rassegna stampa n.10-2014 - Gruppo Fotografico Antenore

GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi
RASSEGNA STAMPA
Anno 7o- n.10 Ottobre 2014
Sommario:
Paul Strand, quando la fotografia è arte……………………………………………………………pag. 2
L'America perduta di Dennis Hopper…………………………………………………………………pag. 3
Ritratti molari, ritratti mentali……………………………………………………………………………pag. 6
Tra i partigiani del Polesine, la fotografia morbida di Dondero.………………………..pag. 8
Anti-Selfie Movement. Selfie, il boom è finito……………………………………………………pag. 15
La foto-inflazione che svaluta le parole…………………………………….………………………pag. 17
"I cortili sono nostri", la fotografie è bambina.…………………………………………………pag. 19
Perché Shiva è più potente della fotografia………………………………………………………pag. 20
Scattate fotografie orribili senza saperlo. Vi stanno ingannando………………………pag. 23
DEAPHOTOEXPO2014.……………………………………………………………………….………….……pag. 25
Con solo un geranio e un balcone..……………………………………………………………………pag. 26
Tadeus Rolke………………………………………………………………………………………………………pag. 28
Da Capa a Cartier-Bresson, la nascita di Magnum……………………………………………pag. 30
Franco Fontana, l'eretico della fotografia………………………………………………………….pag. 32
Cartoline dai bordi di un'utopia perduta……………………………………………………………pag. 33
Muray, il fotografo che amò Frida Kahlo in mostra a Genova.…………………………pag. 37
Addio a René Burri,: tra i suoi scatti Che Guevara e Picasso..…………………………pag. 38
Perché non parli?.………………………………………………………………………………………………pag. 40
Nino Migliori:"I giovani devono scoprire lo scatto di una bellezza da ritrovare"..…pag. 42
Trieste Photo Days, 14/23 Novembre….……………………………………………………………pag. 44
Un abuso relativamente semplice………………………………………………………………………pag. 45
Henry Cartier-Bresson a Roma la mostra dedicata all'artista francese……………pag. 48
Proviamo a farlo insieme……………………..……………………………………………………………pag. 51
Gianni Berengo Gadin - Eliott Erwitt..….…………………………………………………………..pag. 54
Disimparare a vedere. Una storia con l'orso.…………….…………………………………….pag. 56
L'amore per l'Italia nelle foto di Leonard Fred in mostra al C.C.Candiani.………pag. 58
Le grandi foto che René non fece………………………………………………………………………pag. 59
Da Capa a Cartier Bresson, la nascita di Magnum…..………………………………………pag. 61
Il Sale della Terra, un film di Julien Salgado, Wim Wenders…………………………..pag. 63
La fotografia del surrealista Jacques-André Boiffard a Parigi.…………………………pag. 65
Franco e Luigi, una Canon per due……………………………………………………………………pag. 66
Steve Mc Curry: oltre lo sguardo, una nuova mostra alla Villa Reale di Monza…..…pag. 69
Lewis Hine, l'umanità senza nome che ha fatto grande l'America……………………pag. 71
André Kertész, il pioniere della fotografia deformata.………………………………………pag. 72
Un caffè corretto al (Mc) Curry…………………………………………….……………………………pag. 75
Parlando di fotografia con Ferdinando Scianna..………………………………………………pag. 78
La nascita di Magnum…………………………………………………………………………………………pag. 80
Spalle al muro o sulle ginocchia?……….………………………………………………………………pag. 83
Il fotografo Ferdinando Scianna: "noi siamo le persone che incontriamo"…..…pag. 86
Il karma di Lisetta…….………………………………………………………………………………….……pag. 88
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Paul Strand, quando la fotografia è arte
da http://www.ansa.it/
FOTO STRAND
Grande esposizione a Philadelphia dal 12 ottobre
Il mondo della fotografia deve molto a Paul Strand (New York 1890 - Orgeval
1976). E non soltanto perché fu uno dei fotografi più rappresentativi del secolo
scorso o per la potenza espressiva delle sue immagini. Strand fu tra i primi a
considerare la fotografia una forma d'arte, spingendo al massimo le
potenzialità di questo medium che con la sua attività contribuì a far evolvere.
Alla sua opera omnia è dedicata la grande retrospettiva ''Paul Strand: Master
of Modern Photography'', che si aprirà il 21 ottobre al Philadelphia Museum of
Art e sarà allestita fino al 4 gennaio 2015. La mostra, grazie anche alla recente
acquisizione da parte del museo di oltre 3.000 stampe dal Paul Strand Archive,
analizzerà la carriera del fotografo lungo i sei decenni di professione: dagli
sforzi per rendere la fotografia autonoma rispetto a ogni altra arte (l'artista si
batté molto contro il predominio della pittura) fino all'approdo al cinema (da
''Manhatta'' a ''Native Land''), verrà evidenziato ogni aspetto del suo stile, per
restituire al visitatore un ritratto il più possibile esaustivo.
Un talento puro e artigianale quello di Strand, maestro del realismo e nell'uso
del bianco e nero, convinto sostenitore (insieme con il suo mentore Alfred
Stieglitz) della fotografia come emblema della modernità. Dagli scatti che
ritraevano la vita della strada e i suoi ''abitanti'' (come in ''Blind Woman, New
York'' e ''Wall Street, New York'') alle architetture e ai paesaggi naturali,
Strand fu capace con il suo obiettivo di far parlare la realtà per renderne sia
l'essenza che le sfaccettatura.
Ma è nei ritratti e nei reportage socio-antropologici che Strand espresse il suo
impegno politico, come dimostrano i viaggi che intraprese per ricercare sempre
nuovi soggetti da immortalare e grazie ai quali realizzò i suoi famosi fotolibri.
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Oltre agli Stati Uniti, visitò il Messico, dove visse dal 1932 al 1934, il Canada,
l'Italia (a Luzzara, raccontò la vita contadina nel dopoguerra insieme con
Cesare Zavattini, originario della cittadina, che scrisse il testo a corredo delle
fotografie) e il Ghana.
Testimone del mondo che stava cambiando davanti a lui, Strand ha reso la sua
macchina fotografia una lente d'ingrandimento per documentare fin nel
dettaglio l'evoluzione della società, ma anche lo spirito dei popoli e la struttura
del paesaggio. Il risultato è una fotografia pura, che mira dritta alla verità: per
chi guarda una continua scoperta, perché in ogni scatto si nasconde ogni volta
una nuova storia da raccontare.
L’America perduta di Dennis Hopper
di Arianna Di Genova da http://ilmanifesto.info/
Ike e Tina Turner
Con l’amarissima fine del film Easy Rider, Dennis Hopper, regista e interprete
di quella ballata per la libertà, sancì la caduta verticale dell’American Dream.
D’altronde, la guerra del Vietnam era al suo apice e la cavalcata sulle moto di
alcuni spiriti ribelli con capelli lunghi e giornate di vagabondaggio puro da
spendere attraversando gli Stati Uniti, non poteva che confluire nella tragedia
dietro l’angolo.
Anni dopo, lo stesso attore e cineasta che aveva inventato l’immaginario della
New Hollywood, corteggiato la cultura hippy, le droghe, le visioni allucinate
dell’lsd, predicato e praticato la sessualità senza catene, amato la musica rock,
in preda a uno dei suoi innumerevoli eccessi abbandonò la consueta spericolatezza politica per affiancarsi alla dinastia repubblicana dei Bush, trasformandosi in un tipo guerrafondaio e bigotto. Il suo mito si incrinò: l’ex adolescente
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alternativo di Gioventù bruciata infranse il cuore di molti fan e, alla fine, rimase
intrappolato anche lui in quella ragnatela fatale. Nel 2008, due anni prima di
morire, fece atto di pentimento e si schierò con Barack Obama: era troppo
tardi ormai e la sua stella radical, tutta genio e sregolatezza, si era offuscata
inesorabilmente.
A riabilitare la figura di un Dennis Hopper difficilmente classificabile fra i divi
mainstream, ci pensa ora la mostra inauguratasi presso la galleria Gagosian di
Roma, esponendo (fino all’8 novembre) alcune serie di fotografie che accompagnarono la quotidianità – letteralmente ora dopo ora – dell’attore e artista. Una
passione smisurata, un’ossessione quella per l’inquadratura e l’obiettivo da
puntare sulla realtà che dovette intuire anche uno come Francis Coppola: lo
scelse, infatti, per il ruolo del fotoreporter sedotto dal carisma del colonnello
Kurzt in Apocalypse Now, personaggio a cui Hopper consegnò gran parte della
sua effervescenza creativa, tendente a mimare la follia.
Scratching the Surface è la personale dedicata a quel ragazzo che già a 18 anni
scattava senza sosta («sono sempre stato un fotografo nervoso») perché fino
a quando non comparve la produzione di Easy Rider all’orizzonte (aveva 31
anni), il suo amore per la guida senza mèta, la mania di collezionare oggetti
trovati casualmente in viaggio, l’adorazione per gli artisti e musicisti, il dna di
«persona visuale», come gli piaceva definirsi, erano rimasti tutti impressi dentro i rullini della Nikon o delle macchine estemporanee che utilizzava. Poi, uscì
allo scoperto, vagò «on the road» e, idolatrando Kerouac, condivise con molti
della sua generazione l’illusione di un’America senza più frontiere, percorribile
secondo le proprie geografie sentimentali e non le leggi dettate dallo star
system.
Così, se quel film epocale può considerarsi un western contemporaneo dove al
posto dei canyon c’è la strada asfaltata e al posto dei cavalli, rombano le motociclette Harley Davidson Chopper, con gli alti manubri e le forcelle allungate
che penetrano il mondo, si può dire che le fotografie di Hopper rispondono
a quel medesimo desiderio di emancipazione e anarchico arbitrio per
un’esistenza «fai-da-te».
Non sono mai snapshot, come si potrebbe essere indotti a credere, viste le
attitudini del personaggio. Le istantanee, nella poetica hopperiana, erano proprio bandite: piuttosto, era interessato «agli aspetti formali della fotografia,
alla composizione, alle linee che creano un campo, una superficie, un muro…».
Attento al luogo – con un debole per i graffiti parlanti sparsi per Los Angeles –
oltre che alla persona, acuto osservatore dell’atteggiamento rivelatorio, Dennis
Hopper era in grado di cogliere quel famoso attimo di cui andava ragionando
Cartier Bresson. È un momento psicologico, un mood, una sintonia umana fra
osservatore e osservato. Timido di partenza — almeno così si descriveva —
Hopper usava la camera come uno schermo protettivo, per tenersi alla larga
dalle persone.
Era un originale filtro che poneva fra lui e gli altri. Ma la macchina fotografica
era anche una «membrana trasparente», un dispositivo emozionale adatto
a svuotare la mente e allertare i cinque sensi per annusare, ascoltare, toccare
e vedere intorno a sé. Non ritagliava mai le foto: una volta scelta
l’inquadratura giusta, sarebbe stata stampata così come era nata. Amava
Duchamp e la sua idea dei readymade. E condivideva la filosofica sparizione
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dell’autore. «L’artista del futuro sarà colui che punterà il dito davanti a sé
e indicando qualcosa dirà: ’quella è arte’», proclamava il padre del dadaismo
e Hopper era al suo fianco.
Vicino agli artisti pop — i bellissimi ritratti di Andy Warhol, Jasper John, Robert
Irwin, Oldenburg a una festa di matrimonio — Dennis Hopper era anche un collezionista compulsivo. Lo faceva per amicizia e per piacere: non è casuale la
comparsa del suo nome nella lista dei cento collezionisti più importanti del
mondo. L’ansia di documentare un’America diversa era finita anche sopra al
suo divano di casa.
Quel che cattura Hopper è l’everyday di personaggi divenuti poi leggendari,
icone del cinema (Peter e Jane Fonda ) o della musica (James Brown, Grateful
Dead). Ci sono anche gli States dei diritti civili, delle marce di protesta, di
Martin Luther King. L’immagine di Ed Rusha, davanti alla vetrina di un negozio
con elettrodomestici, è il manifesto culturale di una società in rapida mutazione antropologica.
Da Gagosian sono esposte, come fossero un mosaico scomposto per luoghi
e cronologie, le fotografie della fine anni Sessanta e primi Settanta, quelle
appartenenti alla serie Drugstore Camera, sviluppate nei laboratori anonimi,
«non luoghi» tipici dell’America di allora. E in mostra compaiono anche alcune
vintage prints dove Hopper immortala i suoi amici, i viaggi, gli oggetti che
andranno a comporre le nature morte. «Non ho mai guadagnato un cent con le
mie fotografie. Anzi, costavano soldi, ma mi tenevano in vita».
La prima macchina di buona qualità gliela regalò Brooke (avrà cinque mogli
e quattro figli). Cominciò a portarsela ovunque, tanto da essere ripetutamente
preso in giro dai conoscenti perché sembrava un perfetto turista in casa sua.
Alla galleria Gagosian di Roma, via Francesco Crispi 16, fino all'8 novembre orario: mar-sab ore 10.30-19.00 - Info: +39.06.42086498
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Ritratti molari, ritratti mentali
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Roger Ballen, da Asylum of the Birds, © 2014 Roger Ballen, g.c.
Simone De Beauvoir aveva fretta. «Quanto ci vorrà?», chiese incauta al
fotografo. Che per sua sfortuna era Henri Cartier-Bresson. «Un po’ più che dal
dentista, un po’ meno che dallo psicanalista», la fulminò il taciturno.
Be’, aveva mille volte ragione. Il ritratto fotografico sta in bilico fra quei due
estremi, la dolorosa estrazione di un molare (i francesi diconotirer le portrait) e
l’imprevedibile esplorazione dell’Io. In entrambi i casi, non è una festa
spensierata come sembra.
Il ritratto è il destino e la crisi della fotografia. Fa bene il Festival
Internazionale di Fotografia di Roma, diretto da Marco Delogu, ad affrontarlo
solo adesso, alla sua tredicesima edizione, ormai certo della conquistata
maturità. Dal dagherrotipo al selfie, il ritratto fotografico ha scosso le relazioni
umane di una società intera, figuriamoci un festival.
«Ma… può fare ritratti?» pare abbia chiesto il fisico Arago a Daguerre,
prima di annunciare la grande scoperta al mondo, giusti 175 anni or sono.
Rimase un po’ deluso dalla risposta, negativa, e nella sua prolusione
all’Accademia delle Scienze parigina assegnò alla fotografia mille splendidi
compiti, ma non quello.
E invece quello e soprattutto quello esigeva il secolo borghese: il suo
specchio di Narciso, rapido ed economico, come s’addiceva al carattere del
secolo pragmatico, e presto lo ebbe. Ritratti, ritratti per tutti, preziosi o seriali,
d’autore o dozzinali.
Come un sol uomo l’Ottocento tuffò il naso negli abbaini dell’infinito per
contemplare se stesso, poetizzò sprezzante Baudelaire. Per poterlo fare,
accettò torture fisiche disumane, lunghe pose con occhi lacrimanti sotto il sole
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di vetrata, la testa stretta in una morsa: e qui, s’era decisamente vicini
all’esperienza del dentista.
Poi un americano pratico, George Eastman, mise il lucernaio magico nelle
mani stesse dei ritrattandi, con le sue Kodak rubò la pratica del ritratto ai
professionisti e la trasformò in giocattolo domestico.
Oggi, lo specchio di Narciso è tascabile, danza sulla punta del braccio teso,
spara all’indietro; né autoritratto né autoscatto, il selfie è puro gesto, iscrizione
istantanea di sé nel mondo, da disseminare immediatamente nel mondo per
essere sicuri di starci ancora dentro: e ora siamo decisamente più vicini allo
psicanalista che al dentista.
Teatro della commedia umana, campo di battaglia, nel ritratto la fotografia
svela se stessa per quello che è: pura relazione fra gli uomini. Quando è in
mano a fotografi consapevoli di quel che fanno, diventa un viaggio alla
scoperta dell’Altro.
Al festival una collettiva di scatti di grandi autori (tra loro Antonio
Biasiucci, Piergiorgio Branzi, Bernhard Fuchs, Antonia Mulas, Paolo Pellegrin,
Guy Tillim…) declinerà questo viaggio in modi diversi.
Ma il ritratto non è solo un corpo-a-corpo fra un autore e una “vittima
consenziente” per citare ancora Cartier-Bresson, un attore che recita se stesso
incerto se essere come è, come crede di essere, come vuole che gli altri
credano che sia (e questo è Roland Barthes).
No, il ritratto è una delle pratiche antropologiche-sociali più crudeli e
selvagge. Se nelle foto di identità sembriamo tutti criminali ricercati, è perché
anche quella fu l’ambigua nascita del fotoritratto: moneta sociale per i ricchi,
gogna per i reietti.
Da vedere, in esposizione, i ritratti segnaletici degli anarchici rispolverati
dai faldoni dell’Archivio di Stato: imposizione di colpevolezza a mezzo di lastra
sensibile.
August Sander, Jungbauern auf dem Wege zum Tanz, 1914, g.c.
Finché un mite fotografo di Colonia di nome August Sander, trovò la via di
mezzo: il grande atlante dei tipi umani, Il volto del tempo (ne trovate in
mostra rari vintage), tassonomia umana entieroica che il nazismo
confusamente percepì pericolosa per i suoi miti übermensch, e mandò al rogo.
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Il ritratto fotografico, insomma, non è innocente. Forse non è
quell’«oltraggio assoluto alla dignità umana, mostruosa falsificazione della
natura, atto meschino e disumano» che pensava Thomas Bernhard, ma è pur
sempre un atto di potere, una relazione diseguale, un incontro asimmetrico.
Helmar Lerski, lo vedrete, a metà del Novecento trasformava i suoi soggetti
in maschere scolpite. Asger Carslen oggi ritocca ancora più invasivamente i
suoi. Larry Fink ha sicuramente un occhio complice per i Beats che nel 1958
erano suoi coetanei (aveva diciott’anni).
Così come simpatetico è Assaf Shoshan, giovane fotografo israeliano,
quando entra a Rebibbia per ritrarre la Pena condivisa dei detenuti e delle loro
compagne; commosso e partecipe è l’incontro di Mario Carnicelli con i volti del
popolo comunista ammutoliti addolorati e fieri al funerale di Togliatti.
Mentre il sudafricano Roger Ballen s’aggira con sguardo di ornitologo
surreale nell’Asylum of the Birds, edificio di convivenze tra umani e uccelli.
Ma quando il senso di marcia si ribalta, rimbalza, rincula? Quando il
ritraente è anche il ritrattato, in un cortocircuito che va oltre la pratica
dell’autoscatto e dell’autoritratto?
Sarà curioso vedere quanti visitatori del Festival si scatteranno un
anonimo selfie davanti ai ritratti firmati e lo condivideranno online. Del resto,
nella
cosueta
iniziativa
collaterale
al
Festival, repubblica.it proprio
questo invita i suoi lettori a fare.
Chissà se, circondato da identità altrui, il Narciso spaventato, prima di
tuffarsi, chiederà conferma al mondo se quell’immagine riflessa è proprio la
sua, o di un altro. Se col conforto di mille altri volti isolati nelle loro cornici
chiederà alla sua macchinetta di dirgli, con compassionevole ossimoro: “non
sei il solo ad essere solo”.
[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì il 26 settembre 2014]
Tag: Antonia Mulas, Antonio Biasiucci, Asger Carslen, Assaf Shoshan, August Sander, Bernhard Fuchs,Charles Baudelaire,
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de Beauvoir,Thomas Bernhard
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Tra i partigiani del Polesine, la fotografia morbida di Dondero
da http://www.pagina99.it/
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Un mondo contadino vitale e tenace, una parte della nostra storia messa a
fuoco da uno sguardo profondo e solidale. Il nuovo libro del grande fotografo.
Mario Dondero prima che un fotografo è un incontro, una relazione, un
instancabile curioso di professione. La sua Leica è il suo occhio e la sua
voce, nonché il suo più sensibile polpastrello con cui riesce ad entrare in
contatto con il prossimo. Partigiani del Polesine (Giunti, 2014), da pochi giorni
nelle librerie, è il suo personale viaggio nella memoria di un mondo che fu
ribelle e contadino, giovane e incantato, forte e vitale. Un mondo che lascia
tracce e impressiona la pellicola di Dondero con tutta la forza del tempo
accumulato.
La memoria tra le fotografie di Dondero è materia morbida, priva della
durezza e del peso di una monumentalità incapace di sguardo ma
pretenziosa di visione e carica di ideologie sempre più inservibili. Dondero
costruisce il proprio racconto senza pudori: mostra i luoghi e i protagonisti di
quell’epica, la semplicità di un paesaggio di provincia oggi attraversato da una
contemporaneità non più contadina, ma ugualmente ricca d’ingenuità e
discrezione e da un tempo ostile ai ricordi e alle narrazioni. Il volume,
arricchito con gli interventi tra gli altri di Valentino Zaghi e Massimo Raffaeli, si
apre con un’immagine di Adria in un giorno di mercato: uno scorcio della
piazza, un piccolo mercato e le striminzite bancarelle di frutta e verdura. Il
palazzo principale ha un porticato e al suo centro ospita un campanile con un
orologio: l'edificio è in ottimo stato, probabilmente da poco ristrutturato, alle
sue spalle s’intravede una gru a testimoniare gli ultimi lavori ancora in corso.
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Nell’immagine che segue invece troviamo un casale di campagna
diroccato: alle finestre gli scuri sono chiusi con assi di legno, l’intonaco
è corroso dall’umidità. Di fronte, i resti delle mura di un porcile. Nel mezzo un
sentiero e, di spalle, due uomini. Siamo sempre ad Adria, ma in località
Piantamelon: il porcile è stato l’ultimo rifugio di Eolo Boccato, partigiano
fucilato all’inizio di febbraio del 1945. Le due immagini rappresentano un
dialogo che si alterna tra il tempo che fu e che si ripropone oggi con tutto il
peso e il fascino di un’epica, e l’attualità spesso esteticamente deludente,
eppure ricca della propria stessa vitalità.
Un dialogo che attraversa tutto il libro svelando e rivelando, tra le
rughe che gli anni hanno posato sui volti e sui luoghi, un territorio stretto
tra l’imbocco dell’Adige nel Po e il mar Adriatico che si apre ad est. Adria,
Caverzere, Rovigo, Mesola sono solo alcuni dei comuni attraversati dalla Leica
di Dondero, che evita la testimonianza in favore di un racconto che non si fa
mai compiaciuto e ricerca nei volti delle persone la spinta iniziale, l’orgoglio
libertario non tanto di una generazione ma di un umanesimo che fu il segno
primario unificante e coalizzante del movimento partigiano.
Dondero incontra uomini e luoghi che raccontano chi, come lui, fu già
giovanissimo ribelle e sognatore. Commuovendolo come solo un semplice
cippo può fare: “il ragazzo del Polesine, falciato sedici anni, gli ricordava troppo
da vicino quel ragazzo ribelle che era stato lui, Mario Dondero, quando un
mattino di molti anni prima aveva deciso di salire in montagna tra i partigiani
della Val d’Ossola. E di diventare, da allora in poi, un convinto e tenace
custode di quei valori sempre attuali incarnati dalla Resistenza italiana”. Il
partigiano a cui è dedicato il cippo è Gaetano Campion, mentre il testo è
estratto dalla presentazione del volume che ha la preziosa cura di Francesco
Permunian. Lo scrittore di Cavarzere da cui è partita l’idea del volume è il
compagno di viaggio di Dondero lungo le strade del Polesine. Il libro alterna
infatti alle fotografie i testi di Permunian che inquadrano i luoghi e i personaggi
con affettuosa cura.
La coppia lavora fianco a fianco e il racconto cresce di pagina in
pagina, di paese in paese; il tempo è quello terribile di vite e libertà violate
con folle e assurda violenza. Una delle ultime fotografie non è di Mario Dondero
e ritrae una ragazza distesa a pancia in su che sembra prendere il sole lungo le
rive del Po, ma è solo un breve inganno: il suo corpo è inerte, uccisa dai
tedeschi in ritirata negli ultimi giorni del 1945. Quelli erano i tempi vissuti sulla
pelle e sulle colline di paesaggi dolcissimi sferzati dal sole e dalla fatica
contadine, Mario Dondero e Francesco Permunian riportano alla memoria il
ritratto collettivo, ma contemporaneamente individuale di un popolo e di un
corpo che da allora stentano ad essere popolo e a riconoscere e accettare di
essere uno stesso corpo.
Tags: fotografia, mario dondero, leica, polesine, partigiani
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Anti-Selfie Movement - Selfie, il boom è finito
di Giulio Mandara da http://www.fotozona.it/
In USA è nato un Anti-Selfie Movement, attori famosi “si ribellano” alla
mania degli autoritratti condivisi sui social network, e anche in Italia
qualcuno comincia ad averne abbastanza. Ma quali sono i numeri del
fenomeno Selfie?
SELFIE, UN FENOMENO SOCIALE - Questa è una delle notizie di fotografia di
cui parlano anche la stampa e i media generalisti, in questo caso perché è
anche una notizia che riguarda la società, le tendenze, le mode. È l'inizio della
fine della passione, quando non della mania, degli autoritratti scattati,
soprattutto con lo smartphone, da soli o in compagnia, meglio se di personaggi
celebri. Che spesso si sono prestati volentieri, come Papa Francesco. Parliamo
naturalmente degli onnipresenti Selfie, tanto diffusi da aver portato alla
coniazione di questo neologismo, che nel 2012 è entrato anche nel
dizionarioOxford Dictionary. E c'è spazio anche per l'ironia, come per
esempio il selfie della Gioconda (qui sotto).
UN INDOTTO NOTEVOLE - Il fenomeno dell'autoritratto, scattato spesso
soprattutto per condividerlo sui social network, secondo un esperto di nuovi
media è un portato del desiderio di protagonismo nella società dell'immagine,
ma anche di una società dove si vive molto in solitudine. E intanto ha generato
anche un indotto non indifferente, tra app dedicate a migliorare gli autoscatti,
accessori per aumentare le possibilità di riprendersi, perfino corsi universitari,
dischi e programmi televisivi ispirati a questa dilagante moda del momento,
che in realtà dura da qualche anno, grazie anche alla diffusione degli
smartphone. Tra i prodotti più curiosi c'è anche l'asciugacapelli che scatta la
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foto mentre assolve il suo compito principale. E i poi i Selfie Stick, bastoncini
con Bluetooth per prolungare la distanza dell'autoritratto oltre quella del
braccio.
IL “CORTO” CON KRISTEN DUNST - Ora però qualcuno comincia a essere
stufo di questa mania collettiva, a rifiutare di posare per i Slefie: per esempio
l'attore Leonardo di Caprio nel giorno del suo compleanno, o l'attrice Kirsten
Dunst,
che
ha
realizzato
con Mattew
Frost un
cortometraggio,
“Aspirational”, di sensibilizzazione contro la mania degli autoritratti. Nel
breve filmato tutto quello che due fans dell'attrice fanno è scattarsi degli
autoritratti con lei, ma praticamente ignorandola, per poi, alla sua disponibilità
a rispondere alle loro domande, chiedere solo di essere taggate su Facebook.
Ecco il filmato.
L'ANTI-SELFIE MOVEMENT E ALTRI OPPOSITORI - E sempre in USA è
nato un movimento, Anti-Selfie Movement, che ha un proprio sito e
naturalmente profili e pagine sui principali social, Twitter, Facebook, YouTube
e, trattandosi di fotografia, anche Instagram. E anche un videoclip
promozionale, da cui prendiamo la foto di apertura. La proposta dell'Anti-Selfie
Movement non è quella più drastica, di rinunciare agli autoritratti (come invece
avviene nelle Filippine, dove il governo vorrebbe proibirli, nel Paese dove – a
Makati City - se ne scattano di più al mondo per abitante); ma è quella di
renderli più originali, truccandosi o mascherandosi in qualche modo, anche con
un po' d'ironia. La dichiarazione che troviamo sul sito recita: «È tempo di
essere Unselfie» , di finirla, insomma, con la sovraesposizione mediatica, non
farsi vedere sempre e da tutti, recuperare un po' di mistero, che ha il suo
fascino.
