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PATRICIA CORNWELL
QUEL CHE RIMANE
(All That Remains, 1992)
Questo libro è dedicato
a Michael Congdon.
Come sempre, grazie
1
Sabato, ultimo giorno di agosto, mi misi al lavoro prima dell'alba. Non
vidi la foschia sollevarsi come fumo da un prato bruciato, né il cielo colorarsi d'azzurro intenso. Per tutta la mattina i tavoli d'acciaio rimasero occupati dai cadaveri, e l'obitorio non ha finestre. Il fine settimana del Labor
Day si era inaugurato con una catena di incidenti e una sparatoria a Richmond.
Quando finalmente tornai nella mia casa nel West End e udii Bertha passare lo straccio sul pavimento di cucina, erano ormai le due del pomeriggio. Bertha veniva a farmi i mestieri ogni sabato e sapeva per esperienza di
non doversi preoccupare del telefono, che si era appena messo a squillare.
«Non ci sono» dissi ad alta voce, aprendo il frigorifero.
Bertha si fermò. «Ha suonato anche un minuto fa» spiegò. «E suonava
anche prima. Sempre lo stesso tizio.»
«In casa non c'è nessuno» ribadii.
«Come vuole, dottoressa Kay.» Lo straccio riprese a scivolare sul pavimento.
Nella cucina baciata dal sole cercai di ignorare l'intrusione dell'incorporeo messaggio destinato alla segreteria. L'autunno si avvicinava: era tempo
di cominciare a fare scorta di pomodori. In quel momento me ne restavano
tre. E l'insalata di pollo che fine aveva fatto?
Il bip fu seguito da una voce maschile alquanto familiare. «Ehi, capo,
sono Marino...»
Signore, sospirai, richiudendo con un colpo d'anca la porta del frigorifero. Pete Marino, agente investigativo della Squadra Omicidi di Richmond,
era in pista da mezzanotte e lo avevo incrociato in obitorio, mentre estraevo i proiettili da uno dei suoi casi di omicidio. In teoria avrebbe dovuto essere in viaggio verso il lago Gaston, per quel che gli restava di un weekend
di pesca. E io non vedevo l'ora di dedicarmi un po' ai lavori in giardino.
«Ho bisogno di rintracciarti, sto andando fuori città. Richiamami, ho il
cercapersone...»
La voce di Marino era venata d'impazienza. Sollevai il ricevitore.
«Eccomi, eccomi.»
«Ehi, sei tu o è ancora quel maledetto aggeggio?»
«Prova un po' a indovinare» risposi.
«Brutte notizie, capo. Hanno trovato un'altra macchina. New Kent, l'area
di sosta sulla Sessantaquattro, direzione ovest. Benton mi ha appena...»
«Un'altra coppia?» lo interruppi, i programmi della giornata ormai svaniti.
«Fred Cheney, maschio, razza bianca, diciannove anni. Deborah Harvey,
femmina, bianca, diciannove anni. L'ultima volta sono stati visti ieri sera
verso le otto, mentre si allontanavano in auto dalla casa degli Harvey a Richmond, diretti a Spindrift.»
«E adesso la macchina è sulla corsia ovest?» chiesi, visto che Spindrift,
nella Carolina del Nord, si trova tre ore e mezza a est di Richmond.
«Già. A quanto pare andavano nella direzione opposta, come per rientrare in città. Un'ora fa un agente ha trovato la macchina, una jeep Cherokee.
Nessuna traccia dei ragazzi.»
«Arrivo subito» dissi.
Questa volta Bertha non si era fermata, ma sapevo che aveva captato ogni singola parola della conversazione.
«Appena finito qui me ne vado anch'io» disse. «Ci penso io a inserire
l'allarme, dottoressa, non si preoccupi.»
Afferrai la borsetta e uscii di corsa, in preda a una sensazione di paura.
Fino a quel momento le coppie erano quattro. Ognuna scomparsa e poi
ritrovata assassinata in un raggio di settantacinque chilometri da Williamsburg.
I casi, ribattezzati dalla stampa "Omicidi per due", erano del tutto inspiegabili e nessuno sembrava in possesso del benché minimo indizio o di
una teoria credibile; nemmeno l'Fbi con il suo VICAP, il Programma Verifiche Incrociate Crimini Violenti, fondato su una banca dati nazionale gestita da un computer in grado di stabilire connessioni fra omicidi in serie e
cadaveri di persone scomparse non identificati. In seguito al ritrovamento
della prima coppia di vittime, un paio d'anni prima, la polizia locale si era
rivolta alla squadra regionale VICAP, composta fra gli altri dall'agente
speciale Fbi Benton Wesley e dal veterano Pete Marino, agente investigativo della Squadra Omicidi di Richmond. Poi era scomparsa una seconda
coppia, e poi un'altra, e un'altra ancora. Ogni volta, prima che il VICAP
venisse informato, e prima che il Centro Nazionale Informazioni sui Crimini, o NCIC, avesse il tempo materiale di diffondere via cavo le descrizioni ai dipartimenti di polizia di tutta l'America, i giovani scomparsi erano
stati ritrovati in qualche bosco, morti e in stato di decomposizione.
Spensi la radio e superai la barriera del casello, quindi accelerai imboccando la I-64 verso est. Voci e immagini mi riaffiorarono di colpo alla
mente. Ossa e abiti imputriditi cosparsi di foglie. I volti belli e sorridenti
dei ragazzi sulle pagine dei giornali, i famigliari sgomenti e disperati nelle
interviste televisive, o all'altro capo del telefono.
«Mi dispiace moltissimo, mi creda.»
«La prego, mi dica come è morta la mia bambina! Dio, Dio, ha sofferto?
Ha sofferto molto?»
«La causa della morte non è stata ancora accertata, signora Bennett. Purtroppo in questo momento non so dirle altro.»
«Cosa significa non so?»
«Tutto quel che rimane sono le sue ossa, signor Martin. E con i tessuti
molli se ne vanno anche le possibili ferite...»
«Le vostre stronzate mediche non mi interessano! Voglio sapere cosa ha
ucciso mio figlio! I poliziotti vengono qui e chiedono se era drogato: mio
figlio non ha mai bevuto, figuriamoci se si drogava! Mi ascolta, signora?
Lui è morto e quelli cercano di farlo passare per uno sballato...»
"SCONFITTA DEL MEDICO LEGALE: LA DOTTORESSA KAY
SCARPETTA INCAPACE DI PRONUNCIARSI SULLE CAUSE DEL
DECESSO."
Causa non identificata.
Ogni volta la stessa storia. Otto giovani vite.
Tremendo. Nella mia carriera, un fatto senza precedenti.
Ogni patologo forense ha qualche caso irrisolto, ma non me ne erano
mai capitati così tanti legati fra loro. Almeno apparentemente.
Aprii il tettuccio della macchina e mi sentii rinfrancata. La temperatura
sfiorava i venticinque gradi, presto le foglie avrebbero cominciato a ingiallire. Gli unici momenti dell'anno in cui non sentivo nostalgia di Miami erano l'autunno e la primavera. Le estati di Richmond erano altrettanto calde, ma mancava l'effetto benefico delle brezze oceaniche che ripulivano
l'atmosfera; il tasso di umidità era altissimo, e d'inverno non mi andava
meglio visto che non amo il freddo. In compenso, primavere e autunni erano eccitanti, e ogni cambio di stagione mi andava diritto alla testa, ine-
briandomi.
L'area di sosta della I-64 nella contea del New Kent distava esattamente
quarantasette chilometri da casa mia. Assomigliava a qualunque altra area
di sosta della Virginia, con tavoli per picnic, barbecue per le grigliate e
botti di legno come bidoni portarifiuti, servizi igienici in mattoni, distributrici automatiche e alberelli appena piantati. Ma non un viaggiatore o un
camionista in giro: solo una distesa di macchine della polizia.
Un agente, accaldato e serio nell'uniforme grigiazzurra, mi si fece incontro mentre parcheggiavo vicino ai bagni delle donne.
«Spiacente, signora» annunciò, piegandosi verso il mio finestrino. «Oggi
l'area è chiusa. Purtroppo devo pregarla di continuare fino alla prossima.»
«Dottoressa Kay Scarpetta» mi identificai, spegnendo il motore. «Mi ha
chiesto la polizia di venire.»
«Per quale motivo, signora?»
«Sono il capo medico legale» spiegai.
Mentre mi scrutava dalla testa ai piedi, notai lo scetticismo che gli trapelava dagli occhi. Certo non avevo l'aria del "capo": gonna di jeans stonewashed, camicia Oxford rosa e comode scarpe da passeggio in pelle. In altre parole, ero priva dei tratti distintivi dell'autorità, compresa la macchina
d'ordinanza che aspettava un nuovo treno di gomme nell'officina del dipartimento. Di primo acchito sembravo forse più una yuppie stagionatella in
giro per commissioni sulla sua Mercedes grigio scuro, una svagata biondocenere diretta al centro commerciale più vicino.
«Mi occorre un riconoscimento.»
Frugai in borsetta fino a trovare il portadocumenti nero e sottile ed esibii
lo stemma in ottone di medico legale, quindi gli tesi la patente di guida e
l'agente esaminò entrambi per un lungo momento. Intuivo il suo imbarazzo.
«Lasci pure qui la macchina, dottoressa Scarpetta. Quelli che cerca sono
là dietro.» Fece un cenno verso l'area di parcheggio riservata a camion e
autobus. «Buon divertimento» aggiunse poi stupidamente, allontanandosi.
Seguendo un vialetto di mattoni girai attorno all'edificio e passai all'ombra degli alberi, dove venni accolta da altre macchine della polizia, un carro attrezzi con luce lampeggiante e almeno una dozzina di uomini in uniforme o in borghese. Non vidi la Cherokee rossa finché non me la trovai
davanti. Giaceva sul bordo della strada, nascosta dal fogliame a metà della
rampa d'uscita. Si trattava di un modello a due porte, coperto da una pellicola di polvere. Lanciai un'occhiata attraverso il finestrino del guidatore e
notai i lindi interni in pelle, i bagagli ordinatamente stipati sul sedile posteriore, una tavola e un rotolo di fune in nylon giallo per sci d'acqua, una
borsa termica di plastica bianca e rossa. Dal blocco d'accensione pendevano ancora le chiavi. I finestrini erano abbassati, ma non completamente.
Sul declivio d'erba spiccavano i segni dei pneumatici, mentre la griglia anteriore cromata poggiava contro una macchia di giovani pini.
Marino stava parlando con un tizio magro e biondo che non conoscevo
ma che mi venne presentato come Jay Morrell, della Polizia di Stato. Aveva tutta l'aria di essere il capo.
«Kay Scarpetta» dissi di mia spontanea iniziativa, visto che Marino non
era riuscito a dire altro che "la dottoressa".
Morrell mi puntò addosso i suoi Ray Ban verde scuro e annuì. In abiti
civili e con baffetti più simili a una peluria adolescenziale, trasudava la
spavalderia professionale che, ormai automaticamente, associavo agli agenti alle prime armi.
«Questo è quanto sappiamo al momento.» Si guardava intorno con fare
nervoso. «La jeep appartiene a tale Deborah Harvey, che insieme al fidanzato... Fred Cheney si è allontanata dall'abitazione dei genitori ieri sera
Verso le venti. Erano diretti a Spindrift, dove gli Harvey hanno una proprietà.»
«I genitori della ragazza si trovavano a casa, quando la coppia è partita?» chiesi.
«No, signora.» Per un attimo le lenti si voltarono dalla mia parte. «I genitori si trovavano già a Spindrift, erano partiti qualche ora prima. Deborah
e Fred volevano viaggiare separati perché progettavano di tornare a Richmond lunedì. Frequentavano entrambi il secondo anno all'università della Carolina, dovevano rincasare presto per prepararsi all'inizio dei corsi.»
Mentre estraeva le sigarette, Marino aggiunse: «Appena prima di uscire
di casa, ieri sera, avevano telefonato a Spindrift avvertendo uno dei fratelli
di Deborah che stavano partendo e che sarebbero arrivati fra mezzanotte e
l'una. Non vedendoli, alle quattro di stamattina Pat Harvey ha avvisato la
polizia».
«Pat Harvey?» Fissai Marino con aria incredula.
Fu l'ufficiale Morrell a rispondere. «Eh, sì, abbiamo a che fare con un
pezzo grosso. Sta arrivando qui, sono andati a prelevarla con un elicottero»
- un'occhiata all'orologio - «circa mezz'ora fa. Il padre, Bob Harvey, è in
viaggio da qualche parte. Si trovava a Charlotte per affari e avrebbe dovuto
recarsi a Spindrift domani in giornata. Per quel che ne so, non siamo anco-
ra riusciti a contattarlo, quindi non è al corrente dell'accaduto.»
Pat Harvey era la responsabile della politica nazionale sugli stupefacenti,
per i mass media la "Zarina della droga". Investita di un mandato presidenziale e recentemente comparsa sulla copertina di "Time", la signora Harvey era una delle donne più potenti e ammirate d'America.
«E Benton?» chiesi a Marino. «Si è reso conto che Deborah Harvey è la
figlia di Pat Harvey?»
«Con me non ne ha fatto parola. Ha chiamato subito dopo essere atterrato al Newport New - ci ha pensato il Bureau a farlo arrivare. Era di fretta
perché doveva ancora procurarsi una macchina a noleggio, non abbiamo
parlato a lungo.»
In realtà mi aveva già risposto: se Benton Wesley non avesse saputo chi
era Deborah Harvey, non si sarebbe certo precipitato lì a bordo di un aereo
del Bureau. Mi chiesi per quale motivo non ne avesse però accennato a
Marino, suo collaboratore VICAP, e cercai una spiegazione sul suo volto
largo e impassibile. I muscoli della mascella apparivano tesi, la sommità
della testa, nella sua incipiente calvizie, era arrossata e madida di sudore.
«Per il momento» riprese Morrell, «ho piazzato numerosi agenti qui intorno a occuparsi del traffico. Abbiamo già controllato i bagni e ispezionato i dintorni per verificare che i ragazzi non si trovassero nelle immediate
vicinanze. Appena arriverà la Squadra di ricerca e soccorso, cominceremo
a setacciare i boschi.»
A nord del cofano della jeep, il bordo ben curato dell'area di sosta veniva
sopraffatto da cespugli e alberi che nel giro di qualche centinaio di metri si
infittivano tanto da impedire completamente la vista; tutto ciò che riuscivo
a scorgere erano i riflessi del sole sulle foglie e il lento moto circolare di
un falco che sorvolava i pini in lontananza. Nonostante lungo la I-64 i centri commerciali e residenziali si susseguissero senza posa, il tratto fra Richmond e Tidewater era riuscito a conservarsi vergine, e quello che fino a
pochi minuti prima avrei considerato un panorama dolce e rassicurante, mi
appariva ora soltanto minaccioso.
«Merda» sbottò Marino mentre ci allontanavamo da Morrell.
«Mi dispiace per il tuo weekend di pesca» dissi.
«Perché, è forse una novità? Erano mesi che programmavo questo maledetto giro, e alla fine me la piglio in quel posto. Tutto normale, come al solito.»
«Ho notato» ripresi, ignorando la sua irritazione, «che uscendo dall'interstatale la rampa si biforca: un tronco porta qui dietro, e l'altro sul davan-
ti dell'area di sosta. In altre parole, le rampe sono a senso unico. Non è
possibile andare ai parcheggi per le macchine sul davanti e a un certo punto cambiare idea e tornare indietro senza fare un bel pezzo contromano, col
rischio di provocare un incidente. Inoltre, immagino che ieri sera il traffico
fosse abbastanza sostenuto, visto il ponte del weekend.»
«Giusto, questo lo so anch'io. Non mi pare occorra uno scienziato per
capire che qualcuno ha voluto portare la jeep esattamente nel punto in cui
ora si trova perché forse sul davanti c'erano troppe auto parcheggiate. Così
imbocca la rampa riservata ai mezzi pesanti, con tutta probabilità semideserta, nessuno lo vede ed è fatta.»
«E siccome forse non vuole che la jeep venga ritrovata in fretta, abbandona la corsia e la lascia fuori strada» aggiunsi.
Lamentoso come sempre, Marino aveva l'inveterata abitudine di presentarsi sul luogo del delitto e comportarsi come se non avesse nessuna voglia
di starci. Lavoravamo insieme da tempo e ormai ci avevo fatto il callo, ma
questa volta il suo atteggiamento mi colpì in modo particolare. La sua frustrazione andava al di là del weekend mancato, e mi chiesi se non fosse per
caso reduce da una lite con la moglie.
«Bene bene» mugugnò, lanciando un'occhiata verso l'edificio in mattoni.
«È arrivato anche il Ranger Solitario.»
Mi voltai mentre la sagoma snella e familiare di Benton Wesley emergeva dai bagni degli uomini. Ci raggiunse mormorando un flebile «'giorno», i
capelli argentei umidi sulle tempie, il bavero della giacca blu picchiettato
di goccioline come se si fosse appena lavato la faccia. Fissando con occhi
impassibili la jeep, sfilò dal taschino un paio di occhiali da sole e se li mise.
«La signora Harvey è già arrivata?»
«No» rispose Marino.
«Giornalisti?»
«Nessuno.»
«Ottimo.»
La bocca di Wesley era contratta e ciò rendeva il suo viso affilato ancora
più duro e distante del solito. Non fosse stato così impenetrabile, lo avrei
trovato un uomo bello; ma era impossibile leggergli nei pensieri o nelle
emozioni, ed era diventato un tale maestro nel dissimulare la propria personalità che a volte avevo la sensazione di non conoscerlo affatto.
«Vogliamo tenere la cosa segreta il più a lungo possibile» proseguì.
«Appena si spargerà la voce, scoppierà il finimondo.»
«Cosa sai di questa coppia, Benton?» intervenni.
«Molto poco. Dopo averne denunciato la scomparsa, nelle prime ore di
questa mattina, la signora Harvey ha telefonato a casa del Direttore e poi a
me. A quanto pare, la figlia e Fred Cheney si erano conosciuti all'università della Carolina e stavano insieme da circa un anno. Suppongo fossero entrambi ragazzi a posto. Nessun precedente che faccia pensare a un giro di
amicizie sbagliate - almeno stando a quanto riferito dalla signora Harvey.
Mi è comunque parso di intuire che nutrisse una qualche irritazione nei
confronti di quel rapporto, pensava che Cheney e sua figlia trascorressero
troppo tempo da soli.»
«Forse è questo il motivo per cui hanno preferito partire con macchine
diverse» commentai.
«Sì» rispose Wesley, guardandosi intorno. «Direi che, più che probabile,
è sicuro. Parlando con il Direttore ho avuto l'impressione che la signora
Harvey non fosse proprio contenta di ospitare a Spindrift il fidanzato di
Deborah. Doveva essere una riunione di famiglia. Durante la settimana la
signora Harvey vive a Washington e per tutta l'estate non ha visto spesso
né la figlia, né i due figli. Francamente sospetto che negli ultimi tempi lei e
Deborah non andassero tanto d'accordo, e forse prima che i genitori partissero per il North Carolina, ieri mattina, c'è stata una lite.»
«Esiste la possibilità che intendessero scappare insieme?» chiese Marino. «Voglio dire, erano ragazzi svegli, no? Leggono i giornali, vedono le
notizie in tv, magari hanno seguito la trasmissione della settimana scorsa
dedicata al caso di queste coppie... Insomma, il punto è che forse sapevano
cosa stava succedendo da queste parti. Chi può dire che non volessero
sfruttare la situazione? Un bel modo per inscenare una scomparsa e dare
una lezione ai genitori.»
«È una delle ipotesi che siamo tenuti a prendere in considerazione» ammise Benton Wesley. «E a maggior ragione dico che dobbiamo tenere i
media il più possibile alla larga.»
Morrell ci raggiunse sulla rampa d'uscita, mentre ci dirigevamo verso la
jeep. Un piccolo autocarro azzurro con il pianale coperto si fermò e ne scesero un uomo e una donna in tuta da ginnastica e stivali. Aperto il portello
posteriore, fecero uscire da una gabbia due segugi ansimanti, quindi si agganciarono i lunghi guinzagli alle cinture di cuoio che portavano in vita e
afferrarono i due cani per il collare.
«Salty, Neptune, a cuccia!»
I nomi non mi aiutarono a distinguere l'uno dall'altro: entrambi mi pare-
vano solo cani di grossa taglia e dal pelo biondo, con musi rugosi e orecchie cadenti. Morrell sorrise e allungò una mano.
«Ehi, ragazzi, come stiamo?»
Salty, o forse Neptune, lo ricompensò con un umido bacio e una lunga
annusata.
I due tizi erano addestratori di unità cinofile, a Yorktown, si chiamavano
Jeff e Gail. Gail era alta come il socio e sembrava altrettanto forte. Mi ricordava donne che avevo conosciuto in passato, nate e vissute in campagna, le facce segnate dal sole e dal duro lavoro, l'aria imperturbabile e paziente di chi ha capito la natura e ne accetta tanto i doni, quanto le punizioni. Era il capitano della squadra di ricerca e soccorso, e dal modo in cui
stava guardando la jeep capii che stava cercando eventuali segni in grado
di dirle se la scena, e dunque gli odori, avevano subito alterazioni.
«Non hanno toccato niente» le comunicò Marino, chinandosi ad accarezzare uno dei cani dietro le orecchie. «Non abbiamo nemmeno aperto le
portiere.»
«Sai se qualcun altro è salito a bordo? Magari la stessa persona che l'ha
trovata?» chiese Gail.
Morrell cominciò a spiegare. «Il numero di targa è stato diramato per telex come VESCOD, nelle prime ore del mattino.»
«Cosa diavolo significa VESCOD?» si intromise Wesley.
«Veicoli Scomparsi Denunciati.»
Il volto di Wesley rimase impassibile, mentre Morrell riprendeva a spiegare in tono piatto: «Gli agenti non hanno adunata, quindi non sempre vedono i telex: semplicemente, saltano in macchina e partono. Gli addetti
hanno cominciato a diffondere via etere il VESCOD nel momento stesso
in cui è giunta la denuncia della scomparsa; poi, verso l'una del pomeriggio, un camionista vede la jeep e ci informa via radio. L'agente che ha preso la chiamata sostiene di non essersi nemmeno avvicinato, se non per
controllare attraverso i finestrini l'eventuale presenza di passeggeri».
Sperai fosse vero. Quasi tutti gli agenti di polizia, persino i più smaliziati, sembra incapace di resistere alla tentazione di aprire e frugare nel cruscotto in cerca di documenti d'identificazione.
Afferrate le imbracature, Jeff si allontanò accompagnando i due cani a
fare pipì, mentre Gail domandava: «Abbiamo qualcosa che possano annusare come traccia di partenza?».
«Abbiamo chiesto a Pat Harvey di portare un indumento usato recentemente da Deborah» la informò Wesley.
Se anche la rivelazione di chi effettivamente avrebbero dovuto cercare
l'aveva sorpresa o impressionata, Gail non lo diede a vedere e continuò a
fissare Wesley piena di aspettativa.
«Ci raggiungerà in elicottero» aggiunse lui, controllando l'orologio.
«Dovrebbe arrivare da un momento all'altro.»
«Bene. L'importante è che quell'uccellaccio non atterri proprio qui»
commentò Gail dirigendosi verso la jeep. «Cerchiamo di evitare inutili
spostamenti d'aria.» Scrutando attraverso il finestrino del guidatore, parve
esaminare attentamente l'interno delle portiere e il cruscotto. Quindi arretrò
di qualche passo e rimase a lungo a osservare la maniglia di plastica nera
all'esterno.
«Probabilmente la cosa migliore sono i sedili» decise infine.
«Salty ne annuserà uno e Neptune un altro. Ma innanzitutto dobbiamo
riuscire a entrare senza rovinare le prove. Qualcuno ha una penna o una
matita?»
Dal taschino della camicia Wesley estrasse una penna a sfera Mont
Blanc e gliela porse.
«Me ne occorre un'altra» aggiunse la donna.
Incredibilmente, nessun altro sembrava avere con sé una penna, me
compresa. Avrei giurato di averne parecchie in borsetta.
«Un coltello a serramanico può andare?» Marino stava scavando nella
tasca dei jeans.
«Perfetto.»
La penna in una mano e un coltello dell'esercito svizzero nell'altra, Gail
premette il pulsante sulla portiera del guidatore e contemporaneamente sollevò la maniglia, quindi incuneò la punta della scarpa sotto il bordo della
portiera e tirò dolcemente, aprendola. In sottofondo, l'inconfondibile colonna sonora delle pale di un elicottero che si avvicinava.
Pochi istanti più tardi il Bell Jet Ranger bianco e rosso sorvolò l'area di
sosta e si abbassò come un'enorme libellula, scatenando una piccola tromba d'aria sul terreno sottostante. Ogni altro rumore venne sovrastato, gli alberi tremavano e l'erba si increspava sotto le ondate di quel vento improvviso. Gail e Jeff si inginocchiarono strizzando gli occhi, i guinzagli stretti
in mano.
Marino, Wesley e io avevamo trovato riparo contro i muri dell'edificio, e
da quella posizione favorevole restammo a osservare la tumultuosa discesa. Mentre l'elicottero calava adagio in una tempesta di vento e motori, intravidi Pat Harvey che fissava la jeep della figlia. Poi i finestrini esplosero
nel bianco accecante dei riflessi del sole.
Si allontanò dall'elicottero a testa bassa, la gonna che le svolazzava intorno alle gambe, mentre Wesley attendeva a distanza di sicurezza con la
cravatta che gli sbatteva oltre la spalla, come la sciarpa di un aviatore.
Prima della nomina a responsabile della politica nazionale per la lotta
contro gli stupefacenti, Pat Harvey era stata procuratore legale di Richmond e quindi procuratore del Distretto Orientale della Virginia. Occasionalmente mi era accaduto di effettuare l'autopsia su vittime d'importanti
casi di narcotraffico di cui la Harvey si stava occupando per conto del sistema federale. Tuttavia, non ero mai stata chiamata a testimoniare, e gli
unici ad arrivare in tribunale erano stati i miei referti. La signora Harvey e
io non ci eravamo mai incontrate di persona.
In televisione e nelle foto sui quotidiani appariva come la tipica donna in
carriera; a tu per tu colpivano invece la sua attraente femminilità e il fisico
snello, i lineamenti perfetti e i corti capelli castani venati da striature oro e
rame. Seguendo le brevi presentazioni di Wesley, strinse la mano ai presenti con l'affabilità e la decisione di un uomo politico consumato, senza
però sorridere o incrociare direttamente lo sguardo di nessuno.
«Qui dentro c'è una felpa» annunciò, tendendo una borsa a Gail. «L'ho
trovata nella stanza di Debbie, nella nostra casa al mare. Non so quando
l'abbia indossata, ma non credo sia stata lavata di recente.»
«Ricorda quand'è stata l'ultima volta che è venuta al mare?» chiese Gail,
senza aprire la borsa.
«All'inizio di luglio, per un weekend con amici.»
«È sicura che fosse proprio lei a indossarla, in quell'occasione? O è possibile che l'abbia prestata a qualcuno?» insisté Gail nel tono quasi distratto
di chi si informa sull'andamento meteorologico della giornata.
La domanda parve cogliere la signora Harvey di sorpresa, e per un attimo i suoi occhi azzurri si velarono di dubbio. «Non saprei.» Si schiarì la
gola. «Immagino che, l'ultima volta, a indossarla sia stata lei, Debbie, ma
ovviamente non posso mettere la mano sul fuoco. Io non c'ero.»
Il suo sguardo vagò fino alla portiera aperta della jeep, poi la sua attenzione fu catturata per un istante dalle chiavi, dalla "D" d'argento che pendeva all'estremità della catenina. Per un po' nessuno osò parlare, e io avvertii la sua battaglia interiore contro l'emozione, il bisogno di non credere
per allontanare il panico.
Girandosi di nuovo verso di noi, disse: «Debbie doveva avere con sé una
borsa rossa, di nylon. Una di quelle borsettine sportive che si chiudono con
una striscia di velcro. L'avete per caso trovata in macchina?».
«No, signora» rispose Morrell. «Almeno non per il momento, fin qui abbiamo solo guardato dai finestrini. Dobbiamo ancora perquisire l'interno, e
prima dovevamo aspettare i cani.»
«Immagino che dovrebbe essere sul sedile anteriore, o magari per terra»
insisté lei.
Morrell scosse la testa.
Fu Wesley a prendere la parola. «Signora Harvey, sa se sua figlia aveva
con sé molto denaro?»
«Le avevo dato cinquanta dollari per mangiare e per la benzina, ma non
so quanto potesse avere di suo. Naturalmente possedeva delle carte di credito e un libretto degli assegni.»
«Ha idea a quanto ammontasse il suo conto?» proseguì Wesley.
«So che suo padre le aveva dato un assegno la settimana scorsa» replicò
con sicurezza. «Per l'università - libri e spese scolastiche in generale. Sono
praticamente certa che l'avesse già depositato, quindi sul suo conto dovrebbero esserci almeno un migliaio di dollari.»
«La pregherei di controllare» suggerì Wesley. «Verifichi che il denaro
non sia stato prelevato di recente.»
«Lo farò subito.»
Mentre me ne stavo lì ferma a guardare, mi sembrò di percepire con
chiarezza tutta la speranza che andava prendendo corpo dentro di lei. La
figlia disponeva di liquido, carte di credito e accesso ai fondi di un conto
corrente. A quanto pareva la borsa non era in macchina, dunque poteva averla ancora con sé. E questo significava che forse era ancora viva, che
stava bene e che se n'era andata da qualche parte con il fidanzato.
«Sua figlia ha mai minacciato di scappare di casa con Fred?» le chiese
Marino a bruciapelo.
«No.» Rivolgendo lo sguardo alla jeep, aggiunse poi ciò che avrebbe disperatamente voluto credere: «Ma questo non vuol dire che non sia possibile».
«Di che umore era l'ultima volta che vi siete parlate?» continuò Marino.
«Ieri mattina abbiamo avuto un battibecco, prima che io partissi con i
miei altri due figli per il mare» rispose in tono piatto e distaccato. «Era arrabbiata con me.»
«Ed era al corrente dei casi che si sono verificati nella zona? Parlo delle
coppie scomparse.»
«Sì, certo. Ne abbiamo anche discusso, ci chiedevamo che fine potessero
aver fatto. Ne era al corrente, sì.»
«Dovremmo metterci al lavoro» disse Gail a Morrell.
«Buona idea.»
«Un'ultima cosa.» Gail guardò la signora Harvey. «Ha un'idea di chi fosse al volante?»
«Temo Fred» rispose. «Quando viaggiavano insieme, di solito era lui a
guidare.»
«Immagino che avrò bisogno ancora di quella penna e del coltello» concluse Gail, annuendo.
Ritirati i due oggetti da Wesley e Marino, fece il giro della macchina e
aprì la portiera del passeggero. Poi prese il guinzaglio di uno dei due cani,
che si alzò prontamente e si mosse in perfetto accordo con i piedi della padrona, annusando intorno, i muscoli tesi sotto il pelo morbido e lucente, le
orecchie flosce quasi fossero imbottite di piombo.
«Forza, Neptune, facciamo funzionare questo bel naso magico.»
Restammo a osservare in silenzio mentre guidava il muso dell'animale
verso il sedile dove, presumibilmente, Deborah aveva preso posto la sera
prima. All'improvviso Neptune guaì come di fronte a un serpente a sonagli
e con un balzo arretrò dalla jeep, strappando il guinzaglio dalle mani di
Gail. Si infilò la coda fra le gambe e arruffò il pelo del dorso, mentre un
brivido mi percorreva la schiena.
«Ehi, buono. Calma!»
Tremando e guaendo, il cane si acquattò sull'erba liberandosi gli intestini.
2
Il mattino seguente mi svegliai stanchissima e con l'incubo dei giornali.
Il tìtolo dell'edizione domenicale era scritto a caratteri abbastanza grandi
da poter essere letto anche a un chilometro di distanza:
SCOMPARE CON IL FIDANZATO LA FIGLIA DELLA ZARINA
DELLA DROGA - LA POLIZIA SOSPETTA UN OMICIDIO
Non solo i reporter si erano procurati una foto di Deborah Harvey, ma
c'era anche un'immagine della jeep mentre veniva trainata via dall'area di
sosta e una foto d'archivio - almeno così immaginai - di Bob e Pat Harvey,
mano nella mano, sulla spiaggia di Spindrift. Mentre leggevo sorseggiando
il caffè, non potei fare a meno di pensare alla famiglia di Fred Cheney.
Fred non aveva nobili origini: semplicemente era "il ragazzo di Deborah".
Eppure anche lui era scomparso, e anche lui aveva genitori e amici che lo
amavano.
Fred era figlio di un uomo d'affari di Southside, non aveva né fratelli né
sorelle e la madre era morta un anno prima a causa di un aneurisma al cervello. Quando la polizia era finalmente riuscita a rintracciarlo, nella tarda
serata di sabato, il padre si trovava in visita da alcuni parenti di Sarasota.
Se, proseguiva l'articolo, vi era una remota possibilità che il ragazzo fosse
"scappato" con Deborah, certo era una mossa che poco si intonava al suo
carattere: Fred veniva descritto come "un bravo studente dell'università
della Carolina, nonché membro della squadra universitaria di nuoto". Dal
canto suo, come studentessa Deborah si meritava gli allori e, come ginnasta, era abbastanza dotata da rappresentare una speranza per le Olimpiadi.
Cinquanta chili scarsi, aveva capelli biondi lunghi fino alle spalle e i lineamenti belli e regolari della madre. Fred era un ragazzo dal corpo asciutto
e dalle spalle larghe, con capelli neri ondulati e occhi color nocciola. In
poche parole, una coppia affiatata e inseparabile.
«Dove vedevi uno, c'era sempre anche l'altro» aveva dichiarato un amico. «Credo avesse molto a che fare con la morte della madre di Fred. Debbie lo conobbe proprio in quel periodo, e penso che senza di lei non ce l'avrebbe fatta.»
Naturalmente il servizio proseguiva riportando dettagli già noti sulle altre quattro coppie scomparse e ritrovate assassinate. Il mio nome ricorreva
spesso. Mi si attribuivano sentimenti di frustrazione, impotenza e reticenza. Mi chiesi se qualcuno si era mai reso conto che, giorno dopo giorno,
continuavo a eseguire autopsie sulle vittime di omicidi, suicidi e incidenti,
che dovevo parlare con le famiglie, testimoniare in tribunale e tenere lezioni al personale paramedico e agli allievi dell'accademia di polizia. Volenti o nolenti, la vita e la morte non si fermavano mai.
Mi ero alzata dal tavolo di cucina e stavo centellinando il caffè davanti
alla finestra illuminata dal sole mattutino, quando il telefono si mise a
squillare.
Immaginando si trattasse di mia madre, che spesso la domenica telefonava a queU'ora, per sapere come me la passavo e se ero andata a messa,
sollevai il ricevitore accomodandomi su una sedia.
«Dottoressa Scarpetta?»
«Sì?» La voce mi suonava familiare, ma non riuscii a metterla completamente a fuoco.
«Sono Pat Harvey. La prego di scusarmi se la disturbo a casa.» Dietro al
suo tono sicuro, mi parve di intuire una nota di paura.
«Oh, ma si figuri, non disturba affatto» risposi gentilmente. «In cosa
posso esserle utile?»
«Le ricerche sono proseguite per tutta la notte, e continuano ancora adesso. Hanno fatto arrivare altri cani, altri agenti e diversi elicotteri.» Cominciò a parlare rapidamente. «Niente. Nessuna traccia. Bob si è unito alle
squadre. Io sono a casa.» Esitò. «Mi chiedevo se per caso non potrebbe fare un salto qui. Ha già qualche impegno per l'ora di pranzo?»
Dopo una lunga pausa, decisi mio malgrado di accettare. Poi, mentre
riagganciavo, mi rimproverai perché sapevo già cosa voleva da me: sapere
delle altre coppie. Era ciò che avrei fatto anch'io al posto suo.
Salii in camera da letto e mi tolsi la vestaglia. Quindi feci un lungo bagno caldo e mi lavai i capelli. Nel frattempo, la mia segreteria telefonica
intercettò una serie di chiamate a cui non avevo intenzione di rispondere, a
meno che non si fossero rivelate particolarmente urgenti. Nel giro di un'ora
indossavo un tailleur kaki e stavo ansiosamente riascoltando il nastro dei
messaggi. Ce n'erano cinque, tutti da parte di giornalisti che avevano saputo della mia presenza nell'area di sosta di New Kent, il che non prometteva
niente di buono per la coppia scomparsa.
Allungai una mano e sollevai la cornetta, decisa a richiamare Pat Harvey
per disdire l'invito a pranzo, ma non riuscivo a dimenticare il suo volto al
momento dell'arrivo in elicottero, con la felpa della figlia nella borsa, né
riuscivo a dimenticare i volti dei genitori con cui avevo trattato finora. Così riappesi, uscii e salii in macchina.
A meno che non dispongano di altre fonti di reddito, i funzionali pubblici non possono permettersi le misure di sicurezza che la privacy imporrebbe. Naturalmente, lo stipendio federale di Pat Harvey non era che una misera scheggia nel complesso del ricco patrimonio famigliare.
Vìveva nei pressi di Windsor sul James, un'imponente residenza jeffersoniana che dominava il fiume. Il terreno, che stimai intorno ai cinque acri,
era delimitato da un alto muro di mattoni costellato di cartelli "Proprietà
privata". Svoltai in un lungo viale d'accesso alberato e presto dovetti fermarmi di fronte a un pesante cancello in ferro battuto, che si aprì elettronicamente prima ancora che avessi il tempo di abbassare il finestrino e
suonare al citofono. Entrai e il cancello si richiuse alle mie spalle. Par-
cheggiai accanto a una Jaguar nera e davanti a un portico in stile romaneggiante, con colonne lisce, antichi mattoni rossi e decorazioni bianche.
Mentre scendevo dalla macchina, la porta dell'entrata principale si spalancò. Dalla sommità dei gradini Pat Harvey mi rivolse un coraggioso sorriso, asciugandosi le mani in uno strofinaccio per i piatti. Era pallida in viso e aveva gli occhi stanchi.
«È stata gentile a venire, dottoressa Scarpetta.» Mi fece segno di entrare.
«Venga, si accomodi.»
L'ingresso aveva le dimensioni di un salone. Seguii la padrona di casa in
cucina, attraverso un salotto alquanto formale. Mobili del Settecento, tappeti orientali da parete a parete, tele originali di pittori impressionisti e un
caminetto già pronto per essere acceso, con ceppi di legno di faggio disposti artisticamente. La cucina aveva l'aria di un luogo funzionale e vissuto,
ma per il resto ebbi la sensazione che la casa fosse vuota.
«Jason e Michael sono fuori con loro padre» spiegò la mia ospite, quando glielo chiesi. «I ragazzi sono rientrati questa mattina.»
«Che età hanno?» domandai, mentre apriva lo sportello del forno.
«Jason sedici, Michael quattordici. Debbie è la maggiore.»
Guardandosi intorno in cerca delle presine, spense il forno ed estrasse
una quiche che appoggiò su un fornello. Mentre da un cassetto prelevava
un coltello e una spatola, vidi che le tremavano le mani. «Preferisce vino,
tè o caffè? È una ricetta molto leggera. Ho anche messo insieme una macedonia, pensavo che avremmo potuto pranzare in veranda. Spero non le
dispiaccia.»
«Sarà perfetto» risposi. «E credo che opterò per il caffè.»
Aprì il frigorifero e tirò fuori un sacchetto di Irish Creme.
Mentre la osservavo senza parlare, ne versò alcuni misurini nel filtro
della caffettiera. Aveva l'aria affranta e disperata. Marito e figli erano usciti. La figlia scomparsa. La casa vuota e silenziosa.
Aspettò a farmi domande finché fummo in veranda. Spalancò alcune
porte-finestra che davano sul fiume, sfavillante sotto i raggi del sole.
«I cani» esordì, raccogliendo dal piatto una forchetta d'insalata. «È in
grado di interpretare il loro comportamento?»
Lo ero, ma non mi andava di farlo.
«È evidente che uno dei due era agitatissimo. L'altro invece no?» In realtà, più che una domanda era un'affermazione.
Salty aveva effettivamente reagito in maniera completamente diversa da
Neptune. Dopo che il cane aveva annusato il sedile del guidatore, Gail a-
veva agganciato il guinzaglio all'imbracatura e gli aveva ordinato: «Trovalo!». Salty era scattato come un levriero, annusando il terreno lungo la
rampa d'uscita e risalendo verso l'area per i picnic. Quindi aveva trascinato
Gail attraverso il parcheggio in direzione dell'interstatale, e se la padrona
non gli avesse urlato «Fermo!» si sarebbe gettato a capofitto in mezzo alle
auto in corsa. Li avevo osservati trotterellare lungo lo spartitraffico coltivato che separava le carreggiate, quindi superare la striscia d'asfalto delle
corsie per puntare diritti verso l'area di sosta opposta a quella del ritrovamento. E lì, il segugio aveva perso le tracce.
«Devo dedurne» continuò la signora Harvey «che, chiunque fosse al volante della jeep di Debbie, è sceso e ha attraversato l'area di sosta ovest e
l'interstatale? E che, giunto dall'altra parte, è montato su una seconda macchina parcheggiata nell'area est e si è allontanato?»
«È una delle possibili interpretazioni, sì» risposi, attaccando la mia quiche.
«Dunque ce ne sono altre. Quali, dottoressa Scarpetta?»
«Il segugio ha trovato una pista. Di chi o di cosa fosse l'odore, questo
non è dato saperlo. Potrebbe essere quello di Deborah, o quello di Fred, o
ancora quello di una terza persona.»
«La sua jeep è rimasta là fuori per alcune ore» mi interruppe la signora
Harvey, lo sguardo rivolto al fiume. «Immagino che chiunque avrebbe potuto penetrarvi in cerca di soldi e oggetti di valore. Magari un autostoppista, qualcuno di passaggio, una persona a piedi che poi ha attraversato l'interstatale.»
Evitai di ricordarle alcuni ovvi dettagli. All'interno del cruscotto la polizia aveva rinvenuto il portafogli di Fred Cheney, ancora intatto, con tutte
le carte di credito e trentacinque dollari in contanti. I bagagli della giovane
coppia non sembravano essere stati trafugati e, apparentemente, dalla jeep
non mancava nulla. Tranne i due occupanti e la borsetta di Debbie.
«Però, il modo in cui si è comportato il primo cane» riprese in tono quasi distaccato, «suppongo sia abbastanza inusuale. Qualcosa l'ha spaventato,
o perlomeno agitato. Un odore diverso - diverso da quello che ha sentito
l'altro. Il sedile su cui poteva essere seduta Debbie...» La voce si affievolì e
i suoi occhi incontrarono i miei.
«Sì. A quanto pare i due cani hanno fiutato odori diversi.»
«Dottoressa Scarpetta, le chiedo di essere franca con me.»
Adesso le tremava la voce. «Non abbia timore di ferire i miei sentimenti,
la prego. So che non si sarebbe spaventato in quel modo senza una buona
ragione. Di sicuro non è la prima volta che viene a contatto con i cani da
fiuto delle squadre di ricerca e soccorso. Le è mai capitato prima di assistere a una reazione simile?»
Mi era capitato. Due volte. La prima quando un cane aveva annusato il
bagagliaio di una macchina in cui era stato trasportato il cadavere di una
vittima, poi ritrovato in una discarica. La seconda quando la traccia aveva
condotto un segugio lungo un sentiero dove una donna era stata violentata
e uccisa.
Dissi solo: «I segugi tendono a reagire in maniera violenta all'odore dei
feromoni».
«Come, scusi?» Aveva un'espressione sconcertata.
«Secrezioni. Gli animali, gli insetti, secernono sostanze chimiche. Nel
periodo dell'accoppiamento, per esempio» spiegai con voce neutra. «Certamente saprà anche che i cani marcano il territorio, oppure attaccano
quando sentono l'odore della paura.»
Si limitò a fissarmi.
«Quando una persona è sessualmente eccitata, ha paura o è angosciata,
all'interno del corpo intervengono dei cambiamenti ormonali. Secondo una
certa teoria, gli animali dall'olfatto particolarmente sviluppato, come i segugi, sono in grado di discendere l'odore dei feromoni e di altre sostanze
chimiche secrete da alcune ghiandole del nostro corpo.»
«Poco prima che Jason, Michael e io partissimo per il mare» mi interruppe a quel punto, «Debbie aveva lamentato crampi addominali. Era all'inizio del ciclo. Forse questo potrebbe spiegare...? Be', se era seduta dalla
parte del passeggero, forse è l'odore che il segugio ha sentito, no?»
Non risposi. La sua supposizione non bastava a rendere conto dell'estremo turbamento del cane.
«Non è abbastanza.» Pat Harvey distolse lo sguardo e arrotolò il tovagliolo che teneva in grembo. «Non basta a spiegare perché il cane si è messo a guaire e gli si è rizzato il pelo sulla schiena. Oh, Dio Dio Dio. È successo come alle altre coppie, vero?»
«Mi è impossibile dirlo.»
«Però lo pensa. E lo pensa anche la polizia. Se non lo avessero pensato
tutti, fin dall'inizio, ieri lei non sarebbe stata tirata in causa. Voglio sapere
cos'è successo. Cos'è successo agli altri.»
Non dissi nulla.
«Stando a quanto ho letto» insisté, «la polizia l'ha convocata ogni volta
sul luogo del delitto.»
«È esatto.»
Infilò una mano nella tasca del blazer e ne estrasse un foglio di carta intestata, che aprì sul tavolo.
«Bruce Phillips e Judy Roberts» cominciò a elencarmi, quasi ce ne fosse
bisogno. «Fidanzatini del liceo, scomparsi due anni e mezzo fa il primo
giugno, dopo essersi allontanati dalla casa di un amico a Gloucester e non
essere mai giunti alle rispettive abitazioni. Il mattino seguente, la Camaro
di Bruce venne trovata abbandonata sul ciglio della Diciassette, le chiavi
ancora inserite, portiere aperte e finestrini abbassati. Dieci settimane più
tardi, lei fu chiamata in un'area boscosa due chilometri a est del Parco Nazionale dello York River, dove alcuni cacciatori avevano rinvenuto due
corpi parzialmente scheletriti riversi sul tappeto di foglie, più o meno a sei
chilometri dal luogo di ritrovamento della macchina di Bruce.»
Ricordavo che proprio in quell'occasione la polizia locale aveva chiesto
assistenza del VICAP. Quel che Marino, Wesley e l'agente investigativo di
Gloucester ignoravano, era che in luglio, un mese dopo la scomparsa di
Bruce e Judy, era stata denunciata la sparizione di una seconda coppia.
«Poi abbiamo Jim Freeman e Bonnie Smyth» riprese Pat Harvey, lanciandomi un'occhiata. «Scomparsi l'ultimo sabato di luglio dopo un party
in piscina a Providence Forge, residenza dei Freeman. Quella sera, sul tardi, Jim aveva dato a Bonnie un passaggio verso casa, e il giorno successivo
un ufficiale di polizia di Charles City aveva ritrovato la Blazer del ragazzo
abbandonata a circa sedici chilometri dalla casa dei Freeman. Quattro mesi
dopo, il dodici novembre, un gruppo di cacciatori di West Point trovò i loro corpi...»
Ciò che, con mio rammarico, la signora forse non sapeva, era che, nonostante ripetute richieste, non mi erano mai state consegnate le copie delle
parti riservate dei rapporti di polizia, né le fotografie scattate sui luoghi dei
delitti e gli inventari delle prove. Da parte mia, avevo attribuito quell'evidente mancanza di collaborazione alla natura multigiurisdizionale delle indagini.
La signora Harvey continuava a elencare, implacabile. Nel marzo dell'anno seguente i casi erano ricominciati. Ben Anderson era andato da Arlington a Stingray Point, nella Chesapeake Bay, dove si era incontrato con
la sua ragazza, Carolyne Bennett, nella casa di famiglia di lei. Poco prima
delle sette erano ripartiti insieme dalla residenza degli Anderson, diretti alla Old Dominion University di Norfolk, che entrambi frequentavano. La
sera dopo, un agente si era messo in contatto con i genitori di Ben per co-
municare che il Dodge del figlio era stato rinvenuto sul ciglio della I-64,
circa otto chilometri a est di Buckroe Beach. Le chiavi erano al loro posto,
le portiere aperte e la borsetta di Carolyne sotto il sedile del passeggero. I
corpi parzialmente scheletriti furono scoperti sei mesi più tardi, durante la
stagione della caccia al cervo, in una zona boschiva cinque chilometri a
sud della Route 199, nella contea di York. Quella volta non mi era nemmeno arrivata una copia del rapporto di polizia.
Che Susan Wilcox e Mike Martin fossero scomparsi in febbraio, quello
stesso anno, lo avevo appreso dai giornali del mattino. Come le coppie
precedenti, erano spariti mentre viaggiavano verso la casa di Mike, a Virginia Beach, per trascorrere insieme le vacanze scolastiche di primavera. Il
furgone azzurro di Mike fu ritrovato abbandonato lungo la Colonial Parkway nei pressi di Williamsburg, un fazzoletto bianco avvolto intorno all'antenna per segnalare un guasto meccanico successivamente non confermato dalla polizia. Il quindici maggio, una coppia composta da padre e figlio a caccia di tacchini scoprì i cadaveri decomposti in un'area boscosa fra
la Route 60 e la I-64, nella contea di James City.
Per l'ennesima volta mi tornarono in mente le ossa che avevo impacchettato e spedito per un'ultima verifica all'antropologo dello Smithsonian National Museum. Otto giovani dei quali, a dispetto delle ore di lavoro dedicate a ognuno, non ero riuscita a capire come e perché fossero morti.
«Se, Dio non voglia, dovesse esserci una prossima volta» avevo ordinato
a Marino, «non aspettate ad avvisarmi finché non ritrovate i corpi: fatelo
appena viene rintracciato il veicolo, okay?»
«Ricevuto, capo. Anzi, già che ci sei, potresti cominciare a fare l'autopsia anche alle macchine, visto che i cadaveri non ci dicono niente» aveva
ribattuto, in un vano tentativo di sdrammatizzare la situazione.
«In tutti i casi» stava dicendo la signora Harvey, «le portiere erano aperte, le chiavi inserite, non c'erano segni di colluttazione e apparentemente
nulla era stato rubato. Il modus operandi era fondamentalmente sempre lo
stesso.»
Ripiegò il foglio di appunti e se lo rimise in tasca.
«Vedo che è bene informata» fu il mio unico commento. Non feci domande, ma ero convinta che avesse mobilitato il suo intero staff perché
scavasse nei casi precedenti.
«Quello che voglio dire è che lei è stata coinvolta fin dall'inizio» riprese.
«Ha esaminato tutti i corpi: eppure, da quanto mi pare di capire, non sa cosa abbia ucciso quei poveri ragazzi.»
«Esatto. Non lo so.»
«Non lo sa o non lo dice, dottoressa?»
La carriera di Pat Harvey come pubblico ministero le aveva guadagnato
il rispetto, se non addirittura il timore, dell'intera nazione. Era una donna
coraggiosa e aggressiva, e di colpo ebbi l'impressione che la veranda si
fosse trasformata nell'aula di un tribunale.
«Se conoscessi il perché della loro morte, non le avrei definite cause non
identificate» risposi in tono calmo.
«Ma lei crede che siano stati assassinati.»
«Quello che io credo, signora Harvey, è che individui giovani e sani non
abbandonano di colpo la loro macchina per andare a morire di morte naturale in mezzo a un bosco.»
«E delle varie ipotesi che sono state avanzate? Cosa ne pensa, di quelle?
Immagino non le giungano nuove.»
Non mi giungevano nuove, infatti.
Quattro giurisdizioni e almeno altrettanti investigatori erano oramai
coinvolti nelle indagini, e ognuno aveva formulato numerose ipotesi. Come, ad esempio, che i giovani facevano uso di droga e si erano incontrati
con uno spacciatore che aveva venduto loro qualche nuova e pericolosa sostanza di sintesi, non individuabile attraverso i consueti test tossicologici.
Oppure che c'entravano riti occulti. O che le coppie facevano parte di una
società segreta e le loro morti erano in realtà il frutto di un patto suicida.
«Be', non mi sembrano particolarmente attendibili» risposi.
«E perché no?»
«Semplicemente perché i risultati dei miei esami non confermano simili
teorie.»
«E cosa confermerebbero, invece?» chiese. «Ma quali risultati, poi? Da
tutto quello che ho letto e sentito dire, lei di risultati non ne ha proprio.»
Si era sollevata una foschia che rendeva il cielo opaco. Vidi un aereo tirare un candido filo sotto il sole, come un ago d'argento, e in silenzio osservai la scia di vapore allargarsi e iniziare a disperdersi. Se Deborah e
Fred avevano fatto la stessa fine degli altri, non c'era da aspettarsi alcun ritrovamento in tempi brevi.
«La mia Debbie non ha mai fatto uso di droghe» insisté la signora Harvey, cercando di ricacciare le lacrime. «E non è una seguace di culti o sette
misteriose. È collerica e a volte depressa come la maggior parte delle adolescenti, ma non penserebbe mai di...» Si interruppe di colpo, lottando per
mantenere il controllo dei nervi.
«Deve cercare di affrontare solo il presente» dissi. «Non sappiamo cosa
sia successo a sua figlia. Non sappiamo cosa sia successo a Fred. E forse
passerà molto tempo prima che lo scopriamo. Piuttosto, c'è nient'altro che
potrebbe dirmi di lei - di loro? Nulla che potrebbe essere d'aiuto?»
«Stamattina è venuto un ufficiale di polizia» rispose, emettendo un breve, tremulo respiro. «È andato in camera e ha preso dei vestiti e la spazzola
di mia figlia. Ha detto che erano per i cani, i vestiti erano per i cani, e che
aveva bisogno di qualche capello con cui confrontare eventuali reperti all'interno della jeep. Le andrebbe di vederla? La sua camera?»
Curiosa, annuii.
La seguii per la lucida scala fino al secondo piano. La camera da letto di
Deborah era nell'ala est della residenza, da dove poteva vedere il sorgere
del sole e l'addensarsi di nuvole temporalesche sopra il fiume. Non era la
solita cameretta da adolescente. C'erano mobili scandinavi di linea semplice realizzati in un meraviglioso legno di teak chiaro, una trapunta dalle
fredde sfumature verdi e azzurre che copriva il letto da una piazza e mezza, e sotto di esso un tappeto indiano dai motivi rosa e prugna scuro. Romanzi ed enciclopedie riempivano una libreria, e al di sopra della scrivania
erano allineati due ripiani carichi di trofei e dozzine di medaglie dai nastri
colorati. Sul ripiano superiore campeggiava una grande fotografia di Deborah sull'asse d'equilibrio, la schiena inarcata, le mani in posa, come due uccellini; i lineamenti del viso, come i particolari del suo santuario privato,
tradivano una ferrea disciplina e un'immensa grazia. Non occorreva essere
sua madre per accorgersi che questa ragazza di diciannove anni aveva
qualcosa di speciale.
«Debbie ha scelto tutto personalmente» disse la signora Harvey. «I mobili, il tappeto, i colori. Sembra quasi impossibile che solo pochi giorni fa
fosse qui a preparare le sue cose per la scuola.» Fissò le valigie e il baule
in un angolo della stanza e si schiarì la voce. «È una ragazza talmente organizzata. Immagino abbia preso da me.» Poi, sorridendo nervosamente,
aggiunse: «Se c'è una cosa che mi riesce bene, è organizzare».
Ripensai alla jeep di sua figlia: immacolata dentro e fuori, i bagagli e
tutti gli effetti personali riposti con cura sul sedile.
«Tiene moltissimo alle sue cose» riprese la signora Harvey, andando alla
finestra. «Spesso ho avuto il timore di averla troppo assecondata. I vestiti,
la macchina, i soldi. Bob e io ne abbiamo discusso molto. Vede, è difficile
adesso, con la mia attività a Washington. Ma l'anno scorso,, quando ricevetti la nomina, abbiamo deciso, e intendo proprio tutti insieme, che sra-
dicare l'intera famiglia sarebbe stato eccessivo; e poi è qui che Bob lavora.
Sarebbe stato più facile se avessi preso in affitto un appartamento e fossi
tornata per i weekend. In attesa di vedere cosa sarebbe successo alle prossime elezioni.»
Dopo una lunga pausa, riprese: «Sto semplicemente cercando di dire che
non sono mai stata molto brava a negare qualcosa a Debbie: è un'impresa
riuscire a usare il buonsenso quando ciò che si vuole per i figli è sempre il
meglio. Soprattutto se si serba ancora il ricordo dei desideri tipici della loro età, delle insicurezze nel vestire, delle preoccupazioni di ordine estetico
perché i tuoi genitori non potevano permettersi una visita dal dermatologo
o dal dentista, o un intervento di chirurgia plastica. Abbiamo cercato di essere moderati». Incrociò le braccia all'altezza del petto. «A volte non sono
certa delle mie scelte. Prenda la jeep, ad esempio. Io non ero d'accordo sul
fatto che avesse una macchina, ma non avevo nemmeno le energie per oppormi. E lei, naturalmente, ha voluto qualcosa di pratico e sicuro su cui poter girare con il bello e il brutto tempo.»
«Quando prima parlava di un intervento di chirurgia plastica» intervenni
non senza una certa esitazione, «si riferiva a qualcosa di specifico che riguarda sua figlia?»
«Dei seni prosperosi sono incompatibili con l'attività sportiva, dottoressa
Scarpetta» rispose la signora Harvey, senza voltarsi. «A sedici anni, Debbie era una specie di maggiorata fisica. Non solo la cosa la imbarazzava
nella vita privata, ma interferiva anche con la sua carriera sportiva. L'anno
scorso il problema è stato risolto.»
«Quindi quella è una foto recente» commentai, dato che la Deborah che
stavo guardando era un elegante e scultoreo insieme di muscoli, accompagnato da seni e natiche piccoli e sodi.
«È stata scattata lo scorso aprile, in California.»
Nel caso di persone scomparse e presumibilmente morte non è raro, per
chi esercita una professione come la mia, interessarsi dei particolari anatomici - si tratti di un'isterectomia, di un canale radicolare o delle cicatrici
lasciate da una plastica - in grado di aiutare nell'identificazione del corpo.
Erano esattamente le descrizioni di cui andavo in cerca nei moduli di denuncia della polizia. Erano le caratteristiche più terrene e umane quelle da
cui dipendevo perché, come anni d'esperienza mi avevano insegnato,
gioielli e altri effetti personali non meritano eccessiva attenzione.
«Ciò che le ho appena detto dovrà restare fra queste mura, dottoressa
Scarpetta. Debbie è una ragazza molto riservata. La nostra è una famiglia
molto riservata.»
«Capisco.»
«La sua relazione con Fred» riprese. «Anche quella era riservata. Troppo
riservata. Come avrà sicuramente notato, non ci sono fotografie, né altri
segni evidenti del loro rapporto. Senza dubbio devono essersi scambiati foto, regali, ricordi, ma lei ne è sempre stata molto gelosa. Prenda il suo ultimo compleanno, ad esempio, lo scorso febbraio: pochi giorni dopo mi
sono accorta che al mignolo della mano destra portava un anello d'oro.
Una veretta sottile, con un motivo floreale. Non ne ha mai fatto parola, né
io le ho mai chiesto niente, ma sono certa che gliel'ha regalata lui.»
«Lo definirebbe un ragazzo dal carattere stabile?»
Si girò dalla mia parte, gli occhi cupi e disperati. «Fred è un ragazzo
molto profondo, in un certo senso quasi ossessivo, ma non posso definirlo
instabile. Non posso lamentarmi di lui...Mi sono solo spesso preoccupata
del fatto che la loro relazione sia una cosa troppo seria, troppo...» distolse
lo sguardo, in cerca della parola giusta. «Vincolante. Come una droga, ecco cosa mi faceva venire in mente, era come se ognuno fosse la droga dell'altro.» Chiuse gli occhi e tornò a girarsi, appoggiando la testa contro la
finestra. «Oh, Signore. Come vorrei non averle mai comprato quella maledetta jeep.»
Non feci commenti.
«Fred non ha la macchina. Non le sarebbe rimasta altra scelta...» La voce si spense.
«Non le sarebbe rimasta altra scelta» completai al suo posto «che venire
al mare con lei.»
«E così non sarebbe successo!»
Improvvisamente uscì in corridoio. Capii che non avrebbe potuto resistere un attimo di più nella stanza della figlia, e la seguii per le scale fino all'ingresso. Quando le tesi la mano per salutarla, si voltò per nascondere le
lacrime.
«Mi dispiace moltissimo.» Quante altre volte mi sarebbe toccato ripetere
quella frase?
La porta si richiuse adagio mentre scendevo i gradini. Guidando verso
casa pregai che, se mai mi fosse ricapitato di incontrare Pat Harvey, non
fosse nelle mie vesti ufficiali di medico legale.
3
Trascorse una settimana prima che sentissi di nuovo parlare del caso
Harvey-Cheney, le cui indagini, per quanto ne sapevo, non erano approdate a nulla. Lunedì, mentre come al solito mi trovavo in obitorio sprofondata nel sangue fino ai gomiti, telefonò Benton Wesley. Voleva urgentemente vedere Marino e me, e propose di andare a cena da lui.
«Credo che Pat Harvey gli stia dando qualche grana» commentò Marino
quella sera. Timide gocce di pioggia rimbalzavano sul parabrezza della sua
auto, mentre dirigevamo verso la casa di Wesley. «Personalmente non me
ne frega un accidenti se va a consultare una chiromante, se telefona a Billy
Graham o a Babbo Natale.»
«Hilda Ozimek non è una chiromante» ribattei.
«Metà di quelle associazioni Sister Rose, con una mano dipinta come
simbolo, non sono altro che coperture per giri di prostituzione.»
«Ne sono consapevole» dissi in tono stanco.
Marino aprì il portacenere, ricordandomi che razza di sconcia abitudine
fosse fumare. Se riusciva a infilarci ancora un mozzicone, lo avrei segnalato per il Guinness dei primati.
«A quanto sembra hai sentito parlare di lei, allora» continuò.
«In realtà non ne so molto, tranne che vive da qualche parte in Carolina.»
«Carolina del Sud.»
«Sta con gli Harvey?»
«Non più» disse Marino, spegnendo il tergicristalli mentre il sole tornava a spuntare da dietro le nuvole. «Come vorrei che questo tempo maledetto si decidesse... È tornata in Carolina ieri. Che tu ci creda o no, è stata
prelevata e riportata a casa con un aereo privato.»
«Ti spiacerebbe dirmi come mai questa storia è tanto risaputa?» Se già
ero stupita del fatto che Pat Harvey si rivolgesse a una sensitiva, ero ancora più sorpresa che ne parlasse in giro.
«Ottima domanda. Ti sto solo dicendo quel che mi ha riferito Benton al
telefono. A quanto pare la strega Hilda ha visto nella sua sfera di cristallo
qualcosa che ha letteralmente sconvolto la signora Harvey.»
«E cosa, per la precisione?»
«Magari lo sapessi. Benton non è entrato in dettagli.»
Non feci altre domande, perché discutere di Benton Wesley e della sua
reticenza mi faceva star male ogni volta. In passato ci piaceva lavorare insieme, ci rispettavamo e provavamo affetto reciproco. Oggi lo trovavo distante e non riuscivo a fare a meno di pensare che il modo in cui si com-
portava nei miei confronti avesse a che fare con Mark. Il giorno in cui
Mark mi aveva lasciato, accettando un incarico in Colorado, se n'era andato anche da Quantico, dove aveva il ruolo privilegiato di Capo dell'Unità
Legale di Addestramento dell'Accademia Nazionale dell'Fbi. Wesley aveva perso un collega e un amico, e nella sua testa probabilmente la colpa era
mia. Il legame d'amicizia fra due uomini può essere più forte di un matrimonio, e i "fratelli di distintivo" sono più fedeli di qualunque coppia di innamorati.
Mezz'ora più tardi Marino abbandonò la Highway e poco dopo persi il
conto delle svolte lungo strade sempre più secondarie che conducevano nel
cuore della campagna. Nei numerosi incontri passati ci eravamo sempre
visti nel mio o nel suo ufficio. Non ero mai stata invitata a casa sua, in
quella splendida scenografia di campi e foreste, di pascoli circondati da
bianche staccionate, di stalle e fattorie della Virgina, spettacolo assai lontano da quello offerto dalle strade principali. Quando ormai ci trovavamo
in zona, cominciammo a superare lunghi viali d'accesso a case grandi e
moderne costruite su ampi appezzamenti di terreno, con berline di marca
europea parcheggiate di fronte a garage da due o tre posti.
«Non mi ero mai resa conto che vicino a Richmond ci fossero tanti dormitori per i pendolari di Washington» commentai.
«Che cosa? Vivi qui da quattro o cinque anni e ancora non hai sentito
parlare dell'aggressione nordista?»
«Se tu fossi nato a Miami, la Guerra civile non sarebbe certo il primo dei
tuoi pensieri» replicai.
«Immagino di no. Accidenti, Miami non fa neanche parte del paese.
Qualunque posto dove la gente debba andare a votare per decidere se l'inglese è la lingua ufficiale, non appartiene agli Stati Uniti.»
Le rampogne di Marino sulle mie origini non erano nuove.
Mentre rallentava, imboccando un viale di ghiaia, riprese: «Mica male,
la tana, eh? Suppongo che i federali paghino un po' meglio del comune».
Era una casa rivestita di assicelle di legno, con fondamenta di pietra
grezza e finestre a bovindo. Cespugli di rose correvano lungo la facciata e i
lati della costruzione, ombreggiati da vecchie querce e magnolie. Appena
scesi dalla macchina, cominciai a cercare indizi che potessero rivelarmi
qualcosa di più sulla vita privata di Benton Wesley. Appeso alla porta del
garage c'era un canestro di basket, e accanto a una catasta di legna ricoperta da un telo di plastica stazionava una falciatrice rossa. Sul retro s'intravedeva uno spazioso giardino impeccabilmente decorato con aiuole di fiori,
azalee e alberi da frutto. Nei pressi di un barbecue erano sistemate alcune
sedie, e subito ebbi una visione di Wesley e consorte impegnati, drink alla
mano, a cucinare bistecche in tranquille serate estive.
Marino suonò il campanello. Fu la moglie a venire ad aprire; si presentò
come Connie.
«Ben è di sopra un momento» disse, sorridendo, mentre ci precedeva in
un salotto con ampie finestre, un grande camino e mobili in stile rustico.
Non avevo mai sentito nessuno chiamare Wesley "Ben". Né avevo mai incontrato sua moglie. Dimostrava circa quarantacinque anni, un'attraente
brunetta dagli occhi di un nocciola così chiaro da sembrare quasi gialli, e
lineamenti affilati molto simili a quelli del marito. I suoi modi gentili e
quietamente riservati suggerivano a un tempo forza di carattere e tenerezza. Il Benton Wesley controllato che conoscevo, a casa era senza dubbio
un uomo diverso, e mi chiesi fino a che punto Connie fosse a conoscenza
dei particolari della sua professione.
«Gradisci una birra, Pete?» chiese.
Marino si accomodò su una sedia a dondolo. «No, ho la sensazione di
dover fare da autista, stasera. Meglio un caffè.»
«A lei cosa posso offrire, Kay?»
«Un caffè anche per me» risposi. «Se non è un disturbo:»
«Sono così contenta di conoscerla, finalmente» aggiunse in tono sincero.
«Ben mi parla di lei da così tanti anni. La stima moltissimo.»
«Grazie.» Il complimento mi lasciò sconcertata, e ciò che aggiunse dopo
fu addirittura scioccante.
«L'ultima volta che abbiamo visto Mark gli ho fatto promettere di portare anche lei a cena, quando fosse tornato a Quantico.»
«Molto gentile da parte sua» replicai, riuscendo a ostentare un sorriso.
Era chiaro che Wesley le aveva raccontato proprio tutto, e l'idea che Mark
fosse venuto di recente in Virginia e non mi avesse nemmeno telefonato
mi ferì moltissimo.
Appena si allontanò un momento in cucina, Marino mi chiese: «E molto
che non lo senti?».
«Denver è una bella città» risposi in modo evasivo.
«Se vuoi il mio parere, è soltanto uno stronzo. Lo riportano a casa dopo
una missione segreta e per un po' lo alloggiano a Quantico. Poi lo rispediscono a ovest con un incarico di cui non può dire niente a nessuno. Una
ragione in più per cui non riuscirebbero mai a farmi lavorare per il Bureau,
alla faccia del migliore degli stipendi.»
Evitai di commentare.
«Non hai più una vita tua. Eh, è proprio vero quel che dicono: "Se Hoover voleva che tu avessi una moglie e dei figli, te li avrebbe dati con il distintivo".»
«Sono passati i tempi di Hoover» dissi, fissando gli alberi che si contorcevano nel vento. Aveva tutta l'aria di voler ricominciare a piovere, ma
questa volta sul serio.
«Forse, ma sta di fatto che ancora non hai famiglia.»
«Non sono certa di essere la sola, Marino.»
«E questa purtroppo è la fottuta verità» borbottò.
Udimmo dei passi e poco dopo Wesley fece il suo ingresso in salotto,
ancora in giacca e cravatta, pantaloni grigi e camicia bianca inamidata ma
leggermente stropicciata. Mentre chiedeva se ci era già stato offerto da bere, lo vidi stanco e teso.
«Ci sta già pensando Connie» dissi.
Si sedette su una poltrona e guardò l'orologio. «Mangeremo fra circa un'ora.» Poi intrecciò le dita posandosi le mani in grembo.
«Da Morrell nessuna notizia.» Fu Marino a rompere il ghiaccio.
«Purtroppo non ci sono nuovi sviluppi. Nulla di promettente» rispose
Wesley.
«Ma non me lo aspettavo nemmeno. Sto solo dicendo che non ho sentito
Morrell.»
La faccia di Marino restò impassibile, ma avvertii chiaramente il risentimento che aveva dentro. Benché non si fosse ancora presentata l'occasione per parlarne, sospettavo dovesse sentirsi come un giocatore relegato in
panchina per tutta la stagione. Aveva sempre avuto un buon dialogo con
tutti gli investigatori delle altre giurisdizioni, e questo era onestamente uno
dei maggiori punti di forza del VICAP in Virgina. Poi erano scoppiati i casi delle coppie scomparse, e gli investigatori avevano smesso di comunicare - sia con Marino, sia con me.
«Ogni sforzo da parte nostra è stato bloccato» lo informò Wesley. «Non
siamo andati più in là dell'area di sosta in cui il cane ha smarrito la traccia.
L'unica scoperta è stata una ricevuta trovata a bordo della jeep. A quanto
pare Deborah e Fred si erano fermati a un Seven-Eleven, dopo essere partiti dalla casa degli Harvey a Richmond. Hanno acquistato una confezione di
Pepsi da sei e qualche altro articolo.»
«Quindi sono anche stati già eseguiti i controlli» commentò Marino con
aria irritata.
«È stata rintracciata la commessa di turno in quel momento. Ricorda di
averli visti entrare. Dovevano essere passate da poco le nove.»
«Erano soli?» chiese Marino.,
«Così si direbbe. Nessun altro è entrato con loro e, se fuori c'era qualcuno ad aspettarli nella jeep, stando a quanto affermato dalla testimone nulla
lasciava supporre che fossero in difficoltà.»
«Dove si trova, esattamente, questo Seven-Eleven?» chiesi.
«Più o meno sette chilometri a ovest dell'area di sosta in cui è stata ritrovata la macchina.»
«Hai detto che avevano comprato anche qualcos'altro» insistei. «Cosa,
per la precisione?»
«Ci stavo arrivando» disse Wesley. «Deborah Harvey ha acquistato una
scatola di Tampax, poi ha chiesto se poteva usare il bagno e la ragazza le
ha risposto che era contro il regolamento. Quindi li ha dirottati verso l'area
di sosta sulla corsia est della I-64.»
«Dove il cane ha perso le tracce» concluse Marino, aggrottando le sopracciglia con espressione confusa. «Dalla parte opposta della jeep.»
«Esatto» confermò Wesley.
«E le Pepsi?» feci io. «Le avete trovate da qualche parte?»
«Quando la polizia ha perquisito la jeep, nella borsa termica ce n'erano
sei lattine.»
Fece una pausa, mentre la moglie tornava portando i caffè e un bicchiere
di tè ghiacciato per il marito. Ci servì in dignitoso silenzio, quindi se ne
andò di nuovo. Connie Wesley aveva una lunga esperienza in fatto di discrezione.
«Stai pensando che si sono fermati per risolvere il problema di Deborah
e lì hanno incontrato il maniaco che li ha fatti scendere» concluse Marino.
«Non sappiamo ancora cosa gli sia successo» rammentò Wesley.
«È nostro dovere prendere in considerazione quante più possibilità.»
«Del tipo?» Marino era ancora accigliato.
«Rapimento.»
«Un sequestro?» ribatté in tono palesemente scettico.
«Non dimenticare chi è la madre di Deborah.»
«Sì, sì, lo so. La Zarina della droga, quella con le palle, tirata dentro perché il presidente voleva dare un contentino al movimento delle donne.
«Pete» disse Wesley con calma, «non mi sembra saggio liquidarla come
si trattasse di un burattino della plutocrazia o di un funzionario di valore
soltanto simbolico. Pur sembrando più potente di quel che è in realtà, visto
che la sua posizione non ha comunque lo status di ministero, Pat Harvey
risponde direttamente al presidente. Di fatto è la persona che coordina tutte
le agenzie federali nella guerra ai crimini legati alla droga.»
«Per non parlare del suo curriculum ai tempi in cui era procuratore degli
Stati Uniti» aggiunsi io. «È sempre stata un'accesa sostenitrice degli sforzi
della Casa Bianca per rendere punibili con la morte gli omicidi e i tentati
omicidi per motivi di droga. E non ne faceva certo mistero.»
«Sì, come altre centinaia di uomini politici» ribatté Marino.
«Credo mi preoccuperei di più se facesse parte della schiera dei progressisti che vogliono legalizzare quella merda. Allora potrebbe sorgermi il
dubbio che un fanatico destrorso della "maggioranza morale" ha creduto di
parlare con Dio, sentendosi ordinare di far sparire la figlia di Pat Harvey.»
«È una donna molto aggressiva» riprese Wesley. «È riuscita a incastrare
alcuni pesci grossi, ha avuto un peso notevole nell'approvazione di importanti decreti, ha sopportato minacce di morte e alcuni anni fa la sua macchina ha persino subito un attentato dinamitardo.»
«Sì, una Jaguar vuota parcheggiata al country club. Ed è diventata un'eroina» lo interruppe Marino.
«Ciò che voglio dire» ricominciò Wesley paziente, «è che si è creata un
certo numero di nemici, soprattutto per certe iniziative nei confronti d'istituti di beneficenza.»
«Sì, ho letto qualcosa in merito» dissi, cercando di richiamare i particolari alla mente.
«Quello che la gente sa di lei non è che una briciola infinitesimale. I suoi
ultimi sforzi sono stati diretti contro l'ACTMAD, il fronte delle madri americane contro la droga.»
«Scherzerai, spero» saltò su Marino. «È come dire che l'Unicef ha le
mani sporche.»
Evitai di rivelare che ogni anno inviavo il mio contributo all'ACTMAD
e che mi consideravo un'entusiasta sostenitrice dell'iniziativa.
«La signora Harvey» continuò Wesley «ha raccolto prove sufficienti a
dimostrare che l'ACTMAD è servita da copertura a un cartello della droga
e ad altre attività illegali in Centroamerica.»
«Cristo» fece Marino, scuotendo la testa. «Ho ragione io a non dare un
centesimo a nessuno.»
«La scomparsa di Deborah e Fred lascia perplessi proprio perché sembra
collegata a quella delle altre quattro coppie. Ma in realtà potrebbe essere
una messinscena deliberata, un tentativo di farci credere che esiste un le-
game che non c'è. Forse abbiamo a che fare con un serial killer. Forse no.
In ogni caso, è nel nostro interesse lavorare con tutta la discrezione possibile» concluse Wesley.
«Immagino che a questo punto starai aspettando una richiesta di riscatto
o qualcosa del genere» commentò Marino. «Ma sì, in fondo sono certo che
in cambio di un po' di soldi i thug centroamericani siano disposti a restituire Deborah alla madre.»
«Io non lo credo, Pete» replicò Wesley. «Anzi, le cose potrebbero mettersi molto male. Pat Harvey dovrà comparire come teste di fronte a una
commissione del Congresso l'anno prossimo, e anche questo ha a che vedere con gli istituti di beneficenza incriminati. In un momento simile non
poteva succederle niente di peggio che vedersi rapire la figlia.»
Al solo pensiero sentii una stretta allo stomaco. Pat Harvey non mi sembrava particolarmente vulnerabile dal punto di vista professionale, considerata l'irreprensibile carriera che aveva alle spalle. Ma era una madre, e in
quanto tale il benessere dei figli avrebbe contato per lei più della sua stessa
vita. Il suo tallone d'Achille era la famiglia.
«Non possiamo liquidare l'ipotesi di un rapimento per scopi politici» ribadì Wesley, lo sguardo rivolto al giardino spazzato dal vento.
Anche lui aveva una famiglia. E l'incubo era che un boss della malavita,
qualcuno che Wesley aveva contribuito a fare arrestare, potesse prendersi
una rivincita sulla moglie o sui figli. La loro casa era protetta da un sistema d'allarme sofisticato e da un citofono esterno. Aveva scelto di vivere
nella campagna della Virginia, il numero di telefono non pubblicato sugli
elenchi, l'indirizzo sconosciuto ai giornalisti e persino alla maggioranza di
conoscenti e colleghi. Fino a quel momento, io. stessa non avevo mai saputo dove abitasse, credevo più vicino a Quantico, magari a McLean o ad
Alexandria.
«Sono certa che Marino ti ha già accennato qualcosa a proposito di Hilda Ozimek» riprese.
Annuii. «È vero?»
«Il Bureau si è servito di lei in parecchie occasioni, anche se non ci piace
ammetterlo. Le sue capacità, i suoi poteri, o come diavolo tu voglia chiamarli, sono un dato di fatto. Non chiedermi spiegazioni: questo genere di
fenomeni supera la mia comprensione. Ti posso soltanto dire che una volta
ci aiutò a localizzare un aereo del Bureau precipitato fra le montagne del
West Virginia. Aveva anche predetto l'assassinio di Sadat e, se avessimo
prestato un po' più orecchio alle sue parole, avremmo potuto premunirci
meglio nei confronti dell'attentato a Reagan.»
«Non mi verrai a dire che aveva previsto pure quello?» sbottò Marino.
«Anche il giorno esatto, o poco ci mancava. Noi non ci preoccupammo
di avvertire nessuno. Be', non l'avevamo presa abbastanza sul serio, immagino, e per quanto ti possa sembrare strano è stato un grosso errore. Da allora, quando lei apre bocca il Servizio Segreto vuole sempre verificare.»
«Al Servizio leggono anche gli oroscopi, per caso?» insisté Marino.
«Credo che Hilda Ozimek li consideri un po' troppo vaghi. E, per quel
che né so io, non legge la mano» ribatté Wesley in tono tagliente.
«Come ha saputo di lei, la signora Harvey?» chiesi.
«Probabilmente da qualcuno del Dipartimento di Giustizia. Comunque
sia, venerdì ha fatto arrivare la medium a Richmond con un aereo privato,
e lei sembra averle rivelato cose che l'hanno... be', diciamo solo che in
questo momento considero la signora Harvey una specie di mina vagante.
Temo che le sue attività possano sortire effetti più negativi che positivi.»
«Cosa le ha detto, esattamente, la medium?» Volevo sapere.
Wesley mi fissò diritto negli occhi e rispose: «Purtroppo non posso dirtelo. Non adesso».
«Ma con te ne ha parlato? Nel senso: Pat Harvey è venuta spontaneamente a dirti che si era rivolta a una sensitiva?»
«Non sono libero di discutere l'argomento, Kay» ripeté Wesley, e restammo tutti e tre in silenzio per un attimo.
Dentro di me ero convinta che non fosse stata Pat Harvey a passare l'informazione; Wesley l'aveva saputo per qualche altra via.
«Non so» riprese Marino dopo un po'. «Potrebbe anche trattarsi di rapimento, okay, non voglio scartare la possibilità.»
«Non possiamo scartare nessuna possibilità» lo corresse Wesley in tono
perentorio.
«Benton, sono due anni e mezzo che questa storia va avanti» mi intromisi.
«Sì» rincarò Marino. «Un sacco di tempo. Per me resta l'opera di un maniaco che si fissa ogni volta su una coppia, la solita dinamica della gelosia
del perdente che non riesce ad avere relazioni e odia quelli che invece ce la
fanno.»
«Senza dubbio esiste una forte possibilità che sia così. Un individuo che
se ne va costantemente in giro in cerca di giovani coppie. Magari batte le
viuzze preferite dagli innamorati, le aree di servizio, le piazzuole dove i
ragazzi si fermano ad amoreggiare in macchina. Magari prima di colpire
gli vanno buchi diversi tentativi, ma poi rivive l'omicidio per mesi e mesi,
prima che il bisogno di uccidere torni a farsi irresistibile e se ne ripresenti
l'occasione. Magari è stata una semplice coincidenza, Deborah e Fred si
trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato.»
«Non ho mai saputo di indizi da cui dedurre che le coppie erano in macchina ad amoreggiare, quando sono state raggiunte dall'aggressore» puntualizzai.
Wesley non rispose.
«A parte Deborah e Fred, le altre coppie non sembravano stazionare in
aree di sosta o in viuzze particolari, come dici tu» proseguii. «Casomai erano in viaggio verso destinazioni precise, e all'improvviso qualcosa le ha
indotte a fermarsi e, forse, a caricare qualcuno o a salire loro stessi a bordo
di un altro veicolo.»
«È la teoria del poliziotto assassino» borbottò Marino. «Non pensate che
non ne abbia mai sentito parlare.»
«Be', potrebbe essere qualcuno che si spaccia per tale» rispose Wesley.
«Certo spiegherebbe come mai le coppie si sono fermate, magari salendo
su un'altra macchina per un normale controllo dei documenti. Chiunque
può entrare in un negozio di uniformi e comperarsi giacca, berretto, distintivo e quant'altro. Il problema è che una luce che lampeggia attira l'attenzione. La noterebbero anche gli altri automobilisti, e se nei dintorni ci fosse un vero poliziotto, come minimo si fermerebbe per offrire assistenza.
Ma non è mai giunta segnalazione di qualcuno che abbia notato un blocco
stradale o cose simili nell'area e nel periodo delle varie scomparse.»
«E sarebbe da chiedersi come mai borse e portafogli sono sempre stati
ritrovati a bordo delle vetture - fatta eccezione per la borsetta di Deborah
Harvey» intervenni. «Se fosse stato chiesto loro di salire a bordo di un veicolo della polizia per una comune infrazione, allora perché lasciare in macchina i documenti personali e di circolazione? Sono le prime cose che qualunque agente vuole vedere, quindi devi portarli con te, no?»
«Il fatto è, Kay, che potrebbero non esserci saliti di loro spontanea volontà» disse Wesley. «Metti che credano di essere stati fermati da un agente di polizia, e quando il tizio si accosta al finestrino tira fuori la pistola e
gli ordina di trasferirsi sull'altra macchina.»
«Ma è dannatamente rischioso» obiettò Marino. «Se fossi al loro posto,
ingranerei la marcia e ripartirei a tutta velocità. E poi c'è sempre la possibilità che ti veda altra gente che passa in quel momento. Voglio dire, come
fai a obbligare due persone a salire in macchina sotto la minaccia di una
pistola, e questo quattro, forse cinque volte in altrettante occasioni, senza
che nessuno si accorga di niente?»
«Per formulare meglio la domanda» lo interruppe Wesley, lanciandomi
uno sguardo poco solidale, «come fai a uccidere otto persone senza lasciare in giro la benché minima traccia, nemmeno un segno su un osso o una
pallottola nei pressi dei cadaveri?»
«Strangolamento, garrota o taglio della gola» spiegai, e non era la prima
volta che mi metteva sotto pressione in tal senso. «I corpi erano tutti in stato di avanzata decomposizione, Benton. E terrei a ricordare come la teoria
del poliziotto implica che le vittime siano salite a bordo del veicolo dell'aggressore. Invece, basandoci sulla pista olfattiva rilevata dai cani lo
scorso weekend, sembrerebbe plausibile che costui si sia allontanato proprio alla guida della jeep di Deborah, abbandonandola poi nell'area di sosta
per volatilizzarsi dalla parte opposta dell'interstatale.»
Wesley aveva la faccia stanca. Più volte si era massaggiato le tempie
come a lenire un brutto mal di testa. «Se ho voluto vedervi stasera è perché
alcuni aspetti di questa storia ci impongono di agire con la massima prudenza. Vi chiederei di stabilire fra noi un canale di comunicazione diretto e
aperto in ogni momento. La parola d'ordine è discrezione: niente chiacchiere con i giornalisti né con amici intimi, parenti, altri medici legali o
poliziotti. E niente messaggi via radio, per favore.» Ci lanciò un'occhiata.
«Quando e se venissero ritrovati i corpi di Deborah Harvey e Fred Cheney,
voglio essere avvisato immediatamente per telefono. Un'ultima cosa: se la
signora Harvey cerca di mettersi in contatto con voi, deviatela su di me.»
