RASSEGNA STAMPA

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venerdì 31 ottobre 2014
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Da Panorama.it del 31/10/14
Dopo Mare Nostrum arriva Triton: ecco come
sarà
Si conclude l'operazione umanitaria per salvare i migranti nel
Mediterraneo, e parte una missione europea, con meno mezzi. Che
suscita preoccupazioni
Si ferma dopo poco più di un anno l'operazione Mare Nostrum, avviata dal Governo dopo
la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. Dopodomani parte Triton, la missione - assai
più contenuta in termini di mezzi impiegati e raggio d'azione - che innalza la bandiera di
Frontex, l'Agenzia europea delle frontiere.
Ma, intanto, non si fermano le tragedie del mare: un gommone diretto verso l'Italia è
affondato al largo della Libia. Si contano venti dispersi. "Una volta che partirà Triton" ha
dichiarato il ministro dell'Interno, Angelino Alfano "sarebbe difficilmente spiegabile
mantenere un'operazione d'emergenza come Mare Nostrum. Dall'uno novembre, dunque,
non ci saranno due linee di protezione, una vicina a Libia e un'altra più vicina alle acque
nazionali, ma Mare Nostrum chiuderà secondo una linea d'uscita che il Governo stabilirà
molto a breve".
Triton schiererà ogni mese due navi d'altura, due navi di pattuglia costiera, due
motovedette, due aerei ed un elicottero. L'Italia contribuisce a questa flotta con quasi la
metà dei mezzi: un aereo, un pattugliatore d'altura e due pattugliatori costieri. Tra gli altri
Paesi europei partecipanti ci sono anche Islanda (con una nave) e Finlandia (un aereo). Il
Centro di coordinamento internazionale dell'operazione è stabilito presso il Comando
aeronavale della Guardia di finanza a Pratica di Mare (Roma).
I mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle. Pattuglieranno il
Canale di Sicilia ed il Mare davanti alle coste calabresi tenendosi nell'ambito delle 30
miglia dal litorale italiano. In caso di interventi di ricerca e soccorso (Sar) potranno
comunque spingersi anche oltre. Si tratta di un'operazione molto differente da
MareNostrum, i cui mezzi arrivano fino a ridosso delle coste libiche per soccorrere
imbarcazioni in difficoltà, secondo alcuni incentivando così le partenze dei migranti.
Anche il budget è differente: 9,5 milioni di euro al mese per la missione nazionale, quasi 3
per quella Frontex. Triton, ha precisato Alfano, "non svolgerà le funzioni di Mare Nostrum.
Costa un terzo e non è a carico solo dell'Italia, con enorme risparmio per noi. Farà ricerca
e soccorso nei limiti del diritto internazionale della navigazione che impone a il dovere di
soccorrere chi è in difficoltà in mare".
La protesta delle associazioni
Ma tra le associazioni che lavorano con i migranti c'è preoccupazione per la conclusione
della missione umanitaria italiana. Unhcr, Amnesty, International, Save the children, hanno
evidenziato i maggiori rischi per le traversate nel momento in cui non ci saranno più le navi
italiane a prestare soccorso a ridosso delle coste libiche. Un cartello di associazioni, tra le
quali Arci, Acli e Caritas, ha lanciato un appello al Governo perché non venga interrotta
l'operazione Mare Nostrum.
"La fine di Mare Nostrum porterà a nuovi morti e nuove stragi" ha detto Oliviero Forti,
responsabile immigrazione di Caritas Italiana. "A un anno dalla tragedia di Lampedusa in
cui persero la vita centinaia di migranti - ha aggiunto - sono stati salvati 150 mila migranti
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tra uomini, donne e bambini, ma dal 1° novembre con il passaggio all'operazione Triton si
rischiano più morti e nuove stragi lungo le rotte del Mediterraneo".
Per il responsabile immigrazione di Caritas Italia "i numeri delle persone che si rivolgono
all'Help Center aumentano a vista d'occhio" e chiedono, "protezione internazionale, perché
non sono semplici migranti, ma persone che decidono di lasciare casa perché del loro
paese d'origine restano solo macerie".
Sui costi sostenuti per il mantenimento di ogni singolo migrante, l'esponente della Caritas
Italiana ha ricordato che "lo Stato paga 900 euro per il loro sostentamento, ma non sono
somme che vengono erogate direttamente ai migranti, a loro spetta solo vitto, alloggio e
un pocket money di circa 2,50 euro al giorno".
"Non possiamo più nasconderci dietro classici stereotipi - ha concluso Forti - chi accosta
l'immigrato all'Ebola promuovendo l'idea che sono portatori di malattie, chi dice che
tolgono lavoro, dimostra un'arretratezza culturale che non fa onore a questo Paese, che
ha un passato di emigrazione importante e che spesso in molti dimenticano".
http://www.panorama.it/news/cronaca/dopo-mare-nostrum-triton/
Da Redattore Sociale del 31/10/14
“Chiudere Mare nostrum, gravissimo errore”.
L’appello delle associazioni
“Il governo non ceda alle spinte xenofobe”. Le principali sigle
impegnate al fianco dei migranti scrivono a Renzi perché l’operazione
della Marina militare non si fermi: “Proseguirla è un dovere per uno
stato che voglia definirsi democratico”
ROMA – “Proseguire l’operazione Mare Nostrum è una scelta responsabile che oggi l’Italia
deve compiere, per dimostrare nei fatti che la salvaguardia di ogni vita umana è il primo
dovere di uno Stato che voglia definirsi civile e democratico”. Le principali associazioni che
lavorano al fianco dei migranti lo scrivono chiaro nell’appello lanciato oggi per salvare in
extremis Mare nostrum (l’operazione della marina militare dovrebbe terminare tra pochi
giorni per lasciare il posto a Triton). Dalla Caritas al centro Astalli, passando per Arci, Asgi,
Sant’Egidio e gran parte del mondo del volontariato e il terzo settore, l’invito al Governo è
a “non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe e di proseguire con la missione,
rafforzando la pressione politica nei confronti dei partner europei affinché contribuiscano a
mantenerla in vita sostenendola anche economicamente.
“Chiediamo inoltre – si legge nell’appello – che il Governo si faccia promotore in Europa
dell'applicazione della direttiva europea 55/2001 sulla protezione temporanea e dell'avvio
di un programma europeo di reinsediamento dei rifugiati in arrivo dalle aree di crisi e di
conflitto”.
Secondo le associazioni, che hanno indetto una conferenza stampa oggi a Roma, la
decisione del governo di porre fine all’operazione Mare Nostrum è un “gravissimo errore”.
“Lanciata dopo la strage del 3 ottobre 2013 in cui persero la vita 368 persone, ha
consentito il soccorso e il salvataggio di migliaia di persone – sottolineano - La maggior
parte di coloro che attraversano il mediterraneo sono uomini, donne e bambini che
fuggono da guerre, violenze e persecuzioni, persone che tentano così di salvare la loro
vita, che hanno diritto alla protezione internazionale e che nessuna operazione di
rafforzamento dei controlli delle frontiere può fermare”.
Le associazioni ribadiscono che il programma europeo Triton, che verrà lanciato l’1
novembre e che secondo il ministro Alfano dovrebbe sostituire Mare nostrum, ha obiettivi
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diversi. “Opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane, svolgerà un’azione non
di soccorso ma di controllo delle frontiere e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum,
come hanno affermato i competenti organismi dell’UE, a partire dallo stesso Direttore
dell'agenzia Frontex – spiegano -Triton non fermerà né le partenze né le stragi. I viaggi
continueranno ma in condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno quell’unico
strumento di soccorso garantito in questo anno da Mare Nostrum. E' quindi assolutamente
necessario garantire continuità a un'operazione che, come Mare Nostrum, operi in acque
internazionali, con un mandato chiaro di ricerca e soccorso”. Le associazioni che hanno
sottoscritto l’appello sono: Centro Astalli, comunità di Sant’Egidio, Caritas Italiana, Acli,
Arci, Asgi, Cnca, Fondazione Migrantes, Rete G2, Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus,
Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete Primo Marzo, Save The Children
Italia, Sei Ugl, Terra del Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus.
Da Rassegna.it del 31/10/13
Mare Nostrum deve continuare, 31/10 conf.
stampa a Roma
Diverse organizzazioni sociali italiane, che si occupano di diritti dei migranti, lanciano un
appello al Governo perché non venga interrotta l'operazione Mare Nostrum. L'Italia non
può sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo.
Il testo dell'appello e le iniziative che verranno messe in campo per sostenerlo saranno
presentate in una conferenza stampa che si terrà alle ore 11 di domani, venerdì 31
ottobre, presso la Libreria Fandango in via dei Prefetti 22 a Roma.
Saranno presenti esponenti delle organizzazioni promotrici: ACLI, ARCI, ASGI, Casa dei
Diritti Sociali-Focus, Caritas Italiana, Centro Astalli, CGIL, CNCA, Comunità di S.Egidio,
Emmaus Italia, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes, Giù
le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete G2 - Seconde Generazioni, Rete Primo
Marzo, Save The Children Italia, SEI UGL, Terra del Fuoco, UIL.
Hanno aderito: Andrea Camilleri, Carlo Feltrinelli, Andrea Diroma
e inoltre Asmira, Associazione Babele Grottaglie, CESTIM.
http://www.rassegna.it/articoli/2014/10/30/115898/mare-nostrum-deve-continuare-31-10conf-stampa-a-roma
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 31/10/14, pag. 5
Expo, nel laboratorio del lavoro volontario
arriva il servizio civile
Roberto Ciccarelli
Milano. 800 mila euro destinati a 140 ragazzi che percepiranno un
compenso di 443 euro. Ma i fondi non bastano per formare i volontari.
Possibile discriminazione con gli altri volontari che lavoreranno gratis.
«La nostra grande ambizione è fare in modo che la gente che verrà
all'Expo se ne vada arricchita sul tema dell'alimentazione» ha detto l'Ad
Sala
Dopo gli ultimi arresti, Expo a Milano cerca di recuperare terreno. E il campo simbolico
scelto è quello caldissimo del volontariato. Ieri l’amministratore delegato di Expo Giuseppe
Sala ha convocato alla fabbrica del vapore una conferenza stampa in grande stile alla
quale hanno partecipato il sottosegretario agli interni Luigi Bobba e l’assessore milanese
alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Entro dicembre pubblicherà un bando per
reclutare 140 ragazzi che presteranno servizio civile durante la kermesse. I posti sono
finanziati da Expo spa con 800 mila euro. Una volta concluso il reclutamento i giovani
verranno divisi in due gruppi di lavoro, il primo a supporto delle associazioni, il secondo a
sostegno dei paesi «in via di sviluppo» che parteciperanno all’esposizione universale.
A differenza dei volontari stabiliti dall’accordo sindacale del luglio 2013, quelli finanziati da
Expo verranno pagati con il contributo standard previsto per il servizio civile: 433 euro al
mese a testa per 12 mesi. Inizieranno a lavorare a febbraio 2015 e continueranno a farlo
anche dopo la fine dell’esposizione ad ottobre. Così prospettato si verrà a creare una
discriminazione tra i volontari della prima ora (dovevano essere 18500, ieri Sala ha detto
che verranno selezionati 9–10 mila sulle 12.500 candidature ricevute) e i mille reclutati dal
Touring club nell’ambito del progetto «Aperti al mondo» per «presidiare» o fare visite
guidate al Duomo o alla Casa del Manzoni. I primi verranno pagati, i secondi dovranno
accontentarsi di un tablet. Per chi arriverà a Milano da fuori dovrà pagarsi le spese. Questi
ultimi aspetti non sono stati ancora chiariti e alimentano le polemiche.
Emergono altri problemi legati al bando per il servizio civile. Secondo il sito di informazione
Redattore Sociale i 140 volontari avrebbero dovuto essere molti di più: cinquecento. Ma i
fondi non sono stati stanziati. Il costo per singolo volontario sarebbe più alto rispetto ai 433
euro mensili previsti. A questa cifra bisogna aggiungere il costo dell’assicurazione, più 90
euro necessari per la formazione. Il costo minimo per questi corsi è di 150 euro, ne
mancano 60. «Abbiamo già sborsato 40 mila euro extra per organizzare il sistema dei
volontari – sostiene Sergio Silvotti, presidente di Cascina Triulza, uno dei soggetti che
organizzano il padiglione della società civile – Le associazioni che fanno formazione si
tireranno indietro, rischiano di perderci».
Dopo quello Letta, il governo Renzi conferma il suo protagonismo nelle politiche del lavoro
Expo. Il sottosegretario al lavoro Bobba ha definito il servizio civile «un’iniziativa originale».
A suo avviso la novità starebbe nel finanziare il servizio civile «da un soggetto privato» e
nel mettere insieme le organizzazioni del terzo settore. Per Bobba il servizio civile è un
modo «per impiegare i giovani in attività sociali» in un momento in cui la disoccupazione
giovanile ha raggiunto i massimi storici. Resta tuttavia la differenza tra un’attività
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regolarmente inquadrata in un contratto nazionale, oppure tutelate secondo le altre norme
del diritto del lavoro, e il volontariato (quello gratuito e quello pagato secondo gli standard).
La prima è un lavoro, il secondo no. Una teoria simile è stata esposta già dal ministro del
lavoro Poletti secondo il quale i lavoratori destinatari di un sussidio di disoccupazione
dovranno rendersi utili per «lavori a beneficio della comunità». Non accettare quest’altra
forma di «servizio civile» significa perdere il sussidio. è la regola del «workfare» che
l’esecutivo intende realizzare approvando il Jobs Act in discussione in parlamento. L’Expo
a Milano sta diventando il laboratorio di questa visione della società e del lavoro.