E se gli USA per più di un fenomeno sociale hanno fatto da apripista, in questo
caso invece sono stati preceduti; e proprio dall'Italia, dove da qualche mese è
stata lanciata la campagna#setiselfieticancello, in perfetto stile social.
Il logo del sito dell'Anti-Selfie Movement
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LE STATISTICHE DEL “FENOMENO SELFIE” - Concludiamo con
qualche statistica, raccolta per esempio da Il Mattino online. Una l'abbiamo
già citata, quella della città col più alto numero di autoritratti pro capite, ed è
riferita dal Time; l'altra l'ha raccolta Samsung Italia, e dice che nel nostro
Paese si scattano 28 milioni di selfie al giorno; secondo il Pew Research Center
americano, oltre il 50% dei ragazzi tra 15 e 35 anni ha scattato e condiviso
almeno un selfie. Secondo Selfiecity.net, infine, il 4% delle immagini su
Instagram sono autoscatti. Sarà interessante verificare come cambieranno
questi dati tra qualche mese. Intanto, negli spazi dei commenti, potete dirci il
vostro parere sul “mondo Selfie”, loggandovi al sito.
Fonte: Anti-Selfie.com
La foto-inflazione che svaluta le parole
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Frederick Sommer è stato una singolare figura di artista-fotografo-filosofo.
Nato in Italia, vissuto negli Usa, morto in Brasile. Stravagante, eccentrico,
fulminante, attivo negli anni Trenta, ancora di più nei Sessanta.
Sulla copertina di un numero diAperture del ’62 riassunse la sua filosofia
della fotografia in due versi, i primi due di un suo poema. Dicevano:
Words not spent today / Buy smaller images tomorrow
Potremmo tradurre così: se non spendi le tue parole oggi, domani potrai
comprarci meno immagini.
Come David Levi Strauss, che di questi due versi ha fatto il titolo del suo
ultimo libro, anche io trovo suggestiva questa idea, diciamo così, valutaria del
rapporto fra linguaggio verbale e linguaggio visuale.
Come se le parole fossero una cartamoneta il cui valore di scambio ci
permette di procurarci un certo valore d’uso in immagini: ma il loro potere
d’acquisto è minacciato dall’inflazione.
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Una metafora curiosa, un po’ contro-intuitiva. Siamo abituati a pensare
all’inflazionedelle fotografie, non delle parole, come la vera e più attuale
minaccia alla nostra cultura visuale nell’era dei tutti-fotografi e della
disseminazione universale delle fotografie.
Ma è proprio qui che ha ragione, da profeta, il gran Sommer. Siamo di
fronte a una gigantesca sovrapproduzione di immagini, senza dubbio. Ma il
vero rischio – se vogliamo restare nella metafora macroeconomica – non è il
numero assoluto di fotografie prodotte nel mondo. Rispetto all’era analogica,
quella che è aumentata ancora più a dismisura rispetto alla produzione è
la circolazione della merce-immagine.
La condivisione via Web ha reso improvvisamente disponibili su un
mercato planetario un genere di merci che prima, per quanto
complessivamente molto cospicuo, era spezzettato e confinato nei mercali
localissimi degli album, del giro di amici, delle serate di proiezione domestica di
diapositive delle vacanze.
La merce oggi improvvisamente resa disponibile a ogni singolo potenziale
consumatore diventa smisuratamente superiore non solo alle sue capacità di
acquisto, ma alla sua stessa capacità di scelta. La domanda può certo essere
aumentare un po’ anch’essa, ma è decisamente anelastica rispetto all’offerta.
La fotografia dunque riempie i banchi del mercato, ma resta non solo
invenduta, perfino in-veduta. La moneta di parole che abbiamo in tasca non
basta più che a comperare una minima parte della merce di immagini che
invade la piazza e che fugge alla nostra vista.
Milioni di immagini restano senza clienti: ovvero, per loro non ci sono
parole che le possano comprare. Milioni di immagini senza controvalore verbale
vagano nello spazio delle nostre vite: che ne sarà di loro? Ingombranti, ci
travolgeranno come in quella installazione di Erik Kessels?
È ora di uscire dalla metafora. Calma, non ci stanno travolgendo, non è in
corso una crisi del ’29 in versione iconica. Ma il problema esiste, e ce ne stiamo
accorgendo forse un po’ tardi, forse non troppo tardi.
Forse allora conviene dare retta al vecchio saggio Sommer e togliere dal
forziere un po’ di quelle parole che forse intendevamo risparmiare per semplice
tirchieria, o magri per “comprarci” poi qualche bella immagine nel corso della
nostra vecchiaia, e spenderle adesso, subito, prima che perdano valore.
Il rapporto fra parole e immagini, scrive Levi Strauss in questo libro (la cui
limpida introduzione di tre pagine vale forse l’intero volume, una raccolta di
saggi non tutti memorabili), è un rappoorto “intrinsecamente polemico, perché
parole e immagibni sono antagoniste. Le parole chiedono alle immagini di
illustrarle, le immagini chiedono alle parole di cobntestualizzarle, entrambe
sono legate una all’altra in una lotta che si rinnova ogni volta che appaiono
assieme”.
Ma quel rapporto di eterno odio-amore è anche la fonte della forza
reciproca che le due antagoniste si danno. Anche se il rapporto non è poi così
simmetrico.
Entrambe vorrebbero fare a meno una dell’altra. Ma avverte Aristotele:
“anche quando si pensa speculativamente è necessario avere immagini con cui
pensare”.
Viceversa, senza parole le immagini trasmettono messaggi polisemici,
labili, ambigui. A volte è la loro forza: ma solo quando ci costringono a cercare
da noi le parole mancanti. Il mestiere del fotoreporter, come la missione
dell’artista, è sostanzialmente produrre immagini di questo tipo.
18
Ma le immagini sempre più afasiche che irrompono nei circuiti della
condivisione, accompagnate da piccoli vaghi hashtag, appesi all’ironia di una
parolina elittica, cercano parole che rischiano di non trovare.
Le abbiamo nel portafogli, quelle parole. Non siamo tirchi. Spendiamole.
Altrimenti, presto, saranno carta straccia.
Tag: Aperture, David Levi Strauss, fotografia, Frederick Sommer
Scritto in fotografia e società, Immagine e Internet, massificazione
‘I cortili sono nostri’, la fotografia è bambina
di Leonello Bertolucci da http://www.ilfattoquotidiano.it/
Se la fotografia ha un carattere – carattere come lo intendiamo negli umani –
forse assomiglia a quello di una bambina. Su questo filo si snodano le
considerazioni qui sotto, che originariamente ho scritto come introduzione
ad una mostra (visibile dal 6 ottobre) di otto studenti dell’Istituto Italiano di
Fotografia, impegnati a raccontare visivamente la “restituzione” dei cortili
condominiali di Milano ai bambini per i loro giochi, cosa che da anni non
avveniva per via di rigidi regolamenti.
Dunque la fotografia è bambina perché…
Dalla mostra "I cortili sono nostri" (foto © Alvise Crovato)
La fotografia è bambina, lo è per molte ragioni, ma non sempre ne è
consapevole essendo, per l’appunto, bambina. La fotografia è bambina perché
il suo carburante è la curiosità. È bambina, poi, perché la fotografia è anche
un grande gioco, e quando i bambini giocano prendono il gioco molto
seriamente. E che meraviglioso giocattolo è la macchina fotografica!
Anche per età è bambina la fotografia: nata ieri tra le forme espressive, ha
meno di duecento anni. Come una bambina, a tratti è impertinente e dà del tu
a tutti, a tratti è timida e si nasconde. La fotografia, che da grande sarà
grande, da bambina è cocciuta e solo così non mollerà tra mille difficoltà.
Pubblicità
La fotografia è bambina per mostrare agli adulti cose che gli adulti non
vedono più. Dei bambini è la capacità di stupirsi, di meravigliarsi, di dire cose
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“scorrette”, di vedere l’invisibile, di sognare a occhi aperti e intuire anche a
occhi chiusi. Come la fotografia.
Mettete una fotografia davanti agli occhi di un bambino e fatevi dire cosa vede:
scoprirete mondi.
I nostri autori Alvise, Camilla, Federica, Giulia, Jessica, Micol, Stefania e
Virginia hanno avuto una bella fortuna, almeno per un po’: la possibilità di
tornare bambini. Aggiusto il tiro: non la possibilità, ma la necessità. Per potersi
permettere il lusso di fotografare i bambini facendolo nel modo giusto, occorre
sintonizzarsi a tal punto sulle loro vibrazioni vitali da… diventare come loro,
diventare loro.
Empatia che arriva a una forma di transfert, occhi di bambini al mirino.
La verifica è relativamente semplice: nelle fotografie che gli studenti
dell’Istituto Italiano di Fotografia hanno saputo regalarci in questa immersione
nei cortili milanesi “riconquistati”, non si percepisce alcun diaframma a
separare fotografi e fotografati. In definitiva i fotografi, sotto il sole di quei
cortili, in quella sete di acqua fresca e di vita, hanno ritrovato in qualche
misura se stessi. Il fotografo, caratterialmente, è sempre qualcuno che cerca
se stesso, e la fotografia è stata paragonata a una strana forma di seduta
psicoanalitica.
C’è chi si cerca fotograficamente guardandosi dentro, chi guardando fuori verso
gli altri; non a caso John Szarkowski (mitico direttore del dipartimento di
fotografia del MoMA) parlò, in proposito, di fotografi-specchio e fotografifinestra.
Il lavoro sui cortili qui presentato, in questo senso, fa forse qualcosa di raro:
riunisce specchi e finestre.
La fotografia è bambina, ma per quanto tale resterà?
Perché Shiva è più potente della fotografia
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Nella Sala delle mille colonne del tempio di Meenakshi-
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Sundareshwara, a Madurai, gli dei dell’innumerevole pantheon indu danzano
prigionieri in teche di vetro, ciascuno identificato, schedato e spiegato da
apposita etichetta, con titolo, datazione, fattura.
Sono diventati statue da museo,ormai: sono “opere d’arte” destinate solo ad
essere ammirate dai turisti.
Ma la devozione popolare non s’è arresa. In qualche modo i visitatori-adoratori
trovano il modo di forzare qualche fessura delle scatole trasparenti per
depositare ai piedi dei bronzi una monetina, un biglietto da visita, un “santino”
con una piccola preghiera, un petalo di loto, una fototessera come saluto, o
come ex-voto.
Ho ammirato la potenza di quelle immagini. La loro resistenza al sequestro e
alla deportazione del senso, alla museificazione che ha cercato di trasformarle
in ciò che non erano, e di negare quel che erano.
Ho ripensato a loro leggendo l’ultimo saggio di Claudio Marra. Che non parla
affatto di statuaria indu, ovviamente. Ma parla di Fotografia e arti visive. Di
come la fotografia è, o diventa, o talvolta viene costretta (dico io) a diventare
arte.
Stimo molto Marra, condivido gran parte del suo approccio al fotografico,
condivido ad esempio la sua battaglia, abbastanza solitaria, contro gli apologeti
della “morte della fotografia” per inguaribile morbo digitale, condivido
fortemente la sua convinzione che la fotografia sia una immagine del tutto sui
generis, in virtù del suo essere, tecnicamente e per definizione, una traccia
della realtà fisica, condivido il suo fastidio per le storie troppo autarchiche della
fotografia.
Magari a volte non userei le sue stesse parole. Per esempio, Marra rimprovera
da tempo, e io sono con lui, chi di fronte a una fotografia non vuole andare
oltre l’analisi dei valori formali, puramente visivi, perché non capisce che il
valore di qualsiasi fotografia va oltre il percepibile ottico, e coinvolge “l’idea
della traccia, della presenza in assenza, della memoria, della temporalità
manipolata”.
Proprio come, per i fedeli indu, le statue di Madurai sono qualcosa di diverso da
eccellenti manufatti di bronzo, molte delle fotografie che fanno parte della
nostra vita, per esempio le foto dei nostri figli che portiamo nel portafogli, non
le guardiamo come opere grafiche più o meno riuscite, ma come dispositivi che
mettono in moto le nostre relazioni con il mondo.
E io sono d’accordissimo, salvo che Marra chiama tutto questo
“dimensioneconcettuale della fotografia”, e quel concettuale per me è un po’
fuorviante, rischia di confondersi con il concettuale come pratica artistica
contemporanea, che è altra cosa. Io preferisco definire quel carattere
ineliminabile come “dimensione relazionale della fotografia”, perché dipende
dalla relazione che l’osservatore cerca, attraverso la fotografia, con qualcosa
che nella fotografia non si vede, che la supera, perché rimanda a cose o
persone o idee che una fotografia evoca o coinvolge.
Ma a parte la scelta delle parole, la sua visione del fotografico è anche la mia.
Proprio per questo mi sento di fare qualche precisazione su un’altra battaglia
intellettuale di Marra. Cioè la sua critica a chi contesta l’appartenenza della
fotografia al campo delle arti visive.
Resistenza che ha padri illustri, fotografi celebri del passato e di oggi, che per
Marra sono eccessivamente spaventati dal timore di perdere l’autonomia e la
specificità del linguaggio fotografico, e di vedersi assegnato un ruolo di
“sudditanza” della fotografia nel mondo dell’arte. Tranquilli, li rassicura, non
siamo più nell’Ottocento, la fotografia ormai è forte, semmai è l’arte che è
diventata debole.
21
Si chiede dunque Marra, e la sua domanda è ovviamente retorica: ”Qual è il
problema se si cerca di riportare la fotografia che esibisce pretese estetiche, e
che in questo senso chiede di essere considerata, nel sistema dell’arte?”
Nessun problema, è la mia risposta. Ma solo perché c’è quel sacrosanto inciso
(il corsivo è mio), che ritengo dirimente. Può essere proposta come arte (se ne
ha i numeri), senza essere stravolta nelle sue intenzioni, solo quella fotografia
che vuole essere considerata arte.
Detta così, certo, sembra una banalità. Ma non lo è, perché il sistema-arte (ci
metto dentro tutto, galleristi, critici, curatori, direttori di musei, riviste,
assessori alla cultura, giornalisti specializzati, editori…) cerca invece
continuamente di annettere al proprio dominio, non sempre solo culturale,
molte altre fotografie, anche quelle che non voglionoessere arte. Le fotografie
familiari, quelle di moda, il fotogiornalismo, la fotografia scientifica…
L’appiglio, il pretesto per questa appropriazione indebita, sta nella “pretesa
estetica” citata nella prima parte della frase, che rischia di essere il cavallo di
Troia che svuota la clausola dell’inciso successivo. Mi spiego.
Un serio fotoreporter di solito non vuole che le sue foto siano arte, vuole che
siano buon giornalismo. Ma spesso le sue foto sono giudicate “belle”, e dopo
tutto lui stesso si sforza di renderle efficaci anche formalmente, quindi ci mette
una certa “pretesa estetica”, e dunque tac!, volente o nolente l’autore, il
sistema-arte alla fine se le prende e le mette nei musei.
Ora, sia chiaro, non esistono oggetti fatti dall’uomo che non abbiano
un’estetica. Quello che Marra chiama il “grado zero” dell’estetica fotografica
può essere solo un certo grado (minimo, mai nullo) di astensione dell’autore
dall’imporre proprie connotazioni estetiche: per lasciare però che la
fotocamera, oggetto capace di creare forme strutturate, imponga le sue.
Dunque ogni fotografia ha un’estetica. E basta questo al sistema-arte (sulla
base di una scorrettissima identificazione estetico=artistico) per appropriarsi di
qualsiasi immagine. Se poi la “pretesa estetica” di una foto appare un po’ esile,
se la fotografia da acquisire sembra un po’ troppo “automatica, frontale,
oggettiva, seriale”, allora si chiama in servizio il povero Duchamp, che nella
vita fece tantissime altre cose ma ormai è inchiodato come un Cristo ai
suoi ready-made. In particolare al suo troppo famoso e spesso mal compreso
orinatoio (Fontana, 1917)
Che di solito serve per per dire, molto banalmente: da quando anche un
orinatoio è entrato in un museo, tutto può andarci a finire. Ed essendo
qualsiasi fotografia ritenuta per natura un ready-made, un objet trouvé, ogni
fotografia è considerata già in parenza arte.
Ma no, proprio no. Duchamp non si è mai sognato, neppure in quella sua
infatuazione così celebre per pisciatoi, scolabottiglie e ruote di bicicletta, che i
suoi ready-made fossero “esibizione diretta dell’oggetto, epifania assoluta del
reale priva di qualsiasi intervento manuale”. Propro no. Erano
oggetti estratti ed astratti, decostruiti dal loro uso primario e ricostruiti come
arte.
Il pisciatoio, per esempio. Era pieno di interventi manuali. Era stato firmato.
Era stato deposto orizzontalmente, in modo incongruo con la sua funzione. Era
stato issato su un piedistallo, almeno così lo vediamo nell’unica foto che ci
rimane dell’originale, presa da Alfred Stieglitz che lo aveva esposto nella sua
galleria dopo la censura.
Era dunque un oggetto riformattato, non semplicemente ricollocato da una
funzione d’uso a una contemplativa, ma sottoposto a una serie di passaggi
manipolativi che ne abolivano le funzioni originarie (provate voi a usare una
copia della Fontana di Duchamp quando la incontrate in qualche museo, e
22
vedete cosa vi fa la security…) per assegnargliene una del tutto nuova che ne
cambia la natura di oggetto.
E questo è precisamente quel che accade a quelle fotografie che, pur non
avendo alcuna “volontà d’arte”, vengono prelevate e trascinate a via forza nel
sistema dell’arte. Cambiano natura e intenzione. Non sono più quello che
erano, diventano opere nuove, diverse, derivate.
Ora, io non ho nulla contro l’appropriazione come strategia artistica
postmoderna. Ma Sherrie Levine o Richard Prince, come Duchamp del resto,
rivendicano e firmano la loro come un’opera nuova, non come un semplice
prelievo-trasferimento.
Io andrei oltre, e dico che anche una foto di Capa deviata dalla sua
destinazione originaria (per esempio, rotocalco di informazione) e trasferita a
un museo di arte contempoanea non è più una foto di Capa ma una sua
rielaborazione concettuale di cui è pienamente autore-artista il curatore
dell’esposizione.
E allora, bisogna essere molto chiari e rigorosi quando si battezza “arte” la
fotografia non nata per essere arte. Bisogna che sia chiaro che una fotografia
nata per altri scopi e poi appesa in un museo d’arte è stata impoverita di molti
dei suoi significati primari ericaricata con altri (del resto, è quel che accade
anche a cristi e santi dipinti, cacciati dai loro altari e deportati nel white cube di
un museo moderno di arte antica…).
Sarebbe bello che questo rivolgimento di senso (che può essere sicuramente
felice, profondo, interessante) fosse esplicitato in quache modo al visitatore
(bisognerebbe che i visitatori de museo lo sapessero già da soli – ma la nostra
educazione visuale, come abbiamo già scritto, va proprio nel senso opposto).
Perché le fotografie non sono forti e resistenti come gli dèi indu di bronzo, che
anche nelle gabbie di vetro continuano a impartire benedizioni e conforto,
come erano stati creati per fare.
Scattate fotografie orribili senza saperlo. Vi stanno ingannando…
di Roberto Cotroneo da http://instagram.com/roberto_cotroneo
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Sta accadendo qualcosa di impressionante, ma nessuno se ne rende conto. Sta
accadendo che tutti hanno scambiato le fotocamere dei loro cellulari in
macchine fotografiche vere. Con abili campagne pubblicitarie i produttori di
smartphone magnificano le doti delle applicazioni digitali e degli obiettivi dei
telefonini. Parlano di pixel, aggiungono stabilizzatori, citano l’alta definizione.
Gli utenti leggono, provano, e ne sono felici. In effetti le foto scattate dai
Galaxy e dagli iPhone sembrano incredibili. Le applicazioni digitali permettono
di correggere, saturano i colori, aumentano persino la nitidezza. Quelle foto
finiscono sui social, e finiscono su Instagram. Con i filtri. Con i colori saturi, con
le ombre schiarite. Con goffi tentativi di post-produzione fotografica che
assomiglia a certa chirurgia estetica. I seni debordanti e innaturali dei chirughi,
gli zigomi che tracciano angoli vertiginosi sono identici a quei cieli rossi come
non se ne sono mai visti, quei contrasti con le nuvole in rilievo, quell’azzurro
degli occhi che la vostra fidanzata fino a quel momento aveva soltanto
sognato. Quella nitidezza che persino la marca del rossetto riesci a leggere. E
poi mari e fiumi che sembrano scannerizzati, volti indimenticabili senza un filo
di grana, o di rumore, come si dice oggi per la fotografia digitale.
Sta accadendo il disastro culturale e concettuale per cui le foto non sono più
normali, l’uso della postproduzione è una pacchianata gigantesca, la bellezza di
una foto non sta più nella capacità imperfetta di riportare un punto di vista, e
non è più in un movimento accennato, nella fatica di entrare nell’inquadratura
con consapevolezza, ma è nel pacchiano che ha la sua ragione: in un uso
sommato di grandangoli estremi e di colori saturi. Perché gli smartphone,
prima di permettere il rosso saturo, permettono il supergrandangolo, un modo
di vedere affascinante in qualche caso, ma assolutamente innaturale. Gli
obiettivi degli smartphone, si fa per dire, sono dei grandangoli esagerati,
l’assenza del mirino permette di scattare in posizioni impossibili. Il risultato è
semplicemente uno: inquadrature apparentemente sorprendenti, e nessuna
dimestichezza con le aberrazioni ottiche che sono presenti.
Per cui tutto è in primo piano, niente è fuori fuoco, e colori impossibili, e punti
di vista che sembrano spettacolari. Ritratti che imbruttiscono quasi sempre. Ma
soprattutto modifiche che fanno pena. Oltre ai cursori che ti permettono di
alterare cromatismi, ombre, bilanciamento del bianco e vignettature, ci sono i
soliti filtri, molto divertenti, che riproducono sostanzialmente i limiti di pellicole
anni Sessanta e Settanta, che danno alla foto un’aria vintage, ma che sono
delle maschere grottesche che vanno di pari passo con colori finti e punti di
vista esagerati.
Sabato scorso sono andato a vedere la mostra romana su Henry Cartier
Bresson. E mi accorgevo di due cose. La sua impressionante capacità di
comporre la foto nella sua naturalezza. Il limite ottico e cromatico delle sue
foto. Le due cose erano la sua bellezza, la sua vera grandezza. La bellezza non
è mai perfetta, ed è per questo che non è mai innaturale. Forse era inevitabile
che la fotografia finisse sul tavolo operatorio del lifting cromatico e
compositivo, ma non fino a questo punto. Stiamo formando generazioni che
non sanno cosa sia il mondo, ma soprattutto non sanno guardare. E non sanno
neppure quando la correzione fotografica deve fermarsi. Ma sopratuttto stiamo
illudendo tutti. Le foto degli smartphone, di qualunque smartphone, sono
instampabili. Le correzioni illudono perché le si guarda in un piccolissimo
schermo illuminato e nitido. E le correzioni si possono ammirare, senza avere
una sensazione sgradevole, perché le foto si vedono in un formato che varia
24
dal cm 5×7 a una massimo, quando va davvero bene, di un 10×15. Come si
fosse ancora agli albori della fotografia, più di un secolo fa. Oltre quel formato
sarebbero orribili. La possibilità di non rispettare la luce vera e scattare
sempre, aumenta in automatico gli iso degli smarphone, ovvero la sensibilità,
quella che un tempo era chiamata: la grana. Tutto si fa vagamente indefinito,
e decisamente brutto. Le correzioni migliorano le foto se le vedete nei
dispositivi, ma peggiorano moltissimo se decidete di stampare. Milioni di
persone ormai da qualche anno consegnano, vite intere, ricordi e bellezza a
sistemi che scattano foto orrende, che non restano perché si possono guardare
solo come fossero a un microscopio. Sappiatelo. Smettete, usate macchine
fotografiche vere. Anche digitali. Ma non illudetevi. E soprattutto. Lasciate ai
tramonti i colori che gli spettano. E guardate meglio cosa sapeva inventarsi
Cartier Bresson con una vecchia Leica e una pellicola in bianco e nero.
Tag: Alfred Stieglitz, Claudio Marra, indu, Madurai, Marcel Duchamp, Meenakshi-Sundareshwara,objet trouvé, ready-made
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DEAPHOTOEXPO 2014
Comunicato Stampa
DEAPHOTOEXPO 2014
Mostre fotografiche. Proiezioni Multimedia
8-29 Novembre 2014
Inaugurazione Sabato 8 Novembre ore 11-13
VILLA BANDINI / SALA PARADISO
Via di Ripoli 118 / Via del Paradiso, 5 - Firenze
Orario : lunedì 14.00-19.00 / da martedì a venerdì 9.00-19.00
sabato: 9.00 - 13.00 - [email protected]
Si apre Sabato 8 Novembre alle ore 11, presso la Sala Paradiso di Villa Bandini (Via di Ripoli 118 / Via
del Paradiso 5) a Firenze, Deaphotoexpo 2014, con l’Inaugurazione delle Mostre Fotoprogetti 2014 degli
Studenti del Corso di Progettazione fotografica 2913-2014 e Personal Projects degli Studenti del Corso di
Stampa bn fine art. Durante l’inaugurazione saranno presentati i Fotografi e i Progetti delle due Mostre e
saranno proiettati i Multimedia fotografici dei Workshop realizzati da Deaphoto durante la scorsa stagione
didattica (La mia storia a cura di Rosa Maria Puglisi, Autoritratto a cura di Francesca Della Toffola e
Fotografia di Scena a cura di Laura Ferrari). La mostra realizzata in collaborazione con il Quartiere 3 del
Comune di Firenze resterà aperta fino al 29 Novembre nei normali orari di apertura.
Programma della Inaugurazione
Ore 11 Apertura delle Mostre
FOTOPROGETTI 2014
Mostra finale degli Studenti del Corso di Progettazione fotografica 2013/2014
Elisa Modesti > The show must go on
Giovanni Masi > Ritrarsi senza ritirarsi
Antonella Tomassi > 18 ore
PERSONAL PROJECTS
Mostra degli studenti del Corso di Stampa bn fine art (da negativo) 2013/2014
Rino Gazzarrini (foto) e Giulia Sgherri (stampa e colorazione) > Viaggio di Nozze 1954/2014
(stampe su carta chimica baritata bn / virate al tè e colorate con acquerelli) Niccolò Vonci > Paesaggi intorno
casa (stampe su carta chimica baritata bn / sviluppate a pennello e virate alla curcuma)
Proiezione di Multimedia fotografici dei Workshop 2013-2014
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La mia storia/ Creazione di un Diario fotografico esperienziale
Multimedia del Workshop Deaphoto a cura di Rosa Maria Puglisi.
Fotografie di: Alessandro Comandini, Diego Cicionesi, Giovanni de Leo,
Giovanni Masi, Sofia Bucci
Autoritratto / essere e/o non essere
Multimedia fotografico del Workshop Deaphoto
a cura di Francesca Della Toffola
Fotografie di Alessandro Comandini, Giovanni Masi, Francesco Lucherini
Fotografia di Scena
Multimedia del Workshop a cura di Laura Ferrari
Fotografie di Luigi Maestrelli, Luca Turini, Simone Cecchi
Ore 12 Presentazione degli autori
ASSOCIAZIONE CULTURALE DEAPHOTO / Didattica e progettazione fotografica
Via G.A. Dosio 84/2 - 50142 Firenze –- Cell. 3388572459
www.deaphoto.it - [email protected]
Con solo un geranio e un balcone
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Fotografare, cito a memoria dai versetti dell’evangelista Susan Sontag, è
attribuire importanza alla cosa fotografata.
Non sono sicuro che il principio sia valido per tutte le fotografie e per tutte
le epoche. Sicuramente valeva per la fotografia familiare, almeno quella
dell’era pre-Web.
