Cristo non abita più qui

Paolo Farinella
Cristo non abita più qui
Il grido d’amore di un prete laico
Per Gesù, contro il Vaticano
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Cristo non abita più qui
Sommario
Credenziali
9
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine
(Quasi una pre-postfazione)
25
Dio esiliato
43
Se Cristo vedesse 43; Un abisso di fango 52; Dai Borgia in poi 58
L’idolatria del papa re
66
Infallibilità papale 66; Non più popolo di Dio 72; Il gusto del potere e
il passato 81
Morte ai profeti, vita ai banditi
93
Credenti e imperatori 93; Lefebvre e gli altri. Corpi estranei a
Dio 102; Il non martire Romero, agnello condotto al macello 109;
«Un’efficace guida per i giovani» 114; Nato per essere prete 118
Gruppi privilegiati
121
Neocatecumenali, Comunione e Liberazione 121; Ior, un
lupanare 126; Si non caste, saltem caute! 128
Roma, Lazio, Italia. Protesi del Vaticano
Atei devoti 133; Sul denaro 138; Italia provincia vaticana 139;
Esercizio di stile a scopo di chiarezza 143; Toccare il Verbo 144;
Vaticano recidivo 151
133
Dio alla guerra
153
Comandi, don Mariano! 153; Cappellani militari e ministri
religiosi 159; xxi secolo. Cavour e balalaika 165; In nome del
comandamento dell’amore 168; Incidenti di percorso? 173; Del ripudio 174
Clericalismo batte laicità
180
Per il bene del popolo, per il bene di sé 180; L’epoca dei
miscredenti 188; Eluana 197; «Venite, mangiate il mio pane» 199;
Dentro di sé 206; Come i porci di Epicuro 208; Tricolore 150 218
Gerarchia senza popolo
226
Lo scisma sommerso 226; La guerra della restaurazione
anticonciliare 232; Eclissi della legalità. Un documento nascosto 238;
Un Dio extracomunitario 242
Chierici non credenti in carriera
248
Chi pensa muore 248; La strumentalizzazione di Dio 254; Amatevi
come fratelli, perché io sono figlio unico 257
Dio è presente nella storia?
262
Fascia di nastro di seta ondulata rossa 262; Contro Eva 265; Dio
è maschio? 279; «Dio, nessuno lo ha mai visto» 284; Riformare la
Chiesa? 287; Tempo di profeti 290
Bibliografia
297
Abbreviazioni 297; Bibliografia 298
Indice dei nomi
307
Credenziali
Sono un prete. Un prete cattolico, credente e praticante. Sono orgoglioso di esserlo e non cambio la mia condizione di prete per nulla al mondo,
pur avendone avuto motivi e anche occasioni redditizie. Al contrario, mi
ritengo un privilegiato perché vivo nella Chiesa cattolica da esiliato, senza ostracismo formale, «voce dal sen fuggita» (Pietro Metastasio, Ipermestra, atto ii, scena i) che il sistema, non riuscendo a controllare, cerca di
contenere con l’arma che più sa usare da sempre: l’emarginazione e l’isolamento che oggi sono parte integrante del mio esistere, in omaggio al
comando dell’amore di Gesù: amatevi come fratelli, perché tanto io sono
«Figlio unico».
Quattro anni di terapia con un gesuita psicoterapeuta di notevole competenza e intelligenza e una lunga frequentazione con il grande monaco,
padre Filiberto Guala, primo direttore generale della Rai, a cinquant’anni
monaco trappista a San Biagio di Pogliola di Mondovì, mi hanno portato
a scoprire e quindi a strutturare l’isolamento come «vocazione» personale, vissuta nella dimensione della testimonianza: «La tua vocazione è stare
sul crinale della Chiesa, con un piede dentro e l’altro fuori; è una posizione scomoda, ma è inevitabile e non potrai sfuggirle. È un dono che è
concesso solo ai forti», ripeteva padre Guala passeggiando con me in un
tardo pomeriggio autunnale del 1982.
Sono monaco senza monastero, eremita senza eremo, parroco senza
parrocchiani: sono chi sono, e appaio come ho sempre voluto nella mia
vita. In fondo ho sempre fatto quello che ho desiderato, ubbidendo libe-
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ramente, senza mai venire meno alla mia coscienza: mi sono inginocchiato senza piegare la schiena.
Nel novembre 1972, iniziando il mio servizio di prete, presi un impegno solenne con la mia coscienza davanti a Dio: essere un prete laico nel
cuore e nella parola perché profondamente religioso. Sono consapevole,
infatti, che solo un credente convinto può essere laico nell’intimo, capace di vivere la fede come relazione di vita e non come religione dell’obbligo, ottuso strumento di manipolazione delle coscienze. Posso sostenere
con serena fermezza di avere onorato questo «voto» e di averlo affinato
ancora di più, perché, nella mia continua ricerca di Dio e del senso ultimo della mia esistenza, ho scoperto che Dio stesso è laico fin nel midollo
delle sua ossa. Non posso scindere il mio essere prete dal mio essere laico. Contraddizione? Ossimoro? No, solo esigenza morale come fedeltà
evangelica e necessità di vita.
Spesso, di contro, mi è capitato di entrare in contatto con varie forme
di «clericalismo senza Dio».
Il 1º luglio 1987, il neodirettore del quotidiano Il Secolo xix di Genova, Carlo Rognoni (in seguito senatore della Repubblica del Pd), pubblicò in prima pagina una mia lettera aperta con cui chiedevo le dimissioni
del cardinale Giuseppe Siri da arcivescovo di Genova, un uomo narcisista, divenuto ingombrante anche per il Vaticano.
Il direttore del giornale si decise a pubblicare la lettera integrale in prima pagina dopo tre giorni di riflessione. Mettersi contro la curia a Genova
era un fatto nuovo. Cinque giorni dopo la mia lettera, lo stesso cardinale
Siri annunciò l’accettazione (sic!) da parte del papa delle sue dimissioni,
con un comunicato che ancora oggi è un capolavoro di clericalismo senza
Dio: nel fingere l’accettazione «ubbidiente», manifestava un atto di stizza contro il papa e una indiretta ma esplicita dichiarazione: le dimissioni
erano state «obbligate»:
Il Santo Padre ha accolto le mie dimissioni da Arcivescovo di Genova. Non
vogliate credere che io abbia perduto l’amore alla mia città: questo prego tutti di non crederlo. Io obbedisco e basta […] Io non mi offendo, state tranquilli, anzi, siccome io resto a Genova. Non me ne vado certo dalla
mia patria, tanto più che la casa ce l’ho. (Comunicazione orale al collegio
dei consultori diocesani il giorno 6 luglio 1987)
Credenziali 11
Frammento di storia personale
Negli anni precedenti, insieme ad altri preti e laici, avevo tentato diverse strade per giungere a un cambiamento nella chiesa di Genova. A metà degli anni settanta ero viceparroco nella chiesa di Santa
Caterina di Genova, in via Napoli, e casa mia era diventata il punto di riferimento di molti preti per trovare un modo per informare il papa di quanto stava accadendo in diocesi. Il disagio dei preti,
anche anziani, era profondo e tutti individuavamo nel cardinale
Giuseppe Siri, e nella sua chiusura a ogni novità conciliare, il responsabile dell’instabilità non solo pastorale, ma anche psicologica.
In occasione di un viaggio a Roma, fui incaricato di verificare se potevo trovare un contatto diretto. Non avendo conoscenze e volendo seguire la via maestra, mi presentai al Laterano, sede del vicario
del papa, il cardinale Ugo Poletti. Vi andai su indicazione di madre Erminia, una suora della congregazione dell’Assunzione di cui
ero ospite a Roma. Mi presentai come prete di Genova che aveva
urgente bisogno di parlare col cardinale vicario. Dopo qualche tentennamento da parte del segretario, fui introdotto nello studio del
cardinale, che mi ricevette un po’ prevenuto perché forse pensava
che stessi vivendo una crisi d’identità religiosa e cercassi una collocazione a Roma. Quando cominciai a parlare e nominai il cardinale
Siri, Poletti spostò la sua sedia e si accostò al tavolo, appoggiandosi
con i gomiti sulla scrivania; si sciolse e mi ascoltò rendendosi conto che la situazione che stavo esponendo era grave. Capii che lui
non era all’oscuro, ma sapeva. Cominciai a piangere in modo irrefrenabile: non avrei mai pensato di essere ricevuto e ascoltato dal
cardinale vicario del papa. Gli dissi che a Genova vi erano stati alcuni tentativi di suicidio di preti, che uno, don S.B., viceparroco
della cattedrale, si era suicidato appendendosi a una trave in canonica. Raccontai le difficoltà, la solitudine pastorale ed ecclesiale
in cui versavamo noi preti e l’isolamento in cui era relegato il laicato. Lo supplicai di indicarci una strada per liberare la chiesa di
Genova dall’insipienza del cardinale Siri. Mi guardò, sospirò e disse: «Quando incontro “quello lì” nelle riunioni della Cei mi tocca
spesso di litigare. Voleva che non accettassi per punizione un seminarista di Genova che aveva chiesto di essere incardinato a Roma,
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avendo osato lasciare la sua diocesi. Io gli risposi che nella mia diocesi facevo quello che mi pareva e che lui non doveva intromettersi
negli affari che non lo riguardavano». Per la cronaca, quel seminarista, oggi è un professore rinomato al Laterano. Il cardinal Poletti parlò a lungo e alla fine concluse: «Il papa deve sapere». Non so
se poi lui parlò con Paolo vi. Di certo, qualche tempo dopo, il papa inviò a Genova, in forma strettamente privata, monsignor Franco Costa, suo intimo amico, con l’incarico di verificare la situazione
genovese. A questa indagine partecipò anche monsignor Giuseppe Viola, insegnante di storia della Chiesa al seminario diocesano.
Il giorno dopo, con una speranza in più, andai in Vaticano, alla
congregazione per i religiosi di cui era presidente il cardinale cileno Eduardo Pironio, al quale raccontai tutto quello che avevo detto
al cardinale vicario. Mi ascoltò, passeggiando nel suo studio e non
sapeva cosa fare e cosa dire, ma ogni tanto mi interrompeva e ripeteva: «Il Padre deve sapere», parole simili a quelle di Poletti. Mi
disse che avrebbe trovato il modo di parlarne a Giovanni Paolo ii.