«Lo ha già fatto» dissi.
«Lo so, Kay» rispose lui, senza guardarmi.
Non gli chiesi come ne era venuto a conoscenza, ma ero irritata e si vedeva.
«Considerate le circostanze, posso comprendere che tu abbia accettato di
incontrarla» aggiunse. «Ma sarà meglio che la cosa non si ripeta, e che tu
non discuta del caso con lei. Non farebbe che causare altri problemi, e non
per via dell'interferenza nelle indagini, ma perché più ne resta coinvolta,
più rischia di mettere in pericolo se stessa.»
«Nel senso che rischia di lasciarci le penne?» fece Marino, di nuovo
scettico.
«Direi piuttosto che rischia di perdere il controllo di sé e di diventare irrazionale.»
L'interessamento di Wesley per le condizioni psicologiche di Pat Harvey
poteva anche essere sincero, ma non mi convinceva del tutto. E mentre
Marino e io tornavamo verso Richmond, dopo cena, non potei fare a meno
di pensare che il vero motivo per cui ci aveva voluto vedere non era assolutamente nell'interesse della coppia scomparsa. «Ho la sensazione che
stiano cercando di manipolarmi» confessai infine, il profilo di Richmond
ormai visibile all'orizzonte.
«Allora siamo in due» fece eco Marino infastidito.
«Hai idea di cosa stia succedendo veramente?»
«Oh, certo» fece lui, pigiando l'accendisigari. «Certo, il mio sospettino
ce l'ho, sì. Credo che al Bureau sia arrivata una soffiata e temano che qualche pezzo grosso stia per fare una brutta figura. Non so, è come se sentissi
che qualcuno sta cercando di pararsi il culo, e Benton c'è rimasto preso in
mezzo.»
«Se è incastrato lui, siamo incastrati anche noi.»
«L'hai detto, capo.»
Erano passati tre anni dal giorno in cui Abby Turnbull si era presentato
nel mio ufficio, le braccia cariche di iris appena colti e una bottiglia di vino
straordinario. Era venuta per dirmi addio, si era licenziata dal "Times" e
andava a lavorare come giornalista di cronaca nera al "Post" di Washington. Avevamo promesso di tenerci in contatto, come si fa sempre in questi casi, ma ora non riuscivo neppure a ricordare quand'era stata l'ultima
volta che le avevo scritto o telefonato.
«Gliela devo passare» chiese Rose, la mia segretaria, «o dico di lasciare
un messaggio?»
«La prendo, la prendo, Rose» dissi. «Scarpetta» mi annunciai poi automaticamente.
«Accidenti, hai sempre quel tono da caporale, vedo» reagì la voce familiare.
«Oh, Abby, mi dispiace» risi. «Mi avevano anche avvisato che eri tu,
sai? Ma come al solito sono sommersa da un milione di cose e credo di avere perso la capacità di essere cordiale al telefono. Come stai?»
«Bene. A parte il fatto che da quando mi sono trasferita a Washington, il
numero degli omicidi è triplicato.»
«Una coincidenza, spero.»
«Droga.» Mi parve agitata. «Cocaina, crack e il resto. Avevo sempre
pensato che gli scontri peggiori avvenissero a Miami, o forse a New York.
Nossignore, il peggio del peggio è qui, nella nostra splendida capitale.»
Sollevai gli occhi verso l'orologio e presi nota dell'ora della chiamata.
Un'altra abitudine. Mi era così automatico aggiornare la scheda delle telefonate che afferravo il foglio anche quando a chiamare era il mio parrucchiere.
«Speravo fossi libera per cena, stasera» proseguì.
«A Washington?» chiesi, perplessa.
«Veramente sono a Richmond.»
Le proposi di venire a mangiare da me, sistemai la borsa portadocumenti
e uscii diretta al supermercato. Dopo lunghi tentennamenti e infruttuosi giri con il carrello optai per due filetti e un'insalata. Era un bel pomeriggio e
il pensiero di rivedere Abby mi metteva di buonumore. Decisi che una serata con una vecchia amica sarebbe valsa qualche fatica intorno al barbecue, in giardino.
Giunta a casa, cominciai subito a preparare. Spremetti alcuni spicchi
d'aglio in una ciotola di vino rosso e olio d'oliva. Nonostante mia madre mi
avesse sempre messo in guardia circa il pericolo di «rovinare una buona
bistecca», ero troppo viziata dalla mia abilità culinaria. Onestamente, facevo la miglior marinata di tutta la città, e non c'era pezzo di carne in grado
di resistere. Sciacquai il cespo di lattuga e lo misi ad asciugare su dei fogli
di carta da cucina, quindi tagliai i funghi, le cipolle e l'ultimo pomodoro,
preparandomi mentalmente ad affrontare la griglia. Alla fine, incapace di
rimandare ancora quel compito ingrato, uscii sul patio in mattoni.
Per un attimo ebbi la sensazione di essere un'estranea nel mio stesso
giardino. Guardai le aiuole di fiori e gli alberi. Poi afferrai una bottiglia di
detersivo e una spugna e presi a strofinare vigorosamente il tavolo e le sedie, conservando la paglietta di ferro per la griglia del barbecue. Non l'avevo più usato dal sabato sera di maggio in cui Mark e io ci eravamo visti
l'ultima volta. Attaccai lo strato di ùnto fino a farmi dolere i gomiti per lo
sforzo, la mente invasa da una ridda di voci e immagini. Una discussione
finita quasi a botte. Poi la ritirata in un rabbioso silenzio, che avevamo rotto solo facendo l'amore quasi con disperazione.
Quando, poco prima delle sei e mezza, Abby si presentò alla porta, poco
mancò che non la riconoscessi. Ai tempi in cui lavorava con la polizia di
Richmond aveva i capelli lunghi fino alle spalle e striati di grigio, il che la
faceva apparire più slavata e spigolosa, più vecchia dei suoi quarant'anni.
Adesso il grigio era scomparso e portava un taglio corto che valorizzava
l'ossatura sottile del viso e gli occhi, di due diverse sfumature di verde, irregolarità che avevo sempre trovato affascinante. Indossava un abito di se-
ta blu e una giacca color avorio, sempre di seta, e aveva con sé una valigetta di pelle nera.
«Hai un'aria molto washingtoniana» le dissi, abbracciandola.
«Oh, Kay, è così bello rivederti.»
Ricordava la mia passione per lo Scotch e mi aveva portato una bottiglia
di Glenfiddich, che aprimmo subito. Quindi ci sedemmo a bere i nostri
drink sul patio, chiacchierando fitto mentre accendevo il barbecue nel crepuscolo di fine estate.
«Sì, in un certo senso Richmond mi manca» stava spiegando. «Washington è eccitante, ma non ci si vive. Mi sono concessa lo sfizio di comprarmi una Saab, okay? Be', me l'hanno già scassinata una volta, mi hanno rubato i coprimozzo e mi hanno sfondato le portiere. Così adesso pago centocinquanta dollari al mese per tenerla in un posteggio che sta a quattro isolati da casa, capisci? Di parcheggiare al "Post" non se ne parla neanche:
al lavoro ci vado a piedi e, quando mi serve, uso una macchina aziendale
No, Washington non è proprio come Richmond.» Poi, con un filo di risolutezza di troppo, aggiunse: «Ma non mi pento assolutamente di essermene
andata».
«Fai ancora i turni di notte?» Le bistecche sfrigolarono al contatto con la
griglia rovente.
«No, adesso tocca a qualcun altro. A razzolare in giro dopo il tramonto
sono i cronisti più giovani, io ne seguo poi gli sviluppi di giorno. Mi chiamano di sera solo se succede qualcosa di veramente grosso.»
«Ah, non ho mai smesso di seguirti» le dissi. «Giù in caffetteria hanno
sempre il "Post", di solito lo leggo nella pausa di pranzo.»
«Io invece non sempre so a cosa stai lavorando» confessò lei. «Ma certe
cose le intuisco lo stesso.»
«Il che» azzardai «spiega la tua visita a Richmond?» Stavo distribuendo
pennellate di marinata sulla carne.
«Sì. Il caso Harvey.»
Non risposi.
«Marino non è per niente cambiato.»
«Gli hai parlato?» chiesi, sollevando gli occhi e guardandola.
Per tutta risposta mi fece un sorriso ironico. «Ci ho provato. Così come
ho provato con altri investigatori. E, naturalmente, con Benton Wesley. In
altre parole, me lo posso scordare.»
«Be', se ti può consolare, cara la mia Abby, sappi che non dicono molto
neanche a me. E che questo rimanga fra noi.»
«Kay, io sono qui solo come amica, d'accordo?» disse in tono serio.
«Non sono venuta per scucirti qualche informazione su cui costruire un articolo.» Fece una pausa. «Mi rendo conto di quel che sta succedendo in
Virginia, ed ero già preoccupata prima che la redazione sentisse parlare
della scomparsa di Deborah Harvey e fidanzato. Solo che adesso la cosa si
fa ancora più scottante.»
«E non mi stupisce.»
«Non so bene da dove cominciare.» Ancora una volta mi parve agitata.
«Ci sono cose che non ho ancora raccontato a nessuno, Kay, ma ho la sensazione di camminare su un terreno minato.»
«Non sono certa di capire» dissi, sollevando il mio drink.
«Non sono certa di capire nemmeno io. Anzi, ogni tanto mi chiedo se
non mi sogno le cose.»
«Sei un po' troppo critica, Abby. Spiegati, per favore.»
Tirò fuori una sigaretta e fece un profondo respiro. «È parecchio che mi
interesso ai casi delle coppie assassinate. Ho fatto qualche indagine, e le
reazioni di fronte a cui mi sono trovata fin da principio mi lasciano come
minimo perplessa. Non so, non è la solita reticenza da parte della polizia,
vedi, è che appena accenno all'argomento la gente praticamente mi riappende il telefono in faccia. Poi in giugno, mi vedo arrivare in casa l'Fbi.»
«Cosa?» Smisi di ungere le bistecche e la guardai fissa negli occhi.
«Ricordi quel triplice omicidio a Williamsburg? Madre, padre e figlio
uccisi con un'arma da fuoco nel corso di una rapina?»
«Sì, ricordo.»
«Be', dovevo tirarci fuori un articolo importante, quindi stavo andando a
Williamsburg. Come sai, uscendo dalla I-64, se giri a destra vai in direzione di Colonial Williamsburg e Mary, ma se giri a sinistra nel giro di duecento metri circa finisci davanti all'entrata di Camp Peary, è una strada
senza altro sbocco. Be', per sbaglio io sono uscita di lì.»
«Sì, è capitato anche a me un paio di volte» ammisi.
«Allora continuo fino alla guardiola della sentinella e spiego che mi sono sbagliata. Ragazzi, che posticino sinistro. Con tutti quei cartelli con su
scritto "Attenzione, attività sperimentali di addestramento delle Forze armate", o "Oltrepassare questo confine significa aeconsentire alla perquisizione della vostra persona e dei vostri beni personali". Insomma, mi aspettavo quasi di veder saltar fuori un gruppo di SWAT camuffati da uomini di
Neanderthal, hai presente no, quelli delle Armi e Tattiche Speciali...»
«Gli agenti della base non sono particolarmente gentili, lo ammetto» ri-
sposi divertita.
«Per farla breve, non perdo tempo e torno sui miei passi» riprese Abby,
«e ad essere sincera me ne dimentico completamente fino a quattro giorni
dopo, quando due agenti Fbi si presentano al giornale cercando di me. Volevano sapere che cosa facevo a Williamsburg e per quale motivo stavo
andando a Camp Peary. Ovviamente una telecamera aveva ripreso il mio
numero di targa, e così mi avevano rintracciato fino al "Post". A me sembra una storia piuttosto strana.»
«Perché mai l'Fbi dovrebbe mostrare interesse alla cosa?» domandai.
«Camp Peary è della Cia.»
«Negli Stati Uniti la Cia non ha poteri di polizia, forse è questo il motivo. O forse quei due imbecilli erano veramente della Cia ma si sono spacciati per l'Fbi. Come fai a dire certe cose con sicurezza, quando hai a che
fare con dei fantasmi del genere? E poi, la Cia non ha mai ammesso ufficialmente che Camp Peary è la loro principale base d'addestramento, così
come gli agenti che mi hanno interrogato non hanno fatto parola della Cia.
Ma io so cosa volevano, e loro sapevano che io sapevo.»
«Che altro ti hanno chiesto?»
«Fondamentalmente volevano sapere se avevo in ballo qualche articolo
su Camp Peary, se stavo cercando di ficcare il naso là dentro. Io dissi che
se avessi voluto andarci a ficcare il naso, avrei cercato di prendere qualche
precauzione in più, non avrei puntato diritta sparata con la macchina verso
la guardiola; e sebbene non stessi lavorando a nessun articolo su - ti cito
letteralmente - "la Cia", forse data la loro visita avrei fatto bene a prendere
in considerazione la possibilità.»
«Immagino che tu li abbia sistemati, in questo modo» risposi in tono asciutto.
«Non hanno battuto ciglio, Kay. Lo sai come sono quelli, no?»
«Alla Cia sono paranoici, Abby, soprattutto per quanto riguarda Camp
Peary. Polizia di stato ed elicotteri del soccorso aereo non hanno nemmeno
il permesso di sorvolarne il territorio. Nessuno viola il loro spazio aereo,
né supera la guardiola senza l'okay di Gesù Cristo.»
«Eppure anche a te è capitato di sbagliare strada, no, così come sarà capitato a centinaia di turisti» mi ricordò. «Be', non mi pare che l'Fbi sia venuta a cercarti per questo, vero?»
«No, ma io non lavoro per il "Post".»
Tolsi le bistecche dalla griglia e Abby mi seguì in cucina. Ricominciò a
parlare mentre le servivo l'insalata e riempivo il bicchiere di vino.
«Da quando quei due agenti sono venuti a cercarmi, hanno iniziato a
succedere strane cose.»
«Tipo?»
«Ho la sensazione di avere i telefoni sotto controllo.»
«Sensazione basata su cosa?»
«Me ne sono accorta prima con quello di casa. Stavo parlando con qualcuno e sentivo come un rumore, poi la stessa cosa mi è successa al lavoro,
soprattutto negli ultimi tempi. Mi passano una chiamata e io ho la netta
sensazione che ci sia una terza persona in ascolto. È difficile da spiegare.»
Si risistemò nervosamente gli anelli d'argento. «Una specie di silenzio carico di elettricità, un silenzio rumoroso, o come accidenti si può descrivere.
Comunque è lì.»
«Altri fatti strani?»
«Be', alcune settimane fa ero davanti a un People's Drug Store non lontano dal Connecticut, vicino a Dupont Circle. Dovevo incontrarmi lì con
un informatore alle otto di sera, quindi avremmo cercato insieme un posto
tranquillo dove andare a mangiare e chiacchierare. A un certo punto noto
un tizio, un tipo regolare, jeans e giaccavento, di bell'aspetto. Nel quarto
d'ora che me ne sto lì impalata sull'angolo ad aspettare mi passa vicino due
volte, poi lo rivedo ancora di sfuggita mentre sto andando al ristorante con
il mio informatore. Lo so che ti sembrerò pazza, ma ho avuto la chiara impressione di essere pedinata.»
«Lo avevi mai visto prima?»
Scosse la testa.
«E da allora lo hai più rivisto?»
«No. Però c'è dell'altro. La posta. Io vivo in un condominio e tutte le
cassette sono giù nell'atrio. A volte mi arrivano buste con timbrature che
non c'entrano niente.»
«Se la Cia stesse manomettendo la tua posta, ti garantisco che non te ne
accorgeresti mai.»
«No, non sto dicendo che le mie lettere hanno l'aria di essere state frugate o manomesse, ma certe volte qualcuno, tipo mia madre, o il mio agente letterario, giura di avermi spedito una cosa in un dato giorno e quando
finalmente mi arriva, la data sul francobollo non corrisponde affatto. Successiva, anche di giorni, di una settimana intera. Non so.» Fece una pausa.
«Forse in un'altra situazione mi verrebbe spontaneo pensare che dipende
dall'inefficienza delle poste, ma questo più tutto il resto non fa che confermare i miei dubbi.»
«E non ti viene in mente nessuna buona ragione per cui qualcuno potrebbe voler controllare il tuo telefono, starti alle calcagna e giocare con la
tua posta?»
«Se sapessi perché, forse potrei fare qualcosa.» Finalmente si decise a
mangiare. «Hum, deliziosa.» Ma, nonostante il complimento, sembrava
non avere per niente fame.
«Non può essere» buttai lì «che il faccia a faccia con questi agenti dell'Fbi e l'episodio di Camp Peary ti abbiano mandato un po' in paranoia?»
«Certo che mi hanno mandato in paranoia. Ma senti, Kay, non sto mica
scrivendo un altro Veil o lavorando a un Watergate. A Washington si sparano ogni due minuti, ed è sempre la stessa storia. Se qualcosa di grosso
bolle in pentola, è proprio quello che sta succedendo qui, con gli omicidi, o
i presunti omicidi, delle coppie. Non faccio in tempo a dare un'occhiatina
in giro che subito cominciano i problemi. Cosa ne pensi?»
«Non so.» Mio malgrado, mi tornavano in mente solo l'atteggiamento
evasivo di Benton Wesley e i suoi avvertimenti della sera prima.
«Sono al corrente del particolare delle scarpe» riprese.
Non risposi, né mostrai la mia sorpresa: per il momento la stampa era
stata tenuta all'oscuro di quel dettaglio.
«Non mi pare esattamente normale che otto persone finiscano morte nei
boschi senza che sulla scena del delitto o nelle vetture abbandonate saltino
fuori le calze o le scarpe.» Mi rivolse uno sguardo carico di aspettativa.
«Abby» dissi tranquillamente, tornando a riempire i nostri bicchieri di
vino, «tu sai che non posso scendere nei particolari di questi casi. Nemmeno con te.»
«Nel senso che non ti viene in mente nulla che possa aiutarmi a capire
contro chi sto lottando?»
«Per dirti la verità, probabilmente ne so meno di te.»
«Il che mi pare significativo. Da ben due anni questi casi vanno avanti, e
tu mi dici che forse ne sai meno di me.»
Ripensai a Marino quando accennava a qualcuno che "stava cercando di
pararsi il culo". Ripensai a Pat Harvey e alla sua testimonianza di fronte a
una commissione del Congresso. La paura tornò ad affiorare.
«Pat Harvey è una stella di prima grandezza, a Washington» osservò
Abby in quel momento.
«Sì, so che è importante.»
«Però ci sono molte cose che la riguardano di cui i giornali non parlano
affatto, Kay. A Washington le persone che frequenti si traducono in voti
alle elezioni, se non in qualcosa di più. E quando viene il turno delle personalità di spicco, Pat Harvey è in cima alla lista degli invitati insieme alla
First Lady. Si mormora addirittura che, alle prossime elezioni, potrebbe
portare felicemente a termine ciò che Geraldine Ferrara ha solo cominciato.»
«Dunque spera nella vicepresidenza?» chiesi in tono dubbioso.
«Così dicono. Personalmente non ci credo, ma se il prossimo presidente
sarà un altro repubblicano, c'è la possibilità che venga eletta capo di qualche gabinetto o addirittura che diventi procuratore generale. Ammesso che
le reggano i nervi.»
«Adesso dovrà mettercela proprio tutta, con quello che sta passando.»
«Eh, sì, i problemi personali possono veramente rovinarti la carriera.»
«Certo, se lasci che te la rovinino. Ma se riesci a sopravvivere, ti rendono ancora più forte e decisa.»
«Lo so» sussurrò lei, fissando il bicchiere di vino. «Sono quasi certa che
non me ne sarei mai andata da Richmond se a Henna non fosse successo
quel che è successo.»
Non molto tempo dopo la mia entrata in servizio a Richmond, Henna,
sorella di Abby, era stata uccisa. Una tragedia che ci aveva fatto incontrare
professionalmente. Poi eravamo diventate amiche. Alcuni mesi più tardi
lei aveva accettato l'offerta del "Post".
«Per me è ancora difficile tornare qui, sai? Questa è la prima volta da
quando mi sono trasferita. Stamattina sono addirittura passata davanti alla
mia vecchia casa e sono stata quasi tentata di scendere e bussare alla porta... magari i nuovi inquilini mi avrebbero lasciato entrare. Non so perché,
ma avevo voglia di riattraversarla, di salire di sopra fino alla camera di
Henna, di sostituire l'ultima, atroce immagine che conservo di lei con
qualcosa di innocuo. Ma sembrava non esserci nessuno, e poi comunque
non importa, non credo che ce l'avrei fatta a entrare davvero.»
«Il giorno in cui sarai veramente pronta, vedrai che ce la farai» dissi, e
avrei voluto raccontarle della mia decisione di usare il patio, quella sera, di
come fino a quel momento non ci fossi mai riuscita. Ma mi sembrava un
successo talmente piccolo in confronto, e poi Abby non era al corrente della mia storia con Mark.
«Stamattina, sul tardi, ho parlato con il padre di Fred Cheney» riprese «e
dopo di lui sono andata dagli Harvey.»
«Quando uscirà il tuo articolo?»
«Probabilmente non prima del weekend. Devo ancora raccogliere un
mucchio di informazioni. Il giornale vuole un profilo di Fred e Deborah e
qualunque notizia riesca a ottenere sull'andamento delle indagini - in particolare su eventuali collegamenti con le altre quattro coppie.»
«Senti, come ti sono sembrati gli Harvey, oggi?»
«Be', in realtà con lui non sono riuscita a parlare - con Bob, voglio dire.
Appena sono arrivata, è uscito con i due figli. Non ama molto i giornalisti,
e ho la sensazione che essere "il marito di Pat Harvey" non gli vada troppo
a genio. Non rilascia mai interviste.» Spinse di lato il mezzo filetto avanzato e prese il pacchetto di sigarette. Fumava molto più di quanto ricordassi.
«Sono preoccupata per Pat. Nell'ultima settimana sembra essere improvvisamente invecchiata di dieci anni. E poi, non so, aveva qualcosa di strano.
Non so perché, ma per tutto il tempo ho avuto la sensazione che sapesse
qualcosa, che avesse già una teoria su quanto è accaduto alla figlia. Sì,
credo sia stata la cosa che mi ha più incuriosito. Mi chiedo se non abbia ricevuto qualche minaccia, una lettera, una comunicazione di qualche genere
da parte di chiunque sia coinvolto nella faccenda. E il fatto è che si rifiuta
di parlarne con tutti, anche con la polizia.»
«Non posso credere che sia tanto sprovveduta.»
«Io sì» ribatté Abby. «Io credo che se solo pensa esista una possibilità
che Deborah torni a casa sana e salva, Pat Harvey sia pronta a non farne
parola nemmeno con Dio.»
Mi alzai per sparecchiare.
«Ti spiace mettere su un caffè? Non vorrei addormentarmi al volante.»
«A che ora devi andare?» le chiesi, finendo di caricare la lavastoviglie.
«Oh, presto. Devo ancora fare un salto in un paio di posti, prima di rientrare a Washington.»
Mentre riempivo d'acqua il bollitore, le lanciai un'occhiata interrogativa.
«Un Seven-Eleven» spiegò «in cui Deborah e Fred hanno fatto sosta dopo essere partiti da Richmond.»
«Come fai a saperlo?» la interruppi.
«Sono riuscita a farmelo dire dall'uomo del carro attrezzi, mentre aspettava di agganciare la jeep. Aveva sentito dei poliziotti parlare di una ricevuta trovata in un sacchetto di carta appallottolato. Mi ci è voluta un bel
po' di fatica, ma alla fine sono riuscita a ricostruire di quale Seven-Eleven
si trattasse e chi era la ragazza di turno all'ora in cui Deborah e Fred dovevano essersi fermati. Una certa Ellen Jordan ci lavora dalle quattro a mezzanotte dal lunedì al venerdì.»
Provavo un tale affetto per Abby che ogni volta dimenticavo quanti ri-
conoscimenti avesse meritatamente vinto come giornalista di cronaca nera.
«Cosa ti aspetti di scoprire da questa ragazza?»
«È come cercare il regalo in un sacchetto di popcorn, Kay: finché non
comincio a scavare, non solo non conosco le risposte, ma non so nemmeno
le domande che farò.»
«Non credo sia il caso che tu te ne vada in giro da sola la sera tardi, da
queste parti.»
«Se tu ami il rischio» rispose lei, divertita, «io amo la tua compagnia.»
«Non la trovo una buona idea.»
«Immagino tu abbia ragione.»
Ma alla fine decisi di andare lo stesso.
4
L'insegna luminosa era visibile a mezzo chilometro dall'uscita, un "Seven-Eleven" che brillava nell'oscurità. Il messaggio verde e rosso aveva finito col perdere il suo significato originario, poiché ormai tutti SevenEleven che conoscevo erano aperti ventiquattr'ore su ventiquattro, e non
solo dalle sette del mattino alle undici di sera. Sapevo cos'avrebbe detto
mio padre: «E tuo nonno avrebbe lasciato Verona per questa roba qua?».
Era il suo commento preferito ogni volta che, scuotendo la testa in segno
di disapprovazione, apriva il giornale del mattino. Ed era ciò che diceva
quando qualcuno con accento della Georgia ci trattava come se non fossimo "americani veri". Era anche la stessa cosa che borbottava nel sentir parlare di azioni disoneste, di droga e di divorzio. Quando ero bambina, a
Miami, possedeva una piccola drogheria di quartiere e ogni sera sedeva a
tavola e raccontava come gli era andata la giornata, per poi chiederci com'era stata la nostra. Purtroppo fu una presenza breve nella mia vita: morì
quando avevo dodici anni. Tuttavia ero certa che, se fosse stato ancora fra
noi, negozi come i Seven-Eleven non gli sarebbero piaciuti. Per lui le notti,
le domeniche e le vacanze non erano fatte per lavorare dietro a un bancone
o mangiare un burrito lungo la strada: quelle ore, per mio padre, erano dedicate alla famiglia.
Mentre imboccavamo l'uscita, Abby lanciò un'altra occhiata nello specchietto, e dopo a un centinaio di metri eravamo nel parcheggio. Il suo sollievo mi parve evidente: eccezion fatta per una Volkswagen nei pressi delle porte a vetri dell'entrata, eravamo gli unici clienti.
«La via è libera, per il momento» osservò spegnendo il motore. «Negli
ultimi trenta chilometri non abbiamo superato una sola pattuglia, neanche
di agenti in borghese.»
«Non che tu sappia, almeno» tenni a precisare.
Il cielo notturno appariva velato, non c'era una stella, l'aria era umida e
calda. Mentre penetravamo nel fresco artificiale di una delle istituzioni più
popolari d'America, incrociammo un ragazzo che usciva reggendo un pacco da dodici lattine di birra. In un angolo del negozio lampeggiavano le luci brillanti dei videogame e dietro il bancone una giovane donna riempiva
lo scaffale delle sigarette. Non dimostrava più di diciotto anni, aveva capelli biondi schiariti che formavano un'aureola ricciuta intorno alla testa, il
corpo sottile fasciato da un giacchino a scacchi bianchi e arancioni e da un
paio di jeans neri attillati. Aveva unghie lunghe e laccate con smalto rosso
vivo, e quando si girò per chiederci cosa desideravamo rimasi colpita dalla
durezza del suo volto. Era come se dal triciclo fosse saltata direttamente in
sella a una Harley-Davidson.
«Ellen Jordan?» chiese Abby.
La ragazza sembrò dapprima stupita, quindi assunse un'espressione aggressiva. «Sì? E chi vorrebbe saperlo?»
«Abby Turnbull.» Le tese la mano in modo molto professionale. Ellen
Jordan gliela strinse senza troppa convinzione. «Di Washington» aggiunse
poi. «Sono del "Post".»
«Che "Post"?»
«Il "Washington Post.»
«Ah.» Improvvisamente parve annoiata. «Ce l'abbiamo già. Là dietro.»
Indicò quel che restava di una pila di giornali accanto alla porta.
Vi fu una pausa imbarazzata.
«Ehm, sono una giornalista del "Post"» spiegò Abby.
Gli occhi della ragazza si illuminarono. «Sul serio?»
«Certo. Vorrei farle qualche domanda.»
«Per un articolo?»
«Sì, sto preparando un articolo, Ellen, e mi servirebbe davvero il suo
aiuto.»
«Cosa vuole sapere?» La ragazza si appoggiò al bancone, con un'espressione seria che rifletteva un improvviso senso d'importanza.
«Si tratta della coppia che è stata qui venerdì sera, la settimana scorsa.
Un ragazzo e una ragazza, più o meno della sua età. Dovrebbero essere arrivati poco dopo le nove, hanno comprato una confezione da sei Pepsi e
qualcos'altro.»
«Ah, i due che sono scomparsi» commentò Ellen, animandosi. «Già, non
avrei mai dovuto dirgli di andare in quell'area di servizio. Il fatto è che una
delle prime cose che ci insegnano qui dentro è che i clienti non possono
usare le nostre toilette. Personalmente a me non importa, anzi, e quella
volta mi è proprio dispiaciuto per lei... voglio dire, era comprensibile che
avesse bisogno, no?»
«Certo, comprensibilissimo» solidarizzò Abby.
«È stato imbarazzante» continuò Ellen. «Si presenta con la scatola di
Tampax e mi chiede se può usare la toilette, per piacere, con il suo ragazzo
fermo lì in piedi. Accidenti, come vorrei averle detto di sì, adesso.»
«Come faceva a sapere che era il suo ragazzo?» chiese Abby.
Per un attimo Ellen parve confusa. «Be', ho pensato che lo fosse. Sono
entrati insieme, sembravano molto affiatati. Se uno fa attenzione capisce
come si comporta la gente, e con tutte le ore che mi tocca passare qui da
sola le garantisco che sono diventata brava. Prenda le coppie sposate: ne
vengono di continuo, sono in viaggio, si fermano e lasciano fuori la macchina carica di bambini. Be', la maggioranza si vede che è stufa, che non
va più d'accordo. Invece quei due no, loro erano veramente carini l'uno con
l'altro, dolci, affettuosi.»
«E non le hanno detto nient'altro, a parte che cercavano un'area di sosta
con dei servizi?»
«Ma, sa, abbiamo parlato solo mentre gli battevo il conto» rispose Ellen.
«Niente di speciale. Le solite cose. "Bella serata per viaggiare", "Dove siete diretti?"...»
«E gliel'hanno detto?» chiese Abby, prendendo appunti.
«Eh?»
Abby sollevò lo sguardo dal blocco. «Le hanno detto dov'erano diretti?»
«Sì, hanno risposto che stavano andando al mare. Me lo ricordo perché
so di avergli detto che erano fortunati. Ho come la sensazione che quando
gli altri si vanno a divertire, io sono sempre incastrata in questo posto. E
poi, io e il mio ragazzo abbiamo appena rotto, così avevo un po' di malinconia.»
«Capisco» disse Abby in tono comprensivo. «Ma mi racconti meglio
come si comportavano, Ellen. Ha notato nulla di particolare, qualcosa che
l'abbia colpita?»
Ci pensò su un attimo. «Be', erano molto carini, come le ho detto, però
sembravano così di fretta. Immagino fosse perché lei aveva assolutamente
bisogno del bagno. Soprattutto ricordo che erano molto gentili ed educati.
Vede, succede spesso che la gente entri e chieda se può usare la toilette, e
quando rispondo di no dà in escandescenze.»
«Dunque li ha invitati a raggiungere l'area di sosta. Ricorda esattamente
con che parole gliel'ha detto?»
«Certo. Gli ho detto che ce n'era una non molto lontana da qui. Dovevano solo riprendere la I-64 in direzione est» - indicò con un dito - «e ci sarebbero arrivati in cinque, dieci minuti al massimo. Era impossibile non
vederla.»
«C'erano altre persone mentre lei spiegava tutto questo?»
«Be', sa, era un viavai continuo, c'era un sacco di gente in viaggio quella
sera.» Si fermò a pensare un istante. «Di sicuro c'era un ragazzetto, là in
fondo, che giocava a Pac Man. Ma quelle sono sempre le stesse facce.»
«Nessun altro che si trovasse nei pressi del bancone contemporaneamente alla coppia?» insisté Abby.
«C'era un tizio, uno che era entrato subito dopo di loro. Ha dato un'occhiata alle riviste e alla fine ha preso un caffè.»
«Questo, intanto che lei parlava con i due ragazzi?» Abby era un'implacabile cacciatrice di dettagli.
«Sì. Sì, ne sono sicura perché era un tipo gioviale che si è anche complimentato con il ragazzo per la scelta della jeep. Avevano una jeep rossa,
sa, uno di quei modelli che vanno di moda. Era parcheggiata proprio di
fronte alla porta.»
«E poi cos'è successo?»
Ellen sedette sullo sgabello davanti al registratore di cassa. «Mah, direi
che più o meno è tutto. Dopo sono arrivati altri clienti, il tizio del caffè se
n'è andato e dopo circa cinque minuti sono usciti anche i due ragazzi.»
«Ma l'uomo che aveva preso il caffè... era vicino al banco mentre lei
spiegava loro come raggiungere l'area di sosta?» Abby voleva sapere a tutti i costi.
Ellen si accigliò. «Oh, non è semplice da ricordare. Comunque credo che
in quel momento stesse ancora guardando le riviste. Poi se non sbaglio la
ragazza ha fatto un giro fra gli scaffali per cercare quello che le serviva ed
è tornata indietro proprio mentre lui pagava il caffè.»
«Ha detto che la coppia se n'è andata circa cinque minuti dopo questo
signore» insisté Abby. «E per tutto quel tempo cos'hanno fatto?»
«Be', un paio di minuti ci sono voluti tutti. La ragazza aveva un pacco da
sei di Coors, così ho dovuto chiederle un documento e siccome aveva meno di ventun anni non ho potuto venderle la birra. Però ha reagito bene, ri-
deva, non se l'è mica presa. Insomma, ci abbiamo ridacchiato su tutti e tre.
Anche io una volta provavo a farla franca. Comunque sia, alla fine ha
comprato sei lattine di altro, poi se ne sono andati.»
«Mi saprebbe descrivere l'uomo che ha bevuto il caffè?»
«Hmm, non benissimo.»
«Bianco o nero?»
«Bianco. Con i capelli scuri, mi pare, forse castani. Intorno ai trenta, anno più anno meno.»
«Alto, basso, grasso, magro?»
Ellen fissava il fondo del negozio. «Normale, altezza media, direi. Credo
abbastanza robusto, ma non proprio grosso.»
«Barba e baffi?»
«Non mi pare... Aspetti un momento.» Il volto le si illuminò. «Aveva i
capelli corti! Sì, me lo ricordo perché ho pensato che aveva un'aria un po'
militare. Sa, da queste parti è pieno di militari che vanno e vengono da Tidewater.»
«Nessun altro particolare che rafforzasse tale impressione?» chiese
Abby.
«Non so. Forse era semplicemente il suo modo di fare. Spiegarlo è difficile, ma quando cominci a farci l'occhio poi li riconosci subito, i militari. I
tatuaggi, per esempio: tantissimi di loro sono tatuati.»
«E questo tizio aveva un tatuaggio?»
Un velo di delusione le oscurò il viso. «Veramente non ho notato.»
«Dell'abbigliamento? Mi sa dire qualcosa circa il modo in cui era vestito?»
«Hmm...»
«Giacca e cravatta?»
«No, be', giacca e cravatta no, non era particolarmente elegante. Magari
aveva un paio di jeans, o dei pantaloni scuri. Forse un giubbotto con la
cerniera... Cristo, non lo so, non ne sono sicura.»
«Ricorda per caso che macchina aveva?»
«No» rispose in tono sicura. «No, la macchina non l'ho vista. Probabilmente non aveva parcheggiato qui davanti ma di fianco.»
«Ellen, lei ha già riferito tutti questi particolari alla polizia, quando sono
venuti a interrogarla?»
«Sì.» Stava lanciando occhiate al parcheggio di fronte. Si era appena
fermato un furgone. «Più o meno gli ho raccontato le stesse cose che ho
detto a voi. A parte qualcosa che sul momento non ricordavo.»
Dopo aver guardato due adolescenti entrare e andare direttamente ai videogame, Ellen tornò a concentrarsi su di noi. Era abbastanza evidente che
non le restava molto da dire, anzi, cominciava a dubitare di essersi lasciata
sfuggire qualche parola di troppo. Evidentemente, anche Abby captò lo
stesso messaggio. «Grazie mille, Ellen» disse, allontanandosi dal bancone.
«L'articolo uscirà sabato o domenica. Tenga d'occhio il giornale, mi raccomando.»
In un attimo eravamo fuori.
«Appena in tempo, ragazzi. Mezzo minuto ancora e si sarebbe messa a
strillare che erano solo dichiarazioni confidenziali.»
«Ma va' là, secondo me non sa neanche cosa vuol dire» la rassicurai.
«Quel che mi stupisce» disse Abby, «è che la polizia non le abbia ordinato di tenere la bocca chiusa.»
«Forse lo ha anche fatto, ma la voglia di vedere il suo nome pubblicato è
stata più forte.»
Quando arrivammo, l'area di sosta sulla I-64 dove la commessa aveva
dirottato Deborah e Fred era completamente deserta.
Abby parcheggiò sul davanti, vicino a una fila di distributori di giornali,
e per qualche minuto restammo sedute in silenzio. I fari della macchina illuminavano un piccolo albero di alloro, coprendolo di sfumature argentee,
e nella spessa foschia i lampioni non erano che un'indistinta massa lattiginosa. Non riuscivo proprio a immaginare come una ragazza sola potesse
trovare il coraggio di scendere e andare fino alle toilette.
«Che posto sinistro» mormorò Abby. «Chissà se di martedì sera è sempre così vuoto, o se sono state le ultime notizie a spaventare la gente.»
«Forse entrambe le cose» risposi. «Ma di sicuro venerdì scorso non era
così deserto quando Deborah e Fred si sono fermati.»
«Magari hanno parcheggiato proprio dove siamo noi» fantasticò. «Ed
era pieno di gente che sfollava per il weekend del Labor Day. Certo che se
l'hanno incontrato qui, doveva avere un bel pelo sullo stomaco, quel figlio
di puttana.»
«Se era pieno di gente» commentai, «era anche pieno di macchine.»
«Nel senso?» fece lei, accendendosi una sigaretta.
«Mettiamo che l'infelice incontro sia avvenuto qui, e mettiamo che per
qualche misteriosa ragione Deborah e Fred abbiano fatto salire il tizio sulla
jeep. E la sua, di macchina? Che fine ha fatto? O era arrivato a piedi?»
«Hmm, improbabile.»
«Dunque» proseguii «l'alternativa era posteggiare a sua volta da qualche
parte qui intorno, il che poteva oggettivamente funzionare solo in condizioni di traffico piuttosto intenso.»
«Sì, ho capito dove vuoi arrivare: se la sua macchina era l'unica in tutto
il parcheggio e doveva restarci per diverse ore anche la notte, c'era il rischio che un agente di pattuglia la notasse e si mettesse a controllare.»
«Non è un rischio indifferente, se stai meditando di commettere un omicidio» aggiunsi.
Rimase un momento pensierosa. «Sai, la cosa che mi tormenta di più è
che l'intero scenario appare casuale, e invece non lo è affatto. La sosta di
Deborah e Fred nell'aria di servizio è stata un caso; se hanno fatto un brutto incontro qui - o magari al Seven-Eleven, come il tizio del caffè - anche
questo è un caso. Eppure c'è della premeditazione. Esiste un piano. Se
qualcuno li ha rapiti, di certo aveva le idee chiare su come procedere.»
Non risposi.
Stavo pensando alle ipotesi di Wesley. Un legame politico. O un assalitore che aveva già fallito in molti altri tentativi. A meno che i due ragazzi
non avessero deciso spontaneamente di darsi alla macchia, riuscivo a immaginare solo esiti tragici.
Abby rimise in moto la macchina.
Restammo zitte finché non fummo di nuovo sull'interstatale. Allora inserì il controllo automatico della velocità e riprese: «Pensi che siano morti,
vero?»
«Una citazione in più per il tuo articolo?»
«No, Kay, nessuna citazione. Vuoi sapere la verità? Be', in questo momento del servizio non me ne frega proprio niente. Vorrei solo scoprire cosa accidenti sta succedendo.»
«Perché sei preoccupata per te.»
«Certo. Tu non lo saresti, al posto mio?»
«Sì. Se pensassi che ho il telefono controllato e che qualcuno mi segue,
lo sarei anch'io, Abby. E visto che siamo in tema, ormai è tardi e tu sei
stanca. Mi sembra ridicolo che te ne torni indietro in macchina a quest'ora.»
Mi lanciò un'occhiata.
«A casa mia c'è un sacco di posto. Puoi ripartire domani mattina appena
credi.»
«Solo se hai uno spazzolino da denti da prestarmi, qualcosa che posso
mettermi addosso per dormire e se non ti scoccia che dia fondo alle riserve
del tuo bar.»
Abbandonandomi contro lo schienale, chiusi gli occhi e mormorai: «Se
vuoi, puoi anche ubriacarti. Anzi, quasi quasi mi associo».
Quando varcammo la soglia di casa, a mezzanotte, il telefono stava
squillando, ma riuscii a rispondere prima che scattasse la segreteria.
«Kay?»
Sulle prime non capii chi fosse: tutto mi aspettavo, fuorché di udire
quella voce. Poi il cuore prese a battermi all'impazzata.
«Ciao Mark» risposi.
«Scusa se ti disturbo a quest'ora.»
Non riuscii a dominare la tensione e lo interruppi subito: «Oh, non temere, sono in ottima compagnia. Devo averti certo parlato della mia amica
Abby Turnbull del "Post", non è così? È venuta a trovarmi e si tratterrà per
la notte. Abbiamo passato una splendida serata a raccontarci le ultime novità, sai com'è».
Mark non rispose. Dopo una pausa, disse: «Forse preferisci richiamarmi
in un altro momento».
Quando riappesi, Abby mi stava fissando incredula. Il mio stato di agitazione era più che evidente.
«Chi diavolo era, Kay?»
Nei primi mesi a Georgetown ero rimasta così travolta dagli impegni
della scuola di specializzazione e dal senso di sradicamento che mi ero tenuta completamente in disparte dagli altri. Avevo già una laurea e provenivo da una famiglia piccolo borghese italiana di Miami che non mi aveva
certo iniziato alle grandi raffinatezze della vita. All'improvviso mi ero ritrovata in mezzo ai ricchi e, sebbene non mi sia mai vergognata delle mie
origini, non mi sentivo troppo all'altezza della situazione.
Mark James era uno dei privilegiati: alto, aggraziato, sicuro e padrone di
sé. Lo notai molto prima di sapere come si chiamava. La prima volta ci incontrammo nella biblioteca di legge, fra scaffali fiocamente illuminati, e
non dimenticherò mai i suoi occhi verdi che mi guardavano mentre discutevamo di non so più quale argomento. Alla fine ci ritrovammo in un bar a
bere un caffè, e restammo a parlare fino a tarda notte. Da allora cominciammo a vederci quasi tutti i giorni.
Per un anno non chiudemmo quasi occhio perché, anche quando dormivamo nello stesso letto, passavamo tanto di quel tempo a fare l'amore che
non ci restava molto per riposare. Per quanto stessimo insieme, non eravamo mai sazi e, stupida come sempre, allora credevo che la nostra storia
non sarebbe mai finita. Così il secondo anno rifiutai di prendere atto della
delusione che cominciava a incrinare il nostro rapporto, e quando mi laureai portando al dito l'anello di fidanzamento di un altro, credevo ormai di
essermi lasciata Mark per sempre alle spalle. Ma dopo molti anni, era misteriosamente ricomparso.
«Forse in quel momento Tony è stato la tua salvezza» considerò Abby a
proposito del mio ex marito. Eravamo sedute nella mia cucina di fronte a
una bottiglia di cognac.
«Tony era un uomo pratico» dissi. «O almeno così mi parve all'inizio.»
«So cosa vuoi dire. Anch'io ci sono cascata, nel corso della mia patetica
vita sentimentale.» Sollevò il bicchiere di liquore. «Tutte le volte che mi
capita una storia appassionata, e Dio sa se sono state poche e brevi, alla fine me ne torno a casa zoppicante come un soldato e mi ritrovo fra le braccia di un uomo che ha più o meno il carisma di una lumaca, ma che promette di prendersi cura di me.»
«È la solita favola.»
«L'hai detto» borbottò amareggiata. «In realtà ciò che vogliono è che tu
sia lì a preparargli da mangiare e a lavargli i calzini.»
«Hai appena fatto il ritratto di Tony» dissi.
«Che ne è stato di lui?»
«Sono anni che non lo sento.»
«Be', bisognerebbe almeno restare amici...»
«Lui non ne aveva nessuna voglia» spiegai.
«Pensi ancora a lui?»
«Non puoi passare sei anni della tua vita insieme a una persona e bandirla completamente dai tuoi pensieri. Il che però non significa che vorrei
starci ancora insieme. Comunque, una parte di me continua a preoccuparsi
per lui e ad augurarsi che tutto gli vada per il meglio.»
«Ma quando vi siete sposati eri innamorata?»
«Pensavo di esserlo.»
«Sarà, ma io ho come la sensazione che tu non abbia mai smesso di amare Mark» sentenziò Abby.
Tornai a riempire i bicchieri. La mattina dopo avremmo dovuto fare i
conti con i postumi di una discreta sbornia.
«Mi sembra incredibile che dopo tanti anni vi siate ritrovati» proseguì.
«E, a dispetto di tutto quel che è successo, credo che anche Mark non abbia mai smesso di amarti.»
Era come se ognuno di noi avesse trascorso quegli anni di separazione in
un paese straniero, e nel riunirci avessimo scoperto di parlare lingue diverse e indecifrabili. Comunicavamo apertamente solo nell'oscurità. Mi aveva
detto di essersi sposato e che sua moglie era morta in un incidente stradale.
In seguito ero venuta a sapere che aveva abbandonato l'attività di avvocato
per entrare nell'Fbi. Tornare insieme era stato fantastico, per me, il periodo
migliore da quando ci eravamo conosciuti al primo anno di scuola a Georgetown. Ma, naturalmente, l'euforia non era durata a lungo: la storia ha il
maledetto vizio di ripetersi.
«Be', non credo sia stata colpa sua se l'hanno trasferito a Denver» disse
Abby.
«Semplicemente ha fatto una scelta, così come io ho fatto la mia.»
«Ma non volevi andare con lui?»
«Io sono la ragione stessa per cui alla fine chiese quell'incarico, Abby.
Voleva che ci separassimo.»
«E allora si fa trasferire all'altro capo del mondo? Mi sembra un tantino
esagerato.»
«Il fatto è che, quando si arrabbia, la gente tende a esagerare, Abby. E
rischia di commettere gravi errori.»
«Solo che forse lui è troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato.»
«Oh, sì, Mark è orgoglioso, e anch'io lo sono. Nessuno di noi è bravo a
fare compromessi. Io ho la mia carriera e lui ha la sua. Lui stava a Quantico e io qui - ognuno con la sua vita, e così come io non avevo nessuna intenzione di andarmene da Richmond, lui non aveva nessuna intenzione di
trasferircisi. Poi cominciò a contemplare l'idea di rimettersi in pista, di farsi assegnare un'altra zona o di accettare un incarico d'ufficio al quartier generale nel distretto di Columbia. Il tira e molla durò un bel pezzo, alla fine
sembrava che passassimo il tempo solo a litigare.» Feci una pausa, cercando di trovare le parole per spiegare qualcosa che non sarei mai riuscita a
mettere nero su bianco. «Forse anch'io sono troppo rigida nelle mie abitudini.»
«Ma non si può stare con una persona e pretendere di continuare a vivere
come si è sempre fatto, Kay.» Quante volte io e Mark ci eravamo ripetuti
quella frase? Il punto era che non riuscivamo a dirci niente di nuovo. «La
salvaguardia della tua autonomia vale il prezzo che stai pagando? Il prezzo
che entrambi state pagando adesso?»
C'erano giorni in cui non ne ero nemmeno più tanto sicura, ma non lo
dissi.
Abby si accese una sigaretta e prese la bottiglia di cognac.
«Avete mai pensato di rivolgervi a un consulente di qualche tipo?»
«No.»
In realtà non era del tutto vero. Insieme, Mark e io non ci eravamo mai
rivolti a consulenti di alcun genere, ma per mio conto mi ero trovata e continuavo a vedere un'analista, anche se ormai sempre più di rado.
«E conosce anche Benton Wesley?» chiese Abby.
«Ci puoi scommettere. Benton era già suo istnittore all'Accademia molto
prima che io arrivassi in Virginia» risposi. «Sono grandi amici.»
«A cosa sta lavorando, Mark, a Denver?»
«Non ne ho idea. Una qualche missione speciale.»
«È al corrente dei casi? Delle coppie, voglio dire?»
«Immagino di sì.» Feci una pausa. «Perché me lo chiedi?»
«Non so, ma fa' attenzione a quel che gli dici.»
«Senti, Abby, stasera l'ho sentito per la prima volta dopo mesi. È chiaro
che con lui non apro la bocca più di tanto.»
Abby si alzò e io la accompagnai nella sua camera.
Mentre tiravo fuori una camicia da notte e le mostravo il bagno, riprese a
parlare, gli effetti del cognac sempre più evidenti. «Vedrai che ti richiama.
O che lo richiami tu. Quindi vacci cauta.»
«Non sto affatto pensando di telefonargli, Abby» replicai.
«Allora siete stupidi tutti e due» disse. «Due maledetti cocciuti incapaci
di perdonare, ecco cosa siete. Che ti piaccia o no, così la penso io.»
«Devo essere in ufficio entro le otto» annunciai a quel punto. «Ti sveglio per le sette, okay?»
Mi abbracciò e mi diede il bacio della buonanotte.
Il weekend successivo mi alzai presto e uscii a comprare il "Post", ma
non trovai l'articolo di Abby. Né lo vidi la settimana dopo e neppure quella
successiva, ciò che mi parve piuttosto strano. Le era forse accaduto qualcosa? Perché dal giorno della sua visita a Richmond non avevo più ricevuto sue notizie?
Verso la fine di ottobre, chiamai la redazione del "Post".
«Spiacente» rispose una voce maschile dal tono un po' affannato. «Abby
è in aspettativa. Tornerà l'anno prossimo, in agosto.»
«Ma si trova ancora in città?» chiesi, stupefatta.
«Non ne ho idea.»
Dopo aver riattaccato, sfogliai l'agenda degli indirizzi e provai a telefonarle a casa. Mi rispose la segreteria telefonica. Abby non mi richiamò né
allora, né durante le settimane successive in cui continuai a cercarla. Solo
poco dopo Natale mi resi conto di cosa stava accadendo. Il sei gennaio, un
lunedì, rientrando a casa trovai una lettera nella casella della posta. Mancava il mittente, ma la calligrafia era inconfondibile. All'interno della busta
c'era un foglio di carta legale con sopra scritto «Per conoscenza. Mark» e
un breve articolo ritagliato da una copia del "New York Times" di poco
tempo prima. Abby Turnbull, lessi incredula, aveva firmato un contratto
per scrivere un libro sulla scomparsa di Fred Cheney e Deborah Harvey, e
sulle «inquietanti analogie» con i casi delle altre coppie scomparse in Virginia e ritrovate morte.
Abby mi aveva messo in guardia contro Mark, e adesso lui mi metteva
in guardia contro di lei. O il motivo per cui mi spediva quell'articolo era un
altro?
Restai seduta in cucina per non so più quanto tempo, indecisa se lasciare
un messaggio furioso sulla segreteria di Abby o se telefonare a Mark. Alla
fine decisi di sentire Anna, la mia analista.
«Ti senti tradita?» mi chiese a un certo punto.
«Per dirla con un eufemismo sì, Anna.»
«Hai sempre saputo che Abby voleva scrivere un articolo. Ti sembra che
un libro sia molto diverso?»
«Ma non mi aveva detto che stava lavorando proprio a un libro» risposi.
«Il fatto che ti senta tradita non significa che ti abbiano tradito davvero,
Kay» continuò. «Questa è la tua percezione, certo, ma purtroppo non puoi
fare altro che aspettare e stare a vedere. Quanto al motivo per cui Mark ti
ha spedito il ritaglio, credo che anche qui debba rassegnarti ad aspettare.
Forse è il suo modo di offrire aiuto.»
«Mi chiedevo se non sia il caso di consultare un avvocato» dissi. «Magari posso coprirmi le spalle: non so cosa finirà nel libro di Abby, capisci?»
«Io credo che da parte tua sarebbe più saggio prenderla in parola» disse
Anna. «In fondo ti disse che si trattava di una conversazione fra amiche e
nient'altro, giusto? Prima di oggi ti ha mai tradito?»
«No.»
«E allora ti consiglio di lasciarle una possibilità. Dalle modo di spiegarsi. Inoltre, non so che libro sia in grado di scrivere: non ci sono stati arresti
e, dal momento che non sono stati ritrovati, nessuno sa ancora che fine abbiano fatto i due ragazzi.»
L'amara ironia di quell'osservazione mi avrebbe colpito due settimane
più tardi, il venti di gennaio, in parlamento, quando l'Assemblea Generale
della Virginia dovette vagliare un decreto che autorizzava il Forensic
Science Bureau a creare una banca dati sul Dna.
Stavo tornando dal bar, un bicchierino di caffè stretto in mano, quando
vidi Pat Harvey, elegantissima, in tailleur di cachemire blu, con una busta
di pelle nera sotto il braccio. Stava parlando con alcuni delegati, in corridoio, ma nello scorgermi si scusò e mi raggiunse subito.
«Dottoressa Scarpetta» disse, porgendomi la mano. Sembrava contenta
di incontrarmi, ma appariva tesa e logorata.
Mi domandai come mai non si trovasse a Washington, ma la risposta
venne da sola: «Mi hanno chiesto di sostenere il decreto Uno-Trenta del
Senato» spiegò, sorridendo nervosamente. «Quindi immagino che oggi
siamo qui per la stessa ragione.»
«Grazie. Abbiamo bisogno di tutto l'appoggio possibile.»
«Non credo abbiate motivo di preoccuparvi» replicò.
Forse aveva ragione. La presenza del massimo responsabile della politica nazionale antidroga, e la pubblicità che ne sarebbe derivata, avrebbero
certo esercitato una notevole pressione sui rappresentanti delle Corti di
Giustizia. Al termine di un silenzio imbarazzato in cui entrambe osservammo distrattamente il viavai di persone che sciamavano intorno, le chiesi adagio: «Come sta?».
Per un attimo gli occhi le si colmarono di lacrime. Poi mi rivolse un altro sorriso fugace e nervoso e fissò il fondo del corridoio. «Se mi vuole
scusare, ho visto una persona con cui devo assolutamente parlare.»
Pat Harvey si era appena allontanata quando il bip del cercapersone si
fece sentire.
Un minuto dopo ero al telefono.
«Marino è già in strada» spiegò la mia segretaria,
«Parto subito anch'io» risposi. «Preparami il kit, Rose. Mi raccomando,
che ci sia tutto, e non dimenticare il flash per la macchina fotografica, le
batterie e i guanti.»
«Stai tranquilla, ci penso io.»
Maledicendo la pioggia e le scarpe col tacco alto, mi precipitai giù per la
scalinata in Governor Street, il vento che mi strappava l'ombrello e nella
mente il ricordo degli occhi straziati di Pat Harvey nel breve istante in cui
aveva ceduto al dolore. Grazie a Dio non era più lì quando il cercapersone
aveva lanciato il suo terrificante richiamo.
5
L'odore si sentiva a distanza. Pesanti gocce di pioggia tamburellavano
rumorosamente sulle foglie morte, il cielo scuro come al crepuscolo, gli
spogli alberi invernali che galleggiavano nella nebbia.
«Gesù» mormorò Marino, scavalcando un tronco. «Devono essere ridotti
proprio male, è un odore inconfondibile. Mi ricorda quello dei granchi marinati.»
«Il peggio deve ancora venire» promise Jay Morrell, che faceva strada.
Un fango nero risucchiava i nostri passi, e ogni volta che Marino sfiorava i rami di un albero mi ritrovavo sommersa da una doccia di gocce gelate. Fortunatamente avevo l'abitudine di tenere in macchina una giacca di
Goretex con cappuccio e un paio di stivaloni di gomma, in previsione di
sopralluoghi come questo. Ciò che invece non ero riuscita a trovare erano i
guanti di pelle, e con le mani sprofondate in tasca era impossibile procedere nel bosco difendendomi dalle fronde che mi sbattevano in faccia.
Mi avevano comunicato l'avvenuto ritrovamento di due corpi, probabilmente un uomo e una donna, a meno di sei chilometri dall'area di sosta dove era stata rinvenuta la jeep di Deborah Harvey.
"Non sai ancora se sono loro", continuavo a ripetermi mentalmente.
Ma quando raggiungemmo il perimetro della scena, mi sentii stringere il
cuore. Benton Wesley stava parlando con un agente alle prese col metal
detector, e certo la polizia non lo avrebbe scomodato a meno di non essere
assolutamente sicura. In posizione quasi militaresca, Wesley emanava la
tranquilla sicurezza di un uomo autorevole, né il brutto tempo né l'odore di
carne umana in stato di decomposizione sembravano poterlo turbare. Non
aveva nemmeno bisogno di esaminare la scena con gli avidi occhi di chi
cerca sempre nuovi particolari, come invece facevamo Marino e io, e sapevo anche il motivo: Wesley si era già guardato intorno. Wesley era lì già
da un pezzo.
I corpi giacevano riversi uno accanto all'altro, in una piccola radura a
circa quattrocento metri dalla stradina fangosa in cui avevamo abbandonato le nostre auto. Erano in uno stato di decomposizione talmente avanzato
da essere praticamente ridotti a due scheletri. Le lunghe ossa delle braccia
e delle gambe sporgevano come sporchi bastoni grigiastri dagli abiti marci
coperti di foglie. A mezzo metro di distanza, i crani apparivano staccati dal
resto del corpo, spinti probabilmente da qualche piccolo predatore.
«Avete trovato calze e scarpe?» chiesi, non vedendone da nessuna parte.
«No, signora. Ma abbiamo rinvenuto una borsa.» Morrell indicò il corpo
sulla destra. «Quarantaquattro dollari e ventisei centesimi. E una patente di
guida. La patente di Deborah Harvey.» Di nuovo indicò i due cadaveri,
aggiungendo: «Supponiamo che quello sulla sinistra sia Fred Cheney».
Il nastro giallo usato per circoscrivere la scena del delitto luccicava umido contro lo sfondo di cortecce degli alberi. Udivo crepitare i rami, sotto i
piedi, le voci degli agenti si confondevano in un borbottio indistinto sotto
la pioggia battente. Aprii la valigetta e ne estrassi un paio di guanti chirurgici e la macchina fotografica.
Per un attimo rimasi ferma a studiare i corpi rattrappiti e quasi completamente scarnificati. Determinare il sesso e la razza a partire dai resti di
uno scheletro non è sempre cosa facile. Non mi sarei pronunciata prima di
avere esaminato la pelvi dei due cadaveri, in quel momento coperta da un
tessuto di jeans nero o blu scuro. Osservando le caratteristiche del corpo
sulla destra, tuttavia - ossatura piccola, cranio piccolo con piccole ossa
mastoidee, arcata sopraccigliare non prominente e lunghe ciocche di capelli biondastri appiccicate alla stoffa ormai marcita - mi venne spontaneo
pensare a una femmina di razza bianca. Le dimensioni dell'altro cadavere,
l'ossatura più robusta, l'arcata sopraccigliare più sporgente, il cranio più
grosso e il viso schiacciato si adattavano invece a un maschio, sempre di
razza bianca.
Quanto al destino che potevano avere incontrato, mi era impossibile fare
ipotesi. Non vi erano corde o altri oggetti che lasciassero supporre uno
strangolamento, né fratture o fori evidenti riconducibili a traumi o a ferite
d'arma da fuoco. Maschio e femmina giacevano uniti dal silenzioso legame
della morte, le ossa del braccio sinistro di lei insinuate sotto il braccio destro di lui come se si fossero tenuti stretti sino alla fine, le orbite vuote e
spalancate mentre la pioggia scorreva sui teschi.
Fu solo avanzando di un passo e inginocchiandomi che notai una striscia
di terreno scuro lungo i due lati dei cadaveri, un bordo di terra così stretto
da risultare quasi impercettibile. Se la morte risaliva al weekend del Labor
Day, non erano ancora cadute le prime foglie autunnali e dunque il terreno
sotto i cadaveri avrebbe dovuto essere relativamente pulito. Il pensiero che
mi stava frullando per la testa non mi piaceva affatto. Cristo! Era già sufficiente che la polizia avesse camminato lì intorno per ore; toccare o muovere un cadavere prima dell'arrivo del medico legale è un peccato gravissimo, qualunque agente lo sa.
«Dottoressa Scarpetta?» Morrell torreggiava sopra di me, col fiato che si
condensava in una nuvola di vapore. «Stavo giusto parlando con Phillips,
là in fondo.» Lanciò un'occhiata verso alcuni agenti occupati a perlustrare
la fitta vegetazione del sottobosco, a una decina di metri da dove mi trovavo. «Ha rinvenuto un orologio, un orecchino e dei soldi proprio qui, vicino
ai cadaveri. La cosa interessante è che il metal detector continuava a reagire. Lo ha passato sopra i corpi e non ha mai smesso di suonare. Forse era
una cerniera, o un bottone dei jeans, una chiusura in metallo... qualcosa del
genere, insomma. Ho pensato che potesse interessarle.»
Sollevai lo sguardo sul suo viso serio e sottile. Sotto l'impermeabile, stava tremando.
«Mi dica cos'avete fatto ai corpi, Morrell, a parte controllarli con il metal
detector. Si vede che sono stati mossi, e io ho bisogno di sapere se questa è
l'esatta posizione in cui si trovavano stamattina, quando siete arrivati.»
«Non so cos'è successo quando i cacciatori li hanno trovati, anche se loro sostengono di non essersi avvicinati molto» disse, gli occhi puntati sul
bosco. «Però, sì, erano così quando siamo arrivati. Non abbiamo fatto altro
che cercare effetti personali, frugando nelle tasche e nella borsetta.»
«Immagino abbiate scattato delle foto, prima» affermai, sforzandomi di
mantenere un tono neutro.
«Abbiamo cominciato a fotografare appena arrivati.»
Estrassi dunque a mia volta un piccolo flash e iniziai le solite, disperate
operazioni di ricerca degli indizi. Quando i cadaveri restano esposti all'azione degli agenti atmosferici per così tanti mesi, la possibilità di rinvenire
capelli, fibre o altre particelle utili si riduce quasi a zero. Morrell restò a
guardarmi in silenzio, appoggiandosi ora su un piede, ora sull'altro, visibilmente a disagio.
«Avete scoperto nient'altro, nel corso delle vostre indagini, che possa rivelarsi d'aiuto? Ammesso che questi siano Deborah Harvey e Fred Cheney, naturalmente» chiesi, dato che non avevo più né visto né parlato al telefono con Morrell dal giorno del ritrovamento della jeep di Deborah.
«Soloun possibile legame con il mondo della droga» rispose. «Ci è stato
riferito che il compagno di stanza di Fred, all'università, faceva uso di cocaina. Forse anche Fred Cheney ogni tanto se la spassava. È una delle ipotesi che stiamo considerando, forse lui e la sua amica Harvey si sono incontrati con uno spacciatore e sono venuti qui con lui.»
Era un'ipotesi assurda.
«Per quale motivo Cheney avrebbe dovuto lasciare la jeep in un'area di
sosta e allontanarsi con uno spacciatore di droga portando con sé anche
Deborah, per finire in un posto come questo?» replicai. «Perché non comprare quello che dovevano comprare direttamente nell'area di sosta e poi
proseguire indisturbati il viaggio?»
«Magari erano venuti qui con l'intenzione di "farsi" insieme.»
«Secondo lei un individuo mentalmente sano si spingerebbe in un bosco
del genere? E le loro scarpe, Morrell, dove sono? O sta cercando di dire
che potrebbero essere arrivati a piedi nudi?»
«Non sappiamo che fine abbiano fatto» rispose.
«Molto interessante. Cinque coppie assassinate di cui non si sa che fine
abbiano fatto le scarpe, né le calze. Non le sembra quanto meno strano?»
«Oh, sì, signora, mi sembra strano. Molto strano, davvero» disse, abbracciandosi nel tentativo di scaldarsi. «Ma per ora devo lavorare a questi
due senza pensare alle altre quattro coppie. Devo procedere con i dati di
cui dispongo, e tutto ciò di cui dispongo è una possibile pista di droga.
Non posso permettermi di lasciarmi fuorviare dalla moda dei serial killer o
dal nome della madre della ragazza, perché così finirei solo per trascurare
le probabilità più ovvie.»
«Ah, non sia mai che lei perda di vista l'ovvio.»
Rimase silenzioso.
«Nella jeep avete trovato strumenti legati al consumo di droga?»
«No. Nulla del genere, nemmeno qui nei dintorni. Ma dobbiamo ancora
perlustrare un bel po' di terreno.»
«Il tempo fa schifo. Non sono certa che mettersi a setacciare proprio adesso sia una buona idea.» Suonavo irascibile e impaziente, non ne potevo
più di quell'uomo. Non ne potevo più della polizia. Un rigagnolo d'acqua
scorreva sul davanti del mio giaccone, mi dolevano le ginocchia e il freddo
cominciava ad anestetizzarmi mani e piedi. C'era un tanfo insopportabile e
quella pioggia battente mi stava logorando i nervi.
«Non abbiamo ancora iniziato a scavare o a usare il setaccio. In effetti
ho pensato anch'io che fosse meglio aspettare. E poi si vede male. Insomma, fin qui abbiamo lavorato solo con il metal detector e i nostri occhi.»
«Be', più gente continua a gironzolare qui intorno, più alto è il rischio di
distruggere indizi. Basta metterci sopra un piede per spingere sottoterra un
frammento d'osso, un dente o altre prove.» In realtà scorazzavano lì ormai
da ore: era un po' tardino per sperare di conservare intatta la scena.
«Quindi preferisce farli portare via oggi o aspettare che il tempo migliori?» si informò.
In circostanze normali avrei aspettato che smettesse di piovere e ci fosse
un po' più di luce. Dopo mesi di permanenza in un bosco, lasciare due cadaveri fermi sotto un telo di plastica per qualche giorno in più non fa una
grande differenza. Ma quando Marino e io eravamo giunti sulla strada sterrata, avevamo trovato parcheggiati già numerosi camion delle stazioni televisive. C'erano giornalisti seduti in attesa nelle loro macchine, mentre altri sfidavano eroicamente la pioggia e cercavano di scucire informazioni
agli agenti di guardia. Le circostanze, dunque, non erano affatto normali. E
sebbene non avessi alcun diritto di dire a Morrell cosa fare, secondo il codice i due corpi erano sotto la mia giurisdizione.
«Nel retro della mia auto ci sono le barelle e i sacchi» risposi, pescando
le chiavi dalla tasca. «Se si fa aiutare da qualcuno, potremmo rimuoverli
fra poco. Li porterò con me in obitorio.»
«Certo. Me ne occupo io.»
«Grazie.» Un attimo dopo, Benton Wesley mi si avvicinò. «Come hai
fatto a scoprirlo?» gli chiesi. Era una domanda ambigua, ma lui sapeva a
cosa mi riferivo.
«Morrell mi ha telefonato a Quantico. Sono venuto immediatamente.»
Esaminò i corpi. Nell'ombra del cappuccio gocciolante, il suo volto angoloso assomigliava a quello di un uccello. «Noti niente che possa dirci cosa
diavolo è successo?»
«Tutto quello che posso dirti al momento è che i loro crani non sono
fratturati, e che non gli hanno sparato.»
Non rispose, e il suo silenzio accresceva la mia tensione.
Avevo appena iniziato a stendere i lenzuoli quando si avvicinò Marino,
le mani sprofondate nelle tasche del cappotto e le spalle incurvate contro il
freddo e la pioggia.
«Ti beccherai una polmonite» commentò Wesley, rialzandosi. «Il Dipartimento di Richmond non può permettersi di fornirvi almeno un cappello?»
«Merda» rispose Marino, «sei già fortunato se ti fanno il pieno di benzina e ti danno una pistola. Giurerei che a Spring Street se la passano meglio
di noi.»
Spring Street è il penitenziario di stato, ed era vero che al governo federale costava di più mantenere gli ospiti delle carceri che non stipendiare gli
agenti di polizia incaricati di assicurarli alla legge. A Marino piaceva lamentarsi di quel fatto.
«Vedo che ti hanno trascinato qui di peso da Quantico. Dev'essere il tuo
giorno fortunato» riprese.
«Mi hanno detto cos'era successo e io ho chiesto se ti avevano già avvi-
sato.»
«Ah, be', certo, alla fine sono riuscito a saperlo anch'io.»
«Vedo, vedo. Senti, Morrell dice di non avere mai compilato una scheda
VICAP: forse potresti andare a dargli una mano» fece Wesley.
Marino continuò a fissare i due corpi.
«Abbiamo assolutamente bisogno di aggiornare i dati del computer»
proseguì, mentre la pioggia continuava a battere.
Cercando di distogliere la mente da quella conversazione, sistemai uno
dei lenzuoli sui resti della donna e la girai sulla schiena. Con mio enorme
sollievo sentii che teneva, legamenti e articolazioni erano ancora intatti. In
un clima come quello della Virginia in genere occorre almeno un anno
prima che un corpo si scheletrisca del tutto, o si riduca a un ammasso di
ossa disarticolate. Muscoli, cartilagini e legamenti sono tenaci. La ragazza
era di costituzione minuta: ricordavo ancora il delizioso ritratto della giovane atleta sulla sbarra d'equilibrio. Notai che indossava una specie di pullover, forse una felpa, e che i jeans erano chiusi e abbottonati. Spiegai il
secondo lenzuolo e ripetei la stessa procedura con il compagno. Voltare un
corpo decomposto è come sollevare un masso dalla sua sede: impossibile
dire cosa ci aspetta al di sotto, a parte i soliti, immancabili insetti. E mentre
alcuni ragni zampettavano impazziti cercando riparo tra le foglie, mi sentii
rabbrividire.
Cambiai posizione, nel disperato tentativo di mettermi più comoda; solo
a quel punto notai che Wesley e Marino se n'erano andati. In ginocchio,
sotto la pioggia, iniziai a frugare nel fango e tra le foglie in cerca di unghie, denti e piccole ossa. In una delle mandibole avevo notato l'assenza di
almeno due denti, che con tutta probabilità si trovavano nei dintorni del
cranio. In capo a una ventina di minuti ne avevo recuperato uno, più un
bottone - forse della camicia del ragazzo - e due mozziconi di sigaretta.
Sebbene non tutte le vittime fumassero, ne erano già stati rinvenuti parecchi anche sulla scena dei delitti precedenti. Il fatto inconsueto era che nessuno dei filtri recava la marca delle sigarette.
Quando Morrell tornò, glielo feci notare.
«Se è per quello, non mi è mai successo che mancasse il classico mucchietto di mozziconi» rispose, e io mi chiesi su quanti luoghi del delitto
potesse veramente giurare di essere stato. Non molti, a occhio e croce.
«È come se parte della carta fosse stata rimossa, o come se avessero
tranciato il segmento di filtro più vicino al tabacco» spiegai, ma non ottenendo alcuna reazione da parte sua ripresi a scavare nel fango.
Era ormai notte quando tornammo alle macchine, una scura processione
di agenti di polizia e di barelle con sgargianti sacchi mortuari arancioni.
Raggiungemmo la strada sterrata adibita al trasporto del legname mentre
un vento gelido si sollevava da nord, trasformando la pioggia in grandine.
La mia station wagon blu era attrezzata come un carro funebre: sul pianale
di compensato erano situati alcuni dispositivi di bloccaggio per assicurare
le barelle ed evitare che scivolassero durante il trasporto. Mi misi al volante e agganciai la cintura mentre Marino saliva al posto del passeggero,
Morrell chiudeva il portellone posteriore e fotografi e cameramen ci immortalavano sulle loro pellicole. Un giornalista particolarmente combattivo prese a picchiare contro il mio finestrino, e abbassai la sicura delle portiere.
«Dio sia lodato. Spero solo che nessuno mi convochi mai più su una
scena come questa» esclamò Marino, alzando il riscaldamento al massimo.
Aggirai diverse buche del terreno.
«Che branco di avvoltoi.» Lo sguardo puntato sullo specchietto laterale
esterno, Marino vide i giornalisti precipitarsi alle loro macchine; «Qualche
coglione deve avere aperto bocca via radio. Probabilmente Morrell. Che
razza di incapace, gente. Se fosse nella mia squadra lo rispedirei a fare
multe, o al magazzino uniformi. Magari al banco informazioni.»
«Ricordi come si torna sulla I-64 da qui?» lo interruppi.
«Alla biforcazione tieniti sulla sinistra e vai via diritta. Oh, merda.» Aprì
uno spiraglio di finestrino e tirò fuori le sigarette. «Non c'è niente di peggio che viaggiare in una macchina sigillata con dei cadaveri decomposti.»
Una cinquantina di chilometri dopo ero nell'ingresso posteriore dell'OCME e premevo un pulsante rosso sulla parete interna. L'enorme porta
si aprì cigolando vigorosamente, mentre un'ondata di luce si abbatteva sull'asfalto bagnato. Tornai alla macchina e aprii il portellone, quindi facemmo scivolare fuori le barelle e le spingemmo nell'obitorio. In quel preciso
istante dall'ascensore uscì un gruppo di scienziati forensi che ci rivolsero
un sorriso e lanciarono un'occhiata distratta al nostro carico. Sagome di
corpi avvolti in lenzuoli bianchi o chiusi nei sacchi erano uno spettacolo
tanto comune quanto le pareti di cemento a vista, e le gocce di sangue sul
pavimento o gli odori erano particolari poco piacevoli che presto si imparava a superare.
Estrassi una seconda chiave e aprii il lucchetto della porta d'acciaio inossidabile della sala frigorifera. Prima di trasferire i cadaveri su una doppia
barella e sistemarli, andai a procurarmi i cartellini e a registrare l'arrivo dei
due corpi.
«Ti spiace se domani faccio un salto a vedere se hai scoperto niente di
nuovo?» chiese Marino.
«Per me va bene.»
«Ma sono loro» aggiunse. «Non possono che essere loro.»
«Purtroppo sembra proprio così, Marino. Che fine ha fatto Wesley?»
«Sta tornando a Quantico, dove finalmente potrà riappoggiare le sue belle scarpe sulla scrivania e farsi dare tutti i risultati che gli servono per telefono.»
«Pensavo che foste buoni amici» commentai in tono bellicoso.
«Sì, sì, capo, ma la vita è una cosa strana, vedi. È come quando vado a
pescare: le previsioni del tempo dicono bello, e appena metto in acqua la
barca comincia a piovere a dirotto.»
«Questo fine settimana hai il turno di notte?»
«Non che io sappia.»
«Perché non vieni a cena da me, allora? Domenica sera ti va? Verso le
sei e mezzo.»
«Sì, dovrei farcela» rispose distogliendo lo sguardo, ma l'espressione di
dolore nei suoi occhi non mi era sfuggita. Avevo sentito dire che sua moglie si era trasferita in New Jersey poco prima del Giorno del Ringraziamento, per occuparsi della madre in punto di morte. Da allora mi era già
capitato di cenare spesso con Marino, ma non sembrava mai desideroso di
parlare della sua vita privata.
Entrai nella sala autopsie e mi diressi allo spogliatoio, dove tenevo sempre un nécessaire e un cambio di vestiti per le situazioni d'emergenza. Mi
sentivo sporca, il puzzo di morte mi era penetrato negli abiti, nella pelle e
nei capelli. Mi spogliai e infilai rapidamente gli indumenti in un sacco di
plastica, incollandoci sopra un biglietto in cui pregavo il custode dell'obitorio di depositare il tutto in lavanderia la mattina seguente. Quindi mi ficcai sotto la doccia, e lì rimasi a crogiolarmi a lungo.
Una delle molte cose che Anna mi aveva invitato a fare dopo il trasferimento di Mark a Denver era stato reagire con forza ai danni che quotidianamente infliggevo al mio corpo.
«Esercizio.» Aveva pronunciato quella terribile parola. «La produzione
di endorfine abbassa il livello della depressione. Vedrai che riuscirai a
mangiare e a dormire meglio, che ti sentirai meglio in generale. Credo che
dovresti riprendere a giocare a tennis.»
Seguire il suo suggerimento si era rivelato un'esperienza umiliante. Non
prendevo in mano una racchetta da quando ero ragazzina, e se già allora il
mio rovescio non era buono, nel corso degli anni aveva addirittura cessato
di esistere. Prendevo lezioni una volta la settimana, la sera tardi, quando
cioè mi sentivo un po' meno esposta agli sguardi curiosi della folla di soci
che, verso l'ora dell'aperitivo, si radunava nella galleria del Westwood
Racquet Club.
Uscita dall'ufficio ebbi giusto il tempo di guidare fino al centro sportivo,
fiondarmi negli spogliatoi delle donne e cambiarmi. Poi tirai fuori la racchetta dall'armadietto e scesi in campo con ben due minuti di anticipo, i
muscoli delle gambe che si opponevano ai miei tentativi di stretching e agli eroici sforzi di toccarmi le punte dei piedi. Il sangue mi circolava in
corpo lento come una lumaca.
Ted, il mio insegnante, apparve da dietro la tenda verde reggendo due
canestri di palline.
«Dopo le ultime notizie, non credevo di vederti qui stasera» commentò,
appoggiando i canestri per terra e sfilandosi la giacca della tuta. Perennemente abbronzato, una vera gioia per gli occhi, Ted mi salutava sempre
con un sorriso e una battuta di spirito. Oggi però mi sembrava sotto tono.
«Mio fratello minore conosceva Fred Cheney. Anch'io lo conoscevo, anche se non tanto bene.» Continuando a fissare i giocatori nei campi vicini,
proseguì: «Era uno dei ragazzi più gentili che abbia mai conosciuto, e non
lo dico perché è... Be', mio fratello è davvero sconvolto». Si piegò a raccogliere alcune palline da terra. «A dirla tutta, mi dà proprio fastidio che i
giornali non riescano ad andare oltre il fatto che Fred aveva una fidanzata
famosa. Sembra quasi che l'unica persona scomparsa sia la figlia di Pat
Harvey. Non che non fosse bella o che quel che le è successo non sia tremendo, certo.» Fece una pausa. «Insomma, hai capito cosa intendo, vero?»
«Ho capito benissimo» annuii. «Ma l'altra faccia della medaglia è che la
famiglia di Deborah Harvey è sotto gli occhi di tutti, e nessuno li lascia in
pace con il loro dolore solo perché Pat Harvey è un personaggio di spicco.
Comunque tu prenda la cosa, è e resta una tragedia e un'ingiustizia.»
Ted parve riflettere un attimo, quindi i suoi occhi incrociarono i miei.
«Sai, non ci avevo pensato, ma hai ragione. Non credo che essere famosi,
in un caso come questo, sia molto divertente. Ma non credo nemmeno che
tu mi paghi per stare qui in piedi a parlare. Su cosa ti piacerebbe lavorare,
stasera?»
«Sui colpi a fondo campo. Voglio che tu mi faccia correre da un capo al-
l'altro così da ricordarmi quanto odio fumare.»
«Okay. Non sarò certo io a farti un'altra tirata sull'argomento.» Si spostò
al centro della rete.e io arretrai fino alla linea di fondo. Il mio primo diritto
non avrebbe potuto essere peggiore. Fortunatamente, però, il dolore fisico
è un'ottima forma di distrazione, la dura realtà della giornata passò in secondo piano e in quella condizione rimasi finché il telefono non si mise a
squillare, un po' più tardi, mentre a casa mi spogliavo degli abiti ancora
umidi.
Pat Harvey sembrava quasi delirare. «I corpi che hanno trovato oggi.
Devo sapere.»
«Non sono ancora stati identificati e io non ho avuto modo di esaminarli» risposi, sedendo sul bordo del letto e sfilandomi le scarpe da tennis.
«Un uomo e una donna. Ecco cos'hanno detto.»
«Sì, così sembra al momento.»
«La prego, mi dica se esiste una sola possibilità che non si tratti di loro»
mi scongiurò.
Esitai.
«Oh, mio Dio» sussurrò.
«Signora Harvey, non posso confermare...»
Mi interruppe con voce isterica. «La polizia mi ha detto che hanno trovato la borsetta di Deborah e la sua patente.»
Morrell, pensai. Quel povero bastardo senza cervello.
«Non possiamo effettuare un'identificazione solamente sulla base degli
effetti personali» dissi.
«È mia figlia!»
A quel punto sarebbe seguito un fiume di minacce e di oscenità. Era
successa la stessa cosa con i genitori delle altre vittime, tutte persone che
in circostanze normali si comportavano in maniera civile e controllata. Decisi che dovevo dare a Pat Harvey qualcosa di costruttivo con cui tenersi
occupata.
«I corpi non sono ancora stati identificati» ripetei.
«Voglio vederla.»
Neanche fra un milione di anni, pensai tra me e me. «A vista i corpi non
sono riconoscibili» dissi. «Sono quasi scheletriti.»
Sentii che le si era mozzato il fiato in gola.
«E, a seconda dell'aiuto che lei ci accorderà, saremo in grado di identificarli in un giorno o due piuttosto che fra alcune settimane.»
«Cosa vuole che faccia?» mi chiese con la voce che tremava.
«Ho bisogno delle radiografie, delle schede dentistiche e di qualunque
altro referto medico di Deborah di cui riesca a venire in possesso.»
Silenzio.
«Pensa di potermi aiutare?»
«Ma certo. Provvederò immediatamente.»
Immaginai che entro l'alba avrebbe avuto in mano la documentazione
completa, a costo di tirare giù dal letto tutti i medici di Richmond.
Il pomeriggio seguente, mentre rimuovevo il telo di plastica dallo scheletro anatomico dell'OCME, udii i passi di Marino in corridoio.
«Sono io» annunciò a voce alta.
Entrò in sala riunioni e con espressione vacua guardò lo scheletro. Le
ossa erano tenute insieme con filo di ferro e al vertice del cranio aveva un
gancio grazie al quale stava appeso a un sostegno a forma di L. Nel complesso era un po' più alto di me, i piedi che penzolavano liberi al di sopra
di una base di legno a rotelle.
Raccattando alcuni fogli da un tavolo, dissi: «Ti spiacerebbe seguirmi
con quello?».
«Vuoi fare quattro passi con lo Smilzo?»
«Va al piano di sotto, e si chiama Haresh» risposi.
Mi diressi all'ascensore seguita da Marino e da uno scricchiolare di ossa
e di rotelle, attirando l'attenzione divertita di un certo numero di colleghi.
Haresh non andava a spasso di frequente e, generalmente, quando veniva
resuscitato dal suo angolino non era per scopi particolarmente seri. Nel
giugno precedente, la mattina del giorno del mio compleanno ero entrata in
ufficio e avevo trovato Haresh seduto al mio posto, con occhiali, camice e
persino una sigaretta fra i denti. Uno dei tecnici più impegnati del piano di
sopra, così mi era stato riferito, era passato davanti alla porta e "mi" aveva
salutato senza notare nulla di strano.
«Non verrai a dirmi che quando sei qui a lavorare vi fate delle belle
chiacchierate, voi due» commentò Marino, mentre le porte dell'ascensore
si richiudevano.
«Tutto sommato, un suo modo di parlare ce l'ha» risposi. «Ho scoperto
che averlo a portata di mano. è molto più utile che consultare le tavole dei
testi di anatomia.»
«E come mai si chiama così?»
«Credo che quando lo acquistarono, anni fa, lavorasse qui un patologo
indiano di nome Haresh. Anche lo scheletro apparteneva a un indiano. Ma-
schio, sulla quarantina, forse qualcosa di più.»
«Nel senso degli indiani con le piume o di quegli altri che si fanno i puntini sulla fronte?»
«Nel senso degli indiani del Gange, in India» risposi, uscendo sul corridoio del primo piano. «Gli induisti depositano i morti nel fiume, pensando
che così arriveranno prima in paradiso.»
«Be', spero di tutto cuore che questo cesso non sia veramente il paradiso.»
Di nuovo ossa e rotelle presero a sbatacchiare con un rumore secco,
mentre Marino spingeva Haresh nella sala autopsie.
Sul lenzuolo bianco che copriva il primo tavolo d'acciaio erano deposti i
resti di Deborah Harvey, ossa grigiastre e sporche, ciocche di capelli infangati e legamenti scuri e duri come il cuoio. L'aria era pregna dell'odore
dei cadaveri, comunque meno forte del giorno prima poiché le avevo tolto
gli abiti. Lo stato di Deborah era reso ancora più penoso dalla presenza di
Haresh, che almeno vantava uno scheletro candido e liscio.
«Ho da dirti un bel po' di cose» informai Marino. «Ma prima devi promettermi che non una parola di quanto sto per riferirti uscirà da queste
quattro mura.»
Si accese una sigaretta, scrutandomi con aria incuriosita. «Okay.»
«Non c'è alcun dubbio circa la loro identità» esordii, sistemando le clavicole ai due lati del cranio. «Stamattina Pat Harvey mi ha consegnato radiografie e panoramiche dentali.»
«Di persona?» mi interruppe, sorpreso.
