Documento PDF (Istanbul Theatrum Mundi_quaderno della ricerca

Università Iuav di Venezia
Dipartimento di Culture del Progetto
quaderni della ricerca
abitare la città
Istanbul Theatrum Mundi
unità di ricerca e didattica
abitare la città
Università Iuav di Venezia - dipartimento di Culture del Progetto
Quaderni della ricerca
Copyright ©MMXIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
Istanbul Theatrum Mundi
unità di ricerca e didattica
a cura di Eleonora Mantese
via Raffaele Garofalo, 133/A-B
00173 Roma
[06]93781065
ISBN 978-88-548-6834-2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi
mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
Progetto grafico di Luciano Comacchio - MeLa Media Lab
Coordinamento editoriale e impaginazione di Nicola Barbugian
I edizione: febbraio 2014
Unità di ricerca: Abitare sociale e collettivo
Eleonora Mantese, Nicola Barbugian, Diana Barillari, Andrea Calgarotto, Alberto
Cibinetto, Cristiana Eusepi, Alioscia Mozzato, Gundula Rakowitz, Ugo Rossi,
Teresita Scalco
Indice
10 Istanbul, le chiavi della città
Le ragioni di una scelta, Eleonora Mantese
26 Raccontare Istanbul attraverso le istituzioni culturali
I casi di SALT e Museo dell’Innocenza, Teresita Scalco
36 Istanbul. Quale modernità?
Il piano di Henri Prost per la città, Andrea Calgarotto
46 Novecento sul Bosforo
D’Aronco e villa Italia, Diana Barillari
58 Mundus totus exilium est
L’esilio dell’architettura. Bruno Taut in Turchia, Gundula Rakowitz
70 La casa ottomana
Struttura e psicologia dell’effimero, Nicola Barbugian
86 Istanbul-Karaköy e altri luoghi
Appunti per un diario di progetto, Cristiana Eusepi
103 Bibliografia
Bosphorus, Istanbul 2007. Foto di Ahmet Polat
ISTANBUL
LE CHIAVI DELLA CITTÀ
L’interesse di ricerca per la città di Istanbul ruota intorno alle molte facce della città
composte attraverso ritmi di vita, spazi e ‘capricci’ estetici e politici che determinano la sua
complessità ed è, in qualche modo, legato a un’ideale vicinanza con Venezia.
Venezia rimane il punto di partenza e di arrivo di ogni nostra ricerca.
I dipinti di Gentile Bellini, nel ritratto dello scriba seduto e del colto sultano Mehmet II,
accompagnano le nostre intenzioni se non le nostre capacità. Bellini che ‘studia lo studioso’
e lo dipinge è per noi un’attitudine dello sguardo verso la circolazione delle idee. Lo scriba,
emblema dell’opera di un fecondo artista veneziano diventa, poi, modello per gli artisti
d’oriente.
Istanbul e Venezia sono entrambe città-mondo nel senso che racchiudono significati plurimi,
compresenze e intersezioni probanti che gli innesti sono salutari, che i sistemi di relazioni
che mettono insieme le tre ‘età dell’uomo’ creano una qualità urbana, spaziale e vitale.
A Istanbul, come a Venezia, l’individuale e l’universale si apparentano più facilmente che
altrove e costruiscono fatti urbani dimostrativi e concreti.
Molti dispositivi spaziali della città si sono costruiti, nella storia, a una scala che ha
dimostrato un elevato grado di relazione per le persone attraverso i modi di abitare in
rapporto agli edifici pubblici e religiosi, agli spazi aperti e alla relazione con il paesaggio, i
mari e le lagune. A Istanbul il quartiere con moschea, mercato, bagno, chiosco è un’unità
morfologica e di misura che relaziona le persone come avviene a Venezia nelle unità di
vicinato interne al sestiere.
Palladio crea un rapporto di teatralità urbana che domina il vuoto e raggiunge il territorio
dell’entroterra con la stessa forza con cui Sinan costruisce la Moschea di Solimano come
elemento di scala territoriale che si sviluppa, invece, negli edifici in modo introverso
LE RAGIONI DI UNA SCELTA
Eleonora Mantese
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portando ogni funzione all’interno. Palladio e Sinan usano dispositivi spaziali che partono
dall’interno e raggiungono l’intero territorio come rileva Howard Burns e richiama Diana
Barillari, sottolineando la vicinanza della residenza degli ambasciatori di D’Aronco con la
villa veneta.
Palladio e Sinan sono coetanei e a Costantinopoli prestò servizio come bailo Marcantonio
Barbaro.
Istanbul e Venezia sono città primarie e determinanti per il pensiero progettuale di Le
Corbusier che, di entrambe, studia la scala delle relazioni tra elementi maggiori e minori,
il campo, la chiesa, la gondola, a Venezia, la moschea e la casa a Istanbul. Nel suo voyage
utile a Stamboul, le Corbusier mette in evidenza, con gli scritti e gli schizzi, il rapporto tra la
casa dell’uomo, connotata dal legno come materiale prevalente e da una sorta di laconico
anonimato contrapposto alla rappresentazione in pietra della casa di Allah. È la Moschea
verde di Bursa, del resto, che Le Corbusier porta ad esempio dello sviluppo del disegno della
pianta di un edificio che procede dall’interno all’esterno. I disegni di Le Corbusier di Istanbul
sono marcati dall’attenzione alla duplicità scalare della città e del dettaglio, di elementi
maggiori e minori, delle geometrie e delle luci e restituiscono ancora la migliore lezione di
architettura e di interpretazione dell’architettura della città e del suo valore urbano.
Certo, alla fine, resta prevalentemente una vicinanza mentale e iniziano le differenze enormi
che hanno percorso la storia in una direzione che a Istanbul accentua la drammaticità,
la grandiosità, la velocità e a Venezia la lentezza, la ripetitività, un senso di sicurezza
appagante anche se solo apparente e si spezza immediatamente quando si rapporta con
la politica della città e dell’entroterra o ha a che fare con l’acqua che è un altro elemento
comune di enorme rilevanza. Come annotava Burckhardt, “Venezia è città della calma
apparente e del silenzio politico”.
Abbiamo imparato molto da Venezia, il nostro bistrattato sancta sanctorum dell’architettura
e della vita. Si potrebbe rimanere ma vorremmo imparare molto anche da Istanbul, non solo
per le vicinanze e le similitudini ma per le esplosive contraddizioni in atto.
Sono città il cui destino appartiene al mondo e sono realtà molto più vicine di quanto si
possa pensare. Basti pensare al legame con il mare, con la cultura e con il commercio.
La ricerca sta prendendo un avvio a quello stato di preconoscenza in cui il sapere del singolo
si moltiplica in modo esponenziale quando viene condiviso all’interno di una comunità
scientifica.
Gentile Bellini, Ritratto di giovane scriba turco (1479-80), Boston (MA), Isabella Stewart Gardner Museum
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Teresita Scalco, dottore in Scienze del Design a Venezia, una mente fervida, appassionata e
raffinata, una ricercatrice di sostanza, è il validissimo Virgilio che ci ha introdotto in molti
aspetti che connotano le attività culturali e pluridisciplinari della città, divenute a Istanbul
una marcatura di senso per intere parti della città che possono essere indicazioni per
un progetto praticabile a Venezia. Dopo il convegno internazionale Istanbul City Portrait,
nell’ambito del ciclo di conferenze ‘Ritratti di città’ all’interno della Scuola di Dottorato di
Venezia, curato da Teresita Scalco con Moira Valeri e Marco Vani, la ricercatrice continua
il suo studio sulla forza motrice e promotrice delle istituzioni culturali, musei, archivi,
centri di ricerca dedicati all’arte e all’architettura in grado di attivare dinamiche virtuose
all’interno della città.
Il Bosforo con il profilo della città caratterizzato dai centri antichi disposti lungo le sponde e i grattacieli sullo sfondo.
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Le istituzioni culturali hanno a Istanbul un ruolo attivo nella città. Basti pensare
all’importanza assunta dalla Biennale d’Arte arrivata alla tredicesima edizione e alla più
recente Biennale del Design. Inoltre, un ruolo importante è assegnato dalla studiosa alla
fotografia come strumento di conoscenza e d’interpretazione della complessità della città
con l’avvio del progetto Views of Istanbul. Si tratta di una ricerca visuale che raccoglie
contributi di fotografi autorali che scrutano aspetti salienti della metropoli.
Una parte della ricerca inizia il lavoro di esplorazione intorno alle presenze di architetti
europei nella città di Istanbul.
Le Plan Directeur d’Istanbul di Henri Prost, architetto coetaneo e amico di Auguste Perret
è il primo piano per la città. Prost lavora sulla città, chiamato da Atatürk dal 1936 al 1951.
Di questo si occuperà in futuro il dottorando Andrea Calgarotto, cultore di studi su Perret
ricercando l’eredità del maestro.
L’architetto friulano-gemonese Raimondo D’Aronco è presente a Istanbul con molte opere tra
cui la residenza dell’Ambasciata italiana a Tarabya, oggi in stato avanzato di decomposizione
ferendo il nostro orgoglio di Patria nel confronto con gli attigui grandi recuperi tedeschi
destinati al soggiorno di studio di ricercatori di diverse discipline. La cosa ferisce non poco
quando gli studiosi tedeschi rimarcano questa differenza che non è solo incuria e rimpianto
per un restauro incompiuto ma per la loro mancata messa in uso per relazioni culturali oggi
irrinunciabili. Diana Barillari, docente studiosa di Raimondo D’Aronco, mette in rilievo il
ruolo dell’architetto italiano in Turchia e a Istanbul.
Gundula Rakowitz guarda alla presenza di Bruno Taut a Istanbul e ai suoi progetti meticci
aprendo un nuovo capitolo della sua ricerca sull’apporto mitteleuropeo in Oriente.
Un ampio spazio sarà offerto alla ricerca, secondo le indicazioni dello storico e critico
Gökhan Karakus, al ruolo degli architetti appartenenti alle minoranze italiane, levantine,
greche, armene. Un elenco di nomi compare qui nella foto The Cemetery of Architects del
fotografo Tayfun Serttas. Per citare alcune presenze italiane, oltre a Raimondo D’Aronco,
Giulio Mongeri, Gaspare e Giuseppe Fossati, Delfo Seminati, Eduardo De Nari, Giacomo
Leone, Giorgio Domenico e Ercole Stampa.
Tayfun Serttas, Mimarlar Mezarlıgı / Cemetery of Architects
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Il Corso di Progettazione del primo anno si sofferma nell’anno accademico 2013-2014 su
alcuni archetipi di abitazioni tra cui la casa ottomana.
La figura di riferimento non può che essere quella dell’architetto turco Sedad Hakki Eldem,
dei suoi progetti per abitazioni e grandi istituzioni quali l’Università di Istanbul e sull’eredità
lasciata attraverso il lavoro dei suoi allievi.
Il lavoro degli studenti è coordinato dalla sottoscritta e da Andrea Calgarotto e guidato,
nello studio del tipo della casa yali, da Nicola Barbugian. Gli altri archetipi affrontati dagli
studenti per produrre confronti fertilissimi per l’essenza stessa della natura e dei modi
dell’abitare, per la misura, per i materiali, per la decorazione, per la struttura costruttiva,
sono la casa anglosassone, la casa romana, la casa giapponese. Per questi ambiti gli
studenti sono guidati, rispettivamente, da Alberto Cibinetto, Alioscia Mozzato, Ugo Rossi.
Nei prossimi mesi gli studenti progetteranno alcune abitazioni lungo il Bosforo in un’area
compresa tra un’abitazione, il tipo dello yali o residenza estiva, realizzata nel 1699, e il
rudere di un’altra vecchia casa.
Scopo di questo seminario è anche la costituzione di un laboratorio di laurea che vede
impegnate le persone sopra nominate e Cristiana Eusepi che ha il compito di coordinare la
ricerca e di lavorare sull’area di progetto che va da Galata al primo ponte sul Bosforo.