Papà, l’iconografo ufficiale della famiglia (mamma invece ne era
l’archivista) non fotografava tutti gli eventi della vita propria e dei suoi cari
(come era tentato di fare l’ormai paranoide Antonino Paraggi di Italo Calvino).
La selezione dei momenti degni di essere archiviati nell’album, memoria
visiva esterna del nucleo familiare, era assai severa, e comprendeva appunto
solo i momenti dotati per principio di un valore “costituente” degli affetti e delle
relazioni.
Vale a dire, i momenti clou che rafforzavano i legami (il compleanno, la
vacanza al mare, il battesimo del nuovo arrivato, le “prime volte” – bagnetto,
scuola…) e non certo quelli che li mettevano alla prova (la sgridata per una
brutta pagella, la morte della nonna…).
Le fotografie, peraltro, erano dispendiose: comprati a pacchetti, il costo
marginale di ogni singolo scatto era discretamente alto. Il budget medio annuo
di una famiglia foto/genica, in termini di sviluppo e stampa e accessori (album,
26
angolini adesivi…) poteva anche superare il costo della fotocamera. Non si
poteva scialare, bisognava selezionare.
Ma c’era in epoca analogica un’altra circostanza del tutto tecnica che
poteva al contrario forzare l’economia domestica dello scatto e produrre
immagini anomale, divaganti, in libertà. Quella circostanza era per l’appunto la
pezzatura fissa dei rullini: 24 o più sovente 36 pose.
Mi ci ha fatto pensare un amico, Pierpaolo Ascari, giornalista e studioso.
Frugando nei cassetti parentali, ha notato la curiosa ricorrenza, nelle ultime
pagine degli orridi albumini a tasche trasparenti, di un vero e proprio
sottogenere del ritratto familiare: la fotografia sul balcone di casa.
(Flashback inevitabile: i versi di una canzone di Paolo Conte, Una giornata
al mare, prestata all’Equipe 84: “Nelle ombre di un sogno / forse in una
fotografia / lontani dal mare / con solo un geranio e un balcone”…)
Ritratti incongrui, fatti un po’ di sguincio, in fretta, magari di spalle, col
modello palesemente insofferente (“papàaaaa, lasciami finire la merenda…”).
Fotografie anti-climax, foto di momenti insignificanti, anzi artificiosi,
assolutamente anomale rispetto al modello della “foto che attribuisce
importanza”.
Parlandone in un suo piccolo intelligente amarcord su Facebook, Pierpaolo
ha centrato l’interpretazione giusta:
[...] i rullini da terminare diventavano sempre un problema, e per vedere
cosa imprigionassero bisognava armarsi di una disciplina militare. Ecco il
motivo di tutte quelle foto scattate in balcone, dovevamo liberare degli ostaggi,
prendere accordi con il fotografo e riportare i nostri ragazzi a casa.
E già. Quelle erano le foto scattate per “finire il rullino”. E poter portare
così, finalmente, dal fotografo all’angolo, la pellicola impressionata con le cose
“importanti”, che giacevano in stato di immagine latente dentro la fotocamera,
magari da mesi e mesi, invisibili, inutilizzabili, reclamate a gran voce dai
familiari ansiosi di vedere finalmente stampate le foto “ostaggio” del rullino,
dov’erano rimaste bloccate perché in numero dispari rispetto alla scansione
implacabile del ritmo 36.
Per liberarle, dunque, per darle alla luce, si scattavano queste fotografie
di rango minore, fotografie “cadette”, fotografie a bassa intensità significante.
Certo, si poteva anche portare in bottega il rullino incompleto, con qualche
frame ancora vergine, ma qui insorgeva lo scrupolo parsimonioso del pater
familias (perché sprecare? Ci sono ancora tre o quattro pose, usiamole…).
27
Bene:
all’apparenza
banali,
queste
fotografie
supplementari,
sovrabbondanti, residuali, sconvolgono in realtà l’ideologia della fotografia
familiare, la sua economia.
Non preservano alcun momento cardinedella vita comune. Forse
preservano invece i momenti “bassi”? Quelli quotidiani? Neppure questo. Sono
fotografie del tutto eventuali, artificiose, non raccontano veri frammenti di vita
vissuta, non documentano certo, per dire, la funzione del balcone nella vita
familiare, sono fatte in balcone solo perché lì “c’è più luce”, per non stare a
uscire di casa.
Foto superflue? Non credo. Almeno, non a riguardarle adesso. Scrive ancora
il mio acuto amico:
Adesso però credo che la nostra sia una collezione unica al mondo, non
tanto o non solo perché di foto sui balconi degli altri ne abbiamo autorizzate
pochissime, ma in virtù della casualità che ha ispirato l’impresa. Ci siamo tutti
e quattro, ripetutamente, qualche nonna e un cane che senza un motivo
diverso dalla straordinaria capienza dei rullini sorridiamo all’obiettivo in una
ricchissima successione di acconciature, indumenti, epoche storiche, stagioni
della vita e momenti dell’anno. Sempre lì su quel balcone, quello o il balcone
della casa vecchia, dove finivamo soprattutto per il timore che rimanendo
all’interno della cucina o della sala ci saremmo fatti fregare dalla luce, secondo
me. Oppure no, per scattare una foto può anche darsi che sentissimo il bisogno
di essere da qualche parte, di una cornice minimamente più inconsueta che la
rendesse legittima.
Tendo a pensare che il vero contenuto di queste fotografie sia la fotografia
stessa. Una costrizione puramente tecnica ne determinava l’esistenza, la
qualità e la quantità. Sono fotografie che esistono unicamente in virtù di un
protocollo tecnico tipico dell’era analogica: oggi queste fotografie di
complemento, semi-intenzionali, ovviamente non avrebbero senso.
Sto dicendo che oggi tutte le fotografie familiari sono pienamente
significanti? No, al contrario. Forse oggi tutte le fotografie familiari, private,
“conversazionali”, liberate dalla tirannia del contenitore a capienza fissa, dotate
di un costo marginale minimo, sono diventate in/significanti come le fotografie
sul balcone.
La preziosa collezione di Pierpaolo mi sembra una profezia folgorante delle
neo-foto: immagini leggere, non necessarie, quasi preterintenzionali, liminari,
marginali, magari inutili, comunque sovrabbondanti, a fondo perduto, eppure
imposte dal sistema della fotografia, una costrizione meno visibile di un rullno,
ma molto molto più potente.
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familiare, fotografia
privata, Italo Calvino, Paolo Conte,Pierpaolo Ascari, rullini, Susan Sontag
Scritto in fotografie private, ritratto, vernacolare | Commenti »
Tadeusz Rolke
Comunicato stampa da http://undo.net/it
F O ND AZ IO NE P A S TIF ICI O CERERE, RO MA
In Polonia per saziare l'amore. Secondo appuntamento del
progetto 'In Polonia, cioe' dove?'. La mostra presenta il f otografo
Rolke, il quale ha documentato i retroscena del contesto artistico
polacco negli anni Sessanta e Settanta.
28
Tadeusz Rolke, "Joseph Beuys", Dusseldorf, 1971, Copyright Agnecja Gazeta
Nell’ambito
di
In
Polonia,
cioè
dove?
–
progetto
dedicato
all’approfondimento della scena artistica contemporanea in Polonia –
l’Istituto Polacco di Roma e la Fondazione Pastificio Cerere presentano
la mostra In Polonia per saziare l'amore, a cura di Ilaria Gianni e Luca
Lo Pinto, dal 25 settembre al 28 novembre 2014 presso gli spazi della
Fondazione.
La mostra è il secondo appuntamento del progetto In Polonia, cioè
dove?, ideato da Ania Jagiello, responsabile del programma d’arte
contemporanea dell’Istituto Polacco, e da Marcello Smarrelli, direttore
artistico della Fondazione Pastificio Cerere.
In Polonia per saziare l'amore si sviluppa in tre episodi che
comprendono ciascuno una mostra e una conferenza introduttiva. Il
progetto, realizzato in collaborazione con il MOCAK, Museo d’Arte
Contemporanea di Cracovia, intende approfondire lo scenario del
concettualismo polacco e le sue influenze sugli artisti delle generazioni
successive, partendo dall'artista concettuale Edward Krasiński (Luck,
1925 – Varsavia, 2004), passando per un ritratto degli anni Sessanta e
Settanta attraverso le immagini del fotografo Tadeusz Rolke (Varsavia,
1929), per concludersi con la prima presentazione i taliana di Krzysztof
Niemczyk (Varsavia, 1938 – Cracovia, 1994), pittore autodidatta,
musicista, leggendario personaggio tra gli artisti polacchi.
Episodio 2 - Tadeusz Rolke
Dal 22 al 30 ottobre 2014 saranno presentate le fotografie di Tadeusz
Rolke, il quale ha documentato i retroscena del contesto artistico
polacco negli anni Sessanta e Settanta. Negli scatti dell'artista, azioni,
29
happening e personaggi sono ritratti attraverso
originale e un punto di vista privilegiato.
una composizione
Mercoledì 22 ottobre alle ore 18.30, l’articolato lavoro di Rolke sarà
presentato da Robert Jarosz, responsabile dell'archivio del Museo d'Arte
Moderna di Varsavia, attraverso una conferenza che indaga il ruolo
attivo dell’artista nella storia culturale polacca del XX se colo. Le foto
rimarranno in mostra fino al 30 ottobre 2014.
Episodio 2 - Tadeusz Rolke
Tadeusz Rolke (Varsavia, 1929) è un fotografo il cui archivio costituisce
una ricca documentazione di sessant'anni di storia polacca ed europea.
Ha fotografato Varsavia nella rovina e nella sua resurrezione, le
manifestazioni di dissenso verso il regime comunista, i cambiamenti
dopo il 1989, oltre ad essere stato anche un maestro della fotografia di
moda. Ha avuto un ruolo determinante nel contesto artistico polacco e
tedesco negli anni post-bellici, documentando molti degli happening del
movimento della neoavanguardia e specializzandosi nella realizzazione
di reportage su artisti e opere per riviste d'arte. Il suo lavoro è stato
pubblicato in varie raccolte ed esposto in diverse mostre. Attualmente è
professore al dipartimento di giornalismo dell'Università di Varsavia e
co-fondatore della casa editrice edition.fotoTAPETA.
Robert Jarosz (1966) è ricercatore, editore e fondatore dell’archivio
privato TRASA WZ, dedicato alla cultura popolare degli anni 1956-1989.
È curatore del progetto Archivio degli Artisti che, gestito dal Museo
d'Arte Moderna di Varsavia, raccoglie oltre 4000 immagini di fotografi
polacchi illustri, tra i quali Tadeusz Rolke, co -curatore della mostra
permanente al Museo del Rock Polacco di Jarocin. È inoltre autore,
insieme a Michal Wasaznik, del libro Generazione, che racconta
l’evoluzione delle identità culturali underground e alternative in Polonia.
Jarosz è autore di diversi saggi sulla scena punk e reggae di Varsavia
della prima metà degli anni Ottanta, in rapporto alla storia politica e
culturale nazionale e internazionale dell’epoca.
Istituto Polacco di Roma: Ania Jagiello, +39 06 36 00 46 41 / +39 06 36 00 07
23, [email protected]
UFFICIO STAMPA
Ludovica Solari | +39 335 577 17 37 | [email protected]
Chiara Valentini | +39 348 921 44 56 | [email protected]
Inaugurazione 22 ottobre alle 18.30 -Fondazione Pastificio Cerere,via degli Ausoni, 7Roma Lazio Italia - Orari: lunedì – venerdì 15.00-19.00, sabato 16.00-20.00
Ingresso libero
Da Capa a Cartier-Bresson, la nascita di Magnum
di Nicoletta Castagni da www.ansa.it
La nascita della Magnum Photos, la più celebre agenzia fotografica del mondo,
è di scena dal 31 ottobre all'8 febbraio a Cremona, negli spazi del nuovo Museo
del Violino. Esposti 110 scatti dei fondatori Robert Capa, Henri Cartier-Bresson,
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George Rodger e David Seymour, che si erano geograficamente divisi il mondo
per andare a realizzare i loro straordinari reportage.
Intitolata 'La nascita di Magnum Robert Capa Henri Cartier-Bresson George
Rodger David Seymour', l'importante rassegna organizzata da Magnum Photos,
Unomedia e Sgp Eventi, è stata curata da Marco Minuz, che è riuscito a
mettere insieme per la prima volta gli scatti realizzati nell'immediato
dopoguerra in Medio Oriente e Africa, America e Oriente dai quattro fotografi
che come nessun altro hanno saputo raccontare un'epoca. Un risultato che del
resto era già nelle loro intenzioni. Il 22 maggio del 1947, dopo alcune riunioni
presso il ristorante del Moma di New York, viene infatti iscritta al registro delle
attività americane la 'Magnum Photos Inc', nome che prendeva spunto dalla
bottiglia di champagne. A firmare erano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson,
George Rodger, David Seymour e William Vandivert, che insieme riuscirono a
concretizzare la lunga riflessione avviata proprio da Capa durante la guerra
civile spagnola e condivisa in seguito con molti colleghi impegnati come lui a
raccontare la storia e la società in evoluzione nel cuore del '900.
Il progetto si fondava sulla tutela del lavoro del fotografo e sul rispetto degli
associati diritti fotografici. Attraverso la formula della cooperativa, i fotografi
diventavano proprietari del loro lavoro, prendevano decisioni collettivamente,
proponevano autonomamente alle testate i propri lavori per non rimanere
assoggettati alle esigenze editoriali delle riviste, e rimanevano proprietari dei
negativi, garantendo così un pieno controllo sulla diffusione delle immagini e
dei testi delle didascalie associate alle foto, nonché al perentorio divieto di
manipolazione. Con questi presupposti, e con la qualità del lavoro dei suoi soci,
Magnum è in breve tempo diventata un riferimento imprescindibile nel mondo
del fotogiornalismo. Fin dagli esordi, viene quindi prevista, per ogni fotografo,
una suddivisione geografica dove operare: Henri Cartier-Bresson in Oriente,
David Seymour in Europa, William Vandivert in America, George Rodger in
Medio Oriente e Africa, mentre Robert Capa ha piena libertà d'azione nel
mondo.
Ed è con questo autore che si apre il percorso espositivo della mostra
cremonese, con una sezione incentrata al lavoro di Robert Capa prima della
fondazione di Magnum: dalle immagini celeberrime della guerra civile spagnola
a quelle del conflitto fra Cina e Giappone e della seconda guerra mondiale. A
seguire, quattro selezioni legate ai primi reportage realizzati di Rodger, CartierBresson, Seymour e dallo stesso Capa per Magnum.
Suo è quello dedicato alla nascita dello stato di Israele con una particolare
attenzione ai campi di rifugiati, mentre il reportage di George Rodger è
dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. Se l'obiettivo di Henri Cartier-Bresson
racconta l'India a una svolta cruciale con le ultime fotografie scattate a Gandhi
prima che fosse assassinato nel gennaio del 1948, quello di David Seymour si
sofferma sulle conseguenze del secondo conflitto mondiale in Europa, con una
particolare attenzione al dramma degli orfani di guerra. Il reportage di George
Rodger è infine dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. ''Questo progetto
espositivo reso possibile grazie ad una forte partnership con Magnum,
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permetterà al visitatore di comprendere un passaggio fondamentale della
storia del fotogiornalismo che è rappresentato dalla nascita di Magnum sottolinea Muniz - Per la prima volta questi reportage vengono confrontanti
assieme permettendo di cogliere le straordinarie personalità di questi fotografi,
ma al contempo riflettere sul ruolo del fotogiornalismo nel mondo
dell'informazione''.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright AN
Franco Fontana, l'eretico della fotografia
da http://www.ansa.it/
Dal 15 ottobre a Roma in 130 scatti la sua lunga carriera
Uno scatto di Franco Fontana
(ANSA) - ROMA - "Ho scelto il colore quando tutti fotografavano in bianco e
nero, i paesaggi e le citta' invece dei reportage di carattere politico o sociale.
Sono stato sempre un eretico". Franco Fontana, tra i protagonisti della
fotografia italiana (e non solo), a quasi 81 anni (splendidamente portati) non
perde il suo piglio schietto e diretto mentre presenta la tappa romana della
mostra itinerante 'Franco Fontana full color', a Palazzo Incontro da domani
all'11 gennaio. Esposte tutte le serie piu' famose del maestro modenese, dai
paesaggi urbani degli esordi (nel 1961) agli scatti degli ultimi decenni, come gli
asfalti, le piscine, le luci americane.
Non ci sta a farsi inquadrare nel cliche' del fotografo astrattista per quelle
bande di colore acido, intenso, che attraversano le immagini di campagne o
deserti, i gialli, l'ocra, il blu abbagliante del cielo o piu' spento del mare. "Di
astratto c'e' solo il pensiero, quello che ho fotografato per tutta la vita e' reale,
concreto", commenta Fontana, che ribadisce di non aver mai fatto uso di
photoshop, per il semplice fatto che all'epoca non esisteva, perche' non c'erano
ancora le tecniche digitali. Per i giovani e' difficile crederlo. Le grandi stampe
che aprono il percorso espositivo riguardano scatti di quaranta, cinquant'anni
fa. Le soluzioni di prospettiva (schiacciata dai focali), l'appiattimento immagini,
aggiunge il curatore della mostra Denis Curti, si traducevano "in un'ambiguita'
della visione che e' un mix di poetica e passione". Fontana, ha spiegato, "ha
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reinventato il vocabolario visivo di un'epoca", rifuggendo il racconto di storie,
di avvenimenti, proponendo una produzione che appare statica, in cui sembra,
apparentemente, non succedere niente. "In realta', al termine della mostra la
sensazione e' quella di stare di fronte a un immenso autoritratto, di Fontana,
della societa', della natura - prosegue Curti - del resto, l'artista cerca e trova
l'armonia estetica anche in una macchia sull'asfalto".
E al di la' della decisione di rifuggire ogni stereotipo, la cultura visiva di
Fontana e' senz'altro figlia della sua terra e della sua epoca. I rimandi sono
innumerevoli, in alcuni casi al limite della citazione. Ecco la Metafisica di de
Chirico nell'accavallarsi di piccoli edifici a Los Angeles, mentre le atmosfere
cristallizzate delle altre vedute americane richiamano i capolavori di Hopper. Le
uniche a essere popolate da persone, incapaci a comunicare, dominate da
colori violenti e da un senso di estraneazione, queste scene restituiscono le
stesse emozioni del pittore statunitense. Cosi' come gli asfalti, per il loro
contenuto materico, sono un eco a volte dell'informale a volte della Pop Art. Ma
in Franco Fontana sono solo assonanze, l'humus che accomuna un'epoca
intera. Oggi sposta lo sguardo su altro. "Per me la fotografia e' la qualita' che
mi ha dato la vita", dice il maestro, impegnato a scoprire la bellezza nella
disarmonia delle persone disabili (e' il suo ultimo libro fotografico).
"Cerco sempre la parte positiva della vita, sono nato con la bottiglia mezza
piena", sottolinea per spiegare che non ha mai smesso di fare ricerca. "Avrei
potuto continuare fare paesaggi, mi hanno reso famoso - ha concluso - Ma
allora avrei fatto il Fontana per il resto della vita, il pensionato di me stesso".
(ANSA).
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
Cartoline dai bordi di un’utopia perduta
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Temo che chi comprerà l’album di cartoline messo insieme da Paolo Caredda
sospetterà quanche trucco da artista concettuale.
Difficile credere che cartoline così siano state davvero pubblicate,
comprate, spedite, conservate.
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Quel che va sotto il nome – inutilmente spregiativo – di cartolinesco, qui
non corrisponde più, non ci azzecca. Spiagge, fiori pacchiani, niente, cime
innevate, monumenti sull’attenti, tramonti romantici, niente, niente di niente.
Palazzoni di cemento, invece. Condomìni multipiano. “Biscioni” e
“stecconi” di periferia. Architetture geometrili, texture di balconi e tapparelle a
perdita d’occhio, alberelli rachitici da recente trapianto nelle asole quadrate tra
le mattonelle del marciapiede. Strade fuori misura d’asfalto rullocompresso.
Eppure, ve lo garantisco per vecchia familiarità coi cartoncini postali,
queste cartoline esistevano. Parenti ma differenti di quelle che i turisti
compravano negli stalli dei tabaccai del centro, queste le vendeva il cartolaio di
quartiere. Spesso le stampava lui. Magari ci metteva dentro l’insegna del
negozio e si faceva un po’ di réclame.
Ma chi le comprava, e perché? Per mostrare a chi, che cosa?
Ora sembrano, riunite così, è vero, un’operazione postmoderna. Magari un
po’ snob, un po’ kitsch. Guardate un po’ che bellissime schifezze si spedvano
per posta i nostri genitori…
Idea non nuova. Martin Parr pubblicò le sue collezioni di Boring Postcards,
cartoline noiose (ma comprendevano anche cartoline di Boring, cittadina
dell’Oregon…) in piccoli album senza didascalie né introduzioni.
Ma Caredda, autore televisivo, già scrittore della generazione cannibale,
non sembra mosso dal fascino del banale ri-mediato in radical-trash. A suo
modo, con forse un po’ di compiacimento stilistico nelle pagine di commento,
quella che cionfziona è una storia di un pezzo di storia d’Italia.
Pre-boom, poi boom economico conclamato. Inurbamento di massa.
C’erano da tirar su appartamenti per decine di migliaia di famiglie in più ogni
anno, anche nei capoluoghi di provincia, non solo nelle metropoli. Città intere
che si sommavano a città.
Erano gli anni dei piani regolatori ipertrofici, delle previsioni di edilizia a
macchia d’olio. Della “cementificazione”, l’abbiamo chiamata. Ma senza il
cemento armato, in effetti, quella sarebbe stata una stagione di slum e
baracche.
In fondo, non lo fu. Fu una stagione di periferie con “casermoni”, ma anche
questa una parola troppo luogocomunista. Di “alveari umani”, anche. Detto con
superiorità da chi non ci abitava, però.
Perché queste cartoline raccontano un’altra storia. Raccontano di un certo
compiacimento, di una fierezza, perfino di un orgoglio dell’abitare nel “nuovo”,
da parte di chi aveva appena lasciato casolari e cascinali. Allora, dice con
espressione azzeccata l’autore, “il cemento scintillava”, eh sì.
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Le cartoline su cui ci divertiamo
a orripilarci adesso per la loro “spersonalizzazione”, magari mentre abitiamo
nei “quartieri residenziali immersi nel verde” che sono la rinascita postmoderna
della stessa alienazione (leggete i racconti di Giorgio Falco e capirete), erano
immagini di un traguardo raggiunto, per chi viveva in quei condomìni, e che
magari prima di francobollare e imbucare aggiungeva con la biro una freccia
che puntava verso un balcone: “noi abitiamo qui”.
I cascami geometrili del razionalismo architettonico erano allora la forma
del benessere. Forse non proprio la sua realizzazione, ma certo la sua
promessa.
Difficile da capire oggi, quando il cemento non scintilla più e quell’edilizia
al risparmio si sfarina nella sua lebbra di scrostature e mostra le ossa
arrigginite delle sue armature. Ma quel paesaggio di intonaci levigati e balconi
ortogonali era il paesaggio di un’utopia, la stessa che s’incarnava nelle lamiere
delle utilitarie (anche loro, molto volentieri, incluse nelle inquadrature e
rivampate generosamente nei colori, magari aggiunti a mano); e se non ce
n’era una, il fotografo parcheggiava volentieri la sua nell’inquadratura.
Badate bene, poteva esserci un’altra immagine di quel paesaggio.
Un’immagine magari promossa dallo Stato costruttore, o dalle imprese
appaltatrici come fu per i Grand Ensembles francesi dell’anteguerra, anch’essi
figli del razionalismo, ma in versione tecnocratico-centralista, come il
gigantesco complesso di Drancy che poi diventò per feroce contrappasso e
nemesi storica un punto di concentramento per la deportazione degli ebrei (il
padiglione francese della Biennale Architettura di quest’anno ne ha
corraggiosamente raccontato la storia).
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Ma quelle operazioni urbanistiche, negli anni Trenta, vennero fotografate
autoritariamente, dall’alto, in tutti i sensi. Vedute aeree, o comunque da punti
di ripresa elevati e lontani, proclamavano retoricamente la modernità evitando
accuratamente il dettaglio rivelatore della meschinità immobiliare (un
bell’articolo su Études Photographiques per chi vuole approf0ondire).
La genesi delle nostre cartoline dell’inurbamento accelerato, invece, è quasi
sempre spontanea, caotica, non programmata. Iniziativa di cartolai, tabaccai,
benzinai, piccoli editori che fiutavano il piccolo business dell’orgoglio dei nuovi
redsidenti. Una specie di iconografia corale, comunitaria, orizzontale,
affascinante, rivelatrice.
E non sono immagini senza cultura visuale, al contrario ne hanno molte,
magari non consapevoli ma trasparenti: scenografie da film del neorealismo,
un certo futurismo delle diagonali, magari Ottone Rosai e perché no anche un
po’ di Piazze d’Italia di De Chirico.
I marciapiedi vuoti, gli spazi pubbliciancora non riempiti dall’arredo
spontaneo e caotico di ogni periferia, vivono ancora la loro purezza di sfondi
progettati. Il provvisorio, i pali della luce di legno, le aiuole ancora polverose,
sono spazi in corso di promozione sociale e non già degradati.
Non di queste cartoline bisogna ridere, ma della misera fine di quella
promessa bisogna piangere. Era una modernità di cartapesta, da Mani sulla
città, da speculazione edilizia, da deportazione proletaria, ma allora non era
così chiaro. Lo è solo oggi, per chi gira quei vecchi quartieri nuovi che a volte
cercano con gran fatica una propria redenzione civile, umana e anche estetica,
ma a cui le cartoline non fanno più il ritratto.
Lo hanno lasciato fare ai misuratori dello spazio, ai Basilico, ai Guidi,
Barbieri, Chiaramonte, Jodice (Francesco) e mi scusi chi sto dimenticando.
Analisti consapevoli della condizione post-urbana. Ma l’autoritratto, quello non
lo abbiamo più.
O forse sì. Dovremmo cercarlo forse ai bordi estremi dei selfie che i nostri
figli si scattano girovagando negli spazi di una città che non abbiamo più la
voglia e l’orgoglio di mostrare a nessuno.
Tag: boring postcards, cartoline, cartolinesco, Drancy, Etudes
photographiques, Francesco Jodice,Gabriele Basilico, Giorgio De
Chirico, Giorgio Falco, Giovanni Chiaramonte, Grands Ensembles, Guido
Guidi, Martin Parr, neorealismo, Olivo Barbieri, Ottone Rosai, Paolo
Caredda, periferie
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Muray: il fotografo che amò Frida Kahlo in mostra a Genova
di Federica Burlando da http://genova.mentelocale.it/
Frida sulla panchina bianca © Nickolas Muray
A Palazzo Ducale i Celebrity Portraits dell'artista statunitense. Da
Marlene Dietrich a Marilyn Monroe e Charlie Chaplin. Le foto. Dal 16
ottobre
« Fortunatamente, per me la fotografia è stata non solo una professione, ma
anche un contatto tra le persone - uno strumento per comprendere la
natura umana e fissare se possibile, il meglio di ogni individuo». In queste
parole diNickolas Muray c'è tutto lo spirito della sua arte e non solo: anche
del modo di concepire la vita. Del suo coglierne la bellezza, la poesia, la
vivacità dell'anima che traspare dagli occhi e dai gesti.
Giovedì 16 ottobre inaugura, a Genova, Celebrity Portraits, la mostra di
Nickolas Muray. La prima esposizione monografica sull'artista in Italia viene
ospitata fino a domenica 8 febbraio 2015 nel Sottoporticato di Palazzo
Ducale. Un viaggio di oltre 200 scatti, in circa 40 anni di carriera di quello
che è stato il fotografo delle star: daMarilyn Monroe a Marlene Dietrich,
da Greta Garbo aElizabeth Taylor e Charlie Chaplin, non si contano le
celebrità passate sotto il suo obiettivo.
