View/Open - Aisberg - Università degli studi di Bergamo

FILOSOFIE
N. 344
Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese)
e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)
COMITATO SCIENTIFICO
Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como)
Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como)
Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3)
Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano)
Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza)
Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno)
Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna)
Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo)
Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari)
Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari)
Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)
Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis)
Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza)
Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
PIETRO BARBETTA
LA FOLLIA RIVISITATA
Umori, Demenze, Isterie
MIMESIS
Filosofie
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
[email protected]
Collana: Filosofie, n. 344
Isbn: 9788857525457
© 2014 – MIM EDIZIONI SRL
Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
Fax: +39 02 89403935
INDICE
INTRODUZIONE
Storie di ordinaria follia
Il libro
Ringraziamenti
7
7
15
18
PRELUDIO
Dare un nome alla follia
La nave dei folli
La dea di Erasmo
La follia di Orlando
La follia del Tasso
Il grottesco in Rabelais
Bruno e gli eroici furori
La pazzia di Amleto
E quella dell’Hidalgo
Conclusioni
21
21
24
27
28
30
33
34
36
37
41
UMORI
43
43
47
51
53
55
58
59
60
64
69
72
75
76
Un kosmos tinto di nero
Malinconia e bile nera
Dal genio malinconico al monaco accidioso
La nostalgia dei soldati svizzeri e quella dei migranti
Lunatismo
Spinoza e gli affetti
Spinozismo mal posto
Biopolitica dell’umore unico
Psicoanalisi della malinconia
La malinconia nella terapia sistemica
Donne depresse
Omosessualità
La depressione pubblicitaria
DEMENZA I
Canoni logici e delirio
Canoni scientifici e degenerazione
Dementia praecox. Il complesso dell’io e la sua perdita
Il Novecento. Schizofrenia
La schizofrenia e i suoi sintomi
Sintomi positivi
Sintomi negativi
Folie à famille, dalla simbiosi al doppio legame
Il declino della schizofrenia e la democrazia psichiatrica
81
81
85
87
92
95
95
106
110
115
DEMENZA II
Il famigerato IQ
Oligofrenia
L’inibizione
Quando spunta la parola autismo
Manualistica per l’autismo versus psicoterapia
Prima ipotesi (filosofica)
Seconda ipotesi (neurologica)
Terza ipotesi (inclusiva)
Nuove identità
La malattia di Alzheimer come metafora,
da Wiesel alla danza
119
119
125
129
131
134
135
136
137
138
ISTERIE
Prima parte. La clinica dell’isteria
Isteria/ipocondria
L’ipocondria intellettuale
Isteria/personalità multiple
Delirio isterico/neurologico
Isteria delirante
Anoressia e isteria
Seconda Parte. La cultura isterica
La scoperta dell’isteria
Perversioni
Organi senza corpo
147
147
147
150
153
157
161
164
170
170
175
179
141
7
INTRODUZIONE
Lo stile è importante. tanta gente urla la verità, ma senza stile è
inutile, non serve.
(Bukowski, Noie alla batteria)
Storie di ordinaria follia
Francia, primavera 18351. In un tribunale della provincia, un ventenne di
nome Pierre Rivière confessa e spiega ai giudici le ragioni per cui il 3 giugno ultimo scorso ha sgozzato la madre, incinta di sette mesi, la sorella e il
fratellino. Il caso sconvolge la magistratura e l’opinione pubblica. Non si
riesce a spiegare il delitto efferato. Il movente è un delirio, non trova ragione. Che tipo di delirio?
Siamo agli albori dell’applicazione della giustizia moderna ai reati. Gli
assassinii sono distinti in base alla gravità. I più gravi sono premeditati: impadronirsi del denaro dell’assassinato, anticipare un’eredità, impedire una
testimonianza. La ragione di Rivière è strana: vuole liberare il padre
dall’oppressione materna. Madre e padre vivono separati e Pierre sta col
padre. La sorella e il fratello minore con la madre.
Perché uccide la sorella? Sta dalla parte della madre, e il fratellino? Affinché
il padre non si senta in colpa o abbia idea di averlo istigato, vuole accollarsi tutto, in modo da poter essere odiato dal padre stesso, sacrificio maledetto.
In tale circostanza la giustizia non sa come agire. Chiede all’imputato,
reo confesso, di scrivere una memoria, chiede al vicinato di fornire impressioni. Alcuni lo descrivono come un tipo strano: prima del fatto spaventa i
bambini, ma in un villaggio rurale accade spesso che un giovanotto un po’
strano spaventi i bambini, cerca di far salire un cavallo su un pagliaio. Nulla di comparabile col delitto, di comprensibile alla ragione.
I giudici si rivolgono al medico locale che non trova segni di follia.
All’epoca la follia è diagnosi assoluta2. Un medico, attraverso un colloquio, può decretare se una persona è folle. Si richiedono due fasi. La prima
1
2
Foucault, M., a cura di, Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Un caso di parricidio nel XIX secolo, Torino, Einaudi, 1967.
Foucault, M., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-74), Milano, Feltrinelli, 2010.
8
La follia rivisitata
è intervista: nome, età, luogo di nascita, famiglia, data odierna, dove si è in
quel momento, il percorso per arrivare a casa, ecc. La seconda è provocazione della crisi durante il colloquio: mettere in difficoltà l’interlocutore
per osservarne le reazioni. Rivière gestisce bene il colloquio, nessuna follia. Pena di morte.
Il padre di Rivière, lungi dal maledirlo, chiede un consulto a Parigi. La
commissione è presieduta dal Principe degli psichiatri francesi: JeanÉtienne Dominique Esquirol (1772-1840), il più illustre allievo di Philippe
Pinel (1745-1826), inventore del trattamento morale. Risultato: monomania, nuova categoria diagnostica, introdotta dal medesimo Esquirol, nella
nosografia psichiatrica.
Quando la Commissione Esquirol si esprime, la sentenza è ormai passata in giudicato. Grazie all’intercessione del Guardasigilli si ottiene di commutare la pena capitale in ergastolo. Poco tempo dopo Rivière s’impicca in
carcere.
Questo è uno dei ritratti della follia in epoca moderna: imprevedibile, si
mostra quando agisce, prima di allora i segni sono sottili, impercettibili.
Il dibattito sulla follia omicida mette in crisi la teoria della libertà di volere. La questione è trattata con grande maestria nell’opera di Robert Musil3 L’uomo senza qualità a proposito di Moosbrugger, feroce assassino
dallo sguardo dolce e simpatico. Gli psichiatri a volte lo valutano come
sano di mente, a volte come incapace di intendere. I primi ritengono che
questi gesti possano manifestarsi in ognuno di noi, in me e in te, caro lettore, indifferentemente.
Si parla dell’uscita fuori di sé come di una condizione costitutiva e permanente dell’essere umano. “Se l’umanità potesse fare un sogno collettivo,
sognerebbe Moosbrugger”, queste le conclusioni di Ulrich, l’eroe dell’opera di Musil. Il Romanticismo vive della narrazione di questa condizione.
Possiamo cominciare da Don Chisciotte, passando per il giovane Werther,
fino ai personaggi di Beckett e Joyce.
Alienazione è termine polisemico. Nell’Ottocento Karl Marx4 rende
conto della posizione operaia. A differenza dell’artigiano, l’operaio è colui
che vende la forza lavoro in cambio di un salario. Ciò che produce gli viene alienato, non gli appartiene. Il padrone si appropria della merce creata
dall’operaio, pagando la sua prestazione, e rivende quella merce a un prez-
3
4
Musil, R., L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1956.
Marx, K., Il capitale, Torino, Einaudi, 1975.
Introduzione
9
zo più alto del salario speso per il lavoro. Questa differenza si chiama plusvalore, condizione proletaria.
Però alienazione significa, in aggiunta, vita solitaria dell’individuo moderno indipendente, ma privo di legami sociali. Perdita del centro, condizione esistenziale del borghese decadente e del barbone: Roquentin nella
Nausea di Sartre5, il Molloy di Beckett6, il flâneur di Baudelaire e Benjamin7, il cittadino blasé di Simmel8, pur nelle loro differenze. Nel capitolo
sulla schizofrenia incontreremo la passeggiata di Hobbes (passeggio dunque sono una passeggiata), che ci conduce all’analisi della demenza per
via della perdita dell’Io cartesiano, perdita del centro.
In virtù dell’alienazione nell’uomo moderno si crea una formazione reattiva. Collettiva, nel primo caso, individuale, nel secondo. La rivoluzione
sociale, nell’ipotesi di Marx, il sintomo, nell’ipotesi di Freud. Così come la
rivoluzione può accadere in qualunque momento, senza preavviso, analogamente avviene con la pazzia.
La posizione opposta, sostenuta da psichiatri e giudici che cercano categorie diagnostiche, sostiene l’incapacità giuridica. Si tratta di mettersi nelle condizioni di prevedere l’avvento delle frange lunatiche, come i tratti
del potenziale omicida, fino a Lombroso e oltre, fondando la moderna criminologia.
Ci vogliono nuove categorie diagnostiche, nasce la diagnosi differenziale. Chi è pazzo, secondo i modelli settecenteschi, non è pericoloso. Può essere pericoloso un altro tipo di pazzo, che non si scorge a prima vista: un
pazzo invisibile, inventato nell’Ottocento. Ecco perché la follia è malattia
da governare, non da curare.
Da quel momento, in Italia, fino al 1971, gli psichiatri e gli infermieri
psichiatrici diventano agenti di custodia. Nel 1971, a Trieste, Franco Basaglia apre le porte del manicomio. Marco Cavallo diventa il simbolo della liberazione dei matti, dei medici e degli infermieri. Come Ulrich quarant’anni prima, Basaglia propone una visione della follia come fenomeno umano
diffuso. Proprio qui, nel cuore della follia, si tratta di vedere se il gesto efferato di un Pierre Rivière debba essere giudicato in base a categorie diagnostiche, oppure no. Se sia necessaria una distinzione tra il piano giuridico e quello psicologico, se le intenzioni debbano avere ragione degli
5
6
7
8
Sartre, J-P., La nausea, Torino, Einaudi, 1947.
Beckett, S., Molloy, Torino, Einaudi, 2005.
Baudelaire, C., Lo spleen di Parigi, Milano, Garzanti, 2004; Benjamin, W., I
“passages” di Parigi (1926-1940), Torino, Einaudi, 2002.
Simmel, G., Le metropoli e la vita dello Spirito, Roma, Armando, 1995.
10
La follia rivisitata
effetti pragmatici di un delitto. Nel caso di Rivière, se il suo stato mentale
debba avere la meglio rispetto allo spietato omicidio di due donne, di cui
una incinta, e un bambino. Il tentativo di salvare la vita di Rivière esita in
suicidio. Se non si fosse suicidato sarebbe stato un ergastolano, ma il folle,
qualsiasi reato commetta, è sempre un ergastolano. È sempre potenzialmente pericoloso per via della diagnosi, anche quando di reati non ne ha
commessi. Perciò oltre ai manicomi giudiziari, c’è sempre la piega/piaga
dei manicomi, attuali servizi psichiatrici di ricovero.
Da questa presa d’atto comincia la nostra riflessione: costrizione e liberazione, autoritarismo e clinica sono, in questo racconto, antagonisti e uniti, sintesi disgiuntive. L’autoritarismo nasce dall’idea che il pazzo è potenzialmente pericoloso, la clinica dal fatto che i folli sono persone che hanno
un’esistenza difficile, a volte devastata. Soffrono, e la cura consiste in un
procedimento che li renda liberi dai loro fantasmi, mentre la gendarmeria
crede che i pazzi debbano essere controllati per proteggere i sani.
Se si pensa a Pierre Rivière, il cammino della psicologia clinica è duro,
impossibile. La clinica è la scienza dell’impossibile. Pierre Rivière rappresenta l’immaginario collettivo della follia.
Nello stesso tempo le pratiche istituzionali rimangono ancorate al bisogno di una diagnosi assoluta: sei pazzo, oppure no?
Germania, 1884. Il magistrato tedesco Daniel Paul Schreber (1842-1911),
sulla soglia dei quarant’anni, si presenta alle elezioni del Parlamento e non
viene eletto. Attraversa un periodo ipocondriaco e depressivo, tenta il suicidio. Viene ricoverato e curato da Paul Flechsig (1847-1929). Dimesso, sembra che Schreber s’innamori di Flechsig. Sogna rapporti sessuali con lo Psichiatra, polluzioni notturne, ma riprende il lavoro di giudice.
Nell’ottobre 1893 viene eletto Presidente della Corte d’Appello di
Dresda, ha appena passato i cinquant’anni. Durante la notte continua a sognare di avere rapporti sessuali, ma il posto di Flechsig viene rapidamente
preso da Dio. Sogna che i raggi divini lo penetrino e lo facciano godere
come una donna. Il sogno si trasforma in delirio. Schreber ritiene di avere
una missione ispirata da Dio: rivelare al mondo che il paradiso è un regno
d’infinita voluttà, dove caritas e concupiscenza si fondono in uno. A questo proposito Dio lo sta trasformando in donna attraverso i raggi che penetrano nel suo ano. Ano solare9.
Il padre di Daniel Schreber, Moritz Schreber (1808-1861), è autore di
trattazioni di pedagogia di successo in Germania e all’estero. In quelle ope9
Deleuze, G., Guattari, F., L’Anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1973.
Introduzione
11
re si propongono diversi strumenti correttivi per costringere i bambini a
studiare: cinture, cui andrebbero legati per mantenere la posizione eretta e
costretti a rimanere fermi, marchingegni simili alle tuniche di forza, alle
cinghie di contenzione manicomiali, ai compressori ovarici per le isteriche.
Di Schreber s’interessano Jung e Freud, che scrive un lungo saggio sul
suo caso. Poi un numero imprecisato di psicoanalisti, psicologi e storici.
Secondo alcuni storici si tratta di uno dei numerosi casi di neurosifilide,
scambiati per follia, che popolano i manicomi dell’epoca, secondo alcuni
psicoanalisti di un caso di delirio paranoico alimentato dalla pedagogia velenosa del padre, per altri ancora, a orientamento sistemico, la psicosi è indotta dallo stesso trattamento manicomiale.
Schreber è uno dei primi pazienti a dare la sua versione. Scrive un’autobiografia intitolata Memorie di un malato di nervi. Abbiamo accesso al testo grazie a una battaglia giuridica condotta e vinta dallo stesso Schreber.
In quanto folle gli tolgono i diritti civili e ciò gli impedisce di pubblicare il libro. Fine giurista, Schreber si appella alla Corte di Giustizia che,
dopo una lunga controversia tra lui e lo psichiatra nominato dal tribunale,
gli concede i diritti civili, pur confermando la diagnosi di paranoia. Così
Schreber può pubblicare le sue memorie. Potremmo considerare Schreber
il primo vero protagonista di psichiatria democratica, anche se muore sessant’anni prima di quando Basaglia apre le porte del manicomio di Trieste.
Due esempi opposti. Rivière, senza delirio, commette un’atroce strage, Schreber delirante florido, riesce a mostrare che il suo stato di follia non ha pericolosità sociale, si compone solo di idee e condotte bizzarre, innocue, come quella di girare in vestaglia e controllare allo specchio la supposta crescita del seno.
Perché la questione Schreber anticipa Basaglia? Schreber pone per sé la
stessa questione che Basaglia porrà per tutti. Un folle ha diritto di cittadinanza? La richiesta giuridica di Schreber si articola su due livelli: io, sostiene, ho davvero una missione da compiere, che è quella scritta nel mio
libro. Voi credete che questo sia un delirio, io vi chiedo di credermi. Posso
però capire la vostra incredulità. Nel portare avanti la mia missione, d’altra
parte, non faccio alcun male, tutt’al più esprimo la mia opinione. Inoltre
non ho mai dato fastidio o molestato, non sono socialmente pericoloso,
questo lo devono riconoscere anche lo psichiatra e gli infermieri che mi curano. Perciò non vedo la ragione per togliermi i diritti civili.
La sentenza ribadisce la diagnosi psichiatrica, ma, per la prima volta, decide che la diagnosi non impedisce al folle di mantenere i diritti civili. Memorie di un malato di nervi è oggi un romanzo che si acquista in libreria10.
10
Schreber, D.P., Memorie di un malato di nervi, Milano, Adelphi, 1974.
12
La follia rivisitata
Il caso Schreber è l’opposto del caso Rivière. Là un giovane cui è assegnata una categoria diagnostica per venire salvato dalla pena di morte. Qui
un folle evidente, ma innocuo, cui vengono tolti i diritti civili e viene rinchiuso senza rimedio. Fino all’appello salvifico.
Si insiste per oltre centocinquant’anni che i folli siano pericolosi e i sani
no. Dopo centocinquant’anni ci troviamo a dover ammettere esattamente
l’opposto.
Anche escludendo i massacri di massa, le guerre, e altre fonti di pericolosità istituzionale, che prevedono governanti sani di mente, la maggior
parte degli assassinii sono da attribuire a individui di genere maschile sani
di mente.
Guardando le cose dal punto di vista di un antropologo che viene da
Marte, verrebbe da esclamare: “Com’è strano e paradossale questo mondo,
sembra un mondo di matti, la loro realtà si trova scritta nei romanzi di Alice, non certo nei loro codici”.
In Francia, negli stessi anni in cui Basaglia porta avanti la riforma psichiatrica, un gruppo d’intellettuali e psicoanalisti scopre l’opera di Louis
Wolfson (1931), scrittore schizofrenico.
Il primo romanzo s’intitola Le schizo et les langues, mai tradotto in italiano11. Wolfson nel romanzo è le jeune öme schizophrène, nel suo francese riformato. Tra i suoi sintomi c’è una radicale impossibilità di ascoltare
la lingua madre, l’inglese. Per questa ragione Gilles Deleuze, che scrive
l’Introduzione al suo primo romanzo, lo indica come inventore del
walkman. L’invenzione si rende necessaria per evitare di percepire la lingua madre nei momenti in cui il giovane è interpellato. Potremmo giungere a pensare che Wolfson escogita un modo pratico e radicale per sfuggire
all’assoggettamento del potere. Quale maggior potere della lingua madre
dominante, se si tratta poi dell’inglese?
Così Wolfson prende una radiolina, del nastro adesivo e uno stetoscopio
medico, li assembla mettendo la testina dello stetoscopio contro la piccola
cassa del transistor avvolgendoli col nastro e, quando qualcuno si rivolge a
lui, alza il volume di un’emittente non inglese con le cuffie dello stetoscopio saldamente infilate nei padiglioni auricolari.
Wolfson vive a Manhattan ma scrive in francese, sottotitolo del primo
romanzo: La phonetique chez le psychotique (Esquisse d’un étudiant de
langues Schizofrénique). È sotto tutela, affidato alla madre, dichiarato incapace dai servizi psichiatrici, benché ottenga il punteggio massimo ai test
11
Wolfson, L., Le schizo et les langues, Paris, Gallimard, 1970.
Introduzione
13
di medicina. Con il padre s’intende in yiddish: “lingua che ha in gran parte
il medesimo vocabolario e morfologia del tedesco”.
Wolfson apre un grande dibattito tra gli intellettuali francesi. Cosa significa delirio, nel caso letterario e nella vita quotidiana? È un caso letterario
e un caso di schizofrenia: una scissione culturale, a Parigi uno scrittore, a
New York uno schizofrenico. Nessuno nel mondo anglosassone lo conosce, mentre in Francia il suo libro viene pubblicato da Gallimard, la più importante casa editrice del paese, questa la strana situazione creatasi e durata per oltre vent’anni.
Nel frattempo la madre di Wolfson, che lo ha in custodia, muore. Il suo
patrigno lo allontana da casa e ritroviamo il nostro autore a fare l’homeless
a Montreal in Canada. Contemporaneamente, prepara, per la Francia, un
secondo romanzo in cui ripercorre la morte della madre. Mia madre musicista è morta... esce nel 1984 ed è tradotto in italiano nel 1987. All’insaputa dei nordamericani Wolfson ha un secondo successo letterario, maggiore
del primo.
Gli antichi chiamano lira il solco tracciato dall’aratro. Del delirio non
c’è criterio universale, generalizzabile. Perciò lo psichiatra che annoti sulla cartella clinica delirio non annota nulla. Non annota un evento, classifica una persona, la interdice dal mondo. L’Universale si dissolve nel Particolare: un nome proprio.
Wolfson inventa un procedimento letterario che lo cura. Consiste nel deviare le parole inglesi attraverso le altre lingue che conosce. Così scrive
Gilles Deleuze12 nell’introduzione al suo primo romanzo: “Il suo procedimento è il seguente: data una parola della lingua madre, trovare una parola
straniera di senso simile, ma che abbia suoni o fonemi comuni (di preferenza in francese, tedesco, russo o ebraico, le quattro lingue principali studiate dall’autore)”.
Il primo romanzo di Wolfson, Le schizo et les langues è scritto in terza
persona, l’autore descrive la vita quotidiana del giovane studente schizofrenico e i suoi tentativi di liberarsi dall’intrusione della lingua madre. Gesto
eroico, ma pazzesco. Un giorno il patrigno del giovane decide di regalare
alla madre una pianola elettrica, questo l’incipit. Dopo averla rifiutata in
modo isterico, la madre comincia a usarla in casa, impedendo allo studente schizofrenico di praticare i suoi studi linguistici. L’organo, dotato di altoparlante, permette alla madre di cantare ad alto volume durante la giornata, quando il marito è fuori a lavorare.
12
Deleuze, G., Introduction, in Wolfson, L., op. cit.
14
La follia rivisitata
Per una qualche ragione – scrive nel suo romanzo Wolfson – una canzone
popolare che sua madre suonava frequentemente era Good Night Ladies (goud,
u aperta e breve, naït, monosillabico con i aperta, breve e debole; lédis o piuttosto leidis, l’accento tonico è, naturalmente, sulla prima sillaba, e le i sono
aperte e brevi e quella del dittongo, che è dunque cadente, è debole), che significa buona notte signore; e in particolare la parola ladies (anche, = femmine,
donne), anche se si usa in tedesco, in francese, ecc., irritava lo studente schizofrenico, saltando nella sua testa in quasi tutte le frasi del pezzo. E davvero, nonostante le dita infilate nelle orecchie con forza, la melodia gli perforava il cranio, particolarmente dall’osso temporale (direttamente dietro il padiglione
auricolare e la via usata per certi apparecchi uditivi), fino al cervello malato, facendo vibrare forse, letteralmente come un insieme, come un sol blocco, la scatola cranica se non anche quest’organo delicato e afflitto ch’era il suo cervello,
perché il suono, emanando dall’altoparlante, era talmente pieno, talmente forte, che faceva vibrare palpabilmente, se non anche visibilmente i mobili e persino i muri. (Louis Wolfson, Le schizo et les langues [trad. mia])
Questo incalzare è un crescendo, parte da un elemento fonetico quasi
privato, un’idiosincrasia, e sfocia in un’amplificazione che coinvolge, attraverso gli organi uditivi, l’intero sistema nervoso. Siamo dentro al delirio, stiamo condividendo il funzionamento del procedimento, siamo pronti
ad aiutarlo a trovare il fonema migliore, ma non ce n’è bisogno, in ciò egli
è maestro indiscusso.
Il procedimento osservato nella citazione dispone elementi espressi nella lingua madre e li trasforma in variazioni di lingue possibili: russo, francese, tedesco, ebraico, danese. Se l’operazione riesce, la crisi schizofrenica si smorza. Se non riesce, permane.
La trasformazione non si dà automaticamente, non è conseguenza di farmaci. Avviene per assemblaggio, concatenazione, disposizione. Qui e là c’è
qualcosa che gli permette di tenere insieme il procedimento. Più avanti nel libro, quando ricorderemo la storia della schizofrenia, incontreremo un noto
psichiatra, Bleuler, che inventò questa parola. Secondo lui la caratteristica
principale della schizofrenia è la scissione della mente. Ebbene, nel primo romanzo, Wolfson sembra un autore scisso dal personaggio, che è lui stesso, e
lo raggiunge sul piano letterario. Una translitterazione ambigua dall’inglese
al suo linguaggio intimo, composto da un crogiolo di lingue altre13.
13
Alcune di queste riflessioni sono state pubblicate sul manifesto (10 Agosto 2012),
Barbetta, P., Invenzioni linguistiche nel mondo del delirio. Oggi in: http://gconse.
blogspot.it/2012/08/pietro-barbetta-invenzioni-linguistiche.html. Rimando inol-
Introduzione
15
Il libro
Questo libro parte da una riflessione sul Capitolo III della Seconda parte della Storia della follia di Michel Foucault. Il titolo del capitolo è Aspetti della follia e si divide in tre paragrafi: Il gruppo della demenza, Mania e
malinconia e Isteria e ipocondria14.
All’uscita della nuova edizione italiana, un paio d’anni fa, ricevo l’onore di essere invitato da chi l’ha curata e vi ha scritto una meravigliosa introduzione: Mario Galzigna. Intervengo a due presentazioni del libro, prima a
Venezia, poi a Milano. La Storia della follia la conosco da molti anni, la
leggo prima in francese, poi in italiano, infine, in alcune sue parti, in inglese, la frequento e rifrequento spesso – anche alla luce di nuove opere di
Foucault, che ti costringono sempre a rileggere quanto ha già scritto – con
la sensazione di avere sempre a che fare con testi differenti. Questa rilettura completa del 2012 ha su di me un effetto nuovo, come rivedere dall’alto
l’insieme dei luoghi che da trent’anni frequento dall’interno della mia
esperienza clinica. Durante entrambe le presentazioni – Venezia, con Mario Galzigna e Umberto Margiotta e Milano, con Mario Galzigna, Stefano
Agosti e Giulio Giorello – penso di fissare l’attenzione e la riflessione intorno a quelle sessanta pagine che sono, per il clinico, il nucleo centrale
delle ottocento di cui l’opera è composta. Così, a furia di riflettere intorno
a queste pagine, di riconnetterle con la mia attività, di annodarle alla pratica clinica quotidiana, decido di scrivere queste rivisitazioni.
Il libro non è pensato solo per un clinico, ma anche per il lettore che di
follia ha sentito parlare, ma non se n’è mai occupato pienamente. Il lettore
potrebbe avere l’idea che la follia sia altrove, dove ci sono specialisti che
la curano. Potrebbe pensare per esempio che è bene che i folli stiano nelle
mani di questi specialisti, prospettiva rassicurante.
Se si sente parlare di un suicidio si pensa immediatamente a una depressione, che io non ho, se di un omicidio efferato, di un soggetto maniaco psicopatico, che io non sono, se di un attaccabrighe, di un sociopatico, ecc. Se
una persona riceve una diagnosi, non si va certo a guardare il processo di
14
tre il lettore a un mio più recente saggio: Barbetta, P., Il capitolo sulla prostituta.
L’opera di Louis Wolfson come Bildungsroman in Tysm http://tysm.org/?p=9766.
Il testo di questo saggio si trova in: Barbetta, P., Valtellina, E., Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale, Roma, La Talpa/Manifestolibri, 2014, pp. 34-56.
Foucault, M., Storia della follia, nuova edizione a cura di Mario Galzigna, Milano, Garzanti, 2012, pp. 382-439.
16
La follia rivisitata
attribuzione della diagnosi. Si trasforma questo processo in qualcosa che
esiste là fuori, o meglio, là dentro: Laura è depressa, Lucia è schizofrenica. Così come si dice: Giorgio ha la pressione alta, o: Pietro è iperglicemico. Chi si metterebbe a discutere il dato 160 di glicemia che esce dalla macchina del farmacista la mattina a digiuno?
L’epoca moderna è l’epoca in cui la follia diventa dominio del sapere
psichiatrico. Verso la fine del secolo diciottesimo, in Francia e in Inghilterra, la follia è separata da altre forme di devianza e trasformata in discorso
medico. Con ciò la nascita dei manicomi e la ricerca di cure per la guarigione o per il mantenimento della condizione di malattia. A partire dagli
anni Sessanta del Novecento, grazie a Michel Foucault (1926-1984), nasce
un interrogativo: questa separazione dei folli è curativa? Serve, in senso
medico, a migliorare le malattie dei folli, oppure serve a mantenere il controllo su una parte dell’umanità irriducibile a quella normalità che si va costituendo nel mondo occidentale a partire dall’era industriale?
A oltre duecento anni di distanza possiamo concludere che Erasmo e
Burton, che presenteremo rispettivamente nel primo e nel secondo capitolo, hanno ragione. Esistono due forme di follia, quella dei matti e quella di
chi pretende di tenerli sotto controllo. La seconda, reazione alla prima, è
quella che bisogna studiare per capire la prima. Oggi la follia non si presenta più nel suo dato immediato, si presenta nella forma di categoria diagnostica. C’è una politica di governo dei folli attraverso il controllo della vita.
La chiameremo biopolitica, da bios, che significa vita.
Il primo capitolo è un Preludio. Descrive il percorso di alcuni scenari
della follia forse più noti al lettore profano che allo psicologo o allo psichiatra. Scenari letterari antecedenti alla manicomializzazione: La stultifera navis, L’elogio della follia, la furia di Orlando, la malinconia visionaria
del Chisciotte, gli Eroici furori, la follia lucida di Amleto, l’internamento
del Tasso, il carnevale di Rabelais, solo per citare alcune varianti. Fenomeni della proto-modernità, connessi alle grandi linee di navigazione, alla
fine della cavalleria, al passaggio da un’episteme delle somiglianze a un’episteme delle distinzioni, come insegna Foucault15.
Fine di un’epoca, incipit di un’altra, che è ancor lontana dal dispiegarsi.
Epoca che prenderà forma a partire dalla fine del Settecento, a cavallo tra
quel secolo e il successivo, e che, nel caso della follia, troverà posto negli
asili, territorio di partizione medica. Momento in cui la follia diventa discorso di medicina, distinguendosi dalle altre forme della devianza. Tema
15
Foucault, M., Le parole e le cose, Milano, Garzanti, 1967.
Introduzione
17
che avrà la sua impronta più profonda in quella malattia mentale per eccellenza che, nel Novecento, acquista il nome di schizofrenia.
Il secondo capitolo entra nel vivo della rivisitazione dell’opera di Foucault, si tratta degli umori, mania/malinconia, bisogna attraversare quasi
tremila anni di storia. Dal sangue nero di Aiace – che si toglie la vita per
l’onta subita dopo il massacro di bestiame, scambiato nella foschia della
notte e in virtù dell’inganno di Atena, per il luogo di riposo dei comandanti atridi – fino al marketing pubblicitario minaccioso che accompagna la
vendita dei moderni antidepressivi (se non li prendi ti suiciderai!).
Il terzo e il quarto capitolo si occupano delle demenze. Il terzo dello slittamento semantico accaduto a cavallo dei due secoli precedenti, da dementia praecox a schizofrenia. Il quarto degli altri tipi di condizioni attribuite,
in una maniera o nell’altra, alla demenza: ritardi mentali, autismi, demenze pre-senili o senili. Qui si gioca in modo pregnante la questione del grande internamento, nulla fa più paura della demenza alla modernità. Qui il
trionfo e lo scacco in una del discorso medico. Trionfo della medicina sulla follia come parte sanitaria della devianza, scacco immediato della psichiatria che, da branca della medicina, è subito trasformata in pratica di custodia giudiziale. La figura di questo tipo di medico, volente o nolente,
viene d’emblée cambiata in figura di agente di custodia con competenze sanitarie – perché la sanità conosce procedure di partizione del folle dalla società – fino alla reintroduzione del sociale, dagli anni Sessanta e all’attuale
legge 180, psichiatria territoriale. Con una successiva reazione contraria,
che si propone come modello ospedaliero, ma che è puro ritorno alla custodia, pura agenzia di indebita pubblica sicurezza.
Il quinto capitolo si occupa invece di una follia a sé, l’isteria e le sue varianti, ipocondria e disordine somatoforme, che vengono dal gruppo delle
nevrosi, ma stanno storicamente a cavallo, nevrosi gravi, da rinchiudere,
come all’epoca della Salpêtrière, fino alla frammentazione della diagnosi
isterica in una regressione dei sintomi che la compongono, attuale linea di
tendenza dei manuali psichiatrici.
Quel che voglio raccontare al lettore è che la follia c’è sempre stata, ma
che il mondo della psichiatria non è stato l’unico a occuparsene. Che la pretesa di monopolio del discorso psichiatrico è durata dalla fine del millesettecento, con la cura morale, all’inizio del millenovecento con la Ego-Psychology e la psicologia comportamentista. Giusto un paio di centinaia
d’anni. Il DSM è già un tentativo di resistenza biofarmacologica all’approccio sociale e solidaristico, scopre le carte, serve a far guadagnare case
farmaceutiche e rassicurare assicurazioni. Serve a ridurre le spese per la so-
18
La follia rivisitata
lidarietà per mettere quel denaro nelle tasche della multinazionali. Una resistenza totalitaria, che ora è forte, sembra predominante, ma è destinata a
sfaldarsi, almeno agli occhi di chi crede nella libertà e nella democrazia.
Agli occhi di chi si batte per una società giusta, per una psicoterapia democratica. Questo è un dato basato sull’evidenza. Dobbiamo altresì riconoscere che le persone che, a partire dagli inizi del secolo ventesimo a oggi,
hanno reintrodotto la follia nell’orizzonte della cultura sono in gran parte
medici e psichiatri. Da Freud a Basaglia.
Ringraziamenti
Ringrazio prima di tutto i lettori degli abbozzi che hanno dato vita a questo libro: Franco Brevini, che con cura strabiliante mi ha aiutato a scrivere
il primo capitolo; Lia Scotti, che ha letto, pure lei, il primo capitolo ed è
stata altrettanto preziosa; Enrico Valtellina, che ha letto, riletto, corretto il
quarto capitolo e altre amiche/amici che hanno fatto lo stesso con i capitoli secondo e terzo. Ringrazio Fedra Cocca che mi ha aiutato con l’editing,
ringrazio alcuni colleghi e amici senza i quali questo libro non sarebbe stato mai scritto, sollevandoli dalla responsabilità delle parti peggiori, indicandoli come ispiratori delle migliori: Mario Galzigna, Enrico Valtellina,
Marco Dotti, Andrée Bella, Francisco Ortega, Cinzia Crosali Corvi, Michael Paysden, Massimo Giuliani, Gabriela Gaspari, Giacomo Conserva,
Francesco Cattafi, Eleonora de Conciliis, Tullia Fiorellino, Natale Losi,
Louis Wolfson, Carla Weber, Nicole Janigro, Marie-Hélène Brousse, Umberto Bertone, Rosanna Longhi, Mariaelena Bartesaghi, Maria Nichterlein,
Luisa Bertolini, Carlos Sluzki, Maria Esther Cavagnis e il gruppo di studio
argentino, tutti i partecipanti al seminario permanente Bateson-DeleuzeFoucault www.bidieffe.net.
Poi Marco Belpoliti, Barbara Grespi, Elio Grazioli, Alessandra Violi,
con cui abbiamo allestito l’esposizione Fuori quadro presso l’Università di
Bergamo, novembre 2013.
Elda Arpaia, Matteo Mazzariol e gli altri colleghi italiani di ISPS (Società internazionale per l’approccio sociale e psicoterapeutico alle psicosi)
con cui abbiamo organizzato il Congresso Italiano di ISPS “Il corpomente
nelle psicosi”, Settembre 2014 presso l’Università di Bergamo.
Ringrazio colleghi e allievi del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, del Centro Isadora Duncan e di altri Centri e Istituti con cui ho avuto
il piacere di lavorare negli anni recenti, lo Studio di Psicoterapia e Psichiatria di Lugano (Direttore Michele Mattia) e il gruppo di supervisione che
Introduzione
19
da anni incontro periodicamente in località Paradiso. Ringrazio la Clinica
Psichiatrica Universitaria Ospedale Macchi di Varese (Direttore Simone
Vender) per avermi accolto per un anno come supervisore clinico. Ringrazio l’Istituto di Medicina sociale dell’Università di Stato di Rio de Janeiro,
che mi ha ospitato tra maggio e giugno 2012 come Visiting Professor, con
Francisco Ortega, Jurandir Freire Costa, Beniliton Bezerra, e gli altri colleghi; il reparto di Psichiatria infantile dell’Ospedale Pinel dell’Università
Federale di Rio de Janeiro, con Edson Saggese, che mi ha ospitato per un
seminario con un meraviglioso gruppo di terapeute familiari sistemiche,
psicoanaliste lacaniane, pediatre e psichiatre infantili; l’Istituto Noos di
Rio de Janeiro, con Rosana Rapizo ed Eloisa Vidal, che pure mi ha dato più
volte ospitalità, dal 2006 in poi, per seminari, consulenze e supervisioni,
così come diversi Istituti di psicoterapia argentini a Buenos Aires e Cordoba. Ringrazio il gruppo di terapeuti argentini e peruviani che sono venuti in
Italia per frequentare i seminari del Centro Isadora Duncan: Maria Rosa
Glasserman, Maria Ester Cavagnis e tutti gli altri. E molti altri colleghi a
Lisbona, Porto, in Portogallo, Porto Alegre, Brasilia, Sao Paulo, in Brasile,
Amherst, Springfiled e Northampton in Massachusetts, Santiago di Compostella in Spagna; ringrazio Eduardo Villar di Sistemas Humanos di Bogota. Ringrazio la Scuola di Dottorato in Filosofia e Scienze della Formazione di Ca’ Foscari a Venezia, per avermi accolto nel suo Collegio dei
docenti. Ringrazio Doppiozero, Tysm, Kasparhauser, Psychiatryonline, e
altre riviste online per avere pubblicato i miei contributi. Non posso dimenticare gli insegnamenti dei miei maestri Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, né la compagnia di cari amici – Gianfranco Cecchin, Ugo Ischia, Guido Boscolo, Walter Fornasa – scomparsi prematuramente. Un
ringraziamento particolare va al mio migliore amico, Marcelo Pakman,
dopo oltre vent’anni di collaborazione (Curso Intensivo de Terapia Sistemica, Pensar la clinica) e fratellanza. Già operatore e direttore di diversi
servizi psichiatrici in Massachusetts, Marcelo Pakman, oltre che psichiatra
e psicoterapeuta, è filosofo, storico delle idee e pensatore di grande levatura. Ci incontrammo ad Amherst (Massachusetts) nel febbraio 1991, quasi
per caso. Presto la nostra amicizia divenne così intensa da somigliare a una
fratellanza, una comunanza di risate, sorrisi e dolori, un amichevole Witz.
21
I.
PRELUDIO
Dare un nome alla follia
Pazzia, furia, vesania, malinconia, mania, schizofrenia, delirio, allucinazione, possessione, demenza, cretinismo. Quanti nomi ha la follia? E quanti gli aggettivi: matto, sciocco, stupido, lunatico, idiota, imbecille, ebete.
Altrettanti i modi di dire: è fuori di sé, ha picchiato la testa, è svitato, è suonato, dà fuori di matto. La follia non sai mai come prenderla e la lingua lo
testimonia. Le reazioni sono opposte, ma al centro sta sempre la stessa
esperienza. Pazzia fa rima con malinconia, che significa tristezza radicale,
ma fa rima anche con mania, esagerata euforia, e spesso i due stati si alternano nella stessa persona.
Altre espressioni, che paiono sinonimi, hanno invece un senso differente: si prendano esaurimento nervoso e nevrastenia. Qui in gioco ci sono le
differenze sociali. L’esaurito è povero e non ce la fa più a lavorare, il nevrastenico è ricco, non ha mai lavorato per via dell’astenia: una condanna
e un lusso. L’astenico di classe operaia è bollato come scansafatiche, lavativo. Più che un medico, gli viene assegnato un posto in ospizi o alberghi
popolari, quando non in carcere. Tutti abbiamo intercettato la fenomenologia della marginalità sociale, una spina nel fianco della società, uno scarto
che ci ricorda l’ineludibile presenza della singolarità umana.
La follia non conosce confini, ma in ogni lingua ognuno è matto a modo
suo. Un’espressione idiomatica inglese – The light is on but nobody’s home
– indica una caratteristica dello stolto che ci sconcerta, perché sospende il
nesso causa-effetto: Se la luce è accesa, perché nessuno è in casa?
Un proverbio nostrano – Il riso abbonda sulle labbra degli stolti – si
preoccupa per il rischio che la gioia sfrenata può avere per l’ordine sociale: se tutti ci mettessimo a ridere?
Un proverbio marocchino recita: Ne dit la vérité que l’enfant ou le fou –
Solo i bambini o i folli dicono la verità. Come dire: al mondo purtroppo la
verità non è di casa e solo a un folle o a un bambino potrebbe passare per
la testa di testimoniarla.
22
La follia rivisitata
Ecco una definizione dello scrittore americano Ambrose Bierce1: “Matto: Affetto da un alto grado di indipendenza intellettuale; non conforme ai
modelli di pensiero, parola e azione, che la maggioranza ricava dallo studio di se stessa. In poche parole, diverso dagli altri.” L’autore sostiene che
i matti ragionano in modo più libero, con meno vincoli. Ma la società si difende e l’espressione dare i numeri sembra essere il rovescio dell’opinione
di Bierce: troppa indipendenza intellettuale conduce alla pazzia. In questo
variare linguistico varia anche la follia, che è un po’ mancanza di senno, un
po’ il suo opposto, un po’ eccesso di gioia, un po’ tristezza. Insomma: verità e menzogna, intelligenza e astrusità.
Il giullare di corte può dire la verità perché è considerato matto, e ogni
sua parola o espressione è per definizione ridicola, priva, fin dall’inizio, di
ogni validità pubblica. Se la sua parola dovesse essere ascoltata si ha la tragedia, ma siccome cade nel vuoto, è farsa. Il clown Augusto, quello stralunato, con le scarpe enormi e i vestiti sbrindellati, proclama di essere il direttore del circo, suscitando l’ilarità degli astanti, che sanno che lui è
l’ultima ruota del carro.
Ma la follia non è stata sempre quello che è diventata oggi. Alle soglie
dell’epoca moderna, la follia era altra cosa, non era ancora una malattia,
come la intendiamo noi. In questo capitolo descriverò alcune opere che
raccontano la pazzia secondo modalità diverse, giungendo fino alla nascita
dell’odierna caratterizzazione sanitaria. La nascita della follia come campo
del sapere medico coincide con la formazione degli stati moderni, la scoperta delle Americhe, la Riforma religiosa, la nascita della stampa, la cacciata di ebrei e arabi da Spagna e Portogallo, l’introduzione delle armi da
fuoco nel mestiere della guerra e la scomparsa della cavalleria. La follia
medicalizzata e ospedalizzata è figlia della modernità.
Già Ippocrate si occupò di follia e, dopo la sua scuola di medicina, lo fecero le differenti tradizioni naturaliste greche, latine, arabe, medievali e rinascimentali. Ma in tutti i casi si tratta di una medicina filosofica e letteraria, che si mischia e confonde con il pensiero umanistico e non pretende
universalità biologica. Per quanto si discuta degli umori come parti interne
al corpo, si pensa che questi corrispondano agli elementi del cosmo, alle
stagioni dell’anno, alle fasi della vita. Come vedremo nel prossimo capitolo, malattia e salute dipendono dagli equilibri universali, locali, climatici
ed esistenziali.
A un certo punto della storia moderna invece la medicina si costituisce
come scienza clinica e la pazzia diventa dominio unico del discorso medi1
Ambrose Bierce, Il dizionario del diavolo (1911), Parma, Guanda, 2010.
Preludio
23
co. Invero, a differenza dal resto della medicina, la scienza psichiatrica –
insieme di dottrine medico/biologiche, socio/antropologiche e giuridiche –
è di un’ingenuità disarmante. Mentre infatti la clinica medica è ricerca di
una diagnosi differenziale a partire dall’interpretazione dei sintomi, la follia è diagnosi assoluta. In medicina il nome della malattia non è più né febbre, né catarro, né dolore intestinale. Quel nome si crea a partire da un intreccio di sintomi concomitanti, segni per scoprire morbi e sindromi2.
Nasce così il concetto di diagnosi differenziale: i sintomi del paziente, collegati tra loro in modo coerente, permettono al medico di proporre la diagnosi adeguata e il trattamento conseguente. Uno stesso sintomo – come la
febbre – può essere il segno di malattie assai differenti.
In opposizione alla clinica medica, il discorso psichiatrico cercherà in
primo luogo la diagnosi assoluta. Si tratta di scoprire se una persona sia o
no davvero folle, di esaminarne pensieri e sentimenti, mostrando se corrispondono al comune senso del pudore, a costumi e abitudini normali. Dal
rispetto delle norme religiose al metter su famiglia, la psichiatria implica
sempre una prospettiva morale, antropologica, giuridica e sociale. Su di
essa gravano il puritanesimo, l’antropologia delle razze e delle degenerazioni, il diritto repressivo e la sociologia autoritaria.
Il discorso psichiatrico intorno alla follia si costituisce a partire dalla
biologia delle razze, da cui la psichiatria ricava il termine degenerazione,
che viene riproposto per l’individuo. Come la biologia razzista considera
le altre razze umane degenerazioni della razza bianca caucasica, così la
psichiatria considera il folle come degenerato individuale. Quel che accade a livello macroscopico con le razze, accade a livello microscopico
con le persone, inquadrate nella prospettiva di derive degenerative. Da
qui l’eugenetica, programma individuale per migliorare la razza, che nei
casi più estremi propone l’eliminazione dei folli per correggere la purezza razziale ariana.
L’altra grande fonte ispiratrice della psichiatria è stata la concezione giuridica di pericolosità oggettiva, che fa sì che gli psichiatri dipendessero dai
ministeri di giustizia, piuttosto che della sanità. Meno remunerati dei loro
colleghi medici, il loro compito fu definito per anni come un compito di custodia. Agenti, piuttosto che medici, investiti, in virtù della laurea in medicina, di poteri predittivi di reclusione. Stiamo parlando della nascita del
manicomio, universo concentrazionario, dotato di misure coercitive, non
curative – dalla camicia di forza all’elettroshock –, con il potere di addomesticare lo spirito selvaggio del matto.
2
Foucault, M., Nascita della clinica, op. cit.
24
La follia rivisitata
Figlie del darwinismo sociale – quella dottrina che predicava il predominio
dell’individuo più adatto in politica, economia, scienza, ecc. – psichiatria e psicologia si costituirono per anni come saperi per valutare e ripartire successi e
fallimenti individuali, forme del dominio e dell’emarginazione sociale.
Dall’osservatorio di questo tipo di psichiatria tutto viene interpretato
come una deviazione dal modello unico. Varie forme di demenza si trasformano in ritardi intellettivi di gruppi umani che provengono da aree non europee e coloniali, l’isteria diventa una malattia delle donne, o degli uomini
effeminati, la schizofrenia un tratto della degenerazione della specie, conseguente a una famiglia con tare ereditarie; la malinconia, la tristezza e la
nostalgia diventano depressione da curare coi farmaci, la vivacità e la ribellione dei bambini di fronte all’oppressione scolastica sono liquidate come
disturbi dell’iperattività e dell’attenzione con il pericolo di diventare disturbi della personalità.
La follia resterà però sempre anche espressione umana: solo l’essere umano può essere folle. Questo è il messaggio che ci viene dai testi che ora esamineremo, nei quali si insiste sulle risorse e sulle potenzialità della follia così
come viene concepita nel Cinquecento e nel Seicento a partire da Sebastian
Brant e da Erasmo da Rotterdam, fino a Shakespeare e Cervantes.
Trattati, poemi, novelle, tragedie e racconti: un ricco materiale che sarà
all’origine del romanzo moderno. A questo punto il lettore si chiederà:
“Come mai bisogna passare attraverso la letteratura per comprendere la
follia? Non basta leggere un manualetto psichiatrico divulgativo?”. Questo
libro fa un’altra scelta, cerca di spiegare la follia attraverso una storia di
come è stata considerata e vissuta nel tempo. Un manualetto spiega cosa si
deve fare, qui questa risposta non si trova, si trova certo una risposta a quel
che non si deve fare e al perché non si deve farlo.
La nave dei folli
Una gita a Clusone e una a Pinzolo mostrano due versioni della Danza
macabra, rispettivamente di Borlone de Buschis (1485) e di Simone Baschenis (1539). La Danza macabra segna l’inizio e la fine di un periodo a
cavallo della scoperta delle Americhe, espressione artistica successiva alla
peste della metà del Trecento. Si tratta di quel periodo che Johan Huizinga3
(1872-1945), con una felice espressione, chiamò autunno del medioevo. A
partire dalla fine della peste, che aveva prodotto milioni di morti, nasce un
3
Huizinga, J., L’autunno del Medioevo, Milano, Rizzoli, 1998.
Preludio
25
nuovo gusto per il grottesco e la satira. Sembra una reazione festosa, un’irrisione alla morte così vicina. Nel momento in cui l’urgenza di seppellire i
morti e il terrore non sono così impellenti si apre un vuoto che viene riempito con nuove forme d’arte irrisorie, grottesche. Col tempo, i folli sostituiscono i morti, si trasformano, per così dire, in morti viventi.
C’è qualcosa di comune tra i morti e i folli: sono inconfessabili, ingiudicabili. La Danza macabra rappresenta una comunità inoperosa, composta
di trapassati, che sono già stati giudicati. Cos’hanno in comune gli stolti e
i morti? Gli uni per il regno dei cieli, gli altri per la terra, sono inguaribili.
I quadri di Bosch, come le illustrazioni di Dürer, ne danno rappresentazione figurativa. Mostrano volti e corpi irrimediabilmente coartati, sfigurati;
espressioni infernali, disgrazie.
La nave dei folli di Sebastian Brant4 (1458-1521) uscì per la prima volta nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America. Il tema della nave
esprime le tensioni legate alle grandi scoperte oceaniche, quando la cultura europea comincia a mettere in dubbio i modelli della tradizione. Immaginate che significa per la gente, a quel tempo, rendersi conto che il mondo
non è solo ciò che ruota attorno al Mediterraneo, ma qualcosa di assai più
vasto, che la terra non è una piattaforma, ma una sfera, che il sole non gira
intorno a noi, ma noi giriamo intorno a lui.
Prima di Brant, a partire dal 1360, abbiamo diversi scritti importanti
sull’argomento. In queste opere si immagina una confraternita di persone
strambe, le sole che possono entrare nella nave. Corporazione chiusa non
per via di censo, né di particolari privilegi o saperi. Brant mette insieme i
furbi e gli stolti. Così a bordo troviamo il vescovo imbroglione, che ipoteca il reddito per comprare il titolo, insieme all’alchimista, che ha sciolto nel
crogiolo tutte le proprie ricchezze; un furbo o uno stolto.
A quel tempo – successivo alla lebbra e alla peste, coevo di una nuova
malattia giunta dalle Americhe, la sifilide – i folli venivano allontanati dalle città, imbarcati su navi per essere abbandonati altrove, ma il navigatore
spesso li gettava a mare o li sbarcava in qualche landa desolata, dove morivano. La follia è altrettanto ingiudicabile quanto la morte, inguaribile.
Questa caratteristica segna la linea di confine dei matti, la nave è uno dei
suoi contenitori.
Gran satira grottesca o poema moralista? Epitaffio di un mondo che sta
finendo o proposta per una nuova moralità? La nave dei folli non sembra
prendere posizione in questo dilemma. Furbi e stolti sono ancora indistinti. Piuttosto Brant si confronta con l’avvento del Nuovo Mondo. Richiama
4
Brant, S., La nave dei folli, Milano, Spirali, 2003.
26
La follia rivisitata
le navi che iniziano a salpare verso le Americhe. La metafora della nave
che trasporta una comunità dissidente resta fino al Seicento – con la Mayflower carica di puritani – nave che naviga la luna, come nella canzone di
Paul Simon.
We come on the ship they call the Mayflower
We come on the ship that sailed the moon
We come in the age’s most uncertain hour
and sing an American tune (Paul Simon)5
Sguardo disincantato verso il futuro alle porte, che avviene qui, sulla terra. Fiducia nella città come luogo dell’innovazione e, per via dei commerci, d’incontro multiculturale. Brant è il primo progressista, inaugura l’epoca moderna. La città è il centro dove ogni superstizione, credenza, invidia,
odio saranno eliminati. Sulla nave – che, per chi leggerà il poema, è destinata a Narragonia, e che, come poi Pinocchio, si dirige verso Cuccagna –
non ci sono solo folli: usurai, giocatori d’azzardo, adulteri, viziosi, prodighi, invidiosi, voluttuosi, ingrati, spergiuri, bestemmiatori; tutta la follia
classica raccolta dentro questo battello autorganizzato.
Brant è anche un gran moralista. A voler ben guardare, buona parte del
testo elenca la cupidigia, le nuove mode, il retto Catechismo, gli istigatori
di discordia, le male costumanze, il dispregio delle Scritture, i galanti, la
crapula e la gozzoviglia, le ciarle, i desideri superflui, gli studi inutili, le
procrastinazioni, l’adulterio, la presunzione, la voluttà, l’ingratitudine, la
bestemmia, l’usura. Insomma ci sono, nella nave, anche quelli che si comportano male, come i cattolici e gli ebrei.
Rese in endecasillabi dal traduttore italiano, le sue parole sono supportate dalle immagini di Albrecht Dürer e arricchite dalla visione dei quadri
di Hieronymus Bosch, che crea una sua opera, a sua volta intitolata La nave
dei folli, sempre nel 1494.
Di stoltifere navi, legni varii:
Galee, fuste, caracche, ed onerari;
Nonché pinasse, chiatte, baleniere;
E carri, e slitte, vorrei anche avere,
E carrozze, e carrette equipaggiare,
Una nave soltanto lor portare
5
Veniamo da una nave chiamata Mayflower
Veniamo da una nave che navigò la luna
Veniamo nell’epoca più incerta
cantando una melodia americana [trad. mia].
Preludio
27
Non essendo possibile, ché i folli
Sono ormai numerosi più dei polli;
E molti van di corsa ad imbarcarsi,
E come api li vedi già affollarsi
Sulle rive, e tuffarsi, indi nuotando
Di raggiungere il legno van cercando.
(Traduzione di Francesco Sabba Sardi, p. 4)
A quel tempo altre comunità vagavano non solo via mare, ma anche via
terra: gli Ebrei, cacciati da Spagna e Portogallo, i Valdesi perseguitati ed
erranti tra le valli alpine, i contadini eretici o quelli semplicemente affamati, che daranno vita alla commedia dell’arte veneziana.
Tenere insieme i folli, gli stolti, i peccatori, i dissidenti religiosi e
quant’altro corrispondeva a quell’età di forte dinamismo tipica della nascita della modernità. In quest’epoca la follia non era ancora patologizzata.
Vedremo che solo pochi anni dopo incominciano ad emergere, per mano di
nuovi autori, differenze tra follia e follia, tra caso e caso.
La dea di Erasmo
In Erasmo6 la follia presenta se stessa come una divinità. Erasmo da Rotterdam scrive L’elogio della follia nel 1509 e lo pubblica nel 1511. Dopo
avere elogiato in lungo e in largo la follia, che viene presentata come un principio vitale, verso la metà del trattato, finalmente Erasmo prende posizione.
Ci sono, sostiene Erasmo, due generi di follia, il primo viene dall’inferno, inviato dalle Furie vendicatrici, suscita nei mortali la vendetta, la guerra e “l’insaziabile sete dell’oro, l’amore obbrobrioso ed empio, il parricidio, l’incesto, il sacrilegio o qualche altra peste del genere...”7.
La seconda follia, elogiata durante tutto il testo, è quella dei bambini,
degli anziani, che riprendono condotte infantili grazie ad essa; la follia che
rasserena gli dei e gli uomini, che dice sempre la verità, senza alcuna simulazione né adulazione, che ha sulla fronte ciò che chiude in petto.
Questa follia è diffusa nelle isole fortunate, entrate nell’immaginario europeo grazie alle navigazioni oceaniche, dove tutto cresce senza il bisogno
della semina e dell’aratura, dove la natura è una madre abbondante. Questa
follia è incompatibile con una scienza che si occupa della distribuzione di
beni scarsi per soddisfare bisogni illimitati. Natura matrigna.
6
7
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, Firenze, Giunti Demetra, 2005.
Ivi, p. 60
28
La follia rivisitata
Erasmo prosegue sostenendo che le isole fortunate fanno fiorire erba moly –
l’erba donata a Ulisse per non venire sottoposto ai sortilegi di Circe – panacea,
nepente e altre erbe farmacologiche di proprietà mediche, ipnotiche, stimolanti,
estatiche. Erbe farmaceutiche – il termine farmaco deriva dal greco pharmacon
significa anche droga – che hanno il potere di farti osservare il mondo da un altro punto di vista, quello della buona follia. La natura è dunque abbondante,
dona più del necessario per la vita, il lavoro è una maledizione. Ma ciò non accade ai tempi nostri? L’astenico è dunque, secondo Erasmo, il prototipo della
buona follia. Dovremmo dire che gli oziosi, gli scansafatiche, i lazzaroni d’ogni
sorta sono i folli che ci portano la follia buona. Anche oggi, come ai tempi d’Erasmo. Come non collegare queste tesi erasmiane con il movimento Hippy contemporaneo? Come non pensare a Woodstock, ai figli dei fiori, all’amore libero, al Rock, da Joni Mitchell a Jimi Hendrix, dai Beatles ai Rolling Stones?
La distinzione di Erasmo tra i due tipi di follia vale anche oggi, discerne
la gravità del matto in base al danno sociale, più che alla bizzarria del singolo individuo. Forse non ci rendiamo conto che i narcisisti – capaci di successo e scalata sociale, sia vendendosi al primo offerente per il proprio vantaggio, sia nella versione del capo – sono davvero i casi più gravi,
corrispondenti, per Erasmo, alla follia da contrastare.
Invero Erasmo ha una soluzione. Sul finire dell’Elogio ricorda che alcune passioni dell’anima sono in stretto rapporto con il corpo materiale. Tra
queste la brama amorosa, che è una specie di follia. Se Platone scrisse che
il furore degli amanti è il più felice – l’amore è un uscir fuori di sé –, l’amore in senso erotico, passionale, come apertura all’altro e solidarietà contrasterà il narcisismo del capo, organizzato intorno alla cinica indifferenza.
Quel grande contemporaneo di Erasmo sembra diagnosticare la via d’uscita dalla nostra epoca: riprendere fiducia nella relazione, farla finita con
ogni tipo di confraternita oppressiva e mortifera. Imbarcare piuttosto costoro sulla nave e osservare a distanza il loro naufragio.
La follia di Orlando
L’Orlando furioso apparve per la prima volta nel 1516 e infine nel 1532.
Gli anni di scrittura di Ariosto8 coincidono con gli anni di scrittura di Erasmo, si tratta di opere coeve. Anzi, la prima versione dell’Orlando furioso
fu stesa tra il 1504 e il 1507, terminata due anni prima dell’inizio della stesura dell’Elogio della follia e ambientata all’epoca delle Crociate. Se quel8
Ariosto, L., Orlando furioso, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1954.