Tra incertezze e progetti sul lavoro volontario continua il count-down verso il primo maggio
2015, giorno d’esordio del “grande evento” milanese, ma anche festa del lavoro. Forte è
l’esigenza del super-manager Sala di offrire un’immagine di Expo diversa da quella che le
indagini della magistratura hanno fatto emergere. Sugli arresti per ‘ndrangheta legati ai
subappalti Tem Sala ha detto che «in 100 pagine di atti non ce ne è una in cui si parla di
Expo». «Noi abbiamo sbagliato tante volte, ma non dobbiamo cadere in questo
autolesionismo», ha osservato, definendo «lapalissiano» quanto accaduto.«La nostra
grande ambizione è fare in modo che la gente che verrà all’Expo se ne vada arricchita sul
tema dell’alimentazione – ha aggiunto– Il senso per un’operazione del genere è che si
cada alla ricerca della sua anima e in profondità sulle tematiche». Cibo, anima e lavoro
volontario che, a volte, è anche gratis.
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ESTERI
del 31/10/14, pag. 2
Esteri, Napolitano frena Renzi congelata la
rosa di donne per il nuovo ministro Mogherini
da domani alla Ue
Il Quirinale avverte : “Primo scambio di opinioni sulla nomina” Nel
colloquio esaminati anche i nodi riforme, Csm e Consulta
SILVIO BUZZANCA
ROMA .
Matteo Renzi sale al Quirinale, ma non trova l’accordo con Giorgio Napolitano sul futuro
ministro degli Esteri. Il capo dello Stato e il presidente del Consiglio hanno discusso per
circa un’ora. Il premier si è presentato con una rosa tutta al femminile: Lia Quartapelle,
Marina Sererni, Elisabetta Belloni e Martà Dassù. Nomi che non hanno convinto il
presidente della Repubblica che ha chiesto un’ulteriore riflessione. Alla fine il nome
dell’uomo o della donna che dovrà prendere il posto di Federica Mogherini non è saltato
fuori. Lo stallo è confermato anche dal comunicato del Quirinale alla fine dell’incontro: «Il
colloquio è servito — si legge — ad un giro di orizzonte sui temi dell’agenda del governo e
dell’attività politico-parlamentare. Tra questi ultimi, la legge elettorale e il completamento
della composizione di Corte Costituzionale e Csm. C’è stato un primo scambio di opinioni
sulla nomina del prossimo ministro degli Esteri».
Dunque niente di fatto, nonostante il tempo stringa. Il ministro degli Esteri, infatti, il 3
novembre dovrà assumere il nuovo incarico di Alto commissario per la politica estera
dell’Unione europea. E per questo ieri ha presentato le dimissioni da deputata. Il suo posto
a Montecitorio sarà preso dal piacentino Marco Bergonzi. La Mogherini si è congedata
dall’aula con un breve saluto in cui ha detto fra l’altro che «l’Ue non è Bruxelles, ma ogni
singolo cittadino dei 28 Paesi: siamo tutti noi e sono convinta che troverò in questo
Parlamento un convinto compagno di strada». In aula però si è scatenato un vivace
confronto: il Pd, infatti, aveva chiesto agli altri gruppi di poter salutare la sua deputata
dimissionaria con un intervento del capogruppo Roberto Speranza. Ma questo ha
scatenato la richiesta dei grillini di potere intervenire anche loro. Ad accendere le polveri è
stato Alessandro Di Battista che ha insistito a lungo con Laura Boldrini per potere parlare.
Per i toni che ha usato con la presidente della Camera è stato definito «un maleducato che
deve essere sanzionato» dal democratico Ettore Rosato. Alla fine, alla richiesta dei grillini
si sono associati altri e la Boldrini ha concesso tre minuti ad ogni gruppo. Si è sviluppato
un mini dibattito in cui tutti hanno fatto gli auguri di buon lavoro alla Mogherini. Risolto il
problema dello scranno da deputato della Mogherini, resta però aperto quello della
poltrona della Farnesina. Tutti chiedono di fare presto. «A fronte di una situazione
internazionale sempre più complessa e dei tanti dossier che la Farnesina deve affrontare,
anche in collaborazione con Mogherini, è urgente individuare il nome del nuovo ministro
degli Esteri», dice per esempio la forzista Deborah Bergamini.
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del 31/10/14, pag. 16
Spianata delle Moschee chiusa ai palestinesi
Abu Mazen: “Atto di guerra”
L’attentato contro un rabbino scatena la reazione Il sito riaperto dopo
poche ore, ma la tensione resta alta
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME .
— Si avvita e prende una pericolosa velocità la crisi nella Città Santa, teatro da mesi
dell’intifada dei minorenni che tutte le notti nei quartieri arabi della città si scontrano con la
polizia. Il ferimento di un rabbino dell’ultradestra israeliana mercoledì sera e la successiva
uccisione di un palestinese, presunto responsabile dell’agguato, hanno spinto il premier
Benjamin Netanyahu a ordinare prima la chiusura della Spianata delle Moschee — «un
atto di guerra», ha tuonato il presidente dell’Anp, Abu Mazen — poi la sua riapertura, ma
limitata. Il blocco totale della Spianata nel giorno sacro per gli islamici avrebbe certamente
provocato reazioni fra la popolazione araba. In città da ieri su ordine del premier sono
affluite ingenti forze di polizia da altri distretti e reparti dell’Esercito per fronteggiare ogni
evenienza. La tensione in queste settimane ruota tutta attorno alla Spianata delle
Moschee, nel cuore della Città Vecchia, a poche centinaia di metri dal Santo Sepolcro.
Lo status dei luoghi religiosi è il principale motivo di scontro e di tensione in città. Sul lato
ovest della Spianata c’è il Muro del Pianto e per la tradizione religiosa ebraica alla sua
sommità si erdel geva il Tempio degli ebrei e religiosi e nazionalisti rivendicano il diritto di
andarvi a pregare. Ma gli accordi con la Giordania — che attraverso il Waqf gestisce il
terzo luogo santo dell’Islam — consentono agli ebrei solo visite in alcune ricorrenze
particolari senza il diritto di preghiera. L’estensione della sovranità israeliana anche alla
Spianata delle Moschee è un cavallo di battaglia di un vasto movimento politico che con i
religiosi, l’ultradestra ma anche di buona parte del Likud, il partito premier Netanyahu, che
incalza il suo leader a compiere atti unilaterali che renderanno impossibile nel futuro la
soluzione dei “due Stati” finora accettata e sostenuta dalla comunità internazionale.
Mercoledì sera, il rabbino Yehuda Glick, emigrato dagli Usa e dirigente del gruppo
nazionalista i “Fedeli del Monte del Tempio” — il termine con cui gli ebrei si riferiscono alla
Spianata delle Moschee — è stato ferito da colpi di arma da fuoco esplosi da un uomo
vestito da motociclista e versa ancora in gravi condizioni. Glick era appena uscito dal
“Centro Begin” di Gerusalemme dopo un dibattito sulle rivendicazioni ebraiche riguardo al
Monte del Tempio a cui avevano partecipato diversi parlamentari del Likud, fra loro anche
il “falco” Moshe Feiglin.
Poche ore più tardi, un’unità speciale della polizia israeliana ha fatto irruzione in
un’abitazione nel quartiere arabo di Abu Tor a Gerusalemme est alla caccia del killer. Le
forze speciali hanno circondato l’intero abitato e poi hanno fatto irruzione nell’abitazione di
Moataz Hijazi uccidendolo sul terrazzo dove si era nascosto. Hijazi, che ha speso metà
della sua vita in cella, era un militante della Jihad Islamica che ha poi rivendicato
l’attentato. Anche Hamas si è compiaciuto dell’azione. Il gesto appare però come un atto
di terrorismo individuale, come l’auto-killer alla fermata del tram la scorsa settimana.
Il ministro della sicurezza interna Yitzhak Aharonovic ha chiesto rinforzi per la polizia di
Gerusalemme. Oltre a proteste palestinesi per la chiusura della Spianata delle Moschee si
temono anche atti di ritorsione di ultrà ebrei di destra per l’attacco al rabbino.
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L’Europa ha invitato ieri pomeriggio tutti gli attori di questa crisi alla moderazione,
constatando però che i continui annunci di nuove costruzioni israeliane oltre la Linea
Verde del 1967 sono «una seria minaccia» alle aspettative di pace. Che restano tali però,
perché il negoziato è fermo da tre anni. Per questo Abu Mazen sta percorrendo la via del
riconoscimento della Palestina da parte dei singoli Stati. Ieri è stato il turno della Svezia e
questo ha subito provocato il richiamo dell’ambasciatore israeliano a Stoccolma.
del 31/10/14, pag. 7
Stoccolma riconosce lo Stato di Palestina
Michele Giorgio
GERUSALEMME, 30.10.2014
Palestina. Dura reazione di Israele all'annuncio di Stoccolma. Netanyahu
richiama l'ambasciatore israeliano per consultazioni. Abu Mazen invece
applaude e chiede agli altri governi europei di seguire l'esempio
svedese. A Gerusalemme regna la tensione. La polizia israeliana uccide
il sospetto responsabile dell'agguato al rabbino nazionalista Yehuda
Glick
Gerusalemme Est stava vivendo una delle sue giornate più tese da molti anni a questa
parte quando ieri le agenzie hanno battuto la notizia del riconoscimento ufficiale da parte
del governo svedese dello Stato di Palestina nei territori di Cisgiordania e Gaza, occupati
da Israele nel 1967. Al-Thuri (Abu Tor) era in fiamme, dalla notte prima, quando le forze
speciali della polizia avevano ucciso in questo quartiere diviso a metà tra palestinesi ed
israeliani, Muataz Hijazi, sospettato di aver sparato e feritomercoledì sera il rabbino
Yehuda Glick, leader del gruppo ultranazionalista “I Fedeli del Monte del Tempio”. Il passo
segue la decisione annunciata il 3 ottobre dal premier svedese Stefan Lovfen. «E’ un
passo importante…Qualcuno dirà che è una decisione arrivata troppo presto, a me spiace
sia arrivata così in ritardo», ha commentato il ministro degli esteri, Margot Wallstrom, in
riferimento alle reazioni negative giunte a inizio mese da Israele e dagli Stati Uniti
all’iniziativa annunciata dal suo Paese. Altrettanto negative sono state le reazioni di ieri del
governo Netanyahu che ha prontamente richiamato per consultazioni l’ambasciatore
israeliano in Svezia. Il ministro degli esteri Liebeman ha commentato con sarcasmo che
Stoccolma deve comprendere che «la situazione in Medio Oriente è molto più complessa
che non i mobili dell’Ikea».
Ben diverso il commento del presidente palestinese Abu Mazen che ha salutato con
favore la decisione di Stoccolma e ha invitato altre nazioni a seguirne l’esempio. La Svezia
si va così ad unire ai 134 paesi del mondo che hanno già riconosciuto l’esistenza dello
Stato palestinese, ma è il primo in Europa occidentale a compiere un simile passo.
Polonia, Slovacchia e Ungheria avevano già riconosciuto la Palestina, però prima di
entrare a far parte dell’Ue.
A inizio ottobre la Casa Bianca che aveva definito “prematura” (sic) la decisione svedese:
«Riteniamo che il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese sia prematura –
aveva detto la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki – Noi sosteniamo il diritto
palestinese allo Stato, ma questo può arrivare solo attraverso un negoziato (bilaterale con
Israele)». Washington non vede altra strada che quella dell’estenuante e sterile negoziato
che, a singhiozzo, sta mediando da oltre venti anni. Allo stesso tempo il riconoscimento
del governo svedese, come quello giunto di recente dal Parlamento britannico, non pare
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destinato a sfociare in atti politici concreti. L’interesse che gli europei mostrano da qualche
tempo verso il riconoscimento dello Stato di Palestina più che affermare il diritto dei
palestinesi alla libertà e all’indipendenza sulla base delle risoluzioni internazionali, sembra
volto a difendere la soluzione dei “due Stati”, alla quale ben pochi credono ancora. Il
quadro reale sul terreno, con la colonizzazione israeliana che non conosce soste e la
contrarietà del governo Netanyahu alla restituzione della Valle del Giordano ai palestinesi,
lascia intravedere soltanto uno Stato di Palestina a macchia di leopardo, in porzioni
limitate della Cisgiordania e senza sovranità reale.
Mercoledì sera il rabbino Yehuda Glick, leader del gruppo nazionalista dei “Fedeli del
Monte del Tempio” è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco esplosi da un uomo vestito
da motociclista. Glick, ora in gravi condizioni, era reduce da un dibattito sulle
rivendicazioni ebraiche sulla Spianata della moschee, che stanno coalizzando diverse
anime del nazionalismo religioso israeliano. Creando però forte preoccupazione e rabbia
tra i palestinesi per lo status futuro delle moschee di Al Aqsa e della Roccia. Un blitz dei
“Fedeli del Monte del Tempio”, in questo stesso mese di 24 anni fa, provocò incidenti gravi
sulla Spianata: 20 palestinesi furono uccisi dai fucili della polizia israeliana.
