“Philip era attirato dalla tragedia e non poteva

la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014 NUMERO 490
PHILIP SEYMOUR HOFFMAN E JOHN LE CARRÉ NEL PUB " SILBERSACK" DI AMBURGO. FOTO DI ANTON CORBIJN/SCHIRMER-MOSEL
Cult
La copertina. La fine delle hit parade
Straparlando. Carlo Cellucci: “Il vero è fantasia”
La poesia del mondo. Le Canzonette di Fortini
Le Carré C
IoeSeymour
Hoffman
JOHN LE CARRÉ
“Philip era attirato dalla tragedia e non poteva
tollerare un mondo così sfolgorante”. Lo scrittore
racconta l’ultimo incontro con un genio disperato
REDO di aver trascorso
cinque ore al massimo in
intima compagnia di
Philip Seymour Hoffman, sei col beneficio del
dubbio. Altrimenti, non restava che
starsene lì con altre persone, intorno
al set di A Most Wanted Man, a guardarlo sul monitor, e in seguito gli si diceva che era bravo, o si decideva che
era meglio tenersi per sé le proprie
opinioni. Non avevo fatto quasi mai
visite al set, forse un paio, oltre a una
sciocca particina che mi obbligò a farmi crescere una barba rivoltante, mi
portò via un giorno intero e alla fine si
concluse con la sfocata immagine di
qualcuno che fui grato di non riconoscere. Quasi certamente nel mondo
del cinema non c’è nessuno di più superfluo di colui che ha scritto il testo
originale da cui è stata tratta la sceneggiatura di un film e che gironzola
sul set, e l’ho appreso a mie spese.
Alec Guinness in effetti mi ha fatto il
favore di mostrarmi il set dell’adattamento televisivo per la Bbc di La talpa. Tutto quello che avevo in mente di
fare era sprigionare la mia ammirazione, ma Alec disse subito che il mio
sguardo lucentissimo era troppo intenso.
A ben pensarci, in quell’inverno del
2012 di riprese di A Most Wanted
Man, un pomeriggio Philip ha fatto lo
stesso favore a una nostra amica. Lei
si trovava in piedi in mezzo a un gruppetto di persone, a una trentina di metri circa da lui. Se ne stava lì a guardare, prendendo freddo come chiunque
altro. Qualcosa di lei però lo infastidiva e l’ha fatta allontanare.
È stato un po’ surreale, un po’ paranormale, ma Philip ha colto nel segno, perché in effetti anche quella signora era una scrittrice di romanzi, in
grado di irradiare intensità come i migliori tra noi. Philip non lo sapeva.
L’ha intuito soltanto.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L’immagine. Tanti saluti alla cartolina (soprattutto a quella dal nulla). La storia. Lo sguardo senza confini di Tiziano Terzani
dai suoi passaporti. L’incontro. Cyndi Lauper: “Sono sempre una ragazza che pensa solo a divertirsi. Quando non lava i piatti”
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
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La copertina. Le Carré e Seymour Hoffman
“La spia che ha interpretato
prima di morire è un uomo in rovina
Philip si distruggeva davanti a te
e aveva bisogno che tu lo sapessi
Ogni volta che usciva da una stanza,
temevi di non rivederlo più”
<SEGUE DALLA COPERTINA
JOHN LE CARRÉ
C
OL SENNO DI POI, nessun fenomeno di questo tipo sorprendeva di Philip, perché ti accorgevi delle sue brillanti doti intuitive nell’istante stesso in cui ne facevi
la conoscenza. E così pure era per la sua intelligenza.
Molti attori simulano intelligenza, ma Philip era intelligente sul serio: era un eclettico brillante, raffinato, e aveva un intelletto che ti colpiva come la luce
di un paio di fari e ti avviluppava appena ti afferrava
la mano, ti circondava il collo con il suo braccione e si
accostava con la sua guancia alla tua; o, se era dell’umore giusto, ti avvinghiava stringendoti a sé, come
un grosso scolaro tracagnotto, e poi restava lì in piedi a illuminarti, calcolando l’effetto prodotto.
Philip faceva vivaci bilanci di ogni cosa, di continuo. Era un’occupazione dolente ed estenuante, e alla fine deve essere stata la sua rovina. Il mondo era
troppo sfolgorante perché lui lo potesse tollerare. Doveva strizzare gli occhi o
esserne abbagliato a morte. Come Chatterton, andò sette volte sulla Luna rispetto all’unica vostra, e ogni volta che decollava non eri mai sicuro che sarebbe tornato indietro. Credo che qualcuno disse la stessa cosa del poeta tedesco
Hölderlin: ogniqualvolta usciva da una stanza, temevi di non rivederlo più. Se
quanto sto dicendo può sembrare un’opinione scontata, a posteriori, dopo quello che è successo, sappiate che non è così. Philip si distruggeva davanti ai tuoi
stessi occhi. Nessuno riusciva a vivere
ai suoi ritmi e a rimanere in carreg- Guinness, sullo schermo Philip non
giata, e nei suoi eccessi di straordina- riusciva a interpretare granché bene
ria confidenza aveva bisogno che tu lo un amante, ma per fortuna nel nostro
sapessi.
film non c’era di che preoccuparsi. Se
Nessun attore — non Richard Bur- Philip doveva prendere nelle proprie
ton, non Burt Lancaster, e neppure braccia una donna, non arrossivi e
Alec Guinness — mi ha mai colpito non distoglievi lo sguardo come facequanto Philip quando ci siamo cono- vi con Guinness, ma non potevi fare a
sciuti: mi ha accolto come se da tutta meno di avere la sensazione che, in
la sua vita non avesse fatto altro che qualche modo, lui lo stesse facendo
aspettare di conoscermi, e suppongo per te, più che per se stesso.
che accogliesse così chiunque. Io, inI nostri registi hanno discusso a lunvece, effettivamente aspettavo da go per decidere se dovessero riprenmolto tempo di conoscere Philip. Ri- dere Philip a letto con una donna, ed è
tenevo che il suo Capote fosse la mi- interessante sapere che quando alla
gliore performance in assoluto che fine hanno proposto davvero una sceavessi visto sullo schermo. Non ho osa- na del genere, sono stati entrambi i
to dirglielo, però, perché con gli atto- partner a defilarsi. Soltanto quando
ri c’è sempre il rischio che quando di- accanto a lui è comparsa la splendida
ci loro quanto sono stati bravi nove an- attrice Nina Hoss i registi si sono resi
ni prima ti possano chiedere che cosa conto di assistere al piccolo miracolo
c’è che non va nel loro modo di recita- di un romantico fallimento. Nella sua
re da nove anni a questa parte.
parte, rimpolpata in fretta e furia, NiGli ho detto però che era l’unico at- na Hoss è l’adorante collega di lavoro
tore americano che conoscevo in gra- di Philip, la sua sostenitrice, la sua sodo di interpretare il mio personaggio lida spalla. E lui le spezza il cuore.
di George Smiley, ruolo in un primo
A Philip quella parte andava benistempo esaltato da Alec Guinness nel- simo: la sua interpretazione di
l’adattamento televisivo per la Bbc de Günther Bachmann, un agente delLa talpa, e in tempi più recenti da l’intelligence tedesca di mezza età in
Gary Oldman in un altro adattamen- condizioni assai precarie, non preveto per il grande schermo. Ma all’epo- deva di includere l’amore o niente del
ca, da fedele britannico, rivendicavo genere. Philip aveva preso quella deGary Oldman come nostro.
cisione fin dall’inizio e per poterlo rinForse ricordavo anche che, al pari di facciare all’occasione si portava sempre appresso una copia in formato tascabile del mio romanzo, molto
sgualcita dall’uso — e quale scrittore potrebbe chiedere di meglio? —
, per sventolarla sotto il
naso di chiunque avesse l’idea di aggiungere un po’ di pepe alla
storia.
Il film A Most
Wanted Man ,
nel quale recitano anche RaIL FILM
chel McAdams
PHILIP SEYMOUR
e Willem Dafoe,
HOFFMAN IN “A MOST
sta per uscire nei
WANTED MAN”
cinema, anche da
DI ANTON CORBIJN
voi, quindi iniziaAPPENA USCITO
te a mettere da
NEGLI STATI UNITI
parte i soldi per
IN ITALIA ARRIVERÀ
il biglietto. È
DOPO L’ESTATE
stato girato
quasi interamente
ad Am-
Il mio
agente
troppo
speciale
burgo e Berlino, e del cast, in ruoli relativamente di secondo piano, fanno
parte anche alcuni degli attori tedeschi più famosi: non solo la sublime Nina Hoss, (interprete di We Are the Night, Barbara, e così via), ma anche Daniel Brühl (che ha recitato in Rush,
Good Bye Lenin! e in altre pellicole).
Nel romanzo, il mio personaggio di
Bachmann è un agente segreto prossimo alla rovina. Beh, Philip sa interpretarlo alla perfezione. È stato riportato in tutta fretta a casa da Beirut dopo aver perso la sua preziosa rete di
informatori per l’incompetenza, o
qualcosa di peggio ancora, della Cia. È
stato spedito ad Amburgo, a raccogliere informazioni nella città che
ospitò i cospiratori dell’11 settembre.
La divisione dell’intelligence locale, e
molti dei suoi abitanti, vivono portandosi ancora dietro quell’imbarazzo.
La missione che Bachmann si è dato è ripianare le cose: non con squadre
di sequestratori, torture con l’acqua e
L’autore
JOHN LE CARRÉ, 82 ANNI,
EX AGENTE DEI SERVIZI
SEGRETI BRITANNICI,
È UNO DEGLI AUTORI DI SPY
STORY E THRILLER
PIÙ LETTI AL MONDO.
