RASSEGNA STAMPA

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venerdì 27 giugno 2014
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Da Repubblica.it del 26/06/14
Tortura, la si pratica in metà dei paesi del
mondo, in Italia l'ha subita un rifugiato su tre
Lo sottolinea il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, che ha organizzato
un convegno in occasione della Giornata internazionale a sostegno
delle vittime di tortura, cui hanno partecipato il presidente del Cir,
Roberto Zaccaria, Romano Prodi e il presidente della Società italiana
per l'organizzazione internazionale (Sioi), Franco Frattini
di EMANUELA STELLA
ROMA - A 30 anni dalla ratifica della convenzione Onu contro la tortura, sono ancora 141 i
paesi dove questa pratica abietta viene perpetrata; e un rifugiato su tre, fra quelli che
arrivano in Italia, ha subìto esperienze di tortura e violenza estrema. Lo sottolinea il Cir,
Consiglio italiano per i rifugiati, che in occasione della Giornata internazionale a sostegno
delle vittime di tortura, il 26 giugno, ha organizzato un convegno - cui ha preso parte tra gli
altri Romano Prodi (che ha appena concluso una esperienza di inviato speciale Onu nel
Sahel) - e uno spettacolo teatrale, "Mare Monstrum", interpretato da rifugiati sopravvissuti
a tortura, che hanno partecipato ai laboratori di riabilitazione psico-sociale del Cir. In 18
anni di attività, il Cir ha sostenuto oltre 4.000 rifugiati con progetti di accoglienza e cura
dedicati alle vittime di tortura. Attualmente il progetto ha in carico 1.400 richiedenti asilo e
rifugiati.
Il contributo di Romano Prodi. "Distinguere un profugo da un migrante economico diventa
sempre più difficile, nella misura in cui in molte città e villaggi africani per la gente si
presenta solo l'alternativa tra morire di fame o migrare" ha detto l'ex presidente del
Consiglio, Romano Prodi. Intervenendo al Convegno del Cir Prodi ha descritto una
situazione allarmante in cui, specie dopo il conflitto in Libia del 2011, in parte della zona
del Sahel si è creata un'economia criminale senza più alcun confine. Nel suo intervento e
rispondendo alle domande del moderatore, Giorgio Balzoni, si è detto preoccupato davanti
ad uno scenario che potrebbe portare interi Stati governati dal terrorismo internazionale.
Il messaggio del ministro Mogherini. Durante l'incontro, il ministro degli Esteri, Federica
Mogherini, impossibilitata a partecipare per impegni istituzionali, nel suo messaggio per il
CIR ha dichiarato che il governo sostiene l'obiettivo di introdurre nel codice penale il reato
di tortura, ricordando che già il 5 marzo scorso il Senato ha approvato il rispettivo disegno
di legge, adesso in esame alla Camera. Nella sua lettera ha scritto: "L'appello che ora tutti
noi rivolgiamo al Parlamento è di fare presto e bene, e giungere quanto prima
all'approvazione definitiva del testo".
L'identità del torturato. La tortura non è purtroppo confinata a situazioni limite di guerra o
dittatura: il fenomeno è molto più diffuso e colpisce persone che appartengono a
determinati gruppi etnici, politici, religiosi, o a minoranze. E mentre i torturatori hanno
l'obiettivo immediato di spezzare la volontà di una persona, di metterla a tacere, di punirla
e di umiliarla, gli effetti della tortura sono molto più durevoli delle ferite fisiche che essa
produce: i sopravvissuti si portano dentro le conseguenze di una violenza feroce che non
osano confessare, e che è molto difficile elaborare e superare fino in fondo.
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Nessun paese è immune. "E comunque non ci sono paesi che possano dirsi immuni dal
rischio di tortura - si legge nel volume del Cir Oltre i confini. Tre anni "Together with
VI.TO., che dà conto del progetto Accoglienza e cura vittime di tortura svolto in
partenariato con Ciad e Camerun, i due paesi africani che ospitano il maggior numero di
rifugiati interni. Gli Stati Uniti, a lungo campioni dei diritti umani, dall'inizio della guerra al
terrorismo nel 2001 hanno sistematicamente praticato la 'extraordinary rendition'"; e l'Italia,
pur avendo ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, non ha
ancora introdotto nel proprio codice penale il reato di tortura, come previsto dalla
convenzione stessa. Il ministro degli esteri Federica Mogherini, in un messaggio al
convegno, ha assicurato che il governo sostiene l'introduzione del reato di tortura, e si
augura che quanto prima la Camera possa dare il via libera.
Il "trauma sequenziale". Deserto affettivo, eclissi di identità, incertezza totale sul futuro,
una condizione psicosociale rischiosissima caratterizzano i sopravvissuti alla tortura, che
fuggono dal loro paese e cercano rifugio in Europa, dove raramente trovano accoglienza
adeguata, e comunque subiscono ulteriori traumi che perpetuano la violenza subita. Un
"trauma sequenziale", ha detto al convegno del Cir il dottor Massimo Germani, che con le
vittime di tortura ha lavorato per anni, altrettanto significativo e devastante del trauma
originario. Situazioni estreme che riguardano il 30% dei rifugiati che arrivano in Italia, e
che il nostro Paese ha difficoltà ad affrontare adeguatamente: Franco Frattini, presidente
della Società italiana per l'organizzazione internazionale (Sioi), ha ammonito a proposito di
afflusso di migranti (già oltre 50mila dall'inizio dell'anno) che "non possiamo pensare che
al di là del Brennero ci siano persone che voltano la faccia, o che considerano questo un
problema solo italiano".
Ma la tortura non è ancora un reato. Anche Amnesty International Italia, Antigone e
Cittadinanzattiva si mobilitano per chiedere l'introduzione del reato di tortura in Italia, con
un appello nel quale si ricorda che "a 13 anni dai terribili fatti del G8 di Genova del 2001,
molti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia e l'Italia non
ha strumenti idonei per prevenire e punire efficacemente simili violazioni. L'Italia deve
avere norme efficaci che soddisfino gli standard internazionali per prevenire e punire la
tortura". L'assenza di un reato specifico di tortura ha fatto sì che eventi qualificabili come
tortura siano stati finora sanzionati in modo lieve o siano finiti in prescrizione, osserva
Amnesty: "Il testo introduce il reato specifico di tortura e non richiama il requisito della
necessaria reiterazione di atti di violenza o minaccia perché si parli di tortura, qualificando
il reato come comune, dunque imputabile a qualunque cittadino, pur prevedendo
l'aggravante se commesso da pubblico ufficiale. Inoltre, non persegue le condotte
omissive e manca dell'iniziale previsione di un fondo nazionale per le vittime della tortura".
Arci: "L'urgenza di una norma". "Il reato di tortura nel nostro paese è una questione di
scelta culturale fondamentale, e l'introduzione nel nostro ordinamento è una urgenza che
un paese che si definisce democratico non può più rinviare", afferma Francesca Chiavacci,
presidente nazionale Arci. "Avevamo salutato con soddisfazione l'approvazione del ddl al
Senato nel marzo scorso, pur esprimendo le nostre critiche per la mancata previsione
della fattispecie di reato proprio. Ci auguriamo che il testo arrivi al più presto senza indugi
alla Camera. Crediamo che a chiederlo siano la civiltà giuridica, le esigenze processuali, le
numerose famiglie che in questi anni hanno visto figli e parenti perdere la vita nel corso di
operazioni di polizia: Cucchi, Uva, Aldrovandi, Ferrulli, e da ultimo Magherini. Senza
dimenticare quanto i fatti e le violenze dei giorni di Genova 2001 siano ancora una ferita
aperta per la nostra democrazia e per le vittime di quelle violenze".
http://www.repubblica.it/solidarieta/profughi/2014/06/26/news/tortura-90081160/
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ESTERI
Del 27/06/2014, pag. 3
Ue, il Patto della discordia
Vertice europeo. Braccio di ferro sul mandato da dare alla
Commissione. Renzi chiede una lettura più flessibile dei trattati: ok a
Juncker «solo se c’è un documento chiaro su dove vuole andare
l’Europa»
Anna Maria Merlo
Un incontro a Ypres, memento mori per l’Europa, cittadina del Belgio dove vennero utilizzati i gas e morirono 5mila persone in pochi minuti, per ricordare che cent’anni fa, a luglio,
iniziava la prima guerra mondiale e che l’Europa ancora oggi può morire, per i nazionalismi in crescita ma anche, nell’analisi del fronte socialdemocratico, per l’austerità che soffoca l’economia. Alla cena ieri sera, il piatto forte del menu è stata la scelta da parte del
Consiglio del lussemburghese Jean-Claude Juncker come presidente della prossima
Commissione Ue. A Ypres erano stati i britannici in prima linea per opporsi ai tedeschi.
Ieri, solo Angela Merkel ha cercato di evitare l’isolamento in cui si è chiuso David Cameron, assieme al suo solo alleato, l’ungherese Viktor Orban, nell’opposizione al “federalista”
Juncker. Il lussemburghese ha molti difetti, era già presente ai negoziati per l’unione
monetaria nei primi anni ’90, è stato ministro e premier di un paradiso fiscale, ma la sua
nomina è difesa oggi in nome del principio di democrazia: era il candidato della destra
Ppe, che ha vinto (di poco) le europee. Cameron ha cercato di ricattare i partner, affermando che un federalista a Bruxelles avrebbe favorito il rifiuto dell’appartenenza della
Gran Bretagna alla Ue nel referendum che ha promesso di indire nel 2017 (sempre che
conservi il potere). Merkel non rifiuta un eventuale voto al Consiglio su Juncker (dove non
esiste possibilità di veto), come voleva Cameron, perché pensa di utilizzare l’asse con
i conservatori britannici per cedere il meno possibile all’offensiva socialdemocratica e alla
nuova intesa italo-francese. Più importante del nome del successo di Barroso, i capi di
stato e di governo hanno cominciato a discutere del mandato da dare alla Commissione,
cioè dei contenuti della sua politica. E qui il braccio di ferro è impegnativo. Prima del vertice, alla riunione del Pse, Renzi ha ancora condizionato il voto positivo dell’Italia a Juncker a «un documento chiaro su dove vuole andare l’Europa». I nomi verranno dopo: le
altre importanti cariche (presidente del Consiglio e dell’europarlamento, Alto rappresentante della politica estera) saranno decise entro metà luglio. Oggi a Bruxelles, dove si spostano i capi di stato e di governo, la battaglia è sui contenuti. Merkel ha voluto chiudere la
bocca agli assalitori: «Nessuno ha chiesto un cambiamento delle regole sui deficit e nessuno lo chiederà» ha affermato. Nella bozza di conclusioni non c’è riferimento
all’esclusione di categorie di spesa dal calcolo del deficit, come vorrebbe l’Italia, per tener
conto dei costi delle riforme richieste da Bruxelles per rientrare nei parametri di Maastricht.
Ma ci può essere un allungamento dei tempi, con una lettura meno rigida dei trattati, che
impongono la stabilità ma parlano anche di crescita, come sostengono anche i socialdemocratici tedeschi. Se crescita e occupazione saranno messe in testa alle conclusioni
sarà possibile leggere un cambiamento nelle politiche europee.
L’asse italo-francese è un po’ a geometria variabile. Renzi cerca una vittoria sulle parole,
come primo passo. Hollande resta impantanato nella prudenza della diplomazia tradizionale. Ma la Francia propone qualche passo concreto: a cominciare da un programma di
investimenti europei, che in 5 anni potrebbe arrivare a 1200 miliardi, per infrastrutture,
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ricerca, energia, formazione. Anche il risparmio delle famiglie dovrebbe essere sollecitato.
Il programma per l’occupazione giovanile dovrebbe passare dai 6 miliardi attuali a 20. Hollande è con le spalle al muro, la disoccupazione è aumentata in Francia dello 0,7% a maggio, i disoccupati sono 3,4 milioni. In discussione oggi c’è anche l’immigrazione. Ieri, c’è
stato un vertice dei ministri degli interni. Nessuna novità: l’Europa vuole maggiori controlli
per limitare i clandestini. La Francia propone l’istituzione di un corpo di gendarmi delle
frontiere. Ma Renzi difficilmente otterrà di più per il Mediterraneo, al di là delle promesse di
rafforzamento di Frontex. Sul tavolo c’è la riforma del diritto d’asilo, ma l’Italia viene
sospettata dai partner del nord di concedere visti con troppa facilità.
Del 27/06/2014, pag. 4
Il premier britannico rischia di uscire pesantemente ridimensionato dal
negoziato sulla presidenza della Commissione I vincitori sono invece la
Cancelliera tedesca Merkel, Matteo Renzi e il leader del Parlamento
europeo Schulz
Ue, la sconfitta più grande di Cameron
ANDREA BONANNI
YPRES Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha un senso molto
andreottiano dell’ironia. Ma non c’era malizia quando ha scelto Ypres, un luogo entrato
nella mitologia delle glorie militari britanniche, per ospitare il vertice che registra la più
bruciante sconfitta di Londra in quarant’anni di battaglie europee. E forse segna l’inizio del
processo di fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue.
Il lungo e inutile massacro di Ypres durante la Prima Guerra Mondiale non ebbe nè
vincitori né vinti. La battaglia delle nomine che vi si è svolta ieri tra i capi di governo
europei, e che si concluderà oggi a Bruxelles, delimita invece con grande evidenza chi ha
vinto e chi ha perso. Sul fronte dei vincitori ci sono Angela Merkel, Matteo Renzi e il
Parlamento europeo. Su quello degli sconfitti troneggia il premier inglese David Cameron.
La Merkel conferma il proprio ruolo di asse portante dell’Europa. Nella battaglia delle
nomine era partita male, costretta a rinunciare al potere assoluto dei capi di governo per
condividere la scelta del presidente della Commissione con i partiti politici e il Parlamento
europeo. Ha esitato a lungo prima di accettare la designazione di un candidato del Ppe,
che è stato l’ultimo tra le forze politiche a indicare il proprio campione. Ma alla fine ha
scelto Jean-Claude Juncker. E dopo le elezioni lo ha difeso contro attacchi di ogni genere
fino a riuscire ad imporlo nonostante il veto britannico, la freddezza dei socialisti e le
perplessità di molti governi. Ma la Cancelliera non si è fermata qua. E’ stata lei a sbloccare
la trattativa tra Ppe e Pse, accettando l’elezione di Martin Schulz a presidente del
Parlamento europeo in cambio dell’appoggio degli eurodeputati socialisti a Juncker. E’
riuscita a confermare il commissario tedesco Oettinger sulla poltrona cruciale dell’Energia,
che nel prossimo quinquennio sarà forse il portafoglio più strategico dell’intera
Commissione. Inoltre si presenta oggi come il vero «king maker» per le altre cariche di
vertice della Ue: quella di presidente del Consiglio europeo e quella di Alto rappresentante
per la politica estera dell’Unione. Poltrone che vedono tra i possibili candidati due italiani:
Enrico Letta e Federica Mogherini. Anche Matteo Renzi era arrivato alla battaglia delle
nomine in una posizione difficile. L’Italia resta un sorvegliato speciale in Europa per i suoi
conti pubblici e per un debito totalmente fuori dai parametri del Patto di stabilità. I continui
avvicendamenti alla guida del governo non avevano contribuito ad aumentare la nostra
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credibilità in vista del semestre di presidenza italiana che si apre a luglio. Ma il trionfo alle
elezioni europee ha cambiato le carte in tavola, dando al premier italiano una
legittimazione politica che non ha eguali in tutta l’Unione. Inoltre Renzi si è mosso con
abilità spostando il dibattito dai nomi dei candidati al programma della prossima
Commissione e guadagnando una apertura di credito, almeno teorica, per una politica di
bilancio più flessibile. Nel lungo mese di negoziati dopo le elezioni, il leader italiano è
riuscito di fatto a soppiantare il presidente francese Hollande, bastonato dal voto, come
punto di riferimento per il fronte dei socialisti europei. Con simili risultati, potrebbe già
considerarsi soddisfatto. Se poi portasse a casa una delle due poltrone di vertice ancora
da assegnare potrebbe vantare anche un nuovo primato affiancando un secondo italiano a
Mario Draghi tra i quattro o cinque massimi dirigenti dell’Ue.
Ma il vero vincitore della battaglia delle nomine è senza dubbio il Parlamento europeo.
Grazie al paziente lavoro del suo presidente Martin Schulz, l’assemblea di Strasburgo oggi
di fatto è l’arbitro delle sorti della Commissione e ha sottratto ai capi di governo il potere di
nomina del presidente dell’esecutivo comunitario. Era, questo, un vecchio sogno
democratico dei padri fondatori dell’Europa, in particolare di Jacques Delors, che pareva
irrealizzabile. David Cameron esce dalla battaglia di Ypres come il grande sconfitto. Se
nella notte non si troverà un accordo per evitare lo scontro in extremis, oggi si voterà per
designare Juncker alla testa della Commissione e Cameron sarà messo in minoranza. La
sua minaccia di portare Londra fuori dall’Europa non ha funzionato. Dopo aver
condizionato (in peggio) con i suoi veti la nomina di almeno due presidenti della
Commissione e del presidente del Consiglio europeo, la Gran Bretagna perde il potere di
ricatto sull’Ue che ha esercitato per quarant’anni frenando il processo di integrazione.
Di fronte alla sconfitta, Cameron non si tira indietro e alza i toni dello scontro. Lo fa per
motivi di politica interna, pressato com’è dagli indipendentisti dell’Ukip che lo hanno
sonoramente battuto alle elezioni. Ma una condizione di guerra dichiarata tra la Gran
Bretagna e l’Unione europea potrebbe alla fine fare il gioco dei rivali del premier
conservatore, accelerando davvero il processo di uscita del Regno Unito dall’Ue. E questo
trasformerebbe la sconfitta di Cameron in una catastrofe di proporzioni storiche.
del 27/06/14, pag. 3
Battaglia sulle nomine
Cameron va allo scontro
Il summit a Ypres per la commemorazione della I Guerra mondiale,
Londra contesta anche la cerimonia: «Propaganda europeista» ● Merkel
pronta al voto, ma su altre poltrone probabile rinvio
Alle tante battaglie combattute a Ypres nella prima e nella seconda guerra mondiale ieri i
leader europei hanno aggiunto quella che è già stata ribattezzata la battaglia su Juncker, il
futuro presidente della Commissione europea osteggiato dalla Gran Bretagna. «Abbiamo
le nostre differenze, ma lottiamo attorno a un tavolo, non su un campo di battaglia », ha
riassunto la giornata il presidente della Commissione uscente José Manuel Barroso. Cento
anni dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale i capi di Stato e di Governo dei 28 Stati
membri della Ue hanno scelto di tenere nella simbolica cittadina fiamminga la prima
giornata del vertice, che si concluderà oggi a Bruxelles. In gioco, oltre alla nomina dell’ex
premier lussemburghese a capo dell'esecutivo comunitario, c’è anche l’approvazione del
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documento programmatico della nuova Commissione. Fino all'ultimo le diplomazie hanno
combattuto per limare il testo parola per parola, soprattutto nella parte fondamentale in cui
la Ue accetta l’idea di utilizzare le regole sulla disciplina fiscale con maggiore flessibilità.
