rivista foedus n° 32:rivista foedus n° 1

SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero 32, 2012
Governo del territorio
Pag. 03
Analisi delle politiche e teoria politica: rivisitando alcuni ‘classici’ dello studio della città
nella scienza politica americana di Francesca Gelli
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Pag. 32
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia di Roberto Maiocchi
Pag. 50
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche di Fabio Minazzi
Pag. 63
Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato. Il principio di esecutorietà
del provvedimento amministrativo di Giovanni Cofrancesco
Pag. 73
Laicità di Dino Cofrancescoo tra le costellazioni del sapere
Federalismo
Pag. 84
Il federalismo di Alberto Mario di Mario Quaranta
Pag. 99
La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo? di Elio Franzin
Pag. 104 Governo, ordine politico, soggettivazione. Su federalismo e partecipazione
di Sandro Chignola
Americana
Pag. 111 Paul Bowles, scrittore e compositore americano di Piero Sanavio
Pag. 113 Big Two-Hearted River di Hemingway di Piero Sanavio
Amministrare Organizzare Partecipare
Pag. 115 Il Federalismo fiscale dopo il decreto “salva Italia” di Giuseppe Bortolussi
LibriLibriLibri
Pag. 121 Recensioni
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Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica: rivisitando alcuni ‘classici’ dello studio della città
nella scienza politica americana1
Governo del territorio
1. Introduzione
1
Versioni precedenti di questo lavoro sono state discusse in due seminari organizzati nel corso del 2008 nell’ambito del Dottorato in
Politiche Pubbliche del
Territorio dell’Università
IUAV di Venezia, e ad un
Panel del Convegno
Annuale della Società di
Scienza Politica tenutosi a
Pavia nello stesso anno
(Chairmen: Rainer Eisfeld e
Paul Godt; Discussants:
Thedore Lowi e Mauro
Calise). Alcune parti sono
state pubblicate in uno
scritto successivo, in inglese
(Gelli, 2009).
L’obiettivo di questo saggio è quello di fornire alcuni spunti di riflessione sulla
connessione tra due studi di caso paradigmatici nei policy studies, realizzati negli
anni ’60 del secolo scorso da giovani scienziati della politica americani, che
hanno contribuito alla definizione di due distinte linee di ricerca a partire dall’analisi del processo politico urbano. Parafrasando Calise (su Lowi: 1999), queste
opere hanno portato innovazioni nel mainstream, operando la decostruzione
radicale di paradigmi consolidati nell’analisi politica, ma sono anche rimaste saldamente posizionate all’interno del nucleo centrale delle scienze politiche americane, misurandosi con i grandi temi del periodo.
Le due opere sono: “At the Pleasure of the Mayor. Patronage and Power in New
York City, 1898-1958”, una esplorazione di Theodore Lowi sulla politica urbana
in una grande città nel periodo della rapida espansione delle politiche dell’amministrazione comunale e della sfera di influenza del sindaco, e “Leadership in a
Small Town”, un’analisi di Aaron Wildavsky sulle strutture urbane del potere e i
processi di decisione pubblica nella piccola città universitaria di Oberlin, in Ohio.
Entrambi pubblicati nel 1964, questi lavori hanno quale presupposto l’analisi di
2
Lowi e Wildavsky hanno
Dahl su New Haven, “Who Governs? Democracy and Power in an American City”,
infatti studiato
edita nel 1961, un’esemplare ricerca sul governo urbano, le relazioni di potere
all’Università di Yale e lì
della comunità e la qualità della democrazia in una città americana di medie hanno potuto conoscere in
profondità il lavoro di
dimensioni2.
Dahl. Mentre delle due
In “At the Pleasure of the Mayor”, Lowi presenta la sua prima formulazione della
ricerche di Lowi e
teoria delle “arene del potere”, basata sull’ipotesi di uno schema interpretativo
Wildavsky, sopra citate,
generale per la classificazione delle politiche pubbliche in categorie funzionali, non abbiamo traduzione in
che svilupperà successivamente in studi sulle politiche federali. Tuttavia, mentre italiano, di quella di Dahl
questi ultimi sono frequentemente citati nella letteratura italiana sulle politiche abbiamo quella di Sartori
(“Chi detiene il potere?”),
pubbliche3 per l’ampia divulgazione di due articoli di Lowi, rispettivamente del per un estratto pubblicato
1964 e del 1972, circolati su note riviste scientifiche del settore, assai raro risulta
nell’Antologia di Scienza
in letteratura il riferimento al caso-studio sulla politica della città di New York,
politica (1970).
che per altro ha interessato principalmente per l’analisi dei poteri urbani (vedi: 3
Della Porta, 1999; Calise, 1999). Da ciò discende una conseguenza per gli studi In particolare, per la classificazione delle politiche
successivi di scienza politica in Italia e cioè che la teoria delle “arene del potere”, ivi esposta (vedi, ad esemassieme con la tipologia delle politiche pubbliche contestualmente suggerita,
pio: Capano e Giuliani,
hanno avuto quale terreno empirico di approfondimento e sviluppo l’analisi
1996).
3
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Più in generale, sul contributo delle scienze politiche
americane alla comprensione del processo politico
urbano, si veda il significativo saggio di Wood (1963),
tradotto dall’inglese in una
raccolta di saggi a cura di
Crosta (1990a).
5
In aggiunta agli studi di
caso di Dahl, Wildavsky e
Lowi, si vedano, per citare i
classici, i precedenti lavori
di Sayre e Kaufman (1960)
e le opere di Banfield su
Chicago (con Meyerson,
1955; 1961; con Wilson,
1963); Bachrach e Baratz,
(sulle politiche di rigenerazione urbana a Baltimora,
1970); Pressman (con
Wildavsky, sull’attuazione
dei programmi federali di
sostegno allo sviluppo e
sulla politica urbana a
Oakland, 1973; 1975);
Jennings (sui processi decisionali nella città di
Atlanta, 1964; contro le
conclusioni di Hunter,
1953); Ostrom, Tiebout e
Warren (casi di studio su
problemi e pratiche di
governo nelle aree metropolitane, come ramo di studi
sul federalismo, 1961). Ma
l’elenco è molto lungo.
4
delle politiche a livello nazionale (a partire appunto dall’esempio degli studi di
Lowi sulle politiche federali) e non della politica urbana che, come si è detto, ne
è stata invece il fondamento4.
Venendo all’altro studio di caso proposto, “Leadership in a Small Town” contiene aspetti che annunciano la successiva concettualizzazione di Wildavsky (con
Pressman, 1973) sui problemi di implementazione delle politiche, come ambienti complessi di interazione sociale e di produzione di rappresentazioni (dei problemi; delle domande sociali; dell’azione dei governi). L’analisi “micro” delle
situazioni e delle questioni, delle storie locali si accompagna alla ricerca degli elementi che possono essere astratti dai contesti particolari, costituendo una conoscenza anche teorica dei processi decisionali, degli esiti più frequenti. Lo scopo
è infatti, anche, di generalizzazione e comparazione: “to abstract elements which
would facilitate comparisons among the case histories by classifying issue contexts along various dimensions and examining their consequences for decision
making” (Wildavsky, 1962, 717). È, infine, uno studio che rivela in nuce l’interesse di Wildavsky per le dimensioni cognitiva e culturale dei processi di policy,
visti come corsi di azione dal valore anche simbolico e connotati, più che da
razionalità olimpica, da fertile ambiguità.
In entrambi questi lavori, di cui si sottolinea lo spessore empirico e teorico, la
rilevanza della politica urbana come campo strategico di ricerca per la comprensione della politica democratica è esplicitamente riconosciuto. In discussione è
la realtà politica e sociale del pluralismo (e l’approccio pluralista, affermatosi in
contrasto con le tesi elitiste), come rispondere dei suoi successi e fallimenti. La
città si offre come ambiente analitico ideale – in quanto contesto di pluralità e
complessità dell’azione politica, che si può osservare nel micro dell’intreccio tra
politica e politiche e dove una componente essenziale ai fini della qualità democratica è rappresentata dalla partecipazione attiva dei cittadini, sia spontanea sia
promossa dai governi. Se, da un lato, lo studio della ‘macchina urbana’, mettendo in luce le prassi e i risultati concreti del governo democratico rappresentativo, disvela le contraddizioni interne e la idealità del credo democratico americano (date le iniquità profonde e estese nella distribuzione di poteri, di risorse,
nella capacità dei singoli cittadini di avere peso nelle decisioni pubbliche e potere di controllo sull’operato degli apparati del sistema politico-amministrativo),
dall’altro, l’innovazione sociale che ha luogo negli ambienti urbani e nei processi di costruzione delle politiche propone la città come laboratorio di pratiche di
democrazia e di produzione di beni comuni.
Gli studi americani sulla politica urbana che fioriscono tra gli anni ’50 e ’70 sono,
in questa prospettiva, una miniera d’oro, terreno per lo sviluppo di importanti
approfondimenti che hanno contribuito alla formulazione di avanzamenti nella
teoria politica, ancora oggi fondamentali negli studi di scienza politica5.
Cumulativamente, essi hanno tracciato una tradizione di studi teorici ed empirici che non si è avuta in Italia. Lo studio della città è in generale un campo sottostimato, con poche eccezioni (oltre a Della Porta, si veda Sola, 1996), prevalendo in coerenza con l’approccio stato-centrico l’analisi delle forme del decentramento, quale processo gestito dall’alto per rafforzare il funzionamento dello
Stato, assicurando maggiore efficacia agli interventi dell’azione pubblica. E dire
che, storicamente, l’Italia è stata il laboratorio delle forme del governo urbano,
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
della tradizione dell’autonomia municipalista, della produzione di un sapere
politico fondato sullo studio della città. Nel corso del Novecento, dopo il fascismo, la scienza politica italiana cresce nell’analisi empirica delle istituzioni del
sistema democratico rappresentativo, delle organizzazioni dei partiti, dei gruppi
di interesse, concentrandosi sulle forme della leadership politica e sulla competizione tra leaders. Complessivamente, si sviluppa come scienza del buon governo e insieme di competenze tecniche al servizio della domanda, espressa dallo
stesso sistema politico, di soluzione di aspetti di ingegneria istituzionale, di
miglioramento dei meccanismi elettorali, di riforma dell’amministrazione pubblica, etc. Lo studio della democrazia è “scienza dello Stato” e delle forme di rappresentazione e realizzazione dell’interesse generale.
In particolare, la dimensione politica della città come terreno per la formazione
delle politiche non trova spazio in agenda. Le analisi della politica urbana e del
sistema politico locale sono state in gran parte incentrate sui partiti, sulle elezioni e sui modelli di voto, oppure su indagini statistiche atte a cogliere linee di tendenza e trasformazioni delle caratteristiche socio-economiche, delle dinamiche
demografiche delle popolazioni rurali/urbane, senza una seria considerazione
per le politiche6. La ricerca sulle analisi della politica locale, probabilmente
influenzata, in una certa misura, dalle stesse caratteristiche dei contesti urbani
italiani del periodo, si è concentrata soprattutto sullo studio della città-come-fabbrica (vale a dire, il luogo in cui si concentrano gli effetti delle decisioni di sviluppo economico, delle scelte localizzative) e del locale-come-periferia dell’apparato politico-amministrativo centrale, luogo di concentrazione delle clientele e
del patronaggio, della corruzione guidata dal sistema dei partiti che controllano
l’arena elettorale (operando così una riduttiva semplificazione della “sfera politica urbana” nella politica elettorale dei partiti, e di conseguenza una diminuzione
della dimensione politica dell’azione locale e del suo potenziale generativo di
democrazia). Lo studio dei poteri urbani ha evidenziato il degrado delle istituzioni democratiche.
Inoltre, se, da un lato, sul piano della speculazione teorica7, scarsa attenzione è
stata posta nel dibattito scientifico all’ambiente urbano di formazione del processo politico dall’altro, la (relativa) produzione di analisi empirica, come studio
di casi di politiche, si è avvalsa di una logica e pratica d’indagine assai diversa da
quella che caratterizza le ricerche che stiamo prendendo in considerazione8. Si
affermano le teorie di Sartori. In particolare, nei procedimenti di analisi comparativa adottati largamente nello studio dei fenomeni politici, l’applicazione della
nota scala di astrazione dei concetti ha ingenerato a volte un irrigidimento delle
stesse premesse teoriche. Per Sartori, la scienza politica, vista nei termini di “una
conoscenza empirica della politica provvista di validità scientifica” (Sartori, 1979,
10), deve sgravarsi dall’ipoteca delle filosofie della politica, che hanno trattato i
problemi politici su di un piano speculativo, e dalla prassi politica quotidiana,
che esprime i saperi ordinari e il discorso comune sulla politica, imbevuti di tonalità emotive e componenti ideologiche, quanto più le lotte politiche sono alimentate dalle passioni. L’azione politica è da precedere e orientare, è da insegnare: come egli esemplifica efficacemente “se, e come, una scienza della politica sa progettare l’azione. Intendi: programmi di azione che riescono nel
modo previsto”(Sartori, 1979, 120).
6
Una significativa eccezione è il lavoro teorico di Pier
Luigi Crosta, a partire dagli
anni ’70 (si veda, ad esempio: L’urbanistica di parte,
1973), e non stupisce che la
sua ricerca non si sia svolta
nell’ambito disciplinare
della scienza politica,
anche se basata sull’analisi
del processo di policy, con
particolare attenzione alle
politiche urbane. Come sintesi del suo approccio, si
veda il suo illuminante saggio sulla politica della pianificazione urbanistica “La
politica urbanistica”
(Crosta, 1990, b), in cui il
sistema politico della città
viene assunto analiticamente come una cornice
per spiegare i meccanismi
che caratterizzano le decisioni urbanistiche e per evidenziare la dimensione
politica dei processi di pianificazione. Nelle sue parole, la pianificazione è
intrinsecamente politica, in
quanto le sue premesse
sono di natura politica, e/o
i suoi esiti sono politici.
Come campo dell’attività
governativa, essa tratta di
scelte di interesse pubblico,
e coinvolge politici; è plurale e conflittuale (dacché
diversi interessi, di parte,
sono in competizione). Nei
processi di pianificazione, i
rapporti di potere determinano tanto le politiche
quanto gli esiti (Crosta,
1995, 109-10).
7
La controversia tra pluralisti e elitisti appassiona e
impegna gli scienziati politici italiani, sul solco della
grande tradizione che
caratterizza la scuola italiana, imperniata su
modelli teorici esplicativi e
normativi del “potere delle
elites”.
5
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8
Lo studio di caso oltre che
essere un metodo di ricerca, che implica un’investigazione in profondità di un
contesto da parte del ricercatore, è un’azione di ricerca. La strutturazione del
disegno della ricerca non
consiste nella definizione di
un programma che è un
protocollo da eseguire, neutrale rispetto al contesto: lo
sviluppo del percorso d’indagine è un’esperienza
conoscitiva dal carattere
aperto, che si conduce
attraverso pratiche interattive di indagine, sollecitando le capacità di apprendimento del ricercatore e
richiedendo una certa
capacità di improvvisazione. Il contesto stesso gioca
un’influenza. Riprendendo
la definizione di Lindblom
(1990), che esprime il carattere dell’inquiry, si tratta di
sondare il campo e andare
in profondità (“the field”,
nei termini di Charles
Gertz) piuttosto che provare
degli assunti con delle evidenze (“probing” e non
“proving”). Pertanto, il
ricercatore impegnato in
un’analisi di caso di politiche oltre che avvalersi di
competenze tecniche, maturate nella propria specializzazione disciplinare, attinge dai saperi ordinari,
locali, pratici.
6
Nella ricerca sperimentale della scienza politica al metodo dello studio di caso
sono state preferite tecniche sistematiche di raccolta dati, di misurazione e valutazione di tipo quantitativo, con l’obiettivo di pervenire a generalizzazioni empiriche, estraendo dall’analisi dei contesti selezionati conoscenze e principi estendibili ad un più ampio universo. Queste tecniche richiedono di definire in partenza i concetti; la ricerca è l’esecuzione di obiettivi già fissati e persegue modellizzazioni. Coerentemente con quest’impostazione, lo studio di caso quando utilizzato in queste analisi è stato inteso come prova e verifica delle prospettive teoriche del ricercatore, fondate su concetti ben definiti e formulati ex ante, che
necessitano di un passaggio di operazionalizzazione con la definizione di variabili, dispositivi di misurazione (indicatori, etc.). Il pensiero si converte in azione:
“quando la teoria è adeguata e il passaggio è diretto”, “la teoria davvero si trasforma in pratica, nel senso che l’esito pratico riesce conforme al programma
teoretico” (Sartori, 1979,120). L’evidenza empirica è, in quest’ottica, la conferma
di concetti definiti a priori, tendenti all’oggettivazione dei processi sociali e politici, più che il tentativo di comprendere i processi e di formulare ipotesi apprendendo in corso d’azione ovvero dalla stessa pratica di ricerca. In generale, le
forme di conoscenza ordinaria, pratica, interattiva sono state giudicate da Sartori
di scarsa utilità e prive di dignità scientifica; egli ha escluso che la pratica sia produttiva di conoscenza, essendo questa piuttosto una sfera che dipende dalla teoria, nel senso dell’applicazione delle teorie empiriche, esecuzione di un insieme
di operazioni da effettuare e decise in partenza. L’implementazione non produce valore aggiunto in termini di acquisizione della conoscenza (Sartori, 1979).
Non è affatto sorprendente, pertanto, che la ricerca effettuata in Italia da studiosi americani, come quella di Banfield incentrata sulla comunità di “Montegrano”
(1958) e quella di Putnam (1993) abbiano avuto una così grande importanza nel
dibattito nazionale. Più recentemente, gli studi sulla governance, sui regimi e
sulle coalizioni urbane, sull’onda della grande affermazione negli anni ’90 di una
nuova concettualizzazione delle città come attori collettivi, capaci di una politica
autonoma, hanno operato il riorientamento degli interessi di ricerca, documentato da un nuova produzione di studi.
2. Lo studio pioniere su New Haven (Dahl, 1961)
I due studi di caso di Lowi e Wildavsky hanno quale presupposto l’indagine che
Dahl aveva condotto su New Haven nella seconda metà degli anni ’50, come
parte di un più ampio progetto di ricerca. Si trattava di un’analisi particolarmente impegnativa in termini di tempo e di risorse umane, per il quale si era avvalso
della collaborazione di Nelson Polsby e Raymond Wolfinger. Polsby, attraverso
uno studio di comparazione condotto per la sua tesi di dottorato, era giunto alla
constatazione che la teoria dell’esistenza di un’unica elite socio-economica
dominante la vita politica era infondata, se falsificata sui dati di New Haven; nel
1961 aveva pubblicato un volume su questo tema, intitolato: “Community Power
and Political Theory”. Wolfinger aveva analizzato il comportamento dei leaders
politici a New Haven in diverse importanti decisioni e per un anno aveva svolto
osservazione partecipante in due uffici strategici del governo cittadino.
L’opportunità gli si era presentata con una internship presso il Dipartimento
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
dello Sviluppo il cui direttore, in quel periodo, collaborava strettamente con l’ufficio del sindaco in qualità di suo braccio destro per l’attuazione di programmi di
riqualificazione urbana e di progetti di risviluppo (redevelopment)9. In quel con- 9 Per quanto non elegante,
testo aveva avuto anche la possibilità di osservare, fin dal principio, la controver- traduciamo alla lettera il
termine “redevelopment”
sa elaborazione del nuovo statuto cittadino, poi rigettato dagli elettori con il refe(come: “risviluppo”), per il
rendum popolare del 1958.
quale non abbiamo un
Nella prefazione a “Leadership in a Small Town”, Wildavsky fa esplicito riferiequivalente nella lingua
mento alla determinante influenza del lavoro di Dahl sul proprio progetto di italiana, a indicare procesricerca su Oberlin; sebbene non avesse partecipato al programma di ricerca di si di trattamento dei probleDahl quando era a Yale, ne aveva assorbito indirettamente i problemi, i risultati mi e di rilancio di aree, un
tempo luoghi di attività di
e le motivazioni sottostanti attraverso le descrizioni e le restituzioni informali di
sviluppo, poi dismesse,
Polsby e Wolfinger. Lowi, a sua volta, rende omaggio alla ricerca pionieristica di abbandonate, in crisi, etc.
Dahl ma, se pur riconosce che il libro di Dahl costituisce indiscutibilmente lo studio più esaustivo sulla “politics of policy” fino a quel momento svolto (Lowi,
1964, 229), osserva il carattere troppo specifico e descrittivo delle categorie utilizzate e la mancanza di interesse teorico per una conoscenza più generalizzabile, con conseguenti limitazioni per la comparazione – aspetto, questo, su cui torneremo di seguito.
Vi è, tuttavia, una ulteriore motivazione a rileggere il lavoro di Dahl su New
Haven, che è data dall’interpretazione prevalente di Dahl come teorico della
democrazia; mentre, “Who Governs?” è in primo luogo un pezzo magistrale di
ricerca empirica sulla qualità della democrazia in relazione alla formazione e
all’attuazione delle politiche pubbliche in un contesto urbano.
Dahl, Lowi e Wildavsky erano tutti dell’opinione che l’attenzione riposta agli
aspetti metodologici e alle pratiche di ricerca fosse determinante per il successo
delle ricerche stesse.
Ci troviamo di fronte a programmi di ricerca empirica, che, in generale, richiedevano anni di dedizione all’osservazione sul terreno.
L’ipotesi di base di Dahl era di esaminare accuratamente un singolo contesto di
politica locale e di democrazia, svolgendo uno studio di caso in profondità; lo animava la convinzione che per prendere parte all’acceso dibattito tra pluralisti e elitisti sullo stato di salute della democrazia americana del tempo fosse indispensabile una seria analisi empirica dei sistemi di influenza, delle condizioni di leadership
e delle relazioni di potere a livello comunitario. Dahl aveva evidenziato infatti il
problema della mancanza di dati empirici in grado di dimostrare l’esistenza e l’efficacia di contesti di decisione pubblica e di governo plurali e democratici, per
quanto le teorie pluraliste riscuotessero successo e prevalessero sulle tesi degli
elitisti – i quali avevano denunciato la realtà di fatto di una democrazia di facciata, nascosta dietro un abile apparato retorico, fortemente comunicativo e persuasivo, che mascherava l’esistenza di un’unica elite socio-economica, che dominava
la vita politica. Dahl aveva iniziato l’inchiesta sullo stato della democrazia a New
Haven con l’idea di verificare l’adeguatezza o meno delle teorie degli elitisti con i
dati su New Haven, sperimentando indicatori operazionali dei sistemi influenza.
Quanto alla sua collocazione teorica, la tesi di una “polyarchal democracy” (1956)
era già circolata e la sua posizione rispetto alle tesi pluraliste era chiara.
New Haven costituiva un buon contesto per l’osservazione, per più ragioni: era
“convenientemente a portata di mano”, si configurava come “una città raccolta,
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a scala d’uomo” e, per molti aspetti, “una città media americana”, tipica di tante
altre aree urbane degli Stati Uniti per caratteristiche socio-economiche e tendenze demografiche (Dahl, 1961, 329). Oltre a ciò, New Haven presentava una
interessante storia passata, un sistema partitico fortemente competitivo e gravi
problemi di degrado urbano, con la formazione di slums, fenomeno comune a
molte aree urbane in quegli anni.
Ma, ancor più importante, a New Haven si riscontravano condizioni formali di
democrazia, secondo i parametri consolidati di valutazione del sistema politico
democratico rappresentativo:
“Secondo il linguaggio corrente, New Haven è una comunità politica democratica. La maggior parte dei cittadini adulti ivi residenti gode per legge del diritto di
voto e una percentuale relativamente elevata di persone vota. I voti sono, di massima, correttamente contati – sebbene sui non votanti, una piccola frazione del
totale, vi possano essere talvolta manipolazioni. Le elezioni sono libere, non soggette a imposizioni, e, ai fini pratici, esenti da frodi. Due partiti politici si contendono le elezioni, offrono liste di candidati rivali, pertanto presentano agli elettori un minimo di alternative di scelta” (Dahl, 1961, 3).
Tuttavia, quando si interrogasse la realtà di garanzie sostanziali di uguaglianza
politica, allora emergevano problemi rispetto alla qualità democratica, nel senso
che carenze di democrazia erano evidenti di fatto come espressione dell’aumento delle disuguaglianze sociali e dell’inefficacia del controllo popolare sulle
decisioni politiche e sui responsabili politici. La progressiva differenziazione
delle capacità, delle risorse, dell’accesso alle conoscenze, etc,. si presentava
come l’altra faccia del pluralismo, la sua “patologia”.
La ricerca doveva fornire le evidenze empiriche necessarie, da un lato, ad escludere l’ipotesi di un’unica, potente leadership che di fatto controllava le decisioni
a New Haven e, dall’altro, chiarire in che misura fosse effettivamente il pluralismo
la modalità politica di organizzare la vita pubblica. In termini operativi, si trattava
di trovare il modo di indagare la distribuzione dell’influenza sulle decisioni in
importanti aree di politica pubblica connesse a questioni di interesse collettivo
(“issue-areas”), che costituivano poste in gioco rilevanti per la politica locale.
Dahl considerò ai fini dell’indagine solo alcune “issue-areas” – per essere realisti, New Haven era una città di 160.000 abitanti e estendere la ricerca a tutti gli
ambiti della politica urbana sarebbe stato realisticamente troppo complesso e
non fattibile, sul piano pratico. Le tre aree selezionate che emergevano come
questioni pubbliche erano strategiche, perché sia materialmente sia simbolicamente rappresentavano ambiti del policy-making urbano importanti e conflittuali, trasversali a una varietà di interessi e di partecipanti. In particolare si trattava di analizzare 1) i progetti di riqualificazione e di risviluppo urbano; 2) le politiche locali per l’istruzione; 3) le nomine per le cariche pubbliche locali e i processi di selezione dei partiti dei candidati a sindaco.
La città di New Haven era al centro di programmi e decisioni rilevanti di risviluppo urbano e la politica di riqualificazione urbana era vista come l’ambito di
maggiore innovazione locale. L’istruzione assorbiva una parte sostanziale del
bilancio del governo locale; infatti, in una società iper-stratificata come quella
urbana americana del periodo, data l’alta concentrazione di diverse componenti
etniche, razziali, nazionali, il sistema scolastico e di educazione pubblica costi-
8
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
tuiva una base essenziale per il perseguimento di obiettivi di integrazione sociale. Infine, l’area delle nomine politiche interessava le decisioni di nomina dei vertici degli esecutivi, della dirigenza pubblica, con attenzione specifica ai settori di
politiche di cui sopra (risviluppo e riqualificazione urbana, educazione) e, in particolare, ai poteri di nomina del sindaco, contro la letteratura che aveva enfatizzato la fragilità del sindaco a fronteggiare gli interessi economici e le pressioni
dei partiti.
Per determinare il modello di influenza in azione, Dahl decise di adottare quello
che definì “un approccio eclettico” alla definizione delle misure operazionali di
influenza, “in modo da sfruttare la disponibilità di un ampio assortimento di dati”
(Dahl, 1961, 331). Nello studio vennero utilizzati diversi metodi per stimare l’influenza relativa o i cambiamenti di influenza. Tra il 1957 e il 1958, con l’aiuto di
Polsby, Dahl condusse quarantasei interviste – della durata anche di sei ore –
con uomini d’affari, funzionari pubblici, leader di partiti politici, etc, che erano
stati coinvolti in decisioni-chiave delle tre aree di policy sopra menzionate. Lo
scambio di informazioni con molti degli intervistati proseguì, nella richiesta di
lettura di sezioni del rapporto finale e di commenti e osservazioni ai ricercatori.
Tra le fonti di informazione (oltre alle interviste, ai documenti storici, alla rassegna stampa, all’osservazione diretta e partecipante, a indagini con questionari10:) 10 Ad esempio, era stato somsi rivelarono particolarmente utili: 1) la ricostruzione dettagliata delle decisioni ministrato un questionario
politiche, di un certo rilievo, dell’ultimo decennio; 2) la chiarificazione della dis- a membri di partiti politici,
di commissioni e organi
tribuzione dell’influenza tra i partecipanti, nelle tre aree di policy selezionate, amministrativi, di funzioconsiderando ad esempio per ciascun partecipante, singolo individuo o gruppo,
nari pubblici coinvolti in
azioni di risviluppo e
“le proposte di successo avviate” o “i fallimenti”, o “i veti”. L’aspettativa era di
riqualificazione, e nelle
identificare, in questo modo, le persone più influenti nelle questioni locali e di
politiche educative.
verificare se queste componevano un’elite, predominante, o vari gruppi di interessi e espressioni di partecipazione attiva e di mobilitazione dei cittadini.
Dall’interpretazione di Dahl delle politiche di riqualificazione e di risviluppo
urbano a New Haven emerge una nuova prospettiva alla città, come campo di
studi politici. Nella sua analisi, infatti, la città è considerata come un ambiente
politico, vale a dire un contesto di decisioni locali, di formazione di politiche e
di relazioni di potere; le città sono poi contesti di attuazione di politiche urbane,
ovvero di programmi del governo e di interventi, di natura anche federale o statale, mirati a risolvere specifici problemi sociali e a garantire migliori condizioni
di vita urbana. A questo proposito, Wood (1963, in Crosta, 1990a) è particolarmente perspicace quando osserva, con riferimento al processo politico urbano,
l’inconsistenza dello schema input-output della domanda politica, ovvero del
modello secondo il quale le varie istanze sociali sono percepite, aggregate e trasformate in “domanda politica” (di servizi, di distribuzione di risorse, di regolazione, etc.) e, quindi, in decisioni concrete di programmi di intervento e di attività di governo. Diversamente, il processo politico urbano è meno “razionale” e,
anche quando sia guidato da coalizioni che convergono intorno a progetti ben
definiti, il conseguimento degli obiettivi prestabiliti è molto esposto a fallimenti
e/o ad adattamenti, a cambiamenti considerevoli, che si verificano nel corso dell’azione. Più credibilmente, dunque, sussiste una divergenza o si crea una separazione tra i processi di mobilitazione sociale “in nome dei bisogni della gente”
e le decisioni e le soluzioni adottate dal sistema politico, con la sola eccezione
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delle questioni conflittuali, che sono quelle che fanno scattare l’interesse immediato e l’intervento diretto dei governi per il mantenimento del consenso, della
stabilità politica e sociale. Ad esempio, secondo Wood, le decisioni di risviluppo
e di riqualificazione urbana in molte città erano dipese dall’attuazione di specifici programmi federali, o dalla possibilità di utilizzare fondi federali, o ancora dall’attivazione di un imprenditore politico e dalla temporanea convergenza intorno a questi di una coalizione di interessi, che promuoveva la realizzazione di un
piano di interventi. Raramente le decisioni che venivano prese costituivano la
risposta diretta ai problemi esistenti o alle domande sociali di intervento.
In tale contesto, il sindaco-imprenditore-politico divenne un soggetto ricorrente
nella letteratura del periodo. La leadership politica urbana, di solito connessa al
ruolo del sindaco, veniva considerata una risorsa-chiave ai fini della “governabilità” della città.
La ricostruzione di Dahl della politica di risviluppo a New Haven evidenziò come
la nuova politica e leadership di un candidato dei Democratici alla carica di sindaco (Richard Lee), eletto e riconfermato per due volte negli anni ’50, avesse profondamente riorientato questo settore dell’attività governativa che, nella storia passata della città, aveva costituito un’area di forti pressioni e iniziativa privata, influenzata da poche figure-chiave. Le decisioni di risviluppo di aree urbane, che per
decenni avevano conosciuto un’opinione pubblica divisa, una storia di fallimenti e
indecisioni – per lo più per problemi di consenso politico e sociale, per via degli
elevati costi finanziari degli interventi pubblici e degli elevati costi sociali connessi
allo spostamento degli abitanti – “acquisirono un’immagine non partigiana” (Dahl,
1961, 118), forte del sostegno politico sia del partito repubblicano sia di quello
democratico, che ne avevano fatto una questione di consenso popolare.
Il sindaco Lee fece della riqualificazione e dello risviluppo urbano la politica centrale della sua amministrazione, legandola alla sua immagine e alla sua leadership e ottenendo notorietà politica nazionale. L’amministrazione della città riacquisì legittimità agli occhi dei cittadini e dei gruppi organizzati di interesse: nel
giro di pochi anni ottenne di gestire e spendere una quantità enorme di finanziamenti federali, data la congiuntura favorevole (il governo federale, proprio in
quegli anni, aveva lanciato programmi mirati a sostenere finanziariamente le città
impegnate in progetti di riqualificazione). Sebbene, un paio di anni più tardi,
Wood (1963) osservasse come la fiducia che la gente aveva nei sindaci, considerati come i nuovi leader sulla scena urbana, si fosse scontrata con le difficoltà
11
Tra gli esempi menzionati impreviste e gli impedimenti che le politiche e i progetti dei sindaci avevano
11
da Wood, il caso di Wagner attraversato al momento dell’attuazione .
a New York, Daley a
Il sindaco Lee aveva nominato una nuova squadra per occuparsi delle azioni di
Chicago, Dilworth a
riqualificazione e risviluppo, composto da tre membri e parte della costituita
Filadelfia e Lee a New
Redevelopment Agency , selezionati sulla base delle competenze tecniche e proHaven.
fessionali ma anche della fiducia personale del sindaco12. Il personale dell’Agenzia
12
era di sostegno all’attuazione di importanti decisioni, insieme con la Commissione
Uno dei membri era il
Development
di Piano e altri uffici e dipartimenti dell’amministrazione comunale.
Administrator, un top
Il sindaco Lee premeva per un approccio integrato e per il coordinamento delle
manager dal ruolo chiave,
azioni di trasformazione fisica della città, al fine di evitare la frammentazione dei
presso il cui ufficio
relativi settori di attività amministrativa, che erano numerosi, la proliferazione di
Wolfinger aveva svolto il
nuove agenzie, burocrazie e l’aumentare della conflittualità tra i numerosi attori
suo anno di internship.
10
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
e portatori di interesse coinvolti. Ancora più importante, il sindaco intuì che la
politica di riqualificazione e risviluppo doveva ergersi su basi democratiche per
mantenere il consenso popolare. Un’ampia partecipazione al processo decisionale veniva pertanto garantita attraverso la creazione di un nuovo organo, il
Citizens Action Commission, composto di diverse commissioni di lavoro su specifici ambiti, con il coinvolgimento di quasi cinquecento cittadini (tra appartenenti alla comunità economica locale, a gruppi civici e di vicinato, ad associazioni professionali, all’Università, ai sindacati, etc.).
In conclusione, la politica di risviluppo veniva ad essere concepita come uno spazio di aggregazione di interessi, di partecipazione democratica e di negoziazione
delle decisioni, attraverso la centralizzazione delle attività a livello del governo
urbano. Il sindaco e lo staff della Redevelopment Agency conducevano le negoziazioni, gli accordi tra la macchina politica-amministrativa e i gruppi di interesse economici e sociali, le agenzie federali, gli ordini professionali, i partiti, i gruppi etnici, etc.
Al fine di valutare la reale consistenza e l’efficacia di questa comunità plurale,
costituitasi attorno alla politica di riqualificazione, Dahl applicò gli indicatori operazionali previsti per la misurazione della distribuzione dell’influenza.
Analizzando le principali decisioni in materia di risanamento e di riqualificazione
tra il 1950 e il 1958 individuò quegli individui (o agenzie, o ambiti delle istituzioni) che avevano ottenuto di avviare proposte, che poi erano state adottate o
rigettate, e coloro che avevano posto il veto sulle proposte di altri, con successo
o meno. Emerse che la metà delle azioni di successo potevano essere attribuite
al sindaco o allo staff di sua fiducia della Redevelopment Agency, mentre le
restanti erano distribuite fra ventitre diverse persone o agenzie” (Dahl, 1961). In
aggiunta a questo, il numero di sconfitte subite dal vertice dell’esecutivo era di
per sé significativo, dimostrando l’effettiva esistenza di altre fonti di influenza e
un’organizzazione plurale degli interessi.
In conclusione, l’analisi di Dahl mostrava la disponibilità di potere e l’esercizio di
influenza del sindaco e dei funzionari pubblici, in contrapposizione a una letteratura che sosteneva la debolezza del sindaco e della pubblica amministrazione
locale, in generale, a fronteggiare gli interessi (socio)economici organizzati e
costituenti una elite dominante la vita politica delle città.
Allo stesso tempo, era emerso con chiarezza che nel caso di New Haven non si
trattava di un eccesso di potere politico dei leaders, contro gli interessi socio-economici o professionali, ma di un caso di negoziazione complessa tra differenti
portatori di interessi. La coesistenza di diverse visioni politiche e sociali, di varie
credenze, volizioni e sistemi di valori appariva l’essenza stessa del pluralismo. Il
mantenimento di tale potenziale di differenziazione era importante per la qualità
democratica delle decisioni, e la questione si spostava piuttosto sui problemi della
governabilità, ovvero, sulle soluzioni di integrazione, di coordinamento.
Secondo Gunnell (1995, 20) il pluralismo era effettivamente anche una descrizione del funzionamento del sistema politico americano e si poteva pensare che
lo studio di Dahl sulla politica di New Haven altro non fosse che una implicita
ammissione del pluralismo come teoria normativa della democrazia.
Secondo Pressman (1972, 511), l’analisi di Dahl, come quelle di Banfield (1961) e
Wildavsky (1964) in quegli anni, offriva uno sguardo in profondità alla “leadership
11
n.32 / 2012
del sindaco” e al modello di “imprenditorialità politica” che si andavano affermando nelle città americane. Il modello del sindaco come “intermediario e
imprenditore (...) che media nelle controversie, funge da canale di comunicazione e tenta una funzione integrativa” (Pressman, 1972, 511), aveva rappresentato il
modello della leadership politica efficace: la dispersione pluralistica e la frammentazione del potere nelle città democratiche potevano essere utilizzate dal sindaco, nelle vesti di imprenditore-politico, per aumentare la propria influenza.
3. Uno studio sulle decisioni di nomina a New York (Lowi, 1964)
Il tema della leadership del sindaco, di successo o meno, viene assunta come
unità di analisi per guardare da vicino il funzionamento dei sistemi politici urbani democratici da Lowi. In “At the pleasure of the Mayor”, uno studio di caso dal
valore esplicativo, Lowi cerca di mostrare la rete di relazioni politiche e sociali
che caratterizzavano i processi di reclutamento del personale dell’amministrazione pubblica e le decisioni di nomina in una grande città in espansione, New
York. Lo studio delle condizioni, delle pratiche e delle logiche di reclutamento
gli rende possibile una visione del sistema politico urbano con un focus specifico sull’intreccio tra apparati politici e governativi e mobilitazione sociale, in
quanto “è particolarmente evidente nei sistemi politici urbani che le corporazioni, i gruppi di interesse, e molte altre unità sociali organizzate svolgono la duplice funzione di definire i problemi che le politiche pubbliche devono trattare e di
reclutare e selezionare il personale politico” (Lowi, 1964a, VII).
Da questo punto di vista, ne consegue che: 1) lo studio dei processi di reclutamento non è diverso dallo studio delle decisioni politiche. Le decisioni di nomina (tra procedure di selezione dei candidati, negoziazioni, etc.) possono essere
assimilate a processi di “problem-setting” e, nel loro implementarsi, ai processi
di attuazione delle politiche; 2) se le politiche pubbliche sono decisioni dei
governi, è anche vero che partiti, gruppi non governativi e organizzazioni sociali ed economiche possono influenzare i processi decisionali, attraverso varie
forme di mobilitazione. Le organizzazioni della società civile, per esempio, possono essere attive nella definizione degli standard di reclutamento del personale politico, o nel controllo dell’esecuzione delle procedure, diventando i “sorveglianti” delle performance del governo. In questo modo, attraverso una mobilitazione dal basso, che va in parallelo con il formale processo elettorale democratico, possono dare voce alle aspettative e ai sistemi di valori di cui sono portatori, e anche esercitare pressioni affinché temi e questioni a loro cari entrino
nell’agenda politica; 3) ai fini dell’analisi politica, studiare i processi di reclutamento è strategico in quanto consente di osservare le relazioni di potere della
comunità e il sistema democratico urbano “in azione”. Si tratta di una fonte privilegiata di informazioni sulle dinamiche del pluralismo, che dice molto dello
stato di salute della democrazia locale. L’identificazione delle strutture del potere aiuta a capire se vi sono le condizioni per un effettivo pluralismo, in una organizzazione politica e sociale, o se prevale piuttosto uno statico sistema di privilegi corporativi.
Il sindaco della città è un attore-chiave dei processi decisionali relativi alle nomine, ad esempio, nell’attribuzione e/o revoca dall’incarico di un numero rilevante
12
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
di funzionari pubblici, non eletti dal popolo; questo spiega anche il titolo del
libro: At the Pleasure of the Mayor (“A discrezione del Sindaco”), che si trova
quale espressione ricorrente nello statuto cittadino, ad indicare i poteri discrezionali del sindaco nelle decisioni di nomina e in altre questioni (come ad esempio la condivisione di poteri relativamente al budget di spesa pubblica).
Attraverso la raccolta di dati empirici, Lowi ricostruisce le dinamiche relative alle
decisioni sulle nomine che avevano coinvolto i sindaci della città di New York
eletti nell’arco di tempo considerato nella sua analisi (dal 1898, cioè il primo
anno di governo sotto il nuovo statuto cittadino, la creazione della “Greater City”
con l’unificazione delle cinque contee, sino ai suoi giorni), nello scenario delle
riforme amministrative e dei grandi cambiamenti sociali urbani che caratterizzarono quel periodo storico. Negli anni, il numero di nomine a discrezione del sindaco aumentò fino ad arrivare ad un massimo di 170. In quel tempo, il sindaco
di New York era, secondo lo statuto vigente, al vertice dell’esecutivo e uno dei
più pagati e potenti amministratori pubblici degli Stati Uniti.
A questo punto, dobbiamo fare una digressione per comprendere alcuni aspetti
dei processi di nomina, connessi a problemi del sistema elettorale della democrazia rappresentativa, nella storia statunitense. In un opuscolo pubblicato nel
1915 dal The National Short Ballot Organisation (dal titolo: “The short ballot
movement to simplify politics”) si legge che “a New York il numero delle cariche
pubbliche dello Stato, della Città e della Contea elette attraverso il voto popolare in un ciclo di quattro anni è di quasi cinquecento (...) A Chicago si sono avuti
seimila candidature per le nomine alle recenti elezioni primarie; Philadelphia,
sebbene sia una città di più piccole dimensioni, ha un numero perfino maggiore
di cariche elettive”.
Il riferimento è alla pratica del long ballot, vale a dire alla modalità utilizzata per
l’elezione di molte cariche pubbliche con il ricorso al voto popolare, secondo
una lunga e affollatissima lista di candidature. Questa pratica aveva avuto un’espansione incontrollata, così che la gente doveva votare per un enorme numero
di cariche pubbliche, eterogenee, nell’evidente mancanza di informazioni e di
consapevolezza circa le candidature, e la conseguente impossibilità di una adeguata valutazione. Il metodo del long ballot, piuttosto che effetti di democratizzazione, aveva portato in realtà alla confusione e alla disaffezione da parte degli
elettori, che non erano in grado di esprimere un parere ben informato, e all’inefficienza e all’alta politicizzazione dei servizi pubblici e delle istituzioni democratiche. Il movimento detto Short Ballot Movement (che, tra l’altro, fu sostenuto dal Presidente Woodrow Wilson, inizialmente uno studioso della buona amministrazione pubblica, che riteneva alla base dell’efficacia del governo pubblico) si
impegnò a favore di una riforma che modificasse le regole del processo elettorale, introducendo una drastica riduzione del numero delle cariche pubbliche da
sottoporre a votazione popolare, operando la semplificazione sulla base di criteri di rilevanza per la selezione pubblica diretta. Per i riformatori, la pratica dello
short ballot avrebbe dovuto arginare sia il potere dei boss locali sia la corruzione politica, che di fatto si alimentava con il controllo delle elezioni, attraverso la
manipolazione dell’elettorato, e con il dominio degli specialisti politici, che troppo facilmente esercitavano il monopolio della conoscenza del processo politico.
L’obiettivo era migliorare la qualità della democrazia attraverso la valorizzazione
13
n.32 / 2012
del voto di ciascun elettore, che doveva essere reso libero e consapevole, e la
promozione di procedure adeguate e chiare di selezione pubblica dei candidati
(The New York Times, 14/12/1913). Questa riforma correva in parallelo alla
richiesta di una più stretta regolamentazione delle elezioni primarie dirette.
L’atteso miglioramento dell’efficienza del governo democratico era supposto
anche dipendere dall’attribuzione di maggiori competenze e responsabilità, in
materia di nomine e in generale nelle fondamentali decisioni politiche, ai vertici
degli esecutivi, sia cittadini che statali. Da questa prospettiva, l’alto numero di
nomine a discrezione del sindaco di New York poteva essere compreso in connessione a questi grandi movimenti di riforma, quale espressione di un nuovo
orientamento democratico e di un graduale cambiamento nel funzionamento
delle istituzioni di governo e della pubblica amministrazione. Si comprende dunque meglio la strategia di ricerca di Lowi, nel concentrare la sua analisi sulle decisioni relative alle nomine in una grande città come New York.
Le cariche assegnate variavano per ruoli e collocazione: erano posti di direzione di
dipartimenti e servizi, posti in consigli di amministrazione e in organi deliberativi,
in commissioni che facevano parte di settori di policy dell’amministrazione comunale e/o di Agenzie che si occupavano di determinate funzioni in delega., etc.
“Il vertice degli esecutivi politici costituisce un importante segmento del personale (...) la ‘classe teorica’ chiamata ‘élite dirigente’ determina lo stato di funzionamento dell’amministrazione del Sindaco (...) E, l’amministrazione dei dipartimenti e delle agenzie, su cui il Sindaco ha influenza in città, ha un impatto diretto praticamente su ogni cittadino della comunità” ( Lowi, 1964a, 5-6).
Dal momento che la nomina dei vertici politici degli esecutivi investiva i più
importanti settori di politiche e di attività del governo, lo studio delle decisioni
di nomina era anche una buona strategia per una osservazione più ravvicinata del
processo politico urbano e dei problemi della leadership democratica.
Come è stato detto, Lowi svolge la sua inchiesta sulle strutture urbane di potere
nel corso di sessanta anni (1898-1958) della storia del governo della città di New
York e di cambiamenti nella leadership del sindaco. In questo senso, il suo è uno
“studio storico-descrittivo” e i dati raccolti vanno interpretati in rapporto a “un
contesto istituzionale oltre che storico” (Lowi, 1964a, VII). Ed è proprio la
“dimensione temporale” a costituire un fattore fondamentale per la comprensione delle strutture di potere, per distinguere se un determinato momento o
serie temporale si configura come un’anomalia rispetto alla norma o conferma
gli andamenti consolidati (Lowi, 1964, 231), ad esempio, per identificare i caratteri principali e i cambiamenti significativi nella leadership politica urbana, nel
sistema di valori e nei principi di allocazione dei valori, nel quadro giuridico, etc.
In altre parole, la questione non è tanto capire “chi ottiene che cosa”, come suggerito da Lasswell (1958), ma “chi ha ottenuto che cosa per un periodo di tempo
considerevole” (Lowi, 1964, 231).
“Case history” e “time series” sono strumenti essenziali “per la scoperta di nuove
‘leggi’ della politica e per il testaggio delle vecchie”. “È necessario avere una
visione molto chiara della sequenza degli eventi prima di riconoscere qualsiasi
13
Negli intenti di Lowi vi era
relazione tra di essi” (Lowi, 1964, p. 231). Questo approccio è funzionale anche
che i futuri studi di caso
assumessero archi tempora- ad un altro obiettivo, e cioè alla maggiore conoscenza di “quali sono le condili più estesi per l’analisi.
zioni per governare”13.
14
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
Lowi ritrae la differenza tra la vecchia e la nuova amministrazione del governo
urbano di New York in un arco di tempo che segna il passaggio da una fase in cui
le funzioni di governo sono relativamente semplici ad una fase di crescente complessificazione.
Essere sindaco della città di New York significava avere a che fare con pressioni
sempre più forti, di gruppi sociali ed economici; il problema dell’ufficio del sindaco e della sua tenuta era trovare un equilibrio tra i diversi e, talvolta, confliggenti interessi, tenendo conto delle varie aspirazioni e poste in gioco ma, allo
stesso tempo, preservando l’autonomia di intervento del sindaco; il quale non è,
insomma, “una pedina muta”, ma neppure “un soggetto libero di agire”. Inoltre,
“non solo un sindaco deve vedere nelle nomine un mezzo per realizzare una
serie di operazioni con efficienza; le deve pensare anche come un modo per realizzare degli aggiustamenti tra domande in competizione e aspettative che lo circondano” (Lowi, 1964, 3) .
L’esercizio di una leadership democratica è influenzato dalla struttura politica e
governativa delle città, dalle forze sociali, ma, al tempo stesso, la qualità dell’azione del sindaco è determinata dalla sua personalità, dall’introduzione di innovazioni e dalla capacità di promuovere all’interno della sua constituency e nel più
vasto sistema politico “un processo di dialogo costruttivo tra i diversi gruppi, che
possa contribuire all’armonia nella città” (Pressman, 1972, 512).
“I gruppi non governativi – gruppi allineati con, oppure ostili al, partito, gruppi
‘che danno denaro’, gruppi ‘che richiedono servizi’, gruppi etnici e religiosi, e,
non ultimo, i partiti come gruppi di interesse – vedono nelle nomine dei vertici
un riconoscimento del loro peso e un modo per accrescere il loro potere reale”
(Lowi, 1964a).
Le risorse di regolazione e le risorse finanziarie dello staff sono importanti condizioni per la leadership14 dell’ufficio del sindaco. A parte questi vincoli, l’imprenditorialità politica e la funzione di intermediazione del sindaco, la capacità di controllare partiti e dipartimenti importanti dell’amministrazione cittadina attraverso
il gioco delle nomine, o la mobilitazione di gruppi non governativi della comunità, costituiscono tutte condizioni importanti per l’esercizio di leadership e per la
costruzione di consenso su questioni specifiche e aree strategiche dell’attività di
policy-making del governo locale. La leadership politica richiede improvvisazione – un occhio al disegno strategico, al perseguimento degli obiettivi, e l’altro agli
effetti non voluti e inattesi – di pari passo con l’indeterminatezza della politica
urbana e la razionalità incrementale del processo politico.
Se le nomine sono transazioni politiche, esse rappresentano anche un’occasione
di esercizio di virtù civica e un’espressione dei sistemi di valore e delle influenze
prevalenti nella comunità. Pertanto, lo studio delle importanti decisioni di nomine dal 1898 al 1958 non è solo un ritratto della società urbana di New York: esso
mostra anche i grandi cambiamenti di condizione e ordine sociale, a mano a
mano che nuove idee e nuovi valori acquisivano consenso.
In particolare, la storia del quartiere in cui si è vissuti, la composizione socio-economica, etnica e religiosa delle popolazioni sono aspetti da considerare, dal
momento che “la struttura della società si riflette nella rappresentanza politica
(...) e nella macchina decisionale e della costruzione delle politiche del governo,
che deve riflettere adeguatamente i diversi interessi della popolazione (…) con
14
Secondo l’analisi di
Pressman, pre-condizioni
importanti potrebbero essere ad esempio: poteri della
città e competenze del sindaco all’interno del governo urbano nelle aree di
programmazione dello sviluppo economico e sociale
(istruzione, edilizia abitativa, riqualificazione, occupazione etc.); risorse finanziarie, come stipendio spettante al sindaco (per consentirgli di dedicarsi a
tempo pieno al lavoro, etc.)
e come budget che il governo cittadino gestisce; risorse
umane, competenze dello
staff di supporto alle attività del sindaco (pianificazione, relazioni intergovernative, etc.) (Pressman,
1972, 512).
15
n.32 / 2012
15
“Lo sviluppo industriale e
l’istruzione pubblica per
tutti hanno creato una
ampia classe media, per
reddito e istruzione” (Lowi,
1964a, 217).
16
Il personale impiegato
nella pubblica amministrazione cittadina passò da
33.000 a 246.000 unità. Il
governo della città estese la
sua regolamentazione e i
suoi interessi a molti ambiti
della vita pubblica.
16
la massima efficacia e soddisfazione popolare” (Lowi, 1964a, 17).
La stratificazione socio-economica della popolazione e la crescente diversificazione delle componenti etniche e religiose (in gran parte dipendente dai flussi
migratori) aveva reso più complessa la gestione delle nomine: numerosi nuovi
problemi e conflitti erano sorti in relazione, da un lato, alla rappresentanza
democratica delle minoranze, e dall’altro, in relazione alle garanzie dei diritti
democratici della maggioranza nelle decisioni sulla composizione degli organi
politici ed esecutivi di governo, e, più in generale, nel controllo dei processi di
scelta pubblici. La rappresentatività dei candidati divenne una questione centrale, coinvolgendo il sindaco.
A questo proposito è esemplare l’analisi di Lowi sul sistema di politiche per l’istruzione a New York e sui cambiamenti intervenuti nel corso degli anni nella
composizione del Direttivo per l’Educazione, o nell’organizzazione del
Dipartimento per l’Educazione. Vengono descritte le competenze del sindaco
nel settore, per come definite dallo statuto cittadino e per legge dello Stato, e le
pressioni e mobilitazioni dal basso per cambiare le regole, come effetto della crescente consapevolezza dei gruppi etnici e del consolidamento di alcuni gruppi
nazionali nella società urbana locale.
Come Lowi conclude, in sessanta anni di storia della città il grande cambiamento nella politica locale di New York era stato “il numero e il tipo di caratteristiche
che i leader sentivano di dovere assecondare” (Lowi, 1964a, 34). E tuttavia, altri
cambiamenti di rilievo avevano riguardato la struttura e l’organizzazione del
sistema partitico e l’influenza dei partiti politici sulla politica cittadina.
Negli ultimi decenni del XIX secolo, le organizzazione di partito diventarono il
più forte canale di reclutamento, profondamente imbevuto di valori tendenti al
“piano personale”, alle “regole interne al gruppo”, ossia “fedeltà al partito” e
“essere al servizio”. La città era governata da una “molto diffusa ed eterogenea
elite che includeva elementi della vecchia aristocrazia (una elite di status e di ricchezza mercantile) e politici di professione (Lowi, 1964a, 216). Quello fu il periodo della cosiddetta (old) urban machine.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’ascesa di grandi e ben organizzati gruppi
di interesse, interessati a ottenere accesso al gioco politico e potere di controllo, il sistema partitico divenne più debole. Nuovi ideali e valori andavano affermandosi, influenzando anche i criteri di selezione del personale politico e della
dirigenza pubblica; la crescente complessificazione della società15 e della pubblica amministrazione16 richiedevano più efficienza e conoscenze specialistiche. Il
profilo tradizionalmente reputato idoneo al reclutamento nella pubblica amministrazione, quello di “un generalista” (che, per la maggior parte delle posizioni,
era un uomo di legge), si mostrò inadeguato per molti dei nuovi compiti di
governo e di gestione. L’orientamento prevalente fu verso il reclutamento di profili che possedevano conoscenze specialistiche adatte alle posizioni di lavoro
libere, ovvero, “tecnici” che avevano una formazione e un curriculum effettivamente idoneo e all’altezza.
Queste figure di competenza erano ritenute più in grado di mantenere la ‘neutralità’ del funzionario del servizio pubblico, che deve rispondere del possesso di
virtù civiche e professionali. Tale orientamento corrispondeva anche ai desiderata dei gruppi di interesse (civici, economici), la cui attenzione era incentrata
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
sulla definizione di standard e tipi di profili, secondo principi che sostenevano il
carattere “impersonale o obiettivo”, corrispondente alle esigenze di “razionalizzazione” del lavoro politico e amministrativo. Di fatto, funzionari e amministratori pubblici avevano sempre più a che fare con le pressioni dei gruppi di interesse: “le burocrazie dipartimentali sono cresciute e sono divenute altamente
politicizzate – ma non per via dei partiti politici. Eliminare i partiti non ‘depoliticizza’ o ‘deorganizza’ la politica, altera soltanto la sua configurazione verso la
politica dei gruppi di interessi. L’eliminazione del partito dagli affari dei dipartimenti di solito getta l’amministratore nelle braccia della sua clientela” (Lowi,
1964, 223).
A questo proposito Lowi richiama alcune intuizioni cruciali del ben noto studio
di Woodrow Wilson su “l’amministrazione in azione” (1887), anche se con una
diversa prospettiva all’efficienza dell’azione di governo. Secondo Woodrow
Wilson era necessario sapere di più sulla politica urbana per migliorare le prestazioni del governo e dell’amministrazione locale. Il problema stava nel capire
“ciò che il governo può fare appropriatamente e con successo, con la massima
efficienza possibile, e al minor costo di denaro o di energie” e, come per il potere: “A chi deve essere affidato?” (Wilson, 1887, 198).
Secondo Lowi la questione dell’efficienza dell’azione di governo aveva a che fare
con le questioni della sua responsività e trasparenza, equità, della conformità alle
leggi, vale a dire, con la qualità del sistema politico democratico. La vera questione, in un periodo di espansione delle attività e delle responsabilità del governo urbano, così come dell’aumento delle domande sociali, era: “Quali sono le
cose che devono essere di pertinenza dell’azione governativa?”.
Woodrow Wilson aveva fortemente sostenuto il principio della separazione della
sfera amministrativa dalla sfera politica, e la natura non-partigiana del servizio
pubblico. Nella sua visione, l’amministrazione era “il compito specifico del funzionario tecnico” (W. Wilson, 1887, 210); la promozione di una riforma del servizio pubblico e della rettificazione dei metodi di reclutamento del personale
erano strumenti indispensabili per la “chiarificazione dell’atmosfera morale della
vita del dipendente pubblico”.
L’analisi di Lowi sulla città di New York era stata condotta in anni successivi,
quando molti degli effetti di tali riforme democratiche erano visibili. Il campo di
ricerca di Lowi aveva reso evidente il carattere plurale e frammentato della politica urbana. Il pluralismo poteva essere utilizzato come una categoria descrittiva
efficace per rappresentare la complessità e la ricchezza dell’ambiente politico e
sociale contemporaneo, ma non automaticamente come categoria normativa per
la definizione delle caratteristiche del governo democratico. La diminuzione
della responsabilità elettiva e l’aumento della rappresentanza funzionale, unitamente all’indebolimento del sistema dei partiti e al fiorire di gruppi di interesse
economici e sociali, aveva portato a conseguenze significative sul piano dell’accountability “essendo la responsabilità non verso gli elettori ma verso l’etica
professionale e le clientele organizzate” (Lowi, 1964a, 226) e della responsiveness: “la scomposizione delle responsabilità in aree funzionali riduce l’ambito di
responsabilità collettiva, che è la conditio sine qua non dell’auto-governo”
(Lowi, 1964a, 226). Mentre, un “sistema di partiti vitale è integrativo” e può creare l’equilibrio tra le varie aree funzionali. Inoltre, il pluralismo non è democrazia
17
n.32 / 2012
partecipativa, dacché la gran parte dei cittadini sono spettatori del gioco della
politica, e le elezioni e i gruppi di interesse offrono canali di influenza popolare
limitati.
Lowi pone l’accento sullo scarso interesse a considerare, negli studi sulla leadership comunitaria, la struttura e l’attività governativa; l’analisi di caso su New
York era stato dunque concepito “per tagliare trasversalmente ogni aspetto dell’attività governativa”, attraverso la finestra delle decisioni di nomina, analizzate
dal punto di vista dei modelli decisionali, delle caratteristiche delle autorità aventi poteri di nomina e del personale reclutato, delle transazioni politiche e sociali
che avevano luogo (Lowi, 1964a, 227).
Attraverso questo studio Lowi perviene alla prima formulazione delle “arene di
potere”, che consiste nell’identificazione di specifici conflitti ricorrenti all’interno della politica urbana, e di ben definite constituency (formate da organizzazioni di partiti, funzionari di specifici dipartimenti dell’amministrazione, dal sindaco, etc.) intorno ad aree di attività del governo, aventi ciascuna una distinta
struttura di potere. Queste aree sono, in altri termini, la funzione di governo
vista in un tentativo di astrazione da singole “issue-areas”, ma in base a una strategia di analisi diversa da quella di Dahl (1961). Secondo Lowi, infatti, le “issueareas” di Dahl sono di natura “transitorie e uniche”, “troppo specifiche”.
La considerazione dei differenti effetti sul processo politico, conseguenti al tipo
di decisioni prese in ciascuna arena, ci porta alla identificazione delle diverse
aree dell’attività del governo (e delle relative arene di potere): redistributiva,
regolativa, distributiva e costituente. Appare il difficile compito del sindaco nel
prendere le decisioni di nomina in tali aree di conflitto, dovendo egli conservare uno spirito bipartisan. Per questa ragione, una amministrazione neutrale e
professionale poteva costituire una risorsa utile da giocare.
La presentazione delle (quattro) arene del potere non è qui necessaria, in quanto si tratta di uno schema noto.
Soltanto a fini di esemplificazione, per riportare il filo del suo ragionamento,
Lowi evidenzia come a New York vi fosse stato un persistente, quasi istituzionalizzato, conflitto sulle politiche urbane, polarizzato tra due gruppi, coloro i quali
avevano disponibilità di denaro ed erano pertanto “i pagatori” (banchieri,
costruttori, proprietari terrieri, e le altre persone che potevano mobilitare una
grande quantità di risorse finanziarie, oltre a prestigio personale, relazioni
influenti, etc.) e coloro i quali esprimevano la “domanda di servizi” (consigli cittadini per la salute e il welfare, associazioni religiose, di volontariato e non governative, settori della burocrazia impiegati nelle politiche di welfare, in aree di servizio sociale, assistenza, etc.). L’arena del conflitto era, infatti, quella della politica sociale e di welfare (istruzione, parchi, salute, etc.), ovvero l’area di attività del
governo caratterizzata da decisioni di natura redistributiva. I conflitti nel settore
del welfare erano altamente politicizzati, e essendo in gioco principi di giustizia
redistributiva e aspetti di disparità tra classi, sortivano un grande impatto sull’opinione pubblica, rappresentando un problema ai fini del consenso politico.
