16^Dom. T.O

Sedicesima domenica del Tempo ordinario
L’impazienza dell’uomo
e la calma di Dio
Testo preso dal libro
del biblista
FERNANDO ARMELLINI
Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità
Anno A
Ed. Messaggero, Padova, pp. 421-430
L'opera creatrice è iniziata con la separazione della luce dalle tenebre (Gn
1,4); il firmamento fu posto per separare le acque che sono sopra il cielo da
quelle che si trovano sulla terra (Gn 1,6-7); Dio disse: «Vi siano lampade nel
firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte» (Gn 1,14). Al termine di
queste separazioni, l'autore sacro commenta: «E Dio vide quanto aveva fatto, ed
ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31).
Da quel giorno, l'uomo – forse per l'inconscia paura che gli opposti
potessero di nuovo fondersi e riportare il caos, il disordine che rendeva
impossibile la vita – è istintivamente indotto a erigere steccati e a stabilire una
separazione fra i buoni e i malvagi, fra il puro e l'impuro, fra i santi e gli empi,
fra gli amici di Dio e i suoi nemici. Alcuni testi della Bibbia, interpretati
superficialmente, sembrano approvare simili discriminazioni: «Sarete santi per
me, poiché io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché
siate miei» (Lv 20,26; 20,26).
Nel mondo uscito buono dalle mani di Dio, la presenza del male rimane un
enigma, un elemento di disturbo che l'uomo non sopporta e, impaziente come i
servi della parabola, si chiede: «Da dove viene la zizzania?». In lui subentra
allora la frenesia di risolvere immediatamente le tensioni che prova e finisce per
ricorrere a rimedi peggiori del male: diventa spietato e intollerante con se stesso e
con gli altri, castiga in modo crudele, scatena guerre sante e si lascia prendere
dall'ira che «mai porta a compimento la giustizia di Dio» (Gc 1,20).
In tal modo commette due errori: non accetta serenamente la realtà del
mondo in cui il bene e il male sono destinati a convivere e confonde la stagione
della crescita con quella della mietitura.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
«La presenza del male nel mondo
non mette in pericolo la riuscita del regno di Dio».
Prima lettura (Sap 12, 13.16-19)
Fernando Armellini
1
Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.
La tua forza infatti è il principio della giustizia,
e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.
Mostri la tua forza
quando non si crede nella pienezza del tuo potere,
e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.
Padrone della forza, tu giudichi con mitezza
e ci governi con molta indulgenza,
perché, quando vuoi, tu eserciti il potere.
Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
che il giusto deve amare gli uomini,
e hai dato ai tuoi figli la buona speranza
che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.
Il libro della Sapienza è stato l'ultimo dell'Antico Testamento a essere
scritto. Il suo autore – un giudeo di Alessandria d'Egitto – era forse ancora vivo
quando Gesù è nato.
Da secoli la maggioranza degli israeliti viveva dispersa per il mondo. In
ogni città dell'impero romano costituivano una comunità a parte: avevano le loro
sinagoghe, i loro rabbini, i loro tribunali, le loro feste, le loro tradizioni. Non
contraevano matrimonio con i pagani e prendevano tutte le precauzioni per non
lasciarsi corrompere dai costumi degli altri, per non lasciarsi influenzare dalla
loro morale e dalle loro pratiche religiose.
Alcuni di questi israeliti della cosiddetta diaspora avevano trovato
un'ottima sistemazione all'estero, esercitavano professioni redditizie, ma i più
vivevano in ristrettezze ed erano anche oggetto di discriminazioni. Costoro si
chiedevano: come mai noi, pur essendo fedeli alla legge di Dio, siamo oppressi e
umiliati, mentre gli idolatri prosperano? Perché Dio tollera che subiamo
insolenze e ingiustizie? I nostri padri ci hanno raccontato che, in passato, il
Signore compiva segni e prodigi in favore del suo popolo, come mai ora non
interviene più, è forse diminuita la sua forza?
Nel brano di oggi l'autore risponde a queste domande. La forza del Signore
– assicura – è sempre la stessa, infinita, ma egli non la usa per punire, la impiega
solo per il bene dell'uomo. Questa è la sua giustizia: usare indulgenza nei
confronti di tutti. Il suo dominio è universale, si estende su giusti ed empi: non
può voler bene solo ad alcuni (v. 16).
Gli uomini impiegano la loro forza per incutere timore e rispetto, per
soggiogare i più deboli e costringerli a rimanere sottomessi. Dio invece, pur
essendo il padrone della forza, non la usa per imporre la sua sovranità; non
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ricorre ai castighi, alle ritorsioni, alle vendette, ma, con tutti, anche con i
malvagi, si mostra mite e indulgente (vv. 17-18).