Congedandomi, mi invitò ad andare a trovarlo con la promessa di
accompagnarmi a visitare i giardini vaticani. Abbracciandomi sulla soglia del suo ufficio, mi consegnò con emozione queste parole:
«Quando non funziona la paternità, bisogna fare funzionare la fraternità. Se lo ricordi». Era il viatico che stavamo operando sulla via
giusta. Non l’ho più dimenticato perché fu la forza che mi spinse
ad andare avanti spes contra spem. Anche il cardinale Michele Pellegrino di Torino, durante una sua visita a Genova nei primi anni
settanta, mi disse che spesso la «fraternità è chiamata a supplire la
paternità mancante».
Un giorno, mentre ero in attesa nell’anticamera del cardinale Siri
per essere ricevuto, all’improvviso dalla stanza delle udienze uscì
monsignor Giuseppe Viola, paonazzo in viso, mi si piantò davanti e mi urlò: «Basta, adesso basta! È ora di fare sul serio e di parlare con Roma». Lui sapeva dei miei movimenti e fu lui a dirmi che
monsignor Costa era stato inviato dal papa per raccogliere dati in
vista di una sostituzione di Siri. Monsignor Viola fu, insieme all’abate Mario Righetti, storico della Liturgia, a monsignor Giacomo
Moglia, grande riformatore e formatore liturgico, a monsignor Giu-
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seppe Cavallero, matematico e suo discepolo e successore nella direzione dell’«Apostolato Liturgico» di Genova, e ai vescovi Emilio
Guano e Franco Costa, uno dei fautori del rinnovamento conciliare: insieme lo avevano anticipato e preparato. Furono sempre
osteggiati da Siri.
A metà degli anni ottanta fui nominato parroco di Calvari di Davagna, un paesino dell’entroterra di Genova, in Valbisagno, a 15 chilometri dalla città. Organizzai con il salesiano don Luciano Cian,
grande psicologo e straordinario prete, un training riservato ai preti. Si rivelò un successo immediato con moltissime richieste di partecipazione. Da questi incontri emerse uno spaccato di vita dei
preti agghiacciante; era però bello che i preti parlassero tra di loro,
denudando la loro anima. L’esperienza fu interrotta dal cardinale
Siri che mi redarguì perché «gli incontri formativi dei preti li organizzo solo io e con chi voglio io». Riuscimmo a realizzare solo otto
incontri, sufficienti comunque ad aprire gli occhi a tanti e far loro
capire che non bastava dire qualche «Ave Maria» per risolvere problemi strutturali in campo affettivo e psicologico. Se non avessero
bloccato questa iniziativa, oggi a Genova ci sarebbe un centro specialistico di psicoterapia per preti. Abbiamo perso trent’anni e ora
navighiamo a vista nella sozzura della pedofilia.
Alla luce di questa esperienza facemmo alcuni incontri informali e
formalizzammo alcune riflessioni scritte che io, un viceparroco di
Genova, oggi parroco importante, e un prete emigrato fuori diocesi portammo a Torino al cardinale Anastasio Ballestrero, presidente della Cei, che, essendo genovese, conosceva bene la situazione.
Lui ci promise che avrebbe consegnato la nostra lettera direttamente nelle mani del papa e avrebbe fatto presente la nostra sofferenza.
Congedandoci, aggiunse che la chiesa siriana era come «ingessata
da 35 anni» (fino al 1986). Disse anche che Siri aveva molti sostenitori a Roma e che dovevamo aspettarci conseguenze disciplinari
di natura vendicativa.
Noi non temevamo la vendetta del cardinale, perché stavamo agendo non per interesse personale ma per amore della nostra Chiesa,
che volevamo adeguata alle disposizioni del concilio e non all’ego
di un cardinale. Saremmo stati in grado di dare la vita con amore e
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con generosità pur di arrivare a una conclusione. Poi, per paura, per
ricatto o per altri motivi, tutto si arenò e io restai solo a combattere, senza demordere e senza rimpianti fino a quando non ottenni le
dimissioni del cardinale Giuseppe Siri, ma questa è un’altra storia.
Alcuni mesi prima delle dimissioni del cardinale Siri, fui contattato, con
sistemi arzigogolati tipici dei servizi segreti, da un emissario vaticano che,
in base ai documenti pervenuti da Genova (in molti dei quali appariva
la mia firma), mi propose un patto a nome di chi «sta molto in alto», garantendomi denaro e carriera, come si conviene nella logica del mondo e
delle spie. Il domenicano padre Enrico di Rovasenda, allora fresco accademico onorario della Pontificia Accademia delle scienze, di cui era stato direttore, durante un viaggio da Trento a Genova mi mise in guardia,
confidandomi retroscena e misfatti che mi aiutarono non poco a capire e
a fare chiarezza nelle mie decisioni.
Non accettai di essere uno strumento al servizio del malaffare ecclesiastico e rifiutai benefici e denaro, e anche la promessa di carriera «sicura in qualsiasi parte del mondo» e vita mondana. Questo incontro, su
richiesta espressa, avvenne in una città «neutra» e doveva considerarsi
come «non avvenuto»: io sapevo, ma non potevo dire né dimostrare. Ho
taciuto ufficialmente fino a ora, per trent’anni, portandomi dentro il disgusto di appartenere a una istituzione che si serviva tranquillamente di
spionaggio, falsità, menzogna e metodi loschi. Quel giorno persi la mia
verginità di neofita perché dentro di me crollò la visione che avevo della Chiesa. Fu da allora che cominciai a distinguermi, iniziando a firmarmi non più «don» Paolo, ma semplicemente «Paolo, prete». In mezzo a
trafficanti senza scrupoli, volevo vivere il mio ministero come una nobile
professione senza sacralità fuori posto.
Quando decisi di rispondere alla chiamata al servizio presbiterale, scelsi di escludere l’inferno anche post mortem dal mio orizzonte di giovane
credente. Potevo contrattarlo in vita, rinnegando gli ideali della mia ancora giovane esistenza? No, se Dio esiste, non si può scendere a compromessi che lo negano. Agii nel rispetto della mia coscienza, senza trarre
vantaggi o prebende che avrebbero inficiato la moralità delle ragioni per
cui operavo; diversamente non avrei potuto celebrare l’Eucaristia che era
ed è il mio mondo, la mia vita, il senso del mio esistere.
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Se avessi approfittato delle avances vaticane, non avrei potuto presentarmi davanti alle decine e decine di preti, che allora frequentavano casa
mia per cercare una soluzione al binomio Vaticano-Chiesa o soltanto per
trovare il conforto della fraternità. Se mi fossi presentato loro con «una
promozione» o un incarico frutto di trattativa e di accordi con il Vaticano, sarei stato un reietto e un vile. Non avrei potuto nemmeno accostarmi
ai bambini o ai ragazzi di cui ero riferimento, avrei tradito la loro voglia
di una Chiesa riformata e sempre al passo coi tempi perché accanto alle persone. L’emissario del Vaticano si scandalizzò, quando rifiutai senza
esitazione le sue profferte e mi disse che altri, nel mondo che lui conosceva bene, avrebbero tradito anche Gesù Cristo pur di avere solo un terzo
di quello che mi veniva offerto. Risposi che a Montini, all’atto di rifiutare
la nomina a cardinale, sotto Pio xii, fu osservato che perdeva il treno che
lo avrebbe fatto arrivare prima; ma lui, da credente in Dio, rispose pacatamente che aveva in compenso preso la carrozza per arrivare in paradiso. Dio è Dio ed è persona seria; per questo non è in Vaticano, infopoint
dell’inferno. Dio è risorto e mi precede in Galilea.
Non cedetti alle lusinghe e oggi posso scrivere queste pagine che a occhi profani possono apparire dure, ma i cuori di chi cerca Dio non possono non sentirle come un grido d’amore, veemente e tragico, forte e dolce.
In un solo colpo fui frodato dell’entusiasmo della mia fede di giovane
prete e dell’euforia pastorale e per la prima volta scoprii che il Vaticano
era la prova «fisica» dell’esistenza dell’inferno in terra. Ancora non conoscevo i misfatti che avrei conosciuto nel corso degli anni e dell’esperienza, né i peccati mortali dello Ior, dei traffici delinquenziali e corrotti del
Giubileo del 2000, delle trame per diventare vescovi, della simonia di chi
compra e vende cariche e addirittura le visite al papa. Avevo però sperimentato a sufficienza per comprendere che il Vaticano, come luogo fisico
e simbolo ideale, è la negazione di Dio. Fu allora che cominciò a germogliare nell’anima mia l’idea e la certezza che Dio non è lì, in Vaticano. Se
volevo incontrare Dio, dovevo cercare altrove.
Sul portone di bronzo o sugli ingressi maggiori del Vaticano, Petriano
e Sant’Anna, dovrebbe stare ben visibile, tra due guardie svizzere, la testata che Dante pone sulla porta del suo inferno, come avviso di promemoria a chi passa la soglia dei confini vaticani, magari credendo di entrare
in luogo sacro, nel sancta sanctorum della fede cristiana, come dovrebbe
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essere. Se il pellegrino credesse in Dio, dovrebbe sapere che, malauguratamente varcando quella soglia, andrebbe «tra la perduta gente […] lasciate ogni speranza voi che entrate» (Inferno, iii, 3, 9).
Dal punto di vista teologico sono cristiano, prete, cattolico, apostolico, ma non romano. Ci tengo a dirlo con chiarezza: sono di rito latino,
ma non sono romano, perché sono convinto, e la storia ne è una prova
permanente, che la Chiesa non è mai stata né «posseduta» da un pensiero unico centralizzato né si è mai espressa in un solo modo; al contrario,
si è sempre presentata come un cantiere aperto, una fucina di pluralismo,
esperta nella sperimentazione di indefiniti modi e vie per andare a Dio e
poterlo dire sia con parole e pensieri sia con azioni storicamente verificabili (Thellung 2007, spec. 25-36). Nel Credo dell’Eucaristia, oltre un miliardo di cristiani, ogni domenica, professa la propria fede nella «Chiesa,
una, santa, cattolica e apostolica», ma non è richiesto loro di aggiungere
che deve essere anche «romana».