TRA I SUOI BESTSELLER,
DAL 1961 A OGGI,
“LA SPIA VENUTA
DAL FREDDO” , “LA TALPA”
“LA CASA RUSSIA”
E “IL SARTO DI PANAMA”
omicidi extragiudiziali, ma con la sapiente infiltrazione di spie, amalgamandosi, utilizzando il peso stesso del
nemico per abbatterlo, e compiere
quindi lo smantellamento del jihadismo dal di dentro.
Mi sembra che nel corso di una cena
di gala con i registi e gli attori principali del cast, né Philip né io abbiamo
parlato granché della parte di Bachmann; abbiamo chiacchierato in termini più generali di cose come la diligenza e l’addestramento degli agenti
segreti e il ruolo di pastore che ricade
sui funzionari loro superiori. Lascia
stare i ricatti, gli ho detto. Lascia stare i macho. Dimentica torture come la
privazione del sonno, richiudere le
persone in casse, simulare l’esecuzione e altre esagerazioni di questo tipo.
Gli agenti migliori — chiamali informatori, spie, infiltrati o come ti pare
— devono avere pazienza, intendimento e sincera scrupolosità, predicavo. Mi piace pensare che egli abbia
la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
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I successi
SUL SET
JOHN LE CARRÉ
E, A DESTRA,
PHILIP SEYMOUR
HOFFMAN SUL SET
DI “A MOST WANTED
MAN” TRATTO
DAL ROMANZO
DI LE CARRÉ
PUBBLICATO
IN ITALIA
COL TITOLO
“YSSA IL BUONO”
(MONDADORI, 2008)
IL GRANDE LEBOWSKI
JOEL COEN
1998
MAGNOLIA
PAUL THOMAS ANDERSON
1999
LA 25ª ORA
SPIKE LEE
2OO2
TRUMAN CAPOTE
A SANGUE FREDDO
BENNETT MILLER
2005
ONORA IL PADRE
E LA MADRE
SIDNEY LUMET
2007
LA FAMIGLIA SAVAGE
TAMARA JENKINS
2007
FOTO ANTON CORBIJN/CONTOUR/GETTY
IL DUBBIO
JOHN PATRICK SHANLEY
2008
preso a cuore il mio sermone, ma è più
probabile che si sia chiesto se non valeva la pena sfruttare un po’ quell’espressione smancerosa che mi viene
naturale quando cerco di far colpo su
qualcuno.
È difficile adesso scrivere in modo
distaccato della performance di Philip nel ruolo di un uomo disperato di
mezza età che va incontro alla rovina,
o di come egli ha dato forma alla traiettoria autodistruttiva del suo personaggio. Naturalmente c’era qualcuno
a dirigerlo, e il regista Anton Corbijn,
eclettico e colto come Philip, è poliedrico e fa molte cose, tutte splendidamente: è un fotografo di fama mondiale, un caposaldo della scena musicale contemporanea, ed è egli stesso il
soggetto di un documentario. Il suo
primo film, Control, in bianco e nero,
è iconico. Al momento sta girando un
film su James Dean. Malgrado tutto
ciò, comunque, i suoi talenti e la sua
creatività, quando li ho visti all’opera,
L’attore
PHILIP SEYMOUR HOFFMAN,
NATO VICINO A NEW YORK,
È DECEDUTO LO SCORSO
2 FEBBRAIO PER OVERDOSE.
HA VINTO UN OSCAR
COME MIGLIOR ATTORE
PROTAGONISTA NEL 2006
PER “TRUMAN CAPOTE A SANGUE FREDDO”.
ERA UN INTERPRETE CULT
SIA DI FILM D’AUTORE
CHE DI BLOCKBUSTER
mi hanno colpito; erano interiorizzati
e contavano per lui stesso. Sospetto
che egli sarebbe l’ultima persona al
mondo a definirsi un drammaturgo
empirico, o un eloquente comunicatore della vita interiore di un personaggio. Philip ha dovuto fare dentro
di sé quello stesso dialogo, e deve essere stato un dialogo alquanto ossessivo, pieno di domande come: a che
punto esatto devo perdere ogni sensazione di moderazione? Oppure:
perché insisto nell’affrontare tutto
ciò pur sapendo in fondo in fondo che
può soltanto finire in tragedia? Ma la
tragedia attirava Bachmann come fa
la luce di una lampada con un saccheggiatore di relitti, e ha attirato anche Philip.
C’è stato un problema con gli accenti. C’erano attori tedeschi eccellenti che parlavano inglese con accento teutonico. Il comune buonsenso
avrebbe imposto, non necessariamente con saggezza, che Philip do-
vesse fare altrettanto. Quando l’ho
sentito parlare per pochi minuti, ho
pensato: “Accidenti!”. Nessun tedesco che conosco parla inglese così. Con
la bocca faceva qualcosa di particolare, una specie di broncio. Pareva quasi baciare le sue battute, invece di pronunciarle. Poi, poco alla volta, ha fatto ciò che soltanto gli attori migliori
riescono a fare: ha reso la sua voce l’unica voce autentica. L’unica voce particolare, quella dalla quale dipendevi
in mezzo a tutte le altre. E ogni volta
che usciva di scena, da quel grand’uomo che era, attendevi impaziente che
vi tornasse. Lo aspettavi già con un
crescente senso di malessere.
Dovremo attendere a lungo prima
che arrivi un altro Philip.
Traduzione di Anna Bissanti
© David Cornwell, 2014
Published by Arrangement
with Agenzia Santachiara
© RIPRODUZIONE RISERVATA
I LOVE RADIO ROCK
RICHARD CURTIS
2009
LE IDI DI MARZO
GEORGE CLOONEY
2009
THE MASTER
PAUL THOMAS ANDERSON
2012
HUNGER GAMESLA RAGAZZA DI FUOCO
FRANCIS LAWRENCE
2013
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
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Le immagini. Souvenir
BRUGHERIO (MILANO). IL PRIMO QUARTIERE DELLA EDILNORD (1962)
CAMPORA SAN GIOVANNI (COSENZA). CORSO ITALIA DI NOTTE
LIDO DI CAMPOMARINO
G I O R G I O VA S T A
P
CIRIÈ (TORINO). VIA PAOLO BRACCINI
Spedivamo milioni di cartoline,
anche dai posti più assurdi. Un libro
le ha raccolte. Appena in tempo
IAZZA Affari a Zingonia, via Traversi a Quarto Oggiaro, viale della Stazione a Gattinara oppure la centrale termoelettrica di San Giovanni Valdarno, un camping di Lido Cavallino e una casa di riposo a Mombaruzzo: se si volesse descrivere un’identità nazionale attraverso i luoghi si opporrebbe molta resistenza all’ipotesi di individuare nei centri appena citati, e in questa tipologia di costruzioni, qualcosa di
utile. Perché l’immagine nazionale si compone connettendo il Colosseo alla Torre di Pisa, il Maschio Angioino alla Mole. Eppure c’è stato un tempo — tra la fine degli anni ‘50 e i
‘70 — in cui tutt’intorno al Monumento che unifica (e semplifica) la Memoria c’era una corolla di luoghi ulteriori, minimi e irrilevanti, periferie che, desiderando almeno per una volta percepirsi come centro, presero a comparire esattamente in quei rettangoli di cartoncino in cui fino ad allora figuravano solo gli emblemi dell’Arte e della Storia. Ebbero vita breve: se la cartolina come consuetudine sociale è oggi ormai prossima all’estinzione, di questa cartolina dell’insignificante si sono perse da tempo le tracce. Vale la pena ricostruire le circostanze in cui divenne possibile concepire come soggetto memorabile un comunissimo
incrocio cittadino circondato da condomìni appena nati, gli autogrill Pavesi sospesi a
ponte sulle autostrade, fieri nel loro design tra la pagoda e l’astronave, l’edilizia popolare anodina e funzionale del Piano Ina o lo stabilimento siderurgico Oscar Sinigaglia
S. GIOVANNI VALDARNO (AREZZO).
Saluti da
di Genova (sul retro, inquietante, la scritta “Pensandoti caramente”). Durante il boom,
nelle comunità che vivono in paesini o nei quartieri operai nasce il desiderio di veder
rappresentato il proprio spazio minuscolo nello stesso modo in cui erano rappresentati quelli maiuscoli. A venire orgogliosamente rivendicato è lo splendore del prosaico,
lo sfavillio dell’opaco. Un determinato luogo — è il principio sottinteso — ha valore semplicemente perché è dove abitiamo: perché è il nostro luogo. E allora, mentre il calcestruzzo prende il posto del marmo e l’amianto quello del travertino, una moltiplicazione di vedutine di Bresso comincia a esistere accanto a (se non contro) San Pietro e
Palazzo Vecchio: l’ordinario come meraviglia. A tutto ciò si aggiunge l’esigenza promozionale. Tirando a poco prezzo alcune migliaia di copie presso una tipografia di quartiere, per un esercente era possibile far circolare una veduta di viale al Mare di Lido di
Campomarino — la gente seduta ai tavolini sotto l’insegna Bar Maria Tabacchi (gli albori del product placement) — oppure immortalare l’istante in cui il portiere dell’Hotel Madonia Lido Terrasini registra l’ospite appena arrivato, l’immagine talmente virata verso il miele da far pensare all’intervento di un professionista. E in effetti, accanto
al fotografo su commissione si affermò la figura del cromista, che ritoccava lo scatto saturandolo, aggiungendo nuvole, mitizzando i colori. Puro doping fotografico.