I requisiti, cioè le competenze tecniche e di gestione del personale politico
avente responsabilità nell’area di policy relativa al welfare e ai servizi, erano considerati alla base del reclutamento, ma, allo stesso tempo, era importante bilanciare la competenza tecnica con gli aspetti religiosi ed etnici e prendere in con-
18
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
siderazione le richieste e le proposte dei gruppi di interesse.
4. Il problema dell’analisi di caso negli studi di policy: verso una scienza del governo
La concettualizzazione delle “arene di potere” in “At the Pleasure of the Mayor”
è solo la prima versione di una tesi, che troverà ulteriori approfondimenti empirici e teorici.
In un articolo del 1964, Lowi problematizzava l’inadeguatezza e la debolezza dei
caso di studio effettuati sulla base degli approcci sia pluralista sia elitista al fine
di produrre una conoscenza di tipo teorico e generalizzazioni, nella forma di
modelli capaci di comprendere e spiegare il potere politico, di formulare teorie
del potere e del policy-making (Lowi, 1964b). Era infatti disponibile una sorprendente quantità di singoli casi di studio nel campo delle scienze politiche;
tuttavia, mancavano programmi di ricerca e sforzi significativi di accumulazione
delle conoscenze e dei risultati delle ricerche.
“Ciascun studio è, semmai, un punto di vista auto-convalidante; l’approccio pluralista suggerisce cosa cercare mentre il modello elitista forse suggerisce cosa
non cercare” (Lowi, 1964b, 686). In particolare, anche i lavori empirici condotti
seguendo interpretazioni pluraliste del sistema politico democratico cadevano in
una sorta di circolo vizioso in quanto i loro “risultati sono pre-determinati dall’approccio stesso” (Lowi, 1964b, 681); in altre parole, i risultati della ricerca venivano influenzati e viziati dall’ipotesi iniziale con il suo apparato di credenze, valori e presupposti. I ricercatori si muovevano tra livelli descrittivi e normativi di
analisi e le loro conclusioni difettavano di validità esplicativa e di potenziale teorico. Tra gli studi di caso citati, troviamo “Who Governs?”, (di cui abbiamo discusso), “American Business and Public Policy”, di Bauer, Pool, Dexter (1972), e
“Dixon-Yates: A Study in Power Politics”, di Wildavsky (1962)17.
In breve, i limiti delle analisi condotte attraverso un singolo caso-studio sono
relative a:
- la capacità di produrre generalizzazioni valide. La conoscenza acquisita è contestuale e specifica a un singolo campo di indagine; i risultati non sono cumulabili e non possono essere assunti come base di teorizzazioni (sono “self-directing” e “self-supporting”). La maggior parte di questi studi sono libri che raccolgono e raccontano storie (Lowi, 1964, 686). Di conseguenza, su di un piano disciplinare e teorico la conoscenza del processo di policy non avanza. La questione
che si pone allora è: “come migliorare i processi di policy-making in mancanza di
conoscenze di carattere generale delle condizioni per governare e degli impatti
delle decisioni di governo (vale a dire, degli esiti)?”;
- il problema della unicità è “l’handicap di tutti i casi-studio” (Lowi, 1964b, 686),
in quanto conduce a prodotti di ricerca piuttosto effimeri;
- la maggior parte di questi studi sono analisi di comunità locali e non possono
offrire adeguate conoscenze teoriche sui processi politici nazionali, mentre, vi è
la necessità di studi sistematici delle politiche nazionali.
In “At the Pleasure of the Mayor”, abbiamo visto la prima formulazione di Lowi
di uno schema interpretativo generale, sviluppato per l’analisi della politica urbana, che propone la classificazione delle politiche pubbliche in categorie funzio-
17
Viene fatta eccezione per
l’analisi condotta come singolo caso di studio da
Schattschneider (1935,
“Politics, Pressures and the
Tariff”). Per Lowi, essa possedeva un elevato potenziale teorico per sviluppare
un’ipotesi pluralista, sebbene fosse stata oggetto di
interpretazioni fuorvianti,
come studio che sposava
l’approccio pluralista nell’analisi politica. In questo
studio si ritrovava il mito
delle “coalizioni organizzate intorno a interessi e a
posizioni condivise...ben
definite poste in
gioco...come unica forma
di interazione politica”.
“L’arena che descrive era
decentrata e multicentrica
ma le relazioni tra i partecipanti erano basate sulla
‘mutua non interferenza’
tra interessi non comuni”
(Lowi, 1964b, 680). L’idea di
“interessi non comuni” alla
base di accordi reciproci,
richiama la nostra attenzione agli sviluppi teorici
successivi di Lindblom –
all’affermazione di “(un
coordinamento attraverso)
il mutuo aggiustamento di
interessi partigiani” e la
contestazione del consenso
come premessa e fondamento del governo democratico.
19
n.32 / 2012
18
Oberlin, evidentemente,
diversamente da New York
ma anche da New Haven,
non era un contesto oggetto
di ampi studi; pertanto,
Wildavsky aveva dovuto
organizzare soluzioni sulla
base di limitate informazioni storiche, soprattutto
rispetto alle politiche pubbliche. Per quanto riguarda
il periodo compreso tra il
1927 e il 1957 la fonte principale di informazione era
stata la stampa locale; sugli
anni dal 1833 al 1927 vi
erano ancora meno informazioni disponibili. Sui sindaci della città si erano
invece ricostruite le informazioni essenziali, concentrandosi sull’anno 1927,
che aveva segnato il passaggio da un modello di forte
leadership del sindaco
all’amministrazione del
city-manager e del
Consiglio Comunale. Allora
gli attori-chiave erano
diventati coloro che avevano potere esecutivo, così
l’interesse per la raccolta
dei dati si spostò su di quelli.
20
nali; tale quadro analitico introduce una distinzione tra classi di casi.
Contro la rappresentazione prevalente della politica urbana come luogo di dispersione e sovrapposizione di poteri, Lowi ha teorizzato che era possibile discernere, nelle forme di attività di governo, alcuni tipi di politiche pubbliche, alle quali
si poteva attribuire una specifica configurazione del potere e del processo politico. A partire da queste premesse era possibile anche ottenere conoscenze più
generali sul policy-making, individuare le principali categorie di politiche pubbliche, arrivando alla formulazione di una tassonomia generale dell’azione di governo, un framework che costituisse “una base per cumulare, comparare e mettere
alla prova risultati differenti. Tale quadro o schema interpretativo potrebbe portare a tracciare relazioni tra i diversi casi e risultati, iniziando a suggerire generalizzazioni sufficientemente vicine ai dati quanto sufficientemente astratte e significative per essere oggetto di un più ampio trattamento teorico” (Lowi, 1964b,
688). “Una delle virtù dello schema delle politiche è che converte i consueti studi
di caso, da cronache e strumenti didattici, in dati” (Lowi, 1972, 300).
Un’altra importante possibilità era definire i tipi di funzioni che i governi potevano effettivamente svolgere, in base al proprio potere coercitivo. Questa esigenza andava letta in relazione all’espansione incontrollata del policy-making
che si produceva a livello locale, statale e federale, con una tendenza da un lato
alla “europeizzazione della politica americana”, e cioè, alla statalizzazione della
società, e, dall’altro, all’incremento di meccanismi di delega di funzioni e competenze di governo a agenzie di gestione, a organismi tecnici appositamente
costituiti. La frammentazione e settorializzazione dell’azione pubblica, tuttavia,
rendeva lo stato di diritto sempre più incerto, minando il principio della responsabilità democratica del governo, con una diminuzione del rendimento e della
trasparenza dell’operato. Le agenzie erano infatti strutture di potere, nel senso
che assumevano decisioni molto importanti, dovevano relazionarsi a gruppi
organizzati che avevano accesso alle decisioni politiche, e così via; ma la loro proliferazione sortiva l’effetto di disperdere l’azione pubblica in una miriade di canali, che non erano sotto il controllo di qualche autorità superiore e non dovevano
rispondere al potere politico. Come Lowi sintetizza bene in The End of the
Liberalism: “in the city there are many publics but no polity, therefore there is
little law” (Lowi, 1979, 185).
5. Studio sulla leadership nella città universitaria di Oberlin
(Wildavsky, 1964)
Per quanto riguarda l’orientamento metodologico della ricerca, in “Leadership in
a Small Town” Wildavsky compie una scelta molto diversa rispetto alla “dimensione temporale” di Lowi. Egli concentra infatti la sua analisi sulla politica della
città di Oberlin (Ohio) in un periodo di tre anni (la ricerca sul terreno viene condotta tra il 1958 e il 1961), sebbene alcune informazioni sulla storia locale e i dati
sulle caratteristiche socioeconomiche e sulle dinamiche demografiche fossero
stati raccolti e considerati a partire dal 1833, anno di fondazione della città, ricavandoli da fonti secondarie18. L’approccio è quello adottato da Dahl (1961), con
una differenza sostanziale, dovuta alla piccola dimensione della città (Oberlin al
tempo era una comunità di 8.000 abitanti, con una popolazione di 2.000 studen-
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
ti che frequentavano il College ivi situato), un fattore che aveva consentito di analizzare la maggior parte delle “issue-areas” significative dell’attività di governo.
Lo studio possedeva un carattere sperimentale anche per l’applicazione del
metodo della ricerca-azione all’osservazione delle relazioni tra città e università.
In una certa misura, Oberlin veniva “adottata” da parte dei ricercatori: Wildavsky
aveva infatti formato un ampio team, attivando collaborazioni con altri colleghi e
più giovani assistenti e coinvolgendo nella ricerca studenti del suo corso su
“State and Local Government”. Anche la città, d’altro canto, aveva “adottato” i
ricercatori: centinaia di cittadini di Oberlin erano stati variamente coinvolti,
come informatori-chiave, osservatori, erano stati intervistati, richiesti di compilare un questionario o di leggere sezioni dei report di ricerca, anche più volte, etc.
A questo proposito, nell’introduzione al volume (“Leadership in a Small Town”),
Wildavsky riporta ironicamente l’auspicio espresso dai cittadini, per il futuro: “Il
loro lamento scorato – ‘no, non di nuovo’ – l’ennesima volta che orde di studenti piombavano su di loro era comprensibile tanto quanto la loro inesauribile disponibilità a cooperare e la loro cortesia era degna di nota” (Wildavsky, 1964, XIV).
Questo aspetto del processo di produzione della ricerca va sottolineato per due
motivi: primo, il metodo qui adottato inaugura la prima applicazione di quella
che diventerà un qualità peculiare del lavoro di ricerca di Wildavsky (si pensi alle
esperienze seguenti, più strutturate, come “The Oakland Project”), innestata nel
solco di una tradizione di partnership “città-università”, relativa alla specificità di
una pratica di formazione, di una logica di indagine, ma anche di forme di interazione politica; secondo, Oberlin era una città universitaria, essendo l’Oberlin
College un grosso attore immobiliare e una fonte considerevole di occupazione
e di sviluppo economico nella città. La comunità del College, fin dalla sua fondazione, aveva anche avuto una funzione essenziale nel promuovere principi e
pratiche di democrazia a Oberlin. Già nel 1860 infatti vi era una comunità di neri,
che costituiva il 25% della popolazione totale della città, e i cui diritti civili, religiosi e politici erano rispettati, anche se la comunità tendeva a tenersi ai margini e a delegare le decisioni politiche ai leader bianchi. Allo stesso tempo, la classe dirigente del College costituiva una potente elite di intellettuali, animati da
posizioni molto idealistiche, che aveva influenza sulla politica locale e che orientava il sistema di valori della comunità. Per tutte queste ragioni, la presenza del
College a Oberlin era un fattore peculiare quanto determinante, che nel tempo
aveva influito sulle decisioni locali e sulla configurazione delle relazioni di pote19
I dati relativi alla partecire della comunità19.
Tornando all’indagine effettuata, gli studenti in particolare erano stati richiesti di pazione dei cittadini erano
“effettuare studi di caso sui principali eventi del periodo considerato per l’anali- chiari a questo proposito:
emergeva una netta distinsi, osservare con sistematicità le attività dei principali attori della vita cittadina,
zione tra cittadini bene
somministrare e codificare questionari, condurre indagini storiche. In questo istruiti, intenzionati a dedimodo, veniva accumulata una notevole base di dati su Oberlin, incluse oltre un care tempo agli affari locali, e le classi medie, la cui
migliaio di interviste” (Wildavsky, 1964, XII).
Molti studi di caso erano stati scritti in forma di “case histories” (allo scopo di disponibilità doveva fare i
conti con difficoltà e limiti
analizzare da una prospettiva storica e su una serie di “issue-areas” le relazioni di
di natura economica,
potere a livello della comunità e la struttura e i caratteri della leadership a
sociale e culturale.
Oberlin, venivano effettuati casi di studio incentrati su rilevanti decisioni, che
avevano coinvolto il governo della città quanto la comunità locale) e “role stu-
21
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20
Le categorie di Dahl erano
state utilizzate, da un lato,
per esplorare la partecipazione dei cittadini e per
capire chi erano i cittadini
attivi di Oberlin e in quali
modi, dall’altro, per sviluppare un’ipotesi, di una strategia dei cittadini per
migliorare la partecipazione.
21
Era stato configurato un
“gruppo di leadership”,
composto di “tutti quelli che
avevano partecipato ad
una particolare decisione e
che potevano essere considerati quali candidati per
la leadership”. Quindi, “si
erano tirati fuori coloro
che avevano perso e che
non avevano ottenuto
nulla di quello che volevano. Fatto ciò era rimasto
una gruppo di leadership
che era una elite, composta
da coloro che in qualche
modo avevano contribuito
a garantire un risultato a
loro favorevole. All’interno
di questa ampia categoria,
si era cercato di distinguere
tra coloro che avevano
avviato, posto il veto, o ottenuto consenso su una proposta di policy” (Wildavsky,
1964, 253-254).
22
dies” (quando si trovava evidenza del ruolo determinante e dell’influenza di alcuni leaders, come nel caso di attivisti locali o del city-manager; per questo motivo,
era risultata strategica l’attività di osservazione partecipante condotta presso gli
uffici del sindaco e del city-manager, e in altri contesti). Wildavsky intervistò più
volte osservatori-chiave e attori che erano stati individuati tra i principali partecipanti e portatori di interesse, al fine di approfondire alcuni aspetti specifici e risolvere versioni sugli eventi che erano in evidente contrasto tra loro, o interpretazioni contraddittorie. Ampie indagini con questionari strutturati erano state condotte parallelamente per raccogliere dati sul grado di partecipazione dei cittadini
agli affari locali, sulla loro disposizione rispetto alla democrazia e sui valori democratici in cui credevano, nonché sulle aspettative che avevano rispetto al governo
locale. Questi dati erano poi finalizzati a definire una strategia più generale di partecipazione dei cittadini ai processi di decisione pubblica, come viene spiegato in
un capitolo dedicato del libro20. Altre indagini con questionario erano mirate ad
acquisire conoscenze sulle percezioni e opinioni di cittadini e di soggetti più coinvolti negli affari locali relativamente ai sistemi di potere, di leadership, e alla distribuzione dell’influenza nella città di Oberlin. Questi dati venivano poi confrontati con i risultati delle analisi di caso e tutto il materiale di ricerca prodotto veniva fatto oggetto di discussione per definire un quadro conoscitivo che tenesse
conto delle diverse visioni e rappresentazioni esistenti della politica urbana.
Storicamente, il partito politico che aveva prevalso nelle elezioni locali era stato
il partito repubblicano. Fino agli anni ’30, pochi leader avevano dominato la maggior parte delle decisioni importanti per la città. Nei due decenni successivi la
crescita economica, accompagnata dalla realizzazione di importanti opere pubbliche nel quadro di progetti di modernizzazione, aveva facilitato sia l’ascesa di
nuovi leader locali, come ad esempio uomini d’affari, sia il rafforzamento di alcuni dipartimenti dell’amministrazione cittadina (come la Commissione
Urbanistica, responsabile dello zoning). A seguito di decisioni relative allo sviluppo economico erano sorte una serie di controversie, con la mobilitazione di
segmenti della società civile, di associazioni locali, attivisti, che avevano dato vita
a movimenti e a proteste contro alcune decisioni, organizzando petizioni e coinvolgendo un’ampia parte dell’opinione pubblica. Questi gruppi avevano avanzato la richiesta di referendum locali e di un più effettivo coinvolgimento dei cittadini negli affari pubblici, e avevano lottato duramente per difendere i loro interessi, per richiamare l’attenzione su specifiche questioni e avere voce nella formulazione dell’agenda politico-istituzionale del governo cittadino. Anche se era
possibile individuare tra i leader coloro che avevano più potere, le analisi di caso
sulla distribuzione di influenza nelle principali decisioni – per molti aspetti svolte secondo la procedura di misurazione adottata da Dahl21 - avevano dimostrato
che “un sistema politico pluralistico, frammentario, competitivo, aperto e fluido”, che aumentava le opportunità per i singoli, aveva caratterizzato il processo
politico urbano di Oberlin (Wildavsky, 1964, 8). Gruppi d’affari, il College, la
stampa locale, gruppi civici, singoli attivisti, associazioni, risultavano tutti variamente coinvolti nei conflitti e nelle decisioni, talvolta ottenendo di vincere, altre
volte perdendo. In alcuni casi l’osservazione metteva in luce interventi non coordinati e che tendevano a sovrapporsi, in altri, conflitti ostinati che polarizzavano
l’opinione pubblica. Le evidenze empiriche erano state fatte oggetto di interpre-
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
tazione secondo teorie democratiche rivali (come riportato nel primo capitolo
del libro, dove vengono esposte la teoria della democrazia di massa, le teorie elitiste, etc.). Il frame pluralista secondo cui “il potere è frammentato tra molti e
diversi individui e gruppi, e piuttosto disperso (inegualmente, di certo) nella
comunità”, risultò quello in grado di spiegare il sistema politico di Oberlin.
Furono condotti studi di caso in sette “issue-areas”, analiticamente definite –
edilizia abitativa, servizi pubblici, politiche sociali, sviluppo industriale, zoning,
istruzione, nomine ed elezioni. Alcune questioni oggetto di analisi, come “La
grande controversia sull’acqua”, generarono “una notevole passione e partecipazione”, altre, come “Il piano di fornitura elettrica”, vennero trattate da specialisti del settore, nominati o eletti per quell’incarico, altre ancora, come il caso
delle “Co-decisioni in materia di politica abitativa”, sortirono un grosso impatto
e furono sotto l’occhio di tutti, oggetto di giudizio pubblico.
L’analisi di caso di Wildavsky si presenta straordinaria, sia dal punto di vista analitico sia da quello narrativo, in quanto è un’esplorazione in profondità e nel
micro delle interazioni politiche e sociali e produce una descrizione densa delle
dinamiche del processo politico. L’attenzione è volta alla costruzione delle politiche, ovvero alla definizione del problema, alle motivazioni e percezioni dei partecipanti, alle culture degli attori, all’identificazione delle poste in gioco, ed in
particolare all’implementazione e all’insieme degli esiti che le politiche generano – quelli attesi e quelli non voluti, “positivi” e “negativi”.
Dalla prospettiva di Wildavsky gli studi di caso come analisi e come narrative
sono infatti strumenti essenziali per capire le politiche pubbliche e per imparare
sulle e dalle politiche22. Nell’analisi dei diversi contesti di policy e delle aree di
policy-making, Wildavsky persegue due principali interessi di ricerca, in tensione tra loro. Un obiettivo è esplorare una ampia casistica di situazioni di formulazione e attuazione di decisioni pubbliche, in specifiche aree di domanda sociale
di intervento e di attività del governo cittadino, per individuare modelli decisionali capaci di offrire quadri interpretativi generali sulle condizioni di contesto,
sugli esiti. L’altro obiettivo è esplorare situazioni di decisione pubblica, per osservare i processi di formazione e trasformazione delle preferenze, delle credenze,
degli interessi dei partecipanti nell’interazione con gli altri partecipanti e a seguito di processi di produzione di significato, individuale e collettiva, su cambiamenti inattesi e non pianificati o su eventi che si sono verificati nella fase di
messa in opera delle decisioni; in altre parole, l’apprendimento sociale via-interazione, che ha luogo con diversi gradi di riflessione e di consapevolezza. Questa
prospettiva è “pragmatista”, nel senso che riconosce il valore della pratica e dell’azione congiunta, quali contesti di produzione di conoscenza, e la rilevanza
delle forme di conoscenza ordinaria, pratica, interattiva per la definizione e il
trattamento dei problemi di policy.
Relativamente a quest’ultimo aspetto, Wildavsky condivide il dubbio teorico e la
prospettiva analitica di Lindblom, per come di seguito enunciati: “Quale conseguenza ha il processo stesso (di policy) nel formarsi e riformarsi – forse come
invenzione o scoperta – di interessi o valori?” (Lindblom, 1965). Per entrambi, il
processo di policy è un processo sociale di risoluzione creativa dei problemi.
Poste in gioco, problemi e obiettivi possono ridefinirsi attraverso l’interazione o
come conseguenza di cambiamenti inaspettati; nuove soluzioni possono essere
22
Nella sua carriera di
ricerca egli aveva sviluppato studi di caso di politiche
pubbliche solitamente in
collaborazione, dal
momento che era stato convinto dei vantaggi derivanti
dal lavorare assieme con
altri ricercatori, anche con
un background diverso
(Wildavsky, 1986). La formazione di giovani scienziati politici era basata su
questo tipo di lavoro di
ricerca.
23
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23
Lindblom concettualizza
il policy-making come
“social problem solving”.
Nelle società complesse contemporanee pluraliste e nei
sistemi politici democratici,
i partecipanti al social problem solving sono persone
comuni: “molte persone –
di diverse opinioni – che
esprimono posizioni informate e ponderate su come
meglio fare”. Essi sono:
“comuni cittadini, politici,
amministratori e funzionari pubblici, capi di organizzazioni private, opinion
leaders, esperti di vario
tipo, inclusi anche gli scienziati sociali” (Lindblom,
1990, X; VIII). Il social problem solving attiva processi
di indagine e risorse di
conoscenza, professionali e
non professionali, aperte e
interattive “per cui non
esploriamo prima e poi
agiamo ma continuiamo a
esplorare e apprendere in
ciascuna azione che intraprendiamo” (Lindblon,
1990, 30). In lavori precedenti (1979; 1980) Lindblom
aveva spiegato i concetti
alla base della sua teorizzazione del social problem
solving e della “intelligenza
della democrazia”.
24
La posizione anti-tecnocratica di Lindblom, che si
ritrova nella sua originale
interpretazione di Dewey
(Torgerson, 1995), è ampiamente riconosciuta. La sua
rappresentazione del processo di policy come
“mutuo aggiustamento di
parte” (con riferimento agli
attori partecipanti) esclude
la fuorviante nozione delle
politiche come “il prodotto
di una mente che governa”
(Lindlom, 1965, 4). “Egli
cerca di ridurre le pretese
di un professionalismo che
24
individuate con la disponibilità di nuove informazioni e risorse, o per la mobilitazione di nuovi attori. In altri termini, la formazione così come il cambiamento
di preferenze, credenze e volizioni possono essere un sottoprodotto del processo e, in ogni caso, sono da considerarsi endogeni al processo.
In un articolo pubblicato nel 1970 (cfr: Public Administration Review), Lowi ha
fortemente attaccato l’approccio di policy di Lindblom in quanto “non definito”,
“troppo permissivo, troppo inclusivo” (Lowi, 1970, p. 318). Diversi sono i punti
controversi:
1) Lindblom assume che il policy-making è decision-making – “la policy è un
output di un qualsiasi decisore...ed è un outcome di un qualsiasi processo”, che i
decisori siano governi o gruppi non governativi, che il processo sia un compromesso politico, o l’implementazione di un ben definito programma di interventi,
o qualcosa che semplicemente può accadere, egli tende a operare “come se il
carattere sostantivo o il livello di quell’output non abbia conseguenze sul processo mediante il quale l’output diventa un output” (Lowi , 1970, 317). Mentre, il
carattere delle scelte effettuate è rilevante per la comprensione degli esiti attesi23.
2) “Operare sul presupposto che la policy sul piano sostanziale – il livello istituzionale – è parte del ceteris che è paribus porta non soltanto alla posizione ideologica del tecnocrate (...) ma anche a impossibilità sul piano logico e empirico”
(Lowi, 1970, 319).
Lowi riconosce che i lavori teorici di Lindblom offrono una differente interpretazione di questo ultimo punto, sottolineando la profonda comprensione che
Lindblom sviluppa del funzionamento del policy-making nei sistemi politici
democratici, in particolare con riferimento alla strategia dell’incrementalismo
disgiunto24; tuttavia, egli mette in evidenza anche l’ideologia accademica che è
intrinseca al suo approccio e che rispecchia le tipiche idee liberali e democratiche prevalenti tra gli scienziati sociali del tempo, fiduciosi della potenzialità che
sia la policy analysis sia la cittadinanza attiva hanno di migliorare la costruzione
delle politiche, e con queste la qualità della democrazia e la qualità di vita.
Fondamentalmente, la prospettiva di Wildavsky al policy-making è simile, dacché egli vede l’esperienza di attuazione e valutazione delle politiche pubbliche
di per sé come un’occasione e una condizione per “imparare ad apprendere”, sia
per i decisori che per i partecipanti che per gli analisti politici. Questo approccio
limita il senso di una definizione a priori delle caratteristiche e delle proprietà di
ciascun tipo di politica, e delle condizioni per formulare e attuare le politiche pubbliche, rendendo priva di significato anche la determinazione delle conseguenze
specifiche, o degli impatti attesi delle politiche sul sistema politico. Lo studio di
Lowi dimostra invece che è possibile individuare le principali differenze tra tipi di
politiche pubbliche, associate a distinti processi politici. In questo senso, per
esempio, “dal momento che la maggior parte dei casi di studio di analisi del
policy-making scritti da scienziati politici, in particolare tra gli anni ’30 e ’40,
hanno riguardato la regolamentazione normativa, c’è poco da sorprendersi che
ritenessero di essere in grado di fornire generalizzazioni dell’intero processo di
policy-making. Così come non c’è da stupirsi che essi abbiano descritto il sistema nel suo complesso come in trasformazione, coalizionale, pragmatico, negoziale, ove l’outcome è prodotto e vettore di forze interagenti “(Lowi, 1970, 323).
Quest’ultima annotazione critica di Lowi è gravida di conseguenze. Se guardia-
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
mo agli studi di caso sviluppati da Wildavsky in “Leadership in a Small Town”, e
seguiamo lo schema interpretativo di Lowi e la sua tassonomia delle politiche
pubbliche, ci rendiamo conto che si tratta di casi prevalentemente di politiche
regolative e redistributive.
Coerentemente con quello schema, ci aspettiamo che i casi di studio in questione siano: la descrizione di contesti socio-politici plurali e frammentati, caratterizzati da elevata “clearance” e con numerosi “decision points” (utilizzando le
definizioni di Wildavsky, introdotte in “Implementation”, 1973, per analizzare
complessi processi di costruzione delle politiche), assai ambigui rispetto alla
molteplicità degli effetti di policy; e/o la descrizione di ostinati conflitti, caratterizzati da una polarizzazione degli attori partecipanti attorno a una posta in
gioco, in un contesto ricco di diversi tipi di mobilitazione e attivazione, dove
nuovi imprenditori di policy, eventi o cambiamenti imprevisti, faticose contrattazioni e strategie di negoziazione possono eventualmente condurre ad una ridefinizione di posizioni quasi istituzionalizzate, e ad accordi.
Gli studi di casi raccolti nel libro sono proprio di questa natura.
Dovremmo concludere, dunque, che Lowi e Wildavky impiegando due approcci
di analisi diversi avevano ottenuto risultati empirici simili, e che la differenza di
base consiste nella difficoltà di raggiungere generalizzazioni attraverso la via
adottata da Wildavsky. Inoltre, non sembra opportuno teorizzare il “potenziale
democratico, in generale” delle politiche pubbliche guardando, fondamentalmente, agli effetti di decisioni di natura regolativa, in quanto essi sono nella realtà altamente pluralizzati e differenziati. Tuttavia, l’argomentazione di Wildavsky
si pone, a questo proposito, in coerenza con il suo approccio di policy: i partecipanti hanno percezioni differenti e opinioni plurali sui problemi e su come
definirli, così come sulla posta in gioco, etc., e tali differenze sono costitutive
della pluralità sociale e, sul piano cognitivo, della mente dell’uomo. Pertanto, ciò
che, per un partecipante, può essere inteso come un effetto redistributivo di una
policy può, per un altro, essere inteso come un effetto regolativo. E, in base alle
proprie diverse cornici interpretative e a ciò che apprendono, essi (i partecipanti) prendono delle decisioni, e agiscono, in accordo o in conflitto. L’attuazione e
la valutazione delle politiche conducono a interpretazioni e rappresentazioni
plurali: l’interazione è un presupposto necessario per l’apprendimento sociale e
istituzionale. Questa è una buona ragione per indagare le politiche pubbliche
come processi di interazione sociale. Inoltre, il potenziale di democratizzazione
delle politiche pubbliche dovrebbe essere considerato come un sottoprodotto
(eventuale) del processo di policy; miglioramenti della qualità democratica non
possono essere intesi esclusivamente come esiti attesi (pianificati) di soluzioni
dall’alto, troppo razionali e frutto di ingegneria sociale.
invoca l’autorità di una
conoscenza specialistica e
astratta, programmata per
informare ‘il decisore’”
(Torgerson, 1995, 243).
6. “Astrazione” versus “situazionale”
Riassumendo, la visione del processo di policy introdotta da Wildavsky e Lindblom
si discosta, su un piano epistemologico, dalla concettualizzazione avanzata da Lowi.
In primo luogo, vi è una differenza nel modo di concepire lo studio di caso. Per
Wildavsky, l’analista di policy collega eventi e elementi rilevanti in un quadro
interpretativo e in una narrativa (dove le percezioni e le prospettive degli attori
25
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trovano un posto importante), apprendendo da fonti di informazione eterogenee e da diversi tipi di conoscenze. Le politiche sono costrutti strategici e analitici. Mentre per Lowi, la raccolta sistematica dei dati e le “serie temporali” erano
necessarie al fine di chiarire una “sequenza di eventi prima di imputare loro qualsiasi nozione di relazione” (Lowi, 1964a, 231).
In secondo luogo, e in connessione con il punto di cui sopra, l’interesse di ricerca di Lowi era definire categorie di politiche (come aree di attività del governo)
astraendo (dai processi) quelli che erano gli attributi significativi – ovvero, le
poste in gioco – delle diverse identificabili “issue-areas”: la tassonomia e lo schema interpretativo delle politiche pubbliche proposti avevano questa funzione, di
definire le decisioni tipiche, rendendo possibile determinare, a monte, quali
erano le poste in gioco che i partecipanti potevano aspettarsi di ottenere in ogni
ramo di operatività del governo (Lowi, 1964a, 229). Le prospettive o le aspettative (come finalità di potere) dei partecipanti appaiono modellate da meccanismi
istituzionali, disposizioni del governo e “strutture di potere”. Per questo motivo,
“è di grande importanza distinguere se la decisione in questione è di natura regolativa o redistributiva (...) La determinazione di quali cose devono essere ottenute dal governo va fatta prima di impegnarsi in uno studio complesso di
modelli informali di condotta” (Lowi, 1964a, 231).
Sia Lowi sia Wildavsky, entrambi interessati alle dinamiche di potere e alle razionalità del potere, hanno sostenuto che studiando i processi di costruzione delle
politiche si poteva sviluppare una comprensione del funzionamento del potere.
Entrambi condividevano, inoltre, la convinzione che non era possibile esplorare
il rapporto tra politica e politiche in modo de-storicizzato.
La differenza principale, significativa sul piano della teoria politica, stava nel fatto
che per Wildavsky lo studio delle politiche (la comprensione del policy-making
e l’indagine nelle politiche pubbliche), muove dal particolare e dal locale, sottolineando il carattere “situato” dei processi di policy (dalla formazione delle issues
alle decisioni, all’attuazione). Il problema di base in quest’orientamento è forni25
Secondo Flyvbjerg questa re una conoscenza a carattere generale delle politiche pubbliche. In proposito,
tradizione ha le sue radici Wildavsky aveva indicato la via dell’approfondimento sistematico di questioni e
contesti “per finalità esplicative e per essere di utilità agli amministratori”, eviin Aristotele e si ritrova in
tempi moderni in
denziando come “differenze nei contesti di formazione delle issues incidono sul
Machiavelli e Nietzsche
comportamento dei decisori (...)” (Wildavsky, 1962, 718 ).
(2001). Per ulteriori chiarimenti su quest’argomento si Più in generale, la sua concezione delle politiche come azioni e come esiti, intenzionali e inattesi, che da queste hanno luogo, insiste in una tradizione che valoveda Gangemi (1999), che
rizza le forme di conoscenza pratica, interattiva, e la capacità deliberativa, intesa
sviluppa una articolata
visione delle connessioni
come una competenza ad agire nelle situazioni concrete di decisione e di intertra metodologia e teoria
vento, dunque in relazione ad un particolare contesto, secondo una razionalità
democratica; sulle forme di
25
conoscenza utili per l’azio- di processo più che una razionalità tecnica-scientifica . Il lavoro di ricerca di Lowi
è invece orientato a dare fondamento scientifico allo studio delle politiche, all’inne, Lindblom e Cohen
terno della scienza politica. La formulazione di un modello per l’analisi delle poli(1979); Crosta (1998).
tiche era essenziale per posizionare solidamente gli studi di policy nella tradi26
Questa tradizione deriva zione teorica e universalistica delle scienze politiche e sociali, per costruire una
via Kant da Platone e in
scienza delle politiche26. “In termini di potere, stiamo parlando di ‘strategico’
tempi più recenti ha come
contro ‘costituzionale’ pensando all’antitesi lotta-controllo, conflitto-consenso”
esponente di spicco
(Flyvbjerg, 2001, 108).
Habermas.
26
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
Le implicazioni per la teoria politica sono molteplici.
Secondo Wildavsky, lo studio del processo di policy utilizzando la metodologia
dello studio di caso implicava di concentrarsi su contenuto, contesto e strumenti della politica pubblica e sulle complesse interazioni tra questi elementi. Per
questa via era possibile accumulare esperienza e apprendimenti sui processi di
policy; tuttavia, su di un piano epistemologico, l’astrazione di modelli e formule
generali per l’elaborazione e costruzione delle politiche e per il trasferimento,
agito dall’alto, di schemi di policy da un contesto ad un altro, appariva impraticabile e insensata, in quanto i processi di policy sono inestricabilmente intrecciati con i contesti di produzione e attuazione. Il trasferimento di una policy da
un contesto di pratiche ad un altro era, se mai, connesso a forme adattive o
volontarie degli attori coinvolti, in processi di apprendimento sociale.
Le differenze negli interessi di ricerca tra Wildavsky e Lowi possono essere spiegate anche in relazione alla loro diversa visione del pluralismo, e dei suoi problemi. Entrambi prendevano in considerazione la complessità del governo urbano e del processo politico, in contesti caratterizzati dalla frammentazione degli
interessi, da reti, gruppi e coalizioni ‘a legami deboli’. Nella loro analisi, la rappresentazione di un sistema multi-centrico di decisioni plurali e di una società
frammentata rimpiazzava l’immagine semplificata di una unica, pervasiva, elite
socio-economica dominante la vita pubblica, in una ideale e rassicurante coesione. Pertanto, se la realtà della politica consisteva in continue, estenuanti contrattazioni tra portatori di interessi, non coordinati in azioni comuni e di solito
non collaborativi, in un contesto di poteri frammentati e separati, nasceva la
necessità di coalizioni (stabili, integrate) e di azioni cooperative tra settori e attività del crescente apparato del governo locale e nel processo di governo, più in
generale. Wood era stato illuminante, a questo proposito, quando aveva affermato che, nei processi politici urbani, coloro che a partire dalle domande sociali decidevano quello che era l’interesse generale costituivano diversi e separati
centri di potere, ciascuno operante senza una reale cognizione e conoscenza
degli altri. Come Sayre, Kaufman, Dahl, Banfield e gli scienziati politici che erano
seguiti avevano dimostrato, a causa della molteplicità degli attori di politiche e
della pluralità degli interessi, delle idee e delle credenze, degli obiettivi e delle
poste in gioco, il sistema politico urbano sembrava una“lista della lavanderia”,
vale a dire, una lista casuale di elementi vari. Inoltre, la scena urbana era caratterizzata da un continuo cambiamento: le coalizioni continuamente costruivano
convergenze, si scioglievano e si riorganizzavano (Wood, 1963, in Crosta, 1990,
70-94). Ora, a partire da questi apprendimenti, comuni, Wildavsky (come Dahl),
da un lato, aveva scelto di indagare le “issue-areas” attorno alle quali i gruppi si
aggregavano in coalizioni (indipendentemente da loro carattere transitorio) e i
conflitti che ne risultavano, cercando di sviluppare una conoscenza delle caratteristiche proprie di situazioni interattive (“issue-contexts”). Egli aveva analizzato il contesto d’azione e come differenti partecipanti ritraevano diversamente il
problema in questione, come le loro proprie convinzioni così come le culture e
i vincoli istituzionali influenzavano la definizione e la risoluzione dei problemi, e
come questi fattori nel loro assieme erano determinanti nella crescita e polarizzazione dei conflitti tanto quanto nella loro risoluzione. Lowi, d’altro canto, era
interessato all’astrazione dai casi particolari di una conoscenza generalizzabile
27
n.32 / 2012
delle politiche pubbliche per definire una tipologia dell’azione coercitiva del
governo e dell’influenza dei governi sulla vita dei cittadini, coerentemente alla
tesi secondo la quale le politiche determinano la politica.
7. Concettualizzando la politica e le politiche urbane
Ulteriori sviluppi nella concettualizzazione del processo politico urbano sono
presentati da Lowi in un capitolo dedicato della sua opera magistrale “The End
of the Liberalism” (1969, 1979) e da Wildavsky in un’opera, che ha fatto scuola,
sull’implementazione delle politiche (con Pressman, 1973) e in una ricerca successiva, pubblicata (“Urban outcomes”, 1974).
In “The End of the Liberalism” le città sono viste come parte di una più generale “tragedia americana” e in una fase negativa della storia urbana americana, quella della grande “crisi urbana”, vale a dire, dell’incapacità delle città di sostenere
se stesse e i propri cittadini (Lowi, 1979, 167). In particolare, Lowi aveva focalizzato due aspetti: l’indebolimento della struttura del governo urbano, prodotto
da vari fattori che aveva analizzato, che in molti casi avevano portato a inadeguatezze nella gestione dei nuovi problemi sociali, nella mancanza di una riflessione sistematica sulla stessa azione governativa. Tra i fattori della crisi urbana: lo
spostamento delle popolazioni urbane dalle aree centrali a quelle periferiche e,
di conseguenza, la dispersione insediativa, con la formazione di regioni metropolitane di fatto e la proliferazione di molte giurisdizioni governative e zone suburbane, ciascuna delle quali definiva la propria tassazione, le decisioni di zonizzazione, provvedeva separatamente alla fornitura di servizi pubblici, indipendentemente dalla concreta sostenibilità dei costi economici e della funzione integrativa sul piano sociale, che storicamente era stata una caratteristica distintiva
delle città americane, al punto che “per molti decenni gli Stati Uniti sono stati
una nazione di città”. Durante gli anni ’60 i conflitti urbani esplosero nella forma
di scontri, con il peggioramento delle condizioni di povertà urbana, dei fenomeni di esclusione sociale; il deterioramento della coesione sociale e la crisi generale prodotta dalla frammentazione dei governi urbani incontravano gruppi di
protesta, che chiedevano assistenza, servizi, con grossi problemi di consenso
popolare. Nelle parole di Lowi, “le aree suburbane sono finzioni, finzioni giuridiche ...parassiti”. I vari sforzi di inglobamento di queste aree causavano ulteriori
problemi di integrazione. In aggiunta a queste dinamiche, in quegli anni, un altro
aspetto significativo era stata la definitiva frammentazione della “old machine”
(con riferimento all’organizzazione e alle caratteristiche politico-amministrative
del governo urbano) sostituita a seguito di riforme nazionali dalla “new machine”, altamente efficiente e capace di una buona gestione (la riforma del reclutamento del personale dell’amministrazione pubblica aveva portato a una nuova
classe di professionisti ‘neutrali’ e di amministratori e burocrati con competenze
specialistiche), ma politicamente irresponsabile e con effetti sulla capacità delle
istituzioni di governo cittadino di fare leggi. Cioè a dire, “la crisi nelle città è stata
sul piano dell’inefficienza dell’azione del governo e sul piano della illegittimità
dei governi” (Lowi, 1979, 185).
La crisi urbana provocò l’intervento del governo federale, consistente nella pianificazione e nel sostegno di programmi per le città, di intervento diretto o indi-
28
Francesca Gelli
Analisi delle politiche e teoria politica:
retto (il coinvolgimento federale nella vita urbana si produsse sistematicamente
a partire dal 1957), che dovevano essere sufficientemente “vaghi, per quanto
riguarda la giurisdizione, i metodi, lo scopo, gli oggetti, e qualsiasi altra dimensione, in cui un amministratore richieda orientamento ... cercando di conseguire la loro generalità attraverso la delega piuttosto che attraverso definizioni o
categorizzazioni” (Lowi, 1979, 189). Di conseguenza, era necessaria una totale
discrezionalità nel trattare le situazioni locali, il che condusse a diverse soluzioni
e a differenti risultati.
Con queste premesse, e in questo quadro, il lavoro di ricerca di Wildavsky pubblicato nel 1973 fu indirizzato all’analisi e alla valutazione dell’attuazione di nuovi
programmi federali, sperimentali, in uno specifico contesto urbano, la città di
Oakland in California. La storia della difficile e, alla fine, altamente fallimentare
attuazione di un programma di sviluppo e rigenerazione urbana, nelle aspettative atteso come virtuoso e di successo, e apparentemente semplice a realizzarsi,
condusse alla dimostrazione e spiegazione della rilevanza di alcuni fattori propri
del processo di implementazione, e in particolare delle conseguenze impreviste,
di aspetti sottovalutati e di effetti indesiderati, e della straordinaria molteplicità
di decisioni e di interdipendenze che un programma atteso come “semplice”
poteva comportare. Da questo punto di vista, l’apprendimento in corso d’azione
emerse come la risorsa chiave per le organizzazioni così come per i singoli individui coinvolti nei processi di attuazione delle politiche. Inoltre, l’analisi della
politica urbana aveva evidenziato le conseguenze della separazione della politica
dalla gestione amministrativa (in passato teorizzata da Woodrow Wilson). La città
di Oakland era amministrata secondo il modello di governo del “CouncilManager”, e non secondo il modello del “Mayor-Council”27, in base al quale: “In
teoria, il sindaco guida l’opinione pubblica, il Consiglio formula le politiche, e il
city manager le attua. Ma in pratica, il rapporto tra politica e amministrazione a
Oakland è fortemente influenzato dalla personalità degli uomini che guidano gli
uffici dell’amministrazione cittadina e dalla grande disparità di risorse disponibili per i politici da un lato, e per l’amministrazione dall’altro (...) Armato dei suoi
cospicui privilegi, il city manager definisce “le politiche” e “l’amministrazione”
in modo che “l’amministrazione” aumenta di molto il proprio fulcro e “le politiche” lo riducono”28 (Pressman, 1972, 514-5).
27
Per le città che rientravano nella classe di popolazione di Oakland (250.000500.000), il sistema del
“council-manager” era la
più popolare forma di
governo.
.28
Lo stipendio annuo del
city manager era quattro
volte superiore a quello del
sindaco (che, di conseguenza, non poteva dedicarsi a
tempo pieno a quel lavoro);
lo staff del city-manager era
composto da numerosi funzionari, mentre quello del
sindaco da un numero
ridotto.
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Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1. Scienziati propagandisti.
Nel suo discorso tenuto l’8 marzo 1934 all’Assemblea plenaria del Cnr il presidente Guglielmo Marconi chiamava la scienza italiana alla mobilitazione per la
costruzione di un impero (Maiocchi, Roma 2003, 39). A quella data i preparativi
per la guerra di invasione dell’Etiopia erano ormai avviati da tempo e per il fascismo era giunto il momento di passare alla chiamata alle armi del popolo italiano,
scienziati compresi. Gli scienziati cominciarono a rispondere, pur con una certa
flemma: nell’autunno seguente si tenne a Napoli il secondo congresso italiano di
studi coloniali, ma l’attesa di una adesione entusiasta dei ricercatori andò delusa: “Parecchi – scriveva il Senatore Camillo Manfroni, ordinario di Storia e politica coloniale all’università di Roma- e tra essi alcuni dei più autorevoli cultori di
studi coloniali, hanno promesso la loro collaborazione, hanno indicato l’argomento delle loro comunicazioni o relazioni e poi non si son fatti più vivi”
(Manfroni, 1935, 912). Gli scarsi partecipanti, poi, non avevano dimostrato un
grande interesse per l’Etiopia, alla quale non era stata dedicata nessuna relazione.
I più sensibili all’appello del regime furono quegli studiosi che già avevano avuto
esperienze in campo coloniale e che vedevano nel nuovo clima che si andava
creando una ghiotta occasione di far accrescere il riconoscimento pubblico del
proprio lavoro. Ad esempio Edoardo Zavattari, cattedratico a Roma, esperto di
biologia delle colonie che aveva al proprio attivo varie missioni compiute nei territori libici, futuro firmatario del Manifesto della razza, inaugurava l’anno 1935
della “Rivista delle colonie”, nel momento in cui la rivista assumeva “un’impronta di combattimento” (Zavattari, 1935, 13), affermando l’importanza primaria
dello studio scientifico nella realizzazione della conquista coloniale: “La conquista coloniale è, a occupazione compiuta e a operazioni militari ultimate, un problema esclusivamente scientifico, e prevalentemente biologico” (Ivi, 14). Il paese
conquistato - proseguiva Zavattari - va conosciuto in tutti i suoi molteplici aspetti mediante una attenta e meditata attività di ricerca, in assenza della quale la
semplice occupazione militare può risolversi in un fallimento: “La storia delle
imprese coloniali di tutti i paesi è dolorosamente ricca di esempi tragici, in cui la
mancata valutazione di un fattore biologico, apparentemente secondario, ha
condotto a disastri veramente colossali” (Ivi, 16). Zavattari non nutriva dubbi in
proposito: “La conquista coloniale è un problema squisitamente, esclusivamente scientifico e come tale quindi deve essere affidato alla esperienza e alla competenza dei tecnici e degli scienziati” (Ibidem).
La volontà di dare una veste “scientifica” alla politica coloniale si scontrava con la
quasi assoluta ignoranza circa le risorse e le genti del paese che ci apprestavamo
32
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
a conquistare. In attesa di poter esercitare la propria opera sul terreno, gli studiosi si dovettero accontentare di accompagnare la propaganda del governo con
quel poco che già si sapeva (o si pensava di sapere) sul futuro possedimento. Ad
esempio Carlo Conti-Rossini, il nostro maggior esperto di letteratura etiope, nel
settembre del 1935, pochi giorni prima dell’inizio delle ostilità, pubblicava un
articolo nel quale sosteneva, con argomentazioni che si adattavano a qualsiasi
paese africano, che l’Abissinia è incapace di evoluzione e di progresso civile, dunque risulta giustificata la sua conquista (Conti-Rossini, 1935, 171-177).
Molti corsero il rischio di avventurarsi in previsioni radiose pur basandosi su dati
incertissimi. Ad esempio Ettore Cesari e Angelo Testa dell’Ufficio studi idraulici
dell’UNIFIEL, l’associazione delle imprese elettriche, basandosi solo sulle
approssimative carte geografiche e geologiche esistenti, studiarono come produrre energia idroelettrica sfruttando il lago Tana. Si azzardarono a dire che il
costo per kwh non sarebbe risultato certamente superiore a quello relativo ai più
favorevoli impianti idroelettrici costruiti in Italia (Cesari-Testa, 1936, 725-810).
Non appena furono inviati tecnici sul posto, costoro dissero che occorreva rassegnarsi al termoelettrico, in quanto i costi dell’idroelettrico sarebbero stati
enormi (“Energia elettrica, 1937, 244).
A guerra iniziata questa applicazione del metodo scientifico a dati inesistenti
divenne una pratica diffusa in ambienti accademici. É notevole il fatto che a questa tendenza non si sottrassero neppure coloro che avrebbero dovuto articolare
i propri ragionamenti su basi statistiche, cioè i demografi. Anzi, proprio tra i cultori di statistica iniziò un movimento di pensiero che volle dimostrare l’utilità
dell’Etiopia colonizzata senza avere informazioni specifiche. Molti dei nostri
migliori studiosi di scienze socio-economiche si impegnarono a convincere il lettore che le colonie si sarebbero dovute necessariamente rivelare un fattore di
sviluppo per l’economia italiana. Se Rodolfo Benini, il decano degli scienziati
sociali italiani, aveva benedetto l’impresa etiopica quale soluzione dei nostri problemi (“Occupare la terra per vivere è un diritto naturale delle genti. Occuparne
tanta quanta può servire, non solo ai bisogni attuali, ma a quelli ragionevolmente prevedibili della stirpe in via di sviluppo, è ancora un diritto”, R. Benini, 1936,
2), molti altri nomi di prestigio si impegnarono in una lunga polemica contro “i
lacchè dei grandi imperi” (Mortara, 1937, 173), in genere inglesi, che si sforzavano di dimostrare la scarsa utilità economica delle colonie per quegli stati che ne
possedevano. Da Giorgio Mortara a Giovanni Demaria, da Giovanni Balella a
Riccardo Bachi, da Francesco Vito a Corrado Gini con i suoi allievi Paolo
Fortunati e Nora Federici1, e tanti altri2, fu ovunque un fiorire di studi statistici,
politici, storici, teorici, per mettere in risalto i grandi vantaggi materiali e demografici che dai paesi coloniali sarebbero derivati alla Madrepatria e convincere
che la tesi dell’inutilità delle colonie “deve far sorridere – a tu per tu con se stesso - ogni suo avvocato che non sia un perfetto cretino” (Mortara, 1937, 173).
Questi scritti erano in larga misura apriorici, in quanto ricorrevano a dati relativi
ai rapporti tra le potenze coloniali affermate (Inghilterra, Francia, Olanda,
Germania) e le rispettive colonie, e riuscivano ad argomentare che in questi casi
i possedimenti erano stati di vantaggio per quelle nazioni. Cosa ben diversa era
riuscire a dimostrare che anche nel caso specifico dell’Italia e delle sue colonie
ciò si sarebbe ripetuto.
1
Balella (1936, pp.788-811);
Demaria (1936, pp. 768-87);
Mortara (1936, pp.175-8);
Mortara (1938, pp.531-5);
Gini (1938, pp.1073-9); Gini
(1936); Bachi (1937);
Demaria (1937, pp. 381400); Vito (1938); Fortunati
(1940, pp.151-72); Federici
(1938, pp.37-51).
2
Cfr. ad es. Garino Canina
(1937, pp. 261-9);
Bellincioni (1936);
Giordano (1936, pp. 450-4);
Cioni (1940, pp. 122-32).
33
n.32 / 2012
Ma per dare una vernice di scientificità al programma coloniale non era necessario per uno scienziato scrivere saggi ponderati sulla prospettiva aperta dalla guerra, bastava partecipare alle iniziative propagandistiche del regime. Per tutto il
periodo della guerra d’Africa il regime fascista si preoccupò di esercitare un’azione propagandistica intensa, capillare, martellante, utilizzando i mezzi e le
occasioni più svariate. Gli scienziati ebbero un ruolo di primo piano in questo
lavoro, fornendo, con la loro adesione pubblica ai programmi, alle iniziative, alle
celebrazioni del governo, del partito, delle corporazioni, delle istituzioni una
potente copertura di razionalità scientifica. Vi fu una saldatura pubblica senza
incrinature tra le parole d’ordine della guerra e dell’autarchia, da una parte, e le
ragioni della scienza e della tecnica, dall’altra, saldatura che rappresentò nell’immaginario collettivo le imprese che appaiono le più irragionevoli alla stregua di
dettati della scienza e della tecnica più avanzate. L’ideologia del nazionalismo
scientifico-tecnico, mirante a mettere la scienza al servizio della patria, sorta
3
3
Cfr. Maiocchi (2004, p.21 e durante la Grande Guerra , si trasformò con l’inizio delle attività belliche in Africa
ss.)
in un atteggiamento bellicoso ed arrogante che si esprimeva in discorsi e scritti
con i quali i nostri maggiori scienziati divennero tribuni, garanti entusiasti delle
scelte politiche di fondo del governo e ufficiali di un disciplinato esercito di ricercatori. Gli esempi sarebbero moltiplicabili a piacere, ma basterà qualche cenno
per dare una idea generale del clima di consenso che la guerra generò in molti
esponenti della comunità scientifica.
Luigi Rolla, chimico di statura internazionale, in precedenza sempre moderato
nelle sue esternazioni, in periodo sanzionistico così si esprimeva: “Mentre infuria la folle bufera scatenata contro l’Italia in nome di principii che sono nel più
stridente contrasto cogli inconfessati moventi che ispirano atti e parole di coloro che rappresentano quell’impero che esercita l’egemonia più vessatoria sul
mondo, la propaganda per il prodotto italiano è rivolta soprattutto alle industrie
chimiche. I nostri chimici, inquadrati nelle loro corporazioni, si prefiggono di
reagire nel modo più efficace liberando il Paese dall’asservimento straniero, utilizzando tutte le risorse della nostra terra; e l’università italiana, che vanta le più
gloriose tradizioni del mondo, guida e disciplina i nobili sforzi dei tecnici, formando le menti e temprando i caratteri” (Rolla, 1936, 5). Domenico Meneghini,
esperto dell’industria zuccheriera e alcooligena: “I biliosi censori ginevrini nulla
potranno, con le loro inique sanzioni, contro questa industria fiorente che trae
la sua origine dai campi bonificati, dal sole e dal paziente e sapiente lavoro
umano, e dà alla Patria in mille rivoli: energia di carboidrati, di carburanti e di
esplodenti, e nulla ha da chiedere all’estero, ma ad esso forse avrà qualche cosa
da insegnare” (Meneghini, 1936, 177). Giovanni Morselli, personalità eminente
nel campo delle ricerche e delle realizzazioni farmaceutiche, celebrava la proclamazione dell’Impero senza risparmiarsi: “I chimici italiani fascisti, ferventi patrioti per nobilissima tradizione, salutano coll’animo gonfio di commozione e di
orgoglio l’aurora dell’Impero. Innalzano il loro pensiero al Re vittorioso imperatore di Etiopia, simbolo glorioso della Patria immortale, gridano il loro sconfinato amore al Duce fondatore dell’Impero, genio purissimo, espresso fatidicamente dalle profonde, arcane virtù creatrici della razza. I chimici italiani consapevoli
della potenza costruttiva della loro scienza, nelle sue proteiformi possibilità
applicative, fieramente aspirano di partecipare alla nuova fatica che attende il
34
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
popolo italiano, per fecondare l’Impero” (Morselli, 1936, 221).Trattando della
metallurgia Livio Cambi traeva spunto per attaccare “le pingui borghesie straniere, i superati ideologi delle nazioni che tentano di sabotare le nostre vittorie, [i
quali] questo non potevano prevedere: contavano sulla modestia del nostro
potenziale industriale! Non possedevano però, e non posseggono il metro per
misurare questa passione e questa coscienza, questa nostra mistica dedizione
alla Patria, che il Duce ha suscitata, traendola dall’anima millenaria della nostra
razza” (Cambi, 1936, 242). Chiaro, chiarissimo, in particolare era il nesso che era
venuto ad instaurarsi definitivamente tra sviluppo dell’economia autarchica e
preparazione ad una nuova guerra. Parravano assicurava che “gli italiani considerano l’attrezzatura autarchica della Nazione come un necessario completamento dell’attrezzatura militare, e daranno tutte le loro energie per completarla
e mantenerla in piena efficienza” (Parravano, 1936, 338).
2. Gli istituti di ricerca al lavoro
4
Ad esempio: l’Istituto fascista dell’Africa italiana,
L’Istituto per l’Oriente,
l’Istituto Orientale della
Regia Università di Roma,
l’Istituto Orientale di
Napoli, la napoletana
Società Africana d’Italia,
l’Istituto Geografico Militare
di Firenze, le Scuole di
Clinica delle Malattie
Tropicali e Sub-tropicali
delle università di Roma,
Torino, Milano, Padova,
Modena, Messina, Bologna,
il Giardino Coloniale di
Palermo, L’Erbario
Coloniale di Firenze.
Oltre agli scritti d’occasione, scienziati e tecnici si impegnarono nella stesura di
saggi di varie dimensioni sulle risorse (peraltro ignote) della nuova colonia, di
cui si darà cenno più avanti. Pur con tutta la migliore buona volontà, il singolo
ricercatore non poteva certo pensare di dare un serio contributo conoscitivo
dell’Etiopia, ed era evidente la necessità di passare attraverso iniziative collettive
di esplorazione. I vari istituti desiderosi di acquisire benemerenze cominciarono
a mettere a punto iniziative di vario genere non appena le nostre truppe intrapresero l’avanzata.
Alcuni istituti erano strutturalmente destinati ad occuparsi di problemi coloniali.
Su tutti4 spicca il Centro Studi Coloniali di Firenze, discendente dall’Istituto
Agricolo Coloniale Italiano fondato nel 1904, ribattezzato nel 1938 Istituto
Agronomico per l’Africa Italiana5. Su incarico del Ministero dell’Africa Italiana,
sotto la guida del suo direttore “storico” Armando Maugini, questo istituto 5 Nel 1959 divenne Istituto
cominciò a svolgere una intensa attività di ricerca, oltre che di formazione, a
Agronomico per
sostegno delle sperimentazioni in campo agrario che si facevano in colonia,
l’Oltremare.
inviando in Africa tecnici, organizzando spedizioni e tentando di risolvere quei
6
Il centro pubblicava la
problemi che via via erano segnalati da coloro che operavano Oltremare. Nella
rivista “Agricoltura colosua attività il centro era coadiuvato dal Centro sperimentale agrario e zootecniniale”, che consente un
co dell’A.O.I6.
primo orientamento circa
Altre istituzioni scientifiche nulla avevano a che fare con i problemi coloniali, ma le attività svolte. L’attuale
Istituto Agronomico per
vollero comunque farsi partecipi dell’entusiasmo che accompagnò l’impresa
l’Oltremare conserva un
etiopica. Chiunque fosse rimasto ai margini dell’attività celebrativa sarebbe stato
vastissimo archivio delle
visto con sospetto dalle autorità. In alcuni casi questi interventi di istituti neofiti attività
svolte negli anni del
in campo coloniale diedero buoni risultati, in altri casi l’esito fu meno felice.
fascismo. Il relativo indice,
Tra i tentativi riusciti si segnala quello dell’Accademia d’Italia. L’Accademia, fon- ricchissimo di informazioni, è disponibile nel sito
data da Mussolini nel 1926 ma inaugurata ufficialmente nel 1929, riuniva i maggiori esponenti della cultura italiana e aveva sostanzialmente funzioni di rappre- internet. Sulla storia dell’istituzione cfr. AA. VV.
sentanza. Nel gennaio del 1936, quando la guerra in Etiopia poteva considerarsi
(2007). Sul direttore
ancora agli inizi, all’interno dell’Accademia venne fondato il Centro Studi per Maugini cfr. AA.VV. (1989);
l’A.O.I., dovuto sopra tutto all’iniziativa di Alberto De Stefani, grande nome del- Maugini e Fabbri (1998, pp.
195-234).
l’economia e della politica italiane, il quale riuscì ad ottenere finanziamenti da Iri,
35
n.32 / 2012
7
Su Cipriani rinvio a quanto ho scritto in Maiocchi
(1999).
8
Cfr. Reale Accademia
d’Italia. Centro studi per
l’Africa Orientale Italiana,
Missione di studio al lago
Tana, vol. I. A questo volume ne seguirono poi altri 7.
9
Oltre a Cipriani, che continuò a viaggiare in Etiopia,
e a Emilio Scarin, vanno
ricordati i nomi di M. De
Gaslini, M.M. Moreno, S.
Nava, T. Piccirilli, A.
Pollera, N. Puccioni, A.
Vandone, F. Zanon, R.
Bellotti, R. Biasutti, R.
Corso, A. Mizzi, G. Villari, E.
Cerulli, R. Trevisani. B.
Francolini. V. Grottanelli.
10
“Non è senza commozione
e senza legittimo orgoglio
che la Reale Società
Geografica Italiana, vede
oggi compiersi, per sagacia
di dirigenti, per vittoria
d’armi, per virtù di popolo,
il sogno più ardito, il più
ardente vaticinio de’ suoi
maggiori. Di qui partirono
gli studiosi, i ricercatori
pazienti, i pionieri votati al
successo o al sacrifizio, i
viaggiatori inquieti, i
magnifici esploratori per
additare all’Italia sul
Continente Nero questa via
maestra della prosperità,
della potenza e della gloria.
[...] Qui, in questa modesta
fucina, fu tenuto vivo il
fuoco sacro della appassionata ricerca scientifica, del
generoso spirito d’avventura, anche nei tempi grigi
della sventura immeritata e
della codarda rinunzia.
Qui si conservò la fede, qui
si nutrì la speranza, qui si
forgiò la nuova coscienza
coloniale degli Italiani, qui
maturò il proposito delle
36
Banco di Roma, Banca d’Italia, Previdenza sociale, e altri. La presidenza fu assunta dallo stesso De Stefani e la direzione dal geografo e paleontologo Giotto
Dainelli (Vedovato, 2009, 381-421). Il programma del Centro prevedeva di studiare ogni anno una regione dell’Impero, di volta in volta indicata dal ministro
delle colonie, intendendo così affermare che il proprio scopo era quello di “promuovere ricerche direttamente e unicamente al servizio del governo e dello
stato” (Dainelli, 1938, 5). Coerentemente con questo progetto, nel novembre
1936 fu decisa di comune accordo con il ministero la realizzazione di quella che
sarebbe rimasta la più celebre delle spedizioni esplorative in Etiopia, quella diretta da Dainelli nella regione del lago Tana. Le notizie, sia pur vaghe, che si possedevano indicavano questa regione (pur di difficile accesso) come quella più adatta a una colonizzazione ad opera di agricoltori bianchi. La partenza avvenne nel
gennaio del 1937 e la spedizione durò sette mesi. Tra i nomi dei partecipanti
spicca quello di Lidio Cipriani, portatore di una cultura razzista estremista, ma
indubbio conoscitore dell’antropologia e dell’etnologia africane per le numerosissime esplorazioni compiute nel Continente nero7. I materiali riportati, riguardanti i molteplici aspetti geografici, biologici e antropologici della regione,
cominciarono ad essere resi pubblici nel maggio 1938 e furono poi alla base di
una monumentale pubblicazione8. Dopo questa missione, gli aspetti etnografici
e antropologici dell’Etiopia continuarono ad essere studiati con missioni di proporzioni assai più modeste, che iniziarono a tracciare i contorni di quell’intricatissimo mosaico antropologico formato dalle popolazioni etiopi9.