L’ultima bozza prima della cena dei leader è stata ritoccata dai sostenitori del rigore per
trasformare la frase in cui si raccomandava «il pieno utilizzo degli strumenti di flessibilità»
del Patto di Stabilità, in un più moderato «buon uso». Una modifica che non è piaciuta a
Matteo Renzi che, all’uscita del prevertice dei leader socialisti e democratici, ha ricordato
che il via libera a Juncker sarà dato solo se ci sarà «un documento che indica chiaramente
in che direzione vuole andare l’Europa». Tutti gli ammonimenti tattici che precedono ogni
summit Ue questa volta sono stati interrotti dalla cerimonia di commemorazione. I leader
hanno inaugurato insieme la «panchina della pace» e si sono recati insieme alla Porta di
Menin, dove sono scritti i nomi dei 50.000 caduti britannici e del commonwealth della
Grande Guerra. Allineati sotto il grande arco i capi di Stato e di Governo hanno ascoltato
insieme i trombettieri intonare le note solenni del «Last Post», il saluto ai caduti. «Questa
non è una commemorazione per la fine della guerra, di una battaglia o di una vittoria», ha
detto il presidente uscente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, ma si tratta «di come
potrebbe iniziare» un conflitto. Anche se la Grande Guerra è finita nel 1918, ha aggiunto,
«la follia collettiva del 1914 non fu dissipata veramente che nel ‘45, o meglio nell’89». Nel
corso della cerimonia la Cancelliera tedesca Angela Merkel, in un sobrio vestito scuro, è
stata sempre vicino al premier David Cameron, quasi a voler segnalare la sua buona
volontà nel non isolare la Gran Bretagna. Ma quanto alla richiesta della diplomazia inglese
di non legare le commemorazioni ad alcuna «propaganda europeista» non c’è stato niente
da fare. È stata la stessa Merkel a dire che la cerimonia «ci mostra che viviamo in tempi
buoni grazie all’esistenza dell’Unione europea e al fatto che abbiamo imparato la lezione
della storia». La Cancelliera si appresta a celebrare la sua ennesima vittoria diplomatica in
Europa e ieri si è concessa anche una passerella quando all’arrivo ha stravolto il
protocollo: ha lasciato Van Rompuy ad attenderla in piedi davanti al museo fiammingo ed
è andata a stringere le mani della folla tra gli applausi. Cameron invece non è sembrato
affatto commosso dalla lezione della storia. Fino a ieri mattina ha continuato a ripetere che
si batterà contro la nomina del federalista Jean-Claude Juncker «fino alla fine». Dalla sua
parte però è restato solo il controverso leader ungherese Victor Orban. Anche il presidente
francese Francois Hollande ha detto che se Cameron vuole un voto su Juncker «allora si
faccia una votazione. Per l’Europa è arrivato il momento di dire cosa vogliamo in termini di
persone e di politiche ».
La tempistica messa a punto nel vertice dei conservatori prevede che da questo summit
esca solo la nomina di Juncker a presidente della Commissione, nonostante le richieste
dell’Italia di definire anche le altre cariche importanti. Poi ci saranno due settimane di
tempo per cercare di rimarginare la ferita dell’isolamento britannico e i leader si vedranno
in una nuovo summit il 17 e 18 luglio, dopo il voto del 16 luglio del Parlamento europeo per
la ratifica di Juncker.A quel punto, avendo anche approvato il documento programmatico
della nuova Commissione, ci si concentrerà sulla nomina delle altre cariche ai vertici
comunitari. In quella fase però sarà più difficile per l’Italia ottenere la poltrona di Alto
Rappresentate per la politica estera della Ue, reclamata per il ministro Federica Mogherini.
Dopo il via libera a Juncker e qualche frase sulla flessibilità nelle regole di bilancio, l’Italia
non ha altre contropartite da dare e Merkel vuole completare il suo capolavoro offrendo la
possibilità di una ritirata strategica a Cameron. «Penso - ha detto ieri la cancelliera - che
possiamo trovare dei buoni compromessi con la Gran Bretagna».
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Del 27/06/2014, pag. 14
L’unico valico di passaggio, in mezzo al deserto, è controllato dai
jihadisti “Ci fermano e ci minacciano, non possiamo fare nulla. La gente
è terrorizzata”
Alla frontiera con i camionisti che sfidano i
ribelli iracheni “Vogliono prendersi la
Giordania”
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO INVIATO
KARAMEH (FRONTIERA GIORDANIA-IRAQ)
LA LINGUA nera dell’asfalto si perde fino a diventare un puntino seguendo le linee delle
dune. Alle spalle 350 chilometri di deserto giordano per raggiungere Amman, davanti 500
chilometri di deserto iracheno per arrivare a Bagdad. L’unico valico di passaggio fra
Giordania e Iraq in questo mare di sabbia è adesso — dal lato iracheno — nelle mani delle
milizie tribali, dopo che domenica in una furiosa battaglia con i guerriglieri dell’Isis —
l’Esercito islamico dell’Iraq e del Levante — i soldati di Bagdad si sono ritirati. Non solo
dalla frontiera, ma dall’intera provincia di Anbar, lasciando campo aperto all’Isis e alle
“milizie tribali sciite” come raccontano i pochi camionisti in arrivo dall’Highway n.1. «C’è
una rivoluzione in corso dall’altra parte», dice Ibrahim Hassan, camionista siriano mentre
scende dal “bestione” sul piazzale dal lato giordano del confine. «Vengo da Ral’acronimo
lì si è sparato di brutto. Le Bandiere Nere dell’Isis? No, non le ho viste, ma da Ramadi a
qui non ho visto un solo soldato iracheno, eppure sono centinaia di chilometri ». Hassan
Abbas, autista iracheno, descrive la situazione nel suo Paese come una «rivolta contro le
ingiustizie degli sciiti e il governo del loro premier Al Maliki». «Si è vero ci sono
combattenti che controllano il posto di frontiera iracheno, ma non sono miliziani del
“Daesh”», spiega Hassan, usando arabo dell’Isis. Ma non tutti sono così tranquillizzanti.
Jamal Saket, un altro camionista iracheno che ha guidato da Bagdad fino a qui racconta
delle invece di essere stato «fermato più volte lungo la strada da uomini armati e
mascherati che hanno messo checkpoint lungo la strada». «Mi hanno chiesto i documenti,
cosa trasportavo e chi era il destinatario del carico. Chi erano? Ero in una situazione in cui
le domande le potevano fare solo loro», racconta sempre Saket, «sì le voci corrono in Iraq
sui massacri dell’Isis, in certe zone la gente è in fuga per il terrore, più dai villaggi che non
nelle città». La sconfitta dell’Esercito iracheno e l’arrivo dell’Isis nella provincia irachena di
Anbar, che condivide con la Giordania 180 chilometri di una frontiera che è una linea
tracciata nella sabbia giusto cent’anni fa, ha fatto subito sentire Amman più vulnerabile.
Perché il regno hashemita, è un santuario chiave dove jihadisti e salafiti hanno messo
radici. Dall’inizio della guerra civile in Siria poi, i jihadisti dell’Isis e di Jabhat al Nusra si
sono spostati di frequente lungo il confine Giordania-Siria. L’esercito giordano ha cercato
di reprimere questo traffico transfrontaliero ma finora non ha portato a un solo arresto. La
situazione sembra calma, ma anche il Brigadier Generale Saber Mahayarah che comanda
la Border Guard non si fida. «Abbiamo dislocato molti rinforzi lungo la frontiera per
impedire pericolose infiltrazioni fin da domenica scorsa». «Questa frontiera è un elemento
chiave della sicurezza nazionale giordana», dice il generale Mahayarah nel suo ufficio nel
Quartier Generale di Zarqa. Ma è innegabile che è difficile da controllare. C’è solo la
Highway n.10 che attraversa questo deserto aperto, ma le dune attorno namadi,
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scondono decine di piste che battevano i carovanieri nel secolo scorso e che oggi si fanno
con la jeep. I tank spuntano dalla sabbia, i posti di controllo sono stati raddoppiati, il
confine è stato disseminato di sensori. Ma certamente è in cielo che c’è molto più traffico:
satelliti, aerei spia, droni. Gli Alleati americani stanno mettendo in campo tutto il loro
sostegno militare e sono pronti ad elevarlo. Il timore del contagio jihadista allarma la corte
di re Abdallah di Giordania e la parola d’ordine è: calma. Il regno hashemita è diventato un
banco di prova fondamentale di Stati Uniti e Arabia saudita per il sostegno ai ribelli siriani,
ma anche la “retrovia” di Washington per l’Iraq e che adesso però è quasi “prima linea”.
Da mesi sono presenti in Giordania mille uomini delle Forze speciali Usa pronti per
l’impiego, la Cia ha in corso — in una base nel sud — un programma di addestramento di
uomini del Free Syrian Army che vale da solo 287 milioni di dollari. Americani, inglesi,
francesi, sauditi, arabi del Golfo, riempiono gli alberghi di Amman, ma anche russi, cechi,
ceceni, pachistani. Sono consulenti, contractors, ong, charities, merchant banker,
umanitari, esperti di diritto, traders, rappresentanti di multinazionali legate alla Difesa.
Amman in questi giorni è certamente la città al mondo con il più alto numero di spie per
chilometro quadrato. Il “fronte interno” giordano non è meno pericoloso. «Quasi un milione
di siriani sono in Giordania, come non pensare che ci siano state delle infiltrazioni jihadiste
o che si siano riattivate cellule dormienti? E poi come ci dobbiamo spiegare il fatto che ci
sono 2.500 jihadisti giordani che combattono in Siria e in Iraq», dice Oraib Rantawi,
direttore dell’Istituto Al Quds per gli Studi Politici. Già la scorsa settimana dopo la caduta di
Falluja nelle mani dell’Isis in Iraq, a Maan — città del sud della Giordania tradizionale
centro islamista e anti-monarchico — qualche centinaio di estremisti è sceso per strada
inneggiando alle vittorie e sventolando le bandiere nere dell’Isil. Non è un bel segnale per
l’ultimo vero alleato arabo dell’Occidente.
Del 27/06/2014, pag. 7
Le mani di Damasco e Teheran sull’Iraq
Iraq. La Casa Bianca preoccupata per l’intervento militare di Siria e Iran.
Maliki balla da solo e si prepara al primo incontro del nuovo parlamento
Rasha ha 28 anni, un bambino di tre anni tra le braccia e un altro in arrivo. Mercoledì ha
camminato con il marito per chilometri verso il primo checkpoint utile per il Kurdistan. Il suo
villaggio, Hamdaniya, ultimo target dei miliziani islamisti, è oggi una comunità fantasma:
migliaia i civili in fuga verso Irbil, terrorizzati dalle conseguenze dell’occupazione del
gruppo estremista sunnita. Rasha spera di trovare un luogo dove rifugiarsi, altrimenti,
sospira,«dormiremo in strada». Nelle stesse ore, quello che resta dell’esercito governativo
– a cui si sono uniti nelle ultime due settimane due milioni di volontari sciiti – combatteva a
Balad, a nord della capitale. Scarsa la presenza di truppe regolari nelle regioni settentrionali, quasi del tutto occupate dai jihadisti e in parte controllate dai peshmerga curdi. Irbil
sta ottenendo consistenti vittorie nella strada per l’indipendenza, andando a prendersi le
posizioni abbandonate dall’esercito iracheno. Proseguono intanto gli scontri intorno alla
raffineria di Baiji, parzialmente in mano all’Isil, che ieri ha occupato altri pozzi di petrolio
vicino Baghdad, a Mansouriyat al-Jabal. Battaglia in corso tra esercito e miliziani anche
all’università di Tikrit, mentre bombe governative piovevano sul complesso presidenziale
della città natale di Saddam Hussein, il cui fantasma aleggia sull’attuale crisi irachena.
L’autoritarismo del rais, che seppe tenere insieme etnie e sette religiose, è oggi motivo di
rimpianto per molti in Iraq. Come funghi riappaiono le milizie baathiste, oggi al fianco
dell’Isil per riprendersi il paese. Un’alleanza vitale: i generali dell’ex regime conoscono a
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menadito il territorio e godono di un’organizzazione militare di livello. La presa di Mosul, si
dice, sarebbe stata possibile grazie al fondamentale intervento baathista, che scombina le
carte del gioco delle alleanze regionali. Se, infatti, a destabilizzare l’amministrazione
Washington non fosse bastata l’occupazione di un terzo del paese, invaso dalle truppe
Usa e poi abbandonato non a godersi la “democrazia”, ma in preda a catastrofici settarismi
interni, oggi ci si mette anche Damasco. Il regime di Assad, la cui caduta è da almeno tre
anni l’obiettivo della Casa Bianca, ha optato per un intervento nel vicino Iraq nello stile di
quello perpetrato in casa: bombardamenti dell’aviazione contro le postazioni jihadiste. Uno
sconfinamento che il premier iracheno Maliki ha salutato con entusiasmo, al contrario
dell’alleato (quasi ex) statunitense. Tre giorni fa aerei militari siriani hanno preso di mira la
provincia sunnita di Anbar. Colpita la città di Al Qaim, al confine tra Iraq e Siria e caduta
nelle mani dell’Isil che ha potuto così proseguire indisturbato il traffico di armi e miliziani da
una parte all’altra della frontiera. Domenica jeep Usa in dotazione all’esercito iracheno correvano per le strade della provincia di Aleppo. Ieri il governo di Baghdad ha confermato i
bombardamenti, provocando la reazione del segretario di Stato Usa. Kerry, che a inizio
settimana ha fatto visita a Maliki per convincerlo a cedere alla creazione di un governo di
unità nazionale, se ne è ripartito a mani vuote, imbarazzato dal no del premier che ha nella
pratica smentito la notizia di un nuovo esecutivo di larghe intese che lo stesso Kerry aveva
dato per certo. «Abbiamo reso chiaro a tutti nella regione che non abbiamo bisogno di
interventi che possano esacerbare le divisioni – ha detto Kerry da Bruxelles – È importante
che niente infiammi i settarismi». Un discorso chiaramente rivolto a Damasco e Teheran,
già attivi: la Siria vuole impedire una crescita sproporzionata dei gruppi di opposizione al
regime e l’Iran (che starebbe inviando armi automatiche e missili, oltre a droni di ricognizione) intende usare Baghdad come piede di porco per ribaltare definitivamente gli equilibri mediorientali, oggi favorevoli alle petromonarchie sunnite del Golfo. Seppure gli interessi di Washington siano inaspettatamente gli stessi dei due nemici, Obama non può permettersi di lasciare spazio di manovra a Teheran né rafforzare indirettamente il regime di
Damasco senza gestirne modalità e conseguenze.
In casa Maliki balla da solo e, dopo aver rifiutato i caldi inviti della Casa Bianca a farsi da
parte, ha detto ieri di volersi attenere alle tempistiche previste dalla legge: martedì il parlamento eletto a fine marzo si riunirà per nominare il presidente a cui spetterà il compito di
indicare il capo del governo. Maliki tenta di destabilizzare il frammentato fronte delle opposizioni per garantirsi la maggioranza: da una parte, accusa le fazioni sunnite di aver complottato con l’Isil per riconquistare Baghdad; dall’altra usa la chiamata alle armi del leader
religioso sciita Al-Sistani per convincere i partiti sciiti ad aderire al suo governo.
In un simile contesto, l’Arabia saudita –finanziatore dei gruppi radicali sunniti in Siria e Iraq
– non resta a guardare: il re Abdallah al-Saud, che oggi incontrerà Kerry, ha fatto sapere
di voler prendere tutte le misure necessarie alla salvaguardia degli interessi nazionali.
Ovvero, delle reti di potere occulte diramate in tutto il Medio Oriente.
del 27/06/14, pag. 15
Libia: il martirio di Salwa, l’avvocata delle
donne
di Lorenzo Cremonesi
Cosa poteva fare Salwa contro i suoi assassini? Cosa poteva fare una donna di 47 anni,
forte solo delle sue idee, delle sue convinzioni, del suo coraggio morale, contro quattro o
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cinque giovani uomini armati di coltelli e pistole, ciechi di fanatismo religioso, decisi ad
ucciderla? Dall’ospedale di Bengasi i bollettini medici parlano di un’aggressione brutale,
senza scampo. Sembra sia stata accoltellata più volte. Ma la ferita letale è stata un
proiettile alla testa. Alla camera operatoria è giunta in coma, per spirare subito dopo. Pare
che una guardia del corpo sia stata ferita. Invece non si sa nulla del marito, Essam
Ghariam: rapito, fuggito o nascosto? A casa non c’è.
Così è morta mercoledì pomeriggio 25 giugno Salwa Bugaighis, solo poche ore dopo aver
votato sorridente per il rinnovo del parlamento. E con lei è morta un poco di più anche la
speranza di una rivoluzione democratica frutto della «primavera araba», si è ulteriormente
afflosciato l’ottimismo di una Libia libera finalmente dai fantasmi del dopo Gheddafi ed
emancipata dalla minaccia qaedista.
La morte di Salwa è in realtà l’ennesimo grido di dolore che arriva dalla parte migliore, più
aperta del mondo arabo. Una richiesta di aiuto e allo stesso tempo un urlo di disperazione.
«Guardavamo a voi occidentali. Speravamo di poter diventare come voi. Avere il vostro
benessere, i vostri media, la vostra democrazia, la vostra libertà di viaggiare, pensare e
vivere. Ma ci stanno uccidendo. Lentamente stiamo morendo»: questo gridano le
avanguardie di intellettuali, professionisti, studenti che solo tre anni fa erano pronti a
morire in piazza pur di rovesciare le dittature.
E Salwa, l’avvocatessa Bugaighis, era una di loro, a pieno titolo. La sua figura troneggia
nelle memorie delle giornate concitate della sommossa contro Gheddafi a Bengasi nel
febbraio-marzo 2011. Lei con la sorella Iman, docente universitaria appena poco più
anziana, sono figlie d’arte. Il padre era stato cacciato in esilio tre decadi fa per la sua
critica alla dittatura. Soprattutto Salwa fu parte trainante di quel piccolo gruppo di avvocati
e intellettuali legati alla facoltà di legge nella capitale della Cirenaica che nei primi mesi
cercò di organizzare e guidare la rivoluzione.
