GIORGIO PASQUALOTTO Il tao della filosofia

GIORGIO PASQUALOTTO
Il tao della filosofia
Corrispondenze tra pensieri
d'Oriente e d'Occidente
EST
O Nuova Pratica Editrice, Milano, 1997
Prima edizione 1989
Giangiorgio Pasqualotto insegna storia della filosofia ed estetica all'università
di Padova. Fra le sue opere si ricordano Storia e critica dell'ideologia (1978),
Pensiero negativo e civiltà borghese (1981), Saggi su Nietzsche (1988), Estetica
del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d'Oriente (1992). In Il tao della fi
losofia, Corrispondenze tra pensiero d'Oriente e d'Occidente, Pasqualotto sugger
isce una pratica di pensiero, inscenando un dialogo immaginario con i filosofi L
ao Tzu, Heidegger, Spinoza, Eraclito, Chuang Tzu, Leibniz e Nietzsche.
a Engaku Taino
Avvertenza
Il saggio «Tao Tê Ching» e «Il pellegrino cherubico» è stato pubblicato per la
prima volta in AA.VV., Ars maieutica. Scritti in onore di Giuseppe Faggin, Neri
Pozza Editore, Vicenza 1985; Nietzsche e il buddhismo zen, in AA.VV., Nietzsche. Verità-Interpretazione, Tilgher, Genova 1983; Oltre la tecnica: Heidegger
e lo zen come Introduzione a V. C.avallucci, Heidegger. Metafisica e tecnica,
Arsenale, Venezia, 1981.
Nel testo in nero i numeri di pagina sono posti in alto.
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Introduzione
Comparazione come Askesis
Il gusto di comparare pensiero orientale e pensiero occidentale
ha prodotto una vicenda curiosa, nella quale le origini vantano
esponenti illustrissimi ma più o meno gravemente affetti da supponenza eurocentrica, mentre i più recenti contributi, pur se guariti da tale supponenza, non possono più vantare alcun vigore teoretico. Chi originariamente ha conferito maggior lustro a questo
comparare filosofico è stato Leibniz: «... per giudicare che i cinesi
riconoscano le sostanze spirituali, si deve sopra tutto considerare
il loro Li o regola, che è il primo Attore e la ragione delle altre
cose, e che credo corrisponda alla nostra Divinità.» (1) Queste parole di Leibniz indicano bene il senso in cui si è cominciato e si è a
lungo continuato ad operare la comparazione tra pensiero orientale e occidentale: innanzitutto ponendo il livello della comparazione entro una prospettiva teologica, e non filosofica; in secondo luogo cercando di trovare analogie per omologare il pensiero
orientale a quello cristiano, secondo un metodo che pone al centro, come verità indiscussa, quella rivelata dalle Sacre Scritture:
essa serve come termine privilegiato di paragone, per misurare e
valutare di quanto le altre posizioni le si avvicinino (2). Così, Leibniz si mostra d'accordo col Ricci nel riconoscere che i Cinesi venerano un Ente Supremo, chiamato Xangti, paragonabile al Dio
Cristiano (3); ma afferma contemporaneamente «i cinesi non
hanno potuto cogliere appieno tale Ente Supremo come creatore
dell'universo perché hanno ignorato la Rivelazione (4). Quindi la
valutazione di Leibniz, in quanto prodotta in una prospettiva teologica, finisce necessariamente per diventare apologetica. É tuttavia da ricordare che, nel riconoscere l'altissima dignità del pensiero cinese, Leibniz è stato non solo il primo, ma anche il più acuto e onesto rispetto ad altri filosofi occidentali che, come Hegel,
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hanno sbrigativamente liquidato tale pensiero asserendo presuntuosamente, senza averlo studiato, che esso non contiene «alcunché di sensato». (5) Leibniz nota in particolare che la teoria combinatoria contenuta nell'Y King anticipa di duemila anni l'aritmetica binaria (6) e, in generale, osserva che «se risultiamo pari nelle
attività pratiche, se li abbiamo superati nelle arti contemplative,
certamente risultiamo vinti (c'è un po' di vergogna ad ammetterlo) nella filosofia pratica, cioè nei principi dell'Etica e della Politica, che sono vantaggiosi proprio per la vita pratica degli uomini»; (7) al punto tale che, poco più avanti, Leibniz aggiunge: «Certamente mi sembra che la nostra condizione, dato che le corruzioni
si stanno diffondendo smisuratamente, è tale da apparire quasi necessario l'invio di Missionari cinesi presso di noi affinché ci insegnino l'uso e la prassi della Teologia naturale, come noi inviamo
loro i nostri Missionari a insegnare la Teologia della Rivelazione». (8)
La posizione di Leibniz, attraversata da remore teologiche e
apologetiche, ma forte di un'attenzione filosofica al pensiero cinese, rimase a lungo isolata: quando non vi fu, sulla scia di Hegel,
una radicale svalutazione del pensiero orientale, si verificò un interesse per l'Oriente in senso puramente «quantitativo», divenendo un interesse e, poi, addirittura una moda culturale sensibile
più agli usi e ai costumi che alle idee, curiosa più per la molteplice varietà delle forme di vita che per la qualità di una diversa visione del mondo (9). Lo stesso Voltaire, pur risultando, rispetto a
Leibniz, molto meno affetto da pregiudizi teologici e apologetici,
mostra di essere stato un estimatore più della civiltà che del pensiero cinese (10) e, anche quando si sofferma positivamente su una
forma di pensiero orientale, come nel brevissimo racconto Histoire d'un bon Bramin, lo fa in modo assai superficiale.
Chi, invece, ha preso sul serio il pensiero orientale, riconoscendo ad esso - o, per lo meno, ad alcune sue fondamentali espressioni, quali la metafisica Vedanta e l'etica buddhista - forte dignità filosofica, è stato Schopenhauer. Certamente, per limiti di
conoscenza non solo filologica, Schopenhauer spesso cade in
equivoci, in fraintendimenti e addirittura in veri e propri errori (11),
ma è sicuramente il primo e, forse, finora l'unico tra i grandi pensatori occidentali a riconoscere valore filosofico ad alcune tesi del
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pensiero orientale, al punto da porre una di queste a cardine di
tutto il proprio sistema speculativo: infatti proprio in apertura de
Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer riconosce che la verità contenuta nella sua fondamentale proposizione «il mondo è la mia rappresentazione» è stata colta da tempo
immemorabile «dai saggi indiani, apparendo come base della filosofia Vedanta attribuita a Vyasa». (12) Tuttavia Schopenhauer
pur riscattando il pensiero orientale dalla minorità filosofica in
cui era stato a lungo tenuto, inaugura un modo di considerarlo
contaminato dal pregiudizio metafisico della philosophia perennis, secondo il quale esisterebbe, da sempre e per sempre, un'unica verità che si esplica e determina in molti e diversi modi, in
tempi e luoghi tra loro lontani e spesso lontanissimi. Questa idea
compare chiaramente, anch'essa, fin dalle prime pagine de Il
mondo: «...Tutto, insomma, ciò che proviene da cause e motivi
ha un'esistenza solo relativa (...) La sostanza di questa opinione è
antica: Eraclito lamentava con essa l'eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò l'oggetto come un perenne divenire, che non è
mai essere; Spinoza chiamò le cose puri accidenti dell'unica sostanza, che sola esiste e permane; Kant contrappose ciò che conosciamo in tal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé; e infine
l'antichissima sapienza indiana dice: "É Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo
del quale non può dirsi che esista, né che non esista." (...) Ma ciò
che tutti costoro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non
quel che anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondo come
rappresentazione, sottomesso al principio della ragione». (13)
Il pregiudizio metafisico di una philosophia perennis, emblematicamente espresso da queste parole di Schopenhauer, viene ripreso e rinforzato da quella linea di pensiero che, nella filosofia
contemporanea, fa capo a René Guénon (14). Tale «linea» ha avuto, certo, il merito di abbandonare definitivamente la presunzione
di porre la filosofia occidentale come metro di valutazione privilegiato, ma, nel fare ciò, ha ecceduto fino al punto di voler trovare la Verità nella «prospettiva metafisica», in particolare nella
prospettiva metafisica propria del pensiero Indu. (15)
Georges Vallin, il più avveduto sostenitore di questa «linea»
sostiene a ragione che «le philosophe avide de philosophie éternel
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le croit e;t la suprématie exclusive de la métaphysique occidentale», (16) ma poi si lascia andare a dichiarazioni di questo tipo: «La
perspective métaphysique peut être caracterisée par le depassement
de toutes les conceptions limitées, dogmatiques et systématiques
qui constituent le contenu de ce qu'on a coutume d'appeler l'histoire de la philosophie: car elle se fonde sur la notion métaphysiquement la plus rigoureuse de l'Absolu ou de l'Infini». (17). Molto
opportunamente Vallin si scaglia contro i dogmatismi delle varie
metafisiche occidentali prodotte da Aristotele in poi (18), ma finisce
col riproporre, proprio in modo dogmatico, la «prospettiva metafisica»: «La perspective métaphysique n'est pas un système, mais
une vision de l'Étre et du Monde qui ne saurait, en raison même
de son illimitation interne ou de son universalité, être emprisonnée dans les limites d'une formulation quelconque». (19)
Ora, questo riferimento a un principio assoluto e infinito da
parte dei pensatori tradizionalisti rivela un notevole pregio, ma
anche alcuni non meno notevoli difetti. Il pregio consiste nel fatto che tale Principio non è inteso come una verità escludente le
altre, ma come la Verità Assoluta che, in quanto fonte comune di
tutte le verità relative, le lascia sussistere: come ha ben detto
Guénon, «chi avrà compreso veramente sarà sempre in grado di
riconoscere, dietro le diversità delle espressioni, la verità una, cosicché questa inevitabile diversità non sarà mai causa di disaccordo». (20) Conseguenze positive di tale posizione si hanno non solo
sul piano teorico, ma anche su quello culturale, come è chiaramente affermato in queste parole di Vallin: «Le penseur traditionnel (...) connaît non seulement le caractère finalement illusoire et
métaphysiquement équivalent de toutes les formes (cosmiques, historiques, culturelles) qui sont rigoureusement nulles au regard de
l'Infini, mais il sait voir aussi dans toutes les form2s, et notamment dans les formes culturelles, y compris celles qui s'expriment
dans une civilisation non traditionelle, une manifestation et un
reflet du "Principe"» (21).
Questa posizione presenta nondimeno alcune gravi lacune. Innanzitutto, e in generale, porre un Principio assoluto sul quale
fondare argomentazioni e risolvere problemi non sottrae tale Principio dalla possibilità di diventare esso stesso oggetto di argomentazioni e problemi: impedire questa possibilità significa rinunciare
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al ragionamento filosofico e abbandonare il pensiero o alle troppo
forti sicurezze procurate da qualche fede, o alle troppo belle suggestioni evocate da qualche mito.
In secondo luogo, e in particolare, le conseguenze che Guénon
trae dal suo porre un Principio assoluto entrano in contraddizione
con la nozione di tale Principio: infatti, se l'idea di «Verità Una»
consente di riconoscerne la presenza nella diversità delle sue manifestazioni in modo tale che «questa inevitabile diversità non sarà mai causa di disaccordo», non appare affatto legittimo rigettare
l'intera vicenda del pensiero e della cultura moderni quali espressioni spurie, negative, «malefiche» della Verità Una. Infatti, o i
segni di tale verità sono rintracciabili anche nelle sue espressioni
più lontane e più diverse, o si deve ammettere che la Verità non è
più una, e che è pertanto necessario postulare l'esistenza di un'altra verità, opposta alla prima che fondi e giustifichi l'insorgere di
un'aberrazione come quella del «regno della quantità».
Ora, proprio perché Guénon mostra di capire e di sapere che
«in definitiva è sempre il punto di vista parziale che è "malefico",
mentre il punto di vista complessivo, o relativamente tale in rapporto al primo, è "benefico"» (22), dovrebbe evitare di cadere preda
di punti di vista parziali scambiati per punti di vista complessivi,
come accade quando privilegia il Medioevo contro la Modernità (23): in tal modo la mirabile serie di analisi critiche della Cultura
e della civiltà moderne che Guénon ha sviluppato rischia di perdere gran parte del suo valore a causa di un pregiudizio moralistico che lo induce a scegliere alcune verità parziali, contraddicendo
l'assunto di una Verità Una come garanzia della tollerabilità delle differenze.
Tale pregiudizio moralistico genera deleterie conseguenze anche per quel che riguarda la pratica della comparazione: se, infatti, per risentimento antimodernista ci si allontana dalla posizione
della Verità Una come garanzia delle differenze, è inevitabile che
si giunga a privilegiare un particolare tipo di pensiero, come quello Indu, ponendolo a modello di spiritualità; esattamente come,
sul piano storico, si è giunti a presentare il Medioevo come modello di civiltà per l'Occidente. Una volta scelti tali modelli parziali come espressioni migliori dell'universalità, non si produce
soltanto un mostro logico, ma si procede anche ad operare una se12
rie di atti «giudiziari» contro tutte le forme, spirituali o storiche,
che da tali modelli si discostano: la comparazione, in tal modo,
non è più una procedura «scientifica» che, nel confronto tra posizioni diverse, produce il chiarimento delle differenze ed arricchisce la conoscenza dei termini comparati, ma si risolve in un'attività inquisitoria che, elevando a valore indiscutibile una delle posizioni, giudica le altre in base a tale valore. Allora la comparazione finisce per essere un lavoro per verificare il grado di adeguazione di pensieri, culture e civiltà al Principio unico e vero che
esprime l'unica e vera forma di cultura e di civiltà: quella «tradizionale». Così le radici teoriche del lavoro di Guénon finiscono
per produrre, anche in campo comparatistico, frutti tipici del pregiudizio metafisico che, assolutizzando un principio a scapito
di posizioni costruite su altri principi, ha generato ogni forma di
settarismo e di dogmatismo (24).
Opposta, ma solo in quanto specularmente rovesciata, appare
la posizione di quanti intendono l'unicità della Verità non come
punto di partenza ma come punto di arrivo. É questa la tendenza sostenuta in particolare dalla «comparative Philosophy» inaugurata con la «East West Philosophers Conference» organizzata a
Honolulu, presso l'Università di Hawai nel 1939, con lo scopo
di determinare «the possibility of a world philosop,hy through a
synthesis of ideas and ideals of East and West» (25). É evidente come questa posizione, satura di buone intenzioni, ponga le sue fragili basi sull'ingenuità di credere che sia possibile una conciliazione oggettiva delle diversità filosofiche, indipendentemente dalle
intenzioni specifiche, differenziate e spesso contrastanti, dei diversi soggetti che operano la comparazione: per esempio, chi è interessato a trovare analogie tra l'atomismo greco e quello indiano
della scuola Nyaya-vaisesika non presterà certamente attenzione
alle analogie tra l'idealismo tedesco e quello indiano della scuola
Vijnanavada. Inoltre chi è interessato a stabilire rapporti tra i
concetti appartenenti alle due tradizioni di pensiero si differenzia necessariamente da chi è interessato ad istituire relazioni tra i
problemi ai quali le due tradizioni di pensiero cercano di dare soluzione (26). Infine, avendo di mira la «sintesi» delle due tradizioni
si produrrebbe inevitabilmente la tendenza a eliminare o, per lo
meno, a sottovalutare significative differenze non solo tra le due
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tradizioni nel loro complesso, ma anche tra diverse scuole o correnti interne a ciascuna di esse.
D'altra parte, appare debole anche la proposta di una filosofia
comparata «scientifica», modellata in definitiva su un modello,
riveduto e corretto, di matrice positivista (27): «La philosophie comparée a pour fonction l'étude en principe scientifique, c'est-à-dire
historique, philologique et critique, des philosophies n'appartenant pas à l'ensemble culturel occidental (les philosophies orientales) et d'en comparer les doctrines à celles de la philosophie occidentale en vue de dégager des relations significatives entre philosophies orientales et occidentales» (28). Anche qui, come nel caso
dell'utopia sintetica, si pone il problema di come poter determinare oggettivamente, scientificamente, quali siano le effettive «relations significatives», ossia per chi e perché siano significative!
Più interessante e meno pretenziosa appare la proposta di una
«recherche historique élargie» fatta dal Brunner in occasione di
uno studio sulle soluzioni date al problema della percezione dall'Advaita Vedanta, viste in relazione alle soluzioni date da alcune correnti della filosofia occidentale (29): in questo studio, infatti,
si pratica un metodo di comparazione che non si accontenta di
accostare pensieri tratti dalle due tradizioni per il semplice gusto e
gioco dell'analogia, e che, d'altra parte, non pretende di produrre
sintesi universali, ma considera la comparazione come ottimo
strumento per approfondire e chiarire il problema filosofico posto
al centro dell'attenzione e della ricerca. Tale metodo è quello che
più si avvicina a una interpretazione che considera la filosofia
comparata non come una disciplina specifica della filosofia o della storia della filosofia, ma come modo di fare filosofia. La
comparazione, infatti, non «porta alla luce» analogie inusitate o
insospettate, ma costruisce l'identità stessa dei termini comparati: nel confronto non si chiarisce solo la possibilità delle connessioni, ma si determina anche la natura intrinseca dei termini connessi. Le analogie non vengono istituite da un intelletto puro che,
al di sopra dei termini comparati, obiettivamente osserva e registra coincidenze, ma vengono poste da un soggetto interessato,
cioè da un soggetto che, in quanto teso a risolvere un problema,
può trovare in pensatori orientali - così come in pensatori occidentali - le risposte più confacenti al proprio «interesse». In tal
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senso, allora, il confronto, in realtà, non avviene tra i termini della comparazione, ma tra sé e i problemi filosofici attraverso la
comparazione. Ora, ponendo attenzione analitica ai termini di
tale affermazione («sé» e «problemi filosofici»), è facile osservare
come ciascuno di essi sia risultato di attività comparativa: il concetto e l'esperienza dell'«io» si costruiscono mediante una serie di
processi di comparazione che si dispiegano dal livello delle percezioni più elementari a quello delle astrazioni più complesse; d'altra parte, i problemi filosofici in cui l'io è implicato sono tali, ossia «problemi», solo in quanto scaturiscono da un movimento del
pensiero che non si accontenta della realtà come insieme di semplici dati (30). É da notare inoltre che non può esservi comparazione senza utilizzazione della categoria di relazione la quale, dal
Parmenide e dal Sofista di Platone fino al relazionismo di Whitehead, è stata colta come struttura costituente il pensare stesso:
quindi l'attività del comparare, in quanto modo del relazionare, è
connaturata all'attività del filosofare. Il confronto tra pensieri
d'Oriente e d'Occidente non è che un caso specifico dell'attività
comparativa propria della filosofia e, anche per questo caso specifico, vale l'osservazione che non vi è alcun «io» puro e separato che
opera su «materiali» da mettere in relazione, ma che il soggetto che
compara si costruisce passando attraverso i problemi individuati e
discussi dai pensieri posti in relazione: chi istituisce confronti mostra un interesse a rintracciare una serie di pensieri affini ai propri,
o che a questi possano dare sostegno e conferma, ma viene anche
trasformato da questa ricerca e da questo confronto. In altri termini, chi opera confronti non costruisce soltanto attorno a sé una
rete protettiva fatta di pensieri in sintonia con i propri, ma produce, dentro di sé, una trama filosofica che funziona come un tessuto organico necessario alla sua vita e alla sua crescita.
In tal senso, allora, non si può affatto parlare di «filosofia comparata», perché ciò indurrebbe immediatamente l'idea di una disciplina filosofica settoriale in cui un presunto osservatore disinteressato si dedica alla catalogazione di «oggetti» filosofici in base
ai criteri di analogia e di differenza. Si può invece parlare di comparazione come esercizio filosofico, come pratica filosofica mediante la quale il soggetto si forma e si trasforma: comparazione,
quindi, come åskesis.
15
I 5
1 G.W. Leibniz, Lettera sulla filosofia cinese al Signor De Remond, I, II, in
Id., La Cina, a cura di C. Sini, tr. Milano 1987, p. 133.
2 Le conseguenze dell'applicazione di tale metodo sono state, in generale, di
due tipi: o si è constatato che il pensiero cinese era ateo, e quindi condannabile per principio; oppure si è riconosciuto che era dotato di concetti assimilabili a quelli della tradizione cristiana: in questo caso, o tali concetti - in
particolare quello di «Dio» - erano riconosciuti del tutto assimilabili, per cui
si concludeva mostrando l'universalità della concezione cristiana (e non di
quella cinese); oppure si mostrava che erano assimilabili solo in parte, per cui
si concludeva esaltando la superiorità della concezione cristiana. A quest'ultima interpretazione è riconducibile la posizione di Leibniz. Residui di un'impostazione «cristianocentrica» si hanno anche in alcune posizioni della teologia
cristiana contemporanea che si considerano tra le più avanzate; cfr., ad esempio, i contributi di Hans Küng in AA.VV., Cristianesimo e religioni universali,
tr. Milano 1986.
3 Cfr. G.W. Leibniz, Lettera... cit., II, XXVIII, p. 150.
4 Cfr. Ibid., II, XXIV, p. 147. Cfr. anche G.W. Leibniz, Prefazione al libro
intitolato «Le ultime novità della Cina», in Id., La Cina cit., p. 22. «Pertanto io credo che, se fosse stato scelto qualche sapiente, capace di giudicare non
la be?lezza delle Dee, ma l'eccellenza dei popoli, darebbe l'aureo pomo ai cinesi, se però noi non li superassimo sopra tutto per una sola, ma sovraumana
prerogativa, cioè il divino dono della Religione cristiana».
5 Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. Firenze 1967, I,
p. 140. Il giudizio negativo sui Cinesi ritorna anche nell'Estetica di Hegel
(cfr. Estetica, Introduzione, IV, 1 e parte III, Sez. III, Cap. III, C 1.31),
tuttavia qui esso è mitigato da una valutazione positiva: «L'orientale, nel suo
internarsi, è meno preoccupato di sé, quindi è privo di spasimi e nostalgia; il
suo desiderio rimane una gioia più oggettiva per l'oggetto dei suoi paragoni,
quindi più teoretico» (cfr. G.W.E. Hegel, Estetica, tr. Torino 1963, p. 464).
Sui rapporti tra Hegel e il pensiero orientale cfr. M. Hulin, Hegel et l'Orient,
Paris 1979; e E. Schulin, Die weltgeschichtliche Erfassung des Oriens bei Hegel
und Ranke, Göttingen 1958. Per verificare quanto a lungo siano sopravvissuti
i pregiudizi hegeliani in materia si veda, ad esempio, G. Misch, Der Weg in die
Philosophie, Leipzig 1926, o G. Fano, Teosofia orientale e filosofia greca,
Firenze 1949.
6 Cfr. G.W. Leibniz, Lettera... cit., IV, LXVIII, p. 174.
7 G.W. Leibniz, Prefazione... cit., p. 18.
8 Ibid., p. 22. Su Leibniz e il pensiero cinese cfr. Hilckman, Leibniz und China, «Saeculum», 18, 1967, pp. 317-321; A. Zempliner, Leibniz und die Chinesischer Pbilosophie, in Akten des Internationalen Leibniz-Kongresses, Wiesbaden
1971, pp. 15-30; e O. Roy, Leibniz et la Chine, Paris 1972.
16
9 Sulla vicenda degli interessi culturali dell'Europa per l'Oriente, con particolare riferimento alla Cina, cfr. A. Reichwein, China und Europa. Geistige
und künstlerische Beziehungen in 18. Jahrbundert, Berlin 1923; V. Pinot, La
Chine et la formation de l'esprit philosophique en France. 1640-1740, Genève
1971-2; L.A. Maverick, China, a Model for Europe, S. Antonio (Texas) 1946;
V.V. Barthold, La Découverte de l'Asie. Histoire de l'Orientalisme en Europe et
en Russie, Paris 1947; R. Etiemble, L'Orient philosophique au XVIII siècle,
Paris 1957-1961; D.F. Lach, Asia in the Making of Europe, Chicago 1965;
A.O. Lovejoy, L'albero della conoscenza, tr. Bologna 1982, cap. VII; S. Zoli,
La Cina e l'età dell'Illuminismo in Italia, Bologna 1974; R.J. Zwi Werblowsky,
L'image occidentale de la religion chinoise de Leibniz à De Groot «Diogène»,
133, 1986, pp. 113-121; P. Demieville, Les Premiers contacts philosophiques
entre la Chine et l'Europe, «Diogène», 58, 1967, pp. 83-110; P. Masson-Oursel, La connaissance scientifique de l'Asie en France depuis 1900 et les variétés de l'orientalisme, «Revue Philosophique de la France et de l'Etranger»,
779, 1953, pp. 342-358; R. Schwab, La renaissance de l'Orientalisme, Paris 1950;
J. Gernet, Visions chrétienne et chinoise du monde au XVII siècle, «Diogène»,
105, 1979, pp. 93-115.
10 Cfr. Voltaire, voce Cina in Dizionario filosofico, tr. Milano 1962, pp. 157165; A, B, C e dialoghi di Evemero, tr. Torino 1960, pp. 29-30; Trattato sulla
tolleranza, in Scritti filosofici, tr. Bari 1972, I, p. 391. Su Voltaire e la
Cina cfr. Tschang Tsong Ming, Voltaire et la Chine, Paris 1930; W. Engemann,
Voltaire und China, Leipzig 1932 e R. Pomeau, La Religion de Voltaire, Paris
19692, pp. 58-62 e 160-161.
11 Per una rassegna e una discussione critica di tali equivoci ed errori cfr. I.
Vecchiotti, La dottrina di Schopenhauer, Roma 1969. I rapporti tra Schopenhauer e la filosofia indiana sono stati oggetto di numerosissimi studi, da quello di M.F. Hecker, Schopenhauer und die indische Philosophie, Köln 1897, a
quello, recentissimo, di M. Piantelli, Rileggendo le «Upanisad» di Schopen-
hauer: alle origini del Wille, in AA.VV., Schopenhauer e il sacro, Trento
1987, pp. 91-96.
12 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. Bari 1968,
vol I, paragrafo I, p. 30.
13 Ibid., paragrafo III, p. 35.
14 Cfr., in particolare, R. Guénon, Orient et Occident, Paris 1924 (tr. it. Torino 1965); Les États multiples de l'Étre, Paris 1931 (tr. it. Torino 1965); La
Métaphysique Orientale, Paris 1939; Le Règne de la Quantité et les Signes des
Temps, Paris 1945 (tr. it. Milano 1982).
15 Cfr. R. Guénon, Introduction générale à l'étude des doctrines hindoues, Paris
1921 (tr. it. Torino 1965); L'homme et son devenir selon le Vedanta Paris
1925 (tr. it. Torino 1965); Études sur l'Hindouisme, Paris 1966.
17
16 G. Vallin, La perspective métaphysique, Paris 1977, p. 34.
17 Ibid., p. 43.
18 Cfr. Ibid., pp. 38-39.
19 Ibid., p. 53.
20 R, Guénon, Oriente e Occidente cit., pp. 167-168.
21 G. Vallin, op. cit., p. XIV. Di Vallin si vedano inoltre: Le tragique et
l'Occident à la lumière du non-dualisme asiatique, «Revue Philosophique de la
France et de l'Etranger», 3, 1975, pp. 275-288, e Pourquoi le non-dualisme
asiatique? (Eléments pour une théorie de la philosophie comparée), ivi, 2, 1978,
pp. 157-175. Soprattutto in quest'ultimo lavoro viene in chiaro che Vallin si
muove ancora e soltanto all'interno di una prospettiva che fa del comparativismo un elemento di una particolare disciplina filosofica, non cogliendolo come movimento fondamentale del filosofare stesso: «La philosophie comparée
est alors [...] le point de départ d'une véritable philosophie de l'histoire des
systèmes philosophiquesi» (p. 173).
22 Cfr. R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi cit., p. 270
23 Guénon precisa che l'Occidente, per ritrovare la propria forma specifica di
civiltà tradizionale, dovrebbe rifarsi a quel particolare periodo che «va dal
regno di Carlo Magno all'inizio del XIV secolo» (cfr. R. Guénon, Oriente e Occidente cit., p. 210). É da precisare tuttavia che il «ritorno» a cui allude
Guénon non va inteso in termini di temporalità lineare, ma secondo la cosmologia
ciclica Indu che usa i concetti di manvantara e di yoga (cfr. R. Guénon, Il Regno... cit., capitoli 5, 23, 31, 38, 40; ma, soprattutto, Considerazioni sulla d
ottrina dei cicli cosmici, «Rivista di Studi Tradizionali», 11, 1964).
24 Cfr. R. Guénon, Oriente e Occidente cit., p. 211: «In virtù dell'universalità dei principi, tutte le dottrine tradizionali hanno un'identica essenza; la metafisica è e non può che essere una sola, qualunque siano i modi diversi di
esprimerla». Vittima di un simile pregiudizio appare anche la posizione teorica e metodologica di Henry Corbin, produttrice, peraltro, di splendide analisi
comparatistiche: cfr. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, tr. Torino
1986, in particolare pp. 129-161.
Sulla scia di Guénon cfr. anche A.K. Coomaraswamy, Sapienza orientale e
cultura occidentale, tr. Milano 1975, p. 93: «Se infatti si escludono le filosofie "modernistiche" e individualistiche di oggi e si considera soltanto la
grande tradizione costituita dai più eletti spiriti filosofici, la cui filosofia, essendo pure una religione, doveva essere vissuta per venire compresa si
constata subito che le distinzioni tra cultura d'Oriente e cultura d'Occidente,
oppure tra Nord e Sud, sono paragonabili alle distinzioni tra i dialetti: tutti
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parliamo un unico linguaggio spirituale, il quale pur utilizzando parole differenti esprime le stesse idee, e molto spesso per mezzo di espressioni identiche».
Sinteticamente, questa posizione è stata espressa da Elémire Zolla in questo modo: «Quando avvengono coincidenze, è come scorgessimo un'orma angelica nel nostro mondo» (E. Zolla, Aure, Venezia 1985, p. 19).
25 Ch. A Moore (a cura di), Philosophy East and West (I), Princeton 1944,
Prefazione, p. IX. Cfr. anche Ch. A. Moore (a cura di), Philosophy East and
`est (II), Honolulu 1951; P.T. Raju, Thought and Reality. Hegelianism and
Advaita, London 1937 e Introduction to Comparative Philosophy, London
1962. Sulla linea di questi contributi si vedano i lavori pubblicati, in trentasette anni di attività, dalla rivista «Philosophy East & West», pubblicata dall'Università di Hawai (Honolulu). Per una rassegna generale di lavori comparativisti dedicati ai rapporti tra cultura orientale e cultura occidentale, cfr.
V.
Mazzarino, Oriente e Occidente nella letteratura dedicata all'incontro tra le
due culture: un rapporto preliminare, «Rivista degli studi orientali», 1978
(LII), pp. 55-89.
26 Sulla filosofia comparata come vergleichende Problemgeschichte, cfr. H. Nakamura, Parallel Developments. A Comparative History of Ideas, Tokyo 1975 e
l'importante articolo di D. Krishna, La philosophie comparée: ce qu'elle est; ce
quelle devrait être, «Diogène», 136, 1986, pp. 62-75. Su questo tipo di filosofia comparata, cfr. anche B.A. Scharfstein et al., Philosophy East/Philosophy
West. A Critical Comparison of Indian, Chinese, Islamic and European Philosophy, New York 1938.
27 É da ricordare che l'iniziatore della filosofia comparata come disciplina
specifica è stato P. Masson-Clursel con il suo saggio Objet et méthode de la
philosophie comparée, «Revue de Métaphysique et de Morale», 1911, 19, pp.
540-548. Cfr. anche Id., La phiiosophie comparée, Paris 1923.
28 j.P. Reding, Les Fondements philosophiques de la rhétorique chez les sophiites grecs et chez les sophistes chinois, Berne 1985, p. 21.
29 Cfr. F. Brunner, Une théorie de la perception dans l'Advaita Vedanta et
quelque comparaisons avec la philosophie occidentale, «Revue de Théologie et
de Philosophie», 1975, 4, pp. 252-279. Un'impostazione analoga a quella di
Brunner è rintracciabile nel bel saggio di P. Livet, Interférence entre civilisations ou dialogue autoréférent: l'ambiguité heideggerienne, «Les études philosophiques», 4, 1983, pp. 469-486; cfr. in particolare p. 469: «Il n'est donc
qu'un mode de dialogue effectif: celui qui fait communiquer les deux pensées
par la modification qu'il provoque en chacune».
30 Tuttavia anche il «dato», una volta considerato come risultato, implica necessariamente la categoria di relazione e, quindi, di comparazione.
19
Capitolo primo
Il Tao della physis: Eraclito e il taoismo
Di Eraclito si narra che attaccò gli Efesii che avevano man-
dato in esilio l'amico Ermodoro dicendo loro: «Gli Efesii, dai
giovani in su, dovrebbero tutti impiccarsi per quello che è il
loro merito e lasciare la città ai fanciulli». (1)
Si racconta poi che «alla fine, preso dal fastidio degli uomini, se ne andò a vivere sui monti nutrendosi d'erba e di piante
selvatiche» (2). Antistene, inoltre, ricorda che Eraclito rinunciò
al regno in favore del fratello (3).
Questi tre fatti: apologia della fanciullezza, ritiro dalla vita
pubblica, rinuncia al potere, segnano anche la vita e i discorsi
dei saggi taoisti. Nel Tao Tê Ching la figura del bambino come
prototipo di saggezza viene usata più volte e viene ripresa anche nel Chuang Tzu (4).
Nel Chuang Tzu troviamo anche un'indicazione per il ritiro
dalla vita sociale: «Per chi vuole evitare di prendersi cura della forma nulla di meglio che rinunciare al mondo: rinunciando
al mondo è privo di legami, essendo privo di legami è corretto
ed equilibrato, essendo corretto ed equilibrato consente alla
forma di rinnovarsi, rinnovandosi tocca il limite dei suoi giorni» (5). In questo passo emerge anche il senso profondo della fuga dal vivere «civile»: essa infatti non è un puro e semplice abbandono, una rinuncia dettata soltanto dal risentimento, ma è
un movimento di purificazione, un esercizio di äskesis, al fine
di spezzare i legami della «forma», ossia le catene imposte da
ruoli stereotipati, da rapporti di valore e di potere prestabiliti,
da convenzioni valide solo perché iterate. Il quadro generale,
in cui questa rinuncia alla vita comunitaria va inserita, è pertanto definito dalle parole: «Per l'uomo sommo non esiste
l'io, per l'uomo sovrannaturale non esiste il merito, per l'uo20
mo santo non esistono nomi» (6) É chiaro allora il motivo per
cui Chuang Tzu può affermare che «gli uomini santi si vergognano di governare» (7): non perché in generale «la politica è
sporca», ma perché in alcune circostanze storiche essa è praticata da uomini per i quali esiste solo il loro io, da persone che
agiscono solo per acquistare «meriti» in forma di denaro o di
gloria, ossia da individui che vivono «in nome di» qualcosa o
qualcuno, e che considerano i nomi, le forme, le etichette delle cose come la verità delle cose. I saggi taoisti, al pari di Eraclito, non abbandonano la convivenza sociale e la vita politica
sulla base di una motivazione ontologica o metafisica, ma perché, ad un certo punto, quando dominano i signori dell'io, i
fanatici del merito, i drogati dai nomi, la socialità e la politica
diventano invivibili: Eraclito, allora, va al tempio a giocare
agli astragali coi bambini perché i suoi concittadini, gli Efesii,
hanno esiliato Ermodoro, il Migliore; e i saggi taoisti si ritirano sui monti o in luoghi appartati quando la violenza feudale
uccide la «Virtù della Vita comune» (sbib wei thung tê) (8). Tuttavia Chuang Tzu mette in guardia contro un pericolo assai
comune, per il quale chi si ritira a vita nascosta rischia sempre
di comportarsi ancora in base ai valori dell'io, del merito, del
nome: «Aguzzare l'ingegno per rendere nobili le azioni, abbandonare il mondo per diversificarsi dal volgo, parlar alto
per disapprovare astiosamente: lo si fa solo per mettersi al di
sopra. Questo è quel che amano i letterati che si ritirano sui
monti e nelle forre, gli uomini che disapprovano il mondo; destinati agli alberi secchi e alla corsa verso l'abisso» (9).
Vi è infine un'altra analogia tra il comportamento di Eraclito e quello dei saggi taoisti: l'esercizio del consumo minimo,
l'áskesis contro lo spreco. Narra Temistio che gli Efesii, pur
assediati dai Persiani, non riuscivano a por freno ai loro spre-
chi: a testimoniare che si può vivere con poco, Eraclito prese
un po' di farina d'orzo, la intrise d'acqua e si mise a mangiarla (10). E Chuang Tzu racconta che il saggio taoista Shih nan tzu
visse conforme a queste parole: «rendi minimi i tuoi consumi
e scarse le tue brame ed anche senza provviste avrai a sufficienza» (11).
Il confronto tra Eraclito e i saggi taoisti non interessa tutta21
via né soltanto né in primo luogo gli aspetti biografici: anzi,
interessa soprattutto i contenuti filosofici degli scritti che il
pensatore greco e i saggi cinesi ci hanno lasciato. Un primo
confronto riguarda i concetti di physis e di Tao. Contro la legittimità di questa prima e fondamentale analogia si potrebbe
obiettare che, propriamente, Tao non significa «Natura», che
in cinese si rende piuttosto con Tzu jan. Si può rispondere ricordando che Tzu jan significa letteralmente «ordine spontaneo» e che, proprio in tale accezione, si avvicina molto al significato di Tao che di solito viene tradotto con «via», ma
che, con maggior rigore, andrebbe tradotto con «ordine della
natura», come ha suggerito Needham (12). «Ordine della natura»
che, però, non va inteso quale sinonimo di «struttura statica»,
di «schema» della natura, né come insieme delle leggi di natura, ma piuttosto come ciò che fa essere ciascuna cosa, ciascun
fenomeno e le infinite combinazioni di cose e fenomeni, così
come sono. In questo «fa essere» non v'è traccia di un rapporto creazionistico: il Tao «veste e nutre le creature ma non se
ne fa signore» (13), «le fa vivere ma non le tiene come sue» (14). Il
Tao è dunque l'ordine immanente della natura, l'infinita forza
creativa-distruttiva, ossia trasformatrice, della natura: si potrebbe dire sinteticamente che esso si identifica con la potenza
generale della natura, assumendo «potenza» nell'accezione più
vicina al senso etimologico originario di potentia, derivato da
potis esse, esser capace. Ma Tao è termine che indica anche la
natura propria, specifica, di ogni ente o insieme di enti, ovvero la qualità intrinseca di ogni fatto o insieme di fatti. In tal
senso si potrebbe dire che Tao si identifica con Tê che indica
«virtù» non secondo un'accezione moralistica di «comportamento adeguato ad una norma etica», ma secondo un'accezione «biologica» che rende meglio il significato originario di virtus, di «capacità». Pertanto il Tao non è soltanto ciò che fa essere ogni cosa quella che è, ma anche il modo d'essere di ogni
cosa: esso non è soltanto «il grande Tao» (15), il Tao come potenza generale, ma è, contemporaneamente, il Tao come potenza particolare, quello che fa sì che il cielo non si squarci,
che la terra non si fenda, che la valle non si inaridisca, che le
creature non si spengano (16), quello che fa sì che «un trave può
22
aprire una breccia, ma non può otturare un buco» (17). Usando
una terminologia cara alla più vieta scolastica filosofica si dovrebbe dire a questo punto che il Tao è contemporaneamente
- ergo paradossalmente - Uno e molti, Universale e particolare, Generico e specifico, Trascendente e immanente. Ma,
proprio dove la scolastica filosofica occidentale separa e definisce sulla base di opposizioni, sono da cercare, nelle differenze, le ragioni e le forze delle connessioni: per quanto riguarda
il Tao, allora, appare chiaro che ogni cosa, realizzando se stessa, segue il proprio Tao e, seguendo il proprio Tao, realizza il
«grande Tao». In un famoso aneddoto taoista il cuoco Ting
dice al principe Wen-hui che si meraviglia per la sua abilità
nello squartare un bue: «Ciò che il suddito ama è la via [...]
La preferisce all'abilità. Quando il suddito cominciò a squartare buoi non vedeva altro che il bue, dopo tre anni già non
vedeva più il bue intero, oggi lo considera con lo spirito non
lo guarda cogli occhi. Mi astraggo dalla conoscenza dei sensi e
procedo secondo la volontà dello spirito, attenendomi ai principi naturali: attacco i grandi interstizi e m'apro una via nelle
grandi cavità, seguendone il corso naturale» (18). Ciò significa
che seguendo quello che, malamente, si potrebbe definire
«Tao dell'oggetto», ossia seguendo «il corso naturale» degli interstizi e delle cavità, il cuoco realizza il «grande Tao»; non
solo: nel momento in cui realizza il «Tao dell'oggetto» e il
«grande Tao», il cuoco realizza anche la propria natura, estrinseca la propria potentia, pratica la propria virtus o Tê, realizza,
insomma, il proprio Tao. In effetti, col tagliare nel migliore
dei modi - ossia seguendo la «natura della cosa» - il cuoco
realizza anche la propria natura, e, nell'eseguire queste due
«operazioni», ne esegue in realtà una sola: realizza il grande
Tao, cioè «è nella Via». La grande via non è infatti separata
dalle «vie» particolari: queste non si danno se non come segni
di quella, ma quella non esiste se non nell'infinita varietà di
queste. Usando una terminologia tratta dalla migliore tradizione filosofica occidentale, si potrebbe dire che il «grande
Tao» è la condizione di possibilità per ciascun Tao particolare:
che la grande Via è il trascendentale di ogni «via» individuale.
Nel Lieb Tzu ciò viene spiegato molto bene, anche senza l'aiu23
to dei concetti kantiani. L'autore elenca venti tipi di comportamento umano, divisi in cinque gruppi di quattro; per ciascun gruppo dice: «passano insieme nel mondo, ciascuno seguendo la propria inclinazione» e conclude dicendo: «Questi
sono i comportamenti della generalità degli uomini. Non sono
identici per l'apparenza ma sono eguali nella Via, che si riconduce al decreto celeste» (19).
Ora, di per sé, il grande Tao non può essere detto o indicato: ciò che appare e che può essere detto o indicato è il Tao
particolare di una cosa o di un fatto. Il grande Tao, per mantenere la sua qualità di «condizione di possibilità» per ogni
Tao particolare, deve tenersi nascosto (20) e vuoto (21). Se il grande
Tao si potesse indicare o dire diverrebbe immediatamente un
«piccolo Tao», il Tao di una cosa o di un evento particolare, il
Tao di una parola o di un gesto individuale. D'altra parte si è
visto con l'aneddoto del cuoco Ting che una cosa e un evento
realizzando il proprio Tao, ossia essendo se stessi in condizioni di spontaneità, realizzano anche il grande Tao: ciò significa
che quest'ultimo non può esistere se non nella costellazione
infinita delle determinazioni; ciò comporta che può essere
considerato nascosto solo «astrattamente», cioè solo come denominatore comune ricavato dalla molteplicità infinita delle
determinazioni. Quindi il grande Tao: a) non può essere assolutamente palese perché, per esserlo, dovrebbe determinarsi
in qualcosa di particolare; b) non può essere assolutamente nascosto perché, se così fosse, non se ne potrebbe parlare e non
si potrebbe nemmeno pensarlo. Riprendendo le famose metafore del vaso, della finestra e del mozzo contenute nel capitolo XI del Tao Tê Ching, si può dire allora che se il Tao come
vuoto fosse assoluto, ossia separato dalle funzioni del vaso,
della finestra e del mozzo, non esisterebbero né vaso, né finestra né mozzo; d'altra parte, se il Tao come vuoto si determinasse completamente nel vaso, nella finestra e nel mozzo, al
punto da identificarsi con questi oggetti e con le loro funzio-
ni, esso non esisterebbe. Il Tao come vuoto è invece condizione di possibilità di questi oggetti e delle loro funzioni, è il loro
«trascendentale»: in tal senso esso è simultaneamente universale-trascendente e individuale-immanente, proprio come l'aria
24
è diffusa, comune, «universale» e, contemporaneamente, propria del respiro di ogni essere vivente (22). Il Tao non è dunque
nascosto come se fosse un Assoluto trascendente o una divinità separata dal mondo, ma nel senso che non è immediatamente manifesta la connessione tra universale e particolare che
lo costituisce.
Analogo ragionamento può esser fatto a proposito del concetto di physis usato da Eraclito. Per cogliere l'analogia è tuttavia necessario innanzi tutto sgombrare il campo dagli equivoci che potrebbero sorgere dalla etimologia privilegiata da
Heidegger secondo la quale il termine physis deriverebbe dalla
radice pha e sarebbe da ricondursi nell'area semantica di phaino e phainomai e dunque ai significati di «mostrare» e «mostrarsi» (23). Il termine physis deriva in realtà dalla radice phy
che rimanda ai significati concentrati attorno al verbo phyo
che indica, transitivamente, l'azione di «nutrire», «far crescere (qualcosa)» e, intransitivamente, l'attività di «nutrirsi»
«crescere» (24). La Natura, dunque, è ciò che nutre le cose, che
le fa crescere, ma, contemporaneamente, è anche il modo in
cui le cose, nutrendosi, crescono; ossia, in altri termini, essa è
anche la «natura propria» di ciascuna cosa, il suo proprio modo d'essere che coincide - come si vedrà meglio più avanti col proprio modo di divenire, di trasformarsi, di crescere. Ora,
venendo ad Eraclito, abbiamo un solo frammento in cui esplicitamente si parla di physis, ed è un frammento tra i più enigmatici: «La natura ama nascondersi» (physis kryptesthai philéi). (25). Alla luce della precisazione etimologica appena ricordata viene da chiedersi: quale natura ama nascondersi? Quella
generale che nutre ogni cosa, o quella propria a ciascuna cosa
a cui accenna lo stesso Eraclito nel frammento n. 1? (26) Non
troppo nascosta deve essere questa seconda, dato che la «natura propria di ciascuna cosa» per lo più appare chiaramente nell'essere una cosa quella che è e non un'altra (27). Più incline a
nascondersi - in particolare ai tempi di Eraclito in cui le
scienze naturali non avevano fatto grandi passi oltre la soglia
dell'animismo - appare la natura in generale, quella Natura
universale che prenderà poi vari nomi: «Leggi di Natura»,
«Ordine universale», «Principi di Natura», ecc. Tuttavia ciò
25
che da sempre risulta più nascosto, più segreto, più difficile
da cogliere e da studiare, è il fatto che la Natura universale e
le nature particolari, ossia ciò che fa crescere e i modi di ciò
che cresce non sono disgiungibili: ciò che fa crescere non potrebbe darsi senza le infinite cose che fa crescere, né queste
potrebbero esistere senza quello. Ciò che la natura nasconde
non è la sua essenza universale né i suoi modi particolari, ma
il nesso che lega quella a questi, proprio come, a proposito del
Tao, ciò che si nasconde non è il grande Tao né il Tao di ciascuna cosa, ma il nesso tra il primo e il secondo. É un frammento di Eraclito che aiuta a comprendere il carattere connettivo della physis: «Connessioni: intero e non intero, convergente divergente, consonante dissonante: e da tutte le cose
l'uno e dall'uno tutte le cose» (syllapsies óla kai óla, sympherómenon diapherómenon, synadon diadon, kai ek panton én kai ex
enós panta) (28). L'interessante di questo frammento non sta tan-
to nella presentazione del concetto di syllapsis - già di per sé
interessante perché, come si vedrà, è assimilabile a quelli di
lógos xunós e di armonie aphanés - ma sta nel fatto che la
connessione è relativa a coppie di contrari: ciò significa, alla
luce di quanto abbiamo detto finora, che la Natura universale
non è una sostanza semplice che si determina secondo un andamento «verticale», come se essa stesse sotto o sopra e, in
ogni caso, prima delle nature particolari, ma si dispiega «orizzontalmente» nella molteplicità infinita dei contrari, delle differenze, delle opposizioni. Physis non è dunque ente metafisiio che si incarna ora in questa ora in quella creatura dell'universo, ma è energia diffusa in quanto forza che fa crescere, presente in ogni essere vivente: ed è forza che fa crescere mediante una dinamica differenziale, attraverso connessioni di
contrari.