«Sfortunatamente» risposi, poiché neanch'io mi ero aspettata la sua visita - grave errore di calcolo da parte mia, una lezione di cui avrei fatto tesoro.
«Il che avrà messo in subbuglio un bel po' di gente, immagino» commentò Marmo.
Infatti. Era arrivata con la Jaguar e aveva parcheggiato in divieto di sosta
lungo il marciapiede, dopodiché si era presentata all'ingresso con le lacrime agli occhi e avanzando una serie di richieste perentorie. Intimidito dalla
sua presenza, il receptionist l'aveva fatta entrare e la signora Harvey si era
ansiosamente precipitata in corridoio a cercarmi. Credo sarebbe anche scesa in obitorio, se un mio assistente non l'avesse intercettata davanti all'ascensore facendole strada verso il mio ufficio, dove l'avevo trovata pochi
istanti dopo. Sedeva rigida su una sedia, il volto bianco come il gesso. Sul
piano della scrivania erano sparpagliati certificati di morte, cartelle di casi
archiviati, fotografie scattate in sede di autopsia e una bottiglia di formalina striata di sangue in cui galleggiava il prelievo di un tessuto con ferita
di arma da taglio. Appesi a un gancio sulla porta c'erano alcuni vestiti
macchiati di sangue che programmavo di portare di sopra più tardi. In cima all'armadietto dell'archivio, simili a teste d'argilla decapitate, se ne stavano appollaiate due ricostruzioni facciali di donne non identificate.
Pat Harvey aveva ottenuto più di quanto si aspettasse, entrando a testa
bassa nell'impietosa realtà di quel luogo.
«Morrell mi ha fatto avere la stessa documentazione per quanto riguarda
Fred Cheney» dissi a Marino.
«Dunque si tratta senza ombra di dubbio di Deborah Harvey e Fred
Cheney?»
«Sì» dissi, e attirai la sua attenzione su alcune lastre radiografiche inserite nel diafanoscopio alla parete.
«Quello non può essere ciò che penso.» Un'espressione incredula gli si
dipinse sul viso mentre fissava una macchia opaca all'interno del profilo di
una vertebra lombare.
«Le hanno sparato.» Indicai la vertebra in questione. «Deborah Harvey è
stata colpita proprio al centro della schiena. Il proiettile ha fratturato il processo spinoso e i pedicoli e si è arrestato nel corpo vertebrale. Esattamente
qui.» Gli mostrai il punto.
«Non lo vedo.» Si avvicinò di più.
«Lo so, ma vedi il buco? Lo vedi quello?»
«Buco? Se è per quello ce ne sono un sacco.»
«Questo. Questo qui è il foro del proiettile. Il resto è forame vascolare,
fori per i vasi che trasportano sangue alle ossa e al midollo spinale.»
«E dove sono i piedistalli fratturati che dicevi prima?»
«Pedicoli» ripetei, paziente. «Non li ho trovati. Di sicuro sono esplosi e i
frammenti sono ancora sparsi per terra, nel bosco. Un foro d'entrata e nessuno di uscita. Le hanno sparato alla schiena, il proiettile viaggiava in direzione dell'addome.»
«E nei vestiti? L'hai trovato anche lì, il foro della pallottola?»
«No.»
Su un tavolo lì accanto era appoggiato un vassoio di plastica bianca in
cui avevo depositato gli effetti personali di Deborah, compresi i suoi abiti,
i gioielli e la borsetta di nylon rossa. Sollevai delicatamente la felpa, nera,
lacera e putrida.
«Come vedi» gli feci notare, «è in pessime condizioni, soprattutto la par-
te posteriore. Il tessuto è marcito quasi del tutto o è stato strappato da animali predatori. Lo stesso vale per il retro dei jeans all'altezza della cintura,
il che è logico, dato che questa parte degli indumenti doveva essere insanguinata. In altre parole, quella parte di tessuto in cui mi sarei aspettata di
trovare il foro del proiettile non c'è più.»
«E hai un'idea della distanza a cui è avvenuto lo sparo?»
«Come ho già detto il proiettile non è fuoruscito, e questo mi fa pensare
che il colpo non sia stato sparato a bruciapelo. Per quanto riguarda il calibro, invece, ma sono sempre e solo congetture, direi una trentotto o qualcosa di più, considerato il diametro del foro d'entrata. Comunque lo sapremo solo quando avrò aperto la vertebra ed estratto la pallottola: la farò
analizzare dal laboratorio di balistica.»
«Ma che strano» commentò Marino. «E Cheney non l'hai ancora esaminato?»
«È stato sottoposto a indagine radiografica. Nessun proiettile. Comunque no, non l'ho ancora visto.»
«Proprio strano» ripeté. «Non mi torna. Il fatto che le abbiano sparato alla schiena non rientra nel quadro degli altri casi.»
«E vero» concordai.
«Allora, cos'è che l'ha uccisa?»
«Non lo so.»
«Cosa vuol dire "non lo so"?» Mi lanciò un'occhiata.
«Questo tipo di ferita non è di per sé fatale, Marino. Essendosi incastrato, il proiettile non ha fatto in tempo a recidere l'aorta. Ad altezza lombare,
se così fosse stato, sarebbe morta dissanguata nel giro di pochi minuti. Di
sicuro però ha trafitto il midollo spinale, paralizzandola istantaneamente
dalla vita in giù. E, naturalmente, sono stati colpiti anche i vasi sanguigni,
dunque ha sanguinato parecchio.»
«Quanto tempo può essere sopravvissuta?»
«Ore.»
«E l'ipotesi dello stupro?»
«Mutandine e reggiseno erano a posto» risposi. «Il che, di per sé, non significa che non sia stata violentata, ma che forse prima di essere colpita
con l'arma da fuoco le era stato dato modo di risistemarsi.»
«E per quale ragione?»
«Se ti violentano» risposi, «e il tuo assalitore ti ordina di rivestirti, forse
pensi che ne uscirai viva. La speranza serve a conservare il controllo, ti fa
fare quello che ti dicono perché se ti opponi c'è il rischio che il boia cambi
idea.»
«Non so, mi puzza lo stesso» disse Marino, aggrottando la fronte. «Ho
come la sensazione che le cose non siano andate così, capo.»
«Be', era un'ipotesi, uno degli scenari possibili. Non so neanch'io cosa
sia successo, e l'unica cosa che posso affermare con sicurezza è che nessuno degli indumenti che Deborah indossava era strappato, tagliato, infilato
al rovescio o sbottonato. Per quanto poi riguarda eventuali tracce di liquido
seminale, il corpo è rimasto troppi mesi in quel bosco, quindi mettiti il
cuore in pace.» Gli porsi un blocco e una matita, aggiungendo: «Già che ci
sei, perché non mi fai da scribacchino?»
«Hai intenzione di parlarne con Benton?» chiese.
«Non per il momento.»
«E Morrell?»
«Certo, a lui dirò che le hanno sparato» risposi. «Se si tratta di un'automatica o di una semiautomatica, il bossolo potrebbe ancora trovarsi sulla
scena. Se poi la polizia ha voglia di rilasciare dichiarazioni, faccia pure: di
sicuro non sarò io ad aprire bocca.»
«Senti un po', e con la signora Harvey come la metti?»
«Lei e il marito sanno che la figlia e Fred sono stati identificati con certezza. Li ho avvisati io. E anche il signor Cheney, appena ne ho avuto conferma. Ma non aggiungerò altro prima di avere concluso le mie indagini.»
Mentre separavo le due metà della cassa toracica, sentii le costole risuonare come giocattoli di latta.
«Dodici per lato» iniziai a dettare. «A dispetto della leggenda, le donne
non hanno una costola in più degli uomini.»
«Eh?» Marino sollevò gli occhi dagli appunti.
«Mai letto la Genesi?»
Rimase a fissare con sguardo inespressivo le costole che avevo disposto
ai due lati delle vertebre toraciche.
«Oh, non importa.»
Quindi iniziai a cercare i carpali, piccole ossa del polso simili ai sassolini che si trovano nel letto dei torrenti o mescolati alla terra del giardino di
casa. La difficoltà era stabilire quali appartenessero alla mano destra e quali alla sinistra, ma per quello c'era Haresh ad aiutarmi.
«A quanto pare, mancano undici ossa della destra e diciassette della sinistra» riferii.
Marino prese nota. «Su un totale di quante?»
«La mano è composta da ventisette ossa» risposi, continuando a ispezio-
nare. «Per questo è così flessibile. È ciò che ci permette di dipingere, di
suonare il violino e di amarci, accarezzandoci e toccandoci.»
È anche ciò che ci permette di difenderci.
Solo nel pomeriggio seguente mi resi conto che Deborah Harvey aveva
tentato di contenere gli assalti di un aggressore armato di qualcos'altro, oltre la pistola. Fuori faceva decisamente più caldo, il tempo si era ristabilito
e la polizia aveva setacciato i dintorni per tutta la giornata. Poco prima delle quattro, Morrell fece un salto nel mio ufficio per consegnarmi una varietà di piccole ossa rinvenute sulla scena. Cinque di esse appartenevano a
Deborah, e sulla superficie dorsale della falange prossimale sinistra - o in
cima alla metacarpale, la più lunga delle ossa del dito indice - trovai un taglio di un centimetro.
La prima domanda che mi pongo di fronte a una ferita è se sia anteriore
o successiva al momento della morte. Tralasciare i fatti che possono intervenire dopo la morte significa infatti incorrere in pericolosi errori.
Le vittime degli incendi, ad esempio, presentano fratture alle ossa ed
emorragie epidurali; in pratica, è come se qualcuno le avesse prima percosse con violenza e poi avesse dato fuoco alla casa per mascherare l'omicidio. In realtà le ferite risalgono - a dopo la morte e sono dovute all'enorme calore sprigionato dalle fiamme. I corpi ritrovati sulla spiaggia, invece,
o quelli recuperati nei fiumi e nei laghi, hanno spesso l'aria di essere stati
mutilati da un pazzo che si è accanito sul volto, sui genitali, sulle mani e
sui piedi; la colpa però è dei pesci, dei granchi e delle tartarughe. I cadaveri abbandonati sul terreno vengono a loro volta morsicati, masticati e
smembrati da topi, poiane, cani e procioni.
Predatori a quattro zampe, alati e pinnati possono dunque infliggere un
gran numero di danni, ma fortunatamente non prima che le loro vittime
siano morte. Semplicemente, la natura inizia subito il suo processo di riciclaggio. Cenere alla cenere. Polvere alla polvere.
Il taglio sulla falange di Deborah appariva tuttavia troppo netto e lineare
per essere stato inferto da un dente o da un artiglio. Il che lasciava comunque spalancata la porta a ogni sorta di sospetti e speculazioni, compreso il
dubbio inevitabile di essere stata io stessa a ferirla con un bisturi in obitorio.
Ora di mercoledì sera la polizia aveva comunicato alla stampa l'identità
di Deborah e Fred, e nel giro delle successive quarantott'ore ricevemmo un
tale numero di telefonate da impedire ai receptionist dell'edificio di svolge-
re le loro normali mansioni. Rose informò tutti quanti, Benton Wesley e
Pat Harvey inclusi, che mentre mi trovavo in obitorio ogni dichiarazione
era sospesa.
Domenica sera non mi restava ormai più nulla da fare. I resti di Deborah
e di Fred erano stati scarnificati, sgrassati, fotografati da ogni possibile angolo, l'inventario delle ossa ultimato. Le stavo appunto riponendo in una
scatola di cartone quando suonò il citofono sul retro. Udii i passi della
guardia notturna percorrere il corridoio, quindi il portone posteriore aprirsi. Un attimo dopo, Marino entrava in laboratorio.
«Allora, hai intenzione di dormire qui?» chiese.
Sollevai lo sguardo ed ebbi la sorpresa di notare che aveva il soprabito e
i capelli bagnati.
«Nevica.» Si tolse i guanti e piazzò la radio portatile sul bordo del tavolo
da autopsia su cui stavo lavorando.
«Mi ci mancava solo questo» sospirai.
«E viene giù che Dio la manda, capo. Passavo di qui e ho visto la tua
macchina nel parcheggio, così ho immaginato che dovevi essere chiusa in
questa caverna da stamattina all'alba e che di sicuro non te n'eri ancora resa
conto.»
Infatti me ne rendevo conto solo adesso, mentre strappavo un lungo pezzo di nastro adesivo con cui sigillare la scatola. «Non pensavo fossi di turno anche questo fine settimana, Marino.»
«Già. Invece io pensavo che mi avessi invitato a cena.»
Mi fermai a guardarlo incuriosita. Poi ricordai. «Oh, no» gemetti, lanciando un'occhiata all'orologio. Erano passate le otto. «Oh, Marino, mi dispiace tanto.»
«Non importa. Avevo comunque un paio di cosette da controllare.»
Ormai sapevo riconoscere a distanza le bugie di Marino. Quando mentiva, non mi guardava negli occhi e arrossiva. Naturalmente non era per pura
coincidenza che aveva notato la mia macchina parcheggiata fuori: mi stava
cercando, e non solo per la cena. Sentivo che aveva qualcosa per la testa.
Mi appoggiai al tavolo e gli concessi tutta la mia attenzione.
«Mi sono detto che forse ti interessava sapere che Pat Harvey è stata a
Washington, questo weekend, ed è andata a trovare il Direttore» disse.
«È stato Benton a riferirtelo?»
«Ah ah. E ha detto anche che ha cercato di mettersi in contatto con te ma
che tu non lo richiami mai. Cosa di cui pare essersi lamentata anche la Zarina in persona.»
«Infatti non ho richiamato nessuno, in questi giorni» risposi stancamente. «Ero a dir poco preoccupata, e non ho nessuna dichiarazione da fare,
capisci?»
Fissando la scatola sul tavolo, riprese: «Be', sai che Deborah e stata ammazzata con un colpo d'arma da fuoco, che è stato un omicidio: che altro
aspetti?»
«Però non so cosa abbia ucciso Fred Cheney, né se esista la possibilità
che si tratti di un affare di droga. Devo ancora vedere i risultati delle analisi tossicologiche e non intendo pronunciarmi finché non avrò davanti quei
fogli e sarò riuscita a parlare con Vessey.»
«Il tipo dello Smithsonian?»
«Abbiamo un appuntamento domani mattina.»
«Spero che tu abbia le quattro ruote motrici.»
«Piuttosto, non mi hai ancora spiegato il motivo della visita di Pat Harvey al Direttore.»
«Accusa il tuo ufficio di ostruzionismo; anzi, se è per quello accusa di
ostruzionismo anche l'Fbi. È seccatissima. Vuole vedere il referto dell'autopsia di sua figlia, i rapporti della polizia, tutto quanto, e minaccia di adire
vie legali e di sollevare un gran polverone se continueranno a respingere le
sue richieste.»
«Ma è una follia.»
«Brava. Però, se vuoi un consiglio, penso che ti convenga chiamare Benton prima di domattina.»
«E perché?»
«Non voglio che tu ne esca scottata, ecco perché.»
«Di che accidenti stai parlando, Marino?» Mi slacciai il camice.
«Sto dicendo che più continui a evitare di confrontarti con chiunque, adesso, più butti benzina sul fuoco. Secondo Benton la signora Harvey è
convinta che stiamo coprendo qualcosa, e che in un modo o nell'altro ne
siamo tutti coinvolti.»
Non ottenendo risposta, aggiunse: «Mi stai ascoltando?».
«Sì, sì. Ho ascoltato ogni singola parola.»
Prese la scatola.
«È incredibile pensare che qui dentro ci sono due persone» sì meravigliò.
Lo era, infatti. La scatola era poco più grande di un forno a microonde e
pesava cinque o sei chili. Mentre la depositava nel portabagagli della mia
macchina, sussurrai con voce quasi impercettibile: «Grazie di tutto, Mari-
no».
«Eh?»
Sapevo che mi aveva sentito ma voleva farmelo ripetere.
«Apprezzo il tuo interessamento, Marino, davvero. E mi dispiace da morire per la cena. A volte non so proprio dove ho la testa.»
La neve cadeva incessante e, come sempre, lui non aveva il cappello.
Accesi il motore e regolai il riscaldamento al massimo, quindi mi girai a
guardarlo e pensai a quanto era strano che un uomo simile riuscisse a essermi di tale conforto. Marino mi dava sui nervi più di chiunque altro al
mondo, eppure non potevo fare a meno di lui.
Chiuse la mia portiera e disse: «Be', sei in debito, allora».
Il ritorno a casa mi sembrò lungo un'eternità. Guidai lungo strade coperte di neve, concentrandomi con tanta energia che quando finalmente fui
nella mia cucina a prepararmi un drink mi sentivo la testa a pezzi. Sedetti
al tavolo, accesi una sigaretta e chiamai Benton Wesley.
«Cos'hai trovato?» fu la sua prima domanda.
«Deborah Harvey è stata colpita alla schiena con un colpo d'arma da
fuoco.»
«Sì, Morrell me ne ha parlato. Dice che si tratta di un proiettile inconsueto, un Hydra-Shok da nove millimetri.»
«Esatto.»
«E il suo ragazzo?»
«Non so cosa l'abbia ucciso. Sto aspettando il referto tossicologico e ho
bisogno di parlare con Vessey, dello Smithsonian. Per ora, i due casi restano aperti.»
«Più riesci a tirarla per le lunghe, e meglio è.»
«Come hai detto, scusa?»
«Ho detto che gradirei tenessi le cose in sospeso quanto più a lungo possibile, Kay. Non voglio che i rapporti finiscano in mano a nessuno, tanto
meno ai genitori, e soprattutto a Pat Harvey. Nessuno deve sapere che
hanno sparato a Deborah.»
«Nel senso che gli Harvey non sanno ancora?»
«Quando Morrell mi ha informato gli ho fatto promettere di tenere la
bocca chiusa. Quindi no, per quanto mi riguarda gli Harvey non sono ancora stati messi al corrente. La polizia non si è pronunciata, sanno soltanto
che la figlia e Cheney sono morti.» Fece una pausa, quindi aggiunse: «A
meno che non ci abbia già pensato tu, a dire qualcosa».
«La signora Harvey ha cercato spesso di mettersi in contatto con me, ma
negli ultimi giorni non ho parlato né con lei, né con molte altre persone.»
«Bene, continua così, Kay» disse Wesley in tono deciso. «Ti chiedo di
discutere questa faccenda solo ed esclusivamente con me.»
«Benton, prima o poi arriverà il giorno in cui dovrò dichiarare quali sono state le cause e le modalità della loro morte» ribattei in tono altrettanto
deciso. «La famiglia di Fred, la famiglia di Deborah, hanno diritto di sapere. È previsto dal Codice.»
«E tu cerca di temporeggiare il più possibile.»
«Saresti tanto gentile da dirmi perché?»
Silenzio.
«Benton?» Avevo quasi il dubbio che non fosse più in linea.
«Limitati a non prendere iniziative senza avere prima conferito con me,
Kay.» Lo sentii esitare di nuovo. «Immagino tu sappia del libro che Abby
Turnbull si è impegnata a scrivere.»
«Ho letto qualcosa sul giornale» risposi, cominciando ad arrabbiarmi.
«E ti ha contattato ancora? Voglio dire, di recente?»
Ancora? Come diavolo faceva Wesley a sapere che Abby era venuta a
trovarmi in autunno? Accidenti a te, Mark, pensai. Quando mi aveva telefonato, quella sera, gli avevo detto che lì con me c'era Abby.
«No, non la sento da tempo» tagliai corto.
6
Lunedì mattina la strada di fronte a casa mia era sepolta sotto una coltre
di neve, il cielo grigio e foriero di nuovo maltempo. Preparai una tazza di
caffè e rimasi a riflettere sulla saggezza della decisione di recarmi a Washington in macchina. Ormai pronta a rivedere drasticamente i miei piani,
telefonai alla polizia e appresi che la I-95 Nord era sgombra: a Fredericksburg non erano caduti più di un paio di centimetri di neve. Visto e considerato che però la macchina dell'ufficio non ce l'avrebbe fatta a uscire dal
vialetto, decisi di caricare la scatola sulla mia Mercedes.
Mentre imboccavo l'interstatale mi resi conto che, se avessi avuto un incidente o fossi stata fermata dalla polizia, avrei avuto qualche difficoltà a
spiegare come mai nel bagagliaio della mia auto privata trasportavo scheletri umani. A volte esibire il distintivo di patologo legale non bastava, e
non avrei mai dimenticato la volta in cui, volando verso la California con
una grossa borsa piena di attrezzature sadomaso, il mio scottante bagaglio
si era arenato nel tunnel d'ispezione ai raggi X e io ero stata prontamente
condotta via dalla polizia aeroportuale per un vero e proprio interrogatorio.
A dispetto di tutto quanto avevo detto, non erano riusciti a convincersi che
ero una patologa forense diretta alla riunione annuale dell'Associazione
Nazionale Medici Legali, dove avrei presentato una relazione sul processo
di asfissia autoerotica. Le manette, i guinzagli con borchie, le cinghie di
cuoio e altre piacevolezze non erano altro che prove raccolte nel corso di
indagini passate e non mi appartenevano affatto.
Alle dieci e mezzo entravo a Washington e poco dopo riuscii a trovare
un buco libero in un parcheggio a un isolato di distanza dalla Dodicesima e
da Constitution Avenue. Non mi recavo allo Smithsonian National Museum di storia naturale da quando, diversi anni prima, avevo frequentato
un corso di antropologia forense. Penetrando con la mia scatola nell'atrio
fragrante di orchidee e ronzante di turisti, sognai di potermene gironzolare
libera e spensierata fra diamanti e dinosauri, sarcofaghi e mastodonti, ignara degli altri, ben più truci tesori alloggiati fra quelle mura.
In ogni centimetro di spazio non esposto agli sguardi dei visitatori erano
infatti stipati cassetti di legno verde contenenti, fra altri reperti ormai privi
di vita, più di tremila scheletri umani. Tutte le settimane il servizio celere
della posta recapitava ossa di ogni ordine e grado destinate all'esame del
dottor Alex Vessey. In alcuni casi si trattava di reperti archeologici, in altri
di semplici artigli d'orso o di castoro, di crani idrocefali di vitelli, di ossa
dall'aspetto umano rinvenute sul ciglio di una strada o portate alla luce da
un aratro, gli indizi sospetti di un caso di morte violenta. Altri pacchi contenevano veramente cattive notizie, ed erano le ossa delle vittime di assassinii. Oltre a essere naturalista e curatore del museo, il dottor Vessey lavorava per l'Fbi e forniva assistenza ad altri operatori del settore come me.
Ottenuto l'okay da parte di un'arcigna guardia di sicurezza, mi attaccai al
bavero il lasciapassare e puntai verso l'ascensore di ottone che mi portò al
terzo piano. Mentre sfilavo tra due pareti di cassetti lungo un corridoio
buio e affollato, i mormorii e i passi dei piani inferiori svanirono. Cominciai a provare un vago senso di claustrofobia. Ricordo ancora la fame disperata di sollecitazioni che mi attanagliava dopo otto ore di lezione là
dentro, quando alla fine della giornata scappavo, lieta di mescolarmi alla
folla dei marciapiedi, e i rumori del traffico erano un autentico sollievo.
Trovai il dottor Vessey esattamente dove l'avevo lasciato l'ultima volta,
in un laboratorio ingombro di carrelli d'acciaio sormontati da scheletri di
uccelli e animali, denti, femori, mandibole. Gli scaffali erano coperti da al-
tre ossa e infelici ritrovamenti umani, come crani e teste rimpicciolite.
Vessey, capelli bianchi e occhiali spessi, era seduto alla scrivania e parlava
al telefono. Mentre la conversazione giungeva al termine, aprii la scatola e
ne estrassi la busta di plastica contenente l'osso della mano sinistra di Deborah Harvey.
«La figlia della Zarina?» chiese lui immediatamente, togliendomi la busta di mano.
Una domanda strana e appropriata al tempo stesso, visto che Deborah
era ormai ridotta a un semplice oggetto di curiosità scientifica, uno straccio
di prova materiale.
«Sì» risposi, mentre Vessey estraeva dalla busta la falange e iniziava a
rigirarla delicatamente sotto la luce.
«Per quanto mi riguarda, posso dirti subito che questo taglio non risale a
dopo la morte. Se certe vecchie ferite possono sembrare ancora fresche,
Kay, nessuna ferita recente può sembrare vecchia» spiegò. «L'interno del
taglio appare scolorito dagli agenti ambientali in modo del tutto coerente
con il resto della superficie ossea. Inoltre, il fatto che il margine si presenti
ripiegato all'indietro mi induce a pensare che il taglio non sia stato inflitto
a un osso morto. Il tessuto osseo vivo si slabbra, quello morto no.»
«Esattamente la mia conclusione» dissi, avvicinandomi una sedia. «Ma
tu sai che la domanda verrà sollevata, Alex.»
«Ed è giusto che lo sia» rispose, spiandomi al di sopra degli occhiali.
«Tu non crederesti alle cose che mi passano sotto gli occhi qui dentro.»
«Ho idea che ci crederei sì, invece» ribattei. Purtroppo, il grado di competenza variava in maniera drammatica da stato a stato.
«Un paio di mesi fa, un coroner mi manda un caso: un ammasso di ossa
e tessuti denunciati come appartenenti a un neonato rinvenuto in uno scarico delle fogne. Mi prega di identificare il sesso e la razza. Morale della favola, è un segugio inglese maschio, di due settimane. Non molto tempo
prima, un altro coroner che evidentemente di patologia si intende quanto
un botanico, mi spedisce uno scheletro trovato in una fossa poco profonda.
Non riusciva a capire di cosa fosse morto. Durante l'esame conto ben quaranta e passa ferite con labbro ripiegato. Era chiaro come il sole che non si
trattava di morte naturale.» Con l'orlo del camice si pulì gli occhiali. «Naturalmente capita di vedere anche il contrario, tagli procurati nel corso dell'autopsia.»
«Secondo te esiste anche solo una possibilità che sia opera di qualche
predatore?» chiesi, nonostante fossi la prima a non crederci.
«Be', non è sempre facile distinguere un taglio dal segno lasciato da un
carnivoro. Ma sono praticamente certo che in questo caso si è trattato di
una lama.» Alzandosi, aggiunse in tono più allegro: «Forza, diamo un'occhiata».
I piccoli particolari antropologici che a me causavano tanto stress erano
per il dottor Vessey una specie di fonte di gioia, e mentre si spostava al
microscopio sul banco e centrava l'osso sul vetrino, lo vidi rianimarsi. Dopo un lungo attimo di silenzio trascorso a osservare e risistemare il reperto
nel campo di luce sotto le lenti, commentò: «Caspita, interessante».
Attesi chiarimenti.
«È l'unico taglio che hai trovato?»
«Sì» risposi. «Magari scoprirai dell'altro nel corso del tuo esame ma,
come ti accennavo, personalmente non ho trovato nulla, a parte il foro
d'entrata del proiettile. Nelle lombari inferiori, la decima dorsale.»
«Sì. Mi dicevi che ha sfondato il midollo spinale.»
«Esatto. Le hanno sparato alla schiena. Ho recuperato la pallottola dalla
vertebra.»
«Hai idea di dove sia avvenuto lo sparo?»
«No. Non sappiamo nemmeno se si trovava già nel bosco, quando è stata
colpita.»
«E poi c'è questo taglio alla mano» rifletté il dottor Vessey, continuando
a sbirciare nel microscopio. «Impossibile sapere cosa sia venuto prima. Di
sicuro è subentrata una paralisi dalla vita in giù, dopo il colpo, ma probabilmente era ancora in grado di muovere le mani.»
«Magari mentre si difendeva?» chiesi, dando voce ai miei sospetti.
«Se è una ferita da difesa, Kay, è molto inconsueta. Il taglio è dorsale.»
Si appoggiò allo schienale della sedia e sollevò gli occhi su di me. «La
maggior parte delle ferite da difesa alle mani, invece, sono palmari.» Distese un braccio, il palmo all'insù. «Lei si è tagliata sopra la mano.» Ruotò
il braccio all'ingiù. «In genere tendo ad associare le ferite dorsali con individui molto aggressivi nel difendersi.»
«Stai pensando a dei pugni?» dissi.
«Esatto. Se io ti vengo incontro con un coltello e tu mi respingi con un
pugno, è probabile che resti ferita sul dorso della mano. Comunque è sicuro che non ti taglierai il palmo, a meno che a un certo punto tu non distenda le dita. Ma il dato più significativo è che quasi tutte le ferite da difesa
sono tagli. L'assalitore fa roteare l'arma e la vittima solleva le mani o gli
avambracci per ripararsi dall'attacco. Se però l'arma penetra abbastanza in
profondità da toccare l'osso, è più difficile individuare con precisione il tipo di lama usato.»
«Nel senso che se il filo è seghettato» intervenni, «in un taglio profondo
la lama copre la traccia del suo passaggio.»
«E questa è una delle ragioni per cui la ferita in questione mi sembra
tanto interessante» disse. «Non c'è ombra di dubbio che è stata prodotta da
una lama seghettata.»
«Dunque non si tratta di semplici tagli ma di colpi, come per fare a pezzi?» chiesi, perplessa.
«Sì.» Rimise l'osso nella busta. «Le tacche lasciate dai denti mi dicono
che almeno un centimetro di lama ha colpito perpendicolarmente il dorso
della mano.» Tornando alla scrivania, aggiunse: «Purtroppo è l'unica cosa
che riesco a dirti circa l'arma e il modo in cui può essere stata usata. Come
ben sai, le variabili sono infinite, quindi non posso pronunciarmi sulle dimensioni della lama, né affermare se la ferita sia precedente o successiva
allo sparo o in che posizione si trovasse la ragazza quando l'ha subita.»
Deborah poteva trovarsi a terra supina. O forse era in ginocchio, o magari ancora in piedi. Mentre tornavo alla macchina, il mio cervello riprese ad
analizzare le varie ipotesi. Il taglio sulla mano era profondo e quindi doveva aver sanguinato in abbondanza. Questo induceva a pensare che, nel momento in cui era stata inferta la ferita, si trovasse già per strada o nel bosco,
visto che nella jeep non erano state rinvenute tracce di sangue. Aveva lottato? Quella giovane ginnasta di cinquanta chili aveva opposto resistenza
al suo assalitore? Aveva cercato di prenderlo a pugni? Terrorizzata, stava
lottando per sopravvivere mentre magari Fred era già stato ucciso? E la pistola? Perché il killer aveva usato due armi diverse? Apparentemente, infatti, non si era servito di un'arma da fuoco per uccidere il ragazzo.
Mi sentivo incline a pensare che piuttosto gli fosse stata tagliata la gola.
E forse, dopo essere stata uccisa, anche Deborah aveva fatto la stessa fine,
o magari era stata strangolata. Comunque non era stata lasciata a morire
dopo il colpo. E non poteva essersi trascinata mezzo paralizzata fino al
fianco di Fred, per poi infilare un braccio sotto il suo. I loro corpi erano
stati deliberatamente sistemati in quella posizione.
Abbandonata Constitution Avenue mi inserii sulla Connecticut, e poco
dopo giunsi in un quartiere nord-occidentale della città che, non fosse stato
per la presenza dell'Hilton, sarebbe stato poco più di un sobborgo di baracche. L'albergo sorgeva su un declivio erboso, imponente come un transatlantico bianco circondato da un burrascoso mare di negozi di liquori, la-
vanderie automatiche, club notturni che promettevano "danze dal vivo" e
case a schiera ormai cadenti, i buchi delle finestre riparati da cartoni, le verande di cemento direttamente affacciate sulla strada. Parcheggiata la macchina nel posteggio sotterraneo dell'hotel, attraversai Florida Avenue e salii i gradini d'entrata di un misero palazzo in mattoni scuri, un tendone azzurro sbiadito che sporgeva dalla facciata. Premetti il pulsante dell'appartamento 28, quello in cui viveva Abby Turnbull.
«Chi è?»
La voce che mi gracchiò dal citofono era quasi irriconoscibile, e quando
dissi il mio nome non capii ciò che Abby mi borbottò in risposta. O forse
era stato un semplice gemito di sorpresa. Poi udii il click del portone che si
apriva.
Entrai in un atrio fiocamente illuminato, con una moquette marrone
sporca di terra e una fila di cassette delle lettere in ottone annerito. Mi tornarono in mente i timori di Abby che qualcuno frugasse nella posta. Certo
non aveva l'aria di poter essere qualcuno che entrava e usciva indisturbato
dal portone senza possedere la chiave. E anche per arrivare al contenuto
delle cassette occorreva una chiave. Ciò che mi aveva detto a Richmond,
in quella serata d'autunno, mi suonava ora falso, e al termine di cinque
rampe di scale avevo il fiato corto e una gran rabbia.
Abby mi aspettava sulla soglia.
«Che ci fai qui?» sussurrò, la faccia spenta.
«Sei l'unica persona che conosco in tutto il palazzo, Abby, quindi indovina un po' cosa sono venuta a fare.»
«Non sarai venuta a Washington solo per vedere me?» Aveva gli occhi
spaventati.
«No, ero già qui per lavoro.»
Attraverso la porta aperta colsi uno scorcio di mobili bianco ghiaccio,
cuscini color pastello e alcune stampe di Gregg Garbo, tutte cose che ricordavo di avere già visto nella sua casa di Richmond. Per un attimo fui
sopraffatta dal ricordo sconvolgente di quel giorno. Immagini del corpo in
decomposizione della sorella, sul letto al piano di sopra, un andirivieni di
agenti e personale paramedico, Abby seduta sul divano in preda a tremiti
così violenti da non riuscire a tenere in mano la sigaretta. Allora la conoscevo solo di fama e non mi stava affatto simpatica. Quando sua sorella era
stata assassinata, almeno si era guadagnata la mia compassione: per arrivare alla mia fiducia, era occorso ancora molto tempo.
«So che non mi crederai» sussurrò di nuovo, «ma sarei venuta da te la
settimana prossima.»
«Ho anche un telefono.»
«Ma non potevo» disse in tono supplichevole, restando impalata sulla
soglia.
«Hai intenzione di farmi entrare, Abby?»
Scosse la testa.
Un brivido di paura mi percorse la spina dorsale.
Lanciando un'occhiata alle sue spalle, chiesi piano: «C'è qualcun altro, in
casa?».
«Facciamo una passeggiata» mi bisbigliò.
«In nome di Dio, Abby...»
Mi guardò con occhi severi e si portò un dito alle labbra.
Ero certa che avesse perso la testa ma, non sapendo che altro fare, rimasi
ad aspettarla sul pianerottolo mentre lei rientrava a prendere il cappotto.
Quindi la seguii fuori dall'edificio e per una mezz'ora buona ci limitammo
a camminare a passo sostenuto lungo Connecticut Avenue, senza scambiare una parola. Mi portò al Mayflower Hotel e scelse un tavolo nell'angolo
più buio della sala bar; ordinai un espresso, mi appoggiai allo schienale
della sedia e restai a guardarla in preda a una certa tensione.
«So che non capisci cosa sta succedendo» esordì, lanciandosi un'occhiata attorno. Erano le prime ore del pomeriggio, il bar era pressoché vuoto.
"Abby? Stai bene, Abby?"
Il labbro inferiore ebbe un tremito. «Non potevo chiamarti. Non sono
nemmeno libera di parlare con te in casa mia, accidenti! È come ti avevo
detto a Richmond, solo mille volte peggio.»
«Hai bisogno di farti vedere da qualcuno» dissi con molta calma.
«Non sono pazza.»
«Sei a un passo dal crollo nervoso.»
Inspirando profondamente, mi guardò con fierezza negli occhi. «Sono
pedinata, Kay. Sono sicura che il mio telefono è controllato, e non posso
escludere che abbiano installato delle microspie anche nel mio appartamento, ecco perché non ti ho fatto entrare. Ma tu fai pure. Continua pure a
pensare che sono paranoica, psicotica, tutto quello che ti pare. Il fatto è che
qui ci vivo io, non tu. Io so cosa ho passato, so parecchio su questi casi e
so quel che mi è successo dal giorno in cui ne sono rimasta coinvolta.»
«Dimmi, allora, cosa ti sta succedendo?»
La cameriera arrivò con le ordinazioni. Quando se ne fu andata, Abby
riprese: «Qualche giorno dopo essere venuta con te a Richmond, mi sono
entrati in casa.»
«Una rapina?»
«Oh, no.» La sua risata suonò falsa. «Affatto. Troppo furbo - o troppo
furbi - per una rapina. Di fatto non mi hanno rubato niente.»
La guardai con aria interrogativa.
«Ho un computer che uso per scrivere i miei pezzi, e sul disco fisso ho
un file che riguarda le coppie misteriosamente scomparse e uccise. Sono
mesi che prendo appunti e che li riverso in questo file. Il programma ha un'opzione che crea automaticamente un backup di tutto quello che stai scrivendo, e l'ho regolato perché entri in azione ogni dieci minuti. È per essere
sicura di non perdere lavoro prezioso anche se salta la corrente, o qualcosa
del genere. Soprattutto nel mio palazzo.»
«Abby» la interruppi, «mi dici di che diavolo stai parlando?»
«Sto dicendo che se apri un file, sul mio computer, e ci lavori sopra per
almeno dieci minuti; non solo si crea un backup, ma quando salvi ed esci
restano registrate la data e l'ora dell'operazione. Mi segui?»
«Non ne sono certa.» Presi il mio espresso.
«Ricordi quando venni a trovarti?»
Annuii.
«Be', al Seven-Eleven presi degli appunti, mentre parlavo con la cassiera.»
«Sì, sì, ricordo.»
«E a Richmond parlai con diverse persone, Pat Harvey compresa. Avevo
intenzione di inserire i nuovi dati nel computer appena arrivata a casa, ma
poi successero un po' di pasticci. Come appunto ricorderai, ci incontrammo
un martedì sera e tornai a Washington la mattina dopo. Be', quello stesso
giorno, mercoledì, verso l'una andai dal caporedattore e lui sembrò avere
improvvisamente perso ogni interesse alla cosa. Disse che preferiva tenere
in sospeso il pezzo sul caso Harvey-Cheney, perché per qualche weekend
aveva deciso di pubblicare una serie di articoli sull'Aids.
«A me parve strano» continuò. «Voglio dire, il caso Harvey-Cheney era
molto scottante, all'epoca, il "Post" non vedeva l'ora di uscire con qualcosa. Ti pare logico che torno da Richmond e loro mi affidano un nuovo incarico?» Fece una pausa per accendersi una sigaretta. «Morale della favola, fino a sabato non ho un attimo libero e quando finalmente mi siedo davanti al computer, vedo registrati una data e un'ora che non mi tornano per
niente: venerdì, venti settembre, quattordici e trenta. Non ero nemmeno a
casa, capisci? Insomma, qualcuno mi aveva aperto il file, Kay, e non pote-
vo essere stata io perché non avevo più toccato il computer - nemmeno
sfiorato, credimi - fino a sabato ventuno, l'unico momento in cui ebbi un
po' di tempo a mia disposizione.»
«Forse l'orologio interno del tuo computer non...»
Ma Abby stava già scuotendo la testa. «No, ho controllato. Funzionava
benissimo.»
«Ma come può essere successo? Insomma, come fa uno a entrarti in casa
senza che nessuno se ne accorga, nemmeno tu?»
«All'Fbi sono degli specialisti.»
«Abby!» sbottai, esasperata.
«Ci sono molte cose che non sai.»
«E allora mettimi al corrente, per favore.»
«Perché mai credi che abbia preso l'aspettativa?»
«Stando a quel che dice il "New York Times" stai scrivendo un libro.»
«Quindi tu parti dal presupposto che all'epoca, quando venni da te a Richmond, io avessi già in mente di farlo.»
«È più di un'ipotesi, mi pare» risposi, mentre la rabbia tornava a ribollirmi dentro.
«E invece no. Te lo giuro, Kay.» Sporgendosi in avanti, con voce carica
di emozione aggiunse: «Mi cambiarono l'incarico. Capisci cosa significa
questo?».
Non sapevo cosa dire.
«Peggio di così avrebbero potuto soltanto licenziarmi, ma non erano in
grado di farlo. Non avevano il minimo pretesto. Cristo santissimo, l'anno
scorso ho vinto un premio come migliore cronista investigativa e adesso,
di colpo, mi vogliono ai servizi speciali. Mi hai sentito bene? Servizi speciali. E ora dimmi cosa dovrei pensare?»
«Non lo so, Abby» risposi.
«Non lo so neanch'io, ecco cosa.» Ricacciò le lacrime. «Ma un po' di orgoglio ce l'ho ancora. So che sta succedendo qualcosa di grosso, così vendo la storia. Ecco. Pensa pure quello che vuoi, ma sto solo cercando di sopravvivere. Devo tirare a campare e, per un po', starmene lontana dal giornale. Servizi speciali. Oh, Dio, Kay, ho così paura.»
«Dimmi dell'Fbi» dissi con voce ferma.
«Ti ho già raccontato quasi tutto. L'uscita sbagliata sulla I-64, Camp Peary e gli agenti Fbi che mi vengono a cercare in redazione.»
«Sì, ma non è abbastanza.»
«Il fante di cuori, Kay» disse, come se mi stesse parlando di qualcosa di
cui ero già al corrente.
Quando comprese che non avevo la minima idea di cosa si trattasse, la
sua espressione si tramutò in autentico stupore.
«Non lo sai?» esclamò.
«Che fante di cuori?»
«In ognuno dei casi in questione è stata ritrovata una carta da gioco.» I
suoi occhi sbalorditi erano fissi su di me.
Allora ricordai vagamente di aver letto qualcosa in una delle poche trascrizioni degli interrogatori della polizia che mi erano girati per le mani.
L'investigatore di Gloucester aveva parlato con un amico di Bruce Phillips
e Judy Roberts, la prima coppia. Quali erano state le domande che aveva
posto? Ricordavo soltanto che mi avevano colpito per la loro stranezza.
Carte da gioco, Judy e Bruce avevano l'abitudine di giocare a carte? L'amico aveva mai notato delle carte a bordo della Camaro di Bruce?
«Parlamene, Abby, dimmi delle carte» la pregai.
«Hai presente cos'era l'asso di picche in Vietnam? Come veniva usato?»
Le risposi di no.
«C'era un reparto speciale di soldati americani che, quando voleva sottolineare l'importanza di un'esecuzione, lasciava sul cadavere della vittima
un asso di picche. Sta di fatto che una società produttrice di carte da gioco
ebbe addirittura l'incarico di fornire scatole di carte esclusivamente per
questo scopo.»
«E cosa c'entra questo con lo Stato della Virginia?» chiesi, disorientata.
«Be', esiste un parallelo. Solo che qui non stiamo parlando di assi di picche ma di fanti di cuori. In ognuno dei primi quattro casi, nell'auto abbandonata è stato rinvenuto un fante di cuori.»
«E questa informazione dove l'hai pescata?»
«Sai che non posso dirtelo, Kay. Comunque, mi è arrivata da più di una
fonte. Ecco perché ne sono tanto sicura.»
«E una delle tue fonti ti ha per caso detto che hanno trovato una carta
anche nella jeep di Deborah Harvey?»
«Perché, l'hanno trovata?» rispose, mescolando adagio il drink.
«Non giocare con me, Abby» reagii.
«Non sto giocando.» Questa volta mi guardò negli occhi. «Se hanno trovato un fante anche nella sua macchina o da qualche altra parte, io non ne
so niente. Naturalmente è un particolare importante, perché se così fosse
stabilirebbe un legame sicuro fra le morti di Deborah Harvey e Fred Cheney con quelle delle prime quattro coppie. Credimi, io stessa sono alla di-
sperata ricerca dell'anello di collegamento, ma non sono sicura che esista.
O, se esiste, non so ancora come interpretarlo.»
«E tutto ciò cos'ha a che fare con l'Fbi?» chiesi con una certa riluttanza.
Non ero sicura di voler udire la sua risposta.
«L'Fbi si è interessata a questi casi fin dall'inizio, Kay, ed è una cosa che
va ben al di là della normale partecipazione del VICAP. La storia delle
carte loro la sanno da tempo. Quando trovarono il primo fante di cuori nella Camaro, sul cruscotto, nessuno vi prestò particolare attenzione. Poi
scompare la seconda coppia, ed ecco un altro fante, questa volta sul sedile
del passeggero. Quando Benton Wesley lo seppe, cominciò subito un giro
di controlli. Tornò dal detective della contea di Gloucester e gli disse di
non fare parola della carta rinvenuta nella Camaro; poi andò dall'investigatore responsabile del secondo caso e gli ordinò la stessa cosa. Ogni volta
che trovavano una macchina abbandonata, Wesley si metteva subito in
contatto telefonico con chi si occupava delle indagini.»
Fece una pausa, studiandomi con l'aria di chi spera di leggerti nel pensiero. «Immagino non avrei dovuto stupirmi troppo nello scoprire che non
sapevi» disse poi. «Nel senso che per la polizia non è certo un problema
nascondere quanto è stato ritrovato a bordo delle varie auto.»
«No, non è proprio un problema» le feci eco. «Se le carte fossero state
rinvenute sui corpi, allora sarebbe stato un altro paio di maniche: non potrebbero mai tenermi all'oscuro di una cosa simile.»
Ma mentre pronunciavo quelle parole, sentii il tarlo del dubbio insinuarmisi nel cervello. La polizia aveva aspettato ore, prima di convocarmi
sulla scena del delitto. E quando c'ero arrivata, Wesley era già là e i corpi
di Deborah Harvey e Fred Cheney erano stati toccati, perquisiti.
«Mi sembra naturale che l'Fbi abbia preferito tacere» continuai a ragionare a voce alta. «Si tratta di un particolare di vitale importanza per l'esito
delle indagini.»
«Oh, sono così stufa di sentire queste stronzate» sbottò Abby infastidita.
«Il particolare dell'assassino che si lascia dietro un "biglietto da visita" è di
vitale importanza solo se il colpevole si fa avanti e confessa di avere messo una carta da gioco in ognuna delle macchine senza che nessuno possa in
alcun modo avergli parlato di questo dettaglio. Peccato che non credo proprio che ciò avverrà. Così come non credo che l'Fbi sia scesa in campo solo per garantire che nulla disturbi le indagini.»
«E allora perché?» chiesi, a disagio.
«Perché non si tratta di una semplice catena di omicidi. Non ci troviamo
davanti a un pazzo che ha un conto aperto con le coppiette. Qui c'è di mezzo la politica. Deve esserci di mezzo la politica.»
Si fece improvvisamente taciturna, mentre il suo sguardo incrociava
quello della cameriera. Rimase in silenzio finché non ci venne servito il
secondo giro di drink e ne ebbe bevuto qualche sorso.
«Kay» riprese infine, un po' più calma. «Ti sorprende che Pat Harvey
abbia accettato di parlare con me, quando mi trovavo a Richmond?»
«Sì, francamente mi sorprende.»
«Ti sei chiesta come mai accettò di farlo?»
«Immagino che all'epoca fosse disposta a tutto, pur di rivedere la figlia»
dissi. «A volte la pubblicità può aiutare.»
Abby scosse la testa. «Quando parlai con Pat Harvey, lei mi disse un
sacco di cose che mai e poi mai avrei messo per iscritto. E non è stato
nemmeno l'unico incontro che ho avuto con lei, sai?»
«Non capisco.» Mi sentivo scossa dalla testa ai piedi, e certo non era solo per l'effetto del caffè.
«Tu sai della sua crociata contro le associazioni di beneficenza.»
«Vagamente.»
«Be', fui io a passarle la prima informazione che la mise all'erta.»
«Tu?»
«L'anno scorso lavorai a un grosso reportage sul traffico di stupefacenti.
Nel corso delle mie ricerche mi imbattei in una serie di testimonianze che
non ero in grado di verificare da sola, a proposito delle illegalità commesse
da queste presunte opere pie. Pat Harvey ha un appartamento, qui a Washington, a Watergate, e una sera andai a casa sua per intervistarla, giusto
per avere un paio di citazioni da infilare nel mio articolo. Cominciammo a
parlare e alla fine le dissi delle voci che avevo sentito. Volevo vedere se in
qualche modo poteva corroborarle. Fu così che ebbe inizio tutto quanto.»
«A cosa ti riferisci, esattamente?»
«All'ACTMAD, per esempio» rispose. «Si insinuava che alcune di queste associazioni antidroga fungessero in realtà da coperture per dei cartelli
di narcotraffico e altre attività illegali con base in Centroamerica. Le dissi
che ero stata informata da quelle che considero fonti attendibili che milioni
di dollari donati ogni anno alle associazioni finivano in realtà nelle tasche
di individui come Noriega. Naturalmente, questo prima che Noriega venisse arrestato. Ma si pensa che i fondi dell'ACTMAD e di altri cosiddetti
gruppi di beneficenza vengano utilizzati per comprare agenti dei servizi
segreti americani e facilitare così i traffici di eroina proveniente dall'Ame-
rica del Sud e dall'Estremo Oriente attraverso gli aeroporti e le dogane panamensi.»
«E, prima della tua visita a casa sua, Pat Harvey non ne aveva mai sentito parlare?»
«Mai, Kay. Non credo avesse ancora il minimo sospetto, e reagì con
grande indignazione. Cominciò a indagare e alla fine presentò al Congresso un rapporto circostanziato. Venne così formata una commissione speciale con compiti investigativi e, come probabilmente sai, lei venne chiamata in qualità di consulente. A quanto pare è riuscita a scoprire parecchie
cose, e per il mese di aprile è stata fissata una vera e propria udienza. Come potrai intuire, la cosa dà fastidio a parecchie persone, compreso il Dipartimento di Giustizia.»
Iniziavo a capire dove stavamo andando a parare.
«Sono coinvolti informatori a cui la Dea, l'Fbi e la Cia danno la caccia
da anni. E tu sai come funzionano le cose, no? Una volta coinvolto il Congresso, si ottiene il potere di offrire particolari immunità in cambio di informazioni preziose. Se gli informatori in questione testimonieranno all'udienza, la partita è chiusa. E il Dipartimento di Giustizia non sarà più in
grado di perseguirli ufficialmente.»
«Insomma, mi stai dicendo che gli sforzi di Pat Harvey non sono visti
esattamente di buon occhio dal Dipartimento di Giustizia.»
«Sto dicendo che il Dipartimento si sfregherebbe le mani se le sue indagini andassero all'aria.»
«Ma la responsabile nazionale della politica antidroga, o Zarina della
droga che dir si voglia, dipende dalla Procura generale, da cui dipendono a
loro volta l'Fbi e la Cia. Se gli interessi della signora Harvey sono in conflitto con quelli del Dipartimento di Giustizia, perché il procuratore generale non interviene?»
«Perché non è con lui che la Harvey ha dei problemi, Kay. Tutto il suo
lavoro non farà che giovargli, anzi. A lui e alla Casa Bianca. La loro Zarina sta per sferrare un colpo decisivo al mondo del crimine legato al narcotraffico. Ciò che il cittadino medio non è in grado di comprendere è che,
per quanto riguarda l'Fbi e la Dea, le conseguenze dell'udienza non avranno invece sufficiente risonanza. Le organizzazioni verranno scoperte e si
saprà quali erano le loro vere attività. Una pubblicità del genere toglie di
scena tutti i gruppi che agiscono come l'ACTMAD, ma i porci responsabili
se la cavano con una pena minima. Così, gli agenti che hanno lavorato ai
casi si ritrovano con in mano un pugno di mosche e in realtà nessuno rie-
sce a fare piazza pulita. Il fatto è che i cattivi ci saranno sempre. È come
chiudere un locale perché è mal frequentato: due settimane dopo, riapre all'angolo della strada di fianco.»
«Non riesco ancora a capire in che modo tutto questo c'entri con quanto
è successo alla figlia di Pat Harvey» ripetei.
«Okay, allora partiamo di qui. Se fossi ai ferri corti, cortissimi, con l'Fbi,
come ti sentiresti se tua figlia scomparisse e il caso venisse affidato proprio a loro?»
Non era un pensiero gradevole. «Mah, giusto o sbagliato che sia mi sentirei molto vulnerabile e diventerei un po' paranoica. Immagino che farei
fatica ad accordare loro la fiducia necessaria.»
«Ecco. Questi, più o meno, sono i sentimenti che agitano Pat Harvey.
Sono convinta che creda veramente che qualcuno si è servito di sua figlia
per arrivare fino a lei, che Deborah non sia stata una vittima casuale ma
piuttosto un bersaglio preciso. E non è affatto sicura che in tutta la faccenda non ci sia lo zampino dell'Fbi.»
«Un momento, un momento» la interruppi. «Fammi riassumere. Stai
cercando di dirmi che Pat Harvey sospetta l'Fbi della morte di Fred e della
figlia?»
«Diciamo che ha come la sensazione che siano coinvolti gli agenti federali.»
«E tu? Anche tu saresti di questa opinione?»
«In questo momento sarei pronta a credere a qualunque cosa.»
«Oh, buon Dio» mormorai.
«Lo so che ti suona a dir poco folle, ma come minimo sono sicura che
l'Fbi sia al corrente di quanto sta succedendo, e magari anche di chi ci sta
dietro. Ecco perché sono un problema: i federali non vogliono che vada a
ficcare il naso in giro, capisci? Temono che sollevando qualche sasso possa scoprire cosa si agita sotto.»
«Se fosse così» le ricordai «credo che il "Post" sarebbe pronto a darti un
aumento, più che a spostarti ai servizi speciali. Non mi è mai parso un
giornale che si lasci intimidire facilmente.»
«Io non sono Bob Woodward» disse Abby con molta amarezza. «Non ci
lavoro neanche da molto tempo, e gli scoop in collaborazione con la polizia valgono quanto la merda di gallina: è proprio il terreno in cui vanno a
sporcarsi le mani i novellini. Se al direttore dell'Fbi o a qualcuno della Casa Bianca vengono i cinque minuti e vogliono trattare con i pezzi grossi
del "Post", di sicuro io non vengo invitata alla riunione, né è scontato che
poi mi raccontino cosa diavolo sta succedendo.»
Forse aveva ragione. Se il modo di comportarsi di Abby all'interno della
redazione era questo, non c'era da stupirsi che non volessero avere a che
fare con lei. Anzi, a ben pensare non ero poi così sorpresa del fatto che le
avessero tolto l'incarico.
«Mi dispiace, Abby» dissi. «Capisco che forse nel caso di Deborah ci sia
di mezzo la politica. Ma le altre quattro coppie? Come le fai rientrare nel
quadro generale? La prima scomparve con due anni e mezzo di anticipo su
Deborah e Fred.»
«Non ho una risposta a tutto, Kay» replicò con veemenza. «Però giuro
su Dio che qualcuno sta cercando di coprire qualcosa. Qualcosa che il governo e l'Fbi non vogliono che il pubblico venga a sapere. E ti dirò di più:
anche se gli omicidi cessassero, la verità non verrà mai fuori se l'Fbi avrà
partita vinta. Ecco contro cosa mi sto scontrando. E contro cosa ti stai
scontrando anche tu.» Mentre finiva il drink, aggiunse: «E forse andrebbe
anche bene, se solo questa catena di assassinii si interrompesse. Ma il problema è quando? Quando si interromperà? E prima non si sarebbe potuto
fare nulla perché non accadesse?»
«Perché mi dici tutto questo?» chiesi in tono tagliente.
«Stiamo parlando di ragazzini innocenti che pagano con la vita. Non
vorrei suonarti ovvia e banale, ma io mi fido di te. E forse ho anche bisogno di un'amica.»
«Insomma, continuerai a scrivere il libro?»
«Sì. Spero solo di trovare un buon finale.»
«Stai attenta, Abby. Per favore.»
«Lo so, Kay, lo so.»
Quando uscimmo dal bar era ormai scuro e faceva molto freddo. Mi incamminai con la testa in subbuglio tra la folla del marciapiede, e le cose
non migliorarono durante il tragitto di ritorno a Richmond. Avrei voluto
parlare con Pat Harvey, ma non osavo farlo. Avrei voluto parlare con Benton Wesley, ma sapevo che non mi avrebbe confidato i suoi segreti, se mai
ne esistevano, e mai come in quel momento sentii di dubitare della nostra
amicizia.
Appena rientrata in casa, chiamai Marino.
«Dove abita Hilda Ozimek, nella Carolina del Sud?» chiesi.
«Perché? Che accidenti hai trovato allo Smithsonian?»
«Rispondi alla mia domanda, per favore.»
«In un paesino sperduto chiamato Six Mile.»
«Grazie.»
«Ehi! Prima di riappendere ti spiacerebbe dirmi cos'hai fatto oggi a Washington?»
«Non adesso, Marino. Se non riesco a raggiungerti io domani, prova a
cercarmi tu.»
7
Alle 5,45 del mattino l'International Airport di Richmond era deserto. I
ristoranti chiusi, pile di giornali abbandonate di fronte alle serrande abbassate dei negozi di articoli da regalo, un inserviente che, come un sonnambulo, spingeva adagio un carrello della spazzatura e raccattava carte di
gomma da masticare e mozziconi di sigaretta.
Trovai Marino al terminal USAir, gli occhi chiusi e l'impermeabile ripiegato a mo' di cuscino sotto la testa. La sala in cui si era addormentato
era invasa dalla luce artificiale, priva di ricambio d'aria, e ospitava una distesa di sedie vuote su moquette azzurra a pallini. Per un istante lo guardai
come se non lo conoscessi, e sentii il cuore stringersi in una morsa di tristezza e dolcezza al tempo stesso. Marino era invecchiato.
Lo avevo conosciuto pochi giorni dopo l'inizio del mio nuovo lavoro. Mi
trovavo in obitorio per un'autopsia, quando un individuo massiccio e dal
volto impassibile era entrato in sala e si era fermato dalla parte opposta del
tavolo operatorio. Ricordavo ancora il suo freddo sguardo, la spiacevole
sensazione di essere sezionata dai suoi occhi con la stessa precisione con
cui io stavo sezionando il cadavere sul tavolo.
«Così lei è il nuovo capo.» Lo aveva detto quasi in tono di sfida, come
per obbligarmi ad ammettere che mi credevo all'altezza di una posizione
fino a quel momento mai occupata da una donna.
«Sono la dottoressa Scarpetta» avevo replicato. «Lei è della polizia di
Richmond, immagino?»
Aveva borbottato il suo nome, aspettando in silenzio che estraessi alcuni
proiettili dal corpo del suo ultimo caso di omicidio, per poi consegnarglieli
con tanto di ricevuta. Se n'era andato senza dirmi né arnvederci né "lieto di
averla conosciuta", e così era cominciato il nostro rapporto professionale.
Sentivo che ce l'aveva con me esclusivamente per il mio sesso, e a mia
volta lo avevo liquidato come un povero ottuso con il cervello rovinato dal
testosterone. In realtà, mi aveva segretamente terrorizzata.
Adesso mi riusciva difficile guardarlo e pensare di averlo un tempo tro-
vato minaccioso. Aveva l'aria di un vecchi che ha subito molte sconfitte, la
camicia tesa sul ventre prominente, ciocche ribelli di capelli che ingrigivano, la fronte segnata da rughe profonde causate da un dispiacere e una tensione ormai cronici.
«Buongiorno.» Gli sfiorai delicatamente un braccio.
«Cosa c'è nel sacchetto?» mormorò senza aprire gli occhi.
«Pensavo dormissi» commentai, sorpresa.
Si mise seduto e sbadigliò.
Presi posto accanto a lui, aprii il sacchetto di carta e ne estrassi un paio
di bicchierini di caffè con coperchio e dei panini al formaggio che avevo
preparato a casa, riscaldandoli nel forno a microonde all'ultimo momento,
appena prima di uscire nel buio.
«Suppongo tu non abbia mangiato.» Gli porsi un tovagliolino.
«Hmm, questi sì che hanno l'aria di panini come si deve.»
«Lo sono» dissi, scartando il mio.
«Credevo avessi detto che l'aereo partiva alle sei.»
«No, alle sei e mezza e sono praticamente certa di averti dato l'orario
giusto. Spero tu non stia aspettando da tanto.»
«Be', a dire la verità sì.»
«Mi dispiace.»
«Hai i biglietti, vero?»
«Sono nella borsa.» Certe volte Marino e io ci comportavamo quasi come marito e moglie.
«Non so se la tua pensata vale il prezzo che hai pagato, sai? Personalmente io non tirerei fuori i soldi nemmeno se fosse farina del mio sacco.
Comunque non mi piace l'idea che ti esponi in questo modo, capo. Mi sentirei molto meglio se almeno cercassi di farti rimborsare.»
«Io invece no.» Ne avevamo già discusso abbastanza. «Non presenterò
una richiesta di rimborso, e non lo farai nemmeno tu. Non faremmo altro
che lasciarci alle spalle una scia di inutili tracce. E poi» aggiunsi, sorseggiando il caffè, «posso permettermi la spesa.»
«Guarda, se mi facesse risparmiare seicento dollari sarei pronto a lasciarmi dietro una scia che arriva fino alla luna.»
«Stronzate. Come se non ti conoscessi...»
«Sì, stronzate, l'hai detto. Tutta questa faccenda è un'assurda stronzata.»
Rovesciò nel caffè diverse bustine di zucchero. «Mi sa tanto che quella
Abby Turnbull ti ha succhiato il cervello.»
«Grazie mille» replicai seccamente.
Stavano arrivando altri passeggeri, e con meraviglia mi trovai a constatare con quale potere Marino riusciva sempre a modificare di qualche grado
l'asse di rotazione del mondo circostante. Si era seduto in un'area riservata
ai non fumatori, quindi aveva trascinato da diverse file di distanza un portacenere fino al suo sedile: era stato come un invito subliminale ad altri assonnati fumatori, che a quel punto sedettero vicino a noi tirandosene dietro
altri. Al momento dell'imbarco, l'area per fumatori era stata depredata di
tutti i portacenere disponibili e nessuno sapeva più dove andare a sedersi.
In preda a un certo imbarazzo e decisa a non lasciarmi coinvolgere in questo spiacevole golpe, lasciai il mio pacchetto ben nascosto nella borsa.
Marino, che odiava volare più di me, dormì fino a Charlotte, dove ci trasbordarono su un aereo a elica pieno di pendolari. Il nuovo apparecchio mi
ricordò tristemente l'esile spazio che divide la fragile umanità dal vuoto
dell'atmosfera. Sul lavoro, mi era già toccato fare i conti con un discreto
numero di disastri aerei e conoscevo a memoria lo spettacolo di un apparecchio sfracellato e contornato per chilometri dai cadaveri dei passeggeri.
Notai che a bordo non c'erano né toilettes né servizio bar, e quando i motori si misero in moto l'aereo cominciò a tremare come in preda a un attacco
di febbre malarica. Per la prima metà del viaggio ebbi il raro privilegio di
vedere i piloti che chiacchieravano amabilmente fra loro, stiracchiandosi e
sbadigliando, finché una hostess ebbe la presenza di spirito di andare a
chiudere la tenda del divisorio. Attraversammo una zona di turbolenza, le
montagne che apparivano e scomparivano fra la nebbia. Alla seconda, l'aereo perse improvvisamente quota e io sentii lo stomaco balzarmi in gola,
mentre Marino si aggrappava ai braccioli con tanta forza da farsi venire le
nocche bianche.
«Gesù Cristo» borbottò, e io mi pentii di avergli portato la colazione.
Aveva tutta l'aria di uno che stava per vomitare. «Se questa bagnarola riesce ad atterrare intera, giuro che vado a ubriacarmi, e non me ne frega
niente di che ore sono.»
«Vengo anch'io» disse un tizio seduto di fronte a noi, voltandosi.
Ma Marino stava già fissando uno strano fenomeno prodottosi nel corridoio poco davanti a noi. In coincidenza di un profilo metallico della moquette si innalzava una spettrale condensa che non mi era mai capitato di
osservare su nessun altro velivolo. Sembrava quasi che le nuvole stessero
infiltrandosi nell'aereo, ma quando Marino indicò con il dito gridando:
«Che diavolo è quella roba?», la hostess lo ignorò.
«La prossima volta ti metto del sonnifero nel caffè» gli sibilai fra i denti.
«La prossima volta che decidi di andare a parlare con qualche zingara
selvaggia nella foresta primordiale, non ti seguo punto e basta.»
Per mezz'ora continuammo a sorvolare Spartanburg, traballando e sobbalzando, gli oblò sferzati da scrosci di pioggia ghiacciata. Non potevamo
atterrare per colpa della nebbia, e ad essere sincera, in quel momento pensai che forse saremmo morti. Rividi mia madre. Rividi Lucy, mia nipote.
Perché a Natale non ero andata a trovarle? Accidenti a tutte le mie preoccupazioni. Non volevo che mi chiedessero ancora di Mark. «Sono presissima, mamma, davvero non ce la faccio a staccare proprio adesso.» «Ma
Kay, è Natale.» Non ricordavo l'ultima volta in cui mia madre si era messa
a piangere, ma percepivo sempre con chiarezza i momenti in cui avrebbe
voluto farlo. Le si alterava la voce e tra una parola e l'altra cominciavano a
prodursi dei vuoti. «Lucy ci resterà così male» aveva detto. Così avevo
spedito a mia nipote un generoso assegno, e la mattina di Natale l'avevo
chiamata per telefono. Se era vero che le mancavo da morire, lei mi mancava ancora di più.
Di colpo le nuvole si aprirono e inaspettati raggi di sole investirono i finestrini, mentre i passeggeri - me compresa - si abbandonavano a un estemporaneo applauso. Celebrammo lo scampato pericolo mettendoci a
chiacchierare amabilmente gli uni con gli altri, come amici di vecchia data.
«Forse, dopotutto, la strega Hilda ci protegge» commentò sarcasticamente Marino, la fronte ancora imperlata di sudore.
«Forse» risposi, tirando l'ultimo respiro di sollievo mentre l'aereo toccava terra.
«Bene, ricordati di ringraziarla da parte mia, allora.»
«Perché non lo fai tu di persona?»
«Sì, certo, certo» rispose sbadigliando, ormai completamente rinfrancato.
«A me è sembrata una persona molto gentile. Magari per una volta potresti sforzarti d'essere di vedute un po' più larghe.»
«Sì, sì, certo» ripeté.
Ottenuto il suo numero dal servizio abbonati, avevo chiamato Hilda Ozimek pronta a trattare con una persona scaltra e sospettosa, che avrebbe
tradotto in dollari ogni parola. Invece si era rivelata umile e gentile, e soprattutto inaspettatamente fiduciosa. Non mi aveva rivolto domande né aveva preteso attestazioni d'identità. Soltanto una volta la sua voce aveva
assunto una sfumatura ansiosa, spiegando che non sarebbe potuta venire a
prenderci in aeroporto.
Visto che mi sentivo in vena di spese, dissi a Marino di scegliere quel
che più gli piaceva fra le auto a noleggio e, come un ragazzino che si appresta a dare al volante la prima dimostrazione di virilità, optò per una
Thunderbird nera con tettuccio apribile, mangianastri, alzacristalli elettrici
e sedili in pelle. Partimmo col tettuccio aperto e il riscaldamento acceso,
mentre io entravo nei dettagli della conversazione avuta con Abby a Washington.
«So che i corpi di Deborah Harvey e Fred Cheney sono stati spostati»
stavo spiegando. «E ora credo anche di sapere per quale motivo.»
«Io invece non sono tanto sicuro di capire» fece lui. «Quindi ti spiacerebbe scoprire le carte una alla volta?»
«Okay. Noi due siamo arrivati all'area di sosta prima che perquisissero la
jeep, giusto? Però non abbiamo visto alcun fante di cuori, né sul cruscotto,
né sui sedili, né da nessun'altra parte.»
«Il che non significa che non potesse essere nel cruscotto o roba del genere, e che la polizia non l'avesse trovato dopo che i cani avevano finito di
fiutare la macchina.» Inserendo il dispositivo di controllo della velocità,
aggiunse: «Ammesso e non concesso che la storia della carta da gioco sia
vera. Come ho detto, è la prima volta che ne sento parlare.»
«Giusto. Ma partiamo dal presupposto che lo sia.»
«Ti ascolto.»
«Wesley arrivò dopo di noi, quindi nemmeno lui la vide. In seguito gli
agenti perquisirono la jeep, e puoi star certo che in quell'occasione era presente o che si è messo in contatto con Morrell per essere aggiornato. Se il
fante di cuori non c'era, come spero, la cosa deve avergli senz'altro fatto
sorgere degli interrogativi. Forse il suo primo pensiero è stato che la
scomparsa di Deborah e Fred non era in relazione con la scomparsa e la
morte delle altre quattro coppie; oppure che, se Deborah e Fred erano già
morti, stavolta la carta poteva stata abbandonata sul luogo del delitto, insieme ai corpi.»
«E questa è la ragione per cui tu credi che i cadaveri siano stati mossi
prima del tuo arrivo. Perché la polizia stava cercando una carta.»
«O Benton stesso. Sì, è l'ipotesi che sto prendendo in considerazione.
Non vedo altra spiegazione. Benton e la polizia sanno perfettamente che è
vietato toccare i corpi delle vittime prima dell'arrivo del medico legale. Ma
Benton non voleva nemmeno correre il rischio che un fante di cuori finisse
in obitorio insieme ai cadaveri. Non voleva che né io, né nessun altro la
trovassimo o ne venissimo a conoscenza.»
«Comunque, gli conveniva di più dirci di tenere la bocca chiusa, anziché
esporsi di persona» aggiunse Marino. «Ovviamente non era solo sulla scena del delitto, c'erano agenti che l'avrebbero visto se avesse trovato una
carta.»
«Ovviamente. Ma forse ha pensato che meno persone ne venivano a conoscenza, e meglio era. E se io avessi rinvenuto una carta da gioco tra gli
effetti personali di Deborah o di Fred, vi avrei fatto cenno nel mio rapporto. Sai quanta gente può mettere le mani sui referti delle autopsie? Procuratori, altri membri della mia équipe, i famigliari delle vittime, le compagnie
di assicurazione...»
«Okay, okay.» Marino cominciava a perdere la pazienza. «Ma allora?
Voglio dire, cosa c'è sotto di tanto grosso?»
«Questo non lo so ancora, ma se i sospetti di Abby sono veri, per qualcuno i fanti di cuori devono rappresentare qualcosa di molto importante.»
«Senza offesa, capo, ma questa Turnbull mi è sempre stata un po' sullo
stomaco. Già quando lavorava a Richmond. E la mia opinione non è migliorata neanche adesso che è al "Post".»
«Non le ho mai sentito dire una bugia» ribattei.
«Perché non lo sapevi.»
«Anche l'investigatore di Gloucester menzionava le carte da gioco. L'ho
letto in una delle trascrizioni degli interrogatori.»
«E forse è stato proprio da lì che Abby Turnbull ha preso spunto. Adesso
ci gioca come se fosse una palla, si diverte a fare ipotesi, a creare speranze.
In realtà le interessa solo scrivere il suo maledetto libro.»
«In questo periodo non sta bene. È spaventata, arrabbiata, d'accordo, però, permettimi di dissentire quando parli del suo carattere.»
«Giusto» ribatté lui. «Viene a Richmond e si comporta con te come una
vecchia amica che non vede da tanto tempo. Dice che non vuole cavarti
niente. E poi cosa succede? Che devi leggere il "New York Times" per
scoprire che sta scrivendo un fottuto libro. Oh, sì, è proprio un'amica.»
Chiusi gli occhi e rimasi ad ascoltare la canzone country trasmessa alla
radio. Sentivo i raggi del sole che mi scaldavano attraverso il parabrezza,
mentre affioravano gli effetti della levataccia. Mi appisolai. Quando mi risvegliai, stavamo sobbalzando adagio lungo una strada sterrata nel mezzo
del nulla più assoluto.
«Benvenuta nella megalopoli di Six Mile» annunciò Marino.
«Che città è?»
L'orizzonte era piatto, si vedeva solo una specie di supermercato e una
stazione di rifornimento. Ai bordi della strada crescevano densi filari di alberi, il Blue Ridge baluginava lontano, come una specie di foschia, e le case erano povere e così rade che avrebbe potuto scoppiarci una bomba senza che nessuno dei vicini se ne accorgesse.
Hilda Ozimek, sensitiva al servizio dell'Fbi e oracolo dei Servizi segreti,
viveva in una minuscola casetta di legno con giardinetto, dove alcuni copertoni dipinti di bianco ospitavano piantine di tulipani e viole del pensiero. Sulla veranda erano ammassati alcuni steli di granturco ormai secchi, e
nel vialetto d'entrata sostava una Chevrolet Impala arrugginita e con le
gomme sgonfie. Fummo accolti dall'abbaiare di un cane malconcio, brutto
e sufficientemente grosso da farmi esitare prima di aprire la portiera. Ci
corse incontro zoppicando su tre zampe, mentre la zanzariera della porta
d'ingresso si apriva con un cigolio e una donna ci scrutava nel mattino
freddo e luminoso.
«Buono, Tootie.» Diede una pacca sul collo del cane. «Forza, tornatene
là dietro.» L'animale abbassò la testa e si avviò scodinzolando verso il retro del giardino.
«Buongiorno» disse Marino, salendo i gradini di legno. Almeno aveva
intenzione di essere cordiale, cosa su cui nessuno poteva mai giurare.
«Bella giornata, eh?» commentò Hilda Ozimek.
Aveva più di sessant'anni e un'aria campagnola come una pagnotta di farina integrale. I fianchi larghi erano fasciati da pantaloni di poliestere nero
e indossava un maglione beige abbottonato fino al collo, calzettoni e mocassini. Aveva gli occhi azzurri e i capelli raccolti in un foulard rosso. Le
mancavano svariati denti, e pensai che non doveva essere tipo da guardarsi
spesso allo specchio, né da preoccuparsi della propria persona se non
quando obbligata dal disagio e dal dolore.
Ci invitò in un piccolo salotto pieno di mobili antiquati e scaffali carichi
di incredibili volumi, disposti senza logica. C'erano libri di religione e di
psicologia, biografie e saggi storici, nonché un prodigiosa assortimento di
romanzi di alcuni fra i miei autori preferiti: Alice Walker, Pat Conroy e
Keri Hulme. L'unico indizio che tradiva le sue inclinazioni soprannaturali
era fornito da un certo numero di opere di Edgar Cayce e da una mezza
dozzina di cristalli sparsi su tavoli e ripiani. Marino e io prendemmo posto
su un divano, accanto a una stufa a cherosene, mentre Hilda si sedette di
fronte a noi, in una poltrona superimbottita. Dalla finestra alle sue spalle il
sole penetrava attraverso le veneziane, disegnandole bianchi steli di luce
sul viso.
«Spero non abbiate incontrato difficoltà lungo il tragitto... mi spiace così
tanto di non essere venuta a prendervi, ma ho smesso di guidare.»
«Nessun problema, le sue indicazioni erano perfette» la rassicurai. «Non
ci è stato difficile trovare la sua casa.»
«Se mi permette» si intromise Marino, «vorrei capire come fa a muoversi, allora. Non ho visto un negozio raggiungibile a piedi da qui.»
«Oh, vede, da me vengono tante persone, sia per consultazioni che per
scambiare due chiacchiere. E in un modo o nell'altro riesco sempre ad avere ciò che mi serve, o a farmi dare uno strappo in città.»
In un'altra stanza un telefono si mise a squillare, prontamente zittito dalla segreteria telefonica.
«In cosa posso esservi utile?» chiese Hilda.
«Ho portato delle fotografie» rispose Marino. «Il capo ha detto che voleva vederle. Ma ci sono un paio di cose che vorrei chiarire prima. Senza
offesa, signora Ozimek, non ho mai creduto troppo a questa storia del leggere nella mente degli altri. Forse lei saprà aiutarmi a capire meglio.»
Era del tutto inconsueto per Marino riuscire a essere così diretto senza
mostrare traccia di aggressività nella voce; lo guardai perplessa. Stava apertamente studiando Hilda, proprio come un bambino, il viso stranamente
atteggiato in un'espressione di curiosità e tristezza.
«Innanzitutto mi lasci dire che io non leggo nella mente» esordì Hilda.
«E nemmeno gradisco essere chiamata sensitiva. Ma, data la mancanza di
un termine migliore, è così che mi definiscono gli altri e che alla fine mi
definisco io stessa. Vede, si tratta di una facoltà alla portata di chiunque,
una specie di sesto senso, una parte del cervello che la maggioranza della
gente sceglie di non utilizzare. Per me non è altro che un potenziamento
dell'intuizione. Percepisco l'energia che mi arriva dalla gente e riferisco le
impressioni che mi fa sorgere dentro.»
«È ciò che ha fatto anche durante l'incontro con Pat Harvey?» insisté
Marino.
La donna annuì. «Mi portò nella camera di Debbie, mi mostrò alcune fotografie, quindi mi condusse all'area di sosta in cui era stata ritrovata la jeep.»
«E che impressioni ne ha ricavato?» chiesi io.
Distogliendo lo sguardo, rimase pensierosa per qualche istante. «Tutte
quante non me le ricordo. Purtroppo succede così, anche quando leggo le
carte: la gente ritorna e mi racconta cos'è successo dopo che io avevo detto
una certa cosa. Solo che non sempre ricordo ciò che dico, a meno che non
siano loro stessi a rammentarmelo.»
«Ma ricorda almeno parte di ciò che disse alla signora Harvey?» Marino
voleva sapere, e sembrava leggermente deluso.
«Quando mi mostrò le foto, seppi subito che la ragazza era morta.»
«E il fidanzato?»
«Di lui vidi una foto di giornale, ma accadde lo stesso. Capii che era
morto. Sapevo che entrambi lo erano.»
«Dunque ha letto dei casi sul giornale» continuò Marino.
«No» rispose Hilda, «io non leggo i giornali. Vidi la sua foto perché la
signora Harvey l'aveva ritagliata per mostrarmela. Non ne aveva una del
ragazzo, capisce, solo di sua figlia.»
«Le spiacerebbe chiarire meglio come fece a sapere che erano morti?»
Estraendo il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni, Marino chiese: «Se io le dessi la foto di una persona, adesso, potrebbe fare la stessa
cosa? Dirmi quali sono le sue impressioni?».
«Ci proverò» rispose lei, prendendo l'istantanea che le veniva offerta.
Hilda Ozimek chiuse gli occhi e iniziò a strofinare i polpastrelli sulla fotografia, massaggiandola con lenti movimenti circolari. La cosa durò almeno un minuto. «Avverto un senso di colpa» disse infine. «Non so se è
perché questa donna si sentisse in colpa nel momento in cui è stata scattata
la foto, o perché è così che si sente adesso. Ma è una corrente piuttosto forte. Conflitto, senso di colpa, avanti e indietro. Decide una cosa, e un attimo
dopo la rimette in dubbio. Così, una specie di tira e molla.»
«È viva?» insisté Marino, schiarendosi la voce.
«Sì, sento che è viva» rispose Hilda, sempre toccando la foto. «A dire il
vero ho anche l'impressione di un ospedale. Forse è malata, o è malato
qualcuno che le è molto vicino, ma di sicuro c'è di mezzo qualche preoccupazione di carattere medico. O ci sarà in futuro.»
«Nient'altro?»
La donna tornò a chiudere gli occhi. Questa volta rimase a toccare la foto più a lungo. «Conflitto» ripeté. «È come se qualcosa appartenesse ormai
al passato, ma per lei è difficilissimo staccarsene, lasciarsi andare. Dolore.
Eppure sente di non avere scelta. Ecco, questo è quel che sento arrivare.»
A questo punto guardò Marino, che riprese la foto con volto paonazzo e la
rimise nel portafogli senza dire una parola. Quindi aprì la cerniera della valigetta e ne estrasse un miniregistratore e una busta. Quest'ultima conteneva una serie di fotografie scattate in sequenza a partire dalla strada sterrata,
quella per il trasporto del legname nella contea di New Kent, fino ad arri-
vare al bosco in cui erano stati ritrovati i corpi di Deborah Harvey e Fred
Cheney. Hilda le dispose sul tavolino e iniziò l'esame tattile di ognuna. Per
un lungo momento tenne gli occhi chiusi e non disse nulla, mentre il telefono continuava a suonare nella stanza accanto. Ogni volta la segreteria rispondeva, e lei sembrava non farci caso. Pensai che le sue prestazioni erano più richieste di quelle di un medico.
«Paura. Avverto un sentimento di paura.» Cominciò a parlare rapidamente. «Non so se è perché qualcuno era spaventato quando le foto vennero scattate, o perché in precedenza qualcuno aveva provato paura in questi
luoghi. Comunque è paura.» Annuì, gli occhi sempre chiusi. «Sì, la sento
in ogni fotografia. In tutte quante. Una paura immensa.»
Come i ciechi, Hilda spostava le dita da una foto all'altra, leggendo qualcosa che sembrava a lei tangibile, come i lineamenti di un volto.
«E qui sento morte» disse, toccandone tre in particolare. «La sento nettamente, è un'impressione forte.» Le foto della radura in cui erano stati
rinvenuti i corpi. «Qui no, invece». Le sue dita tornarono a posarsi sulle
immagini della strada sterrata e della zona di bosco che avevo percorso
mentre mi guidavano verso la radura, sotto la pioggia.
Lanciai un'occhiata a Marino. Era teso in avanti sul divano, i gomiti
piantati sulle ginocchia e gli occhi fissi su Hilda. Fin qui, non ci aveva ancora rivelato nulla di nuovo: né Marino né io avevamo mai pensato che i
due giovani fossero stati assassinati sulla strada, bensì nella radura dov'erano stati ritrovati i cadaveri.
«Vedo un uomo» proseguì Hilda. «Carnagione chiara. Non molto alto.
Non basso. Altezza media, snello. Ma non magro. Non so chi sia, ma visto
che lo percepisco con forza, immagino sia qualcuno che ha incontrato i due
ragazzi. Avverto cortesia, amicizia. Sento delle risate. È... è amichevole
con loro. Forse si sono incontrati da qualche parte. Non so perché ho quest'impressione, ma è come se a un certo punto si siano messi a ridere insieme a lui. Si fidavano.»
Fu Marino a parlare. «E vede qualcos'altro di lui? Qualche altro particolare sul suo aspetto?»
Continuò a sfregare le fotografie. «Vedo qualcosa di scuro. Può darsi
che abbia la barba scura, o qualcosa di scuro sul viso. O forse indossa abiti
scuri. Comunque lo percepisco senz'altro in relazione alla coppia e al luogo in cui sono state scattate queste foto.»
Riaprì gli occhi, guardando il soffitto. «Sento che il primo contatto fu
amichevole, nulla che dovessero temere. Ma poi arriva la paura. È così for-
te, qui, nel bosco.»
«Che altro?» Marino era talmente concentrato, talmente sotto tensione,
che gli si erano gonfiate le vene del collo. Se si fosse piegato in avanti di
un altro millimetro, sarebbe caduto dal divano.
«Due cose» disse. «Forse non sono significative, ma mi arrivano. Ho
come la sensazione di un altro luogo, che non è quello di queste foto, e
penso che c'entra con la ragazza. Forse è stata portata da qualche parte, o ci
è andata lei spontaneamente. Un luogo che potrebbe essere vicino, ma anche no. Non so, non so, ma è come se captassi un'improvvisa sensazione di
affollamento, qualcosa che cerca di afferrarla. Panico, molto rumore e movimento. Sono tutte impressioni spiacevoli. E poi qualcosa che viene smarrito. Qualcosa di metallico che ha a che fare con la guerra. Non riesco a dire di più, su quest'oggetto, tranne che non mi arrivano cattive vibrazioni voglio dire, non è una cosa di per sé pericolosa.»
«E chi è che ha perso l'oggetto di metallo, qualunque esso sia?» chiese
Marino.
Hilda si fece silenziosa, mentre il telefono riprendeva a squillare.
«L'autunno scorso ha parlato di tutto questo con Pat Harvey?» intervenni.
«Quando mi contattò, allora, i corpi non erano ancora stati ritrovati» rispose la donna. «E io non avevo queste foto.»
«Dunque si tratta di impressioni nuove?»
Parve riflettere intensamente. «Ci recammo all'area di sosta e lei mi portò direttamente nel punto in cui era stata rinvenuta la jeep. Io vi rimasi per
un momento. Ricordo che c'era un coltello.»
«Che coltello?» chiese Marino.
«Vidi un coltello.»
«E com'era, di che tipo?» incalzò lui. Mi venne in mente che Gail, l'istruttrice di cani, si era fatta prestare da Marino il coltello dell'esercito
svizzero per aprire le portiere.
«Un coltello lungo, come quelli da caccia, o forse un coltello militare.
Con un manico particolare. Nero, forse di gomma, con una di quelle lame
che di solito associo al taglio di cose dure, ad esempio il legno.»
«Non sono certa di capire» dissi, nonostante avessi un'idea piuttosto
chiara di ciò che intendeva. Ma non volevo offrirle spunti.
«Con i denti, come una sega. Seghettato, ecco, voglio dire un coltello
seghettato» rispose.
«E questo è ciò che le venne in mente nell'area di sosta?» chiese Marino
con aria incredula.
«Non avvertii sensazioni spaventose» riprese, «però vidi questo coltello
e capii che non si trattava della coppia che era stata a bordo della jeep. Anzi, non sentii affatto la loro presenza, nell'area di sosta. Debbie e Fred non
ci sono mai arrivati.» Fece una pausa, tornando a chiudere gli occhi e aggrottando la fronte. «Ricordo di avere provato un senso di angoscia. Captavo la presenza di una figura ansiosa, che aveva fretta. Vidi dell'oscurità,
come se fosse notte. Poi qualcuno che camminava a passo svelto. Ma non
distinguevo chi fosse.»
«E adesso riesce a vederla, questa persona?» chiesi.
