impresa da poco.
Purtroppo il suo assistente non ha potuto passarmelo: Hogervorst attualmente è in Argentina,
dov’è stato invitato a un congresso. Tornerà solo all’inizio della settimana prossima.»Ciò che
ha funzionato una volta può funzionare anche una seconda. Mi tornò in mente lo
stratagemma adottato da Walter quando avevamo voluto accedere a equipaggiamenti analoghi a Creta: si era presentato a nome della Royal Academy. Presi il cellulare di Ivory e
chiamai subito il mio amico. Mi rispose con voce lugubre.
«Cosa succede?» gli chiesi.
«Niente!»«Ma figuriamoci, Walter, la conosco bene e dal tono della sua voce capisco che
c’è qualcosa che non va. Allora, di cosa si tratta?»«Ho detto niente.»«Mi permetto di insistere, non mi sembra del suo solito umore.»«Non mi avrà chiamato solo per parlare dei miei
stati d’animo?»«Walter, non faccia il bambino, lei è diverso dal solito. Ha bevuto?»«Se anche
fosse? Ho il diritto di fare ciò che voglio, no?»«Sono soltanto le sette di sera, dove si
trova?»«In ufficio!»«Si è ubriacato in ufficio?»«Non sono ubriaco, solo un po’ brillo, e che cavolo! Non cominci con le sue paternali, non sono dell’umore adatto.»«Non intendevo farle la
morale, ma non riaggancerò finché non mi avrà confidato cosa le è successo.»Cadde il silenzio; sentii il respiro di Walter nella cornetta e intuii all’improvviso un singhiozzo represso.
«Walter, sta piangendo?»«A lei cosa importa? Avrei preferito non averla mai incontrata.»Non sapevo cos’avesse ridotto Walter in uno stato del genere, ma l’ultimo commento
mi colpì profondamente. Nuovo silenzio, nuovo singhiozzo. Stavolta Walter si soffiò il naso rumorosamente.
«Mi dispiace, non volevo dire questo.»«Però l’ha detto. Cosa le ho fatto per farla arrabbiare così?»«Lei, sempre lei, nessun altro che lei! Walter di qua, Walter di là, tanto sono sicuro
che mi ha chiamato perché ha bisogno di un favore, e non per sapere come sto.»«Peccato
che sia quello che sto cercando di fare, inutilmente, da quando la conversazione è iniziata.»Terzo silenzio, Walter stava riflettendo.
«E’ vero» sospirò.
«Mi vuole dire cos’è che la fa stare così male?»Ivory, spazientito, mi rivolgeva ampi gesti.
Mi allontanai e lo lasciai in compagnia di Keira e Wim.
«Sua zia è ripartita per Hydra, e io non mi sono mai sentito così solo in vita mia» mi confid Walter con un altro singhiozzo.
«Il suo weekend è andato bene?» chiesi, augurandomi che fosse stato così.
«Non bene, benissimo. Ogni momento è stato idilliaco, un accordo perfetto.»«Non
capisco, dovrebbe essere felicissimo.»«Lei mi manca, Adrian, non può immaginare quanto.
Non avevo mai provato nulla di simile. Fino a quando non ho incontrato Elena, la mia vita è
stata un deserto, intervallato da alcune oasi che si rivelavano dei miraggi. Ma con lei è tutto
vero, tutto reale.»«Le prometto di non riferire a Elena che l’ha paragonata a un palmeto, rester un segreto fra noi due.»La battuta probabilmente fece sorridere il mio amico, sentivo che il
suo umore era già cambiato.
«Quando vi rivedrete?»«Non abbiamo stabilito nulla, sua zia era terribilmente turbata
mentre l’accompagnavo all’aeroporto. Credo che in autostrada stesse piangendo, ma sa
quanto è riservata, per tutto il tragitto ha guardato fuori dal finestrino. Sapevo che aveva il
cuore gonfio.»«Non avete stabilito una data in cui rivedervi?»«No, prima di prendere l’aereo
mi ha detto che la nostra storia non aveva senso. La sua vita è a Hydra accanto alla sorella, lì
ha la sua attività, mentre la mia si trova a Londra, in questo tetro ufficio dell’Accademia della
Scienze. Ci separano duemilacinquecentro chilometri.»«Walter! E poi quello maldestro sarei
io! Ma non ha capito il significato di queste parole?»«Sì, che desidera mettere la parola fine
alla nostra relazione e non vedermi mai più» balbettò Walter tra i singhiozzi.
Lasciai passare la tempesta e aspettai che si calmasse prima di parlare.
«Assolutamente no!» dovetti quasi urlare nella cornetta perché mi sentisse.
«Come, assolutamente no?»«E’ proprio il contrario. Le sue parole volevano dire: “Si
sbrighi a raggiungermi sulla mia isola, l’aspetterò ogni mattina all’arrivo della prima nave in
porto”.»Quarto silenzio, se avevo tenuto bene i conti.
«Ne è sicuro?» chiese Walter.
«Certo.»«Com’è possibile?»«E’ mia zia, non la sua, a quanto mi risulta!»«Adrian, cosa
devo fare?»«Rivendere l’auto e comprare un biglietto aereo per Hydra.»«Che idea geniale!»
esclamò Walter, che aveva ritrovato la solita allegria.
«Non c’è di che.»«Adesso riaggancio, torno a casa, vado a letto, punto la sveglia alle
sette e domani vado a vendere l’auto e subito dopo in un’agenzia viaggi.»«Prima però, Walter, avrei un piccolo favore da chiederle.»«Tutto ciò che vuole.»«Si ricorda della nostra gita a
Cipro?»«Come potrei dimenticarla! Che bella corsa! Quando ci ripenso mi viene ancora da
ridere, se avesse visto la sua faccia quando ho steso quel guardiano…»«Sono a Amsterdam
e ho bisogno di avere accesso allo stesso genere di impianti di Creta. Quelli che mi interess-
ano si trovano all’interno del campus dell’Università di Vrije. Pensa di potermi aiutare ad accedervi?»Ultimo silenzio. Walter stava di nuovo riflettendo.
«Mi richiami fra mezz’ora, vedo cosa posso fare.»Tornai vicino a Keira. Ivory propose di
andare a cena in albergo. Ringraziò Wim per il suo aiuto e lo congedò per la serata. Keira mi
chiese notizie di Walter, le risposi che stava bene, molto bene. Durante la cena, li lasciai per
salire in camera. La linea di Walter era occupata, composi più volte il numero; alla fine rispose.
«Domani, alle nove e mezza, avete appuntamento al 1081 di De Boelelaan, a Amsterdam.
Siate puntuali. Potrete utilizzare il laser per un’ora, non un minuto di più.»«Come le è riuscito
questo prodigio?»«Non ci crederà mai.»«E sarebbe?»«Ho contattato l’Università di Vrije e ho
chiesto di parlare con il responsabile di turno, spacciandomi per il presidente della nostra accademia. Gli ho detto che avevo bisogno di parlare urgentemente con il direttore generale:
che lo disturbasse a casa e gli dicesse di richiamarmi al più presto. Gli ho dato il numero della
Royal Academy, affinché potesse verificare che non si trattava di uno scherzo, e il numero del
mio interno, in modo che arrivasse direttamente a me. Poi è stato un gioco da ragazzi. Il direttore della facoltà di Amsterdam, un certo professor Ubach, mi ha contattato un quarto d’ora
dopo. L’ho ringraziato calorosamente per aver richiamato a un’ora così tarda e l’ho informato
che due dei nostri più eminenti scienziati si trovavano attualmente in Olanda, che erano sul
punto di completare delle ricerche da premio Nobel e che avevano bisogno di utilizzare il
laser per verificare alcuni parametri.»«E ha accettato di riceverci?»«Sì. Ho aggiunto che, in
cambio di questo piccolo favore, la Royal Academy avrebbe raddoppiato il numero di studenti
olandesi ammessi e lui ha accettato. Non dimentichi che stava parlando con il presidente
dell’Accademia delle Scienze di Sua Maestà! Mi sono divertito molto.»«Come ringraziarla,
Walter?»«Ringrazi piuttosto la bottiglia di bourbon che mi sono scolato stasera, senza quella
non sarei mai riuscito a sostenere così bene la parte! Adrian, faccia attenzione e ritorni
presto: mi manca molto.»«Lo stesso vale per me, Walter. In ogni caso, domani giocherò
l’ultima carta: se la mia idea non funzionerà, non ci resterà che gettare la spugna.»«Non è ciò
che le auguro, anche se non nego che talvolta mi capita di sperarlo.»Dopo aver riagganciato,
andai a dare la buona notizia a Keira e Ivory.
Londra
Ashton lasciò la tavola per rispondere alla telefonata che il suo maggiordomo era venuto
ad annunciargli. Si scusò con gli invitati e si ritirò nello studio.
«A che punto siamo?» chiese.
«Trascorrono la serata tutti e tre insieme in albergo. Ho messo di guardia un uomo nel
caso in cui uscissero di nuovo stanotte, ma non credo che lo faranno. Li raggiungerò domat-
tina e la richiamerò non appena ne saprò di più.»«Mi raccomando, non li perda di vista.»«Può
contare su di me.»«Non mi pento di aver appoggiato la sua candidatura: ha fatto un buon lavoro, per essere il primo giorno del suo nuovo incarico.»«Grazie, Sir Ashton.»«Non c’è di che,
Amsterdam. Buona serata.»Ashton uscì dallo studio e ritornò dai suoi invitati.
Università di Vrije, Amsterdam
Wim si era fatto trovare all’ingresso dell‘LCVU alle 9.25. Anche se tutti parlavano bene
l’inglese, avrebbe fatto da interprete in caso di necessità. Ci accolse il direttore dell’università
in persona. Fui sorpreso dall’età del professor Ubach: doveva avere appena una quarantina
d’anni. L’energica stretta di mano e la semplicità dell’uomo mi ispirarono subito fiducia.
Dall’inizio di questa avventura, non mi era capitato spesso di incontrare una persona così
disponibile; decisi quindi di confidargli lo scopo degli esperimenti che desideravo effettuare
con le attrezzature che ci sono state messe a disposizione dal suo centro. Gli spiegai senza
giri di parole come intendevo procedere e i risultati che speravo di ottenere.
«Parla sul serio?» chiese stupefatto. «Se non fosse stato raccomandato dal presidente
della Royal Academy in persona, devo confessarle che l’avrei presa per un esaltato. Se ciò
che dice è vero, capisco perché il presidente mi abbia parlato di premio Nobel! Mi segua, il
nostro laser si trova in fondo all’edificio.»Keira mi guardò incuriosita, io le feci cenno di tacere.
Imboccammo un lungo corridoio, il professore si muoveva all’interno dell’università senza
suscitare particolare attenzione fra i ricercatori e gli studenti che incrociava lungo la strada.
«Siamo arrivati» disse, digitando un codice di accesso su una tastiera situata vicino a una
doppia porta. «Vista la straordinaria importanza delle vostre ricerche, preferisco che sia un
gruppo ristretto ad agire: sarò io stesso ad azionare il laser.»Il laboratorio era talmente moderno da far impallidire d’invidia tutti i centri di ricerca europei e l’apparecchio che avremmo
utilizzato era gigantesco. Ne immaginavo la potenza ed ero impaziente di vederlo all’opera.
Una rotaia si snodava nell’asse del puntatore laser. Keira mi aiutò a sistemare il cerchio
che teneva insieme i frammenti.
«Qual è la larghezza del fascio di luce di cui ha bisogno?» chiese Ubach.
«Pi greco per dieci» risposi.
Il professore si chinò sul banco e inserì il valore appena detto. Ivory rimaneva vicino a lui.
Il laser ruotò lentamente.
«Quale intensità?»«La più alta possibile.»«Il vostro oggetto si scioglierà in un istante: non
conosco nessun materiale capace di resistere a una carica massima.»«Si fidi di me.»«Sai
quello che fai?» bisbigliò Keira.
«Lo spero.»«Per favore, mettetevi dietro i vetri di protezione» ci raccomandò Ubach.
Il laser cominciò a crepitare, l’energia fornita dagli elettroni stimolava gli atomi di gas contenuti nel tubo di vetro. I fotoni entrarono in risonanza fra i due specchi situati alle estremità
del tubo. Il processo si amplificò, ormai era questione di secondi prima che il fascio di luce diventasse così potente da attraversare la parete semitrasparente dello specchio: tra qualche
istante avrei saputo se mi ero sbagliato.
«Siete pronti?» chiese Ubach, impaziente quanto noi.
«Sì» rispose Ivory, «non siamo mai stati così pronti. Non ha idea di quanto abbiamo atteso questo momento.»«Aspetti!» urlai. «Ha una macchina fotografica?»«Abbiamo molto di
più» rispose Ubach. «Sei telecamere registrano a centottanta gradi ciò che succede davanti
al laser non appena viene azionato. Possiamo procedere?»Ubach spinse una leva e un fascio di intensità eccezionale si sprigionò dall’apparecchio, colpendo in pieno i tre frammenti. Il
cerchio cominciò a fondere, i tre frammenti assunsero un colore azzurro, un azzurro ancora
più intenso delle volte precedenti. La superficie cominciò a scintillare, la luminescenza
aumentava di secondo in secondo e all’improvviso miliardi di punti si stagliarono sulla parete
di fronte al laser. Ogni persona presente nel laboratorio riconobbe l’immensità della volta
celeste che ci abbagliava.
A differenza della prima proiezione di cui eravamo stati testimoni, adesso l’universo
cominciò a muoversi a spirale, ripiegandosi lentamente su se stesso. Sopra il loro sostegno, i
frammenti ruotavano a tutta velocità all’interno dell’anello.
«E’ meraviglioso» mormorò Ubach.
«Molto, molto di più» disse Ivory con le lacrime agli occhi.
«Di che cosa si tratta?» chiese il direttore dell’università.
«Sono i primissimi istanti di vita dell’universo» risposi.
Ma le sorprese non erano finite. L’intensità luminosa dei frammenti raddoppiò, la velocità
di rotazione aumentava sempre di più. La volta celeste, che aveva continuato a piegarsi su se
stessa, si bloccò per un breve istante. Avevo sperato che fosse arrivata a fine corsa, rivelandoci l’immagine del bagliore della prima stella, del momento della nascita dello spazio-tempo
che avevo così tanto sperato di scoprire, ma ciò che vidi era di tutt’altra natura. L’immagine
proiettata si ingrandiva a vista d’occhio. Alcune stelle scomparivano, come spinte verso gli
angoli del muro. L’effetto visivo era sorprendente, avevamo l’impressione di viaggiare attraverso le galassie e ci stavamo avvicinando a una di esse, che riconobbi subito.
«Siamo entrati nella nostra Via Lattea» spiegai ai miei vicini, «e il viaggio prosegue.»«Verso dove?» chiese Keira stupita.
«Ancora non lo so.»Sopra il loro sostegno, i frammenti giravano sempre più velocemente,
emettendo un sibilo stridente. La stella verso la quale la proiezione si focalizzava diventava
sempre più grande. Il nostro Sole comparve al centro, poi fu la volta di Mercurio.
La rapidità con cui i frammenti si muovevano era impressionante; il cerchio che li teneva
insieme si era fuso all’inizio del bombardamento laser, ma ormai sembrava che nulla potesse
più separarli. Il colore cambiò, dall’azzurro virarono all’indaco. Il mio sguardo tornò verso la
parete. Procedevamo verso la Terra, di cui si riconoscevano già gli oceani e tre continenti. La
proiezione si concentrò sull’Africa, che si ingrandiva a vista d’occhio. La discesa verso la
parte orientale del continente africano era vertiginosa. Il rumore stridente emesso dai frammenti rotanti era a malapena sopportabile, Ivory si tappò le orecchie. Ubach teneva le mani
sulla consolle, pronto a fermare tutto. Kenya, Uganda, Sudan, Eritrea e Somalia sparirono dal
campo mentre ci dirigevamo verso l’Etiopia. La rotazione dei frammenti rallentò e l’immagine
ne guadagnò in definizione.
«Non posso lasciar funzionare il laser a questa potenza» pregò Ubach, «dobbiamo fermarci!»«No!» urlò Keira. «Guardate!»Un piccolissimo punto rosso apparve al centro
dell’immagine. Più ci avvicinavamo, più aumentava di intensità.
«Tutto ciò che vediamo è filmato?» chiesi.
«Tutto» ci rassicurò Ubach. «E ora posso spegnere?»«Aspetti ancora un attimo» lo pregò
Keira.