Il punto di non ritorno dell’impulso identitario all’origine del fenomeno coincide con
gli interventi a penna direttamente sulle cartoline, quando per esempio una freccia indica un balconcino (casa nostra, viene precisato con soddisfazione) o un tratto di Bic
collega la sagoma di un ragazzino in mezzo alla strada alla scritta “Sono proprio io”. È
il desiderio di esserci, di abitare lo spazio (e con lo spazio il tempo), qualsiasi esso sia:
una geolocalizzazione estrema, emotiva e inconfutabile, senza Gps.
SAN SALVO (CHIETI). STABILIMENTO S.I.V.
CINISELLO BALSAMO (MILANO). EDILIZIA RESIDENZIALE
© RIPRODUZIONE RISERVATA
NOVARA. AUTOGRILL PAVESI SULL’AUTOSTRADA MILANO-TORINO
SESSA AURUNCA (CASERTA).
BUSTO ARSIZIO (VARESE).
la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
(CAMPOBASSO). VIALE DEL MARE
BRESSO (MILANO). PERIFERIA
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GELA (CALTANISSETTA). EDILIZIA RESIDENZIALE E AREA INDUSTRIALE
Schiavizzato
da un onorevole
grafomane
U G O G R EG O R ET TI
A VICENDA PIÙ DRAMMATICA che ho vissuto nel mio passato di
L
CENTRALE TERMOELETTRICA
cartolinografo fu un breve viaggio nell’Africa Occidentale Francese,
nella recentemente costituita Communauté franco-africaine, voluta
da De Gaulle e votata da Senegal, Costa d’Avorio, Sierra Leone e
Marocco. Promotore del nostro raid era stato un notabile
democristiano calabrese, deputato e presidente di quello che era e credo ancora
sia l’ente inutile più inutile di tutti gli enti inutili italiani: l’Istituto italiano per
l’Africa. L’onorevole, che chiameremo F., aveva messo insieme una delegazione
Cinisello
LECCE. VIA SAN TRINCHESE
IL LIBRO
LE IMMAGINI SONO TRATTE DA “IN UN’ALTRA
PARTE DELLA CITTÀ - L’ETÀ DELL’ORO
DELLE CARTOLINE” DI PAOLO CAREDDA
PUBBLICATO DA ISBN EDIZIONI (208 PAGINE,
22 EURO). L’ULTIMO LIBRO DI GIORGIO
VASTA È “PRESENTE” (AA.VV. EINAUDI 2012)
di piccoli industriali italiani che avrebbe dovuto stringere rapporti di scambio
con gli imprenditori locali, ma soprattutto recare a quelle genti un improbabile
«messaggio di italianità». Giunti in quei luoghi, però, scoprimmo che l’onorevole
F. aveva ben altra «priorità»: inondare la Calabria e il proprio collegio elettorale
di cartoline illustrate recanti «Un memore saluto dall’Africa». Giungendo nelle
capitali di quegli Stati, l’unico governante che si preoccupava di incontrare era il
ministro delle Poste, al quale ingiungeva di rastrellare il maggior quantitativo
possibile di cartoline e francobolli. In Costa d’Avorio mettemmo addirittura in
crisi il sistema postale. Aveva schiavizzato me e l’operatore, costringendoci a
scrivere indirizzi e incollare francobolli. Scoprimmo che aveva portato con sé un
registro con i recapiti e le qualifiche di tutti i suoi capielettori. L’effetto era
esilarante. Il catalogo era accuratissimo, quasi scientifico. Per esempio:
cognome FRANCO – nome TINO – soprannome FEFÈ – pronome TU –
professione AVVOCATO – santo protettore SAN FRANCESCO. E così, senza
fallo, noi scrivevamo: «Egregio avvocato TINO FRANCO. E poi il testo: Caro FEFÈ,
ti invio un memore saluto dall’Africa». Io: «E ha sempre funzionato?». Onorevole:
«Una volta no, purtroppo. Un segretario mandò gli auguri per san Francesco di
Paola ai francescani di Assisi , e così persi tutti gli elettori di nome Francesco».
(Dalla prefazione di In un’altra parte della città - L’età d’oro delle cartoline)
PINETA
MOSTRA DEL TESSILE
© RIPRODUZIONE RISERVATA
VIBO VALENTIA. VEDUTA NOTTURNA
MIGLIARO (FERRARA). VIA SAVONAROLA
ZINGONIA (BERGAMO). I PALAZZI DETTI MISSILI E LA ZONA INDUSTRIALE
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
La storia. 2004-2014
Un giovanotto sorridente e ancora senza quei folti baffi
che sarebbero diventati il suo marchio: “dottore in Legge”
o “collaboratore sportivo”. A dieci anni dalla scomparsa,
spuntano dai cassetti di casa documenti, pass e tessere:
cioè le chiavi con cui apriva mondi ignoti. Per narrarli
LA FOTOGRAFIA
IL GIORNALISTA E SCRITTORE TIZIANO TERZANI
SULLA MURAGLIA CINESE NEL 1980
UN’IMMAGINE CONCESSA DA LONGANESI
CHE HA PUBBLICATO DA POCO “UN’IDEA
DI DESTINO” , RACCOLTA DEI SUOI DIARI
INEDITI DAL 1984 AL 2004
(496 PAGINE, 19,90 EURO)
G UIDO ANDRUET T O
Terzani
O Tiziano
Viaggiatore
l’inizio degli anni ‘70 ai primi anni ‘80, li conservò tutti
in posti disordinati insieme alle cose che gli erano più
care, come i libri e i suoi diari, per poi affidarli alla moglie Angela. E oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa avvenuta il 28 luglio del 2004, la Fondazione Giorgio Cini
di Venezia li ha presi in custodia acquisendo l’intero archivio dell’autore de La porta proibita, che oltre alla biblioteca di casa con più di seimila volumi comprende
tutti i blocchetti con gli appunti di viaggio, le carte geografiche, le vecchie macchine da scrivere Olivetti e
quelle fotografiche, e perfino tutti i telex originali inviati alle sedi dei giornali con cui collaborava. E i passaporti, ovviamente, che ci raccontano il Tiziano Terzani
viaggiatore infaticabile e appassionato. Su uno dei più
vecchi, in cui compare la sua foto sbarbato a ventisei anni, è riportata la data del rilascio, 7 marzo del 1964, e la
professione poi “tradita” di «dottore in Legge». Con i
suoi inconfondibili baffi, che cominciò a farsi crescere
dopo l’arrivo con la famiglia in Asia, appare invece in foto su quasi tutti gli altri passaporti, come quello rilasciato dall’Ambasciata d’Italia ad Hanoi il 9 aprile del
1976. Sono tutte immagini in movimento, come la sua
vita. Sempre tesa a scavalcare i confini di quei paesi del
sud-est asiatico che lui visitava con spirito libero e curioso. A volte per riuscirci gli occorrevano i visti. E per
ottenerli contavano molto le relazioni personali, che
Terzani sapeva coltivare tenendo sempre fede alle convinzioni politiche. In Cina gli fu sottratto il passaporto
e venne espulso perché non seguiva la linea del partito,
e prima in Vietnam e in Cambogia il visto di ingresso
(da Bangkok) gli fu ripetutamente negato perché criticava i regimi filoamericani nei due paesi. «L’ultima
volta glielo negarono appena prima della liberazione
nel 1975 — ricorda la moglie Angela Staude — per cui
fece ritorno a Saigon con l’ultimo volo prima dell’arrivo
dei comunisti, quando l’aeroporto era ormai stato disertato dal personale di controllo». È la storia con cui comincia Giai Phong!. «Gli fu anche negato il visto di rientro a Phnom Penh, per cui non era presente quando arrivarono i khmer rossi, invece varcò clandestinamente
il confine cambogiano a Poipet, dove i khmer rossi erano già giunti, pensando di trovarsi fra amici, quando
per poco non lo fucilarono».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© ARCHIVIO TERZANI/FONDAZIONE CINI
LTREPASSARE una frontiera per Tiziano Terzani era come aprire ogni
volta una porta. Su un
mondo di tradizioni,
usanze, lingue e paesaggi che lui voleva
sempre esplorare in
profondità. Le chiavi
che aveva a disposizione erano banalmente i
suoi documenti di viaggio, i passaporti, i visti d’ingresso e in qualche occasione i permessi speciali che gli consentivano di transitare nelle zone interdette ai comuni viaggiatori. Nel corso degli innumerevoli spostamenti da un capo all’altro
del mondo, lo scrittore e giornalista inviato in Asia dal-
32
la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
33
E nella valigia
metteva il desiderio
di guardare oltre
A NGE L A TE RZA NI STA UDE
ONO un esploratore e vado a esplorare”,
Tiziano aveva detto al giornalista inglese
che lo intervistava, e sono le parole che
abbiamo scritto nell’annuncio della sua
morte a Orsigna, il 28 luglio di dieci anni
fa. Lui la morte l’aveva sempre tenuta d’occhio lasciando detto,
quando ancora si vedeva morire in bocca a un coccodrillo, di
voler essere ricordato con una pietra che avesse un piccolo
incavo in cui potevano bere gli uccellini, il nome, le due date
d’obbligo e la sola parola, “viaggiatore”.
Viaggiava, viaggiava, perché viaggiare gli piaceva. Quante
volte ha descritto l’emozione di una partenza, quel
meraviglioso diventare anonimo e irreperibile! Viaggiare
placava la sua innata irrequietudine, la
sua sete di conoscenza. Ma essendo di
natura affabile e comunicativa, cercava
poi di raccontare ai lettori dei giornali
per i quali scriveva quel che aveva visto e
imparato strada facendo: non ultimo
perché così si guadagnava da vivere.