Dopo l’agguato di mercoledì sera al rabbino Glick, la polizia ha puntato quasi subito la sua
attenzione su Moataz Hijazi che lavorava nel ristorante del Centro Begin dove era in corso
il dibattito. Il palestinese, 32enne, secondo gli israeliani sarebbe stato un militante del
Jihad Islami (ad al-Thuri non confermano). Un’unità speciale ha circondato la sua
abitazione intorno alle 2.30 di notte. A questo punto ci sono due versioni. Testimoni
palestinesi riferiscono che gli agenti hanno fatto fuoco subito contro Hijazi e parlano di una
“esecuzione sommaria”. La polizia smentisce e sostiene che il palestinese avrebbe
opposto resistenza alla cattura e gli agenti sarebbero stati costretti a sparare. L’agenzia di
stampa palestinese Maan afferma che Hijazi è morto dissanguato dopo essere stato
lasciato a lungo sul terreno e che alcuni giovani che volevano prestargli soccorso
sarebbero stati allontanati dalla polizia. Subito dopo sono cominciati scontri tra palestinesi
e polizia che sono andati avanti per tutto il giorno, anche nel vicino quartiere di Silwan.
Alla tensione nelle strade si è aggiunto un nuovo round di scambi di accuse tra Israele e
Anp. Il premier Netanyahu ha ripetuto che dietro le violenze a Gerusalemme ci sarebbe
«l’incitamento da parte di elementi islamici radicali e del presidente dell’Anp Abu Mazen
che ha dichiarato che occorre impedire con tutti i mezzi agli ebrei di entrare nel Monte del
Tempio». Pronta la replica di Abbas che ha descritto come un «atto di guerra» la decisione
israeliana di chiudere l’accesso alla Spianata delle Moschee (non accadeva dall’inizio
della seconda Intifada, nel 2000). Ieri sera la polizia ha annunciato che il luogo santo
islamico sarà riaperto oggi.
del 31/10/14, pag. 27
Israele, il medio oriente e la diplomazia del
gas che passa da Leviathan
Caro direttore, Golda Meir, primo ministro d’Israele dal 1969 al 1974, detta «dama di
ferro» ben prima di Margaret Thatcher, diceva spesso che Mosè aveva condotto il popolo
di Israele nell’unico territorio del Medio Oriente senza petrolio.
Se la signora Meir fosse stata viva il 17 gennaio 2009 avrebbe cambiato idea: quel giorno
la società texana Noble ha scoperto al largo della costa israeliana un giacimento di circa
300 miliardi di metri cubi di gas. Due anni più tardi, poco lontano, è stato trovato un altro
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giacimento da 600 miliardi di metri cubi, che gli israeliani hanno chiamato Leviathan: un
mostro marino citato nel libro di Giobbe capace di modificare a proprio piacimento l’ordine
e la geografia. Mai nome fu più appropriato: queste scoperte sono destinate a creare un
nuovo ordine energetico nel quale Israele può giocare un ruolo di primo piano. I numeri
sono infatti di tutto rispetto: Leviathan potrebbe garantire il consumo di gas dei 28 Paesi
dell’Ue per più di un anno e quello di Israele per più di 80. E nessuno sa quanto altro gas
potrà essere scoperto ancora nella zona.
Le conseguenze di queste scoperte sono importanti per il mercato domestico di Israele
che, dal 1948, è stato dipendente dalle importazioni di energia, spendendo più del 5% del
proprio Pil, con conseguenze per il proprio bilancio e per la propria sicurezza. Oggi Israele
diventa autosufficiente dal punto di vista energetico, e potrà contare in più, secondo i
calcoli del gabinetto del premier Netanyahu, su 60 miliardi di dollari per la vendita del gas
eccedente al proprio fabbisogno. Una cifra enorme che spaventa non pochi economisti: il
valore dello shekel, la valuta nazionale, potrebbe aumentare, creando inflazione e
rendendo meno competitivo l’export.
Ma la reale portata di queste scoperte consiste soprattutto nella fornitura di gas ai propri
vicini. A chi, come e a quanto venderlo non sono scelte di tipo economico: sono decisioni
che hanno implicazioni geopolitiche. Alcuni Paesi produttori di idrocarburi nel Medio
Oriente e Nord Africa hanno in comune un problema non di poco conto: una produzione
nazionale che stagna o è in declino e un aumento dei consumi interni risultato del
progresso delle rispettive società civili. Poiché i consumi di idrocarburi sono sovvenzionati,
produzione in declino e consumi in aumento creano un pericoloso circolo vizioso: ci sono
minori entrate derivanti dalla vendita di petrolio e gas sui mercati internazionali e maggiori
esborsi per sussidiare i crescenti consumi interni. Il combinato disposto di questi fattori
crea disagio sociale e instabilità politica. È il caso dell’ Egitto: nel 2013 le manifestazioni di
piazza che hanno rovesciato il governo di Morsi sono state innescate anche dalla penuria
di benzina e dalle frequenti interruzioni elettriche. L’Egitto, pur essendo uno stato
produttore di idrocarburi, non ha abbastanza gas per coprire i fabbisogni domestici e non
ricava abbastanza denaro dalla vendita sui mercati internazionali per far quadrare il
bilancio. Circa il 7% del Pil egiziano è assorbito dai sussidi al consumo energetico che a
loro volta rappresentano il 70% dell’insieme dei sussidi governativi.
Due anni fa, Israele riceveva il 70% del proprio fabbisogno di gas dall’ Egitto. Morsi ha
cancellato il contratto e oggi il gasdotto che portava il gas a Israele è vuoto. Basterebbe
invertire il flusso, e Israele potrebbe per la prima volta nella storia esportare gas per
soddisfare i consumi egiziani. Non solo: in Egitto il gas potrebbe essere trattato per essere
esportato verso i redditizi mercati internazionali. Un’operazione che consentirebbe di
saldare i legami tra Egitto e Israele e contribuire alla stabilizzazione di una regione che
condivide minacce e pericoli derivanti da jihadismo e frammentazione di Siria e Iraq. Forse
l’operazione «gas for peace» è già iniziata: Israele ha firmato a giugno un accordo per la
fornitura di gas per i prossimi 20 anni alla compagnia elettrica palestinese e, sempre
quest’anno, un contratto per una fornitura di gas per 15 anni alla Giordania, gas che prima
Amman acquistava dal Cairo.
L’accordo tra Israele e Giordania è stato fortemente voluto, seguito e incentivato
dall’amministrazione Usa. Il capo della diplomazia energetica del dipartimento di Stato era
presente alla firma e non era certo la prima volta che incontrava le parti. Washington ha
capito l’importanza che le nuove scoperte di gas potrebbe avere per la regione. L’Europa è
stata finora assente: eppure l’Europa e in primis l’Italia, vista la vicinanza geografica e
culturale con i Paesi del mediterraneo, potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo di primo
piano. Il gas del bacino del Levante infatti potrebbe arrivare in Europa riducendo in parte la
dipendenza dal gas russo. Certo i problemi non mancano: economici (si tratta di gas
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piuttosto caro), logistici (non è chiaro come potrebbe arrivare in Europa), politici (le
infrastrutture devono attraversare le zone di interesse economico di Turchia e Cipro). Ma
la sicurezza energetica europea e il contributo che il nuovo gas può dare a una regione
che è a poche centinaia di chilometri dalle coste dell’Ue consigliano, anzi impongono, il
massimo sforzo diplomatico e tecnico da parte dell’Europa e dell’Italia.
*Presidente Cambridge management consulting Labs **Professore dell’Università Europea
del 31/10/14, pag. 7
A Kobane da Ankara solo 10 peshmerga anti
Pkk e anti_Assad
Ancora ritardi: a Kobane è arrivato solo un primo «contingente» di pershmerga. Dieci per
l’esattezza, insieme a 50 miliziani dell’Esercito Libero Siriano. Il resto – in totale circa 150
– dovrebbero entrare nelle prossime ore. Tra le file delle Unità di protezione popolare
(Ypg) c’è chi spera che una maggiore presenza militare possa mettere fine all’avanzata
dello Stato Islamico che di nuovo ieri ha tentato, senza successo, di occupare la zona nord
della comunità, unica via di passaggio verso il confine turco.
Il Partito democratico del Kurdistan iracheno ha fatto sapere che i primi peshmerga stanno
individuando la migliore postazione per l’artiglieria pesante. Rispondono le Unità di
protezione popolare: «Il primo gruppo è qui per portare avanti la nostra strategia – ha
commentato Meryem Jobane, comandante delle Ypg – Devono prepararsi così da
posizionarsi a seconda dei nostri bisogni».
Una dichiarazione che sottintende il timore di perdere il controllo delle operazioni militari:
l’arrivo di peshmerga e opposizioni moderate anti-Assad, tanto desiderato dalla Turchia, è
volto a ridurre l’influenza del Pkk e ad allontanare definitivamente Rojava da Damasco. Più
volte nel mese e mezzo di assedio appena trascorso, Rojava ha chiesto armi e munizioni
alla Turchia e alla coalizione ma mai combattenti, consapevole delle mire del fronte antiIsis.
Lo sa bene anche il presidente Assad che ieri ha condannato il via libera di Ankara
all’ingresso dei combattenti inviati da Irbil: il ministro degli Esteri l’ha definita una «palese
violazione» della sovranità siriana, mentre il consigliere politico del presidente, Bouthaina
Shaaban, ha parlato di un costante «ruolo di aggressione della Turchia contro la Siria».
Che a Kobane non ci si giochi solo il controllo del nord del paese, il corridoio tra Aleppo e
Raqqa, ma anche equilibri di potere regionali ormai sembra chiaro. Allo stesso tempo sul
tavolo c’è anche la secolare aspirazione kurda all’indipendenza: a Kobane si è ritrovata
l’unità tra le varie componenti nazionali in cui il popolo kurdo è diviso, dalla Siria all’Iraq
alla Turchia. La presenza dell’Esercito Libero nel cuore del conflitto garantirebbe un
controllo diretto dei rapporti interni alle fazioni kurde e allo stesso tempo un rafforzamento
politico delle opposizioni moderate, da mesi relegate in un angolo della guerra civile
siriana.
E contro Damasco si combatte anche con altri mezzi: mentre l’Osservatorio Siriano per i
Diritti Umani parla di 221 civili uccisi dal governo in 10 giorni, mercoledì Assad è stato
accusato di aver sganciato due bombe barili sul campo profughi di Abedin, vicino Idlib,
uccidendo 70 rifugiati. Le accuse restano per ora senza prove e molti analisti si chiedono
perché l’aviazione avrebbe dovuto colpire dei profughi.
Da alcuni giorni la città di Idlib è target dell’Isis che ha occupato lunedì per qualche ora il
governatorato e il quartier generale della polizia. Respinti indietro dall’esercito, i miliziani di
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al-Baghdadi insieme al Fronte al-Nusra hanno occupato le comunità intorno, strappandole
al controllo dell’Els.
Al-Nusra resta attiva anche in Libano: ieri si sono registrati nuovi scontri tra gli islamisti e
l’esercito di Beirut (sostenuto da Hezbollah) nella valle del Bekaa, dopo l’infiltrazione dei
primi dalla porosa frontiera siriana.
del 31/10/14, pag. 16
OBAMA E GLI USA SARA’ DIVORZIO?
MARTEDI’ LE ELEZIONI DEL MID TERM I REPUBBLICANI PUNTANO AL
SENATO E il PRESIDENTE AVRÀ LE MANI LEGATE
Repubblicani privi di un vero leader, spaccati tra ala massimalista dei Tea Party e vecchio
establishment moderato. Per di più, privi di un vero programma, al di là dell’ostilità
preconcetta per qualunque intervento pubblico in economia, investimenti in infrastrutture
compresi. Eppure questo partito debole e sfiancato si accinge a vincere a man bassa,
martedì prossimo, le elezioni di midterm: riconquisterà la Camera con ampio margine e ha
buone possibilità di espugnare anche il Senato. Non è facile spiegare a un lettore,
soprattutto a un lettore dell’Europa in recessione, come sia possibile che i democratici,
partito di governo di un Paese che cresce al 3,5% (dati del Pil di ieri) e che ha ridotto la
disoccupazione al 5,9%, possano andare incontro a una sconfitta elettorale tanto pesante.
I motivi sono diversi e andrebbero esaminati separatamente. Ci sono quelli istituzionali:
mentre alle presidenziali vince chi conquista più voti nei singoli Stati, per l’elezione dei
deputati al Congresso contano i singoli collegi che sono stati ridisegnati Stato per Stato,
spesso in modo spregiudicato, soprattutto per iniziativa di governatori repubblicani, in
modo da creare bacini elettorali socialmente omogenei. Cosa che in molti casi ha favorito i
candidati conservatori. Poi ci sono i motivi economici. Il Pil cresce, è vero, ma crescono
anche le disparità nelle distribuzione del reddito: il proletariato nero resta povero, si sente
tradito e non va a votare. I ceti medi bianchi vedono i loro redditi ristagnare e passano dal
tradizionale ottimismo dell’american dream al rancore.
Quanto all’occupazione, sale, è vero: ma molti dei nuovi posti di lavoro sono part time o,
comunque, sono più precari. È così ovunque con globalizzazione ed economia
immateriale, ma chi non gradisce la novità protesta come può: magari con un voto che sa
di ribellione o disertando le urne.
L’indebolimento dei democratici registrato dai sondaggi soprattutto nelle ultime settimane
dipende, comunque, soprattutto dalla continua perdita di popolarità di Barack Obama.