«No. Non lo vedo.»
«Lo?»
Un'altra pausa. «Credo che la sensazione mi dicesse che si trattava di un
uomo.»
Fu ancora Marino a parlare. «E dunque, mentre si trovava all'area di sosta con lei, riferì a Pat Harvey le sensazioni che ci ha appena detto?»
«Alcune, sì» rispose Hilda. «Non ricordo esattamente tutto ciò che dissi
allora.»
«Ho bisogno di sgranchirmi le gambe» borbottò a quel punto Marino,
alzandosi dal divano. Mentre usciva sbattendosi la porta alle spalle, Hilda
non parve sorpresa o intimorita dal suo comportamento.
«Mi dica, Hilda» ne approfittai allora, «quando incontrò Pat Harvey non
ebbe per caso qualche sensazione anche sul suo conto? Per esempio, che
potesse sapere già qualcosa di quanto era accaduto alla figlia?»
«Eh, avvertii un bel po' di senso di colpa, questo sì, come se lei si sentisse personalmente responsabile. Ma si tratta di una reazione comprensibile.
Ogni volta che ho a che fare con i parenti di una persona scomparsa o uccisa, sento sempre senso di colpa. La cosa più strana, invece, era la sua aura.»
«Aura?»
Sapevo cos'era un'aura in medicina, e cioè una sensazione che può precedere l'insorgere di una crisi epilettica. Ma non pensavo fosse ciò che intendeva adesso Hilda Ozimek.
«Le auree sono qualcosa di invisibile alla maggioranza della gente»
spiegò, «Io le percepisco sotto forma di colori. L'aura che circonda una
persona è in pratica un colore. Ebbene, l'aura di Pat Harvey era grigia.»
«E questo significa qualcosa?»
«Il grigio non è né il colore della vita, né il colore della morte. In genere
lo associo a uno stato di malattia. A persone afflitte nel corpo, nella mente
o nell'anima. Era come se ci fosse qualcosa che le prosciugava la vita di
ogni colore.»
«Be', immagino che all'epoca, visto e considerato lo stato emotivo in cui
versava, fosse anche comprensibile, no?» obiettai.
«Forse. Ma ricordo che allora mi comunicò una brutta sensazione. Sentii
che si trovava esposta a qualche genere di pericolo. La sua energia non era
affatto buona, né positiva né sana. Sentii che correva il rischio di aprirsi al
male, o di procurarsi dolore a causa delle sue proprie azioni.»
«Le era già capitato di vedere un'aura grigia, prima di allora?»
«Raramente.»
Non riuscii più a trattenermi. «Vede per caso se anch'io emano qualche
colore?» chiesi.
«Sì. Giallo con una punta di marrone.»
«Strano» dissi, sorpresa. «Non indosso mai abiti né gialli né marroni.
Anzi, non credo proprio di avere in casa nulla di questo colore. Però adoro
il sole e la cioccolata.»
«La sua aura non ha niente a che spartire con i colori dei cibi che le
piacciono» disse Hilda, sorridendo. «Il giallo può avere un significato spirituale. E il marrone lo associo in genere allo spirito pratico, al buon senso.
A una persona che vive coi piedi per terra. Insomma, la sua aura ha un aspetto molto spirituale, ma anche molto pratico. Badi, però, che questa è
solo la mia personale interpretazione. I colori hanno una valenza diversa
per ognuno di noi.»
«E Marino?»
«Lui ha un sottile bordo rosso. Ecco cosa vedo. Spesso il rosso è sinonimo di rabbia, ma credo che in realtà a lui ne manchi un po'. Avrebbe bisogno di più rosso, ecco.»
«Sta scherzando» dissi. L'ultima cosa al mondo che avrei detto, era che
Marino avesse bisogno di un altro po' di rabbia.
«Quando una persona ha poca energia, io dico sempre che le occorre più
rosso nella vita. Il rosso dà energia, rende attivi, aiuta ad affrontare e combattere i problemi. Può essere un vero toccasana, se incanalato nella maniera giusta. Con lui, invece, ho la sensazione che abbia paura di ciò che
sente, e questo lo indebolisce.»
«Hilda, ha mai visto le foto delle altre coppie scomparse?»
Annuì. «Le aveva la signora Harvey. Sempre ritagliate dai giornali, naturalmente.»
«E toccò anche quelle? Le lesse?»
«Sì.»
«Cosa sentì?»
«Morte. Tutti quei giovani erano morti.»
«Cosa mi dice dell'uomo di carnagione chiara e con qualcosa di scuro
sul viso, forse la barba?»
Fece una pausa. «Non so, ma come ho già detto, ricordo di avere captato
un senso di disponibilità o di amicizia da parte sua. Il loro primo incontro
non avvenne all'insegna della paura. E in effetti ho avuto l'impressione che
all'inizio i due giovani non fossero assolutamente spaventati.»
«Ora vorrei chiederle di una certa carta» dissi. «Ci raccontava prima che
a volte legge le carte alla gente, giusto? Intende normali carte da gioco?»
«Si può usare quello che si vuole, i tarocchi, la sfera di cristallo, non importa cosa. Sono solo strumenti. L'importante è trovare ciò che stimola la
nostra concentrazione. Comunque sì, nella fattispecie io uso un mazzo di
normali carte da gioco.»
«E come funziona?»
«Chiedo alla persona di tagliare il mazzo, quindi comincio a girarne una
per volta, dicendo quali impressioni mi colpiscono la mente.»
«E in un fante di cuori leggerebbe un significato particolare?»
«Tutto dipende dalla persona con cui ho a che fare, dalla sua energia di
partenza. Comunque direi che un fante di cuori corrisponde un po' al cavaliere di coppe dei tarocchi.»
«Una carta buona o cattiva?»
«Anche qui, dipende dal modo in cui entra in relazione con la persona
che ho davanti. Nei tarocchi, le coppe sono le carte dell'amore e dei sentimenti, così come le spade e i pentacoli sono quelle degli affari e dei soldi.
Un fante di cuori potrebbe dunque avere un valore di questo tipo, emotivo,
sentimentale, e in questo caso sarebbe positivo. Ma potrebbe anche diventare assolutamente negativo se l'amore fosse degenerato in un sentimento
di vendetta, di odio rancoroso.»
«E in che modo il fante di cuori si distinguerebbe, non so, da un dieci o
da una regina dello stesso seme?»
«Il fante è una figura, con una faccia» spiegò Hilda. «Direi tranquillamente che rappresenta un uomo. Ora, anche il re di cuori è una figura, ma
a un re si associa meglio l'idea del potere, qualcuno che viene percepito o
che si autopercepisce in posizione di controllo, di autorità. Un padre, magari, o un capufficio, cose del genere. Il fante, come il cavaliere dei taroc-
chi, potrebbe stare invece per qualcuno che è o si vive come un soldato, un
difensore, un campione. Qualcuno che nel mondo là fuori combatte una
battaglia sul fronte degli affari. Magari uno sportivo, uno che fa dell'agonismo. Potrebbe essere un sacco di cose, insomma, ma dato che si tratta di
cuori e i cuori rappresentano le emozioni, direi forse che, qualunque cosa
sia, ci troviamo di fronte a una componente emotiva, opposta a una potenziale componente economica o professionale.»
Il telefono suonò per l'ennesima volta.
«Non bisogna fidarsi sempre di ciò che le nostre orecchie sentono, dottoressa Scarpetta» disse Hilda in quel momento.
«A che riguardo?» chiesi, stupefatta.
«C'è qualcosa che, scusi il gioco di parole, le sta molto a cuore ma le
procura infelicità e sofferenza. Ha a che fare con una persona. Un amico,
una figura investita di sentimento. Potrebbe essere un membro della sua
famiglia, non so. Senz'altro qualcuno di grande importanza nella sua vita.
Ma in questo momento lei sente dire e addirittura immagina molte cose sul
suo conto. Stia attenta a non crederci troppo.»
Mark, pensai. O forse Benton Wesley. Non potei trattenermi dal chiedere. «Qualcuno attualmente presente nella mia vita, vuole dire? Qualcuno
che vedo spesso?»
Vi fu una pausa. «Vede, sento molta confusione, molta incertezza, e
quindi mi verrebbe da dire che no, non si tratta di una persona con cui ha
attualmente a che fare. Avverto una distanza, e non necessariamente geografica, capisce. Piuttosto di ordine affettivo. Uno spazio che toglie respiro
alla sua fiducia. Il mio consiglio è di lasciar perdere, di non accanircisi
proprio adesso. Una soluzione verrà comunque, anche se non posso dirle
quando; ma se riuscirà a rilassarsi le cose andranno bene. Per ora non presti orecchio alla confusione che ha dentro, né si abbandoni a gesti impulsivi. E c'è dell'altro. Cerchi di vedere oltre quanto le sta davanti. Non mi
chieda cosa significhi, so solo che c'è qualcosa che non vede e che ha a che
fare con il passato, qualcosa di importante e passato. Le verrà incontro e la
guiderà verso la verità, ma per riconoscerne il significato deve essere disposta ad aprirsi. Lasci che sia la sua fede a condurla.»
A quel punto, curiosa di sapere che fine avesse fatto Marino, mi alzai dal
divano e andai alla finestra.
All'aeroporto di Charlotte, Marino bevve due bourbon, e un terzo lo
trangugiò in aereo. Per tutta la durata del viaggio di ritorno non disse mol-
to, e ci stavamo ormai avviando verso le nostre macchine quando decisi di
prendere l'iniziativa.
«Dobbiamo parlare» dissi, tirando fuori il mazzo di chiavi.
«Sono esausto.»
«Senti, Marino, sono quasi le cinque. Perché non vieni a cena da me?»
Strizzando gli occhi nel sole, guardò un punto imprecisato oltre il parcheggio. Non capivo se era in preda a una fortissima rabbia o se invece si
sentiva sul punto di piangere; e non ricordavo di averlo mai visto in quelle
condizioni.
«Sei arrabbiato con me?»
«No, capo. È che in questo momento ho bisogno di restare solo.»
«E invece credo che in questo momento tu non debba farlo.»
Abbottonandosi il colletto, mormorò: «Ci vediamo più tardi» e si allontanò.
Tornai a casa, prosciugata di ogni energia, e stavo ciondolando in cucina
quando suonarono alla porta. Diedi un'occhiata dallo spioncino e rimasi
alquanto stupita di rivedere Marino.
«Mi sono trovato questa roba in tasca» si affannò a spiegare appena ebbi
aperto. Mi porse la matrice del suo biglietto e un paio di fogli relativi al
noleggio della macchina. «Ho pensato che forse ne avevi bisogno per detrarre le spese dalle tasse.»
«Grazie» dissi, ma sapevo benissimo che non era quella la ragione per
cui era venuto. Avevo già le ricevute della mia carta di credito, e nulla di
quanto aveva portato mi era in qualche modo utile. «Stavo cominciando a
preparare da mangiare. Se hai voglia di fermarti, già che sei qui...»
«Magari solo un momento.» Non riuscì a guardarmi negli occhi. «Perché
poi ho delle cose da fare.»
Mi seguì in cucina e si sedette al tavolo, mentre io riprendevo ad affettare i peperoni per aggiungerli al soffritto di cipolla.
«Il bourbon sai dov'è» dissi, mescolando.
Si alzò, diretto al mobile bar.
«Già che ci sei» gli gridai, «mi prepareresti uno scotch and soda?»
Non rispose, ma al suo ritorno mise il mio bicchiere sul banco da lavoro,
quindi si appoggiò al ripiano per tagliare la carne. Aggiunsi cipolle e peperoni alla salsa di pomodoro che cuoceva in un altra padella e cominciai a
far rosolare la salsiccia.
«Purtroppo non ho niente come secondo» mi scusai, continuando a lavorare.
«Non mi sembra che ce ne sia bisogno» fece lui.
«Invece un bell'agnello al vino bianco, un filetto di vitello o un arrostino
di maiale ci starebbero proprio bene.» Riempii una pentola d'acqua e la
misi sul fuoco. «Sono bravina, con l'agnello, ma sarà per un'altra volta.»
«Forse dovresti piantarla di sezionare cadaveri e aprire invece un ristorante.»
«Spero sia un complimento.»
«Ma certo.» Il suo volto era inespressivo. Accese una sigaretta. «Allora,
come si chiama questa roba?» chiese, indicando i fornelli con un cenno
della testa.
«Si chiamano tagliatelle paglia e fieno in sugo di peperoni dolci e salsiccia» risposi, aggiungendo la carne alla salsa. «Ma se volessi fare un po' di
scena, ti direi che sono pappardelle del Cantunzein.»
«Ah, non ti preoccupare, hai già fatto colpo anche così.»
«Marino.» Gli lanciai un'occhiata. «Mi dici cosa ti è successo stamattina?»
Mi rispose con un'altra domanda. «Hai detto a nessun altro ciò che Vessey ti ha riferito, a proposito di quel segno lasciato da un coltello a lama
seghettata?»
«No, per ora sei l'unico a cui ne abbia parlato.»
«Perché mi sembra strano che Hilda Ozimek se ne venga fuori con un
particolare del genere: la storia del coltello da caccia a lama seghettata che
dice di esserle venuta in mente il giorno in cui Pat Harvey la portò nell'area
di sosta.»
«Capisco non sia facile da spiegare» convenni, buttando la pasta nell'acqua bollente. «Ma al mondo esistono cose che non sempre si possono chiarire con un semplice ragionamento, Marino.»
Occorrono pochi secondi perché la pasta fresca raggiunga il giusto punto
di cottura, così un attimo dopo la stavo già scolando e rovesciando in una
zuppiera tenuta al caldo in forno. Aggiunsi il sugo, una noce di burro e del
parmigiano fresco grattugiato, quindi dissi a Marino che era pronto.
«In frigorifero ci sono dei cuori di carciofo.» Riempii i nostri piatti. «Però non ho insalata. Il pane è nel freezer.»
«Non ho bisogno d'altro» rispose lui a bocca piena. «Hmm, buona. Ottima, davvero.»
In men che non si dica, era pronto per un secondo giro di pasta. Io invece avevo appena toccato la mia. Sembrava non mangiasse da una settimana. Era ormai evidente che in quegli ultimi tempi si stava lasciando andare:
la cravatta aveva seriamente bisogno di un passaggio in lavanderia, gli era
sceso l'orlo di una gamba dei pantaloni e le ascelle della camicia mostravano due vistosi aloni gialli. Ogni cosa reclamava un po' di cura e di attenzioni, ciò che mi repelleva e impietosiva al tempo stesso. Non vedevo
ragione al mondo per cui un uomo adulto e intelligente dovesse trascurarsi
in quel modo, trasformandosi in una specie di casa in rovina. Benché sapessi che gli erano sfuggite di mano le redini della sua vita, e che dunque
non poteva fare altro. In tutto ciò c'era qualcosa di terribilmente sbagliato.
Mi alzai e presi una bottiglia di rosso.
«Marino» ripresi, riempiendo i bicchieri. «Che fotografia hai mostrato a
Hilda Ozimek? Quella di tua moglie?»
Si appoggio allo schienale della sedia, senza guardarmi.
«Non sei obbligato a parlarne, ma è un po' di tempo che non sei più lo
stesso, e si vede.»
«Quel che ha detto mi ha fatto rizzare i capelli in testa» commentò.
«Quel che ha detto Hilda?»
«Sì.»
«Ti va di raccontarmi qualcosa?»
«Non ne ho parlato con nessuno.» Fece una pausa, allungando la mano
verso il bicchiere. Aveva un'espressione dura, lo sguardo umiliato. «Lo
scorso novembre se n'è andata in New Jersey.»
«Sai, non credo tu mi abbia mai detto come si chiama tua moglie.»
«Ahia» mormorò con una certa amarezza. «E questo la dice lunga.»
«Sì, la dice lunga. Tu tieni un sacco di cose per te.»
«Sono sempre stato così, ma immagino che il fatto di diventare poliziotto abbia peggiorato le cose. Sono talmente abituato a sentire i ragazzi lamentarsi e insultare le mogli, le fidanzate, i figli. Ti vengono a piangere
sulla spalla, così alla fine pensi che sono un po' come dei fratelli. Ma
quando arriva il momento in cui sei tu ad avere un problema, appena ti
confidi lo viene a sapere tutto il dipartimento. E io ho imparato a tenere la
bocca chiusa.»
Si interruppe un istante, tirando fuori il portafoglio. «Si chiama Doris.»
Mi porse la fotografia che aveva mostrato a Hilda Ozimek.
Doris aveva un viso buono e un corpo non proprio asciutto, ma gradevole. Se ne stava in piedi rigida, vestita per la messa, timida e un po' scontrosa. L'avevo già vista mille volte: il mondo è pieno di Doris. Sono donne
giovani e dolci che siedono nella veranda sognando l'amore, scrutando le
stelle nel cielo della notte e inebriandosi dei profumi dell'estate. Sono co-
me specchi, e l'immagine che hanno di loro stesse non è che un riflesso
delle persone più importanti della loro vita. Donne che traggono il senso
del proprio valore dai servizi resi agli altri, sopravvissute uccidendo a poco
a poco le proprie aspettative. Donne che un mattino si svegliano infuriate.
«In giugno avremmo festeggiato i trent'anni di matrimonio» disse Marino, mentre gli restituivo la foto. «Invece, all'improvviso, viene fuori che è
infelice. Che io lavoro troppo e non sono mai a casa. Che non mi conosce.
Cose così. Ma io non sono mica nato ieri, lo so che non me la racconta
giusta.»
«E quale sarebbe il vero motivo, allora?»
«La storia cominciò l'estate scorsa, quando sua madre ebbe un infarto.
Doris andò da lei per assisterla. Rimase lassù un mese buono, fece uscire
la madre dall'ospedale e le trovò una casa di cura dove si sarebbero occupati di tutto. Ma quando tornò indietro, era cambiata. Sembrava un'altra
persona, ecco.»
«E cosa pensi che sia successo?»
«So che mentre era via incontrò questo tizio, uno a cui è morta la moglie
un paio d'anni fa. Lavora nel campo degli immobili e l'ha aiutata a vendere
la casa della madre. Mi parlò di lui una o due volte, come se fosse un fatto
di nessuna importanza. Invece stava succedendo qualcosa. Ogni tanto suonava il telefono, la sera tardi, e se rispondevo io rimettevano giù senza parlare. La mattina Doris usciva di corsa a vedere se c'era posta, precedendomi. Poi in novembre, all'improvviso, un giorno fa le valigie e se ne va, dicendo che sua madre ha bisogno di lei.»
«E da allora non è più tornata a casa?» domandai.
Scosse la testa. «Oh, di tanto in tanto mi chiama, questo sì. Vuole il divorzio.»
«Mi dispiace, Marino.»
«Sua madre sta in questa casa di cura, capisci, e immagino che mentre si
occupa di lei, Doris si veda anche con il tizio dell'immobiliare. Passa dalla
disperazione alla felicità, così, è come se desiderasse tornare indietro ma
senza volerlo. Ha dei sensi di colpa, ma non fa nulla. Proprio come ha detto Hilda quando ha toccato la sua fotografia. Avanti e indietro, tira e molla.»
«Dev'essere molto doloroso, per te.»
«Ehi» esclamò, gettando il tovagliolo sul tavolo. «Per me può fare quell'accidenti che le pare. Si impicchi.»
Sapevo che non lo pensava. Era distrutto, e soffrivo per lui. Ma contem-
poraneamente non potevo fare a meno di provare un senso di solidarietà
con la moglie. Amare uno come Marino non doveva essere facile.
«E tu vorresti che lei tornasse a casa?»
«Sono stato con lei per più anni di quanti ne avessi quando ci siamo conosciuti. Però bisogna guardare in faccia la realtà, capo.» I suoi occhi si
fissarono su di me, spaventati. «La mia è una vita che consuma. Sempre lì
a contare i centesimi, e poi ti tirano giù dal letto nel cuore della notte. Fai
un progetto per le vacanze e di colpo succede qualcosa che ti costringe a
disfare i bagagli, e Doris a casa ad aspettare... Come il weekend del Labor
Day, ricordi, quando Deborah Harvey e il suo ragazzo scomparvero. Fu la
goccia che fece traboccare il vaso.»
«Tu la ami?»
«Lei crede di no.»
«Forse dovresti cercare di farle capire come ti senti, quello che provi»
dissi. «Forse dovresti dimostrarle che la desideri, non solo che hai bisogno
di lei.»
«Non capisco.» Mi guardò disorientato.
«Semplicemente, prenditi cura di te senza aspettarti che sia lei a farlo al
posto tuo. Forse allora le cose cambieranno.»
«Ma non guadagno abbastanza, il punto è questo e soltanto questo. Fine
del discorso.»
«Scommetto che tua moglie non tiene poi così tanto al denaro. Credo
che invece preferirebbe sentirsi importante e amata.»
«Lui ha una bella casa grande e una Chrysler New Yorker nuova di zecca, sedili di pelle e tutto il resto.»
Non dissi nulla.
«E l'hanno scorso è andato in vacanza alle Hawaii.» Marino si stava
scaldando.
«Doris ha passato la maggior parte della sua vita con te. È stata questa la
sua scelta, Hawaii o no.»
«Le Hawaii sono solo una trappola per turisti» mi interruppe, accendendosi una sigaretta. «Per quanto mi riguarda, preferisco andare a Buggs Island a pescare.»
«Ti ha mai sfiorato il pensiero che magari Doris si è stancata di farti da
mamma?»
«Non è mia mamma» rispose con violenza.
«E allora perché, da quando ti ha lasciato, hai un aspetto che sottolinea
soltanto il bisogno di trovartene una?»
«Perché non ho il tempo materiale per mettermi ad attaccare bottoni, a
cucinare, a pulire e altre stronzate del genere.»
«Anche io sono molto impegnata, eppure il tempo lo trovo, anche per
queste stronzate.»
«Sì, certo, ma hai anche una donna di servizio. E probabilmente ti metti
in tasca centomila dollari l'anno.»
«Se è per questo avrei cura di me anche se ne guadagnassi solo diecimila» ribattei. «E lo farei perché ho rispetto per la mia persona e perché non
voglio nessuno che mi stia dietro come una balia. Quel che mi interessa è
avere qualcuno che tiene a me, e fra le due cose passa una bella differenza.»
«Se sei così saggia, capo, com'è che sei divorziata? E come mai il tuo
amico Mark è in Colorado e tu sei qui? A quanto pare, neanche tu sei la
più adatta a scrivere un manuale sulle relazioni umane.»
Sentii una vampata di calore invadermi il volto. «Tony non teneva a me,
e quando finalmente me ne accorsi, quel che feci fu andarmene. In quanto
a Mark, ha qualche difficoltà a impegnarsi seriamente in un rapporto.»
«Perché tu invece eri pronta a impegnarti, con lui?» Mi fissava con espressione quasi furiosa.
Non risposi.
«Com'è che allora non l'hai seguito nei suoi spostamenti? Forse l'unica
cosa che ti impegna sul serio è essere capo medico legale.»
«Avevamo dei problemi, e certamente in parte erano anche dovuti a me.
Mark era arrabbiato, così decise di partire... forse per fare il punto della situazione, forse solo per allontanarsi da me» dissi, infastidita dal fatto di
non riuscire a dissimulare il mio coinvolgimento emotivo. «Da un punto di
vista professionale, seguirlo mi sarebbe stato impossibile, e comunque non
è mai stata nemmeno un'opzione.»
Di colpo Marino parve vergognarsi. «Scusami, non lo sapevo.»
Tacqui.
«Insomma, più o meno siamo nella stessa barca, eh?» riprese lui, timidamente.
«In un certo senso» dissi, senza però specificare in quale. «Comunque io
non ho smesso di badare a me stessa. Se Mark si ripresentasse domani, non
mi troverebbe in uno stato pietoso. Questo perché lo voglio, ma non ho bisogno di lui. Perché non ci provi anche tu, con Doris?»
«Sì.» Sembrava avere riacquistato un filo di coraggio. «Forse potrei. Be',
credo che a questo punto mi ci voglia un caffè.»
«Sai come si prepara?»
«Stai scherzando» rispose, sorpreso.
«Lezione numero uno, Marino: come si prepara un caffè. Un passo per
volta.»
Mentre gli illustravo le meraviglie di una caffettiera all'americana, oggetto per il cui utilizzo è sufficiente un quoziente d'intelligenza bassissimo,
lui riprese a riflettere sulle avventure della giornata.
«Una parte di me non vuole prendere sul serio le affermazioni di Hilda»
spiegò. «Ma un'altra parte è costretta a farlo. Voglio dire, di sicuro mi ha
dato da pensare.»
«In che senso?»
«Deborah Harvey è stata colpita da un proiettile nove millimetri. Il bossolo non è stato ritrovato, e mi pare strano che il nostro uomo fosse in condizione di mettersi a cercarlo al buio là in mezzo. Piuttosto, tenderei a credere che Morrell e il resto della squadra non abbiano setacciato la zona
giusta. Ricordi che anche Hilda ha detto che secondo lei c'era un altro posto? E poi ha parlato di un oggetto metallico andato perso. Qualcosa che
aveva a che fare con la guerra. Potrebbe benissimo trattarsi di un bossolo,
no?»
«Sì, ma ha anche detto che non si trattava di una cosa in sé pericolosa.»
«Ma andiamo, un bossolo vuoto non può fare del male a una mosca. La
parte letale è il proiettile, la carica interna, e solo quando viene esplosa.»
«Le fotografie che ha esaminato sono state scattate l'autunno scorso»
proseguii. «Di qualunque cosa si tratti, l'oggetto poteva essere ancora là all'epoca, ma non lo è più adesso.»
«Pensi che il killer ci sia tornato di giorno, per cercarlo?»
«Hilda ha detto che la persona che l'aveva smarrito ci teneva molto.»
«Non credo sia tornato sui suoi passi» obiettò Marino. «È troppo prudente per farlo. È un rischio mostruoso, capisci? Subito dopo la scomparsa,
l'area pullulava di poliziotti e di cani: ti garantisco io che quello se n'è stato
calmo e nascosto. Uno che l'ha fatta franca per tutto questo tempo deve avere un bel sangue freddo, sia che si tratti di uno psicopatico, sia che si
tratti di un professionista a pagamento.»
«Forse» commentai, mentre il caffè iniziava a colare dal filtro.
«Credo che dovremmo tornare sul posto e frugare un po' meglio nei dintorni. Che dici, ti va l'idea?»
«Francamente, ci avevo già pensato anch'io.»
8
Inondato dalla luce del pomeriggio sereno, il bosco sembrava aver perso
il suo aspetto minaccioso. Fin quando Marino e io non ci trovammo nei
pressi della piccola radura: allora, l'odore penetrante e sottile di carne umana in decomposizione si fece largo come uno spiacevole ricordo. Foglie
d'albero e aghi di pino giacevano sparsi in bassi cumuli, frutto della rimozione delle vanghe e dello svuotamento dei setacci. Per occultare le ultime
tracce dell'omicidio sarebbero occorsi tempo e piogge intense.
Marino aveva portato un metal detector, io avevo con me un rastrello.
Tirò fuori le sigarette e si guardò intorno.
«Non mi sembra utile cercare in questo punto» disse. «L'avranno già
passato e ripassato cento volte.»
«Immagino che anche il sentiero sia stato setacciato a dovere» commentai, voltandomi a osservare la pista che avevamo percorso dalla strada sterrata.
«Non necessariamente, visto che quando la coppia arrivò qui, lo scorso
autunno, questo passaggio non esisteva ancora.»
Capii cosa intendeva. Quel tracciato di foglie e terra ammucchiata era
stato prodotto dal calpestio degli agenti e delle altre persone interessate che
si spostavano dalla scena del delitto alla strada e viceversa.
Lanciando intorno uno sguardo, aggiunse: «Il fatto è che non sappiamo
nemmeno dove parcheggiarono la macchina. Magari vicino a dove abbiamo lasciato la nostra, capo; e magari i ragazzi sono stati condotti qui seguendo più o meno il percorso che abbiamo fatto noi. Ma questo dipende
da dove intendeva andare il killer. Era proprio questo il posto?»
«Personalmente ho la sensazione che l'assassino volesse venire qui, sì»
dissi. «Non mi sembra logico pensare che abbia imboccato la strada sterrata a casaccio e poi sia finito in questa radura dopo aver girato a vuoto nel
bosco con il buio.»
Stringendosi nelle spalle, Marino accese il metal detector. «Be', non farà
male dare un'occhiata.»
Cominciammo dal perimetro, esaminando il sentiero, rastrellando metri
e metri di sottobosco e di foglie su entrambi i lati, tornando lentamente in
direzione della strada adibita al trasporto di legname. Per quasi due ore
sondammo ogni squarcio fra gli alberi e i cespugli che potesse avere offerto un varco al passaggio di un essere umano. Il primo segnale ad alta frequenza del metal detector ricompensò i nostri sforzi portando alla luce una
lattina di birra Old Milwaukee, il secondo un apribottiglie arrugginito. Il
terzo segnale si fece attendere fino ai margini del bosco, non lontano dalla
macchina; questa volta si trattava di un bossolo di fucile da caccia, la plastica rossa sbiadita dagli anni.
Appoggiandomi al manico del rastrello, restai a fissare un po' delusa il
sentiero, cercando di riflettere. Hilda aveva parlato di un altro posto, un
luogo dove probabilmente il killer aveva condotto Deborah, e mi tornò in
mente la radura. Inizialmente avevo pensato che, se a un certo punto Deborah era riuscita a divincolarsi dalla stretta dell'assassino, forse era stato
proprio mentre questi trascinava lei e Fred dalla strada alla radura. Ma più
osservavo quel bosco, meno la mia ipotesi sembrava credibile.
«Diamo per scontato un momento che ci troviamo di fronte a un unico
killer» dissi a Marino.
«Okay, ti ascolto.» Si asciugò la fronte sudata usando la manica del cappotto.
«Al posto suo, se tu avessi sequestrato due persone e le avessi costrette,
magari sotto la minaccia di una pistola, a seguirti fin qui, chi uccideresti
per primo?»
«Be', credo che il ragazzo rischierebbe di darmi più problemi» rispose
senza esitazione. «Lo farei fuori per primo, poi mi occuperei della ragazza.»
Eppure, facevo ancora fatica a immaginarmi la scena. Ogni volta che
cercavo di figurarmi una persona nell'atto di costringere due ostaggi ad attraversare quel bosco con il buio, mi bloccavo. Forse l'assassino aveva con
sé una torcia. Oppure conosceva la zona così bene da poter ritrovare la radura a occhi chiusi. Diedi voce alle mie perplessità.
«Anche io ho provato a immaginare la stessa scena» disse Marino. «E
mi vengono in mente un paio di cose. La prima è che probabilmente il nostro uomo li aveva immobilizzati legandogli le mani dietro la schiena. La
seconda è che, se fossi stato io, mentre camminavamo nel bosco avrei tenuto sotto controllo la ragazza, magari piantandole la pistola nelle costole.
In questo modo avrei costretto il suo ragazzo a starsene buono come un
agnellino. Un movimento falso, e la sua bella era morta. In quanto alla torcia, di sicuro doveva avere qualcosa che gli permetteva di vedere dove andava.»
«Allora spiegami come diavolo fai a tenere una pistola, una torcia e una
ragazza allo stesso tempo» gli chiesi.
«Ma è facile. Vuoi che te lo mostri?»
«Non ci tengo.» Arretrai di un passo, mentre lui allungava una mano
verso di me.
«Il rastrello, per favore. Cristo, capo, non farti saltare i nervi.»
Mi consegnò il metal detector e io gli diedi il rastrello.
«Facciamo finta che questo sia Deborah, d'accordo? La blocco passandole il braccio sinistro intorno al collo, la torcia in mano, così.» Mimò l'azione. «Intanto, con la destra tengo la pistola, che le punto nelle costole.
Non è mica difficile. Fred cammina un paio di metri davanti a noi, seguendo il fascio di luce, mentre io non lo perdo di vista un secondo.» Fece una
pausa e guardò il sentiero. «Di sicuro non procedono a passo sostenuto,
questo no.»
«Soprattutto se sono a piedi nudi» sottolineai.
«Esatto. E in effetti credo che lo fossero. Non poteva mica legargli le
caviglie se voleva che camminassero da soli. Però, se li obbliga a levarsi le
scarpe, li obbliga indirettamente anche ad andare più adagio. Se avessero
voluto scappare, gli avrebbe reso difficile la fuga. Chissà, forse dopo averli
fatti fuori si tiene le scarpe come ricordo.»
«Possibile.» Stavo ripensando alla borsa di Deborah.
«Se Deborah aveva le mani legate dietro la schiena» dissi, «come ha fatto la sua borsetta ad arrivare fino alla radura? Non aveva tracolla, quindi
era impossibile appenderla a una spalla o a un braccio. E non era nemmeno
legata alla cintura, visto che a quanto pare non ne indossava. E se qualcuno
ti sta spingendo in un bosco puntandoti una pistola alle costole, per quale
ragione ti porteresti dietro la borsetta?»
«Ah, non lo so. È un problema che mi ha assillato fin dall'inizio.»
«Okay. Allora facciamo un ultimo tentativo» proposi.
«Oh, merda.»
Arrivammo alla radura mentre una massa di nuvole copriva il sole, e con
il vento che stava alzandosi la temperatura sembrò improvvisamente precipitare di una decina di gradi. Mi sentivo gelare dentro al cappotto ormai
umido per lo sforzo, i muscoli delle braccia che tremavano. Allontanandomi dal sentiero, esaminai un'area dalla quale partiva una distesa di terreno così poco invitante da farmi dubitare che persino un cacciatore vi si sarebbe addentrato. In quel punto la polizia aveva scavato e setacciato per
una decina di metri, prima di arenarsi contro una distesa di pueraria che
aveva infestato come un cancro una superficie di circa un acro. Gli alberi,
coperti da una corazza di viticci verdi, assomigliavano a preistorici dinosauri emersi da un mare di solida vegetazione. Ogni cespuglio, pino o ve-
getale era inesorabilmente destinato allo strangolamento.
«Cristo» esclamò Marino, mentre mi inoltravo in quella massa verde
brandendo il rastrello. «Non farai sul serio.»
«Non ci spingeremo molto in là» promisi.
E non ce ne fu nemmeno bisogno.
Il metal detector reagì quasi immediatamente. Il segnale si fece sempre
più intenso e acuto, mentre Marino puntava lo scanner verso una macchia
di pueraria a meno di quindici metri dal punto in cui erano stati ritrovati i
cadaveri. Dal canto mio, scoprii che rastrellare un campo come quello era
peggio che cercare di pettinare una massa di capelli lunghi e annodati, così
alla fine decisi di inginocchiarmi per terra e strappare le foglie con le mani.
Continuai a tastare fra le radici, le dita protette dai guanti chirurgici, finché
avvertii qualcosa di duro e freddo, che seppi subito non essere ciò che speravo.
«Tienilo per il salvadanaio» sbuffai delusa, lanciando a Marino un lurido
quarto di dollaro.
Qualche metro più avanti, il metal detector riprese a suonare, ma questa
volta la ricerca a quattro zampe diede i suoi frutti. Quando sentii sotto le
dita l'inconfondibile sagoma dura e cilindrica, scostai con delicatezza i
tralci di pueraria fino a scorgere il bagliore dell'acciaio inossidabile: un
bossolo che brillava ancora come argento appena lucidato. Lo tirai fuori
adagio, cercando di toccarne la superficie il meno possibile, mentre Marino si chinava tenendo aperta una busta di plastica.
«Nove millimetri, Federal» disse, leggendo attraverso la plastica il marchio impresso sul fondello. «Maledizione.»
«Dunque, era più o meno in questo punto quando le sparò» mormorai.
Un brivido mi corse lungo il corpo mentre ripensavo a Hilda che descriveva un luogo «affollato», un luogo dove «qualcosa cerca di afferrarla». La
distesa di pueraria.
«Se le hanno sparato da una distanza ravvicinata» riprese Marino, «dev'essere caduta non lontano da qui.»
Addentrandomi ancora un po' nella macchia, seguita da Marino con il
metal detector, dissi: «Come diavolo poteva vederci abbastanza da spararle? Signore, ma te lo immagini cosa dev'essere questo posto di notte?».
«C'era la luna.»
«Sì, ma non piena»
«Quanto basta perché non fosse proprio buio pesto.»
Le condizioni meteorologiche di quella sera erano state controllate mesi
prima. Venerdì trentun agosto, data della scomparsa della coppia, la temperatura si aggirava intorno ai quindici gradi, la luna era a tre quarti, il cielo sereno. Eppure, anche se il killer fosse stato munito di una potente torcia
elettrica, non riuscivo a capire come potesse avere costretto due ostaggi a
camminare fin lì senza ritrovarsi vulnerabile e disorientato quanto loro.
Riuscivo solo a figurarmi un grande trambusto e piedi che incespicavano
dappertutto.
Perché non li aveva uccisi sulla strada, limitandosi poi a trascinare i cadaveri per qualche metro all'interno del bosco e darsi alla fuga? Perché aveva voluto portarli proprio lì?
Ma la dinamica era stata uguale anche negli altri casi. I corpi delle vittime erano stati invariabilmente ritrovati in zone boscose e remote come
quella.
Osservando la distesa di pueraria con un'espressione cupa dipinta sul viso, Marino disse: «Non sai come sono felice che questa non sia stagione di
serpenti».
«Hmm, bella osservazione» risposi innervosita.
«Vuoi andare avanti ancora?» chiese poi, in un tono che la diceva lunga
sulla sua voglia di avventurarsi in quella specie di landa gotica.
«Credo che per oggi sia abbastanza.» Uscii dall'intrico il più velocemente possibile, con la pelle d'oca. L'accenno ai serpenti mi aveva sconvolto.
Stavo per avere un attacco di panico.
Quando tornammo alla macchina erano quasi le cinque e il bosco andava
coprendosi di ombre. Ogni volta che sotto i piedi di Marino scricchiolava
un ramo, il cuore mi balzava in gola, e in quel silenzio tetro anche gli
scoiattolini che si arrampicavano sugli alberi o gli uccelli che spiccavano
improvvisamente il volo mi spaventavano come paurose intrusioni.
«Lo depositerò subito in laboratorio domattina» disse Marino. «Poi devo
andare in tribunale. Bel modo di trascorrere il tuo giorno libero.»
«Di cosa si tratta?»
«Hai presente Bubba, quel tizio ucciso da un amico di nome Bubba, contro cui testimonia un tale Bubba?»
«Piantala di scherzare, Marino.»
«Ehi» fece lui, aprendo le portiere, «sono serio come un fucile a canne
mozze, sai?» Mettendo in moto, biascicò: «Comincio a odiare questo lavoro, capo. Giuro che comincio proprio a odiarlo».
«In questo momento tu odii il mondo intero, Marino.»
«No, il mondo intero no» ribatté, concedendosi finalmente una risata.
«Tu mi piaci, capo.»
L'ultimo giorno di gennaio cominciò con una comunicazione ufficiale di
Pat Harvey. Concisa ma eloquente, affermava che, qualora allo scadere
della settimana non le fosse pervenuta copia dei referti dell'autopsia e dell'esame tossicologico eseguito sulla figlia, sarebbe ricorsa al tribunale. Una
copia della comunicazione era stata indirizzata anche al mio diretto superiore, il Commissario ai servizi socio-sanitari, la cui segretaria mi contattò
nel giro di un'ora per convocarmi subito nel suo ufficio.
Mentre al piano inferiore mi attendevano alcune autopsie, lasciai l'edificio e mi recai a piedi per il breve tratto che separava la Franklin dalla stazione di Main Street, uno stabile rimasto vuoto per anni e quindi temporaneamente convertito in centro commerciale, prima che lo Stato lo acquistasse. In un certo senso quella costruzione rossa ormai storica, con torre
dell'orologio e tetto di tegole, era tornata a essere una stazione ferroviaria,
uno scalo per gli impiegati statali in attesa di destinazione mentre un altro
edificio, il Madison Building, veniva spogliato dei vecchi pannelli di asbesto e ristrutturato. Due anni prima, il governatore aveva nominato commissario il dottor Paul Sessions e, per quanto rari, gli incontri con il mio nuovo superiore si erano sempre rivelati piacevoli. Purtroppo temevo che quel
giorno le cose sarebbero andate diversamente. Al telefono la sua segretaria
mi era parsa quasi dispiaciuta, come sapesse già che in ufficio mi aspettava
un rimprovero.
La stanza del commissario si trovava in una suite di uffici al secondo
piano, e vi si accedeva da una scalinata di marmo consumata dal viavai dei
viaggiatori che in un lontano passato erano transitati dalla stazione. I locali
ora occupati dal commissariato erano appartenuti a un negozio di articoli
sportivi e a una specie di boutique che vendeva sgargianti aquiloni e maniche a vento. Le pareti erano state abbattute, le finestre a vetri chiuse con
mattoni, gli uffici tappezzati di pannelli e moquette e arredati con mobili di
buon gusto. Conoscendo le lungaggini burocratiche delle istituzioni pubbliche, il dottor Sessions si era sistemato in quel quartier generale "temporaneo" come se si trattasse in realtà di una sede definitiva.
La segretaria mi accolse con un sorriso impietosito che mi fece solo sentire peggio.
Annunciò al commissario che ero arrivata. Istantaneamente la solida
porta in legno di quercia di fronte alla sua scrivania si spalancò e il dottor
Sessions mi invitò a entrare.
Uomo energico dai radi capelli castani e con occhiali a montatura larga
che sembravano inghiottirgli la faccia, si presentava come la prova vivente
che la maratona non è uno sport adatto agli esseri umani. Aveva il torace
rachitico e così poca carne attaccata alle ossa, che raramente si toglieva la
giacca e in genere preferiva indossare camicie a maniche lunghe anche d'estate, perché sentiva perennemente freddo. Portava ancora una stecca al
braccio sinistro, fratturato qualche mese prima nel corso di una gara sulla
West Coast: era inciampato in una gruccia appendiabiti che gli altri partecipanti èrano riusciti a evitare, e si era ritrovato lungo disteso per terra. Mi
pare fosse stato l'unico concorrente che, pur non avendo terminato la gara,
era finito lo stesso sui giornali.
Sedette dietro la scrivania, la lettera di Pat Harvey bene in vista sul piano di carta assorbente, il volto stranamente serio.
«Suppongo che lei abbia già visto questa?» esordì, tamburellando sulla
busta con l'indice.
«Sì» risposi. «Comprensibilmente, Pat Harvey è molto interessata ai risultati degli esami eseguiti sulla figlia.»
«Il corpo di Deborah Harvey è stato ritrovato undici giorni fa. Devo dedurne che ancora non sa cosa abbia ucciso lei e Fred Cheney?»
«So cosa ha ucciso Deborah. Le cause della morte del ragazzo, invece,
restano ancora da chiarire.»
Parve stupito. «Dottoressa Scarpetta, le spiacerebbe spiegarmi per quale
motivo questa notizia non è stata comunicata agli Harvey e al padre di
Fred Cheney?»
«È semplice. I casi restano aperti in quanto sono tuttora in corso indagini
particolari. E l'Fbi mi ha chiesto di non rilasciare dichiarazioni.»
«Capisco.» Fissò la parete come se ci fosse stata una finestra dalla quale
guardare fuori. Ma non era così.
«Se, tuttavia, lei mi ordina di rompere il riserbo, lo farò. Anzi, di fatto
sarei piuttosto sollevata se mi chiedesse di soddisfare la richiesta di Pat
Harvey.»
«E perché?» Conosceva già la risposta, ma voleva sentirselo dire da me.
«Perché la signora Harvey e suo marito hanno il diritto di sapere cos'è
successo a loro figlia» risposi. «Così come Bruce Cheney ha il diritto di
sentirsi dire ciò che a questo punto sappiamo o non sappiamo sul conto del
figlio. La loro è un'attesa carica di angoscia.»
«Ha già parlato con la signora Harvey?»
«Non di recente.»
«Ma le ha parlato dal giorno in cui sono stati scoperti i cadaveri?» Stava
giocherellando nervosamente con la benda.
«L'ho chiamata una volta identificati i corpi, ma da allora non abbiamo
più avuto scambi.»
«Ma la signora Harvey ha cercato di contattarla?»
«Sì.»
«E lei si è rifiutata di parlarle?»
«Le ho già spiegato per quale motivo non lo faccio» dissi. «E non credo
che da parte mia sarebbe saggio alzare la cornetta per riferirle che l'Fbi non
vuole che le rilasci alcuna informazione.»
«Dunque non hai parlato con nessuno delle direttive ricevute dall'FBI?»
«Solo ora con lei.»
Riaccavallò le gambe. «Bene, ne sono felice. Ma sarebbe fuori luogo
farne parola con chiunque altro. Soprattutto con i giornalisti.»
«Sto facendo del mio meglio per evitarli.»
«Stamattina mi ha chiamato il "Washington Post".»
«Il "Post"? Chi, esattamente?»
Mentre aspettavo la sua risposta in preda a un certo disagio, cominciò a
frugare tra i vari messaggi sulla sua scrivania. Non volevo pensare che
Abby mi avesse scavalcato senza dirmi niente.
«Un certo Clifford Ring.» Sollevò la testa. «In realtà non è nemmeno la
prima volta che chiama, né io sono l'unico da cui sta cercando di ottenere
informazioni. Sta addosso alla mia segretaria e ad altri membri dello staff.
Immagino abbia telefonato anche a lei, e questo spiegherebbe perché alla
fine abbia deciso di rivolgersi direttamente all'amministrazione. "Il medico
legale rifiuta di parlarmi" ha detto.»
«Se è per quello hanno chiamato molti giornalisti, ma non ricordo i nomi
di tutti.»
«Be', il punto è che il signor Ring sospetta che sia in atto una cospirazione, una copertura di qualche genere e, a occhio e croce, viste le domande che mi ha rivolto, deve disporre di informazioni in grado di accreditare
tale ipotesi.»
Strano, pensai. Secondo quanto mi aveva ripetuto Abby, il "Post" aveva
smesso di interessarsi a questo caso.
«Ha l'impressione» continuò il commissario «che il suo ufficio stia facendo ostruzionismo, e dunque che sia coinvolto in tale "cospirazione".»
«E lo sospetto anch'io.» Riuscii a stento a celare il fastidio che provavo.
«Ciò che mi mette tra l'incudine e il martello. O decido di sfidare Pat Har-
vey, o decido di sfidare il Dipartimento di Giustizia e sinceramente, dovendo scegliere, preferirei favorire la signora Harvey. In ultima analisi dovrei rispondere a lei, visto che è la madre di Deborah. All'Fbi, invece, non
devo rendere conto di niente.»
«Non ho nessun interesse a mettermi contro il Dipartimento di Giustizia» commentò il dottor Sessions.
E non occorreva che spiegasse il perché. Una sostanziosa percentuale del
budget del commissariato proveniva da sovvenzioni federali, una parte delle quali arrivava fino al mio ufficio per sostenere la raccolta dei dati necessari a certe agenzie di prevenzione e sicurezza. Il Dipartimento di Giustizia
sapeva giocare duro. Se da un lato osteggiare i federali non significava vedersi automaticamente chiudere importanti rubinetti finanziari, dall'altro
poteva però renderci la vita difficile. L'ultima cosa che il commissario voleva era dover rendere conto di ogni matita e foglio di carta acquistati con i
soldi delle sovvenzioni. Sapevo benissimo che funzionava così, e che ci
avrebbero fatti impazzire con la burocrazia.
Sessions prese la lettera con la mano sana e rimase a studiarla per qualche momento.
«Credo che l'unica risposta da dare alla signora Harvey sia quella di mettere in pratica le sue minacce» sentenziò infine.
«Se ottiene un ordine del tribunale, non avrò altra scelta che spedirle ciò
che chiede.»
«Me ne rendo conto. Ma in questo caso avremmo il vantaggio di non poter essere ritenuti responsabili dall'Fbi. Lo svantaggio, ovviamente, sarebbe una pubblicità negativa per l'ufficio. Certo, se l'opinione pubblica venisse a sapere che siamo stati costretti dal giudice a consegnare a Pat Harvey ciò che le spetta per legge, il Dipartimento della Sanità ne risentirebbe.
In ultima analisi, non farebbe che corroborare i sospetti del nostro amico
Ring.»
Naturalmente il cittadino medio non sapeva nemmeno che l'ufficio del
medico legale dipendeva da quel dipartimento. Chi ci avrebbe rimesso veramente sarei stata io. In ossequio alla burocrazia, il commissario stava solo cercando di prepararmi allo smacco, poiché non aveva alcuna intenzione
di inimicarsi il Dipartimento di Giustizia.
«Certo» riprese a considerare, «Pat Harvey farà la figura di una con la
mano un po' pesante, una che approfitta della propria carica. Forse sta solo
bluffando.»
«Ne dubito» dissi concisamente.
«Vedremo.» Si alzò dalla scrivania, accompagnandomi alla porta. «Scriverò alla signora Harvey informandola del nostro incontro.»
Di questo invece sono sicura, pensai.
«Mi faccia sapere se posso esserle d'aiuto.» Sorrise senza guardarmi.
Gli avevo appena fatto capire che mi occorrevano sostegno e assistenza,
ma era come se si fosse rotto entrambe, le braccia: non avrebbe alzato un
dito per aiutarmi.
Appena rientrata in ufficio, chiesi se per caso avesse telefonato un giornalista del "Post". Dopo accurate ricerche fra vecchi promemoria e messaggi, nessuno sembrava ricordarsi di avere avuto a che fare con un certo
Clifford Ring. Se non mi aveva mai telefonato, pensai, non poteva nemmeno accusarmi di ostruzionismo. Tuttavia era molto perplessa.
«A proposito» aggiunse Rose mentre percorrevo il corridoio. «Ti ha cercato Linda. Dice che ha bisogno di vederti subito.»
Linda era un'analista del laboratorio balistico. Marino doveva avere già
consegnato il bossolo. Bene.
Il laboratorio era situato al terzo piano e poteva tranquillamente essere
scambiato per un vecchio negozio di armi usate. Revolver, carabine, fucili
da caccia e pistole coprivano ogni millimetro della superficie del bancone
e casse di corpi di reato avvolti in carta marrone riempivano il locale dal
pavimento al soffitto. Stavo giusto pensando che dovevano essere tutti fuori per la pausa di mezzogiorno, quando da dietro una porta chiusa mi giunsero le esplosioni ovattate di un fucile che veniva scaricato a vuoto. Attaccata al laboratorio c'era una piccola stanza per i test di funzionamento delle
armi; i colpi venivano sparati in una specie di serbatoio di acciaio galvanizzato pieno d'acqua.
Dopo altre due scariche, Linda uscì dallo stanzino con una .38 Special in
una mano e le cartucce usate nell'altra. Era una ragazza snella e molto
femminile, con lunghi capelli castani, zigomi forti e occhi nocciola ben distanziati. Un lungo camice le riparava una svolazzante gonna nera e una
camicetta di seta gialla chiusa sul collo da una spilla d'oro. Se mi fossi trovata seduta di fianco a lei su un aereo e avessi cercato di indovinare la sua
professione, avrei detto che insegnava poesia o che gestiva una galleria
d'arte.
«Brutte notizie, Kay» annunciò, appoggiando il revolver e le munizioni
usate sulla scrivania.
«Spero non riguardino il bossolo che ti ha portato Marino» dissi.
«Purtroppo sì, invece. Stavo per inciderci le mie iniziali e il numero di
laboratorio, quando mi sono trovata davanti una sorpresina.» Si spostò verso il microscopio: «Guarda qui». Mi offrì la sedia. «Un'immagine che vale
più di mille parole.»
Mi accomodai e guardai attraverso le lenti. Nel campo illuminato alla
mia sinistra si trovava il bossolo di acciaio inossidabile.
«Non capisco» mormorai, regolando la messa a fuoco.
Incise all'interno dell'imboccatura del bossolo c'erano le iniziali «J.M.»
«Pensavo te l'avesse fatto avere Marino.» Sollevai gli occhi, fissandola.
«Infatti l'ha portato lui. È venuto qui circa un'ora fa» rispose Linda. «Gli
ho chiesto se le iniziali le avesse incise lui, ma ha detto di no. Non che io
pensassi veramente che fosse stato lui, le sue sono P.M., casomai, e non
J.M., e poi ha abbastanza esperienza per sapere che certe cose non si fanno.»
Nonostante alcuni agenti investigativi avessero l'abitudine di siglare i
bossoli, esattamente come certi medici legali con i proiettili recuperati dai
corpi delle vittime, gli esperti di balistica tendevano a scoraggiare questa
pratica. Accostare uno stilo al metallo comportava grossi rischi, come danneggiare eventuali segni impressi dall'estrattore, dall'otturatore o dal percussore e altre caratteristiche utili ai fini dell'identificazione, tipo solchi e
sporgenze. Marino non avrebbe compiuto un simile passo falso. Come me,
aveva l'usanza di scrivere le proprie iniziali sulla busta di plastica per lasciare intatto il reperto.
«Devo dedurre che quelle iniziali si trovavano già sul bossolo quando
Marino è venuto?» chiesi.
«A quanto pare sì.»
J.M. Jay Morrell, pensai, incredula. Per quale motivo un bossolo lasciato
sulla scena del delitto avrebbe dovuto recare le sue iniziali?
«Mi stavo chiedendo se non può essere che qualche agente l'avesse in tasca sul luogo del delitto e, inavvertitamente, l'abbia perso» mi venne incontro Linda. «Che ne so, una tasca bucata, magari.»
«Difficile da credere» ribattei.
«In effetti ho anche un'altra teoria, e te la dirò. Però so già che non ti
piacerà, e ad essere sincera non piace neanche a me. Il bossolo potrebbe
essere stato riutilizzato.»
«E perché mai era marcato con le iniziali di un investigatore? Chi diavolo riutilizzerebbe un bossolo già identificato come prova?»
«E già successo prima d'ora, Kay, ma promettimi che non dirai a nessuno che l'hai saputo da me, va bene?»
Mi limitai ad ascoltare.
«Il quantitativo di armi, munizioni e bossoli raccolti dalla polizia e sottoposti ai tribunali è astronomico, e vale un sacco di soldi. A chiunque
viene l'acquolina in bocca, persino ai giudici. Ci mettono su le mani e li
tengono per sé, oppure li rivendono ai commercianti d'armi, altro manipolo
di fanatici. È possibile che questo bossolo sia stato raccolto da un poliziotto e che a un certo punto sia arrivato in tribunale durante la discussione di
qualche caso. E che poi sia stato riutilizzato. Forse chi ha sparato non aveva la minima idea che sulla cartuccia ci fossero delle iniziali.»
«Non siamo in grado di dimostrare che questo bossolo appartenga al
proiettile che ho recuperato dalla vertebra di Deborah Harvey, e non potremo farlo finché non troveremo la pistola che l'ha sparato» le ricordai.
«Anzi, non possiamo nemmeno affermare con certezza che provenga da un
caricatore Hydra-Shok. Sappiamo solo che si tratta di un nove millimetri
della Federal.»
«Vero. Ma la Federal ha il brevetto per le munizioni Hydra-Shok. Ce
l'ha dalla fine degli anni Ottanta, se la cosa ti può interessare.»
«E la Federal vende proiettili di questo tipo adatti al riutilizzo?» mi informai.
«Questo è il problema. No. Sul mercato si trovano solo le cartucce. Ma
questo non significa che qualcuno non possa in qualche modo procurarsi
anche i proiettili. Rubandoli da una fabbrica, per esempio, magari tramite
un dipendente che ci lavora. Io stessa potrei ottenerne, se solo mi presentassi dicendo che sto lavorando a un progetto speciale. Eh» sospirò, prendendo la lattina di Diet Coke che teneva sulla scrivania, «ormai niente riesce più a stupirmi.»
«E Marino sa della tua scoperta?»
«L'ho avvertito per telefono.»
«Grazie, Linda» dissi, alzandomi. Ma dentro di me stavo già formulando
la mia ipotesi, alquanto diversa dalla sua e, purtroppo, molto più probabile.
Il solo pensiero mi rendeva furiosa. Tornata nel mio ufficio sollevai la cornetta e composi il numero del cercapersone di Marino. Mi richiamò quasi
immediatamente.
«Quella testa di cazzo» sibilò, senza neanche lasciarmi il tempo di salutarlo.
«Chi? linda?» chiesi, allibita.
«Ma che Linda! Morrell, ecco chi. Quel pallista figlio di puttana! Gli ho
appena parlato al telefono. Ha continuato a ripetere che non sapeva di cosa
stavo parlando finché non l'ho accusato di occultamento delle prove a scopo di riutilizzo. Gli ho chiesto se per caso rubava anche pistole e munizioni
di prima mano, e gli ho detto che ci avrebbero pensato quelli degli Affari
Interni a indagare. Allora ha deciso di cantare.»
«Ha inciso le proprie iniziali nel bossolo e l'ha lasciato là apposta, vero?»
«Proprio così. Il maledetto bossolo era già stato ritrovato la settimana
scorsa. Quello vero. Poi il deficiente si mette a piangere e a dire che ha fatto solo quello che gli ha ordinato l'Fbi.»
«Allora quello vero dov'è?» chiesi, il sangue che mi pulsava nelle tempie.
«Nei laboratori dell'Fbi. Tu e il tuo amico passate un pomeriggio intero
nel bosco e sai cosa succede intanto, capo? Succede che intanto ti spiano,
per tutto il tempo. Il posto è sotto stretta sorveglianza. Fortuna che a nessuno dei due è venuto in mente di allontanarsi un attimo per fare una pisciatina, eh?»
«Hai già parlato con Benton?»
«Diavolo, no. Per quel che mi riguarda, può andare a farsi fottere.» E
sbatté giù la cornetta.
9
C'era qualcosa, nel Globe e Laurel, che mi faceva sentire al sicuro. In
mattoni, linee semplici e nulla di ostentato, il ristorante occupava una sottile striscia di terreno a Triangle, nel nord della Virginia, vicino alla base dei
Marines. Il praticello sul davanti era sempre ben tenuto, la siepe uniformemente potata, il parcheggio ordinato, le auto rigorosamente posteggiate
entro le linee di demarcazione.
Sulla porta spiccava il motto "Semper Fidelis" e appena entrata mi ritrovai nella crème dei fedelissimi: foto di generali quattro stelle, capi di polizia, ministri della difesa, direttori dell'Fbi e della Cia - figure così familiari
che a vederle riunite lì, con quei loro severi sorrisi, mi parve di ritrovare un
gruppo di vecchi amici. Gli anfibi che il maggiore Jim Yancey aveva indossato in Vietnam troneggiavano lucidi sul pianoforte, dalla parte opposta
del bar. Jim attraversò a grandi passi la moquette scozzese e me lo trovai
davanti.
«Dottoressa Scarpetta» disse sorridendo, mentre mi stringeva la mano.
«Temevo che l'ultima volta il cibo non fosse stato di suo gradimento e che
per questo aspettasse tanto prima di ritornare.»
La tenuta molto casual del maggiore - maglione a collo alto e pantaloni
di velluto a coste - non bastava a camuffare il suo passato. Aveva tuttora
un aspetto militaresco, la postura fiera ed eretta, non un filo di grasso, capelli bianchi tagliati cortissimi. Pur avendo superato l'età della pensione,
appariva ancora abbastanza in forma per andare a combattere e non mi era
difficile immaginarlo su una jeep o nella giungla, intento a consumare razioni in scatola, sotto la pioggia sferzante dei monsoni.
«Non mi è mai capitato di mangiare male qui, e lo sai benissimo» gli risposi calorosamente.
«Stai cercando Benton, e lui cerca te. Il ragazzo è seduto laggiù» mi fece
segno, «nella sua tana preferita.»
«Grazie, Jim, conosco la strada. È bello rivederti.»
Mi strizzò un occhio e tornò al bar.
Era stato Mark a farmi conoscere il ristorante del maggiore Yancey, all'epoca in cui venivo a trovarlo a Quantico due volte al mese, nei weekend. Mentre avanzavo sotto un soffitto tappezzato di mostrine e scivolavo
fra antichi trofei dei Marines, sentii i ricordi stringermi il cuore. Distinguevo ancora senza esitazione i tavoli a cui Mark e io ci eravamo seduti, e
mi sembrava strano vederci ora degli sconosciuti immersi nelle loro conversazioni. Non venivo al Globe da quasi un anno.
Uscendo dalla sala principale, puntai verso una saletta più appartata dove Wesley mi aspettava. La sua "tana" era un tavolo d'angolo davanti a una
finestra con drappeggi rossi. Benton stava sorseggiando un drink, e quando
ci salutammo in tono molto formale non accennò a sorridermi. Subito un
cameriere in smoking nero si fece avanti per prendere la mia ordinazione.
Wesley sollevò la testa, fissandomi con occhi impenetrabili come un buco nero. Gli restituii lo sguardo. L'incontro era iniziato, e ne saremmo usciti pesti.
«Sono molto preoccupato per la difficoltà che attualmente abbiamo nel
comunicare, Kay» esordì.
«Mi trovi assolutamente d'accordo» risposi con la calma glaciale che avevo perfezionato sul banco dei testimoni. «Anche a me preoccupa molto
questa difficoltà di comunicazione. Dimmi, il Bureau mi ha anche sistemato delle microspie nel telefono e mi pedina? Spero che chiunque fosse nascosto in quel bosco, sia riuscito a scattare delle buone foto a me e Marino.»
Con altrettanta calma, Wesley replicò: «Non sei tu sotto sorveglianza.
Sotto sorveglianza è l'area boscosa in cui tu e Marino siete stati individuati
ieri pomeriggio.»
«Magari se mi avessi tenuta informata» reagii, cercando di controllare la
rabbia, «avrei potuto avvisarti in anticipo della nostra decisione.»
«Non avevo pensato che vi potesse venire in mente.»
«Per me è una specie di routine, tornare a esaminare la scena dei delitti.
E lavoriamo insieme da abbastanza tempo perché tu sappia ormai che funziona così.»
«Errore mio, d'accordo. Ma adesso lo sai, e ci terrei che voi due non vi
rifaceste beccare da quelle parti.»
«Oh, non ne ho nessuna intenzione» dissi, seccata. «Ma qualora se ne
presentasse la necessità, sarò felice di informarti in anticipo. Anche se,
presto o tardi, lo verresti a sapere comunque. E di sicuro non ho bisogno di
perdere il mio tempo andando in giro a raccogliere prove sistemate ad arte
dai tuoi agenti o dalla polizia.»
«Kay» riprese, questa volta in tono più morbido, «io non sto cercando di
interferire con il tuo operato.»
«Mi stanno mentendo, Benton. Mi dicono che sulla scena non è stato
trovato alcun bossolo e poi salta fuori che invece è stato consegnato ai laboratori del Bureau più di una settimana fa.»
«Quando abbiamo deciso di mettere il posto sotto sorveglianza, non volevamo che la notizia trapelasse. Meno persone ne sono al corrente, e meglio è per tutti.»
«Quindi vi aspettate che il killer torni sul luogo del delitto.»
«È una possibilità.»
«Ma la stessa possibilità è stata presa in considerazione anche negli altri
quattro casi?»
«Questa volta è diverso.»
«Perché?»
«Perché si è lasciato dietro una prova, e lo sa.»
«Se il bossolo l'avesse tanto preoccupato» commentai «avrebbe avuto un
sacco di tempo a disposizione per recuperarlo lo scorso autunno.»
«Forse non sa che ci saremmo accorti del fatto che Deborah era stata
colpita da un'arma da fuoco, o che addirittura avremmo estratto un proiettile Hydra-Shok dal suo cadavere.»
«Via, non credo che l'individuo con cui abbiamo a che fare sia tanto stupido» obiettai.
Il cameriere tornò con il mio Scotch and soda.»
«Il bossolo che avete recuperato era stato messo lì apposta» riprese Wesley. «Non lo nego. Sì, tu e Marino vi siete addentrati in un'area sorvegliata. C'erano due uomini appostati nel bosco e hanno seguito ogni vostra
mossa, compreso il recupero del bossolo. Se non mi avessi chiamato tu, ti
avrei chiamato io.»
«Mi piacerebbe poterlo pensare.»
«Ti avrei chiamato per spiegarti. In realtà non mi restava altra scelta, visto che avevi mandato all'aria il piano. Comunque hai ragione.» Prese il
suo drink. «Avrei dovuto avvisarti prima. Niente di tutto questo sarebbe
successo e non avremmo dovuto sospendere l'azione, o meglio, non saremmo stati costretti a rimandarla.»
«Cosa avete rimandato, esattamente?»
«Se tu e Marino non aveste interferito con i nostri piani, domattina i
giornali avrebbero pubblicato un articolo destinato al killer.» Fece una
pausa. «Informazioni false che dovevano servire a stanarlo, a metterlo sul
chi va là. Il piano non è stato cancellato, ma rimandato fino a lunedì.»
«E per quale motivo?»
«Vogliamo indurlo a credere che nel corso dell'esame dei corpi sia saltato fuori qualcosa. Qualcosa che ci fa supporre si sia lasciato dietro una
prova importante. Una serie di supposizioni contrastate da smentite, e soprattutto senza commento ufficiale da parte della polizia. Il tutto per dare
l'idea che, di qualunque oggetto di reato si tratti, non è stato ancora trovato.
Il killer sa di avere lasciato un bossolo sulla scena del delitto. Se si lascia
prendere abbastanza dalla paranoia da tornare sul luogo per controllare, noi
saremo lì ad aspettarlo, a guardarlo mentre raccoglie la trappola, a filmarlo
e quindi ad arrestarlo.»
«Il bossolo non ha alcun peso se non avete in mano il colpevole e la pistola che ha usato. Per quale motivo dovrebbe rischiare di tornare sulla
scena, soprattutto se è chiaro che la polizia sta ancora setacciando la zona
alla ricerca della prova?» Non capivo.
«Be', potrebbe nutrire uh sacco di timori perché sa di avere perso il controllo della situazione. Deve averlo perso, altrimenti non avrebbe avuto bisogno di sparare a Deborah. Forse non sarebbe stato necessario usare la pistola, come sembra non avere fatto nel caso di Cheney. Come fa a sapere
con certezza cosa stiamo cercando, Kay? Forse un bossolo, forse qualcos'altro. Non sa con certezza in che stato si trovavano i cadaveri al momento
del ritrovamento. Noi non sappiamo cos'abbia fatto a quei ragazzi, ma lui
non sa cosa tu puoi avere scoperto nel corso delle autopsie. Forse non si
precipiterà sul posto il giorno stesso in cui i giornali daranno la notizia, ma
può darsi che aspetti una settimana o due, finché le acque sembreranno di
nuovo calme.»
«Non credo che la vostra tattica di depistaggio funzionerà» commentai.
«Chi non risica non rosica. Il killer ha abbandonato una prova sul luogo
del delitto. Saremmo degli idioti a lasciare la strada intentata.»
Un varco troppo largo per resistere alla tentazione di infilarmici. «E che
provvedimenti avete preso, invece, sulla base delle prove recuperate negli
altri quattro casi? Se non ho capito male, in ogni veicolo era stato trovato
un fante di cuori. Un dettaglio che vi siete dati molto da fare perché non
trapelasse.»
«Chi te l'ha detto?» chiese, senza mutare espressione. Non sembrava minimamente sorpreso.
«È vero?»
«Sì.»
«E nel caso Harvey-Cheney? Anche lì avete trovato quella carta?»
Wesley lanciò un'occhiata dall'altra parte della sala, facendo un cenno al
cameriere. «Ti consiglio il filet mignon» disse, aprendo il menù. «O l'agnello.»
Ordinai mentre il cuore continuava a martellarmi in petto, quindi accesi
una sigaretta, incapace di rilassarmi, la mente che cercava impazzita la via
attraverso cui uscire dal labirinto.
«Non hai risposto alla mia domanda.»
«Non vedo che rilievo possa avere questo particolare per quanto riguarda la tua posizione nelle indagini» disse.
«La polizia ha aspettato ore prima di convocarmi sul luogo del delitto. E
quando sono arrivata, i corpi erano stati mossi. Gli investigatori fanno ostruzionismo e tu mi chiedi di tenere aperti dei casi a tempo indeterminato,
senza specificare le cause e le modalità della morte di Deborah e Fred. Intanto, Pat Harvey minaccia di ricorrere al tribunale perché non le rilascio i
referti delle autopsie.» Feci una pausa. Wesley rimase imperturbabile.
«Infine» conclusi, ormai agitatissima, «compio un'ulteriore visita sulla
scena del delitto senza sapere che è sorvegliata, né che la prova che raccolgo è in realtà una trappola sistemata a bella posta. E tu credi ancora che
i dettagli possano essere di qualche rilievo rispetto al mio ruolo nelle indagini? Pensa un po': io non sono nemmeno più sicura di avercelo, un ruolo!
O almeno, mi pare che tu stia cercando di fare in modo che non l'abbia
più.»
«Non sto facendo nulla del genere, Kay.»
«Allora sta provvedendo qualcun altro.»
Non rispose.
«Se nella jeep di Deborah, o da qualche parte vicino ai corpi, è stato trovato un fante di cuori, per me è importantissimo saperlo. Perché costituirebbe un anello di collegamento con gli altri quattro casi. Se in questo
momento in Virginia un serial killer se ne va a spasso bello tranquillo, la
cosa mi interessa moltissimo.»
Fu allora che mi colse in contropiede. «Cos'hai detto ad Abby Turnbull?»
«Non le ho detto un bel niente» risposi, il cuore che mi batteva più forte.
«Però vi siete viste, Kay. Sono sicuro che questo almeno non vorrai negarlo.»
«Te l'ha detto Mark, giusto? Anch'io sono sicura che questo almeno non
vorrai negarlo.»
«Non esiste ragione per cui Mark dovrebbe sapere che tu e Abby vi siete
incontrate a Richmond o a Washington, a meno che non gliel'abbia riferito
tu stessa. E, in ogni caso, non vedo perché dovrebbe venirlo a raccontare a
me.»
Lo fissai incredula. Come faceva Wesley a essere al corrente del nostro
incontro a Washington, se non perché Abby era veramente sorvegliata?
«Quando venne a trovarmi a Richmond» spiegai, «Mark mi telefonò e io
per caso gli dissi che lì con me c'era Abby. Stai cercando di farmi credere
che davvero non te ne ha parlato?»
«No, non me ne ha parlato.»
«E allora come hai fatto a scoprirlo?»
«Ci sono cose che non posso spiegarti, Kay. Ti prego solo di avere fiducia in me.»
Il cameriere ci servì le insalate, che mangiammo in silenzio. Wesley riprese a parlare solo quando ebbe davanti il piatto di carne.
«Sono oggetto di mille pressioni» disse a voce bassa.
«Questo lo vedo. Hai l'aria distrutta, sei esaurito.»
«Grazie, dottore» commentò in tono ironico.
«Ma ti trovo cambiato.» Volevo tirare un po' la corda.
«Sono certo che si tratta solo di una percezione soggettiva.»
«Mi stai tenendo all'oscuro di molte cose, Benton.»
«Perché mi poni domande a cui non posso rispondere. Lo stesso vale per
Marino. E così mi sento ancora più sotto pressione. Capisci?»
«Mi sto sforzando.»
«Non posso dirti tutto. Perché non provi ad accettarlo?»
«Non ce la faccio. Vedi, è proprio in questo senso che i nostri interessi
entrano in conflitto. Io dispongo di informazioni che servono a te, e tu disponi di informazioni che servono a me. Non ti metterò a parte delle mie
finché tu non farai altrettanto con le tue.»
Mi sorprese con un'improvvisa risata.
«Credi che su queste premesse sia possibile trovare un accordo?» insistei.
«Mi pare che non mi resti molta scelta.»
«Infatti» confermai.
«Sì, abbiamo trovato un fante di cuori anche nel caso Harvey-Cheney.
Sì, ho fatto spostare i loro corpi prima del tuo arrivo, e so che questo va
contro le regole, ma tu non sai per quale motivo le carte sono tanto importanti, né che problemi sorgerebbero se la notizia si diffondesse. Se arrivasse ai giornali. Per ora, non ho intenzione di dire di più.»
«Dov'era, la carta?»
«L'abbiamo trovata nella borsetta di Deborah Harvey. Quando un paio di
agenti mi hanno aiutato a girarla, abbiamo scoperto che sotto il cadavere
c'era la borsetta.»
«Stai forse suggerendo che a mettercela sia stato il killer?»
«Sì. Non ha senso pensare che Deborah l'avesse portata con sé nel bosco.»
«Negli altri casi» puntualizzai «la carta era stata lasciata bene in evidenza dentro la macchina.»
«Esatto. In questo caso, invece, il luogo del ritrovamento rappresenta
una sorta di incongruenza. Perché non è stata messa nella jeep? Un altro
punto debole è che negli altri casi si trattava sempre di carte da gioco
Bicycle: quella lasciata nella borsa di Deborah è di una marca diversa. E
poi c'è la faccenda delle fibre.»
«Quali fibre?»
Nonostante avessi raccolto fibre da tutti i cadaveri decomposti, la maggioranza dei reperti si era rivelata coerente con l'abbigliamento delle vittime o i rivestimenti interni delle loro macchine. Le fibre sconosciute - quelle poche che avevo trovato - non si erano dimostrate di alcuna utilità nel
collegare i casi fra loro, e sino a quel momento erano rimaste inutili.
«Nei quattro casi precedenti» spiegò Wesley, «dai sedili di ogni veicolo
abbandonato e poi ritrovato erano state prelevate alcune fibre di cotone
bianco.»
«Il che mi giunge del tutto nuovo» dissi, sentendo montare la rabbia.
«L'analisi è stata condotta nei nostri laboratori» precisò.
«E come interpretate i risultati?»
«Il ritrovamento delle fibre è di per sé interessante. Dato che al momento
della morte nessuna delle vittime indossava abiti di cotone bianco, devo
dedurne che siano state lasciate dall'assassino, e dunque che dopo avere
perpetrato il crimine egli abbia guidato le loro auto. Del resto si tratta di
un'ipotesi presa in considerazione fin dall'inizio. Consideriamo piuttosto in
che modo poteva essere vestito. Una possibilità è che al momento dell'incontro con le sue vittime indossasse qualche genere di uniforme, ad esempio pantaloni bianchi di cotone. Ma dal sedile del posto di guida della jeep
di Deborah Harvey non è stata recuperata nessuna fibra di questo tipo.»
«E cos'avete trovato nella macchina?»
«Nulla che in questo momento possa fornirmi indicazioni utili. L'abitacolo era praticamente immacolato.» Si interruppe per tagliare la bistecca.
«Il punto è che, considerate tutte le altre circostanze, il modus operandi di
questo caso presenta sufficienti discordanze da preoccuparmi.»
«Nel senso che questa volta una delle vittime è la figlia della famosa Zarina e tu stai ancora valutando la possibilità che i moventi siano di natura
politica, viste le battaglie contro la droga condotte dalla madre.»
Annuì. «Non possiamo escludere che l'assassinio di Deborah e del suo
ragazzo sia stato camuffato in modo da assomigliare soltanto agli altri
quattro casi di coppie scomparse.»
«Ma se la loro morte non è in relazione con quelle precedenti e si è trattato di un colpo studiato» osservai in tono scettico, «come spieghi il fatto
che il killer sapesse la storia delle carte? Io stessa ne sono rimasta all'oscuro per molti mesi. Certo non sono stati i giornali a parlarne.»
«Pat Harvey ne è al corrente» disse, e quella sì che fu una rivelazione.
Abby, pensai. Ero pronta a scommettere che era stata lei a confidare i
particolari della storia alla signora Harvey, così come ero certa che Wesley
lo sapesse.
«Da quanto tempo?» chiesi.
«Quando ritrovarono la jeep, mi chiese se per caso avevamo recuperato
una carta da gioco. E quando furono rinvenuti i cadaveri, mi chiamò per
sapere la stessa cosa.»
«Non capisco» dissi. «Come faceva a esserne già al corrente l'autunno
scorso? Il fatto è che, secondo me, Pat Harvey conosceva già i dettagli re-
lativi agli altri casi, prima che Deborah e Fred scomparissero.»
«Sì, alcuni dettagli li conosceva. Aveva cominciato a interessarsi alla vicenda ben prima che la cosa la toccasse personalmente.»
«E perché?»
«Avrai sentito parlare anche tu di alcune fra le ipotesi avanzate» rispose
Wesley. «Overdose di droga. Qualche nuovo tipo di stupefacente appena
messo sul mercato: i ragazzi si fanno un trip nel bosco e ci lasciano la pelle. Oppure qualche spacciatore che si eccita vendendo roba pericolosa in
posti remoti e resta a spiare l'agonia delle sue vittime.»
«Sì, ne ho sentito parlare anch'io, ma non c'è un solo elemento che le avvalori. Gli esami tossicologici hanno dato esito negativo in tutti e otto i decessi precedenti.»
«Ricordo i referti» confermò. «Tuttavia, decisi che questo non escludeva
in assoluto un coinvolgimento delle vittime in qualche giro di droga. I loro
corpi erano scheletriti, non mi pare restasse molto su cui eseguire test accurati.»
«C'era ancora qualche brandello di muscolo. È abbastanza per rivelare
tracce di cocaina o eroina, ad esempio. In tal caso avremmo dovuto almeno
trovare metaboliti della morfina o della benzoilecgonina. In quanto all'eventualità che si trattasse di qualche nuova droga di sintesi, abbiamo cercato gli analoghi della polvere d'angelo e delle anfetamine.»
«Che ne dici del China White?» suggerì, riferendosi a un potentissimo
analgesico di sintesi che andava per la maggiore in California. «Per quel
che ne so io, è una sostanza di difficile individuazione e per un'overdose
non ne occorrono grandi quantità.»
«Vero. Meno di un milligrammo può già essere fatale, il che significa
che la concentrazione è troppo bassa per essere individuata senza ricorrere
a procedure analitiche speciali, come il RIA.» Notando l'espressione del
suo viso, mi affrettai a chiarire: «Test radioimmunologico, un metodo che
si basa sull'esame delle reazioni alle sostanze stupefacenti da parte di anticorpi specifici. Diversamente dalle procedure di screening convenzionale,
il RIA è in grado di rilevare anche la presenza di livelli bassissimi di droga
ed è ciò a cui ci si affida quando si cercano il China White, piuttosto che
l'LSD o il THC.»
«E non avete trovato tracce di nessuno di questi.»
«Esatto.»
«E il tasso di alcol?»
«L'alcol è già più problematico, quando i corpi sono decomposti. Alcuni
fra i test eseguiti hanno dato risultati negativi, altri meno di zero virgola
zero cinque, forse per effetto della decomposizione stessa. In ogni caso,
nulla di significativo.»
«Anche sulla Harvey e Fred Cheney?»
«Non c'è traccia di droghe» confermai. «Ma cosa cercava esattamente
Pat Harvey nei casi precedenti?»
«Non mi fraintendere» rispose. «Non sto dicendo che fosse propriamente preoccupata. Ma di sicuro all'epoca in cui era procuratore deve essere
entrata in possesso di informazioni riservate, in seguito alle quali ha cominciato a interessarsi alla cosa. Politica, Kay. Se fosse saltato fuori che la
morte - accidentale o meno - delle coppie scomparse era legata a questioni
di droga, immagino che si sarebbe servita di tali informazioni per sostenere
ulteriormente la sua battaglia.»
Il che avrebbe spiegato anche per quale motivo la signora Harvey mi era
parsa così ben informata già nell'autunno precedente, il giorno in cui ero
andata a pranzo a casa sua. Se in ufficio disponeva di un archivio relativamente aggiornato, era certo per un interesse di vecchia data nei confronti
degli altri casi.
«Ma quando vide che non approdava a nulla anche chiedendo in giro»
proseguì Wesley, «lasciò perdere. Fino alla scomparsa di Deborah e Fred,
o almeno così penso. Allora, come puoi ben capire, il suo interesse si è
riacceso di colpo.»
«Capisco benissimo. E posso anche immaginare che ironia sarebbe stata
se fosse emerso un problema di droga fra i motivi della morte di sua figlia.»
«Non credere che il pensiero non l'abbia sfiorata» disse Wesley in tono
cupo.
Un'allusione che mi restituì subito tutto il mio nervosismo. «Ha diritto di
sapere, Benton. Non posso tenere i casi aperti in eterno.»
Annuì in direzione del cameriere: eravamo pronti per il caffè.
«Ho bisogno che temporeggi ancora un po', Kay.»
«Per assecondare la tua tattica di depistaggio attraverso i giornali?»
«Dobbiamo fare anche questo tentativo. Dobbiamo permettere agli articoli di sortire il loro effetto senza che intervengano elementi di disturbo.
Se parli con Pat Harvey, un minuto dopo si scatenerà l'inferno. Credimi,
Kay, in questo momento conosco le sue reazioni meglio di quanto non le
conosca tu. Si rivolgerà immediatamente alla stampa, facendo saltare la
nostra trappola.»
«E cosa accadrà quando invece avrà in mano un ordine del tribunale?»
«Per quello occorrerà un po' di tempo, non è cosa che si ottiene dall'oggi
al domani. Allora, Kay, proverai a tirarla per le lunghe ancora qualche
giorno?»
«Non hai ancora finito di spiegarmi la storia del fante di cuori» gli ricordai. «Come poteva saperlo, un killer di professione estraneo ai casi precedenti?»
Wesley rispose con una certa riluttanza. «Pat Harvey non lavora da sola,
quando si tratta di raccogliere informazioni o svolgere indagini. Ha degli
aiutanti, un intero staff di persone. Si rivolge ad altri uomini politici, a
chiunque, elettori compresi. Tutto dipende da chi, oltre a lei, è stato messo
a parte della cosa, e da chi, là fuori, può avere interesse a distruggerla.
Ammesso e non concesso che le cose siano andate proprio così.»
«Un killer pagato per inscenare un omicidio sullo stile dei precedenti,
insomma» considerai. «Peccato che abbia commesso un errore. Non sapeva di dover lasciare il fante in macchina, e così l'ha messo nella borsetta di
Deborah, sotto il cadavere. Qualcuno coinvolto nel giro di quegli istituti di
beneficenza contro cui Pat Harvey dovrebbe testimoniare prossimamente?»
«Stiamo parlando di brutti personaggi che hanno a che fare con altri
brutti personaggi. Narcotrafficanti. Il crimine organizzato.» Mescolò pigramente il caffè. «La signora Harvey non se la sta passando affatto bene,
anzi, è proprio a pezzi. Diciamo che, ora come ora, quella testimonianza
non è esattamente il primo fra i suoi pensieri.»
«Capisco. E immagino che, sempre per quel motivo, non sia particolarmente in buoni rapporti nemmeno con il Dipartimento di Giustizia.»
Appoggiando delicatamente il cucchiaio sul bordo del piattino, Wesley
rispose: «Non lo è, infatti». Sollevò gli occhi a guardarmi. «Ciò che sta
cercando di fare non ci sarà d'aiuto. Far chiudere bottega a gruppi come
l'ACTMAD e ad altri loschi individui va benissimo, ma non basta. Noi vogliamo andare fino in fondo. In passato, la Harvey ha avuto contrasti con
la DEA, l'Fbi e anche la Cia.»
«E adesso?» Continuavo a sondare il terreno.
«Adesso è peggio perché si ritrova emotivamente coinvolta in prima
persona e deve affidarsi al Bureau per la soluzione dell'omicidio della figlia. È diventata paranoica, rifiuta di collaborare. Sta cercando di aggirarci,
di scavalcarci, di riprendere in mano le redini della situazione.» Sospirando, aggiunse: «E un bel problema, Kay».
«Probabilmente è la stessa cosa che lei pensa del Bureau.»
«Questo è poco ma sicuro» commentò con un sorriso amaro.
Volevo continuare quella partita a poker con Wesley e scoprire se mi
stava tenendo nascosto qualcos'altro, quindi rilanciai: «Pare che Deborah
abbia subito una ferita di natura difensiva all'indice sinistro. Non un taglio
ma un colpo netto, inflitto da un coltello a lama seghettata».
«Dove, esattamente?» chiese lui, sporgendosi leggermente sul tavolo.
«Dorsale.» Gli feci vedere sulla mia mano. «In alto, vicino alla prima
nocca.»
«Interessante. Una ferita atipica.»
«Esatto. E non è facile ricostruire come se la sia procurata.»
«Dunque sappiamo che era armato di coltello» parve riflettere a voce alta. «Il che mi fa sempre più pensare che quella sera qualcosa è andato storto. Un evento che non aveva previsto. Aveva con sé una pistola, ma intendeva ucciderli con il coltello. Magari tagliandogli la gola. Invece qualcosa
non funziona. In qualche modo Deborah riesce a liberarsi, e lui le spara
nella schiena. Poi, per finirla, le taglia la gola.»
«Dopodiché li avrebbe sistemati nella stessa posizione degli altri cadaveri?» chiesi. «A braccetto, faccia in giù e completamente vestiti?»
Benton Wesley fissava la parete al di sopra della mia testa.
Ripensai ai mozziconi di sigaretta abbandonati sulla scena del delitto, ai
parallelismi con gli altri casi. Il fatto che la carta da gioco fosse di un'altra
marca e che l'avessero ritrovata in un punto diverso di per sé non dimostrava nulla. I killer non sono automi. I loro rituali, le loro abitudini non
sono una scienza esatta, né leggi incise sulla pietra. Niente di quanto Wesley mi aveva rivelato, compresa l'assenza di fibre di cotone bianco dalla
jeep di Deborah, bastava a convalidare la teoria dell'estraneità del caso
Harvey-Cheney. Ero confusa, come quando andavo a Quantico e non sapevo se le pistole erano cariche o sparavano a salve, se gli elicotteri trasportavano Marines veri in missione o agenti Fbi in esercitazione, o ancora
se gli edifici eretti dall'Accademia nella fittizia città di Hogan's Halley
funzionavano sul serio o erano semplici facciate di marca hollywoodiana.