Un vita tutta da raccontare, quella del fotografo: da quando, nel 1913,
venne richiamato nell'esercito ungherese, ma lui, ebreo, conoscendo il clima
antisemita che vi serpeggiava, decise di vivere a New York dove trovò subito
lavoro, grazie a un certificato da incisore. Un'esistenza fatta di passioni:
per la fotografia e per le donne. Due amori che si mescolano negli scatti che
si vedono in mostra a Palazzo Ducale.
Si parte dalla sezione dedicata alle immagini in bianco e nero. Alle pareti i
volti di personaggi più e meno celebri. Dalladivina Greta Garbo, di cui si
possono ammirare due ritratti uno sorridente e uno serio. Un doppio che
ammalia e quasi confonde lo spettatore.
Poi le ballerine Isadora Duncan, che cammina eterea come fosse uno
spirito, Martha Graham, in abiti spagnoleggianti e altri corpi di danzatori, a
formare strutture scultoree. Quello che colpisce di più è la luce degli scatti,
un'eco di quell'amore per la pittura fiamminga del XVII secolo, da Rembrandt a
Vermeer, che Muray tanto amava. La stessa luce che rende particolare anche il
ritratto del ballerino Leon Barte, l'unico di matrice accademica.
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Volti e corpi che sono bellissimi, di quella bellezza che non è solo fisica, ma
spirituale. «Il pensiero di Muray - spiega il curatore Salomon Grimberg - era
che in ogni persona c'è qualcosa di bello. Una magia, un mistero, una
dignità che le foto esaltano». Più oltre una sezione dedicata al mondo degli
impressionisti. Con fotografie che echeggiano i giardini dei pittori francesi. E
poi, fra i diversi ritratti dell'amico Claude Monet, anche Il ritratto, l'unica foto
che Muray, fra i 25 000 scatti della sua vita, decise di tenere per sè.
Lasciato il mondo del bianco e nero si viene investiti dalla luce dei colori, così
vividi che sembra di poterli toccare. Prima, in esposizione, le immagini
pubblicitarie, divenute vere e proprie icone. «Quando c'era da immortalare
animali, bambini, soggetti difficili perché spesso in movimento, e il cibo, era
Muray il punto di riferimento», racconta Grimberg.
Ogni pubblicità non è solo una foto, ma ha alle spalle una storia da
raccontare. Come lo scatto che ritrae dei cerali per la prima colazione. Per
crearla l'artista ha prima fotografato il recipiente, poi i vari corn flakes a uno a
uno, incollato questi pezzi sopra alla foto iniziale, per poi fare lo scatto finale.
In questo modo si ha l'impressione del movimento e della profondità
dell'immagine.
Passando oltre ci si trova faccia a faccia con altri volti, uno su tutti quello
di Marlene Dietrich. Un'altra foto, un altro aneddoto. «Muray si era recato a
casa dell'attrice, per fotografarla - racconta il curatore. Ad aprirgli la porta di
casa, una donna con grembiule, scopa in mano e foulard in testa. La
stessa donna che un attimo dopo poserà, glamour, per lui».
L'ultima stanza è dedicata a Frida Kahlo, amica e soprattutto amante del
fotografo. Una storia d'amore lunga dieci anni, che poi si trasformò in un
forte legame, troncato solo per la sopraggiunta morte di Muray. Una
sentimento che traspare anche da quelle foto così vive, che hanno contribuito a
rendere Kahlo un'icona pop. Pensare alla pittrice, infatti, è pensare a come
Muray l'ha vista attraverso l'obiettivo. Un legame che ora si riunisce
nuovamente, in quegli spazi di Palazzo Ducale che ospitano sia la mostra Frida
Kahlo e Diego Rivera sia quella del fotografo statunitense.
Addio a René Burri: tra suoi scatti Che Guevara e Picasso
di Nicoletta Tamberlich (agenzia Ansa) da http://www.gazzettadiparma.it/
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1 / 10
COMMENTA
Lo scatto più noto rimane quello di Che Guevara mentre fuma il sigaro issato
all’angolo destro della bocca (è del gennaio del 1963, si vende ancora oggi a
milioni di esemplari su poster, cartoline, magliette, ma chi la compra quasi mai
ne conosce l’autore) ma Renè Burri, uno dei più grandi fotografi del '900 morto
oggi in Svizzera dopo una lunga malattia, ha ritratto icone della cultura come
Picasso, Giacometti e Le Corbusier, icone del mondo del cinema dello
spettacolo come Ingrid Bergman e Ursula Andress a cui rubò lo sguardo, e in
alcuni casi, quello che non volevano mostrare.
Volti sì, ma non soltanto.
Nato a Zurigo nel 1933, Burri fotografò anche gente comune incontrata, ad
esempio, in Vietnam e Brasile e spesso l’architettura in ogni sua declinazione:
edifici monumentali, nei confronti del contesto urbano.
Prima della fotografia le passioni del fotografo svizzero furono non a caso
quelle della pittura e del cinema e fu per tale motivo e per migliorare le sue
conoscenze che decise di frequentare la scuola d’arte di Zurigo dove ebbe
l’opportunità di studiare composizione, pittura e disegno.
Finita la scuola cerca di dare seguito a questa passione tentando il mondo del
cinema, ma le opportunità date dalla Svizzera in quel periodo erano davvero
limitate. Decide quindi di dedicarsi alla fotografia che molto si avvicina al
mondo del cinema. Nel 1950, all’età di 17 anni, entra quindi alla scuola di
fotografia della sua città. E’ in questi anni che inizia a lavorare come regista ed
a realizzare i suoi primi documentari. Contemporaneamente inizia ad usare la
sua prima macchina fotografica, una Leica.
Nel 1955 il suo amico Werner Bischof lo avvicina, mettendolo in contatto con
l’agenzia Magnum Photos dove presenta il suo reportage sulla realtà dei
bambini sordomuti. Il reportage, con grande soddisfazione dello stesso Burri,
venne pubblicato sulla prestigiosa rivista Life nonchè su altre importanti riviste
europee. Entrato a far parte della scuderia di Magnum Photos inizia la sua
intensa attività come fotografo di reportage in giro per il mondo per realizzare i
lavori commissionati da Magnum. Questi furono gli anni in cui Burri si recò in
Italia, Cecoslovacchia, Turchia, Egitto ed altri paesi.
Nel 1959 diventa membro Magnum. Pubblica il suo lavoro sulla Germania a
cura di Robert Delpire e con l’introduzione di Jean Boudrillard. Realizza sempre
negli anni Sessanta altri importanti reportage. Sono da ricordare infatti quello
del 1963 su Picasso e successivamente quelli su Giacometti e Le Corbusier.
Sempre nel 1963 realizza il ritratto di Fidel Castro e di Che Guevara. Nella
seconda metà degli anni Sessanta e negli anni Settanta lavora in Egitto,
Israele, Vietnam e Beirut.
Nel 1982 diventa presidente della Magnum Photos. Nel 1991 viene nominato
Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dallo Stato Francese e nel 2004
viene realizzata una grande retrospettiva che nel 2005 è arrivata anche in
Italia per la prima volta.
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Perché non parli?
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Puoi mangiare una mela, dieci mele, cento mele, ma non avranno mai il sapore
della banana.
Puoi mangiare una banana, dieci banane, cento banane, non avranno mai il
sapore di una mela.
Lo scriveva una fotografa americana di cui mi sfugge ora il nome. La mela
è l’immagine, la banana è la parola. Perché la macedonia a tanti non piace?
“Conflitto parola-immagine”, si dice. Ma è davvero un’alternativa, o è una
convivenza inevitabile? Esistono forse fotografie che non ci arrivino circondate
da parole? Senza un con/testo?
Fotografia e scrittura sono materiali dell’espressione umana. Il guaio è che
non sono simmetriche, né equivalenti, non sono forse neppure del tutto
complementari. Il rapporto è difficile, scontroso, conflittuale. Ma è inevitabile. I
francesi
hanno
una
parola
splendida
per
sintetizzare
un’affinità
scorbutica: mésalliance.
È un luogo comune banale che “una fotografia vale mille parole”: vale solo
se qualcuno prima o poi le scrive o le dice o almeno le pensa, quelle mille
parole. Che alla fine, certo, non esauriranno mai una fotografia. Ma senza le
quali la polisemia, l’ambiguità essenziale delle fotografie può diventare
paralizzante, o pericolosa, o illeggibile.
Credo che quella tra parole e immagini sia una questione etica. Perché
l’etica è anche conoscere e rispettare i limiti, le caratteristiche e la vocazione
dei propri strumenti di comunicazione, sapere fin dove possono arrivare, e
dove hanno bisogno di una stampella, di un completamento, di un aiuto.
E tuttavia la macedonia di mela e banana non piace a molti. A molti
scrittori. A molti fotografi. C’è una strana riluttanza a far incontrare scrittura e
visione, a farle dialogare.
Qualcuno sembra pensare che la “fotografia parlata” sia come il “calcio
parlato”, una cosa da giocatori da bar. Sono due di solito le obiezioni ricorrenti.
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Prima: “la fotografia parla da sola”. Ogni parola detta attorno a una
fotografia è percepita come un intollerabile affronto, un vile attentato alla sua
autonomia. Tutto quello che si deve sapere per apprezzare una fotografia, per
capire una fotografia, starebbe già dentro la cornice dell’immagine. Al
massimo, autore, data, luogo: che serve di più?, spesso sembrano pensarla
così perfino i fotogiornalisti, che pure hanno un dovere di contestualizzazione,
e questo è ancora più grave.
La didascalia “parlante” su una rivista, il testo a fianco che in una
mostra parla dell’opera e dell’autore, l’analisi critica dei modi e dei contesti in
una monografia, sembrano essere considerate roba da circolo fotoamatoriale.
Nei musei si arriva ad esiliare il cartellino con nome e titolo il più lontano
possibile, magari su un’altra parete, affinché il morbo verbale non contagi
l’opera.
Se un testo è ammesso, nei libri e nelle mostre dei Fotografi con l’automaiuscola, allora che sia il più indecifrabile possibile, critptico, lirico, divagante,
quel che volete purché si astenga dal parlare delle fotografie a cui è abbinato.
Seconda obiezione: “Solo chi fa fotografia può parlare di fotografia”.
Curiosa tesi questa, seguendo la quale per fare l’entomologo bisognerebbe
essere uno scarafaggio o una mosca. Se chi la pensa così ha ragione, gli
auguro di non avere per vicino di casa uno studioso di storia del nazismo…
Come sempre, generalizzo un po’ troppo. Incontro moltissimi fotografi di
ampie e buone letture. E giornalisti e scrittori di ampie e buone visioni. Ma una
vena di anti-intelettualismo, di vitalismo fotografico vorrei dire, esiste. Ed è
una delle ragioni, credo, per le quali in Italia non ha mai attecchito una
comunità culturale della fotografia capace di condividere strumenti di “lettura”
del fotografico.
Riviste ce ne sono molte ma, a parte le solite lodevoli eccezioni, sono quasi
sempre qualcosa a metà fra la galleria d’arte e il negozio di fotocamere.
Personalmente, ci trovo poco da leggere. I pochi tentativi di creare in Italia
rivistte di storia e critica del fotografico sono abortiti in pochi numeri.
L’editoria libraria vede in campo alcuni editori eroici, coraggiosi,
spericolati nel voler continuare a pubblicare buona saggistica che vende poche
centinaia di copie a titolo.
La critica fotografica esiste, ma si occupa solo di “artisti che usano la
fotografia” e, tranne le solite lodevoli eccezioni, arriccia il naso quando sente
parlare di fotografia come pratica sociale, di massa, relazionale: a meno che
qualche artista non ne abbia fatto un “progetto”.
La blogosfera è un magma dove si trova di tutto, il buono e il peggio, ma
in ogni caso è uno spazio pulviscolare di individualità gelose, spesso
autoreferenziali e narcisiste (includete pure il blog che state leggendo, se
volete) che non è mai riuscito a farsi circuito di idee.
Leggere la fotografia significa prima di tutto far parlare la fotografia. Le
immagini fanno e faranno sempre più parte di messaggi multimediali,
complessi, collettivamente elaborati e interattivi. L’idea dell’autore solitario che
mostra muto la propria fotografia che “parla da sola” ormai è l’illusione,
inefficiente, di autoproclamti artisti fuori tempo.
Leggere la fotografia non vuol dire saper fare l’analisi di un’immagine.
Vuol dire leggere le relazioni che la fotografia rivela, o copre. Si sta
combattendo una enorme battaglia con, per e sulle immagini, che ha per posta
il governo dei nuovi canali di informazione di massa. Non si può essere “gente
d’immagine” senza occuparsi di questo.
Leggere la fotografia, per chi vive nel presente, è per esempio vedere lo
scontro di potere che sta dietro il successo delle piattaforme di condivisione
41
orizzontale, dietro l’evoluzione dei social network, dietro le nuove funzioni di
teasing, di illustrazione, funzioni sempre più subordinate, strumentali e ancillari
che alla fotografia vengono assegnate dai portali d’informazione di ultima
generazione.
Leggere la fotografia non significa solo saper godere di buone immagini,
e pensare che quelle ci salveranno dalla volgarità del presente. Leggere la
fotografia è leggere la cultura visuale di un’epoca, senza aver paura di
respirare odori forti che non ci piacciono.
Con la parola, l’uomo scoprì uno strumento magico per condividere con
l’altro uomo quel che aveva pensato (e fondò la storia). Con la fotografia,
l’uomo ha trovato uno strumento magico per condividere quel che ha visto, e
ha fondato la civiltà delle immagini. Ma per condivdere quel che pensa sulle
immagini, l’uomo ha bisogno della parola.
Leggere la fotografia è spendere parole per “comprarla” dai nostri
simili, cioè per farla nostra: per possederla e non farcene possedere. Un
grande fotografo e filosofo della fotografia, Frederick Sommer, scrisse ormai
mezzo secolo fa: se non spendi le tue parole oggi, domani potrai comprarci
meno immagini.
Le abbiamo nel portafogli, quelle parole. Non siamo tirchi. Spendiamole.
Altrimenti, presto, saranno carta straccia.
[Questo testo è una versione del mio intervento al dibattito su "Leggere la fotografia", SiFest Savignano sul Rubicone,
4 ottobre 2014]
Tag: fotografia, Frederick Sommer, lettura, SIFest, testo
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Nino Migliori: "I giovani devono scoprire lo scatto di
una bellezza da ritrovare"
estratto da http://www.ilrestodelcarlino.it/
Nino Migliori. Il grande fotografo presiede la commissione del premio fotografico
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Di bellezza davanti alla lente della sua macchina fotografica ne è passata
tanta, ma gli occhi di Nino Migliori sono sempre pronti a cogliere il bello.
Stavolta, in qualità di presidente della commissione giudicatrice, lo farà negli
scatti dei ragazzi che partecipano alla quinta edizione del Premio fotografico
organizzato da Qn-il Resto del Carlino e Banca popolare dell'EmiliaRomagna. Il tema di quest'anno è La bellezza ritrovata.
Quando l’abbiamo persa e come l’abbiamo ritrovata, la bellezza.
«Se l’avremo ritrovata ce lo diranno le foto dei ragazzi che partecipano al
premio, lo scopriremo guardano i loro lavori, sempre sorprendenti».
Però da qualche parte si è certamente persa…
«E’ annegata nella drammaticità del momento storico che viviamo, nelle
disgrazie umane e nella sfiducia verso il futuro. Ma dalla disperazione bisogna
fuggire rincorrendo il piacere di rileggere le cose su un piano estetico diverso,
riscoprendo il bello che è intorno a noi, sapendolo ritrovare in tutto ciò che ci
circonda. La bellezza è nella luce e nei colori del quotidiano, nell’emozione di
un sentimento, nelle proporzioni di una architettura, nella magia della natura,
nell’armonia di un corpo, nella libertà di un gesto».
Il Premio Carlino-Bper affida ai giovani dai 14 ai 25 anni il compito di
andare a caccia di bellezza...
«Questa iniziativa a cui partecipo con entusiasmo da anni, vuole rilanciare il
pensiero dei ragazzi, è un incentivo ad uscire dalla fascia della negatività e
riappropriarsi di una visione ottimistica tipicamente giovanile... ma del resto
anch’io sono un inguaribile ottimista».
Bellezza e gioventù: un bimonio e un’immagine.
«Gli angeli del fango. Loro per me sono la bellezza ritrovata. A Genova, in
questi giorni, a Firenze nel ’66… sono lì a dedicare il loro tempo, le loro
energie, a ricucire qualcosa che si è strappato ferocemente».
La bellezza secondo Nino Migliori?
«Più che un fatto fisico è una predisposizione mentale che coinvolge i
sentimenti. E’ voglia di futuro, di serenità, di riscatto. E’ un’idea che mi porto
dietro dal ’45. Dopo aver vissuto cinque anni di gioventù imprigionata nel
terrore, nella perenne paura di morire sotto i bombardamenti, uscii dalla
gabbia di quell’angoscia e ritrovai la vita. Stare nel mondo, ritrovare la gente,
vivere a contatto con gli altri: la bellezza».
Bologna, la sua città: qual è il simbolo della sua bellezza?
«L’ironia. Che però oggi non trovo più. Mi guardo intorno e vedo una città che
non riconosco, sporca e disordinata, in cui si è perso il piacere
dell’aggregazione».
Selfie compulsivi, dipendenza da Instagram, cellulari sempre pronti a
colpire. Questa ipertrofia dello scatto fa bene alla fotografia?
«Fa benissimo! La fotografia è sempre andata di pari passo con lo sviluppo
tecnologico, anche questa fase è fisiologica. E interessantissima. Altrimenti
saremmo ancora ai dagherrotipi. Già decenni fa annunciavo in una mia
pubblicazione 'La fotografia è morta, viva la videografia', ora guardo ancora più
avanti: alla trasmissione cerebrale dell'immagine».
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Trieste Photo Days, 14/23 novembre
da REDAZIONE (PHOTOGRAPHERS) di http://www.lastampa.it/
Nasce Trieste Photo Days, nuovo festival fotografico internazionale
In programma mostre di Alexandra Sophie, Pietro Masturzo e la mostra finale
del concorso URBAN 2014
E verrebbe da dire “finalmente!”
Crocevia e punto di incontro anche culturale tra occidente e oriente Trieste
rappresenta un osservatorio privilegiato verso la fotografia dell’Est, e
finalmente si sono messi d’accordo le varie anime che rappresentano la città
per il settore fotografia, riuscendo a partorire la prima edizione di quello che
speriamo diventerà uno degli appuntamenti fissi del panorama Italiano.
Da venerdì 14 a domenica 23 novembre 2014 si terrà la prima edizione
del Trieste Photo Days, un nuovo festival internazionale nato dalla
cooperazione tra dotART e le principali associazioni culturali triestine che si
occupano di fotografia e arti visive. Sulla scia più importanti festival fotografici
europei, Trieste ospiterà per dieci giorni un contenitore creativo multimediale
che riunirà mostre fotografiche di artisti italiani e stranieri, workshop,
proiezioni, incontri e altri eventi collegati alle arti visive.
Trieste Photo Days sarà un luogo d'incontro e scambio per fotografi
professionisti e amatoriali, appassionati e curiosi. Il tema scelto dagli
organizzatori per questa prima edizione è «Spazi»: uno sguardo attento e
attivo alla fotografia in relazione allo “spazio dei luoghi”.
Numerosi gli eventi, dislocati in varie sedi e selezionati in collaborazione con
ildirettore artistico Giancarlo Torresani, direttore del Dipartimento Attività
Culturali” della FIAF.
MOSTRE. Tra le mostre in programma “Sui tetti di Teheran” di Pietro
Masturzo, vincitore del World Press Photo of the Year 2009 (dal 19/11 presso
la Sala mostre Fenice), una personale della fotografa francese Alexandra
Sophie, “ The Horses of Revolution” del fotografo inglese Walther
Rothwell, vincitore della categoria Stories & Portfolios al concorso URBAN
2014 (dal 14/11 presso Aqvedotto Caffè), “ Inimmaginabile Iran” della
slovena Anja Čop (dal 14/11 presso il Teatro dei Salesiani), la mostra
collettiva
con
premiazione
delconcorso
internazionale
URBAN
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2014 (15/11), la mostra collettiva Zero Pixel(dal 17/11 presso la Biblioteca
Statale di Trieste).
WORKSHOP. In calendario numerosi workshop fotografici: “Workshop
Polaroid 8x10” a cura di Ennio Demarin (15/11 presso lo Studio
Demarin),“Workshop Polaroid Manipulation” (18/11 presso la Biblioteca
Statale di Trieste), una serie di workshop di fotografia off-camera (19/11
presso la Biblioteca Statale di Trieste), “Workshop Collodion Wetplate” a
cura di Marcus Gabriel (22/11 presso lo Studio MATTEOTTI32).
PROIEZIONI. Rassegna di multivisione con mostre fotografiche e proiezioni di
audiovisivi “Trieste incontra la Multivisione” (dal 14/11 pressi il Teatro dei
Salesiani),
“Triestinità”
di
Ervin
Skalamera
(dal
14/11
presso
TheArtPhotoGallery).
CONCORSI. Domenica 16/11 si svolgerà il “RemiTour fotografico”, una
caccia al tesoro per fotografi a premi. Parallelamente, inizierà la quinta
edizione del concorso fotografico “TRIESTE 2014 e le Province del Friuli
Venezia Giulia”.
Il festival offrirà inoltre un'occasione ai turisti che cercano un modo diverso di
visitare Trieste. Il programma è in continuo aggiornamento ed è consultabile
sul sito www.triestephotodays.com.
Trieste Photo Days 2014 è promosso a dotART in collaborazione con:
Acquamarina, TheArtPhoto, Circolo Fincantieri-Wärtsilä, Circolo Fotografico
Triestino, Circolo Ferriera di Servola sez. Fotografia, Officina Istantanea,
Merlino Multivisioni, L'Opificio, Photoclub AE.
Un abuso relativamente semplice
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
45
“Una fotografia abbastanza buona non è abbastanza”, scrisse quel
perfezionista di Edward Weston, per il quale ogni fotografia doveva essere
tagliata ad angolo vivo e scintillante di perfezione come un diamante.
Forse era troppo ottimista. Forse era solo una regola personale. Fattostà
che oggi di foto abbastanza buone ci si accontenta abbastanza, in giro.
Lo ammettono, a malincuore, anche i fotografi professionisti. È la frase
che mi ha colpito di più nella “piattaforma” della manifestazione che, promossa
dall’associazione Tau Visual, porterà a Roma il prossimo 11 novembre un
numero ancora imprevedibile di fotografi professionali molto preoccupati per il
futuro del loro mestiere minacciato dalla concorrenzza sleale di fotografi più o
meno estemporanei.
La frase è questa:
“poiché è relativamente semplice ottenere risultati accettabili sul piano
fotografico, un numero sempre crescente e ora inaccettabilmente elevato di
privati cittadini ha iniziato a ricercare attivamente clientela, proponendosi
come fotografi, ma senza configurarsi in alcun modo né formalmente, né
fiscalmente”.
Lo so, adesso dovrei parlarvi dei motivi e degli obiettivi della “giornata di
sensibilizzazione” (il mio amico Roberto Tomesani di Tau mi invita a non
chiamarla “protesta”), ma che volete farci, Fotocrazia ama le riflessioni
tangenziali, e quel passaggio, “poiché è relativamente semplice ottenere
risultati accettabili sul piano fotografico” mi rimbalza in testa e mi fa riflettere.
E allora vi rimando al documento della manifestazione per approfondimenti e
adesioni, e parto per la tangente.
“Alla portata dell’ultimo degli imbecilli”, disse Nadar della tecnica
fotografica. Dellatecnica però, non del sentire fotografico. La storia è vecchia:
la tecnica, cosa che s’impara in due minuti, “un centocinquantesimo, f/11 col
sole e f/5.6 con l’ombra” e via andare: su questo, c’è un secolo e mezzo di
citazioni. Ma per tutto il resto, o c’è l’occhio o non c’è. Così almeno si era
d’accordo tutti nel pensare. Fino a ieri? Forse.
In quel “relativamente semplice”, leggo ora un’amara riflessione dei
professionisti, gente che i propri strumenti li conosce, sull’abbassamento di
quello scalino che sembrava così insuperabile fra tecnica e capacità, fra tecnica
ed esperienza. Quello scalino di competenza, pratica, mestiere che soli
garantivano la qualità del prodotto professionale rispetto a quello dilettantesco.
Quello scalino è ormai definitvamete limato dai progressi della tecnologia
applicata.
“Relativamente semplice” mi pare l’ammissione a mezzavoce di una
realtà dura da ammettere: che oggi le fotocamere fortemente presettate,
anche quelle semiprofessionali, non solo ti garantiscono che una foto in
qualche modo venga fuori, ma che venga fuori abbastanza buona: nel senso,
anche esteticamente, formalmente. Abbastanza per le esigenze di un cliente.
Sbaglio, Roberto?
E dunque, sembra di capire, il grimaldello che mette in crisi il mercato dei
professionali funziona così: i promessi sposi che vogliono l’album di
matrimonio, o l’aziendina che fa il catalogo o il poster pubblicitario, scritturano,
magari in nero o in grigio (qui gli amici puntano il dito sull’ambigua fattispecie
fiscale della “prestazione occasionale”, ma è un dettaglio), l’amico dell’amico
che ha una supercamera, perché ormai sanno di poter ottenere
fotografie accettabili anche a buon mercato.
Conta poco che i professionali avvertano, magari con ragione, che
quell‘accettabile è quasi sempre assai scadente. La domanda vera a questo
punto è: i committenti lo sanno, che il prodotto abusivo e low-cost di cui si
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accontantano è scadente (e allora sono solo taccagni consapevoli che alla fine
ricevono poco perché vogliono spendere poco)?
Oppure sono convinti che quel che ricevono sia abbastanza soddisfacente,
almeno per i loro scopi, oltre che a buon mercato? E se (qui mi arrivano i
cazzotti, lo so) il lavoro del dilettante non fosse poi sempre così evidentemente
e irrimediabilmente scadente? Quale livello minimo di qualità ritiene sufficiente
la coppia di sposi o il piccolo imprenditore? Siamo sicuri che tutti esigano il
massimo? E non invece il miglior rapporto prezzo-qualità?
Dalla risposta dipende tutto il resto. Sempre lotta all’abusivismo è
(sull’odiosità dell’evasione fiscale non si discute), ma nel primo caso (taccagni
che s’accontentano di poco) va fatta in nome della necessaria qualità di un
lavoro visuale fatto a regola d’arte. Nel secondo caso (taccagni convinti di
avere abbastanza), invece, la difesa della professione deve vedersela, prima
ancora che con le fatture in regola, con un cambiamento profondo nel gusto di
massa, e allora le cose sono un po’ più difficili.
Penso, scusate, che sia più vera la seconda. Anche perché è un circolo
vizioso, il prodotto basso abbassa il gusto che abbassa il prodotto ecc., e il
“manifesto” della manifestazione lo sa bene , infatti parla di “una spirale di
peggioramento della qualità delle produzioni fotografiche ad ogni livello, ed un
conseguente impoverimento ed appiattimento della qualità e – per molti versi
– della cultura fotografica”.
Certo, non si va in piazza contro il cattivo gusto o contro il kitsch di massa.
Infatti i “Fotografi uniti” chiedono tutela contro la concorrenza delle evasioni e
delle elusioni fiscali, non contro il collasso estetico di una cultura visuale.
Ma temo che il nodo sia lì. Anche se gli amici di Tau sono abbastanza
intelligenti da non cadere nella trappola dell’elitarismo snob, non si scagliano
contro la proliferazione della fotografia nell’era della “fotocamera in ogni
taschino”, anzi ne riconoscono i lati positivi:
“La fotografia è divenuto il mezzo con cui, anche in chiave ludica, chiunque
comunica con gli altri, con grande efficacia. [...] Questo fenomeno rappresenta
un’evoluzione naturale e, pur avendo comportato un’erosione delle possibilità
di lavoro di una parte di fotografi professionisti, NON è certo questo il disagio
oggetto della nostra segnalazione e manifestazione”.