Quando arrivano a metà del loro secondo mandato, i presidenti Usa non sono mai in gran
forma: basti pensare a George Bush, considerato otto anni fa un peso morto dal suo
stesso partito, o al Bill Clinton dello scandalo Lewinsky. La caduta del primo presidente
nero della storia americana si sta rivelando particolarmente rovinosa perché la sua figura
aveva suscitato speranze eccessive e perché lui stesso aveva fatto promesse impossibili
da mantenere, ma anche per altri motivi: Obama è arrivato alla Casa Bianca nel bel mezzo
di una crisi epocale che sta cambiando i connotati dei sistemi economici e del mercato del
lavoro. Mentre un mondo sempre più frammentato rende problematico l’esercizio della
leadership Usa. Il presidente ci ha messo, poi, del suo col suo distacco, gli atteggiamenti
cerebrali, la mancanza di una visione strategica coerente, l’incapacità di disinnescare
l’ostruzionismo repubblicano che ha finito per paralizzare il Congresso.
Cambierà qualcosa dopo il voto? Probabilmente no, indipendentemente dall’esito delle
elezioni. Se i repubblicani conquisteranno anche il Senato, Obama avrà ancor più le mani
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legate. Magari vedremo un’inversione dei ruoli, coi democratici a fare filibustering
(ostruzionismo) contro leggi sgradite votate da un Congresso conservatore. Ma c’è anche
qualche ottimista che pensa che, se avranno il pieno controllo di Camera e Senato,i
repubblicani si comporteranno in modo più responsabile, non potendo più giocare a fare
solo l’opposizione.
Scontata la vittoria alla Camera dove la destra ha già oggi una maggioranza di varie
decine di seggi, al Senato i repubblicani la spunteranno se riusciranno a conquistare
almeno quattro seggi in più (oggi i democratici ne controllano 53 su 100). Sembrava
un’impresa impossibile, visto che questa assemblea verrà rinnovata solo per un terzo, ma
nelle ultime settimane il crescente malumore degli elettori verso il governo Obama,
complici le incerte risposte al terrorismo dell’Isis e la paura di Ebola, sembra aver prodotto
nuovi smottamenti negli Stati dell’interno. I sondaggi vanno presi con prudenza, ma ora
anche «Crystal Ball», il sito di previsioni elettorali del politologo Larry Sabato, un
personaggio di certo non ostile ai democratici, invita a scommettere su una vittoria
repubblicana anche al Senato. Il moltiplicarsi delle previsioni a favore dei conservatori
dipendono dal fatto che mentre dei 5 Stati «in bilico» 3 sono oggi in mano ai democratici
(Iowa, New Hampshire e North Carolina) mentre solo 2 sono dei conservatori (Georgia e
Kansas), i sondaggi danno i repubblicani in netto vantaggio in cinque Stati oggi
rappresentati da senatori democratici: Arkansas, Louisiana, Montana, South Dakota e
West Virginia.
del 31/10/14, pag. 12
I MUSCOLI DI MOSCA
“Europa preparati, è iniziata la nuova guerra
fredda”
L’ESPERTO RUSSO: “PUTIN ALIMENTA LA MINACCIA PER TROVARE
COMPROMESSI CON LA NATO”
di Giuseppe Agliastro
Mosca
La Russia flette i muscoli e gioca la carta della minaccia
militare per spingere fino al limite estremo le trattative con gli avversari occidentali. È così
che l’esperto politico-militare Pavel Felghengauer interpreta l'incursione di ben 26 jet da
guerra attorno allo spazio aereo europeo che tra martedì e mercoledì ha allarmato la Nato
costringendo al decollo i caccia di cinque Paesi dell'Alleanza atlantica. Gli aerei di Mosca
questa volta non hanno violato alcun confine - al contrario di quanto avvenuto in altri
episodi recenti - ma hanno lanciato un chiaro avvertimento a Europa e Stati Uniti proprio
nel bel mezzo della crisi ucraina e a pochi giorni dalle elezioni del 2 novembre nelle
repubbliche separatiste del sud-est: la Russia ha già fatto sapere che le riconoscerà
attirandosi le ire di Kiev e dei suoi alleati occidentali. Sull'edizione online del Moskovskij
Komsomolets , Felghengauer spiega che il Cremlino sta usando la tattica del
brinkmanship, tipica della guerra fredda, che consiste “nell'alimentare apposta la minaccia
non solo di una guerra convenzionale ma anche di una guerra nucleare, che, essendo
inammissibile per entrambe le parti, induce l'avversario a optare per una decisione di
compromesso o a elargire qualche concessione”. Secondo l'esperto russo, questo tipo di
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minaccia adesso sorprende, ma “episodi del genere saranno sempre più frequenti” perché
“è iniziata di nuovo la guerra fredda e questa tattica sarà nuovamente ripresa”. I fatti per
ora sembrano dare ragione a Felghengauer: due giorni fa un sommergibile nucleare russo
ha testato il lancio di un missile balistico nel Mare di Barents, ieri le forze armate lettoni
hanno annunciato che i caccia della Nato nei paesi Baltici hanno intercettato altri due aerei
militari russi, mentre l'Alleanza atlantica denuncia che dall'inizio dell'anno i suoi jet si sono
dovuti alzare in volo per monitorare l'attività di più di cento apparecchi di Mosca a ridosso
dello spazio aereo occidentale, una cifra ben tre volte superiore a quella del 2013. “La
Nato è forte” e “questa forza è la nostra risposta a queste incursioni”, assicura il numero
uno dell'Alleanza Jens Stoltenberg in visita in Grecia, mentre da Berlino la cancelliera
Angela Merkel getta acqua sul fuoco e dice di “non essere eccessivamente preoccupata”
dallo show muscolare di Mosca.
del 31/10/14, pag. 6
Tensione e scontri, voli russi, manovre Nato
in Polonia
Fabrizio Poggi
Mentre continua il balletto di conferme (russe) e smentite (francesi) sulla consegna, alla
data prevista del 14 novembre, della portaelicotteri classe “Mistral” alla marina russa, non
accenna a diminuire l’allerta Nato per il traffico aereo militare russo «ai confini
dell’Alleanza atlantica». Il vascello plurifunzionale “Vladivostok” verrà consegnato nel
termineprevisto, aveva dichiarato alla Tass un funzionario russo presente al salone
francese “Euronaval 2014”. Ma il Ministro francese delle finanze Michel Sapin ha detto
invece ieri che non ci sono ancora le condizioni per la consegna del “Vladivostok”,
rispondendo così indirettamente al vice premier russo Dmitrij Rogozin, che alla vigilia
l’aveva data per certa al 14 novembre.
A Washington considerano «saggia» la decisione francese di rinviare la consegna, finché
non sarà osservato il cessate il fuoco nel Donbass. La portavoce del Dipartimento di Stato,
Jen Psaki, si è però dimenticata di notare come, proprio in questi giorni, Kiev abbia ritirato
la firma dall’accordo sulla linea di separazione tra le parti in conflitto, lasciandosi così
aperto il terreno per un’offensiva che in molti, nel Donbass, giudicano molto prossima.
Intanto, nel sudest dell’Ucraina, se i civili di Donetsk e Lugansk rimangono vittime delle
artiglierie governative, le cose non vanno meglio per i militari ucraini, costretti in molti casi,
accerchiati dalle milizie e abbandonati dai comandi, ad adattarsi a condizioni al limite della
sopravvivenza. Frequenti i casi in cui i militari lasciano le proprie armi ai miliziani, in
cambio di cibo e attrezzature da campo; ieri l’altro, Rossija 24 ha mostrato come, nell’area
di Lugansk, le milizie avessero aperto un corridoio attraverso cui 150 militari hanno potuto
far ritorno alle proprie linee, dopo circa un mese di accerchiamento. Previsto un nuovo
scambio di prigionieri sulla base “30 per 30”.
Ma Stati uniti ed Unione europea non appaiono intenzionate a intervenire su Kiev per il
rispetto dei diritti umani nel Donbass, come richiesto dalle Repubbliche popolari e anzi
inaspriscono le accuse a Mosca di fomentare il conflitto in Ucraina, alle porte dell’Alleanza
atlantica.
Accuse ribadite anche ieri per presunti voli di cacciabombardieri di Mosca sulle aree del
Baltico, del mar del Nord e del mar Nero: tutte zone di pertinenza Nato, in cui questa è
libera di far seguire, quasi senza interruzione, alle manovre in Polonia, quelle in Lituania.
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Qui, dal 2 al 14 novembre, 2.500 soldati di 8 paesi Nato svolgeranno le manovre “Spada di
ferro 2014”. Secondo il comandante in capo delle forze armate lituane Jonas Vitautas
Zhukas, «la Nato ha allargato le manovre a causa degli avvenimenti in Ucraina». E i voli di
Mosca sono semplicemente “una provocazione” al pacifico allargamento della Nato nei
paesi baltici (con relativo dislocamento di armamento pesante, carri armati compresi), la
creazione di 5 nuove basi in Europa orientale e la messa a punto di forze di pronto
intervento. Non dovrebbe stupire che ieri il Ministero della difesa russo evidenziasse la
riuscita del lancio del missile balistico intercontinentale “Bulava” dal sommergibile “Jurij
Dolgorukij”: «oggi sul territorio russo è garantita una sicura difesa da ogni direzione».
In questa situazione, unica nota apparentemente positiva nella giornata di ieri, il ritorno
della delegazione russa a Bruxelles per la ripresa dei negoziati a tre sulla fornitura del gas
russo all’Ucraina: la Ue garantirebbe Kiev per il pagamento di 378 dollari ogni mille m3 per
il 4° trimestre 2014 e 365 dollari nel 1° trimestre 2015.
del 31/10/14, pag. 14
Gas a Kiev, accordo Ue-Russia
Sbloccate le forniture per l’inverno, Bruxelles si fa garante per i debiti
pregressi
Anna Zafesova
A 24 ore dalla scadenza del suo mandato, la Commissione Europea uscente è riuscita a
chiudere l’accordo sulle forniture di gas russo all’Ucraina, valido fino ad aprile 2015,
scongiurando così il rischio di far battere i denti ai suoi 45 milioni di abitanti. Mentre le
temperature in Ucraina stavano scendendo verso lo zero, tra Bruxelles, Mosca e Kiev si
trattava febbrilmente. Mercoledì il negoziato è andato avanti per 12 ore, fino alle 4 del
mattino, per riprendere poche ore dopo e concludersi verso le dieci di sera, quando
l’accordo è stato firmato sotto l’occhio delle telecamere dal presidente uscente della
Commissione José Manuel Barroso, dal commissario per l’Energia Gunther Oettinger, da
Alexandr Novak, ministro dell’Energia russo, e dal suo collega ucraino Yuri Prodan.
Nelle ore precedenti Oettinger aveva stimato le probabilità di giungere a un accordo in «50
su 50». Il problema fondamentale era stato definito da Vladimir Putin, durante i suoi
negoziati con i leader europei a Milano due settimane prima, come «un problema di
cassa». Mosca, che ha chiuso i rubinetti a Kiev dal giugno scorso per un debito di 4,5
miliardi di dollari, non vuole più fornire nemmeno un metro cubo di metano senza
prepagamento.
Le casse di Kiev sono state svuotate dalla guerra e dalla crisi economica, ma ieri il premier
ucraino Arseny Yatseniuk ha comunicato che l’Ue ha accettato di farsi garante del
pagamento con il Cremlino. Ma Bruxelles si fa garante anche con Kiev contro eventuali
cambiamenti di prezzo imposti da Mosca: Gazprom non potrà più giocare sulle condizioni
del contratto, che fissa il prezzo a 378 dollari per 1000 metri cubi per il 2014, e 365 dollari
nel 2015.
In attesa del contenzioso nell’arbitrato internazionale sul prezzo dei contratti precedenti,
Kiev ha accantonato 3,1 miliardi con i quali rimborsare il debito a tranche entro la fine
dell’anno, mentre per pagare le forniture Yatseniuk dovrà mettere mano agli aiuti ricevuti
dall’Ue e dal Fmi. L’Ucraina ha chiesto altri due miliardi di euro di assistenza a Bruxelles, e
la cancelliera Angela Merkel ha fatto capire che l’Europa deve aiutare Kiev. Non solo per
l’impegno politico a mantenere l’orientamento filo-europeo dell’Ucraina, ma anche perché
metà del gas russo consumato in Europa arriva dai gasdotti che passano nel Paese che
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ha sfidato Mosca. Senza l’accordo gli europei o avrebbero dovuto lasciar congelare
l’Ucraina, o permetterle di attingere dal metano destinato a loro.
del 31/10/14, pag. 41
La gestione di aree urbane “appaltata” ai commercianti Con un rischio:
le città a due velocità
La Spagna vuole quartieri premium con più
servizi ma privatizzati
ALESSANDRO OPPES
MADRID
GLI amanti del genere li chiamano quartieri vip, zone premium, aree a cinque stelle. Ma il
solo fatto che la destra di governo, il Partito Popolare di Rajoy, abbia proposto di importare
anche in Spagna un modello di gestione pubblico-privata dei centri cittadini, conosciuto in
altri paesi con la sigla Bid ( Business improvement districts ) ha subito provocato un
putiferio politico e reazioni contrastanti nella società. Perché il timore di fondo è che si
possano creare città “a due velocità”, con barrios di prima categoria e altri condannati a un
ruolo più marginale, forse persino a un progressivo degrado.