Preludio
29
lo sulla follia di Erasmo si presenta come saggio – benché nello stile della
personificazione della follia che diventa l’io narrante di se stessa – Ariosto
ci presenta invece una vicenda che contiene quel che oggi diremmo essere
un caso clinico. Ci mostra una singolarità.
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima
Come noto, Orlando, innamorato di Angelica, impazzisce quando apprende che lei ama e ha sposato Medoro. Il tutto avviene nel canto XXIII9,
dedicato all’insorgenza della pazzia di Orlando.
Orlando passeggiava in riva a un rivo – scrive Calvino10, che ri-racconta
l’Orlando furioso. Vede che i tronchi degli alberi sono pieni di scritte e incisioni. “Però io questa scrittura la conosco”, pensa Orlando, e come fa chi s’annoia, prese distrattamente a decifrare le parole. Legge: Angelica. Ma certo: è la
sua firma! Angelica era passata di lì!
Vede che le parole di Angelica sono immerse in una rete di cuori trafitti
e di dichiarazioni d’amore per Medoro, uno sconosciuto. Immediatamente
pensa a una dissimulazione del nome, a Medoro come una copertura di Orlando, ma poi trova delle scritte in arabo, che Orlando conosce e legge perfettamente, firmate Medoro. Insomma, piano piano va scoprendo che Angelica si è innamorata di un altro. Invero, nonostante l’evidenza, Orlando
nega a se stesso quanto accaduto, trovando giustificazioni assurde per non
ammettere l’evento. L’esistenza di Orlando si sta frantumando, ma ancora
resiste, con angoscia. L’uomo, fino allora tutto d’un pezzo, appare fessurato, abitato dal nulla. Un nulla che si scorge appena, finché, ormai pieno di
pena e divorato da qualcosa che solo a lui appare un dubbio, giunge a una
casa di pastori che lo accolgono e gli danno un giaciglio per dormire. Visto
che si agita nel letto, un pastore gli fa compagnia e gli racconta di come Angelica e Medoro abbiano dormito nel suo stesso letto e si siano sposati per
amore. La certezza del tradimento di Angelica lo invade. Di là in poi, l’angoscia profonda si trasforma in pazzia vera e propria. Dopo la furia distruttiva vedremo Orlando giacere nudo, i suoi armamenti sparsi per il bosco,
come frammenti di un corpo senza più i suoi organi.
9
10
Ivi, Canto XXXIII.
Calvino, I., Orlando furioso di Ludovico Ariosto, Milano, Mondadori, 1995.
30
La follia rivisitata
In un tempo meno remoto, all’inizio dello scorso secolo, la psichiatria
avrebbe definito la follia di Orlando nei termini di complesso a tonalità affettiva. Che cos’è? Può accadere che un affetto sia così forte da invadere la
coscienza e obnubilare i sensi. L’affetto si impossessa dell’animo umano
escludendo temporaneamente la coscienza della propria identità fino ad essere dominati da quel complesso. Così accade a Orlando che perde il senno per l’amore non corrisposto di Angelica.
Orlando si spoglia e vaga nudo per i boschi, assimilandosi sempre più
alla terra, alla natura, tanto da diventare irriconoscibile ai più. Quando incontrerà di nuovo Angelica la ignorerà, né lei riconoscerà Orlando, che
trattenendo la cavalla di Angelica per la coda la fa inciampare e rotolare giù
per un ghiaione. Così la bellissima principessa del Catai sparisce per sempre. La follia di Orlando è destinata a durare per soli tre mesi. Per un disegno divino Astolfo, mago che cavalca un ippogrifo, avrà il compito di andare a recuperare il senno di Orlando e riportarlo sulla terra, così nel canto
XXXVIII11 assisteremo al rinsavimento d’Orlando.
Come nel complesso a tonalità affettiva, la follia è dunque temporanea e
il rinsavimento avviene grazie ad Astolfo, mago psicoanalista, che ritrova
il senno di Orlando vagando per altri lidi, finché l’evangelista Giovanni
non gli fa sapere le ragioni nascoste del suo viaggio.
Nel Cavaliere inesistente di Italo Calvino12, a mille anni di distanza dalla cavalleria, Orlando – che già Cervantes aveva trasformato nella coppia
Don Chisciotte/Sancho Panza – si dissocia in due parti del tutto opposte: un
indimenticabile cavaliere senza corpo e uno scudiero corpulento fino a
confondersi con la natura, irrimediabilmente privo di coscienza.
La follia del Tasso
Prima di Ariosto la corte di Ferrara ospita il Boiardo e, dopo l’Ariosto,
il Tasso13 che scrive La Gerusalemme liberata. La follia del Tasso è ancor
più interessante perché riguarda l’autore stesso. Ci sono due versioni opposte della sua biografia. La prima sostiene che il Tasso fosse davvero maltrattato e reso prigioniero alla corte d’Este da Alfonso II, che ricevesse un
compenso non degno della sua maestria letteraria, al di sotto della possibi11
12
13
Ariosto, L., op. cit.
Calvino, I., Il cavaliere inesistente, Torino, Einaudi, 1959.
Tasso, T., Gerusalemme liberata, in Poesie, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi,
1952
Preludio
31
lità di condurre una vita dignitosa. Sembra inoltre che ci fossero stati tentativi di rubare le sue opere, forzando la porta della sua camera. Tasso,
dopo avere scritto La Gerusalemme liberata, comincia a pensare che l’opera contenga elementi che possono offendere la Chiesa, tanto da volere che
La Gerusalemme venga sottoposta a inquisizione.
La seconda versione sostiene che, dopo la composizione della Gerusalemme, Tasso impazzisse e che le reazioni di Alfonso II d’Este fossero la
conseguenza della ricerca dissennata di essere sottoposto a giudizio dall’Inquisizione da parte del Tasso.
L’autore della Gerusalemme liberata sviluppa la convinzione d’essere
spiato, al punto da accoltellare un servo sospetto, fugge clandestinamente
da Ferrara per andare al convento dove vive la sorella alla quale, sotto mentite spoglie, rivela la sua propria morte e dopo averla atterrita, si fa riconoscere. Si direbbe che sviluppi un sentimento paranoico. Dopo la reclusione
presso l’ospedale/carcere di Sant’Anna nel 1579, il suo delirio accresce.
Tasso è uno dei primi esempi di come le cure coercitive siano il principale fattore del peggioramento psicologico di una persona. Il primo esempio di come si finisce in manicomio.
La mia opinione è che le due versioni relative alla sua vita debbano essere pensate in modo circolare. Il pessimo trattamento ricevuto a corte genera frustrazione in un letterato della sua importanza. Alle sue reazioni offese si risponde in modo ostile. Senza alcuna forza per contrastare la
potenza ducale, Tasso ha reazioni bizzarre, alla quali si risponde con ulteriori gesti repressivi, fino alla follia e all’internamento.
Nel 1581, in pieno ricovero, scrive queste parole all’amico bergamasco
Maurizio Cataneo14:
[...] darò solamente avviso a Vostra Signoria de’ disturbi ch’io ricevo nello
studiare e ne lo scrivere. Sappia dunque che questi sono di due sorte: umani e
diabolici. Gli umani sono grida di uomini e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni e varie voci d’animali che da uomini per inquietudine mia sono agitati, e strepiti di cose inanimate che da le mani di uomini sono
mosse. I diabolici sono incanti e malìe; e come che de gli incanti non sia assai
certo, perciocché i topi, de’ quali è piena la camera, che a me paiono indemoniati, naturalmente ancora, non solo per arte diabolica, potrebbono far quello
strepito che fanno, ed alcuni altri suoni ch’io odo potrebbono ad umano artificio, com’a sua cagione, esser recati, nondimeno mi pare d’essere assai certo
ch’io sono stato ammaliato; e l’operazioni della malìa sono potentissime, conciosia che quando io prendo il libro per istudiare o la penna, odo sonarmi alle
14
Tasso, T., Prose, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1959, p. 888.
32
La follia rivisitata
orecchie alcune voci nelle quali quasi distinguo i nomi di Pavolo, di Giacomo,
di Girolamo, di Francesco, di Fulvio e d’altri, che forse sono maligni e de la
mia quiete invidiosi.
Di fronte al trattamento della corte estense, non degna del suo genio, le
sue ribellioni e proteste portano la corte a rinchiuderlo rendendolo paranoico, un po’ come accade al principe Amleto.
Se la follia di Orlando è rappresentata nella forma della perdita del senno, al punto di offuscare totalmente la mente dell’Eroe, la follia di Torquato Tasso si esprime nei termini di un sospetto radicale che giunge, nel manicomio, al suo stato più grave: l’idea di venire sottoposto a malefìci
umani e diabolici, che lo conducono a sentire rumori terrificanti che gli impediscono di scrivere e studiare, fino a sentire voci moleste di persone che
portano un nome, che, in qualche modo, sono individuabili: Paolo, Giacomo, ecc.
Testimone d’eccellenza di questa follia è Montaigne15, che nel 1580 visita il Tasso al manicomio di Sant’Anna, e con la pietas di chi non lo nomina, scrive di lui, con grande ammirazione:
Che salto ha fatto ora, per la propria concitazione e il proprio fervore, un
uomo fra i più penetranti, ingegnosi e conformi allo spirito di quell’antica e
pura poesia che vi sia stato da lungo tempo tra i poeti italiani? Non lo deve egli
a quella letale vivacità? A quella chiarezza che l’ha accecato? A quella precisa
e tesa comprensione della ragione che gli ha fatto perdere la ragione? Alla curiosa e laboriosa indagine delle scienze che l’ha condotto alla bestise?
Bestise, bêtise, balordaggine, ebetismo, stupidità (da essere colpiti, stessa radice di stupro e stupore), si parla in psichiatria anche di stupor psicotico. La ragione che acceca, che ti fa perdere la ragione, ragione irragionevole, stringente, oggi la chiamano paranoia.
Se l’Orlando designa quella forma di follia che chiameremmo dementia
praecox – Orlando è un uomo nel pieno dei suoi anni e delle proprie forze
–, chiameremo la follia del Tasso dementia paranoides. Come vuole Kraepelin, maestro in nosografia psichiatrica. Orlando vaga nel vuoto senza riconoscere se stesso e gli altri, Tasso indica ciascuno, compreso se stesso,
come un individuo di cui sospettare in modo radicale. Orlando non ha più
alcun contesto di riferimento, il suo è un delirio del contesto. Tasso fa
esplodere qualsiasi codice fiduciario. Si delineano nella demenza due forme principali: il delirio del contesto (Orlando) e il delirio del codice (Tor15
Montaigne, Saggi II, Milano, Bompiani, 2012, p. 12.
Preludio
33
quato Tasso). Le due gemelle del discorso psichiatrico del Novecento:
schizofrenia e paranoia16.
Il grottesco in Rabelais
Tra Ariosto e Tasso, in Francia, François Rabelais racconta un’altra follia:
il grottesco. Il Cinquecento è l’epoca del grottesco, nelle arti figurative i maestri sono Bosch, Bruegel; più tardi, Callot. Leggendo Rabelais non si può
fare a meno di pensare al Giardino delle delizie, ai Vizi capitali di Bosch o a
Margherita la pazza di Bruegel e poi, nell’arte contemporanea, da Chaïm
Soutine a Francis Bacon, il grottesco e il carnale, carnevalesco, permetteranno l’espressione figurale, linea ironica di fuga tra il figurativo e l’astratto.
Il figurale rende urgente focalizzare l’attenzione sulle distorsioni di una
figura che permane e non si dissolve nell’astrazione. Nel grottesco i corpi
si mostrano in maniera diversa, i loro confini col mondo vengono meno,
come già accade all’Orlando di Ariosto quando impazzisce. Qui però il fatto è popolare: gente, masse di donne e uomini, popolani che mostrano misure spaventose, sgraziate, mondi che rappresentano la povertà e l’abbondanza messe insieme come in un paradosso, come nella Commedia
dell’Arte veneziana, ripresa in Mistero buffo da Dario Fo. Zani – il contadino affamato, pronto al cannibalismo – sogna una moltitudine che si delizia in un campo, un giardino dell’abbondanza. Come se nel giardino dell’Eden non ci fosse alcun peccato originale, solo gozzoviglia. Il paradiso è un
regno d’infinita voluttà, diceva a fine Ottocento il Presidente folle della
Corte d’Appello di Dresda Daniel Schreber. In quel luogo che non sta da
nessuna parte (utopia), uomini e donne non sono più soggetti alle dinamiche del desiderio, essi vivono del semplice uso dei piaceri. Scene inverosimili, in cui l’incertezza, l’ansia e le brame del desiderio sono vinte dal comico, dal riso sguaiato pieno di eccessi.
Le avventure di Gargantua e Pantagruele sono da considerare come la
descrizione letteraria delle opere grottesche nelle arti figurative, o viceversa. Rabelais non costruisce alcuna trama narrativa completa intorno ai personaggi dei suoi racconti, questi vivono di episodi singoli, tra loro concatenati in modo strano, piuttosto ogni episodio è da considerare un guazzo e
queste figure attraversano avventure non necessariamente concatenate in
senso narrativo. È come se Rabelais avesse anticipato quella forma del ro16
Barbetta, P., “Delirio del codice, delirio del contesto”, in Ceruti, M., Lo Verso, G.,
a cura di, Epistemologia e psicoterapia, Milano, Raffaello Cortina, 1998.
34
La follia rivisitata
manzo moderno in cui il personaggio si definisce più per quello che gli accade di volta in volta che per la configurazione del racconto.
La follia è questo continuo accadimento eccessivo.
Un episodio racconta di come Gargantua mangiasse sei pellegrini in insalata. Posto che Gargantua è un gigante, che i frutti dell’orto sono grandi
come alberi, sei pellegrini al ritorno da San Sebastiano di Nantes decidono
di rifugiarsi sotto l’enorme lattuga che Gargantua si appresta a cogliere per
fare uno spuntino prima di cena. Già possiamo indovinare le conseguenze
cannibaliche di queste premesse. Viene percepito da Grangola qualcosa
che si muove nell’ultimo boccone, forse una lumaca, che Gargantua mangia volentieri: “Le lumache sono buone in questo mese”. I pellegrini, che
riescono a saltare la fase del trituramento dentale, stanno per venire ingoiati, ma, in virtù del dolore a un dente, Gargantua li fa uscire togliendoseli
dalla bocca con lo stuzzicadenti. I pellegrini non gridano né si mostrano,
per codardia, somigliano a lumache, Gargantua neppure li vede. Dal punto
di vista di Rabelais, tutto ciò che può accadere ai pellegrini è frutto di un
disastro naturale, di un insensato. Come se due mondi umani paralleli vivessero a contatto ignorandosi reciprocamente, salvo nei casi in cui il contatto è inevitabile, ma anche lì senza alcuna consapevolezza. Il pellegrino,
guarda caso, diventa lumaca, unica forma di riconoscimento.
Bruno e gli eroici furori
La follia buona di Erasmo sembra richiamare l’espressione del grottesco, una sorta di demenza, come quella di Orlando, ma senza la sua furia
distruttrice e senza lo studio – inteso nel duplice senso di applicazione alla
lettura e di fumo cospiratorio – del Tasso. Il furore descritto da Ariosto torna in Giordano Bruno17, piuttosto che come racconto, come trattazione.
Bruno affronta questo argomento riprendendo alcuni temi platonici. Per
esempio quando sostiene che tutti gli affetti e i legami possono essere ridotti a due: odio e amore18.
Di qui il furore poetico e la controversia tra canone e ispirazione, che
vede propendere i dialoganti degli Eroici furori decisamente dalla parte
creativa, contro il canone. Si tratta di una questione che sarà attuale nel capitolo sulla schizofrenia e i disordini del pensiero. Non che il canone non
serva, argomenta Tansillo, uno dei dialoganti dei Furori, ma i canoni sono
17
18
Bruno, G., Gli eroici furori, Milano, Rizzoli, 1999.
Bruno, G., Theses de Magia in Opere magiche, Milano, Adelphi, 2000, p. 491
Preludio
35
molteplici, non è il canone a formare la poesia, ma, al contrario, il poeta
fornisce un proprio canone specifico.
Il furioso mostra le piaghe del corpo e dell’anima. L’alto vessillo dell’amore si mostra nella sua controversia come speranza congelata e desiderio
cocente, porta tremori, freddo, ardore e fuoco. Rende muti e urlanti al cielo, fa piangere e rincuora, vivere e morire, ridere e lamentare. Questa contraddizione è il paradosso di un incontro irraggiungibile: il soggetto non riesce a raggiungere l’altro né con l’esposizione di sé (s’io impiumo, altri si
cangia in sasso), né con l’esposizione dell’altro (Pogg’altr’al cielo, s’io mi
ripogno al basso). Inseguirlo porta l’altro sempre a fuggire. A chiamarlo
non risponde e più cerchi più si nasconde.
Il paradosso amoroso sembra far da guida alla scaturigine del furore, si
tratta di un doppio legame da cui è impossibile liberarsi, non ci si può allontanare – l’amore è fonte irresistibile – e neppure si riesce a creare il legame. Ove proposto è rifiutato, ove si presenta è irraggiungibile.
Segue, quasi per necessità, la dinamica della gelosia: l’amato si toglie
via perché, malgrado le brame dell’amante, si mostra lontano e avversario.
Di qui la gelosia, che è tuttavia parte del medesimo vestigio che sta nel
cuore. Non si può espellere la gelosia, è parte dell’amore. I deliri di gelosia
sembrano in quest’opera mostrare che la follia è ineluttabile, è parte del legame d’amore, parte della vita.
Ci sono però diverse forme di furore, così come in Erasmo ci sono due
specie di follia. Invero in Bruno le forme del furore non sono contrapposte
tra loro, come in Erasmo, sembrano invece facoltà complementari. Per Erasmo, come il lettore ricorderà, una specie di follia maligna viene dall’inferno e porta guerre, brame di denaro e potere; l’altra, benigna, viene dell’infanzia e dalla creazione.
Al contrario le forme del furore cui fa riferimento Giordano Bruno possono essere ferine, che rispondono a impeti irrazionali; oppure animali, di
divinazione, come quando si è abitati dal dio; infine ordinate, che emergono da una certa divina astrazione cosciente.
Come ci fossero tre tipi di follia di cui la prima è distruttrice, feroce, la
seconda istintuale (coincide con visioni e capacità divinatorie inconsapevoli, nell’Ottocento definita telepatia), la terza filosofica, astrazione divina, arte della memoria19.
19
Bruno, G., Le ombre delle idee, in op. cit. Per queste considerazioni traiamo spunto, dentro la vasta letteratura intorno all’Opera bruniana, da Frances Yates. Yates,
F., L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972 e Giordano Bruno e la tradizione
ermetica, Roma, Laterza, 1981.
36
La follia rivisitata
La pazzia di Amleto
Di tutta quanta l’opera di Shakespeare – piena di folli, stolti, bricconi,
reggenti traditori e traditi – parlerò solo della follia del Principe di Danimarca20, su cui tanto si è già scritto, senza alcuna pretesa innovativa21.
Non si può dimenticare la follia lucida di Amleto – più di un nipote,
meno di un figlio – di cui si attende la vendetta. L’interesse per Amleto è
dato dalla constatazione che per la prima volta viene a costituirsi un setting
terapeutico vero e proprio, con tanto d’indicazioni e controindicazioni. Il
setting è predisposto a definire il controllo del principe da parte dello zio
Claudio (di cui Amleto recita sottovoce i versi più di un nipote, meno di un
figlio), l’uomo che deve uccidere per vendicare il padre.
Amleto ha una visione. Il fantasma del padre gli indica Claudio come
colui che lo ha assassinato, ponendo del veleno nel suo orecchio mentre
dorme, per derubarlo del suo regno e della moglie, madre di Amleto. Ma il
padre non si limita a questa rivelazione, giunge a chiedergli di vendicarlo.
Claudio non sa della rivelazione, tuttavia coglie le inquietudini di Amleto e incarica una serie di persone fidate di tenere il nipote sotto controllo terapeutico. Così, tra gli altri, Polonio, consigliere di corte, si propone con
l’impegno di avvicinare il Principe per prendersi cura di lui, allarmato per
la possibile relazione amorosa tra Amleto e la propria figlia, Ofelia. L’intrigante Polonio, figura antesignana dello psichiatra classico, si reca presso
Claudio con alcune missive di Amleto a Ofelia che giustificano le indagini; queste missive contengono, tra l’altro, alcuni versi “Alla celestiale, idolo del mio cuore, floribella Ofelia...”.
Dubita che le stelle siano fuoco
Dubita che risplenda il sole in cielo
Dubita che la verità sia vera
Ma del mio amore mai non dubitare
Polonio immagina che la malinconia di Amleto sia la conseguenza della
sua opposizione verso l’amore tra lui e Ofelia e riceve, per così dire, l’incarico di far da terapeuta al Principe, che subito incontra:
- Mi conosce il mio signore?
20
21
Shakespeare, W., Amleto, Milano, Mondadori, 1967.
Su Shakespeare la letteratura è sterminata, senza contare i riferimenti letterari o
anche solo i riferimenti ad Hamlet, le sue interpretazioni, i suoi rifacimenti, solo
in Italia, da Bene e Testori. Certo una nota non basta.
Preludio
37
- Fin troppo. Voi siete un pescivendolo.
- Oh, ma no, monsignore!
- Allora vorrei foste altrettanto onesto.
- Onesto, monsignore?
- Già. Un uomo onesto si pesca sì e no su centomila a questi chiari di luna...
- Parole sante, monsignore.
- Perché se il sole genera col suo bacio la verminaia nella carogna d’un
cane... Avete voi una figlia?
- Sì ce l’ho, signore.
- Non la lasciate passeggiare al sole. Concepire è una benedizione, ma non
al modo come potrebbe concepire vostra figlia. Occhi aperti, amico!
- (tra sé) Che intende dire? E sempre su quel tasto, mia figlia. Eppure a tutta prima non mi aveva riconosciuto; m’aveva preso per un pescivendolo (gesto
allusivo alla sua pazzia). È partito. Partito. Partitissimo. Eh, anch’io, per vero
dire, ai miei bei dì conobbi “d’amor le pene”. Ma torniamo alla carica. (Ad Amleto) E che legge di bello il mio signore?
- Parole, parole, parole.
Si tratta di un classico caso d’inquisizione psichiatrica ante litteram. L’intermezzo in cui Polonio pensa tra sé è il momento della diagnosi assoluta. Il Principe è indubbiamente folle, confonde il suo terapeuta con un pescivendolo, gli
parla, in modo oscuro della figlia – oscuro per Polonio, ma chiaro al lettore – in
relazione al gioco interno al termine concepire. In altre parole Amleto sembra
dire a Polonio: attento a tua figlia che è così bella che se la lasci andare in giro,
rischia la propria verginità. Polonio aggiunge questa espressione agli sproloqui
insani, per giungere a una conclusione: la pazzia. Poi riconosce in questa pazzia,
una sorta di follia d’amore che anche lui attraversò in gioventù. Infine si rivolge
ad Amleto che consulta un libro: “Che leggete di bello mio signore?” E questi gli
risponde che legge parole, che altro se non parole si può leggere infatti?
Risposte strane, di un folle che già sa di essere sospetto, che già è sotto giudizio, che già sa che qualcuno lo sta diagnosticando. Meglio non collaborare.
L’opera di Shakespeare meriterebbe ben altre e più ampie considerazioni. Queste note sono soltanto una riflessione sulla follia di Amleto.
Certo Shakespeare è autore di follia e i moderni clinici – psichiatri, psicologi, infermieri – farebbero bene a frequentarlo un po’ di più, per imparare qualcosa.
E quella dell’Hidalgo
Un altro indimenticabile caso clinico è Don Chisciotte. Vale la pena andare nella Mancia, per vedere il paesaggio suggestivo di quelle pagine. Mi
38
La follia rivisitata
capitò di visitarla nel 2005, in occasione del quarto centenario della pubblicazione del Don Chisciotte. Scendendo da Madrid, verso Toledo, attraversando la Castiglia, verso Albacete, si possono visitare El Toboso, Belmonte, la campagna coi mulini a vento, i musei dedicati all’opera di Cervantes.
In quei mesi indimenticabili, tra le altre sorprese, presso il ristorante Aurelio di Toledo ricevemmo, dopo il pranzo, l’omaggio di una copia integrale
del Don Quijote22, con introduzione critica di José Luis Pérez López. Presso la Cuenca, al Museo de Casa Zavala, un’interessante esibizione: Don
Quijote. Uno sguardo nuovo, segnalava l’attualità dell’opera che “cambiò
radicalmente la maniera di raccontare, di avvicinarsi al pubblico, al
lettore”23.
La libertà, Sancho – afferma Don Chisciotte – è uno dei doni più preziosi
che diede agli uomini il cielo; con lei non si possono uguagliare i tesori che nasconde la terra o che copre il mare.
In questa frase Cervantes presenta la lucida follia del Chisciotte.
La profonda conoscenza dell’opera di Ariosto da parte di Cervantes è testimoniata da uno dei sonetti introduttivi al Don Chisciotte:
Se non sei pari, neppure lo hai avuto:
poiché potresti esserlo tra i mille
nessuno può competer dove appari
invitto vincitor, eppur mai vinto
Orlando son, Chisciotte, che perduto
per Angelica vidi mar remoti
offrendo alla Gloria nei suoi altari
quel tal valor che superò l’oblio
Non posso esserti egual perché il decoro
si deve alle prodezze tue e alla fama
Posto che, come me, perdesti il senno.
Egual tu mi sarai, se il serio moro
e il fiero scita domi, il che ci chiama
eguali in amor con mal successo24.
Se Ariosto, nella figura di Orlando, inaugura la crisi dell’identità cavalleresca come crisi esistenziale e del soggetto cavaliere, Cervantes ne descrive il declino, l’oblio e il ricordo decadente e insensato nel Chisciotte.
22
23
24
Cervantes de, M., Don Chisciotte della Mancia, Torino, Einaudi, 1956.
Revenga, L., Don Quijote: una nueva mirada, in, AA. VV., Don Quijote. Una
nueva mirada, Quenca, Museo Casa Zavala, 2005.
Cervantes, op.cit. p. 22, [trad. mia].
Preludio
39
Orlando è un eroe vero, impegnato in missione là fuori, contro i mori.
Chisciotte è solo un illuso, perduto tra visioni di mulini a vento. Tuttavia il
secondo libro, uscito dieci anni dopo, si apre con una lunga conversazione
tra il barbiere, il curato e Don Chisciotte. Gli argomenti saranno la cavalleria e la follia. Non possono certo mancare numerosi riferimenti a Orlando
e all’opera di Ariosto, che anche il barbiere e il curato mostrano di conoscere assai bene. Sono commenti dotti e pieni di attualità. Il Chisciotte descrive la sua immagine di Orlando: uomo possente, di media statura, non bello. Il curato gli risponde che se è come descritto dal nostro Hidalgo, allora
è chiaro perché Angelica gli preferisca Medoro. Qui Don Chisciotte descrive, in maniera superba, le caratteristiche isteriche e fatali di Angelica:
Quell’Angelica, signor curato, fu una ragazza scombinata, vagabonda e un
po’ capricciosa e non lasciò il mondo pieno della fama della sua bellezza ma
anche di quella delle sue impertinenze: respinse mille signori, mille valorosi e
mille sapienti per accontentarsi d’un paggetto imberbe, senz’altro bene di fortuna, né nome fuorché quello di riconoscente che gli meritò la fedeltà all’amico. E il grande cantore della sua bellezza, il famoso Ariosto, non osando, o non
volendo cantare quella che capitò a questa signora dopo la sua miserabile resa,
la lasciò là dove disse:
E come del Catai s’ebbe lo scettro
forse altri canterà con miglior plettro25.
Le figure chiave del primo romanzo moderno – così possiamo definire
l’opera di Cervantes – sono, oltre a Don Chisciotte: Sancio Panza, Ronzinante e la bella Dulcinea del Toboso.
Don Chisciotte è un Hidalgo, letteralmente il figlio di qualcuno. Qualcuno d’importante, benché non si ricordi il titolo. L’Hidalgo in Spagna e
Portogallo è una figura che sta tra il nobile titolato e il popolano. Alcune
volte proprietario terriero, altre caduto in disgrazia per avere perso le sue
proprietà. È quel che sta accadendo all’Hidalgo Alonso Quijano, ribattezzato Don Chisciotte a partire dalle proprie avventure cavalleresche. L’uomo, intorno ai cinquanta, da tempo è immerso nella sua vasta biblioteca di
romanzi cavallereschi e passa giorni e notti senza riposo a leggere quei libri. Il che gli fa trascurare le amministrazioni della casa, cadendo nell’abbandono e nella povertà. Queste letture hanno cominciato a offuscare la
sua ragione. Gli piace Feliciano de Silva per la chiarezza della prosa: “La
ragione della sragione che in me avanza, in modo tale da indebolire la mia
ragione, che con ragione mi lamento della vostra bellezza”. Sono questi ra25
Cervantes, M., Don Chisciotte, vol. II, op. cit., pp. 603-4.
40
La follia rivisitata
gionamenti, che non avrebbe potuto seguire neppure Aristotele, che fanno
perdere all’Hidalgo il senno e il giudizio.
L’epifania di Don Chisciotte consiste nel prendere la decisione di essere
uno dei cavalieri che stanno dentro i libri che legge: Lancillotto, il Cid
Campeador, Baldovino, ecc.
Decide di coinvolgere un contadino sempliciotto, Sancio Panza, al
quale promette ricchezze se gli farà da scudiero; recupera armi e armatura del bisnonno, prende il suo misero cavallo, Ronzinante, e insieme a
Sancio Panza e il suo asino, si avvia verso avventure cavalleresche. La
sua follia consiste in una trasfigurazione della realtà, nell’avere delle visioni. Al posto dei mulini a vento, vede giganti da combattere e, quando
Sancio Panza cerca di adattarlo al principio di realtà, risponde che quel
che si vede sono trasfigurazioni magiche di quanto realmente sta accadendo, la realtà esterna viene così rivestita dalle memorie cavalleresche
che, fresche di lettura, si impongono come un Reale. L’azione conseguente è quella di scagliarsi, lancia in resta, contro il nemico, qualunque
cosa possa accadere.
A differenza di Orlando non si tratta di pura perdita del senno, Chisciotte non viene colto da demenza. Chisciotte soffre di iper-riflessività, vede
più cose di quante non ne accadano, trasfigura un banale evento della vita
quotidiana in un evento straordinario, nel suo caso, cavalleresco. Così, allorché viene bastonato da un garzone per le insolenze contro alcuni mercanti, oppure quando cade a terra e non riesce a rialzarsi, comincia a sentirsi Baldovino (quando Carlotto lo lasciò ferito sulla montagna) e quando
un contadino lo alza per riportarlo al paese: “gli domandava che male sentiva […] in quel momento, dimenticandosi di Baldovino, si ricordò del
moro Abindarráez quando il governatore di Antequera, Rodrigo di Narváez,
lo prese e lo condusse prigioniero al suo castello.”26
Delirio e malinconia. Delirio che porta Don Chisciotte a leggere l’interlinea della banale realtà della Mancia come un mondo che appartiene ai poemi delle Crociate e delle imprese del Santo Graal; malinconia di un uomo
che sta consumando la sua vita.
Invero la malinconia riguarda principalmente la seconda parte del romanzo dedicata alla bella Dulcinea del Toboso, donna alla quale si è votato, irraggiungibile. Dulcinea non appare mai in persona, la sua ricerca esasperata porta Sancio Panza a imbrogliare il Chisciotte cercando di farla
apparire in una contadina sgraziata, che rifiuterà di ricevere gli onori di
26
Ivi, vol. I, p.59
Preludio
41
Dulcinea, prendendoli, a ragione, per stramberie. Forse è una figura immaginaria, così la descrive infine Don Chisciotte medesimo:
Iddio sa se c’è al mondo Dulcinea, o se non c’è, se è immaginaria o non immaginaria; e non son prove queste la cui prova debba essere spinta fino in fondo. Non l’ho generata né partorita io la mia signora, anche se io la vedo come
conviene che sia una dama che raduna in sé tutte le qualità che possano farla famosa in ogni parte del mondo, vale a dire: bella senza macchia, seria senza superbia, affettuosa ma con onestà, grata perché cortese, cortese perché bene educata, e finalmente nobile per nascita, perché sul buon sangue splende e
campeggia la bellezza a un ben più alto grado di perfezione che non nelle belle di umile nascita27.
Se il grottesco di Brant e Rabelais dipinge una follia assoluta, priva di
legame con l’umano – più simile alla vita reale del Tasso – Cervantes, ispirato da Ariosto, è capace di descrivere l’animo femminile – sia in Angelica
che nella sua Dulcinea – con uno stile romantico, immedesimandosi nella
follia con quell’empatia che fa di lui un autore irraggiungibile. Dulcinea
appare nelle parole, mai di persona, come un’epifania che riemerge nel romanzo contemporaneo, da Goethe e Stendhal, fino a Thomas Mann e Joyce. La figura terrena dell’Hidalgo Chisciotte, durante i momenti domestici,
preoccupano la giovane nipote e l’anziana serva, il barbiere e il prete, che
cercano di curarlo. Non sono che l’anticipazione di figure come il Gonzalo Pirobutirro della Cognizione del dolore di Gadda o il Leopold Bloom
dell’Ulisse di Joyce.
Conclusioni
Brant, Erasmo, Ariosto, Tasso, Bruno, Shakespeare, Cervantes hanno
scritto della follia, e altri ancora e ognuno di loro in più occasioni, come
folli (Tasso), come saggi (Erasmo e Bruno), come poeti (Shakespeare e
Ariosto) e come romanzieri (Rabelais e soprattutto Cervantes).
Più avanti, nella poesia, nel teatro e nel romanzo moderno la figura del
folle non scomparirà; al contrario la follia sarà sempre uno spirito che pervade la letteratura, il teatro, e successivamente le arti contemporanee, come
il cinema e la fotografia. Lo stesso accade per la scultura e le arti figurative. Ci saranno opere di folli e opere folli. Il romanzo di formazione – da
Stendhal e Goethe, fino a Joyce e Virginia Woolf – sempre conterrà vari
27
Ivi, vol. II, p. 854.
42
La follia rivisitata
elementi di follia. Ma a partire dal Settecento assistiamo ad una separazione radicale tra la follia e i matti. Questi vivranno segregati nei manicomi,
con le loro diagnosi che, da Esquirol a Kraepelin, si distribuiranno in un
monumentale sistema di classificazione.
Quel sistema, che è il sistema diagnostico psichiatrico contemporaneo,
è organizzato secondo una manualistica, per canoni stabiliti secondo l’albero di Porfirio: sistema di classificazione secondo i criteri di Genere, Specie, Differenza, Proprio e Accidente. Così la prima partizione riguardante
la mente umana è che l’animale razionale (l’essere umano) può avere una
patologia della razionalità. La follia, che fino al Seicento allignava nell’animo umano come sua parte integrante, diventa qualcosa che c’è, o non c’è,
in ogni singolo individuo, a partire dal suo modo di pensare o di mostrare
affezioni. Descartes per primo è costretto a eliminare la follia dal proprio
metodo filosofico al fine di creare idee chiare e perfette. La follia deve venire espulsa dal corretto procedere filosofico. In altri termini: i matti non
possono pensare perché sono privi di mente (amentes).
La partizione cartesiana e la classificazione porfiriana daranno vita al sistema psichiatrico. Lo vedremo nei capitoli seguenti.
43
II.
UMORI
Se lo stato non depressivo è capacità di concatenare, il depresso, al contrario, inchiodato al suo dolore, non concatena più. Di
conseguenza, né agisce, né parla.
Julia Kristeva, Soleil noir, p. 46, [trad. mia]).
Un kosmos tinto di nero
Il cittadino di una città greca (la polis) vede la totalità racchiusa nella città, come se non ci fosse altro che l’ordine della polis, dove si svolge la vita
quotidiana. L’ordine è qualcosa di immanente alla vita. L’analogia tra ordine e vita durerà a lungo. Persino Kant in pieno Illuminismo dirà: “Il cielo
stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Il rapporto tra microcosmo e macrocosmo assume tutto il suo splendore nel Rinascimento, e si
estende all’Illuminismo e al Romanticismo.
Tra gli antichi kosmos è ordine che emerge dalla composizione di
quattro elementi, aria, acqua, terra e fuoco. Parallelamente nel corpo
umano gli elementi si declinano in umori: flegma, bile gialla, bile nera
e sangue. Elementi e umori sono corrispondenti. Gli uni danno corso
alle stagioni, gli altri al ciclo vitale. Uno degli elementi/umori può prevalere sugli altri. Anche se la vita è ordinata, ogni cosa subisce temporanee anomalie o irregolarità accidentali, come la follia. Questa la mentalità di un antico.
Maestro di umori è Ippocrate (circa 460-377 a.C.), che non è un medico,
ma due scuole mediche tra loro diverse e complementari, benché talvolta
in contrasto, una a Kos, l’altra a Cnido. A partire dagli studi ippocratici si
sviluppano considerazioni sul corpo che avranno influenza fino al secolo
diciassettesimo. Sino a quel secolo nuove scuole di medicina custodiscono
e tramandano una conoscenza che commentano e discutono in modo critico. Tuttavia una cosa è certa: il corpo è normale quando il suo stato fisico
è temperato dall’equilibrio degli umori.
Crasi è la parola chiave che indica equilibrio psicofisico. Significa composizione: mettere in armonia un insieme. La malattia è acrasia (squilibrio), eccesso/scarsità di umori in virtù di anomalie interne al corpo, è par-
44
La follia rivisitata
te dell’esistenza umana, eccedenza e sottrazione. L’eccesso di un umore
sottrae all’essere umano operosità.
Secondo Isidoro di Siviglia1 (560-636), i Greci distinguono le malattie tra
acute e croniche. “Dal sangue e dal fiele [bile gialla] hanno origine le affezioni
acute, che i Greci chiamano oxéa; dalla flemma e dalla melancolia [bile nera],
invece, derivano i disturbi di lunga durata, che i Greci definiscono krónia, ossia cronici”. Tra le malattie acute Isidoro menziona la frenesia: “La frenesia è
stata così chiamata per il fatto di compromettere il funzionamento della mente
– i Greci infatti danno alla mente stessa il nome di phrénas – ovvero perché chi
la patisce infrendet dentibus: frendere infatti significa battere i denti.”2
Denti che battono per il freddo, denti che si mostrano per rabbia, bruxismo, denti che stridono di notte, denti per mordere la lingua, la carne, resti
di una natura ferina, segni di una presenza nascosta quando battono di paura3. Ancor più, insegna Isidoro, phrénas indica le viscere e il respiro.
Termine chiave del Corpus Hippocraticum, phrenes significa diversi organi: cervello, diaframma, cuore. Quando le phrenes sono dolenti producono malattia acuta, la phrenitis. Ferisce il diaframma, produce sguardo fisso
e perdita del senno.
Assai prima d’Ippocrate, nell’Iliade, Agamennone e Ettore sono affetti da
phrenes melainai. Il colore nero, l’umore nero, svolge già uno strano ruolo.
Rende aggressivi, violenti, vendicativi; le phrenes di Ettore diventano nere a
causa del dolore per la morte di Eufobo. E di nuovo nella tragedia di Aiace.
A proposito dell’Aiace di Sofocle Jean Starobinski (1929) scrive:
Nel personaggio di Aiace, Sofocle fa intervenire l’uno dopo l’altro, nel corso di una sola giornata mortale, i due stati opposti dell’assoluto smarrimento e
dell’estrema lucidità, della costrizione subita e della libera decisione di morire.
Questi stati appartengono a momenti perfettamente distinti, e la loro opposizione, segnata con tanta chiarezza, si accompagna alla ricerca dell’effetto tragico.
Dalla rivolta allo smarrimento, dallo smarrimento al riconoscimento del disonore, da questa umiliante consapevolezza alla morte volontaria, con una precisione sorprendente Sofocle scandisce il succedersi, il concatenarsi e il distinguersi degli atteggiamenti passionali: durante il corso passionale della
1
2
3
Isidoro, Etimologie o origini, ed. critica con testo a fronte a cura di Angelo Valastro Canale, Utet, Torino, 2004, pp. 359 sgg.
Ivi.
I denti sono parte dell’apparato orale, ritiratosi in virtù della scoperta del fuoco, che
rende la carne tenera, in virtù del pollice opponibile, che permette l’uso di selci affilate, che la spezzettano, la frammentano. Eppure la perdita del prognatismo, la riduzione
della potenza del morso non ha reso l’uomo meno aggressivo e violento, al contrario.
Umori
45
rappresentazione il lettore moderno ha l’impressione di veder disporre singolarmente i colori puri, nei quali si scompone la luce accecante del suicidio4.
Nell’Aiace Sofocle narra la perdita del senno da parte dell’eroe quando,
dopo che i capi Atridi non lo eleggono, a vantaggio di Ulisse, comincia a
nutrire la sua furia, tramando di sterminarli. La notte esce dal suo accampamento e, incantato da Atena, si avvia verso il luogo dove lui suppone
stiano dormendo i duci, inizia a trafiggerli uno per uno, la vista offuscata,
la mente infuriata. Quando però riprende lucidità si accorge di avere solo
fatto strage di armenti, irretito dalla dea. Il disonore di quei gesti gli fa riacquistare lucidità. Pensa a come verrà deriso, a come ha disonorato il padre Telamone e tutta la stirpe di Salamina. A quel punto decide di trafiggersi con la spada che gli fu data, durante uno scambio, da Ettore.
Si parla di un’epoca in cui furia, frenesia e malinconia paiono come agglutinate in un sentimento unico che può evolvere nella vendetta di Achille per Patroclo, nella tristezza inconsolabile di Andromaca per l’imminente perdita di Ettore, nel suicidio narcisista di Aiace. Passioni di chi sceglie
le virtù eroiche5. Il sangue che sgorga dall’Aiace trafitto è di colore nero.
Starobinski s’interroga sulla questione del nero6.
Nero è il sangue che esce dalle nari e dal fianco di Aiace. Sofocle ha forse
voluto lasciare intendere che il delirio di Aiace, quindi la sua prostrazione, sono
di quelli che si accompagnano a un eccesso di bile nera? A questa domanda non
si può rispondere con certezza […] La melanconia, umor nero, esercita il suo
imperio in quanto agente fisico. Questa sostanza può entrare in effervescenza,
ma il calore che così produce lascia rapidamente il posto al freddo. Nel comportamento del malinconico, questa mutevolezza si esprime nell’alternanza di
furore e prostrazione di agitazione e di tristezza.7
Secondo George Steiner8 la funzione della tragedia attica consiste nel
mostrare le conseguenze di azioni insensate, funzione didascalica che si
trasmette attraverso un nuovo uso della lingua e del ruolo teatrale. La sventura del tempo arcaico, per Steiner, serve a consolidare la civilizzazione at4
5
6
7
8
Starobinski, J., Tre furori, Milano, SE, 2006, p. 23-24.
Todorov, T., Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti, 1992.
Georges Bataille ridescrive questi fenomeni con il termine francese dépense, che
traduciamo con dilapidazione: un gesto che va oltre Il limite dell’utile, una funzione sociale che accede a uno spazio sottratto alla legge dello scambio, il luogo della malinconia, dunque della furia e della frenesia. Cfr. Bataille, G., La parte maledetta, Bollati Boringhieri, 2003; Bataille G., Il limite dell’utile, Adelphi, 2000.
Starobinski, op. cit., p. 57 sgg.
Steiner, G., Le Antigoni, Milano, Garzanti, 2003.
46
La follia rivisitata
tica attraverso l’insegnamento di ciò che è terribile. Nella relazione antagonista tra dechirure9 (squarcio, lacerazione) e comunicazione, la tragedia
mostra la dechirure per fondare la comunicazione come compassione, ciò
che Aristotele10 definisce katharsis.
La tragedia è forma espressiva elettiva per la malinconia. Se pensiamo
alla tragedia greca nella sua forma canonica, osserviamo come gli eventi
siano spesso già accaduti al momento della messa in scena. Gli eventi sono
fuori scena. Sono ciò che è “visibilmente invisibile di sé”, com’ebbe a dire
Carmelo Bene (1937-2002).
Per Friedrich Nietzsche11 (1844-1900) il culmine di questa forma espressiva si mostra nell’incontro tra l’elemento dionisiaco e quello apollineo.
Apollo e Dioniso si somigliano e si oppongono, luogo della sintesi disgiuntiva. Tra gli antichi Apollo è il dio dell’equilibrio, Dioniso quello della perdita d’identità. L’uno richiama le feste orgiastiche, il chaos, l’osceno; l’altro la possibilità di esprimere la parola che non si può pronunciare.
Proviamo a pensare a un mondo agreste dove il rapporto con la natura e con
la terra è dominante. Pier Paolo Pasolini ci ha indicato un’immagine di
quel tipo di vita nelle scene cinematografiche delle sue tragedie greche. Un
mondo immediato, duro, volti scavati, vestiti rurali, lingue locali.
Se prendiamo la più nota tra le tragedie classiche, l’Edipo Re di Sofocle,
osserviamo che gli orribili eventi che reggono l’opera (l’assassinio del padre, il matrimonio proibito con la madre, la relazione incestuosa che dà vita
a quattro figli/fratelli) sono già compiuti quando la tragedia incomincia,
anche se Edipo non ne è consapevole.
Sulla scena si vede l’indagine di Edipo tesa a scoprire le ragioni per cui
Tebe, la città che governa, è sotto la maledizione degli dei. Questa parte, la
narrazione degli eventi, è la parte apollinea. Il malinconico è narratore di
tragedia, memore di eventi terribili, incapace di liberarsene. Come si direbbe in psicoanalisi: incapace di rimozione.
9
10
11
Il termine francese viene usato da Bataille, cfr. Bataille, G., La parte maledetta,
Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
Aristotele, Poetica, Milano, Rizzoli, 1987.
Nietzsche, F., La nascita della tragedia, in Opere, Vol. III, Tomo I, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1976.
Umori
47
Malinconia e bile nera
Con la medicina ippocratica s’interrompe una visione della malattia
come fenomeno magico, dovuto a possessioni divine o demoniache. Così
l’epilessia viene analizzata nella sua fenomenologia e nel suo decorso, cercando di trovare droghe o rimedi per curarla. L’epilessia – che prima di Ippocrate viene definita malattia sacra e spiegata come evento magico – è
concepita dalla medicina antica come eccesso di flegma freddo che affluisce al cervello. In successione vengono sviluppate una serie di considerazioni, che vedremo oltre, intorno per esempio al lunatismo, cioè una connessione con i cicli lunari che varrà per molti altri eventi naturali, dalle
maree alle nascite.
La dottrina delle corrispondenze si estende dalla fisiologia, che caratterizza le fasi del ciclo vitale, ai tratti personali e al ciclo delle stagioni:
- il sangue corrisponde all’infanzia, la personalità del sanguigno è gioviale, ingenua, infantile, calda e umida, come la primavera;
- all’opposto la bile gialla corrisponde alla vita adulta, è furiosa e frenetica, caratteristica del giovane maschio impetuoso, calda e secca,
come l’estate;
- la bile nera corrisponde all’invecchiamento, tipico della malinconia,
la sua stagione è l’autunno, freddo e secco;
- infine il flegma caratterizza la vecchiaia e la morte, così come il rigoroso inverno, freddo e umido, flemmatico il temperamento di chi tende ad avere questo umore in eccesso.
Il temperamento più studiato è la malinconia12, che fino al Seicento conduce verso la malattia più grave, corrisponde a un eccesso di bile nera, che
12
Sulla malinconia, o melanconia, la vastità di ricerche e produzioni letterarie, filosofiche, scientifiche, in arti figurative è sterminata. Alcune opere verranno menzionate nel proseguire del capitolo. Mi limito qui a citare poche opere necessarie.
Tra queste, spicca in assoluto Klibanski, R., Panofski, E., Saxl, F., Saturno e la
melanconia, Torino, Einaudi, 1983. Inoltre, sul piano clinico: Binswanger, L., Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Torino, Bollati, 2006; Borgna, E., Malinconia, Milano, Feltrinelli, 1998 e, più recente, Crosali Corvi, C., La depression,
affect central de la modernité, Rennes, P.U. De Rennes, 2010. Infine, è di recente
pubblicazione il volume a cura di Gattico, E., et al., Bile nera, nove saggi sulla
melanconia, Bergamo, Dalla Costa, 2013, con contributi di psicologi, filosofi,
musicologi, artisti. Segnalo anche un libro che sconsiglio per lo stile ultradivulgativo e riduttivo, pieno di aneddoti, tipico della vecchia storiografia anglosassone,
da non leggere: Arikha, N., Gli umori, Bompiani, 2009.
48
La follia rivisitata
in greco è la composizione di melàine (di colore nero) e chole (bile) e ha
sede nella milza.
Solo successivamente emerge la figura del malinconico: geniale, triste,
inconsolabile, sensibile, dotato di talento, ma anche, a tratti, frenetico, furioso, mortifero. Ne scrive Aristotele13 nel Problema 30,1. Pure in Aristotele, accanto all’uomo di genio, vengono elencate figure d’azione come Eracle e lo stesso Aiace. Prima di Aristotele, è ancora Ippocrate14 a
sottolineare queste caratteristiche nelle Lettere sulla follia di Democrito. A
Ippocrate viene chiesto di recarsi ad Abdera dai concittadini di Democrito,
per prendersi cura di lui. Quando giunge in città i suoi abitanti lo accolgono e lo conducono presso la spianata sottostante l’altopiano, là vive Democrito, si vede da lontano, fuori casa, intento a sbudellare animali di piccolo
taglio, cerca la bile nera. I cittadini di Abdera invitano Ippocrate a scendere l’altopiano, per incontrare Democrito, non senza metterlo in guardia da
possibili reazioni aggressive e importune del filosofo ormai insano.
Ippocrate giunge presso la casa di Democrito e gli si accosta. Democrito
lo ospita, è gentile. Alle richieste del medico di spiegargli la sua condizione,
il filosofo risponde con il discorso del mercato. Sostiene Democrito che l’affanno degli uomini per lo scambio e gli affari è davvero folle in questo mondo. Il mondo che gira intorno a un circolo vizioso e ripetitivo che non si ferma mai. Ippocrate riconosce che Democrito ha ragione: la sua è saggezza e
la follia è un fenomeno della massa, non caratteristica del singolo. Ippocrate
riconosce pienamente il contesto culturale che produce la follia.
Anatomia della Malinconia, di Robert Burton (1577-1640) è un imponente trattato barocco nel quale Burton, pastore anglicano e bibliotecario di
Oxford, si firma col nome di Democritus Junior richiamandosi alle Lettere
di Ippocrate. Egli però non s’immedesima in Ippocrate, ma nel suo paziente Democritus. Come lui è malinconico e descrive la malattia a partire da
un sapere introspettivo, che mostra fin dall’inizio. Si rivolge al lettore presentandosi come un buffone insolente che pretende di usurpare il nome altrui: la malinconia è la condizione del melanconico, io sono tale. Experto
crede Roberto!, Credi a Roberto, che è esperto!
Si costituisce una nuova conoscenza. Cardano e Cicerone, sostiene Burton, scrissero un De Consolatione dopo la morte di un figlio, e Sallustio
disse: “Ciò che gli altri odono e di cui leggono, l’ho sentito e messo in pratica io stesso; essi traggono il loro sapere dai libri, io traggo il mio dalla
malinconia”.
13
14
Aristotele, Problemi, Milano, Bompiani, 2002.
Ippocrate, Lettere sulla follia di Democrito, Napoli, Liguori, 1998.
Umori
49
Burton è il primo paziente che racconta la propria malattia agli altri, è il
primo autore che pone la questione se sia possibile conoscere la follia
dell’altro, al di fuori del resoconto interno. Burton è autore di singolarità,
letterato, non scienziato. Solo il folle può parlare adeguatamente della sua
follia, in prima e in terza persona. Altra forma di conoscenza, conoscenza
che parte dalla posizione esistenziale di chi vive un’esperienza, fatta per
prendere posizione, per creare una frattura. Qualunque cosa abbiate appreso sulla malinconia dai libri, la mia malinconia è al di là di ciò, consiste in
un’eccedenza al sapere libresco, categoriale o interpretativo. Inoltre Burton pone per la prima volta in modo chiaro il problema della diagnosi, che
si fa e si disfa: sono un melanconico, ma non ho uno standard di malinconia, quella malinconia che vivo è la mia, fa parte della mia biografia.
Potremmo considerare Robert Burton un antesignano delle più importanti questioni filosofiche del Novecento: il dibattito intorno a comprensione e spiegazione. Gli umanisti, che propendono per la comprensione, pensano alla possibilità di fondare le scienze umane partendo dalla singolarità
di un evento. L’evento può essere rivissuto attraverso il suo racconto, come
accade in psicoanalisi quando si racconta/ascolta un sogno. Gli scienziati
duri propendono per la spiegazione secondo cui tutto ciò che si può rendere oggetto della scienza deve essere osservabile e descrivibile con un linguaggio operazionalizzato, che possa falsificare la spiegazione proposta.
Burton, nell’Anatomia della malinconia, già si dispone, trecent’anni
avanti, a sostegno della prima posizione, almeno per quanto riguarda la
comprensione della malinconia. Potremmo definirlo un proto-psicoanalista, al contempo riprende un tema antico: quello del guaritore che, per essere tale, deve essere ferito. Oppure semplicemente del testimone della
propria esperienza identitaria, come accade oggi ai nuovi movimenti identitari che si riconoscono in una categoria diagnostica, trasformandola in
differenza sociale ed esistenziale15.
A partire dall’Autunno del Medioevo16, la malinconia assume la postura dell’angelo di Albrecht Dürer (1471-1528) in Malinconia I: seduto,
sguardo pensieroso nel vuoto, gomito appoggiato al ginocchio, mento posato sulla mano, avambraccio che sorregge la testa pensante. Ogni pensiero un peso.
15
16
Mi riferisco per esempio ai movimenti per la neurodiversità di cui tratterò nel
quarto capitolo.
Huizinga, J., op. cit.
50
La follia rivisitata
L’opera di Dürer ritrae l’angelo vicino a un edificio e oggetti che simboleggiano le pratiche alchemiche: la sfera, il poliedro (figura solida dalle
molteplici facce), una scala a pioli, un putto, la clessidra, la bilancia e, tra
gli altri, il quadrato magico17.
Tra maghi e alchimisti è diffusa l’idea che si possa ottenere l’oro dal
piombo così come trarre le anime immerse nel buio per trasformarle in anime splendenti. Per analogia la trasformazione del piombo in oro avrebbe
l’effetto di ristabilire l’equilibrio e l’armonia nell’animo malinconico. Dal
nero alla luce. Gli strumenti rappresentati da Dürer hanno questo fine, in
particolare il quadrato magico, composto da venti sotto-quadrati ciascuno
contenente un numero. Sommando ogni riga, ogni colonna e ogni obliqua
del quadrato la somma dei numeri dà sempre trentaquattro. Questo è solo il
più elementare tra i giochi matematici da svolgere18.
Il malinconico, scrutando la quantità di giochi che si possono comporre,
trae piacere dal numero di relazioni armoniche sottostanti ai quadrati. Riceve l’impressione di un’armonia universale, si distoglie dall’oscurità, correggendo l’umor nero, che lo pervade, con la curiosità del gioco. Perché ciò
avvenga è necessario avere una passione per la conoscenza, ma è proprio
questo il talento del malinconico. Saturno, il suo pianeta, prende il nome
dalla composizione del latino satur, che significa pieno, con il greco nous,
che vuol dire intelletto. Il malinconico è pieno d’intelletto; di qui la tradizione che, da Democrito in poi, vuole gli intellettuali sofferenti di malinconia. Un rompicapo come il quadrato magico giova. Il malinconico lo contempla prendendosi cura di sé, senza rendersene conto.
A ognuna delle fasi della vita, a ciascuno degli umori, si può anche far
corrispondere un canone narrativo: la commedia primaverile, storia a lieto
fine, l’epica estiva, che corrisponde al romanzo moderno, la tragedia, tipica della malinconia, infine la fredda satira19.
17
18
19
Per un’interpretazione esaustiva di Malinconia I di Dürer cfr. Schuster P-K., Melancolia I, Dürer et sa postérité, in, Claire, J., Mélancholie, génie et folie en Occident, Catalogo Galeries du Grand Palais (10 ottobre 2005-16 gennaio 2006),
Gallimard, 2005.
In un’immagine che ritrae il medico alchimista Paracelso (1493-1541) mentre lavora, si notano, alle sue spalle, due diversi quadrati magici, quello a venti caselle
dell’incisione di Dürer e uno a venticinque caselle. In matematica è una matrice a
n caselle la cui somma è data dalla funzione: M(n) = ½ n (n2 + 1). Coevo di Paracelso, Cornelio Agrippa (1486-1535) descrisse in dettaglio i quadrati magici, nel
testo Filosofia occulta, in connessione agli insegnamenti della Kabbalah.
Frye, N., Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 2000.
Umori
51
Dal genio malinconico al monaco accidioso
Mentre la parola malinconia, benché rara, risuona ancora nell’aria ai nostri giorni, la parola accidia ci appare lontana e avulsa dai termini, anche
sofisticati, che si usano quotidianamente. L’accidia, o acedia, risale ai primi anni dell’era cristiana. Sorella della malinconia, l’acedia è però un vizio. Al trattamento naturale, alchemico e mentale, si sostituisce la prima
forma di trattamento morale.
L’Accidia è dunque il settimo vizio. Similmente alla malinconia, sembra
essere un torpore nel lavorare, un lamento esistenziale. Tuttavia quell’elemento di genialità indicato nel discorso sulla malinconia, nell’accidia
scompare: l’accidioso è solo un istrione che pretende o immagina una genialità in lui inesistente. Al contempo somiglia al superbo, all’invidioso e
all’avaro, non dà i suoi talenti e soffre per quelli altrui. Talvolta potrebbe
reagire con violenza.
Un monaco non si sottomette al dogma, protesta per l’assenza di libertà
personale e di pensiero in un mondo in cui il voto d’obbedienza impone
solo sottomissione: ecco l’accidia. Durante l’epoca cristiana si dissolve
progressivamente quel tipo di ammirazione per il pensatore che esplora liberamente il sapere, il dogma teologico impone un rigore che somiglia
all’assoggettamento.
Pian piano, fino al milleseicento, si assiste, a fasi alterne, alla caccia agli
eretici che non si sottomettono al dogma trinitario, alle streghe che pretendono conoscenze mediche ed erboristiche condannate dalla chiesa, agli oppositori che perorano una ricerca priva di restrizioni dogmatiche, agli ebrei,
che seguono un’antica tradizione di pensiero critico, considerati portatori
d’ogni male.