Parole sagge. Ma bisogna pur fare i conti con quelle due paroline dal sen
fuggite:relativamente semplice. E domandarsi se magari gli abusivi della
professione (ce ne sono in tutte le professioni) che prosperano in un contesto
di crisi della qualità e del gusto, in fotografia non siano anche un effetto
collaterale, perfino un po’ calcolato, delle politiche dimarketing dei produttori di
attrezzature.
Anche questi ultimi, in fondo, vedono le loro quote di mercato tradizionali
minacciate dalla diffusione degli apparecchi integrati negli smartphone,
prodotti da altre imprese. E capiscono che, se le loro macchine di qualità hanno
ancora una chance di resistere all’impatto, sarà promettendo ai fotoamatori
evoluti di sbagliare sempre meno, di realizzare quasi ad ogni colpo
fotografie accettabili.
Colossi dai piedi improvvisamente argillosi, le major della fotografia
classica, che sentono sul collo il fiato dei fabbricanti di supertelefonini,
promettono al fotoamatore di sconfiggere quella sindrome che lady Elizabeth
Eastlake, precosissima madrina della categoria, sintetizzò con penna brillante:
“Fotografia, il tuo nome è delusione”.
Niente più delusioni, assicura l’apparecchio superprogrammato. “I Am”,
la fotocamera oggi promette a tutti l’affermazione sicura dell’Io. L’industria
fotografica
garantisce
ai
fotoamatori
di
farli
diventare,
a
colpi
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di software evoluti, dei quasi-professionali. E sei sei un quasi-professionale,
perché non provare ad esserlo fino in fondo, senza il quasi, magari solo ogni
tanto, alla domenica?
Lo dico chiaro: temo che l’industria delle fotocamere per prima abbia
“mollato” i professionisti al loro destino, annullando via via quel famoso
scalino. Dunque siete sicuri, amici fotografi di cui condivido le preoccupazioni
professionali e legalitarie, che la minaccia venga dal basso e non da dietro le
vostre spalle?
Tag: Edward Weston, Elizabeth Eastlake, fotoamatori, fotografia
professionale, Roberto Tomesani, Tau Visual
Scritto in dispute, massificazione, mercato, professionisti | Commenti »
Henri Cartier-Bresson la mostra fotografica dedicata
all’artista francese: fino al 25 gennaio 2015, Roma
di Maila Daniela Tritto da http://oubliettemagazine.com/
«Ho capito all’improvviso che la fotografia poteva fissare l’eternità in un
attimo», così afferma il fotografo francese Henri Cartier-Bresson a proposito
del suo lavoro, che l’ha visto antesignano del foto-giornalismo tanto da
meritare l’appellativo di «occhio del secolo». A lui è dedicata la
retrospettiva organizzata a Roma presso il Museo dell’Ara Pacis, in cui
sarà possibile assistere a un’esposizione unica nel suo genere, giacché le
opere provengono dal Centre Pompidou di Parigi. Un’occasione, dunque,
per ammirare i lavori di un artista che, con la fotografia, ha reso
l’immagine a testimonianza del mondo.
La mostra, curata dallo storico della fotografia Clément Chéroux,
tuttavia non è solo l’antologia di stampe fotografiche e di quadri che
dimostrano il lavoro incessante dell’artista, ma anche di documenti, riviste, libri
e disegni che gli restituiscono l’immagine di una personalità attratta dai
momenti storici di maggiore rilievo come la Seconda guerra mondiale, in
cui entra nella resistenza francese e continua a svolgere il suo lavoro.
Nella produzione artistica di Henri Cartier-Bresson si possono
riconoscere tre periodi, che fanno capo alle diverse esperienze vissute con
l’ambiente surrealista francese, il periodo centrale della Seconda guerra
mondiale e, infine, nel 1947, in cui fonda con Robert Capa, George Rodger,
David Seymour e William Vandivert la famosa Agenzia Magnum, una delle
più importanti agenzie fotografiche del mondo.
«Non è la mera fotografia che m’interessa. Quello che voglio è catturare quel
minuto, parte della realtà», dice l’artista, il quale ha elaborato un modo nuovo
di fotografare definito snap-shooting, in altre paroleincentrato sulla
spontaneità piuttosto che sulla tecnica. Così, le sue opere non sono mere
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rappresentazioni dell’oggettività, bensì diventano una forma
tangibile grazie alla quale può affascinare i suoi spettatori.
d’arte
D’altra parte lui stesso afferma: «La mia Leica è letteralmente il
prolungamento del mio occhio. Il modo in cui la tengo in mano, stretta sulla
fronte, il suo segno quando sposto lo sguardo da una parte all’altra, mi dà
l’impressione di essere un arbitro in una partita che mi svolge davanti agli
occhi, di cui coglierò l’atmosfera al centesimo di secondo». E ancora:
«Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un
evento e il suo rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che
esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente,
gli occhi e il cuore. È un modo di vivere».
In realtà, il suo amore per l’arte si unisce al dovere di partecipare con
lucidità ai grandi movimenti socioculturali del suo tempo. Dapprima,
infatti, s’interessa di pittura, eseguendo i suoi studi con Jacques-Emile Blanche
e André Lhote. Poi sarà affascinato dalla fotografia, in particolare
del reportage di guerra e della pazienza che avrà nel rendere documentario
lo stile delle sue foto, cosicché il maestro sarà riconosciuto quale precursore di
quella che a oggi è chiamata street photography, in altre parole un genere
fotografico che vuole riprendere i soggetti in situazioni reali e
spontanee. Tuttavia questa definizione non indica l’arte connessa alla strada
come sfondo, bensì qualsiasi luogo è perfetto per catturare con
l’obiettivo le interazioni sociali: «In fotografia la più piccola cosa può
essere un grande soggetto. Il più piccolo dettaglio umano può diventare un
leitmotiv».
Il suo continuo viaggio per le strade del mondo, lo indurrà a usare prima
una Leica 1 e poi una Leica M3, con cui scatterà fotografie in luoghi diversi
per usi e costumi, come in Europa, Messico, Canada, Stati Uniti, Cuba, India,
Giappone, Unione Sovietica e altri paesi che, per la loro varietà multiculturale,
gli hanno consentito di creare alcuni reportage di fama internazionale,
come Viva la Francia pubblicato da Laffont-Sélection del 1970 che ha
ricevuto il Premio Nadar l’anno seguente.
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In effetti, la scelta di una macchina fotografia più leggera e meno ingombrante
di una reflex di medie dimensioni, è il simbolo della sua produzione, giacché
predilige un modo nuovo di confrontarsi con la realtà. Pertanto, ritiene che:
«Una foto si vede nella sua totalità, in una sola volta. La composizione è una
coalizione simultanea, la coordinazione organica di elementi visuali. Non si
compone in maniera gratuita, ve ne deve essere una necessità e non si può
separare la sostanza dalla forma». Ne derivano fotografie nelle quali il
punto di vista è immediato e lo spettatore può guardare le immagini
nella loro globalità.
Dal punto di vista editoriale, il reportage Scrap Book, che Henri CartierBresson preparò per la mostra del MOMA nel 1946, è singolare, poiché è
nato quasi dal nulla. Il fotografo, infatti, era partito per gli Stati Uniti portando
con sé circa 300 fotografie, che tuttavia non avevano un ordine preciso ma
arrivato sul luogo comprò un album – scrap book, in inglese – e inserì le
immagini per sottoporle ai curatori dell’esposizione. In seguito, l’album fu
dimenticato e oggi ne restano solo tredici pagine integre. Tuttavia,nel 2007
grazie al lavoro eseguito dalla fondazione dedicata a Cartier-Bresson,
si ha un’edizione restaurata e pubblicata in Italia da Contrasto.
Quest’album è, dunque, un’importante documentazione della sua fama.
Eppure la sua carriera non l’ha visto partecipe solo nell’ambiente artistico della
fotografia, al contrario ha lavorato anche come assistente del regista
francese Jean Renoir, in tre film importanti: La vie est à nous(1936), di
carattere propagandistico giacché è stato commissionato a Renoir dal partito
comunista francese, Una partie de campagne (1936), tratto da una novella
di Guy de Maupassant, e La règle du Jeu(1939), che è uno dei maggiori
capolavori della cinematografia europea. Di conseguenza, persino nella sua
partecipazione ai film di Renoir si nota l’impegno politico e il bisogno
di rappresentare la realtà dietro la cinepresa.
L’artista diceva che: «Il mestiere di reporter ha solo trent’anni, si è
perfezionato grazie alle macchine piccole e maneggevoli, agli obiettivi molto
luminosi e alle pellicole a grana fine molto sensibili realizzate per soddisfare
l’esigenza del cinema. L’apparecchio è per noi uno strumento, non un
giocattolino meccanico. È sufficiente trovarsi bene con l’apparecchio più adatto
a quello che vogliamo fare. Le regolazioni, il diaframma, i tempi ecc, devono
diventare un riflesso, come cambiare marcia in automobile. In realtà la
fotografia di reportage ha bisogno di un occhio, un dito, due gambe». Come
già accennato, infatti, sebbene più volte avesse ripetuto di non essere per nulla
interessato alla fotografia in quanto tale, bensì al messaggio che si vuole
trasmettere con essa, ottiene un enorme successo grazie alla sua indole e alle
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immagini che trasmettono emozioni, le stesse che sarà possibile provare
durante la mostra di Roma. Perché le fotografie di Henri CartierBresson sono un mosaico di volti espressivi, ognuno dei quali racconta
la Storia dell’umanità.
Dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015 al Museo dell’Ara Pacis, Nuovo spazio espositivo
Ara Pacis. Biglietto d’ingresso: intero € 11,00 – ridotto € 9,00. Speciale scuole € 4,00 ad
alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni), speciale famiglie €
22,00 (2 adulti più figli al disotto dei diciotto anni).
Orari:
Martedì-domenica 9.00-19.00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Il venerdì e sabato, per
l’intera durata della mostra, prolungamento dell’orario di apertura, del solo spazio espositivo
(Via di Ripetta), fino alle 22.00 (ultimo ingresso ore 21.00). Chiuso il lunedì.
Proviamo a farlo insieme
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“C’è vita sulla Terra”, mi dicevo con sollievo aggirandomi nei duemila metri
quadri della MirMar, fabbrica dismessa alle porte di Savignano sul Rubicone,
dove il SiFest di quest’annoha prodotto (mia personale opinione) la sua
migliore sorpresa da alcuni anni a questa parte.
Alla fine è stata quasi l’unica mostra che ho visto quest’anno. La sorpresa
di atlante.itha riempito la mia giornata.
C’è vita in questa Italia che siamo troppo abituati a considerare in affanno
su tutti i terreni, fotografia compresa.
Non dev’essere stato semplice per Stefania Rössl e Massimo Sordi, i
curatori, portare a buon fine questa rilevazione/rivelazione dei collettivi
fotografici italiani. Alla fine ne hanno scovati trentacinque.
In alcuni di loro Fotocrazia si è già imbattuta, e ne ha scritto qua e là. Ma
l’effetto soglia, a Savignano, è stato quello decisivo. Dimostra che non ci sono
solo belle esperienze isolate, ma esiste forse una nuova corrente, nel senso
proprio di corrente elettrica, che dà la scossa alla scena fotografica italiana. Il
lavoro collettivo in fotografia ormai fa massa critica.
Fotografare insieme: una sfida al mito dell’autore isolato e romantico. Idea
finalmente dimostrata che la fotografia oggi, anche quella di ricerca, non può
più essere un oggetto visuale autosufficiente, ma fa necessariamente parte di
un “pacchetto” articolato di messaggi.
Ma è anche una sfida al sistema della fotografia in crisi di idee e di
contenuti. Fotografare insieme per fotografare qualcosa: mica scontato.
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Gallerie reali e virtuali, mostre e mostriciattole italiane sono molto spesso
piene (bisognerebbe dire vuote) di “progetti fotografici” che non fotografano
niente se non la mancanza di idee di chi se li è inventati.
Invece i collettivi fotografici hanno scelto di fotografare l’Italia. Quel che
abbiamo attorno, addosso, questo paese (luogo comune della deprecatio
autolesionista: non a caso preso e ribaltato di senso da uno di questi
esperimenti). Non semplici club, non vecchi circoli, ma progetti di immagine
condivisa, fortemente glocal: radicati nei territori e attenti agli scenari sociali,
ecologici, umani, economici.
Quel che più conta, lo fanno quasi sempre di propria iniziativa, e quasi
sempre a proprio rischio. La grande stagione delle committenze pubbliche, se
mai è stata grande, è finita, falcidiata dalla spending review (la crisi in corso
del MuFoCo di Cinisello Balsamo ne è la conferma). Gli assessori all’urbanistica
non hanno più soldi da spendere per campagne di “lettura fotografica del
territorio” da chiudere nei cassetti subito dopo la conferenza stampa.
Qua e là segni di attenzione pubblica resistono, patrocìni e piccoli
finanziamenti pubblici sono citati, in qualche raro caso le istituzioni prendono
ancora l’iniziativa di sostenere piccoli centri di ricerca visuale, soprattutto nei
centri minori. Ma in buona sostanza, sono quasi sempre auto-commissioni in
cerca di attenzione, un po’ di crowd-funding, e qualche sponsor.
Forse è presto per parlare di un movimento omogeneo, di una nuova
generazione, di un approccio “italiano” al rapporto fra fotografia e realtà. In
fondo, quando si scende nel dettaglio, si capisce che le esperienze sono molto
diverse una dall’altra. In qualche caso è il gruppo che fa il progetto, in qualche
caso è vero il viceversa.
C’è il collettivo vero, orizzontale, paritario e ad alto tasso di condivisione
della paternità del lavoro (fino alla soppressione delle firme individuali), c’è
l’associazione dove ogni autore fa un po’ la sua strada; c’è il gruppo già
strutturato in impresa commerciale e c’è l’esperienza nata da un workshop,
dove si avverte l’impronta di un primus inter pares; c’è l’aggregazione nata su
Facebook e quella radicata in un quartiere; c’è l’esperienza finalizzata e
conclusa una volta raggiunto l’obbiettivo, e quella che si sviluppa e cambia nel
tempo…
Ma in tutti mi è sembrato di poter trovare un filo rosso. Torna, prepotente,
la voglia di fotografia che scopre, scava, analizza e interpreta la scena sociale,
la scena urbana e antropica, quasi sempre con forti e dichiarate motivazioni
etiche e politiche. E torna accompagnata dalla consapevolezza che serve una
nuova forma, un nuovo modo per dirlo.
Non sto parlando solo del modo di esporre, che a Savignano era
generosamente, volutamente, allegramente caotico. Né del modo di
comunicare, di depositare il lavoro: anche se il banco delle pubblicazioni, delle
auto-edizioni, pieno di invenzioni editoriali, ribollente di voglia di stupire, di
cambiare registro, di sovvertire gli schemi dell’editoria tradizionale, era forse il
luogo più vitale ed emozionante della mostra intera.
No, parlo proprio del modo di lavorare. Dell’abbandono, quasi sempre,
della presunzione dell’occhio dell’esperto, di quella hybris del fotografo come
veggente assoluto, del testimone eroico con la vocazione all raddrizzamento
dei legni storti che ha percorso nel bene e nel male tutto il Novecento della
fotografia documentaria e sociale.
Vedo ragazzi che depongono certe presunzioni autoriali e cominciano a
pensare alla fotografia come una chiave di una tastiera più ampia per
“suonare” il mondo che ci circonda. Che non consideranio le immagini di per
52
loro “rivelazioni della verità”, ma strumenti d’indagine, cucchiai che raccolgono
tracce, indizi, impronte da studiare, assieme a parole, oggetti, documenti.
Il progetto Confotogafia in questo mi ha colpito: cinquanta fotografi a
L’Aquila, un seminario iniziale con esperti, poi ciascuno si è trovato unoscout,
una guida indiana, un abitante delle zone terremotate, delle new townsdella
vergognosa ricostruzione propagandistica, che lo ha portato lungo i percorsi
della propria esperienza dei luoghi, indicandogli quel che c’era da vedere e far
vedere, e spiegandoglielo.
Mappe, documenti, riflesisoniconclusive completano il “pacchetto”. Questa
non è più fotografia sociale d’inchiesta, è inchiesta sociale con – tra l’altro –
fotografie.
Ma il caso aquilano è solo quello che mi è sembrato più emblematico. Non
vale la pena di fare graduatorie.
Vale la pena invece di nominarli tutti, questi trentacinque incoraggianti
piccoli miracoli che spero cresceranno. Visitaeli.
Eccoveli, con tutti i link che sono riuscito a trovare (segnalatemi
eventuali errori):Adriatic Project, Calamita/à, Cesuralab, Confotografia, Corpi di
Reato, Deaphoto/Notturni
urbani, DER
Lab, Documentary
Platform, Exposed, Fotoromanzo Italiano, Habitat Project, Lab, Laboratorio
Irregolare, Landscape
Stories, LNM10, Lugo
Land, Lungofiume,Micamera, Micro, Nastynasty/Blisterzine, Osservatorio
Fotografico, Pelagica, Presente
Infinito, Planar, Punto
di
Svista, Officine
Fotografiche, Questo
Paese, Rorhof, Spazio
Labò,Synap(see), Terra
Project, The View from Lucania, Urbanautica, 150, 3/3.
Sia chiaro: non tutto mi è piaciuto, non tutto ho capito bene. Ma credo che
i difetti, le ingenuità, i “già visto”, le ridondanze, le retoriche inevitabili di
questi sforzi passino del tutto in secondo piano rispetto alla sorpresa, quasi
miracolosa, di vedere che questi sforziesistono.
Tag: collettivi, fotografia, Massimo Sordi, SIFest, Stefania Rössl
Scritto in Eventi, fotografia e società | 27 Commenti »
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Gianni Berengo Gardin - Elliott Erwitt
Comunicato stampa da http://undo.net/
Un'amicizia ai sali d'argento. Fotografie 1950 - 2014. In mostra 120
immagini ripercorrono la carriera dei due fotografi. Ci sono anche i
provini delle piu' importanti foto e una ricostruzione del loro studio.
a cura di Alessandra Mauro
Un’amicizia ai sali di argento a Roma presso l’AuditoriumExpo
dell’Auditorium Parco della Musica. La mostra, a cura di Alessandra
Mauro, sarà presentata nell’ambito di Auditorium Foto grafia, un
progetto della Fondazione Musica per Roma in collaborazione con
Contrasto e Fondazione Forma per la Fotografia. La mostra sarà aperta
dal 14 ottobre al 2 novembre 2014 e dal 18 novembre al 1 febbraio
2015.
L’esposizione, per la prima volta, mette a confronto due grandi
interpreti della fotografia, due maestri della camera oscura. Nella loro
lunga carriera, Berengo Gardin e Erwitt ancora oggi percorrono il mondo
guardandolo attraverso il visore di una macchina fotografica, strumento
e pretesto di vita, per poi scegliere, sui provini a contatto, le foto
migliori di cui la stampa finale, quella definitiva, avrà i segni, le luci e le
ombre dei sali d’argento e della realtà.
Molte celebri, altre poco note, altre ancora appena realizzate e mai
mostrate finora, in questa mostra le immagini di Gianni Berengo Gardin
e quelle di Elliott Erwitt dialogano una con l’altra, in un percorso
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incrociato di stili, recuperando il senso di uno sguardo, quello partecipe
e intenso dei fotogiornalisti, e di un legame f orte, come appunto
l’amicizia. Un’amicizia fatta di camera oscura, di acidi di sviluppo e di
sali d’argento.
Centoventi fotografie ripercorrono la carriera dei due fotografi, dai primi
anni Cinquanta fino agli ultimi reportage realizzati in questi recent i mesi
sulle grandi navi a Venezia per Berengo Gardin e uno reportage sulla
Scozia per Elliott Erwitt.
Ma in mostra ci saranno anche i provini delle più importanti immagini
dei grandi fotografi e una ricostruzione del loro studio: il luogo magico
dove tutto avviene o meglio, tutto si rivela.
Un libro pubblicato da Contrasto accompagna l’esposizione.
Gianni Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel 1930. Nel
1963 vince il World Press Photo. Dopo essersi trasferito a Milano si è
dedicato principalmente alla fotografia di reportage, all’indagine sociale,
alla documentazione di architettura e alla descrizione ambientale. Nel
1979 ha iniziato la collaborazione con Renzo Piano, per il quale
documenta le fasi di realizzazione dei progetti architettoni ci. Nel 1995
ha vinto il Leica Oskar Barnack Award. È molto impegnato nella
pubblicazione di libri (oltre 200) e nel settore delle mostre (oltre 200
individuali). Contrasto ha appena pubblicato Il libro dei libri (2014) che
raccoglie tutta i volumi pubblicati (oltre 250).
Elliott Erwitt è nato a Parigi nel 1928 da genitori russi. La famiglia si
trasferisce negli Stati Uniti nel 1939 per sfuggire le leggi razziali, fatto
questo che permette a Erwitt di studiare cinema a New York. Svolge il
servizio di fotografo in Europa presso l’US ARMY Signal Corps, ruolo che
gli permise di entrare in contatto con Robert Capa che lo indroduce in
Magnum Photos di cui diventa membro nel 1970. Ha esposto nei più
importanti musei del mondo e i suoi libri sono dei best sellers
fotografici.
L’ESPERIENZA DELLA CAMERA OSCURA
Nell’ambito
della
mostra,
nel
nuovo
spazio
AuditoriumExpo
completamente rinnovato, proseguiranno le iniziative di Auditorium
Fotografia. Incontri con gli autori, presentazioni di libri, conferenze,
lezioni di fotografia e una inedita esperienza in camera oscura
accompagneranno la programmazione delle mostre di fotografia
dell’Auditorium di Roma.
Organizzata insieme all’associazione Antropomorpha, L’esperienza della
Camera Oscura permette ai visitatori di sperimentare la pratica del
fotografo analogico entrando nella camera oscura ed imparando, sotto
la guida di un esperto, le principali tecniche di stampa e come realizzare
le fotografie ai sali d’argento.
Gli incontri avverranno di sabato alle 10 del matti no, avranno una
durata di due ore, un costo di 50 euro (comprensivo anche del biglietto
della mostra).
Date incontri: 18 e 25 ottobre; 1, 15, 22 e 29 novembre
Numero massimo di partecipanti: 10 persone
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È indispensabile la prenotazione inviando
indirizzo: [email protected]
una
mail
al
seguente
Gianni Berengo Gardin incontrerà il pubblico lunedì 13 ottobre alle 19 a
Roma in occasione della inaugurazione della mostra Gianni Berengo
Gardin – Elliott Erwitt.
Ufficio stampa Contrasto- Tel +39 06 328281 Fax +39 06 32828240 [email protected]
Auditorium Parco della Musica , viale Pietro de Coubertin 30 - 00196 Roma
Orario: dalle ore 11 alle 18. Domenica e festivi dalle ore 10 alle 18.
Disimparare a vedere. Una storia con l’orso
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Barry Lopez (photo © David Liittschwager, g.c.)
Se sei uno scrittore naturalista, se ti trovi su una scialuppa negli anfratti
del pack, in mezzo a una tormenta di neve, e avvisti un orso bianco che cerca
di cavarsela fra i lastroni di ghiaccio, e se hai una macchina fotografica, non
hai scelta.
Barry Lopez afferrò la sua fotocamera e cominciò a scattare quel che
vedeva. Quel che pensava di vedere.
Più tardi, al calduccio dell’Oceanographer, la nave della sua spedizione
artica, ricapitolò gli eventi, per farne quel che era suo scopo primario farne:
scriverne. E provò una sensazione di disagio, quasi di panico.
Provai a richiamare alla mente tutti i dettagli dell’incontro con l’orso. Cosa
aveva fatto quando ci aveva visti? Aveva cambiato direzione? Come aveva
proceduto? Come aveva fatto esattamente ad arrampicarsi sul lastrone di
ghiaccio galleggiante per uscire dall’acqua? Come funzionava quel suo
movimento? Quando si era scrollato di dosso l’acqua del mare, in cosa era
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stato diverso rispetto a un cane che compie lo stesso movimento? Quando
aveva sibilato, che colore aveva l’interno della sua bocca? [...] Per il mio lavoro
di scrittore, ricordare cosa era accaduto in un incontro era cruciale; ma
occuparmi delle macchine fotografiche, durante quel tempo passato con l’orso,
aveva alterato e ridotto il mio ricordo. Mentre l’orso polare faceva qualcosa, io
stavo controllando il regolatore dell’apertura per cercare di inquadrare e
mettere a fuoco da una barca in movimento.
Barry
Lopez
è
un
giornalista, saggista
e scrittore californiano,
discretamente noto per i suoi libri sulla fauna selvatica e sul paesaggio nordico.
Per una quindicina d’anni è stato anche fotografo naturalista, ammiratore dei
grandi fotografi americani, da Adams a Weston, amico di Robert Adams.
In capitolo del suo libro di appunti autobiografici, Una geografia
profonda, appena tradotto in italiano, riflette anche sul rapporto fra le sue
immagini e la sua scrittura.
E l’episodio dell’orso è cruciale nella sua decisione di allontanarsi
definitivamente dalla fotografia praticata.
Una scelta che ha molte ragioni, non ultima una sua crescente perplessità
sull’immagine fotografica della fauna selvatica che viene proposta dalle grandi
riviste di viaggio, geografia e natura. In particolare, non gli piaceva che, nelle
fotografie sui media,
gli animali selvatici nel mondo naturale fossero vivaci e decorativi. Indicati
come eleganti, coraggiosi, aggraziati, sinistri, astuti e così via, in base alla
specie, gli animali venivano privati della loro personalità e della capacità di
essere originali [...] un paesaggio di animali selvaggi piacevole ma non
necessariamente coerente (immagini che essenzialmente mentivano ai
bambini).
Ma quell’incontro sul pack, mediato, anzi schermato dall’obiettivo, dice a
lui e a noi qualcosa di più. Ossia che il fotografo, spesso, non vede. Che lo
scrittore, dunque, devedisimparare a vedere come (non) vede il fotografo.
Cercando sia di fotografare sia di scrivere, io non facevo altro che creare
due storie parallele ma indipendenti. Lo sforzo era diventato disorientante, e
molto faticoso. [...] Avevo iniziato a sospettare che le fotografie scattate in
fase di raccolta appunti rinchiudessero le mie parole in uno schema che si
andava determinando troppo presto. In un certo senso, le fotografie
introducevano preconcetti in un processo che io volevo mantenere fluido.
Barry si convinse che il fotografo che deve fissare visioni immediate per
una visione differita, e lo scrittore che deve archiviare visioni immediate per
una scrittura differita, non vedono le stesse cose.
Stavo anche iniziando a provare disagio per il modo in cui le fotografie
tendono a collassare gli eventi in un singolo momento, dunque per tutto ciò
che lasciano fuori. (Gli archeologi devono affrontare un problema simile quando
di uno scavo salvano solo quello che riconoscono. Anni dopo, quando il
contesto è stato distrutto da tempo, l’archeologo può domandarsi cosa c’era,
allora, che non aveva riconosciuto).
Sintesi contro analisi. Raccolta contro elaborazione. Davvero questo è il
grande solco che divide le due culture, verbale e visuale?
Tag: Ansel Adams, Barry Lopez, Edward Weston, fotografia naturalistica,
geografia, orso, Robert Adams, scrittura
Scritto in natura, Testo e immagine | 12 Commenti »
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L’AMORE PER L’ITALIA NELLE FOTOGRAFIE DI LEONARD
FREED IN MOSTRA AL CENTRO CULTURALE CANDIANI
da CANDIANI NEWS
Io amo l’Italia è il titolo della mostra di Leonard Freed che verrà inaugurata
giovedì 20 novembre alle ore 18.00 al Centro Culturale Candiani, e che sarà
visitabile dal 21 novembre 2014 al primo febbraio 2015.
La mostra, organizzata dal Centro Candiani, associazione culturale
ADMIRA+,Associazione Culturale Civico5, e curata da Enrica Viganò, sarà
composta da una selezione di 100 fotografie, che ci accompagneranno negli
oltre quarantacinque viaggi che Leonard Freed ha fatto nella nostra Italia,
paese con il quale il fotografo ha dichiarato di avere una vera e propria love
story. Da qui il titolo Io amo l’Italia.