Di nuovo vengono messi in gioco temi analoghi ad alcuni nodi irrisolti di Venezia, il progetto
portuale, il progetto turistico e il progetto culturale.
Nell’area lungo il Bosforo, la complessità si esplicita nella mixité funzionale.
Da Galata al ponte sul Bosforo si susseguono parti di città chiaramente riconoscibili
e che, via via, diventano familiari anche nella difficile lingua turca. Karaköy, punto di
concentrazione dei traghetti per la parte asiatica, Tophane dove l’insediamento di Istanbul
Modern introduce alla presenza dell’arte contemporanea, la stazione marittima con presenze
molto simili alle grandi navi veneziane ma collocate in luogo adeguato, Besiktas con la
grande presenza del palazzo di Dolmabahce e Ortaköy a ridosso del ponte sul Bosforo.
Alle spalle di questa parte a mare, la città sale rivelando, attraverso il trasporto funicolare a
Kabatas, una vicinanza stretta al nucleo di Taksim Square.
Le tradizionali letture tipo-morfologiche servono a capire la formazione delle singole parti
ma vanno affiancate a interpretazioni provenienti da molte altre discipline. Le parole chiave
si moltiplicano.
Una nave cargo all’ingresso del Bosforo, sullo sfondo il profilo della città con i grattacieli del nuovo
downtown in secondo piano. Foto Moira Valeri
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Un collegamento con Becoming Istanbul fa affiorare molte chiavi di lettura meno consuete
che aiutano a capire gli immensi flussi e i ritmi incalzanti di una condizione metropolitana.
Termini come accumulazione, consunzione, rottura, procrastinazione, glorificazione,
desolazione, memoria, silenzio e molte altre parole si legano tra loro restituendo significati
multipli ad ogni termine e accentuano la complessità.
Istanbul, europea e islamica a un tempo, rappresenta un nodo cruciale di quanto sta
avvenendo per gli accenti drammatici che la sua trasformazione in metropoli e la creazione
di un’imponente ‘nuova geografia della città’ inducono.
La città di Istanbul studiata con sguardo veneziano è dunque il punto di partenza di questa
ricerca in cui ogni apporto disciplinare è accolto con molto interesse.
Becoming Istanbul, mostra e data base. A cura di Pelin Dervis, Bülent Tanju e Ugur Tanyeli.
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Piri Reìs, mappa di Istanbul dal Kitab-ı Bahriye (Libro della marineria) di Piri Reìs, XVI secolo
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Piri Reìs, mappa di Venezia dal Kitab-ı Bahriye (Libro della marineria) di Piri Reìs, XVI secolo
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Interno di SALT Beyoglu, foto Iwan Baan (2012)
RACCONTARE ISTANBUL
ATTRAVERSO LE ISTITUZIONI CULTURALI
Nel saggio Dalla ‘città-museo’ al ‘museo-città1, Pippo Ciorra offre una lettura dell’intervento
museale – sia esso un edificio ex-novo o una conversione d’uso di un edificio preesistente
di carattere storico e/o industriale – come un ingranaggio del sistema urbano in grado di
rigenerare intere aree della città. Il progetto museale diviene, così, il tassello di una idea
più ampia che travalica i muri dentro i quali si conservano collezioni, realizzano mostre e
svolgono attività.
Dalla seconda metà degli anni ’90 ad Istanbul, si è assistito ad un proliferare di nuove
istituzioni culturali, ma nessuna di queste è stata accompagnata dalla costruzione di un
nuovo edificio, quanto piuttosto si è andati nella direzione di recuperare edifici nati per
finalità industriali, finanziarie o commerciali, sposandosi dall’asse della peninsula storica di
Sultanahmet, verso aree considerate all’inizio degli anni 2000 come periferiche nella parte
europea, principalmente lungo l’Haliç (il Corno d’Oro), convertendolo progressivamente in un
bacino culturale, grazie all’insediamento di numerose istituzioni culturali, quali la Kadis Has
(Università e Museo), Koç Museum, Santralistanbul (Museo e campus universitario), Istanbul
Modern.
Inoltre epicentro delle attività culturali è la municipalità di Beyoglu (Pera), che arriva fino a
Galata, la cittadella medioevale genovese, e Tophane, una delle ex-aree portuali della città.
All’interno della giovane geografia museale, la politica museale delle diverse municipalità è
ancora frammentata, ma grazie all’iniziativa filantropica di imprenditori privati e fondazioni
bancarie si sta delineando un asse, che mi piacerebbe chiamare come il museum mile di
Istanbul.
Per la singolarità delle loro storie e missioni istituzionali, mi soffermerò su due casi studio:
SALT e il Museo dell’Innocenza.
I casi di SALT e Museo dell’Innocenza
Teresita Scalco
01. P. Ciorra, Dalla ‘città-museo al ‘museo-città, in P. Ciorra, Botta, Eisemnman, Gregotti, Hollein: musei,
Electa, Milano 1991.
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SALT
SALT è un’istituzione privata poliedrica con due sedi: SALT Beyoglu (inaugurata nell’aprile
2011) e SALT Galata (novembre 2011).
Il primo è uno spazio espositivo e walking cinema, lungo Istiklal, e l’altro un centro di
ricerca SALT Research, con uno spazio espositivo ‘Open archive’.
SALT si pone come una piattaforma per la sperimentazione e valorizzazione di progetti interdisciplinari, volta all’attivazione critica del dibattito sulle discipline del progetto e delle arti.
La mostra di battesimo di SALT è stata Becoming Istanbul, curata da Pelin Dervis, Bülent
Tanju e Ugur Tanyeli, risultato di un percorso di ricerca in progress dal 2007, che si basa su
un databese interattivo, in grado di raccontare la città nel suo divenire, le trasformazioni in
corso, che spesso sono delle lacerazioni del suo tessuto sociale ed urbano.
Al contempo SALT Galata è la prima istituzione turca che raccoglie archivi relativi all’archi-
tettura, design2, arte e dell’Istanbul Biennial, ed è la sede all’archivio-museo dell’Imperial
Ottoman Bank3, che conserva un patrimonio inestimabile per gli studi socio-economici della
città, tra il XIX e il XX secolo.
La definizione progettazione degli spazi di SALT Research, di SANAL Architecture Planning,
sottende la missione di questo centro di ricerca, ovvero scostarsi dal classico immaginario
delle biblioteche o centri di ricerca, convinti che la conoscenza emerga dall’apertura e
scambio dialettico tra le persone.
Si guarda alla città di Istanbul per trarne i colori che vengono usati per creare i tessuti delle
sedie di Derya Mobylia e di Sadi Özis del 1964, mentre si crea una narrazione tra le colonne
dell’atrium, per pensare alla struttura sinuosa dell’Artist Archive, così che l’orchestrazione
di questi spazi diventa un veicolo per produrre e dilatare una nuova comprensione del
contesto in cui s’inserisce.
Ingresso alla mostra Becoming Istanbul, foto Teresita Scalco
Interno di SALT Research Galata, progetto di Murat e Alexis Sanal, foto Iwan Baan (2012)
02. Nel 2008, sotto la supervisione di Gökhan Karakus si costituisce il primo Architecture and Design
Archive Turkey (ADAT).
03. Realizzata da Alexander Vallaury nel 1980.
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Il Museo dell’Innocenza più
Nel libro-progetto artistico del Museo dell’Innocenza, Orhan Pamuk, ad un primo sguardo,
racconta una storia d’amore che si consuma in una casa nella zona di Cihangir di Beyoglu,
e più precisamente a Çukurcuma Caddesi, attraverso oggetti d’uso comune, ma anche il
quartiere più cosmopolita, della comunità greca, armena ed italiana, caduto in un profondo
degrado, dopo i Pogrom del 1955 e del 1964.
All’interno del Museo, Pamuk cerca di dar voce, non solo a quella babele di oggetti senza
nome, ma anche a quell’atmosfera nostalgica, a quel tempo ormai perduto, dove la belle vie
della città pulsava.
Per fare questo, Pamuk concepisce insieme libro e museo, come rappresentazioni speculari,
di quel specifico frammento storico di Istanbul, con una nuance autobiagrafica, che va dagli
anni ’50 agli anni ’90.
L’obiettivo di Pamuk è quindi quello di ricordarci che, come nel romanzo, lo spazio del museo
è una finzione una sorta di dispositivo per comprendere meglio il tempo, il nostro tempo.
“Emanciparsi dal senso del Tempo, trascendere il Tempo: è questa la più grande consolazione della vita”4
Nell’ultima parte del libro ci fa sentire la sua passione per i musei privati o case di
collezionisti e intellettuali cosmopoliti europei, per quelle ‘case della memoria’, in cui oltre
a preservare gli oggetti, si cerca anche di trasmettere l’alone sentimentale della vita che ha
preso vita all’interno degli spazi. Fatto bagaglio di questa cultura, all’interno del suo Museo
compie un’operazione in più, solletica non solo la vista, ma anche l’udito: immergendosi nei
suoni di Istanbul ci fa sentire la sua ‘voce’, il vento che soffia sul Bosforo, i spezzoni di film
e serie televisive turchi degli anni ’70 o dei filmini in 8mm tratti dall’archivio personale della
famiglia Pamuk degli anni ’50.
Esterno del Museo dell’Innocenza su Çukurcuma Caddesi, foto Innocence Foundation e Retik Anadol
04. O. Pamuk, Il museo dell’Innocenza, Einaudi, Torino 2009, p. 562.
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Vista dell’interno, al primo piano, del Museo, foto Innocence Foundation e Retik Anadol
Modello del Museo dello studio Sunder-Plassmann Architekten, foto Johanna Sunder-Plassemann
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Come rappresentare, dare corpo alla vita delle persone all’interno di una città? Come
salvare ciò che è scivolato nell’oblio e che rischia di non consegnarsi alla storia o più
semplicemente ad una riflessione sul contesto nel quale viviamo?
Queste alcune delle domande che rimangono ancora aperte nel mio percorso di ricerca.
Conservare, interrogare la memoria del contemporaneo, integrare valori moderni e quindi
occidentali, con quelli tradizionali legati alla cultura ottomana, è probabilmente uno dei
nodi cruciali più ardui da dipanare - per questo particolamente interessanti -, se s’intende
tentare di dare un contributo alle storie delle discipline del progetto in Turchia, ieri come
oggi.
Mappatura dei musei ed istituzioni culturali ad Istanbul, tratto e rielaborato nel 2012 dalla pubblicazione Mapping Istanbul
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«La modernizzazione di Istanbul può essere comparata a un’operazione chirurgica tra le più delicate.
Non si tratta di creare una città nuova su un terreno vergine, ma di orientare un’antica capitale, in
piena evoluzione sociale, verso un avvenire dove la meccanica e forse il livellamento delle fortune
trasformeranno le condizioni di vita»
H. Prost, Les transformations d’Istanbul, 1947
ISTANBUL. QUALE MODERNITÀ?
IL PIANO DI HENRI PROST PER LA CITTÀ
L’architetto e urbanista francese Henri Prost1 appartiene a quel gruppo di architetti europei
che hanno intrecciato le loro vicende personali e professionali con la città di Istanbul.
Nell’ambito del processo di occidentalizzazione varato da Atatürk, è chiamato a guidare le
trasformazioni urbanistiche della città sul Bosforo. In questo quadro redige il primo piano
urbanistico della città, nell’ottica di trasformare l’antica capitale imperiale in una moderna
metropoli capace di competere con le grandi città occidentali.