L’idea, ad altre latitudini, non è nuova. Il primo esperimento, datato 1969, venne fatto a
Toronto. Poi i Bid hanno preso piede nelle grandi metropoli Usa, proliferando in seguito in
una ventina di paesi, dal Regno Unito all’Olanda, dalla Germania alla Nuova Zelanda. Con
risultati a volte soddisfacenti, ma non senza polemiche. Tutto dipende, in realtà, dai limiti
più o meno ampi imposti alla gestione privata dello spazio pubblico. Nel modello spagnolo,
che si profila simile a quelli britannico e americano, si prevede che i commercianti di una
determinata zona versino un’imposta supplementare nelle casse dell’amministrazione
comunale, per riceverne a cambio servizi extra, destinati a migliorare l’aspetto, la pulizia,
la sicurezza, l’arredo urbano del quartiere. Il quale, si suppone, potrà così attrarre più
visitatori, nuovi possibili clienti per i negozi che vedranno compensato lo sforzo economico
supplementare con un incremento dell’attività. Tutto grazie a un radicale make-up: migliore
manutenzione e pulizia, iniziative di marketing, informazione turistica, eventi. Per ora, sono
stati avviati progetti per la creazione di Bid a Madrid e Barcellona.
L’iniziativa parte in genere dei commercianti, che propongono un business plan e
organizzano un referendum tra loro. Ma il “sì” definitivo alla costituzione dell’ente spetta
all’amministrazione locale, i cui rappresentanti fanno parte del consiglio di gestione. Il
Comune riscuote la tassa supplementare e fornisce i servizi di prima qualità che
permettono la realizzazione del piano. Una condivisione di competenze, che si traduce in
una gestione parzialmente privata dello spazio pubblico. Con vantaggi indiscutibili ma
anche alcune controindicazioni: Izquierda Unida ricorda che le imposte dovrebbero servire
«per correggere le disuguaglianze, non per aumentarle ». In realtà, se è vero che la
fornitura di risorse supplementari a beneficio di un barrio non significa la sottrazione di
fondi destinati agli altri, la sperequazione provoca squilibri pericolosi. A cominciare dalla
possibile “gentrificazione”: la riqualificazione rivaluta anche il valore degli immobili,
determina l’impennata degli affitti e si conclude con l’inevitabile espulsione di una parte
degli abitanti e la chiusura di alcuni negozi. Da qui la nascita di quartieri di prima e
seconda categoria. Con un’aggravante. Dove esiste un Bid, la vigilanza è estrema e la
gestione privata del territorio può favorire abusi. L’esperienza americana insegna, in
particolare quella di New York. A Times Square sono arrivati a proibire manifestazioni e
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proteste, in quanto sconvenienti per gli obiettivi commerciali del Bid. A Midtown Manhattan
hanno espulso gli artisti di strada e i venditori ambulanti perché creavano un presunto
danno d’immagine. Uno dei punti più controversi è la sicurezza. Anche questa potrebbe
essere in parte privatizzata, con conseguenze prevedibili come l’espulsione di mendicanti,
prostitute e ambulanti.
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INTERNI
del 31/10/14, pag. 8
I costi della politica
Il finanziamento statale è sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti
quest’anno Raddoppiano i contributi dei parlamentari, ma non basta. Il
due per mille non decolla
“Partiti spa” sull’orlo del fallimento senza
fondi pubblici buco di 80 milioni
ETTORE LIVINI
MILANO .
Le salamelle della Festa Democratica (lunga vita a loro) e i maxi-assegni di Silvio
Berlusconi a Forza Italia & C. non bastano più. Il taglio del finanziamento pubblico ai partiti
– sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno – ha colto la politica italiana in
contropiede. E l’ex-Eldorado della “Partiti Spa” è sull’orlo del crac. Carta canta: i bilanci
2013 delle maggiori formazioni tricolori si sono chiusi in rosso per 82 milioni, 70 in più di
due anni fa, malgrado la rocambolesca spending review avviata da tutti in zona Cesarini. Il
raddoppio a 35 milioni della raccolta di contributi individuali – buona parte dei quali
sborsati di tasca loro dai Parlamentari – è servito appena a limitare i danni: le donazioni
con il 2 per mille non decollano, le campagne di tesseramento – complice la crisi – non
tirano più, lo Stato chiuderà del tutto i rubinetti nel 2017. E la politica italiana si prepara a
un 2014 ancora più nero dove si è già capito che ci sarà ancora da tirare (e molto) la
cinghia.
Il piatto piange per tutti. Il taglio del tetto ai rimborsi spese individuali da 670mila a 170mila
euro l’anno (scenderà a 80mila nel 2014) imposto dal Pd a senatori e deputati non ha
impedito ai conti di Largo del Nazareno di chiudere in rosso per 10,8 milioni. Il Tesoriere
Francesco Bonifazi, fedelissimo di Matteo Renzi, ha sforbiciato le spese per il personale (20%), ridotto dell’80% quelle informatiche e sta provando a disdire in anticipo gli affitti di
via del Tritone e via Tomacelli. Gli onorevoli democratici hanno versato nelle casse del
partito 5,48 milioni, molto più dell’anno scorso (21mila euro Pierluigi Bersani, 18mila Rosy
Bindi, 14.250 Maria Elena Boschi). L’orizzonte però resta buio visto che dallo Stato
arriveranno quest’anno solo 12 milioni (erano 57 tre anni fa) e far quadrare i conti sarà
un’impresa.
Le cose vanno ancora peggio nel centro-destra, totalmente Berlusconi-dipendente, salvo il
Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano che, nato a fine 2013, non ha presentato
rendiconto. Forza Italia (in rosso per 25,5 milioni) è stata tenuta a galla da una «donazione
liberale» di 15 milioni dell’ex-Cavaliere, che garantisce con fideiussioni personali gli 83
milioni di disavanzo accumulati dal partito. Tutte le altre formazioni dell’area dipendano a
filo doppio da San Lorenzo in Lucina. Fi ha donato 500mila euro al Movimento per le
Autonomie di Raffaele Lombardo, 750mila a Fratelli d’Italia e 1,2 milioni al Movimento
grande sud di Gianfranco Miccichè.
Il peggio, tra l’altro, rischia di dover ancora arrivare. Il bilancio del Popolo della Libertà (cui
Forza Italia ha “condonato” un credito di 14 milioni) si è chiuso in passivo per 15,5 milioni e
dice papale papale che sarà «impossibile far fronte» ad altri 13,9 milioni di debiti con Fi,
malgrado il partito abbia chiuso 76 sedi locali, tagliato 70 posti di lavoro e ridotto le spese
per 5,6 milioni. La rottamazione dell’ex Pdl, ormai politicamente una scatola vuota, rischia
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di essere complessa come quella di Rifondazione Comunista e Alleanza Nazionale, finite
in liquidazione, sparite dall’arena politica ma capaci di macinare milioni di perdite anche
post-mortem. Stessa sorte toccata all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, fuori dal
Parlamento, in perdita per 9 milioni («servirà una profonda spending review», ammette la
relazione di bilancio) e travolta pure dalla richiesta di parcelle arretrate per 2,5 milioni dello
Studio legale di Sergio Scicchitano, ex consigliere giuridico del magistrato.
In acque agitate, finanziariamente parlando, naviga pure la Lega di Matteo Salvini. Il
popolo padano, forse a causa degli scandali di Trota & C., ha perso un po’ della sua
passione. Le entrate da tesseramento si sono dimezzate, così come quelle delle feste di
partito. I tagli alle spese (-20%) sono stati mangiati via dai 3 milioni di spese legali per il
caso Belsito. E la voragine nei conti si è allargata a 25 milioni in due anni.
Un po’ meglio va alla meteora Scelta Civica che grazie ad alcune robuste donazioni
(100mila euro dall’ex manager Parmalat Enrico Bondi, 60mila da Alberto Bombassei) e a
2,4 milioni di rimborsi elettorali è riuscita a consolarsi dei 2.234 euro incassati con il
tesseramento chiudendo i conti in sostanziale pareggio.
Una storia a parte sono i conti del Movimento5Stelle. Grillo & C. hanno rinunciato a 42
milioni di finanziamento pubblico e i parlamentari pentastellati hanno versato oltre 7 milioni
al Fondo garanzia per le Pmi rinunciando a parte dello stipendio. I gruppi di Camera e
Senato hanno percepito 6,2 milioni come contributo omnicomprensivo del Parlamento e le
pure spese di funzionamento della rappresentanza parlamentare hanno regalato un
bilancio in attivo per 2,7 milioni. Manca però all’appello (a parte le auto-certificazioni del
Blog dell’ex- comico) una reale fotografia certificata di tutte gli altri costi elettorali e per
l’attività fuori dal Parlamento. Ma il fundraising all’americana tra elettori e sostenitori dei
5Stelle – nel profondo rosso di una politica italiana orfana di 250 milioni di aiuti pubblici – è
forse davvero l’unica strada per riportare un po’ d’ossigeno alla disastrata ditta Partiti Spa.
del 31/10/14, pag. 9
Berlusconi frena i suoi e chiama Renzi
«Avanti con il patto del Nazareno»
L’ex premier: sì al premio di lista ma soglia di sbarramento più alta. Il
disgelo con Verdini
ROMA Se mai c’era stato un ordine, è comunque arrivato il contrordine. E Silvio
Berlusconi lo fa sapere prima ai diretti interessati — con una telefonata rassicurante a
Renzi, arrivata mercoledì pomeriggio — poi ai suoi, i fedelissimi e i coordinatori regionali
convocati ieri pomeriggio.
«Non c’è nessun passo indietro, il patto del Nazareno resta valido e andremo avanti,
anche sulla legge elettorale», assicura il Cavaliere. Che al premier (che dovrebbe
incontrare la prossima settimana) ha voluto spiegare di persona come si possa ragionare
di legge elettorale a tutto tondo. Anche di premio di maggioranza alla lista, magari se in
cambio si lavorerà per un innalzamento delle soglie.
Riprende quindi a pieno ritmo la trattativa su riforme e dintorni, e riprende a tessere la tela
— che non aveva in realtà mai messo da parte — quel Denis Verdini finito negli ultimi
giorni nel calderone delle indiscrezioni e delle lotte interne a Forza Italia che lo volevano
prossimo all’abbandono, e in disgrazia presso Berlusconi. «Non credete alle falsità che si
scrivono e si dicono, sono cose indegne. A Verdini mi lega un rapporto di amicizia, di
affetto, di stima, non esiste il minimo dubbio su questo», ha proclamato il leader azzurro
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davanti ai coordinatori e allo stesso Verdini, al quale si è avvicinato scherzando: «Scusa
Denis se sto parlando male di te...».
Si chiude quindi la querelle e si ritorna sul terreno finora mai abbandonato, quello dello
stretto rapporto con Renzi, almeno per quanto riguarda il dialogo istituzionale. D’altronde,
quale sia lo stato degli atti lo ha detto molto chiaramente Berlusconi aprendo la riunione:
«C’è chi dice che dobbiamo fare questo e quello, la guerra a Renzi, la rivolta. Ma i numeri
non mentono: al Senato la nostra pattuglia rappresenta il 20% del totale dei senatori, alla
Camera il 10%...». E insomma, bisogna fare di necessità virtù senza troppe illusioni,
dedicandosi alla rivitalizzazione del partito ma lasciando perdere i tentativi di mettere in
difficoltà il premier in parlamento.
Iniziative, ha assicurato Berlusconi ai coordinatori, ce ne saranno, a partire da quella per
l’abbattimento delle tasse sulla casa che sarà capillare sul territorio e dovrebbe scandire la
campagna per il tesseramento e le assemblee comunali e provinciali che in questo mese
si moltiplicheranno. I congressi insomma dovranno tenersi «con fiducia», perché «io non
ho nessuna intenzione di mollare, né tantomeno voglia di rottamare nessuno». Per il
Cavaliere, che è tornato a chiedere che «tutti contribuiscano alle casse del partito
pagando le loro quote, non ci sono più soldi in cassa», il momento del Paese è difficile:
«Sono anche preoccupato per la tensione sociale che si è vista in questi giorni. Ma vi
assicuro che torneremo a vincere, dal 16% ripartiremo, è il momento di chi ci crede».
Tra chi crede poco che la strada imboccata sia quella ideale per vincere resta Raffaele
Fitto, che mercoledì sera ha di nuovo riunito la sua pattuglia di 33 parlamentari e a breve
dovrebbe annunciare un’iniziativa pubblica che vedrà uscire allo scoperto la sua
componente. Che stavolta, a differenza del passato, guarda con interesse ad un patto con
i centristi di Ncd e Udc, che Berlusconi continua ad escludere con durezza. Per Fitto
invece, con le Regionali di primavera alle porte, se si vuole avere qualche chance in
regioni come Puglia e Campania, l’unica speranza è quella di allargare la coalizione, non
di isolarsi.
Paola Di Caro
del 31/10/14, pag. 13
“Polizia-sindacati, patto contro le violenze”
Relazione di Alfano alle Camere sugli operai della Ast colpiti dalle
manganellate. “Solidarietà a loro e agli agenti” Proposto un tavolo
comune per gestire le prossime manifestazioni di piazza.
L’apprezzamento di Landini
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
Una «governance» Viminale-sindacati per gestire la piazza. E «solidarietà ai poliziotti e
agli operai». Ma nessun agente sarà punito per le manganellate agli operai dell’Ast di
Terni durante il corteo di mercoledì. E nessun manifestante, ha precisato il ministro
dell’Interno Angelino Alfano, è stato denunciato. Il titolare del Viminale, che ieri ha riferito
al Senato e alla Camera, invita «ciascuna parte politica a fare uno sforzo di coesione
evitando di cavalcare il disagio occupazionale che può dare frutti immediati, ma
avvelenati». Alfano invita a «evitare che il difficile momento di crisi possa rappresentare la
scintilla di conflitti che potrebbero innescare pericolose derive». Per scongiurare questo
rischio, ha proposto l’istituzione di «un tavolo permanente al Viminale che consenta una
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migliore governance per le manifestazioni». Proposta accolta favorevolmente dalla leader
Cgil Susanna Camusso, mentre Maurizio Landini, segretario Fiom, sottolinea che la
solidarietà di Alfano agli operai è «una novità». Il ministro ha precisato che «è lontana anni
luce da noi l’idea di manganellare gli operai. Anzi, l’input è l’esatto opposto. Così come
penso sia lontana dagli operai la volontà di scaricare tensioni occupazionali sulla polizia ».