«Magari moriremo. E allora? La storia non morirà. E la storia sta con noi. Noi siamo nel
giusto», diceva lei convintissima.
C’era sempre, a ogni riunione, alle manifestazioni, alle commissioni, a cercare di dare
risposte per noi giornalisti stranieri. Bella, alta, il vestito e i capelli sempre curati, il sorriso
determinato. Insisteva nel dire che le donne non avevano alcun obbligo di mettere il velo,
neppure di fronte al montare dei bigotti islamici.
Venne subito eletta nel Consiglio Nazionale Transitorio. E lei si impegnò immediatamente
nel garantire i diritti delle donne, dei più deboli. Meno di tre mesi dopo la sua elezione nel
primo parlamento si dimise sostenendo che le donne dovevano avere più voce. Già
sentiva che specie dalla Cirenaica gli islamici radicali stavano diventando una minaccia.
Ultimamente ne parlava di continuo nel suo nuovo ruolo di vice-presidente del Comitato
per il Dialogo Nazionale. Ma era diventata anche più fatalista, consapevole dei pericoli,
eppure sprezzante. «Non hai paura di tornare a Bengasi per le elezioni?», le abbiamo
chiesto incontrandola due settimane fa nella hall dell’hotel Al Waddan a Tripoli.
«Non posso tirarmi indietro. Bengasi è la nostra trincea. Devo esserci».
Ora non parlerà più. La sua scomparsa ricorda il senso di disarmante impotenza di cui
scrisse pagine memorabili Stefan Zweig, prima di morire suicida nel 1942 di fronte al
deserto del nazismo. Salwa: ovvero la forza del coraggio civile, dell’intelligenza critica,
tanto preziosa, eppure tanto vulnerabile di fronte alla brutalità dell’intolleranza.
Del 27/06/2014, pag. 7
Abu Mazen sulla graticola
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Territori Occupati. La vicenda dei tre ragazzi ebrei scomparsi, quasi certamente
rapiti, in Cisgiordania si sta trasformando una disfatta per il presidente dell’Anp Abu
Mazen, costretto a ribadire la collaborazione di sicurezza con Israele tra lo sdegno
dei palestinesi che fanno i conti con il pugno di ferro delle forze di occupazione
Come e quando si concluderà la vicenda dei tre giovani israeliani scomparsi il 12 giugno in
Cisgiordania nessuno lo sa. Le uniche certezze al momento sono la punizione collettiva
che sta subendo larga parte della popolazione palestinese – nelle ultime ore è spirato un
giovane di 24 anni, Mustafa Aslan, ferito dai soldati israeliani a Qalandiya ed è morta una
anziana di 78 anni, Fatima Rushdi, colpita da infarto durante un raid dei militari nel suo
campo profughi, Arroub – e il crollo d’immagine dell’Autorità nazionale palestinese e del
suo presidente Abu Mazen. Perchè se è vero che le operazioni militari israeliane hanno
anche lo scopo di colpire il movimento islamico Hamas (accusato da Israele del rapimento
dei tre ragazzi), è ormai chiaro che da questa storia Abu Mazen esce con le ossa rotte,
preso a pugni da israeliani e palestinesi. Le sue dichiarazioni a favore della cooperazione
di sicurezza con l’intelligence israeliana, hanno riscosso l’approvazione delle capitali occidentali ma non hanno smussato l’aggressività dei dirigenti israeliani. Non solo, hanno provocato forte sdegno tra i palestinesi che da due settimane fanno i conti con i raid dei soldati in città, villaggi e campi profughi e sono costretti ad aggiornare l’elenco di morti e feriti.
«Abu Mazen è un mega terrorista», ha proclamato ieri Naftali Bennett, ministro e leader
del partito ultranazionalista israeliano Casa ebraica. Motivo? Il governo dell’Anp garantisce
sussidi ai prigionieri politici e alle loro famiglie. Non sono più leggeri i commenti che, per
motivi totalmente diversi, fanno tanti palestinesi. Tra questi non pochi portano i segni delle
manganellate che la polizia agli ordini di Abu Mazen ha inferto a chi è sceso in strada per
protestare contro le operazioni militari israeliane.
Appena tre settimane fa il presidente palestinese godeva di una popolarità mai registrata
in questi ultimi anni. La sua decisione di andare alla riconciliazione con Hamas e la determinazione con la quale ha formato un governo di unità nazionale con il movimento islamico, avevano fatto salire le sue quotazioni tra i palestinesi. Interessanti sono stati poi i
successi diplomatici ha conseguito in questi ultimi tempi, dal riconoscimento statunitense
ed europeo dell’esecutivo Fatah-Hamas fino alla “preghiera per la pace” con il presidente
uscente israeliano, Shimon Peres, tenuta a inizio giugno in Vaticano. Uno status inedito
che impensieriva non poco il premier israeliano Netanyahu costretto ad affrontare il
periodo diplomaticamente più difficile del suo mandato, specie nei rapporti con gli alleati
americani. Dal 12 giugno è cambiato tutto. Dopo la scomparsa dei tre giovani ebrei, Abu
Mazen, sotto la pressione delle accuse israeliane, si è precipitato tranquillizzare i suoi
sponsor occidentali lasciando però senza parole una larga porzione di palestinesi.
La sua credibilità è crollata. Sui social l’uomo della riconciliazione è diventato un “collaboratore” e un “traditore”. Un cartoon che gira in rete lo mostra con l’uniforme dell’esercito
israeliano. «E’ molto probabile che questa reazione popolare (contro Abu Mazen) continui
ancora a lungo. E in tutta sincerità non escludo che Netanyahu abbia messo in azione il
suo esercito allo scopo di delegittimare l’Anp e il suo presidente», spiega Samir Awad,
docente di scienze politiche all’Università di Birzeit, in Cisgiordania. Per il suo collega Naji
Sharab, dell’università Al-Azhar di Gaza, «Si tratta di una operazione (israeliana) con due
obiettivi: smantellare completamente l’infrastruttura di Hamas e mandare un messaggio
forte all’Autorità palestinese, ossia che il suo ruolo è rivolto alla sicurezza di Israele e non
quello di esercitare una sovranità». Se sarà confermato il coinvolgimento del movimento
islamico nel sequestro dei tre israeliani, per Abu Mazen il quadro si complicherà ulteriormente: sarà costretto, dalle pressioni israeliane e occidentali, a rigettare l’accordo di riconciliazione con Hamas perdendo la faccia davanti agli occhi della sua gente senza per que12
sto riottenere il pieno appoggio dei suoi sponsor internazionali. Ci guadagnerebbero solo
gli islamisti e il premier israeliano Netanyahu.
Del 27/06/2014, pag. 1-38
R2/DIARIO
Sarajevo, i ragazzi che scatenarono la Grande
Guerra
ROBERTO SAVIANO
FU IL pretesto, la miccia che incendiò la secca prateria europea. L'inizio simbolico, la
scusa: non c'è libro di scuola che non ricordi così l'attentato a Sarajevo del 1914. Quel
giorno è diventato l'archetipo dei pretesti. A considerarlo così, un pretesto, ci si dimentica
di come andarono le cose. Pochi ricordano il nome dell'uomo che sparò, né come andò
quell'attentato perpetrato tra errori ridicoli, scene persino comiche e coincidenze
inaspettate. L'attentato fu opera di un ragazzino di vent'anni, fanatico, pieno di letture e di
sogni nazionalisti. Dai suoi due spari, come conseguenza, discesero trenta milioni di morti
macellati nel più grande conflitto armato cui il mondo avesse mai assistito. E tutto nacque
in serate passate in stanza tra amici, in pomeriggi pigri con mani dietro la nuca e occhi a
fissare il soffitto, senza nemmeno i soldi per il tabacco e il vino. La storia è raccontata in
Una mattina a Sarajevo di David James Smith, appena pubblicato dalla LEG, piccola,
coraggiosa casa editrice goriziana. Smith racconta che negli anni precedenti all’attentato
nacque un’organizzazione politico-rivoluzionaria denominata Mlada Bosna (Giovane
Bosnia), che aveva come obiettivo la liberazione dall’Impero austro-ungarico. Uno dei suoi
membri, il carpentiere musulmano Mehmed Mehmedbasic, aveva progettato di uccidere il
generale Oskar Potiorek, governatore di Bosnia ed Erzegovina, ma quando fu annunciata
l’imminente visita a Sarajevo dell’erede al trono d’Austria, il suo compagno Danilo Ilic lo
convinse a cambiare bersaglio: Francesco Ferdinando sarebbe stato una vittima di
maggior valore. Per raggiungere un obiettivo così alto però bisognava trovare armi e
uomini. Ilic reclutò allora il suo compagno quasi ventenne di stanza, Gavrilo “Gavro”
Princip, che a sua volta chiamò Nedeljko (Nedjo) Cabrinovic, operaio anarchico 19enne, e
un altro amico di letture, Trifko Grabez, studente diciottenne con il sogno ossessivo di
vivere in una nazione slava a cui avrebbe immolato il suo sangue.
Il legame tra loro? I libri che si scambiavano, l’odio per l’aquila asburgica, la voglia di
vedere stato slavo indipendente e un generica inquietudine al pantano politico sociale che
vedevano. Le bombe e le pistole vennero fornite da varie società segrete che, come la
Mlada Bosna, covavano odio nei confronti degli Asburgo ma non avevano alcun progetto
vero di riforma sociale né di insurrezione: volevano sostituire gli uomini voluti dagli
Asburgo ai vertici delle istituzioni con i loro. Seppero quindi sfruttare la vampata di rabbia e
temerarietà di questi studentelli e operai. Il 28 maggio, Gavro, Nedjo e Trifko partirono da
Belgrado con le loro armi per Sarajevo, dove, dopo un viaggio difficile e rischioso,
trovarono ad aspettarli altri compagni che nel frattempo si erano uniti al gruppo
complottista: Vaso e Cvjetko, studenti rispettivamente di diciassette e sedici anni. Il 27
giugno, fu Danilo a dare disposizioni: consegnò una bomba e una pistola ciascuno a Vaso
e Cvjetko e, basandosi sull’itinerario previsto per la sfilata imperiale, assegnò a entrambi
una postazione sul lungofiume. Verso sera incontrò Mehmedbasic al caffè Mostar: diede
anche a lui una bomba e le istruzioni necessarie. Quella stessa sera Gavrilo era a una
festa di studenti ma non si divertì, raccontarono i testimoni, assorto nei suoi pensieri. Non
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dava confidenza a nessuno, si isolava. La mattina del 28 giugno Nedjo, Trifko e Gavrilo si
incontrarono con Danilo alla pasticceria Vlajnic, all’angolo del lungofiume Appel, come da
programma. Qui i ragazzi ricevettero il cianuro: dal principio, infatti, era stato chiaro che,
attentato riuscito o meno, il suicidio sarebbe stato l’ultimo gesto dei congiurati, in modo da
proteggere tutti i complici e le organizzazioni coinvolte. Nedjo, con la sua bomba in tasca,
fece un gesto tenero, a dimostrazione di come fossero tutti dei ragazzini, andò in uno
studio fotografico e si assicurò che gli scatti realizzati fossero poi spediti alla nonna, alla
sorella e agli amici di Belgrado, Zagabria e Trieste. Si diresse subito dopo verso la
postazione assegnatagli, tra la sponda austroungherese del fiume e il ponte, in un punto
dove sperava di poter uccidere l’arciduca senza ferire nessuno tra la folla. Alle 10.15 circa
il corteo di automobili imperiale passò davanti a Mehmedbasic ma questi, bloccato dal
panico, nemmeno provò a fare qualcosa. A quel punto fu Nedjo a lanciare una bomba, che
però mancò la vettura dell’arciduca ferendo gli occupanti di quella successiva.
Subito dopo aver lanciato, Nedjo ingoiò il cianuro e si gettò nel fiume, ma il veleno si era
deteriorato e gli avrebbe causato in seguito solo qualche scarica di diarrea, ed essendo in
quel punto l’acqua del fiume bassissima, si bagnò solo fino al ginocchio, sopravvisse
comicamente a entrambi i tentativi di suicidio e fu arrestato. Incredibilmente la cerimonia
non fu annullata, le misure di sicurezza dell’epoca erano l’esatto contrario di quelle di oggi.
Dopo la bomba, l’arciduca mantenne i suoi impegni, l’auto degli eredi al trono proseguì
quindi verso il Municipio per un incontro con il sindaco di Sarajevo. L’unica precauzione
che la polizia asburgica e la scorta dell’arciduca presero fu di deviare il percorso del
corteo. E fu proprio questa decisione ad essere fatale. Gavrilo, dopo aver inizialmente
pensato che Nedjo avesse avuto successo, comprese invece che l’arciduca era ancora
vivo e si portò nei pressi del Ponte Latino, dove stava per passare la vettura imperiale. Qui
avvenne però qualcosa di imprevisto: il generale Potiorek capì che il corteo stava
erroneamente percorrendo l’itinerario originario e quindi fermò l’auto e chiese all’autista di
manovrare per continuare attraverso il lungofiume. Per compiere questa manovra, la
vettura si fermò proprio davanti a Gavrilo che incredulo di avere dinanzi a sé gli eredi
Asburgo estrasse subito la Browning di fabbricazione belga che aveva in tasca e sparò
due colpì: il primo su Francesco Ferdinando, centrato alla spina dorsale; il secondo
(destinato a Potiorek, secondo quanto disse poi Gavrilo al processo) sull’arciduchessa
Sofia. Subito dopo aver sparato ingurgitò il cianuro, ma anche la sua dose era deteriorata.
Così cercò di spararsi con la pistola, ma fu bloccato dai presenti, che lo tennero fermo a
calci e pugni fino all’arrivo della polizia.
L’assassinio, tutt’altro che inevitabile, era riuscito: alle 11.30 le campane di tutte le
confessioni religiose di Sarajevo suonavano all’unisono annunciando la morte di
Francesco Ferdinando e di Sofia, eredi al trono austro- ungarico. L’Austria presenterà un
mese esatto dopo l’attentato dichiarazione di guerra alla Serbia. Al termine del processo,
Gavrilo non chiese perdono, ma concluse il suo intervento con queste parole: «Noi
amavamo il nostro popolo». Gli fu risparmiata la pena capitale per via della giovane età,
così come prevedeva la legge. Venne condannato a vent’anni di lavori forzati, con la pena
suppletiva di un giorno di isolamento in una cella buia ogni 28 giugno e un giorno di
digiuno al mese. Fu rinchiuso nel carcere ceco di Terezín, dove visse in condizioni
pessime fino alla sua morte, sopraggiunta per tubercolosi ossea il 28 aprile 1918. Pochi
mesi dopo la sua morte si concluse anche il grande conflitto mondiale scatenato dal suo
gesto, che aveva messo in ginocchio e ridisegnato l’Europa. Gavrilo Princip fu considerato
un eroe da alcuni, un fanatico sbandato da altri, un ingenuo perché aveva ucciso proprio
Francesco Ferdinando che, a differenza di suo zio Francesco Giuseppe, aveva in
programma di concedere maggiore autonomia alla Serbia e ai popoli slavi in genere.
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È strano coprire che tutto nacque dall’inadeguatezza di ragazzi poco più che adolescenti,
che amavano la lettura e sognavano una società più giusta. Dopo quell’attentato molti
giovani si arruolarono per andare a combattere in trincea, a cercare la fine gloriosa, in
nome delle rispettive patrie. In realtà trovarono solo orrore, pidocchi, fango e crudeltà.
Nessuna redenzione dal male, nessuna vita vera. Princip non generò nessun mondo
migliore.
Del 27/06/2014, pag. 1-34
MESSAGGIO TROVATO DA UNA GIOVANE A BELFAST
Nei jeans un Sos dalla Cina “Ci trattano come
schiavi”
ENRICO FRANCESCHINI
UNO schiavo o una schiava cinese ha infilato il suo messaggio nella tasca di un
pantalone. Alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio intorno al
mondo. Karen Wisinska di Belfast, in Irlanda del Nord, lo ha trovato nei jeans acquistati tre
anni fa e mai indossati. Era un cartoncino in caratteri cinesi ma in cima c’era scritto, in
alfabeto latino, SOS. Il biglietto trovato nei jeans prodotti in Cina e acquistati a Belfast.
Affidano le richieste di soccorso a una bottiglia. Uno schiavo o una schiava cinese ha
infilato il suo messaggio nella tasca di un pantalone. Le probabilità che arrivasse in mano
a qualcuno erano più o meno le stesse di quelle di un uomo abbandonato su un’isola in
mezzo all’oceano. Eppure alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio
intorno al mondo conclusosi nell’armadio di una casa vicino a Belfast, in Irlanda del Nord.
Karen Wisinska aveva acquistato un paio di calzoni sportivi stile cargo da Primark, una
catena di grandi magazzini a basso prezzo, nel capoluogo dell’Ulster tre anni fa, ma non li
aveva mai indossati perché la chiusura lampo era difettosa. La settimana scorsa,
preparando la valigia per una vacanza, li ha tirati fuori dal guardaroba e ha notato che una
tasca era rigonfia, come se ci fosse dentro qualcosa. Ha slacciato un bottone, ci ha messo
la mano dentro e ha estratto un biglietto accuratamente ripiegato. Era un cartoncino scritto
in caratteri cinesi, per cui non poteva comprenderne il significato, ma in cima c’erano, in
alfabeto latino, tre parole che chiunque conosce, in tutte le lingue: «SOS», seguita da un
punto esclamativo. Il segnale internazionale di richiesta di aiuto. Non ancora
completamente convinta, ha fotografato il biglietto, lo ha messo sulla propria pagina di
Facebook e chiesto agli amici se qualcuno era in grado di decifrarlo. Quando ha ricevuto
una prima bozza di traduzione è rimasta scioccata: «Era stato scritto da qualcuno che
evidentemente lavorava in condizioni di schiavitù in una prigione cinese».
A quel punto si è rivolta ad Amnesty International e la sua impressione è stata confermata:
il messaggio sembra provenire dal Gulag di Pechino, dove apparentemente i detenuti
sono costretti a lavorare in condizioni disumane per produrre articoli da vendere poi alle
grandi aziende occidentali. Il prigioniero o la prigioniera cinese avrebbe confezionato
personalmente i pantaloni per la Primark, rischiando la vita per nasconderci dentro il suo
Sos. «Siamo detenuti nella prigione Xiangnan di Hubei, in Cina», afferma il biglietto. «Da
molto tempo lavoriamo in carcere per produrre abbigliamento per l’esportazione. Ci fanno
fare turni di 15 ore al giorno. Quello che ci danno da mangiare è perfino peggio di quello
che si darebbe a un cane o a un maiale. Siamo tenuti ai lavori forzati come animali, usati
come buoi o cavalli. Chiediamo alla comunità internazionale di condannare la Cina per
questo trattamento disumano». Commenta Patrick Corrigan, direttore di Amnesty in
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Irlanda del Nord: «È una storia orribile. Naturalmente sarà molto difficile appurare se è
genuina, ma abbiamo il timore che sia solo la punta di un iceberg». La Primark ha aperto
immediatamente un’inchiesta. «Tre quarti dei pantaloni di quel tipo sono stati acquistati da
noi all’inizio del 2009», dice un portavoce dei grandi magazzini alla Bbc.