Fosse nato ricco, diceva, e qualche
secolo fa, avrebbe vissuto viaggiando e
scrivendo lettere a casa. Così, nato
povero e in tempi moderni, viaggiava
scrivendo per lavorare. Ma un giorno,
mentre con uno scalcinato piccolo
mercantile attraversava il golfo della
Thailandia verso la Cambogia — era
l’anno 1993, quello in cui non prendeva
mai aerei perché anni prima un
indovino di Hong Kong gli aveva
consigliato di non farlo — il suo amico
Léopold, compagno di quel viaggio, gli chiese a bruciapelo: «E
tu, cosa riporterai nelle tue valigie quando tornerai nella tua
terra?».La domanda lo colpì. Già, che cosa? Articoli, analisi di
dove va la Cina e cosa farà il Giappone, descrizioni di guerre e
colpi di stato ovviamente non bastavano. Scrisse allora Un
indovino mi disse, il libro in cui racconta di quell’anno in cui è
vissuto diversamente, “con un altro punto di vista”. Continuò a
cercarlo sempre, nei dieci anni che gli restavano, a parlarne
negli altri libri che scrisse e in quelli che ci lasciò, e di questo
averlo cercato disse alla fine che era stato il suo “unico
contributo”. «Vorrei diventare un profeta delle sue idee», mi
scrive oggi in una lettera da un paesino delle Marche un suo
lettore, «comunicare agli altri il desiderio di “guardare oltre” ».
È con il desiderio di “guardare oltre” che Tiziano aveva
affrontato la malattia e poi la morte. E forse è proprio questo il
contenuto delle sue valigie.
“S
IL RICORDO
I DOCUMENTI QUI RIPRODOTTI FANNO PARTE
DELL’ARCHIVIO TERZANI DELLA FONDAZIONE
CINI DI VENEZIA. VERRANNO RACCOLTI
NEL LIBRO “GUARDARE I FIORI DA UN CAVALLO
IN CORSA”, A CURA DI ÀLEN LORETI,
CHE USCIRÀ PER RIZZOLI A OTTOBRE.
DOMANI AL NUOVO TEATRO DELL’OPERA
DI FIRENZE (ORE 21.30) COMUNE, REGIONE
TOSCANA E LONGANESI OMAGGERANNO
LA MEMORIA DI TERZANI CON UN CONCERTO,
LETTURE E VIDEO. PARTECIPERANNO
BERNARDO VALLI, ERMANNO OLMI, MONICA
GUERRITORE, ALESSANDRO BENVENUTI
SIMONE CRISTICCHI E IRENE GRANDI.
OGGI UNO SPECIALE SU WWW.REPUBBLICA.IT
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LA DOMENICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
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Spettacoli. Maestri in crisi
Toshio Suzuki
Il futuro dell’animazione
ora non è affar nostro...
LU C A R A FFA ELLI
TOKYO
ON ASPETTATEVI INSEGNE LUMINOSE o archi in stile hollywoodiano. Lo Stu-
N
GHIBLI
CHI È
TOSHIO SUZUKI
PER OLTRE VENT’ANNI
PRODUTTORE
DELLO STUDIO GHIBLI,
CELEBRE PER I LAVORI
DI HAYAO MIYAZAKI
OPERE PRINCIPALI
“IL MIO VICINO
TOTORO” (1988),
“LA PRINCIPESSA
MONONOKE” (1997),
“LA CITTÀ INCANTATA”
(2001), “IL CASTELLO
ERRANTE DI HOWL”
(2004); “PONYO
SULLA SCOGLIERA”
(2008)
FILOSOFIA
VALORI TRADIZIONALI:
ECOLOGIA, PACE
VISIONE POETICA E
NATURALISTICA
STORIE DELICATE
E ALLEGORICHE
SEMPLICI
COME I DISEGNI
dio Ghibli è una casa quasi in incognito tra una serie di altre case a tre
piani non lontano da dove è stato costruito il Ghibli Museum, in quella periferia di Tokyo che si permette piccoli spazi verdi tra una costruzione e l’altra. A segnalare la sua presenza giusto una piccola targa che timida fa capolino in una siepe. Il segnale è chiaro: qui si sta lavorando sodo, non vogliamo distrazioni. Anche la stanza di Toshio Suzuki, il produttore che ha permesso a Hayao Miyazaki la libertà creativa che lo ha reso celebre in tutto il mondo, è un piccolo e sobrio luogo di lavoro affollato di libri. Non bisogna davvero sottovalutare i
meriti di Suzuki: è stato lui in molte situazioni a spronare il Maestro,
a dargli il coraggio di intraprendere strade nuove (come quella della
Principessa Mononoke), è stato lui a volere il film di un suo breve manga, cioè quel S’alza il vento
meraviglioso e complesso, senza dolcezze infantili (grazie a Lucky Red arriverà sugli schermi italiani dal 13 al 16 settembre). Ed è una storia magnifica, quasi una leggenda, quella del loro primo
incontro. Era il 1978. Suzuki aveva trent’anni e collaborava a Animage, una rivista sull’animazione e voleva intervistare Miyazaki, ma il regista era troppo occupato e gli disse di andare via che non
aveva tempo. Lui attese tre giorni e tre notti prima di ricevere attenzione.
Suzuki, si rende conto che quella resistenza ha cambiato la sua vita e la storia dell’animazione?
«Innanzitutto devo dire che quella leggenda è vera. E non avevo nessuna idea di quello che un’attesa di tre giorni e tre notti mi avrebbe poi riservato. È avvenuto tutto più di 35 anni fa e Miyazaki
era impegnato nel lungometraggio di Lupin III. Quell’avvenimento mi fa pensare che tutti gli uomini sono piccoli, però nel momento in cui si creano delle relazioni tra persone che vogliono
creare qualcosa di nuovo, allora può accadere l’incredibile».
Dovendo descrivere il suo lavoro di questi anni cosa direbbe?
«Devo trovare una risposta semplice a una
domanda difficile. Forse va bene così: sono quello che si è occupato di vendere le creazioni di
Miyazaki».
Però qualche volta lei ha spinto Miyazaki a
prendere delle decisioni che non voleva prendere.
«Non è stato intenzionale. Il fatto è che ci parliamo tutti i giorni. È normale
che nel corso delle nostre
conversazioni nascano delle suggestioni per inventare qualcosa».
Si sente appagato da
quello che ha fatto?
«Ci sono stati momenti
molto difficili e il lavoro è stato spesso
tanto duro. Però
sì, è stato
anche divertente e
gratificante. Vuole sapere se sono felice? Bene, e
allora le dico: oggi sì.
Miyazaki
ha fatto l’ultimo film e sono
felice perché libero
da tutto il peso che ho
avuto in questi decenni.
Finalmente è finita».
La sua è una scelta obbligata?
«È cambiato il mondo. I nostri film costano troppo per il mercato di oggi. E
i film in genere stanno perdendo il senso che
hanno avuto finora. Ora ogni persona ha a disposizione migliaia di occasioni per vedere video che forse hanno più significato di un film. Di fronte alle possibilità offerte da internet
creare un film importante che abbia
la capacità di attirare l’attenzione degli
spettatori è sempre più difficile».
Sta dicendo che ci vorrebbe un nuovo Suzuki per capire il nuovo mercato?
«Anche se fossi trent’anni più giovane non
credo sarei in grado di capire cosa fare oggi.
Certo, qualcosa si può inventare. Ma è sempre
più difficile individuare la chiave del successo.
Per questo sono contento che per me adesso sia
tutto finito».
Pensa sia più difficile oggi mantenere la concentrazione degli spettatori?
«Non è questo. L’ultimo film che ho prodotto
è La principessa Kaguya dell’altro maestro dello Studio Ghibli, Isao Takahata, ed è il più
lungo della nostra storia: sono 127 minuti, ma sembra ne passino dieci. Sono felice
che Miyazaki e Takahata abbiano chiuso
con i loro due capolavori».
Ma come farà lo Studio Ghibli senza di voi?
«C’è la nuova generazione. Loro sapranno cosa fare».
Come vede il destino dell’animazione giapponese?
«Sicuramente scomparirà il disegno a mano
a favore del computer. Ma in fondo quello del destino dell’animazione giapponese è un argomento che non m’interessa affatto».
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Totoro
vs
la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
35
Yoshiyuki Tomino
L’immaginazione è finita,
non ci resta che la scienza
JAIME DALESSANDRO
TOKYO
I
IL GIGANTE è un uomo minuto di settantatré anni che indossa una camicia azzar-
data, per metà bianca e per metà nera. Ci accoglie in una sala riunioni asettica,
con un lungo tavolo di legno scuro lucido, nel palazzetto anonimo degli studi della Sunrise a Tokyo. Gli scaffali di metallo, protetti da vetrine, avrebbero potuto
ospitare raccolte di leggi o reperti medici. Invece ci sono migliaia di fumetti perfettamente ordinati. Meglio: di manga. Yoshiyuki Tomino ha uno sguardo ironico e un modo di fare sicuro che in Giappone hanno solo i colossi, i personaggi
intoccabili che hanno fatto la storia. E lui la storia l’ha fatta eccome. È il “padre”
di Gundam, la serie animata di robot più importante e amata. Uno dei capostipiti e punti di riferimento, insieme a Goldrake e Mazinga, per tutti gli altri, fin
dalla prima messa in onda il 7 aprile del 1979. Una storia lunga trentacinque anni fra trentasei serie tv, film, fumetti, libri, videogame e una schiera infinta di
modellini e action figure che hanno fatto incassare a Tomino & Co. mezzo miliardo di euro. E poi
due statue: la prima di bronzo, alta tre metri, davanti alla stazione della metropolitana di Suginami, il quartiere dove sorge la sede della Sunrise. La seconda a grandezza naturale, diciotto metri, che vigila sull’isola artificiale di Odaiba nella baia di Tokyo.