Il primo contatto di Henri Prost con Istanbul avviene durante la formazione accademica,
intrapresa nella capitale francese prima all’École spéciale d’architecture e poi all’École des
Beaux-Arts. Nel 1905 accompagna Jean Hulot, suo amico e compagno di studi, in un viaggio
che tocca Grecia e Turchia. Raggiunge la capitale ottomana nel settembre 1905 e vi rimane
fino al gennaio dell’anno successivo. Colpito dallo splendore di Santa Sofia e, allo stesso
tempo, dalle sue precarie condizioni di conservazione, decide d’intraprendere, nel quadro
dei consueti progetti richiesti agli studenti dell’École durante i loro soggiorni di studio, un
progetto di restauro dell’antico monumento che lo impegnerà in accurati rilievi e restituzioni
grafiche.
Nel 1903, durante un soggiorno a Villa Medici, sede romana dell’Académie de France,
conosce Tony Garnier, impegnato nel progetto della Cité industrielle. È probabilmente
da questo incontro che Prost inizia a maturare un interesse verso l’urbanistica. Questo
interesse lo condurrà, dieci anni dopo, a fondare, con Donat-Alfred Agache ed Eugène
Hénard tra gli altri, la Société Française des Urbanistes, assumendo a pieno titolo il ruolo
di pioniere della nascente disciplina nella Francia d’inizio Novecento. Gli anni successivi
Trasformazione della città e salvaguardia dell’antico
Henri Prost, estratto dal piano regolatore di Istanbul (1937). Il disegno evidenzia in maniera sintetica la
nuova viabilità prevista e il sistema di parchi e spazi pubblici
Andrea Calgarotto
01. Prost nasce a Saint-Denis il 25 febbraio 1874, muore a Parigi il 17 luglio 1959.
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vedranno Prost impegnato in un’intensa attività di pianificazione che lo consacrerà nel
panorama nazionale e internazionale. Tra il 1913 e il 1923, come dirigente del Service
Spécial d’Architecture et des Plans de Villes del Protettorato del Marocco, sviluppa i piani
regolatori di Casablanca, Rabat, Fez, Meknès e Marrakech2. Tornato in patria, redige il piano
territoriale costiero del dipartimento di Var e, dal 1928, il piano direttore per la regione
parigina, presentato ufficialmente nel 1934. Oltre a questi progetti interviene a Lione, Metz,
Tunisi, Algeri, Valencia e Smirne. Accanto all’attività progettuale, Prost svolge un’intensa
azione pedagogica all’Institut d’urbanisme e all’École spéciale d’architecture, che dirige dal
1929 fino alla morte.
L’esperienza svolta da Prost negli anni coniuga innovazione e tradizione. Distante da un
approccio meramente tecnico verso la disciplina, delineato sul finire del secolo precedente
in area germanica, nelle sue opere coniuga tematiche legate al disegno urbano di tipo
Beaux-Arts con le tecniche e gli strumenti messi a punto dall’urbanistica moderna, come
la zonizzazione. Come il suo coetaneo Auguste Perret, Prost appartiene a quel gruppo di
progettisti che nei primi anni del Novecento raccolgono le sfide lanciate dall’epoca moderna
senza rinnegare quel patrimonio culturale ereditato dal passato. Questo substrato culturale
lo spinge a conciliare, nei suoi progetti, la salvaguardia delle preesistenze ambientali
con l’innesto di parti e attrezzature nuove, appropriate all’epoca moderna e capaci di
stimolare lo sviluppo delle città. Emblematico di questo approccio è il piano di Rabat dove,
anticipando l’idea di ‘città per parti’, conduce un autentico montaggio di parti senza forzarne
l’omologazione. L’antica medina, salvaguardata nella sua identità morfologica, è accostata a
un nuovo quartiere amministrativo dall’impianto tipicamente europeo.
Questo approccio costituisce la base del grande piano per Istanbul, che rappresenta un
punto ancora poco esplorato all’interno dell’esigua letteratura consacrata all’autore3.
Nel 1935 Prost è chiamato a Istanbul per dare un nuovo volto alla principale città della
neonata Repubblica di Turchia4. Alcuni interventi volti a modernizzare la città sul Bosforo,
02. Cfr. R. Cattedra, Nascita e primi sviluppi di una città coloniale: Casablanca, 1907-1930, in
«Storia urbana», 53 (1990), pp. 127-179; J.-L. Cohen, Casablanca, banco di prova per l’urbanistica
dell’ampliamento (1912-1930), in «Casabella», 593 (1992), pp. 30-37; A. Bertoni, Henri Prost e la città
coloniale nel Marocco francese, 1914-1923, in «Storia urbana», 92 (2000), pp. 47-72; M. M’Hammedi,
Rabat, un urbanisme colonial français entre utopie et réalité, in P. Chassaigne e S. Schoonbaert (a cura di),
L’Urbanisme, des idées aux pratiques. XIXe-XXe siècle, Presses Universitaires de Rennes, Renns 2008, pp.
89-96.
03. Per un bilancio retrospettivo dell’opera di Henri Prost cfr. L. Hautecœur et al., L’Œuvre de Henri Prost:
architecture et urbanisme, Académie d’architecture, Paris 1960. Cfr. anche J. Royer, Henri Prost, Urbaniste,
in «Urbanisme», 88 (1965), pp. 2-31; L. Hodebert, Henri Prost, in «AMC», 61 (1995), pp. 60-65; J.-P. Frey,
Henri Prost (1874-1959): parcours d’un urbaniste discret (Rabat, Paris, Istanbul...), in «Urbanisme», 336
(2004), pp. 79-87. Sul piano per Istanbul cfr. D. Peyceré et al., From the Capital of Empire the Modern City
of the Republic. Henri Prost’s Stanbul Plans (1936-1951), catalogo dell’esposizione, Istanbul Research
Institute, Istanbul 2010.
04. Già nel 1934 il governo turco invita Prost a partecipare a un concorso per il piano urbanistico della
città ma l’urbanista declina inizialmente l’incarico perché totalmente assorbito dal piano direttore per la
regione parigina.
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Henri Prost, progetto di restauro di Santa Sofia, pianta prospettica (senza data). Questa pianta appartiene a un ciclo di disegni elaborati
tra il 1905 e il 1907 durante la formazione all’École des Beaux-Arts
Nella pagina seguente. Henri Prost davanti a una foto aerea del Corno d’Oro prima della costruzione del ponte Atatürk
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sul modello delle grandi capitali europee, sono rintracciabili già nell’Ottocento, durante il
regno dei sultani, ma si tratta di interventi sporadici e poco efficaci. Prost redige un piano
organico di interventi nella prospettiva di conciliare sviluppo e salvaguardia dell’immagine
e dell’identità urbana. «Questa città - scrive - vive di un’attività prodigiosa; realizzare le
grandi arterie di circolazione senza nuocere allo sviluppo commerciale e industriale, senza
ostacolare la costruzione di nuove abitazioni, è una necessità imperiosa, d’ordine economico
e sociale; ma conservare e proteggere l’incomparabile paesaggio, dominato da dei gloriosi
edifici, è un’altra necessità tanto imperiosa»5. Da questo programma culturale individua tre
temi che costituiscono le ‘dorsali’ del piano: la salvaguardia delle parti più antiche quali
depositarie dell’identità cittadina; la completa ridefinizione del sistema infrastrutturale
quale ossatura per lo sviluppo della città; la costruzione di un sistema di parchi e spazi
pubblici.
Il piano di Prost ha realmente aderito ai suoi presupposti iniziali che appaiono, se non
propriamente contraddittori, quantomeno ambigui? Quali materiali, strumenti, figure ha
impiegato? Quali tracce ha lasciato questo piano nella città attuale? Questi interrogativi
tracciano le direzioni della ricerca futura.
05. H. Prost, Les Transformations d’Istanbul, memoria dattiloscritta inedita, Paris, 17 settembre 1947
(T.d.A.).
Beyoglu, vista del centro degli affari dal ponte di Galata. Foto di Henri Prost
Santa Sofia e, sullo sfondo, il Bosforo. Foto di Henri Prost
Tutti le immagini che accompagnano lo scritto sono tratte dal libro L’Œuvre de Henri Prost: architecture et
urbanisme, Académie d’architecture, Paris 1960.
Nelle pagine seguenti. Henri Prost, piano regolatore di Istanbul, riva europea (1937)
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Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, prospettiva,
agosto 1905, archivio privato
NOVECENTO SUL BOSFORO
D’ARONCO E VILLA ITALIA
Genius loci e Modernismo nel progetto di Raimondo D’Aronco per l’ex
Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya sul Bosforo (1905-1906).
Diana Barillari
Oltre all’edificio che ospitava la sede dell’Ambasciata a Istanbul ovvero lo storico Palazzo di
Venezia già sede della Serenissima Repubblica e poi dell’Impero Austro-ungarico, il Regno
d’Italia aveva ricevuto in dono dal Sultano Abdülhamid II anche una residenza a Tarabya
sulla sponda europea del Bosforo, una località dove si trovavano gli edifici di altre legazioni
quali Gran Bretagna Francia e Germania1.
Il Ministero degli Affari Esteri commissiona il nuovo edificio a Raimondo D’Aronco2 che dal
1893 lavorava a Costantinopoli e aveva solidi legami professionali con il Sultano, la corte e
numerosi ministeri: l’architetto elabora il progetto tra il 1905 e il 1906, conservando alcuni
ambienti della costruzione precedente (fabbricato uso cucina, deposito di carbone, servizi
sotto la prima terrazza del giardino) e sistemando il giardino posteriore caratterizzato da
terrazzamenti e giardini pensili (posti rispettivamente a m. 2, 7, 8,5 e 14 s.l.m)3. Il progetto
per l’ex Residenza estiva come quello di poco posteriore per casa Huber (1906) sempre a
Tarabya, impegnano D’Aronco a progettare anche il giardino, permettendogli così di confrontarsi con un tema caratteristico dell’architettura realizzata lungo le sponde del Bosforo,
che a partire dal XVI secolo ospitava yali, chioschi e parchi destinati alla caccia e a brevi
soggiorni estivi da parte del Sultano e della corte. Il modello di riferimento è il palazzo del
Topkapi, un piccolo universo acentrato nel quale acqua e vegetazione insieme all’architettura si fondono per creare un armonioso contesto paesistico che può essere confrontato alla
cultura delle ville venete.
Il piano terra è organizzato intorno al vestibolo d’onore di forma rettangolare situato
sull’asse principale nord-sud perpendicolare al fronte strada che prospetta il Bosforo (est).
Ripartito da due coppie di colonne che delimitano lo spazio anche a livello funzionale – a
nord l’ampio scalone d’onore e a sud un accesso secondario dal giardino – lo spazio del
01. Una radicale revisione dell’edificio venne effettuata dal bailo Andrea Memmo nel 1777.
02. M.Nicoletti, Raimondo D’Aronco e l’architettura Liberty, Laterza Roma Bari 1982; Raimondo D’Aronco
architetto, cat. mostra a cura di E.Quargnal e M.Pozzetto, Electa, Milano 1982; V.Freni, C.Varnier, Raimondo
D’Aronco l’opera completa, Centro grafico editoriale, Padova 1983; D.Barillari, Raimondo D’Aronco, Laterza,
Roma-Bari 1995; D.Barillari, E.Godoli, Istanbul 1900 Architetture e interni Art Nouveau, Cantini, Firenze
1996; D’Aronco “architetto ottomano” 1893-1909, cat mostra a cura di D.Barillari, M. Di Donato, Istanbul
Arastirmalari Enstitüsü, Istanbul 2006.
03. Le tavole del progetto si trovano a Udine dove, presso i Civici Musei-Gallerie del Progetto, è conservato
l’archivio D’Aronco.