Il sentimento di stima per lo studioso lentamente si sposta dal genio verso l’intellettuale umile servitore, che si dà da fare per conoscere i commenti sacri, ma modera e doma il suo pensiero, attenendosi sempre al commento dei Padri della Chiesa, mai alla critica.
Emerge, qui e là, il sospetto che la condanna verso gli accidiosi non sia che
l’inizio di un movimento orientato alla rinuncia al libero pensiero da parte della cristianità. Se da Ippocrate in poi le scuole di medicina avevano ipotizzato
origini naturali e trattamenti idonei alle singole malattie, durante l’era cristiana
nasce l’idea che l’accidia sia un vizio conseguente alla solitudine e all’isolamento. Un tale isolamento risulterebbe pericoloso in relazione ai possibili e
strani incontri demoniaci che possono accadere. Per quanto intrusivi, gli interventi dei confratelli diventano rimedio comunitario efficace.
52
La follia rivisitata
I due trattamenti, quello naturalistico per la malinconia e quello morale
per l’acedia, si svilupperanno in parallelo a partire dal quarto secolo dopo
l’era cristiana, quando appunto nasce l’acedia, o accidia, come peccato in
ambiente clericale e permane la malinconia in ambiente laico.
L’accidia è un peccato d’isolamento negli anni in cui il ritiro spirituale
individuale, così come lo raccontano Flaubert nelle Tentazioni di Sant’Antonio e Buñuel in Simon del deserto, viene abbandonato dalla cristianità a
vantaggio del ritiro comunitario, fino alla regola di San Benedetto: Ora et
labora.
Nella Commedia, Dante considera la tristezza come uno dei vizi maggiori e colloca gli accidiosi all’inferno. Tuttavia è Tommaso20 a ribadire che
l’accidia è peccato specifico, peccato mortale e vizio capitale:
… Essendo l’accidia una certa tristezza per il bene divino interiore, allo
stesso modo che l’invidia è una certa tristezza per il bene del prossimo, secondo quanto si è detto, come dall’invidia nascono molti vizi, in quanto l’uomo fa
molte cose disordinatamente per tenere lontana tale tristezza, così anche l’accidia è un vizio capitale. (p. 347)
Ma i primi teorici del peccato di accidia sono alcuni asceti e padri della
chiesa come Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano, Nilo di Ancira, Gregorio
Magno e Giovanni Damasceno, vissuti tra il quarto e l’ottavo secolo d.C.
Così Cassiano21 descrive la figura del monaco accidioso:
Quando l’accidia s’impadronisce di un povero monaco, gli ispira l’orrore
per il proprio convento, il disgusto per la propria cella, il disprezzo dei confratelli, che trova negligenti e poco spirituali. Essa lo rende senza forza e senza ardore per tutto ciò che deve fare nella sua cella. Non gli permette di permanere
e applicarsi alla lettura. Lui si lamenta spesso di non fare progressi dal tempo
in cui è nella comunità e dice sospirando che non può sperare in alcun progresso finché sarà relegato a tale compagnia. Geme di perdere le sue capacità, e di
non poter edificare nessuno con i suoi esempi e consigli, lui che potrebbe guidare gli altri ed essere utile a tante anime. Loda i monasteri lontani dal suo e dichiara che là sarebbe più facile ritrovare la salvezza. Vanta la società edificante e dolce dei monaci che ivi si trovano, mentre nulla è più spiacevole di
quanto gli sta intorno. Non solo non vede tra i confratelli qui alcun oggetto di
edificazione, ma dichiara che si debba lavorare troppo per procurarsi il nutrimento del corpo. Non crede di poter salvarsi in questi luoghi. Vuole lasciare la
20
21
Tommaso d’Aquino, I vizi capitali, edizione critica di Umberto Galeazzi, Milano,
BUR, 2008.
Cassiano, G., Le istituzioni cenobitiche, Edizioni Scritti Monastici – Abbazia di
Praglia, Bresseo di Teolo (PD), 2007.
Umori
53
sua cella perché la sua perdita è certa se vi rimane ancora, deve in coscienza andare altrove. Prova una tal fatica e un bisogno di mangiare verso l’undicesima
o dodicesima ora.
La descrizione di Cassiano continua. Questa lunga citazione ci aiuta a
comprendere come venga visto il monaco accidioso dalla cristianità. Ci
sono sfumature e differenze, ma nel complesso questa è la visione dell’accidia da Evagrio Pontico fino a San Tommaso e oltre, giacché i sette vizi
capitali sono tutt’ora parte integrante del catechismo cattolico e considerati, ora come allora, la fonte di ogni peccato.
L’accidia è dunque una sorta di malinconia praticata in ambiente cristiano. Benché emerga qui e là l’indicazione che l’accidioso ha tendenze intellettuali, la fonte principale è la ricerca della solitudine nell’ambiente monastico, rifiuto sistematico di seguire la regola mostrando indolenza e pigrizia,
ma anche rifiuto e critica di quel particolare tipo di ambiente.
Di riflesso, la condanna dell’accidia è, a sua volta, rifiuto per l’intellettuale che critica le condizioni di vita dell’ambiente in cui vive, si sviluppa
il disprezzo per qualsiasi forma di ozio, contro la civiltà classica e politeista romana che valorizzava l’otium come parte integrante della cura di sé.
Da qui il detto popolare secondo in quale: “l’ozio è il padre dei vizi”. Un
disprezzo che caratterizza tutta la cultura cristiana e che si trasferisce dal
convento all’intera società a partire dal puritanesimo, per il quale il lavoro
e il guadagno sul lavoro sono gli unici segnali di conferma per la certezza
di essere in stato di grazia.
La dimensione medica antica trova un differente inquadramento nel
mondo cristiano ove la malattia, intesa come eccesso di umori, si trasforma
in peccato. Il discorso naturalistico relativo agli eccessi umorali diventa discorso moralistico22.
La nostalgia dei soldati svizzeri e quella dei migranti
Invero, piuttosto che a una sostituzione, si assiste a una sovrapposizione
discorsiva. A partire dal diciassettesimo secolo, sentimenti, affezioni e
22
La pastorale cattolica si rivolge piuttosto alle masse contadine e agli ambienti monacali, l’antico discorso sugli eccessi umorali permane tra i ceti alti, in virtù della
necessità della guerra e delle trame del potere temporale. Rodrigo Borgia (14311503), Cardinale e Papa, mantiene, così come suo figlio il Valentino (1475-1507),
eroe di Niccolò Machiavelli (1469-1527), le caratteristiche amorali, umorali ma
strategiche, di pertinenza del Principe, la dote della volpe e del leone.
54
La follia rivisitata
umori desolanti si riscontrano anche in un altro tipo di follia: la nostalgia.
La parola nostalgia fu inventata dal medico Johannes Hofer (1669-1752).
Malattia tipica dei soldati allontanati dalla loro terra, la nostalgia è differente sia dall’accidia che dalla malinconia. Se l’accidia è peccato dei monaci e la malinconia dolore degli intellettuali, la nostalgia è malattia del
soldato lontano dai luoghi cari. Dopo avere investito il soldato di ventura,
investirà il migrante.
Nostalgia è una parola composta da due termini greci: nóstos, che significa ritorno e álgos, dolore: dolore del ritorno. Si può dire in lingue diverse e in ogni lingua la patologia assume la propria specificità in relazione ai
rapporti del soggetto con le sue radici. Così l’Heimweh tedesco è dolore
per il focolare, il mal du pays francese lontananza dal proprio villaggio, la
saudade brasiliana un male oscuro che ti prende fuori dai confini del paese. Il tango diventa cura della nostalgia per la madrepatria tra i migranti
portoghesi, ebrei, italiani; il fado canta la lontananza da Coimbra, Sintra,
Lisbona; la canzone napoletana recita: “E nce ne costa lacreme st’America a nuie napulitane... co’ nuie ca nce chiagnimmo ‘o cielo ‘e Napule comme è amaro stu ppane!”, quella milanese: “O mama mia, mi sun luntan, ma
g’hoo la nostalgia del mè Milan”.
Tra le forme di cura della nostalgia c’è l’emergenza di nuove espressioni culturali che creano identità marginali dove si ritrovano i sentimenti comuni dei migranti e dei deportati, come il blues nordamericano, il lunfardo uruguaiano e argentino, gergo tipico dei migranti europei nelle periferie
di Buenos Aires.
Nel Seicento la nostalgia è considerata la più grave tra le malattie, affligge i mercenari in guerra. Spesso diventa un’epidemia, quando tra le
truppe qualcuno intona una melodia, nota come Ranz de vaches, che viene
suonata presso gli alpeggi svizzeri.
I soldati colti da nostalgia sono subito rimpatriati dai medici militari poiché viene ritenuta contagiosa e può minare il morale delle truppe. Invero
secondo Kant23 la questione ha più a che fare col tempo che con lo spazio,
non si tratterebbe dunque di un dolore del ritorno alla terra patria, quanto
di un dolore del ritorno ai tempi della gioventù:
La nostalgia propria degli Svizzeri, la quale li coglie quand’essi sono sospinti in altri paesi, è l’effetto dell’aspirazione, suscitata dal ritorno delle immagini della serenità e delle compagnie giovanili, verso quei luoghi, ove essi
godevano le gioie semplici della vita; ma essi poi, dopo una visita a quei luo-
23
Kant, I., Antropologia pragmatica, Roma, Laterza, 1969, p. 74.
Umori
55
ghi, si trovano molto delusi nella loro aspettativa, e così anche guariti; ritengono che ciò sia perché colà tutto si è profondamente alterato, ma in verità è perché non vi ritrovano più la propria giovinezza.
Lunatismo
Così si esprime Isidoro24 a proposito del male di luna o morbo comiziale.
I malati di epilessia sono comunemente definiti lunatici perché l’insidia dei
demoni li accompagna seguendo il corso della luna. Analogamente sono detti
anche larvatici [spettri, fantasmi]. L’epilessia è chiamata inoltre morbus comiziali, il che significa malattia dei comizi, ad indicare la sua grandezza e divinità: la sua forza è così grande che un uomo vigoroso crolla al suolo e lascia uscire bava dalla bocca.
Ma il lunatismo si mescola anche con la malinconia. Con i versi di Francesco Petrarca (1304-1374) la malinconia riemerge: “Pace non trovo e non ho da
far guerra”. Non ho da far guerra, il malinconico è inoperoso, non si cimenta
nella guerra, nel conflitto. Pace non trovo, neppure trova la pace della vita quotidiana. Il suo umore nero non ha scopo, né nemico. È pura dilapidazione, inoperosità, inquietudine esistenziale, al di là dei limiti dell’utile25.
L’ambiguità del nero, tra malinconia, furia e frenesia, riemerge a partire
dal tardo secolo tredicesimo. Il nero è assenza di colore, assorbimento di
ogni luce, buio completo, senza spiraglio, tuttavia ci appare come una sorta di pieno. In qualche modo è il contrario del bianco, che è l’insieme di tutti i colori e respinge la luce. Il nero è un vuoto che assorbe luce, rimanendo vuoto. Eppure la tradizione antica vuole che il sangue si annerisca
durante le notti di plenilunio, le più chiare, non nel buio pesto. Il sangue
nero, la bile nera, milza che oscura il sangue, lo addensa. Ecco la necessità
di fluidificanti come le radici e i rizomi seccati dell’elleboro.
Con il lunatismo, vengono alla luce questioni sociali e politiche. I politici conservatori parlano di frange lunatiche per indicare le posizioni più
radicali contro il regime. Come se una posizione di contestazione radicale
non fosse fenomeno democratico, bensì questione di salute mentale. Come
osserva Yves Bonnefoy26:
24
25
26
Op. cit.
Bataille, G., Il limite dell’utile, Milano, Adelphi, 2000.
Bonnefoy, Y., Prefazione a Starobinski, J., La malinconia allo specchio, Milano,
SE, 2006.
56
La follia rivisitata
[…] la malinconia è forse quanto di più specifico caratterizza le culture
dell’Occidente. Nata dall’indebolimento del sacro, dalla distanza sempre più
grande tra la coscienza e il divino, e rifratta e riflessa dalle situazioni e dalle
opere più diverse, essa è la scheggia nella carne di quella modernità che a partire dai greci non cessa mai di nascere ma senza mai finire di liberarsi delle sue
nostalgie, dei suoi rimpianti, dei suoi sogni. Da lei deriva quel lungo corteo di
grida, di gemiti, di risa, di canti bizzarri, di orifiamme mobili nel fumo che attraversa tutti i nostri secoli, fecondando l’arte, seminando la follia – quest’ultima mascherata talvolta da ragione estrema nell’utopista o nell’ideologo.
I cicli lunari incidono sulle maree e, nei reparti di ostetricia, sono importanti per l’aumento o la diminuzione dei parti; vengono seguiti rigorosamente nell’imbottigliamento del vino e in una serie di altre attività rurali.
Tuttavia nel gergo tradizionale il lunatismo è questione individuale. Si dice
di certe persone, quando paiono arrabbiate o scontrose, che hanno la luna.
Il lunatismo è connesso all’epilessia. Le storie relative agli uomini che,
durante le notti di luna piena, si trasformano in lupi e vagano per la campagna sono associate, nella mitologia popolare, ai disturbi epilettici. Spesso
gli uomini lupo sono accomunati a esseri mostruosi e pericolosi, vampiri e
zombie. A differenza di questi però non sono morti viventi, ma viventi che
si trasformano in lupo. La paura per una malattia divenuta metafora di
qualcosa di spaventoso, così è accaduto all’epilessia. Di fronte a un attacco epilettico, se non lo si conosce, è difficile agire per calmarlo, la persona
soggetta alla crisi può perdere conoscenza e controllo del corpo per qualche tempo. Questi momenti, nella fantasia popolare, si dilatano diventando
le notti di luna piena che hanno creato i pregiudizi verso il disturbo epilettico, detto anche mal di luna.
Così racconta il mal di luna Luigi Pirandello (1867-1936):
– Ma che avete? – gli gridò Sidora, raccapricciata. Batà mugolò di nuovo, si
scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le
membra; poi, col guizzo d’un braccio indicò il cielo, e urlò: - La luna! Sidora, nel
voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocca. Asserragliata dentro, tenendosi stretta come a impedire che le membra le si staccassero dal tremore continuo, crescente, invincibile, mugolando anche lei, forsennata
dal terrore, udì poco dopo gli ululi lunghi, ferini, del marito che si contorceva fuori, là davanti la porta, in preda al male orrendo che gli veniva dalla luna, e contro
la porta batteva il capo, i piedi, i ginocchi, le mani, e la graffiava, come se le unghie gli fossero diventate artigli, e sbuffava, quasi nell’esasperazione d’una bestiale fatica rabbiosa, quasi volesse sconficcarla, schiantarla, quella porta, e ora latrava, latrava, come se avesse un cane in corpo, e daccapo tornava a graffiare,
sbruffando, ululando, e a battervi il capo, i ginocchi. – Ajuto! ajuto! – gridava lei,
Umori
57
pur sapendo che nessuno in quel deserto avrebbe udito le sue grida – Ajuto! ajuto!
– e reggeva la porta con le braccia, per paura che da un momento all’altro, nonostante i molti puntelli, cedesse alla violenza iterata, feroce, accanita, di quella cieca furia urlante. Ah, se avesse potuto ucciderlo! Perduta, si voltò, quasi a cercare
un’arma nella stanza. Ma a traverso la grata d’una finestra, in alto, nella parete di
faccia, di nuovo scorse la luna, ora limpida, che saliva nel cielo, tutto inondato di
placido albore. A quella vista, come assalita d’improvviso dal contagio del male,
cacciò un gran grido e cadde riversa, priva di sensi. Quando si riebbe, in prima,
nello stordimento, non comprese perché fosse così buttata a terra. I puntelli alla
porta le richiamarono la memoria e subito s’atterrì del silenzio che ora regnava là
fuori. Sorse in piedi; s’accostò vacillante alla porta, e tese l’orecchio. Nulla, più
nulla. Stette a lungo in ascolto, oppressa ora di sgomento per quell’enorme silenzio misterioso, di tutto il mondo. E alla fine le parve d’udire da presso un sospiro,
un gran sospiro, come esalato da un’angoscia mortale. Subito corse alla cassa sotto il letto; la trasse avanti; l’aprì; ne cavò la mantellina di panno; ritornò alla porta; tese di nuovo a lungo l’orecchio, poi levò a uno a uno in fretta, silenziosamente, i puntelli, silenziosamente levò il paletto, la stanga; schiuse appena un battente,
guatò attraverso lo spiraglio per terra. Batà era lì. Giaceva come una bestia morta,
bocconi, tra la bava, nero, tumefatto, le braccia aperte. Il suo cane, acculato lì presso, gli faceva la guardia, sotto la luna. Sidora venne fuori rattenendo il fiato; riaccostò pian piano la porta, fece al cane un cenno rabbioso di non muoversi di lì, e
cauta, a passi di lupo, con la mantellina sotto il braccio, prese la fuga per la campagna, verso il paese, nella notte ancora alta, tutta soffusa dal chiarore della luna.
Arrivò al paese, in casa della madre, poco prima dell’alba. La madre s’era alzata
da poco. La catapecchia, buja come un antro, in fondo a un vicolo angusto, era stenebrata appena da una lumierina a olio. Sidora parve la ingombrasse tutta, precipitandosi dentro, scompigliata, affannosa. Nel veder la figliuola a quell’ora, in
quello stato, la madre levò le grida e fece accorrere con le lumierine a olio in mano
tutte le donne del vicinato. Sidora si mise a piangere forte e, piangendo, si strappava i capelli, fingeva di non poter parlare per far meglio comprendere e misurare alla madre, alle vicine, l’enormità del caso che le era occorso, della paura che
s’era presa. - Il male di luna! il male di luna! Il terrore superstizioso di quel male
oscuro invase tutte le donne, al racconto di Sidora.
In questo racconto maledetto assistiamo alla torsione della malattia in licantropia, superstizione, e poi, all’inverso, dell’ostilità in comprensione.
La colpa della malattia viene negoziata con il tradimento. Però rifiutato dal
cugino Saro. Pirandello dipinge la condizione contadina in cui il mal di
luna, frutto dell’esposizione di Batà bambino alla luna piena, mentre la madre raccoglieva le spighe, si trasforma in una sofferenza, un po’ come accade a Edipo quando, recatosi a Colono, per la prima volta riesce a dire:
“Quelle non furono azioni, ma sofferenze”. Batà, il sofferente, è, nel racconto, sia la persona da ostracizzare, che colui che le donne riunite cercano di comprendere e assistere nella disgrazia.
58
La follia rivisitata
Nonostante il mal di luna personale di Batà, il racconto di Pirandello fa
emergere ancora una volta la questione sociale della follia. Il mal di luna,
tra epilessia e licantropia, viene messo in questione da un gruppo di donne,
che assolvono Batà, così come Saro rifiuta le proposte sessuali di Sidora in
nome della compassione per un uomo che sta soffrendo. La decisione di
Saro capovolge la perversione del climax. Quelle non furono colpe, ma sofferenze (Edipo a Colono).
Nel Sei-Settecento in Inghilterra lunatismo diventa sinonimo di follia e
i primi ospizi per i folli vengono definiti lunatic asylums27.
La condizione del lunatico è pazzia intermittente connessa ai cicli lunari, che però esclude la demenza. Come nella malinconia, il lunatico è a volte un pensatore, o un contadino preso per incantamento. Un certo tipo di
sonnambulismo è detto appunto lunambulismo, ed è probabilmente la fonte ispiratrice del racconto pirandelliano: fenomeni notturni, anticamente
connessi con le divinità femminili, provenienti dalla terra.
Spinoza e gli affetti
Abbandonata la teoria degli umori, si fa strada la teoria dell’umore ciclico, che sale e scende, come i cicli lunari. Tuttavia, come nel racconto di Pirandello, dipende dai legami del soggetto con gli altri, dalle relazioni.
Baruch Spinoza (1632-1677) propone una teoria degli affetti che, in linea di principio, è ancor più intrigante e affascinante della teoria classica
degli umori. La teoria degli affetti, in Spinoza, intende porre la questione
sul piano delle relazioni. Non nell’individuo, ma nel legame tra il soggetto
e gli altri.
È necessario rilevare che il diritto naturale, secondo Spinoza, è in qualche modo il regno di una libertà che non può essere limitata dal diritto positivo, ossia le leggi prodotte dagli uomini regolano solo le condizioni in
cui l’esercizio del diritto naturale viola o lede la libertà altrui. Per Spinoza
quindi la libertà personale è la cosa più importante da salvaguardare. Spinoza non considera i sani di mente e i folli come diversi davanti al diritto
naturale. Ognuno è libero di agire secondo il proprio conatus, anche il lunatico. Ciò che spinge a provare sentimenti è il conatus, attitudine natura27
Ciò che accomuna epilessia e umore variabile sono le periodicità, tuttavia oggi,
benché l’epilessia sia considerata malattia neurologica e i disturbi dell’umore disordini psichiatrici, si somministrano spesso gli stessi farmaci detti appunto stabilizzatori dell’umore.
Umori
59
le a entrare in relazione, creare legami. Il soggetto è impensabile al di fuori della relazione, la relazione lo costituisce fin dall’inizio; ciò non
significa che l’uomo sia animale sociale, al contrario il soggetto viene prima della società, ma trova la sua ragion d’essere nella relazione con l’altro.
Spinoza riconosce il diritto naturale di ognuno a desiderare e non pone alcuna differenza tra i normali e i folli, neppure tra uomini e animali.
Con lui potremmo dire che la follia è un diritto naturale, si costituisce
nella relazione ed è impensabile senza l’altro. In questo quadro, gli affetti
sono esperienze dinamiche che si costituiscono a partire dall’incontro. Qui
operano due momenti congiunti: l’affezione e il sentimento. L’altrui persona – oppure l’evento che mi trovo a vivere – mi affeziona. Poniamo che incontri un caro amico che non vedevo da tempo, mettiamo risponda al nome
di Paolo, l’incontro con Paolo mi affeziona in modo positivo; di conseguenza i miei sentimenti saranno gioiosi, euforici. Viceversa, se incontro
Pietro, che mi è antipatico, le mie affezioni saranno negative, e i miei sentimenti tristi e oscuri.
La dottrina di Spinoza pone come condizione preliminare per ogni sentimento l’incontro con l’altro, o il manifestarsi di un evento. Qualcosa che
avviene nella relazione sociale.
Inoltre Spinoza ritiene che tristezza e depressione altro non siano che stati d’animo che aiutano il tiranno a opprimerci. Il tiranno vuole sudditi infelici, tristi e depressi, da poter sfruttare con maggior forza. Con Spinoza gli affetti trovano riconoscimento nell’incontro e diventano lo sfondo di una teoria
politica in cui la libertà si coniuga con il diritto a essere felici, qualsiasi tipo
di significato diamo al termine felicità, finché non rende danno o nocumento
agli altri, secondo ciò che si ritiene essere un diritto naturale.
Spinozismo mal posto
Per ironia, la psichiatria biologica contemporanea corregge questo errore
di Spinoza sostituendo all’incontro la variazione biochimica, la nuova psicologia biologica privilegia l’emozione al sentimento, le emozioni sono variazioni neurobiologiche, mentre i sentimenti sono espressioni relazionali.
In questo modo la psicologia biologica viene presentata come una scienza neutrale, priva di connotazione politica, una scienza puramente sanitaria, non una scienza umana e sociale. Si dice: che c’entra l’oppressione sociale con la depressione individuale? Eppure il depresso moderno riconosce
in sé un senso di oppressione. Spesso non ne riconosce la fonte, è vero,
dunque, se ne conclude, è biologica.
60
La follia rivisitata
Partire dalla biologia significa pensare che la gente si suicidi per carenze neurochimiche che non avrebbero nulla a che vedere col sistema di vita
del soggetto, di fronte a un suicidio abbiamo così tutti la nostra tranquillizzazione: era depresso.
Sul versante sociale le cose sono diverse: come mai aumentano i suicidi
tra gli imprenditori che falliscono? Come mai tra gli agenti di custodia e i
detenuti quando le carceri sono sovraffollate e invivibili? Come mai tra i
gay quando la società è omofoba? Quesiti che il professionista della psiche
oggi prende poco in considerazione, lavoro da sociologi.
Una volta che si semplifica ogni cosa ricorrendo al tono dell’umore, si
coprono le ragioni sociali della depressione, l’oppressione sociale e il senso di oppressione che si prova nell’esser depressi vengono dissociati, diventano l’uno materia per il sociologo, l’altro per lo psichiatra.
Parlare di sentimenti, parlare d’amore, per esempio, è diventato quasi un
tabù per le scienze psico-biologiche. Come insegna invece Spinoza, ogni
sentimento doloroso trova sollievo in nuovi sentimenti piacevoli, che lo
trasformano. Ciò accade anche per via di reazioni biochimiche, tuttavia le
condizioni sociali giustificano il cambiamento di un sentimento da una
condizione di oppressione a un sentimento di liberazione che ha valore sociale. Questa è la ragione per cui i moderni manicomi, e i reparti di ricovero ancora esistenti, non possono avere alcun valore terapeutico: rispondono a un sentimento di oppressione con forme oppressive ancor più marcate.
Il pensiero di Spinoza è insopportabile per una mentalità autoritaria, se
il tiranno ci vuole depressi, ben venga la psichiatria da contenzione ospedaliera. Il sentimento che provo, però, lo provo nel mondo, in mezzo alla
gente, vicino ai miei cari, agli amici; non lo provo nel vuoto.
Biopolitica dell’umore unico
Il processo di sanitarizzazione del mondo attraversa anche la questione
dell’umore, anzi la storia inizia proprio dalla diffusione del termine depressione, che sembra avere ormai soppiantato il termine tristezza28. Il mondo
sta diventando una gigantesca operazione sanitaria, il piano sociale viene
progressivamente eliminato e le persone sono raggruppate in categorie diagnostiche. Così i problemi sociali vengono ridotti a questioni di cervello e
i soggetti diventano un unico grande soggetto cerebrale. Questa tendenza
28
Horwitz, A.V., Wakefield, J.C. The Loss of Sadness, Oxford University Press,
New York, 2007.
Umori
61
ha radici profonde nella tradizione biologica riguardo alla salute mentale.
Uno dei primi eventi storici che portano la psichiatria biologica in questa
direzione è la teoria dell’umore. La teoria dell’umore ha una sinistra somiglianza con la teoria politica. Proviamo a ricostruire la questione dalle sue
origini partendo proprio dai disturbi dell’umore, lunatismi contemporanei.
Quando l’umore diventa unico, nascono i suoi disturbi. L’idea relativa al
tono unico dell’umore si afferma, a partire dal lunatismo, con la psichiatria
moderna. Ernst Kretschmer (1888-1964) comincia con un errore: il rapporto tra costituzione corporea e temperamento.
L’idea si diffonde grazie a Cesare Lombroso (1835-1909). Seguendo
Lombroso, Kretschmer sostiene che i picnici – persone basse, grassocce, di
arti corti e corpulente – sono di temperamento ciclotimico. Ciclotimia significa variazione ciclica su due dimensioni: alto/basso, come i cicli lunari e le maree. Il ciclotimico, se piange, si sfoga e ritrova l’umore positivo,
di tanto in tanto ricade nello sconforto, poi si riprende, a volte è euforico,
poi di nuovo cade. Se l’umore varia al di sotto di una certa soglia è normale. I problemi insorgono quando le variazioni superano la soglia. Di qui il
disturbo depressivo e il disturbo maniaco-depressivo, bipolare.
Sebbene la teoria del rapporto tra struttura fisica e tendenza temperamentale sia stata smentita, l’idea che il disordine maniaco-depressivo si innesti su un carattere ciclico si è diffusa ed è condivisa ai giorni nostri. Un
paziente bipolare ha un funzionamento umorale esacerbato, che s’innesta
su un funzionamento ciclico, come abbiamo visto parlando dei lunatici.
Nei casi più gravi si parla anche di psicosi maniaco-depressiva. Non più,
come nell’antica medicina ippocratica, di acrasia (disarmonia) tra differenti umori, ma di destabilizzazione dell’umore.
Dagli anni Cinquanta del secolo scorso, con l’uso dei sali di litio, le tendenze al lunatismo vengono sanitarizzate nel classico stile ex adiuvantibus. A differenza dall’epoca classica, in cui la medicina è in primo luogo prevenzione
dell’insorgenza di squilibrio, qui l’intervento ripara il danno già insorto.
Quanto al litio, in un primo tempo si pensa che l’efficacia sia dovuta alla
somministrazione di acido urico. Si fa bere al paziente la pipì, che contiene litio. Più tardi ci si accorge che l’effetto è dato da un componente presente nell’acido urico, il litio appunto: elemento chimico della tavola periodica, in origine metallo rapidamente ossidabile. A partire dal trattamento
con sali di litio, nasce l’idea che l’intervento chimico sulle reazioni affettive abbia evidenza.
Da quel momento il metodo basato sull’evidenza inizia a prendere piede nel mondo della salute mentale. Che cosa è evidente? Che una persona
a tratti profondamente triste, a tratti euforica, sottoposta al trattamento con
62
La follia rivisitata
litio cambia le sue condotte, si rattrista meno, diventa più mite, docile: i sali
di litio devono essere assunti per lunghi periodi senza essere tolti o abbandonati, pena la variazione successiva dei loro effetti se riassunti.
Non c’è più bisogno di domande troppo complicate, come: che cosa accade nella vita di questa persona che alterna momenti di prostrazione a momenti di euforia? Quali legami ha perduto? Qual è la storia della sua vita?
Che ruolo hanno simili condotte nelle relazioni con gli altri? In che circostanze accadono? Chi potrebbe incontrare per parlarne, per raccontare, per
dare un senso a tutto ciò?
Dagli anni Sessanta in poi assistiamo alla somministrazione di litio, alla
cura del sonno e a procedure simili che coinvolgono donne dell’alta e media borghesia: si tratta della nevrastenia. Le cliniche private sembrano là
apposta per ricoverare persone che provano il disagio di una vita inutile,
spesso sposate a ricchi narcisisti che le abbandonano, come nella Giulietta
degli spiriti di Federico Fellini. L’epoca del grande successo della cura del
sonno, detta anche narcoterapia.
Il pharmacon, come lo chiamano gli antichi, non ha mai un effetto unico, oltre all’evidenza dell’effetto mirato, c’è anche quella degli effetti collaterali. È
tendenza diffusa nascondere o sottovalutare, nell’informazione farmaceutica,
la descrizione degli effetti collaterali, non a caso il foglietto illustrativo del farmaco viene definito bugiardino. Se il paziente fosse chiaramente informato su
questi effetti, potrebbe decidere di non assumere il farmaco. Ciò accade per
ogni farmaco e per ogni paziente, ma nel campo della salute mentale, il farmaco è decisione medica. Il paziente non può valutare se assumerlo.
In questi ultimi vent’anni si sono teorizzate assurdità del tipo pillola della felicità, che hanno orientato larghe masse di popolazione a chiedere nuovi interventi farmacologici miracolistici.
Anche per questo abbiamo visto la società occidentale peggiorare, infatti la società è fatta di soggetti che hanno differenti idee, culture, generi, etnie, credenze. Non è fatta di fanatici che alternano la cocaina al metilfenidato per avere prestazioni superiori.
Siamo di fronte a un asse quinto del DSM che descrive la persona sana
come uno yuppie cocainomane. L’asse quinto del DSM, nella Scala di
Funzionamento Globale individuale, descrive la persona in piena salute
nei seguenti termini: “Codice 100 – Funzionamento superiore alla norma
in un ampio spettro di attività, i problemi della vita non sembrano mai sfuggire di mano, è ricercato dagli altri per le sue numerose qualità positive.
Nessun sintomo.” Non c’è alcun bisogno di fare ironia, il testo parla da sé.
Potremmo solo aggiungere che non v’è dubbio che un uomo così possa essere un ricercato, sembra la descrizione del Padrino. I cento punti della
Umori
63
Scala Globale di Funzionamento non parlano di capacità affettive del soggetto, della propensione alla solidarietà, di empatia, men che meno di amore. Si tratta solo di funzionare, di non far sfuggire di mano i problemi, di
non avere alcun sintomo. Il paradigma è Robocop.
Il potere, nell’epoca post-moderna è sopravvivenza nella lotta per la perfezione meccanica: potere/tecnologia. In biopolitica, la responsabilità della cura non appartiene al soggetto, ma al medico, la cura si trasforma in
controllo, in politica. Il risvolto ironico di questa posizione ci viene regalato dalla letteratura, già da tempo queste pratiche sono messe in ridicolo.
Viene in mente il paradosso di Machado de Assis (1839-1908), nel suo
romanzo breve, L’alienista. Il protagonista, Simone Bacamarte, è medico
famoso in Spagna e Portogallo che decide di aprire un manicomio, la Casa
Verde, nella cittadina di Itaguaí, nei pressi di Rio de Janeiro. La Casa Verde è un luogo dove il solerte medico ricovera un po’ tutti i cittadini al fine
di studiarne i difetti. Un laboratorio di ricerca in cui ogni tendenza umana,
dal vizio all’adulazione, viene considerata forma patologica. Capita che il
barbiere della città, tale Porfirio, capeggi una ribellione contro Bacamarte,
accusato di rinchiudere tutti. Il medico, scrupolosissimo e amante della sua
scienza, l’alienismo appunto, si difende dalle accuse appellandosi al suo
sacrificio. Su ciò nessuno può dargli torto. Egli passa giorno e notte a studiare i suoi matti con impegno e accanimento, come si dice: in scienza e
coscienza. Quando scoppia la rivolta, la gendarmeria locale rinchiude in
manicomio i ribelli, ricordate le frange lunatiche? Bacamarte rivede le sue
teorie e riconosce l’errore. Allora dimette tutti. Inizia però a ricoverare la
minoranza che non aveva prima preso in considerazione: umili, altruisti,
persone sincere. Insomma si trasforma in una specie di psicoanalista che
vede dietro a gesti o condizioni buone una sorta di patologia nascosta. Infine riconsidera di nuovo le cose e giunge, popperianamente, a ricoverare
solo se stesso. Morirà ricoverato dopo diciassette mesi e gli saranno pure
resi gli onori.
Simone Bacamarte curvò la testa, contemporaneamente felice e triste, più
felice che triste. Di fatto, si ricoverò alla Casa Verde. Invano la moglie e gli
amici gli dissero che restasse, che era perfettamente sano, equilibrato: né suppliche, né suggerimenti o lacrime lo trattennero alcun istante.
- La questione è scientifica, diceva: di una nuova dottrina il cui primo
esempio sono io. Racchiudo in me stesso la teoria e la pratica.
- Simone! Simone! amore mio! Diceva la moglie con il volto bagnato di lacrime.
Ma l’illustre medico, con gli occhi accesi di convinzione scientifica, chiuse
le orecchie alle suppliche della moglie e dolcemente la respinse. Chiusa la porta della Casa Verde, iniziò lo studio e la cura di sé. I giornalisti dicono che morì
64
La follia rivisitata
diciassette mesi dopo, nel medesimo stato in cui entrò, senza poter scoprire
nulla. Alcuni dicono che non ci sia mai stato altro pazzo ad eccezione di lui a
Itaguaí, ma questa opinione, fondata su un boato che accadde al momento in
cui l’alienista spirò, non è altra prova che un boato. Boato dubbio, poi attribuito a padre Lopez, che con tanta foga declamava le qualità del grande uomo. Sia
come sia, la sepoltura avvenne in pompa magna e rara solennità29. (Opera pubblicata tra ottobre e marzo 1881-82.)
Ai tempi di Spinoza una persona triste faceva bene al tiranno, che si avvantaggiava di fronte a una massa di persone apatiche. Nell’epoca moderna il depresso mina il dispositivo produttivo perché è inoperoso, nello stesso tempo la crisi economica che stiamo attraversando produce depressi
perché impedisce l’operosità di chi la vorrebbe manifestare. Viceversa, se
la depressione si trasforma in euforia, coi tempi che corrono, potrebbe dare
adito a ribellioni individuali e a rivolte collettive. La sanitarizzazione svolge l’ingrato compito di tenere sotto controllo le frange lunatiche: vengono
isolate e visitate come singoli individui, trattate in modo sanitario, le loro
velleità vengono spente, ma la loro libertà coartata. Spesso il suicidio è un
gesto disperato conseguente a queste forme di dominio.
Psicoanalisi della malinconia
Per Freud30:
L’accostamento del lutto e della melanconia pare giustificato dal quadro
d’insieme di questi due stati. Anche le loro cause occasionali derivanti dalle influenze dell’ambiente, se e quando ci è dato di discernerle, sono le stesse. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o
così via. La stessa situazione produce in alcuni individui – nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica – la melanconia invece
del lutto. È peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi
gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non
ci passa mai per la mente di considerarlo uno stato patologico e di affidare il
soggetto che ne è afflitto al trattamento del medico. Confidiamo che il lutto verrà superato dopo un certo periodo di tempo e riteniamo inopportuna o addirittura dannosa qualsiasi interferenza.
29
30
Assis, de, M., O alienista (1882), Rio de Janeiro, Aguilar, 1962, p. 55 [trad. mia].
Freud, S., Lutto e melanconia (1917) in Opere, Vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri, 1980, p. 248.
Umori
65
Per Freud è questione di tempo, di un fenomeno di permanenza del lutto oltre il tempo dovuto, legato a un rituale pubblico, potremmo aggiungere, prestabilito culturalmente. Un dispiacere più o meno forte, che permane come se il tempo si fosse fermato in quel momento. Un esempio clinico
potrebbe chiarificarlo.
Un uomo intorno ai sessantacinque anni dichiara la propria depressione avvenuta in seguito al suo licenziamento, l’episodio accade poco prima del conseguimento della pensione e viene risolto economicamente versando contributi integrativi per alcuni mesi. Tuttavia la sua posizione nel mondo muta
radicalmente. Da quel momento, aveva circa sessant’anni, si rifugia a letto e
non si muove più. Dopo essersi lievemente ripreso racconta di essere sempre
stato, fin da bambino, un iperattivo; di non avere mai conosciuto il padre, morto eroicamente durante la guerra quando lui era piccolo, di non averlo neppure
mai visto. In prima battuta sembra attribuire la sua malinconia all’emergere,
dopo anni, di questa assenza radicale. Ma la sua vita fino ai sessanta sembra essere andata in modo opposto.
Da bambino sua madre aveva trovato subito un nuovo compagno che lo aveva
precocemente allontanato dalle braccia della mamma. Uomo generoso, gli faceva
regali ma lui percepiva questo atteggiamento come una barriera davanti all’affetto
materno. Di fatto passava il tempo a giocare da solo o con altri bimbi, rispetto ai
quali tendeva ad assumere una posizione di leader, usava la fionda meglio di chiunque altro. Poi da grande, senza avere potuto studiare, diventa capo officina e nella
vita avrà un certo successo con le ragazze. Si sposa, ha due figli e il resto della vita
va avanti bene, fino a quel maledetto licenziamento, l’unico evento, dice, che nella
sua vita non ha potuto programmare, tenere sotto controllo, l’unico evento inatteso.
Dopo alcune sedute l’attenzione si sposta sul padre perduto, davvero perduto?
Forse la biografia dell’uomo dice solo che il padre è morto prima che lo conoscesse, forse questo padre è vissuto nei racconti della madre, dei nonni, dei parenti, un
eroe sta sempre dentro a una trama narrativa, emerge dalla sua tessitura. La sua biografia dice che, fin da bambino, lui ha innalzato le insegne paterne e che anche lui
è vissuto eroicamente. Eroismo quotidiano con gli altri bambini, con il lavoro, con
le ragazze, con il matrimonio, con i figli. Allora emerge che quel che gli è mancato
non era il padre assente, bensì la madre presente. Si è trattato forse di un giovane
Amleto contemporaneo a cui il fantasma del padre compare tardivamente, con la
prima eroica sconfitta, il licenziamento. Il suo percorso, passato anche attraverso la
dimensione onirica, gli permette di rielaborare un’immagine del padre che lo abbraccia sulle montagne, durante la guerra degli alpini antifascisti, diventa il paradigma di una melanconia della perdita dell’affetto materno, recuperato attraverso la
moglie, conquistata sul posto di lavoro.
Nel racconto viene evocata una comparution31, un apparire insieme del padre, la madre, il nuovo compagno della madre, i nonni e i parenti narratori, gli
31
Il termine è mutuato da Nancy, J. L., La comunità inoperosa, Napoli, Cronopio,
1992.
66
La follia rivisitata
amici d’infanzia, le ragazze del suo passato, la moglie, i figli. Questa comunità non ha i caratteri della comunità sociologica, è evocata, si tratta delle presenza dell’Altro, la loro convocazione nel racconto permette all’uomo nuove concatenazioni, nuove risorse da annodare, nuove vie. Il licenziamento, da evento
inatteso inesorabile, si trasforma in un cattivo accidente, duro, pesante, contro
cui protestare. Dopotutto il padre era un eroe proprio perché aveva fatto fronte
a eventi ben più gravi, aveva combattuto il nazi-fascismo.
Secondo la tradizione psicoanalitica, lutto e depressione si somigliano,
nascondono una tendenza aggressiva contro l’oggetto perduto, ma nella
malinconia questa aggressione perdura e si rivolge contro la parte interna
dell’oggetto, contro una parte di sé. Non dobbiamo dimenticare però che la
depressione è, in psicoanalisi, anche passaggio nello sviluppo umano. Melanie Klein scrive due cose intorno alla posizione depressiva. In primo luogo: è una posizione, un gesto del soggetto. Klein sottolinea in questo modo
la soggettività infantile, considerando la madre dal punto di vista del bambino emerge una scissione tra una parte buona e una cattiva, scissione che
verrà definita dalla Klein posizione schizoparanoide. La posizione depressiva, che per Klein è successiva a quella schizoparanoide, è l’inizio di una
ricomposizione dolorosa: per operare questa ricomposizione delle parti,
per integrare l’oggetto, devo far fronte alla lacerazione. Questa la dinamica del soggetto, la sua responsabilità.
In secondo luogo, la posizione depressiva è una conquista nel percorso
della vita, che il soggetto si trova costretto a prendere. La posizione depressiva serve al soggetto per rielaborare la sua relazione con l’oggetto materno, guardare la ferita, aperta dalla scissione, per cercare di ricomporla; ciò
non avverrà mai in maniera assoluta e definitiva, la malinconia è un richiamo sempre aperto.
Julia Kristeva32 riassume la posizione depressiva verso l’oggetto affettivo: “L’amo (sembra dire il depresso a proposito di un essere o di un oggetto perduto), ma più ancora l’odio, poiché l’amo, per non perderlo, lo installo in me, ma poiché l’odio, quest’altro in me è un io cattivo, sono cattivo,
sono invalido, schifoso, mi uccido” (Kristeva, p. 20 [trad. mia]).
Invalido, schifoso, nul è il termine che usa qui Kristeva. Sono nulla, un
niente, ma sono anche profondamente ferito, abominevole. Il cutter, l’autolesionista, il tricotillomanico (che si strappa i capelli con la dovuta disattenzione isterica), il bruxista (che digrigna i denti di giorno, di notte), il
morditore della propria lingua, della propria carne, l’automutilatore, lo psi-
32
Kristeva, J., Soleil noir, Paris, Minuit, 1987, [trad. mia].
Umori
67
cosomatico aggrediscono il corpo proprio, producono lacerazioni morali,
sostituiscono le ferite alla perdita.
Rimangono fermi appena prima dell’oltrepassamento malinconico:
amore/odio nella sua forma più chiara, appena dopo la scissione schizoparanoide, appena prima del suo superamento. È il luogo descritto da Winnicott come transizione, mondo che sta in-between tra il soggetto e l’oggetto, oggetto interno, soggetto esterno, proiezione, introiezione. Non si
accede al luogo della transizione, si permane, come nel Processo di Kafka,
sempre sulla soglia33. La cosa melanconica recita: “pace non trovo e non ho
da far guerra”, inquietudine inesprimibile34.
Una donna di quarant’anni si presenta in terapia, ne dimostra venticinque e
quando parla quindici. Laureata in economia dichiara: “Vivo da anni senza lavorare, mantenuta da mio padre che è ultradepresso. Si fa accompagnare da un
ospedale all’altro, in cambio mi regala reddito. Mia madre è stata schizofrenica,
ora è stabile, ma ricordo di avere raccolto e pulito il suo vomito da bambina”.
Dice di essere una cutter piena di rabbia, nel dirlo mostra con una certa soddisfazione i tagli che si fa sulle braccia. Magra asciutta palestrata, sta entrando
in una fase in cui il corpo cambia, primi segni d’invecchiamento. Guai a parlarne! Solo lei lo può dire, ma lo dice creando un contesto per cui l’altro senta
l’obbligo di dire: “Ma no! Non è così!”. Il mancato commento del terapeuta la
sconcerta, lo guarda con una strana curiosità, a tratti prende con aggressività i
mancati commenti. Dopo una serie di terapeuti impotenti, si rivolge all’ennesi-
33
34
Viceversa, nell’evoluzione successiva, l’oggetto affettivo può, pian piano, allontanarsi in virtù di un oggetto sostitutivo che viene investito per analogia, come in
una metafora. Conosciamo bene come quest’oggetto debba appartenere al corpo
del bambino, puzzare dell’odore della sua saliva, del suo vomito, essere incrostato, diventare, in un certo senso, parte integrante del corpo proprio, cannibalizzato.
Ogni madre sa che è rigorosamente vietato pulirlo, fino al suo superamento. C’è
qualcosa al di là del simbolico, segnatura arcaica antecedente alla formazione del
simbolo, che tuttavia non appartiene al puro immaginario, qualcosa che possiede
una referenza. Qui il pensiero di Kristeva si avvicina a quello di Jung, qualcosa
che possiede consistenza pleromatica, quidditas che sfugge alla marcatura simbolica, ma non necessariamente psicotica.
Kernberg, O., Teoria psicoanalitica dei disturbi di personalità, in Calrkin, J.F.,
Lenzenweger, M.J., I disturbi di personalità. Le cinque principali teorie, Milano,
Raffaello Cortina, 1997, pp. 107-139. Kernberg mostra il cammino della malinconia. Consiste in un lungo e faticoso percorso. La malinconia è modo d’identificazione cannibalico oppure presa d’atto, poiché l’oggetto affettivo non può essere
incorporato interamente, della necessità di ferirlo internamente per mostrarlo al
mondo. In questo caso siamo di fronte alla malinconia isterica, descritta da Christopher Bollas nei termini di isteria maligna (Bollas, C., Isteria, Milano, Raffaello Cortina, 2001.)
68
La follia rivisitata
mo. La trappola è inesorabile. Dichiara un disturbo borderline diagnosticato in
psichiatria dopo un tentato suicidio.
Gloria trionfa sempre su ogni uomo. I suoi amori molteplici vengono presto
terrorizzati. Dice di essere una tigre che li sbrana. Gli amici, i suoi terapeuti, li
sceglie rigorosamente maschi. Disprezza il femminile, da cui salva solo una cara
amica. Durante le sedute la richiesta d’impegno del terapeuta nella sua salvazione si fa sempre più pressante, ma si connota, come accadde presso gli altri, nei
termini di una minaccia a farla finita e con l’evidenza di sempre maggiori tagli,
sempre meno orizzontali, sempre più tendenti al verticale. Una sfida.
Un giorno, mentre il terapeuta è all’estero, viene chiamato sul cellulare,
sono circa le nove di sera, ma dove lei sta sono le tre del mattino. Chi parla è il
padre, la richiesta è di giungere subito al capezzale dell’appartamento della figlia, dove si trovano i familiari, gli amici e i tre fidanzati con cui si giostra in
quel periodo. Gloria è in un bagno di sangue, ora tamponato da un fidanzato
medico. Con lui il terapeuta concorda un ricovero in pronto soccorso, prima di
riagganciare però Gloria vuol parlare al terapeuta. Dice che ora è tutto passato,
che non è più necessario che lui rientri [sic], neppure è necessario il pronto soccorso; ora è circondata dai suoi affetti e vorrebbe aprire qualche bottiglia di
champagne per festeggiare. Peccato non ci sia anche lei al mio party! Al rientro del terapeuta Gloria prende un appuntamento, dimessa dal servizio psichiatrico ospedaliero dichiara di avere visto l’inferno. La psichiatria conferma la
diagnosi precedente, somministra ansiolitici e antidepressivi che lei non prenderà, predilige lo champagne.
La questione se questa donna sia o meno affetta da disturbo borderline è di poco
conto, vale per manuali basati sui comportamenti. Dal punto di vista psicoanalitico
si può osservare invece uno slittamento della posizione isterica, che assume connotazioni borderline nell’incrudimento dell’aggressività verso se stessa e gli altri, ma
rimane ferma nella propria isteria connotata dal desiderio di far funzionare il sintomo come strumento di richiamo degli altri, di qui la posizione malinconica, unico
mezzo per creare e negare contemporaneamente il legame con l’Altro. Isteria, maligna e ostinata. Col tempo il corpo di questa iperadolescente invecchierà, il padre
morirà, i sintomi si trasformeranno in una malinconia franca.
Permane, nella malinconia dell’isterico, in quella del narcisista, del sociopatico, una semiosi cannibalica marcata, che spesso si rivolge all’altrui
persona, cambiando forma. Dall’autolesionismo isterico, al sadismo pianificato del narcisista, fino all’aggressione aperta del sociopatico: “un disconoscimento della realtà della perdita, così come della morte”35. Non è puro
imbellettamento immaginario, né insensatezza della cosa psicotica. Se fosse immaginario, sarebbe inconcludente, se fosse insensato, non potrebbe
essere né pianificato, né agito. In questo la melanconia e la mania sembra-
35
Kristeva, J., Soleil noir. Dépression et mélancolie, Paris, Gallimard, 1987, pp. 21-32.
Umori
69
no differenziarsi dall’isteria, da una parte, e dalla psicosi (dementia praecox, schizofrenia) dall’altra.
Il problema della malinconia è l’interruzione della concatenazione verso il piacere, verso l’eros. La catena significante è incerta, s’inceppa a tratti, benché l’oggetto del desiderio possa essere intravisto non viene mai raggiunto perché è perduto fin dal principio. Così aveva già osservato André
Du Laurens36 nel suo Discorso sulle malattie melanconiche del 1594, sulla
scorta di Galeno: “Come nota Galeno, [i malinconici] amano infinitamente il silenzio, e bene spesso non possono parlare, non per il vizio della lingua, ma più tosto per qualche lor pensiero ostinato: finalmente si formano
sempre qualche strana imaginatione, et hanno quasi tutti un oggetto particolare, che non si può cancellare fuori che col tempo”.
La malinconia nella terapia sistemica
Se la psicoanalisi ci ha insegnato le posizioni interne al soggetto della
malinconia, la sistemica analizza i contesti dentro cui la malinconia si può
manifestare. Introduce nel discorso la componente culturale necessaria per
interpretare i sintomi in circostanze differenti.
L’interpellazione del contesto non si limita alla famiglia, parte dalla famiglia
ma si estende alla comunità immaginaria, inoperosa e inconfessabile del paziente designato. L’affermazione di Spinoza, secondo cui la depressione serve
all’oppressione ha carattere sistemico. Come nelle storie di Gregory Bateson,
oltre la funzione, si cerca la matrice sociale della malinconia.
Si tratta di psicoterapia democratica, non riservata alle élites intellettuali, pensata come ampliamento della libertà personale: “allargherò in ogni
momento il dominio delle mie scelte possibili”37. Abbiamo osservato che la
malinconia assume differenti connotazioni storico-culturali. Come rendere
singolare una storia che non può essere colta senza una declinazione storica specifica? Storia dei sistemi di pensiero, storia dei dispositivi comunitari, familiari e di cura, storie di vita, modelli culturali, atti linguistici e riferimenti deittici particolari38. Piani d’indagine, piani d’intensità.
36
37
38
Du Laurens, A., Discorso sulle malattie melanconiche, in Gigliucci, R., La melanconia, Milano. Rizzoli, 2009, p. 247.
Foerster, von, H., Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987.
Pearce, B., Comunicazione e condizione umana, Franco Angeli, 1993.
70
La follia rivisitata
Come scrive Julia Kristeva39, psicoanalista vicina al pensiero cibernetico: “Alle frontiere dell’animalità e della simbolizzazione, gli umori – e la
tristezza in particolare – sono le reazioni ultime ai nostri traumi, le nostre
risorse omeostatiche di base.”
Il sistema melanconico si declina, durante il corso della vita, in circostanze singolari che rendono irrimediabilmente lacunosa ogni teorizzazione diagnostica astratta. Quali sono i traumi? La vulgata psicologica tende a
vedere il trauma principalmente nell’abuso subìto durante l’infanzia. Lo
stesso Freud, a partire dalla Grande Guerra, si accorge invece della presenza di una pulsione di morte, costitutiva dell’intera esistenza.
Uno dei temi indagati da Bateson è la relazione tra il soggetto e il contesto. Il soggetto, in Bateson, non è l’Io. Né l’Io di una certa psicoanalisi, né
l’io cognitivista (quell’io che guarisce quando diventa consapevole). Il
soggetto è già immediatamente relazione, sistema gestuale (l’indagine sui
balinesi), rituale (gli Iatmul della Nuova Guinea), animalità (lontre, gibboni, polipi), sistema in azione (Gregory-ascia-albero)40.
Bisogna rendere conto della molteplicità di forme che l’umore assume
nella storia dei dispositivi sociali e di cura cui si affaccia. Malinconia del
genio, accidia del cristiano e del monaco, nostalgia di soldati e migranti,
lunatismo del contadino, depressione del cittadino milanese, ecc. L’umore
è già soggetto malinconico, maniaco, furioso, frenetico relato al contesto,
condizione della possibilità di ogni formazione patologica dell’umore stesso, non si dà umore senza relazione.
Se pensiamo al soggetto come relazione dobbiamo includere, nella sua
responsabilità, la sua formazione. Il soggetto è la conseguenza di una formazione da raccontare. Dalla formazione, che è sempre racconto di formazione, emergono esperienze traumatiche, configurazioni del racconto che
costituiscono la mia malinconia. Nostalgia del mio paese, tradimento di
qualcuno, mancanza di corrispondenza affettiva, testimonianza di un evento indicibile, irrappresentabile, ribellione repressa, ostinazione frustrata,
ecc. La responsabilità malinconica è formazione reattiva che si manifesta
dentro un paradosso. La terapia è uno dei contesti in cui il paradosso si può
dissolvere, un salto transcontestuale.
39
40
Kristeva, op. cit.
Bateson, G., Bali, il sistema di valori in uno stato stazionario, in Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1986; Bateson, G., La cibernetica dell’Io, una
teoria dell’alcolismo, in op. cit. Bateson, G., Naven, un rituale di travestimento in
Nuova Guinea, Torino, Einaudi, 1988.
Umori
71
Le ragioni della malinconia nella prospettiva sistemica non sono diverse
dalla prospettiva psicoanalitica, diverso è il punto di osservazione: là abbiamo un oggetto interno amato/odiato perché perduto, qui una relazione affettiva marcata dalla perdita, da una distanza incolmabile. Tuttavia qui, come là,
la perdita subìta non è oggettivamente quantificabile, né ordinabile in base a
criteri misurabili. È perdita interna a un sistema di significazione. Per dirla
con Ippocrate: un’acrasia, ma dentro la significazione del soggetto.
“Pace non trovo”, perché la perdita è sconvolgente al di là di ogni possibile valutazione obiettiva, emerge come una ferita, un evento che rimanda
a un insieme di eventi altri, spesso lontani nel tempo, coperti dall’oblio delle difese momentanee. Può essere più grave la morte di un cane, di quella
di un parente, un licenziamento può ferire più di un grave infortunio, un
fallimento può esser peggio della morte di una persona cara, di una lunga
malattia, ecc. Ma l’una cosa rinvia all’altra, accaduta in un tempo altro,
quando la condizione del momento m’impediva di fermarmi a elaborare un
lutto, a soffrire troppo intensamente. Ora posso permettermelo.
“Non ho da far guerra” perché la violenza che sento per l’ingiustizia subìta
la posso rivolgere solo verso me stesso. È necessario parlare d’altro, non concentrare la conversazione sul sintomo, per non rimanere irretiti nell’enigma
inesorabile, irrisolvibile. Immediatamente la conversazione si sposta su un
sistema di relazioni più vasto. La malinconia nasconde sempre un delirio della necessità: “nessuno ha mai sofferto, soffre o soffrirà come sto soffrendo io,
la mia sofferenza non è momentanea, temporale, è infinita, eterna”. Nella
conversazione terapeutica le domande riflessive, al tempo congiuntivo/condizionale, ripropongono circostanze e situazioni invisibili al depresso. Un
evento del passato può venire contemplato dentro un orizzonte futuro. Il trauma condurrebbe a una scelta, se il paziente designato agisse, prendesse la responsabilità di andare verso il proprio riconoscimento.
La condizione malinconica di una giovane donna che racconta due importanti sogni durante una seduta di Giafranco Cecchin, agli inizi degli anni Ottanta, non può venire separata da una famiglia che rimette in questione l’assenza
del padre. Non si tratta di assenza fisica, ma mentale. La figlia sogna il desiderio incestuoso di papà per la propria madre, la nonna paterna. Il desiderio del
desiderio della figlia per il padre emerge da un sogno della figlia. Dal racconto
del sogno in terapia familiare si scatena una serie di ipotizzazioni delle sorelle
e della moglie, la designazione si sposta dalla figlia malinconica al padre, alla
sorella maggiore, che nasconde la propria rivendicazione della presenza paterna dietro un velo di normalità, che ha una relazione da anni che definisce e pretende venga definita da ognuno amicizia. Famiglia di intellettuali che vivono in
72
La follia rivisitata
una zona della Svizzera colonizzata dai capitali tedeschi e milanesi, colonia di
lusso: Svizzera italiana.
Tutti questi frammenti narrativi si compongono durante la seduta per mostrare come la giovane donna avesse deciso di gestire la propria malinconia
(“adesso è come se fosse lì in una valigia, appartiene a me”) trasferendosi a Losanna per frequentare un istituto d’arte. E ora che lei gestisce la malinconia,
emergono le rivendicazioni melancoliche della sorella, gli umori paterni, lo
sbalordire della madre (“come può essere così attaccato a sua madre se non la
va mai a trovare! Non capisco.”), che ha perso la trama narrativa che teneva insieme questa famiglia per l’eternità.
Oppure in una seduta, con una famiglia veneta, di Luigi Boscolo, ove una
bimba nervosa di 9 anni, rende il padre furioso e malinconico (“o Dio cossa te
go fato per meritarme una tosa simil!”) perché non riesce a consolarla, in una
strana relazione simbiotica con la madre (“lei sa come consolarmi, quando
sono nervosa mi porta il gatto e io mi calmo”).