Ho vissuto personalmente con angoscia lo stile curiale della manipolazione della realtà, secondo la prassi ormai secolare per cui la corte riferisce
al re/padrone/vescovo/papa quello che i cortigiani pensano che il capo voglia
sentirsi dire. È l’inganno eretto a sistema. D’altra parte ognuno finisce per
ritrovarsi la corte e la curia che si è scelta, così come ognuno sta nella curia
e nella corte dove e come sceglie di starci, anche con le motivazioni spirituali del proprio cuore. Ho combattuto questo sistema, sapendo che non
lo avrei scalfito, ma almeno ho salvato la mia dignità e non ho mai inquinato la mia coscienza. Ho provato grande gioia, mista a sofferenza interiore,
una trentina di anni dopo, quando ho letto che, pur con un linguaggio consono al suo ruolo di cardinale e non senza remore come il mio, anche Carlo
Maria Martini faceva esattamente le stesse osservazioni impietose. Durante un ritiro di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro di Ariccia,
vicino a Roma, conversando con i partecipanti, disse senza giri di parole:
Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un
male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro
desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso […] Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci
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sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a
sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia.
Ma chi ne esce è libero. (Mancuso 2012, 24)
Un uomo della statura del cardinale Carlo Maria Martini arrivò a queste
conclusioni dal cuore stesso dell’istituzione, segno che bisogna guadagnare il tempo perduto e porre mano alla scure «per sradicare e demolire, per
distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,10).
Nel rispetto del Vangelo come credente e della Costituzione italiana
del 1948 come cittadino, ho scelto di vivere l’esilio non come l’oppressione di un potere, ma come l’occasione di un privilegio, perché mi ha sempre offerto l’opportunità di essere libero. Libero da me stesso, libero per
me stesso, libero da progetti di carriera, libero anche di viaggiare per l’Italia, invitato a parlare, libero di partecipare a convegni, incontri e conferenze, ma specialmente libero di potere parlare durante il centro della vita
di un credente, la Liturgia domenicale, la scuola dove, attraverso la Parola, abbonda il «collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» (Ap
3,18). E, fatto decisamente importante, libero di potere pensare apertamente e di scrivere senza complessi, senza opportunismi e senza rispetto
per le convenienze del sistema.
Da giovane studente di liceo, mi buttai a capofitto nella filosofia per
molti anni; poi nel primo anno di teologia nel Seminario Nostra Signora di
Guadalupe per l’America Latina di Verona incontrai la Bibbia e la sposai
senza esitazione, restandole fedele fino a oggi. Tutto mi lascia credere che le
resterò fedele fino alla fine dei miei giorni, monogamo senza ripensamenti.
A Verona ebbi maestri e educatori straordinari, liberi e aperti, senza paura di chi pensava con la propria testa: don Fernando Pavanello, don Olivo
Bolzon, don Mario Agazzi, don Augusto Bergamini, don Mario Canova e
altri uomini di Dio che hanno favorito l’incontro con il respiro universale
del mondo che saliva dall’America Latina, dall’Africa, dall’Asia e specialmente dal Concilio Ecumenico Vaticano ii. Per dirla con Dante, essi furono
i miei maestri e i miei autori «da cu’ io tolsi lo bello stile che m’ha fatto onore» (Inferno, i, 86-87). Certamente ha fatto onore alla mia coscienza, creando qualche problema di non poco conto a vescovi e Vaticano.
18 Cristo non abita più qui
Da allora non ho più voluto perdere tempo a percorrere «vie» dimostrative sul piano filosofico o teologico, perché queste non hanno mai avvicinato alcuno al Dio dei Nomi e dei Volti, al «Dio dei vostri padri, il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Al contrario, molti si sono allontanati dal «Dio dei filosofi e degli scienziati», perché fu loro
impedito di sperimentare non solo la nuit de feu di Pascal, ma anche di intuire il respiro di Dio, avendo incontrato soltanto la banalità della religione
dell’usato, come gestione di esteriorità, fatta di pratiche religiose, finalizzate a se stesse, che hanno l’anelito della ricerca e forse anche del dubbio.
Frammento storico
Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (1623-1662), un domestico trovò cucito nella fodera di un indumento del filosofo e
scienziato un foglio autografo in cui si faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica, avvenuta nella notte del 23 novembre 1654. Il
breve documento è conosciuto come Memoriale e riporta la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe,
non dei filosofi e dei dotti […] Dio di Gesù Cristo».
Dio! È parola impegnativa, ma anche banale perché molto spesso è utilizzata a sproposito dagli addetti al sacro.
Non so se Dio esiste e sinceramente m’interessa poco: ho amato visceralmente più la Chiesa che Dio senza pormi eccessive sottigliezze. Con
passione e veemenza, oserei dire con lussuria, perché mi fidavo di lei
che consideravo mater et magistra, sorella, amante, figlia e madre. Tutto
ho provato con lei, l’incesto e la purezza, la depravazione e la sublimità,
perché al solo pensiero di «Chiesa» ogni fibra del mio corpo vibrava come una corda di violino e il mio cuore suonava armonia di vita, passioni senza ritorno. La sua parola era legge, ogni suo respiro un ordine, la
difendevo contro tutto e contro tutti e non permettevo ad alcuno di denigrala davanti a me. Lei, la Chiesa, era per me garanzia della stessa presenza di Dio.
Per la Chiesa mi sarei gettato nel fuoco: concetti e ideali come Chiesa, Papa, Missione nel mondo mi facevano tremare di emozione e commozione. Fin da bambino non ho mai sognato altro che essere «prete di
Credenziali 19
questa Chiesa» con lo spirito adamantino di un neofita. Non ho mai desiderato altro e ancora nulla di diverso desidero. Niente mi faceva paura
e tutto poteva essere piegato facilmente all’ideale; anche il celibato, con
tutte le sue difficoltà e tensioni atroci, finì per non essere più un problema
perché la sublimazione dell’ideale, trasformandosi forse anche in alienazione inconscia, rapiva il midollo dell’esistenza stessa in modo totalizzante, anzi rendeva ogni sacrificio ancora più sublime e scavava motivazioni
profonde. Come non perdersi dietro all’ideale dell’imitatio Christi o davanti alla teologia traspositiva del sacerdos, alter Christus? Io ero sacro ed
ero Cristo! Vertigini che nessun bisogno poteva intaccare.
Oggi che sono molto vicino alla morte, non desidero che morire da
prete perché lo sono stato, sempre, senza compromessi, senza tentennamenti e senza tradimenti. Ancora oggi trepido per la Chiesa e soffro nel
vederla prostituita a opera di coloro che dovrebbero custodirla gelosamente, e quello che a qualcuno può apparire aggressività, altro non è che
amore e sofferenza d’amore: un grido di dolore nel vedere la propria madre prostituirsi non per la necessità di sostentare i propri figli, ma per pura lascivia di potere. Lentamente presi conoscenza e coscienza della realtà,
assaporandola giorno dopo giorno, scoprendo la distanza abissale tra l’ideale che mi avevano contrabbandato e la vita che vedevo e sperimentavo.
Invece di cadere in depressione o di darmi all’alcol o peggio, volli capire
e cominciai a studiare le Scritture. Per dirla con il cardinal Martini, «un
tempo avevo sogni sulla Chiesa […] Oggi non più sogni […] ho deciso di
pregare per la Chiesa» (Martini e Sporschill 2010, 61-62).
Da quando ho incontrato la Bibbia, divenuta il fondamento e lo scopo della mia vita, ho lasciato ad altri la fatica di «dimostrare» l’esistenza
di Dio con annessi e connessi, e non mi tocca la preoccupazione di papa Benedetto xvi, per un quarto di secolo capo dell’ancora famigerato
Sant’Uffizio, di impostare l’esistenza etsi Deus non daretur: egli parte dal
presupposto che solo la gerarchia cattolica può essere garante della dignità e della moralità della vita. Nella mia esperienza, ho potuto constatare che solo la testimonianza senza secondi fini – quella che il Vangelo
di Giovanni chiama martyrìa (martirio, testimonianza) – riesce a svelare
il Volto nascosto di Dio che si fa accoglienza e prossimo attraverso la Parola, il gesto e la vita di chi dice di credere in lui. Ci sono atei che senza
fare riferimento ad alcun «dio», conducono una vita altamente morale e
20 Cristo non abita più qui
rispettabile, molto spesso più nobile di quella di tanti sedicenti credenti, o forse sarebbe meglio dire di tanti praticanti, che molto praticano ma
niente amano. Ciò è «prova» che senza Dio si può vivere benissimo, anche perché i «praticanti» cattolici ce la mettono tutta, riuscendovi egregiamente, a dimostrare senza difficoltà che «Dio non esiste».
Sento profondamente mia l’affermazione paradossale e iperbolica del
regista spagnolo Luis Buñuel, che soleva definirsi ateo per grazia di Dio.
Sono ateo perché con consapevolezza e coscienza ripudio il Dio costruito
a immagine e somiglianza del potere per sostenere una struttura di peccato che oggi trova la propria espressione compiuta nel Vaticano, simbolo e
realtà di un mondo in cui Dio non ha mai preso residenza perché avrebbe potuto essere una casa di preghiera, mentre ha scelto di diventare un
covo di ladroni (cf Lc 19,46).
Nel Natale del 2004 il mondo era dominato dalla politica guerrafondaia
di George W. Bush, accolto con grande affabilità e inusitato ossequio
in Vaticano; in Italia il presidente del Consiglio dei ministri italiano,
Silvio Berlusconi, era accanto a lui, sorridente. In quei giorni, davanti
all’altare e all’assemblea, chiamando la mia coscienza a testimone, feci
pubblicamente la mia abiura e la mia professione di fede:
Auto da fé: Io abiuro/Io credo
Io, Paolo Farinella, prete cristiano cattolico, incardinato nella chiesa locale
di Genova, consapevole della gravità del momento storico per il mondo, le
chiese e le religioni, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e spirituali, con il presente duplice atto pubblico di abiura e di fede, voglio deporre
un piccolo seme a testimonianza presente e futura. Il silenzio è d’oro, tacere è una colpa e, a volte, un vergognoso scandalo di omertà e complicità.