Specularmente a enti che, come l’Accademia, si seppero improvvisare africanisti
con qualche successo, ve ne furono altri che non riuscirono a tener fede al proprio passato di azione coloniale. Sopra tutti spicca la gloriosa Reale Società
Geografica Italiana di Napoli. Questa associazione era stata per decenni la massima tribuna della cultura e della politica del colonialismo e nella fondazione dell’impero essa vedeva l’avverarsi di un sogno10. Subito dopo la proclamazione dell’impero fu votato un ordine del giorno in cui la Società rivendicava a sé “il dovere e il diritto morale di continuare l’opera degli antichi suoi dirigenti e pionieri”
(Surdich, 1938, 447). Venne quindi con prontezza elaborato un programma di
esplorazioni, cui affiancare una azione di divulgazione delle conoscenze disponibili sui territori conquistati.
Il piano di esplorazione fu trasmesso alle massime autorità coloniali, ma rimase
senza risposta. Nella riunione societaria del 23 dicembre 1938 (nel corso della
quale vennero espulsi senza discussione i soci ebrei) si dava notizia che per i progetti di esplorazione in Etiopia si era ancora in attesa di una risposta del Viceré.
Nel frattempo le proposte fatte, relative alla Dancalia meridionale e all’Aussa,
erano divenute obsolete per via dei viaggi intrapresi da altri: “si propone perciò
a S.A. il Viceré di voler additare altra meta di più utile esplorazione.” (Bollettino
Società Geografica Italiana, 1938, 350).
Nel consiglio direttivo del 22 marzo 1939 era annunciato che in una riunione tra
Corrado Zoli (presidente della Società) e il Viceré era stato stabilito un piano di
missioni per le quali il Governo Generale dell’Etiopia avrebbe fornito mezzi e
uomini (Ivi, 1939, 462). Anche questo progetto finì nel nulla e il 6 novembre 1939
il consiglio, dopo aver ricordato l’ennesimo invio alle autorità di progetti di
esplorazione rimasti senza risposta, concludeva amaramente che le “vicende
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
gesta d’Oltremare” (Zoli
politiche” avevano “sospeso ogni invio in A.O. di missioni esplorative di qualsia1936, p. 484). Corrado Zoli,
si genere” (Ivi, 1940, 159).
presidente della Società, era
Nei loro tentativi di mettersi in evidenza, le varie associazioni scientifiche si
stato governatore
mostrarono spesso gelose del proprio operato, rifiutando, fin dove possibile, la dell’Eritrea dal 1928 al 1930
collaborazione di istituzioni che erano ritenute rivali. Il caso più clamoroso fu e aveva scritto nel 1935 un
libro sull’Etiopia: Etiopia
quello in cui il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) dovette subire le sgard’oggi, Roma, Soc. Arti
berie del Ministero delle Colonie e dell’Accademia d’Italia. Il CNR, fondato nel
Grafiche,1935.
11
1923 e poi “fascistizzato” nel 1929, era il maggior centro di ricerca italiano .
Aveva una struttura complessa, entro la quale tuttavia non trovavano spazio atti- 11 Sulla storia del CNR rinvio
vità con qualche interesse per gli studi coloniali. Nonostante questo il CNR non
a Maiocchi (2004).
volle essere escluso dal fiorire di attività miranti a contribuire alla conoscenza
delle nuove terre dell’Impero.
Il Direttorio aveva preso per tempo una iniziativa in merito, e nel febbraio 1935
aveva proposto al Ministero delle colonie la costituzione di una commissione per
le prospezioni minerarie nei territori d’Oltremare, ma dal ministero non era arrivato alcun cenno di risposta e nel mese di dicembre fu avanzata direttamente a
Mussolini la proposta di organizzare una missione che, seguendo dappresso le
avanzate dei nostri “eroici soldati”, eseguisse prospezioni sulle terre conquistate 12
e “saggi di sabbie aurifere nel Tigrai”12. Il Duce non rispose, in compenso nel febSu questa vicenda rinvio
al lavoro appena citato.
braio rispose, finalmente, il Ministero delle colonie, dicendo che la proposta del
Cnr non interessava per il momento e che si preferiva “differirla ad epoca più
favorevole”. Nel frattempo, il 19 gennaio l’Accademia d’Italia aveva deliberato,
come si è visto sopra, l’invio di missioni scientifiche in Etiopia, e il Direttorio
decise allora di prendere contatti con l’Accademia per poter mandare i propri
emissari a sondare le ricchezze etiopiche. Neppure l’Accademia d’Italia mostrò
di apprezzare l’offerta di collaborazione del Cnr, anche se, val la pena di ricordarlo, le due istituzioni erano presiedute dalla stessa persona, Guglielmo
Marconi, e non rispose fino al termine della guerra d’Africa, quando fece sapere
che non era sua intenzione fare ricerche minerarie nelle colonie (cosa non vera).
Il Direttorio non si scoraggiò e l’8 maggio, il giorno prima della proclamazione
dell’Impero, visto il momento propizio e l’euforia circolante, rilanciò la proposta
di una commissione mineraria al Ministero delle colonie, questa volta, però, tentando di ottenere l’appoggio di Mussolini. La risposta non fu totalmente negativa, ma neanche positiva, visto che alla fine di giugno il Cnr aveva pronto un piano
di ricerche da effettuarsi nelle Colonie “da sottoporre al momento opportuno
all’approvazione del Ministero delle colonie”. In particolare, sembrava fosse possibile avviare un lavoro di rilievo fotogrammetrico dell’Etiopia. Marconi, da parte
sua, aveva disposto, in qualità di presidente dell’Accademia d’Italia, che alle
sedute presso l’Accademia della commissione costituitasi (ormai da cinque
mesi!) per missioni scientifiche in A.O.I. fosse presente anche una rappresentanza del Cnr. Improvvisamente, l’1 luglio, fu pronta a partire una commissione
di chimici, che poco aveva a che fare con la preventivata fotogrammetria, sotto
la direzione di Henry Molinari.
Le proposte di valorizzazione dell’Etiopia che la missione esplorativa fece al suo
ritorno, avvenuto nell’agosto, furono a dir poco sconsolanti. Si segnalava la presenza di grani duri di buona qualità, ma occorreva creare dal nulla un’industria
panificatrice che li sfruttasse; vi era una fabbrica di alcool capace di produrre solo
37
n.32 / 2012
13
Su questa figura cfr.
Galbani (1988, vol. 1, pp.
255-8).
spiriti per liquori ed era necessario riorganizzarla per metterla in grado di fornire anche alcool combustibile; la disponibilità di pelli suggeriva l’opportunità di
avviare una produzione di pelli per calzature, ma sarebbe stato indispensabile
introdurre tecniche di concia differenti da quelle primitive in uso; le stentate
piantagioni di cotone potevano essere affiancate da un’industria tessile che si
fondasse sui macchinari italiani e sull’impiego di filati indiani per integrare quanto veniva ricavato dal territorio etiopico (le cui risorse si riducevano dunque alla
mano d’opera); l’uso locale, infine, di lasciar marcire i cascami della macellazione andava combattuto con misure che incentivassero la loro utilizzazione. Ma più
che sugli esiti deludenti di questa missione, val la pensa di spendere qualche
parola su Molinari13. Questi era persona ben nota alla polizia per le sue attività
ispirate all’anarchia. Aveva rifiutato di giurare fedeltà al regime fascista e per questo aveva dovuto abbandonare l’insegnamento universitario. Visto i suoi trascorsi, la polizia gli negò il passaporto per recarsi in Etiopia e dovette intervenire
Mussolini per fargli avere il permesso di espatrio Anche negli anni seguenti
Molinari ebbe incarichi governativi molto importanti, partecipando anche ai lavori di commissioni di interesse strategico, la cui attività era mantenuta segreta.
Evidentemente il Duce era disposto a chiudere un occhio sulle simpatie politiche di tecnici di vaglia e, d’altro canto, tecnici antifascisti si lasciarono attrarre dal
fascino dell’impresa africana.
3. L’organizzazione in colonia
14
Per citare solo i maggiori
titoli: Folk-literature of the
Galla of Southern Abyssinia,
Cambridge, (Mass.), 1922.;
Etiopia Occidentale (dallo
Scioa alla frontiera del
Sudan). Note del viaggio,
1927-28, 2 Vol. Roma, 19301933; Documenti arabi per
la storia dell'Etiopia, Roma:
G. Bardi, 1931; Studi etiopici. Vol. I: La lingua e la storia di Harar, Roma: Istituto
Per L'oriente, 1936; Studi
etiopici. Vol. II: La lingue e
la storia dei Sidamo, Roma:
Istituto Per L'oriente, 1936;
Studi etiopici. Vol. III: Il linguaggio dei Giangerò ed
alcune lingue Sidama
dell'Omo (Basket, Ciara,
Zaissè). Roma; Istituto Per
L'oriente, 1938.
38
Tutte le attività provenienti dalla madrepatria furono affiancate dall’opera di
nuove strutture costituite nei territori conquistati. Era un nuovo apparato statale
quello che occorreva organizzare. La legge per l’ordinamento e l’amministrazione
dell’AOI approvata nel Consiglio dei ministri del 2 giugno 1936, nota come “legge
organica”, stabilì un quadro normativo generale entro il quale andavano inseriti
numerosissimi provvedimenti diretti a regolamentare nei dettagli la vita in colonia. É ben moto che la “legge organica” si basava sul principio di non concedere
alcun potere ai ras abissini, escludendoli completamente dall’amministrazione; è
altresì noto che questa impostazione si rivelò rapidamente un errore, responsabile di enormi difficoltà nella gestione della società etiope, errore dettato da una
scarsissima conoscenza della struttura sociale e della mentalità abissine. In questa
sede è interessante notare che a suggerire questa impostazione fallimentare a
Mussolini e al neo-ministro delle Colonie Alessandro Lessona, fu Enrico Cerulli
(Dominioni, 2008, 71). Cerulli fu un funzionario del ministero degli esteri che raggiunse posti di grande responsabilità nell’amministrazione coloniale, ma fu anche
uno studioso di letteratura e storia del Corno d’Africa riconosciuto in tutto il
mondo come grande autorità in materia, dunque sembrerebbe la persona più
adatta a consigliare Mussolini sul modo migliore di trattare con le popolazioni
etiopi. La sua ricchissima produzione accademica14, tuttavia, non gli impedì di fornire al Duce indicazioni assai discutibili, segno questo di una conoscenza inadeguata delle genti del costituendo Impero a tutti i livelli.
Nella seconda metà del 1936 il lavoro di organizzazione dei nuovi territori coloniali fu, dal punto di vista normativo, assai intenso. Per noi è di particolare interesse il decreto-legge 14 dicembre 1936 n.2374, con il quale vennero istituiti i ser-
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
vizi tecnici del Ministero delle Colonie. Oltre al corpo di polizia coloniale e a quello degli interpreti coloniali, furono avviati ruoli destinati a ingegneri, tecnici agrari, medici e chimici: corpo sanitario, genio civile, minerario, agrario, postelegrafonico. Non fu previsto un corpo coloniale dedicato all’attività industriale, cosa
che la dice lunga sulle speranze di poter avviare una qualche attività industriale.
L’organico previsto per questi servizi, corpo di polizia a parte, era estremamente ridotto e a un gruppo complessivo di una decina di ingegneri furono affidati
compiti relativi ad un paese grande 4 volte l’Italia! Generalmente i nuovi tecnici
coloniali non erano nuovi, poiché si preferì spostare in Etiopia persone che già
operavano in Libia.
Gli uffici che ricevettero le maggiori attenzioni furono quelli relativi alle ricerche
minerarie, che sembravano offrire le migliori prospettive economiche. Nel
marzo 1937 fu decisa la costituzione di un Ispettorato Generale Minerario con
una dipendente Sezione Geologico-Geofisica presso il Governo Generale
dell’AOI, ad Addis Abeba, e di uffici minerari presso gli altri governi. L’ufficio centrale iniziò a lavorare nel giugno 1937. I cinque uffici periferici (Asmara,
Mogadiscio, Gimma, Gondar, Harar) cominciarono nei primi mesi del 1938,
quando fu stabilito con decreto 21 febbraio 1938 n.1422 l’ordinamento minerario dell’AOI, completato con decreto 3 giugno 1938 n.1412. Tutti questi uffici
ebbero un organico ridicolmente sottodimensionato rispetto alle necessità. Tra
i compiti di questi uffici coloniali, probabilmente il più importante15 era quello di 15 Gli uffici dovevano istruipreparare e accompagnare le iniziative economiche pubbliche e private fornen- re le pratiche delle richieste
di concessione, controllare
do informazioni circa una realtà della quale nessuno sapeva quasi nulla.
che venisse rispettata la
Tutte le attività di studio e di propaganda coloniale erano nominalmente guida- legge, che le tecniche adotte dall’Ufficio Studi del ministero delle colonie. I compiti di questo organismo tate fossero razionali, effeterano molteplici: raccolta e aggiornamento di dati e notizie, fornitura di queste tuare esplorazioni in proprio.
informazioni agli studiosi, agli enti e alle amministrazioni dello stato, disciplina
delle istituzioni di cultura e propaganda coloniale, coordinamento delle attività,
cura dei rapporti con istituti coloniali internazionali, organizzazione di missioni
di studio, ricerche scientifiche e esplorazioni, pubblicazione di studi e monografie coloniali, cura delle traduzioni, del servizio cartografico, del servizio statistico,
dell’archivio storico, nonché del Regio Museo Coloniale. Non esiste uno studio
circa la reale attività di questo ufficio. Se ne può soltanto valutare l’attività pubblicistica, che fu copiosa, alternando manuali di formazione dei tecnici destinati
in colonia, con corpose monografie. L’impresa di maggior respiro è costituita
16
Gli “Annali”, curati
dalla serie di volumi “Annali dell’Africa Italiana”16, ricchi di notizie, di dati e di anadall’Ufficio Studi, furono
lisi, lontani dall’ansia propagandistica e celebrativa che caratterizza la maggior
pubblicati da Mondadori.
parte della pubblicistica coloniale di quegli anni.
4. Alla scoperta dei tesori del sottosuolo
Quello che in Italia si sapeva delle ricchezze minerarie d’Etiopia alla fine della
guerra si riduceva al contenuto di due articoli di autori tedeschi17, già comparsi
in Germania, tradotti e pubblicati nel primo numero (del luglio 1936) di una
nuova rivista, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”. Uno dei due autori, Robert
Hesse, aveva diretto le aurorali attività di ricerca mineraria volute dal Negus, dunque, almeno lui, parlava con cognizione di causa. Le indicazioni fornite in questi
Essi rappresentano la fonte
principale di informazioni
sull’attività dell’Ufficio stesso.
17
Geier (1936, pp.4-12);
Hesse ( pp.13-26).
39
n.32 / 2012
18
Cfr., tra i tanti: Ravizza
(1936); Penta (1936, pp.128175).
19
Cfr. Lamare (1935, pp.1479).
20
Si veda il primo editoriale
della rivista, intitolato Noi
saremo degni.
21
Le aziende che ebbero
concessioni minerarie furono effettivamente molte. Ad
esempio, oltre alle due citate nel testo, operarono in
Africa: ACCAI, MAESIA,
TORAT, Prasso, Tamanti,
SAPIE, AMMI, SMIT (italo
tedesca), COMINA,
SAMAOI(italo tedesca),
ACAI, Società Mica.
22
Nel febbraio 1938 l’AMAO
aveva un personale dipendente composto da 90
nazionali e 1500 indigeni,
con 2 trattori, 20 autocarri
e 900 bestie da soma. Cfr.
rivista “Materie prime
d’Italia e dell’Impero” 1938,
p.57.
40
articoli confermavano la presenza di giacimenti auriferi, senza aggiungere altro.
Gli studi italiani del 1936 non facevano che ripetere questa tesi: si sa che c’è dell’oro, non si sa altro18. Peraltro nella letteratura internazionale circolavano studi
che affermavano positivamente che le possibilità minerarie abissine non erano
incognite, bensì nulle19.
La rivista ora citata, che veniva alla luce nel 1936, era quasi esclusivamente dedicata alle risorse minerarie dei territori africani, segno evidente del grande interesse che suscitava la questione. Promotore e anima della rivista fu Francesco
Savelli, direttore e proprietario di miniere. Savelli rappresentò una delle pochissime voci critiche che si levarono pubblicamente in quegli anni contro la politica del governo nelle colonie. Partendo da una iniziale piena adesione20 Savelli si
orientò su posizioni sempre più lontane dal fascismo. Aderì al Partito d’Azione e
durante l’occupazione nazista di Roma, mise a disposizione del partito la sua
tipografia per la stampa della propaganda antifascista e del giornale “Italia
Libera”. Il 5 gennaio 1944, in seguito a una delazione, venne arrestato e portato
a via Tasso, dove fu ripetutamente torturato. Il 24 Marzo venne prelevato dal carcere di Regina Coeli e trucidato alle Fosse Ardeatine.
Nel valutare la politica mineraria del fascismo in AOI Savelli partiva della convinzione che prima dell’intervento dei grandi enti di sfruttamento delle risorse era
necessario un lavoro di studio scientifico minuzioso. Il governo aveva invece
fatto immediatamente grandi concessioni a gruppi privati21, riducendo la possibilità di esplorazioni scientifiche disinteressate ai territori più impervi e con più
scarse prospettive. Tra i gruppi privati, poi, due avevano avuto un trattamento
preferenziale che configurava una condizione di quasi monopolio: la Società
Anonima Mineraria AOI presieduta dal Piero Puricelli, monopolista dei lavori
stradali in Italia, con capitale 51% italiano 49% tedesco, e la Compagnia Mineraria
Etiopica, tutta italiana con presidente Guido Donegani, monopolista del mercato chimico. Vale la pena di notare che la spedizione Puricelli partita nel marzo
1937 era composta da undici studiosi tedeschi e solo quattro italiani. La presenza affatto simbolica di tecnici tedeschi è riscontrabile in molte altre missioni.
Il grande spazio concesso alle iniziative private, a parere di Savelli lasciava adito al
dubbio che non rimanesse nulla da fare per la compagnia mineraria statale, l’AMAO
(Azienda Mineraria Africa Orientale), che pure aveva dimensioni ragguardevoli22. Il
dubbio era rafforzato dalle prime missioni dell’AMAO, che furono dirette
all’Eritrea, non all’Etiopia (missione Bonarelli-Riboni e missione Bartoli-BulanoSevieri). Questa preoccupazione che all’AMAO non fosse rimasto più nulla da fare
in Etiopia era forse eccessiva, poiché, se è vero che i gruppi privati ebbero i bocconi migliori, è anche vero che il territorio da esplorare era immenso.
Già le conoscenze topografiche si erano rivelate lacunose o errate nel corso della
guerra e spesso i nostri ufficiali avevano incontrato più difficoltà ad orientarsi
che a combattere il nemico. Nel giugno 1936 furono predisposti da enti vari dei
progetti per la redazione di una carta geografica dell’AOI su basi scientifiche. Il
ministero delle Colonie e quello della Guerra si litigarono la direzione dei lavori.
Alla fine, il compito di realizzare una carta 1:400.000 in quattro anni venne affidato all’Istituto Geografico Militare di Firenze, il quale dovette sopportare non
solo le critiche di Lessona, ministro delle colonie rimasto insoddisfatto, ma
anche quelle dei colleghi militari dell’aeronautica, il cui capo di stato maggiore,
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
nonché sottosegretario all’aeronautica Giuseppe Valle, più volte dichiarò il lavoro
dell’Istituto Geografico carente dal punto di vista scientifico (Dominioni, 2008,
39-42)23. Questa situazione tesa provocò ritardi e i rilevamenti topografici iniziarono solo nei primi mesi del 1938. Le carte 1:400.000 rimasero una chimera.
Le conoscenze geologiche pregresse si limitavano sostanzialmente all’Eritrea, alla
Dancalia e alla parte nord della Somalia ed erano frutto delle ricerche di Giuseppe
Stefanini e Paolo Vinassa de Regny24. Del resto, nel 1936 cominciavano appena ad
arrivare informazioni affidabili dai territori libici (Desio,1936, 273-281)25. Varie missioni geologiche e minerarie, private e pubbliche, cominciarono nel 1937 a penetrare nelle regioni etiopi. Lo sforzo di maggior rilievo fu quello compiuto
dall’AGIP, l’ente pubblico fondato nel 1926 destinato alla ricerca petrolifera. Nel
1937 e nel 1938 l’AGIP, in collaborazione con l’Accademia d’Italia, organizzò varie
missioni geologiche e minerarie, tra le quali spiccano le due missioni fatte da
Michele Gortani (dell’università di Bologna) e Angelo Bianchi (dell’università di
Padova) in Somalia, Dancalia, Ongaden e Harar. I due realizzarono una carta della
Dancalia e dell’Hararino di fondamentale importanza26. Dal punto di vista mineralogico le missioni AGIP non fornirono indicazioni entusiasmanti. I risultati
migliori l’AGIP li ottenne con i giacimenti petroliferi delle isole Dahalac, di fronte
a Massaua, dunque in territori che già possedevamo prima della guerra.
Fu tutto il complesso di ricerche a dare risultati deludenti27. Nel gennaio 1937
l’ingegner Luigi Usoni, che era a capo dell’ufficio minerario di Addis Abeba, dopo
aver ricoperto posizione analoga in Eritrea, sottolineava la quasi totale ignoranza vigente circa le risorse minerarie etiopi, comprese quelle relative al fantomatico oro (Usoni, gennaio 1953)28. Un anno dopo l’ignoranza aveva lasciato il posto
alla delusa consapevolezza di un territorio privo di interesse minerario.
Intervenendo al Senato nel marzo del 1938 Paolo Vinassa de Regny, già ordinario di Geologia nonché rettore dell’università di Pavia, registrava la caduta dei
facili entusiasmi di un anno prima e indicava la necessità di un maggior realismo
(Vinassa de Regny, 1938, 139). Anche la produzione dell’oro appariva ben lontana dalle aspettative. Già nel settembre 1937 Davide Fossa, ispettore del lavoro
per l’AO, scriveva al Ministro Lessona che nella produzione dell’oro (ma non solo
in quella) “abbiamo perduto terreno rispetto alla situazione del governo negussita” e Lessona rispondeva che quanto detto da Fossa era “esattissimo”29. E’ ben
noto che l’effetto complessivo dell’impresa coloniale sulle riserve auree italiane
fu catastrofico: nel 1934 le riserve erano 5.811 milioni, nel 1938 erano calate a
3.074 milioni (Tuccimei, 1999, 169).
23
Cfr. Dominioni (2008, pp.
39-42).
24
Stefanini (1933), aggiornato e edito dal CNR e
dall’Istituto Geografico
Militare nel 1938; Vinassa
de Regny (1923); Vinassa de
Regny (1924).
25
Desio (1936, pp.273-281).
26
Gortani e Bianchi (1938,
vol. 1, pp. 235-51); Gortani
e Bianchi (1939, pp. 11323). Altri resoconti del solo
Gortani in “Rendiconti
della R. Accademia
Scientifica dell’Istituto di
Bologna” 1939.
27
Cfr., tra i tanti possibili,
Ministero dell’AO, Azienda
Miniere A.O., AMAO (1938);
Società anonima per le
imprese etiopiche (1938);
Sestini (1938, pp.34-6);
Viezzer (1938, pp. 396-403);
Villaminar (1938); Volpi
Bassani (1937, pp.39-49).
28
L. Usoni, nota in
“Rassegna economica delle
colonie”, gennaio 1937.
29
Lo scambio epistolare è
parzialmente pubblicato in
Martelli e Procino (2007, p.
31).
5. Ricchezze agricole
Di fronte alle delusioni generate dalle ricerche nel sottosuolo, poteva esservi la
speranza di consolarsi con buoni risultati nelle attività agricole. Circa le condizioni e le possibilità dell’agricoltura in Etiopia non si sapeva molto più di quanto
non si sapesse dei minerali. La propaganda del governo aveva però dato grande
spazio alle prospettive che la guerra avrebbe aperto agli agricoltori, promettendo magnifiche occasioni di vita per i nostri contadini poveri, mentre i minerali
avevano un fascino molto debole sulle masse rurali. Ecco il motivo per cui vennero prodotti molti scritti sull’agricoltura etiopica con finalità propagandistiche30.
30
Cfr. ad es. Livius (1936);
Manetti (1936); Rivera
(1936).
41
n.32 / 2012
31
Cfr. Sala (1938); Eredia
(1937).
32
Cfr. Fantoli (1938 e 1939).
33
Cfr. Vatov (1938, pp.172175); Vatov (1940, pp.1-25);
Vatov (1941); Vatov (1942,
pp.146-154 e pp. 257-265).
34
Un’idea generale si può
avere consultando le bibliografie sugli scritti di interesse geografico relativi
all’AOI redatte da Elio
Migliorini e pubblicate sul
Bollettino della R. Società
Geografica Italiana.
35
Cfr. Baldrati (1936,
pp.314-87); Rivera (1936).
36
La Libia era in grado di
alimentare una piccola
esportazione di frumento,
che era la quasi totalità del
frumento esportato da tutte
le nostre colonie e i nostri
possedimenti (9.238.000 lire
su 9.395.000 lire nel 1938).
Peraltro l’Africa settentrionale importava 45 milioni
di lire di farine.
37
Cfr. Ciferri (1939); Massi
(1938, pp.12-5); Sabato
Visco si occupò per conto
del Cnr del valore biologico
sia dei cereali tipici
dell'A.O.I. che delle leguminose africane, arrivando
con molta soddisfazione a
stabilire che il "Cicer arietinum" dell'Eritrea ha "un
valore considerevolmente
più elevato di quello del
"Cicer arietinum" nazionale. Cfr. Alcune iniziative del
Consiglio nazionale delle
ricerche ai fini dell'autarchia, Roma, Cnr, gennaio
1938, p.23.
38
La rivista “l’autarchia alimentare”, che iniziò ad
uscire nel giugno del 1938,
42
Ma il lavoro di propaganda fu affiancato da una attività di studio e sperimentazione notevole.
Le coltivazioni e l’allevamento dipendevano strettamente dalle condizioni
meteorologiche, che in Etiopia erano molto variabili da una regione all’altra e
passavano dal clima desertico a quello delle montagne innevate31. Per organizzare dal nulla un servizio meteorologico in Abissinia venne scelto Amilcare Fantoli,
che aveva organizzato un servizio analogo per Eritrea e Somalia (Fantoli,1936,
514-521). Fantoli viaggiò instancabilmente per tutto il territorio conquistato,
impiantando stazioni meteo, anche quando la guerra ruppe i collegamenti con
l’Italia32.
Strettamente connesse con le conoscenze meteorologiche, e altrettanto importanti per l’agricoltura, erano le conoscenze idrografiche. La missione Dainelli al
lago Tana, di cui si è detto, fornì informazioni sul regime idrico della regione dei
grandi laghi, che si riteneva molto adatta ad insediamenti agricoli. Per il resto del
paese, nel 1937 venne organizzata una missione diretta da Aristocle Vatova. Vatova
era allora direttore dell’Istituto di biologia marina di Rovigno. Grande esperto delle
acque dell’Alto Adriatico, non era mai stato in Africa (né mai vi tornerà una volta
espletata la missione), ma disciplinatamente si impegnò in una massacrante marcia di 6.000 chilometri, dalla quale riportò una grande messe di informazioni33.
Le ricerche sull’agricoltura e l’allevamento in colonia investirono un ampio spettro
di problemi, dando origine a una pubblicistica talmente ampia da non poter essere trattata qui con qualche pretesa di completezza34. Molte furono le iniziative, pubbliche e private, che coinvolsero un gran numero di personale scientifico-tecnico.
Buona parte dell’attività di ricerca fu fatta con l’assistenza del già ricordato Istituto
Agronomico per l’Africa Italiana diretto da Maugini. Un ruolo importante svolse
anche la Stazione sperimentale per la carta e le fibre tessili di Milano, diretta da
Camillo Levi, per quanto concerne l’utilizzo delle fibre di piante etiopiche.
Nonostante l’ottimismo ostentato dagli scritti propagandistici, non occorreva
sforzarsi molto a leggere tra le righe per accorgersi che i concreti obiettivi che si
ponevano erano assai modesti. La coltivazione dei cereali, lo si sapeva già35, non
era particolarmente adatta alle condizioni climatiche e ai terreni delle colonie
(tranne che in Libia36), e infatti la farina rimase la voce più importante dell'import
coloniale. Furono studiati i cereali poveri di quelle zone, e il Cnr si occupò del
loro contenuto nutritivo37, ma fu chiarissimo che le difficoltà di rendere autonome le colonie per i cereali erano pressoché insuperabili; tantomeno ci si poteva
sognare un futuro in cui i possedimenti avrebbero potuto sostenere un movimento di merci alimentari in esportazione: il problema in discussione non era se
le colonie sarebbero state in grado di contribuire all’autarchia alimentare
dell’Italia, ma se le colonie sarebbero prima o poi riuscite a raggiungere la propria autarchia alimentare38. Poiché infatti non erano solo i cereali a scarseggiare,
anche la carne doveva essere importata. Il patrimonio zootecnico, che pur si
vagheggiava abbondantissimo, ma sul quale non si avevano dati certi, aveva caratteristiche di bassa qualità e, soprattutto, i bovini erano falcidiati dalla peste, che
rendeva le loro carni immangiabili39. Con una mossa disperata, il Cnr studiò la
possibilità di rendere commestibile agli italiani la carne bovina infetta con procedimenti di essicazione, visto che gli indigeni procedevano in questo modo40.
Analogamente, studiosi autorevoli sostennero la necessità di sostituire il vino, cui
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
i nostri coloni erano molto affezionati, con il locale idromele (Chigi, 1938, 11-13).
Nelle ricchezze zootecniche di cui si parlava rientravano anche le pecore da lana.
L’industriale laniero Gaetano Marzotto nel febbraio del 1937 promosse la
Compagnia italiana di studi e allevamenti zootecnici, la quale subito inviò i propri tecnici per valutare il patrimonio ovino in funzione della produzione di lana.
I responsi delle indagini fatte furono deludenti: le pecore della Libia risultarono
da carne, non da lana, mentre il patrimonio dell’Africa Orientale era quasi inesistente. Dopo alcuni poco soddisfacenti esperimenti di allevamento con ovini
indigeni, fu decisa l’importazione di alcuni capi di razze pregiate per la lana dal
Kenia, ma all’inizio del 1940 erano state importate solo 250 pecore e 25 arieti41.
La sola merce che il patrimonio zoologico africano fu in grado di offrire all’autarchia italiana furono le pelli crude, le quali erano la seconda voce di esportazione complessivamente e la prima per la sola Etiopia. La decisione del governo
italiano di esportare le pelli in Italia per favorire l’autarchia, oltre a privare l’A.O.I.
di uno dei suoi pochi introiti valutari, ebbe come conseguenza l’aumento dei
prezzi all’origine, che raggiunsero livelli al di fuori del mercato internazionale,
con susseguenti gravi speculazioni (Bottazzi, b. 264, f. 2).
Le speranze maggiori di ottenere dalla lavorazione della terra delle colonie un
contributo alla battaglia autarchica si concentrarono su cotone e altre fibre tessili, i semi oleosi, il caffè e il cacao, il legname, le banane, oltre alle pelli. L’Ente
per il cotone d’Etiopia, statale, e la Compagnia nazionale per il cotone d’Etiopia,
dei privati, avviarono vari esperimenti di coltivazione dall’esito insoddisfacente.
Solo dalla Somalia venne una esportazione di circa 10 milioni di lire (si tenga presente che prima delle sanzioni l’Italia importava cotone greggio per oltre 500
milioni di lire). Per utilizzare le fibre tessili della flora etiopica nacque la
Compagnia delle fibre tessili d’Etiopia, che prese in considerazione l’hibiscus,
come sostituto della iuta (e non poteva non essere istituita una Compagnia della
iuta e fibre similari di Etiopia), la foglia di palma Dum per la saccheria più ordinaria, la fibra di noce di cocco e di agave, entrambe in Somalia42. Tutte iniziative
che finirono in nulla e nel 1940 l’ufficio studi del ministero dell’Africa Italiana
doveva ammettere che “allo stato attuale solo poche fibre sono praticamente utilizzabili”43. La Compagnia italiana semi e frutti oleosi, nata in seno al Consorzio
nazionale fra produttori di semi oleosi, costruì due oleifici a Dessiè ed Harar, ove
si trattavano i semi di sesamo e di lino prodotti dagli indigeni, ma che non erano
assolutamente in grado di alimentare alcuna esportazione. La Compagnia imperiale per l’utilizzazione delle essenze legnose d’Etiopia si propose di sfruttare la
foresta di Uadarà, nel territorio del Galla Sidama44, ma dopo un paio d’anni rinunciò al progetto, rivolgendosi a comprensori boschivi nella regione dell’Harar, ove
la scoperta più rilevante fu quella della canna di bambù da cui ricavare cellulosa
che suscitò entusiasmo nei nostri scienziati, ma non ebbe alcuna pratica applicazione. Nel 1940 questa compagnia era arrivata soltanto ad avviare i lavori di
costruzione della prima segheria moderna in colonia45. Un successo maggiore
ebbe la Compagnia tannini d’Etiopia nella sua ricerca di piante da utilizzare per
gli estratti tannici, indispensabili per l’industria conciaria e tintoria, da sostituire
alle essenze importate, fondamentalmente il quebracho dell’Argentina46. Le
banane, coltivate e commercializzate da tempo dalla Regia Azienda Monopolio
Banane, erano di gran lunga la principale voce di esportazione, ma la loro pro-
promossa dall’Azienda
monopolio banane, era
dedicata alla “rassegna dei
contributi alimentari dell’impero”: ebbene, dalla sua
lettura risulta chiarissimo
che l’obiettivo cui si puntava era di rendere le colonie
autosufficienti, non certo di
fare delle terre africane
una riserva di cibo per
l’Italia.
39
Lombardi (1936, pp.3836); Valori (1938, pp.103560); Saitta (1939, pp.771-5);
Giovine (1938).
40
Cfr. Alcune iniziative del
Consiglio nazionale delle
ricerche ai fini dell'autarchia, Roma, Cnr, gennaio
1938, p. 21.
41
Cfr. Associazione Italiana
di Studi e Allevamenti
Zootecnici (1939), vol.4,
p.1130.
42
Sulle attività alla ricerca
di fibre tessili cfr. Bravo
(1936, pp. 527-32); Carbone
(1936, pp.257-9); Mangano
(1936, pp. 543-52); Carocci
Buzi (1938, pp.1097-1122);
Calvino (1937, pp. 249-54);
Caradonna (1939); Carocci
Buzi (1937, pp.1312-23).
43
Cfr. Associazione Italiana
di Studi e Allevamenti
Zootecnici (1939), Roma,
vol.4, p.1126.
44
Sul patrimonio forestale
di questa regione cfr. Dei
Gaslini (1940)
45
46
Cfr. Associazione Italiana
di Studi e Allevamenti
Zootecnici (1939), vol.4,
p.1129.
Il problema dell’autarchia
nell’industria conciaria fu
tra i più sentiti, anche per-
43
n.32 / 2012
duzione rimase confinata esclusivamente in Somalia47. Dalla flora e dalla fauna
dell’Etiopia conquistata l’Italia riuscì ad ottenere solo due cose: le già citate pelli
crude e il caffè. Il caffè etiopico, studiato da vari ricercatori (così come il cacao)48,
si rivelò di ottima qualità e il governo decise di utilizzarlo per l’esportazione contro valuta, lasciando agli italiani il caffé d’orzo. Le industrie italiane chimico-farmaceutiche tramite la Compagnia italiana per la valorizzazione della flora etiopica, promossa da Morselli, diedero vita a svariate ricerche, tutte di scarso costrutto, limitate alla flora spontanea e coltivata già nota, per possibili utilizzi per resine e vernici, gomme, essenze, farmaci, riaccendendo nuove speranze nei cuori
di quegli studiosi che da anni predicavano questo indirizzo nelle colonie49.
All’“oro verde” etiope si affidò anche il compito improbo di fornire il carburante
necessario per i mezzi operanti in colonia Già da tempo l’amministrazione coloniale aveva avviato ricerche sulle possibili fonti di carburanti alternativi al petrolio.
Il Governo della Libia nel 1935 aveva nominato una speciale commissione per lo
studio dell’impiego dell’alcool carburante, la quale aveva esaminato con particolare attenzione l’alcool ricavabile dall’asfodelo, giungendo però a conclusioni negative50. La costituzione dell’Impero rinnovò l’interesse per il problema e da varie
47
Delle 62.328.000 lire
parti si discusse sulle possibilità di sfruttare la flora africana per ottenere alcool, oli
esportate dalle colonie nel
combustibili, carbonella, partendo dall’euforbio etiopico per arrivare all’arachide,
1938 in ananas e banane,
ben 62.249.000 venivano
passando per i cereali poveri. Nei fatti non si andò oltre un impiego limitato del
dalla Somalia.
gassogeno, e benzina e nafta importate rimasero il propellente principale51.
Come si vede da questi pochi cenni e dalla relativa bibliografia citata in nota,
48
Weigelsperg di Caneva
furono molti gli scienziati e i tecnici impegnati nelle questioni dell’agricoltura e
(1937, pp.1731-42); Cortesi
dell’allevamento coloniale. Se quasi tutte le iniziative si rivelarono deficitarie, ciò
(1938, pp.981-91); Ciferri,
Barbensi e Scaramella
non può essere ascritto al mancato impegno dei ricercatori. Noi andammo in
(1940, pp. 153-65); Ciferri,
Etiopia senza sapere quasi nulla e le prime indagini non potevano far altro che
Barbensi e Scaramella
evidenziare i problemi che prima di allora ci erano sconosciuti. Una volta noti i
(1938, pp.1035-60) (si tratta
della relazione sugli esiti di problemi, mancò il tempo per cercarne con successo la soluzione, ammesso che
questa esistesse.
una missione guidata da
ché alla trattazione delle
pelli erano fortemente interessate le forze armate,
e numerosi scienziati (il
più importante fu Vittorio
Casaburi, direttore della
Stazione sperimentale per
la concia) si occuparono
dell’argomento. Cfr. Ageno
Valla (1936, pp. 298-304);
Bravo (1936, pp.527-32);
Casaburi (1936, pp. 229-31);
Sarcoli (1936, pp.137-9);
Casaburi (1937); Casaburi
(1937, pp. 219-30); De
Pilippis (1937, pp.313-22);
Giglioli (1937, pp. 401-21);
Schiaparelli (1940, pp.37981).
Felice Venezian per conto
della Compagnia italiana
importatori caffè); Sabadini
di Rovetino (1937, n. 2, pp.
15-16).
6. Conclusioni
La conquista dell’Etiopia fu un evento che coinvolse, con varie modalità, buona
parte della comunità scientifico-tecnica italiana. Basti pensare (oltreché alle indi49
Afferni (1937, pp. 373-81); cazioni fornite sopra), che in occasione della riunione annuale della Società itaTrost (1937, pp.178-188);
liana per il progresso delle scienze, tenutasi a Tripoli nel novembre del 1936 e
Ubaldini (1938, pp.191-99); dedicata al tema Il problema imperiale italiano, ben 500 scienziati si sobbarcaRovesti (1939, pp.474-9); P.
rono la fatica e le spese del trasferimento nelle terre africane.
Rovesti, direttore di industrie profumiere, era proba- Naturalmente è difficilissimo valutare in termini qualitativi e quantitativi il conbilmente il maggior esperto senso degli ambienti scientifici e tecnici ottenuto dall’impresa etiopica. Vi furoitaliano dell’utilizzo indu- no esecutori obbedienti, fiancheggiatori, propagandisti, organizzatori, innovatostriale di erbe e da tempo
ri, opportunisti e sinceri entusiasti. Tutti coloro che parteciparono a vario titolo,
sosteneva la necessità di
però, mostrarono di rendersi conto che fare ricerca su questioni coloniali non
valorizzare la flora delle
era fare una attività scientifica “qualsiasi”, ma richiedeva un coinvolgimento percolonie, cfr. Rovesti (1927,
pp. 553-70); Rovesti (1935,
sonale nel progetto imperiale complessivo del fascismo, chiedeva di sentirsi
pp. 67-101); Alberti (1939,
parte di un esercito che, prima con le armi, poi con la scienza, stava costruendo
pp. 392-402); Ubaldini, Bissi un impero. Lo scienziato non poteva più dedicarsi alla ricerca pura e disinteres-
44
Roberto Maiocchi
Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia
e Bissi-Turco, cit., pp.731sata della verità, ma doveva rispondere alla chiamata della Patria in armi, diveni40; Ciferri (1939); Bruno
re scienziato militante per il benessere e la gloria della nazione. Le parole con cui
(1937, pp. 1324-32).
Giotto Dainelli descriveva il suo stato d’animo durante la missione esplorativa
50
della regione del lago Tana, credo fotografino, sia pure con un’enfasi un po’
Cfr. ACNR, b. 352, f.1.
eccessiva, un sentire condiviso da molti: “Quando, in testa alla nostra lunga e
51
De Capitani (1937, pp.
pesante colonna - che aveva un qualche cosa di guerresco, nelle canne di fucili
711-9);
Castelli (1938, pp.15irte sulle vetture e sulle macchine, e nelle rombanti scorte dei moto-mitraglieri 6); Trolli (1938, pp.165-171);
avanzavo sobbalzando sulle piste […] sentivo che quella – la nostra – era veraBolcato (1936, pp. 365-8);
mente Scienza militante, al servizio del paese: come ho sempre creduto ch’essa Coppa-Zuccari (1936, n. 33,
abbia da essere, ed ho anche sempre cercato di esercitare.” (Dainalli, 1938, 17).
pp. 6-8; n. 36, pp. 5-8);
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l’interesse per l’energia eolica, cfr. Panunzio (1937, pp.
133-73).
45
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49
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1. Infomazione e comunicazione
«Negli esseri umani il linguaggio è la base della cultura, ed è dunque la più importante innovazione,
che ha permesso all’uomo moderno di moltiplicare
le possibilità di vita e di diventare padrone della
Terra in tempi abbastanza brevi. Il linguaggio è
un’innovazione a un tempo biologica e culturale,
poiché le basi anatomiche e fisiologiche che lo rendono possibile si sono evolute geneticamente, per
selezione naturale» (Luigi Luca Cavalli Sforza, 1996,
251). Così scrive Luigi Luca Cavalli-Sforza nel suo
pregevole volume Geni, popoli e lingue, mettendo
in evidenza non solo come per cultura si debba
intendere «l’insieme di quello che si apprende dagli
altri, contrapposto a quello che si impara da soli, in
isolamento» (Ivi, 249), ma anche come nella trasmissione culturale si innesti un’autentica «mutazione culturale» la quale ultima possiede una sua
specifica peculiarità: «una distinzione fondamentale
tra la mutazione biologica e la “mutazione culturale”
è che per la gran parte le mutazioni culturali sono
innovazioni volute e dirette a qualche fine, mentre
la mutazione biologica non è diretta al miglioramento del risultato, ma è determinata dal caso. Al
livello della mutazione, l’evoluzione culturale può
dunque essere mirata, quella biologica non lo è. Di
recente qualche biologo ha cercato di cambiare il
dogma classico dell’evoluzione biologica, ma le
prove addotte non sono sufficienti» (Ivi, 254).
Proprio questo specifico carattere “teleologico”
della comunicazione, il suo essere diretta a qualche fine peculiare, ci consente, allora, di comprendere come la comunicazione umana, dalla quale
è scaturito, nel corso del tempo, dal Paleolitico ad
oggi, il dominio dell’uomo sulla Terra, non può e
50
non deve mai essere confuso con la mera informazione. Quest’ultima può infatti configurarsi
come uno scambio di messaggi tra un trasmettitore e un ricevente che non prevede affatto il coinvolgimento diretto dei due poli della trasmissione,
né presenta una finalità specifica. Entro questo
semplice “contatto” di trasmissione il trasmettitore
e il ricevente continuano infatti a conservarsi nella
loro autonoma ed irrelata alterità, che non implica
alcun cambiamento di rilievo. Al contrario, la
comunicazione, essendo per sua natura intrinsecamente teleologica, implica, invece, un diretto coinvolgimento, sia della fonte – che si sente appunto
impegnata a trasmettere un determinato messaggio al proprio interlocutore e che nel porre in essere tale iter comunicativo si espone ad un processo
dialogico in virtù del quale mette in gioco, in ultima analisi e perlomeno sul piano potenziale, la sua
stessa natura originaria – sia del ricevente, il quale
ultimo, per trasformare effettivamente l’informazione ricevuta in autentica comunicazione, deve
necessariamente rielaborarla criticamente dal proprio particolare e specifico punto di vista. Se si
vuole si può anche rilevare come nella comunicazione colui che riceve il messaggio debba necessariamente riconquistarlo proprio per farlo suo, per
metabolizzarlo e rielaborarlo, trrasformandolo in
carne della sua carne e in sangue del suo sangue.
Naturalmente all’interno di questo rapporto di
comunicazione le direzioni dei flussi di dialogo
possono poi variare profondamente, dando luogo
a situazioni ed esiti profondamente diversificati e
persino antinomici, configurando svariate soluzioni. Per comprendere la diversità esistente tra informazione e comunicazione ci si potrebbe riferire
anche al mondo eterogeneo e spesso caotico
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
generato da internet: i vari motori di ricerca ci
mettono infatti a disposizione una notevolissima
massa di dati eterogenei e molteplici indicazioni
profondamente diversificate e persino incongruenti o anche prive di senso plausibile. Tuttavia,
l’insieme di questi elementi risultano essere sistematicamente appiattiti su una medesima dimensione indifferenziata ed omologante, un’autentica
notte in cui tutte le vacche sono nere, senza possibilità (da parte di internet) di distinguere l’indicazione rilevante da quella assolutamente priva di
senso e di qualsiasi validità. Solo la capacità critica
del singolo ricercatore nel muoversi in questo
autentico mare magnum indistinto e caotico consente di scegliere tra i vari dati, trasformandoli in
elementi interessanti e rilevanti per un determinato programma di ricerca. Proprio tale rielaborazione critica, questa capacità del singolo di rileggere
autonomamente i vari input presenti in rete li trasforma in autentica conoscenza (o in validi elementi di conoscenza), facendo sì che la mera informazione si trasformi in un reale processo conoscitivo e di effettiva comunicazione.
Del resto, seguendo una persuasiva tassonomia
concettuale delineata da Cavalli-Sforza si può
anche rilevare come possano esistere differenti tipi
di comunicazione a partire da una comunicazione
sostanzialmente verticale, dall’alto verso il basso
(come quella che si attua, per esempio, tra genitore e figlio o tra un maestro e un allievo), oppure vi
può essere uno scambio comunicativo orizzontale, tra individui che non sono legati da nessun particolare legame gerarchico, ma si pongono tutti,
perlomeno tendenzialmente, sul medesimo e
comune piano dialogico. Oppure vi può essere o
una comunicazione magistrale che vede un parlante comunicare contemporaneamente con più
individui, configurabili come i recettori sottoposti
(da insegnanti ad allievi, da capi a dipendenti, dai
presidenti ai loro sottoposti, etc.), oppure, ancora,
un singolo individuo può essere sottoposto ad una
forte pressione comunicativa concentrica e concertata, posta in essere, contemporaneamente, da
differenti persone che vogliono appunto esercitare su di lui una determinata influenza.
In tutte queste differenziate prassi comunicative,
la comunicazione presuppone sempre una specifi-
ca teleologia strategica, mediante la quale una
determinata informazione viene trasmessa al proprio interlocutore il quale ultimo risulta essere in
dialogo effettivo col primo solo nella misura in cui
non si limita affatto ad essere un mero recettore
passivo di un particolare flusso informativo, ma
trasforma e rielabora autonomamente, in forma
più o meno critica, quello specifico messaggio. Da
questo particolare punto di vista si può quindi
sostenere come un’autentica e vera comunicazione si realizzi solo ed esclusivamente quando tra
due interlocutori si pone in essere un reale dialogo, mediante il quale ogni partecipante alla discussione è sempre in grado di rielaborare, dal proprio
particolare, specifico ed autonomo punto di vista,
quanto gli viene trasmesso. Di contro, la mera trasmissione, priva di autentica comunicazione, può
invece essere assimilata ad un flusso acefalo di
informazioni che non viene sostanzialmente modificato dal recettore e che, pertanto, viene trasmesso in modo prevalentemente passivo, decisamente
acritico. Naturalmente da questo specifico punto
di vista la contrapposizione, formale e di principio,
tra mera “informazione” (neutra ed acritica) ed
autentica “comunicazione” (umana e dialogica,
sempre soggettiva, critica e personale) è, in verità,
abbastanza astratta e fuorviante, giacché, nel concreto mondo della prassi, esistono poi sempre
molteplici sfumature, in virtù delle quali il dialogo
che si attua tra le differenti individualità umane
non si riduce affatto ed univocamente, né a mera
“informazione acritica”, né ad autentica “comunicazione critica”, oscillando, piuttosto, continuamente, tra questi due opposti ed astratti poli ideali. Non per nulla ogni dialogo favorisce comunicazioni profondamente diversificate. Non solo: è ben
noto che una medesima lezione può naturalmente produrre, nei differenti ascoltatori, esiti profondamente differenziati e persino divergenti.
In ogni caso questa precisazione e la possibilità
stessa di individuare una gamma assai vasta e differenziata di ipotetiche possibilità comunicative
entro la duplice polarità della comunicazioneinformazione testé richiamata, ci consente di sottolineare come il vero confronto comunicativo
implichi sempre la presenza di una determinata
teleologia comunicativa la quale ultima rinvia, a
51
n.32 / 2012
sua volta, alle differenti axiologie che possono e
devono svolgere un loro ruolo specifico all’interno della prassi della comunicazione umana. Si
badi: il ruolo euristico affatto specifico di queste
axiologie si ricollega direttamente proprio al ruolo
irrinunciabile della “mutazione culturale” e ne configura il suo spazio epistemico peculiare. Non esiste infatti comunicazione umana che sia esente da
questa irrinunciabile componente teleologica la
quale, a sua volta, si configura e si dipana sempre
nel quadro dell’argomentazione dialogica, prendendo le mosse da una particolare axiologia che è
costantemente presente (e coinvolta) nel discorso
umano. Anche in quello che vorrebbe invece
esserne radicalmente immune: per esempio la
comunicazione scientifica che, per sua natura, in
qualche caso, ha anche cercato di configurarsi
come assolutamente e irrimediabilmente wertfrei.
2. Differenti criteri epistemici
In realtà ogni comunicazione umana non può mai
liberarsi veramente da questa dimensione axiologica, giacché quest’ultima svolge sempre una sua
specifica ed autonoma funzione euristico-costitutiva all’interno del discorso umano e della stessa
scelta dei differenti criteri epistemici con i quali, di
volta in volta, e, disciplina per disciplina, stabiliamo, variamente, il “rigore” autonomo di ciascun
discorso (anche di quelli conoscitivi e scientifici). È
ben vero come proprio la riflessione epistemica
sulla conoscenza umana abbia spesso inseguito
una strada ben diversa e persino opposta. Tuttavia,
proprio lo sviluppo complessivo di questi pur
fecondi tentativi epistemici ci aiuta oggi a meglio
intendere la complessa natura, ad un tempo conoscitiva ed axiologica, della conoscenza umana. Né
potrebbe essere differentemente, soprattutto se
teniamo presente la storia specifica dei vari criteri
epistemici che, soprattutto nel corso del
Novecento, sono stati proposti onde poter individuare, infine, un criterio metodologico in grado di
dirimere, autonomamente, la questione stessa
della conoscenza umana e della sua validità critica.
2.1. Il criterio verificazionista neopositivista
Si pensi, per esempio, a tutte le vicende connesse
52
con le varie e assai differenziate formulazioni del
principio neopositivistico di verificazione. Come
è ben noto nella prima e più rigida formulazione
del principio verificazionista, avanzata dal neopositivismo nella fase della fondazione del Wiener
Kreis, l’empirismo logico inseguiva il sogno di
poter mettere capo, una volta per tutte, ad un criterio in virtù del quale il significato di un enunciato avrebbe dovuto senz’altro coincidere con il
metodo della sua verificazione. Tuttavia, come
ebbe modo di rilevare, a metà degli anni Trenta,
nel 1934-35, anche un nemico dichiarato del neopositivismo come Karl Raimund Popper (nella sua
Logik der Forschung, ospitata proprio in quel
torno di tempo nella prestigiosa collana editoriale
del Wiener Kreis), questo criterio empiristico risulta essere troppo forte ed eccessivamente tirannico. Se infatti il significato di un enunciato si deve
ridurre, invariabilmente, al metodo della sua verifica, verrebbe allora meno non solo l’odiata metafisica (sempre combattuta aspramente da tutti gli
esponenti del neopositivismo quale pseudo-consoscenza), ma finirebbe per sgretolarsi anche l’amatissima scienza (cui i differenti esponenti dell’empirismo logico non hanno mai smesso di tributare il loro interesse più profondo e privilegiato). In ultima analisi il primo criterio verificazionista neopositivista viennese risulta essere troppo
potente perché pretende di poter sistematicamente ridurre il significato di un determinato enunciato al metodo della sua verificazione sperimentale. Ma tale sogno empiristico si rivelò essere, in
realtà, alquanto utopico e fuorviante, come del
resto ha ben mostrato di comprendere lo stesso
empirismo logico che, non a caso, ha ben presto
iniziato ad arrovellarsi proprio intorno a questo
problema, nello sforzo più che apprezzabile di
poter infine riformulare il principio di verificazione
secondo una innovativa configurazione epistemica, capace di salvare capra e cavoli, vale a dire in
grado di salvare la dimensione prettamente formale, astratta ed universale del procedere scientifico,
senza tuttavia rinunciare all’esigenza, parallela, di
poter verificare puntualmente i nostri discorsi concernenti il mondo.
Ma a ben considerare tutte le varie e successive
riformulazioni epistemiche del principio di verifi-
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
cazione neopositivista (da quella configurata verso
la metà degli anni Trenta fino a quella delineata
una volta che l’empirismo logico è entrato in contatto diretto con il pragmatismo americano),
occorre tuttavia riconoscere come il suo sforzo
abbia finito per attestarsi, perlomeno negli interpreti più avveduti criticamente, entro una posizione che ha dovuto riconoscere la compresenza,
entro lo stesso discorso conoscitivo posto in essere dalla scienza, di una duplice livello epistemico:
quello eminentemente empirico-fattuale, radicato
soprattutto nella dimensione sperimentale e quello, opposto, astratto-formale, a sua volta radicato
nella dimensione universale ed ideale-congetturale delle differenti teorie scientifiche. Certamente in
questo progressivo sforzo di approfondimento critico del suo principio di verificazione il neopositivismo non ha affatto ammainato la storica bandiera dell’empirismo, vale a dire la necessità di riferire, in ultima analisi, i nostri discorsi concernenti il
mondo al piano empirico-sperimentale entro il
quale si effettuano, appunto, le differenti “verifiche” sperimentali. Tuttavia, questa determinata
volontà di non ammainare la pur gloriosa bandiera
dell’empirismo si è progressivamente saldata con
la sempre più lucida consapevolezza critica che i
discorsi scientifici concernenti il mondo fanno al
contempo ricorso anche ad una dimensione formale costitutiva che, di per sé, è impossibile ridurre, senza residui, al piano empirico. Semmai, per
dirla galileianamente, il continuo approfondimento del principio neopositivistico della verificazione
ha indotto i suoi migliori esponenti dell’empirismo logico – come, per esempio, Gustav Hempel,
per fare un solo nome, peraltro davvero emblematico – a rendersi conto che il gioco conoscitivo
posto in essere dall’impresa scientifica risulta essere molto più plastico, articolato, libero e complesso di quanto potessero mai sospettare originariamente gli esponenti viennesi. La scienza e il discorso scientifico vivono, infatti, di un continuo e
assai fecondo interscambio critico tra la dimensione fattuale-sperimentale e quella propriamente
formale ed astratta, con la conseguenza che le differenti teorie scientifiche si situano epistemicamente in una dimensione intermedia e, per usare
la felice immagine hempeliana, possono allora
essere considerate come delle autentiche “reti”,
mediante le quali possiamo pescare differenti
“pesci” (idest, differenti “oggetti”, studiando diversi ambiti empirico-sperimentali e fattuali).
Certamente questo gioco risulta essere sempre
vario, mobile e continuamente arricchito e modificato da molteplici interazioni critiche frutto di continue e assai differenziate contaminazioni critiche
che si instaurano variamente tra la dimensione formale e quella sperimentale. Tuttavia, non si può
neppure negare come proprio questo gioco epistemico posto in essere dalla scienza nel suo continuo e molteplice sforzo finalizzato ad elaborare
delle feconde teorie scientifiche, dotate di autentica portata conoscitiva, costituisce l’asse epistemico privilegiato lungo il quale, galileianamente, le
certe dimostrazioni si intrecciano costantemente
con le sensate esperienze, configurando un patrimonio tecnico-conoscitivo in virtù del quale non
solo il nostro sapere, ma anche la nostra stessa
vita quotidiana, è sempre più modificata e resa più
“libera”, più “responsabile” e assai più complessa.
2.2 Il criterio falsificazionista popperiano
Ma proprio la riscoperta di questa specifica “complessità” della conoscenza posta in essere dall’impresa scientifica non può che aiutarci a meglio
intendere il ruolo diversificato e costitutivo che la
stessa axiologia svolge entro la scienza, la tecnica e
la stessa vita umana, condizionando nuovamente
anche la comunicazione scientifica. Né costituisce
una smentita critica di questo risultato l’approccio
falsificazionista alla scienza sviluppato da Popper
e dai vari, diversi e vivaci esponenti dell’epistemologia popperiana e post-neopositivista. Il falsificazionismo ha infatti avuto il merito indubbio di sottolineare come la scientificità di una teoria scientifica si radichi proprio nella sua capacità di vietare
alcuni precisi ambiti sperimentali. Tuttavia, anche
il pur interessante criterio epistemico escogitato
da Popper (peraltro in feconda connessione critica
con una ben precisa tradizione di pensiero, quella
del convenzionalismo congetturalista, non priva di
precise venature scettiche) ha tuttavia finito per
costituire, paradossalmente, una sorta di versione
speculare del principio verificazionista neopositivista. Infatti, come alcuni dei più acuti interpreti del
53
n.32 / 2012
falsificazionismo popperiano non hanno tardato a
mettere in evidenza, anche il gioco della scienza
configurato dal criterio falsificazionista finisce per
peccare di eccessiva astrattezza: da un lato risulta
essere troppo stretto per spiegare tutte le differenti e complesse fasi di sviluppo della storia del pensiero scientifico, mentre, dall’altro lato, risulta
anche essere troppo lasco, perché fornisce una
ricostruzione incapace di spiegare l’effettiva specificità della crescita della conoscenza scientifica. In
ultima analisi si può così rilevare come anche il criterio falsificazionista popperiano finisca per perdere di vista la specificità intrinseca della criticità insita nella crescita della conoscenza scientifica non
solo perché non percepisce affatto il ruolo e la portata della dimensione tecnica dell’impresa scientifica, ma anche perché non è in grado di spiegare la
specifica e complessa plasticità dello stesso sapere
scientifico. E non è in grado di spiegare euristicamente la plasticità della scienza proprio perché ha
perso di vista il complesso intreccio mediante il
quale anche le comunità scientifiche sono continuamente contaminate e turbate nella pretesa
purezza epistemica dei loro criteri scientifici. Del
resto Popper stesso si era reso conto come l’impresa scientifica si appoggiasse non sulla salda roccia dei fatti, bensì sulle “palafitte” delle differenti
convenzioni congetturaliste. Tuttavia l’epistemologo tedesco ha poi finito per trascurare proprio il
ruolo euristico che alcune dimensioni “sociali” (se
non direttamente sociologiche) svolgono anche
all’interno della prassi scientifica, soprattutto nelle
fasi “rivoluzionarie”, mediante le quali l’impresa
scientifica introduce un autentico ribaltamento
epistemico paradigmatico del proprio tradizionale
punto di vista scientifico. Né si può poi trascurare
come la prospettiva falsificazionista abbia finito per
non riuscire a fare più i conti con l’intrinseca storicità della scienza, con la flessibilità delle sue categorie concettuali, finendo, appunto, per appiattire
l’impresa scientifica in un gioco falsificazionista
che paradossalmente rischia di farci perdere di
vista, sistematicamente, il ruolo, complesso e
aggrovigliato, mediante il quale il sapere scientifico
si delinea sempre entro un orizzonte axiologico
storicamente determinato. Non per nulla per il falsificazionismo popperiano la storia della scienza o
54
si riduce, paradossalmente, ad una concezione
cimiteriale (ad un cumulo di teorie morte e confutate), oppure non possiede alcun effettivo e significativo ruolo epistemico (semmai serve solo ad
offrire alcuni esempi per suffragare ed illustrare le
diverse immagini epistemologiche della scienza,
ma non svolge entro la riflessione epistemologica
alcun significativo ed autonomo ruolo euristico).