«Lei di cosa si occupa?» chiede Yoshiyuki Tomino spargendo sul tavolo alcuni fogli pieni di grafici, diagrammi, proiezioni, in un’intervista al contrario. «Di tecnologia e cultura digitale, per lo
più», rispondo. E cosa ci fa qui in Giappone allora? «Parte di quella cultura è stata creata qui». Lui
replica: «In passato, forse». Fa una pausa levandosi gli occhiali anni Settanta. «Ultimamente sto
cercando di promuovere alcuni progetti di ricerca avanzata giapponesi riguardanti ad esempio
l’uso del laser e gli acceleratori di particelle».
Ma lei non si occupa di animazione?
«In realtà io ho immaginato il futuro per più di trent’anni. L’ho scritto, disegnato, trasformato
in intrattenimento. Finché non mi sono accorto che il mio Paese il futuro lo stava perdendo. Anzi, l’ha perso. Oggi nella ricerca siamo indietro
rispetto alla Corea, alla Cina e siamo indietro robotica, almeno lo sviluppo di umanoidi sinanche rispetto agli Stati Uniti e all’Europa. tetici, sia una perdita di tempo».
Così ho deciso di impegnarmi per aiutare
Detto dal “padre” di Gundam fa effetto.
a costruire un avvenire possibile».
«Costruire un umanoide è cercare di capire
Dalla fantascienza alla realtà.
meglio il senso della nostra esistenza e il signi«La fantascienza parte sempre dal- ficato, o forse la bellezza, del nostro organismo.
la realtà (dice sorridendo). Il Giap- Ma non è detto che si trasformi in una suprepone ha investito miliardi nella ro- mazia in campo tecnologico».
botica, partendo da un’idea di
Quando l’avete persa la supremazia?
«La data esatta non la conosco. So però che è
fondo non troppo distante da
quella che fece nascere per- stato un americano, Steve Jobs, il primo a reasonaggi come Astro Boy, il lizzare una forma di relazione diversa e facile
bambino androide di fra uomo e macchina attraverso uno schermo
Osamu Tezuka e più tar- tattile».
di lo stesso Gundam.
Fin qui, gli smartphone.
«No: fin qui tutto. Abbiamo perso terreno in
Da giovane, all’inizio della mia car- tutti i campi, anche in quello dell’immaginario
riera, ho lavora- mentre perdevamo terreno reale e fette di
to con Tezuka mercato. Le due cose sono legate. Oggi l’aniproprio ad mazione giapponese quasi non esiste più. È daAstro Boy. ta in “outsourcing” a case di produzione sparMa a esser se per l’Asia, dal Vietnam alla Corea del Nord.
sincero A tal punto che a volte mi chiedo se non abbiac r e d o mo dato in “outsourcing” noi stessi. Fra qualc h e che anno non sapremo fare più nulla. Poco iml a porta che si tratti di disegnare un personaggio,
progettare un dispositivo digitale, realizzare
un videogame».
Sta dipingendo un paese senza futuro.
«Forse il futuro è nelle realtà produttive minute, nei progetti fatti da piccoli gruppi. È nell’intraprendere una strada diversa rispetto
a quella che abbiamo percorso».
Come fece lei trentacinque anni fa. La
nuova strada potrebbe indicarla lei.
«Quando fu mandata in onda la prima serie di Mobile Suit Gundam non
avevo idea che avrebbe avuto tanto successo. Non avevo in mano
una formula precisa e francamente oggi non saprei quale
consiglio dare ai giovani animatori. So solo quali sono i
problemi del nostro mondo, ma non conosco le
soluzioni. Credo però
ancora nella ricerca
scientifica. Non è
molto forse, ma è
quel che mi resta».
C’era
una volta
il Giappone
a spartirsi
il pianeta
coi suoi eroi :
classici
o cibernetici.
Be’, non c’è più
Gundam
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SUNRISE
CHI È
YOSHIYUKI TOMINO
INIZIA NELLO STUDIO
DEL “DIO DEI MANGA”,
OSAMU TEZUKA
E NEL 1979 CREA
GUNDAM, ROBOT
DA COMBATTIMENTO,
CAPOSTIPITE,
CON MAZINGA, JEEG
E ATLAS, DI UN GENERE
OPERE PRINCIPALI
“MOBILE SUIT
GUNDAM” (1979),
“IL CONTRATTACCO
DI CHAR” (1988),
“MOBILE SUITE
GUNDAM F91” (1991)
FILOSOFIA
VISIONE FUTURISTICA
E FANTASCIENTIFICA
SPESSO MOLTO CUPA
TRAME DINAMICHE,
SOLO ALCUNE
PIU’ SOFISTICATE.
TRATTO GEOMETRICO
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
Next. Creativi digitali
Performance, installazioni,
progetti interattivi...
Dimenticate tavolozza e creta,
la fantasia volerà sulle ali
dei codici informatici
C HIARA PANZERI
O STEREOTIPO lo vuole ancora con gli abiti sporchi di tempera e la
tavolozza dei colori in mano. E questo nonostante un Novecento
che nell’arte ha visto di tutto: i barattoli di Andy Warhol, le linee
infinite di Piero Manzoni, i neon di Mario Merz fino al dito medio
di Maurizio Cattelan. Ma cosa succede all'artista quando il terzo
millennio reclama il suo posto anche nella comunità dei creativi? Nel nord Europa, in Canada e negli Stati Uniti la rivoluzione
è già in corso: i nuovi artisti sono i programmatori, l’ispirazione
viaggia sui bit e i ferri del mestiere sono le stringhe di codice. Lo
chiamano “creative coding”, è l’uso del software applicato al
mondo delle arti: si parte dalla scrittura di un programma, che a
sua volta genera una performance, un’installazione interattiva
in cui il pubblico è chiamato a partecipare, un videogioco, un’opera di animazione.
Zachary Lieberman, newyorkese, si definisce “artista, hacker e ricercatore, un po’ come se l’arte fosse il dipartimento di Ricerca e Sviluppo dell'umanità”. Ha studiato pittura e incisione, e nell’informatica ci è finito per caso: gli serviva un lavoro, si è reinventato
come web designer. Oggi il suo nome spicca nel panorama della New Media Art, al punto che la sua ultima opera ha avuto un committente d’eccezione: Google. «Si chiama “Play
the world” (Suona il mondo) - spiega Lieberman -, e consiste in uno strumento musicale,
una sorta di tastiera. Quando si suona una nota, l’apparecchio rimanda a una stazione radio qualsiasi che nel mondo la sta trasmettendo. Il tutto grazie all'uso di un software che
“ascolta” migliaia di emittenti web contemporaneamente, e sa identificare la nota giusta. Mi piace l'idea che possa capitarti la radio sportiva brasiliana, quella tedesca di musica pop, o quella indonesiana che manda in onda canti locali».
Play the world fa parte di un progetto chiamato DevArt, che chiama a raccolta i migliori creative coders in circolazione. È stato lanciato a febbraio da Google con un con-
L
CONTACT^2
S’INIZIA PICCHIETTANDO
LE DITA SU UNA SUPERFICIE
DI LEGNO. IL RESTO LO FA
UN’INTERFACCIA AUDIO
CHE PERMETTE
DI MANIPOLARE
MA SOPRATTUTTO
VISUALIZZARE LE ONDE
SONORE CHE I COLPI
GENERANO SULLA TAVOLA
DEVART.WITHGOOGLE.COM/#/PROJECT/16589129?T=FINALIST
Artware
THE RYTHM OF THE CITY
LOSE/LOSE
DIECI METRONOMI PER
DIECI CITTÀ: OGNUNO
NE RAPPRESENTA IL RITMO.
VENGONO RACCOLTI
IN TEMPO REALE I DATI
SULL’ATTIVITÀ DEI SOCIAL
NETWORK (FB, YOUTUBE,
FLICKR): OGGI LA VELOCITÀ
DI UNA METROPOLI PASSA
DALLA SUA VITA DIGITALE
LA SOLITA INVASIONE
DEGLI ALIENI? NO: OGNUNO
DI ESSI È GENERATO
DA UN FILE DEL PROPRIO
COMPUTER. QUANDO
UN NEMICO VIENE UCCISO,
IL FILE CORRISPONDENTE
VIENE CANCELLATO
(E NON C’È MODO DI SAPERE
DI QUALE FILE SI TRATTI)
VARVARAG.INFO/THE-RHYTHM-OF-CITY/
STFJ.NET/ART/2009/LOSELOSE/
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la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
I REMEMBER
37
MONUMENT VALLEY
UNA PIATTAFORMA WEB
INTERATTIVA PER FINANZIARE
LA RICERCA CONTRO
L’ALZHEIMER. CI SI MUOVE
ATTRAVERSO UN TAPPETO
DI LUCI IN CUI OGNUNA
NASCONDE UN RICORDO
LASCIATO DAGLI UTENTI.
SE NON VIENE AGGIORNATA,
“SCOMPARE” DAL WEB
OPERA D’ARTE
O VIDEOGAME?
LA PROTAGONISTA
È LA PRINCIPESSA IDA,
DA GUIDARE ATTRAVERSO
ARCHITETTURE SURREALI,
ISPIRATE A ESCHER.
LO SCOPO È RAGGIUNGERE
LA CIMA DI QUESTO STRANO
EDIFICIO MUTANTE
I-REMEMBER.FR/EN/
MONUMENTVALLEYGAME.COM
corso: l’opera migliore (oltre a quelle commissionate dal gigante di Mountain View)
sarà esposta dal tre luglio al Barbican Museum di Londra, nell’ambito della mostra Digital Revolution.