Il padre sognato assente perché innamorato della nonna materna, la figlia melanconica in relazione a una famiglia che vive in una casa meravigliosa, difficile da abbandonare, non solo da lei, ma soprattutto dalla sorella maggiore. La relazione inceppata tra una bambina e il padre che si
connette con la relazione simbiotica della bimba con la madre, la relazione
col gatto, che ha il potere di calmarla. Di fronte alla relazione con l’animalità, scompare ogni forma di nervosità, l’animalità altrui ci rende docili.
La sistemica non può parlare di malinconia al di fuori dei sistemi oppressivi, palesi o nascosti, che la generano, benché il soggetto ci vada incontro, assoggettandosi a un’interpellazione opprimente.
Donne depresse
Negli anni Sessanta la sociologa nordamericana Betty Friedan41 (19212006) scrive un saggio intitolato La mistica della femminilità, un resoconto della rivolta nascosta tra le mura domestiche americane. Le donne bianche della classe media passano intere giornate a piangere sul sofà del
salotto. Intervistate rispondono che non sanno perché. Trascorrono così un
giorno dopo l’altro senza ragione. Hanno figli puliti, ben nutriti, che vanno
a scuola, mariti professionali, auto propria, elettrodomestici, frigoriferi,
villetta con giardino. Tuttavia non possono fare a meno di restare a piangere e guardare nel vuoto, sedute sul sofà.
41
Friedan, B., The Feminine Mystique, New York, Norton, 1963.
Umori
73
Alcuni anni prima Talcott Parsons42 (1902-1979), descrive la famiglia
americana come modello classico di famiglia funzionale. Il padre, un conquistatore del pane (professional bread-winner), ha il compito di mantenere e far progredire la famiglia, mentre la madre, organizzatrice domestica
(professional home-maker), ha il compito di far crescere i figli e tenere la
casa a posto. Si tratta di una descrizione che sembra essere anche una raccomandazione, si parla di Happy Days. In parte coincidono col maccartismo, quel periodo in cui il modello americano di famiglia sembrava contrastare supposte idee bolsceviche, perversioni intellettuali anglo-francesi,
esperienze omosessuali.
Quando esce il libro di Friedan quest’immagine della società americana
crolla. Prima di lei, nel 1949, la crisi dalla famiglia americana viene raccontata da Arthur Miller (1915-2005) in Morte di un commesso viaggiatore. Willy Loman, il padre, è un commesso viaggiatore che non si rassegna
alla pensione. La famiglia Loman vive alla periferia di New York, Willy
vende calze di seta da donna nel New England, spostandosi con l’auto. Il
viaggiatore, dopo essersi ritrovato come un limone spremuto, medita il suicidio simulando un incidente d’auto per ottenere un compenso assicurativo
alla famiglia. Lo vediamo in scena a delirare in giardino, di fronte al fantasma di un enigmatico fratello che ha fatto fortuna viaggiando per il mondo.
Quando muore, durante il funerale, la moglie si domanda perché si sia voluto togliere la vita proprio quando avevano finito di pagare tutti i debiti, i
ratei, i mutui su cui si fonda questa famiglia tipica americana. Durante la
scena finale Charley, il cognato, sublima la sua morte.
Charley: (fermando il gesto e la risposta di Happy) Non calunniate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy era un commesso viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o
mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria,
aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti
sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore
deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.
Friedan, una quindicina d’anni più tardi, con lo stesso afflato poetico,
solo trasposto nella sociologia romantica di cui era capace, trasferisce questi sentimenti dal padre di famiglia verso le madri. Un senso di confusione,
di deragliamento dalla famiglia funzionale americana, un capovolgimento
42
Parsons, T., Bales, R.S., Family Socialization and Interaction Process, New York,
Routledge, 1956.
74
La follia rivisitata
di questi ottusi Happy Days in qualcosa di oscuro e inquietante, ciò che
Freud aveva chiamato perturbante (Unheimliche)43.
La psichiatria dominante si affretta ad appropriarsi di queste conclusioni stravolgendole. Parla di una nuova malattia femminile che in America
del Nord avrebbe sostituito l’isteria: la depressione.
Depressione diventa la nuova follia delle donne frustrate che, per tirarsi su, a volte bevono un goccio d’alcol, tentano il suicidio con i barbiturici,
oppure spariscono per andare a servire in un fast food di qualche altro Stato dell’Unione, dove non sono conosciute e sperano di rifarsi una vita. Abbandonano marito e figli senza alcuna ragione evidente, sorde verso il richiamo affettivo. La famiglia coniugale bianca sembra nascondere un
sistema oppressivo intollerabile dietro le apparenze rispettabili. Al contempo, fuori dal mondo psichiatrico dominante, lo Stato euforico emerge: il
femminismo, le rivolte e le proteste nere, il pacifismo, il movimento Hippy, le nuove rivendicazioni gay, la beat generation e altre follie culturali,
letterarie, artistiche invadono il mondo occidentale.
A partire dalla ricerca di Friedan, con il femminismo, questo fenomeno
comincia a mostrarsi. Le donne reclamano il diritto alla felicità sancito dalla Costituzione degli Stati Uniti, contro il dovere alla depressione sancito
dalla moderna psichiatria; questa una delle più importanti battaglie del
femminismo americano.
Invero in Italia in quegli anni è tutto diverso. Il maggiore spirito di sottomissione – legato all’influenza cattolica – mantiene le donne italiane attaccate alle
mura domestiche a invecchiare. Dietro le apparenze rispettabili sono i maschi
che se ne vanno, così si assiste al fenomeno delle vedove bianche e la tristezza
femminile assume un senso sociale di protesta sorda, individuale, ma diffusa.
Nei Vitelloni Fellini descrive la formazione del maschio italiano. Appare evidente la connivenza di molta psichiatria con la tendenza politica maschile oppressiva verso le donne e libertina verso se stessi, basti pensare a un altro film
di Fellini, Giulietta degli spiriti, quasi autobiografico, dove Giulietta Masina,
senza neppure che le si cambiasse il nome, recita la parte di una donna malinconica e schizofrenica che viene tradita in modo eclatante da un marito sempre altrove per lavoro, attorniata da un enclave di psichiatri e terapeuti cialtroni, così
come Fellini descrive i cialtroni, in modo magistrale, che non combinano nulla.
La psichiatria, qui come nel Nordamerica, si allinea alle tendenze dominanti nella società. Invero molti psichiatri e psicologi, proprio allora, cominciano a ripensare a fondo il loro ruolo. Sono gli anni dell’anti-psichiatria.
43
Freud, S., Il perturbante, in Opere, Vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri.
Umori
75
Omosessualità
Che il periodo maccartista abbia portato gli Stati Uniti verso la depressione e l’oppressione è evidente anche dal sospetto di comunismo rivolto a
chiunque non condividesse l’ideologia dominante e dalla caccia all’omosessuale.
Negli anni Sessanta, si assiste a un cammino di protesta che porta alla
grande conquista del 1974: la liberazione dell’omosessualità dalle categorie diagnostiche. Pratiche o tentativi di imporre terapie riparative per l’omosessualità sono diffuse e accreditate, così come l’applicazione delle leggi sul reato di sodomia. Durante il maccartismo i bersagli inclusi dalla
repressione sono omosessuali, nuovi poeti e letterati, sospetti di comunismo e comunisti. Ogni tipo di produzione intellettuale sospetta. Alcuni psichiatri, psicoanalisti e psicologi clinici sfruttano l’epoca pubblicando libri
sui metodi per guarire gli omosessuali. E i suicidi pullulano.
Nella notte fra il 31 marzo e il 1° aprile 1950 un uomo di quarantotto anni,
solo di fronte a un futuro che gli si prospettava vuoto d’amore e politicamente
minaccioso, salta dalla finestra di una stanza d’albergo, a Boston, la città in cui
viveva […] Così, nel corso dell’anno sabbatico che avrebbe dovuto ritemprarlo, si chiudeva la vita di Francis Otto Mathiessen, professore d’inglese a Harvard, critico e intellettuale fra i più eminenti del tempo, autore di numerosi e
importanti studi sulla letteratura americana...
Così recita il contributo di Mario Corona44 intorno alla figura di Francis
Otto Mathiessen, autore che più di ogni altro ha contribuito allo studio e
alla valorizzazione del Rinascimento americano. La malinconia ha un
aspetto di gender ancora troppo poco considerato. Le studiose di gender e
di teorie queer hanno sempre messo in luce l’importanza dei corpi che creano problemi, come recita un titolo di Judith Butler45: Bodies that Matter.
Come ha insegnato Foucault, il corpo diventa problema sociale in ogni momento della sua esistenza, sia che sia trasformato in colletto bianco, felice
espressione di Charles Wright Mills, sia che si presenti come corpo ferito, disabile, marcato, sia che si soggettivizzi nella molteplicità alternativa queer, lesbica, trans, bisessuale, ecc., sia infine che si presenti come corpo frammentato nella forma teatrale (Artaud, Kantor, Grotowski) e schizofrenica.
44
45
Corona, M., Un rinascimento impossibile. Letteratura politica e sessualità nell’opera di Francis Otto Mathiessen, Verona, Ombre Corte, 2007.
Butler, J., Bodies that Matter. On the Discursive Limits of Sex, New York, Routledge, 1993.
76
La follia rivisitata
L’evento Mathiessen è un suicidio studiato a seguito della lucida decisione di non poter più star dentro un clima culturale autoritario, controllante. Un regime spionistico organizzato, all’idea del solo pensare che l’amore, il suo amore, potesse essere liquidato in reato di sodomia o in malattia
mentale. Otto Mathiessen è uno dei numerosi eroi/testimoni di questa oppressione, che non si esaurisce certo nel maccartismo americano.
Fino al 1974 i manuali diagnostici psichiatrici hanno considerato l’omosessualità nei termini di un disordine mentale: conosciamo le rivolte, le
proteste del mondo omosessuale e femminista, che hanno portato al riconoscimento del diritto a una sessualità libera. Sappiamo però che c’è ancora
un lungo cammino, che ancora, in paesi particolarmente arretrati e liberticidi, come l’Italia, queste conquiste sono negate. Ciò crea un paradosso.
L’interiorizzazione dell’omofobia crea depressioni che, anziché venire curate aiutando la persona omosessuale a riconoscere le proprie scelte e a farsi conoscere come tale (l’outing e il coming out), spingono la persona a indagare su eventuali turbe dell’identità sessuale. E se pensassimo all’inverso?
Se curassimo gli eterosessuali con il medesimo criterio?
Numerose ricerche hanno rilevato le combinazioni tra depressione e repressione familiare, comunitaria, sociale, tra euforia e disobbedienza
all’autorità: soggetti indisciplinati, pigri, ribelli, stanchi somiglianti al monaco accidioso descritto da San Cassiano popolano le nostre città e le nostre campagne. Sono fenomeni che riguardano uomini e donne, eterosessuali, bisessuali e omosessuali d’ogni tipo (qualora si potesse definire una
classificazione sempre sfuggente).
Al cospetto di un fenomeno sociale dilagante la salute pubblica si ritira, il
contesto sociale viene eliminato dai programmi di ricerca. Nella valutazione
del caso si parte dall’individuo, isolandolo dalle sue relazioni, anziché dalla costituzione sociale dei soggetti. Seguendo questa strada, l’intervento farmacologico rende i sintomi silenziosi e produce guarigione: ri-abilita.
La seconda strada è più difficile, richiede solidarietà, ci interroga sull’oppressione sociale che rende gli individui depressi o bipolari. Di fronte al
processo di sanitarizzazione del mondo, bisogna mettere in luce il pericolo
del dominio di un solo modo di pensare, di una sorta di tirannia cerebrale.
La depressione pubblicitaria
Tutti oggi sanno, più o meno, cos’è la depressione. Nel Nord-America e
in Europa questo messaggio spopola: “La depressione è una malattia grave, i suoi sintomi sono dati dalla stanchezza, dalla tristezza e dalla perdita
Umori
77
della voglia di vivere, lavorare, studiare, fino al suicidio; ai primi sintomi
di depressione rivolgiti a un medico che ti prescriverà un antidepressivo,
altrimenti peggiorerai e non ci sarà più nulla da fare”.
Strano tipo di messaggio pubblicitario. Anziché mostrare la bontà di un
prodotto, appare come una minaccia verso coloro che non lo usano. Questo
messaggio, in una società dove i valori dell’autonomia e della volontà sono
enfatizzati dalla cultura popolare, ha una potenza enorme. La gente viene
terrorizzata dalle campagne pubblicitarie sulla depressione, termine a tutti
ben noto, che si spiega in poche parole. Chi non si assoggetta alle pratiche
prescritte non venga poi a lamentarsi. Così si organizza la mentalità ostile
degli operatori dei servizi.
Dall’inizio degli anni Novanta nei media americani si propaganda che la
depressione è una malattia organica che porta al suicidio se non curata coi
farmaci. Negli anni Novanta escono libelli più o meno semplicisti firmati
da psichiatri che sostengono teorie apocalittiche, come per esempio che
siccome la tubercolosi fu debellata dagli antibiotici, anche la depressione
sarà debellata dai nuovi farmaci.
Il sospetto, allora forte, è ormai un’evidenza. A vent’anni di distanza si
sono rilevati i limiti di questi nuovi farmaci. L’enfasi posta sull’obiettivo di
debellare la depressione si è rivelata una grossolana manovra per vendere.
Il paradosso di queste campagne pubblicitarie è che la depressione, invece
di essere debellata, è aumentata enormemente.
Non sto giudicando i farmaci, ma il marketing pubblicitario devastante,
al punto che oggi i critici scrivono libri dal titolo La scomparsa della tristezza46, dove si mostra che ormai ogni nota di sconforto umano viene bollata col marchio depressione.
Marcelo Pakman (1953), psichiatra democratico e psicoterapeuta negli
Stati Uniti, racconta in alcuni saggi47 di come il marketing di questi farmaci abbia costituito l’acronimo SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors, in italiano inibitori selettivi della ri-captazione della serotonina) per
rendere le cose più semplici. La serotonina è un neurotrasmettitore che ha
la seguente caratteristica: è immagazzinata in un neurone che, dopo essere
stato stimolato, la rilascia, producendo la risposta di un altro neurone che,
a sua volta, riceve la stimolazione dal primo. Questo evento si chiama sinapsi. Il neurone che rilascia i neurotrasmettitori viene chiamato neurone
presinaptico, quello che capta i neurotrasmettitori rilasciati viene denomi46
47
Horwitz, A.V., Wakefield, J.C., op. cit.
Pakman, M., Palabras que permanecen, palabras a venir, Gedisa, Barcelona,
2011.
78
La follia rivisitata
nato neurone post-sinaptico. La produzione mentale viene vista come un
processo chimico di comunicazione tra neuroni, i neurotrasmettitori sono i
portatori d’informazione. La serotonina sarebbe un trasmettitore endogeno
di benessere e felicità. Il farmaco SSRI inibisce la captazione della serotonina, mantenendola più a lungo durante il processo sinaptico. In altre parole, l’azione chimica consiste nel far permanere più tempo la serotonina che
produciamo nel corpo, aumentandone la quantità in ogni dato momento.
Quando sono immessi sul mercato gli SSRI, si parla di pillola della felicità. Dopo vent’anni di somministrazioni emergono una serie di difficoltà.
Sebbene efficace in alcuni casi, il farmaco non è la pillola della felicità,
così come la depressione non è la tubercolosi. Paragoni semplicistici, campati per aria.
Secondo l’ipotesi di Pakman, la via che ha permesso di avere successo
sul mercato a questi farmaci, inizia con l’acronimo che verrebbe a tutti in
mente di usare: SUI, ovvero Serotonin Uptake Inhibitors (in italiano inibitori della captazione di serotonina). Tuttavia SUI è l’inizio della parola suicide (suicidio), dunque il marketing avrebbe suggerito di cambiare acronimo da SUI in SSRI.
Non so se la storia corrisponda a una reale determinazione di marketing,
oppure se venga alla luce da una constatazione immediata. Di fatto il neurone che riceve l’informazione sinaptica, capta (uptakes) la serotonina. Ricapta sarebbe come dire che ogni colpo inferto dalla racchetta alla pallina
durante una partita di tennis va chiamato ri-colpo, il dritto, ri-dritto, il rovescio, ri-rovescio.
La divulgazione scientifica riduce e semplifica attraverso la creazione di
mitologie fuorvianti. Qui però le opere che vent’anni fa parlarono in modo
semplicistico della pillola della felicità sono scritte da psichiatri, persone
che dovrebbero fare ricerca. La peggiore tra le divulgazioni scientifiche
vende milioni di libri.
A oltre vent’anni di distanza si sa che nelle depressioni gravi il farmaco
può avere effetti negativi gravi. In seguito a questa evidenza il mercato si è
spostato nella direzione di trasformare ogni tristezza, dal lutto per la perdita di una persona cara, alla crisi affettiva di un giovane che è stato piantato
dalla fidanzata, in depressione da cura farmacologica.
Molti critici optano per l’ipotesi che la vendita dei farmaci, e i relativi profitti abbiano orientato queste teorie divulgative. Quando viene messa in crisi
dalla ricerca scientifica, la pubblicità diventa aggressiva. Si trasforma in una
sorta di imperativo sanitario che squalifica con rimproveri moralistici coloro
che, a torto o a ragione, rifiutano l’assunzione del farmaco. Per ironia si è evi-
Umori
79
tato l’acronimo SUI, ma la pubblicità contemporanea sembra un’istigazione
paradossale e minacciosa a sottomettersi al farmaco o a suicidarsi.
Con la psichiatria ufficiale, a partire dagli anni Novanta, la depressione
è paradigma dei disturbi dell’umore e viene trattata con gli antidepressivi.
La vicenda è talmente pervasiva che non è più la depressione che mi costringe a prendere il farmaco, ma il farmaco che ho in tasca che mi designa
come depresso. Svuotando le tasche o la borsetta, la presenza del flacone
di antidepressivi mostra il mio disturbo. Lo stick di pillole mi designa.
L’umore si misura in toni, dal basso all’alto. La depressione è la condizione umorale nello stato di abbassamento patologico, mentre la mania è la condizione umorale nello stato di elazione (dal latino elatus, elevato) patologica. Degli antichi umori, tra loro qualitativamente diversi, non resta che
l’umore, entità biologica monodimensionale, presente in ognuno, metafora
del nostro malessere psicofisico: “Il farmaco tiene alto il tono dell’umore”.
Questo riferimento alla monodimensione mette in evidenza che la metafora del tono è un neologismo semplice, ma efficace. Fa pensare a cosa sarebbe un coro di soli mezzosoprani, contralti, tenori, baritoni senza bassi e
soprani, una tensione e ritenzione, un allungamento/accorciamento, come
un elastico: l’idea che la normalità debba corrispondere a una medietà che
tiene sotto controllo gli eccessi.
Nella cultura antica – un cosmo a quattro dimensioni – si perde l’equilibrio in virtù dell’eccesso di un umore, uno sconvolgimento che può assumere più di una caratteristica. Si parla di individui: Ettore, Andromaca,
Aiace, Eracle, Democrito, persino di dèi. Per gli uomini, se un umore è eccessivo si può agire sugli altri, che diventano risorse; nell’epoca classica
l’alchimia, come la psicoterapia nell’epoca moderna (individuale, gruppale, familiare), è il luogo della cura. Altre forme di consulenza, di pratica sociale, politiche dell’amicizia, la riscoperta sociale delle forme dell’amore –
dall’eros alla solidarietà sociale; tutto ciò crea linee di fuga, derivazioni.
Insomma parla della vita.
81
III.
DEMENZA I
… lo sapete, voi, che a Parigi sono già stati effettuati esperimenti molto seri sulla possibilità di guarire i pazzi con la semplice
persuasione e la logica? C’era un professore, morto da poco,
uno scienziato serio, il quale era convinto che si potessero curare proprio così. La sua idea fondamentale era che nell’organismo del pazzo non c’è una vera e propria perturbazione, e che la
pazzia è, per così dire, un errore di logica, un errore di giudizio,
un punto di vista sbagliato sulle cose. Egli confutava gradatamente gli argomenti del malato e, immaginatevi un po’, riusciva a ottenere dei risultati! Ma siccome si serviva anche di certe
docce, sui risultati di questa cura sussistono, naturalmente, dei
dubbi... Almeno, così mi sembra...
(Dostoevskji, Delitto e castigo, p. 464)
If the human race survives, future men will, I suspect, look back
on our enlightened epoch as a veritable age of Darkness. They
will presumably be able to savor the irony of the situation with
more amusement than we can extract from it. The laugh’s on us.
They will see that what we call schizophrenia was one of the
forms in which, often through quite ordinary people, the light
began to break through the cracks in our all-too-closed minds.
(Ronald Laing, The Politics of Experience, p. 107)
Canoni logici e delirio
In logica è necessaria la presenza di un canone, c’è da seguire un metodo. Solo così si mostrano le fallacie che conducono a modi scorretti
di ragionare. Il canone riconosce errori che il delirio non conosce. In
psicoanalisi questo elemento di consapevolezza logica si chiama castrazione. È necessario, definisce i limiti del possibile nel dominio simbolico/operatorio. Tuttavia il delirio si avvale di sfumature linguistiche
che la logica formale non considera, il possibile, per il delirio, comprende l’impossibile.
La logica assume il principio di non contraddizione, la negazione, il modus ponendo ponens, il modus tollendo tollens (termini medievali che indi-
82
La follia rivisitata
cano come condurre il corretto ragionamento)1, l’asimmetria del concetto
di appartenenza a una classe.
In logica formale sono fallaci ragionamenti che non seguono questi canoni. La frase: “Se piovesse, allora mi bagnerei”, per essere falsa, necessita solo l’affermazione dell’antecedente (piove) e la negazione del conseguente (non mi bagno). Più chiaramente: posso bagnarmi anche se non
piove, ma, se sono asciutto, certamente non piove2.
Il delirio non conosce contraddizione (A e non-A coesistono) e non conosce la negazione come segno negativo della logica formale, si esprime
1
2
Per un’introduzione alla logica: Lemmon, E.J., Elementi di logica, Roma, Laterza, 1975 e Hodges, W., Logica, Milano, Garzanti, 1986. Il modus ponendo ponens
e il modo tollendo tollens asseriscono la correttezza di un ragionamento condizionale del tipo: “Se piovesse, mi bagnerei” (falso se e solo se affermo che piove e
contemporaneamente nego che mi bagno). Si tratta di logica delle proposizioni. A
partire dalla logica dei predicati le questioni si complicano ulteriormente. La teoria di Russell e Whitehead, che vedremo tra poco, si sviluppa a partire dalla logica dei predicati (introduzione dei quantificatori universale ed esistenziale) da cui
si sviluppano la teoria degli insiemi e la teoria della classi proprie. La questione
del rapporto tra logica formale, teoria delle classi e inconscio è stata posta da
Žižek, S., L’isterico e il sublime. Psicanalisi e filosofia, a cura di Antonello Sciacchitano, Milano, Mimesis, 2003. A dire il vero, sono i commenti al testo dell’edizione italiana a cura di Antonello Sciacchitano che chiariscono la distinzione tra
insiemi e classi proprie a partire dai contributi di John von Neumann e della teoria dei mondi possibili di Saul Kripke.
Secondo lo strutturalismo piagetiano (Piaget, J., L’epistemologia genetica, Roma,
Laterza, 2000), il pensiero ipotetico deduttivo è configurabile come gruppo di trasformazioni formato da quattro elementi – identità (d’ora in poi I), negazione
(d’ora in poi N), reciprocità (d’ora in poi R), co-reciprocità (d’ora in poi C) – e da
un elemento neutro, che è I.
Se prendiamo una proposizione I, poniamo “Se piove allora mi bagno”, avremo la
negazione N “Non è vero che se piove mi bagno” (“Piove e non mi bagno”), la reciproca R “Se mi bagno allora piove” e la co-reciproca “Mi bagno e non piove”.
Se operiamo sui quattro elementi avremo che I*R=R; I*N=N, I*C=C, I*I=I, ovvero I è l’elemento neutro del gruppo. Le altre operazioni sono facilmente deducibili, es.: R*N=C, N*C=R, R*R=I, ecc.
Il pensiero ipotetico deduttivo, presupposto dallo strutturalismo piagetiano, nel delirio viene travolto da una serie di sconfinamenti secondo i quali I e N possono coesistere, così come R e C. Dunque I*N può avere più risultati, come I, N, I e N, ecc.
In effetti, il pensiero ipotetico deduttivo può essere raggiunto solo dopo altre fasi
cognitive come la conquista della fase di permanenza dell’oggetto (l’oggetto non
scompare quando viene coperto o nascosto) e successivamente la fase pre-operatoria (un insieme è sempre maggiore o uguale a un suo sottoinsieme), senza questi presupposti, che l’inconscio ignora, non si dà alcun pensiero operatorio.
Demenza I
83
attraverso la denegazione3, accetta il modus ponendo tollens e il modus
tollendo ponens (gravi errori logici)4, la simmetria del concetto di appartenenza (se sono tuo padre, tu sei mio padre; se sono tuo figlio, tu sei mio
figlio, ecc.).
Secondo il delirio, se sono sotto la doccia, oppure in una vasca da bagno,
fuori deve necessariamente piovere. “Ogni volta che mi lavo, fuori piove”,
oppure “Mi lavo solo quando piove”.
Altri esempi:
- la frase: “Se Napoleone fosse cinese, allora sarebbe asiatico” comporta
(secondo il delirio): a) se Napoleone è cinese è francese, b) se Napoleone non
è asiatico, è cinese, c) se Napoleone è asiatico, è francese, d) se Napoleone è
francese, è asiatico, ecc.;
- frasi del tipo: “Non sarò mai come te!”5 per l’inconscio significano:
“Sarò sempre identico a te!”;
- oppure: “Se ti amo allora ti bacio” per il delirio può significare “Finché ti
bacio ti amo, se bacio un altro, non ti amo più”;
- “De Chirico appartiene, per un periodo, al surrealismo” per il delirio significa “il surrealismo appartiene, per un periodo, a De Chirico”;
- ecc.
La logica formale esercita una funzione castrante necessaria, ma si lascia sfuggire intuizioni, impressioni, analogie, momenti poetici escluden3
4
5
Per denegazione (Verneinung), in psicoanalisi si intende il procedimento per impedire a se stessi di riconoscere un desiderio che viene affermato in forma negativa. Nel saggio La negazione (1925), in: Freud, S., Opere, vol. X, Torino, Bollati
Boringhieri, 1989, Freud usa questo termine, Verneinung, che significa in primis
negazione. Jean Hyppolite, Commento parlato sulla Verneinung di Freud, in J.
Lacan, Scritti, Vol. II, Einaudi, Torino 1974, p. 886, propone una distinzione tra
negazione interna al giudizio – che appartiene alla logica formale (anche logica
dell’Io) – e atteggiamento di negazione, proprio della denegazione.
Ovviamente, la giustezza dei due modi in nota 1 presuppone la fallacia dei modi
di negazione dell’antecedente e affermazione del conseguente, altrimenti la logica non riconoscerebbe più altro che la necessità. Quindi non bisogna confondere:
la castrazione non è solo divieto, al contrario salvaguarda possibilità inammissibili per il delirio. In questo senso la castrazione garantisce la libertà, almeno in psicoanalisi.
Come si nota, la lingua italiana, così come altre lingue in modo differente, porta
con sé i segni dell’inconscio. La frase “Non sarò mai come te!” infatti contiene la
doppia negazione, quindi letteralmente, per un logico, significa “Sarò sempre
come te!”. Solo che per l’inconscio è una forma di denegazione che in italiano si
esprime così per com’è. Diverso è con l’inglese “I’ll never be like you!”, benché
in inglese, in alcune circostanze del parlato, ci sia anche la possibilità della doppia negazione.
84
La follia rivisitata
doli dal ragionamento6. Il pensiero è ambivalente: salva dalla follia, ma allontana dal corpo, dalla sensazione.
Il delirio non riconosce la funzione della castrazione logica. Gregory
Bateson racconta di una conversazione con Norbert Wiener, il fondatore
della cibernetica, in cui Wiener gli chiede quali criteri si dovrebbero introdurre in una macchina perché possa venire considerata schizofrenica:
Alla fine, dopo un bel po’ di discussione, concepimmo una macchina immaginaria… Tu dici alla macchina: collegami con l’abbonato numero 348 gli
chiedi di mandarti a Detroit 247 maiali porto franco, al che la macchina interrompe la tua conversazione col primo abbonato e ti collega con l’abbonato 247.
La macchina cioè falsifica l’uso del numero, il tipo logico del numero. E se lo
fa non regolarmente, cento volte su cento, bensì irregolarmente, allora sarei disposto a chiamarla macchina schizofrenica7.
L’inconseguenza schizofrenica è inconseguente, non conseguente, perciò imprevedibile. La follia, per definizione, è disordine del pensiero, il resto del canone, la sua spazzatura, macchina inutile, senza funzione. C’è
una linea di divisione tra il territorio della follia e quello della logica, il delirio è ciò che sta oltre questa linea. Immaginiamo un pensiero ridondante,
pieno di ripetizioni, di sovradeterminazioni, di errori, di disordine, un pensiero che, come la Biblioteca di Babele di Borges, sia un grande caos con
alcune, rarefatte, isole di ordine.
Si tratterebbe di rifare la storia dei tentativi filosofici di ordinare questo
caos primigenio, contenerlo, imporvi limiti. Compito immenso. Non mi rimane che delineare un rapido abbozzo.
Come Ippocrate è maestro d’umori, Aristotele (383, 384-322 a.C.)8 è
maestro di pensiero. La sistemazione più nota del pensiero di Aristotele si
6
7
8
Per una ragione di completezza, inserisco in nota un altro affascinante modo di affrontare la questione sul piano logico. Nelson Goodman, filosofo dei mondi possibili, introduce la questione dei condizionali controfattuali. Si tratta di quei condizionali in cui
la premessa è così palesemente falsa da permetterci di validare il condizionale giungendo a qualunque conclusione. Del tipo: “Se fossi un camino, allora sarei Napoleone”. Poiché è palesemente falso che io sia un camino, la frase nel suo insieme risulta
logicamente vera. Cfr. Goodman, N., Fatti ipotesi previsioni, Roma, Laterza, 1985 e
Goodman, N., I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1976.
Bateson, G., Bateson, M.C., Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989, p. 192.
Il pensiero di Aristotele è ben più vasto e complesso. Qui mi limito alla riduzione
di Porfirio e alla sua applicazione al mondo biologico da parte di Linneo. Serve
per mostrare come nasca la concezione ad albero, verticale, del pensiero. Come
noto, Gilles Deleuze e Felix Guattari (Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Bo-
Demenza I
85
trova in Porfirio (233, 234-305). Nell’Isagoge: introduzione alle categorie
aristoteliche, Porfirio9 presenta un diagramma ad albero che distingue ogni
ente esistente in base a caratteristiche di genere, specie, differenza, proprietà e accidente.
L’Essere è il punto generale e supremo di partenza di ogni classificazione, si divide in due specie: vivente e non vivente. L’essere vivente si distingue in animale e vegetale e il regno animale in animale di ragione, l’uomo,
e animale irrazionale. Fino alla singolarità di un individuo che rappresenta
la specie, un nome proprio, poniamo Socrate.
Genere prossimo differenza specifica. Un genere si distingue dall’altro
in base a proprietà di specie, che determinano la differenza. Questa differenza non è accidentale; un cavallo può essere bianco o nero, ma tutti sono
erbivori, quadrupedi, mammiferi, appartenenti alla specie equina e nitriscono. Platone avrebbe detto: la cavallinità.
Canoni scientifici e degenerazione
Per secoli prevale l’idea che il canone sia nelle cose, più che essere stabilito da criteri. Lo studioso avrebbe il solo compito di rilevarlo. Nel Settecento Linneo10 (1707-1778) usa il canone per studiare il creato, fonda il
creazionismo con un metodo basato sulla classificazione. Dio ha creato
ogni prototipo di Essere: possiamo classificarlo e distinguerlo attraverso il
diagramma ad albero.
Dopo Linneo si afferma l’idea che il canone possa cambiare, che abbia
manifestazione temporale, destinata a venire superata da nuove specie. Accade quando la logica della scoperta scientifica diventa evoluzionista. Canone teleologico: la specie si evolve in base a un fine (Jean-Baptiste Lamarck11, 1744-1829). Ciò prevede l’evoluzione di quegli esseri che si
adattano all’ambiente attraverso un progetto anonimo che si riassume nella frase: “La funzione crea l’organo”. Lamarck pensa a una finalità cosciente, ma sconosciuta, sovrumana, che guida la natura verso un’evoluzione armonica. I caratteri acquisiti sono ereditati, il fenotipo si trasforma
9
10
11
logna, Castelvecchi, 1980) propongono l’alternativa di un pensiero orizzontale, tipica della schizofrenia.
Porfirio, Isagoge: introduzione alle categorie aristoteliche, Milano, Bompiani, 2004.
Linneo, C., Systema Naturae (1767) in: http://books.google.it/books?id=Ix0AAA
AAQAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_
summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false
Lamarck, J-B., Philosophie zoologique (1809), Paris, Flammarion, 1997.
86
La follia rivisitata
in genotipo, la giraffa è tale in virtù degli sforzi di allungare il collo per nutrirsi, via specie intermedie, di generazione in generazione.
Nel complesso le scienze che si sono occupate della mente hanno seguito paradigmi lamarckiani. Uno dei termini dominanti per un lungo periodo,
a proposito della follia, è degenerazione. Tra i primi a usarla in psicologia
sono Morel12 (1809-1873) e Magnan13 (1835-1916). Morel sostiene che la
degenerazione è un fenomeno legato al degrado sociale e alla trasmissione
intergenerazionale di malattie dovute ad ambienti malsani. Luoghi degradati – dove pullulano tubercolosi, sifilidi, colera – sarebbero il crogiolo per
la formazione di tare ereditarie, trasmesse da una generazione all’altra. Le
tare si complicano e trasformano. Seguono le demenze e altri tipi di degenerazioni mentali: interi gruppi familiari tarati.
Si afferma una variante ottusa di Lamarck, il darwinismo sociale: la vita
è lotta per la sopravvivenza, pagina orribile del Secolo breve14. Follia e arte
degenerata sono accomunate per essere liquidate dal rogo dei libri, dallo
sterminio dei pazienti psichiatrici, da parte del fascismo, dalla psichiatrizzazione degli intellettuali dissidenti nei paesi a socialismo reale.
Invero la follia esercita il ruolo del dissenso in modo ancor più radicale,
dissenso dalla logica, dal modo di pensare corretto. La follia non è dissenso razionale, ma il trattamento di un folle in democrazia è la cifra di come
si tratterebbe un dissidente durante la tirannia. I reparti di ricovero psichiatrico pieni di letti e pazienti, con le cinghie per legarli al letto, sono reparti
totalitari; è qui che clinica e politica mostrano un solo volto.
Il canone darwiniano (da Charles Darwin15, 1809-1882), se ancora si può
parlare di canone, è più complesso. Senza postulare un demiurgo creatore, o
un principio finalistico estraneo, Darwin inserisce nel suo ragionamento il
caso, l’accidente aristotelico, lo toglie dalla marginalità e lo mette al centro
delle sue osservazioni. L’evoluzione assume un aspetto non lineare. Il caso
interferisce, produce mutazioni, mantiene vecchi caratteri che, per cooptazione, modificano la loro funzione in modo imprevedibile. Inoltre, nel pro12
13
14
15
Morel, B. A., Traité des dégenérescences phisiques, intellectuelles et morales de
l’espèce humaine, Paris, Baillière, 1857. Ritengo importante, ai nostri fini, introdurre la concezione psichiatrica di degenerazione tipica dell’Ottocento. Benché
non si tratti affatto di un’elaborazione originale, anzi tutt’altro che all’avanguardia per quell’epoca, in cui Darwin (l’origine della specie è pubblicato nel 1859)
sta per essere riconosciuto come l’autore di un cambiamento di paradigma.
Magnan, J.J.V., Les dégénérés, Boston, Adamant-Elibron, 2002.
Hobsbaum, E., Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995.
Darwin, C., L’origine delle specie, Milano, Rizzoli, 2009. Si veda anche Darwin,
C., Taccuini (1836-1844), Roma, Laterza, 2008.
Demenza I
87
dursi di una mutazione casuale adattiva, si produce anche una cascata di altri
eventi, a loro volta casuali, che cambia l’intera configurazione di una specie.
Si pensa un mondo di differenze equivoche e ambivalenti, bricolage16. Qui la
follia può diventare risorsa, espressione del futuro.
C’è da notare che un contemporaneo inglese di Morel e Magnan, il parapsicologo Frederic William Myers17 (1843-1901), formula un’ipotesi del tutto
opposta intorno alla degenerazione. Secondo Myers le forme che la psichiatria definisce degenerazione possono essere progenerazione. Myers si occupa di esperienze medianiche e si confronta con alcuni casi di persone che mostrano sensibilità e competenze straordinarie in campo sensitivo, come la
capacità di divinare numeri racchiusi in una busta. A prescindere dalla possibile ciarlataneria dei singoli episodi, l’interrogativo di Myers è il seguente:
chi dice che certe forme di pensiero, per noi incomprensibili e apparentemente irrazionali, non mostrino una forma di complessità che non riusciamo a
comprendere? Se così, saremmo di fronte a un fenomeno di degenerazione,
ma evolutivo. Il senso della parola degenerazione andrebbe ribaltato. Myers
inventa il termine telepatia intesa come competenza umana sui generis, posseduta da persone dotate di sensibilità straordinarie.
L’ipotesi, per quanto discutibile, appare assai più darwiniana dell’ipotesi di Morel. Si può pensare che caratteri essenziali dell’istinto animale,
come la capacità di anticipare terremoti e, più in generale, di individuare a
distanza fenomeni naturali, possa essere ancora presente, solo meno sentita, nell’essere umano, con le eccezioni relative a persone ritenute, a torto o
a ragione, telepatiche. Ci sarebbero soggetti che cooptano competenze perdute, o sopite, nel corso dell’evoluzione della specie e le riattivano durante la loro esistenza. Questa l’ipotesi di Myers.
Dementia praecox. Il complesso dell’io e la sua perdita
A partire dall’idea di degenerazione si apre la distinzione tra disturbi
dell’umore e disturbi del pensiero. Da qui le previsioni di deterioramento
cognitivo, perdita di lucidità mentale progressiva, indebolimento della volontà, ecc. Sul versante opposto, potremmo considerare i disturbi del pen16
17
Sul tema del bricolage, in quest’ottica, abbiamo trattato in un libro scritto da me
insieme a Telmo Pievani e Michele Capararo: Barbetta, P., Capararo, M., Pievani
T., Sotto il velo della normalità, Roma, Meltemi, 2006.
Myers, F.W.H., Human Personality and Its Survival of Body Death (2 vol.), Londra, Longmans, 1903.
88
La follia rivisitata
siero (le degenerazioni) una sorta di dissenso dal canone logico. Ci sono
soggetti che si posizionano dentro questa dissidenza fino in fondo, a queste
vite di sofferenza la modernità risponde con la privazione della libertà,
soggetti psichiatrizzati.
La follia come demenza è canonizzata da René Descartes (15961650). Nel suo procedimento attraverso il dubbio, Descartes pone il
problema di mettere al vaglio ogni sensazione, ogni percetto, ogni pensiero. Tutto potrebbe essere illusione, nessuna la garanzia di certezza.
Potrei sognare, avere un’illusione ottica, o uditiva, che può portarmi
verso l’errore. Non sembrano esistere, a prima vista, criteri certi per regolarmi nel mondo. Potrei avere bevuto troppo e vedere girare il mondo intorno a me, essere sotto l’effetto di una droga, avere allucinazioni,
potrei non essere del tutto certo di ciò che mi accade. Ma al termine di
questo vaglio, si trova la certezza.
Tra tutte le sensazioni più o meno illusorie scorgo me che penso (cogito
me cogitare), di ciò sono certo e questa certezza ha il potere di eliminare
ogni dubbio, di distinguere le illusioni, come quando sogno, dalle idee
chiare e distinte. A meno che io sia folle.
Descartes elimina la follia dalla scena del pensiero sostenendo: ma costoro
sono dementi (sed amentes sunt isti)18. Potrei credere che il mio corpo sia di vetro, oppure ch’io sia un capitano turingio, in questo caso sarei folle. Invece penso, dunque sono. Le idee della ragione sono innate e un Dio buono ne è la garanzia. Questo Io non è dunque un io idiosincratico, ma un Io universale,
condizione di ogni pensiero, invariante che appartiene, come dotazione specifica, a ogni essere umano, grazie a Dio. Ma non al demente.
A partire da Friedrich Nietzsche19 (1844-1900), filosofo della follia, nasce l’idea che l’Io, più che una certezza, sia un modo di organizzare il pensiero, una sicurezza cartesiana mal dimostrata. Nietzsche definisce il soggetto, per come lo intende Descartes, equivoco grammaticale, spostando
l’attenzione dalle cose alle parole che usiamo per definirle. Si tratta di distinguere la frase “Io penso” dal suo contenuto. “Io penso” come frase può
essere analizzata distinguendo un soggetto grammaticale (“Io”) da un predicato (“penso”). In questo modo posso analizzare le due parti del discor-
18
19
Queste considerazioni su Descartes furono sviluppate da Foucault, soprattutto
nelle appendici della Storia della follia, op. cit., e fanno parte anche di una nota
discussione tra Foucault e Jaques Derrida (cfr. Derrida, J., “Essere giusti con
Freud”, Milano, Raffaello Cortina, 1994).
Nietzsche, F., Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Roma, Newton
Compton, 1977.
Demenza I
89
so. Se dicessi che nel dire “Io” la lingua commette un equivoco, direi che
si tratta di un equivoco grammaticale. Questo Io non è il soggetto. Potrei
dire Pensa, come dico Piove. Oppure: Ciò pensa. Non c’è garanzia che il
pensiero sia in me o venga dal fuori. Come nella denegazione si distingue
il segno logico “non” dall’atteggiamento di negazione, così si distingue il
soggetto grammaticale dal soggetto eccentrico, pensiero del fuori.
Secondo Gregory e Mary Catherine Bateson20, gli immensi limiti della
consapevolezza sono dimostrati dagli esperimenti di Adelbert Ames. Come
noto, Ames costruì una camera distorta, che allo sguardo monoculare di un
osservatore appare come parallelepipedo; poiché invece le altre parti della
stanza sono distorte sulla base di misure prospettiche determinate, l’osservatore vedrà oggetti (o persone) enormi che, spostandosi dalla parte opposta della camera diventano minuscoli. Ora, secondo gli autori, questo esperimento mostra come noi pensiamo di vedere, ma in realtà “creiamo
immagini in modo affatto inconscio”.
Dalla mia esistenza non posso avere certezza che i pensieri escano da me
più di quanto un’arancia non possa essere consapevole che la sua spremuta emanerà succo. Metafora abitudinaria, c’è l’abitudine di pensare che io
penso. Invero, già Thomas Hobbes (1588-1679), contemporaneo di Descartes, non senza ironia, dichiara che, togliendo questo Dio/Io dal panorama, Descartes potrebbe essere parafrasato: passeggio dunque sono una
passeggiata.
Per capire la burla bisogna tornare sulla teoria dei complessi a tonalità
affettiva, già affrontata nel Preludio a proposito della follia di Orlando,
che, come ricorderemo, diviene demente. Accade che, nel momento in cui
ha la certezza dell’amore tra Angelica e Medoro, Orlando perde il senno
vagando per la foresta senza meta, si spoglia dei suoi paramenti, armi e vestiti, li sparpaglia qui e là intorno e cade a terra affranto, privo di mente e
forze. Quando si sveglia prosegue a vagabondare nudo per il mondo incontrando persone che non riconosce, diventa diverso da se stesso, neppure gli
altri lo riconoscono. È ciò che fa, si confonde con l’ambiente, con la natura; è una forza bruta, spazza via tutto ciò che incontra.
In quel passaggio del Preludio scrivo del complesso a tonalità affettiva.
Il complesso dell’io, che secondo Descartes deve dominare la vita dell’uomo ragionevole, viene sostituito da un altro complesso affettivo, che si installa al posto dell’Io – come la passeggiata di Hobbes – e diventa domi-
20
Bateson, G., Bateson, M.C., Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989, p.
143 passim.
90
La follia rivisitata
nante. Io non sono più io, ma la cosa che faccio: pura gestualità
apparentemente a-cefala, ecoprassia.
Per capire cosa sia l’ecoprassia (da oikos, casa, ambiente e praxis, azione) dobbiamo andare a teatro. Vediamo una persona che fa un gesto, sembra cucire, ma non ha tra le mani ago e filo, semplicemente si comporta
come se cucisse. Se il gesto di cucire pervade l’intera attività del soggetto
in quel momento, come se non ci fosse altro che ripetere costantemente il
gesto, potremmo dire: cucio, dunque sono una cucitura.
L’attenzione minuziosa al gesto è pratica attoriale. Durante la vita quotidiana, la ripetizione continua del gesto sembra insensata, ma indica qualcosa. Ci dev’essere qualcosa che lega il gesto alla vita, rende il gesto così
dominante da sostituirsi all’Io. Il gesto significa, ma non ha significato, è
sensato, ma inspiegabile.
Si cercano le ragioni di un gesto insano, per esempio, in una ragazza di famiglia nobile che s’innamora di un calzolaio. L’attività principale del calzolaio
è la cucitura della tomaia alla suola, lei lo contempla con trasporto e devozione, come accade a ogni giovane innamorata d’altri tempi. Amore impossibile,
vietato dal censo, dal rango, dalla religione. Perseguirlo significa andare incontro alla perdizione, introdurre il caos nella vita familiare, nella comunità. La ragazza osserva l’innamorato e rimane come incantata da quei gesti. Lo imita.
Rapidamente i gesti si sostituiscono a tutto il resto delle cose che segnano la
continuità e la discontinuità del soggetto. Precocemente appare vuota, non risponde più, non parla, smette ogni altra attività, solo ripete infinitamente l’unico gesto, nel completo isolamento dal mondo. Diventa, secondo le osservazioni dell’epoca, precocemente demente, come Orlando, in altra maniera, diventa
folle. Di una follia radicale, assolutamente unica. Perché la giovane donna si
nutra, si lavi, si vesta, bisogna costringerla a fare diversamente, bisogna interpolare, nella sua gestualità, ripetuta e infinita, qualcosa di finalizzato al mantenimento della sua esistenza. Si tratta di una delle forme più severe di quanto allora veniva definito demenza precoce.
Un dramma affettivo, un amore – impossibile, deluso, represso – può far
perdere il senno, ma qui siamo già nel campo della significazione; buona
per il clinico, indifferente alla paziente. Di qui nasce l’idea di demenza precoce. Come Orlando, anche la giovane di questo racconto perde il lumen,
comincia a ritirarsi dal mondo, diventa una cucitura. Ha perduto la mente,
non pensa più. Che cosa fa questa giovane lunatica di un tempo? Recita
senza canone. Non mantiene l’unità di spazio, tempo e azione (canone aristotelico). Il gesto, frammento ripetuto, senza alcuna aggiunta, silenzioso,
si trova nel teatro di Antonin Artaud (1896-1948), poeta schizofrenico.
La giovane folle d’amore toglie un gesto dal resto delle sue azioni, ripetizione infinita di un frammento. Ciò che le rimane è un avanzo dell’Io. Il
Demenza I
91
gesto si fa espressione di un organo che non risponde al corpo, si rende autonomo, indipendente. Prende il comando dell’intera esistenza. Può accadere nella schizofrenia.
Più spesso questa gestualità è interpolata in un quadro di normalità, interferisce. Si tratta allora di paraprassia (da para- prefisso che indica un
qualcosa all’incirca, che somiglia), come se i gesti quotidiani deviassero
l’azione in qualcosa di superfluo al loro conseguimento; il complesso ha
occupato una parte liminare dell’Io, non vi si è impadronito interamente.
Il fenomeno paraprassico è magistralmente interpretato da Peter Seller
nel film di Hal Ashby Oltre il giardino. Seller si prodiga in attività di questo tipo per mostrare il carattere di un giardiniere idiota che sta per diventare Presidente degli Stati Uniti. L’uomo, vissuto fino allora presso la casa
di un ricco signore, passa la vita a prendersi cura del giardino cambiando i
canali televisivi, in modo compulsivo, con il telecomando. Unico referente
la governante nera del proprietario che gli prepara la colazione. Quando il
padrone muore il giardiniere viene allontanato da casa, si porta dietro i vestiti lussuosi del padrone ed è intercettato per caso (Chance, che diventa
anche il nome del protagonista) da un prestigioso uomo politico che lo
prende come amico. In breve, le sue frasi ripetitive sul giardinaggio sono
interpretate dalla pubblica opinione come originali metafore politico-economiche e l’uomo acquisisce enorme prestigio mediatico.
In alcune scene si vede l’attore muoversi senza senso, osservato da altri
con perplessità; per esempio, camminare seguendo le linee di un pavimento decorato, oppure, come nella scena finale, allontanarsi dal corteo funebre del vecchio Presidente – proprio nel momento in cui si sta decidendo di
proporlo come nuovo capo di Stato – per seguire un sentiero nel bosco che
lo porterà a camminare sulle acque di un lago. Sottile ambiguità, chi è
quest’idiota? Un principe Myskin21?
Il giardiniere idiota di Ashby sembra comportarsi come un bambino. Le
paraprassie sono infatti presenti nei bambini che giocano. Far finta di, oppure intraprendere azioni qualsiasi. Capita che interpolino gesti inutili
come mosse di karate, o passi di danza, mentre vanno a prendere qualcosa
di utile alla mamma o alla maestra. Tra gli adulti le medesime azioni possono essere considerate sintomi di demenza o disturbi dissociativi, meglio
limitarsi a farlo da soli in bagno.
Quando gli stessi fenomeni si manifestano in forma di pensiero, anziché
di azione, i manuali le chiamano interferenze proattive, sono rilevate in chi
21
La figura del principe Myskin in Dostoevskji (L’idiota), la tradizione ebraica dei
nistarim, quella del povero cristo.
92
La follia rivisitata
non riesce a concentrarsi. Poi ci sono ruminazioni, perseverazioni, ecolalie,
dissociazioni, che non permettono di studiare, di progettare, di comunicare,
sono irritanti per l’interlocutore (“mi stai ascoltando?”). Sembrano inibire il
soggetto dallo svolgere attività rischiose, che potrebbero portare angoscia,
l’angoscia di confrontarsi con gli altri per avere riconoscimento. Capita a
quei bambini che vanno male a scuola, oggi le chiamano learning disabilities
e le riparano con metodi educativi assordanti, fenomeni inibitori.
Ecoprassie e paraprassie sono tra i sintomi di quella che nell’Ottocento
viene definita demenza. Ho voluto descriverli con maggiore dettaglio perché si tratta di significazioni senza canone. In queste circostanze la famiglia, gli amici, ma anche il clinico, non sanno come agire, non hanno rimedi comunicativi. Ma è proprio attraverso questa denegazione che la
famiglia, la comunità, la clinica può diventare tremenda. Il ricovero coatto
è, paradossalmente, il rimedio al non sapere che fare. È da questi sintomi
che nascono le teorie degenerative che giustificano la prima definizione di
questi disturbi nei termini di dementia praecox. Più tardi il termine viene
cambiato in schizofrenia.
Il Novecento. Schizofrenia
Ci sono disturbi organici che presentano disordini schizofreniformi. Per
anni sono manicomializzati e confusi con la follia: la neurosifilide, la pellagra, le conseguenze della malattia di Korsakoff dovuta all’alcolismo, le
conseguenze del trattamento farmacologico della malattia di Parkinson, la
malattia di Alzheimer, la sindrome di Capgras, ecc.
La neurosifilide, diffusa tra i maschi borghesi, usuali frequentatori dei
bordelli a pagamento a cavallo tra Otto e Novecento, è contratta attraverso
relazioni sessuali non protette. Insieme alla tubercolosi, la sifilide assume valore letterario tra Otto e Novecento, si pensi alla supposta visita al bordello di
Lipsia da parte di Nietzsche22 e alla sua replica letteraria nel Doctor Faustus
di Thomas Mann23. La sifilide, tara del colonialismo, consegue all’importazione dalle Americhe di un batterio, a forma spiraloide, può evolvere in modi
differenti, uno degli effetti è una follia simile alla schizofrenia.
22
23
Janz, C. P., Vita di Nietzsche, in tre volumi, Roma, Laterza, 1980. Montinari, M.,
Che cosa ha detto Nietzsche, Milano, Adelphi, 1999. Andler, C., Nietzsche sa vie
et sa pensée, vol. I, Paris, Gallimard, 1958.
Si veda una qualsiasi edizione di Mann, T., Dottor Faustus.
Demenza I
93
La pellagra, al contrario della neurosifilide, attacca braccianti e contadini poveri del Nord-Italia. Dovuta a un’alimentazione priva di sostanze nutritive proteiche, produce reazioni simili alla demenza precoce, viene manicomializzata e spesso il cambiamento alimentare produce miglioramento,
raro beneficio dell’istituzione totale.
Nella malattia di Korsakoff, che contamina le persone dedite all’alcolismo, può accadere il fenomeno del delirium tremens. Il paziente vede piccoli animali – insetti, ragni, serpenti, topi – muoversi davanti a sé.
La sindrome di Capgras (o delirio del sosia) è un disturbo neurologico
transitorio. Il paziente non riconosce i familiari, ammette che siano dei sosia, ma che non siano le medesime persone di prima del disturbo. Danni al
sistema nervoso a lungo scambiati per psicosi. Tutt’ora i manuali conservano, qui e là, qualche vecchio rottame terminologico, vestigia di un discorso psichiatrico stratificatosi nel tempo.
A partire da Eugen Bleuler (1857-1939) la dementia praecox si trasforma,
cambia improvvisamente nome. Se dementia praecox è metafora di malattia
del cervello, schizofrenia è malattia mentale grave. Il cambiamento terminologico da demenza precoce a schizofrenia non è casuale. Bleuler, ammiratore e frequentatore della psicoanalisi, ribalta la prospettiva psichiatrica e allontana le ipotesi che cercano la demenza nel deficit cerebrale. Nessun dato
organico dalla demenza precoce con gli strumenti di rilevazione dell’epoca.
Emil Kraepelin (1856-1926), il grande nosografo della psichiatria classica,
fallisce proprio qui, nel cuore della malattia mentale.
Iniziano a svilupparsi ipotesi ereditarie, genetiche, si studiano i degenerati superiori, le famiglie reali che hanno figli folli o geneticamente malati. L’ipotesi della scarsa ricombinazione genetica diventa mitologia dominante in psichiatria, al di là di ogni evidenza. Kraepelin è maestro in
quest’ambito, ritiene che le vicende della vita possano unicamente slatentizzare una condizione genetica. Tuttavia l’ipotesi schizofrenia è psicologica, vincerà Bleuler.
In medicina si fa strada una distinzione tra disturbi organici, appartenenti al campo della neurologia, e disturbi funzionali, oggetto di studio della psichiatria. Questa differenza darà luogo a campi del sapere distinti, due
specializzazioni separate.
Il termine usato da Bleuler per identificare il principale sintomo della
schizofrenia è Spaltung, scissione. Se la dementia praecox è incurabile, la
curabilità della schizofrenia diviene oggetto di discussione. Bleuler dirige
un ospedale svizzero chiamato Burghölzli. Là si forma una generazione di
psicoanalisti. Tuttavia nel dibattito dell’epoca c’è chi non crede che la psicoanalisi possa curare le psicosi, Freud per primo. Quando Jung lo invita al
94
La follia rivisitata
Burghölzli, mostrandogli l’approccio psicoanalitico adattato alle psicosi, il
fondatore della psicoanalisi rimane scettico. Nonostante ciò molti psicoanalisti, in un modo o nell’altro, si danno da fare per trovare un metodo a
partire dal termine Spaltung.
Cos’è dunque una Spaltung, una scissione? Come osserva lo scrittore
schizofrenico Louis Wolfson24 nel romanzo Le schizo et les langues, il termine schizofrenia deriva dal greco (schizo, divido e phren, cervello/mente), significa separazione, scissione. Per la psichiatria del secolo scissione
è la caratteristica costitutiva della schizofrenia; la mente divisa, parti coesistenti e in contraddizione, negazione del principio aristotelico di non contraddizione. I pensieri vengono sottoposti a un bombardamento paradossale che fa sì che il soggetto li perda, che vengano conosciuti da chiunque,
che al loro posto si sentano voci estranee. Altre volte si possono avere visioni, allucinazioni, forze che controllano, presenze fantasmatiche, come le
statue che “volavano basse e leggere” nel racconto di Jean-Paul Sartre
(1905-1980) La camera, contenuto nel libro Il muro. Testo che rende come
pochi altri le sensazioni di una schizofrenia in fase acuta.
Lo schizofrenico vive in un mondo contrapposto alla realtà, rifiuta di
ascoltare parenti e amici, si isola, scagliandosi, come nel caso di Wolfson,
contro la propria lingua madre, oppure si convince, come nel caso di Daniel Schreber25, di avere l’incarico (divino) di annunciare al mondo una verità straordinaria, che si lega a una trasformazione delirante del corpo. Ciò,
e molto altro ancora, viene classificato dalla manualistica in due o tre categorie generiche: ritiro, delirio, allucinazione.
Kretschmer, già incontrato nel capitolo sugli umori, è un po’ la sintesi riduttiva di tutto il discorso psichiatrico del Novecento. Procede per biforcazioni ad
albero: disturbi dell’umore e disturbi del pensiero. Se le patologie dell’umore
vengono definite come ciclotimie, i disturbi del pensiero sono invece schizotimie. La schizotimia non è ancora schizofrenia, ma ne è la base latente. Se le ciclotimie procedono per rallentamenti e accelerazioni umorali, per alti e bassi,
le schizotimie procedono in modo scissionale, a fasi alternate e giustapposte,
l’una inconsapevole dell’altra. Da Kretschmer in poi le strutture schizoidi e
schizotimiche di personalità sono predittive della schizofrenia.
Verso la fine del secolo trascorso, Mary Boyle26 scrive un libro in cui sostiene che la schizofrenia è delirio scientifico, oggetto di confusione tra
psicologia e neurologia. Secondo Boyle, togliendo tutte le scoperte neuro24
25
26
Wolfson, L., op. cit.
Schreber, D., op. cit.
Boyle, M., Schizofrenia: un delirio scientifico?, Roma, Astrolabio, 1994.