Il sibilo cessò, i frammenti si fermarono: il punto, di un rosso folgorante, era diventato
fìsso. Il contorno dell’immagine si era stabilizzato. Ubach non chiese la nostro opinione: abbass la leva e il fascio del laser si spense. La proiezione rimase sul muro ancora per qualche
istante e poi scomparve.
Eravamo tutti sbalorditi, Ubach per primo. Ivory non aveva più parole. A guardarlo così,
avevo l’impressione che fosse invecchiato all’improvviso: non che il viso a cui ero abituato
fosse particolarmente giovane, ma i suoi lineamenti erano cambiati.
«E’ da trent’anni che sogno questo momento» mi confessò, «si rende conto? Se sapesse
tutti i sacrifici che ho fatto per radunare questi frammenti, ho perfino perso il mio unico amico.
E’ strano, dovrei sentirmi sollevato, come liberato da un peso enorme, ma non è così. Vorrei
tanto avere qualche anno di meno, vivere ancora abbastanza da arrivare in fondo a questa
avventura, sapere cosa rappresenta il punto rosso che abbiamo visto, cosa ci rivela. Sa che è
la prima volta in assoluto nella vita che ho paura di morire?»Andò a sedersi e sospirò, senza
aspettare risposta. Mi voltai verso Keira: era in piedi con il viso rivolto al muro e fissava la superficie tornata bianca.
«Cosa fai?» le chiesi.
«Cerco di ricordare, di fissare nella mente i momenti che abbiamo appena vissuto. E’
proprio l’Etiopia quella che è apparsa. Non ho riconosciuto i rilievi di questa zona a me così
familiare, ma non ho sognato, era proprio l’Etiopia. Hai visto anche tu quello che ho visto io,
vero?»«Sì, l’ultima immagine era centrata sul corno d’Africa. Sei riuscita a identificare il luogo
indicato da quel punto?»«Non ne sono del tutto sicura, ma credo di essermi fatta un’idea. Tuttavia non so se sono i miei desideri a parlare, o se si tratti della realtà.»«Lo scopriremo molto
presto» dissi, voltandomi verso Ubach. «Dov’è Wim?» chiesi a Keira.
«Credo che l’emozione sia stata troppo forte per lui; non si sentiva molto bene, è uscito a
prendere una boccata d’aria.»«Può proiettarci le ultime immagini riprese dalle telecamere?»
chiesi a Ubach.
«Sì, certo» rispose alzandosi. «Devo solo accendere il proiettore che, accidenti a lui, funziona solo quando gli pare.»
Londra
«A che punto siamo?»«Ciò a cui ho appena assistito è semplicemente incredibile» rispose
Wim.
Amsterdam fece una descrizione minuziosa a Sir Ashton degli eventi che si erano svolti
nella sala del laser dell’Università di Vrije. Raccontò l’intera scena nei minimi dettagli.
«Le invio degli uomini. Dobbiamo porre fine a tutto questo prima che sia troppo
tardi.»«No, mi dispiace: finché si trovano in territorio olandese, sono sotto la mia responsabilit. Interverrò io a tempo debito.»«Lei è alle prime armi e non ha il diritto di rivolgersi a me con
questo tono.»«Sir Ashton, non insista. Intendo adempiere coscenziosamente ai miei doveri,
ma voglio far valere i miei diritti. Conosce la regola: uniti, ma indipendenti! A casa propria
ognuno conduce il gioco come meglio crede.»«L’avverto: nel momento stesso in cui varcheranno le frontiere del suo paese, metterò in atto tutte le misure in mio potere per fermarli.»«Suppongo che si guarderà bene dall’informare il consiglio. Le sono debitore: non la
denuncerò, ma nemmeno la coprirò. Come mi ha fatto notare, sono ancora alle prime armi e
non posso rischiare di compromettermi.»«Non le chiedevo tanto» rispose seccamente
Ashton.
«Non giochi all’apprendista stregone con questi scienziati, Amsterdam: non può immaginare quali sarebbero le conseguenze se raggiungessero il loro obiettivo, e si sono già spinti fin
troppo oltre. Visto che li ha sotto mano, come intende agire?»«Farò confiscare il materiale e li
farò estradare nei rispettivi Paesi.»«E Ivory? E’ con loro, vero?»«Sì, gliel’ho già detto. Cosa
vuole che faccia? Non abbiamo nulla da contestargli, è libero di muoversi come meglio
crede.»«Ho un piccolo favore da chiederle, lo consideri un modo per ringraziarmi per averle
fatto ottenere il posto che sembra così felice di occupare.»
Università di Vrije, Amsterdam
Ubach aveva acceso il proiettore appeso al soffitto. Le immagini riprese in alta definizione
dalle telecamere erano state salvate sul server dell’università: ci sarebbero volute diverse ore
prima che il programma di decompressione finisse di elaborarle. Keira e io eravamo interessati soprattutto all’ultima sequenza a cui avevamo assistito. Ubach digitò sulla tastiera e
inviò una serie d’istruzioni al calcolatore centrale. Mentre aspettavamo, i processori grafici eseguivano i loro algoritmi.
«Abbiate pazienza» si scusò Ubach, «ormai non dovrebbe mancare molto. Il sistema è un
po’ lento al mattino, perché non siamo gli unici a utilizzarlo.»Finalmente la lente del proiettore
cominciò ad animarsi e cominciarono a scorrere sul muro gli ultimi sette secondi del processo
svelato dai frammenti.
«Si fermi, per favore» chiese Keira a Ubach.
L’immagine si bloccò. Mi aspettavo che avrebbe perso nitidezza, come succede ogni volta
che si procede a un fermo immagine, ma non fu così. Capii perché avevamo dovuto aspettare
così tanto per visionare gli ultimi sette secondi. La risoluzione era tale che la quantità di informazioni da elaborare per ogni immagine doveva essere infinita. Lungi dal condividere le
mie preoccupazioni tecniche, Keira si avvicinò all’immagine e la osservò attentamente.
«Riconosco questi anfratti, questa linea serpeggiante, questa forma che ricorda una testa,
la linea retta, poi quattro anse: è una sezione del fiume Omo, ne sono quasi certa, ma c’è
qualcosa che non mi torna, in quel punto» disse, indicando il pallino rosso.
«Cosa c’è che non va?» intervenne Ubach.
«Se si tratta davvero dell’area che ho in mente, dovrebbe esserci un lago, sulla destra
dell’immagine.»«Riconosci quel luogo?» chiesi a Keira.
«Certo che lo riconosco, visto che ci ho passato tre anni della mia vita! Il luogo indicato
dal puntino rosso corrisponde a una minuscola pianura, circondata da una radura ai margini
del fiume Omo. Stavamo quasi per intraprendere degli scavi proprio lì, ma la zona era troppo
a nord, troppo distante dal triangolo di Ilemi. Ciò che ti ho appena detto non ha senso:
dovrebbe esserci il lago Dipa.»«Keira, i frammenti che abbiamo trovato non compongono
soltanto una mappa. Insieme, formano un disco che contiene probabilmente miliardi di informazioni, anche se, purtroppo per noi, il frammento mancante conteneva la sequenza che più mi
interessava… Questo oggetto ha proiettato una rappresentazione dell’evoluzione del cosmo a
partire dai primissimi istanti di vita, fino all’epoca in cui fu realizzato. In tempi così remoti, il
lago Dipa forse non esisteva ancora.»Ivory ci raggiunse e si avvicinò alla parete del laboratorio, esaminando attentamente l’immagine.
«Adrian ha ragione, ora dobbiamo ottenere delle coordinate precise. Nel vostro server
avete una mappa dettagliata dell’Etiopia?» chiese a Ubach.
«Possiamo scaricarla da Internet.»«Per favore la cerchi, e vediamo se si può sovrapporla
a questa immagine.»Ubach tornò dietro la consolle. Scaricò la mappa del corno d’Africa e
fece ciò che Ivory gli aveva chiesto.
«A parte una leggera deviazione del letto del fiume, la corrispondenza è quasi perfetta!»
constatò. «Quali sono le coordinate di quel punto?»«5° 10’ 2,67” di latitudine nord, 36° 10’
1,74” di longitudine est.»Ivory si voltò verso di noi. «Sapete cosa vi resta da fare.»«Dovete
lasciare libero il laboratorio» ci informò Ubach, «ho già ritardato il lavoro di due ricercatori per
accontentarvi. Non me ne pento, ma non potete occupare ancora questa sala.»Wim entrò nel
laboratorio proprio nel momento in cui Ubach aveva spento tutto.
«Mi sono perso qualcosa?
«No» rispose Ivory, «stavamo per andare via.»Mentre Ubach ci accompagnava nel suo
ufficio, Ivory non si sentì bene. Lo colse una specie di vertigine. Ubach voleva chiamare un
medico, ma Ivory lo pregò di lasciar perdere: non c’era motivo di preoccuparsi, assicurò, era
solo un po’ di stanchezza. Ci chiese la cortesia di riaccompagnarlo in albergo, dove si
sarebbe riposato. Wim propose subito di condurci in auto in hotel.
Di ritorno al Krasnapolsky, Ivory lo ringraziò e lo invitò per un tè nel tardo pomeriggio. Wim
accettò l’invito e ci salutò. Accompagnammo Ivory fino alla sua camera, sostenendolo. Keira
spiegò il copriletto e io lo aiutai a stendersi. Ivory incrociò le mani sul petto e sospirò.
«Grazie.»«Mi lasci chiamare un medico…»«No, ma potreste farmi un altro favore» disse
Ivory.
«Sì, certo» rispose Keira.
«Vada alla finestra, scosti leggermente le tende e mi dica se Wim se n’è andato davvero.»Keira mi guardò incuriosita e obbedì.
«Sì, non c’è nessuno davanti all’albergo.»«E la Mercedes nera con i due energumeni
all’interno, parcheggiata proprio di fronte, è ancora lì?»«In effetti c’è un’auto nera, ma da qui
non riesco a vederne l’interno.»«Ci sono, mi creda!» replicò Ivory alzandosi di scatto.
«Dovrebbe restare sdraiato…»«Non ho creduto neppure per un istante al malessere di
Wim poco fa e dubito che lui abbia creduto al mio, quindi abbiamo pochissimo tempo.»«Ma,
Wim non era dalla nostra parte?» domandai sorpreso.
«Lo è stato finché non è stato promosso. Stamattina non parlavate più all’ex assistente di
Vackeers, ma all’uomo che lo ha sostituito: Wim è il nuovo Amsterdam. Non ho tempo per
spiegarvi tutto. Filate in camera vostra e preparate i bagagli, mentre io mi occupo dei vostri
biglietti. Tornate qui quando sarete pronti, ma sbrigatevi: dovete lasciare la città prima che
scatti la trappola, se non è già troppo tardi.»«Ma dove andremo?» chiesi.
«E dove vuole andare? In Etiopia, ovviamente.»«Non se ne parla nemmeno, è troppo
pericoloso! Se questi uomini, di cui lei continua a non voler dirci nulla, sono alle nostre calcagna, non metterò la vita di Keira di nuovo in pericolo, e non provi a convincermi del contrario!»«A che ora parte l’aereo?» fu la risposta di Keira.
«Noi non partiremo» insistetti.
«Ogni promessa è debito: se speravi che me ne fossi dimenticata, ti sei sbagliato. Su,
sbrighiamoci!»Un’ora dopo Ivory ci fece uscire attraverso le cucine dell’albergo.
«Dopo aver superato il controllo dei passaporti, fate un giro tra i negozi, separatamente.
Non credo che Wim sia abbastanza intelligente da intuire il tiro mancino che gli stiamo
giocando, ma non si sa mai. Promettete di darmi vostre notizie il prima possibile.»Ivory mi
consegnò una busta e mi fece giurare di non aprirla prima del decollo. Mentre il taxi si allontanava, ci salutò con un cenno amichevole.
L’imbarco all’aeroporto di Schiphol si svolse senza intoppi. Ignorando i consigli di Ivory,
sedemmo al tavolino di un bar per trascorrere un po’ di tempo insieme da soli. Ne avevo approfittato per raccontare a Keira la breve conversazione avuta con il professor Ubach. Al momento di salutarci, gli avevo chiesto un altro piccolo favore: in cambio della promessa di tenerlo aggiornato sui progressi delle nostre ricerche, aveva accettato di mantenere il massimo
riserbo fino alla pubblicazione di un resoconto sul nostro lavoro. Avrebbe conservato le registrazioni effettuate nel suo laboratorio e ne avrebbe spedito una copia su DVD a Walter. Prima
di imbarcarci sul volo, avevo avvisato Walter di conservare sotto chiave il pacchetto che
avrebbe ricevuto di lì a breve da Amsterdam, e di non aprirlo prima del nostro ritorno
dall’Etiopia. Avevo anche precisato che, se ci fosse successo qualcosa, avrebbe potuto
disporne come meglio credeva. Walter si era rifiutato di ascoltare le ultime raccomandazioni:
neanche a parlarne che ci succedesse qualcosa, aveva detto riagganciando furiosamente.
Durante il volo Keira fu colta da un rimorso: non si era fatta viva con la sorella! Le promisi
che l’avremmo chiamata appena atterrati in Etiopia.
Addis Abeba
L’aeroporto di Addis Abeba brulicava di gente. Sbrigate le formalità doganali, cercai il
desk della piccola compagnia aerea privata di cui mi ero già servito in precedenza. Un pilota
accettò di accompagnarci a Jinka per seicento dollari. Keira mi guardò sbigottita.
«E’ una pazzia, andiamoci in auto! Sei al verde, Adrian.»«Mentre esalava l’ultimo respiro
in una camera d’albergo di Parigi, Oscar Wilde disse: Muoio al di sopra delle mie possibilità.
Poiché a breve saremo costretti a fare l’elemosina, lasciami avere la sua stessa dignità!»Tirai
fuori dalla tasca una busta contenente una mazzetta di biglietti verdi.
«Da dove arriva questo denaro?» chiese Keira.
«Un regalo di Ivory: mi ha dato questa busta poco prima che lo salutassimo.»«E tu l’hai
accettata?»«Mi aveva fatto promettere di aprirla solo dopo il decollo; a diecimila metri di altitudine, non potevo certo buttarla dal finestrino!»Lasciammo Addis Abeba a bordo di un Piper.
L’apparecchio non volava molto in alto. Il pilota ci mostrò un branco di elefanti che migrava
verso nord, poco oltre alcune giraffe correvano in mezzo a una vasta prateria. Un’ora dopo
l’aereo cominciò la discesa. La corta pista del campo di atterraggio di Jinka comparve davanti
a noi. Le ruote uscirono dalla carlinga e rimbalzarono sul terreno, l’aereo si bloccò e compì un
mezzo giro all’estremità della pista. Attraverso l’oblò, vidi uno stuolo di bambini precipitarsi
verso di noi. Seduto su un vecchio fusto di metallo, un ragazzino un po’ più grande degli altri
osservava il Piper dirigersi verso la capanna di paglia che fungeva da terminal aeroportuale.
«Mi sembra di riconoscere quell’ometto» dissi a Keira, indicandolo con il dito. «E’ lui che
mi ha aiutato a ritrovarti il giorno in cui sono venuto a cercarti.»Keira si chinò verso l’oblò.
Subito vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime.
«Invece io sono sicura di riconoscerlo.»Il pilota fermò le eliche. Keira scese per prima. Si
fece strada tra i bambini che strillavano e le giravano intorno, impedendole di procedere. Il
ragazzo saltò a terra e se ne andò.
«Harry!» urlò Keira. «Harry, sono io!»Harry si voltò e si immobilizzò. Keira si precipitò
verso di lui, passò la mano fra i suoi capelli arruffati e lo strinse forte a sé.
«Hai visto? Ho mantenuto la promessa!»Harry sollevò la testa. «Ce ne hai messo di
tempo!»«Ho fatto del mio meglio» rispose lei. «L’importante è che adesso sono qui.»«I tuoi
amici hanno ricostruito tutto, è ancora più grande di quello che c’era prima della tempesta.
Questa volta ti fermi?»«Non lo so, Harry, proprio non lo so.»«E allora quando te ne
vai?»«Sono appena arrivata e vuoi già che me ne vada?»Il ragazzo si liberò dall’abbraccio di
Keira e si allontanò. Esitai un momento, poi lo rincorsi e lo raggiunsi.