Perché, allora, quelle cariche così violente? «Una voce raccolta da alcuni funzionari di
polizia — ha spiegato Alfano — indicava che il corteo per l’Ast voleva dirigersi verso la
Stazione Termini».
Il chiarimento di Alfano non è piaciuto a molte forze politiche, a cominciare dal Pd.
«Sarebbe bastato chiedere scusa», twitta Dario Ginefra. «In un Paese democratico — ha
tuonato Emanuele Fiano — operai esasperati per la perdita del lavoro non devono essere
manganellati». Con un’insolita alleanza, il M5S e Sel hanno annunciato una mozione di
sfiducia ad Alfano. L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, riferendosi al governo e al
premier, ha ammonito che «chi ha responsabilità, non deve fomentare divisioni». Il
capogruppo di Fi Renato Brunetta, replicando agli ingiuriosi attacchi dei 5Stelle ad Alfano,
ha detto di «vergognarsi per il fascismo implicito che è nel dna dei grillini, per la loro
ignoranza, per l’atteggiamento filomafioso del loro capo». Amareggiati, i poliziotti.
«Purtroppo — commenta Lorena La Spina, segretario dei Funzionari — la polizia troppo
spesso finisce col rappresentare un “terminale” sul quale si scarica la rabbia di chi scende
in piazza, a fronte di criticità e difetti di mediazione che non le sono ad alcun titolo
imputabili».
del 31/10/14, pag. 3
La grande paura dell’autogol. E il Pd frena la
polemica
Daniela Preziosi
Democrack. Il bersaniano Zoggia dà del «cattivo maestro» al Davide
Serra della Leopolda. Dopo il caso Picierno, fra i dem le «micce» accese
sono ancora tante
Abbassare i toni, svelenire il clima. Da Palazzo Chigi il messaggio è chiaro dalla mattina,
quando Matteo Renzi si presenta al fianco della ministra Guidi all’incontro con la
delegazione delle acciaierie di Terni. È il giorno dopo le cariche agli operai. Gli spin del
premier si impegnano in una operazione simpatia: twittano le foto di una stretta di mano
fra Landini e il presidente del consiglio; poi quelle del leader Fiom seduto al fianco del
sottosegretario Delrio alla conferenza stampa. Come dire: dopo tante distanze e
incomprensioni (persino al telefono: subito dopo le botte era uscita la notizia di una
telefonata fra premier e segretario, poi smentita dal secondo) tra i due la pace è fatta. In
effetti anche Landini, dopo lo sfogo drammatico rilasciato davanti alle telecamere al
momento della carica, stavolta sorveglia i toni: alla domanda se i metalmeccanici chiedono
le dimissioni del ministro degli interni Alfano, a sorpresa il leader Fiom risponde: no, la
richiesta è l’impegno a che episodi così non si ripetano più. E si capisce: la vertenza
dell’Ast è dura, il governo ha promesso di fare la sua parte per salvare i posti di lavoro, al
leader sindacale l’ultima cosa che serve è rinfocolare le polemiche. Alle camere, nel
pomeriggio, un Alfano in arrampicata sugli specchi renderà merito a Landini che in piazza
«ha contribuito a portare la calma tra i manifestanti».
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In quegli stessi minuti però Susanna Camusso su Radio 1 rovina tutto il lavoro di
ricucitura: «Il presidente del consiglio dovrebbe provare ad abbassare i manganelli
dell’ordine pubblico», dice. Stavolta dal Pd quasi non esce fiato. Il giorno dopo la rovinosa
uscita di Pina Picierno sulle presunte «false tessere» del congresso Cgil, l’imperativo
categorico è, appunto, darsi tutti una calmata. Le «micce» — copyright Bersani — su cui il
Pd può esplodere, coinvolgendo il governo, si sprecano: il jobs act che ieri è iniziato il suo
iter in commissione alla camera; la legge di stabilità, che procede in parallelo; la scissione
che non c’è ma riempie ugualmente i titoli dei giornali; e da ultimo il pasticciaccio degli
operai menati. Sel e 5 stelle hanno annunciato una mozione di sfiducia individuale contro
Alfano. Il governo non teme la prova dei numeri, quando sarà. Ma la figuraccia sì: ci vuole
la faccia del presidente Zanda al senato, e i distinguo di Emanuele Fiano alla camera, per
sorvolare sulle responsabilità del ministro sulla «applicazione delle direttive e delle regole
d’ingaggio» delle forze dell’ordine in piazza. Su Alfano, e cioè su tutto il governo, il Pd oggi
stende uno scudo protettivo. Ma l’imbarazzo resta: la blindatura del ministro dell’interno è
un clamoroso déjà vu. Solo un anno fa furono i renziani a chiederne le dimissioni dopo il
caso Shalabayeva. Il premier all’epoca era Enrico Letta.
Insomma, sono tante le pentole in ebollizione su cui ora il governo deve mettere il
coperchio prima che le cose vadano troppo avanti. Per esempio, dalle botte in piazza alla
responsabilità del premier il passo è breve: lo fa il bersaniano Davide Zoggia dalle colonne
del Corriere della sera: parla di «certe coincidenze» fra le parole del finanziere Davide
Serra (quello che vuole abolire lo sciopero per i dipendenti pubblici) e i poliziotti che tre
giorni dopo «abbassano la visiera del caso e caricano». Tradotto: Renzi è il cattivo
maestro dei poliziotti violenti. La minoranza Pd in realtà non ha nessuna intenzione di
mettere in difficoltà il governo, ma neanche di facilitargli l’uscita dai guai. In serata arriva
invece un segnale di distensione dalla Cgil. «È stato fatto quel gesto che da ieri
chiedevamo: scusarsi con lavoratori ingiustamente malmenati», dice Camusso. È un
generoso gesto di buona volontà. Perché Alfano ha parlato di solidarietà con «operai e
poliziotti feriti». Ma le scuse non le ha mai fatte.
del 31/10/14, pag. 10
De Magistris torna sindaco legge Severino
alla Consulta
Fi: “Reintegrate Berlusconi”
Il Tar dà ragione al primo cittadino e chiede alla Corte un parere sulla
norma che fece decadere l’ex premier
NAPOLI .
- Non più in strada, ma di nuovo a Palazzo San Giacomo. Torna in Comune, dopo 29
giorni di sospensione, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris: condannato in primo grado a
15 mesi per abuso d’ufficio e quindi sospeso per effetto della legge Severino. A
reintegrarlo, è l’ordinanza del Tar Campania, presidente Cesare Mastrocola, giudici
(relatore) Paolo Corciulo e (a latere) Carlo dell’Olio, con un verdetto che cancella
«provvisoriamente» l’efficacia della sospensione, «accoglie la domanda cautelare» e
ordina quindi «l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale».
Motivo: il collegio giudica «non manifestamente infondata» la questione di «legittimità
costituzionale relativamente alla retroattività» della sanzione. La stessa che ha
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determinato, ma dopo una condanna definitiva, la decadenza di Silvio Berlusconi dalla
carica di senatore. Decisione che arroventa il clima politico su opposte interpretazioni e
asseriti profili di incostituzionalità della normativa. Con la squadra dei parlamentari di
Forza Italia che invoca: ora si reintegri anche Berlusconi. Gelmini: «È confermata la
mostruosità giuridica della legge Severino». Gasparri: «Per de Magistris si ricorre ai diritti,
per il Cavaliere agli abusi».
Giovanardi: «Le leggi in Italia non valgono per le toghe».
Un colpo di scena che, forse, poteva già leggersi in quelle parole affidate otto giorni fa ai
cronisti dal presidente Mastrocola: «Il quesito merita una sentenza motivata. Credo sia la
scelta migliore per un collegio che ha il coraggio di decidere». Ieri è sempre lui a dire: «È
stata una fatica enorme».
La vittoria dei legali di de Magistris, gli avvocati Giuseppe Russo e Stefano Montone, si
consuma in poche righe in fondo alle 35 pagine. «Ritiene il collegio - si legge - che
l’applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non penale, urta con
la pienezza e il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti».
Motivazioni che provocano stupore di altro segno. Il presidente della giunta delle immunità
parlamentari del Senato, Dario Stefàno, commenta: «È a dir poco sorprendente» che il Tar
«abbia riproposto questioni che in sostanza la Corte Costituzionale ha già affrontato 20
anni fa». ( co. sa.)
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 31/10/14, pag. 5
San Ferdinando: il governo ha sciolto
il Comune per mafia
“ABBIAMO DECISO di sciogliere il Comune di San Ferdinando”. Lo ha annunciato il
ministro per gli Affari regionali Carmela Lanzetta che poco dopo il Consiglio dei ministri di
ieri ha preso parte, a Palazzo Zuccari, a un convegno sulla corruzione. Il 14 ottobre
scorso, il sindaco del Comune in provincia di Reggio Calabria , Domenico Madafferi, era
stato fermato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il prefetto Claudio
Sammartino, ha nominato commissario il viceprefetto Cosima Di Stani. Oltre a Madafferi
sono stati fermati, con l’accusa di associazione mafiosa, il suo vice Santo Celi, il
consigliere Giovanni Pantano e 23 tra presunti boss e affiliati.
del 31/10/14, pag. 5
Greco: “Con queste leggi la corruzione vince”
IL PROCURATORE DI MILANO ATTACCA SULLA RIFORMA
ANNUNCIATA DA ORLANDO: “QUELLE NORME NON RISOLVONO I
PROBLEMI. SERVE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE”
di Sandra Amurri
La domanda del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, coordinatore del pool
reati finanziari, ai partecipanti del Convegno di Res Magnae “Emergenza corruzione:
analisi e prospettive future”, è: “Si è mai fatto qualcosa di serio per combattere la
corruzione?”. La risposta è: no. “Non si combatte la corruzione con l’attuale legislazione.
Non esiste una vera legge sul riciclaggio, una vergogna” spiega.
RICICLAGGIO che “è cambiato nel corso degli anni. Prima era solo l’ingresso di capitali
illegali nell’economia pulita. Ora accade che la sottrazione degli utili, denaro pulito, finisce
nei conti off- shore ”. Ma “in quanto a norme in Italia”, parafrasando un noto allenatore di
calcio, “siamo a zero tituli. Non esiste una legge sul riciclaggio che non si combatte di
certo con l’attuale legislazione, compresa la norma approvata dal Parlamento”. Greco
punta il dito sulla prescrizione che dai 15 anni degli anni ’90 è stata via via ridotta. “Siamo
stati gli inventori dello scudo fiscale, ne abbiamo avuti tre con un totale di sbiancamento
anonimo per quasi 500 miliardi di euro”. Evidenzia “una sensibilità spiccata a questi
problemi degli elettori che pagano le tasse, mentre gli eletti evidentemente non ce
l’hanno”.
FALSO IN BILANCIO, “il mio pallino, anche qui la situazione è ridicola”. Occorre
“raddoppiare le pene per i reati contro la pubblica amministrazione. Parificare la corruzione
pubblica a quella privata. Guardare con maggiore attenzione ai centri di spesa come le
Regioni. Ai grandi gruppi dove gli ad e i presidenti vengono nominati dalla politica”.
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Premette di non voler fare polemica con il ministro della Giustizia Orlando, però tuona: “Le
norme non risolvono i problemi, serve una rivoluzione culturale, tuttavia sono necessarie.
Ho prestato molta attenzione ai decreti delegati sugli abusi fiscali che prevede sei anni di
pena, risibile per uno che ha rubato un miliardo e seicento milioni”. Altro scandalo, le
Fondazioni che ci vedono totalmente disarmati. Come si controllano? Chi lo deve fare? Vi
rendete conto che ci sono fondazioni che gestiscono milioni e non è prevista nemmeno la
revisione contabile?”. Raffaele Cantone, Presidente di Autorità nazionale anti corruzione,
invia un video messaggio in cui chiede al ministro per gli Affari Regionali, Lanzetta,
“perché non viene esteso lo scioglimento per mafia dei consigli comunali anche a quelli
regionali?” Lei risponde: “Condi - vido, dobbiamo lavorarci”. Cantone si dice d’accordo con
il collega Greco ed esprime fiducia nella collaborazione di Confindustria che deve
allontanare i corruttori e uscire “dalla logica della punizione per passare a quella del
premio, ora c’è chi paga un danno per essersi comportato bene”. Chiede attività sinergica,
una prevenzione e una repressione che funzionino. “Centrale è il tema culturale affinchè il
corruttore non sia più visto come piu intelligente degli altri”.
MENTRE la direttrice delle Agenzie delle entrate Rossella Orlandi propone una
legislazione speciale simile a quella americana con agenti infiltrati, rilevatori della frode
fiscale: “Scovare la corruzione è difficile perché c’è un patto fra corrotti e corruttori.