3. Il problema del metodo scientifico nella
riflessione galileiana
In realtà la ricerca stessa di un unico criterio epistemico in grado di spiegare, una volta per tutte, la
natura, vera e profonda, del procedere scientifico
nasce, in ultima analisi, da un sogno utopico: quello di poter ridurre unilateralmente la scienza al
suo metodo. Effettivamente se si guarda al dibattito epistemologico e filosofico sviluppatosi da
Descartes fino a Feyerabend incluso, è difficile sottrarsi all’impressione complessiva che i vari protagonisti di questa ricerca siano rimasti tutti vittima
della sindrome cartesiana (l’espressione è stata
coniata, qualche anno fa, dall’attuale Presidente
del Senato, Marcello Pera, quando ancora si occupava più direttamente del dibattito filosofico in un
suo pregevole volume laterziano significativamente intitolato Scienza e retorica), Questa sindrome
consiste proprio nel ritenere che la scienza si
possa risolvere, unilateralmente e senza residui,
nel suo metodo. Naturalmente i vari partecipanti a
questa storica discussione ideale, sviluppatasi nel
corso di tre secoli, hanno poi variamente argomentato il loro reciproco dissenso teorico nell’individuare il presunto metodo della scienza in questo o quel particolare (ed assai circoscritto) crivello metodologico, in questo o quel determinato
approccio euristico-ermeneutico specifico, tipico
di questa o quella disciplina. In ogni caso, pur
avendo variamente alimentato tale dissenso teorico, tutti questi filosofi hanno infine condiviso una
comune idea di fondo: quella in virtù della quale
ritenevano, appunto, che la scienza si potesse
sistematicamente ridurre al suo metodo, con la
connessa convinzione che solo l’applicazione
sistematica di questo metodo fosse poi in grado di
produrre vera ed autentica conoscenza, effettiva-
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
mente degna di questo nome.
In realtà, se si guarda invece al concreto e complesso sviluppo storico effettivo della scienza, nella
sua reale configurazione storica e teorica, è invero
molto difficile sottrarsi ad un’impressione molto
diversa, quella in base alla quale occorre invece
riconoscere che la scienza non possiede affatto un
suo unico e specifico metodo di intervento per
studiare e indagare il mondo reale. Non per nulla
il padre riconosciuto della scienza moderna,
Galileo Galilei, ha sempre rifiutato di codificare, in
modo rigido e schematico, la vera natura del metodo scientifico. Al contrario, Galileo si è invece limitato ad avanzare un’indicazione di massima, in
virtù della quale, perlomeno a suo avviso, l’approfondimento della conoscenza scientifica può essere realizzato solo muovendosi liberamente entro
una duplice polarità di riferimento: le certe dimostrazioni e le sensate esperienze. Tuttavia, proprio
grazie a questa indicazione di massima, Galileo ha
voluto indicare unicamente l’universo complessivo
di riferimento epistemico entro il quale l’impresa
scientifica può delineare un suo autonomo modo
per procedere e approfondire le conoscenze
umane. Del resto proprio la diretta esperienza
scientifica, sviluppata da Galileo in differenti settori di indagine e di ricerca, deve averlo indotto a
ritenere che un unico metodo scientifico, codificato e riproducibile automanticamente per tutti i differenti settori della ricerca, non solo non esisteva,
ma non era neppure auspicabile.
Perché non esisteva e non era auspicabile? Perché
l’indagine scientifica si può rivolgere a campi molto
differenziati che richiedono tutti l’istituzione di un
proprio e specifico apparato metodologico, per
mezzo del quale sia effettivamente possibile approfondire le conoscenze che si possono eventualmente conseguire in quel particolare settore disciplinare. Non per nulla Galileo, in prima persona, è
passato dallo studio astronomico del cielo, alla considerazione sulla resistenza dei materiali, dall’indagine delle leggi della dinamica, alla considerazione
del comportamento fisico dei corpi che galleggiano
in un liquido, dallo studio dell’isocronia delle oscillazioni di un pendolo, all’approfondimento della
nozione matematica dell’infinitamente piccolo,
dalla costruzione e dall’uso del “cannone della
lunga vista” alla valutazione di decine di minuti problemi tecnologici (balistici, tecnologici, etc., etc.).
Proprio la varietà e la grande vastità di tutti questi
suoi diversificati interessi scientifici deve aver indotto Galileo a ritenere che il “metodo” scientifico,
dovendo affrontare ambiti così differenziati ed assai
eterogenei, non poteva affatto essere codificato,
una volta per tutte, entro un solo modello epistemico, univoco ed astratto. Per questa ragione di
fondo l’indicazione galileiana, programmatica e di
massima, di un sapere scientifico che si costruisce e
si delinea via via mettendo continuamente in relazione, peraltro secondo differenti e sempre libere
curvature scientifiche ed epistemiche, il momento
sperimentale delle sensate esperienze con quello
teorico delle certe dimostrazioni voleva probabilmente costituire una feconda indicazione metodologica di fondo, in grado di salvaguardare adeguatamente l’originalità, la libertà e l’intriseca flessibilità
dell’approccio scientifico, evitando ogni pregiudiziale chiusura dogmatica. Galileianamente parlando
la scienza non possiede dunque un suo metodo,
perché, semmai, può solo delineare un suo autonomo e specifico universo complessivo di riferimento,
entro il quale ogni singola indagine deve poi
costruire i propri criteri di protocollarità, il proprio
metodo di indagine, il proprio universo epistemico,
i propri “oggetti” e persino le proprie inferenze.
Non per nulla Galileo, nel Saggiatore, aveva introdotto la sua celebre distinzione tra le qualità primarie e le qualità secondarie su di un piano
meramente operativo. Semmai, la indebita ontologizzazione sostantivizzante di queste due differenti qualità fu invece operata proprio dal pensiero
filosofico post-galileiano che trasformò indebitamente l’indicazione operativa dello scienziato pisano in un’indicazione decisamente metafisica, in
virtù della quale esisterebbero, appunto, delle
sostanze primarie matematizzabili, accanto a
delle differenti sostanze secondarie non matematizzabili. Il che costituisce, evidentemente, un’indebita ontologizzazione dell’indicazione galileiana, proprio nella misura in cui induce a rimuovere
il problema di fondo cui si era invece trovato di
fronte Galileo. Quest’ultimo si era infatti reso ben
conto che non tutti gli aspetti morfologici del
mondo potevano essere affrontati con lo strumen-
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n.32 / 2012
to matematico di cui l’uomo disponeva nel
Seicento. Per questo motivo aveva introdotto, sempre e solo sul piano meramente operativo (e non
certamente sostanziale e metafisico), una distinzione pratica ed operativa che doveva aiutare la scienza a non impantanarsi in un problema morfologico
(quello attinente, appunto, le forme del mondo e la
loro intrinseca e complessa mutevolezza) per
affrontare il quale, nel Seicento, non esistevano
ancora adeguati strumenti euristico-matematici sufficientemente potenti. Tuttavia, proprio questa
distinzione operativa - che nasceva, dunque, in
Gaileo da una profonda consapevolezza critica concernente i limiti oggettivi della matematica del suo
tempo – finì, invece, per essere letta ed interpretata come un limite ontologico invalicabile e costitutivo dello stesso sapere scientifico moderno.
Questa indebita ontologizzazione della distinzione
galileiana fu del resto compiuta anche in stretta
connessione con la progressiva affermazione di
un’autentica egemonia culturale esercitata dalla
fisica-matematica nei confronti di tutte le altre
discipline scientifiche. Con la conseguenza che
assumendo infine il modello della fisica-matematica come punto di riferimento privilegiato per tutte
le indagini scientifiche, ben presto si finì per contrapporre alla scientificità delle teorie fisiche la
minore affidabilità scientifica delle altre teorie –
come quelle biologiche, per esempio, direttamente attinenti alle scienze della vita – nate su altri terreni di indagine. Da questo punto di vista la stessa
idea kantiana in virtù della quale la “scientificità” di
una specifica teoria scientifica potrebbe essere
misurata dalla quantità di matematica presente
all’interno di una determinata teoria, costituisce
l’espressione emblematica dell’incredibile egemonia culturale (ed epistemica) che la fisica-matematica ha effettivamente esercitato nel corso dei
secoli. Egemonia culturale che certamente può
essere ben compresa e giustificata, soprattutto alla
luce degli strepitosi ed innegabili successi conoscitivi conseguiti dalla fisica newtoniana nell’indagare
la natura del mondo fisico. Tuttavia, proprio questa indebita egemonia culturale ha poi finito per
condizionare pesantemente anche lo sviluppo
complessivo di tutte le altre scienze, non solo sul
piano epistemologico, ma anche su quello stretta-
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mente scientifico. In primo luogo, relegando su
un piano di interesse scientifico e culturale secondario le cosiddette “scienze molli” (attinenti più
direttamente lo studio del problema della vita)
rispetto alle cosiddette “scienze dure” (appunto, la
fisica e la matematica). Inoltre, in secondo luogo,
questa egemonia culturale indusse molti scienziati
a ritenere, erratamente, che una disciplina poteva
diventare scientificamente matura solo nella misura in cui era in grado di duplicare, all’interno del
proprio specifico settore disciplinare, il modello
euristico posto in essere dalla fisica-matematica. In
tal modo la matematizzazione forzata di molte
discipline finiva per costituire, inevitabilmente, il
segno stesso della loro palese inferiorità disciplinare ed epistemica, il loro vero e proprio “marchio
di infamia” scientifico. Inoltre, in terzo luogo, l’egemonia incontrastata del modello fisico-matematico finì anche per marginalizzare molti altri settori di indagine, nel mentre contribuì anche a dogmatizzare, indebitamente, lo stesso modello fisicomatematico che, spesso e volentieri, si è irrigidito
in taluni tenaci modelli epistemici che hanno rappresentato un ostacolo all’evoluzione della stessa
fisica-matematica.
4. La natura epistemica della conoscenza
scientifica
D’altra parte non può neppure essere taciuto
come nell’opera stessa di Gaileo si possano anche
reperire taluni assunti che hanno variamente contribuito a diffondere un’immagine che ha direttamente contribuito ad assolutizzare la conoscenza
scientifica. Si prenda in considerazione, per esempio, la celebre distinzione galilaiana, avanzata nel
Dialogo sopra i due massimi sistemi, in cui lo
scienziato pisano distingue nettamente tra il sapere intensive e il sapere extensive. Come è ben
noto per Galileo il sapere extensive indica la quantità delle conoscenze che possono essere conseguite. Da questo punto di vista, perlomeno a suo
avviso, la distanza e la differenza tra l’uomo e dio
sarebbe veramente abissale: dio, infatti, per definizione, risulta essere onnipotente e onnisciente e
può quindi conoscere infinite verità. Di contro
l’uomo, essendo un essere finito, dotato di un
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
intelletto finito, ed essendo nato per morire,
potrebbe conoscere solo un numero finito
(comunque infinitamente inferiore) alle verità
conosciute da dio. Galileo ribadisce, dunque, l’infinita ed abissale distanza che separa l’uomo da dio.
Tuttavia, sempre secondo Galileo, questa distanza
infinita tra dio ed uomo risulta poi essere alquanto
attenuata e persino annullata se si prende invece
in considerazione la specifica modalità conoscitiva in virtù della quale l’uomo, proprio grazie alla
scienza, può conoscere il mondo. Infatti, perlomeno dal punto di vista del sapere intensive, non esisterebbe alcuna differenza qualitativa tra la conoscenza umana e quella divina: quando infatti l’uomo conosce qualche verità in modo scientifico, la
conoscerebbe esattamente nella stessa modalità
assoluta che contraddistingue, per definizione, il
sapere divino. Non per nulla Galileo condivideva
anche una immagine sostanzialmente cumulativistica della conoscenza scientifica ed era sinceramente convinto come ogni conoscenza scientifica
rappresentasse, sempre e comunque, una sorta di
“vero” immodificabile che poteva essere sempre
affiancato e, appunto, sovrapposto, ad altre verità
già conseguite una volta per sempre.
In altre parole per Galileo il sapere scientifico non
poteva non essere un sapere assoluto e immodificabile. Per questa ragione di fondo a suo avviso
quando l’uomo conosce il mondo sarebbe allora in
grado di conoscerlo da dio, vale a dire in modo
assoluto e immodificabile. Ma, a ben considerare
questo problema, proprio questa specifica modalità epistemica con la quale Galileo pensava di poter
attribuire alla conoscenza umana il carattere (divino) dell’assolutezza e dell’immodificabilità, non
faceva altro che trasferire – in modo decisamente
“blasfemo” (“blasfemo” perlomeno dal tradizionale punto di vista del religioso ortodosso e del credente tradizionale) – alla conoscenza umana un
classico attributo metafisico che aveva da sempre
contraddistinto non solo la nozione della verità
occidentale, ma anche la tradizionale immagine di
dio (che, per definizione, è sempre stato concepito, perlomeno nella tradizione cristiana, come
“assoluto” - sciolto, appunto, da ogni eventuale
condizionamento empirico – e sempre come eterno, immodificabile e imperituro). Nel compiere
questa sua operazione Galileo non solo rischiava di
assolutizzare indebitamente i risultati conoscitivi
della scienza, ma finiva anche per compiere un’operazione teologica assai discutibile (perlomeno
dal punto di vista dell’ortodossia del credente),
poiché, innegabilmente, lo scienziato pisano, proprio con la sua distinzione tra sapere extensivo e
sapere intensivo, finiva proprio per porre sullo
stesso piano dio e l’uomo, accomunandoli, appunto, nella modalità del loro effettivo conoscere.
Se questro aspetto “blasfemo” ha certamente svolto anche un suo preciso ruolo nel corso della realizzazione del celebre processo intentato allo
scienziato pisano dall’Inquisizione cattolica, tuttavia non è stato neppure privo di conseguenze
anche sul piano concernente, più direttamente, la
tradizionale immagine epistemica della conoscenza scientifica. Infatti anche molti secoli dopo
Galileo non pochi scienziati e filosofi, per non parlare, poi, del senso comune, hanno sostanzialmente condiviso e fatta propria, (spesso in modo del
tutto acritico), l’idea che le conoscenze scientifiche consentissero effettivamente all’uomo di
conoscere, in modo assoluto e immodificabile, il
mondo. Proprio per questa ragione la conoscenza
scientifica è stata spesso concepita come una
conoscenza autenticamente assoluta, in grado di
farci conoscere, una volta per tutte, la vera e profonda natura effettiva del mondo. Secondo questa
prospettiva epistemica le teorie scientifiche sono
state allora interpretate come “l’occhio di dio sul
mondo”, come se le differenti verità scientifiche
potessero infine consentirci di guardare il mondo
da una distanza siderale ed infinita, da una sorta di
non-luogo epistemico, per mezzo del quale l’uomo poteva, appunto, conseguire un sapere veramente “assoluto” e wertfrei, finalmente in grado di
liberarlo da ogni contingenza e da ogni, inevitabile, parzialità empirica e storica.
Sempre per questo motivo si è anche iniziato a
ritenere che una verità scientifica non potesse mai
modificarsi nel corso del tempo, poiché una verità
scientifica relativa e storica sembrava costituire
una vera e propria contraddizione in adjecto, un
inconcepibile assurdo epistemico. Tuttavia, proprio lo studio della storia della scienza ci pone
invece di fronte all’imbarazzante constatazione che
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n.32 / 2012
la verità scientifica non solo non è affatto assoluta,
ma si modifica incessantemente, giacché qualsiasi
risultato conoscitivo può sempre essere approfondito criticamente da differenti punti di vista scientifici. Non solo: qualsiasi risultato scientifico può
anche essere ribaltato in modo decisamente rivoluzionario, dando spesso origine ad una diversa e
assai più profonda e paradossale visione conoscitiva della realtà. Di fronte alla constatazione storicoempirica di questo aspetto, incessantemente evolutivo, storico e rivoluzionario del sapere scientifico, si è allora diffuso o un atteggiamento di sostanziale scetticismo nei confronti della conoscenza
umana, oppure un’opposta valutazione, decisamente antistorica, della crescita del sapere scientifico, tendende ad assolutizzare, positivisticamente, l’ultimo e più recente risultato conoscitivo. La
soluzione scettica era evidentemente alimentata
dalla consapevolezza che la scienza non sarebbe
mai stata in grado di conseguire un risultato conoscitivo stabile e definitivo, proprio perché ogni
risultato può sempre essere rimesso costantemente in discussione. Di conseguenza lo scetticismo
trovava proprio in questa relatività storica del sapere scientifico la documentazione più inoppugnabile della propria tesi dogmatica, quella in virtù della
quale si negava alla scienza ogni effettiva portata
conoscitiva e all’uomo stesso la possibilità di conoscere alcunché. Di contro, l’assolutizzazione positivistica dell’ultimo e più recente risultato scientifico nasceva, invece, dal desiderio, del tutto antistorico, di contrapporre l’ultima verità (ultima in ordine cronologico) a tutte le precedenti “verità”
scientifiche, ormai considerate come del tutto
obsolete e ampiamente superate.
In entrambi i casi veniva sostanzialmente liquidata
proprio la reale complessità storico-epistemica del
sapere scientifico che non coincide né con il tradizionale relativismo scettico, né, tanto meno, con
un’indebita assolutizzazione dei singoli risultati
della conoscenza scientifica. Semmai, perlomeno
da un differente e più fecondo punto di vista epistemico, proprio questi diversi problemi e la loro
dogmatica ed assai unilaterale soluzione, avrebbero invece dovuto indurre ad elaborare un’innovativa e più rigorosa immagine della conoscenza scientifica la quale ultima, pur vivendo della possibilità
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di un suo continuo approfondimento critico, tuttavia è anche in grado di mettere capo a delle
conoscenze autenticamente oggettive. Per coniugare coraggiosamente e in modo fecondo il carattere oggettivo e storico-relativo della conoscenza
occorre rielaborare un nuovo punto di vista culturale, filosofico ed epistemico complessivo, capace
di tener conto, al contempo, l’indubbia complessità del sapere scientifico, nonché la sua intrinseca
flessibilità critico-epistemica.
5. Scienza e valori: un nuovo paradigma epistemico
Ma per sviluppare questo nuovo approccio epistemico occorre anche saper riprendere in considerazione critica la stessa drastica e dogmatica contrapposizione tra la dimensione conoscitiva della
scienza e la dimensione axiologico-valoriale. Se
infatti la conoscenza scientifica risulta essere, al
contempo, storica ed oggettiva, relativa e capace,
tuttavia, di farci conoscere il mondo, si deve allora
tener presente come questa stessa verità relativa
non possa non connettersi anche al complessivo
quadro storico-valoriale ed axiologico entro il
quale l’uomo svolge la sua vita, partecipando ad
una determinata epoca storica, schierandosi per
alcuni valori contro altri, parteggiando, appunto,
per una società civile che si contrappone ad altri
possibili modelli. Tuttavia, per meglio procedere
in queste considerazioni, occorre, in primo luogo,
chiarire debitamente questo apparente paradosso
di una verità relativa.
Quando si parla di “verità relativa” non si intende
affatto sostenere che le verità scientifiche siano
assimilabili ad una dimensione in cui tutto scorre
in modo eracliteo, senza avere mai alcuna possibilità di individuare delle conoscenze effettive e
reali. Semmai, con questa espressione si vuole solo
mettere in evidenza come la conoscenza umana,
proprio perché non è mai configurabile come una
conoscenza assoluta ed irrelata, si configura come
una conoscenza che risulta essere “oggettiva” proprio perché la sua “assolutezza” non è irrelata, ma
nasce, invece, sempre all’interno di un determinato e specifico ambito di indagine, di un determinato universo di discorso. D’altra parte, proprio
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
per questo suo essere una verità “assoluta” realtivamente ad un determinato ambito di indagine,
la verità relativa, lungi dall’essere assimilabile ad
una soluzione scettica, presenta un carattere affatto singolare: quello appunto di costituire una
conoscenza umana, pienamente umana, che si realizza sempre in un contesto relativo, ben circoscritto, parziale e finito. Se infatti modifichiamo il
suo ambito di riferimento l’oggettività stessa di
questa conoscenza non può che essere profondamente trasformata. In tal modo le verità oggettive,
che valgono unicamente all’interno di un ben
determinato universo di discorso – per esempio
entro l’ambito, definito e ben circoscritto della
geometria euclidea – assumono un ben differente
significato se vengono invece riferite ad un altro
ambito teorico – per esempio, a quello delle geometrie non euclidee. In tal modo si può così comprendere come nell’ambito delle geometrie euclidee la somma interna degli angoli di un triangolo
qualunque sia è sempre pari ad un angolo piatto,
mentre questo stesso assunto non risulta essere
più vero in relazione ad un qualunque triangolo
delle geometrie non-euclidee.
In tal modo il riferimento alle verità relative, cui
mettono capo le differenti teorie scientifiche, sottolinea il carattere peculiare della conoscenza
scientifica umana: il suo essere, al contempo,
“assoluta” relativamente al proprio universo di
discorso, ma, al contempo, il suo essere “relativa”
e “storica”, proprio perché il suo universo di riferimento non è mai determinato una volta per
tutte, non è mai un universo assoluto ed irrelato.
Gli universi di discorso possono infatti cambiare a
seconda dei differenti ambiti di indagine e anche
in relazione alle esigenze di un coerente approfondimento critico della stessa conoscenza umana. Ma
tali approfondimenti critici e tali cambiamenti di
“universo di discorso” non configurano mai una
relatività assoluta del sapere scientifico, un suo
indebito slittare in un orizzonte scettico, giacchè il
sapere umano vive sempre all’interno di un ben
determinato contesto. La sua “assolutezza”, idest la
sua “oggettività” si costituisce proprio entro un
determinato ambito di indagine, mentre, d’altra
parte, la sua intrinseca apertura concettuale nasce
sempre dalla possibilità di mettere in discussione
critica (anche radicale) proprio quel particolare
ambito prospettico, quel particolare universo di
discorso, onde analizzare il problema affrontato da
un differente punto di vista. Il che ci permette poi
di meglio intendere la specifica dialettica di crescita critica del sapere umano il quale ultimo,
perlomeno nel corso stesso della storia della scienza, è sempre finalizzato ad approfondire criticamente i risultati che ha via via raggiunti, onde
meglio intenderli secondo altre prospettive prospettiche e secondo nuove ed alternative prospettive ermeneutiche.
Questa considerazione deve pertanto indurci a
considerare, in modo del tutto pacifico, come le
conoscenze cui l’uomo può mettere capo, proprio
perché costituiscono sempre delle verità relative,
non possono mai pretendere di possedere una loro
validità assoluta, indipentendemente dall’uomo,
dal contesto in cui l’uomo vive e dalla stessa società entro le quali sono state variamente elaborate. Le
verità conosciute dall’uomo sono sempre verità
umane e dobbiamo pertanto accettare pacificamente la constatazione che queste conoscenze
vivono e avranno senso unicamente finchè vivrà
l’uomo. Ma poiché l’uomo è, per sua natura, un
essere assolutamente contingente, nato per morire, di conseguenza anche le nostre stesse conoscenze vivranno unicamente finchè vivrà l’uomo.
Lungi dall’essere conoscenze assolute, eterne ed
irrelate, situate in un mitico iperuraneo platonico,
queste conoscenze avranno invece un senso, profondamente umano (quindi storico e relativo), solo
finchè continuerà ad esistere la cultura e la società
umana. Per questa ragione di fondo queste conoscenze scientifiche, intese come autentiche “verità
relative”, non possono neppure essere più considerate come assolutamente indipendenti dalla
dimensione axiologica e valoriale propria e specifica dell’uomo. Anche all’interno delle conoscenze
scientifiche sono infatti presenti dei valori umani
che svolgono una loro precisa funzione euristica ed
epistemica. Non per nulla molte teorie scientifiche
vengono preferite ad altre per la loro eleganza, per
la loro semplicità, oppure ancora per la loro capacità di meglio integrarsi con altri saperi consolidati,
per la loro sintonia con una determinata credenza
etico-religiosa, con una determinata società politi-
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ca, etc. Proprio tutti questi (ed altri) differenti criteri rinviano, in ultima analisi, ad un ben preciso
universo axiologico in nome del quale anche le teorie scientifiche sono infine valutate e giudicate
complessivamente dalle differenti comunità scientifiche e dalle stesse società umane che finanziano
e sostengono le stesse comunità scientifiche.
Del resto per riscoprire la presenza della dimensione axiologica all’interno della scienza basterebbe anche porsi la seguente domanda: le differenti
comunità scientifiche come possono scegliere e
infine deliberare in relazione alle differenti teorie
scientifiche? In altre parole: come si determina il
“superamento” di una determinata teoria scientifica? In virtù di quale criterio epistemico una teoria
finisce per prevalere sulle teorie concorrenti? Se si
interroga la storia della scienza ponendosi domande come queste – o altre analoghe – è allora agevole scoprire come molti fattori extra-scientifici –
non tutti intrinsecamente epistemici – svolgano
anch’essi, costantemente, un loro ben preciso
ruolo nel determinare il successo o l’insuccesso di
determinate teorie o di particolari programmi di
ricerca scientifici. Il che non vuol affatto dire che
l’affermazione di una verità scientifica si realizzi
per alzata di mano, come invece avviene nell’ambito delle deliberazioni politiche. Tuttavia, anche
all’interno dello sviluppo della conoscenza scientifica, non è affatto difficile scorgere la compresenza
di molteplici fattori che condizionano variamente,
ma in modo sempre assai rilevante, la storia della
scienza e il suo stesso sviluppo concettuale. Non
per nulla molti scienziati condividono anche lo
sconsolante rilievo di Plank secondo il quale, spesso e volentieri, una determinata teoria scientifica
declina e viene infine abbandonata e sostituita da
un'altra teoria scientifica unicamente perché una
determinata generazione di scienziati viene sostituita, per meri motivi entropici naturali, connessi
all’invecchiamento e alla morte, da una nuova
generazione di studiosi. Senza ora voler necessariamente aderire a tale assai pessimistica visione
della storia del sapere, tuttavia non si può comunque negare come la storia del sapere umano ci
ponga spesso di fronte ad alcune svolte rivoluzionarie per l’affermazione delle quali hanno svolto
un loro preciso ruolo euristico anche molteplici
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fattori decisamente extra-scientifici, tra i quali
quelli axiologici non sono affatto secondari.
6. Teleologia della conoscenza ed escatologia della speranza
Per questa ragione di fondo occorre allora reinserire lo stesso problema della comunicazione (anche
di quella scientifica) in una diversa prospettiva epistemica, in un diverso, più articolato e assai più flessibile, orizzonte filosofico, in una nuova e progettuale “architettonica” culturale e civile, adeguata
alla complessità del problema che stiamo trattando.
La valutazione epistemica della plasticità della
conoscenza scientifica, della sua natura intrinsecamente storico-relativa ed oggettiva, ci deve infatti
indurre a riconsiderare gli stessi nessi tra la conoscenza scientifica e la dimensione storico-civile
della modernità. Per avviare una tale riflessione
penso che un autore, in particolare, ci aiuti a
meglio definire i termini complessivi del problema:
Immanuel Kant. Perché Kant? Perché Kant, meglio
di molti altri autori, ha colto non solo il preciso
valore epistemico della conoscenza scientifica, ma
è risuscito anche ad individuare il profondo e
fecondo nesso che costituisce l’autentico motore
segreto dello sviluppo della modernità, vale a dire
il nesso irrinunciabile tra conoscenza e libertà.
Conoscenza e libertà rappresentano le due diverse facce della medesima medaglia della modernità:
la modernità è infatti cresciuta grazie al profondo
intreccio che si è storicamente determinato tra la
conoscenza e il suo continuo aprrofondimento critico e il parallelo sviluppo storico-civile delle libertà. Meglio ancora, da un punto di vista criticista si
potrebbe anche sostenere come per Kant libertà e
conoscenza si rinviano continuamente giacchè la
libertà non può che ampliarsi grazie all’approfondirsi della conoscenza umana, mentre, di contro,
quest’ultima, per svilupparsi in tutte le direzioni
connesse al suo approfondimento, intrinsecamente mercuriale, non può che richiedere e giovarsi
continuamente di una sempre maggiore libertà. In
questa prospettiva conoscenza e libertà costituiscono veramente il motore segreto della modernità, l’autentico binomio in virtù del quale il mondo
moderno è riuscito progressivamente – e in qual-
Fabio Minazzi
I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche
che caso, rivoluzionariamente – a scardinare il
precedente mondo feudale e medievale, configurando, infine, un nuovo mondo e una nuova possibilità per la vita umana e le stesse società civili.
Kant stesso indicava questo nuovo orizzonte storico-civile e culturale ponendosi tre domande invero decisive. Apparentemente sono tre domande
molto semplici, dietro le quali è tuttavia celato il
riferimento ad un binomio rivoluzionario come
quello delineato dal fecondo intreccio tra libertà e
conoscenza. In ogni caso le domande che Kant
poneva (che si poneva e che ci pone) erano le tre
seguenti:
che cosa possiamo conoscere?
che cosa dobbiamo fare?
che cosa ci è lecito sperare?
Queste tre domande delineano una precisa ed
innovativa architettonica concettuale, filosofica,
culturale e civile, mediante la quale si può meglio
intendere la natura dell’uomo stesso (non per
nulla Kant nelle sue lezioni di logica sosteneva
anche come le tre domande testè riferite potessero infine ridursi ad una sola domanda decisiva: che
cos’è l’uomo?). Mediante questa triplice interrogazione è possibile indagare non solo la natura, il
valore e i limiti della conoscenza umana, ma si può
(e si deve) anche collegare la dimensione conoscitiva con quella etico-civile, ponendo in piena evidenza il problema, irrinunciabile, della responsabilità umana e, quindi, quello della libertà umana.
Ma non basta, perchè l’uomo non è solo conoscenza e libertà, ma è anche escatologia, è utopia,
è desiderio di poter effettivamente incidere sulla
storia secondo alcune insorgenze liberanti e autenticamente rivoluzionarie.
In questa prospettiva, che configura una vera e
propria “architettonica” della modernità, il sapere
umano (in primis quello scientifico) non viene più
separato dalla dimensione morale (dall’ambito
della libertà), ma viene invece concepito come un
momento decisamente irrinunciabile, in virtù del
quale l’uomo stesso, rafforzando la sua libertà e la
sua conoscenza del mondo, è meglio in grado di
porre in essere le proprie utopie. Il che configura
un’azione – ad un tempo intellettuale e civile –
mediante la quale si deve essere in grado di rompere criticamente il chiasmo reificante della cultu-
ra contemporanea, in virtù del quale, invece, la
dimensione della conoscenza è sistematicamente
scissa e sempre più contrapposta a quella della
libertà. Con il risultato, alienante, che l’approfondimento conoscitivo non è più messo illuminsiticamente al servizio di una progressiva dilatazione
della libertà civile umana, ma viene invece trasformato in uno strumento coercitivo e reificante, grazie al quale la conoscenza diventa schiava di altre
logiche economiche, nel mentre l’uomo stesso è
sempre più “cosalizzato” e la sua esistenza si riduce ad un vivere alienato e frammentario, orbato di
ogni possibile escatologia. In tal modo l’alienazione sociale, culturale e civile cui l’individuo umano
è sempre più ridotto e costretto dalla sistematica
contrapposizione, reificante ed astratta, tra conoscenza e libertà, si trasforma in un’autentica gabbia
entro la quale non si innesta più nessun processo
di autentica liberazione umana. Al contrario, la
conoscenza, da strumento di dominio e possesso
concettuale del mondo, in grado di farci conoscere nuovi mondi e nuovi orizzonti, si trasforma,
sistematicamente, in uno strumento, reificato e
deificante, di dominio, mentre l’uomo stesso, privato di ogni responsabilità etico-civile, viene sempre più asservito ad un sistema che tende, inevitabilmente, a trasformarlo in una mera “rotella” acefala di un ingranaggio più grande di lui (per esempio la globalizzazione contemporanea di fronte alla
quale l’individuo si sente del tutto impotente e
come radicalmente schiacciato, in una tragica solitudine esistenziale).
Contro questo processo, che finisce inevitabilmente per impoverire sia l’uomo, sia la conoscenza, sia
la libertà dell’individuo, sia la stessa società civile,
sia le sue più profonde potenzialità critiche, l’architettonica delineata da Kant – filosofo che rappresentò l’autentica punta di diamante dell’illuminismo rivoluzionario e critico - ci offre, invece, la
possibilità di rimettere al centro della nostra azione umana il fecondo nesso tra l’approfondimento
della conoscenza e lo sviluppo di una più ampia e
responsabile libertà civile. Naturalmente rispetto
all’originaria architettonica filosofica kantiana
occorre oggi sottolineare il carattere intrinsecamente storico della conoscenza umana. Il che non
deve affatto indurci a rinunciare anche all’utilizza-
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n.32 / 2012
zione euristica ed epistemica del criticismo kantiano. Alla filosofia kantiana va infatti riconosciuto il
merito storico-culturale di aver individuato il piano
specifico della trascendentalità, mediante il quale
la stessa conoscenza scientifica umana può essere
considerata ed indagata secondo una prospettiva
epistemica molto più seria e rigorosa. Quella che ci
induce costantemente a valutare l’oggettività della
nostra conoscenza sul piano decisamente fenomenico, in virtù del quale l’oggettività della conoscenza non rinvia più ad alcuna ontologia metafisica soggiacente. Meglio ancora: proprio la scoperta
kantiana della trascendentalità e la sua conseguente affermazione dell’intrinseca ed irrinunciabile
trascendentalità di ogni conoscenza umana ci
consente di meglio intendere la natura profondamente epistemica della conoscenza umana. Una
conoscenza che non può più pretendere di svelarci le strutture nascoste e silenti dell’essere, onde
por capo ad un disvelamento ontologico-metafisico del reale. Al contrario, la scoperta kantiana della
trascendentalità ci ricorda, costantemente, come
ogni nostra consocenza, istituendo un proprio
specifico e peculiare universo di discorso trascendentale, un proprio orizzonte epistemico, non può
più indurci a scaricare il contenuto conoscitivo di
questo nostro universo sul mondo reale, inteso
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nella sua immediatezza più acritica perché, semmai, abbiamo invece a che fare, dal nostro punto di
vista umano (assai flebile e assai claudicante), con
un mondo reale che costruiamo continuamente
proprio grazie a quella insopprimibile tensione tra
l’ambito della conoscenza e l’ambito della libertà.
Il che, anche contro lo stesso trascendentalismo
kantiano configurato nelle tre celebri Critiche del
filosofo di Königsberg, ci consente di ribadire il
carattere eminentemente storico della stessa trascendentalità, proprio perché la nostra conoscenza
del mondo non è mai una conoscenza assoluta ed
esaustiva, bensì costituisce una conoscenza oggettiva e integralmente umana di un mondo entro il
quale, con la forza della nostra volontà e con l’ausilio del nostro intelletto, cerchiamo sistematicamente di introdurre qualche flebile fuoco critico, onde
meglio illuminare lo spazio del nostro precario itinerario esistenziale. Ma in questo preciso quadro
l’intelligenza e il cuore, la ragione e la libertà morale, la comprensione umana del reale e l’azione che
esplichiamo nel mondo della prassi, costituiscono,
appunto, gli unici supporti, reali, storici ed effettivi,
che ci aiutano a meglio orientarci in un mondo
vasto, oscuro e terribile, come quello in cui siamo
stati, inaspettatamente, catapultati.
Giovanni Cofrancesco
Convergenza collaborativa tra i poteri dello
Stato. Il principio di esecutorietà del provvedimento amministrativo
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1. Autotutela ed esecutorietà: il potere
sostanzialmente giudiziario della P.A.
L’esecutorietà dell’atto amministrativo costituisce
uno degli esempi di come la cultura giuridica inerente al rapporto tra potere pubblico e cittadini,
non solo influisce sulle norme giuridiche in senso
stretto, ma ne rappresenta il vero fondamento inespresso. L’istituto riguarda gli atti della P.A., nella
quale comprendiamo gli enti pubblici in senso
stretto riportati al D.Lg. n.165 del 2001 (Stato ed
altri enti territoriali, ASL, Agenzie fiscali, Autorità
indipendenti, enti previdenziali ecc.), gli enti pubblici economici, e le società (formalmente) privatizzate ma controllate da soggetti pubblici (quelle
che svolgono il servizio ferroviario, postale, inoltre
le numerose società create dagli enti locali): questi
soggetti godono delle prerogative connesse all’esecutorietà degli atti nei confronti dei privati ovvero dell’“autotutela”, che si divide in autotutela
“decisoria” ed autotutela “esecutiva” comprensiva
del potere di esecutorietà. L’autotutela consiste
nella possibilità di farsi giustizia da sé nei confronti dei privati, salva la possibilità di contestarli a
livello giudiziario Il farsi giustizia da sé nasconde
l’imperfetta e inespressa separazione dei tre poteri dello Stato. Nel nostro ordinamento alcune funzioni rientranti ontologicamente in uno dei poteri
(legislativo, esecutivo-amministrativo e giudiziario) dello Stato possono essere attribuite in modo
variegato. Tralasciando gli esempi del diritto costituzionale, dell’attività giudiziaria e amministrativa
del Parlamento o della volontaria giurisdizione, l’esempio più importante di questa commistione di
poteri è rappresentata proprio dall’autotutela
(nella quale rientra l’esecutorietà) della P.A., istituto che comporta l’attribuzione di un potere “giudiziario” pur non previsto in alcuna norma, e sfumato in dottrina come un’eccezione alla divisione dei
poteri, e che determina il rapporto, non di rado
vessatorio, tra cittadini e potere amministrativo.
La funzione giudiziaria consiste nel verificare la
spettanza o meno di un diritto e/o di un obbligo a
carico di un soggetto, in base a quanto previsto
dalla legge che, nei limiti della Costituzione, rappresenta la fonte di entrambi (sentenze di “mero
accertamento”); nel determinare la realizzazione di
un effetto giuridico (sentenze “costitutive”); nell’imporre l’adempimento di un obbligo (sentenze
“di condanna”. Oltre a queste tre forme del processo di cognizione del contenzioso civile, nel potere
giudiziario rientra infine la potestà di attuare coattivamente gli obblighi previsti da una pronuncia di
condanna tramite il processo di esecuzione.
Le potestà rientrano nel concetto di autotutela
amministrativa e vengono attribuite alla P.A. ma
invano si cercherebbe nella Costituzione una regola generale:la carta fondamentale tace in materia di
modo che un’interpretazione letterale farebbe
propendere per soluzioni più garantiste e rispettose della separazione dei poteri. La legge ordinaria
(emanata solo di recente: L. n.15 del 2005 che
modifica la L.n.241 del 1990) sembra in effetti configurare i poteri in argomento come eccezioni ad
un principio generale ma culturalmente nel
nostro Paese non vi sono regole più certe e di
applicazione generale di quelle basate su eccezioni. Quando la P.A. si avvale del “diritto amministrativo” l’autotutela decisoria corrisponde al processo di cognizione ovvero al potere di accertare e
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n.32 / 2012
conformare i diritti e gli obblighi reciproci nei rapporti con i privati (ad esempio i diritti di un concessionario o i limiti alla facoltà di edificare su un
fondo); di costituire nuovi diritti ed obblighi (revocare una concessione, rilasciare un permesso di
costruire, autorizzare lo svolgimento di un’attività); infine quello di condannare ad adempiere alle
proprie determinazioni (sanzioni pecuniarie,
demolizione dell’edificio abusivo). L’autotutela
esecutiva consiste invece nella potestà di portare a
compimento mediante azioni coattive le decisioni
di condanna (demolizione dell’edificio abusivo,
esecuzione coattiva per l’introito delle somme ritenute dovute ecc.). Si dirà, l’Amministrazione non è
un giudice terzo, ma un soggetto “parte” in rapporto con altre parti private: in effetti la deroga al
principio di separazione dei poteri e la posizione
di privilegio vengono in luce se si confronta la
posizione con quella spettante ad un privato che di
fronte alla P.A. dispone di posizioni giuridiche
costituite da diritti soggettivi (nella minoranza dei
casi) ed interessi legittimi (la parte più rilevante
dei rapporti): pretese e non poteri, in quanto il
loro contenuto consiste nella loro soddisfazione
(rilascio del permesso di costruire, presentazione
della DIA o SCIA ecc.). Se la P.A. non ritiene di
accettare le richieste, l’unica possibilità per il privato è quella di ricorrere al giudice, ordinario
riguardo ai diritti soggettivi, o amministrativo
riguardo agli interessi legittimi, cioè di percorrere
la via tortuosa del contenzioso giudiziario attraverso il processo di cognizione e quello di esecuzione
(o del giudizio di ottemperanza nel processo
amministrativo): il privato non ha il potere di farsi
giustizia da sé. Peraltro l’Amministrazione è avvantaggiata anche in sede di contenzioso non solo nel
giudizio amministrativo relativo (salvi i casi di giurisdizione esclusiva) agli interessi legittimi, ma
anche in quello civile relativo ai diritti soggettivi.
2. Convergenza “collaborativa” tra P.A. e privati: la giurisprudenza “antigarantista” viene
recepita dal legislatore. Il potere giudiziario
come revisore della legalità
In uno stato come il nostro che deriva i suoi principi dall’ordinamento amministrativo francese, la
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Costituzione definisce le regole fondamentali dell’azione pubblica ed i diritti che spettano ai privati,
cui segue la legge ordinaria che stabilisce i poteri
spettanti alla P.A. con compiti predefiniti ed un
potere giudiziario che (composto o meno di giudici “specializzati”) si pone come arbitro tra
l’Amministrazione ed i cittadini, stabilendo dove i
poteri della prima vengono bloccati dai diritti
intangibili dei secondi.
La nostra Costituzione, nell’interpretazione della
Corte Costituzionale, non pone alcuna regola
“forte” che riguardi il rapporto tra P.A. e cittadini,
limitandosi a prendere atto che il nostro è un ordinamento “infinitamente” flessibile tra la posizione
di potere o di Autorità e la posizione di “libertà”
dei soggetti privati, a cui unisce un disegno indeterminato che comprende l’obbligo della P.A. di
prestare i pubblici servizi (che ormai fanno capo in
buona parte alle società privatizzate) e la pretesa
dei singoli allo svolgimento dei servizi: il cosiddetto “buon andamento” dell’Amministrazione (art.97
Cost.). Il primo settore viene assoggettato ad un
complesso di norme (di legge ordinaria) che stabiliscono l’attribuzione del potere alla P.A. ed i suoi
limiti, e tutto ciò che ne residua a favore dei privati costituisce l’ambito delle libertà, cioè dei loro
diritti ed interessi protetti dalla normativa, mentre
il secondo viene assoggettato a regole solo in parte
giuridiche, in base alle quali l’Amministrazione è
tenuta a soddisfare le pretese dei privati. I diritti e
le posizioni hanno carattere “residuale” di fronte al
carattere dominante dell’attività amministrativa e
al ruolo del potere pubblico. In questo quadro, l’esecutorietà non viene in luce: da un lato è data per
presupposta, dall’altro nel disegno costituzionale
si basa su un concetto di amministrazione dotata
di poteri autoritativi. L’esecutorietà non è però
regolata nei suoi principi fondamentali, ed è rimessa alla dialettica, affidata alla legge ordinaria, tra
autorità e libertà.
A sua volta il potere legislativo “vede”
l’Amministrazione come il protagonista principale
del potere pubblico, al quale la legge deve fornire
non i vincoli, ma piuttosto la legittimazione, cioè
come uno strumento, a livelli alti, dell’indirizzo
politico di governo (centrale, ma anche locale) e a
livelli bassi (ordinaria amministrazione) come un
Giovanni Cofrancesco
Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.
soggetto che svolge attività comunque ritenute di
interesse generale e quindi di per sé anch’esse
sovraordinate rispetto agli interessi “particolari”
dei singoli, i quali possono certamente condizionare “a monte” l’azione amministrativa e in maniera legale (ma occulta) a valle dell’emanazione del
provvedimento, o della decisione sullo svolgimento di un pubblico servizio, in posizione “recessiva”
rispetto alla decisione della P.A. centrale o locale.
La legge italiana, culturalmente, ha in odio le regole generali e “forti”, ed evita di decidere quali siano
in una determinata materia le posizioni reciproche
di P.A. e privati; di norma decide l’assetto di una
materia individuando un concessionario pubblico,
stabilendo la realizzazione e le modalità di finanziamento di un’opera (leggi-provvedimento),
oppure prevede le procedure attraverso le quali il
provvedimento amministrativo debba venire in
essere, come le leggi urbanistiche, di conferenze
di servizi, e quelle relative agli altri istituti facenti
capo alla legge fondamentale in materia di procedimento, la L. n. 241 del 1990 (leggi-procedimento). Le (poche) leggi a portata generale utilizzano
termini vaghi: si pensi al principio, costituzionalizzato con L. cost. n. 3 del 2001 di “sussidiarietà”,
che può giocare a favore del potere centrale o di
quello locale, a danno degli amministrati. Il risultato è che l’Amministrazione, “strumento” del potere politico, ma sua volta ispiratrice di quello, vede
definite dalla legge i suoi poteri, in relazione al cittadino, in quello che abbiamo chiamato il versante
della “legittimità”, caso per caso, con una inversione del rapporto tra legislativo ed esecutivo. Non è
il primo a determinare a monte le regole cui il
secondo debba attenersi, ma è quest’ultimo a
richiedere e ad ottenere le norme di cui necessita
per il suo agire: in questo modo il legislativo assume in fatto un ruolo “collaborativo” rispetto
all’Amministrazione. Il legame è in parte fisiologico in uno stato come il nostro a forma di governo
parlamentare: ciò che caratterizza il sistema italiano è che la legge “segua” caso per caso le esigenze dell’Amministrazione. Al di là del colore
politico del legislativo centrale e di quelli locali, si
nota una crescente importanza del fenomeno
descritto, che se in larga parte ha sempre caratterizzato il rapporto tra legge ed Amministrazione, in
questi ultimi anni sta assumendo connotati quasi
“totalitari”, nel senso che leggi ad hoc rincorrono i
bisogni (pecuniari) della P.A. rinviando ad essa la
conformazione dei diritti in gioco. L’esecutorietà
in questo contesto viene definita dalla legge in collaborazione rispetto alle esigenze della P.A.: ad un
principio generale ambiguo, contenuto nell’art. 21
ter c. 1 della L. n. 241 del 1990 (inserito dalla L. n.
15 del 2005), che rimanda alle altre norme di legge
la possibilità di portare ad esecuzione i propri
provvedimenti, segue una legislazione che stabilisce, talora implicitamente, che gli atti previsti, o
ancora a monte i poteri attribuiti alla P.A. possono
dare luogo all’esecuzione coattiva. I singoli provvedimenti legislativi assumono anche in questo
caso una funzione collaborativa rispetto alle esigenze dell’Amministrazione: il principio culturale
fondamentale nel nostro ordinamento è quello
secondo cui la composizione degli interessi in
gioco e delle relative posizioni di potere e di diritto della P.A. e dei privati sono disciplinati in maniera “casuistica” dalle scelte dell’Amministrazione, a
cui è affidato il compito di mediare tra la posizione
di autorità e le libertà piccole o grandi dei singoli.
Che questo potere di mediazione sia enormemente aumentato negli ultimi due decenni è un dato di
fatto che ha comportato come conseguenza un
altrettanto vistoso aumento delle situazioni nelle
quali l’esecutorietà degli atti viene prevista dalla
legge. A questo aumento di autoritarietà corrisponde una diminuzione del potere di sindacare il
“merito” dell’azione amministrativa, il che si è realizzato soprattutto attraverso la privatizzazione formale (in quanto le società privatizzate sono pur
sempre controllate dai soggetti pubblici) delle P.A.
fornitrici di pubblici servizi, le quali, pur mantenendo anch’esse poteri esecutori (e non solo in
tema di incameramento di somme di denaro, ma
anche di prescrizioni riguardanti un fare: distanze
stradali, ferroviarie ecc.), dal versante del merito,
in quanto soggetti privati, sfuggono al sindacato da
parte dei singoli cittadini sul “buon andamento,
anche a quei deboli controlli che pure sono presenti riguardo all’attività degli enti pubblici in
senso stretto.
Venendo al rapporto tra potere giudiziario ed
amministrativo la posizione istituzionale dei giudi-
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n.32 / 2012
ci, essendo anch’essi (come nei sistemi europei
continentali e a differenza di quelli anglosassoni)
costituiti da pubblici funzionari, e non per nulla si
parla si parla di “Amministrazione giudiziaria”, non
solo non si contrappone a quella della P.A., ma culturalmente il potere giudiziario non vede sé stesso
come terzo e super partes, tra privato e P.A., ma
piuttosto come “revisore” dell’operato di quest’ultima. A ciò si aggiunge che il potere giudiziario italiano, salva la possibilità di sollevare conflitto di
costituzionalità, è istituzionalmente vincolato ad
una legislazione “collaborativa” rispetto alle esigenze della P.A., di modo che il giudizio quanto al
suo oggetto è costituito dall’attività amministrativa, e solo mediatamente va a toccare le posizioni
dei privati. Con questo non si vuol dire che il potere giudiziario sposi sempre le tesi della P.A., ma
che il suo punto di vista è concentrato in genere
sull’operato dell’Amministrazione e solo in base ad
esso riconosce o meno le pretese ed i diritti dei
privati. In tutto ciò quella funzione paragiurisdizionale di cui abbiamo parlato in precedenza che
viene attribuita all’Amministrazione gioca un ruolo
fondamentale: in un certo senso è come se l’atto
amministrativo e quindi la decisione della P.A. rappresentasse un sorta di giudizio ante litteram di
primo grado, al quale la vera e propria azione giudiziaria si accosta come una sorta di appello, o se
non vogliamo usare un termine fuorviante come
una sorta di revisione. L’autotutela amministrativa,
e quindi l’esecutorietà completa questa posizione
paragiudiziaria spettante al potere amministrativo:
la qualcosa comporta il potere di decidere unilateralmente la sua posizione giuridica nei confronti
del privato e di eseguire coattivamente le decisioni, quasi fossero una sorta di pronunce paragiudiziarie di prima istanza: a carico del privato si determina l’inversione dell’onere della prova, dato che
l’atto amministrativo si presume legittimo sino
alla dimostrazione contraria, ma anche l’inversione dell’onere dell’azione in giudizio (non è la
P.A. a dover agire ma è il privato a dover difendere
le proprie posizioni, sia che voglia opporsi ad un
atto amministrativo sia che avanzi delle pretese
verso l’azione lesiva della P.A.). Questo vale per il
giudice amministrativo, chiamato a pronunciarsi
sulle posizioni di interesse legittimo, la cui funzio-
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ne di revisione rimane culturalmente dominante,
nonostante che si affermi in giurisprudenza che il
giudizio amministrativo si basa sul rapporto e non
sulla valutazione dell’atto emanato: così il mantenimento della “pregiudiziale amministrativa”, cioè
della necessità di impugnare l’atto amministrativo
lesivo di interessi legittimi per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti, pregiudiziale amministrativa solo attenuata e di fatto non eliminata
dalla recente legislazione (v. art. 30 del cod. proc.
amm. d. lgs. n. 104/2010); idem, per il giudice ordinario competente per tutto l’ambito del ricorso
contro le sanzioni amministrative pecuniarie
(soprattutto quelle relative a violazioni del codice
della strada, che costituiscono la fonte di entrata
maggiore per gli enti locali) collocato in un quadro
giuridico culturale che lo vede come un revisore
della correttezza dell’azione amministrativa, cioè
della validità della pretesa sanzionatoria. Più in
generale il giudizio civile prevede agevolazioni e
deroghe alle regole generali a favore della P.A.: ad
esempio in tema di azione esecutiva esercitata dal
privato (v. art. 14 D.L. n. 669 del 1996 conv. in L. n.
30 del 1997 sui termini relativi alla notifica del titolo esecutivo e del precetto, in attuazione di una
sentenza favorevole al privato). La normativa invece penalizza il privato imponendo bolli ed altre tassazioni sui ricorsi verso gli atti dell’Amministrazione (sempre in tema di sanzioni amministrative) i
cui costi non sono di norma ripetibili nemmeno in
caso di vittoria della causa. Peraltro, in conclusione
di questa disamina dei principi giuridico culturali
impliciti che stanno alla base dei rapporti con gli
altri due poteri statali, possiamo notare un paradosso, ovvero l’inversione del rapporto tra potere
legislativo e potere giudiziario nel dar corpo ad
istituti che si pongono in maniera collaborativa
rispetto all’azione amministrativa, nel senso che
l’applicazione giurisprudenziale non è determinata
dalla legge ma è la giurisprudenza consolidata
che viene recepita dalla legge. E’ il caso tipico del
principio generale dell’esecutorietà degli atti
amministrativi, mai codificato in una norma esplicita prima della L. n. 15 del 2005, che ha inserito
l’art. 21 ter nella L. n. 241 del 1990, ma che ha rappresentato l’applicazione di un pluridecennale
orientamento giurisprudenziale, avallato peraltro
Giovanni Cofrancesco
Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.
dalla dottrina giuridica salvo poche voci contrarie
(BENVENUTI). La giurisprudenza e la legislazione
hanno fatto a gara nell’attribuire questo potere alla
P.A. anche nelle ipotesi in cui non fosse esplicitamente previsto, il che è indice, proprio in relazione all’argomento del nostro discorso di quei presupposti giuridico culturali comuni che vedono
nella P.A. un potere che comprende potestà paragiurisdizionali, e che fa delle Amministrazioni pubbliche (e di tutte le società privatizzate dotate di
poteri pubblici) una sorta, almeno in prima istanza
e salvo ricorso degli interessati, di giudice in causa
propria, il che rappresenta il fondamento inespresso, ma non per questo meno determinante
dell’istituto dell’autotutela, di cui l’esecutorietà
degli atti non è che un’applicazione specifica.
Incredibile anomalia italiana: anche negli stati
assoluti il potere giudiziario esercita quando può
un minimo di garantismo a favore del suddito, nei
confronti del legislativo e dell’esecutivo. Da noi il
mondo è alla rovescia.
3. I principi normativi in tema di esecutorietà nella Costituzione e nelle leggi ordinarie
Nella carta fondamentale, in tema di esecutorietà,
non sono presenti neppure quelle affermazioni
generiche e quei principi indeterminati che caratterizzano altri settori, e che hanno un qualche
effetto nel connotare le caratteristiche precettive.
Una delle poche affermazioni sul rapporto tra P.A.
e cittadini è rappresentato dall’art. 28, che con una
formula generica, sancisce la responsabilità dei
pubblici funzionari e di conseguenza dell’Amministrazione per i danni cagionati ai privati. Si tratta di
una norma ovvia in uno stato di diritto, la cui
importanza non va certo sottovalutata, ma il cui
contenuto come si può comprendere, rimane per
molti versi indeterminato e soggetto ad essere
“riempito” in maniera variabile a seconda degli
indirizzi del legislatore o della giurisprudenza, i cui
presupposti culturali sono indirizzati in maniera
“orientata” al favore collaborativo verso la P.A. più
che non verso la tutela del cittadino in sé e per sé
considerata. Da questa norma non si ricava alcuna
indicazione a favore dell’esecutorietà degli atti
amministrativi come istituto generale del nostro
diritto; per contro se interpretata con occhio rivolto alla tutela dei diritti individuali, ben potrebbero
individuarsi dei limiti impliciti all’accumulo di
poteri derogatori rispetto al diritto privato in capo
alla P.A.. Qui sta la differenza tra la nuda norma e
la norma vivente la quale si è sempre “conformata”
ad un rinvio alla legge (e alla giurisprudenza) per
individuare i casi di effettiva responsabilità
dell’Amministrazione: si pensi al risarcimento dei
danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi,
che dopo contrastanti orientamenti tra Corte di
Cassazione e Consiglio di Stato viene, infine riconosciuto, ma ridotto in ambiti molto ristretti dalla
legislazione.
Possiamo distinguere il diritto in tema di esecutorietà a seconda che abbia la funzione di attuare le
pretese dell’Amministrazione relative ad un fare,
ad un non fare, o alla consegna di un bene determinato. Nel primo settore rientrano i casi in cui
l’attività dell’Amministrazione va ad impattare sulle
posizioni dei privati (vedi la disciplina urbanistica
specifica di un bene immobile, con relativa imposizione delle caratteristiche architettoniche della
costruzione), quelli nei quali provvede a sanzionare le violazione di un non fare imposto ai privati, e
quelli in cui la P.A. procede all’impossessamento di
un bene determinato (espropriazioni, requisizioni). Il principio fondamentale è contenuto nell’art.
21 ter c. 1 della L. n. 241 del 1990, inserito dalla L.
n. 15 del 2005: non rappresenta un novità partorita dal legislatore del 2005 innovativa del diritto
vivente, ma piuttosto una puntuale messa per
iscritto dei conformi indirizzi giurisprudenziali
(soprattutto dei giudici amministrativi) in materia,
a conferma di quella convergente collaborazione
tra potere legislativo e potere giudiziario rispetto
all’interesse pubblico la cui cura è affidata
all’Amministrazione. Inoltre, e questo rappresenta
un’altra espressione dei presupposti giuridico culturali inespressi che dominano il diritto vivente, se
analizziamo la formulazione della norma troviamo
un testo non troppo sbilanciato nell’attribuire il
potere di esecutorietà all’Amministrazione, dal
momento che il suddetto art. 21 ter c. 1 stabilisce
che le P.A. possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti “nei
casi e con le modalità stabilite dalla legge”. Una for-
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n.32 / 2012
mulazione dunque apparentemente restrittiva, che
a livello letterale potrebbe ben stare a fondamento
di un sistema che prevede l’esecutorietà in casi
eccezionali, magari motivati dall’urgenza o dalla
impossibilità concreta di ricorrere al giudice. Non
è così, perché il possibile scenario è vanificato dal
fatto che quasi la generalità delle leggi prevede o si
ritiene in via interpretativa (sia dalla P.A. sia dalla
giurisprudenza) che implicitamente tali poteri vi
siano. La disposizione di legge, rappresenta un
principio indeterminato e per molti versi “vuoto”,
certamente molto “leggero” nel suo contenuto
normativo, soprattutto perché ancora prima della
sua formulazione generica (che rinvia alle altre
leggi) si inserisce in quel contesto giuridico culturale che conforma l’autotutela spettante
all’Amministrazione comprensiva della coazione
unilaterale delle pretese, come un potere attribuito in via generale, salvo eccezioni. Il che rappresenta l’altra faccia dell’art. 21 ter c. 1, che può essere letto come una norma che attribuisce in generale l’esecutorietà agli atti che la P.A. ritiene necessari per attuare i precetti che le attribuiscono compiti pubblici, salvo contraria previsione. La differenza (e in questo caso non è una differenza da
poco) tra una possibile lettura restrittiva ed una
effettiva concezione generalizzante dell’attribuzione del potere di esecutorietà agli atti amministrativi la fa ovviamente il contesto giuridico culturale in
cui la norma “vive” e che per così dire la trasforma
da disposizione cartacea ad effettiva regola giuridica. Che poi esista una discrasia, o meglio un gap
molto ampio tra la portata letterale delle norme e
la loro applicazione pratica, costituisce una caratteristica tipica dell’ordinamento italiano, caratterizzato da una cultura giuridica (e prima ancora da
una cultura civica) nella quale le regole generali
sono rappresentate dalle eccezioni. Insomma, la
P.A. può attuare coattivamente le proprie pretese:
basta che una norma le attribuisca il potere di agire
in una determinata materia, ciò comporta la possibilità di modificare unilateralmente le posizioni dei
privati con tutto ciò che questo comporta: inversione dell’onere dell’iniziativa in giudizio, dell’onere della prova ecc., per il soggetto che voglia
opporsi al provvedimento esecutorio. Segnaliamo
l’ampio settore nel quale l’Amministrazione gode
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di poteri discrezionali, nel quale l’esecutorietà è
data per implicita proprio per la presenza di tali
poteri. Così per l’ambito dei poteri di ordinanza
attribuiti ai sindaci dall’art. 54 del D. Lg. n. 247 del
2000, potere in parte limitato a seguito della sentenza n. 115 del 2011 della Corte Costituzionale
che lo ha ristretto ai casi di urgenza, ma già utilizzato non solo per scopi di necessità pubblica e di
urgenza, ma per motivi se non futili, certamente
non di importanza fondamentale: il divieto di sosta
alle “passeggiatrici”; il comportamento dei bambini e dei fidanzatini nei parchi comunali e tutto il
“bestiario” delle ordinanze sindacali. In questo settore l’esecutorietà dei provvedimenti domina
sovrana, con la possibilità per i funzionari comunali di imporre il divieto (oltre che di applicare le
sanzioni). Tradizionale invece in tema di esecutorietà, è il campo degli espropri, delle occupazioni
d’urgenza, dell’imposizione di servitù e delle
requisizioni, nonché le limitazioni alle attività private che necessitano di provvedimenti autorizzativi, ad esempio quelle edilizie, con la possibilità di
imporre, ancora prima dell’applicazione di una
sanzione la sospensione dei lavori. Naturalmente
l’attività sanzionatoria relativa a violazione di obblighi di fare o di non fare da parte del privato, dalla
demolizione dei manufatti abusivi, all’esecuzione a
spese del privato delle opere di urbanizzazione
non conformi, è assistita dalla esecutorietà. Ormai
non è più prevista la necessità ad esempio di ottenere il decreto dell’Autorità giudiziaria per la
demolizione di opere ritenute abusive, in quanto il
Comune provvede d’ufficio, con il diritto di acquisire inoltre l’immobile oggetto dell’abuso (art. 30
c. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001). Ogni qualvolta che
l’attività di interesse pubblico consiste in un fare o
comporta la pretesa di ottenere il possesso di un
bene determinato, la possibilità di provvedere unilateralmente, previa diffida al privato ai sensi dell’art.21 ter c.1 più volte citato è generalizzata, e
questa generalizzazione è il frutto soprattutto dei
quei presupposti giuridico culturali che determinano la formulazione e l’applicazione delle norme.
Passando al settore relativo ai rapporti di debito–credito tra P.A. e privati aventi per oggetto
somme di denaro, dobbiamo partire da un altro
presupposto giuridico culturale non scritto, anzi
Giovanni Cofrancesco
Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.
formalmente abolito in quanto norma positiva fin
dal 1961 da una dichiarazione di incostituzionalità
della Corte Costituzionale (sentenza n. 21 del
1961), quello del solve et repete. Per solve et repete si intende quella disciplina delle obbligazioni
aventi per oggetto una somma di denaro tra privati e P.A. in base alla quale i primi sono tenuti in
ogni caso a soddisfare le pretese della seconda e
solo successivamente hanno la possibilità di fare
valere le loro ragioni in relazione ad un’eventuale
ripetizione del pagamento non dovuto. In questo
istituto se guardiamo bene, l’esecutorietà del potere amministrativo raggiunge il suo livello massimo.