Abiuro il Dio della «identità nazionale e/o europea», sbandierato dal clericalismo in combutta con la destra e la Lega del «dio Po».
Abiuro il Dio della (in)civiltà occidentale che presume di essere superiore alle civiltà africana, asiatica e cinese.
Abiuro il Dio «non neutrale» che Europa e Usa, nel promuovere guerre,
si annettono come blasfemo esportatore di democrazia, la loro.
Abiuro il Dio (s)cristiano e terrorista dei guerrafondai che millantano le
Credenziali 21
guerre d’invasione come «interventi umanitari» per giustificare il loro furto di petrolio, gas e materie prime.
Abiuro il Dio dei politicanti italiani, sedicenti cattolici e che sostengono
la degradazione morale e istituzionale del piduista Berlusconi Silvio, simbolo fisico della decadenza democratica.
Abiuro il Dio che le religioni usano come martello pneumatico per farsi guerra tra loro.
Abiuro il Dio che cappellani militari, servi della guerra e della morte invocano prima di ogni azione di guerra a favore dei propri «ragazzi» e contro i «ragazzi nemici» (?).
Abiuro il Dio invocato dai militari (s)cristiani che prima ammazzano e,
se qualcuno di loro muore, lo inneggiano «eroe» della patria con funerali religiosi e di Stato.
Abiuro il Dio invocato nelle «missioni umanitarie» tra inni e canti di bombe, razzi, missili e mitra.
Abiuro il Dio dei soldati (s)cristiani che torturano i figli di un altro Dio o
di nessun dio, comunque loro simile, tutelato dai trattati internazionali.
Abiuro il Dio invocato dai vescovi ai funerali di soldati o mercenari di
guerre preventive, cioè di invasione.
Abiuro il Dio invocato dal cardinale Tarcisio Bertone perché benedica navi portaerei militari, costruite appositamente per uccidere «con professionalità» e scientificità.
Abiuro il Dio dei ricchi, se prima non si convertono al Dio della cruna
dell’ago che abbatte i potenti e innalza i poveri.
Abiuro il Dio di chi si asside alla mensa dei potenti, rinnegando il desco
dei poveri.
Abiuro il Dio dei fondamentalisti di qualunque religione, cultura, nazione e identità.
Abiuro il Dio usato dagli ecclesiastici come stupefacente per addormentare le coscienze dei singoli e dei popoli.
Abiuro il Dio delle gerarchie religiose, omertosamente mute, perché colluse con il potere corrente.
Abiuro il Dio delle liturgie sgargianti di porpora e bisso che rinnega il
Dio della Storia.
Abiuro il Dio delle diplomazie, convenienze e compiacenze, negazione
esplicita del Dio di Gesù Cristo.
22 Cristo non abita più qui
Abiuro il Dio del Vaticano, dio di comodo, dio denaro, dio strumento di
ignominia e corruzione.
Abiuro il Dio dei vescovi, venduti nell’anima e nel corpo ai politici corrotti e delinquenti.
Abiuro il Dio dei «moderati» svuotato dalla dirompenza rivoluzionaria
del suo messaggio.
Abiuro il Dio dei «princìpi non negoziabili» che annulla la croce come segno di contraddizione.
Abiuro il Dio dei politicanti clericali che respinge gli immigrati uccidendoli nel mare Mediterraneo.
Credo il Dio di Gesù Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’Uomo, Ultimo tra
gli ultimi.
Credo il Dio povero, nudo, forestiero e crocifisso, Padre dei poveri, dei
nudi, dei crocifissi e dei senza dimora.
Credo il Dio degli oppressi di qualunque religione, cultura, nazione e
identità.
Credo il Dio dei non violenti che subiscono violenza, poeti di pace.
Credo il Dio che abiura il tempio, la religione e il potere come strumenti oppressivi.
Credo il Dio vittima sacrificata nelle vittime innocenti delle guerre in Iraq,
in Afghanistan, in Eritrea, in Mali, e di ogni guerra.
Credo il Dio palestinese segregato dietro il muro della vergogna israeliana.
Credo il Dio dell’ebreo Gesù che offre la sua vita per i palestinesi, gli israeliani, per gli occidentali e gli orientali.
Credo il Dio cristiano torturato a Guantánamo, Abu Ghraìb e Falluja da
militari occidentali, sedicenti cristiani.
Credo il Dio del cielo e della terra, senza patria, senza nazione, senza civiltà, Dio del vento che spira libertà.
Credo il Dio degli uomini di buona volontà, poeti, costruttori di pace e
di ponti.
Credo il Dio che condanna gli eserciti, le loro armi e coloro che li benedicono, controtestimonianza del Dio della Pace.
Credo il Dio che perdona i suoi crocifissori, mentre lo inchiodano alla
morte.
Credenziali 23
Credo il Dio Madre e Padre che cammina con le donne e gli uomini, senza distinzione di popolo, lingua e nazione.
Credo il Dio ammutolito dal mutismo peccaminoso delle gerarchie, gaudenti nelle loro vesti svolazzanti.
Credo il Dio che consola gli afflitti, ama gli stranieri, predilige gli esclusi.
Credo il Dio bambino violato in ogni bambino o bambina, dentro e fuori la Chiesa.
Credo il Dio che inorridisce davanti a ogni gesto di pedofilia, specialmente dentro le mura del tempio.
Credo il Dio che nasce e rinasce in ogni cuore, che ama a perdere senza
chiedere in cambio nulla.
Credo il Dio della misericordia che verrà a giudicare il mondo solo sull’Amore e sulla rettitudine della coscienza.
Paolo Farinella, prete ateo per grazia di Dio,
credente per amore di ragione
Questo libro è anche una riflessione sofferta: un atto di coscienza dovuto a quanti ho incontrato nella mia vita, credenti e non credenti, dai quali ho appreso, per le loro esperienze, a volte dolorose, il Volto del Dio di
Gesù Cristo, che ama passeggiare «fuori del campo», là dove le coscienze sono vere e senza presunzione.
Questo libro non è un’inchiesta o un trattato. Può anche essere definito la prosecuzione o la teorizzazione e l’approfondimento del mio romanzo Habemus papam (Farinella 2012), in cui chiedevo una riforma
della Chiesa. Questo libro è un atto d’amore appassionato che pretende
con forza e gravità una radicale riforma della Chiesa cattolica nel solco
del Concilio Ecumenico Vaticano ii e delle intuizioni che esso ha intravisto ma non ha potuto portare a compimento, perché strozzato in piena crescita adolescenziale. Nel cinquantenario del suo inizio (11 ottobre
1962), il tempo è maturo perché, superate le paure dei pavidi, papi compresi, si prenda sul serio la Parola del Signore che ordina a Pietro di lanciarsi in mare aperto e di camminare sulle acque: «Prendi il largo» (Lc
5,4) dovrebbe essere tradotto meglio alla lettera dal greco con «Rimettiti nel profondo», quasi un invito a riconsiderare le scelte precedenti che
hanno allontanato il papato e i cattolici dalla strada maestra – essere nel
24 Cristo non abita più qui
profondo della storia, nel cuore del mondo per cogliere l’anelito di giustizia che sale dal centro e dalle periferie della vita.
Dalla mia esperienza diretta con le curie e in modo particolare con
quella di Roma, di cui ho conosciuto la prostituzione, la protervia e la
doppia morale, ho imparato a mie spese che Dio, nato a Betlemme di
Giudea, non è qui, sì, non è in Vaticano, anzi non c’è mai stato. Per scelta di Dio.
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine
(Quasi una pre-postfazione)
Questo libro è una profezia superata dagli eventi. Mi accingevo a finirlo
quando sono stato scavalcato «a sinistra» da un papa «di estrema destra».
So bene che queste categorie politiche sono superficiali, ma rendono bene l’idea.
È un dato di fatto che Benedetto xvi, al secolo Joseph Ratzinger, è stato un papa di altri tempi, un papa volto al passato, non solo prossimo (pre
Concilio Vaticano ii), ma anche remoto (Chiesa tridentina), con un’ulteriore proiezione verso un tempo ideale, verso una Chiesa che potremmo
definire «presocratica». Le sue dimissioni, da alcuni, come me, desiderate e auspicate, sono state clamorose per l’effetto (positivamente?) devastante che hanno avuto dentro e fuori la Chiesa cattolica, certificando così
il fallimento della Chiesa «lobby anticonciliare». In questo libro cerco di
dimostrare che la Chiesa guidata da Giovanni Paolo ii e da Benedetto xvi
fu una Chiesa antistorica, teologicamente scadente e scaduta, storicamente fallimentare, e auspico un ritorno allo spirito del Concilio Vaticano: si
può e si deve partire da lì, per poi andare oltre.
Su questi e altri temi, ho avuto discussioni e confronti con il mio vescovo, il cardinale Angelo Bagnasco, senza mai giungere a una conclusione condivisa, ma restando ciascuno sulle proprie posizioni. Lui in difesa
strenua del papa, in nome del principio di autorità che formulava con l’assioma «il papa è il papa», anzi più precisamente «il Papa è il Papa». Io, al
contrario, dicendo che il papa è figlio del suo tempo, frutto della sua storia, della sua formazione e anche del condizionamento culturale dell’am-
26 Cristo non abita più qui
biente che l’ha nutrito. Le dimissioni di Benedetto xvi relativizzano la
funzione papale: non può più essere una categoria trascendentale a vita.
Al di là della retorica di palazzo e di convenienza riduttiva, le dimissioni
del papa, proprio perché sono un hápax (un unicum), diventano per questo anche un theologoùmenon, cioè un «luogo teologico» che, pur non
essendo di natura rivelata, resta un evento discriminante per i pontificati
successivi: non potranno più nascondersi dietro il paravento comodo per
cui «un padre non si dimette» in quanto nominato dallo Spirito Santo.
