Il licenziamento ingiustificato: dalla reintegra alle

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Il licenziamento ingiustificato:
dalla reintegra alle tutele crescenti
Arturo Maresca Professore e avvocato MMBA Studio legale Maresca, Boccia & Associati
N. 50 - 26 dicembre 2014
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Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale 15 dicembre 2014, n. 290 della legge delega
di riforma del lavoro 10 dicembre 2014, n. 183, l’attenzione si sposta sui decreti
delegati e, in particolare, sul primo di essi che riguarderà le tutele economiche crescenti
applicabili nel caso di licenziamento ingiustificato dei lavoratori assunti dalla data di
entrata in vigore del decreto. Tutele sostitutive rispetto a quelle previste dall’art 18, St.
lav. che, invece, continuerà ad operare per tutti i dipendenti già in servizio a tempo
indeterminato alla stessa data, finché tale rapporto resterà in vita.
La legge delega segna una netta discontinuità rispetto alle politiche del lavoro dell’ultimo
decennio che hanno indotto le imprese ad utilizzare le variegate tipologie di rapporti
temporanei (autonomi, parasubordinati o subordinati) per fruire delle flessibilità e dei
minori costi di cui queste tipologie contrattuali sono dotate; flessibilità e minori costi che,
invece, non hanno fino ad oggi trovato ingresso nel contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato (Cti).
Una politica legislativa che si fondava su una sorta di scambio finalizzato a sottrarre il
contratto a tempo indeterminato dagli interventi di flessibilizzazione del lavoro che, infatti,
non toccavano né la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti a tempo indeterminato,
cioè le mansioni, gli orari e le retribuzioni (la cd. flessibilità funzionale) né, tanto meno,
quella in uscita irrigidita dalla regolamentazione del licenziamento (individuale e collettivo)
affidata ad un’ampia (ed imprevedibile) discrezionalità della giurisprudenza.
Quindi la flessibilità del lavoro riguardava solo quella in entrata, con la conseguenza
che il peso di essa veniva scaricato sui giovani per i quali l’accesso al lavoro si
realizzava attraverso rapporti temporanei, flessibili e meno costosi nei quali, spesso, i
giovani rimangono intrappolati per lunghi periodi.
L’assolutizzazione della flessibilità in entrata per bilanciare l’assenza di flessibilità
gestionale ed in uscita, ha costituito la soluzione tenacemente perseguita dal legislatore
fino alla legge Fornero ed offerta alle imprese per realizzare gli aggiustamenti di
organico (qualitativi e quantitativi) affrancandosi dai vincoli legali in materia di licen­
ziamento, in quanto i contratti di lavoro temporanei, ma anche alcuni di quelli a tempo
indeterminato (ad esempio il lavoro intermittente, la somministrazione a tempo indeter­
minato), assorbivamo ed incorporavano l’effetto estintivo proprio del licenziamento sul
quale, invece, il legislatore non interveniva.
In definitiva volendo tracciare un bilancio, sia pure del tutto sommario, delle politiche
del lavoro dell’ultimo decennio, si può dire che il mercato e la regolazione del lavoro
venivano, sì, flessibilizzati, ma solo per i giovani che entravano nel mercato del lavoro (o
per chi puntava al reinserimento essendone stato espulso) con un’elevata iniquità sociale,
con una scarsa produttività del lavoro temporaneo sul quale le imprese non hanno alcun
interesse ad effettuare investimenti formativi, con preoccupanti costi sociali derivanti
dall’insicurezza del lavoro e dalla carenza di tutele per questi lavoratori (privi di
ammortizzatori) e, infine, con un contenzioso giudiziario derivante dalle incerte condi­
zioni di accesso al lavoro flessibile affidate a formule generali (il «progetto» o il
«programma di lavoro» nelle collaborazioni coordinate, «le ragioni di carattere tecni­
co, produttivo, organizzativo o sostitutivo» per il lavoro a termine e la somministrazio­
ne, la «natura meramente occasionale» per il lavoro accessorio, il «carattere disconti­
nuo o intermittente» per il lavoro a chiamata) in balia delle oscillanti interpretazioni
della giurisprudenza. Contenzioso che, spesso, rappresentava la strada scelta dal lavora­
tore per ottenere la stabilizzazione del rapporto di lavoro per sentenza del Tribunale.
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In questa prospettiva appare significativo ed emblematico il richiamo a due interventi del
legislatore riguardanti il contratto a tempo indeterminato (Cti): il primo sull’orario di
lavoro (D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66) ed il secondo sulla riservatezza dei dati personali
(D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
In questi due casi il legislatore avrebbe potuto cogliere l’occasione per dotare anche il
contratto a tempo indeterminato di alcune flessibilità funzionali, ma si guardò bene dal farlo.