La forma della syllapsis interessa la Natura anche per un secondo aspetto o, per meglio dire, ad un secondo livello: infatti
la Natura non è solo energia che produce enti o eventi mediante connessioni di contrari ma è la condizione d'esistenza
di ogni possibile connessione. La syllapsis, cioè, non si stabilisce soltanto tra le singole cose contrarie o tra aspetti contrari
di ciascuna cosa, ma anche tra le cose e ciò che rende possibile
26
ogni syllapsis. Il frammento di Eraclito, infatti, per spiegare
dove agisce la connessione indica innanzitutto una serie di
contrari («intero non intero, convergente divergente» ecc.) e
specifica poi la relazione tra le cose e l'Uno («e da tutte le cose
l'uno e dall'uno tutte le cose»): ciò che la Natura ama nascondere di sé è la capacità di produrre cose ed eventi secondo la
regola dei contrari, ma è anche la relazione intrinseca tra sé e
le cose. Ciò che, in definitiva, la natura ama nascondere è costituito proprio da queste due modalità di syllapsis: le connessioni tra le cose che essa continuamente produce, e la connessione tra le infinite connessioni e se stessa come energia infinitamente producente. A questo riguardo è importante che
Eraclito affermi «da tutte le cose l'uno», perché ciò significa
che l'uno, la Natura, non è un ente metafisico che esiste separato dalle cose, nelle quali, in un secondo momento, si manifesta, ma è un universo costituito dalle cose stesse.
Tuttavia la Natura non è riducibile alla somma di tutte le
cose: non solo perché non si dà somma di infinite cose, ma
perché la Natura è condizione d'esistenza delle infinite cose
così come il numero uno è condizione d'esistenza degli infiniti
numeri. Il «mistero» della connessione di primo livello (tra le
cose) e di secondo livello (tra la Natura e le cose) si chiarisce
ulteriormente se ci si rifà alla metafora taoista del vuoto usata
nel racconto del cuoco Ting: la realizzazione del Tao nell'arte
della macellazione consiste nel saper utilizzare il contrasto
pieno-vuoto, ma anche nel sapere che il vuoto è uno, comune
tanto all'oggetto (il bue) quanto al soggetto (il cuoco) che si fa
vuoto per meglio cogliere e percorrere i vuoti dell'oggetto. Parimenti la funzione e, quindi, l'esistenza del vaso, della finestra, del mozzo, è data dalla relazione di contrasto, dalla sillapsis tra pieno e vuoto, ma, nel contempo, il vuoto è uno nel
senso che è comune condizione di funzionalità, ossia di esistenza, di ogni cosa. Analogamente al Tao, la physis è «natura
propria» di ciascuna cosa secondo il modo della syllapsis dei
contrari e, contemporaneamente, è Natura universale in quanto condizione d'esistenza comune alle infinite cose. Quel
«contemporaneamente» ha evidentemente un valore radicale:
significa che il grande Tao, la natura universale, non è causa
27
degli infiniti Tao particolari, delle singole «nature proprie»,
ma è costituito da essi; d'altra parte i singoli Tao, le «nature
proprie», non sarebbero senza il grande Tao, senza la Natura
universale che le «nutre». É questo il senso delle parole di
Eraclito «da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose»; senso
che si ritrova, identico, nel Chuang Tzu: «le diecimila creature
ed io siamo l'Uno». (29)
Ora, se si prende il capitolo II del Tao Tê Ching, si può trovare un discorso assai simile a quello contenuto nel frammento 19 di Eraclito: «essere e non essere si danno nascita fra loro/ facile e difficile si danno compimento fra loro/ lungo e corto si danno misura fra loro/ alto e basso si fanno dislivello fra
loro/ tono e nota si danno armonia fra loro/ prima e dopo si
fanno seguito fra loro». (30). Ciò che importa qui, come nel caso
delle opposizioni indicate da Eraclito (intero-non intero ecc.),
non è la natura dei termini delle opposizioni, ma la qualità del
rapporto di opposizione, ossia la natura della syllapsis: non si
tratta infatti di un contrasto statico, dove i contrari si fronteggiano nella loro reciproca estraneità, ma di un contrasto
dialettico dove un termine sussiste solo perché sussiste il termine opposto, dove, cioè, si realizza dinamicamente una complementarità ontologica. É questo, evidente, il senso del verso
«essere e non essere si danno nascita fra loro»; senso che diventa chiarissimo da questo passo del Chuang Tzu che anticipa
di quasi un millennio il centro della dialettica hegeliana:
Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso. Questa verità non la si vede a partire dall'altro, ma
si comprende partendo da se stessi. Così è stato detto:
l'altro proviene da se stesso, ma se stesso dipende anche
dall'altro. Si sostiene la teoria della vita, ma in realtà la
vita è anche la morte e la morte è anche la vita. Il possibile è anche impossibile e l'impossibile è anche possibile. Adottare l'affermazione è adottare la negazione; fare
propria la negazione equivale a far propria l'affermazione. Così il santo non adotta alcuna opinione esclusiva e
s'illumina dal cielo. É, anche questa, una maniera di far
propria l'affermazione. Se stesso è anche l'altro; l'altro
28
è anche se stesso. L'altro ha un proprio concetto dell'affermazione e della negazione. C'è davvero una distinzione tra 1'altro e se stesso, o non c'è affatto? Che l'altro e se stesso cessino di opporsi, questo è il perno del
Tao. (31)
Si chiarisce allora, alla luce di questo passo straordinario,
anche l'apparente contraddizione tra il fatto che il Tao è «madre delle diecimila creature» (32) e il fatto che «sembra il progenitore delle diecimila creature» (33): il Tao è, certo, ciò che fa
nascere le diecimila creature, ma non - come appare superficialmente ai più - secondo il modo di un Sommo Creatore
diverso per natura e superiore per valore rispetto alle creature, ma - come è chiaro al saggio che ne coglie la dinamica nascosta - secondo il modo in cui le «creature» stesse si danno
reciproca nascita, che è il modo della connessione dinamica
tra opposti complementari. Il Tao, come la physis, non è trascendente rispetto alle cose: è invece la «via», il modo in cui
le cose esistono e, contemporaneamente, la condizione per cui
esistono; questa «via», questo modo è, in Eraclito, quello del-
la syllapsis dei contrari e, nel taoismo, quello della «nascita reciproca» (34). Nulla meglio della polarità Yin/Yang - prototipo
di ogni polarità - indica l'impossibilità di intendere il Tao
come qualcosa di trascendente (35). Com'è noto Yin e Yang in origine designavano, rispettivamente, la parte in ombra e la parte
al sole di una montagna. Ora niente di meglio di questa esemplificazione empirica mostra che la connessione di complementarità tra contrari non è disgiungibile dall'«oggetto» a cui si
riferisce: il lato in ombra e il lato al sole sono inseparabili non
soltanto tra loro, poiché appartengono alla medesima montagna, ma anche dalla montagna stessa, la quale non può darsi se
non avendo un lato in ombra e uno al sole, così come una giornata non può esistere senza avere una parte di giorno e una di
notte (36). Quindi Yin e Yang non sono derivazioni del Tao, ma
suoi costitutivi modi d'essere: anzi, a rigore, si dovrebbe dire
«suo costitutivo modo d'essere», dato che il Tao non si dà mai
soltanto nella forma Yin o soltanto in quella Yang, ma, sempre, in un nesso di polarità reciproca di Yin e Yang. Parimenti,
29
i contrari eraclitei non derivano dalla physis come sue «creature», ma costituiscono, nella loro reciproca tensione dinamica,
il modo di funzionamento della physis, ossia il suo lógos. Ora
proprio il termine lógos denota il modo d'essere e di operare
della physis non soltanto in senso generico, ma in quel senso
specifico che emerge grazie alla mediazione del concetto di syllapsis: infatti il modo d'essere e di operare della Natura è connotato, come si è visto, da una serie infinita di connessioni, e
il significato a cui rimanda il termine lógos è proprio «rapporto», «nesso» (37). Quindi lógos, al pari di syllapsis, è termine e
concetto che sta ad indicare il modo d'essere e di operare della
physis. Lo stesso Eraclito sembra voler ribadire un'analogia di
fondo tra lógos e syllapsis, tra l'attività del «mettere insieme»
«legare» (léghein) e quella del «raccogliere», «riunire» (syllambanein): nel frammento 6, infatti, sostiene che, dando ascolto
al lógos, «è saggio dire che tutte le cose sono una» (38); ciò equivale a dire che, non appena si comprende il nesso che lega tutte
le cose, si comprende che «da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose» (fr. 19). Nel frammento 7, poi, Eraclito rafforza ulteriormente il carattere connettivo del lógos, dicendo che esso
è xynós, «comune» nel senso di «appartenente ad ogni cosa» (39).
Quindi il lógos, proprio in quanto nesso, connessione, syllapsis,
è xynós, comune a tutte le cose, ossia è ciò che garantisce la relazione tra tutte le cose. Si è visto peraltro che tale relazione
non è accidentale, non si instaura tra cose che già esistono indipendentemente da essa, ma è sostanziale, nel senso che le
cose esistono solo perché sono in relazione di contrasto complementare (40); si è visto anche che questa relazione di contrasto complementare è il modo d'essere e di operare della physis.
Quindi risulta evidente che la realtà a cui rimandano i concetti
di lógos, xynós, syllapsis è quella di un operare secondo connessioni che è proprio della physis.
Se alla Natura è proprio il connettere che si ritrova al fondo
del léghein, dello xynéin e del syllambanein, ad essa appartiene
anche l'armózein che sta alla base dell'armonia di cui parla
Eraclito nei frammenti 26 e 27. Ed è proprio nel frammento
27 che si trova il miglior commento alle parole «la natura ama
nascondersi»: «Armonia invisibile della visibile è migliore».
30
Ora, ricordando che alla base di armonie sta il verbo armózein
che significa «connettere», «collegare», e che la modalità co-
stitutiva dell'essere e dell'operare della Natura è proprio il
connettere che si ritrova al fondo di lógos, di xynós e di syllapsis, si può dire che ciò che la Natura ama nascondere è la propria struttura e la propria funzione connettiva.
A questo punto potrebbe sorgere un problema: se syllapsis,
lógos e armonie indicano tutti la funzione della Natura di connettere, collegare, riunire, come si può sostenere che anche il
contrario, ossia pólemos, il conflitto, il contrasto, sia xynós,
comune, secondo quanto Eraclito dice al frammento 15? (41) Innanzitutto si dovrebbe osservare che, in generale, il conflitto
non è che una forma specifica di relazione, di connessione;
ma, in particolare, si deve far notare che in Eraclito è proprio
la tensione che caratterizza il conflitto a produrre armonie, come risulta chiaramente dal frammento 20 («Non intendono
come da sé discordando seco stesso concordi») e, ancor più
chiaramente, dal frammento 26 («Armonia che da un estremo
ritorna all'altro estremo come nell'arco e nella lira») e dal
frammento 24: «Ciò che contrasta concorre e da elementi che
discordano si ha la più bella armonia» (42). Il contrasto, pólemos,
tra le estremità che vengono tenute insieme nella lira e nell'arco, è proprio ciò che consente non solo il realizzarsi della forma di questi due strumenti, ma anche e soprattutto il dispiegarsi della loro funzione: senza contrasto le due estremità non
potrebbero stare assieme, «armonizzarsi», e senza questa «armonizzazione» di contrari lira e arco semplicemente non esisterebbero (43). Questa armonia, proprio perché si fonda sul
conflitto, è invisibile (afanés): l'armonia visibile si fonda invece su un'omogeneità statica, come nel caso della simmetria. E
proprio perché possiede un carattere conflittuale è migliore,
«più forte» (kréisson): l'armonia visibile, fondata sull'identità
e sull'immobilità degli elementi che essa tiene assieme, non
produce nulla, si dà come puro oggetto di contemplazione; al
contrario l'armonia invisibile, in quanto fondata sulla differenza e, quindi, sulle tensioni da questa prodotte, genera azione, dà origine a movimenti molteplici, siano essi i diversi tiri
dell'arco o le varie note della lira.
31
A questo punto, allora, si può ribadire che ciò che la Natura «ama nascondere» è la propria struttura e funzione connettiva denotata dai concetti di lógos, xynós, syllapsis, armonie;
ma si deve anche aggiungere che tale struttura e funzione connettiva ha come carattere fondamentale, costitutivo, il conflitto, pólemos: esso è alla base del léghein, dello xynéin, del
syllambanein, dell'armózein; ed è esso che rende migliore l'armonia invisibile rispetto a quella visibile. Si può dunque affermare che ciò che la Natura «ama nascondere» non è solo la
propria capacità di produrre connessioni, ma anche la qualità
conflittuale di tali connessioni (44).
La logica che presiede al discorso di Eraclito, contenuto dei
frammenti 20, 24, 26, si ritrova, pressoché identica, non solo
ai vv. 7-12, già ricordati, del capitolo II del Tao Tê Cling («essere e non-essere si danno nascita tra loro», ecc.), ma anche ai
vv. 1-6 del capitolo LXXVII: «La Via del cielo/ com'è simile
all'armar l'arco/ Quel ch'è alto viene abbassato/ quel ch'è basso viene innalzato/ Quel che eccede viene ridotto/ quel che difetta viene accresciuto/ La Via del Cielo/ è di diminuire a chi
ha in eccedenza/ e di aggiungere a chi non ha a sufficienza».
Con l'operazione di armare l'arco, nella quale si esplicita la
tensione che tiene legate le due opposte estremità, si produce
«la più bella armonia» di cui parla Eraclito al frammento 24:
mediante una «discordia» si produce quella «concordanza» a
cui si allude nel frammento 20. Per Eraclito questa connessione dialettica che produce armonia mediante conflitto non è un
modo tra i tanti con cui opera la Natura, ma è il modo fondamentale con cui essa si dispiega producendo cose ed eventi: «il
conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re» (frammento
14). Analogamente, per i taoisti, il nesso tra Yin e Yang non è
un nesso tra gli altri, non è uno dei tanti rapporti tra opposti,
ma è il prototipo di ogni rapporto oppositivo, anzi, l'unico
nesso in grado di spiegare la costituzione delle cose e la formazione degli eventi: «Le creature volgono le spalle allo Yin/ e
volgono il volto allo Yang/ il ch'i infuso le rende armoniose» (45).
Il Chuang Tzu è ancora più chiaro al proposito, ed illustra anche le diverse modalità in cui il nesso fondamentale tra Yin e
Yang si dà: «Lo yin e lo yang si riflettono, si sovrappongono, si
32
regolano l'un l'altro; le quattro stagioni s'avvicendano, si danno origine e fine l'un l'altra. Da ciò sorgono potenti l'attrazione e l'odio, da ciò si hanno immutabili la separazione e l'unione del maschio e della femmina. Sicurezza e pericolo si danno
il cambio a vicenda, prosperità e avversità si originano a vicenda, agio e disagio si compensano a vicenda. Da essi si formano l'unione e la dispersione. Questi sono i nomi di cui è riscontrabile la realtà e l'essenza. Regolano reciprocamente l'ordine del loro susseguirsi, inducono reciprocamente il volversi
dei loro turni. Quando sono giunti all'estremo limite v'è il ritorno, quando l'uno è giunto alla fine l'altro comincia. Questo
è quanto le creature ottengono, quanto le parole esprimono
interamente e quanto la sapienza raggiunge: è la norma suprema. L'uomo che guarda il Tao non prosegue fin dove cessano
né risale fin dove cominciano. Qui è dove s'arresta ogni discussione>> (46). Lo Yin e lo Yang operano dunque secondo la
modalità dell'alternanza, come nell'esempio taoista del giorno
e della notte (CT, VII, XXI, 146), e del prima e dopo che «si
fanno seguito fra loro» (TTC, II, v. 12); modalità che è presente nel frammento 41 di Eraclito: «Le cose fredde si scaldano e le calde si fanno fredde».
Lo Yin e lo Yang operano poi secondo la modalità della
complementarità, come nei casi, già ricordati, del nesso séaltro da sé (CT, I, II, 11) e di quello tra oriente e occidente (CT, VI, XVII, 108), e come nel caso del nesso freddo-caldo: «Il sommo yin è algore, il sommo yang è calore: l'algore
s'alza verso il cielo, il calore si diffonde verso la Terra. L'intreccio di quei due forma l'armonia e le creature vengono alla
vita» (47); modalità della complementarità presente anche nei
frammenti di Eraclito: nei già citati 24 e 26, e nel frammento
35: «La malattia rende piacevole la salute e di essa fa un bene,
la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo».
Yin e Yang operano inoltre secondo la modalità della continuità; Lieh Tzu, a questo proposito, afferma: «Il principio è la
fine di qualcosa, la fine è il principio di qualcos'altro» (48); ed
Eraclito, in consonanza quasi letterale, dice: «Nel circolo
principio e fine fanno uno» (49); ancora più chiara si manifesta
questa modalità nel frammento 22: «La stessa cosa sono il vi33
vo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio:
questi mutando trapassano in quelli e quelli ritornano a questi» (50); queste parole di Eraclito sembrano ispirare quelle di
Chuang Tzu: «Per chi conosce la gioia celeste la vita è un moto secondo natura, la morte un cambiamento di forma» (51); «Il
crescere e il decrescere, il pieno e il vuoto, quando l'uno ha fine l'altro ha principio» (52).
A questo punto uno schema fondamentale di analogie tra il
pensiero di Eraclito e quello dei taoisti classici appare sufficientemente delineato: la physis, al pari del Tao, si configura
come produzione incessante di nessi; il modo di questo produrre è nascosto solo nel senso che non è immediatamente
evidente che la «natura propria», ovvero il «Tao di ciascuna
cosa», sono contemporaneamente la Natura in generale, ovvero il grande Tao; in ogni caso, sia per la physis che per il Tao
la produzione di nessi avviene attraverso mediazione di contrari che si alternano, si bilanciano, si rendono complementari.
Per delineare questo schema nel modo più conciso e coerente possibile sono stati trascurati alcuni punti fondamentali in
cui i due orizzonti di pensiero si incontrano. In particolare è
da ricordare che, tanto per Eraclito che per i taoisti, l'universo
è senza inizio e senza fine: «Questo cosmo né alcuno degli dei
lo fece né alcuno degli uomini, ma fu sempre, ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con misura e si spegne con
misura» (53), secondo le parole di Eraclito; e secondo le parole di
Chuang Tzu, ancora più concise: «Non v'è passato né presente, non v'è principio né fine» (54); o, secondo quelle di Lieh
Tzu: «La vita a cui è stata data vita è mortale, ma quello che
dà vita alla vita non ha mai fine» (55); o, secondo quelle del Tao
Tê Ching: «Il Cielo è perpetuo e la Terra perenne» (56); «Ad andargli [al Tao] incontro non ne vedi l'inizio/ ad andargli appresso non ne vedi il poi» (57).
Notevolissima rilevanza hanno inoltre le consonanze che riguardano il tema dell'impermanenza di ogni cosa: ad Eraclito
che dice «La stessa cosa sono il vivo e il morto» (E, 22, 1)
sembra replicare Chuang Tzu con le parole «non siamo mai
morti e non siamo mai vivi» (58); Eraclito, dicendo che «nello
34
stesso fiume entriamo e non entriamo» (E, 16), che «il fiume
in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque che
scorrono» (E, 52), che «il sole è nuovo ogni giorno» (E, 49);
sembra anticipare Chuang Tzu: «Sotto il cielo tutto affonda,
riemerge senza mai perire» (59), e sembra riprendere il Tao Tê
Ching: «un turbine di vento non dura una mattina/ un rovescio di pioggia non dura una giornata./ Chi opera queste cose?/ Il Cielo e la Terra./ Se perfino il Cielo e la Terra non possono persistere/ tanto più lo potrà l'uomo?» (60).
Infine il tema della relatività, sul quale Eraclito e Chuang
Tzu convergono in maniera quasi letterale. Il primo, infatti, ci
ha lasciato scritto: «Il mare è l'acqua più pura e la più incontaminata: i pesci la bevono e li tiene in vita, agli uomini è imbevibile e dà la morte» (61) e il secondo: «I pesci vivono stando
nell'acqua, gli uomini stando nell'acqua muoiono» (62).
Se sul tema dell'infinità dell'universo, su quello dell'impermanenza di ogni cosa e su quello della relatività il confronto
tra Eraclito e il taoismo classico produce convergenze esplicite
che toccano talvolta i livelli dell'equivalenza, vi è peraltro un
tema attorno al quale la convergenza, pur essendo meno esplicita e radicale, appare ancor più interessante: il tema della
saggezza. Innanzitutto Eraclito e i taoisti classici si incontrano nella condanna dell'erudizione che scambia il conoscere
molte cose col sapere molto. É nota la critica di Eraclito alla
polymathia: «Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto» (63). Ancor più radicale e insistente la critica taoista ad
ogni forma di conoscenza formale e, in particolare, a quella
praticata dai confuciani: nel Tao Tê Ching si ricorda che
«quando apparvero intelligenza e sapienza s'ebbero le grandi
imposture» (64) e che tralasciando la santità e ripudiando la sapienza «il popolo si avvantaggerà» (65) per cui «il governo del
santo svuota il cuore al popolo e ne riempie il ventre» (66); e
Chuang Tzu proclama con forza: «Grande, invero è il disordine che reca nel mondo l'amore per la sapienza. [...] La sapienza superficiale conturba il mondo» (66). Questa critica alla «sapienza superficiale», alla cultura formale, si specifica ulteriormente in una critica alla tradizione, alla cultura intesa solo come patrimonio di conoscenze sacre, immobili e immutabili:
35
questa critica è rintracciabile in Eraclito, nel frammento 95,
dove afferma che «non bisogna comportarsi come figli dei padri» (67); e, ancor più, nel frammento 126, quando, dicendo «ho
indagato me stesso», implicitamente esclude che la propria sapienza si sia costruita sulla base di dottrine precedenti, di tradizioni consolidate. Una critica ancor più esplicita si trova in
Chuang Tzu, quando chiede: «Sei capace di custodire in te
l'unità? di non smarrirti? di capire la fortuna e la sfortuna
senza bisogno di divinazione? di restare nella tua sorte? di non
seguire le antiche tracce?» (68).
Le concordanze tra il pensiero di Eraclito e quello taoista
non si danno tuttavia soltanto in negativo, sul piano critico,
ma, anzi, divengono ancora più forti quando riguardano, in
positivo, la proposta di un comune modello di saggezza. Per
quanto sostiene Eraclito al proposito sono decisivi due frammenti, il 6, dove sta scritto che «è saggio dire che tutte le cose
sono una», e il 13, dove è detto che «una è la sapienza, conoscere la mente che per il mare del Tutto ha segnato la rotta
del Tutto»: la saggezza, dunque, sta nel saper cogliere ciò che
la natura «ama nascondere» di sé, ossia la struttura e la funzione di syllapsis mediante la quale ogni cosa interagisce con le
altre in un sistema infinito di «armonie conflittuali»; in altri
termini, saggezza è capacità (potentia, virtus, tê) di cogliere il
fatto che «tutte le cose sono una» nel senso che «da tutte le
cose l'uno e dall'uno tutte le cose» (79): cogliere questo significa
conoscere il modo con cui opera la «mente del Tutto», ossia il
lógos con cui opera la physis. Analogo il «ragionamento» taoista: «le diecimila creature ed io siamo l'Uno» (70); questa connessione universale costituisce «l'orditura del Tao» (71); questa
«orditura del Tao» è prodotta e continua a prodursi secondo
la modalità per cui «essere e non-essere si danno nascita fra loro» (72); sapienza è saper cogliere questa «orditura» e il modo
con cui si produce: perciò «la grande sapienza tutto abbraccia, la
piccola sapienza distingue» (73); per questo la «sapienza collega» (74). Ma la physis, al pari dell'orditura del Tao, non è l'oggetto di contemplazione o di indagine del saggio che sta, rispetto ad esso, in una posizione esterna o, addirittura, superiore: saggezza, infatti, significa anche saper cogliere se stessi co36
me elementi di un sistema infinito di syllapsies, come «nodi»
di un'«orditura infinita». Questa precisazione sembra chiaramente implicita nel frammento di Eraclito che dice «Bisogna
spegnere la dismisura (hybrin) più che le fiamme di un incendio» (75): se la realtà è costituita da un insieme infinito di connessioni prodotte dalla physis, l'uomo in generale, ma anche il
saggio, è un elemento particolare di tale insieme, uno degli infiniti casi di connessione, non il centro di un universo finito
che può formare e dominare a piacere, con «tracotanza» (hybris); anzi: la saggezza del saggio sta proprio nello «spegnere»
questa tracotanza, questa dismisura che tende a trasformare
un caso di connessione nel centro di tutte le connessioni. Che
la saggezza consista nel riconoscere la connessione tra le cose
e nel frenare la hybris è tema costante degli scritti taoisti:
«Appaiono separate o unite, perfette o guaste, le creature non
hanno perfezione o guasto, ma sono ancora identiche fra loro.
Solo chi ha un'intelligenza penetrante riconosce che sono
identiche fra loro. Pertanto costui non s'ingegna ma si rimette
a ciò che è invariabile: l'invariabilità è l'utilità, l'utilità è comprensione, la comprensione è ottenimento. Giunto all'ottenimento ha finito e quindi s'arresta. Arrestarsi senza sapere perché è così dicesi Tao» (76). Il saggio, colui «che ha un'intelligenza penetrante», non coltiva l'erudizione, non «s'ingegna» ad
apporre etichette, ad abusare delle parole (77), a perpetuare pregiudizi: non presume di «sistemare» la realtà una volta per
tutte, si limita a conoscere e seguire «la natura delle cose».
Questa consonanza di fondo tra l'idea di saggezza presente
in Eraclito e quella ribadita dai taoisti non può che produrre
un atteggiamento comune anche nei confronti dell'impossibilità di comunicarla mediante i semplici strumenti del sapere
concettuale e dei codici linguistici: pertanto Eraclito che constata come «non intendono gli uomini questo Discorso che è
sempre né prima di udirlo né quando una volta lo hanno udito» (78), sembra essere lo stesso che, nel Tao Tê Ching, ha lasciato scritto: «Le mie parole con assai facilità s'intendono (79) e con
assai facilità si attuano, ma nessuno al mondo sa intenderle, (80=
nessuno al mondo sa attuarle» (81).
La concordanza di Eraclito e dei taoisti nel trovare difficol37
tà a comunicare il loro «facile» discorso non è casuale né superficiale: essa si radica in un comune modo d'intendere l'origine e la struttura della saggezza. Eraclito, infatti, nel frammento 76 connette direttamente la saggezza al conoscere se
stessi (82) e, nel frammento 126, dice «ho indagato me stesso»
(edizésamen emeoytón): ciò significa che il costruire la saggezza
coincide con l'indagare se stessi. Considerazioni analoghe troviamo nei testi taoisti: «Quando il santo governa cura forse
l'esteriore? Si corregge e poi agisce, sicuro di riuscire nelle sue
imprese» (83); «Correggere se stessi, null'altro. La pienezza della
felicità sta nel realizzare le proprie aspirazioni» (84); «Chi compie viaggi esteriori cerca la completezza nelle cose, chi si dà alla contemplazione interiore trova la sufficienza in se stesso» (85).
«Senza uscir dalla porta/ conosci il mondo/ senza guardar dalla
finestra scorgi la Via del Cielo/ Più lungi te ne vai meno conosci»; <Chi ostruisce il suo varco/ e chiude la sua porta/ per
tutta la vita non ha travaglio/ chi spalanca il suo varco/ ed accresce le sue imprese (86) per tutta la vita non ha scampo». (87) A
prima vista le affermazioni eraclitee e l'insistenza taoista sulla
necessità di volgersi all'interiorità sembrano voler suggerire
una via solipsistica alla saggezza (88). Una simile conclusione sarebbe tanto affrettata quanto insostenibile, a meno di non voler considerare questi passi di Eraclito e dei taoisti in modo
astratto, isolandoli da altri passi che ne completano ed approfondiscono il significato. Per questo lavoro di completamento
e di approfondimento è sufficiente, nel caso di Eraclito, ricordare il contenuto della seconda parte del frammento 6: è saggio dire che tutte le cose sono una (89). Ora l'io, il soggetto e la
sua interiorità non si sottraggono alla legge universale, al lógos
xynós in forza del quale «tutte le cose sono una»; in altri termini, anche il «se stessi» del frammento 76 e il «me stesso»
del frammento 126 si costituiscono, al pari di «tutte le cose»,
non come elementi isolati e fissi, ma come risultati provvisori
di syllapsies sempre diverse, come prodotti «aperti» di connessioni sempre nuove. Analogamente, i passi taoisti appena citati, apparentemente favorevoli ad una via interiore alla saggezza, esplicano il loro significato più autentico e integrale se
vengono letti e pensati alla luce dei passi, già ricordati, in cui
38
è detto che «le diecimila creature ed io siamo l'Uno» (90) e che
«ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso». (91). Anche
qui, come nel caso di Eraclito, il significato è chiaro: la soggettività, come qualsiasi altro «essere», si costituisce solo in
rapporto ad altri «esseri», in una dialettica di «nascita reciproca». Ciò non entra affatto in contraddizione col richiamo all'interiorità per la costruzione della saggezza: l'interiorità è un
campo di indagine particolarmente adatto - forse solo perché
più prossimo alla soggettività - per osservare struttura e funzionamento della realtà. Indagando se stessi non si perviene a
un nucleo interiore saldo e puro - come, per esempio, nel caso del cogito ottenuto da Cartesio mediante dubbio metodico
- ma, al contrario, si giunge a constatare la struttura dinamica e relazionale (dinamica perché relazionale) dell'io (92). La saggezza, in definitiva, consiste nel saper cogliere questa struttura: al contrario la polymathia, per Eraclito, e la «sapienza superficiale», per i taoisti, concepiscono la realtà come un insieme di cose irrelate e fisse, descrivibile con qualche sistema di
definizioni isolate e immutabili. Il processo con cui si diventa
saggi non comporta dunque la perdita della soggettività, ma, al
contrario, l'ottenimento di una soggettività che è tanto più
ampia quanto più manifesta di essere costituita e di svilupparsi mediante connessioni infinite (93). In tal senso si può equiparare, con Eraclito, la saggezza alla mania (94) e, con i taoisti, la
saggezza alla condizione di vuoto (wu) (95); con l'avvertenza, però, che ciò non significa affatto un cedimento a forme di irrazionalità, ma produzione di una razionalità più complessa, per la
quale non soltanto il mondo ma anche il soggetto umano è solo in quanto si trasforma mediante infinite connessioni conflittuali: per essa la Natura (physis) non equivale a Materia (hyle),
ma a ciò che cresce e fa crescere mediante interazioni (syllapsies) di differenze; per essa Tao non equivale a Nulla, ma al
modo con cui ciascuna cosa nasce, vive e muore essendo sempre, contemporaneamente, sé e altro da sé.
39
1 Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 1, 2.
2 Ibid., IX, 1, 3.
3 Ibid., IX,1, 6.
4 Cfr. Tao Tê Ching, XX, v. 13 e IV, V,2 (in Testi taoisti a cura di F. Tomassini, Torino 1977). Cfr. anche Chuang Tzu, VIII, XXIII, 171 (in Testi
taoisti cit., p. 534). D'ora in poi, nelle note il Tao Tê Ching verrà indicato
con la sigla TTC, il Chuang Tzu con la sigla CT e il Lieh Tzu con la sigla LT.
5 CT, VII, XIX, 121. Ma Lieh Tzu mette in guardia contro i due estremi di
chi «se ne va dalla terra del suo villaggio, abbandona i sei parenti, rovina gli
affari familiari, viaggia per ogni dove senza tornare» e di chi, all'opposto,
«dà importanza alla forma e alla vita, esalta l'abilità e la capacità, cura la
fama e la lode» (LT, I, 9).
6 CT, I, 1, 3.
7 CT, V, XII, 85. Cfr. anche CT VI, XVII, 112; IX, XXVII, 223; IX,
XXIX, 230 e l'intero capitolo XXVIII del libro IX.
8 Cfr. J. Needham, Scienza e civiltà in Cina, tr. Torino 1983, vol. II, p. 125.
9 CT, VI, XV, 105.
10 Themistios, Perì aretés, 41, «Rheineisches Museum für Philologie», 27,
1872, p. 457.
11 CT, VII, XX, 136. Cfr. anche TTC, XLVI.
12 Cfr. J. Needham, op. cit., p. 47. Per la traduzione del termine Tzu Jan con
«natura» cfr. A.W. Watts, Il Tao: la via dell'acqua che scorre, tr. Roma 1977,
pp. 58-59.
13 TTC, XXXIV, vv. 6 7.
14 TTC, LI, v. 13.
15 Cfr. TTC, XXV.
16 Cfr. TTC, XXXIX, vv. 11-20
17
18
19
40
20
CT, VI, XVII, 108.
CT, II, III, 20.
LT, VI, 85.
Il
Cfr. TTC, I e XIV.
21 Cfr. TTC, XI.
22 Cfr. Da Liu, Il Tao e la cultura cinese, tr. Roma 1981, p. 92: «Il termine
ch'i viene normalmente tradotto "vitalità" , ma lo si può rendere anche con
"respiro". Viene considerato un tipo di energia vitale che pervade il corpo e
perfino lo spazio che lo circonda, un'energia che sostiene il movimento e tutte le attività dell'esistenza quotidiana. Lo si identifica anche col respiro, poiché la sua funzione corroborante e purificatrice dei tessuti in tutto il corpo.
Si compie mediante la sua circolazione attraverso i "canali psichici", che è
coordinata con il ciclo respiratorio». Per la funzione «spirituale» della respirazione nel taoismo cfr. anche K. Schipper, Il corpo taoista, tr. Roma 1983,
pp. 47-48; Ch. Luk, I segreti della meditazione cinese, tr. Roma 1965, Cap. VI;
I. Granet, Il pensiero cinese, tr. Milano 1971, pp. 301 sgg.; J. Blofeld, Taoismo. La ricerca dell'immortalità, tr. Roma 1979, Cap. 8.
Non è superfluo ricordare che anche nella lingua e nella cultura greca, originariamente, il termine e il concetto di psyché designava il «respiro che tiene
in vita» (cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr.
Torino 1963, pp. 28-30); e che psyché deriva da psycho che significa «soffio»,
«respiro». Nessuna connotazione spiritualista del concetto di psyché si trova
nei frammenti di Eraclito: «le anime sono evaporazioni delle acque» (tr. it.
di C. Diano, in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Milano 1980, frammento
52, p. 27). Ma anche in Aristotele restano tracce del significato originario di
psyché, in particolare là dove sostiene l'indissolubilità di anima e corpo (Aristotele, De anima, II, 413 a).
L'analogia della psyché di cui parla Eraclito con la nozione di «respiro vitale» è stata colta molto bene da C.H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus,
Cambridge 1979, pp. 237-242.
23 Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. Milano 1968, p. 81.
24 Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire éthymologique de la langue grecque, Paris
1968, II, pp. 1233-1234. Per una discussione sul termine physis cfr. G.S.
Kirk, Heraclitus. The Cosmic Fragments, Cambridge 1954, pp. 228-231.
25 Eraclito, I frammenti e le testimonianze cit., frammento 28, p. 19 (d'ora in
poi questa edizione verrà indicata con la sigla E, seguita dal numero del frammento utilizzato).
26 E, 1: «Non intendono gli uomini questo Discorso [...], essi che di parole
e di opere fanno pure esperienza, identiche a quelle che io espongo distinguendo secondo la sua natura e mostrando come è».
27 Cfr. C. Diano, G. Serra, Commento a Eraclito, I frammenti e le testimonianze cit., p. 137.
41
4 I
28 E, 19. Su altre metafore usate da Eraclito per rendere il concetto di syllapsis, cfr. N. Boussoulas, Essai sur la structure du Mélange dans la pensée présocratique. Héraclite, «Revue de Métaphysique et de Morale», 3, 1955, pp. 287
298.
29 CT, I, II, 14.
30 TTC, II, vv. 7-12. Sulla traduzione di shiang sheng con «nascita reciproca»
o equivalenti espressioni concordano quasi tutti i traduttori italiani: A. Castellani (Firenze 1954: «si generan l'un l'altro»); P. Siao Sci-Yi (Bari 1947:
«si producono a vicenda»); L. Lanciotti (Milano 1981: «reciprocamente si generano»).
31 Zhuang-zi, tr. it. condotta su quella francese di Liou Kia-hway Milano
1982, pp. 23-24. Questa traduzione è da preferire a quella del Tomassini
(CT, p. 359) perché più accessibile a un lettore contemporaneo, sebbene sia
meno fedele al testo originale.
34 Del tutto fuorviante appare quindi l'interpretazione di Guénon secondo il
quale il Tao è da intendersi come un «unico principio appartenente in quanto
tale ad un ordine superiore di realtà» (R. Guénon, La Grande Triade, tr. Milano 1980, p. 25). Guénon non solo intende il rapporto Tao-realtà secondo un
ordine gerarchico che non compare in nessun testo taoista ma a questa distorsione, aggiunge anche quella di un antropocentrismo non soltanto assente
ma addirittura messo in crisi dalla visione del mondo taoista (cfr. Ibid., p. 31
).
35 Sullo Yin e Yang cfr. in particolare J.C. Cooper, Yin e Yang, tr. Roma
1982; Zheng Wenguang, Xi Zezong, Le cosmologie cinesi, tr. Roma 1978, pp.
46 sgg.; M. Granet, op. cit., pp. 87-110; J. Needham, op. cit., pp. 323 sgg., e
pp. 552 sgg.; Capra, Il Tao della fisica, tr. Milano 1982, pp. 165 sgg.
36 Cfr. E, 36: «Il divino è giorno-notte» (o theós emére eufróne). É da notare
che Eraclito non dice «giorno e notte», quasi a voler sottolineare la loro complementarità, la loro interdipendenza, ossia, in termini taoisti, la loro «nascita reciproca». Un'eco quasi letterale delle parole di Eraclito risuona in
questo passo di Chuang Tzu: «Tra giorno e notte non c'è distacco e non so in
qual momento finiscano» (CT, VII, XXI, 146).
37 Lo stesso Diano che ha argomentato le ragioni per tradurre lógos con «discorso» (cfr. Commento cit., pp. 89-109), nel tradurre il frammento 40, è costretto a renderlo con «rapporto». Heidegger ci sembra sia stato l'unico che
ha ricondotto il significato di lógos all'attività del raccogliere (cfr. M.
Heidegger, Heraklit. Den Anfang des Abendlándischen Denkens. Logik. Heraklits
Lehre vom Logos, in Id., Gesamtausgabe (Abt 2: Vorlesungen 1923-1944, LV),
Frankfurt am Main 1979, pp. 226-270. Sul concetto di lógos in Eraclito cfr.
anche: E. Kurtz, Interpretationen zu den Logos-Fragmenten Heraklits, Hildesheim 1971 e G. Neesse, Heraklit Heute, Hildesheim 1982, pp. 59 63. Il Laurenti, per evitare un eccesso di equivoci che può derivare dal tradurre lógos
42
nelle lingue moderne, preferisce mantenere il termine greco: cfr. R. Laurenti,
Eraclito, Bari 1974, p. 52. Sul rapporto Lógos Tao cfr. P. Woo, Begriffsgeschischter Vergleich zwischen Tao, Lögos und Physis bei Chuang-tzu, Parmenides und Heraklit, München 1969.
38 E, 6: «Non a me ma dando ascolto al Discorso, è saggio dire con esso che
tutte le cose sono una».
39 E, 7: «Perciò bisogna seguire ciò che è comune: il Discorso è comune, ma i
più vivono come avendo ciascuno una loro mente».
40 A partire dal contenuto del frammento 10 («Comune a tutti è pensare») si
potrebbe affermare che non solo le cose ma anche i pensieri esistono solo in
quanto si costruiscono attraverso relazioni.
41 E,15: «Bisogna avere alla mente che il conflitto è comune ad ambo le parti
e giustizia è contesa, e tutto accade seguendo la legge della contesa e della necessità». Ma il conflitto è «comune» anche in un senso più generale e radicale,
come suggerisce l'apertura del frammento 14: «Il conflitto è padre di tutte le
cose e di tutte è re».
42 Cfr. CT, VI, XVII, 108: «Quando sai che l'oriente e l'occidente sono opposti l'uno all'altro ma l'uno non può essere senza l'altro, ti appare certa
l'universalità dei servigi».
43 Diano ha giustamente notato che l'armonia è funzionale e non formale, dinamica e non statica, in quanto il termine palintonos implica che la tensione ar
monica non è, ma scorre da un'estremità all'altra: essa esiste solo in quanto si
muove da un'estremità a quella opposta e viceversa; ciò vuol dire che senza
estremità in contrasto, essa non sarebbe (cfr. C. Diano, Commento cit., p.136).
44 Questo «nascondimento» non ha nulla a che fare con l'inconoscibilità, e
quindi non autorizza alcuna interpretazione esoterica o irrazionalistica. Lo
stesso Eraclito avverte: «L'io credo è morbo sacro» (E, 62) e «Trastulli di
bimbi sono le credenze degli uomini» (E, 63). Che la natura ami nascondersi
non esime dal compito di studiarla ma, anzi, lo suscita: «Di molte cose devono acquistare la scienza quelli che dicono di cercare la sapienza» (E, 81) e
«una è la sapienza, conoscere la mente che per il mare del Tutto ha segnato la
rotta del Tutto» (E, 13), dove è evidente che «la mente» (ghnóme) non è nient'altro che la Physis che opera mediante syllapsies, e non una «intelligenza
trascendente» come ha ritenuto Diano (cfr. C. Diano, Commento cit., p. 113).
Ciò risulta chiaro, tra l'altro, osservando che «la mente che per il mare del
Tutto ha segnato la rotta del Tutto» si identifica con la «legge della contesa e
della necessità» seguendo la quale «tutto accade» (E, 15): la «mente» del
Tutto non è che la Natura che opera connessioni conflittuali.
45 TTC, XLII, vv. 5-7.
43
46 CT, VIII, XXV, 199.
47 CT, VII, 21, 147. Cfr. anche CT, VI, XVI1, 108.
48 LT, V, 60; cfr. anche LT, IV, 54; CT, V, XIV, 99; e TTC, XLV, vv. 8-10.
49 E, 30; cfr. anche E, 31: «La via in su e la via in giù sono una e la medesima».
50 Cfr. anche E, 21: «Immortali mortali, mortali immortali: viventi la morte
di quelli, morenti la vita di questi»; ma anche E, 40 («La terra si fa mare e
il mare si spande e nella sua misura conserva il medesimo rapporto») ed E, 41
(«Le cose fredde si scaldano e le calde si fanno fredde, le umide si fanno secche e le aride molli»).
51 CT, V, XIII, 88.
52 CT, VI, XVII, 108.
53 E, 37.
54 CT, VII, XXII, 165. Cfr. anche CT, VI, XVII, 108: «Nelle creature la dimensione non ha limite, il tempo non ha sosta, la sorte non ha costanza, il
principio e la fine non hanno motivo»; CT, VII, XXV, 199: «L'origine che
scorgiamo è un andare illimitato, la fine che investighiamo è un venire inces-
sante»; CT, VII, XXI, 147: «...il principio e la fine si confrontano là dove
non esiste bandolo, ma nessuno ne conosce i limiti».
55 LT, I, 3. Cfr. anche LT, V, 60 e LT, I,1: «Ciò che vive non può non vivere, ciò che si trasforma non può non trasformarsi. Eterno vivere ed eterno
trasformarsi significa vivere sempre e sempre trasformarsi, al pari dello yin e
dello yang, al pari delle quattro stagioni».
56 TTC, VII, v. 1.
57 TTC, XIV, vv. 11-17. Cfr. anche TTC, IV e VI.
58 CT, VI, XVIII, 120. Cfr. anche CL, III, VI, 45; VI, XVII, 116 e 117;
VII, XXII 159 e 155: «Le diecimila creature sono una cosa sola, ma ciò che
esse trovano bello è la vitalità e l'individualità, ciò che trovano brutto è il
fetore e la putrefazione. Ma il fetore e la putrefazione si trasformano in vitalità e individualità, la vitalità e l'individualità si trasformano in fetore e
putrefazione».
59 CT, VII, XXII, 156.
44
60 TTC, XXIII, vv. 3-8; cfr. anche IX, vv. 5-6. Cfr. anche
diverti perché le cose non sono mai le stesse, senza sapere
siamo mai gli stessi».
61 E, 34; cfr. anche E, 42, 98, 99, 100.
62 CT, VI, XVIII, 119. Cfr. anche CT, I, II, 15: «Se l'uomo
gnato si prende il mal di reni e resta mezzo paralizzato: è
guilla?»; e anche CT, I, I, 1; VI, XVII, 108.
LT, IV, 51: «Ti
che anche noi non
dorme nel bacosì anche per l'an-
fatti.
63 E, 62; cfr. anche E, 88: «Pitagora di Mnesarco attese alla ricerca più di
ogni altro uomo, e fatta raccolta dei libri ad essa dedicati, trasse da quelli
la sua sapienza, il suo sapere molte cose e la sua arte di frode».
Tzu:
64 TTC, XVIII, vv. 3-4.
65 TTC, XIX, vv. 1-2.
66 TTC, III, vv. 7-9. É da ricordare che con «cuore» si traduce il termine cinese hsin, che significa anche «mente». Tenendo presente questa integrazione
e parafrasando, si potrebbe dire che il governo del saggio consiste nel liberare
il cuore del popolo dalle passioni e la mente del popolo dai pregiudizi, dalla
dittatura delle «etichette». Per la traduzione di Shêng jên con «saggio»
anziché con «santo» cfr. il Capitolo II del presente libro.