Comunque, non riuscii a scucire altre informazioni. Wesley non aveva
intenzione di dire di più.
«Si sta facendo tardi» notò. «Ti aspetta un viaggio piuttosto lungo,
Kay.»
Ma una cosa almeno volevo metterla in chiaro.
«Non voglio che l'amicizia interferisca con tutto questo, Benton.»
«Non hai bisogno di dirlo.»
«Ciò che accadde fra Mark e me.»
«È un argomento che non fa testo» mi interruppe, la voce ferma ma non
ostile.
«Era il tuo migliore amico.»
«Mi piacerebbe pensare che lo sia ancora.»
«Credi sia colpa mia se ha lasciato Quantico e se n'è andato in Colorado?»
«So benissimo perché è partito» disse. «E mi dispiace che non sia più
qui. Era un ottimo elemento per l'Accademia.»
Il lunedì seguente non vidi traccia della strategia con cui l'Fbi sperava di
attirare il killer allo scoperto diffondendo informazioni inesatte. O il
Bureau aveva cambiato idea, oppure era stato battuto sul tempo da Pat
Harvey, che quello stesso giorno tenne una conferenza stampa.
Alle dodici in punto comparve davanti alle telecamere nel suo ufficio di
Washington, aggiungendo una nota patetica grazie alla presenza di Bruce
Cheney, padre di Fred. Aveva un'aria orribile. A dispetto del trucco e dell'effetto ingrassante degli obiettivi, era impossibile non accorgersi dei cerchi neri che le appesantivano gli occhi e di quanto fosse dimagrita ultimamente.
«Quando iniziarono le minacce, signora Harvey, e di che natura erano?»
chiese un giornalista.
«La prima mi arrivò poco dopo l'inizio delle indagini sulle organizzazioni di beneficenza. Direi poco più di un anno fa» rispose senza emozione.
«Si trattava di una lettera indirizzata alla mia residenza di Richmond. Senza rivelarne il contenuto esatto, dirò solo che erano minacce rivolte ai miei
famigliari.»
«E le ritiene collegate alle indagini che stava svolgendo sull'attività di
associazioni come l'ACTMAD?»
«Senza ombra di dubbio. Poi ne ricevetti altre, l'ultima due mesi prima
della scomparsa di mia figlia e di Fred Cheney.»
Sullo schermo apparve una fugace inquadratura del volto di Bruce Cheney. Era pallido e sbatteva gli occhi, accecato dai riflettori.
«Signora Harvey...»
«Signora Harvey...»
I giornalisti si interrompevano a vicenda, e Pat Harvey interrompeva i
giornalisti, mentre la telecamera si affannava a rincorrere tutti. «L'Fbi era
al corrente della situazione e riteneva che le minacce, le lettere, provenissero da un'unica fonte» disse.
«Signora Harvey...»
«Signora Harvey» gridò una giornalista al di sopra della confusione generale, «non è un segreto che lei e il Dipartimento di Giustizia avete priorità diverse, in altre parole un conflitto di interessi legato proprio alle indagini su quelle organizzazioni. Sta forse cercando di dire che l'Fbi sapeva
che la sua famiglia era in pericolo e tuttavia non fece niente?»
«Esattamente.»
«Dunque, accusa il Dipartimento di Giustizia di incompetenza?»
«Ciò di cui accuso il Dipartimento non è incompetenza, ma cospirazione» sentenziò Pat Harvey.
Emisi un gemito e presi una sigaretta, mentre le interruzioni si susseguivano in una sorta di crescendo. Hai perso, pensai, fissando incredula il televisore nella piccola biblioteca dell'ufficio.
La situazione andò progressivamente degenerando, e mentre Pat Harvey
puntava uno sguardo glaciale verso la telecamera, sferrando colpi a tutte le
persone coinvolte nell'indagine, me compresa, mi sentii sopraffare da un
senso di orrore. Non risparmiò niente e nessuno, e neanche il particolare
del fante di cuori si salvò dalla carneficina.
Quando Wesley aveva parlato del suo rifiuto a collaborare, descrivendolo come un problema, aveva usato degli eufemismi. Dentro una corazza di
razionalità e ragionevolezza, c'era una donna folle di rabbia e di dolore.
Continuai ad ascoltare intontita, mentre Pat Harvey accusava apertamente
e senza riserve la polizia, l'Fbi e l'Ufficio del medico legale di complicità e
ostruzionismo.
«Stanno deliberatamente affossando la verità su questi casi» concluse,
«e ciò che torna a esclusivo vantaggio dei loro interessi ha il prezzo esorbitante del sacrificio della vita umana.»
«Una marea di stronzate» mormorò Fielding, il mio vice, seduto lì accanto.
«Quali casi?» domandò un giornalista. «Si riferisce alla morte di sua figlia e del ragazzo, o alle altre quattro coppie?»
«A tutti quanti» fu la risposta. «Mi riferisco a tutti i giovani, donne e
uomini, cacciati e assassinati come animali»
«Cosa stanno coprendo, signora Harvey?»
«L'identità del responsabile o dei responsabili» disse con la sicurezza di
chi sa per certo. «Il Dipartimento di Giustizia non ha fatto nulla per porre
fine alla catena di omicidi. Le ragioni sono di ordine politico. Una certa
agenzia federale sta cercando di proteggersi.»
«Le spiacerebbe essere più esplicita?» gridò una voce di rimando.
«Rilascerò dichiarazioni esaurienti una volta conclusa la mia indagine.»
«Alla commissione?» le chiesero. «Sta suggerendo che l'assassinio di
Deborah e del ragazzo...»
«Si chiama Fred.»
Questa volta a parlare era Bruce Cheney, il cui volto livido venne prontamente inquadrato dalla telecamera.
«Fred. Si chiama Fred Wilson Cheney.» Gli tremava la voce per l'emozione. «E non è solo il ragazzo di Debbie. Anche lui è morto assassinato.
Mio figlio!» La voce gli si ruppe ed egli abbassò la testa per nascondere le
lacrime.
Spensi il televisore, sconvolta e incapace di starmene ancora ferma sulla
sedia.
Rose era rimasta per tutto il tempo a guardare appoggiata allo stipite della porta. Mi lanciò un'occhiata e scosse la testa,
Fielding si alzò a sua volta, si stirò e riallacciò le stringhe del camice.
«Si è semplicemente sputtanata davanti a tutto il mondo» fu il suo commento. Quindi uscì dalla sala.
Versandomi il caffè, mi resi improvvisamente conto di ciò che Pat Harvey aveva detto. Era come se, ripetendomelo mentalmente, lo sentissi per
la prima volta.
«Cacciati e assassinati come animali...»
Parole che sembravano riprese da un copione. Non sembravano uscire
dalla bocca di uno che sta parlando a braccio, improvvisando, né una semplice figura retorica. Un certa agenzia federale sta cercando di proteggersi?
Caccia.
Un fante di cuori equivale a un cavaliere di coppe. Uno che viene percepito o si autopercepisce come un difensore, un emulo, un rivale. Uno che
combatte una battaglia, aveva detto Hilda Ozimek.
Un cavaliere. Un soldato.
Caccia.
Erano omicidi meticolosamente calcolati e organizzati con metodo. Bruce Phillips e Judy Roberts erano scomparsi in giugno, i loro corpi ritrovati
a metà agosto, all'apertura della stagione della caccia.
Jim Freeman e Bonnie Smyth erano scomparsi in luglio, i corpi erano
stati ritrovati il giorno della riapertura della stagione della quaglia e del fagiano.
Ben Anderson e Carolyn Bennett erano scomparsi in marzo, i cadaveri
ritrovati in novembre in piena stagione di caccia al cervo.
Susan Wilcox e Mark Martin erano scomparsi alla fine di febbraio. I loro corpi erano stati rinvenuti a metà maggio, stagione del tacchino.
Deborah Harvey e Fred Cheney erano spariti durante il weekend del Labor Day e i loro corpi erano stati ritrovati solo molto più tardi, in un periodo in cui i boschi erano battuti da cacciatori di lepri, scoiattoli, volpi e fagiani.
Non avevo mai pensato che quella costante potesse in realtà avere un significato particolare, in quanto la maggioranza dei corpi scheletriti e in avanzato stato di decomposizione che approdano al mio ufficio, viene normalmente ritrovata proprio da cacciatori. Quando qualcuno muore o viene
ucciso e abbandonato in un bosco, la persona che più facilmente inciamperà nel suo cadavere è un cacciatore. Tuttavia, il periodo e il luogo del ritrovamento dei corpi potevano anche essere stati premeditati.
Il killer voleva che le sue vittime venissero trovate, ma non subito, quindi agiva fuori stagione sapendo che prima del ritorno dei cacciatori era improbabile che ciò avvenisse. A quell'epoca, i cadaveri si erano ormai decomposti. E insieme ai tessuti, se n'erano andati anche i segni delle ferite
inflitte. Se le ragazze erano state stuprate, ormai non c'era più traccia rilevabile di liquido seminale, e gli indizi più piccoli erano stati sparpagliati
dal vento o dilavati dalla pioggia. Forse per l'assassino era addirittura importante che a ritrovare i cadaveri fossero dei cacciatori, poiché nelle sue
fantasie lui stesso lo era. Il più grande cacciatore di tutti i tempi.
I cacciatori però vanno a caccia di animali, pensai, sedendomi alla scrivania il pomeriggio seguente. A cacciare esseri umani sono semmai i guerriglieri, gli agenti speciali militari, i soldati di ventura.
In un raggio di settantacinque chilometri dai luoghi di scomparsa e ritrovamento delle coppie erano situati Fort Eustis, Larigley Field e un certo
numero di installazioni militari, compresa la West Point della Cia che operava sotto la copertura di una base militare chiamata Camp Peary. "La Fattoria", come Camp Peary viene chiamato nei romanzi di spionaggio e nei
saggi sui servizi segreti, fungeva da centro di addestramento per gli ufficiali e vi si praticavano attività paramilitari come l'infiltrazione, la fuga, le
demolizioni, i lanci notturni con paracadute e altre operazioni clandestine.
Abby Turnbull aveva imboccato l'uscita sbagliata e si era ritrovata all'en-
trata del campo. Qualche giorno più tardi, agenti Fbi erano venuti a cercarla.
I federali erano paranoici e se già nutrivo qualche sospetto sulle ragioni
di tale paranoia, dopo avere letto nei giornali i resoconti della conferenza
stampa di Pat Harvey, i sospetti divennero quasi certezze.
Sulla mia scrivania erano sparse varie testate, compreso il "Post", e avevo esaminato attentamente tutti gli articoli. Quello del "Post" era firmato
Clifford Ring, il giornalista che aveva perseguitato il commissario e altri
funzionali del nostro Dipartimento. Mi citava solo di sfuggita, laddove sottolineava che Pat Harvey stava abusando dei propri poteri per ottenere dai
responsabili, con intimidazioni e minacce, informazioni relative alla morte
della figlia. Tanto bastò a farmi chiedere se il signor Ring non fosse proprio l'intermediario di Benton Wesley, colui attraverso il quale l'Fbi diffondeva informazioni-trappola - il che di per sé non sarebbe stato male.
Era l'obiettivo di quegli articoli a infastidirmi.
Ciò che, pensavo, sarebbe stato strombazzato come lo scoop del mese,
veniva trasformato nella colossale denigrazione di una donna che, appena
poche settimane prima, era stata indicata come possibile vicepresidente
degli Stati Urtiti. Ero la prima a pensare che la polemica aperta da Pat Harvey in occasione della conferenza stampa fosse quantomeno azzardata e
prematura: però mi sembrava strano che nessuno tentasse seriamente di sostenere le accuse. In questo caso i giornalisti non apparivano affatto inclini
a sfruttare i pericolosi "no comment" e altri evasivi doppi sensi pronunciati
dai burocrati governativi, cose di cui normalmente andavano ghiotti.
L'unico capro espiatorio sembrava la stessa Pat Harvey, cui veniva negata ogni forma di pietà. C'era addirittura un editoriale intitolato HARVEYGATE. La stavano mettendo in ridicolo, non solo attraverso gli articoli
ma anche attraverso vignette umoristiche. Uno dei più rispettati funzionari
della nazione veniva liquidato come una femmina isterica, tra le cui "fonti"
si contava persino una chiromante della Carolina del Sud. I suoi tradizionali alleati indietreggiavano scuotendo la testa, i suoi nemici giurati la finivano sottilmente sferrando attacchi camuffati da espressioni di solidarietà. «La sua reazione è certamente comprensibile, alla luce della tremenda
perdita subita» affermava un detrattore del partito democratico, aggiungendo: «Credo sia meglio sorvolare sulla sua imprudenza e limitarsi a considerare le sue accuse come frecce avvelenate da una mente sconvolta». E
un altro: «Pat Harvey è un tragico esempio dell'autodistruzione di cui si resta vittime quando i problemi personali prendono il sopravvento sulla real-
tà».
Infilato nella macchina per scrivere il referto dell'autopsia di Deborah
Harvey, sbianchettai la voce "non identificata" in corrispondenza degli
spazi relativi alla causa e alla modalità della morte, e al loro posto scrissi
rispettivamente "dissanguamento dovuto a ferita d'arma da fuoco alla
schiena e a ferite da taglio" e "omicidio". Quindi, apportate le dovute correzioni al certificato di morte e al referto CME-1, andai a fare delle fotocopie che allegai a una lettera in cui spiegavo la natura dei risultati e porgevo
le mie scuse per il ritardo, attribuendo quest'ultimo al protrarsi dell'attesa
degli esiti tossicologici, tuttora provvisori. Benton Wesley avrebbe dovuto
fare buon viso a cattivo gioco. Non avevo nessuna voglia di dover raccontare a Pat Harvey che ero stata obbligata dal Bureau a tenere in sospeso a
tempo indeterminato i risultati degli esami medico-legali eseguiti sul cadavere della figlia.
Gli Harvey avrebbero appreso ogni dettaglio di ciò che avevo scoperto a
occhio nudo e al microscopio; avrebbero saputo che i primi esami tossicologici avevano dato esito negativo, che in una vertebra lombare di Deborah
era stato rinvenuto un proiettile e che la mano sinistra recava una ferita da
difesa, così come avrebbero ricevuto la triste e particolareggiata descrizione dei suoi abiti, o meglio di ciò che era rimasto. La polizia aveva ritrovato i suoi orecchini, l'orologio e l'anello di fidanzamento regalatole da
Fred Cheney per il compleanno.
Dopodiché preparai le copie che avrei spedito al padre di quest'ultimo,
sebbene nel suo caso potessi solo affermare che la modalità della morte era
stata omicidio, mentre la causa era "violenza di natura indeterminata".
Infine sollevai la cornetta e composi il numero dell'ufficio di Wesley, ma
mi dissero che non c'era. Allora provai a casa.
«Sto facendo partire i referti» gli comunicai appena mi rispose. «Volevo
semplicemente informarti.»
Silenzio.
Poi, in tono calmissimo, disse: «Hai visto la conferenza stampa, Kay?»
«Sì.»
«E hai letto i giornali di oggi?»
«Ho visto la conferenza alla televisione e ho letto i giornali. Sono perfettamente consapevole del fatto che si è tirata la zappa sui piedi.»
«Purtroppo temo che se la sia tirata in testa.»
«Non senza che qualcuno l'abbia aiutata a farlo.»
Una pausa. «A cosa alludi?» chiese poi.
«Sarò felice di spiegartelo in tutti i particolari. Stasera. Di persona.»
«Qui?» Il suo tono era allarmato.
«Sì.»
«Non mi sembra una buona idea, Kay. Non stasera.»
«Mi dispiace, Benton, ma non posso aspettare.»
«Tu non capisci. Credimi, Kay.»
«No, Benton, questa volta no» lo interruppi.
10
Un vento gelido squassava le nere sagome degli alberi e alla luce fioca
della luna il paesaggio appariva inospitale e carico di presagi. Stavo andando da Benton Wesley. I lampioni erano rari, le strade di campagna mal
segnalate. Alla fine mi fermai davanti a un emporio con due sgangherati
distributori di benzina; accesi la lucina dell'abitacolo e studiai gli appunti
che avevo scarabocchiato. Mi ero persa.
Il negozio era chiuso, ma di fianco alla porta d'entrata vidi un telefono
pubblico. Mi avvicinai, sempre in macchina, quindi scesi lasciando i fari e
il motore accesi. Composi il numero di Wesley e mi rispose Connie, la
moglie.
«È proprio finita da tutt'altra parte» disse, dopo che alla meglio avevo
cercato di descriverle dove mi trovavo.
«Oh, Signore» borbottai con un sospiro.
«Be', in realtà non è così lontano. Il problema è che, da dove si trova adesso, è piuttosto complicato arrivare fin qui.» Fece una pausa, poi continuò: «Credo che la cosa migliore sia stare lì tranquilla, Kay. Torni in macchina e si chiuda dentro. Verremo a prenderla, così potrà seguirci. Un
quarto d'ora al massimo, d'accordo?».
Con un po' di retromarcia andai a parcheggiare più vicino alla strada, accesi la radio e aspettai. I minuti sembravano ore. Non passò una sola macchina. I miei fari illuminavano lo steccato bianco di un campo al di là della
strada. La luna era una pallida fettina che galleggiava nell'oscurità lattiginosa. Fumai diverse sigarette, gli occhi in perenne movimento.
Mi domandai se anche alle coppie uccise era successo così, e che sensazione si provava a essere spinti, legati e a piedi nudi, nel folto di un bosco.
Non potevano non rendersi conto che ad aspettarli c'era la morte. Dovevano essere terrorizzati all'idea di non sapere quale sarebbe stata la prima
mossa dell'assassino. Pensai a mia nipote Lucy. Pensai a mia madre, a mia
sorella, ai miei amici. La paura del dolore e della morte di una persona cara è sempre superiore al timore per la propria vita. Rimasi a osservare la
luce intensa di due fari che si avvicinavano dal fondo della strada scura e
stretta. Una macchina che non riconobbi svoltò nella piazzola e venne a
fermarsi vicino alla mia, ma nello scorgere il profilo del guidatore sentii
una scarica di adrenalina frustarmi le vene come una potente scossa elettrica.
Mark James scese da quella che immaginai essere un'auto presa a noleggio. Abbassai il finestrino e lo fissai ammutolita.
«Ciao, Kay.»
Wesley aveva detto che non era la serata buona, aveva cercato di convincermi, e ora capivo finalmente perché: c'era Mark in visita. Forse adesso era stata Connie a chiedergli di venirmi incontro, o forse si era offerto
spontaneamente, ma non riuscivo a immaginare come avrei reagito se fossi
tranquillamente entrata in casa Wesley e me lo fossi trovata davanti in salotto, seduto in poltrona.
«È una specie di labirinto fino a casa di Benton» disse. «Ti consiglierei
di lasciare qui la macchina. È un posto sicuro. Più tardi ti riporto indietro
io, così ti sarà più facile ritrovare la strada.»
Senza parole, parcheggiai accanto al negozio e salii in macchina con
Mark.
«Come stai?» mi chiese piano.
«Bene.»
«E i tuoi? Come sta Lucy?»
Lucy mi chiedeva ancora di lui. E io non sapevo mai cosa risponderle.
«Bene» ripetei.
Mentre osservavo il suo viso, le sue mani forti sul volante, ogni contorno, ogni linea, ogni vena familiare e per me meravigliosa, il mio cuore era
gonfio di emozioni dolorose. Lo odiavo e lo amavo al tempo stesso.
«E il lavoro, tutto bene?»
«Per favore, Mark, smettila di essere così schifosamente educato.»
«Mi preferisci scorbutico come te?»
«Oh, io non sto mica facendo la scorbutica, sai?»
«E allora che accidenti vuoi che dica?»
Gli risposi con il silenzio.
Accese la radio e continuammo a sprofondare nella notte.
«Lo so che è imbarazzante, Kay.» Teneva gli occhi incollati alla strada.
«Mi dispiace. È stato Benton a dirmi di venirti a prendere.»
«Hmm, molto carino da parte sua» commentai in tono sarcastico.
«Non intendevo in quel senso. Se non me lo avesse chiesto, avrei insistito per venire lo stesso. Non vedo motivo per cui tu dovessi immaginare
che c'ero anch'io.»
Dopo una stretta curva, entrammo nel quartiere dove abitava Wesley.
Mentre parcheggiavamo sul vialetto di casa, Mark riprese: «Credo sia meglio avvisarti che Benton non è dell'umore migliore».
«Neanch'io» risposi con voce gelida.
In salotto crepitava un bel fuoco e Wesley sedeva accanto al camino, una
valigetta aperta appoggiata a una gamba della sedia. Sul tavolo vicino, un
drink. Non si alzò quando entrai ma mi rivolse un impercettibile segno della testa, mentre Connie mi invitava a prendere posto sul divano. Io sedetti
a un'estremità, Mark dalla parte opposta.
Connie uscì per andare a prendere il caffè, così mi lanciai immediatamente. «Non sapevo del tuo coinvolgimento in questa faccenda, Mark.»
«In effetti non c'è molto da sapere. Sono stato a Quantico per alcuni
giorni e, prima di partire per Denver, domani, ho deciso di passare una notte qui da Benton e Connie. Non c'entro con le indagini e non mi hanno assegnato il caso.»
«Benone. Ma sei al corrente della storia.» Mi domandavo di cosa avessero parlato lui e Wesley in mia assenza. Mi domandavo cosa gli avesse
raccontato Wesley di me.
«Sì, ne è al corrente.» Fu proprio Benton a rispondere.
«Allora rivolgerò le mie domande a entrambi. È stato il Bureau o la Cia
a incastrare Pat Harvey?»
Wesley non si mosse, né cambiò espressione. «Cosa ti induce a pensare
che Pat Harvey sia stata incastrata?»
«Mi pare ovvio che la tattica di disinformazione del Bureau puntasse a
qualcosa di più del killer. Qualcuno era intenzionato a distruggere la credibilità di Pat Harvey, e devo dire che la stampa ha fatto un ottimo lavoro in
tal senso.»
«Nemmeno il presidente gode di un simile potere sui mass media. Non
nel nostro paese.»
«Ti prego di non insultare la mia intelligenza, Benton» dissi.
«Mettiamola così, Kay: ciò che ha fatto era già previsto.» Wesley accavallò l'altra gamba e allungò una mano verso il bicchiere.
«E tu le hai teso la trappola» terminai.
«È stata lei a parlare alla conferenza stampa.»
«Sì, perché non occorreva che nessuno lo facesse al posto suo, tanto eravate già sicuri che le sue accuse sarebbero state riprese dai giornali come i
vaneggiamenti di una squilibrata. Chi ha comprato i giornalisti, eh? Chi se
li è comprati i politici, tutti i suoi alleati di una volta, Benton? Chi ha spifferato che si era rivolta a una sensitiva? Sei stato tu?»
«No.»
«Pat Harvey si è incontrata con Hilda Ozimek lo scorso settembre» continuai. «Fino a ieri nessuno ne aveva fatto parola, il che significa che la
stampa non era al corrente del fatto. Bel colpo basso, Benton. Sei stato
proprio tu a raccontarmi che in diverse occasioni l'Fbi e i servizi segreti
hanno consultato la Ozimek, e forse in ultima analisi è stato così che la signora Harvey è venuta a sapere di lei, Cristo!»
In quel momento Connie tornò portandomi il caffè, ma riscomparve con
la stessa velocità con cui era apparsa.
Mi sentivo gli occhi di Mark piantati addosso, avvertivo la tensione nell'aria. Wesley continuava a guardare il fuoco.
«Credo di conoscere la verità.» Non feci alcuno sforzo per celare il senso di offesa nella voce. «E adesso intendo farla uscire alla luce del sole. Se
la cosa ti pare inaccettabile, Benton, credo che neanche a me sarà più possibile accettare le tue posizioni.»
«Cosa stai cercando di dire, Kay?» Sollevò gli occhi su di me.
«Se succederà ancora, se un'altra coppia ci lascerà la pelle, non ti garantisco più che i giornalisti resteranno all'oscuro della vera dinamica dei fatti.»
«Kay.» Questa volta fu Mark a interrompermi, ma rifiutai di guardarlo
in faccia. Stavo facendo di tutto per escluderlo. «Non vorrai fare la stessa
fine della signora Harvey, vero?»
«Il punto è che non è stata lei a programmare la propria fine» ribattei.
«Io credo che abbia ragione, e che ci sia di mezzo una copertura.»
«Suppongo che tu le abbia già spedito i referti» intervenne Wesley.
«Sì. Non ho più intenzione di stare al gioco. È soltanto una manipolazione.»
«Hai fatto male.»
«Se ho fatto qualcosa di male, è stato non mandarglieli prima.»
«I referti includono per caso informazioni sul proiettile estratto dal corpo
di Deborah? Per essere più preciso, è detto esplicitamente che si tratta di
un Hydra-Shok nove millimetri?»
«Il calibro e la marca compaiono nei rapporti del laboratorio di balisti-
ca» risposi. «Non è mia abitudine spedire i loro incartamenti più di quanto
non lo sia spedire copie dei rapporti di polizia, visto che nessuna delle due
cose dipende dal mio ufficio. Mi incuriosisce il tuo interesse per questo
particolare.»
In mancanza di una risposta da parte del mio interlocutore, fu Mark a riprendere la parola. «Dobbiamo chiarire questa storia, Benton.»
Ancora silenzio.
«Credo debba sapere» aggiunse.
«E io credo di sapere già» dissi. «Credo che l'Fbi abbia ragione di temere che il killer sia un agente federale a cui ha dato di volta il cervello. Molto probabilmente, uno di Camp Peary.»
Il vento faceva gemere le grondaie, e Wesley si alzò per andare ad attizzare il fuoco. Prese un ceppo e lo sistemò con le tenaglie, quindi spazzò la
cenere dal caminetto, lentamente, prendendosi tutto il tempo. Quando tornò a sedersi, sollevò il bicchiere e disse: «E come sei giunta a questa conclusione?».
«Non è importante.»
«Te l'ha detto qualcuno?»
«No. Non direttamente, almeno.» Tirai fuori le sigarette. «Da quanto
tempo lo sospettavi, Benton?»
«Penso che la tua posizione sia più sicura se resti all'oscuro di certi dettagli» rispose dopo una breve esitazione. «Davvero. Non farei che metterti
un fardello in più sulle spalle. Un fardello molto pesante.»
«Sto già portando un fardello molto pesante, Benton, e sono stufa di arenarmi sempre in questa palude di omertà.»
«Ho bisogno che tu mi garantisca assolutamente che nulla di quanto verrà detto uscirà da queste quattro mura.»
«Mi conosci abbastanza per sapere che non succederà.»
«Camp Peary è entrato in scena poco dopo l'inizio della vicenda.»
«A causa della vicinanza geografica?»
Wesley lanciò un'occhiata a Mark. «Preferirei fossi tu stesso a spiegare»
disse.
Mi ritrovai così girata a guardare l'uomo che un tempo aveva condiviso
il mio letto e dominato i miei sogni. Indossava pantaloni di velluto blu scuro e una camicia a righe bianche e rosse che gli avevo già visto in passato.
Aveva gambe lunghe e un aspetto curato. I capelli scuri rivelavano aree ingrigite in corrispondenza delle tempie, aveva occhi verdi, il mento volitivo
e lineamenti sottili, e come sempre, parlando, si sporgeva in avanti e gesti-
colava lievemente con le mani.
«Sì, in parte la Cia cominciò a mostrare un certo interesse» esordì «proprio perché i fatti si verificavano vicino a Camp Peary e, come senz'altro
saprai, ci tengono molto che resti segreto quanto avviene nei dintorni del
loro centro di addestramento. Conoscono molte più cose di quante tu possa
immaginare, e di fatto gli stessi abitanti della zona e intere aree circostanti
vengono periodicamente inclusi nelle esercitazioni.»
«Che genere di esercitazioni?» chiesi.
«Sorveglianza, ad esempio. Spesso, in mancanza di meglio, gli agenti di
Camp Peary usano la gente del posto come cavie. Organizzano operazioni
di sorveglianza all'interno di luoghi pubblici, ristoranti, bar, centri commerciali. Pedinano le persone in macchina, a piedi, scattano fotografie e
tante altre belle cosine. Nessuno se n'è mai reso conto, ovviamente, ed è
vero che di per sé si tratta di pratiche innocue. Ma certo a quei poveretti
non farebbe piacere scoprire di essere controllati, spiati e catturati dai loro
obiettivi.»
«Lo credo» dissi, con un certo senso di disagio.
«E poi» proseguì «ci sono le "prove pratiche": l'ufficiale che finge di avere la macchina in panne e ferma un motociclista per chiedergli assistenza, cercando di verificare fino a che punto è in grado di conquistare la fiducia di uno sconosciuto. Oppure quello che si spaccia per pubblico ufficiale o per autista di carro attrezzi, le possibilità sono infinite. Il tutto in
previsione di future operazioni oltreoceano, per addestrare a spiare senza
essere spiato. Semplice, no?»
«In pratica un modus operandi che potrebbe avere qualche analogia con
quanto è accaduto alle coppie» osservai.
«Esattamente» intervenne Wesley. «A Camp Peary qualcuno ha cominciato subito a preoccuparsi, e ci hanno chiesto aiuto per tenere sotto controllo la situazione. Poi, quando è stata rinvenuta la seconda coppia e il
modus operandi si è rivelato identico a quello del primo caso, lo schema
d'azione è stato definitivamente accertato. E la Cia è entrata nel panico.
Sono comunque paranoici, Kay, e questo lo sai, ma l'ultima cosa che gli ci
voleva era scoprire che un agente di Camp Peary si stava esercitando a uccidere.»
«Però la Cia non ha mai ammesso che Camp Peary sia il suo principale
centro di addestramento» puntualizzai.
«Oh, lo sanno tutti» ribatté Mark, incrociando il mio sguardo. «Comunque hai ragione, la Cia non ha mai fatto pubbliche ammissioni in tal senso.
Né ha intenzione di farne adesso.»
«Una ragione di più per non volere assolutamente che questi casi vengano in qualche modo ricollegati al campo» dissi, ma in realtà mi stavo domandando come si sentisse lui, Mark. Chissà, forse non provava un bel
niente.
«Sì, una ragione in più in fondo a un'intera lista» riprese Wesley. «Sarebbe una pubblicità disastrosa, e quand'è stata l'ultima volta che ti è capitato di leggere qualcosa di positivo sulla Cia? Accusano Imelda Marcos di
furto e di frode, e la difesa reagisce affermando che tutte le transazioni della famiglia Marcos sono avvenute con il pieno consenso e l'appoggio della
Cia...»
Non sarebbe stato così teso, non avrebbe avuto così paura di guardarmi
negli occhi, se davvero non avesse provato niente.
«...Poi salta fuori che Noriega è sul libro paga della Cia» continuò Wesley, perorando la propria causa. «E non molto tempo fa si viene a sapere
che, grazie alla protezione fornita dalla Cia a un narcotrafficante, su un
jumbo della PanAm esplode una bomba che uccide duecentosettanta persone nel cielo sopra la Scozia. Per non parlare delle più recenti illazioni
circa un finanziamento Cia alla guerra della droga per destabilizzare alcuni
governi asiatici.»
«Se saltasse fuori» intervenne di nuovo Mark, distogliendo lo sguardo,
«che cinque coppie di giovani sono state assassinate da un agente Cia di
Camp Peary, be', ti lascio immaginare quale sarebbe la reazione dell'opinione pubblica.»
«Ah, la fine del mondo» commentai, cercando di concentrarmi sulla discussione. «Ma come mai la Cia è tanto sicura che il responsabile degli
omicidi sia proprio uno dei suoi? Dispone forse di qualche prova?»
«Sono le circostanze» spiegò Mark. «Il tocco squisitamente militare della carta lasciata in loco. Le analogie fra questi omicidi e le esercitazioni
che avvengono sia dentro che fuori i confini della Fattoria, per le strade dei
centri urbani della zona. Le aree boscose in cui sono stati trovati i cadaveri,
per esempio, ricordano molto le "kill zone" di Camp Peary, dove gli ufficiali si esercitano a lanciare granate, a sparare con armi automatiche e a
usare ogni tipo di attrezzatura speciale, come l'equipaggiamento per la visione notturna che ti permette di vedere anche in piena oscurità. Inoltre, si
esercitano nell'arte della difesa: imparano a disarmare il nemico, a menomare e uccidere a mani nude.»
«Data l'assenza di cause di morte evidenti» si intromise Wesley, «è ve-
nuto spontaneo chiedersi se le coppie non fossero state assassinate senza
ricorrere ad armi da fuoco. Strangolamento, tanto per dirne una. Se gli avessero tagliato la gola, per esempio, si tratterebbe di una tecnica tipicamente associata alla guerriglia: come far fuori il nemico in modo rapido e
silenzioso? Gli tagli il canale di ventilazione e puoi star certo che non farà
più rumore.»
«Ma a Deborah Harvey hanno sparato» feci notare.
«Con un'arma automatica o semiautomatica» ribatté Wesley. «Una pistola o qualcosa di simile a un Uzi. Anche il tipo di munizioni è insolito, in
genere viene associato alle forze dell'ordine, ai soldati mercenari, a chi ha
come bersaglio degli esseri umani. Difficilmente trovi proiettili esplosivi o
Hydra-Shok fra chi va a caccia di cervi.» Poi, dopo una pausa, aggiunse:
«Credo che il quadro ti aiuti a capire meglio perché non vogliamo far sapere a Pat Harvey che tipo di arma e di pallottola sono state usate contro sua
figlia».
«E le minacce di cui ha parlato nella conferenza stampa?»
«Sono vere. Non molto tempo dopo la sua nomina a responsabile nazionale della politica antidroga, qualcuno le spedì delle lettere minatorie.
Quello che invece non è vero è che il Bureau non vi abbia prestato attenzione. Non era la prima volta che riceveva delle minacce, e abbiamo sempre preso sul serio la cosa. Abbiamo anche un sospetto circa l'identità dell'autore delle intimidazioni più recenti, ma non crediamo abbia a che fare
con l'omicidio di Deborah.»
«La signora Harvey accennava anche a una certa "agenzia federale"» insistei. «Si riferiva alla Cia? È forse al corrente di quanto mi avete appena
raccontato?»
«È un'idea che mi preoccupa» ammise Wesley. «Dalle sue dichiarazioni
si arguisce che qualcosa sa, e questa conferenza stampa mi sta dando grossi pensieri. Forse si riferiva alla Cia, forse no. Quel che è sicuro, è che dispone di un'ottima rete di informatori. Innanzitutto, ha accesso alle informazioni Cia sui traffici di droga. Inoltre, cosa che mi sembra più grave, è
in stretti rapporti di amicizia con un ex ambasciatore delle Nazioni Unite,
attuale membro del Collegio presidenziale di Foreign Intelligence. I membri del collegio hanno infatti accesso a informazioni top secret in qualunque momento e su qualunque argomento. Il collegio sa cosa sta succedendo, Kay. Dunque è effettivamente possibile che la signora Harvey sia al
corrente della faccenda.»
«Vuoi dire che è stata manipolata alla maniera di Martha Mitchell?»
domandai. «Perché apparisse come un tipo irrazionale e inaffidabile, una
che nessuno si sognerebbe di prendere sul serio e a cui, se aprisse il rubinetto, nessuno più crederebbe?»
Wesley accarezzava con il pollice il bordo del bicchiere. «È un peccato.
Un peccato che sia sfuggita a ogni controllo, che si sia rifiutata di collaborare. E l'ironia è che noi vogliamo sapere chi ha ucciso sua figlia più di
quanto non lo desideri lei stessa, e per ovvie ragioni. Credimi, stiamo facendo tutto il possibile e abbiamo mobilitato tutte le forze disponibili, pur
di individuare il responsabile - o i responsabili.»
«La versione che mi stai proponendo stasera è palesemente incompatibile con quella precedente, Benton, quella in cui sostenevi che Deborah Harvey e Fred Cheney potevano essere stati uccisi da un killer a pagamento»
dissi con una certa rabbia. «O stavi solo cercando di gettarmi fumo negli
occhi per nascondere i reali timori del Bureau?»
«Non so se sono stati uccisi da un professionista» rispose in tono cupo.
«Francamente, le cose che sappiamo davvero sono pochissime. Come ti ho
già detto, potrebbe essersi trattato di un omicidio a sfondo politico, ma se
ci troviamo davanti a un agente Cia cui ha dato di volta il cervello, allora i
casi delle cinque coppie potrebbero davvero essere tutti collegati e trattarsi
di un serial killer.»
«In effetti potrebbe essere una specie di escalation maniacale» disse
Mark. «Pat Harvey ha fatto notizia per un sacco di tempo, soprattutto negli
ultimi dodici mesi. Se quello che cerchiamo è un uomo della Cia che si
addestra in operazioni omicide, potrebbe aver deciso di prendere di mira
un bersaglio grosso, molto grosso.»
«Aggiungendo così il rischio al divertimento» terminò Wesley. «E facendo assomigliare gli omicidi al tipo di operazioni effettuate in America
Centrale o Medioriente. In altre parole, neutralizzazioni politiche. Assassinii.»
«Per quanto ne so io, la Cia non dovrebbe avere più alcun ruolo nel business degli attentati, non dall'amministrazione Ford, almeno» dissi. «Anzi,
non dovrebbe nemmeno intervenire nei tentativi di colpo di stato in cui un
leader straniero corra il rischio di essere ucciso.»
«Giusto» commentò Mark. «In teoria la Cia non dovrebbe occuparsi più
di certe faccende. Ma, sempre in teoria, nemmeno i soldati americani avrebbero dovuto uccidere civili in Vietnam. E i poliziotti non dovrebbero
far troppo ricorso all'uso della forza nei confronti di sospettati e prigionieri. Il problema è che quando si parla del singolo individuo, a volte le cose
sfuggono di mano. E le regole vengono infrante.»
Non potei fare a meno di ripensare ad Abby Turnbull. Fino a che punto
era al corrente della situazione? La signora Harvey le aveva forse rivelato
qualcosa? Ed era questa la vera natura del libro che stava scrivendo? Se le
cose stavano così, non c'era affatto da stupirsi che le avessero messo sotto
controllo il telefono e la tenessero costantemente d'occhio. La Cia, l'Fbi,
persino il Collegio presidenziale di Foreign Intelligence, che aveva accesso
diretto alla Sala Ovale, avevano ottime ragioni per sentirsi minacciati da
ciò che Abby stava scrivendo, così come lei aveva ottime ragioni per cadere in paranoia. Poteva essersi cacciata nei guai.
Il vento si era placato e una leggera nebbiolina stava calando sulle cime
degli alberi. Alle nostre spalle, Wesley richiuse la porta. Seguii Mark in direzione della macchina, mentre il ricordo della conversazione appena terminata gonfiava il mio orgoglio e la mia determinazione; tuttavia, mi sentivo anche più turbata di prima.
Non parlai finché non ci fummo allontanati. «È scandaloso quel che
stanno facendo a Pat Harvey. Prima perde la figlia, e adesso le distruggono
la reputazione e la carriera.»
«Benton non ha niente a che fare con eventuali fughe di notizie alla
stampa, nessuna "montatura" come dici tu.» Teneva gli occhi fissi sulla
strada buia e stretta.
«Il problema non è quel che dico io, Mark.»
«Okay, stavo solo riferendomi ai discorsi di poco fa.»
«Tu sai benissimo cosa sta succedendo. Non trattarmi come una povera
ingenua.»
«Benton ha fatto tutto quel che poteva per lei, ma lei ha deciso di vendicarsi con il Dipartimento di Giustizia. Ai suoi occhi lui non è che uno dei
tanti federali con la voglia di fregarla.»
«Se fossi al suo posto, forse la penserei allo stesso modo.»
«Ah, conoscendoti non ne dubito.»
«E questo cosa significa?» chiesi, senza nascondere la mia rabbia, che
andava oltre la questione di Pat Harvey.
«Proprio niente.»
Trascorremmo alcuni minuti in silenzio, mentre la tensione cresceva.
Non riconoscevo la strada che stavamo percorrendo, ma sapevo che il
tempo a nostra disposizione stava per scadere. Poi, Mark svoltò nella piazzola dell'emporio e andò a fermarsi di fianco alla mia macchina.
«Mi dispiace che abbiamo dovuto reincontrarci in un'occasione simile»
commentò in tono pacato.
Non risposi.
«Ma non mi dispiace affatto di averti rivisto. Affatto, Kay.»
«Buonanotte, Mark» dissi, preparandomi a scendere.
«Kay, no.» Mi appoggiò la mano sul braccio.
Rimasi ferma al mio posto. «Cosa vuoi?»
«Solo parlarti. Per favore.»
«Se ti interessa tanto parlarmi, com'è che non sei riuscito a prendere l'iniziativa fino adesso?» risposi in preda all'emozione, divincolando il braccio. «Sono mesi che non ti sforzi di comunicarmi la benché minima cosa.»
«Questo mi pare reciproco. L'ultima volta ti ho telefonato io, l'anno
scorso in autunno, ma tu non mi hai più richiamato.»
«Sapevo cosa volevi dirmi e non avevo nessuna voglia di ascoltarti» ribattei, sentendo che anche in lui cominciava a ribollire la rabbia.
«Oh, scusi tanto. Dimenticavo la sua incredibile capacità di leggermi nel
pensiero.» Mise entrambe le mani sul volante e guardò diritto davanti a sé.
«Volevi dirmi che non c'erano possibilità di riconciliazione, che era tutto
finito, e non mi interessava affatto sentirti tradurre in parole una cosa che
avevo già capito da sola.»
«Pensa un po' quel che ti pare.»
«Quel che penso non c'entra in questa storia!» Odiavo il suo potere di
farmi perdere le staffe.
«Ascolta.» Respiro profondo. «Credi ci sia una sola probabilità di dichiarare una tregua? Di dimenticare il passato?»
«No. Neanche una.»
«Magnifico. Grazie per la tua ragionevolezza. Almeno ci ho provato.»
«Provato? Cosa sono? Otto, nove mesi da quando te ne sei andato? E cosa accidenti credi di avere provato, Mark? Non so cosa mi stai chiedendo,
ma dimenticare il passato è impossibile. È impossibile che io e te ci incontriamo fingendo che fra noi non ci sia mai stato niente. Mi rifiuto di comportarmi in questo modo.»
«Non ti sto chiedendo questo, Kay. Sto solo dicendo se non possiamo lasciarci alle spalle le liti, la rabbia, tutto ciò che allora ci siamo detti.»
In realtà non ricordavo con precisione cosa ci eravamo detti, né sarei riuscita a spiegare esattamente cosa non aveva funzionato. Litigavamo senza
neanche sapere perché, e alla fine ci concentravamo sulle nostre ferite invece che sulle differenze che le avevano causate.
«Quando ti telefonai, lo scorso settembre» riprese con un certo ardore,
«non ero minimamente intenzionato a dirti che non esistevano speranze di
riconciliazione. Anzi, mentre facevo il numero pensavo che semmai ero io
a correre il rischio di sentirmelo dire da te. Così, quando non ti sei più rifatta viva, a trarre le debite conclusioni sono stato di nuovo io.»
«Mi stai prendendo in giro.»
«Per niente.»
«Be', allora forse sei stato saggio a tirare le conclusioni da solo. Dopo
quel che mi hai fatto.»
«Dopo quel che ti ho fatto?» ripeté, incredulo. «E tu, allora? Tu credi di
non avermi fatto niente?»
«La mia unica colpa è stata quella di dire basta ai compromessi. Non hai
mai cercato veramente di farti riassegnare il posto a Richmond. Non sapevi
neanche tu cosa volevi, ma ti aspettavi che io mi adeguassi, che accettassi,
che fossi pronta a venir via da qui non appena tu avessi deciso. Mi dispiace, Mark, ma per quanto possa amarti, non posso rinunciare a ciò che sono
e non ti ho mai chiesto di fare altrettanto.»
«Sì che l'hai fatto, invece. Non mi sarei trasferito a Richmond nemmeno
se mi avessero restituito il mio incarico. Non era questo che volevo.»
«Benone. Allora sono felice che tu sia arrivato dove volevi arrivare,
Mark.»
«Senti, Kay, in questa storia le colpe vanno divise al cinquanta per cento. Anche tu hai la tua parte di responsabilità.»
«Non sono stata io ad andarmene.» Sentii gli occhi riempirmisi di lacrime e riuscii solo a mormorare: «Oh, merda».
Tirò fuori un fazzoletto e me lo posò delicatamente in grembo. Asciugandomi adagio gli occhi, mi spostai verso la portiera e appoggiai la testa
al finestrino. Non volevo piangere.
«Scusa.»
«Le tue scuse non servono a cambiare la situazione.»
«Non piangere, ti prego.»
«Piango quanto voglio» mi sentii dire.
«Scusa» ripeté lui, ma questa volta in un sussurro, e io pensai che stesse
per accarezzarmi. Invece non lo fece. Si abbandonò contro lo schienale,
fissando il soffitto dell'abitacolo.
«Ascolta» riprese. «Se proprio vuoi saperlo, mi piacerebbe tanto che ad
andartene fossi stata tu. Perché in quel caso saresti stata tu a rovinare tutto,
e non io.»
Non replicai. Non osavo fiatare.
«Mi hai sentito?»
«Non ne sono sicura» risposi, girata verso il finestrino.
Si agitò sul sedile, cambiando posizione. Sentivo i suoi occhi puntati su
di me.
«Guardami, Kay.»
Obbedii con estrema riluttanza.
«Per quale ragione credi sia tornato?» chiese a bassa voce. «Sto cercando di farmi riassegnare a Quantico, ma è difficile. È un brutto momento,
con i tagli di budget e la crisi economica che ha colpito il Bureau. Insomma, ci sono un sacco di problemi.»
«Stai cercando di dirmi che sei professionalmente insoddisfatto?»
«Sto cercando di dirti che ho commesso un errore.»
«Se hai fatto degli errori sul lavoro, mi dispiace per te.»
«Non sto parlando solo di quello, e lo sai.»
«A cosa ti riferisci, allora?» Volevo assolutamente che fosse lui a dirlo.
«Lo sai, Kay. Mi riferisco a noi. Da allora nulla è più stato come prima.»
I suoi occhi luccicarono nell'oscurità. Aveva un'aria furente.
«E per te?» insisté. «Per te non è cambiato niente?»
«Credo che tutti e due abbiamo sbagliato molte cose.»
«Mi piacerebbe rimediare a qualcuna, Kay. Non voglio che tra noi finisca così. È molto che lo penso, ma... be', semplicemente non sapevo come
dirtelo. Non sapevo se avevi voglia di risentirmi, se ti vedevi con qualcun
altro.»
In quel momento non trovai il coraggio di ammettere che anche io mi
ero sempre chiesta la stessa cosa, e che la risposta mi terrorizzava.
Allungò una mano a prendere la mia. Questa volta non mi divincolai.
«Ho cercato di ripensare a fondo a tutto quello che è successo» disse, «e
so solo che siamo entrambi cocciuti. Io volevo che le cose andassero a
modo mio, tu volevi che andassero a modo tuo. E adesso, eccoci qui. Non
ho idea di come te la sia passata da quando me ne sono andato, ma sono
pronto a scommettere che non è stato un periodo felice.»
«Piuttosto arrogante, da parte tua, scommettere su una cosa del genere.»
Sorrise. «Sto solo cercando di dimostrarmi all'altezza dell'immagine che
hai di me. Una delle ultime cose che mi dicesti fu che ero un bastardo arrogante.»
«Prima o dopo di quando ti dissi che eri un gran figlio di puttana?»
«Prima, credo.»
«Se non ricordo male, anche tu non mi risparmiasti una bella serie di
complimenti. E adesso chiedi di dimenticare il passato...»
«Sì, così come tu dici: per quanto possa amarti...»
«Come, scusa?»
«"Possa amarti" è un congiuntivo presente, Kay. Non cercare di rimangiartelo. L'ho sentito bene.»
Si premette la mia mano sul viso, le sue labbra mi sfiorarono le dita.
«Io ci ho provato, a smettere di pensarti, ma non sono capace.» Si interruppe, il suo viso vicinissimo al mio. «Ma non ti chiederò di dirmi la stessa
cosa.»
Invece me lo stava chiedendo, ed io gli risposi. Gli accarezzai una guancia e lui ricambiò, poi ci baciammo là dove le nostre dita avevano indugiato, fino a trovare l'uno le labbra dell'altra. E non aggiungemmo altro. Smettemmo completamente di pensare fino a quando, di colpo, il parabrezza si
illuminò e dietro di esso la notte divenne un unico, grande rosso pulsante.
Ci risistemammo freneticamente mentre un'auto di pattuglia si fermava accanto a noi, facendo uscire un poliziotto con torcia elettrica e radio portatile stretta in mano.
Mark stava già aprendo la portiera.
«Tutto a posto?» si informò l'agente, sbirciando all'interno. I suoi occhi
si posarono sconcertati sulla scena della nostra passione, il volto severo, un
indecoroso rigonfiamento nella guancia destra.
«Tutto a posto» risposi sconvolta, tastando il pavimento della macchina
con un piede fasciato solo dai collant. Non trovavo più una scarpa.
Arretrò di un passo e sputò un pezzetto di tabacco masticato.
«Stavamo facendo una chiacchierata» disse Mark, evitando con grande
prontezza di spirito di esibire subito il distintivo. Il poliziotto sapeva benissimo che quando si era fermato stavamo facendo tutt'altro che una chiacchierata.
«Bene. Se per caso desiderate continuare a chiacchierare» disse, «gradirei lo faceste da qualche altra parte. Di notte non è sicuro starsene chiusi al
buio in macchina, abbiamo già avuto problemi, capite. Ma se non siete di
qui, forse non avrete sentito parlare delle coppie scomparse.»
Continuò la sua predica, mentre il sangue mi si gelava nelle vene.
«Ha ragione, agente. La ringrazio» disse Mark alla fine. «Ce ne andiamo
subito.»
Annuendo, il poliziotto tornò a sputare per terra, quindi si diresse alla
macchina. Restammo a guardare mentre imboccava nuovamente la strada e
si allontanava adagio.
«Gesù» mormorò Mark.
«Non dirlo» lo bloccai. «Per favore, non una parola su quanto siamo
stupidi. Signore santissimo.»
«Lo vedi, com'è facile?» E lo disse lo stesso. «Due persone ferme in
macchina a notte fonda e qualcuno che le avvicina. Ho una pistola nel cruscotto e l'idea non mi ha nemmeno sfiorato, capisci? Non ci ho pensato neanche per un attimo, finché non mi è stato così vicino che ormai era troppo
tardi.»
«Smettila, Mark, ti prego.»
La sua improvvisa risata mi lasciò sgomenta.
«Non è affatto divertente!»
«Ti sei allacciata la camicetta tutta storta.»
"Oh, merda!"
«Farai meglio a pregare che non ti abbia riconosciuta, dottoressa Scarpetta.»
«Grazie per il confortante pensiero, signor Fbi. E adesso sarà meglio che
torni a casa.» Aprii la portiera. «Per oggi me ne hai già fatte passare abbastanza.»
«Ehi, sei stata tu a cominciare.»
«Ah, guarda, non credo proprio.»
«Kay?» Era improvvisamente tornato serio. «E adesso cosa facciamo?
Voglio dire, domani riparto per Denver. Non so cosa succederà, non so cosa posso far succedere e nemmeno se debba far succedere qualcosa.»
Rispondere non era facile. Non lo era mai stato, con noi due.
«Se non cercherai di far succedere qualcosa, non succederà niente,
Mark.»
«E tu?» chiese.
«Dobbiamo parlare ancora di molte cose.»
Accese i fari e si allacciò la cintura di sicurezza. «E tu?» ripeté. «Le cose
si fanno in due.»
«È buffo sentirlo dire proprio da te.»
«Ti prego, Kay, non adesso.»
«Ho bisogno di riflettere.» Tirai fuori le chiavi. Di colpo mi sentivo esausta.
«Non mi far ballare troppo, Kay.»
«Non sto facendoti ballare, Mark» risposi, sfiorandogli la guancia.
Ci scambiammo un ultimo bacio. Avrei voluto che durasse ore, e allo
stesso tempo desideravo solo andarmene. La nostra era sempre stata una
storia inquieta. Non avevamo fatto altro che vivere per istanti senza futuro.
«Ti telefono» disse.
Aprii la portiera della mia auto.
«E dai retta a Benton. Puoi fidarti di lui. Ti sei ficcata in una brutta faccenda, non dimenticarlo.»
Misi in moto.
«Vorrei che ne stessi alla larga il più possibile.»
«E quel che dici sempre» ribattei.
Mark mi telefonò tardi la sera successiva, e di nuovo due sere dopo. La
terza volta, il dieci di febbraio, ciò che disse mi fece uscire subito per procurarmi l'ultimo numero di "Newsweek".
Dalla copertina della rivista, gli occhi spenti di Pat Harvey guardavano
l'America. Il titolo, a caratteri cubitali, recitava: L'OMICIDIO DELLA
FIGLIA DELLA ZARINA DELLA DROGA; all'interno, un servizio in
esclusiva rimasticava i particolari della sua conferenza stampa, le accuse di
cospirazione e i casi degli altri giovani scomparsi e ritrovati cadaveri nei
boschi della Virginia. Nonostante avessi rifiutato di essere intervistata, erano riusciti a scovare una foto d'archivio in cui salivo la scalinata del tribunale John Marshall di Richmond. La didascalia diceva: «Il medico legale capo rilascia i referti dietro minaccia di ricorso in tribunale».
«È nell'ordine delle cose. Non ti preoccupare, sto benone» lo rassicurai
poco dopo, ritelefonandogli.
Riuscii a mantenere la calma anche più tardi, quando fu mia madre a
chiamarmi. Poi disse: «Kay, c'è qui una persona che muore dalla voglia di
parlarti».
Mia nipote, Lucy, aveva sempre avuto un talento tutto speciale nel mettermi con le spalle al muro.
«Com'è che sei finita nei pasticci?» chiese.
«Non mi sono messa nei pasticci, Lucy.»
«L'articolo però dice così, dice che qualcuno ti ha minacciato.»
«È una cosa troppo complicata da spiegare.»
«È veramente spaventoso» commentò, imperterrita. «Domattina porterò
il giornale a scuola e lo farò leggere a tutti.»
Magnifico, pensai.
«La signora Barrows» riprese, alludendo alla responsabile didattica della
scuola, «mi ha già chiesto se per caso non saresti disposta a venire a parlare in aprile, per la giornata dedicata alle professioni...»
Non vedevo Lucy da dodici mesi e mi sembrava impossibile che facesse
già il primo anno di liceo. Nonostante sapessi che portava le lenti a contatto e che aveva la patente, continuavo a immaginarla come una bimbetta
piccola e bisognosa che voleva le si rimbocassero le coperte ogni sera, una
"enfant terrible" che, per qualche strana ragione, si era attaccata a me ancora prima di imparare a gattonare. Non avrei mai dimenticato la settimana
trascorsa a Miami da mia sorella, il Natale dopo che Lucy era nata. Già allora sembrava tenermi sotto costante osservazione, gli occhi che seguivano
ogni mio movimento come due fulgide lune. Quando le cambiavo il pannolino mi sorrideva, e appena uscivo dalla stanza si metteva a piangere.
«Ti andrebbe di passare una settimana con me, quest'estate?» le domandai.
Lucy esitò, quindi rispose delusa: «Nel senso che non puoi venire ad aprile?».
«Be', vedrò se riesco a cambiare, okay?»
«Non so se posso venire con te quest'estate.» La sua voce si fece petulante. «Ho trovato un lavoro e non sono sicura di potermi liberare.»
«Hai trovato un lavoro? Ma è splendido.»
«Sì, in un negozio di computer. Voglio risparmiare abbastanza da comprarmi una macchina. Una bella auto sportiva, decappottabile, se ti guardi
intorno se ne trovano ancora di quelle vecchiotte a buon prezzo.»
«Attenta, Lucy, quelle sono trappole» dissi, senza riuscire a trattenermi.
«Non fare acquisti avventati. Perché invece non vieni a trovarmi a Richmond? Potremmo andare a cercarne una insieme, qualcosa di bello e sicuro.»
Aveva scavato un buco per terra e, come al solito, ci ero finita dentro.
Era una vera esperta nel manipolare le persone, e certo non occorreva uno
psicologo per capire il perché: Lucy era vittima di una totale mancanza di
attenzioni da parte della madre, vale a dire mia sorella.
«Sei una ragazza sveglia e intelligente» dissi, cambiando tattica. «Sono
certa che saprai disporre al meglio sia del tuo tempo, sia del tuo denaro,
Lucy. Ma se ti capita di riuscire a liberarti, quest'estate, magari potremo
farci un giretto insieme. Al mare o in montagna, dove preferisci. Non sei
mai stata in Inghilterra, vero?»
«No.»
«Be', allora facci un pensierino.»
«Sul serio?» chiese, sospettosa.
«Sul serio, sì. Anch'io sono anni che non ci vado» dissi, e più ci pensa-
vo, più l'idea mi piaceva. «Credo sia venuto il momento per te di vedere
Oxford e Cambridge, e i musei di Londra. Sai, se ti andasse potrei anche
organizzare una visita a Scotland Yard, e se riuscissimo a combinare per
giugno magari potremmo cercare un paio di biglietti per Wimbledon.»
Silenzio.
«Sai, zia Kay» riprese poi con voce allegra, «stavo scherzando, prima.
Non è vero che voglio una macchina sportiva.»
Il mattino seguente non c'erano autopsie, così mi sedetti alla scrivania
decisa a sbrigare un po' di lavoro d'ufficio. Avevo altri casi di morte da esaminare, lezioni da preparare e processi che mi vedevano coinvolta in
qualità di testimone, eppure non riuscivo a concentrarmi. Ogni volta che
cercavo di dedicarmi a qualcos'altro, i casi delle coppie reclamavano violentemente la mia attenzione. Mi stava sfuggendo qualcosa d'importante,
un dettaglio che mi stava proprio sotto il naso. E sentivo che c'entrava con
l'omicidio di Deborah Harvey.
Debbie era una ginnasta, un'atleta dotata di un superbo controllo del corpo. Se da un lato poteva essere stata meno forte di Fred, dall'altro era certamente più agile e scattante. Secondo me l'assassino aveva sottovalutato il
suo potenziale atletico, e per questo nel bosco la situazione gli era sfuggita
di mano. Mentre fissavo imbambolata un rapporto che in teoria avrei dovuto correggere, mi tornarono in mente le parole di Mark. Aveva parlato di
«kill zone», di funzionali di Camp Peary che per darsi la caccia nei campi
e fra i boschi usavano armi automatiche, granate e attrezzature per la visione notturna. Cercai di immaginarmi di tutto, e subito mi ritrovai a fantasticare su uno scenario raccapricciante.
Forse, quando aveva adescato Deborah e Fred e li aveva portati alla strada del bosco, il killer aveva in serbo per loro un gioco mostruoso. Gli aveva ordinato di togliersi le scarpe e le calze, e gli aveva legato le mani dietro la schiena. Forse indossava occhiali per la visione notturna, occhiali
simili a una maschera che potenziavano la luce della luna permettendogli
di veder bene anche al buio mentre spingeva le sue vittime verso il punto
in cui le avrebbe abbattute, una alla volta.
Marino aveva ragione. L'assassino si era liberato prima di Fred. Magari
gli aveva ordinato di mettersi a correre, gli aveva dato la possibilità di allontanarsi, e mentre Fred incespicava in preda al terrore fra gli alberi e i
cespugli, il killer era rimasto a guardarlo, a spiare con comodo ogni sua
mossa, il coltello stretto in mano. Al momento opportuno non doveva es-
sergli stato difficile coglierlo di sorpresa alle spalle, passargli un braccio
sotto il mento, sollevargli la testa e recidergli la trachea e le arterie carotidee. Era il tipo di attacco adottato dai commandos, silenzioso e veloce. Se i
corpi non venivano ritrovati subito, il medico legale avrebbe faticato a individuare le cause della morte perché cartilagini e tessuti sarebbero stati
decomposti.
Considerai ulteriormente la scena. Il sadismo del killer si era forse scatenato nel costringere Deborah ad assistere alla caccia e alla cattura del fidanzato. Stavo pensando che, una volta nel bosco, l'assassino doveva avere
immobilizzato la sua vittima legandole le caviglie: tuttavia, non aveva previsto la sua agilità. Forse, mentre era occupato con Fred, Deborah era riuscita ad abbassare le mani legate fin sotto le natiche e a passarci in mezzo
le gambe, recuperando una posizione normale, in cui le braccia erano davanti al corpo. In questo modo poteva essersi liberata le caviglie per poi difendersi.
Tesi le braccia di fronte a me, come se fossero state legate ai polsi. Supponendo che Deborah avesse stretto i pugni e avesse quindi colpito, e che
per difendersi l'assassino avesse istintivamente sollevato le mani, in una
delle quali stringeva il coltello appena usato per uccidere Fred, la ferita
sull'indice sinistro della ragazza era spiegata. Poi Deborah si era messa a
correre all'impazzata, cogliendo di sorpresa il killer, che le aveva quindi
sparato alla schiena.
Avevo visto giusto? Chissà. Ma nella mia testa quella scena continuava
a ripetersi senza fare una grinza. A non tornare erano alcune premesse. Se
l'omicidio di Deborah era stato commesso su ordinazione da un professionista, o se era stata l'opera di un agente federale psicopatico che l'aveva
scelta proprio perché si trattava della figlia di Pat Harvey, come mai l'individuo in questione non sapeva che la ragazza era una ginnasta di valore olimpionico? Possibile che nei suoi calcoli non avesse tenuto conto della
particolare agilità e velocità della vittima?
Le avrebbe davvero sparato alla schiena?
Il modo in cui era stata uccisa era coerente con il profilo freddo e calcolatore di un killer professionista?
Alla schiena.
Nell'esaminare le fotografie dei ragazzi morti, Hilda Ozimek aveva sempre percepito vibrazioni di paura. Ovvio, le vittime erano spaventate, ma
fino a quel momento non mi era mai passato per la testa che potesse esserlo anche l'assassino. Sparare nella schiena a qualcuno è di per sé un atto di
viltà. Quando Deborah aveva opposto resistenza, all'assalitore erano saltati
i nervi. Aveva perso il controllo. Più ci pensavo, e più mi convincevo che
Wesley e tutti gli altri si sbagliavano sul conto di quest'uomo. Dare la caccia nei boschi a ragazzini legati e scalzi quando si dispone di armi, si conosce alla perfezione il terreno e magari si è anche dotati di occhiali per la
visione notturna è come pescare in una botte. Un gioco sleale. Troppo facile. Non mi sembrava proprio il modus operandi tipico di un killer che trae
piacere dal pericolo.
E poi c'era la questione delle armi.
Se fossi stata un agente Cia a caccia di prede umane, cosa avrei usato?
Un Uzi? Forse. Ma più probabilmente avrei scelto una pistola nove millimetri, niente di più e niente di meno di quanto bastasse allo scopo. E avrei
optato per cartucce normali, quelle a punta cava, ad esempio. Ciò che invece non avrei mai usato sarebbero state munizioni insolite, come i proiettili Exploder o gli Hydra-Shok.
Munizioni. Forza, Kay! Non riuscivo a ricordare da quanto tempo non
estraevo un Hydra-Shok da un cadavere.
Si trattava di proiettili originariamente concepiti per le forze dell'ordine,
dotati al momento dell'impatto di un'espansione superiore a qualunque altro tipo di proiettile sparato da una canna di cinque centimetri. Quando
questo proiettile di piombo penetra nel corpo, la pressione idrostatica fa
esplodere l'unghia periferica come la corolla di un fiore. Il rinculo è minimo, dunque sparare diversi colpi in sequenza risulta più facile, e i proiettili
- devastanti per gli organi interni - raramente fuoriescono dal corpo.
Il nostro uomo era uno che si intendeva di munizioni speciali, e senza
dubbio aveva scelto la pistola in funzione dei proiettili. Sceglierne alcuni
fra i più letali in circolazione probabilmente gli dava sicurezza, lo faceva
sentire potente e importante. Forse era addirittura superstizioso in proposito.
Sollevai la cornetta del telefono e spiegai a Linda cosa mi occorreva.
«Fai un salto di sopra» rispose lei.
Quando entrai nel laboratorio di balistica, la trovai seduta di fronte a un
computer.
«Quest'anno ancora nessun caso, a parte quello di Deborah Harvey, naturalmente» annunciò, spostando il cursore sulla schermata successiva.
«Uno l'anno scorso, e un altro ancora l'anno prima. Per quanto riguarda la
Federal, non ho trovato nient'altro. Però ci sono due casi con gli Scorpion.»
«Scorpion?» le feci eco, chinandomi al di sopra della sua spalla.
«Si tratta di una versione precedente» spiegò. «Dieci anni prima che la
Federal acquistasse il brevetto, di fatto la Hydra-Shok Corporation produceva già lo stesso tipo di cartucce. In particolare, proiettili Scorpion trentotto e Copperhead trecentocinquantasette.» Digitò sulla tastiera e ottenne
una stampa dei dati in questione. «Otto anni fa ci fu un caso in cui trovammo degli Scorpion trentotto. Ma la vittima non era umana.»
«In che senso, scusa?» Ero disorientata.
«A quanto pare si trattava di un cane. Ucciso con... fammi vedere un po'... tre colpi. Sì, tre colpi.»
«Ma la cosa era collegata a un caso particolare? Che ne so, un suicidio,
un omicidio, una rapina?»
«Purtroppo dalle informazioni di cui dispongo non riesco a dirtelo» rispose Linda in tono di scusa. «So solo che dal corpo del cane furono recuperati tre Scorpion trentotto. L'arma non saltò mai fuori, e il caso rimase irrisolto.»
Strappò lo stampato e me lo diede.
Capitava a volte, ma erano casi rari, che l'ufficio del capo medico legale
dovesse eseguire autopsie su carogne di animali. Cervi uccisi fuori stagione e inviati dalle guardie forestali, oppure animali da compagnia deceduti
nell'ambito di qualche indagine o trovati morti accanto ai cadaveri dei loro
padroni: allora davamo un'occhiata, recuperavamo le pallottole o eseguivamo test per verificare l'eventuale presenza di sostanze stupefacenti.
Tuttavia, in quei casi non redigevamo né certificati di morte, né referti ufficiali dopo l'autopsia.
Telefonai a Marino e lo misi al corrente della situazione.
«Stai scherzando» disse.
«Ce la fai a raccogliere un po' di informazioni su questo caso senza dare
troppo nell'occhio? Non vorrei mettere in allerta nessuno, capisci? Magari
finisce in niente, ma c'è di mezzo la giurisdizione di West Point e questo
mi pare interessante: i cadaveri della seconda coppia sono stati rinvenuti
proprio a West Point.»
«Si, già. Vedrò cosa posso fare» rispose, ma non sembrava affatto entusiasta.
Il mattino dopo Marino si presentò mentre terminavo di esaminare il cadavere di un ragazzino di quattordici anni, scaraventato giù da un pick-up
il pomeriggio precedente.
«Spero non te lo sia messo tu, questo profumo.» Si avvicinò al tavolo
chirurgico annusando l'aria.
«Aveva in tasca un flacone di dopobarba. Si è rotto al momento dell'impatto con il terreno, ecco cos'è l'odore che senti.» Feci un cenno della testa
per indicare i vestiti appoggiati su una barella lì accanto.
«Brut?» chiese, tornando ad annusare.
«Credo» risposi.
«Una volta Doris me lo comprava sempre. Un anno mi regalò addirittura
Obsession.»
«Cos'hai scoperto?» chiesi, continuando a fare quel che dovevo.
«Il cane si chiamava Maledizione, bel nome eh? Apparteneva a un tizio
di West Point, un certo signor Joyce» riferì Marino.
«E hai capito per quale motivo l'animale sia finito proprio in quest'ufficio?»
«Nessun legame con altri casi in corso. Un favore, suppongo.»
«Forse il veterinario di Stato era in ferie» commentai. Non sarebbe stata
la prima volta.
Dalla parte opposta del mio edificio era situato il Dipartimento di Veterinaria, dotato di un proprio obitorio dove venivano eseguite le autopsie.
Normalmente, le carcasse venivano indirizzate al veterinario di stato, ma
come sempre la regola prevedeva qualche eccezione. Se la polizia lo chiedeva, i patologi forensi accettavano talvolta di fare le veci del veterinario
assente. Nel corso della mia carriera avevo eseguito autopsie su cani torturati, cani mutilati, una cavalla che aveva subito violenze sessuali e una gallina avvelenata e abbandonata nella casella postale di un giudice. Gli esseri
umani erano tanto crudeli con gli animali, quanto lo erano con i propri simili.
«Il signor Joyce non ha telefono, ma un mio informatore dice che abita
ancora nello stesso posto» proseguì Marino. «Pensavo di fare un salto a
sentire la sua versione della storia. Vuoi venire con me?»
Cambiai la lama al bisturi, pensando alla mia scrivania coperta di cartacce, agli appunti che aspettavano di essere dettati, alle telefonate a cui dovevo rispondere e agli altri mille lavori ancora da iniziare.
«Perché no» risposi, senza farmi illusioni.
Lui esitò, come se aspettasse qualcosa.
Quando sollevai gli occhi, vidi che si era tagliato i capelli. Indossava un
paio di calzoni color kaki con bretelle e una giacca di tweed dall'aria nuova
di zecca. La cravatta era pulita, e così pure la camicia. Si era persino lucidato le scarpe.
«Ragazzi, stai proprio bene» esclamai come una madre orgogliosa.
«Sì» rispose sorridendo, mentre il rossore gli divampava in faccia.
«Mentre entravo in ascensore, Rose mi ha persino fischiato dietro. È stato
divertente. Erano anni che una donna non mi fischiava dietro, a parte Sugar, ma Sugar non è che faccia proprio testo.»
«Sugar?»
«Lavora all'angolo fra la Adam e la Church. La trovai sdraiata in un
viottolo, ubriaca fradicia, a momenti la calpestavo. Eh, povera Sugar. Comunque, feci lo sbaglio di rimetterla in piedi. Quando rinvenne sembrava
un gatto impazzito, lottò e mi maledisse per tutta la strada fino in cella.
Adesso, ogni volta che passo da quelle parti si mette a gridare, fischia e si
tira su la gonna.»
«E tu che temevi di non piacere più alle donne» commentai.
11
Le origini di Maledizione erano sconosciute, sebbene fosse chiaro come
il sole che da ogni singolo membro della famiglia doveva avere ereditato i
tratti genetici peggiori.
«Lo tirai su che era un cucciolo» disse il signor Joyce, mentre gli restituivo una polaroid del cane in questione. «Era un bastardo. Una mattina
me lo trovai fuori dalla porta che dà sul retro, mi fece pena e gli diedi un
po' di avanzi che avevo in casa. Da allora, non riuscii più a togliermelo di
torno.»
Eravamo seduti al tavolo di cucina. Il sole filtrava debolmente da una finestra polverosa al di sopra del lavandino, il rubinetto che perdeva. Da
quando eravamo arrivati, un quarto d'ora prima, il signor Joyce non era ancora riuscito a pronunciare una parola gentile nei confronti del cane, eppure gli occhi di quel vecchio tradivano un certo calore e le sue mani ruvide,
che ora accarezzavano il bordo della tazza di caffè, mi sembravano capaci
di tenerezza e affetto.
«Da dove prese il nome?» Marino era curioso di sapere.
«In verità non glielo diedi mai, un nome vero. Ma gli gridavo dietro dalla mattina alla sera "Vieni qui, maledizione! Maledizione, vuoi startene un
po' zitto? Se non la smetti di abbaiare, giuro che ti faccio tacere io, maledizione!» Fece un timido sorriso. «Così a un certo punto credette di chiamarsi così. Maledizione. E allora anch'io presi a chiamarlo in quel modo.»
Il signor Joyce era in pensione, ma in passato aveva lavorato come capo-
reparto in un cementificio. La sua minuscola casetta sembrava una specie
di monumento alla povertà contadina nel cuore di terre fertili e coltivabili.
Immaginai che il primo occupante fosse stato un fittavolo, poiché tutt'intorno si stendevano vasti campi abbandonati che, stando alle parole del signor Joyce, d'estate si riempivano di grano.
É proprio d'estate, in una calda e opprimente notte di luglio, Bonnie
Smyth e Jim Freeman erano stati costretti a percorrere con la loro macchina la strada polverosa e deserta che passava di fronte alla casa. Poi, in novembre, era toccato a me percorrere quella strada, oltrepassando la casa del
signor Joyce, con il pianale della mia station wagon carico di lenzuoli, barelle e sacchi mortuari. A meno di quattro chilometri da dove abitava il signor Joyce si trovava la fitta zona boscosa in cui, circa due anni prima, erano stati rinvenuti i cadaveri della coppia. Solo una sinistra coincidenza?
E se invece non lo fosse stata?
«Dunque, ci racconti cosa accadde al suo Maledizione» disse Marino,
accendendosi una sigaretta.
«Era un weekend» esordì il signor Joyce. «Verso la metà di agosto, mi
pare. Avevo tutte le finestre spalancate ed ero seduto in salotto a guardare
la tivù. C'era "Dallas". Buffo che mi ricordi questo particolare. Immagino
quindi che fosse un venerdì. Cominciava alle nove.»
«Perciò spararono al suo cane fra le nove e le dieci di sera?» sottolineò
Marino.
«Direi di sì. Non poteva essere successo molto prima, o non ce l'avrebbe
fatta ad arrivare fino a casa. Sono lì che guardo la tivù, e a un certo punto
lo sento grattare alla porta e guaire. Capii subito che doveva essersi ferito,
ma pensavo che si fosse azzuffato con un gatto o roba del genere. Quando
andai ad aprire, gli diedi un'occhiata da vicino.»
Estrasse un sacchetto di tabacco e con mani ferme ed esperte si arrotolò
una sigaretta.
Marino lo incalzò. «E dopo? Cosa fece, dopo?»
«Lo caricai sul camion e lo portai a casa del dottor Whiteside. Sono circa otto chilometri in direzione nord-ovest.»
«Un veterinario?» chiesi.
Scosse lentamente la testa. «No, signora. Non avevo un veterinario, e
non ne conoscevo nemmeno. Il dottor Whiteside aveva curato mia moglie
prima che morisse, era una brava persona. A dire la verità, non sapevo a
chi altro rivolgermi. Naturale, a quell'ora. Ma quando arrivai, ormai non
c'era più niente che il dottore potesse fare per lui. Disse che dovevo chia-
mare la polizia. Gli unici animali a cui si dà la caccia in agosto sono i corvi, e non c'era una ragione al mondo per cui qualcuno dovesse appostarsi
nei boschi di notte per sparare a dei corvi o a qualunque altra cosa. Così,
feci come mi aveva consigliato e chiamai la polizia.»
«Ha idea di chi potrebbe averlo ucciso?» chiesi di nuovo.
«Maledizione aveva la mania di inseguire tutti, anche le macchine, come
se volesse strappargli le gomme. A essere sincero, ho sempre sospettato
che sia stato un poliziotto.»
«E perché?» intervenne Marino.
«Dopo l'esame mi dissero che i proiettili erano stati sparati da un revolver. Allora pensai che doveva essersela presa con una macchina di pattuglia, e che fosse successo così.»
«Quella sera aveva visto macchine della polizia sulla sua strada?» insisté
Marino.
«No. Ma questo non significa che non ce ne fossero. E non sono neanche sicuro di dove gli spararono. Certo non qui vicino, perché avrei sentito
i colpi.»
«Però aveva la tivù accesa, magari col volume molto alto» obiettò Marino.
«Ah, avrei sentito lo stesso. Da queste parti non ci sono mica tanti rumori, soprattutto la sera tardi. Dopo un po' che ci abiti, ti accorgi anche dei
più piccoli cambiamenti. Anche con la tivù accesa e le finestre sprangate.»
«E quella sera aveva sentito passare delle macchine, così, in generale?»
Dovette riflettere un istante. «Be', una passò poco prima che Maledizione cominciasse a grattare alla porta. Me lo chiese anche la polizia. E ho
come la sensazione che, chiunque fosse, fu proprio la persona che sparò al
mio cane. Parve pensarlo anche l'agente che raccolse la deposizione, sapete. O almeno fu un'ipotesi che suggerì.» Il signor Joyce fece una pausa,
guardando fuori dalla finestra. «Magari qualche ragazzotto, chissà.»
Dal salotto ci giunse il gong stonato di una pendola, quindi tornò il silenzio, i secondi scanditi dallo sgocciolìo d'acqua nel lavandino. Il signor
Joyce non aveva telefono. E aveva pochissimi vicini di casa, nessuno dei
quali a portata di voce. Mi chiesi se aveva figli. Non sembrava essersi cercato un altro cane, o magari un gatto. La casa sembrava abitata solo ed esclusivamente da lui.
«Il vecchio Maledizione non valeva una cicca, ma avevo finito per affezionarmici. Faceva prendere certi spaventi al postino. Io stavo in salotto a
guardare dalla finestra e ridevo tanto che mi venivano le lacrime. Oh, che
spettacolo, ragazzi. Un tipo piccoletto, se la faceva sotto e non aveva neanche il coraggio di scendere dal camioncino. Maledizione si metteva a girargli intorno mordendo l'aria, io lo lasciavo fare per uno o due minuti, poi
cominciavo a urlare e uscivo in giardino. Mi bastava fargli vedere il dito e
se ne andava buono buono con la coda tra le gambe.» Fece un respiro profondo, dimentico della sigaretta sul posacenere. «Eh, c'è tanta di quella cattiveria, là fuori.»
«Sì, signore» convenne Marino, abbandonandosi contro lo schienale della sedia. «Cattiveria e brutalità dappertutto, persino in un posto tranquillo
come questo. L'ultima volta che sono venuto qui dev'essere stato due anni
fa, poche settimane prima del Giorno del Ringraziamento, quando ritrovarono quei due poveretti nel bosco. Ricorda?»
«Eccome, se ricordo.» Il signor Joyce annuì enfaticamente. «Mai visto
tanto viavai da queste parti. Ero fuori a raccogliere legna per il camino,
quando di colpo ti vedo sfrecciare tutte quelle macchine della polizia a sirene spiegate. Ce ne saranno state almeno dieci o dodici, più un paio di
ambulanze.» Fece una pausa, scrutando Marino con aria pensierosa. «Però
la sua faccia non me la ricordo.» Si voltò, rivolgendosi a me: «C'era anche
lei, immagino?».
«Sì.»
«Chiaro.» Parve compiaciuto. «Mi sembrava di averla già vista da qualche parte, ho continuato a pensarci da quando siete arrivati.»
«Quindi si recò sul posto? Voglio dire, dove c'erano i cadaveri» fece
Marino.
«Be', con tutte quelle macchine della polizia, vorrei anche vedere che me
ne restavo seduto qui come se niente fosse. Non avevo la più pallida idea
di cos'era successo. Da quella parte non abita nessuno, solo boschi. Pensai,
be', non può essere che hanno sparato a un cacciatore, ci sono troppi poliziotti. Così montai sul camion e mi diressi giù per la strada, e quando incontrai il primo agente gli chiesi cos'era quel pandemonio e lui rispose che
dei cacciatori avevano trovato due cadaveri. Poi volle sapere se vivevo qui,
e io gli dissi di sì. Dopo cinque minuti, mi arriva alla porta un investigatore
che comincia a fare domande.»
«Ricorda ancora il suo nome, per caso?» chiese Marino.
«Ah, non potrei dire, no.»
«Che genere di domande le fece?»
«Be', soprattutto voleva sapere se avevo visto qualcuno aggirarsi nei dintorni, in particolare all'epoca in cui la coppia era scomparsa. Macchine
sconosciute, cose così.»
«E lei aveva notato niente?»
«Vede, quando quello se ne andò, io cominciai a ripensarci parecchio, e
da allora mi è capitato spesso» rispose il signor Joyce. «Ora, la notte in cui
la polizia pensa che la coppia sia stata portata qui e assassinata, io non ricordo di aver sentito proprio niente. A volte succede che vado a letto molto
presto, e magari quella sera stavo già dormendo. Ma un paio di mesi fa, all'inizio dell'anno, quando hanno trovato l'ultima coppia, mi è venuta in
mente una cosa.»
«Allude a Deborah Harvey e Fred Cheney?» chiesi.
«Intendo quella ragazza che ha la madre importante...»
Marino annuì.
«Quell'omicidio mi ha fatto ripensare ai cadaveri trovati qui, è stato così
che mi è venuto in mente. Se avete notato, arrivando, davanti a casa c'è
una cassetta delle lettere. Be', forse due settimane prima di quando credono
che la ragazza e il ragazzo siano stati uccisi, qui nei boschi, io mi sentii
male.»
«Questi si chiamavano Jim Freeman e Bohnie Smyth» precisò Marino.
«Sì, esatto. Be', fatto sta che avevo l'influenza, stavo male, vomitavo,
avevo dolori dappertutto. Rimasi a letto per un paio di giorni, credo, senza
nemmeno avere la forza per alzarmi e andare a ritirare la posta. Una sera
finalmente mi rimisi in piedi. Mi ero preparato una minestra che ero persino riuscito a non vomitare, così a un certo punto uscii per andare a controllare la cassetta delle lettere. Saranno state le nove, le dieci al massimo.
Stavo tornando dentro quando sentii questa macchina. Era buio pesto e la
persona al volante guidava a fari spenti.»
«In che direzione andava?» chiese Marino.
«Di là.» Il signor Joyce indicò a occidente. «In altre parole, si allontanava dalla zona dei boschi, tornava verso la strada principale. Magari non
vuol dire niente, però ci ho ripensato e mi è parso strano. Insomma, qui intorno ci sono solo campi e boschi. Al momento pensai che dovevano essere dei ragazzi che si erano fermati da qualche parte a bere, a fare un po' di
bisboccia, insomma.»
«E riuscì a vederla bene, questa macchina?» intervenni.
«Mi sembrò un'auto di media cilindrata, colore scuro. Nera, blu scuro,
forse rosso scuro.»
«Vecchia o nuova?» volle sapere Marino.
«Non so se era nuova di zecca, ma di sicuro non era vecchia. E non era
nemmeno uno di quei modelli stranieri.»
«Come fa a dirlo?»
«Dal rumore» rispose il signor Joyce senza esitare. «Le straniere hanno
un suono diverso dalle americane, si sente di più il motore, è come uno
scoppiettio più forte. Non so come descriverlo, ma lo so riconoscere, ecco.
E questa macchina passò qua davanti a fari spenti, silenziosissima, un rumore delicato, rotondo. Dalla forma mi fece pensare a una Thunderbird
nuova, non potrei giurarci. Magari era una Cougar.»
«Un'auto sportiva, quindi» chiarì Marino.
«Be', dipende da come la si guarda. Per me, una Corvette è sportiva, invece una Thunderbird o una Cougar sono più eleganti, capisce?»
«Non è che per caso si fece anche un'idea di quante persone c'erano a
bordo?» chiesi.
Scosse la testa. «No, questo proprio no. Era buio e non è che rimasi lì
impalato a guardare.»
Marino estrasse dalla tasca un blocchetto per appunti e cominciò a sfogliare le pagine.
«Signor Joyce» disse, «Jim Freeman e Bonnie Smyth scomparvero il
ventinove luglio, un sabato sera. È sicuro di avere visto quella macchina
prima di tale data? Non poteva essere più di recente?»
«Sicurissimo. E la ragione per cui ne sono sicuro è che mi ero beccato
questa influenza, come vi ho già detto. Cominciai a non sentirmi tanto bene verso la seconda settimana di luglio, e ricordo anche questo perché mia
moglie faceva gli anni il tredici. Il giorno del suo compleanno vado sempre
al cimitero a portarle dei fiori. Ero appena tornato a casa, quando iniziai a
sentirmi un po' strano. Il giorno dopo stavo già così male da non potermi
alzare dal letto.» Per un attimo tornò a guardare fuori dalla finestra. «Doveva essere il quindici o il sedici quando uscii a prendere la posta e vidi la
macchina.»
Marino si tolse gli occhiali da sole, pronto a congedarsi. Ma il signor Joyce, che non era uno sprovveduto, gli chiese: «Lei pensa che la morte di
queste coppie abbia qualcosa a che vedere con quella del mio cane, vero?».
«Stiamo controllando in tutte le direzioni. E credo sia meglio che si tenga per lei quest'incontro.»
«Non si preoccupi, non ne farò parola con nessuno.»
«Gliene sarò molto grato.»
Ci accompagnò fino alla porta.
«Quando volete, fate pure un salto» ci disse. «In luglio ci saranno anche
i pomodori. Qui dietro ho un orticello, ci crescono i pomodori migliori di
tutta la Virginia. Comunque non è che dovete per forza aspettare fino a luglio, per venire. Io sono sempre qui.»
Restò a guardarci dalla veranda mentre ci allontanavamo.
Risalendo la strada polverosa in direzione della highway, Marino non
tardò a esprimermi la sua opinione.
«Non mi piace affatto la storia della macchina che ha visto due settimane prima dell'omicidio di Bonnie Smyth e Jim Freeman.»
«Neanche a me» concordai.