Nel primo caso l’applicazione della nuove regole venne sottoposta al filtro (rectius: alla
facoltà di interdizione) della contrattazione collettiva pur nella consapevolezza, manifestata
dallo stesso legislatore, che ciò avrebbe minato l’effettività delle innovazioni in materia di
orario. Consapevolezza evidenziata dall’art. 19, D.Lgs. n. 66/2003 che stabiliva: «entro un
anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministero del lavoro …
convoca le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori compara­
tivamente più rappresentative al fine di verificare lo stato di attuazione del presente
decreto nella contrattazione collettiva». Nulla di tutto ciò è stato mai fatto.
Ma ancor più emblematico è il caso relativo all’emanazione del codice sulla protezione
dei dati personali che all’art. 114, D.Lgs. n. 196/2003 rubricato «controllo a distan­
za» dispone che «resta fermo quanto disposto dall’art. 4 della legge 20 maggio 1970,
n. 300». Quindi, dopo oltre trenta anni dallo Statuto dei lavoratori ed in un contesto
radicalmente diverso sul piano sia normativo sia delle trasformazioni tecnologiche, il
legislatore del 2003 ritenne di confermare la normativa sui controlli a distanza prevista
dall’art. 4, St. lav., con buona pace della conclamata obsolescenza della stessa.
Tutto ciò ha determinato la fuga delle imprese dal contratto a tempo indeterminato e
l’utilizzo dei rapporti di lavoro temporanei caratterizzati da minori costi e più flessibilità.
Per frenare la fuga delle imprese dal contratto a tempo indeterminato riportandolo al centro
del diritto del lavoro e sottraendolo alla marginalizzazione nella quale era stato confinato, la
legge delega intende dotare questa forma contrattuale delle flessibilità necessarie (e di una
riduzione dei costi, come si dirà nel prosieguo) per renderla attrattiva con l’intento di invertire
la tendenza delle imprese ad avvalersi di lavoratori precari (collaboratori a progetto, lavora­
tori con partita Iva, associati in partecipazione, stagisti ecc.).
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Il contratto a tutele crescenti e l’art. 18, St. lav.
Un primo approccio alla disciplina delle tutele crescenti deve muovere da un confronto
con l’art. 18, St. lav., così come modificato dalla legge Fornero, per registrarne continui­
tà e discontinuità.
Infatti il primo interrogativo che si pone riguarda l’opportunità di un nuovo intervento
sull’art. 18, St. lav. a così poca distanza di tempo da quello realizzato con la legge 28
giugno 2012, n. 92.
Un interrogativo al quale si può dare una risposta semplice: la modifica dell’art. 18 voluta
dal legislatore del 2012 dimostra di non possedere l’efficacia necessaria a dare alle imprese
quella sicurezza in ordine alle conseguenze del licenziamento ingiustificato che avrebbe
dovuto concorrere ad invertire la tendenza delle stesse imprese alla fuga dal Cti.
Le incertezze applicative dell’art. 18 appaiono riconducibili, principalmente, a quattro
ordini di ragioni: 1) l’assetto fortemente innovativo del regime sanzionatorio del licen­
ziamento, con lo sdoppiamento, da una parte, delle condizioni che legittimano l’esercizio
del recesso a fronte di una giusta causa o di un giustificato motivo e, dall’altra, dei
presupposti identificativi del rimedio operante nel caso di licenziamento ingiustificato;
2) la duplicità concorrente di tali rimedi (reintegra/indennità) applicabili al licenzia­
mento ingiustificato sia disciplinare che economico; 3) la complessa formulazione del
testo normativo imputabile alle mediazioni politiche mosse dall’esigenza mediatica ­ con
conseguenze destabilizzanti sul piano della tenuta delle norme nella fase di applicazione
­ di innovare occultando l’innovazione nell’ambiguità; 4) la forte resistenza opposta
da una parte della giurisprudenza di merito ad accettare le scelte del legislatore e la
tendenza a ricercare, invece, nel labirinto del nuovo testo dell’art. 18 la strada per
riaccreditare la reintegrazione nel posto di lavoro come la sanzione naturale ed obbliga­
ta del licenziamento ingiustificato.
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Il decreto sulle tutele crescenti dovrà affrontare i nodi attuali dell’art. 18 con un
intervento articolato su tre principali linee direttrici: 1) la puntuale delimitazione
dell’ambito in cui opererà il nuovo regime destinato ai soli lavoratori di nuova assunzio­
ne (sono tali i lavoratori assunti a termine il cui rapporto venga trasformato a tempo
indeterminato e gli apprendisti che proseguono il rapporto di lavoro oltre il periodo
formativo); 2) l’auspicabile conferma dell’impianto concepito dalla legge Fornero per
quanto riguarda i due piani relativi, da una parte, alle condizioni legittimanti il recesso
e, dall’altra, ai presupposti per l’individuazione della sanzione applicabile; 3) il ridimen­
sionamento del meccanismo che determina il concorso di rimedi (reintegra/indennità)
esperibili nel caso di licenziamento ingiustificato che, secondo la legge delega, viene del
tutto superato per i licenziamenti economici (individuali e collettivi) per i quali la
reintegra non è più prevista e, comunque, circoscritto per il licenziamento disciplinare. In
questo caso, infatti, la reintegra sarà attivabile solo a fronte di fattispecie specifiche.