Qualche volta, capita che siano gli sviluppatori a convertirsi alle Muse. Varvara
Guljajeva, estone, è partita da una laurea in
scienze informatiche che era diventata
troppo noiosa, per approdare a un Erasmus
a Helsinki dove ha scoperto le intersezioni
fra arte e tecnologia. Lavora in coppia con
Mar Canet, originario di Barcellona. Anche
loro sono stati scelti da Google per partecipare a DevArt. «L’intera opera - racconta
Varvara - è pensata per essere quasi una
magia. Lo sforzo fondamentale resta sempre quello di nascondere la complessità che
c’è dietro, come se il risultato finale godesse di vita propria. Abbiamo creato un “whishing wall”, uno schermo di fronte al quale
invitiamo le persone a esprimere un desiderio, e a farlo ad alta voce. Una volta pronunciato, si trasforma in una farfalla: si può
toccarla sul video, e aiutarla a volare via. Il
software fa in modo che ogni farfalla sia uni-
MR KALIA
VINCITORE DEL CONCORSO
INDETTO DA DEVART.
IL PUBBLICO SPERIMENTA
LE MUTAZIONI DI MR KALIA,
UN PERSONAGGIO
IMMAGINARIO, SU DI SÉ.
GRAZIE A UNA TECNOLOGIA
IN GRADO DI TRACCIARE
I MOVIMENTI DEL CORPO
DEVART.WITHGOOGLE.COM/#/PROJECT/16574285
GIANT MAP
UNA GIGANTESCA MAPPA
DI GOOGLE CON CUI
I BAMBINI POSSONO
INTERAGIRE
CAMMINANDOCI SOPRA
COME FOSSE UNA CITTÀ.
QUANDO PASSANO
L’IMMAGINE CAMBIA
QUASI FOSSERO LORO
A MODIFICARLA
DEVART.WITHGOOGLE.COM/#/PROJECT/16566495?T=FINALIST
QR-STENCILER
È UN SOFTWARE
CHE CONVERTE UN CODICE
QR IN UN PATTERN CHE
PUÒ ESSERE STAMPATO
SU UNO STENCIL. I CENTO
REALIZZATI DIVENTANO
CODICI QR IMPRESSI
SUI MURI DELLA CITTÀ
CON UN’INDICAZIONE
PER I VIAGGIATORI
FLONG.COM/PROJECTS/QR-CODES-FOR-DIGITAL-NOMADS/
ca, sia nella forma che nel movimento».
Per Conrad Bodman, curatore di Digital
Revolution, «Il creative coding è un ambito
di sperimentazione che si sta sviluppando
a ritmi velocissimi. Cresce il numero degli
artisti, e con loro gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. Pensiamo ad
esempio alle opportunità che si spalancano
grazie alle nuove realtà virtuali, mutuate
dai videogame: dispositivi come Oculus
Rift (il visore a realtà aumentata sul mercato dal 2015, ndr) o Microsoft Kinect (un
sensore di movimento, ndr) offrono incredibili potenzialità per i creativi. Soprattutto per tutti quelli che mirano all’interazione con il pubblico».
Il fermento di cui parla Bodman si ritrova
nel proliferare di festival dedicati alle arti
digitali, rassegne già affermate come Ars
Electronica, Art Futura, Bian (la biennale
internazionale che si tiene a Montréal),
Eyeo Festival, Resonate e molti altri. Ma anche gli ultimi nati come Unpainted, una manifestazione dedicata alla New Media Art
che quest’anno si è tenuta a Monaco per la
prima volta.
Non solo, il connubio fra arte e tecnologia
si sta facendo strada anche tra i banchi di
scuola. Per ora, soltanto all’estero. Se nel Regno Unito i linguaggi di programmazione sono già entrati negli istituti secondari, negli
Usa si sta affermando un movimento d’opinione che vorrebbe andare oltre. Dopo i fondi stanziati per potenziare l’insegnamento
nelle materie del cosiddetto Stem (Science,
Technology, Engineering and Math), una
nutrita comunità di educatori e intellettuali
preme perché l’acronimo diventi Steam, dove la “a” sta per “Art”. Questo consentirebbe
di sviluppare il potenziale creativo della
scrittura in codice già a livello scolastico: tutto tempo guadagnato, insomma, per i futuri creative coders.
Viene in mente Golan Levin, artista statunitense, che durante un intervento al Ted
(la conferenza annuale su idee e innovazioni da tutto il mondo, ndr) esordì così: «Immaginate di passare sette anni nei laboratori di ricerca del Mit… per scoprire di essere un
performance artist». Risatine dal pubblico,
ma era tutto vero.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
Sapori. Nella corrente
È L’ISOLA DEL GOLFO
NAPOLETANO
DALLA VOCAZIONE
GASTRONOMICA
PIÙ RADICATA
CONIGLI, LIMONI,
FICHI NATALINI,
FAGIOLI
ZAMPOGNARI
E UN VERO
PARADISO
DI VERDURE
PER UNA CUCINA
PIÙ CONTADINA
CHE MARINARA
Ischia tutto. Profumi
di terra e di mare
aspettando Afrodite
LI C I A G R A N ELLO
UANDO di una bellezza si dice che mozza il fiato è una
cosa così”, fa dire Gianni Mura al commissario Magrite nel suo romanzo Ischia. La baia mozzafiato è
quella di Maronti, rapinosa e irresistibile. Ma l’incantesimo degli occhi corrisponde a quello del palato, se è vero che delle tre perle maggiori appoggiate
nel cuore del golfo di Napoli, Ischia è quella con la vocazione gastronomica più radicata e corposa.
Certo, le dimensioni contano: Capri e Procida insieme coprono meno di un terzo della superficie
ischitana. Con i suoi quasi cinquanta chilometri quadrati di spiagge e boschi, sorgenti termali e colline
vitate, l’isola verde vanta una biodiversità fertilissima (grazie all’origine vulcanica) e complessa.
La cultura culinaria isolana attinge a mari e monti (grazie all’Epomeo e ai suoi 788 metri di altezza), con uno sbilanciamento in favore dei piatti terragni, caratteristica che segna la differenza
dai procidani, forti di una solida storia marinara. Perfino le stoviglie segnano in modo nettissimo
il rapporto con la terra: caldai, padelle, cocci per la cottura nella sabbia bollente, pentolame antico trasformato in moderni strumenti di cottura grazie alla vocazione di artigiani creativi come l’ischitano Pasquale Merone, stretto collaboratore dello chef Nino Di Costanzo.
Contadini più che pescatori, gli ischitani. E
coltivatori molto sapienti: una visita agli orti iso- ricetta-simbolo dell’isola.
lani vale quanto un tour nei più sofisticati giarL’altra faccia dell’agricoltura ischitana porta
dini inglesi. Affascina la ruvida grazia nella di- il nome delle uve — prime fra tutte, Forastera,
sposizione delle piante, ma più ancora il profu- Piedirosso, Biancolella — coltivate sui pendii
mo. Facile annusare un limone raccolto in uno isolani fin dai tempi dei Greci, che portarono la
di quei luoghi magici che sono le limonaie del- vite dalla penisola Calcidica. Una produzione
l’isola e restarne inebriati. Ma quando l’olfatto continuata con i Romani — da cui l’attribuzione
viene rapito da una zucchina o da un pomodoro, del nome Enaria — e arrivata fin qui con una dei
allora il Paradiso della verdura è davvero a un primi riconoscimenti dell’enologia italiana, la
passo.
Doc Ischia, datata 1966, a cui si sono aggiunti.
Gran merito va alla cocciutaggine con cui gli
Se volete riprovare il brivido alcolico di dueischitani hanno continuato a far crescere va- mila anni fa, andate a visitare il Museo Archeorietà antiche, magari poco produttive ma buo- logico di Pithaecuse (nome greco di Ischia) a
nissime. È il caso dei fagioli zampognari, rossi e Lacco Ameno, dove è conservata la Coppa di Necroccanti, delle arance tardive che maturano in store, ritrovata in zona nel 1955. Sull’esterno
agosto, dei fichi natalini. In quanto ai conigli, della piccola tazza, l’iscrizione recita: «Io sono la
Slow Food ha creato un presidio che ne proteg- bella coppa di Nestore, chi berrà da questa copge l’allevamento con alimenti naturali (niente pa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalmangimi) all’interno dello fosse, che sono fosse la bella corona». Così ispirati, andate a caccia di
davvero, profonde anche tre metri e ramificate un piatto di verdure ripiene e beveteci sopra un
in vari cunicoli scavati dagli stessi animali, così buon bicchiere di Biancolella, sapido e snello. La
da ricreare un ambiente simile a quello della vi- baia dei Maronti farà sospirare anche voi.
ta brada, garanzia di carni gustose e sode per la
© RIPRODUZIONE RISERVATA
“Q
Il borgo
L’incantevole borgo
di Sant’Angelo vanta tra i clienti
più fedeli la cancelliera Angela
Merkel, che ama soggiornare
allo splendente “Miramare
Sea Resort”, sulla baia
dei Maronti. A pochi passi,
la deliziosa “Casa Celestino”
(camere a partire da 100 euro)
La festa
Appuntamento il 26 agosto
per la festa di Sant'Alessandro,
con sfilata in costumi d'epoca
dal Castello Aragonese
a Sant’Alessandro, a pochi passi
dal porto di Ischia,
dove saranno allestiti
banchi-degustazione
con il meglio della produzione
enogastronomica ischitana
La ricetta
Brace di pesce mosaico
con spugna al nero
BRACE DI PESCE (PORZIONE SINGOLA): 70 G. DI BRANZINO SFILETTATO;
30 G. DI PANURA DI PELLE CROCCANTE;10 G. DI CAROTE; 10 G. DI SEDANO;
35 G. DI PURÈ DI PATATE; 5 G. DI FOGLIE DI BIETOLINA CIARDA;
5 G. DI SPUGNA AL NERO DI SEPPIA; 3 CARAPACI DI SCAMPI GRIGLIATI.
PER LA SPUGNA: 15 G. DI ZUCCHERO; 30 G. DI FARINA; 10 G. DI FECOLA;
4 UOVA INTERE; 10 G. DI NERO DI SEPPIA.
PER L’INTINGOLO (DA CONSERVARE PER MOLTI USI): 1,8 L DI EXTRAVERGINE;
200 G. DI ACETO DI VINO BIANCO; 20 G. DI ROSMARINO; 20 G. DI BUCCE DI LIMONE;
20 G. DI PREZZEMOLO; 10 G. DI AGLIO SBIANCHITO
Le vigne
Ben tre, le aree di produzione
dei vini ischitani: Ischia
Superiore (Doc dal 1966),
Ischia Fino e Ischia Comune.