Paternità e Spirito Santo cedono il posto alla realtà che nessuno può più
negare: il papa si è dimesso. Lo Spirito Santo cessa di soffiargli sopra, la
paternità dichiara la sua incapacità di fronteggiare il nuovo e le forze reazionarie che operavano alacremente per abolire il Concilio Vaticano ii subiscono una battuta di arresto e forse una sconfitta definitiva.
Ho iniziato questo libro il giorno lunedì 13 agosto 2012, alle ore 16:57.
In esso per almeno due volte chiedevo le dimissioni di papa Benedetto
xvi per fallimento palese di un pontificato nato dalla paura della modernità; fallimento ormai provato in modo evidente dal fatto di non essere
in grado di gestire la curia romana col suo vortice di corruzione, scandali e immoralità. Ho molto rispetto per l’uomo e la sua sofferta decisione,
che dimostra dirittura morale, distacco dagli intrighi e una profonda spiritualità, avulsa dal potere come lascivia dell’ego. Resta invece un giudizio
molto grave sulla gestione del suo ministero, incapace di discernimento,
come hanno dimostrato la scelta di collaboratori inadatti e pericolosi (uno
fra tutti il segretario di Stato, cardinal Tarcisio Bertone) e l’inconsulta accoglienza senza riserve del movimento scismatico dei seguaci del vescovo Marcel Lefebvre.
Finita la stesura, mi accingevo a rivedere il testo quando, lunedì 11
febbraio 2013, poco prima di mezzogiorno, lessi sul web il lancio dell’Ansa con la notizia dirompente, quasi in diretta, che Benedetto xvi, nel concistoro in corso, comunicava ai cardinali le sue dimissioni da papa. Il
cardinal Angelo Sodano, decano del collegio dei cardinali, presente, prendendo la parola subito dopo il papa, parlò di «un fulmine a ciel sereno».
Il papa aveva riunito il concistoro pubblico dei cardinali per concludere tre canonizzazioni, tra cui quella degli ottocento martiri di Otranto,
uccisi il 14 agosto 1480 dai turchi perché non vollero abiurare la loro fede
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine 27
e convertirsi all’Islam. Finito il concistoro pubblico, il papa proseguì con
un concistoro privato, riservato ai soli cardinali, una cinquantina, ai quali, in latino, comunicò la sua ferma e libera decisione di dimettersi da papa perché, disse, «sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età
avanzata (ingravescente aetate), non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero pietrino» (L’Osservatore Romano, 11/12 febbraio 2013), stabilendo la data d’inizio della «sede vacante» alle ore 20.00 del
giorno 28 febbraio 2013. La motivazione che il papa stesso offrì al mondo fu drammatica e lucidamente consapevole, ma dietro le righe si nota
un sentimento di disagio:
Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di
grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia
dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale
da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero
a me affidato. (Ibidem)
Il papa usa un linguaggio diretto e senza mediazioni, nuovo per certi
aspetti, e anche disarmante. Con una litania di parole non usuali nella curia romana, ammette urbi et orbi, in latino, la lingua ufficiale del Vaticano,
la sua inadeguatezza all’esercizio del ministero, così come svolto storicamente oggi. Non è una semplice presa d’atto di debolezza fisica, che c’è,
ma soprattutto è l’ammissione solenne e ufficiale, anzi l’auspicio che il papato cambi. Il governo della Chiesa, nella complessità del mondo odierno,
non può più essere esercitato in forma monarchica, con stile accentratore, segno di un mondo finito e concluso. Il papa non può più essere re.
Da questo momento inizia una nouvelle théologie sulla natura del papato e il suo esercizio storico. Non possiamo che essere riconoscenti a Benedetto xvi, papa Ratzinger, per avere scritto con le sue dimissioni la sua
«enciclica» più importante, quella per la quale sarà ricordato nella storia della Chiesa: Chiesa che lascia in uno stato di profonda disperazione.
Con un conclave rapido, ma non eccessivamente veloce, dopo cinque
scrutini e due fumate nere, mercoledì 13 marzo 2013, a tarda sera, smentendo le previsioni della vigilia, il collegio dei 115 cardinali elegge papa
il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Ai-
28 Cristo non abita più qui
res, che sceglie per sé il nome di «Francesco», primo papa ad assumerlo.
Per me è stato un balzo al cuore. In occasione del Giubileo del 2000, avevo dato alle stampe, con l’Editoriale Delfi di Salvatore Giannella, un romanzo intrecciato da diversi generi narrativi, dalla cronaca alla teologia,
dal thriller al giallo, dal titolo emblematico Habemus papam, Francesco.
In quegli anni vivevo a Gerusalemme, dedito allo studio delle lingue
bibliche (ebraico, aramaico e greco ellenistico) e dell’archeologia. Scrissi il romanzo nella pausa estiva del 1999, mentre ero in Irlanda per motivi di studio; impiegai sei giorni, di getto e senza mai fermarmi come un
torrente in piena che deve scendere a valle. Era un imperativo impellente della mia anima. Per vent’anni avevo frullato nel cuore e nella testa le
idee, le speranze, le frustrazioni, le attese, i desideri, e ora, davanti al pc,
in una manciata di ore, tutto veniva di corsa, come per rispondere a una
«necessità». Non dormii né mangiai per sei giorni.
Il libro piacque a Salvatore Giannella, che lo pubblicò. Nome e papa del mio romanzo nascevano dalla realtà che contrastava con la rappresentazione del reale che «il sistema clericale» faceva strumentalizzando il
Giubileo. All’inizio del terzo millennio, la Chiesa frammentata di Giovanni Paolo ii, e con lui identificata in modo idolatrico, si presentò al mondo,
attraverso una grandiosa macchina mediatica, come un successo, una realtà granitica e incrollabile, una Chiesa che aveva preso possesso del mondo
nella persona del «papa re», personificato in modo insuperabile dal papa
polacco. Egli non era più il vescovo di Roma, ma il re della Chiesa universale che dietro la sua maestà nascondeva la fragilità della frantumazione
dei gruppi e delle sette che sbranavano e riducevano a brandelli le carni vive dell’ekklesìa. Opus Dei, Legionari di Cristo, Rinnovamento nello
Spirito, Cl, Sant’Egidio e tutti i gruppi «militari» (Militia Christi, Legio
Mariae ecc.) ne hanno approfittato perché hanno usato il papa, servendo
lui e la causa polacca, portando non solo doni, ma una quantità enorme
di denaro con cui hanno comprato la loro porzione di Chiesa, fatta a loro immagine e somiglianza.
Il successo mediatico e numerico delle folle che assiepavano le funzioni religiose papali rappresentava solo la polvere di superficie che nascondeva la realtà drammatica di una Chiesa senza più anima e di una religione
ridotta a puro folclore o a strumento di contrattazione politica. Ormai il
papa e i vescovi erano rappresentativi di una Chiesa senza Cristo, di un
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine 29
Cristo senza Croce, di un Dio senza volto. Regnava la Babele delle sette, antagoniste tra loro per accaparrarsi la supremazia del potere, specialmente economico, come vedremo nelle pagine seguenti.
Mentre scrivevo il romanzo di papa Francesco e anche quando, in seguito, sarei andato in giro per l’Italia a presentarlo, esponevo le linee programmatiche di un pontificato senza orpelli e senza ori, senza potere e
senza presunzione; un ritorno al servus servorum Dei che è la vera natura del vescovo di Roma. La sola natura che lo giustifica. Vedevo con gli
occhi del cuore e della fede non ubriacata dall’esteriorità mondana la fine di «questa» Chiesa che ormai era pagana tra pagani, guidata da scribi e farisei ipocriti.
Il programma – immaginario – del papa Francesco del mio romanzo
è semplice: l’applicazione materiale e senza angoscia del dettato del Vangelo, da cui nasce l’esigenza di smantellare pezzo per pezzo lo Stato della Città del Vaticano, separando la funzione del papa da quella di capo di
Stato e restituendo ai vescovi e alle Chiese locali la loro autonomia e il loro diritto di essere se stesse, senza dovere passare prima dalle forche caudine dell’uniformità romana. Papa Francesco rapisce il papa dalla nicchia
di sacralità in cui l’idolatria clericale lo aveva condannato e lo restituisce
all’umanità di ieri e di domani, ma specialmente all’umanità del suo tempo. Egli parla il linguaggio dei poveri e dei santi, compie i gesti di verità,
libera le persone dai vincoli della schiavitù sacrale e religiosa e, per la seconda volta nella storia, strappa il velo del tempio da cima a fondo, rendendo visibile il Dio prigioniero del protocollo e del rituale.
Oggi la Chiesa cattolica ha un nuovo papa venuto «dalla fine del mondo», dall’Argentina, cioè dall’America Latina, da quello che un tempo era
«terzo mondo» o «mondo in via di sviluppo», e ora è qui che assume il
nome profetico di Francesco, e parla al mondo con il linguaggio francescano della semplicità e dell’ordinarietà. I gesti piccoli e ordinari sono capaci di rivoluzione profonda in un mondo che si blocca nell’immobilismo
dell’istituzione senza tempo. Non ci resta che aspettare e osservare. Forse
Francesco potrà deludere, ma credo che sia difficile, perché il nome che
ha scelto è al tempo stesso una condanna e un antidoto. È una condanna perché qualsiasi altro nome non porta con sé l’obbligo etico di ciò che
rappresenta: Pio, Adriano, Benedetto sono solo nomi di papi che diventano papi. Chiamarsi Francesco può essere o pazzia o abbandono totale alla
30 Cristo non abita più qui
Provvidenza, come gli uccelli del cielo e i gigli del campo. Il nuovo papa,
Jorge Mario Bergoglio, si è condannato da solo a essere coerente non solo con se stesso, ma anche con «il modello» scelto, che lui stesso ha voluto spiegare come attenzione ai poveri e al creato. Papa Francesco non
può permettersi di sbagliare: o è Francesco o non è.
Intanto le prime parole e i primi gesti lasciano ben sperare: è forse
tempo di goderci dunque questi momenti e questa grazia improvvisa che,
se gli uomini clericali non si fossero lasciati dominare dalla paura, sarebbe potuta accadere otto anni prima, nel 2005, quando papa Bergoglio fu
antagonista elettore di papa Ratzinger. Otto anni perduti? Chissà!