Infatti non solo si ha un’inversione dell’onere della
prova e dell’iniziativa in giudizio rispetto al giudizio di cognizione, come si verifica a fronte di un
ordine di demolizione o di un decreto di esproprio, che può essere impugnato chiedendone la
sospensiva, ed evitando, grazie all’iniziativa in giudizio, l’esecuzione coattiva; nel caso del solve et
repete anche la stessa fase di esecuzione del provvedimento che impone il pagamento di una
somma di denaro (sia essa a titolo di tributo o di
sanzione amministrativa) non può essere contrastata dall’impugnazione, che può essere solo successiva rispetto al pagamento, di modo che si ha
un impedimento anche rispetto alla possibilità di
instaurare un giudizio che comporti almeno la
sospensione dell’esecuzione, la quale viene operata in via amministrativa unilateralmente da parte
della P.A.. A ben guardare, però, la legislazione successiva pur senza ripristinare il principio in generale, ha previsto una serie di istituti che confermano la vigenza nel diritto vivente se non del solve e
repete certamente qualcosa di molto simile, il che
rende fortemente squilibrato il rapporto tra cittadini e P.A., tenendo soprattutto conto del diverso
trattamento riservato ai crediti in denaro della
prima verso i secondi rispetto ai crediti di questi
ultimi verso le Amministrazioni. Anche nel caso
che un soggetto al tempo stesso vanti crediti e
debba rispondere di debiti verso la P.A. la sua
situazione è penalizzata, dal momento che le regole civilistiche sulla compensazione (artt. 1241 e
segg. cod. civ.) sono derogate con un regime che
privilegia il credito del soggetto pubblico nei confronti dei privati. Sia il solve et repete che la com-
pensazione a senso unico si basano su un presupposto giuridico culturale che fa del credito spettante al soggetto pubblico un diritto certo ad una
somma dovuta per il fatto della sua unilaterale
affermazione da parte di tale soggetto, mentre al
credito del privato viene riservato il normale status
di pretesa puramente affermata e soggetta a controllo giudiziale: insomma un’altra faccia dell’esecutorietà, ma in un certo senso rafforzata.
Per quanto riguarda la riscossione dei crediti spettati alle P.A., compresa la società concessionaria
dell’esazione dei tributi Equitalia s.p.a., e le società
nazionali e locali che gestiscono i servizi pubblichi
(postale, ferroviario, servizi comunali ecc.) la
riscossione non avviene tramite la via giudiziaria,
ma attraverso l’esecuzione in via amministrativa,
cui rimanda il c. 2 dell’art. 21 ter, e che è disciplinata da varie disposizioni normative, che vanno dal
R.D. n. 639 del 1910, al D.P.R. n. 602 del 1973, al
D.L. n. 78 conv. in L. n. 122 del 2010. In assenza di
principi generali in materia, le leggi delineano un
quadro giuridico nel quale la “normale” situazione
dell’esecutorietà degli atti che impongono pagamenti (a titolo fiscale, contributivo o sanzionatorio) in base alla quale l’onere dell’iniziativa in giudizio e quello della prova sono a carico del privato,
viene in molti casi addirittura superata, riproponendo istituti e meccanismi giuridici che in larga
parte si avvicinano al solve et repete, limitando
ulteriormente la tutela del cittadino. Innanzi tutto
in tema di accertamento tributario e di imposizione coattiva del pagamento, ricordiamo che la possibilità di chiedere in giudizio (di fronte alle
Commissioni tributarie) la sospensiva dell’atto
impositivo è subordinata, ai sensi dell’art. 47 del
D.Lg. n. 546 del 1992, alla possibilità di un “danno
grave e irreparabile” a carico del ricorrente, il che
trattandosi di somme di denaro, rappresenta un’ipotesi che rende molto difficile la concessione
nella maggioranza dei casi. A ciò si aggiunge inoltre il fatto che, in base all’art. 29 del D.L. n. 78
conv. in L. n. 122 del 2010, i termini per la riscossione coattiva, da effettuarsi tramite espropriazione immobiliare, con relativa eventuale iscrizione di
ipoteca sui beni del contribuente (ad es. la casa) e
vendita all’asta ai sensi degli artt. 76 e segg. del
D.P.R. n. 602 del 1973 o tramite fermo dei beni
69
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mobili registrati (l’automobile) ai sensi del successivo art. 86, decorrono dall’avviso di accertamento,
nel quale si “concentra” in un unico provvedimento l’atto che impone la riscossione; ancora più
improbabile diventa la tempistica per ottenere una
sospensiva.
Quanto alle sanzioni amministrative, tra le quali
assumono particolare rilievo quelle relative alla
violazione del codice della strada, notiamo che esistono principi generali, stabiliti dalla L. n. 689 del
1981, che in parte ricalcano quelli penalistici ma
che essendo una legge ordinaria possono venire
derogati dalle singole disposizioni che prevedono
le sanzioni in una determinata materia, ad esempio
nei già citati casi in cui le sanzioni si riferiscono ai
poteri di ordinanza dei sindaci. Inoltre, non essendo definito l’elemento soggettivo (colpa o dolo)
dell’illecito amministrativo, può capitare che il singolo si trovi colpito dalla sanzione pur essendo in
perfetta buona fede. Ciò si può riferire non solo
alla commissione della violazione, ma soprattutto
alla procedura di notificazione che a volte per disguidi di vario genere il destinatario non riceve, e
non essendo a conoscenza di avere commesso la
violazione (ad es. del codice della strada non contestata immediatamente) si ritrova penalizzato da
ulteriori sanzioni nonché dagli interessi per il mancato pagamento, tenendo conto che, contro il
destinatario, fa sempre fede la dichiarazione dell’
addetto alla consegna (dipendente delle Poste
s.p.a., o anche collaboratore precario), il quale,
come incaricato di pubblico servizio, secondo la
costante giurisprudenza della Cassazione attesta
fatti (la consegna) che possono essere messi in discussione solo con querela di falso: la probatio è
davvero diabolica giacché i documenti sono nelle
mani della P.A. e non si comprende davvero il perché dell’inversione dell’onere della prova quando
la P.A., se in regola, può facilmente dimostrare le
sue pretese al contrario del cittadino che deve
esperire il diritto di accesso agli atti ed ai documenti (ma di fronte ad una P.A. inerte può solo
esperire un ulteriore processo defatigante contro
il silenzio inadempimento davanti al giudice amministrativo). Se a ciò si aggiunge la possibilità per
l’Amministrazione di sottoporre a fermo amministrativo il veicolo strumento della violazione (ai
70
sensi dell’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 applicabile anche in tale materia), è tutt’altro che ipotesi
teorica quella in cui l’ignaro cittadino si veda
sequestrato il veicolo senza sapere nemmeno di
avere commesso una violazione, magari risalente
nel tempo. Inoltre, dal punto di vista processuale,
se è vero che alle sanzioni amministrative, a differenza degli accertamenti tributari non si applica il
meccanismo che abbiamo descritto, in quanto
l’impugnazione sospende l’esecuzione, è anche
vero che il prevalente orientamento giurisprudenziale, a fronte di un verbale basato su dati elettronici, e tenendo conto che in sostanza non rileva
l’elemento soggettivo della violazione, ben raramente si discosta dalle conclusioni dell’Amministrazione e capita che il cittadino rimanga vittima
di adempimenti burocratici (ad esempio il pagamento ad un ufficio di polizia municipale incompetente) che ricadono, nonostante la buona fede,
a suo danno. Per quanto concerne la distinzione
quasi filosofica tra concorso formale dei reati e
continuazione previsti dal codice penale (artt. 73,
74, 75) essa dovrebbe applicarsi alle sanzioni
amministrative: ma se violo con una sola azione il
limite di velocità e vengo “fotografato” per 30 volte
pagherò 30 contravvenzioni? In giurisprudenza c’è
una magna confusio. Per non dire dell’importo
della tassazione sull’atto di ricorso (v. da ultimo le
modifiche apportate dall’art. 37 del D.L. n. 98
conv. in L. n. 111 del 2011) che, anche in caso di
vittoria non viene addebitato all’Amministrazione
soccombente, ma resta a carico del cittadino: pur
non trattandosi di importi elevati, la tassazione
finisce per scoraggiare i ricorsi in materia soprattutto quelli relativi ad importi bassi: de minimis ...
ma il principio rimane. Infine qualche cenno all’istituto della compensazione, o meglio delle “ritenzione” delle somme dovute dalle Amministrazioni
(comprese le società privatizzate, ferroviarie,
postali, gestori dei servizi locali ecc.), soprattutto
relative a contratti di appalti pubblici, a fronte di
un debito, anche e solo affermato unilateralmente,
e anche se contestato in giudizio, da parte
dell’Amministrazione fiscale o da parte degli enti
previdenziali. In base all’art. 48 bis del D.P.R. n. 602
del 1973 infatti, ogni pagamento superiore a
10.000 , relativo ad appalti o ad altre fattispecie
Giovanni Cofrancesco
Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.
(ad es. indennità espropriative) a privati è soggetto al controllo sulla non esistenza di pretese esecutive da parte dell’Amministrazione fiscale. In
questa forma di blocco dei pagamenti, troviamo
un istituto difficile da inquadrare teoricamente,
simile in un certo senso ad una compensazione
unilaterale e salvo prova contraria, che costringe
ovviamente il privato ad esperire tutti i gradi di giudizio per vedere accertata la sua eventuale ragione
sul debito contestato, e per ottenere non solo l’accertamento giudiziale negativo di quest’ultimo, ma
anche il pagamento del credito “bloccato”. Siamo
anche in questo caso in una fattispecie molto vicina al solve et repete: prima il privato deve saldare
le pretese (anche se unilateralmente affermate)
dell’Amministrazione e solo dopo può riscuotere
quanto dovuto peraltro da un soggetto diverso da
quello che vanta il credito (ad es. le Poste possono
bloccare un pagamento per un appalto ad una
ditta per un presunto debito tributario ecc.). Il
debito della P.A. funge in questo modo da garanzia
rispetto al presunto credito tributario, e gli effetti
sono molto simili a quelli di una sorta di pignoramento automatico delle somme in contestazione.
Quanto alla notifica, per evitare la decadenza dei
150 gg., si ritiene che essa sia valida nel momento
in cui la polizia postale passa al Centro di Latina il
verbale della contravvenzione. Tutte queste inefficienze invece di essere sanzionate dalla Corte
Costituzionale sono avallate (per tutti C. Cost. n.
477 del 2002) che pure in materia potrebbe esercitare un’educativa funzione garantista proprio allo
scopo di “mettere alle corde” Stato ed enti pubblici per realizzare gli obiettivi costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica
amministrazione.
E last but not least: l’occupazione acquisitiva senza
neppure un procedimento né un provvedimento
amministrativo sanata per l’interesse pubblico
dalla stessa P.A. che ha compiuto l’illecito (ma per
la par condicio l’Amministrazione sana anche le
occupazioni dei privati su proprietà pubbliche in
violazione del principio democratico e della legalità). L’istituto bocciato dalla Corte di Strasburgo e
con motivazione sia pure formale (eccesso di delega) dalla Corte Costituzionale è di nuovo riproposto dalle recenti leggi finanziarie... per non mette-
re in difficoltà i dissestati bilanci statali e degli enti
territoriali. Si sfiora lo stato assoluto.
In conclusione possiamo delineare un panorama
nel quale la P.A. dispone di una serie di poteri che
le consentono di portare ad esecuzione unilateralmente le pretese, sia che abbiano per oggetto un
fare, relativo ad un’attività amministrativa in sé
considerata o relativo all’applicazione di una sanzione (es. demolizione di un edificio abusivo), sia
che abbiano per oggetto la riscossione di una
somma di denaro, anch’essa relativa ad un’obbligazione primaria (accertamento tributario) oppure
in relazione ad una sanzione (tributaria, per violazione del codice della strada ecc.). Questa situazione, basata sui principi fondamentali giuridico
culturali, non si fonda su una norma generale che
preveda e definisca nel suo contenuto (ma anche
nei suoi limiti) tale potere. Nella Costituzione non
esistono norme in materia; le leggi ordinarie contengono solo principi astratti, in teoria applicabili
in ogni direzione. L’espressione strettamente giuridica è dunque costituita dalle norme che prevedono caso per caso i privilegi dell’Amministrazione, nonché le decisioni giurisprudenziali che
quelle norme vanno ad interpretare e ad applicare
secondo i principi giuridico culturali delineati. Un
panorama variegato, composto di una congerie
non coordinata di disposizioni e di interpretazioni
che creano un insieme nel quale l’esecutorietà, la
possibilità dell’Amministrazione di farsi giustizia da
sé, più che come un principio granitico, ma definito, si pone come una selva di poteri capace di
applicazioni capillari (come anche di eccezioni
peraltro) che rendono i cittadini ancora più
deboli che se fosse previsto un principio generale
fortemente strutturato: il principio dell’applicazione casuistica del diritto. Anche per quanto riguarda l’esecutorietà degli atti amministrativi infatti la
possibilità di ricorrere va vista in relazione all’intensità dei poteri e all’inversione degli oneri probatori e dell’iniziativa in giudizio, e viene definita
caso per caso, e con valore limitato alla fattispecie
specifica. Solo una ricostruzione generale, che,
tenendo conto dei presupposti giuridico culturali
che stanno a fondamento del sistema, individui le
singole ipotesi e ne fornisca la sommatoria può
cogliere il fenomeno dell’esecutorietà in tutta la
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n.32 / 2012
sua portata. Naturalmente non ci sfugge l’obiezione: ma la P.A., a differenza del cittadino, non può
aspettare i tempi “biblici” della giurisdizione
(sic!). Che qualcuno rimpianga l’amministrazione
borbonica nel regno (pardon nella repubblica) del
paradosso, non è poi così paradossale.
4. Cenni comparativi con il sistema francese
e tedesco
Una veloce considerazione sull’interazione fra i
poteri dello Stato francese che pur essendo a “diritto amministrativo” funziona con principi culturali
diversi dal nostro. Anche in Francia esiste l’esecutorietà ma la normazione è generale ed astratta e la
P.A. persegue gli interessi pubblici e/o privati individuati dalla legge a monte senza eccessivi poteri
discrezionali ed esecutori: la giurisprudenza (in
particolare amministrativa) offre in genere criteri
interpretativi uniformi. Non quindi convergenza
collaborativa ma, piuttosto, “non ingerenza”: l’ordine giudiziario sembra inerte nei confronti della P.A.
72
ed in particolare del Capo dell’Esecutivo (che è il
Presidente della Repubblica) anche quando è notorio un comportamento di rilievo penale. Il quarto
potere (la stampa governativa e di opposizione) “si
autolimita”. D’altro canto l’Amministrazione è dotata di un forte spirito di indipendenza sicuramente
più forte della magistratura: ad ogni tentativo di
una sua “politicizzazione” more italico si è sempre
opposta con successo.
Ancora diverso il sistema tedesco: il compromesso
tra gli interessi, elemento comune con l’Italia,
avviene però a monte con le istituzioni sociali e non
a valle. La legge ne recepisce le istanze e per li rami
la P.A. esegue. Come nel sistema francese la “discrezionalità” è minore rispetto a quella italiana ma
l’Amministrazione non sembra dotata di un forte
“spirito di corpo” (anche perché non è così unitaria
presentando solide organizzazioni amministrative
risalenti al periodo pre-unitario); la magistratura,
compresa la Corte federale, sembra godere di una
maggiore indipendenza rispetto a quella francese
nei confronti del legislativo e dell’esecutivo.
Dino Cofrancesco
Laicità
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
I. Da diversi decenni ormai continuano a pubblicarsi, in Italia, articoli e saggi che rievocano le grandi e nobili figure della tradizione laica. Storia dei
laici, Maestri e Compagni, I miei maggiori: si tratta di una fabbrica delle idee che non raggiunge mai
il grosso pubblico ma che è sempre in attività e
può contare, sui quotidiani più diffusi, su sicuri
spazi pubblicitari (gratuiti). Nulla di male, beninteso. Il genere agiografico ha sempre avuto i suoi
cultori-scrittori e lettori. Durante il regime fascista,
potevano vedersi collane come le “Centurie di
ferro” e altre simili, dedicate agli eroi, a i “Martiri”
e ai precursori della Marcia su Roma. Ed è forse
superfluo ricordare l’importanza dell’agiografia nei
secoli della fede e dell’egemonia cattolica sull’educazione dei popoli. Insomma ogni epoca avuto le
sue “vite dei Santi” e questa, per i credenti, è la
riprova che di una qualche forma di religiosità
(della trascendenza o dell’immanenza) gli uomini
hanno sempre avuto bisogno.
Nel nostro paese, però, la fenomenologia assume
tratti specifici e, sotto il profilo democratico, talora
regressivi. Innanzitutto la laicità che starebbe a
fondamento della civic culture e della
Costituzione repubblicana non viene mai definita
con precisione. A volte si identifica con lo spirito
stesso della filosofia moderna - dall’empirismo
scettico di David Hume al fallibilismo di Karl R.
Popper -, a volte con l’etica kantiana e con l’imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l'uomo così in te come negli altri sempre anche come
fine, non mai solo come mezzo”; a volte con l’autonoma delle dimensioni vitali in cui è inserito
l’uomo moderno - dai ‘distinti’ di Benedetto Croce
alle ‘sfere di giustizia’ e all’arte della separazione di
Michael Walzer. In ciascuna di queste accezioni, la
categoria ha l’estesa denotazione di cui godono le
opinioni scontate. Chi potrebbe mai pensare, infat-
ti, che la ragione sia in grado di farci scoprire la
Verità? Chi non è d’accordo sul rispetto che si deve
a ogni essere umano? Chi è disposto a subordinare l’etica alla politica o viceversa? Ma se la denotazione è ampia, la connotazione è incerta, sul piano
conoscitivo, nel senso che soddisfa assai poco la
regola aristotelica della definizione per genus proximum et differentiam specificam. E, quel che è
peggio, finisce per assumere solo un significato
“polemico”: non mette a fuoco una diversità oggettiva ma identifica una qualità alta dello spirito, una
superiorità morale.
L’opposto di laico, in tale contesto, è ‘dogmatico’:
il laico è Filippo Salviati (Galileo), il dogmatico è il
peripatetico Simplicio del Dialogo dei massimi
sistemi. Se mi qualifico come ‘socialista’ è per
distinguermi da un altro che può essere un democristiano, un liberale etc. Posso ritenere di avere
idee migliori e più moderne di lui ma, etichettandomi come ‘socialista’, non lo pongo certo su un
piano inferiore al mio. La mia autopresentazione
ideologica non è molto diversa, sotto questo aspetto, da una autopresentazione geografica: se, in uno
scompartimento ferroviario, il mio vicino si
dichiara ‘siciliano’, non lo metto in imbarazzo se gli
dico di essere marchigiano. Nel caso del ‘laico’,
invece, le cose cambiano radicalmente. Nello ‘stile
di pensiero’ in esame, davanti a me non sta semplicemente uno che ha idee differenti dalle mie ma
uno che le ha sbagliate e che, se andasse al potere,
si comporterebbe come gli Inquisitori spagnoli o
gli ingegneri bolscevichi delle anime. Sennonché
se ‘laico’ è il cittadino della ‘società aperta’ e il nonlaico è il suddito della ‘società chiusa’, il sano dubbio scettico non dovrebbe metterci in guardia dalla
tentazione di collocarci d’ufficio nella categoria
‘buona’? Dirsi laico equivale a dirsi ‘intellettualmente onesto’, disinteressato, disponibile all’as-
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n.32 / 2012
colto degli altri, insomma un Garrone di deamicisiana memoria. Che si possa ritenere di far parte
della ‘santa schiera’ senza essere sfiorati dall’ombra
del ridicolo desta qualche preoccupazione. In
realtà, il termine ‘laico’ - come gli anti del dibattito
ideologico - a cominciare dall’antifascismo,
dovrebbe essere usato come aggettivo e bandito
come sostantivo, se davvero si vuole instaurare una
convivenza civile tra ‘diversi’. Si danno comportamenti e discorsi laici, nel senso che non sono determinati da ‘partito preso’ o da militanza ideologica o
dalla fede religiosa ma si avvalgono dell’uso critico
della ragione e si richiamano a principi universali,
che dovrebbero trovare tutti concordi, ma non è
dato incontrare “laici” tout court, come invece s’incontrano cattolici e protestanti, agnostici e atei.
Nel fascicolo di “MicroMega” dedicato al tema
“Berlusconi e fascismo2”, si riporta un significativo
dibattito tra il cattolico ortodosso Francesco
D’Agostino e la “laica” Roberta de Monticelli. Nel
corso del match, il giurista cattolico fa valere i principi della ‘civiltà del diritto’, mentre la filosofa illuminista sposa le tesi del giustizialismo oltranzista.
Il primo ricorda che “uno dei principi fondamentali di uno Stato di diritto, e cioè la presunzione di
innocenza” viene calpestato quando un processo
“viene celebrato da e sui giornali”, la seconda condanna “la totale mancanza di sensibilità nei confronti dell’ingiustizia, una insensibilità spacciata
per distacco razionale, per capacità di distinguere
e mantenere separati il campo dell’etica da quello
della politica”. Chi dei due è il laico e chi resta
ancorato alla visione premoderna del diritto e della
politica che vuole diritto e politica al servizio dell’etica (quella della de Monticelli, ovviamente, non
quella della massa damnationis che vota per il
Cavaliere)?
Forse sarebbe meglio dire, nei singoli casi, che
Tizio è laico e Caio non lo è ma che entrambi adottano, a volte, uno stile laico e, altre volte, uno stile
opposto; a volte ragionano molto su quel che
fanno e dicono e si sforzano di giustificare pensiero e azione con argomenti sottoscrivibili da
tutte le persone sensate e ragionevoli, altre volte si
lasciano trasportare dalla passione e dal risentimento. Nel dibattito di “MicroMega”, D’Agostino si
è comportato in modo laico ma non posso dare lo
74
stesso giudizio quando si occupa di temi bioetici.
Forse il contrario potrei dire della de Monticelli
ma, sempre con beneficio d’inventario e col sano
dubbio humeano che potrei sbagliarmi e con la
disposizione ‘laica’ a cambiare opinione.
Ribadisco, la laicità mi sembra una possibile qualità
dell’azione non la natura fissa e immota dell’agente: è un metro di misura dei comportamenti
individuali e sociali, non la maglia indossata da una
delle due squadre in campo. Nelle società secolarizzate, infatti, le squadre competono in posizione
di parità mentre una formazione coi colori laici,
cresimata dall’imperativo kantiano, potrebbe, tutt’al più, tollerare la formazione rivale ma non trattarla alla pari e rispettarla. Nessun scienziato
potrebbe stimare un chimico che giuri sulla formazione del flogisto.
Ci sono due modi per salvare il ‘laico’ come sostantivo: il primo è quello di intenderlo nel senso del
membro del ‘laicato’ in quanto distinto dal ‘clero’:
qui la connotazione è tanto precisa quanto irrilevante, come irrilevanti sono tutte le cose ovvie. Il
secondo è quello di riproporre la storica contrapposizione tra ‘laici’ e ‘cattolici’, dove laico non è chi
non veste l’abito talare ma chi non fa parte del
“gregge del Signore”. Tale contrapposizione, però,
risulta sempre più vuota. A livello universitario,
sono anni che i concorsi a cattedre non prevedono
più, in virtù di una tacita ‘costituzione materiale’,
una ripartizione dei vincitori tra cattolici e laici
mentre a livello politico, il va sans dire ben più rilevante, la fine della DC, e la diaspora dei cattolici in
tutti i partiti hanno reso l’antica frattura un ricordo
del passato. Quando sono in discussione leggi che
toccano il campo minato della bioetica, sembra
ricomporsi un ‘fronte cattolico’ trasversale ai partiti presenti in Parlamento ma, in realtà, si ha la sensazione di una chiamata a raccolta di reduci, dove
non tutti i reduci, peraltro, si ritrovano d’accordo
su certe misure e su certe leggi per l’appunto
‘laiche’. In ogni caso, nella ‘contrapposizione storica’, si sa bene cosa siano i cattolici - identificati da
riti, credenze e obbedienze specifiche - ma, quanto
ai laici, sono identificabili solo negativamente come
“non credenti” o seguaci di altre religioni (cristiane
o non). Si tratta di una ‘caratterizzazione’ che,
almeno in teoria, non genera conflitti o complessi
Dino Cofrancesco
di superiorità ma neppure quell’orgoglio dell’appartenenza che vorrebbero suscitare i cantori della
laicità, nelle loro allocuzioni massoniche fuori stagione. Se la divisione, infatti, è tra chi crede e chi
non crede, si può esaltare il valore dell’ateismo solo
all’interno di una visione a suo modo religiosa e
dogmatica che mal si concilia, tuttavia, con la
filosofia moderna, scettica e prudente, iscritta nel
dna della laicità. E, comunque, va anche fatto rilevare che non solo la categoria dei “non credenti”
non è unita dall’“essere qualcosa” bensì dal “non
essere qualcosa”, ma, al suo interno, è composta da
una grande maggioranza di ‘agnostici’ e solo da una
esigua minoranza di atei. Per molti agnostici la
compagnia degli atei è ancora più insopportabile di
quella dei ‘credenti’, avvertendo confusamente nell’ateismo militante una forma di fondamentalismo
‘a rovescio’ insopportabile e indigesta.
Comunque, e per fortuna, le divisioni che gli ‘atei
razionalisti’ e la Società Giordano Bruno vorrebbero aggiungere alle tante che già lacerano il tessuto sociale e culturale del nostro paese, interessano solo un’esigua minoranza. Sul terreno del
buonsenso e della quotidianità, l’uso del termine
‘laico’ come sostantivo è fuor di dubbio legittimo
ma si riferisce a un dato ‘oggettivo’ neutro, deserto di simboli e di valori forti. Se i ‘laici’ sono quelli
che non vanno a messa e non fanno la comunione,
scriverne la storia sarebbe come scrivere la storia
di quelli che hanno i capelli rossi o di quelli che
hanno la voce intonata.
Non nascondiamoci dietro un dito, mi si potrebbe
dire. C’è un’accezione diffusa e scontata di ‘laico’
che ne fa l’antitesi non del ‘credente’ ma del ‘clericale’, definito, quest’ultimo, come l’uomo di fede
che, in tutto e per tutto, si uniforma alle direttive
della Chiesa. Capisco l’obiezione ma ritengo che
alla sua base ci sia un equivoco: la ‘dipendenza’
che si stigmatizza è negativa in sé o è tale a seconda delle direttive alle quali ci si uniforma? Se l’ordine dall’alto è buono ma il destinatario si rifiuta di
obbedire, la sua “indipendenza” è ancora un valore? Si ha l’impressione che i talebani della laicità
non apprezzino tanto l’“autonomia del volere”
quanto la ‘disobbedienza civile’ a imperativi (secondo loro) destituiti di senso e lesivi della dignità
umana. Se, però, le cose stanno così, si fuoriesce
Laicità
dalla logica ‘moderna’, che rimane tutta sul piano
del ‘metodo’, in virtù della consapevolezza della
‘relatività dei valori’ e della scissione dell’etica dalla
verità - è la grande lezione dei Libertini e di
Montaigne - e si ricade in una concezione sostantiva del bene che, come tutte le teorie forti, si traducono in doveri vincolanti per tutti e nella
trascrizione sulla lavagna pubblica dei nomi dei
buoni e dei cattivi. ‘Laico’, allora, non è più chi
cerca di ragionare con la sua testa, di dare un voto
o di sostenere un referendum, dopo aver vagliato
il pro e il contro dei vari programmi, ma chi “ha
scelto bene”.
Ma esistono, poi, i ‘clericali’ come se li immagina il
laicista? Non nego, per carità, che vi siano individui
che “in tutto e per tutto si uniformano alle direttive della Chiesa” (la Binetti UDC e la Roccella PDL
ne sono un esempio da manuale) ma, a ben
guardare, sono una minoranza. Gli uomini che
s’incontrano tutti i giorni per strada, a volte
seguono e a volte non seguono la Parola che viene
dal pulpito: sono ‘clericali’ nel primo caso e ‘laici’
nell’altro? Se, ad esempio, per dimostrare la loro
liberté d’esprit, non ritenessero di dover rispettare
un’eventuale enciclica papale che (finalmente!)
condannasse il mattatoio pasquale dei candidi
agnellini, darebbero per questo prova di laicità? E
un ateo, che fosse d’accordo col papa nel non
riconoscere alle coppie gay il diritto di adozione,
diventerebbe per questo ‘clericale’?
La laicità, nella sua accezione filosofica in senso
lato, non sta nella disobbedienza o nell’obbedienza alle norme buone di condotta (buone per chi? O
perché?) ma nel modo della disobbedienza e dell’obbedienza, nello sforzo fatto su di sé per far
prevalere la ragionevolezza pacata sulle pulsioni
irrazionali. Si può obbedire al papa da ‘laici’ e disobbedire da ‘clericali’, cioè lasciandosi condizionare da interessi o da prospettive di guadagno che vengono fatti baluginare “dall’esterno”. Per
tutte queste ‘buone ragioni’, sarebbe meglio non
definirsi ‘laici’, e cominciare ad avvertire il ridicolo
di una qualifica, che ove non richiami la messa di
mezzanotte del 24 dicembre o i precetti pasquali,
non ha più un significato descrittivo e neutro ma
un significato valutativo e positivo. Come nessuno
si autoetichetta come ‘buono’ ma semplicemente
75
n.32 / 2012
si propone di comportarsi ‘bene’, così nessuno
dovrebbe appuntarsi all’occhiello della giacca un
distintivo che ha senso rispetto all’“agire” ma non
rispetto a un “modo d’essere”, che richiama il
fondo oscuro della nostra anima dove solo Dio
può ficcare lo sguardo (posto che esista).
Tirando le fila del discorso, la laicità è un’arma
politica e culturale solo in virtù dell’appropriazione indebita che continuano a farne i ‘laicisti’.
In sé, non è affatto divisiva, essendo diventata il
senso comune dell’Occidente liberale e democratico, che non può venir monopolizzato da nessuna
‘famille spirituelle’. È non poco significativo, del
resto, che cattolici come Dario Antiseri abbiano
contribuito più dei ‘laici’ come Norberto Bobbio a
diffondere in Italia il pensiero e le opere di Karl R.
Popper, sicuramente uno dei momenti più alti
della filosofia moderna.
II. Nella prima parte del discorso sui laici e sul
significato della ‘laicità’ oggi, ho avanzato forti riserve sull’uso di un sostantivo, il ‘laico’ per l’appunto,
che secondo uno stile retorico (purtroppo ampiamente) diffuso nella ‘ideologia italiana’, promuove
sul campo gli “aggettivi” elevandoli a sostantivi. È
capitato all’antifascista che, da attributo inseparabile dalla democrazia liberale, è divenuto il servo
padrone sicché non è l’antifascista (aggettivo) a
esporre le sue credenziali al democratico liberale
(sostantivo) ma è questo a sottoporsi al giudizio di
quello. In questo stravolgimento semantico, c’è
una logica ed è quella di svuotare, rendendola priva
di senso, l’osservazione scontata che “tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti
sono democratici”. Se ‘antifascista’ non è più un
attributo inseparabile dal sostantivo ‘democratico’,
se diventa un valore in sé, anzi il fondamento della
stessa costituzione di un popolo, ne deriva che
“tutti gli antifascisti sono, in quanto tali, democratici”, e se qualcuno nutre dei dubbi sulla democraticità di chi si professi insieme antifascista e comunista fuoriesce dall’antifascismo, nelle cui fila vuol
mettere zizzania, e, in tal modo, diventa un ‘nemico oggettivo’ della democrazia.
A un destino analogo si espone il laico, nella sua
accezione filosofica, quando si contrappone al credente e al dogmatico, che pur mostra talora di
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rispettare. Se si hanno le stimmate della laicità, i
codici di condotta che si seguono, i modelli di vita
buona che si raccomandano, i progetti di legge che
si caldeggiano non hanno più bisogno di venir
messi in discussione: è laico tutto quello che viene
da una ‘tradizione’ che, tra alti e bassi, va da
Ernesto Rossi a Massimo Teodori, passando per il
compianto Alessandro Galante-Garrone.
L’interpretazione che questa ‘scuola di pensiero’
dà dei compiti e delle funzioni dello Stato non è, in
una logica di pratica umile della democrazia, un’interpretazione tra diverse altre possibili, ma è,
come la sentenza del giudice, “bocca della verità”,
dictamen rectae rationis. Così, per fare un esempio significativo, se si ritiene che ‘dare soldi’ alle
scuole private significhi violare l’articolo 33 della
Costituzione – “L'arte e la scienza sono libere e
libero ne è l'insegnamento. / La Repubblica detta
le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi./ Enti e privati
hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. /La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali
che chiedono la parità, deve assicurare ad esse
piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole
statali”, non c’è discorso che tenga: sarebbero
parole al vento quelle di chi facesse rilevare che le
scuole private non possono rivendicare un ‘diritto
costituzionale’ al sostegno pubblico ma nulla
impedisce, sul piano delle leggi ordinarie (per loro
natura sempre revocabili), a un governo di venire
incontro ai bisogni di istituti scolastici, cattolici o
laici, ritenuti di particolare rilevanza educativa, a
quel modo in cui viene incontro ad altre associazioni culturali, come ad es. il vecchio Istituto
Gramsci, o a industrie come quella editoriale e
cinematografica. Che un film come Noi credevamo di Mario Martone sia stato finanziato coi soldi
dei contribuenti, per uno storico come me che ne
ha dato un giudizio negativo (confortato, peraltro,
da una recensione stroncatoria di Mario Di Napoli
sull’“Azione Mazziniana’), è un pensiero insopportabile ma non pertanto quel finanziamento diventa
illegittimo in base al principio che le attività culturali ed educative, intraprese dai privati, non debbano comportare “oneri per lo Stato”. Martone,
Dino Cofrancesco
infatti, non ha rivendicato alcun ‘diritto soggettivo’
all’aiuto statale, non si è appellato a nessuna
norma costituzionale e, pertanto, quell’aiuto può
essere discutibile (sulla base dei miei parametri
estetici e culturali) ma non è illegittimo, né anticostituzionale. E questo per non parlare delle questioni bioetiche, in cui già il farsi domande su certe
questioni vale la messa alla gogna con un cartello
infamante che reca la scritta “oscurantista!” (ovviamente non entro nel merito dei problemi: la mia
etica, nel caso del problema finis vitae mi porta,
con Hume e con gli antichi Stoici, a legittimare il
‘suicidio’ ma, da buon liberale, non intendo imporla a tutti anche perché capisco le ragioni di chi è in
profondo disaccordo con la mia ‘tolleranza’).
Accanto all’accezione per così dire ‘filosofica’ della
laicità, però, c’è n’è una più scopertamente eticopolitica, i cui contenuti sono tanto complessi quanto subdoli. In quest’accezione ideologica, la laicità è
un lago culturale (poco limpido) in cui confluiscono
due fiumi provenienti da diverse sorgenti: il primo
è l’antitotalitarismo; il secondo è la ‘terza via’. Si tratta di fiumi senza rapporti di parentela ma che dopo
aver travasato le loro acque nel lago, diventano, grazie al gioco delle tre carte, indistinguibili.
Il primo, definito dall’antitotalitarismo, è una posizione concettuale che ha soltanto un difetto ma
irreparabile: esso, facendo del laico il “civis”
coerente che si oppone sia al fascismo che al
comunismo, si ritrova, a meno di non alterare o
edulcorare la storia, con un paniere concettuale
semivuoto. Tra i protagonisti delle nostre guerre
civili - in un senso lato che ricomprende anche le
battaglie ideali, quelle sulla carta o nelle tribune
politiche - quanti erano davvero disposti a mettere
comunismo e fascismo sullo stesso piano? Se pensiamo ai liberali conservatori degli anni venti, essi
dissero “no!” al comunismo ma, almeno in un
primo tempo - emblematico il caso di Benedetto
Croce - al fascismo dissero “ni!”: et pour cause dal
momento che il fascismo si presentò alle classi
borghesi e benestanti come il salvatore della
comunità politica, dissanguata, materialmente e
spiritualmente, dalla guerra mondiale e minacciata
da fratture insanabili e tali da rimettere in gioco lo
stesso stato unitario. Se pensiamo, invece, ai liberali progressisti - categoria vaga ed evanescente
Laicità
che adopero solo per compiacere i retori della laicità -, essi dissero “no!” al fascismo ma “ni!” al
comunismo: e anche qui pour cause. I regimi
autoritari e totalitari di destra, infatti, in Spagna
come nel resto dell’Europa, potevano essere
abbattuti solo alleandosi con l’Unione Sovietica e,
all’interno degli stati nazionali piegati dal fascismo
e dal suo alleato nazionalsocialista, era impensabile la guerriglia resistenziale senza la mobilitazione
delle masse operaie e contadine comuniste.
Queste circostanze, da valutare al di fuori di qualsiasi attitudine moralistica, spiegano perché, a
guerra conclusa, un liberale di destra come Alberto
Giovannini potesse dirigere per qualche tempo “Il
Secolo d’Italia” e un liberale di sinistra, come
Franco Antonicelli, potesse lasciare la sua biblioteca ai portuali della CGIL livornese.
Tanto antifascisti quanto anticomunisti? Sono mitologie che vanno lasciate ai pretoriani della
Costituzione e della laicità come Corrado Ocone o
Massimo Teodori, che rischiano di diventare i nuovi
Mario Appelius della political culture egemone in
Italia (nonostante, o forse anche per questo, i tanti
anni di governo del centro-destra). Lo studio serio e
disinteressato dei documenti, degli atti di convegno
dei partiti, degli scritti teorici dei leader, ci mostra
solo come l’equidistanza fosse una pia illusione.
Non si trovava neppure in Politica e cultura di
Norberto Bobbio che pure voleva essere una critica
serrata e circostanziata del comunismo italiano rappresentato da Palmiro Togliatti e da Galvano Della
Volpe ma che finiva per essere un discorso interno
a uno schieramento. Come ha ricordato qualche
giorno fa Giuseppe Bedeschi sul “Corriere della
Sera”, il ‘liberale’(!) Bobbio non esitava ad affermare: “Se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova, immensa prospettiva sul mondo
umano, non ci saremmo salvati. O avremmo cercato riparo nell’isola dell’interiorità o ci saremmo
messi al servizio dei vecchi padroni”.
A ben riflettere, la ragione filosofica che impediva
agli azionisti - che per agiografi alla Teodori rappresentano la quintessenza della laicità - era una
concezione assai poco ‘laica’ della democrazia liberale riguardata come la locomotiva della Storia
senza marcia indietro e senza freni. In base alla
77
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loro Weltanschauung, la democrazia non era registrazione dell’esistente, annotazione di quanto gli
uomini in carne ed ossa, col loro passato, con le
loro aspirazioni, con i loro legami familiari, sociali
e ambientali, coi loro pregiudizi, certamente, si
aspettano dalla convivenza sociale e dallo Stato
custode bensì redenzione, riforma morale e intellettuale degli Italiani, riscatto sociale, distribuzione
di benessere materiale e di ‘diritti sociali’. Ne derivava l’assoluta riluttanza a riconoscere sia i valori
della destra che i vincoli della Tradizione e per
certi aspetti la tentazione di scavalcare a sinistra lo
stesso ‘comunismo nazionalpopolare’ con le sue
pretese di “venire da lontano”. (Non è casuale il
deciso antistoricismo dei filosofi del diritto e della
politica, che, formatisi alle scuole degli epigoni
dell’azionismo, si sono convertiti alla filosofia analitica usandola come strumento nichilistico di dissolvimento di tutti i valori comunitari ancora
sopravvissuti e non come regola di prudenza e attitudine realistica, qual’era nell’antenato nobile
degli analitici, David Hume). Per i laici-azionisti il
comunismo era la degenerazione di una cosa
buona (la giustizia sociale) mentre il fascismo era il
concentrato du tutto ciò che la storia ci aveva trasmesso di brutto, sporco e cattivo: dalla
Controriforma al sanfedismo alla reazione agraria.
Quando cadde il Muro di Berlino non pochi di loro
- sinceramente avversi all’Unione Sovietica - si
chiesero: ‘e ora chi difenderà i ‘dannati della
Terra?’. È del tutto escluso che sia siano chiesti,
alla morte di Francisco Franco: “e ora chi difenderà la Spagna di Ferdinando il Cattolico e di Santa
Teresa d’Avila?”. Questo ‘doppiopesismo’ ha serie
e innegabili giustificazioni storiche e ideali - e in
parte le condivido - ma sempre di doppiopesismo
si tratta. In realtà, se si vogliono trovare nemici giurati tanto dei comunisti quanto dei fascisti, si deve
andare nella Germania del primo dopoguerra dove
i socialdemocratici di Weimar al potere, quei
socialdemocratici che attendono ancora che si
renda loro giustizia, ma in Italia quell’ora è assai
lontana, reprimevano, a suon di cariche della polizia, tanto i sovversivi nazisti quanto gli spartachisti.
In realtà agli aedi della ‘laicità’ è poco congeniale il
volto bifronte di Giano, che con una faccia guarda
in cagnesco i comunisti e con l’altra i fascisti: se si
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tratta, sic et simpliciter, di due negazioni viene
meno la ragione del loro apprezzamento. A Giano
occorre un cervello e questo cervello viene portato
dalle onde dell’altro fiume che confluisce nel gran
lago laico, la “terza via”. Quest’ultima, si badi bene,
non vede più nel comunismo un Satanasso in camicia rossa contrapposto a un Belzebù in camicia
nera; l’illusione, appunto, dell’equidistanza, ma,
come s’è accennato, un “eccesso”, un valore positivo - l’eguaglianza - che viene assolutizzato e messo
in condizione di prevalere e di soffocare gli altri. Il
comunismo rappresenta una ‘unilateralità’ analoga
e opposta a quella ‘occidentale’ che, privilegiando
la libertà e dando briglia sciolta a quella d’impresa il ‘mercato selvaggio’ - porta a un eccesso diverso:
là l’eguaglianza umilia e calpesta la libertà, qua la
libertà vive e prospera grazie allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tra queste due divinità litigiose,
nel paese uscito dalla dittatura, il laico-azionista “fé
silenzio e arbitro s’assise in mezzo a lor”.
S’è parlato del ‘gioco delle tre carte’ e, in effetti, di
questo si tratta giacché a Giano viene messa una
divisa ideologica ben precisa: fuor di metafora, si fa
passare l’idea che la guerra su due fronti - i due
‘anti’: comunismo e fascismo - appartenga allo
stesso ordine di idee della ‘terza via’. C’è, tuttavia,
da rilevare che gli obiettivi polemici coincidono
solo nel caso del comunismo, che una volta compare come male assoluto (l’anticomunismo nella
teoria dell’equidistanza) e una seconda volta come
male relativo (l’enfasi posta sulla giustizia sociale,
sull’eguaglianza, a scapito della libertà, nella teoria
della ‘terza via’). Il fascismo, invece, compare solo
nella teoria dell’equidistanza, e il liberalismo economico (o, se si preferisce, il capitalismo occidentale) compare solo nell’ideologia della terza via, e
vi compare anch’esso come male relativo (l’enfasi
posta sulla libertà di mercato a scapito dei ‘diritti
sociali’). Male relativo, però, è lo stesso che ‘bene
relativo’ ovvero bene incompleto, unilaterale e,
pertanto, insoddisfacente. E qui si nota che il
comunismo, male assoluto nella battaglia antitotalitaria, passando nel registro della ‘terza via’, perde
le sue connotazioni diaboliche e si ritrova trasfigurato in un valore ‘incontinente’ e debordante proprio come incontinente e debordante è il suo
nuovo avversario ideologico, il liberalismo. In tal
Dino Cofrancesco
modo, se sul piano del doppio antitotalitarismo, è
inammissibile essere comunisti o fascisti, sul piano
della terza via, diventa comprensibile e tollerabile
sia che si possa essere comunisti sia che si possa
essere liberali, giacché ora il conflitto politico non
è più una ‘guerra di liberazione’, uno ‘scontro di
civiltà’, ma diventa il confronto tra due diverse
facce del prisma sociale, entrambe fornite di
buone ragioni, anche se entrambe portate a farle
valere calpestando i diritti altrui.
Con questa strategia intellettuale (forse non sempre consapevole), si ottiene, oltretutto, la oggettiva diminutio etico-politica del liberalismo. Nel
doppio antitotalitarismo - almeno nei paesi in cui
riuscì maggiormente a permeare le istituzioni politiche e il diritto - il liberalismo era l’autentico
Signore della Storia e dell’Etica pubblica occidentale: solo la libertà liberale, infatti, era in grado di
opporsi, decisamente e coerentemente, sia al fascismo che al comunismo—v. la political culture
dominante negli Stati Uniti, con la sua intransigenza nei confronti dei cittadini aderenti ai movimenti totalitari, di destra e di sinistra, non immune
talora da un certo spirito persecutorio. Nella teorica della terza via, l’ammazzacattivi liberale, invece,
diventa, da medico, paziente :è un malato come il
suo avversario ideologico ma non c’è nulla di compromesso giacché il laico terzista sarà, alla fine, in
grado di mettere a frutto quanto l’uno e l’altro
hanno espresso di buono. Anche sotto questo profilo, quindi, sarebbe meglio relegare in soffitta il
sostantivo ‘laico’ e fare della laicità un valore
‘astratto’ come la Bontà, la Virtù, la Responsabilità
che non “s’incarnano” in nessun individuo singolo
e in nessun partito ma ai quali tutti dovremmo
conformare le nostre azioni.
Riassumendo, i pataccari del ‘laicismo’, in Italia, a
livello filosofico, hanno identificato il ‘laico’
(sostantivo) col non credente, con chi segue il
lume della ragione e non si lascia sedurre dalle
superstizioni e dalle etiche eteronome, a differenza dell’uomo di fede, dogmatico e reazionario.
Come si è detto, questo equivale a dare di sé una
definizione non neutrale come sono neutrali, invece, almeno in teoria, le appartenenze geografiche,
religiose culturali che non ostentano superiorità
intellettuali o morali ma dichiarano una mera
Laicità
‘diversità’: professarsi ‘laici’ nel senso di Carlo
Augusto Viano o di Stefano Rodotà ha una diversa
valenza che dirsi di Savona o di Frosinone, giacché,
nel primo caso, l’autorappresentazione è ‘valutativa’, nel secondo, meramente descrittiva.
A livello etico-politico, i laicisti hanno fatto peggio:
hanno sovrapposto antitotalitarismo e terza via
nell’intento di fare della seconda il vero, coerente
e completo, garante del primo. Per loro, se il ‘male
assoluto’ del mondo contemporaneo è il totalitarismo, le armi più efficaci per combatterlo sono fornite dal ‘terzismo’. Resta, nondimeno, qualche
domanda: perché ,accanto alla degenerazione
totalitaria del comunismo, non si è avuta la degenerazione totalitaria del liberalismo? E come la
mettiamo con la pretesa del totalitarismo fascista
di essere lui la ‘terza via’? In realtà, il laicismo sta
diventando la bandiera sgualcita utile solo per ridare dignità e cittadinanza agli sconfitti del secondo
Ottantanove.
III. Leggendo i due interventi sulla laicità, pubblicati sul ‘Corriere della Sera’ il 15 maggio—quello di
Tullio Gregory, Perché è difficile discutere di laicità--, il 16 maggio—quello di Gaetano
Quagliariello e di Maurizio Sacconi, Laici senza
rinunciare alla nostra identità—il lettore da una
vita di Locke, di Constant, di Tocqueville, di
Minghetti ha la sensazione (penosa) di trovarsi
dinanzi a due diverse forme di integralismo, laicista l’uno, antilaicista l’altro. A nessuno degli intervenuti sono venute in mente le ragioni per le quali
si dice che “la matematica non è un’opinione”. A
volerle riassumere in breve, la matematica non è
un’opinione perché se un nazista, un comunista,
un liberale affermassero che “due più due fa cinque”, il primo verrebbe confinato in un Lager con
altri alienati mentali (insieme a ebrei, zingari, omosessuali etc.), il secondo verrebbe spedito in un
manicomio (possibilmente in Siberia) e il terzo
verrebbe affidato alle cure di specialisti, rispettosi
della persona umana anche quando, è proprio il
caso di dire, “dà i numeri”. Purtroppo—ma io
penso, per fortuna—l’etica e la politica sono
immerse nell’opinione: Platone la chiamava doxa
e la contrapponeva all’aletheia, la verità, e motivava la sua avversione alla democrazia con l’argo-
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n.32 / 2012
mento che “i più” seguono le “opinioni” mentre
solo i filosofi hanno il filo diretto con la Verità e,
pertanto, solo a loro incombe il dovere di governare saggiamente la città. La modernità nasce
all’insegna del riconoscimento (malinconico) del
‘quot capita tot sententiae’: gli interessi e i valori
sono tanti e l’arte del governo consiste nel far sì
che il loro conflitto non eroda gli spazi di libertà e
i diritti degli individui. L’incertezza è divenuta l’orizzonte insuperabile della società degli uomini e
ogni volta che si sono volute ristabilire credenze
forti condivise si è riaperta la stagione dei massacri.
Quando si parla d’incertezza non s’introduce
necessariamente il relativismo etico: il relativista
pone tutti gli ideali e le aspirazioni umane sullo
stesso piano; lo scettico—v. David Hume il vero
padre nobile del ‘liberalismo dei moderni’—si limita a far rilevare che il ‘dover essere’ non può venir
fondato sull’’essere’, che nessuna scienza può stabilire che i nostri ‘gusti morali’, i nostri modelli di
vita buona, i nostri progetti politici, sono più ‘veri’
di quelli dei nostri avversari. Leggi e norme, sia in
etica che in diritto, sono valide “per noi”, il che
equivale a dire che non si trovano appese nelle
sale dell’Iperuranio platonico. Questa consapevolezza, beninteso, non toglie nulla all’assolutezza del
dovere: si ama la propria madre non perché più
bella, più intelligente, più colta delle altre madri ma
perché è la nostra e noi nutriamo affetti e sentiamo
per lei doveri e ai quali pensiamo di non poterci
sottrarre. Come insegnava un altro grande esponente del liberalismo, Georg Simmel, apparteniamo a diversi mondi, con diversi codici, non sempre
conciliabili. Abbiamo le nostre gerarchie di valore
(per il liberale, ad esempio, la libertà viene prima
dell’eguaglianza), i nostri dubbi, le nostre strategie
per indurre gli altri a convenire con noi. Per questo
l’invenzione della democrazia (liberale) ha segnato
una svolta epocale: per la prima volta, gli uomini
sono stati costretti a fare i conti con le ‘opinioni’
degli altri e a rassegnarsi se, in questo o in quel
campo, si sono ritrovati in minoranza. Se ogni disegno o proposta di legge fosse espressione del
Giusto, del Vero (!), del Retto o, al contrario, fosse
farina macinata dal mulino di Satana,”contare le
teste” sarebbe una gran brutta cosa e avrebbe ragione il vecchio Auguste Comte nella sua condanna
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irriducibile dei ludi cartacei: il timone del governo
dovrebbe venire affidato ai Sapienti perché solo
essi sanno come raggiungere il porto della felicità e
del benessere per tutti.
Riferendosi a temi come la fecondazione assistita,
il testamento biologico, la scuola pubblica,
Gregory scrive che:” si tratta di problemi di fondo
che investono vita e morte, ove lo Stato, se democrazia laica, non può e non deve accettare scelte
che derivino da una particolare ideologia religiosa
trasformando posizioni teologiche in leggi ordinarie, premessa questa di ogni fondamentalismo”.
Premesso che su certe questioni bioetiche mi ritrovo più dalla sua parte che da quella del ministro
Sacconi, mi chiedo se sia legittimo, invece di discutere delle idee e degli argomenti degli avversari,
squalificarli a priori come servi (non disinteressati)
del Vaticano. E’ lo stesso disagio provato, tanti anni
fa, quando sentivo accusare i comunisti di essere
venduti a Mosca: magari sarà stato anche vero ma
spesso era manifesto l’intento di non voler affrontare i temi politici posti sul tappeto dal PCI dichiarando l’interlocutore impresentabile. Oggi basta
sollevare il problema dell’aborto—rilevando, ad
es., che è divenuto, per molte donne, un anticoncezionale o sollevando dubbi sull’eccessiva durata
delle settimane entro le quali è lecito praticarlo—
per venire accusati di oscurantismo clericale, di
cieca e gesuitica fedeltà agli ukase di Benedetto
XVI o del suo predecessore, Giovanni Paolo II.
Sono posizioni di chi ha la verità in tasca, di chi
non avendo il minimo dubbio su cosa debba intendersi per ‘libertà’ e ‘dignità’ della persona umana,
ha la tetragona certezza che quanti concordano
con le posizioni della Santa Sede siano spregevoli
ipocriti, atei devoti, individui mossi solo dal ‘particulare’.E se uno, pur non essendo credente, avesse un senso così forte della sacralità della vita da
ritenere illecito ‘staccare la spina’?Dovrebbe per
questo venir assimilato allo ‘spirito totalitario’?
Gregory & C. fingono di ignorare che i totalitarismi
di tutti i colori non facevano alcun conto della vita
(non solo dei nemici dichiarati ma, altresì, dei
seguaci in odore di eresia) mentre il biofilismo,
cattolico o laico, si caratterizza per l’eccesso di
valore conferito all’esistenza umana. I totalitari
vogliono spegnere le vite nocive alla causa, gli
Dino Cofrancesco
estremisti del biofilismo vorrebbero conservare i
corpi “che respirano ancora”, indipendentemente
da ogni considerazione di umana pietas e dagli
stati accertati di irreversibilità. Gregory, come me,
è contrario a ogni accanimento terapeutico e,
come me, fa rientrare l’alimentazione e l’idratazione artificiale in questa fattispecie ma sembra non
sospettare neppure che la sua (la nostra) è un’opinione ‘ragionevole’ accanto ad altre opinioni, che
pure pretendono di esserlo e che, in democrazia, a
decidere, in presenza di prospettive inconciliabili,
non resta che l’appello ai cittadini elettori o,
meglio, ai loro rappresentanti. Il discredito e la diffamazione degli avversari, giusta la tentazione tipica degli ‘intellettuali’ italiani, portati a definire
‘interessi’ i valori degli altri e valori gli interessi
propri, con buona pace del filosofo de ‘La Sapinza’,
non fanno parte della laicità ma solo di un laicismo
da Società Giordano Bruno, da MicroMega, da
Critica Liberale.
L’articolo di Quagliariello e di Sacconi, però, non
mi sembra, sinceramente, rientrare in un diverso
stile di pensiero. Gli autori non sono tenuti a (continuare ad) essere liberali, almeno nell’accezione
tradizionale del termine ,ma non possono inventarsi continuità ideali sempre più problematiche
.Le parole hanno un peso che non è lieve quando
si scrive che “la libertà è cosa vaga ed effimera
senza l'appartenenza. E solo se si accetta di appartenere a una tradizione, a una famiglia, a una
comunità si ha la forza per aprirsi senza timore al
nuovo: per intraprendere quel dialogo che integra
quanti giungono da noi provenienti da altri mondi
e portatori di diverse culture; per collocare la
modernizzazione tecnica e scientifica in quell'alveo
di valori che la esaltano perché la pongono in
comunicazione con la ricchezza della persona e
delle sue relazioni comunitarie. Se, di contro, si
ritiene che la libertà possa fondarsi solo su diritti
positivi in grado di generare sempre nuovi diritti,
nell'illusione di liberare l'individuo da ogni vincolo, si finisce per cadere in un relativismo per il
quale tutto si equivale e anche la politica si riduce
a mera gestione del potere”.
Da tempo anch’io, sulla scorta di quel gran libro
che è In difesa della nazione di Pierre Manent
(Ed. Rubbettino), sostengo che l’aver ignorato la
Laicità
‘comunità politica’, da parte di filosofi del diritto e
della politica divenuti legione nelle nostre
Università e sui nostri giornali, porta all’imperialismo giudiziario, alla cancellazione della politica e
alla tragica illusione che il liberalismo sia la “teorica dei diritti” (come credeva il compianto
Norberto Bobbio) laddove è la “teorica delle libertà”(come ha ricordato tante volte Piero Ostellino).
Ciò chiarito, tuttavia, mi sembra non poco sconcertante, in una visione liberale, l’affermazione che
“la libertà è cosa vaga ed effimera senza l’appartenenza”. La libertà è proprio libertà dall’appartenenza e il fatto che senza appartenenza—ovvero
senza ‘comunità politica’nel senso di Manent--essa
si eserciti nel vuoto (come, del resto, si esercitano
nel vuoto i diritti) non significa certo che bisogna
ripensare radicalmente la libertà negativa, la libertà come non-impedimento in cui Isaiah Berlin
vedeva la quintessenza del liberalismo. Se è vero
che “senza i denari”—cioè senza le risorse dello
Stato moderno con le sue istituzioni e con le sue
tradizioni culturali oggi balzate in primo piano—
“non si cantano messe” ovvero, fuor di metafora,
non si crea una convivenza civile per noi degna di
questo nome, è altrettanto vero che denari e
messe rimangono cose diverse.
“Appartenere a una tradizione, a una famiglia, a
una comunità” è importante per un liberale non
disposto a ripetere le solite stanche tiritere sullo
‘storicismo’—quello autentico, di Burke e di
Cuoco, non la ‘filosofia della storia’ stigmatizzata
giustamente da Popper ne La miseria dello storicismo—ma purché non si smarrisca che l’individuo, nell’ottica dei Benjamin Constant, viene
“prima” della tradizione, della famiglia, della comunità e se queste vengono apprezzate—e tutelate
dalle leggi ordinarie - è perché danno sostegno
concreto al suo stare al mondo. Si diceva una
volta: lo Stato al servizio dei cittadini non i cittadini al servizio dello Stato. Si dovrebbe dire oggi: tradizione, famiglia e comunità al servizio dei cittadini e non viceversa. Un povero sardo, catapultato a
Genova o a Torino dalla Barbagia, si sentirà meno
solo se accolto dalla ‘Sarda Tellus’ e, in cambio del
calore comunitario, che questa gli assicura, acconsentirà a sentirsi “meno libero” (non potrà, infatti,
sottrarsi agli incontri, cene, scampagnate, rimpa-
81
n.32 / 2012
triate varie organizzate dai suoi corregionari).
Quando Quagliariello e Sacconi ammoniscono che
“ la sacrosanta libertà di cura non può produrre un
determinismo antropologico fondato sull'illusione
che l'uomo possa governare la propria vita in ogni
istante, anche a costo di degradare il medico a funzionario pubblico e lo Stato a dispensatore di suicidi assistiti a richiesta” non rendono giustizia all’etica laica e liberale, che non obbliga nessun medico a spegnere una vita né lo Stato a garantire un
reparto ospedaliero per quanti non vogliono più
vedere ‘lo dolce lome’. Qui è questione di stabilire, né più né meno, se ho la libertà, nel caso mi
trovassi nelle condizioni di Eluana Englaro, di non
venir alimentato e idratato artificialmente. Se la
risposta è negativa, in virtù del “ riconoscimento
laico del valore della vita”--che “è il necessario presupposto per quel vitalismo economico e sociale
che solo può sottrarre al declino le società di vecchio benessere”--,non si vede come si possa restare ancora sul piano del liberalismo. E si aggiunga
che il rigetto della mia ‘pretesa’ con un discorso
sulla “crisi della civiltà”, che in Europa circola da
qualche tempo (a dir poco, da tre secoli) rende il
mancato riconoscimento ancora più preoccupante, legandolo non a motivi di opportunità o ad una
qualche etica della responsabilità (se si concede
“a”, negli ospedali potrà derivarne “b”..) ma ad una
diagnosi ambiziosa sullo stato di salute del mondo
e dell’Occidente. E non si dimentichi che dalle diagnosi ambiziose nascono le religioni politiche!
Nel massimo rispetto per tutte le opinioni, dal
momento che tutte fanno riferimento a concezioni etiche impegnative e fortemente vissute (tirare
in ballo la malafede e l’opportunismo, pur presenti, in qualsiasi agire umano e in qualsiasi schieramento significa si traduce nel sostituire agli argomenti l’arma bianca), mi si conceda ancora una
domanda: nella vexata quaestio che oppone, in
bioetica, i sostenitori della indisponibilità della vita
ai sostenitori della qualità della vita perché
dovremmo aspettarci (e da parte di chi?) una sentenza infallibile che risolva una volta per sempre la
controversia? Diceva il vecchio Hegel (già per questo inassimilabile a qualsivoglia ideologia totalitaria
di destra o di sinistra) che la tragedia della storia
umana non sta nel fatto si confrontano di continuo
82
non il ‘bene’ e il ‘male’ ma nel fatto che ci si trova
dinanzi a due ‘verità’. Se fosse stato presente allo
scontro (anche parlamentare) sul caso Englaro
dove da una parte si gridava ‘assassini e, dall’altra,
‘fascisti’(chissà perché poi) si sarebbe ritratto inorridito da un paese in cui una buona parte della cultura lo accusa ancora oggi di illiberalismo (e, va
detto, con qualche buona ragione). “La libertà è un
rischio” dice un antico aforisma: quando si entra
nelle regioni del mistero e dell’indecifrabile ciascuno faccia le sue scelte senza la pretesa di ‘costituzionalizzare’ le leggi che da quelle scelte derivano—che è poi quanto pretendono, a sinistra, i filosofi del diritto come Luigi Ferrajoli e dei loro colleghi e a ‘destra’ certi giuristi cattolici come l’amico Francesco D’Agostino, che, potendo, gli uni e
gli altri, iscriverebbero nella carta costituzionale i
loro diritti e i loro divieti.
Quagliariello e Sacconi appartengono a un’area
politico-culturale che spesso si richiama alla ‘società aperta’ e non a caso citano Benedetto Croce. Il
filosofo, però, votò—a ragione o a torto— nel 1929
contro il Concordato e meno di vent’anni dopo
contro l’articolo 7. Forse, tenuto conto delle circostanze storiche, avrei votato, la seconda volta, in
maniera diversa ma, in ogni caso, un liberale è
tenuto a ricordare la sua indipendenza spirituale,
la stessa manifestata da Norberto Bobbio con le
sue riserve nei confronti dell’aborto. Dovremmo
imparare tutti a rispettare quanti non la pensano
come noi—e non sul piano della retorica scolastica
ma nella vita di tutti i giorni—e a intendere il rispetto non come l’intendeva Trilussa (quella ch’è idea
la rispetto, “quello ch’è omo lo cazzotto”) ma nel
senso humeano del dubbio salutare che anche i
nostri avversari potrebbero avere nella loro faretra
qualche buona freccia.