67 CT, IV, XI, 63.
68 CT, VIII, XXIII, 171 (corsivo nostro). Cfr. anche CT VI XV, 105: «[Il
saggio], rigetta la sapienza e le antiche tradizioni»; e CT, IX, XVI, 207: «Stimare l'antico e disprezzare l'odierno è il vezzo degli studiosi [...]. Solo
l'uomo sommo è capace di camminare nel mondo senza appartarsene e di adeguarsi agli uomini senza perdere se stesso, di imparare dagli altri senza studia
re e di accettarne le idee senza considerarle aliene».
69 E, 19.
70 CT, I, II, 14.
71 TTC, XIV, v. 21.
72 TTC, II, v. 7.
73 CT, I, II, 10.
74 CT, VIII, XXIII, 174.
75 E, 108: «Hórin chré sóennúnai mallon é pyrkaiéni». G. Colli traduce così
45
«La tracotanza è necessario estinguerla più del divampare di un incendio» (G.
Colli, La sapienza greca, Milano 1982, III, p. 79).
76 CT, I, II,12. Nella traduzione a cura di Liou Kia-hway si ha: «Questa unità, dividendosi, forma gli esseri; e, formando gli esseri, essa si distrugge.
Così ogni essere non ha compimento né distruzione, perché viene riassorbito nell'unità originaria. Solo l'illuminato sa che la comprensione conduce all'unità,
così egli respinge i propri pregiudizi per attenersi alla giusta misura. La giusta
misura permette la pratica, la pratica porta a un risultato, il risultato è il con
seguimento. Giungere al conseguimento è vicino al Tao. Bisogna affermare i
fatti. Compiere senza sapere perché, ecco il Tao» (Zhuang-zi cit., p. 25). Questo «senza sapere perché» non significa affatto rinuncia alla conoscenza scientifica, ma rinuncia alla presunzione di una conoscenza metafisica che pretenda
di dare risposte definitive agli «ultimi» perché. Cfr. queste parole di Lieh
Tzu: «É errata tanto l'affermazione che il cielo e la terra si sfasceranno quanto quella che non si sfasceranno. Se si sfasceranno o non si sfasceranno, non
posso saperlo». Per vedere come il taoismo non fu affatto antiscientifico ma,
anzi, sia stato promotore della ricerca e della «sperimentazione» scientifica,
cfr. J. Needham, op. cit., pp. 42-193.
77 Cfr. CT, V, XIII, 95: «Gli scritti altro non sono che parole. Se nelle parole v'è qualcosa di pregevole sono le idee. Se nelle idee v'è qualcosa di accettabile, ciò che in esse è accettabile non può esser tramandato a parole». Cfr. anche CT, IX, XXVI, 211: «Lo scopo delle parole è l'idea: afferrata l'idea metti
da parte le parole».
78 Nella traduzione a cura di Liou Kia-hway si ha «respinge i propri pregiudizi» invece di «non s'ingegna».
79 Cfr. E, 75: «Massima virtù è aver senno, e sapienza è dire il vero e operarlo da uomo che conosce e che segue la natura delle cose».
80 E, I, 1-2.
81 TCC, LXX, vv. 1-4. La corrispondenza tra le parole di Eraclito e quelle
del Tao Tê Ching non sta solo nel fatto che, per entrambi, la maggior parte
degli uomini non intende il loro discorso, ma anche nel fatto che non si intende pur essendo esso alla portata di tutti. «...è come se non ne avessero esperienza, essi che di parole e di opere fanno pure esperienza» (E, 1,4-5; cfr. anche E, 2 ed E, 3: «Non le pensano queste cose quelli che se le trovano davanti, né quando ne hanno udito parlare le conoscono anche se essi questo lo credono»); cfr., nel Tao Tê Ching, oltre ai versi appena ricordati del capitolo
LXX, anche questi del capitolo LIII: «La gran Via è assai piana/ ma la gente
preferisce i sentieri» (T TC, LIII, vv. 4-5).
82 E, 76: «A tutti gli uomini è dato conoscere se stessi e non andare oltre il
limite» (anthrópoisi pási métesti ghinóskein eoytoús kai sofronéin). Sofronéin è
46
tradotto con «avere senno» dal Walzer (Firenze 1936, p. 146) e con «avere
saggezza» dal Mazzantini (Torino 1945, p. 183).
che la sua i
83 CT, III, VII, 50 (cfr. Zhsuang zi cit., p. 71: «Il Santo non dirige gli uomini dall'esterno. Corregge dapprima se stesso, e così la sua influenza si estende. Solo dalle sue capacità discende la sua forza»). Questo vuol dire che l'interiorità non è in alcun modo staccata dall'esteriorità: data la syllâpsis universale, nel momento stesso in cui si opera su di sé, si opera sul mondo. Cfr.
TTC, XXII, vv. 7-8: «Per questo il santo preserva l'Uno/ e divien modello al
mondo»; cfr. anche CT, III, VII, 51: «Diletta il cuore nell'insipidezza, accorda
il ch'i all'indifferenza, segui la spontaneità delle creature senza ammettere
alcun interesse egoistico e l'impero sarà governato» (Zhuang zi cit., p. 71:
«Pratica il distacco [...] concentrati sul silenzio, conformati alla natura de-
gli esseri, sii senza egoismo. Allora gli uomini saranno in pace»). Se il lavoro sull'interiorità produce spontaneamente effetti sull'esteriorità, è evidente
che ogni pedagogia della saggezza diviene superflua: «il Tao non può essere trasmesso» (CT, VII, XXII, 155).
84 CT, VI, XVI,107 (cfr. Zhuang-zi cit., p. 141: «Riforma te stesso, ecco tutto. Chi si contenta di conservare la propria integrità è felice».
85 LT, IV, 51.
86 TTC, XLVII, vv. 1-5.
87 TTC, LII, vv. e-13.
88 Su questa troppo facile interpretazione si adagia Tsung Tung Chang, Metaphysik, Erkenntnis und praktische Philosophie im Chuang-tzu, Frankfurt am
Main 1982, p. 75. Vi è stato addirittura chi ha visto nel richiamo di Eraclito
alla conoscenza di sé un'anticipazione di tematiche cristiane (cfr. S. Arcoleo,
La conoscenza di sé come processo di interiorizzazione in Eraclito, «Sapienza»,
29, 1976, pp. 5-17).
89 Cfr. anche la seconda parte del frammento 19: «e da tutte le cose l'uno e
dall'uno tutte le cose».
90 Cfr. CT, I, II, 14. Cfr. Zhuang-zi cit., p. 27: «Tutti gli esseri e me stesso siamo una cosa sola».
91 Cfr. Zhuang-zi cit., p. 23 (cfr. CT, I, II, 11)
92 Che l'interiorità non sia un blocco chiuso appare chiaramente anche dal
frammento 51 di Eraclito: «I confini dell'anima vai e non li trovi, anche a
percorrere tutte le strade: così profondo è il Discorso che essa comporta». Il
contenuto di questo frammento è, al proposito, sufficientemente esplicito,
ma lo diventa ancor di più se si tiene presente che lógos - qui tradotto da
47
4 7
Diano con «Discorso» - richiama l'idea di syllâpsis; allora il frammento può
essere parafrasato così: sono tali e tante le connessioni che l'anima comporta,
che la sua identità e la sua definizione non sono in alcun modo raggiungibili.
Si può quindi parlare di «perdita» della soggettività solo se ci si riferisce
a un tipo di soggettività che si presume e si immagina come cosa dai confini definiti e stabili; ciò non è invece possibile se si è in grado di pensare a un tipo
di soggettività che si dà come campo di attività dai limiti variabili. In tal
senso tanto Eraclito quanto i taoisti classici possono essere visti «all'altezza» della psicanalisi e dei suoi sviluppi.
93 Cfr. E,119: «La Sibilla con la bocca della follia dà suono a parole che non
hanno sorriso né abbellimento né profumo, e giunge con la sua voce al di là di
mille anni, per il nume che è in lei». Sul collegamento saggezza-follia cfr. G.
Colli, La nascita della filosofia, Milano 1983, p. 21.
95 Cfr. TTC, XVI, XXIX, XXXII, XXXVIII, XLVIII, LXIII, LXXI,
LXXVII, LXXXI; LT, 11, 17 e IV, 50; CT, I, II, 9; VII, XXII, 155 e IX,
XXVI, 208: «In ogni cosa il Tao non vuole intralci: se è intralciato resta
ostruito, se è continuamente ostruito viene conculcato. Quando è conculcato
nascono tutti i mali» (Zhuang-zi cit., p. 253: «Non si deve tentare di ostruire
una strada. Ne risulterebbe un blocco che fermerebbe il corso naturale delle
cose e farebbe nascere tutti i mali»). Sul farsi vuoti come condizione di saggezza cfr. Chang Chung Yuan, Creativity and Taoism, New York 1968, pp. 48
sgg.; K. Schipper, op. cit., pp. 231-244; J. Grenier, L'esprit du Tao, Paris
1957, pp. 105 sgg.
49
Capitolo secondo
Tao Tê Ching e Il pellegrino cherubico
Nel gioiello costituito dalle opere di Johannes Scheffler,
alias Angelo Silesio (1), mirabile per fattura e splendore, sta incastonato lo scritto Il pellegrino cherubico (Der Cherubinische
Wandersmann), VI libro della seconda edizione delle Rime spirituali (Geistreiche Sinn- und Schluss-Reime) apparsa nel 1675.
Lo splendore stilistico e spirituale di questo scritto incrocia
quello diverso - e diverso non solo perché assai più antico ma altrettanto eccezionale del Tao Tê Ching, opera molto nota
ma non altrettanto conosciuta, databile attorno al 400 a.c. ed
attribuibile a Lao Tzu (2).
Sebbene per noi questo incrocio significhi il darsi della possibilità di far emergere non solo grandi omologie ma anche
profonde differenze, dobbiamo tuttavia riconoscere che la
possibilità del confronto, ossia quella più importante e originaria, ci è venuta in massima parte da suggerimenti offerti, in
forma di parola o di scrittura, da Faggin. L'ultimo di questi
suggerimenti sta proprio nella conclusione dell'Introduzione da
lui scritta per l'antologia del Pellegrino cherubico: «Ciò che
non dipende, nella poesia di Silesio, né dal clima protestante,
né dalla cultura alchemico-paracelsica, né dal gusto barocco
del secolo, ma dalla luminosità del linguaggio e dalla potenza
evocatrice delle immagini, è quella visione dell'Uno-Tutto che
in sé racchiude il mistero della vita e la perfetta libertà dello
spirito che si accompagna, col tono inconfondibile dei suoi
epigrammi, alla grande corrente religiosa che dalla BhagavadGita e dal Tao Tê Ching discende a Plotino, a Eckhart, a
Dante» (3).
Senza dubbio uno dei luoghi in cui l'orizzonte di pensiero
contenuto nel Tao Tê Ching più si avvicina a quello del Pelle50
grino cherubico, fino quasi a toccarlo, è dato dall'elemento dell'indicibilità. Proprio in apertura del Tao Tê Ching si legge infatti:
Il Tao che può esser detto
non è l'eterno Tao
il nome che può esser nominato
non è l'eterno nome. (4)
E nel Pellegrino cherubico si ha:
Quanto più conosci Dio, tanto più riconoscerai
che tanto meno puoi nominare ciò che egli è. (5)
Tuttavia l'analogia tra i due pensieri, anche in questo punto
della sua massima intensità, non può trasformarsi in coincidenza: lo impedisce in primo luogo e soprattutto il carattere
di trascendenza presente nel concetto di Dio e assente, invece,
in quello di Tao. Infatti l'impossibilità di dare nome a Dio discende per Silesio dalla sua assoluta superiorità rispetto all'uomo e alle creature in genere: «Dio è così sopra di tutto, che
nulla se ne può dire» (6). Per Lao Tzu, invece, l'indicibilità del
Tao deriva dal fatto che esso non è un'entità, seppur infinita
nel tempo e nello spazio, ma è, come molto chiaramente indica la parola cinese, via, modo, metodo, méthodos, ossia uso
della via (metâ-odós). In particolare, seguire il Tao non significa, tuttavia, seguire un metodo, uniformarsi ad una specifica
tecnica di pensiero e di azione, ma conformarsi alla spontaneitù: un fenomeno o un processo naturale, come un pensiero o
un'azione umana, seguono il Tao non nel senso che si uniformano a un modello o si sottomettono a una regola, ma nel
senso che si adattano alla loro intrinseca spontaneità, che lasciano essere la loro natura propria.
In questa prospettiva è giusto tradurre il titolo del capitolo
XXIX «Uniformarsi al fondamento», tenendo presente, però,
che qui «fondamento» non rimanda affatto a un'essenza metafisica o a un sostrato ontologico universale, ma si riferisce alla
natura più propria e profonda di ciascun elemento o aspetto
51
della vita: Fa pen significa, infatti, letteralmente, «legge della
radice» in base alla quale ogni essere si conforma alla propria
natura, ossia si rende capace di essere, senza sforzo, se stesso.
Il cielo, la terra, le cose e gli uomini, uniformandosi al loro
fondamento, obbedendo alla loro legge, tornando alla loro radice, non fanno che essere secondo spontaneità, e ottengono
così la loro «eccellenza», la loro areté, virtus, tê:
In principio questi ottenner l'Uno:
il Cielo l'ottenne e per esso fu puro,
la Terra l'ottenne e per esso fu tranquilla,
gli esseri sovrannaturali l'ottennero
e per esso furono potenti,
la valle l'ottenne e per esso fu ricolma,
le creature l'ottennero e per esso vissero,
principi e sovrani l'ottennero
e per esso furon retti nel governare il mondo. (7)
Nonostante questa traduzione italiana del testo cinese sia,
tutto sommato, la migliore, vi sono tuttavia alcune precisazioni da fare, affinché il senso della differenza tra il concetto di
Tao e quello di Dio sia ulteriormente specificato. Innanzitutto l'ottenere (tê) è in realtà un attenersi, dove ciò a cui ci si attiene non è norma o principio trascendente ma, ancora una
volta, la spontaneità immanente di chi si attiene; in secondo
luogo «gli esseri sovrannaturali» non sono affatto da intendersi come puri spiriti angelici, ma vanno intesi come quegli «spiriti» (shen) che, attenendosi alla via, esplicano completamente
la loro potenza (ling), nel senso che esplicano pienamente, senza ostacoli, spontaneamente, la loro capacità, il loro potis esse (8). Infine, «creature» non va inteso alla lettera, ma come sinonimo generico di «cose», «esseri», «enti» (9): e questo non solo
per ragioni linguistiche, ma soprattutto per il fatto che nel
Tao Tê Ching e nel taoismo in generale il concetto di creazione
è, a differenza che in Silesio, assente (10). Silesio, infatti, così si
esprime:
Povero mortale, oh, non restar così attaccato
52
ai colori di questo mondo e alla sua squallida vita:
la bellezza della creatura è soltanto un sentiero
che ci conduce allo stesso bellissimo creatore. (11)
Ma in Silesio, oltre alla netta differenza tra creatura e creatore, è presente in modo chiarissimo anche il concetto di personalità del creatore:
Se vuoi chiamare padre tuo l'altissimo Dio,
devi prima riconoscere d'esser suo figlio. (12)
Nulla di tutto ciò nel Tao Tê Ching, dove, al capitolo XXXIV,
a proposito del Tao viene detto:
Com'è universale il gran Tao!
può stare a sinistra come a destra.
In esso fidando vengono alla vita le creature
ed esso non le rifiuta;
l'opera compiuta non chiama sua. (13)
Non è superfluo osservare che quel «in esso fidando» non
vuol significare «avendo fede in esso», ma affidandosi ad esso,
ossia lasciando essere la propria natura, permettendo che essa
si esprima senza ostacoli e senza remore (14). Del resto, è utile
notare anche che il «non chiamare sua l'opera compiuta» attesta ulteriormente, e in modo inequivocabile, l'impossibilità di
conferire al Tao il titolo di proprietà dell'universo: essendo il
Tao la capacità di ogni cosa di essere se stessa, di pervenire al
proprio telos immanente, di esplicare spontaneamente la propria natura, esso non può appropriarsi di alcunché, anzi, si potrebbe dire che esso è proprio di ciascuna cosa; tuttavia fermarsi a quest'ultima determinazione sarebbe insufficiente e
inesatto perché, essendo il Tao non una cosa o un concetto,
ma una qualità - quella della spontaneità -, esso non può
appartenere in esclusiva a un oggetto o a un fenomeno particolare, ma è proprio di tutti quegli oggetti, fenomeni e anche
pensieri che si abbandonano alla spontaneità. Esso, pertanto,
53
può essere pensato come un trascendentale materiale: «trascendentale» nel senso che non è immanente in modo esclusivo in
alcunché di particolare ma è proprio del «comportamento» di
infiniti enti; «materiale», nel senso che non è, come nella tradizione filosofica occidentale - e in Kant in particolare -,
una forma a priori della conoscenza, ma è modo d'esistenza,
qualità vitale di infiniti esseri. In tal senso Tao e Virtù tendono a identificarsi: infatti, se Tao è conformarsi alla spontaneità, e virtù (tê) è proprietà naturale, qualità immanente, spontanea, seguire il Tao non è altro che lasciar essere la virtù;
d'altra parte, questo lasciar essere la virtù, ossia il permettere
alla natura di ciascuna cosa di esplicarsi pienamente e al massimo livello, non è che la virtù somma, la «virtù che nutre»:
Quindi il Tao fa vivere,
la virtù alleva, fa crescere,
sviluppa, completa, matura,
nutre, ripara. (15)
Un segno evidente che il Tao non è assimilabile a un ente o
a una attività divini è dato poi dal fatto che le capacità di essere rifugio (16), di «riparare» e «nutrire», sono proprie anche
dell'uomo saggio:
le diecimila creature sorgono ed ei non le rifiuta
le fa vivere ma non le tiene come sue,
opera ma nulla s'aspetta.
Compiuta l'opera ei non rimane
e proprio perché non rimane
non gli vien tolto. (17)
Il Tao del saggio e il Tao del cosmo non sono dunque due
diversi Tao, ma la stessa «via», la stessa qualità, la stessa capacità di lasciar essere le cose e gli eventi secondo la loro natura:
il nutrire, l'allevare, lo sviluppare, il completare, il maturare
non sono infatti interventi della physis o del saggio sugli enti e
sugli eventi, ma sono piuttosto un lasciare che si nutrano, che
si allevino, che si sviluppino, che si completino e si maturino.
54
Consiste, insomma e in generale, in un non-agire (wu wei) che
non significa affatto passività o indifferenza ma non interferire, ossia agire senza preconcetti e senza pregiudizi, senza tensione e senza intenzioni, spontaneamente.
Con ciò siamo a un altro punto d'incrocio tra Tao Tê Ching
e Pellegrino cherubico: quello in cui la nozione taoista di wu
wei tocca quella dell'agire-riposare di Silesio:
Chiedi che cosa Dio preferisca: agire o riposare?
Io dico che l'uomo, come Dio, deve farle ambedue. (18)
L'opportuna nota che Faggin aggiunge a questo proposito (19)
consente di capire come il consiglio di praticare sia l'agire che
il riposare non significhi tanto una proposta di praticarli alternativamente, riservando momenti diversi ora all'uno ora all'altro, quanto un invito a esperirli contemporaneamente, in ogni
momento, in una sorta di continua azione riposante o di costante riposo attivo: questo è possibile solo se in ogni azione,
in ogni attività e in ogni atteggiamento si è liberi da finalità e
immuni dalle ansie del conseguimento; se, cioè, ci si comporta
come la rosa che «fiorisce senza perché» (20), se si riesce ad essere vuoti di sé (21) e, al pari di Dio, «senza forma né scopo» (22).
Su questo tema i pensieri di Silesio e quelli taoisti non solo
si toccano, ma addirittura si compenetrano al punto da raggiungere quasi una perfetta coincidenza. Perfino le immagini
con cui essi vengono espressi sono le stesse: quelle del vuoto e
del fanciullo. Il Tao Tê Ching dice:
Il Tao vien usato perché è vuoto
e sempre non è pieno. (23)
Parlar molto e scrutar razionalmente
val meno che mantenersi vuoto. (24)
E Silesio sembra far eco
Chi vuol essere eguale a Dio, deve farsi
ineguale a tutto,
dev'essere vuoto di sé e libero da pene. (25)
55
Proprio perché vuota, ossia senza finalità e, quindi, senza le
tensioni che derivano dagli sforzi per raggiungerle, il fanciullo
è, sia nel Tao Tê Ching che nel Pellegrino cherubico, una figura
particolarmente significativa; dice a questo proposito Silesio:
Uomo, se non diventi un fanciullo, mai non entri
dove sono i figli di Dio: troppo piccola è la porta. (26)
Cristiano, se con tutto il cuore puoi diventare un
fanciullo,
il regno dei cieli è già tuo qui sulla terra. (27)
E Lao Tzu sembra ribadire lo stesso discorso
Pervieni all'estrema mollezza conservando il chi?
sei capace d'essere un pargolo? (28)
Quel che racchiude in sé la pienezza della virtù
è paragonabile ad un pargolo... (29)
Nel Tao Tê Ching la purezza, la sincerità e la morbidezza
del bambino sono rafforzate dall'immagine dell'acqua che
«ben giova alle creature e non contende» (30); che, pur essendo
la cosa più debole, nell'abradere ciò che è duro e forte nessuno riesce a superarla» (3)1. A loro volta queste immagini del fanciullo e dell'acqua si inseriscono in una costellazione di significati propri di un autentico pensiero della debolezza che, data la connotazione negativa insita nel termine italiano «debolezza», sarebbe meglio chiamare pensiero della flessibilità;
esemplare a questo riguardo è il famoso capitolo XXII del Tao
Tê Ching dove si dice:
Se
se
se
se
se
se
ti pieghi ti conservi,
ti curvi ti raddrizzi,
ti incavi ti riempi,
ti logori ti rinnovi,
miri al poco ottieni,
miri al molto resti deluso. (32)
56
Allora l'azione e il pensiero ispirati alla flessibilità non sono
affatto deboli, ma anzi, sono talmente forti da ottenere ciò
che vogliono senza tensioni autodistruttive: combattono senza attaccare, e vincono senza distruggere (33). Se ciò è riscontrabile con perfetta coerenza nella «teoria» taoista del wu wei,
assai più difficile è registrare un'analoga compattezza lungo i
pensieri di Silesio disposti nel Pellegrino cherubico. É vero,
per esempio, che anche Silesio predica il «non far nulla», ma
ciò è visto in funzione di uno svuotamento, di un morire a se
stessi, che consenta a Dio di entrare e dilagare (34); è vero che
anche Silesio consiglia l'astensione da ogni desiderio (35), ma è
anche vero che «chi non si sforza di essere il figlio diletto dell'Altissimo rimane nella stalla, dove sono bestie e servitori» (36);
è vero inoltre che Silesio dice «Uomo, se nulla vuoi né ami, tu
bene vuoi ed ami» (37), ma è anche vero che «chi corre senz'amore non giunge al regno dei cieli» (38); è vero, infine, che «la
quiete è il sommo bene» (39) e che il saggio «siede in quiete e silenzio» (40), ma è anche vero che Silesio sostiene con forza:
«Amico, non basta lottare, devi anche trionfare / se vuoi trovare eterna quiete ed eterna pace» (41).
Anche nel Tao Tê Ching il saggio è presentato come colui
che è «parco nelle brame» (42), non attaccato ai beni e alle ricchezze (43), esente da vanità e da desiderio di onori (44); tuttavia
qui vi sono due principali e decisivi motivi di differenza rispetto alla figura del «saggio» di Silesio: innanzitutto il saggio
taoista non rinuncia a beni, onori e ricchezze perché spera in
tal modo di guadagnarsi una vita eterna e una ricompensa divina, ma li evita perché sa per esperienza che, in questa vita,
essi procurano un vortice di catene dal quale è difficile riemergere (45); in secondo luogo, nell'evitare queste fonti di turbamento, non si sforza, non lotta, non contende, ma lascia
che esse cadano da sé; dispone la propria interiorità come un
vuoto dove i turbamenti non trovino appigli; fa come l'acqua
che scorre sugli ostacoli che incontra, li aggira, li trascura, non
se ne cura. É certamente questo uno degli aspetti più originali, ma anche più sconcertanti e difficili per il pensiero occidentale, quasi sempre e quasi tutto incentrato sui concetti di volontà e coscienza, di intenzionalità e consapevolezza, di ten57
sione allo scopo e di soggetto autoriflessivo: per questo tipo di
pensiero è inconcepibile un desiderare di non desiderare, per-
ché viene mantenuto un concetto di desiderio legato alla volizione, allo scopo, allo sforzo, e non all'abbandono al desiderio
in modo che questo si esaurisca e non abbia poi più «materia»
su cui far presa. WJu wei è invece, contemporaneamente, wuhsin, ossia azione fisica o psichica priva di una simultanea consapevolezza dell'azione in questione, esente dal controllo costante del super-io, quindi libera dal dilemma di una volontà
di non volere, di un desiderio di non desiderare: seguire la via
della spontaneità, ossia praticare il Tao, non può voler dire
imporsi di essere spontanei, ma significa disporsi ad esserlo, lasciarsi essere spontanei. Il nemico principale, ossia il desiderio,
non scompare se viene attaccato, ma se ne va, muore spontaneamente, se lasciamo che compia il suo ciclo vitale, come lasciamo che le foglie cadano in autunno, e non ci mettiamo a
farle cadere in primavera o in estate; ovvero come fa il flessibile ramo di salice per liberarsi dal peso della neve, che si piega ma non si spezza, al contrario del ramo d'abete che alla neve oppone resistenza fino a rompersi.
Eppure, nonostante queste grandi differenze di fondo tra i
motivi che ispirano la critica di Silesio agli onori, alle ricchezze e al desiderio, e la prospettiva entro cui si pone il distacco
del saggio taoista nei confronti delle «brame», dell'«oro» e
della «vanità», nello specifico del giudizio negativo rivolto a
questi «beni» le analogie si rivelano addirittura stupefacenti.
Così, per esempio, avviene quando Silesio mostra che ogni
guadagno è, in realtà, perdita (46), quando dice che solo chi disprezza gli onori li riceve (47), quando osserva l'inquietudine
procurata dalla difesa dei propri beni (48); ma soprattutto quando si scaglia contro la proprietà come causa d'ogni male (49) o
ancora meglio, quando attacca il fondamento generale della
proprietà, ossia la distinzione mio-tuo:
Nient'altro ti fa precipitare nell'abisso infernale
che l'odiata parola - attento bene! -: il mio e il tuo. (50)
Certo: per il saggio taoista il concetto e l'immagine dell'in58
ferno non hanno senso, come non ha senso un atteggiamento
improntato all'odio verso una cosa o, come in questo caso,
verso una parola; ma anche per il saggio taoista la proprietà ha
origine con la denominazione, ossia con la posizione di confini
e la delineazione di «proprietà»:
Quando si cominciò ad intagliare
s'ebbero i nomi.
Tutto quello che ha nome vien trattato come proprio
perciò sappi contenerti.
Chi sa contenersi
può non correr pericolo (51).
Ecco allora che da un'analoga presa di posizione contro la
proprietà scaturisce anche un'analoga proposta positiva: se infatti nel Pellegrino cherubico possiamo connettere l'attacco alla
distinzione mio/tuo al suggerimento di «condividere», perché
soltanto questo «crea quiete», nel Tao Tê Ching possiamo collegare la critica alla proprietà con l'invito a seguire la «via del
cielo» (t'ien tao) che è quella di «diminuire a chi ha in eccedenza / e di aggiungere a chi non ha a sufficienza» (52). Anche se
l'immagine scelta da Silesio è quella del «condividere», mentre quella usata da Lao Tzu è quella del «bilanciare» che si rifà
al gesto dell'«armare l'arco» (53), tuttavia il senso che entrambe
queste immagini intendono e comunicano è quello di una giustizia distributiva.
Vi è infine un altro ambito di significati dove Il pellegrino
cherubico e il Tao Tê Ching sembrano incontrarsi e incrociarsi,
pur muovendosi e provenendo da motivazioni diverse: quello
in cui il corpo viene considerato non come un che di demoniaco, ma come fattore di salute mentale e spirituale. Così Silesio, a differenza di gran parte della tradizione cristiana (54) ma
anche a differenza di quasi tutta la tradizione mistica del cristianesimo (55), ha l'ardire di esprimersi in questo modo:
Tieni in onore il tuo corpo: esso è un nobile scrigno
in cui l'immagine di Dio dev'essere custodita. (56)
59
In generale il taoismo potrebbe venire addirittura inteso come un complessivo pensiero del corpo (57); in particolare, noi
abbiamo potuto osservare come ai primi stadi di questa riflessione sul corpo stia quel processo elementare e spontaneo che
è la «conservazione del ch'i», ossia la respirazione, processo
che non soltanto garantisce la vita di ogni ente ma anche testimonia come ciascuna vita sia in necessario rapporto con le altre. Ma nel Tao Tê Ching c'è anche un importante riferimento
ai modi con cui il saggio coltiva, oltre che il proprio corpo, anche quello degli altri:
Per questo il governo del santo
svuota il cuore del popolo
e ne riempie il ventre... (58)
Ciò significa che il saggio rende vuota, sgombra, libera la
mente («cuore», hsin) da ogni pregiudizio e da ogni tensione (59)
e, contemporaneamente, fa sì che vengano pienamente soddisfatte le necessità fisiche primarie («riempie il ventre»). (60) É
tuttavia in questa stretta connessione tra svuotamento della
mente e riempimento del ventre che sta anche la radice della
differenza tra il discorso sul corpo di Silesio e quello di Lao
Tzu: in quest'ultimo, infatti, l'onorare la corporeità non è effettuato in vista di un dare ospitalità e custodia all'immagine
di Dio, ma in vista di un'assenza di questa come di qualsiasi
altra immagine, dato che il vuoto è visto come garanzia indispensabile per il dispiegarsi della spontaneità: Silesio vede nel
corpo un contenitore per qualcosa di più prezioso; Lao Tzu vi
vede qualcosa che è già di per sé assai prezioso, in quanto il
corpo è l'unico spazio in cui si possono sperimentare i primi e
fondamentali modi della «via», del «Tao», ossia del conformarsi alla spontaneità. Per Silesio il corpo è ancora e soltanto
la premessa materiale della spiritualità; per Lao Tzu esso è da
sempre condizione di ogni operazione rivolta al raggiungimento spontaneo della spontaneità.
Non a caso, allora, viene ad assumere significati diversi anche il tema della solitudine del saggio, tema che a prima vista
sembrerebbe annodare in una relazione di identità l'aspirazio60
ne alla quiete che troviamo nel Pellegrino cherubico e l'invito
all'appartarsi che possiamo rintracciare nel Tao Tê Ching; Silesio, infatti, vede nella solitudine uno strumento per fuggire il
mondo e avvicinarsi alla quiete di Dio:
Il sapiente cerca quiete e fugge il tumulto
la sua afflizione è il mondo, la sua patria il cielo. (61)
Lao Tzu, invece, considera il fatto che il saggio «apparta la
sua persona» (62) come l'equivalente del suo «non rimanere», ossia del suo non restare attaccato a cose, persone e idee, ma soprattutto alle sue «conquiste», ai suoi «successi» militari, politici, sociali o anche soltanto individuali: «isolamento» significa allora, soprattutto, per il saggio, che «compiuta l'opera, ei
non rimane/ e proprio perché non rimane/ non gli vien tolto».
L'eremitaggio, per il taoista, non rappresenta un dovere, né
etico, né religioso, ma solo una norma salutare, un accorgimento per la salute mentale, per non rimanere prigioniero di
qualche immagine, parola o fatto del mondo: tuttavia questo
suo essere e rimanere vuoto non significa affatto una fuga dal
mondo, ma il requisito per rimanere nel mondo alle migliori
condizioni possibili. Allora la solitudine non diventa, come
nella maggior parte delle pratiche ascetiche, uno stato permanente scelto per sfuggire alle tentazioni del mondo e per meglio prepararsi all'unione con Dio, ma si dà come esercizio alla
«coltivazione» della via in ogni occasione e in ogni circostanza: nella solitudine si impara meglio ad essere vuoti e a praticare il wu wei, ma in modo da esserlo e da praticarlo anche in
mezzo alla folla di interessi mondani, in mezzo alla massa di
uomini «pieni», in mezzo al tumulto della politica e della storia.
Nulla, allora, appare più lontano dal misticismo occidentale
che il «misticismo» orientale taoista (63): il primo vede questo
mondo come un ostacolo al raggiungimento del «vero» mondo
che può essere dato solo dall'unione con Dio; e se non è ostacolo, è pur sempre un luogo d'attesa o un semplice strumento
prima o in funzione del raggiungimento del fine supremo. Per
il secondo, invece, questo mondo è l'unico che ci è dato: se «i
61
re il Tao significa «soltanto» ricercare i modi migliori per poterci vivere bene. Pensare che il vero benessere stia fuori da
questo mondo può anche significare rinuncia a trovare i modi
per ottenerlo in questo mondo; Silesio parla ancora a uomini
binterweltlern, sfiduciati ma pieni di fede; Lao Tzu parla già a
uomini senza fede, ma pieni di fiducia. Il primo è preoccupato
di come si raggiunge la santità, il secondo si occupa di come si
ottiene la saggezza.
1 La quantità degli scritti in lingua italiana dedicati a Silesio è estremamente
esigua: cfr. L. Vincenti, Angelo Silesio, Torino 1932; Id., La poesia religiosa
nel Seicento, in Saggi di letteratura tedesca, Napoli 1953 (in particolare pp. 1
923).
2 Adottiamo qui le dizioni e le grafie proposte da F. Tomassini e L. Lanciotti, curatori dell'edizione italiana apparsa per i tipi della UTET nel 1977, da
considerarsi, finora, la migliore: sia perché la traduzione è stata condotta direttamente sul testo cinese; sia perché è corredata della traduzione dei testi di
due tra i più famosi e autorevoli commentatori classici del Tao Tê Ching Ho
shang Kung, vissuto all'epoca dell'imperatore Wen Pi della dinastia Han
(179-157 a.c.) e Wang Pi (226-249 d.c.). Delle altre, numerose traduzioni
italiane, sono da menzionare quella di A. Castellani, La regola celeste (Tao Tê
Ching), Firenze 1957 (I ed. 1927), che contiene un importante apparato di
note filologiche, nonché la traslitterazione del testo cinese; quella di P. Sciao
Sci Yi, Il Tao-Tê King di Laotse, Bari 1982 (I ed. 1941); quella in gran parte
inattendibile di G. Evans, Il libro della via e della virtù, Foggia 1982 (ristampa anastatica di un'edizione Bocca di cui non si riporta la data); quella di
J. Evola, Il libro del principio e della sua azione (Tao-Tê-Ching), Roma 1972,
che soffre di un commento volto a costringere il testo e il suo contenuto «nel
dominio sapienziale ed esoterico» (p. 8). In italiano è ora disponibile anche
la classica versione dal cinese al francese fatta da J.J.L. Duyvendak, Tao Tê
Ching. Il libro della Via e della Virtù, tr. di A. Devoto, Milano 1973.
3 G. Faggin, Introduzione a A. Silesio, Il pellegrino cherubico, Vicenza 1981,
p. 13.
4 Tao Tê Ching, tr. di F. Tomassini,Torino 1977, cap. I, p. 39 (d'ora in poi
TTC).
5 A. Silesio, Il pellegrino cherubico cit., V, 41, p. 77 (d'ora in poi PLC).
6 PC, I, 240, p. 44.
62
7 TTC, XXXIX, vv. 1-9, p. 121.
8 Sarebbe interessante vedere e approfondire l'analogia tra il termine cinese
ling, il greco entelécheia, il latino potentia e il tedesco Macht: ne potrebbe
scaturire una costellazione di significati in cui si incontrano Aristotele,
Spinoza e Nietzsche.
9 Castellani infatti, traduce wan wu con «ogni cosa»; Sciao Sci Yi con «esseri»; Duyvendak con «diecimila esseri» e A. Watts con «diecimila cose» (cfr.
A.W. Watts, Il tao: la via dell'acqua che scorre, tr. di A. Mantici Lavagnino,
Roma 1977, p. 68).
10 A questo proposito ha osservato giustamente J. Grenier: «...pour LaoTze» la manifestation pour valable qu'elle soit en tant que telle, dérive de
quelque chose qui non seulement n'est pas sa cause directe, mais encore qui
n'est pas. Nous avons donc affaire à un renversement et non à une filiationn
(J. Grenier, L'ésprit du tao, Paris 1957, pp. 15-16). Altrettanto giustamente
M. Granet, sottolineando le differenze tra il provvidenzialismo confuciano e
il taoismo, osserva che quest'ultimo «assume l'aspetto di un monismo naturalista, se non materialista: l'idea centrale è quella di un Continuo cosmico la
cui esistenza permette le azioni da spirito a spirito» (M. Granet, La religione
dei cinesi, tr. di B. Candian, Milano 1973, p. 141). Lo stesso Granet precisa
altrove, in modo semplice ed efficace, il carattere regolativo e non creativo
del Tao: «...il Tao è una categoria concreta; non è un Principio primo. Presiede
realmente ai giochi di tutti i raggruppamenti di realtà operanti, ma senza che
lo si consideri né come una sostanza né come una forza. Esso svolge il ruolo
di un Potere regolatore. Non crea gli esseri: li fa essere come sono» (M. Granet, Il pensiero cinese, tr. di G.R. Cardona, Milano 1971, p. 244. Corsivo nostro). Altrettanto esplicitamente si esprime C. Puini: «Esso non crea come le
divinità supreme di altre religioni teiste, non produce per emanazione come in
certe forme di panteismo; ma dà origine al mondo per un suo svolgimento naturale, spontaneo ed incosciente» (C. Puini, Il taoismo, Roma 1983, p. 53, I ed.
1917.
11 PC, III, 102, p. 64. Cfr. anche I, 174, p. 39 e III, 176, p. 66.
12 PC, I, 162, p. 37. Cfr. anche IV, 164, p. 74 e V, 86, p. 80.
13 TTC. XXXIV, v. 1-5, p. 109. Meglio traduce Castellani: «ogni cosa s'affida a lui per vivere». Infatti il Tao non è la causa della vita degli esseri, ma
è il modo migliore, perché spontaneo, con cui essi vivono. A rigore, dunque, le
nozioni di nascita e di morte non hanno luogo nel taoismo. A questo proposito J. Blofeld riporta alcune frasi assai significative di un moderno saggio taoi
sta: «Non puoi morire, perché non hai mai vissuto. La vita non può morire,
perché non ha inizio né fine. Divenire immortali significa solo cessare di
identificare se stessi con delle ombre, e riconoscere che l'unico vero "io" è la
vita eterna» (J. Blofeld, Taoismo. Ricerca dell'immortalità, tr. di F. Pregadio,
63
Roma 1979, p. 181). In Silesio, invece, come in tutta la mistica cristiana, la
morte non solo viene riconosciuta come il marchio ineluttabile delle creature,
ma viene addirittura invocata: «Io dico, poiché soltanto la morte mi rende libero, ch'essa di tutte le cose è la cosa migliore» (PC, I, 35). É poi da notare
che, a differenza della tradizione cristiana, il taoismo privilegia la figura de
lla
madre, non quella del padre e non nel senso di potenza creatrice, ma nel senso di potenza nutrice (cfr. K. Schipper, Il corpo taoista. Corpo fisico-corpo
sociale, tr. di F. Pregadio, Roma 1983, pp. 146 sgg.).
14 Pertanto è da rifiutare tanto la traduzione proposta da Evola («tutti gli esseri hanno da lui la vita»), quanto quella data da Sciao Sci-Yi («le cose derivano da lui la vita»), in quanto entrambe conducono ad un'immagine di causa
prima, trascurando completamente che la forma verbale shih indica un «guardare ad uno con fiducia», e dimenticando completamente il significato di
«ia», «modo», che connota il concetto e l'immagine di Tao.
15 TTC, LI, vv. 9-12, p. 144. Sarebbe molto interessante approfondire, sulla
scia dell'analogia e complementarità tra Tao e Tê, quelle tra physis ed areté:
infatti il concetto greco di natura è ben più complesso di quello con cui noi
siamo abituati a trattare, in quanto, derivando dal verbo phyo che significa
tanto «cresco» quanto «faccio crescere», sta ad indicare non solo la natura nutrice ma anche il complesso di cose da essa nutrite: è ciò che fa crescere ma
anche ciò che cresce; d'altra parte phyo ha anche il significato - nella forma
aoristica - di «sono per natura», per cui si può anche connettere concettualmente con areté che, almeno nel suo significato più arcaico, indica «qualità eccellente», «dote naturale».
16 Cfr. TTC, LXII, v. 2, p. 166.
17 TTC, II, vv. 16-21, p. 43. Diciamo «uomo saggio» traducendo Sheng ien
come Sciao .Sci-Yi, perché tradurre, come Castellani e Tomassini, «santo»
comporta una serie di connotazioni proprie della tradizione religiosa occidentale che nulla hanno a che fare con il Tao Tê Ching e col Taoismo in generale.
D'altronde le differenze di significato tra «saggio» e «santo» sono esplicite
anche soltanto dal punto di vista etimologico: il primo deriva da sapiens, che a
sua volta deriva dal verbo sapio che significa «gusto», ma anche «capisco» e
«sono prudente»; il secondo, invece, deriva dal verbo sancio che significa
«rendo sacro», «sancisco» e «vieto», richiamando evidentemente una serie di
azioni e di atteggiamenti del tutto estranei alla figura del saggio taoista che
coltiva la libertà da ogni «sanzione», sia dall'obbligo di imporle che da
quello di subirle.
18 PC, I, 217, p. 42.
19 L'«agire» che ai mistici importa è l'agire distaccato dai frutti dell'azione,
cioè «senza perché».
64
20 PC, I, 219, p. 48.
21 PC, I, 48, p. 30.
22 PC, V, 358, p. 92.
23 TTC, IV, vv. 12, p. 49.
24 TTC, V, vv. 9-10, p. 49.
25 PC, I, 84, p. 30.
26 PC, I, 153, p. 37.
27 PC, I, 253, p. 44.
28 TTC, X, vv. 3-4, p. 57. Ch'i indica propriamente l'aria che si inspira. Sull'importanza del ch'i cfr. Schipper, op. cit. pp. 45-49, Blofeld, op. cit, cap.
8; e Da Liu, Il Tao e la cultura cinese, tr. di P. Negri, Roma 1981, capp. 8 e
9.
29 TTC, LV, vv. 1-2, p. 151.
30 TTC, VIII, v. 2 p. 55. Non è casuale allora, che la forma tipica di pittura
cinese sia l'acquerello, e che la stessa calligrafia sia una forma di pittura
dove la fluidità dell'inchiostro e la morbidezza del pennello sono requisiti essenziali (cfr. W. Willetts, L'arte cinese, tr. Firenze 1963, II, cap. VII e J.
Hejzlar, Chinese Watercolours, London 1982).
31 TTC, LXXVIII, vv. 2-3, pp. 193-194.
32 TTC, XXII, vv. 1-6, p. 83. Cfr. anche LXXVII, vv. 6-7, p.190: «Durezza
e forza sono compagne della morte, mollezza e debolezza son compagne della
vita», XLIII, vv. 1-4, p. 131: «Ciò che v'è di più molle al mondo assoggetta
ciò che v'è di più duro al mondo, quel che non ha esistenza penetra là dove
non sono interstizi».
33 Sono questi, in sintesi, i principi che ispirano la strategia militare taoist
a
esposta nel classico di Sun Wu Tzu, Sun Tzu Ping Fa (The Warfare of Sun
Tzu) tr. inglese di S.B. Griffith, Oxford 1963. É tuttavia da ricordare che
nel Tao Tê Ching vi è una continua presa di posizione contro la guerra (Capp.
XXX, XXXI, LXVIII, LXIX LXXVI) e in generale contro ogni politica
autoritaria e coercitiva (Capp. XXVIII XXIX, XLII XLIII, L, LIII, LIV,
LVII, LVIII, LIX, LX, LXI LXIV LXV, LXVII, LXXII, LXXIII,
LXXIV, LXXV, LXXVI, LXXVII, LXXVIII, LXXIX, LXXX).
34 Cfr. PC, II, 136, p. 58: «Esci, e Dio entra; muori a te, vivi a Dio; / non
essere, ed Egli è; non far nulla, e il comando s'adempie».
65
35 Cfr. PC, V, 156, p. 83: «Chi è ricco abbastanza ha tutto. Chi molto desidera e vuole / fa capire che ancora molto gli manca».
36 PC, I, 181, p. 39.
37 PC, II, 60, p. 55.
38 PC, III, 162, p. 65.
39 PC, I, 49, p. 26.
40 PC, V, 136, p. 82.
41 PC, VI, 75, p. 94.
42 Cfr. TTC, XLVI, p. 135, e XLIV, p. 132.
43 Cfr. TTC, XII, vv. 5-6, p. 62; XXVI, vv. 6-7, p. 93; XXIX, vv. 14.16, p.
99; XXXIII, v. 5, p. 107; LIII, pp. 147-148.
44 Cfr. TTC, XIII, pp. 63 64; LXVII, v. 11, p. 176.
45 Cfr. TTC, IX, vv. 5-8, pp. 55-56: «Un palazzo colmo d'oro e di gemme /
non si può conservare, / chi si fa arrogante perché ricco e nobile / procura da
sé la sua rovina».
46 Cfr. PC, V, 113, p. 81: «Il ricco di questo mondo quale guadagno possiede? / ch'egli deve andarsene con la perdita della sua ricchezza».
47 Cfr. PC, V, 114, p. 81: «Come siamo stolti noi che aspiriamo ad onori! /
Dio li vuol dare soltanto a colui che li disprezza».
47 Cfr. PC, V, 154, p. 83: «Uomo, se con tanto scrupolo vuoi difendere le tue
cose, / non riposerai giammai in vera pace».
49 Cfr. PC, V, 186, p. 85: «Condividere crea quiete: soltanto dalla proprietà
/ sorge tutto il dolore, persecuzione, guerra e conflitto».
50 PC, V, 238, p. 87.
51 TTC, XXXII, vv. 10-15, p. 105. Il senso di questi versi viene esplicato dal
commentatore classico Wang Pi, il quale mette bene in luce il nesso nominazione-proprietà-guerra che noi possiamo trovare anche nel passo citato del
Pellegrino cherubico (V, 186) di Silesio. Scrive infatti Wang Pi: «Quando si
cominciò ad intagliare» indica il tempo in cui il grezzo fu intagliato e si cominciò a fare i primi ministri. Quando si cominciò ad intagliare i primi tra i
ministri, non si poté non fissare nomi e distinzioni per stabilire chi era più o
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meno elevato in grado: per questo quando si cominciò ad intagliare si ebbero
i nomi. Da quel momento in poi, per lottare si aguzzarono le punte delle spa-
de» (cfr. TTC, p. 106).
