Note del corso (a solo uso interno degli studenti)

LA NATURA DELLA TEOLOGIA
1. Il termine “teologia”
Il termine “teologia”1 e composto da “Theós” e “Lògos”; quindi, nel suo significato letterale esso
significa “parlare di Dio”. Da qui si può vedere che la prima condizione per avere una qualsiasi
teologia è quella di mettere in connessione Dio con il linguaggio umano in modo da avere un
discorso su Dio. In questo modo però sembra che da un lato si apra il campo ad un numero molto
grande di possibili modi di un discorso su Dio e dall’altro si restringa troppo l’oggetto di questo
discorso, tanto da avere così una teologia differente da quelle che noi conosciamo dalla storia e che
ci parlano anche dell’uomo e del suo mondo. Inoltre è anche lecito chiedersi se sia teoricamente
possibile fare un discorso solo su Dio a prescindere da tutto quello che egli determina.
Sulla questione dei diversi modi possibili di un discorso su Dio parleremo nel prossimo punto.
Per quanto riguarda invece la questione se nella teologia sia lecito – stando alla sua etimologia –
parlare dell’uomo e del mondo, bisogna notare che la coerenza di uno studio rispetto alle sue
intrinseche caratteristiche non è determinata dal “che cosa” si studia ma dal “come”. In altre parole,
la teologia per essere fedele al suo nome deve soltanto trattare tutti i temi alla luce di Dio, dal punto
di vista di Dio, e a prescindere dal fatto che questi temi riguardino Dio stesso o siano invece in
relazione con lui in quanto potenza che tutto determina. La teologia, quindi, è un discorso su Dio
non in quanto si concentra “materialmente” su Dio, ma in quanto si concentra “formalmente” su
Dio e Lo pone come specifico orizzonte di comprensione universale per tutto ciò che essa tratta.
2. Tre tipi fondamentali di teologia
Se è da ritenersi “teologia” ogni discorso su Dio nel senso visto sopra, è ragionevole aspettarsi un
numero molto elevato di forme diverse di teologia. Ciò è effettivamente vero se si guarda alla storia,
anche se sembra che in ultima analisi si possa ridurre il tutto a tre tipi fondamentali di teologia,
presenti sia nella loro forma “pura” che come costituenti, con peso diverso, di altre teologie.
1
Per quanto diremo nei § 7 ed 8, vedi soprattutto SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in KERN,
W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed., Corso di teologia fondamentale, IV, Brescia 1990, 204-218; ID., Teologia
Scienza Chiesa, Brescia 1988, 13-42.
1
2.1 Teologia come proclamazione di Dio
Questo è il primo significato che nella storia ha assunto il termine “teologia”, in quanto sia nel
mondo pagano che in quello dei Padri esso indicava l’atto concreto del discorso sul divino o sugli
dei. Per questo motivo Orfeo e Omero sono detti teologi, come pure lo sono Mosè e i profeti, Paolo,
Giovanni e lo stesso Gesù. Il termine “teologia” fu comunque usato con cautela fino al periodo
medievale, in quanto nell’antichità esso aveva una valenza prevalentemente pagana e il
cristianesimo non voleva assolutamente essere con esso confuso.
Attualmente l’annuncio puramente narrativo su Dio o il discorso primario su Dio appaiono
come pre-scientifici e pre-teologici, cioè semplicemente come il necessario presupposto alla vera e
propria riflessione teologica: l’auditus fidei precede l’intellectus fidei. In realtà, anche se si tratta
indubbiamente di una attività pre-scentifica, questo annuncio di Dio deve essere considerato già
teologia e, precisamente, come quella forma che è l’inizio, il fondamento e la sostanza di ogni altra
forma di teologia. E questo in quanto questo linguaggio religioso primario (precedente cioè ad ogni
analisi scientifica) è più di un semplice veicolo di informazioni, in quanto esegue e compie qualcosa
in chi si affida ad esso (è cioè un linguaggio performativo).
2.2 Teologia come conoscenza razionale di Dio
Già nel mondo greco il termine “teologia” indicava oltre che alla proclamazione del divino anche il
controllo critico della ragione su tale proclamazione. È infatti Platone che chiede per primo delle
norme per purificare l’annuncio sugli dei tramite la ragione critica, anche se sarà solo Aristotele che
darà il via ad un vero e proprio tentativo di conoscere il divino tramite la ragione che egli indicherà
col nome di teologia filosofica.
Questo nuovo modo di intendere il termine “teologia” ha preso poi vari nomi nel corso della
storia: filosofia prima, metafisica, teologia metafisica. S. Tommaso la chiama «quella teologia che è
una parte della filosofia»2. Fu anche usato il termine “teologia naturale”, anche se con molta
ambiguità a causa della problematica legata al rapporto natura-grazia. Tuttavia il termine più
consono sembra essere proprio l’aristotelico teologia filosofica che viene normalmente usato da
Kant in poi. Qui infatti è indicato chiaramente che ci si occupa del problema di Dio secondo una
metodologia filosofica, vale a dire, a partire dalla ragione considerata come autonoma dalla fede. In
questo modo risulta inoltre subito ben chiaro anche il legame e la distinzione con quella teologia
che riflette in modo scientifico sulla fede: quest’ultima si occupa anche del problema di Dio ma lo
2
2
S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2.
fa partendo dalla rivelazione e, quindi, con una ragione “vincolata” alla fede. Ambedue però
riconoscono alla ragione umana un valore noetico, cioè una reale capacità di conoscere il divino.
2.3 Teologia come intellectus fidei
Questa è la forma di teologia che dal tempo dei Padri in poi è stata assunta come suo paradigma
fondamentale e che ha avuto in Sant’Anselmo (Proslogion) le sue formulazioni più incisive (credo
ut intellegam e fides quaerens intellectum). Essa si è sviluppata a partire dall’interpretazione dal
passo di Is 7,9 secondo la redazione dei LXX (nisi credideritis, non intelligetis) – che traduce male
l’originale “se non crederete non avrete stabilità” – ed è caratterizzata dal fatto di avere la fede non
solo come oggetto ma anche come soggetto della teologia. In altre parole, qui si parte dalla fede in
quanto è la fede che fornisce il fondamento esperienziale e la base per un discorso teologico, ma,
allo stesso tempo, è dalla fede stessa che si sprigiona un ulteriore impulso a conoscere che
coinvolge anche la ragione (intellectus fidei)3, impulso che tende a nient’altro che a far penetrare più
profondamente nella fede stessa. È la fede stessa che secondo questa visione tende per sua stessa
natura ad avviare un processo di illuminazione che la supera infinitamente (rispetto al suo dato
iniziale), ma che tuttavia ha luogo solo in essa e per essa.
Questa visione sottintende un concezione della fede tale che, nella sua paradossalità, questa
vada compresa come un conoscere che dà il via ad un ulteriore processo di conoscenza (quindi non
era un vero conoscere) o come una luce che illumina e indica una via (come ad Abramo) che però
emerge come tale, cioè nella sua verità solo nella fatica del cammino (quindi all’inizio è tenebra e
smarrimento). Paradossalità questa che emerge nella tensione continua ed irrisolvibile che nella
teologia si ha tra fede e ragione.
Questo modo di intendere la fede è la fede cristiana. Essa non è una fede che si chiude nella sua
oscurità (o nella luce delle sue certezze) ma una fede che tende naturalmente al conoscere e al
comprendere. Ed essendo quindi anche una attività conoscitiva che coinvolge la ragione umana,
essa cessa di essere un qualcosa di “interno”, di ristretto ad un piccolo gruppo, di circoscritto al solo
ambito dottrinale degli “adepti”, e si apre anche all’esterno.
3
Nel medioevo il termine ratio, nel campo strettamente conoscitivo, indica una «facoltà discorsiva, nel senso
generico e usuale di capacità di pensare, di riflettere, di trovare dei motivi e delle spiegazioni alle cose, di stabilire dei
rapporti tra varie realtà, delle proporzioni tra due termini, di verificare la verità di certe affermazioni confrontandole con
giudizi antecedenti o con verità già raggiunte o note, di scoprire una verità con l'aiuto di un'altra» (D ERMINE, F.,
«Razionalità e fede», in Divus Thomas 1(1992)126). L'opposto della ratio è la simplex intelligentia o l'intellectus, inteso
nel senso di atto semplice, intuitivo, di vista della verità e della realtà senza alcun processo raziocinante (Cf. P ESCH,
O.H., Tomas d'Aquin, Paris 1994, 156).
3
Questa conoscenza a cui tende per sua natura la fede può poi essere di due tipi. Il primo è
esclusivamente personale e può portare ad un approfondimento della propria fede fino alla visione
mistica o ad altri modi di possesso personale ed esistentivo della verità. Il secondo nasce dal fatto
che quella verità che afferra i credenti è l’unica e medesima verità di Dio e, quindi, ha in sé un lato
oggettivo e sovraindividuale. Conoscere questa verità “oggettiva” della fede è far teologia che,
pertanto, può definirsi come il processo dell’intellectus fidei nel corso della storia
dell’interpretazione della fede cristiana.
Questo modo di intendere la teologia si differenzia poi dagli altri due visti in precedenza in
quanto qui non si mira tanto ad arrivare ad una comprensione e sistematizzazione del dato di fede
mediante la ragione discorsiva (anche se si fa anche questo), ma si mira soprattutto a giungere ad
una visione intellettuale o spirituale del dato stesso. È quella certezza che nasce dalla
contemplazione, dalla visione “faccia a faccia”, che si cerca e non quella che nasce dal provare in
modo discorsivo la verità di una data affermazione o dottrina. Quello che si cerca soprattutto è una
vera e propria ascesa dell’anima a Dio, anche se servendosi della disciplina del pensiero e della
fatica del concetto: è questo il fine spirituale cercato da Origene, Agostino, Bonaventura, Anselmo e
Tommaso. Qui, a differenza del secondo tipo di teologia, più che le ferree leggi della logica hanno
importanza la fantasia, l’ispirazione, la preghiera e la meditazione. Si cerca più di scoprire che di
motivare. Rispetto al primo modo di intendere la teologia, poi, essa non mira tanto ad annunciare
Dio, ma ad impadronirsi della verità annunciata su Dio per immedesimarsi in essa.