E’ vero, tuttavia, che ad accendere i fuochi della
guerra civile in Italia sono, soprattutto, i ‘chierici
(traditori) della sinistra radical chic che imperversano nelle aule universitarie, nelle redazioni, nelle
trasmissioni radiofoniche e televisive. Ne è espressione idealtipica Chiara Saraceno—una studiosa
che proviene da una prestigiosa dinastia cattolica,
come Paolo Flores d’Arcais, del resto—che scaglia i
suoi fulmini laicisti dalle colonne di ‘Repubblica’.
Nell’articolo, Un paese alla rovescia, intervenen-
Dino Cofrancesco
do sulla legge contro l’omofobia, la sociologa torinese non esita a scrivere che “anche senza ricatti e
scambi, l'atteggiamento della Chiesa trova terreno
fertile nella grettezza morale e nella incultura di
una classe politica che sembra ricordarsi dell'etica
solo quando sono in gioco le scelte dei cittadini
circa le proprie relazioni e vita personale – dalla
sessualità alla procreazione alle decisioni su come
affrontare la fine della vita” e a denunciare “il rigorismo” dei “moralisti d'accatto”. Nelle sagrestie
della mia adolescenza, i comunisti erano il ‘buco
nero’ della solare società italiana: nelle riflessioni
di Chiara Saraceno il posto è stato preso da quanti, in tema di omosessualità e di ‘normalità’, non
condividono le sue idee (come non le condivideva
Freud…). Il tanfo è sempre quello delle candele
spente e dei locali non aerati. Non meraviglia, pertanto, che nessuna considerazione venga riservata,
nell’articolo, a quanti, ad esempio, si chiedono
perché l’aggressione a una coppia gay debba comportare conseguenze penali assai più pesanti di
un’aggressione a una coppia eterosessuale e perché quanti hanno gravemente leso i diritti e le
libertà altrui non debbano essere giudicati ( e severamente) per i loro atti. Per l’indignata articolista,
queste domande svelerebbero un “universalismo
strumentale” nato dalla “negazione che esistano
violenze motivate specificamente dall’odio e disprezzo per particolari gruppi sociali”, un “universalismo negativo, non positivo”. E se invece fossimo in presenza di un universalismo liberale deciso
a rendere irrilevanti le ‘appartenenze’ (di genere,
di religione, di militanza ideologica, di etnia, di
nazionalità etc.) per mettere al centro del dibatti-
Laicità
to pubblico l’individuo e l’uso fatto della sua libertà e responsabilità? Se in una lite un naso viene fracassato perché il proprietario è un interista e un
altro naso subisce lo stesso danno perché il proprietario è un gay, per qualche vetero liberale
come il sottoscritto, dovrebbero contare solo la
gravità della ferita e l’aggressione fisica a un essere
umano. E’ un discorso ‘astratto’ questo? Sono disposto a concederlo ma quale autorità riveste una
qualsiasi Chiara Saraceno per tacciarmi di ‘grettezza morale’ e di ‘incultura’? Non potrebbe limitarsi
a manifestare un ‘disaccordo civile’?
Purtroppo qualche frase infelicissima di Berlusconi
e il disegno perseguito da non pochi ‘intellettuali
organici’ del PDL di “ridare un’anima” (cristiana)
all’Italia e all’Occidente sono benzina sul fuoco per
gran parte dell’intellighentzia scalfariana. E quel
che è peggio rischiano di compattare, da un lato,
‘laicità’ e, dall’altro, antagonismo sociale, politico
ed economico. Col risultato che quanti erano divenuti oggettivamente impresentabili, avendo sepolto il loro cuore all’Avana, in virtù del loro impegno
laicista, sono rientrati nel gioco, come la buonanima di José Saramago, oggi celebrato dai radicali
per il suo sostegno alla Fondazione Coscioni. A
Saramago sono state condonate tutte le battaglie
tardomarcusiane contro la ‘società aperta’: se, in
via d’ipotesi, avesse esaltato Stalin, il lavacro laico
l’avrebbe redento e rigenerato. E’ la stessa fortuna
capitata a Margherita Hack, l’astronoma rifondazionista, che invita gli Italiani a sbattezzarsi e che,
forse per questo è stata proposta ‘senatrice a vita’.
Nel nostro paese, è proprio il caso di dire, se ne
vedono tante….
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Mario Quaranta
Il federalismo di Alberto Mario
Federalismo
1. L’“esplosione” del dibattito sul federalismo in Italia
Il dibattito sul federalismo è esploso improvvisamente in Italia all'indomani della disintegrazione
‘etico-politica’ della “prima Repubblica” nel 1996, e
nella transizione a una cosiddetta “seconda
Repubblica”. D’altra parte, non si può dire di essere già passati alla realtà di uno Stato nazionale unitario nuovo nella forma politico-istituzionale
rispetto all’antecedente, le cui linee essenziali
sono delineate dalla Costituzione del 1947.
L'odierno assetto è storicamente il prodotto dell’unificazione nazionale compiuta nel 1860 con la
proclamazione del Regno d'Italia, e della sua centralizzazione politico-territoriale e amministrativa,
secondo un modello francese-napoleonico imposto dal Parlamento nel 1865 che dovette approvare
sei leggi incorporate in una sola. Questo modello è
rimasto sostanzialmente tale fino alla formazione
della prima Repubblica in età post-fascista, attraverso cui lo schema centralista dello Stato nazionale unitario si è tramandato, sia pure con alcune
varianti. Infatti, nel secondo dopoguerra si istituirono delle regioni a statuto speciale (Sicilia,
Sardegna, Val d'Aosta, Trento-Bolzano), che configurarono delle eccezioni periferiche al modello
dello Stato-Nazione che continuava dal Regno
d'Italia. In seguito, si istituirono le regioni in tutta
la penisola, che nelle intenzioni dei governanti
avrebbero voluto essere anche una concessione a
un principio di decentramento amministrativo, ma
che di fatto ebbero piuttosto la funzione politica di
consolidare tacitamente un “compromesso storico” fra le due forze politiche fondamentali, divise
per aree regionali “bianche” e aree “rosse”, dove
84
già le influenze politiche elettorali preesistevano,
come, esemplarmente, agli opposti estremi: il
Veneto centrale (Vandea d'Italia, con Bergamo), e
l’Emilia-Romagna comunista. Ma con tale intesa
compromissoria, il modello centralista dello StatoNazione non fu superato.
In breve: ci sono sì, oggi, modelli e progetti di
diverse forze politiche, i quali convergono in un
punto, nel rifiuto parziale o totale del vecchio,
mentre si stanno ora via via approvando le
disposizioni per realizzare il federalismo presentato
dall’ultimo governo Berlusconi. Questa è la
situazione in cui è esploso in Italia, nell’ultimo
decennio del Novecento, il dibattito sul federalismo,
in rapporto al centralismo politico-territoriale e
amministrativo dello Stato-Nazione unitario di
origine risorgimentale e monarchica piemontese.
L’opportunità (o la necessità) di una trasformazione
dello Stato nazionale unitario e centralista, in un
altro ordinamento a sfondo federale, è stato
accettata o subita da una pluralità di forze politiche
discordanti nei rispettivi campi (di centro-destra e di
centro-sinistra), e si riflette ovviamente anche nella
retrospettiva storica, che da esso scaturisce.
Così assistiamo alla ricerca di antecedenti ideali e di
paradigmi diversi e alternativi, che precorsero
nell'età risorgimentale l'unità nazionale, realizzata
istituzionalmente sulla base del modello
monarchico-centralista, e che continuarono anche
nell'età post-risorgimentale, sia pure come
tendenze prive di peso politico, nella critica
all'ordinamento statale esistente. È pertanto
comprensibile la confusione, anche nella
retrospettiva storica, che induce a sovrapporre
tematiche e categorie ideologiche attuali, proprie
della fine del ‘secolo breve’ (1914-1991) a quelle
Mario Quaranta
dell’Ottocento, risorgimentali e post-risorgimentali,
alla riscoperta di una continuità sommersa dal 1860
fino ad oggi, e che ora sembra riemergere.
In particolare, si tende a contrapporre in modo
indifferenziato, allo schema centralista dello StatoNazione realizzato nel Regno d'Italia, una pluralità
di modelli diversi ma irrealizzati. Essi hanno in
comune solo l’elemento negativo dell’opposizione
e della critica al progetto e alla realtà storica
effettuale dello Stato nazionale unitario, ossia
l'organizzazione secondo uno schema di rigido
centralismo politico-territoriale. Anzi, esso si
accentuò nella transizione dalla Destra storica
liberal-moderata (1861-1876) ai governi della
Sinistra liberale, in particolare dal 1888 con
Francesco Crispi, irrigidendosi al massimo con il
regime dittatoriale fascista, al quale lo schema
centralista di un modello cesarista-napoleonico gli
è stato particolarmente congeniale.
Centralismo e federalismo sono, dal punto di vista
storico-istituzionale, due variabili nella formazione
dello Stato-Nazione moderno; questo si basa in
entrambi i casi sul principio di sovranità popolare,
che sostituisce il principio di sovranità per diritto
divino delle monarchie assolute dell'antico regime
pre-modeno. Storicamente, il centralismo politicoterritoriale e amministrativo è stato, in Europa
occidentale, anzitutto il risultato della formazione
degli Stati nazionali, conseguente alla
centralizzazione militare e burocratica imposta
dalle monarchie assolute tra i secoli XVI e XVIII,
contro l'anarchia dei particolarismi territoriali
dell'ordine feudale. Il suo schema modernizzato è
stato continuato dalla Rivoluzione francese
attraverso la democrazia giacobina degli anni 17921794, contro le tendenze federaliste girondine, e i
governi del Direttorio che sono seguiti alla
reazione termidoriana anti-giacobina fino al
cesarismo napoleonico, dal Consolato all'Impero.
È perciò la Francia che per prima ha offerto (anche
al Regno d'Italia nel 1861-1865) il paradigma
storico-istituzionale di centralismo politicoterritoriale e amministrativo di Stato-Nazione
moderno nell’Ottocento; il modello storicoistituzionale federale di Stato-Nazione moderno
deriva invece dalla rivoluzione anti-coloniale da
cui, con la nuova nazione degli “Inglesi d'America”,
Il federalismo di Alberto Mario
nascono gli Stati Uniti.
2. Il modello federalista americano e quello
europeo
Nelle diverse tipologie di formazioni storicoistituzionali e dei rispettivi modelli è evidente il
fatto originario che connota la nascita dello Statonazione moderno di forma federale con gli Stati
Uniti d'America. Lo Stato-nazione moderno nasce
come una realtà nuova, sia come nazionalità (degli
“Inglesi d'America”, come poi degli “Spagnoli
d'America”), sia come formazione statale, dalla
rivoluzione anti-coloniale contro la metropoli
europea. Nei territori coloniali, non sussisteva la
nozione di ‘stato’, mentre vigeva una realtà
istituzionale di self-governement locale nelle ex
tredici colonie anglosassoni, e di autonomie
municipali nelle colonie ispano-americane.
Il federalismo prodotto dalla rivoluzione anticoloniale, nelle sue varianti, ha origine anzitutto da
una reazione al centralismo militare-burocratico
della metropoli europea esterna. La continuità di un
ordine istituzionale, nel crollo di quello coloniale, si
attuò nel self-governement locale e nelle autonomie
municipali. Questi due fatti determinarono la
nascita di una pluralità di stati federati di ambito
regionale (maggiore o minore), la cui
differenziazione si definì fondamentalmente in base
a quelle economiche, già esistenti nell'età coloniale.
Nessuna delle ex regioni storiche coloniali poteva
far valere la propria egemonia sulle altre; il
modello dell'Unione federale, alle origini dello
Stato-nazione moderno, nascente in America dalla
rivoluzione anti-coloniale, doveva perciò risultare
il più congeniale a una realtà sociale, politica e
territoriale pluralistica, di fatto già preesistente
come ‘costituzione materiale’. Tale equilibrio
pluralistico, intrinseco alla formazione storicoistituzionale di tipo federale, fu inoltre favorito dal
fatto che nell'America anglosassone la rivoluzione
anti-coloniale non fu caratterizzata alle origini e
non fu poi seguita da violenti conflitti sociali di
classe, come avvenne in Europa nel corso della
Rivoluzione francese ma anche in alcune aree
dell'America ispanica, in cui perciò s'imposero
dittature e centralismi.
85
n.32 / 2012
Una volta crollato il dominio coloniale della
metropoli, gli Stati Uniti godettero del vantaggio di
una frontiera continentale aperta dall'Atlantico al
Pacifico (dal 1803, in seguito alla cessione della
Luisiana o dei territori che si trovavano lungo il
Missisipi fino al Golfo del Messico, da parte di
Napoleone), in continua espansione, con la
trasformazione di territori colonizzati in nuovi Stati
federati, senza più la minaccia di conflitti con
grandi potenze esterne confinanti. Il caso della
formazione storico-istituzionale degli Stati-nazione
moderni in Europa è l'opposto.
In Europa iI modello confederale è pre-moderno;
storicamente ha origine da Stati (o principati, o
città-stato) o altre formazioni politico-territoriali
preesistenti, che si aggregano in un patto di
cooperazione, ma senza rinunciare alla propria
sovranità in quella superiore di una unione, come
nel caso esemplare della Svizzera (che soltanto
dopo il 1848 evolve verso il modello di unione
federale). Ma la Svizzera costituì un'isola in Europa,
per il fatto che il gioco d'equilibrio tra grandi
potenze le garantì una neutralità permanente. I
modelli del federalismo nordamericano e
confederale elvetico furono presenti in tendenze
politiche risorgimentali italiane. Il paradigma
confederale, come vedremo, fu proprio del
progetto dei monarchici, cattolici-liberalmoderati
piemontesi, dell’abate Gioberti, di Balbo, D’Azeglio,
e dei loro associati, trovando una breve fortuna
ideologica tra il 1844 e i primi 4 mesi del 1848.
3. Ragioni nella scelta del centralismo
Per una penisola italiana (‘espressione geografica’,
secondo il principe di Metternich) divisa da secoli in
una pluralità di principati, tra cui lo Stato pontificio al
Centro, e da profonde differenziazioni economicosociali tra Sud e Nord mai superate, una formula
confederale poteva sembrare la più idonea a una sua
“costituzione materiale”. E di questa, infatti, fu
espressione storica il programma neo-guelfo, rimasto
un'ideologia politica irrealizzata e tuttavia significativa
dell'età risorgimentale. Il centralismo adottato negli
anni 1861-1865 per l'organizzazione politicoterritoriale e amministrativa fu la conseguenza di
un’unificazione della penisola maturata
86
improvvisamente e imprevedibilmente dal 1859 al
1860, per il concorso dell'iniziativa garibaldina di
liberare il Regno delle Due Sicilie con la spedizione
dei Mille, e, come conseguenza immediata, per la
conquista militare piemontese attraverso i territori
pontifici dell'Italia centrale, cui seguirono i plebisciti
che sanzionarono con grandissime maggioranze le
annessioni. In questo modo, il nuovo Stato-nazione
unificatore di una pluralità molto eterogenea di
regioni storiche della penisola, nacque
indipendentemente da una Assemblea costituente,
come continuità del Regno di Sardegna, ossia, in
pratica, come il risultato di una sua improvvisa
espansione politico-militare. Dopo un periodo di
incertezza del Parlamento e del Governo, il rigido
centralismo del modello francese-napoleonico fu,
quindi, uno strumento adottato per consolidare
autoritariamente
l'espansione
monarchica
piemontese, contro le resistenze al nuovo ordine
statale che potevano provenire dall'alto, ossia
legittimismi monarchici, soprattutto borbonico e
lorenese, e sia anche da ondate di sovversivismo
popolare spontaneo insorgente dal basso, come si
manifestò dal 1866 con le proteste diffuse contro la
tassa sul macinato, a causa della quale, nel 1876,
cadde il governo della Destra storica liberalmoderata.
Il centralismo nell'organizzazione politicoterritoriale e amministrativa definita negli anni 18611865 appare dunque, in Italia, la risultante
fondamentalmente di una necessità politica
superiore di difesa dell'ordine pubblico che, nelle
valutazioni dei governi delle oligarchie liberalmoderate, poteva essere minacciato, con l'unità
nazionale, non solo da un ordinamento federale, ma
anche da un semplice decentramento amministrativo. Su tali valutazioni dovette pesare, in
particolare, la paura esercitata dalla reazione di un
legittimismo borbonico che nei territori meridionali
si associò, strumentalizzandolo, a un sovversivismo
popolare spontaneo, intrecciatosi con il
brigantaggio, contro cui fu condotta per alcuni anni
una violenta campagna di repressione militare.
4. Il progetto neo-guelfo e la sua eclissi
La soluzione unitaria rispetto a quella federalista,
scelta nel periodo risorgimentale dalla monarchia
Mario Quaranta
sabauda e dalle élite moderate italiane, non era
inscritta come fatale nella storia del nostro Paese:
“Nel 1815, gli assetti dell'Italia e della Germania
presentavano molti tratti paralleli. In entrambi i
casi, la disunione politica si accompagnava a una
relativa unità generata dalla lingua, dalla letteratura, dall'arte, che univano gran parte degli abitanti
di ciascuno dei due paesi (o almeno le loro élite
colte). Questa situazione di frammentazione politica e di relativa unità culturale rendeva possibili scenari profondamente differenti e divergenti. Si
sarebbe imposto un modello di unificazione dall'alto o dal basso? La forza unificatrice sarebbe stata
una delle numerose dinastie che si dividevano i
paesi, oppure un patto confederale fra le unità
politiche locali? In entrambi i casi (in Italia e in
Germania), vi erano forti ragioni che rendevano
plausibile un modello di unificazione del secondo
tipo” (Bocchi et alii 1991, 59).
Il programma neoguelfo dei cattolici liberal-moderati piemontesi (Gioberti, Balbo, D’Azeglio) ha
costituito, nella breve stagione in cui consumò la
sua parabola, un progetto di notevole rilievo politico e istituzionale, ancora oggi ciclicamente rivisto
e studiato da storici e costituzionalisti. Nel recente
intervento del rettore dell’università cattolica di
Milano, prof. Francesco Ornaghi nel X Forum del
“Progetto cultura” sui 150 anni dell’Unità d’Italia
(Roma 2010) è stata proposta una rivalutazione e
attualizzazione del guelfismo, successivamente
ripresa dal cardinale Camillo Ruini. È noto che il
Primato morale e civile degli italiani (1843) di
Vincenzo Gioberti è considerato il manifesto del
neoguelfismo; in quest’opera egli propone una
confederazione degli Stati italiani sotto la presidenza del papa. Questo orientamento ha avuto
una interessante ‘incubazione’ storica su cui ci soffermiamo brevemente.
Nelle discussioni sull’assetto costituzionale
dell’Italia si presentò subito, fin nel periodo prerisorgimentale, il problema se la formazione costituzionale moderna più adeguata alla penisola italica
fosse stata quella confederale o federale. Ciò fu pensato dagli inizi della modernizzazione politico-giuridica della penisola, dopo la Rivoluzione francese e
l’invasione napoleonica, che determinò la nascita
delle cosiddette “Repubbliche giacobine” italiane
Il federalismo di Alberto Mario
del triennio 1797-1799, che in realtà non erano un
modello giacobino propriemante detto, rovesciato
prima di tutto in Francia dalla reazione termidoriana del 1794, che diede vita alla nuova costituzione
repubblicana del 1795 (o dell’Anno III).
Le cosiddette repubbliche italiane ‘sorelle’ patrocinate da Napoleone, seguirono piuttosto il modello
costituzionale francese dell’Anno III o dei repubblicani moderati aggregati dalla reazione termidoriana, che della breve parentesi della democrazia
giacobina aveva continuato però lo schema centralista della Repubblica “una e indivisibile” contro le
tendenze girondine federaliste. Ma tale schema
sarebbe stato delle singole Repubbliche, nessuna
delle quali si sarebbe estesa a tutta la penisola. Per
questa, l’ipotesi di Napoleone III sarebbe stata
invece di tre grandi formazioni statuali, del Nord,
del Centro e del Sud, la cui aggregazione nazionale nella penisola sarebbe stata quindi di tipo più
confederale che federale. (Tale ipotesi sussistette
fino agli accordi di Plombières stabiliti nel 1858 da
Cavour con Napoleone III). Il progetto confederale dei neoguelfi, monarchici, cattolici liberal-moderati piemontesi, dell’abate Gioberti, del marchese
Massimo D’Azeglio, di Felice Balbo, Cesare Cantù,
Gino Capponi e altri ancora, simpatizzanti di altre
regioni, si inserì con un rapido e notevole successo ideologico tra il 1844 e i primi mesi del 1848,
quando crollò definitivamente. Esso rispondeva
bene a una tendenza compromissoria generale che
mirava a contemperare la conservazione della pluralità dei principati pre-moderni esistenti nella
penisola, con una loro moderata modernizzazione
costituzionale, in una aggregazione nazionale italica di tipo confederale, il cui equilibrio conservativo sarebbe stato garantito dal primato politicomilitare della monarchia sabauda e dal primato
civile del Papato. Ciò che determinò il rigetto integrale dell’ipotesi neoguelfa non fu originariamente
e fondamentalmente l’irrigidimento di Papa Pio IX
(Giovanni Maria Mastai Ferretti), che di quel movimento sembrava aver accettato di buon grado di
porsi alla testa dal momento che esso, pur comportando qualche sacrificio alla sua tradizione premodema, esaltava il ruolo etico-politico del Papato
in Italia e in Europa, bensì della Francia e
dell’Impero austro-ungarico per diverse ma con-
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n.32 / 2012
vergenti ragioni di stato e di potenza. Infatti, un
qualsiasi progetto di indipendenza e unificazione
politica nazionale nella penisola italica non poteva
prescindere, per la sua realizzazione, da una intesa
con le potenze europee interessate alla conservazione dello statu quo, come l’Austria, o anche a
una sua revisione, ma controllata, come fu anzitutto la Francia da Napoleone I a Napoleone III e
quindi la Gran Bretagna. (Come è noto, guadagnare Francia e Gran Bretagna alla causa dell’indipendenza italiana e dell’espansione piemontese nella
valle padana fu il grande disegno diplomatico perseguito da Cavour con la partecipazione, nel 1853,
alla guerra di Crimea, e coronato dagli accordi di
Plombières nel 1958, che prelusero alla seconda
guerra del Risorgimento e alla liberazione della
Lombardia). Ma nessuno aveva previsto e voluto
allora una unificazione dell’intera penisola in un
solo Stato-Nazione unitario, se si escludono i
democratici rivoluzionari mazziniani e garibaldini
che avrebbero voluto la Repubblica. In conclusione, non era stato previsto e voluto né lo Stato
nazionale unitario e monarchico, che si avviò dopo
la liberazione della Lombardia nel 1859, né era
stato progettato lo schema di un forte centralismo
politico-territoriale e amministrativo che sarà
attuato dal 1861 al 1865 dai governi della Destra
storica liberal-moderata. E d’altra parte, è noto che
Cavour e i cavourriani non erano assertori di un
centralismo secondo il modello cesarista napoleonico, ma seguivano piuttosto i modelli liberalmoderati francesi tra l’età della Restaurazione e
quella della Monarchia liberale Orléans, espressi in
modo particolare da Benjamin Constant e a
François Guizot, autore della formula del “juste
milieu” fatta propria in Italia da Cavour.
Si può dire, dunque, che il progetto confederale
suscitò un ampio consenso, essenzialmente perché tale programma tendeva a conciliare la continuità dei Principati con l’indipendenza, il primato
del Papato e la conservazione dell’ordine sociale,
sotto la tutela politico-militare della monarchia
piemontese. Il neoguelfismo ha rappresentato,
dunque, un modello (irrealizzato) di modernizzazione cattolica verso la rivoluzione liberale, che
precedette e seguì la rivoluzione politico-istituzionale del Piemonte; esso si contrappose alla fase ari-
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stocratica reazionaria classica, ossia al cattolicesimo reazionario, e accettando la rivoluzione istituzionale borghese tentò di integrare il nuovo nel
tradizionale, e viceversa, sempre dal punto di vista
cattolico-chiesastico. Ma come ha sottolineato
Antonio Gramsci, il neoguelfismo fu sconfitto nel
‘48: “Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnova, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i
primi posti di direzione” (Gramsci 1975, 1769). E
come l’emergere del neoguelfismo aveva esautorato le ali estreme (la destra reazionaria e l’estrema
sinistra democratica), la sua eclissi determinò un
inasprimento fra clericali e liberali (fra tendenze
reazionarie e democratiche), come risultò dal tentativo di costituire la Repubblica romana nel 1849,
sconfitta dall’intervento francese. In altri termini,
nel momento in cui nel 1860 risulta vincente la
soluzione liberal-moderata piemontese, viene
meno la mediazione cattolica neoguelfa, pertanto i
cattolici sono sospinti all’opposizione reazionaria,
con conseguenti ripercussioni nella dislocazione
delle forze interne al mondo cattolico, ove ora prevalgono le posizioni integralistiche.
Sul contributo teorico e politico di Rosmini nell’ambito di un progetto neoguelfo ci sono recenti
studi da cui emerge l’importanza della sua attività
in questa direzione (L. Malusa e G. Ottonello,
2011). Ora, le posizioni politiche di Rosmini furono senz'altro quelle di un patriota che aderì ai valori di indipendenza e di unità dell'Italia, tanto che fu
costretto ad allontanarsi da Rovereto, allora sotto
l'impero austro-ungarico, a causa dei sospetti
suscitati dalla sua azione pastorale. Nell'anno cruciale 1848, il governo piemontese affidò a Rosmini
una delicata iniziativa politico-diplomatica presso il
papa Pio IX, coincidente nella proposta di un concordato e nella preparazione del progetto di una
confederazione di Stati italiani con a capo lo stesso
Pontefice. Mentre si accingeva a dare attuazione
alla missione stessa, il Ministro degli affari esteri
piemontese comunicò a Rosmini che il governo
del Regno aveva modificato la sua posizione. In
luogo di negoziati volti a costituire una
Confederazione degli Stati italiani, era preferibile
progettare una Lega italiana, ossia un'alleanza
Mario Quaranta
difensiva e offensiva; di fronte a questo mutamento di prospettiva, Rosmini rinuncia alla missione.
Nell’opera pubblicata nello stesso anno, La costituzione secondo la giustizia sociale, Rosmini delinea il progetto di una monarchia costituzionale,
con un'appendice Sull'unità d'Italia, in cui difende il programma neoguelfo teorizzato da Gioberti
per quanto egli non possa essere annoverato fra gli
esponenti del neoguelfismo.
5. L’alternativa centralismo-federalismo e la
posizione di Alberto Mario
Si è invece imposto, per ragioni diverse, in
Germania e in Italia, un modello di unità dall'alto,
ossia la soluzione che era più radicalmente contraria alle caratteristiche di un universo politico contraddistinto, in entrambi i casi, da economie, società, culture regionali (e locali) fortemente differenziate fra loro. Così, l’imposizione di un centralismo
“forte”, confermato in successivi momenti cruciali
della storia italiana, come il periodo costituente
dopo la fine della seconda guerra mondiale, le
potenzialità e diversità regionali e municipali
hanno alimentato diffidenze, conflitti, opposizioni,
che in quest'ultimo ventennio hanno addirittura
provocato la nascita, per la prima volta nel dopoguerra, di un movimento politico contro il centralismo statale, rappresentativo di vasti strati sociali
nelle regioni più avanzate del Nord Italia: la Lega
Nord, entrata in Parlamento nel 1987.
Per comprendere le ragioni storiche che sono alla
radice della nostra struttura statuale e della scelta
unitaria e centralista dall'alto compiuta in primo
luogo dalla monarchia, occorre ricordare che
l'Italia è il Paese europeo che non ha conosciuto
un processo rivoluzionario a base nazionale e
popolare, come gli altri Paesi europei; processo
frantumato dal particolarismo comunale e signorile, prima, e poi bloccato dalla presenza nel nostro
Paese di eserciti stranieri. Alberto Mario, facendo
un confronto fra la storia d'Italia e quella della
Francia sottolinea acutamente che “lo Stato rappresenta l'elemento dell'unione federale.
Elemento che manca alla Francia, fusa da varie centinaia d'anni: epperò in lei la tradizione è unitaria,
e l'aspirazione nazionale monarchica come conse-
Il federalismo di Alberto Mario
guenza” (Mario 1984, 91). A ciò va aggiunto, secondo Cattaneo e lo stesso Mario, la presenza della
Chiesa cattolica, la quale sarebbe stata un elemento di instabilità politica e di ostacolo al processo
risorgimentale. A tale proposito va ricordato che
con il “non expedit” del 1870 la Chiesa ha rifiutato
l'unità d'Italia e ha scelto la strada dell'astensione
dei cattolici dalla vita politica nazionale, rendendo
estremamente difficile il processo di unificazione
culturale del Paese, con le masse contadine di fatto
estranee allo Stato, perché dirette dalla Chiesa.
Questo mancato processo rivoluzionario, sia politico sia religioso, si è espresso, sul terreno culturale, come impossibilità oggettiva di compiere una
rivoluzione borghese, con la conseguente incapacità a intenderne la logica (storica e politica). Così
la cultura italiana non è riuscita a elaborare progettazioni ideologiche rivoluzionarie, confondendo o addirittura equiparando il processo evolutivo
con quello, appunto, rivoluzionario. Alberto Mario,
riflettendo sulle vicende del movimento mazziniano, in una lettera ad Agostino Bertani dell'estate
1863 afferma: “La dottrina della rivoluzione è la
sola che manchi alla democrazia italiana, la quale
non sa fare che schioppettate” (Mario 1901, 211).
Così, la scelta unitaria e centralista è stata elevata
dai suoi ideologi a dogma, rintracciando nelle
nostre caratteristiche storiche (comunali e signorili) un motivo permanente di disgregazione politica
del Paese, al limite del secessionismo (ad esempio,
per la Sicilia). Invece da parte dei federalisti si è
insistito per considerare le stesse caratteristiche
della storia italiana un motivo che legittima l'unità
politica nell'ambito di una soluzione federalista.
“La base storica del federalismo, afferma Mario,
dee ravvisarsi nella individualità delle repubbliche
all'epoca del risorgimento italiano dopo il Mille,
diventata più complessa nella posteriore formazione degli Stati i quali conservaronsi a un dipresso
per molti secoli sino al 1859”. E più oltre: “Da due
fatti emerse il concetto dell'unità nazionale: dalla
geografia d'Italia che il mar circonda e l'alpe; e
dalla letteratura, vincolo intellettuale che per sei
secoli ha collegate quelle genti le quali diventarono il popolo d'Italia, la nazione italiana, secondo il
pensiero moderno; unità morale che involve la più
profonda varietà reale; non unità di materia, unità
89
n.32 / 2012
che confonde, irrigidisce e offresi instrumento
egregio ad un governo personale. Alla varietà dei
sangui, dei climi, dei luoghi, delle tradizioni, delle
consuetudini sociali, delle legislazioni, degli affetti,
dei costumi, corrispondono la varietà dell'incivilimento nei popoli d'Italia. [...] E tale divario importa distanze e differenze. Ora come asserire che una
legge unica o di finanza, o d'istruzione pubblica, o
di diritto penale o d'altro, sia pure essa teoricamente ottima, abbia ad adattarsi egualmente a
questo e a quel paese?” (Mario, 1984, 91 e 94).
Data la forza dello schieramento unitario e centralista, i federalisti italiani sono stati indotti a elaborare
un’interpretazione storica della nostra tradizione,
alternativa a quella di stampo sabaudo, insieme a
una filosofia che legittimasse le distinzioni, il pluralismo, la coesistenza di esperienze, costumi, istituzioni diverse. Da Romagnosi a Cattaneo fino ad
Alberto Mario, l'empirismo (e il positivismo come
suo erede e continuatore) è stato indicato come
l'orientamento filosofico più adeguato per dare un
fondamento al federalismo (politico e culturale):
un empirismo in cui è fortemente accentuata la
connotazione antimetafisica. “Il pensiero di
Cattaneo”, afferma Paolo Bagnoli, “non è il frutto
separato o separabile dall'insieme della sua elaborazione intellettuale ma, ad essa, è strettamente ed
organicamente connesso” (Bagnoli 1993, 14).
(Mario si rifà esplicitamente al pensiero di Ardigò, il
quale è, tra le ‘varianti’ del positivismo italiano, il
più conseguentemente antimetafisico).
Quest'ultimo aspetto è direttamente collegato alla
lotta contro l'ideologia della Chiesa, ritenuta un
ostacolo fondamentale per una soluzione unitaria
del processo risorgimentale, prima, e di un assetto
non centralista, poi. Il federalismo italiano è pertanto sempre in bilico tra filosofia e politica, tra
una progettazione ideologica e l'individuazione
degli aspetti federalistici introducibili nella struttura statuale. In altri termini, da noi è prevalso un
federalismo ‘antropologico’ (il termine è stato
adottato da Giuseppe Gangemi, Torino 1994) nella
duplice versione: cattolica, con Rosmini; laica, con
Andrea Zambelli e la sua scuola (fra cui ricordiamo
Giuseppe Zanardelli e Angelo Messedaglia), e
quello storico-filosofico di Cattaneo. Si tratta di un
modello che affida la sua efficacia prima ancora che
90
a un ben determinato edificio costituzionale, all'affermazione di una rete di valori, credenze, esperienze, che emergono dalla nostra storia e che
hanno differenziato gli Stati italiani pre-unitari, i
loro costumi e le loro istituzioni.
6. La tradizione federalista nel Veneto
Nel momento in cui il federalismo rimane in primo
piano nella politica italiana, è opportuno riesaminare la nostra tradizione federalista, i dibattiti, i
confronti e i conflitti che vi sono all’origine, quando si è posto il problema dell’unità d’Italia e si è
delineato l’assetto istituzionale che doveva essere
realizzato. Diamo un rilievo particolare al Veneto,
una regione di frontiera, dove le posizioni neoguelfe e quelle repubblicane sono rappresentate
da teorici e uomini politici di spicco (da Albèri ad
Alberto Mario). In particolare ci soffermiamo sulla
battaglia condotta da Alberto Mario il quale, dopo
l’eclissi della soluzione neoguelfa, andò via via precisando la sua posizione, passando da una iniziale
adesione al mazzinianesimo a una aperta adesione
al federalismo di Cattaneo, che portò a una ulteriore e più rigorosa formulazione.
È noto che il programma unitario-centralista fu
precorso da quello della confederazione dei cattolici monarchici liberal-moderato (o neoguelfi) che
ebbe una forte eco nella regione veneta, ove ci fu
l’epicentro dell’insurrezione anti-austriaca nella
città di Vicenza. In suo aiuto accorsero i più numerosi reparti militari dell’esercito pontificio inviati
dal papa Pio IX al comando del generale Giovanni
Durando, e altri corpi di volontari dell’Italia centrale e del Cadore; dal Piemonte arrivò il marchese
Massimo D’Azeglio.
Nel Veneto la tradizione federalista ha espresso
alcune figure centrali, nel doppio versante cattolico e laico. Nel corso dei moti del '48, istanze federaliste sono state espresse da Niccolò Tommaseo
(1802-1874) e Daniele Manin (1804-1857). Il primo
è stato nominato ministro del culto e dell'istruzione pubblica dal Governo di Venezia dopo l'insurrezione del 17 marzo 1848. Il 4 luglio egli tenne un
discorso che rimase famoso, in cui espose le ragioni del rifiuto della fusione del Veneto con il Regno
del Piemonte: una posizione peraltro minoritaria
Mario Quaranta
che lo indusse a ritirarsi dal governo. La posizione
di Manin è controversa; c’è chi lo colloca all’interno del federalismo per alcune posizioni assunte
nel corso del ’48 e oltre, e chi invece considera tali
posizioni solo di ordine tattico e non strategico,
ossia assunte in un momento di lotta per non perdere il contatto con le forze sociali e politiche che
esprimevano istanze federaliste. Infatti, in alcune
conversazioni a Parigi con Nessau Senior (13 maggio 1854 e 17 maggio 1856), poi trasformate in
un’intervista, dichiara quali sono state, a suo giudizio, le ‘vere’ ragioni dell'insurrezione veneziana
del 1848: “Preferivamo essere una Repubblica indipendente confederata con gli altri Stati italiani. E
avremmo accettato di entrar a far parte di un unico
grande Regno comprendente tutta l'Italia. Se Carlo
Alberto si fosse presentato come un uomo disinteressato; se non avesse fatto una guerra egoistica
per l'ingrandimento del Piemonte; se non avesse
proposto altro che la cacciata dei barbari fuori
dell'Italia, lasciando agli italiani il compito di decidere dei propri affari, penso ancor oggi che avremmo potuto riuscire. Ma le mie speranze svanirono
non appena propose di annettersi Milano; cambiava tutto il carattere della guerra” (Beggiato 1994,
15). D'altra parte, in una lettera a Tommaseo del 5
settembre 1848, Manin dava precise disposizioni e
informazioni sulla posizione del Governo veneziano: “Noi accetteremmo, anzi tutto, che fosse costituito uno Stato delle sole provincie della Venezia;
poi, che le provincie lombardo-venete costituissero un unico Stato, salvo in questi due casi di lasciare alla deliberazione dell'Assemblea costituente,
eletta con suffragio universale, la forma di governo; in fine, e per caso estremo, non ci rifiuteremmo a formar parte del già ideato Regno subalpino”
(Beggiato 1994, 23).
Un valido contributo al federalismo neoguelfo lo
ha dato lo storico padovano Eugenio Albèri (18071878) con l'opera Del Papato e dell'Italia (1847),
in cui dichiara di essere contrario all'unificazione
sabauda e favorevole ad una unità nella federazione: a suo giudizio essa è la risposta più corrispondente alle caratteristiche della storia d'Italia, garante della libertà dei popoli e anche dei sovrani. Ma il
contributo più organico lo ha espresso Antonio
Rosmini nel già citato scritto Sull'unità d'Italia
Il federalismo di Alberto Mario
(1848), ove sostiene un federalismo come antidoto al giacobinismo (inteso come forma di autoritarismo) entro un contesto unitario, e garante dei
diritti dei cittadini. La personalità veneta più di
spicco del federalismo laico risorgimentale è quella di Alberto Mario, sia per le sue esperienze politiche, culturali e militari, sia per il ruolo svolto nel
giornalismo, oltre che per l'attività di organizzatore e di dirigente politico.
7. Alberto Mario. Nota biografica
Alberto Mario (Lendinara, Rovigo, 4 giugno 1825 Lendinara 2 giugno 1883) fa parte della seconda
generazione risorgimentale, quella che è vissuta
dopo il periodo della Restaurazione, e si trova
ancor giovane impegnata direttamente nella lotta
politica e militare. Alcuni dati biografici essenziali
ci consentiranno di comprendere il percorso politico e culturale di Mario, in cui l'attivismo politico
e militare è sempre sorretto da una seria riflessione culturale. La singolarità e specificità della sua
posizione risiede nel fatto che dopo il 1860 egli si
distacca progressivamente da Mazzini, nel cui unitarismo vedeva sia una tendenza giacobina, nella
rivendicazione della ‘Repubblica una e indivisibile’,
sia una subordinazione all’unificazione monarchica sabauda fondata sui plebisciti. In altri termini,
Alberto Mario si rifà esplicitamente al modello
girondino, assumendo una posizione repubblicana
moderata, la quale, dal momento che si oppone
alla soluzione dell’unità statuale monarchica piemontese, assume nei confronti di questa una caratterizzazione liberale radicale.
Nato a Lendinara dai nobili Francesco e Angela
Baccelli, Alberto Mario frequenta le scuole degli
Scolopi e poi nel 1846 si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Padova. Entra subito
nell'Associazione filarmonica, nome di copertura
di un'associazione di studenti polesani (e qualche
mantovano) in cui si leggono e discutono libri politici ‘proibiti’. È protagonista degli scontri con gli
austriaci l'8 febbraio 1848 a Padova (ora giorno di
festa degli studenti universitari patavini); da allora
vivrà da protagonista e poi cronista degli eventi
militari e politici del Risorgimento. Per evitare l'arresto fugge a Bologna, dove continua l'attività poli-
91
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tica: legge Gioberti e accoglie con speranza le
aperture liberaleggianti di Pio IX, come “i nove
decimi degli italiani” (Carducci 1901, 11).
Mario partecipa alla prima spedizione di volontari
universitari diretta da Livio Zambeccari, per aiutare
Modena in lotta contro il duca asburgico, ma non
c'è scontro armato. Si avvia a liberare Ferrara quando viene a sapere che Milano è insorta; combatte
nel Veneto: a Cornuda, poi in difesa di Treviso e di
Vicenza. Dopo la sconfitta va a Milano, dove vede
Garibaldi e Mazzini. Dopo la capitolazione della
città va nel giugno 1849 a Genova, città ove “gli
uomini si incontravano, s'illuminavano, si maledicevano, si ricordavano, si mutavano” (Carducci
1901, 223). Rivede Bixio, conosce Mameli e i fratelli Fusinato. Scrive su vari giornali quotidiani (alcuni di breve durata): “Il Tribuno” (gennaio-marzo
1850), “L'Italia” (marzo-agosto 1850), “L'Italia
Libera” (agosto 1850-maggio 1851), “Italia e
Popolo” (maggio 1851-maggio 1857), “L'Italia del
Popolo” (1857-1858). Jessie tratteggerà il Mario di
questo periodo in questi termini: “Divorava gli
scritti politici di Mazzini e il Primato civile di
Gioberti: era inebriato dell'Italia la sopranazione,
il capo popolo, la sintesi e lo specchio d'Europa, la
creatrice e redentrice per eccellenza; innamorato
della Roma del popolo di Mazzini, della terza missione d'incivilimento europeo” (Mario 1984, 410).
Nel maggio 1857 conosce a Genova Jessie White,
corrispondente del “Daily News”: in realtà emissaria di Mazzini. Dopo avere subito a Genova il carcere (insieme a Jessie) nell'estate di quell'anno, in
seguito al fallimento della sollevazione, fu espulso
dagli Stati Sardi. Il quinquennio dalla fine del '57 a
quella del '62 “fu tra i più intensi della vita e determinante per il raggiungimento delle forme mature
del suo pensiero” (Bagatin 1984, XVIII). I due
vanno in Inghilterra; a Portsmouth si sposano il 17
dicembre 1857; Mario collabora alla rivista mazziniana “Pensiero ed Azione” fondata a Londra nel
settembre 1858; nell'ottobre di quell'anno vanno
in America, per sostenere la causa dell'indipendenza italiana. Di lì partono quando vengono a
sapere che sta per scoppiare la seconda guerra
d'indipendenza; ritornano in Italia ma è già stata
firmata la pace di Villafranca (12 luglio 1859). Mario
si reca a Pontelagoscuro (in provincia di Ferrara)
92
per avere notizie del padre ammalato, ma è arrestato con la moglie dal governatore di Bologna
Leonetto Cipriani. Dopo alcune settimane di prigione a Bologna i due vanno a vivere a Lugano in
Svizzera, dove Mazzini affida a Mario la direzione
del periodico “Pensiero e Azione”, stampato clandestinamente in una tipografia svizzera.
Mario partecipa poi alla spedizione dei Mille, che
parte secondo l'indicazione “Italia e Vittorio
Emanuele”; a Messina dirige “L'Indipendente” (8
agosto 1960), dove esprime la sua posizione anticavourriana. Il giudizio sull'impresa è critico; afferma che Garibaldi ha ceduto il potere del Sud alla
monarchia, avallato da Mazzini; occorre ora spingere Garibaldi a intervenire per completare il processo unitario. È la linea che sostiene nel Comitato
direttivo dell'Associazione unitaria di Genova sorta
nel settembre 1861. Ma sull'Aspromonte, nell'agosto 1862, si infrange il suo disegno politico: da qui
la scelta di una lotta per la trasformazione politica
interna, in alternativa all'insurrezionalismo ad
oltranza di Mazzini. Dopo la campagna in Sicilia si
stabilì in una villa dei colli di Firenze, collaborando
alla “Nuova Europa” di Firenze e al “Dovere” di
Genova. Nel corso dell'VIII Legislatura il collegio di
Modica in Sicilia elesse nel 1862, a sua insaputa,
Alberto Mario rappresentante alla Camera dei
deputati, ma per la pregiudiziale antimonarchica
rifiutò. Liberata Venezia, poté rientrare in patria,
dove si dedicò in modo particolare ai suoi studi.
8. Il federalismo di Alberto Mario
Gli storici sono pressoché unanimi nel sostenere
che Carlo Cattaneo è “l'espressione più significativa di consapevolezza dell'idea federalista” (Paolo
Bagnoli 1993, 14); l'esperienza del 1848, trasforma
Cattaneo, il riformista nell'ambito dell'impero
asburgico (e per tale motivo visto con diffidenza,
prima, e poi aspramente e costantemente criticato), nel capo militare e politico dei moti di Milano,
dove si combatte la prima, decisiva battaglia (militare ma anche politica) del Risorgimento, da cui
emergerà la direttrice fondamentale, ossia la presa
della direzione da parte della monarchia sabauda.
L'opera di Cattaneo Dell'insurrezzione di Milano
nel 1848 e della successiva guerra (1849), consi-
Mario Quaranta
derata dallo storico Giuseppe Armani “un manifesto di federalismo” (Armani 1997, 130), costituisce
un bilancio di eccezionale valore storico-critico: è
una critica e condanna della posizione dell'Austria
e del Piemonte, entrambe interessate al controllo
della Lombardia, insieme a quella dei moderati, i
quali, di fronte all'intervento delle masse, alla proclamazione della libertà preferiscono accettare il
dominio del Piemonte. Dunque, al fondo del fallimento di quel moto popolare c'è una mancanza di
preparazione politica, ossia l'assenza di uno spirito
federale.
Il federalismo di Cattano sarà reso più rigoroso nei
saggi apparsi nell'“Archivio triennale delle cose
d'Italia” (1849-1851), integrato da una radicale critica di Mazzini, il quale secondo Cattaneo ha sacrificato la libertà all'obiettivo dell'unificazione
dell'Italia, appoggiando di fatto l'espansionismo
piemontese, ossia la logica egemonica di Casa
Savoia. “La sola possibile forma d'unità tra liberi
popoli è un patto federale. Il potere debb'essere
limitato; e non può essere limitato se non dal potere”, dichiara nel 1860 (Cattaneo 1965, 86). La sintesi più compiuta del pensiero storico-critico di
Cattaneo è l'opera La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858); nasce
dopo la spedizione di Sapri del 1857, durante la
quale muore Carlo Pisacane, la mente teorica e
militare più notevole espressa dal movimento mazziniano, moto che sancisce il fallimento della linea
di Mazzini fondata sull'idea di una insurrezione
essenzialmente dei ceti popolari. Cattaneo in quest'opera si contrappone a questa idea, facendo l'apologia della città come centro propulsore dello
sviluppo dell'Italia e della borghesia come la classeguida, sviluppo che è progresso della civiltà italiana.
Secondo Cattaneo, le caratteristiche peculiari della
storia d'Italia sono sostanzialmente due: una configurazione fisico-geografica del territorio priva di
centro, ossia disseminata in zone fra loro nettamente distinte (e spesso separate), e un pluralismo
politico espresso, nel punto più alto, dai Comuni
(dalla civiltà comunale); due caratteristiche che
configurano l'Italia come un paese naturaliter
federalista. Il federalismo è, dunque, per Cattaneo
l'unica, autentica soluzione del problema dell'Italia,
e all'unitarismo di Mazzini che sacrifica la libertà
Il federalismo di Alberto Mario
egli contrappone il modello degli Stati Uniti d'Italia.
La posizione di Cattaneo ha un solido fondamento
storico-critico e filosofico in una teoria del federalismo come espressione e realizzazione di libertà. “Il
federalismo è la teorica della libertà, l'unica possibile teorica della libertà”, afferma nella lettera a
Lodovico Frapolli del 29 dicembre 1851 (Cattaneo
1901, 362-363), in ciò continuando il pensiero del
suo maestro Gian Domenico Romagnosi, pensiero
che egli difende, fra l'altro, dagli attacchi di Antonio
Rosmini. Questi pochi cenni ci permettono di precisare i caratteri del cattaneismo di Alberto Mario, e
di indicare il contributo specifico che il repubblicano polesano ha dato alla battaglia federalista.
Alberto Mario, partito ‘albertista’ (il termine è
suo), ossia convinto dell’efficacia della linea di
Carlo Alberto, e come giobertiano, è passato poi a
Mazzini, giungendo al federalismo di Cattaneo
attraverso una rigorosa analisi critica autonoma
delle sue esperienze politiche, militari, culturali,
compiute dal 1848 in poi, insieme a una costante
riflessione sulla storia e sulla cultura dell'Italia (in
particolare quella artistica e filosofica). Egli stabilisce uno stretto rapporto con Cattaneo a Lugano
dal settembre 1859 al maggio 1860, ossia nel periodo in cui si sta per concludere la sua parabola mazziniana. L'incontro con Cattaneo avviene, dunque,
in un momento in cui si sta staccando da Mazzini,
in cerca di una nuova prospettiva politica, che
trova appunto nel federalismo di Cattaneo.
D'altra parte, anche Cattaneo è vivamente interessato a stabilire un rapporto stretto con Mario, un
combattente di tutte le battaglie risorgimentali,
che mantiene buoni rapporti con Garibaldi e
Mazzini; inoltre, è un eccellente giornalista, conoscitore profondo di tutti gli uomini più rappresentativi dell'area composita e variegata del repubblicanesimo. Attraverso Mario diventa possibile per
lui riprendere, su un nuovo terreno, la lotta anticentralistica mantenendo vivo l’ideale federalista.
E infatti attorno a Mario si coagula una serie di
uomini capaci e decisi a portare avanti la linea politica cattaneana: Ferrari, Cernuschi, Bertani,
Ricciotti, Menotti Garibaldi e altri ancora.
Mario fa i conti con il pensiero politico e filosofico
di Cattaneo in alcuni impegnativi scritti, apparsi
per la prima volta nella “Rivista Europea”: Carlo
93
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Cattaneo. Il filosofo. Il patriota e l'uomo;
Cattaneo. Appendice (Mario 1901, 181-308): quest'ultimo saggio è la sistemazione storica e teorica
più organica del suo federalismo di ispirazione cattaneana. Il libro Carlo Cattaneo. Cenni e reminiscenze, scritto in collaborazione con Jessie (Mario
1884) contiene: La commemorazione di
Cattaneo, Della vita di Carlo Cattaneo, scritta
insieme a Jessie, e Perle sparse di Cattaneo: una
serie di aforismi, frasi, dichiarazioni tratte dagli
scritti cattaneani. Si tratta di un insieme di scritti
abbastanza corposo, a cui vanno aggiunti alcuni
importanti articoli: La nostra via in “La Provincia
di Mantova” dell’1 giugno 1872; Mazzini e
Cattaneo, nella “Lega della Democrazia” del 4
marzo 1880. In tutti questi scritti Mario si rifà esplicitamente alle posizioni di Cattaneo con l’obiettivo
di intervenire, nella nuova situazione italiana, per
portare avanti il progetto di un'Italia federalista.
Alcuni sono propagandistici, altri di messa a punto
del suo rapporto con il Maestro, altri di analisi del
pensiero di Cattaneo, in cui indica la complessità
degli elementi che vi confluiscono, insieme all'originalità delle conclusioni. La loro lettura ci consente di stabilire i motivi di continuità fra i due federalisti, e prima ancora le ragioni di questo incontro, oltre che vedere quali aspetti del pensiero di
Cattaneo Mario ha ritenuto essenziali per continuarne la linea politica e culturale.
In breve: la ragione di questa sostanziale convergenza ideologica fra i due è comprensibile se si esaminano alcuni scritti di Mario: l'analisi della nostra
tradizione culturale, l'indagine sulle cinque giornate di Milano, l'individuazione dei limiti del pensiero
politico di Mazzini, che egli enuncia sulla base della
sua esperienza militare e di militante politico. Le
conclusioni cui giunge sono sostanzialmente analoghe a quelle cui era pervenuto Cattaneo; inoltre, è
fondamentale il comune giudizio sulla funzione del
Piemonte (di Casa Savoia) nella vita politica italiana.
In conclusione, Cattaneo fornisce a Mario gli strumenti conoscitivi per dare una sistemazione più
rigorosa alle conclusioni cui era autonomamente
giunto in ordine ai problemi indicati. Mario individua con matura consapevolezza le ragioni profonde del federalismo; egli tenta di farne il punto di
raccordo dell'universo composito dei democratici,
94
divisi in diverse correnti, e di unificazione politica
con le esperienze della più giovane generazione.
Egli comprende con anticipo su molti altri, che
rispetto a Mazzini e Garibaldi occorre voltare pagina: i due grandi protagonisti del Risorgimento,
nella situazione nuova che si è creata dopo l'unità
d’Italia, continuano a usare gli stessi metodi cospirativi e di direzione militare di un tempo. Su questo punto Mario è esplicito; nel maggio 1862 annota: Garibaldi “fa viaggiare venti rappresentanti della
Democrazia quasi fossero dei postiglioni” (Ciccuti
1985, 69). A Jessie scrive il 16 maggio dello stesso
anno: “Noi siamo un ente collettivo, la sola, l'unica
rappresentanza della Democrazia; egli è individuo.[...] Deve capire il signorino [Mazzini] che i
tempi della dittatura sono finiti, perché l'abbiamo
fatto capire anche a Garibaldi che nel campo dell'azione è un'individualità che vale più della sua
per lo meno 23 mila volte” (Ciccuti 1985, 69).
Rispetto a Cattaneo, Mario individua con esattezza
i limiti dell'azione dei moderati e del Partito d'azione, singolarmente convergenti, in un articolo di
notevole impegno analitico che segna il suo distacco definitivo dal pensiero di Mazzini:
L'inversione della formula, pubblicato nella
“Nuova Europa” di Firenze il 16 aprile 1863. La tesi
centrale è che la formula mazziniana “Unità e libertà” è risultata un ostacolo al processo unitario: essa
doveva essere sostituita da quella ‘inversa’, la cattaneana “Libertà e unità”. Egli indica in modo
molto acuto “un'analogia grande e paurosa tra la
situazione del Quarantotto e quella del
Sessantatré”: allora sull'altare dell'indipendenza
non si prese in considerazione “la forma e la
sostanza politica” e si andò incontro alla sconfitta;
ora si deve evitare un esito analogo: “Unità vuolsi
anzi tutto, sovra tutto, dai moderati e dal partito
d'azione; vuolsi Roma e Venezia, da quelli quando
che sia, da questo senza indugio, però da entrambi. [...] Ma a Roma non ci si va che colla rivoluzione, e a Venezia che con tutte le forze della nazione”. Obiettivi irrealistici, praticamente impossibile
da raggiungere, la cui difesa giustifica di fatto il
permanere della situazione esistente. Oppure, e
questa è la soluzione più negativa per il processo
unitario e federalista: si sceglie l’opzione militare,
che ha come unico risultato il rafforzamento della
Mario Quaranta
scelta centralistica sabauda. Così conclude: “Se
avessimo coltivato il campo della libertà, a quest'ora, passati tre anni, saremmo più vicini a Roma e a
Venezia che non siamo” (Mario 1984, 67-70).
Anche su questa posizione Mario è ritornato altre
volte, come nell'articolo in cui riespone le sue tesi
politiche fondamentali, La nostra via pubblicato
nella “Provincia di Mantova” l'1 giugno 1872:
Cattaneo, afferma Mario, “fino dalla vigilia delle
Cinque Giornate suggeriva che l'Italia col mezzo
della libertà, vale a dire col conseguimento dei
diritti locali, col magisterio della stampa, colle
assemblee di stato, cogli ordinamenti militari presso ogni gente italica, si preparasse alla indipendenza; voleva differita la guerra per organizzare la
vittoria: ma il concetto della indipendenza prevalse sul concetto della rivoluzione; la fusione prepoté sull'unione. [...] La foga unitaria doveva trar seco
la mutilazione della patria” (Mario 1901, 92).
9. Carlo Cattaneo e Alberto Mario: motivi di
continuità e innovazione
Tutti i temi politici e federalisti fondamentali di
Cattaneo sono presenti negli scritti di Mario e ulteriormente elaborati, ossia in alcuni casi aggiornati
secondo le nuove situazioni in cui si è trovato ad
operare. Egli insiste spesso sui danni che provoca
l'accentramento: “Accentramento significa assorbimento della vitalità delle parti, estinzione graduale
delle spontaneità locali, paralisi delle individualità
municipali [...] accentramento significa condensazione di tutte le forze nazionali in un punto, in un
ente collettivo o in un uomo; è pendolo che oscilla tra il dispotismo e la dittatura. [...] Noi vogliamo
la libertà come unico mezzo a raggiungere ed affermare la unità nazionale: libertà di coscienza e di
pensiero, di parola e di stampa: libertà individuale,
di associazione, d'insegnamento” (Mario 1984, 65).
Inoltre, ribadisce il nesso esistente tra libertà e
sovranità e tra federazione e unità; nel saggio
Cattaneo. Appendice afferma: “Se la libertà non
s'integra nella sovranità, a noi sembra diritto
incompleto. La libertà di parola, di associazione, di
riunione, di stampa, di coscienza, di circolazione,
ecc. costituisce gli antecedenti della sovranità.
Sovranità forma equazione con governo. Se non si
Il federalismo di Alberto Mario
governa non si è sovrano; sovranità significa
padronanza; e la padronanza, diceva Cattaneo,
esclude il padrone: da cui il concetto di repubblica. Alla sovranità, provvedono i sistemi rappresentativi. Ma quanto imperfettamente vi provegga l'unitario, apparisce dal fatto che la rappresentanza di
una camera o di due non potrà superare di molto
il numero di seicento fra deputati e senatori”
(Mario 1984, 96). E sul secondo rapporto dichiara:
“Temesi che federazione importi disgregazione;
donde il dissidio. Ma quando sia palese che federazione suona unità nazionale e politica snodata in
autonomie legislative regionali, la più poderosa e
indissolubile delle unità, molti animi oggi divisi più
ch'altro da un dubbio d'origine nobilissima si uniranno in un concorde pensiero” (Mario 1901, 67).
Infine il valore che Mario attribuisce all'individualismo come cardine della vita è espresso nel limpido articolo pubblicato nella “Provincia di Mantova”
il 15 maggio 1873 quando morì John Stuart Mill, in
cui pone l'accento sulle tre opere politiche più
importanti del filosofo inglese. A proposito del
libro Soggezione della donna, afferma: “In opinione nostra il problema agitato da tanti secoli egli
solo risolse col semplice emendamento dei codici
del senso della parità dei diritti. La donna rimane
donna, ma la metà del genere umano, fin qui colpita d'interdetto, viene associata all'altra metà nel
lavoro del progresso”. E sugli altri due scritti
dichiara: “Mill politico scrisse due opere magistrali, La libertà, e Il Governo rappresentativo.
Questa seconda opera costituisce un sistema compiuto del meccanismo, delle funzioni dinamiche e
dei fini dell'ordinamento rappresentativo.
Concetto colossale, esecuzione sorprendente. [...]
Almanco, per quanto ne sappiamo noi, Mill svolse
la più accettabile delle proposte intorno alla rappresentanza delle minoranze. Il libro intorno alla
libertà è in parer nostro la peregrina fra le perle
che brilla sul diadema glorioso delle opere del
pubblicista inglese. Egli scruta il rapporto fra l'individuo e lo Stato, e lo determina facendo caposaldo
nell'individuo. Investigando la radice, chiarendo la
ragione, e definendo il confine del diritto individuale; inferisce l'armonia della convivenza, la reciprocità della tolleranza, la resultante dell'ordine
dal carattere costitutivo del vero, che modifican-
95
n.32 / 2012
dosi continuamente e appartenendo in varia misura a tutti gl'individui, a tutte le sètte, rende impossibili il dogmatismo, l'intolleranza, e il privilegio di
uno o di alcuni su tutti. E ravvisando il progresso
nella vicenda perpetua dell'azione e della reazione
mostra la necessità della sussistenza di tutte le
idee, di tutti i frammenti di vero, di tutte le individualità” (Mario 1984, 187-188).
Ma il momento in cui l’adesione di Mario al pensiero di Cattaneo si è espressa più compiutamente
è dopo la scomparsa di Cattaneo, ossia dopo il
1869. Fra i suoi scritti degli anni Settanta, ricordiamo il fondamentale Manifesto agli elettori di
Lendinara pubblicato nel “Bacchiglione” il 5
novembre 1874; costituisce la più rigorosa disamina della sua esperienza politica complessiva, e
insieme una critica precisa di un quindicennio di
governo moderato, con un conclusivo ribadimento delle ragioni del suo federalismo: “L'Italia è fatta
per la federazione: unità di vita e varietà di funzioni. A ciò non provvedono le sciolte funzioni amministrative che può dare la sinistra e che darebbe
l'unitarismo mazziniano. Le funzioni amministrative sono articolazioni secondarie; le principali sono
le funzioni regionali e di stato, funzioni legislative
ed esecutive; e ad ogni regione corrispondono le
funzioni amministrative: le regionali o di stato si
coordinano alle federali o di nazione; da cui la verace e poderosa unità d'Italia, la quale non può concepirsi se non con la repubblica” (Mario 1901, 150).
Recentemente, uno dei maggiori studiosi del federalismo, Giuseppe Gangemi, in una relazione sul
pensiero di Cattaneo in corso di stampa, ha rilevato che Alberto Mario non si rifa solo, come altri
federalisti, all’esperienza della rivoluzione francese
nel richiamarsi ad esperienze storiche moderne.
“L’unità centralizzata, ribadisce Mario, è giacobina,
l’unità decentrata, cioè l’armonia del molteplice e
l’uno, è girondina” (Mario 1984, 77), ma anche
all’esperienza americana. È vero che in Cattaneo è
presente non solo l’esperienza svizzera come
modello, ma anche il riferimento agli Stati Uniti
d’America quando elabora la sua idea di Stati Uniti
d’Europa e Stati Uniti d’Italia, ma Mario, sottolinea
Gangemi, “usa un linguaggio statunitense che è
estraneo a Cattaneo”, là dove afferma che “a togliere di mezzo ogni equivoco dobbiamo stabilire net-
96
tamente che cosa sia in mente nostra la federazione. Non è la federazione dei governi, come la vecchia germanica e la recente, e come lo era l’elvetica prima del 1847, e lo fu per poco l’americana,
perché in tal caso potrebbe essere anche la monarchica. È la federazione dei popoli, ossia la compenetrazione delle due sovranità distinte e corrispondenti: la federale, ossia del centro, e la locale
o di stato; e questa federazione non può concepirsi che repubblicana. Il nostro ragionamento acquista più valore, e riuscirà, speriamo, più persuasivo
aggirandosi sulla realtà, sul fatto vivo, anziché sulla
speculazione pura, sull’ipotesi. E vi ha un fatto vivo
e glorioso e meraviglioso. l’Unione americana.