Demenza I
95
logiche antiche o recenti (neurosifilide, pellagra, Alzheimer, Korsakoff,
Parkinson, ecc.), della schizofrenia non resta altro che un flatus vocis senza riferimento. La schizofrenia è la malattia mentale e l’invenzione psichiatrica del Novecento, nasce e muore in questo secolo. Se un sapere si
costituisce intorno a un argomento, l’argomento della schizofrenia è la ragion d’essere del sapere psichiatrico, che si sgretola piano piano venendo
meno il supposto sapere intorno all’oggetto costituito. L’oggetto, venuto
meno, crea un vuoto che sgretola, a sua volta, il soggetto supposto sapere.
Ciò riguarda la fine del secolo. L’avvento dell’antipsichiatria.
In sintesi, fino a fine Ottocento il termine demenza è categoria pervasiva.
A partire dal ventesimo secolo i dementi cominciano a venire distinti. Il Novecento è, in primo luogo, secolo di schizofrenia. Fino alla sua decadenza.
La schizofrenia e i suoi sintomi
I sintomi della schizofrenia, nel canone manualistico, sono ripartiti in sintomi positivi e negativi. Eccessi e mancanze. Tema che la psichiatria del Novecento, a partire dal contributo della psicoanalisi, non può fare a meno di osservare. Altro non osserva se non ciò che la filosofia contemporanea elabora,
da Nietzsche a Bataille, che il teatro espone, da Artaud a Kantor, che la letteratura esprime, da Melville a Joyce. Proliferazioni e privazioni. Dispiace
oggi vedere trattata dai giornalisti e divulgatori la schizofrenia alla stregua
dei nuovi sintomi borderline, delle perversioni. Sono due mondi totalmente
differenti. Qui una marmorea manifestazione della legge del più forte, là,
nella schizofrenia, un modo di pensare incontenibile, imprevedibile dall’altro, atroce nella solitudine. Potremmo dire la legge del più debole.
Sintomi positivi
Tra i sintomi positivi i manuali elencano quattro elementi: allucinazioni,
deliri, comportamento bizzarro e disturbo formale del pensiero (anticartesianesimo).
Le allucinazioni sarebbero false percezioni senza uno stimolo esterno identificabile. L’esperienza è comune a ognuno, per esempio nella fase onirica del
sonno, durante accessi di febbre, in stati di forte stress e stanchezza. Si può avere ingerito, volontariamente o per errore, farmaci o cibi allucinogeni. Si considerano schizofreniche tutte le forme allucinatorie non conseguenti a ciò o ad altre malattie organiche che abbiamo considerato nel paragrafo precedente.
96
La follia rivisitata
Ci sono vari tipi di allucinazioni: uditive, voci che si rivolgono direttamente al soggetto in vario modo (ricordate la lettera di Torquato Tasso nel
Preludio?), consigli oppure insulti, voci che commentano vicende del
soggetto, comportamenti suoi o dei suoi interlocutori, che dialogano tra
loro, ecc. In questo caso è come se si assistesse a una conversazione fatta
da altri.
Allucinazioni olfattive, tattili e visive.
Una donna originaria della Cecoslovacchia (oggi Repubblica Ceca), ricorda
in seduta la Primavera di Praga, quando aveva 13 anni, nel 1968. Il padre comunista, dirigente d’azienda, vi aderisce. Racconta il degrado subìto dopo la
restaurazione, la famiglia colpita dalle ritorsioni. Lei e i fratelli soggetti al divieto di fare certi tipi di studi universitari (filosofia, matematica, ingegneria)
per la colpa di essere figli di un dissidente.
I suoi sintomi, deliri olfattivi e propriocettivi, piano piano si affievoliscono
dopo che racconta e annoda gli episodi del 1968 alla propria memoria esistenziale. Riconosce gli odori dei carri armati quando si avvicina ai sassi che gli
operai portano per arredare il giardino di casa, alla periferia di Praga. Sensazioni vissute intensamente. Non si trasformano in visioni, rimangono nascoste
come ombre alla vista, come se ci fosse uno spirito, un Dibbuk27, che si installa dentro di lei. Sensazioni uditive, non voci, rumori di cingoli sul selciato durante la notte. Descrive dettagliatamente quel che prova in quei momenti. Somigliano ad attacchi di panico, se vengono scotomizzati dalla storia della sua
vita.
Le percezioni olfattive e tattili sono evanescenti, difficilmente identificabili. Evocano, scatenano ricordi vaghi, che non osi presentificare, te ne
vergogni (in un mondo sanitario, la gente dirà: “che c’entra la Primavera di
Praga con gli attacchi di panico?”), provocano reazioni di paura, disgusto,
angoscia. Riprenderemo la storia di questa donna nel capitolo sulle isterie.
Le allucinazioni olfattive e tattili hanno a che fare con il fenomeno delle sinestesie, descritto in neurologia da Alexandr Romanovič Lurija28
(1902-1977). Sinestesia viene dal greco: syn = insieme e aisthesis = sensazione. Indica qualcosa che ha luogo durante una stimolazione visiva, uditiva, tattile, olfattiva, propriocettiva. Dà origine alla percezione di due aspetti o eventi distinti come fossero uno solo. I nostri sensi, pur essendo
differenziati, interferiscono tra loro e creano collegamenti. Basti pensare a
come si influenzano il gusto e l’olfatto: quando si è raffreddati non si sen27
28
Sulla figura del Dibbuk nel mondo ebraico segnalo l’opera di An-Ski, Dybbuk,
Milano, Rosa e Ballo, 1948.
Lurija, A.R., Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Roma,
Armando, 2011.
Demenza I
97
te l’odore del cibo e il gusto è anche alterato. Le sinestesie svelano al corpo la relativa autonomia produttiva degli organi di senso, mostrano connessioni insolite.
Invero il termine sinestesia è riferito anche al procedimento poetico: associare, all’interno di un’unica immagine, sostantivi e aggettivi appartenenti a sfere sensoriali diverse. In un rapporto di interferenza reciproca si
dà origine a un’immagine insolita. Nella poesia ermetica l’espressione: “Il
carnato del cielo” produce una strana connessione tra il rosso di un tramonto e un costato squartato, che mostra la carne. Come avviene in alcune opere di Chaïm Soutine o Francis Bacon.
C’è, nella sinestesia, una componente neurofisiologica immediata e una
componente metaforica mediata, come in sogno. Non si tratta però di sogni
a occhi aperti – non necessitano di passare attraverso i pensieri – piuttosto
di sensazioni estetiche. Non di dissociazione, ma di scissione tra un io che
osserva e qualcosa di misterioso che accade al soggetto, come una bambola che immediatamente si anima, qualcosa di inquietante, Unheimliche29.
C’è in me qualcosa che si anima all’improvviso, senza attesa, subito: uno
stupor. Termine usato in psichiatria per descrivere l’esordio psicotico30. Allucinazione: fenomeno percettivo immediato, che colpisce, fenomeno estetico e neurofisiologico. Si pone in esistenza – visiva, acustica, olfattiva, tattile, propriocettiva – qualcosa che non c’è. Ma c’è qualcosa?
Il fascino delle allucinazioni consiste proprio nella loro essenza fenomenica. Apparente, immanente, che sta per apparire, nel chiaroscuro di un
transitorio carnato del cielo.
Il delirio riguarda la parola. Non la Langue strutturalista, che fonda la
distinzione tra Lingua e parola dichiarando fin dall’inizio di occuparsi della Langue: insieme organizzato delle norme linguistiche31. La parola è ciò
che lo strutturalismo scarta, designa l’evento della significazione, dunque
non è parte della Langue, può essere gesto, suono, rumore, movimento. La
parola è sintomo, quando il sintomo non è interpretabile.
29
30
31
Jentsch, E., Zur Psychologie Des Unheimlichen (1906), Whitefish, Montana, Kessinger, 2010. Freud, S., Il perturbante (1919), in Opere, vol. IX, Torino, Bollati
Boringhieri, 1989.
Stupor ha una radice indoeuropea (tupami) che descrive l’essere colpiti, ha familiarità etimologica con stupidità e stupro.
Il modello di riferimento logico di questo apporto è la logica dei gruppi di trasformazione (vedi nota 3).
98
La follia rivisitata
Sono convinto che gli altri leggano i miei pensieri. Anche se, a volte, penso
che questa convinzione non è certa (prima formulazione dubitativa). Forse l’idea è causata dal diavolo. Possibile che realmente il diavolo si occupi di me?
(seconda formula dubitativa). Ma se la convinzione è presente, qualcosa deve
pur esserci. Se non è il diavolo, chi altri potrebbe essere così malevolo da inculcarmi quest’idea?
Così di seguito in una regressione indefinita, una sorta di cartesianesimo
ribaltato: iper-riflessività32 che gira a vuoto. Si potrebbe dire: deliro dunque è. Il delirio, in quanto prodotto del pensiero, contiene una stratificazione molteplice. Non ha una configurazione chiara, è racconto non lineare,
chaosmos, come quando scrive Joyce.
Il sogno è sovradeterminazione, così il delirio. Che cosa intendiamo per
sovradeterminazione? La definizione di Freud indica che ogni elemento
del sogno corrisponde a un numero indeterminato di pensieri sul sogno e
ogni pensiero sul sogno corrisponde a un numero indeterminato di elementi del sogno. In altri termini, tra i due insiemi di elementi (elementi del sogno e pensieri sul sogno) non esiste corrispondenza biunivoca, né da una
parte, né dall’altra. Strictu senso: il sogno è radicalmente non interpretabile, nel senso logico del termine interpretazione. Si potrebbe anche definire
la sovradeterminazione come degenerazione: nessuna specie può avere appartenenza univoca a un genere e ogni genere può contenere qualsiasi tipo
di specie33. L’albero di Porfirio, come pure la logica delle funzioni, crollano e si frantumano in linee orizzontali, insensate34.
Così il delirio è metafora, ma non del tutto. Nella poesia di Ungaretti, “Il
carnato del cielo”, il significato è Tramonto. Il poeta, usa la sinestesia come
metafora. Il carnato sta al corpo, come il tramonto sta al cielo. La metafora deve avere due elementi: un vehicle e un tenor35. Vehicle, espressione, tenor, intenzione espressiva. Nell’esempio della poesia di Ungaretti il vehi32
33
34
35
Sass, L., Madness and Modernism, Cambridge, Ma, Harvard University Press, 1994.
Si veda Borges, J.L., Finzioni, Torino, Einaudi, 2005. Foucault riprende le considerazioni di Borges in apertura di: Foucault, M., Le parole e le cose, op. cit. Ma è
Edelman (Edelman, G.M., Darwinismo neurale, Torino, Einaudi,1995) a parlare
di questo fenomeno il-logico nei termini di degenerazione, considerandola una
caratteristica costitutiva del sistema nervoso.
Con “logica delle funzioni” mi riferisco alla rivoluzione logica introdotta da Frege attraverso il calcolo predicativo, come noto, l’obiezione di Russell – “Sia w il
predicato essere un predicato che non può predicarsi di se stesso. w può essere
predicato di se stesso? Da ciascuna risposta segue l’opposto. Quindi dobbiamo
concludere che w non è un predicato.” – fece fallire il progetto di Frege.
Richards, I.A., The Philosophy of Rhetoric, London, Routledge Chapman & Hall, 1936.
Demenza I
99
cle è il carnato del cielo e il tenor è il tramonto. Rende l’idea del tipo di
rosso che posso rappresentarmi, per esempio quello della carne di un corpo squartato. Di nuovo Soutine e Bacon.
Invece il delirio è metafora senza tenor, oppure metonimia incompleta. Il
nome sta al posto di qualcos’altro, ma in quel posto non c’è che il vuoto. Assenza di significazione. Insieme di linee dichiarative, discorsive, linguistiche
senza percorso stabilito. Assenza dell’oggetto percepito: il rumore dei cingoli, l’odore dei carri armati sovietici, presentificazione di un oggetto per via sinestesica, assenza d’opera, produrre per produrre, senza prodotto.
La psicoterapia, nella schizofrenia, non può che essere paradossale. L’esperienza di dare un tenor al delirio, di delineare, sullo sfondo del delirio,
un ente che non c’è, un’ombra. Solo che ciò avviene a posteriori. La psicoterapia nella schizofrenia si costituisce come intenzione espressiva del delirio. Intenzione espressiva alienata.
Dopo un lungo colloquio familiare con la sorella di Giacobbe Liberati (che
si definisce schizofrenico paranoide), in cui emerge il dolore per le vicende che
colpiscono il fratello, lo sconforto per una serie di vicende accadute in relazione alla sua follia e l’angoscia per il futuro in cui lei sarà chiamata a supportarlo/sopportarlo, nel pianto generale, Giacobbe esordisce con un’esclamazione
ostile: “Torino-Ancona! Torino-Ancona! L’Ancona vince uno a zero col Torino. E tutti lì a dire povero Torino, povero Torino. Ma il Torino è in seria A!
L’Ancona in serie C! Nessuno sta più a dire povero Ancona!”. “Vuol dire che
lei, Giacobbe, è l’Ancona della famiglia?”.
Il delirio è rivendicazione di attenzione, narcisismo primario. “Qui il paziente sono io, non mia sorella!”. Il legame con la sofferenza dell’altro è interrotto da un taglio. In psicopatologia si parla di uno slegame delle relazioni con l’altro, nelle psicosi si tratta di un taglio. Ben più difficile da
riannodare.
Non impossibile, purché questi fili restino tenere forme poetiche e non
si trasformino in cinghie per legare le persone alla branda.
L’elenco dei deliri è lungo, è un insieme infinito: di persecuzione, di colpa, di gelosia, di grandezza, mistici, somatici, idee di riferimento, deliri di
influenzamento, di lettura del pensiero, di diffusione, inserzione e furto del
pensiero, dialogo tra voci, esplosioni di riso, allusioni indecifrabili, soliloqui, diffusione del pensiero, ecc. Un elenco che include, per ogni soggetto
delirante, una novità, un’idiosincrasia, un idioletto (da idiotes, che sta fuori dalla comunità).
Il delirio di persecuzione, per esempio, trae spunto da una condizione di
persecuzione, nell’ombra, come accade a molti adulti immigrati da paesi
100
La follia rivisitata
ex-comunisti. Ricordano e hanno dimenticato, soffrono, ma non ne vogliono parlare. Oppure nella memoria traslata dei figli, che non hanno vissuto
quegli eventi, ma hanno vissuto i vissuti e le inquietudini dei genitori.
Esperienza descritta in modo esemplare da Dan Bar-On a proposito dei figli dei sopravvissuti al nazismo36.
Spesso l’origine risale al fumo persecutorio. Il fumo si solleva, anche se
non si sa esattamente chi l’ha sollevato. Ci sono sempre vittime e carnefici, attori sociali di queste vicende normalizzate. Ebbene il delirio si presenta come forma estrema di protesta, come verità negata. Distinguere il delirio di persecuzione dal fumo persecutorio – un clima in cui si sono create
condizioni persecutorie condivise anche da terzi – non è possibile, non c’è
mai un delirio ingiustificato. Spesso la schizofrenia diventa paranoide in
relazione a ricoveri coatti traumatici, con contenzioni fisiche e violenze.
Certi servizi, dove prevale il metodo oppressivo, cambiano il tono e il senso del delirio, poi negano che le contenzioni coatte abbiano a che vedere
con lo sviluppo dei deliri di persecuzione.
I deliri somatici vanno dalla dismorfofobia, idea di avere una parte del
corpo mostruosa, in trasformazione, al delirio anoressico, percezione del corpo proprio come gonfio al di là di ogni evidenza. Si tratta del maggior punto
di contatto tra schizofrenia e isteria.
La condotta è la terza componente dei sintomi positivi, ha maggiore impatto sociale. Si manifesta in pubblico. Ognuno si conduce, in privato, in
modo strano: gironzola svestito, si masturba, defeca, ripete ossessivamente
il ritornello di una canzone o uno spot pubblicitario, li distorce a suo piacimento. Le questioni relative alla condotta sono complesse, richiedono una
definizione di contesto. Se esco di casa a fare una passeggiata vestito da donna, potrebbe non accadermi nulla di spiacevole in relazione a un possibile ricovero, ma se esco senza indossare pantaloni e mutande, corro questo rischio. Se sono già stato ricoverato il rischio aumenta vertiginosamente.
Una donna schizofrenica che vive in una piccola città, mi racconta dell’ultimo ricovero subito: era per strada con una radio accesa e danzava, tutto qui.
“Ma non lo fanno anche quelli della lap dance?”.
Il tema della condotta rinvia a quel maestro di storia della condotta che
è Norbert Elias. Nella monumentale opera sulla civiltà delle buone manie36
Bar-On, D., Legacy of Silence: Encounters with Children of the Third Reich, New
York, Harvard University Press, 1991.
Demenza I
101
re37 Elias descrive, attraverso le opere di educazione tra tardo Medioevo e
Seicento, il processo di civilizzazione. Vediamone gli esordi:
Il concetto di “civilité” assume il significato specifico e la funzione di cui
parleremo ora nel secondo quarto del secolo XVI. È facile individuare con precisione il suo punto di partenza: esso acquista lo specifico significato con cui
viene poi accolto nella società in un piccolo saggio di Erasmo da Rotterdam,
De civilitate morum puerilium, apparso nel 1530.
A partire da quest’opera di Erasmo – pubblicata in una molteplicità di
edizioni e tradotta in una quantità di lingue – seguono una serie di trattati e
manuali sulla civilité, che poi si trasforma in civilisation.
Le raccomandazioni presenti in quel testo, e nella serie successiva, riguardano le condotte da tenere, sia da parte degli adulti, che nell’educazione dei bambini. In quest’opera Erasmo deve essere esplicito e parlare di gesti di cui oggi non si dovrebbe più parlare in virtù di una civilizzazione che
ha reso sconveniente la loro stessa descrizione esplicita: “Sputa voltandoti
da un lato, per non spruzzare qualcuno. Se per terra rimane qualcosa di disgustoso, fallo sparire col piede, per non provocare la nausea a qualcuno”
(Erasmo in Elias, p. 170).
Le raccomandazioni vanno dall’igiene del corpo, lavarsi periodicamente, al modo di usare un fazzoletto per soffiarsi il naso, non orinare dove si
pranza, non fare gesti sconvenienti, non mostrare parti del corpo che il comune senso del pudore (che si va costruendo) non permette se non in circostanze eccezionali, ecc.
Così Elias, nella sua opera più importante intorno alla civiltà delle buone maniere, declina i capitoli, in base a diversi tipi di condotte: Il comportamento a tavola, I bisogni naturali, Le relazioni tra i sessi, I mutamenti
dell’aggressività come piacere, ecc.
Il disturbo schizofrenico della condotta, così come viene descritto nei manuali psichiatrici, sembra evocare un’epoca pre-erasmiana, come se l’insieme
delle indicazioni emerse dalle raccomandazioni sulle buone maniere non sia
esistito, oppure sia radicalmente negato. Invero nella civiltà contadina, fino
agli anni Sessanta (forse oltre) la vita quotidiana si svolge in queste condizioni. Vuoi l’assenza di acqua corrente, vuoi la vicinanza al mondo animale (pecore, capre, bovini, equini, volatili) e l’alta probabilità di sporcarsi, vuoi l’abitudine reciproca a certi odori. Ma si tratta anche di un conflitto tra culture. Nel
romanzo di James Clavell, Shogun, del 1975, si racconta di un viaggiatore
37
Elias, N., Potere e civilizzazione, Bologna, Il Mulino, 1988; Elias, N., La società
di corte, Bologna, Il Mulino, 2010.
102
La follia rivisitata
olandese protestante, John Blackthorne che, forse non per caso, viaggia nel
1600, su una nave denominata Erasmus e viene preso sotto la protezione dello
Shogun Toranaga. Tra le altre pratiche insegnate all’olandese è da sottolineare
quella dell’igiene, a quel tempo ancora assai trascurata in Europa.
Il disturbo formale positivo del pensiero, quarta componente dei sintomi
positivi, va annoverato in stretta connessione alla condotta. Si tratta di decontestualizzare le azioni. La decontestualizzazione è la parte più schizofrenica della schizofrenia. L’argomento continua a mutare, si salta di palo
in frasca, conta molto di più l’assonanza – in letteratura questo fenomeno
è detto allitterazione – che la coerenza. Il pensiero schizofrenico è allitterazione senza canone. Quanto la manualistica psichiatrica, che insiste a
non capire, chiama insalata di parole.
Per Wolfson38, ciò che lo spinge a scrivere il romanzo dall’infinito titolo:
Mia madre, musicista, è morta, di malattia maligna martedì a mezzanotte nella metà di maggio del mille977 nel moritorio del Memorial a Manhattan è:
“[...] la straordinaria possibilità d’allitterazione sulle circostanze della sua morte […] tutte queste parole cominciano per m […] si dice che avesse un mesotelioma metastatizzante...”
Si producono espressioni in cui le relazioni tra parole sono legate, come
accade in poesia, ai loro suoni, anziché di significato.
Un altro esempio di descrizione di allitterazione schizofrenica e poesia è costituito dalle ricerche di Roman Jakobson (1896-1982) sulla poetica di Friedrich Hölderlin (1770-1843). Jakobson riporta alcune annotazioni dai diari dei
visitatori di Hölderlin quando, posseduto dalla follia, viveva in una torre a Tubinga, ospite di un falegname. Vediamone una: “Alla fine del luglio dello stesso anno una nuova visitatrice, Marie Nathusius, annotava sul diario: – Gli dissi: ‘Lei ha una bella vista qui (Sie haben hier eine shöne Aussicht)’. Egli
rispose: ‘Si può avere un buon aspetto (Man kann gut aussehen)’”.
In tedesco, osserva Jakobson, avere un aspetto (aussehen) e vista panoramica (Aussicht) sono legati tra loro dal verbo sehen e dal prefisso aus. Potremmo
dire che la risposta del poeta è strana. Il suo riferimento, a differenza di quello
della sua interlocutrice, non è al panorama, ma alle parole rivolte da lei al poeta. Il riferimento al colloquio sul panorama di quella casa viene cambiato a favore di un’allitterazione. Non c’è affatto mancanza di riferimento, il riferimento misterioso è all’uso delle parole della visitatrice: non stiamo parlando del
panorama ma di un aspetto della lingua tedesca39.
38
39
Wolfson, L., Mia madre, musicista, è morta..., Milano, SE, 1987, p. 201.
Jakobson, R., Hölderlin. L’arte della parola, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2003, p. 61.
Demenza I
103
In generale, ciò che nel discorso psichiatrico è disturbo formale del pensiero, sul piano antropologico riguarda la direzione del pensiero, la presenza di una maggiore cifra di linguaggio estetico, non referenziale. Jakobson
sostiene che negli ultimi tempi della vita di Hölderlin, quando la sua poesia è ai livelli più alti, si perde ogni forma di colloquialità con l’altro.
Non si tratta solo del fatto che abbiamo preso come esempi due schizofrenici come Wolfson e Hölderlin. Lo schizofrenico perseguitato, geloso,
bizzarro e privo di senso della vergogna, incontenibile dentro a ogni riferimento significante richiama l’oltreuomo di Nietzsche.
Lo sguardo psichiatrico non riesce a togliere gli occhi di dosso al paziente. La lettura è inesorabilmente e solo sintomatologica. La questione, che
riguarda anche buona parte della fenomenologia e della psicoanalisi, sembra essere l’impossibilità (o l’incapacità) di annodare il discorso sintomatologico con la storia dei sistemi di pensiero. Così lo schizofrenico è inesorabilmente condannato alla distruzione della ragione. Ci si può mettere
anche nei suoi panni, avere accesso al mondo del paziente, tuttavia questi
resta tale, paziente di fronte a un terapeuta sano, nel migliore dei casi nevrotico. Mai potrà assurgere all’onore di essere analizzando, analizzato,
analizzante, persona che frequenta l’analisi, o, come si usa dire all’americana, cliente. Ma che ne sa la psichiatria, scienza empiricamente confusa,
del pensiero formale?
Bateson40, che è antropologo, si occupa di queste questioni nello studio
della schizofrenia quando annuncia la teoria del double bind, generalmente tradotto in italiano con doppio vincolo o doppio legame e in francese con
double relation.
Si tratta di uno studio che parte dai Principia Mathematica di Bertrand Russell e Alfred North Whitehead41. In quell’opera di logica formale gli autori mostrano un tipo di paradosso. Enunciato anticamente come il paradosso del
mentitore, la sua formulazione elementare è: “Epimenide il cretese dice che
tutti i cretesi mentono”. L’enunciato formale, molto meno comprensibile, è il
seguente: “Se X è la classe di tutte le classi che non hanno come contenuto se
stesse, allora X ha o non ha come contenuto se stessa?”.
Vediamo come chiarire questa formula complessa. La classe che contiene tutti i barattoli di marmellata come elementi non è un barattolo di marmellata, questo è chiaro. Quella che contiene acqua è chiaramente acqua.
40
41
Bateson, G., et al., Verso una teoria della schizofrenia, in Bateson, G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1988.
Russell, B., Whitehead, A.N., Principia Mathematica, Bologna, Nabu Press,
2010.
104
La follia rivisitata
Ma la classe che contiene i barattoli di marmellata, quella che contiene i
serpenti, quella delle automobili, e così tutte le altre classi eterogenee ai
propri elementi, è omogenea o eterogenea ai propri elementi? La risposta
in logica è che se ha come contenuto se stessa allora non ha come contenuto se stessa, e viceversa. Paradosso del pensiero formale.
Secondo Russell la soluzione di questo paradosso è data da una regola
da introdurre nella logica delle classi: rendere impossibile trattare sullo
stesso livello logico gli elementi e le classi di elementi. Si tratta di due linguaggi diversi, così da evitare questo tipo di paradossi. Per ogni elemento,
classe di elementi, classe di classi di elementi, ecc. linguaggi differenti.
Bateson osserva che questa regola di formalizzazione, nel linguaggio quotidiano, è inapplicabile. Vediamo dunque, attraverso un esempio, come Bateson ridescriva questa questione sul piano della parola per capire il mancato
funzionamento della regola di Russell. L’esempio che segue non è di Bateson, è di Gianfranco Cecchin, ma deriva dal modo di pensare batesoniano:
Un noto motto di spirito che, volta per volta, può riguardare qualche popolazione particolarmente taciturna, racconta che un tizio chiama un amico per
invitarlo a bere della birra la sera. Quando si trovano al pub uno dei due dice
all’altro: “Come sta tua figlia?”. L’altro risponde: “Mi hai invitato a bere birra
o a chiacchierare?”
Si tratta di un’applicazione rigida della regola di Russell. Nel contesto in
cui si beve una birra, si introduce un elemento, la chiacchierata, che fa da
contesto al contesto pre-definito. In questo caso la forza contestuale (bere
birra) si radica nell’idea che parlare non sia necessario, che per parlare bisogna definire un contesto in cui si parla. L’introduzione della chiacchierata implica qualcosa d’imprevisto: forza implicativa (elemento) versus
forza contestuale (classe). Se la forza implicativa è maggiore o uguale alla
forza contestuale, il significato di ciò che accade cambia, si genera un paradosso. L’amico taciturno si confonde.
Questo paradosso quotidiano è l’anticamera del double bind. La comunicazione mostra, nel suo svolgersi, un’enorme quantità di paradossi.
Quando un paradosso si trasforma in un double bind? Quando tra i due poli
della comunicazione c’è un secondo vincolo, la simbiosi. Impossibilità di
staccarsi l’uno dall’altro, sigillo per la trasformazione del paradosso in
double bind.
In assonanza con Gregory Bateson, Ignacio Matte Blanco42 fornisce la
più chiara descrizione del funzionamento logico dell’inconscio nel libro
42
Matte Blanco, I., L’inconscio come sistemi infiniti, Torino, Einaudi, 2000.
Demenza I
105
L’inconscio come insiemi infiniti, dove espone il sistema bi-logico. Matte
Blanco stabilì un sistema di analisi dell’inconscio che espone una logica
assai differente da quella del sistema logico conscio. Abbiamo trattato l’argomento a inizio capitolo, ma vale la pena di riprenderlo, per svilupparlo
meglio. Nella logica classica il sistema logico è asimmetrico; ciò portò
Russell a introdurre la regola dei tipi logici: non si può usare lo stesso linguaggio per gli elementi di una classe, per la classe di elementi, per classi
di classi, ecc.
La logica dell’inconscio è, all’opposto, simmetrica. L’elemento di una
classe è anche, contemporaneamente, classe della classe di cui è elemento.
Questa lettura dell’inconscio mette, per esempio, immediatamente in crisi
le logiche della parentela illustrate da Claude Lévi-Strauss43. In quest’opera, il divieto dell’incesto svolge una funzione di mantenimento della nomenclatura parentale. Se Antigone44 è sorella di Polinice, allora non può
anche essergli contemporaneamente zia e nipote. La relazione simmetrica
di fratellanza esclude qualsiasi tipo di relazione asimmetrica. Il divieto
dell’incesto, come la regola di Russell, serve a mantenere stabile un sistema di logica determinato, svolge la funzione di castrazione; senza questo
divieto, nessuna civilizzazione è possibile. L’inconscio però non riconosce
le asimmetrie, dunque Antigone è zia di Polinice, poiché è sorella di Edipo,
ma le è nipote poiché anche Polinice è fratello di Edipo.
Come profetizza la Pitia, Edipo è padre e fratello dei suoi figli, svolge
due ruoli tra loro incompatibili. La relazione asimmetrica di paternità diventa relazione simmetrica di fraternità. I sistemi della parentela sono
sconvolti. Se l’inconscio è logica schizofrenica, se lo schizofrenico è colui
che parla il linguaggio dell’inconscio, allora il sistema logico dell’inconscio, ben più potente di quello conscio, in virtù della simmetria, è un sistema infinito. Come nella Biblioteca di Babele di Borges45, esiste un mondo
dove sono depositati tutti i libri scritti, tutti libri da scrivere, quelli che non
verranno mai scritti in virtù della combinazione probabilistica infinita della connessione di tutte le lettere di tutti gli alfabeti esistenti. Là ci troviamo
le opere di Shakespeare e Dante, di Cervantes e Flaubert, ma in gran parte
questa biblioteca è chaos. Dopo lo sforzo sovrumano di Joyce, potremmo
definirlo chaosmos.
43
44
45
Lévi-Strauss, C., Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli,
2003.
Su questo argomento cfr. Butler, J., La rivendicazione di Antigone, Torino, Bollati Boringheri, 2003.
Borges, op. cit.
106
La follia rivisitata
Lungi dal fare qualsiasi apologia della schizofrenia, dobbiamo rivederla, rileggerla in questa direzione. Nella mia lettura, forse eretica, di Bateson e Matte Blanco ogni logica ad albero, ogni funzione di appartenenza di
qualcosa a qualcos’altro, ogni struttura verticale di spiegazione e concezione del mondo salta. Sapere un delirio (se ne può sapere solo uno alla volta)
significa prendere posizione, condividerlo, come passeggiare significa diventare una passeggiata, in questo campo dobbiamo sbarazzarci da ogni
moralismo logico.
Chiaro che la regola di Russell introduce una castrazione, dà al sistema
una logica. Nella versione del divieto dell’incesto ci permette di costruire
il processo di civilizzazione. Tuttavia è necessario riconoscere che la castrazione simbolica non si presenta immediatamente nella parole, nell’evento della significazione, e non si vive di sola Langue, di sola struttura.
Sintomi negativi
La nomenclatura dei sintomi negativi si divide in cinque grandi categorie: ottundimento affettivo, alogia (mancanza di conversazione), apatia
(mancanza di attività), anedonia (mancanza di interesse), compromissione
dell’attenzione.
Molti psichiatri somministrano i nuovi farmaci e non provano a ridurli
prima che il paziente abbia smesso i sintomi negativi della schizofrenia,
entrando spesso con il paziente e con i familiari in una conversazione che
mostra una circolarità bizzarra, una sorta di raddoppiamento schizofrenico.
Quali sono infatti i sintomi negativi della schizofrenia? Sono presenti fin
da subito, oppure sono la conseguenza del farmaco? Si tratta di effetti diretti oppure di effetti collaterali? Bisogna osservare che il fenomeno del ritiro del soggetto dal mondo può essere la conseguenza di vari fattori.
Sono passati anni dalla diffusione della schizofrenia catatonica, lo abbiamo veduto a proposito delle ecoprassie. Alcuni pazienti dei vecchi manicomi si comportano come i detenuti dei campi durante il fascismo: Muselman è il termine usato. In manicomio le catatonie sono una collezione di
sintomi negativi, ma stanno in manicomio. Le catatonie scompaiono quasi
del tutto dopo la fine dei ricoveri manicomiali a vita. È probabile l’effetto
dell’universo concentrazionario sulla reazione catatonica. Un ritiro in casa
può essere dovuto al fatto che lo schizofrenico diventa facilmente lo zimbello e il capro espiatorio di sintomatologie persecutorie collettive e di narcisismi maligni diffusi sul territorio.
Demenza I
107
Gran parte degli indicatori affettivi presenti nei criteri psichiatrici sono
gestuali: immutabilità del volto, riduzione della spontaneità, scarsa gestualità, pochi scambi visivi, mancanza delle inflessioni vocali. Tutto ciò che
faticosamente si impara frequentando le scuole del teatro contemporaneo,
lo schizofrenico ce l’ha. La lettura di gran parte degli indicatori relativi
all’affettività rinviano alla gestualità del teatro che decostruisce il gesto, lo
scompone, qui si respira l’humus della schizofrenia.
L’ottundimento affettivo è paradigmatico di un’immagine della schizofrenia come disturbo del pensiero. Di fronte a una follia piena di pensieri,
come la malinconia, la schizofrenia viene rappresentata come mancanza di
affettività, affetto ottuso. Lo schizofrenico è produttore di delirio in quanto
incapace di accedere al dominio degli affetti. I suoi sentimenti sono scissi,
privi di connessione, i suoi affetti ottusi. Uno schizofrenico, secondo le
premesse stabilite da Kretschmer può piangere, o ridere, ma lo fa in modo
distonico. Non si tratta di disturbi dell’umore, di umori troppo elevati o
troppo abbassati, come nella mania e nella malinconia, si tratta di umori distonici. Lo schizofrenico può ridere quando c’è da piangere e piangere
quando c’è da ridere, ma il suo pianto, o il suo riso, non sono passaggi da
un umore all’altro, sono sintomi di ottundimento, impossibilità di accedere
al tono emotivo. Gli schizofrenici, secondo i manuali, non hanno sentimenti propri. Vivono in uno stato di ottundimento che li contraddistingue anche
quando non esprimono sintomi deliranti, allucinazioni o disordini della
condotta.
Invero, ribaltando queste categorie, dietro la schizofrenia si trovano le
insegne del teatro di Artaud, del cinema di Darren Aronofsky, di Federico
Fellini, della scrittura di Joyce. Ma chi li conosce? Appena si entra in reparto bisogna dimenticare queste velleità intellettuali.
Alogia è assenza di motivazione alla conversazione, lo schizofrenico
non entra in conversazione. Interrogato, risponde a monosillabi, non prende mai l’iniziativa di interpellare l’altro, come fosse in metropolitana, dove
ogni giorno migliaia di persone mostrano, quotidianamente, questi sintomi
alogici. Chi mai oserebbe interpellare una persona su un vagone della metropolitana durante il viaggio, se non per fondati motivi? Così il sintomo di
alogia è la medesima circostanza generalizzata a chiunque: amici, genitori, familiari e, soprattutto, psicologi e psichiatri. Di fronte alla mancata risposta a una domanda, o a una sistematica risposta monosillabica che lascia cadere la conversazione, bisogna dare un senso: assenza discorsiva,
conversazionale, alogia.
Apatia, assenza di attività, di gestualità significante. Lo schizofrenico
non fa nulla, non ha alcuna finalità cosciente, non s’impegna per raggiun-
108
La follia rivisitata
gere una meta. Sollecitato a fare qualcosa – “dai muoviti, rispondi, reagisci, fai qualcosa” – c’è una totale assenza d’opera. Si tratta di un otium inquietante in un contesto culturale fondato sul lavoro, il progresso, il
miglioramento. La totale apatia schizofrenica è devastante per gli altri. Ricorda Bartelby lo scrivano, opera di Herman Melville, che risponde sempre: “preferirei di no”. Lo schizofrenico guarda nel vuoto senza alcuna reazione espressiva.
Lo schizofrenico descritto dalle categorie psichiatriche, come il Bartelby di Melville, soffre di anedonia, assenza d’interesse; anche in questo
caso, come negli altri, l’assenza d’opera non è la conseguenza di una delusione sentimentale o di una frustrazione immediata, non si tratta di una fase
di calo affettivo, al contrario l’assenza d’interesse è costitutiva, l’interesse
al mondo non è entrato temporaneamente in crisi, è condizione dell’esistenza sub specie aeternitatis, per sempre e prima di tutto.
Compromissione dell’attenzione è un termine che intende tutt’altro, qui
si intende compromissione dell’attenzione verso l’interlocutore. Se ho altri pensieri per la testa, l’interpellazione del mio interlocutore verrà compromessa. Capita a tutti. Quel che si intende dire, in questo caso, è la sistematica compromissione dell’attenzione.
Ricordo un episodio di una ventina d’anni fa, raccontatomi da un infermiere psichiatrico. Ritenuto capace di interloquire con pazienti schizofrenici, anche perché lui stesso è passato, anni prima, attraverso alcuni episodi psicotici,
gli viene dato l’incarico di conversare con dei pazienti, tra i quali una donna, ricoverata perché catatonica oppure (come insegna la logica dell’inconscio) catatonica perché ricoverata. La donna vive dentro un mutismo quasi totale, di
tanto in tanto si attiva con ecoprassie. Uno di quei casi cinicamente definiti residui manicomiali. I colloqui, in quanto infermiere, li deve tenere nella sala infermieri, dove spesso i colleghi entrano, disturbando il colloquio in corso. L’infermiere, in quella circostanza, si rivolge alla donna chiedendole: “Da quando
ha deciso di diventare catatonica?”. Come per uno strano incanto, la donna lo
guarda negli occhi, sta per piangere e forse sarebbe disposta a rispondere, mai
vista così attenta e tonica come in quel momento. D’un tratto la porta si apre e
una collega si dirige verso il suo armadietto per indossare il camice. Quell’intromissione spaventa la donna che si rinchiude di nuovo nel suo mutismo.
L’attenzione richiede uno sforzo, ma anche un contesto. Persone che
hanno vissuto l’universo concentrazionario, o che hanno sovradosaggi farmacologici, si rinchiudono in un mutismo quasi assoluto; perché si risveglino è necessaria una fiducia nell’interlocutore e un ambiente diverso, uno
spazio ecologicamente adeguato. Non certo un ambiente manicomiale o un
Demenza I
109
servizio di ricovero. Anche un centro territoriale simile a un ospedale, maltenuto, senza libri, musica, arte, serve a poco.
Alogia, anedonia, ecoprassia, schizofrenia, ecc. sono curiosi esempi di
lessico manualistico.
Ve ne sono altri di grande interesse in altri campi: tricotillomania, dispareunia, parafilia, ecc. Parole strambe, eco di un tentativo di costruire un linguaggio specialistico separato. Il gesto, perdendo senso, diventa puro sintomo da eliminare, senza evocazione.
Il sapere manualistico è linguaggio per metà medico, per metà ridicolo.
Compone, in modo inappropriato, termini arcaici per dire cose elementari
come strapparsi i capelli (tricotillomania), o provare dolore durante la penetrazione (dispareunia). Sono i segni della diagnosi e dei rispettivi sintomi. Espressioni oscure che non aggiungono nulla al sintomo del paziente,
se non la sua reificazione in chiave diagnostica. Come l’oppio, che fa dormire perché possiede la virtù dormitiva. Il provare dolore durante la penetrazione da parte di una donna è un sintomo, dispareunia è il significante di
un dolore che non trova ragioni di conformazione o infiammazione dell’organo. Lo strapparsi i capelli è un sintomo, se ripetuto per un certo periodo
in modo sistematico, si trasforma in tricotillomania. Ma dietro lo strapparsi i capelli, metafora di disperazione, c’è un mondo interdetto dalla procedura diagnostica.
In queste circostanze il sintomo – gesti coordinati in assenza dell’oggetto e dello scopo che li giustifica – si trasforma in segno per la diagnosi, una
delle possibili componenti della schizofrenia.
Anedonia si riferisce alla scarsa attitudine a provare piacere o desiderio.
Scarsa attività sessuale, scarsa socialità, mancanza di passioni.
Se invece si considerano queste caratteristiche – apatia, alogia, anedonia – con altro sguardo, lo schizofrenico dai sintomi negativi somiglia a un
personaggio di Samuel Beckett, un Malone, un Molloy46. Non è ancora il
segno del deterioramento, dell’abbassamento mentale, di debolezza della
volontà. Lo diventa nella nomenclatura che organizza il discorso manualistico. Il Re è nudo.
Schizofrenia è la regina delle malattie mentali, la più dannosa, inguaribile nella quasi totalità dei casi, tanto da far pensare che i miglioramenti siano dovuti a diagnosi errate, a casi di mimesi isterica. Insomma il Novecento in psichiatria è il secolo della schizofrenia e la schizofrenia sarà, per
ironia, la fortuna dell’istituzione manicomiale di ricovero a vita, oltre che
la compensazione di potere che gli psichiatri avranno nel non essere consi46
Su Beckett si veda Deleuze, G., L’esausto, Napoli, Cronopio, 2000.
110
La follia rivisitata
derati pienamente medici, sia dai loro colleghi di altre specialità, sia dall’istituzione che in molti paesi considera il manicomio come un luogo giuridico di controllo, più che un reparto ospedaliero. Lo psichiatra cammina
nel bel mezzo di questi reparti di uomini e donne inguaribili, che giacciono
per terra, nella loro divisa a strisce, come carcerati che non hanno commesso reati, spesso in atteggiamenti sessuali espliciti, vicino alle loro feci e al
vomito, immagini raccolte dai fotografi, testimoniate dai parenti. La schizofrenia del Novecento è categoria macabra, la psichiatria del Novecento
scienza macabra. Ripropone un inferno che neppure Dante poteva immaginare, nel cuore della civilizzazione progressista e positivista del secolo
breve. Tranne onorevoli e rare eccezioni.
Folie à famille, dalla simbiosi al doppio legame
L’altra visione della schizofrenia si sviluppa nel campo della psicoterapia. Qui la schizofrenia ha caratteristiche e sfumature del tutto differenti
Melanie Klein sostiene che la schizofrenia è posizione, piuttosto che
malattia. In questo Klein47 rivaluta il soggetto in psicoanalisi. Il soggetto è, per definizione, chi agisce, non può essere entità passiva; prende
posizione.
La prima posizione del soggetto è schizo-paranoide. Non vuol dire che
Io scelgo di essere schizofrenico, vuol dire che il soggetto si muove in
quella direzione. Dobbiamo dire che il soggetto, in psicoanalisi, non è l’Io.
Il soggetto è eccentrico all’Io, è tutto ciò che l’Io, questo equivoco grammaticale, non tiene sotto controllo, ciò che mi appartiene più propriamente, non perché l’ho comperato al supermercato, ma in virtù della mia storia,
non è il frullatore che serve a farmi la spremuta, ma il vecchio passeggino
che giace in solaio, le lettere agli amici che stanno, coperte di polvere, nello scatolone della cantina.
I sintomi della schizofrenia sono regressione del soggetto verso la posizione primitiva, arcaica. Regressione dolorosa. Si tratta di tornare ai primi
momenti dell’infanzia, quando il corpo proprio non è intero. La possibilità
di avere un corpo, lo schema corporeo, organismo funzionante e autonomo,
non è presente nel neonato. L’infante si trova di fronte a pezzi staccati,
frammenti di relazione, come nella suzione, prima indispensabile maniera
di sopravvivenza. Una bocca si attacca al capezzolo e succhia il latte, che
attraversa il tubo digerente, assorbito e defecato. Un sistema bocca-capez47
Klein, M., Scritti (1921-1958), Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
Demenza I
111
zolo-latte che, attraverso il movimento di suzione e di pausa, ottiene liquido e lo ferma. La situazione così descritta richiede l’azione del neonato,
prima forma di soggettivazione.
La schizofrenia è movimento regressivo verso questa frammentazione
del corpo: simbiosi. Due organismi, quello infantile e quello materno, si
fondono in uno solo. La madre contiene il neonato e ne è contenuta, riconosce le grida, i pianti, i movimenti del figlio. Il pianto è placato, quando il
piccolo non può esprimersi, la madre sa di che si tratta. Viceversa l’infante
è reattivo agli affetti, alle sensazioni, ai vissuti materni. Un paradosso della logica che, come abbiamo visto, appartiene all’inconscio. Con questo
non s’intende affatto descrivere una diade, si cadrebbe di nuovo nella logica formale, nel pensiero lineare. Nel corpo materno c’è un’infinità di cose,
è un insieme infinito. Al contempo, questa madre è scissa in una parte buona e una cattiva, nutrice attuale e forza distruttiva potenziale. Vive nel corpo del figlio, esercita con lui un tipo di comunicazione monoculturale, sui
generis, inattingibile dall’esterno della relazione. Tra le altre cose, nel corpo c’è la presenza virtuale e simbolica del padre, oggetto d’investimento libidico, il pene paterno.
Poi la coppia madre/bambino cambia posizione. La posizione schizo-paranoide è destinata a essere superata, con la crescita e lo sviluppo, dalla posizione successiva, antitetica, detta posizione depressiva. Un avanzo nel soggetto,
ma il passaggio dall’una posizione all’altra non è né semplice, né automatico,
richiede un attraversamento. Il soggetto avanza qualcosa che, fino a prima, le/
gli è indispensabile per sopravvivere. Esce dal regno della necessità per entrare nel regno della libertà. Sembra esclamare: “Toglietemi tutto, ma non il superfluo!”. Il piccolo avanza il cibo, lo rifiuta, lascia il suo resto.
Il bambino dalle uova d’oro, così lo nomina Elvio Fachinelli48, inizia un
conflitto sul controllo sfinterico, che cementa le ostinazioni e le fissazioni
del carattere. Elabora una distinzione tra madre e cibo quando inizia, per
traslazione, ad avanzare la madre, a concepirne la distanza. Quando si accorge che le feci escono dal suo corpo, sono un suo prodotto, e intende farci qualcosa, manipolarle. Conflitti orali e anali.
Secondo Winnicott49 il passaggio tra le due posizioni è dato dalla creazione di un mondo di transizione. Soggettivo/oggettivo nello stesso tempo,
o, come si dice in psicoanalisi, oggettuale. Il soggetto entra in relazione per
elaborare una lontananza parziale e temporanea dalla madre, un vuoto, una
distanza, attraverso un terzo simbolico. Questo momento intermedio è co48
49
Fachinelli, E., Il bambino dalle uova d’oro, Milano, Adelphi, 2010.
Winnicott, D., Gioco e realtà, Roma, Armando, 1971.
112
La follia rivisitata
stitutivo della scoperta di avere un corpo separato, che produce nel bambino una sensazione di piacere e terrore, definita da Lacan50 con il termine
francese di jouissance. Lo stadio dello specchio, unione di godimento e terrore. Il corpo, di fronte allo specchio, viene percepito come indipendente,
si produce la prima forma di auto-riconoscimento, ma impotente, ci si vede
piccoli e fragili, in potenziale balìa dell’enorme corpo adulto. Si tratta della costituzione dello schema corporeo, come osserva Merleau-Ponty51.
In Bion52, psicoanalista che ha lavorato intensamente con la schizofrenia, la posizione psicotica si presenta, nel gruppo, in quelle circostanze in
cui si assiste a una scissione. Non solo nell’ambito terapeutico, ma in qualsiasi circostanza, dagli scismi religiosi alle frazioni politiche. Nello stesso
tempo la simbiosi può trasformarsi in uno strumento terapeutico significativo nel trattamento della schizofrenia. Si parla, con Bion, di una regressione terapeutica, un accompagnamento, come Virgilio con Dante.
Bateson53, introducendo la nozione di doppio vincolo, completerà la
spiegazione clinica della regressione schizofrenica attraverso il processo di
comunicazione che abbiamo già descritto, il double bind. Bateson evoca
l’episodio di una madre che si reca a trovare il figlio schizofrenico.
Lui vedendola le va incontro e l’abbraccia, ma lei s’irrigidisce. Allora il
figlio si allontana e la madre si rivolge a lui dicendogli: “Non mi vuoi più
bene? Non devi avere paura dei tuoi sentimenti”. Il figlio entra in crisi, ha
un episodio acuto di delirio.
Secondo Bateson la schizofrenia consiste nell’impossibilità, da parte del
figlio, di commentare l’osservazione della madre. Se riuscisse a dire:
“Mamma, è evidente che tu t’irrigidisci quando ti abbraccio, perciò mi ritiro”, sarebbe salvo.
Nel discorso psicoanalitico, l’impossibilità di commentare l’ingiunzione
materna mostra un prolungamento simbiotico che rende il soggetto incapace di superare il passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva54. Il soggetto schizofrenico permane dentro la relazione simbiotica troppo a lungo, la reitera, traendone uno strano godimento ancorato
nella sua propria permanenza come parte del corpo della madre, o del padre, se la simbiosi si manifesta nei confronti del padre.
50
51
52
53
54
Lacan, J., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in J. Lacan, Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp. 87-94.
Merleau-Ponty, M., Il bambino e gli altri, Roma, Armando, 1968.
Bion, W.R., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Roma, Armando,
2009.
Bateson, op. cit.
Pankow, G., L’être-là du schizophrène, Paris, Aubier-Montaigne, 2011, Appendici.
Demenza I
113
Di fronte a un episodio frustrante lo schizofrenico va a cercare rifugio
nella relazione simbiotica che, a sua volta, produce e amplifica la frustrazione. Di qui gli episodi deliranti, le allucinazioni, il ritiro nella propria camera che rappresentano il ritiro nella solitudine del grembo materno.
I fenomeni di sentire le voci o di essere letti nel pensiero, tra i più classici fenomeni schizofrenici, rispondono all’osservazione: “Non devi avere
paura dei tuoi sentimenti”. Se un simile messaggio fosse rivolto a un nevrotico, si troverebbe in imbarazzo per più di un motivo. In primo luogo si
dà per scontato quali siano i suoi sentimenti attraverso una negazione (“non
mi vuoi più bene?”). Una volta attribuitagli la negazione di un sentimento
(che già fa girare la testa) gli si rimprovera un altro sentimento che gli viene attribuito: la paura. Da dove esce la paura?
Forse commenterebbe: “Io mi ritiro dall’abbraccio perché tu t’irrigidisci, non perché ho paura. Io non ho paura dei miei sentimenti, il sentimento che mi attribuisci non è mio, è tuo”.
Ma se decidesse di non reagire, ce ne sarebbe abbastanza per poter dire: mia
madre mi conosce meglio di quanto io non mi conosca, io non sono padrone
dei miei sentimenti, non sento, non penso, sono voci esterne che mi parlano,
non ho sentimenti miei, i miei pensieri sono di dominio pubblico, ecc., in un
vortice infinito, come il tunnel di Alice nel paese delle meraviglie.
La regressione parte dal doppio vincolo: non devi (negazione di un dovere inventato) avere paura (affermazione di un sentimento inventato) dei
tuoi sentimenti (attribuzione di sentimenti impropri). Frase a effetto ipnotico. Se accettata, propone la relazione simbiotica. Tutti sanno meglio di me
chi sono io, quali sono i miei sentimenti (tutti sbagliati), e come devo pensare: la psicosi.
La simbiosi, questa forma d’amore necessaria nei primi momenti dello
sviluppo, può tendere a espandersi. Spesso per via del bambino, che ne
chiede la continuazione a oltranza, con insistenza.
La madre sufficientemente buona, di cui parla Winnicott, sa come diluire nel tempo questo legame, che man mano diventa sempre più assurdo. Lo
fa quando riconosce le autonomie del bambino, ma ci sono casi in cui il
piccolo può forzare i sentimenti di una madre troppo buona. Se un bambino di quattro anni pretende ancora di accostarsi al seno materno, vuol dire
che la madre non riesce da sola a scoraggiare queste attenzioni, significa
che la transizione, attraverso le relazioni oggettuali, che aiutano a elaborare la lontananza, non sta agendo. In questo senso l’azione paterna di scoraggiamento può essere assente. Il triangolo non si chiude.
Successivamente Bateson si accorge che il doppio vincolo è una condizione generale presente nella comunicazione, come abbiamo osservato pri-
114
La follia rivisitata
ma a proposito dell’analisi del paradosso di Russell. Capita a ognuno di
noi, non solo alle madri, di comunicare in maniera paradossale. Ogni comunicazione avviene in un contesto, io dico qualcosa a qualcuno in un contesto che giustifica quel che sto dicendo.
Per esempio, se sono in uno studio medico l’ingiunzione “si spogli” è
coerente con il contesto. Vuol dire che il medico intende visitarmi. Diverso è se ciò accade in uno studio notarile. Se accetto una simile ingiunzione
in uno studio notarile, significa che mi sto sottomettendo a una pratica che
non è coerente al contesto in cui sono. Che può fare un notaio a una persona che si spoglia nel suo studio? La prima reazione che avrò, secondo il
buon senso, ma non secondo la schizofrenia, sarà di allontanarmi dallo studio. Immaginiamo però che, per qualche strano motivo, io non possa abbandonare lo studio. In questo caso ho bisogno di fare un salto di contesto.
Cioè di creare qualcosa che modifichi la mia relazione con il notaio.
Forse non ho capito
Ho detto: “si spogli”
Ma lei non è un medico
Facciamo finta che lo sia
Questo è un gioco, magari anche pericoloso.
Questo è un gioco è il titolo italiano della trascrizione di una conversazione tra Bateson55 e altri scienziati, filosofi, psicoanalisti, antropologi
presso la Fondazione Josiah Macy negli anni Cinquanta. Quando il termine interdisciplinarità aveva un senso. Secondo Bateson l’uscita dal doppio
vincolo può avvenire solo attraverso la creazione di nuovi contesti.
Dunque non solo la schizofrenia, ma anche altre forme della patologia,
e le forme della creazione artistica, ogni nuovo modo di pensare, ogni scoperta o rivelazione matematica, o di qualsiasi altro genere, può scaturire da
un doppio vincolo. L’origine della creazione è vicina alla patologia56.
Sulla scorta di Bion, si può persino creare un doppio legame terapeutico, naturalmente se si pensa alla terapia come a una forma d’arte (o più modestamente di artigianato) sui generis.
55
56
Bateson, G., Questo è un gioco, Milano, Raffaello Cortina, 1996.
Barbetta, P., Follia e creazione, Milano, Mimesis, 2012.
Demenza I
115
Il declino della schizofrenia e la democrazia psichiatrica
Verso la fine del secolo, da Franco Basaglia a Thomas Satz, comincia a
prendere piede in Occidente un ripensamento delle pratiche psichiatriche
che interrompe l’internamento, spostando l’attenzione sul sociale, per reinserire i matti in comunità.
Ci si accorge ben presto che la riabilitazione psichiatrica passa attraverso la sensibilizzazione della società, canonizzata al rifiuto dei suoi membri
improduttivi, in un sistema di discriminazioni che non riguardano solo il
versante razziale, religioso o sessuale, ma anche quello relativo alla follia
e alle disabilità. In altri termini, non si tratta di riabilitare il paziente, come
in ortopedia, bensì di riabilitare una comunità all’accoglienza.
Il folle è onorato e trattato con dignità in epoche di arretratezza sociale
ed economica, quando la gente muore di fame e d’inedia, prima della scoperta delle Americhe. A partire dall’Illuminismo il folle è segregato, richiuso, trattato come oggetto di studio scientifico. La sua dignità viene strappata, il suo corpo non gli appartiene più, la sua libertà limitata. Se è così, si
tratta di trasformare la società contemporanea, di ritrovare valori antichi, di
rallentare, fermare lo sviluppo.
La parentesi democratica in psichiatria, durata per una ventina d’anni
nel secolo scorso, mostra oggi allarmanti controtendenze: si ripristinano sistemi coercitivi classici, in forma differente. Non dobbiamo però dimenticare l’eroica resistenza al canone discriminatorio di alcune esperienze, durate oltre quarant’anni, come l’unità psichiatrica di Trieste. Fondata da
Basaglia, osteggiata dai grandi poteri psichiatrici e dai tagli economici, resiste con la sua pratica di riduzione al minimo dei ricoveri e interventi territoriali che coinvolgono settori produttivi della popolazione, aziende, artisti, intellettuali.
Con psichiatria democratica la metafora della schizofrenia come malattia
terribile inizia a dissolversi. Qualunque cosa capiti a queste persone, benché
dolorosa per loro e per i familiari, può essere gestita attraverso la psicoterapia e l’inserimento sociale, il riconoscimento della dignità e la capacità di vedere abilità, genialità creative differenti e innovative. Grazie a due autori
francesi di quest’epoca, il filosofo Gilles Deleuze e lo psicoanalista Felix
Guattari, la schizofrenia è ripensata come condizione esistenziale, differenza
radicale alla quale dare valore e rivolgere interesse filosofico e letterario, oltre che medico. Ribaltando le teorie di Melanie Klein, la schizofrenia è una
sottrazione alle dinamiche del triangolo edipico mamma-papà-figlia.
Si sviluppano nuovi interventi sociali sul territorio e nuove forme di psicoterapia. Molti psicoanalisti si orientano verso forme di terapia comunita-
116
La follia rivisitata
ria e di gruppo, nasce la terapia familiare, soprattutto grazie agli stimoli e
le considerazioni di Gregory Bateson.
A Milano un gruppo formato da quattro psicoanalisti (Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata) scrive Paradosso e controparadosso, cercando di cogliere e spiegare le dinamiche familiari paradossali presenti nelle famiglie con un figlio schizofrenico e
sviluppa un nuovo modello di cura della schizofrenia. A New York lo psicoanalista Nathan Ackerman crea l’approccio psicodinamico alla terapia
familiare.
In breve la terapia familiare si espande in America Latina, poi nel resto
del mondo, così avviene per la gruppoanalisi fondata a Londra da Wilfred
Bion e in Francia da Didier Anzieu. In ogni parte del mondo si sperimentano forme di collaborazione tra l’intervento sociale e queste nuove psicoterapie. Una minoranza attiva di psichiatri e psicoanalisti si cimenta, con
buoni risultati, nel campo della schizofrenia. Sono gli anni in cui Ronald
Laing usa Kingsley Hall a Londra come comunità terapeutica basata sulla
parità tra operatori e pazienti. Gli anni gloriosi della liberazione dei matti.
Quando la psichiatria dominante si accorge di questa rivoluzione mentale, cerca i ripari e li trova nel trend ufficiale attuale, nel DSM57.
La tendenza psichiatrica dominante nel campo della schizofrenia è la
psicofarmacologia generalizzata. I farmaci antipsicotici hanno l’effetto di
ridurre deliri floridi e sintomi positivi. La strategia della psichiatria biologica consiste nel riconoscere le critiche avanzate dagli psichiatri democratici per rivoltare la frittata con argomenti biologici nuovi. Una delle tesi dominanti è che i manicomi non sono più necessari, non tanto perché violano
diritti umani, bensì perché i nuovi farmaci antipsicotici rendono i pazienti
docili senza più bisogno del muro; nel linguaggio dominante meno gravi.