Con riferimento a quest’ultima prospettiva relativa al licenziamento disciplinare per
superare le incertezze (o almeno quelle più diffuse) emerse dall’applicazione giurispru­
denziale è assolutamente necessario un chiarimento relativo alla valutazione della
proporzionalità della sanzione (nel caso in esame il licenziamento) rispetto alla sanzione
commessa (art. 2106 c.c.). Valutazione che dovrebbe continuare ad operare per accerta­
re l’ingiustificatezza del licenziamento, ma non anche per individuare la sanzione ad
esso applicabile (reintegrazione/indennità) che, invece, andrebbe circoscritta all’indagine
in ordine alla sussistenza della condotta materialmente posta in essere dal lavoratore e
che ha determinato il licenziamento.
Peraltro in questo stesso senso deve essere interpretato l’art. 18 nel testo oggi vigente,
come ha chiarito la prima sentenza della Cassazione (6 novembre 2014, n. 23669) che
si è pronunziata sul punto precisando «che esula dalla fattispecie che è alla base della
reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzio­
ne rispetto alla gravità del comportamento addebitato», sul presupposto che «occor­
re operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione».
C’è un’altra recente sentenza della Cassazione (4 settembre 2014, n. 18678) che in
qualche modo sembra attirare l’attenzione del legislatore delegato, nella parte in cui
riconduce al giustificato motivo oggettivo il licenziamento del lavoratore per scarso
rendimento riscontrabile «in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi
fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realiz­
zato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultati dati globali
riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal
conseguimento di una soglia minima di produzione». In questo caso il legislatore
delegato potrebbe ribadire il principio espresso dalla Cassazione, chiarendo che lo scarso
rendimento oggettivo (cioè quello misurato in base a parametri, appunto, oggettivi e
predeterminati che si distingue e differenzia da quello soggettivo imputabile a negligen­
za o imperizia del dipendente che, invece, dà luogo al licenziamento disciplinare) può
essere valutato ai fini del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Con la non
trascurabile conseguenza che, nel caso in cui tale licenziamento fosse ritenuto ingiustifi­
cato, la sanzione applicabile al datore di lavoro sarebbe quella dell’indennità omnicom­
prensiva (e non la reintegrazione nel posto di lavoro).
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Esenzione contributiva triennale e riduzione dell’Irap
C’è un ulteriore punto da segnalare che, seppure non direttamente riferibile alle tutele
crescenti applicabili al licenziamento, si palesa determinante nella strategia del legislato­
re finalizzata a promuovere il contratto a tempo indeterminato: si tratta della previsione
contenuta nella legge di stabilità per il 2015 relativa all’esenzione contributiva triennale
ed alla riduzione dell’Irap per i lavoratori assunti a tempo indeterminato.
Anche con riferimento a questo aspetto l’intervento del legislatore del 2014 appare più
coraggioso e deciso rispetto a quello operato dalla legge Fornero per sostenere l’obiettivo
comune di rendere attrattivo il contratto a tempo indeterminato. La legge Fornero,
infatti, puntava sull’apprendistato, senza essere però riuscita a sottrarre questa tipologia
contrattuale dalle secche in cui era rimasta invischiata.
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Osservazioni conclusive
Concludendo, si può dire che dalla ricognizione fin qui effettuata delle convergenze e
divergenze tra il nuovo regime delle tutele crescenti così come prefigurato nella legge
delega e quello dell’art. 18, emerge un quadro abbastanza chiaro che consente di
affermare che le tutele crescenti costituiscono un’evoluzione ed uno svolgimento ulteriore
del disegno perseguito dalla legge Fornero, anche se dotato di maggior efficacia, di
minori incertezze e, complessivamente, di una rafforzata attitudine a promuovere il
contratto a tempo indeterminato attraverso la flessibilità in uscita.
Com’era già avvenuto con la legge Fornero, il regime delle tutele crescenti si dovrebbe
innestare all’interno del contratto a tempo indeterminato, senza dar luogo ad una
duplicazione delle tipologie contrattuali derivanti dal ceppo comune del lavoro a tempo
indeterminato. Una duplicazione che avrebbe costituito un’inutile superfetazione, in
quanto il contratto di lavoro connotato dalle tutele crescenti si sarebbe aggiunto al
contratto a tempo indeterminato caratterizzato dall’applicazione dell’art. 18 nel testo
oggi vigente. Con la possibilità in questo caso di scegliere tra l’una o l’altra tipologia
contrattuale.
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