L’analisi della sua costituzione, in quanto esso contiene di sostanziale e di generale, di vagliato e di
sancito dall’esperienza, ci condurrà alla composizione del nostro concetto politico – gli Stati Uniti
d’Italia” (Mario 1984, 87-88). In conclusione, il riferimento all’esperienza americana non è usato
tanto come un “rinforzo” del suo federalismo ma
come un modello che può fornire un valido aiuto
nell’affrontare problemi cruciali come il rapporto
tra individuo, territorio e poteri locali, la formazione di istituzioni e dei loro rappresentanti eletti. A
tale proposito Mario dichiara: “E d’onde mai deriva la incontestabile superiorità degli americani e
per numero e per esperienza di statisti, come legislatori, come amministratori, se non dal fatto delle
trentasette legislature invece di una? E d’onde la
loro superiorità come sovrani, uno per uno, se non
nell’esercizio frequente e duplice del diritto di
voto – uno per le lezioni federali e di Stato – e nel
passaggio perenne da elettore ad eletto, da amministrato ad amministratore, da rappresentato a rappresentare?” (Mario 1984, 98).
L'ultimo impegno politico di Mario è nella costruzione di uno schieramento democratico in cui
debbono essere presenti le diverse componenti
dell'universo politico radical-repubblicano, per
realizzare le riforme disattese dalla sinistra al
governo. Il periodo precedente era stato caratterizzato, sul piano politico, dal tentativo dei federalisti di introdurre degli elementi quanto meno di
decentramento amministrativo nell'armatura centralistica, tentativi falliti: il governo Ricasoli chiuse
di fatto nel 1865 il dibattito sulla struttura ammini-
Mario Quaranta
strativa dello Stato, confermando la scelta iniziale,
ossia l'estensione del modello centralista piemontese a tutto il territorio. Ora però, con la sinistra al
governo, la situazione è completamente cambiata.
Mario si impegna a fondo nella costruzione del
movimento “Lega della democrazia” (non un partito), ottenendo l'attiva presenza dello stesso
Garibaldi, il quale il 26 aprile 1879 ne diramò il programma, precisando in termini inequivoci che la
Lega intendeva “circoscrivere il proprio lavoro
entro i termini del diritto e con mezzi pacifici”
(Garibaldi 1937, 288). La Lega divenne così “il
punto d'incontro, nel 1880, di radicali e repubblicani con un programma sostanzialmente radicale”
(Verucci 1996, 309). Mario diresse il giornale dell'associazione, con il titolo omonimo, che si pubblicò dal 5 gennaio 1880 al 5 luglio 1883, impegnandosi in modo particolare nella lotta per il suffragio universale, mentre sullo sfondo permaneva
il problema della costituente, ritenuto essenziale
da Mario perché la sola in grado di elaborare una
nuova costituzione laica, in cui fossero riconosciuti tutti i diritti dei cittadini.
Dopo l’andata al potere della sinistra nel 1877,
Mario ne individua subito i limiti programmatici e
politici. Nell'articolo del 31 marzo 1877 nel
“Preludio” di Cremona, L'impotenza della sinistra
e la repubblica federale denuncia le conseguenze
nefaste del trasformismo. Egli si chiede a tale proposito perché il governo si trovi come paralizzato
nella sua attività: “Or dunque, perché la paralisi?
Perché, una volta al governo, la riduzione della
destra e della sinistra al medesimo denominatore?”, una domanda a cui dà questa risposta:
“Perché, se l'unità politica d'Italia rappresenta una
evoluzione di lunga mano elaborata e necessaria, e
però naturale, della sua esistenza, l'unità legislativa
è un fatto artificiale, forzato o ripugnante; da cui
l'impotenza della destra e della sinistra, dei moderati, dei progressisti e dei radicali. L'unità legislativa rende impossibile la soluzione dei massimi problemi: della giustizia nella imposta e della sua percezione; della responsabilità e della pena, e però
della pena di morte; dell'istruzione laica e della
università, del suffragio universale, della sicurezza
pubblica, del proporzionale sviluppo dei lavori
pubblici”. La via d'uscita? “Che ogni regione faccia
Il federalismo di Alberto Mario
le sue leggi civili, criminali, municipali e finanziarie, d'istruzione, di sicurezza e d'igiene, e le eseguisca; che si creino coteste autonomie veraci e
non menzognere” (Mario 1901, 163-165). E nell'altro, rilevante articolo programmatico, Il nostro
ideale. Manifesto della Rivista Repubblicana del
9 aprile 1878, ribadirà le stesse posizioni, nella persuasione che “l'Italia proseguirà la sua via secondo
la propria legge storica. La storia d'Italia venne
svolgendosi dal comune sovrano alla regione
sovrana alla nazione sovrana. Ella deve ordinarsi
senza la soppressione di nessuno dei tre termini
costitutivi” (Mario 1901, 175).
Durante il periodo di vita della Lega e del suo giornale, Alberto Mario ha espresso il meglio del suo
riformismo democratico di ispirazione cattaneana;
per condurre la battaglia in favore del suffragio
universale promosse sessantasette comizi in tutte
le città italiane, i quali hanno riscosso un eccezionale successo, conclusi da lui stesso con il Comizio
dei Comizi dell'11 febbraio 1881. L’ampliamento
del suffragio è stato l’obiettivo fondamentale di un
ampio blocco che va dai liberal-democratici ai radical-repubblicani.
Il governo approvava nel 1882 due leggi sul diritto
di voto: una sui requisiti di età, le capacità e il censo
degli elettori, l'altra sul sistema di elezione a scrutinio di lista. È stato considerato dai repubblicani un
successo, sia pure parziale, della Lega, che proprio
dopo questa vittoria decise la partecipazione alle
elezioni politiche, e anche Alberto Mario, che precedentemente aveva rifiutato il mandato parlamentare, abbandona tale posizione: la sua linea di lotta
democratica e riformista iniziava ora a dare i primi
frutti. Questo sia pure parziale allargamento del
suffragio (nel periodo della destra storica era circoscritto al 2%), creò un consenso in quei ceti medi
piccolo-borghesi, soprattutto urbani, espressione
di quel blocco sociale e politico di cui Alberto Mario
era uno dei più lucidi interpreti.
Si può affermare, in termini conclusivi, sia pur
provvisori, che le tendenze repubblicane federaliste e confederali nell’età post-risorgimentale ottocentesca, riprodussero in modo diverso e forse più
grave la sconfitta storica del repubblicanesimo
democratico, mazziniano e garibaldino, continuatore dell’idea-forza che era stata della democrazia
97
n.32 / 2012
giacobina della rivoluzione francese, della
“Repubblica una e indivisibile”, contro le tendenze
repubblicane girondine, moderate e federaliste. Il
repubblicanesimo democratico unitario subordinato ed emarginato dall’egemonia monarchica
liberal-moderata restava in ogni caso una tendenza, sia pure minoritaria, di una certa coerenza e
con un rilievo storico di un certo rilievo nella
dimensione nazionale. La sua esaltazione dell’ideaforza dello Stato-Nazione moderno e unitario (con
cui si identificò l’idea-forza di Roma capitale
d’Italia, anch’essa sua originariamente e non dei
liberali liberal-moderati, che se ne appropriarono
dal 1860 al 1870, faceva mediatamente, anche di
esso, una componente storica di quella egemonia
monarchica, aristocratica, grande-borghese, liberal-moderata e trasformista, costituendone l’estrema propaggine nazionale popolare e democratica
borghese risorgimentale.
Per quanto riguarda Alberto Mario, le idee di
Cattaneo, integrate dalla sua inserzione del modello federale americano, hanno acquistato le gambe
per camminare; sono diventate la piattaforma di
un orientamento trasversale fra gruppi e movimenti dell’area laico-repubblicana. Si dirà che
l’empirismo di Cattaneo è rimasto minoritario
nella cultura italiana anche successivamente, ma
comunque è riemerso in momenti cruciali della
storia culturale del Novecento. All'insegna di
Cattaneo è stato da alcuni contrastato il fascismo
(Gobetti, Salvemini), e durante il ventennio l'incontro con Cattaneo è stato significativo per alcuni
intellettuali come Giansiro Ferrata e Norberto
Bobbio; inoltre sempre all'insegna di Cattaneo è
stato avviato, con la rivista diretta da Vittorini, “Il
Politecnico”, un nuovo corso della cultura italiana.
E infine a Cattaneo ha fatto riferimento da ultimo
anche Ludovico Geymnat, nell'esprimere la speranza di un rinnovamento profondo della società italiana (Geymonat 1989).
La prima parte di questo scritto è stata discussa, a
suo tempo, con gli amici Antonio Borio e Mario
Sabbatini. A quest’ultimo, in memoria, dedico il
saggio.
98
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Elio Franzin
La doppia linea di Umberto Bossi: verso il
grado zero del federalismo?
Federalismo
Il 5 dicembre 2011 a Vicenza l’on. Umberto Bossi
nell’intervento che ha pronunciato alla riunione
del cosiddetto “Parlamento della Padania” ha esposto la motivazione della nuova strategia del movimento che si riassume in due parole d’ordine: la
prima è “indipendenza unica via” e la seconda è
“ma sia consensuale” (“La Padania”, 5 dicembre
2011, n. 288). Nello stesso numero del quotidiano
sono riportate le seguenti affermazioni dell’on.
Bossi: “Occorre ragionare su una possibile indipendenza condivisa. Occorre pensare a una trattativa tra le aree del Paese, perchè è ormai evidente
come così non si possa proseguire”.
Bossi ha riconfermato una strategia che esclude il
ricorso a qualsiasi forma di violenza individuale o
organizzata. Qualche dubbio a tale proposito, malgrado le ripetute affermazioni in senso contrario,
era sorto nel momento della nascita delle cosiddette “camicie verdi” poiché l’adozione di qualsiasi divisa richiama inevitabilmente i simboli militari.
È da supporre ragionevolmente che Bossi si sia
riferito alle tre aree del paese nelle quali secondo
il vecchio progetto di Gianfranco Miglio si dovrebbe o si potrebbe dare vita in Italia a tre repubbliche
federali.
Nel corso della riunione del “Parlamento della
Padania” svoltasi a Vicenza, Stefano Bruno Galli
docente di Storia delle dottrine politiche
all’Università degli Studi di Milano, ha ricordato
alcuni aspetti del pensiero politico di Gianfranco
Miglio che, nell’ambito delle varie e ben differenti
dottrine federaliste, ha assunto dei caratteri molto
particolari spesso ignorati (Romano, 2010;
Quaranta 2010). La diversità del pensiero di Bossi
da quello di Miglio non è stata rilevata dagli osservatori politici ma la loro collaborazione, non senza
ragioni anche di carattere teorico, è finita in modo
molto aspro.
In breve: Bossi e Miglio concordavano sul “decisionismo” ma divergevano sul fondamento delle
macroregioni. Per Bossi già nel 1993 “l’unità di
base del nostro federalismo non era etnica e quindi separatista ma socio-economica e quindi federalista su base macro-regionale” (Bossi, 1994, 4). Il
decisionismo di Bossi è evidente nei metodi di
organizzazione e di direzione che egli ha imposto
personalmente e familisticamente alla Lega Nord.
Il metodo di risolvere le divergenze fra gli aderenti alla Lega Nord con le espulsioni deriva direttamente dal suo decisionismo
Per Miglio nella nozione di etnia è compreso anche
il sangue (razzismo), e quindi la riabilitazione di
Miglio alla riunione di Vicenza, decisa da Bossi, è
frutto di una precisa scelta strategica che va ben al
di là dei suoi rapporti personali molto contraddittori con il docente universitario.
Alla riunione di Vicenza Bossi o l’onorevole
Roberto Calderoli avrebbero potuto illustrare la
legge-delega sul federalismo fiscale (legge 5 maggio 2009, n. 42) e gli otto decreti legislativi che essa
ha previsto poiché indubbiamente all’approvazione della legge-delega e degli otto decreti legislativi
la Lega Nord ha dato un notevole contributo; essi
segnano una tappa importante nella possibile, prevedibile ed auspicabile transizione dall’attuale
stato centralista a quello federalista. Il confronto
fra la legge fondativa dello stato centralista italiano
del 20 marzo 1865, n. 2248 con la recente leggedelega (5 maggio 2009, n. 42) sul federalismo fiscale dà tutta la misura del cambiamento previsto da
quest’ultima.
Questo confronto fra le due leggi è reso difficile sul
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piano politico anche da un grave ritardo di carattere storiografico poiché gli studi sul momento,
sulle ragioni, sulle modalità e sugli ispiratori della
legge che è il fondamento del centralismo dello
stato italiano sono tuttora molto rari. L’unica eccezione è costituita dallo splendido volume di
Claudio Pavone (Pavone, 1964) pubblicato quando
la questione del federalismo non era affatto percepita nel suo aspetto politico. Senza dubbio quella
del confronto fra le due leggi del marzo 1865 e del
maggio 2009 non è stata la strategia seguita a
Vicenza da Bossi che pure avrebbe potuto esaltare
i risultati, parziali, raggiunti dalla Lega Nord.
Alla riunione del “Parlamento della Padania” del 5
dicembre 2011 è veramente iniziata la svolta o una
svolta, come afferma “La Padania” del 6 dicembre
2011. Cercare di dare una risposta a questa domanda può essere interessante anche agli effetti della
previsione sugli sviluppi della situazione politica
italiana. Per poter rispondere a questa domanda è
utile ricostruire i caratteri fondamentali del presunto “federalismo” di Bossi e le varie e diverse fasi
attraverso le quali esso è passato durante gli anni
trascorsi dal 1982 ad oggi con notevoli cambiamenti spesso non rilevati dagli analisti e dagli
osservatori.
Bossi stesso ha raccontato, descritto e documentato l’evoluzione del suo rapporto piuttosto debole
sul piano teorico, sostanzialmente tutto politico,
tattico e non strategico, con il federalismo, nei cinque volumi che egli ha pubblicato dal 1992 al 1998
ai quali è stata dedicata finora, a mio avviso, una
attenzione inadeguata. Ben diverso è il suo rapporto con la rivendicazione, implicita o esplicita, del
diritto alla secessione da parte dell’area geografica
o meglio socio-economica chiamata Padania.
La nozione storica di Padania è precedente all’uso
politico fattone da Bossi. È noto che i teorici del
federalismo hanno assunto posizioni diverse nei
confronti della rivendicazione del diritto alla secessione (Franzin, 1997). Nel caso dell’URSS la proclamazione del riconoscimento del diritto delle
singole repubbliche alla secessione è stato usato
sul piano propagandistico da Stalin per nascondere la sua opposizione frontale rispetto alle posizioni assunte da Lenin in materia di federalismo e per
la sua adozione del più feroce centralismo ( Lewin,
100
1967). La rivoluzione russa è stata sostanzialmente
una rivoluzione federalista fallita, come aveva
osservato giustamente Silvio Trentin benché non
avesse certo le informazioni adeguate sulla materia
dello scontro molto aspro, su questo problema, fra
Lenin e il georgiano Stalin, trasformatosi nel difensore più accanito del nazionalismo grande-russo e
del conseguente centralismo.
Grazie all’incontro casuale avvenuto a Milano nel
1980 con Bruno Salvadori, dirigente dell’Union
Valdotaine, Bossi è stato stimolato a leggere nell’estate del 1980 “i classici del federalismo: Cattaneo,
Gioberti, gli americani come Hamilton” (Bossi,
1992, 34). È ben noto che fra il federalismo di
Cattaneo e quello di Gioberti le differenze sono
notevoli; Bossi non pare rilevarlo nel suo racconto
autobiografico.
Nel marzo 1982 su “Lombardia Autonomista” Bossi
lancia la parola d’ordine “Lombardia ai lombardi,
Padania ai padani”; inizia così quella che lo stesso
Bossi ha definito “la fase etnica” (Bossi, 1996).
L’articolo viene ripubblicato come se fosse il primo
articolo lombardista-padanista pubblicato da
Bossi; non contiene nessuna definizione di etnia
ma nel programma della Lega lombarda del 1983,
articolato in dodici punti, si chiede la “precedenza
ai lombardi nella assegnazione di lavoro, abitazioni, assistenza, contributi finanziari. Perchè ogni tassazione sia uguale per tutte le regioni e non si verifichino ancora truffe come quella del “Condono” e
del “Ticket” sui medicinali che al Sud costano la
metà che in Lombardia (sic!).”
Il 12 aprile 1984 Bossi fonda la Lega autonomista
lombarda e contemporaneamente sceglie il “mito
più adatto” che “era senza dubbio la lega dei venti
Comuni lombardi, ma anche piemontesi, veneti ed
emiliani” (Bossi, 1992, 41). Nel dicembre 1989, al
primo congresso nazionale della Lega lombarda,
Bossi ha presentato una relazione sul “Federalismo
per l’integrità etnica” ma anche in questo documento, curiosamente, manca del tutto una definizione precisa di etnia che viene tuttavia individuata come base dell’affettività umana.
Nell’agosto 1990 Bossi, con l’avallo di Miglio, enuncia in una intervista a “Il giornale”, un programma
che era “un concentrato del federalismo integrale,
una nuova sintesi storica che si propone di rifon-
Elio Franzin
La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo?
dare lo Stato, superando le vecchie logiche degli
autonomisti classici” (Bossi, 1992, 72). Gli autonomisti classici sono i sostenitori delle regioni a statuto speciale. Secondo Bossi, “le tre Repubbliche
sono l’applicazione concreta di un federalismo
tutt’altro che razzista o anche semplicemente etnico; di un federalismo basato invece sull’elemento
socioeconomico” ( Bossi, 1993, 101). Il rifiuto del
federalismo etnico è esplicito.
Nel febbraio del 1991 al congresso di Pieve
Emanuele i vari movimenti autonomistici del Nord
diedero vita alla Lega Nord e Bossi fu eletto segretario federale. Il 16 maggio 1991 sul prato di
Pontida Bossi, davanti a migliaia di leghisti, riafferma la necessità di articolare lo Stato italiano in tre
Repubbliche. Secondo Bossi “il federalismo non è
una bacchetta magica e neppure un sistema per
dividere un popolo unitario. Serve invece a tenere
insieme popoli non del tutto omogenei”. E più
avanti. “Serve un progetto diverso, che non sia
solo il rifacimento delle teorie cattaneane. La Lega
ha proposto qualche cosa di più: la ristrutturazione in senso federale dello Stato con la nascita di tre
macroregioni: del Nord, del Centro e del Sud
(Bossi, 1992, 159). È una presa di distanza definitiva dal pensiero di Carlo Cattaneo. Un abbandono?
Non si direbbe. Bossi non ha mai comunicato a
quale fra i numerosi teorici del federalismo italiani
o europei si sente più affine.
Non ha mai dimostrato un particolare interesse,
per esempio, per il pensiero di Silvio Trentin, il più
grande teorico federalista del Novecento italiano,
malgrado vi siano state numerose affermazioni del
tutto immotivate da parte di coloro che hanno
visto perfino nella fondazione del Centro studi sui
federalismi Silvio Trentin (Padova) un tentativo
della Lega Nord di legittimarsi, di trovare dei predecessori con il riferimento al pensiero di Silvio
Trentin. È evidente che il federalismo di Trentin
non ha nulla in comune con quello teorizzato da
Miglio.
In pratica si è trattato da parte di tutti coloro che
hanno attaccato la costituzione del Centro studi
sui federalismi Silvio Trentin (Padova) di una
risposta alla critica avanzata da Giuseppe Gangemi
e anche dal sottoscritto, alla mancata pubblicazione integrale della traduzione dell’opera principale
di Trentin La crisi dello stato e del diritto.
Trentin ha posto a fondamento del suo federalismo consiliare o della partecipazione il giusnaturalismo di ispirazione vichiana. Anche nel caso della
tardiva e ritardata pubblicazione della traduzione
di quest’opera si è trattato di un ritardo certo non
casuale della storiografia. La riscoperta iniziale di
Trentin è stata merito di due studiosi non italiani,
uno svizzero e uno americano (Hans Werner
Tobler, Frank Rosengarten)
Nel 1993 Bossi afferma che la Lega Nord ha accettato i capisaldi teorici delle tesi dei federalisti integrali, dei sostenitori del “federalismo come sistema
di pensiero complesso, filosofico, antropologico,
economico, non limitato alla soluzione dei problemi istituzionali”. Dichiara che la “discussione sul
numero di macroregioni è aperta”, e aggiunge che
la Lega Nord “si è sempre schierata per una soluzione di tipo federale e non confederale, riaffermando la volontà di evitare, nei limiti del possibile, gli effetti centrifughi prodotti dall’apertura della
gabbia centralista in cui l’Italia è stata costretta dai
tempi dell’unificazione”.
La strada maestra è l’elezione di una nuova assemblea costituente “un organismo agile, venti o trenta costituzionalisti eletti in collegi unici regionali
con il compito di elaborare in sei mesi un testo da
sottoporre a referendum”. Uno degli elementi
rivoluzionari dello Stato federale sarà l’autonomia
finanziaria concessa alle macroregioni.
Connaturato al sistema federale è il principio di
sussidiarietà. (Bossi, 1993, 146-152).
Bossi apparentemente ha come obbiettivo nel 1993
la elezione dell’Assemblea costituente. Ma la richiesta dell’assemblea costituente da parte di Bossi ha
subito molte oscillazioni nel corso degli anni; essa è
in evidente relazione al tema di federalismo.
La richiesta dell’Assemblea costituente da parte di
varie forze della sinistra (Partito d’azione,
Confederazione italiana del lavoro, Partito comunista d’Italia) ha subito delle vicende molto complesse nella storia italiana. Non è stata osteggiata
soltanto dalla Destra; è stata rifiutata o criticata
anche da parte della maggioranza massimalista del
PSI e poi dagli oppositori di Antonio Gramsci all’interno del Partito comunista d’Italia (Franzin, 1970)
Nell’ottobre 1996 Bossi pubblica Il mio progetto.
101
n.32 / 2012
Discorsi su federalismo e Padania. Nelle conclusioni del volume egli dichiara di aver trovato nell’autunno 1994 un alleato prezioso in Massimo
D’Alema per abbattere il governo Berlusconi ed
eleggere Lamberto Dini. Dichiara che D’Alema è
un uomo di cuore e di principi. Da parte sua
Massimo D’Alema ha dichiarato nel marzo 2002
che egli riteneva un errore della sinistra l”aver
mollato il marcamento della Lega”, “l’accantonamento del dialogo con essa nel tentativo di tenerla separata dal Polo”.
Nel dicembre 1993 nel corso del precongresso
della Lega Nord-Lega Lombarda di Assago Bossi
afferma che già nel 1989 essa aveva sancito che
“l’unità di base del nostro federalismo non era
etnica e quindi separatista ma socio-economica e
quindi federalista su base macro-regionale”.
Al congresso di Assago del 1993 della Lega lombarda viene presentata, ma non votata, una
Costituzione federale provvisoria di dieci articoli.
(Bossi, 1993, 4) elaborata da Miglio con la collaborazione di Giulio Tremonti per la stesura dell’articolo 9 relativo al sistema fiscale (Tremonti, 1994).
La bozza consiste di dieci articoli e prevede tre
repubbliche, Padana, Etruria, del Sud.
Nel suo terzo volume Tutta la verità (Bossi, 1994)
Bossi dichiara ancora che l’alternativa è fra federalismo o restaurazione e pubblica in appendice una
bozza di proposta di riforma federalista della
Costituzione consistente di 143 articoli che ripete
sostanzialmente la struttura della Costituzione
vigente. La repubblica federale è costituita da
Comuni, Province, Regioni, Stati e Federazione.
Egli ha scritto che soltanto nel corso del 1995
”vennero a maturazione i frutti della semina indipendentista attivata, con le sortite talvolta avventate, ma efficaci, di Boso e Borghezio, cominciate già
nella seconda metà del 1994. Un folto gruppo di
parlamentari era ormai manifestamente indipendentista, il che facilitò le mie scelte successive.
Creai nel movimento uno spazio sempre maggiore
agli indipendentisti, sapendo che era provvisorio
perchè ben presto avrei trasportato tutta la Lega su
quella riva” (Bossi, 1996, 99). Gli onorevoli Boso e
Borghezio non si sono certo dimostrati dei dirigenti politici particolarmente preparati ed autorevoli. Borghezio ha una biografia politica che è
102
molto difficile definire legata all’autonomismo o al
federalismo.
Il 21 dicembre 1995 nel suo discorso alla Camera
dei deputati Bossi chiede “l’apertura immediata di
un’Assemblea costituente” e conclude con questa
affermazione: ”La scelta fondamentale, a questo
punto, è tra Stato federalista o secessione del
Nord: ora, subito!” (Bossi, 1996, 128-129). Egli crea
una alternativa fra la convocazione dell’Assemblea
costituente e la secessione. Ma non può esservi
un’alternativa alla Assemblea costituente che è l’istituzione fondativa del regime democratico e del
federalismo. Qualsiasi alternativa alla Assemblea
costituente assume un carattere regressivo e reazionario. L’esperienza dello scioglimento dell’assemblea costituente da parte di Lenin durante la
Rivoluzione russa ne è stata la prova più evidente.
Bossi mostra di ignorarlo.
Il 10 gennaio 1996 Bossi presenta in Parlamento
una risoluzione in cui si sottolinea “che il federalismo si può fare solo con l’Assemblea Costituente”
e si ribadisce che “se non si vuole la secessione
della Padania, occorre avviare subito la Costituente
federalista”. Le elezioni politiche del 21 aprile 1996
danno un risultato molto favorevole alla Lega Nord.
Il 4 maggio 1996, alla dodicesima riunione del
Parlamento della Padania, Bossi non propone la
formazione del Comitato per la convocazione
dell’Assemblea costituente bensì la nascita del
Comitato di liberazione padano, ed afferma che la
scelta del Comitato di Liberazione nazionale “permette di rivendicare, assieme al diritto alla resistenza, anche il diritto alla secessione. È questo un
diritto che in alcune Costituzioni è direttamente
scritto nell’articolato [...] è evidentemente un diritto che sta alla base di qualsiasi Costituzione, così
come il diritto naturale sta all’origine del diritto
positivo. Resistenza e secessione sono quindi due
diritti che stanno alla base di tutte le Costituzioni.
Io ritengo che sia giunto il momento di rivendicare questi diritti, pur senza sapere esattamente a
che cosa porterà la loro rivendicazione, al federalismo o alla secessione vera; ciò che conta è cancellare i tabù sacri del regime centralista. la rivendicazione del diritto di secessione potrebbe avere semplicemente un valore strategico, cioè di stimolo,
nei confronti dell’evoluzione federalista”. E più
Elio Franzin
La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo?
avanti: “Esiste un diritto morale alla secessione,
allorché lo Stato non è in grado di far cessare le
gravi ingiustizie, e di gravi ingiustizie nella Padania
ce ne sono a iosa.” (Bossi, 1996, 140-144). La
richiesta dell’assemblea costituente è dunque
abbandonata.
Nel 1996, nel corso della manifestazione di massa
lungo le rive del Po’ del 15 settembre, Bossi legge
la “Dichiarazione di indipendenza e sovranità della
Padania”, e “In nome e con l’autorità che ci deriva
dal Diritto naturale di Autodeterminazione e dalla
nostra libera coscienza” proclama: ”La Padania è
una repubblica federale indipendente e sovrana”.
Le oscillazioni apparenti di Bossi fra la richiesta di
una nuova Costituzione federalista e quella dell’esercizio del diritto di secessione per la creazione
della Padania sono state frequenti a seconda delle
diverse situazioni politiche e parlamentari nelle
quali la Lega Nord si è trovata ad agire. Nulla fa ritenere che nella riunione di Vicenza del 5 dicembre
2011 la Lega Nord abbia deciso, in modo definitivo,
di seguire la strategia della secessione non violenta ma consensuale.
L’indicazione della secessione non violenta, consensuale, come obbiettivo principale della Lega
Nord non accompagnata da una descrizione precisa delle modalità giuridiche e procedurali dell’esercizio di essa, anche alla riunione di Vicenza è
rimasta inevitabilmente nell’ambito dell’agitazione
e della propaganda politica come si è già verificato
altre volte nella storia di Bossi e della Lega Nord.
Essa sembra essere collegata alla previsione di
Bossi che nel corso del 2012 avranno luogo le elezioni politiche. Tuttavia è evidente che il passaggio
consensuale dallo stato centralista a quello federale richiede necessariamente e obbligatoriamente
l’elezione mediante una legge proporzionale
dell’Assemblea costituente.
La doppia linea strategica, la “doppiezza” di Bossi,
l’apparente oscillazione fra le due richieste
dell’Assemblea costituente e della secessione se
non sarà sciolta al più presto da un movimento di
massa per la Assemblea costituente avrà sicuramente delle conseguenze molto negative nella vita
politica italiana.
Riferimenti bibliografici
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Sperling & Kupfer editori, Torino 1992.
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storia e idee, Sperling & Kupfer, Torino 1993.
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Tremonti G. - Vitaletti G., Il federalismo fiscale,
Laterza, Bari-Roma 1994.
Vimercati D. - Bossi U., Processo alla Lega,
Sperling & Kupfer, Torino 1998.
103
Sandro Chignola
Governo, ordine politico, soggettivazione.
Su federalismo e partecipazione*
Federalismo
* Questo testo è stato preparato per: A proposito
di federalismo. Seminario di studi in occasione
della pubblicazione del volume, Come pensare il
federalismo?, a cura di Giuseppe Duso e
Antonino Scalone, Dipartimento di Filosofia,
Università di Padova, 20-21 maggio 2011.
Questo breve intervento è stimolato dall’uscita del
libro recentemente curato da Giuseppe Duso e
Antonino Scalone, nel quale vengono raccolti una
serie di contributi sul tema del federalismo e delle
trasformazioni costituzionali (Duso – Scalone,
2010). Un volume, la cui importanza viene accreditata non solo dal mio, ovviamente opinabile, parere, ma anche dalla lunga nota che gli viene dedicata da Sandro Mezzadra nell’ultimo numero di
«Quaderni fiorentini» (Mezzadra, 2011) . Al di là
della forma di miscellanea, il libro rappresenta
un’autentica operazione culturale. Per questo ne
parlo come se si trattasse di un’opera unitaria. Mi
scuseranno perciò gli autori dei singoli saggi, che
tendo a schiacciare sul dispositivo argomentativo
che li fa ruotare attorno a sé.
Dei due piani che il libro di Duso e Scalone intende
incrociare e mettere in relazione, e cioè (a) il recupero, la riattivazione – perché di questo si tratta –
di un modello, di un «altro modo di pensare la politica» che Duso, con un certo pudore, chiama «federalismo» a partire dalla riscoperta della Politica
methodice digesta di Johannes Althusius (1603); e
(b) un recupero, quello del modello federalista, che
si vorrebbe immediatamente funzionale ai fini di
«intendere la realtà politica contemporanea», mi
interessa, qui, soprattutto il secondo.
Del modo nel quale il «federalismo» viene usato
nel dibattito politico-costituzionale contempora-
104
neo – una modalità affine, per molti versi, ad altri
fortunati recuperi (anche se spesso di breve respiro…): penso al «repubblicanesimo» ad esempio -,
mi interessa più che altro (e forse solo), in questa
sede, il lato sintomatico.
Da un lato, e ciò è evidente nell’operazione di
Duso e Scalone, la nostalgia per la «costituzione»;
l’incapacità, una volta assunta l’irreversibilità dei
processi che hanno rimesso in moto quanto la storia costituzionale occidentale aveva saputo produrre con la Forma dello stato moderno (e cioè un
particolare «assemblaggio» di potere, territorio e
diritti, secondo la formula di Saskia Sassen (Sassen,
2006)), di passare oltre la linea d’ombra che quella
vicenda costituzionale continua a proiettare.
Pensare il governo come una delle componenti del
«federalismo» (al quale Duso affianca: responsabilità, sussidarietà, interessi organizzati…) significa, è
questa la mia provocazione, farlo consonare con
una serie di istanze la cui politicità viene assunta
come indicizzata sul - e dunque «oggettivata» nel quadro della costituzione, anche se la «costituzione», se intesa nei termini generali impiegati nel
libro, e cioè come «Verfassung», costituzione materiale, risulta di fatto attraversata, ecceduta e destabilizzata, nella contemporaneità globale, da flussi
di informazioni, uomini e cose, che in essa non
sono evidentemente allocabili.
Dall’altro, tuttavia, il valore nuovamente sintomatico che il tema federalista assume in relazione alla
centratura del politico – lo ricordava Luciano
Ferrari Bravo – sul processo e non sulla struttura
(Ferrari Bravo, 2001); il fatto cioè, che, pur attraverso quelli che mi sembrano i limiti della riduzione «federalista», si provi tuttavia a mettere a fuoco
un passaggio oltre lo Stato.
Sandro Chignola
Si provi cioè ad eccedere il cono d’ombra proiettato dal declino dello Stato e l’effetto-tenebra della
sua sopravvivenza spettrale: quando esso viene
cioè adoperato, ad esempio, come leva per imporre politiche imperiali di aggiustamento strutturale
(FMI), per erigere dighe armate alla mobilità dei
migranti, per innescare processi di State-building
funzionali alle logiche speculative di impresa
(come è avvenuto e continua ad avvenire nell’europa dell’Est o nei territori candidati all’«allargamento» dell’UE, in Indonesia, nelle zone speciali di
esportazione in Asia o nel Guandong in Cina).
Il «disassemblaggio», lo unbundling lo chiama
Sassen, di autorità territorio e diritti, rimette in
moto processi che tendono a disegnare altre
modalità, poststatuali e posrappresentative, della
politica. Esso obbliga, con un effetto evidentemente liberatorio, a rimettere in moto l’immaginazione
in risposta a materiali processi di decostituzionalizzazione del Politico che degerarchizzano il diritto, dislocano la decisione, innescano altri agencements tra soggettivazione ed interessi.
La mia tesi è che è difficile com-prendere questi
processi - e cioè: pensarli nella loro effettualità e
cavalcarli, organizzandoli politicamente, nell’aleatorietà della contingenza – con l’impiego, per
quanto raffinato, della categoria di «federalismo».
Pensare il contemporaneo richiede, io credo, un
controtempo; mettere in moto un presente contro
un altro. Tracciare la tendenza e piegarne la curva
evolutiva… un pò come la figura, strana, ma non
impensabile, della «misteriosa curva della retta di
Lenin»
di cui ha parlato una volta Isaak
.
Emmanuilovič Babel’ (Babel’, 1969).
C’è un implicito criterio selettivo messo al lavoro
per leggere la storia costituzionale inclinandola in
direzione di ciò che emerge come fuggevole baricentro del dibattito contemporaneo (ormai, tra
l’altro, risalente a qualche anno fa…), e cioè di
quella nozione di «federalismo» rivitalizzata in rapporto ai processi di unificazione europea. La crisi
che quest’ultimi attraversano sarebbe di per sé
motivo sufficiente per accantonarla.
Concordo però con Duso sulla crucialità della
nozione di «governo» come matrice della politica
occidentale. Anche se non vedo la necessità di
coniugarla ad una nozione di «federalismo» che mi
Governo, ordine politico, soggettivazione.
sembra non solo filosoficamente incapace di fissare i problemi di soglia della soggettivazione politica (chi o che cosa sia abilitato ad essere federato;
quali siano i fattori materiali del processo costituzionale; che cosa marchi l’esistenza o l’inesistenza
di un territorio; se, come nell’ideologia neoliberale, gli interessi siano in qualche modo destinati a
realizzare un’armonica massimizzazione degli utili
oppure, se essi, specie nell’asimmetria che ne
caratterizza la composizione, non siano invece
volti ad una pura, e spesso parassitaria, captazione
delle risorse della cooperazione), ma anche periferica rispetto al processo della storia costituzionale
europea e ai suoi più estremi sviluppi nella contemporaneità.
In un saggio importante dei primi anni ’50 uscito
sulla «Historische Zeitschrift» (Die Frühformen des
modernene Staates in Spätmittelalter) e meritoriamente tradotto a cura di Schiera (SchieraRotelli, 1971, 51-78), Werner Näf (non di solo
Brunner vive l’uomo..., nonostante sia, appunto, il
grande storico austriaco l’autore forse più evocato
da Duso negli ultimi lustri, assieme ad Althusius ed
Hegel) antedata al secolo XIII (un’idea che proprio
Schiera assume in tutti i suoi lavori sulla storia
costituzionale e sulla politica occidentale) la nascita dello Stato moderno. Ciò che determina quella
genesi, oltre la «privatizzazione» del potere monarchico medioevale nella crisi del feudalesimo, è
l’«acquisizione di forza» dei ceti come «correlativi
alla monarchia». «L’organizzazione per ceti presuppone la monarchia» (più avanti e altrove Näf lo
chiarirà: la monarchia, il potere del principe, l’istanza di governo, in altri termini, resta un fattore
indipendente, extracontrattuale, perché il principe mantiene un diritto originario di signoria identificato alle funzioni statuali dell’esercizio giurisdizionale e amministrativo del diritto territoriale),
ma «il diritto dei ceti costituisce una risposta al
potere del principe», stratificandosi su quelle stesse competenze di auxilium et consilium delle
quali parla Otto Brunner (Brunner, 1983).
I due elementi si rafforzano nell’interazione reciproca e dunque, cosi Näf, un «dualismo» è fondamentale per la forma iniziale dello «Stato moderno». Era un dualismo necessario, dato che il principe non era riuscito ad attrarre a sé tutti i diritti
105
n.32 / 2012
statuali disseminati e «privatizzati» nei centri di
potere (mi si passi il termine…) della société feodale e non era riuscito a statizzare i sempre più
numerosi e mutevoli compiti pubblici. Assemblee
di ceti (Etats, Cortes, Landtage) compaiono, a partire dal XIII secolo, come correlato necessario a
quello stesso processo di statizzazione. Gli
«Herrschaftsverträge» che principi e ceti stringono
allora, non sono la sanzione di un dualismo che si
realizza nello Stato, ma, al contrario, di uno Stato
che si realizza nel dualismo e - così Näf - «solo
attraverso di esso».
Da un lato un potere del principe che si incrementa per mezzo delle competenze tecniche dell’amministrazione e del peso delle armi (competenze burocratico-militari); dall’altro l’iniziativa dei
ceti per la stipulazione dei contratti di signoria, il
loro lavorare all’assicurazione e al rafforzamento
del diritto a favore del paese che per mezzo di loro
si rappresenta, come nodo di libertates singolari e
collettive, di fronte al principe. Sono queste le
forme di quello che Näf chiama il dualismo costitutivo all’origine dello Stato moderno.
Di questo dualismo sono due le cose che mi interessano, oltre all’effetto di depotenziamento che
esso rende possibile (a meno che non si scelga di
pensare l’armonia alla greca, secondo il virile
accordo dorico evocato da Platone nel Lachete, e
cioè come tensione dei contrari (Loraux, 2006))
rispetto all’armonizzazione tra gli interessi e i
gruppi sui quali insiste l’apologia federalista di
Duso e Scalone.
Il primo è la figura dell’«ellisse dualistica» - così la
chiama Näf – dentro la quale si mossero le forme
iniziali dello Stato moderno, cristallizzandosi, e non
sempre in forma contrattuale, ma talvolta in forma
più radicalmente antagonistica, ci dice Näf, nel rapporto «politico-esistenziale» tra signore monarchico
e ceti del popolo, tra governanti e governati.
Il secondo la «capacità di creazione del diritto»
(immagino Näf riprenda l’espressione da Eugen
Ehrlich) che ascrive ai ceti, e cioè alle libertates e
alla resistenza, l’elemento innovativo-progressivo
della sintesi costituzionale.
Che lo Stato moderno sia da considerarsi solo una
«peripezia del fatto di governo», secondo la nota
espressione di Michel Foucault (Foucault, 2004,
106
253), mi sembra un’ipotesi quantomeno degna di
considerazione in questa prospettiva. Ciò che lo
Stato riesce a realizzare, potrebbe forse dirsi, è un
incantamento strutturale che realizza una cristallizzazione dello spazio e una retroversione del tempo.
Da un lato, attraverso la fictio del contratto sociale
e dell’autorizzazione, l’idea che sia il sovrano a fare
la società, rappresentandola e dunque re-incorporandola, dopo averla dissolta nell’anonimato di
relazioni incapaci di politica. La retroversione temporale, cioè, per cui il potere istituisce la società
nella sua durata, ne segna la genesi, ne struttura e
ne innerva la possibilità, per così dire…
Dall’altro, la cristallizzazione dello spazio per cui
il movimento dell’ellisse dualistica, incitato dall’irriducibile autonomia delle libertates, viene immobilizzato scindendone i due poli: Pubblico e privato, Stato e società, Bene comune (e-laborato e trattato dall’amministrazione) e interessi privati (trascritti in termini di egoismo impolitico o prepolitico). Che il risultato dell’appropriazione statuale
del Politico sia la desertificazione di ciò su cui insiste la sua azione, lo aveva detto il lucido disincanto di Tocqueville ben prima della scienza politica
novecentesca, e precisamente in quella scintillante
temperie ottocentesca in cui si rovesciano il cielo
e il tempo della politica, per citare, con un improvviso flash forward, il libro che uscirà in autunno…
(Chignola, 2011).
Assumere come costante del processo costituzionale occidentale l’«ellisse dualistica» della quale
parla Näf, e cioè il fatto di governo, mi sembra utile
per almeno tre ordini di motivi.
(1) il primo motivo è il più immediatamene comprensibile. La vicenda dello Stato moderno, quella
che sembra ormai avviata alla conclusione, può
essere «epocalizzata» non solo, come abbiamo
sempre collettivamente fatto (Duso, 1987; Duso,
1999), all’indietro, rilevando in Hobbes il punto di
irruzione delle categorie politiche moderne (la dissoluzione del dominium: «dominus non est in
definitione patris», come nel De Cive, con quel che
ne consegue…); una nozione di uguaglianza che
sarà usata per incorporare una società di privati
assoggettata allo «sguardo dei re» e livellata dalla
concentricità degli apparati amministrativi (di
nuovo Tocqueville, ovviamente); un meccanismo
Sandro Chignola
di autorizzazione rappresentativa che permette di
risolvere con un grande incantamento il problema
di un’integrale, irresistibile – e piuttosto paradossale - sottomissione che libera canalizzando la
potenza di autoconservazione e che la «traduce» in
autodisposizione accumulativa (MacPherson,
1967; Deleuze, 2007, 83), non solo all’indietro,
dicevo, come genesi del grande dispositivo statuale moderno, ma anche in avanti, intuendo il punto
in cui questa macchina non tiene più, si inceppa e
lavora a vuoto: l’«Entzauberung» della rappresentanza e la crisi di consenso della democrazia matura (Crouch, 2003); l’impossibilità di ridurre ad Uno
i processi cooperativi del lavoro vivo a matrice
cognitiva (Negri-Hardt, 2009); lo sfumare della
distinzione tra pubblico e privato (Mattei-Nader,
2008); la produzione non statuale e non sovrana di
diritto vincolante e capace di coazione (dal diritto
commerciale a quello dei brevetti; dal diritto internazionale privato al diritto internazionale pubblico…), che consegue anche da quella impossibilità,
ad esempio (Teubner, 1997; Ferrarese, 2000;
Bussani, 2010). L’epoca dello Stato, de-terminata
(terminus: pietra confinaria e dio del limite) dai
concetti della politica moderna, ha un inizio e una
fine: in essa il problema del «governo» riceve, per
così dire, una potente torsione formalistica. E tuttavia questo stesso problema ora ritorna, eccedendo i «termini», appunto, della soluzione statuale.
Che tanto si parli di governance è un sintomo piuttosto evidente di ciò, concordo con quello che
Schiera scrive nel libro…
(2) il secondo motivo è il seguente. L’ellisse dualistica della quale parla Näf, mette a tema un confronto e un ritardo. Il confronto irriducibile – per
Foucault, ovviamente, non solo premoderno, ed è
questo che mi interessa – tra chi governa e chi è
governato. Un «fuori» rispetto a questo rapporto
non c’è. Se una matrice c’è, del discorso politico
occidentale, questa matrice è la matrice di una
polarizzazione. Non un’armonia, non la mortifera
unità del sovrano. Nemmeno quella in cui esiterebbe, dopo essere stato per breve tempo invocato,
come in tutte le retoriche rivoluzionarie, il potere
costituente della Nazione. Su questo, io credo,
Foucault ha detto parole decisive (Foucault, 1997).
«Tagliare la testa al re» nello spazio della teoria (e
Governo, ordine politico, soggettivazione.
della pratica) politica, significa non soltanto congratularsi per averlo qualche volta fatto nel corso
della storia, ma sbarazzarsi del fantasma del sovrano che ancora aleggia ogniqualvolta si pensi di aver
fatto la Rivoluzione e di poter recuperare l’istante
dell’insorgenza nella durata dell’istituzione.
Non mi interessa, in questa sede, decidere se il
tentativo foucaultiano di fuoriuscita dall’ossessione del sovrano (con quello che ne consegue ovviamente: lessico dei diritti, forme partitico-rappresentative di traduzione e di organizzazione delle
istanze, sogni di «presa del potere» e fantasie di
«estinzione» dello Stato) inclinino in direzione
liberale. Ciò che mi interessa, è invece la focalizzazione che l’analitica del potere foucaultiana rende
possibile sul fatto di governo come linea di espressione tendenziale della politica occidentale e, questo il secondo elemento di cui dicevo, sul costitutivo ritardo che la funzione di governo sperimenta rispetto ai processi che essa si sforza di governare. Non soltanto, cioè, il confronto tra governante e governato è matriciale, innesta l’ellisse su
un antagonismo irriducibile dentro il quale la funzione di soggettivazione non viene esorcizzata,
ma incitata, poiché ciò che è governato è la libertà, sono le traiettorie di emersione di soggetti,
interessi, istanze che attraversano e ritracciano,
nella materialità di una presa di parola, la soglia
della politicità offrendo risposta al rompicapo di
Schiera («capire chi sono gli interessati», quando si
parla di interessi…, scrive Schiera nel libro (Duso
- Scalone, 2010, 182)), ma in quel confronto emerge con forza come la funzione di governo debba
sempre inseguire qualcosa che si esprime in termini tendenzialmente ingovernabili, spezzando
quella che Carl Schmitt chiamava «la crosta irrigidita della ripetizione». Se il sovrano anticipa, permettendone l’attuazione, il corpo politico, il
governo arriva invece sempre dopo, rispetto a ciò
che deve essere governato (Chignola, 2006). La
politica sta dentro questo circuito, che non ha un
fuori, dicevo. Ma all’interno del quale il rapporto
tra governante e governato si esprime in termini
marcatamente dinamici.
(3) Di qui il terzo motivo rilevante, almeno a mio
avviso. Ciò che l’«ellisse dualistica» di Näf fa emergere è, di nuovo, quanto l’incantamento dello
107
n.32 / 2012
Stato aveva offuscato. I ceti, nella loro organizzazione politico-costituzionale, esprimono una capacità giuridica. Sono loro, e non la macchina di
assoggettamento della monarchia, a spingere per
la costituzionalizzazione delle libertates per mezzo
di «Herrschaftsverträge». Lo Stato – specie nella
sua vicenda conclusiva – non è l’unica fonte del
diritto. Se parliamo di «pluralismo» (e Duso, in particolare, molto lo fa, anche se trattiene questa pluralità, almeno così mi sembra, nella fissità di gruppi, identità e interessi in grado di riconoscersi e di
armonizzarsi secondo una logica dell’intero che
forse funziona nel cielo speculativo di Althusius ed
Hegel, ma molto meno nei circuiti della valorizzazione capitalistica, nella rigida stratificazione di
tempi della metropoli, nei conflitti che si accendono incrementalmente sulla scia della decostituzionalizzazione del comando…), se parliamo di «pluralismo», dicevo, è di un pluralismo giuridico (e
istituzionale) che dobbiamo parlare. Non soltanto
in termini di fonti, quando si assuma la degerarchizzazione che segna i processi di produzione
contemporanea del diritto, la perdita di monopolio dello Stato a favore di autorità amministrative
indipendenti, agenzie non governative, comitati di
esperti, secondo la linea di un’amministrativizzazione della decisione che è la sola da assumersi
quando si parla di governance (Chignola, 2008).
Ma anche, e soprattutto, in termini di soggetti e di
gruppi, la cui «potenza giuridica» (il termine è di
Rudolph von Jehring, non di Toni Negri) rilancia la
lotta per il diritto. Non come appello retorico o
istanza universalistico-formale, ma come autonoma capacità istituzionale e giuridica. Lo fanno i
grandi gruppi transnazionali, non si vede perché
non possano farlo dal basso i cittadini imponendo
agende e soluzioni, anche direttamente normative, in merito a questioni che paiano loro particolarmente rilevanti.
Di rapporti di questo tipo, che potremmo forse
identificare come esperimenti di governance virtuosa, ci parlano alcune grandi realtà metropolitane in America latina e in India (si vedano il libro di
Linera, 2008 o quello curato da Samaddar, 2005).
Di un «societal constitutionalism» parla ad esempio, ed esattamente in questo senso, Günther
Teubner (Teubner, 2004), con il quale ho recente-
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mente avuto modo di confrontarmi e che scriverà,
assieme a molti altri, nel libro sul diritto del comune che sono stato incaricato di curare dopo il seminario torinese di UniNomade (Il diritto del comune. Globalizzazione, proprietà e nuovi orizzonti
di liberazione, International University College di
Torino - UniNomade 2.0, 10 marzo 2011. Alcuni dei
materiali di discussione sono reperibili qui:
http://uninomade.org/tag/diritto/).
In America Latina e in India, le rivendicazioni di
autonomia, giusto per chiarire l’esempio citato
poco sopra, disegnano «una storia di aspirazioni,
lotte, embrionali rivendicazioni di giustizia, nonché
di emergenti nuove configurazioni di potere, che
rifiutano di essere confinate e limitate dalle regole
governamentali di una forma politica stabile». Esse
tendono a stabilizzare un conflitto, una resistenza se costituzionalizzabile davvero non saprei - che
definisce un’autentica, incomprimibile sfida per le
sinistre al potere (e Alvaro Garcia Linera, qualcosa
ne sa, visto il suo ruolo di vicepresidente boliviano). L’ellisse di governo di cui parla Näf è costantemente riaperta e tenuta in tensione dal lato del
governato, per così dire (Chignola, 2010).
Foucault, negli ultimi suoi anni di vita, riapre il
confronto con la grecia, per cercare di sondare una
genealogia della soggettivazione in grado di stabilizzare «forme di vita», proprio perché impegnato
dall’analisi dei meccanismi di «governamentalizzazione» della politica contemporanea. Deleuze, di
contro, riteneva che dovessimo abbandonare la
Grecia (e il primato della filosofia che vi si consegna), per diventare romani. Che cosa intendeva
dirci con questo? In quale direzione viene attivata
l’opposizione tra logos e nomos?
A differenza del logos, il nomos è un’avventura, ci
dice Deleuze. Le società che esso «governa» sono
nello stesso tempo degli insiemi composti (non
pluralità in cui risuoni l’accordo della differenza o
l’armonia del riconoscimento, ma agglomerati
segnati da linee di frattura, incroci di piani, precarie e sempre rivedibili emersioni di soggettività) e
la ripetuta, continua frammentazione, dispersione,
di quella stessa composizione. In altri termini il
nomos – inteso in termini istituzionali e non come
legge – traccia il processo dinamico di una ricomposizione che trattiene l’insieme di linee di fuga
Sandro Chignola
che disegna il piano sociale.
Quando Deleuze legge Hume valorizzando la differenza tra «convenzione» e «contratto» (Deleuze,
2000, 46-57) spinge esattamente in direzione della
potenza giuridica che richiamavo poco sopra e
che, almeno a mio avviso, non ha bisogno di essere compressa nello schema federalista. La proprietà non ha a che fare col contratto, ma con la convenzione, per Hume. E questo significa che il processo sociale non viene fatto dipendere dal consensualismo della legge, ma da una pratica (la «pratique axiomatique du droit», la chiama Deleuze)
che valorizza il sistema di azioni attraverso le quali
il soggetto socializza il proprio interesse componendolo ad altri secondo lo schema filosoficomorale scozzese della simpatia (da Adam Smith, a
Ferguson, a Huthcheson, a Hume…).
La società viene coattivamente ricomposta, nella
fitta rete degli illegalismi che la caratterizza, dalla
legge. Oppure, viceversa, essa può essere pensata
attraverso lo schema composizionista del nomos;
dell’assiomatica del diritto inteso come pratica istituzionale indicizzata sull’agire libero dei singoli e
sulla sua (immanente) capacità di totalizzazione
(De Sutter, 2009).
Ma nemmeno questa è l’ultima parola. Tornare ad
essere romani, nell’intenzione di Deleuze significa
compiere un ulteriore passo in avanti e spostare
ancora più in là il senso della riflessione sul diritto.
Significa, così Deleuze, assumere il dato che la giurisprudenza è l’avvenire, il futuro, della filosofia. La
giurisprudenza abbandona la logica assiomatica
del diritto e procede come topica di casi (il riferimento va ovviamente alla jurisprudence universelle di Leibniz) (Deleuze, 1988). La giurisprudenza traccia la mappa delle operazioni per mezzo
delle quali il diritto diviene. Non sulla base dell’anticipazione di principi, ma sulla base delle operazioni concrete che esso realizza e permette di realizzare. Se i principi verranno definiti – ecco un’altra versione del rovesciamento di cui sopra – essi
verranno dopo: sono comunque i casi concreti, i
problemi e le soluzioni che vengono inventate per
essi, ad assegnare ad essi il loro significato. Quella
della giurisprudenza dei casi è un’operazione disgiuntiva (la sua caratteristica: stabilire rapporti
innovativi sulla base dell’autonomia dei soggetti e
Governo, ordine politico, soggettivazione.
del loro agire pratico) che smonta la logica congiuntiva della legge (il trascendentale al quale
vanno in anticipo riferite e ricondotte le azioni).
Ciò che del diritto affascina Deleuze non è la retorica dei diritti o l’ortopedia che il sistema dei principi (compreso quello di giustizia) rende possibile
rispetto alla società (tantomeno intesa come intero, pluralità, sistema di rapporti definiti e determinati), ma il modo attraverso il quale gli individui –
in un contesto che depotenzia radicalmente questa espressione e che assume invece la policontesturalità delle pratiche (il termine è di Teubner,
1999); un orizzonte a stretta desinenza transindividuale – si organizzano per elaborare relazioni
autonome, per irrobustire e condensare forme di
rapporto tra di loro, per comporre società.
Ciò che abbiamo davanti, se davvero vogliamo
posizionarci nella croce dell’attualità, ed è da quest’ambizione che muovono Duso e Scalone, sono
dinamiche di rete (nel libro lo dicono bene Ortino
e Schiera), flussi, processi, dentro i quali l’autonomia della cooperazione aggrega nodi politicamente rilevanti quanto più capaci di potenziarsi nel
rapporto con altri e di determinare istanze di soggettivazione che resistano - e che non si risolvano
– di fronte ad un azione di governo capace di alimentare dal confronto con essi l’innovazione e la
sintesi giuridica e istituzionale.
Non si tratta di contropotere, ma nemmeno di
federalismo. Di autonomia sì. Della capacità di
tenere in tensione l’ellisse dualistica sulla quale
“gira” l’azione di governo. Questa capacità pertiene al polo del governato. E alla sua capacità di fare
società dando una dimensione istituzionale alla
propria libertà: libertà compositiva, potenza, capacità di relazione.
Non so se questo abbia a che fare col federalismo
(probabilmente: no). Certo, non con una nozione
di politica che tenda, come esplicitamente fa
Duso, a sussumere l’autonomia nel gioco del riconoscimento.
Il quale, come noto, ha che fare con il conflitto. Ma
in una forma che non è esattamente quella che
interessa a me, né ai troppi dannati della terra ai
quali non è dato fendere la soglia che dal circolo
magico del riconoscimento li tiene accuratamente
fuori. O in indefinita attesa.
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n.32 / 2012
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Piero Sanavio
Paul Bowles, scrittore e compositore americano
Americana
Lungo e smilzo, gli occhi pallidi color ghiaccio, lo
scrittore e compositore americano Paul Bowles,
nato a New York il 30 dicembre di cent’anni or
sono, avrebbe sviluppato in vecchiaia un volto aristocratico, impassibile, bruciato dal sole – ed era
un deciso miglioramento dall’aria di impiegato di
concetto dell’epoca della maturità. Si era stabilito a
Tangeri, trascorsi a New York gli anni di guerra,
“perché la vita era meno cara e con il mio lavoro
non è che facessi grandi guadagni.” Non era la sola
ragione anche se, in effetti, le composizioni che gli
erano commissionate (raffinate, eleganti, elogiate)
non permettevano larghezze e più consistenti
sarebbero stati gli introiti da riviste come
“Holiday”, “Mademoiselle”, molto tempo dopo: a
seguito del primo romanzo, The Sheltering Sky
(1950, Tè nel deserto), tradotto da Bernardo
Bertolucci in un film che lo scrittore non aveva
apprezzato. Tardivi (1966) anche i 25.000 dollari
incassati per la vendita a Hollywood dei diritti di
Up Above the World, In alto, sopra il mondo, che
Bowles ancora non aveva scritto.
Figlio di un dentista di consuetudini teutoniche e
una madre molto affettuosa che lo voleva musicista, e nell’infanzia gli leggeva, per ninnananna, i
racconti di Nathaniel Hawthorne e Edgar Allan
Poe, Paul Bowles passò la vita a fuggire dal suo
Paese. Il primo tentativo fu a 19 anni, a Parigi, “…
una città piena di mistero” avrebbe ricordato.
Aveva trovato impiego come telefonista allo
Herald Tribune, rue du Louvre, “e a volte la notte
andavo a piedi da Denfert-Rochereau a
Montmartre, le strade luccicanti perché erano continuamente lavate. Ancora non c’erano carrettate di
turisti, le persone viaggiavano individualmente.” Di
ritorno in America, allievo di Aaron Copland che
lo vorrà con sé a Berlino, precederà il musicista
ritornando a Parigi dove conoscerà un altro compositore, Virgil Thomson, e poi Gide, Pound,
Cocteau, Gertrude Stein (“un’apparenza molto ben
calcolata”) che fingeva di crederlo pittore e ne sbagliava il nome. Il primo viaggio a Tangeri, alla conclusione di un zigzag tra Parigi, Berlino, la Bassa
Baviera, l’Austria e l’Olanda, sarà con Copland l’estate 1931. L’innamoramento fu immediato, questa
la vera ragione della scelta, la città “un luogo magico sognato da sempre: ero certo che, rivelandomi i
suoi segreti, mi farebbe conoscere la saggezza e l’estasi e forse mi darebbe la morte.”
La residenza a Tangeri, 2117 Socco, l’indirizzo, non
avrebbe impedito continui viaggi, in Europa, in
Asia, in Sud America, come già dal suo Paese –
memorabile quello in Messico da New York City e
nel quale s’era infilata Jane Auer, non richiesta e non
ancora sua moglie, le valigie zeppe di volantini contro Trockij che il Messico aveva accettato d’ospitare.
Bowles preferiva definirsi “viaggiatore”, piuttosto
che musicista o scrittore, spiegando che, contrariamente al turista, il viaggiatore “va e non sa
quando torna” sicché si sposta con un numero
imprecisato di bauli e valigie; aggiungeva di detestare per questo gli aerei, i soli viaggi possibili,
anche a causa delle valigie, erano per mare.
Sarebbe morto all’ospedale italiano di Tangeri il
18 novembre dell’ultimo anno del secolo, le ceneri seppellite a Glenora, N. Y., il nome della moglie
accanto al suo, sulla pietra tombale. Era stato un
rapporto molto profondo, pure se ognuno dei due
cercava l’eros in personaggi del proprio sesso,
Paul sempre pronto a offrire aiuto a Jane: che si
mondasse dei suoi improvvidi masochismi, cercati con la voluttà di un assetato che cercasse l’acqua.
Una presenza simbolica, comunque, a Glenora,
quella di Jane Auer Bowles, il cui corpo giace a
Malaga dove morì – avvelenata dall’amante,
Cherifa, una marocchina di Tangeri che vendeva
granaglie al mercato.
Quando Paul Bowles vi si stabilì, Tangeri era ancora territorio internazionale; lo sarebbe rimasto fino
al 1952, garanti Spagna, Francia e Gran Bretagna
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n.32 / 2012
che aveva l’avamposto di Gibilterra sull’altro lato
dello stretto. Il cambio favorevole, la tolleranza
delle autorità nei riguardi degli stranieri, purché
non si occupassero di politica, la possibilità di
comportamenti pubblici che in Occidente davano
ancora scandalo, dalle consuetudini sessuali all’
uso di droghe ( marijuana, hashish, kif, majoun)
aiutarono, nell’euforia del secondo dopoguerra, a
fare della cittadina un luogo d’incontro per personaggi che, anche quando si trattava di artisti, non
vi cercavano necessariamente stimoli culturali.
Francis Bacon, Allen Ginzberg, Gregory Corso,
William Burroughs, Tennessee Williams, Gore
Vidal… Non mancava Truman Capote, fresco del
successo di Altre voci altre stanze e, ricordava
Bowles, “era venuto a Tangeri esclusivamente per
farsi fotografare da Cecil Beaton.” Fotografo dei
reali britannici, anche Beaton, come l’anoressica
miliardaria Barbara Hutton, frequentava quei luoghi. Capote parlava soltanto di se stesso, “spiegava
di aver deciso tutto ciò che avrebbe scritto nel
prossimo futuro: per ora la storia di alcune persone su un albero, poi un libro di viaggio, poi un
altro su un fatto di cronaca raccontato come un
romanzo…” Ciò che ancora ignorava di quei libri,
proseguiva, erano i titoli (si sarebbe trattato,via
via, di Un albero di notte, Ascoltate le muse, A sangue freddo) e le trame.
Partecipasse o no alla generale euforia, Paul
Bowles, diversamente da Jane, passava il tempo
soprattutto al lavoro: anche quando era in viaggio.