Come ho scritto58 in Lo schizofrenico della famiglia, oggi la psicoterapia
familiare con la schizofrenia è assai differente da vent’anni fa. In quel libro
metto a confronto la conversazione terapeutica dell’inizio degli anni Novanta con quella contemporanea. Negli anni Novanta sperimentavamo il
delirio florido del paziente e i tentativi familiari di emendarlo, renderlo
comprensibile, spiegarlo, evitare che emergessero le crude sconcerie e le
sconcertanti volgarità presenti nel delirio. Un crogiolo di voci sovrapposte,
di tentativi di far ragionare il paziente, pause ridotte a zero, sovrapposizioni di voci all’eccesso, grida e volumi elevati. Oggi al contrario, lunghe pau57
58
American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders: DSM-5, Arlington, VA, American Psychiatric Pub, 2013.
Barbetta, P., Lo schizofrenico dalla famiglia, Roma, Meltemi, 2008.
Demenza I
117
se di silenzio, interventi rarefatti, sguardi nel vuoto. Cos’è misteriosamente cambiato?
Un tempo il trattamento farmacologico neurolettico veniva spesso rifiutato dal paziente e dai familiari, gli effetti collaterali, come le contratture
muscolari o i forti rallentamenti delle reazioni corporee, finivano per convincere la famiglia dell’inadeguatezza del trattamento. Oggi i farmaci antipsicotici, quando sono ben dosati, sembrano, in molti casi, avere ridotto
buona parte di questi effetti collaterali. Lo schizofrenico è tranquillo, spesso troppo tranquillo. La domanda di terapia avviene proprio per questo eccesso di normalità, che non toglie i sintomi di ritiro e isolamento sociale. E
di nuovo dobbiamo ripetere che la psicofarmacologia, se aiuta in alcuni
casi, non risolve il problema esistenziale del soggetto. Che la psicoterapia
è ascolto dei sintomi, non repressione.
119
IV.
DEMENZA II
A thing of beauty is a joy for ever:
Its loveliness increases; it will never
Pass into nothingness; but still will keep
A bower quiet for us, and a sleep
Full of sweet dreams, and health, and quiet breathing.
Keats
Il famigerato IQ
Dopo i capitoli precedenti dobbiamo fare una prima sintesi. La follia è
fenomeno complesso, irriducibile a considerazioni manualistiche e facili
classificazioni. Se bisogna produrre un discorso sulla follia, bisogna ricostruire alcune parti dei discorsi già svolti e prendere posizione. In ciò consiste il sapere, nel prendere posizione. La follia dipende più dall’intolleranza altrui che dal funzionamento del cervello, questa la mia posizione. Nei
due capitoli precedenti considero una produzione discorsiva manualistica
per contenere la follia nel nome della sanitarizzazione del mondo, fenomeno tornato pervasivo in quest’epoca.
Invero considero anche ipotesi diverse, che vedono nella follia un tipo di
esperienza umana, forse troppo umana. Si tratta, per parafrasare un recente titolo di Tobie Nathan e Zadje Nathalie1 di Psicoterapia democratica.
Che non significa solo rendere più trasparente il linguaggio del terapeuta,
ma soprattutto creare spazi di liberazione dell’animo umano dalle angosce,
dalle oppressioni. Creare nuovi orizzonti del desiderio, convinti che il soggetto è, per definizione, inguaribile: non contenibile dal discorso medico,
interno al discorso letterario e artistico, mutevole e polimorfo. Sovradeterminato.
Coercizione e autoritarismo, accanimenti e istruzioni sono per definizione antiterapeutici, iatrogeni. Per una particolare caratteristica del mondo
della vita mentale, l’autoriflessività, la reazione della mente sarà inesorabilmente paradossale. Radicalmente disobbediente alle imposizioni, o, al
1
Nathan, T., Nathalie, Z., Psicoterapia democratica, Milano, Raffaello Cortina,
2013.
120
La follia rivisitata
contrario, paradossalmente sensibile, capace di portare il principio autoritario alle più estreme conseguenze.
Di seguito si racconta di una drammatica intolleranza, spacciata per ricerca. Storia in cui clinica e razzismo formulano sconcertanti ipotesi scientifiche. Le considerazioni intorno a queste vicende non vanno considerate
solo sul piano storico, come se ai giorni nostri fossero superate. Devono invece insegnarci che, in qualche modo, quel che accade nel Novecento accade anche oggi, anche se in maniera diversa.
A partire dagli inizi del Novecento, soprattutto negli Stati Uniti, si diffonde una teoria razzista mutuata dal concetto di degenerazione. Il termine, introdotto nell’Ottocento in psichiatria, viene da Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), allievo di Linneo. Dio avrebbe creato, tra le altre
cose, anche tipi umani superiori e inferiori. Non tutti gli animali razionali,
da questo punto di vista, avrebbero le medesime capacità di ragionamento.
La razza superiore deriverebbe da un tipo d’uomo creato nelle zone caucasiche. Nasce il mito del bianco caucasico, con caratteristiche anglo-germaniche. Premessa a ciò che accadrà in quel secolo. Divulgatore di Blumenbach è poi Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882)2, seguito da Francis
Galton3 (1822-1911), cugino di Charles Darwin, fondatore dell’eugenetica.
Accanto a questi discorsi europei, negli Stati Uniti attecchisce un movimento anti-immigrazione la cui missione è proteggere l’America dall’invasione di popoli degenerati e mentalmente inferiori: italiani, irlandesi, polacchi, ebrei, ecc., e proteggersi dai neri e dagli indigeni d’America.
Il brillante libro di Stephen Jay Gould4 (1941-2002) sulla storia dei discorsi relativi all’intelligenza ha l’eloquente titolo di The mismeasure of
man (La confusiva misurazione dell’uomo). È la storia dei pregiudizi scientifici che conducono biologia e psicologia a pensare la disuguaglianza delle razze umane. Tra il Settecento e il Novecento, per due secoli abbondanti, si pensa al prototipo umano caucasico: razza superiore. Le altre razze
sono considerate degenerate.
Francis Walker (1840-1897), presidente del Massachusetts Institute of
Technology, sul finire del diciannovesimo secolo, scrive:
Questi immigranti sono uomini battuti di razze battute, rappresentano i peggiori fallimenti nella lotta per l’esistenza. L’Europa sta permettendo ai suoi
2
3
4
Gobineau, A., Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-55), Longanesi, Milano 1965
Galton, F., Essays in Eugenics (1909), Honolulu, Hawaii, 2004.
Gould, S.J., The Mismeasure of Man, New York, Norton & Co., 1996.
Demenza II
121
bassifondi e alle riserve più stagnanti della sua campagna degradata di essere
espulse qui, sul nostro suolo5.
Nel 1917 iniziano le pratiche di somministrazione di massa dei test intellettivi (IQ) verso coloro che immigrano negli Stati Uniti. Nel 1922, Carl
Brigham6 scrive:
La migrazione delle razze alpine e mediterranee è cresciuta a una tale estensione negli ultimi trenta o quarant’anni che questo sangue ora costituisce il 7075% del totale degli immigrati. Le rappresentative razziali alpine e mediterranee nella nostra immigrazione sono intellettualmente inferiori delle razze
nordiche che prima avevano costituito il 50% della nostra immigrazione.
Se andate a New York, non perdete una visita a Ellis Island, il vecchio
ufficio immigrazione, attuale omonimo museo. Troverete ancora esposti i
test IQ ai quali sono stati sottoposti in massa gli immigrati e potrete prenderne direttamente visione, sebbene in vetrina. Dovrete fare uno sforzo per
leggere, dietro la vetrina del museo, quale può essere la condizione di disagio dei migranti di fronte a quelle prove inique, somministrate in grandi
aule a cinquanta e più persone assieme.
In Italia, all’epoca, le cose non vanno molto diversamente. Si può visitare il museo Antropologico di Firenze, con le vetrine dei crani di persone
appartenenti alle differenti razze, opportunamente misurati, e le fotografie
delle esperienze di misurazione dei crani e di raccolta dei calchi facciali,
condotte in Africa da Lidio Cipriani (1892-1962), che durante il fascismo
ricopre la Cattedra di Antropologia presso la locale università.
Sempre durante il fascismo inizia la carriera accademica di Mario Canella7 (1898-1982) e, con lui, la psicologia razziale. Si tratta di studiare “il
grado di plasticità psichica, le tendenze istintive, le capacità potenziali, le
possibilità innate di sviluppo intellettuale e morale” delle razze. Gli studi
di psicologia razziale in Italia si interrompono bruscamente dopo la fine
della guerra, abbandonati in fretta e furia. Canella, che dal 1938 al 1945,
cioè durante il periodo di introduzione in Italia delle leggi razziali, ha l’incarico di biologia delle razze umane, diventa poi professore di zoologia dal
1962 al 1973.
5
6
7
In Ayres, L.P., Laggards in our Schools, a study of retardation and elimination in city
school systems, New York, Charities publication commettee, 1909, [trad. mia].
Brigham, C., A study of American intelligence, Germantown, NY, 1922, p. 197,
[trad. mia].
Cfr. Volpato, C., Un caso di rimozione scientifica: la psicologia razziale di Mario
Canella, in Giornale italiano di psicologia, 4/2000, pp. 807-830.
122
La follia rivisitata
Questo abbandono silenzioso, questa rimozione negazionista avrà strascichi importanti anche successivamente. Nel 1965, l’Enciclopedia della
Scienza e della Tecnica8 al punto Caratteri antropologici attribuiti alla
razze umane, riprende Gobineau, menzionandone i caratteri psicologici.
Invero l’autore della voce riconosce: “Le notevoli difficoltà di rilevazione e di valutazione… fanno sì che il contenuto [di quanto egli scrive] debba considerarsi ancora non sistematizzato e molto discutibile”, tuttavia egli
non manca di riportare che:
Alle popolazioni del ramo negroide sono state attribuite instabilità psichica,
passionalità violenta e di breve durata, mancanza di sentimenti profondi, una
certa remissività, passione per la danza e per la musica ritmata, minore tendenza per il ragionamento speculativo… Facendo riferimento ai Cinesi e ai Giapponesi, alcuni hanno ritenuto che le caratteristiche psichiche di queste popolazioni consistano nel bradipsichismo [sic!], nell’introversione, nell’emotività
torpida, nel grigiore psichico, nell’apatia conclamata. L’intelligenza è tuttavia
vivace e la memoria in genere buona… il nordico è stato ritenuto d’intelligenza vivace, razionale, padrone di sé, energico, attivo, poco affettivo, l’alpino critico, d’intelligenza media, poco vivace, volitivo e industre; il Mediterraneo tachipsichico [sic!], poco riflessivo […]
I primitivi… (Australiani, Melanesiani, Pigmei, Veddaici, Boscimani, Ottentotti, ecc.) sono caratterizzati da intelligenza non vivace, da limitata capacità di attenzione, da instabilità psichica, da estroversione, da emotività, da scarsa affettività…
Il sociologo Herbert Spencer (1820-1903), sulla scia di Galton, inventa
il darwinismo sociale; canone – menzionato nel precedente capitolo – che
proclama la lotta per la sopravvivenza. Una sorta di naturalismo secondo
il quale la società si autoregola senza mai intervenire nelle questioni private, se qualcuno muore, si ammala, ha più difficoltà degli altri in questa lotta, è destino. La comunità si preserva e migliora anche sacrificando alcuni
dei suoi individui. Nessuna solidarietà, nessun programma di riequilibrio.
L’ingiustizia tra gli individui è garanzia dello sviluppo sociale. Quanto
queste idee siano dominanti lo vediamo da esperienze politiche recenti di
fine secolo, come il governo Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald
Reagan negli Stati Uniti.
Ovvio che Darwin non c’entra con queste conclusioni. Il darwinismo sociale, se radicalizzato, porta a pensare a interventi sanitari che addirittura
8
Tofini, P. Razze umane, in Cesaretti, G., (caporedattore), Enciclopedia della scienza e della tecnica, Milano, Arnoldo Mondadori, 1965, vol. VIII, p. 575 sgg.
Demenza II
123
favoriscono la sterilizzazione, la soppressione degli inadatti, disadattati,
dementi, folli, devianti, malati incurabili, ecc. Eugenetica attiva.
Morel applica questi ragionamenti alla psichiatria, per lui la degenerazione non è uno stato razziale, ma un divenire potenziale dell’individuo
che può contaminare una comunità sul piano biologico e la società sul piano ideologico. Si riferisce alla degenerazione come processo interno all’individuo occidentale. Dalla sua concezione particolare della demenza precoce in psichiatria l’eugenetica si trasforma in un programma di
prevenzione e discriminazione: migliorare le condizioni socio-sanitarie degli slum, emarginare possibili individui disadattati, internarli.
Queste due tendenze trovano una sintesi nel più terribile esempio di cattiva
misurazione dell’essere umano: lo sterminio in massa dei disabili e dei pazienti psichiatrici durante il nazismo e il fascismo. Esempio che non sarebbe stato
pensabile senza le teorie genetiche e biologiche sulla razza, le metafore moreliane sulla degenerazione e le teorie sulla misurazione dell’intelligenza. Questa
scienza ha, tra i due secoli passati, la massima influenza sulle pratiche sanitarie, il darwinismo sociale viene trasformato in pratica di sterminio di massa. Lo
sterminio viene giustificato attraverso due argomenti, uno di carattere prettamente scientifico, l’altro di ordine bioetico.
Primo: la natura si evolve attraverso la selezione delle specie, delle razze e degli individui più adatti. Rimangono residui e degenerazioni che è
bene eliminare al fine di favorire il naturale processo evolutivo.
Secondo: se le persone mentalmente degenerate potessero consapevolmente decidere della loro vita, chiederebbero l’eutanasia immediata.
In un noto filmato propagandistico nazista un professore di medicina spiega
ai suoi studenti questa tesi, il docente aggiunge che una volta, una madre, a proposito dell’eliminazione fisica del proprio figlio disabile, gli avrebbe detto
“non ditemelo, fatelo.”9
Lo sterminio di massa viene presentato come necessità del progresso
scientifico e questione bioetica. È la prima delle grandi questioni sanitarie.
Non possiamo dimenticare che i difensori dei criminali nazisti, durante i processi, parlano della soluzione finale come di una questione sanitaria. Con la
soluzione finale, il problema dello sterminio, si trasforma da eutanasia individuale in sterminio totale di Ebrei, Zingari, omosessuali. Da natura individuale a natura comunitaria, termini come degenerazione, deterioramento,
9
Si tratta della scenografia, o del trattamento, di un film proiettato tra i medici durante il nazismo, del quale non sono state trovate mai le pellicole, ma, in Germania Est, dopo la riunificazione, i testi.
124
La follia rivisitata
contagio, disinfestazione fungono da metafore nella trasformazione di un fenomeno di eliminazione di massa in fenomeno sanitario.
Invero, benché in maniera diversa, la discriminazione dei disabili continua nel mondo occidentale anche dopo la guerra: in Virginia fino al 1972
la legge prevede la sterilizzazione dei cosiddetti morons, persone con diagnosi di ritardo mentale lieve; in Svezia fino agli anni Ottanta.
Partendo da Blumenbach, attraverso le teorie razziali, fino alle pratiche
antropologiche di misurazione dei crani e alle pratiche di misurazione
dell’IQ, si ricostruisce un singolare aspetto della sanità moderna.
Questa cultura è diffusa tutt’ora nei modi di pensare la mente umana?
Alcune concezioni, espresse nei corridoi delle istituzioni, davanti alla macchina del caffè (“Non è del tutto arrivato”, “Non c’è stoffa”, ecc.), danno
da pensare. Non solo, come insistono alcuni autori10, il trend dominante,
anche nel nuovo DSM, continua a discriminare tra disordini universali (tipici delle zone avanzate del mondo) e disordini culturali (specifici delle
zone emarginate del mondo). L’epoca moderna costituisce quadri mentali
collettivi che hanno, anche oggi, effetti sull’habitus individuale. Si va ben
al di là delle pratiche di eloquenza retorica volte al convincimento; si tratta di interiorizzazione sociale.
Il sistema nordamericano di misurazione di massa dell’intelligenza, che
per un periodo si diffonde a tutta la popolazione, ha due scopi: discriminare gli immigranti e assegnare incarichi lavorativi differenziali e posizioni
nell’esercito a partire dall’IQ di ogni individuo. Si suppone che, al di là
delle singole attitudini e capacità individuali in differenti campi (musica,
matematica, linguaggio, orientamento spaziale, coordinamento motorio,
ecc.) ci sia un fattore unico dell’intelligenza, denominato fattore G. Tale
fattore sarebbe misurabile attraverso test predisposti ad hoc. Tutt’ora, benché usati in modo differente, esistono test IQ, concezioni generali dell’intelligenza, persino club di nuove nobiltà, ai quali si viene ammessi in base
alla dimensione del proprio IQ. Club di esseri superiori.
Prima dello sterminio nazista dei disabili e dei folli l’ambizione eugenetica è far nascere persone intellettivamente superiori e proteggere la cosiddetta razza caucasica attraverso la discriminazione. Una biologia riduzionista, coniugata con una sociologia reazionaria, servono a tenere fuori dagli
ambiti della cultura e del potere le persone povere, di altre origini etniche,
10
Patel, V., Saraceno, B., Kleinman, A., Beyond Evidence: The Moral Case for
International Mental Health, in American Journal of Psychiatry, 2006, pp.
1312-1315. Si vedano anche i numerosi saggi di Arthur Kleinman e Benedetto Saraceno.
Demenza II
125
donne, elementi per definizione inferiori, in particolare afroamericani e latinoamericani.
I primi test IQ suddividono i ritardati in idioti, imbecilli e morons. Negli
USA si pratica la misurazione dell’intelligenza con questionari in inglese,
che favoriscono palesemente coloro che parlano la lingua. Di fronte alla prime contestazioni di quel metodo, si procede con la riduzione delle parti in inglese, ma si pensano test confezionati per un americano di classe media.
Gould11 mostra l’esempio di un test in cui si chiede di individuare la parte mancante di un oggetto, il disegno proposto è una casetta. Si prevede il
completamento con un comignolo fumante, siamo a New York e d’inverno
fa freddo. Per molti siciliani, il completamento prevede l’aggiunta di una
croce. Fenomeno inesistente nel Nord degli Stati Uniti, ma diffuso in Sicilia. Là una casetta di quel tipo designa una cappella cristiana. Naturalmente la risposta viene ritenuta errata e questo, anziché essere il segno di una
differenza culturale e ambientale, diventa segno di mancanza intellettiva.
Le persone con difficoltà o deficit cognitivo, oppure così diagnosticate
dai test IQ, vengono chiamate idioti, nel caso di massima gravità, imbecilli, per gravità media, e morons (in italiano anche cretini) per gravità lieve.
Per i meno gravi, il termine è stupidi, si tratta di IQ bassi, ma non patologici, più che diagnosi, sembrano insulti e come tali vengono usati nel linguaggio comune. Diagnosi di idiozia e imbecillità sono ancora presenti
nella settima edizione del manuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, anni Cinquanta. Il cretinismo ha una storia particolare, già da Blumenbach è definito come endemico nel Piemonte e nel Salisburghese, più
in generale sull’arco alpino, e correlato con la presenza del gozzo (disfunzioni gravi alla tiroide) dovuto all’assenza di iodio.
Oligofrenia
Il termine oligofrenia racconta la storia di come il ritardo mentale s’imbatte nell’autismo. Oligofrenia è un termine composto dal greco oligos
(poco) e fren (mente). Attaccato al suffisso fren si trovano altri termini: frenastenia, frenopatia, schizofrenia, ebefrenia, frenesia, frenologia, freniatria. Fren non si rivela solo per il suono. Come abbiamo veduto, per gli antichi frenes indica due parti del corpo: il cervello e il diaframma. Il
diaframma è membrana di separazione delle parti alte, eteree, dalle parti
basse, viscerali, del corpo. Il cervello prende il nome di frenes perché anti11
Op.cit.
126
La follia rivisitata
camente si pensa che le idee vengano dall’aria12, come ricorderete uno dei
quattro elementi che compongono il kosmos, il più rarefatto. L’aria è fredda, per analogia connessa al flegma, all’inverno e alla morte. Il diaframma
assume aria, dunque anche il cervello. L’aria ippocratica è aria rarefatta che
soffoca il neonato al momento del parto, quando il taglio del cordone ombelicale toglie la protezione del liquido amniotico. Di qui la scoperta del
soffocamento perinatale. La sofferenza fetale può rendere oligofrenici.
Invero in Italia, almeno fino alla fine degli anni Sessanta, bambini e
bambine supposti figli di relazioni extraconiugali, incestuose, scandalose
vengono internati in istituti detti brefotrofi. I casi incestuosi spesso ricevono diagnosi preventiva: oligofrenia, frenastenia, cerebropatia. A volte queste diagnosi non vengono neppure supportate dall’osservazione del decorso, semplicemente si assume che, essendo figli incestuosi, debbano
presentare tare genetico-ereditarie. In qualche caso la relazione sessuale
non implica neppure il rapporto tra consanguinei, anche la relazione tra patrigno e figliastra può rientrare nel novero, si tratta di nascondere la perversione. Le teorie genetiche a volte non contano, è necessità morale.
La diagnosi si presenta come profezia che si autoavvera, le aspettative
cliniche coincidono con la reclusione a vita in istituto. In situazione detentiva fin dalla nascita si producono condotte disadattive e di disintegrazione
non molto differenti da quelle manicomiali. Istituti sovraffollati, dove i
bambini crescono senza accudimento. Il quoziente intellettivo assume un
legame nascosto con l’autismo più grave, recentemente testimonianze di
queste situazioni arrivano dagli asili per bambini scoperti dopo la caduta
del comunismo in Romania e Bulgaria.
Nel discorso diagnostico contemporaneo l’autismo vero e proprio si può
accompagnare all’oligofrenia. Alcuni considerano l’oligofrenia un sintomo, non una diagnosi, un tratto presente in vari tipi di patologie infantili.
Distinguere l’oligofrenia dall’autismo non è facile. Lo farà Leo Kanner,
che incontreremo presto.
Qual è oggi la metafora oligofrenia? Che tipo di diffusione ha tra i media e la popolazione comune, che non s’intende di questa cose? Com’è che
questi bambini vengono tenuti per tutto il Novecento nascosti allo sguardo
esterno?
Oggi l’oligofrenia è oggetto raro di conversazione, appare poco e quando appare viene ricordata insieme agli istituti, tuttavia non mancano riferimenti nella conversazione quotidiana. Vediamo un esempio tratto da internet. Si tratta di uno dei tanti siti del tipo: domande all’esperto.
12
Ippocrate, Arie acque luoghi, a cura di Luigi Bottin, Venezia, Marsilio, 1986.
Demenza II
127
Chiedo un parere per conto di una mia cara vicina di casa che ha una figlia
oligofrenica che negli ultimi periodi l’ha ridotta a prendere antidepressivi.
Soggetto: donna di 45 anni, con oligofrenia accertata fin dall’infanzia, chiamiamola Xxx. La famiglia ha sempre cercato di rendere Xxx “normale” facendole intraprendere anche una carriera lavorativa per molti anni senza alcun problema. Il comportamento della ragazza era docile e remissivo, per cui
facilmente gestibile. Verso i 40 anni Xxx ha conosciuto un uomo e da quel momento cerca la piena autonomia che la famiglia non ritiene possa essere data, in
quanto il “fidanzato” disoccupato la sfrutta per poter vivere dilapidando tutti i
soldi guadagnati dalla ragazza. La famiglia ha cercato in tutti i modi di allontanare Xxx dal fidanzato senza alcun risultato. Ora la famiglia gestisce lo stipendio della ragazza con sentenza del tribunale. La sorella vista la depressione della madre ha usato mezzi “violenti” per gestire Xxx, ora la madre è
doppiamente preoccupata in quanto teme che Xxx possa ulteriormente legarsi
al fidanzato. Domanda 1 – la violenza può essere controproducente in un soggetto oligofrenico? 2 – in questa situazione vale la pena che Xxx frequenti il fidanzato? se sì, solo il tribunale potrebbe sentenziare... grazie per la risposta
cordiali saluti.
Il testo è del 2010 e parla da solo. L’anonima scrittrice appare del tutto
in buona fede, l’esperto di turno si limita a sconsigliare l’uso della violenza. Le domande di chi vuole un chiarimento sono legittime: può essere picchiata una persona oligofrenica per le sue condotte? Ha diritto una donna
oligofrenica a innamorarsi e avere rapporti sessuali (sottinteso), anche se il
suo uomo la frequenta per approfittarne economicamente? A queste domande nessuno può rispondere con il buon senso, qui il buon senso perde
validità, si tratta di tutt’altro. Per ognuna di queste circostanze bisogna considerare la singolarità della domanda, prima ancora di formulare una risposta, uscire dalle ideologie che infestano il legame sociale producendo giudizi definitivi e trancianti. Certo se la persona non avesse la diagnosi di
oligofrenia, se fosse una docente universitaria, per esempio, sarebbero affari suoi, oppure frequenterebbe uno psicoanalista.
Invero il termine oligofrenia ha notevole diffusione presso le pedagogie
speciali. Un esempio sono le classi differenziali organizzate da Giuseppe
Ferruccio Montesano (1868-1961) a Roma. Per Montesano si tratta di produrre una partizione pedagogica analoga alla partizione manicomiale. Creare uno spazio di specializzazione metodologica per l’applicazione della
psicologia e della pedagogia a bambini con ritardo mentale. Le classi differenziali si rivelano presto una forma diversa di discriminazione (piccoli
manicomi scolastici per oligofrenici), benché siano i primi tentavi di dare
istruzione a bambini altrimenti abbandonati. La psichiatria italiana e tede-
128
La follia rivisitata
sca, a cavallo tra le due guerre, si coniuga con la pedagogia speciale. Si
parla dell’educazione di bambini oligofrenici, delle loro possibilità di apprendimento, si sperimentano nuove forme educative.
La storia di queste esperienze comincia prima, nel Settecento, con i
bambini selvaggi, descritti come esseri intermedi tra uomo e animale. Il
caso del bambino lupo dei boschi dell’Aveyron, in Francia, è paradigmatico. Victor è più noto come il ragazzo selvaggio. Per molti anni è considerato un bambino allevato dai lupi. Le posture e le movenze richiamano la
fantasia illuminista del bambino lupo, del buon selvaggio.
Nel 1989 Uta Frith13 scrive un libro intitolato Autismo. La spiegazione di
un enigma. In quel testo, come nel libro di Gould sulla misurazione dell’intelligenza, si racconta finalmente un’altra storia. Il ragazzo dell’Aveyron
mostra cosa succede nelle campagne europee in condizioni di povertà. Si
tratta di fanciulli abbandonati perché autistici o ritardati. Il fatto che i genitori li abbandonino è la conseguenza della vergogna e del peso che costituiscono per una famiglia che a stento riesce a far sopravvivere le persone
normali, braccia da lavoro. I più, una volta abbandonati, muoiono. I pochi
sopravvissuti, come Victor, stimolano le curiosità di intellettuali, educatori
e medici.
Victor, il bambino selvaggio diventa oggetto di studio per Jean Marc
Gaspard Itard14 (1775-1838), che cerca di educarlo e integrarlo, non senza
alcuni risultati interessanti, nella società civile.
La storia della pedagogia speciale comincia a metà Ottocento con Edouard Séguin15 (1812-1880), che applica il trattamento morale, già conosciuto grazie a Pinel e Esquirol per la follia, anche agli idioti.
In quel periodo si stanno sviluppando studi sui bambini ritardati che sfociano nelle pratiche educative sperimentate da Montesano e Montessori e,
prima ancora, nelle ricerche di Alfred Binet (1857-1911). Possiamo descrivere gli interessi di Binet sull’intelligenza come la parte non ideologica
della questione ritardo mentale. Binet sostiene che l’apprendimento della
scrittura e della tecnica richiede tempi lunghi e una certa specializzazione.
Un bambino ha bisogno, per diventare adulto, di completare il suo percorso di apprendimento della letto-scrittura e delle tecniche mentali necessa-
13
14
15
Frith, U., L’autismo: spiegazione di un enigma, Roma, Laterza, 2009.
Si può vedere lo splendido film di François Truffaut Il ragazzo selvaggio (1970)
basato sulla cronologia del periodo educativo tra Itard e Victor, il bambino selvaggio dei boschi dell’Aveyron.
Séguin, E., Traitement Moral, Hygiène, et Education des Idiots (1846), Paris, Comité d’Histoire de la Sécurité Sociale, 1997.
Demenza II
129
rie a risolvere problemi. Durante il corso della vita – almeno nei primi 1015 anni – c’è una certa differenza nel modo di affrontare e risolvere i
problemi. Binet inventa un test per valutare l’età mentale di un bambino,
per cercare di incrementarla.
Una serie di domande e performance valutano l’età mentale in base a numerose rilevazioni precedenti che ottengono 100 a un punteggio di parità
tra età mentale ed età cronologica. I punteggi inferiori a 100 forniscono il
dato di un’età mentale inferiore a quella cronologica e viceversa. Il punteggio così organizzato è dato dal rapporto:
Età mentale/Età cronologica per 100
Se per esempio al test si ottiene un punteggio di età mentale di 15 e si
hanno 15 anni, si otterrà 100 punti e si sarà nella media, viceversa se otterrò 10 e ho 15 anni il mio punteggio sarà di circa 66 e avrò un lieve ritardo.
L’interesse di Binet è puramente clinico e di ricerca, genuinamente
scientifico, intende comprendere in quale modo e fino a quali limiti un
bambino diverso, con difficoltà negli apprendimenti, possa acquisire nuovi modelli di conoscenza. Inoltre il test di Binet costituisce uno strumento
di misurazione locale, limitato al periodo infantile dello sviluppo. Gli intenti di Binet sono del tutto differenti da quelli dei misuratori di massa degli IQ negli Stati Uniti. Egli non ha alcuna idea razzista nel proporre i test,
al contrario si dedica alle possibilità di aiutare bambini svantaggiati. A Binet non interessa l’esaltazione e la promozione sociale dell’intelligenza
come fattore genetico, bensì lo studio del funzionamento mentale dei bambini disabili. Binet e Montessori hanno passioni cui andare incontro, i venditori di IQ privilegi da difendere. Succede anche oggi, potremmo definire
questo fenomeno, usando le categorie diagnostiche, narcisismo sanitario.
L’inibizione
Il metodo della discriminazione è ancora in atto, benché in misura più
defilata, in molte scuole. Lo mostrano le ricerche di Pierre Bourdieu16 e Basil Bernstein negli anni Ottanta/Novanta del secolo scorso. Basti pensare ai
risultati scolastici dei bambini migranti o dei bambini poveri. Come scrive
16
Bourdieu, P., La noblesse d’Etat, Paris, Minuit, 1988.
130
La follia rivisitata
Basil Bernstein17, i risultati scolastici rispecchiano i risultati dei test IQ e
viceversa.
Tuttavia Melanie Klein18 comincia a scrivere sul trattamento in psicoterapia di bambini con inibizione scolastica molti anni prima. Legge la scarsa performance scolastica come un fenomeno inconscio, d’inibizione, piuttosto che d’intelligenza. Osserva in terapia bambini che vanno male a
scuola e trova le ragioni di questo fenomeno nella storia di vita del bambino, piuttosto che in un deficit d’intelligenza. Descrive la vita originaria del
bambino richiamando forme d’isolamento infantile, estasi, autoerotismi.
Forme dello sviluppo dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva.
Lo abbiamo visto nel capitolo precedente.
L’inibizione è posizione nel mondo, condizione d’esistenza, freno al
processo di crescita; indirizza la crescita su vie differenti e trova, nel trattamento terapeutico, connessioni impensate, strade diverse.
Sappiamo che spesso si tratta di bambini che vengono da famiglie povere, senza possibilità di studiare. Fino agli anni Novanta del Novecento diversi studiosi – Maria Montessori, Antonio Gramsci, Ivan Illich, Lorenzo
Milani, Basil Bernstein, tra gli altri – cominciano a mettere in questione
pratiche discriminatorie nascoste, basate su concezioni educative classiste.
Oggi questi autori sono dimenticati, che ci sia una sorta di revival della misurazione cognitiva di massa, a scopo discriminatorio? Che sia questa la
nuova specialità attribuita agli insegnanti? A che servono le procedure burocratiche internazionali per la valutazione degli obiettivi19, se non a inibire l’insegnante nel suo ruolo, quello d’infondere passione per lo studio, di
andare incontro al suo desiderio?
17
18
19
Bernstein, B.B., Class, Codes and Control, London, Routledge, 2003.
Op.cit.
Sotto accusa sono qui i cosiddetti Descrittori di Dublino. Queste pratiche burocratiche europee generalizzate non fanno altro che mettere la relazione insegnante/allievo sempre più in difficoltà, aumentando, anziché ridurre le distanze educative.
Si tratta di pratiche che impediscono persino all’insegnante di organizzare un adeguato programma di studi. Come in sanità, anche nel campo educativo si creano
situazioni standardizzate. Non inutili, del tutto dannose.
Demenza II
131
Quando spunta la parola autismo20
L’autismo nasce nel 1943, ha una strana gestazione. Durante una ricerca
presso gli Archivi Psichiatrici di San Servolo a Venezia21 – con un gruppo
di ricercatori facenti capo all’Università di Bergamo – cerchiamo di osservare le cartelle cliniche manicomiali tra il 1880 e il 1940. Il progetto consiste nell’indagare come può essere diagnosticato l’autismo prima che questa diagnosi esista, gli anni Quaranta del Novecento.
Scopriamo che i casi di ricovero infantile regolarmente eseguiti da tutti
i manicomi fino agli anni Quaranta sono diagnosticati come idiotismo o
idiozia. Negli anni Quaranta, autismo inizia a sostituire idiozia. Tra gli antichi idiotes è colui che non ha voce in capitolo, le cui parole sono insignificanti. Idios è un aggettivo che nega significatività alla parola. La bocca
schiava, stoma doulon, segna l’abbandono della lingua madre, non può
parlare la lingua madre. Chi non parla la lingua madre è barbaro, balbuziente. La lingua madre è condizione d’inserimento nella comunità, l’idiota non ha riconoscimento22.
Idiota nelle lingue occidentali è insulto. Diagnosi e insulto si accomunano,
tolgono dignità, sono aggressioni verbali, forme d’interruzione del confronto.
Autos indica invece un ritiro. Se l’idios non ha voce in capitolo, l’autos non si
dà voce, non è interessato, si colloca attivamente fuori dalla comunità.
Autismo, è un termine introdotto agli inizi del Novecento da Bleuler per
definire una caratteristica della schizofrenia a insorgenza adolescenziale,
detta anche schizofrenia ebefrenica, categoria assai diffusa presso i manicomi. In Bleuler autismo non è ancora diagnosi, ma sintomo. In questi casi
la schizofrenia assume la forma dei bizzarri manierismi descritti nel capitolo antecedente, una sorta di azione rivolta a se stessi, ecoprassia.
20
21
22
Sull’autismo non si possono consultare due testi chiave: Hacking, I., Plasmare
persone, Urbino, Quattro Venti, 2004 e Thomas, M.J., L’autisme et les langues,
Paris, L’Harmattan, 2011.
Russo, C., Capararo, M., Valtellina, E., a cura di, A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali, Milano, Mimesis, 2013.
Tornando a Louis Wolfson, è necessario sottolineare questa considerazione di
Max Khon: “La lingua madre non è la lingua della madre. Quando la lingua della
madre si confonde con la lingua madre, si tratta di follia. In ebraico, sfat em, è
equivoco, è sia lingua madre, che lingua della madre. Come differenziare le due?
Attraverso il padre. Se non ha niente da dire il padre, la lingua della madre e la lingua madre si confondono, ed è follia” [trad. mia]. Kohn, M., Louis Wolfson. Une
langue c’est de la folie, e la folie est que c’est une langue?, in Recherche en psychanalyse, 2005, 4, pp. 113-121.
132
La follia rivisitata
Sono invece due psichiatri infantili a usare per primi e contemporaneamente, nel 1942-43, il termine autismo come diagnosi: Leo Kanner (18941981) e Hans Asperger (1906-1980).
Mentre Kanner considera l’autismo una sindrome di estrema gravità,
Asperger lo definisce come disturbo con possibilità evolutive. I due non si
conoscono, e sembrano ignorare i reciproci studi e le reciproche esperienze cliniche. Entrambi mutuano il termine da Bleuler. Asperger scrive in tedesco, Kanner in inglese. La ricerca di Asperger23 viene largamente ignorata fino a quando è tradotta in inglese, quasi cinquant’anni più tardi.
Secondo Kanner l’autismo colpisce i bambini fin dalla più tenera età.
Egli considera il disturbo una grave forma di psicosi in cui, oltre a un ritardo mentale marcato, si annoverano movimenti ripetitivi simili a ecoprassie,
nei casi più severi, o paraprassie. Questi bambini si muovono per ore, come
se stessero pregando, dondolandosi avanti e indietro. Questo dondolio rituale e stereotipato, secondo Kanner24, è elemento differenziale tra oligofrenia e autismo. Entrambi marcano un ritardo mentale, ma l’autismo mostra segni inquietanti di disturbo della relazione e movimenti ripetuti e
stereotipi. Kanner pensa a una forma infantile di schizofrenia.
La posizione di Asperger25 è molto differente. Il suo saggio Psicopatia
autistica nell’infanzia esprime in modo chiaro una valutazione evolutiva.
Se Bleuler usa il termine autismo per designare un sintomo della schizofrenia, Asperger fa dell’autismo una diagnosi a sé e prende le distanze da
Bleuler riguardo a considerare l’autismo una patologia schizofrenica: “A
differenza dei pazienti schizofrenici i nostri bambini non mostrano disintegrazione della personalità. Quindi non sono psicotici”.
Asperger presenta alcuni casi clinici. Il primo di questi è Fritz V. inviato
alla Clinica psichiatrica Universitaria di Vienna dalla scuola all’età di sei
anni, perché considerato ineducabile. Asperger si sofferma a lungo a considerare la famiglia di Fritz. La sua descrizione è fenomenologica. Scrive a
proposito di una derivazione familiare di poeti e intellettuali da parte materna, poi descrive le difficoltà di relazione madre/bambino quando la madre lo accompagna alla clinica:
23
24
25
La storia di Asperger è anche esemplare per la sua battaglia contro lo sterminio
nazista di questi bambini.
Kanner, L., Autistic disturbances of affective contact (1943), Nerv Child 2, pp.
217-50.
Asperger, H., “Autistic Psychopathy” in Childhood, in Frith, U., ed., Autism and
Asperger Syndrome, New York, Cambridge University Press, 1991.
Demenza II
133
Per esempio: molto caratteristiche erano le circostanze in cui madre e bambino si recavano insieme all’ospedale scolastico, ognuno per sé. La madre
ciondolava con le mani dietro la schiena, apparentemente fuori dal mondo.
Inoltre il ragazzo correva qua e là combinandone di ogni. Davano l’impressione di non avere affatto a che fare l’uno con l’altro. Difficile non pensare che la
madre avesse difficoltà non solo con il figlio, ma con le cose pratiche della vita
quotidiana.26
I casi descritti da Asperger mostrano gli stessi dondolamenti avanti e indietro che rileva Kanner; anche gli autistici di Asperger entrano in relazione
con difficoltà, però Asperger definisce questi bambini piccoli professori.
Non vediamo madri frigorifero, vediamo una madre sola, isolata dal mondo,
in difficoltà. Asperger si limita a osservare un tipo d’interazione, si direbbe
un’interazione fatalista, non interessata al raggiungimento di obiettivi.
Le osservazioni di Asperger rilevano che il bambino autistico presenta
sensibilità elevata, benché differente dalla norma. Se in alcuni casi l’autismo trova riscontro in una difficoltà nel legame con i genitori, secondo
Asperger bisogna farsi carico di questi legami. I casi seguiti da Asperger
hanno evoluzioni sorprendenti sul piano scolastico e anche relazionale, pur
rimanendo sempre problematici; quelli di Kanner, al contrario, sono casi
senza miglioramento.
A seguito delle teorie di Kanner, Bruno Bettelheim (1903-1990), seguace delle teorie di Anna Freud, inventa un trattamento basato sull’idea che i
genitori, sopratutto le madri, siano colpevoli di essere fredde e distaccate,
di avere vocazioni intellettuali narcisiste, che non permettono loro di dare
sufficiente affetto ai figli.
Le teorie di Kanner e Bettelheim hanno, per un periodo, un vasto seguito. Poi, dopo la rivolta dei genitori di fronte a trattamenti accaniti, con ricoveri prolungati, col bambino isolato dalla famiglia e risultati disastrosi, si
parla di accanimento terapeutico.
Invero, sebbene Kanner e Bettelheim siano considerati responsabili di
avere colpevolizzato i genitori senza ragione, la maggioranza delle famiglie con bambini autistici gravi si rivolge oggi a terapie comportamentiste
assai simili a quella di Bettelheim. Mentre Bettelheim allontana i figli dalle famiglie, oggi assistiamo a un ipercoinvolgimento espiatorio della famiglia, che ha come risultato quello di ricreare forme di attaccamento patologico e la promessa di rendere il bambino quanto più simile a un modello di
normalità rassicurante. L’accanimento terapeutico verso l’autismo è ancora dominante.
26
Ivi, p. 41.
134
La follia rivisitata
Manualistica per l’autismo versus psicoterapia
La manualistica dell’autismo inizia con una supposta manualistica psicoanalitica. In seguito all’influenza di Kanner, l’autismo infantile viene
considerato dai manuali psicodiagnostici, tra il 1952 e il 1974, una forma
di schizofrenia infantile. I manuali diagnostici nella prima e nella seconda
edizione, rispettivamente del 1952 e del 1968, sono influenzati dalla Psicologia dell’Io. La tesi di fondo della Psicologia dell’Io è che gli esseri umani patologici hanno un problema d’integrazione dell’Io. Ritorno a Cartesio,
le persone sane di mente pensano e hanno sensazioni corrette. La psicoterapia consiste nel liberare l’Io dalle sue debolezze, di ripararne la struttura
deficitaria, di rettificare la personalità nevrotica.
La Psicologia dell’Io distingue due tipi di disordini mentali: le nevrosi e
le psicosi.
Nelle nevrosi, disturbi meno gravi, l’Io sarebbe debole, incapace di integrarsi pienamente nella società, nelle psicosi l’Io sarebbe distrutto, definitivamente deficitario, incurabile. Molti psicoanalisti appartenenti a quest’area sostengono che la psicoanalisi è inadatta agli psicotici, altri ritengono
che sia possibile un intervento terapeutico, ma con riserva e con l’impossibilità di raggiungere risultati certi e definitivi, tutt’al più per creare equilibri provvisori. Il lavoro di riparazione si svolge nell’istituto manicomiale,
su ciò nessuna discussione.
Da dove viene questa partizione nevrosi/psicosi, tanto cara a questi psicoanalisti e a molti psichiatri dell’epoca?
Il temine nevrosi viene introdotto, nel secolo diciottesimo, dal medico
scozzese William Cullen (1710-1790). Egli ritiene che l’energia nervosa
sostenga la vita e che le turbe nevrotiche siano legate a iperstimolazione
sensoriale, dai nervi periferici al sistema muscolare, producendo ipersensibilità. I nevrotici dell’Ottocento sono prevalentemente esponenti di classi
sociali nobili o elevate che, di tanto in tanto, si recano presso località termali a curarsi. La nevrosi sembra una sorta di disagio esistenziale adatto ai
ricchi. Le nevrosi accompagnano l’epoca romantica e vengono descritte
nei romanzi ottocenteschi, si pensi a Cime tempestose di Emily Brontë, Il
rosso e il nero di Stendhal, Madame Bovary di Flaubert.
Il termine psicosi, più tardo, viene introdotto da Ernst von Feuchtersleben (1806-1849) per indicare la follia vera e propria. Già allora egli descrive la follia nei termini in cui oggi la psichiatria biologica descrive la schizofrenia: disturbi del pensiero, sintomi positivi e negativi.
A questa partizione manualistica nevrosi/psicosi risponde la collocazione dell’autismo.
Demenza II
135
Mentre l’opinione e l’esperienza di Asperger rimangono ignorate, l’autismo è considerato per anni schizofrenia infantile, psicosi. Solo a partire
dagli anni Settanta si comincia a definire l’autismo disordine dello sviluppo infantile.
Oggi si parla di spettro autistico, viene voglia di parafrasare quella frase: “Uno spettro s’aggira per il Mondo, questo spettro è l’autismo”. Da
qualche anno l’autismo non si sa più bene cosa sia, che non è un male. C’è
chi dice che colpisce una persona su diecimila, chi una su cento, chi dice
che tutti abbiamo un tocco d’autismo.
Abbandonate le teorie di colpevolizzazione delle madri, siamo passati
attraverso le pratiche di espiazione comportamentista. Oggi ci sono altre
teorie, più o meno accreditate.
Prima ipotesi (filosofica)
La teoria della mente richiede l’adesione filosofica a una sorta di neo-cartesianesimo. Se penso dunque sono, ho certezza dei miei pensieri, tuttavia
essi sono molteplici e si organizzano per moduli mentali specifici detti moduli di rappresentazione. I colori, le forme, i movimenti, lo spazio, il tempo,
ecc. hanno ognuno propri moduli di rappresentazione mentale, che funzionano più o meno correttamente. Tra i diversi moduli di rappresentazione mentale ce n’è uno che rappresenta la rappresentazione mentale altrui. Un modulo che permetterebbe di fare ipotesi su cosa passa per la mente dell’altro
quando piange, ride, o sorride, ecc.. Per esempio, se vedo qualcuno piangere, mi rappresento il suo stato d’animo e penso che stia soffrendo.
Secondo questa filosofia le persone autistiche sarebbero deficitarie di
questo modulo, il modulo di rappresentazione di come gli altri si rappresentano il mondo. Si tratterebbe di una sorta di deficit cognitivo relativo a
un ambito specifico, che non comporta necessariamente un ritardo mentale. L’autistico è quel bambino che, vedendomi piangere, nota gocce d’acqua che scendono dalle mie guance e magari pensa al tasso di cloruro di sodio contenuto nel liquido lacrimale di quelle gocce.
Un noto esperimento per dimostrare che i bambini autistici non hanno una teoria della mente relazionale consiste nel presentare alcune vignette di due bambine in una stanza. Una delle due gioca con una bambola, che poi ripone in una
scatola ai suoi piedi ed esce dalla stanza. L’altra bambina, in assenza della prima,
prende la bambola dalla scatola e la sposta in un’altra scatola che le sta vicino. La
domanda è: dove cerca la bambola la bambina che è uscita quando rientra?
136
La follia rivisitata
Sembra che i bambini autistici tendano a rispondere che la bambina cerca la
bambola nella scatola dove l’altra bambina l’ha riposta. Per i teorici della mente ciò mostrerebbe che il soggetto autistico commette una fallacia, non possiede il modulo di rappresentazione mentale della mente altrui.
Tuttavia, se s’interrogassero altri bambini su come mai uno di loro ha risposto che la bambina va a cercare la bambola nell’altra scatola, si avrebbero forse risposte che i teorici della mente non prevedono:
- le due bambine si conoscono e l’una sa che l’altra si appropria sempre della
sue cose;
- è come nel gioco dei sassolini, non vai mica sempre a dire che il sassolino
sta nella stessa mano, bisogna cambiare;
- la bambina che rientra non ricorda esattamente dove ha riposto la bambola;
- lei lo sa, è telepatica;
- le scatole sono uguali, potrebbe essersi confusa;
- le bambole hanno un odore speciale, lei sente l’odore.
Se un bimbo o una bimba autistica risponde così al test della bambolina
è forse per via del fatto che ha capacità intuitive che i logici non possiedono. Le stesse che permettono ad alcune persone autistiche di contare in pochi secondi i fiammiferi caduti per terra, di suonare il piano come Glenn
Gould, di affrontare questioni matematiche ipercomplesse, ecc. Nel migliore dei casi questa teoria andrebbe verso l’ipotesi che l’autismo, almeno
ai suoi gradi più alti, sarebbe un disturbo specifico dell’apprendimento.
Seconda ipotesi (neurologica)
C’è una seconda ipotesi neurologica che riguarda l’attivazione di sistemi di neuroni specchio. Si tratterebbe di neuroni che si attivano nelle medesime aree del cervello, sia in chi è intento in un’azione, sia in chi è attento all’azione dell’altro. Da studi più recenti, questa osservazione è stata
estesa anche alle aree relative al linguaggio. Le persone autistiche avrebbero un deficit di attivazione di neuroni specchio. I sistemi di neuroni che dovrebbero attivarsi nell’osservazione di un altro che compie un gesto o parla, si attiverebbero meno o per nulla. Il deficit di neuroni specchio, o la loro
mancata attivazione, produrrebbero condotte autistiche.
Entrambe le ipotesi, la teoria della mente e l’applicazione delle ricerche sui
neuroni specchio all’autismo, sono deficitarie. Quando Asperger definisce i
propri pazienti piccoli professori, si riferisce a competenze straordinarie.
Demenza II
137
Terza ipotesi (inclusiva)
Più convincente è la teoria della rilevanza. Perché si possa dimostrare la
scarsa presenza di neuroni specchio, bisogna anzitutto provare che il soggetto presta attenzione ai gesti o alle frasi dell’altro nel momento in cui la
rilevazione viene fatta. Le persone autistiche non danno spesso rilevanza a
ciò che le persone neurotipiche (così vengono definiti i normodotati) sembrano considerare importante. Questione di sensibilità estetica: si tratta di
direzionare l’attenzione su una cosa, esterna o mentale, per farla uscire dallo sfondo e creare una Gestalt.
Avere uno sguardo estetico sul mondo significa attraversare tre processi: a) separare la cosa dallo sfondo, b) darle una consistenza propria, c) farla emergere nel campo di attenzione. Questa procedura percettivo/estetica
sembra riattivarsi continuamente per una differente tendenza a dare per
scontate le premesse socialmente riconosciute dai neurotipici. L’autistico
potrebbe avere uno sguardo sul mondo molto più complesso, come Joyce
produce sempre nuove epifanie.
Daniele si concentra su una piuma che svolazza nel mio studio, se voglio entrare in relazione con Daniele, devo accorgermi che la piuma è il centro dell’attenzione, svolazza senza peso e si muove nello studio a mezz’aria, scende, poi
risale, come un parapendio, secondo i moti dell’aria, possiamo insieme soffiare verso la piuma, per vederne le circonvoluzioni, oggetto di un possibile studio pittorico oppure di un calcolo fisico/matematico intorno alle derivazioni
della piuma. Si tratta di entrare nel mondo di Daniele.
Ciò che ai più sembra informazione distinta dal rumore, per un soggetto
autistico viene capovolto. Immaginate di entrare in un’aula scolastica e
prestare attenzione al rumore lontano di un tagliaerba in azione nel giardino vicino: vi colpiscono le interruzioni del rumore, le variazioni di tono dovute agli spostamenti del tagliaerba, oppure alla maggiore o minore consistenza dell’erba da tagliare; potreste cominciare a distinguere, attraverso
quel rumore, se il tagliaerba è fermo oppure no, potreste correlare la velocità di movimento del tagliaerba con le variazioni del rumore, ecc. Ma in
classe l’insegnante sta parlando d’altro. È pure possibile che, attraverso un
altro canale attentivo, voi stiate ascoltando, in modo subliminale, anche le
informazioni dell’insegnante, ma apparite smarriti, come in cerca d’altro,
come se steste ascoltando le sirene di Ulisse.
Maggiore l’insistenza dell’insegnante a prestare attenzione, maggiori le
barriere che separano l’attenzione consapevole (i movimenti del tagliaerba)
da quella subliminale (l’attenzione per l’insegnante). Quando l’insegnante
138
La follia rivisitata
l’ha vinta, spostando l’attenzione sulla lezione, in due parole, gli dite ciò che
ha spiegato, lasciando tutti senza parole. Così gli altri giudicheranno straordinarie le vostre performance, che sono espresse attraverso altri canali.
Al contrario delle altre ipotesi, questa teoria non cerca le cause prime
dell’autismo, ma si limita a descrivere esperienze estetiche possibili, coglie
caratteristiche differenti, come nella prospettiva di Asperger. Si tratta d’imparare ciò che il singolo bambino privilegia e mette al centro delle proprie
attenzioni per seguirlo e accogliere le dimensioni estetiche di queste focalizzazioni, il lavoro terapeutico dovrebbe assumere sensibilità estetica. La
famiglia del bambino, come anche il sistema scolastico, potrebbero collaborare, non in senso correttivo e controllante, ma nel cogliere tendenze artistiche, matematiche, musicali, ecc.
Non tutti i bambini autistici sono intellettualmente dotati o geniali, molti di loro hanno performance normali, altri hanno anche ritardi cognitivi o
linguistici, forse a Kanner capitò di vedere solo questi bambini autistici.
Tuttavia la prospettiva di Asperger, conosciuta a partire dagli anni Novanta, ha dato vita a nuovi studi, a nuove ricerche e soprattutto a un meccanismo identitario da parte di adulti con sindrome di Asperger, che da tempo
rivendicano la loro neurodiversità non come un deficit, ma come una condizione esistenziale differente.
Nuove identità
Da alcuni anni gli adulti autistici si inseriscono negli orizzonti culturali
della società per parlare della sindrome dal loro punto di vista. La prima è
Temple Grandin27. Oliver Sacks28 le dedica il titolo di uno dei sui libri, Un
antropologo su Marte, dove la intervista, dando voce per la prima volta al
punto di vista autistico. Col tempo gli autistici rivelano che la patologia è
soprattutto della società escludente.
Bisogna capovolgere il punto di vista, le barriere sono sociali, non mentali.
Come insegna Martha Nussbaum29, una società giusta si nota a partire dalle sue
capacità inclusive, non dalle riparazioni compensative di ingiustizie.
27
28
29
Grandin, T. et al., Pensare per immagini, Trento, Erickson, 2006 e Grandin, T. et
al., The Autistic Brain, Thinking across the Spectrum, Orlando, FL, 2013.
Sacks, O., Un antropologo su Marte, Milano, Adephi, 1995.
Nussbaum, M.C., Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership, Harvard University Press, 2009.
Demenza II
139
Il termine neurodiversità è usato per la prima volta verso la fine degli
anni Novanta dalla sociologa australiana Judy Singer30. Viene fondato un
movimento identitario, enfatizzando che il termine neurodiversità altro
non è che una variazione del termine biodiversità. Molti adulti autistici
sono coinvolti in questo tentativo di spiegare la neurodiversità, fenomeno
affascinante, che scopre, anche per i neurotipici, orizzonti conoscitivi e rivaluta capacità telepatiche, anziché deficit rappresentazionali.
Ecco perché il movimento di neurodiversità propone la diagnosi di neurotipicità. Nascono nuove definizioni, questa volta i termini si capovolgono, non abbiamo modo di preoccuparci, almeno finché la parola neurotipico non verrà trasformata in insulto. Per ora ricordiamo gli insulti
dominanti: idiota, imbecille, deficiente, cretino, invertito, pervertito, isterico, degenerato, mongoloide. Termini che chi ha curato i matti ha usato
troppo spesso, scienza dell’insulto.
Gli autistici hanno diritto a ricevere un’educazione non invasiva, a non
essere trattati come deficitari e ad avere riconosciuta la propria teoria della mente, di sondare le proprie risorse e pensare al proprio futuro, di poter
scegliere, come gli altri, se fare o meno una psicoterapia senza forzature né
nel senso dell’obbligo, né in quello del divieto.
Lo sguardo dell’altro ha un impatto sugli sviluppi dell’autismo, come
accade nei casi di Itard con Victor e dei bambini di Asperger. L’autismo dei
casi più difficili richiede maggiore attenzione, maggiore creatività nel costruire la relazione.
Nell’ordine discorsivo diagnostico più recente l’autismo mostra una
profonda metamorfosi. Nelle prime edizioni manualistiche l’autismo è
considerato una schizofrenia a insorgenza infantile, poi l’autismo diventa
un disturbo generalizzato delle sviluppo. Il significante autismo non muta,
muta il sistema di significati che indica il termine. Come avviene nella metafora della malattia, lo strascico del significante antecedente permane
come un’ombra e continua a infestare la nuova visione in modo inquietante. Le azioni terapeutiche aggressive e salvifiche, promesse da numerosi
gruppi comportamentisti, cercano di convincere i genitori e le istituzioni di
avere la giusta visione etiologica e terapeutica del problema, come se etiologia e terapia fossero necessariamente collegate. Fino al 1980, nel più importante manuale diagnostico autismo è sinonimo di schizofrenia infantile
30
Si veda il sito: http://neurodiversity.com/main.html per un commento critico al
movimento neurodiversity si veda Ortega, F., Il soggetto cerebrale e la sfida della neurodiversità, in Barbetta, P., a cura di, L’avventura delle differenze, Napoli,
Liguori, 2012.
140
La follia rivisitata
e proprio in quegli anni di dominio della Ego-Psychology americana in psichiatria, Kanner e Bettelheim coniavano termini come madre frigorifero e
parentoctomia, contro le madri e le famiglie dei bambini autistici. È una
posizione che tutt’ora, sebbene sommessamente, alligna tra alcuni dei sostenitori delle teorie dell’attaccamento31. È ancora diffusa l’idea che bambini sottoposti a forme di attaccamento evitante o disorganizzato siano a rischio di autismo.
Bateson definisce questo modo di ragionare: patologia dell’epistemologia. Entrate in crisi negli anni Settanta, queste concezioni stanno riprendendo terreno in virtù dell’impoverimento culturale dei programmi universitari dei corsi di psicologia e di psichiatria, dove questa roba viene
spacciata per psicoanalisi; i primi quasi interamente viziati da un cognitivismo riduzionista, che sposa una psicoanalisi fondata sul concetto di funzione dell’Io; i secondi quasi interamente dedicati allo studio dell’influenza
farmacologica sui neurotrasmettitori. Si formano così psichiatri e psichiatri infantili distributori e dosatori di farmaci e psicologi cognitivo-comportamentali che collaborano con questi psichiatri nel lavoro di eliminazione
dei sintomi allo scopo di rendere il soggetto normale.
L’autismo ha sempre messo i bastoni tra le ruote a queste epistemologie
lineari. Intrattabile farmacologicamente, costringe gli estensori del DSM a
toglierlo dal capitolo psicosi; l’autismo si mostra anche ineducabile, mostra che i trattamenti all’insegna della parentoctomia peggiorano drammaticamente la situazione. Interventi pseudo-clinici, compresi i moderni trattamenti educativi di taglio comportamentista, ottengono prevalentemente
risultati iatrogeni. Purtroppo si attaccano a genitori che, nella speranza di
normalizzare il figlio autistico, sono disposti ad affidarsi a chiunque faccia
promesse di guarigione: come dar loro torto in un mondo sanitarizzato.