Commoventi le due ragioni che, nell'ultimo versetto (v. 19), spiegano il
sorprendente comportamento di Dio: egli è paziente, anzitutto, perché vuole
insegnare al suo popolo che il giusto deve amare gli uomini. Ci sono, si, azioni
ignobili; opere infami, ma nessun uomo è spregevole, tutti meritano amore. La
seconda ragione: Dio non interviene con ritorsioni e castighi perché non vuole la
morte del malvagio, ma «che desista dalla sua condotta e viva» (Ez 18,23); per
questo gli offre sempre la possibilità di pentirsi (v. 19). Chi si attende un suo
intervento punitivo sta semplicemente proiettando in Dio i propri istinti
vendicativi.
Seconda lettura (Rm 8, 26-27)
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo
infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con
gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito,
perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Come si fa a pregare? Se bastasse ripetere formule sarebbe semplice. Ma
Gesù ha detto che la preghiera dei suoi discepoli non è di questo tipo: «Quando
pregate non sprecate le parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a
forza di parole» (Mt 6,7).
Nella lettura di oggi Paolo riconosce candidamente: noi non sappiamo
pregare, non abbiamo idea di che cosa si debba chiedere a Dio e le nostre
invocazioni sono spesso solo tentativi di farlo aderire ai nostri progetti.
Lo Spirito viene in soccorso della nostra debolezza e ci suggerisce le parole
che dobbiamo rivolgere al Padre (v. 26). Pregarlo è aprire la mente e il cuore alla
sua luce e disporsi ad accogliere la sua volontà, in ogni istante della vita. Chi ci
offre la luce di Dio e ci dona la forza di seguirla è lo Spirito, «colui che scruta
tutte le cose, anche le profondità di Dio» (1Cor 2,10) e ci fa partecipi dei suoi
misteri. I pensieri del Signore sono però incomprensibili per la sapienza di questo
mondo (1 Cor 2,3-7), per questo Paolo li definisce «gemiti ineffabili».
La preghiera che viene dallo Spirito è sempre esaudita, perché è conforme
ai desideri di Dio: non cerca di piegare la sua volontà alla nostra, ma ottiene la
nostra conversione alla sua (v. 27).
Vangelo (Mt 13, 24-43)
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei
cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma,
mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al
grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la
zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore,
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non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed
egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che
andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo
la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro
crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai
mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano
invece riponètelo nel mio granaio”».
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello
di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di
tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e
diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi
rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una
donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non
con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole,
proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per
dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui
che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme
buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che
l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli
angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così
avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali
raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono
iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di
denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha
orecchi, ascolti!».
Con altre tre parabole Gesù svela progressivamente il mistero del regno dei
cieli. La prima – quella del grano e della zizzania (vv. 24-30) – riceve, come è
accaduto a quella del seminatore della scorsa domenica, una spiegazione (vv. 3643); si tratta di un'omelia di un predicatore del tempo di Matteo, che ha
attualizzato il racconto e lo ha applicato ai bisogni delle sue comunità. Poi
vengono raccontate altre due parabole – quelle del granello di senapa e del lievito
(vv. 31-33) – introdotte per porre in risalto la forza irresistibile del bene. I vv. 3435 riprendono ciò che è stato detto nei vv. 10-17 e chiariscono la ragione per cui
Gesù parla in parabole. Esaminiamo le parti principali del brano.
Da dove viene la zizzania? (vv. 24-30).
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Già l'esistenza del male – cui l'uomo non ha mai saputo dare una risposta
soddisfacente – costituisce un angosciante problema. Oltre a questo, i cristiani
delle comunità di Matteo ne dovevano affrontare un secondo, non meno serio:
erano passati cinquant'anni dalla morte e risurrezione di Gesù e, guardandosi
attorno, verificavano che nel mondo era presente, sì, tanto bene, ma continuava
ancora a crescere, rigoglioso, anche il male. Come mai il regno dei cieli,
inaugurato da Gesù, non aveva avuto un successo totale e immediato?
L'interrogativo era imbarazzante. Qualcuno lo formulava in termini ironici e
provocatori: «Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come
al principio della creazione» (2Pt 3,4).
L'enigma dell'esistenza del male esige una spiegazione e l'evangelista la dà,
con una parabola di Gesù.