52 TTC, I,XXVII, v. 8-9, p. 192.
che in
53 Cfr. TTC, nota esplicativa a p. 193: «Occorre sapere che l'arco cinese era
un "arco riflesso", ovvero concavo nella posizione di riposo: quando veniva
armato, ossia si agganciava la corda alle due estremità, esso diventava convesso. Solo così si spiega come ciò che prima era alto potesse essere abbassato e
viceversa». Tuttavia la metafora dell'armare l'arco mi sembra possa valere
non solo per l'arco cinese: se, infatti, si considera «alto» l'estremità superiore dell'arco, e «basso» quella inferiore, è evidente che, quando la corda
viene tesa e la freccia incoccata, l'estremità superiore si abbassa e quella
inferiore si alza.»
54 Uno degli esempi più chiari e più tremendi della denigrazione cristiana del
corpo lo si ha nell'opera di Innocenzo III, De contemptu mundi, sive de miseria
conditionis humanae.
55 Cfr. E. Zolla (a cura di), I mistici dell'occidente, Milano 1976, voll.II,
III, IV, V, VI, VII. Sulla contraddizione in cui versa la pratica ascetica, la
quale, per liberarsi dalle tentazioni che il corpo procura, ha bisogno di passare proprio attraverso il corpo, cfr. Le memorabili osservazioni di F. Nietzsche,
Che significano gli ideali ascetici?, in Genealogia della morale, tr. di F. Masini, Milano 1968, pp. 299-367.
56 PC,III, 109, p. 65.
57 Schipper, op. cit., cerca appunto di vedere il corpo nel taoismo come il solo momento di unità, il solo luogo ove sia possibile l'armonia degli elementi
contraddittori dell'esistenza.
58 TTC, III, vv. 7-9, p. 44.
59 É da ricordare che per i cinesi il cuore era la sede dell'intelletto. Sui signi
ficati che questa diversa collocazione della mente viene ad avere nelle diverse
culture, cfr. U. Galimberti, Il corpo, Milano 1983.
60 Assolutamente inaccettabile è il commento effettuato a questo proposito
da Castellani: «Come si vede, repressa è la parte più nobilmente umana in
hsin e chih, cuore e volontà, e blandita invece la parte più volgarmente bestiale infi e ku, ventre ed ossa» (A. Castellani, Note alla tr. del Tao Tê Ching
cit., pp. 147-148).
61 PC, IV, 109, p. 72
67
62 Cfr. TTC, VII, v. 9, p. 53.
b3 Anche alcuni tra i maggiori studiosi del pensiero orientale hanno talvolta
superficialmente assimilato esperienze religiose occidentali con esperienze spirituali orientali, trascurando completamente le differenze teoriche e pratiche
che intercorrono tra i due tipi di esperienza (cfr., per esempio D.T. Suzuki,
Misticismo cristiano e buddhista, tr. di M. Leoni, Roma 1971; G. De Lorenzo,
India e buddbismo antico, Bari 1926). Non si insisterà mai abbastanza nel sostenere che ogni confronto può essere produttivo di nuove prospettive culturali solo se avviene tra posizioni che si riconoscano tra loro diverse, e non tr
a
posizioni che tendono ad assimilarsi l'una all'altra o che pretendono di assimilare quelle diverse.
69
Capitolo terzo
Tao sive natura: Spinoza e il taoismo
1. Il Tao è zuu yiian, senza origine, «da sempre esiste» (1); se
gli si va incontro non se ne vede l'inizio, se gli si va dietro non
se ne vede la fine (2). Per Spinoza Dio è eterno (3) e si identifica
con la Natura (4); quindi la Natura è eterna.
Il Tao si spande in ogni direzione (5), è dunque infinito. Così
per Spinoza Dio, ossia la Natura è infinita. Ma, se si prende la
Definizione 6 della prima parte dell'Etica questa infinità appare, a prima vista, diversa da quella attribuita al Tao: nel
Tao Tê Ching, infatti, si allude a una infinità attiva, evocata
dal verbo fan che indica «spandere», «allargare»; nell'Etica, invece, Spinoza sembra preferire una connotazione statica dell'infinità: «Per Dio intendo l'ente assolutamente infinito, cioè
la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna e infinita essenza» (6). Tuttavia questa diversità nell'intendere l'infinità si dissolve non appena si presti attenzione al contenuto della Proposizione 34 della Prima Parte dell'Etica: «La potenza di Dio è la sua stessa essenza». Ciò significa che l'infinità di Dio o della Natura esiste solo in quanto si
dà come infinita potenza di agire, non come semplice infinità
numerica: l'infinità del Deus sive Natura non è né aritmetica
né geometrica, ma fisica. Ciò vale a correggere anche l'impressione che si potrebbe trarre dal concetto di «sostanza» al quale si identificano quello di «Dio» e quello di «Natura»: «sostanza» non è, in senso proprio, «ciò che sta sotto», non indica uno stare, ma - alla luce della Proposizione 34 appena ricordata - indica un incessante movimento di azione e produzione. Quindi, anche per il Dio/Natura di Spinoza si può dire
che è infinito nel senso che «si spande in ogni direzione», come il Tao: Dio/Natura e Tao vanno colti non mediante l'idea
70
di sostanza infinita, ma mediante l'idea di potenza infinita (7).
Una volta chiarito che l'essenza del Tao e della Natura
coincide con la loro potenza, non appare superfluo rafforzare
questa coincidenza mostrando come Tao e Natura si esplichino in quanto potenze. Una prima considerazione a questo riguardo può scaturire dal confronto tra la Proposizione 34
(Parte I) e la Definizione 4 (Parte I): se essenza della Natura è
la sua potenza e se attributo è ciò che costituisce la sua essenza, allora l'attributo si identifica con la potenza, o meglio: è il
modo con cui la Natura esprime la propria potenza (8). L'identificazione tra Natura, Potenza ed Attributo non significa soltanto che la Natura non esiste se non come potenza, ma anche
che l'Attributo non è qualcosa di accidentale che «si aggiunge» alla Natura, (9) bensì qualcosa senza la quale la Natura non
esiste : la Natura non è la Sostanza che fonda e ordina, come
unità autosufficiente, una molteplicità di attributi, perché,
fuori o senza questa molteplicità, infinita, di attributi, essa
non è nulla.
L'identificazione tra la Natura e i suoi attributi si rafforza
ulteriormente allorché si consideri la qualità dei due attributi
«primari», ossia degli unici attributi di cui, per Spinoza, si
può sapere qualcosa: il Pensiero e l'Estensione: «Il pensiero è
attributo di Dio, ossia Dio è cosa pensante» (10); «L'estensione è
attributo di Dio, ossia Dio è cosa estesa» (11). Pensiero ed
Estensione non sono due nomi o due qualità che vengono «attribuite» alla Natura: sono «attributi» non nel senso che qualcuno o qualcosa, fuori della Natura, ad essa li attribuisca, ma
nel senso che essi sono modi d'essere costitutivi della Natura.
Sono suoi nel senso più radicale, perché, senza di essi, la Na-
tura non esisterebbe, non manifesterebbe la sua essenza, ossia
non esplicherebbe la propria potenza. Con «attributo», dunque, si ha da intendere non «ciò che viene attribuito» alla Natura, ma ciò che «risulta» da essa in quanto potenza, ossia il
suo modo d essere in quanto modo d'agire.
La connotazione attiva, dinamica, della Natura, non deriva
soltanto dal suo caratterizzarsi come potenza in generale, secondo quanto affermato dalla Proposizione 34 della Prima
Parte dell'Etica, ma anche dal caratterizzarsi dei suoi attributi
71
in un senso che implica attività, produzione. Per quanto riguarda il Pensiero, è da notare che lo stesso termine latino
adottato da Spinoza, Cogitatio, derivando, indirettamente, da
co-ago (= «raccolgo», «metto insieme») e, direttamente, da
co-agito ( = «pongo in movimento due cose contemporaneamente», «mescolo»), non indica l'ambito dei risultati del Pensiero, ma quello del Pensiero in atto, del Pensiero che produce. Del resto ciò è evidente e chiaro anche solo considerando
quello che dice Spinoza: se il Pensiero, in quanto uno degli infiniti attributi di Dio, ne esprime - per la Def. 6, Parte I «l'eterna e infinita essenza», e se tale essenza - per la Prop.
34 Parte I - coincide con la potenza, allora il Pensiero è potenza, è un «modo» infinito in cui si esprime l'infinita potenza della Natura. Un ragionamento analogo può essere fatto
per l'altro attributo della Natura, l'Estensione; per il quale
valgono precisazioni etimologiche simili a quelle fatte per Cogitatio: Extensio, infatti, non designa una condizione statica,
una spazialità immota, per quanto infinita, ma, derivando da
ex-tendo, designa l'atto di tendere o di estendere, che implica
moto e potenza. Nulla di più fuorviante, dunque, che intendere «Estensione» come un equivalente di «Spazio»: l'estensione, in quanto attributo essenziale di una potenza infinita detta
Natura (o Dio, o Sostanza), è anch essa potenza. L'estensione
non è l'infinito spazio che «contiene» le infinite combinazioni
di forze prodotte dalla Natura, ma coincide con queste infinite combinazioni di forze.
Il rapporto funzionale che nell'Etica corre tra la Natura e i
suoi attributi (Pensiero ed Estensione) sembra ricalcare fedelmente quello che nei testi taoisti classici corre tra il Tao e le
sue modalità Yin e Yang. Le differenze, infatti, riguardano il
nesso tra Yin e Yang rispetto a quello tra Pensiero ed Estensione, ma non interessano il rapporto tra queste coppie di
«modi» e ciò di cui essi sono rispettivamente «modi», ossia la
Natura e il Tao (12). In generale, cioè, si può dire che Yin e
Yang sono tanto necessari all'esistenza, ossia all'azione del
Tao, quanto Pensiero ed Estensione sono necessari all'esistenza, ossia all'attività della Natura. É noto che Yin e Yang non
designano due principi statici o due termini contrari di un'op72
posizione fissa, ma due modi complementari della stessa realtà: in particolare, originariamente, indicavano il lato in ombra
(Yin) e il lato al sole (Yang) di una montagna o di una valle (13).
Ciò evidenzia che essi si danno come modalità intrinseche di
una stessa «cosa», come espressioni necessarie di una medesima realtà: la montagna o la valle non possono essere separate
dal loro lato in ombra e dal loro lato al sole, così come questi
non possono sussistere separatamente dalla montagna o dalla
valle. Questa necessaria reciprocità ontologica che in Spinoza
troviamo espressa al massimo livello di astrazione, nei testi
taoisti viene ribadita ricorrendo a riferimenti empirici, come
quando Chuang Tzu ci dice che «per l'uomo lo yin e lo yang
non sono diversi dai genitori» (14): ciò significa, infatti, che,
senza genitori, un individuo non può esistere e, reciprocamente, che i genitori non sono tali se non generano un individuo;
ma significa anche che, nello stesso individuo, agiscono il «lato» materno e quello paterno; e significa anche che i genitori,
dando la vita, danno anche, necessariamente, la morte. Ebbene, il Tao, contrariamente a quanto ha ritenuto Guénon, non
è affatto un principio scindibile da Yin e Yang (15), ma è costituito essenzialmente da Yin e Yang; la sua esistenza e la sua
funzionalità coincidono con l'esistenza e la funzionalità di Yin
e Yang; la sua potenza complessiva non è scindibile dalle potenze espresse da Yin e Yang, così come un individuo non è
concepibile indipendentemente dalle potenze che l'hanno generato (i genitori), né dagli aspetti - materni e paterni - che
ne costituiscono la personalità, né dalla necessità del nesso tra
vita e morte che ne segna il destino.
Per chiarire l'intrinseca co-essenzialità che stringe assieme
il Tao e i suoi «modi» Yin e Yang ogni esempio ed ogni metafora valgono meno del simbolo taoista, il T'ai chi tu:
73
Questo simbolo rivela tutta la propria pregnanza semantica
se viene interpretato non su base geometrica, come insieme di
forme e di superfici statiche, ma su base fisica, come campo di
forze in azione: in tal caso non è difficile accorgersi che esso è
la rappresentazione non soltanto di un equilibrio statico tra
due elementi contrari, ma anche e soprattutto di un alternarsi
di forze contrarie e complementari in cui la prevalenza di una
non significa la soppressione dell'altra. Questo movimento in
particolare viene rappresentato inserendo, al centro della parte più grossa di ciascun «seme» o «goccia» (mogatama), un
punto del colore del mogatama opposto: sia che tale punto
venga inteso come «annuncio» o come «residuo» del mogatama
opposto, in ogni caso l'idea di movimento viene chiaramente
suggerita, e viene suggerita in modo tale da evocare anche il
significato generale di tale movimento, secondo cui ogni fenomeno - da quelli biologici a quelli psichici, da quelli sociali a
quelli astronomici - procede per opposizioni complementari
alternate e, pertanto, una forza o un «polo» non può mai prevalere completamente, distruggendo per sempre quello contrario.
L'effetto di movimento e il senso di opposizione complementare non vengono tuttavia rappresentati nel T'ai chi tu
soltanto mediante l'espediente dell'«occhio» del mogatama: essi vengono evocati anche attraverso l'opposizione cromatica (16)
che, richiamando il contrasto originario tra lato al sole (Yang) e
lato in ombra (Yin), richiama pure il loro movimento alternato; inoltre mediante l'uso di forme curvilinee che imprimono
alla figura un movimento che essa non avrebbe se le due parti
che la compongono fossero separate da un diametro rettilineo;
il movimento viene poi suggerito anche dal fatto che gli «occhi» dei due mogatama sono disposti su una linea obliqua rispetto al diametro orizzontale della circonferenza, per cui l'effetto di rotazione, già creato dalla forma di mogatama, viene
ulteriormente rafforzato; se, infine, si osserva il T'ai chi tu in
termini di figura-sfondo, l'effetto di movimento diventa ancor più evidente (17). La chiarezza e la forza con le quali viene
rappresentato il movimento dissolvono a questo punto la possibilità di cogliere il limite esterno del simbolo come un confi74
ne rigido che contiene i due mogatama: la circonferenza del
T'ai chi tu è in realtà formata dai bordi esterni dei due mogatama o, meglio, dalla traccia che essi disegnano nel loro movimento rotatorio. Essa non esiste prima di essi e del loro movimento, e dunque non rappresenta affatto il Tao come Uno,
puro, separato, antecedente e superiore rispetto ai due elementi-forze che lo costituiscono: in quanto formata dalla
«scia» che i due mogatama lasciano, essa rappresenta il Tao come forza unificante formata dall'attività di Yin e Yang (18).
Questo rapporto di co-implicazione dinamica tra il Tao e i
suoi costitutivi modi d'essere Yin-Yang non si pone solo a un
livello astratto o in una dimensione puramente metafisica, ma
agisce anche ai più semplici livelli della vita quotidiana e opera nei processi biologici più elementari: spiega l'alternarsi del
giorno e della notte (19) e quello delle quattro stagioni (20); indica
la via da seguire negli affari politici (21) e nelle questioni sociali (22); regola gli equilibri della vita psichica (23) e morale (24), oltre a
quelli dello sviluppo biologico (25).
Parimenti, in Spinoza, il rapporto che lega la potenza degli
attributi a quella della Sostanza non si esaurisce in un ambito
formale ma coinvolge direttamente questioni «vitali» come
quella del rapporto corpo-mente. Come si è visto, Pensiero ed
Estensione sono attributi della Sostanza: ora, il corpo è «un
modo che esprime in una maniera certa e determinata l'essenza di Dio, in quanto lo si considera come cosa estesa» (26); e la
mente, in quanto «parte dell'infinito intelletto di Dio» (27) è «cosa pensante» (28). In altri termini: il corpo è un modo d'essere (29)
dell'infinita potenza della natura in quanto considerata secondo l'attributo dell'estensione, così come la mente è un modo
d'essere dell'infinita potenza della Natura in quanto considerata secondo l'attributo del Pensiero. Pertanto la relazione
che corre tra corpo e mente è analoga a quella che corre tra
Estensione e Pensiero: essa non è data da un'opposizione di
termini contrari, ma si attua come un interagire di forze complementari comuni a una medesima Sostanza. Proprio questo
costituirsi e questo dispiegarsi come modi d'essere della medesima Sostanza permettono al Pensiero e all'Estensione di porsi come fondamenti dell'omologia tra mente e corpo (30) e della
75
corrispondenza biunivoca tra idee e cose (31): che «L'ordine e la
connessione delle idee» sia identico «all'ordine e alla connessione delle cose» dipende dal fatto che «la mente umana è unita al corpo» (32), che «la mente e il corpo sono una sola e medesima cosa, che viene concepita ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto l'attributo dell'estensione» (33); ma, a sua volta, il
fatto che la mente e il corpo siano «una sola e medesima cosa
che viene concepita ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto l'attributo dell'estensione» dipende dal fatto che Pensiero
ed Estensione sono due modi d'essere della medesima Sostanza. Analogamente, nel taoismo, la complementarità empirica
di maschio e femmina dipende dalla complementarità universale di Yin e Yang; ma, a sua volta, la complementarità di Yin
e Yang è possibile perché Yin e Yang sono due modi d'essere
dell'unico e medesimo Tao (34).
A questo punto potrebbe venir fatto osservare che, mentre
per il taoismo si tratta di una complementarità ontologica, per
Spinoza, invece, si tratta di una complementarità gnoseologica
in quanto «una sola e medesima cosa» viene concepita «ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto l'attributo dell'estensione». A questo tipo di osservazione si potrebbe ribattere ricor-
dando innanzitutto che la limitazione della complementarità
al livello ontologico è, per quanto riguarda il Taoismo, affatto
arbitraria, dato che - come si è già accennato - l'interazione di Yin e Yang vale a tutti i livelli, da quelli psichici a quelli
biologici. Ma, anche per quanto riguarda Spinoza, la riduzione della complementarità al solo livello gnoseologico appare
affatto problematica: innanzitutto il piano dell'esse e quello
del concipere non sono affatto dislocati a livelli differenti o
addirittura opposti: «Dico che appartiene all'essenza di una
cosa ciò, dato il quale la cosa necessariamente è posta, e tolto
il quale la cosa è necessariamente tolta; ossia ciò senza di cui
la cosa non può essere, né essere concepita e, reciprocamente,
ciò che senza la cosa non può essere, né essere concepito» (35);
in secondo luogo è da ricordare che per Spinoza «l'oggetto
dell'idea costituente la mente umana è il corpo, ossia un certo
modo esistente in atto, dell'estensione, e niente altro» (36): ciò
significa, in altri termini, che la mente non si dà se non come
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idea del corpo, ossia solo in quanto esiste il corpo come suo
oggetto. Questa intrinseca connessione tra mente e corpo, che
impedisce ogni interpretazione idealistica del discorso di Spinoza, viene ribadita dall'affermazione secondo cui «la mente
umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più atta,
quanto più numerose sono le maniere, in cui il suo corpo può
essere disposto» (37). Quindi una cosa può essere concepita «ora
sotto l'attributo del pensiero, ora sotto l'attributo dell'estensione», ma il «concepire» è possibile solo in quanto ha come
oggetto la cosa: non vi può quindi essere complementarità
gnoseologica senza riferimento ontologico. Ciò non significa
peraltro che vi sia una priorità o una predominanza dell'elemento ontologico: per Spinoza non può esservi mente senza
corpo, né corpo senza mente, in quanto «Né il corpo può determinare la mente a pensare, né la mente può determinare il
corpo al moto o alla quiete, o a nessun'altra cosa» (38), per cui
«l'ordine delle azioni e delle passioni del nostro corpo è per
natura simultaneo all'ordine delle azioni e delle passioni della
mente» (39). Quindi la frase di Lieh Tzu «Il mio corpo è in accordo con la mente» (40) potrebbe venire inserita nell'Etica di
Spinoza senza alcun problema di coerenza logica.
2. Alla fine del capitolo XXV del Tao Tê Ching sta scritto:
«L'uomo si conforma alla Terra/la Terra si conforma al Cielo/
il Cielo si conforma al Tao/il Tao si conforma alla spontaneità
(tao fa tzu jan)». É innanzitutto da osservare che con «spontaneità» viene qui tradotto tzu jan che può anche essere reso con
«Natura» (41). Ciò vuol dire che il Tao non si conforma a un
Principio ad esso esterno, ma al proprio modo d'essere: «Natura» (tzu jan) non designa qui la Natura come qualcosa di esterno al Tao, ma la natura propria del Tao, il suo peculiare modo
d'essere, la sua «spontaneità». In altri termini: il Tao esiste in
quanto agisce spontaneamente, seguendo la propria natura,
«essendo se stesso». Tuttavia è da precisare che il Tao non è
una «cosa» al pari del Cielo, della Terra o dell'Uomo: esso è
una modalità, la modalità della spontaneità con cui ogni cosa
esiste seguendo la propria natura. Infatti il «Cielo che si conforma al Tao» non significa che il Cielo segua un modello di77
verso da sé che viene detto «Tao», ma anzi vuol dire che il
Cielo, per essere se stesso, deve evitare di prendere a modello
alcunché e seguire soltanto la spontaneità, il «corso naturale»
della propria natura. A questo punto si potrebbe obiettare che
ciò vale solo per il Cielo, e non per la Terra che si conforma al
Cielo e per l'Uomo che si conforma alla Terra. Si può rispondere osservando che la frase «la Terra si conforma al Cielo»
non significa che una «cosa» chiamata «Terra» prenda a modello del proprio comportamento un'altra, diversa, «cosa» detta «Cielo», ma vuol dire che la Terra, per essere se stessa, deve fare come il Cielo che, per essere se stesso, segue il Tao, ossia si conforma alla propria spontaneità. Ciò è del tutto evidente da questi versi del capitolo XXXIX del Tao Tê Ching:
«Se il Cielo non fosse puro per esso/temerebbe di squarciarsi/
se la Terra non fosse tranquilla per esso/temerebbe di fendersi» (42): il Cielo è «puro», ossia realizza la propria natura, «per
esso», perché segue il Tao, perché si conforma alla spontaneità; così la Terra è «tranquilla» (ning), realizza la propria natura
perché si conforma al Tao, ossia alla spontaneità. La medesima dinamica vale per l'Uomo: si conforma alla Terra non perché si faccia, miracolosamente o misteriosamente, Terra, ma
perché riesce ad essere se stesso seguendo la modalità della
spontaneità mediante la quale anche la Terra riesce ad essere
se stessa. Questa dinamica produce dunque una continuità organica tra Uomo, Terra e Cielo: si avrà un'armonia complessiva se e solo se Uomo, Terra, Cielo e, in genere, ogni cosa ed
evento, seguono la modalità della spontaneità, ossia se si conformano al Tao. Si può allora dire che l'uomo è una parte della
Natura solo nel senso che partecipa al modo d'essere della Natura, condivide, cioè, la spontaneità con cui essa agisce: egli è
parte della Natura solo in quanto è modo d'essere della Natura ed è tale «al modo» della Natura, ossia spontaneamente.
La questione si pone in termini assai simili in Spinoza. «La
potenza dell'uomo - è detto nell'Etica - è parte dell'infinita
potenza di Dio, ossia della natura» (43); d'altronde si sa che la natura, in quanto «sostanza assolutamente infinita, è indivisibile» (44): di essa non si hanno parti ma solo attributi, come suoi
intrinseci e necessari modi d'essere, e modi di tali attributi,
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ossia, in altri termini, modi d'essere finiti di modi d'essere infiniti. Si può dunque dire in generale che l'uomo è un modo
della natura e, più in particolare, che la potenza dell'uomo è
modo della infinita potenza della natura. A questo punto è necessario ricordare cosa intenda Spinoza per «potenza»: «Per
virtù e potenza intendo la stessa cosa; cioè (per la Proposizione 7, Parte Terza) la virtù, in quanto riferita all'uomo, è la
stessa essenza o natura dell'uomo, in quanto ha il potere di fare delle cose che possono intendersi per le sole leggi della sua
natura» (45). Quindi: la virtù o potenza dell'uomo è un modo
della virtù o potenza infinita della natura; ovvero: la capacità
di fare e di agire dell'uomo, i cui limiti sono definiti dalla natura propria dell'uomo stesso, non è che un modo finito della
infinita capacità di fare e di agire della natura. Ora, dato che
la natura è sostanza infinita, non può avere alcunché fuori di
sé da prendere come modello; pertanto ciò a cui si conforma
non può essere nient'altro che se stessa: essa «esiste per sola
necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola» (46). Come dire, insomma, che per la natura infinita necessità e libertà coincidono o, in altri termini, che la natura non
può fare a meno di agire seguendo la legge della propria spontaneità. Questo «agire seguendo la legge della propria spontaneità» appartiene evidentemente anche all'uomo in quanto
modo finito della natura e in quanto «ha il potere di fare delle
cose che possono intendersi per le sole leggi della sua natura»:
essendo «parte» della natura, l'uomo partecipa del modo in
cui essa si esplica e, facendo questo, egli esplica la propria natura. Non è difficile notare come questa dinamica descritta
nell'Etica di Spinoza sia profondamente affine a quella indicata nei testi taoisti: il Tao si conforma alla spontaneità, così come la Natura agisce liberamente; l'uomo, in quanto modo
d'essere del Tao, realizza la propria natura conformandosi alla
spontaneità così come, per Spinoza, l'uomo, in quanto modo
finito dell'infinita Natura, realizza se stesso conformandosi
alla «libera necessità» della propria natura. Questa affinità appare ancor più chiaramente qualora si presti attenzione al rapporto che si viene ad istituire tra la nozione taoista di Tê e l'idea spinoziana di virtus-potentia: innanzitutto, entrambe desi79
gnano «virtù» non nel senso di sottomissione della volontà a
una legge morale, ma nel senso di qualità, capacità, propria di
qualcosa, indipendentemente da ogni intenzione morale, come nel caso delle «virtù» terapeutiche di una pianta; in breve,
entrambe le nozioni indicano la «natura propria» di qualcosa
in quanto questa si esplica attivamente. In tal senso la Tê del
Tao è il Tao in quanto agisce, producendosi in un'infinità di
forme, proprio come, in Spinoza, la potentia della Natura è la
Natura in quanto Natura naturans, Natura che si esplica in infiniti modi; in particolare, la Tê di ciascuna cosa o di ciascun
evento è il modo in cui una cosa esiste o un evento si compie
seguendo il Tao, la spontaneità della propria natura. Il nesso
tra natura propria e virtù è ben espresso da queste parole del
Chuang Tzu: «Quando il mondo non corrompe la sua natura
né altera le sue virtù, si ha il governo del mondo» (47); parole
che sembrano anticipare quelle di Spinoza: «virtù non è niente altro che agire secondo le leggi della propria natura» (48).
Quindi le tesi di Spinoza e quelle dei taoisti concordano su alcuni punti fondamentali: 1) l'uomo è un modo finito della Natura infinita; 2) egli esplica la propria natura mediante la modalità della spontaneità, che è la medesima con cui si esplica la
Natura; 3) la «propria natura» consiste nella propria potenza o
virtù, il che significa che essa non è un'essenza, ma un'attività, o, meglio, che è «essenza» solo in quanto attività.
Ma non basta: Spinoza e i taoisti concordano anche nell'associare la felicità all'esercizio della virtù intesa come potenza.
Nell'Etica, infatti, sta scritto che il fondamento della virtù è
lo stesso sforzo di conservare il proprio essere, e che la felicità
consiste appunto nel fatto che l'uomo può conservare il suo
essere (49). E nello Chuang Tzu si dice: «La pienezza della felicità sta nel realizzare le proprie aspirazioni. Quello che gli antichi intendevano per realizzare le proprie aspirazioni non si riferiva alle carrozze ufficiali e ai berretti da cerimonia: intendevano solo che niente poteva aumentare la loro felicità» (50).
Ciò significa che la pienezza della felicità sta nel realizzare la
propria natura: infatti «coloro che perdono se stessi nelle cose
e smarriscono la loro natura nelle volgarità sono uomini che
capovolgono le posizioni» (51). Quindi per Spinoza la felicità
80
consiste nella capacità di conservare il proprio essere, così come, per i taoisti, essa consiste nel saper realizzare la propria
natura. Si è visto tuttavia che «proprio essere» e «propria natura» non significano «propria essenza», ossia uno stato, una
condizione originaria da mantenere intatta e immobile: essi significano, al contrario, una funzione dinamica, una capacità
attiva, una virtus in quanto potentia, una Tê in quanto Li (52). Si
viene allora a delineare un giro di discorso che, logicamente,
appare come una tautologia, ma che, dal punto di vista «esistenziale», ha un suo preciso e chiaro significato. Infatti: la felicità coincide con la capacità di conservare il proprio essere,
ma sappiamo che tale «capacità» è virtù; d'altra parte sappiamo anche che «proprio essere» sta anch'esso per «virtù», per
cui abbiamo che: virtù è capacità di conservare se stessa, felicità è capacità di mantenersi nella felicità, potentia è capacità
di conservarsi come tale. Ogni essere vivente, per essere felice, non deve modellare il proprio comportamento su qualche
norma ad esso esterna, ma deve lasciar liberamente agire la propria natura, esplicare la propria potentia, «esercitare» la propria
virtus, conformarsi alla spontaneità della propria Tê: «l'impotenza - dice infatti Spinoza - consiste solo nel fatto che l'uomo si lascia guidare dalle cose che sono al di fuori di lui» (53).
Ma ancora non basta. Spinoza e i taoisti si ritrovano d'accordo anche nel connotare questo esercizio della virtù come l'unica cosa utile: «Agire assolutamente per virtù in noi non è
niente altro che agire, vivere, conservare il proprio essere
(queste tre cose ne significano una sola) sotto la guida della ragione, e ciò sul fondamento di ricercare il proprio utile» (54). É
qui da ricordare e ribadire che «conservare il proprio essere»
non significa affatto mantenere intatta un'essenza originaria,
custodire una condizione immodificabile, un «tesoro» intangibile, ma vuol dire garantire le condizioni della propria vita,
assicurare le possibilità di realizzare la propria natura, ossia di
esprimere la propria virtus o potentia.
Pertanto «ricercare il proprio utile» non equivale al rincorrere incessantemente ciò che appare estrinsecamente vantaggioso a seconda delle singole circostanze, ma significa mantenere aperte le condizioni migliori per esprimere il proprio es81
sere, inteso nel senso di virtus o potentia: con «ricercare l'utile» Spinoza non intende l'andare in cerca di ciò che, di volta in
volta, sembra più utile all'agire, alla vita, all'«essere», alla virtus, alla potentia (che sono una cosa sola), ma indica la necessità di conservare le condizioni di possibilità della vita, dell'«essere», della virtus, della potentia. In termini geometrici, l'utile
non sarebbe rappresentabile con un punto o un insieme di
punti che si trova ora qui e ora là, nello spazio, ma è immaginabile come spazio vuoto che garantisce a ciascun punto la
possibilità di collocarsi dove vuole, a seconda della sua «natura propria», della sua potentia. Analogo discorso si trova nei
testi taoisti. In particolare, Lieh Tzu afferma che preservare
la vita è, sia per gli animali che per l'uomo, ciò che è più spontaneo e, contemporaneamente, più saggio (55); e, nel Tao Tê
Ching si esalta, come somma utilità, quella del vuoto: «Perciò
l'essere costituisce l'oggetto/e il non-essere costituisce l'utilità» (56). Il «preservare la persona» che troviamo nei taoisti (57)
equivale al «conservare il proprio essere» che troviamo in Spinoza: in entrambi i casi, si vuol dire che è utile e saggio, ossia
«secondo ragione», coltivare la propria spontaneità, garantire
l'esercizio della propria virtus o potentia nelle migliori condizioni di libertà. Pertanto sia Spinoza che i taoisti non sostengono, come potrebbe apparire a prima vista, che si deve preservare il «proprio essere» o la «propria persona» nel senso di
mantenersi in una condizione data, quasi vi fosse una «purezza» da custodire: in tal caso, infatti, si avrebbe un appello a
una concezione statica e chiusa, affatto incompatibile con i
concetti di virtus e di Tê.
Ora, se preservare il «proprio essere» e il coltivare la «propria persona» significano una cosa sola, ossia esprimere la propria natura (virtus o potentia); e se ciò si identifica col ricercare il proprio utile, allora non vi è un'utilità in generale, ossia
una norma universale che fissi, per tutti e una volta per tutte,
ciò che è utile. Pertanto ciascuna cosa o ciascun ente, preservando il «proprio essere», realizzano il proprio utile. Per questo, ciascuna cosa o ciascun ente sono perfetti: «Per realtà e
perfezione intendo la stessa cosa» (58). Dove, per «realtà» non si
ha da intendere «ciò che è dato una volta per sempre», ma ciò
82
che, ricercando il proprio utile, realizza la propria natura: la
perfezione non appartiene dunque al risultato della realizzazione, ma alla realizzazione stessa, alla realizzazione come processo. E, infatti, Spinoza afferma: «Quanto più perfezione
una cosa ha, tanto più agisce e tanto meno patisce, e, viceversa, quanto più agisce, tanto più è perfetta» (59). Il che, in altri
termini, significa: una cosa è tanto più perfetta quanto più attua la propria virtus o potentia, quanto più, cioè, realizza la
propria natura.
Identico giro di discorso si ha nei taoisti. In particolare
Lieh Tzu, parlando degli stornelli e dei tassi, sostiene che, affermando essi la loro propria natura, sono perfetti: «Sebbene
siano diversi per forma ed energia vitale, sono in armonia con
la loro natura e non possono prendere il posto l'uno dell'altro.
Sono tutti perfetti per la vita e bastano al loro compito» (60).
<Essere perfetti per la vita» significa, evidentemente, felicità,
esercizio della propria natura; ma anche qui, come nel caso
dell'utilità, non si tratta di una norma universale che detta le
regole del comportamento corretto al fine di raggiungere la felicità: l'esercizio della propria natura è già felicità. Essa non è
premio conferito a un comportamento «virtuoso» rispettoso di
regole imposte dall'esterno, ma è l'esercizio stesso della virtus,
è la potentia che agisce, è natura propria che si realizza. In termini taoisti: è Tao che si conforma alla spontaneità.
É ovvio, allora, che da questa prospettiva risultino e risaltino l'affermazione e l'apologia della relatività: se perfezione e
felicità appartengono alla realizzazione della natura propria di
ciascuna cosa, non c'è spazio per alcun tipo di gerarchia in cui
e per cui il valore di una «natura propria» venga definito e stabilito maggiore o minore del valore di un'altra «natura propria». É questo uno dei punti su cui i testi taoisti insistono
maggiormente: «Le diecimila creature hanno diversa ragion
d'essere» (61); «Una trave può aprire una breccia, ma non può
otturare un buco: si tratta di una capacità diversa» (62); «Se uno
strato d'acqua non è profondo, non ha la forza di sostenere un
grosso battello. Rovescia una tazza d'acqua in una buca e un
fuscello vi farà naviglio, mettici la tazza e questa resterà arenata, poiché l'acqua è poco profonda e il naviglio è grosso» (63).
83
Questa relatività nasce automaticamente dalla mancanza di
una prospettiva teleologica per la quale si dovrebbe avere una
finalità generale che regola la struttura e la funzione di ogni
cosa e di ogni evento. Contro tale prospettiva che limiterebbe
e talvolta addirittura annullerebbe le finalità proprie a ciascuna cosa e a ciascun evento, tanto Spinoza quanto i taoisti si
esprimono in modo inequivoco: «la natura non si è prefissa alcun fine» (64), per cui «nessuna specie è nobile o vile, ma semplicemente esse si governano fra loro con la piccolezza o con la
grandezza, l'intelligenza o la forza, si mangiano fra loro, ma
non vengono alla vita l'una a favore dell'altra» (65). Di qui, naturalmente, l'impossibilità di stabilire una qualche forma di
antropocentrismo: la natura propria dell'uomo non è superiore
alla natura propria di tutti gli altri enti, e nemmeno a quella di
qualche altro ente, ma ne è soltanto diversa. Non vi è alcuna
ragione per pensare alla centralità dell'uomo nel sistema della
natura: «dopo essersi persuasi che tutto ciò che avviene avviene per loro, gli uomini hanno dovuto giudicare principale in
ciascuna cosa ciò che è più utile a loro stessi, e stimare come
le più eccellenti quelle cose da cui venivano affetti con maggior beneficio. Quindi hanno dovuto formare queste nozioni
per spiegare le cose naturali, cioè bene, male, ordine, confusione, caldo, freddo, bellezza e deformità. E dato che si ritengono
liberi, sono poi sorte queste nozioni, cioè lode e vituperio, peccato e merito» (66). Ma tutte queste nozioni - aggiunge Spinoza
- «non sono niente più che modi di immaginare» e conclude
dicendo: «la perfezione delle cose bisogna misurarla dalla sola
natura e potenza loro, perché esse non sono più o meno perfette per il fatto di dilettare i sensi degli uomini, o di offenderli, oppure per il fatto che ripugnano all'umana natura» (67).
Nel Chuang Tzu netta è l'affermazione della relatività dell'uomo rispetto agli altri esseri, che rende impossibile l'antropocentrismo: «Quando si enuncia il numero delle creature si
dice diecimila: l'uomo è una di esse. L'uomo popola le nove
province, vive nutrendosi di frumento, va da un luogo all'altro con barche e carri, ma è una di esse. A confronto delle diecimila creature non è come la punta d'un pelo sul corpo d'un
cavallo?» (68). Chuang Tzu non coglie solo la limitatezza e la re84
latività dell'uomo rispetto agli altri esseri, ma mostra anche
l'assurdità di credere a una finalità suprema che coordini le attività della natura centrandole sulla figura dell'uomo: «Il giorno e la notte si succedono davanti a noi, senza che nessuno
sappia chi li fa sbocciare. Basta! Basta! Afferreremo forse dalla mattina alla sera ciò che a queste cose dà origine e le fa vivere? Senza la spontaneità io non sarei, senza di me essa non
avrebbe un dominio. Ad essa siamo vicini, ma non sappiamo a
qual fine comandi» (69).
L'emarginazione, operata sia da Spinoza che dai taoisti
della prospettiva teleologica e di quella antropocentrica conduce a posizioni assai simili anche per quanto riguarda la critica all'opposizione Bene/Male. Spinoza, infatti, afferma: «Per
quel che riguarda il bene e il male, nemmeno essi indicano alcunché di positivo nelle cose in sé considerate, e non sono altro che modi del pensare o nozioni che formiamo per il fatto
che paragoniamo le cose l'una all'altra. Una stessa cosa infatti
può essere nello stesso momento buona e cattiva e anche indifferente» (70). Lo stesso concetto di relatività qui sostenuto da
Spinoza viene espresso, in modi più coloriti, da Chuang Tzu:
«Chi ha torri e appartamenti s'aggira per le stanze da letto e
per le sale del tempio ancestrale, ma va anche alla latrina: così
facendo cambia il suo concetto di ciò che è bene» (71). Se dunque non vi è una finalità fuori della Natura e se, anche dentro
la Natura, l'uomo non costituisce finalità eminente, centro
privilegiato verso cui essa si diriga o attorno a cui essa si organizzi, allora non vi può essere alcun concetto univoco e universale di Bene e di Male. Ciascuno di essi è relativo a tempi e
circostanze diverse: ciò che è bene, ossia utile per un essere
vivente, può non esserlo per un altro, e ciò proprio in base al-
le diverse «potenze» degli enti, alle differenti «nature proprie»
di ciascun ente. Pertanto la relatività delle nozioni «Bene» e
«Male» non significa affatto indifferenza e indistinzione; al
contrario: tale relatività è ciò che garantisce e protegge differenze e distinzioni, ciò che legittima la coesistenza della pluralità. Dire infatti che «i pesci vivono stando nell'acqua, gli uomini stando nell'acqua muoiono e perciò è diverso ciò che
amano e ciò che odiano» (72) significa appunto che, non essen85
doci un bene e un male valevoli per ogni cosa, va rispettata la
finalità interna ad ogni cosa, la finalità intrinseca alla natura
propria di ogni ente. Non vi è quindi spazio, né per Spinoza
né per i taoisti, per un'etica normativa che pretenda di sapere
e intenda imporre criteri e valori all'azione degli esseri. Per
entrambi non vi è la possibilità di escogitare una teoria generale del comportamento per cui da un'idea di Bene si possa
dedurre una prassi giusta: l'unica possibilità appare invece
quella di osservare la pluralità differenziata dei comportamenti e di garantirla riconoscendo la legittimità delle diverse virtutes o tê che costituiscono e regolano i comportamenti differenziati.
3. Risulta a questo punto fondamentale considerare la natura delle radici che sostengono e alimentano il tema della relatività delle nozioni «bene» e «male», non solo per approfondire e consolidare il nesso tra il pensiero taoista e quello di
Spinoza, ma anche perché, mediante tale approfondimento e
consolidamento, si viene a delineare un'altra omologia: quella
relativa all'immagine della saggezza e alla figura del saggio.
Spinoza sostiene che «bene» e «male» non sono che «due
modi del pensare» e che «la mente umana, se non avesse altro
che idee adeguate, non formerebbe nessuna nozione di male» (73). Pertanto il male non ha alcuna realtà ontologica, ma è
prodotto da un difetto di conoscenza, ossia da quel tipo di conoscenza di primo genere che Spinoza chiama «opinione o immaginazione» (74). Allora il modo per superare il male è di conoscerlo adeguatamente: «Un affetto che è passione, cessa di essere passione appena ci formiamo di esso un'idea chiara e distinta» (75); in altri termini, superare il male significa sapere che
tutte le cose sono necessarie: «in quanto la mente intende tutte le cose come necessarie, in tanto ha maggior potenza sugli
affetti, ossia ne patisce meno» (76). Sapere questo vuol dire sapere che tutte le cose sono determinate a esistere e a operare
da «un infinito nesso di cause» (77).
In un testo taoista classico, il Lieh Tzu, si ritrova lo stesso
pensiero, formulato addirittura in forma pressoché identica:
«Coloro che non sanno dove si originano i cambiamenti in loro
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indotti, quando si produce un evento rimangono perplessi sulla
sua causa; quelli che sanno dove si originano i cambiamenti in
loro indotti, quando sopraggiunge un evento ne conoscono la
causa. Conoscendone la causa, nulla li spaventa» (78). Coloro che
conoscono la concatenazione delle cause dei «cambiamenti» subiti corrispondono evidentemente a coloro che, per Spinoza,
sono in grado di conoscere adeguatamente la natura e l'origine
dei loro «affetti», che hanno la virtus di sapersi condizionati da
un «infinito nesso di cause»: questi sono i saggi (79).
Questo conoscersi come modi della natura determinati da
un infinito nesso di cause consente ai saggi di non aver paura
di nulla, nemmeno del male più radicale, cioè della morte. Di-
ce infatti Spinoza: «L'uomo libero non pensa a niente meno
che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita» (80). Un esempio luminoso di questa «meditazione della vita» che chiarisce l'atteggiamento del saggio nei
confronti della morte si trova proprio nel Chuang Tzu.
Chuang Tzu, a un amico che era andato a trovarlo per fargli le
condoglianze per la morte della moglie e che si meravigliava
del suo atteggiamento tutt'altro che triste, dice così: «Quando
è morta, nel primo momento come potevo non essere addolorato? Ma ho riflettuto che, quando ebbe principio, originariamente non aveva vita; non solo non aveva vita, ma originariamente non aveva forma; non solo non aveva forma, ma originariamente non aveva ch'i. Frammischiata in mezzo al confuso e all'indistinto si evolse ed acquistò il ch'i, questo si evolse
ed acquistò forma, questa si evolse ed ebbe la vita. Ora ha subito un'altra evoluzione ed è morta» (81). Come si vede, Chuang
Tzu, intuendo che la morte individuale non è che un momento della vita della specie e, più in generale, un modo della vita
della Natura, sopprime l'angoscia della morte, proprio come
l'«uomo libero» di cui parla Spinoza, che tanto più si emancipa dal timore della morte quanto più comprende che ogni singola cosa e persona viene determinata da un «nesso infinito di
cause»: «Quante più cose la mente comprende col secondo e
terzo genere di conoscenza, tanto meno patisce dagli affetti
che sono cattivi e tanto meno teme la morte» (82).
L'atteggiamento di Spinoza e dei taoisti di fronte a quel
87
«male» per antonomasia che è la morte è peraltro una determinazione particolare di una posizione più generale che essi assumono nei confronti della paura. Spinoza infatti sostiene
che «gli affetti di timore e di speranza non possono essere di
per sé buoni» in quanto «procurano un'agitazione dell'animo» e
«indicano un difetto di conoscenza e impotenza della mente»:
«quanto più dunque ci sforziamo di vivere sotto la guida della
ragione, tanto più ci sforziamo di dipendere il meno possibile
dalla speranza, di liberarci dal timore» (83). Uno splendido
passo del Chuang Tzu indica come l'incapacità di vivere «sotto
la guida della ragione», ossia di conoscere «adeguatamente»
conduca invece lo stolto a passare la sua vita dilaniato da timori e desideri: «agogna la ricchezza e ne ricava timore, agogna la potenza e ne ricava spossamento. [...] Ammassa la ricchezza senza usarla, se la tiene stretta senza separarsene, il
suo cuore colmo è triste ed esausto ma egli vuole di più senza
fine: si può chiamare afflizione. Quando è in casa sospetta dei
furfanti che rubano e chiedono, quando è fuori casa teme le
aggressioni di ladri e briganti...» (84). Al contrario, il saggio
«non ha pensieri ansiosi, non predispone piani» (85). Non «avere
pensieri ansiosi» e non «predisporre piani» significa avere la
capacità di vivere senza consumarsi nella ricerca dell'ambizione e della ricchezza. Per Spinoza il volgo, al contrario del saggio considera il denaro quale «compendio di tutte le cose» e a
stento può così «immaginare qualche specie di letizia se non
accompagnata dall'idea delle monete come causa» (86); invece
«quelli che conoscono la vera utilità delle monete, e regolano
la misura della ricchezza sul bisogno, vivono lieti con poco» (87).
Nei testi taoisti la critica all'idolatria del denaro e dei consumi eccessivi è talmente insistente e frequente che è qui possibile ricordare solo alcuni passi particolarmente significativi:
«..- quelli che sanno contentarsi non si fanno un legame del
guadagno, quelli che sanno essere soddisfatti non si spaventa-
no se perdono» (88) è detto nel Chang Tzu; e nel Tao Tê Ching:
«Colpa non vè più grande/che secondar le brame / Sventura
non v'è più grande / che non saper accontentarsi/ difetto non
v'è più grande / che bramar d'acquistare» (89); perciò il saggio «rifugge dall'eccesso / rifugge dallo sperpero / rifugge dal fasto» (90).