3. Teologia come “scienza della fede”
Quanto andiamo qui a trattare è il modo attuale che si ha di comprendere la teologia. A tal proposito
iniziamo con il fare due annotazioni introduttive:
a) Il fatto che la teologia sia una “scienza” è contestato sia dall'esterno, in quanto il legame con
la Chiesa e la fede sembra non addirsi a una scienza, sia dall'interno, in quanto sembra che
abbandonare la fede e la religione allo spirito della ratio e dei suoi metodi sia un tradimento4. Alle
obiezioni esterne è dedicato il § 3.4, in cui si cerca di dimostrare come il legame con la fede e la
Chiesa, correttamente inteso, non mina la scientificità della teologia. Per quanto riguarda invece
quelle interne è da tener conto, prima di tutto, che se è vero che nell'autocomprensione cristiana
emerge chiaramente la coscienza della propria specificità e autonomia nei confronti di sapere e
scienza, è vero anche che è caratteristica del cristianesimo, anche se talvolta sofferta, la
4
4
Cf. SECKLER, M., Teologia Scienza Chiesa, cit., 43-46.
fondamentale fiducia nella ragione e nelle scienze razionali5. Bisogna poi precisare che qui non si
intende dire che la teologia sia una scienza, ma che questa possa anche essere concepita in maniera
scientifica. In realtà questa strutturazione scientifica non è nient’altro che l’ambiente in cui la fede
diventa autentico intellectus fidei.
b) Noi, quindi, prenderemo qui in esame un modo di fare teologia, e precisamente quello che la
intende come scienza della fede. Questo binomio, scienza-fede, è già una definizione della teologia
scientifica ed evidenzia il programma che essa deve seguire per progredire nella conoscenza
teologica, e cioè, il rispetto sia della scientificità – che non comporta solo l'assunzione del metodo
argomentativo con il suo formalismo, ma l'assumere la ragione come fonte di conoscenza e criterio
di verità – sia della fede – evitando quindi di trasformare la teologia in filosofia della religione6.
3.1 Le origini del problema della scientificità
Questa indagine sulla “scientificità” della teologia potrebbe partire da molto lontano, in quanto ci si
potrebbe chiedere se alcuni Padri non avessero cercato di operare secondo un concetto di “scienza”
a loro contemporaneo.
Per esempio si potrebbe esaminare in tale prospettiva le opere di Ireneo di Lione (Adversus
Haereses, Esposizione della predicazione apostolica), nelle quali egli ha elaborato una alternativa
coerente e ben fondata alle varie, e a volte diverse, speculazioni dottrinali dei maestri gnostici. Per
lui «la teologia è un attività intellettuale situata all’interno delle coordinate dell’“unico schema di
fede” insegnato nella Chiesa. Il teologo indaga sulla rivelazione, prestando sempre attenzione a ciò
che è pervenuto dagli apostoli ed è stato ricevuto nel cuore come il contenuto e la struttura della
fede»7.
Ci si potrebbe pure, e soprattutto, interrogare sull’operato di Origene di Alessandria che ha
rivolto la sua attenzione “razionale” specialmente verso una interpretazione “spirituale” della
Scrittura, alla pari di quanto i filosofi pagani facevano nei riguardi dei racconti mitici. Per lui la
Bibbia ha una struttura tripartita che corrisponde alla tripartizione dell’uomo in corpo, anima e
spirito fatta da S. Paolo (1 Ts 5,23): il “corpo” è il significato della narrazione biblica, l’“anima” è
l’istruzione data a coloro che progrediscono nella fede, lo “spirito” è la sapienza nascosta delle vie
di Dio e della quale noi abbiamo per il momento solo alcuni deboli indizi8.
5
Cf. SECKLER, M., «Teologia», in Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi 1990.
Cf. SECKLER, M., Teologia Scienza Chiesa, cit., 57-60.
7
WICKS, J., Introduzione al metodo teologico, Casale Monferrato 1994, 15.
8
Cf. ORIGENE, I Principi, Torino 1968, 483-540 (cit. in WICKS, J, op. cit., 15).
6
5
Se tutto quanto detto sopra è indubbiamente vero è però anche vero che è solo nell’alta
scolastica e soprattutto con S. Tommaso che la teologia9, sulla base del concetto aristotelico di
scienza, si pose coscientemente il problema della sua scientificità. È a partire da qui che la teologia
pretese, fin dal primo formarsi delle università, di entrare in esse come scienza tra le scienze e,
pertanto, è a partire da qui che noi inizieremo più approfonditamente la nostra ricerca.
3.1.1 San Tommaso
A partire da S. Tommaso la teologia si pone esplicitamente il problema della sua scientificità. Con
lui essa viene ad assumere uno statuto epistemologico ben preciso e, parallelamente, è sempre con
lui che l’esercizio della ragione, nella sua piena e peculiare specificità formale, ottiene in modo
esplicito un posto all’interno della fede.
Il fatto poi che la teologia abbia sentito questa esigenza e si sia concepita come scienza, riveste
un’importanza che travalica il singolo atto e il riferimento a una particolare concezione di scienza,
quella aristotelica, e diviene una opzione fondamentale a favore della ragione e della scienza di
sempre. Ciò impone alla teologia l’obbligo di tenersi aggiornata e, anche, di partecipare alla
discussione sulla teoria della scienza per poter trarre le debite conseguenze riguardo al suo essere
scienza10. Guardando quindi alla concezione scolastica di teologia scientifica è da tener presente che
alcuni punti e, naturalmente, l’opzione fondamentale rimangono, altri invece, essendo mutato il
concetto di scienza, andranno rivisti.
3.1.1.1 Conciliazione tra la ragione e la fede, tra filosofia e rivelazione
È un indubbio merito di S. Tommaso l’aver saputo mediare e armonizzare tra loro i due termini di
un problema che, come mostra la teoria della doppia verità, pur non raggiungendo i limiti attuali,
era per lo meno sentito come insolubile. Gli va anche riconosciuto, però, di averlo saputo fare senza
snaturare troppo i due termini a confronto, senza che uno abbia dovuto consegnarsi totalmente in
balia dell’altro fino quasi a scomparire nella sua specificità. Infatti, ciò a cui mirava non era
d’arrivare a una fredda e “morta” coesistenza ma, a un reale incontro tendente verso la verità. E nel
9
E' da notare che, esattamente parlando, il temine teologia è usato per indicare l'intera dottrina cristiana solo dopo
Tommaso e precisamente da Enrico di Gand (ca. 1217-1293). Prima il termine indica solo la dottrina sul Dio Uno e
Trino. Sulla “teologia” nell'antichità e medioevo Cf. KERN, W.-NIEMANN, F.J., Gnoseologia teologica, Brescia 1984,
34-39.
10
Cf. nota 33 in SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER,
M., ed., op. cit., 224.
6
far ciò era conscio che ogni verità proviene da Dio, prescindendo da colui che la pronuncia e che
ogni disciplina giunge alla verità solo se è lasciata libera di assolvere il suo compito11.
Il punto di partenza per tale armonizzazione va ricercato nella concezione del rapporto tra fede
e ragione come analogico a quello tra grazia e natura. Pertanto, come l’ordine soprannaturale
partecipato nelle creature non solo non elimina, ma suppone ed eleva la natura creata, così la
ragione, illuminata dalla rivelazione, non perde in nulla le capacità naturali proprie ma,
partecipando nella fede alla conoscenza che Dio ha di sé, viene innalzata ad un livello
essenzialmente superiore12.
La fede quindi non è contraria alla ragione ma è ad essa superiore e la ragione, anche se
“ancella”, è “ancella” di cui la fede, per essere atto veramente umano, non può far senza, infatti:
«Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità possediamo certamente la
verità, ma in una testa vuota»13.
3.1.1.1.1 La fede come “actus intellectus” e come “cum assensione cogitare”
La fede, avendo per oggetto la Verità suprema ed essendo indirizzata verso la visione, è un atto
dell’intelletto e, precisamente, dell’intelletto speculativo, anche se essa, essendo questa Verità
anche il fine dei nostri desideri e delle nostre azioni, tende poi a divenire operativa tramite la
carità14.
Questo atto intellettivo del credente non è però un normale atto dell’intelletto umano, in quanto,
questo «viene determinato a una data cosa non dalla ragione ma dalla volontà»15. Nella fede, cioè,
«l’intelletto aderisce alla verità divina sotto il comando della volontà mossa da Dio mediante la
grazia»16. Ciò non impedisce comunque all’intelletto di essere ugualmente ben determinato circa la
verità rivelata e, visto che interviene a suo favore la stessa Verità prima — causa superiore al lume
11
Cf. SECKLER, M., «Tommaso d'Aquino e la teologia», in ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 77-82.
CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, Milano 1971-1984, 126, cita a tal proposito, oltre al ben
conosciuto passo della Summa Theologiae, I, 1, 8, ad 2, anche Exp. s. librum Boethii de Trin., q. 2, a. 3: «I doni della
grazia vengono conferiti alla natura in modo che non la eliminano, ma piuttosto la perfezionano; per cui anche il lume
della fede che ci è infuso gratuitamente non distrugge il lume della conoscenza naturale in noi innato (naturaliter
inditum). Benché poi il lume naturale della mente umana sia insufficiente a esprimere quelle verità che ci vengono
rivelate dalla fede, tuttavia è impossibile che quelle realtà che ci vengono trasmesse dalla fede in maniera divina siano
contrarie a quelle altre che sono innate in noi per natura: bisognerebbe infatti che uno dei due elementi fosse falso e
derivando entrambi da Dio, Dio stesso sarebbe per noi l'autore della falsità, il che è impossibile».