Insieme a papa Francesco, la Chiesa, come si sa, ha anche un papa
emerito e fa impressione vedere «due papi» seduti l’uno di fronte all’altro o inginocchiati a pregare insieme.
Due papi contemporanei sono una situazione speciale per noi, oggi,
ma non è una situazione unica nella bimillenaria storia ecclesiale perché
altri papi e antipapi hanno convissuto in epoche lontane. Papa Ponziano, il 28 settembre del 235, rinunciò alla carica perché fu mandato ai lavori forzati in Sardegna; lui prigioniero, gli succedette papa Antero il 21
novembre dello stesso anno. Tra il 1032 e il 1044, il mondano Benedetto ix, espulso e tornato in carica a più riprese, convisse con Silvestro iii,
Gregorio vi e Clemente ii. All’inizio del xv secolo, i papi Gregorio xii e
Benedetto xiii furono dimessi dal Concilio di Pisa nel 1409 perché scismatici. L’antipapa Giovanni xxiii (il cui nome volle riprendere, senza paura, papa Angelo Giuseppe Roncalli nel 1958) coesistette con Urbano vi
e Martino v, quest’ultimo eletto dal Concilio di Costanza. A Eugenio iv,
scomunicato e deposto, si contrappose Felice v, che abdicò in favore di
Nicolò v nel 1447.
Si può dire che, con questo valzer di papi e antipapi, doppi papi e tripli papi, non si ha certezza della linearità della successione pietrina; fra
tutti i papi dimessi o deposti, fa impressione notare che il nome di Benedetto ricorre più di ogni altro. L’11 febbraio 2013 è stata la volta di un
altro Benedetto, il numero xvi, il quale non è stato obbligato da forze
esterne dirette, ma ha preso la decisione ponderandola nella sua coscienza, e solo quando essa è stata matura in lui, l’ha comunicata secondo le
regole del Codice di diritto canonico che sancisce:
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine 31
Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la
validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti. (CJC, can. 332 §2)
Per la prima volta il gesto delle dimissioni, non usuale nel mondo clericale, dove tutto si misura sul perenne e sull’eterno, ha immesso dentro
i sacri palazzi un seme di cultura e di costume di laicità. Ha scardinato,
«come un fulmine a ciel sereno», la figura del papa, privandola all’improvviso dell’aureola di sacralità che da secoli, come un sarcofago mummificato, la custodiva e la preservava dalla contaminazione col mondo.
Come per magia, la persona e la funzione del papa sono restituite alle dimensioni dell’umanità ordinaria, dove uomini e donne stanno al loro posto fino a quando le forze spirituali e fisiche lo consentono. Così era ai
primordi dell’avventura cristiana, così sarà domani, passando obbligatoriamente attraverso le dimissioni di papa Ratzinger, uomo di cultura tedesca che non ha assimilato per nulla lo stile italiano, dove nessuno si
dimette mai, neanche da morto. Per la prima volta, il papa in persona ha
detto, come svegliandosi da un sogno alienante, di non essere un dio o,
peggio, un idolo, ma di essere solo un uomo, e anche limitato, che deve
fare i conti con le categorie della possibilità e dell’impossibilità. È la fenomenologia che prende il posto degli universali cattolici. Nel mondo e
nella teologia cattolica è definitivamente crollato un mito. Anzi, è cominciato a crollare.
Le mie considerazioni in questo libro a volte sono dure, spigolose. Il
gesto del papa però conferma le mie convinzioni, che l’esigenza di una
grande, non superficiale riforma della Chiesa è sempre più cogente e necessaria, specialmente in capite, cioè nella struttura gerarchica, che è lo
scandalo maggiore dentro il cuore stesso della Chiesa. Già Giovanni Paolo ii si era detto disposto a mettere in discussione l’esercizio storico del
ministero pietrino; il suo successore ha compiuto il primo atto formale
di riforma in quella direzione. Il papato che dopo il Concilio Vaticano i
era diventato «la» Chiesa, usurpando un’identità indebita, ora può essere riformato. Il papato non può più essere lo stesso e il potere temporale,
formalmente finito il 20 settembre del 1870, di fatto ha iniziato a concludersi l’11 febbraio 2013, memoria liturgica della Madonna di Lourdes e,
per l’Italia, anniversario dei Patti lateranensi, che nel 1929 formalizzaro-
32 Cristo non abita più qui
no la coesistenza del pastore e del capo di Stato nella persona del papa:
dal papa re al papa dio.
La Storia è una grande maestra di vita, proprio perché non insegna
nulla, se è vero che ciascuno vuole, com’è suo diritto, compiere fino in
fondo i propri errori, perché solo errando discitur; essa però si vendica,
creando occasionalmente motivi e circostanze simboliche che valgono più
di un trattato scientifico. Nello stesso giorno in cui un papa era riconosciuto come capo del Vaticano (1929), un altro papa dichiarava al mondo intero di non essere più né capo di Stato né vescovo di Roma, perché
non ne era più in grado (2013). Una rondine non fa primavera e i cardinali, cioè la curia, sono duri a morire. Essi non arriveranno mai a prendere decisioni per scelta, ma da sempre sono condannati a rassegnarsi,
sempre rigorosamente in ritardo, a quelle cui sono costretti dalla storia o
dalle convenienze.
È stato impressionante leggere il discorso del papa, forse il più breve
della sua vita, e scoprire che non vi sono sbavature, né alati pensieri spirituali e tanto meno atteggiamenti spiritualistici. Al contrario, è un discorso
piano, semplice, laico nello spirito e nella terminologia. Qualunque presidente di qualunque società avrebbe potuto pronunciare quelle parole
– mutatis mutandis e fatta la debita tara del luogo dove sono state pronunciate. Da quel momento, il papa cessava per sempre di essere vicario
di Cristo, titolo quanto mai controverso nella storia della teologia, per restare soltanto il successore di Pietro in un «servizio» a tempo, camminando con i tempi, per essere in grado, eventualmente, di arrivare in tempo.
Benedetto xvi l’ha detto in modo disarmante: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti». Con queste parole, egli ha confessato il suo
limite, cedendo alla dittatura della fragilità, non solo fisica, ma anche concettuale; lui, uomo di cultura e di studio, non era più in grado di reggere
i bisogni di «oggi» e, se non si fosse ritirato per tempo, avrebbe rischiato
di mancare l’appuntamento con il Signore che nella sinagoga di Nàzaret,
all’inizio del suo servizio, aveva detto con fermezza e lungimiranza: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Oggi,
non ieri, non domani, non in un tempo che si rifugia nell’eternità perché
ha paura dell’evolversi della vita, ma solo ed esclusivamente oggi. Dio e il
Vangelo sono oggi. È l’oggi di Dio.
Benedetto xvi, ormai papa non papa, disarmato e, oserei dire, illumi-
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine 33
nato dallo Spirito, cedendo alla violenza della ragione, non ha mancato
l’oggi di Dio. Di questo la storia gli darà atto e merito e sarà ricordato,
prevalentemente, come il primo papa che si dimise liberamente. Come in
una liturgia immaginaria ma reale, nelle sue parole, che sono pietre, egli
ha deposto i sacri paramenti che difendono dalla mondanità esterna, ha
preso atto che «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo»
(Mc 15,38) e ha lasciato «il sacro soglio» che più prosaicamente si è trasformato in una «sedia presidenziale», occupata da un papa eletto per il
tempo necessario al «ministero affidato». Finito il compito, egli lascia la
sedia per tornare a pregare e, se c’è, a convivere con la sofferenza che la
vita e la vecchiaia portano con sé. Cristo non ha lasciato la sua Chiesa ad
alcuno, nemmeno al papa, perché ha garantito di essere «con [noi] tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Egli chiama quanti sono
disposti a collaborare perché ciascuno svolga una sola di quelle che «in
domo Patris mei mansiones multae sunt» (Gv 14,2). Anche il papa. Specialmente il papa, che deve dare l’esempio di non essere strumento o manipolatore del potere.
Nel breve discorso del papa ai cardinali, c’è un inciso temporale, che
apre, a mio parere, uno spiraglio sulle altre motivazioni che oltre la salute
hanno indotto il papa a dimettersi. Egli parla di «vigore che, negli ultimi
mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Quelle parole,
pronunciate quasi di sfuggita, «negli ultimi mesi», sono una finestra allucinante. Il papa poteva ometterla senza cambiare il senso del suo dire; perché proprio «gli ultimi mesi»? Forse perché sono i mesi cruciali, in cui fu
manifesto al mondo che Satana prese possesso delle porpore cardinalizie
per porre in essere odii, rancori, divisioni, vendette e misfatti. «Negli ultimi mesi» il papa ha dovuto scontrarsi con i noti fatti di cronaca che hanno visto coinvolto il maggiordomo Paolo Gabriele, alla fine graziato dal
papa stesso, dopo una pena simbolica. Un capro espiatorio fittizio per coprire misfatti purpurei di uomini in sottana corrotti che manovravano per
la sua successione e crearsi un posto di rendita. Al maggiordomo, infatti,
dopo il processo farsa, è stato dato un posto nel complesso dell’Ospedale del Bambin Gesù, vicino Porta San Paolo, con un ufficio sulla cui porta campeggia la targa personale. È possibile che un condannato, specie se
graziato, abbia tanti onori e tanto rispetto?
34 Cristo non abita più qui
Gli intrighi medievali e rinascimentali della curia romana non sono finiti, anzi, dopo le dimissioni potrebbero incrementarsi perché, cogliendo
di sorpresa, hanno ferito orgogliosi, corrotti, intrallazzatori, capibanda e
la ciurma di complemento che segue per interesse i propri padroni. Le
dimissioni del papa sono una prova, anzi, un atto di accusa grave e impotente, come se il papa inerme dicesse: ora non posso più coprirvi perché la
mia coscienza mi dice che sarei complice di un sistema di potere che è la negazione di Dio.