Il primo personaggio che viene messo in scena è il padrone. Rappresenta
Dio. E’ lui che semina o è lui, in ogni caso, il responsabile della qualità del seme,
che viene definito «buono» (v. 24). Questo aggettivo non è banale, richiama in
modo esplicito il ritornello che, per dieci volte, è ripetuto nel primo capitolo della
Genesi: «E Dio vide che era buono». Tutto era buono ciò che Dio aveva fatto:
non nel senso che non accadevano cataclismi e catastrofi naturali, che non
esistevano dolore, malattia e morte, ma tutto era buono perché perfettamente
adatto a realizzare il progetto del Signore.
Il creato è buono, come è buono il seme della parola annunciata da Gesù.
Il secondo personaggio è il nemico: rappresenta la logica di questo mondo,
la mentalità antievangelica. Giunge di notte e, mentre tutti dormono, semina la
zizzania, una graminacea molto simile al grano: cresce fino all'altezza di 60 cm e
produce una spiga contenente chicchi nerastri; le sue radici si intrecciano con
quelle del frumento e sono impossibili da sradicare senza strappare anche quello.
E’ quando le menti sono intorpidite dal sonno, è nei momenti in cui la vigilanza
si allenta, è nei tempi in cui ci si abbandona alle dissipazioni e alle frivolezze che
il nemico trova il modo di introdursi nel campo per seminare il male. Basta una
disattenzione e si finisce per adeguarsi alla morale corrente, si assimilano i
principi di questo mondo. Non è facile, in un primo momento, rendersi conto
dell'accaduto, il male infatti si maschera spesso da «angelo di luce» (2Cor 11,14).
E’ in seguito, quando si osservano i risultati, che ci si rende conto del germe di
morte che è penetrato nella mente e nel cuore. Ecco la ragione per cui Paolo
raccomanda: «E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è
più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è
vicino» (Rm 13,11-12).
Il terzo personaggio – che ci è simpatico, perché ci rappresenta – sono i
servi. La loro reazione – un misto di stupore e di smarrimento di fronte alla
constatazione della presenza del loglio – è quella che noi sperimentiamo quando
ci avvediamo dell'esistenza del male nel mondo, nella comunità cristiana, in ogni
uomo. Il dialogo concitato con il padrone è commovente: mostra il loro interesse
per il campo, il loro impegno per la produzione. Non sembrano estranei, ma
membri della famiglia.
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E’ a questo punto che si inserisce il messaggio centrale della parabola: la
loro passione per la causa del bene li coinvolge al punto da indurli a proporre
un'azione sconsiderata. Sono colti dall'impazienza, dall'ansia di sbarazzarsi subito
della zizzania; non hanno esitazioni, vogliono intervenire in modo energico e
immediato.
Il padrone non perde il controllo, mantiene la calma. Non si meraviglia
dell'accaduto, non si scompone, non condivide la loro inquietudine. Nella sua
risposta (che occupa più di un terzo del racconto) è presentata la prospettiva di
Dio: in questo mondo, il bene e il male non possono essere separati, sono
destinati a crescere insieme e così fino alla fine.
Come mai non si possono accelerare i tempi? Se Dio è onnipotente perché
non elimina subito ogni traccia di male? Perché non è onnipotente, come forse
noi lo immaginiamo. La Bibbia non gli attribuisce mai questo titolo; lo chiama
potente (Lc 1,49) o pantokrator (Ap 1,8) che non significa “colui che può fare ciò
che vuole”, ma «colui al quale nulla sfugge di mano». L'uomo è libero e Dio ha
voluto iniziare con lui «una storia d'amore» dalla quale potrebbe anche uscire
sconfitto. Il suo progetto contempla la presenza del male, che va accettata
serenamente, come una componente della vita. Credere che egli è pantokrator
vuoi dire alimentare la convinzione che egli condurrà abilmente questa «storia
d'amore» con ogni uomo e che l'ultima parola, quella decisiva, vincente, sarà
comunque la sua.
La presenza della zizzania sia in noi che negli altri infastidisce
enormemente. Ci costa ammettere che «non c'è sulla terra un uomo così giusto
che faccia solo il bene e non pecchi» (Qo 7,20). Vorremmo cullarci nell'illusione
di essere perfetti, desidereremmo avere una conferma dell'immagine elevata che
ci siamo fatti di noi stessi. Il male non va giustificato, certo, ma Gesù esorta a
considerarlo con gli occhi sereni e pazienti di Dio.
La sorprendente crescita del regno dei cieli (vv. 31-35).
Alla parabola del grano e della zizzania ne seguono altre due, brevi, che
sono dette «gemelle» perché contengono il medesimo messaggio: la sproporzione
fra il piccolo inizio e l'inatteso, stupefacente risultato finale. Un granello di
senapa, quasi invisibile, dà origine a un arbusto capace di raggiungere i quattro
metri di altezza; pochi grammi di lievito fanno fermentare cinquanta chili di
farina. Il contrasto è enorme!