“Cominciai come compositore ma mi accorsi che
c’erano cose che in musica non riuscivo a esprimere, serviva la scrittura.” Si trattava di racconti, resoconti di viaggio, romanzi di cui uno politico, The
Spider’s House, La casa del ragno, in favore dell’indipendenza del Paese di cui era ospite.
Trascriveva anche, e pubblicava, senza peraltro mai
addebitarsene la paternità, i racconti tradizionali,
infarciti di magie, che estraeva dalla memoria di un
paio di amici marocchini, “sconfinamenti” antropologici che scatenarono le invidie del molto francesizzato Tahar Ben Jallun. Avrebbe sostenuto su “Le
Monde” che le storie erano falsificazioni e Bowles
aveva inventato il nome di uno dei suoi informatori – accuse infondate, l’informatore “inesistente”
era il quanto mai reale Mohammed Mrabet, domestico in una famiglia di espatriati americani.
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Ciò che colpisce nella narrativa di Bowles è il continuo senso di disagio che affiora sotto l’apparente
convenzionalità della forma e ci trascina nella schizofrenia di un popolo che non sa più quali siano i
punti di riferimento: se il Corano, le memorie tribali o le contrastanti culture (francese, inglese,
spagnola) degli occupanti occidentali. Ne risulta
l’indifferenziato coesistere, nel medesimo individuo, di sentimentalismi, recriminazioni, dolcezze,
violenze, fedeltà, tradimenti, sadismi, spesso diretti verso una stessa persona, non di rado un benefattore. Gli occidentali, dal canto loro, fatta eccezione per la polizia il cui approccio al reale è,
come per i nomadi, attraverso l’esercizio della crudeltà, sono tutti votati alla distruzione: per errori
di comportamento, arroganze, stupidità, viltà,
masochismi, destino.
Paul Bowles non diventò mai uno scrittore popolare e anche il suo libro più celebre, The Sheltering
Sky, restò essenzialmente “di culto” – lui stesso
diventato tale, a partire dagli anni della beat generation. Avrebbe scritto Norman Mailer, sempre
affannato di restare à la page, “Bowles ha inaugurato il mondo hip.” Commentava l’interessato, con
qualche fastidio, “Studenti e turisti passano per
Tangeri e si chiedono, ‘Perché non andiamo a
vedere Paul Bowles?’ Mi vengono a vedere come
fossi un monumento.”
Cercava il silenzio, affascinato, come tanti “vittoriani” prima di lui (l’aggettivo è da leggersi nella
sua connotazione caratteriale piuttosto che storica: T. E. Lawrence, Freya Stark, Gertrude Bell, l’incomparabile Charles M. Doughty di Arabia
Deserta) dall’allucinata cecità del deserto, paesaggi di sabbia e pietre dove è possibile l’illusione di
misteriose presenze – l’Ombra che Shakleton e
compagni, nella loro esplorazione di altri deserti,
quelli dell’Antartide, percepivano al loro fianco.
“Who is that on the other side of you?”, “Chi ti sta
all’altro lato?” [Nessun sentimentalismo all’Antoine
de Saint-Exupéry, in questo, e semmai consonanza
con una frase del filosofo F. H. Bradley in
Appearence and Reality . “Le mie sensazioni esterne non sono meno private a me stesso dei miei
pensieri o i miei sentimenti […], la mia esperienza
vive all’interno del mio proprio cerchio. […] Ogni
sfera è opaca agli elementi che la circondano.”]
Piero Sanavio
Big Two-Hearted River di Hemingway
Americana
Il racconto “Grande fiume dai due cuori” (“Big TwoHearted River”) prende il titolo dal nome dato dagli
algonchini a uno dei fiumi della Upper Peninsula del
Michigan, una lingua di terra che si insinua nel Lago
Superiore. Gli avvenimenti descritti da Hemingway
non si erano svolti, però, lungo il fiume dai due cuori
ma lungo il Fox; che non si getta direttamente nel
lago Superiore ma nel contiguo e però comunicante
lago Michigan. La scelta del titolo era stata dettata dal
maggiore potere evocativo del nome.
La regione è dove il confine tra Stati Uniti e Canada
è costituito da grandi estese d’acqua, quasi un susseguirsi di mari interni, ingannevoli nel rifrangersi
della luce. Paradiso di fatali epifanie, aveva già stupito e impaurito l’avventuriero francese Etienne
Brulé, primo europeo a mettervi piede nell’anno
di grazia 1620, alla ricerca di un passaggio a nordovest. Trecento anni dopo, sul più settentrionale
di quei laghi, il Superiore, anche uno dei personaggi ormai mitici della letteratura del Novecento
avrà un suo incontro fatale – il vagabondo Jay
Gatsby cederà al fascino del suo corruttore e futuro modello, il miliardario Dan Cody.
Avventurandosi lungo il fiume, il giovane Nick
Adams, alter ego di molti racconti di Hemingway,
non arriverà mai alla fata morgana dei laghi, nessuna Circe per lui, del tutto conscio che ciò che cerca
potrà trovarlo soltanto dentro di sè. Ciò non significa che non sia nella concretezza del mondo fisico
che ha luogo il viaggio e piuttosto che il Wild (a
citare Jack London), quella dimensione selvaggia
del reale, è anche e anzitutto, per Nick perlomeno,
un’estensione della coscienza
A un primo livello, l’esperienza di Nick nell’Upper
Peninsula può essere letta come resoconto di una
battuta di pesca; e tuttavia, troppi sono gli indizi
seminati dall’Autore perché tale lettura non risulti inadeguata. Il fatto sportivo cela in effetti tutt’altre considerazioni e non diversamente dal più
tardo Death in the Afternoon, Morte nel pomerig-
gio, che la critica seguita a classificare come un
pretenzioso manuale di tauromachia, il racconto è
una meditazione sulla morte.
Come il Jake Barnes di Fiesta , Nick Adams ha alle
spalle le esperienze traumatiche della Grande
guerre, pure se è immune da umilianti mutilazioni. Scendendo dal treno a Seney, zaino in spalla e
appesi allo zaino gli impedimenta per la pesca e il
campeggio, non troverà la città ma il suo scheletro
– le case, l’albergo, i saloon che fiancheggiavano il
corso distrutti da un incendio. Anche gli insetti
portano i segni del disastro, per il grande fuoco le
loro carapace sono tutte annerite.
Sui sentimenti di Nick, confrontato a tanta desolazione, l’Autore non offre commenti. Segue il personaggio che si addentra nel bosco costeggiando il
fiume fino al luogo dove pianterà la tenda; ci istruisce sulle tecniche dell’operazione, la difficoltà di
entrare in quello spazio angusto, il modo migliore
di accedere un fuoco; descrive il paesaggio e il
senso di pace e felicità che nella solitudine del
bosco via via si impossessa del viaggiatore. E’
tardo pomeriggio, presto notte. Dopo una rapida
cena e un caffé e mentre la nebbia si alza dal
fiume, Nick si infila nella sua tenda e a letto, la
pesca sarà per il giorno dopo.
Il racconto, di cui s’è qui riassunta la prima parte,
apparve nell’edizione 1925 di In Our Time, titolo
che ripete quello del precedente in our time in
minuscolo, stampato a Parigi in edizione numerata,
nel 1924. Il titolo si rifà al Book of Common Prayers,
primo libro di preghiere in lingua inglese della
Chiesa anglicana, pubblicato sotto Edoardo VI, a
metà Cinquecento. La citazione intera, un’invocazione contro la guerra, “Dacci la pace nel nostro
tempo, o Signore”, fu suggerita da Ezra Pound.
In our time consisteva di quindici vignette e due
racconti molto brevi. Nell’edizione In Our Time,
le quindici vignette furono stampate alternate a
quindici corposi racconti – tecnica che, alternan-
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n.32 / 2012
do i capitoli di due diversi romanzi, sarebbe stata
ripresa da William Faulkner in ciò che, in italiano,
è conosciuto come Palme Selvagge.
Intitolate via via Capitolo I, Capitolo II eccetera,
ogni vignetta in corsivo costituisce un commento
e\o contrappunto al racconto che la segue. Il corsivo che introduce “Big Two-Hearted River”
descrive la morte per cogida del torero Maera e
costituisce un’ anticipazione emotiva della desolazione di Seney distrutta dal fuoco. E’ possibile
che le sensazioni di Maera morente (il reale che si
ingigantisce, rimpicciolisce, le immagini che si
accelerano, decelerano), siano state costruite su
ricordi personali dell’ Autore: quando, colpito da
fuoco austriaco sul fronte italiano, il 1918, aveva
sentito l’anima o cos’era uscirgli dal corpo “come
quando si sfila di tasca un fazzoletto di seta.”
Con la morte di Maera il passato si prolunga nel
presente facendogli assumere significati che vanno
aldilà delle possibili angosce del personaggio investendo la generale condizione dell’uomo. Ce lo
conferma il corsivo che introduce la seconda parte
del racconto dove il sinistro, tragico burocratismo
dell’impiccagione di alcuni criminali o presunti tali
si infrange nel grottesco e l’oscenità – a uno dei
condannati, Sam Cardinella, cedono gli sfinteri.
Che non c’è eroismo in nessuna morte, fosse quella di Maera, e che ogni morte è oscena il giovane
Hemingway lo aveva imparato molto presto.
Appena diciottenne, arrivato a Milano come volontario della Croce rossa, era stato comandato di partecipare alla raccolta dei frammenti di donne e
uomini uccisi nello scoppio di una fabbrica d’armi e
dispersi nei campi. Aveva conosciuto nell’operazione (“A Natural History of the Dead”, già in Death in
the Afternoon, 1932, poi ristampato nella raccolta
Winner Take Nothing, 1933) il deformarsi e corrompersi dei cadaveri e il loro immondo fetore.
“Big Two-Hearted River”, parte seconda. La descrizione di Nick che raccoglie le cavallette intorpidite
dalla rugiada e userà come esche, i diversi
momenti in cui è “armata” la canna e così la vera e
propria azione del pescare sono una lezione che
dovrebbe essere imparata a memoria da chiunque
abbia una qualche velleità piscatoria. Ombre del
Compleat Angler, Il completo pescatore con
l’amo, dell’elisabettiano Izaak Walton, dove si distaccano per la loro eccellenza i paragrafi sull’uso
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come esche delle cavallette e i vermi!
Invece che con un dialogo, come l’autore cinquecentesco, Hemingway articola il discorso attraverso la mimesi scritturale dell’azione. La perfezione
formale della prosa assume presto significati che,
per il loro stesso valore estetico, puntano alla definizione dei diversi momenti di un rito. Come nella
prima parte del racconto le descrizioni su come
alzare una tenda e accendere un fuoco, così l’ insistenza qui sull’uscita di Nick dalla tenda a piedi
scalzi nella rugiada e l’impatto con il gelo del
fiume, l’offerta al fiume del primo pesce che, appena pescato, è liberato e rimesso in acqua, non sono
dettagli casuali. Pur se meno cruenti, hanno lo
stesso significato del gesto di Sam Fathers in “The
Old People” di William Faulkner quando bagna il
viso del giovane Isaak McCaslin con il sangue del
primo animale che il ragazzo ha ucciso. Nessun
sentimento pànico della natura alla Pavese in ciò e
si tratta semmai di due iniziazioni. Nel caso di
Faulkner l’obbiettivo è, pagato l’obolo del sangue,
l’ingresso del ragazzo nella magìa primordiale della
caccia— Sam Father è metà africano e metà pellerossa; per Nick, che ha una guerra e una città
distrutta alle spalle, si tratta di un tentativo di purificazione dal passato e al tempo stesso una preparazione alla morte. La gioia nel mondo rinnovato
della giornata di pesca tra acque fredde e limpide
non cancella la presenza, aldilà del fiume, di una
palude ricca di pesci ma gli alberi bassi, scarsa la
luce, e dove la pesca richiede di lasciarsi affondare
nell’acqua fino alle ascelle mentre è misero lo spazio per lanciare la lenza. In quella palude, ci assicura Hemingway, Nick andrà nei prossimi giorni –
conclusa cioè la ritualità purificatoria, al sole.
Nella morale non-metafisica dello scrittore è in
effetti soltanto il rito, ed è questo il senso di tutta
la sua opera, non soltanto del presente racconto,
che permette all’uomo di confrontarsi con la
morte conservando intatte la propria arroganza
d’uomo e la sua dignità. La pesca, la corrida, la caccia sono prove generali per come andare incontro
all’ inevitabile, ultima sconfitta e non recibiendo,
restando in attesa dell’assalto, ma muovendosi
piuttosto nel territorio del nemico.
Il dio osceno, che come in un mito arcaico si manifestò a Maera con le corna di un toro, si può affrontare anche infilandosi in bocca le canne di un fucile.
Giuseppe Bortolussi
Il Federalismo fiscale dopo il decreto
“salva Italia”
Amministrare Organizzare Partecipare
L’effetto delle manovre finanziarie del 2011
Nel corso del 2011 il federalismo fiscale ha mosso i
primi passi: nel mese di luglio è stato approvato in
via definitiva l’ultimo degli otto decreti attuativi prefigurati dal Governo, vale a dire il provvedimento
che riguarda i meccanismi premiali e sanzionatori
per gli amministratori locali. Inoltre, ha debuttato il
Fondo sperimentale di riequilibrio per i Comuni,
anche se non ha riservato particolari novità nella
distribuzione delle risorse per singolo ente.
Sulla fase di avvio di una riforma così vasta e articolata, pesa il crescente disorientamento degli amministratori locali a seguito delle recenti misure correttive dei conti pubblici (Dl 98/2011, Dl 138/2011 e,
in particolare, il Dl 201/2011). Gli effetti sull’impianto complessivo di alcuni importanti decreti attuativi
approvati solo pochi mesi fa sono importanti: ci si
riferisce, nello specifico, all’anticipo dell’IMU, alla
rivalutazione delle rendite catastali, alla reintroduzione dell’imposta sull’abitazione principale, all’incremento delle addizionali locali, alla futura riorganizzazione delle Province. Inoltre, Regioni ed enti
locali si troveranno ad affrontare questa delicata fase
di passaggio con a carico un inasprimento notevole
dei vincoli del Patto di stabilità interno e una riduzione delle risorse trasferite, che finirà per incidere
sensibilmente sul perimetro futuro del federalismo
fiscale. Alla luce di queste considerazioni, il presente contributo intende non tanto delineare il quadro
attuale dello stato di avanzamento della riforma
federale, bensì analizzare i principali effetti delle
recenti manovre correttive sull’impianto complessivo del federalismo fiscale.
È opportuno fare presente che il federalismo fiscale non può essere introdotto dall’oggi al domani:
esso è piuttosto un processo continuo di adeguamento dell’attuale sistema di finanziamento della
spesa storica verso quello futuro basato su una
maggiore autonomia e responsabilità da parte di
Regioni ed enti locali. Gli anni che ci separano dall’entrata a regime del nuovo assetto federale si
caratterizzeranno molto probabilmente per continui aggiustamenti alle modalità di finanziamento
di Regioni ed enti locali. Non a caso, la legge delega ha previsto un arco temporale di tre anni per
l’emanazione di eventuali disposizioni integrative
e correttive ai decreti già approvati. Gli effetti della
riforma federale non saranno apprezzabili immediatamente ma assumeranno una maggiore concretezza e incidenza nella vita di tutti i giorni in
maniera progressiva, a seconda del grado di attuazione degli specifici provvedimenti.
Le modifiche al federalismo municipale
L’IMU uscita dalla recente manovra di dicembre è
molto diversa da quella prevista dal decreto attuativo nel marzo 2011. La principale novità riguarda
l’anticipo al 2012 dell’applicazione dell’IMU che
verrà altresì estesa anche alle abitazioni principali
(esenti dal 2008). In sintesi, le innovazioni principali introdotte dal decreto “salva Italia” possono
essere così schematizzate:
- reintroduzione dell’imposizione sul possesso dell’abitazione principale (erano esenti ad eccezione
degli immobili di pregio);
- revisione dei moltiplicatori da applicare alla rendita catastale per il calcolo della base imponibile ai
fini IMU;
- attribuzione allo Stato del 50% del gettito IMU relativo a seconde case, capannoni, negozi e terreni.
L’aliquota sull’IMU diversa dalle prime case e dai
fabbricati rurali viene confermata allo 0,76%, così
come i margini di manovra dello 0,3% concessi ai
Comuni. Diversamente, l’ultimo decreto correttivo
115
n.32 / 2012
stravolge completamente la destinazione del gettito, per certi versi andando contro il principio di territorialità dei tributi stabilito dalla legge delega sul
federalismo fiscale. La manovra dispone che venga
assegnato allo Stato la metà del gettito IMU diverso
dalle abitazioni principali e fabbricati rurali (seconde case, negozi, capannoni, ecc…). La norma prevede che tale quota debba essere calcolata applicando sempre e comunque l’aliquota base dello
0,76%; pertanto, anche se i Comuni decidessero di
abbassare l’aliquota, la quota riservata allo Stato
sarà sempre la stessa in quanto agganciata alla base
imponibile (e non al gettito effettivo).
Anche la reintroduzione dell’imposta sull’abitazione principale costituisce un elemento di rottura
rispetto all’assetto federale così come era uscito
dall’esame del Parlamento. Infatti, l’ICI (o IMU)
sulla prima casa era esplicitamente esclusa sia dal
decreto attuativo sul federalismo municipale sia
dalla stessa legge-delega (legge n. 42/2009). D’ora
in poi, nel calcolare la nuova IMU sulla prima casa
bisognerà fare i conti con una base imponibile più
ampia a seguito dell’aumento del moltiplicatore
(che per le abitazioni passa da 100 a 160) da applicare alla rendita catastale. L’aliquota base sarà pari
allo 0,4% (contro la “tradizionale” banda di oscillazione dal 4 al 7 per mille) e potrà essere variata dai
Comuni di 0,2 punti percentuali (da un minimo
dello 0,2% ad un massimo dello 0,6%). L’impatto
sulle famiglie sarà attenuato da una detrazione
fissa di 200 euro (nella versione “tradizionale”
dell’ICI era di 103,29 euro) con la possibilità di
incrementarla ulteriormente di 50 euro per ogni
figlio residente con età non superiore ai 26 anni.
I proprietari degli immobili subiranno una maggiore tassazione valutabile in 10.660 milioni di euro
nel 2012, 10.930 milioni nel 2013 e 11.330 milioni
nel 2014. Un ruolo determinante nell’incremento
del gettito ICI/IMU rispetto al quadro originario è
attribuibile all’aumento delle base imponibili sulle
quali applicare l’imposta. La futura IMU verrà calcolata in modo analogo alla vecchia ICI, ovvero
considerando come base imponibile la rendita
catastale rivalutata del 5% e successivamente
ampliata attraverso opportuni moltiplicatori.
Tuttavia, rispetto alla vecchia ICI e alla originaria
formulazione dell’IMU, l’imposta municipale nella
versione “salva Italia” verrà ampliata da un incremento dei moltiplicatori che, nei casi delle abita-
116
zioni, potrà raggiungere anche il 60%.
L’incremento delle tasse locali deliberato dalla
manovra di Natale in realtà non apporterà maggiori risorse ai Comuni. Tutte le risorse che si ricaveranno dalle maggiori imposte locali rispetto al quadro attuale dovranno essere indirizzate al risanamento dei conti pubblici nazionali. In altre parole,
se i Sindaci vorranno più risorse dovranno mettere mano alle leve tributarie e innalzare le aliquote.
L’articolo 13 (al comma 17) è molto chiaro a
riguardo: dispone, infatti, una riduzione del Fondo
sperimentale di riequilibrio dei Comuni delle
Regioni ordinarie e dei trasferimenti statali ai
Comuni di Sicilia e Sardegna per un importo pari
alle maggiori risorse che dovrebbero arrivare ai
Comuni a seguito della rivalutazione delle rendite
catastali (al netto di quelle già “girate” allo Stato).
Il taglio compensativo dei Fondi ai Comuni sarà
pari a 1,6 miliardi di euro nel 2012, 1,8 miliardi nel
2013 e 2,2 miliardi nel 2014.
La manovra finanziaria del dicembre 2011 ha riservato ancora amare sorprese ai Comuni italiani, disponendo un taglio alle risorse trasferite dallo Stato
ai Comuni delle Regioni a statuto ordinario e di
Sicilia e Sardegna pari a 1.450 milioni di euro a partire dal 2012. Complessivamente, tra tagli ai trasferimenti e inasprimenti vari del Patto, le innumerevoli
manovre correttive degli ultimi due anni si traducono sui Comuni italiani in una stretta di 5 miliardi nel
2012 e di quasi 6 miliardi nel 2013-2014 (TAB 1).
Il decreto sul federalismo municipale ha assegnato
ai Comuni appartenenti alle Regioni a statuto ordinario una compartecipazione al gettito dell’IVA; la
quota attribuita a ciascuna Amministrazione comunale è pari al gettito IVA procapite relativa alla propria Regione. Il Legislatore, con questa disposizione, intendeva legare in maniera più stretta l’imposta al territorio, favorendo la responsabilizzazione
a scapito della perequazione. La compartecipazione comunale all’IVA doveva, pertanto, garantire
una crescita progressiva del gettito e una forte connotazione territoriale. Tuttavia, nell’arco di pochi
mesi queste buone intenzioni sono state in parte
annacquate. La manovra di Natale, infatti, svuota la
logica della territorialità dell’imposta: a partire dal
2012 il gettito della compartecipazione IVA non
verrà più assegnato sulla base del gettito effettivamente prodotto nel territorio ma confluirà direttamente nel Fondo sperimentale di riequilibrio e di,
Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
TAB 1 - Gli effetti delle ultime manovre finanziarie sui Comuni (milioni di euro)
2012
2013
2014
Taglio ai trasferimenti
Dl 78/2010
Dl 201/2011
Totale taglio ai trasferimenti
2.500
1.450
3.950
2.500
1.450
3.950
2.500
1.450
3.950
Inasprimento Patto di stabilità
Dl 98/2011
Dl 138/2011
Legge stabilità 2012
Totale inasprimento Patto di stabilità
0
1.700
-585
1.115
1.000
1.000
0
2.000
2.000
0
0
2.000
Totale effetto manovre sui Comuni
5.065
5.950
5.950
Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre
fatto, verrà ripartita a ciascun Comune con criteri
ancora non definiti.
Uno dei principali obiettivi della riforma federale
uscita dalla legge delega del 2009 riguarda il superamento dell’attuale assetto basato sulla finanza
derivata a favore di meccanismi maggiormente
improntati sui principi dell’autonomia e della
responsabilità. A tale proposito, il decreto sul federalismo municipale ha disposto la trasformazione
di 11,3 miliardi di euro di trasferimenti statali ai
Comuni delle Regioni a statuto ordinario e la loro
integrale sostituzione con il gettito della compartecipazione all’IVA (2,9 miliardi di euro) e del
Fondo sperimentale di riequilibrio (8,4 miliardi).
Tale Fondo viene alimentato dall’intero gettito
dell’IRPEF sui redditi fondiari, delle imposte di
bollo e registro sui contratti di locazione, nonché
da una quota del 30% delle imposte sui trasferimenti immobiliari e dal 21,7% del gettito della
cedolare secca sulle locazioni (TAB 2).
Per il 2011, al fine di non creare problemi ai Comuni
alle prese con la redazione dei bilanci di previsione,
il Fondo è stato ripartito seguendo un approccio
“morbido”, in modo tale che non vi fossero sostanziali variazioni di risorse rispetto all’anno precedente; per il 2012, invece, non vi sono attualmente indicazioni da parte del Ministero. Di sicuro l’ammontare del Fondo verrà sensibilmente decurtato a seguito delle misure varate dalla recente manovra di
Natale. Oltre ad un taglio “secco” di 1,33 miliardi di
euro (1,45 se si considerano anche i Comuni di
Sicilia e Sardegna), il Fondo dovrà subire altri tagli
per compensare il maggior gettito derivante dal passaggio dalla vecchia ICI alla nuova IMU.
Negli ultimi anni i Comuni hanno costantemente
lamentato i notevoli limiti alla loro autonomia
imposti dal Governo centrale: ci si riferisce sia ai
vincoli sottostanti il Patto di stabilità interno (che
condizionano pesantemente la capacità di spesa
degli enti) e soprattutto il blocco agli incrementi
delle aliquote dei tributi locali che vige ormai dal
2008. Tale provvedimento ha avuto notevoli riflessi in particolare nei due principali tributi a disposizioni delle Amministrazioni municipali, vale a dire
l’ICI e l’addizionale comunale IRPEF. Anche a
seguito dell’impossibilità di agire sulla leva tributaria, il gettito dell’ICI e dell’addizionale IRPEF tra il
2008 e il 2010 è diminuito rispettivamente del 5,1%
e del 5,5%. I margini di manovra sulle aliquote
dell’IMU previste dal decreto attuativo sul federalismo municipale vengono sostanzialmente confermati dalle ultime manovre finanziarie. L’aliquota
base dello 0,76% potrà variare, in aumento o in
diminuzione dello 0,3%, ai quali bisogna aggiungere però la variazione dello 0,2% sulla neo-introdotta IMU relativa all’abitazione principale. Se i margini di manovra vengono confermati, non si può dire
lo stesso dell’entrata in vigore del nuovo tributo. Il
decreto attuativo stabiliva il debutto dell’IMU nel
2014, in corrispondenza con l’avvio della cosiddet-
117
n.32 / 2012
TAB 2 - La prima applicazione del federalismo municipale - Comuni delle Regioni ordinarie (2011)
gettito
assegnato
(miliardi
di euro)
percentuale
di gettito
attribuito
ai Comuni
Compartecipazione IVA
2,9
2,58%
Fondo sperimentale di riequilibrio (FSR)
8,4
gettito IRPEF redditi fondiari
5,8
100,0%
imposte di bollo e registro sui contratti di locazione
0,7
100,0%
imposte sui tras ferimenti immobiliari (1)
1,3
30,0%
cedolare secca sulle locazioni (2)
0,5
21,7%
Nuove entrate attribuite ai Comuni (IVA+FSR)
11,3
Trasferimenti statali soppressi
11,3
Differenza tra nuove entrate e trasferimenti
0
(1) imposte di registro ed imposta di bollo; imposta ipotecaria e catastale; tributi speciali catastali; tasse
ipotecarie
(2) aliquota al 21% per i contratti a canone libero, 19% a canone concordato
Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre
ta “fase a regime”; tuttavia, anche in ragione di concedere ai Comuni una sorta di “valvola di sfogo” al
fine di sopperire ai recenti tagli, la data di avvio
dell’IMU è stata anticipata al 2013 dalla manovra di
ferragosto e poi al 2012 dal decreto 201.
Per quanto riguarda l’addizionale comunale Irpef,
dal 2012 i Sindaci potranno liberamente aumentare l’aliquota sino al tetto massimo dello 0,8%, mettendo fine ad un blocco che durava sostanzialmente dal 2008. Tale concessione è arrivata a seguito
della manovra di ferragosto (Dl 138/2011) che ha di
fatto “liberalizzato” la possibilità di azione sulle aliquote. Il decreto sul federalismo municipale limitava la possibilità di aumento solo per i Comuni con
aliquota inferiore allo 0,4% e con incrementi annuali non superiori allo 0,2% e, in ogni caso, non oltrepassando il tetto dello 0,4%. La manovra di ferragosto ha invece stoppato ogni possibilità di incremento per i rimanenti mesi del 2011, togliendo
però ogni vincolo a partire dal 2012. Nell’ipotesi in
cui tutti i Comuni decidessero di portare l’aliquota
118
al livello massimo dello 0,8%, il gettito dell’imposta
aumenterebbe di 2,6 miliardi di euro (in media
+86%). Ovviamente si tratta di una situazione limite in quanto non è detto che i Comuni decidano di
utilizzare totalmente il margine di manovra concesso dalle nuove norme. Tuttavia, non è realistico
ipotizzare un sensibile ritocco delle aliquote dell’addizionale IRPEF così come quelle dell’IMU,
quanto meno per compensare le minori entrate a
seguito dei tagli di risorse operati dalla manovra di
dicembre (1.450 miliardi di euro).
Le modifiche al federalismo regionale
Il decreto sul federalismo regionale, insieme al
provvedimento sul fisco municipale, costituisce
uno dei pilastri della riforma delineata dalla legge n.
42 del 2009. Il decreto dispone il progressivo passaggio dall’attuale criterio di riparto della spesa storica a quello basato sui costi standard nel finanziamento delle funzioni “essenziali”: queste materie,
Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
vale a dire sanità, istruzione, assistenza e trasporto
pubblico locale per la parte relativa agli investimenti, rappresentano un ammontare di spesa che nelle
quindici Regioni a statuto ordinario vale circa 100
miliardi di euro. Da queste cifre emerge la grande
portata della riforma in questione. La spesa per
queste funzioni, valutata a costi standard, verrà
integralmente finanziata attraverso una batteria di
tributi propri (in primis, Irap e addizionale regionale Irpef), una compartecipazione all’IVA su base
regionale e le quote del Fondo perequativo. Ogni
euro di spesa aggiuntivo rispetto all’asticella fissata
dai costi standard dovrà essere necessariamente
coperto da un aumento della tassazione locale o
con una riduzione di altre voci di spesa: in questo
modo, viene spazzato via il meccanismo dei rimborsi a piè di lista che ha caratterizzato per diversi
decenni la finanza locale italiana e che ancora condiziona sensibilmente la distribuzione delle risorse
pubbliche a livello territoriale. La concessione di
una maggiore autonomia tributaria a livello locale è
lo strumento per arrivare ad una riqualificazione
complessiva della spesa pubblica regionale,
mediante una maggiore responsabilizzazione da
parte degli Amministra-zioni locali.
Anche il decreto sul federalismo regionale non è
immune dagli interventi apportati dalle ultime due
manovre finanziarie. Il disegno originario metteva
fine al blocco degli incrementi delle aliquote dell’addizionale regionale Irpef a partire dal 2013 e concedeva alle Regioni la possibilità di innalzarle oltre i
livelli massimi attualmente consentiti dalla legge a
partire dal 2014 (tutelando, però, i contribuenti con
redditi fino a 15.000 euro). La ragione risiedeva nell’opportunità di offrire alle Regioni la possibilità di
reperire risorse aggiuntive al fine di garantire una
effettiva autonomia, sia dal lato delle entrate sia sul
versante delle politiche di spesa. Si tratta, dunque,
solo di una facoltà concessa e che non si traduce
automaticamente in una maggiore tassazione.
Su questo disegno si inseriscono le ultime due
manovre correttive. La manovra di ferragosto (Dl
138/2011) ha anticipato al 2012 la possibilità per le
Regioni di incrementare le aliquote dell’addizionale regionale Irpef. La manovra di Natale (Dl
201/2011), infine, ha completato l’opera aumentando l’aliquota base di 0,33 punti percentuali, passando dall’attuale 0,9% all’1,23% (TAB 3). Tale dis-
TAB 3 - L'addizionale regionale Irpef dopo le manovre del 2011 come da decreto attuativo
originario (marzo 2011) dopo le manovre di ferragosto e di Natale
come da decreto attuativo
originario (marzo 2011)
dopo le manovre
di ferragosto e di Natale
0,9%
1,23%
Aliquota massima nel 2012
aliquote bloccate
1,23% + 0,5% = 1,73%
Aliquota massima nel 2013
0,9% + 0,5% = 1,4%
1,23% + 0,5% = 1,73%
Aliquota massima nel 2014
0,9% + 1,1% = 2%
1,23% + 1,1% = 2,33%
Aliquota massima nel 2015
0,9% + 2,1% = 3%
1,23% + 2,1% = 3,33%
0,9% + 0,5% = 1,4%
1,23% + 0,5% = 1,73%
0,9% + 0,5% + 0,3 = 1,7%
1,23% + 0,5% + 0,3% = 2,03%
Aliquota base
Aliquota massima per i redditi
fino a 15.000 euro
Aliquota 2012 nelle Regioni
in extradeficit sanitario
Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre
119
n.32 / 2012
posizione produrrà un gettito aggiuntivo di 2.085
miliardi di euro: tuttavia, le Regioni ordinarie non
vedranno un solo euro dall’innalzamento dell’Irpef
in quanto lo Stato ha disposto una riduzione equivalente della compartecipazione IVA (che finanzia
la sanità). Pertanto, lo Stato risparmierà oltre 2
miliardi a titolo di minori finanziamenti sanitari,
mentre le Regioni non avranno alcun beneficio
finanziario con la beffa di dover “metterci la faccia”
di fronte ai cittadini.
Quale destino per le Province?
La manovra dello scorso dicembre non ha risparmiato neppure le Province. Anzi, per certi versi si
tratta del livello di governo più colpito. Da un lato
il decreto 201 sancisce la riduzione di 415 milioni di
euro al nascente Fondo sperimentale di riequilibrio
provinciale che nel 2012 debutterà con un plafond
di risorse quasi dimezzato rispetto a quanto previsto dal decreto attuativo sul federalismo regionale
(788 milioni di euro). Questi tagli si aggiungono
alla riduzione di 500 milioni di euro dei trasferimenti già prevista dal decreto legge n. 78/2010 e ad
una stretta sul Patto di stabilità di 530 milioni di
euro risultante dalle disposizioni della manovra di
ferragosto e dalla recente Legge di stabilità.
Il decreto “salva Italia”, invece, prevede una limitazione delle competenze delle Province, che riguarderanno esclusivamente le funzioni di indirizzo e
di coordinamento delle attività dei Comuni. Entro
il 31 dicembre 2012, le rimanenti funzioni provinciali dovranno essere trasferite presso le Regioni e,
compatibilmente con l’esigenza di assicurare l’esercizio unitario delle funzioni stesse, ai Comuni.
Contestualmente alle funzioni, verranno riallocate
presso altri livelli di governo le rispettive risorse
umane, finanziarie e strumentali.
In conseguenza di tale riordino di competenze,
vengono ridefiniti gli organi della provincia: vengono così cancellate le giunte, mentre i consigli
provinciali saranno composti da membri dei consigli comunali degli enti ricadenti all’interno del territorio provinciale. Il presidente della Provincia
non verrà più eletto a suffragio universale bensì tra
i componenti nei nuovi consigli provinciali.
Considerato che l’abolizione delle Province è possibile solamente con una legge costituzionale (che
necessita tempi lunghi e ampie maggioranze), il
120
recente decreto 201/2011 ha posto le basi per un
depotenziamento di questo livello di governo dal
punto di vista finanziario, istituzionale e politico.
Rimane il fatto che nel 2011 sono iniziate le procedure di definizione dei fabbisogni standard per le
Province relative (mercato del lavoro e servizi generali) e che entro il 2013 dovrà essere completata la
ricognizione per le rimanenti funzioni fondamentali
(istruzione, trasporti, gestione del territorio, ambiente). Nei fatti, emerge una contraddizione significativa
tra il ruolo finanziario e istituzionale assegnato alle
Province dalla riforma federale e il declino inevitabile
prospettato dal decreto “salva Italia”.
Concludendo, le ultime manovre correttive dei
conti pubblici nazionali hanno senza dubbio inciso
sull’assetto del federalismo fiscale approvato appena qualche mese fa. Tali interventi hanno contribuito a rendere più incerto il quadro finanziario e
istituzionale di Regioni ed enti locali; inoltre, a
seguito delle recenti manovre (soprattutto quelle
di ferragosto e di Natale) è verosimile attendersi
un forte incremento della tassazione locale per cittadini e imprese che, tuttavia, non verrà destinata
a maggiori servizi pubblici sul territorio bensì a
risanare il deficit pubblico nazionale e a coprire i
tagli effettuati dallo Stato centrale sui bilanci di
Regioni ed enti locali.
Bibliografia
- COMMISSIONE BICAMERALE: “Relazione semestrale sull’attuazione della legge delega n. 42/2009
sul federalismo fiscale”, approvata il 21 luglio 2011
- COMMISSIONE TECNICA PARITETICA PER L’ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE:
“Ricognizione sullo stato di attuazione della delega
contenuta nella legge n. 42/2009”, documento del
6 luglio 2011
- IFEL: “Sintesi della disciplina IMU e del calcolo
delle variazioni delle risorse 2011-2012”, gennaio
2012
- SERVIZIO STUDI - DIPARTIMENO DEL BILANCIO: “Le modifiche alla disciplina sul federalismo
fiscale recate dal DL 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge con modificazioni dalla legge 22
dicembre 2011, n. 214”, Documentazione e ricerche n. 304/1 del 12/01/2012
LibriLibriLibri
Recensioni
ROBERTA DE MONTICELLI, La questione morale,
Raffaello Cortina editore, Milano 2010.
All’origine di questo audace saggio di Roberta De
Monticelli c’è l’esigenza di misurarsi con il dato di
fatto incontestabile di un’illegalità diffusa nel
nostro paese, di una «pratica endemica degli scambi di favori, a tutti i livelli: cariche pubbliche a figli
e amanti, lo scambio di carriere politiche contro
favori privati, i concorsi pubblici (quelli universitari, per esempio) decisi sulla base di accordi fra
gruppi di pressione o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito, lo
sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di
interessi privati, il familismo, il clientelismo, le
caste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, la
vera e propria penetrazione delle mafie in tutto il
tessuto economico e nelle istituzioni, la perdita
stessa del senso delle istituzioni da parte dei governanti» (pp. 11-12). Coraggiosamente impietosa è la
diagnosi che l’autrice, docente universitario, fa del
mondo delle istituzioni e della politica, dove da
anni la legislazione è una macchina per produrre
decreti a favore di interessi di singoli politici o allo
scopo di assicurare l’impunità dei prepotenti. E
che dire di una maggioranza di italiani che sostiene questa permanente negazione di ogni senso di
giustizia, del bene collettivo, del senso dello stato,
del valore dell’onestà e del merito? Non possiamo
credere, tuttavia, che la carriera di Roberta de
Monticelli in ambito accademico sia progredita
con le modalità e le strategie mafiose che lei stessa lamenta, quindi abbiamo almeno un’eccezione
della regola perversa da lei denunciata. Si sa che la
generalizzazione è un artificio retorico per rendere
più incisiva la protesta nei confronti dell’indegnità.
All’origine della disinvolta e sistematica illegalità
presente nella società italiana De Monticelli vede il
generale scetticismo etico diffuso nel pensiero filosofico del Novecento: la convinzione che non esista verità alcuna, che vi siano solo interpretazioni e
non fatti, che il giudizio di valore non sia né vero
né falso, a differenza del giudizio fattuale.
Aggiungiamo una certa psicologia morale preoccupata più di spiegare i comportamenti che di rafforzare il senso di responsabilità dell’agente morale.
L’indifferenza per i valori morali avrebbe le sue
radici nella stessa filosofia, che con le ermeneutiche di vario conio rifugge da ogni nozione di verità oggettiva e di presupposto comune e ineludibile. L’indulgenza di ciascuno verso tutti è ricambiata e sostenuta da una complicità così spudorata e
insensata, che fa perdere il senso della vita collettiva, inabissando il paese in uno sfrenato, cinico e
beffardo individualismo. L’arroganza estrema si
manifesta nell’esibizione dell’immoralità e il disgusto estremo è provocato da manigoldi istituzionali
che si vantano pubblicamente dei loro crimini,
soprusi e indecenze, nel circuito perverso e suicida di una demagogica chiamata di correità in ogni
settore della vita civile. De Monticelli vede nei
Ricordi del Guicciardini il paradigma del giustificazionismo e dell’immoralismo programmatico che
da secoli regnano nel nostro paese. In una prosa
leggiadra e posata, nitida e imperturbabile,
Guicciardini snocciola precetti di immoralità come
fossero perle di suprema saggezza, mentre «sono
la feccia precettistica della meschinità, del servilismo, della doppiezza, del familismo, della diffidenza e della furbizia, belle virtù ostentate con un piacere che sta fra il sarcasmo e la superiore albagia
dell’esprit fort, del disincantato conoscitore dell’umano e del politico» (p. 34). Lo scetticismo metafisico, logico e pratico è volto a giustificare la divinizzazione del tornaconto e del disprezzo del prossimo: sospetto, paura e vendetta sono i soli
moventi dell’azione individuale? Francesco De
Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana
aveva definito i Ricordi «la corruttela italiana codificata e innalzata a regola di vita» (p. 35). Giacomo
Leopardi nel suo famoso Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’Italiani (1824) aveva
individuato nel disincanto, nel “disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita” l’origine
121
n.32 / 2012
della corruzione dei costumi degli italiani. Dalla
disperazione e dall’indifferenza morale deriva la
disposizione di «un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni […dove] il più savio
partito è quello di ridere indistintamente d’ogni
cosa e di ognuno, incominciando da se medesimo»
(p. 40). Da tale disposizione non deriva che denigrazione e derisione per il prossimo, unite alla disistima di se stessi. Infatti, scrive Leopardi, «un
uomo senza amor proprio, al contrario di quel che
volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto,
onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni,
costumi e pensieri, se non d’azioni» (p. 41).
Un abisso separa l’analisi di Leopardi dalla precettistica di Guicciardini. Lapidariamente De
Monticelli osserva che l’interesse egoistico convive
benissimo col servilismo e la sudditanza, non l’autonomia individuale e il senso di dignità personale:
«Il “particulare” è l’individuo senza amor proprio»
(p. 43). Leopardi vede il nesso oggettivo tra amor
proprio e coscienza morale; senza rispetto di se
stessi non può esservi rispetto del prossimo, della
comunità di appartenenza, dell’intera umanità. In
Italia manca una classe dirigente responsabile e
capace di progetti ambiziosi, in grado di alimentare negli individui l’emulazione e il giusto orgoglio
di appartenere alla nazione italiana; e manca in
generale un’etica pubblica. Nulla possono eroici
martiri isolati, affogati nella melma dell’opportunistica rassegnazione al malcostume, a riscattare o
compensare la totale mancanza di mores nazionali. Fabrizio Corona, il fotografo ricattatore, è l’esemplare paradigmatico dell’immoralismo diffuso
e approvato dalla grande massa di italici. La parola
d’ordine assunta a norma del cinismo trionfante e
autocompiaciuto è una dichiarazione dello stesso
fotografo: «Vedo l’affare, non la persona…prendo
al popolo per dare a me stesso….una nuova forma
di Robin Hood» (pp. 45-46). Indifferenza al crimine
e ostentazione del crimine, senza più neppure l’ipocrisia che raccomanda il Guicciardini: c’è qualcosa di più osceno? La prassi consolidata di impiegare risorse pubbliche a vantaggio di interessi particolari non ha bisogno di nascondersi, ma può
tranquillamente apparire alla luce del sole, può
divenire del tutto trasparente, ma «oggi, avverte
122
l’autrice, non è il nascondersi ma proprio l’apparire, come la lettera rubata di Poe, che non si vede
perché si vede troppo», così che «la manifestazione
universale è il modo nuovo della non-trasparenza»
(p. 50). A forza di apparire, con la ripetizione, matura l’indifferenza a ogni prova del contrario. «Se
basta apparire, tutto appare invano: l’apparire non
ha niente a che vedere con l’essere, non lo vela né
lo svela, non lo manifesta né lo cela. Non c’è alcun
essere dietro l’apparire, alcuna realtà, alcun modo
in cui le cose stanno in verità» (p. 51).
Quale prova del cinismo istituzionale della classe
politica italiana l’autrice cita l’affermazione sprezzante con cui Giulio Andreotti liquidò l’assassinio
di Giorgio Ambrosoli, ad opera della mafia, del bancarottiere Michele Sindona: «Se l’è andata cercando» (p. 52), le stesse parole usate dal mafioso che
per telefono aveva minacciato Ambrosoli. Il dovere
morale, ciò che ciascuno deve a tutti, è espressione
di una personalità matura e adulta. Ma come sottrarsi alla diffusa tendenza ad assecondare il privilegio, ad avvalersi dell’eccezione e del favoritismo, da
una parte e dall’altra? Non v’è regola o criterio di
giustezza morale dell’azione individuale, tranne
l’interesse privato o della propria parentela. Il cantante Vasco Rossi, dimettendosi con furbizia da star
per allungare una carriera ormai pluridecennale, si
è rivolto ai fan con una regola di vita: “Fate quel che
volete, ma fatelo bene” (intervista televisiva, agosto
2011). Come dire: non importa che cosa fate e
come, l’importante è che vi giovi sul piano del
vostro piacere, interesse, inclinazione, carriera.
Vasco Rossi: il guru immoralista, che consiglia gli
italiani di fare quel che già fanno, di credere in ciò
in cui credono già da secoli.
Il dilagare delle mafie è solo la conseguenza della
mancanza di etica pubblica; infatti, se il merito non
può essere fatto valere come argomento sufficiente, le persone che non accettano di buttare al
vento anni di formazione e di sacrifici per raggiungere una certa meta professionale dovranno cercarsi una consorteria, se escludono l’ipotesi di
emigrare. Se il merito non ha peso decisivo, contano l’appartenenza e la fedeltà a un uomo o a un’associazione di potere. Per questo la pretesa di coloro che ostentano il loro “essersi fatti da sé” suona
sempre insincera, provocatoria, depistante.
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L’autrice porta come esempio di mafiosità congenita le corporazioni accademiche. Non è l’autocefalia dell’Università – la sua autonomia assoluta di
istituzione cha fa capo solo a se stessa − che giustifica queste pratiche con i conseguenti conflitti di
interesse, giacché l’autocefalia ha senso solo se i
comportamenti dell’istituzione sono rigorosamente ispirati a norme inderogabili la cui applicazione
riflette la volontà di prescindere dall’interesse privato per dare al merito la dignità di unico argomento e valore decisivo nei risultati concorsuali.
Tuttavia, chi si richiama al merito, alla giustizia,
all’interesse collettivo, è tacciato di moralismo e di
giustizialismo. Si getta fango su tutti, con la pretesa che la chiamata universale di correità giustifichi
e assolva il reo. Omertà, servilismo, viltà e prepotenza vanno a braccetto nel sudiciume imbellettato della società italiana. Nessuno vuole la verità,
nessuno chiede di dimostrare una qualsiasi asserzione; secondo l’immoralismo dominante, si pretende solo che giovi a qualcuno: a chi giova?, è la
domanda, espressione inequivocabile di una
«mancata relazione alla verità» (p. 62).
Alcuni esponenti di spicco della Chiesa cattolica si
dimostrano tolleranti verso l’immoralismo corallifero, la diffusa convinzione che ciascun individuo è
responsabile da ultimo per ciò che fa. Le parole del
cardinale Angelo Scola, riportate da De Monticelli,
espressione della crociata di CL contro i moralisti
– «diventa allora necessario liberare la categoria
della testimonianza dalla pesante ipoteca moralista
che la opprime, riducendola, per lo più, alla
coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale» – sono un chiaro segno dell’appiattimento e
adeguazione alla generale richiesta di impunità per
i crimini che accompagnano l’esercizio del potere
politico. “Moralismo” e “individualismo” sono
divenuti, anche per certi esponenti del clero, insulti che nascondono il sostanziale «rifiuto di onorare
la solitudine della coscienza personale e la responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso» (p.
66). Che cos’è il “soggetto ultimamente autoreferenziale” se non l’individuo dotato di libero arbitrio? Del resto, la tesi della creaturalità dell’uomo e
il peccato originale non vanno felicemente d’accordo con le nozioni di coscienza critica e di
coerenza morale. La libertà di coscienza peraltro è
stata riconosciuta dal Concilio Vaticano II
(Dignitatis humanae), ricorda l’autrice, ma l’affermazione della maturità morale dell’uomo, della
sua capacità di autodeterminazione non può certamente spingersi troppo oltre, senza rendere l’uomo così autosufficiente da non aver più bisogno
della salvezza ad opera del Cristo. L’opposizione
tra una scelta fondata sull’autorità e una maturata
nell’intimità della propria coscienza – avanzata
come argomento da De Monticelli – rischia di
risultare schematica e di non tenere conto della
posizione intermedia degli esseri umani, che sono
capaci di libertà non originariamente e a priori, ma
solo a certe condizioni e in seguito a un processo
di maturazione che, dal punto di vista teologico
della Chiesa, non può prescindere dal percorso
sacramentale, dalla grazia e dalla continua rinascita
sul piano morale. La libertà insomma non può
essere né si può concepire come una condizione
perfetta e originaria, come un presupposto assoluto. Tuttavia non può essere messa in discussione o
negata da quanti potrebbero trarre vantaggi di
potere dal suo misconoscimento. Quindi la presunzione di libertà, come la presunzione di innocenza, è un postulato indispensabile a difesa della
fragilità delle persone e a contenimento della cupidigia di asservimento. Si dovrà consentire con De
Monticelli su questo punto: la capacità di autodeterminazione degli individui è fuori discussione,
giacché potrebbe essere negata solo da quanti
hanno qualche interesse a contestarla. Chi nega
l’autonomia morale degli esseri umani la nega
anche a se stesso e delegittima quindi la propria
posizione, togliendo ogni giustificazione al privilegio istituzionale di cui eventualmente gode.
Il cardinale Ratzinger in un discorso del 2005 suggerisce di capovolgere l’assioma degli illuministi e
riconoscere che «anche chi non riesce a trovare la
via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque
cercare di vivere e indirizzare la sua vita “veluti si
deus daretur”». È un passo che, secondo De
Monticelli, illustra il nichilismo morale che ha
infettato anche la Chiesa, la quale proclama i non
credenti incompetenti morali e chiede allo stato di
istituire norme che tutelino questa incompetenza.
Norme dettate dalla Chiesa, perché se Dio non c’è,
Dio è la stessa Chiesa. Di qui il nichilismo metafisi-
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n.32 / 2012
co: «Quella stessa auto-deificazione che veniva
imputata all’uomo moderno (per via dell’autodeterminazione morale) ora la si rivendica sottobanco, tentando di subordinare lo Stato e le sue leggi
a una confessione religiosa» (p. 77). Questo è il
senso dell’invito, raccolto da certi devoti sostanzialmente atei: bisogna fare come se Dio ci fosse.
La dignità e la libertà degli esseri umani sono possibili solo in virtù dell’autodeterminazione, che
consiste essenzialmente nell’esercizio della ragione, di una facoltà razionale che è appannaggio universale di tutti gli esseri umani. L’etica razionale si
fonda su valori condivisi. Senza logica non può
esserci etica, per questo è riprovevole chi fa asserzioni senza renderne conto o fa affermazioni prive
di fondamento o riscontro. De Monticelli illustra
efficacemente la circolarità di logica ed etica.
L’esercizio della filosofia non è che un rendere
ragione, socraticamente, di ogni cosa, prescindendo completamente e inesorabilmente da ogni principio di autorità e da qualsiasi soggezione a fattori
extra-logici o extra-cognitivi. La ricerca socratica
della verità non risparmia nulla e nessuno. La filosofia è pedagogia, educazione della persona a rendere conto delle proprie asserzioni con l’esercizio
rigoroso del pensiero. Violento e antisociale è sia
chi agisce ingiustamente violando le leggi, sia chi
fa asserzioni eludendo ogni dovere di chiarezza e
giustificazione di quanto è asserito. Si sa, il nichilismo etico è stato anche la conseguenza del rifiuto
di riconoscere l’esistenza di una verità oggettiva:
quanta ermeneutica nella seconda metà del
Novecento ha sottilmente disquisito per convincere (senza realmente dimostrare) che la verità non
esiste, che non ci sono fatti o evidenze di sorta, ma
solo interpretazioni e punti di vista, aprendo così
la strada al più rassegnato e passivo scetticismo,
alla giustificazione perfetta di ogni manifestazione
di immoralità, al sociologismo giustificazionista?
Chi identifica la verità con un insieme di credenze
pecca di idolatria; all’opposto chi nega l’esistenza
della verità spiana la strada a una pratica sofistica
della filosofia, toglie ogni legittimità al giudizio di
valore e apre il varco al relativismo qualunquista.
«Chi usa senza spiegazioni parole che hanno mille
significati o nessuno, chi afferma: “la verità non esiste” (e non si accorge di fare un’asserzione che
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pretende di essere vera)» manca all’impegno inderogabile di onorare la verità, «cercando e offrendo
evidenza per quello che si afferma» (p. 99).
L’impegno a rendere conto delle nostre convinzioni e azioni è un dovere che discende dalla stessa
ragione. La conoscenza di ciò che è giusto non è
sufficiente per attuarlo, ma è certamente necessaria. Rimane aperto il problema della fondazione
dei giudizi di valore. Non sempre è possibile articolare una giustificazione completa e inappuntabile dei giudizi formulati nelle più diverse circostanze. La distinzione apparentemente razionale fatta
valere dalla filosofia del linguaggio del Novecento
tra giudizi di valore e giudizi di fatto può essere
interpretata come una manifestazione della deriva
relativista subita dalla teoria della conoscenza e
dall’etica, distinzione contestata da Putnam, che
De Monticelli cita opportunamente riportando l’esempio di giudizio “Nerone era crudele”: è questo
un giudizio di fatto o di valore?
De Monticelli prende posizione contro quella che
lei chiama “coscienza sprezzante”, una figura della
filosofia del Novecento fondata sulla prassi del
sospetto per ciò che appare e del disprezzo per ciò
che è, quasi che l’atteggiamento scientifico implicasse la negazione dei valori e la realtà in se stessa
fosse priva di valore. L’avalutatività della scienza
come garanzia di oggettività ha messo al bando i
valori relegandoli nella sfera soggettiva. «L’idea che
la realtà in sé è priva di valori, che i valori li proiettiamo noi nelle cose, è diventata una specie di
ovvietà: ma è una falsa ovvietà» (p. 113). La prevalenza del più forte, che gli antichi avvertivano
come ingiusta sostenendo la verità di quel giudizio, è messa fuori questione dai moderni i quali,
avendo escluso che i giudizi di valore possano
essere veri o falsi, si illudono di poter formulare
giudizi realistici avalutativi come se fossero asettici
e oggettivi, mentre al contrario riflettono il deprezzamento e il disprezzo per la realtà sottoposta a
giudizio. Il relativismo ermeneutico, a differenza
del positivismo scientista, nega l’esistenza di una
verità in se stessa, si mostra pluralista e tollerante,
nell’intento di misurarsi in modo indolore con il
pluralismo culturale e valoriale delle società occidentali. La dottrina della verità che la Chiesa visibile rappresenta, condivide con questo relativismo
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pluralista l’idea che «in materia di valore non ci sia
un modo in cui le cose stanno, indipendentemente da quello che noi crediamo o sappiamo» (p.
119). Il vero e il certo sono fatti coincidere e si
nega che possa esistere una verità che ancora nessuno conosce. Il papa negherà che ci siano ragioni
cui l’individuo razionale può accedere, a prescindere dalla sua fede. Negando che esista una verità
in sé, il relativista giustifica l’affermazione violenta e
spregiudicata del più forte e ne proclama la vittoria.
A sua volta il fondamentalista, non riconoscendo
alcuna competenza morale al non credente, attribuirà a se stesso la facoltà di valutare e decidere per
conto di tutti. L’esercizio autonomo della ragione
non conduce al relativismo e allo scetticismo, ma
preserva da queste derive; e la soggezione all’autorità in materia di valore nega la dignità degli esseri
umani, senza offrire loro alcuna garanzia di possedere la verità. Negare a vario titolo che sia possibile una ragion pratica in un mondo plurale, significa
in ogni caso estromettere l’ambito dei valori dalla
sfera della ricerca razionale e della scienza, riducendolo a un campo di battaglia dove si fronteggiano volontà contrapposte e divergenti. La domanda
non è più: che cosa vale in se stesso?, bensì: quale
volontà prevarrà? È dunque una mera questione di
forza, “in uno qualunque dei suoi modi – la violenza, l’astuzia, l’opportunismo, le consorterie, le
clientele, la menzogna, oppure invece il tatticismo
politicante, il piccolo machiavellismo endemico e
servile della politica italiana” (p. 120).
La necessità di un accordo tra il pluralismo degli
orientamenti in una società democratica e aperta, e
il presupposto razionale dell’esistenza di una verità
che bisogna cercare con un percorso argomentativo, evitando sia il relativismo disfattista sia il fondamentalismo autoritario (entrambi propensi ad
accettare soluzioni decisioniste dei problemi),
impone il riconoscimento dell’esistenza oggettiva
dei valori e della loro gerarchizzazione interna. De
Monticelli chiama valori «una varietà infinita di qualità caratterizzate da due tratti: la polarità (positiva
o negativa) e il grado comparativo (inferiore-superiore)» (p. 137). Senza valori non ci chiederemmo
ragione di cose vere, reali, che non sono il risultato
della distorsione proiettiva del soggetto: l’ingiustizia, l’ignoranza, l’errore. Se il male non fosse una
realtà indubitabile, etica e diritto avrebbero ragion
d’essere? I valori sono qualcosa di oggettivo, tali che
essi costituiscono la persona, non il contrario. L’idea
che i valori siano gusti personali, che ciascuno è
libero di preferire nella massima libertà, non assicura alcuna civile convivenza, alcun rispetto della
dignità umana; dietro un’apparente tolleranza
benevola, il relativismo nasconde la negazione di
ogni valore che non sia sostenuto da una forza sufficiente e prepara l’irruzione dell’arbitrio assoluto
nei rapporti umani e tra stati, insinua una generalizzazione della logica della guerra, si lascia facilmente
ricondurre «all’idea già sofistica che giusta è per
definizione la volontà del più forte» (p. 150).
Una ragion pratica in un mondo plurale deve essere possibile. Secondo De Monticelli se per etica
non si intende la disciplina del dovuto da ciascuno a tutti, non è possibile sfuggire alle due derive
del fondamentalismo e dello scetticismo. La prima
formula stabilisce che ciò che è dovuto da ciascuno a tutti «è lo stesso diritto a vivere e fiorire
secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» (p.
153). Tale formula contiene il riconoscimento
della libertà e della pari dignità di tutti gli esseri
umani. Ma il principio universalistico dell’etica è
stato concepito e si è affermato all’interno di un
ethos, quello occidentale, lo stesso in cui la filosofia compara i diversi ethe del pianeta.
L’universalità, il riferimento a tutti gli individui
umani, sconta il paradosso di provenire da un
ethos particolare che si propone quale punto di
vista esterno e superiore a tutti gli ethe reali e possibili. Si può (e forse si deve) presupporre un criterio trascendentale per giustificare il principio
universalistico, ma in linea di principio è sempre
possibile contestare il riferimento a tutti gli uomini come a soggetti “eguali in dignità e diritti”. Un
principio universale dovrebbe essere accettato da
ciascuno e da tutti in virtù di un argomento fattuale o logico, ma nel nostro caso non sembra esservi
alcuna via, né logica, né fattuale, che possa condurre all’accettazione incondizionata di tale principio, talché è possibile sostenere, sulla base della
realtà concretamente visibile, che gli esseri umani
non sono e non possono essere soggetti “eguali in
dignità e diritti”. Se dobbiamo fare esercizio di
ragione in misura radicale, allora anche il principio
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universalistico ha bisogno di essere fondato. E su
che cosa si fonda la concezione degli esseri umani
come soggetti “eguali in dignità e diritti”? Se, ad
esempio, si fondasse tale universalità sull’aspirazione di ogni ethos a valere universalmente, si
coglierebbe alla radice il conflitto che oppone gli
ethe del nostro pianeta. Si dovrà distinguere tra
prescrizioni specifiche che sono compatibili con il
principio universalistico e direttive che non lo
sono: che cosa si farà delle seconde? Si potrà persuadere a revocarle semplicemente in base ad
argomenti razionali? Infatti riconoscere a ciascuno
“il diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos,
che si chiede per sé”, dovrebbe impegnare al
rispetto integrale dell’ethos altrui, con le molte
riserve del caso. Qui De Monticelli avverte che ciò
che si riconosce a ciascuno, l’ethos di ciascuno, il
suum, ciò che si deve a ciascuno, va inteso entro i
limiti di un altro principio universalistico, quello
della pari dignità e dunque dei pari diritti. Devo a
ciascuno ciò che chiedo per me, ma con limiti precisi: ad esempio, non posso pretendere che un
altro diventi mio complice in un crimine promettendogli di restituirgli il favore, dal momento che
in tal modo nego il principio di parità di diritti di
tutti coloro che il crimine calpesta direttamente o
indirettamente (p. 155). Politica ed etica ritornano
così a ricongiungersi. La ragion pratica è un antidoto al servilismo, alla passività, all’autoritarismo,
al dilagare della prepotenza e prevaricazione di
ogni principio, compreso quello della libertà e pari
dignità degli esseri umani, che devono essere riconosciuti eguali perché liberi e liberi perché eguali.
Il riconoscimento dell’eguaglianza non limita, ma
esalta la libertà di ciascuno. Se togliamo il valore
della persona umana come tale, togliamo la ragion
d’essere delle democrazie, che potrebbero presta-
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re il fianco ad accuse di inefficienza, conflittualità
permanente, immobilismo. Ma le giustifica la protezione di spazi di argomentazione e discussione,
in cui ciascuno è chiamato a rendere conto delle
proprie azioni e asserzioni. L’autonomia morale
consiste nel fatto che l’individuo ha la competenza
morale ultima ed è quindi autorizzato a decidere
«riguardo all’uso della libertà che lo costituisce
(quella libertà riconosciuta come caratteristica
della nostra specie ben prima che fosse riconosciuto e giuridicamente protetto il diritto di usarla)» (p. 175). Alcuni polemicamente mescolano
l’autonomia con l’arbitrio, ma sbagliando grossolanamente, perché l’autonomia non è l’invenzione
arbitraria delle proprie leggi, bensì la capacità di
esercitare la ragione per riconoscerne la giustezza.
La Chiesa è così ostile all’individualismo etico da
revocare il principio di libertà di coscienza e negare il diritto di autodeterminazione degli individui
riguardo alla chiusura della vita, ma al tempo stesso ribadisce senza sosta il principio della dignità
della persona. Quale dignità della persona, si chiede De Monticelli, che non implichi il riconoscimento che l’individuo esiste prima dello stato e di
ogni altra comunità, mentre deve la propria dignità esattamente alla capacità di autodeterminazione
razionale, che consiste nel non obbedire a nessuna
legge esterna tranne che a quelle alle quali si è
dato il proprio assenso? Riconoscendo senza equivoci il valore auto-sussistente della persona, lo
stesso Antonio Rosmini non insegnava che alle
persone deve essere garantita la libertà di vivere
secondo il loro proprio principio eudemologico,
realizzando la felicità e la perfezione cui ciascuno
aspira?
Claudio Tugnoli
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