«Troviamo un po’ strano che il biglietto sia venuto alla luce solo ora, quando i pantaloni
sono stati comprati nel 2001. Contatteremo la cliente per farci dare l’indumento e per
proseguire le indagini. Dal 2009 ad oggi la Primark ha condotto nove ispezioni dei nostri
fornitori per verificare il rispetto degli standard etici in Cina e altrove, e nessun caso di
lavori forzati, lavori in prigione o altre violazioni è mai stato riscontrato». Si tratta tuttavia
della stessa azienda coinvolta, insieme ad altre marche d’abbigliamento occidentali, nel
crollo di uno stabilimento in Bangladesh in cui morirono più di 1100 persone: criticata per
non avere denunciato le insufficienti condizioni di sicurezza dello stabile, la Primark ha
finora pagato 12 milioni di dollari (8 milioni di euro) di indennizzo ai familiari delle vittime e
sostiene di avere moltiplicato le ispezioni dei suoi fornitori. Non è la prima volta che un
capo d’abbigliamento della Primark viene ritrovato un biglietto con richieste di soccorso da
parte di presunti schiavi dell’industria del fashion in Cina o in altri paesi in via di sviluppo. Il
boom del settore tessile nel Terzo Mondo è uno dei motori della globalizzazione e sta
portando milioni di famiglie fuori dalla povertà. Ma l’altra faccia della crescita è lo
sfruttamento. E talvolta per denunciarlo non c’è altro mezzo che un messaggio in una
tasca di pantaloni.
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INTERNI
Del 27/06/2014, pag. 6
Rivolta in Forza Italia in 37 per il Senato
elettivo Nel Pd 19 dissidenti
Oltre la metà del gruppo contrario alla riforma Renzi Presto l’assemblea
con Berlusconi. Allarme preferenze
GIOVANNA CASADIO
CARMELO LOPAPA
L’ESATTO contrario di quanto prevede il pacchetto Renzi, pur blindato da Verdini e
Romani. Alla base c’è il panico da rielezione di molti parlamentari. Ma ha funzionato da
miccia l’incontro in streaming del premier coi Cinque stelle e quell’apertura alle preferenze
nella legge elettorale che a parecchi forzisti proprio non va giù: «Se passano, facciamo
saltare tutto » è la minaccia che nel centrodestra sta prendendo corpo. Al Senato ma
anche alla Camera, dove il capogruppo berlusconiano Brunetta chiama in gran segreto i
colleghi nemici del “patto delle riforme” e con loro invoca e ottiene una riunione plenaria
per la prossima settimana, alla presenza dell’ex Cavaliere. All’assemblea del gruppo a
Palazzo Madama invece ieri mattina Berlusconi non si è presentato. Verdini e Romani lo
avevano raggiunto a Grazioli con Giovanni Toti e Maria Rosaria Rossi prima di chiamare a
rapporto i senatori, rassicurandolo sulla tenuta. E invece salta tutto. Verdini e Romani
puntano a chiudere in poche battute la riunione: «Dunque, la riforma va approvata così
com’è, al più con qualche modifica, ma il patto deve reggere su tutto, altrimenti rischiamo
di veder saltare anche l’Italicum », mette in guardia coi consueti metodi spicci il senatore
toscano, gran tessitore dell’intesa. Toti e la Rossi nemmeno parlano. Ma a quel punto si
scatenano i senatori. Parte Augusto Minzolini, e a seguire Razzi, Caliendo, Zuffada e altri
ancora. Tutti a favore del Senato elettivo e dunque intenzionati (con una quarantina di
emendamenti) a stravolgere il testo del governo. L’ex direttore del Tg1 è il più agguerrito,
primo firmatario delle proposte di modifica. «Io non voto questa riforma. Non cadiamo nel
tranello di Renzi — alza i toni — Lui minaccia il voto ma non può fare nulla, non andrebbe
mai alle elezioni col “Consultellum”. I senatori devono essere eletti dal popolo». Dopo, è
un coro. Altri come Cinzia Bonfrisco stanno per intervenire per rincarare. Al punto che
Verdini e Romani sono costretti a sospendere i lavori e rinviare tutto a martedì prossimo. A
Silvio Berlusconi toccherà presentarsi di persona per far rientrare i “ribelli”, se ne avrà
ancora il potere e la forza. È un leader dimezzato, fiaccato e in attesa di una nuova
pesante sentenza. Già, proprio la sentenza Ruby in appello, che segue la condanna in
primo grado a sette anni per prostituzione minorile. A partire dal 18 luglio è atteso il
pronunciamento del secondo grado di giudizio. Ed è qui che l’ennesima vicenda giudiziaria
di Berlusconi si intreccia con l’agenda delle riforme. Il Pd punta ad accelerare e non poco.
Da lunedì iniziano le votazioni in commissione sul testo Boschi. Il capogruppo Zanda e i
dem vorrebbero chiudere nel giro di una settimana per approdare in aula il prima possibile
per strappare il primo “ok” alla riforma proprio entro la data fatidica del 18. «Fino a quel
giorno, il capo forzista manterrà i toni bassi, dopo, tutto potrebbe succedere» è il tam tam
nel Pd. Sul Senato elettivo del resto cresce la fronda anche tra i democratici. Ieri scadeva
il termine per presentare i sub-emendamenti e 19 senatori pd, guidati da Chiti, Casson,
Tocci hanno firmato proposte in favore dell’elezione diretta e del mantenimento a certe
condizioni dell’immunità. Con loro, anche il popolare Mario Mauro, i sette di Sel capeggiati
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da Loredana De Petris e i 14 fuoriusciti dal M5s. L’ex ministro Mauro parla di «deriva
autoritaria» nella strategia delle riforme. Come se non bastasse, è stato depositato un
emendamento pd con una cinquantina di firme per ridurre il numero dei deputati.
Fibrillazioni che tuttavia al Nazareno vengono minimizzate. Che il premier sia intenzionato
ad andare dritto per la sua strada lo si capisce dalla sortita del vicesegretario dem Lorenzo
Guerini: «Il percorso procederà secondo la direzione e i tempi previsti». Convinti che
anche le mine interne a Forza Italia saranno disinnescate da qui a qualche giorno. In ogni
caso, un conto sarà la partita con numeri più risicati — anche se ormai blindati dal Pd —
che si giocherà da lunedì in commissione Affari costituzionali, altra cosa in aula. Se pure il
Carroccio e il M5s dovessero schierarsi con il “partito del Senato elettivo”, l’asticella si
fermerebbe più o meno intorno ai 134 senatori. Mentre la maggioranza pro-riforme è
compresa in una forbice variabile tra i 163 e i 186. Il premier resta convinto di poter andare
anche oltre. Non si raggiungeranno comunque i due terzi necessari per evitare il
referendum confermativo, ma questo ormai Renzi lo ha messo nel conto.
Del 27/06/2014, pag. 31
IL PARTITO DEL LEADER
NADIA URBINATI
I CITTADINI italiani si fidano di Renzi non dei partiti e, presumibilmente, neppure del suo
partito. Quello che Diamanti chiama il Partito di Renzi non è, infatti, la stessa cosa del
Partito democratico. Certamente non è politico nel modo in cui questo lo è. Il partito
politico, anzi i partiti politici, non sono in declino da oggi, ma oggi il loro declino è ancora
più abnorme proprio perché avviene insieme al successo di un partito del segretario. Il
paradosso è che pare difficile capire come Renzi possa ridare onore ai partiti (al Pd, in
questo caso) anche perché egli ha costruito il suo successo di audience proprio grazie a
una martellante retorica contro i partiti, non escluso il suo. Certamente contro le dirigenze
logore e attempate. La rottamazione è stata sia un’apertura (ai giovani) che una chiusura
(non solo alle vecchie generazioni ma anche) a un modo di essere del partito. Il Partito di
Renzi è un partito nonpartito, nato come partito anti-partito. Merita ricordare che l’attuale
segretario del Pd ha conquistato l’opinione e il governo del paese prima ancora di
conquistare una maggioranza elettorale (o di essere eletto): un’incoronazione ecumenica
che è avvenuta fuori del partito a tutti gli effetti e fuori delle istituzioni. Nei media e sotto i
gazebo. Ecco perché ha un senso chiamare questo fenomeno plebiscitarismo
dell’audience. Come si può ricostruire il partito partendo da qui? Per tentare di rispondere
a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il
Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di
quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione
sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le
vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio
quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché
lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più
esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali,
non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro.
Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di
comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del
Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o
oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno
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l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali.
Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è
comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è
identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale. Ciò sembra
convincere i cittadini che in questo caso, se non altro, vi è un responsabile individuale,
visibile e senza coperture dietro dirigenze collettive. E del resto Renzi stesso ha reso assai
popolare questa visione personale di responsabilità dichiarando spesso di “metterci la
faccia”. “Ci metto la faccia”: questo un collettivo non può dirlo, sia esso una segreteria o un
comitato centrale o un’assemblea nazionale. Solo il singolo può metterci la faccia,
enunciare la sua responsabilità senza rete. È evidente che nelle azioni politiche la
responsabilità non è mai un fatto semplice da imputare perché tante e complesse sono le
condizioni che portano a una decisione, non ultima una larga discussione dentro e fuori
del partito, condivisioni di idee e visioni che corresponsabilizzano molti o diversi. Il
segretario del partito politico è in questo caso rappresentativo di un progetto, di una
narrazione che unisce molti (e idealmente dovrebbe convincere tanti), non però un artefice
dell’identità del partito in solitaria responsabilità. Ma anni di corruzione e malaffare ci
hanno consegnato un’altra immagine della responsabilità: quella giudiziaria che è
comunque del singolo, di colui che risponde direttamente alla legge. Ecco dunque la
tensione tra due dominii di responsabilità: quello politico, mai solitario e mai semplice;
quello giudiziario, sempre del singolo. Nel secondo caso “metterci la faccia” ha più senso
che nel primo caso. Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da
una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha
fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi
anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale
(individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e
giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia
democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel
Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi
sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la
responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di
un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i
responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia.
Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere
come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal
magnetismo del cavallo vincente.
Del 27/06/2014, pag. 4
La riforma che non piace alle toghe
Giustizia. Responsabilità civile, intercettazioni, elezioni del Csm: il
provvedimento lunedì in Cdm.
Velocizzazione dei processi penali e civili per smaltire i 9 milioni di procedimenti pendenti,
ma anche maggiore controllo sul lavoro dei magistrati, cominciando con nuovi criteri di elezione dei membri togati del Csm per limitare il peso delle correnti, qualche paletto in più
alla trascrizione delle intercettazioni per limitare la diffusione mediatica selvaggia, ma
anche una limatura alla responsabilità civile diretta delle toghe introdotta con
l’emendamento della Lega alla legge Ue.
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Non solo: arriva la stretta sul reato di associazione mafiosa, sul falso in bilancio
e sull’autoriciclaggio, l’allungamento dei tempi di prescrizione che si dovrebbero fermare
dopo il primo grado di giudizio e nuove regole per la confisca dei beni delle mafie. Il pacchetto di riforme che il Guardasigilli Andrea Orlando ha messo a punto per il Consiglio dei
ministri di lunedì prossimo, stando alle prime notizie trapelate, ha l’aria di una revisione
strutturale di tutto il sistema giudiziario, come aveva chiesto il Consiglio d’Europa dopo la
condanna per le carceri sovraffollate. Una parte (la riforma dei codici di procedura penale
e civile e l’inasprimento delle sanzioni per i reati di mafia, di corruzione e finanziari)
saranno probabilmente varati subito con un decreto legge o un ddl, mentre per tutto il
resto al momento il governo si limiterà a proporre delle «linee guida» da discutere successivamente con i soggetti interessati, sulla scia della riforma della pubblica amministrazione
della ministra Marianna Madia. Ma, sebbene il confronto del Guardasigilli con le associazioni e i sindacati di categoria delle soggettività interessate alla riforma continui anche in
questi giorni a ritmo serrato — ieri il ministro ha convocato l’Anm e per oggi l’Unione nazionale Giudici di pace, insieme alle altre organizzazioni dei giudici di pace e delle toghe onorarie — dal mondo della giustizia si levano già alcune voci di protesta. Prima tra tutte,
quella dei magistrati togati del Csm che temono un colpo di mano del governo a pochi
giorni dalle elezioni del nuovo Consiglio, previste per il 6 e 7 luglio, visto il meccanismo del
voto disgiunto che Orlando vorrebbe introdurre per disgregare le correnti (mentre gli
8 membri laici del Csm saranno eletti il prossimo 3 luglio dal Parlamento in seduta
comune). Il nervosismo cresce però soprattutto attorno al tema della responsabilità civile
diretta dei magistrati. L’Anm si è detta «preoccupata» per le possibili misure. Il governo
starebbe pensando a come intervenire per correggere l’emendamento Pini al disegno di
legge comunitaria 2011 passato alla Camera l’11 giugno scorso, mantenendo però la possibilità di opporre ricorso contro la magistratura. Nel Csm, per esempio, potrebbe nascere
una sezione disciplinare separata per giudicare, in primo grado, l’operato delle toghe.
E una Corte per il secondo grado di giudizio composta anche da magistrati contabili
e amministrativi. L’associazione sindacale dei magistrati ha anche espresso al Guardasigilli preoccupazione per il nuovo sistema disciplinare e per le limitazioni alla trascrizione
delle intercettazioni che, secondo le “linee guida” governative, dovrebbero essere solo
riassunte, in modo da evitare la divulgazione dei testi. «Vogliamo capire bene prima di
esprimerci – è stato il commento della presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi – Per ora siamo solo agli annunci che però danno delle indicazioni,
alcune più rassicuranti altre meno. Rassicuranti sono la norma sulla reintroduzione del
falso in bilancio, l’aumento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione, alcune norme
che riguardano in particolare la normativa antimafia, l’aumento delle pene. Per quanto ci
riguarda tutta la magistratura ci ha sempre detto che le intercettazioni sono uno strumento
indispensabile e fondamentale». E infatti, secondo Matteo Orfini intervistato ieri dall’Huffington post, «non ci sarà alcuna limitazione alle intercettazioni». Questo nodo si affronterà
però dopo l’estate. La priorità di Orlando ora è smaltire i 5 milioni di procedimenti civili pendenti e abbreviare i tempi lunghissimi delle cause che costano all’Italia l’1% del Pil. Per
questo il provvedimento che andrà lunedì in Cdm punta a trasferire in sede arbitrale una
parte dei processi istituendo camere ad hoc presso i Consigli degli ordini degli avvocati.
E a favorire il ricorso alla via stragiudiziale attivando procedure di negoziazione assistita
da un avvocato, come nel sistema francese.
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del 27/06/14, pag. 6
Modello tedesco per le unioni civili
Il progetto di riforma a settembre in Senato. Scalfarotto: «Le nuove
tutele imposte da un cambiamento epocale»
ROMA — Due modelli. Unioni civili (per le coppie gay), sul modello tedesco. E unioni di
fatto, per coppie omo ed eterosessuali. Questo il progetto di riforma, per le «altre famiglie»
che andrà in Aula a settembre in Senato «e magari potrà essere approvato entro la fine
dell’anno, due o tre mesi in più non fanno differenza» annuncia Ivan Scalfarotto,
sottosegretario alle Riforme del governo Renzi.
Scalfarotto si riferisce ad un testo base appena depositato in Commissione Giustizia a
Palazzo Madama dalla relatrice Monica Cirinnà (Pd) che ha creato già polemiche, con
quattro senatori dem che si sono dissociati e con una precisa presa di distanza del Ncd. Il
testo sarà discusso in Commissione la prossima settimana, ed è stato bollato come
l’introduzione di un «simil matrimonio» dal quotidiano dei vescovi Avvenire . Nell’articolo di
fondo di ieri, il direttore, Marco Tarquinio, sostiene che si tratta di «un errore da non fare»,
spiegando «le ragioni forti di un dissenso»: il testo per quanto riguarda le unioni civili delle
persone omosessuali — che vogliono istituzionalizzare il loro rapporto — prevede infatti
qualcosa di identico a un same sex marriage . Una piena equiparazione, senza averne il
nome e con la sola esclusione dell’adozione per i figli «esterni» alla coppia, ma non lo
stepchild adoption (cioè l’adozione del figlio naturale o legittimo del partner, se non esista
un altro genitore che lo ha riconosciuto), o i figli nati «dall’unione», con le tecniche
dell’utero in affitto o dell’inseminazione eterologa.
Scalfarotto conferma quello che sostiene da sempre: «Sono in atto cambiamenti epocali in
tutto il mondo , ed essi o si gestiscono o si subiscono. La politica ha il compito di gestirli».
Da questo punto di vista, e «con tutto il rispetto e la cautela, visto che io non sono
credente e che si tratta di un terreno non mio nel quale entro in punta di piedi», Scalfarotto
pensa che anche la Chiesa — con i lavori preparatori al Sinodo resi noti ieri — «si renda
conto della realtà sociale che è cambiata e della necessità di nuovi strumenti, nel caso
della Chiesa, pastorali». Anche se la Chiesa, va ricordato, rimane contraria ai matrimoni
gay e anche ieri ha aperto la porta solo a qualche forma di riconoscimento, sul tipo dei
Pacs. Cioè quel tipo di riconoscimento che nel progetto depositato al Senato, combacia
con il secondo tipo di regolamentazione previsto: le unioni di fatto, per coppie omo ed
eterosessuali. «Le Unioni di fatto — spiega Scalfarotto — riguarderanno coloro che non
intendono accedere a nessun tipo di rapporto “formale”, ma che vogliono che vengano
riconosciuti, per legge, quello che in tutti gli altri Paesi avviene normalmente e di fatto, cioè
ad esempio la possibilità di assistere il partner in ospedale. Non deve più succedere che a
un convivente, magari da decenni, sia vietato l’accesso in ospedale o il subentro nel
contratto d’affitto».
Quello che il sottosegretario mette in ogni caso in evidenza è che «si tratta di cambiamenti
epocali, che nascono dalla fine della società patriarcale, dalla piena parità raggiunta tra
uomo e donna, dall’accento messo sulla realizzazione personale anche delle persone
sposate».