88
Le opinioni di Spinoza e dei taoisti, come convergono sulla
questione della ricchezza così concordano sul tema dell'ambizione: l'ambizione, che è per Spinoza «smodata cupidità di
gloria» (91) non è «moralmente» indegna, ma è dannosa, in
quanto «gli ambiziosi si travagliano massimamente quando disperano di conseguire l'onore a cui ambiscono; e mentre vomitano ira, vogliono apparire saggi». (92). Identica considerazione
troviamo nel Tao Tê Ching: «pregiar la propria persona è gran
sventura/ [...] La ragione per cui ho gran sventura/è che tengo
alla mia persona/se non tenessi alla mia persona/quale sventura avrei?» (93). Ciò non significa tuttavia, né per Spinoza, né per
i taoisti, che si debba fare l'apologia dell'umiltà. Anzi, Spinoza afferma che «l'umiltà è tristezza sorta dal fatto che l'uomo
contempla la sua impotenza o debolezza» (94); e il Tao Tê Ching
consiglia: «Non voler essere pregiato come giada/né spregiato
come pietra» (95).
Tuttavia l'orizzonte complessivo in cui si inseriscono queste considerazioni taoiste e spinoziane a proposito degli onori,
della ricchezza, dell'ambizione e della povertà non è connotato da tratti e sfumature di tipo moralistico: l'opzione a favore
della modestia e della povertà non discende da una precettistica considerata infallibile, da una normativa creduta perfetta,
da un catechismo di valore assoluto, ma scaturisce direttamente e spontaneamente dal conoscere la relatività e la precarietà di ogni cosa e di ogni evento, ossia dal sapere che ogni
elemento della natura e ogni evento della vita è determinato
da un «nesso infinito di cause». Quindi, in senso proprio, non
si potrebbe parlare, né per Spinoza né per i taoisti, di un'etica
come dottrina che prevede e prescrive una serie di comportamenti morali: si dovrebbe piuttosto parlare di modi di comportamento che si producono non appena si renda esplicita la
consapevolezza della struttura unitaria e relazionale della realtà. In tal senso non v'è etica giusta che «discenda», per viam
deductionis, da una teoria vera, ma, più semplicemente, si profila una situazione in cui ciò che si fa è immediatamente adeguato a ciò che si pensa: e questo non nel senso che il comportamento pratico «si adegua» a delle regole dettate dalla teoria,
ma nel senso che l'intensità della «teoria», del vedere il mondo
89
come «nesso infinito di cause» produce immediatamente
- senza scarti di tempo e di spazio - un comportamento corrispondente. «Cattivo», dunque, non è il malvagio, ma l'ignorante, chi non ha la virtus o tê che lo rende capace di cogliere
la condizionatezza e la relatività di ogni cosa e processo. Costui è, in termini spinoziani, colui che «delira» o, secondo le
parole taoiste, colui che è vittima dell'«attaccamento». Dice
infatti Spinoza: «gli affetti il più delle volte sono eccessivi e
trattengono la mente nella contemplazione di un solo oggetto,
in maniera che non può pensare ad altro [...] quando l'avaro
non pensa a nessuna cosa all'infuori del guadagno e del denaro e, l'ambizioso a nulla che non sia la gloria, ecc., questi
non si ritiene che delirino, per il fatto che di solito sono molesti, e si stimano degni di odio. Ma in realtà l'avarizia, l'ambizione, la libidine ecc., sono specie di delirio, nonostante non
siano enumerate fra le malattie» (96). Questi difetti, pertanto,
non sono per Spinoza dei vizi morali, ma sintomi di una malattia, di un eccesso di debolezza che conduce l'individuo a
non vedere le relazioni che sussistono tra cose e tra eventi della vita; malattia che gli impedisce, quindi, di cogliere la relatività: «la cupidità che sorge da letizia o tristezza che si riferisce a una o ad alcune, ma non a tutte le parti del corpo, non è
in rapporto all'utilità di tutto l'uomo» (97). Il «vizioso», allora,
non è che un «miope» eccessivo che polarizza la propria attenzione e i propri desideri solo su un oggetto o soltanto su un
aspetto della sua essperienza; al contrario, il «virtuoso» è colui
che ha la capacità di considerare oggetti e aspetti della propria
esperienza nella loro reciproca e dinamica interdipendenza:
«perciò quell'effetto da cui la mente è determinata a contemplare simultaneamente più oggetti è meno nocivo di un altro
effetto altrettanto grande che tiene ferma la mente nella sola
contemplazione di uno o di un minor numero di oggetti, in
modo che essa non possa pensare ad altri» (98). Anche per i taoisti l'incapacità di connettere, che coincide con l'ossessione per
le distinzioni, è segno di ignoranza, la quale si dà come vizio
più «fisiologico» che morale: «la grande sapienza tutto abbraccia, la piccola sapienza distingue; le grandi parole decompongono
i contrari, le piccole parole discutono di futilità» (99), perciò «la
90
causa della decadenza del Tao è la causa del successo delle predilezioni» (100). Distinguere e prediligere non sono vizi «formali», indifferenti alla condotta pratica dell'individuo, ma portano a conseguenze negative, nel senso che non sono utili: «Chi
non è attaccato a nulla, può avere di che lamentarsi?» (101)
Tutto ciò non significa però che il saggio, colui che coglie le
relazioni e la relatività delle cose e degli eventi e che, di conseguenza, non «delira» e non è «attaccato» a nulla, sia un indifferente ai piaceri: per Spinoza, infatti, «usare delle cose e dilettarsene quanto è possibile (non certo fino alla nausea, che
non è questo un dilettarsi), è dell'uomo saggio» (102). Parimenti
Lieh Tzu dice: «Seguire le proprie inclinazioni, null'altro.
Non ostacolarle, non reprimerle. [...] Asseconda l'orecchio in
ciò che vuol udire, l'occhio in ciò che vuol vedere, il naso in
ciò che vuol fiutare, la bocca in ciò che vuol dire, il corpo in
ciò in cui vuol trovare agio, l'intelletto in ciò che vuol operare» (103). Resta il fatto che, tanto per Spinoza che per i taoisti, il
godere dei piaceri deve arrestarsi là dove l'eccesso potrebbe
compromettere il godimento stesso, là dove, cioè, il «delirio»
o l'«attaccamento» producano ossessione e dipendenza- «La
cupidità che sorge dalla ragione non può avere eccesso» (104) dice Spinoza. Questo perché, come sostiene Lieh Tzu, «la Via
suprema non può esser ricercata con le passioni» (105).
Il «non delirare» consigliato da Spinoza e il «non attaccamento» raccomandato dai taoisti non si riferiscono soltanto ai
piaceri e alle passioni in genere: essi caratterizzano la posizione e la condizione del saggio nei confronti di qualsiasi atteggiamento eccessivamente polarizzato, fanatico, settario, esclusivo. Questa posizione e questa condizione sono ben delineate
da un passo eccezionalmente chiaro del Chuang Tzu, dove, a
proposito del saggio, si dice che «lascia l'oro sepolto nelle
montagne e le perle nascoste negli abissi, non s'avvantaggia di
beni e sostanze, non tende a nobiltà e ricchezza, non si rallegra per la vita longeva né si rattrista per la morte precoce, non
si gloria delle relazioni né si vergogna della povertà, non s'appropria del guadagno di tutta una generazione come se fosse
di sua spettanza, non si considera insigne perché regna sul
mondo» (106). Questa condizione generale fa sì che il saggio sia
91
capace perfino di fare a meno di ricorrere, per i suoi pensieri e
per le sue azioni, alla nozione di «bene» e al dovere di fare il
«bene»: di questa nozione e di questo dovere mostrano di aver
bisogno gli stolti, ossia i deboli, coloro che, per carenza di virtus o tê sono costretti, per pensare a fare il bene, a formarsi
una nozione di «bontà» e di «dovere» che li guidi dall'esterno,
nella forma di un imperativo o di un comandamento.
Ora, per quanto riguarda Spinoza, è da ricordare che «bene»
è ciò che sappiamo con certezza, che ci è utile» (107) e che per
«utilità» sia da intendere tutto ciò che contribuisce a realizzare la nostra «natura propria», ossia a incrementare la nostra
virtus o potentia. É altresì da ricordare che per Spinoza «noi
non tendiamo ad una cosa, vogliamo, appetiamo, desideriamo
una cosa per il fatto che la riteniamo buona, ma [...], al contrario, giudichiamo che una cosa sia buona, perché tendiamo
ad essa, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo» (108). Ciò
che è buono, dunque, non lo è oggettivamente, indipendenetnemente da noi, dalla nostra virtus o potentia: la nostra virtus o
potentia non è costituita dalla serie di mezzi che mettiamo in
opera per raggiungere un fine posto fuori di noi, ma coincide
con la capacità di produrre tale fine. La bontà, insomma, non è
un ideale da prescrivere a tutti, ma una realtà praticata dai pochi che ne sono capaci. É ovvio allora che la commiserazione
viene definita da SPinoza come «tristezza accompagnata dall'idea di un male che è capitato a un altro che immaginiamo
essere nostro simile» (109), tenendo presente che tristezza e
«il passaggio dell'uomo da una maggiore ad una minore perfezione» (110): il commiserevole perciò, in quanto triste, è dotato di
una potentia bassa, di una virtus debole, per cui sarà condotto
a fare il bene non in base alla forza della «propria natura», a
grazie all'obbedienza a una norma che glielo impone.
Analogo risultati il ragionamento che si può rintracciare lungo
i testi taoisti, i quali insistono nel ricordare che il saggio, pur
comportandosi in modo caritatevole e giusto, «non usa carità e
giustizia» (111). Parlando del saggio, Chiang Tzu infatti dice: «i
suoi benefici e i suoi favori si spandevano su diecimila generazioni, ma non perché amasse gli uomini. Perciò colui che si
compiace di fare prosperare le creature non è un santo, colui che
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ha degli affetti non è un caritatevole...» (112). Per questo il saggio
«si perfeziona nella virtù ma non ne fa un vincolo, eccelle nel
Tao ma non forma progetti, si associa nella carità ma non vi si
affida» (113). E nel Tao Tê Ching si trova scritto che il saggio, seguendo il Tao, «soccorre e non s'esalta/soccorre e non si gloria/
soccorre e non s'insuperbisce/soccorre quando non può farne a
meno/soccorre ma non fa violenza» (114). Che il fare il bene appartenga alla sfera del poter-fare e non a quella del dover-fare,
appare ancor più chiaramente in questi splendidi versi del Tao
Tê Ching: «La somma carità agisce/ma non ha necessità d'agire/
la somma giustizia agisce/ma non ha necessità d'agire» (115).
Ma questo poter fare il bene senza essere costretti a sottomettersi a norme che prescrivono «carità e giustizia» non conduce, né per Spinoza né per i taoisti, a un atteggiamento di superiorità nei confronti di coloro che sono capaci di fare il bene
solo per dovere. Al contrario: il saggio, proprio in quanto le
sue azioni sono benevole spontaneamente e non perché conformi a una norma, non ha alcun motivo di vantarsi, non ha biso-
gno di attribuirsi alcun merito, ma mostra semplicemente la
potentia della sua «natura propria». Perciò il saggio si può identificare con l'«uomo forte» individuato da Spinoza come colui
che «non odia nessuno, verso nessuno si adira, porta invidia, si
indigna, nessuno disprezza, e non insuperbisce affatto» (116).
Questa precisazione si ritrova, ripetuta e insistita, anche
nei testi taoisti: così il Tao Tê Ching dice che «il santo opera
ma nulla s'aspetta/compiuta l'opera non rimane/non vuol mostrare di eccellere» (117); e nel Chuang Tzu si sostiene che «pertanto le azioni dell'uomo grande non sono dirette a nuocere
agli altri, ma egli non vanta la sua carità e benevolenza» (118). In
tal modo all'atteggiamento del saggio prefigurato da Spinoza,
il quale non si mette a «contemplare i vizi degli uomini» o a
«denigrare gli uomini» (119), corrisponde quello del saggio taoista: «Quei che ha virtù bada all'obbligo suo/quei che non ha
virtù bada alle infrazioni altrui» (120).
Tutto ciò indica che, nell'agire bene, il saggio non ha alcun
merito. E infatti egli, agendo secondo la propria natura, non
fa che esplicarsi come modo d'essere della Natura in generale
o del «grande Tao», l'attività dei quali è spontanea nella misu93
ra in cui è necessaria: egli non può impedirsi di fare il bene così come la Natura non può impedirsi di generare «le diecimila
creature». Ciascuna natura propria e ogni tao particolare partecipano del «destino della necessità» del Tao sive natura, che
coincide con un «destino di spontaneità». Proprio perché
spontaneo e insieme necessario, l'agire bene del saggio non
può pretendere alcun riconoscimento di merito. Se il saggio
volesse avanzare tale pretesa, dovrebbe farlo presupponendo
di agire bene nonostante una «tendenza» contraria presente
nella sua «natura propria»: ma sarebbe immediatamente costretto ad ammettere che la capacità di vincere su questa «tendenza» contraria appartiene anch'essa alla sua «natura propria» che esiste solo in quanto agisce per necessaria spontaneità. L'agire bene del saggio non è dunque il risultato di una
scelta, ma la testimonianza della necessità con cui si esprime
la sua virtus in quanto potentia, ovvero il segno della spontaneità con cui si esplica, come tê, il suo Tao.
1 Tao Tê Ching, IV, v. 10 (tr. di F. Tomassini in Testi Taoisti, Torino 1977,
p. 47. D'ora in poi, nelle note, verrà indicato con la sigla TTC). Cfr. anche
Chuang Tzu, VI, XVII, 108 (tr. di F. Tomassini in Testi Taoisti cit., p. 473.
D'ora in poi, nelle note, questo testo verrà citato con la sigla CT). Cfr. anche
Lieh-Tzu, I, 3 e V, GO (tr. di F. Tomassini in Testi Taoisti cit., p. 209 e p.
269. D'ora in poi, nelle note, questo testo verrà citato con la sigla LT).
2 Cfr. TTC, XIV, vv. 16-17
3 Cfr. B. Spinoza Etica, I, Prop. 19: «Dio è eterno, ossia tutti gli attributi
di Dio sono eterni» (tr. di S. Giametta Torino 1975, p. 42. D'ora in poi, nelle note, questo testo verrà citato con la sigla E).
4 Cfr. E, IV, Prefazione, e Prop. 4 (Dimostrazione)
5 Cfr. TTC, XXXIV, v. 2.
6 E, I, Def. G.
7 Che la potenza costituisca l'essenza di Dio/Natura appare chiaramente dalla
Dimostrazione della Proposizione 4 (Parte Quarta) dell'Etica: «Dunque la potenza dell'uomo,in quanto è spiegata attraverso la sua essenza attuale, è par94
te dell'infinita potenza di Dio, ossia della Natura, cioè (per la Proposizione 34,
Parte Prima) dell'essenza» (corsivo nostro). Ma il concetto stesso di causa sui
implica quello di potenza (cfr. E, I, VI cor., XI e XIV).
8 Cfr. F. Meli, Spinoza e due antecedenti italiani dello spinozismo, Firenze
1934, p. 169: «l'attributo non è la sostanza esso stesso, ma l'espressione,
l'attività della sostanza».
9 Cfr. M. Guéroult, Spinoza. Dieu (Ethique 1), Paris 1969, Appendice n. 3
10 E, II, Prop. 1.
11 E, II, Prop. 2
12 La varietà delle combinazioni tra Yin e Yang è ben delineata in questo
passo del Chuang Tzu: «Lo yin e lo yang si riflettono, si sovrappongono, si regolano l'un l'altro; le quattro stagioni s'avvicendano, si danno origine e fine
l'una all'altra. Da ciò sorgono potenti l'attrazione e la repulsione dell'amore
e dell'odio, da ciò si hanno immutabili la separazione e l'unione del maschio e
della femmina. Sicurezza e pericolo si danno il cambio a vicenda, prosperità e
avversità si originano a vicenda, agio e disagio si compensano a vicenda. Da
essi si formano l'unione e la dispersione» (CT, VIII, XXV, 199).
13 Cfr. M. Granet, Il pensiero cinese, tr. Milano 1971, p. 89
14 CT, III, VI, 43.
15 Cfr. R. Guenon La grande triade tr. Milano 1980, capitoli II e IV: in particolare p. 44: «...il simbolo di Tai ki (...) appare come la sintesi dello yin
e dello yang, ma a patto di precisare che tale sintesi, essendo l'Unità prima è
anteriore alla differenziazione dei suoi elementi e perciò assolutamente indipendente da questi». Per verificare il travisamento operato da Guénon basti
leggere il paragrafo (a) del commentario di Chu Hsi riportato in J. Needham,
Scienza e civiltà in Cina, tr. Torino 1983, 2, p. 555.
16 Il mogatama superiore, anziché bianco, può essere rosso e quello inferiore,
anziché nero, può essere blu.
17 Per un'analisi del T'ai chi tu in termini di Gestaltpsychologie cfr. R. Arnheim, Analisi percettiva di un simbolo di interazione, in Id., Verso una psicologia dell'arte, tr. Torino 1969, pp. 271-297.
18 Sulla base di queste considerazioni il disegno dovrebbe essere fatto non
tracciando prima la circonferenza e poi la linea curva che divide i due mogatama, ma tracciando questa linea curva continuandola fino a completare la circonferenza: tracciando la linea A-B a partire da A; continuando da B tracciando il semicerchio B-A, e finendo col tracciare l'altro semicerchio A-B.
95
19 Cfr. LT, III, 39.
20 Cfr. LT, I, 1.
21 Cfr. CT, II, IV, 24; V, XIV, 99; IX, XXXI, 232.
22 Cfr. CT, IV, XI, 99; VI, XVI, 106.
23 Cfr. CT, IV, XI, 67; V, XIII, 88; VI, XV, 105.
24 Cfr. CT, VI, XVII, 108.
25 Cfr. CT, VII, XXI, 147; VII, XXII, 156.
26 E, II, Def. 1.
27 Cfr. E, II, Prop. 11, Cor. In realtà, in base alla Proposizione 13, Parte
Prima, Spinoza non dovrebbe dire «parte», ma, piuttosto, ricalcando la definizione di corpo appena ricordata, dovrebbe dire che la mente è un modo che
esprime in maniera certa e determinata l'essenza di Dio, in quanto lo si considera come cosa pensante. Sul concetto di «mente» in Spinoza cfr. E. Giancotti, Sul concetto spinoziano di Mens, in Id., Ricerche lessicali su opere di Desc
artes e Spinoza, Roma 1969, pp. 120-169 e T. Mark Spinoza's Concept of Mind,
«Journal of the History of Philosophy», 1979 (17), pp. 401-416.
28 Cfr. E, II, Def. 3: «Intendo per idea un concetto della mente che la mente
forma perché essa è una cosa pensante».
29 Usiamo «modo d'essere» tanto per ciò che Spinoza chiama «attributo»
quanto per ciò che definisce propriamente come «modo». Per la differenza
cfr. le Definizioni 4 e 5 della Parte Prima dell'Etica. Per il significato di
«modo» in Spinoza cfr. A. Rivaud, La nature des modes selon Spinoza, «Revue de
Métaphysique et de Morale», 3, 1933, pp. 281-308.
30 Cfr. E, II, Proposizioni 13, 14, 19, 23, 26; III, Prop. 11; V, Prop. 21.
31 Cfr. E, II, Prop. 7: «L'ordine e la connessione delle idee è identico all'ordine e alla connessione delle cose». Cfr. anche E, Parte Quinta, Proposizioni
I, 21, 39. Giustamente Guéroult ha osservato che l'ordine e la connessione
delle cose non è corrispondente a quello delle idee, ma è il medesimo, perché le
cose non sono che modi finiti della Sostanza visti sotto l'aspetto dell'Estensione e le idee modi finiti della Sostanza sotto l'aspetto del Pensiero (cfr. M.
Guéroult, Spinoza, Hildesheim 1974, II, pp. 65 sgg.).
32 Cfr. E II Prop. 13, Scolio. Sul rapporto mente-corpo in Spinoza cfr. G.
Floistad, Mind and Body in Spinoza's «Ethics», «Synthese», 1978, 37, pp. 113; J. Bennet, Spinoza's mind-body identity Thesis, «Journal of Philosophyn,
96
1981, 78, pp. 573-584; Ch. B. Daniels, Spinoza on the mind-body problem.
Two questions, «Mind», 1976, 85, pp. 542-558. Tuttavia le considerazioni
più interessanti si trovano in W.S. Wurzer, Mens et corpus in Spinoza and
Nietzsche. A propaedeutic comparison, «Dialogos», 1981, 16, pp. 81-91; K.
Helker, Spinozas Ontologie der Körperwelt, «Zeitschrift für philosophische
Forschung», 1977, 31, pp. 597-617; J. Wetlesen, Body awareness as gateway
to eternity. A note on the Mysticism of Spinoza and its affinity to Buddhist
meditation, in AA.VV., Speculum Spinozanum 1677-1977 (a cura di S. Lessing),
London 1977, pp. 479-494.
33 E, IV, Prop. 2, Scolio; e E, II, Prop 21, scolio.
34 É tuttavia da ribadire che il Tao non sarebbe nulla senza questi suoi «modi
d'essere», così come il Deus sive Natura di Spinoza non esisterebbe indipendentemente dai suoi attributi.
35 E, II, Def. 2.
36 E, II, Prop. 13. Cfr. anche Prop. 11.
37 E, II, Prop. 14. Cfr. anche Prop. 12: «...se l'oggetto dell'idea costituente
la mente umana è il corpo, non potrà accadere niente in questo corpo che non
sia percepito dalla mente»; Prop. 19: «La mente umana non conosce lo stesso
corpo umano, né sa che esso esiste, se non mediante le idee delle affezioni da
cui il corpo è affetto»; Prop. 23: «La mente non conosce se stessa, se non in
quanto percepisce le idee delle affezioni del corpo»; e Prop. 26: «La mente
umana non percepisce un corpo esterno come esistente in atto, se non attraverso le idee delle affezioni del suo corpo».
38 E, III, Prop. 2.
39 Ibid., Scolio. Cfr. anche E, III, Prop. 11: «Se qualcosa accresce o diminuisce la potenza d'agire del nostro corpo, la aiuta o la impedisce, l'idea di ciò
aumenta o diminuisce, aiuta o impedisce la potenza di pensare della nostra
mente»; Parte Quinta, Prop. I: «Secondo che i pensieri e le idee delle cose si
ordinano e concatenano nella mente, così le affezioni del corpo, ossia le immagini delle cose, si ordinano e concatenano in modo esattamente corrispondente nel corpo»; Parte Quinta, Prop. 21: «La mente non può immaginare
niente, né ricordarsi delle cose passate, se non mentre dura il corpo».
40 LT, IV, 46. Se poi si volesse estendere ulteriormente l'analogia tra lo schema taoista e quello di Spinoza si potrebbe notare come la complementarità
che regge la differenza tra Yin e Yang è applicabile anche al rapporto moto/
quiete per quanto riguarda i corpi (cfr. E,11, Assioma 2, Lemma 1) e a quello
volontà/intelletto per quanto riguarda la mente (cfr. E, II, Prop. 49, Cor.).
Pertanto lo schema analogico generale risulterebbe così:
97
Pensiero (Yang) - Mente (Yang) Volontà (Yang)
Sostanza
Intelletto (Yin)
Natura
= > Tao
Dio
Estensione (Yin) Corpo (Yin)
Quiete (Yng)
(L'«occhio» di ciascun mogatama viene indicato con uno spazio circolare bianco per non complicarne troppo la rappresentazione ma, ovviamente, andrebbe caratterizzato con le linee che contrassegnano il mogatama opposto e complementare).
98
41 Duyvendak traduce con «corso naturale» (Paris 1953, tr. it. Milano 1973);
Siao Sci-Yi con «la propria natura» (Bari 1947); Lanciotti con «se stesso»
(Milano 1981), come già Castellani (Firenze 1954).
42 TTC, XXXIX, vv. 11 14.
43 E IV, Prop. 4, Dimostrazione; cfr. anche E, I, Prop. 11, Cor.; IV, Prop.
2- IV, capp. 1, 6 e 32. Sul tema dell'uomo come «parte» della Natura, cfr. E.
Giancotti, Man as a part of nature, in AA.VV., Spinoza.s philosophy of Nature,
[a cura di G. Wetlessn], Oslo 1978, pp. 51-84; E. M. Curley, Man and Nature in
Spinoza, in Ibid., pp. 19-26.
44 E, I, Prop. 13.
45 E, IV, Def. R.
46 E, I, Def. 7: «Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola». Cfr. anche E I, Prop. 17:
«Dio agisce per le sole leggi della sua natura, e non costretto da alcuno».
47 CT, IV XI, 67. Un'altra traduzione rende il passo così: «Se nessuno si allontana dalla propria natura e ciascuno conserva intatta la propria virtù, c'è
forse bisogno di un governo?» (Zhuan gzi tr. condotta su quella francese a cura di Liou-Kya-hway, Milano 1982, p. 90. D'ora in poi, nelle note, questa
traduzione verrà indicata con la sigla ZZ). Un altro passo in cui è posta in evidenza l'equivalenza tra virtù e natura propria è questo: «Quelli correggono
ma velano la propria virtù: se osservassero la virtù non la coprirebbero, poiché la coprono le creature necessariamente smarriscono la loro natura» (CT,
VI, XVI, 106).
48 E, IV, Prop. 18, Scolio.
49 Ibid.
50 CT, VI, XVI, 107
51 Ibid. Cfr. ZZ, p. 142: «Lasciarsi dominare dai beni di questo mondo e corrompere con la volgarità la propria natura è davvero come camminare sulla
propria testa».
52
53
54
55
Cfr. J. Needham, op. cit., pp. 576 e 683.
E, IV, Prop. 37, Scolio.
E, IV, Prop. 24; cfr. anche E, V, Prop. 41, Dimostrazione.
Cfr. LT, II, 32: «Per spontaneità la saggezza degli animali è simile a quella
degli uomini: essi desiderano egualmente preservare la loro vita...».
99
56 TTC, XI, vv. 7-8.
57 Cfr. TTC, II e CT, IV, XI, 69.
58 E, II, Def. 6.
59 E, V, Prop. 40 (corsivo nostro).
60 LT, V, 60: cfr. anche VI, 85: «Quattro uomini, il Furbo e il Semplice, il
Tardo e lo Svelto passano insieme nel mondo, ciascuno seguendo la propria
inclinazione».
61 CT, VIII, XXV, 199.
62 CT, VI, XVII, 108.
63 CT, I, I, 1.
64 E, I, Appendice.
65 LT, VIII, 133. Il passo continua così: «Gli uomini prendono quelle che sono commestibili e le mangiano: il cielo ha forse dato loro la vita per gli uomini? Le zanzare e gli insetti ci pungono la pelle, le tigri e i lupi mangiano la
carne. Il Cielo non ha mica dato la vita agli uomini per le zanzare e gli insetti,
né ha fatto la carne per le tigri e i lupi».
66 E, I, Appendice.
67 Ibid. Cfr. anche Spinoza, Trattato sulla emendazione dell'intelletto, Proemio, 12.
68 CT, VI, XVII, 108.
69 CT, I, II, 10.
70 E, IV, Prefazione.
71 CT, VIII, XXIII,173; cfr. anche CT, VII, XIX, 126 e VI, XVIII,119: «I
pesci vivono stando nell'acqua, gli uomini stando nell'acqua muoiono: sono
diversi fra loro e perciò è diverso ciò che amano e ciò che odiano».
72 CT, VI, XVII, 121.
73 E, IV, Prop. 64, Cor.
74 Cfr. E, II, Prop. 40, Sc. 2.
100
75 E, V, Prop. 3.
76 E, V, Prop. 6.
77 Cfr. Ivi, Dimostrazione. Cfr. anche E, I, Prop. 28 e Prop. 29.
78 LT, III, 38.
79 Needham ha scritto che «Il cognoscere per causas divenne il motto dei taoisti» e cita, al proposito un incontrovertibile passo del Lu Shih Chhun Chhi':
«Perciò il saggio non indaga sulla durata o sulla rovina, né sulla bontà o la
cattiveria, ma sulle loro ragioni» (cfr. J. Needham, op. cit., pp. 66-67).
80 E, IV, Prop. 67. Su questa linea del ridimensionamento della morte Spinoza ha almeno due illustri predecessori: Epicuro (Epistula ad Menoeceum, 24,
68-9; 125 3, 5, 6, 7, 10-133 2; Ratae Sententiae, 5,11, 8; X, 5; XI, 11); e
Montaigne (Saggi, I, XX;11, XI e III, XII).
81 CT, VI XVII 116. In zz, p. 158, si ha una traduzione leggermente diversa, ma il
significato rimane altrettanto chiaro: «Al momento della sua morte
fui, naturalmente, turbato per un istante, ma poi, riflettendo sul significato
di "inizio", scoprii che in origine essa non possedeva vita; non solo non possedeva vita ma nemmeno forma; non solo non aveva forma, ma nemmeno
soffio. Qualcosa di sfuggente e inafferrabile si trasforma in soffio, il soffio
in
forma, la forma in vita, ed ecco ora che la vita si trasforma in morte».
82 E, V, Prop. 36.
83 Cfr. E, IV, Prop. 47
84 CT, IX, XXIX, 230.
85 CT, VI, XV, 105.
86 Cfr. E, IV, Prop. 28.
87 Cfr. E, IV, Prop. 29.
88 CT, IX, XXVII, 223. Cfr. anche CT, VII, XX, 37: «Rendi minimi i tuoi
consumi e scarse le tue brame - rispose Shi-nan-tzu - ed anche senza provviste avrai a sufficienza»; e CT, VIII XXIII, 174: «Onori e ricchezze, lustro
e imponenza, fama e profitto sono le sei cose che danno impulso alle passioni». É interessante notare che nel Chuang Tzu si distingue povertà da miseria: «non avere mezzi si dice povertà e studiare senza essere capaci di mettere
in pratica si dice miseria» (CT, IX, XXVIII, 223). Quando il re di Wei vede
Chuang Tzu che indossa «una tunica di stoffa grossolana tutta rattoppata»
e gli dice «quale miseria la tua, maestro», Chuang Tzu gli risponde: «É po101
vertà, non miseria. Un saggio che possiede la virtù del Tao non può cadere in
miseria. Le vesti strappate e le scarpe rotte indicano povertà, non miseria. Significa non aver incontrato l'epoca giusta» (CT, VII, XX, 140).
89 TTC, XLVI vv. 5 10. Cfr. anche XIX v. 5; XXXIII, v. 5; LIX, vv. 12;
LXVII, v. 10; LXXXI, v. 7. É tuttavia da ricordare che l'appello a «sapersi
accontentare» non equivale per i taoisti all'invito ad abbandonarsi in un fatalismo assoluto, ma si accompagna alla consapevolezza che il saggio si conforma alla «via del Cielo» la quale «è di diminuire chi ha in eccedenza/ e di aggiungere a chi non ha a sufficienza» (TTC, LXXVII, vv. 8-9).
90 TTC, XXIX, vv. 1416. Cfr. TTC LIII, vv. 614: «Quando il palazzo reale è troppo ben tenuto/ i campi son del tutto incolti/ e i granai son del tutto
vuoti/ Indossare vesti eleganti e ricamate/ portar alla cintura spade acuminate/ rimpinzarsi di vivande e bevande/ e ricchezze e beni aver d'avanzo/ è sfarzo da ladrone/ É contrario al Tao, ahimè».
91 E, III, Def. 44.
92 E, V, Prop. 10, Sc.
93 TTC, XIII, vv. 2 e 1215. Cfr. anche TTC, LXVII, v. 11: la terza cosa
preziosa è «il non ardire d'esser primo nel mondo».
94 E, III, Def. 26.
95 TTC, XXXIX, vv. 312.
96 E, IV, Prop. 44, Sc.
97 E, IV, Prop. 40.
98 E, V, Prop. 9, Dim.
99 CT, I, II, 10.
100 CT, I, II, 13.
101 CT, IX, XXVII, 214.
102 E, IV, Prop. 45, Sc. É importantissimo, perché illuminante, ricordare le
parole con cui questo passo prosegue: «Dico che è dell'uomo saggio rifocillarsi
e ricrearsi con moderato e piacevole cibo e bevanda, come pure con gli odori,
con l'aroma delle piante verdeggianti, il bel vestire, la musica, gli esercizi
del corpo, gli spettacoli e le altre cose simili, di cui ognuno può usare senza al
cun danno per gli altri».
102
103 LT, VII, 95. Si osservi come il contenuto di questo passo taoista
s'accordi con quello spinoziano riportato alla nota precedente.
104 E. IV, prop. 61.
105 LT, 2, 15.
104
106 CT V, XII, 74.
107 E, IV, Def. I. Cfr. anche E, IV, Prop. 31: «In quanto una certa cosa conviene con la nostra natura, in quanto necessariamente è buona».
108 E, III, Prop. 9, Sc.
109 E, III, Def. 18,
110 E, III, Def. 3,
111 Cfr. TTC V v. 3 e XIX v. 3; CT, III VI 46; IV, VIII, 57; IV, IX, 61;
IV XIIII 68, V XII 85; V XIII 90, 92 E 34; V XIV 98 E 102; VI XVII 108; VIII XXI
V 177-187.
112 CT, III, VI, 38.
113 CT,IV, XI, 72.
114 TTC, XXX, vv. 11-15.
115 TTC, XXXVIII, vv. 5-12.
116 E, IV, Prop. 73, Dim. (corsivo nostro).
117 TTC, LXXVII vv. 17-19. Cfr. anche TTC, X, vv. 13-17; II, vv. 17-20;
LXXII, vv. 7-8; VII, vv. 6-7.
118 CT, VI, XVII,108. Cfr. anche CT, VI, XV,105: «quando poi si sta al di
sopra senza agguzzar l'ingegno, si accomoda senza carità e giustizia, si governa
senza meriti e fama, si sta inoperosi senza ritirarsi sui fiumi e sui mari, si è
longevi senza fare esercizi respiratori, non v'è nulla che non si dimentichi,
non v'è nulla che non si possieda, si ha una tranquillità senza limiti che tutti
trovano bello seguire: questa è la Via del Cielo e della Terra, la virtù dell'uomo santo». Cfr, inoltre, CT, V, XIV, 98; VIII, XXIII, 172; )X, XXI, 232; E
VII, XX 142: «Se vi comportate da saggi e rifuggite dal considerarvi saggi,
dove andrete che non siate amati»,
119 Cfr. E, V, Prop. 10, Sc.
120 Cfr. TTC, LXXIX, vv. 7-8.
Capitolo quarto 103
Nietzsche e il buddhismo zen
Egli non vuole niente, non si
preoccupa di niente, il suo
cuore è fermo, solo il suo occhio vive - è una morte a occhi aperti. Molte cose vede allora l'uomo che non aveva mai
viste, e fin dove giunge lo
sguardo, tutto è avvolto in una
rete di luce e per così dire sepolto in essa.
F. Nietzsche, Umano, troppo
umano, II, 308
Una bella giornata sotto il cielo azzurro! Non cercare stupidamente qua e là. Se chiedi ancora «Cos'è il Buddha?» sarà
come dichiararti innocente
mentre hai in mano delle merci
rubate.
Mumonkan, La porta senza
porta, 30o caso
1. Già Andler aveva notato che «Il n'y a pas croyance religieuse que Nietzsche ait étudié plus passionément que le
bouddhisme» (1). Solo recentemente il rapporto di Nietzsche
con il buddhismo è stato ripreso come tema di ulteriore atten-
zione e approfondimento (2). Tuttavia una disamina sistematica
104
che colga contemporaneamente i nodi teorici comuni al pensiero di Nietzsche e a quello buddhista, e che ricostruisca storicamente l'evoluzione di tale rapporto all'interno dell'opera
nietzscheana, resta ancora da fare. Per avviare a questa operazione analitica, conviene partire dalla ricostruzione dei momenti in cui Nietzsche fa esplicito riferimento o presta particolare attenzione al buddhismo in generale.
Una delle prime, significative, annotazioni di Nietzsche a
proposito del buddhismo possiamo trovarla già negli scritti del
1875-1876: «Andate e nascondete le vostre buone azioni e
confessate davanti alla gente i peccati che avete fatto. Buddha» (3). Per aiutarsi a chiarire il significato di questa annotazione bisogna andare al 607 di Umano, troppo umano, dove
Nietzsche dichiara l'impossibilità di trovare qualcuno che
ua«bia nascosto il suo bene davanti alla gente e le abbia lasciato vedere solo il suo male» (4), evidenziando in tal modo l'estrema difficoltà di attuazione che l'etica buddhista sembra comportare. Tuttavia, andando a leggere la variante contenuta
nella prima stesura del passo appena citato, emerge con evidenza il senso preciso che Nietzsche intende dare al suo riferimento al precetto buddhista: «Cristo dice invece (Matteo):
Fate vedere alla gente le vostre buone azioni» (5). É chiaro
allora, che se, da un lato, Nietzsche riconosce l'impossibilità
umana di seguire il precetto buddhista, dall'altro, sottolinea
come tale impossibilità sia dovuta anche a un rigore e a una
coerenza ben superiori a quelli contenuti nel precetto cristiano: quest ultimo, infatti, comporta un residuo di vanità e di
orgoglio, il quale esige che l'azione buona non solo venga fatta, ma che venga anche mostrata.
Già questo breve confronto ci può dare quindi uno dei caratteri centrali della posizione che Nietzsche assumerà in seguito rispetto al buddhismo: questo viene colto e valutato come una forma di religiosità che implica un'etica assai più ardua da seguire che non quella cristiana, ma, forse proprio per
questo, anche più perfetta. Strettamente collegata alla distanza appena rilevata tra cristianesimo e buddhismo si pone
un'altra differenza sostanziale: mentre nel primo si ha un
amore di sé che implica una giustizia verso di sé tale da esige105
re anche la vendetta verso se stessi, nel buddhismo l'amore di
sé implica anche perdono: perdono che, nel cristianesimo, invece, può essere concesso solo da Dio (6). Questa breve annotazione di Nietzsche invita a riflettere ulteriormente sulla differenza che essa evidenzia: nel cristianesimo la conoscenza di se
stessi giunge a un grado di autonomia che permette, al massimo, il disprezzo di sé e l'autocommiserazione, ma che delega
la potenza del perdono esclusivamente alla divinità; nel buddhismo, invece, questa conoscenza di sé è spinta a un punto
tale che rende superflua la vendetta contro di sé e rende possibile il perdonarsi. Allora, forse, diventa chiaro anche il contenuto del precetto buddhista riguardante la confessione dei
propri peccati agli altri: non si tratta di una forma di disprezzo che si vuole indurre verso di sé, ma di un'assoluta sincerità
verso se stessi e verso gli altri, tale da esprimere un'assoluta
padronanza di sé nonostante la confessione dei propri peccati.
Non si tratta tuttavia di una forma di vanità indiretta, ma di
semplice conoscenza: per il buddhismo i propri peccati non
vanno giudicati e, quindi, non possono essere né assolti né
condannati, ma vanno solo conosciuti e fatti conoscere. Per
essi non ci si deve né commiserare né inorgoglire: essi non
vanno né disprezzati né esaltati, ma semplicemente conosciuti. Questo può essere allora il senso di «perdonarsi»: conoscersi, al di fuori di ogni giudizio morale. Questo prevalere dell'interesse teoretico-conoscitivo nel buddhismo rispetto al
prevalere, nel cristianesimo, dell'interesse moralistico-giudiziario, sembra essere molto chiaro a Nietzsche:
La conoscenza, la scienza - nella misura in cui esse esistevano -, l'elevazione al di sopra degli altri uomini
attraverso la disciplina e l'educazione del pensiero, furono richieste dai buddhisti come segno di santità, allo
stesso modo in cui le stesse qualità vengono negate e
bollate nel mondo cristiano come segno di non santità. (7)
Nietzsche mostra anche di essere ben consapevole che questa differenza di atteggiamento spirituale comporta una notevole differenza sul piano dei comportamenti pratici:
106
La storia del cristianesimo, d'altra parte, ha dimostrato
come l'invito ad amare il prossimo, per di più nel modo
indiretto dei cristiani, significhi assai poco: questa storia infatti, contrariamente alle conseguenze della morale buddhistica dei popoli che mangiano il riso, è piena
zeppa di violenza e gronda sangue. (8)
Questa valutazione positiva del buddhismo in contrasto
con il cristianesimo spinge Nietzsche ad auspicare addirittura
un'Europa rinnovata e trasformata sotto l'influsso del buddhismo:
Un passo avanti e gli dèi furono gettati da parte - e
questo l'Europa dovrà pur fare una buona volta! Un altro passo avanti: e anche i preti e mediatori non furono
più necessari, e comparve Buddha ad insegnare la religione dell'autoredenzione - quanto è ancor lontana
l'Europa da questo grado di civiltà! Quando infine saranno annientate tutte le consuetudini e i costumi ai
quali si sostiene la potenza degli dèi, dei sacerdoti, dei
redentori, quando dunque sarà morta la morale nel suo
antico significato: verrà allora [...] sì, che cosa verrà allora? Non cerchiamo d'indovinare, ma cerchiamo piuttosto, per prima cosa, di fare in modo che l'Europa ripeta ciò che in India, tra il popolo dei pensatori, già alcuni millenni orsono fu realizzato come imperativo del
pensiero. (9)
Eppure, a circa un anno da queste affermazioni più che elogiative nei confronti del buddhismo, Nietzsche accomuna
buddhismo e cristianesimo in un giudizio estremamente negativo:
Il buddhismo e il cristianesimo potrebbero aver avuto la
loro base d'origine, e ad un tempo il segreto della loro
repentina diffusione, in una mostruosa malattia della volontà, e in verità così è accaduto: entrambe queste religioni s'imbatterono nell'esigenza di un «tu devi» innal107
zata all'assurdo da una malattia della volontà, e progre-
diente fino alla disperazione: entrambe queste religioni
furono maestre di fanatismo in epoche di snervamento
della volontà, e pertanto offrirono a innumerevoli uomini un appoggio, una possibilità di volere, un godimento nel volere. (10)
La critica al buddhismo si approfondisce poi nel 17 di Genealogia della morale, dove Nietzsche vede nella liberazione da
ogni dualismo, che il buddhismo insegna a praticare, un permanere di una volontà di verità, ossia un «prendere albergo e
rimpatriare nel fondo delle cose»):
Ciò nonostante anche qui, come nel caso della «redenzione», intendiamo tenere presente che in fondo, per
quanto nella magnificenza dell'esagerazione orientale, è
espressa semplicemente una valutazione identica a quella del chiaro, freddo, ellenicamente freddo, ma sofferente Epicuro: l'ipnotico senso del nulla, la quiete del
sonno profondissimo, insomma l'assenza di dolore questo può considerarsi per i sofferenti e per i radicalmente scontenti già come un bene supremo, come valore dei valori, questo deve essere stimato da costoro come positivo, deve essere avvertito come il positivo stesso. (11)
É questo forse il livello più profondo a cui giunge la critica
di Nietzsche al buddhismo e, in generale, ad ogni fede nei valori. Infatti, anche se si giunge, come appunto con il buddhismo, a rendere possibile una condizione spirituale che sia al di
là del bene e del male, di ogni opposizione tra essenza ed apparenza, tra essere e divenire, si dovrà pur sempre ammettere
che questa condizione è considerata migliore rispetto ad altre
che risultano immerse in ogni sorta di tensioni, di contrasti e
di dualismi: con ciò si dovrà anche ammettere che la forma
del dualismo viene nuovamente ripristinata, e che lo scarto tra
autentico e inautentico, tra vero e falso, viene continuamente
riprodotto.
108
Tuttavia, nonostante l'oscillazione di Nietzsche nel valutare
il buddhismo e nonostante quest'ultima critica di fondo, è da
tenere presente la sua presa di posizione, più articolata e completa, contenuta nei 20-23 dell'Anticristo. Già nel primo di
questi quattro paragrafi il giudizio positivo di Nietzsche sul
buddhismo, espresso specialmente nel confronto con il cristianesimo, è del tutto esplicito: se queste due religioni gli appaiono
«connesse tra loro in quanto religioni nichilistiche», gli appaiono anche «separate l'una dall'altra nel modo più singolare».
Innanzitutto, Nietzsche nota che «il buddhismo è cento
volte più realistico del cristianesimo», al punto da affermare
che il «buddhismo è la sola religione veramente positivistica
che ci mostri la storia». Un sintomo chiarissimo di questo «positivismo» consiste per Nietzsche nel fenomenalismo gnoseologico che implica una radicale emancipazione del vivere e del
pensare da ipoteche moralistiche. Nietzsche giunge addirittura, a questo proposito, ad accostare l'a-moralismo buddhista
all'intento più profondo della propria filosofia: «esso sta, parlando nella mia lingua, al di là del bene e del male». Anche per
quanto riguarda i mezzi per l'attuazione del proprio messaggio, il buddhismo risulta a Nietzsche del tutto congeniale: «la
preghiera è esclusa, così come l'ascesi; nessun imperativo cate-
gorico, nessuna costrizione in genere, nemmeno all'interno
della comunità claustrale (da cui si può sempre uscire)». Infine, proprio perché esente da ogni vincolo moralistico, il buddhismo gli appare assai lontano da quello spirito di vendetta
che anima in profondità e in estensione tutto il cristianesimo
almeno da Paolo in poi: ora, se si pensa a quanta forza e quanto a lungo Nietzsche ha insistito a ribadire la necessità di liberarsi dallo spirito di vendetta, si può facilmente cogliere l'importanza che riveste questa valutazione positiva che Nietzsche dà a proposito di questo particolare aspetto della «religione» buddhista. Egli stesso, infatti, dichiara esplicitamente:
[Buddha] non richiede alcuna lotta contro coloro che
pensano diversamente; ciò da cui maggiormente si difende la sua dottrina è il sentimento della vendetta, dell'avversione, del ressentiment. (12)
109
Ma c'è un altro aspetto decisivo che fa preferire a Nietzsche il buddhismo al cristianesimo: «il fatto che le classi superiori e persino dotte sono quelle in cui il movimento ha il suo
focolare»; il che non significa affatto una predilezione per coloro che dominano con la forza (anzi: «un certo senso di crudeltà verso sé e gli altri, l'odio contro coloro che pensano diversamente, la volontà di perseguitare» sono per Nietzsche
prerogative cristiane); ma significa piuttosto una predilezione
per uno stile di vita impostato sullo spirito, sull'orgoglio intellettuale, sul coraggio, sulla libertà, sul libertinage dello spirito,
sulla gioia dei sensi e sulla gioia in generale: insomma proprio
su tutto ciò che, per Nietzsche, è in odio al cristiano. In generale, quindi, il cristianesimo gli appare come una religione che
ha avuto «bisogno di idee e di valori barbarici per signoreggiare sui barbari», mentre il buddhismo gli appare come «una religione per uomini d'epoche avanzate, per razze divenute bonarie, miti, superspiritualizzate, che sentono il dolore troppo facilmente (l'Europa è ancora ben lontana dall'essere matura
per esso)» (13): e infatti barbaro è per Nietzsche colui che non
riesce a convivere con la sofferenza, tanto da aver sempre bisogno di capri espiatori e di colpevoli, ossia di trovare colpe in
sé o negli altri, in modo da poter perseguitarle come cause della propria sofferenza. Di qui, per Nietzsche, la catena infinita
di vendette, l'enorme ragnatela di risentimenti e l'orrido gioco delle colpe che sono diventati gli strumenti prediletti del
cristianesimo e che per il buddhismo, invece, non sono che residui di un pensare e di un vivere primitivi, ancora impostati
sulle opposizioni e sui dualismi.