«Ascoltami bene, ragazzino, non è passato un giorno senza che lei parlasse di te, ogni
notte si è addormentata pensando a te: non credi che meriterebbe un’accoglienza un po’ più
calorosa?»«Adesso lei sta con te, quindi perché è tornata? Per me o per frugare ancora nella
terra? Tornatevene a casa, io ho da fare.»«Harry, sei libero di non crederci, ma Keira ti vuole
bene, davvero. Ti vuole bene, se sapessi quanto le sei mancato! Non voltarle le spalle. Te lo
chiedo da uomo a uomo, non respingerla.»«Lascialo stare» mormorò Keira raggiungendoci.
«Fai quello che vuoi, Harry, ti capisco. Anche se sei arrabbiato con me, l’affetto che provo per
te non cambierà mai.»Keira raccolse lo zaino e andò verso la capanna di paglia, senza voltarsi. Harry esitò un istante e poi la raggiunse di corsa.
«Dove vai?»«Non lo so, devo raggiungere Eric e gli altri, ho bisogno del loro aiuto.»Il
ragazzo affondò le mani in tasca e diede un calcio a un sassolino.
«Eh già, è chiaro.»«Cosa è chiaro?»«Che non puoi fare a meno di me.»«Questo, carissimo, lo so dal giorno in cui ti ho incontrato.»«Vuoi che ti aiuti ad andare laggiù, vero?»Keira
si inginocchiò e lo guardò dritto negli occhi.
«Vorrei innanzitutto che facessimo la pace» disse allargando le braccia.
Harry esitò un istante e tese la mano, ma Keira nascose la sua dietro la sua schiena.
«No, voglio che mi abbracci.»«Ma sono troppo grande!» disse in tono molto serio.
«Tu sì, ma io no. Vuoi prendermi fra le braccia sì o no?»«Ci devo pensare. Nel frattempo,
seguimi: dovrete pur dormire da qualche parte, e poi domani ti risponderò.»«Okay» disse
Keira.
Harry mi lanciò uno sguardo di sfida e si avviò. Prendemmo gli zaini e lo seguimmo lungo
il sentiero che conduceva al villaggio.
Un uomo con una canottiera sfilacciata stava in piedi davanti alla sua capanna; si ricordava di me e mi salutò con ampi gesti.
«Non sapevo che fossi così popolare in questo angolo di mondo» mi prese in giro Keira.
«Forse perché la prima volta che sono venuto qui mi sono presentato come tuo
amico…»L’uomo che ci accolse in casa sua ci offrì due stuoie su cui dormire e un po’ di cibo.
Durante il pasto Harry rimase di fronte a noi, senza staccare lo sguardo da Keira; poi
all’improvviso si alzò e andò verso la porta.
«Tornerò domani» ci salutò, uscendo dalla casa.
Keira corse fuori, io la seguii, ma il ragazzo si stava già allontanando sul sentiero.
«Dagli un po’ di tempo» le suggerii.
«Non ne abbiamo molto» rispose, rientrando nella capanna con il cuore gonfio.
Fui svegliato all’alba dal rumore di un motore che si stava avvicinando. Andai sulla soglia:
una nuvoletta di polvere che precedeva una 4x4. Il fuoristrada frenò davanti a me e riconobbi
subito i due italiani che mi avevano aiutato durante il mio primo viaggio.
«Che sorpresa! Come mai di nuovo qui?» domandò il più massiccio dei due, scendendo
dall’auto.
Il tono falsamente amichevole risvegliò in me una certa diffidenza.
«Come voi» gli risposi, «soffro del mal d’Africa. Dopo essere venuti una volta, è difficile
resistere al desiderio di tornare.»Keira mi raggiunse e mi cinse la vita con il braccio.
«A quanto vedo, ha ritrovato la sua amica» disse il secondo italiano, venendo verso di noi.
«Carina com’è, capisco perché si sia dato così tanta pena.»«Chi sono queste persone?» sussurr Keira. «Sono tuoi amici?»«Non direi: li ho incontrati quando cercavo il tuo accampamento, mi hanno dato una mano.»«C’è qualcuno nella regione che non ti abbia aiutato a ritrovarmi?»I due italiani si avvicinarono.
«Non ci invitate a entrare?» chiese il più robusto. «E’ presto, ma fa già caldissimo!»«Non
siamo a casa nostra e in più non vi conosco nemmeno» rispose Keira.
«Lui è Giovanni e io sono Marco; ora possiamo accomodarci?»«Non è casa nostra» ribadì
Keira in tono per nulla cordiale.
«Su, su» riprese quello che si faceva chiamare Giovanni, «cosa ne è della rinomata ospitalit africana? Potreste offrirci un po’ di ombra e qualcosa da bere, sto morendo di
sete.»L’uomo che ci aveva accolto nella sua capanna apparve sulla soglia e ci invitò tutti a
entrare in casa. Posò quattro bicchieri su una cassa, ci servì del caffè e poi se ne andò,
diretto ai campi.
Marco guardava Keira in un modo che non mi piaceva affatto.
«Lei è paleontologa, se non ricordo male» le disse.
«Lei è ben informato» rispose Keira. «Ma ora dobbiamo proprio andare, abbiamo del lavoro da svolgere.»«Lei non è per niente gentile! Potrebbe dimostrare un po’ di riconoscenza:
dopotutto siamo stati noi, qualche mese fa, ad aiutare il suo amico a ritrovarla. Non gliel’ha
raccontato?»«Sì, in molti della zona l’hanno aiutato a ritrovarmi, peccato che non mi fossi mai
persa! Ora, scusate la franchezza, ma abbiamo fretta» disse seccamente.
Giovanni si alzò di scatto e le sbarrò la strada; io mi frapposi immediatamente.
«Ma insomma, cosa volete da noi?»«Niente, solo fare quattro chiacchiere. Qui non capita
spesso di incontrare due europei.»«Adesso che ci siamo conosciuti, mi lasci passare» insistette Keira.
«Si sieda!» ordinò Marco.
«Non sono abituata a prendere ordini da nessuno» ribatté Keira.
«Temo che dovrà cambiare abitudini. Si sieda e stia zitta.»Stavolta quell’individuo aveva
superato i limiti con la sua rudezza: stavo per mettergli le mani addosso quando tirò fuori una
pistola dalla tasca e la puntò contro Keira.
«Non faccia l’eroe» disse, togliendo la sicura all’arma. «Rimanete tranquilli e andrà tutto
bene. Fra tre ore arriverà un aereo. Usciremo tutti e quattro da questa capanna e ci seguirete.
Salirete buoni e tranquilli, scortati da Giovanni. Visto? Non è molto complicato.»«E dove andr questo aereo?» chiesi.
«Lo saprete a tempo debito. Ora, dato che abbiamo del tempo da ammazzare, vi va di
raccontarci cosa siete venuti a fare qui?»«A incontrare due teste di cazzo che ci minacciano
con una pistola! » rispose Keira.
«Però, ha un bel caratterino, la ragazza» sghignazzò Giovanni.
Rimanemmo due ore a guardarci in faccia. Giovanni si puliva i denti con un fiammifero;
Marco, impassibile, fissava Keira. In lontananza si sentì il rumore di un motore, Marco si alzò
e andò fuori a vedere.
«Arrivano due 4x4» disse rientrando. «Restiamo da bravi all’interno, aspettiamo che la
carovana sia passata. Sono stato chiaro?»La tentazione di agire era forte, ma Marco teneva
Keira sotto tiro. I fuoristrada si avvicinavano, si udì lo stridio dei freni a pochi metri dalla casupola. I motori si spensero, si udirono sbattere le portiere. Giovanni si avvicinò alla finestra.
«Maledizione! Ci sono dieci uomini che vengono verso di noi.»Marco raggiunse Giovanni,
ma senza perdere di vista Keira. La porta della capanna si spalancò all’improvviso.
«Eric?» gridò Keira. «Non sono mai stata tanto felice di vederti!»«C’è qualche problema?»
chiese il suo collega.
Nei miei ricordi Eric non era così ben piazzato, ma fui felice di essermi sbagliato. Approfittai del fatto che Marco si fosse voltato per assestargli un calcio fra le gambe. Non sono un
tipo violento, ma quando perdo la pazienza non ho mezze misure. Senza fiato, Marco lasciò
cadere la pistola, che Keira spedì dalla parte opposta della stanza. Giovanni non ebbe il
tempo di reagire: gli sferrai un pugno in pieno viso, dolorosissimo tanto per la mia mano
quanto per la sua mascella. Marco si stava già rialzando, ma Eric lo afferrò per la gola e lo
spinse contro il muro.
«A che gioco giocate? E questa cos’è, una pistola?» urlò Eric.
Eric non mollava la presa intorno al collo di Marco che stava diventando sempre più cianotico. Suggerii a Eric di smettere di scuoterlo così violentemente e di permettergli di respirare
e riprendere un po’ di colore.
«Okay, vi spiegherò tutto» disse Giovanni. «Lavoriamo per il governo italiano e la nostra
missione era quella di riportare questi due alla frontiera. Non avremmo fatto loro alcun
male.»«Cos’abbiamo a che vedere noi con il governo italiano?» chiese Keira stupefatta.
«Non ne ho idea, signorina, e la cosa non mi riguarda. Abbiamo ricevuto queste istruzioni
ieri sera e non sappiamo altro.»«Ma avete commesso qualche sciocchezza in Italia?» chiese
Eric voltandosi verso di noi.
«Non abbiamo neanche messo piede in Italia, questi due stanno dicendo un mucchio di
stronzate! Chi ci garantisce che siano davvero ciò che affermano di essere?»«Vi abbiamo
forse malmenato? Credete che saremmo rimasti qui ad aspettare se avessimo voluto farvi
fuori?» si difese Marco fra un colpo di tosse e l’altro.
«Come avete fatto con il capo villaggio al lago Turkana?» chiesi.
Eric spostò lo sguardo su Giovanni, Marco e infine su Keira e me. Si rivolse a uno dei
membri della sua équipe e gli ordinò di andare a prendere delle corde. Il ragazzo obbedì e
ritornò con alcune cinghie.
«Legate questi due tizi, e andiamocene» ordinò Eric.
«Ascolta, Eric» si oppose uno dei suoi colleghi, «noi siamo archeologi, non poliziotti. Se
questi uomini sono veramente dei funzionari italiani, è meglio evitare di immischiarci in queste
grane?»«Non preoccupatevi» dissi. «Me ne occupo io.»Marco cercò di opporsi alla sorte che
lo attendeva, ma Keira raccolse la sua arma e gliela puntò al ventre.
«Sono molto maldestra con questi aggeggi» gli disse. «Come le ha già fatto notare il mio
collega, siamo solo archeologi e maneggiare armi da fuoco non è il nostro forte.»Mentre Keira
li teneva sotto tiro, Eric e io legammo i due aggressori. Si ritrovarono schiena contro schiena,
mani e piedi legati. Keira infilò la pistola nella cintura, si inginocchiò e si avvicinò a Marco.
«So che è un gesto meschino, lei ha tutti i diritti di considerarmi vigliacca, non potrei biasimarla, ma “la ragazza” ha un’ultima cosetta da aggiungere…»E Keira rifilò a Marco un ceffone che lo fece rotolare a terra.
«Ecco fatto, ora possiamo andare.»Mentre uscivamo dalla stanza, pensai al pover’uomo
che ci aveva dato ospitalità. Tornando a casa, avrebbe trovato due invitati di pessimo
umore…Salimmo a bordo di una delle due 4x4. Harry ci aspettava sul sedile posteriore.
«Visto che hai bisogno di me?» disse a Keira.
«Dovete proprio ringraziarlo, è stato lui a venire ad avvisarci.»«Ma come facevi a
saperlo?» chiese Keira a Harry.
«Ho riconosciuto l’auto: quei due non piacciono a nessuno, qui al villaggio. Mi sono avvicinato alla finestra e, dopo aver visto cosa succedeva, sono andato a cercare i tuoi
amici.»«Come hai fatto ad andare agli scavi in così poco tempo?»«L’accampamento non è
molto lontano da qui, Keira» rispose Eric. «Dopo che te ne sei andata, abbiamo spostato il
perimetro. Come puoi immaginare, non eravamo più i benvenuti nella valle dell’Omo dopo la
morte del capo villaggio. E poi, in ogni caso, non abbiamo trovato nulla nel punto in cui avevi
lavorato tu. Considerato l’ambiente ostile da un lato e la scontentezza generale dall’altro, abbiamo deciso di spostarci più a nord.»«Ah, noto che hai assunto il pieno controllo delle operazioni.»«Ti rendi conto di quanto tempo sei rimasta senza dare tue notizie? Per favore, evitami il tuo sarcasmo.»«Eric, non prendermi per una cogliona: spostando gli scavi, potevi cancellare ogni traccia del mio lavoro e attribuirti la paternità di eventuali scoperte.»«L’idea non
mi ha nemmeno sfiorato. Credo che sia tu, Keira, ad avere un problema di ego, non io. Ora
vuoi spiegarmi perché gli italiani ce l’avevano con voi?»Mentre raggiungevamo il campo,
Keira fece il resoconto a Eric delle nostre avventure dal momento della sua partenza
dall’Etiopia. Gli raccontò il viaggio in Cina, ciò che avevamo scoperto sull’isola di Narcondam,
saltò la parte relativa al soggiorno nella prigione di Garther, gli parlò delle ricerche che avevamo condotto sull’altopiano di Man-Pupu-Nyor e delle conclusioni a cui era giunta riguardo
all’epopea intrapresa dai sumeri. Non si dilungò né sul doloroso episodio della partenza dalla
Russia, né sulle brutture dell’ultima notte sulla Transiberiama, ma gli descrisse con dovizia di
particolari lo straordinario spettacolo a cui avevamo assistito nella sala del laser
dell’Università di Vrije.
Eric fermò il fuoristrada e si voltò verso Keira.
«Ma di cosa diavolo stai parlando? Una registrazione dei primi istanti dell’universo che risalirebbe a quattrocento milioni di anni fa? Com’è possibile che una persona della tua cultura
possa affermare un’assurdità del genere? Sono stati i tetrapodi del Devoniano a creare quel
disco? Ma fammi il piacere!»Keira non provò nemmeno a discutere con Eric. Con uno
sguardo mi dissuase dall’intervenire, stavamo arrivando all’accampamento.
Mi aspettavo che fosse accolta festosamente dai membri della sua équipe, felici di
rivederla, ma non fu così; era come se ce l’avessero ancora con lei per ciò che era successo
al lago Turkana. Però Keira aveva nel sangue l’attitudine al comando. Attese con pazienza
che la giornata terminasse.
Quando i paleontologi suoi colleghi abbandonarono il lavoro, si alzò e chiese alla vecchia
squadra di riunirsi: voleva annunciare loro qualcosa di importante. Eric era furioso per
quell’iniziativa, ma gli ricordai che l’autorizzazione che consentiva a tutti loro di eseguire gli
scavi nella valle dell’Omo era stata data a Keira, non a lui. Se la Fondazione Walsh fosse
venuta a sapere che era stata esclusa dalle ricerche, i generosi benefattori del comitato
avrebbero potuto riconsiderare il versamento mensile del denaro. Eric la lasciò parlare.
Keira aveva aspettato che il sole fosse sceso sotto la linea dell’orizzonte. Quando fu abbastanza buio, prese i tre frammenti in nostro possesso e li avvicinò. Appena riuniti, assunsero il colore blu che ci aveva così tanto meravigliato. L’effetto prodotto sui suoi colleghi valeva ben più di qualsiasi altra spiegazione, perfino Eric rimase turbato. Mentre un mormorio
percorreva il gruppo, fu il primo ad applaudire.
«È un oggetto stupendo» disse. «Complimenti per il bel numero di magia! Ma Keira non vi
ha detto tutto: vorrebbe anche convincervi che questi gingilli luminosi hanno quattrocento
milioni di anni!»Alcuni sghignazzarono, altri no. Keira salì su una cassetta.
«Qualcuno di voi, in passato, ha notato in me il minimo segno di follia? Quando avete accettato questa missione nel cuore della valle dell’Omo scegliendo di lasciare famiglia e amici
per lunghi mesi» avete controllato con chi vi stavate impegnando? C’era qualcuno fra di voi
che nutriva dubbi sulla mia credibilità prima di salire su quell’aereo che vi avrebbe condotto
lontano da casa? Credete che sia tornata per farvi perdere tempo e rendermi ridicola ai vostri
occhi? Chi vi ha scelto, chi vi ha pungolato, se non io?»«Cosa si aspetta da noi esattamente?
» chiese Wolfmayer, uno dei paleontologi.