Alla messa del mercoledì delle ceneri, il giorno 13 febbraio 2013 – il
primo atto pubblico dopo le sue dimissioni –, il papa l’ha detto con chiarezza:
Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede
e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare
il volto della Chiesa e come questo volto venga, a volte, deturpato. Penso
in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo
ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione
ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso
per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti. […] Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica
l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. (L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2013)
Da queste parole, pronunciate in un clima di meditazione sulla Parola,
emergono ombre laceranti che si addensano sulla ekklesìa come una minaccia tempestosa: «Penso in particolare alle colpe contro l’unità della
Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale». «Individualismi e rivalità», alla luce dei fatti, sono pietre tombali che si posano sugli ultimi passi di un
papa che non è fatto per lottare contro i suoi collaboratori. Il papa può
affrontare le tentazioni di Satana, può andare nel deserto e soffrire la fame e la sete, ma non è capace di reggere l’assalto dei lanzichenecchi interni, quelli che invece di collaborare con lui, come umili servitori della
vigna del Signore, tramano per acquisire posizioni, per fissare rendite di
corruzione e combattere contro gli avversari presunti. Il papa denuncia
anche «l’ipocrisia religiosa», che descrive con termini che appartengono
Il papa si è dimesso, ovvero il principio della fine 35
alla vanità mondana piuttosto che ai seguaci di Cristo. Se i cardinali e il
segretario di Stato fossero stati uomini dello Spirito, avrebbero preso come criterio di vita le parole del Signore che invitano a un genuino spirito
di servizio. Forse, in un clima e in un contesto di preghiera e di abnegazione, lo stesso gesto delle dimissioni papali sarebbe stato motivato in modo
diverso e sarebbe anche apparso meno dirompente: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo
fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10).
L’inutilità di cui parla Gesù non è comportamentale o funzionale, ma
appartiene alla logica della verità e del servizio: «non sono più adatto». Il
testo greco usa l’aggettivo achrèios, composto da alfa privativa e dal verbo chràomai, io uso/compio, per cui «sono disabilitato/non sono più nelle condizioni di agire/compiere». La curia romana, purtroppo, da sempre
ha usurpato il ministero pietrino al successore di Pietro, relegando questi a una funzione di appariscenza, con un ruolo di approvazione formale, riservando per sé il potere quotidiano, quello invisibile, quello vero,
nomine dei vescovi in primo luogo, scelti per cooptazione e quindi ricattabili con la tentazione dell’avanzamento di carriera.
Dopo gli scontri delle fazioni contrapposte, avvenuti davanti ai suoi
occhi, e dopo la constatazione che nemmeno la sua scrivania e il suo studio erano più sicuri, visto che qualcuno ha potuto trafugare documenti,
anche riservati, Benedetto xvi ha dovuto aprire gli occhi. Svegliatosi da
un incubo, per la prima volta, forse, ha toccato con mano la sporcizia, la
corruzione, il malaffare, l’inganno e la menzogna e ha constatato che erano moneta corrente nella sua Città, nella sua casa, nella Chiesa di Dio. Il
«fumo di Satana» che Paolo vi, terrorizzato, aveva evocato nel 1972, per
Benedetto xvi ha assunto un nome e una collocazione puntuali. Il fumo
diabolico del carrierismo e delle lotte intestine per accaparrarsi il potere e
imporre la propria immagine di Chiesa aveva invaso il Vaticano e annebbiato le menti e gli occhi dei cardinali che, a papa ancora vivo, cianciavano di scenari di morte. Forse per la prima volta – quante prime volte! – il
papa ha dovuto rendersi conto che il male sovrastava la Città del Vaticano e le iene erano in agguato per sbranarlo e farlo a pezzi senza pietà e
misericordia. Lui stesso ha confermato questa lettura nell’ultimo Angelus pubblico, in piazza San Pietro (17 febbraio 2013), mandando un avvertimento agli ecclesiastici che lo ascoltavano:
36 Cristo non abita più qui
La Chiesa […] chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a riorientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per
vivere nell’amore, […] la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della
Chiesa, […] nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni
anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto […] Il loro nucleo
centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali […] Dio diventa
secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta
più, svanisce[…] Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il
combattimento contro lo spirito del male […] per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita.
Anche il papa sa che si può «strumentalizzare» Dio per i propri interessi.
È facile, anzi è d’obbligo, pensare all’opera diabolica delle lobby cardinalizie che in questi anni, e specialmente in questi ultimi mesi, sono state alacremente indomite per manovrare il papa, indirizzarlo verso la loro parte,
prendere il sopravvento sulle fazioni avversarie. Gli uomini che si dicono
di Dio, quando vivono e agiscono senza Dio, usano Dio con sarcasmo e
noncuranza e sanno essere tragici e comici allo stesso tempo, perché perdono il senso del ridicolo e riescono a prendersi sul serio.
Lo Ior, con tutto il marcio che ha sempre custodito nei suoi forzieri,
è esploso nelle mani del papa che vi aveva voluto a capo una persona di
sua fiducia perché lo riportasse alla legalità. Non solo la missione non è
riuscita, ma, a sua volta, anche il nuovo direttore, Ettore Gotti Tedeschi,
è stato indagato dalla magistratura e dalla Banca d’Italia per riciclaggio.
Senza aggiungere che, in spregio al papa, il segretario di Stato, il cardinale
Bertone, ha macchinato con sistemi degni del Kgb perché fosse deposto.
Infatti, fece redigere una diagnosi d’inaffidabilità da un medico compiacente senza che nemmeno visitasse l’interessato. Le dimissioni imposte al
presidente dello Ior, nominato dal papa, sono state interpretate dagli addetti ai lavori come uno scavalcamento proprio del papa, che così era stato messo davanti al fatto compiuto.
Monsignor Carlo Maria Viganò, uomo giusto, aveva avvertito il papa
che monsignori e cardinali erano ladri e corruttori a forza di tangenti in
Vaticano e fuori. Il cardinal Bertone, vedendo toccati e accusati i suoi uo-
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mini, per punirlo della sua onestà, che, per contrappeso, faceva emergere la delinquenza dei protetti bertoniani, lo fece allontanare dal Vaticano
e lo spedì oltreoceano, con una promozione che nelle intenzioni e nei fatti era solo una condanna a morte. Di fronte a questi misfatti, non avendo
la forza d’imporsi e di licenziare i figli delle tenebre, primo fra tutti il suo
segretario di Stato, il papa ha fatto quello che un uomo mite e debole sa e
può fare: si toglie lui di mezzo per disarmare le mani delle bande armate
vaticane. Per fare dimettere tutti e riportarli alla dimensione della ragione e della fede, se mai qualcuno in Vaticano ha creduto in qualcosa, al di
fuori del proprio io. Ha avuto coraggio? Umiltà? Una cosa sappiamo: la
curia che, con i suoi intrighi e le guerre fratricide, ha costretto il papa alle
dimissioni, è la curia che il papa stesso ha voluto, formato e costruito. Se
ciascuno è responsabile della propria fortuna, è anche vero l’inverso: ciascuno è responsabile dei propri errori, e nella scelta delle persone il papa
ha sbagliato, e più di una volta. Oggi possiamo dire che Joseph Ratzinger
non ebbe la capacità e la lungimiranza di scegliersi i collaboratori giusti;
per questo i papi hanno la curia che si scelgono e che si meritano.
Il fallimento dei colloqui con i lefebvriani, che si sono approfittati
dell’eccessiva benevolenza del papa, alzando sempre più il tiro delle loro richieste per indurlo a dichiarare formalmente che il Vaticano ii fu un
«concilio minore» – e addirittura che non potrebbe essere annoverato
neppure tra i concili in quanto eretico – deve averlo molto amareggiato,
forse al punto di pentirsi di avere tolto loro la scomunica. Nel 2007, il papa, con un motu proprio, cioè di sua iniziativa e senza contropartita, concedeva la facoltà di celebrare la messa preconciliare. Sarebbe stato ovvio
e logico, ma anche necessario, da un punto di vista teologico che avesse chiesto l’adesione previa al magistero del concilio. Non lo fece, ma dal
2009 iniziò «colloqui dottrinali» tra gli scismatici e la congregazione della dottrina della fede sull’interpretazione da dare ai documenti del concilio. Il papa si illuse che avrebbe potuto dialogare con i lefebvriani e si
adattò alle loro richieste, andando anche oltre il lecito, ma alla fine ha dovuto capire che non era per amore della Chiesa che essi volevano ritornare, ma solo per prendersi una rivincita dottrinale.
Ammetterli ai colloqui significò porre gli scismatici sullo stesso piano del concilio: alla pari, anzi a svantaggio dell’assise ecumenica, il massimo organo magisteriale per la Chiesa cattolica. Il loro vero peccato è
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quello di orgoglio, il peccato di Adamo ed Eva che non ha mai abbandonato il ceto clericale. La curia romana giocò su due tavoli perché da
una parte emanava documenti apparentemente duri nei confronti dei
lefebvriani e dall’altra, sottobanco, mandava a dire di non tenerne conto, arrivando anche a mettere in contrasto il papa con la congregazione
della fede: il papa vuole riconoscervi, ma alcuni in Vaticano non vogliono, il papa è comunque deciso a scavalcare qualsiasi organismo pur di
arrivare al riconoscimento. Quando questa trama ignobile, che giocava anche con la dottrina, doveva essere ormai evidente, il papa gettò la
spugna. Per leggere la storia di questa farsa, basta spulciare il sito della Fraternità di San Pio x che voleva a ogni costo rimestare nel torbido
per rendere insicuro il papa e indebolirlo. Ci sono riusciti, se Benedetto xvi, abbandonando ogni remora, ha deciso all’improvviso, ma non
tanto, di ritirarsi in un monastero dentro il Vaticano. Lotte e intrighi
non facevano per lui e li denunciava con quel gesto disperato e in piena solitudine. Le sue dimissioni, infatti, hanno evidenziato la solitudine
dell’uomo istituzionale e la perfidia grossolana del segretario di Stato,
Tarcisio Bertone, che invece di difenderlo lo indeboliva con la sua incapacità e con le sue trame per affermare la propria visione di Chiesa anche dopo questo papa.