In apertura del 42 dell'Anticristo si ha quasi una conclusione ed un giudizio complessivo di Nietzsche sul buddhismo,
che potrebbe addirittura suonare come una specie di dichiarazione di fede:
Si vede che cosa ha trovato termine con la morte sulla
croce: un nuovo avvio, assolutamente originario, a un
pacifico movimento buddhistico, a una effettiva, e non
semplicemente promessa, felicità sulla terra. Questa infatti - l'ho già messo in evidenza - resta la differenza
110
fondamentale tra le due religioni della décadence; il
buddhismo non promette, ma mantiene, il cristianesimo
promette tutto, ma non mantiene nulla. (14)
Tuttavia nei frammenti quasi contemporanei alla stesura
dell'Anticristo, la presa di posizione di Nietzsche nei confronti
del buddhismo è assai meno entusiasta: infatti questa religione viene associata alla «catastrofe nichilistica che pone fine alla
cultura terrestre» (15) ed anche quando viene ribadito il grande
merito del buddhismo, quello di lottare contro il risentimento, si coglie questo merito come strumento «della più mite forma possibile di una dottrina morale da castrati» (16). Non solo:
Nietzsche, dopo avere, nell'Anticristo, esaltato il buddhismo
in antitesi al cristianesimo, tende ora, in questi frammenti a
vederne gli aspetti comuni a quest'ultimo, soprattutto per
quanto riguarda il lato nichilistico e decadente che si concentra nella «lotta contro i sentimenti ostili» riconosciuti come
fonte del male (17). A questo punto è forse necessario, per tentare di uscire dalle oscillazioni nietzscheane, ricorrere a un
frammento della primavera del 1888, dove si tenta un abbozzo di giudizio generale sulle religioni più note e diffuse:
Come si presenta una religione ariana affermativa, prodotto delle classi dominanti: il codice di Manu. Come si
presenta una religione semitica affermativa, prodotto
delle classi dominanti: il codice di Maometto. L'Antico
Testamento, nelle parti più antiche. Come si presenta
una religione semitica negativa, come prodotto delle classi oppresse: il Nuovo Testamento - una religione da ciandala. Come si presenta una religione ariana negativa, sviluppatasi tra le classi dominanti: il buddhismo. (18)
É evidente che la preferenza di Nietzsche va al codice di
Manu; ma ciò pone dei problemi, perché è noto che questo codice appartiene alla tradizione induista che comporta e contempla una vasta e complessa gamma di rituali, di cerimoniali
di mitologie fantastiche e di gerarchie sacerdotali, mentre abbiamo visto che Nietzsche valorizza il buddhismo anche per111
ché si mostra capace di emanciparsi e di emancipare gli uomini
proprio da un orizzonte religioso intasato di formule, di riti, di
immagini e di gerarchie. Molto probabilmente Nietzsche tende a sottovalutare gli aspetti liturgici contenuti nel codice di
Manu, e ad apprezzare piuttosto quegli aspetti «teorici» che
più lo avvicinano al buddhismo: la svalutazione della morale fino alla messa in questione della soggettività etica (19), e, soprattutto, quella «solarità» che illumina «tutte quelle cose, a contatto con le quali il cristianesimo scatena la sua immensa volgarità, ad esempio la procreazione, la donna, il matrimonio» (20).
Tuttavia, anche stando fermi al testo citato più sopra, non è
forse superfluo notare che Nietzsche, mentre afferma che il
buddhismo è una religione sviluppatasi (gewachsen) tra le classi
dominanti, per le altre afferma che sono state prodotte (ausgeburt) da classi dominanti od oppresse: ciò significa evidentemente che Nietzsche, mentre pensa che ogni altra religione sia
stata inventata ed elaborata in funzione degli interessi di qualche classe, ritiene che il buddhismo, invece, sia sorto nell'àmbito di classi dominanti (21); il che può stare a significare che Nietzsche intenda che si è propagato e consolidato anche oltre questo àmbito e, quindi, non necessariamente come strumento al
servizio di qualche particolare interesse di classe. Insomma,
anche qui sembra che Nietzsche individui nel buddhismo alcuni caratteri che gli stanno sempre molto a cuore: l'origine nobile di un fenomeno spirituale e, nel contempo, una radicale as-
senza di settarismo dogmatico. E sono proprio questi caratteri
che Nietzsche pone in risalto: il punto di vista buddhistico, afferma, «è possibile solo quando non viga un fanatismo morale
cioè quando il male non venga odiato di per se stesso, ma solo
perché apre la via a stati che ci fanno soffrire (inquietudine, lavoro, preoccupazione, complicazioni, dipendenza). Questo il
punto di vista buddbistico: qui non si odia il peccato, manca il
concetto di "peccato"» (22). E, ancora, in un frammento dell'autunno del 1887, ribadisce che «niente è più lontano dal buddhista del fanatismo ebraico di un Paolo» (23). Nel complesso,
quindi, la nozione che Nietzsche mostra di avere del buddhismo risulta abbastanza chiara: dal punto di vista della dottrina,
ciò che più lo affascina, tanto da considerarlo un aspetto che
112
anticipa la sua filosofia, è l'a-moralismo che, sul piano della pratica, significa astensione dalle azioni ispirate dal dualismo, dal
risentimento, dallo spirito di vendetta, dalla volontà di conquista, dal disprezzo di sé e degli altri; dal punto di vista storico,
ciò che più ammira e apprezza è la nobiltà del buddhismo non
solo nel senso dell'origine, ma anche nel senso della destinazione: per Nietzsche, infatti, esso non solo si è «sviluppato nell'àmbito» di classi dominanti, ma «sono le classi colte e dotate
perfino di un eccesso di spiritualità, che trovano sollievo nel
buddhismo» (24); il che significa anche quanto poco importi a
Nietzsche la connotazione sociale di questa «nobiltà» e quanto
tenga, invece, a farne risaltare la connotazione spirituale. Quest'ultimo aspetto emerge chiaro anche da un formidabile passo
in cui Nietzsche, parlando di Cristo in contrapposizione, come
di consueto, a tutto il cristianesimo, sembra parlare del suo
ideale di vita in termini assai vicini a quelli buddhisti:
La vita esemplare consiste nell'amore e nell'umiltà: nella
pienezza del cuore che non esclude neanche l'uomo più
basso; nella formale rinuncia a voler avere ragione, alla
difesa, alla vittoria nel senso del trionfo personale; nella
fede nella beatitudine qui, sulla terra, nonostante miseria, opposizione e morte; nella riconciliazione, nella
mancanza di collera, di disprezzo; nel non voler essere
ricompensati; nel non essere legati a nessuno; nel vivere
senza padroni in senso spirituale, spiritualissimo; in una
vita molto orgogliosa, con la volontà di una vita povera
e servizievole (25).
É molto probabile che questo ideale di vita che Nietzsche
attribuisce a Cristo sia in effetti un prodotto della propria immaginazione più che una verità accertabile mediante le testimonianze fornite dalle Sacre Scritture; tuttavia ciò che qui interessa non è l'attendibilità dell'interpretazione della figura di
Cristo data da Nietzsche, ma, da un lato, il fatto che quell idea di vita esemplare sembra fatta propria da Nietzsche stesso, e, dall'altro, che, obiettivamente, tale idea è vicinissima
alla pratica buddhistica; vicinanza che è particolarmente evi113
dente a proposito del tema della fede nella beatitudine sulla
terra, ribadito da Nietzsche come caratteristico del buddhismo in opposizione al cristianesimo:
Tutto il mondo dell'immaginazione corrotta e della passione morbosa, invece dell'agire amorevole, semplice,
invece di una felicità buddhistica raggiungibile sulla ter-
ra... (26)
2. Se individuare i luoghi in cui Nietzsche valuta il buddhismo in generale, e cogliere le sparse omogeneità tra i due tipi
di pensiero sono operazioni abbastanza agevoli ma forse anche poco interessanti, trovare invece le coincidenze teoriche o
le analogie speculative tra il pensiero di Nietzsche e la prospettiva filosofica propria del buddhismo zen può risultare un
lavoro più utile e avvincente. É subito da dire, a scanso di
equivoci, che Nietzsche non solo non poteva conoscere i testi
del buddhismo zen - si cominciò, infatti, a tradurli in inglese
solo dopo la prima guerra mondiale - ma non poteva conoscere nemmeno nessun lavoro di studioso europeo specificamente dedicato a questo tema. Pertanto tutte le coincidenze e
le analogie teoriche che si possono trovare tra i due tipi di
pensiero sono «filologicamente» affatto infondate.
Forse il primo nucleo teorico in cui si possono far incontrare questi due tipi di pensiero è dato dalla critica al concetto
di io. É noto, a questo proposito, il famoso frammento dell'autunno del 1880 in cui Nietzsche afferma:
L'io non è la posizione di un essere rispetto a più esseri
(istinti, pensieri e così via); bensì l'ego è una pluralità di
forze di tipo personale delle quali ora l'una ora l'altra
vengono alla ribalta come ego e guardano alle altre come
un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi
e determinazioni; il soggetto è ora in un punto ora in un
altro. (27)
D'altra parte, è altrettanto nota l'insistenza con cui tutti i
testi dei maestri zen cercano di mostrare la non-sostanzialità
114
Il Tao della filosofia
dell'io, il suo carattere di semplice espediente intellettuale, e
quindi la sua utilità a sbrigare solo faccende pratiche.
Una delle più belle immagini con cui la tradizione zen ci
parla dell'inconsistenza dell'io è quella del «vero uomo privo
di qualità» usata da Rinzai: molto tempo prima di Musil questo maestro zen ha inteso l'uomo senza qualità come l'uomovia (do-nin; tao-yen), ossia come colui che è attraversato dalla
realtà e dalle esperienze senza che queste si coagulino mai in
un centro fisso, e senza che vi sia un centro forte che riesca a
coagularle. L'uomo senza qualità potrebbe essere paragonato,
appunto, al Tao, ossia al vuoto che non si identifica col nulla
ma con un'incommensurabile condizione di evenienza per infinite possibilità. Giustamente Teitaro Suzuki ha notato che
«l'Io si può paragonare ad un cerchio privo di circonferenza:
esso è dunque sunyata, vacuità. Ma è anche il centro di un tal
cerchio, che si trova in ogni luogo e in ogni punto del cerchio» (28).
Questa rinuncia alla sostanzialità dell'io ha, sia in Nietzsche che nel buddhismo zen, conseguenze molto vaste e profonde. In effetti la critica al concetto di ego è il segno più evidente e più forte di una generale critica ad ogni concetto e ad
ogni parola che pretenda alla verità in quanto rimanda a qualcosa di assoluto, di stabile, di fisso:
Ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici
è questo: non concedo loro che l'«io» sia ciò che pensa;
al contrario considero l'io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di «materia», «cosa», «sostan-
za», «individuo», «scopo», «numero»; quindi solo una
finzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa
in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di «conoscibilità» (29).
La stessa critica si ritrova, ripetuta fin quasi all'ossessione
in tutti i testi del buddhismo zen:
Quando attraversiamo un fiume abbiamo bisogno di
una zattera, ma quando l'abbiamo utilizzata e abbiamo
115
raggiunto l'altra riva dovremmo abbandonarla. Ma noi
ci aggrappiamo ancora ad essa e la portiamo con noi. (30)
Il concetto di «io», come qualsiasi altro concetto, è, tanto
per Nietzsche che per il buddhismo zen, assolutamente contingente, relativo e convenzionale: normalmente, invece, ogni
concetto o idea viene trasformato in qualcosa di stabile, di fisso; viene, per così dire, cristallizzato, per poi venire usato in
questa sua forma bloccata e trasmesso nei suoi valori costanti.
Il concetto è solo un nome, e un nome è solo una parola, ossia
un segno o una «voce» troppo stretti per dire, per prendere e
contenere anche una sola cosa: questo è quanto i maestri zen
non si stancano mai di riaffermare ripetendo quasi tutti la frase «Questo fatto non è nelle parole e nelle frasi» (31).
Ovviamente, la critica ai concetti e alle parole che pretendono assolutezza comporta, implicitamente e contemporaneamente, una critica anche all'assolutezza delle loro distinzioni
e, ancor più, a quella delle loro opposizioni. Sotto questo movimento di critica radicale cade anche e soprattutto una delle
fondamentali opposizioni della tradizione metafisica occidentale, quella tra soggetto e oggetto. Nietzsche, per operare questa critica e mostrare l'interdipendenza di questi due termini,
si avvale, tra l'altro, di un'immagine che richiama direttamente - non solo nella forma - un tipico ragionamento zen:
Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiamo
per scoprire su di esso nient'altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient'altro che allo specchio. Questa è la più universale storia
della coscienza. (32)
E lo zen:
Quando cerchiamo le cose non v'è null'altro che la
mente e quando cerchiamo la mente non v'è null'altro
che le cose. (33)
2.1. La critica all'assolutezza del soggetto e all'assolutezza
116
dell'opposizione soggetto-oggetto non è rivolta soltanto alle
implicazioni gnoseologiche, ma coinvolge anche e soprattutto
sia in Nietzsche che nel buddhismo zen, l'aspetto etico. Il passaggio che rende produttiva la critica, sia in direzione gnoseologica che etica, viene da Nietzsche ribadito in questi termini:
Non è possibile fondare un'etica sulla conoscenza pura
delle cose: qui bisogna essere come la natura, né buoni
né cattivi. (34)
Noi siamo liberi di non formarci alcuna opinione su una
cosa o su un'altra, e di risparmiare così l'inquietudine
alla nostra anima. Poiché le cose stesse, secondo la loro
natura, non possono costringerci a nessun giudizio. (35)
Non esistono affatto fenomeni morali ma soltanto una
interpretazione morale dei fenomeni. (36)
Parimenti, il buddhismo zen torna innumerevoli volte a sostenere l'inconsistenza dell'idea di soggetto-agente e l'illegittimità delle intrusioni effettuate nei processi conoscitivi da valutazioni di tipo etico, da veri e propri pre-giudizi di carattere
moralistico:
Non solo non esiste un Io-sostanza dietro la nostra vita
psichica, ma non vi è un «Io» nemmeno nel mondo fisico, con ciò volendosi dire che non si può realmente separare l'azione dall'agente, la forza dalla massa la vita
dalle sue manifestazioni. (37)
Concepire la verità come qualcosa di esterno che il soggetto deve apprendere, è una veduta dualistica che può
riflettere le condizionalità proprie al comune intelletto
ma che non corrisponde a ciò che lo zen afferma; secondo lo zen noi viviamo direttamente nella verità e grazie
alla verità, che, dunque, non ci può essere esterna. (38)
Non vi è un sé, non vi è nulla di permanente, ogni cosa
117
è soggetta al divenire e perciò non vi è nulla di finale a
cui ci possiamo attaccare. Se non vi è nulla a cui ci possiamo aggrappare non abbiamo nulla da bramare. (39)
In questo giro di pensiero Nietzsche e il buddhismo zen si
trovano d'accordo allora, non solo sui singoli punti e argomenti, ma anche sull'andamento critico in cui essi si dispongono: entrambi, infatti, partono col considerare l'inconsistenza
della sostanzialità dell'io; in secondo luogo entrambi riconoscono che tale inconsistenza comporta la frantumazione dell'opposizione soggetto-oggetto; in terzo luogo entrambi notano come questa frantumazione coinvolga necessariamente ogni
tipo di opposizione; infine, entrambi si trovano concordi nel
rilevare che quell'inconsistenza e queste frantumazioni, nel
momento stesso in cui interessano i processi gnoseologici, colpiscono anche i residui di carattere etico che una lunga tradizione metafisica ha inoculato in questi stessi processi. In particolare: entrambi notano l'impossibilità di concepire un soggetto agente distinto nettamente dall'azione e colgono parimenti l'illegittimità di emettere giudizi sugli oggetti della conoscenza; illegittimità fondata sulla presunzione di detenere
qualche criterio di giudizio esterno e superiore a questi oggetti e di poterlo applicare come criterio di valore. In definitiva
entrambi concordano nel trovare all'interno e lungo le nostre
abitudini conoscitive - ma anche nella nostra tradizione gnoseologica - una quantità di moralismo tale che ad essa è possibile far risalire non solo la responsabilità dell'attività del giudizio, ma anche quella della formulazione del criterio di giudizio e, quindi, la stessa nozione di soggetto giudicante. Questo
appello a liberarsi dalla «moralina» può riassumersi in queste
parole di Nietzsche:
Infine il metro con cui misuriamo il nostro essere non è
una grandezza invariabile; noi abbiamo stati d'animo o
oscillazioni, e tuttavia dovremmo conoscere noi stessi
come misura fissa per valutare giustamente il rapporto
di una qualsiasi cosa con noi. Forse risulterà da tutto
ciò che non si dovrebbe affatto giudicare; ma se soltan118
to si potesse vivere senza giudicare senza nutrire avversioni o inclinazioni! (40)
Giudizi, giudizi di valore sulla vita in favore o a sfavore, in ultima analisi non possono mai essere veri; hanno
valore soltanto come sintomi, soltanto come sintomi
vengono presi in considerazione - in sé tali giudizi sono delle sciocchezze. Si deve tendere al massimo le dita
e fare il tentativo di cogliere questa sorprendente finesse, che il valore della vita non può essere fatto oggetto di
apprezzamento. (41)
Il senso di queste parole di Nietzsche può essere inteso come esplicita risposta all'invito zen formulato in questi termini:
Guardate quello che volete: ma guardate la cosa in se
stessa, non come ammaestramento morale o segno di qualche
grande speranza: guardatela, guardatela soltanto (42).
Si può a questo punto dire che l'impegno, da parte di
Nietzsche e del buddhismo zen nel criticare i tradizionali assunti delle gnoseologie dualistiche sia funzionale alla critica
radicale alla forma generale della morale che risiede proprio nel
dualismo: il moralismo, infatti, è presente in ogni tipo di dualismo, a prescindere dal fatto che il suo contenuto sia di carattere etico. Tuttavia è anche da notare che Nietzsche e lo zen
non si limitano a concordare su questo piano generale della
critica radicale al moralismo, ma mostrano delle sorprendenti
coincidenze anche per quanto riguarda le articolazioni particolari di questa critica.
2.2. La più importante di codeste articolazioni è senz'altro quella
relativa alla critica dell'intenzionalità dell'azione che
presuppone un soggetto assolutamente autonomo e la sua pie119
na capacità di decidere liberamente. A questo proposito
Nietzsche osserva:
il misurare il valore morale dell'azione in base all'intenzione presuppone che l'intenzione sia veramente la causa dell'azione - il che però equivale a considerare l'intenzione una conoscenza perfetta, una «cosa in sé». Alla
fine invece essa è solo la coscienza dell'interpretazione
di uno stato (di dispiacere, di desiderio, ecc.). (43)
E lo zen sembra fargli eco, sostenendo che «l'atto perfetto
non ha risultato. Perché no? Perché non c'era l'attore.» (44)
Questo punto risulta molto importante soprattutto perché,
togliendo l'idea di intenzione, si viene a sospendere anche
quella di finalità. Ed è proprio nel concepire un agire senza intenzione e senza finalità che il pensiero di Nietzsche e il
buddhismo zen sembrano incontrarsi ancora una volta, fin
quasi a coincidere. Per lo zen, infatti, le «azioni sono compiute perché è giusto compierle, senza guardare alle conseguenze,
ai meriti, ai risultati che ne derivano al loro autore: questi sono fatti accidentali, come una felicità non cercata» (45). Nietzsche sembra cogliere appieno e a fondo proprio questo atteggiamento quando dice:
Tutto è velato, carico di presagi, non c'è alcuna cosa di
cui si sappia com'essa accade, si sta in attesa e si cerca
di essere pronti. Così in noi esercita il suo potere un
sentimento puro e purificante di profonda irresponsabilità, quasi simile a quello che prova uno spettatore dinanzi al sipario chiuso - esso cresce, esso viene alla luce: non abbiamo nulla, noi, nelle mani per determinare
il suo valore o la sua ora [...] Sia che s'attenda un pensiero o un'azione - non abbiamo nessun altro rapporto
con tutto quanto è essenziale realizzazione, se non quello della gravidanza, e dobbiamo disperdere al vento il
pretenzioso discorrere di "volere" e "creare". (46)
Si viene delineando allora quale sia, tanto per Nietzsche
120
che per il buddhismo zen, la nuova nozione di azione che nasce dalla critica all'intenzionalità: essa risulta particolarmente
chiara alla luce della connotazione con cui entrambi assumono
il concetto di virtù. L'azione virtuosa non viene intesa come
quell'azione che si adegua a dei comandamenti, a degli imperativi categorici o a delle massime empiriche esterne rispetto a
chi la compie, ma come azione eccellente, ossia come azione
che, in piena autonomia, riesce ad esprimere il massimo e il
meglio delle capacità di chi la compie. A questo riguardo
Nietzsche, rifacendosi evidentemente ad una nozione classica
di virtus, afferma che:
Il saggio non conosce una moralità oltre quella che trae
le sue leggi da lui stesso, anzi già la parola «moralità»
non gli si adatta. Egli infatti è diventato assolutamente
scostumato, in quanto non riconosce costumi, tradizioni, bensì soltanto nuove domande della vita e nuove risposte. (47)
Il carattere di azione senza giudizio e di forza senza violenza che sta nel concetto di virtus, emerge poi in modo magistrale in questo passo di Umano, troppo umano:
L'uomo della conoscenza non può più lodare, non biasimare, perché è assurdo lodare e biasimare la natura e la
necessità. Così come egli ama ma non loda la buona
opera d'arte, dato che essa niente può per se stessa; come egli si atteggia di fronte alla pianta, così deve anche
atteggiarsi di fronte alle azioni degli uomini e alle sue
stesse. Egli può ammirarvi forza, bellezza, pienezza ma
non può trovarvi meriti. (48)
A questa nozione di azione sottratta ad ogni ipoteca moralistica e associata, invece, al concetto di «virtù che dona» (49) di
bontà «aristocratica» (50), corrisponde la nozione taoista di azio-
ne come tê:
Quando un uomo ha imparato ad abbandonare la sua
121
mente, così che essa funzioni nel modo integrale e spontaneo che è ad essa connaturale, egli comincia a mostrare lo speciale tipo di «virtù» o «facoltà» chiamata tê.
Questa non è una virtù nel senso corrente della rettitudine morale, ma nel senso più antico di efficacia, come
quando si parla delle virtù curative di una pianta. (51)
All'interno della dimensione disegnata dai concetti di virtus
e di tê prende nuova forma e diversa luce anche il concetto di
compassione che sta al centro di molte forme dell'etica tradizionale: chi compatisce, sia per Nietzsche che per il buddhismo zen, è colui che può compatire, non colui che deve compatire; ossia colui che ha una forza d'amore talmente esuberante
e senza limiti che è in grado di partecipare alle gioie e ai dolori altrui, ma che non si pone questa partecipazione - come
avviene invece nel cristianesimo - come dovere da assolvere,
come «compito». Ma questo modo di sentire, anzi, di con-sentire (52), assieme a tutti gli esseri viventi, non è possibile se prima non viene operata una vera e propria rivoluzione mentale
che è, di nuovo, contemporaneamente gnoseologíca ed etica:
essa consiste nel riuscire a vivere al di fuori di ogni discriminazione assoluta, oltre ogni tipo di opposizione radicale. Per
quanto riguarda il caso specifico della compassione, ciò significa riuscire a vivere fuori e oltre la distinzione tra «io» e «tu»
che ancora permane al fondo del comandamento cristiano
«ama il prossimo tuo come te stesso». Nietzsche, in un breve
ma formidabile frammento, afferma a questo proposito:
Capire l'egoismo in quanto errore! L'opposto non è affatto l'altruismo, che sarebbe amore per altri presunti individui. No! Al di là di «me» e di «te»! SENTIRE IN MODO COSMICO. (53)
É qui da notare innanzitutto che per Nietzsche, proprio come per lo zen, l'egoismo, ancor prima di essere una «colpa»
morale, è un errore gnoseologico, prodotto da un difetto di «vista», da una miopia incapace di scorgere che l'«ego» è una finzione, un puro nome per qualcosa di molto complesso nel sen122
so delle articolazioni, delle ramificazioni, degli intrecci che lo
strutturano in rapporto all'«esterno». L'altruismo, allora, prima ancora di porsi come «merito» morale, si dà come realtà
conoscitiva: pertanto, se si riesce a cogliere questa connessione universale tra gli esseri, non si ha più bisogno di sforzarsi a
sentire con loro, non ci si deve più imporre la compassione come fine esteriore. Se l'ego è solo un'utile astrazione a cui corrisponde, in realtà, una costellazione di rapporti con gli altri
esseri viventi, diventa chiaro che l'«amor di sé», l'egoismo, finisce per coincidere con l'altruismo. Queste riflessioni che si
possono fare a partire dal contenuto del testo di Nietzsche appena citato, possono essere ripetute a proposito del concetto
di Jijimuge dello zen (54):
Se nel mondo di Jijimuge tu ed io siamo la stessa cosa
pure senza cessare di essere ciascuno se stesso, perché
parlare di compassione e di amore per i propri simili? (55)
Le conseguenze del «sentire in modo cosmico» sono davvero enormi: si può dire addirittura che se il buddhismo zen cerca di superare con questa rivoluzione mentale l'intera tradizione dell'etica sia confuciana che indù - le quali, nonostante le loro tensioni universalistiche, conducevano in pratica alla
giustificazione delle gerarchie di casta - Nietzsche tende a
superare da parte sua non solo l'etica dualistica della tradizione ebraico-cristiana, ma anche l'etica del Mitleid formulata da
Schopenhauer. Le espressioni che sia Nietzsche che lo zen utilizzano per designare questa rivoluzione spirituale sono di una
forza e di un'incisività tali da consentire pochi dubbi interpretativi: le parole di Nietzsche «l'amore verso un solo essere è
una barbarie: esso infatti si esercita a detrimento di tutti gli
altri. Anche l'amore verso Dio» (56) sembrano un'eco fedele
dell'«etica» zen secondo la quale «il buddhista zen non limita
la partecipazione alla gioia e al dolore al solo uomo e a quanto
è connesso con l'esistenza umana. Con i suoi sentimenti egli
abbraccia tutto ciò che vive ed agisce, quindi anche animali e
piante, tra i quali non esclude nemmeno i meno appariscenti» (57).
123
La rivoluzione spirituale indotta dal «sentire in modo cosmico» non si limita a trasformare radicalmente l'ambito dei
comportamenti e delle teorie morali tradizionali, ma si estende a coinvolgere l'intera attività dello spirito: anzi, al riguardo, non è possibile stabilire la priorità, né logica né cronologica, della trasformazione etica rispetto a quella gnoseologica,
né viceversa. La «metanoia» è completa e simultanea: il mutamento di atteggiamento rispetto alle persone è contemporaneo a quello relativo alle cose, ed è istantaneo. Un passo dello
Zarathustra ci indica questa complementarità e simultaneità
con icastica chiarezza:
Così parlò di buon'ora una volta la mia purezza: «divini
devono essere per me tutti gli esseri [...] Tutte le giornate devono essere sante per me» - così parlò un tempo la saggezza della mia giovinezza: davvero il parlare
di una saggezza gaia. (58)
Con ciò si è ormai vicini a considerare il culmine sia del
pensiero di Nietzsche che del pensiero zen e, nel contempo, il
culmine della loro possibilità di convergenza: questo culmine
è dato dall'esperienza dell'eterno ritorno e da quella del satori.
Queste due esperienze comportano entrambe, innanzitutto,
l'intuizione della perfetta omogeneità ed assolutezza di ogni
accadere e di ogni azione, per cui ogni evento ed ogni fatto ci
si presenta nella sua ricchezza più piena, nel suo non mancare
di nulla e, quindi, nella sua impossibilità sia di venire giudicato, sia di venire collocato negli ordini dello spazio e del tempo. L'ultima parte de Il canto del nottambulo contenuto nel IV
libro dello Zarathustra può essere letto proprio in questa direzione: l'eterno ritorno come attimo immenso in cui tutto appare «di nuovo, tutto in eterno, tutto incatenato, intrecciato,
innamorato» (59); e l'attimo immenso come momento in cui «il
mio mondo divenne perfetto, mezzanotte è anche mezzogiorno» (60). Così, nel pensiero zen, l'intuizione dello jijimuge comporta anche l'intuizione che l'interconnessione universale di
ogni cosa e di ogni momento costituisce la perfezione, l'assolutezza, la completezza di ogni cosa e di ogni momento:
124
Per la nuova visione tutte le cose, sia le meno importanti che le più significative secondo la valutazione comune, sono importanti nella stessa misura. Come se avessero tutte il marchio dell'assolutezza: come se fossero
trasparenti sotto un aspetto che non entra mai nel campo visivo degli occhi comuni (61).
Le cose del mondo, le azioni degli esseri viventi e i momenti della vita appaiono, alla luce dell'esperienza dell'attimo immenso e del satori, un unico, illimitato intreccio in cui si ha
«l'assoluta omogeneità di ogni accadere» (62) e dove «ciò che ora
faccio o trascuro di fare, è tanto importante per tutto quel che
è di là da venire quanto lo fu il più grande avvenimento del
passato: in questa immensa prospettiva dell'effetto tutte le
azioni sono egualmente grandi e piccole (63). Proprio questa
«immensa prospettiva» che sconvolge i canoni e le esperienze
tradizionali di spazio e tempo può venire descritta nei termini
con cui è proposta nella scrittura buddhista Ghirlanda di fiori
Avatamsaka) dove l'interconnessione di ogni elemento spaziale e temporale del cosmo viene resa con l'immagine della rete
di Indra «fatta di gioielli che riflettono ognuno tutti gli altri e
inoltre i riflessi di tutti i gioielli in un gioiello, e così via, ad
infinitum fino al potere dell'infinità e a una infinità di poteri» (64) Se il coglimento dell'«immensa prospettiva» e l'esperienza dell'attimo immenso sono rintracciabili soprattutto nelle parti finali dello Zarathustra, il senso del satori diventa chiaramente percepibile in questo famoso passo del Tan ching attribuito al sesto patriarca, Hui-neng:
In questo momento non vi è nulla che venga in essere. In
questo momento non v'è nulla che cessi di essere. Così
non v'è nascita-e-morte che debba concludersi. L'assoluta tranquillità è il momento presente. Sebbene sia in
questo momento, questo momento non ha limiti e quivi
è eterno diletto. (65)
2.3. Fin qui le grandi analogie teoriche tra il pensiero di
Nietzsche e quello zen: quella della rinuncia al concetto di
125
ego; quella dell'azione efficace senza intenzione; quella di un
con-sentire universale nel presente come eternità. Ma le analogie tra i due tipi di pensiero diventano ancora più sorprendenti quando l'attenzione si sposti dal piano più teorico per
piegarsi a cogliere le analogie che crescono attorno all'idea di
saggezza e alla figura del saggio.
Non è qui il caso di ricostruire per intero quali siano state
le figure della sapienza classica a contare di più per la formazione del concetto nietzscheano di saggezza, ma è, certo, importante notare che Nietzsche, tra queste grandi figure, ne
sceglie una che viene posta in diretta connessione a Buddha:
Pirrone, l'uomo più mite e paziente che abbia mai vissuto in mezzo ai Greci, un buddhista sebbene greco, anzi
un Buddha in carne e ossa... (66)
Pirrone come Epicuro, due forme della decadenza greca; affini nell'odio per la dialettica e per tutte le virtù
istrioniche - le due cose insieme si chiamavano allora
filosofia -; intenzionalmente ciò che amano è umile;
scelgono perciò i nomi ordinari e perfino disprezzati;
rappresentano uno stato in cui non si è né sani né malati, né vivi né morti. (67)
Ciò che qui importa rilevare non è tanto l'attendibilità della connessione che viene istituita da Nietzsche, quanto il fatto
che, attraverso questa connessione, è possibile introdursi ad
osservare una serie di caratteristiche che, per Nietzsche, dovrebbero connotare la figura del saggio, e che risultano oggettivamente presenti nella tradizione buddhista, con particolare
riguardo a quella zen.
Uno dei primi abbozzi che Nietzsche tenta attorno alla figura del saggio è anche uno dei più chiari ed efficaci:
Chi volesse oggi essere buono e santo, avrebbe di fronte
a sé un compito più difficile: per essere buono, egli non
dovrebbe, nei confronti del sapere, essere tanto ingiusto
quanto lo furono i santi del passato. Dovrebbe trattarsi
126
di un santo-sapiente, che congiunga l'amore con la sapienza. Costui non dovrebbe più avere a che fare con
una fede negli dei o nei semidei, o nelle provvidenze
come del resto non ebbero nulla a che fare con ciò i santi indiani. Egli dovrebbe inoltre essere sano e conservarsi sano, (68) poiché in caso contrario sarebbe necessario
che diffidasse di se stesso. E forse non avrebbe neppure
l'aspetto di un santo ascetico, ma assomiglierebbe piuttosto ad un gaudente.
I tratti di questo abbozzo sono talmente chiari che possono
addirittura far indovinare gran parte del disegno completo: essi delineano una figura amorosa e sapiente al tempo stesso; non
dipendente da alcuna fede; fisiologicamente sana. Vediamo di
analizzare più da vicino questi tratti. «Amorosa» ma di che?
Delle grandi, ma soprattutto delle piccole cose, in una prospettiva che lo zen propone in questi termini:
Quando sorge un granello di polvere, la grande terra è
contenuta in esso; quando un solo fiore sboccia, sorge il
mondo (69).
Nietzsche, in due stupendi passi, rispettivamente del Così
parlò Zarathustra e di Umano troppo umano, sembra riprendere l'invito zen a osservare i particolari e le cose più insignificanti come interi universi:
Ma questa è la mia benedizione: sostare su ogni cosa come il suo proprio cielo, come il suo tetto rotondo, la sua
campana azzurra e la sua eterna sicurezza: beato chi così benedice! Perché tutte le cose son benedette alla sorgente dell'eterno e al di là del bene e del male; ma bene
e male altro non sono che ombre intermedie e umili triboli e nuvole pigre. (70)
Si deve essere ancora vicini ai fiori, alle erbe e alle farfalle come i bambini, che non sono molto più alti di loro. Noi adulti invece siamo cresciuti molto più alti di
127
loro e ci dobbiamo chinare fino ad essi; voglio dire che
ci odiano, quando dichiariamo il nostro amore per esse.
Chi vuole prendere parte ad ogni cosa buona, in certe
ore deve anche saper essere piccolo. (71)
Amare le cose, oltre che gli uomini, e amare le cose piccole,
oltre che le grandi: ma, soprattutto, non fare di questo amore
un dovere, ossia non accostarle in base a qualche principio o a
qualche finalità ad esse esterni; il che significa riuscire a «farsi-piccoli», scendendo dall'altezza di qualche criterio che ci
costringe a chinarci verso di esse solo per giudicarle o per classificarle. Per riuscire ad avere questo atteggiamento bisogna
coltivare l'ingenuità (72) e quindi l'innocenza di fronte al mondo,
consapevoli che «non le cose, bensì le opinioni intorno alle cose
che non esistono hanno gettato il turbamento nell'uomo» (73).
Ma com'è possibile porsi in rapporto con le cose stando al di
fuori di ogni criterio di valutazione etica, metafisica, o anche
scientifica? Con il
Lasciarsi possedere dalle cose (non dalle persone) e da un
ambito, il più ampio possibile, di cose vere! Bisogna
aspettare che cosa ne crescerà: noi siamo terreno da coltivare per le cose. (74)
Ma per fare questo, per lasciar libero il passaggio che sta tra
noi e le cose, bisogna rimuovere tutte le barriere, abbattere tutte le difese, sbarazzarsi di ogni mediazione, ossia fare il vuoto,
rendere la propria mente vuota da ogni «erbaccia», pulita come
uno specchio che riflette senza modificare. Tutti i maestri zen,
indistintamente, insistono sulla necessità di queste operazioni
di pulizia, di liberazione, di svuotamento, quali condizioni per
una conoscenza «vera» - ossia esterna ad ogni dualismo e ad
ogni pregiudizio - delle cose. Solo in questo modo possiamo
diventare «terreno da coltivare per le cose»; infatti:
Se recepite le cose soltanto come un'eco di voi stessi, in
realtà non le vedete, non le accettate pienamente così
come esse sono [...] Se siete pronti ad accettare le cose
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così come esse sono, le accoglierete come vecchi amici
pur apprezzandole con una nuova disposizione d'animo. (75)
Quindi l'atteggiamento «amoroso» per le cose che contraddistingue il sapiente esige come precondizione che il sapiente
si faccia «ignorante», ingenuo, innocente ossia che rinunci ad
ogni precostituito schema o sistema di conoscenza e, con ciò
rinunci ad ogni pretesa antropocentrica e antropomorfica.
Analogamente, per Nietzsche è chiaro che
Chi ha veramente compreso la preposizione «sopra», ha
anche compreso tutta l'estensione dell'orgoglio e della
miseria dell'uomo. Chi è sopra le cose, non è nelle cose
- dunque non è nemmeno in sé. (76)
Con queste parole Nietzsche ribadisce non solo la necessità
della vicinanza alle cose, ma anche il fatto che la conoscenza
delle cose consentita da tale vicinanza coincide con la conoscenza di se stessi: analogamente, in termini zen, se ci si rende
liberi, nel rapporto con le cose, dalle «tre fessure» delle idee,
dei sentimenti e delle parole (77), i confini tra soggetto e oggetto, tra conoscente e conosciuto, svaniscono. Ciò non significa
che non si conosce più, ma solo che si conosce in modo diver-
so: senza impedimenti, «attaccamenti», previsioni e pre-giudizi. L'atteggiamento «amoroso» verso le cose apre quindi ad un
nuovo tipo di conoscenza di sé e del mondo, dove le normali e
codificate regole gnoseologiche vengono sciolte, ma dove svaniscono anche i comuni e cristallizzati criteri di valore: alla
scomparsa degli «impedimenti» gnoseologici si accompagna
quella degli «attaccamenti moralistici». Nietzsche descrive in
questo modo la condizione che si può raggiungere in seguito a
queste «scomparse»:
Si vive così, non più nelle catene dell'amore e dell'odio
senza sì, senza no, volontariamente vicino, volontariamente lontano, sempre preferendo sgusciar via scansare, volar via, rivolar via, rivolare in alto. (78)
129
Con queste parole Nietzsche anticipa, in Umano, troppo
umano, quel tema del «passare oltre» che, nello Zarathustra,
avrà un'importanza ed una frequenza ben al di là del capitolo omonimo (79). Questo stesso tema è chiaramente alla base dei
ragionamenti a-logici che rappresentano il contenuto dei koan nello zen, interpretabili come ripetuti inviti a sbarazzarsi
di ogni forma precostituita, sia di carattere gnoseologico che
di carattere moralistico, che impedisce la conoscenza diretta
di sé e del mondo. Non a caso molti commenti ai «casi» zen
insistono nel ricordare che, quando ci si trova davanti ad
un'alternativa binaria, a possibilità di risposta solo dualistiche, si deve, appunto, «passare oltre»:
Dopo aver raggiunto un punto morto, trasfòrmati; dopo
esserti trasformato, puoi passare oltre. (80=
Sia che i ko-an e i mon-do si diano nella forma del paradosso, della negazione delle opposizioni, della contraddizione,
della ripetizione, del silenzio, del grido o della controdomanda (81), essi hanno come finalità quella di liberare la mente dell'allievo o, più in generale, dell'interlocutore, dagli impacci
del dualismo e dell'«attaccamento» a qualche principio di verità o a qualche criterio di valore assoluto. Ma il tema del «passare oltre» ha in Nietzsche e nello zen un'affinità che va al di
là del semplice invito a pensare in termini non dualistici: essa
è infatti riscontrabile anche là dove il «passare oltre» va inteso
nel senso di un oltrepassamento di una posizione che ne voglia
fare una finalità. Ciò significa che il dualismo e gli «attaccamenti» che si vogliono eliminare non vanno trasformati in oggetti di odio, pena il ricadere in preda ad un dualismo «giudiziario» che pretende di sapere cosa sia «bene» e «male», e pena il restare vittima dell'«attaccamento» alla passione che vuole a tutti i costi liberarsi dalle passioni. Il parere di Nietzsche
al riguardo appare del tutto esplicito:
Vuoi prender commiato dalla tua passione? Fallo pure,
ma senz'odio per essa Altrimenti hai una seconda passione. (82)
130
Così, per lo zen il «risveglio» che consente di essere oltre
ogni dualismo «non deve mai essere visto come il raggiungimento di un fine, o come una realizzazione a seguito di questi
sforzi» (83):
Non puoi ottenerlo pensandoci;
Non puoi ottenerlo non pensandoci. (84)
Pertanto, solo «quando non c'è alcuna idea di conseguimento in ciò che fate, allora fate qualcosa» (85). Ciò significa che,
per raggiungere un'effettiva condizione di non-attaccamento
è necessario disporsi in un atteggiamento che non «si attacca»
nemmeno al raggiungimento di questa condizione, che non
considera vera, assoluta, perfetta nemmeno questa condizione
e che, quindi, non si sforza di raggiungerla. É questo il senso che, in tutti i principali testi taoisti e zen viene designato
col termine di Wu Wei (non-azione); senso che sembra venir ripreso in modo assai simile da Nietzsche:
Non si deve restare attaccati a una persona, fosse anche
la più amata, ogni persona è un carcere e anche un cantuccio. Non si deve restare attaccati ad una patria [...]
Non si deve restare attaccati ad un senso di compassione [...]
Non si deve restare attaccati a una scienza[...] Non
si deve restar attaccati alla propria liberazione [...] Non
si deve restare attaccati alle nostre proprie virtù e sacrificare noi stessi come totalità. (86)
Perciò Zarathustra può dire:
Per le mie dottrine io ho bisogno di specchi lisci e puri; sulla vostra superficie anche la mia immagine stessa
si deforma [...] non gli uomini del grande anelito, della
grande nausea, del grande disgusto e ciò che avete
chiamato l'ultimo residuo di Dio! (87).
Il saggio è quindi per Nietzsche colui che riesce ad essere
talmente libero, talmente «vuoto» e indipendente da essere li131
bero anche da ogni volontà, da ogni anelito, da ogni tensione
verso la liberazione; ciò che lo caratterizza è «non una credenza, sibbene un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere»> (88). É ovvio, allora, che un sapiente del genere,
non sopportando l'autorità di alcuna dottrina né alcun doveressere, abbia un atteggiamento diffidente e critico anche nei
confronti dei maestri di dottrina e dei predicatori di doveri, al
punto da mettere in guardia, proprio come fecero Pirrone e
Buddha, tutti coloro che prendono questo suo atteggiamento
come vero e giusto in assoluto. É forse questo un punto in cui
Nietzsche e lo zen raggiungono uno dei massimi livelli di concordanza: per Nietzsche «conviene all'umanità di un maestro
mettere i propri discepoli in guardia contro se stesso»> (89); per lo
zen «solo se la vostra visione va oltre quella del vostro maestro siete adatti per ricevere e tramandare la trasmissione» (90)
e per Lin Tse vale addirittura il consiglio per cui «se incontrate il Buddha, uccidetelo; se incontrate il patriarca, uccidetelo;
se incontrate l'Arhat, il genitore o il parente, uccideteli senza
esitare: perché questa è la sola via della liberazione. Non vincolatevi a nessun oggetto, ma tenetevi in alto, andate avanti,
restate liberi» (91).
Le analogie tra zen e pensiero nietzscheano a proposito della figura del sapiente non finiscono qui: per entrambi il sa-
piente non insegna, in senso proprio, nulla; egli «mostra la
via» con l'esempio, che non sta a significare la trasmissione di
una serie codificata di comportamenti, ma l'esplicazione di un
comportamento tale da indurre gli altri a trovare da soli la via
per la liberazione. Per cui, nel «formare» se stesso, il sapiente
aiuta gli altri più che se si ponesse come scopo quello di aiutarli (92), e, nel rispondere alle domande dei discepoli, non trasmette nozioni, definizioni e conclusioni, ma mostra concretamente come si possano infrangere le gabbie e le ragnatele fatte da nozioni, definizioni e conclusioni (93). Anche per quanto
concerne le condizioni pratiche nelle quali il sapiente vive e si
«forma», Nietzsche e lo zen presentano convergenze non trascurabili. Per esempio, quando Nietzsche sostiene che
Giacere silenziosamente e pensare poco è la medicina
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più economica per tutte le malattie dell'anima e con un
po' di buona volontà, è cosa che procura di ora in ora
un benessere sempre maggiore (94)
sembra che descriva i requisiti necessari ad una corretta pratica zen, consistenti in una giusta «postura di risveglio» (zazen), e nel riuscire ad essere vuoti di pensieri, opinioni, giudizi e tensioni, fino al punto di essere «al di là di ogni pensiero
(Hisbiryo), vera purezza» (95). Se si è capaci di tenere un comportamento dotato di questi requisiti, si è allora in grado di
farsi vuoti al punto che ogni nuovo pensiero, ogni nuova esperienza, ogni nuova azione che verranno saranno più pure, più
limpide e più libere:
Aspettare e prepararsi; aspettare lo zampillare di nuove
sorgenti, prepararsi nella solitudine a voci e a volti
estranei; lavare la propria anima e renderla sempre più
pura dalla polvere e dal chiasso da fiera di quest'epoca,
superare ogni cosa cristiana con qualcosa di sovracristiano [...], diventare gradualmente più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovraeuropei, più orientali, infine più greci (96).