13
TOMMASO D'AQUINO, seduta di Quodlibet, IV, 16, Parigi 1271 (citato in CHENU, M.D., S. Tommaso d'Aquino e
la teologia, Torino 1977, 30-31).
14
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 4, 2.
15
TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 1, ad 3 (La somma teologica, XIV, Adriano Salani, s.l. 1966,
78).
16
TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 9, c. (La somma teologica, XIV, 102).
12
7
della ragione —, di godere perfino di una certezza superiore ad ogni conoscenza puramente
razionale17.
La conoscenza di fede è quindi, primariamente, un dono fatto all’uomo che prescinde dalla
capacità argomentativa della sua ragione, infatti, «la fede è incompatibile con la discussione della
ragione naturale che pretende di dimostrare quanto si crede»18. Questo non significa però che l’atto
di fede sia irrazionale, infatti, esso «ammette una discussione di ciò che può indurre l’uomo a
credere: cioè, p. es., che si tratta di cose rivelate da Dio, e confermate dai miracoli»19. Inoltre la
ragione interviene anche «per dimostrare ciò che è preliminare alla fede (preambula fidei) che è
necessario nella scienza della fede, come quelle verità che a riguardo di Dio vengono dimostrate
mediante ragioni naturali, come l’esistenza di Dio, l’unità di Dio e altre di tal genere o a riguardo di
Dio o a riguardo delle creature, cose che vengono provate in filosofia e che la fede presuppone»20.
In altre parole, la fede, per essere atto veramente umano e quindi libero, esige il ricorso a validi
motivi razionali estrinseci che purificano l’intelletto dai pregiudizi e lo preparano a seguire,
ragionevolmente e non fideisticamente, il comando della volontà. Ciò permette poi anche di trovare
argomenti contro l’infondatezza della Rivelazione e l’assurdità della fede, cioè di esplicare un
lavoro apologetico in difesa delle “ragioni” della propria fede.
Queste basi razionali esterne all’atto di fede, pur essendo ad esso indirizzato e pur dando motivi
sufficienti per esso, non sono però sufficienti a portare l’intelletto umano all’evidenza delle cose di
fede e pertanto, non tolgono in nulla il merito di quest’atto che rimane fondamentalmente un
assenso della volontà a una realtà che non si vede21. Ma anche questo assenso, in se e per se, non è
privo di ragionevolezza22. Infatti, data la finitezza umana, è ragionevole e talvolta necessario, il
fidarsi di altri per poter entrare in possesso di un sapere scientifico, tecnico, artistico, ecc., o
addirittura per poter vivere. Pertanto, a fortiori, non è irragionevole l’affidarsi alla testimonianza
della Verità prima, con la quale qualsiasi falsità è incompatibile, per ottenere un sapere che eccede
in assoluto la capacità della nostra ragione e che, pertanto, mai potremmo ottenere per altra via. La
fede teologale, cioè, eleva l’intelletto di colui che non vuole autorinchiudersi nel solo ambito della
conoscenza argomentativa, a livello dell’intelligenza divina che viene così a svolgere, nella mente
del credente, il ruolo che i “primi principi” hanno nella conoscenza umana.
17
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 4, 8; ID., De Veritate, 14, 1, ad 7 (citato in DERMINE, F., op.
cit., pp. 127-128).
18
TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 1, ad 1 (La somma teologica, XIV, 78).
19
Ibid.
20
TOMMASO D'AQUINO, Exp. s. librum Boethii de Trin., q. 2, a. 3 (citato in CHENU, M.D., La teologia come
scienza nel XIII secolo, cit., 127).
21
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 9, ad 3 e 2, 10, ad 2.
22
Cf. DERMINE, F., op. cit., pp. 132-142.
8
Pertanto l’atto di fede «non solo non rinnega o mortifica la ragione ma la presuppone, la risana
purificandola o preservandola dagli errori umani e, soprattutto, la eleva al punto di metterla in
continuità con l’oggetto della stessa conoscenza divina: “fides non destruit rationem sed excedit
eam et perficit”»23.
La conoscenza di fede, come abbiamo visto, è certamente un dono e, pertanto, atto dell’intelletto e
non della ragione, ma questo dono è fatto ad un essere capace di cogliere la verità e che, pertanto,
sulla base di questo dono, seguendo la propria natura, si mette a riflettere, sviluppare, trarre
conseguenze, illustrare, cioè, a cogitare: «la fede infatti non sconvolge la natura dello spirito in cui
Dio la infonde; essa ne adotta al contrario i metodi, il cui modello è il discorso razionale»24.
Questo cogitare è frutto della debolezza intrinseca dello stesso atto di fede, in cui si ha
un’adesione ferma a una data cosa, senza che tuttavia la sua conoscenza sia frutto di una percezione
evidente25. L’intelletto non si sente quindi appagato e da questa sua insoddisfazione scaturisce
questa ricerca discorsiva, continua e mai conclusa. Essa però non diminuisce il merito dell’atto di
fede ma, anzi, l’aumenta, visto che nasce dall’amore per ciò che già si crede, amore che dopo aver
spinto all’assenso, cerca ora l’approfondimento nel tentativo di anticipare il tempo della chiara
visione26. Non una riflessione fine a se stessa quindi, ma una riflessione che partita dalle verità
rivelate vi ritorna arricchita da ciò che ha elaborato nella luce della fede, in modo da poter
conseguire, secondo il modo di procedere umano, quella conoscenza che Dio consegue nell’assoluta
semplicità di un’intuizione. Una riflessione, cioè, interna alla fede, che da essa segue senza tuttavia
mai usciere dal suo ambito, visto che la retta esplicazione della verità rivelata richiede che
l’intelligenza umana attinga alla sessa luce di chi rivela: «la raison explique la foi en interprétant à
la lumière de la foi ce qu’elle, la raison, peut connaître, et, de ce fait, en interprétant la foi ellemême»27. In altre parole, ci troviamo ora nel campo in cui la fede si sviluppa in intellectus fidei, cioè
in ciò che chiamiamo teologia, ed è un indubbio merito di Tommaso l’aver saputo introdurvi in
maniera chiara la mediazione della ratio, fino al punto di rivendicare per esso il nome di scienza,
nome che sembrava ad esso completamente antitetico.
3.1.1.1.2 Teologia come scienza
Parlare di scienza, in senso aristotelico, significa parlare essenzialmente di un processo dello spirito
che passa dal noto (i principi) all’ignoto (le conclusioni) per mezzo di una dimostrazione e, quindi,
23
Ibid, 141; la citazione è da TOMMASO D'AQUINO, De Veritate, 14, 10, ad 9.
CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., p. 102.
25
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 1.
26
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 10.
27
PESCH, O.H., op. cit., 156.
24
9
di qualcosa di diametralmente opposto alla conoscenza immediata (senza mediazione razionale)
implicita nel termine intellectus. Nonostante ciò Tommaso rivendica questo nome anche per la
conoscenza delle cose divine, in quanto, «come Dio per il fatto stesso che si conosce, conosce le
altre cose secondo la sua natura (modo suo), e cioè con una semplice intuizione (intuitus) e non
mediante un discorso (non discurrendo): così noi da quelle realtà che comprendiamo con la fede
aderendo alla verità prima, giungiamo alla conoscenza delle altre secondo la nostra natura, passando
(discurrendo) cioè dai principi alle conclusioni. Per cui le stesse realtà che accettiamo per fede sono
per noi come i primi principi di questa scienza e le altre cose sono come conclusioni»28.
Posta questa analogia tra principia e articuli fidei, rimane il problema che i secondi, a
differenza dei primi, mancano dell’evidenza necessaria per poter parlare di scienza. A tal scopo
Tommaso, nella Summa, si serve della teoria della subalternazione, notando come la teologia (sacra
dottrina) sia sì una scienza, ma una scienza subordinata «in quanto che poggia su principi conosciuti
per lume di scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei Beati. Quindi come la musica ammette
i principi che le fornisce la matematica, così la sacra dottrina accetta i principi rivelati da Dio»29.
Stabiliti i principi di questa scienza teologica, gli articuli fidei, il metodo, quello deduttivo, e il
suo carattere di scienza subordinata resta però da stabilire quale sia la portata e il valore delle
conclusione a cui si giunge. In altre parole, siamo in presenza di una ratio che entra all’interno
della verità rivelata o di una ratio puramente strumentale che trae conclusioni ad essa esterne? I testi
di Tommaso non danno a tal riguardo un indicazione univoca30, e se si guardasse solo alla sua opera
principale, la Summa theologiae, in particolare alla sua prima Questio, si propenderebbe senza
dubbio per la seconda ipotesi. Ciò in effetti è quello che è successo nella successiva scolastica
tomista – differente per qualità da quella tommasiana31 – dove la ratio, come facoltà della verità,
abbandona l’ambito della fede per stabilirsi nei soli preambula32 e la teologia diviene una scientia
conclusionum tesa alla ricostruzione umana, in termini dottrinali, della scienza di Dio che, in modo
continuo e progressivo, si era sempre meglio in grado di esplicitare. Di esplicitare cioè, ciò che in
fondo era in sé completo e sempre valido33. Come nota Chenu però, la riflessione metodologica non
coglie subito gli effettivi procedimenti e, pertanto, è necessario guardare a Tommaso nella sua opera
concreta di teologo, al di la di ciò che ha saputo teorizzare. Se si fa ciò, non v’è alcun dubbio nel
constatare che «il “suo discorso” scientifico, dall’argomento di convenienza fino alla deduzione, si
28
TOMMASO D'AQUINO, Exp. s. librum Boethii de Trin., q. 2, a. 2, in corp. (citato in CHENU, M.D., La teologia
come scienza nel XIII secolo, cit., 103).