Un lungo innamoramento, che nasce da un viaggio in Europa, prende forma dai
primi scatti a Little Italy e si sviluppa in 50 anni di studio puntuale della
naturaumana, di cui gli italiani, secondo lui, ne rappresentavano una delle
migliori manifestazioni.
Attraverso il suo strumento, la macchina fotografica, usato magistralmente e
guidato da un’istintiva comprensione dell’uomo e della sua natura, scatena
quello che è il suo maggior interesse: l’attenzione per l’uomo e per le
motivazioni del suo essere. Come Freed stesso ammette: “La mia macchina
fotografica è il mio lettino dello psichiatra”.
Per capire ancora di più il suo lavoro in Italia basta ascoltare le sue riflessioni:
“La cosa che sto cercando di mettere nelle mie fotografie è l’elemento del
tempo. Il tempo passa e noi abbiamo bisogno di esserne consapevoli. La
fotografia ci può dare questa consapevolezza”. Probabilmente proprio questa
diventa una componente determinante del suo innamoramento per il nostro
paese, un luogo dove presente e passato convivono e interagiscono in maniera
tangibile e metamorfica.
Accompagnerà la mostra il catalogo edito da Admira Edizioni, Leonard Freed,
Io amo l’Italia, Milano 2011, testo critico di Michael Miller.
La mostra - organizzata nell’ambito del progetto Candiani fotografia. Impronte,
tracce, segni: dalla luce all’immagine, un itinerario nella fotografia d’autore
attraverso le opere di importanti maestri, italiani e stranieri - sarà arricchita da
una serie di eventi flash tra i quali la presentazione del libro La fotografia come
fonte di storia, a cura di Gian Piero Brunetta, giovedì 4 dicembre alle ore 18.00
e il finissage “Per le storie è meglio il bianco e nero” Musica e parole nell’Italia
di Freed in programma il 31 gennaio sempre alle ore 18.00.
IO AMO L’ITALIA
Fotografie di Leonard Freed - a cura di Enrica Viganò
Organizzata da Centro Culturale Candiani in collaborazione con associazione
culturale ADMIRA+ e Associazione Culturale CivicoCinque
Dal 21 novembre 2014 al 1 febbraio 2015
Inaugurazione mostra: giovedì 20 novembre, ore 18.00 - orario: dal mercoledì
alla domenica 16.00 - 20.00, aperture straordinarie: 8 dicembre e 6 gennaio
16.00 – 20.00 - sala espositiva secondo piano
ingresso: intero 5 euro – ridotto 3 euro (Candiani Card, Cinema Più, IMG Card,
studenti) - Il servizio di biglietteria termina mezz’ora prima della chiusura.
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Catalogo: Michael Miller, testo critico a cura di, Leonard Freed, Io amo l’Italia, Admira Edizioni,
Milano 2011
Eventi flash: giovedì 4 dicembre, ore 18.00 Presentazione del libro La fotografia come fonte di
storia. (AA. VV, 2014) - Atti delle giornate di studio (Venezia, Istituto Veneto di Scienze e
Lettere, 4-6 ottobre 2012). Partecipano all’incontro Roberto Ellero e Gian Piero Brunetta - sala
seminariale primo piano
ingresso libero
sabato 31 gennaio, ore 18.00: Finissage “Per le storie è meglio il bianco e nero” Musica e
parole nell’Italia di Freed - A cura di Simonetta Nardi e Voci di Carta - sala espositiva s
Le grandi foto che René non fece
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
René Burri e il suo ritratto del Che (foto Ansa)
Su un marciapiede di New York, ferma al semaforo, René Burri riconobbe Greta
Garbo. Già lontana dalle scene, fuggiva il mondo, divina auto-esiliata dietro
enormi occhiali scuri, che proprio in quel momento si tolse.
Qualunque fotografo avrebbe agito d’istinto. Lui non portò la Leica
all’occhio. «Sarebbe stata una fotografia troppo ovvia», raccontò poi, senza
rimpianti.
Cavaliere di un ordine religioso chiamato fotografia, l’infaticabile monaco
errante Burri, scomparso il 20 ottobre a 81 anni di età nella sua Zurigo, sapeva
rispettare il sacro.
Andava più fiero delle foto mai fatte che delle trentamila che lo hanno reso
celebre come uno degli occhi più penetranti del Novecento (da un anno
conservate al museodell’Elysée di Losanna dalla fondazione che porta il suo
nome, che ha in programma per il 2015 una grande retrospettiva).
Ebbe un giorno nel mirino l’anziano Fidel Castro sotto l’insegna “uscita” di
un albergo: non scattò. Nei suoi servizi dal Vietnam è difficile trovare un
cadavere. Diceva: «Un giorno farò un libro con tutte le foto che non ho mai
scattato, sarà un enorme successo».
Così, è piuttosto difficile pensare che la sua immagine più famosa, quella
per la quale verrà ricordato in tutto il mondo, il ritratto di Che Guevara con
quel sigaro issato all’angolo destro della bocca come una bandiera, o come un
cannone puntato (d’accordo: anche come un simbolo fallico, se volete), sia
stata per lui un’icona premeditata.
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Icona lo fu certamente, virale e travolgente: l’unica in grado di fare
concorrenza a quell’altra più fortunata ancora, il Che-Cristo con basco e la
stella che Giangiacomo Feltrinelli portò via al fotografo cubano Alberto Korda,
posterizzò e incollò sulla copertina del diario boliviano del Comandante,
proiettandola nell’immaginario ribelle di ogni adolescenza, e di ogni ideologia.
Anche il Che di Burri si vendette a milioni di esemplari su poster, cartoline,
magliette, anche il suo sant’Ernesto dal sigaro immacolato diventò più famoso
del suo autore. Ma a differenza dell’altra, non ha mai smesso di essere una
fotografia. Non è diventata un arazzo liturgico come tanti ritratti del
rivoluzionario vivente (e morente).
Perché era una fotografia, fin dall’inizio: e perché Burri era un fotografo,
da cima a fondo. Svizzero, come tanti grandi fotografi del Novecento, da
Werner Bischof a Robert Frank.
Photomaton Rene Burri, giugno 2013, © Musee de l’Elysee, g.c.
Nel 1959 fu proprio Bischof, amico, mito e ispiratore (quando morì in un
incidente in Perù, ne sposò la vedova Rosellina), a presentare a Magnum,
confraternita del fotogiornalismo indipendente, quel ragazzino promettente e
molto timido che aveva studiato design, e che all’inizio amava forse il cinema
più della fotografia, ma a 13 anni aveva fatto un piccolo scoop fotografando
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Winston Churchill al finstrino di un’auto diplomatica mentre attrraversava le vie
di Zurigo.
Il suo primo reportage, su una scuola di bambini sordomuti, passò a pieni
voti l’esame dei sacerdoti dell’obiettivo, Capa e Cartier-Bresson. E Magnum
cominciò a spedirlo in giro per i due emisferi a caccia di immagini da vendere
a Life o a Du, Medio Oriente, Indocina, Brasile…
Finì così, quella mattina del gennaio del 1963, in un ufficio del ministero
dell’Industria di un’Avana ancora scossa dalla crisi dei missili, dove la
giornalista Laura Bergquist di Look aveva ottenuto un’intervista esclusiva con
un giovane barbudo spettinato, in tuta verde militare e anfibi, che sembrava
quasi incredulo di essere proprio lui il ministro.
«Due ore di grande tensione», che Burri sfruttò per farsi invisibile e
cogliere il comandate con la guardia abbassata, fuori posa. Scattò otto rullini. Il
Che non gli offrì neanche un sigaro.
Sono tutti da guardare, come un film, quei provini presi in stato di grazia di
un Che non ancora imbalsamato dall’Hasta siempre!, che si lascia sfuggire
sorrisi da bimbo, che prova pose davanti alla carta geografia di Cuba, che si
stropiccia gli occhi sfinito dal duello con l’intervistatrice.
Anche Burri sfuggì al monumento di quella foto troppo famosache
poteva schiacciarlo. Come solo i grandi sanno fare, cambiò continuamente
direzione. Appassionato di architettura, conquistò la fiducia di Le Corbusier di
cui documentò il lavoro maturo, culmine la chiesa di Ronchamp; girò
documentari (anche per la Disney), espugnò la diffidenza di Picasso, e il suo
primo libro ebbe una prefazione di Baudrillard.
Visse la sua «doppia vita», forse quadrupla, sestupla, di reporter in
bianco e nero e a colori, di fotografo e cineasta, di giornalista e di artista, «e
questo mi ha difeso dal diventare cinico».
La fama mondiale della sua fotografia-icona, più potente di lui, lo
divertiva. Anni dopo, di nuovo a Cuba, ne scovò una gigantografia appesa
nell’androne di una banca dell’Avana. Provò a rifotografarla. Fu
immediatamente arrestato.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 21 ottobre 2014]
Tag: Alberto Korda, Avana, Che Guevara, Cuba, Du, Fidel Castro, Giangiacomo Feltrinelli,
Greta Garbo,Henri Cartier-Bresson, Jean Baudrillard, Laura Bergquist, Le Corbusier,
Life, Look, Pablo Picasso, René Burri, Robert Capa, Robert Frank, Werner Bischof
Scritto in Il valzer degli addii, Venerati maestri | 11 Commenti »
Da Capa a Cartier-Bresson, la nascita di Magnum
di Nicoletta Castagni da www.ansa.it
La nascita della Magnum Photos, la più celebre agenzia fotografica del mondo,
è di scena dal 31 ottobre all'8 febbraio a Cremona, negli spazi del nuovo Museo
del Violino. Esposti 110 scatti dei fondatori Robert Capa, Henri Cartier-Bresson,
George Rodger e David Seymour, che si erano geograficamente divisi il mondo
per andare a realizzare i loro straordinari reportage.
Intitolata 'La nascita di Magnum Robert Capa Henri Cartier-Bresson George
Rodger David Seymour', l'importante rassegna organizzata da Magnum Photos,
Unomedia e Sgp Eventi, è stata curata da Marco Minuz, che è riuscito a
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mettere insieme per la prima volta gli scatti realizzati nell'immediato
dopoguerra in Medio Oriente e Africa, America e Oriente dai quattro fotografi
che come nessun altro hanno saputo raccontare un'epoca. Un risultato che del
resto era già nelle loro intenzioni. Il 22 maggio del 1947, dopo alcune riunioni
presso il ristorante del Moma di New York, viene infatti iscritta al registro delle
attività americane la 'Magnum Photos Inc', nome che prendeva spunto dalla
bottiglia di champagne. A firmare erano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson,
George Rodger, David Seymour e William Vandivert, che insieme riuscirono a
concretizzare la lunga riflessione avviata proprio da Capa durante la guerra
civile spagnola e condivisa in seguito con molti colleghi impegnati come lui a
raccontare la storia e la società in evoluzione nel cuore del '900.
Il progetto si fondava sulla tutela del lavoro del fotografo e sul rispetto degli
associati diritti fotografici. Attraverso la formula della cooperativa, i fotografi
diventavano proprietari del loro lavoro, prendevano decisioni collettivamente,
proponevano autonomamente alle testate i propri lavori per non rimanere
assoggettati alle esigenze editoriali delle riviste, e rimanevano proprietari dei
negativi, garantendo così un pieno controllo sulla diffusione delle immagini e
dei testi delle didascalie associate alle foto, nonché al perentorio divieto di
manipolazione. Con questi presupposti, e con la qualità del lavoro dei suoi soci,
Magnum è in breve tempo diventata un riferimento imprescindibile nel mondo
del fotogiornalismo. Fin dagli esordi, viene quindi prevista, per ogni fotografo,
una suddivisione geografica dove operare: Henri Cartier-Bresson in Oriente,
David Seymour in Europa, William Vandivert in America, George Rodger in
Medio Oriente e Africa, mentre Robert Capa ha piena libertà d'azione nel
mondo.
Ed è con questo autore che si apre il percorso espositivo della mostra
cremonese, con una sezione incentrata al lavoro di Robert Capa prima della
fondazione di Magnum: dalle immagini celeberrime della guerra civile spagnola
a quelle del conflitto fra Cina e Giappone e della seconda guerra mondiale. A
seguire, quattro selezioni legate ai primi reportage realizzati di Rodger, CartierBresson, Seymour e dallo stesso Capa per Magnum.
Suo è quello dedicato alla nascita dello stato di Israele con una particolare
attenzione ai campi di rifugiati, mentre il reportage di George Rodger è
dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. Se l'obiettivo di Henri Cartier-Bresson
racconta l'India a una svolta cruciale con le ultime fotografie scattate a Gandhi
prima che fosse assassinato nel gennaio del 1948, quello di David Seymour si
sofferma sulle conseguenze del secondo conflitto mondiale in Europa, con una
particolare attenzione al dramma degli orfani di guerra. Il reportage di George
Rodger è infine dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan. ''Questo progetto
espositivo reso possibile grazie ad una forte partnership con Magnum,
permetterà al visitatore di comprendere un passaggio fondamentale della
storia del fotogiornalismo che è rappresentato dalla nascita di Magnum sottolinea Muniz - Per la prima volta questi reportage vengono confrontanti
assieme permettendo di cogliere le straordinarie personalità di questi fotografi,
ma al contempo riflettere sul ruolo del fotogiornalismo nel mondo
dell'informazione''.
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Il sale della Terra un film di Juliano Salgado, Wim Wenders
di Arianna Pagliara da http://www.cinecriticaweb.it/
Già presentato e apprezzato a Cannes, l’ultimo lavoro di Wenders è arrivato
anche nelle sale italiane, dopo essere stato proiettato al MAXXI nell’ambito del
Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Wired Next Cinema, che
ha ospitato anche un incontro con il regista moderato da Mario Sesti. Wenders
ha parlato, in questa occasione, anche del suo speciale rapporto con la
fotografia, che come è noto occupa un posto di rilievo all’interno del suo lungo
e ricco percorso creativo: pensiamo a Palermo Shooting (2008),
(auto)riflessione sulla vita di un fotografo, e anche – esempio forse ancor più
calzante – al progetto Immagini dal pianeta terra, grandiosa e suggestiva
mostra di fotografie delle quali Wenders è autore, ospitata nel 2006 a Roma
dalle Scuderie del Quirinale.
Ma stavolta il regista tedesco, con Il sale della terra, pone in atto
un’operazione del tutto diversa, che consiste in un omaggio profondamente
sentito, visivamente potente e affascinante, all’imponente opera del fotografo
brasiliano Sebastião Salgado. Un incontro, questo, in un certo senso
imprescindibile, dovuto: siamo di fronte all’incrociarsi di due sguardi per così
dire paralleli e complementari, ed è proprio dall’intima affinità tra l’occhio di
Wenders e quello di Salgado che si origina l’estrema empatia con cui il regista
descrive e racconta la vita avventurosa e le molte immagini (ora straordinarie,
ora commoventi) del fotografo.
L’intento del regista non è, in questo caso, quello di portare avanti una analisi
critica – che “vivisezioni” e indaghi un processo creativo – né una riflessione sul
mezzo – cioè l’obiettivo che media tra realtà e rappresentazione della realtà,
tra l’oggetto rappresentato e il soggetto che rappresenta - o meglio, se ciò
accade, all’interno del documentario, è solo in minima parte. Tuttavia ciò non
appare né un limite né, tanto meno, un difetto, quanto piuttosto una scelta di
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campo quasi radicale, voluta e difesa fino all’ultimo.
Si è accennato, peraltro, durante l’incontro all’Auditorium Parco della Musica, al
rischio che le immagini di Salgado sembrano correre, quello cioè di essere
estetizzanti finanche nella loro rappresentazione della sofferenza o del dolore:
si potrebbe aprire il campo, procedendo in questa direzione, a una potenziale
dissertazione entro cui bellezza e verità si pongono dialetticamente come
elementi oppositivi. Ma il punto di vista di Wenders, come ha suggerito durante
l’incontro e come a conti fatti il suo film conferma, supera questa ideale
contraddizione, conciliandola nel momento in cui sceglie una discriminante del
tutto differente, quella cioè della dignità. E le immagini di Salgado, ora
maestose ora laceranti, possiedono sempre – oltre a una rara e innegabile
potenza espressiva, che forse ha pochi eguali – un enorme rispetto per ciò che
viene rappresentato, che spesso (trattandosi in gran parte di reportage di
stampo sociale e umanitario, che documentano e denunciano) coincide con
esempi drammatici di sofferenza, devastazione e disperazione.
Dalle zone desertiche del Sahel all’inferno del Ruanda, Salgado ha
documentato con coraggio e ostinazione, attraverso lunghi e innumerevoli
viaggi, alcune tra le maggiori tragedie umanitarie degli ultimi tempi. Mano a
mano però il suo interesse si è spostato anche su altri campi: luoghi e
popolazioni rimasti miracolosamente quasi incontaminati vengono ad esempio
descritti e raccontanti nel progetto Genesi.
Insieme al lavoro di Sebastião Salgado, Wenders mette in scena però anche la
sua vita familiare, soprattutto attraverso lo sguardo privato e coinvolto del
figlio Juliano Salgado, coregista del film. In questo modo si alternano alle
fotografie di Salgado immagini d’archivio e interviste, come quella fatta dal
nipote al nonno (padre di Sebastião), che racconterà di un’immensa fazenda
distrutta dalla siccità, che tuttavia tornerà infine a nuova vita proprio grazie al
fotografo. Da un’idea della moglie Lelia nasce infatti il progetto di riforestazione
della terra dove Sebastião era cresciuto: viene fondato l’Instituto Terra e
ricreata la mata atlantica (la tipica foresta pluviale), piantando circa due milioni
di alberi e ricreando così, a partire da zero, un perfetto ecosistema in circa
dieci anni.
Il film si chiude su questa impresa incredibile e miracolosa con un congedo
dolce e beneaugurante, attraverso immagini che esaltano e celebrano
simbolicamente la rinascita in un possibile percorso di contrapposizione e
riscatto rispetto alla drammaticità e durezza dell’esistere testimoniate
dall’opera di Salgado stesso.
Trama
Il documentario ripercorre la vita e il lavoro del grande fotografo brasiliano
Sebastião Salgado, raccontando i suoi moltissimi viaggi in luoghi tragicamente
devastati dalle guerre (come Ruanda ed Ex-Jugoslavia) oppure fascinosi e
quasi inesplorati (Antartide, Amazzoni.
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Le fotografie del surrealista Jacques-André Boiffard a Parigi
di Maurizio G. Ge Bonis da http://www.huffingtonpost.it/
La mostra più significativa, complessa e ben orchestrata che io abbia mai visto
è stata quella denominata La Subversion des images, esposizione che
riguardava la storia visuale del surrealismo, attraverso un percorso denso di
incredibili materiali (alcuni rarissimi). La seconda? Presto detto: Hitchcock et
l'Art, uno straordinario studio sulla relazione profonda e solidissima tra la
poetica dell'autore de La finestra sul cortile e le forme artistiche del Novecento.
La prima fu allestita nel 2010, la seconda nel 2001. Ma cosa unisce queste
esperienze espositive? Il luogo dove sono state ospitate: Il Centro Pompidou di
Parigi. Questi sono solo due esempi dell'importantissima opera di divulgazione
culturale che svolge da anni l'ente francese, ma l'aspetto che mi colpisce in
questi giorni è la notizia che un intero settore del Museo, circa 200 mq, sarà
interamente dedicato alla fotografia, dunque alla valorizzazione di una
disciplina visuale fondamentale per i nostri tempi. Il tutto grazie alla collezione
permanente composta a quanto pare da decine di migliaia di negativi e
stampe.
Questo nuovo ambiente dedicato alla fotografia ospiterà tre mostre all'anno e
rappresenterà dunque una sorta di centro di aggregazione per appassionati e
studiosi di fotografia che intendono approfondire tematiche relative alla
fotografia del Novecento, in particolar modo di quel periodo del XX secolo in cui
si sviluppò ad esempio un movimento significativo come quello surrealista.
Proprio a un esponente meno noto di quest'area espressiva sarà dedicato il
primo appuntamento, a partire dal novembre 2014. Sto parlando di JacquesAndré Boiffard, autore che affinò la sua poetica fotografica alla corte di Man
Ray, per il quale, oltretutto, fu assistente operatore in occasione della
realizzazione dei film dello stesso Ray intitolati: L'étoile de mer (1928) e Les
Mystères du Château de Dé (1929). Vedi:
http://www.youtube.com/watch?v=6TamgrnVL4s
Ebbene, scoprii Jacques-André Boiffard proprio in occasione della straordinaria
mostra La subversion des images che visitai al Centro Pompidou con grande
interesse. Alcune sue opere erano presentate sia nell'allestimento che nel
ponderoso e importantissimo catalogo pubblicato proprio dalle Editions du
Centre Pompidou. Dalle immagini che vidi all'epoca capii quanto Boiffard
avesse recepito perfettamente la poetica surrealista. Le sue opere erano un
mix di incongruenza semantica, visione onirico-erotica dell'esistenza,
psicanalisi e slittamenti di senso. Vedi:
http://www.youtube.com/watch?v=DFEJ_nMtB5s
Dal 5 novembre 2014 al 2 febbraio 2015 sarà visitabile al Centro Pompidou la
prima ampia retrospettiva dedicata a questo autore 'appartato'. Questa mostra
si configura come un'intelligente iniziativa di divulgazione culturale. Un grande
ente museale moderno dovrebbe operare sul piano della ricerca e della
scoperta di angoli nascosti della storia dell'arte passata e contemporanea e non
solo sulla riproposizione delle solite spettacolari "mostre pacchetto" dei soliti
noti che spesso vediamo nei nostri musei.
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Franco e Luigi, una Canon per due
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
La Canon FT se l’erano comperata dividendo alla romana, ed era di tutti e due.
E quella “comproprietà indivisa”, nella sua materiale semplicità, era una
dichiarazione di intenzioni: di lavorare per opere a due, indivisibili. Non fu
facile.
Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, Affreschi, 1973, © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c.
Materialmente, le foto le scattava Luigi (ma non sempre). Franco però
stabiliva cosa, e dove. Luigi sceglieva il come, ma non sempre.
Franco pensava che ogni foto fossepossibile, quando aveva bisogno di una
foto fatta proprio così. Luigi lottava contro la luce scarsa e le prospettive
distorte. Ogni tanto Franco sospettava che Luigi scattasse seza mettere il
rullino, così, solo per farlo contento.
Franco voleva foto in bianco e nero,“scariche”, cioè poco contrastate, poco
aggressive nel tono e nella composizione, ortogonali, asciutte. Luigi di nascosto
metteva qualche rullino a colori, ma sapeva che quelle foto di contrabbando poi
sarebbero state solo sue, non appartenevano ai “viaggi randagi” della simbiosi
di coppia.
Franco, in camera oscura, aveva fretta, per lui era sempre “buona la
prima”. Luigi sbuffava e diceva “no, ne faccio un’altra”.
Per Franco, la fotografia era l’inizio. Appena nata, cominciava a
“lavorarla”, versandole addosso polvere e vernici, incollandole addosso oggetti
e carte. Per Luigi, la foto era la mèta: per lui era autosufficiente, andava bene
così.
E tuttavia “si adoperava a collaborare, ma rimaneva persuaso che il
deposto di informazioni offerto da una fotografia risiedesse esclusivamente
nello scatto primario”.
Però i patti erano chiari, si lavorava così. E in fondo, ma questo non lo
vuole dire così chiaro, Franco sapeva bene che l’ultima parola era sempre la
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sua, che quella collaborazione stracolma di amicizia era creativamente
asimmetrica. Anche Luigi lo sapeva, ma era un amico, e le foto le faceva per
un amico. Però forse un po’ sbuffava. Però gliele faceva.
“Si vedeva, a volte gli dispiaceva che intervenissi sulle sue fotografie”,
mi raccontaoggi Franco Guerzoni, e si vede che gli dispiace anche a lui, un
po’, retrospettivamente, di quel dispiacere. Perché quella con Luigi Ghirri era
un’amicizia vera, non un semplice sodalizio d’artisti.
Franco ha deciso qualche mese fa che era ora di liberare gli ostaggi. Di
permettere a quello che chiama “un mazzo di carte”, alle migliaia di fotografie
prese da e con Luigi Ghirri, di uscire dai suoi cassetti, dove un po’ le aveva
perfino dimenticate.
Per Arturo Carlo Quintavalle “questo ritrovamento è destinato a
cambiare la storia, finora non indagata a fondo, delle origini di Ghirri e del suo
rappporto con l’arte concettuale”. Verissimo, almeno dal punto di vista del
critico, del biografo e del filologo.
Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, Aia, 1970 , © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c.
Ma quelle foto, mica erano tutte “dei Ghirri”, come quelle che avrebbe fatto
pochissimi anni dopo. Delle opere compiute, voglio dire, delle immagini
“autorzzate”.
C’erano anche le foto del matrimonio di Franco, per dire, bianco/nero a
patina matt.
In generale, erano le fotografie che Franco aveva pensato di chiedere di
fare per lui a quell’amico a cui riconosceva un occhio fotografico migliore del
suo. Anche Franco scattava, a volte: e infatti non era soddisfatto.
E Ghirri poi non era ancora Ghirri, in quei Settanta. Aveva poco più di
trent’anni ed era geometra. Grandi fotocamere, abbiamo visto, non ne
possedeva. Una volta affittarono una Leica.
E allora cos’erano quelle foto? Ma che bellissima domanda.
Modena allora era vivacissima. Altro che provincia. Era piena di maturi
ragazzi che non stavano nelle loro scarpe. Avevano un tutore poco più anziano
di loro, burbero e paterno, di nome Franco Vaccari. Avevano una gran voglia di
fare quel che nessuno aveva ancora fatto.
A che gli servivano, a Franco, quelle foto? Un po’, servivano a rendere
permanente il transitorio. Franco creava opere effimere con specchi, pannelli di
legno, neon, tessuti, costumi da orso… Erano installazioni e “gesti d’arte” che
pochissimi videro dal vero, smantellati e distrutti a volte subito dopo lo scatto
(non sempre, distrutti: alcuni oggetti poi diventavano arredi rimediati per la
casa dei suoceri…).
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Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, Pozze d’acqua, 1969 , © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di Luigi Ghirri, g.c.
Era la sua idea di opera-performance. Le fotografie ne lasciavano traccia.
Non è cosa nuova. Tutta la land art del Novecento, tutta la body artesistono
oggi solo nelle fotografie.
Ma erano poi anche oggetti prelevati e trasfigurati in imamgine, materia
prima di opere più costruite. Materia prima. In gran parte, restavano
inutilizzate. In grandissima parte. Solo alcune, le prescelte, dopo un travaglio
metamorfico, diventavano Opera.
Franco voleva certe foto (rovine di mattoni in campagna, facciate di case
semicrollate dove restava l’intonaco pallido delle stanze) per le
sue Antropologie, per i suoi Affreschi… Voleva foto “scariche” da caricare con
altra materia.
Be’, non la faccio lunga. Guardatele nel libro ”sorridente” che Franco ha
fatto per Skira (forse più ancora che nella mostra alla Triennale, dove in realtà
ha presentato soprattutto opere nuove ispirate a quelle di allora). Dopo
qualche anno il sodalizio si ruppe senza drammi né rancori, Ghirri riscattò
l’altra quota della Canon condominiale, e due vite d’artista presero due strade
d’artista.
Luigi Ghirri e Franco Guerzoni,Verosimile, Orsi a Modena, primi anni Settanta, © 2014 Franco Guerzoni, © 2014 eredi di
Luigi Ghirri, g.c.
Ma leggetelo quel lungo racconto di un’avventura randagia di due amici
visionari, così uguali così diversi. E fatevi le domande che mi sono fatto io, su
cos’è un’opera, e di chi è.
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E cos’è una fotografia, quando viene semplicemente scattata, prima di ogni
finalizzazion, prima di essere risolta, finita, “autorizzata”.