C’è tuttavia un’area sempre maggiore di persone che — come messo in evidenza dai
risultati del questionario mondiale della Chiesa cattolica — rifuggono da ogni
istituzionalizzazione, anche a motivo della crisi economica.
Le famiglie non vengono sostenute da adeguate politiche, cosa prevede al riguardo?
Scalfarotto: «Penso che il Pd e in particolare il governo Renzi possa fare molto. Negli anni
passati i governi di centrodestra hanno fatto della famiglia una difesa solo ideologica,
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dicevano di essere il governo del Family day ma in realtà l’Italia è rimasta indietro nel
sostegno alle famiglie e alle donne: abbiamo speso meno di tutti in asili nido e altre forme
di sostegno alla maternità e ai progetti di vita».
Le riforme economiche e istituzionali non possono — secondo il sottosegretario — andare
disgiunte da quelle che incidono sulla vita delle persone. «Altrimenti i cittadini si
rivolgeranno sempre più alla magistratura — conclude — perché i propri diritti vengano
riconosciuti. È un fenomeno globale: dalla Francia agli Stati Uniti e anche da noi».
M. Antonietta Calabrò
Del 27/06/2014, pag. 22
Ecco il documento che prepara il prossimo Sinodo “Più misericordia, i
fedeli non capiscono i nostri divieti”
Dai gay ai divorziati la svolta dei vescovi
“Basta condanne”
PAOLO RODARI
CITTÀ DEL VATICANO La difficile realtà delle coppie di fatto, i divorziati risposati e il nodo
dei sacramenti, la denuncia del femminicidio e della pedofilia, la questione
dell’omosessualità con il «no» al matrimonio gay ma la richiesta di maggiore attenzione
pastorale alle coppie dello stesso sesso. Il coraggio delle ragazze madri e lo snellimento
delle procedure per la nullità matrimoniale, la contraccezione e la difficoltà del popolo di
Dio a seguire l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI. C’è tutto questo nell’ Instrumentum
Laboris, il documento di base del Sinodo dei vescovi (un sinodo straordinario a ottobre
prossimo e uno ordinario nel 2015 intitolato Gesù rivela il mistero e la vocazione della
famiglia ) sulla pastorale familiare che il Vaticano ha presentato ieri. Un documento ampio,
che insiste molto su un aspetto per nulla secondario: la necessità che la Chiesa sia
misericordiosa verso tutti. «Serve una pastorale capace di offrire la misericordia che Dio
concede a tutti senza misura», dice non a caso il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario
generale del Sinodo. E ancora: «Si tratta dunque di proporre, non imporre; accompagnare,
non spingere; invitare, non espellere; inquietare, mai disilludere».
In scia al pontificato che chiede alla Chiesa amore per lenire le ferite dell’umanità e
accogliere i lontani, anche l’-Instrumentum che raccoglie le risposte al questionario inviato
dalla stessa segreteria del Sinodo a tutte le conferenze episcopali e ai singoli fedeli,
riflette, come dice il teologo e vescovo monsignor Bruno Forte, «lo sguardo di misericordia
con cui il Padre celeste guarda e ama ciascuno dei suoi figli», in particolare «nei confronti
delle persone che vivono in situazioni familiari difficili o irregolari». Beninteso, l’Instrumentum non offre risposte ai problemi sollevati dal questionario, e anzi allarga la
discussione alla necessità che i fedeli recuperino il «dato biblico» della famiglia basata sul
matrimonio fra uomo e donna (prima parte) e la sua apertura alla vita (terza parte).
Eppure, sviscerando i problemi concreti (seconda parte) apre al confronto in vista dei
lavori futuri nella consapevolezza che «non è in discussione la dottrina della Chiesa —
sono parole di Forte — , più volte ribadita anche negli ultimi anni dai vari interventi
magisteriali». Sono state 114 le Conferenze episcopali a cui è stato inviato il questionario,
con un ritorno dell’85 per cento. «La stragrande maggioranza delle risposte — recita il
documento — mette in risalto il crescente contrasto tra i valori proposti dalla Chiesa su
matrimonio e famiglia e la situazione sociale e culturale diversificata in tutto il pianeta».
Ampio il capitolo dedicato ai divorziati e risposati, i quali non sono soltanto giovani: anche
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tanti nonni divorziano. In generale molti divorziati risposati non vedono neanche come
«irregolare» la loro condizione, e risulta loro difficile comprendere perché la Chiesa non li
ammetta alla comunione, tanto che «c’è chi si domanda perché gli altri peccati vengono
perdonati e questo no». In tante parti del mondo, inoltre, la Chiesa chiede di snellire la
procedura per la nullità matrimoniale; e ricorda come ai bambini di coppie gay vada dato il
battesimo. L’ Instrumentum menziona anche «il terribile fenomeno del femminicidio,
spesso legato a profondi disturbi relazionali e affettivi, e conseguenza di una falsa cultura
del possesso» e il «dramma del commercio e dello sfruttamento dei bambini», nonché la
piaga del «turismo sessuale» e della «prostituzione che sfrutta i minori». Altre situazioni
critiche di particolare rilevanza nelle famiglie sono «le dipendenze da alcool e droghe», la
«pornografia, talvolta usata e condivisa in famiglia», il «gioco d’azzardo» e i «videogiochi,
internet e social network». Il documento denuncia anche la «rilevante perdita di credibilità
morale » della Chiesa a causa degli scandali sessuali, soprattutto in America del Nord e in
Europa Settentrionale, a cui si aggiunge «lo stile di vita a volte vistosamente agiato dei
presbiteri, così come l’incoerenza tra il loro insegnamento e la condotta di vita ». Secondo
il documento, «un fattore che interroga l’azione pastorale » è «la promozione della
ideologia del gender» che «in alcune regioni tende ad influenzare anche l’ambito
educativo primario, diffondendo una mentalità che, dietro l’idea di rimozione dell’omofobia,
in realtà propone un sovvertimento della identità sessuale».
Del 27/06/2014, pag. 20
I magistrati italiani hanno potuto interrogare i militari d’oltralpe Si
sgretola il muro di silenzi sulla guerra nei cieli di 34 anni fa
Ustica, luce sulla strage ora la Francia
collabora “Via il segreto di Stato”
ROMA Dopo 34 anni la Francia ha deciso a sorpresa di collaborare all’inchiesta sulla
strage di Ustica. E le prime ammissioni fatte da alcuni ex militari dell’Armeé de l’air ai
pubblici ministeri di Roma — stando a quanto trapela da fonti di stampa — sbugiardano
quella che è stata fino ad oggi la versione ufficiale di Parigi sui fatti del 27 giugno 1980. Le
informazioni raccolte dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal sostituto Erminio
Amelio dimostrerebbero che i famosi caccia francesi della base di Solenzara in Corsica
non tornarono a terra intorno alle 17, cioè quattro ore prima dell’esplosione del Dc9 Itavia.
Volarono invece fino a tarda sera. La questione non è esattamente un dettaglio, visto che
tra le ipotesi più accreditate per spiegare perché l’aereo civile si inabissò con i suoi 81
passeggeri tra le isole di Ponza e Ustica, c’è appunto quella che possa essere stato
abbattuto da un caccia francese. Da fonti governative d’Oltralpe, e dalla procura di Roma,
arriva un secco «no comment » sull’attività investigativa in corso. Ma nessuno ha smentito
la notizia che una decina di ex militari della base di Solenzara siano stati ascoltati dai pm
italiani. I colleghi francesi sarebbero anche disposti ad aprire gli archivi della Difesa per
ricostruire i movimenti di cacciabombardieri e unità navali nel mar Tirreno, la notte
dell’incidente. La svolta è di quelle di un certo peso per il proseguo delle indagini e non
può che essere stata decisa dai massimi livelli politici. Il governo del presidente Francois
Holland aveva già mostrato una nuova sensibilità verso l’Italia sulla strage di Ustica,
quando l’anno scorso aveva risposto a una rogatoria della procura di Roma trasmessa nel
2011. Parigi ammise che la Foch e la Clemenceau, due portaerei, incrociavano il
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Mediterraneo in quel periodo, seppure in giorni diversi da quello della strage. Una risposta
parziale, ma comunque un segnale positivo.
Ai pm romani interessa, in particolare, ricostruire il traffico aereo, capire se era in corso o
no un’esercitazione militare, capire se c’erano navi nell’area di mare in cui è precipitato il
Dc9. Un punto, questo, che è diventato di «notevole interesse investigativo» dopo la
testimonianza di un pilota dell’Ati raccolta per caso un anno fa, il quale ha riferito che la
sera precedente il disastro sorvolò l’isola notando alcune navi, tra cui appunto una
portaerei. Inizialmente le autorità francesi avevano sostenuto di non poter rintracciare con
precisione chi, la notte dell’incidente, fosse in servizio alla base di Solenzara. Ciò aveva
portato allo stallo delle indagini, perché gli indizi e i documenti raccolti conducevano
proprio nella direzione dello scenario “da guerra aerea”. I tabulati dei radar di Poggio
Ballone, infatti, mostravano le tracce di due apparecchi in volo verso Ustica «in orari
compatibili », e la conferma che quei segnali corrispondessero a dei caccia era stata
fornita dalla Nato al giudice istruttore Rosario Priore. La nazionalità dei mezzi, però, non è
stata mai accertata. E poi c’è la testimonianza del generale dei Carabinieri Antonio Bozzo
che quel giorno si trovava in vacanza con la famiglia proprio a Solenzara e sostiene di
aver visto decollare gli aerei fino dopo la mezzanotte. Il primo a parlare della “pista
francese” era stato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: nel 2007 mise a
verbale che a far esplodere il Dc9 era stato un missile aria-aria lanciato da un caccia
partito da una portaerei, nel tentativo di intercettare un aereo libico con a bordo il
colonnello Gheddafi. La svolta di Parigi potrebbe finalmente portare alla luce la verità su
quel 27 giugno di trentaquattro anni fa, chiudendo definitivamente nel cassetto l’ipotesi del
«cedimento strutturale».
del 27/06/14, pag. 23
Ai funerali di Esposito il debutto degli agenti
con la videocamera
Il Viminale ha già emanato il regolamento per l’uso dei dispositivi
elettronici in caso di manifestazioni pubbliche a rischio incidenti: piazza
filmata solo se la tensione crescerà
Il dispositivo di sicurezza predisposto dalla questura di Napoli è di massima allerta. Ed è
possibile che gli agenti in servizio di ordine pubblico possano attivare le telecamere
montate sui giubbotti. La sperimentazione è partita ieri, con l’emissione della circolare dei
vertici del Dipartimento guidato dal prefetto Alessandro Pansa. Ufficialmente si comincia il
1° luglio, ma già da settimane sono state effettuate alcune «prove» per testare il
funzionamento delle apparecchiature.
Video in quattro città
Il «disciplinare di utilizzo» fissa le 10 regole da rispettare, le modalità da seguire per
evitare abusi. Sono 160 le apparecchiature messe a disposizione dei Reparti Mobili di
Roma, Napoli, Torino e Milano che potranno utilizzarle durante le manifestazioni, nel corso
dell’attività fuori e dentro gli stadi, ma anche in occasione di particolari momenti di
tensione come può essere appunto il funerale di Ciro Esposito, vittima della follia ultrà
prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, giocata all’Olimpico di Roma il 3
maggio scorso. L’obiettivo è specificato nel documento: «Utilizzare le videoriprese come
strumento di prevenzione a tutela delle persone e del regolare svolgimento della
manifestazione».
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I «capisquadra»
Il decalogo prevede che «l’apparecchio, montato sul gilet tattico del “caposquadra” e di un
altro componente dell’unità organica dei Reparti Mobili, venga attivato nei momenti di
criticità per ordine di un funzionario che potrà disporre la cessazione e poi riattivarlo se ce
ne sia la necessità. Al termine dovrà essere compilato un foglio di consegna e tutta la
documentazione dovrà essere consegnata alla polizia Scientifica».
Il regolamento assegna al consegnatario del Reparto il compito di «verificare lo stato di
efficienza dei dispositivi prima dell’utilizzo e all’atto della riconsegna. Deve poi provvedere
al mantenimento della piena efficienza delle batterie, controllando la corrispondenza
dell’orario, e della data presenti sul display . Tutti i dispositivi dovranno essere
sincronizzati sulla stessa data e sullo stesso orario».
Le schede di memoria
La decisione di filmare la piazza è stata presa nelle scorse settimane, dopo gli scontri
avvenuti durante il corteo di metà aprile a Roma segnato dal poliziotto che calpestava una
manifestante. E ha come priorità quella di «cristallizzare» i momenti più complessi proprio
per poter poi stabilire che cosa sia effettivamente accaduto. E così assegnare
responsabilità certe ai responsabili. Anche per questo è previsto che al momento della
consegna al caposquadra «la scheda di memoria non dovrà contenere alcun dato
archiviato. Le videocamere e le schede di memoria sono contraddistinte da un numero
seriale che dovrà essere annotato in un apposito registro recante il giorno, l’orario, i dati
indicativi del servizio, la qualifica e il nominativo del dipendente che firmerà la presa in
carico e la restituzione».
Proprio per garantire la genuinità delle riprese «l’operatore, dopo aver verificato il
funzionamento, l’assenza di dati archiviati nella memoria e la corrispondenza di data e
orario, posizionerà la videocamera sul gilet tattico e dovrà tenerlo, pronto per l’utilizzo, per
tutta la durata del servizio».
La «tutela» per le indagini
I primi a sollecitare la possibilità di utilizzare le telecamere erano stati i vertici
dell’Associazione funzionari di polizia e il Siap «per tutelare gli operatori ed evitare
assurde strumentalizzazioni», come ha più volte sottolineato il segretario Lorena La Spina.
Una posizione condivisa dal Sap guidata da Gianni Tonelli e dalla Silp Cgil rappresentata
da Daniele Tissone, concordi nel chiedere «strumenti efficaci di prevenzione e soprattutto
di protezione». Un’istanza accolta anche perché, come viene specificato nella circolare, «è
stata rilevata l’esigenza di implementare le dotazioni degli operatori dei Reparti Mobili con
strumenti tecnologico dedicati, in grado di ampliare le aree di controllo visivo dell’evento
che consentano, in via prioritaria di assicurare una maggiore tutela agli stessi operatori
mediante l’acquisizione di materiale video-fotografico utile per l’eventuale supporto
probatorio».
La sperimentazione durerà sei mesi e «per monitorare la funzionalità della soluzione
adottata e verificarne la rispondenza operativa», ogni mese dovrà essere trasmesso un
«report» alla segreteria del capo della polizia in modo da poter effettuare eventuali
interventi correttivi.
Fiorenza Sarzanini
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 27/06/2014, pag. 10
Allarme Corte dei Conti “La corruzione dilaga
troppe deroghe su Expo”
Il pg Nottola avverte: l’illegalità frena lo sviluppo e blocca soprattutto gli
investimenti stranieri
ROSARIA AMATO
Pesa come un macigno sull’economia del Paese, proprio come l’evasione fiscale, il
sommerso e la criminalità organizzata. Anche perché la corruzione «può attecchire
ovunque: nessun organismo e nessuna istituzione possono ritenersene indenni o al
riparo». Nella requisitoria sul rendiconto dello Stato per il 2013 il procuratore generale
presso la Corte dei Conti Salvatore Nottola si sofferma a lungo sulla corruzione, un
fenomeno che «condiziona pesantemente lo sviluppo dell’economia anche per l’effetto
deterrente che ha sugli investimenti ed in particolare su quelli delle imprese straniere ».
Dopo aver esaminato i conti pubblici, sottolineandone anche molti aspetti positivi,
dall’avanzo primario superiore alla media Ue (in percentuale al Pil) alla diminuzione degli
interessi sul debito (grazie al calo dello spread) Nottola dedica le ultime pagine della sua
requisitoria a un’appassionata e accurata analisi della corruzione e soprattutto dei suoi
effetti nefasti sul Paese, quasi a ricordare che qualunque progresso economico vale poco
se il sistema non garantisce trasparenza, correttezza, legalità. E infatti il terreno di coltura
della corruzione, denuncia, «è l’illegalità in tutte le sue forme». Comprese quelle, che
possono apparire secondarie, dell’allentamento o della soppressione dei controlli di legge
per una apparente buona causa, come è accaduto per l’Expo Milano 2015, «oggetto di
numerose disposizioni derogatorie», motivate con ragioni di urgenza. I risultati sono noti,
ma Nottola ribadisce che «in merito all’Expo la Corte dei conti già da tempo aveva lanciato
l’allarme sui rischi insiti nella sua gestione, ma non risulta che se ne sia presa coscienza ».
Per il futuro, meglio evitare «situazioni che favoriscono o celano accordi illeciti: ritardi nelle
opere pubbliche che giustificano poi il ricorso a leggi eccezionali, perizie di variante in
corso d’opera di dubbia utilità che possono celare dazioni illecite, opacità
dell’Amministrazione ed eccesso di oneri burocratici».
Quanto pesa la corruzione sull’economia italiana? «Azzardare delle cifre sarebbe
impossibile e inutile», dice Nottola. Mentre gli analisti di Unimpresa la pensano
diversamente: «Tra il 2001 e il 2011 la corruzione ha “mangiato” 10 miliardi di euro l’anno
di prodotto interno lordo, per complessivi 100 miliardi in dieci anni». Non solo: secondo le
stime di Unimpresa il fenomeno della corruzione in Italia fa calare gli investimenti esteri del
16 per cento e fa aumentare del 20 per cento il costo complessivo degli appalti. Ancora,
«le aziende che operano in un contesto corrotto crescono in media del 25 per cento in
meno rispetto alle concorrenti che operano in un’area di legalità ». Alle piccole e medie
imprese va ancora peggio: il loro tasso di crescita può essere inferiore anche del 40 per
cento. Naturalmente la corruzione non è un fenomeno italiano: nella Ue, ricorda
Unimpresa, raggiunge i 120 miliardi di euro l’anno, pari all’1 per cento del Pil. A livello
globale, l’incidenza è più alta: «Ogni anno si pagano più di 1.000 miliardi di dollari di
tangenti e va sprecato, a causa della corruzione, circa il 3 per cento del Pil mondiale».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 27/06/2014, pag. 3
Protesta dei «no border»: «Più diritti, meno
frontiere»
La piazza. Fuori dal Consiglio d'Europa, le voci del corteo dei migranti
di Angelo Mastrandrea
Molti, come il senegalese napoletano Aboubakar Soumahoro, hanno dovuto sudarsela, la
trasferta a Bruxelles per manifestare contro la "Fortezza Europa". Il suo viaggio ha
rischiato di finire a Chamonix, dove la carovana partita dall'Italia è stata accolta da un
imponente schieramento di agenti che li hanno rivoltati come calzini e alla fine non
volevano far passare 5 persone nonostante fossero in possesso del permesso di
soggiorno. Aboubakar quantifica il ritardo accumulato in 36 ore. Ad altri, come i quaranta
rifugiati afghani che hanno piantato le tende nella chiesa di San Giuseppe Battista, è
bastato invece solo affacciarsi sulla piazza del beguinage per unirsi alle centinaia di
persone che urlavano quello che loro chiedono da mesi: il riconoscimento dell'asilo
politico, la possibilità di andarsene in giro senza il rischio di essere fermati e rimpatriati o di
cercarsi un lavoro regolare.