«Questo oggetto dalle proprietà stupefacenti è una mappa» continuò Keira. «So che è difficile crederlo, ma indica un punto ben preciso: 5° 10‘ 2,67” di latitudine nord, 36° 10’ 1,74” di
longitudine est. Vi chiedo di concedermi la vostra fiducia per una settimana al massimo. Vi
propongo di caricare tutta l’attrezzatura necessaria a bordo delle 4x4 e di partire con me
domani per intraprendere nuovi scavi.»«Per trovare cosa?» protestò Eric.
«Non lo so» confessò Keira.
«Fantastico! Non contenta di averci fatto scacciare tutti dalla valle dell’Omo, la nostra
grande paleontologa ci chiede di buttare nel cesso otto giorni di lavoro - e Dio solo sa quanto
abbiamo le ore contate! - per andare non si sa dove a cercare non si sa cosa! A me sembra
che ci voglia prendere in giro.»«Aspetta un attimo, Eric» riprese Wolfmayer. «Alla fin fine,
cos’abbiamo da perdere? Sono mesi che scaviamo e, fino a questo momento, non abbiamo
trovato nulla di importante. E poi, su un punto Keira ha ragione: è con lei che ci siamo impegnati, credo che abbia tutte le ragioni per chiederci di collaborare con lei, anche se le sue motivazioni sono piuttosto deboli.»«Ma non è nemmeno in grado di dirci cosa conta di trovare.
Sapete quanto costa alla nostra squadra una settimana di lavoro?» ribatté Eric.
«Se ti riferisci ai nostri stipendi» intervenne Karvelis, un altro collega, «nessuno andrà in
rovina; inoltre è lei la responsabile, l’ispiratrice di questa campagna di scavi. Senza di lei non
esisterebbe questo campo né i fondi per sostenerlo. Non vedo perché non dovremmo concederle alcuni giorni.»Normand, uno dei francesi della squadra, chiese la parola. «Le coordinate indicate da Keira sono piuttosto precise; anche disponendo la quadrettatura su una cinquantina di metri quadrati, non c’è bisogno di smontare il campo. Dovrebbe bastare poco materiale, il che limita considerevolmente l’impatto di una sola settimana di assenza sui lavori in
corso.»Eric si rivolse a Keira e chiese di parlarle a quattr’occhi. I due si allontanarono.
«Congratulazioni, vedo che hai conservato la capacità di dire la cosa giusta al momento
giusto, li hai quasi convinti a seguirti. Dopotutto, perché no? Però non ho ancora detto l’ultima
parola: posso mettere sul piatto le mie dimissioni, obbligarli a scegliere fra me e te o,
viceversa, sostenerti.»«Dimmi che cosa vuoi, Eric. Ho fatto un lungo viaggio e sono
stanca.»«Qualunque cosa troveremo, sempre che troviamo qualcosa, voglio condividere con
te il merito della scoperta. Ho lavorato sodo in questi lunghi mesi durante i quali te la sei
spassata in giro per il mondo, e non ho fatto tutta questa fatica per vedermi relegato al ruolo
di semplice assistente. Ti ho sostituita quando ci hai mollato; dopo la tua partenza, sono io
che mi sono occupato di tutto. Se ritrovi questa squadra unita e operativa, lo devi a me: non ti
permetterò di sbarcare su un territorio di cui ormai ho io la responsabilità per vedermi relegato
in seconda fila.»«Chi è che parlava di ego, poco fa? Sei straordinario, Eric. Se faremo una
grande scoperta, sarà tutta la squadra a condividerne il merito; sarai coinvolto anche tu, te lo
prometto, e pure Adrian, perché, credimi, vi avrà contribuito più di chiunque altro. Ora che ti
ho rassicurato, posso contare sul tuo appoggio?»«Otto giorni, Keira, ti concedo otto giorni, e
se facciamo un buco nell’acqua, prendi il tuo zaino e il tuo compagno e ti levi dai piedi.»Keira
tornò al campo e riprese a parlare.
«Il luogo a cui mi riferisco si trova a tre chilometri a ovest del lago Dipa. Mettendoci in
viaggio domani all’alba, possiamo arrivare per mezzogiorno e cominciare subito a lavorare.
Chi vuole seguirmi è il benvenuto.»Un nuovo mormorio percorse il gruppo. Karvelis fu il primo
a farsi avanti, mettendosi di fronte a Keira. Poi fu la volta di Alvaro, Normand e Wolfmayer.
Keira aveva vinto la scommessa: ben presto tutta la squadra si riunì intorno a lei e a Eric,
che ormai le stava sempre vicino.
Avevamo caricato il materiale poco prima dell’alba; alle prime ore del mattino, le due 4x4
lasciarono l’accampamento. Keira ne guidava una, Eric l’altra. Dopo aver seguito per tre ore
la pista, abbandonammo i fuoristrada ai margini di una folta radula, che dovemmo attraversare portando l’attrezzatura in spalla. Harry apriva la fila, tagliando con grandi colpi di machete i rami che intralciavano il cammino. Volevo aiutarlo, ma mi disse di lasciar fare a lui,
perché io avrei potuto farmi male.
Un po’ più lontano si aprì davanti a noi la radura di cui mi aveva parlato Keira: un cerchio
di terra largo ottocento metri situato nel punto in cui il fiume Omo formava un’ansa. La sua
forma era stranamente simile a un cranio umano.
Karvelis teneva in mano il GPS. Ci guidò fino al centro della radura.
«5° 10’ 2,67” di latitudine nord, 36° 10’ 1,74” di longitudine est: ci siamo.»Keira
s’inginocchiò e accarezzò la terra.
«Che viaggio incredibile, e alla fine ci ritroviamo qui!» mi disse. «Sono così terrorizzata!»«Anch’io» le confidai.
Alvaro e Normand cominciarono a tracciare il perimetro degli scavi, mentre gli altri
montavano le tende all’ombra degli alberi. Keira si rivolse a Alvaro.
«E’ inutile allargare la quadrettatura, concentratevi su una zona di venti metri quadrati al
massimo: è in profondità che dobbiamo scavare.»Alvaro riavvolse il filo e seguì le istruzioni di
Keira. A fine pomeriggio erano stati estratti venti metri cubi di terra. A mano a mano che i lavori progredivano, vedevo delinearsi una fossa. Il sole calava e non avevamo ancora trovato
nulla. Le ricerche furono interrotte per mancanza di luce. Ripresero l’indomani all’alba.
Alle undici Keira cominciò a manifestare segni di nervosismo. Mi avvicinai a lei.
«Abbiamo ancora una settimana di tempo.»«Non credo che sia questione di giorni, Adrian, abbiamo delle coordinate molte precise: o sono giuste, o non lo sono, non esiste una via
di mezzo. E poi non siamo attrezzati per scavare oltre i dieci metri di profondità.»«A che
punto siamo?»«A metà strada.»«Allora niente è ancora perduto: sono sicuro che più scaviamo, più le nostre probabilità aumentano.»«Se mi sono sbagliata, avremo perso tutto»
sospirò Keira.
«Ho creduto di aver perduto tutto il giorno in cui la nostra auto è precipitata nelle acque
del Fiume Giallo» dissi allontanandomi.
Il pomeriggio passò senza risultati. Keira era andata a riposarsi un po’ all’ombra. Alle
quattro del pomeriggio Alvaro, che era scomparso da un pezzo nelle profondità della buca in
cui scavava senza sosta, lanciò un urlo che riecheggiò in tutto l’accampamento. Pochi istanti
dopo, anche Karvelis lanciò un grido. Keira si alzò e rimase immobile, come impietrita.
La vidi avanzare lentamente attraverso la radura. Spuntò la testa di Alvaro, con un grosso
sorriso stampato in faccia. Keira accelerò il passo e si mise a correre, finché una voce non la
richiamò all’ordine.
«Quante volte mi hai detto di non correre sul terreno di scavo?» la rimproverò Harry raggiungendola.
La prese per mano e la trascinò verso il bordo della fossa, dove si stava riunendo il
gruppo. In fondo alla buca, Alvaro e Karvelis avevano rinvenuto alcune ossa fossili che
avevano forma umana: la squadra aveva scoperto uno scheletro quasi intatto.
Keira raggiunse i due colleghi e si inginocchiò. I resti umani affioravano dalla terra. Ci
sarebbero volute ancora diverse ore per liberare colui che giaceva laggiù nelle profondità che
lo imprigionavano.
«Mi hai dato del filo da torcere, ma alla fine ti ho trovato» disse Keira, accarezzando delicatamente il cranio che spuntava. «Più tardi dovremo darti un nome, ma per il momento ci
racconterai chi eri e, soprattutto, quanti anni hai.»«C’è qualcosa che non va» osservò Alvaro.
«Non ho mai visto delle ossa umane così tanto fossilizzate. Non vorrei scadere in becere battute, ma questo scheletro è troppo evoluto per la sua età…»Mi voltai verso Keira e la trascinai
in disparte.
«Credi che la promessa che ti avevo fatto si sia concretizzata e che queste ossa siano
vecchie come pensiamo?»«Non lo so ancora, sembra così improbabile, eppure… Soltanto
una serie di analisi approfondite ci permetterà di sapere se un sogno del genere è diventato
realtà. Ma posso garantirti che, in tal caso, è la più grande scoperta mai fatta sulla storia
dell’umanità.»Keira tornò nella fossa accanto ai suoi colleghi. Gli scavi si interruppero al tramonto e ripresero il mattino seguente.
Non eravamo ancora giunti al termine delle nostre fatiche che il terzo giorno ci riservò una
sorpresa anche maggiore. Fin dal mattino Keira stava lavorando con una minuzia chirurgica.
Millimetro per millimetro, maneggiando il pennello come un puntinista, liberava le ossa dal
loro scrigno di terra. All’improvviso la sua mano si bloccò. Keira conosceva quella leggera
resistenza all’estremità dello strumento: non bisognava forzare, mi spiegò, bensì girare intorno alla protuberanza per carpirne le forme.
«E’ molto strano» disse. «Sembrerebbe qualcosa di sferico, forse una rotula? Tuttavia, in
mezzo al torace, mi stupirebbe molto…»Il calore era insopportabile; di tanto in tanto una goccia di sudore scendeva dalla sua fronte e bagnava la polvere, e in quei momenti la sentivo imprecare.
Alvaro aveva finito la pausa e propose di darle il cambio. Keira, spossata, gli cedette il
posto, ma lo pregò di agire con la massima cautela.
«Vieni» mi disse, «il fiume non è lontano. Attraversiamo la radura, ho bisogno di rinfrescarmi.»La riva dell’Omo era sabbiosa. Keira si svestì ed entrò in acqua senza aspettarmi; mi
tolsi velocemente la camicia e i pantaloni, la raggiunsi e la presi fra le braccia.
«Questo luogo è meraviglioso e suggestivo: sarebbe bellissimo fare l’amore, ma se continui ad agitarti così, ben presto avremo visite.»«Quale genere di visite?»«Del genere coccodrilli affamati. Vieni, non bisogna indugiare in queste acque, volevo solo darmi una sciacquata. Andiamo ad asciugarci al sole e poi torniamo agli scavi.»Non ho mai saputo se la storia sugli alligatori fosse vera, o se si trattasse di una scusa per tornare a quel lavoro che per lei
era diventato un’ossessione. Alvaro ci stava aspettando, o meglio, aspettava Keira.
«Cosa stiamo dissotterrando?» domandò a bassa voce, di modo che gli altri non sentissero. «Ne hai una vaga idea?»«Perché fai quella faccia? Sembri preoccupato.»«A causa di
questo» rispose Alvaro, porgendole un oggetto che assomigliava a un occhio, o a una grossa
biglia di agata.
«E’ ciò su cui lavoravo prima di andare al fiume?» chiese Keira.
«L’ho trovata a dieci centimetri dalle prime vertebre dorsali.»Keira prese la biglia fra le dita
e la pulì dalla polvere. «Passami un po’ d’acqua.»Alvaro svitò il tappo della borraccia.
«Aspetta, non qui, usciamo dalla fossa.»«Ci vedranno tutti» bisbigliò Alvaro.
Keira saltò fuori dalla buca, nascondendo la biglia nel palmo della mano. Alvaro la seguì.
«Versala piano» si premurò.
Nessuno prestava loro attenzione. Da lontano, sembravano solo due colleghi che si
lavavano le mani.
Keira strofinava delicatamente la biglia, staccando i sedimenti che la ricoprivano.
«Ancora un po’» disse a Alvaro.
«Che cos’è?» chiese l’archeologo, turbato almeno quanto Keira.
«Torniamo giù.»Al riparo dagli sguardi degli altri, Keira ripulì la superficie della biglia. La
osservò più da vicino.
«E’ traslucida» osservò. «C’è qualcosa all’interno.»«Fammi vedere» chiese Alvaro.
Prese la biglia fra le dita e la sollevò per far sì che i raggi del sole la attraversassero.
«Così si vede molto meglio. Sembra una sorta di resina. Credi che fosse una specie di
ciondolo? Sono completamente disorientato, non ho mai visto nulla di simile. Accidenti, Keira,
quanti anni ha il nostro scheletro?»Keira recuperò l’oggetto e ripetè il gesto di Alvaro.
«Credo che questo oggetto forse ci darà la risposta alla tua domanda» disse sorridendo al
collega. «Hai presente il santuario di San Gennaro?»«Per favore, rinfrescami la memoria.»«San Gennaro era vescovo di Benevento. Morì da martire intorno al 300 nei pressi di
Pozzuoli, durante la grande persecuzione di Diocleziano. Ti risparmio i dettagli che alimentano la leggenda di questo santo. Gennaro fu condannato a morte da Timoteo, proconsole della Campania. Fu condannato al rogo, ma le sue vesti non furono nemmeno intaccate
dal fuoco; poi venne condotto all’anfiteatro per essere sbranato dalle fiere, che lo risparmiarono; alla fine fu decapitato. Il boia gli tagliò la testa e un dito. Come si usava all’epoca, Eu-
sebia, una pia donna, raccolse il sangue e con esso riempì le due ampolle con cui aveva celebrato la sua ultima messa. Il corpo del santo venne spostato più volte. All’inizio del quarto
secolo, quando la reliquia del vescovo fu trasferita a Napoli, Eusebia, che aveva conservato
le ampolle, le avvicinò ai resti del vescovo. Il sangue solido che contenevano si liquefece. Il
fenomeno si ripetè nel 1492 nel Duomo di San Gennaro, la chiesa a lui dedicata. Da allora, la
liquefazione del sangue di Gennaro è oggetto, ogni anno, di una cerimonia in presenza
dell’arcivescovo di Napoli. I napoletani celebrano l’anniversario del suo martirio in tutto il
mondo. Il sangue solido conservato in due ampolle ermetiche viene esposto davanti a migliaia di fedeli, diventa liquido e talvolta entra persino in ebollizione.»«Come fai a saperlo?»
chiesi a Keira.
«Mentre tu leggevi Shakespeare, io leggevo Alexandre Dumas.»«Come nel caso di San
Gennaro, questa biglia traslucida che avete trovato nella fossa conterrebbe il sangue di colui
che vi riposa?»«E’ possibile che la sostanza rossa solidificata che vediamo all’interno della
biglia sia sangue: se così fosse, già questo sarebbe un miracolo. Potremmo scoprire quasi
tutto sulla vita di quest’individuo: l’età, le caratteristiche biologiche. Se potremo far parlare il
suo DNA, non avrà più segreti per noi. Ora dobbiamo portare l’oggetto in un luogo sicuro e
farne analizzare il contenuto da un laboratorio specializzato.»«A chi intendi affidare una missione del genere?» domandai.
Keira mi fissò con un’intensità nello sguardo che tradiva le sue intenzioni.
«Non senza di te!» risposi prima ancora che parlasse. «Non se ne parla nemmeno.»«Adrian, non posso affidarla a Eric, e se lascio la mia équipe una seconda volta, non
me lo perdoneranno mai.»«Me ne frego dei tuoi colleghi, delle tue ricerche, dello scheletro e
anche di questa biglia! Se ti capitasse qualcosa, neanch’io te lo perdonerei! Nemmeno per la
più grande scoperta scientifica del mondo me ne andrò via di qui senza di te.»«Adrian, ti
prego!»«Ascoltami con attenzione, Keira, ciò che ho da dirti mi costa moltissimo e non lo ripeter una seconda volta. Ho dedicato la maggior parte della mia vita a scrutare le galassie, a
cercare le tracce infinitesimali dei primi istanti dell’universo. Pensavo di essere il migliore nel
mio campo, il più aggiornato, quello con più faccia tosta, mi ritenevo imbattibile ed ero fiero di
esserlo. Quando ho creduto di averti perso, ho passato le notti con la testa rivolta verso il
cielo, senza riuscire a ricordare il nome di una sola stella. Me ne frego dell’età dello scheletro,
me ne frego di cosa ci rivelerà sulla specie umana; che abbia cento anni o quattrocento
milioni di anni mi è del tutto indifferente, se tu non ci sei più.»Mi ero completamente dimenticato della presenza di Alvaro, che richiamò l’attenzione tossendo imbarazzato.