Falcone diceva segui i soldi, un grande insegnamento. Basta con l’ipocrisia sul segreto
bancario, chiedo maggiore trasparenza e l’accesso agli archivi finanziari”. Promotrice
dell’iniziativa, la senatrice civatiana Lucrezia Ricchiuti che a microfoni spenti si sfoga: “La
corruzione mina il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni... ma certo che se facciamo le
riforme con Verdini...”, sospira. E sulla riforma Orlando promette battaglia.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 31/10/14, pag. 4
Niente bonus per gli immigrati
Carlo Lania
5 Stelle. «Niente 80 euro ai figli degli immigrati». A proporlo è un
emendamento della Lega, ma i grillini votano a favore. Il Pd: «Razzisti»
Niente bonus di 80 euro ai figli degli immigrati regolari che vivono in Italia, come previsto
invece dalla legge di stabilità. A proporlo è stata ieri al Senato la Lega con un
emendamento al Documento di economia e finanza (Def), ma il M5S si è subito unito al
Carroccio votando a favore e confermando così la linea dura di Grillo contro gli immigrati.
Scelta che ha subito provocato reazioni durissme e accuse di razzismo, tanto da spingere
in serata i senatori grillini a una prudente retromarcia: «Abbiamo votato sì
all’emendamento della Lega nord esclusivamente per fare in modo che il bonus bebè, che
il governo ha previsto solo per i nati del 2015, fosse esteso anche ai nati fino al 2017»,
spiega — ma non troppo — una nota del gruppo.
All’origine di tutto c’è, come spesso accade, Roberto Calderoli. Il vicepresidente del
Senato, vero maestro nel condurre blitz parlamentari, presenta un emendamento al Def
che di fatto destina gli 80 euro promessi da Renzi alle neo mamme solo ai figli di cittadini
italiani o di un altro Paese dell’Unione europea. Niente, quindi, ai bebè figli di cittadini
stranieri ma extracomunitari, anche se residenti in maniera regolare nel nostro paese.
L’emendamento viene bocciato dall’aula grazie ai voti di Pd e Ncd, ma ottiene comunque il
via libera del Movimento di Grillo che non si fa scrupolo a far sua l’iniziativa di Calderoli.
Che vistosi battuto, sbotta: «E’ la dimostrazione che la maggioranza se ne frega della
famiglia e dei bambini e stanzia risorse solo per gli immigrati» dice il vicepresidente del
Senato, come se anche i figli degli immigrati non fossero bambini.
Ma l’emendamento leghista è ormai diventato un caso politico. E certo non per la presa di
posizione della Lega, tipica della sua politica contro gli immigrati, ma proprio per
l’adesione del M5S a un emendamento dal sapore decisamente discriminatorio. Il primo
ad andare all’attacco è, ovviamente, il Pd. «Siamo ormai abituati al razzismo dilagante
della Lega — dice la senatrice Rosa Maria Di Giorgi — ma che anche i senatori del M5S si
prestassero a queste provocazini ci lascia francamente senza parole. Chissà se gli elettori
che hanno votato per Grillo e che speravano in un cambiamento sanno che i loro
rappresentanti in parlamento votano insime alla Lega». Sullo stesso tasto, quello del
razzismo, insiste anche il senatore Miguel Gotor per il quale «i senatori grillini hanno dato
prova della loro vera natura, impegnati a fare concorrenza alla destra più becera». Mentre
per il presidente della commissione Diritti umani, Luigi Manconi, «il bolso buonismo di
Lega e 5 Stelle, escludendo gli immigrati dal benificio del cosiddetto bonus bebè, dimostra
ancora una volta la loro irresponsabile prodigalità».
Ormai il danno è fatto. Dopo le parole di Grillo sui «clandestini da rispedire a casa», e gli
allarmistici avvertimenti sui presunti rischi per la salute derivanti sempre dagli immigrati
(che già hanno fatto storcere la bocca all’elettorato più di sinistra del M5S) adesso la
partita si completa con il tentativo di togliere il bonus di 80 euro ai bambini con genitori
extracomunitari.
A un certo punto la cosa deve essere sembrata troppo anche agli stessi senatori grillini
che l’hanno votata, fino a spingerli a correggere il tiro come possono. «Il Pd non perde
occasione per strumentalizzare ogni singolo voto del M5S e veicolare messaggi falsi»,
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spiega una nota del gruppo di palazzo Madama. «Sapevamo già che la discriminazione
inserita nel testo della Lega sarebbe decaduta perché incostituzionale — scrivono i
senatori pentastellati — mentre sarebbe rimasta esclusivamente l’estensione del bonus a
tutti i bimbi nati nel prossimo triennio. La nostra battaglia è rendere strutturale per tutti il
bonus bebè, come dimostreremo con nostre proposte emendative alla legge di stabilità».
del 31/10/14, pag. 4
Alfano: «Lampedusa, nel 2011, trasformata in
disastro»
Nel 2011, il governo Berlusconi «scelse di trasformare Lampedusa in un disastro
colossale, con un danno d’immagine forse non più rimediabile». A dirlo non è l’opposizione
di allora, ma il ministro dell’Interno di oggi, Angelino Alfano, che nel 2011 era a capo del
ministero di Giustizia. L’isola, ha ammesso candidamente il segretario di Ncd, «fu
sottoposta ad una pressione totale per dimostrare che i migranti erano lì». A quei tempi,
replica il forzista Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato, «dava giudizi diversi».
Intanto il titolare del Viminale annuncia ufficialmente la fine di Mare Nostrum, l’operazione
avviata poco più di un anno fa dal governo, dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre
2013. Da domani invece – proprio mentre si registra l’ultima tragedia del Mediterraneo con
il naufragio, al largo della Libia, di un gommone diretto verso le coste italiane nel quale si
contano venti dispersi – entrerà in azione Triton, la missione di Frontex, alla quale l’Italia
contribuirà con quasi la metà dei mezzi. «Una volta che partirà Triton — ha detto Alfano
rispondendo al question time in Senato — sarebbe difficilmente spiegabile mantenere
un’operazione d’emergenza come Mare Nostrum. Dal 1 novembre, dunque, non ci
saranno due linee di protezione, una vicina alla Libia e un’altra più vicina alle acque
nazionali, ma Mare Nostrum chiuderà secondo una linea d’uscita che il governo stabilirà
molto a breve».
del 31/10/14, pag. 4
Da Beppe Grillo a Roberto Fiore: mezzo meet
up di Vibo Valentia passa a Forza Nuova
Silvio Messinetti
Il sindaco di Comacchio, preveggente, lo aveva detto, una volta messo alla porta del
movimento direttamente da Beppe Grillo: «E’ in atto una deriva fascista del 5 stelle. E’
Grillo a dover essere espulso per questo». Qualcuno deve averlo preso alla lettera. Anzi,
più di qualcuno. Visto che si tratta di mezzo Meet-up, quello di Vibo Valentia. A partire dal
suo fondatore Edoardo Ventra. Che diventa, da un giorno all’altro, commissario provinciale
di Forza nuova.
E’ la segreteria regionale di Fn ad annunciare la nascita nella provincia vibonese di un
proprio «nucleo militante» in cui viene nominato, direttamente dai dirigenti nazionali, come
commissario politico Ventra. A cui «è stato affidato il compito di organizzare il partito in
tutta la provincia di Vibo. La carica di commissario avrà durata di sei mesi al termine del
quale si procederà con la creazione della federazione provinciale che sul territorio sarà
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strutturata ed organizzata con cariche e nomine come previsto dal nostro statuto. A lui e a
tutti gli ormai ex attivisti M5S vanno i migliori auguri di buon lavoro. Grande soddisfazione
viene espressa dal segretario nazionale Roberto Fiore».
In che cosa consista il «lavoro» politico di Forza nuova è roba nota. Appena due settimane
fa un centinaio di militanti scorazzavano liberamente per Crotone (senza che il sindaco Pd
facesse nulla per impedirlo) al grido: «Via i clandestini. L’Italia agli italiani» e altre amenità
del genere. D’altronde che nella pancia del 5 stelle alberghino rigurgiti xenofobi ed idee di
destra è altrettanto notorio. Basta farsi un giro in rete e dare uno sguardo ai commenti
sulle sparate di Grillo in tema di immigrazione. Il movimento è spaccato in due. Da una
parte, quelli più a sinistra, irritati dai toni «modello Farage» del capo.
Ventra ha così spiegato in rete la sua adesione a Fn : «Molti politici non hanno nulla di
onorevole perché non onorano con le loro azioni le cariche pubbliche che ricoprono, sono
indegni degli italiani onesti Per questo motivo gli italiani onesti hanno il dovere di
organizzarsi. Aderire, aderire, aderire». Qualunquismo abborracciato e pillole di populismo
di provincia. Che fa il paio con il finale della nota con cui Fn comunica la fuoriuscita dei
grillini: «La coerenza con la quale Fn affronta da sempre tematiche quali il blocco
dell’immigrazione,il ritorno alla piena sovranità politica, economica e monetaria e la lotta
contro i veri sprechi, a cominciare dall’abolizione delle regioni, dà i suoi frutti; molto presto,
infatti, daremo notizia di altre importanti adesioni in varie parti d’Italia.
Chi è davvero animato da spirito rivoluzionario sceglie sempre più Fn come unica,
radicale, valida alternativa al sistema partitocratico asservito alla grande finanza
internazionale». Se cambiassimo le sigle e al posto di Forza nuova ci fosse scritto M5S,
parrebbe un comunicato scritto da Grillo. Invece è vergato da Roberto Fiore.
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SOCIETA’
del 31/10/14, pag. 13
A rischio povertà 17 milioni di italiani I tagli ai
consumi
ROMA Più di una persona su quattro in Italia è «a rischio di povertà o esclusione sociale».
Per la precisione si tratta del 28,4% (dati 2013), secondo l’indagine Istat diffusa ieri. In
pratica, 17 milioni di italiani su 60. L’indicatore, che si compone di tre quote (famiglie
gravemente deprivate, persone a rischio povertà e famiglie a bassa intensità lavorativa) è
in leggera diminuzione (-1,5 punti) rispetto al 2012 «a seguito della diminuzione della
quota di persone in famiglie gravemente deprivate». Il quadro resta tuttavia preoccupante,
soprattutto nel Mezzogiorno. Il rischio di povertà o esclusione sociale si attesta infatti nel
Sud al 46,2% un valore più che doppio rispetto al resto del Paese.
Invariato l’indice Gini della disuguaglianza: 0,32 a livello nazionale, 0,34 nel Sud. Per
capire meglio, il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,7% del reddito totale, mentre
al 20% più povero spetta il 7,9%. La metà delle famiglie italiane ha percepito un reddito
netto non superiore a 24.215 euro l’anno, pari a 2.017 euro al mese. Nel Sud le condizioni
peggiorano: il 5o% delle famiglie sta sotto i 19.955 euro annui, 1.663 euro al mese. Il
reddito mediano delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari al 74% di quelle residenti
al Nord.
L’indagine è stata commentata dalla Coldi-retti, che sostiene che ci sono più di 4 milioni di
poveri che hanno chiesto aiuto per mangiare; dalla Cia, confederazione degli agricoltori,
che aggiunge che il 65% delle famiglie ha tagliato gli acquisti di cibo, percentuale che al
Sud sale al 77%; e dal presidente della Conferenza episcopale, Angelo Bagnasco: «I dati
sulla povertà devono essere presi sul serio. È necessario dare risposte occupazionali
perché solo il lavoro e non l’assistenza dà dignità».
Enrico Marro
del 31/10/14, pag. 37
LA POLITICA DIMENTICA I POVERI
CHIARA SARACENO
IL DATO della, piccola, riduzione del numero di persone a rischio di povertà ed esclusione
sociale avvenuta tra il 2012 e il 2013 va accolto con molta cautela, non solo per la sua
esiguità e perché si riferisce alla situazione di un anno fa, ma perché nasconde fenomeni
divergenti, che nel loro insieme segnalano un rafforzamento delle disuguaglianze.
In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave,
perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno
ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe
neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite
della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la
percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono
in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.
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In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree
del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord,
dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che
nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente
aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez,
il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza
che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si
conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori,
segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei
suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.
Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo
figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie
senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le
famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il
rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.
Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un
peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica
distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito
pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non
trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la
legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le
nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e
coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla
combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che
tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.
In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello
politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è
proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti
negativi di lungo periodo.
del 31/10/14, pag. 38
Il coming out di Tim Cook, amministratore delegato della Apple. Ma
anche quello di decine di attori, sportivi , cantanti. Un argomento che
sembra non essere più tabù. Eppure, persino negli Stati Uniti, esistono
ancora pregiudizi e discriminazioni. E l’83% degli omosex americani
preferisce nascondersi
Gay pride
FEDERICO RAMPINI
«CONSIDERO l’essere gay come uno dei più grandi doni che Dio mi ha dato». Con
questa frase Tim Cook, il chief executive di Apple e l’erede di Steve Jobs, diventa il più
importante top manager americano ad avere fatto il suo coming out. La decisione del
53enne Cook corona un’evoluzione dei costumi che in poco tempo ha cambiato l’America.