29
TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 2 (La somma teologica, I, 46).
30
Cf. PESCH, O.H., op. cit., 158, specialmente le note 83 e 84.
31
Cf. SECKLER, M., «Tommaso d'Aquino e la teologia», in ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 72.
32
Cf. SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in K ERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed.,
Corso di Teologia Fondamentale, IV, cit., 236-237
33
Cf. Ibid., 223.
10
costruisce nella contemplazione del dato rivelato, nella quale egli conosce ed elabora nella maniera
complessa che gli è propria, ciò che Dio conosce nell’assoluta semplicità di un’intuizione. Così, la
ratio fide illustrata giunge fino ai limiti delle sue possibilità, fino alla sistemazione dei misteri
divini che la fede le fornisce...»34.
Guardando da questo punto di vista al tentativo fatto da Tommaso per formalizzare l’uso della
ratio all’interno della conoscenza di fede, mediante l’appropriazione e, anche, adattamento del
concetto aristotelico di scienza, si possono fare alcune considerazioni:
a) La fede svolge in teologia il ruolo di illuminazione che i principi della ragione svolgono
nelle discipline razionali. Infatti, «non si tratta di una semplice trasmissione di un dato, ovvero di
una serie di proposizioni accettate per autorità (...), ma di una continuità organica, psicologica e
religiosa, secondo cui la luce della fede, emanazione della luce divina nello spirito umano,
costituisce il terreno indispensabile alla conoscenza delle proposizioni rivelate»35.
b)Non si può parlare di subalternazione ma di quasi-subalternazione, in quanto, a differenza
delle altre scienze, in teologia si ha subalternazione solo a riguardo dei principi acquisiti e non
dell’oggetto, che rimane lo stesso. Pertanto, non è possibile «spartire compiti e competenze come
talora si fa: la fede avrebbe per oggetto la rivelazione (revelatum), mentre la teologia le conclusioni
che possiamo trarne, ossia il rivelato “virtuale” (revelabile)». Ciò, anche se lecito a riguardo della
differenza di materia e metodo, «corre il rischio di non inserire l’effettiva interiorità del lavoro
razionale del teologo entro il dato rivelato, e talvolta essa ha riflesso un certo estrinsecismo della
teologia nei confronti della fede»36.
c) Nelle altre scienze i principi, anche se non sono in sé evidenti nella scienza subordinata, lo
sono nella subordinante e, quindi, sempre alla portata della naturale conoscenza umana. Ciò non
vale per la teologia, dove le verità di fede possono essere evidentissime solo ai beati che le vedono
nella divina sostanza. Pertanto la teologia è scienza solo in modo imperfetto.
Da tutto ciò emerge come questa strutturazione scientifica non sia nient’altro che l’ambiente in cui
la fede diventa autentico intellectus fidei. Partita dalla fede, alla luce della fede, la ratio, seguendo la
sua natura, compie il primo passo verso la visione beatifica, verso cioè quella scienza di Dio e dei
beati da cui era partita e con cui era sempre rimasta unita grazie alla fede.
34
CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 128.
CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 107.
36
Ibid., p. 120.
35
11
3.1.1.2 Una ragione libera nei limiti della fede
Nell’opera di S. Tommaso è riscontrabile un’autentica fiducia nella ragione e nei suoi metodi, tanto
da poter dire che la filosofia, naturale espressione della ragione umana, è in Tommaso perfettamente
indipendente dalla fede riguardo ai principi, all’oggetto e al metodo37. Il significato da dare a questa
indipendenza è però diverso da quello che possiamo dare noi oggi, in un momento in cui si sentono
questi due termini, ragione e fede o filosofia (scienza) e teologia, come antagonisti ed escludentesi a
vicenda38. Il suo punto di partenza è infatti il «gratia non tollit naturam sed perficit»39, in cui al
pieno rispetto per ciò che è naturale, in quanto proveniente dal Dio creatore, si assomma il senso di
mancanza, di imperfezione, se tutto ciò rimane fuori dall’ambito della grazia, fuori dalla fede nel
Dio che si rivela per salvarci. Quindi non contraddizione, ambedue procedono dallo stesso Dio 40,
ma necessità della fede per superare la limitatezza della ragione naturale e portala a un livello
essenzialmente superiore, in modo però da non distruggere o depotenziare quest’ultima, ma
preservandola nella sua consistenza naturale e nel suo atto proprio. Pertanto, bisogna che la
«filosofia resti razionale per essere utilizzabile dalla teologia e che la teologia resti se stessa per
poterla utilizzare. La famosa formula: la filosofia ancella della teologia, non ha altro significato.
Perché questa ancella sia utile, bisogna che non sia distrutta. Ed è vero che l’ancella non è la
padrona, ma fa parte della famiglia»41. Spiegando meglio questo rapporto, Tommaso42 mette poi in
evidenza come la teologia «può far uso di conoscenze filosofiche di origini differenti, ma essa non
se ne compone. La teologia le sceglie e le perfeziona. Essa percepisce al di là di ciascuna di esse, un
punto di convergenza a loro stesse sconosciuto e verso cui tuttavia tendono senza saperlo. Nessuna
37
Cf. MARITAIN, J., Le docteur angélique, Desclée, Paris 1932, XV-XVI.
Ciò fa concludere che in Tommaso «è da vedere soltanto il teologo o l'apologista del cattolicesimo, che della
filosofia si serve come di strumento e mezzo per confutare taluni errori». In lui la ragione è completamente svalutata in
quanto «il termine a quo ed il termine ad quem sono sempre dati: si muove dal dogma e si finisce nel dogma con una
monotonia esasperante, dove l'irrazionalità eretta a sistema si drappeggia dei colori più vari della razionalità» (S AITTA,
G., Il carattere della filosofia tomistica, Firenze 1934, 23-24). Per Russell, «nell'Aquinate c'è ben poco del vero spirito
filosofico (...) Prima di cominciare a filosofare, conosce già la verità, che è quella annunciata dalla fede cattolica. Se
Tommaso può trovare argomenti apparentemente razionali in appogio a qualche parte della fede, tanto meglio; se non
può, deve solo rifarsi alla Rivelazione. Trovare argomenti in sostegno a una conclusione già data in anticipo non è
filosofia, ma solo una forma particolare di apologetica. Non posso quindi accettare che Tommaso meriti d'essere posto
su uno stesso piano con i migliori filosofi della Grecia o dei tempi moderni» (R USSELL, B., Storia della filosofia
occidentale, II, Milano 1948, 212).
39
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 8, ad 2.
40
«Il vero che la filosofia indaga e raggiunge come sua meta fugando il falso e fuggendo l'errore, non può
contraddire un vero più alto che gli viene rivelato da Dio, e che pur superando la ragione non può parimenti contraddirla
e può anzi negativamente su di essa esercitare il suo influsso ne erret. L'essere “cristiana” si risolve dunque, per la
filosofia, nel presentare il rationabile obsequium al vero rivelato, che diviene così per essa anche un formidabile
baluardo di riparo e difesa dall'errore» (T OCCAFONDI, E., «Valore perenne della gnoseologia tomistica», in Aquinas 13(1960)233).
41
GILSON, E., Il filosofo e la teologia, Brescia 1966, 106.
42
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 3.
38
12
dottrina accolta dalla teologia tomista vi rientra se non attraverso la luce trasformante della fede
nella parola divina»43.
Non un razionalismo moderno, quindi, ma una fiducia nella ragione e nei suoi metodi che si
accompagna con un forte senso del limite nelle sue possibilità. Già nel primo articolo della prima
Questio della Summa theologiae, pur ammettendo la lecita esistenza di discipline filosofiche, egli
reclama la necessità di una dottrina che parta dalla Rivelazione a causa della debolezza della
ragione umana lasciata a se stessa. Dio, a cui l’uomo è ordinato, supera le capacità della ragione e,
anche ciò che è alla sua portata, è conoscibile solo da «parte di pochi, dopo lungo tempo e con
mescolanza di molti errori»44. La verità, a cui la ragione tende, è quindi un dono dell’autorità divina
e non è raggiungibile se non nella fede che, pertanto, non snatura o opprime la ragione, ma le da una
sicura garanzia per il raggiungimento del suo scopo. Accettando ciò che le viene pre-donato nella
fede la ragione può abbandonarsi liberamente alla sua sete di conoscenza e «le théologien est tenu
de reconnaître comme vérité divine toute la vérité qu’il reconnaît, même si elle n’est pas puisée
dans la Bible»45.
Una ragione, quindi, libera nell’ambito della fede e sua “ancella”46, ma “ancella”, come visto, di
cui la fede non può fare a meno e che le impedisce di cadere nel campo della mera congettura e
dell’opinione, questi, in sintesi, il limite e la grandezza dell’umana ragione.
3.1.1.3 Attualità del pensiero tommasiano
Riassumiamo in alcuni punti ciò che in Tommaso sembra essere ricco di significato anche per
l’oggi della teologia:
a) La necessità e il coraggio di partire dalla fede, nella consapevolezza che solo quest’ultima è
in grado di introdurci nella verità ultima della nostra esistenza. Solo la fede può fare alla ragione
questo dono che, accolto, le permette di svolgere liberamente il proprio compito a contatto con la
Verità e, quindi, lontano dall’errore.
b) La fede, nell’uomo fatto a immagine di Dio e quindi capace di intendere e di scegliere
liberamente, non si dà e non matura senza l’intervento della ragione. Certo, la ragione lavorerà a
patire da evidenze solo nella fase precedente all’atto di fede (motivi di credibilità e preambula
fidei), ma, anche se legata a una “testimonianza” superiore, essa non cesserà mai di operare, né
43
GILSON, E., op. cit., 110.