«Non voglio immischiarmi nelle vostre faccende» disse, «ma con la scoperta che ci hai
appena donato, puoi tornare fra sei mesi e chiederci di fare una corsa nei sacchi intorno al
Machu Picchu: sono pronto a scommettere che tutti ti seguirebbero, io per primo.»Sentii Keira
esitare. Lanciò uno sguardo alle ossa del terreno.
«!Madre deDios!» urlò Alvaro. «Dopo quello che ti ha appena detto quest’uomo, preferisci
passare le notti accanto a uno scheletro? Levati dai piedi e torna presto a dirmi cosa contiene
questa biglia di resina! »Keira mi tese la mano affinché l’aiutassi a uscire dalla buca.
Ringraziò Alvaro.
«Su, muoviti, fila via! Chiedi a Normand di riaccompagnarti a Jinka: puoi fidarti di lui, è
riservato. Spiegherò tutto agli altri quando te ne sarai andata.»Mentre radunavo le nostre
cose, Keira andò a parlare con Normand. Per fortuna il resto del gruppo aveva lasciato
l’accampamento per andare a rinfrescarsi al fiume. Riattraversammo la radura e quando arrivammo davanti alla 4x4, Harry ci aspettava a braccia conserte.
«Saresti partita ancora una volta senza salutarmi?» disse squadrando Keira.
«No, questa volta sarà questione di poche settimane. Presto sarò di ritorno.»«Non ti aspetter più a Jinka. Non ritornerai, lo so» rispose Harry.
«Ti prometto il contrario, Harry, non ti abbandonerò mai; la prossima volta ti porterò con
me.»«Io non c’entro niente con il tuo paese. Tu che passi il tempo a cercare i morti, dovresti
sapere che il mio posto è qui, dove sono sepolti i miei genitori: questa è la mia terra. E ora
vattene.»Keira si avvicinò a Harry: «Mi odi?».
«No, sono triste e non voglio che tu mi veda triste, quindi vattene.»«Anch’io sono triste,
Harry, devi credermi. Sono tornata una volta, tornerò di nuovo.»«Allora può darsi che vada a
Jinka, ma solo di tanto in tanto.»«Mi dai un bacio?»«Sulla bocca?»«No, Harry, non sulla
bocca» rispose Keira scoppiando a ridere.
«Vabbe’, anche se sono troppo grande, voglio che mi abbracci.»Keira strinse Harry fra le
braccia, gli stampò un bacio in fronte e il ragazzo corse verso la radura senza voltarsi.
«Se tutto va bene» ci informò Normand, «arriveremo a Jinka prima della navetta postale.
Potrete ripartire a bordo di quell’aereo, conosco il pilota. Dovreste atterrare a Addis Abeba in
tempo per prendere il volo per Parigi, altrimenti quello per Francoforte è l’ultimo della
sera.»Mentre procedevamo lungo la pista, mi voltai verso Keira; una domanda mi assillava.
«Se Alvaro non avesse perorato la mia causa, cosa avresti fatto?»«Perché me lo
chiedi?»«Perché quando ho visto il tuo sguardo passare dallo scheletro a me, mi sono chiesto chi di noi due ti piacesse di più.»«Sono su quest’auto, ciò dovrebbe rispondere alla tua
domanda.»«Mmm…» mugugnai, tornando a guardare la strada.
«Che c’è? Avevi dubbi?»«No, no.»«Se Alvaro non fosse intervenuto, avrei fatto la dura e
sarei rimasta, ma dieci minuti dopo la tua partenza, avrei pregato qualcuno di guidare la
seconda 4x4 e ti avrei raggiunto. Adesso sei contento?»
Parigi
Fu una corsa folle quella per riuscire a salire sull’aereo diretto a Parigi. Quando ci
presentammo al desk dell’Air France, l’imbarco del volo era quasi terminato. Per fortuna
c’erano ancora una dozzina di posti liberi e una hostess disponibile accettò di farci superare i
filtri di sicurezza, saltando la lunga fila di passeggeri che aspettavano il loro turno. Prima che
l’aereo lasciasse il terminal pulire, ero riuscito a fare due brevi telefonate: una a Walter, che
avevo svegliato nel cuore della notte, l’altra a Ivory, che non dormiva. Annunciando il nostro
ritorno in Europa, avevo posto a entrambi la stessa domanda: dove potevamo trovare il laboratorio più attrezzato per procedere a complessi test sul DNA?
Ivory ci pregò di raggiungerlo a casa sua subito dopo il nostro arrivo. Alle sei del mattino
un taxi ci portò dall’aeroporto Charles de Gaulle all’Ile Saint-Louis. Ivory ci venne ad aprire in
vestaglia.
«Non sapevo con precisione quando sareste arrivati» si scusò, «e mi sono lasciato sorprendere tardivamente dal sonno.»Andò in cucina a preparare un caffè e ci invitò ad aspettarlo nel salone. Ritornò con un vassoio in mano e si sedette in una poltrona di fronte a
noi.
«Allora, cos’avete trovato in Africa? E’ a causa vostra che non ho dormito, impossibile chiudere occhio dopo la vostra telefonata.»Keira tirò fuori la biglia dalla tasca e la mostrò al vecchio professore, che si aggiustò gli occhiali sul naso ed esaminò attentamente l’oggetto. «E’
ambra?»«Non lo so ancora, ma le macchie rosse all’interno sono probabilmente
sangue.»«Che scoperta straordinaria! Dove l’avete trovata?» «Nel punto esatto indicato dai
frammenti» risposi. «Sul torace di uno scheletro che abbiamo riesumato» spiegò Keira.
«Ma è un fatto eccezionale!» esclamò Ivory. Andò verso il suo secrétaire, aprì un cassetto
e tirò fuori un foglio di carta.
«Ecco l’ultima traduzione che ho fatto del testo in ge’ez: coraggio, leggete.»Presi il documento che Ivory mi sventolava sotto il naso e lo lessi ad alta voce:
Ho disgiunto il disco dei ricordi e affidato ai capi delle colonie le parti che esso unisce.
Sotto i trigoni stellati, che restino celate le ombre dell’infinito. Che nessuno sappia dove si
trova l’ipogeo. La notte dell’uno conserva l’origine. Che nessuno lo risvegli, alla confluenza
dei tempi immaginari si disegnerà la fine dell’area.
«Credo che l’enigma acquisti finalmente un senso, non è così?» disse il vecchio professore. «Grazie al lavoretto di Adrian a Vrije, abbiamo fatto parlare il disco che ci ha indicato la
posizione di una tomba: il famoso ipogeo dove fu probabilmente scoperto nel quarto millennio. Le persone che ne compresero l’importanza separarono i frammenti e li portarono ai
quattro angoli del mondo.» «A quale scopo?» chiesi. «Perché un simile viaggio?» «Ma
perché nessuno ritrovasse il corpo che avete portato alla luce, quello su cui hanno per
l’appunto ritrovato il disco dei ricordi. La notte dell’uno conserva l’origine» recitò Ivory. Il suo
viso era diventato pallido, un velo sottile di sudore gli imperlava la fronte.
«Qualcosa non va?» chiese Keira.
«Gli ho dedicato tutta la mia vita, e finalmente lo avete trovato… Nessuno voleva credermi… Sto bene, non sono mai stato così bene» rispose, con un ghigno sulle labbra.
Ma il vecchio professore si portò la mano al petto e si sedette nuovamente in poltrona, bianco come un cencio.
«Non è nulla, solo un po’ di stanchezza. Allora, com’è?»«Chi?»«Ma questo scheletro, per
la miseria!»«Completamente fossilizzato e stranamente intatto» spiegò Keira, preoccupata
per le condizioni di Ivory.
Il professore gemette e si piegò in due.
«Chiamo il pronto intervento» disse Keira.
«Non chiami nessuno» ordinò Ivory, «le dico che passerà. Ascolti, abbiamo poco tempo a
disposizione. Il laboratorio che cercate si trova a Londra, vi ho annotato l’indirizzo sul blocnotes all’ingresso. Siate doppiamente prudenti: se vengono a scoprire ciò che avete trovato,
non vi lasceranno arrivare fino in fondo, non indietreggeranno davanti a nulla. Mi dispiace
avervi messo in pericolo, ma ormai è troppo tardi.»«Chi sono queste persone?» chiesi.
«Non ho più il tempo per spiegarvi, ci sono cose più urgenti. Nel cassettino del mio
secrétaire prendete l’altro testo, per favore.»Ivory si accasciò sul tappeto.
Keira afferrò la cornetta del telefono appoggiato sul tavolino e compose il numero del
pronto intervento, ma Ivory tirò il filo e lo strappò.
«Andatevene, per favore!»Keira si inginocchiò accanto a lui e gli mise un cuscino sotto la
testa.
«Non la lasceremo qui da solo, ha capito?»«Lei è adorabile ed è ancora più testarda di
me. Lasciate la porta aperta e chiamate un’ambulanza dopo esservene andati. Mio Dio, che
male» gemette, tenendosi il petto. «Per favore, portate avanti ciò che io non posso più fare.
Ormai la meta è vicina.»«Quale meta, Ivory?»«Mia cara, lei ha fatto la scoperta più
sensazionale di tutti i tempi, i suoi colleghi la invidieranno. Ha trovato il primo uomo, il padre
di tutti noi e la biglia di sangue che ha in mano ne fornirà la prova. Se non mi sono sbagliato,
le sorprese per voi non sono ancora finite. Il secondo testo, nel mio secrétaire, Adrian lo conosce già: non dimenticatelo, alla fine capirete.»Ivory perse conoscenza. Keira non diede
ascolto ai suoi ultimi consigli: mentre io frugavo nel secrétaire, chiamò il pronto soccorso con
il mio cellulare.
Uscendo dall’edificio, fummo assaliti dai rimorsi.
«Non avremmo dovuto lasciarlo lassù da solo.»«Ci ha sbattuto fuori!»«Per proteggerci. Vieni, torniamo su.»In lontananza si udì il suono di una sirena, che si avvicinava sempre di più.
«Per una volta diamogli retta» insistetti, «non perdiamo tempo.»Fermai un taxi che percorreva il Quai d’Orléans e chiesi al conducente di accompagnarci alla Gare du Nord. Keira mi
guardò stupita: le mostrai il foglio che avevo strappato dal bloc-notes all’ingresso
dell’appartamento di Ivory, appena prima di uscire. L’indirizzo che aveva scarabocchiato si
trovava a Londra: era la Società inglese per le ricerche genetiche, il numero 10 di Hammersmith Grove.
Londra
Avevo avvertito Walter del nostro arrivo. Venne a prenderci alla stazione di San Pancrazio; ci aspettava in fondo alle scale mobili, con indosso un impermeabile e le mani dietro la
schiena.
«Non mi sembra di buon umore, Walter» constatai vedendolo.
«Be’, ho dormito male… chissà per colpa di chi!»«Mi dispiace averla svegliata.»«Nemmeno voi due avete una bella cera» commentò, osservandoci attentamente.
«Abbiamo passato la notte in aereo e le ultime settimane non sono state molto riposanti.
Vogliamo andare?» domandò Keira.
«Ho trovato l’indirizzo che mi avevate chiesto» disse Walter guidandoci verso la fila dei
taxi.
«Non ha più la sua miniauto?» chiesi, salendo a bordo del black cab.
«A differenza di qualcuno di cui non farò il nome, io ascolto i consigli degli amici. L’ho rivenduta e ho una sorpresa per voi, vi racconterò dopo! Al 10 di Hammersmith Grove» disse al
tassista. «Siamo diretti alla Società inglese per le ricerche genetiche, è il posto che cercavate.»Decisi di conservare il bigliettino di Ivory in fondo alla tasca e di non farne parola con
Walter.
«Allora?» chiese. «Posso sapere cosa andiamo a fare lì? Un test di paternità, per
caso?»Keira gli mostrò la biglia, Walter la guardò attentamente.
«Bell’oggetto» osservò «e che cos’è quella roba rossa al centro?»«Sangue» rispose
Keira.
«Puah!»Walter era riuscito a fissarci un incontro con il dottor Poincarno, responsabile
dell’unità di paleo-DNA. Visto che la Royal Academy apriva parecchie porte, perché non approfittarne, disse con aria sorniona.
«Mi sono permesso di elencare le vostre rispettive doti. Tranquilli, non mi sono dilungato
sulla natura delle vostre ricerche, ma per ottenere un incontro in tempi così brevi, ho dovuto
rivelare che arrivavate dall’Etiopia con oggetti straordinari da far analizzare. Non potevo es-
sere più esplicito perché Adrian si è ben guardato dal raccontarmi altro!»«I portelloni
dell’aereo stavano per chiudersi, avevo pochissimo tempo e poi mi era parso di averla svegliata!»Walter mi incenerì con lo sguardo.
«Ha intenzione di dirmi cos’avete scoperto in Africa, o vuole lasciarmi morire
nell’ignoranza? Con tutte le energie che vi dedico, penso di avere il diritto a qualche aggiornamento. Non sono solo fattorino, autista, factotum eccetera eccetera.»«Abbiamo trovato uno
scheletro eccezionale» riassunse Keira, dandogli una pacca affettuosa sul ginocchio.
«Delle ossa? E vi esaltate così tanto per delle semplici ossa? Forse in una vita precedente eravate dei cani. In effetti, Adrian, lei assomiglia a uno Spaniel. Lei cosa ne dice,
Keira?»«E io assomiglio a un Cocker?» ribatté Keira, minacciandolo con il giornale.
«Non mi metta in bocca cose che non ho detto!»Il taxi si fermò davanti alla Società
inglese per le ricerche genetiche. L’edificio era moderno, con locali piuttosto lussuosi. Lunghi
corridoi davano accesso a sale di analisi superequipaggiate. Provette, centrifughe, microscopi
elettronici, camere fredde: l’elenco sembrava infinito. Intorno a queste apparecchiature sofisticate, un formicaio di ricercatori in camice rosso lavorava in un clima eccezionalmente calmo.
Poincarno ci fece visitare i locali, spiegandoci il funzionamento del laboratorio.
«I nostri lavori hanno numerosi sbocchi scientifici. Aristotele diceva: E’ vivo ciò che si
nutre, cresce e deperisce, ma si potrebbe anche dire: “E’ vivo tutto ciò che racchiude in sé dei
programmi, una specie di software”. Un organismo deve potersi sviluppare evitando il disordine e l’anarchia; per costruire qualcosa di coerente ci vuole un progetto. E la vita dove
nasconde il proprio? Nel DNA. Aprite qualsiasi nucleo di cellule: ci troverete filamenti di DNA
che contengono tutte le informazioni genetiche di una specie in un immenso messaggio codificato. Il DNA è il fondamento dell’ereditarietà. Avviando vaste campagne di prelievi cellulari
su diversi popoli del globo, abbiamo rilevato legami di parentela insospettati e ricostruito, attraverso i secoli, le grandi migrazioni dell’umanità. Lo studio del DNA di migliaia di individui ci
ha aiutato a decifrare il processo evolutivo nel corso di tali migrazioni. Il DNA tramanda
un’informazione di generazione in generazione, il programma evolve e ci fa evolvere. Discendiamo tutti da un essere unico, non è così? Risalire fino a lui equivale a scoprire le origini
della vita. Gli inuit hanno legami ereditari con i popoli della Siberia settentrionale. E’ così che
possiamo stabilire da dove sono partiti i loro bis-bis-bisnonni. Ma noi studiamo anche il DNA
degli insetti e delle piante. Recentemente abbiamo fatto parlare le foglie di una magnolia
risalente a venti milioni di anni fa. Oggi riusciamo a estrarre il DNA anche dove sembra che
non ce ne sia il minimo picogrammo.»Reira tirò fuori la biglia dalla tasca e la tese a Poincarno.
«È ambra?» chiese lui.