Tra le denominazioni
più importanti, Biancolella,
Forastera, Per 'e Palummo
e Don Alfonso. Dal 1987,
si produce lo spumante
metodo classico Kalimera
anura di pesce. Sfilettare il branzino, togliere la pelle e grigliarla
insieme a del pane al nero di seppia. Far essiccare in forno a 60 ° insieme ai carapaci e frullare il tutto.Tagliare a bastoncini le carote
e con un temperamatite farne ricciolini. Tagliare il
sedano a bastoncini e sbianchire in acqua bollente. Pelare
le patate bollite e schiacciarle nello schiacciapatate. Mantecare con burro e latte caldo.
Spugna al nero. Frullare il composto e passare al setaccio. Mettere il composto in un sifone con due cariche e
spremere in un contenitore. Cuocere al microonde per
24 secondi.
Intingolo. Lasciar macerare per 24 ore, frullare e
passare al colino. Impiattare, appoggiando a fianco del pesce la spugna, l’intingolo e le verdure
P
LO CHEF
L’ISCHITANO
NINO DI COSTANZO,
CHEF DEL BISTELLATO
“MOSAICO” DELL’HOTEL
TERME MANZI”
(CASA MICCIOLA)
È UNO DEI PIÙ GRANDI
CUOCHI ITALIANI.
SERVE PIATTI
CREATIVI E RIGOROSI,
COME LA RICETTA
IDEATA PER I LETTORI
DI REPUBBLICA
Caponata
Pomodorini, cipolla,
lattuga, olive, tonno
tagliati e mescolati
a dadini di pane
raffermo
fatti rinvenire
in acqua calda
Condimento
con extravergine, sale
e basilico a pezzetti
38
la Repubblica
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
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A nessun altro
vino furioso
ho più chiesto
l’avvenire
Piatti
e indirizzi
E RRI DE L UCA
Coniglio all’ischitana
Pasta e fagioli zampognari
Tagliato a pezzi, lavato
con vino bianco, asciugato,
rosolato in extravergine
profumato con aglio
e peperoncino. Bagnare
con altro vino, aggiungere
pomodori e tirare col brodo
Cotta nel coccio unendo
da subito i secolari fagioli
rossi locali, croccanti
e ricchi di ferro, con a’ mesca
francesca (vari formati
di pasta mischiati)
per aumentare la cremosità
INDACO DELL’HOTEL REGINA ISABELLA
PIAZZA RESTITUTA 1, LACCO AMENO
TEL. 081-994524
TRATTORIA DA PEPPINA DI RENATO
VIA MONTECORVO 42, FORIO
TEL. 081-998312
Parmigiana
Frittata di zucchine e fiori
Melanzane leggermente
infarinate e fritte
in extravergine, servite
a strati con concentrato
di pomodoro essiccato
al sole, foglie di basilico
e un giro d’olio
Colta con gli sciurilli (fiori)
attaccati. Tutto tagliato
sottile e messo a crudo
insieme alle uova
poco battute per far gonfiare
il composto, e a un pugno
di Parmigiano
IL MONASTERO (CON CAMERE)
CASTELLO ARAGONESE
TEL. 081-992435
GIARDINO EDEN (CON CAMERE)
VIA NUOVA CARTAROMANA 68
TEL. 081-985015
Insalata di vendemmia
Scapece di pesce
Il pranzo di lavoro in vigna:
patate, pomodori, peperoni,
cipolle, insalata, olive,
carote, sedano e origano,
irrorati d’olio. A parte,
fette di pane cafone
del giorno prima
Soffritto d’aglio in olio
abbondante, poi menta
e peperoncino tritati,
quindi aceto di vino bianco
e far addensare un quarto
d’ora. Irrorare le alici
alla brace e far riposare
TRATTORIA CASA COLONICA
PARCO TERMALE NEGOMBO, LACCO AMENO
TEL. 380-3229331
UMBERTO A MARE (CON CAMERE)
VIA SOCCORSO 2, FORIO
TEL. 081-997171
Pollo alla cacciatora
Pasta e patate
Olio, dadini di cipolla
e aglio per la rosolatura
nella teglia da forno a 220 °C,
un bicchiere di Falanghina,
pomodori a tocchetti e sale
Girare a metà cottura,
dopo 20 minuti
Cipolla appassita in olio,
poi carota, sedano e pancetta
tutto a dadini, infine
le patate e brodo a piccole
dosi. Schiacciare le patate
e far bollire la pasta
nella zuppa cremosa.
IL FOCOLARE
VIA CRETAJO AL CROCEFISSO 3, BARANO
TEL. 081-902944
IL SATURNINO
VIA MARINA SUL PORTO, FORIO
TEL. 081-998296
H
O CONOSCIUTO un vino che mi
chiudeva gli occhi e mi
attaccava la lingua sotto la
volta asciutta del palato.
L’ho assaggiato in un solo
posto, sul monte Epomeo, isola d’Ischia.
Un tempo sulla cima c’era un ristoro e
delle stanze scavate nel tufo da monaci
arroccati. Ci ho dormito sonni minerali,
duri quanto i sassi. Lassù anche d’agosto
serviva un po’ di lana addosso, dopo il
sole calato dietro Ponza.
L’oste si chiamava Luigi, massiccio e con
un occhio di vetro dovuto a una cartuccia
esplosa dal fucile. In uno scavo teneva
bottiglie di vino stese al buio, custodite
da polveri incollate. Mi permetteva di
sceglierne una, che prendevo dagli strati
inferiori.
Riportata alla luce, ripulita, dichiarava le
generalità: nome e anno di nascita. Il mio
preferito si chiamava Per’ e Palummo,
piede di colombo. Era cupo: sollevato
contro la sfiammata del tramonto
l’oscurava, senza sfumature.
Era spremuto da un vitigno solo, sui
versanti a ponente dell’isola d’Ischia,
detta Aenaria, la vinosa, dai Romani. La
stappavo con un cavaturaccioli dal
manico di legno stringendo la bottiglia
tra le gambe. Ne estraevo il sughero
come si cava un dente. Il primo sorso di
Per’ e Palummo restava chiuso a pugno,
aspro e compatto. Mi faceva stringere le
palpebre e mi procurava il prurito della
profezia. Vedevo il vento scuotere i
castagni e figuravo gli anni. Erano frutti
chiusi dentro i gusci spinosi, sarebbero
caduti, rotolati.
Già il secondo sorso era più sobrio:
mettevo a fuoco le distanze, riconoscevo i
giorni da raggiungere, vicini e
vagabondi.
Dalle fessure delle ciglia seguivo la
processione degli strati di violetto, sopra
l’orizzonte alla fine del giorno. Non mi
voltavo a oriente dove il Vesuvio
scompariva sfebbrato, come un
qualunque monte.
Il vino rosso non metteva pace. Uscito dal
suo buio, furioso per il disturbo, come il
genio dalla lampada, strepitava nel
cranio. Che volevo da lui, perché lo
suscitavo? Insegnami a contare i giorni,
a fare sì che contino per me. Allora il vino
si precipitava nel mio vuoto, si posava sul
fondo e da lì emergevano le favole
dell’avvenire. Erano vicoli ciechi e cime
di montagne, dannazioni e abbracci, fino
alla donna per la quale dire: ecco sei tu,
definitiva e ultima.
A nessun altro vino ho chiesto l’avvenire.
Oggi ne bevo sorsi col desiderio opposto,
di ottenere la grazia di un ricordo
qualunque.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 27 LUGLIO 2014
40
L’incontro. Icone ribelli
IL MESSAGGIO
DI QUELLA
CANZONE
ERA CHIARO:
RAGAZZE,
SVEGLIATEVI!