Be’ di sicuro è una relazione,lo dico spesso. E queste lo sono state in un
modo così chiaro, così entusiasmante.
Ma se quelle finite erano Opere, qualunque sia in esse la quota di autore
dell’uno o dell’altro, le foto che non servirono a creare opere, oggi cosa sono?
Nulla? Scarti? Semilavorati senza finalità, semi-opere non concluse?
Franco fruga il suo “mazzo di carte” sparso sui suoi tavoli e si rende conto
che quelle foto che lui voleva così e così, alla fine “tradivano l’aspettativa:
portano il segno distintivo del suo sguardo più che del mio”.
No, alla fine non sono davvero “opere a due”, “foto a quattro occhi”, forse
non lo erano fin dall’inizio, ed entrambi lo sapevano, forse erano il terreno
mobile di un’amicizia che sapeva superare le dissimmetrie.
Che cosa dunque sono, davvero e per sempre, quelle foto? Materiale
intermedio, mozziconi di intenzione abortita che avrebbero dovuto esser
lasciati al loro posto? Lo dicano i filologi.
Una cosa lo sono di sicuro. Sono la forma incarnata (incartata? incantata?)
di una relazione umana e intellettuale, come tutte le migliori fotografie
aspirano ad essere.
Sono, conclude Franco con generosa lucidità, “il repertorio dei nostri
sguardi condivisi, segmenti che una volta ricongiunti potrebbero diventare il
montaggio del film di una grande amicizia”.
E a noi per questo piace poterle vedere.
Tag: Arturo Carlo Quintavalle, Canon, Franco Guerzoni, Franco Vaccari, Luigi Ghirri,
Modena
Scritto in arte, Autori, Bianco e nero, Venerati maestri | Un Commento
Steve McCurry: Oltre lo sguardo,
una nuova mostra nella Villa Reale di Monza
da [email protected]
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La prima rassegna italiana dedicata a Steve McCurry, allestita a Milano a
Palazzo della Ragione nel 2009, ha offerto al grande pubblico la possibilità di
scoprire la sua straordinaria produzione fotografica, ben oltre quella vera e
propria icona che era già la ragazza afghana dagli occhi verdi, apparsa
qualche anno prima sulla copertina di National Geographic. A quel primo
appuntamento espositivo ne sono seguiti altri, in varie città italiane, che hanno
ogni volta ampliato la conoscenza del suo vasto repertorio, messo in scena nei
più diversi contesti con suggestivi allestimenti.
A cinque anni di distanza sono più di 500.000 i visitatori di quelle mostre; ma
nel frattempo Steve McCurry ha vissuto una stagione particolarmente
produttiva della sua ormai più che trentennale carriera di fotoreporter, con
incarichi prestigiosi come il calendario Pirelli 2013 e il progetto The last roll
realizzato con l’ultimo rullino prodotto da Kodak, ma soprattutto con lavori
molto impegnativi che ha realizzato viaggiando nei luoghi del mondo che
predilige, dall’India alla Birmania, dall’Afghanistan alla Cambogia, ma anche in
Giappone, in Italia, in Brasile, in Africa, e continuando una ricerca iniziata
negli anni 70 con il portfolio realizzato in India e poi con il primo importante
reportage in Afghanistan.
Per questo, dopo aver accompagnato McCurry in un progetto espositivo di così
lungo respiro, Civita e SudEst57 hanno deciso di realizzare una nuova mostra,
per presentare il suo lavoro in una nuova prospettiva, che, a partire dai suoi
inimitabili ritratti, si spinge “oltre lo sguardo”, alla ricerca di una dimensione
quasi metafisica dello spazio e dell’umanità che lo attraversa o lo sospende
con la sua assenza. Oltre le porte e le finestre, oltre le cortine e le sbarre,
oltre il dolore e la paura. Tra linee di fuga e riflessi che si confondono con le
architetture della Villa Reale in un suggestivo gioco di rimandi.
La mostra si sviluppa a partire dai lavori più recenti di Steve McCurry e da una
serie di scatti che sono legati a questa sorprendente ricerca, anche se non
mancano alcune delle sue immagini più conosciute, a partire dal ritratto di
Sharbat Gula, che è diventata una delle icone assolute della fotografia
mondiale.
Oltre a presentare una inedita selezione della produzione fotografica di Steve
McCurry, la rassegna intende raccontare l’avventura della sua vita e della sua
professione, anche grazie ad una ricca documentazione e ad una serie di video
costruiti intorno alle sue “massime”.
Per seguire il filo rosso delle sue passioni, per conoscere la sua tecnica ma
anche la sua voglia di condividere la prossimità con la sofferenza e talvolta con
la guerra, con la gioia e con la sorpresa. Per capire il suo modo di conquistare
la fiducia delle persone che fotografa: «Ho imparato a essere paziente. Se
aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro
anima comincia a librarsi verso di te».
Ad una nuova mostra non poteva che corrispondere un allestimento del tutto
nuovo, progettato appositamente da Peter Bottazzi per accompagnare il
visitatore nel mondo di McCurry e stabilire un dialogo con gli ambienti
monumentali della Villa Reale appena restaurata e la decorazione neoclassica
che li caratterizza.
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_______________________________________
30 ottobre 2014 – 6 aprile 2015 - Villa Reale di Monza, Secondo Piano Nobile Informazioni
e
prenotazioni:
www.mostrastevemccurry.it
Un progetto di Civita e SudEst57 - Organizzazione e servizi: Cultura Domani- Con il
contributo di Jacob Cohёn e Lavazza -Sponsor Tecnico: Epson. Media Partners:
Corriere della Sera, Life Gate - Ufficio Stampa Civita: Barbara Izzo-Arianna Diana Tel.
06692050220-258
[email protected]
,Ombretta
Roverselli
Tel.
[email protected]
Immagini:
Un uomo anziano della tribù Rabari, Rajasthan, 2010 -An elderly man from the Rabari
tribe, Rajasthan, India, 2010
Giochi di ombre, Preah Khan, Angkor, Cambodia, 1999 - Shadow play, Preah Khan,
Angkor, Cambodia, 1999
Un ragazzo seduto su una sedia, Omo Valley, Ethiopia,2013 -A boy sits on a chair,
Omo Valley, Ethiopia, 2013
Lewis Hine,
l’umanità senza nome che ha fatto grande l’America
Alla Casa dei Tre Oci della Giudecca una splendida mostra sul grande fotografo statunitense che invento gli “scatti sociali”
di Silva Menetto da http://nuovavenezia.gelocal.it/
VENEZIA. C’è una donna seduta con un bimbo in braccio e un altro ai suoi
piedi. Ricorda la Madonna della sedia di Raffaello ma non è un dipinto: è una
foto in bianco e nero degli inizi del Novecento, è la “Madonna delle case
popolari” così come l’ha colta in uno dei suoi straordinari scatti Lewis Hine. C’è
un’emigrata albanese avvolta non in un drappo di seta ma in una cappa di
cotone, ha il volto stanco eppure fiero, nell’attesa estenuante a Ellis Island,
per entrare nella terra promessa americana. C’è una famiglia di emigranti
italiani che aspetta nel caos degli sbarchi dai bastimenti transoceanici di
ritrovare il proprio bagaglio smarrito. Sono ritratti teneri e feroci a un tempo,
hanno rimandi classici nella postura, nei richiami culturali che vivono
nell’occhio e nella mente del fotografo che però usa la propria arte come
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mezzo di denuncia di una realtà sociale che non lo soddisfa.
«Forse siete stufi di immagini di lavoro minorile. Bene lo siamo tutti» dirà Hine
«ma noi ci proponiamo di rendere voi e tutto il paese così a disagio di fronte a
questa faccenda, che quando arriverà il tempo dell’azione, le immagini del
lavoro minorile saranno soltanto una testimonianza del passato».
Lewis Hine ha inventato la “fotografia sociale” per raccontare una realtà in
continua e inarrestabile evoluzione in anni in cui gli operai lavoravano come
acrobati, a centinaia di metri da terra per costruire i nuovi tall buildings nella
patria del sogno americano. A fianco a questi pionieri delle costruzioni,
anonimi eppure indispensabili eroi della modernità, anche il fotografo si
arrampica ad altezze vertiginose per seguirli da vicino e catturarne la
quotidiana fatica, va ad Ellis Island nell’inferno degli emigranti in attesa di un
visto o nelle aziende della Pennsylvania, del North Carolina e della Virginia tra
i lavoratori bambini, come Edith che a 5 anni fa la raccoglitrice il cotone, ed è
poco più grande di una bambola.
Le foto di Hine sono foto di denuncia che hanno fatto il giro del mondo per la
loro irripetibile bellezza, pur raccontando la cruda realtà ma sempre con un
tocco di poesia. Perché per costruire quella nazione splendida e potente che è
diventata l’America ci sono voluti tantissimi uomini e donne, spesso ai margini
della società, che hanno garantito con il loro lavoro lo sviluppo e il benessere
di un’intera nazione.
A quegli uomini e a quelle donne di cui oggi nessuno ricorda più i nomi è
dedicata la mostra allestita alla Casa dei Tre Oci alla Giudecca, , una mostra
che oltre al valore artistico intrinseco, ha un valore aggiunto: il valore della
memoria, della tutela dei ricordi. Lewis Hine (1874-1940) era insegnante alla
Ethical Culture School di New York. Quando iniziò a utilizzare la macchina
fotografica ne intuì immediatamente le potenzialità come mezzo di indagine
sociologica. Davanti al suo obiettivo passa una varia umanità che vive, quando
va bene, nelle case popolari, dove i figli sono costretti a lavorare anche in
piccolissima età mentre i padri sono impegnati magari nella costruzione
dell’Empire State Building. Da questo tipo di fotografia sociale prenderanno
spunto tutte le generazioni successive di artisti che utilizzeranno la macchina
fotografica come strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
L’esposizione, curata da Enrico Viganò, riunisce per la prima volta opere
originali provenienti dalla collezione della famiglia Rosenblum di New York, il
più consistente fondo archivistico privato di stampe vintage di Hine.
“Lewis Hine - Building a Nation. Venezia, Casa dei Tre Oci, fino all’8 dicembre.
Tutti i giorni, tranne il martedì, dalle 10 alle 18.
André Kertesz, il pioniere della fotografia deformata
di Giorgia Basili da http://dailystorm.it/
Intimità dei soggetti, atmosfere evenescenti, attaccamento ai lati più semplici
della vita quotidiana. Sono le caratteristiche degli scatti del grande fotografo
ungherese che amava il silenzio delle immagini
Difficile classificarlo, dare una definizione al suo modo di approcciarsi
all’estetica e alle correnti artistiche. Artista impavido, rifugge dalle
limitazioni di indirizzi prestabiliti, non si sbilancia né si fa etichettare, fedele
soltanto ai propri pensieri e al proprio sentire. Provarono a definirlo
“surrealizzante” ma lui non prese mai una specifica posizione. Il valore di
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questo interprete dell’arte fotosensibile, come vero e proprio pioniere, risulta
evidente osservando le sue fotografie: l’uso della prospettiva aerea, le forme
strutturate diagonalmente, le luci difficili.
Nasce a Budapest nel 1894 da una famiglia della media borghesia ebraica,
nel 1912 André Kertesz consegue il diploma all’Accademia industriale di
Budapest e acquista la prima macchina fotografica ICA4.5×6, molto
maneggevole. Si arruola nell’esercito austro-ungarico e dall’esperienza sul
fronte russo-polacco nasce un reportage sulla vita nelle trincee, realizzato
grazie a una piccola fotocamera, la Goerz Tenax, munita di un obiettivo
fotografico da 75mm. Nel 1925 la depressione post-bellica e l’aria che si
respirava a Budapest, elegante ma troppo stretta per il suo spirito modernista,
spingono l’artista a raggiungere Parigi, ricca di nuovi fermenti, brulicante di
voci artistiche all’avanguardia e personalità come Robert Capa, Man Ray,
Berenice Abbott, Germaine Krull.
Kertesz stringe un fortissimo legame fatto di amicizia sincera e di scambio
artistico anche con Brassai(Gyula Halász, suo connazionale), amante di una
Parigi dai toni gotico-romantici, notturna, piovosa, coi suoi vicoletti antichi, le
sue ville, i suoi giardini, il Lungo-Senna. Kertesz gli insegna a muovere i primi
passi nell’arte della fotografia, a realizzare fotografie notturne. Interessante
la serie dei Graffiti, che immortalano questa forma d’arte spontanea a metà
tra i segni/disegni dei bambini e degli outsider. La muratura sgraffiata,
incisa, “trapanata”quasi a cavare fuori forme e sensazioni dall’immaginario
comune,dell’uomo comune anticipa empaticamente l’essenzialità dell’art brut
di Jean Dubuffet, senza una spiegazione logica, al di là della formula grezza
e dell’ispirazione del tratto espressivo.
Passo decisivo per Kertesz è poi, nel 1928, l’avvio della sua carriera come
professionista
per
la
rivistaVu insieme
al
collega Henri
CartierBresson. Questo impiego gli apre le porte di varie esposizioni importanti:
73
nel 1929 partecipa alla prima mostra indipendente di fotografia Salon de
l’Escalier con altri grandi protagonisti, come Man Ray e Paul
Outerbridge. Nell’ottobre 1936 si trasferisce a New York e comincia a lavorare
con l’agenzia Keystone, ma il suo stile lirico e molto autoreferenziale non è
adatto al panorama giornalistico statunitense che esige uno stile rigoroso,
poco sentimentale, asettico. “Le sue immagini dicevano troppo” così, ad
esempio, viene liquidato un suo lavoro dalla rivista Life. Abbandona infine la
Keystone, passato solo un anno, per collaborare come freelance con molte
riviste, tra cui la Harper’s Bazaar, Vogue, Look.
La sua passione per la fotografia è da considerarsi quasi maniacale: non si
stacca dal suo terzo, prezioso, occhio neanche quando malato, rimane
confinato in casa. Da questa sua “prigionia” nasce il libro From my
Window (1981), realizzato puntando un obiettivo zoom dalla finestra della sua
casa affacciata sullo Washington Square Park, dolce dedica alla moglie
morta di cancro nel 1977. Pur ricercando per tutta la vita apprezzamenti e
consensi, i suoi meriti non furono messi in luce da parte di critica e pubblico
ma certamente non poté non sollevare l’interesse di chi, più vicino al suo
temperamento e alla sua pratica artistica riconobbe in lui un vero e
proprio pioniere della fotografia moderna. La freschezza del suo sguardo,
l’intimità dei suoi soggetti, l’attaccamento ai lati più evanescenti, semplici della
vita quotidiana sono le qualità che più emergono dai suoi scatti.
Kertesz scelse di mantenersi lontano sia dallo sperimentalismo intraprendente
di Man Ray sia dall’impegno sociale e politico, strada che verrà percorsa da
molti nei duri anni della Guerra di Spagna (indimenticabile la fotografia
“Soldato morente” di Robert Capa, soprattutto per le polemiche e i dubbi sulla
sua classificazione come istantanea). Non è interessato alla cronaca e alla
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mondanità. Ê attratto dai silenzi, da quelle pause che restituiscono gli
oggetti come immacolati martiri di una realtà caotica e irrefrenabile: il piacere
di un semplice nodo di luci ed ombre ricreati da una forchetta poggiata su un
piatto bianchissimo.
La bellezza nella quiete dell’inanimato e la sconvolgente deformità che può
celare un corpo umano. Non un corpo qualsiasi, un nudo femminile: il
soggetto accademico più ricercato, la sfida per ogni pittore abile e raffinato.
Kertesz con il suo apparecchio sente di poter svelare il reale, svelare le intime
concordanze e gli intimi dissidi interiori dell’uomo, quale prova più difficile di
reinventare il nudo femminile? Questa è la sua sfida personale, le sue
personalissime Distorsioni (1933). Si era confrontato con la tematica delle
distorsioni già nel 1917 per delle immagini che ritraevano un nuotatore. Ora
sceglie due modelle,Hajinskaya Verackhatz e Nadia Kasine, le pone di fronte
ad unospecchio deformante da circo. Lo specchio è il vero demiurgo,
ispiratore mistico di nuovi corpi-fantocci, corpi completamente trasfigurati,
inumani.
I corpi nudi delle due modelle si prestano ad un gioco erotico quasi sadico.
Gli arti si allungano spropositatamente, la pelle si dilata, malleabile,
prendendo forme aliene e sensazionali. Che cosa rimane della calma amenità
classica? Questi scatti hanno una bellezza disarmante che mira a far crollare le
idee acclamate di normalità e pudore. Le modelle diventano bambole di
pezza, infinitamente malleabili e incredibilmente elastiche. I canoni dorati di
armonia e proporzioni sono completamente accantonati, alla bellezza da
ammirare
è
stata
sostituita
una
sessualità
che
destabilizza. La
raccoltaDistorsioni sembra affermare: la realtà sottosta a molteplici punti di
vista, ad insospettabili interpretazioni e io, fotografo, riporto quello che penso
di vedere, sta a voi lasciarvi sconvolgere!
75
Un caffé corretto al (Mc)Curry
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“Queste vostre novissime scatole di biscotti fini superano in finezza e in bontà
le migliori di Inghilterra”. Firmato Gabriele D’Annunzio.
Non troverete questa prosa decisamente dimenticabile in un’antologia del
Vate (in una sua biografia forse sì). Fu pubblicata, consenziente e
verosimilmente remunerato il poeta, sulle scatole di latta dei biscotti Saiwa.
Né troverete, nella filmografia di Kevin Costner, lo spot che ha interpretato
per una scatoletta di salmone Riomare, dove il danzatore coi lupi, visibilmente
annoiato dalla parte, è stato pure doppiato in modo esilarante.
Sullo scaffale della mia libreria c’è una tazzina di caffé della collezione Illy,
decorata con una fotografia di Sebastião Salgado che vista così è abbastanza
difficile decifrare. Non la troverete esposta in una tappa del tour mondiale
di Genesis (forse nel bookshop sì).
Che cosa voglio dire? Che le reazioni indignate, addolorate, scandalizzate
o sarcastiche lette in questi giorni sul grande Web dopo la presentazione
del calendarioLavazza 2015 firmato da Steve McCurry mi sembrano affette da
vizio ottico di parallasse. Credono di giudicare un lavoro di reportage, e invece
stanno guardando un pacchetto promozionale.
Quando un autore non fa l’Autore, o lo fa in un contesto molto doverso dal
suo solito, bisogna stare attenti. Recensire la lista della lavanderia di un grande
poeta come se fosse un suo inedito ha effetti comici: leggere Saperla lunga di
Woody Allen per goderseli.
E questo perché ogni cosa ha il suo scopo. Una lista della lavanderia è
buona se alla fine i panni tornano tutti a casa belli puliti, non per le sue qualità
letterarie.
Fare pubblicità, ovviamente, non è come scrivere liste per la lavanderia.
È produrre messaggi intenzionali, pubblici, finalizzati. Quindi un giudizio di
ordine estetico, culturale, è ancora legittimo. Ma non può basarsi sugli stessi
criteri della recensione di una mostra o di un romanzo.
Quando fa calendari, e ha tutto il diritto di farlo, come di fare foto di moda
eccetera, un fotografo di reportage ha temporaneamente cambiato mestiere, e
come usa dire oggi: sapevàtelo.
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E questo, non certo per ragioni etiche (gli inorriditi dalla sola ipotesi che un
grande fotografo faccia lavoro pubblicitario evidentemente non conoscono la
storia della fotografia…). Ma perché si può giudicare una fotografia solo
tenendo conto degli obbiettvi che quella fotografia intendeva raggiungere. Del
suo scopo.
Invece, quelli che ho letto in questi giorni dal “popolo del Web”, quando
non sono le beffarde rivincite dei suoi molti critici, mi sembrano spesso lamenti
di lutto per un eroe perduto, anzi di grida al delitto: chi ha ucciso McCurry? E la
risposta, pare un’eco di quella canzone degli 883: “Hanno ucciso l’Uomo
Ragno, non si sa neanche il perché / avrà fatto qualche sgarro ad un’industria
del caffè”…
Molte di quelle reazioni, insomma, vanno sotto il segno della Delusione
(non riconosco il McCurry che amavo!) , addirittura del Tradimento (tu
quoque Steve…); oppure, all’opposto, dello Svelamento (io l’ho sempre detto
che McCurry fa pena).
In tutti i casi, a tutti quanti pare evidente che McCurry dovrebbe sempre
fare “dei McCurry”, dovrebbe lavorare solo in un modo, posedere un solo stile e
un solo linguaggio.
Io invece credo che sarebbe stato ancora più criticabile, McCurry, proprio
se avesse pensato che fare un servizio sul monsone e confezionare
un gadget per un’etichetta alimentare fossero la stessa cosa, e avessero
bisogno dello stesso tipo di immagini. Se avesse voluto fare un reportage in
forma di calendario del caffè.
E allora, cosa voleva essere questo calendario? E queste immagini sono
coerenti con il suo scopo? Ecco la domanda.
Come forse già sapete, questo Calendario, a differenza di altri celebri
concorrenti, intende collocarsi sul versante del marketing “coscienzioso” e
socialmente responsabile. Propone le storie di dodici “Earth Defenders”, dodici
“guardiani delle tradizioni alimentari nel continente africano”, a partire da
dodici loro ritratti “ambientati” (i proventi del calendario sosterrano
il progetto “10.000 orti in Africa” di Slow Food).
A questo punto, consapevole di cosa sto guardando, posso dire che certo,
le dodici immagini del Calendario McCurry, sul piano dell’immagine, sembrano
anche a me, come a molti, persino fastidiose nella loro strabordante pre- e
post-produzione, nella loro un po’ stucchevole, artificiosa composizione formale
e tonale. Ma sono immagni promozionali (con tazzine marchiate in mano,
pure), e nella pubblicità tutto è permesso, no?, purché funzioni. Ma funziona?
Ecco la domanda.
La saturazione estrema dei colori, la definizione e la leggibilità perfetta
delle ombre, un aspetto generale da Hdr molto “tirato” sono evidentemente
scelte deliberate di stile che ammiccano a gusti visuali accattivanti e
dominanti. La pubblicità lo fa spesso, di lusingare il luogo comune. Ma in
questo modo, e qui mi sembra il vero punto di giudizio, le foto del calendario
scelgono di collocarsi nel regime estetico della fiction (cinema di animazione,
spot televisivi, videogames).
Il risultato, non so quanto consapevole, mi sembra questo: un’operazione
che vorrebbe fare appello alla nostra coscienza ecologica e politica, che
presume di raccontarci qualcosa del mondo reale, proietta le sue narrazioni in
una dimensione percepita come immaginaria, artificiale, iper-reale.
Stupisce che Slow-Food non si sia accorta della contraddizione fra i suoi
progetti di resistenza e resilienza contro l’industrializzazione omologante
dell’agricoltura e lascelta, per presentarli, di una fotografia fortemente
omologataagli stuli proposti dal mercato, pirna di additivi e di ogm visuali.
77
Lo storytelling mi pare contraddetto dalla “narrazione” visuale, con esito
controproducente.
Paradossalmente
McCurry
avrebbe
forse
dovuto
davvero fingere uno stile reportagistico (sarebbe sempre stata una finzione)
invece di trasformare i suoi soggetti reali in personaggi della Pixar.
Dunque la mia conclusione, ovviamente del tutto opinabile, è che questo
calendario mi sembra assai poco riuscito proprio in rapporto agli obbiettivi che
si proponeva, e cioè essere un’operazione promozionale “illuminata”, che
accredita l’azienda proponente come attenta al mondo reale e ai suoi problemi.
Quindi sì, forse aveva ragione Max Pezzali, il nostro uomo ragno (e tutto
lo staff cominicativo che ovviamente ha ragionato con lui) potrebbe davvero
aver fatto suo malgrado uno sgarro ad un’industria del caffé… Ma alla fine
nessun omicidio, anzi son tutti contenti. Tranne i Delusi e i Traditi, ovviamente.
Ma inclusi gli Smascheratori.
Del resto, una volta capito di cosa stiamo parlando, qualche ragione ce
l’hanno anche loro. La fotografia è un piacere: se non è buona, che piacere è?
Tag: 883, calendario, Gabriele D'Annunzio, Illy, Kevin Costner, Lavazza, Max Pezzali,
Slow Food, Steve McCurry, Uomo Ragno
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Parlando di fotografia con Ferdinando Scianna
da http://www.sprintnews.joomlafree.it/
Immaginate un tiepido pomeriggio di fine
estate, un delizioso locale che ricorda la Versilia degli anni ruggenti, dove
fotografia e food sono uniti in un binomio perfetto, una moderna locanda quasi
centenaria con i muri ricoperti da immagini di fotografi emergenti e non, un
luogo accogliente dove ci si può ritrovare per mangiare e per parlare di
fotografia. E’ in questo posto magico che e ho avuto il piacere di parlare
con Ferdinando Scianna, uno dei più grandi fotografi del ‘900.
Invitato nell’ambito del “Caffè Corretto”, una serie di iniziative che per tutta
l’estate hanno portato a La Bottega di Pietrasanta nomi importanti della
fotografia internazionale, il Maestro (che non ha bisogno di tante
presentazioni) ha parlato di sé, del suo modo di interpretare la fotografia
moderna e dei suoi libri: “Ti mangio con gli occhi” e “Visti e Scritti”.
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Il giardino de La Bottega
La mia grande fortuna, che ho affrontato in un turbine di emozioni
contrastanti, è stata quella di poter avere con lui un breve colloquio privato.
Persona dai modi affascinanti, dai profondi occhi azzurri, pronto sempre alla
battuta in un inconfondibile accento siciliano, ha iniziato il suo racconto
partendo dal lontano 1970, analizzando i cambiamenti della fotografia nel
corso di questi anni, raccontando la sua esperienza, mai paragonando, ma
basando le sue riflessioni sulle differenze di significato attribuito alle immagini
dell’era pre e post digitale, ecco un piccolo riassunto del nostro colloquio.
Assieme a Bresson, Capa e molti altri grandi, Scianna ha documentato il
mondo, ha descritto realtà spesso inaccessibili, guardando al futuro e al
progresso con ottimismo. Questo modo di fotografare adesso non esiste più,
non vi è più rapporto con i soggetti, le fotografie non raccontano, sempre più
spesso parlano di noi, di qualcosa che vogliamo mostrare agli altri,
probabilmente la chirurgia plastica stessa è figlia dell’estremo fotoritocco.
Sfogliando il libro “Visti e Scritti” ho capito il significato di queste
affermazioni. Ritratti di gente comune, di personaggi famosi fotografati anche
in pose divertenti, immagini di una vita passata a raccontare spontaneamente
senza convenzioni sociali né cliché. In contrapposizione penso all’eccessiva
sovraesposizione di soggetti che spesso rappresenta solo la volontà di
apparire…questo mi ha fatto riflettere, molto! Ed è proprio la parola realtà che
il Maestro ripete più volte, come a voler rafforzare il concetto per cui oggi è la
narrazione del vero a essere parte mancante della fotografia moderna…sempre
se di fotografia possiamo parlare.
Ferdinando Scianna, Eleonora Cozzella e Chiara
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“Probabilmente chiamiamo ancora fotografia qualcosa che, all’atto
pratico, non ha più lo stesso significato di una volta"
Con l’avvento del digitale e il conseguente abbandono della pellicola si è persa
anche la capacità di attendere, la spontaneità dell’immagine, spesso ci
lasciamo condizionare dalla nostra continua esigenza di guardare lo scatto sul
display perdendo la capacità di preselezionare e intuire l’azione ancora prima
che avvenga. lI digitale, sempre secondo Scianna, ha portato anche alla
perdita dell’artigianalità, della filiera che iniziava con la scelta del rullino
adeguato arrivando allo sviluppo dell’immagine stampata: la sensibilità della
pellicola, la filigrana, il fissaggio, l’ingrandimento, magie che nessun software
di fotoritocco potrà mai riprodurre. Ogni cambiamento però è caratterizzato da
aspetti negativi e da aspetti positivi, tutto sta a saperli cogliere e saper
sfruttare queste variazioni a proprio vantaggio. A un giovane fotografo
Ferdinando Scianna consiglia di studiare, di scegliere il mezzo fotografico a sé
più congeniale e di sfruttare gli strumenti digitali per continuare a diffondere
ed esprimere le proprie idee, raccontare gli eventi positivi e il disagio, di essere
vivo e partecipe perché non importa il mezzo ma il messaggio che si vuole
trasmettere.