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vestibolo rielabora l’atrio a quattro colonne di Palladio ma allo stesso tempo si allinea alla
tradizionale configurazione dell’architettura ottomana, dove allo spazio centrale (sofa) fanno corona le stanze (oda). Questa disposizione spaziale caratteristica dell’abitazione turca
ha in D’Aronco un convinto sostenitore, infatti nella casa che progettò per la propria famiglia
a Torino (1903) limitò l’uso dei corridoi per fare spazio a una vasta «Hall», un ambiente
molto funzionale che aveva potuto sperimentare direttamente vivendo in una abitazione
tradizionale a Arnavutköy4. La pratica maturata con l’edilizia residenziale ottomana di yali
(le caratteristiche abitazioni lungo il Bosforo) e chioschi gli consentì di approfondire lo
studio delle piante, caratterizzate da un nucleo centrale collegato alle stanze secondo un
asse longitudinale o trasversale. Il corpo scale in questi edifici viene solitamente addossato
a uno dei lati perimetrali e consiste di una doppia rampa con pianerottolo intermedio tra
un piano e l’altro. Questa disposizione a partire dal XIX secolo assume una disposizione
sempre più rigorosamente simmetrica che trova corrispondenza nei prospetti, caratterizzati
dall’alternanza di volumi aggettanti, sostenuti da mensole lignee. Nel tracciare l’evoluzione
della casa turca con hayat Dogan Kuban individua nella permanenza del sofa anche nel
periodo che segna la massima adesione all’influenza occidentale, un carattere distintivo
della committenza ottomana, da un lato attirata dalla modernità ma al contempo contraria
a abbandonare il modello distributivo sofa-oda, funzionale a una società con tradizioni e
esigenze ben differenziate da quelle europee5. Per un architetto di formazione occidentale e
attento all’innovazione quale D’Aronco il sofa svolge funzioni analoghe a quelle di una hall,
un elemento di stringente attualità nel dibattito architettonico in corso, in particolare nel
mondo anglosassone.
Anche quando i palazzi dei Sultani e della corte costruiti lungo il Bosforo – Dolmabahçe,
Beylerbey, Küçüksü, Ihlamur, Çiragan – impiegano il linguaggio europeizzante degli stili
architettonici e sostituiscono il legno dei rivestimenti con il marmo, le piante conservano la
distribuzione tradizionale degli spazi interni, cosicché Dolmabahçe con la sua monumentale
facciata di 284 metri in realtà comprende sette unità residenziali distinte.
Lo spazio rettangolare del vestibolo caratterizza anche la disposizione dei piani superiori,
dove trovano collocazione le sale di ricevimento e rappresentanza al primo piano, e le
Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, l’edificio durante i lavori di costruzione, 1906
circa, archivio privato
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04. Il riferimento si trova in una lettera indirizzata all’ingegner Bonelli che era stato incaricato dall’architetto trattenuto a Istanbul di seguire i lavori di costruzione della casa a Torino, Raimondo D’Aronco
lettere di un architetto, a cura di E.Quargnal, del Bianco, Udine 1982, p.126.
05. Dogan Kuban, The Turkish Hayat House, Eren, Istanbul, 1995, pp.64-93.
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camere da letto al secondo e terzo. Questi ultimi due piani sono caratterizzati da uno spazio
a doppia altezza circondato da una balconata lungo il perimetro, che lascia fluire la luce che
arriva dall’abbaino situato sul lato meridionale, creando un suggestivo effetto di dilatazione
spaziale. Le tante suggestioni classiche e rinascimentali che la disposizione della pianta
rievoca sottolineano il carattere di rappresentanza dell’edificio, accresciuto dalle figure
allegoriche quali l’Italia con corona turrita posta sulla fontana dell’ingresso, lo stemma
Savoia sulla facciata verso il Bosforo, il bugnato del portale d’ingresso, la trifora centrale
archivoltata. La sintonia con l’architettura ottomana è riscontrabile oltre che nell’interpretazione del modello distributivo della pianta, anche nell’utilizzo delle tecniche costruttive, in
particolare nella relazione di progetto D’Aronco specifica che
«le facciate saranno composte di un’ossatura verticale e orizzontale di travi di quercia e di
ossature interne […] Le pareti esterne saranno formate di un rivestimento di tavole di larice
spalmate di olio di lino sulle due facce prima della loro posa in opera, e quelle interne di un
intonaco applicato sopra listelli di legno»6
Questa ultima indicazione consente di individuare una tecnica comunemente in uso nelle
abitazioni in Turchia denominata bagdadi che consiste nella stesura dell’intonaco su un
incannicciato o un graticcio di legno. La descrizione dei materiali impiegati per costruire
le facciate invece consente di istituire un confronto duplice sia con la tecnica del balloon
frame ma anche con l’ossatura portante in montanti e traversi di legno che viene impiegata
per le abitazioni tradizionali turche, nella quale l’intercapedine risultante tra esterno e
interno viene riempita da mattoni o inerti. Questa tecnica diffusa a seguito delle conquiste
ottomane in molti paesi balcanici non si discosta molto dall’opus craticium impiegato in
epoca romana, del quale restano interessanti esempi in alcune abitazioni a Pompei.
Fino all’altezza del primo piano D’Aronco impiega la struttura in muratura proprio come
nella casa tradizionale allo scopo di isolare i piani superiori dall’umidità, mentre per i solai
impiega voltine in laterizio su travi in ferro. Le tavole di progetto dell’ex Residenza documentano anche il sistema delle fondazioni composto da pali posti in corrispondenza dei muri
perimetrali, un accorgimento indispensabile dato che era necessario consolidare il terreno
che si trovava a pochi metri dalla sponda del Bosforo.
Raimondo D’Aronco, ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, particolare di una parete con la struttura portante in ossatura di legno e riempimento in mattoni, foto dell’autrice, 2006
06. V.Freni, C.Varnier, op. cit., p. 169.
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La composizione delle facciate lascia trasparire la suddivisione degli interni, in particolare
quella orientale rivolta verso il Bosforo, dove grazie agli aggetti, ai cornicioni marcapiano
e al rivestimento si può leggere – a partire dal pianterreno – la sequenza di vestibolo, sala
di attesa al primo piano e superiormente le camere da letto disposte intorno alla hall a
doppia altezza. Sul lato nord l’ampia falda del tetto si piega a formare un triangolo entro
il quale viene alloggiato un balconcino, mentre a sud la cornice marcapiano si interrompe
per lasciare spazio al grande abbaino che appoggia sullo sbalzo orizzontale della falda del
tetto che funge da copertura alla terrazza del primo piano. Se da un lato la decorazione dei
prospetti con il rivestimento in liste di legno orizzontali, i pannelli decorati a policromie
vivaci posti nella parte interna delle falde del tetto (losanghe, rombi, ovali, rettangoli) i
bow-windows e i balconi sporgenti ricordano la tradizionale architettura ottomana, altri
elementi ornamentali sono tratti dal repertorio del Modernismo, come le colonnine a sigaro
e le superfici decorate con motivo a scacchiera. La modernità che la critica concordemente
attribuisce alle architetture realizzate da Raimondo D’Aronco in Turchia tra il 1902 e il 1906
va ricondotta alla personale interpretazione del genius loci che l’architetto effettua anche
grazie alla sua felice condizione di abitante di una città cosmopolita. Egli altresì è in piena
Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, pianta del piano
terra, 1905, Civici Musei di Udine Gallerie del Progetto, archivio D’Aronco
Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, pianta del primo
piano, 1905, Civici Musei di Udine Gallerie del Progetto, archivio D’Aronco
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sintonia con una delle linee guida della Scuola di Wagner che secondo Marco Pozzetto si
fonda sulla «riconsiderazione critica delle architetture regionali»7.
Ma oltre all’architettura del Modernismo e all’influenza della ricca tradizione ottomana,
l’ispirazione di D’Aronco sembra guardare oltreoceano. David Gebhard nel 1966 si chiedeva
quale fosse il ruolo dell’architettura coloniale americana per le scelte compiute da D’Aronco
nel progetto per l’ex Residenza
«Non è noto se D’Aronco fosse al corrente dell’avanzatissima architettura americana degli
ultimi decenni dell’Ottocento, ma tutta la sua opera mostra una somiglianza più che casuale
con le Shingle Houses di H.H.Richardson McKim Mead e White e altri. Poiché l’architettura
americana costituì un fattore di influenza sulla scena turca allo scorcio del secolo scorso
e all’inizio del Novecento, ci si può domandare, e la risposta è molto dubbia, se essa abbia
momentaneamente influenzato l’architettura di D’Aronco» 8
Il rivestimento in legno che viene impiegato negli edifici Shingle Style non costituisce una
novità nel mondo ottomano, dove il materiale è in uso da secoli anche nelle parti strutturali
oltre che per decorazioni e rivestimenti, ma allo stesso tempo anche elementi quali
bow-windows e verande sono largamente utilizzati nelle architetture di yali e chioschi: D’Aronco trova certamente stimoli ma quello che più lo interessa è scoprire affinità e rimandi
tra le due culture architettoniche, soprattutto per trarne ispirazione per i suoi progetti. Egli
infatti oltre alle influenze americane considera con attenzione i modelli offerti per le architetture dei cottages e vi innesta la tradizione ottomana rivisitata con sensibilità modernista.
Nella biblioteca D’Aronco9 si conserva il volume dedicato a Habitations suburbaines (Villas,
maisons de campagna, cottages, dépendances…) troisième série10 frutto di una accurata
campagna fotografica effettuata da Albert Levy tra Chicago, New York, la costa atlantica per
documentare le case realizzate dallo studio McKim Mead e White, William Ralph Emerson,
Peabody e Stearns, Joseph Lyman Silsbee, Bruce Price, Henry Hobson Richardson, Cabot e
Chandler, Mason e Rice e molti altri. Tra le riviste della biblioteca dell’architetto si trova la
07. La Scuola di Wagner 1894-1012 Idee premi e concorsi, cat. mostra a cura di M.Pozzetto, 2 ed., Nuova
Del Bianco Udine 1981, p. 31.
08. David Gebhard, Raimondo D’Aronco e l’Art Nouveau in Turchia, «L’Architettura. Cronache e Storia», 1966,
n.134, p. 552.
09. I libri e le riviste che D’Aronco conservò con sé fino alla morte furono da lui destinate per volontà
testamentaria alla Biblioteca civica di Udine, dove tuttora si trovano presso la sezione Friuli. La storia di
questa collezione è stata studiata da Marzia Di Donato e pubblicata nel catalogo della mostra dedicata
all’architetto tenutasi a Istanbul nel 2006.
10. L’architecture Américaine, Habitations suburbaines (Villas, maisons de campagna, cottages,
dépendances…) troisième série, Cesar Daly, Paris 1888.
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Raimondo D’Aronco, progetto per l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya, sezione longitudinale, 1905, Civici Musei di
Udine Gallerie del Progetto, archivio D’Aronco
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rivista “Academy Architecture and Annual Architectural Review” (dal 1895 “Academy Architecture and Annual Review”) edita a Londra dall’architetto svizzero Alexander Koch. D’Aronco
ne possedeva la serie completa a partire dal 1889 e fino al 1908 poiché fu la prima rivista
internazionale a pubblicare i suoi progetti, ben diciassette dal 1892 al 1898.
Il sincretismo che Ezio Godoli11 indica come fattore significativo nella metodologia
progettuale di D’Aronco, da un lato ne conferma la vocazione eclettica, ma spiega anche
quella «inquietudine espressiva» rilevata da Marcello Piacentini che gli consente di operare
mettendo a frutto le notevoli doti di fantasia e creatività che caratterizzano le sue opere.
La sua propensione al sincretismo si integra agevolmente con quella che Maurice Cerasi
definisce la «mentalità agglutinante dell’architetto ottomano» che opera «per giustapposizione di elementi edilizi autonomi»12. In quanto all’eclettismo più che una questione
di stile e forma, il termine va inteso come nella connotazione più ampia di un sistema di
conoscenza non circoscrivibile al linguaggio architettonico del XIX secolo, poiché si può far
risalire all’Ellenismo. E di sintesi e capacità di assimilazione D’Aronco trova molti concreti
esempi nella cultura artistica ottomana, dove si intrecciano echi persiani, cinesi, occidentali
e naturalmente arabi: il suo spazio creativo a Costantinopoli si allarga oltre i confini del
mondo europeo e gli consente di vivere una esperienza che ha pochi confronti con quella di
altri protagonisti del Modernismo.