Nelle “cinque vie”, la ragione può riconoscere il Dio “principio” del mondo, in quanto lavora già alla luce della
fede nella creazione. Solo così l'identificazione del risultato di una argomentazione metafisica con il Dio del fede
cristiana è infatti possibile. Partendo poi dagli “effetti”, che la ragione sperimenta, è impossibile tendere verso l'idea di
Dio come “fine”, come salvezza dell'uomo (Cf. P ESCH, O.H., op. cit., 161-162; 170).
45
Ibid., 159.
44
13
durante né dopo. Nel “dopo”, poi, cioè nella riflessione teologica, il ruolo della ragione non sarà
puramente strumentale come potrebbe apparire da una lettura “letterale” della Summa theologiae,
ma, se si guarda soprattutto all’agire concreto di Tommaso, si potrà dire che «périodiquement les
théologiens sont entrainés vers le danger d’évacuer alors le mystére: belle tentation où la raison
théologique trouve sa gloire et sa limite. Malheureux qui ne l’a pas éprouvée!»47.
c) La Verità con cui la fede mette in contatto è sicuramente oggettiva. Non nel senso che essa
sia un oggetto a nostra disposizione48, ma nel senso che è qualcosa che sta effettivamente “di contro
a noi” e che, solo perché è così, può essere anche un “con noi” e un “per noi”. Ciò fa si che, pur
nella vitale crescita e sviluppo temporale, la nostra verità non si riduca mai a nostra creazione e
conservi sempre una sostanziale immobilità nella sua identità49.
3.1.2 Melchior Cano: i loci theologici
L’alta scolastica aveva costituito la teologia come scienza subordinata, evidenziandone il metodo,
quello deduttivo, e i principi, gli articoli del credo, scelti perché ritenuti rivelati da Dio, quindi
“certi”, e risalenti agli apostoli. La questione di considerare criticamente le fonti della teologia, cioè,
il dove e il come essa individua gli articoli di fede e le verità rivelate, non veniva invece sentito50.
Tale problema si pose, in modo sistematico, solo all’inizio dell’età moderna quando, durante la
controversia con Lutero, sorse il problema delle fonti teologiche, e specialmente del rapporto
Scrittura-Tradizione. Per la teologia cattolica si pose quindi la necessità di una fondazione
metodologica che non fosse “ingenua” (dodici articoli rivelati da Dio e risalenti agli apostoli) ma
che allo stesso tempo non considerasse la Scrittura come unica fonte probativa. In questo contesto si
mostrò necessaria l’opera di Melchior Cano (1509-1560) che, nel suo De locis theologicis,
pubblicato dopo la sua morte, individuava le diverse fonti di conoscenza (la Sacra Scrittura, la
Tradizione, la Chiesa ecc.) dalle quali la teologia attinge i principi dai quali deduce le conclusioni
teologiche. Tale lavoro sulle fonti veniva indicato da Cano come “positio principiorum”, da cui il
nome di teologia positiva51.
Più in particolare, Cano individuava dieci fonti di conoscenza (i loci):
46
Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 5, ad 2 e 8, ad 2.
CHENU, M.D., Introduzion à l'ètude de S. Thomas d'Aquin., Paris 1950, 158 (citato in PESCH, O.H., op. cit., 159).
48
Seckler mette in evidenza come per Tommaso il punto supremo della conoscenza di Dio sia il sapere che non lo
conosciamo; cosa questa che si evidenzia palesemente con l'incompiutezza della sua opera maggiore (S ECKLER, M.,
«Tommaso d'Aquino e la teologia», cit., 83-84).
49
Cf. PESCH, O.H., op. cit., 174-177; TYN, T., «Lo studio della teologia sotto la guida di San Tommaso», in
Sapienza 1(1986)35-37.
50
Cf. KERN, W.-NIEMANN, F.J., op. cit., 45-49; WALDENFELS, H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo
contemporaneo, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 593-594.
51
Cf. PANNENBERG, W., Epistemologia e teologia, Brescia 1975, 230-231.
47
14

Due costitutivi della Rivelazione: Sacra Scrittura e Tradizione.

Cinque interpretativi della Rivelazione: Chiesa cattolica, Concili, Chiesa romana (=papa), Padri,
Teologi scolastici.

Tre impropri: Ragione umana, Filosofi, Storia umana.
A loro riguardo è da notare che con Chiesa cattolica si intendeva la coscienza di fede della Chiesa
universale e che con i tre “luoghi” impropri – che nella terminologia odierna si possono indicare
con scienze umane, naturali e sociali – riconosceva che la teologia doveva tener conto anche dei
risultati di altre discipline.
I limiti di questa visione derivano dal fatto che Cano considerava il locus come qualcosa di
esterno al teologo, di distinto e separato da lui. Un luogo esterno dal quale estrarre la conoscenza
teologica e non un luogo in cui è presente anche il teologo. Non «la condizione trascendentale che
prima ancora che s’incominci a fare teologia esiste come possibilità stessa della teologia e ne
connota sempre la riflessione»52. Questa riflessione, sulle condizioni aprioriche, soggettive,
dell’attività teologica, avrà inizio solo nell’età contemporanea dopo Kant e aprirà nuovi spazi per un
nuovo rapporto con una razionalità scientifica nuova.
Per concludere bisogna infine notare che questa impostazione di Cano ha avuto una grande
influenza sulla teologia nel periodo intercorrente tra i due Concili Vaticani, soprattutto per quanto
riguarda l’impostazione dei libri di testo dell’insegnamento cattolico (“manuali”) usati nelle
università cattoliche e nei seminari in tutta la prima parte del ventesimo secolo 53. In tali testi il
teologo dogmatico cercava la comprensione di ciò che si crede partendo, prima di tutto,
dall’insegnamento del Magistero recente della Chiesa su un determinato punto e andando, poi, a
cercare “a ritroso” le origini di questo insegnamento nelle fonti originarie (Scrittura e tradizione). Il
metodo “regressivo” di questa teologia, che si allontanava sensibilmente dalla più ampia visione
tommasiana, era stato successivamente ratificato da papa Pio XII nell’enciclica Humani generis
(1950).
In questo modo la “teologia positiva” di Cano veniva ripresa e riattualizzata, in quanto il
magistero della Chiesa assumeva il rango di primo fra i loci della teologia, almeno nella sua fase
positiva. A questa fase seguiva la fase riflessiva o “speculativa” in cui la mente cercava una
comprensione ulteriore di ciò che si sostiene.
52
53
KERN, W.-NIEMANN, F.J., op. cit., 49.
WICKS, J., Introduzione al metodo teologico, cit., 25-28
15
3.2 Teologia come scienza della fede: l’oggetto
Formalmente l’oggetto della teologia è Dio54. Dio è il tema, l’istanza della teologia e, viceversa,
ogni parlare di (su) Dio è teologia. Questo sia nel senso proprio del termine (il problema di Dio), sia
nel senso “economico”, cioè l’uomo e il mondo in quanto relazionati a Dio.
Fonti di tale conoscenza di Dio sono poi la rivelazione e la ragione, con la prima in netta
prevalenza sia per quanto riguarda la portata conoscitiva sia come criterio di verità. La teologia
vuole quindi essere essenzialmente e primariamente una conoscenza secundum revelationem che,
qualora voglia concepirsi anche come scienza, deve necessariamente prendere in considerazione
anche il principio della ragione.
Se teniamo poi conto che base e fondamento degli avvenimenti rivelativi racchiusi nella storia
biblica è la parola di Dio che, sostanzialmente, è Dio stesso nell’evento della sua autorivelazione55,
della sua auto-comunicazione all’uomo per la sua salvezza (e non solo informazioni su di essa e su
Dio), si può anche dire che l’oggetto della teologia è la parola di Dio; termine questo che, parlando
di conoscenza, sembra più consono del termine “rivelazione” ad esprimere la dimensione cognitiva
della auto-comunicazione salvifica di Dio, il suo carattere di Logos 56.
E’ da notare che dicendo che Dio o la sua parola sono l’oggetto della teologia non si intende
ovviamente negare la non-oggettivabilità primaria di Dio e della sua parola, ma si intende porre
l’accento sul fatto «che Dio “sta di fronte” all’uomo, gli si oppone, anzi lo contrad-dice, non
scompare nella soggettività dell’uomo (...) L’“oggettività” della parola di Dio sta perciò anche a
54
Per quanto diremo in questo e nel prossimo paragrafo vedi soprattutto: S ECKLER, M., «La teologia come scienza
della fede», cit., 218-247; 266-279; ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 57-64; ALSZEGHY, Z. - FLICK, M., Come si fa
4
teologia, Cinisello Balsamo (MI) 1990 , 24-30; VAGAGGINI, C., «Teologia», in Nuovo Dizionario di Teologia, Cinisello
5
Balsamo (MI) 1985 , 1674-1694.
55
Va notato, a ragion del vero, che W. P ANNENBERG non condivide la posizione di quanti intendono la rivelazione
divina, l'auto-rivelazione di Dio, in termini di parola di Dio. Infatti le diverse concezioni bibliche della parola di Dio,
non hanno immediatamente Dio per contenuto. Per Pannenberg si dovrebbe affermare che Dio si rivela tramite la
mediazione del suo agire storico. «La divinità del Dio della promessa si rivela soltanto quando ciò che egli ha promesso
conoscerà il trionfale compimento, come è vero anche che la promessa è la condizione perché, nell'adempimento di ciò
che è stato promesso, si possa conoscere il modo d'agire del Dio della promessa» (ID., Teologia sistematica 1, Brescia
1990, 278).