Hanno marciato insieme per le strade di Bruxelles, ieri pomeriggio, gli afronapoletani e i
belgi afghani, i primi catalizzando l'attenzione con balli e canti dietro uno striscione in
italiano che reclamava «diritto di residenza» e alla casa, i secondi con una presenza più
discreta, unico segno distintivo la kefiah avvolta al collo. Con loro, le carovane arrivate nei
giorni scorsi dal resto d'Europa e alloggiate nel Parco Maximilien, giusto al confine tra la
banlieue araba di Molenbeeck e i grattacieli delle banche e delle multinazionali. Primi ad
arrivare, sabato scorso, i "no border" tedeschi con i gruppi di africani denominatisi
"Lampedusa in Berlin" e "Lampedusa in Hamburg", a sottolineare il punto d'ingresso in
Europa e quello di reale approdo. Buoni ultimi ma con validi motivi, gli italiani fermati alla
frontiera. E poi i collettivi francesi di sans papiers, gruppi belgi e olandesi.
Le carovane partite da mezza Europa sono confluite a Bruxelles per far sentire la loro
voce al Consiglio dei capi di Stato e di governo, convocato ieri e oggi per decidere le
prossime strategie comunitarie sull'immigrazione. In una settimana di "azioni", sono arrivati
davanti al Parlamento europeo, hanno ricevuto la visita di una delegazione dei Verdi
(unico partito a incontrarli), hanno protestato sotto l'ambasciata italiana e quella tedesca
per lo sgombero di un edificio occupato a Berlino: il sit-in si è concluso con una ventina di
persone fermate dalla polizia. Ieri pomeriggio, l'appuntamento al beguinage e il corteo,
rumoroso anche se non affollatissimo, nel centro di una città con la testa rivolta alla partita
serale del Belgio ai Mondiali.
Se bisognerà attendere le conclusioni del vertice per trarre un bilancio e stilare analisi più
precise, le premesse non sono certamente incoraggianti per le richieste dei no border.
Nonostante i migliaia di morti nel Mediterraneo, non pare alle porte un cambiamento di
rotta delle politiche migratorie europee. La bozza non ufficiale di cui si vociferava ieri
prevederebbe un allargamento della missione Frontex di controllo delle frontiere. L'Italia,
che si appresta a subentrare alla Grecia alla guida del prossimo semestre europeo, sotto
pressione per il massiccio arrivo di migranti nei primi sei mesi dell'anno (superiore persino
al 2011 della Primavera tunisina), chiede più risorse e una ripartizione per quote dei
rifugiati tra i diversi Paesi dell'Ue, senza tener conto, come proprio ieri spiegava l'Istat, che
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gli immigrati stanno diminuendo e che sempre più chi sbarca in Sicilia guarda al Nord
Europa. Senza un coinvolgimento europeo, soprattutto economico, è la posizione del
premier Matteo Renzi e del suo vice Angelino Alfano, la missione italiana "Mare nostrum"
di soccorso in mare, decisa dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 (366 morti e 20 dispersi),
rischia di saltare.
I no border non si aspettano nulla di buono dal summit. Sanno bene che la loro è una
campagna di lungo periodo, culturale e politica, e si sono dati appuntamento per una
grande manifestazione europea a Roma, nel prossimo ottobre. Ad annunciarla nella
conferenza stampa che ha preceduto la manifestazione, è stato proprio l'afronapoletano
Soumahoro. Intanto, la carovana italiana tornerà in tempo per essere in piazza sabato
pomeriggio, sempre a Roma, al corteo contro l'austerity che aprirà il semestre italiano dei
movimenti.
del 27/06/14, pag. 11
Padova, il sindaco: “Qui non si fa il ramadan”
MASSIMO BITONCI (LEGA NORD) VUOLE VIETARE IL CULTO
MUSULMANO NELLE PALESTRE E IMPORRE IL CROCIFISSO NELLE
SCUOLE
di Mario Marcis
Ecco un bel crocifisso obbligatorio, guai a chi lo tocca. Stop al Ramadan nella palestre.
Padova è troppo pericolosa per farci vivere i miei figli. Queste alcune frasi pronunciate
nelle ultime settimane da Massimo Bitonci, eletto sindaco di Padova il 9 giugno. Bitonci, 56
anni, esponente della Lega nord ma eletto con una lista civica in coalizione con il
centrodestra, è già stato sindaco di Cittadella dal 2002 al 2012. In quegli anni intraprese
una guerra al Kebab, vietandone la vendita in tutto il territorio comunale. Oltre all’attività
frenetica su Twitter e Facebook – da lì provengono buona parte delle sue frasi riportate –
evidentemente Bitonci è già al lavoro per cambiare volto alla città. Di pochi giorni fa, le sue
dichiarazioni in cui annuncia di non voler più concedere le palestre alla comunità islamica
per il Ramadan, come aveva stabilito la giunta precedente. “Mi dispiace, oggi non può
parlare, è particolarmente occupato, parli con l’assessore ”, dice il suo portavoce.
L’assessore in questione è Alessandra Brunetti, eletta nella lista civica ‘Bitonci sindaco’ e
titolare della delega a “integrazione e convivenza, rapporti con il mondo religioso”. “È una
delibera della precedente amministrazione - spiega l’assessore - Noi per ora manteniamo
questa delibera, ma non la condividiamo. Non c’è nessuna motivazione ideologica, ma
una palestra è un luogo deputato a manifestazioni sportive, non religiose. Altri fattori sono
legati alla durata dell’evento (circa un mese, ndr) e alla somministrazione di cibo e
bevande”.
SECONDO ALESSANDRA Brunetti ci sarebbe un problema di “ordine pubblico e
sicurezza”. Ma allora perché non concedere alla comunità islamica un luogo alternativo?
“Non abbiamo avuto ancora modo di parlare con la comunità islamica, nemmeno con la
comunità cristiana d’altronde”, si giustifica. Di mercoledì invece il tweet del sindaco Bitonci
sui crocifissi nei luoghi pubblici. “Ora in tutti gli edifici e scuole un bel crocifisso regalato
dal Comune”, così Bitonci è tornato su una delle battaglie che più lo hanno contraddistinto.
A fare da corredo al tweet infatti una foto di un sit–in del 2009 in cui Bitonci ditribuiva
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crocifissi gratuitamente fuori da una scuola di Abano Terme – provincia di Padova – in cui
la famiglia di un alunno ne aveva chiesto la rimozione. “Innanzitutto è un tweet –
minimizza Brunetti – poi il crocifisso è un simbolo di pace e amore, non leva nulla alla
laicità dello Stato, semmai la riempie”. Uno dei motivi per cui i padovani hanno scelto
Bitonci è la questione sicurezza, ne è certa l’assessore. “Nulla a che fare con
l’immigrazione”, precisa. Forse è per questo che Bitonci ha deciso di non vivere nella città
che amministra, ma in quella che amministrò: Cittadella. “Un domani, quando l’avremo
ripulita e la sentirò più sicura per i miei figli, verrò a viverci”, aveva detto all’indomani della
sua elezione. E intanto Bitonci e la sua amministrazione hanno deciso di querelare il
fotografo Oliviero Toscani per le sue parole alla trasmissione di Radio 24 La Zanzara che
aveva definito “subumani” Bitonci e la sua Giunta.
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SOCIETA’
Del 27/06/2014, pag. 5
I pestaggi nel carcere di Vicenza e la sorte di
Dimitri Alberti
Diritti umani. Che fine ha fatto l'uomo picchiato dai carabinieri, caso per
il quale la Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia?
Rita Bernardini
Il manifesto è stato uno dei pochi giornali a dare la notizia dell’ennesima condanna che la
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia per violazione dell’art. 3 Convenzione: «Trattamenti inumani e degradanti». Alla vittima, Dimitri Alberti, la Cedu ha riconosciuto un risarcimento di 15.000 euro per danni fisici e morali causati da un pestaggio dei
Carabinieri al momento del suo arresto avvenuto nel marzo del 2010.
I magistrati avevano creduto – come capita quasi sempre – alla versione delle Forze
dell’Ordine: le costole rotte e l’ematoma al testicolo sinistro, Dimitri se li era procurati da
solo nel corso della sua «resistenza ai pubblici ufficiali» che gli stavano stringendo i polsi
dentro le manette. Ma dove si trova ora Dimitri? Dopo quell’arresto, Dimitri fu ristretto nel
carcere di Verona; poi era andato a finire in una comunità ma da qui, per il sopraggiungere
di un definitivo, era stato portato al carcere di Vicenza. Ricordo la visita ispettiva che da
deputata radicale feci proprio in quel carcere, accompagnata dai radicali Maria Grazia Lucchiari e Francesco Donadello. Ci arrivammo a sorpresa in una domenica di novembre:
nessuno se lo aspettava. Il comandante e il direttore non c’erano e ci raggiunsero già
a ispezione in corso. L’istituto versava in condizioni pietose, tutte meticolosamente riportate in un interpellanza parlamentare. L’atmosfera era di paura e i detenuti, chiusi nelle
loro piccole celle, sembravano intontiti e rassegnati a quello stato di prostrazione. Fino
a che uno di loro, un nigeriano, ebbe il coraggio di parlare e, come un fiume in piena, raccontò delle violenze commesse da una consolidata squadretta di agenti nei confronti dei
detenuti. Dopo O.P.M. – queste le iniziali dell’uomo nigeriano che, nonostante le condizioni vessatorie, si stava per laureare in carcere – altri, anche italiani, confermarono
i pestaggi. Dopo quella visita e dopo l’interpellanza radicale, ci fu un’approfondita inchiesta
interna del Dott. Francesco Cascini del Dap, la situazione migliorò e la magistratura aprì
finalmente un’indagine (altre denunce dei detenuti degli anni passati erano state lasciate
cadere nel vuoto) che portò sul banco degli imputati 15 agenti di polizia penitenziaria.
Ma, tornando a Dimitri, oggi dov’è? E’ ancora in carcere? Pestato dai Carabinieri, come
accertato dalla Cedu, ma anche in carcere dagli agenti?
Dimitri è ricoverato in stato neurovegetativo presso il Centro riabilitativo veronese di Marzana: ci è finito, dopo un’ischemia sopraggiunta ad un attacco epilettico che lo ha colto
nell’agosto del 2012 mentre era detenuto al carcere di Vicenza. Che ci siano di mezzo
anche i pestaggi denunciati da O.P.M.? Per come si sono svolti i fatti in passato, c’è da
tenere gli occhi bene aperti. Il fatto che in Italia non sia stato ancora introdotto il reato di
tortura la dice lunga sulle omertà del sistema che, intanto, è riuscito ad ottenere che noi
radicali non si sia più parlamento, con la conseguenza che le lunghe visite ispettive “a sorpresa” negli istituti penitenziari – effettuate ai sensi dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario – si siano nella pratica interrotte. Infine, una preoccupazione: sulla violazione dei
Diritti Umani Fondamentali, l’osannato Presidente del Consiglio Matteo Renzi, detentore di
primati ineguagliabili quanto a presenze in tv, il lugubre “verso” del passato non ha dimo30
strato la minima propensione a volerlo cambiare. Ecco perché riteniamo che questo sia il
punto centrale e irrinunciabile dell’iniziativa e della politica radicale.
* Segretaria nazionale di Radicali italiani
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INFORMAZIONE
del 27/06/14, pag. 6
Editoria, tre anni di sgravi e incentivi per chi
assume
Il Fondo da 120 mln per il settore in crisi ● Lotti: niente contributi se il
20% dei contratti non si stabilizza
Un provvedimento innovativo e che punta sull’occupazione. Il sottosegretario con delega
all’Editoria Luca Lotti definisce così il testo appena firmato, che porta in dote 120 milioni di
euro. È il decreto sul Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria per il
triennio 2014-2016 - in attuazione della legge 147 del 2013 - che stabilisce per cosa e con
quali criteri saranno concesse le risorse disponibili per quest’anno, circa 45 milioni di euro,
e che Lotti presenta come «il punto di arrivo di un lavoro durato diverse settimane», mirato
«innanzitutto al sostegno della nuova occupazione, passaggio fondamentale per dare
nuova energia a un settore oggettivamente in crisi». «Il decreto - spiega il sottosegretario prevede infatti sgravi fiscali al 100% per 36 mesi per le assunzioni a tempo indeterminato,
al 50% per le assunzioni a tempo determinato e ulteriori incentivi per la trasformazione del
tempo determinato in indeterminato che a quel punto avrà sgravi retroattivi. Si prevede
anche l’obbligo di trasformare il 20% dei contratti a tempo determinato in indeterminato,
pena lo stop all’erogazione dei contributi».
Secondo questa logica, le aziende editoriali potranno ricevere dei sostanziosi contributi, a
patto che ogni tre prepensionamenti ci sia almeno una nuova assunzione a tempo
indeterminato. Se un’azienda ha ricevuto sostegno attraverso il Fondo straordinario,
inoltre, le sarà vietato riutilizzare i giornalisti andati in prepensionamento. Parte minima del
Fondo viene poi destinata agli ammortizzatori sociali, a condizione che vi sia un intervento
di pari valore da parte delle imprese. «Sono particolarmente soddisfatto per la misura
sull’innovazione tecnologica - sottolinea ancora Lotti - attraverso la quale da una parte
sarà possibile concedere una garanzia per chi investe in innovazione tecnologica e
digitale, dall’altra premiare le migliori start up». Garanzie che varranno anche per l’editoria
libraria. Niente contributi, però, a chi non rispetta la norma sull’Equo compenso e per le
aziende che introducano bonus o premi collegati a risparmi sul costo del lavoro
giornalistico, a favore dei propri dirigenti. Condizioni, queste, rivendicate esplicitamente dal
sottosegretario, che ribadisce l’attenzione avuta per i giovani, «per chi ha meno garanzie»
e si sofferma sull’accordo raggiunto per introdurre «un compenso minimo garantito che
finora non c’era: purtroppo, come ha spesso denunciato l’Ordine dei giornalisti, oggi ci
sono alcune aziende editoriali che pagano tre o quattro euro per un articolo, mentre con
questo accordo un pezzo di 1600 battute dovrà essere pagato 20,8 euro. Mi sembra un
primo passo significativo», dice il sottosegretario, aggiungendo che «non ci fermiamo qui e
andiamo avanti».
Ma proprio l’Equo compenso resta un nodo contestato da precari e collaboratori esterni.
Per Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uil temp la nuova norma «cela lo sfruttamento legalizzato »,
con un tariffario «ben al di sotto dei minimi stabiliti da qualsiasi contratto collettivo
nazionale» e «che lede la dignità dei lavoratori, il principio di equità e lo stesso diritto
all’informazione ». Contestazioni dello stesso tenore di quelle arrivate dal Coordinamento
precari, freelance e atipici della Stampa Romana all’indirizzo del segretario generale della
Federazione nazionale della stampa, Franco Siddi, che ieri ha presentato in conferenza
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stampa il nuovo Contratto nazionale di lavoro, appena firmato da Fnsi e Fieg, e che ha
salutato con soddisfazione gli interventi previsti dal decreto sul Fondo straordinario per
l’editoria, che in tre anni «possono garantire l’assunzione di 1.500 giornalisti». Un Siddi
contestato anche da quattro consiglieri della Fnsi, Pierangelo Maurizio, Marco Ferrazzoli,
Massimo Calenda e Paolo Corsini, che parlano di «contratto scempio» e di «ultimi regali
agli editori». Annunciato per settembre, infine, il lavoro che dovrebbe portare a breve alla
riforma delle agenzie di stampa, perché «un sistema plurale va bene - ha detto Siddi - ma
undici agenzie di stampa generaliste con convenzione sono tante, occorre quindi andare
nella direzione delle specializzazioni tematiche».
Del 27/06/2014, pag. 5
L’«iniquo compenso» scatena la tensione tra
freelance e sindacato giornalisti
Editoria. Ieri a Roma nel corso della presentazione dell'intesa con gli
editori e il governo, il segretario generale Fnsi ha affrontato la
contestazione dei colleghi precari sull'equo compenso da poco
approvato
Roberto Ciccarelli
<<Ho a domanda, sono una freelance». «Prima le testate». Il botta e risposta tra una giornalista precaria e il segretario generale della federazione nazionale della Stampa Franco
Siddi ha scatenato una bufera ieri in una conferenza stampa convocata per presentare il
protocollo d’intesa sul lavoro giornalistico tra editori, sindacato giornalisti e il governo. Da
giorni Siddi è bersagliato dalle critiche sull’intesa raggiunta sull’equo compenso per i giornalisti freelance. Il rinnovo del nuovo contratto nazionale dei giornalisti ha fissato in 250
euro lordi la retribuzione mensile per un collaboratore. Per il sindacato è una retribuzione
equa. Per i freelance è all’opposto un’«iniquo compenso». E non solo per loro, visto che
tre esponenti sindacali membri della giunta non hanno firmato l’intesa e le associazioni
della stampa dell’Emilia Romagna e della Toscana si sono espresse molto negativamente.
L’hashtag #siddivergogna ieri ha spopolato su twitter bersagliando l’Fnsi e annunciando
una manifestazione dei freelance martedì 8 luglio alle 10 in corso vittorio Emanuele
a Roma.Siddi ha risposto per le rime su twitter: «Ho fatto anche un’analisi dei centinaia di
tweet contro il contratto e ho scoperto che l’80% non è stato scritto da giornalisti ma da chi
aspira ad esserlo ma fa lavori molto diversi». Le controrisposte non sono mancate. Nel
frattempo, in conferenza stampa, al momento delle domande, ieri la tensione è esplosa.