Raimondo D’Aronco, l’ex Residenza estiva dell’Ambasciata d’Italia a Tarabya oggi, un restauro incompiuto in
un contesto che vede invece altre istituzioni culturali straniere molto attive, foto Hilde Lèon
11. E.Godoli, A l’Orient seule l’Architecture Orientale Convient, in Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio
«Rassegna», XIX, n. 72, 1997, p. 78.
12. M.Cerasi, Città e architettura nel Settecento, in Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio, «Rassegna», XIX, n.
72, 1997, p. 47.
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Vista dall’interno della Casa Taut a Istanbul verso l’esterno del Golfo del Bosforo, verso quel Zwischenraum
dello spazio di mare compreso tra due terre e due mari; foto di H. H. Waechter 1975
MUNDUS TOTUS EXILIUM EST
L’ESILIO DELL’ARCHITETTURA
Queste sono alcune note parziali. Non prendono in esame l’immensa produzione teoricopratica di Bruno Taut ma cercano di ricostruire il suo progetto architettonico a partire dalla
‘perdita’ di un ubi consistam, di un essere-a-casa.
Si apre inoltre un mondo non molto conosciuto nella ricerca, di innesti mitteleuropei
sull’architettura turca.
Per Ugo di San Vittore l’intero mondo è esilio, lontananza dalla patria celeste. Per Taut, e
forse per tutta la diaspora della cultura architettonica, e non solo, la condizione di esilio va
rovesciata produttivamente. Potrebbe dirsi che in Taut il progetto dell’architettura coincide
con l’abitare l’esilio.
Il potere del nazionalsocialismo costringe all’esilio in vari paesi del mondo migliaia di
perseguitati soprattutto della Germania e dell’Austria. Tra di loro anche Erich Auerbach,
l’autore di Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur1, composto
proprio a Istanbul negli anni dell’esilio. “E’ dunque possibile, scrive Auerbach nella
Conclusione, e anzi probabile, che mi siano sfuggite molte cose di cui avrei dovuto tenere
conto, e che talvolta affermi cosa che è stata contraddetta o modificata da nuove ricerche”.
L’esilio impone alla ricerca un carattere di incompletezza, di incertezza, di titubanza, di non
definitività destinato a segnare, da quel momento in avanti, tutto il pensiero che nell’esilio
si attiva.
Bruno Taut, nato nel 1880 a Königsberg, viene nel 1933 incluso nelle liste dei ricercati
politici, dopo il suo rientro da Mosca, e sceglie la via dell’esilio in Giappone, dove rimane
fino al 1936. Qui si occupa della cultura e dell’architettura giapponese scrivendo tra
l’altro Fundamentals of japanese architecture, Tokyo 1936, e Houses and people of Japan,
Tokyo 1937. Durante l’esilio giapponese, Taut è costretto a limitare l’attività operativa e si
dedica a un importante lavoro di ricerca teorica: le Architekturüberlegungen / Riflessioni
sull’architettura. Questo testo, scritto tra il 1935 e il 1936 in sette capitoli, costituisce la
prima versione della sua Architekturlehre / Teoria dell’architettura, il suo ultimo testo2.
Bruno Taut in Turchia
Gundula Rakowitz
01. Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, A. Francke,
Bern 1946, trad. it: Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956; in particolare
Conclusione, p. 343.
02. Cfr. la rivista «ARCH+» 194, ott. 2009, dedicata a Bruno Taut e alla sua Architekturlehre e in particolare
la postfazione di Manfred Speidel, Was ist Architektur? Bruno Tauts „Architekturlehre“, ivi, pp.160-165.
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La sua consapevole discontinuità, ambivalenza e contraddittorietà, proprio in quanto esule,
è rinvenibile nella sua grande produzione teorica: sin dai primi scritti, composti ancora in
Germania (basti ricordare Alpine Architektur pubblicato nel 1920 con la data però del 1919,
con uno scritto dell’amico Paul Scheerbart e Die Stadtkrone del 1919), Taut sviluppa la
sua poetica di un’architettura fantastico-utopica e al contempo ‘situata’, aperta da sempre
alla ricerca del nuovo attraverso la risignificazione dell’antico. Ed è in questa apertura
che possiamo trovare il motivo conduttore della sua poetica, cui restò fedele per l’intera
esistenza, ossia la qualità dirompente dell’arte rispetto ai valori tradizionali, innovando il
rapporto tra arte e architettura intesa come idea rispetto alla natura.
Nel novembre del 1936 Taut si trasferisce in Turchia3, dove viene chiamato per insegnare
architettura e assumere la direzione del Dipartimento di Architettura dell’Accademia di Belle
Arti di Istanbul e contemporaneamente diventa direttore dell’Ufficio Progetti, che aveva
allora anche la funzione di centro per l’architettura, presso il Ministero della Cultura, voluto
da Kemal Atatürk nel complesso di iniziative pensate per la modernizzazione del paese4. Per
la chiamata di Taut fu decisivo l’intervento dell’emigrato collega architetto Martin Wagner,
allora consigliere all’urbanistica a Istanbul. Taut divenne a tutti gli effetti successore
dell’architetto austriaco Ernst Egli, al posto di Hans Poelzig che era scomparso poco prima.
Si tratta per Taut di un secondo arrivo a Istanbul, visto che già nel 1916 vi si era recato
per partecipare al concorso per la Casa dell’amicizia / Dostluk Jurda i cui materiali
preliminari erano stati approntati tra il 1914 e il 1916 su commissione dell’Istituto Orientale
dell’Università di Berlino da Emilie Winkelmann, la prima donna architetto della Germania,
poi esclusa in quanto donna dal concorso indetto nel 1916 e promosso dal Werkbund
Tedesco e dalla Associazione Turco-Tedesca, un ambito strettamente dominato da figure
maschili5.
Dott. Rudolf NUNN / Direttore dell’ / Istituto di Cultura turco-tedesco / e / Prof. Muhtesem GIRAY / Rettore dell’UNIVERSITÀ MIMAR
SINAN / sono lieti di invitarLa all’inaugurazione della mostra / BRUNO TAUT / (1880 Königsberg/Pr. – 1938 Istanbul) / e alla conferenza /
e / alle relazioni / Durata della mostra: 22 febbraio - 8 marzo 1983 / Università Mimar Sinan / Sala Mimar Sinan
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03. Cfr. Il diario, Istanbul Journal, copia del quale è depositata presso il Baukunstarchiv dell’Akademie der
Künste di Berlino, dove Taut registrò gli avvenimenti legati alla sua attività in Turchia dal 10/11/1936 al
13/12/1838.
04. Cfr. Manfred Speidel, Natürlichkeit und Freiheit. Bruno Tauts Bauten in der Türkei, in Bir Baskentin Olusumu, Ankara 1923-1950, Ankara 1995; Bernd Nicolai, Moderne und Exil. Deutschsprachige Architekten in
der Türkei 1925-1955, Verlag für Bauwesen, Berlin 1998; Sibel Bozdogan, Modernism and Nation Building.
Turkisk Architektural Culture in the Early Republic, University of Washington Press, Seattle 2001; Winfried
Nerdinger, Manfred Speidel (a cura di), Bruno Taut 1936-1938, Electa, Milano 2002; Giorgio Gasco, Bruno
Taut e il Ministero della Cultura turco. Traiettorie professionali nella Turchia Repubblicana 1936-1938, Tesi
di Dottorato presso l’Universitat Politècnica de Catalunya di Barcellona, 2007.
05. Tra i suoi colleghi architetti furono invitati oltre che Bruno Taut e Hans Poelzig, anche Peter Behrens,
German Bestelmeyer, Paul Bonatz, Hugo Eberhardt, Martin Elsässer, August Endell, Theodor Fischer, Bruno
Paul, Richard Riemerschmid e Walter Gropius (che però non poté partecipare).
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Bruno Taut, già durante i primi mesi dell’insegnamento a Istanbul presso il Dipartimento di
Architettura nel 1936, cerca di riformare tutto il piano didattico e la struttura universitaria
del dipartimento presso l’Accademia e, contemporaneamente, perfeziona la sua opera
teorica.
Nel dicembre dello stesso anno presenta una rielaborazione del primo capitolo Was ist
Architektur, poi successivamente tutti gli altri sei capitoli nel 1937: Die Proportion, Technik,
Konstruktion, Funktion, Qualität, Beziehungen zur Gesellschaft und zu den anderen Künsten.
L’opera Architekturlehre fu pubblicata postuma pochi giorni dopo la morte di Taut, il 24
dicembre 1938, a Istanbul, con il titolo in turco Mimarî Bilgisi6. Quest’opera è dunque il
testamento architettonico di Taut.
In veste di direttore dell’Ufficio Progetti, Taut è in grado di chiamare molti suoi colleghi
architetti conosciuti in Germania, tra i quali Franz Hillinger, Wilhelm Schütte e sua moglie
Margarete Schütte-Lihotzky, prima donna architetto austriaca a esercitare la professione.
Non è in alcun modo ozioso ricordare che Margarete Schütte-Lihotzky, come pure
l’architetto Herbert Eichholzer, invitato da Clemens Holzmeister in Turchia, erano membri
attivi del movimento di resistenza austriaca contro il nazifascismo che aveva a Istanbul
un importante centro di organizzazione: da Istanbul di nuovo a Vienna, per continuare la
resistenza. Margarete fu arrestata a Vienna, mentre Eichholzer fu ucciso dalla Gestapo.
In qualità di direttore dell’Ufficio Progetti, Taut costruisce grandi architetture pubbliche, tra
cui ricordiamo l’Università di Ankara, molti edifici scolastici, architetture di rappresentanza
e il catafalco di Atatürk.
Nello schizzo per questo suo ultimo progetto del catafalco, eseguito con gessetti di colori
verdi, azzurri, gialli-arancioni e rossi, con il nero quasi assente, si manifesta il carattere
immaginario progettante dei suoi primi lavori. Una composizione architettonica multicolore,
con i pilastri-alberi verdi, i muri come tessuti di fiori e il telo della bandiera, esprime una
spontaneità e vivacità anticonvenzionale per il luogo del morto, anzi lo contraddice e lo
trasforma in uno spazio cromatico vivibile.
06. Bruno Taut, Mimarî Bilgisi, Güzel Sanatlar Akademisi Nesriyatindan, Istanbul 1938.
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B. Taut, Catafalco di Kemal Atatürk ad Ankara, 1938. Gessetti su carta da pacchi, 45x60cm. Museo del Mausoleo di Atatürk, Ankara.
Foto M. Speidel
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Taut progetta anche due architetture private, di cui una non realizzata, la casa per il Dott.
Nissen, direttore del Dipartimento di Chirurgia della Clinica Cerrah Pass di Istanbul, per la
quale fece solo alcuni disegni preparatori.
La seconda, sulla quale si intende soffermarsi un momento, è la sua propria abitazione,
Casa Taut a Istanbul-Ortaköy sul Bosforo che oggi si presenta parzialmente modificata7.
La casa sul Bosforo esprime quel carattere che secondo Auerbach abbiamo definito di
‘incertezza’, di ‘non definitività’ , quasi un desiderio di impeto. La casa diviene un’architettura
‘esiliata’ alla eterna ricerca del rapporto tra mimesis et inventio, tra antico e nuovo, tra
materiali tradizionali e strutture costruttive moderne in un contesto pluriculturale che
abbraccia, come in un viaggio, il mondo europeo e quello asiatico insieme, per sostare
infine, nel mondo turco. La casa si sviluppa come un ‘animale fantastico addomesticato’ su
lunghe zampe verticali in cemento armato che nascono dalla natura del terreno inclinato,
dal pendio ripido. Le zampe-pilotis sorreggono la piattaforma orizzontale su cui si erge la
costruzione della sequenza degli spazi dell’animale composto ‘chimera’. La pianta principale
è piuttosto semplice e tradizionale, dall’ingresso laterale un corridoio centrale piegato ad L
distribuisce rispettivamente sui due lati le camere e i servizi per sfociare come un fiume nel
07. Crf. Bulent Özer, A Home of the Soul, in «Domus» n. 611, 1980, p.28; Luciana Capaccioli, Bruno Taut.
Visione e progetto, Dedalo, Bari 1981, pp.63-64.