L’esempio più clamoroso e anche impudente di condizionamento del
nuovo papa, non ancora eletto, avvenne il 15 febbraio 2013 a pochi giorni
dalle dimissioni annunciate dal papa. Bertone fece rinnovare la Commissione cardinalizia di vigilanza che sopraintende lo Ior, facendo nominare
se stesso dal papa dimissionario come presidente, estromettendo
il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Autorità di informazione finanziaria della Santa Sede (Aif), nemico del segretario di Stato di Benedetto
xvi. Al suo posto [è stato messo] Domenico Calcagno, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (Apsa), uomo fidatissimo di Bertone. Dopo la nomina, ieri, del nuovo presidente della banca
vaticana, Ernst von Freyberg, oggi arriva il nuovo colpo di scena con la
regia del segretario di Stato. (Grana 2013).
Essendo quinquennale, la nomina condiziona sicuramente il nuovo papa che potrebbe avere le mani legate e rassegnarsi di fronte al fatto com-
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piuto. L’autonomina allo Ior di Bertone è un fatto di una gravità inaudita
perché, sebbene il papa sia stato formalmente dimesso dalle ore 20:00 del
giorno 28 febbraio 2013, è anche vero che le dimissioni erano state annunciate e quindi si era in fase di pre-sede vacante. Logica e etica vorrebbero che non si prendessero decisioni importanti, ma si lasciasse al nuovo
papa, il compito di decidere secondo sua scienza e coscienza. Se Dio esistesse in vaticano, questa avrebbe dovuto essere la via maestra, ma poiché
in quel luogo di perdizione Dio non abita più, il segretario di Stato era libero di bertonare a suo piacimento.
Nota in semitono
La scelta di restare in Vaticano pone interrogativi di rilievo perché
la presenza del papa emerito, per quanto «sepolto vivo», accanto
al papa ufficiale crea un problema di coabitazione e di condizionamento, se non formale, almeno oggettivo: il papa legittimo può
prendere decisioni che modifichino interventi precedenti, per cui
inevitabilmente si creerebbero dei conflitti; o almeno il papa in carica potrebbe sentirsi condizionato. Quando Paolo vi, negli ultimi
anni del suo ministero, aveva messo in cantiere l’ipotesi di dimettersi, aveva pensato di ritirarsi in una villetta in Svizzera, Stato neutrale, dove avrebbe vissuto senza alcun rapporto con l’esterno. Per
l’appunto sepolto vivo. Credo che la scelta di Benedetto xvi di restare in Vaticano possa essere dettata dalla necessità di avere garantita l’immunità fino alla morte. Solo il Vaticano, in quanto Stato,
può dargli questa certezza. A meno che non si trasferisca in Germania e il Vaticano non tratti col governo tedesco l’extraterritorialità del luogo di residenza papale.
Papa Benedetto xvi, e prima di lui Joseph Ratzinger, è ritenuto responsabile di avere sottovalutato la tragedia dei preti pedofili (avocando solo a sé ogni caso, coprendone alcuni, e ritardandone altri),
comunque di non avere preso mai decisioni nette, se non dopo che
lo scandalo assunse proporzioni mondiali, ormai incontenibili. Negli Stati Uniti, il papa è stato accusato in diversi tribunali dalle parti lese e la partita si gioca sulla questione dell’immunità di cui gode
come capo di Stato. Nel 2010 la Corte d’appello dell’Oregon rico-
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nobbe la responsabilità del papa, «datore di lavoro» dei preti accusati di violenza sui minori, e la Corte suprema degli Usa respinse il
ricorso del Vaticano che basava la difesa proprio sul motivo giuridico dell’immunità, stabilendo che il tribunale poteva accertare le
responsabilità ultime degli organismi vaticani. La sentenza mise in
allarme la diplomazia vaticana perché il papa in persona poteva essere chiamato a rispondere davanti a un qualsiasi tribunale del reato di pedofilia. Un esempio di quello che potrebbe accadere in un
prossimo futuro avvenne nel 2010 in Inghilterra. Durante la visita
del papa, lo scrittore inglese Richard Dawkins e il giornalista Christopher Hitchens chiesero l’arresto del papa, che però era protetto
dalle guarentigie immunitarie di capo di Stato e quindi intoccabile.
Dimettendosi, il papa perde le immunità legate all’ufficio; restando
in Vaticano, il papa emerito è tutelato dai Patti lateranensi e non
può essere perseguito in alcun modo né raggiunto da alcuna sorpresa, seppure teorica.
Non potendo mettere d’accordo quelli che, naturalmente e per vocazione
soprannaturale, avrebbero dovuto andare d’accordo, e osservando come
ciascuno perseguisse il suo interesse a danno di quello della Chiesa, Benedetto xvi li ha costretti a prendere coscienza che egli non poteva stare
dalla loro parte; tirandosi fuori ha compiuto, come i profeti della Bibbia
ebraica, un gesto fisico, un gesto eloquente più delle parole: Mi dimetto.
Come Geremia si caricò del giogo e con esso camminò lungo le strade di
Gerusalemme per annunciare l’imminente esilio, così il papa si è caricato sulle spalle la croce delle lotte intestine, interne al Vaticano, la divisione ideologica che segna il collegio dei cardinali, in vista della sua morte,
a papa ancora vivo, e ha svuotato di senso le beghe e le miserie cardinalizie. Con questo gesto egli ha dichiarato che la Chiesa è di Cristo e che
nessuno ha il monopolio dello Spirito Santo. All’obiezione di chi sicuramente ha cercato di bloccarlo dicendogli che «alla paternità non si può
rinunciare», il papa ha risposto, parlando con i fatti, che la paternità è solo di Dio e noi ne partecipiamo secondo la grazia e la possibilità, la misura e le condizioni.
Le dimissioni del papa pongono sul tappeto della teologia, la questione rimasta irrisolta anche al Concilio Vaticano ii, la stessa che il Va-
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ticano i non aveva nemmeno affrontato, sbilanciando così l’autorità solo
sul versante del papa. La questione riguarda la collegialità dell’esercizio
dell’autorità nella Chiesa. Con la dichiarazione dell’infallibilità a beneficio esclusivo del papa, per oltre un secolo, la Chiesa è stata zoppicante e
le conseguenze si vedono ancora oggi. Con le dimissioni di Benedetto xvi,
l’anziano papa dice, forse senza volerlo, che l’autorità papale non è più assoluta, ma relativa, perché, dimettendosi per inidoneità «all’adempimento del suo ufficio», egli fa rientrare la figura del papa nella normalità della
legge che esige le dimissioni (enixe rogatur, è fortemente invitato) di ogni
vescovo in qualsiasi parte della Chiesa (CJC, can. 401 §2).
Con le dimissioni di Benedetto xvi, la Chiesa cattolica deve fare i conti
con una nuova categoria teologica: il «papa a tempo», o, per dirla in modo burlesco, «il papa a scadenza programmata». L’uomo che fino alle ore
19:59,59 godeva del privilegio dell’infallibilità, alle ore 20:00 precise cessava di essere infallibile e tornava tra i mortali. Si obietterà che il carisma
dell’infallibilità è dato all’ufficio e non alla persona, ma questa è una sottigliezza che non regge perché il papato s’incarna nella persona, nei suoi
limiti, nei suoi pregi e nei suoi difetti. Un papa non è uguale all’altro, per
storia, formazione, cultura ed ereditarietà. Forse può da adesso cominciare un’era nuova, in cui la Chiesa prende coscienza che l’infallibilità è stata esagerata nel 1870 per bilanciare la perdita del potere temporale. Forse
sarebbe ora, e il tempo è giunto, di cominciare a parlare di indefettibilità della Chiesa nel suo insieme, in forza della quale la Chiesa non può
venire meno nella fede nel suo Signore, nonostante la fragilità di ciascun
suo figlio, papa compreso, uomo tra gli uomini, fallibile come ogni essere
umano, salva la sua coerenza nella verità nel professare che Gesù è il suo
Signore. Nella testimonianza di questa fede, ogni credente è «infallibile»
e il papa, in forza del suo mandato, è infallibile quando «conferma i suoi
fratelli e sorelle nella fede».
Qui nasce la collegialità, fondamento della Chiesa di comunione che
è incompatibile con la Chiesa piramidale verticistica. In questo modo, si
afferma la necessità, non più procrastinabile, di un concilio che stabilisca
i confini dell’autorità papale e nel contempo affermi i diritti/doveri dei
vescovi, che tornerebbero a riprendersi la loro natura di epìskopoi – custodi, sorveglianti, pastori – per grazia e non più luogotenenti o commissari governativi del papa re o, ancora peggio, padroni di una porzione di
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Chiesa perché sudditi del papa re. Se deve nascere una nuova Chiesa, dipende anche da noi, perché Dio manda i suoi «segni dei tempi», ma non
si sostituisce alla nostra responsabilità e nemmeno conculca la nostra libertà, anche se è un impedimento alla realizzazione di un suo disegno.
Dalle ore 20:00 di giovedì 28 febbraio 2013, memoria liturgica dell’asceta san Romano abate, vissuto a cavallo dei secoli iv e v, inizia un nuovo cammino per la Chiesa di Dio: esso può prendere la direzione del
Regno attraverso la Storia, oppure il sentiero della paura verso il passato
alla ricerca di una sicurezza che nessuno può dare, perché è solo lungo il
cammino da Gerusalemme a Èmmaus che con Clèopa e l’altro discepolo
sentiremo il cuore scaldarsi e alla fine, solo alla fine, potremo scoprire il
volto del Signore nello spezzare il pane.
Spetta al papa dimostrare con i gesti e la testimonianza che Dio è tornato
a vivere in Vaticano perché i suoi abitanti, a cominciare da lui, convertiti,
hanno ripreso a credere in lui, dandone anche testimonianza quotidiana.
Il papa non potrà più erigere davanti a sé, o permettere che altri erigano,
una cortina d’incenso ma, deposte le sontuose vesti della sacralità e presi un bastone, una tunica e un paio di sandali, dovrà scendere sulle strade
del mondo per camminare accanto agli uomini e alle donne del suo tempo alla ricerca dei brandelli del Cristo disseminato nella Storia del mondo e delle singole persone. Poveri e Parola, il binomio che è certamente
garanzia di Vangelo. È giunta l’ora ed è questa. Oggi.