Chiudere di tanto in tanto porte e finestre della coscienza; restare indisturbati dal rumore e dalla lotta con
cui il mondo sottostante degli organi posti al nostro servizio svolge la sua collaborazione od opposizione; un
po' di silenzio, un po' di tabula rasa della coscienza affinché vi sia ancora posto per il nuovo... (97)
Questo «farsi vuoti» non significa affatto, sia per Nietzsche
che per lo zen, perdere se stessi, o meglio: se con «se stessi» si
intende l'identità dell'io con se stesso e la sua presunzione di
essere una soggettività intenzionante e conoscente privilegiata, rispettivamente nei confronti delle azioni e degli oggetti si
può allora dire effettivamente che perdere se stessi è uno degli
scopi fondamentali della meditazione silenziosa; ma se come
si è visto, perdere se stessi come ego significa acquistare una
133
dimensione del «sé» che si dilata oltre il dualismo soggetto-oggetto, ecco allora che il «farsi vuoti» corrisponde al disporsi
immediato nei confronti delle cose, delle azioni e degli uomini, all'essere perfettamente trasparenti, «innocenti» ma «svegli» (98) in ogni momento dell'esistenza. Quando Nietzsche so-
stiene che «non basta essere un uomo» (99), o quando afferma
che «l'uomo più saggio sarebbe quello più ricco di contraddizioni» (100) sembra proprio richiamare l'importanza di rinunciare
all'io che viene costantemente sottolineata nei testi del buddhismo zen non al fine di distruggere il concetto di identità,
ma al fine di far svanire il concetto di identità separata e di far
sorgere la possibilità di un'esperienza integrale, oltre la distinzione tra io e non-io. Forse nessun testo zen illustra meglio la
connessione tra il «farsi vuoti» e il rendersi «svegli», che il famoso racconto Dieci immagini della caccia al bue, dove il dualismo è raffigurato dalla separazione e lotta tra il ragazzo e il
bue smarrito e dove, alla fine, i due sono entrambi svaniti (101).
Un corrispondente testo nietzscheano può essere considerato
quel passo formidabile dello Zarathustra dove si dice:
E, quali che siano i destini e le esperienze che io mi trovi a vivere, vi sarà sempre in essi un peregrinare e un
salire sui monti: infine non si vive se non se stessi [...]
Ecco che torna indietro, ecco che finalmente torna a casa - il mio se stesso, e insieme tutto quanto per lungo
tempo era stato in terra straniera e disperso tra le cose e
le casualità. (102)
Con ciò, la figura del sapiente viene ulteriormente arricchita: egli è uno che ama solo se stesso (103), ma, poiché ha superato la separazione tra sé e il mondo (104), ama il mondo attraverso
se stesso e viceversa; uno che può dire «diventa chi sei» (105) anche a se stesso, e se lo può dire in quanto è «passato attraverso
molti individui» (106); uno che non cerca la gioia e l'innocenza,
perché è già in un rapporto gioioso e innocente col mondo (107)
che è filosofo per esperienza e non per dottrina (108); ed, infine,
egli non è affatto «colui che si occupa soltanto delle cose importanti, meravigliose, divine» (109), perché sa che «mostrando
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un fiore/ il segreto è rivelato». (110). Allora le più piccole cose e le
più modeste faccende quotidiane diventano «importanti», meravigliose, divine».. Anche il problema dell'alimentazione diventa più importante di qualche sterile «curiosità da teologi» (111), tanto da diventare degno di meditazione (112). In tal modo il sapiente è, last but not least, un uomo sano: non perché
sia «salutista», cioè ossessionato dal problema della salute, ma
perché è attento ad ogni cosa del corpo come ad ogni cosa dello spirito, in quanto ha superato l'opposizione tra «corpo» e
«spirito» e, in particolare, il risentimento dello spirito nei confronti del corpo. Una nuova gnoseologia comporta anche una
nuova etica nei confronti del corpo, ossia una nuova fisiologa.
Anche per questo le consonanze tra Nietzsche e lo zen si dispongono in una dimensione che non può per nulla essere assimilata ad una prospettiva mistica:
Le spiegazioni mistiche passano per profonde: la verità
è che non sono nemmeno superficiali. (113)
Nel suo significato ultimo, lo zen non è né un ascetismo
né qualche altro sistema etico [...] Ma l'idea centrale
della vita secondo lo zen è non di gettare bensì di fare il
miglior uso possibile di tutto quello che ci è stato
dato. (114)
Ma la distanza di Nietzsche e dello zen da un atteggiamen-
to pratico e da una prospettiva mentale di carattere mistico
non si misura soltanto sulla diversità di posizione nei confronti del corpo e delle sue esigenze: essa emerge evidente
per esempio anche a proposito del tema della solitudine e della
scienza. In Ecce Homo Nietzsche ammette che «tutto il mio
Zarathustra è un ditirambo alla solitudine» (115) e, certamente,
lungo tutte le sue opere il tema della solitudine è centrale (116);
ma il senso con cui Nietzsche sembra volerlo affrontare è dato
dal contenuto di questo frammento:
Cerca la solitudine onde poter giovare a molti o a tutti
nel modo migliore: se la cerchi in modo diverso, essa ti
135
renderà debole, malato e come un organo amputato che
muore (117).
La chiarezza con cui Nietzsche intende la solitudine non
come isolamento, ma come «raccoglimento» funzionale all'illuminazione di sé e degli altri, è una caratteristica peculiare anche dell'esperienza zen:
L'ideale del Bodhisattva non è infatti rimanere fuori
del mondo; anzi, è quello di essere nel mondo, pur senza appartenere ad esso, di essere una forza anonima che
lavora per l'Illuminazione nella società umana e attraverso essa [...] Non è l'isolamento egoista dell'eremita
che cerca di raggiungere la libertà dello spirito attraverso la libertà del corpo, perché il Bodhisattva sa che l'una non dipende dall'altra. (118)
Per quanto riguarda la scienza, lo zen non mostra di avere
alcun pregiudizio (119), sebbene l'approccio alla realtà che esso
propone escluda, tra le altre assolutizzazioni, anche quella del
«progresso» scientifico e tecnologico (120), parimenti, l'atteggiamento che Nietzsche ha nei confronti della scienza non è per
nulla improntato a pregiudiziali ostilità né, tantomeno, ad
esaltazioni «positivistiche», e si condensa limpidamente in
questo passo di Umano, troppo umano:
Perciò una cultura superiore deve dare all'uomo un doppio cervello, qualcosa come due camere cerebrali, una
per sentirci la scienza, un'altra per sentirci la non scienza; che stiano l'una accanto all'altra senza confusione
separabili, isolabili: è questa un'esigenza di salute. Nell'un campo si trova la fonte di forza, nell'altro il regolatore: con illusioni, unilateralità e passioni bisogna riscaldare; con l'aiuto della scienza conoscitiva bisogna
prevenire le cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento. (121)
La figura del sapiente a cui buddhismo zen e Nietzsche
136
sembrano riferirsi è quindi ormai chiaramente delineata: egli è
amorevole nei confronti di tutte le cose e di tutti gli esseri
non per dovere, bensì per virtus, per esuberanza di gioia e
amore, ossia per potere; egli è saggio non per dottrina, ma per
esperienza, per un'attenzione di eguale intensità per le grandi
e anche per le piccole cose; in ogni luogo e in ogni circostanza
è padrone di sé, fuori da ogni pregiudizio e da ogni fede; sceglie la solitudine e la meditazione non per orgoglio, ma per ot-
tenere la migliore illuminazione possibile di sé e degli altri; infine sceglie di essere sano e salutare non perché valuti le esigenze del corpo più di quelle dello spirit p ma perché sa che
tra i due non vi è differenza alcuna e che la più insignificante
parte o funzione del corpo è importante quanto la più nobile
delle idee.
1 Ch. Andler, Nietzsche, sa vie et sa pensée, Paris 1958, vol. II, p. 414.
2 Cfr. A.W. Rudolph, Nietzsche: Buddhism and Nihilism and Christianism, in
«Philosophy Today» 13 (1969), pp. 34-42; Okochi, Nietzsches amor fati implichte von karma des Buddhismus, «nietzsche Studien» (1972), pp. 36-94; Abe
Masao, Zen and Nietzsche «The Eastern Buddhist» 6 (1973),, pp. 14-32; A.M.
Frazier, an European Buddhism «Philosophy East and West», 25 (1975), pp.
145-160; B. Nanajivako, The Philosophy of Disgust. Buddha and Nietzsche,
«Schopenhauer Jahrbuch», 58 (1977).
3 F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth e Frammenti postumi (1875-1876),
tr. di Sossio Giametta, Milano 1967, p. 87, frammento 3.1.
4 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, e Frammenti postumi (1876-1878),
tr. di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, Milano 1965, p. 289.
5 Ibid., p. 514, nota 607.
6 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi (1875 167) cit., pp. 234-235.
7 F. Nietzsche, Umano, troppo umano cit., 144, p. 117.
8 Ibid., p. 424, frammento 23.103. Sull'atteggiamento negativo del cristianesimo verso gli animali cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, II, e Frammenti postumi (1879-1881), tr. Sossio Giametta, Milano 1967, 158.
137
9 F. Nietzsche, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), tr. di F. Masini,
Milano 1964, 96, p. 69.
10 F. Nietzsche, La Gaia scienza e Frammenti postumi (1881-1882), tr. di F.
Masini, Milano 1965, 347, p. 213; cfr. anche Ibid., 353, p. 219. Buddhismo e cristianesimo vengono accomunati in un giudizio negativo anche in Al
di là del bene e del male, tr. di F. Masini, Milano 1968, p. 67: «Forse non c'è
nulla di più venerando, nel cristianesimo e nel buddhismo, della loro arte di
ammaestrare le creature più umili a collocarsi, attraverso la devozione, in un
apparente ordine superiore di cose, e di tener stretto, in tal modo, a sé quel
loro contentarsi dell'ordine reale, all'interno del quale esse vivono abbastanza
duramente - e proprio questa durezza è necessaria».
11 F. Nietzsche, Genealogia della morale, tr. di F. Masini, Milano 1968, 17,
p. 339.
12 F. Nietzsche, L'Anticristo, tr. di F. Masini, Milano 1970, 20, pp.
188-189 (tutte le precedenti citazioni sono tratte dai 20-23 della medesima
opera).
13 Ibid., p. 190.
14 Ibid., p. 214.
15 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), tr. di Sossio Giametta, Milano 1971, p. 36, frammento 9.82.
16 Ibid., frammento 10.157, p. 189.
17 Ibid., frammento 11.367, p. 366. Cfr. anche p. 370, frammento 11.373.
18 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1888-1889), tr. di Sossio Giametta, Milano 1974, p. 170, frammento 14.195.
19 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male cit., 54.
20 F. Nietzsche, Aurora cit., 56.
21 Com'è noto, il Buddha storico, Siddharta, apparteneva alla nobile famiglia
dei Gotama, del clan dei Sakya della casta degli Kahatriya; all'età di circa 29
anni abbandonò famiglia e beni (cfr. Ch. Humphreys, Il buddhismo, tr. di A.
Philippson, Roma 1964, cap. I). Le principali fonti utilizzate da Nietzsche
per la conoscenza del buddhismo furono il libro di Koeppen, Die Religion des
Buddha, del 1857, e quello di Oldenberg, Buddha, del 1881.
22 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888) cit., p. 330, frammento
11.297.
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23 Ibid. 210, frammento 10.190.
24 Ibid.
25 Ibid. 309, frammento 11.275 (il secondo corsivo è nostro.
26 Ibid., p. 321, frammento 11.295.
27 F Nietzsche, Frammenti postumi (1879-1881) cit., p. 439, frammento
6.70.
28 D.T. Suzuki, E. Fromm, R. De Martino, Psicoanalisi e buddhismo zen, tr.
di P. La Malfa, Roma 1968, p. 34. Cfr. anche S. Suzuki, Mente zen, tr. di
M. Tergonzi, Roma 1976, p. 26: «Non esiste niente in voi che possa dirsi
"io"»; e Sutra del diamante, in D.T. Suzuki, Manuale di buddhismo zen, tr. di
F. Pregadio, Roma 1976, p. 29: «Se un bodhisattva conserva il pensiero di
un io, di una persona, di un essere o di un'anima, non è più un bodhisattva».
29 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1884-1885), tr. di Sossio Giametta, Milano, 1975, p. 203, frammento 35.35.
30 D.T. Suzuki, Discorsi sullo zen, tr. di P. Nicoli, Roma 1981, p. 46.
31 Cfr. La raccolta della roccia blu, a cura di T. H. e j.C. Cleary, tr. di F.
Pregadio, Roma 1978.
32 F. Nietzsche, Aurora, cit., 243, pp. 166-169.
33 A.W. Watts, La via dello zen, tr. di L. Antonicelli, Milano 1971, p. 143.
34 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1876-1878) cit, p. 329, frammento 17-100.
35 F. Nietzsche, Aurora cit, 62, p. 61.
36 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male cit, 108, p. 75.
37 D.T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen, tr. di J. Evola, Roma 1975, vol. I, p,
59.
38 Ibid. 276.
39 D.T. Suzuki, Discorsi sullo zen cit., p. 53.
40 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit, 32, p. 3.
139
41 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, tr. di F. Masini, Milano 1970, 2, p.
63.
42 Ch. Humphreys, Lo zen, tr. di P. Vivante, Roma 1963, p. 65.
43 F Nietzsche Frammenti postumi (1885-1887), tr. di Sossio Giametta, Milano 1975, p. 15, frammento 1.49; cfr. anche F. Nietzsche, Frammenti postumi (1881-1882) cit., p. 318, frammento 11.115: «Ridurre tutto alla volontà è
una distorsione molto ingenua! Allora, certo, tutto sarebbe più intelligibile.
Ma questa è sempre stata la tendenza: ridurre tutto ad un processo intellettuale o sensibile - per esempio a scopi, e così via».
44 Ch. Humphreys, Una via occidentale allo zen, tr. di F. Cardelli, Roma
1973, p. 91.
45 Ch. Humphreys, Lo zen cit., p. 74.
46 F. Nietzsche, Aurora cit., 552, p. 262; cfr. anche Così parlò Zarathustra,
tr. di M. Montinari, Milano 1968, p. 198: «La felicità mi corre dietro. Ciò
avviene perché io non corro dietro alle femmine. Ma la felicità è femmina».
L'anticristo cit., 14, p. 181: «Noi neghiamo che una qualche cosa possa essere fatta in maniera perfetta, fintanto che essa viene fatta ancora coscientemente»; e Frammenti postumi (1888-1889) cit., p. 349, frammento 22.1: «E
non siamo noi, in tutte le azioni rispettabili, appunto intenzionalmente indifferenti verso ciò che per noi ne risulterà?»
47 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1876-1878) cit., p. 432, frammento
24.8. Cfr. D. T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen cit., vol. I, p. 76: «Libertà
non significa assenza di leggi, questa equivalendo piuttosto alla distruzione e
al dissolvimento di se stessi; essa invece significa creazione del buono e del
bello partendo dalla forza interiore della vita».
48 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, cit., 107, p. 33.
49 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit. pp. 88-93. Al concetto nietzscheano di «virtù che dona» sembra corrispondere pressoché letteralmente il
concetto zen di «virtù segreta»: «La virtù segreta significa la pratica della
bontà senza pensare ad alcun riconoscimento, né da parte di altri né da parte
di se stessi» (D.T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen cit., vol. I., p. 323).
50 F. Nietzsche, Genealogia della morale cit., 260, p. 179: «Sta in primo
piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità
della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e
largire: anche l'uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma non o quasi
per pietà, bensì per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza».
51 A.W. Watts, La via dello zen cit., p. 41.
140
52 Su questo tema in connessione con quello dell'eterno ritorno come Unge
heureblick ci siamo soffermati in Nietzsche: attimo immenso, «Nuova Corrente»
XXVIII (1981), 85, pp. 271-311.
53 F. Nietzsche, frammenti postumi (1881-1882), cit., p. 294, frammento
11.39.
54 Jijimuge sta a significare la presenza del Buddha in ogni cosa particolare o
meglio, la buddhità di ogni cosa particolare.
55 Ch. Humphreys, Lo zen cit., p. 131.
56 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male cit, 67, p. 71.
57 E. Herrigel, La via dello zen, tr. di S. Bonarelli, Roma, s.d., p. 84; Cfr.
anche pp. 59, 89, 99; e C.H. Humphreys, una via... cit., p. 187.
58 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 134.
59 Ibid., p. 134.
., p. 392.
60 Ibid, p. 391. É evidente, da questo contesto, che il tema nietzsciano
del Grossermittag difficilmente potrebbe essere compreso entro una prospettiva
escatologica, come ha tentato di fare K. Schlechta, Nietzsche e il grande meriggio, tr. di F. Porzio, Napoli 197161 E. Herrigel, La via dello zen,cit, p. 31.
62 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), cit., p. 184, frammento 10-154.
63 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., 233, p. 153.
64 Cfr. La raccolta della roccia blu cit., p- 266.
65 Cfr A.W. Watts, La via dello zen, cit., p. 214.
66 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1888-1889) cit., p. 136, frammento 14.162.
67 Ibid., p. 67, frammento 14.99., cfr. anche ibid., p. 54, frammento 14.85 e p.
167, frammento 14.191. Cfr. anche Umano, troppo umano, II, cit., 213, p. 221.
68 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1875-1876), cit., p. 116, frammento 5.26.
Sulla figura del saggio in Nietzsche, cfr., anche considerazioni Inattuali, tr.
Sossio Giametta, Milano 1972, p. 440; Umano, troppo umano, I., cit.,
141
251, p. 179; 291, p. 201; 627, p. 196; Frammenti postumi (1876-1878)
cit., p. 319, frammento 17.16; p. 325, frammento 17.55' Umano troppo umano II cit., 49, p. 26; 173 p. 205; 324, p. 260; 332, p. 262, 348, p.
264; Frammenti postumi (1878-1879) cit., p. 296, frammento 29.29; Aurora
cit., 537, p. 248; Così parlò Zarathustra cit. p. 244, p. 356; Frammenti postumi (1884), tr. di M. Montinari, Milano 1976, p. 165, frammento 26.119;
La gaia scienza cit., 302, p. 176, 375, p. 254; Frammenti postumi (18841885) cit., p. 203, frammento 35.35; ma soprattutto in connessione al tema
delle «piccole cose», Umano, troppo umano, II cit., 350, p. 260: «<La libertà
dello spirito può essere data solo all'uomo nobilitato; a lui solo rende vicino
l'alleggerimento della vita spargendo balsamo sulle sue ferite; egli per primo
può dire di vivere per la gioia e per nessun altro scopo; e su ogni altra bocca il
suo motto sarebbe pericoloso: pace intorno a me e un prender piacere a tutte le
cose più vicine».
69 La raccolta della roccia blu cit., vol. I, p. 140.
70 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit., p. 201.
71 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, cit., 51, p. 164; cfr. S. Suzuki,
Mente zen cit., p. 99, dove riporta un detto del maestro Dogen: «Un fiore cade anche se lo amiamo; e l'erbaccia cresce anche se non l'amiamo».
72 Cfr. F. Nietzsche, Scritti dal 1870 al 1873, tr. di G. Colli, Milano 1973, p.
165: «Se volete guidare un giovane sulla retta strada della cultura, guardatevi
bene dal turbare il suo atteggiamento ingenuo, pieno di fiducia verso la natura: si tratta quasi di un immediato rapporto personale. A lui dovranno parlare, nelle loro diverse lingue, la foresta, la roccia, la tempesta, l'avvoltoio,
il singolo fiore, la farfalla, il prato, i dirupi montani; egli dovrà in certo
modo riconoscersi in tutto ciò, in queste immagini e in questi riflessi,
dispersi e e innumerevoli, in questo tumulto variopinto di apparenze mutevoli».
Cfr. E. Herrigel, La via dello zen cit., p. 16.
73 F. Nietzsche, Aurora cit., 563, p. 267.
74 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1881-1882) cit., p. 281, frammento
11.7.
75 S. Suzuki, Mente zen cit., p. 69. Cfr. anche La raccolta... cit., p. 208:
«Lasciate andare, e anche le tegole e i sassi emettono luce; tenete stretto, e
anche l'oro vero perde il suo colore».
76 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1876-1878) cit., p. 322, frammento
17.33. Cfr. anche Umano, troppo umano, I, cit., 141, p.113; 107, p. 85, e
287, p. 199; Umano, troppo umano, II, cit., 386, p. 126' 332, p. 117'
Frammenti postumi (1876-1878) cit., p. 402, frammento 23.11; Aurora cit.,
168, p. 124.
142
77 Cfr. La raccolta... cit., vol. I, p. 118; cfr. anche p. 82: «La mente è la
facoltà di senso, le cose sono gli oggetti; entrambi questi elementi sono come
macchie su uno specchio».
78 F. Nietzsche Umano, troppo umano, I, cit., 4 p. 8; cfr. anche Frammenti
postumi (1887-1888) cit., p. 296, frammento 11; 228 «ogni esagerazione di un
punto di vista ristretto è già di per se un segno di malattia. Parimenti il
preponderare del no sul sì».
79 Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit., pp 214-217
80 La raccolta... cit., vol. II, p. 146; cfr. anche p. 150: «Quando sei a un
punto morto, cambia; quando cambi, puoi passare oltre»; cfr., ancora, p. 157 e
p. 160.
81 Cfr. D.T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen cit., vol. I, cap. VI.
82 F. Nietzsche, Aurora cit., 411, p. 208 cfr. anche Frammenti postumi
(1885-1887) cit., p. 149, frammento 2.197: «Miscredenti e atei, sì - ma sen-
za quell'asprezza e passione dello sradicato, che della miscredenza si fa una
fede, uno scopo, spesso un martirio».
83 D.T. Suzuki, La dottrina zen del vuoto mentale, tr. di A.liZ. Micks, Roma
1966, p. 55.
84 Poesia dello Zenrin citata da A.W. Watts, La via dello zen cit., p. 148.
85 S. Suzuki, Mente zen cit., p. 41.
86 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male cit., 41, p. 47 (corsivo nostro; cfr. anche F. Nietzsche Nachgelassene Fragmente (Juli 1882 bis Winter
1883-1884), Berlin/New York 1977, p. 215, frammento 211.
87 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit., p. 343.
88 F. Nietzsche, L'anticristo cit', 39 p. 214; cfr. anche Frammenti postumi
(1888-1889) cit., p. 349, frammento 22.1 e p. 358, frammento 22.21. Cfr.,
per quanto riguarda lo zen su questo tema, Ch. Humphreys, Lo zen cit
183: «La non-azione non significa assenza assoluta di azione, ma solo assenza
di quelle azioni che possono provocare opposizione. Azione "giusta" significa
equilibrio: né opporsi né cedere, ma rimanere flessibili, come una canna al
vento».
89 F. Nietzsche, Aurora cit., 447, p. 220; cfr. anche Così parlò Zarathustra
cit. p. 92: «Si ripaga male un maestro se si rimane sempre scolari [...] Voi
dite di credere a Zarathustra? Ma che importa di Zarathustra! Voi siete i miei
credenti ma che importa di tutti i credenti! Voi non avete ancora cercato voi
stessi: ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò ogni fede vale
143
così poco». Cfr. anche p. 91: «Quando volete innalzarvi, adoperate le vostre
gambe. Non lasciatevi portare in alto, non mettetevi a sedere sulle sehiene e
sulle teste altrui!».
90 La raccolta... cit., vol. II, p. 72
91 D.T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen cit., vol. I, p. 330; cfr. anche S. Suzuki, Mente zen cit., p. 62, e Ch. Humphreys, Lo zen cit., p. 168.
92 C£r. F. Nietzsche, Aurora cit., 174, p. 128: «Frattanto resta senza risposta anche la domanda se si è più utili all'altro venendo continuamente in suo
soccorso e aiutandolo - cosa questa che può soltanto verificarsi molto superficialmente, ove non diventi una tirannica sopraffazione e rimodellamento oppure formando di se stessi qualcosa che l'altro vede godendone, come un
bel giardino quieto, conchiuso in se stesso che contro le procelle e la polvere
delle strade maestre ha alte mura, ma anche una porta ospitale». Cfr. anche
Considerazioni Inattuali cit., p. 373, e Frammenti postumi (1878-1879) cit., p.
312, frammento 30.96.
93 Cfr. A.W. Watts, La via dello zen cit., pp. 174 sgg.
94 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, cit., 361, p. 12.
95 T. Deshimaru, Lo zen passo per passo, tr. di P. Imperio, Roma 1981, p.16.
Cfr. anche Ch. Humphreys, Una via... cit., pp. 100 sgg.
96 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1884-1885) cit., p. 372, frammento
41.7.
97 F. Nietzsche, Genealogia della morale cit., 1, p. 255.
98 «Svegli» significa coscienti senza l'intervento del super-io; cfr. A.W.
Watts, La via... cit., parte II cap. II, e F. Nietzsche, Umano, troppo umano,
II, cit., 297, p. 254: «Finché si sta facendo un'esperienza, bisogna abbandonarsi all'esperienza e chiudere gli occhi cioè non voler fare già in essa
l'osservatore. Questo, infatti, disturberebbe la buona digestione dell'esperienza: invece di una saggezza se ne riporterebbe un'indigestione».
99 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1881-1882) cit. p. 307, frammento
11.81: «Non basta essere un uomo, sebbene questo sia il necessario inizio! Alla fine significherebbe invitarvi ad essere limitati! Invece: passare da uno in
un altro, e vivere tutta una serie di esseri».
100 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1884) cit., p. 165, frammento 26.119:
«L'uomo più saggio sarebbe quello più ricco di contraddizioni, che per così dire
ha antenne per tutte le specie di uomo: e in mezzo i suoi grandi attimi di consonanza grandiosa - il caso nobile anche dentro di noi».
144
101 Cfr. D.T. Suzuki, Manuale di buddhismo zen cit., pp. 95-110.
102 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit., p. 185.
103 Ibid., p. 235: «Bisogna imparare ad amare se stessi, questa è la mia dottrina, di un amore sano e salutare; tanto da sopportare di rimanere presso se
stessi e non andare vagando in giro».
104 F. Nietszche, La gaia scienza cit., 346, p.211: «Ci vien già da ridere,
quando troviamo "uomo e mondo" posti l'uno accanto all'altro, separati dalla
sublime arroganza della paroletta "e"!»
105 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit., p. 289; cfr. anche La gaia scienza, cit., 355, p. 196: «Noi vogliamo diventare quelli che siamo: i nuovi, gli
irripetibili, gli inconfrontabili, i legislatori-di-se-stessi, i creatori-di-sestessi» Frammenti postumi (1888-1889) cit., p. 121, frammento 14.151: «Noi non
crediamo che uno possa divenire un altro se non lo è già, cioè se non ha in sé,
come accade piuttosto spesso, una pluralità di personaggi o almeno spunti di
personaggi».
106 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1881-1882) cit., p. 468, frammento
18.4: «Vuoi tu diventare un occhio universale giusto? In questo caso devi diventarlo come uno il quale è passato attraverso molti individui; il suo ultimo
individuo ha bisogno di tutti gli individui precedenti come funzioni». Cfr. anche Frammenti postumi (1884-1885) cit., p. 336, frammento 40.42: «Forse
non è necessario assumere un soggetto unico; forse è altrettanto permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta stiano alla base del nostro
pensiero e in genere della nostra coscienza».
107 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra cit., p. 244: «Il godimento e l'innocenza infatti sono le più pudiche delle cose: ambedue non vogliono essere cercate. Si deve averle...».
108 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male cit., 213, p. 122: «É difficile
imparare cosa sia un filosofo, non essendo ciò qualcosa che possa essere insegnato: lo si deve "sapere" per esperienza - oppure si deve avere l'orgoglio di
non saperlo». Cfr. anche Ibid., 45, p. 54.
109 F. Nietzsche, Frammenti postumi (1876-1878) cit., p. 423, frammento
23.99: «Aristotele ritiene che il saggio, sophòs, sia colui che si occupa soltanto delle cose importanti, meravigliose, divine. Qui è annidato l'errore di
tutta una direzione del pensiero. Si trascura proprio ciò che è piccolo, debole,
umano, illogico, difettoso: eppure soltanto studiando con la massima cura tutto
ciò, si può diventare saggi. Il saggio deve abbandonare molta della sua superbia non deve aggrottare le sopracciglia, infine è proprio lui che si diverte a
turbare i divertimenti degli uomini».
145
110 Mumonkan, La porta senza porta, a cura di Z. Shibayama, tr. di S. Kudo,
Roma 1977, p. 64.
111 F. Nietzsche, Ecce homo, tr. di R. Calasso, Milano 1970, 1, p. 287:
«Ben altrimenti mi interessa un problema dal quale dipende la "salvezza dell'umanità" molto più che da qualche curiosità da teologi: il problema dell'alimentazione. Grosso modo lo si può formulare così: "Tu, come devi nutrirti,
per raggiungere il tuo massimo di forza, di virtù in senso rinascimentale di virtù senza moralina». Cfr. anche Ibid., 2, p. 291; 3, p. 334; 2, p. 446;
6, p. 281; 2, p. 346; ma, soprattutto, 8, p. 384.
112 Cfr. A.W. Watts, Lo zen, tr. di E. Spagnol, Milano 19802, p. 85.
113 F. Nietzsche, La gaia scienza cit., 126, p. 130; cfr. anche 173, p.
146.
114 D.T. Suzuki, Saggi cit., vol. I, p. 303; citiamo intenzionalmente D.T. Suzuki in quanto è lo studioso che più ha tentato di trovare analogie e convergenze tra esperienze religiose cristiane e buddhismo zen, per cui la sua osserva
zione qui riportata che in parte inficia le ragioni di questo suo tentativo, ass
ume particolare importanza. In effetti pare che tutti i maestri zen siano e siano stati concordi sul fatto che «quando il raccoglimento della mente è totale,
si rimane assorti in uno stato di distacco che non va confuso con le "estasi"
dei mistici» (cfr. Ch. Humphreys, Lo zen cit., p. 113). Simili convergenze e
analogie appaiono assai improbabili anche dal punto di vista più generale del
taoismo (cfr. J. Blofeld, Oltre gli dei, tr. di F. Pregadio Roma 1979, p. 54) e
da quello, ancor più generale, del buddhismo (cfr. N. Thera, Il cuore della meditazione buddhista, tr. di N. Ilari, Roma 1978).
115 F. Nietzsche, Ecce Homo cit., p. 284.
116 Cfr., per esempio, F. Nietzsche, Scritti dal 1870 al 1873 cit. pp. 108 e
213; Frammenti postumi (1876-1878) cit., p. 357, frammento 19.66, e, in connessione con il tema dell'otium, Umano, troppo umano, I, cit., 282, 283,
284, 285, 286; Al di là del bene e del male cit., 284, p. 199.
117 F. Nietzsche, Frammenti postumi (187G-1878) cit., p. 422, frammento
23.94. Il fatto che Nietzsche non intenda affatto la solitudine in connessione
con pratiche ascetiche, lo si può desumere, per esempio, dal 47 di Al di là
del bene e del male.
118 A.W. Watts, Lo zen cit., p. 93.
119 Cfr. E. Herrigel, La via... cit., p. 72: «Lo zenista è aperto a tutto e ad
ogni cosa, senza limiti: dogmaticamente non è vincolato a principio alcuno; è
aperto anche alla scienza. Non rifiuta affatto la ratio».
120 All'atteggiamento dello zen nei confronti della scienza e della tecnica ab146
biamo accennato in Oltre la tecnica: Heidegger e lo zen (saggio introduttivo a
A. Cavallucci, Heidegger, tecnica e metafisica, Venezia 1981, (ora inserito nella presente raccolta).
121 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, cit., 251 p. 179- cfr. anche
Frammenti postumi (1876-1878) cit., p. 435 frammento 24.17: «Anche Iddio
può dire come il demonio, e con lo stesso diritto, all'uomo: "Basta con la ragione e la scienza - allora ti avremo incondizionatamente". In questo punto
sono alleati».
147
Capitolo quinto
Oltre la tecnica: Heidegger e lo zen
1. Con un ardire concesso solo a chi ha saputo penetrare
nell'intimo la filosofia di Heidegger, Vattimo suggerisce l'ipotesi, inconsueta ma non ingiustificata, di poter «imparare a
leggere Heidegger come un "umorista" della filosofia» (1), intendendo, ovviamente, il termine «umorista» nel senso più serio,
ossia nel senso che va in direzione della critica dirompente e
dissacrante nei confronti degli apparati linguistici e concettuali della tradizione metafisica: questo «umorismo», infatti, consiste in una vera e propria «rivoluzione stilistico-filosofica»
che strappa termini e concetti di quella tradizione dai loro
contesti abituali e li sottopone ad un procedimento di deflagrazione, di diluizione e di sfilacciamento che li restituisce alla loro originaria ed infinita complessità. Qualora si intenda
per «ideologia» non solo ogni sistema di pensiero chiuso, dogmatico, assoluto, ma anche ogni proposizione che pretenda essere definitoria e definitiva, e addirittura ogni concetto che si
presuma semplice e immediato, è possibile definire il lavoro
decostruttivo dell'«umorismo» heideggeriano come un esempio, significativo ma non paradigmatico, di critica dell'ideologia. Se l'indicazione di Vattimo ha quindi il merito di sottolineare la valenza critica dell'impresa speculativa heideggeriana
contro ogni interpretazione volta ad utilizzarla strumentalmente per costruire un'ennesima cattedrale metafisica, ha anche il merito - secondario, ma non inferiore - di enfatizzare un aspetto ludico-trasgressivo di quell'impresa contro ogni
tentativo di imprigionarla nella gabbia di una disperazione
esistenziale, o nelle ragnatele di una «sofferenza» spiritualista,
o, addirittura, nell'eremo della mistica cristiana.
Tuttavia, a questo punto, insorgono alcuni interrogativi di
148
fondo, e, in particolare: perché questo «umorismo»? E perché
questa critica dell'ideologia metafisica? Perché fuoriuscire dalla metafisica? In effetti le ragioni di questa attività decostruttiva della riflessione heideggeriana sui concetti e sui fondamenti della metafisica sembrano nascondere alla loro radice
quella opposizione tra autenticità e inautenticità che era stata
formulata e sviluppata in Essere e tempo. Certamente questa
opposizione, proprio sulla scorta delle indicazioni fornite da
Vattimo, può essere intesa non in senso «forte», ossia in senso
etico o metafisico, o anche in senso logico, ma «soltanto» evidenziandone le valenze estetiche. Certamente la fuoriuscita
dalla metafisica verso una filosofia dell'avvenire ha in Heidegger, come in Nietzsche, i caratteri di un esperimento affrontato non nello spirito della redenzione, ma in quello del gioco: la
forza che spinge a sondare terreni inesplorati non sembra affatto essere una volontà eticamente fondata, ma un'opzione
esteticamente goduta. La logica e la terminologia della metafisica nelle sue varie e lunghe ramificazioni sembra non vengano attaccate e demolite solo perché hanno indotto disastri
umani che vanno dallo sfascio della psiche alle aberrazioni totalitarie, ma soprattutto perché provocano disgusto: perché
sono orride a vedersi tutte le loro forzate volute con cui hanno cercato di conciliare soggetto e oggetto, di dedurre prassi
giuste da teorie vere, di escogitare sintesi tra forme e vita
perché nauseante è l'odore di marcio che emana dalle celle dei
loro concetti, delle loro categorie e dei loro schematismi, dove
hanno costretto a languire il mondo e l'anima; perché ributtante è il sapore pesante che le loro parole disseccate gettano
sulle esperienze; perché, infine, è divenuto ormai insopportabile il suono ossessivo delle loro cantilene nei secoli identiche.
Questo carattere estetico della prospettiva heideggeriana,
che esclude ogni valenza o intenzionalità eticamente fondata,
può esser facilmente reperito a partire da alcune precise affermazioni dello stesso Heidegger: «La critica ontologica dell'interpretazione volgare della coscienza in quanto negatrice dell'originarietà esistenziale della sperimentazione quotidiana
della coscienza, sarebbe fraintesa se considerata come mirante
ad esercitare giudizi sulle "qualità morali" esistentive dell'Es149
serci che in essa si mantiene» (2). Ciò che qui interessa non è
evidentemente, costringere la riflessione di Heidegger dentro
la dimensione interpretativa centrata sull'estetico, quanto mostrare che il richiamo a questa dimensione opera produttivamente contro ogni tentativo di costringere quella riflessione
dentro maglie di determinazioni eticamente fondate. Si tratta, insomma, di richiamare le movenze di un gioco di pensiero
al fine di sfaldare la vuota compattezza di ogni normatività.
Che il pensiero di Heidegger intenda essere esente da ogni dover-essere è facilmente coglibile proprio là dove questo elemento di normatività potrebbe essere presente, ossia nella
trattazione del tema della decisione: «Il decidersi non si sottrae alla "realtà attuale", ma scopre primariamente il possibile
effettivo in modo da afferrarlo così come esso, in quanto più
proprio poter essere, è possibile nel SI» (3).
Il far emergere l'autenticità diventa allora un complesso gioco conoscitivo e non una semplice impresa fondata sull'impegno etico. Ma il problema diventa ora quello che si può rapprendere in una domanda: è possibile questo far emergere
l'autenticità? La quale domanda si trascina appresso anche
quella che le sta alla base: perché questo far emergere? Il ripresentarsi di quest'ultima - che è l'equivalente di quelle già
formulate con «perché l'"umorismo"?» e «perché la critica
dell'ideologia?» - fa sorgere il sospetto che sotto quel gioco
conoscitivo scorra ancora la tensione di un impegno etico. La
traccia del permanere di questo scorrere è individuabile in un
lucido passo di Essere e tempo: «L'interpretazione esistenziale
deve perciò trovare la sua verifica in una critica dell'interpretazione volgare della coscienza. Dal fenomeno, quale sarà
emerso, dovrà essere ricavata la valutazione della sua capacità
ad attestare un autentico poter essere dell'Esserci. Alla chiamata alla coscienza corrisponde un possibile sentire. La comprensione del richiamo si svela come un voler-avere-coscienza (Gewissenhabenwollen)». (4) I sintomi della «malattia etica»
sono addirittura fin troppo evidenti in quel «deve» e in quel
«dovrà» i quali, in un pensatore come Heidegger, non possono
essere assolutamente colti come sviste linguistiche, ma vanno
assunti nella pregnanza concettuale a cui rimandano. Tuttavia
150
la forza evocata da questa pregnanza viene annebbiata immediatamente da concetti di «chiamata» e di «possibile sentire»
con i quali Heidegger sembra voler fronteggiare la tradizione
filosofica e teologica che da sempre ha messo in campo, come
armi forti, i concetti, rispettivamente opposti, o almeno diversi, di «dovere» e di «volere intenzionale». Ma, alla fine, lo
stesso Heidegger sembra esser costretto a soccombere a questa tradizione, riconoscendo che la comprensione di quel richiamo non è che un voler-avere-coscienza. Certamente questo voler-avere-coscienza non è identificabile con un dovere
inteso come norma giuridica o come comandamento religioso,
ma sembra piuttosto poter venire assimilato al concetto kantiano di legge morale determinata esclusivamente dalla forza
della coscienza, dall'impegno della ragione: tuttavia, in tal caso, emergerebbe immediatamente la difficoltà di comprendere
come la coscienza, che appare come oggetto del volere, possa
esserne contemporaneamente il fondamento. Per superare
questa difficoltà non rimarrebbe, allora, che connotare quel
volere come volere puro, incondizionato, assoluto, senza fondamento né eteronomo (giuridico o religioso), né autonomo
(razionale). É proprio questo volere non ulteriormente fondato che pare sorreggere la forza e la costanza con cui Heidegger
ha cercato di rintracciare, lungo tutto il suo itinerario speculativo, i segni dell'autenticità in mezzo alle presenze degli enti,
le possibilità degli eventi in mezzo ai fenomeni dell'inautenticità, il senso dell'Essere in mezzo alle presenze degli enti, le
possibilità degli eventi in mezzo all'effettualità dei fatti: questo aver-coscienza non «accade», ma è voluto. Sarà, casomai,
questo volete che «accade»: ma che esso «accada» o si voglia,
ciò non muta in nulla le conseguenze che derivano dalla sua
attività, che consistono innanzitutto nell'indicare le possibilità dell'autentico dentro il non-mondo dell'inautentico. L'importante, infatti, è sottolineare che queste possibilità, e la
stessa indicazione delle possibilità, non «accadono» o «avvengono» senza un volere che le lascia accadere ed avvenire, che
le vuole lasciar accadere ed avvenire: ossia senza una decisione
fondamentale che opta per l'apertura ai possibili piuttosto che
per l'accettazione dei reali.
151
Questa interpretazione «volontaristica» potrebbe venire intaccata dal contenuto di uno dei passi più celebri della Lettera
sull'umanismo: «Questo pensiero (il pensiero che pensa la verità dell'essere) non è né teorico né pratico: ché esso ha luogo
prima che avvenga questa distinzione» (5). Tuttavia questo pensiero che «accade» prima di questa e - si potrebbe dire - di
ogni distinzione, è assunto come pensiero «vero», autentico,
originario rispetto a - se non proprio in contrapposizione a
- quello ancora irretito nella scissione tra teoria e prassi, e a
quello bloccato dentro il cerchio del rappresentare e dell'imposizione (Gestell) tecnica. L'opzione per un pensiero che
pensa la verità dell'Essere come apertura dell'Essere può anche non risultare una scelta etica, e porsi invece come pura predilezione estetica ma ciò non esclude che esso sia l'oggetto di
una decisione voluta, e non semplicemente il risultato di un
«accadere» casuale. Se esso, infatti, fosse un puro accadere casuale, come si potrebbe distinguerlo dalla massa degli enti che
si danno al rappresentare calcolante? Quell opzione fondamentale è possibile soltanto sulla base di un pre-giudizio che
può non avere né fondamento etico né fondamento estetico,
ma che certamente vige come fondamento ineliminabile di
quell'opzione. I sintomi dell'«eccellenza» del pensiero che
pensa la verità dell'Essere e, quindi, i sintomi del pre-giudizio
che rende possibile il pensare quell'eccellenza come tale, non
sono sempre evidenti, ma, quando lo sono, lo sono in modo
inequivocabile, come, per esempio, in questa eccezionale considerazione posta al termine della conferenza sul Logos: «La
parola del pensiero poggia sull'assenza di illusioni rispetto a
ciò che dice. E tuttavia, il pensiero cambia il mondo. Lo trasforma nella profondità sorgiva, sempre più oscura, di un
enigma; proprio in quanto è più oscura, questa profondità è
promessa di una più grande chiarezza» (6). Qui il pensare autentico, l'An-denken, viene ovviamente assunto come preliminare
ad ogni distinzione tra teoria e prassi, ma questo suo carattere
preliminare non ulteriormente fondato diventa la fondamentale condizione di possibilità per la trasformazione del mondo. «Questo pensiero - aggiunge Heidegger - non ha alcun
risultato né produce alcun effetto» in quanto esso si limita a
152
«lasciar l'Essere-essere»: ma questo «lasciar essere l'Essere» è
già un risultato, ossia il frutto di una scelta preliminare che
privilegia il «lasciar essere» rispetto ad un rappresentare-calcolare l'essere. É stato giustamente osservato che questo lasciaressere heideggeriano presenta forti analogie con il pensiero
mistico di Silesius (7) e, in particolare, con la distruzione del
concetto di intenzionalità che tale pensiero promuove: tuttavia, in entrambi i casi, l'attacco ai canoni normali e alle categorie vigenti della ragione sia teoretica che pratica, nel momento stesso in cui colpisce le intenzionalità che giacciono alle radici di quei canoni e di quelle categorie, svela la sua propria intenzionalità.
É vero che «Dio vince non volendo»; così come l'arciere
zen colpisce il bersaglio con una tensione priva di intenzione,
ma entrambi vogliono che gli effetti siano raggiunti senza intenzionalità: nella mistica l'illuminazione «accade» indipendentemente dalle tappe previste dalla disciplina, al di fuori di
ogni programma e di ogni progetto, ma alla base della disciplina e all'origine dell'illuminazione c'è già il desiderio, la volontà, l'aspirazione all'illuminazione. Così l'autenticità dell'Andenken si dispiega al di fuori di ogni metodica che ordini e sistemi il tragitto verso lo stesso Andenken, ma ciò non significa
che non vi sia una scelta fondamentale a favore dell'Andenken: del pensare autentico non c'è pedagogia, (8) ma ciò non significa che esso sia «a disposizione» nella pura presenza come
qualsiasi ente che si impone alla nostra ragione e alla nostra
volontà senza che esse vengano interpellate. Se così fosse, l'unico mondo, reale e possibile insieme, sarebbe il non-mondo
della totale in-differenza, della im-posizione planetaria, dove
sarebbe eliminata la stessa possibilità di dire questa indifferenza in quanto il pensiero diverrebbe un semplice specchio
della realtà, incapace di vedersi come specchio.
Non c'è, certo, un soggetto - né empirico né trascendentale né, tantomeno, trascendente - che vuole il superamento
della metafisica in quanto «l'oltrepassamento della metafisica
accade come accettazione-approfondimento (Verwindung) dell'essere» (9), ma c'è pur sempre una scelta fondamentale che contro la semplice accettazione del dato e contro un supera153
mento lineare della metafisica - opta per un atteggiamento
di pensiero che si dispone ad accogliere l'oltrepassamento della metafisica come Verwindung. É in questa scelta fondamentale che Heidegger converge con Adorno (10), in questo ribellarsi del pensiero a quella forma di «manifestazione della volontà
di volontà» che si chiama tecnica, intesa come nome che «abbraccia qui tutti gli ambiti dell'essente che di volta in volta
costituiscono l'equipaggiamento della totalità dell'essente: la
natura oggettivata, il movimento e lo sviluppo della cultura, la
politica manipolata (gemachte Politik) e gli ideali sovraedificati
(üebergebaute)» (11). Le tracce di questa scelta fondamentale sono reperibili in una lunga sequenza di opposizioni che, nonostante il lavoro di deflagrazione fatto sui concetti al fine di
impedire il cristallizzarsi di ogni forma di opposizione, continua a fluire lungo tutta la riflessione heideggeriana: l'opposizione tra sfera dell'autentico e quella dell'inautentico - descritta in Essere e tempo - riemerge con evidenza, per esempio, nell'opposizione tra «pro-durre nel senso della poiesis» e
la «pro-vocazione» che vige nella tecnica moderna; (12) nell'opposizione tra «il rappresentare catturante (das nachstellende
Vorstellen) che si assicura tutto il reale nella sua perseguibile
oggettità» (13) e la meditazione come «tranquillo abbandono
(Gelassenheit) a ciò che è degno di essere domandato» (14).
Così pure nell'opposizione tra «inter-esse» e «l'interessante» (15), o in quella tra «parlare il linguaggio» e «utilizzare il
linguaggio» (16), tra il «dialogo» e la «conversazione» (17), tra
l'«uso autentico» e l'«utilizzazione delle cose» (18); ovvero tra
l'«oggettivazione dell'autoimposizione» e l'aprirsi al «puro
Bezug» (19). Proprio nel particolare riferimento a quest'ultima
opposizione Heidegger si avvede di quanto duro da risolvere sia il problema di superarla senza ricadere in quella sublimata forma di opposizione che si determina con il volere il
superamento di ogni opposizione: ammesso, infatti, che sia
ancora possibile che vi «siano mortali in grado di vedere la
minaccia» di questo «unico interminabile inverno» messo in
atto dall'essenza della tecnica, ed accettato che «per vedere
il pericolo e rivelarlo occorrono mortali che giungano più
rapidamente nell'abisso» (20), ne viene anche che «gli uomini
154
che sono talvolta più arrischianti, sono anche i più volenti» (21).