Dio si rivela quindi nella storia umana e, definitivamente, solo alla fine della storia. Ma grazie a Cristo, vera
"parola di Dio", in quanto piano divino della creazione e della storia e rivelazione degli ultimi tempi, tale fine ci viene
anticipata e la rivelazione completata, anche se ancora aperta alla futura conferma (Cf. Ibid., p. 292).
56
O.H. PESCH mette in evidenza che il preferire il concetto di “parola di Dio” a quello di “rivelazione”, pur non
essendo una necessità, «rappresenta una decisione terminologica oggettivamente conveniente. Infatti la Sacra Scrittura
pone chiaramente l'accento (...) sulla rivelazione di Dio nella sua parola e mediante la sua parola. Nella
pluridimensionalità, che la connota, la “parola di Dio” esprime perciò l'autocomunicazione di Dio nel suo carattere
specifico di evento intelligibile. Di conseguenza è estremamente conveniente indicare il principio della conoscenza
teologica col concetto di “parola di Dio”» (ID., «La parola di Dio principio oggettivo della conoscenza teologica», in
KERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed., Corso di Teologia Fondamentale, IV, cit., 30-31).
16
significare che noi non ne possiamo fare quel che vogliamo (...) significa che la Chiesa e la teologia
non ne possono disporre»57.
La parola di Dio però non è in sé mai oggettivabile e a noi giunge solo sotto forma di
oggettivazioni storiche mediate che la rappresentano nel suo carattere di logos, nella sua dimensione
cognitiva, ma che non si confondono mai con essa. Ciò vale anche per le enunciazioni della Bibbia,
anche se dottrinali, e, soprattutto, per gli scritti interpretativi che da lei sono nati. Tali
oggettivazioni, che nel loro complesso rappresentano il contenuto della fede (fides quae), non sono
la parola di Dio, che in quanto tale non è mai scritta, ma sue mediazioni storiche58.
In concreto quindi, data la non-oggettivabilità primaria, diretta, della parola di Dio, noi abbiamo
a che fare con la parola di Dio nella fede del popolo di Dio, cioè con ciò che nella Chiesa,
nell’esperienza di fede, venne e viene percepita e riconosciuta come parola di Dio nella storia degli
uomini. La parola di Dio si rende presente, si oggettivizza, si incarna nel contenuto della fede della
Chiesa e quindi la fede, nel senso di ciò che nel “credo” vitale della comunità cristiana (fides qua)
viene oggettivamente visto e affermato (fides quae), è l’oggetto (prossimo) della teologia, l’oggetto
autentico della conoscenza teologica59.
Da quanto detto sopra, risulta evidente che la teologia riceve il suo oggetto da una attività ad
essa antecedente e pre-scientifica, che si chiama “fede”. La quale, a sua volta, rende presente,
oggettivizza e incarna la realtà chiamata “parola di Dio”. Ne segue che la teologia, a differenza p.
es. della teologia filosofica, non può plasmare il suo oggetto in maniera arbitraria, visto che non è
stata lei a costituirlo, e che pertanto non può parlare di Dio in modo dissimile da come egli stesso si
è manifestato nella sua parola, che la raggiunge nella fede della comunità.
La parola di Dio non è perciò solo l’oggetto (remoto) della teologia, ma deve, per così dire,
divenire anche il suo contenuto, nel senso che nel suo parlare su Dio deve, per quanto possibile a
parole umane, risuonare la parola stessa di Dio resa, dal lavoro teologico, significante per l’uomo
d’oggi.
In questa dipendenza assoluta della teologia dalla parola di Dio, si può comprendere la
definizione della teologia come scienza subordinata (alla scientia Dei) che proviene dalla scolastica.
Questo però non significa che la teologia, causa la sua partecipazione alla scientia Dei, comunichi
lo stesso pensiero di Dio, il suo punto di vista.
57
Ibid., 34.
Ibid., 34-35.
59
Cf. Ibid., 38-39. O.H. PESCH mette invece in evidenza che la fides quae non è da identificare con il depositum
fidei, (p. es. Bibbia, dogmi, tradizione di fede vincolante) in quanto, in tal caso, essa corrisponderebbe al concetto
riduttivo, neoscolastico, di tradizione intesa come istruzione. La fides quae invece è un concetto ideale tipico (e in
quanto tale normativo), corrispondente a un concetto della rivelazione e della parola di Dio inteso come
autocomunicazione, indicante piuttosto quel che la Chiesa deve credere (non ciò che essa di fatto crede) e a cui perciò
tende la fede formulata dalla Chiesa
58
17
Essa, infatti, pur rimanendo valido il principio di corrispondenza, è e rimane sempre opera
umana, fatta da uomini per uomini, in quanto, come abbiamo visto, già la stessa parola di Dio non è
a disposizione dell’uomo in formulazioni dottrinali divine e assolute ma sempre storiche e
contingenti. A noi, cioè, la parola di Dio si rende presente solo in oggettivazioni storiche mediate 60,
che non trasmettono solo la parola di Dio (il suo carattere di logos) ma anche la deformano e la
travisano61.
La teologia, poi, è opera umana anche perché una sua componente è completamente umana,
cioè costituita dal metodo e dalla ragione. Qui, però, va subito notato che con ragione non si intende
una funzione puramente strumentale che, come nella scolastica, abbia il compito di dedurre dai
principi rivelati le debite conclusioni. La ragione ora è fonte di conoscenza, non una funzione cieca,
ma efficace capacità di cogliere attivamente la verità dell’oggetto della fede.
L’oggetto della riflessione teologica viene quindi a includere il soggetto stesso caricandosi la
sua storicità.
3.3 Teologia come scienza della fede: il fine
La fede non è solo la condizione che rende possibile la conoscenza (fides qua) e l’oggetto della
teologia (fides quae), ma è anche il suo fine. Nel senso che la teologia, dato il carattere di logos
della auto-comunicazione divina, vuole giungere a una comprensione della fede (intellectus fidei)
capace di una sua elaborazione in termini dottrinali e di una sua esposizione completa e sistematica.
In una formulazione che sia sempre nuova e adeguata a far da guida alla vita di fede e alla
predicazione, in modo cioè da non ridurre la conoscenza teologica a mera teoria informativa sulla
realtà salvifica, ma capace di mettere in contatto l’uomo d’oggi con la parola di Dio che è Dio
stesso nella sua auto-comunicazione salvifica62.
Nello svolgere questo compito però, una teologia che voglia essere una riflessione scientifica
sulla fede (della Chiesa), dovrà adottare necessariamente un metodo argomentativo rigoroso e non
lo svolgerà solo pensando con “fede e devozione”. Infatti «il teologo.(...) non può occupare la
propria cattedra d’insegnamento né come profeta né come demagogo, tanto meno come
60
L'autore fa presente che una teologia che voglia comunicare all'uomo odierno una verità capace di alimentare la
fede vissuta, deve individuare la parola di Dio nelle seguenti oggettivazioni della tradizione ecclesiale: il messaggio
biblico quale testimonianza originaria della fede, le sue interpretazioni e concretizzazioni storiche e la loro presenza
invitante alla fede nella predicazione e nella dottrina della Chiesa odierna, nella predicazione quotidiana così come in
quella solenne (Ibid., 41).
61
Ibid., 41-42.
62
Cf. Ibid., 31, 35. A. JÄGER mette in evidenza il motivo profondo che spinge l'uomo, messo esistenzialmente in
questione dalla realtà di Dio (il problema di Dio), a rispondere “investigando e imparando”: «All'amore appartiene
anche che io mi informi sulla persona amata» e pertanto «la teologia come riflessione si fa anche sotto l'aspetto pratico,
18
rappresentante di superstizioni irrazionali»63. La teologia deve divenire cioè, da questo punto di
vista, “atea” come le alte scienze, nel senso che dovrà parlare di Dio senza far ricorso a Dio per
spiegare le sue asserzioni. «Le supposizioni, le opinioni, le proposizioni di fede e confessionali
ipotetiche ecc. hanno perciò nella scienza della fede il medesimo status scientifico e non scientifico
che hanno in qualsiasi altra scienza»64.
Le proposizioni di fede normative, in quanto tali, non saranno quindi, formalmente, parte della
scienza della fede ma faranno parte dei suoi presupposti (a meno che non siano di carattere
argomentativo). E, viceversa, le proposizioni scientifiche relative alla fede non saranno,
formalmente, proposizioni di fede, in quanto il loro valore dipende esclusivamente dal fatto che si
possa o non si possa dimostrare che sono corrette interpretazioni della fides quae, fatte a partire
dalle oggettivazioni che la rappresentano (la Bibbia, le sue interpretazioni ecc.).
Una teologia che poi voglia essere veramente una scienza della fede e non solo ammantata di
scientificità, non potrà poi limitarsi a descrivere, articolare, sistematizzare ciò che di fatto è già
contenuto nella coscienza ecclesiale della fede, ma dovrà assolvere un compito critico nei riguardi
delle stesse testimonianze fondamentali della fede. Una teologia veramente scientifica dovrà perciò
avere non solo compiti descrittivi ma anche normativi.
Nel fare ciò, però, la teologia non agisce esternamente alla Chiesa ma come sua propria parte,
anzi, si può dire che il vero soggetto del teologare è la Chiesa stessa. Infatti, la teologia parte dalla
testimonianza di fede della comunità che la pone a contatto con la parola di Dio (senza però mai
scomparire65), per poi, eventualmente, retroagire sulle stesse testimonianze a partire da questa (la
parola di Dio) e lasciando, in ogni caso, alla comunità il compito di legittimare il lavoro teologico,
riconoscendolo come espressione della propria fede (tramite il Magistero).