In un’intervista rilasciata all’Huffington Post, Siddi sostiene che il compenso è stato ottenuto dopo una lunga trattativa — venti euro lordi– è il doppio del compenso stabilito in
media dagli Ordini regionali per ciascuno dei cinquanta articoli richiesti agli aspiranti pubblicisti: undici euro. A suo avviso si poteva fare di più, ma le trattative hanno portato a questo risultato. Il segno di un cambiamento sarebbe quello di avere inserito per la prima volta
in un contratto nazionale un capitolo dedicato ai freelance ai quali vengono garantiti il
diritto di firma e l’assicurazione contro gli infortuni. La sua comprensione va ai precari a cui
consiglia «di allearsi con il sindacato per ottenere un vero contratto, magari con l’aiuto dei
loro colleghi in redazione». Respinge le accuse di chi lo critica da «dentro»: «strumentalizzano l’accordo in vista del congresso tra sei mesi». Per Siddi, gli editori «volevano fare
a pezzi il contratto nazionale e invece siamo riusciti a tenerlo in piedi nonostante tutto».
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Realtà opposta per i precari. Per loro l’accordo non è migliorativo della condizione attuale
di iper-sfruttamento ma è piuttosto la fotografia dell’esistente. La conferma viene da un
comunicato unitario siglato da Felsa Cisl, NIdil Cgil e Uil Tem.p@ secondo i quali «l’equo
compenso cela sfruttamento legalizzato — Si tratta di cifre ben al di sotto dei minimi stabiliti da qualsiasi contratto collettivo nazionale, e, dunque, in contrasto con quanto stabilito
nella legge 92/12, secondo la quale la retribuzione minima dei collaboratori deve corrispondere con quanto stabilito dalla contrattazione per i lavoratori dipendenti. Il tariffario
minimo per autonomi e precari che lede la dignità dei lavoratori, il principio di equità e lo
stesso diritto all’informazione». Una presa di posizione a favore della battaglia dei coordinamenti dei freelance che sostengono una petizione indirizzata al sottosegretario Luca
Lotti. Si chiede il ritiro della delibera attuativa della legge sull’equo compenso. L’obiettivo
è garantire un compenso realmente equo e dignitoso.
Un commento dettagliato dell’associazione XX maggio ha approfondito la natura
dell’accordo. La platea dei giornalisti a cui si applica vale solo per gli editori che ricevono
finanziamenti pubblici, l’Fnsi (sindacato dei giornalisti) e la Fieg (Editori). La platea è stata
ulteriormente ristretta ai giornalisti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa
1600 battute (12 articoli mensili da 1600 battute nei quotidiani, 45 pezzi di almeno 1800
battute nei periodici e almeno un articolo di 7000 battute ogni numero per i mensili. In questo caso percepiranno 20,84 euro a pezzo pari a 250€ al mese. L’equo compenso non si
applica a chi ha un reddito inferiore ai tremila euro annui, cioè a coloro che lavorano «a
pezzo» in una giungla deregolamentata. «Un corposo sostegno agli editori ma non ai giornalisti precari» commenta l’associazione. Questa segmentazione del mercato del lavoro
prosegue anche verso l’alto. Il contratto crea la figura dell’apprendista, rivolta ai praticanti
giornalisti dai 18 ai 29 anni per 36 mesi. È come il contratto a termine di Poletti: non ha
causale, il giovane può essere licenziato senza motivazione, i suoi rinovi possono essere
infiniti. Senza certezza di essere assunti alla fine dei 3 anni. «È un piccolo Jobs Act» ha
commentato Lotti secondo il quale è in arrivo nuova occupazione nei media italiani.
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CULTURA E SCUOLA
Da Corriere della sera (Roma) del 27/06/14, pag. 1/3
La caduta della cultura romana
A New York, Londra e Parigi il quintuplo di ingressi Ignazio Marino
«Obiettivo una fondazione che raccolga i singoli contributi e li reinvesta
in progetti specifici»
ROMA - Federculture - federazione che tiene insieme aziende e enti di gestione della
cultura, soggetti pubblici e privati - dopo svariate anticipazioni ha presentato il suo
«Rapporto 2014»; una raccolta di numeri che per quanto riguarda Roma e i consumi
culturali (da qualche anno non una novità) contiene dati in buona parte da débâcle.
Nella capitale, si legge, calano i visitatori (-13%), ma soprattutto cala la spesa dedicata
alle mostre (-27,6%). Nella top ten di quelle più visitate nel 2013 in Italia, ben quattro
esposizioni sono comunque romane: tra queste la più vista è stata «Tiziano» alle Scuderie
del Quirinale, circa 246 mila visitatori. Se però si considerano le 10 mostre d’arte più viste
a Roma nell’anno, queste hanno attratto 1.190.335 visitatori in totale, il 13% in meno
rispetto al 2012, quando le dieci mostre di maggior successo in città ebbero un pubblico di
1.368.916 persone.
Il Rapporto Federculture mette poi a confronto la Capitale con le altre grandi città
internazionali: «Nessuna mostra romana - si legge - è presente nelle classifiche
internazionali, mentre a Roma le mostre raccolgano circa un quinto di quanto accade a
Londra, New York, Parigi». Nello specifico, prendendo il totale dei visitatori delle prime
dieci mostre in città, Londra ne conta 5.377.826, New York 5.098.868, Parigi 4.425.505,
mentre Roma si ferma a 1.190.335.
A presentare ieri il Rapporto, nel Conservatorio di Santa Cecilia, il presidente di
Federculture (e dell’Accademia di Belle Arti di Roma) Roberto Grossi, alla presenza del
sindaco di Roma Ignazio Marino e del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Secondo
l’indagine non se la passano bene nemmeno i musei civici di Roma (-5,7 di visitatori nel
2013 pari a 1,4 milioni totali), con il crollo del Macro (-52%). Male anche i Capitolini (-9%
degli) e Azienda Palaexpo (meno 10%). Clamoroso invece il dato del Maxxi, che comunica
un più 43 per cento (non solo visitatori paganti, piuttosto una stima che comprende
presenze ai talk, alle rassegne sulla piazza e a tutti gli eventi gratuiti). Segno negativo
anche per spesa del pubblico a teatro (-18%) e cinema (-2,5%).
Dal canto suo, il sindaco Ignazio Marino, che non ha ancora nominato l’assessore alla
Cultura in sostituzione della dimissionaria Flavia Barca, ha detto: «Nel periodo 1 gennaio30 giugno del 2013 i visitatori dei musei civici romani sono stati 767.032. Dal primo
gennaio di quest’anno sino al 22 giugno i visitatori sono stati 795.745. Considerato che
alla fine del mese di giugno manca ancora una settimana il divario di circa 30mila visitatori
in più nei primi mesi del 2014 rispetto all’analogo periodo del 2013 è un dato destinato a
crescere. Per questo ancor più positivo e promettente. Da settembre 2013 in poi, inoltre,
abbiamo promosso eventi che hanno registrato un vero boom di visitatori. Ne cito solo
alcuni, come le grandi mostre alle Scuderie del Quirinale, da “Augusto”, 160mila visitatori,
a “Frida Kahlo”, che a tre mesi dall’apertura ha totalizzato 230mila visitatori per una media
di 2.500 biglietti staccati al giorno». Il primo cittadino ha anche annunciato: «Uno dei miei
obiettivi di medio termine è la creazione di una fondazione che raccolga i singoli contributi
e li reinvesta in progetti specifici su Roma».
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Del 27/06/2014, pag. 10
La scena aperta degli intermittents
Francia. La protesta dei lavoratori precari dello spettacolo continua.
Dopo la firma dell’accordo, gli occhi di tutti sono puntati al 4 luglio, data
di inizio del Festival di Avignon
Tutti gli occhi sono puntati al 4 luglio, giorno di apertura del Festival d’Avignon, il più
importante dell’estate. Gli intermittents, cioè i precari del mondo dello spettacolo che in
Francia godono di un sistema particolare di sussidio di disoccupazione che poco per volta
sta perdendo in qualità, hanno già annunciato una giornata di sciopero.
Il Festival d’Avignon, il primo con la nuova direzione di Olivier Py, rischia di essere annullato, come è già successo nel 2003, in occasione di un’altra riforma del sussidio di disoccupazione che limitava alcuni diritti acquisiti? Il direttore ha già fatto sapere che non cancellerà la manifestazione, ma alcuni spettacoli potrebbero comunque saltare a causa della
mobilitazione del personale.
Proprio Olivier Py in un’intervista al quotidiano Le Monde, qualche giorno fa, aveva messo
in guardia il governo: se viene firmata la nuova convenzione sull’indennizzo dei disoccupati messa a punto il 22 marzo scorso tra il Medef (la Confindustria francese) e una parte
dei sindacati – che riguarda 2.200.000 persone in Francia, molto al di là quindi dei centodiecilmila lavoratori dello spettacolo – c’è il rischio di un blocco. Ma ieri il governo ha firmato in nome del rispetto della «concertazione sociale», il metodo socialdemocratico che
François Hollande vorrebbe importare in Francia, un gesto quasi simbolico a pochi giorni
dall’apertura della «conferenza sociale» con padronato e organizzazioni sindacali.
Il 1° luglio entreranno così in vigore le nuove norme, malgrado le proteste. Ieri la notizia
della firma è stata accolta con manifestazioni di intermittents in varie città, da Parigi a Marsiglia. Il governo, per evitare il peggio, ha nominato prima un mediatore (il deputato socialista Jean-Patrick Gille) poi una commissione formata da tre personalità rispettate nel
mondo dello spettacolo (oltre a Gille, Hortense Archambault, ex direttrice del Festival di
Avignon, e Jean-Denis Combrexelle), con la missione di ridiscutere tutto il sistema, ivi
compresi i punti più controversi della riforma. Molti festival hanno già subito le conseguenze della protesta. Il 4 giugno non ha potuto aver luogo la prima della Traviata all’Opéra-Comédie di Montpellier e, sempre a Montpellier, da dove era partita la protesta nel 2003, è stato annullato il Festival Printemps des Comédiens. Montpellier Danse
è parzialmente bloccato, e ieri le proteste sono ricominciate con forza dopo una pausa
mercoledì che ha permesso lo svolgimento degli spettacoli. Lo sciopero della maggioranza
di tecnici al teatro dell’Agora ha determinato l’annullamento di Empty Moves , coreografia
di Angelin Preljocaj e di Plage romantique di Emanuel Gat.
A Grignan è stata annullata la prima della pièce Lucrezia Borgia, con Beatrice Dalle. Ma
proprio a Montpellier Danse e al festival di arte lirica di Aix si è prodotta una situazione
strana: gli intermittenti che lavorano alla produzione degli spettacoli hanno votato contro lo
sciopero, anche se alcuni spettacoli sono stati annullati a causa dell’irruzione in scena di
gruppi di lavoratori estranei all’attività dei teatri implicati. C’è cioè una frattura nel mondo
dei lavoratori dello spettacolo (oltre a quella della divisione sindacale, tra le organizzazioni
che hanno firmato l’accordo del 22 marzo e quelle che lo hanno rifiutato). Molti direttori,
che pure si dichiarano favorevoli alle rivendicazioni degli intermittenti, si oppongono
all’annullamento delle manifestazioni. Olivier Py ha ricordato nei giorni scorsi, a sostegno
della sua presa di posizione contro l’annullamento, che a differenza del 2003 – quando
appunto la manifestazione venne annullata — oggi non c’è più l’assicurazione che copre
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i costi in caso di sciopero. Non permettere lo svolgimento del Festival di Avignon, come
degli altri, sarebbe percciò «un suicidio», perché tale decisione comprometterebbe la
sopravvivenza stessa del festival negli anni a venire. In termini di perdite economiche la
previsione per il solo il Festival d’Avignon è di 4–5 milioni di euro.
Questo riferimento ai mancati guadagni intende mettere il governo di fronte alle sue
responsabilità: la cultura in Francia ha un fatturato annuo intorno ai cinquantotto miliardi di
euro, pari al 3,2% del pil. Nello spettacolo, il lavoro è soprattutto precario. Il regime speciale risale al 1936, era nato per il teatro e nel corso degli anni è stato esteso anche al
cinema e alla tv. Prevede che una persona che ha accumulato almeno 507 ore di lavoro in
dieci mesi, con contratti a tempo determinato, possa accedere al sussidio di disoccupazione per la durata di otto mesi e mezzo. Per il Medef è un «privilegio», per la Corte dei
conti produce un «deficit cronico», che versa 232 milioni l’anno di contributi e versa 1,26
miliardi in sussidi. Ad aver fatto esplodere il sistema sono le tv e le società di produzione
video. Per esempio, dei colossi come France Television e Radio France, società
pubbliche,occupano 8600 intermittents, che sono soprattutto «permittents», cioè impiegati
dallo stesso datore di lavoro il quale approfitta del sistema per scaricare i costi.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 27/06/14, pag. 18
Stragi nazifasciste senza colpevoli
Eccetto Priebke e Kappler gran parte dei crimini restano impuniti
STRAGI NAZIFASCISTE. UNA LUNGA SCIA DI SANGUE INNOCENTE CHE
PUNTEGGIÒ L’OCCUPAZIONE TEDESCA IN ITALIA TRA L’ESTATE DEL 1943 E IL
MAGGIO 1945, CON EPICENTRO NEL 1944 IN TOSCANA. Solo furore? O anche
metodo nella follia, cioè strategia? I numeri. Nel biennio vi furono 400 stragi e il bilancio fu
di 15mila vittime civili, tra massacri di inermi e rappresaglie. Mentre per i partigiani passati
per le armi, Carlo Gentile e Heinz Klinkhammer parlano di 10mila persone. Dunque
Toscana nel mirino, per la sua posizione al centro dell’Appennino, cruciale per il
ripiegamento tedesco verso la linea Gotica dopo lo sfondamento a Cassino e la
liberazione di Roma il 4 giugno 1944. In Toscana tra aprile e agosto del 1944 i comuni
interessati furono 83 e 280 le stragi, con 4500 assassinati. La più famosa, almeno quanto
quella di Marzabotto, fu la tragedia di Sant’Anna di Stazzema, il 12 agosto. In tre ore una
divisione delle Ss trucidò 560 persone: anziani, donne e bambini. Tutto documentato e
occultato nei famosi «armadi della vergogna». Nel gennaio 1960 il procuratore generale
militare Enrico Santacroce impacchetta col timbro «archiviazione provvisoria» 695 fascicoli
sulle stragi tedesche, seppellendole in un armadio contro un muro. Solo nell’estate 1994 il
giudice Antonino Intelisano, a caccia di prove contro Priebke, trova i fascicoli, in uno
sgabuzzino di Palazzo Cesi, negli uffici giudiziari militari a Roma.
E la polemica sulla memoria si incendia. Già, perché oltre al processo contro Priebke, è in
corso la discussione sulla «guerra civile» in Italia, sul fascismo non più «male assoluto» a
differenza del nazismo. Sui ragazzi di Salò, e le responsabilità della Resistenza. Di lì a
qualche anno sarebbe fiorita la saga di Giampaolo Pansa contro la Resistenza rossa e le
sue vendette, ben dentro la polemica di destra contro il fondamento antifascista della
Costituizione a base della democrazia parlamentare, da rifondare in chiave
presidenzialista. Ma torniamo alle stragi. Chi le perpetrava e perché? Chi ne fu complice?
E quanto furono punite nel dopoguerra? Ecco le formazioni più feroci di stragisti. La
Leibstandarte Adolf Hitler, presente a Boves, Lago Maggiore e Istria. Le unità SS
Karstjaeger, attive in Venezia Giulia e Friuli. La 16maSSPanzer-Grenadier- Division
ReichsFuehrer, colpevole di aver soppresso non meno di 2mila civili tra luglio e settembre
1944 in provincia di Pisa, Lucca, nelle Apuane e nell’Appennino Bolognese. Anche
Whermacht e Luftwaffe sono in prima fila. «Uomini comuni » e veterani della pulizia
ideologica, unità combattenti e specialisti della guerra etnica, spesso reduci dai massacri
orientali. Addestrati per il Bandengebiet, il rastrellamento metodico che devasta villaggi e
vallate, deporta e cattura ostaggi. Come sapevano fare i 33 «pacifici » SS Bozen incappati
nell’attentato di Via Rasella: volontari altoatesini destinati alla repressione e alla mattanza
e a tal fine istruiti. Perciò collera e furore, vendetta e punizione, contro gli italiani traditori
che osavano opporre resistenza, già a partire dalle stragi di Nola, Acerra, Caiazzo
dell’estate 1943. E a Cefalonia dopo l’8 settembre. Poi guerra etnica: caccia agli ebrei col
supporto della Rsi e delle sue leggi (eredi di quelle razziali del 1938 con relativi elenchi). E
infine «strategia»: dissuadere le popolazioni dal fornire aiuto ai partigiani. Con ferocia
sistematica. E addossando ai resistenti la colpa delle rappresaglie. Era il risvolto
psicologico della contro-resistenza contro l’avanzata Alleata sul fronte italiano, inteso
come scudo a favore della Germania.Mossa capace di sottrarre uomini e mezzi alleati dal
fronte occidentale. E ritardare l’assedio finale al Reich da Ovest, prima della controffensiva
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delle Ardenne. Poi c’erano i ragazzi di Salò. Apporto logistico, spionistico e materiale ai
tedeschi. In nome dell’«onore».E perciò elenchi di persone sospette, carte
toponomastiche, e fornitura di plotoni di esecuzione, come a Piazzale Loreto il 10 agosto
1944. Oltre alle rappresaglie fatte in proprio, con l’avallo dei Tribunali speciali: Ferrara,
Lovere, Savona, Reggio Emilia, Genova, Villamarzana, Villa Sesso. E la punizione dei
colpevoli nel dopoguerra? Vendette e giustizie sommarie a parte, per lo più i fascisti se la
cavano, tra amnistia di Togliatti, epurazioni soft e sconti di pena. Molto più severa sarà la
magistratura coi partigiani, spesso accusati di crimini comuni. Ma la vera sanatoria sarà
quella per i tedeschi. Uomini e ditte che si riciclano nella vita civile. Amnistiati, graziati,
rilegittimati. Come Kesserling, stratega del terrore in Italia, condannato a morte da un
tribunale inglese nel 1947, poi graziato e liberato nel 1952 (e divenuto consulente militare
di Adenauer nel quadro del riarmo Nato). O come la Bayer - nel consorzio «Ig Farbe» che
produceva il gas Ziklon b - e come la Krupp, la Thyssen e tante industrie germaniche
complici della macchina nazista. Quanto alla giustizia tedesca - malgrado le Convenzioni
dell’Aja e di Ginevra, Norimberga e la Carta dell’Onu - mostra ancora riluttanza nel
processare i colpevoli di stragi.