«Non credo, penso piuttosto a una resina artificiale.»«Come, artificiale?»«E’ una lunga
storia. Può analizzarne il contenuto?»«A patto di riuscire a penetrare nel materiale che lo circonda. Seguitemi» disse Poincarno, che osservava la biglia sempre più incuriosito.
Il laboratorio era immerso in una penombra rossastra. Poincarno accese la luce, i neon
crepitarono sul soffitto. Si sedette su uno sgabello e mise la biglia fra le ganasce di una
minuscola morsa. Con la lama di un bisturi cercò di incidere la superficie, ma senza risultato;
ripose quindi l’attrezzo e lo sostituì con una punta di diamante, che non scalfì nemmeno la
biglia.
Cambiammo sala e metodologia: il dottore cercò di intaccare la biglia con un laser, ma il
risultato non fu migliore dei precedenti.
«Bene» disse. «A mali estremi, estremi rimedi. Da questa parte!»Entrammo in una camera a tenuta stagna dove Poincarno ci fece indossare strane tute. Eravamo rivestiti da capo a
piedi: occhiali, guanti, cuffia, non un centimetro del nostro corpo era esposto.
«Dobbiamo operare qualcuno?» chiesi da dietro la mascherina.
«No, ma dobbiamo evitare di contaminare il campione con DNA estraneo. Entreremo in
una camera sterile.»Poincarno si sedette su uno sgabello davanti a una vaschetta sigillata ermeticamente. Collocò la biglia in un primo scomparto, che richiuse. Poi infilò le mani in due
manicotti di gomma e la fece passare dall’interno nel secondo scomparto della vaschetta,
dopo che questa era stata pulita. Appoggiò la biglia su un supporto e fece girare una piccola
valvola. Un liquido trasparente invase lo scomparto.
«Cos’è?»«Azoto liquido» rispose Keira.
«Ameno 195,79° Celsius» aggiunse Poincarno. «La bassissima temperatura dell’azoto liquido blocca l’azione degli enzimi capaci di degradare il DNA, l’RNA o le proteine che si desidera estrarre. I guanti che indosso sono isolanti e studiati apposta per prevenire bruciature.
L’involucro della biglia non dovrebbe tardare a creparsi.»Purtroppo non successe niente. Ma
Poincarno, sempre più incuriosito, non era disposto a cedere.
«Abbasserò drasticamente la temperatura usando l’elio 3. Questo gas permette di arrivare
vicino allo zero assoluto. Se il vostro oggetto resiste a un simile shock termico, mi arrendo,
non ho altre soluzioni.»Il dottor Poincarno fece girare un piccolo rubinetto: ancora niente.
«Il gas è invisibile» disse. «Aspettiamo alcuni istanti.»Walter, Keira e io avevamo gli occhi
incollati sul vetro della vaschetta e trattenevamo il respiro. Non accettavamo l’idea di essere
impotenti, dopo così tanti sforzi, davanti all’involucro inviolabile di un contenitore così piccolo.
Ma, all’improvviso, si formò una minuscola crepa sulla parete traslucida. Una fessura piccolissima rigava la biglia.
Poincarno incollò gli occhi sul microscopio elettronico e maneggiò un sottilissimo ago.
«Ho estratto il vostro campione!» esultò girandosi verso di noi. «Potremo procedere alle
analisi. Ci vorranno alcune ore, vi chiamerò non appena avremo i risultati.»Lo lasciammo nel
suo laboratorio e uscimmo attraverso la camera sterile dopo esserci sfilati le tute di protezione.
Proposi a Keira di rientrare a casa. Lei mi ricordò gli avvertimenti di Ivory e ci chiedemmo
se non fosse un’imprudenza. Walter si offrì di ospitarci, ma avevo voglia di una doccia e di
abiti puliti. Ci salutammo sul marciapiedi: Walter prese la metropolitana per ritornare alla Royal Academy, Keira e io salimmo su un taxi diretti a Cresswell Place.
La polvere regnava sovrana in casa, il frigo era completamente vuoto e le lenzuola della
camera esattamente come le avevamo lasciate.
Eravamo esausti e, dopo aver tentato di mettere un po’ di ordine, ci addormentammo abbracciati.
Ci svegliò lo squillo del telefono. Cercai l’apparecchio a tentoni e risposi. Walter sembrava
esaltatissimo.
«Ma insomma, cosa state combinando?»«Stavamo dormendo e ci ha svegliati. Adesso
siamo pari.»«Ha visto che ore sono? Sono quarantacinque minuti che vi aspetto al laboratorio, è da un pezzo che la chiamo.»«Temo di non aver sentito il cellulare. Cosa c’è di così urgente?»«Il dottor Poincarno si rifiuta di dirlo se non in vostra presenza, ma mi ha contattato
all’accademia chiedendomi di presentarmi il prima possibile in laboratorio. Vestitevi e raggiungetemi!»Walter interruppe la comunicazione. Svegliai Keira e la informai che eravamo attesi
con urgenza in laboratorio. S’infilò di corsa i pantaloni, indossò un maglione e mi aspettò trepidante mentre chiudevo le finestre di casa. Erano circa le sette di sera quando arrivammo in
Hammersmith Grove.
Poincarno passeggiava su e giù nella sala deserta del laboratorio.
«Ce ne avete messo, di tempo» borbottò. «Seguitemi in ufficio, dobbiamo parlare.»Ci fece
sedere di fronte a un muro bianco, chiuse le tende, spense la luce e accese un proiettore.
La prima diapositiva che ci mostrò assomigliava a una colonia di ragni ammassati sulla
loro tela.
«Ciò che ho visto è completamente assurdo e ho bisogno di sapere se si tratta di un gigantesco inganno o di uno scherzo di cattivo gusto. Ho accettato di incontrarvi stamattina
sulla base delle vostre credenziali e delle raccomandazioni della Royal Academy, ma qui stiamo superando i limiti e non metterò in gioco la mia reputazione per assecondare due impostori che mi fanno perdere tempo.»Keira e io non riuscivamo a capire perché Poincarno
fosse così alterato.
«Cos’ha scoperto?» chiese Keira.
«Prima che vi risponda, ditemi dove avete trovato quella biglia di resina e in quali circostanze.»«In una tomba a nord della valle dell’Omo. Era appoggiata sullo sterno di uno scheletro
umano fossile.»«Impossibile, lei sta mentendo!»«Senta, dottore, nemmeno io ho tempo da
perdere, quindi se ci crede degli impostori, liberissimo di farlo! Adrian è un astrofisico di
chiara fama e anch’io non sono l’ultima arrivata. Vuol essere così gentile da spiegare di cosa
ci accusa?»«Signorina, potrebbe anche tappezzare i muri del mio ufficio con le sue lauree, e
non cambierebbe nulla. Cosa vede su questa immagine?» chiese, proiettando una seconda
diapositiva.
«Dei mitocondri e dei filamenti di DNA.»«Proprio così.»«Scusi, dov’è il problema?»
domandai.
«Vent’anni fa siamo riusciti a prelevare e ad analizzare il DNA di un punteruolo del grano
conservato nell’ambra. L’insetto arrivava dal Libano, era stato trovato nella zona fra Jezzine e
Dar el-Beida, dove si era fatto intrappolare nella resina. Pietrificandosi, la sostanza ne aveva
preservato l’integrità. Può immaginare tutto ciò che abbiamo potuto apprendere grazie a
questa scoperta, che a tutt’oggi rappresenta la più antica testimonianza di un organismo
complesso vivente.»«Bene, mi fa piacere per lei, ma in che modo ci riguarda tutto
ciò?»«Adrian ha ragione» intervenne Walter, «non riesco ancora a capire dove sia il problema.»«Il problema, signori miei» continuò seccamente Poincarno, «è che il DNA che mi
avete chiesto di analizzare sarebbe tre volte più antico, almeno a quanto indica lo spettroscopio. Avrebbe addirittura quattrocento milioni di anni!»«Ma è una scoperta fantastica!» urlai
entusiasta.
«E’ quello che all’inizio pensavamo anche noi, sebbene alcuni dei colleghi che ho subito
consultato fossero dubbiosi. I mitocondri che vedete sulla terza diapositiva sono in uno stato
così perfetto da suscitare alcuni interrogativi. Ammettiamo pure che questa resina particolare,
che non siamo ancora riusciti a identificare, li abbia protetti per tutto questo tempo, cosa di cui
dubito molto. Ora, osservate bene questa diapositiva: è un ingrandimento al microscopio
elettronico della fotografia precedente. Avvicinatevi al muro, per favore, non vorrei che
perdeste lo spettacolo per nessun motivo al mondo.»Keira, Walter e io ci avvicinammo.
«Cosa vedete?»«E’ un cromosoma X, il primo uomo era una donna!» annunciò Keira, visibilmente sconvolta.
«Sì, lo scheletro che avete trovato è proprio quello di una donna e non di un uomo; ma
non crediate che la cosa mi disturbi, non sono misogino.»«Continuo a non capire» disse
Keira sottovoce. «E’ fantastico, ti rendi conto? Eva è nata prima di Adamo» concluse sorridendo.
«L’ego degli uomini subirà un duro colpo» commentai.
«Ha ragione a fare dello humour» proseguì Poincarno, «e non è finita qui! Osservate
ancora più da vicino.»«Non ho voglia di giocare agli indovinelli, dottore. Questa scoperta è
sconvolgente, per me è il risultato di dieci anni di lavoro e di sacrifici; ci dica cosa la irrita e
risparmieremo tutti tempo, mi era parso di capire che il suo fosse prezioso.»«Signorina, la
sua scoperta sarebbe straordinaria se l’evoluzione accettasse il principio di un ritorno indietro,
ma lei lo sa meglio di me: la natura vuole che progrediamo… per non regredire più. I cromosomi che vediamo in questa immagine sono molto più evoluti dei suoi e dei miei.»«Anche dei
miei?» chiese Walter.
«Più evoluti di quelli di tutti gli esseri umani oggi viventi.»«Ah! Ma cosa glielo fa dedurre?»
continuò Walter.
«Questa piccola sezione, che chiamiamo allele, ovvero geni localizzati su ogni membro di
una coppia di cromosomi omologhi. Questi sono stati geneticamente modificati, e dubito che
una cosa del genere fosse concepibile quattrocento milioni di anni fa. E ora volete spiegarmi
come avete fatto a mettere in piedi questa farsa, o preferite che ne parli direttamente al consiglio di amministrazione della Royal Academy?»Frastornata, Keira si lasciò cadere su una
sedia.
«A quale scopo questi cromosomi sono stati modificati?» chiesi.
«La manipolazione genetica non è l’argomento all’ordine del giorno, ma risponderò
comunque alla sua domanda. Sperimentiamo questo genere di intervento sui cromosomi per
prevenire le malattie ereditarie o alcuni tipi di tumore, provocare mutazioni e permetterci di affrontare condizioni di vita che evolvono più velocemente di noi. Intervenire sui geni equivale in
un certo senso a rettificare l’algoritmo della vita, porre rimedio ad alcuni disordini, fra cui quelli
causati da noi stessi; in poche parole, i possibili risvolti medici sono infiniti, ma stasera non è
questo che ci interessa. La donna che avete scoperto nella valle dell’Omo non può appartenere a un lontanissimo passato e contemporaneamente avere nel suo DNA le tracce del
futuro. Ora ditemi: perché un simile inganno? Entrambi sognavate il Nobel e speravate che vi
appoggiassi prendendomi in giro in questo modo?»«Non c’è nessun inganno» protestò Keira.
«Comprendo i suoi sospetti, ma non abbiamo inventato nulla, glielo giuro. La biglia che ha analizzato, l’abbiamo estratta dalla terra l’altroieri, e mi creda, lo stato di fossilizzazione delle
ossa in cui si trovava non poteva essere contraffatto. Se sapesse quanto ci è costato trovare
quello scheletro, non dubiterebbe neanche per un istante della nostra sincerità.»«Si rende
conto di quali sarebbero le implicazioni, se le credessi?» domandò il dottore.
Poincarno aveva cambiato tono e sembrava improvvisamente disposto ad ascoltarci. Si
sedette di nuovo dietro la scrivania e accese la luce.
«Ciò significa che Eva è nata prima di Adamo e soprattutto che la madre dell’umanità è
molto più vecchia di quanto credessimo» disse Keira.
«No, signorina, non solo questo. Se i mitocondri che ho analizzato hanno davvero quattrocento milioni di anni, ciò presuppone molte altre cose che il suo complice astrofisico le ha
sicuramente già spiegato, perché immagino che prima di venire qui abbiate provato la vostra
scenetta alla perfezione.»«Non abbiamo fatto nulla del genere» protestai alzandomi. «Di
quale teoria sta parlando?»«Su, non mi prenda per fesso. Gli studi che conduciamo nei
rispettivi ambiti talvolta hanno punti di contatto, e lei lo sa benissimo. Numerosi scienziati concordano sul fatto che l’origine della vita sulla Terra potrebbe essere il frutto di bombardamenti
di meteoriti, non è così, signor astrofisico? E la teoria è stata rafforzata dalla scoperta di
tracce di glicina nella coda di una cometa, o per caso non ne era informato?»«Hanno trovato
una pianta nella coda di una cometa?» chiese Walter attonito.
«Non il glicine, Walter, ma la glicina, che è l’amminoacido più semplice, una molecola fondamentale per la comparsa della vita» gli spiegai. «La sonda Stardust ne ha prelevato un
campione dalla coda della cometa Wild quando essa è passata a trecentonovanta milioni di
chilometri dalla Terra. Le proteine che formano l’insieme di organi, cellule ed enzimi degli organismi viventi sono composte da catene di amminoacidi.»«Con grande gioia degli astrofisici,
la scoperta ha contribuito a rafforzare la teoria che la vita sulla Terra possa aver avuto origine
nello spazio, dove sarebbe molto più diffusa di quanto si voglia credere. Esagero dicendo
questo?» riprese Poincarno interrompendomi. «Ma da qui a volerci far credere con bieche
manipolazioni che la Terra sia stata popolata da esseri complessi come noi… siamo alla follia
pura!»«Cosa intende dire?» chiese Keira.
«La vostra Eva non può appartenere al passato ed essere portatrice di cellule geneticamente modificate, a meno che non vogliate farci bere che il primo essere umano, o meglio la
prima, sia approdata nella valle dell’Omo da un altro pianeta!»«Non voglio immischiarmi in
questioni che non mi riguardano» intervenne Walter, «ma se avesse detto alla mia trisnonna
che avremmo viaggiato da Londra a Singapore in poche ore, volando a diecimila metri di altezza in una scatola di sardine che pesa cinquecentosessanta tonnellate, avrebbe chiamato
seduta stante il medico del villaggio e l’avrebbero spedita in manicomio in men che non si
dica. Per non parlare dei voli supersonici, di camminare sulla Luna, e tanto meno di questa
sonda capace di ripescare i vostri amminoacidi nella coda di una cometa a trecentonovanta
milioni di chilometri dalla Terra! Ma perché i più sapienti fra di noi devono sempre avere così
poca fantasia?»Un Walter arrabbiatissimo camminava su e giù per la stanza e nessuno in
quel momento si sarebbe arrischiato a interromperlo. Si fermò di botto e puntò un dito accusatore verso Poincarno.
«Voi scienziati passate il tempo a sbagliarvi. Riesaminate in continuazione gli errori dei
colleghi, quando non sono i vostri, e non si azzardi a contraddirmi! Ho perso tutti i capelli a
forza di far quadrare i conti affinché aveste il denaro necessario a reinventare tutto. Eppure,
ogni volta che spunta fuori un’idea innovativa, è sempre la stessa litania: impossibile, impossibile, impossibile! Modificare i cromosomi era forse immaginabile cent’anni fa? Le sue
ricerche avrebbero ottenuto il benché minimo credito anche solo all’inizio del ventesimo
secolo? In ogni caso, non dagli amministratori della Royal Academy… Nella migliore delle
ipotesi, l’avrebbero considerata semplicemente un esaltato. Egregio signor genio della genetica, conosco Adrian da mesi e le proibisco, mi ha sentito, le proibisco di sospettarlo della
benché minima slealtà. L’uomo seduto di fronte a lei è di un’onestà tale da rasentare talvolta
la stupidità!»Poincarno guardò tutti noi, uno dopo l’altro.