Da quanto detto, risulta evidente che in caso di conflitto tra principi della ragione e principi
della fede (che in teoria non dovrebbero contraddirsi), il criterio ultimo di verità è costituito dalla
fede della Chiesa (norma prossima) e dalla parola di Dio (norma suprema ma remota, in quanto
giunge a noi mediata dalla Chiesa), o, se si vuole, dalla parola di Dio nella fede del popolo di Dio.
Ciò non significa togliere ogni valore ai criteri di ragione (la teologia non sarebbe più scienza
della fede), ma cercare di rimediare alla storicità della ragione (quindi a una ragione imperfetta) in
ma non soltanto. Essa avviene dall'inizio alla fine a motivo dell'oggetto (...) L'amore non ha altri interessi, così anche
tale amore verso questo oggetto» (Il coraggio di fare teologia, Genova 1992, 53-54).
63
SECKLER, M., Teologia Scienza Chiesa, cit., 50.
64
SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», cit., 243.
65
M. SECKLER parla a proposito del legame teologia - parola di Dio in termini di immediatezza mediata, nel senso
che alla teologia la parola di Dio giunge sempre attraverso la mediazione della comunità ecclesiale che, pur mettendoci
in contatto con la parola di Dio, non può mai scomparire dal nostro orizzonte conoscitivo e deve sempre essere pensata
assieme alla “cosa” mediata (Ibid., 250).
19
modo consono alla scienza della fede, cioè mediante un abbandonarsi cosciente, della ragione, alla
fede. Cosa questa che può permettere l’aprirsi di spazi che prima sembravano impensabili66.
Naturalmente, anche optando per questa scelta non si può essere matematicamente sicuri che la
verità sia stata effettivamente raggiunta, in quanto è sempre possibile che venga fatta prevalere non
la parola di Dio ma una sua falsa concezione teologica.
La ragione è quindi storica e perciò incapace di fornire un criterio che permetta di riconoscere
con certezza la verità ma neanche la parola di Dio è in grado di farlo, in quanto è a disposizione
dell’uomo solo attraverso espressioni storiche e contingenti, e mai attraverso espressioni divine e
assolute. Non esiste quindi, a tuttora, un criterio di verità assoluto67.
Da quanto detto risulta infine implicito che la teologia nell’indirizzarsi verso il suo fine di
intelligenza della fede, non potrà costruire un edificio spirituale, un sistema interpretativo che sia
metatemporale e assoluto.
Nella concezione scolastica, la teologia era considerata una ricostruzione della scientia Dei, che
Dio ha manifestato con la rivelazione e, pertanto, in grado di elaborare una dottrina della fede che in
fondo fosse metatemporale68.
Oggi invece la teologia è cosciente che pur essendo strettamente legata e dipendente dalla
parola di Dio, è opera umana, è teologia umana non divina, ed è perciò consapevole che tutte le
espressioni relative a Dio non possono essere che tentativi di oggettivazione di ciò che possiamo
definire come “fides quae”69 della comunità ecclesiale e che portano tutto il peso della relatività
storica70.
Usando altri termini, si può anche dire che la teologia ha un compito ermeneutico in quanto,
partendo dai testi della tradizione ecclesiale – che, nel senso indicato sopra, possiamo dire che
rappresentano (senza però esaurire completamente) la “fides quae” –, cerca di ritrovare in questi
l’esperienza fondamentale d’una salvezza offerta da Dio in Cristo – cioè la “fides quae” data
66
Quanto detto non vuole sminuire l'autonomia delle scienze razionali, in quanto queste ultime hanno in sé la
capacità di rimediare alla storicità della ragione mediante analisi successive.
67
Cf. SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», cit., 246-247.
68
Come visto precedentemente, per Tommaso, conformemente al paradigma aristotelico, la teologia scientifica
partiva da dati certi, rivelati direttamente da Dio e risalenti agli apostoli (gli articoli del credo).
La metodologia neoscolastica poi, a differenza della proposta di Cano che è molto aperta alla teologia positiva e
allo studio storico delle fonti (allora nuovamente in auge), «inquadra i diversi “loci” in un ordinamento rigoroso, li
mette in relazione al magistero e li subordina ad esso. Ora la teologia procede dalla “norma proxima”, dalle asserzioni
autoritative del magistero; la Scrittura e la tradizione sono “normae remotae”, che servono a legittimare le affermazioni
magisteriali» (KASPER, W., «La prassi scientifica della teologia», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J, - SECKLER, M., ed.,
op. cit., 296). Si noti come anche in questo caso l'assunzione del metodo “dogmatico” da parte della teologia,
corrisponda alla assiomatizzazione e metodizzazione del pensiero moderno. Cosa questa che indica come la teologia sia
fortemente legata al “paradigma culturale” del tempo.
69
Nel senso, cioè, di ciò che la comunità deve credere e non di ciò che effettivamente crede. Vedi a tal proposito la
nota 59.
20
veramente in partenza e normativa di tutte quelle oggettivazioni della tradizione che solamente la
rappresentano – e cerca di riproporla in una nuova oggettivazione, in modo tale che la comunità
ecclesiale la riconosca come una rappresentazione della sua fede (fides quae) formulata in modo da
essere comunicabile all’uomo odierno come verità capace di alimentare una fede vissuta. Più
esattamente, quindi, il sapere della teologia andrebbe indicato come sapere ermeneutico oggettivo,
in quanto sempre legato, dipendente e “delimitato” da quella “fides quae” rappresentata nelle
oggettivazioni della tradizione ecclesiale.
Il risultato interpretativo sarà poi necessariamente storico in quanto risposta a una domanda, a
un’ipotesi interpretativa, che noi abbiamo posto a partire dalla nostra situazione storica e dalla
nostra attuale esperienza dell’esistenza umana71.
Inoltre, va poi sottolineato come questo compito ermeneutico sia contemporaneamente e
sempre anche compito critico in quanto non tutto quello che è stato trasmesso nei testi della
tradizione ecclesiale è semplicemente parola di Dio, e bisogna pertanto effettuare la non facile
separazione fra la “cosa” e il modo di comprendere e di dire che sono storicamente condizionati.
In definitiva si può quindi dire che «il lavorio per capire in maniera oggettiva e adeguata alla
situazione e per discernere criticamente non ha mai fine nella conoscenza teologica, e precisamente
a motivo della specificità della parola di Dio, che ci è data solo in oggettivazioni storiche mediali»72.
3.4 Teologia come scienza della fede: i “legami” della fede e della Chiesa
La teologia si presenta come una funzione della comunità credente che, per mezzo di essa, mira a
comprendere la propria fede, a giungere all’intelligenza della fede73.
Ciò, se da un lato mette in evidenza l’apertura di principio alla ragione e, quindi, al desiderio di
voler dare alla teologia una struttura scientifica non solo formale ma essenziale74, dall’altro dice che
la teologia ha una sua soggettività che si chiama fede e che è al contempo suo presupposto, oggetto
di ricerca e meta finale. Inoltre, essa è legata a una comunità credente che la considera come una
propria funzione e che, pertanto, vuole riconoscerla sempre come propria espressione.
La teologia appare, quindi, come una scienza “legata”, sia internamente (soggettività della
fede), sia esternamente (regolamentazioni da parte della comunità ecclesiale) da vincoli che
70
PESCH, O.H.,«La parola di Dio principio oggettivo della conoscenza teologica», cit., 38-39.
Cf. GEFFRE, C., «Nouvelle pratique scientifique et pratique de la theologie», in Pontificia Univ. S. Tommaso,
ed., Teologia e scienze nel mondo contemporaneo, Milano 1989, 15-22.
72
PESCH, O.H., .,«La parola di Dio principio oggettivo della conoscenza teologica», cit., 42.
73
Per quanto diremo in questo paragrafo vedi soprattutto: SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in
op. cit., 247-265; ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 226-228; 260-267; ALSZEGHY, Z. - FLICK, M., Come si fa la
4
teologia, Cinisello Balsamo (MI) 1990 , 30-52; KERN, W. - NIEMANN, F.J., op. cit., 29-34.
74
Tale cioè da dar spazio alla ragione come fonte di conoscenza e criterio di verità.
71
21
sembrano estranei al concetto di scienza e di scientificità, ma che non possono essere tolti se non si
vuole farle perdere la sua identità e tutto il peso che le deriva dal fatto che influisce sulla comunità,
che le è fondamento, non dall’esterno ma dall’interno.
Infatti, se si vuole fare un discorso su Dio a partire dalla sua parola è necessario avere
quell’atteggiamento di apertura (fides qua) che permette di cogliere ciò che sarà l’oggetto della
riflessione teologica, la fides quae , cioè, appunto, ciò che la comunità credente percepisce come
auto-comunicazione di Dio all’uomo per la sua salvezza 75.
Ciò è indubbiamente vero da un punto di vista personale, in quanto dà la possibilità al teologo
di sperimentare ciò di cui vuole parlare. Ma quella a cui ci si riferisce quando si parla di soggettività
della fede, non è la soggettività del singolo, la sua illuminazione personale ed esistentiva che può
condurlo fino alla visione mistica, ma la soggettività superindividuale della comunità cristiana, la
fede cristiana. Questa è una soggettività che potremmo dire “oggettiva”, in quanto il singolo la
trova già esistente e ad essa deve aderire.
Una soggettività di questo tipo, che non è il soggettivismo del singolo, pone la teologia in
buona compagnia in quanto ogni scienza parte da una fede, da presupposti prescientifici evidenti o
occulti76 che rendono possibile la sua esistenza. La teologia si distingue da altre scienze in quanto
evidenzia chiaramente i suoi presupposti prescientifici, i quali poi, oltre tutto, divengono anche
oggetto del suo lavoro.