Non è l'invito a godere del prestigio presente e a pregustare i trionfi futuri
della chiesa che, iniziata con un gruppo poco qualificato di pescatori e di persone
impure e peccatrici, è divenuta una struttura rispettata, temuta, apprezzata, capace
di farsi notare e di imporsi. Non è neppure un annuncio della progressiva e
inarrestabile cristianizzazione di tutto il mondo.
Come la parabola precedente che esortava alla pazienza e alla fiducia,
queste due sono un invito all'ottimismo derivante dalla certezza che nello Spirito
e nella parola di Cristo – benché insignificanti agli occhi del mondo – è presente
la forza irresistibile di Dio.
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L'evangelista conclude le tre parabole con una riflessione sull'obiettivo che,
con esse, Gesù ha voluto raggiungere: svelare il progetto che, fin dal momento
della creazione, Dio ha sul mondo (vv. 34-35).
L'accettazione serena del male non significa disimpegno (vv. 36-43).
La scena cambia. Gesù non è più sulla barca, ma in casa e non si rivolge
alla folla, ma al gruppo ristretto dei discepoli. E’ il modo con cui l'evangelista
introduce l'applicazione della parabola.
Leggendo questi versetti non si può non notare che la situazione cui si fa
riferimento è completamente mutata: i personaggi non sono più gli stessi; la
parabola diviene allegoria; il seme non è la logica del regno e la zizzania
l'opposto, ma sembrano essere gli individui buoni e cattivi; il campo non è il
mondo, ma il regno del figlio dell'uomo; il messaggio, soprattutto, non è lo
stesso: prima il padrone invitava ad accettare serenamente l'esistenza del male
accanto al bene e rimproverava l'intolleranza dei servi, ora anch'egli sembra
lasciarsi prendere dalla frenesia di «mettere mano al fuoco» (v. 42).
Si tratta – come abbiamo rilevato – di una catechesi rivolta alle comunità di
Matteo alla fine del I secolo. Probabilmente, dopo i primi decenni di grande
fervore, i cristiani si erano un po' rilassati e non prendevano più sul serio gli
impegni del loro battesimo. Che fare? L'evangelista ha sentito il bisogno di
scuoterli, di richiamarli alla serietà della vita e Io ha fatto servendosi del
linguaggio dei predicatori del suo tempo. Era un giudeo, parlava a giudei e, per
farsi capire, non poteva che ricorrere alle immagini comprensibili alla sua gente:
il fuoco, le fornaci ardenti, il pianto, Io stridore di denti, la mietitura, gli angeli, i
diavoli... Si tratta di metafore impressionanti, impiegate comunemente dai
rabbini e che non possono essere ripetute oggi senza aggiungervi opportuni
chiarimenti.
Non è corretto ricavare da esse conclusioni riguardo alla fine del mondo e al
giudizio di Dio, perché Matteo non stava dando informazioni: non intendeva
descrivere ciò che accadrà in futuro ai peccatori, ma stava rivolgendo un
pressante, accorato richiamo ai suoi cristiani.
Una cosa è certa: chi fa il male rovina la propria vita. Quanto al futuro, più
che assolutizzare le allegorie (in cui chiaramente la fervida fantasia orientale ha
preso il sopravvento) è meglio soffermarsi su ciò che la Scrittura dice in modo
esplicito e cioè che Dio è padre, «vuole che tutti gli uomini siano salvi» (1Tm
2,4) e «non ha inviato suo Fido nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il
mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17).
E’ il fuoco? Dio conosce un unico fuoco: il suo Spirito, sceso sui discepoli
nella Pentecoste (At 2, 3), consegnato dal Risorto nel giorno di Pasqua come
forza distruttrice del peccato (Gv 20,22-23). E’ il fuoco cui alludeva Gesù: «Sono
venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc
12,49). E’ la fiamma inarrestabile che brucerà – questa è la bella notizia! – ogni
traccia di zizzania nel cuore di ogni uomo, lasciandovi solo il buon grano, l'unico
che sarà ammesso nel mondo futuro.
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Al momento della mietitura verranno raccolti e gettati nella fornace ardente
«tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità». Non è una minaccia di castigo,
ma un lieto annuncio: il fuoco di Dio, il suo Spirito un giorno riuscirà a far
scomparire ogni forma di male. Nel regno dei cieli, giunto al suo compimento,
non ci sarà più alcuno che commetterà iniquità.
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