Alla mia domanda “Conosce Instagram?” ho avuto come risposta “no non lo
conosco, ma so che lo usa mia figlia”. Ferdinando Scianna preferisce produrre
libri fotografici che passare ore sui social network…ho sorriso perché l’ho
immaginato con lo smartphone sempre in mano, sempre a testa bassa e ho
pensato a quanto abbia ragione. Chissà quante sue foto ci saremmo persi se
fosse stato sempre a testa bassa su uno smartphone… per questo ho sorriso!
Ho immaginato questa scena e in cuor mio ho capito che per la fotografia è un
bene che Ferdinando Scianna continui a fare foto come ha sempre fatto e per
questo non smetterò mai di ringraziarlo.
Dopo l’intervista è seguito un incontro pubblico nel giardino de La Bottega
(pieno di gente), moderato dalla brava giornalista de L’ Espresso Eleonora
Cozzella, durante il quale il Scianna ha parlato con commozione del suo
rapporto con l’amico e mentore Leonardo Sciascia, dei suoi libri, della Magnum
Photos e del suo primo incontro con Cartier Bresson. Vorrei poter raccontare
tutte le esperienze descritte in tre ore di intervento, un lasso di tempo volato
via alternato da ricordi e battute in siciliano, preferisco però concludere con
una sua frase che mi ha profondamente colpito:
“il mestiere del fotografo è un mestiere fatto con i piedi”
chiedetevi perché… la risposta non è banale come può sembrare!
La nascita di Magnum
da http://undo.net/it
COMUNICATO STAMPA a cura di Marco Minuz
“La nascita di MAGNUM. Robert Capa Henri Cartier -Bresson George
Rodger David Seymour” esplora la nascita della più celebre agenzia
fotografica del mondo, la Magnum Photos. E lo fa, al nuovo Museo del
Violino a Cremona (dal 31 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015), attraverso
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le immagini di coloro che di quella nuova, grand e avventura furono i
primi protagonisti. Un percorso ospitato all’interno di questa nuova
struttura museale che rimarca il legame antico e indissolubile fra
Cremona e la liuteria.
Il 22 maggio del 1947, dopo alcune riunioni presso il ristorante del
Museum of Modern Art di New York, viene iscritta al registro delle
attività americane la “Magnum Photos Inc”, nome che prendeva spunto
dalla celebre bottiglia di champagne.
A firmare erano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger,
David Seymour e William Vandivert. Nasceva così una realtà che era
concretizzazione di una lunga riflessione avviata da Robert Capa
durante la guerra civile spagnola e che, negli anni, era stata estesa
anche ai fotografi che frequentava.
Un progetto che si fondava sulla tutela del lavoro del fotografo e sul
rispetto degli associati diritti fotografici. Attraverso la formula della
cooperativa, i fotografi diventavano proprietari del loro lavoro,
prendevano decisioni collettivamente, proponevano autonomamente alle
testate i propri lavori per non rimanere assoggettati alle esigenze
editoriali delle riviste, e rimanevano proprietari dei negativi, garantendo
così un pieno controllo sulla diffusione delle immagini.
Un controllo che si estendeva anche ad un minuzioso controllo dei testi
delle didascalie associate alle foto e al perentorio divieto di manipolare
le immagini. Con questi presupposti, e con la qualità del lavoro dei suoi
soci, Magnum diventa ben presto un riferimento nel mondo del
fotogiornalismo.
Magnum rappresentava così una diretta conseguenza del grande
sviluppo nella stampa illustrata e delle agenzie fotogiornalistiche che
era avvenuto durante i due conflitti mondiali.
Fin dai suoi esordi viene prevista, per ogni fotografo, una suddivisione
geografica dove operare: Henri Cartier-Bresson in Oriente, David
Seymour l’Europa, William Vandivert l’America, George Rodger il Medio
Oriente e l’Africa e Robert Capa piena libertà d’azione nel mondo.
L’avventura di Magnum, o meglio gli esordi di essa, viene raccontata a l
Museo del Violino da un corpus di ben centodieci fotografie che
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rappresentano una vera eccezionalità: per la prima volta infatti i primi
reportage dei fondatori di Magnum vengono raccolti assieme
permettendo di costruire uno straordinario spaccato sull’a vvio di questa
agenzia. Inoltre è occasione per avviare una riflessione sul ruolo del
fotogiornalismo e sulle trasformazione che Magnum innescò in questo
settore.
Ad introdurre il percorso espositivo è una sezione dedicata a Robert
Capa “prima di Magnum”, con celebri immagini della guerra civile
spagnola, di quella del conflitto fra Cina e Giappone e della seconda
guerra mondiale. A seguire, quattro selezioni legate ai primi reportage
realizzati di Rodger, Cartier-Bresson, Seymour e dallo stesso Capa per
Magnum. Si tratta del reportage di Capa dedicato alla nascita dello
stato di Israele con una particolare attenzione ai campi di rifugiati, il
reportage di George Rodger dedicato alla tribù dei Nubas in Sudan, il
lavoro di Henri Cartier-Bresson dedicato all’India con le ultime
fotografie scattate a Gandhi prima che fosse assassinato nel gennaio del
1948 ed infine le fotografie di David Seymour incentrato sulle
conseguenze del secondo conflitto mondiale in Europa, con una
particolare attenzione al dramma degli orfani di guerra.
La mostra sarà arricchita da una serie di iniziative dedicate ad
approfondire il lavoro di ognuno di questi grandi fotografi, ma
contemporaneamente offrire occasioni di riflessione sul ruolo del
fotogiornalismo.
Il catalogo, firmato Silvana Editoriale, raccoglierà una serie di interviste
ad importanti figure del mondo della fotografia a livello internazionale
incentrate sul ruolo del fotogiornalista. Come afferma il curatore Marco
Minuz “questo progetto reso possibile grazie ad una f orte partnership
con Magnum, permetterà al visitatore di comprendere un passaggio
fondamentale della storia del fotogiornalismo che è rappresentato dalla
nascita di Magnum.
Per la prima volta questi reportage vengono confrontanti assieme
permettendo di cogliere le straordinarie personalità di questi fotografi,
ma al contempo riflettere sul ruolo del fotogiornalismo nel mondo
dell’informazione”.
Organizzata da Magnum Photos, Unomedia e SGP Eventi. Con il
patrocinio di Regione Lombardia, Provincia di Crem ona, Comune di
Cremona e Camera di Commercio di Cremona. Con il supporto di Banca
Popolare di Milano e delle aziende che sostengono il Museo del Violino di
Cremona, MdV friends.
Ufficio stampa: Studio Esseci Tel: 049 663499 [email protected]
Museo del Violino, Padiglione Esposizioni Temporanee, piazza Stradivari
Cremona - Orari: tutti i giorni 10-19, lunedì chiuso - Chiuso il 25
dicembre, 1 gennaio - Euro 6 (intero) - 4 (ridotto) - 11 (biglietto
cumulativo Mostra e Museo del Violino)
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Spalle al muro, o sulle ginocchia?
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Wayne Miller, Edward Steichen studia il modellino della mostra The Family of Man. © Wayne Miller/Magnum Photos, g.c.
Fin dall’inizio, il sogno della ragione generò mostre.
Quando il secolo positivistapartorì il suo strumento perfetto, la fotocamera,
bruciò dalla voglia di farne vedere i prodotti a tutta l’umanità. Dimostrarli al
mondo.
Novum monstrum, così papa Leone XIII definì la macchina per immagini
appena inventata: e i mostri, nel senso di meraviglie, vennero mostrati.
Del resto, per Walter Benjamin è proprio con la fotografia che l’arte
rimpiazza il valore di culto con quello di esposizione.
Ed ecco che un bel volume a più mani (Photoshow, a cura di Alessandra
Mauro) ci racconta la storia di come questo valore è stato messo all’opera in
quasi due secoli di storia del fotografare.
Accadde subito. Fin dai giorni successivi all’invenzione, nelle prime
settimane del 1939. Ma non dove si aspettava che accadesse.
Tutta Parigi ai primi del 1839 parlava degli esperimenti di Daguerre, ma
nessuno li aveva ancora visti, perché il presidente dell’Accademia delle scienze,
il fisico François Arago, aveva posto l’embargo fino alla seduta solenne di
agosto, quando l’invenzione sarebbe stata presentata al mondo in tutti i suoi
dettagli.
Errore di comunicazione? Forse, perché questa esitazione diede modo al
concorrente inglese, William Henry Fox Talbot, di recuperare lo smacco del
secondo arrivato bruciando sul tempo il competitore francese, se non
nell’annuncio, almeno nella pubblica presentazione dell’invenzione.
E così il 25 gennaio espose i suoi disegni fotogenici di carta alla Royal
Academy di Londra, in quella che può essere considerata la prima mostra
fotografica della storia. Daguerre recuperò solo mesi dopo. La storia della
fotografia comincia insomma come una corsa a chi la mette per primo con le
spalle al muro.
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In verità, un altro conflitto sembra dominare il destino della fotografia
come oggetto da mostrare. Il dilemma fra tra la parete del museo e la pagina
del libro. Una fotografia funziona meglio se la metti al muro, o sulle ginocchia?
Ma la sfida fra verticale e orizzontale in realtà comincia solo nel
Novecento. Per almeno mezzo secolo, prima del perfezionamento dei metodi
foto-tipografici, la riproducibilità tecnica della fotografia si limitò a poche decine
di copie (col dagherrotipo, esemplare unico, neppure quelle), quindi per
mostrare al mondo gli “specchi fedeli del mondo” altro mezzo non c’era se non
far sfilare il mondo davanti a loro.
Verticale fu allora il campo della lunga battaglia per il riconoscimento della
fotografia come arte, verticale fu viceversa lo sdegno di Baudelaire quando
vide le fotografie al Salon del 1859, contro le pretese dell’“umilissima serva”
che voleva farsi padrona dell’immaginario (e ci riuscì).
L’interno del Crystal Palace durante la Great Exhibition del 1851
Verticale fu soprattutto la scoperta dell’infinita versatilità dell’arte
meccanica che ha rifondato la civiltà delle immagini. Se nelle esposizioni
universali le fotografie erano ancora curiosità mescolate alle invenzioni
macchiniste del secolo automatizzato, a Vienna qualcuno capì che la fotografia
meritava un’attenzione speciale e profonda: fu Maria Teresa, sovrana fotografa
dilettante, a volere che si presentasse la fotografia come rivoluzione
tecnologica, sociale, culturale, non come pittura meccanica.
Era la strada giusta, ma attecchì solo in terra germanofona, forse per una
particolare inclinazione di quelle parti verso la praticità. Infatti, l’idea che la
fotografia fosse uno strumento umano e nuovo linguaggio visuale della
modernità senza debiti con nessunoriemerse nel 1929 con la mostra Film und
Foto di Stoccarda.
Altrove invece si erano aperte le porte dei musei d’arte, e i fotografi
pittorialisti con complesso di inferiorità vi si tuffarono in cerca del meritato
riscatto d’artisti.
A New York, però, con le sue piccole gallerie raffinatissime, Alfred Stieglitz
inaugurò l’allestimento moderno, da allora quasi immutato, della mostra
fotografica: essenziale, lineare, con le immagini in cornici sottili ben distanziate
su pareti uniformi e libere (mentre le mostre dell’Ottocento erano ancora
caotiche soffocanti “quadrerie” dominate dell’horror vacui).
Comunque, questo va riconosciuto, fu dalle pareti di un museo d’arte che
la fotografia conquistò la sua autonomia di medium del Novecento. Accadde al
MoMa, dove l’ex pittorialista Edward Steichen cominciò arruolando la fotografia
come arma da guerra (la guerra del fronte interno, la guerra del morale della
nazione in guerra) con decine di mostre patriottiche, la più importante Road to
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Victory, dove le fotografie, considerate come “frasi di un discorso” erano
disciplinatamente messe al servizio di un concept, di una tesi da dimostrare.
Quelle mostre in uniforme nel 1955 divennero il modello della postbellica,
umanista e utopistica The Family of Man, la più celebrata e visitata mostra di
fotografia della storia (nove milioni di visitatori nel mondo), forse anche la più
controversa (fu stroncata sanguinosamente da Roland Barthes), certo la più
rivoluzionaria: le foto esplodevano, siliberavano dalle cornici, si staccavano dal
muro per impegnare il visitatore in un’esperienza spaziale, cinetica, corporale.
Eclisse dell’autore, trionfo del curatore: le fotografie non erano più opere a
proprio titolo, ma tessere di un mosaico il cui progettista era il curatore e solo
lui: espressione grafica di un’idea, non più immagini autosufficienti ma
elementi dialettici di una narrazione. La mostra in sé era l’opera d’autore.
L’umiliazione dell’autore lasciò il segno. Forse Steichen aveva esagerato,
le critiche furono molte, i fotografi non si fidavano più. Non ci furono più
mostre-concept dal piglio autoritario.
Il modello “galleria d’arte” riprese il sopravvento nei modelli espositivi di
una fotografia ormai senza complessi d’inferiorità, anzi capace di dettar legge
sul mercato dell’arte: le mostre di John Szarkowski al MoMa di New York,
quelle di Robert Delpire al Cnp di Parigi.
Anche il foto-giornalismo, a quel punto, scelse la white box del museo come
possibile allettante medium per raggiungere il pubblico garantendo una
sopravvivenza ad immagini che rischiavano di morire con al carta dei
rotocalchi.
Veduta dell’allestimento della mostra Here Is New York, Prince street, New York, 2001
Eppure, di nuovo, ecco una mostra fuori da tutti gli schemi: nel 2001, pochi
giorni dopo il crollo delle Twin Towers, un negozio a pochi isolati da Ground
Zero cominciò a riempirsi di fotografie conferite spontaneamente dai cittadini,
fotoamatori, passanti ma anche grandi autori: appese a fili stesi, riempivano
tutto lo spazio, vennero vendute a poco prezzo per raccogliere fondi,
diventarono un flusso: questa fuHere Is New York, “una democrazia di
immagini”.
Non ha più bisogno di pareti, oggi, la fotografia dell’era Internet: e neppure
di pagine di libro. Appese a miliardi sui muri virtuali dei social network, le neofoto si mostrano in quantità superiori alle nostre capacità di vederle tutte.
È il parossismo del valore d’esposizione, la profezia di Benjamin si divora
da sola.
Ce lo ha dimostrato, sempre con una mostra, un geniale curatore, Erik
Kessels, che stampò tutte le foto caricate in un solo giorno su Flickr e le riversò
fisicamente in una galleria d’arte ad Amsterdam. Le pareti ovviamente non
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bastarono. Neppure i pavimenti. A mucchi, onde, montagne, i cartoncini
franavano addosso ai visitatori.
L’immagine ora ci inghiotte. La mostra è diventata un mostro.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 18 ottobre 2014]
Tag: Alfred Stieglitz, Charles Baudelaire, Daguerre, Edward Steichen, esposizioni, Film und Foto,François Arago, Here Is New
York, invenzione della fotografia, John Szarkowski, Leone XIII, Maria Teresa d'Austria, MoMa, mostre, Robert Delpire, Roland
Barthes, The Family of Man, Walter Benjamin,William Henry Fox Talbot
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Il fotografo Ferdinando Scianna:
«Noi siamo le persone che incontriamo»
di Katia Moro da http://www.barinedita.it/
BARI - «Noi “siamo” le persone che incontriamo nella nostra vita. Il nostro
destino è determinato dagli incontri che facciamo, dai maestri scelti o casuali
che ci segnano per sempre». Con queste poche parole uno dei maggiori
rappresentanti della fotografia d’autore italiana, Ferdinando Scianna, 70enne
siciliano trapiantato a Milano, fotoreporter, giornalista, fotografo di moda di
fama internazionale e autore di tanti testi, ha racchiuso il senso di un’intera
esistenza testimoniata nella sua ultima pubblicazione “Visti&Scritti”.Notizia sul
portale
e
di
sua
proprietà.
Si tratta di una raccolta di 370 ritratti, tutti rigorosamente in bianco e nero,
che l’autore ha scattato nel corso della sua lunga carriera. Ogni scatto è
affiancato da un breve testo scritto dallo stesso Scianna per testimoniare un
suo ricordo personale, un aneddoto relativo alle sensazioni provate nel
momento dello scatto. In questa fusione di immagini e parole, l’autore fa
immergere il lettore in un’ampia galleria che raccoglie i ritratti di alcune delle
più grandi personalità del nostro tempo: da Leonardo Sciascia a Italo Calvino,
da Jean Paul Sartre a Martin Scorsese, passando per il Dalai Lama, Giovanni
Paolo II, Michail Baryšnikov, i Beatles e i fotografi Henri Cartier Bresson
e Gianni Berengo Gardin. Ma a questi “vip” sono affiancati e mescolati i volti
delle persone “normali” che Scianna ha incontrato nel corso della sua
esistenza: la sua mamma, i suoi famigliari, i suoi compagni di classe, il suo
portinaio. (Vedi foto galleria). Abbiamo intervistato l’autore, intervenuto a Bari
mercoledì scorso in un incontro al Cineporto organizzato dall'Apulia Film
Commission e dalla scuola di fotografia F.project. pubblicata sul portale e di à.
“Visti&Scritti” sembra essere il consuntivo di un'intera esistenza...
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Alla veneranda età di 70 anni e dopo circa un milione di fotografie scattate
avevo il diritto di pubblicare una selezione dei miei ritratti preferiti. In realtà
questo volume è solo l’ultimo atto di una trilogia dopo “Quelli di Bagheria” e “Ti
mangio con gli occhi” , che con quest’ultimo compongono il mio “trittico della
memoria”. Il primo era una raccolta di scatti, con le annotazioni a margine che
lo trasformano in un diario personale, scattate prima della scoperta della mia
vocazione di fotografo e racchiude tutti i ricordi della mia infanzia e
adolescenza vissute nel mio paese di nascita, Bagheria. Il secondo, “Ti mangio
con gli occhi”, rappresenta anche questo una fusione di testi scritti e immagini
con cui rievoco i gusti, i sapori e gli odori che hanno caratterizzato la mia vita
soprattutto da quando per esigenze lavorative ho dovuto abbandonare la Sicilia
e le sue meravigliose pietanze.
pubblicata
sul
Quindi ha concluso un suo personale viaggio nella memoria?
Sì, “Visti&Scritti” è l’ultima tappa di un percorso interiore. Avevo un sogno
ricorrente: entravo in una piazza gremita e scoprivo che c’erano tante persone,
quelle attraverso le quali ho vissuto la mia vita. I vivi, i morti, i miei cari, gli
amici, i tanti maestri. E in tutti mi riconoscevo. Quella piazza è diventato
questo libro. I 370 ritratti più significativi tra quelli da me scattati, che
compongono un unico autoritratto: la storia della mia vita che è la storia degli
incontri che mi hanno segnato. sul
sua
proprietà.
Quali sono stati gli incontri più significativi?
La fortuna di ogni uomo è nelle mani di un altro uomo. Io sono stato fortunato
perché ho incontrato esseri davvero speciali e la mia unica bravura è stata
quella di saper attingere da loro il più possibile. Parlo ad esempio del mio più
grande maestro, angelo paterno e amico: Leonardo Sciascia. Quando l’ho
conosciuto, nel 1962, avevo solo 19 anni e avevo già iniziato a fotografare, ma
lui mi ha fatto correttamente interpretare retrospettivamente la mia vita, mi ha
insegnato a darne un senso. Da lui ho imparato la dirittura morale, l’onestà
intellettuale, il dono dell’amicizia e l’importanza della cultura. sul portale
proprietà.
È stato l’unico maestro?
No. Nel campo della fotografia il mio maestro assoluto è stato Henri Cartier
Bresson, colui che mi ha permesso di divenire il primo fotografo italiano
ammesso nella Magnum photos (la più importante agenzia del mondo fondata
nel 1947). È stato lui ad insegnarmi che il vero fotografo è colui che è capace
di mettere esattamente su una stessa asse la testa, gli occhi e il cuore. Mi ha
fatto capire che la fotografia è un obiettivo ambiguo, è geometria e passione:
l’eterno ossimoro della realtà e della sua interpretazione. Ma tra i miei grandi
maestri io annovero sempre anche il portinaio dello stabile dove si trova il mio
studio di Milano, il cui ritratto chiude il libro. Quest’uomo che ha dedicato
l’intera vita al lavoro, tra affanni e ristrettezze, mi ha insegnato molto. Ogni
volta che i miei malanni e le mie stanchezze prendono il sopravvento, penso a
lui e questo mi aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva. pubblicata sul
portale
In questa raccolta ha inserito anche i suoi familiari.
Tra noi autori spesso c’è una certa ritrosia a rendere pubbliche le nostre
fotografie private. Ma io conservo gelosamente tutti gli scatti di compleanno
delle mie bambine, le fotografie di tutte le mie fidanzate e dei familiari oramai
morti. In questa pubblicazione ho voluto inserire anche mia madre, mia sorella,
le mie figlie e altri ancora. Probabilmente la figura più importante nella mia vita
è stata quella di mio padre, anche se il nostro rapporto è sempre stato segnato
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dalla contrapposizione e dal disaccordo, ma sono forse questi i legami che ci
segnano di più. Anche lui è stato a suo modo un mio maestro, anche se forse
soprattutto un maestro di “paura”. Ma senza di lui non sarei quel che sono.
Dunque il volume rappresenta una specie di album personale.
Esattamente. E la maggior ambizione di uno scatto è quello di entrare a far
parte di un album di famiglia. La fotografia come dice Roland Barthes, altro
mio grande maestro presente nel volume, non è arte, non è oggetto museale,
è “tragica traccia di vita, di realtà”. Si suole dire quando si fotografa qualcuno:
“ti immortalo”. Un’iperbole che è il residuo del mito faustiano che gli uomini da
sempre inseguono: fermare il tempo, non fosse che per un istante.
Un’affascinante illusione perché anche la fotografia è materialmente soggetta
al trascorrere del tempo, può distruggersi, scomparire e non lasciare traccia.
Ma allora qual è il vero compito della fotografia?
Quando esposi per la prima volta le fotografie del volume “Quelli di Bagheria”,
a Lugano, mi si avvicinò una donna svizzera evidentemente commossa. Si era
immedesimata e riconosciuta in quelle immagini della mia infanzia e
adolescenza siciliana. Lei, una donna nata in Svizzera. Questo mi fece capire
che il ruolo della fotografia, come della scrittura o di qualunque forma d’arte
capace di raccontare è quello di permettere a chiunque di riconoscersi, di
potersi rispecchiare. Quante volte abbiamo ascoltato la frase: “la mia vita è un
romanzo, se sapessi scrivere, lo scriverei”. Ebbene, il compito degli artisti è
quello di scrivere quel romanzo. Di “parlare” al posto di chi non ha gli
strumenti per farlo. pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.
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Il karma di Lisetta
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Nella penombra del suo trullo pugliese
riconvertito in ashram induista, una celebre pianista, grande fotografa, una
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soave novantenne vestita di bianco, ebrea perseguitata dal fascismo che la
cacciò di scuola a 14 anni, soave meditatrice, antica militante comunista, ogni
giorno per ore traccia con infinita calma calligrammi cinesi.
Troppo, vero? Sembra davvero troppo per una vita sola, infatti Lisetta
Carmi di vite ne ha vissute almeno cinque (tante ne ha contate la sua biografa,
Giovanna Calvenzi).
Ci sono esistenze non comuni che attraversano la storia in diagonale,
tagliando il flusso della vita comune, e forse per questo la gente comune le
incrocia ma subito le perde di vista.
Chi ama la fotografia, ad esempio, non può non aver incontrato almeno una
volta le immagini di Lisetta, almeno quelle che fecero scalpore, come i suoi
ritratti coinvolgenti e travolgenti di travestiti (uno dei quali pare abbia ispirato
la Bocca di Rosa di De André…) che un noto editore milanese di sinistra si
rifiutò di pubblicare benché fossero gli anni Settanta e spirasse un qualche alito
libertario.
Oppure il suo viaggio fra le passioni pietrificate di Staglieno, il cimitero
monumentale della sua città, Genova: tutte quelle passioni scolpite, quei dolori
di marmo non commossero la dolce Lisetta, anzi la irritarono un po’, ci vide
l’ipocrisia borghese fatta monumento, i pregiudizi di classe (rispettabilità,
subordinazione della donna, pruderie e repressione sessuale, status sociale,
ricchezza) scalpellati nella pietra, intitolò il lavoroErotismo e autoritarismo a
Staglieno, e ovviamente nessuno in Italia gliene fece un libro.
O ancora la sua dura inchiesta sulle condizioni di lavoro dei portuali di
Genova (si infiltrò nei cantieri spacciandosi per la cugina di un camallo) che
diventò una mostra-denuncia del sindacato; o la sequenza sul parto di una
ragazza ventenne, crudo magico emozionante schiaffo ai pudori e alla retorica
perbenista sulla nascita…
Immagini partorite, lasciate,
ritrovate:un po’ somigliano alla sua stessa vita. Non le avesse riscoperte
Uliano Lucas un decennio or sono, dedicandole una mostra-rivelazione, non le
avesse riproposte oggi Giovanna Chiti in un sorprendente volume, Ho
fotografato per capire, sarebbero forse perdute, perché Lisetta Carmi non ha
mai rimpianto nessuna delle sue esistenze trascorse.
Spesso le ha troncate dalla sera alla mattina, come la carriera di
concertista classica che per ben ventidue anni aveva portato nei grandi teatri
d’Europa quel «donnino esile, capelli da pecorella ed occhi da extraterrestre»
(Barbara Alberti): un bel giorno del giugno 1960 il suo maestro di musica le
vietò di partecipare a un nervoso corteo-sciopero dei portuali per timore di
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incidenti, «metti che ti rompi una mano…», e lei, tra la salute delle sue dita
d’oro e la sua coscienza politica, scelse la seconda, e lasciò la carriera musicale
per sempre.
Anche la fotografia, del resto, sua compagna di vita per altri sedici anni,
iniziò e finì per lei da un giorno all’altro. Un viaggio in Puglia al seguito di un
etno-musicologo le fece venir voglia di provare, armata d’una modestissima
Agfa Silette: funzionò.
Ma un sadhu, Babaji Herakhan Baba, incontrato in India durante un altro
viaggio per caso, cambiò di nuovo la sua rotta. Lui le tagliò i capelli ricci e la
ribattezzò Janki Rani. Lei porta ancora il suo volto in un ovale, al collo.
Tornata
in
Italia,
convertì
in ashramun trullo a Cisternino. Oggi Bhole Baba è un centro spirituale
riconosciuto dallo Stato italiano. Lisetta non lo dirige più di persona, però. Ha
inseguito altre vite.
Ha ricominciato a suonare il pianoforte, ispirata dalle riflessioni
psicanalitiche di un suo ex allievo, Paolo Ferrari. Ha scoperto il Tao attraverso
la calligrafia. Un regista, Daniele Segre, ha girato un film su di lei, Un’anima in
cammino: avrà dovuto tenere il suo passo, mica facile.
Le chiedono spesso il segreto della sua così evidente serenità. Risponde con
parole del suo guru adorato.
Ma di lei si racconta un certo illuminante episodio: sulla soglia dell’ashram
pugliese, un giorno, Lisetta fu colpita da un fulmine. Portata di corsa
all’ospedale, gli amici temevano il peggio: aveva solo un livido.
I medici non seppero spiegare. Lei sì: «Non ho opposto resistenza». In
verità lo ha fatto molte volte: anche alle sue stesse vocazioni.
Però mai al suo karma.
Tag: ashram, Babaji Herakhan Baba, Barbara Alberti, camalli, Cisternino, Giovanna Calvenzi, Giovanna Chiti, Janki Rani, Lisetta
Carmi, Staglieno, Uliano Lucas
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