«E, per quanto riguarda il cane, ho i miei dubbi. Se fosse stato ucciso
settimane, magari mesi prima della scomparsa di Jim e Bonnie, allora sì
che penserei di essere sulla pista giusta. Ma, che diavolo, quel povero animale ci ha lasciato le penne addirittura cinque anni prima!»
"Kill zone" pensai. Forse eravamo comunque arrivati a una pista.
«Marino, ti è mai passato per la testa che potremmo avere a che fare con
qualcuno che considera il luogo dell'omicidio più importante dell'identità
delle vittime?»
Mi lanciò un'occhiata, pronto ad ascoltare.
«Potrebbe essere un individuo che passa un sacco di tempo a cercare il
posto giusto» proseguii. «Una volta trovato quello, allora comincia la caccia, e il gioco termina esattamente nel luogo prescelto. E poi c'è il periodo
dell'anno, anche questo è importante. Il cane del signor Joyce è stato ucciso a metà agosto, il momento più caldo di tutto l'anno, ma anche fuori stagione dal punto di vista della caccia, corvi a parte. Tutte le coppie sono
state assassinate fuori stagione. E ogni volta i cadaveri sono stati ritrovati
settimane, addirittura mesi più tardi, da cacciatori. A me sembra uno
schema preciso e ripetitivo.»
«Vuoi dire che forse l'assassino stava facendo un giro di perlustrazione,
quando si è ritrovato alle calcagna un cane che rischiava di rovinargli i
piani?» Mi lanciò un'altra occhiata, questa volta più torva.
«Sto solo buttando lì delle ipotesi.»
«Senza offesa, capo, ma credo che questa puoi buttarla nel cesso. A meno che il nostro uomo non fantasticasse già da anni di uccidere coppiette.»
«Il fatto è che secondo me siamo proprio di fronte a un uomo dalla fantasia sfrenata.»
«Perché non ti metti anche tu a stendere profili psicologici?» ribatté Marino. «Sembri Benton.»
«Si direbbe che tu lo abbia definitivamente squalificato, Benton.»
«Nient'affatto. Solo che in questo momento non sono dell'umore giusto
per trattare con lui.»
«Ricordati che resta sempre un tuo collega nel VICAP. Tu e io non siamo gli unici sotto pressione, adesso come adesso. Non accanirti troppo
contro di lui.»
«Certo che in questi giorni sei veramente di manica larga, con i consigli» fu il suo commento.
«E rallegrati che sono gratis, perché ne hai un sacrosanto bisogno.»
«Vuoi fermarti a mangiare qualcosa?»
Erano quasi le sei.
«Stasera mi alleno» risposi in tono lugubre.
«Oh, Cristo. Scommetto che questo è il prossimo consiglio che mi darai.»
Il solo pensiero bastò a farci tirare fuori le sigarette.
Nonostante tutte le acrobazie per arrivare in tempo a Westwood - semafori rossi a parte - ero in ritardo per la lezione di tennis. Quella sera mi si
ruppe anche una stringa della scarpa, sentii che non riuscivo a tenere in
mano la racchetta e, per finire, scoprii che di sopra avevano organizzato un
rinfresco messicano, nel senso che la tribuna era zeppa di gente che non
aveva niente di meglio da fare che mangiare tacos, bere margaritas e assistere alla mia umiliazione. Dopo cinque rovesci consecutivi finiti ben oltre
la linea di fondo, cominciai a piegare le ginocchia e a rallentare la rotazione del braccio: i tre colpi successivi finirono in rete. Le mie volée erano
patetiche, i pallonetti inqualificabili. Più mi impegnavo e peggio era.
«Apri troppo in fretta e colpisci troppo tardi.» Ted si avvicinò alla mìa
metà campo. «Troppa torsione e troppa poca continuità. E alla fine cosa
succede?»
«Succede che forse mi darò al bridge» risposi, la frustrazione sul punto
di trasformarsi in rabbia.
Mi seguì fino alla linea di fondo per mostrarmi come fare e, sotto il mio
sguardo carico d'invidia, spedì elegantemente una serie di palle oltre la rete. Ted aveva una muscolatura a dir poco michelangiolesca, la sua coordinazione era fluida e riusciva a imprimere alla palla l'effetto desiderato, così, senza sforzo, facendotela rimbalzare sopra la testa o posandotela delicatamente ai piedi. Mi domandai se atleti di quel livello avessero una vaga
idea di come facevano sentire il resto dell'umanità.
«Il tuo problema sta tutto nella testa, dottoressa Scarpetta» disse. «Scendi in campo e vuoi essere la Navratilova, quando invece faresti meglio a
essere te stessa.»
«Be', di sicuro come lei non diventerò mai» borbottai.
«Sei troppo determinata a fare punto, mentre il tuo obiettivo dovrebbe
essere cercare di non perderne. Sii più sciolta, stai pronta, cerca di tenere la
palla in gioco finché il tuo avversario la manca o ti offre una buona occasione per chiudere il punto. È così che si gioca. Le partite, a questo livello,
non si vincono: si perdono. Se qualcuno ti batte non è perché segna più
punti, ma perché tu ne perdi più di lui.» Mi guardò con aria pensosa, quindi aggiunse: «Scommetto che sul lavoro non sei tanto impaziente. Scommetto che ce la fai sempre a rimandare la palla. Capisci cosa voglio dire:
riesci a tenerla in gioco tutto il giorno».
Non ne ero tanto sicura, ma la predica di Ted sortì esattamente l'effetto
opposto a quello desiderato. Cioè mi distrasse da quel che stavo facendo.
Una scioltezzza che non vi dico. Più tardi, immergendomi nella vasca da
bagno, ci ripensai a lungo.
Non ce l'avremmo fatta a sconfiggere l'assassino. La tattica offensiva di
seminare in giro proiettili e pubblicare notizie false non aveva funzionato,
quindi dovevamo seguire un minimo di strategia difensiva. I criminali che
riescono a evitare l'ansia non sono perfetti, solo fortunati. Anche loro
commettono errori. Tutti quanti. Il problema è riconoscerli, questi errori,
comprenderne l'importanza e il significato e discernere fra ciò che è intenzionale e ciò che non lo è.
Riflettei sui mozziconi di sigaretta ritrovati accanto ai cadaveri. Venivano lasciati apposta sulla scena del delitto? Probabile. O erano invece un errore? No, perché come prove non valevano niente e non eravamo nemmeno in grado di risalire alla marca. I fanti di cuori erano senz'altro intenzionali, ma nemmeno questi potevano essere considerati degli errori: su nessuna delle carte erano state rinvenute impronte digitali; e poi, la loro funzione era quella di indurci a pensare esattamente ciò che voleva chi le aveva abbandonate.
Sparare a Deborah Harvey, invece, era stato un errore. Ne ero sicura.
E c'era il passato dell'assassino, cosa su cui cercavo di concentrarmi adesso. Non poteva trattarsi di un normale cittadino rispettoso della legge
diventato improvvisamente un esperto omicida. Di quali altri peccati si era
macchiato in precedenza? In che modo poteva già essersi manifestato il
suo sadismo?
Poco ma sicuro, otto anni prima poteva benissimo avere sparato al cane
di un vecchio. E, se la mia ipotesi era giusta, allora aveva commesso un al-
tro errore, perché un incidente simile lasciava supporre che l'autore fosse
uno del posto, uno che conosceva la zona. Mi chiesi se non avesse già ucciso prima di allora.
Il mattino seguente, subito dopo la riunione del personale, chiesi a Margaret, la mia analista informatica, di procurarmi uno stampato di ogni omicidio commesso negli ultimi dieci anni entro un raggio di settantacinque
chilometri da Camp Peary. Sebbene non stessi necessariamente cercando
una coppia, fu proprio ciò che trovai.
Numeri C0204233 e C0104234. Non avevo mai sentito parlare di quei
due casi, che peraltro avevano preceduto di alcuni anni il mio arrivo in
Virginia. Tornata in ufficio, chiusi la porta e rilessi i file in preda a una
crescente eccitazione. Jill Harrington ed Elizabeth Mott erano state assassinate otto anni prima, in settembre, un mese dopo la morte del cane del
signor Joyce.
Al momento della scomparsa, la sera di venerdì quattordici, entrambe le
donne avevano un'età compresa fra i venti e i venticinque anni: i loro corpi
erano stati ritrovati la mattina dopo nel cimitero di una chiesa. La Volkswagen di Elizabeth, invece, venne scoperta solo il giorno seguente nel
parcheggio di un motel appena fuori dalla Route 60, a Lightfoot, una località nell'immediata periferia di Williamsburg.
Cominciai a esaminare i referti delle autopsie e i diagrammi anatomici.
Elizabeth Mott era stata colpita da un proiettile al collo, dopodiché - ma
queste erano solo congetture - aveva ricevuto una coltellata al petto e le era
stata tagliata la gola. Era ancora completamente vestita e non erano state
rilevate tracce di violenza sessuale, non avevano trovato proiettili ma i polsi recavano segni di legatura. Niente ferite da difesa. La documentazione
su Jill, invece, raccontava tutt'altra storia. Mani e avambracci erano pieni
di tagli subiti nel tentativo di difendersi, le contusioni e lacerazioni al viso
e sullo scalpo confermavano l'ipotesi che fosse stata "percossa con una pistola" e aveva la camicetta strappata. Evidentemente aveva opposto una
strenua resistenza, ma la lotta si era conclusa con undici coltellate.
Stando ai ritagli di giornale allegati alle pratiche, la polizia di James City
affermava che le due donne erano state viste per l'ultima volta mentre bevevano birra all'Anchor Bar and Grill di Williamsburg, dove si erano trattenute fin verso le dieci di sera. Si ipotizzava che proprio nel locale fosse
avvenuto l'incontro con l'aggressore, classica situazione alla Mr. Goodbar:
le donne erano uscite e avevano seguito il loro assassino fino al motel -
dove poi sarebbe stata ritrovata la macchina di Elizabeth. Forse il gioco era
cominciato nel parcheggio; lui le aveva obbligate a salire in macchina e si
era fatto portare nel cimitero in cui poi le aveva uccise.
Ma nel complesso c'erano molti indizi che non mi convincevano. La polizia aveva trovato inspiegabili tracce di sangue sul sedile posteriore della
Volkswagen. Impiegabili perché era sangue di tipo diverso da quello delle
due donne. Se apparteneva al killer, cosa diavolo poteva essere successo?
Aveva lottato con una di loro sul sedile? E, in quel caso, come mai non era
stato trovato anche il sangue di lei? Se le due ragazze erano sedute davanti
e lui dietro, in che modo si era ferito? I conti non tornavano nemmeno ipotizzando che si fosse tagliato mentre lottava con Jill nel cimitero. Dopo
l'omicidio, infatti, avrebbe dovuto riportare la macchina al motel, e a macchiarsi sarebbe stato allora il sedile del guidatore, non quello dietro. Infine,
se l'uomo intendeva uccidere le sue vittime dopo avere avuto dei rapporti
sessuali, perché non combinare tutto direttamente nella stanza del motel? E
perché l'esame dei cadaveri non aveva rivelato tracce di sperma? Dopo il
rapporto si erano forse lavate? Due donne con un uomo? Un ménage à
trois? Be', nel mio lavoro mi ero già trovata di fronte alle situazioni più incredibili.
Chiamai l'ufficio di analisi informatica e Margaret mi rispose.
«Mi occorre di nuovo il tuo aiuto» dissi. «Ho bisogno di una lista di tutti
i casi di omicidio con esito positivo ai test sulla droga di cui si sia occupato il detective R.P. Montana della polizia di James City. Mi occorre il più
in fretta possibile. Sùbito, se ce la fai.»
«Nessun problema.» Udii il rumore della tastiera sotto le sue dita.
Quando mi arrivò lo stampato, scoprii che l'investigatore Montana aveva
lavorato a sei di quei casi: sulla lista comparivano anche i nomi di Elizabeth Mott e Jill Harrington, poiché l'esame postmortem aveva confermato
la presenza di alcol nel sangue. In entrambi i casi si trattava però di un valore pressoché irrilevante, meno di 0,05. Ma Jill era risultata positiva al test sulle sostanze stupefacenti attive nel Librax.
Sollevai la cornetta e feci il numero della Divisione investigativa della
polizia di James City, chiedendo dell'agente Montana. Mi annunciarono
che nel frattempo era diventato capitano della sezione Affari Interni, quindi me lo passarono.
Ero decisa a muovermi con la massima circospezione. Se avesse intuito
che consideravo la morte delle due donne in qualche modo collegata ai casi delle altre cinque coppie, invece di parlare Montana avrebbe potuto cu-
cirsi la bocca.
«Sì, Montana» rispose con voce profonda.
«Sono la dottoressa Scarpetta» dissi.
«Buongiorno, dottore, come vanno le cose? A quanto pare in Virginia
continuano a spararsi.»
«Purtroppo la situazione non sembra migliorare» ammisi. «Senta, sto facendo delle ricerche su alcuni vecchi casi di omicidio con esito positivo ai
test sulla droga, e mi chiedevo se non poteva aiutarmi per quanto riguarda
quelli di cui si occupò personalmente. Ho trovato i dati nel computer.»
«Sentiamo pure. Ma, se è passato tanto tempo, non posso garantire sui
dettagli.»
«Fondamentalmente mi interessa il contorno, capisce, i particolari che
accompagnano agli omicidi. Sono fatti avvenuti prima del mio arrivo a Richmond.»
«Ah, ma allora parliamo dell'epoca del dottor Cagney. Ragazzi, come
lavorava, quello.» Montana si mise a ridere. «Certe volte frugava nei cadaveri a mani nude! Non lo impressionava niente, solo i bambini. Dei bambini non amava proprio occuparsi.»
Cominciai ripassando un po' tutte le informazioni riportate sullo stampato, e i ricordi che Montana ancora conservava non mi sorpresero affatto.
Problemi domestici e storie di alcolismo culminate nell'omicidio di uno dei
due coniugi, la moglie che spara al marito, o viceversa: come venivano irriverentemente chiamati dalla polizia, tutti i casi di "divorzio Smith &
Wesson". Un ubriacone picchiato a morte da alcuni compagni al termine di
una partita a poker. Un padre con un tasso alcolico nel sangue di 0,30 ucciso a colpi di pistola dal figlio. Eccetera eccetera. Lasciai i casi di Jill ed Elizabeth per ultimi.
«Me le ricordo bene» disse Montana. «Una storia incredibile, non so
come altro definirla. Non avrei mai pensato fossero di quelle che vanno in
un motel con il primo sconosciuto che passa per strada, o che le rimorchia
in un bar. Avevano studiato al college e lavoravano, erano intelligenti e
belle. Secondo me l'individuo che incontrarono doveva essere uno con l'aria molto a posto. Voglio dire, non uno dei soliti ragazzi di paese. Ho sempre pensato che si trattasse di qualcuno di passaggio, di un forestiero.»
«Perché?»
«Perché se fosse stato del posto, prima o poi un sospetto l'avremmo avuto. No, secondo me quello era un serial killer, uno di quelli che ti rimorchiano in un locale e poi ti fanno fuori. Magari senza fissa dimora, uno che
viaggia spesso. Arriva, colpisce e se ne va.»
«Ma le rapinò anche?»
«Così non sembrava. Ricordo di aver subito pensato che le due ragazze
facessero sporadicamente uso di droga e che forse si erano allontanate con
qualcuno che spacciava; magari avevano combinato di trovarsi al motel
per un festino o per comprargli una dose di coca. Ma non mancavano né i
soldi, né i gioielli, e non è mai saltato fuori nessun indizio a confermare
che si facevano o che tiravano.»
«Sì, ma dai referti tossicologici vedo che Jill Harrington risultò positiva
al Librax, oltre ad avere un leggero tasso alcolico nel sangue» obiettai. «Le
dice niente, tutto questo?»
Rimase a pensare un attimo. «Librax. No, non mi fa venire in mente
niente.»
A quel punto avevo finito con le domande e lo ringraziai.
Il Librax è uno stupefacente terapeutico alquanto versatile, utilizzato per
rilassare i muscoli e alleviare le forme di ansia o di tensione. Forse Jill soffriva di mal di schiena o di altri dolori dovuti a un piccolo incidente sportivo, o magari aveva problemi psicosomatici come spasmi del tratto gastrointestinale. Il prossimo passo era rintracciare il suo medico curante.
Cominciai telefonando a uno dei miei ispettori di Williamsburg e chiedendogli di spedirmi via fax la sezione di Pagine gialle relativa alle farmacie.
Quindi composi il numero del cercapersone di Marino.
«Hai amici poliziotti a Washington? Persone di cui ti puoi fidare?» gli
domandai non appena mi ebbe richiamato.
«Be', ne conosco un paio. Perché?»
«Devo assolutamente comunicare con Abby Turnbull, ma non credo sia
una buona idea che io la chiami personalmente.»
«No. A meno che tu non voglia farti scoprire da qualcuno.»
«Esatto.»
«Anzi» aggiunse, «se proprio vuoi saperlo, secondo me non dovresti
parlarci affatto.»
«Comprendo il tuo punto di vista, Marino, ma purtroppo non serve a
farmi cambiare idea. Ti spiacerebbe contattare uno dei tuoi amici e mandarlo a casa di Abby a controllare se sta ancora là?»
«Credo tu stia commettendo un errore, capo, comunque va bene, me ne
occuperò io.»
«Digli solo di riferirle che devo parlarle. Voglio che si metta immediatamente in comunicazione con me.» Diedi a Marino l'indirizzo.
A quel punto era ormai arrivato anche il fax che avevo richiesto, e Rose
mi depositò i fogli sulla scrivania. Passai il resto del pomeriggio a telefonare a tutte le farmacie di Williamsburg presso cui poteva essersi servita
Jill Harrington, finché ne trovai una che conservava ancora il suo nome sul
registro delle ricette.
«Era una vostra cliente regolare?» chiesi al farmacista.
«Certo. E anche Elizabeth Mott. Vivevano non molto lontano da qui, in
un gruppo di condomini in fondo alla strada. Due brave ragazze. Fu un vero choc, quando lo seppi.»
«Nel senso che vivevano insieme?»
«Aspetti un attimo, mi faccia controllare.» Seguì una pausa. «No, direi
di no. Indirizzo e numero di telefono erano diversi, però era lo stesso complesso. Old Towne, a circa tre chilometri da qui. Un posto abbastanza carino, ci abitano un sacco di giovani, in gran parte studenti.»
Proseguì facendomi la cronaca degli acquisti di Jill. Nell'arco di tre anni
si era presentata con ricette di antibiotici vari, rimedi contro la tosse e l'influenza, o le infezioni delle vie urinarie che spesso affliggono le donne. Un
mese prima dell'omicidio era arrivata con una ricetta per il Bactrim, che
però, al momento della morte, non stava più assumendo in quanto l'esame
non aveva rilevato traccia né di trimetoprim, né di sulfametossazolo.
«Le aveva mai venduto del Librax?» chiesi.
Un'altra pausa per controllare nei registri.
«No, signora. Niente Librax.»
Forse era stata Elizabeth a farsene fare la ricetta.
«Ed Elizabeth Mott, la sua amica? Nemmeno lei si era mai presentata
con una ricetta per il Librax?» insistei.
«No.»
«Che lei sappia, c'erano altre farmacie in cui si servivano regolarmente?»
«Ah, purtroppo non lo so, mi dispiace. Non ho proprio idea.»
In ogni caso mi diede i nomi di quelle più vicine. Le avevo già sentite
quasi tutte, e anche le poche rimaste mi confermarono che né l'una né l'altra aveva mai fatto richiesta di Librax o altri farmaci contenenti sostanze
stupefacenti. Di per sé il Librax non era così importante, pensai, ma mi ossessionava il fatto di non riuscire a scoprire chi le avesse rilasciato la ricetta.
12
Ai tempi dell'omicidio di Elizabeth Mott e Jill Harrington, Abby Turnbull era giornalista di cronaca nera a Richmond. Ero pronta a scommettere che non solo ricordava anche quei casi, ma che probabilmente ne sapeva
più del capitano Montana.
Il mattino seguente Abby mi telefonò da una cabina, lasciando il numero
perché, come disse a Rose, sarebbe rimasta ad aspettare un quarto d'ora.
Insisté anche perché la richiamassi da un telefono "sicuro".
«Va tutto bene?» chiese Rose, mentre mi sfilavo i guanti chirurgici.
«Dio solo lo sa» risposi, slacciandomi il camice.
Il più vicino telefono "sicuro" che mi venne in mente fu quello pubblico
appena fuori della caffetteria sotto casa. Trattenendo il respiro per la paura
di non fare in tempo a raggiungerla, composi il numero che mi aveva dato
la segretaria.
«Cosa sta succedendo?» rispose immediatamente Abby. «Mi è piombato
in casa un agente che diceva di essere stato mandato da te.»
«È vero» la rassicurai. «Con tutto quel che mi hai detto, ho pensato non
fosse una buona idea telefonarti a casa. E tu, stai bene?»
«È per questo che mi chiami?» disse in tono vagamente deluso.
«No, è solo una delle tante ragioni. Dobbiamo parlare, Abby.»
Vi fu un lungo silenzio.
«Sabato sarò a Williamsburg» disse infine. «Facciamo alle sette da Trellis, per cena?»
Non le chiesi per quale motivo andava a Williamsburg. Non ero sicura
di volerlo sapere ma quando, il giorno stabilito, parcheggiai in Merchant's
Square, sentii che tutte le mie apprensioni stavano rapidamente svanendo.
E come potevo lasciarmi angosciare da un vecchio omicidio mentre sorseggiavo un bicchiere di sidro caldo, al riparo dal vento pungente in uno
dei miei posti preferiti?
Sebbene fosse inverno, e quindi bassa stagione, c'era molta gente che
passeggiava per le strade, curiosando nei negozi appena ristrutturati, o che
andava in giro su carrozze guidate da cocchieri con pantaloni alla zuava e
tricorno. Mark e io ci eravamo spesso ripromessi di passare un week-end a
Williamsburg. Avremmo affittato una stanza in una delle ex scuderie del
secolo scorso, nel centro storico, avremmo camminato sui marciapiedi di
ciottoli sotto la fioca luce dei lampioni a gas, avremmo cenato in una delle
tante taverne, e per finire avremmo bevuto del vino distesi davanti al fuoco, addormentandoci l'uno nelle braccia dell'altra.
Naturalmente non era mai successo, la storia della nostra relazione era
fatta più di sogni che di ricordi. Chissà se le cose sarebbero mai cambiate.
Recentemente, al telefono, mi aveva promesso di sì. Ma me lo aveva già
promesso altre volte, e lo stesso avevo fatto io. Così lui era ancora a Denver, e io ero ancora a Richmond.
In un negozio di argenteria comprai un ciondolo a forma di ananas e una
bella catenina lavorati a mano. Anche se in ritardo su San Valentino, Lucy
avrebbe ricevuto un regalo da quella negligente di sua zia. Un'incursione
nella grande profumeria mi fruttò qualche sapone per la stanza degli ospiti,
una crema da barba per Fielding e una per Marino, un potpourri per Bertha
e per Rose. Alle sette meno cinque varcai la soglia del Trellis in cerca di
Abby. Quando arrivò, mezz'ora più tardi, ero seduta impaziente a un tavolo
in un angolo riservato.
«Mi dispiace» disse con aria sincera, scivolando fuori dal cappotto. «Mi
hanno fatto fare tardi, sono venuta appena ho potuto.»
Aveva l'aria agitata ed esausta, i suoi occhi si spostavano nervosamente
su tutta la sala. Il Trellis era decisamente in attivo, gremito di avventori
che chiacchieravano a bassa voce nella tremula luce delle candele. Mi
chiesi se Abby temesse di essere stata seguita.
«Sei stata a Williamsburg tutto il giorno?» esordii.
Annuì.
«Immagino non dovrei chiederti a fare cosa.»
«Ricerche» fu tutto quel che disse.
«Non dalle parti di Camp Peary, mi auguro.» La guardai dritto negli occhi.
Il messaggio le arrivò forte e chiaro. «Lo sai» rispose.
La cameriera si avvicinò al nostro tavolo, quindi andò al banco a ordinare il Bloody Mary per Abby.
«Come hai fatto a scoprirlo?» mi chiese, accendendosi una sigaretta.
«Credo che dovrei essere io a chiedertelo.»
«Non lo posso dire, Kay.»
Certo che non poteva. Ma io sapevo ugualmente. Pat Harvey, ecco come.
«Hai una fonte» mi limitai a dire. «Be', lascia almeno che ti chieda questo: perché ha voluto che sapessi anche tu? Un'informazione del genere
non si passa senza un motivo.»
«Ne sono perfettamente consapevole.»
«Allora?»
«Ciò che conta è la verità» disse. «Anch'io sono una fonte.»
«Capisco. Offri ciò che hai scoperto in cambio di informazioni.»
Questa volta non rispose.
«Il che include la sottoscritta?»
«Non ho nessuna intenzione di fregarti, Kay. L'ho mai fatto?» Mi lanciò
un'occhiata severa.
«No» risposi, ed era vero. «No, fino a oggi non l'hai mai fatto.»
Le misero davanti il Bloody Mary, che cominciò a mescolare con il
gambo di sedano, quasi soprappensiero.
«Tutto quel che posso dirti» proseguii «è che stai avanzando su un campo minato. Non credo ti occorrano ulteriori spiegazioni, e poi dovresti essertene già resa conto da sola. Allora, devo proprio sottolineare? Il tuo libro vale veramente questo prezzo?»
In mancanza di segnali da parte sua, aggiunsi con un sospiro: «Immagino che non riuscirò a farti cambiare idea, vero Abby?».
«Ti è mai capitato di essere coinvolta in una situazione da cui non puoi
più tirarti fuori?»
«Oh, continuamente.» Il mio era un sorriso amareggiato. «È proprio ciò
che mi sta succedendo.»
«Ecco, ci sono dentro anch'io, Kay.»
«Capisco. E se ti sbagliassi? Cosa accadrebbe, allora?»
«Non sono io quella che può sbagliarsi» rispose. «Qualunque sia là verità sull'autore di questi omicidi, resta il fatto che l'Fbi e altre agenzie interessate si stanno muovendo e stanno prendendo decisioni sulla base di sospetti precisi. Questo mi pare si possa dire. Se i federali o la polizia si sbagliano, non faranno che regalarmi un capitolo in più per il mio libro.»
«Che freddezza» commentai a disagio.
«Cerco solo di essere professionale, Kay. Anche tu a volte suoni fredda
e distaccata quando parli in maniera professionale.»
«Ho bisogno del tuo aiuto» dissi. «Otto anni fa, due donne furono assassinate proprio da queste parti: Elizabeth Mott e Jill Harrington.»
Mi guardò incuriosita. «Non penserai...»
«Non so ancora cosa penso» la interruppi. «Ma ho bisogno di conoscere
i particolari di questi due casi. Purtroppo nei rapporti ufficiali si dice molto
poco, e all'epoca non ero ancora in Virginia. Ma negli archivi ho trovato
diversi articoli di giornale, molti dei quali firmati da te.»
«Mi riesce difficile immaginare che quanto è successo a quelle due ragazze possa in qualche modo essere collegato agli altri casi.»
«Quindi te ne ricordi» dissi, sollevata.
«Impossibile dimenticare. Fu una delle rare occasioni in cui il mio lavoro mi procurò veri e propri incubi.»
«E perché ti sembra strano pensare a un collegamento?»
«Per molte ragioni. Innanzitutto non trovarono nessun fante di cuori. La
macchina non era stata abbandonata sul ciglio di una strada ma nel parcheggio di un motel, e i cadaveri non restarono a decomporsi per settimane
o mesi nei boschi. Li ritrovarono nelle ventiquattr'ore successive. Entrambe le vittime erano di sesso femminile e avevano già passato i vent'anni,
mentre qui si parla di adolescenti. E poi, per quale motivo il killer avrebbe
dovuto aspettare cinque anni prima di tornare a colpire?»
«Sono d'accordo con te» dissi. «I tempi non coincidono con il profilo del
classico serial killer. E anche il modus operandi sembrerebbe diverso da
quello degli altri casi, così come il criterio di selezione delle vittime.»
«E allora come mai ti interessano tanto?» Abby iniziò a sorseggiare il
suo drink.
«Sto ancora brancolando nel buio, ma questi due casi mi danno da pensare e non sono mai stati risolti» ammisi. «Non è certo normale che due
persone vengano rapite e assassinate. Inoltre non furono trovate prove di
violenza sessuale. Le due donne sono state uccise proprio qui, nella stessa
zona degli altri delitti.»
«E anche quella volta usarono un'arma da fuoco e un coltello» aggiunse
Abby con aria pensierosa.
Dunque sapeva anche di Deborah Harvey.
«Sì, ci sono alcune analogie» dissi evasivamente.
Abby non sembrava ancora convinta, ma appariva più interessata.
«Cosa vuoi sapere, Kay?»
«Qualunque cosa ricordi. Qualunque cosa, senza eccezioni.»
Rimase a riflettere per un lungo momento, giocherellando con il bicchiere.
«Elizabeth lavorava nell'ufficio commerciale di una società informatica
locale, le cose andavano piuttosto bene» esordì. «Jill aveva appena terminato legge al William and Mary, ed era entrata in un piccolo studio di Williamsburg. Personalmente non ho mai creduto all'ipotesi che si fossero recate in un motel per fare sesso con uno sconosciuto incontrato in qualche
bar. Non erano i tipi. E poi, in due con uno solo? No, ho sempre pensato
che fosse troppo strano. Inoltre, sul sedile posteriore dell'auto furono trovate macchie di sangue: ma non era né di Jill, né di Elizabeth.»
La precisione di Abby non finiva mai di stupirmi. Anche quella volta
doveva essere riuscita a mettere le mani sui risultati dell'esame sierologico.
«Immagino quindi che il sangue appartenesse al killer. Ce n'era molto,
Kay, io ho visto la macchina. Sembrava che qualcuno fosse stato accoltellato proprio lì, sul sedile, e questo faceva pensare che l'assassino fosse seduto dietro. Ma era difficilissimo ricostruire uno scenario coerente. La polizia riteneva che le due vittime avessero incontrato quell'animale all'Anchor Bar and Grill, ma se il tizio se n'era andato a bordo della loro macchina progettando di ucciderle, come diavolo avrebbe fatto a tornare alla sua
auto, dopo l'omicidio?»
«Dipende da quanto è lontano il motel dal locale. Magari poteva tornarci
a piedi.»
«Senti, sono sei o sette chilometri buoni. Tra l'altro l'Anchor non esiste
più. Comunque, le due donne erano state viste per l'ultima volta nel locale
verso le dieci. Se il killer avesse lasciato la macchina parcheggiata lì, probabilmente al suo ritorno sarebbe stata l'unica in tutto il posteggio, e non
mi sembra una scelta particolarmente intelligente. Un agente di pattuglia
avrebbe potuto notarla, o magari il proprietario del locale mentre usciva
per chiudere.»
«Il che non impedisce all'assassino di lasciare la propria auto al motel e
servirsi poi di quella di Elizabeth per portare a compimento il piano. Dopodiché ritorna, lascia la macchina delle ragazze, prende la sua e se ne va.»
«Vero. Ma se era andato in macchina fino al motel, allora quando salì a
bordo di quell'altra? Insomma, l'ipotesi che li vuole tutti e tre in camera insieme e poi vede le due ragazze costrette a recarsi al cimitero con l'assassino, non mi ha proprio mai convinto. Perché avrebbe dovuto rischiare tanto? Jill ed Elizabeth avrebbero potuto mettersi a gridare nel parcheggio,
opporgli in qualche modo resistenza. Perché non farle fuori direttamente in
camera, allora?»
«Ma la loro presenza in camera è mai stata veramente appurata?» chiesi.
«Ecco uh altro punto» rispose Abby. «All'epoca andai a parlare con il
receptionist di turno quella notte. Il motel si chiama Palm Leaf ed è sulla
Route 60, all'altezza di Lightfoot. Diciamo che non fa proprio affari d'oro.
Comunque sia, l'impiegato non ricordava di avere visto nessuna delle due
donne. Né ricordava un tizio che avesse preso una camera più o meno dov'era posteggiata la Volkswagen. Anzi, in quel periodo le camere dell'ala
in questione erano praticamente tutte vuote. Inoltre, nessuno arriva in albergo e poi se ne va senza restituire la chiave, ma non credo che il nostro
uomo avrebbe potuto presentarsi al banco per segnalare la propria partenza. Di sicuro non dopo avere commesso due omicidi. E poi sanguinava.»
«Dunque, qual era la tua teoria all'epoca dei fatti?» chiesi.
«La stessa di oggi. Non credo avessero incontrato il killer in quel locale.
Secondo me, tutto è successo poco dopo che Jill ed Elizabeth se ne andarono.»
«Tutto cosa?»
Abby riprese a mescolare il Bloody Mary, il volto corrucciato. «Non so.
Certo non erano nemmeno tipe da tirar su un autostoppista a quell'ora di
sera. E non ho mai creduto alla tesi della droga. Nessuna prova che facessero uso di cocaina, eroina o cose del genere, nei loro appartamenti non
c'erano i tipici arnesi dei drogati. Non fumavano e non bevevano, facevano
entrambe jogging. In poche parole, due salutiste.»
«Sai dov'erano dirette quando uscirono dal locale? Pensavano di rientrare a casa? O hanno fatto tappa da qualche altra parte?»
«Nessuna prova neanche in questo senso.»
«Ma dal bar se ne andarono sole?»
«Delle persone con cui parlai, nessuna ricordava di averle viste in compagnia di qualcuno mentre erano ancora dentro. Anzi, se non mi sbaglio
avevano preso due birre e si erano sedute a chiacchierare a un tavolo d'angolo. Niente accompagnatori al momento dell'uscita, insomma.»
«Quindi potrebbero effettivamente avere incontrato qualcuno nel parcheggio» considerai. «Magari il nostro uomo era addirittura penetrato nella
macchina di Elizabeth e le stava aspettando.»
«Dubito che avrebbero lasciato la macchina aperta, ma non lo si può escludere a priori.»
«Che tu sappia erano frequentatrici abituali del locale?»
«Abituali no, però c'erano già state altre volte.»
«Un postaccio?»
«Questo era quel che mi aspettavo, visto che era sempre pieno di militari» replicò Abby. «Invece quando ci arrivai mi fece venire in niente un pub
inglese. Un posto civile, dove la gente chiacchierava e giocava a freccette.
Un locale dove anch'io sarei potuta andare in compagnia di un'amica sentendomi tranquilla e al sicuro. Dissero che l'assassino era qualcuno di passaggio, o un militare temporaneamente comandato da queste parti. Nessuno che le ragazze conoscessero, in ogni caso.»
Forse no, pensai. Ma certo qualcuno di cui potersi fidare, almeno inizialmente, e a tale proposito mi tornarono in mente le parole di Hilda Ozi-
mek: incontri nati in maniera «amichevole», aveva detto. Mi chiesi cosa
avrebbe sentito se le avessi mostrato una fotografia di Elizabeth e Jill.
«Senti, sei mai venuta a conoscenza di qualche particolare problema di
salute che tormentasse Jill?»
Abby ci pensò per qualche istante, il volto perplesso. «No, a dire il vero
non ricordo.»
«Di dov'era?»
«Kentucky, mi pare.»
«E tornava spesso a casa?»
«Non mi sembra. Credo ci andasse solo per le vacanze, niente di più.»
Dunque non era verosimile che avesse ottenuto la ricetta per il Librax
proprio durante un soggiorno nel Kentucky, mentre si trovava in visita dai
genitori.
«Se non sbaglio hai detto che aveva appena cominciato a lavorare» dissi.
«Viaggiava molto, per lavoro? Aveva occasione di allontanarsi spesso dalla città?»
Prima di rispondere, Abby attese che ci fossero state servite le insalate
dello chef. «Aveva un amico molto caro conosciuto alla facoltà di legge.
Non ricordo il suo nome, ma so che gli parlai, gli chiesi quali erano le abitudini di Jill, cosa faceva nel tempo libero. Lui sospettava che avesse una
relazione con qualcuno.»
«E cosa glielo faceva pensare?»
«Nel corso del terzo anno di scuola veniva a Richmond quasi ogni settimana, in teoria perché cercava lavoro e il posto le piaceva molto. Sperava
di trovare un'opportunità presso qualche azienda. Il ragazzo mi disse che
spesso Jill aveva bisogno dei suoi appunti, perché date le escursioni fuori
città era spesso assente alle lezioni. A lui però la storia pareva strana, e ancora più strana gli parve quando, subito dopo la laurea, trovò lavoro in uno
studio di Williamsburg. Ricordo che si dilungò molto sull'argomento perché temeva che le sue visite a Richmond potessero essere collegate all'omicidio. Magari si incontrava con un uomo sposato e aveva minacciato di
rivelare tutto alla moglie. Forse aveva una storia con qualche avvocato o
giudice di spicco che non poteva permettersi lo scandalo e che alla fine la
fece tacere per sempre. L'esecutore materiale del delitto fu forse una terza
persona, che purtroppo coinvolse anche la sfortunata Elizabeth.»
«Tu cosa ne pensi?»
«So solo che la pista non portò da nessuna parte, come del resto il novanta per cento delle soffiate che mi arrivano.»
«Jill aveva avuto una relazione con lo studente che ti confidò tutto questo?»
«Credo che a lui sarebbe piaciuto molto, ma no, non erano stati insieme.
Anzi, all'epoca ebbi proprio l'impressione che ciò giustificasse in parte i
suoi sospetti. Era un tipo sicuro di sé, capisci, e pensò che l'unico motivo
per cui Jill aveva potuto resistere al suo fascino era la presenza di un altro
uomo di cui lui non sapeva nulla. Un amore segreto.»
«E lo studente in questione è mai stato sospettato?» chiesi.
«Assolutamente no. Al momento dell'omicidio era fuori città, il suo alibi
fu verificato al di là di ogni dubbio.»
«Parlasti anche con qualcuno degli avvocati dello studio in cui lavorava?»
«Sì, ma non arrivai lontano» rispose Abby. «Sai come sono fatti, quelli.
In ogni caso ci lavorava solo da pochi mesi. Non credo che i colleghi la
conoscessero molto bene.»
«Una ragazza non proprio estroversa, insomma» commentai.
«La descrivevano come un tipo carismatico e spiritoso, ma molto misurato.»
«Ed Elizabeth?»
«Hmm, più vivace, penso. Tra l'altro, lavorando nel settore commerciale,
un po' doveva esserlo per forza.»
Dirigendoci a piedi verso il parcheggio di Merchant's Square, i lampioni
a gas ci fecero strada allontanando dai marciapiedi le ombre della sera.
Una fitta coltre di nuvole oscurava la luna, l'aria era umida e fredda, penetrante.
«Mi domando cosa farebbero adesso quei poveri ragazzi se fossero ancora qui, quante cose sarebbero cambiate nella loro vita» disse Abby, con
il mento sprofondato nel collo del cappotto e le mani in tasca.
«E cosa farebbe Henna?» cercai di chiedere il più delicatamente possibile. Henna. Sua sorella.
«Probabilmente abiterebbe ancora a Richmond. Immagino che tutt'e due
saremmo rimaste là.»
«Il dispiace di essertene andata?»
«Ci sono giorni in cui tutto mi dispiace. Da quando Henna è morta, è
come se non mi fosse più rimasta alcuna scelta, come se mi avessero tolto
la libertà di decidere. Mi sembra di aver semplicemente subito la spinta di
eventi che sono al di fuori della mia volontà.»
«Io non la vedo così. Hai scelto tu di accettare l'offerta del "Post" e di
trasferirti a Washington. Così come ora hai deciso di scrivere un libro.»
«Brava. Proprio come Pat Harvey ha liberamente scelto di tenere una
conferenza stampa e di prendere tutte le belle iniziative che l'hanno praticamente rovinata» ribatté.
«Sì. Anche lei ha fatto le sue scelte.»
«In momenti del genere non ti rendi conto di quel che stai facendo,
nemmeno quando pensi di essere lucida» continuò. «Solo chi ha fatto la
stessa esperienza è veramente in grado di capire quello che stai passando.
Ti senti isolata. Vai in giro e la gente ti evita, ha paura di incontrare il tuo
sguardo e di mettersi a parlare perché non sa cosa dirti. Così se ne restano
lì a bisbigliare: "L'hai vista? È la sorella di quella uccisa dallo strangolatore". Oppure: "Quella è Pat Harvey. Era sua figlia...". È come vivere in una
caverna. Hai paura di stare da sola ma hai anche paura di stare con gli altri,
le ore di veglia ti spaventano ma ti spaventa anche l'idea di andare a dormire, perché sai quanto sia terribile riaprire gli occhi ogni mattina. Corri come una pazza e alla fine sei distrutta. Se oggi mi guardo indietro, vedo che
tutto ciò che ho fatto dalla morte di Henna in poi è stato frutto di una specie di follia.»
«Credo te la sia cavata egregiamente» dissi con tono sincero.
«Oh, tu non sai le cose che ho fatto. Gli errori che ho commesso.»
«Sali, dài. Ti do uno strappo fino alla tua macchina.» Eravamo arrivate
in Merchant's Square.
Mentre tiravo fuori le chiavi, da qualche parte nell'oscurità del parcheggio udii il rombo di un motore che veniva acceso. Eravamo già dentro, le
portiere chiuse e le cinture allacciate, quando una Lincoln nuova si fermò
accanto a noi e il finestrino del guidatore si abbassò con un ronzio. Aprii il
mio quel tanto che bastava per sentire cosa voleva quell'uomo. Era giovane, dall'aspetto curato, e stava ripiegando con qualche difficoltà una cartina geografica.
«Mi scusi» sorriso disarmante «potrebbe dirmi come si torna sulla I-64
est, da qui?»
Mentre gli davo rapidamente le indicazioni, sentii Abby irrigidirsi al mio
fianco.
«Prendi il numero di targa» disse in tono sbrigativo, mentre la Lincoln si
allontanava. Infilò una mano nella borsa, in cerca di penna e blocchetto.
«ENT otto nove nove» lessi rapidamente.
Abby prese nota.
«Cosa succede?» chiesi, innervosita.
Mentre uscivo dal parcheggio, si guardò intorno controllando l'eventuale
presenza della macchina.
«Hai visto se era già lì, quando siamo arrivate al posteggio?» domandò.
Dovetti pensarci. Al nostro arrivo il parcheggio era quasi vuoto. Forse,
in un angolo poco illuminato, c'era effettivamente la Lincoln.
Glielo dissi, aggiungendo: «Ma non mi pare ci fosse dentro nessuno».
«Esatto. Perché la luce dell'abitacolo era spenta.»
«Sì, direi.»
«E secondo te uno guarda una cartina al buio?»
«Ottima osservazione» dissi, sbalordita.
«E se non è uno di qui, come lo spieghi l'adesivo del parcheggio sul paraurti posteriore?»
«Adesivo del parcheggio?» ripetei.
«Aveva lo stemma di Colonial Williamsburg. Lo stesso che diedero a
me anni fa quando trovarono degli scheletri durante gli scavi archeologici
di Martin's Hundred. Realizzai una serie di servizi, venivo qui spesso e l'adesivo mi permetteva di posteggiare nel centro storico e a Carter's Grove.»
«Quindi il tizio lavora qui, ma ci viene a chiedere indicazioni per raggiungere la I-64?» mormorai.
«L'hai visto bene in faccia?»
«Sì, piuttosto bene. Credi sia lo stesso uomo che ti ha seguito a Washington quella sera?»
«Non so, però potrebbe. Forse... Maledizione, Kay, mi stanno facendo
impazzire!»
«Be', quando è troppo è troppo» dissi in tono risoluto. «Dammi il numero di targa. Me ne occuperò io.»
Il mattino dopo Marino mi telefonò solo per riferire il seguente messaggio: «Se non hai ancora letto il "Post" di oggi, esci a comprarlo.»
«E da quando ti sei messo a leggere il "Post"?»
«Da mai, se posso evitarlo. Mi ha avvisato Benton un'ora fa. Chiamami
dopo. Sono in città.»
Infilai una tuta da ginnastica e una giaccavento, quindi guidai sotto la
pioggia fino a un emporio lì vicino. Rimasi seduta in macchina per una
buona mezz'ora, con il riscaldamento al massimo e i tergicristalli che segnavano il tempo nella pioggia gelida. Ciò che lessi mi lasciò sgomenta, e
più di una volta mi ritrovai a pensare che se gli Harvey non avessero denunciato Clifford Ring, lo avrei fatto io.
In prima pagina dominava il primo di una serie di tre articoli dedicati a
Deborah Harvey, Fred Cheney e alle altre coppie assassinate. Non veniva
risparmiato nulla, la cronaca di Ring era così esauriente da includere dettagli di cui nemmeno io ero a conoscenza.
Poco tempo prima del delitto, Deborah Harvey aveva confidato a un'amica il sospetto che il padre fosse alcolizzato e avesse una relazione con
una giovane assistente di volo. A quanto risultava, Deborah aveva ascoltato di nascosto alcune telefonate fra il padre e l'amante. La ragazza viveva a
Charlotte e, stando all'articolo, il signor Harvey si trovava con lei la sera in
cui la figlia e Fred Cheney erano scomparsi: ecco spiegato come mai né la
polizia, né la moglie erano riusciti ad avvisarlo. Amara ironia, invece di
prendersela con il padre, Deborah aveva iniziato a nutrire una forma di
rancore per la madre che, assorbita dalla carriera, mancava spesso da casa
e per questo appariva agli occhi della figlia come la vera responsabile dell'infedeltà e della dipendenza dall'alcol del genitore.
Frase su frase, la penna al vetriolo dell'autore scolpiva il patetico ritratto
di una donna potente impegnata a salvare il mondo, mentre la famiglia si
disintegrava per colpa della sua negligenza. Pat Harvey aveva sposato i
soldi: la casa di Richmond era un vero e proprio palazzo, le sue stanze al
Watergate erano piene di antichità e di inestimabili pezzi d'arte, compresi
un Picasso e un Remington. Vestiva come richiesto e frequentava gli ambienti giusti, mostrava un impeccabile decoro e la sua conoscenza della politica e degli affari mondiali era ineccepibile.
Eppure, dietro l'inattaccabile facciata plutocratica, concludeva Ring, si
celava «una donna irrequieta nata in un quartiere operaio di Baltimora, una
persona descritta dai colleghi come tormentata da un'insicurezza che la obbliga a dare continuamente prova di sé». Pat Harvey, proseguiva, era una
megalomane. Una donna che, minacciata o messa alle strette, diventava irrazionale - per non dire rabbiosa come un cane idrofobo.
Altrettanto impietoso era il modo in cui il giornalista affrontava gli omicidi avvenuti in Virginia nel corso degli ultimi tre anni: denunciava apertamente la paura, condivisa da Cia ed Fbi, che il colpevole fosse qualcuno
di Camp Peary, e gettava una luce sinistra su tutte le persone coinvolte.
La Cia e il Dipartimento di Giustizia stavano coprendo qualcosa e il loro
atteggiamento aveva raggiunto livelli tali di paranoia da indurre alcuni investigatori della Virginia a nascondersi reciprocamente le informazioni di
cui erano in possesso. Sulla scena del delitto era inoltre stato piazzato un
falso indizio, e ai giornalisti erano state "soffiate" informazioni sbagliate.
Si sospettava addirittura che alcuni di essi fossero sorvegliati. Nel frattempo, Pat Harvey era stata probabilmente messa al corrente dell'intera faccenda e dunque la sua indignazione non appariva del tutto legittima - come
sottolineava la condotta tenuta nell'infamante conferenza stampa di pochi
giorni prima. Impegnata in una lotta all'ultimo sangue con il Dipartimento
di Giustizia, la signora Harvey aveva sfruttato informazioni delicatissime
per incriminare e minacciare le agenzie federali con cui si trovava in attrito
per via della campagna contro l'ACTMAD.
L'ingrediente finale del velenoso polpettone ero io. Io avevo fatto ostruzionismo e negato informazioni all'Fbi, fino a quando la minaccia di un ricorso in tribunale non mi aveva costretto a consegnare i referti alle famiglie interessate. Io avevo rifiutato di parlare alla stampa. Sebbene non fossi
formalmente tenuta a rispondere all'Fbi, Clifford Ring insinuava che probabilmente il mio comportamento professionale era stato influenzato da
precedenti personali. «Secondo una fonte molto vicina al Capo medico legale della Virginia» proseguiva l'articolo, «negli ultimi due anni la dottoressa Scarpetta avrebbe intrattenuto una relazione con un agente speciale
dell'Fbi, recandosi spesso in visita a Quantico e mantenendo rapporti di
amicizia con il personale dell'Accademia, ivi compreso Benton Wesley,
l'esperto psicologo coinvolto nelle indagini.»
Mi domandai quanti lettori avrebbero pensato che la mia relazione fosse
stata proprio con il succitato Wesley.
Insieme alla mia integrità e alla mia morale, veniva messa in discussione
anche la mia competenza scientifica. Nei dieci casi in questione, ero stata
incapace di determinare le cause di ben nove decessi; e quando avevo scoperto un taglio su un osso di Deborah Harvey, la paura di averlo inflitto io
stessa con un bisturi nel corso dell'autopsia era stata tale da farmi «guidare
fino a Washington sotto la neve, gli scheletri di Deborah Harvey e Fred
Cheney nel bagagliaio della Mercedes, per sentire il parere di un antropologo dello Smithsonian's National Museum di storia naturale.»
Come Pat Harvey, anche io mi ero «rivolta a una sensitiva». Avevo accusato gli investigatori di manomissione dei resti delle due vittime sulla
scena del delitto e, non fidandomi dell'operato della polizia, ero tornata nel
bosco incriminato per cercare personalmente un bossolo. Mi ero inoltre
presa la briga di andare a interrogare alcuni testimoni, compresa una dipendente del Seven-Eleven in cui Fred e Deborah erano stati visti vivi per
l'ultima volta. Fumavo, bevevo, avevo una licenza speciale per portare in
giro la mia .38 nascosta, avevo rischiato in diverse occasioni di farmi am-
mazzare, ero divorziata e venivo «da Miami». Quest'ultima sembrava la
naturale spiegazione del lungo preambolo introduttivo.
Clifford Ring mi dipingeva come una donna arrogante e dal grilletto facile, una selvaggia che, quando si trattava di medicina legale, non sapeva
distinguere il proprio culo da un buco per terra.
"Abby" pensai, premendo l'acceleratore sulla strada bagnata. Era forse
questo ciò a cui aveva alluso la sera prima, parlando degli errori commessi? Aveva passato informazioni al collega Clifford Ring?
«Non ha senso» disse Marino più tardi, mentre sedevamo a bere un caffè
nella mia cucina. «Non che la mia opinione su di lei sia cambiata, intendiamoci. Sono sempre convinto che venderebbe anche sua nonna, pur di
fare uno scoop. Ma adesso non sta lavorando a un libro? Perché mai dovrebbe regalare informazioni a un avversario, soprattutto visto il modo in
cui l'hanno trattata al "Post"?»
«Be', almeno in parte le notizie devono essere arrivate da lei.» Mi riusciva difficile accettarlo. «Il particolare del Seven-Eleven, ad esempio. Abby
e io eravamo insieme, quella sera. E lei sa anche di Mark.»
«Come?» Marino mi guardò con aria incredula.
«Sì, gliel'ho detto io.»
Si limitò a scuotere la testa.
Sorseggiando il caffè, restai a guardare la pioggia che cadeva al di là
della finestra. Da quando ero tornata dall'emporio, Abby aveva cercato di
chiamarmi due volte. Ero rimasta in piedi davanti alla segreteria telefonica,
ascoltandola parlare con voce tesa. Non ero ancora pronta al confronto.
Avevo paura di ciò che avrei potuto dirle.
«Come reagirà Mark?» si informò Marino.
«Fortunatamente nell'articolo non viene fatto il suo nome.»
Mi sentii sommergere da una nuova ondata di angoscia. Come tutti gli
agenti Fbi, e in particolare quelli che avevano passato anni sotto falso nome, Mark proteggeva la sua vita privata fino all'estremo. Temevo che l'allusione del giornale alla nostra relazione lo avrebbe scosso profondamente.
Dovevo chiamarlo. O no. Non sapevo cosa fare.
«Sospetto anche che parte delle informazioni siano arrivate da Morrell»
proseguii, pensando ad alta voce.
Marino taceva.
«E anche Vessey deve avere parlato. O almeno qualcuno dello Smithsonian» aggiunsi. «Senza contare che non ho la più pallida idea di come quel
maledetto Ring abbia scoperto che siamo stati da Hilda Ozimek.»
Marino appoggiò la tazza e si sporse in avanti fissandomi negli occhi.
«Adesso tocca a me darti qualche consiglio.»
Mi sentii come una scolaretta che sta per ricevere un rimprovero.
«È come un camion senza freni che corre giù per una discesa: non riuscirai a fermarlo, capo. L'unica cosa che puoi fare è scansarti.»
«Ti spiacerebbe tradurre?» ribattei con impazienza.
«Limitati a fare il tuo lavoro e mettici una pietra sopra. Se ti interrogano,
e sono certo che prima o poi succederà, di che con questo Clifford Ring
non hai mai parlato e che non sai niente. In altre parole, fai la finta tonta.
Una prova di forza con la stampa ti schiaccerebbe come ha schiacciato Pat
Harvey. E ci faresti la figura dell'idiota.»
Aveva ragione.
«Se ti resta un po' di sale in zucca, evita anche di metterti subito in contatto con Abby.»
Annuii.
Marino si alzò. «Nel frattempo, cercherò di chiarire un paio di cose. Se
scopro qualcosa, ti avviso.»
Fu allora che mi venne in mente. Presi il blocco dalla borsa e ne estrassi
il foglietto con il numero di targa scarabocchiato da Abby.
«Mi chiedevo se non potresti controllare con l'NCIC. Una Lincoln Mark
Seven, colore grigio scuro. Vedi un po' cosa ne esce.»
«Qualcuno che ti seguiva?» Si infilò il foglietto in tasca.
«Non so. Il guidatore si è fermato a chiedere un'informazione, ma non
credo si fosse veramente perso.»
«Dove?» chiese Marino, mentre lo riaccompagnavo alla porta.
«Williamsburg. Se ne stava seduto in macchina in un parcheggio vuoto.
Verso le dieci e mezza-undici, ieri sera, in Merchant's Square. Stavo salendo in auto quando all'improvviso ho visto accendersi i fari: ha accostato e
mi ha domandato come si faceva a tornare sulla Sessantaquattro.»
«Hmm» borbottò Marino, «probabilmente un agente in borghese un po'
cretino che aspettava solo di vedere qualcuno passare col rosso o fare un'inversione a U in zona vietata. Magari sperava di farti delle avances. Una
bella signora tutta sola, di sera, che sale su una Mercedes...»
Non gli dissi che con me c'era anche Abby. Non avrei sopportato un'altra
ramanzina.
«Strano» commentai invece. «Non mi ero accorta che gli agenti in borghese girassero a bordo di Lincoln nuove.»
«Merda, guarda come piove» rispose lui, correndo verso la macchina.
Fielding, il mio vice, non era mai troppo impegnato o preoccupato per
negare un'occhiata a qualunque superficie potesse riflettere la sua immagine. Il che includeva le vetrate a specchio, gli schermi dei computer e i divisori in vetro antiproiettile che separavano l'atrio dalla zona dei nostri uffici.
«Cominciano a essere un po' troppo lunghi sulle orecchie» dissi.
«E i tuoi cominciano a ingrigire.» Sorrise.
«Errore: sono cenere. I capelli biondi diventano color cenere, non grigi.»
«Vero.» Con fare distratto annodò i legacci del camice, i bicipiti che
premevano come due pompelmi sotto le maniche. Fielding non riusciva a
battere ciglio senza mettere in mostra qualcuno dei suoi formidabili muscoli. La prima volta che lo avevo visto chino al microscopio, mi aveva ricordato una versione steroide del Pensatore di Rodin.
«Jackson è stato rilasciato una ventina di minuti fa» disse, alludendo a
uno dei casi della mattinata. «Comunque ne abbiamo già un altro che ci
aspetta per domani. Il tizio finito sotto la tenda a ossigeno dopo la sparatoria del week-end.»
«E cos'hai in programma per il resto del pomeriggio?» chiesi. «Anzi, ora
che ci penso, non dovevi essere in tribunale a Petersburg?»
«L'imputato si è dichiarato colpevole.» Lanciò un'occhiata all'orologio.
«Circa un'ora fa.»
«Probabilmente aveva sentito dire che saresti comparso sul banco dei testimoni.»
«La mia cella, quella che lo Stato si diverte a chiamare il mio "ufficio",
straripa di micro: ecco cosa farò oggi pomeriggio. O perlomeno cosa avevo intenzione di fare.» Mi guardò con aria interrogativa.
«Vedi, ho un problema che speravo mi aiutassi a risolvere. Devo rintracciare una ricetta medica che potrebbe essere stata usata a Richmond circa
otto anni fa.»
«In che farmacia?»
«Lo sapessi» risposi, mentre salivamo sull'ascensore diretti al secondo
piano, «non sarebbe un problema. Il punto è che dovremmo riuscire a organizzare una specie di maratona telefonica: il maggior numero possibile
di persone che chiami le farmacie di Richmond.»
Fielding strizzò gli occhi. «Cristo, Kay, ce ne saranno almeno cento.»
«Centotrentatré, per l'esattezza. Le ho già contate io. Se ci mettiamo in
sei, ognuno si occuperà di ventidue o ventitré farmacie al massimo. Mi pare fattibile, no? Allora, sei disposto ad aiutarmi?»
«Ma certo.» Aveva l'aria depressa.
Oltre a Fielding recuperai l'amministratore, Rose, un'altra segretaria e
l'analista informatica. Ci radunammo nella sala riunioni con una lista di
farmacie a testa. Le mie istruzioni furono semplici e chiare: innanzitutto,
discrezione. Non una parola a parenti, amici o poliziotti. Dato che la ricetta
doveva risalire ad almeno otto anni prima e che Jill nel frattempo era deceduta, poteva darsi che la registrazione non si trovasse più in file ancora
attivi. Dissi ai miei collaboratori di chiedere ai farmacisti di controllare anche nei vecchi archivi. Se qualcuno si fosse dimostrato riluttante o reticente, avrebbero dovuto segnalarmi il suo nominativo.
Dopodiché sparimmo ognuno nel proprio ufficio. Due ore più tardi, Rose si ripresentò alla mia scrivania massaggiandosi lentamente l'orecchio
destro.
Mi porse un foglio senza riuscire a mascherare un sorriso di trionfo. «Il
Boulevard Drug Store sulla Boulevard and Broad. Jill Harrington si fece
fare due ricette per il Librax.» Mi diede le date.
«Come si chiamava il medico?»
«È la dottoressa Anna Zenner.»
Buon Dio!
Cercando di nascondere la mia sorpresa, mi congratulai con lei. «Sei
magnifica, Rose. Per oggi hai finito: giornata libera.»
«Be', io me ne vado comunque alle quattro e mezzo, quindi sarei già in
ritardo.»
«Allora domani prenditi tre ore per la pausa del pranzo.» Avrei voluto
abbracciarla. «E di agli altri che la missione è compiuta. Possono smettere
di telefonare.»
«La dottoressa Zenner non è stata presidentessa dell'Accademia di medicina, fino a non molto tempo fa?» chiese Rose, fermandosi con aria pensierosa sulla porta. «Mi pare di aver letto qualcosa su di lei. Ah, ma è la musicista!»
«Sì, è stata presidentessa due anni fa, e suona il violino nella Richmond
Symphony.»
«Allora la conosci!» La mia segretaria pareva colpita.
"Eccome, se la conosco" pensai, allungando la mano verso il ricevitore.
Quella sera, a casa, ricevetti la sua telefonata di risposta.
«Vedo dai giornali che ultimamente sei stata molto impegnata, Kay»
disse. «Allora, ce la fai?»
Mi domandai se aveva letto anche il "Post". L'edizione di quel mattino
proponeva un'intervista a Hilda Ozimek e una sua fotografia accompagnata
dalla seguente didascalia: «La sensitiva sapeva che erano tutti morti». Venivano inoltre riportate citazioni di amici e parenti delle vittime massacrate, e metà di una pagina era occupata da un diagramma a colori in cui spiccavano i luoghi di ritrovamento delle auto e dei cadaveri. Al centro, minaccioso come il teschio con le ossa dei pirati, Camp Peary.
«Oh, me la cavo» risposi. «Ma me la caverei ancora meglio se potessi
offrirmi la tua assistenza per risolvere un problema.» Le spiegai di cosa si
trattava, aggiungendo: «Domani ti invierò per fax una copia dell'estratto
del Codice che mi autorizza a consultare la cartella medica di Jill Harrington».
Non era che un pro forma, naturalmente, eppure mi sentii a disagio nel
ricordarle l'autorità di cui ero investita.
«Potrai portarmelo di persona. Ti va bene mercoledì sera alle sette, per
cena?»
«Be', non è necessario che ti dia tanto disturbo.»
«Nessun disturbo, Kay» mi interruppe calorosamente. «Mi mancavano i
nostri incontri.»
13
I colori art déco del quartiere residenziale mi ricordavano Miami Beach.
Gli edifici erano dipinti di rosa, giallo e turchese pastello, con battiporta di
bronzo lucidato e bandiere che sventolavano sopra le porte d'ingresso, uno
spettacolo reso più stridente dal tempo: la pioggia si era infatti tramutata in
neve.
C'era un orribile traffico da ora di punta, e prima di trovare un parcheggio vicino al mio negozio di vini preferito dovetti fare due volte il giro dell'isolato. Scelsi quattro bottiglie di buona qualità, due di bianco e due di
rosso.
Percorsi Monument Avenue, dove statue di generali confederati a cavallo torreggiavano al centro di grandi rotonde, spettrali nel turbinio lattiginoso della neve. L'estate precedente avevo coperto quel tragitto una volta la
settimana, andando da Anna, ma nel corso dell'autunno le sedute si erano
diradate, per cessare definitivamente con l'arrivo dell'inverno.
Lo studio si trovava all'interno della sua abitazione, una deliziosa vecchia casa che dava su una via di nero acciottolato dove, al tramonto, si accendevano antiche lanterne a gas. Dopo avere suonato per annunciare il
mio arrivo come un paziente qualsiasi, entrai in un ingresso che conduceva
nella sala d'aspetto. Intorno al tavolino sommerso di riviste erano disposte
delle poltrone in pelle e sul pavimento di legno era steso un prezioso tappeto orientale. In un angolo c'era uno scatolone di giocattoli per i pazienti
più piccoli, ma non mancavano la scrivania della segretaria, una macchina
per il caffè e il caminetto. In fondo a un lungo corridoio era situata la cucina, dove il rumore di qualcosa che bolliva mi fece improvvisamente ricordare che quel giorno avevo saltato il pranzo.
«Kay? Sei tu?»
L'inconfondibile voce dall'accento tedesco mi giunse accompagnata dal
ticchettio dei suoi passi, e poco dopo Anna comparve asciugandosi le mani
nel grembiule. Mi abbracciò.
«Hai chiuso a chiave la porta, dopo essere entrata?»
«Sì, ma non dimenticare mai di farlo quando esce l'ultimo paziente.»
Glielo dicevo sempre, ogni volta che ci vedevamo.
«Il mio ultimo paziente oggi sei tu.»
La seguii in cucina. «Quindi anche gli altri ti portano regolarmente del
vino?»
«Ah, no, non lo permetterei. E di solito non mi metto neanche a cucinare
per loro. Ma questa volta farò un'eccezione.»
«Potrò mai ricambiarti?»
«Non con i tuoi servizi professionali, spero.» Appoggiò la borsa dei vini
sul ripiano della credenza.
«Giuro che sarei molto delicata.»
«Ma io mi sentirei molto nuda e molto morta, e non saprei che farmene
della tua delicatezza. Speri di ubriacarmi o c'era una vendita promozionale?»
«No, mi ero solo dimenticata di chiedere cosa avresti preparato» spiegai.
«Non sapevo se era meglio un rosso o un bianco, e per andare sul sicuro ne
ho preso di entrambi.»
«Bene, allora ricordami sempre di non dirti in anticipo cosa cucinerò.
Santo cielo, Kay!» Estrasse le bottiglie. «Che meraviglia! Vuoi che le apriamo subito o preferisci cominciare con qualcosa di più forte?»
«Qualcosa di più forte, grazie.»
«Il solito?»
«Sì.» Lanciando un'occhiata alla casseruola sul fornello, aggiunsi: «Spero sia quel che credo». Anna faceva un chili squisito.
«Dovrebbe scaldarci un po'. Ho usato i peperoni verdi e i pomodori che
mi hai portato dal tuo ultimo viaggio a Miami. Li ho custoditi gelosamente. Come sta la tua famiglia?»
«Lucy ha improvvisamente sviluppato un certo interesse per i ragazzi e
per le automobili, ma aspetto a preoccuparmi fino al giorno in cui prenderanno il sopravvento sul suo computer» risposi. «Fra un mese uscirà il secondo libro per bambini di mia sorella. Peccato non abbia ancora capito
come fare a tirar su sua figlia. In quanto a mia madre, a parte le solite lamentele su come è cambiata Miami e sul fatto che nessuno parla più l'inglese, sta benone.»
«Sei andata a trovarle a Natale?»
«No.»
«E tua madre te l'ha perdonato?»
«Non ancora.»
«Be', non posso dire che non la capisco. A Natale ogni famiglia dovrebbe stare insieme.»
Non risposi.
«Comunque mi sembra un fatto positivo» riprese poi, con mia grande
sorpresa. «Non ti sentivi di andare a Miami e non ci sei andata. Se non
sbaglio, ti ho ripetuto molte volte che le donne devono imparare a essere
un pochino più egoiste. È questo che sta succedendo, Kay?»
«Veramente credo che l'egoismo non sia mai stato un problema, per
me.»
«Diciamo che ti considererò guarita il giorno in cui smetterai di sentirti
in colpa per questa tua tendenza.»
«Se lo vuoi proprio sapere, il senso di colpa continuo ad averlo. Quindi
non sono ancora guarita, hai ragione.»
«Eh, si vede subito.»
Rimasi a guardarla mentre stappava una bottiglia e la metteva a riposare
in un angolo, le maniche della camicetta arrotolate fino al gomito, gli avambracci sodi e forti come quelli di una ragazzina. Non sapevo che aspetto avesse avuto da giovane, ma ancora oggi, a quasi settant'anni, Anna non
smetteva di attirare l'attenzione con i suoi lineamenti nordici, i capelli corti
e bianchi e gli occhi azzurri. Aprì un armadietto e ne estrasse alcune bottiglie: un attimo dopo mi porse uno scotch and soda e sollevò il suo bicchiere di Manhattan.
«Cos'è accaduto dall'ultima volta che ci siamo viste, Kay?» Portammo i
drink al tavolo. «Quand'è stato? Prima del Giorno del Ringraziamento?
Be', poi ci siamo sentite per telefono, naturalmente. E le tue preoccupazio-
ni riguardo a quel libro?»
«Già, avevamo parlato del libro di Abby. Non credo di saperne di più,
comunque. Ho lavorato al caso delle coppie. E poi c'è stata la storia di Pat
Harvey.» Tirai fuori le sigarette.
«Certo, ho seguito la vicenda sui giornali. Però ti trovo bene, sai? Forse
un po' stanca. O sei un po' troppo dimagrita?»
«Troppo magri non si diventa mai» risposi.
«Voglio semplicemente dire che in altre occasioni ti ho visto peggio.
Forse riesci a gestire bene lo stress del lavoro.»
«Be', certi giorni sì e certi no.»
Anna sorseggiò il Manhattan e fissò i fornelli con aria pensierosa. «E
Mark?»
«L'ho rivisto. E ci siamo sentiti per telefono. È ancora confuso, insicuro.
Come del resto credo di essere io. Niente di nuovo, insomma.»
«Non è vero: vi siete visti. Questa mi pare una novità.»
«Lo amo ancora.»
«Questa invece non lo è.»
«Oh, è così difficile, Anna. Lo è sempre stato. Non so per quale ragione
non riesco a staccarmene.»
«Perché i sentimenti che provate sono forti, ma avete entrambi paura di
impegnarvi seriamente. Volete vivere la passione, ognuno a modo proprio.
Ho visto che anche nei giornali si alludeva a lui.»
«Lo so.»
«E?»
«Non gliel'ho ancora detto.»
«Non credo ne abbia bisogno. Se non li ha letti, qualcuno del Bureau avrà certamente provveduto a chiamarlo. E se fosse arrabbiato ti telefonerebbe, non pensi?»
«Hai ragione» dissi, profondamente sollevata. «Si farebbe senz'altro vivo.»
«In fondo, siete in contatto. Contenta?»
Lo ero.
«Fiduciosa?»
«Desidero solo vedere cosa succederà» replicai. «Ma non sono sicura
che funzioni.»
«Se è per quello, non si può mai essere sicuri di niente.»
«Triste verità» commentai. «Non riesco a essere sicura di niente. So solo
quel che provo.»
«Evidentemente la sai più lunga degli altri.»
«Chiunque siano questi "altri", ammesso che veramente la sappia più
lunga di loro, si tratta di un'altra triste verità» ammisi.
Anna si alzò e tirò fuori il pane dal forno. La osservai riempire due ciotole di coccio con i peperoni e versare il vino. Solo in quel momento mi ricordai della fotocopia che le avevo portato, e la estrassi dall'agenda posandola sul tavolo.
Anna non la degnò nemmeno di un'occhiata.
«Vorresti vedere la sua scheda?» chiese invece.
La conoscevo abbastanza per sapere che non prendeva mai appunti durante le sedute: quelli come me hanno diritto d'accesso alla documentazione medica dei cittadini, e schede del genere possono anche finire in tribunale. La gente del mestiere, come Anna, è troppo smaliziata per mettere
nero su bianco le confidenze dei propri pazienti.
«Preferirei che me la riassumessi a voce» proposi.
«La mia diagnosi fu: disturbi di adattamento» disse.
Era come se io avessi dichiarato che Jill era morta per arresto respiratorio o cardiaco: che ti sparino a bruciapelo o che ti investa un treno, la morte coincide sempre con l'arresto della respirazione e dell'attività cardiaca.
La diagnosi di "disturbo di adattamento" era solo un facile rifugio, che permetteva - per esempio - a qualunque paziente di firmare un'assicurazione
sulla vita senza entrare nei dettagli della sua anamnesi.
«L'intera razza umana soffre di disturbi di adattamento, Anna» risposi.
Lei sorrise.
«Rispetto la tua etica professionale» proseguii. «E non ho intenzione di
ritoccare alcun rapporto aggiungendo informazioni che tu reputi confidenziali. Ma mi preme sapere qualunque cosa su quella ragazza. Non so, particolari sul suo stile di vita, per capire se c'era qualcosa che poteva esporla a
dei rischi.»
«Anch'io rispetto la tua etica professionale.»
«Ti ringrazio. Ma perché non mettiamo da parte i convenevoli e iniziamo una conversazione vera e propria?»
«Volentieri, Kay» disse Anna. «Ricordo molto bene Jill. Be', ricordare
certi pazienti non è difficile, soprattutto se vengono assassinati.»
«In che senso era speciale?»
«Speciale?» ripeté sorridendo con aria triste. «Era una ragazza molto intelligente e affettuosa. Aspettavo con gioia i nostri appuntamenti. Se non
fosse stata una paziente, mi sarebbe piaciuto averla come amica.»
«Per quanto tempo è venuta da te?»
«Veniva tre o quattro volte al mese, ci siamo viste per più di un anno.»
«Perché aveva scelto proprio te, Anna? Perché non qualcuno di Williamsburg, più vicino a casa?»
«Ho diversi pazienti che vengono da fuori città. Certi arrivano persino
da Philadelphia.»
«Insomma, non vogliono far sapere che si sono rivolti a un'analista.»
Annuì. «Sfortunatamente, molte persone sono terrorizzate all'idea che altri possano scoprirlo. Non puoi nemmeno immaginare quanti vogliono uscire dalla porta di servizio.»
Nemmeno io avevo mai raccontato a nessuno che andavo dall'analista, e
se Anna non avesse categoricamente rifiutato di essere pagata, avrei saldato le sue parcelle in contanti. Mancava solo che qualcuno dell'Ufficio Personale mettesse le mani sulle mie richieste di rimborso assicurativo e andasse a raccontarlo per tutto il Dipartimento.
«Dunque nemmeno Jill voleva che si venisse a sapere delle vostre sedute» conclusi. «E questo spiegherebbe anche perché comprò il Librax a Richmond.»
«A dire il vero, non lo sapevo prima che mi telefonassi. Ma la cosa non
mi sorprende.» Prese il bicchiere di vino.
Nonostante fosse così piccante da farmi venire le lacrime agli occhi, il
chili era davvero squisito. Lo dissi ad Anna. Poi le spiegai ciò che, probabilmente, aveva già cominciato a sospettare da sola.
«È possibile che Jill e la sua amica, Elizabeth Mott, siano state uccise
dall'assassino delle coppie» dissi. «O almeno, ci sono delle analogie su cui
riflettere.»
«Francamente, non mi interessa ciò che sai in proposito, Kay, a meno
che tu non ritenga necessario dirmelo. Preferisco che tu mi ponga delle
domande. Io farò del mio meglio per ricordare tutto quel che so di Jill.»
«D'accordo. Perché era tanto spaventata all'idea che qualcuno sapesse
dei vostri incontri? Cosa nascondeva?»
«Jill proveniva da una nota famiglia del Kentucky. L'approvazione e
l'accettazione da parte dei genitori erano di vitale importanza per lei. Aveva frequentato le scuole giuste, il suo curriculum era eccellente e sarebbe
diventata un avvocato di successo. La famiglia era molto orgogliosa di lei.
Loro non sapevano.»
«Non sapevano cosa? Che si era rivolta a un'analista?»
«No, non lo sapevano» confermò Anna. «Ma soprattutto non sapevano
che aveva una relazione omosessuale.»
«Elizabeth?» In realtà lo avevo intuito già prima di chiedere.
«Sì. Si erano conosciute quando Jill frequentava il primo anno di legge.
Poi si misero insieme. Era una relazione molto intensa, molto difficile,
piena di conflitti. Entrambe erano alla prima esperienza di quel genere, o
almeno così mi raccontò Jill. Tieni presente che non ho mai incontrato Elizabeth, quindi non so cosa ne pensasse lei. Quando Jill si rivolse a me, lo
fece perché desiderava cambiare. Rifiutava la propria omosessualità e sperava che la terapia potesse salvare la sua parte eterosessuale.»
«E secondo te c'erano speranze?» chiesi.
«Non posso dire cosa sarebbe successo ora della fine» rispose Anna. «Di
sicuro, stando a quanto Jill mi riferiva nel corso delle sedute, il legame con
Elizabeth era molto forte. Ricordo di avere provato la sensazione che quest'ultima fosse decisamente più serena. Jill non riusciva ad accettare la relazione sul piano intellettuale, ma emotivamente non riusciva a disfarsene.»
«Un bel dramma.»
«Le ultime volte in cui la vidi, il problema si era fatto più acuto. Jill aveva appena terminato la facoltà di legge. Aveva il futuro davanti, era venuto il momento di prendere delle decisioni. Cominciò ad avere problemi
psicosomatici. Colite spastica. Fu allora che le prescrissi il Librax.»
«E non ti ha mai raccontato nulla, non ti ha mai dato uno spunto anche
vago in base al quale capire chi potrebbe aver fatto loro una cosa simile?»
«Quando il fatto successe, cominciai a ripensarci, tornai a studiare il suo
caso. Il giorno in cui lessi i giornali, non riuscivo a crederci. L'avevo vista
appena tre giorni prima. Inutile dirti che sforzo feci per ricordare ogni sua
parola. Speravo di riuscire a farmi venire in mente qualcosa, qualche dettaglio in grado di aiutarmi. Ma non fu così.»
«Entrambe tenevano segreta la loro relazione?»
«Sì.»
«E non c'erano fidanzati, ragazzi con cui Jill ed Elizabeth uscissero di
tanto in tanto, come copertura?»
«Stando a quanto diceva lei, no. Nessuna gelosia, quindi, a meno che me
lo avesse tenuto nascosto.» Lanciò un'occhiata al mio piatto ormai vuoto.
«Ne vuoi ancora un po'?»
«Sono sazia, grazie.»
Si alzò e caricò la lavastoviglie. Per un attimo restammo in silenzio. Anna si slacciò il grembiule e lo appese a un gancio nell'armadietto delle sco-
pe. Quindi prendemmo bottiglia e bicchieri e ci ritirammo nello studio.
Era la mia stanza preferita. Due intere pareti erano occupate da librerie e
dietro la scrivania piena di carte si apriva un bovindo, da cui Anna poteva
tenere d'occhio i germogli nel piccolo giardino sul retro. Da quella finestra
avevo ammirato il candido tripudio delle magnolie in fiore e le ultime esplosioni di colore dell'autunno. Avevamo parlato della mia famiglia, del
mio divorzio, di Marie. Avevamo discusso della sofferenza e della morte.
Dalla consunta poltrona di pelle in cui sedevo, avevo timidamente guidato
Anna lungo le strade della mia vita, proprio come doveva avere fatto Jill
Harrington.
Erano state amanti. Questo le collegava alle altre coppie assassinate,
rendendo la "teoria Mr. Goodbar" ancora più improbabile. Lo dissi ad Anna.
«Sono d'accordo con te» rispose.
«L'ultima volta furono viste all'Anchor Bar and Grill. Jill ti aveva mai
parlato di questo locale?»
«No; perlomeno, non ne ha mai fatto il nome. Ma mi aveva raccontato di
un bar dove andavano ogni tanto, un posto dove parlare. A volte sceglievano ristoranti fuori mano dove nessuno le conosceva, altre facevano lunghi giri in macchina. In genere accadeva nei periodi di maggiore difficoltà,
quando affrontavano lunghe discussioni sul loro rapporto.»
«Se quel venerdì sera all'Anchor stavano dunque discutendo, probabilmente saranno state anche un po' in crisi, magari una di loro temeva il rifiuto da parte dell'altra, era arrabbiata» dissi. «È possibile che, in una situazione di stress emotivo, Jill o Elizabeth abbia rimorchiato un uomo per
fare ingelosire l'altra?»
«Be', non potrei escluderlo. Ma mi sorprenderebbe non poco. Non ho
mai avuto la sensazione che prendessero la cosa alla leggera. Sarei più portata a sospettare che quella sera, mentre parlavano, la conversazione le avesse a tal punto assorbite da fargli dimenticare la gente intorno.»
«E quindi, se qualcuno le stava osservando, sarebbe stato in grado di cogliere qualche frammento del discorso.»
«È un rischio che si corre sempre, quando si discute di cose private in un
luogo pubblico. Ricordo che ne avevamo anche parlato in una seduta.»
«Ma se era così ossessionata dal timore che qualcuno potesse scoprire la
loro relazione, perché mai si esponeva a un simile rischio?»
«Non era una ragazza particolarmente forte, Kay» disse Anna, riprendendo il bicchiere. «Quando lei ed Elizabeth erano sole, era fin troppo fa-
cile scivolare nel conforto dell'intimità. Si abbracciavano, si consolavano,
lei piangeva un po' e alla fine non arrivavano ad alcuna decisione.»
Una situazione tristemente nota. Quando Mark e io discutevamo a casa
mia o a casa sua, prima o poi finivamo per ritrovarci a letto. Dopodiché
l'altro se ne andava, e i problemi restavano irrisolti.
«Non hai mai pensato che proprio la loro relazione potesse avere un legame con l'omicidio?» domandai.
«No. Casomai il contrario. Credo che una donna sola in un bar che aspetta di essere rimorchiata da qualcuno corre pericoli superiori a quelli di
due donne che non hanno nessun interesse ad attirare l'attenzione su di sé.»
«Torniamo per un attimo alle loro abitudini.»
«Vivevano nello stesso condominio, ma non nello stesso appartamento.
Anche questo, per salvare le apparenze. Ma pure per comodità. Potevano
condurre vite separate e incontrarsi la sera da Jill. Lei preferiva stare a casa
sua. Una volta mi disse che se i suoi genitori o degli amici avessero cercato di telefonarle la sera tardi senza trovarla, le avrebbero fatto un interrogatorio.» Fece una pausa, assorta nei suoi pensieri. «Jill ed Elizabeth praticavano regolarmente dello sport, si tenevano molto in forma. Credo corressero, ma non sempre e necessariamente insieme.»
«Dove?»
«Mi pare ci fosse un parco vicino a dove abitavano.»
«Nient'altro? Nessun teatro, negozio o centro commerciale che potessero
frequentare insieme?»
«Non mi viene in mente nulla.»
«Cosa ti suggerisce il tuo intuito? O meglio, cosa ti suggerì all'epoca
della disgrazia?»
«Pensai che Jill ed Elizabeth dovevano avere senz'altro avuto una discussione difficile al bar. Probabilmente desideravano restare sole, non avrebbero accettato l'intrusione di terze persone.»
«E poi?»
«Poi, a un certo punto, hanno incontrato il killer.»
«Riesci a immaginare come?»
«Sono sempre stata del parere che si trattasse di qualcuno che conoscevano, o con cui erano abbastanza in confidenza. A meno che non siano state minacciate con una pistola da una o più persone, magari nel parcheggio
del bar o dovunque fossero finite a quel punto.»
«Cosa ne dici di uno sconosciuto che le accosta nel parcheggio del locale, chiedendo un passaggio da qualche parte con la scusa di avere la mac-
china in...»
Anna stava già scuotendo la testa. «No, non combacia affatto con l'immagine che ho di loro. Ma, ripeto, potrebbe essersi trattato di qualcuno che
conoscevano.»
«E se l'assassino si fosse presentato nelle vesti di un agènte per un normale controllo dei documenti?»
«Questo è un altro paio di maniche. Immagino che in un caso simile anche tu e io saremmo del tutto vulnerabili.»
Anna aveva l'aria stanca. Mi congedai ringraziandola per la cena e il
tempo che mi aveva dedicato. Sapevo che quella conversazione era stata
penosa per lei, e mi domandai cosa avrei provato io al suo posto.
Pochi minuti dopo essere rincasata, il telefono si mise a squillare.
«Mi è venuta in mente un'altra cosa, anche se forse non è di alcuna utilità» disse Anna. «Jill mi aveva detto che, quando avevano voglia di starsene un po' in casa, per esempio la domenica mattina, spesso facevano insieme le parole crociate. Un particolare probabilmente insignificante. Però
era un'abitudine, un pezzo della loro vita in comune.»
«Nel senso che compravano delle riviste di enigmistica? O facevano
quelle sui quotidiani?»
«Non so. Ma Jill leggeva molti giornali. Anche quando veniva qui e doveva aspettare, aveva sempre qualcosa da leggere. Il "Wall Street Journal"
o il "Washington Post".»
La ringraziai di nuovo e dissi che la prossima volta sarebbe toccato a me
cucinare. Poi chiamai Marino.
«Due donne furono uccise a James City otto anni fa» dissi, andando diritta al sodo. «È possibile che ci sia un legame con gli altri casi. Conosci
l'investigatore Montana?»
«Sì, l'ho incontrato qualche volta.»
«Dobbiamo metterci in contatto con lui, riaprire i casi. Pensi che sappia
tenere la bocca chiusa?»
«Che diavolo ne so?» borbottò Marino.
Il nome Montana gli calzava a pennello: era un uomo imponente, di corporatura grossa, con gli occhi azzurri incassati in un volto rugoso e onesto,
sormontato da folti capelli grigi. Aveva l'accento di un vero nativo della
Virginia e i suoi discorsi erano generosamente conditi d'interiezioni tipiche
di quella zona. Il pomeriggio seguente Marino, Montana e io ci incontrammo a casa mia, dove avremmo goduto di maggior privacy e nessuno
avrebbe potuto interromperci.
Montana doveva aver saccheggiato l'archivio fotografico relativo a Jill
ed Elizabeth: il tavolo di cucina era letteralmente ricoperto da foto dei loro
corpi e da immagini della Volkswagen abbandonata al motel, dell'Anchor
Bar and Grill e - particolare degno di nota - di ogni stanza degli appartamenti occupati dalle due ragazze; comprese alcune istantanee delle dispense e degli armadi. Si era inoltre presentato con una valigetta piena di appunti, cartine geografiche, trascrizioni di interrogatori, diagrammi, inventali delle prove e registri delle telefonate. C'è una cosa da dire sugli investigatori che si imbattono raramente in casi di omicidio: quando si trovano ad
affrontarne uno, ci lavorano con una meticolosità da manuale.
«Il cimitero è adiacente alla chiesa.» Spinse una fotografia verso di me.
«Ha un'aria piuttosto vecchia» dissi, ammirando le pietre e le lapidi consumate dal tempo.
«Lo è e non lo è. La costruirono nel millesettecento, e non fu toccata fino a una ventina d'anni fa. Poi, a causa di un corto circuito, fu distrutta da
un incendio. Ricordo ancora che io stesso vidi il fumo, quel giorno ero di
pattuglia, e pensai che avesse preso fuoco una delle fattorie della zona. Poi
intervenne la soprintendenza, e dicono sia stata rifatta, dentro e fuori, esattamente com'era una volta. Ci si arriva seguendo questa strada secondaria»
indicò con un dito un'altra fotografia, «che si trova a meno di tre chilometri
dalla Route 60 e a circa cinque dall'Anchor Bar, dove le ragazze furono viste vive per l'ultima volta.»
«Chi fu a scoprire i cadaveri?» chiese Marino, mentre i suoi occhi si
spostavano da un'immagine all'altra.