Esterno e interno di Casa Taut, foto p.65 di B. Nicolai
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trionfale salone di soggiorno tutto vetrato rivolto al Bosforo: il cuore dell’animale fantastico.
Dal grande salone una piccola scala attorcigliata, come una sorta di ‘sinapsi’, porta allo
studio dell’architetto al piano superiore la cui pianta è un ottagono irregolare: la testa, un
punto di sguardo sul Bosforo con un tetto-cappello a spicchi.
E’ stata proprio questa architettura della Casa Taut a diventare recentemente, nel 2012,
oggetto di interesse compositivo per l’artista giapponese Aki Nagasaka8. L’artista esegue
una reinterpretazione letteralmente u-topica della Casa Taut attraverso l’installazione
dell’opera intitolata Project T, T for Taut, che fu esposto al MAK di Vienna nel 20139.
Nagasaka toglie la casa dal suo topos e prende in esame solo la parte della casa più
esposta verso il mare, la cosiddetta pagoda. Isolando la figura, la ripropone 5+1 volte in
forma di modelli di materiali e colori diversi, dalla pietra, al legno al metallo al cristallo
ecc., come se stesse sperimentando le teorie del colore di Taut. Nelle singole scene valuta
il materiale documentario come parametro reale e sviluppa da idee essenziali dello spazio e
dell’architettura forme poetiche.
Il carattere della ripetizione astratta della composizione fa emergere il tema della
ricomposizione ‘infinita’ dell’esilio dell’architettura, dell’architettura dell’esilio.
08. Aki Nagasaka, nata nel 1980 a Osaka in Giappone, vive e lavora a Londra.
09. Cfr. Il catalogo della mostra presso il MAK di Vienna 23/01-21/04/2013: Christoph Thun-Hohenstein,
Simon Rees, Bärbel Vischer (a cura di), Zeichen, Gefangen im Wunder. Auf der Suche nach Istanbul heute in
der zeitgenössischen Kunst – Signs taken in wonder. Searching for Contemporary Art about Istanbul, Hatje
Cantz, Ostfildern 2013.
Aki Nagasaka, Project T, T for Taut, 2012
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tra ricerca e didattica
Interno di una stanza oda (da U. Vogt-Göknil, H. Stierlin, Ottoman Turkey, Benedikt Taschen, 1996, tav.167)
Formatasi ai confini con l’Europa, la cultura urbana ottomana è il risultato della fusione
e di sintesi di molteplici apporti autoctoni e importanti: sintesi estesa per molti secoli,
perlomeno dal XV al XVIII secolo in un’area che va dai Balcani all’Anatolia. In quest’area
nascono una particolare forma delle case in legno, la moschea a cupola centrale,
un’organizzazione della centralità del mercato, un particolare gusto e ritmo del quotidiano
urbano e un’originale concezione dello spazio e del rapporto tra natura e urbanità.
L’architettura ottomana si caratterizza per una tipizzazione degli edifici in modelli distinti
destinati alle diverse funzioni della città in base alle quali seguono uno specifico codice
linguistico. Un insieme di regole in parte scritte, in parte tacite, che possono derivare
dalle leggi statali laiche come da usi e costumi tradizionali. Ad esempio l’impossibilità per
l’edilizia residenziale privata di emergere in dimensioni e ornamento rispetto all’architettura
sacra1.
Oggetto del nostro interesse didattico e di ricerca con gli studenti del laboratorio di
progettazione è proprio l’indagine sulla casa ottomana intesa come archetipo abitativo.
Questa prende forma attraverso un procedimento compositivo analitico per assemblaggio
di elementi - le stanze - rigorosi, ripetuti e combinati. Un processo sconosciuto nell’area
mediterranea, più familiare al contrario ad un procedimento plastico in cui il disegno
dell’insieme plasma le singole stanze ed il perimetro modella lo spazio interno.
LA CASA OTTOMANA
STRUTTURA E PSICOLOGIA DELL’EFFIMERO
L’esperienza didattica del laboratorio di
composizione architettonica 1
Nicola Barbugian
Maurice Cerasi2 distingue tre fattori che caratterizzano la casa ottomana3.
Il primo è il rapporto del tipo con la morfologia urbana, cioè l’assunzione del giardino
murato come lotto urbano. La casa non è quasi mai collocata al centro del giardino, anzi, i
corpi edificati sono concentrati sul perimetro salvaguardando unità e continuità della corte
01. Per una trattazione approfondita si rimanda a M. Cerasi, La città del Levante: civiltà urbana e
architettura sotto gli Ottomani nei secoli XVII-XIX, Jaca Book, Milano 1988.
02. Maurice Cerasi è nato a Istanbul nel 1932. Ha insegnato nelle facoltà di architettura di Milano e
di Genova dove è professore ordinario di composizione architettonica. Ha scritto numerosi saggi sui
procedimenti progettuali dell’architettura nella costruzione della città: tra questi Giovanni Michelucci
(1968) e Lo spazio collettivo della città (1976).
03.M. Cerasi, La città del Levante: civiltà urbana e architettura sotto gli Ottomani nei secoli XVII-XIX, Jaca
Book, Milano 1988 p.165
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interna e mantenendo il contatto diretto tra la casa e la via urbana (rafforzato dalla presenza
di aggetti sulla strada). Muro di cinta e basamento dell’abitazione sono quindi un unicum
che contiene tutti i locali di servizio e le funzioni domestiche (cucina, lavanderia) che si
svolgono attorno alla corte. Questo basamento in pietra e muratura è interrotto da poche
finestre e dall’ingresso che spesso avviene direttamente dal giardino dell’abitazione.
Un secondo fattore è il principio compositivo che assume le stanze come elementi
costitutivi, elementi di rigorosa forma geometrica che, aggregandosi, formano insiemi liberi
distribuiti senza una precisa corrispondenza con la parte basamentale dell’edificio.
Nella casa ottomana non esistono la stanza individuale o quella con precise funzioni, né
esistono grandi saloni coperti rappresentativi. L’unità fondamentale della casa ottomana
è la stessa nella casa del benestante e nella casa del povero, differisce piuttosto nella
ricchezza delle rifiniture o nel numero di singoli ambienti. Nella sua precisa geometria e
simmetria la stanza è divisa in entrata e zona living, spesso poste a quote leggermente
diverse. I vuoti delle finestre prevalgono sui pieni delle armadiature a parete aumentando
il grande senso di leggerezza trasmesso dai rivestimenti lignei. Non sono presenti arredi
nel senso occidentale del termine se facciamo eccezione per i lunghi divani bassi fissi che
corrono sotto alle finestre lungo le pareti della stanza. Da qui avviene il contatto diretto con
la scena urbana in una relazione che porta lo sguardo dall’interno verso l’esterno, superando
anche il filtro delle grate che consentivano alla donna di osservare la vita sulla via senza
essere vista.
Terzo fattore caratterizzante è quello strutturale, il telaio in legno che sostituisce la
muratura in pietra o in mattoni.
Proprio il telaio ha permesso all’abitazione urbana ottomana di sviluppare i suoi caratteri
distintivi che possiamo riassumere in un’aggregazione di spazi interni simmetrici molto
aperti su una base parcellaria e muraria necessariamente irregolare e in un relativo
disinteresse per la durevolezza e per la rappresentatività dell’architettura domestica.
Il telaio tradizionale è composto da elementi verticali molto fitti, distanziati tra loro dai
60 ai 120 centimetri, da travi orizzontali anch’esse fitte e da capriate di copertura. Tutti gli
elementi lignei sono di sezione modesta e controventati con piccoli elementi diagonali. La
struttura di conseguenza risulta molto leggera riducendo la quantità di materiale utilizzato.
Il telaio è poi riempito con mattoni o pietre e rivestito nell’interno della stanza quasi sempre
con doghe orizzontali di legno inchiodate direttamente agli elementi verticali in modo da
collaborare alla resistenza statica.
Questa tecnologia comporta tempi di costruzione molto brevi consentendo, storicamente,
veloci ricostruzioni di tessuto urbano anche in seguito a grandi incendi.
Case in serie all’esterno del palazzo di Topkapı. Secoli XIX-XX. (da M. Cerasi, op. cit., tav.73)
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A mancare completamente nella casa ottomana è il senso di permanenza. Non si tratta
di costruzioni realizzate per tramandare il nome o il patrimonio delle famiglie sulla
scena urbana vista la scarsa rappresentatività delle facciate. Le stanze non hanno una
specializzazione funzionale né arredi come avviene in una tenda nomade, un’abitazione
provvisoria in cui vige l’usanza orientale del letto costituito da un materasso steso a terra
durante la notte e messo via di giorno all’interno degli armadi. Un assetto che rafforza la
polivalenza degli ambienti e una generale sobrietà d’insieme.
Una tipologia abitativa singolare è quella dello yali. Si tratta di residenze estive costruite
sulle rive del Bosforo a partire dalla fine del XVII secolo, caratterizzate da una marcata
simmetria nell’impianto planimetrico e dalla presenza di alcove a sbalzo sull’acqua nelle
quali sedersi per apprezzare il panorama offerto dalla singolare collocazione costiera.
Gli studenti del laboratorio hanno affrontato il tema della casa ottomana approfondendo
nello specifico il caso dello yalı Köprülü Amcazade collocato nella località di Anadoluhisarı
nella costa asiatica, in prossimità dell’attuale ponte Fatih Sultan Mehmet4. La parte
aggettante sull’acqua, la sala dei ricevimenti, è oggi l’unica non demolita o modificata nel
tempo del complesso commissionato dall’ex governatore di Belgrado Husein Pasa, Gran Visir
del Sultano Mustafa II tra il 1697 e il 1702, noto per aver patrocinato le scienze e le arti,
oltre che per aver commissionato numerosi edifici. La costruzione dello yalı risale al 1699,
si tratta quindi di uno dei più antichi costruiti e sopravvissuti alle demolizioni operate tra il
1930 e la seconda guerra mondiale.
La grande stanza ha una pianta a croce, i tre bracci sbalzano parzialmente sull’acqua
e costituiscono tre alcove pavimentate in legno, coperte da tappeti e arredate da bassi
divani (sedir) che corrono lungo le pareti. Le finestre sono bipartite, quelle superiori sono
rimpiazzate da pannelli in legno decorati sui quali salgono i vetri scorrevoli, in questo
modo si amplifica nell’individuo seduto nel divano la sensazione di essere all’aperto e di
galleggiare sull’acqua. Il sistema di oscuramento è costituito da pannelli che ruotando
sull’asse verticale regolano luce e aria proteggendo anche dal riflesso dell’acqua. L’area
centrale, pavimentata in marmo e caratterizzata dalla presenza di una fontana, svolge una
funzione di anticamera rispetto alle tre alcove nelle quali si svolge la vita sociale dello yalı.
Yali Köprülü (1699) a Anadoluhisarı sulla riva asiatica del Bosforo (da U. Vogt-Göknil, H. Stierlin, Ottoman
Turkey, Benedikt Taschen, 1996, tav.163)
04. Il ponte Fatih Sultan Mehmet (in turco: Fatih Sultan Mehmet Köprüsü) chiamato anche il “secondo
ponte sul Bosforo”, è uno dei due ponti di Istanbul, che attraversando lo stretto del Bosforo collegano
l’Europa con l’Asia. L’inagurazione risale al 1973.