«Lei ha sbagliato carriera, egregio signor amministratore dell’Accademia delle Scienze di
Sua Maestà: avrebbe dovuto fare l’avvocato. Molto bene, non dirò nulla al consiglio di amministrazione, analizzeremo più approfonditamente questo sangue. Confermerò ciò che avremo
scoperto e nient’altro. Il mio rapporto citerà le anomalie e le incoerenze che avremo riscontrato e si asterrà dal formulare la minima ipotesi e dall’avallare la minima teoria. Spetta a voi
pubblicare ciò che riterrete opportuno, ma ve ne assumerete la piena responsabilità. Se nel
resoconto delle vostre ricerche troverò anche solo una riga in cui vengo chiamato in causa o
citato come testimone, vi denuncerò. Sono stato chiaro?»«Non le ho chiesto nulla del
genere» rispose Keira. «Se accetterà di certificare l’età di queste cellule, di confermare scientificamente che hanno quattrocento milioni di anni, sarà già un enorme contributo. Si tranquillizzi, è ancora troppo presto per pensare a un’eventuale pubblicazione; sappia che anche noi,
come lei, siamo stupiti per ciò che abbiamo scoperto e ancora incapaci di trarne delle conclusioni.»Poincarno ci riaccompagnò alla porla del laboratorio e promise di contattarci nel giro di
pochi giorni.
Quella sera, così come spesso accadeva, a Londra pioveva: Walter, Keira e io ci ritrovammo sul marciapiedi bagnato di Hammersmith Grove. Era buio e faceva freddo, eravamo
tutti stravolti dopo quella giornata. Walter propose di andare a cena in un pub vicino e noi
fummo felici di seguirlo.
Dopo esserci seduti a un tavolo accanto alla vetrata, Walter ci pose un’infinità di domande
sul viaggio in Etiopia e Keira gli fece un resocontro dettagliato. Il nostro amico, affascinato,
sobbalzò quando Keira arrivò alla scoperta dello scheletro. Di fronte a un pubblico così attento, Keira non lesinava gli effetti speciali, tanto che Walter più volte tremò di paura. C’era in
lui un lato infantile che la divertiva molto. Vederli ridere in quel modo mi fece dimenticare tutte
le brutte esperienze che avevamo vissuto negli ultimi mesi.
Chiesi a Walter cosa avesse voluto dire poco fa a Poincarno, la frase esatta era, se ricordavo bene: L’uomo seduto di fronte a lei è di un ‘onestà tale da rasentare talvolta la stupidità!
«Che anche stasera toccherà a lei pagare il conto!» rispose ordinando una mousse al
cioccolato. «Su, non se la prenda, erano solo fuochi d’artifìcio, per una buona causa.»Pregai
Keira di darmi il ciondolo, tirai fuori dalla tasca gli altri due frammenti e li passai a Walter.
«Perché li dà a me? Sono vostri» disse turbato.
«Perché sono di un’onestà tale da rasentare talvolta la stupidità» gli risposi. «Se le nostre
ricerche si tradurranno in una pubblicazione di rilevanza mondiale, per quanto mi riguarda uscir a nome della Royal Academy a cui appartengo e ci tengo che compaia anche il suo nome.
Forse ciò le permetterà finalmente di far riparare il tetto sopra il suo ufficio. Nel frattempo, li
custodisca in un luogo sicuro.»Walter li infilò in tasca e, dallo sguardo, vidi che era commosso.
Da questa incredibile avventura avevo guadagnato un amore e una vera amicizia. Dopo
aver trascorso la maggior parte della vita esiliato nelle zone più remote del mondo, scrutando
l’universo alla ricerca di una stella lontana, ora stavo ascoltando, in un vecchio pub di Hammersmith, la donna che amavo chiacchierare e ridere con il mio miglior amico. Quella sera mi
resi conto che quei due esseri così vicini a me avevano cambiato la mia vita.
Ciascuno di noi ha in sé un po ‘ dì Robinson con un nuovo mondo da scoprire e un
Venerdì da incontrare.
Il pub stava per chiudere, fummo gli ultimi ad andarcene. Passava di lì un taxi: lo lasciammo a Walter, Keira aveva voglia di fare due passi.
L’insegna si spense alle nostre spalle. Hammersmith Grove era silenziosa, non c’era nemmeno un gatto in vista in quel vicolo buio. La stazione omonima si trovava a poche vie di distanza, avremmo sicuramente trovato un taxi nei dintorni.
Il motore di un camioncino venne a rompere il silenzio, il veicolo uscì dal punto in cui era
fermo. Quando arrivò alla nostra altezza, la portiera laterale si aprì e ne scesero quattro
uomini incappucciati. Né Keira, né io avemmo il tempo di capire cosa stesse succedendo. Ci
afferrarono con violenza, Keira lanciò un grido, ma era ormai troppo tardi: fummo sbattuti
all’interno del camioncino, mentre l’autista ripartiva a tavoletta.
Per quanto ci dibattessimo - io ero riuscito a ribaltare uno dei miei assalitori, Keira aveva
quasi cavato un occhio a quello che cercava di tenerla ferma -, alla fine fummo legati e imbavagliati. Ci bendarono gli occhi e ci fecero inalare un gas soporifero. Per entrambi fu
l’ultimo ricordo di una serata che era cominciata in modo promettente.
Luogo sconosciuto
Quando ripresi conoscenza, Keira era china su di me e accennava un sorriso.
«Dove siamo?» le chiesi.
«Non ne ho idea» rispose.
Mi guardai intorno: quattro pareti di cemento, senza nessuna apertura eccetto una porta
blindata. Un neon sul soffitto diffondeva una luce livida.
«Cos’è successo?» mi interrogò Keira.
«Non abbiamo dato retta alle raccomandazioni del professor Ivory.»«Dobbiamo aver
dormito parecchio.»«Cosa te lo fa pensare?»«La tua barba, Adrian. Ti eri appena rasato
quando abbiamo cenato con Walter.»«Hai ragione, probabilmente siamo qui da un pezzo. Ho
fame e sete.»«Anch’io ho molta sete.» Si alzò e andò a picchiare ripetutamente sulla porta.
«Dateci almeno da bere!» gridò.
Non sentimmo alcun rumore.
«Non sprecare energie, Keira. Prima o poi arriverà qualcuno.»«O forse no.»«Non dire
sciocchezze, non ci lasceranno morire di fame e di sete in questa cella.»«Non vorrei agitarti,
ma non mi è sembrato che le pallottole sulla Transiberiana fossero di gomma. Ma perché?
Perché ce l’hanno con noi fino a questo punto?» gemette lei sedendosi per terra.
«A causa della tua scoperta, Keira.»«Com’è possibile che delle ossa, per quanto vecchie
siano, giustifichino un tale accanimento?»«Non è uno scheletro qualunque. Non credo che tu
abbia compreso appieno il motivo del turbamento di Poincarno.»«Chi? L’imbecille che ci accusa di aver falsificato il DNA che gli abbiamo fatto analizzare?»«E’ proprio come temevo,
non hai colto la portata della tua scoperta.»«Non è la mia scoperta, ma la nostra!
»«Poincarno ha tentato di spiegarti il dilemma a cui le analisi lo hanno messo di fronte. Tutti
gli organismi viventi contengono cellule - una sola per i più semplici, mentre l’uomo ne ha
oltre dieci miliardi - e tutte le cellule si formano seguendo lo stesso modello, a partire da due
materiali di base: gli acidi nucleici e le proteine. I mattoni degli organismi viventi nascono a
loro volta dalla combinazione chimica nell’acqua di alcuni elementi: il carbonio, l’azoto,
l’idrogeno e l’ossigeno. Fin qui le certezze sul perché della vita: ma com’è iniziato tutto? Gli
scienziati prospettano due scenari: o la vita è apparsa sulla Terra in seguito a una serie di
reazioni complesse, o dei materiali provenienti dallo spazio hanno innescato il processo della
vita sulla Terra. Tutti gli esseri viventi evolvono, non regrediscono. Se il DNA della tua Eva
etiope contiene alleli geneticamente modificati, il suo corpo è per così dire più evoluto del
nostro, il che è impossibile, a meno che…»«A meno che, cosa?»«A meno che la tua Eva sia
morta sulla Terra senza però esserci nata.»«E’ inconcepibile!»«Se Walter fosse qui, lo faresti
arrabbiare.»«Adrian, non ho passato dieci anni della mia vita alla ricerca dell’anello mancante
per spiegare ai miei simili che il primo degli esseri umani è venuto da un altro pianeta.»«Nel
momento in cui ti parlo, sei astronauti sono rinchiusi in un ambiente insonorizzato da qualche
parte nei dintorni di Mosca, per prepararsi a un viaggio su Marte. Non mi invento nulla. Si
tratta di un esperimento organizzato dall’Agenzia Spaziale Europea e da un Istituto russo che
si occupa di problemi biomedici, allo scopo di testare la capacità dell’uomo di viaggiare nello
spazio su lunghe distanze. I risultati di questo progetto, battezzato Marte 500, sono previsti
fra quarant’anni. Ma cosa sono una quarantina d’anni nella storia dell’umanità? Sei astronauti
partiranno verso Marte nel 2050, come fecero nel 1969 i primi uomini a sbarcare sulla Luna.
Ora, immagina il seguente scenario: se uno di loro morisse su Marte, cosa farebbero gli altri,
secondo te?»«Mangerebbero la sua merenda!»«Keira, per favore, sii seria per due
secondi!»«Scusa, il fatto di trovarmi in cella mi rende nervosa.»«Ragione in più per concentrarti su altro.»«Non so cosa farebbero gli altri. Lo seppellirebbero, credo.»«Esatto! Dubito
che avrebbero voglia di affrontare il lungo viaggio di ritorno con un corpo in decomposizione a
bordo. Quindi lo seppelliscono. Ma sotto la polvere di Marte trovano del ghiaccio, come in
quelle tombe sumeriche sull’altopiano di Man-Pupu-Nyor.»«Non esattamente» corresse
Keira. «In quel caso i corpi sono stati seppelliti, ma ci sono molte tombe di ghiaccio analoghe
in Siberia.»«Okay, come in Siberia… Nella speranza che arrivi un’altra missione, i nostri astronauti seppelliscono insieme al corpo del loro compagno una sorta di boa di segnalazione e
un campione del suo sangue.»«Perché?»«Per due ragioni. La prima, per permettere di localizzare la sepoltura; la seconda, per poter identificare in modo certo l’uomo o la donna che riposa in quel luogo, proprio come abbiamo fatto noi. L’equipaggio riparte, come gli astronauti
che compirono i primi passi sulla Luna. Ciò che ti ho appena illustrato è uno scenario scientificamente sostenibile. Fra il volo di Ader, che si staccò per pochi metri dal suolo, e il primo
passo di Armstrong sulla Luna, sono passati soltanto ottant’anni. I progressi tecnici, le conoscenze che abbiamo dovuto acquisire per passare da un breve volo alla possibilità di far vincere l’attrazione terrestre a un razzo di diverse tonnellate sono inimmaginabili. Ma andiamo
avanti: il nostro equipaggio è tornato sulla Terra e il loro compagno riposa sotto il ghiaccio di
Marte. L’universo non se ne cura e continua a espandersi, i pianeti del sistema solare ruotano
intorno alla loro stella, che li riscalda e continua a riscaldarli. Fra alcuni milioni di anni, che
non è molto nella storia dell’universo, Marte si riscalderà e i ghiacci sotterranei inizieranno a
sciogliersi. In quel momento, il corpo congelato del nostro astronauta comincerà a decomporsi. Si dice che pochi semi sono sufficienti a far nascere una foresta. Basta che alcuni frammenti del DNA della tua Eva etiope si siano mescolati con l’acqua mentre il nostro pianeta usciva dall’èra glaciale, ed ecco che ha avuto inizio il processo della vita sulla Terra. Il programma contenuto in ciascuna delle sue cellule avrebbe fatto il resto e ci sarebbero volute
solo alcune centinaia di milioni di anni in più perché l’evoluzione avesse come esito esseri
viventi complessi quanto la Eva da cui avevano avuto origine. La notte dell’uno conserva
l’origine. Altri prima di noi avevano capito ciò che ti ho appena detto.»Il neon sopra le nostre
teste si spense.
Eravamo nel buio più completo.
Cercai la mano di Keira.
«Sono qui, non aver paura. Siamo insieme.»«Adrian, tu credi davvero a quello che mi hai
appena raccontato?»«Non lo so, Keira. Se mi chiedi se un simile scenario è possibile, la ris-
posta è sì. Se mi chiedi se è probabile, alla luce delle prove che abbiamo trovato, la risposta
è: perché no? Come in qualsiasi indagine o progetto di ricerca, bisogna pur partire da
un’ipotesi. Fin dall’antichità, a fare le scoperte più importanti sono state persone con l’umiltà
di osservare le cose da una prospettiva diversa. Alle superiori, il nostro professore di scienze
ripeteva sempre: Per scoprire, bisogna uscire dal proprio sistema. Dall’interno non si vede
molto e, in ogni caso, nulla di ciò che accade all’esterno. Se fossimo liberi e pubblicassimo
conclusioni del genere supportandole con le prove di cui disponiamo, susciteremmo reazioni
diverse, dall’interesse all’incredulità, senza contare l’invidia che farebbe gridare all’eresia moltissimi colleghi. Eppure tante persone hanno fede, Keira, tanti uomini credono in un dio,
senza nessuna prova della sua esistenza. Fra ciò che abbiamo appreso dai frammenti, le
ossa scoperte a Dipa e le straordinarie rivelazioni delle analisi sul DNA, abbiamo il diritto di
porre ogni genere di domanda sul modo in cui la vita è apparsa sulla Terra.»«Ho sete, Adrian.»«Anch’io.»«Credi che ci lasceranno morire così?»«Non lo so.»«Sembra che morire di
sete sia terribile; dopo un po’ la lingua si gonfia e si soffoca.»«Non pensarci.»«Ti dispiace?»«Di essere rinchiuso qui, sì, ma non rimpiango neanche un istante di tutti quelli passati
insieme.»«Avrei trovato lo stesso la nonna dell’umanità» sospirò Keira.
«Puoi sempre dire di aver trovato la tua bis-bis-bisnonna: non ho ancora avuto modo di
congratularmi con te.»«Ti amo, Adrian.»Strinsi Keira fra le braccia, cercai le sue labbra nel
buio e la baciai.
Le nostre forze si affievolivano di ora in ora.
«Walter sarà in pensiero.»«E’ abituato alle nostre improvvise assenze.»«Non ce ne
saremmo mai andati senza avvertirlo.»«Stavolta forse si preoccuperà per noi.»«Non sarà
l’unico. Le nostre ricerche non saranno state vane, lo so» sussurrò Keira. «Poincarno continuer le analisi sul DNA, la mia squadra riporterà lo scheletro di Eva.»«Vuoi veramente battezzarla così?»«No, avrei voluto chiamarla Jeanne. Walter ha messo i frammenti in un luogo
sicuro, la squadra di Vrije studierà la registrazione. Ivory ha aperto una strada, noi l’abbiamo
seguita, altri continueranno senza di noi. Presto o tardi, insieme, rimetteranno insieme i tasselli del puzzle.»Keira tacque.
«Non dici più nulla?»«Sono così stanca, Adrian.»«Non ti addormentare, resisti.»«A che
scopo?»Keira aveva ragione: morire nel sonno sarebbe stato più dolce.
Il neon si accese: non avevo idea di quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui
avevamo perso conoscenza. I miei occhi fecero fatica ad abituarsi alla luce.
Davanti alla porta, c’erano due bottiglie d’acqua, alcune barrette di cioccolato e dei biscotti.
Scossi Keira, le bagnai le labbra e la cullai supplicandola di aprire gli occhi.
«Hai preparato la colazione?» mormorò.
«Sì, più o meno, ma non bere troppo in fretta.»Una volta dissetata, Keira si lanciò sul cioccolato e ci dividemmo i biscotti. Ci sentimmo subito meglio e le sue guance ripresero un po’ di
colore.
«Credi che abbiano cambiato idea?» mi domandò.
«Non lo so. Aspettiamo.»La porta si aprì. Due uomini incappucciati entrarono per primi,
poi fu la volta di un terzo a volto scoperto, che indossava un completo di tweed di ottima fattura.
«In piedi e seguiteci» disse.
Uscimmo dalla cella e imboccammo un lunghissimo corridoio.
«Da quella parte ci sono le docce del personale. Andate a lavarvi, ne avete bisogno.
Quando sarete pronti, i miei uomini vi scorteranno fino al mio ufficio.»«Posso sapere con chi
abbiamo l’onore di parlare?» chiesi.