«Un custode della chiesa. Arrivò il sabato mattina per le pulizie, doveva
mettere a posto per la messa della domenica. Disse che si era appena fermato quando vide ciò che, sulle prime, gli sembrarono due persone addormentate nell'erba, a un paio di metri dal cancello del cimitero, dalla parte interna. I corpi si vedevano dal parcheggio. Evidentemente l'assassino
non era impensierito dalla possibilità di un ritrovamento in tempi così brevi.»
«Dunque, quel venerdì sera in chiesa non si stavano svolgendo funzioni
di alcun genere?» intervenni.
«No. Era chiusa, la porta sbarrata, non c'era nessuno.»
«Ma di norma, sono previste funzioni il venerdì?»
«Be', occasionalmente sì. A volte il gruppo giovanile organizza dei raduni. A volte c'è il coro per le prove. Il fatto è che scegliere il cimitero per
un omicidio non ha senso in assoluto. È impossibile sapere con certezza se
un certo giorno la chiesa sarà deserta, soprattutto nei week-end. È uno dei
motivi per cui, fin dall'inizio, ho pensato che si trattasse di omicidio preterintenzionale. Le ragazze dovevano avere incontrato l'assassino da qualche parte, forse nel bar. Comunque nulla mi fa supporre che si sia trattato
di una cosa programmata.»
«Ma il killer era armato» gli rammentai. «Aveva pistola e coltello.»
«Il mondo è pieno di gente che gira con una pistola o un coltello in macchina, magari addirittura in tasca» rispose Montana con l'aria di chi la sa
lunga.
Radunai le fotografie dei corpi in situ e comincia a esaminarle con attenzione.
Le ragazze si trovavano a meno di un metro l'una dall'altra e giacevano
nell'erba fra due lapidi di granito inclinate. Elizabeth era bocconi, le gambe
leggermente divaricate, il braccio sinistro ripiegato sotto la pancia, quello
destro disteso lungo il fianco. Snella, capelli castani e corti, indossava un
paio di jeans e un maglione bianco incrostato di sangue intorno al collo. In
un'altra foto, il suo corpo era stato girato e la parte anteriore del maglione
risultava completamente intrisa di sangue, gli occhi vitrei e inespressivi
come quelli di tutti i cadaveri. Come ricordavo di avere letto sul referto
dell'autopsia, il taglio alla gola era relativamente superficiale e la ferita
d'arma da fuoco sul collo in un punto non necessariamente letale. Fatale
era invece stata la coltellata al torace.
Le ferite di Jill avevano provocato molte più mutilazioni. Era sdraiata
sulla schiena, il viso talmente striato di sangue rappreso che mi era impossibile immaginare il suo aspetto da viva: sapevo solo che aveva capelli corti e neri, e un naso diritto decisamente bello. Era snella, come la sua compagna. Indossava dei jeans e una camicetta gialla, tutta insanguinata, sfilata
dai pantaloni e strappata fino alla vita: attraverso lo squarcio si intuivano
ferite multiple di arma da taglio. Anche gli avambracci e le mani erano sfigurati da tagli profondi. Quello al collo era invece superficiale, probabilmente le era stato inflitto dopo la morte o in stato di agonia.
Quelle foto erano estremamente preziose per una ragione: mi rivelavano
una cosa che non ero riuscita a determinare esaminando i ritagli di giornale
o i rapporti che avevo trovato in ufficio.
Guardai Marino e i nostri occhi si incontrarono.
Poi mi rivolsi a Montana: «Che fine hanno fatto le loro scarpe?».
14
«Sa, è interessante che me lo chieda» rispose. «Non sono mai riuscito a
spiegarmi per quale motivo le ragazze se le fossero tolte, a meno che non
si trovassero nel motel e, al momento di uscire, si stessero ancora vestendo. Magari non fecero in tempo a mettersele, chissà. Trovammo sia le
scarpe che le calze all'interno della Volkswagen.»
«Faceva caldo, quella sera?» chiese Marino.
«Sì. Ma mi sarei comunque aspettato che mettessero anche le scarpe nel
vestirsi.»
«Non siamo sicuri al cento per cento che siano mai state in quel motel»
gli ricordai.
«Anche questo è vero» ammise Montana.
Mi domandai se avesse mai letto gli articoli del "Post" in cui si accennava al fatto che le vittime erano state sempre ritrovate scalze. Se li aveva
letti, evidentemente non era ancora arrivato a fare il collegamento.
«All'epoca del doppio delitto, ebbe contatti con la reporter Abby Turnbull?» ripresi.
«Uh, diciamo pure che mi seguiva dappertutto, come un cane al guinzaglio. Ovunque andassi, me la ritrovavo fra i piedi.»
«E ricorda di averle mai accennato al fatto che Jill ed Elizabeth erano
scalze? Le mostrò mai le fotografie scattate sulla scena?» Abby era troppo
smaliziata per essersi dimenticata un dettaglio del genere, soprattutto vista
l'importanza che aveva assunto nell'ambito delle indagini più recenti.
«Le parlai» disse Montana «ma, no, non le mostrai mai queste foto. Anzi, stavo molto attento a quel che le dicevo. Immagino abbia letto anche lei
ciò che scrissero i giornali.»
«Ho visto alcuni artìcoli.»
«Be', in nessuno si diceva com'erano vestite le ragazze, o che la camicetta di Jill era stata strappata e che a entrambe mancavano calze e scarpe.»
Quindi Abby non sapeva, pensai sollevata.
«Dalle foto scattate in sede d'autopsia ho notato che tutt'e due avevano i
polsi segnati» insistei. «Ritrovaste corde o altri oggetti che potevano essere
stati usati per immobilizzarle?»
«No, signora.»
«Dunque l'assassino doveva averle slegate dopo l'omicidio.»
«Di sicuro era uno che ci stava attento. Non rinvenimmo né bossoli, né
armi, né lacci. E nemmeno liquido seminale. In poche parole, non le aveva
violentate, o se lo aveva fatto non c'era modo di scoprirlo. E poi, erano entrambe vestite. Per quanto riguarda la camicetta strappata», allungò una
mano per prendere la foto di Jill, «potrebbe essere successo mentre lottavano.»
«Sulla scena avete per caso ritrovato dei bottoni?»
«Parecchi. Nell'erba vicino al cadavere.»
«E mozziconi di sigaretta?»
Montana prese a sfogliare con calma la sua documentazione. «No, nessuno.» Fece una pausa, estraendo un foglio. «Però trovammo un'altra cosa:
un accendino. Un bell'accendino d'argento.»
«Dove?» chiese Marino.
«A circa quattro metri dal punto in cui giacevano i cadaveri. Come vedete, il cimitero è circondato da una cancellata di ferro. Si entra da qui, attraverso questa porta.» Ci stava mostrando un'altra fotografia. «L'accendino
era nell'erba, più o meno a un metro e mezzo dall'ingresso. Uno di quei
modelli piuttosto costosi, sottilissimi, a forma di penna stilografica. Come
quelli che usano i fumatori di pipa.»
«E funzionava?» chiese ancora Marino.
«Sì sì, alla perfezione. Era ancora lucido, veramente bello» ripeté Montana, immerso nei ricordi. «Sono abbastanza sicuro che non fosse di nessuna delle due ragazze. Prima di tutto non fumavano, e poi nessuna delle
persone con cui parlai ricordava di averle mai viste con un accendino simile. Forse cadde dalla tasca dell'assassino, ma è solo una supposizione. Potrebbe anche essere stato perso da qualcuno che non c'entrava niente, magari un visitatore di passaggio, anche due o tre giorni prima. C'è gente a
cui piace andare visitare i cimiteri.»
«Avete mai fatto un esame delle impronte digitali su quell'accendino?»
«Purtroppo la superficie non si prestava. L'argento era inciso da una fitta
rete di linee, avete presente, proprio come certe penne stilografiche di lusso.» Fissò con aria pensierosa un punto imprecisato della stanza. «Un oggetto che poteva tranquillamente costare un migliaio di dollari.»
«Avete ancora da qualche parte l'accendino e i bottoni ritrovati?» chiesi.
«Certo. Ho conservato tutte le prove nella speranza di riuscire a fare luce
sul mistero, un giorno o l'altro.»
Per quanto forte, la speranza di Montana era senz'altro inferiore alla mia.
Solo quando se ne fu andato, tuttavia, Marino e io ci sentimmo liberi di dare sfogo ai nostri pensieri,
«È lo stesso fottuto bastardo!» esclamò. «Quel maledetto gli fece toglie-
re le scarpe proprio come alle altre coppie. Così, ovunque le stesse portando per ucciderle, non avrebbero potuto mettersi a correre.»
«Di sicuro la meta non era il cimitero» dissi. «Non posso credere che
avesse deliberatamente scelto quel posto.»
«Già. Credo le avesse un po' sottovalutate. Probabilmente si rifiutarono
di collaborare, o successe qualcosa che gli fece saltare i nervi - magari il
fatto stesso che ci fosse tutto quel sangue sul sedile posteriore della Volkswagen. Così le fece scendere prima del previsto, vale a dire in prossimità
di una chiesa scura e deserta con annesso cimitero. Per caso hai a portata di
mano una cartina della Virginia?»
Andai in studio e la presi. Marino la spiegò sul tavolo della cucina e rimase a studiarla per un lungo momento.
«Da' un'occhiata qui» disse poi, concentrandosi. «Il punto in cui si gira
per andare alla chiesa è proprio sulla Route 60, tre chilometri prima di arrivare alla strada che porta nella zona boscosa in cui, cinque o sei anni dopo, vennero uccisi Jim Freeman e Bonnie Smyth. Voglio dire che, quando
siamo andati a trovare il signor Joyce, l'altro giorno, ci siamo passati di
fianco anche noi.»
«Buon Dio» mormorai. «Mi domando se...»
«Sì, me lo domando anch'io» mi interruppe Marino. «Forse il nostro
uomo si trovava là fuori a perlustrare i boschi per scegliere il posto migliore, quando Maledizione gli capita fra i piedi. Allora lui gli spara. Un mese
più tardi, adesca la prima coppia di vittime, Jill ed Elizabeth. Ha intenzione di portarle con la forza in quel bosco, ma la situazione gli sfugge di mano e così il viaggio finisce prima. O forse è confuso, agitato, e ordina alla
ragazza che sta guidando di girare a una svolta sbagliata. Quando si trova
davanti alla chiesa lo prende il panico e si accorge che non sono dove dovrebbero. Magari non ha mai capito dove accidenti erano finiti.»
Cercai di immaginare la scena. Una delle due ragazze era al volante e
l'altra si trovava sul sedile del passeggero, mentre da dietro il killer le teneva sotto la minaccia di una pistola. Cosa poteva essergli accaduto perché
stesse perdendo tanto sangue? Si era ferito accidentalmente? Alquanto improbabile. Si era tagliato con il coltello? Forse, ma anche così ci voleva
una bella fantasia. Dalle fotografie di Montana avevo notato che le tracce
di sangue all'interno della macchina si sviluppavano da poche gocce sul
poggiatesta del passeggero. C'erano delle macchie anche lungo lo schienale, che si allargavano in una vera e propria pozza sul tappetino posteriore.
Dunque l'assassino era seduto da quella parte, non dietro il posto di guida,
e si stava sporgendo in avanti. Aveva perso sangue dalla testa? Dalla faccia?
Dal naso?
Lo dissi a Marino.
«Dev'essere stata una bella emorragia, allora. C'era un mucchio di sangue, capo.» Rimase a riflettere per qualche istante. «Una delle due potrebbe averlo colpito al naso con una gomitata, dal davanti.»
«E come avresti reagito, se le cose fossero andate così? Immagina di essere il killer.»
«Di certo non ci avrebbe riprovato. Probabilmente non le avrei sparato
in macchina, ma come minimo le avrei restituito un pugno, o l'avrei colpita
alla testa con la pistola.»
«Però sul sedile anteriore non c'erano macchie di sangue» gli feci notare.
«Niente lascia supporre che le ragazze vennero in qualche modo ferite dentro la macchina.»
«Hmm.»
«C'è di che essere perplessi, eh?»
«Puoi ben dirlo. Lui è seduto dietro e si sporge in avanti, e all'improvviso, così, tutto d'un colpo, comincia a sanguinare? Molto strano, capo.»
Misi sul fornello un pentolino d'acqua per il caffè, senza smettere di
pensare a ogni genere di ipotesi. Tanto per cominciare, restava il problema
di come un solo individuo potesse aver sottomesso due persone.
«L'auto era di Elizabeth» ricapitolai. «Poniamo che a guidare fosse lei.
Ovviamente non poteva avere le mani legate, giusto?»
«Ma Jill sì. Magari la immobilizzò proprio durante il tragitto, le disse di
sollevare le braccia e gliele legò da dietro.»
«Oppure la fece girare e gliele fece mettere sul poggiatesta» replicai. «E
in quel momento lei potrebbe averlo colpito alla faccia, ammesso che la
nostra teoria sia corretta.»
«È una possibilità.»
«Partiamo comunque dal presupposto che, quando si fermarono, Jill fosse già legata e scalza. La prima cosa che l'assassino fa, è ordinare a Elizabeth di togliersi le scarpe. Poi lega anche lei, e a quel punto costringe tutt'e
due a entrare nel cimitero.»
«Jill aveva un sacco di tagli sulle mani e sugli avambracci» disse Marino. «Ti sembra pensabile che se li sia procurati nel tentativo di difendersi
dal coltello dell'aggressore mentre era già legata?»
«Sì, posto che gli avesse legato le mani sul davanti, e non dietro la
schiena.»
«Però così sarebbe stato più sicuro.»
«Magari all'inizio andava per tentativi» risposi.
«Elizabeth non presentava quel genere di ferite, vero?»
«No.»
«Deve avere ucciso prima lei» fu la conclusione di Marino.
«Ma come? Ricordati che stai tenendo a bada due ostaggi contemporaneamente.»
«Al suo posto, le avrei fatte sdraiare a faccia in giù sull'erba, poi avrei
puntato la pistola contro la nuca di Elizabeth, per tenerla ferma mentre mi
preparo a colpirla con il coltello. Se lei reagisce, posso sempre premere il
grilletto e spararle, anche se non è nelle mie intenzioni.»
«Il che spiegherebbe come mai abbia ricevuto un colpo al collo» ammisi. «Se lui le teneva la pistola alla nuca e lei gli oppose resistenza, la bocca
della canna potrebbe essere scivolata. E un'ipotesi che mi ricorda la storia
di Deborah, che però non credo fosse sdraiata quando l'assassino le sparò
alla schiena.»
«Questo tizio ha un debole per le lame» riprese Marino. «Ricorre alla pistola solo quando le cose non vanno secondo i piani. E per adesso, a quanto ne sappiamo, è successo solo due volte: con Elizabeth e con Deborah.»
«Okay, a Elizabeth spara. E poi?»
«E poi lui la finisce mentre tiene a bada Jill.»
«Non dimenticare che Jill ha lottato.»
«E lo credo. Ha appena fatto fuori la sua amica. Anche se sa di non avere una sola probabilità di cavarsela, gli salta addosso con tutte le forze che
ha in corpo.»
«Forse stava già lottando con lui» azzardai.
Marino strizzò gli occhi, come faceva quando un'ipotesi lo lasciava particolarmente scettico.
Jill era avvocato. Non credo si facesse illusioni sulla crudeltà di cui gli
uomini sono capaci. Quando lei e l'amica erano state costrette a entrare nel
cimitero, aveva sicuramente capito che non ne sarebbero uscite vive. Forse
una di loro aveva tentato di opporre resistenza mentre l'assassino apriva il
cancello di ferro. Se l'accendino d'argento era veramente suo, probabilmente era stato allora che gli era scivolato di tasca. A quel punto, e in questo caso Marino era nel giusto, aveva obbligato le due ragazze a sdraiarsi,
ma non appena aveva cominciato a occuparsi di Elizabeth, Jill era stata
presa dal panico e aveva cercato di proteggere l'amica. Così era partito il
colpo che aveva raggiunto Elizabeth al collo.
«La disposizione delle ferite riportate da Jill ci dice il terrore, la rabbia,
l'accanimento di un aggressore che ha perso il controllo» ripresi. «Forse la
colpì alla testa con la pistola, poi le montò a cavalcioni e le strappò la camicetta, cercando di accoltellarla in preda alla furia. Alla fine, per congedarsi, taglia la gola a entrambe. Quindi se ne va a bordo della Volkswagen,
la abbandona al motel e si allontana a piedi, diretto probabilmente dove ha
lasciato la propria auto.»
«Doveva essere sporco di sangue» disse Marino. «È curioso che sul sedile del guidatore non ne sia stata trovata traccia. Solo dietro.»
«Anche negli altri casi, in nessuno dei veicoli è mai stato trovato sangue
nella zona del guidatore. Siamo di fronte a un killer che agisce prendendo
tutte le precauzioni necessarie. Magari si porta dietro un cambio di vestiti,
degli asciugamani, Dio sa cosa.»
Marino si frugò in tasca ed estrasse il suo coltellino. Poi, su un tovagliolo di carta, cominciò a tagliarsi le unghie. Doris doveva essere stata una
santa a sopportarlo per tutti quegli anni. Probabilmente, Marino non si era
mai preso la briga di vuotare un portacenere, di mettere un piatto in tavola
o di raccogliere dal pavimento le mutande sporche. E non osavo pensare al
loro bagno dopo un suo passaggio.
«Abby Pitbull cerca ancora di mettersi in contatto con te?» chiese, senza
sollevare lo sguardo.
«Mi piacerebbe che la piantassi di chiamarla così» obiettai.
Non rispose.
«Negli ultimi giorni ha smesso, che io sappia.»
«Pensavo ti interessasse sapere che fra lei e Clifford Ring c'è qualcosa di
più di un semplice rapporto di lavoro, capo.»
«Cosa vuoi dire?» chiesi, improvvisamente a disagio.
«Voglio dire che questa storia delle coppie non ha niente a che vedere
con il fatto che l'abbiano rimossa dal suo incarico alla cronaca nera.» Era
arrivato al pollice, scaglie di unghia cadevano sul tovagliolo di carta. «A
quanto pare, stava dando i numeri e i colleghi non ne potevano più. La cosa ha raggiunto il limite più o meno in autunno, poco prima che venisse a
trovarti qui a Richmond.»
«Cosa accadde?» domandai, fissandolo intensamente.
«A quanto ho sentito dire, fece una scena poco piacevole in redazione.
Rovesciò una tazza di caffè addosso a Ring e se ne andò sbattendo la porta, senza dire a nessuno dove andava e quando sarebbe tornata. Fu allora
che la misero ai servizi speciali.»
«Chi ti ha detto tutto questo?»
«Benton.»
«Come fa Benton a sapere cosa succede nella redazione del "Post"?»
«Non gliel'ho chiesto.» Marino chiuse il coltellino e se lo rimise in tasca.
Quindi si alzò, raccolse il tovagliolo e lo buttò nella pattumiera.
«Un'ultima cosa» riprese, fermo al centro della cucina. «Riguarda la
Lincoln dell'altra sera.»
«Allora?»
«Una Mark Seven del '90. Registrata a nome di un certo Barry Aranoff,
trentotto anni, maschio, razza bianca, di Roanoke. Rappresentante per una
ditta di forniture mediche. Uno che è perennemente in viaggio.»
«Allora gli hai parlato» dissi.
«No, ma ho parlato con sua moglie. Al momento non è in città: è via da
due settimane.»
«In teoria, dove avrebbe dovuto trovarsi la sera in cui ho visto la sua
macchina a Williamsburg?»
«La moglie ha detto che non era sicura di quali fossero i suoi programmi. A quanto pare gli capita di spostarsi da una città all'altra anche più volte al giorno; e in certi periodi lavora persino fuori dai confini dello stato.
Copre un territorio che, a nord, arriva fino a Boston. Comunque, se non ricordava male, l'altra sera avrebbe dovuto essere a Tidewater, e avrebbe dovuto prendere un aereo da Newport News, diretto in Massachussetts.»
Marino interpretò il mio silenzio come una manifestazione di imbarazzo.
Ma non era così: stavo solo pensando.
«Ehi, hai fatto un ottimo lavoro, capo. Non c'è niente di male nel tirar
giù un numero di targa e dare una controllatina. Anzi, dovresti rallegrarti
di non essere stata seguita da qualche fottuto fantasma.»
Non risposi.
«L'unica cosa che hai sbagliato è il colore. Hai detto che era grigio scuro, no? Be', la Lincoln di Aranoff è marrone.»
Più tardi, quella sera, un temporale degno della più torrida delle estati
scaricò sulle nostre teste il suo violento arsenale di fulmini e tuoni. Rimasi
a letto a leggere, sfogliando alcune riviste e aspettando che il telefono di
Montana si liberasse.
O aveva l'apparecchio fuori uso, o era rimasto a chiacchierare per le ultime due ore. Dopo che lui e Marino se n'erano andati, mi era tornato in
mente un particolare visto in una delle fotografie e avevo ripensato all'ultima cosa riferitami da Anna. Nell'appartamento di Jill, accanto a una poltrona del salotto, erano ammonticchiati alcuni articoli di argomento legale,
giornali vari e una copia del "New York Times Magazine". Personalmente
non mi sono mai data la pena di risolvere dei cruciverba, vista la quantità
di cose che già sono costretta indovinare nel mio lavoro. Tuttavia sapevo
che le parole crociate del "Times" erano famose quanto le raccolte di bollini dei biscotti.
Sollevai la cornetta e per l'ennesima volta feci il numero di Montana. Finalmente libero.
«Ha mai considerato la possibilità di farsi mettere l'avviso di chiamata?»
chiesi in tono pacato.
«Più che altro ho considerato la possibilità di fare installare un centralino in camera di mia figlia» rispose lui.
«Avrei una domanda da farle.»
«Sentiamo.»
«Quando perquisì gli appartamenti di Jill ed Elizabeth, immagino che
guardò anche nella loro corrispondenza.»
«Certo. Ci mettemmo un bel po', bisognava controllare contenuti e mittenti, poi c'erano gli estratti conto delle carte di credito... un bel po' di roba.»
«E cosa potrebbe dirmi di eventuali abbonamenti a riviste?»
Fece una pausa. Poi mi resi conto. «Oh Dio, mi scusi. Immagino che la
documentazione sia in ufficio...»
«No, signora, sono tornato direttamente a casa. È tutto qui. Stavo solo
cercando di concentrarmi. È stata una giornata faticosa. Può attendere un
attimo in linea?»
Udii un fruscio di pagine che venivano sfogliate.
«Dunque, c'erano un paio di addebiti e altre cosette senza importanza,
ma nessun abbonamento a giornali.»
Sorpresa, spiegai che Jill aveva in casa parecchi quotidiani non locali.
«Evidentemente li aveva comperati altrove.»
«Magari da distributori automatici. Intorno all'università ce ne sono un
sacco. Almeno così pensai istintivamente.»
Okay per il "Washington Post" e il "Wall Street Journal", mi dissi, ma il
"New York Times"? No, era più facile che quello provenisse da un drugstore o da un'edicola in cui Jill ed Elizabeth si fermavano nelle loro gite
domenicali. Lo ringraziai e riappesi.
Spenta la luce, mi infilai sotto le coperte e rimasi ad ascoltare il battito
serrato della pioggia sul tetto. Un'infinità di immagini e pensieri mi fluttuava nella mente, e all'improvviso rividi la borsetta rossa di Deborah Harvey, umida e coperta di terra.
Vander, il laboratorio della Scientifica, aveva terminato l'esame delle
impronte e il giorno prima avevo dato un'occhiata al rapporto.
«Cosa farai?» mi chiese Rose. Stranamente, la borsetta si trovava sulla
sua scrivania dentro un contenitore di plastica. «Non puoi mica restituirla
ai famigliari in queste condizioni.»
«Certo che no.»
«Forse dovremmo tirare fuori le carte di credito e tutto quel che si può
lavare, in modo da farglielo riavere pulito.» Rose aveva il volto bloccato in
una smorfia di rabbia. A un certo punto spinse il contenitore verso di me e
gridò: «Fuori! Portala via di qui! Non sopporto questa vista!».
Di colpo mi ritrovai in cucina. Dalla finestra vidi Mark che si avvicinava
in macchina. Rovistando affannosamente nel mio nécessaire, cercai una
spazzola e mi risistemai i capelli. Poi corsi in bagno per lavarmi i denti, ma
era già troppo tardi. Il campanello di casa suonò. Una volta. Una volta sola.
Mi prese fra le braccia, sussurrando il mio nome quasi con dolore. Mi
chiesi come mai era qui, e non a Denver.
Richiudendo la porta con un piede, cominciò a baciarmi. La porta sbatté
rumorosamente.
Aprii gli occhi. Udii lo schianto di un tuono. I lampi continuavano a illuminare la stanza, mentre il cuore mi martellava in petto.
Il mattino dopo eseguii due autopsie, quindi andai al piano di sopra a
trovare Neils Vander, responsabile del reparto analisi delle impronte. Era
nella sala del Sistema Digitale Identificazione Automatica, immerso in
profonde meditazioni davanti a un monitor. Avevo in mano una copia degli esami effettuati sulla borsetta di Deborah Harvey, e la appoggiai sulla
tastiera di Neils.
«Devo chiederti una cosa.» Alzai la voce al di sopra del ronzio che
riempiva la sala computer.
Lanciò al foglio un'occhiata sinistra. Ciocche ribelli di capelli grigi gli
spuntavano sopra le orecchie.
«Come diavolo hai fatto a trovare tante cose dopo che quella borsa era
rimasta per mesi nel bosco? Sono sconcertata.»
Tornò a fissare il mònitor. «Quella borsetta è di nylon, impermeabile, e
le carte di credito erano protette da custodie di plastica, dentro a una tasca
con cerniera. Quando le ho infilate nel "superglue tank" sono venute fuori
numerose macchie. Non c'è nemmeno stato bisogno di ricorrere al laser.»
«Notevole.»
Vander accennò un sorriso.
«Ma nulla di identificabile» conclusi.
«Purtroppo. Mi dispiace.»
«Ciò che mi interessa è la patente di guida. Su quella non è comparso
niente.»
«Nemmeno la più piccola delle macchioline» disse lui.
«Insomma, era pulita.»
«Intonsa.»
«Grazie, Neils.»
Tornò a immergersi nei misteri dei suoi circuiti informatici.
Io scesi in ufficio e cercai il numero di telefono del Seven-Eleven dove
ero andata con Abby l'autunno precedente. Mi dissero che Ellen Jordan, la
commessa con cui avevamo parlato, era nel turno che iniziava alle nove di
sera. Il resto della giornata lo trascorsi assorbita in mille altri impegni, senza nemmeno mangiare, e senza accorgermi delle ore che passavano. Quando arrivai a casa, non mi sentivo affatto stanca.
Stavo caricando la lavastoviglie quando, verso le otto, suonarono alla
porta. Mi asciugai nervosamente le mani in una salvietta e andai ad aprire.
Sulla veranda c'era Abby Turnbull, il bavero del cappotto rialzato per
proteggersi le orecchie, la faccia pallidissima, gli occhi disperati. In giardino, il vento gelido faceva ondeggiare le sagome scure degli alberi, scompigliandole i capelli.
«Non hai mai risposto ai miei messaggi. Spero che adesso non rifiuterai
di farmi entrare» disse.
«Ma dài, Abby. Vieni dentro.» Spalancai la porta facendomi da parte.
Non si tolse il cappotto finché non l'invitai a farlo, e quando mi offrii di
andarglielo ad appendere scosse la testa e lo appoggiò sulla spalliera della
sedia, quasi a rassicurarmi che non si sarebbe trattenuta molto. Indossava
dei jeans scoloriti e un maglione pesante. Sfiorandola mentre mi dirigevo
verso il tavolo della cucina, che volevo sgomberare da un cumulo di carte,
sentii un odore stantio di sigaretta e quello più pungente del sudore.
«Vuoi bere qualcosa?» chiesi, e per qualche strana ragione mi accorsi
che non riuscivo a provare rabbia nei suoi confronti.
«Sì, una qualunque.» Mentre riempivo due bicchieri, tirò fuori le sigarette.
«Non so da che parte cominciare» esordì, quando infine tornai a sedermi. «Quegli articoli erano come minimo ingiusti nei tuoi confronti. E so
cosa stai pensando adesso.»
«Quel che penso io non è così importante. Preferirei sentire ciò che hai
da dirmi tu.»
«Ho già avuto modo di dirti che ho fatto degli errori.» La sua voce tremò
impercettibilmente. «Cliff Ring è uno di questi.»
Rimasi calma ad ascoltare.
«È una delle prime persone che conobbi dopo il mio trasferimento a Washington. Un uomo di successo, molto brillante e sicuro di sé. Io mi sentivo vulnerabile, per me era tutto nuovo, mi ero lasciata alle spalle... be', insomma, quella storia di Henna.» Distolse lo sguardo. «All'inizio eravamo
semplici amici, poi le cose precipitarono. Non mi accorsi di come era veramente perché non volevo accorgermene, capisci?» La voce le si ruppe in
gola, e attesi in silenzio che si riprendesse.
«Gli credevo, Kay, mi fidavo ciecamente di lui.»
«In poche parole, ne devo dedurre che i particolari citati nei suoi articoli
arrivavano da te.»
«No. Arrivavano dai miei.»
«Cosa significa?»
«Io non ho mai parlato con nessuno di ciò che sto scrivendo. Cliff era
consapevole del mio coinvolgimento in questi casi, ma nemmeno con lui
sono mai scesa nei dettagli. E lui non sembrava particolarmente interessato.» Intuivo dalla voce che stava facendosi più aggressiva. «Invece lo era,
eccome se lo era. È così che si muove, lui.»
«Ma se con lui non sei mai entrata nei dettagli» la interruppi, «come ha
fatto a procurarsi le informazioni da te?»
«Ogni volta che andavo fuori città gli lasciavo le chiavi di casa, lui veniva ad annaffiarmi le piante e a portarmi su la posta. Probabilmente le ha
duplicate.»
Mi tornò in mente la conversazione che avevamo avuto al Mayflower.
Quando Abby aveva accennato a possibili interferenze e alla storia del
computer, accusando l'Fbi e la Cia, ero rimasta alquanto scettica. Possibile
che un agente con un minimo di esperienza andasse ad aprire un file senza
rendersi conto che l'ora e la data dell'operazione sarebbero state registrate?
«Allora fu lui a curiosare nel computer?»
«Non ho prove per dimostrarlo, ma ne sono sicura» rispose Abby. «Così
come non ho prove per dimostrare che era lui a frugare nella mia posta. Ma
aprire una lettera con il vapore, risigillarla e rimetterla nella casella non è
difficile. Soprattutto se ti sei fatto fare una copia delle chiavi.»
«E tu sapevi che lui stava scrivendo degli articoli?»
«Ovviamente no. Non ho saputo un accidente fino a sabato, quando ho
aperto il giornale! Era entrato in casa mia ogni volta che non c'ero. Leggeva i miei file, metteva le mani dappertutto, poi continuava le sue ricerche
facendo telefonate, procurandosi informazioni e belle frasi da citare... e
non faceva nemmeno fatica, visto che sapeva esattamente dove guardare e
cosa cercare.»
«Ed era ancora più facile perché tu eri stata sollevata dall'incarico.
Quando pensasti che il "Post" avesse perso ogni interesse: in realtà è del
tuo lavoro che non volevano più saperne.»
Abby annuì rabbiosamente. «Gli articoli passarono in quelle che credevano essere mani più sicure: Cliff Ring.»
In quel momento capii perché Clifford Ring non si era mai preso la briga
di cercare di contattarmi: certo sapeva che Abby e io eravamo amiche. Se
mi avesse chiesto particolari sul caso, avrei potuto farne parola con lei,
mentre lui voleva tenerla il più possibile all'oscuro del suo operato. Dunque Ring mi aveva accuratamente evitato.
«Giurerei che...» Abby si schiarì la voce e prese il bicchiere. Le tremava
la mano. «Lui sa essere molto convincente. È probabile che si aggiudicherà anche un bel premio, per questi articoli.»
«Mi dispiace tantissimo, Abby.»
«Bah, in fondo è solo colpa mia. Sono stata una vera stupida.»
«È sempre così: quando amiamo qualcuno, ci esponiamo a dei rischi.» ^
«Mai e poi mai, non lo rifarò mai più, per tutto l'oro del mondo» mi interruppe. «Con lui era sempre un problema. Io facevo concessioni, gli davo
una seconda possibilità, e poi una terza e una quarta e...»
«Senti, i tuoi colleghi erano al corrente della relazione con Cliff?»
«Siamo sempre stati cauti e riservati.» Improvvisamente mi parve evasiva.
«E perché?»
«La redazione vive di pettegolezzi.»
«Be', di certo i vostri colleghi vi avranno visti insieme, qualche volta.»
«Eravamo cauti» ripeté.
«Ma avranno pure intuito qualcosa. Se non altro una specie di tensione.»
«Competizione. Difesa del territorio. Ecco cos'avrebbero detto.»
E gelosia, pensai. Abby non era mai stata brava nel nascondere le proprie emozioni e non facevo fatica a immaginare le sue sfuriate. Probabilmente chi l'aveva osservata al lavoro, in redazione, l'aveva giudicata una
donna ambiziosa, mentre le cose non stavano così. Era solo gelosa delle altre storie di Ring.
«È sposato, vero?» chiesi.
Questa volta non riuscì a trattenere le lacrime.
Mi alzai a preparare altri due drink. Adesso mi avrebbe raccontato che
lui era infelice con la moglie, che stava pensando al divorzio, e che lei,
Abby, lo aveva creduto disposto a lasciare tutto. Era una trama logora e
prevedibile, come nei romanzi rosa. L'avevo già sentita centinaia di volte.
Abby era stata usata.
Appoggiai il bicchiere sul tavolo e le strinsi affettuosamente una spalla,
poi tornai a sedermi.
Disse esattamente ciò che mi aspettavo, e io mi limitai a guardarla con
tristezza.
«Non mi merito la tua comprensione» gridò.
«Sei stata ferita molto più di quanto lo sia stata io, Abby.»
«Tutti siamo stati feriti. Tu. Pat Harvey. I genitori e gli amici dei ragazzi. Se non ci fossero stati questi omicidi, starei ancora facendo il mio lavoro, e mi sentirei almeno soddisfatta dal punto di vista professionale. Nessuno dovrebbe essere messo in grado di provocare una simile devastazione.»
Mi resi conto che non stava più pensando a Clifford Ring. Adesso nei
suoi pensieri c'era il killer.
«Hai ragione. Nessuno dovrebbe avere tanto potere. E nessuno lo avrà,
se glielo toglieremo.»
«Non furono certo Deborah e Fred a darglielo. O Jill, Elizabeth, Jimmy
e Bonnie. Nessuno di loro.» Aveva l'aria sconfitta. «Nessuno di loro voleva essere ucciso.»
«Cosa farà Cliff adesso?» chiesi.
«Qualunque cosa faccia, non mi riguarda più. Ho cambiato tutte le serrature.»
«E la tua paura di avere il telefono controllato, o di essere seguita?»
«Cliff non è l'unico a voler sapere cosa sto facendo. Non posso più fidarmi di nessuno!» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Eri l'ultima persona al mondo che intendessi ferire, Kay.»
«Piantala, Abby, puoi andare avanti a piangere per un anno senza farmi
sentire meglio.»
«Scusa...»
«E basta chiedermi scusa, okay?» Le parlai con tono fermo ma gentile.
«Adesso sei pronta ad aiutarmi?»
Mi guardò.
«Innanzitutto dimmi: di che colore era la Lincoln che abbiamo visto a
Williamsburg la settimana scorsa?»
«Grigio scuro, gli interni di pelle scura, forse nera» disse, mentre gli occhi tornavano a ravvivarsi.
«Grazie. Anche a me sembrava così.»
«Cosa succede?»
«Non lo so ancora. Ma non è finita qui.»
«Non è finita qui?»
«Ho un incarico per te» dissi, sorridendo. «Ma prima voglio sapere una
cosa: quando rientri a Washington? Stasera?»
«Non so, Kay.» Smise di guardarmi: «È che adesso non me la sento di
starci.»
Abby si sentiva come una specie di senzatetto, e in un certo senso lo era.
Clifford Ring l'aveva fatta scappare da Washington, e probabilmente non
era una cattiva idea starsene alla larga dalla città per un po'.
«Nel Northern Neck c'è un bed and breakfast, una pensioncina» spiegò.
«E io ho una bella stanza per gli ospiti» la interruppi. «Se vuoi, puoi venire a stare qualche giorno da me.»
Sembrava incerta. Poi confessò: «Hai idea di che effetto farebbe, Kay?»
«Francamente, al momento non mi importa cosa pensino gli altri.»
«Come mai?» Mi fissò attentamente.
«Be', la tua storia mi ha già rovinato abbastanza. Quindi, o la va o la
spacca, Abby. L'importante è che cambi qualcosa, non si può andare avanti
così, siamo in un pantano.»
«Almeno tu non sei stata licenziata.»
«Se è per quello, non hanno licenziato neanche te. Hai avuto una relazione e ti sei comportata nel modo sbagliato di fronte ai tuoi colleghi. Potevi fare a meno di rovesciargli addosso il caffè.»
«Se lo meritava.»
«Sì, posso capire. Ma non ti consiglio di dare battaglia al "Post", mia cara. Se hai una chance per riscattare la tua immagine, è il libro che stai scrivendo.»
«E tu?»
«Io sono presa fino al collo da queste indagini. E potresti aiutarmi, perché sei in grado di fare cose che io non posso permettermi.»
«Tipo?»
«Vedi, io non posso mentire, non posso travestirmi, non posso brigare,
disfare, bluffare, curiosare, rovistare né fingermi qualcuno che non sono
perché guarda caso sono un funzionario pubblico. Tu, invece, hai ampia libertà di movimento. Sei una giornalista, no?»
«Oh, grazie tante» protestò lei, uscendo dalla cucina. «Vado a prendere
le mie cose in macchina.»
Non mi accadeva spesso di avere degli ospiti, e in genere la camera da
letto al piano inferiore era riservata a Lucy. Sul pavimento di legno c'era
un tappeto iraniano Dergezine con un vistoso motivo floreale che trasformava l'intera stanza in una specie di giardino, al centro del quale mia nipote spiccava come un bocciolo di rosa o uno stelo d'ortica - a seconda dell'umore.
«Vedo che ti piacciono i fiori» commentò distrattamente Abby, appoggiando la valigia sul letto.
«Sì, effettivamente questo tappeto è un po' invadente, qui dentro» mi
scusai. «Ma appena lo vidi me ne innamorai, e non so proprio dove altro
avrei potuto metterlo. È indistruttibile, e dato che qui sta soprattutto Lucy,
mi sembra un elemento fondamentale.»
«O almeno lo era.» Abby si diresse verso l'armadio e io aprii la porta.
«Non ha più dieci anni.»
«Dovrebbero esserci attaccapanni a sufficienza.» Mi avvicinai per controllare. «Se te ne servono altri...»
«Mi bastano questi.»
«Bene. In bagno troverai asciugamani, dentifricio e sapone.» Feci l'atto
di mostrarglieli. Ma lei stava già disfando la valigia, e non mi prestava attenzione.
Mi risedetti sul bordo del letto.
Mise alcuni abiti e delle camicette nell'armadio. Gli attaccapanni scricchiolarono contro la sbarra di metallo. Restai a guardarla in silenzio, con
una punta di impazienza.
La cosa durò alcuni minuti. Cassetti che si aprivano, altri scriocchiolii,
l'armadietto dei medicinali in bagno che si richiudeva con un rumore metallico. Spinse la valigia fino all'armadio e si diede un'occhiata intorno,
come se non sapesse che altro fare. Poi aprì la borsa, ne estrasse un roman-
zo e un blocco per appunti e li sistemò sul comodino accanto al letto. Infine, la vidi infilare nel cassetto una .38 e alcune cartucce. La cosa mi rese
inquieta.
Era quasi mezzanotte, quando salii in camera mia. Prima di andare a
dormire rifeci il numero del Seven-Eleven.
«Ellen Jordan?»
«Sì? Chi parla?»
Glielo dissi. «L'autunno scorso mi raccontò che quando Fred Cheney e
Deborah Harvey entrarono nel locale, la ragazza cercò di comprare della
birra e lei le chiese i documenti.»
«Esatto.»
«Può dirmi con precisione cosa fece in quel momento?»
«Be', le dissi che avevo bisogno di vedere la sua patente.» Aveva un tono perplesso. «Lo faccio sempre, capisce.»
«E Deborah la estrasse dalla borsetta?»
«Certo. Doveva pur mostrarmela.»
«Quindi gliela diede in mano, giusto?» insistei.
«Aha.»
«Ed era dentro a qualcosa? Tipo una custodia di plastica?»
«No, non era dentro a niente. Me la diede e basta. Io la guardai e gliela
restituii.» Fece una pausa. «Perché?»
«Sto semplicemente cercando di stabilire se lei toccò la sua patente.»
«Be', sì, certo che l'ho toccata. Dovevo farlo, se volevo guardare.» Adesso sembrava spaventata. «Non sarò mica nei pasticci?»
«No, Ellen» la rassicurai. «Nessun pasticcio, niente paura.»
15
L'incarico di Abby era cercare di scoprire il più possibile sul conto di
Barry Aranoff, così il mattino seguente partì per Roanoke. Rientrò la sera
stessa, pochi minuti prima che Marino comparisse alla porta. Lo avevo invitato a cena.
Quando in cucina scoprì che c'era anche Abby, vidi le sue pupille contrarsi. Il suo viso divenne paonazzo.
«Un Jack Black?» gli chiesi.
Tornai dal bar e trovai Abby seduta al tavolo che fumava una sigaretta.
Marino era in piedi alla finestra. Teneva aperte le stecche delle veneziane e
fissava con sguardo inebetito la mangiatoia per gli uccelli.
«A quest'ora non se ne vedono» dissi. «A meno che non ti interessino i
pipistrelli.»
Non rispose, né si girò.
Cominciai a servire l'insalata. Si decise a prendere posto solo quando
versai il Chianti.
«Non mi avevi detto che eri in compagnia» furono le sue prime parole.
«Se lo avessi fatto, non saresti venuto» risposi in tono altrettanto tagliente.
«Consolati. Neanche a me aveva detto che ci saresti stato tu» tenne a
puntualizzare Abby. «Quindi, avendo scoperto che siamo tutti felici di essere insieme, buon appetito.»
Se avevo imparato qualcosa dal mio matrimonio con Tony, era evitare i
confronti diretti a notte alta o a tavola. Feci dunque del mio meglio per
spezzare il silenzio con considerazioni di natura frivola, e aspettai a introdurre i discorsi che mi stavano a cuore fin quando ebbi servito il caffè.
«Abby si tratterrà da me per qualche tempo» annunciai a Marino.
«Affari tuoi.» Allungò una mano verso la zuccheriera.
«Anche tuoi. Siamo tutti nella stessa barca.»
«Forse dovreste spiegarmi un po' meglio di che barca si tratta, capo. Ma
prima», lanciò un'occhiata ad Abby, «sarei curioso di sapere in che capitolo infilerai la cronaca di questa graziosa cenetta. Così andrò diritto alla pagina in questione e mi risparmierò la fatica di leggere tutto il resto.»
«Sai, Marino, a volte sei proprio un coglione» rispose lei.
«Se è per quello, posso anche essere stronzo. È un piacere che ancora ti
manca.»
«Grazie. Non vedo l'ora.»
Marino estrasse una penna dal taschino della giacca e la lanciò sul tavolo. «Vai, comincia pure a scrivere. Non vorrei che mi mettessi in bocca le
parole sbagliate.»
Abby lo fissò.
«Adesso basta» dissi in tono perentorio.
Mi guardarono.
«Vi state comportando peggio di loro» aggiunsi.
«Loro chi?» chiese Marino.
«Tutti. Sono stufa di menzogne, gelosie e giochetti di potere. Dagli amici mi aspetto qualcosa di meglio. E pensavo che voi lo foste.»
Spinsi indietro la sedia.
«Se avete voglia di continuare a mettervi le dita negli occhi, fate pure. Io
però ne ho abbastanza.»
Senza più guardare né l'uno né l'altra, presi la tazza di caffè e la portai in
sala, accesi lo stereo e chiusi gli occhi. La musica è la migliore terapia del
mondo, e ultimamente ascoltavo spesso Bach. Le note della Sinfonia n. 2,
Cantata 29 cominciarono a diffondersi, e io mi rilassai. Per intere settimane, dopo la partenza di Mark, ogni volta che non riuscivo a dormire venivo
a sedermi sul divano, mi infilavo le cuffie e lasciavo che a prendermi tra le
braccia fossero Beethoven, Mozart, Pachelbel.
Quando Abby e Marino mi raggiunsero, un quarto d'ora più tardi, avevano l'espressione impacciata di una coppia che ha appena deciso di fare
pace dopo una lite furiosa.
«Abbiamo parlato» annunciò Abby mentre spegnevo lo stereo. «Gli ho
spiegato le cose meglio che potevo. Credo che adesso ci capiamo un pochino di più.»
Ero davvero lieta di sentirlo.
«Be', potremmo veramente essere più solidali, noi tre» aggiunse Marino.
«In fondo, adesso lei non è una vera giornalista.»
Quell'osservazione la colpì, era evidente, ma ormai avevano deciso di
collaborare. Alle volte il miracolo avviene.
«Quando il suo libro verrà pubblicato, questa storia sarà probabilmente
già finita. Ed è la cosa importante: che finisca. Ormai va avanti da quasi tre
anni, dieci ragazzi ci hanno lasciato la pelle. Con Jill ed Elizabeth, dodici.»
Scosse la testa, lo sguardo improvvisamente severo. «Chiunque sia questo
macellaio, non smetterà facilmente, capo. Continuerà finché non lo beccheranno. Ma in casi del genere bisogna proprio essere assistiti dalla fortuna per mettere le mani sull'assassino.»
«Forse il nostro momento è arrivato» disse Abby. «Aranoff non è l'uomo
che guidava la Lincoln.»
«Sei sicura?» fece Marino.
«Assolutamente. Aranoff ha i capelli grigi, e radi. È alto un metro e settantacinque e pesa circa cento chili.»
«L'hai visto?»
«No» disse. «Era ancora fuori città. Ho bussato alla porta e la moglie mi
ha fatto entrare. Avevo messo degli stivali e dei pantaloni da lavoro. Ho
detto che ero dell'azienda elettrica e che dovevo controllare il contatore.
Poi ci siamo messe a chiacchierare. Mi ha anche offerto una Coca Cola.
Mentre ero lì, ho dato un'occhiata intorno, ho visto una foto di famiglia e
per essere sicura le ho chiesto se quello era suo marito. Ecco come ho sco-
perto che aspetto ha Aranoff. Non è l'uomo che abbiamo incontrato noi,
Kay, né quello che mi stava pedinando a Washington.»
«Spero che non ti sia confusa leggendo il numero di targa,» disse Marino.
«No. E anche se fosse così, ci sono coincidenze incredibili. Due Lincoln
Mark Seven del 1990? E Aranoff che, guarda caso, sta girando nell'area fra
Williamsburg e Tidewater proprio il giorno in cui, erroneamente, gli avrei
preso il numero di targa?»
«Mi sa tanto che dovrò scambiare quattro chiacchiere con questo Aranoff» sentenziò Marino.
Mi richiamò in ufficio qualche giorno più tardi.
«Sei seduta, capo?» chiese subito.
«Hai parlato con Aranoff.»
«Tombola! È partito da Roanoke lunedì 10 febbraio ed è andato a Danville, Petersburg e Richmond. Mercoledì dodici era in zona Tidewater, e
qui la cosa si fa interessante. Il giovedì avrebbe dovuto trovarsi a Boston,
cioè la sera in cui tu e Abby eravate a Williamsburg. Il giorno prima, mercoledì dodici, Aranoff ha lasciato la macchina in un parcheggio dell'aeroporto Newport News. Da lì si è imbarcato per Boston e c'è rimasto per circa una settimana, girando con un'auto presa a nolo. Dopodiché, ieri mattina
è tornato al Newport News, ha preso la sua macchina e se n'è andato a casa.»
«Insomma, qualcuno potrebbe avergli rubato la targa della Lincoln nel
parcheggio e avergliela poi rimessa a posto?»
«A meno che Aranoff non stia raccontando palle - e sinceramente non
vedo per quale motivo dovrebbe - mi sembra l'unica spiegazione possibile,
capo.»
«Quando ha ritirato la macchina, non ha notato qualcosa di sospetto?
Non ha pensato che qualcuno potesse averla manomessa?»
«No. Siamo andati a controllare in garage, le targhe erano tutt'e due a
posto, regolarmente avvitate, belle strette. Ed erano anche sporche come il
resto della macchina, uniformemente, voglio dire, anche se qua e là c'era
qualche chiazza, ma di per sé non significa niente. Non ho visto impronte,
chiunque abbia preso in prestito le targhe indossava dei guanti, il che forse
spiega gli aloni più chiari. Comunque non c'erano né segni lasciati da attrezzi, né bozze sulla lamiera.»
«La Lincoln era posteggiata in un punto particolarmente visibile del par-
cheggio?» insistei.
«Aranoff dice di averla lasciata più o meno al centro, e che era tutto pieno.»
«Ma una macchina senza targa che resta lì per diversi giorni non verrebbe facilmente notata da un guardiano o, che ne so, un agente di sicurezza?»
«Non necessariamente, Guarda che la gente non osserva poi tanto.
Quando mollano l'auto per correre a prendere l'aereo o ritornano da un
viaggio pieni di valigie, l'unica cosa che hanno in testa è sbrigarsi e non
dimenticare niente. Anche se qualcuno se ne fosse accorto, non è detto che
sarebbe corso a dirlo a quelli della sicurezza. E poi i guardiani non possono fare niente, spetta al proprietario denunciare la scomparsa della targa.
Oltretutto, non è neanche difficile portarle via: vai in aeroporto dopo mezzanotte, e puoi star sicuro che non c'è anima viva. Se fossi io, entrerei nel
parcheggio con aria decisa, come se stessi andando a prendere qualcosa in
macchina, e cinque minuti dopo uscirei con le targhe nascoste nella mia elegante ventiquattr'ore.»
«È così che pensi sia successo?»
«Ti spiego» disse. «Io credo che chi vi ha chiesto le informazioni non
fosse né un investigatore, né un agente dell'Fbi o qualcuno che vi pedinava. Secondo me era un poco di buono. Magari uno spacciatore, o chi lo sa.
La Mark Seven grigia era sua, ma tanto per andare sul sicuro, quando esce
per combinare uno dei suoi sporchi affari sostituisce la targa. Se mai lo vedessero in giro, capisci?»
«Sì, ma è anche un bel rischio. Metti che ti fermino perché passi col rosso: ti prendono il numero di targa e poi scoprono che la macchina non è la
stessa» puntualizzai.
«Vero. Però non credo sia uno che pensa di poter essere preso in questo
modo. Secondo me gli sta più a cuore che, se lo vedono, non possano risalire alla sua macchina, visto che comunque si trova lì per commettere un
crimine.»
«E allora perché non ne noleggia direttamente una?»
«Ma, capo, è ancora peggio. Qualunque poliziotto la riconoscerebbe a un
chilometro di distanza. Le targhe della Virginia iniziano tutte con la R: se
qualcuno prende il numero, prima o poi risale a chi l'ha affittata. È molto
meglio sostituirla con un'altra, se sei abbastanza furbo da non dare nell'occhio mentre lo fai. È così che mi comporterei io, e probabilmente sceglierei proprio uno di questi parcheggi in cui la gente lascia la macchina anche
per diversi giorni. Guido fino all'aeroporto, penetro nel posteggio quando
ormai è buio, controllo che in giro non ci sia nessuno e rimetto a posto le
targhe che ho rubato.»
«E se, nel frattempo, il proprietario è tornato e se n'è accorto?»
«Che mi frega? Scarico le targhe nel primo bidone della spazzatura.
Comunque vadano le cose, non posso perdere.»
«Cristo! L'uomo che abbiamo incontrato l'altra sera potrebbe essere proprio il killer, Marino.»
«Di sicuro, quello che avete visto non era un uomo d'affari né un povero
piedipiatti che vi tallonava» rispose. «Aveva in mente qualcosa di illegale.
Però non significa che fosse un assassino.»
«Ma l'adesivo sul paraurti...»
«Cercherò di risalire anche a quello. Ho intenzione di chiedere all'ufficio
che li distribuisce se mi possono fornire una lista di tutte le persone che
l'hanno richiesto.»
«La macchina che il signor Joyce vide passare a fari spenti sulla strada
potrebbe benissimo essere una Lincoln Mark Seven» commentai.
«Sì. Le Mark Seven sono uscite nel '90. Jim e Bonnie vennero uccisi
nell'estate di quell'anno. E, con il buio, una Mark Seven può anche essere
scambiata per una Thunderbird, che è il modello di cui parlava il signor
Joyce.»
«Wesley avrà il suo bel daffare, quando gli darai la notizia» mormorai.
«Sì» convenne Marino. «Sarà meglio che lo chiami.»
Marzo arrivò con la promessa che l'inverno non sarebbe durato più a
lungo. Mentre Abby faceva benzina e io lavavo il parabrezza della mia
Mercedes, sentii il sole scaldarmi piacevolmente la schiena. Spirava una
brezza leggera, appena rinfrescata dalle recenti piogge.
Come molte altre stazioni di rifornimento, anche la mia si era ingrandita
aprendo un negozietto. Mentre pagavo, acquistai due bicchierini di caffè.
Poi partimmo alla volta di Williamsburg, coi finestrini socchiusi e Bruce
Hornsby che cantava Harbor Lights alla radio.
«Prima di uscire ho chiamato la mia segreteria telefonica» disse Abby.
«E?»
«Cinque telefonate, ma tutte senza messaggio.»
«Cliff?»
«Ci scommetterei. Non credo che tenga veramente a parlarmi. Più che
altro sospetto che voglia sapere se sono a casa o no. Avrà fatto almeno
venti volte il giro del parcheggio per vedere se c'era la mia macchina.»
«E perché, scusa, se è vero che non vuole parlare con te?»
«Forse non sa che ho cambiato le serrature.»
«Allora è stupido. Come minimo avrebbe dovuto aspettarselo, dopo che
hanno pubblicato i suoi articoli.»
«No, non è stupido.» Guardò fuori dal finestrino laterale. Io aprii il tettuccio.
«Sa benissimo che io so, ma non è stupido» continuò. «Cliff è riuscito a
prendere per i fondelli tutti quanti. Gli altri non sanno che è pazzo da legare.»
«Mi è difficile credere che abbia potuto arrivare dove è arrivato, se è
pazzo.»
«Questo è il bello di Washington» rispose con cinismo. «Le persone più
potenti e più famose del mondo abitano lì, e metà di loro sono pazze. L'altra metà è fatta invece di nevrotici. Non so perché tutti si siano tanto stupiti
per lo scandalo del Watergate.»
«E a te che scherzo ha giocato, il potere?» chiesi.
«Diciamo che io ho fatto in tempo a intuirne il sapore, ma senza mai riuscire veramente ad assuefarmici.»
«Forse sei fortunata.»
Rimase zitta.
Pensai a Pat Harvey. Cosa stava facendo in quel momento? Cosa le passava per la testa?
«Hai parlato con Pat Harvey?» domandai ad Abby.
«Sì.»
«Anche dopo gli articoli del "Post"?»
Annuì.
«Come sta?»
«Una volta ho letto un articolo di un missionario in Congo. Descriveva
l'incontro con un capo tribù: sembrava assolutamente normale, finché non
sorrideva. Aveva denti affilatissimi. Era un cannibale.»
Non capivo dove volesse arrivare.
«Be', quella è Pat Harvey» continuò. «Ho fatto un salto a trovarla mentre
andavo a Roanoke, l'altro giorno. Abbiamo parlato brevemente degli articoli, e mi è parso che in fondo se ne stesse facendo una ragione. Poi mi ha
sorriso. E mi si è gelato il sangue nelle vene.»
Non sapevo cosa dire.
«Solo allora ho capito che i servizi di Cliff erano stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Pensavo che l'assassinio della figlia l'avesse
spinta al limite, invece quegli articoli le hanno fatto compiere un altro passo. Parlando con lei, ho avuto la netta sensazione che di colpo fosse venuto
a mancare qualcosa. Poi mi sono resa conto che a non esserci più era proprio Pat Harvey.»
«Sapeva che il marito aveva una relazione?»
«Lo sa adesso.»
«Ammesso che sia vero» aggiunsi.
«Cliff non scriverebbe mai cose che non è in grado di dimostrare o di attribuire a una fonte attendibile.»
Mi chiesi cosa avrebbe mai potuto farmi perdere la ragione. Lucy?
Mark? Un incidente, la perdita dell'uso delle mani, la cecità? No, in verità
non sapevo cosa avrebbe potuto farmi impazzire. Forse era come morire:
una volta passato il segno, la differenza non sarebbe più stata percepibile.
Poco dopo mezzogiorno arrivammo a Old Towne. Il complesso di condomini in cui avevano abitato Jill ed Elizabeth non aveva nulla di speciale:
sembrava un alveare, un assembramento di edifici perfettamente uguali.
Tutti in mattoni, si snodavano sull'erba inframmezzati da campi giochi con
altalene, tavoli da picnic e griglie per cucinare all'aperto.
Ci fermammo nel parcheggio e alzammo gli occhi sul balcone dell'appartamento di Jill. Attraverso le sbarre della ringhiera, si intravedevano
due sedie a dondolo blu e bianche, mosse dolcemente dalla brezza. Elizabeth viveva dalla parte opposta del parcheggio: le due amiche potevano tenersi d'occhio a vicenda, potevano vedere le luci accendersi o spegnersi, e
sapere quando la compagna si stava alzando o andava a letto, se era in casa
o meno.
Per un attimo Abby e io rimanemmo in silenzio, condividendo un'uguale
tristezza.
Poi lei disse: «Erano qualcosa di più che due semplici amiche, vero
Kay?»
«Potrei solo risponderti per sentito dire.»
Abby sorrise. «Per la verità, me lo ero già chiesta quando avevo dovuto
occuparmene per il giornale. Ci pensai a lungo. Però nessuno ne fece mai
parola, nemmeno un accenno.» Tacque un momento, guardando fuori dal
finestrino. «Credo di sapere come si sentivano.»
La fissai.
«Probabilmente come mi sono sentita io con Cliff. Sempre a nasconderci, a vivere di sotterfugi. Avrò sprecato metà delle energie chiedendomi
cosa pensasse la gente, temendo che qualcuno potesse sospettare.»
«E l'ironia è» ripresi, mettendo in moto, «che in ultima analisi alla gente
non importa niente. Ognuno pensa solo a se stesso, a ciò che lo tocca in
prima persona.»
«Chissà se Jill ed Elizabeth sarebbero mai arrivate a rendersene conto.»
«Se l'amore che le legava era più forte della paura, allora sì, prima o poi
l'avrebbero certamente capito.»
«Adesso dove siamo dirette?»
«Più o meno verso il centro.»
Non le avevo rivelato l'itinerario che avevo in mente, le avevo detto solo
che volevo «dare un'occhiata intorno».
«Stai cercando quella maledetta auto, vero?»
«Be', tentar non nuoce.»
«E se poi la trovi?»
«Riprenderò il numero di targa e controllerò a chi corrisponde stavolta.»
«Bene», cominciò a ridere, «se trovi una Lincoln Mark Seven ardesia del
'90 con un adesivo di Colonial Williamsburg sul paraurti posteriore, sono
pronta a darti cento dollari.»
«Prima ti conviene controllare il portafogli. Se li hai davvero, giuro che
la ritrovo.»
E così fu, mezz'ora dopo la ritrovai. Come? Seguendo la vecchia, buona
regola: se cerchi qualcosa che hai perso, torna sui tuoi passi. Quando entrai
in Merchant's Square, la macchina era lì, nel parcheggio, non lontano da
dove l'avevamo vista la prima volta, quando l'uomo alla guida si era fermato per chiederci la strada.
«Gesù Cristo» sussurrò Abby. «Non riesco a credere ai miei occhi.»
Era vuota e sembrava essere stata appena lavata. Sul paraurti posteriore
spiccava un adesivo e la targa: ITU-144. Abby prese nota.
«È troppo facile, Kay. Non può essere.»
«Non sappiamo ancora se sia veramente la stessa. Voglio dire, l'aspetto è
quello, ma non ne abbiamo la certezza.»
Andai a parcheggiare una ventina di posti più in là, infilando la Mercedes fra una station wagon e una Pontiac, quindi rimasi seduta con gli occhi
puntati sulla facciata dei negozi. C'erano un corniciaio, un ristorante e un
negozio di articoli da regalo. Fra una tabaccheria e un panificio si apriva
una libreria: piccola, discreta, con la vetrina zeppa di libri. Sopra la porta,
un'insegna in stile coloniale: "The Dealer's Room".
«Le parole crociate» dissi in un soffio, mentre un brivido mi percorreva
la schiena.
«Cosa?» Abby stava ancora guardando la Lincoln.
«Jill ed Elizabeth erano appassionate di cruciverba. Spesso, la domenica,
uscivano a fare colazione e compravano il "New York Times".» Stavo già
aprendo la portiera.
Abby mi prese per un braccio, trattenendomi. «No, Kay. Aspetta un secondo. Dobbiamo pensarci bene.»
Tornai a sedermi.
«Non puoi entrare così, come se niente fosse» disse, ma più che un consiglio era un ordine.
«Voglio comprare un giornale.»
«E se lui è là dentro? Cosa farai?»
«Voglio vedere se è proprio lui, l'uomo dell'altra sera. Credo che lo riconoscerei.»
«Sì, e lui potrebbe riconoscere te.»
«"Dealer", o mazziere. Le carte» rimuginai a voce alta, mentre una giovane donna si avvicinava alla libreria, apriva la porta e spariva all'interno.
«La persona che distribuisce le carte, colui che distribuisce i fanti di cuori» aggiunsi in un sussurro.
«Quando ci ha chiesto le informazioni, tu gli hai parlato. E la tua foto è
andata sui giornali.» Abby era partita in quarta. «Tu resti qui, Kay. Ci andrò io.»
«Ci andremo tutt'e due.»
«Tu sei matta!»
«L'hai detto.» Ormai avevo deciso. «Resta qui buona, per favore. Tocca
a me.»
Scesi dalla macchina senza lasciarle il tempo di ribattere. Dopo un attimo fece lo stesso, ma subito si paralizzò, smarrita, mentre mi dirigevo con
determinazione verso il negozio. Non mi seguì. Aveva abbastanza buon
senso per capire che non era il posto dove mettersi a fare una scenata.
Quando impugnai la fredda maniglia d'ottone, il cuore mi pulsava in gola, e appena misi piede all'interno sentii le ginocchia piegarsi.
Era dietro il banco, sorrideva. Stava firmando un pagamento con carta di
credito. In quell'istante, una signora disse: «... I compleanni servono a questo, no? Cosa regali a tuo marito, se non il libro che tu stessa vorresti leggere?»
«L'importante è che alla fine a tutti e due piaccia lo stesso genere.» Aveva una voce suadente, gentile, una voce di cui ci si poteva fidare.
Adesso che finalmente ero entrata, non vedevo l'ora di uscire. Me la sa-
rei data a gambe. Di fianco al banco erano disposti alcuni pacchi di giornali, compreso il "New York Times". Avrei potuto prenderne uno, pagare in
fretta e andare. Ma non riuscivo a pensare di guardarlo negli occhi.
Era lui.
Mi girai e uscii senza voltarmi.
Abby sedeva in macchina e fumava.
«Non può lavorare là dentro e non sapere la strada per la Sessantaquattro» dissi, mettendo in moto.
Capì immediatamente. «Vuoi chiamare subito Marino o preferisci aspettare che torniamo a Richmond?»
«Gli telefoniamo adesso.» Cercai una cabina del telefono, ma mi risposero che Marino era fuori. Gli lasciai un messaggio. Diceva: «ITU-144.
Richiamami.»
Abby mi fece un sacco di domande, e io cercai di rispondere come potevo. Poi calò un lungo silenzio, mentre continuavo a guidare. Avevo mal di
stomaco. A un certo punto pensai anche di fermarmi, mi sembrava di dover vomitare.
Abby mi fissava imperterrita. Avvertivo il suo stato di agitazione.
«Mio Dio, Kay, sei pallida come un lenzuolo.»
«No, no, sto benone.»
«Vuoi che guidi io?»
«È tutto a posto, davvero.»
Quando arrivammo a casa, mi precipitai in camera da letto. Feci il numero con le mani che mi tremavano. La segreteria di Mark rispose al secondo squillo, stavo già per riattaccare quando mi ritrovai ipnotizzata dalla
sua voce.
«Spiacente, ma in questo momento non posso rispondervi...»
Al bip fui colta da una breve esitazione, quindi riappesi lentamente la
cornetta. Sollevai lo sguardo e vidi Abby ferma sulla porta. Dall'espressione capii che sapeva cosa avevo sperato di fare.
Rimasi a fissarla, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Un attimo dopo, era seduta al mio fianco sul bordo del letto.
«Perché non gli hai lasciato un messaggio?» mi sussurrò.
«Come facevi a sapere chi stavo chiamando?» balbettai.
«Perché è lo stesso impulso che mi prende quando sono sconvolta. Sollevare la cornetta, anche adesso, dopo tutto quel che è successo. Ho ancora
voglia di telefonare a Cliff.»
«E lo hai fatto?»
Scosse la testa.
«Non farlo, ti prego. Resisti, Abby, per favore.»
Mi scrutò attentamente. «È stato entrare in libreria e vederlo?»
«Non so. Non so.»
«Invece credo che tu lo sappia.»
Mi voltai dall'altra parte. «Succede quando mi avvicino troppo. Mi è già
capitato altre volte. So che sto rischiando, ma lo faccio lo stesso.»
«Quelli come noi non possono trattenersi, Kay. Ci prende un. bisogno irresistibile. Ecco perché succede.»
Non potei fare a meno di confessarle la mia paura. Se Mark avesse risposto, forse con lui non avrei avuto il coraggio di farlo.
Abby aveva lo sguardo distante quando chiese: «Con tutto quel che sai
sulla morte, pensi mai alla tua?»
Mi alzai di scatto. «Dove diavolo è finito Marino?» Presi il telefono e rifeci il numero.
16
I giórni diventarono settimane. L'attesa continuava. Non avevo più sentito Marino da quando gli avevo passato l'informazione sul "Dealer's
Room". A dire il vero non avevo più sentito nessuno. Il silenzio si faceva
più intenso e minaccioso.
Il primo giorno di primavera uscii dalla sala riunioni dopo avere conferito per tre ore con due avvocati. Rose mi comunicò che c'era una chiamata
in linea.
«Kay? Sono Benton.»
«Buongiorno» dissi, subendo una scarica di adrenalina.
«Puoi venire a Quantico domani?»
Presi l'agenda. Rose mi aveva fissato una riunione, ma potevo rimandarla.
«A che ora?»
«Le dieci, se ti sta bene. Ho già avvisato anche Marino.»
Prima che potessi fargli domande, mi disse che doveva scappare e che
mi avrebbe aggiornato su tutto nel corso dell'incontro.
Lasciai l'ufficio poco dopo le sei. Il sole era già tramontato, l'aria frizzante. Quando svoltai nel vialetto, vidi le luci accese. Abby era in casa.
Ultimamente ci eravamo incrociate di rado, eravamo sempre fuori, non
avevamo il tempo di parlarci. Non andava quasi mai a fare la spesa, ma
spesso mi lasciava un biglietto da cinquanta dollari sul frigorifero, una
somma che bastava abbondantemente a coprire quel poco che mangiava.
Se le scorte di vino o di scotch cominciavano a calare, trovavo una banconota da venti sotto la bottiglia. Alcuni giorni prima ne avevo scoperta una
da cinque appoggiata al fustino di detersivo vuoto. Girare per le stanze era
diventata una specie di caccia al tesoro.
Quando aprii la porta, mi ritrovai Abby davanti. Feci un salto.
«Scusa. Ti ho sentito arrivare in macchina. Non intendevo farti paura.»
Mi sentii un po' scema. Da quando si era trasferita lì, non facevo che
prendermi spaventi. Probabilmente non avevo ancora digerito la perdita di
privacy.
«Posso prepararti un drink?» Aveva l'aria stanca.
«Grazie» dissi, sbottonandomi il cappotto. Lanciai un'occhiata in salotto.
Sul tavolino, accanto a un portacenere pieno di mozziconi, erano appoggiati un bicchiere di vino e numerosi blocchi per appunti.
Mi spogliai e sfilai i guanti, poi salii in camera e li gettai sul letto, fermandomi a riascoltare i messaggi sulla segreteria. Mia madre mi aveva
cercato. Se entro le otto di sera avessi chiamato un certo numero, avrei vinto un premio. Marino aveva telefonato per dirmi a che ora sarebbe passato
a prendermi il mattino dopo. Mark e io, invece, continuavamo a non trovarci e comunicavamo solo attraverso le rispettive segreterie.
«Domani devo andare a Quantico» annunciai ad Abby quando scesi di
nuovo.
Lei mi indicò il bicchiere sul tavolo.
«Marino e io abbiamo un appuntamento con Benton» spiegai.
Lei prese le sigarette.
«Non so di cosa si tratti» proseguii. «Forse me lo puoi dire tu, però.»
«E come faccio a saperlo?»
«Ultimamente non sei stata molto in casa. Non so cosa tu stia facendo.»
«Be', neanch'io so cosa fai quando sei in ufficio.»
«Niente di particolare. Cosa vorresti sapere, di preciso?» dissi, cercando
di allentare la tensione.
«Se non chiedo è perché so che sei una persona riservata, Kay. Non voglio opprimerti.»
Come dire, pensai, che se le avessi fatto delle domande sarei stata io a
diventare opprimente.
«Abby, la verità è che in questi giorni mi sembri molto distante.»
«Sono preoccupata. Ma niente di personale, credimi.»
Certo doveva avere un bel po' di pensieri, visto il libro che stava scrivendo e le decisioni sulla sua vita privata. Tuttavia, non l'avevo mai vista
così chiusa in se stessa.
«È che mi dispiace, ecco tutto» la tranquillizzai.
«Tu non capisci come sono fatta, Kay. Quando una cosa mi prende, alla
fine mi consuma. Non riesco a staccarmene mentalmente.» Fece una pausa. «Avevi ragione a dire che questo libro sarebbe stato la mia possibilità
di riscatto.»
«Sono felice di sentirtelo dire. Conoscendoti, sarà di certo un bestseller.»
«Forse. Non sono sicuramente l'unica che ha interesse a scrivere un libro
come questo. Il mio agente ha già sentito parlare di altri progetti. Comunque ho un buon inizio, e se mi impegno riuscirò a farcela.»
«Non è al tuo libro che io tengo, Abby. Sei tu.»
«Anch'io tengo a te, Kay. E apprezzo ciò che hai fatto permettendomi di
stare qui. Ti prometto che non durerà ancora molto.»
«Puoi restare finché vuoi.»
Prese i blocchi e il suo bicchiere. «Presto dovrò mettermi a scrivere, ma
ho bisogno di uno spazio tutto mio, del mio computer.»
«Allora in questi giorni stavi ancora facendo lavoro di ricerca.»
«Sì. E ho trovato un sacco di cose che non sapevo nemmeno di cercare»
rispose in modo enigmatico, dirigendosi in camera da letto.
Ormai vista dell'uscita per Quantico, il traffico si bloccò improvvisamente. A quanto pareva, c'era stato un incidente sulla I-95, a nord
di dove ci trovavamo. Eravamo intrappolati in un ingorgo. Marino accese i
fari e si buttò sul ciglio della strada, proseguendo per un centinaio di metri
con i sassi che rimbalzavano contro il fondo della macchina.
Nel corso delle ultime due ore mi aveva fatto la cronaca dettagliata dei
suoi più recenti successi domestici, mentre io mi domandavo cosa avesse
in serbo per noi Wesley e continuavo a ripensare preoccupata ad Abby.
«Non mi ero mai reso conto di che razza di stronze fossero le tende a
veneziana» si lamentò Marino, sfrecciando accanto ai dormitori dei Marines e a un campo d'esercitazioni. «Sono lì che le pulisco con lo spray, no?»
Mi lanciò un'occhiata. «Un minuto a stecca, capisci, e una montagna di
salviette di carta per asciugarle. Alla fine mi si accende la lampadina, e cosa faccio? Le tiro giù e le infilo nella vasca da bagno. Poi apro l'acqua calda e ci verso del detersivo. Ti dico che sono venute una meraviglia.»
«Magnifico» borbottai.
«Adesso voglio togliere la tappezzeria in cucina. Era già lì quando siamo
entrati. A Doris non è mai piaciuta.»
«Il problema è se piace a te. Sei tu che ci vivi, adesso.»
Si strinse nelle spalle. «Se proprio vuoi saperlo, io non ci ho mai fatto
molto caso. Ma penso che se Doris diceva che faceva schifo, probabilmente era vero. Una volta avevamo pensato di vendere il camper e di installare
una piscinetta. Be', è la volta che lo faccio sul serio. Meglio pensarci prima
che arrivi l'estate, no?»
«Stai attento, Marino» dissi affettuosamente. «Le cose devi farle per te,
non per gli altri.»
Non rispose.
«Non proiettare le tue speranze sull'arredamento di casa.»
«Comunque, male non può farmi» ribatté dopo un po'. «Anche se non ritorna, un posto gradevole è sempre meglio.»
«Bene. Vuol dire che prima o poi mi inviterai, allora.»
«Certo. Con tutte le volte che sono venuto a casa tua.»
Parcheggiò la macchina e scendemmo. L'Accademia dell'Fbi si era allargata come un cancro verso i confini della base dei Marines. L'edificio
principale, con la sua fontana e le sue bandiere, era stato trasformato nella
sede dell'amministrazione, mentre il centro delle attività era stato spostato
in una costruzione adiacente, nuova e di mattoni. Dall'ultima volta che ero
stata a Quantico avevano anche eretto un altro blocco di dormitoli. In sottofondo udivo colpi di fucile che esplodevano secchi come fuochi d'artificio.
Marino registrò la sua .38 all'entrata, quindi firmammo e ci attaccammo
i pass. Mi guidò lungo una serie di scorciatoie, evitando i passaggi coperti
e i tunnel simili a cunicoli di talpe. Lo seguii attraverso una porta che dava
sull'esterno e ci ritrovammo su una piattaforma di carico, quindi in una cucina. Alla fine spuntammo nel retro dello spaccio, che Marino percorse a
passo deciso senza degnare di uno sguardo la giovane commessa che riordinava le magliette. La ragazza aprì la bocca in segno di protesta. Usciti
dal negozio e svoltato un angolo, ci tuffammo nel bar chiamato The Boardroom, dove Wesley ci aspettava a un tavolo d'angolo.
Non perse tempo e venne subito al dunque.
Il proprietario della libreria "The Dealer's Room" era un certo Stephen
Spurrier. Benton lo descrisse come un «bianco di trentaquattro anni, capelli neri e occhi castani. Un metro e ottanta per ottanta chili di peso.» Spur-
rier non era ancora stato né fermato, né interrogato, ma si trovava sotto
sorveglianza continua. E ciò che fino a qual momento avevano osservato,
non era esattamente normale.
In diverse occasioni, a tarda ora, si era allontanato dalla sua casa a due
piani per recarsi in due bar e in un'area di sosta. In nessuno dei tre luoghi si
tratteneva mai a lungo, ed era sempre solo. La settimana prima aveva avvicinato una giovane coppia che usciva da un locale chiamato Tom-Toms. A
quanto risultava aveva di nuovo chiesto indicazioni stradali. Non era successo altro. La coppia era salita in macchina e se n'era andata. Spurrier era
rimontato a bordo della Lincoln e dopo alcuni giri era rincasato. La targa
era rimasta quella.
«Abbiamo un problema di prove» disse Wesley, fissandomi con espressione severa da dietro gli occhiali senza montatura. «In laboratorio, qui, c'è
un bossolo, e a Richmond c'è il proiettile che hai estratto dal corpo di Deborah Harvey.»
«Veramente il proiettile non l'ho più io» obiettai. «L'ha tenuto il Forensic Science Bureau. Immagino abbiate iniziato l'analisi del Dna sul sangue
recuperato dalla macchina di Elizabeth Mott.»
«Avremo i risultati fra un paio di settimane.»
Annuii. Il laboratorio di ricerca sul Dna dell'Fbi utilizzava cinque campioni polimorfi, ognuno dei quali doveva restare nella sviluppatrice a raggi
X per circa una settimana - ragion per cui qualche tempo prima avevo
scritto a Benton suggerendogli di farsi mandare subito da Montana il materiale, per iniziare immediatamente le analisi.
«Il Dna non serve a niente senza un campione di sangue del nostro uomo» rammentò Marino.
«Stiamo provvedendo anche a quello» rispose Wesley, impassibile.
«Sì, be', effettivamente potremmo incastrare Spurrier per la storia delle
targhe. Perché non andiamo a chiedergli come mai, qualche settimana fa,
se ne andava in giro con la targa di Aranoff?»
«Non possiamo dimostrarlo, Marino. Sarebbe solo la parola di Abby e di
Kay contro la sua.»
«Ci occorre solamente un magistrato disposto a firmare un mandato.
Dopodiché potremmo cominciare a indagare come si deve. Chissà, potremmo anche trovargli in casa dieci paia di scarpe» insisté Marino. «O un
Uzi, delle munizioni Hydra-Shok o altre cosette interessanti.»
«È quel che intendiamo fare» proseguì Benton. «Ma l'importante è procedere un passo alla volta.»
Si alzò per andare a prendere un altro caffè, e Marino lo seguì con le nostre due tazze. A quell'ora il Boardroom era deserto. Guardai i tavoli vuoti,
il televisore in un angolo, e cercai di immaginarmi l'atmosfera che doveva
regnare lì dentro di sera. Gli agenti in fase d'addestramento conducono una
vita monacale. Nei dormitori, muniti di porte senza chiave, non sono ammessi né rappresentanti dell'altro sesso, né alcol, né sigarette. I dissapori,
le liti, le indiscrezioni si sviluppavano e crescevano nel bar. Mi tornarono
in mente i racconti di Mark: una volta aveva scatenato una rissa, quando
un agente Fbi un po' troppo zelante aveva deciso di "arrestare" una tavolata
di veterani della Dea. Risultato: sedie rotte, bicchieri infranti, birra e popcorn dappertutto.
Marino e Wesley tornarono al tavolo. Wesley si tolse la giacca e la appese ordinatamente alla spalliera della seggiola. Notai che, come sempre,
indossava una camicia bianca priva di grinze, e aveva una cravatta di seta
blu punteggiata da minuscoli gigli bianchi. Le bretelle azzurre si accordavano con la cravatta. Marino, invece, era l'esatto opposto: con il suo ventre
prominente, non avrebbe reso giustizia nemmeno al più elegante degli abiti. Tuttavia, in quel periodo dovevo dargli atto di una cosa: ce la stava mettendo tutta, stava proprio cercando di applicarsi.
«Cosa sai del passato di Spurrier?» chiesi. Wesley stava prendendo appunti e Marino rileggeva un documento, come se si fossero entrambi dimenticati della presenza di una terza persona al tavolo.
«Non è schedato» rispose Benton, sollevando gli occhi. «Mai stato arrestato, e negli ultimi dieci anni non si è nemmeno beccato una multa per eccesso di velocità. Ha comprato la Lincoln nel febbraio del '90, da un concessionario di Virginia Beach, dando dentro la sua vecchia Town Car e
pagando il resto in contanti.»
«Be', deve averne di soldi, allora» commentò Marino. «Guida auto di
lusso e vive in una bella casa. Stento a credere che la libreria possa fruttargli tanto.»
«No, infatti non guadagna molto» confermò Benton. «Stando alla dichiarazione dei redditi dell'anno scorso, meno di trentamila dollari. Ma ha
proprietà per un valore superiore al mezzo milione di dollari, fondi di investimento, immobili al mare e diverse azioni.»
«Cristo.» Marino scosse la testa.
«Dipendenti?» indagai.
«Nessuno» rispose Wesley. «Non si è mai sposato ed entrambi i genitori
sono morti. Il padre era un agente immobiliare di successo, a Northern
Neck. Morì quando il figlio aveva circa vent'anni. Immagino sia da lì che
provengono i suoi fondi.»
«E la madre?»
«Anche lei morì, più o meno un anno dopo il marito. Cancro. Era nato
da genitori anziani, sua madre aveva quarantadue anni quando lo mise al
mondo. L'unico parente stretto è un fratello. Si chiama Gordon, vive in
Texas e ha quindici anni più di lui. È sposato, con quattro figli.»
Sfogliando il blocco per appunti, Wesley ci diede altre informazioni.
Steve Spurrier era nato a Gloucester, aveva frequentato la University of
Virginia e si era laureato in letteratura inglese. In seguito era entrato in marina, dove però era rimasto meno di quattro mesi. Negli undici successivi,
aveva lavorato presso una tipografia come responsabile della manutenzione.
«Quei quattro mesi nell'esercito.... mi piacerebbe saperne di più» disse
Marino.
«Ah, non c'è molto da sapere. Dopo essersi arruolato, venne mandato in
un campo di addestramento nella zona dei Grandi Laghi. Scelse di specializzarsi in giornalismo e fu assegnato alla Scuola d'Informazione della Mesa, a Fort Benjamin Harrison, Indianapolis. In seguito gli comunicarono il
suo incarico definitivo: avrebbe dovuto lavorare per il comandante in capo
della Flotta Atlantica a Norfolk.» Wesley sollevò la testa dagli appunti.
«Circa un mese dopo, suo padre morì e Steven fu congedato perché potesse tornare a Gloucester, per prendersi cura della madre già malata di cancro.»
«E il fratello?»
«A quanto pare non poteva assentarsi dal lavoro e abbandonare la famiglia in Texas.» Benton fece una pausa, guardandoci. «Ma forse la vera ragione fu un'altra. Naturalmente, i rapporti fra Steven e i famigliari mi interessano molto, ma credo che dovremo accontentarci di quanto sappiamo.
Almeno per un po'.»
«Perché?» chiesi.
«In questo momento mi sembra troppo rischioso tirare in causa il fratello. Non vorrei si mettesse in contatto con Steven per avere spiegazioni,
rompendoci le uova nel paniere. Peraltro, non credo che quel Gordon sia
particolarmente disponibile a collaborare. I parenti tendono sempre a fare
fronte comune, in situazioni come questa, anche se non vanno d'accordo.»
«Con qualcuno però hai parlato» intervenne Marino.
«Un paio di persone dei tempi della marina e dell'università, e il suo da-
tore di lavoro alla tipografia.»
«E che altro ti hanno detto?»
«Lo hanno descritto come un solitario. Come giornalista non valeva
granché, gli interessava molto di più leggere che non fare interviste o scrivere articoli. Apparentemente, il lavoro in tipografia gli andava a pennello.
Se ne stava in disparte, e quando non c'era molto da fare leggeva. Il suo
principale dice che gli piaceva occuparsi delle stampatrici e che era un tecnico eccezionale. A volte passava intere giornate senza rivolgere la parola
a nessuno. Un tipo strano, questa è l'immagine.»
«Qualche esempio della sua stranezza?»
«Sì, il datore di lavoro ha riferito un paio di aneddoti» continuò Wesley.
«Un mattino una lavorante si affettò la punta di un dito con una taglierina.
Spurrier si arrabbiò a morte perché gli sporcò di sangue una macchina che
aveva appena finito di pulire. Anche il modo in cui reagì alla morte della
madre non fu propriamente normale. Era nell'ora di pausa e stava leggendo
quando telefonarono dall'ospedale. Non sembrò minimamente turbato: tornò a sedersi e riprese a leggere.»
«Un ragazzo dal cuore grande» commentò Marino.
«Nessuno lo ha mai descritto come un tipo tenero o affettuoso.»
«Cosa successe dopo la morte della madre?» chiesi.
«Immagino che a quel punto ereditò. Si trasferì a Williamsburg, prese in
affitto il negozio di Merchant's Square e aprì la Dealer's Room. Esattamente nove anni fa.»
«Un anno prima dell'assassinio di Jill Harrington ed Elizabeth Mott»
dissi.
Wesley annuì. «Sì, all'epoca stava già da quelle parti. È sempre rimasto
in zona. Da quando ha aperto la libreria, ha continuato a lavorarci ininterrottamente, tranne un periodo di circa cinque mesi, più o meno sette anni
fa. Allora il negozio rimase chiuso. Ma non sappiamo perché, né dove si
trovasse Spurrier.»
«Ed è l'unico a gestire il negozio?» intervenne Marino.
«Sì, è un esercizio piccolo, non ha dipendenti. La libreria resta chiusa il
lunedì. Quando non c'è molto movimento lui se ne sta seduto dietro il banco a leggere; se si assenta dal negozio, chiude direttamente o lascia un cartello dove dice a che ora sarà di ritorno. Ha anche una segreteria telefonica.
Se ti serve un certo libro o hai bisogno che ti recuperi un testo fuori commercio, gli lasci un messaggio e lui provvede.»
«È interessante che un tipo così asociale abbia deciso di dedicarsi a u-
n'attività che invece gli impone uno stretto contatto con il pubblico» notai.