Valga l’esempio di S. Anna di Stazzema, su cui si sono pronunciati i tribunali militari di La
Spezia, Roma e la Cassazione. La Procura di Stoccarda il 26 settembre 2012 ha
archiviato il processo, pur accettando che si trattasse di crimine di guerra. Ma
l’archiviazione si basava sulla tesi pretestuosa che dopo dieci anni di indagini, la giustizia
tedesca non poteva accertare il ruolo dei singoli imputati. Né si dichiarava comprovato che
il crimine fosse stata un’azione pianificata contro i civili, invece di un’azione avvenuta
durante lo scontro con i partigiani. I giudici tedeschi dichiararono che la sentenza italiana
di La Spezia del 22 giugno 2005 era fondata sul nulla, e che i dieci imputati erano stati
giudicati senza fondamento. Eppure c’erano rei confessi, che avevano dichiarato di aver
ricevuto l’ordine di massacrare deliberatamente i civili. Inutile il successivo ricorso sempre
a Stoccarda, presentato dall’avvocato Gabriele Heinecke e dallo storico Carlo Gentile.
Secondo i giudici mancava a Stazzema «un ordine scritto» per appurare la dinamica del
crimine! Come dicono i negazionisti sulla Shoa. Ergo, non processabilità degli imputati: 14
inizialmente, poi ridotti a 5 ultranovantenni nel 2013, e oggi rimasti in tre. Infine nuovo
ricorso, alla Corte di Karlsruhe stavolta. Ma la Corte nel novembre 2013 ha già sospeso le
indagini contro tre degli imputati superstiti, e dichiarato che le condizioni di salute di un
quarto non sono compatibili col processo, mentre un quinto imputato è deceduto. Nel
frattempo parole solidarietà e comprensione sono venute dal Presidente tedesco Gauck e
da Schulz. Ma il punto resta: la Germania si rifiuta di condannare i colpevoli e risarcire le
vittime, forte di un verdetto della Corte Internazionale dell’Aja del 2012, avverso ai
risarcimenti richiesti ai tedeschi, in nome del diritto «all’immunità giurisidizionale contro i
crimini nazisti». Insomma, la Germania di oggi non risponde per quella di ieri. Anche se
poi la Germania di oggi, quella nata nel 1989, ha rivendicato l’annessione dell’est in nome
della continuità della nazione tedesca. Applicando, ai comunisti della Ddr, un insieme di
leggi risalenti agli anni trenta della sua storia (tradimento, secessione, etc).Morale: a parte
Priebke e Kappler (poi fatto fuggire) gran parte dei crimini nazisti restano impuniti. E i
tedeschi di oggi - al centro dell’Europa e gonfi di egemonia geoeconomica - hanno gravi
responsabilità al riguardo. Custodi del rigore come stigma etico della loro idea di Europa,
riluttano nel punire i loro colpevoli e retrocedono agli anni 60, al silenzio su Auschwitz,
rotto dai processi a Francoforte tra il 1963 e il 1968. Infatti, nonostante la fiammata
generazionale del 1968, la consegna giuridica fu in seguito questa: non istruire processi e
non pagare risarcimenti. Una ferita aperta. Inaccettabile. Che delegittima la Germania
democratica di oggi a vantaggio di rancori e populismi. E ne mina a fondo l’immagine di
architrave virtuosa del Continente.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 27/06/2014, pag. 2
Quattro Sì per uscire dall’austerità
di ROBERTO CICCARELLI
«500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore
economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le
disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi
di quelli definiti in sede europea». Il manifesto, 27 giugno 2014
Novanta giorni, da giovedì 3 luglio a martedì 30 settembre. È questo il tempo a disposizione del comitato promotore dei quattro referendum «Stop all’austerità, sì alla crescita, sì
all’Europa del lavoro e di un nuovo sviluppo» per raccogliere 500 mila firme e convocare
una consultazione popolare sul Fiscal compact, il «pilota automatico» che obbligherà
l’Italia a tagliare il debito pubblico dal 133% al 60% a partire dal 2016 fino al 2036.
Composto da economisti, giuristi e sindacalisti di diverso orientamento culturale e politico,
dall’ex viceministro Pdl dell’Economia, Mario Baldassarri, al sindacalista Cgil Danilo Barbi,
dagli economisti Riccardo Realfonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pennacchi e
Paolo De Ioanna, ieri alla presentazione dell’iniziativa alla Camera dei deputati il comitato
si è mostrato fiducioso sulla possibilità di scalare una vetta impegnativa in breve tempo.
Un giurista come Giulio Salerno ritiene che i quattro quesiti referendari su alcune disposizioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il principio di equilibrio del bilancio
pubblico introdotto dalla legge costituzionale n°1 del 2012), possano essere giudicati
ammissibili dalla Corte Costituzionale.
Il referendum si rivolge ad una legge ordinaria di attuazione della Costituzione e non comporterà la violazione degli obblighi contratti dal nostro paese in sede europea o in un trattato internazionale, fattispecie che non potrebbero essere oggetto di una consultazione
referendaria. Secondo Giulio Salerno, pur essendo stato votato dalla maggioranza assoluta dei membri delle Camere, il pareggio di bilancio non può essere considerato una
norma «rinforzata e organica». In più, non tutte le parti del pilastro dell’austerità finanziaria
sono costituzionalmente vincolate. È anzi possibile abrogare i punti che non incidono direttamente sulla definizione del bilancio dello Stato.
Questo aspetto è stato studiato nell’ultimo anno in una serie di incontri e di pubblicazioni
curate dall’associazione «Viaggiatori in movimento». Creata dall’economista Gustavo
Piga, a questa associazione partecipano anche politici della prima e della seconda Repubblica quali Mario Segni, Giorgio La Malfa, Enzo Carra e Paolo Cirino Pomicino, oltre che
Bruno Tabacci e Cesare Salvi. Una volta composto il comitato promotore, e ottenuto
l’impegno della Cgil a raccogliere le firme durante l’estate, si è precisata la risposta
all’insidioso argomento sull’ammissibilità del referendum anti-austerity. Tranne il riferimento ai parametri giuridici europei, la legge 243 del 2012 non accenna al trattato internazionale costitutivo del Fiscal compact. Quest’ultimo non riguarda l’Unione europea, ma gli
stati che hanno aderito alla moneta unica. Il comitato promotore ritiene così di avere aggirato i divieti per l’iniziativa referendaria.
I quattro «Sì» richiesti potrebbero modificare l’applicazione «ottusa» del principio
dell’equilibrio di bilancio, eliminando alcune gravi storture introdotte dal parlamento italiano. Si vuole così eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare
obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea. Il referendum abroga la
disposizione che prevede la corrispondenza tra il principio costituzionale di bilancio e il
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considdetto «obiettivo a medio termine» stabilito in Europa, una norma che non è imposta
dal Fiscal compact. Vincendo il referendum, l’Italia potrebbe ricorrere all’indebitamento per
realizzare operazioni finanziarie, un’azione oggi vietata. Infine, verrebbe abrogata
l’attivazione automatica del meccanismo che impone tasse o tagli alla spesa pubblica in
caso di non raggiungimento dell’obiettivo di bilancio, deciso dai trattati internazionali e non
dall’Unione europea.
Al di là dei tecnicismi, il significato del referendum è politico. Vuole rompere l’embargo
intellettuale e la paralisi politica creata dal commissariamento della politica economica da
parte delle larghe intese e raccogliere un consenso diffuso sul fatto che i trattati europei
vanno cambiati, non semplicemente applicati. Secondo l’economista Riccardo Realfonzo,
la prospettiva indicata dal presidente del Consiglio Renzi, quella dell’«austerità flessibile»,
è inadeguata: «Va incontro ai Paesi in difficoltà senza però cambiare realmente il disastro
prodotto dalle politiche ispirate all’”austerità espansiva” — afferma — Tra l’altro sono stati
fatti errori enormi sui moltiplicatori fiscali. È scientificamente provato ormai che, ad esempio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pubblica implica una perdita di 17 miliardi di
euro del Pil. Renzi vuole attenuare l’austerità invocando la flessibilità dei trattati, ma in
realtà si è impegnato a raggiungere gli stessi obiettivi di lungo periodo stabiliti nei trattati.
Per questo oggi abbiamo bisogno di una spinta dal basso per esercitare una pressione sul
governo italiano e quelli europei. Bisogna dare un segnale forte». Ad oggi hanno aderito
alla campagna referendaria Sel e alcuni esponenti del partito Democratico. Per l’ex viceministro dell’economia Stefano Fassina (Pd), il referendum è l’unica strada «per salvare
l’Europa» anche se il «Parlamento non è ancora consapevole della drammaticità della
questione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sensazione di essere consapevole». Al referendum sarebbe interessato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gennaro
Migliore, passato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta retorica sull’austerità – ha
detto Giulio Marcon (Sel) – ma sulle scelte politiche non si fa un passo avanti. I trattati
vanno cambiati, il referendum ci offre uno strumento per rilanciare il dibattito».
del 27/06/14, pag. 2
ESODATI E MAZZIATI: LEGGE-FARSA
DOPO LE TANTE PROMESSE
IL GOVERNO AVEVA ANNUNCIATO UNA RIFORMA STRUTTURALE.
INVECE ECCO POCHI EURO PER SOLI 8 MILA LAVORATORI. OLTRE
200 MILA SENZA STIPENDIO NÉ PENSIONE
di Salvatore Cannavò
Il governo Renzi di esodati non parla quasi mai. Ieri si è capito il perché. Il ministro del
Lavoro, Giuliano Poletti, infatti, si è recato in Commissione alla Camera dei deputati per
presentare l’emendamento del governo al progetto di legge unitario che la commissione
presieduta da Cesare Damiano sta discutendo da oltre un anno. E ha proposto l’ennesimo
rinvio. Anzi, l’ennesima proroga. Quella che vedrà la luce nel testo di legge, che approda
in aula mercoledì 2 luglio, infatti è la proroga di un anno per le misure di salvaguardia in
grado di garantire altre 32.100 posizioni critiche. Se si guarda ai numeri assoluti che
realmente vengono tutelati, la proposta del ministro aumenta di sole 8.000 unità le
posizioni salvaguardate. Gli esodati a cui si dà diritto ad andare in pensione, infatti,
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salgono da 162.000 a 170.000. L’ammontare complessivo, però, resta attorno ai 350 mila
censiti dall’Inps ma secondo il M5S, che considera anche i “licenziati”, siamo a circa
mezzo milione.
“NOI COPRIAMO altri 32.100 lavoratori” spiega Poletti uscendo dall’aula della
Commissione lavoro, al quarto piano di Montecitorio, “ma siccome abbiamo realizzato
risparmi per 24.000 posizioni, finanziate ma non richieste (si tratta di lavoratori in mobilità
sovrastimati, ndr), metteremo ulteriori risorse per altre 8.000 unità”. E così, il governo,
tramite il Fondo per l’occupazione presso il dicastero di Poletti, si prepara a finanziare per
137 milioni nel 2015 e 119 milioni nel 2016, la nuova salvaguardia. Che, a differenza di
quanto promesso dal ministro in Commissione nei mesi scorsi, non sarà per nulla
strutturale. “Provvederemo con la legge di Stabilità, ha continuato Poletti, a individuare con
chiarezza le posizioni da tutelare, le differenti tipologie, le risorse necessarie. E arriveremo
a una proposta strutturale e definitiva”. La promessa è stata fatta da tutti i ministri che si
sono cimentati con il caso “esodati”, compresa la stessa ministra Fornero. Per soluzione
strutturale, tra l’altro, il ministro sta pensando anche a ritocchi alla riforma pensionistica
con l’introduzione di forme flessibili per il pensionamento da garantire, tramite
penalizzazioni, già a 62 anni oppure introducendo la “quota 100” come somma tra età
anagrafica e contributi versati necessaria a lasciare il lavoro.
SE NE PARLERÀ, appunto, in autunno. Per ora, il provvedimento del governo congela
quanto era stato discusso finora dalla Commissione lavoro che ha preparato un
provvedimento in cui sono confluite le proposte del Pd, di Sel, della Lega, di Forza Italia e
del M5S. A tessere le fila di questo lavoro unitario è stato in particolare il presidente della
Commissione, Damiano, che ieri ha accettato la proposta del ministro: “Bisogna essere
pragmatici e realisti” dice ai giornalisti fuori dall’aula, “è comunque un passo in avanti”. Il
pragmatismo di Damiano si riferisce ai conti che la Ragioneria di Stato ha fatto sulle norme
previste dal provvedimento di legge della Commissione: 47 miliardi che però il deputato
del Pd considera “sovrastimati”. Ma comunque sufficienti a far riporre il provvedimento di
riforma strutturale nel cassetto. È furioso, invece, il deputato di Sel, Giorgio Airaudo, che
ieri pomeriggio ha deciso di abbandonare i lavori della commissione attaccando il governo:
“Il ministro ha buttato via un anno di lavoro”. Nel progetto di legge, infatti, si puntava a
risolvere altri casi scottanti come la “quota 96”, i circa 4000 lavoratori della scuola che
sono stati letteralmente scippati di un diritto acquisito ma anche la salvaguardia dei
macchinisti delle Ferrovie. Parla di “presa in giro” l’esponente del M5S, Walter Rizzetto
che chiede una risposta strutturale vera: “Una controriforma della riforma Fornero”. “Qui
c’è gente alla fame – spiega al Fatto – e allo stesso tempo il governo, l’Inps e la
Ragioneria dello Stato non riescono a fornirci dati completi e attendibili”. Anche Renata
Polverini , di Forza Italia punta il dito contro la Ragioneria di Stato: a distanza di due anni
non si riesce ancora ad avere il quadro completo e così si può andare avanti in una
gestione di emergenza”. “Matteo Renzi non ne parla, continua, perché quando non vuole
risolvere un problema non lo affronta”. Anche la Cgil, pur apprezzando la soluzione
positiva per 32 mila persone, chiede che si giunga a una soluzione strutturale. Positiva,
invece, è la reazione della presidente della Camera, Laura Boldrini, che sugli esodati dice
di essersi spesa sempre, con incontri e una strategia dell’attenzione e che può vantare
almeno una decina di sollecitazioni alla Conferenza dei capigruppo per portare il
provvedimento in aula. Ora la legge arriva. Ma non è risolutiva.
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del 27/06/14, pag. 2
Troppo export, Berlino non è più la prima
della classe
E se fosse la Germania l’ultima della classe? Ieri, mentre tra Ypres e Bruxelles i capi di
Stato e di governo dell’Unione si preparavano ad affrontare una prima discussione sui
cambiamenti della strategia economica che la prossima nuova Commissione a guida
Juncker (salvo sorprese) dovrà mettere sul tavolo, dagli uffici della vecchia Commissione è
filtrata una notizia che mette Berlino nel ruolo, insolito, del reprobo invitato a redimersi. La
Repubblica federale esporta troppo e importa troppo poco e in questo modo induce
nell’Eurozona uno squilibrio che rischia di mandare all’aria la solidità della moneta e la
stabilità dei conti pubblici. Quelli degli altri, ovviamente. Il problema non è nato ieri. Lo
squilibrio tedesco dura in termini così pesanti dal 2007, cioè da quando c’è la crisi del
debito alla quale si può dire che abbia contribuito non meno delle conclamate debolezze
dei Paesi più indebitati. Nel 2011 e 2012 l’attivo della bilancia dei pagamenti della
Repubblica federale è stato in proporzione il più alto del mondo ed è molto al di sopra del
6% che è considerato dalla Commissione la soglia di rischio per la stabilità del sistema.
All’inizio di novembre l’allora commissario agli Affari economici Olli Rehn aveva minacciato
di applicare a Berlino le sanzioni previste contro chi produce squilibri tanto dal Patto di
Stabilità che dal Fiscal compact: una multa che potrebbe arrivare allo 0,1% del Pil
nazionale. Alla cancelleria confidano che alla multa non si arriverà,ma non è certo quello il
punto. L’impressione è che stia crescendo la consapevolezza che comunque la politica
economica va cambiata profondamente nel senso di un riequilibrio tra la domanda interna,
che negli ultimi tre o quattro anni è cresciuta in maniera minima, e le esportazioni. È
probabile che su questo terreno nel prossimo futuro si svilupperà in Germania un
confronto aspro, al quale gli altri paesi dell’Unione, e l’Italia più ancora degli altri, dovranno
guardare con grande attenzione. La Confindustria tedesca e i settori politici più
conservatori, dalla Bundesbank ad ampie porzioni della Csu e della stessa Cdu,
respingono le critiche di Bruxelles in nome della logica assoluta di mercato («esportiamo
molto perché le nostre merci sono migliori ») e sostenendo che un forte attivo tedesco è
un vantaggio per tutta l’Unione. Ma la grosse Koalition ha una sensibilità diversa e la
spinta a una modifica della politica economica in senso più espansivo è stata percepibile,
sia pure non senza contraddizioni, già nella fase di negoziato tra i partiti democristiani e i
socialdemocratici. L’introduzione del salario minimo garantito è stata motivata
esplicitamente con l’intenzione di stimolare la domanda interna e lo stesso segno hanno il
favore con cui vengono seguite le trattative sindacali per l’aumento delle retribuzioni e le
(contrastate) misure sulle pensioni. Esiste, almeno sulla carta, l’impegno a definire piani di
investimenti pubblici e recentemente la stessa cancelliera ha evocato la possibilità che la
Repubblica federale aderisca a programmi finanziati con project-bond europei. E la Spd
propugna, per ora senza sfondare, l’adozione di riforme fiscali che incentivino la
propensione agli investimenti privati nei settori trainanti.
È in questa chiave che vanno interpretati i segnali di apertura che stanno arrivando da
Berlino. Il governo Merkel pare voler intraprendere una lunga marcia di rientro
dall’austerity,ma il cammino passa non tanto per un allentamento della disciplina di
bilancio, cui pure qualcosa verrà concesso ma entro limiti ben precisi, quanto per una
politica economica meno fissata su se stessa, meno «imperialista » in fatto di commercio
estero e tale da far tornare la Germania ad essere «locomotiva » per l’Europa, secondo
una non dimenticata tradizione di tempi lontani e più felici.
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È evidente che non si tratta di una partita che si gioca solo sul piano dei rapporti tra la
Repubblica federale e gli altri paesi dell’Unione. I nuovi vertici delle istituzioni di Bruxelles
avranno un ruolo fondamentale, che si spera sapranno esercitare molto meglio dei loro
predecessori, pur se non si può passar sopra al fatto che a capo della Commissione arriva
un uomo che rappresenta una scomoda continuità. Intanto si tratterà di fare chiarezza
sulle risorse per gli investimenti. I soldi ci sono, nonostante il senso comune creato dagli
ayatollah dell’austerity. Le disponibilità del bilancio comune dell’Unione e della Bei
possono essere volani formidabili, specie nella favorevole congiuntura attuale di liquidità
sui mercati. È ora che se ne cominci a parlare.
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