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L’interno del divanhane dello yali Köprülü in un disegno prospettico di S. H. Eldem, 1940
Ricostruzione della facciata della sala dei ricevimenti dello yali Köprülü (1699); ricostruzione della pianta. Legenda: a_pavimento in
marmo con fontana, b_alcove con sedute, c_stanza principale, d_stanza da bagno, e_hall, f_stanza secondaria, g_ingresso, h_stanze
di servizio, i_cucina e bagno; da M. Quigley Pinar, Istanbul, Gateway to Splendour: A Journey through Turkish architecture, A. Ertug,
1986, p.220
Il ridisegno dell’architettura è stato condotto dagli studenti a partire dal prezioso lavoro di
Sedad Eldem5 e dei suoi allievi che hanno lungamente affrontato il tema del disegno delle
architetture ottomane affacciate sul Bosforo. In particolare proprio lo yalı Köprülü è stato
oggetto di studio per Eldem che ne ha ricostruito l’aspetto interno in numerosi disegni6.
Da questa architettura attinge in maniera esplicita quando nel 1947 realizza, sempre ad
Istanbul, la Taslik Coffee House7 rideclinando a secoli di distanza l’architettura domestica
tradizionale.
Le informazioni sono state poi confrontate con quelle rinvenute in un dossier curato da
Martin Bachmann dell’Istituto Archeologico Tedesco di Istanbul che si è recentemente
occupato dello studio delle carpenterie dell’edificio8. Un modello ligneo realizzato da Anita
Knipper e Steffen Sauter dell’Università di Karlsruhe ha suggerito una strada da percorrere
nella realizzazione dei plastici di studio9. La scelta fatta dagli studenti è stata infatti quella
modello dello yali Köprülü, scala 1:50. Studenti: Enrico Fornasa, Maria Concetta Savignano
05. Sedad Hakki Eldem (1908-1988) è stato architetto e docente di progettazione architettonica. Con il suo
lavoro ha cercato di rispondere alla sfida di armonizzare tradizione e modernità. S. Bozdogan, S. Özkan, E.
Yenal, Sedad Eldem: Architect in Turkey, Butterworth-Heinemann Limited, 1987.
06. S. H. Eldem, Türk Evi (Turkish House) II, Mimar Sinan Üniversitesi, Istanbul 1983, p.190-191; M. Quigley
Pinar, Istanbul, Gateway to Splendour: A Journey through Turkish architecture, A. Ertug, 1986, p.220-221.
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07. S. Bozdogan, S. Özkan, E. Yenal, Sedad Eldem: Architect in Turkey, Butterworth-Heinemann Limited,
1987, p.50-53.
08. M. Bachmann, The Amcazade Yalısı in Istanbul. A New Light on Ottoman Carpentry, Proceedings of the
Third International Congress on Construction History, Cottbus, May 2009.
09. Ibidem.
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S. H. Eldem, Taslik Coffee House, Istanbul 1947
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di mettere in evidenza le parti strutturali più rilevanti dell’edificio, portando a vista di volta
in volta il telaio ligneo delle alcove, piuttosto che l’orditura dei pavimenti. Particolare
attenzione è stata dedicata anche alla complessità della copertura, alle volte ribassate che
coprono le tre stanze e alla cupola dell’ambiente centrale.
I modelli realizzati variano dalla scala 1:50 alla scala 1:20, a seconda della volontà dei
gruppi di studio di porre in evidenza determinati dettagli architettonici.
Terminata questa prima parte del laboratorio dedicata allo studio della casa ottomana come
archetipo abitativo gli studenti, forti delle conoscenze acquisite, gli studenti sono impegnati
nell’esercitazione progettuale. All’interno dell’area costiera individuata ricostruendo
le preesistenze del complesso dello yalı Köprülü sono chiamati a realizzare un proprio
progetto di abitazione unifamiliare. Il loro studio è quindi ora rivolto al compito di conciliare
la lezione della casa tradizionale ottomana con l’abitare contemporaneo in una città,
Istanbul, che con il procedere delle nostre ricerche mostra ogni giorno nuove e pressanti
contraddizioni.
modello dello yali Köprülü, scala 1:20. Studenti: Matilde Dufour, Alessandra Pradal
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modello dello yali Köprülü, scala 1:50. Studenti: Veronica Lazzaro, Riccardo Perazzolo
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“Tutto attorno c’è molto rumore, e cemento, dappertutto. Ma i cambiamenti di superficie non significano
niente: a conoscerla davvero, questa è la Costantinopoli di sempre”
O. Pamuk, Istanbul. I ricordi e la città, 2003
ISTANBUL-KARAKÖY E ALTRI LUOGHI
La profondità dello sguardo, proposta da Orhan Pamuk, allo spazio delle cose che abitano
la città è la prospettiva che accompagna la nostra ricerca verso lo studio e il progetto
nella Istanbul contemporanea. Una geografia urbana occidentale e orientale, una storia
millenaria, un’orografia complessa, un ‘terreno’ unico ma molteplice, denso di connotazioni.
Alcuni anni fa, all’interno di una suggestiva mostra allestita in occasione della X Biennale
di Architettura di Venezia1, Istanbul figurava - con Mumbai, San Paolo del Brasile, Città
del Messico e altre realtà mondiali - tra le maggiori megalopoli le cui contraddizioni
dell’abnorme sviluppo urbano sono imputabili alle dinamiche di una rapida crescita
demografica ed economica che intreccia stretti legami con programmi e interessi politici.
Oggi, attraversare la città di Istanbul, significa percorrere un territorio abitato da oltre
quattordici milioni di persone. Uno sterminato mosaico edificato, configurato attraverso un
alternarsi di valli e colline, in cui le anonime costruzioni sono accostate senza un controllo
complessivo del disegno dello spazio. I quartieri rappresentano in maniera concreta il
modello di sviluppo urbano legato all’immediatezza di un’esigenza abitativa contingente.
Il processo di urbanizzazione dei territori agricoli, a partire dagli anni Sessanta, ha prodotto
la reiterata realizzazione di quartieri residenziali autocostruiti a bassa densità e di edilizia
sociale più compatta di scarsa qualità architettonica. In anni più recenti, quando le aree
diventano ‘appetibili’ a seguito della previsione di una importante infrastruttura – come,
ad esempio, nel caso lo stadio olimpico nei pressi del quartiere di Ayazma - le operazioni
immobiliari vedono sostituire le fatiscenti case con lussuosi appartamenti e centri
commerciali perpetuando meccanismi figurativi, aggregativi, di disegno dello spazio aperto
in assenza di un progetto generale di città. L’espulsione della popolazione in altri ambiti
di espansione urbana non trova soluzione adeguata a soddisfare le rinnovate necessità
abitative.
APPUNTI PER UN DIARIO DI PROGETTO
Immagine a infrarossi, 60x60 Km, realizzata nel giugno 2000. La vegetazione appare in rosso, le aree
urbane in verde-azzurro. NASA/GSFC/METI/Japan Space Systems, and U.S./Japan ASTER Science Team
Cristiana Eusepi
01. Mostra diretta da R.Burdett, Città. Architettura e Società, X Mostra Biennale internazionale di architettura di Venezia, Corderie dell’Arsenale, Venezia 2006.
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La capacità di Istanbul di mostrare la propria struttura e bellezza, pur non senza
contraddizione, si esprime vicino al mare. A Fathi, Fener, Balat e in altri tra i più antichi
quartieri residenziali del Corno d’Oro, demolizioni indiscriminate, senza ordine precostituito
e, talvolta, nel giro di una notte, continuano a irrompere nel tessuto edilizio esistente
snaturando la qualità di un’architettura legata profondamente ai modi di vita dei propri
abitanti. È certo che il diffuso degrado di intere parti di città storica suggerirebbe pratiche
di recupero e di oculata sostituzione edilizia. La distruzione di innumerevoli case in legno,
gli yali, già da qualche tempo, lascia posto all’avanzare di anonime e compatte costruzioni
multipiano. Questo diffuso procedere si contrappone alla necessità di assumere il
manufatto architettonico quale risorsa in grado di attivare concrete operazioni di recupero
degli edifici e articolate trasformazione di parti di città.
I quartieri rivolti verso il Bosforo rimangono, tuttavia, i più vivibili e ‘misurati’ con parchi,
aree verdi, passeggiate, alcuni tra i monumenti e i palazzi storici di maggior pregio, edifici
nuovi, zone commerciali e residenziali. Nel centro antico, il Bosforo è attraversabile a
piedi, in automobile e con il tram in pochi punti e minuti. Numerosi traghetti urbani, che
intrecciano il proprio percorso con le grandi navi commerciali in transito, congiuntamente
alla discussa e una nuovissima linea metropolitana sotto l’istmo, garantiscono una
connettività continua tra le diverse sponde, europea e asiatica.
Oltre il Bosforo, a est, il profilo della città asiatica con i suoi centri antichi disposti lungo
le sponde e i grattacieli sullo sfondo. A nord, la collina di Pera, coronata anch’essa da
imponenti edifici che fanno da contrappunto al tessuto compatto del quartiere di Beyoglu,
per secoli enclave europea.
Qui i genovesi, agli inizi del XIII secolo, edificarono il sistema di fortificazione del quale
la torre di Galata è una tra le maggiori reminiscenze. In epoca ottomana l’area si popolò
di ebrei, greci e armeni diventando il centro commerciale della città. Una vocazione
cosmopolita espressa anche attraverso l’architettura.
A ridosso di Grande Rue de Péra, oggi Istiklal Caddesi, vengono, via via, eretti edifici di
culto, scuole, hotel, passage commerciali, abitazioni private e palazzi pubblici che ospitano
delegazioni di tutta Europa. I francesi furono i primi a costruire i propri palazzi secondo
canoni e caratteri occidentali. A partire dalla fine del Seicento, seguono, gli ambasciatori
della Repubblica di Venezia, le rappresentanze provenienti da Olanda, Polonia, Prussia
e Russia. Molti architetti levantini e stranieri, come è possibile apprezzare attraverso le
iscrizioni affisse su numerose facciate, ebbero un ruolo fondamentale nella di costruzione di
questa parte di città.
Antoine-Ignace Melling, Case signorili e palazzo di Ibrahim Pasa presso l’ippodromo di Istanbul.
Incisione da D. Kuban, Istanbul, an urban history: Byzantion, Costantinopolis, Istanbul, Türkiye Bankasi Kültür yayınları, 2010, p.435
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Antoine-Ignace Melling, Istanbul e il Serraglio da Galata.
Incisione da D. Kuban, Istanbul, an urban history: Byzantion, Costantinopolis, Istanbul, Türkiye Bankasi Kültür yayınları, 2010, p.436
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Risalita al quartiere di Galata e Grande Rue de Péra. Dettagli di cartoline risalenti agli inizi dello scorso secolo.
N.Özlü, C.Gratien, Producing Pera: A Levantine Family and the Remaking of Istanbul, in (sito web) Ottoman History Podcast, n.90, 2013.
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A partire dal 1936 e per circa vent’anni, il piano di riordino di Henri Prost disegna il
quartiere di Beyoglu progettando lo spazio pubblico - piazza Taksim e il parco circostante, i
collegamenti con il ponte di Galata e la città antica - ma anche palazzi, teatri, scuole, sale
espositive e recuperi di edifici esistenti. L’ordine prefigurato intende perseguire una relazione
dialogica tra progetto architettonico e città. Un atteggiamento nettamente contrapposto
alle politiche edilizie che contraddistinguono l’attuale evoluzione urbana. Tra gli esempi più
eclatanti, ricordiamo gli sventramenti di piazza Taksim per realizzare un ennesimo centro
commerciale e quelli lungo Tarlabasi Caddesi per costruire edifici direzionali e commerciali
di discutibile disegno architettonico. In questo contesto, valgono forse ancora troppo poco
le mirabili operazioni di recupero, trasformazione e valorizzazione di alcuni edifici ad opera di
Fondazioni o singoli privati che, attraverso un’intensa attività culturale, intendono divulgare
una rinnovata ‘cultura della città’.