Nella terapia con le famiglie con un figlio autistico cerco di affrontare il
dialogo sul futuro, sulle potenzialità del bambino. La famiglia è una risorsa,
la più importante, per favorire l’inclusività del soggetto nella relazione con
gli altri. Rispettare l’esistenza autistica, anche quella più marcata dai silenzi,
da un dominio del corpo automatico, ripetitivo, a tratti meccanico, cercare la
presenza autistica là dove sta, non in un altrove immaginario, annodare le fila
di uno slegame costitutivo e radicale, come nei casi più marcati. Imparare,
ove c’è maggiore apertura, i percorsi intuitivi dell’autismo, le esperienze
estetico/percettive, le forme dell’attenzione, è compito di ogni terapeuta che
31
Si veda il recente libro di Mary Main che insiste sull’autismo come conseguenza
dell’attaccamento evitante o di quello disorganizzato. Main, M., L’attaccamento,
dal comportamento alla rappresentazione, Milano, Raffaello Cortina, 2008.
Demenza II
141
non si presenti come esperto, come soggetto supposto sapere, che smaghi le
sue competenze e le renda singolari, gestuali, curiose.
Molte testimonianze di persone autistiche raccontano di essere state legate, costrette a guardare negli occhi l’istruttore, allontanate dai genitori, di
avere subito accanimento terapeutico o pedagogico senza neppure venire
interpellate. Queste vessazioni, ammantate di metodo, sembrano non avere
altro giovamento che cambiamento comportamentale, assoggettamento,
docilizzazione. Eppure l’accanimento continua per anni, da anni domina la
scena pedagogico/sanitaria.
La significazione autistica oggi costringe a rimettere in questione la teoria dell’informazione nei termini di unità univoche e prestabilite da trasmettere da un emittente a un ricevente.
È vero che questa teoria rileva la necessità di una ridondanza al fine di
trasmettere l’intera informazione dall’emittente al ricevente, a fronte di un
rumore che tende a disperdere il messaggio.
Tuttavia l’autismo ci interroga su questa necessità di trasmissione integrale,
su chi decide, e come si stabilisce che “questo è informazione/questo rumore”.
Ci interroga sui processi comunicativi autoritari. Ci propone un’equivocità in
cui al posto di unità d’informazione compatte e predefinite, si rimette in questione il significato, si riapre il colloquio con il rumore, che contiene tesori e rivelazioni inattese. Fa riemergere l’inconscio come insiemi infiniti. Così potremo rileggere le cartelle cliniche degli idioti e delle idiote di San Clemente32, o
qualsiasi altro luogo, capovolgendo l’interpretazione, osservandoli con ammirazione e i loro curanti come scienziati ottusi e alienati, del tutto incapaci a cogliere i segreti di una relazione, perdutamente assoggettati al dispositivo psichiatrico dominante. Lo spettro autistico, come il fantasma dell’opera, vive un
po’ al di sotto e un po’ al di sopra del palcoscenico.
La malattia di Alzheimer come metafora, da Wiesel alla danza
Finora abbiamo parlato sopratutto di bambini, ma, tra le demenze, dobbiamo trattare anche di adulti, adulti e anziani. La storia della schizofrenia
ha un antecedente immediato nella malattia di Alzheimer. Il medico lo conosciamo dal nome della malattia. Gli esordi non sono incoraggianti, presenta i risultati delle sue ricerche durante un congresso a Tubinga, nel
1907, ma il dibattito, presente Jung, è tutto imperniato sulla nascente psicoanalisi. Così Alzheimer rimane, per un po’, quasi ignorato.
32
Russo, C., et al., op. cit.
142
La follia rivisitata
Alois Alzheimer33 (1874-1915) segue una paziente che, dal punto di vista clinico, presenta una perdita progressiva di competenze nella conversazione. Auguste Deter (1850-1906) è la prima persona cui viene diagnosticata una nuova demenza organica e progressiva.
I colloqui – trascritti, analizzati e rianalizzati da Alzheimer – mostrano
il mistero di questa forma di demenza:
“Quando si è sposata?”
“Al momento non lo so; la signora abita nello stesso corridoio.”
“Quale signora?”
“La signora dove abitiamo”. Adesso chiama ad alta voce: “Signora Hensler,
Signora Hensler, Signora Hensler... abita qui un gradino sotto.”34
Le domande di Alzheimer sono eluse, ma le risposte di Auguste Deter
non rimangono insoddisfatte, hanno effetto. La malattia produce discorsi
strani, che, a orecchie familiari, assumono qualche senso. Si tratta di una
frammentazione della catena espressiva che mostra le vestigia del passato,
benché dislocate altrove. Un po’ come in un museo che raccoglie le razzie
di qualche impero sradicando le memorie dai loro luoghi, senza una guida
competente non ci si raccapezza. Uguale per la malattia di Alzheimer, dove
la guida competente è un parente, un amico, un conoscente. Alzheimer mostra la presenza del passato nella demenza. Come nello smantellamento di
una scena teatrale, il mondo sfuma progressivamente davanti agli occhi di
Auguste Deter e Alzheimer registra meticolosamente questa dissolvenza.
Non c’è dubbio che Alzheimer sia uno scrupoloso scienziato da microscopio, tuttavia, ancora giovane, è assunto presso una clinica denominata
Campo della roccia della scimmia, per via della sua collocazione, voluta e
progettata da Heinrich Hoffmann (1809-1894).
Hoffmann è l’autore di una novella illustrata per bambini, Pierino Porcospino35. Citata a più riprese da Adorno nei Minima moralia, Struwwelpeter (Pierino porcospino) è romanzo di formazione infantile della cultura
popolare tedesca, pilastro del carattere nazionale, insegna la crudeltà che si
può subire quando si trasgredisce una regola. In netto contrasto con quest’opera, Hoffmann è il primo a introdurre in Germania il no restraint negli
33
34
35
Maurer K., Maurer U., Alzheimer, la vita di un medico, la carriera di una malattia, Roma, Manifestolibri. Si veda anche Borri, M., Storia della malattia di Alzheimer, Bologna, Il Mulino.
Alzheimer, 28 novembre 1901, in Maurer, op.cit., p. 17.
Hoffman H., Der Struwwelpeter, Köln, Schwager und Steinlein, 2007.
Demenza II
143
ospedali psichiatrici. Elimina ogni contenimento della libertà – camici di
forza, brande di contenzione, misure violente e coercitive – dalle pratiche
sanitarie a partire da metà Ottocento. Il nome dell’ospedale che Hoffmann
progetta, pensando alla massima libertà per pazienti e operatori, è Campo
della roccia della scimmia, un che d’ironico, sottrazione del quid terribile,
inguaribile e catastrofico alla metafora della malattia mentale.
Hoffmann cerca un’architettura diversa, un luogo per le persone che ci
abitano (pazienti, infermieri, medici), perché possano vivere serenamente,
gioire di attività artistiche, culturali, manuali, senza forzature. Ambiente
curativo, non repressivo. Quando Alzheimer giunge a Francoforte, il direttore, Emil Sioli (1852-1922), accoglie con fiducia il nuovo medico. Con
Sioli il no restraint si amplia ulteriormente; Alzheimer aiuta Sioli a ripensare nuove forme di organizzazione degli spazi e delle attività per allargare ancor di più il clima di libertà.
Nasce una tradizione neurologica estranea e antagonista ai modelli di
contenzione psichiatrica.
Cura e guarigione non sono la stessa cosa e talvolta il bisogno di guarigione si contrappone alla cura. Quanto più la malattia è incurabile, tanto
maggiore la sua potenza metaforica, lo sconforto che produce, la sua gravità, tanto maggiore l’accanimento terapeutico. Ebbene Alzheimer, come
buona parte della tradizione neurologica – basti pensare a figure come
Goldstein, Lurija e Oliver Sacks – sa distinguere la cura e l’osservazione
clinica dall’accanimento terapeutico. Così non accade alla schizofrenia.
Il suo male ha un nome, ma lui si rifiuta di sentirlo. Non vuole che lo si pronunci in sua presenza. Si direbbe che gli faccia paura. Come se trascinasse sulla propria scia un corteo di fantasmi senz’anima e senza volto. Così Elie Wiesel descrive la malattia nel romanzo L’oblio. Un uomo, un ebreo di New York,
Elhanan, padre del giornalista Malkiel, si accorge di avere la malattia durante
una passeggiata col figlio. Qualcuno gli rivolge un saluto, lui sa di conoscere la
persona, ma il nome gli sfugge. Poi ricorda, d’un tratto. Il figlio lo conforta,
senza successo: “Sono colpevole... Ecco perché vengo punito... Come il figlio
di Abuja, ho guardato dove non bisognava... Ho visto compiersi un peccato...
un delitto... Avrei potuto, avrei dovuto agire, gridare, urlare, picchiare... Ho dimenticato i nostri precetti e le nostre leggi che impongono all’individuo di
combattere il male non appena esso appare... Ho dimenticato che non si deve
mai rimanere spettatori...”
Imparare da anziani è come mangiare uva matura, oppure è come scrivere
con inchiostro su carta cancellata. La malattia avanza e Elhanan si protegge
dall’oblio attraverso la relazione con Malkiel. Tuttavia, anziché chiedergli di rimanere accanto a lui, gli chiede di andare lontano, presso un villaggio, dove
sono seppelliti gli antenati. Il ricordo di ciò ch’è stato dei suoi antenati prima
144
La follia rivisitata
della Shoah ricostruisce la memoria collettiva. Segna una conquista sociale sulla demenza individuale. Così Malkiel raggiunge il villaggio e si trova davanti a
una tomba che porta il suo nome, come dinanzi alla sua morte. Il nome del nonno, scritto sulla tomba inclinata: Malkiel ben Elhanan Rosenbaum, è il suo stesso nome. Sono già morto? Perché sono qui? “Sono qui per ricordarmi di ciò che
mio padre ha dimenticato.”36
Nel Novantotto fui invitato a partecipare a un progetto europeo tra università diverse. Tutti avevamo letto L’oblio di Wiesel. Cercammo di organizzare, presso alcuni luoghi per anziani, gruppi familiari che ascoltassero,
dai nonni, ricordi e memorie. Si pensava che figli e nipoti avrebbero potuto sentire le storie delle loro origini, episodi riferiti a prima della nascita.
Non si trovarono fondi. Il progetto era superfluo per la comunità europea,
intenta a prodigare fondi per la ricerca farmaceutica, il necessario per
l’Alzheimer era la farmacologia. Di questa vicenda mi resta il ricordo di
una tesi scritta dall’assistente sociale Loretta Silvestrini, La malattia di
Alzheimer come metafora37, sulla scorta dell’opera di Susan Sontag38, dalla quale prende spunto per una lettura sociologica della demenza.
Il superfluo sarebbe stato annodare il legame affettivo al ricordo lontano, frammentario, opaco, di una donna o un uomo; perché una cosa bella è
una gioia per sempre (Keats).
Poi osservai un video in cui la regista Silvia Briozzo conduceva un gruppo di pazienti con la malattia di Alzheimer. Salone, il video emana una musica d’altri tempi, a volume moderato, le persone sorridono. Slow fox trot,
walzer lento, milonga, lento. Personale sanitario con sguardo imbarazzato,
fuori ruolo. Le attrici invitano a danzare; donne e uomini accettano, altri si
alzano e danzano soli, s’invitano tra loro. Qualcuno se ne va. Il personale
non danza, non sa come muoversi, alcuni seguono chi se ne va. Si pensa
che serva a poco. Finito, tutti dimenticano l’accaduto e riprendono a condursi come prima, nessun risultato.
Alois Alzheimer non avrebbe reagito così, avrebbe compreso che la sfida della malattia non sta nell’impossibilità di guarirla, che tutto il resto è
contenimento: mangiare, dormire, prendere le medicine. La sfida sta nel viverla, nel darle un senso. Il senso della malattia di Elhanan, l’uomo del romanzo di Wiesel, è il recupero della memoria del popolo ebreo attraverso
il figlio Malkiel, che gli sopravvivrà, che ricorderà il nome dei suoi antena36
37
38
Wiesel, E., L’oblio, Milano, Bompiani, 1991.
Silvestrini, L., La malattia di Alzheimer come metafora, Tesi di Laurea in Servizio Sociale, Università Ca’ Foscari, Venezia, 1999.
Sontag, S., La malattia come metafora, Torino, Einaudi, 1992.
Demenza II
145
ti, la storia del suo popolo, il dettaglio di quella famiglia. Microstoria che
compone il tutto in ciò che non si può dimenticare.
Alzheimer, la persona, non è il Golem di una malattia terribile. Piuttosto
è un medico che ha saputo coniugare scienza e fenomenologia, studio dei
tessuti e accesso al mondo di Auguste Deter, in un orizzonte di libertà e rispetto.
147
V.
ISTERIE
Prima parte. La clinica dell’isteria
Isteria/ipocondria
In questo capitolo descriverò l’isteria per differenze. Abbiamo bisogno
di sapere se prendere posizione per l’isteria come disordine a sé stante,
prendere posizione in rapporto all’isteria. Per una ricostruzione storica dei
percorsi e dei linguaggi dell’isteria, rimando il lettore a due miei lavori: il
capitolo “Isteria” in Figure della relazione, che verrà ripreso nella seconda
parte di questo capitolo, e il libro I linguaggi dell’isteria1.
Spesso l’isteria – cancellata dai manuali dalla seconda metà del secolo
scorso – si accompagna a categorie diagnostiche che hanno preso parzialmente il suo posto perché le somigliano, ma sono diverse, oppure sono sintomi dell’isteria, manifestazioni parziali, come gli attacchi di panico, le
dissociazioni, le conversioni, i disturbi definiti “fittizi”, l’istrionismo e certe forme di anoressia.
Si tratta di capire se queste differenze creino nuove categorie, oppure siano varianti del medesimo; attributi dell’isteria oppure forme diverse benché apparentemente simili. Il lettore avrà ormai compreso che questa affermazione non si riferisce alla cosa in sé dell’isteria, ma al modo di
catalogarla, di produrre discorsi su di essa.
La prima coppia che si presenta è quella che anche Foucault2 menziona:
“La coppia isteria/ipocondria”. L’ipocondria è un disordine dell’immaginazione che può trasformarsi in delirio. Immagino di avere una o più malattie, più o meno gravi. Ciò mi sorprende a pensarci, a distrarmi dalle mie
attività, mi sveglia di notte, mi assale. La reazione è angosciosa, di panico,
mi porta a chiedere continui controlli medici, oppure, al contrario, a evitare qualsiasi esame, terrorizzato dagli esiti. Mi può condurre alla convinzio1
2
Barbetta, P., Figure della relazione, Pisa, ETS, 2007; Barbetta P., I linguaggi
dell’isteria, Milano, Mondadori Università, 2010.
Foucault, M., Storia della follia nell’età classica, Nuova edizione a cura di Galzigna, M., Milano, Bur, 2011, pp. 415-439.
148
La follia rivisitata
ne, che nessuno può sradicare, di avere una specifica malattia, ben definita, oppure di avere una malattia organica grave che nessun ospedale riesce
a riscontrare, tantomeno a guarire. A volte si tratta di un delirio somatico:
accuso dolori, noto gonfiori, provo irritazioni alla gola, osservo macchie
che nessuno vede all’infuori di me, macchie che compaiono e scompaiono:
ipocondria. Quali punti comuni, quali differenze con l’isteria?
Secondo Foucault la questione isteria/ipocondria pone due problemi:
1) In che misura è legittimo trattarle come malattie mentali, o almeno come
forme della follia?
2) È possibile trattarle assieme, come se formassero una coppia virtuale, simile a quella formata molto presto dalla mania e dalla malinconia? (SF, p. 415)
Queste domande riassumono un dibattito ampio sul tema, tra chi, come
William Cullen, Linneo e Thomas Willis propendono per una separazione
di specie (ipocondria come debolezza fisiologica, isteria come spasmi convulsivi) e chi, come Richard Blackmore e Robert Whytt ritengono le due
forme come “varietà di un’unica affezione” (SF, p. 417). Invero sembra
trattarsi di una svolta di significazione tra i trattatisti del diciassettesimo secolo (Cullen, Linneo e Willis) e quelli del successivo (Blackmore e Whytt).
Se l’isteria è una malattia organica senza causa3, l’ipocondria è preoccupazione, angoscia, delirio, di avere una malattia organica. Il più delle volte l’infermità, il dolore, il sintomo si sposta nel corpo, viaggia, trasloca, questo è comune all’isteria. Tuttavia l’isteria si manifesta come malattia evidente,
accompagnata dalla belle indifferénce della persona, mentre l’ipocondria assume l’aspetto di manifestazione sintomatica ancora da codificare in un discorso
diagnostico chiaro. I sintomi oscuri dell’ipocondria si giustappongono ai sintomi chiari e distinti dell’isteria. Nell’isteria il campo della psiche è rimosso, rimane esoterico rispetto alle manifestazioni essoteriche di una sintomatologia
che attende solo di venire diagnosticata, si rimane dentro a un immaginario che
sfida il biologico al punto da rendere il medico incredulo, un’evidenza senza riscontri. Nell’ipocondria la preoccupazione, che si trasforma in angoscia e poi
in delirio somatico, è significata da sintomi che difficilmente si trasformano in
segni di una configurazione diagnostica chiara. Questo oscuro oggetto del desiderio di malattia e di morte, al contrario della belle indifférence isterica, può
giungere a scatenare fantasmi psicotici devastanti.
L’isteria si mostra subito, è evidente, teatrale. L’ipocondria può rimanere nascosta per anni. Alle prime sedute è imperscrutabile, ci vuol tempo prima che
3
Barbetta, P., Figure della relazione, cfr. Capitolo “Isteria”, Pisa, ETS, 2007.
Isterie
149
salti fuori. Negli stadi avanzati, per l’ipocondriaco si tratta di essere-per-lamorte, la morte è costantemente anticipata nella forma sintomatica che la precede in una concatenazione sintomo-segno-diagnosi-malattia-aggravamentomorte. Ma la catena s’interrompe costantemente sul tratto segno-diagnosi. Il
medico diventa il partner di questa concatenazione. Non è importante che confermi o neghi quella specifica forma patologica, si può sempre sbagliare, oppure si può sempre trattare di malattia altra, in genere più grave.
Se non si capisce la significazione ipocondriaca, che in forma lieve è presente in ognuno, non si capisce la comunicazione medico-paziente, si ipotizza un
paziente attore razionale, mente calcolante. Il cognitivismo è lì apposta a dimostrare i deficit emotivo/cognitivi del paziente. Tuttavia nessuno, quando il proprio corpo è a rischio, è attore razionale. Siamo tutti ipocondriaci. Nello stesso
tempo l’ipocondriaco vero porta questi sentimenti al limite.
Per questo la filosofia di Heidegger – che balbetta in relazione all’isteria, forma dell’inautenticità – potrebbe essere descritta come lo stato di autenticità dell’ipocondria: la sua ontologia ha una ricaduta ontica nel desiderio ipocondriaco per-la-morte.
Al contrario, nell’ipocondria bisogna trasformare l’esser-per-la-morte in
esser-per-la-vita. Sia nella versione del superamento dell’angoscia della
nascita, come descritta da Melanie Klein nel passaggio oltre la posizione
schizoparanoide, sia nella versione arendtiana della vita activa come condizione umana.
Il caso Ellen West – che contiene questa angoscia ipocondriaca – mostra
la traiettoria mortifera della filosofia heideggeriana nel momento in cui il
suicidio viene considerato un gesto di liberazione, un esser-per-la-morte.
Ellen West fu l’errore di Binswanger e di quella psichiatria fenomenologica che trae ispirazione da Heidegger: il suo suicidio. Lontano dall’essere
un gesto di liberazione, fu il risultato di un disperato accanimento terapeutico, di una reclusione forzata durata per anni. Piuttosto che a Heidegger,
Binswanger avrebbe dovuto, in questo caso, rivolgere le sue attenzioni alle
opere di Husserl, Jaspers, Sartre e Merleau-Ponty. In questi autori, al di là
delle differenze, la fenomenologia rimane una riflessione sul corpo vivente, sul principio di speranza e sulla possibilità di avere accesso a mondi vitali differenti nella vita quotidiana (Husserl), nella nevrosi (Sartre), nelle
psicosi (Jaspers) e nelle condizioni neurolese (Merleu-Ponty).
Nella storia clinica che mi appresto a raccontare la presenza filosofica
assume grande rilievo, si tratta, in fondo, di una ripetizione di Ellen West,
ma con esiti differenti.
150
La follia rivisitata
L’ipocondria intellettuale
Martina è una giovane neolaureata in filosofia. Si presenta alle prime sedute con lo sguardo perso nel vuoto, laconica, fatica a raccontare, come non avesse di che cominciare per costruire la trama: parto dall’inizio? Dalla fine? Racconto ciò che mi sta accadendo ora? E in questo caso, da quale aspetto della
mia vita adesso? Il ragazzo, la famiglia, gli studi, le prospettive future, i miei
sintomi?
Martina ha studiato Lacan, Heidegger, Binswanger, Adorno, la Fenomenologia dello Spirito, ecc. Tutto questo sembra averla resa ancor più confusa su
come partire. Se parla dei sintomi non va bene, della famiglia, neppure, del desiderio, non sa dove sta, dell’esistenza, è un disastro. Ne ha piene le scatole di
queste letture, per reazione vorrebbe chiedermi: “Che cosa mi consiglia? Cosa
devo fare?”. Non ne può più delle frasi fatte: “Non esitare di fronte al tuo desiderio!”, “La malattia è una condizione esistenziale”, “Allarga il campo delle
tue scelte possibili!”.
Tutto per lei è passato per via cognitiva, le sa tutte. Ma, come spesso accade
agli intellettuali, ha paura dei propri sentimenti. L’unica sensazione è tenerli sotto controllo attraverso il pensiero; più il pensiero è sofisticato, più la lettura dei
suoi sintomi è raffinata, corretta, sfumata, più Martina sta male.
I primi racconti, dopo alcune sedute di attesa, riguardano la condizione sociale. Su questo lemma ci incontriamo. Martina viene da una famiglia in cui il
padre, la madre e il fratello maggiore sono operai di fabbrica. Nessuno in famiglia è andato oltre la terza media, tranne lei. Lei era quella che studiava a ogni
costo, come il Garrone di De Amicis. Benché Martina sia alta, slanciata, avvenente, in casa è ancora la piccola studiosa.
Quando Martina si iscrive al classico trova un muro di pregiudizi nascosti,
sfumature; espressi chiaramente potrebbero voler dire: “Come osa una figlia di
operai?”. Così più che mai oggi, quando le teorie di Ilich, Gramsci, Don Milani
e le ricerche di Bernstein e Bourdieu sono state definitivamente spazzate via dalla revanche educativa neo-liberista. A metà anno, si sposta al socio-pedagogico,
canale dove vengono immesse le figlie studiose della classe operaia in questa
bella società “aperta” ch’è l’Europa. Esce con il massimo dei voti e s’iscrive alla
Statale di Milano, sancta sanctorum del rigore. All’esame di storia della filosofia si trova di fronte a un’ostinazione intollerabile di rigore, senza metafore, né
allusioni, solo precisazioni ossessive. Lo supera, prende trenta, ma si trasferisce
a Bologna, poi Erasmus in Francia e Scozia. Laurea cum laude.
Già verso la fine degli studi, durante il soggiorno a Edimburgo, inizia ad avere disturbi di stomaco, a chiamare i genitori più spesso, a farsi visitare dai medici scozzesi, benché gli esami che le vengono prescritti non diano alcun risultato
chiaro. Martina pensa di avere una malattia grave, decide di rientrare in Italia.
Passano alcuni mesi in cui altre analisi mediche non danno risultati ed escludono malattie. Martina si laurea a Bologna, poi rientra a vivere in famiglia.
Le sembra di vedere alcune macchie rosse sulla pelle, pensa che potrebbe
essere una malattia rara, si sottopone ad altri esami, nel frattempo inizia a sof-
Isterie
151
frire di cefalea, nuovi esami, finché, parlando con il professore con cui si è laureata, pensa alla psicoterapia. Questo professore ricorre nelle nostre conversazioni, è un punto di riferimento, le propone anche di provare un dottorato
all’estero. Martina pensa che lui la sopravvaluti, lei sta “davvero male”. Ogni
volta, per ogni segno sulla pelle, per ogni mancata digestione, per ogni notte insonne da mal di testa, per ogni crampo, per ogni sensazione di avere gli “spilli
nelle braccia”, per ogni esaustione Martina sente di dover abbandonare. Nello
stesso tempo è convinta di essere sleale verso la famiglia: “Si sono svenati per
permettermi di studiare, dovrei esser loro grata, ora con la laurea, sono l’unica
disoccupata in casa”, invero il padre non manca di farle presente che dovrebbe
cercare di guadagnare qualcosa, andare a lavorare, dopo tutto.
La seconda fase di terapia è la più difficile. Martina, dopo avere descritto i
suoi problemi, entra in un periodo di esaustione che si porta dietro, dentro la terapia: le sue paturnie. Mi dice che questa parola definisce molto bene la sua
condizione, l’ha trovata in un romanzo di Truman Capote. Le paturnie non
hanno niente a che fare col blues, non si sente depressa, benché durante le sedute torni a essere laconica, con lo sguardo perso, come all’inizio. Così trascorre il primo anno di terapia, poi abbandona le sedute con la scusa di un viaggio
per fare la ragazza alla pari in Irlanda.
Passano sei mesi, richiama. Si presenta in forma di mesta disperazione, il
suo ragazzo se n’è andato a fare un dottorato in America Latina, l’ha lasciata.
Lei si dà la colpa. Dice che se n’è andato perché lei non si muove più, non fa
più niente, terrorizzata dai sintomi. Non va neppure più dal medico a farsi prescrivere esami, si vergogna, ma è convinta di avere una malattia mortale, non
c’è più Heidegger che tenga, tutti i mezzi dell’intellettualizzazione sono caduti, lei morirà davvero onticamente tra poco, nessuna ontologia esistenziale, è
una certezza. I sintomi sono sempre più forti, esasperati, l’assenza degli esami
medici che smentiscono la malattia rende ancora più esasperante il delirio somatico, ormai si tratta di aspettare la morte. In Irlanda non ci è andata perché
vuole morire qui, vicino ai suoi.
Le propongo una versione della sua storia, ciò che Freud aveva definito costruzione nell’analisi:
Molti figli della classe operaia soffrono d’inibizione scolastica. Quando i
propri familiari non hanno potuto studiare, può accadere che lo studio e i buoni risultati siano sentiti dalla figlia, o dal figlio, come una specie di slealtà: in
questa famiglia povera non ci si può premettere di studiare, non posso permettermi di superare il babbo, o la mamma, non mi sembra giusto, loro sono i grandi, i saggi. Spesso questa inibizione si manifesta con segni di disinteresse verso la scuola a livello soggettivo: “Io sono un pratico, non mi interessa studiare”,
un po’ come nel caso della volpe e l’uva. Questo è forse quanto accaduto a suo
fratello, lui ha temuto di essere sleale coi genitori. Lei invece è stata coraggiosa, non ha esitato di fronte al desiderio di studiare. Benché le istituzioni scolastiche sembrino fatte apposta per confermare, ampliare e stigmatizzare le nostre inibizioni socio-culturali, lei ha seguito la sua passione per lo studio, è
diventata un’intellettuale, combattendo contro le istituzioni educative più ob-
152
La follia rivisitata
solete, retrive e discriminatorie del nostro paese: il ginnasio e il professore ostinato di storia della filosofia. Anche se è figlia di operai, ormai è filosofa.
Una volta, aggiungo, dopo la guerra, ciò accadeva più spesso; ricordo un
professore di estetica e un noto scrittore che hanno lottato per la cultura, da autodidatti, ma si tratta d’altri tempi, allora era più facile, ora il mondo si è richiuso. Diventare intellettuali è tornato a essere un privilegio delle classi intellettuali e dominanti, che si riproducono da sole. Essere intellettuali però non
salva, gli intellettuali hanno spesso paura dei propri sentimenti, si proteggono
studiando, ma lo studio, anche lo studio dei sentimenti, non protegge dal dolore che è presente nella nostra vita, più spesso protegge solo dalla gioia.
È l’espressione che ogni tanto porta lei sul volto, la portava quando venne
qui la prima volta, l’espressione che ha di nuovo ora. Penso che questa inibizione, superata allora, quando era bambina, adolescente e giovane donna, si sia ripresentata ora a chiederle il conto nella forma dell’ipocondria, della paranoia
dei sintomi. Le protezioni intellettuali non reggono, non sono argini sufficienti, ora deve rinunciare al dottorato, al suo ragazzo. Quel che pretende il sintomo da lei è sposare un impiegato qualunque, fare un lavoretto qualunque. Il sintomo le chiede di non fare il passo più lungo della gamba, altrimenti impazzirà
delirando di avere il cancro per i prossimi sessanta, settant’anni di vita. Magari verso gli ottanta si convincerà del contrario, ma ormai la vita sarà passata sotto i suoi occhi attoniti.
Martina piange. Le dico che questa non è affatto la sua storia, è solo un’ipotesi, una sorta di racconto, come quelli di Truman Capote. Certamente la sua storia
è di gran lunga più ricca e variata di questo mio raccontino smilzo e gramo. Le
storie che raccontiamo sono sempre inserite in un gruppo di trasformazioni, non
sono mai e sono sempre anche le nostre. In fondo questa storia è in parte anche la
mia. La coppia terapeutica si costituisce quando l’inconscio del soggetto che frequenta l’analisi interpella l’inconscio dell’analista. È qui che le mie difficoltà
scolastiche, il mio essere stato in gran parte autodidatta, con tutte le lacune che
ciò comporta, il mio mancato accesso alla classe privilegiata degli intellettuali
per la via maestra, si incontrano con il delirio somatico di Martina. Ora abbiamo
entrambi la cognizione del dolore, sappiamo entrambi che moriremo. Abbiamo il
compito di non esitare nei confronti delle nostre passioni, anche quando l’Istituzione, per costituzione discriminatoria, vuole fermarci.
Le sedute proseguono intense, Martina ottiene un dottorato, non sa a chi rivolgersi, non sa che ricerca fare, poi termina la terapia per andare a Los Angeles e io mi guardo bene dal pensare che la paziente stia facendo un acting out.
Martina sfiora la psicosi, ne esce grazie a un gesto proprio, una responsabilità.
Ora mi scrive, di tanto in tanto, da L.A.
Il caso di Martina ha qualcosa da insegnare in rapporto alla differenza
tra isteria e ipocondria solo se si considera il modo in cui Martina dà senso
alla sua vita, al suo dolore, alle sue disperazioni. Si tratta di un sacrificio in-
Isterie
153
terno a una comunità inconfessabile4. Nulla di eclatante: violenze, abusi,
traumi. L’ipotesi che maggiore è la risonanza del trauma subìto, maggiore
il disordine, non sta in piedi. La teoria deve stare dentro la relazione, si tratta di una pratica simile a quella dello stile indiretto libero per lo scrittore5.
Secondo Pasolini, l’autore ha il compito di rimanere vicino al linguaggio
dell’eroe; benché non possa mai raggiungerlo, si deve portare a un passo da
lui, esprimersi quasi come lui, immaginare il suo mondo possibile. La lezione di Freud è quella della costruzione nell’analisi. Durante il percorso
terapeutico, in alcuni casi, sembra utile proporre, al soggetto che frequenta
la terapia, un racconto nello stile del verismo. Non si tratta della storia della sua vita ma di una narrazione che lo riguarda, una narrazione tangenziale al soggetto. Il soggetto è in grado di giudicare, approvare, smentire. Il
racconto è una proposta, il momento in cui il terapeuta la presenta è importante. La configurazione del racconto va proposta nei momenti di crisi,
quando nella vita il soggetto della terapia sta per prendere posizione, si tratta di cogliere questa temporalità, questa evenemenzialità. Nel caso di Martina, la decisione, la crisi, è stato il momento di rinchiudersi in un delirio
somatico infinito oppure affrontare il dottorato, una scelta tra la follia
dell’uomo di vetro di Cervantes e gli eroici furori bruniani.
Isteria/personalità multiple
Trattamenti di sovradosaggio farmacologico e contenzioni forzate aggravano l’isteria, trasformano i deliri in disturbi più marcati: personalità
multiple, ritiri schizoidi, disturbi schizoaffettivi. Come nel caso di Leonarda, che dopo un internamento psichiatrico legata al letto, in dimissione non
riconosce più ciò che cambia nel tempo e vive in due mondi diversi: quello del prima e quello del dopo ricovero al letto con le fascette. Leonarda
non ricorda di avere avuto il ricovero psichiatrico, è come un buco nero
nell’universo della sua vita.
La sindrome di Ganser
Leonarda ha 45 anni, quando la vedo per la prima volta appare stralunata, lo
sguardo alla luna come fosse stregata, al contempo guardingo, come dovesse accadere qualcosa in qualunque momento. Si tratta di uno stralunato mesto, mite, non
4
5
Blanchot, M., La comunità inconfessabile, Milano, SE, 2002.
Barbetta, P., Follia e creazione, Milano, Mimesis, cap. III, “Pasolini: psicoterapia
e letteratura” cfr. Pasolini, P.P., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1991.
154
La follia rivisitata
aggressivo, piuttosto tenero, benché guardingo. L’aspetto stanco, triste, sovrappeso. Arriva al mio studio accompagnata dal marito e chiede che lui rimanga. Dice
che non sa perché è qui, chiede a lui di parlare. Il marito dice che Leonarda, un paio
d’anni prima, entra in crisi sul lavoro. Rimane a casa con prescrizione medica e comincia a comportarsi in modo strano. Crescendo le stranezze, il marito la accompagna in psichiatria. Lei riferisce allo psichiatra di avere l’impressione di essere spiata dai colleghi attraverso la telecamera. La reazione del servizio è: stato di
agitazione, disordine paranoico. Si somministra neurolettico per far sparire il delirio. Leonarda si accascia, diventa catatonica, viene ricoverata. Per sicurezza legata
al letto e lasciata così per l’intera notte, e per le successive.
L’unità è strapiena, Leonarda è collocata nei corridoi. Durante la notte,
un’altra paziente ricoverata, vedendola immobile sul lettino, la slega, arriva
l’infermiere che la lega nuovamente (il termine usato nella cartella è “contenzione al letto”) fino alle otto del mattino dopo, ci si giustifica con la mancanza
di personale, potrebbe cadere dal letto. Dopo una quindicina di giorni in quelle
condizioni un operatore del servizio si avvicina al marito di Leonarda e suggerisce: “terapia elettro-convulsivante”. Lui fugge, con Leonarda, in altro ospedale, e lì racconta quanto accaduto nel primo.
La psichiatra del secondo ospedale formula una diagnosi di disturbo indotto
da farmaci e dispone un cambiamento farmacologico, diverso e più moderato.
Leonarda si riorienta piano piano, riprende a camminare e a muoversi. La ripresa lascia sperare, Leonarda si reca periodicamente al nuovo ospedale per il dosaggio farmacologico e il trattamento riabilitativo. Tuttavia da tempo la ripresa
si è fermata su una soglia di non miglioramento, parla poco, non ricorda quel
che accade intorno, non parla e non collabora più coi medici, non risponde alle
domande. Questo il resoconto del marito. Lei però, di tutto quel che il marito
dice, non ricorda nulla.
Per la prima volta Leonarda si trova a parlare dei suoi disordini in uno studio pieno di libri, poltrone, piante, quadri, paraventi in tela e ferro battuto, con
un uomo senza camice bianco. E parla, parla, parla con quel suo sguardo smarrito. Il marito, costretto ad accompagnarla, se ne stupisce: “Da tempo non parlava più coi medici, com’è che con lei ha parlato così tanto?”. Chissà se è vero.
Leonarda racconta con dettaglio che ha una bambina in quinta elementare,
tutti i giorni l’accompagna a scuola. Prepara la colazione per lei, la sveglia alle
sette, l’aiuta a preparare la cartella, le fa il caffellatte, le fette di pane e burro,
poi la porta a scuola. Da qualche tempo c’è un cantiere che la costringe a fermare l’auto un po’ in là, e a portare la figlia a piedi fin davanti a scuola, poi riprende l’auto per andare a lavorare e così avanti, con i minimi dettagli, senza
interruzioni. Leonarda parla con una voce calda e suadente. Il suo accento non
è di queste parti, ma di dove è nata, dove vivono mamma e papà, lo sguardo
perso e guardingo sembrano essere svaniti dal suo viso.
Mi giro e guardo il marito scuotere la testa; dice: “Non si ricorda, le ha raccontato episodi di oltre due anni fa come fosse adesso. Non è consapevole, ma
è la prima volta che parla così con un altro. Di solito parla solo con me”. Leonarda legge libri sulla Shoah da prima di questi guai, quando lo dice vedo in lei
una muselweib, una donna reduce da prigionia. Come molti reduci non parla
Isterie
155
del periodo traumatico, non lo riconosce. Se il marito insite a chiederle di parlare del ricovero, lei guarda nel vuoto, le pupille si dilatano, poi nega.
Sul versante medico Leonarda è stata sottoposta a risonanza magnetica, nessuna lesione. La valutazione neuropsicologica non rileva patologie cognitive
“coerenti”, che possano inferire una diagnosi neuro-psicologica. Dopo queste
indagini l’ospedale che l’ha salvata dalla furia di guarigione formula l’ipotesi
di un disturbo da conversione: isteria. Con il marito di Leonarda si fa anche l’ipotesi di una sindrome di Ganser, detta anche pseudo-demenza, per via del fatto che le origini dei suoi disordini, pur somigliando a un’amnesia anterograda,
non hanno riscontri organici.
Verso la fine del secolo diciannovesimo Sigbert Ganser (1853-1931) descrive un disordine psichico difficilmente collocabile. Si tratta di una condizione esistenziale che si manifesta dopo la reclusione carceraria, benché
solo in alcuni casi. La caratteristica della dissociazione grave è una delle
tracce di questa sindrome. Altri, probabilmente la maggioranza degli psichiatri, pensa a un disordine fittizio, a una simulazione, se non addirittura
un imbroglio per avere l’invalidità. Un classico della visione medica nei
confronti dell’isteria.
Il libro di Ian Hacking Rewriting the Soul. Multiple Personality and the
Sciences of Memory6 rappresenta una guida alla comprensione del fenomeno rilevato da Ganser a fine Ottocento, così come del fenomeno rilevato da
Capgras agli inizi del secolo scorso, di cui vedremo più avanti.
Una delle ipotesi avanzate riguardo alla sindrome di Ganser è la manifestazione di sintomi che appaiono simili alla demenza di Alzheimer, ma senza un progressivo deterioramento, con variazioni temporali di miglioramento e peggioramento.
Ai test neuropsicologici non si danno elementi per poter parlare di difficoltà nell’ambito della cognizione. I dati dei test appaiono controversi: performance francamente inadeguate si alternano a performance normali o
brillanti. Sul piano neurologico esistono alcuni articoli7 che parlano di un
6
7
Hacking, I., Rewriting the Soul. Multiple Personality and the Sciences of Memory, New Jersey, Princeton University Press, 1995.
Markowitsch, H.G., “Functional Amnesia: the Mnestic Block Syndrome”, Revue
de Neuropsychologie, n.1, V. 10, 2000, pp 175-178. Markowitsch, H.J., “Functional Retrograd Amnesia – Mnestic Block Syndrome”, Cortex, 38, 2002, pp. 651654. Markowitsch, H.G., “Psychogenic Amnesia”, Neuroimage, 20/2003, pp.
S132-S138. Staniliou, A., Markovitsch, H. J., “Towards Solving the Riddle of
Forgetting in Functional Amnesia: Recent Advances and Current Opinions”,
Frontiers of Psychology, V. 3, pp. 1-23.
156
La follia rivisitata
ipofunzionamento in alcune aree temporali rilevabili attraverso la tomografia a emissione di positroni (PET).
In psicologia clinica invece la sindrome di Ganser porta a pensare a disturbi dissociativi post-contenzione carceraria, fino a giungere a condizioni di personalità multipla. Poiché la pseudo-demenza è rarissima, anche
questa ipotesi tende a venire abbandonata, così come, dopo il boom degli
anni Novanta, viene abbandonata la categoria di “personalità multipla”. Un
vero rompicapo.
Con Leonarda vengono svolti tutti i tentativi di analisi medica e psicologica. Nessun danno focale è rilevato dalla risonanza magnetica e gli esami
neuropsicologici, ripetuti varie volte, danno il risultato di non validità dei
test. Ciò porta a proporre una diagnosi di conversione isterica, confermata in
seguito dalla somministrazione del test di Rorschach. Successivamente,
dopo la lettura degli articoli di Markowitsch8, viene proposto a Leonarda di
sottoporsi alla PET. Alla prima esposizione sono riscontrate aree di ipofunzionamento nelle zone cerebrali indicate, si tratta finalmente di un dato “organico”. Secondo questa letteratura può essere utile la psicoterapia. Dopo un
semestre di psicoterapia, Leonarda mostra alcuni miglioramenti. Ma i miglioramenti nel movimento e nell’attenzione risultano inutili. È sì più attiva,
per esempio esce spesso di casa, cosa che non faceva da dopo il ricovero psichiatrico, ma ciò allarma la famiglia ancor di più. Infatti Leonarda non comunica che esce, dunque chi è in casa con lei è costretto a uscire per cercare
dove sia finita.
In quel periodo le sedute prendono una svolta positiva. Attraverso il gioco
con i peluche in forma di animale riesce a raccontare nei dettagli un evento
traumatico al quale aveva assistito durante l’infanzia, il suicidio di una zia presso la quale si recava a pranzo da bambina. La sua memoria retrograda (la memoria del passato antecedente il ricovero) è dettagliatissima, la data di oggi rimane la data in cui le fu negata la possibilità di andare a visitare le scuole medie
a cui si sarebbe iscritta la figlia, data che sta nel bel mezzo del ricovero psichiatrico, poniamo 10 aprile 2005.
Quel che accade oggi è invece evasivo sul piano descrittivo. Gli eventi successi dopo le dimissioni dal ricovero sono vaghe impressioni, incertezze, racconti che appaiono il frutto di allucinazioni, ma che poi si rivelano realistici.
Per esempio un cagnolino che è stato regalato alla figlia alcuni mesi dopo il rientro dal ricovero viene descritto come fosse un’allucinazione inquietante: la
presenza di un animale misterioso che si aggira per la casa. A queste descrizioni vaghe si accompagnano sensazioni di spavento quando trova e ritrova qualcosa di cambiato (la coloritura della cameretta della figlia, l’acquisto di un nuovo elettrodomestico, ecc.), qualcosa che viene dimenticato e di nuovo rivisto
come fosse la prima volta, sempre con il medesimo soprassalto. Leonarda ap8
Cfr. nota precedente.
Isterie
157
pare sempre più guardinga e spaventata, come fosse minacciata da qualcosa di
pericoloso che sta per accadere da un momento all’altro. Le forme dell’attenzione clinica verso Leonarda si moltiplicano, si propongono visite domiciliari,
nuovi tentativi farmacologici, nuovi modelli terapeutici. Gli anni trascorrono
senza miglioramento, forse sarebbe il caso di alzare le mani, di provare a lasciarla vivere così com’è. Ma non è facile.
Leonarda è un esempio dei limiti della clinica, una sfida radicale e insopprimibile all’idea di guarigione e di cura, intesa in senso medico-sanitario e anche in senso psicologico. Ci sono parole, persone, cose e circostanze che non possono cambiare il segno della loro esistenza, della loro
permanenza nel mondo così come sono. In questo caso l’impotenza della
cura si incontra, e si scontra, con un chiasma, un’oscurità bianca, un’opacità permanente, come in una nebbia così fitta da impedirti di proseguire a
camminare, la cura produce tentativi che si accaniscono nel vuoto, benché
nessuno abbia queste intenzioni. Tuttavia l’inizio del trattamento – l’iperfarmacologizzazione, la contenzione, la mancata attenzione alla delicatezza, la fretta di intervenire prima di pensare, di provare sentimenti, di accogliere – l’ha affossata. Non si tratta di sostenere che il primo intervento
psichiatrico abbia causato la patologia di Leonarda, gli episodi dell’infanzia, ciò che le stava accadendo prima del ricovero, che aveva portato il marito a chiedere il ricovero, è certo rilevante. Chi può dire che, se in quel momento non avesse provato la brutalità di un servizio di psichiatria
inadeguato, la storia di Leonarda sarebbe stata diversa? Oggi le cure continuano, così come gli esami. L’ultima prova neuropsicologica non si scosta
dalle prove antecedenti.
Delirio isterico/neurologico
Come accade a Leonarda e Martina, spesso il delirio isterico assume una
somiglianza stretta con il delirio paranoico. E poiché il discorso psichiatrico ha da tempo eliminato il termine isteria dal proprio vocabolario, la fretta di essere produttivi – dove per produttività si intende la possibilità di visitare il massimo dei pazienti in una data unità di tempo – impedisce di
aspettare.
La diagnosi, come un fast food, dev’essere presentata subito, il trattamento farmacologico anche. Se poi la persona si aggrava, raramente si pensa che il farmaco possa avere contribuito e quando lo si pensa, si cambia il
farmaco, non lo si toglie nemmeno temporaneamente per osservare quanto
158
La follia rivisitata
accade. Si dice che può essere pericoloso, anche se ciò riguarda solo l’interruzione repentina di un farmaco che si prende da tempo, non gli effetti
di peggioramento indotti da un farmaco appena somministrato. Al più si
fanno tentativi, a volte forsennati, di cambiare i farmaci.
Comunismo stile Albania
Mara è una giovane donna che vive in uno di quei paesi dove ci fu una dittatura tra le più rigide a autoritarie, dove dopo la caduta del regime furono trovati asili e manicomi lager, in cui si viveva di delazioni sociali e carcere per
avere ascoltato musica occidentale. Dopo la caduta del regime, ancora adolescente, si trova a scrivere e dipingere e viene talmente apprezzata da ricevere la
proposta di fare una mostra. Tuttavia, dopo la dittatura, in quel paese, la psichiatria si è trasformata da “disumana” in “tecnologicamente avanzata”, cioè
iperfarmacologica. Invero Mara non ha avuto da ciò alcun beneficio.
Dopo oltre dieci anni di trattamento una collega mi racconta la sua storia e
mostra gli appunti clinici. Salta subito all’occhio un elenco di farmaci. Sono
decine, diversi per ogni tipologia9. Di Mara si è detto che è psicotica, depressa, bipolare, ansiosa. Su di lei si sono usati, uno dopo l’altro o a gruppi, farmaci di tutte le categorie: antipsicotici, antidepressivi, ansiolitici, stabilizzatori
dell’umore. Tra i sintomi e le diagnosi assegnatele si riscontra un delirio del sosia, detto anche sindrome di Capgras, inteso come forma delirante psicotica.
Chi è Capgras? Dietro i nomi dei medici che si installano come Golem
nella malattia, si nasconde la storia e l’impegno di una vita, si trovano spesso le origini di una scoperta, che sono molto lontane dalla funzione svolta
ora dalla categoria diagnostica. Joseph Capgras (1873-1950) e Jean Reboul-Lachaux, suo assistente, scrivono nel 1923 un saggio su una particolare forma di delirio: l’illusione dei sosia10. Per gli autori si tratta di una forma particolare di delirio paranoico. Capgras cerca di spiegare il fenomeno
del riconoscimento dei volti, una sorta di ambivalenza sempre presente tra
due sentimenti antagonisti: estraniazione e familiarità. Ci sembra di riconoscere una persona, non è lei, passiamo di fianco a una persona conosciuta e, pur avendola guardata, non la riconosciamo immediatamente. Ciò ac9
10
Più che appunti clinici sembra l’elenco dei farmaci che si espone fuori dall’armadietto sanitario di un ospedale. Ecco l’elenco di quelli menzionati, antipsicotici e
neurolettici (per la cura dei disturbi psicotici): Levosulpiride, Risperidone, Amisulpiride, altro neurolettico (Tiapridal), Sulpiride, Tianeptina, Quetiapina, Olanzapina, Aripiprazolo; antidepressivi: Maprotilina, Clomipramina, Sertralina,
Doxepina, Trazodone; ansiolitici: Buspirone, Alprazolam, Clonazepam; stabilizzatori dell’umore: Acido valporico.
Capgras, J., Reboul-Lachaux, J., “Illusion des sosies dans un délire systématisé
chronique”, Bulletin de la Société Clinique de Médicine Mentale 2, 1923, 6-16.
Isterie
159
cade in genere quando non abbiamo visto da tempo la persona, oppure la
incontriamo in luoghi dove non avremmo mai pensato potesse essere.
Capgras, uno psichiatra interessato ai processi immaginativi, aveva notato
che, in alcuni soggetti diagnosticati come psicotici, accadeva sistematicamente e pensava trattarsi di un disordine della sensibilità accompagnato da
un’interpretazione delirante. Considerava quella condizione di mancato riconoscimento di un amico o di un familiare una forma particolare di delirio psicotico. Il soggetto riconosce la fisionomia dei propri cari, ma li sospetta come sosia che si sono sostituiti a quelli veri. Recentemente11 questa
patologia si è presentata, in alcuni pazienti neurolesi, in modo marcato a
seguito di danni corticali.
L’illusione del sosia sembra mantenere però anche origini psichiche e
sociali: il sequestro, il campo di concentramento, il carcere, la reclusione
forzata, un trauma sociale. Dove non ci sono più codici materni anche le
persone più care e vicine possono diventare indifferenti al mio stato d’animo, dunque estranei a me. La componente delirante può essere la conseguenza del sapere che ciò che si è veduto con i propri occhi è irrappresentabile razionalmente, richiede una posizione evocativa, iperbolica. Di
fronte alla configurazione del racconto traumatico, l’altro vicino a me reagisce con distacco, freddezza, indifferenza. Non può esercitare alcun tipo
di empatia, la cesura è così grande che l’indifferenza diventa una figura
della relazione: non mi comprende più, quindi non può essere lei/lui.
Siamo di fronte a ciò che Georges Bataille (1897-1962)12 aveva definito
come déchirure, uno squarcio che rende la relazione impossibile. L’altro
non potrà che mostrare l’assenza del suo essere accanto a me, per via del
fatto che io affermo in modo preventivo questa indifferenza, rendo impossibile ogni consolazione, nessuno potrà mai credere che si possa essere tanto crudeli e avere patito tanta crudeltà. Questa crudeltà per l’altro è esagerazione isterica, paradosso, l’ultimo residuo di zona grigia che mi rimane
agglutinata al corpo. Come nell’illusione del sosia, l’altro non potrà mai
più essere l’altro materno che era prima, diventa un sosia, un feticcio.
In altri casi, il mancato riconoscimento di una persona cara tende a somigliare al fenomeno neurologico della prosopoagnosia. A differenza
dell’illusione del sosia, nella prosopoagnosia la fisionomia della persona
familiare non è riconosciuta esplicitamente, ma il sentimento di vicinanza
11
12
Ramachandran, V.S., “Memory and the Brain. New Lessons from Old Syndromes”, in Schachter, D.L., Scarry E., eds, Memory Brain and Belief, London, Harvard University Press, 2000, pp. 87-114.
Bataille, G., La part maudite, Paris, Minuit, 1967.
160
La follia rivisitata
è presente. Condizione opposta alla sindrome di Capgras. Nell’illusione
del sosia si riconosce la fisionomia del parente, ma non si attivano le forme
affettive che generano il sentimento; processo che in neuropsicologia viene brutalmente designato come “assenza di memoria emotiva”, viceversa
nella prosopoagnosia le chiavi sentimentali sono attive, mancano le capacità dichiarative. Sento che mio figlio è qui, vicino a me, ma non riesco a
riconoscerlo. Accade spesso anche presso la malattia di Alzheimer.
È necessaria un’antinarrativa. Come, nell’Ulisse di Joyce, dove il rapporto di indifferenza tra Leopold Bloom e Stephen Dedalus si trasforma in
adozione del figlio da parte del padre. Una regressione da ricucire all’indietro, una ripresa13. Questo rapporto padre-figlio si deve recuperare in una
relazione adottiva, che riabilita l’ammirazione della madre per il padre,
come nel monologo finale di Mollie Bloom. Qui lo scacco della stessa sostanza (omousia) diventa, per intercessione materna, adozione, relazione
rinnovata. L’eresia adozionista rimedia al fallimento dell’omousia, si fa
nuova fede.
La storia di Mara comincia con il classico bolo isterico, Mara però cresce
in un paese comunista, dove la psicoterapia e la psicoanalisi sono proibite;
anche i suoi genitori, due ingegneri, così come gli altri familiari, sono ideologicamente orientati a pensare che i disordini psichici non esistono al di fuori di malattie del cervello. Mente e cervello sono della stessa sostanza. Mara
ha le prime manifestazioni di tosse e sensazioni di soffocamento da bambina;
nessun medico riesce a trovarne la causa, così il tempo passa. Alle manifestazioni alla gola si aggiungono altre malattie senza causa apparente. I medici
iniziano a parlare di psicosi, ma i genitori sono spaventati dall’ipotesi di ricoverare la figlia in un manicomio, là non esistono leggi di garanzia per la persona, questo i genitori lo sanno, né le condizioni della psichiatria sembrano
migliorare immediatamente dopo la caduta della dittatura. A casa se ne parla
e Mara inizia a pensare che i genitori siano contro di lei, fino a giungere a ritenere che il regime, che in quegli anni sta crollando, abbia fatto loro una sorta di lavaggio del cervello, che gli psichiatri abbiano convinto i genitori a
somministrarle farmaci di nascosto. Nel frattempo, in relazione a queste manifestazioni di mancato riconoscimento dei genitori (“loro non sono più
loro”), le viene diagnosticata la sindrome di Capgras e viene trattata con Levosulpiride, come si riscontra in una letteratura che ha – anche nell’ambito
strettamente medico – scarsa validità14.
13
14
Sul rapporto regressione/ripresa ci sono pagine meravigliose di Elvio Fachinelli in
Fachinelli, E., La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989.
Pankaj, K. et al., “Case Report: Capgras Syndrome: Treatment with Levosulpride”, Delhi Psychiatric Journal, V. 13, n. 1, 2010, pp. 157-158.
Isterie
161
Mara viene trattata come psicotica, depressa, bipolare, ansiosa, sempre e
solo sul piano farmacologico. Anche dopo la caduta del regime, quando nel
suo paese le discipline psicologiche vengono riammesse, per un lungo periodo i trattamenti rimangono solo farmacologici. In Mara cresce l’idea di avere una malattia progressiva e inguaribile perché misteriosa, pensa che morirà
presto e abbandona ogni attività. Poi decide di fare un viaggio in Francia, là
chiede di fare un check-up generale, convinta che i medici francesi siano più
capaci. Anche in Francia accade ciò che è accaduto al suo paese, ma si dà indicazione di una valutazione psicologica. Rientra al suo paese e un’équipe di
psicologi le somministra una batteria di test di personalità, proiettivi, di performance e di auto-somministrazione (“oggettivi” [sic!]). La diagnosi che
presentano è: Disordine istrionico di personalità. Mara è isterica. Peccato ci
siano voluti quasi vent’anni per poterla diagnosticare, l’isteria è vietata dal
comunismo, almeno da quel comunismo radicalmente autoritario del paese
dove viveva.
Isteria delirante
Con Leonarda e Mara abbiamo visto la facilità con cui, grazie a un approccio strettamente tecnologico e una preparazione psicodiagnostica da
manualistica psichiatrica, un disordine isterico acuto venga trasformato rapidamente in una diagnosi di psicosi, con relativo trattamento farmacologico iatrogeno. In questo paragrafo incontriamo di nuovo la donna cecoslovacca che ho presentato nel terzo capitolo: un caso fortunato.
La primavera di Praga
Sabina arriva dopo un’esperienza di psichiatria dove viene dimessa senza
alcun intervento farmacologico nonostante un esordio inquietante. Viene trovata nella cappella di un ospedale in preda ad agitazione e a condotte deliranti. Se
qualcuno tenta di aiutarla, Sabina si irrigidisce. Viene chiamato lo psichiatra di
turno del medesimo ospedale, quando arriva Sabina è calma. Vedendo il medico, gli si avvicina per raccontargli quel che accade. Il discorso appare confuso,
con tratti di derealizzazione. Il medico si informa presso i parenti, presenti durante l’episodio, e chiede loro se quel che stava accadendo fosse mai successo
prima. Poiché si tratta del primo episodio, lo psichiatra non ritiene opportuno
ricoverarla, né somministrarle farmaci. Parla col marito e gli dice che, se non è
proprio necessario, se Sabina si rimette e riprende la propria vita, si tratta di un
episodio di eccesso che non ha rilevanza psicopatologica.
Se fosse capitato dentro le mura del reparto, per il medico sarebbe stato forse più complicato, la cappella religiosa ha un ruolo protettivo, e anche la saggezza del medico. Accadono altri episodi analoghi a casa: deliri olfattivi e somatici, come abbiamo visto nel terzo capitolo. Poi Sabina si presenta in
162
La follia rivisitata
psicoterapia su insistenza dello stesso psichiatra che, nonostante la ripetizione
degli eventi, pensa a un’isteria e non vuole credere alle manifestazioni apparentemente psicotiche di Sabina, l’opposto di quanto accade a Leonarda.
I primi incontri sono interlocutori, Sabina mi chiede se è psicotica oppure
no. L’ascolto e mi racconta un po’ quello che le è capitato. Dopo tre o quattro
incontri sospende le sedute. Mi richiama circa un anno dopo, le son accaduti
ancora gli stessi deliri. Sabina diventa folle solo in primavera, strano. Viene da
Praga e nel 1968 aveva 13 anni.
In Lombardia Sabina ha lavorato come tecnico della riabilitazione, i conflitti con il suo “capo” durano da qualche mese prima che lei entri in crisi. Un chiaro atteggiamento di mobbing; chiaro in molti altri paesi, in Lombardia le cose
vanno diversamente. Di fronte alla totale “disattenzione” della Direzione Sanitaria – “il capo ha sempre ragione” – forse le sembra di rivivere l’invasione dei
carri armati. Fanno eccezione pochi operatori dissidenti, come lo psichiatra che
ha incontrato durante il primo delirio.
Sabina, di origine “extracomunitaria”, benché cittadina italiana, ha un accento, un tipo di accento “non italiano”, secondo i deliri dei gruppi politici dominanti, che vediamo coincidere con la dirigenza sanitaria per parentela, tessera, amicizia intima, passione amorosa. Si tratta di diffidare. Che sia una
clandestina? Perché non si accontenta di fare la badante?