ANCHE NOI DONNE
ABBIAMO DIRITTO
A UN’ESISTENZA
FELICE,
DI QUALSIASI
RAZZA SIAMO,
ANCHE BRUTTINE,
DIVERSE,
E SOVRAPPESO
Da ragazza voleva solo divertirsi. E mica era facile per una cresciuta
nel Queens senza un padre. A diciassette anni, vagabonda punk,
scappò di casa. “Ci sono artisti nati per cantare. Io iniziai perché
avevo fallito in tutto il resto”. La sua “Girls Just Want To Have Fun”
vendette cinquanta milioni di copie, fu eletta a inno femminista e lei
divenne un idolo. Oggi ha sessantuno anni, un marito attore, i capelli un po’ meno colorati e un musiche un uomo e una donna potessero essere amici e dormire insieme come framormora. Mentre lei continuava a sognare il palcoscenico e il principe azzurro, i ragazzi ne approfittavano. «Una volta feci l’autostop e quel tizio si rifiutò
cal a Broadway: “Ero tornata a telli»,
di farmi scendere. Cominciò a mettermi le mani addosso. Mi costrinse a praticargli del sesso orale, poi pretese di farlo a me. E alla fine: “Che hai da lamentaruna cosa reciproca no?», racconta lasciando intendere che con gli uofare la casalinga, come sempre ti?miniÈ stata
fu un disastro dietro l’altro. Il look eccentrico col quale mascherava l’eccessiva timidezza la trasformava in una facile preda agli occhi dei maschi. Per
c’erano le canzoni. «Ci sono artisti che sono nati per cantare, il loro dequando non ne posso più di ‘sto fortuna
stino è segnato fin dall’infanzia; Elvis, per esempio. Io lo feci perché avevo fallito in tutto il resto». A New York cominciò a muovere i primi passi nel momento
buio e caotico per la metropoli, quando l’Aids mieteva le prime vittime. «Gremestiere, e mentre lavavo i piatti più
gory, il mio amico del cuore, si ammalò gravemente, e sarebbe morto nel 1986.
Era una situazione spaventosa. Molte persone che lavoravano nel nostro ambiente si ammalarono e morirono una dopo l’altra, e il governo sembrava del tutè squillato il telefono...”
to indifferente». Cyndi intanto faceva serate con i Blue Angel. «Credevo in quel
Cyndi
Lauper
G I USEPPE V I D ET T I
ROMA
N
EL 1982 ERA UNA SBANDATA. Nel 1983 promessa del pop. Nel 1984 in-
ternational star. Nel 1989 scheggia impazzita dello show business.
«Non sei nera, non sei più una ragazzina, le radio ti ignorano. Rassègnati», fu la diagnosi dell’industria. «Ma quante volte può finire
una carriera?», si chiede Cyndi Lauper, la voce garrula di sempre,
più infantile di sempre, come se qualcuno meglio di lei conoscesse la risposta alla domanda che fa vacillare la psiche degli artisti. Ha i capelli appena più in ordine e appena meno multicolor di trent’anni fa, quando l’album She’s So Unusual iniziò la scalata nelle classifiche di tutto il mondo (le avrebbe regalato lo status di evergreen e garantito una discografia cinquanta milioni di copie vendute) grazie a Girls Just Want To Have Fun, tormentone che senza pretenderlo diventò un inno femminista (per l’occasione la Sony ha pubblicato un’edizione
speciale, 30th Anniversary Celebration). «Fu un periodo meraviglioso, divertente, folle», ricorda, «come tutta la mia vita d’altronde. Ma quell’estate fu particolarmente pazza».
Sessantun anni, un marito, l’attore David Thornton, un figlio, Declyn, adolescente inquieto, una vita tranquilla nella tenuta upstate New York, un’immagine talmente potente da aver generato una serie interminabile di sister (da Gwen
Stefani a Katy Perry), una popolarità a prova di bomba riconfermata dal Dressed to Kill Tour (insieme a Cher) e dal trionfo a Broadway (premiato con
un Grammy) di Kinky Boots, il musical (tratto film inglese Decisamente
diversi) che ha scritto insieme a Harvey Fierstein. «Ma non mi chiami signora, sono la ragazza senza filtro di sempre», dice Cyndi. «Ho vissuto
come se non avessi niente da perdere». Era una bambina solitaria, cresciuta in una casa del Queens dove la mamma si faceva in quattro per
sopperire all’assenza di un padre che se l’era data a gambe. «La casa
era piena di musica, mia nonna ascoltava arie d’opera, Puccini soprattutto. Poi arrivarono i Beatles e la Motown, e la mia vita cambiò
QUANDO SCRISSI “TIME AFTER TIME” ERO UN’IGNORANTE
CONOSCEVO IL FILM, MA NON SAPEVO CHE CI FOSSE GIÀ
UN BRANO FAMOSO CON QUEL TITOLO.
PROVAI A CAMBIARLO, PERÒ NON RIUSCIVO
A SEPARARE LA MELODIA DA QUELLE TRE PAROLE
radicalmente. Gli anni Sessanta furono uno straordinario periodo di formazione. Per me Bob Dylan, Joan
Baez, Sly and the Family Stone e Jimi Hendrix fanno
parte di un unico suono. Non avrei potuto scegliere
un decennio migliore per crescere: le lotte per i diritti civili accompagnate da quelle canzoni meravigliose».
A diciassette anni lasciò casa e famiglia, vagabonda con lo zaino in spalla, hipster e un po’ punk.
Ma soprattutto ingenua. «All’epoca credevo ancora
gruppo, il problema era che non ci credevano gli altri», racconta. «La casa discografica ci disse a chiare lettere che il rockabilly non sarebbe andato da nessuna
parte. Ero al settimo cielo quando incidemmo il disco, sprofondai all’inferno
quando mi resi conto che sarebbe stato un flop. Ma fu quella delusione a darmi
la forza per cominciare a immaginarmi come cantante solista e osare di più».
Fece tesoro delle sue fragilità, della sua esperienza di runaway, di quel look
un po’ folle che aveva inventato rovistando tra l’usato dei thrift shop — come Madonna in Cercasi Susan disperatamente, per intenderci. «Quando mi resi conto
che Girls Just Want To Have Fun stava diventando un inno femminista provai
un’esaltazione nuova. La sensazione fu anche più forte alla vista di tutte quelle
donne nel clip che realizzammo subito dopo. Il messaggio era chiaro: ragazze
svegliatevi, anche noi donne abbiamo diritto a un’esistenza felice, di qualsiasi
razza, diverse, bruttine, sovrappeso». La Mtv generation contribuì non poco a
trasformare Cyndi in un idolo; poche settimane e la squinternata ragazza del
Queens era la diva di Manhattan e l’irresistibile songstress che tutti aspettavano dai tempi di Carole King. «Quando hai fatto la gavetta che ho fatto io il successo non ti prende alle spalle», riflette. «L’importante è riuscire a pensare con
la propria testa, a non svendersi. Sono sempre stata inflessibile su un punto: voglio il controllo creativo di quel che faccio. Anche a costo di sbagliare. E ho sbagliato. Quando imbroccai la strada giusta e pensavo che sarebbe stato per sempre, per esempio. “Qui non c’è niente di garantito”, disse una volta Billy Joel;
adesso so perfettamente quel che intendeva».
Il meglio doveva ancora arrivare: una formidabile ballata, Time After Time,
che anche l’intrattabile Miles Davis trovò irresistibile (e ne incise una versione).
Diventò uno standard a tempo di record, nonostante ci fosse già dal 1947 una
canzone dallo stesso titolo, per giunta famosissima. «Ero una ragazzina ignorante, non lo sapevo, anche se l’avevano cantata anche Frank Sinatra, Carmen
McRae e i Platters», confessa. «Mentre stavo scrivendo la canzone avevo davanti la guida tv e l’occhio andò su un film del ‘79 con Mary Steenburgen, un’attrice
che ho sempre adorato, che si chiamava proprio così. Tentai di cambiare il titolo, ma non riuscivo a separare la melodia da quelle tre parole. Mi arresi, ma non
NIENTE È FACILE NEL NOSTRO LAVORO,
GUARDATE LA STORIA DEL POP:
TANTO SUCCESSO, POCA ALLEGRIA
SIAMO CONDANNATI A DAR GIOIA
AGLI ALTRI E A RICAVARNE SOLO DOLORE
avrei mai immaginato che Time After Time mi avrebbe messo sul piedistallo delle grandi autrici». Il passo successivo fu la sceneggiatura di un video che ha fatto storia, quello che trasformò la Cyndi randagia, vagabonda e… senza filtro in
una maschera clownesca, malinconica e romanticissima, icona pop e icona
gay. «Era in sintonia con lo spirito del brano, la storia di una ragazza ossessionata da sua madre, così pensammo di coinvolgere mamma nel video, insieme alle mie zie Grace, May and Helen». Time After Time è, ora
come allora, il prototipo della pop song perfetta. Ma quando si trova a
elencarne gli ingredienti, Cyndi va in confusione. «Devi solo fare in modo che sia una melodia che resta incollato nella memoria; deve essere
semplice, facile e alla portata di tutti. Onesta. Che venga dal cuore, che
sia legato alle tue esperienze. Non conosco altro ingrediente per sedurre l’ascoltatore se non una grande dose di umanità, l’ho imparato dai
Beatles. Ci sono compositori che sostengono di avere in tasca la formula
magica: buona fortuna. Le canzoni scritte a tavolino per diventare successi non durano mai nel tempo. Le occasioni migliori capitano quando meno te lo aspetti, tra gli up and down della carriera. Ero delusa e
amareggiata per l’insuccesso dell’album Bring Ya To The Brink
(2008). Mi ero rintanata a fare la casalinga per smaltire la delusione, come faccio sempre quando non ne posso più di questo mestiere. Per farla breve, stavo lavando i piatti, squillò il
telefono e Harvey Fierstein mi propose di scrivere le musiche per uno spettacolo di Broadway. E così sono salita a bordo». La voce diventa un soffio: «Niente è facile nel nostro
mestiere. Soprattutto se vuoi aver successo alle tue condizioni. Ma al di là delle soddisfazioni professionali sa
qual è l’impresa più ardua? Vivere una vita felice. Guardiamo alla storia del pop: tanto successo, poca allegria.
Come se noi entertainer fossimo accomunati da un triste destino: condannati a dar gioia agli altri e ricavarne solo dolore». Send in the clowns.
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