«Al contrario, è una trovata perfetta» ribatté Wesley. «La libreria costituisce un punto d'osservazione ottimale per un voyeur, o comunque per
una persona che voglia osservare la gente senza doverci interagire in maniera diretta. Gli studenti del William and Mary si servono spesso da lui,
perché oltre alla normale letteratura, Spurrier tiene pubblicazioni strane o
difficili da trovare. Inoltre, ha una vasta scelta di romanzi di spionaggio e
di riviste militari, il che attira la clientela delle basi lì vicino. Se il killer è
lui, studiare le giovani coppie o i militari che entrano nel suo negozio di
sicuro lo affascina. Ma gli provoca al tempo stesso sentimenti di inadeguatezza, di frustrazione, di rabbia. Probabilmente odia ciò che invidia, e invidia ciò che odia.»
«Mi domando se in marina non fu oggetto di scherno» dissi.
«Da quanto ci è stato riferito, di sicuro è andata così, almeno in parte. I
commilitoni lo consideravano un perdente, mentre i suoi superiori lo trovavano arrogante e distaccato, sebbene non abbia mai avuto grane disciplinari. Con le donne non aveva successo e se ne stava molto sulle sue, un po'
per scelta, un po' perché gli altri non lo trovavano particolarmente simpatico.»
«Forse il periodo trascorso in marina fu quello in cui andò più vicino a
realizzarsi come uomo» disse Marino, «a diventare ciò che voleva essere.
Poi il padre muore e lui deve accollarsi il peso della madre. A quel punto il
suo cervello va in tilt.»
«In effetti è possibile» ammise Wesley. «In ogni caso, il killer con cui
abbiamo a che fare è senza dubbio convinto che i suoi problemi siano colpa degli altri. È un individuo che non si assume responsabilità. Sente che
la sua vita è stata sempre controllata da altri e quindi per lui controllare il
mondo esterno è diventata un'ossessione.»
«Insomma, vuole farcela pagare» commentò Marino.
«Sta dimostrando di essere forte, di avere potere. Se nelle sue fantasie
c'è una componente militaresca, e credo sia proprio così, è convinto di essere il soldato per eccellenza. Uccide, e nessuno lo scopre. Batte in astuzia
il nemico, gioca al gatto col topo e alla fine vince. È possibile che abbia
deliberatamente agito in modo da deviare i sospetti su un soldato di professione, come un agente di Camp Peary.»
«In poche parole, la vera campagna di disinformazione l'ha fatta lui»
considerai.
«Non può distruggere l'apparato militare, ma può infangarne l'immagine,
può degradarlo e infamarlo.»
«Sì, e intanto se la ride» disse Marino.
«La questione principale è che le attività dell'assassino sono il prodotto
di fantasie erotiche violente già attive nel passato, in un contesto di isolamento sociale primario. Crede di vivere in un mondo ingiusto, e la fantasia
gli offre una via di fuga. È proprio nell'immaginario che può esprimere le
sue emozioni e controllare gli altri esseri umani, dove può realizzarsi e ottenere ciò che vuole. Lì riesce a esercitare un controllo sulla vita e sulla
morte, e ha il potere di decidere se ferire o uccidere.»
«Peccato però che non si limiti a fantasticare» interloquì Marino. «Ci risparmierebbe di stare qui seduti a parlare di certe cose.»
«Purtroppo non funziona così. Se un comportamento violento e aggressivo ti domina i pensieri e l'immaginazione, tendi ad agire nel modo che
può permetterti di esprimere tali emozioni. La violenza alimenta altri pensieri violenti, e nuovi pensieri violenti alimentano la violenza nei fatti. Dopo un po', essere violento e uccidere diventano una parte naturale e integrante della tua vita adulta, e non ci trovi più niente di strano. Hai idea di
quanti serial killer mi hanno tranquillamente confessato di avere solo messo in pratica ciò che tutti gli altri si limitano a pensare?»
Fu allora che esposi la mia teoria sulla borsetta di Deborah Harvey.
«Secondo me il killer sapeva chi era Deborah» esordii. «Forse non se n'è
reso conto immediatamente, ma al momento di ucciderli aveva già capito.»
«Ti pregherei di essere più esplicita» disse Wesley molto interessato.
«Per caso vi è capitato di dare un'occhiata all'analisi delle impronte digitali?»
«Sì» rispose Marino.
«Bene. Come saprai, quando Vander esaminò la borsetta di Deborah
trovò delle impronte sulle sue carte di credito, mentre la patente era assolutamente intonsa.»
«E allora?» Marino era perplesso.
«Il contenuto della borsa si è conservato perché il tessuto era impermeabile. Le carte di credito e la patente erano tenute in custodie di plastica, a
loro volta chiuse in una tasca con cerniera, e dunque protette dall'azione
degli agenti atmosferici e dei fluidi corporei della decomposizione. Se
Vander non avesse rilevato nulla da nessuna parte, allora okay. Ma trovo
curioso che il risultato dell'analisi sia diverso per le carte di credito e la patente, visto che sappiamo con certezza che Deborah la esibì al SevenEleven, quando cercò di acquistare la birra. Dunque, toccò la patente, e co-
sì pure la commessa, che la prese fisicamente in mano. Ora, mi chiedo se
l'assassino non abbia avuto a sua volta occasione di toccarla, trovandosi
poi costretto a ripulirla con cura.»
«E perché avrebbe preso in mano la patente?» disse Marino.
«Forse, mentre erano in macchina sotto la minaccia della pistola, Deborah ha cercato di spaventarlo rivelandogli la propria identità».
«Interessante» commentò Benton.
«Anche se lei era una ragazza modesta, si rendeva perfettamente conto
del ruolo della sua famiglia, di che razza di potere avesse la madre» proseguii. «Magari lo disse all'assassino nella speranza di fargli cambiare idea,
impaurendolo con la prospettiva delle conseguenze. E in effetti il killer potrebbe essersi spaventato e avere preteso da Deborah una prova. A questo
punto, le strappa la borsa e ne estrae la patente.»
«Ma allora come ha fatto la borsetta ad arrivare nel bosco, e perché l'assassino ci ha messo dentro il fante di cuori?» insisté Marino.
«Probabilmente stava cercando di guadagnare tempo» dissi. «Sapeva che
la jeep sarebbe stata rinvenuta in fretta, e se aveva scoperto l'identità del
suo ostaggio doveva anche aver capito che le operazioni di ricerca sarebbero state particolarmente intense. Forse ha preferito non giocare subito la
sua carta, in senso letterale: invece di metterla nella macchina, la lascia insieme ai corpi. Infilandola nella borsetta e mettendo la borsetta sotto il cadavere di Deborah, è comunque sicuro che il fante verrà ritrovato, anche se
non può sapere per quanto tempo si conserverà intatto. Insomma, questa
volta cambia leggermente le regole, ma alla fine vince lo stesso.»
«Convincente, no? Tu cosa ne pensi?» Marino guardò Wesley.
«Penso che non sapremo mai con esattezza cosa è successo, ma non mi
stupirebbe se Deborah avesse agito nel modo descritto da Kay» ammise.
«Una cosa è certa: indipendentemente dalle minacce della ragazza, per il
killer non sarebbe stato saggio liberarli, perché Fred e Deborah avrebbero
poi potuto identificarlo. Quindi portò ugualmente a termine il suo piano,
anche se l'imprevisto può avergli fatto saltare i nervi. Sì» ripeté, girandosi
dalla mia parte, «questo può averlo indotto a modificare il rituale. Ma il
fante nella borsetta di Deborah può anche essere stato un modo per dimostrare il suo disprezzo.»
«Come dire, me ne fotto di te» sentenziò Marino.
«Più o meno» rispose Wesley.
Steven Spurrier venne arrestato il venerdì seguente, quando due agenti
Fbi e un investigatore locale che lo avevano pedinato tutto il giorno lo seguirono nel parcheggio dell'aeroporto di Newport News.
La telefonata di Marino mi svegliò poco prima dell'alba, e il mio primo
pensiero fu che era scomparsa un'altra coppia. Mi ci volle un momento per
capire cosa stava dicendo.
«Lo hanno beccato con le mani nel sacco mentre svitava un'altra targa e
lo hanno arrestato con l'accusa di furto. Il massimo che potevano fare, capisci, ma speriamo che si freghi da solo.»
«Un'altra Lincoln?» mi informai.
«Questa volta del 1991, grigio-argento. Adesso è in manette, in attesa di
incontrare il magistrato. Certo non possono trattenerlo con un capo d'accusa così stupido. Ma proveranno a temporeggiare, la tireranno per le lunghe
con il processo. Dopodiché, sarà fuori.»
«Cosa ne dici di un mandato di perquisizione?»
«La sua tana pullula già di poliziotti e agenti federali. Stanno esaminando tutto, dalle copie di "Soldier of Fortune" ai giocattolini di latta.»
«Immagino ci stia andando anche tu.»
«Sì. Ti terrò aggiornata.»
A quel punto mi misi la vestaglia sulle spalle, scesi e andai ad accendere
la luce nella camera di Abby.
«Sono io» dissi, mentre lei si tirava a sedere. Emise un grugnito, coprendosi gli occhi.
Le riferii l'accaduto. Poi andammo insieme in cucina a prepararci un caffè.
«Non so cosa darei per essere presente alla perquisizione.» Era così eccitata che mi stupii di non vederla precipitarsi fuori.
Al contrario, rimase in casa tutto il giorno. Pulì la stanza, mi aiutò in cucina, arrivò persino a scopare la veranda. Voleva sapere cos'aveva trovato
la polizia ed era abbastanza intelligente da rendersi conto che prendere la
macchina e andare a Williamsburg non l'avrebbe aiutata: certo non l'avrebbero lasciata entrare né in casa di Spurrier, né in libreria.
Marino fece un salto da noi quella sera, mentre Abby e io stavamo caricando la lavastoviglie. Dall'espressione dipinta sul suo viso, capii immediatamente che le notizie non erano buone.
«Prima vi racconto cosa non abbiamo trovato» esordì. «Non abbiamo
trovato niente che possa convincere una giuria. Nessun coltello, a parte
quelli in cucina. Niente armi né munizioni. Nessun ricordino, tipo scarpe,
gioielli, riccioli di capelli o effetti personali appartenuti alle vittime.»
«Hanno perquisito anche il negozio?»
«Chiaro.»
«E la macchina, naturalmente.»
«Bene. Adesso dicci cosa avete trovato» lo pregai.
«Strane cose, ma quanto basta per capire che è stato proprio lui. Voglio
dire, non è certo un boy scout. Ha la casa piena di giornali pornografici,
una collezione di libri militari, soprattutto sulla Cia, e archivi zeppi di ritagli di giornale che parlano della Cia. Tutto catalogato. È più meticoloso di
un vecchio bibliotecario.»
«Avete trovato anche servizi su questi casi?» intervenne Abby.
«Sì, compresi vecchi reportage su Jill Harrington ed Elizabeth Mott. E
poi lunghe liste di negozi specializzati in articoli di survival, dalle auto corazzate ai bomb-detector, agli occhiali per la visione notturna. L'Fbi controllerà da cima a fondo, scoprirà cosa ha ordinato nel corso degli anni.
Comunque anche i suoi vestiti sono piuttosto interessanti. Nell'armadio
della camera da letto avrà una dozzina di tute da ginnastica di nylon, tutte
nere o blu scuro, mai usate, senza etichette: forse le indossava sopra gli abiti e poi, usa e getta, le scaricava da qualche parte dopo gli omicidi.»
«Il nylon non lascia tracce» commentai. «Cose come le giacche a vento
non lasciano in giro molte fibre.»
«Esatto. E poi, che altro?» Marino fece una pausa, vuotando il bicchiere.
«Ah, sì. Due scatole di guanti chirurgici e una scorta di quelle ghette che
usi anche tu in laboratorio, per proteggerti le scarpe.»
«Soprascarpe?»
«Sì, dài, come quelle che ti metti in obitorio per non sporcarti di sangue.
E indovina un po'? Hanno anche trovato delle carte, ben quattro mazzi, ancora nuovi, avvolti nel cellophane.»
«Magari anche un mazzo già aperto e senza il fante di cuori?» chiesi.
«Ovvio che no. Però la cosa non mi sorprende. Probabilmente tira via il
fante e butta il resto.»
«Tutte della stessa marca?»
«No. Ce n'erano due diverse.»
Abby sedeva in silenzio, le mani incrociate in grembo.
«Non capisco come mai non ci fossero armi» dissi.
«Ehi, capo, questo è uno che sa il fatto suo. Ci va coi piedi di piombo.»
«Forse, ma non abbastanza. I ritagli di giornale, le tute di nylon e i guanti li ha tenuti. E si è fatto cogliere in flagrante mentre rubava una targa, il
che mi fa sorgere il dubbio che stesse preparandosi a colpire di nuovo.»
«Se è per quello, aveva una targa rubata anche quando vi fermò per
chiedervi indicazioni» disse Marino. «E in quel weekend non è scomparsa
nessuna coppia, che io sappia.»
«Vero. Così come è vero che non indossava indumenti di nylon» ammisi.
«Magari non se li mette subito. Chissà, forse gira con una borsa nel bagagliaio. Secondo me ha un vero e proprio equipaggiamento.»
«Avete trovato una sacca da ginnastica» intervenne di colpo Abby.
«No» disse Marino. «Niente del genere.»
«Perché se trovaste quella» continuò lei, «magari ci scoprireste dentro
una specie di kit: tuta, coltello, pistola, occhiali e via dicendo.»
«Adesso dove si trova?» chiesi.
«Quando sono uscito era seduto in cucina e beveva un caffè. Uno spettacolo da non credere: gli mettono a soqquadro la casa e lui non fa una piega. Neanche una goccia di sudore sulla fronte. Quando gli hanno chiesto
delle tute, dei guanti, delle carte, ha risposto che non avrebbe parlato in assenza del suo avvocato. Poi ha bevuto un sorso di caffè e si è acceso una
sigaretta come se fosse da solo. Ah, già, dimenticavo: fuma.»
«Che marca?»
«Dunhill. Probabilmente le compra in quella tabaccheria di fianco al suo
negozio. E ha anche uno splendido accendino, dev'essergli costato una fortuna.»
«Ecco perché spela i mozziconi che semina sul luogo del delitto, ammesso che faccia proprio così» dissi. «Le Dunhill si riconoscono subito.»
«Infatti» convenne Marino. «Hanno quella banda dorata intorno al filtro,
no?»
«C'è modo di incastrarlo?»
«Oh, sì.» Sorrise. «Abbiamo il nostro piccolo asso nella manica, con cui
batteremo il suo fante di cuori. Anche ammesso di non riuscire a inchiodarlo per gli altri casi, resta l'assassinio di Jill Harrington ed Elizabeth
Mott, con l'esame del Dna. Peccato ci voglia tutto questo tempo.»
Quando Marino se ne fu andato, Abby mi guardò con aria fredda e distaccata.
«Cosa ne pensi?» le chiesi.
«Tutte prove circostanziali.»
«Per adesso.»
«Spurrier è ricco. Di sicuro si rivolgerà al migliore avvocato. Te lo dico
io come andrà a finire: il legale dirà che il suo cliente è stato ingiustamente
accusato da polizia e agenti federali tenuti sotto pressione. E che c'è un
sacco di gente che cerca solo un capro espiatorio, soprattutto alla luce delle
accuse di Pat Harvey.»
«Abby...»
«E se il killer fosse veramente qualcuno di Camp Peary.»
«Non mi dirai che lo pensi sul serio» protestai.
Diede un'occhiata all'orologio. «Forse i federali sanno chi è e hanno anche già risolto il caso. Segretamente, si intende, il che spiegherebbe come
mai dopo Fred e Deborah non è più scomparso nessuno. Ma qualcuno deve
pagare, e pubblicamente.»
Riappoggiandomi allo schienale della sedia, rovesciai la testa all'indietro
e chiusi gli occhi, mentre Abby continuava a parlare. «Di sicuro questo
Spurrier ha le mani sporche, altrimenti non ruberebbe le targhe. Magari è
un semplice spacciatore. O un rapinatore, o un povero mentecatto che trae
piacere nel farla franca per un giorno. Capisco, è un tipo strano, quindi più
che sospetto; ma il mondo è pieno di gente strana che non ha mai ucciso
nessuno. Chi mi assicura che il materiale trovato a casa sua non fosse stato
messo li apposta?»
«Basta, per favore» la implorai.
Ma non si fermò. «È tutto così perfetto, non capisci? Le tute di nylon, i
guanti, i mazzi di carte, le riviste porno e i ritagli di giornale. L'unica cosa
che manca sono le armi e le munizioni. Eppure Spurrier è stato colto di
sorpresa, non poteva sapere di essere pedinato. Quindi non solo non tornano i conti, ma è addirittura evidente: l'unica prova che i federali non potevano mettergli in casa è la pistola da cui è partito il proiettile che tu hai estratto dalla schiena di Deborah Harvey.»
«Hai ragione. Quella non potevano proprio mettercela.» Mi alzai e presi
a lavare il ripiano della credenza, incapace di stare ferma.
«Insomma, è significativo che sia l'unica cosa che non hanno trovato.».
Non era la prima volta che sentivo storie di poliziotti o di agenti federali
accusati di avere sistemato delle prove per incastrare un sospettato.
«Non mi stai ascoltando» disse Abby.
«Ho solo voglia di farmi un bagno.»
Si avvicinò al lavandino dove stavo strizzando lo strofinaccio.
«Kay?»
Mi bloccai e alzai gli occhi.
«Tu speri che le cose siano semplici» mi ammonì.
«Lo spero sempre. Il punto è che non succede mai.»
«Speri che siano semplici» ripeté, «e non accetti l'idea che le persone di
cui ti sei sempre fidata possano mandare un innocente sulla sedia elettrica
solo per pararsi il culo.»
«È fuori di dubbio. Certo che non lo voglio credere. Mi rifiuto di pensarlo finché non avrò davanti le prove. E poi anche Marino è andato a casa di
Spurrier, e lui non si presterebbe mai a un gioco simile.»
«C'è andato, certo» convenne Abby, allontanandosi. «Ma non è arrivato
per primo. Anche lui potrebbe avere visto ciò che volevano fargli vedere.»
17
La prima persona che incontrai in ufficio il lunedì seguente fu Fielding.
Ero entrata nello stabile dalla parte dell'area di carico, e lo trovai giù in
camice che aspettava l'ascensore. Nel notare i soprascarpe di carta plastificata pensai a ciò che la polizia aveva ritrovato in casa di Spurrier. Le nostre forniture mediche erano regolate da un contratto statale, ma in qualunque città esistevano negozi specializzati nella vendita di prodotti simili.
Per acquistare soprascarpe e guanti chirurgici non c'era bisogno di essere
medici, così come non occorreva essere un agente per procurarsi una pistola o un'uniforme con tanto di distintivo.
«Spero tu abbia dormito bene, stanotte» disse, come per prepararmi a
una cattiva notizia. Le porte dell'ascensore si aprirono.
Salimmo.
«Spara. Cosa ci aspetta stamattina?»
«Sei autopsie, tutti omicidi.»
«Oh, stupendo» commentai irritata.
«Sì. Ci hanno dato dentro in questo week-end: quattro sparatorie, due
accoltellamenti. I primi fiori di primavera.»
Scendemmo al secondo piano; entrai in ufficio togliendomi la giacca del
tailleur e arrotolando le maniche della camicia. Marino era seduto su una
sedia con la valigetta in grembo e la sigaretta accesa. Immaginai che una
delle autopsie di quel giorno riguardasse un caso di sua competenza, ma
poi mi tese due referti di laboratorio.
«Pensavo desiderassi vederli di persona» disse.
In cima a uno dei fogli spiccava il nome di Steven Spurrier. Il laboratorio di sierologia aveva già effettuato un primo giro di analisi del suo sangue. L'altro referto, invece, risaliva a otto anni prima, e riguardava le indagini eseguite sui campioni prelevati dalla vettura di Elizabeth Mott.
«Naturalmente ci vorrà ancora un po' prima che arrivino i risultati del
Dna» cominciò a spiegare Marino, «ma mi sembra un buon inizio.»
Accomodandomi dietro la scrivania, restai un attimo a esaminare i referti. Il sangue trovato all'interno della Volkswagen era di tipo 0, PGM tipo 1,
EAP tipo b, ADA tipo 1 e ESD tipo 1. Una simile combinazione si riscontrava nell'otto per cento circa della popolazione. I risultati erano coerenti
con quelli dei test eseguiti sul sangue di Spurrier. Anche lui apparteneva al
tipo 0 e agli altri tipi di classificazione sanguigna, ma poiché questa volta
erano stati analizzati un maggior numero di enzimi, la combinazione che
ne risultava si restringeva a circa l'un per cento della popolazione.
«Non basta ancora per accusarlo di omicidio» dissi a Marino. «Ci occorrono argomenti più forti del fatto che il suo sangue lo mette in gruppo di
qualche migliaio di persone.»
«È un vero peccato che le vecchie analisi non siano più complete.»
«Allora gli esami di routine non includevano tanti enzimi» risposi.
«Pensi che potrebbero rifarli adesso? Se riuscissimo a restringere ulteriormente il campo sarebbe un bell'aiuto. Altrimenti dovremo attendere ancora settimane, prima che siano pronti i risultati dell'analisi sul Dna.»
«No, non è possibile. Il sangue prelevato dalla macchina di Elizabeth è
troppo vecchio. A distanza di anni gli enzimi si alterano, quindi i risultati
che otterremmo oggi sarebbero ancora meno indicativi di quelli di otto anni fa. Il massimo che possiamo fare, adesso, è identificare il gruppo ABO,
ma almeno metà della popolazione appartiene al ceppo 0. Non ci resta che
aspettare gli esiti del test sul Dna. E poi» aggiunsi, «anche se potessimo
metterlo dentro subito, uscirebbe dietro cauzione. Spero almeno sia ancora
sotto sorveglianza.»
«Lo tengono d'occhio, non ti preoccupare, e puoi scommetterci che anche lui lo sa. Consoliamoci pensando che non oserà andare in giro a macellare altre vittime innocenti. Ma il punto è che in questo modo avrà tutto il
tempo per distruggere le prove. E si sbarazzerà delle armi.»
«La famosa sacca da ginnastica.»
«Inutile dire che non l'abbiamo trovata, anche se abbiamo rivoltato la casa da cima a fondo. Mancava solo che gli sollevassimo i pavimenti.»
«Forse era il caso di farlo.»
«Già.»
Stavo cercando di immaginare dove diavolo poteva avere nascosto una
borsa da palestra, quando fui colta da improvvisa ispirazione. Non capivo
come avevo fatto a non pensarci prima.
«Com'è, fisicamente, questo Spurrier?»
«Non particolarmente grosso, ma ha l'aria di essere forte. Non un grammo di grasso.»
«Quindi è probabile che si alleni.»
«Certo, perché?»
«Se frequenta qualche palestra, magari un centro YMCA, potrebbe avere
un armadietto nello spogliatoio. Anch'io ce l'ho, a Westwood. Se volessi
nascondere qualcosa, sarebbe un ottimo posto. In una palestra non dai certo nell'occhio se entri o esci con una borsa da ginnastica, ti pare?»
«Interessante» commentò Marino con aria pensierosa. «Mi informerò
subito, vediamo se stavolta ci va meglio.»
Accese un'altra sigaretta e aprì la sua valigetta. «Ti ho portato anche
qualche foto scattata in casa sua. Magari ti interessa.»
Lanciai un'occhiata all'orologio. «Ho un sacco di lavoro che mi aspetta
in obitorio. Ma fammi dare una scorsa.»
Mi porse una spessa busta piena di stampe formato 20x30. Erano sistemate in ordine progressivo, e mentre le sfogliavo mi parve di vedere la casa di Spurrier attraverso gli occhi di Marino, a partire dalla facciata di mattoni in stile coloniale fiancheggiata da siepi di bosso e da un vialetto, sempre in mattoni, che conduceva alla porta d'ingresso, nera. Sul retro c'era
una rampa lastricata che portava a un garage annesso all'edificio principale.
Sparpagliai sulla scrivania altre foto e mi ritrovai all'interno della sala.
Sul pavimento di legno campeggiavano un divano in pelle grigia e un basso tavolino di cristallo. Al centro del piano trasparente era appoggiata una
pianta di ottone dai profili taglienti, innestata su un blocco di corallo. Perfettamente allineata con i bordi del tavolo era disposta una copia di "Smithsonian", e perfettamente al centro della rivista un telecomando che immaginai appartenere al proiettore televisivo appeso al soffitto bianco come
una specie di navicella spaziale. Lo schermo da ottanta pollici era incassato in una cornice verticale al di sopra della libreria, dove spiccavano file
ordinate di videocassette, ognuna con la propria etichetta, e decine di volumi rilegati di cui non riuscii a distinguere i titoli. Di fianco alla libreria si
trovava poi una consolle di sofisticate attrezzature elettroniche.
«Spurrier ha il suo cinema privato» spiegò Marino. «Sistema audio avvolgente, con casse in ogni stanza della casa. Probabilmente quello scherzetto costa più della tua Mercedes, ma il signorino mica lo usava per guardare musical o roba del genere. Le vedi quelle cassette, sugli scaffali?» Fe-
ce il giro della scrivania per indicarmele. «Sono tutte stronzate tipo Arma
letale, film di guerra o thriller. Sul ripiano superiore, invece, ci sono le
cassette buone. Sono uguali in tutto e per tutto a quelle che compri in giro
con i film di successo, ma appena ne infili una... sorpresa. Quella intitolata
Sul lago dorato, ad esempio, farebbe meglio a chiamarsi Sul letto insanguinato: roba hardcore violentissima. Benton e io siamo rimasti a controllare tutto il giorno, ieri. C'era da sentirsi male. Avrei voluto farmi una doccia ogni due minuti.»
«Avete trovato anche roba girata in casa?»
«No. E nemmeno attrezzature da fotografo.»
Guardai le altre foto. In sala da pranzo c'era un altro tavolo di cristallo,
circondato da sedie di plastica trasparente. Notai che il pavimento di legno
era nudo: non avevo ancora visto un solo tappeto in tutta la casa.
La cucina era immacolata e modernissima. I vetri alle finestre erano riparati da veneziane grigie. In nessuna delle stanze c'erano tende o drappeggi di alcun tipo, nemmeno al piano di sopra, in camera sua. Il letto di
ottone era a due piazze, diligentemente rifatto. I cassetti aperti del comò
mostravano le tute di nylon di cui aveva parlato Marino, e in alcune scatole
riposte sul fondo dell'armadio erano conservati diversi pacchi di guanti
chirurgici e di soprascarpe.
«Non ho mai visto una casa del genere» commentai sorpresa, rimettendo
le foto nella busta. «Non un pezzo di tessuto, non un tappeto, niente.»
«E non ci sono nemmeno tende» rincarò Marino. «Neanche nella doccia:
il box è di vetro. Naturalmente c'erano asciugamani, lenzuola e vestiti,
questo sì.»
«Che probabilmente lava e rilava in continuazione.»
«La sua Lincoln ha gli interni in pelle, e i tappetini sono coperti di plastica.»
«Animali da compagnia?» chiesi
«Negativo.»
«Credo che l'arredamento non sia spiegabile con semplici considerazioni
di gusto.»
Gli occhi di Marino incontrarono i miei. «Già, è quel che penso anch'io.»
«Fibre, peli di origine animale» riflettei. «In questo modo non ha la preoccupazione di lasciare in giro tracce.»
«E tu eri sorpresa di quanto fossero pulite le auto abbandonate e ritrovate?»
Sì ogni volta mi ero stupita.
«Forse passava l'aspirapolvere dopo ogni crimine» insisté Marino.
«Dove? In un autolavaggio?»
«A una stazione di rifornimento, in un condominio, qualunque posto dove ci siano aspirapolvere a gettoni. Gli assassini venivano commessi di
notte. Quando si fermava a pulire la macchina, di sicuro non c'era in giro
molto traffico.»
«Può darsi. Chissà cosa faceva» mormorai. «Ma il quadro che emerge è
quello di un individuo ossessionato dall'ordine e dalla precisione, un paranoico che conosce bene il tipo di indizi che ci interessano.»
Appoggiandosi allo schienale della sedia, Marino disse: «Il SevenEleven in cui Deborah e Fred si fermarono quella sera, hai presente? Ci ho
fatto un salto nel weekend, ho parlato con la commessa».
«Ellen Jordan?»
Annuì. «Le ho mostrato alcune fotografie, chiedendole se riconosceva
l'uomo che quel giorno stava bevendo un caffè quando sono entrati i due
ragazzi. Ha indicato Spurrier.»
«E ne era sicura?»
«Sì. Ha detto che indossava una giacca scura, di taglio imprecisato. Ricordava distintamente che i vestiti erano scuri. Secondo me, Spurrier aveva
già indosso la tuta quando entrò. Sai, mi sono venute in mente un sacco di
cose. Cominciamo dalle due ormai sicure: gli abitacoli delle auto abbandonate erano sempre pulitissimi, e nei casi precedenti quello di Deborah e
Fred dal sedile di guida sono state recuperate alcune fibre di cotone bianco,
giusto?»
«Giusto».
«Okay. Io credo che quel maiale stesse facendo un giro di perlustrazione
quando notò Deborah e Fred, magari per strada, magari seduti vicini e in
teneri atteggiamenti, una cosa così. Il nostro uomo si eccita. Li segue e si
ferma al Seven-Eleven dove sono appena entrati. Forse è in questo momento che si mette la tuta, cambiandosi in macchina. O forse l'ha già indosso. Comunque entra a sua volta, ballonzola a casaccio dando un'occhiata a qualche rivista, ordina un caffè e ascolta la conversazione fra i due e la
commessa. Sente che quest'ultima gli dice di andare all'area di sosta, dove
possono trovare una toilette. Dopodiché esce, si dirige a tutta birra sulla
Sessantaquattro, svolta nell'area di sosta e parcheggia. Tira fuori la borsa
con le armi, le corde, i guanti e tutto il resto, quindi si nasconde fino all'arrivo di Deborah e Fred. Aspetta che lei entri nelle toilette e avvicina il suo
amico raccontandogli qualche balla: che gli si è rotta la macchina, o roba
del genere. Magari gli dice che lavora in una palestra, stava giusto tornando a casa, e così giustifica il fatto di indossare una tuta.»
«E secondo te Fred non lo riconosce dal Seven-Eleven?»
«Ne dubito» rispose Marino. «Ma non importa. Spurrier potrebbe anche
avere avuto il fegato di dire che si era fermato a bere un caffè, e che poco
dopo essere ripartito la macchina si è bloccata. Dice che ha appena chiamato il carro attrezzi ma che ha bisogno di uno strappo fino al punto in cui
ha lasciato l'auto. La macchina non è molto lontana, eccetera eccetera.
Fred accetta, e a quel punto ricompare Deborah. Una volta montato sulla
Cherokee, i due ragazzi sono nelle sue mani.»
Ricordai che Fred era stato descritto come un giovane generoso e sempre
pronto ad aiutare la gente. Probabilmente avrebbe davvero acconsentito ad
aiutare quello sconosciuto in difficoltà, soprattutto visto l'aspetto pulito e
affidabile di Spurrier.
«Tornano sulla interstatale, e qui Spurrier apre la borsa, indossa guanti e
soprascarpe, sfila la pistola e la punta alla nuca di Deborah...»
Ripensai alla reazione del segugio quando aveva annusato il sedile in cui
si riteneva fosse stata seduta la ragazza. Il cane aveva fiutato il suo terrore.
«... Poi ordina a Fred di dirigersi verso il posto che ha scelto per commettere l'assassinio. Quando si fermano sulla strada vicino al bosco, probabilmente Deborah ha già le mani legate dietro la schiena. Si è tolta scarpe e calze. Spurrier intima a Fred di fare altrettanto, quindi lo immobilizza.
Poi li fa scendere dalla Cherokee e li conduce nel bosco. Forse indossa gli
occhiali per la visione notturna, anche quelli conservati nella borsa. Dopodiché inizia la caccia. Comincia con Fred, quindi passa a Deborah. La insegue. Lei resiste, si taglia e lui spara. Trascina i loro corpi nella radura e li
sistema uno accanto all'altro, come se stessero tenendosi per mano. Fuma
qualche sigaretta, magari se ne sta lì seduto al buio per un po', contemplando la sua opera, e alla fine torna alla macchina, si spoglia, via la tuta,
via i guanti, via le soprascarpe, e ficca il tutto in un sacco di plastica. Chissà, forse ci infila anche le scarpe e le calze delle vittime. Si allontana, trova
un posto deserto con un aspirapolvere a gettoni e ripulisce l'interno della
Cherokee, in particolare la zona del sedile di guida, dove si è seduto. Una
volta terminata l'operazione, butta via il sacco nella spazzatura. A questo
punto immagino abbia ricoperto il sedile con qualcosa, come nei primi
quattro casi aveva usato un telo bianco ripiegato, o un asciugamano.»
«Quasi tutte le palestre e i centri sportivi» lo interruppi «hanno salviette
o asciugamani bianchi in un armadio degli spogliatoi. Se Spurrier tiene la
sua borsa in uno di questi posti...»
Adesso fu Marino a interrompere me. «Esatto, ti ricevo forte e chiaro.
Maledizione, è meglio che mi sbrighi a dare una controllata.»
«Comunque sì, un asciugamano bianco spiegherebbe le fibre di cotone
che sono state trovate.»
«Tranne che con Deborah e Fred deve avere utilizzato una cosa diversa.
Chissà cosa. Magari un sacco di plastica. Ad ogni modo, deve avere fatto
attenzione a non lasciare tracce sul sedile. Ormai non indossa più la tuta,
ricordi? Non può, perché di sicuro è sporca di sangue. Insomma, alla fine
scarica la Cherokee dove l'abbiamo ritrovata e attraversa l'interstatale diretto all'area di sosta sulla corsia est. E lì lo aspetta la sua Lincoln. Sale,
mette in moto e se ne va. Missione compiuta.»
«È facile che quella notte ci sia stato un andirivieni continuo di macchine» considerai. «Nessuno avrebbe mai notato la sua parcheggiata per un
po'. E, se anche fosse, il numero di targa non coincideva perché non era la
sua.»
«Brava. Infatti rimettere a posto le targhe "prese in prestito" è l'ultima
cosa che gli resta da fare. E se non ci riesce, le scarica da qualche parte.»
Marino fece una pausa. «Ho la sensazione che Spurrier abbia sempre rispettato lo stesso modus operandi, fin dalla prima volta. Inizia con le perlustrazioni, poi trova le vittime, le pedina e quando queste si fermano in un
bar o in un negozio quanto basta a consentirgli di cambiare abito, sa che
ormai ce l'ha fatta. Poi c'è l'approccio e il trucco con cui si guadagna la loro fiducia. Magari colpisce solo una volta ogni cinquanta appostamenti, ma
tanto gli basta.»
«Negli ultimi cinque casi, lo scenario è convincente. Ma non credo sia
andata così anche con Jill ed Elizabeth» dissi. «Se aveva lasciato la macchina al Palm Leaf Hotel, stiamo parlando di almeno sette chilometri di distanza dall'Anchor Bar and Grill.»
«Ma noi non sappiamo per certo se Spurrier le ha adescate proprio là
dentro.»
«Qualcosa mi dice di sì.»
Marino parve sorpreso. «Perché?»
«Perché quelle ragazze erano già state più volte nella sua libreria. Lo conoscevano, capisci, anche se certamente non bene. Suppongo che ogni volta che entravano da lui per comprare libri o giornali, lui le spiasse con
grande attenzione. Per me aveva intuito che tra loro c'era qualcosa di più di
una semplice amicizia, e tanto bastò a fargli scattare il meccanismo. Spurrier è ossessionato dalle coppie. Forse era la sua prima volta, e pensava che
con due donne le cose sarebbero state più facili che non in presenza di un
uomo. Aveva pianificato il suo crimine con largo anticipo, e la sua fantasia
rinvigoriva a ogni visita di Jill ed Elizabeth. Magari aveva cominciato a
seguirle, le pedinava dopo l'orario di lavoro e chissà quante volte aveva
fatto delle prove "a vuoto", solo per allenarsi. Aveva anche già individuato
il bosco vicino alla casa del signor Joyce. Probabilmente fu davvero lui a
sparare al cane. Poi una sera le segue fino all'Anchor, e proprio allora decide di agire. Lascia la macchina da qualche parte e va a piedi fino al locale, portandosi dietro la borsa da ginnastica.»
«Quindi secondo te lui entrò e rimase a osservarle al loro tavolo?»
«No» risposi. «No, era troppo cauto per fare una cosa del genere. Secondo me ha tenuto le distanze e ha aspettato che uscissero e salissero sulla
Volkswagen. Fu allora che le avvicinò, e da questo punto procede con il
solito modus operandi: la sua auto è in panne e via discorrendo. Loro non
hanno motivo di temerlo, in fondo è il proprietario di una libreria che conoscono. Lui sale, ma di li a poco il suo piano prende una piega sbagliata.
Non finiscono nell'area boscosa prevista, infatti, ma al cimitero. E le due
donne, soprattutto Jill, non si dimostrano affatto disposte a collaborare.»
«Lui sanguina in macchina» fece Marino. «Magari dal naso, e non c'è
aspirapolvere al mondo in grado di eliminare una macchia di sangue.»
«Non credo si sia preoccupato di trovare un aspirapolvere, sai. Doveva
essere in preda al panico, probabilmente ha mollato la macchina nel primo
posto accettabile, vale a dire al motel. Per quanto riguarda la sua, chissà?
Ma per me ebbe certamente bisogno di un passaggio.»
«Forse allora si prese così paura che per cinque anni rimase buono, senza più riprovarci.»
«Non credo, Marino. Non credo proprio. Secondo me manca ancora un
pezzo del mosaico.»
Il telefono squillò alcune settimane più tardi, mentre mi trovavo a casa
da sola, nel mio studio. Il messaggio della segreteria aveva appena cominciato a girare quando riagganciarono. Mezz'ora dopo riprese a squillare, e
questa volta risposi in tempo. Dissi «Pronto?» ma la linea cadde di nuovo.
Forse qualcuno che voleva mettersi in contatto con Abby e preferiva non
parlare con me? Magari Clifford Ring aveva scoperto dove si trovava. Delusa, andai al frigorifero cercando qualcosa da mangiare.
Ero già tornata nello studio, quando nel vialetto udii una macchina fermarsi. Immaginai che fosse Abby, ma poi il campanello suonò.
Guardai dallo spioncino e vidi Pat Harvey. Indossava una giaccavento
rossa chiusa fino al collo. Ecco chi telefonava e rimetteva giù, pensai. Aveva controllato che fossi in casa perché voleva parlarmi faccia a facda.
Mi salutò dicendo: «Spiacente di disturbarla», ma era chiaro che la cosa
non le dispiaceva affatto.
«Prego, si accomodi» dissi con una certa riluttanza.
Mi seguì in cucina, dove le versai una tazza di caffè. Sedette al tavolo
tutta rigida, la tazza stretta fra le mani.
«Sarò molto diretta» esordì. «Ho saputo che l'uomo arrestato a Williamsburg, Steven Spurrier, è ritenuto responsabile di due omicidi avvenuti otto
anni fa.»
«E dove ne avrebbe sentito parlare?»
«Questo non è importante. I casi non furono mai risolti, ma sono stati
recentemente collegati agli assassini delle cinque coppie. Le due donne sarebbero state le sue prime vittime.»
Mi accorsi che la palpebra inferiore dell'occhio sinistro le tremava. Il decadimento fisico di Pat Harvey era sconcertante. I suoi capelli apparivano
privi di vita, gli occhi spenti, la pelle tesa e sfibrata. Sembrava addirittura
più magra di come mi era apparsa il giorno della conferenza stampa.
«Non sono certa di seguirla» replicai con una certa tensione.
«Ispirò loro fiducia e quelle poverette si esposero. Esattamente come è
successo a tutti gli altri, a mia figlia, a Fred.»
Lo disse come se fosse un fatto noto, accertato. Mentalmente, Pat Harvey aveva già emesso la sentenza nei confronti di Spurrier: colpevole.
«Ma non verrà mai punito per l'omicidio di Deborah» continuò. «Lo so.
Ne sono convinta.»
«È ancora troppo presto per dirlo» risposi in tono calmo.
«Non hanno prove. Ciò che gli hanno trovato in casa non basta, non reggerà in nessun tribunale, ammesso che si arrivi a un processo. Non si può
accusare una persona di omicidio solo perché in casa aveva guanti chirurgici e ritagli di giornale, soprattutto se la difesa dichiara che si tratta di indizi seminati apposta.»
Aveva parlato con Abby, pensai a disagio. La cosa mi disgustava.
«L'unica prova» insisté «è il sangue rinvenuto nell'automobile delle due
ragazze. Tutto dipenderà dai test sul Dna, e comunque sarà sempre una cosa controversa, visti gli anni che ci separano dal fatto. E anche se coinci-
dessero e la corte li accettasse come prova, non si può essere sicuri che altrettanto faccia la giuria, specialmente se la polizia non avrà ancora trovato
le armi.»
«Le ricerche sono tuttora in corso.»
«A quest'ora ha già avuto tutto il tempo che gli occorreva per sbarazzarsene» rispose, e aveva ragione.
Marino aveva scoperto che Spurrier frequentava una palestra non distante dalla sua abitazione. La polizia aveva perquisito l'armadietto, che oltre a
chiudersi con una chiave era ulteriormente sigillato da un lucchetto. Ma
l'armadietto era vuoto. La borsa da ginnastica azzurra con cui Spurrier era
stato notato in palestra non era stata ritrovata e, ne ero certa, non lo sarebbe stata mai.
«Cosa vuole da me, signora Harvey?»
«Voglio che risponda alle mie domande.»
«Quali domande?»
«Se esistono altre prove di cui non sono a conoscenza, credo sarebbe
saggio da parte sua mettermi al corrente.»
«Le indagini non sono ancora terminate. La polizia e l'Fbi stanno facendo tutto il possibile per venire a capo dell'omicidio di Deborah.»
Fissò un punto dalla parte opposta della cucina. «E le parlano? Si aprono, con lei?»
Di colpo capii. Nessuna delle persone direttamente coinvolte nell'indagine si sbottonava con Pat Harvey. Era diventata un'intoccabile, una paria,
forse addirittura una barzelletta. Non me lo avrebbe mai confessato, ma
sapevo che quella era la vera ragione che l'aveva spinta da me.
«Lei crede che a uccidere mia figlia sia stato Steven Spurrier?»
«Cosa conta la mia opinione?»
«Conta eccome. Conta moltissimo.»
«Perché?» ripetei.
«Lei non è una donna che tira conclusioni affrettate o superficiali solo
per il desiderio di farlo. E poi conosce gli indizi», la voce le tremò in gola,
«e si è presa cura di Debbie.»
Non sapevo cosa dirle.
«Dunque, glielo chiederò di nuovo, dottoressa Scarpetta. Ritiene Steven
Spurrier colpevole dell'omicidio? Degli omicidi?»
Esitai, un istante appena, quanto bastava. Quando le dissi che non avrei
potuto rispondere a una domanda simile e che veramente non conoscevo la
soluzione del problema, lei non mi ascoltava già più.
Si alzò.
Rimasi a guardarla mentre si allontanava nella notte, il profilo brevemente illuminato dalla luce di cortesia quando salì a bordo della Jaguar.
Abby rientrò quando ormai avevo smesso di aspettarla ed ero andata a
letto. Fu un sonno intermittente, finché aprii gli occhi nell'udire l'acqua che
scorreva al piano di sotto. Guardai la sveglia: era quasi mezzanotte. Mi alzai e mi infilai la vestaglia.
Doveva avermi sentito in corridoio, poiché quando raggiunsi la sua stanza la trovai sulla porta, in tuta da ginnastica e a piedi nudi.
«È tardi» disse.
«Lo è anche per te» risposi.
«Be', veramente...» Non fece in tempo a finire la frase. Entrai a passo
deciso nella camera e mi sedetti sul bordo del letto.
«Cosa succede?» mi chiese, a disagio.
«Stasera è venuta Pat Harvey, ecco cosa succede. Le hai parlato, vero?»
«Ho parlato con un sacco di gente, Kay.»
«Lo so che vuoi aiutarla, e so che consideri scandaloso il modo in cui la
morte di sua figlia è stata usata contro di lei. La signora Harvey è un'ottima
persona, e so che le sei sinceramente affezionata. Ma deve restare fuori
dalle indagini, Abby.»
Mi guardò senza parlare.
«Per il suo stesso bene» aggiunsi.
Abby sedette sul tappeto, incrociò le gambe in posizione yoga e si appoggiò al muro.
«Cosa ti ha detto?» chiese.
«È convinta che Spurrier abbia assassinato sua figlia e che non verrà mai
punito.»
«Se c'è una cosa sicura, è che io non c'entro con le sue conclusioni. Pat
ha un cervello che lavora in maniera autonoma.»
«Spurrier sarà chiamato in giudizio venerdì. Credi che lei vorrà presenziare?»
«Il capo d'accusa mi sembra ridicolo. Tuttavia, se quello che mi stai
chiedendo è se reputo possibile una scenata da parte di Pat Harvey», scosse la testa, «la risposta è no. Nella maniera più assoluta. Non le gioverebbe
affatto esporsi. Non è stupida, Kay, credimi.»
«E tu?»
«Cosa? Io? Mi prendi per idiota?» Di nuovo evasiva.
«Allora, ci sarai sì o no?»
«Ma certo. E ti dico anche come andrà a finire. Entrerà, uscirà, si dichiarerà colpevole di furto e si beccherà una multa di millecinquecento dollari.
Magari si farà anche qualche giorno di galera, un mese al massimo. La polizia ci tiene a fargli venire un po' di sudorini freddi, e intanto cercheranno
di farlo cantare.»
«E tu come fai a saperlo?»
«Ma lui non parlerà» continuò imperterrita. «Lo faranno uscire dal tribunale di fronte a tutti e lo sbatteranno sul sedile posteriore di una macchina, scortato da due poliziotti. Tenteranno di spaventarlo, di umiliarlo, ma
non funzionerà. Spurrier sa benissimo che contro di lui non ci sono prove
sufficienti. Si farà una vacanzina al fresco, e poi ne verrà fuori pulito. Un
mese non è poi un'eternità.»
«Mi sembra quasi che provi pena per lui.»
«Non provo un bel niente per quell'uomo. Stando al suo avvocato, Spurrier faceva sporadicamente uso di cocaina, e la sera in cui gli agenti lo
hanno fermato mentre rubava le targhe, stava semplicemente andando a fare un po' di scorta. Temeva che qualche spacciatore potesse essere un informatore e non voleva correre il rischio che gli prendesse il numero di
targa per poi passarlo alla polizia. Ecco perché stava cercando di sostituire
le targhe.»
«Non ci crederai anche tu» esclamai con veemenza.
Abby stese le gambe, facendo una piccola smorfia. Senza dire una parola, si alzò e uscì dalla stanza. La seguii in cucina, in preda a una crescente
frustrazione. Mentre stava per riempire un bicchiere con dei cubetti di
ghiaccio, la presi per le spalle e la girai.
«Mi ascolti sì o no, Abby?»
La sua espressione si addolcì. «Per favore, non essere arrabbiata con me,
Kay. Ciò che sto facendo non ha nulla a che spartire con te o con la nostra
amicizia.»
«Quale amicizia? Mi sembra di non conoscerti affatto. Vai e vieni seminando soldi in giro, come se io fossi una fottuta cameriera. Non ricordo
neanche più quand'è stata l'ultima volta che abbiamo cenato insieme. Non
mi parli. Sei ossessionata dal tuo maledetto libro. Hai visto cos'è successo
a Pat Harvey, no? Perché non vuoi accorgerti che sta succedendo anche a
te?»
Abby si limitò a fissarmi.
«È come se stessi prendendo chissà quale decisione» insistei. «Perché
non mi dici di cosa si tratta?»
«Non c'è proprio nessuna decisione da prendere» rispose lei, allontanandosi adagio. «Ogni cosa è già stata decisa.»
Fielding mi telefonò nelle prime ore di sabato mattina per avvisarmi che
non c'erano autopsie. Esausta, decisi di tornarmene a letta Mi alzai verso le
undici. Al termine di una lunga doccia mi sentivo pronta ad affrontare
nuovamente Abby, nella speranza di rimediare in qualche modo ai danni.
Ma quando scesi e bussai alla sua porta non ottenni risposta, e quando
uscii per comprare il giornale vidi che la sua macchina non c'era. Irritata
dal fatto che ancora una volta fosse riuscita a sfuggirmi, misi a scaldare
l'acqua per il caffè.
Stavo sorseggiando la seconda tazza, quando un piccolo titolo attirò la
mia attenzione: SENTENZA SOSPESA PER L'UOMO DI WILLIAMSBURG.
Orripilata, lessi che al termine dell'udienza del giorno prima Steven
Spurrier non era affatto stato ammanettato e condotto in prigione, come
previsto da Abby. Si era cioè dichiarato colpevole di furto ma, non avendo
precedenti di alcun genere ed essendosi sempre comportato da cittadino
esemplare, gli era stata inflitta una multa di mille dollari, uscendo dal tribunale solo e libero.
"Ogni cosa è già stata decisa" aveva detto Abby.
Era a questo che si riferiva? Ma se sapeva che Spurrier sarebbe stato rilasciato, perché mi aveva deliberatamente depistato?
Uscii dalla cucina e andai ad aprire la porta della sua camera. Il letto era
rifatto, le tende tirate. In bagno notai alcune gocce d'acqua che imperlavano la superficie del lavabo e colsi un leggero sentore di profumo. Doveva
essere uscita da poco. Cercai la sua valigetta e il registratore, ma non trovai
né l'una né l'altro. Nel cassetto, la .38 era sparita. Frugai anche negli altri,
fino a trovare il suo blocco per appunti nascosto sotto alcuni indumenti.
Mi sedetti sul bordo del letto e cominciai a sfogliarlo in preda a una sorta di frenesia. Rivissi le sue giornate, le sue ultime settimane, mentre il significato di ogni cosa si faceva più chiaro.
Ciò che era iniziato come la crociata di Abby a caccia della verità sugli
omicidi si era trasformato in un'ambiziosa ossessione. Sembrava letteralmente affascinata dalla personalità di Spurrier. Se il colpevole era lui,
Abby era determinata a porre la sua storia al centro del libro: il suo sogno
era esplorare a fondo la mente psicopatica di quell'uomo. Se invece Spur-
rier si fosse rivelato innocente, si sarebbe trattato di "un altro caso Gainesville", come lei stessa scriveva riferendosi alla strage di studenti universitari di cui era stato sospettato un innocente. "Solo che questa volta sarebbe
ancora peggio" continuava, "considerando il significato della carta".
Sulle prime, Spurrier aveva ripetutamente rifiutato le richieste di intervista da parte di Abby. Poi, verso la fine della settimana precedente, aveva
provato di nuovo e lui aveva risposto al telefono. Le aveva proposto di incontrarsi dopo la chiamata in giudizio e le aveva detto che il suo avvocato
aveva «patteggiato».
"Dice che in tutti questi anni ha seguito i miei articoli sul Post" aveva
scarabocchiato Abby sul blocco, "e che conosce la mia firma dai tempi in
cui lavoravo a Richmond. Ricordava anche ciò che avevo scritto su Jill ed
Elizabeth, e ha commentato che erano 'ragazze simpatiche' e che aveva
'sempre sperato che la polizia mettesse le mani sul maniaco'. Inoltre era al
corrente della storia di mia sorella, aveva letto dell'omicidio. È per questo
che alla fine ha deciso di vedermi. Provava 'compassione', mi ha confidato,
capiva cosa significava essere 'una vittima' perché anche io sono rimasta
vittima di ciò che è accaduto a mia sorella. 'Io sono una vittima' ha detto.
'Possiamo parlarne. Magari lei riesce a farmi capire meglio cosa sta succedendo'. Mi ha proposto di andare da lui sabato mattina alle undici, e io
ho accettato, a patto che si trattasse di un'intervista in esclusiva. Ha acconsentito, ha detto che non aveva intenzione di parlare con nessun altro se io
fossi stata davvero fedele alle sue dichiarazioni. Alla 'verità' come ha specificato. Grazie Signore! E tu fottiti, Cliff, tu e il tuo libro! Sei un perdente."
Dunque anche Clifford Ring stava scrivendo un libro su questa storia.
Buon Dio! Era ovvio che Abby si comportasse in maniera tanto strana.
Ma allora mi aveva mentito, quando aveva detto che intendeva presenziare alla chiamata in giudizio di Spurrier. Semplicemente, non voleva
farmi venire il sospetto che progettava di andare a trovare Spurrier a casa
sua, e sapeva che un pensiero del genere non mi avrebbe nemmeno sfiorato
se avessi creduto che lo avrebbero messo in galera. Ricordavo ancora la
volta in cui mi aveva confessato di non fidarsi più di nessuno. Era così, e
non si fidava nemmeno di me.
Lanciai un'occhiata all'orologio. Le undici e un quarto.
Marino non era in ufficio, così lasciai un messaggio al cercapersone. Poi
chiamai la polizia di Williamsburg, e il telefono suonò per un'eternità prima che una segretaria si degnasse di rispondere. Le dissi che avevo urgente
bisogno di comunicare con uno degli agenti investigativi della centrale.
«Sono tutti fuori in servizio al momento.»
«E allora mi passi chiunque sia in sede.»
Mi mise in comunicazione un sergente.
Dopo essermi identificata, dissi: «Lei sa chi è Steven Spurrier, vero?».
«Non potrei lavorare qui, se non lo sapessi.»
«C'è una giornalista che lo sta intervistando proprio adesso, in casa sua.
Glielo comunico perché vorrei si mettesse in contatto con la squadra di
sorveglianza: vorrei che non succedesse nulla, capisce?»
Vi fu una lunga pausa. Sentii della carta che scrocchiava, forse il sergente stava aprendosi una merendina. Poi: «Vede, Spurrier non è più sotto
sorveglianza».
«Come, scusi?»
«Ho detto che i nostri ragazzi sono tornati a casa.»
«E perché?»
«A dire il vero, non saprei, dottoressa, sono rientrato dalle ferie solo...»
«Senta, le chiedo solo di mandare subito una pattuglia a casa di Spurrier
per verificare che tutto stia filando liscio!» Era il massimo che potevo fare
per non mettermi a urlare.
«Non si preoccupi, signora» rispose lui in tono calmo. «Adesso avviso
qualcuno.»
Riappesi la cornetta proprio nell'attimo in cui una macchina si fermava
sul vialetto.
"Abby, grazie a Dio!"
Ma quando guardai dalla finestra, vidi Marino.
Aprii la porta prima ancora che avesse il tempo di suonare il campanello.
«Mi trovavo da queste parti, quando ho trovato il tuo messaggio sul cerca...»
«A casa di Spurrier!» gridai, afferrandolo per un braccio. «Abby è da
lui! Ha con sé la pistola!»
Il cielo si era rannuvolato e mentre Marino e io sfrecciavamo sulla I-64
cominciò a piovere. Ero tutta irrigidita e il cuore mi martellava in petto
senza riuscire a calmarsi.
«Ehi, rilassati» disse Marino, imboccando l'uscita di Colonial Williamsburg. «Che gli agenti lo stiano sorvegliando o no, non è mica così stupido
da fare una mossa falsa proprio adesso.»
Nella tranquilla via in cui abitava Spurrier c'era solo un'auto parcheggia-
ta.
«Merda!» sibilò Marino tra i denti.
Una Jaguar nera proprio di fronte all'ingresso della sua abitazione.
«Oh Dio» mormorai. «Pat Harvey!»
Marino inchiodò.
«Resta qui.» Era sceso in un lampo e stava risalendo di corsa il vialetto,
sotto una pioggia scrosciante. Lo vidi spalancare la porta con un calcio, la
pistola in pugno, quindi scomparve all'interno. Mi sentivo svenire.
La soglia rimase vuota e silenziosa per un attimo, poi Marino ricomparve. Guardò nella mia direzione, gridando qualcosa che non riuscii a capire.
Scesi dalla macchina e cominciai a correre.
Nel momento stesso in cui misi piede nel vestibolo, avvertii l'odore della
polvere da sparo.
«Ho già chiamato i soccorsi» disse Marino. «Là dentro ce ne sono due.»
Il salotto era sulla sinistra.
Marino salì di corsa le scale che portavano al secondo piano, e io rividi
in un flash le foto della casa di Spurrier. Riconobbi il tavolino di cristallo e
scorsi la pistola appoggiata sul piano trasparente. Sul pavimento di legno,
sotto il corpo di Spurrier, una pozza di sangue e, qualche spanna più in là,
una seconda pistola. Spurrier giaceva bocconi a pochi centimetri dal divano di pelle grigia su cui Abby era coricata di fianco. Gli occhi spenti e
sfuocati erano puntati sul cuscino che le sosteneva la guancia, il davanti
della camicetta azzurra intriso di sangue.
Per un istante non seppi cosa fare, il cervello risucchiato in un vortice
frastornante. Poi mi inginocchiai accanto a Spurrier e lo girai sulla schiena,
mentre rigagnoli di sangue correvano a lambirmi le scarpe. Era morto. Gli
avevano sparato all'addome e al torace.
Corsi a tastare il collo di Abby. Nessuna pulsazione. La girai sulla
schiena e tentai di rianimarla con la respirazione artificiale, ma il suo cuore
e i suoi polmoni avevano ceduto da troppo tempo per poter recuperare le
loro funzioni. Stringendole il viso fra le mani, le accarezzai la pelle ancora
tiepida e inspirai il suo profumo, mentre un'ondata di singhiozzi mi esplodeva in petto.
Udii dei passi in corridoio. Non vi prestai attenzione finché mi resi conto
che erano troppo leggeri per essere quelli di Marino. Sollevai la testa mentre Pat Harvey prendeva la pistola dal tavolo.
La fissai sbalordita, nel tentativo di dire qualcosa.
«Mi dispiace». La pistola tremò, puntandosi su di me.
«Signora Harvey.» Mi si strozzò la voce in gola. Tesi le mani sporche
del sangue di Abby. «Per favore...»
«Non si muova.» Indietreggiò di alcuni passi, abbassando leggermente il
revolver. Per qualche strana ragione notai che indossava la stessa giaccavento rossa che aveva l'ultima volta a casa mia.
«Abby è morta» dissi.
Pat Harvey non ebbe alcuna reazione. Il suo volto era cereo, gli occhi
così scuri da sembrare buchi neri. «Ho cercato un telefono. Non ce l'ha.»
«Metta giù la pistola, per favore.»
«È stato lui. Ha ucciso la mia Debbie. Ha ucciso Abby.»
"Marino" pensai, "Dio santo, sbrigati!"
«È tutto finito, signora Harvey. Sono morti. Adesso metta giù la pistola.
Non peggiori le cose.»
«Non possono peggiorare.»
«Sbaglia, signora Harvey. La prego, mi ascolti.»
«Non posso restare qui» continuò lei, con la stessa voce piatta.
«Io la aiuterò. Posi la pistola. Per favore» insistei, ma mentre mi alzavo
dal divano, tornò a sollevarla.
«No» la supplicai, rendendomi improvvisamente conto di cosa intendeva
fare.
Mentre mi lanciavo su di lei, si puntò l'arma al petto.
«No! Signora Harvey, no!»
L'esplosione la fece barcollare all'indietro, e la pistola le scivolò di mano. La allontanai con un calcio, osservandola girare pesantemente sulla liscia superficie di legno. Le ginocchia di Pat Harvey si piegarono. Cercò un
sostegno, ma non lo trovò. In quel momento Marino piombò nella stanza.
«Merda!», esclamò. Impugnava la pistola con entrambe le mani, la canna
rivolta verso il soffitto. Mi sentivo fischiare le orecchie, ma subito mi inginocchiai accanto a Pat Harvey. Era caduta su un fianco, le ginocchia rannicchiate, e si premeva il petto.
«Porta degli asciugamani!» Le scostai le mani e presi ad armeggiare con
i suoi abiti. Sbottonata la camicia, le sollevai il reggiseno e tamponai con
forza la ferita al di sotto della mammella sinistra. Udii Marino precipitarsi
bestemmiando fuori dalla stanza.
«Resista» le sussurrai, esercitando una piccola pressione sul tessuto appallottolato in modo che il foro non risucchiasse aria dall'esterno, facendo
collassare il polmone.
Pat Harvey si contorceva gemendo.
«Resista» ripetei, mentre dalla strada giungeva il suono delle sirene.
Attraverso le veneziane del salotto filtrò un intenso bagliore rosso, come
se la casa di Steven Spurrier fosse lambita dalle fiamme.
18
Marino mi riaccompagnò a casa e rimase a farmi compagnia. Sedetti in
cucina fissando la pioggia al di là della finestra, solo vagamente cosciente
di quanto mi accadeva intorno. Il campanello della porta. Passi e voci maschili in corridoio.
Più tardi, Marino mi raggiunse e prese posto su una sedia dall'altra parte
del tavolo. Dal modo in cui ci si era appollaiato capii che non progettava di
trattenersi a lungo.
«Qualche altro posto in cui Abby poteva aver nascosto le sue cose, a
parte la camera da letto?» mi chiese.
«Non credo» mormorai.
«Scusa, ma dovremmo dare un'occhiata in giro. Mi dispiace, capo.»
«Capisco.»
Seguì il mio sguardo fino alla finestra.
«Ti preparo un caffè.» Si alzò. «Allora, vediamo se ricordo ancora i tuoi
insegnamenti. È la prova del fuoco, eh?»
Si mosse per la cucina, gli sportelli della credenza che si aprivano e si
chiudevano, l'acqua che scorreva nel lavandino. Mentre il caffè colava nel
filtro, Marino uscì, tornando poco dopo con un altro agente dell'investigativa.
«Non ci vorrà molto, dottoressa. Apprezziamo la sua collaborazione»
disse.
Poi bisbigliò qualcosa a Marino e se ne andò, mentre lui mi appoggiava
davanti una tazza di caffè.
«Cosa cercano?» Mi sforzai di concentrarmi.
«Stiamo esaminando i blocchi di cui parlavi. Cerchiamo cassette registrate o qualunque altra cosa possa spiegarci cosa abbia indotto la signora
Harvey ad andare a casa di Spurrier per sparargli.»
«Siete sicuri che sia stata lei?»
«Be', certo. È un bel miracolo che sia ancora viva. Per un pelo non ha
preso il cuore. È stata fortunata, ma forse quando riprenderà i sensi non la
penserà allo stesso modo.»
«Avevo chiamato la polizia di Williamsburg. Ho detto che...»
«Lo so» mi interruppe Marino in tono gentile. «Lo so che li hai chiamati. Hai fatto la cosa giusta. Hai fatto tutto quello che potevi.»
«Se ne sono fregati.» Chiusi gli occhi, ricacciando le lacrime.
«Non è così.» Fece una pausa. «Ascoltami, capo.»
Inspirai profondamente.
Marino si schiarì la voce e accese una sigaretta. «Quando sono tornato in
ufficio, ho parlato con Benton. L'Fbi ha terminato le analisi sul Dna di
Spurrier e le hanno confrontate con i risultati dei test compiuti sul sangue
ritrovato nella macchina di Elizabeth Mott. I Dna non coincidono.»
«Cosa?»
«I Dna non coincidono» ripeté. «Gli agenti di Williamsburg che tallonavano Spurrier l'hanno saputo ieri. Benton aveva cercato di mettersi in contatto con me, ma ci siamo mancati per tutto il giorno, così io non lo sapevo. Capo? Mi ascolti?»
Lo guardai inebetita.
«Dal punto di vista legale, Spurrier non era un sospettato. Un pervertito,
magari, quello sì, e anche di brutto. Ma non è stato lui a uccidere Elizabeth
e Jill. Non fu lui a lasciare tracce di sangue nella macchina. Per quanto riguarda le altre coppie, be', qui non possiamo pronunciarci. Ma continuare a
pedinarlo dappertutto, tenere la casa sotto sorveglianza o bussargli alla
porta solo perché aveva visite era eccessivo. Voglio dire, a parte che non ci
sono nemmeno abbastanza poliziotti per farlo, ma poi lui poteva denunciarci per molestie o violazione di domicilio. L'Fbi aveva mollato il colpo.
È così che sono andate le cose.»
«Ha ucciso Abby.»
Marino distolse lo sguardo. «Sì, almeno sembra. Aveva il registratore
acceso, la scena è tutta su nastro. Ma questo non significa ancora che avesse ucciso le coppie, capo. Adesso come adesso, la signora Harvey ha ucciso un innocente.»
«Voglio sentire la registrazione.»
«No, capo. Credimi, non la vuoi sentire affatto.»
«Ma se Spurrier era innocente, per quale motivo avrebbe ucciso Abby?»
«Io un'idea me la sono fatta ascoltando il nastro e ripensando alla scena
del delitto» rispose. «Abby e Spurrier stavano parlando in salotto. Abby
era seduta sul divano, dove l'abbiamo trovata. Spurrier ha sentito qualcuno
alla porta e si è alzato per andare ad aprire. Non so per quale motivo abbia
fatto entrare Pat Harvey. Forse con la giaccavento e i jeans non l'aveva riconosciuta, anche se mi pare strano. Non sappiamo come si sia presentata,
né cosa gli abbia detto. Non lo sapremo finché non sarà di nuovo in grado
di parlare, e forse anche allora non riusciremo a scoprirlo.»
«Comunque l'ha fatta entrare.»
«Esatto. Lui apre la porta e lei tira fuori la pistola, una Charter Arms, la
stessa con cui ha tentato di suicidarsi. Lo obbliga a rientrare in casa, lo
spinge in salotto. Abby è ancora seduta lì, il registratore acceso. Dato che
la sua Saab era parcheggiata sul retro, la signora Harvey poteva non averla
notata e quindi probabilmente non sapeva che c'era anche lei. Colta di sorpresa, si distrae quanto basta perché Spurrier si precipiti su Abby e cerchi
di usarla come scudo. A questo punto è difficile dire cosa sia successo, ma
sappiamo che Abby era armata, forse teneva la pistola nella borsa e la borsa era appoggiata di fianco a lei sul cuscino. Cerca di tirarla fuori, lotta con
Spurrier e viene colpita. Poi, prima che riesca a colpire anche lei, la Harvey gli spara. Due volte. Abbiamo controllato il suo revolver: due pallottole nel caricatore, tre esplose.»
«Mi ha detto che cercava un telefono» balbettai.
«Spurrier ha solo due apparecchi. Uno di sopra, in camera da letto, e l'altro in cucina. E dello stesso colore del muro, incassato fra due armadietti,
difficile da vedere, capisci? A momenti non lo trovavo neanch'io. Credo
che siamo arrivati lì pochissimi minuti dopo la sparatoria, capo. Secondo
me la Harvey aveva appoggiato la pistola sul tavolino ed era corsa a vedere
come stava Abby, poi è andata a cercare un telefono. A quel punto sono
entrato io, lei era in qualche altra stanza, magari mi ha sentito e si è nascosta. So solo che sono arrivato, mi sono trovato davanti i due cadaveri, ho
tastato la carotide a entrambi e mi è parso di avvertire ancora una debole
pulsazione nel collo di Abby, ma non ne ero sicuro. Insomma, avevo ancora una chance, dovevo decidere rapidamente: o mi mettevo a cercare Pat
Harvey per tutta la casa, o chiamavo te e ci pensavo dopo. In fondo, al mio
arrivo non c'era. Ho pensato che magari se l'era filata dalla porta posteriore, o si era nascosta di sopra» disse. Ovviamente aveva temuto di mettermi
in pericolo.
«Voglio ascoltare il nastro» ripetei.
Marino si sfregò la faccia. Quando tornò a guardarmi aveva gli occhi arrossati e iniettati di sangue. «Perché vuoi farti del male?»
«Devo.»
Con riluttanza, si alzò dal tavolo e uscì dalla cucina. Poco dopo tornò
con una busta di plastica per la raccolta delle prove, dentro alla quale c'era
il microregistratore di Abby. Lo appoggiò verticalmente sul tavolo, riawol-
se un pezzo di nastro e premette il tasto d'ascolto.
La voce di Abby riempì la cucina.
«... Sto solo cercando di vedere le cose dal suo punto di vista, ma questo
non mi spiega come mai se ne va in giro di notte a chiedere informazioni
che non le servono. Tipo indicazioni stradali...»
«Senta, le ho già raccontato della coca, no? Le è mai capitato di sniffare?»
«No.»
«Allora ci provi, una volta. Quando sei su di giri fai un sacco di cose
senza senso. In realtà sei confuso, ma pensi di sapere dove stai andando.
Poi all'improvviso ti ritrovi perso e devi chiedere informazioni.»
«Ma mi ha detto che ormai non fa più uso di cocaina.»
«Vero. Non ne tirerò mai più. È un errore. Mai più.»
«E cosa mi può dire del materiale trovato dalla polizia in casa sua...?
Ma...» A quel punto si udiva un distante scampanellio.
«Un attimo, per favore.» La voce di Spurrier si faceva improvvisamente
tesa.
Passi che si allontanavano. Sottofondo di voci indistinte. Abby che si agitava sul divano. Poi la voce incredula di Spurrier. «Aspetti. Non sa cosa
sta...»
«So esattamente cosa sto facendo, bastardo.» Questa volta era Pat Harvey a parlare. Anzi, stava quasi gridando. «Sei stato tu a portare nel bosco
mia figlia.»
«Non capisco cosa...»
«Pat! Non farlo!»
Una pausa.
«Abby? Oh, mio Dio!»
«Ti prego, Pat. Non farlo.» La voce di Abby era carica di paura. Qualcosa colpì il divano, facendola gemere. «Togliti da me!» Una lotta, respiri affannosi, poi Abby che gridava: «Fermo! Fermo!».
Uno sparo. Due spari. Tre spari.
Silenzio.
Un ticchettio di passi che attraversavano la stanza avvicinandosi al registratore. Si fermavano.
«Abby?»
Un'altra pausa.
«Non morire, Abby. Ti prego...» La voce di Pat Harvey tremò facendosi
irriconoscibile.
Marino allungò una mano verso il registratore, lo spense e lo rimise nella busta di plastica, mentre io lo fissavo scioccata.
Il sabato mattina in cui si svolsero i funerali di Abby attesi che la folla si
diradasse, quindi percorsi il vialetto all'ombra delle querce e delle magnolie, tra i fiori bianchi e fucsia delle cornacee.
Non erano presenti in molti. Avevo incontrato alcuni dei suoi ex colleghi
di Richmond e avevo cercato di consolare i suoi genitori. Era venuto anche
Marino. E Mark, che mi abbracciò forte, promettendomi di passare da me
più tardi, nel pomeriggio. Avevo bisogno di parlare con Benton Wesley,
ma prima desideravo restare sola per qualche minuto.
L'Hollywood Cemetery era la più incredibile città dei morti che conoscessi: quaranta acri di dolci colline, ruscelli e macchie di alberi a nord del
fiume James. Le stradine tortuose erano tutte lastricate e ognuna aveva un
nome: c'erano persino cartelli che indicavano il limite di velocità e declivi
d'erba con obelischi di granito, lapidi e angeli della morte, molti dei quali
vecchi di un secolo. Qui erano sepolti i presidenti James Monroe e John
Tyler, e Jefferson Davis, così come il magnate del tabacco Lewis Ginter.
Vi era inoltre una sezione dedicata ai militi, per le vittime di Gettysburg, e
un piccolo appezzamento di famiglia coltivato a prato all'inglese, dove
Abby era stata seppellita accanto alla sorella Henna.
Mi infilai in un varco tra gli alberi, il fiume che brillava più in basso
come rame annerito, carico del fango delle recenti piogge. Non mi sembrava possibile che Abby facesse parte di questa popolazione assente, che
a segnare il tempo per lei restasse ora una semplice pietra di granito. Mi
chiesi se in quegli ultimi mesi era tornata alla sua vecchia casa, nella stanza di Henna, come mi aveva confidato di voler fare quando ne avesse trovato il coraggio.
Udii qualcuno che si avvicinava alle mie spalle e mi girai. Wesley camminava adagio verso di me.
«Mi volevi parlare, Kay?»
Annuii.
Si sfilò la giacca del completo scuro, allentandosi la cravatta. Poi, lo
sguardo rivolto al fiume, attese di sentire ciò che avevo da dirgli.
«Ci sono nuovi sviluppi» annunciai. «Giovedì ho telefonato a Gordon
Spurrier.»
«Il fratello?» disse Wesley, osservandomi con curiosità.
«Il fratello di Steven Spurrier, sì. Non ho voluto parlartene prima di aver
controllato un altro paio di cose.»
«Io non l'ho ancora sentito, ma è sulla mia lista» commentò Wesley.
«Un bello schifo che gli esami sul Dna abbiano dato risultati negativi. Abbiamo ancora un grosso problema da risolvere.»
«È proprio di questo che intendevo parlare, Benton. Non c'è proprio nessun problema.»
«Non capisco.»
«Nel corso dell'autopsia su Spurrier ho scoperto un sacco di vecchie cicatrici, una delle quali dovuta a una piccola incisione al di sopra e al centro
della clavicola. Il che mi ha fatto pensare a qualche difficoltà nell'individuare una succlavia» spiegai.
«Nel senso?»
«Non ci si immette in una succlavia a meno che il paziente non soffra di
un problema molto serio, qualcosa di grave come un trauma in seguito al
quale occorre iniettare rapidamente un fluido, un medicamento o praticare
una trasfusione di sangue. In altre parole, ho capito che a un certo punto
Spurrier deve avere sofferto di qualcosa di grosso, così mi è sorto il sospetto che potesse esistere una correlazione con la sua assenza di cinque mesi
dalla libreria, poco dopo la morte di Jill ed Elizabeth. E poi aveva altre cicatrici, come ti dicevo: sull'anca e nella fascia laterale del gluteo. Cicatrici
minuscole che mi hanno fatto venire in mente i prelievi istologici di midollo spinale. Allora ho chiamato il fratello per chiedergli qualche informazione sui precedenti clinici di Steven.»
«E cos'hai scoperto?»
«Più o meno nel periodo in cui scomparve dal negozio, fu sottoposto a
cure contro l'anemia aplastica» dissi. «Ho parlato con il suo ematologo: irradiazione linfatica totale, chemioterapia. Gli venne trapiantato il midollo
di Gordon, dopodiché Steven trascorse un periodo all'interno di una sala
con corrente laminare, o per dirla in maniera più semplice, in una "bolla".
Se ricordi, anche la sua casa sembrava una bolla, in un certo senso. Assolutamente sterile.»
«Vuoi dire che il trapianto di midollo spinale gli avrebbe cambiato il
Dna?» chiese Wesley, penetrandomi con lo sguardo.
«Per quanto riguarda il sangue, sì. Le cellule ematiche sono state spazzate via completamente dalla sua anemia aplastica. Tuttavia, dal punto di vista dell'HLA era adatto a un intervento, a patto di trovare la persona giusta,
e quella persona era suo fratello.»
«Solo che i Dna erano necessariamente diversi.»
«Esatto. A meno che non si trattasse di gemelli monozigotici, e ovviamente non è il loro caso» confermai. «Dunque, il tipo di sangue di Steven
Spurrier era affine a quello ritrovato nell'auto di Elizabeth Mott, ma a livello di Dna si sarebbe dovuta notare la differenza, in quanto il reperto risale a un'epoca precedente a quella del trapianto. Quando, recentemente,
gli è stato fatto un prelievo per le analisi, in realtà abbiamo esaminato il
sangue di Gordon. Capisci cosa intendo? E dunque ciò che è stato confrontato con il Dna del vecchio sangue della Volkswagen non era il Dna di
Steven, ma quello del fratello.»
«Incredibile.»
«Voglio che si ripeta il test su alcuni tessuti prelevati dal cervello, perché nelle altre cellule il suo Dna è rimasto quello di prima del trapianto. Il
midollo spinale produce cellule sanguigne, quindi in caso di trapianto acquisti le cellule ematiche del donatore. Le cellule della milza, del cervello
e dello sperma, invece, non subiscono alcuna alterazione.»
«Spiegami un attimo cos'è l'anemia aplastica» disse, mentre riprendevamo a camminare.
«Il tuo midollo smette di lavorare, non produce, come se fossi stato sottoposto a radiazioni e ti avessero cancellato le cellule sanguigne.»
«E da che cosa può essere causata?»
«È un'affermazione idiopatica, nessuno ne conosce le origini precise.
Tuttavia è probabile che colpisca soggetti esposti all'azione di particolari
prodotti chimici, di pesticidi, di radiazioni, di fosfati organici. Il benzene,
per esempio, sembra essere associato all'anemia aplastica. Steven lavorava
alle stampatrici, e il benzene è un solvente utilizzato per la manutenzione
delle presse e di altri macchinali. Secondo l'ematologo, Spurrier sarebbe
stato esposto ogni giorno per un anno intero.»
«E i sintomi?»
«Senso di affaticamento, affanno, febbre, a volte infezioni ed emorragie
dal naso e alle gengive. Spurrier soffriva già di anemia aplastica quando
Jill ed Elizabeth vennero uccise. Probabilmente soffriva di epistassi, un fenomeno per cui bastava la minima provocazione. Come ben sai, lo stress
nervoso esaspera qualunque situazione, e di sicuro non era tranquillo mentre adescava le due ragazze. Se cominciò a perdere sangue dal naso, si
spiegherebbero le macchie ritrovate sul sedile posteriore della Volkswagen.»
«E quando decise di rivolgersi ai medici?»
«Un mese dopo l'assassinio. Nel corso degli esami scoprirono che aveva
i globuli bianchi, i trombociti e l'emoglobina bassissimi. Quando i trombociti calano, si sanguina più facilmente,»
«E una persona affetta da una simile patologia va in giro a commettere
omicidi?» esclamò Wesley.
«Be', prima che il quadro diventi particolarmente grave puoi anche soffrire di anemia aplastica per un po' senza saperlo. A volte te ne accorgi per
caso in palestra, facendo ginnastica.»
«Un problema di salute e la perdita di controllo sulle prime due vittime
sono bastati a farlo restare in ombra per qualche anno» rifletté Wesley a
voce alta. «Passa il tempo, si cura e continua a fantasticare, rivive gli assassinii e mette a punto le sue tecniche. E alla fine si sente di nuovo abbastanza sicuro per tornare a colpire.»
«Certo, questo potrebbe spiegare l'intervallo. Ma non sappiamo cosa gli
accadde in quel periodo.»
«Se è per quello, non sapremo mai veramente cosa gli passava per la testa» ribatté Wesley in tono cupo.
Si fermò un attimo e, prima di riprendere a parlare, osservò attentamente
una lapide. «Anch'io ho qualche novità per te. A New York c'è una società,
una sorta di negozio di articoli paramilitari di cui trovammo un catalogo a
casa di Spurrier. Dopo alcune ricerche, abbiamo scoperto che quattro anni
fa aveva ordinato un paio di occhiali per la visione notturna. Inoltre, abbiamo individuato un negozio di armi di Portsmouth dove, meno di un mese prima della scomparsa di Deborah e Fred, aveva acquistato due scatole
di munizioni Hydra-Shok.»
«Perché? Perché uccideva, Benton?»
«Non credo potremo mai giungere a una risposta soddisfacente, Kay. Ma
ho parlato con un suo ex compagno di stanza all'università, il quale mi ha
detto che Spurrier aveva un rapporto morboso con la madre. Era una donna
molto critica e frustrante, lo controllava e lo sminuiva a ogni minima occasione. Lui dipendeva da quella donna e al tempo stesso, probabilmente, la
odiava.»
«E la scelta della vittima?»
«Credo prendesse di mira ragazze che gli ricordavano ciò che lui non
aveva mai potuto avere: la felicità di una relazione. Essendo fondamentalmente incapace di intessere relazioni sane, la vista di giovani coppie gli
dava alla testa. L'unico modo per entrare in possesso dell'oggetto desiderato era ucciderlo, fondersi con esso e avere la meglio su ciò che invidiava.»
Fece una pausa, poi aggiunse: «Se tu e Abby non lo aveste incontrato,
quella sera, non so se saremmo mai riusciti a prenderlo. È tremendo, il
modo in cui vanno le cose. Bundy lo beccano perché ha un fanalino rotto.
Il figlio di Sam finisce dentro per colpa di un tagliando del parcheggio.
Fortuna. Abbiamo semplicemente avuto fortuna.»
Io non mi sentivo affatto fortunata. Nemmeno Abby era stata fortunata.
«Forse ti interesserà sapere che, da quando la storia è arrivata sui giornali, abbiamo ricevuto una marea di telefonate da parte di persone che sostengono di essere state avvicinate da un uomo che corrisponde alla descrizione di Steven Spurrier: all'uscita di bar, stazioni di servizio, negozi. In
una occasione si sarebbe addirittura fatto dare un passaggio da una coppia.
Aveva raccontato di avere l'auto in panne. I ragazzi l'hanno scaricato da
qualche parte. Non era successo niente.»
«Ma in questi "giri di prova" abbordava solo coppie eterosessuali?» domandai.
«Non sempre. Il che spiega come mai anche tu e Abby lo abbiate invogliato, quella sera. Spurrier era uno che amava il rischio, Kay. Gli piaceva
nutrire le sue fantasie. In un certo senso, uccidere non era che un particolare di secondo piano rispetto al gioco principale, alla caccia vera e propria.»
«Io però non capisco come mai la Cia temesse che l'assassino potesse
essere un agente di Camp Peary» dissi.
Wesley fece l'ennesima pausa, passandosi la giacca sull'altro braccio.
«Il fante di cuori era qualcosa di più di un semplice modus operandi» riprese. «Sul pavimento della macchina di Jim e Bonnie, sotto il sedile posteriore, la polizia ha trovato una tessera plastificata di una stazione di rifornimento. All'epoca si pensò che fosse scivolata da una tasca del killer,
dalla giacca o dalla camicia, voglio dire, comunque nella fase di adescamento.»
«E allora?»
«Allora il nome della società, sulla tessera, era Syn-Tron. Dopo alcune
ricerche, risalirono alla Viking Exports. Viking Exports è una società fantasma di Camp Peary, e quelle tessere vengono rilasciate al personale del
campo per l'erogazione di carburante alle pompe della base.»
«Interessante. Abby parlava di una carta, in uno dei suoi blocchi. Ma avevo immaginato si riferisse al fante di cuori. Dunque lei sapeva di questa
tessera, vero Benton?»
«Credo l'avesse informata Pat Harvey. La signora Harvey ne era a conoscenza da un bel po', e questo spiega anche le accuse rivolte ai federali nel
corso della famosa conferenza stampa.»
«Naturalmente, però, quando ha deciso di far fuori Spurrier non credeva
più alla vecchia versione dei fatti.»
«Il Direttore l'aveva convocata subito dopo la conferenza, Kay. Non aveva avuto altra scelta, le disse che ritenevano quell'indizio fuorviante e lasciato apposta dal killer. In realtà lo sospettavamo da tempo, ovviamente
non potevamo prendere la cosa troppo sul serio. La Cia, invece, la prese
davvero sul serio.»
«E questo la mise a tacere.»
«Be', almeno la fece pensare due volte prima di parlare. Di sicuro, dopo
l'arresto di Spurrier il discorso del Direttore deve aver improvvisamente
acquistato un senso, per lei.»
«Ma come può aver fatto Spurrier a procurarsi una tessera di Camp Peary?»
«Dagli agenti che frequentavano la sua libreria.»
«Vuoi dire che in qualche modo riuscì a rubarla a un suo cliente?»
«Perché no? Immagina che un agente di Camp Peary esca dal negozio
dimenticandosi per caso il portafogli sul banco. Ora che torna indietro a
cercarlo, Spurrier fa in tempo a nasconderlo e a dire che non ha visto nessun portafogli in giro. Quindi lascia la tessera nella macchina di Jim e
Bonnie e noi colleghiamo l'omicidio alla Cia.»
«Nessun numero di identificazione sulla tessera?»
«No, i numeri erano stampati su adesivi preventivamente strappati, così
non siamo mai risaliti a nessuno in particolare.»
Cominciavo a sentirmi stanca e mi facevano male i piedi, ma per fortuna
eravamo appena giunti in vista del parcheggio dove avevo lasciato la macchina. Gli altri partecipanti al funerale se n'erano già andati tutti.
Wesley aspettò che aprissi la portiera. Poi mi sfiorò un braccio e disse:
«Mi dispiace per tutte le volte che...»
«Anche a me.» Non lo lasciai finire. «Adesso ripartiamo da zero, Benton. E ti prego di fare tutto il possibile perché Pat Harvey non venga punita
una volta di più.»
«Non credo che una giuria abbia difficoltà a comprendere ciò che ha
passato e sofferto quella donna.»
«Sapeva dei risultati sul Dna?»
«Nonostante i nostri sforzi per tenerla alla larga, è sempre riuscita a mettere le mani sui particolari più critici e importanti di questa vicenda. Immagino sapesse, sì. Di certo ci aiuterebbe a capire perché lo ha fatto. Credeva che Spurrier non sarebbe mai stato punito per le sue colpe.»
Salii e infilai la chiave d'accensione.
«Non posso dirti quanto mi dispiace per Abby» aggiunse ancora.
Annuii chiudendo la portiera, gli occhi pieni di lacrime.
Poi ripercorsi lo stretto viale che conduceva all'entrata del cimitero, varcando il cancello in ferro battuto. All'orizzonte il sole illuminava i campanili e i grattacieli degli uffici del centro, e più vicino i raggi si impigliavano fra i rami degli alberi. Abbassai il finestrino e puntai verso ovest: la mia
casa mi aspettava.
FINE