Ammesso, cioè, che per qualcuno sia ancora possibile cogliere il dispiegarsi pieno dell'essenza della tecnica in una universale «uniformità della produzione» - o anche solo la tendenza inarrestabile verso questo pieno dispiegarsi - e constatato che questo «qualcuno» corre il massimo dei pericoli sia
nel cogliere sia, tanto più, nel rivelare agli altri la possibilità
ancora presente di questo cogliere, si deve concludere che
questo pericolo è un pericolo voluto e che, in quanto tale, minaccia di diventare una delle forme di quella «volontà di potenza» che regge e muove proprio quell'essenza della tecnica
che condanna ogni cosa ed ogni uomo ai tempi e agli spazi pianificati di un universo completamente integrato. In tal modo
ogni volontà del diverso si trasformerebbe in una variante interna alla volontà dell'identico: ogni input negativo prodotto
dalla differenza diverrebbe un output positivo funzionale o,
per lo meno, in-differente al sistema. Altrove (22), per ridimensionare la portata delle critiche di Adorno a Heidegger, abbiamo enfatizzato la tragica consapevolezza di quest'ultimo del
fatto che la forza del sistema, la potenza messa in atto dall'essenza della tecnica, la volontà di dominio assoluto propria del
rappresentare-catturare interno a questa essenza, costituiscono i fattori di una tendenza inarrestabile, di un destino che
esclude opposizioni efficaci. Tuttavia per Heidegger, se simili
opposizioni non hanno spazio fuori da questo destino perché
nulla vi può essere di esterno, possono però darsi al suo interno: è all'interno di questo destino che si pongono coloro che
in quanto «arrischianti» al massimo grado, vogliono con un
volere di genere diverso (23).
Ma come può darsi questa diversità se, da un lato, ogni differenza rischia di esser voluta in base a quella volontà di potenza dalla quale intenderebbe differenziarsi, e se, dall'altro
ogni opposizione esterna a questa volontà rischia non solo di
essere ineffettuale ma addirittura inconcepibile? Come è possibile, insomma, che il rischio insito nell'opposizione non venga trasformato in una nuova sicurezza? La risposta di Heidegger sembra essere semplice ed immediata: ponendoci al di là
155
della sicurezza, oltre l'opposizione tra la volontà del massimo
rischio e la dispiegata volontà di potenza. «Siamo sicuri solo là
dove non si calcola né sull'assenza né sulla presenza di protezione. Un esser sicuro sussiste solo al di fuori dell'oggettivante separazione dall'Aperto, "al di fuori della protezione", al di
fuori della separazione contro il puro Bezug» (23): ciò significa
che questo «esser fuori» non è un volere-contro ma un volereoltre ogni separazione ed opposizione. Ma come può questo
«volere-oltre», se riesce a porsi come tale, dire ancora qualcosa attorno alle «piccole» volontà che giocano secondo le regole
dell'essenza della tecnica? Come è possibile esser «fuori dalla
protezione» pur rimanendo interni al destino dell'oblio dell'essere che si consuma nella tecnica? É possibile un volere diverso, ossia un volere che sia fuori della volontà di potenza in
un modo tale, però, da non esserne contemporaneamente contro?
E questa possibilità di che natura è? É una possibilità tra le
altre, o è una possibilità originaria, cioè quella possibilità di
un «volere diverso», di un «dire diverso», di un arrischiare «di
più» che fa scattare il pensiero e l'esperienza oltre la normale
amministrazione delle realtà chiuse nell'universo dell'im-posizione tecnica? Heidegger cerca in ogni modo di fornire risposte a queste domande, e proprio nel commento a Rilke questo
sforzo giunge forse ad uno dei più alti livelli di tensione teorica. Esser capaci di porsi fuori della protezione significa «essersi rivoltati», ma - aggiunge Heidegger - «l'essersi rivoltati, l'esser-senza-protezione ha già di colpo subìto il rivolgimento nella totalità della sua essenza» (24).
In questa precisazione sta condensato un punto centrale di
quella tensione teorica, ossia il tentativo di superare sia una
concezione passiva sia una concezione attiva del «risveglio»,
del «rivolgimento»: infatti, come l'intenzionalità soggettiva
nascosta in quell'«essersi rivoltati» viene integrata e corretta
dalla dimensione oggettiva insita nell'aver «già subìto» il rivolgimento, così, reciprocamente, questa dimensione non predomina, ma viene integrata e corretta da quell'intenzionalità
soggettiva, in modo tale che non è più individuabile un «responsabile» del rivolgimento, ma solo un «campo» in cui esso
156
accade. Questa dissoluzione delle responsabilità è confermata
poco oltre, quando Heidegger spiega ulteriormente la natura
di questo rivolgimento: l'esser-rivoltati deve riposare nell'aver
visto l'esser-senza-protezione come minacciante, ma questo
«aver visto» - proprio come prima, l'«essersi rivoltati» non implica affatto un rimando ad una soggettività agente in
modo direttamente intenzionale, in quanto «presuppone che
l'Aperto stesso deve essersi volto a noi in modo tale che possiamo rivoltare l'esser-senza-protezione» (26). Questa dissoluzione del soggetto e dell'oggetto come poli privilegiati di una
millenaria storia della filosofia occidentale viene ribadita poco più in là in modo chiaro ed efficace: «Non ci resta allora
che dire-sì a questo rovesciamento. Ma questo dire-sì non
equivale al capovolgimento di un "no" in un "sì" [...], ma a riconoscere il positivo come già presistente ed essente-presente» (27).
Ancora una volta, però, ci si può chiedere: come è possibile
questo riconoscere? Ma, ancora una volta, si può rispondere
che questo riconoscere non appartiene soltanto ad una facoltà
speciale di qualche soggetto privilegiato: «nell'essere ha luogo
un "più" che è proprio dell'essere stesso» (28), ed è «l'essere che
regge e fa apparire l'inaudito Centro del più ampio Cerchio» (29). Tuttavia non è, nemmeno qui, soltanto l'apertura
dell'essere che garantisce, da sola, quel riconoscere e quel rivolgimento, ma sono, insieme, i «più arrischianti»: «il loro
cantare si sottrae ad ogni imposizione deliberata di sé. Il loro
volere non ha il senso dell'esigere. Il loro canto non sollecita
qualcosa da produrre. Nel loro canto si dispiega lo stesso spazio interiore del mondo. Il canto di questi cantori non sollecita nulla, non è una professione» (30). Il riconoscimento e il rivolgimento avvengono dunque quando l'essere si dispone alla
massima apertura ma anche quando alla massima apertura si
dispone il pensiero e si rende, così, capace di cogliere la massima apertura dell'essere e, nel contempo, di essere in questa
massima apertura: in questa coincidenza delle aperture la forma stessa di ogni opposizione si dissolve, dato che il «rivolgimento rimemorante ha già oltrepassato la separazione contro
l Aperto)) (31). La condizione di coincidenza d le aperture, co157
me non ha un suo spazio circoscritto, proprio perché si dà nella dissoluzione di ogni forma di spazialità, anche di quella fondamentale che distingue l'oggetto dal soggetto, così non ha
nemmeno un suo tempo definito: infatti è «incerto e problematico quando noi siamo tali che il nostro essere sia canto» (32)
cioè quando noi siamo nella situazione di più-dicenti, arrischianti, riconoscenti, rivolgenti. L'indeterminatezza temporale di questo «più» non colpisce, ovviamente, soltanto il soggetto, il «noi», ma interessa anche e proprio la condizione
stessa in cui questo «più» si dispiega: «la bilancia del pericolo
passa dal dominio del volere calcolante a quello dell Angelo»,
ma «il trapasso avviene "talvolta" . Il che non significa affatto:
a volte sì a volte no e casualmente. "Talvolta" significa: raramente e a tempo giusto, in un caso unico e in un modo
unico» (33).
Con queste ultime parole e con l'ampio giro di pensiero che
ad esse ha condotto, siamo già in una dimensione teorica che
consente di connettere le riflessioni di Heidegger a quelle del
buddhismo zen.
2. La possibilità di accostare queste due forme di pensiero
non costituisce di per sé un elemento di assoluta originalità (34),
ma i punti in cui tale accostamento si determina sono finora
rimasti per lo più nell'ombra. Tra questi punti da portare alla
luce vi sarebbe innanzitutto la forma generale di approccio ai
problemi usata tanto dai metodi di interrogazione zen quanto dalla tecnica argomentativa di Heidegger. É noto da tempo (35) che il pensiero orientale in genere e in particolare quello
cinese (36) affronta il processo di conoscenza di un oggetto e il
processo di soluzione di un problema non seguendo una scansione lineare di proposizioni polarizzata verso un punto fisso
che costituisce l'oggetto da conoscere o il problema da risolvere, ma tracciando una serie di proposizioni che si dispongono
attorno a questo punto, nella consapevolezza di non poterlo
mai catturare e definire una volta per tutte: così, se la logica
conoscitiva del pensiero occidentale si è data quasi sempre
nelle forme dell'induzione e della deduzione lineare, quella
del pensiero orientale si è invece quasi sempre data - almeno
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nella gnoseologia buddhista e in quella taoista nella forma
dell'aggiramento concentrico dell'oggetto da conoscere o del
problema da risolvere, nella consapevolezza che essi non possono mai venir posseduti in modo completo e definitivo. Il
sintomo più evidente di questa differenza di procedimento conoscitivo sta nel fatto che quasi tutta la filosofia occidentale si
è sforzata di esprimersi mediante definizioni, mentre quasi tutta la filosofia orientale si è lasciata esprimere mediante metafore e mediante risposte consistenti in ulteriori domande: «il nostro metodo dev'essere quindi più fluido, occorre sorprendere
il nostro nemico di fianco e non bombardarlo, ed occorre poi
abbatterlo con un movimento veloce, con la massima mobilità, e indi tornare al punto di partenza perché tale è lo zen» (37).
Tornare al punto di partenza significa per lo zen tornare sempre a chiedersi, per esempio, che cosa sia il Buddha, e fornire
sempre delle risposte pertinenti ma mai esaurienti ed esaustive, sempre giuste ma mai complete. Così, tornare al punto di
partenza significa per Heidegger tornare sempre a chiedersi
ad esempio, «Perché vi è in generale, l'essere e non il nulla?» (38) oppure «che cosa significa pensare?» (39), non eludendo
con ciò il problema, ma stringendolo sempre più da vicino nella consapevolezza di non poterlo mai risolvere in modo definitivo.
Il carattere infinito di questo domandare rimanda al carattere infinito dell'oggetto attorno a cui si domanda, e al carattere indeterminato del soggetto che domanda: in altri termini
il carattere infinito del domandare pone in questione la natura
del rapporto tra soggetto ed oggetto. L'intera tradizione zen (40), ma anche altri sviluppi del pensiero buddhista non
propriamente riferibili a questa tradizione come, ad esempio,
la dottrina madhyamika di Nagarjuna(41), dedicano lunghe riflessioni dialettiche per spiegare l'inconsistenza di ogni distinzione tra soggetto ed oggetto, e, in generale per combattere
ogni forma di distinzione. La spiegazione che viene data al fenomeno «luna nell'acqua» costituisce un esempio paradigmatico di questo tipo di riflessione: «L'acqua è il soggetto, e la luna l'oggetto. Quando non vi è più acqua non vi è più luna
nell'acqua, e lo stesso quando non c'è luna» (42). La forza dissol159
vente che si ritrova alla base di queste riflessioni è analoga a
quella che anima il discorso di Heidegger sui modi delle limitazioni dell'essere, in particolare su quello che spacca, nella
metafisica occidentale, il rapporto tra essere e pensare (43): il logos non è da intendersi opposto alla physis, ma come quel
«raccoglimento» che «non è un semplice mettere assieme, un
ammucchiare. Esso mantiene in una coappartenenza reciproca
ciò che tenderebbe a separarsi e a contrapporsi» (44).
Un modo specifico per distruggere la fissità dei termini e la
paralisi dei concetti usati dal senso comune e dal sapere tradizionale è dato, nello zen, dalla tecnica del ko-an, volta a spezzare i normali nessi concettuali mediante domande del tipo
«qual è il suono di una mano sola?», o di frasi del tipo «Se
avete un bastone ve ne darò uno. Se non l'avete ve lo toglierò» (45). Lo stesso intento dissolvente e dirompente è presente
nelle discussioni che Heidegger promuove nei confronti dei
termini e dei concetti che appartengono alla grande tradizione
metafisica occidentale: con l'arma del commento etimologico
scioglie termini e concetti a lungo congelati nel linguaggio e
nel pensiero di questa tradizione (46), come quelli di «logos»
«misura» (47), Gestell (48), «verità» (49), «logica», (50), <realtà» e «teoria» (51).
Ma il modo con cui diventa maggiormente evidente la forza
dirompente del pensare per «aggiramento concentrico» è quello che, tanto in Heidegger che nello zen, si esplica come definizione per approssimazione.
Heidegger ne dà un chiaro e suggestivo esempio prendendo
l'oggetto brocca quale occasione per riflettere a fondo sul concetto di «cosa» in generale (52). Heidegger parte col considerare
la brocca assumendola nella sua dimensione immediata di prodotto, ma subito aggiunge che «il fatto di esser prodotta dal
vasaio non costituisce affatto ciò che appartiene alla brocca in
quanto brocca» (53); essa può allora venire connotata non come
semplice oggetto (Gegen-stand) ma come proveniente (Herstand) nel duplice senso di «derivare da» e in quello di «pervenire e sussistere (Herein-stehen)» (54); tuttavia anche in questa
accezione la brocca non rivela appieno la sua essenza: essa può
venire ulteriormente connotata come recipiente, dove «il vuo160
to, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene» (55); bisogna peraltro considerare la brocca
anche dal punto di vista della fisica che «ci assicura che la
brocca è piena di aria e di tutto ciò che compone quel miscuglio che è l'aria» (67).; ma se questa connotazione accontenta la
rappresentazione scientifica della brocca, essa non soddisfa
però quell'aspetto della brocca che indica che «il duplice contenente del vuoto si fonda sul versare. In quanto tale il contenere è propriamente ciò che esso è. Nell'offerta del versare si
dispiega (west) il contenente del recipiente» (57), ma «l'offerta
del versato può essere qualcosa da bere. C'è acqua, c'è vino
da bere» (58) e ciò comporta una serie infinita di rimandi: l'acqua richiama la sorgente, la sorgente richiama la roccia, la roccia la terra, la terra la pioggia e la pioggia il cielo; non solo
«l'offerta del versare dà da bere ai mortali. Essa calma la loro
sete. Anima il loro riposo. Rallegra le loro riunioni» (59),
chiama, cioè, fatti e processi complessi come la festa o la consacrazione. Tuttavia nessuno di questi aspetti e richiami particolari esaurisce l'essenza della brocca: «questo molteplice riunirsi nel semplice è l'essere essenziale della brocca» (60).
Essa è, nella sua semplicità di «cosa» l'immensa compresenza di tutti i suoi possibili significati e delle sue possibili
funzioni. Il pensiero rappresentativo è incapace di indicare
questa immensa compresenza perché sempre pone innanzi a sé
un as etto per volta o una funzione separata, e fa ciò soprattutto perché questa caratteristica peculiare è l'operativismo che
«scade a "mero operativismo" ogni qualvolta, nel suo procedere non si mantiene aperto al rinnovamento costante del progetto, abbandonandolo dietro di sé come un dato, senza più
convalidarlo rinnovandolo, e limitandosi ad accogliere e computare i risultati che via via si accumulano» (61).
Questo tipo di pensiero che pone davanti a sé ogni cosa come oggetto giunge, al massimo della sua riflessione, a concepire ogni cosa alla luce del concetto di causa (Ur-sache), ma anche in tal modo esso non riesce a cogliere che un aspetto o
una parte degli aspetti che ineriscono alla cosa: «La brocca
non è una cosa né nel senso della romana res, né nel senso dello ens rappresentato alla maniera del Medio Evo, né nel senso
161
dell'oggetto del pensiero moderno. La brocca è cosa in quanto
coseggia riunendo (dingt) (62).
L'analogia tra il senso di questa riflessione di Heidegger
sulla brocca e il senso del pensiero zen sul vuoto è sorprendente. Nel capitolo del Tao tê ching dedicato al wu yung (Utilità del nulla) - il cui contenuto si combina nello zen con la
teoria del buddhismo mahayana sulla forma come vuoto (arupa) e sul vuoto come forma (sunyata) - è detto: «si tratta
l'argilla e se ne foggia un vaso/ e in quel che è il suo vuoto sta
l'uso del vaso» (63). Qui sembrerebbe che il vuoto sia assunto
come l'essenza del vaso come sua forma peculiare, proprio come, nella riflessione di Heidegger sulla brocca, l'esser recipiente della brocca potrebbe venir inteso come essenza della
brocca. L'approfondimento zen del concetto di vuoto spiega
però che il vuoto è da intendersi come una delle possibili forme dell'essenza delle cose, ma non come unica forma dell'essenza delle cose: il vuoto è una forma, ma ogni forma è vuoto:
«Se l'essenza fosse qualcosa che si potesse affermare o negare,
non sarebbe più l'essenza. Essa è indipendente da tutte le forme e le idee, eppure non la si può considerare non dipendente
da esse. É vuoto assoluto, sunyata, e proprio per questa ragione in essa sono possibili tutte le cose» (64). Nella stessa direzione di queste conclusioni vanno le indicazioni presenti nella riflessione di Heidegger sulla brocca: «l'inspiegabilità e infondabilità del mondeggiare del mondo risiede nel fatto che le cose come cause e ragioni fondanti restano inadeguate al mondeggiare del mondo» (65). Ciò significa che solo «quando noi lasciamo che la cosa si dispieghi nel suo coseggiare riunente a
partire dal mondo che mondeggia, noi pensiamo alla cosa come cosa» (66).
Quest'ultima osservazione di Heidegger e, in particolare, la
pregnanza del termine lasciare che vi è contenuto, rendono
possibile un'ulteriore analogia con il pensiero zen: quella tra il
concetto heideggeriano di Gelassenheit e il concetto zen di
non-attaccamento.
All'insegna dell'oblio dell'essere, la metafisica, determinatasi nel pensiero calcolante della tecnica, ha ridotto l'essere o
a una totalità di enti o all'ente supremo, Dio: in tal modo «das
162
Sein selbst bleibt aus» (67). Il pensiero calcolante e rappresentante, riducendo tutto l'essere ad una semplice sommatoria di
enti, si illude di raggiungere l'essere stesso, di chiarirlo e di
comprenderlo al massimo grado: ma in effetti lo rende semplicemente disponibile, utilizzabile, manipolabile: così il culmine
della presenza coincide con il culmine dell'indifferenza. Ogni
cosa non vale in sé, ma come strumento o come merce e, come
tale, partecipa di tutte le altre cose, anch'esse ridotte a strumenti e merci: «tutto fluisce e si confonde nell'uniforme assenza di distanza» (68). Paradossalmente, nella dimensione della
massima utilizzazione delle cose, si ha il loro più radicale abbandono, il culmine del verlassen. Ora, a scanso di equivoci,
non si tratta per Heidegger di andare contro l'universo della
tecnica che riduce le cose del mondo e dello spirito a puri
strumenti magari per ritornare «all'idillio campestre» (69): «Sarebbe da insensati voler lottare alla cieca contro la tecnica Sarebbe di corto cervello voler condannare il mondo della tecnica; esso ci sospinge verso un sempre maggiore progresso. Senza accorgerci però ne siamo, invero, cosi aggrappati da esserne
diventati schiavi» (70). Come è possibile liberarci da questa
schiavitù, «come è possibile evitare questa sopraffazione? Solo a patto che noi, in certo modo, garantiamo alla cosa un
campo libero in cui possa manifestare immediatamente il suo
carattere di cosa. A tal fine dev'essere eliminata ogni sorta di
concezione e di asserzione che possa frapporsi fra noi e la cosa. Solo a questo patto possiamo abbandonarci alla presenza
trasparente della cosa» (71).
La necessità qui avanzata da Heidegger di eliminare «ogni
sorta di concezione e di asserzione che possa frapporsi fra noi
e la cosa» è analoga a quella costantemente proclamata da tutto il pensiero buddhista (72) e, in particolare, dal pensiero zen:
«Smetti di misurare il cielo con una canna» diceva il maestro
Yoka Daishi (73), anticipando di parecchi secoli il discorso heideggeriano sulla «misura» (74).
Ogni «misurazione» della cosa, infatti, anche se estesa al
massimo in quantità e in qualità, non darà mai «la cosa stessa»
nella sua semplicità e unicità: ogni parola o concetto attorno
alla cosa può essere utile per usarla, ma non per conoscerla:
163
«Parole ed intelletto - più si sta con loro più si va fuori strada» (75). L'andare fuori strada con le parole e l'intelletto non è
relativo soltanto al rapporto con le cose «materiali», ma anche
al rapporto con le più alte e profonde esperienze spirituali:
«Prajna è un nome illuminazione è un altro, Nirvana è un terzo, e così via. Tutti questi nomi, cioè, sono solo concettuali,
sono discriminati per facilitare la nostra comprensione. In
realtà, ciò che è è l'identità di questi nomi e null'altro» (76).
La tecnica zen di fornire risposte assurde è, come si è visto,
direttamente funzionale alla distruzione di ogni discriminazione. «Onburinpatsu» rispose Joshu al monaco che gli chiedeva
quale fosse la parola giusta per esprimere la condizione che sta
aldilà della discriminazione «illuminazione» - «ignoranza» (77).
Nella parola senza senso pronunciata da Joshu sta un senso
molto chiaro: cercare una parola o un concetto che esprima
qualcosa in modo definitivo è un'illusione che conduce alla
frustrazione continua. Meglio è porsi, allora, nell'atteggiamento del non-attaccamento (78): «semplicemente essere convinti che la mente non si basa su nessuna cosa di alcun genere vuol dire essere senza pensieri; e chiunque raggiunge questo stato è naturalmente liberato» (79). Tutto ciò, però, non significa che le operazioni e i risultati dell'intelletto vengano
completamente rigettati e costantemente osteggiati. Proprio
come in Heidegger, anche nel pensiero zen, non si parla di
una lotta contro l'intelletto ma di un atteggiamento che consideri i suoi prodotti secondo la categoria dell'utilizzabilità
pratica e quotidiana, e non secondo quella della verità teorica:
«Coloro che conoscono la rivelazione sul dharma come si trattasse di una zattera, dovranno abbandonare i dharma, e ancora di più i nondharma» (80).
Ma le analogie tra il pensiero di Heidegger e la filosofia zen
si spingono ben più a fondo, fino a toccare il nodo centrale
del problema della Gelassenheit, da un lato, e del non attaccamento dall'altro. Il problema può essere posto in questi termini: è possibile o necessario il superamento dell'orizzonte della
discriminazione intellettualistica. É argomento di una libera
scelta, o contenuto di un dover-essere? Ma soprattutto, ammesso che esso sia una semplice possibilità, come evitare che
164
questa possibilità diventi a sua volta, alla stregua di qualsiasi
altro oggetto utilizzabile, un punto di riferimento fisso, una
possibilità privilegiata, un fattore di redenzione? In altre parole: come volere la Gelassenheit che dovrebbe comportare il
«rilascio» da ogni volontà intenzionale? Come desiderare il
non-attaccamento che dovrebbe comportare l'abbandono di
ogni desiderio di possesso? «Come posso cercare di lasciare
andare quando cercare è precisamente non lasciare andare?» (81). Heidegger cerca di risolvere questo problema in termini propriamente zen: «non siamo noi che destiamo in noi il rilassamento [...] Non viene causato, ma inlasciato (permesso)» (82).
E con ciò si è di nuovo all'interno di quell'orizzonte problematico già tratteggiato a proposito dei «più arrischianti» come
«i più volenti»: la Gelassenheit rimanda infatti ad un'esperienza che si pone «al di sopra della distinzione di attività e passività» (83), al di là, cioè, di un volere le cose diversamente da come sono e, contemporaneamente, aldilà di un mero lasciar essere le cose come sono; tuttavia come è possibile sottrarsi a
quella specie di «malattia del soggetto» che riconferma un volere la Gelassenheit? Dice Heidegger: «Non dobbiamo fare nulla; dobbiamo solo attendere» (84), il che significa: «Ecco: attendere; ma giammai attendersi; l'attendersi si lega (si attacca)
già ad un rappresentare e alla relativa cosa rappresentata» (85).
Nel tentativo di chiarire il «luogo» di questo attendere, Heidegger introduce il concetto di Gegnet, inteso come «l'istantanea ampiezza che, tutto raccogliendo, si apre in modo tale
che in essa sia posto e disposto a che ogni cosa sia lasciata sorgere nel suo sostare» (86). Ma, di nuovo, il domandare del soggettivismo metafisico può incalzare con la sua eterna volontà
di fondamento: ammesso che la Gelassenheit sia oltre ogni distinzione tra attività e passività, ed ammesso anche che la Gegnet sia oltre ogni distinzione di soggetto ed oggetto, è però
pur sempre impensabile che non ci sia un soggetto che sa di
questo «oltre» e che opta per questo «oltre».
Il pensiero zen, a questo proposito, è molto più drastico di
165
Heidegger, tanto da relegare questo continuo incalzare del
soggettivismo metafisico tra le assurde pretese di un pensare
troppo presuntuoso: «Se l'oggetto fosse una cosa e il pensiero
un'altra, allora vi sarebbe un doppio stato di pensiero. Può allora il pensiero esaminare il pensiero? No, il pensiero non può
esaminare il pensiero. Come la lama di una spada non può tagliare se stessa, come la punta del dito non può toccare se
stessa, così un pensiero non può vedere se stesso» (87). Contro la
stessa presunzione - che ha raggiunto il massimo vertice nell'idealismo assoluto di Hegel - si muove anche Heidegger:
pervenire alla Gegnet, infatti, non significa che prima ne siamo fuori, in un rapporto di estraneità che impone la distinzione tra soggetto ed oggetto, ma significa che «lo siamo e non lo
siamo. Noi non siamo fuori della Gegnet, né lo siamo giammai, in quanto essendo esseri pensanti, cioè contemporaneamente dotati della rappresentazione trascendentale, c'intratteniamo nell'orizzonte della trascendenza» (88). Quindi «nel rilassamento il pensare passa allora da un tale pensare rappresentativo ad un pensare dell'attesa della Gegnet» (89), ma «noi apparteniamo a ciò di cui siamo in attesa» (90). Questa appartenenza originaria è espressa con straordinaria chiarezza dal pensiero zen: «Quando un pesce nuota, procede sempre nuotando, e
l'acqua non ha fine. Quando un uccello vola, procede volando e non vi è fine del cielo. Dai tempi più antichi non vi fu
mai pesce che nuotasse fuori dell'acqua, né uccello che volasse
fuori del cielo. Tuttavia, quando il pesce ha bisogno di un po'
d'acqua ne usa solo un po'; e quando ne ha bisogno di molta,
ne usa molta. Così il culmine della loro testa è sempre sul margine esterno del loro spazio. Se un uccello vola aldilà di quel
margine, muore, e così anche il pesce. Il pesce trae la sua vita
dall'acqua e l'uccello dal cielo. Ma questa vita è fatta dall'uccello e dal pesce. Ma nel contempo l'uccello e il pesce sono
fatti dalla vita. Così vi sono il pesce,l'acqua, e la vita, e tutti
e tre si creano a vicenda. Tuttavia se vi fosse un uccello che
prima di cercare di volare volesse esaminare la dimensione del
cielo, o un pesce che prima di cercare di nuotare volesse esaminare l'estensione dell'acqua, essi non troverebbero mai la
loro via nel cielo o nell'acqua» (91).
166
Anche Heidegger dispiega con notevole chiarezza il proprio
attacco alle pretese metafisiche di afferrare un soggetto che
sta sempre al di fuori delle cose, a guardarle, giudicarle e dominarle; con una forza ed una determinazione concettuale che
nessuna interpretazione porrà mai sufficientemente in luce,
Heidegger colpisce la folle presunzione di un pensiero che,
nella tradizione occidentale, è diventato un arsenale di orgogliosi super-io: in base a queste pretese e presunzioni il pensiero dovrebbe portare ad un sapere scientifico, ad una «saggezza utile alla vita» dovrebbe risolvere gli «enigmi del mondo»
e procurare immediatamente «forze per l'azione»; ma «finché
continuiamo a subordinare il pensiero a queste esigenze, sopravvalutiamo il pensiero e gli chiediamo troppo» (92). Il senso di
questo invito al ridimensionamento delle presunzioni metafisiche del pensiero, è lo stesso di quello contenuto nella semplicità non banale dell'invito zen: «quando ho fame, mangio;
quando ho sonno, dormo» (93). Il che significa, per la questione
del pensare: quando si ha da pensare, si pensi, e non si pensi
che si ha da pensare. «In altre parole, se uno sta per riflettere,
che rifletta, ma non rifletta sul riflettere» (94). L'importanza di
questa prospettiva è misurabile in base ai radicali sconvolgimenti che può indurre nelle coordinate del senso comune e
negli schematismi della tradizione metafisica: come per lo
zen, anche per Heidegger non si tratta di desiderare, o di cercare, o di sforzarsi di pensare, ma di «lasciarsi coinvolgere nel
pensiero, che è qualcosa di raro, fatto per pochi» (95). Ora, come
questo lasciarsi coinvolgere nel pensiero mina il presupposto e
il pregiudizio di un soggetto che si pensa, così l'atteggiamento
che fa sì che «le cose vengano lasciate nella loro essenza e non
cessino di restarvi anche quando se ne fa uso» (96), mina il presupposto e il pregiudizio di un soggetto che pensa le cose sempre e solo «rap-presentandole», ponendosele davanti nella pura presenza, come oggetti di puro calcolo o di pura manipolazione. Il predominio della soggettività come luogo privilegiato, come centro superiore di tutta l'attività spirituale - che
da Agostino a Hegel disegna la sua vicenda e il suo trionfo -,
viene messo in questione dall'apertura di un orizzonte più vasto, dove «lasciare» «per sua natura richiede che ciò che viene
167
usato sia messo a suo agio nell'essenza che gli è propria, cosicché noi corrispondiamo ogni volta alle esigenze che da parte
sua ci manifesta ciò che viene usato» (97).
Questo atteggiamento colpisce in particolare quella soggettività che da sempre presiede l'operatività della tecnica e delle
scienze e che tende sempre a trasformarle in strumenti di aggressione nei confronti delle cose, dimenticando ed abbando-
nando tutte le possibilità di accostarsi alle cose (98). La Gelassenheit si configura quindi come atteggiamento complessivo, che
coinvolge il pensiero tanto nei confronti di se stesso, quanto
nei confronti delle cose: si lascia che tanto il pensiero quanto
le cose pervengano alla loro «essenza», dispieghino le loro
qualità. In questo senso la Gelassenheit è un modo di «ritornare là dove già in realtà siamo. Questo ritornare, permanendovi, là dove già siamo è infinitamente più difficile che non i rapidi viaggi là dove ancora non siamo e mai saremo se non come mostri tecnici adattati alle macchine» (99). Ed è lo stesso senso espresso nella sapienza zen: «Prima di praticare lo zen, il
fiume mi sembrava un fiume, la montagna una montagna. Da
quando pratico lo zen vedo che il fiume non è più un fiume, la
montagna non è più una montagna. Ora ritrovo il fiume come
fiume, la montagna come montagna» (100). La natura del pensiero e delle cose non è in realtà mai andata perduta del tutto,
ma ci si è sempre più allontanati da essa per via di una frenetica attività «discriminatrice» che ha prodotto quell'«equipaggiamento della totalità dell'essente» che porta il nome di «tecnica»: la vicenda di questo allontanamento forzato è ben descritta dalla famosa «parabola» della caccia al toro, che insegna come «l'animale non si è mai smarrito» (101).
Contro il feticismo delle parole, dei concetti, dei valori e
dei prodotti, ossia, in breve, contro il feticismo della tecnica,
sia Heidegger che lo zen si incontrano in una promessa di un
orizzonte più grande e più libero, dove il lavoro della coscienza viene ridimensionato: «non siamo ancora nella meditazione
quando siamo solo nella coscienza (Bewusstsein). La meditazione è qualcosa di più. Essa è il tranquillo abbandono (Gelassenheit) a ciò che è degno di essere domandato» (102).
Se questo «abbandono» risulta in qualche modo praticabile
168
senza sforzo, esperibile senza intenzioni ultime, può anche cadere il sospetto di residui volontaristici, e la connotazione di
«umorismo» può essere adeguata. Ma, in tal caso è anche da
dire che non vi fu mai «umorismo» così serio.
1 G. Vattimo, Introduzione a M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. Milano 1976,
p. XVI.
2 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. Milano 1953, p. 308 cfr. anche p. 303:
«Questa [l'analisi ontologica], d'altra parte, non ha alcun diritto di porsi al
di sopra e al di fuori della comprensione quotidiana della coscienza...».
3 Ibid., p. 312.
4 Ibid., p. 282. Questo riferimento al tema della volontà sembra essere qualcosa di più che una semplice attenzione ad esso come motivo centrale della
metafisica moderna: forse Nietzsche e Schelling hanno lasciato in Heidegger
più tracce di quante egli stesso non voglia o non possa ammettere. Per il reperimento di queste tracce cfr. rispettivamente, M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen 1961. La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», in Sentieri interrotti,
tr. Firenze 1968 pp. 191-246; e Schellings Abhandlung Ueber das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), Tübingen 1971, oltre che in Che cosa significa pensare?, I, tr. Milano, 1978, pp. 85-86.
5 M. Heidegger, Lettera su l'«Umanismo», tr. Firenze 1967, p. 127.
6 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 157.
7 Cfr. E. Mazzarella, Ueber den Humanismus (Note su umanismo, Linguaggio e
metafisica in Martin Heidegger), «Nuova Corrente», 76-77, 1978, p, 292.
8 Cfr. E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l'arco, tr. Milano 1975.
9 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 46.
10 Sul rapporto Adorno-Heidegger cfr. F. Volpi, Adorno e Heidegger: soggettività e catarsi, «Nuova Corrente», 81, 1981, pp. 91-121, ma soprattutto H.
Mörchen Macht und Herrschaft in Denken von Heidegger und Adorno, Stuttgart 1980, e Adorno und Heidegger, Struttgart 1981.
11 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 52. A proposito non solo del termine
ma anche del concetto di «ideali sovraedificati», si potrebbe riflettere su pos169
sibili analogie tra Heidegger e Marx e ripensare al loro rapporto al di là delle
deboli e confuse osservazioni di K. Axelos, Marx e Heidegger, tr. Napoli 1977.
12 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 11.
13 Ibid., p. 35.
14 Ibid., p. 43.
15 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, I, cit., p. 39.
16 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, II, tr. Milano 1979, p. 21.
17 Ibid., p. 55.
18 Ibid., p. 62.
19 M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti cit., p. 271.
20 Ibid., p. 272.
21 Ibid., p. 273.
22 Cfr. G. Pasqualotto, Teoria come utopia, Verona 1974, pp. 101-116.
23 M. Heidegger, Perché i poeti? cit., p. 274; cfr. Ibid. p. 295: «I più arrischianti sono i più volenti perché essi vogliono in modo diverso dal volere
dell'autoimposizione deliberata dell'oggettivazione del mondo».
24 Ibid., p. 275.
25 Ibid., p. 276.
26 Ibid., p. 277.
27 Ibid., p. 280.
28 Ibid., p. 286.
29 Ibid., p. 289.
30 Ibid., p. 293.
31 Ibid., p. 295.
32 Ibid., p. 293.
33 Ibid., p. 291.
170
34 Era già stata notata da N.C. Nielsen jr., Zen Buddhism and the Philosophy
of M. Heidegger, in Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia (Venezia
1958), vol. X, Firenze 1960, pp. 131-137, ma il contributo risulta del tutto
insignificante, e non solo per esiguità quantitativa. Fondamentali sono invece
i due saggi di R. Schurmann, Trois penseurs de délaissement: Maître Eckhart,
Heidegger, Suzuki, «The Journal of the History of Philosophy», rispettivamente 4, XII, 1974, pp. 455 477 e 1, XIII, 1975, pp. 43-60; questo secondo, in
particolare, è importante non solo perché individua i nessi tra il tema heideggeriano della Gelassenheit e le implicazioni della teoria zen del «non attaccamento», ma soprattutto perché, in polemica con Suzuki, mostra la profonda
diversità tra il pensiero zen e la mistica di Eckhart (cfr. in particolare i
4.1., 4.2., 4.3.). Interessanti sono anche i tentativi di accostamento tra il
pensiero di Heidegger e il taoismo: Ch. Weihsun, Creative hermeneutics. Taoist metaphysics and Heidegger, «Journal of Chinese Philosophy», 3, 1975-1976,
pp. 115-143; Id., The trans-onto-theo-logical foundations of language in Heidegger and Taoism, «Journal of Chinese Philosophy», 5, 1978, pp. 301-333;
Chang Chung Yuan, Tao and Heidegger, «Lier en Boog», 2, 1976-1977, pp.
66-74. Più problematico appare invece l'accostamento tra il pensiero di Heidegger e la tradizione Vedanta: cfr. J.L. Mehta, Heidegger and Vedanta. Reflections on a questionable theme, «International philosophical Quarterly», 18,
1978, pp. 121-149, e Id., A western kind of Rishi, in Erinnerung an Martin
Heidegger, Hrsg. von G. Neske, Pfulligen 1977, pp. 165-171.
35 Cfr. H. Leisegang, Denkformen, Berlin-Leipzig 1928
36 Cfr. M. Granet, Il pensiero cinese, tr. Milano 1971.
37 Cfr. C. Humphreys, Lo zen, tr. Roma 1963, p. 91.
38 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. Milano 1972, cap. I.
39 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, II, cit. Alla fine dell'ultima lezione (XI), Heidegger infatti torna a chiedersi: «"Che cosa significa pensa-
re?". Alla fine ci volgiamo di nuovo verso la stessa domanda che ci eravamo
posti all'inizio, alla ricerca di ciò che vuol dire la parola tedesca Denken»
(p. 114).
40 Cfr. E. Come la cura di), Sutra del diamante, Sutra del cuore, tr. Roma
1976, 5 e capp. III, IV, V; D.T. Suzuki (a cura di), Manuale di buddhismo
zen, tr. Roma 1976; Id., Saggi sul buddhismo zen, I, II, III, tr. Roma 1978;
Garma C.C. Chang, La dottrina buddhista della totalità, tr. Roma 1974, capp.
I e II della Seconda parte.
41 Cfr. Nagarjuna, Madhymaka karika, tr. Torino 1961, in particolare cap.
XVIII.
42 Cfr. A.W. Watts, La via dello zen, tr. Milano 1980 4, p. 131.
171
43 Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica cit., cap. IV. Cfr. anche
Sentieri interrotti cit., pp. 90-96.
44 Ibid., p. 142.
45 Z. Shibayama (a cura di), La porta senza porta di Mumonkan, tr. Roma
1977, p. 301.
46 Cfr. M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., pp. 141-157.
47 Ibid., p. 131.
48 Ibid., pp. 14 sgg.
49 Ibid., pp. 176-192.
50 Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, II, cit., pp. 39 sgg.
51 Cfr. M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., pp. 30 sgg.
52 Cfr. Ibid., pp. 109-124.
53 Ibid., p. 111.
54 Ibid.
55 Ibid., p. 112.
56 Ibid.
57 Ibid., p. 114.
58 Ibid.
59 Ibid.
60 Ibid., p. 115.
61 M. Heidegger, Sentieri interrotti cit., p. 80, nota 2. Il senso generale dello scritto L'epoca dell'immagine del mondo distanzia Heidegger tanto da chi lo
ha visto come pensatore antitecnologico e reazionario (cfr. Th. W. Adorno,
Terminologia filosofica, tr. Torino 1975, I, lezione 13, pp. 141-153, e Id.,
Dialettica negativa, tr. Torino 1970, pp. 53-118), quanto da chi lo ha visto come «filosofo della tecnica» (cfr. M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, in E. Fink, La filosofia di Nietzsche, tr. Padova 1973, p. 59). Heidegger
non si pronuncia mai contro la tecnica in quanto tale, ma contro il feticismo
della tecnica; egli spera sempre - con una strana e certo non intenzionale
172
sintonia con il Marx del Capitolo I de Il Capitale - che sia ancora possibile
un uso e non solo un'utilizzazione delle cose. A chi - da una cima teorica
molto meno alta e suggestiva di quella adorniana - ha sentenziato su Heidegger vedendolo come rappresentante di una «reazione idealistica contro la
scienza» (cfr. L. Colletti, Ideologia e società, Bari 1969, p. 179) vanno ricordate alcune inequivocabili affermazioni dello stesso Heidegger: «Si teme addirittura che il pensiero diventi ostile alle scienze, che ne offuschi la serietà,
che disturbi il piacere per il lavoro scientifico. Anche se questi timori fosser
o
giustificati, ma non lo sono affatto, sarebbe pur sempre una mancanza di tatto e di gusto parlar male delle scienze in un luogo che è dedicato alla formazione scientifica. Il tatto dovrebbe per sé solo già impedire qui ogni polemica.
Ma c'è qualcosa d'altro che parla in questo senso. Ogni genere di polemica è
sin dall'inizio estraneo all'atteggiamento del pensiero» (M. Heidegger, Che
cosa significa pensare?, I, cit., p. 106).
62 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 118.
63 Lao-Tse, Tao-tê-ching, tr. Firenze 1954, p. 16.
64 D.T. Suzuki (a cura di) Manuale di buddhismo zen cit., p. 48. Una delle
più approfondite analisi della teoria buddhista della vacuità si ha in Garma C.
Chang, op. cit., pp. 128-145.
65 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 120. Lo stesso Heidegger mostra di
sapere che il Tao, come Vuoto e Via, si pone non come essenza determinata
delle cose, delle «cause» e delle «ragioni» delle cose, ma come condizione di
ogni essenza determinata: «Ma Tao potrebbe essere il Weg che tutto be-wegt:
quello movendo dal quale, noi siamo messi in grado di pensare il significato
autentico di Ragione, Spirito, Senso, Logos, il significato cioè che emerge
dalla loro stessa essenza» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr.
Milano 1973, p. 156). Ancora più esplicito è il chiarimento che Heidegger pone in bocca al «Giapponese» in Da un colloquio nell'ascolto del linguaggio:
<Per noi il Vuoto è il nome più alto per indicare quello che Ella vorrebbe dire
con la parola "Essere"» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio cit., p.
97).
66 M, Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 120.
67 M. Heidegger, Nietzsche, Pfulligen 1961, II, p. 353.
68 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 109.
69 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, I, cit., p. 112.
70 M. Heidegger, Rilassamento (Gelassenheit), tr. in «Teoresi», 1-2, 1969, I
parte, p. 14.
71 M. Heidegger, Sentieri interrotti cit., p. 11
173
72 Anche dalle correnti più «realiste», cfr. su questo argomento T. Stcherbatsky, La concezione centrale del buddhismo, tr. Roma 1977, pp. 49 sgg.
73 D.T. Suzuki (a cura di), Manuale di buddhismo zen cit., p. 77.
74 Cfr. M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 131.
75 D.T. Suzuki (a cura di), op. cit., p. 57.
76 D.T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen cit., III, p.212.
77 Cfr. Joshu, Zen radicale (a cura di Y. Hoffmann), tr. Roma 1979, p. 43.
78 S. Suzuki, Mente zen, tr. Roma 1976, pp. 97-99.
79 J. Blofeld, L'insegnamento zen di Hui Hai sull'illuminazione improvvisa, tr.
Roma 1977, p. 40.
80 E. Conze (a cura di), Sutra del diamante cit., p. 29.
81 A.W. Watts, La via dello zen cit., p. 77.
82 M. Heidegger, Rilassamento, tr. it. in «Teoresi», 1972, II parte, p. 6.
83 Ibid., p. 7.
84 Ibid., p. 8. Cfr. Introduzione alla metafisica cit., p. 210: «Saper
interrogare significa saper attendere».
85 Ibid., p. 13.
86 Ibid., p. 12 (traduzione leggermente modificata).
87 Yoka Gengaku, Shodoka, Tokio 1932, 2014.
88 M. Heidegger, Rilassamento cit., p. 18.
89 Ibid., p. 19.
90 Ibid.
91 A.W. Watts, op. cit., pp. 136-137 (traduzione leggermente modificata).
92 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, II, cit., p. 132.
93 J. Blofeld (a cura di), op. cit., p. 78.
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94 A.W. Watts, op. cit., p. 151. Cfr. anche Huang Po, Trattato sull'essenza
della trasmissione della mente, in D.T. Suzuki (a cura di), Manuale cit., pp. 83
95; S. Suzuki, Mente zen cit., p. 41; Tran Thai Tong, Lezioni sul vuoto, in
ThHich Nhat Hanh, Introduzione allo zen, tr. Milano 19-74, p. 114-115: «L'ac-
qua che scende dalla montagna non pensa che scende dalla montagna. La nube che s'allontana dalla valle non pensa che s'allontana dalla valle». In modo
analogo si esprime un passo del Vigyam Bhairava che, anch'esso, bene si accorda con il contenuto del pensiero di Heidegger: «Dolce amore, medita sul
sapere e sul non sapere sull'esistere e sul non esistere. Poi respingili enytsmbi perché tu possa essere» (tr. it. in appendice a Mumonkan, La porta senza
porta, tr. Milano 1980, p. 111).
95 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, II, cit., p. 19.
96 Ibid., p. 62.
97 Ibid., p. 142.
98 Cfr. M. Heidegger, Rilassamento cit., p. 34. Heidegger gioca qui sull'ambiguità del termine greco Anchibasie.
99 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio cit., p. 150.
100 Thich Nhat Hanh, op. cit., p. 60.
101 D.T. Suzuki (a cura di), Manuale cit., p. 96. Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio cit., p. 157: «<La via ci fa giungere a ciò che ci reclama, nel cui dominio noi già siamo. Che bisogno c'è allora, si potrebbe chiedere, di una via che conduca colà? Risposta: perché là, dove già siamo, lo siamo
in modo che al tempo stesso non ci siamo, in quanto non abbiamo ancora propriamente raggiunto ciò che reclama la nostra essenza».
102 M. Heidegger, Saggi e discorsi cit., p. 43. Se non vi fossero sempre in agguato possibilità di equivoci, sarebbe del tutto superfluo ricordare che tale
«abbandono» non si colora per nulla di sfumature mistiche, ma si determina
come situazione di sommo equilibrio. Come è stato giustamente notato «Gelassenheit non vuole dire dunque luddismo, ribellismo ingenuo contro le forze
della tecnica; ma non vuol dire nemmeno adesione ad esse senza altra prospettiva che quella di amministrarne l'impiego nel modo più razionale» (M.
Ruggenini, Il soggetto e la tecnica. Heidegger interprete «inattuale» dell'epoca
presente, Roma 1977, p. 336).