Da quanto detto emerge come la teologia non sia un’impresa privata. Il teologo non è un
filosofo della religione che , teoricamente e legittimamente, è responsabile solo nei confronti della
propria coscienza ma, articolando ciò che non è suo, ciò che riceve tramite la comunità ecclesiale 77,
è pure responsabile verso quest’ultima che, nel suo lavoro, deve poter riconoscere l’espressione
della propria fede e ne diviene quindi la norma prossima78.
Pertanto, il legame con la Chiesa è, per la teologia, ineliminabile, se non si vuole eliminare la
teologia stessa facendola divenire una filosofia della religione.
Il fatto, poi, che la teologia, esplicitamente e chiaramente, riconosca l’esistenza di un legame,
che è intrinseco alla propria struttura, non implica necessariamente che la teologia sia qualcosa di
75
A tal proposito P. NEUNER mette in evidenza come «la fede va vista nella cornice della conoscenza ermeneutica.
Qui vale in linea generale il principio che bisogna entrare nel circolo ermeneutico per vedere quel che c'è da vedere (...)
Qui lo spettatore distaccato non può essere considerato l'ideale dell'oggettività, perché egli sta fuori dalla cornice entro
la quale soltanto è possibile la conoscenza ermeneutica» (ID., «La fede principio soggettivo della conoscenza
teologica», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J, - SECKLER, M., ed., op. cit., 58).
76
P. es., comune a ogni scienza è l'atto di fede nella razionalità, nell'intelligibilità del mondo.
77
E' la Chiesa nel suo complesso che dà la testimonianza della fede, non solo il magistero gerarchico che, anche se
in caso di conflitto può autoritativamente decidere, è, nel testimoniare la fede, una parte della Chiesa e non tutta la
Chiesa.
78
Una affermazione di questo tipo non è in contraddizione con la legittimità del dissenso. Infatti, la testimonianza
di fede della Chiesa è si normativa, ma storica e sempre subordinata alla norma suprema che è la parola di Dio con la
quale pone in contatto.
22
speciale nell’universo scientifico, in quanto è vera utopia il pensare l’esistenza di una scienza
“pura”, priva di legami e condizionamenti esterni manifesti od occulti79.
Il problema, pertanto, non è il vedere se la teologia sia “libera” dalla Chiesa, il che, come visto,
è impossibile poiché parte integrante della sua struttura, ma se la teologia è libera nella sua prassi
scientifica, cioè se è in grado di soddisfare alle esigenze oggettive che le provengono dal voler
essere una scienza di fatto e non solo di nome.
La Chiesa media la parola di Dio (oggetto della riflessione teologica) e giudica i risultati del
lavoro teso ad articolare la sua fede ma, nell’attuare tale lavoro, una teologia che voglia dirsi
scientifica dovrà essere libera di seguire una prassi che sia appropriata a tale nome.
3.5 Considerazioni finali: teologia come scienza delle fede e scienze
Alla pari delle scienze empiriche che scoprono ogni giorno sempre di più la complessità e
l’inafferrabilità del loro oggetto, anche la teologia si trova – ma da sempre – di fronte a un oggetto
che non è direttamente percepibile e che, pur essendo fondamento e condizione a priori di ogni
esperienza, trascende ogni singola esperienza e rimane mistero. Un oggetto particolare, senza il cui
intervento non solo non si può parlare e affermare qualcosa, ma neppure interrogarsi su di lui.
Infatti «la questione si mette in cammino mentre il mio pensiero – e quindi io stesso – sono messo
in questione da parte dell’investigato. Dio chiede: “Dove sei, Adamo?”. La mia investigazione su
Dio è la risposta esistenziale proprio di chi è stato messo in questione. La realtà di Dio, l’oggetto,
mette in moto tutto il pensiero, le domande e il parlare. Il motivo, il motore della teologia è Dio,
non l’uomo. La risposta sufficiente alle mie domande esistenziali ed intellettuali è la realtà di Dio,
che vuole farsi presente nella parola»80. Ed è grazie a questa parola, a questa auto-comunicazione
divina, che la teologia può cercare di conoscere e di parlare del suo oggetto. Poiché se è vero che di
fronte al mistero di Dio il tacere è l’unica risposta adeguata, è vero anche che «all’amore appartiene
anche che io mi informi sulla persona amata. Investigare-imparare diventa così la capacità
dell’amore verso l’oggetto. Con grande amore verso l’oggetto (...) posso senz’altro diventare
eloquente, anche se si tratta solo di un balbettare»81.
La teologia, intesa come scienza della fede, è oggi però perfettamente cosciente di non essere
più la “regina” delle scienze, che trasmette agli uomini il pensiero stesso di Dio, ma di poter solo
79
Feyerabend nota a tal proposito che «una scienza indipendente ha smesso di esistere già da molto tempo ed è
stata sostituita dal business scienza, che è alimentato dal denaro dei contribuenti e che rafforza le tendenze totalitarie
della società sotto la copertura di un liberalismo di facciata» (F EYERABEND, P.K., «La democratizzazione della
scienza», in BRIANESE, G., ed., “Congetture e confutazione” di Popper e il dibattito epistemologico post-popperiano,
Torino 1988, 177).
80
JÄGER, A., op. cit., 53.
23
offrire nuove oggettivazioni di ciò che la comunità credente in tutto il corso della sua lunghissima
storia (non la soggettività del singolo) – nel suo investigare seguito al sentirsi messa
esistenzialmente in questione da Dio (fides qua) – ha percepito e percepisce come parola salvifica di
Dio (fides qaue), al fine di giungere a una intelligenza della fede che possa essere comunicata
all’uomo odierno come verità capace di alimentare una fede vissuta, cioè come verità capace di
mettere in contatto con l’autocomunicazione salvifica di Dio.
Praticamente questo compito viene svolto tramite un procedimento emeneutico che partendo
dalla nostra attuale esperienza del mondo cerca di ritrovare, nei testi della tradizione ecclesiale che
oggettivizzano la fides quae, l’esperienza fondamentale della salvezza offerta da Dio in Cristo – il
procedimento deve essere quindi necessariamente anche critico, visto che la storia ci tramanda la
parola di Dio tramite la parola umana storicamente condizionata – al fine di stabilire un legame tra
l’esperienza cristiana fondamentale e la nostra esperienza attuale. Tale lavoro teologico, in quanto
risposta a una nostra domanda, nata all’interno del nostro paradigma culturale, cioè nella nostra
situazione sociale, economica, politica e culturale, sarà evidentemente storico, quindi parziale e
provvisorio.
Si può pertanto dire che «al pari dello scienziato, il teologo lavora partendo da ipotesi, da
tentativi, da sistemi interpretativi. E nella sua incessante ricerca di una verità verso cui tende ma che
mai possiede, procede eliminando e rigettando le congetture non fondate»82.
Certamente le affermazioni teologiche non possono sottostare al criterio di verificabilità
(falsificabilità) alla pari delle teorie empiriche, visto che le affermazioni centrali della fede sono per
definizione indimostrabili o infalsificabili (almeno in “questo mondo”). Ma non per questo non si
possono, a partire dai “dati” della Scrittura e della tradizione ecclesiale, avanzare nei loro confronti
argomentazioni razionali che siano pro o contro e che possono portare al rifiuto di un’ipotesi
interpretativa.
La situazione è in fondo simile a quanto avviene per la teoria della evoluzione biologica che,
non avendo capacità predittive, non può essere sottoposta a verifica e, pertanto, nei suoi confronti si
possono solo portare argomenti pro o contro a partire dai fatti conosciuti. Per tale motivo Popper
non la considera scientifica, cioè empirica.
Guardando all’interno delle scienze umane si potrebbe dire che il suo sforzo è paragonabile allo
sforzo che facciamo per comprendere la personalità altrui che, essendoci fondamentalmente
inaccessibile, per quanto diciamo di conoscere non potremo mai prevedere esattamente nelle sue
81
Ibid., 53.
GEFFRE, C., op. cit., 22: «Tout comme le scientifique, le théologien travaille donc à partir d'hypothèses, d'essais,
de systèmes d'interprétation. Et dans sa quête incessante d'une vérité visée et jamais possédée, il procède par
élimination et reject de conjectures non fondées».
82
24
reazioni. Potremo avere motivazioni per abbracciare un’ipotesi interpretativa piuttosto che un’altra
ma, essendo la nostra conoscenza sempre parziale, nessuna di queste motivazioni ci potrà
assolutamente garantire che le cose andranno effettivamente così83.
Anche la teologia è quindi impegnata in una ricerca, senza fine, di una realtà che rimane
sempre mistero, ma si mostra capace, non di meno, di formulare delle ipotesi, dei “modelli”
interpretativi che, pur non esprimendo l’Ineffabile, dicono però sempre quelle parole che sono
necessarie per indirizzare nella direzione che permette di cogliere, al loro svanire, la realtà
indecifrabile84 .
83
Cf. POLKINGHORNE, J., Scienza e fede, Milano 1987, 58-60.
P. RICOEUR, secondo cui i modelli teorici scientifici corrispondono a ciò che nel linguaggio poetico è la
metafora, nota invece che, nella teologia, quest'ultima si differenzia dall'analogia (a. entis). Infatti «il concetto di
analogia viene ad assumere una funzione trascendentale; contemporaneamente non ritorna più alla poesia ma mantiene
nei suoi confronti lo scarto di partenza, quello prodotto dalla domanda: che cos'è l'essere?» (ID., La metafora viva,
Milano 1981, 355). A tal proposito si legge anche: «l'una (l'analogia) si basa sulla predicazione di termini
trascendentali, l'altra (la metafora) sulla predicazione di significati che portano con sé il loro contenuto materiale»
(Ibid., 372).
84
25
Bibliografia essenziale
4
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JÄGER, A., Il coraggio di fare teologia, Genova 1992.
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5
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26