«Lei è arrogante e la cosa mi piace» rispose l’uomo. «Mi chiamo Edward Ashton. A
dopo.»Eravamo quasi presentabili. Gli uomini di Ashton ci scortarono attraverso una sontuosa dimora in piena campagna inglese. La cantina in cui eravamo stati rinchiusi si trovava
sotto un edificio adiacente alla serra. Attraversammo un giardino curatissimo, salimmo una
scalinata e ci fecero entrare in un immenso salone con le pareti rivestite di pannelli di legno.
Sir Ashton ci aspettava seduto dietro una scrivania.
«Mi avete dato parecchio filo da torcere.»«La cosa è reciproca» ribatté Keira.
«Noto con piacere che anche a lei non manca il senso dell ‘ umorismo. »«Non trovo nulla
di divertente in quello che ci ha fatto subire.»«Prendetevela solo con voi stessi! Vi ho avvertito
più e più volte, ma sembrava che nulla potesse distogliervi dalle ricerche.»«Ma per quale
motivo avremmo dovuto rinunciare?» intervenni io.
«Se dipendesse solo da me, vi avrei fatto rinunciare anche alla vita, ma non sono l’unico a
decidere.»Sir Ashton si alzò e girò intorno alla scrivania. Premette un pulsante e i pannelli di
legno sulle pareti circolari della stanza si ritrassero, rivelando quindici schermi che si accesero simultaneamente. Su ognuno di essi comparve il viso di una persona. Riconobbi
subito il nostro contatto di Amsterdam. Uomini e donne si presentarono con il nome preso in
prestito da una città: Atene, Berlino, Boston, Istanbul, Il Cairo, Madrid, Mosca, New Delhi,
Parigi, Pechino, Roma, Rio, Tel Aviv, Tokyo.
«Ma chi siete?» chiese Keira.
«Rappresentanti ufficiali di ciascuno dei nostri Paesi: siamo incaricati del dossier che vi riguarda.»«Quale dossier?» chiesi a mia volta.
L’unica donna dell’assemblea fu la prima a rivolgersi a noi. Si presentò con il nome di Isabel e pose una strana domanda: «Se aveste la prova che Dio non esiste, siete sicuri che gli
uomini vorrebbero conoscerla? Avete valutato bene l’impatto che avrebbe una notizia del
genere? Due miliardi di persone vivono sul pianeta sotto la soglia di povertà. Metà della
popolazione mondiale sopravvive privandosi di tutto. Vi siete mai chiesti cosa tiene in piedi un
mondo così ingiusto, così poco equilibrato? E la speranza! La speranza in una forza superiore e benevola, la speranza di una vita migliore oltre la morte. Chiamate questa speranza Dio
o fede, come preferite».
«Mi scusi, signora, ma gli uomini non hanno smesso di uccidersi fra di loro in nome di Dio.
Fornire la prova che non esiste li libererebbe una volta per tutte dall’odio per l’altro. Guardi
quanti di noi sono morti a causa delle guerre di religione, quante vittime provocano ancora
ogni anno, quante dittature poggiano su una base religiosa.»«Gli uomini non hanno avuto
bisogno di credere in Dio per uccidersi» replicò prontamente Isabel, «ma per sopravvivere,
per fare ciò che la natura chiede loro e garantire la continuità della specie.»«Gli animali lo
fanno senza credere in Dio» disse Keira.
«Ma l’uomo è l’unico essere vivente sulla Terra che abbia coscienza della propria morte, è
l’unico a temerla. Sa a quando risalgono i primi segni di religiosità?»«Centomila anni fa, nei
pressi di Nazareth alcuni esemplari di Homo Sapiens seppellirono, forse per la prima volta
nella storia dell’umanità, il cadavere di una donna di circa vent’anni. Ai suoi piedi riposava
anche quello di un bambino di sei anni. Chi scoprì la tomba trovò anche, intorno ai loro
scheletri, molta ocra rossa e oggetti rituali. I due corpi erano nella posizione dell’orante. Al
dolore che accompagnava la perdita di una persona cara si unì l’imperiosa necessità di onorare la morte» concluse la ragazza, ripetendo parola per parola la lezione di Ivory.
«Centomila anni» riprese Isabel, «ovvero mille secoli di credenze. Se forniste al mondo la
prova scientifica che Dio non ha creato la Terra, il mondo si disgregherebbe. Un miliardo e
mezzo di esseri umani vivono in una miseria intollerabile. Quale uomo, quale donna, quale
bambino accetterebbe la sua condizione di sofferenza, se fosse privato della speranza? Chi
gli impedirebbe di uccidere il vicino, di impadronirsi di ciò che gli manca, se la sua coscienza
fosse libera da qualsiasi ordine trascendente? La religione ha ucciso, ma la fede ha salvato
tante vite, ha dato forza ai più disperati. Non potete spegnere una luce del genere. Per voi
scienziati la morte è necessaria: le cellule muoiono affinché altre vivano, noi moriamo per lasciare posto a chi verrà dopo. Nascere, svilupparsi e poi morire è nell’ordine delle cose, ma
per la maggior parte della gente morire è solo una tappa verso un aldilà, un mondo migliore
dove tutto ciò che non è sarà, dove tutte le persone scomparse sono lì ad attenderli. Voi non
avete conosciuto né la fame, né la sete e nemmeno la miseria; avete inseguito i vostri sogni,
indipendentemente dai vostri meriti, avete avuto questa opportunità. Ma avete pensato a chi
non ha la vostra stessa fortuna? Sareste così crudeli da sostenere pubblicamente che l’unico
scopo delle sofferenze sulla Terra ha come unico fine l’evoluzione?»Avanzai verso gli
schermi per trovarmi di fronte ai nostri giudici.
«Questo triste processo» dissi «mi fa venire in mente quello che ha dovuto subire Galileo.
Alla fine l’umanità ha saputo ciò che i censori volevano tener nascosto, e nonostante tutto il
mondo non ha smesso di girare, anzi: è successo proprio il contrario! Quando l’uomo, libero
dalle sue paure, decise di avanzare verso l’orizzonte, fu l’orizzonte a indietreggiare davanti a
lui. Cosa saremmo oggi se i fanatici di ieri fossero riusciti a proibire il diffondersi della verità?
La conoscenza fa parte dell’evoluzione dell’uomo.»«Il giorno in cui rivelerete la nostra
scoperta tale notizia sarà così sconvolgente da provocare centinaia di migliaia di morti nel
quarto mondo, e nella sola prima settimana si conteranno milioni di decessi nel terzo mondo.
La successiva inizierà con la più grande migrazione dell’umanità. Un miliardo di esseri affamati attraverserà i continenti e i mari per andare a impossessarsi di tutto ciò che non ha.
Ognuno cercherà di vivere nel presente ciò che rimandava al futuro. La quinta settimana
segnerà l’inizio della prima notte.»«Se le nostre rivelazioni sono così temibili, perché ci avete
liberati?»«Non era nostra intenzione farlo, finché non abbiamo scoperto, dalla vostra conversazione in cella, che non siete gli unici a sapere. La vostra scomparsa improvvisa
spingerebbe gli scienziati che hanno collaborato con voi a completare l’opera. Ormai soltanto
voi potete fermarli. Siete liberi di andarvene e soli di fronte alla decisione che prenderete.
Dopo la scoperta della fissione nucleare, nessun altro essere umano ha avuto una responsabilit del genere sulle sue spalle.»Gli schermi si spensero uno dopo l’altro. Sir Ashton si
alzò e si avvicinò a noi.
«La mia auto è a vostra disposizione, il mio autista vi accompagnerà a Londra.»
Londra
Trascorremmo alcuni giorni a casa. Keira e io non eravamo mai stati così silenziosi.
Aprivamo bocca solo per dire qualche banalità, ma poi ripiombavamo subito nel mutismo.
Walter aveva lasciato un messaggio in segreteria, furioso perché eravamo scomparsi senza
dargli notizie. Ci immaginava a Amsterdam o ripartiti per l’Etiopia. Cercai di contattarlo, ma
era irraggiungibile.
L’atmosfera a Cresswell Place era pesante. Avevo sorpreso Keira al telefono con Jeanne:
non riusciva a parlare neppure con la sorella. Decisi che era ora di tornare a Hydra. Un po’ di
sole ci avrebbe fatto bene.
Hydra
La navetta da Atene ci lasciò al porto alle dieci del mattino. Dalla banchina riuscivo a
scorgere zia Elena: indossava un grembiule e dava grandi pennellate di azzurro alla facciata
del negozio.
Posai le valigie e andai verso di lei per farle una sorpresa, quando… Walter uscì dal negozio, con i suoi ridicoli pantaloncini a quadri, un cappello altrettanto ridicolo e occhiali da
sole due volte troppo grandi per lui. Cazzuola alla mano, scrostava il legno cantando a squarciagola e senza un minimo di intonazione l’aria di Zorba il Greco. Ci vide e si voltò verso di
noi.
«Ma dove vi eravate cacciati?» chiese, precipitandosi verso di noi.
«Eravamo rinchiusi in una cantina» gli rispose Keira, abbracciandolo. «Walter, ci è mancato molto.»«Cosa ci fa a Hydra in piena settimana lavorativa? Non dovrebbe essere alla
Royal Academy?» gli chiesi.
«Quando ci siamo visti a Londra, le ho detto che avevo venduto l’auto e che aveva una
novità da raccontarvi. Ma perché non mi ascolta mai?»«Me lo ricordo benissimo» protestai.
«Ma non ha fatto in tempo a dirci nulla.»«Ho deciso di cambiare lavoro. Ho consegnato a
Elena il resto dei miei risparmi e, come potete vedere, stiamo ristrutturando il negozio.
Aumenteremo la superficie degli scaffali e spero di farle raddoppiare gli introiti fin dalla
prossima stagione. Lei non ha nulla in contrario, vero?»«Sono contento che mia zia abbia finalmente trovato un aiutante» dissi, dando un colpetto sulla spalla del mio amico.
«Dovrebbe salire a trovare sua madre; sicuramente sa già del vostro arrivo, perché vedo
Elena al telefono…»Come sua abitudine mia madre ci accolse sull’isola come un re e una regina. La sera, senza aver chiesto il nostro parere, organizzò una grande festa in casa. Walter
e Elena erano seduti l’uno accanto all’altra: nel codice di mia madre, ciò significava ben più
che essere semplici vicini di tavolo.
Alla fine della cena, Walter convocò Keira e me sulla terrazza. Tirò fuori dalla tasca un
pacchettino - un fazzoletto chiuso da una cordicella - e ce lo consegnò.
«Questi frammenti sono vostri. Io ho voltato pagina. L’Accademia delle Scienze appartiene ormai al passato e il mio futuro è davanti a voi» disse, allargando le braccia in direzione
del mare. «Fatene l’uso che preferite. Ah, un’ultima cosa!» aggiunse. «Ho lasciato una lettera
nella vostra stanza. E’ per Adrian, ma preferirei che aspettasse a leggerla. Diciamo una settimana o due…»Quindi si voltò e raggiunse Elena.
Keira prese il pacchetto e andò a riporlo nel cassetto del suo comodino.
Il mattino seguente mi chiese di accompagnarla alla baia. Passeggiammo sul lungo
pontile che si inoltra nel mare. Keira tese il fazzoletto con dentro i tre frammenti che ci aveva
consegnato Walter e mi fissò. I suoi occhi erano colmi di tristezza.
«Sono tuoi. So cosa rappresenta per entrambi questa scoperta: non so se quella gente
dica la verità, se i loro timori siano fondati, non sono in grado di valutarlo. L’unica cosa che so
è che ti amo. Se la decisione di rivelare ciò che sappiamo dovesse provocare la morte di un
solo bambino, non potrei più guardarti in faccia, né tanto meno vivere al tuo fianco, anche se
mi mancheresti da morire. L’hai ripetuto spesso durante questo incredibile viaggio: le decisioni spettano a entrambi. Prendi questi frammenti e fanne ciò che vuoi. Qualunque cosa tu
decida, rispetterò sempre l’uomo che sei.»Mi affidò l’involto e si allontanò, lasciandomi solo.
Dopo che Keira se ne fu andata, mi avvicinai alla barca che si trovava in secca sulla sabbia della baia, la spinsi in acqua e remai verso il largo.
A un miglio dalla costa, slegai la cordicella che chiudeva il fazzoletto di Walter e osservai
a lungo i frammenti. Migliaia di chilometri sfilarono davanti ai miei occhi. Rividi il lago Turkana,
l’isola al suo centro, il tempio in cima al monte Hua Shan, il monastero di Xi’an e il lama che ci
aveva salvato la vita; udii il rombo dell’aereo che sorvolava la Birmania, la risaia
dell’atterraggio di fortuna, l’occhiolino del pilota quando arrivammo a Port Blair, la gita in
barca a Narcondam; rivisitai Pechino, la prigione di Garther, Parigi, Londra, Amsterdam, la
Russia, l’altopiano di Man-Pupu-Nyor, i meravigliosi colori della valle dell’Omo e il viso di
Harry. In ciascuno di questi ricordi, il paesaggio più bello era sempre il viso di Keira.
Aprii il fazzoletto.
Quando tornai alla baia, il mio cellulare squillò. Riconobbi la voce dell’uomo che mi parlava.
«Ha preso una decisione saggia e la ringraziamo» dichiarò Sir Ashton.
«Ma come fa a saperlo, ho appena…»«Dopo che ve ne siete andati, vi abbiamo tenuti
costantemente sotto tiro. Un giorno, forse… ma, mi creda, è troppo presto, abbiamo ancora
tanti progressi da compiere.»Sbattei il telefono in faccia a Ashton, lanciai rabbiosamente il
cellulare al largo e tornai a casa a dorso d’asino.
Keira mi aspettava sulla terrazza. Le diedi il fazzoletto di Walter, vuoto.
«Credo che apprezzerà che sia tu a restituirglielo.»Keira piegò con cura il fazzoletto e mi
spinse verso la nostra camera.
La prima notte
La casa era immersa nel sonno, Keira e io prendemmo mille precauzioni per uscire senza
fare il minimo rumore. Mia madre ci sentì comunque e ci raggiunse.
«Se andate in spiaggia, il che è pura follia in questa stagione, tenete almeno questi asciugamani: la sabbia è umida e prenderete freddo.»Ci diede anche due piccole torce, poi
tornò in casa.
Poco dopo eravamo seduti in riva al mare. La luna era piena, Keira appoggiò la testa sulla
mia spalla.
«Hai rimpianti?» mi chiese.
Guardai il cielo e ripensai a Atacama.
«Ogni essere umano è composto da miliardi di cellule, siamo miliardi di esseri umani ad
abitare su questo pianeta, e sempre più numerosi; l’universo è popolato da miliardi e miliardi
di stelle. E se questo universo, di cui credevo di conoscere i limiti, fosse anch’esso una piccolissima parte di un insieme ancora più grande? Se la nostra Terra non fosse altro che una
cellula nel ventre di una madre? La nascita dell’universo è simile a quella di ogni vita, è lo
stesso miracolo che si ripete, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Ti immagini
quale fantastico viaggio sarebbe se potessimo risalire fino all’occhio di questa madre e
vedere attraverso la sua iride com’è il mondo? La vita è un soprendente prodigio.»«Ma chi ha
elaborato un prodigio così perfetto, Adrian?»
Epilogo
Iris è nata nove mesi dopo. Non l’abbiamo battezzata, ma il giorno in cui ha compiuto un
anno, mentre la portavamo per la prima volta nella valle dell’Omo a conoscere Harry, sua
madre e io le abbiamo regalato un ciondolo.
Non so cosa deciderà di fare nella vita, ma quando sarà grande, se verrà a chiedermi
cosa rappresenta quello strano oggetto che porta intorno al collo, le leggerò le parole di un
antico testo che mi ha dato un vecchio professore.
Vi è una leggenda secondo la quale il bambino nel ventre della madre conosce tutto sul
mistero della creazione, dall’origine del mondo fino alla fine dei tempi. Alla nascita, un messaggero passa sulla culla e gli posa un dito sulle labbra affinché non sveli mai il segreto che
gli è stato affidato, il segreto della vita. Questo dito appoggiato che cancella per sempre la
memoria del bambino lascia un segno. Quel segno lo abbiamo tutti sul labbro superiore,io invece no.
Il giorno in cui sono nato, il messaggero si è dimenticato di farmi visita, e ricordo tutto…
A Ivory dovremo sempre tutta la nostra riconoscenza: Keira, Iris, Harry e io.