L’ambito di sperimentazione progettuale del Laboratorio di laurea si inserisce all’interno di
questa scena urbana.
La riva di Karaköy - che si estende tra un alternarsi di edifici e spazi pubblici dal ponte di
Galata a Ortaköy non lontano dal primo ponte che collega l’Europa all’Asia - è in stretta
connessione con il tessuto edilizio dei quartieri alti. Alle spalle dell’imponente Palazzo della
Banca Ottomana che domina piazza Karaköy, la struttura regolare, intervallata da ampi spazi
pubblici, del tessuto edilizio residenziale e commerciale. Oltre, l’Istanbul Modern, realizzato
all’interno di un grande deposito, la stazione Marittima, un ampio giardino su cui affacciano
la moschea di Nusretiye, una antica fonderia ottomana e un konak, palazzina a Tophane,
oggi sede della Mimar Sinan, Università di Belle Arti di Istanbul. In stretta relazione con
questo sistema edificato, le abitazioni che definiscono il quartiere di Cihangir.
Nell’intera area di progetto si mischiano mercati, banche, musei e gallerie di arte antica e
moderna, chioschi, edifici religiosi di differenti culti, abitazioni modeste e palazzi di sultani,
depositi, approdi di traghetti e grandi navi, mentre gli abitanti sono espulsi dalla vita di
questi luoghi.
I milioni di turisti che visitano la città ogni anno, rappresentano un ulteriore motore
propulsivo allo sviluppo economico ed edilizio urbano. Questo lascia prevedere la
realizzazione di nuove strutture ricettive che, affiancando il considerevole numero di hotel e
mall commerciali esistenti, potrebbero contribuire a compromettere il delicato equilibrio del
tessuto storico.
Taksim
Tarlabasi
BEYOGLU
Cihangir
BOSFORO
Karaköy
ÜSKÜDAR
ponte di Galata
SULTANAHMET
MAR DI MARMARA
Istanbul allo sbocco del Corno D’Oro. Sulla sinistra la penisola di Sultanahmet collegata alla riva di
Karaköy attraverso il ponte di Galata. Da qui si estende l’ambito oggetto di interesse del Laboratorio di
Laurea, Università Iuav di Venezia - DPC, 2014
Elaborazione grafica a cura di Andrea Calgarotto
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La riva lungo il Bosforo si estende tra un alternarsi di edifici e spazi aperti in stretta connessione con i quartieri alti. Demolizioni
indiscriminate continuano a irrompere all’interno di questo tessuto edilizio snaturando la qualità di un’architettura legata ai modi di vita
dei propri abitanti. In questo contesto si inseriscono rari esempi di recupero e di oculata sostituzione edilizia.
Riva di Karaköy e vista di alcune abitazioni nel quartiere di Cihangir.
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Lungo la banchina del porto turistico di Karaköy, ogni giorno, migliaia di passeggeri e
numerose navi provenienti dai diversi porti del Mediterraneo, da Bari, da Napoli, da Genova
e da Venezia, popolano le rive del Bosforo. Quando è sera, ciò che resta di questo quotidiano
frenetico vagabondare è lo sguardo giudicante di distratti viaggiatori.
Per Edmondo De Amicis arrivare a Istanbul dal mare, per avvicinare la città attraverso il
riconoscimento delle sue molteplici sfaccettature, è una vera apparizione:
“Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi;
dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa,
bisognava girare sopra se stessi; e giravamo, lanciando da tutte le parti degli sguardi
fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava“2.
Istanbul, per noi, resta un luogo difficile da evitare.
Oggi, come in passato, è una città che può scatenare forti reazioni.
È questa l’intensità di approccio alla ricerca e al progetto che, all’interno del Laboratorio
di laurea, intendiamo proporre e perseguire. Da qui, l’avvicinamento alla disciplina
architettonica incentra la propria attenzione su un’idea di progetto fondata sulla relazione
che lega i manufatti alla lettura della città – delle sue stratificazioni, del suo corpo fisico
e dell’identità dei singoli luoghi – alle scelte soggettive di ogni singola proposta. Da una
parte le specificità morfologiche, il sistema di segni e di figure, dall’altra l’atmosfera
che connota un luogo e l’innesto di un progetto attuale che non ambisca a contrasti
riconoscendo il carattere specifico derivante dalla storia e dalla peculiare topografia della
città.
Questo ‘diario di bordo’, un breve racconto che accompagna la presentazione del Seminario
Istanbul Theatrum Mundi3, suggerisce i percorsi e le chiavi di apertura allo studio.
L’approdo dei traghetti a Karaköy, in secondo piano la banchina del terminal marittimo delle grandi navi. Foto di Moira Valeri
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02. E. De Amicis, Costantinopoli, Einaudi, Torino 2007, pp.16-17.
03. Seminario a cura del gruppo di ricerca ‘Abitare’- DCP, Abitare la città - Istanbul Theatrum Mundi,
Università Iuav di Venezia, Cotonificio Santa Marta, Venezia gennaio 2014.
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Immagine satellitare della città di Istanbul con lo stretto del Bosforo che mette in connessione Mar di Marmara e Mar Nero.
Elaborazione a cura di Andrea Calgarotto
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_http://www.citechaillot.fr/fr/expositions/expositions_virtuelles/24495-henri_prost_et_le_plan_directeur_distanbul_1936-1951.html
_Fonds Prost, Henri (1874-1959), 343 AA, Centre d’Archives de l’IFA, Paris.
_E. Godoli, A l’Orient seule l’Architecture Orientale Convient, in Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio
«Rassegna», XIX, n. 72, 1997, p. 78.
_M. Cerasi, Città e architettura nel Settecento, in Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio, «Rassegna», XIX,
n. 72, 1997, p. 47.
_D’Aronco “architetto ottomano” 1893-1909, cat mostra a cura di D. Barillari, M. Di Donato, Istanbul
Arastirmalari Enstitüsü, Istanbul 2006.
Bruno Taut in Turchia
_B. Taut, Mimarî Bilgisi, Güzel Sanatlar Akademisi Nesriyatindan, Istanbul 1938.
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_L. Capaccioli, Bruno Taut. Visione e progetto, Dedalo, Bari 1981, pp.63-64.
_M. Speidel, Natürlichkeit und Freiheit. Bruno Tauts Bauten in der Türkei, in Bir Baskentin Olusumu,
Ankara 1923-1950, Ankara 1995.
_B. Nicolai, Moderne und Exil. Deutschsprachige Architekten in der Türkei 1925-1955, Verlag für
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University of Washington Press, Seattle 2001.
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_M. Speidel, Was ist Architektur? Bruno Tauts „Architekturlehre“, in «ARCH+» 194, ott. 2009, pp.160165.
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Raimondo D’Aronco a Istanbul
_D. Gebhard, Raimondo D’Aronco e l’Art Nouveau in Turchia, «L’Architettura. Cronache e Storia», 1966,
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_La Scuola di Wagner 1894-1012 Idee premi e concorsi, cat. mostra a cura di M. Pozzetto, 2 ed.,
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_M. Nicoletti, Raimondo D’Aronco e l’architettura Liberty, Laterza Roma Bari 1982.
_Raimondo D’Aronco architetto, cat. mostra a cura di E. Quargnal e M. Pozzetto, Electa, Milano 1982.
_E. Quargnal (a cura di), Raimondo D’Aronco lettere di un architetto, del Bianco, Udine 1982.
_V. Freni, C. Varnier, Raimondo D’Aronco l’opera completa, Centro grafico editoriale, Padova 1983.
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_D. Barillari, E. Godoli, Istanbul 1900 Architetture e interni Art Nouveau, Cantini, Firenze 1996.
La casa ottomana
_G. Goodwin, A History of Ottoman Architecture, Thames and Hudson, Londra 1971.
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_M. Cerasi, La città del Levante: civiltà urbana e architettura sotto gli Ottomani nei secoli XVII-XIX,
Jaca Book, Milano 1988.
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_E. Kortan, L’architecture et l’urbanisme turc par les yeux de Le Corbusier, Boyut, 2005.
Autori
Eleonora Mantese
Docente di Composizione architettonica e urbana del Dipartimento di Culture del progetto dell’Università IUAV di Venezia.
Membro del collegio docenti del Dottorato di ricerca in Composizione architettonica della Scuola di Dottorato di Venezia. Ha
ottenuto molti premi e segnalazioni per concorsi e progetti di architettura. La sua ricerca è attualmente rivolta ai modi e alle
forme dell’abitare e agli studi sulla città e il progetto. Vive e lavora a Venezia.
Teresita Scalco
European MA in Storia dell’Architettura (Università di Roma Tre, 2006) e PhD in Scienze del Design all’Università Iuav, 2013,
con la tesi dal titolo Integrating design and museum studies. Learning from Istanbul. È stata visiting researcher all’Istanbul
Bilgi University SALT ad Istanbul. È stata co-curatrice, con M. Valeri e M. Vani, del convegno ‘Istanbul City Portrait’, 2012, ed
è co-editor dell’omonima guida (Compositori Editore, 2014). Dal 2002 lavora presso l’Archivio Progetti.
Andrea Calgarotto
Architetto e dottorando in Composizione architettonica presso l’Università IUAV di Venezia con una tesi sul pensiero e l’opera
di Auguste Perret. Collabora alla didattica e alla ricerca presso la stessa università. Svolge attività progettuale partecipando
a concorsi nazionali e internazionali. Vive e lavora tra Vicenza e Venezia.
Diana Barillari
Docente di Storia delle tecniche dell’architettura del Dipartimernto Ingegneria e Architettura dell’Università di Trieste. Ha al
suo attivo studi e ricerche su Raimondo D’Aronco, l’architettura orientalista, l’architettura del modernismo mitteleuropeo e
del Movimento Moderno. Le ricerche privilegiano la relazione tra architettura, tecnica, struttura con particolare riguardo allo
sviluppo dei nuovi materiali e la ricerca di una forma espressiva.
Gundula Rakowitz
Ricercatrice in Composizione architettonica e urbana del Dipartimento di Culture del progetto dell’Università Iuav di Venezia.
Dottore di ricerca in Composizione architettonica e membro del collegio docenti dello stesso dottorato della Scuola di
Dottorato di Venezia. Tra i temi di ricerca, affrontati in molte ricerche ministeriali, partecipando a convegni nazionali e
internazionali, si segnala: composizione architettonica nel suo carattere pluriscalare, Zwischenraum, mimesis et inventio.
Vive e lavora tra Venezia, Vicenza e Vienna.
Nicola Barbugian
Architetto e dottorando in Composizione architettonica presso l’Università IUAV di Venezia con una tesi sulla figura di Antonio
Sant’Elia. Collabora alla didattica e alla ricerca presso la stessa università. Ha collaborato alla Collezione Farnesina Design
presso il Ministero degli Affari Esteri a Roma. Svolge attività progettuale partecipando a concorsi nazionali e internazionali.
Vive e lavora tra Padova, Venezia e Roma.
Immagine pp. 68-69. Antoine-Ignace Melling, Padiglione di Bebek. Incisione da D. Kuban, Istanbul, an urban history: Byzantion, Costantinopolis, Istanbul, Türkiye Bankasi Kültür yayınları, 2010, p.438
Immagine pp. 110-111. Una nave lascia il Bosforo in direzione del Mar di Marmara. Foto di Moira Valeri
Cristiana Eusepi
Dottore di ricerca in Composizione architettonica – Università IUAV di Venezia. Docente a contratto in Composizione
architettonica e urbana. Tutor al Dottorato di Composizione architettonica-Iuav. Ha partecipato a numerose ricerche
universitarie incentrate sul tema dell’abitare collettivo. Attualmente è titolare di un assegno di ricerca dal titolo New Ways
of Housing and Working: una mappatura geo-politica e una relazione architettonica interscalare, Iuav-DCP.
Vive e lavora a Venezia.
Finito di stampare nel mese di gennaio del 2014
dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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