Gli è che Sabina, di fronte alle nuove mansioni – degradanti rispetto al suo
ruolo – cui è stata costretta, senza alcun preavviso salta per aria. Incomincia a
delirare, rivive le stesse condizioni moleste del dopo Primavera di Praga, quando i carri armati sovietici entrarono nel paese, e siccome la storia di vita del
soggetto si ripete, la prima volta in forma tragica, la seconda come farsa, Sabina rivive individualmente le malversazioni lombarde così come ha vissuto socialmente la tragedia sovietica: il potere vince sempre. Mentre l’altra volta il
tutto si è proposto con una tale potenza autoritaria da non poter fare nulla, stavolta Sabina trova nel delirio isterico una linea di fuga dalle malversazioni.
L’invasione dei carri armati ha avuto reazione silente, il disordine si è manifestato apertamente quasi quarant’anni dopo, nel cuore del posto di lavoro, dove
ha subìto personalmente le stesse molestie, gli stessi tradimenti subìti dalla sua
gente, dal padre, quarant’anni prima. Con una équipe di psicologi decidiamo di
proporle il Test di Appercezione Tematica (TAT)15.
15
Al soggetto viene chiesto di raccontare, per ogni immagine, una storia. Grosso
modo, la prima domanda è raccontare quel che vede, la seconda è raccontare che
cosa succedeva prima del momento rappresentato dall’immagine, la terza consiste
nel chiedere che cosa accadrà dopo. Nel metodo da noi usato, la somministrazione viene registrata e riascoltata più e più volte, insieme e separatamente, da
un’équipe di psicologi, uno o due interni alle sedute e alcuni altri esterni, che
ascoltano solo il colloquio di somministrazione. Nel nostro metodo, le possibili
controversie tra gli ascoltatori/riascoltatori della prova non vengono né eliminate,
né superate da alcuna sintesi, vengono invece lasciate aperte in modo da ottenere
una posizione sufficientemente ambivalente. Il conflitto delle interpretazioni è
considerato produttivo per eventuali nuove considerazioni che permettano al pro-
Isterie
163
Il TAT è tra i più importanti test proiettivi. Costruito da Henry Murray
(1893-1988), pubblicato in maniera definitiva nel 1943, contiene una trentina di immagini tra cui sceglierne alcune, secondo le circostanze, da somministrare. Il TAT è soprattutto noto per essere stato uno degli strumenti
chiave della grande ricerca svolta negli Stati Uniti da Theodor Adorno
(1903-1969) e un gruppo di sociologi, psicologi sociali e psicoanalisti intorno al tema della Personalità autoritaria16. Questa indagine inaugurò una
nuova stagione di collaborazione tra la cultura statunitense e quella europea in un’epoca di devastazione del vecchio continente. L’indagine di
Adorno circa la predisposizione individuale ad aderire al totalitarismo, di
individuare la personalità del potenziale fascista, è un caposaldo della fruttuosa collaborazione tra le scienze psicologiche e le scienze sociali. In seguito il TAT ha avuto diverse applicazioni. Oggi – benché le immagini risultino esteticamente meno adeguate agli standard e agli stereotipi
contemporanei – rimane uno dei reattivi più interessanti per produrre narrative e antinarrative capaci di cogliere i conflitti e le ambivalenze interne
al soggetto in rapporto alla dimensione sociale.
Il metodo proiettivo non è altro che l’osservazione di una caratteristica
presente in ciascuno di noi, il soggetto è costitutivamente proiettivo e introiettivo, il soggetto è ciò che c’è al di là della sua consapevolezza. Il TAT
propone un modello psicodinamico eclettico, che permette allo psicologo
di lavorare sulla singolarità dei conflitti, sulle storie di vita, piuttosto che
costruire categorie diagnostiche preconfezionate. Il TAT, come altri strumenti proiettivi, può accompagnare una psicoterapia, permette al soggetto
di raccontare di sé attraverso la configurazione del racconto che emerge per
ogni singola tavola. Permette al soggetto, in fase di restituzione delle impressioni del terapeuta, di riconsiderare le osservazioni proiettive svolte e
annodarle alla propria vita.
Dal test sembrano emergere due posizioni conflittuali nei vissuti di Sabina:
da un lato il principio di speranza, confermato in molti racconti in cui, a seguito di una descrizione problematica, accade nel futuro un’apertura che dissolve
il problema (anche nelle tavole più disperanti e orride17); dall’altro il senso del
16
17
cesso diagnostico di svilupparsi in forma letteraria; la diagnosi non è mai trattata
come un metodo per incastrare il soggetto. La ricerca a partire da questo metodo
produrrà un saggio quando avremo sufficiente materiale clinico.
Adorno et al., La personalità autoritaria, Milano, Comunità, 1973.
Per esempio, in una delle tavole più orride, c’è un’omino inquietante, dalle sembianze di uno zombie, sta in mezzo alle tombe di un cimitero. Sabina, dopo averlo descritto in maniera congruente, come uno zombie o qualcosa di simile, conclu-
164
La follia rivisitata
tradimento. Il tradimento riguarda gli uomini, in molte tavole dove è presente
una coppia eterosessuale, ma anche la tavola che mostra due donne. Una guarda l’altra dall’alto di una collinetta, dietro un albero, l’altra sta camminando appena sotto, in un avvallamento. La traditrice è la donna che guarda:
Sabina: Sembra che, mh, allora io penso che, mh:: lei era invidiosa di lei e
gli è successo qualcosa: e: adesso lei, eh: ci, lei adesso lei, quella più vicino,
quella nascosta si potrebbe dire, che la osserva, e, mi sembra, soddisfatta, ecco,
del dolore dell’altra=
Terapeuta: =che cosa:: succedeva, cioè, come mai sono arrivate lì?
Sabina: come mai sono arrivati a quel punto:: [lunga pausa], non lo so::, forse, un uomo in comune. Poteva essere un uomo che tutt’e due erano innamorate e:: adesso lei in qualche modo l’ha perso e::, e:: con l’altra, insomma, è soddisfatta. Probabilmente anche per causa sua, per il suo gesto è, è scorretto il suo
gesto. Cioè, a me mi dà questa impressione. Che lei voleva far male a quest’altra signorina, più giovane, ecco.=
Come interpretare questa ripetizione di senso del tradimento? Dopo un lungo confronto nell’équipe, Sabina rivela che non si tratta della sua relazione matrimoniale, niente affatto:
Sabina: tradimento::: ma è difficile::: tradimento vivendo in una dittatura così
probabilmente::: forse::: perché quello che devo dire::: io ho vissuto un’infanzia
bellissima, no veramente:: non posso:: i miei genitori erano sempre:: delle persone
semplici non facevano: distinzione con i fratelli, c’era una parità, nessuno era stato
privilegiato. Certo non vivevamo nelle::: semplice, in modo semplice:: cioè, io posso dire che ho vissuto bene infanzia, la mia mamma che cucinava che faceva le torte che faceva [ride]. Il problema ha cominciato:: probabilmente lì, con l’adolescenza, che nel sessantotto io compivo quattordici anni, entrata nell’adolescenza. Era
anche il fatto che tu scegli: praticamente:: la tua scuola, il tuo futuro:: e io penso che
era un periodo importante per me e nel sessantotto arrivano i carri armati:: instaurano una dittatura e io non potevo più scegliere la scuola che::: volevo.=
E più avanti nel colloquio:
Altre scuole mi hanno chiuso la porta::: il fatto che mio papà era espulso dal
partito comunista e::: e lì il fatto è che::: certo vivendo in una dittatura18.
18
de che lui deciderà di rientrare nella tomba perché non è il caso di disturbare la
pace degli umani.
Il report di questo brano usa i segni dell’analisi della conversazione: = significa
interruzione brusca; : significa pausa; più : insieme indicano la lunghezza della
pausa
Isterie
165
Anoressia e isteria
Si tratta del titolo di un mio libro19 sul quale vorrei tornare rapidamente
in questo capitolo. Quando terminai di scriverlo, alcuni colleghi, dopo
averlo letto, lo interpretarono in modo da far emergere mie inconsapevolezze di scrittura. Detto in termini rozzi: alcuni mi dissero che la distinzione da me fatta tra anoressia isterica e anoressia vera differenzia le anoressiche che sopravvivono nel tempo da quelle che muoiono d’inedia nel letto
di un ospedale: solo queste ultime inverano l’anoressia20.
Sono io la morte e porto corona
Questa è la storia di due donne che, quando si presentano per la prima volta in
seduta, hanno intorno ai 35 anni. Si tratta di due esperienze terapeutiche a quasi
vent’anni di distanza l’una dall’altra, ma entrambe hanno la stessa esperienza
ventennale di anoressia. Tuttavia non è tanto la lunga durata dell’esperienza anoressica che le accomuna, quanto la sensazione della presenza della morte, che sta
lì vicino, che si postpone costantemente, senza mai allontanarsi. Il primo caso risale all’inizio degli anni Novanta, in un’équipe di terapia familiare composta da
me e due psicologhe. La donna viene da noi subito nominata “Mary per sempre”.
Le ragioni di questo nome la capirete immediatamente.
Quando arriva per la prima seduta è su una sedia a rotelle spinta a turno dalle due sorelle infermiere. Il padre è morto molti anni prima, in seduta sono presenti le sorelle e la madre. Mary e la sua famiglia arrivano per via di un consiglio di un medico dopo che è uscita dal secondo coma. Di lei ci si comincia a
occupare vent’anni prima di questo incontro, intorno agli inizi degli anni Settanta, a quindici anni. Sono gli endocrinologi che la seguono per anni. La diagnosi è cachessia pituitaria o morbo di Simmonds.
Morris Simmonds (1855-1925) è stato medico ad Hannover. Dopo l’autopsia di una paziente, scoprì l’atrofia del lobo anteriore dell’ipofisi. La
malattia di Simmonds era però, secondo lui, la conseguenza di ripetute gravidanze. Negli anni Sessanta e Settanta, sintomi analoghi si trovarono diffusi tra le giovani donne. Mara Selvini Palazzoli però si accorse che questi
casi avevano un decorso del tutto differente e che erano di origine psicoge19
20
Barbetta, P., Anoressia e isteria. Una prospettiva clinico-culturale, Milano, Cortina, 2005.
Tempo dopo, io e Marcelo Pakman, il primo a fare questa osservazione durante la
presentazione del mio libro alla libreria Utopia di Milano, scrivemmo insieme un
saggio che toccava questo tema, Barbetta, P., Pakman, M., ‘‘‘Anorexia hysterica’.
Identità e qualità fuorvianti nella comunicazione umana”, Locus Solus, a cura di
Daniele Giglioli e Alessandra Violi, L’immaginario dell’isteria, Milano, Bruno
Mondadori, 2005.
166
La follia rivisitata
na. La differenza fondamentale, oltre l’età dell’insorgenza, era anche il fatto che Selvini, conversando con queste giovani donne, si accorse che avevano uno spaventoso appetito e che lo tenevano tenacemente sotto
controllo, mentre i casi di cachessia ipofisaria denotavano una totale mancanza di appetito. Si rilanciò allora l’anoressia mentale. Questo tipo di manifestazione, benché rarissima, era stata individuata da Charles Lasègue
(1816-1883) con il nome di Anorexia Hysterica.
L’altra donna ricorda di nuovo il caso di Ellen West, che ho menzionato in
questo capitolo a proposito di Martina. La chiamerò perciò Elena. Anche Elena
ha una sorella infermiera, singolare coincidenza. Si presenta in seduta quasi
vent’anni dopo Mary, presso il mio studio clinico. In questi vent’anni il setting
terapeutico è cambiato, così come la città dove lavoro; inoltre ho vent’anni di
più e lo stile terapeutico è diverso, in mezzo ci sono altre due analisi personali
e il mio passaggio dalla posizione di allievo appena formato a quella di didatta [sic], qualora ciò significhi qualcosa.
Elena cammina a malapena e in seduta sono presenti con lei il padre e la madre che la sorreggono. Anche Elena ha un’esperienza ventennale di anoressia,
e arriva direttamente da uno dei pellegrinaggi presso quei soloni della psichiatria che appaiono spesso in televisione discettando sul potere taumaturgico dei
farmaci. Torna dal pellegrinaggio in barella per overdose da aloperidolo. Conosce quasi tutte le cliniche per anoressiche del Centro e del Nord Italia, Svizzera compresa.
Insomma, entrambe, Mary ed Elena, giungono alla terapia dopo svariati tentativi sanitari di guarigione falliti.
Elena e Mary presentano marcati sintomi di anoressia, quando le guardi
stenti a credere come siano riuscite a vivere in quelle condizioni per vent’anni.
Come abbiamo visto, il caso Mary – che viene in terapia all’inizio degli anni
Novanta – vent’anni prima è trattato dagli endocrinologi come cachessia ipofisaria. Quando, dopo vent’anni di entrata e uscita dagli ospedali e dopo due
coma con relativo risveglio, si presenta da noi Mary ha 35 anni, ma ne dimostra
almeno il doppio. Ematomi alle caviglie e ai polsi, rughe marcate, sedia a rotelle, voce roca. La prima cosa che ci dice, lentamente, scandendo bene le parole,
è: “Mi hanno voltata e rivoltata come un guanto”, ho l’impressione di sentire
una voce dall’oltretomba. È uno dei casi più difficili dei miei primi quattro, cinque anni di lavoro terapeutico.
Mary però è esausta, sembra un personaggio di Beckett, non ce la fa più.
Elena invece è ostinata, ha ancora il desiderio di insistere nelle sue pratiche
di digiuno assoluto.
La prima ha raggiunto una sorta di pace dell’anima, ha voglia di riconciliarsi, benché sappia che ormai non c’è più molto da fare, se non sopravvivere dignitosamente. La fine della terapia la vedrà riprendere a camminare da sola,
con un bastone della vecchiaia. Si mette a fare la stiratrice a casa, in compagnia
della madre e di una delle sorelle infermiere.
Isterie
167
Elena, vent’anni dopo, non cederà, continuerà a combattere ostinatamente
per stare vicina alla morte: esami, ricoveri, dimissioni, nuovi esami, nuovi ricoveri; prigioniera di un gioco mortifero infinito. Una vera e propria Danza macabra, come quella di Clusone o di Pinzolo, ma viene ancor più in mente Il
trionfo della Morte.
Mary è finalmente stanca di guerra. Elena è ancora una Giovanna D’Arco,
la sua anoressia espugna castelli sanitari che appaiono assai più potenti di lei,
ma non la sfiorano neppure. Le due donne ricordano i casi ottocenteschi di Sara
Jacobs e Mollie Fancher.
Nell’ottobre 1876, Sara Jacobs21, conosciuta come la digiunatrice del
Galles, smette di alimentarsi. Ripetendo il miracolo dell’inedia prodigiosa: restare in vita senza nutrirsi, senza orinare, senza defecare, divenendo oggetto di devozione e pellegrinaggio da parte di fedeli che vedono in
lei l’essere assolutamente puro. Ormai fuori tempo per un’esperienza che
nel medioevo sarebbe stata interpretata come segno di santità, il fenomeno di devozione suscitato da Sara Jacobs diviene oggetto delle attenzioni
della Royal Medical Society. Si vede nella ragazza isterica una sfida alla
scienza. Per questo, Robert Fowler, medico della società, si assume il
compito di smascherare l’impostora. Facendosi passare per uno dei numerosi pellegrini, dissimula una visita, trama strategie sino a dichiarare
Sara Jacobs una simulatrice isterica, che a quell’epoca viene ritenuta una
pervertita morale.
Attorno a Sara Jacobs, si mobilita il sistema sanitario britannico alla ricerca della verità fino all’experimentum crucis, che consiste in una sfida a
Sara e alla sua famiglia. Si propone di inviare due infermiere che vivano
giorno e notte con Sara, controllando se davvero lei sia in grado di sopravvivere senza nutrirsi o se invece imbrogli. L’esperimento produce la morte
della giovane. La scienza vince la sua battaglia di desacralizzazione dei segni corporei. Sara Jacobs verrà considerata un’isterica e i genitori della ragazza saranno etichettati come furfanti e perseguiti dalla legge.
Durante gli stessi anni, negli Stati Uniti, un altro caso fa discutere, si
tratta di Mollie Fancher, definita l’enigma di Brooklyn. Oltre a sopravvivere digiunando, Mollie mostra sintomi di cecità, sordità, paralisi; tuttavia in
quello stato può leggere parole e numeri scritti in una busta sigillata prima
di venire aperta o compiere altri straordinari giochi di prestigio. Anche in
questo caso i medici nordamericani sfidano le imposture della giovane
21
Per la storia di Sara Jacobs e di Mollie Fancher, cfr. Brumberg, J.J., Fasting Girls,
New York, Vintage, 1988.
168
La follia rivisitata
donna, ma qui la Fancher ha l’appoggio di un gruppo di medici omeopati
che la difendono e le cose vanno diversamente: vincerà la battaglia.
I casi Mollie Fancher e Sara Jacobs sono emblematici dello scontro che
ha opposto medicina e isteria nel definire i confini di dominio sul corpo
femminile.
La medesima sfida si è riproposta con Mary, Elena e molte altre donne
che mi è accaduto di incontrare. Nella mia esperienza, l’incontro dei transfert sul piano individuale è quasi impossibile. Si tratta di ascoltare un continuo lamento mortifero, i temi sono ripetizioni senza differenza: calcoli di
calorie, avallati da incontri di box con il dietista di turno, bilance false, nascoste, invisibili, gonfiori, disprezzo del corpo, ecc. Ciò che rende difficile
il lavoro con l’anoressia è la sua vicinanza con la morte, durante le sedute
individuali è sempre presente un terzo: la morte. Come nel Settimo sigillo
di Ingmar Bergman, il terapeuta si sente lo scudiero di una cavaliera che
gioca a scacchi con la Morte, rinviando indefinitamente la fine. La terapia
familiare, e la presenza di più terapeuti, stempera questo clima mortifero.
Permette al colloquio di continuare. La dimensione ironica ravviva la conversazione, come nelle terapie di Gianfranco Cecchin, che mi è capitato di
osservare e che forniscono un importante insegnamento.
Quando Cecchin, conversando con l’anoressica e la sua famiglia, dopo i
racconti relativi alla tensione e all’insopportabile densità morale venutasi a
creare in casa, ridefinisce la paziente nei termini di meravigliosa digiunatrice, esprime ammirazione per una condotta eroica. Difficile, impossibile
da intraprendere. Non la critica, non vuole correggerla, né insegnarle come
si mangia. Impossibile insegnare a un’anoressica come si mangia. Lo sa
meglio di qualunque nutrizionista. Chissà quante nutrizioniste lo sono diventate per curarsi dai disturbi alimentari.
Questa posizione ironica è la connotazione positiva. La connotazione riguarda le qualità del soggetto. Il soggetto non È, diviene. Il paradosso consiste nel ritenere che, per quanto riguarda il soggetto, le qualità accidentali
costituiscano la sua esistenza, il soggetto è sempre altro rispetto alla substantia dell’Io. Spesso Cecchin definisce l’anoressica “meravigliosa digiunatrice”, richiamandosi all’impresa eroica di sopravvivere digiunando, un
paradosso.
Con l’anoressia isterica si riapre l’antico dibattito psicoanalitico sulla
neutralità del terapeuta. Oggi porrei la questione in questo modo: come si
fa a esercitare la neutralità nel clima isterico? La neutralità dell’analista –
ripresa successivamente da Mara Selvini Palazzoli nei termini della posizione di neutralità del terapeuta familiare – mi ha sempre evocato un ritiro
dal sociale, una chiusura nella torre eburnea dello studio clinico, del setting
Isterie
169
asettico, adatto agli intellettuali ricchi, ma anche ai mafiosi, purché paghino la parcella. Oppure evoca un servizio pubblico burocratizzato, come
quelli che ci sono oggi, in cui lo psicologo e lo psichiatra si possano rappresentare come funzionari, pieni di regole definite a livello regionale, statale, assicurativo, farmaceutico, testistico: i protocolli. In entrambe le condizioni, il dispositivo è oppressivo. Il terapeuta neutrale, non solo è
autoritario e insofferente, ma soprattutto è solo. Non entra in relazione. Il
paziente è costantemente resistente, il suo unico obiettivo è renderlo collaborativo, docile. Se sarà collaborativo con noi si adatterà alla società. Dietro queste esperienze quotidiane dei servizi pubblici e dei lussuosi studi
privati c’è un denominatore comune. Si tratta di una riproposizione del darwinismo sociale. L’adattamento funzionale nasconde la lotta per la sopravvivenza. Così l’anoressica muore nei letti d’ospedale, oppure sopravvive
morente per una vita, sfida la neutralità, l’indifferenza.
170
La follia rivisitata
Seconda Parte. La cultura isterica
La scoperta dell’isteria
L’isteria è un fenomeno di doppia intenzionalità. Platone22, nel Timeo,
l’attribuisce alla donna. Abitata da un animale, l’utero, che si muove nel
corpo, la donna è insidiata continuamente dalla corruzione prodotta dai
suoi movimenti: alto/basso, destra/sinistra, avanti/indietro. L’utero abbandona la propria sede naturale e disturba le parti del corpo in cui va a collocarsi. Come spiega la medicina ippocratica, l’utero sale con il freddo e
scende con il caldo. Poiché la donna tende al freddo, l’utero facilmente risale provocando gravidanze isteriche, dolori addominali, o, ancor più su,
globus, il bolo isterico.
In medicina è convinzione comune che gli organi sessuali maschili e
femminili siano uguali; unica differenza lo stato di maggiore freddezza della donna. Gli organi genitali nell’uomo fuoriescono, mentre nella donna
sono interni.
Thomas Laqueur23 menziona la descrizione di un caso clinico presentato dal chirurgo Ambrosie Paré (1510-1590). Germaine Garnier, giovane
maschio, robusto e barbuto, al servizio del re, fino a quindici anni vive
come ragazza: “Era tra i campi e inseguiva vigorosamente i suoi maiali,
che stavano entrando in un campo di grano, quando, imbattendosi in un
fosso, e volendo scavalcarlo, fece un salto. In quel momento i genitalia e la
verga si svilupparono in lui, rompendo i legamenti che li racchiudevano”24.
Così Marie diventa Germaine.
Paré sostiene che “la ragione per cui le donne possono degenerare in uomini” è che le donne ritengono ciò che gli uomini espongono. Ma le donne
possono diventare uomini attraverso il calore che le rende vigorose. Il termine usato da Paré per indicare la trasformazione della donna in uomo è
“degenerazione”. Tuttavia Paré attribuisce ancora un valore neutro alla parola. “Degenerazione” significa “uscita da un genere”, “cambiamento di
genere”. Ogni genere è distinto da un altro per la propria differenza specifica, differenza che si manifesta in modo inatteso. All’interno di un determinato genere il membro si trasforma, appartiene a un genere distinto, costituisce una degenerazione. Cambiamento di forma, trans-gressione della
22
23
24
Platone, Timeo, testo a fronte, Milano, Mondatori, 1994.
Laqueur, T. “Orgasm, Generation, and the Politics of Reproductive Biology”. In
Representations, 0, 14, pp. 1-41, 1986.
Paré, in Laqueur, op. cit., p. 13.
Isterie
171
legge della forma. La differenza specifica tra genere maschile e femminile
consiste nella ritenzione/esposizione di organi sessuali che in sé sono identici. Differenza di forma, identità di contenuto25.
Se la doppia intenzionalità nel corpo femminile comporta movimenti
dell’utero – animale che si muove – l’animalità, a partire da Paré, non viene negata neppure al membro maschile.
Il saggio di Friedman26 A Mind of Its Own mostra come anche il fallo segni un insieme di costruzioni culturali. Secondo Mosé Maimonide (11351204), la circoncisione avrebbe lo scopo di ridurre la sensibilità del glande
e il desiderio carnale che da ciò consegue; in modo da poter servire Dio liberi dalla lussuria. Ciò significa che il fallo ha una sensibilità propria, contrasta con le funzioni razionali, religiose e morali, una intentionalitas indipendente. Attraverso opportune operazioni, come la circoncisione, questa
intenzionalità può essere moderata.
Il glande, luogo della massima sensibilità sessuale maschile, può venire
descritto come una vera e propria testa pensante autonoma dalla volontà razionale, l’altra testa. Pietro da Ravenna (1448-1508)27 fa della sinestesia
erotica una strategia engrammatica per codificare i dati mentali: collega
ognuno degli elementi da ricordare a una parte conturbante del corpo di
una bella donna.
Secondo Friedman28, il fallo viene concepito come un organo autonomo,
indipendente e, in alcune circostanze, addirittura staccato dal corpo maschile. La verga del demonio, con la quale le streghe confessano, sotto tortura, di essersi intrattenute, viene descritta come fredda (come la donna), a
volte ghiacciata, oppure biforcuta.
In medicina, Thomas Willis (1621-1675)29 considera per la prima volta
l’isteria come una malattia del sistema nervoso, lo abbiamo visto all’inizio
25
26
27
28
29
Invero queste teorie comportavano alcuni vantaggi per le donne, infatti si pensava alla fecondazione come a una relazione sessuale in cui i due liquidi seminali,
sprigionati dall’organo maschile e da quello femminile, si incontrassero e si mescolassero nel corpo della donna. Perché ci fosse fecondazione, era ritenuto necessario l’orgasmo di entrambi.
Friedman, D. M., A Mind of Its Own, A Cultural History of the Penis, The Free
Press, New York, 2001.
Yates, F., The Art of Memory, Routledge, London, 1966. Tr. it. L’arte della memoria, Einaudi, Torino, 1972; inoltre Le Goff, J., Histoire et memoire, Gallimard, Paris, 1988.
Friedman, op. cit.
Frank, R.J., “Thomas Willis and His Circle: Brain in Mind in Seventeenth Century Medecine”, in Rousseau, G.S., The Languages of Psyche. Mind and Body in
Enlightenment Thought, Berkeley, University of California Press, 1990.
172
La follia rivisitata
del capitolo, seguendo le indicazioni di Foucault. Willis attribuiva gli spasmi isterici alle anomalie della relazione tra il sistema nervoso periferico e
quello centrale.
Più precisamente, questa tesi, diffusa nella medicina anglosassone, prevede che un’affezione al sistema nervoso periferico, dovuta a iperstimolazione
o a ipersensibilità della parte, possa trasmettersi al sistema nervoso centrale
in modo da produrre isteria. Sarà Isaac Baker Brown (1812-1873)30 a portare alle estreme conseguenze questa concezione praticando la clitoridectomia
alle donne isteriche. In questo caso l’organo dell’isteria non è più l’utero, ma
il clitoride. La brutalità di queste pratiche anticipa di un centinaio d’anni la
lobotomia, che è anche intervento chirurgico nell’epoca in cui la sede dell’isteria è collocata nel cervello, in particolare nei lobi frontali da recidere, rendendo le donne docili e quiete nella loro famiglia. Perché questo è, a voler
ben guardare, il problema della guarigione in psicologia.
Nei primi manuali psichiatrici della seconda metà del Novecento (DSMI e DSM-II), l’isteria è denominata sindrome di Briquet. Paul Briquet
(1796-1881) aveva osservato centinaia di casi d’isteria e ne aveva analizzati oltre una cinquantina nel dettaglio. Briquet è il primo a descrivere l’isteria come un quadro di sintomi parcellizzati, mobili, variegati con una
comune denominazione. Esattamente l’opposto di quanto avviene presso la
moderna psichiatria biologica e la psicologia cognitivo-comportamentale,
che hanno separato e riparcellizzato il quadro isterico in una quantità di
sintomi particolari (attacchi di panico, conversioni, dissociazioni, istrionismi, finzioni, ecc.).
Come mai il processo avviato da Briquet si è capovolto? Fare una diagnosi dei singoli sintomi (come avveniva in medicina prima della nascita
della clinica moderna) facilita il trattamento cognitivo-comportamentale e
quello farmacologico. Che se ne fanno uno psicologo e uno psichiatra, formati solo in senso tecnico, di un quadro così complesso? Dove vanno a trovarla la cultura necessaria per affrontarlo? Che c’entra con la tecnica che si
impara nelle scuole di specialità e con gli aggiornamenti successivi?
Tra il 1859, anno in cui Briquet descrive l’isteria moderna, fino a Charcot,
Bernheim, Breuer, Freud e la psicoanalisi, il quadro isterico viene ammirato,
benché gli eccessi isterici siano spesso dolorosi. Si vedono le risorse del quadro isterico e le sue linee di fuga, l’isteria ha questo duplice volto: sintomati30
Brown, I.B., “On the Curability of Certain Forms of Insanity, Epilepsy, Catalepsy,
and Hysteria in Females”, in Barreca, R., Desire and Imagination, New York, Meridian, 1995. Cfr. anche Manini, E., “Anoressia e Lesbianism” in Barbetta, P., a
cura di, Le radici culturali della diagnosi, Roma, Meltemi, 2003.
Isterie
173
co ed espressivo, si pensi soltanto a Jane Avril, isterica della Salpêtrière, poi
danzatrice al Moulin Rouge e modella di Toulouse-Lautrec.
Tutto ciò fino all’inizio della grande guerra, dove l’isteria inizia il suo
declino nei paesi capitalisti e viene annientata sul nascere nelle nuove società socialiste. La sua caratteristica più inquietante, in un mondo in cui il
campo biologico tende a essere egemone, è l’assenza di cause organiche, la
sua irriducibile psichicità, il suo manifestarsi nel sociale, la sua intrattabilità farmacologica. Così, nei manuali psichiatrici, il suo nome viene cancellato, come il nome dei dirigenti deviazionisti nelle agiografie del socialismo reale.
In epoca vittoriana, nel mondo anglosassone, l’isteria è piuttosto una
perversione morale, attribuita alle giovani donne. Una ragazza (girl), si
dice, può imbrogliare chiunque, non un uomo di medicina (medical man).
E tuttavia, le cause organiche per l’isteria non si trovano.
Quando si parla di un nesso causale, nell’epoca della scienza, ci si riferisce a un fenomeno che, sotto determinate condizioni, ha buone probabilità di produrre effetti attesi. Intorno alla fine del Settecento una commissione di esperti ricusa il magnetismo animale di Mesmer attraverso la
produzione di un experimentum crucis. Chi si presta all’esperimento è
messo nelle condizioni di provare la causalità della magnetizzazione, l’esistenza di un fenomeno fisico, il magnetismo animale, del quale si sostiene
l’esistenza accanto al magnetismo gravitazionale.
Il magnetismo animale, a differenza di quello gravitazionale, non viene
dimostrato. Il supposto nuovo Newton non è che un ciarlatano. Mesmer
non è l’ultimo. Non possiamo dimenticare, sempre in epoca vittoriana, l’inglese Myers, inventore del termine telepatia.
Myers è il contraltare di Morel31 nell’elaborazione del concetto di degenerazione. Telepatia e degenerazione per Myers32 sono elementi segretamente collegati alla condotta di un individuo di genio. L’idea faustiana di
un patto segreto col diavolo si ridefinisce, all’epoca di Myers, in modo lai-
31
32
Morel, B.-A., Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de
l’espèce humaine, Ballière, Paris, 1857; si veda anche Coffin, J-C., “Heredity, Milieu and Sin: the work of Bénedicte Augustin Morel (1809-1873)” in A cultural
history of Heredity II: 18th and 19th Centuries, Max-Planck-Institute für Wissenschaftgeschichte, Berlin, 2003. Morel, lo vedremo nell’ultimo capitolo, fu colui
che introdusse il termine degenerazione in psichiatria.
Myers, F.W.H., Human Personality and Its Survival of Body Death (1903), HamptonRoads, Chalottesville (VA), 2001.
174
La follia rivisitata
co33. Benché più ingenuo e filosoficamente meno interessante, Myers corre parallelamente a Nietzsche, pensa all’Übermensch. Esistono potenzialità imprevedibili e nascoste nel degenerato, ossia al di là del genere. Come
si tratti di una mutazione genetica imprevedibile e incomprensibile per
l’uomo medio, come se il folle sia, in realtà, una mente più evoluta. Myers
presenta nel novero delle degenerazioni alcuni casi d’isteria, come quello
di Mollie Fancher che abbiamo già visto nella prima parte del capitolo.
Analogamente nel film The Prestige di Nolan viene presentata la figura
storica di Nikola Tesla, personaggio degno di Myers. Tesla inventa il concetto di energia teletrasportata e passa alla storia come una figura di confine tra scienza e occultismo. Nel film Tesla fornisce aiuto a un prestigiatore londinese intenzionato a produrre cloni di se stesso al fine di poter
eguagliare l’abilità di un suo concorrente. Si scoprirà infine che il suo concorrente è doppio, ha un gemello omozigote con cui condivide un disordine isterico. Tuttavia l’esperimento della clonazione riesce e conduce al periodico sacrificio del clone ai fini dello spettacolo. Insomma lì, sotto la
tecnica, c’è qualcosa di segreto, di occulto. Come, ancora, la figura di Lazzaro Spallanzani nel Mago sabbiolino di E.T.A. Hoffmann, citato da Freud
nel saggio sul Perturbante.
La prima teoria freudiana, quella del vincolo psichico, benché riconosciuta erronea dallo stesso Freud, denota la genialità del metodo. Una condizione incestuosa dell’infanzia, che non trova espressione immediata, rimane vincolata psichicamente e si manifesta tempo dopo nella forma del
sintomo. La memoria del corpo non si esprime attraverso il linguaggio verbale. C’è uno iato tra visione e linguaggio. Molti anni dopo, Foucault riprenderà questa considerazione nell’ékfrasis34. L’immagine può essere descritta, ma tra lei e la sua descrizione rimane sempre una differenza
incolmabile. Freud, nella prima formulazione, aveva colto la questione
solo in parte, al punto di origine. Più avanti, a partire dalla sua autoanalisi,
33
34
Stevenson, negli stessi anni di Myers, racconta Jekyll e Hyde riproponendo, in
chiave scientifica, il dramma faustiano con le medesime connotazioni di Marlowe: la hybris dell’onniscienza conduce all’inferno. Teso a ottenere l’onniscienza,
incurante degli ammonimenti a non leggere le opere del mago Cornelio Agrippa e
la Cabbala, Faust andrà all’inferno, come Jekyll si trasformerà in Hyde. La differenza tra il Faust di Christopher Marlowe e quello di Goethe è che, in Marlowe,
Faust viene dannato. Sulla posizione antisemita di Marlowe, sia nell’opera L’ebreo di Malta che nel Faust, cfr. Frances Yates, The Occult Philosophy in the Elizabethan Age, Routledge, London, 1979. Tr. it. Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, Einaudi, Torino, 1982.
Cometa, M., “Modi dell’ékfrasis in Foucault”, in Cometa, M., Vaccaro., S., Lo
sguardo di Foucault, Roma Meltemi, 2007.
Isterie
175
si accorgerà che questa differenza riguarda anche l’espressione ultima, il
sintomo isterico. Come i mulini a vento del Quijote, i sintomi isterici sono
trasfigurazioni del reale.
Fondendo in uno teoria e sintomatologia, Jung e il fisico Wolfgang Pauli (1900-1958) affrontano un aspetto importante del quadro isterico: la sincronicità. I due saggi, di Jung e Pauli, compaiono insieme nel 1952.
Pauli osserva che durante la propria analisi i sogni hanno una strana configurazione: somigliano ai concetti della fisica. Conia il termine Hintergrundphysik, ipotizzando una sorta di immaginario simbolico/qualitativo
che farebbe da sfondo alla concettualizzazione in fisica. Secondo Pauli,
gran parte delle scoperte di Keplero derivano dalle immagini simboliche:
“[Keplero] crede con fervore religioso al sistema eliocentrico perché guarda al Sole e ai pianeti con [l’immagine archetipica della Trinità] sullo sfondo – e non viceversa, come una visione razionalistica potrebbe falsamente
supporre”35. Pauli rivaluta la fede nelle corrispondenze tra ciò che viene
spiegato empiricamente e le ombre nascoste dietro il dettaglio della conoscenza: l’anima mundi che muove le armonie universali. Pauli è fisico di
professione ed è contemporaneamente attratto dalle tradizioni ermetiche, e
dalla psicoanalisi junghiana.
Se si leggono contemporaneamente il testo36 sulla sincronicità di Jung e il
saggio di Freud37 sul perturbante, scritto molti anni prima, ci si rende conto
delle profonde affinità e delle influenze del maestro sull’allievo. In entrambi
i casi si dà conto di un mondo originario che sta oltre la tecnica. Benché Jung
tenda a reificare questo mondo, mentre Freud lo mantiene nel campo dell’interiorità psichica, la sintesi di Pauli, che affronta il campo dell’onirico, sembra perfetta. Pauli attribuisce alle sue scoperte, come a quelle di Keplero,
un’origine onirica, religiosa, al di là del principio di realtà.
Perversioni
Il fenomeno isterico non esiste al di fuori della relazione, nella relazione si mostra e ha molte manifestazioni: la chiaroveggenza, la sensitività, la
35
36
37
Pauli, W., op. cit. pp. 77-78.
Jung, C. G., Die Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, 1952.
Tr. it. La sincronicità come principio di nessi acausali, in Opere, vol. 8, Bollati
Boringhieri, Torino, 1976.
Freud, S., Das Unheimliche, 1919. Tr. it. Il perturbante, in Opere, vol, 9, Bollati
Boringhieri,Torino, 1977
176
La follia rivisitata
magia, la prestidigitazione, il magnetismo, la telepatia. Jung usa a questo
proposito una bella espressione: il soggetto va incontro alla sincronicità. La
manifestazione sintomatica – il dolore fisico, la contrattura, la paralisi, la
scialorrea – altro non è che un fenomeno magnetico. Ma come, se il magnetismo animale non esiste?
Charcot e Freud provano un’altra via. Il primo usa un metodo pratico,
non si preoccupa di fare una teoria. Si accorge che le isteriche della Salpêtrière, a differenza dell’esperimento di Mesmer, rispondono all’ipnosi; chiama il fenomeno suggestione e inventa la psichiatria dinamica38.
Freud inventa la psicologia dinamica, dà a Charcot una teoria: pensa al
trauma infantile come a una relazione incestuosa. Questa teoria fa scandalo. Freud la espone nel mezzo della Belle Époque, periodo di ottimismo, in
cui è opinione dominante che le guerre siano destinate a sparire dalle relazioni umane. Ma la Belle Époque rappresenta il massimo splendore dell’isteria: 1870-1914.
Allora l’isteria è un clima culturale, una moda. Nelle grandi città europee e americane (Londra, Parigi, Chicago, Buenos Aires) il fenomeno isterico produce leggende (Jack lo squartatore, Mister Hyde), figure perturbanti (l’apache, il gangster), linguaggi (il lunfardo), mostri (la donna barbuta,
l’uomo elefante, il freak).
L’inurbamento produce emozioni nuove, ricerca di esperienze viventi in
cui si abbia la garanzia, o almeno la sensazione, di essere a rischio: rapinati, violentati, umiliati, imbrogliati, straziati. In questo clima le persone
escono di casa, frequentano postriboli, locande malfamate, luoghi abitati
da individui sinistri al solo scopo di provare sensazioni forti, mettere a rischio la propria esistenza, misurarsi e posizionarsi in una gerarchia sociale
nascosta.
Il principale antagonista di questo fenomeno è la medicina morale. La
medicina morale ha un riferimento importante in Pinel, Esquirol, Morel.
Morel ritiene che condizioni di miseria, sporcizia, immoralità conducano la
gente alla degenerazione. Il fenotipo sociale si trasforma in genotipo sociale. Ogni condizione di miseria e sporcizia deve venire risanata a scopo preventivo, questo il compito fondamentale della medicina morale. Dottrina
38
Fontana, A., L’ultima scena, in Alessandro Fontana, a cura, Bourneville e Regnard. Tre storie d’isteria, Marsilio, Venezia, 1982. Inoltre, Ellenberger, H. F.,
The Discovery of Unconscious, Basic Book, New York, 1970. Tr. it. La scoperta
dell’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Isterie
177
non distante, dal punto di vista metodologico, dalla moderna epidemiologia
che calcola i fattori di rischio ambientale39.
Uno dei maggiori ammiratori di Morel, il medico tedesco Richard von
Krafft-Ebing (1840-1902), scrive la monumentale Psychopathia Sexualis40
proprio nell’epoca in cui Charcot allestisce in Francia il teatro della
Salpêtrière e Freud inizia i primi studi clinici sull’isteria.
Krafft-Ebing definisce il processo psicofisiologico relativo alla sessualità come composto da due istinti correlati: l’istinto di contrectazione e l’istinto di detumescenza. Il primo consiste in una serie di rappresentazioni
risvegliate dal sistema nervoso centrale, o periferico, che spingerebbero al
contatto fisico con un’altra persona; il secondo in un bisogno, che parte dagli organi genitali, di soddisfarsi.
Nella sessualità normale, questi due istinti sarebbero coniugati; istinti
che si manifestano durante lo sviluppo psicofisiologico. Se non coltivati in
modo corretto potrebbero condurre a degenerazioni psicopatologiche. La
Psychopathia Sexualis è un grande trattato intorno a queste possibili degenerazioni: istinti sessuali al di fuori della normale età, anestesie e iperestesie sessuali, sadismi, masochismi, feticismi, esibizionismi, omosessualità,
pedofilie, gerontofilie, zoofilie, masturbazioni.
Testi del medesimo tipo si diffondono nell’ambito della pediatria, allo
scopo di prevenire le degenerazioni sessuali nei fanciulli41, in ginecologia,
39
40
41
I fattori di rischio della moderna epidemiologia vengono definiti in base a ricerche validate statisticamente e si basano su ipotesi scientificamente riconosciute.
Ci dicono, per esempio, che il fumo ha una certa incidenza sull’insorgenza delle
malattie polmonari perché sono stati raccolti dati formulati in base a ipotesi scientificamente dimostrabili. Così le trasmissioni ereditarie di malattie che, in taluni
casi, vengono definite degenerative possono essere predette con un certo grado di
probabilità. Qui e là il contributo morale della medicina riemerge come nel caso
di una donna che perde un’unghia del piede dopo averlo urtato e l’ortopedico la
rimprovera di portare troppo spesso le scarpe coi tacchi a spillo. Indagini diagnostiche approfondite mostreranno che si trattava del segno di una malattia neurologica a trasmissione ereditaria. Difficile per un uomo di medicina, pure ai giorni
nostri, farsi sfuggire un rimprovero nei confronti di una supposta isterica. Si tratta di un caso descritto nei particolari nel libro di G. Erba, La malattia e i suoi
nomi, Meltemi, Roma, 2007.
Krafft-Ebing, von R., Psychopathia sexualis, Enke, Stoccarda, 1886. Testo rivisto interamente da Albert Moll nel 1923; la versione da me consultata in lingua
francese, del 1931, ha un’introduzione di Pierre Janet, la versione edita in lingua
italiana, ne ho veduta una del 1954, porta la prefazione di Carlo Besta. Attualmente esiste una versione ridotta dell’opera, con prefazione di Giorgio Agamben, intitolata Biografie sessuali, Neri Pozza, Milano, 2006.
Ne parlo nel mio libro Il bambino e l’acqua sporca, Lubrina, Bergamo, 1997.
178
La follia rivisitata
allo scopo di evitare comportamenti materni perversi durante la gravidanza, o per esprimere condanna verso le madri degenerate che non allattano
il bambino al seno e si avvalgono di balie42.
Sono note le opere di Paolo Mantegazza; la Dora di Freud43, secondo la versione del padre, manifesta i primi sintomi isterici a seguito della lettura della
Fisiologia dell’amore, libro per uomini di medicina, non per fanciulle.
Quest’epoca è attenta alla sessualità come fenomeno di trasmissione
della degenerazione, ben al di là della questione genetica. La sessualità
promiscua viene indicata come generatrice di follia – il caso Nietzsche ne
è il paradigma – conduce a un disagio che non può venire guarito: sifilide,
tubercolosi, isteria, dementia praecox. Cifre della degenerazione, effetti
delle condotte immorali, riguardo cui bisogna agire in maniera preventiva.
L’idea che queste malattie siano la punizione dell’immoralità fa sì che si
costituiscano come metafore della degenerazione. La condotta degenerata
e perversa sfocia nella malattia organica e psichica. Non si tratta più di individui, bensì di intere famiglie tarate, che, a loro volta, tendono a perpetuare comportamenti degenerati, famiglie che vivono nelle medesime aree
territoriali, i quartieri operai e sottoproletari, che producono intere comunità degenerate. Ecco la giustificazione biologica al dominio di classe.
Che c’è ora di diverso? Dopo la fine della Grande Guerra la neurologia
è costretta a riconoscere l’origine psicogena di molti traumi di guerra. La
prima delle guerre che hanno devastato il Novecento fa emergere esperienze orribili. La gente si trova di fronte a periodi di tensioni sociali enormi.
C’è chi cerca di reagire politicamente, chi religiosamente oppure rinnovando sistemi di credenza e superstizioni ancestrali. Nel 1945 termina lo sconvolgimento della seconda guerra mondiale – il genocidio, lo sterminio, la
Shoah, la bomba atomica – e inizia un lungo periodo denominato Guerra
Fredda. Si vive con l’incubo della distruzione atomica. L’energia atomica,
massimo prodotto della ricerca scientifica, evoca fantasmi e potenze demoniache. La sua invenzione sconvolge i fondamenti della scienza classica.
Poi, per altri trent’anni, benché sotto la minaccia atomica, nascono nuove
speranze di liberazione: la Primavera di Praga, il Sessantotto di Parigi, l’esperienza di Woodstock, la psichiatria democratica, la liberazione del gen-
42
43
Cfr. Barbetta, P., op. cit., dove si analizza la pubblicistica pediatrico-ginecologica
rivolta alle madri dall’inizio del Novecento fino a fine secolo (il libro uscì nel
1997 e la ricerca, svolta nell’ambito del mio Dottorato, risale agli inizi degli anni
Novanta).
Freud, S., “Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora) (1901)”, in
Freud, S., Casi clinici, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
Isterie
179
der. Oggi assistiamo a una ricostituzione del discorso morale di Pinel, trasformato in tecnologia che rende i corpi docili, il cervello diventa metafora
della società, tenere sotto controllo il cervello diventa tenere sotto controllo la società, attraverso una burocrazia che occulta l’oppressione. Per questo l’isteria va eliminata. Ma il rizoma isterico, come una mala pianta, si ripresenta in tutte le sue varianti collettive e individuali, è ineliminabile, è
libertà di espressione.
Organi senza corpo
A questo punto della trattazione siamo di fronte a un capovolgimento:
l’isteria sembra diventata un fenomeno prettamente maschile. Invero i movimenti dell’animale utero nel corpo della donna sono invenzioni della filosofia e della medicina maschili; l’idea che gli organi sessuali femminili
siano così elementari come quelli maschili è stata pure un’idea maschile e
la stessa idea di un’intentionalitas separata e parallela è proiezione maschile sulla donna.
L’isteria ha sempre solleticato le fantasie maschili, ha stimolato un’attenzione maschile verso le donne: le donne, le isteriche, sono l’Altro. Suscitano attrazione sessuale, ma, se stuprate, disprezzate o trascurate, non
soffrono, si tratta di sintomi isterici. In quanto fredde suscitano ostilità,
sono frigide. Poiché sono instabili, per via dei movimenti dell’utero, sono
inaffidabili, perciò devono, venire discriminate ed emarginate dai luoghi
dove si esercita la responsabilità. Di una donna che soffre non si ha la medesima compassione, potrebbe essere una condizione isterica. Tutto ciò
verrebbe negato da qualsiasi maschio, conosciamo il fenomeno psichico, si
chiama denegazione.
Nel medesimo tempo l’isteria è stata e rimane cifra della dissidenza che
non può essere collocata dentro la dimensione dialettica. L’eroe dialettico,
nella versione romantica o proletaria, vive dentro il movimento dell’Aufhebung, e, a sua volta, viene tolto. L’isterica è regina nel regno dell’ambivalenza. Di cui la seduzione è soltanto un aspetto, neppure il più interessante. Seduzione già denota, nel suo significare, il tentativo dialettico e
strategico alla conquista. Charcot non veniva sedotto, veniva suggestionato. La suggestione dell’isteria è ricorsiva, suggestiona a suggestionare, mostra dolore senza ragione, porta l’uomo di medicina a delirare, a uscire dal
suo seminato di scienziato neutrale per entrare nel campo del discorso morale. Suscita condanna, riprovazione.
180
La follia rivisitata
Poi l’uomo di medicina desiste, si accorge di essere andato oltre e cerca,
con Charcot, nuove relazioni con il fenomeno. Le trova nell’ipnosi, che
però non ha alcuna possibilità di costituirsi come scienza. Glielo nega il
metodo sperimentale. Allora la medicina si avvale di un noto escamotage,
la prova terapeutica: l’ipnosi, condannata al rango di ciarlataneria, viene ripescata da Charcot perché funziona. Ma – questa la differenza tra Charcot
e Bernheim – solo con le isteriche. Chi subisce il processo ipnotico, per il
solo fatto di subirlo, è isterico. Il vero suggestionato è proprio lui, Charcot.
E con lui la sua équipe della Salpêtrière.
L’isterica, aderendo alle pratiche ipnotiche, costringe l’uomo di medicina a violare il codice ippocratico, a metterne in questione i fondamenti, stabiliti in maniera chiara nel testo La malattia sacra. Il medico diventa mago,
secondo delirio. Prima moralista, poi mago.
L’isterica, regina nelle piccole differenze, aderisce alla medicina per
produrne un deragliamento, torce l’ordine del discorso clinico, lo stravolge. Niente a che fare con l’anti-psichiatria.
FILOSOFIE
Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella
filosofia di Stuart Hampshire
Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans
Jonas
Antonino Trusso, L’uomo allo specchio
Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma
Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in
divenire
Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno
internazionale di studi
Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione
Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze
Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità
Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione
Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto,
Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri
Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe
Semerari
Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson
Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria
Zambrano
Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e
dell’espressione in Helmuth Plessner
Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo.
Filosofia, Religione, Cultura
Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di
responsabilità”
Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico
Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia
di Martin Heidegger
Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento
Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo
Deleuze
Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche
Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in
dieci lezioni
Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty
Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene
Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica
Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste
Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore
della natura e coscienza globale sulla via della complessità
30.
31.
32.
33.
34.
35.
36.
37.
38.
39.
40.
41.
42.
43.
44.
45.
46.
47.
48.
49.
50.
51.
52.
53.
54.
55.
56.
57.
58.
59.
60.
61.
62.
63.
64.
Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti
Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire
Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo
Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James
Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione
Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia
angelomorfica
Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo
romanticismo tedesco
Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan
Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica
Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione
etica interculturalità
Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di),
Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini
Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel
pensiero di Hans-Georg Gadamer
Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti
Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa
Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in
Theodor W. Adorno
Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del
mondo antichissimo
Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica
Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani,
Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album
di famiglia della scuola repubblicana
Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese
Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica
Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia
contemporanea
Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così
parlò Zarathustra di F. Nietzsche
Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti,
Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I
Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio
Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il
dialogo della ragione dilagante
Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis
Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici
Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di
Rawls, Korsgaard e O’Neill
Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo
Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig,
W. Benjamin ed E. Levinas
Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter
Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo
65.
66.
67.
68.
69.
70.
71.
72.
73.
74.
75.
76.
77.
78.
79.
80.
81.
82.
83.
84.
85.
86.
87.
88.
89.
90.
91.
92.
93.
94.
95.
96.
Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae
René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti
Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male
Franco Manti (a cura di), Res publica
Luca Marchetti, Oltre l’immagine
Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini
Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel
Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica
concettuale
Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli,
Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa
Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di
Immanuel Kant
Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita
quotidiana
Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini
Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due
avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di
entrambi
Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona
Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino
Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia
sociale
Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla
storia
Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della
narrazione di sé
Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico
Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità
Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M.
Ejzenštejn
Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica
Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo)
Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida
German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i
mass media audiovisivi
Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella
fenomenologia di Husserl
Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia
società. Studi in onore di Mario Alcaro
Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione.
Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali
Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino
Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo
Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella
Repubblica di Platone
Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba
dell’arte
97.
98.
99.
100.
101.
102.
103.
104.
105.
106.
107.
108.
109.
110.
111.
112.
113.
114.
115.
116.
117.
118.
119.
120.
121.
122.
123.
124.
125.
126.
127.
128.
129.
Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno
Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia
Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità
scomposta. Sull’attualità del Leviatano
Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche
Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche
e Stravinskij
Raniero Fontana, Avodah Zarah, un’introduzione al discorso rabbinico
sull’idolatria
Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon
Panikkar
Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie”
Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e
tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento
Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne
Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla
mente
Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di
Schopenhauer e altri scritti
Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie
politiche moderne
Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra
logica, psicologia ed estetica
Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer
Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva
di Jan Patočka
Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità
Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina
della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810)
Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida
Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare
Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla
filosofia francese contemporanea
Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica
Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo
Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e
disincanto
F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in
K.-O. Apel
Soardo Andrea, Accade l’accadere
Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni
Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto
Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele
Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile
Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente
Auguro Ponzio, In altre parole
Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del
pensare. In dialogo con Umberto Curi
130. Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di
Vittorio Chietti
131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di
S. A. Kauffman
132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto
133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di
manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C.
134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione.
Scritti in onore di Luigi Ruggiu
135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo,
in preparazione
136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema
137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica
138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo
139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura
140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain
141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia
142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design
143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia
e dei suoi segreti
144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto
145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla
146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies,
Durkheim, Mauss
147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e
nel Gorgia
148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo
spazio, 2011
149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele
150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo
dopoguerra ai giorni nostri
151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica
della capacità di giudizio
152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto
153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della
tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo
154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo
155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia
dell’estetica
156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte
157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze
158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello
spazio della letteratura
159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud
160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger
161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza
e biopolitica. A partire da Michel Foucault
162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno
163.
164.
165.
166.
167.
168.
169.
170.
171.
172.
173.
174.
175.
176.
177.
178.
179.
180.
181.
182.
183.
184.
185.
186.
187.
188.
189.
190.
191.
192.
193.
194.
195.
196.
Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica
Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione
Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida
Paulo Barone, Utopia del presente
Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio
Rosmini in Svizzera
Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica,
2012
Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo
e fenomenologia
Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze
Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria
Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza
cognitiva
Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e
fedi
Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione
metafisica dei valori
Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur
Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti
Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora
Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio
Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali?
Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza
e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio
Riccardo Corsi, Incroci simbolici
Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica
Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti
Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del
Novecento
Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di
Michelstaedter e Merleau-Ponty
Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione
individualista nelle scienze sociali
Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo
dell’assenza
Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί
ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura
Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni.
Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito
Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi
José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di
Pietro Piro
Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo
Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico
Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune
Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e
forme d’arte del Novecento
197.
198.
199.
200.
201.
202.
203.
204.
205.
206.
207.
208.
209.
210.
211.
212.
213.
214.
215.
216.
217.
218.
219.
220.
221.
222.
223.
224.
225.
226.
227.
228.
229.
230.
231.
232.
233.
234.
235.
Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder
Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari
Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou
Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento
Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione
Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura
S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme
Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un
discorso in frammenti
Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch
Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia
Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero
J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione
Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura
Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia
contemporanea
Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900.
Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath
Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione
Luca Mori, Tra la materia e la mente
Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno
Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica
Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere
Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana
Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico
Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger
Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza
Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia
e nelle scienze naturali
Liliana Nobile, Democrazie senza futuro
Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con
unʼintervista inedita
Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero
occidentale
Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica
Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in
Walter Benjamin
Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka
Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia
Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine
Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco
Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento
Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze
Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo
Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso
Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume
Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in
Wittgenstein e Wollheim
236. Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi
delle identità
237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in
Giovanni Gentile
238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte
239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed
epistemologico
240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia
241. Erasmo Storace, Genografie
242. Erasmo Storace, Tanotagrafie
243. Erasmo Storace, Poietografie
244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte
245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti
246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale
247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e
teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin
248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra
Oriente e Occidente
249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e
politica. Saggi in onore di Mario Reale
250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche
filosofiche in movimento
251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il
“verdetto” di Adorno e la risposta di Celan
252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere
253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore
254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità
255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura
256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia
257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali
258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale
259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento
dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta
260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo
261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte
262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano
263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa
264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi
dell’esistenza
265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male
266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio
267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio
dell’analogia
268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica
269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia
270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang
271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia
nella filosofia di Severino Elias Ngoenha
272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità
273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale
(1970-2010)
274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica
275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri
276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio
introduttivo attorno all’ermeneutica mitica
277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di
F.W.J. Schelling
278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il
caso, il silenzio, la natura
279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico
280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras
281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl
282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf
283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter
284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto
moderno
285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi.
Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas
286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici
287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner
288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire
289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione,
traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore
290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso
storico
291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e
l’apologia dell’apparire
292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi
293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere
294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della
λήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger
295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale
296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti
297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger
298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella
299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana.
Dottrine, testi, contesti e lessico
300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e
Schleiermacher
301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte
302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità
303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere
304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia
305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica
306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello
Zarathustra di Nietzsche
307. Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia»
308. Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe
309. Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi
310. Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive
filosofiche sulle scienze della vita
311. Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza
312. Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in
Friedrich Nietzsche
313. Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica
314. Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del
classico
315. Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e
narrazione della sua trasmutazione
316. Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario
317. Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto
318. Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco
319. Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione
di Heidegger a partire dal Kantbuch
320. Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in
Denis de Rougemont
321. G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804)
322. Leonardo V. Distaso – Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín:
un’indagine storica ed estetica 1933-1945
323. Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e
nellʼebraismo
324. Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone
325. Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli
326. Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore
di Giovanni Invitto
327. Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni
328. Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione
329. Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo
Michelstaedter
330. Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion
331. Francesco Rizzo, Filosofia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio,
etica, estetica
332. Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La
Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena
333. Giulio Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero. Scritti sul pensiero di
Emanuele Severino
334. Alfred Adler, Ernst Jahn, Religione e Psicologia Individuale, a cura di Egidio
Ernesto Marasco, postfazione di Gian Giacomo Rovera
335. Laura Gherlone, Dopo la semiosfera. Con saggi inediti di Jurij M. Lotman
336. Marco de Paoli, La Tragica Armonia. Indagine filosofico-scientifica sulla genesi
e l’evoluzione del vivente
337. Chiara Paladini, Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart
338. Giovanni Botta, La struttura dell’eterno. Le Mélodies di Gabriel Marcel
339. Pietro Piro, I frutti non colti marciscono. Temi weberiani e altre inquietudini
sociologiche
340. Domenico Felice, Montesquieu e i suoi lettori
341. Emanuele Quinz, Il cerchio invisibile. Ambienti, sistemi, dispositivi
342. Tiziana Pangrazi, Adorata forma. Saggio sull’estetica di Ferruccio Busoni
343. Leonardo V. Distaso, Estetica e differenza in Wittgenstein