Vivere apertamente la propria omosessualità ormai non è più un comportamento
trasgressivo, non è più una libertà limitata a categorie speciali come gli artisti. È
l’establishment del capitalismo Usa ad abbracciare la parità dei diritti e la trasparenza sulle
preferenze sessuali. La California ne ha fatto una forza: l’attrazione che la Silicon Valley
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sprigiona verso i talenti creativi del mondo intero, deriva anche dalla sua apertura ad ogni
forma di diversità. La rivelazione di Cook giunge al culmine di altri gesti significativi: da
anni Apple, Google, Facebook e altre aziende digitali partecipano ufficialmente al Gay
Pride di San Francisco; e offrono ai propri dipendenti assicurazioni sanitarie che includono
l’assistenza medica ai partner dello stesso sesso. Non è solo il capitalismo digitale, da
sempre progressista sui diritti civili, ad avere abbattuto le barriere. Sul terreno valoriale
non è da meno Wall Street: i vertici di Goldman Sachs versarono donazioni generose per
la campagna sui matrimoni gay. La scelta del coming out (l’espressione completa e`
“coming out of the closet” cioè venir fuori dall’armadio, dalla clandestinità) è un rito
simbolico importante, che ha consentito di abbattere una dopo l’altra le resistenze sulla
parità dei diritti. Non è mai stato facile per nessuno, ma per alcune categorie, professioni,
o gruppi etnici, è stato ancora più difficile che per altri. Nel mondo dello spettacolo i
coming out sono più antichi – gli artisti erano comunque ai margini della società
rispettabile, da sempre: ai tempi di Moliere gli attori di teatro non avevano diritto alla degna
sepoltura e finivano nelle fosse comuni. Ma Hollywood fu dominata a lungo da una cultura
puritana, si ricorda lo shock della morte per Aids di Rock Hudson (1985) la cui
omosessualità era stata nascosta. I coming out delle star del cinema arrivano prima e più
spesso fra le donne che fra gli uomini: per questi ultimi si teme che l’omosessualità
dichiarata possa intaccare l’immagine di sex-symbol presso il pubblico femminile. Ma
anche tra le donne i coming out fino ad anni recenti sono inversamente proporzionali alla
celebrità: Jodie Foster solo nel 2013 cede alle pressioni della comunità lesbica e si
dichiara. Un’asimmetria analoga si nota nel mondo dell’informazione: la conduttrice di
talkshow Ellen DeGeneres finisce sulla copertina di Time già nel 1997 (titolo: “Yep, I’m
gay”) ma il suo collega maschio Anderson Cooper della Cnn lo fa nel 2012. Tra gli sportivi,
la tennista Billie Jean King è la prima ad aprirsi nel lontano 1981, una vera pioniera, e il
suo esempio spinge Martina Navratilova a fare lo stesso poco tempo dopo (ma solo dopo
avere ottenuto la cittadinanza americana). Per i maschi è più difficile: un atleta uomo deve
fare i conti con gli stereotipi “macho” tra molti dei suoi fan. Eppure anche lì negli ultimi anni
è un crescendo. Il pugile Orlando Cruz si dichiara nel 2012. Il campione di basket Jason
Collins nel 2013 quando gioca nei Celtics è il primo cestista della Nba che fa outing
mentre è ancora in attività. Tra gli ostacoli da superare ci sono le tradizioni culturali di
alcune comunità etniche. Afroamericani e ispanici sono tra i più restii: per come
percepiscono il ruolo del maschio; o per ragioni religiose. Perciò un esempio trainante
verso la comunità ispanica lo dà Ricky Martin, la star della musica pop di origine
portoricana, che si dichiara omosessuale nel 2010. Tra gli afroamericani la battaglia è
stata ancora più difficile. Nel 2008 durante la sua prima campagna elettorale per la Casa
Bianca, Barack Obama andò appositamente nella chiesa di Martin Luther King ad Atlanta,
a denunciare l’omofobia persistente tra i neri e in particolare tra i loro leader religiosi. Un
anchorman televisivo afroamericano, Don Lemon della Cnn, nel fare il suo coming out nel
2011 ha ammesso: «Essere gay e` la cosa peggiore nella cultura nera». A maggior
ragione la comunità gay americana ha una gratitudine profonda per Obama: sa quanto è
stato arduo per il primo presidente afroamericano, diventare anche il primo presidente che
ha appoggiato apertamente e poi legalizzato a livello federale i matrimoni gay. Senza
togliere meriti a Obama, i sondaggi dimostrano che lui ha saputo interpretare una
travolgente metamorfosi dell’opinione pubblica. Il parere degli americani sui matrimoni
omosessuali si è spostato in modo spettacolare in pochi anni. Lo scarto generazione è
impressionante, le ultime sacche di resistenza si ritrovano nella popolazione anziana,
mentre fra i giovani i matrimoni gay ottengono un consenso schiacciante.
La vicenda di Tim Cook ricorda però che l’evoluzione del costume non impedisce la
sopravvivenza di pregiudizi tenaci, ostilità e paure. In fondo il suo coming out dovrebbe
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fare notizia perché tardivo. Nella California dove nacque il movimento per i diritti dei gay,
insieme con le punte avanzate dell’ambientalismo e del femminismo, il movimento hippy e
l’attrazione verso il buddismo zen, il chief executive più potente del mondo (per
capitalizzazione di Borsa) ha dovuto aspettare fino all’ottobre del 2014? Lo stesso Cook
ha sentito il bisogno di giustificarsi: «Siamo già una delle aziende più osservate del
mondo, mi piace concentrare l’attenzione sui nostri prodotti ». Indirettamente ha esposto le
proprie attenuanti: l’essere cresciuto in una delle zone più retrive e bigotte d’America,
l’Alabama. In un discorso pubblico ha paragonato l’oppressione dei neri e quella dei gay,
un tema caro anche a Obama. La vicenda di Cook riporta alla ribalta anche l’avanzata
irregolare e incompleta dei diritti dei gay nei luoghi di lavoro. Una recente inchiesta della
Deloitte, citata sul New York Times , rivela che a tutt’oggi l’83% dei gay americani
nasconde il proprio orientamento sessuale quando varca il portone d’ingresso dell’azienda
in cui lavora.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 31/10/14, pag. 7
Genova, solo 12 milioni. Doria: “Ridicoli”
IL SINDACO FURIBONDO: “NON MI HANNO FATTO PARLARE E IO MI
METTERÒ A GRIDARE. DISTANZA DAI PALAZZI ROMANI”
di Giampiero Calapà
Genova e l’entroterra ligure hanno dovuto aspettare ventuno giorni. Ventuno giorni dopo
l’alluvione costata la vita all’infermiere Antonio Campanella, 57 anni, travolto dal Bisagno
nella notte del 9 ottobre. Ventuno giorni per uno stato di calamità naturale, deliberato ieri
dal Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi, che vale solamente 12 milioni e
mezzo di euro. Le stime della Regione Liguria indicano danni per almeno 300 milioni, 70
servirebbero subito per coprire l’emergenza. Mentre cresce la paura per altri possibili
disastri, un nuovo allerta meteo per il 4 e 5 novembre terrorizza già i genovesi. E il loro
sindaco, Marco Doria, va alla rottura col governo Renzi senza mezzi termini: “I risarcimenti
stanziati sono ridicoli”. Lo fa ieri mattina, in un’intervista alla televisione ligure Primocanale:
“Questa cifra è assolutamente inadeguata. Il Comune di Genova, in questo momento, è
sotto pressione perché si parla di milioni e milioni di euro per le somme urgenze di cui ci
stiamo facendo carico. Il che include anche i costi per tenere agibili le strade o le spese
per gli sfollati in alloggi pubblici o in alberghi”.
IL SINDACO per giorni ha cercato di tenere un profilo basso, ma adesso, dopo l’ufficialità
delle briciole concesse da Roma nonostante le promesse altisonanti delle prime ore, non
si tiene più. Continua furibondo: “Poi bisogna includere le grandi opere come il rifacimento
della copertura del Bisagno che deve essere finanziato dal governo e dal Parlamento
senza balletti. Per quanto riguarda il Fereggiano, il Comune farà il proprio: non risolverà
tutti i problemi ma darà un contributo assolutamente importante di cui non possiamo fare a
meno”. Doria avverte una distanza abissale dai palazzi romani, soprattutto dopo la sua
esclusione dall’audizione in Commissione ambiente due giorni fa. Hanno voluto parlare
tutti e il primo cittadino della città in questione ha dovuto farsi da parte, perché il tempo era
scaduto, intervento posticipato alla prossima volta: “Altri hanno preso il mio spazio. La
cosa che mi ha sconcertato è stato osservare la distanza tra un sindaco e i palazzi romani.
Non posso non rimarcare con sconcerto l’atteggiamento di tutti i senatori presenti,
compresi quelli genovesi. Con rispetto per gli impegni di tutti, un sindaco non può stare a
disposizione per un tempo indefinito. Quello che mi ha colpito è la distanza che ho
avvertito tra un sindaco e tanti altri. Ero lì anche con una sensazione di sofferenza: una
forte percezione del distacco grande tra il ruolo del sindaco e quello di chi fa le norme in
Parlamento. Non voglio che ci sia questo distacco, sarebbe una catastrofe per tutti”. E
ancora: “Mi metterò a gridare”, avverte denunciando ancora l’insufficienza dello
stanziamento. “La nostra città è una grande città e tra tutte le grandi città è quella che si
trova nella condizione più critica per il dissesto idrogeologico”.
del 31/10/14, pag. 5
Val di Susa. Sui costi si sgretola il fronte del sì
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Tav, Chiamparino adesso «vuole vederci
chiaro»
Mauro Ravarino
«Apriamo un tavolo, laico, senza vincitori né vinti. E discutiamo finalmente dell’opera. I
tempi sono maturi per una riflessione seria sulla Torino-Lione, bocciata dal rapporto costi e
benefici. In uno stato perenne di crisi come quello attuale, senza risorse agli enti locali e
con un dissesto idrogeologico allarmante, ha senso sprecare tanti miliardi per un’opera di
dubbia utilità? Il governo riapra la discussione, faccia questo passo, noi siamo disponibili
ad affrontarla». Lo dice Sandro Plano, sindaco di Susa e voce autorevole delle istituzioni
locali in Valle, di tutte quelle istituzioni che erano state estromesse, in quanto voci critiche,
dall’Osservatorio tecnico guidato da Mario Virano.
La proposta di Plano ha come obiettivo quello di riportare un’attenzione oggettiva nei
confronti dell’opera. Arriva il giorno dopo l’improvviso dietrofront del senatore Pd Stefano
Esposito, che ha dichiarato di non voler più difendere un progetto che potrebbe costare
oltre due volte e mezzo la spesa preventivata (da 2,9 a 7,7 miliardi di euro a carico
dell’Italia). Il totem Tav viene così sbriciolato da uno dei più accaniti supporter e il fronte
dei favorevoli si spacca. Forza Italia ne ribadisce l’indispensabilità, mentre uno degli
strenui sostenitori, Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, alza dubbi e
chiede di poterci «vedere chiaro», per capire la «fondatezza delle nuove cifre». È in atto
un riposizionamento? Forse.
Rimangono, per ora, in silenzio il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, uno dei sottoscrittori
dell’accordo di programma con Rfi in cui sono state aggiornati i nuovi costi della tratta
internazionale, e il premier Matteo Renzi. Il primo è atteso l’11 novembre in Commissione
al Senato per far chiarezza sulle cifre. Il secondo, prima dell’investitura si era detto
contrario al Tav, una volta a Palazzo Chigi si è, invece, conformato al pensiero
mainstream. Senza entusiasmo, però. Ogni volta che era atteso a Chiomonte per la visita
al cantiere della Maddalena, il presidente del Consiglio ha preferito soprassedere. Un
segnale anche questo? Forse.
Intanto, in Parlamento il dem critico, Pippo Civati, e il coordinatore nazionale di Sel Nicola
Fratoianni hanno chiesto una commissione d’inchiesta sulla Torino-Lione. Il senatore
valsusino dei Cinque stelle, Marco Scibona, che già aveva chiesto una iniziativa simile,
chiede di dar seguito alle parole e ai democratici di prendere posizione: «Il Pd dismetta
l’omertà sul Tav, prenda coraggio e si schieri dalla parte della trasparenza, contribuendo
ad approvare la commissione di inchiesta».
In Piemonte, è intervenuto il capogruppo di Sel in Regione, Marco Grimaldi: «In un solo
giorno il senatore Esposito ha percorso dieci anni di dubbi di una vasta comunità.
Tranquilli: non è “San Paolo”. La fermata Damasco non è sulla tratta Torino-Lione. Siamo
però lieti che il dubbio sia dentro di lui. Lo diciamo da tempo: il costo delle grandi opere è
determinante (per noi 2.9 miliardi non sono comunque pochi) e si può tornare indietro su
qualsiasi decisione, come dice Esposito, basta pagare le penali». Grimaldi si rivolge poi a
Chiamparino e prende in considerazione anche l’altra grande opera sul territorio regionale,
il Terzo Valico: «Nello Sblocca Italia il collegamento ferroviario dei Giovi otterrebbe 200
milioni di euro, una cifra non certo sufficiente a coprire tutto il terzo lotto. Chiamparino
chieda al governo che tale risorse finiscano nel piano regionale per la messa in sicurezza
del territorio. L’alessandrino è stato recentemente colpito da un’alluvione, pare che i danni
superino i trecento milioni. Le poche risorse che il Paese ha a disposizione vanno
utilizzate per il dissesto idrogeologico».
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del 31/10/14, pag. 4 (ins. Sbilanciamo l’Europa)
Il vicolo cieco dei servizi idrici
Emilio Molinari
Il fine comune da raggiungere è quello di riaffermare nelle Carte delle
Nazioni unite il diritto all’acqua come bene comune
La ripubblicizzazione dei servizi idrici si è arenata in un vicolo cieco. A tre anni dal
referendum solo Napoli ha trasformato il servizio da Spa in house, ad azienda speciale.
I successi del movimento risiedono in alcuni punti specifici: nell’aver fermato la Multiutility
del Nord, respinto a Cremona il tentativo di far entrare i privati nella gestione in house,
impedito ad Acea di vendere altre quote, scorporato l’acqua a Trento e si spera anche a
Reggio Emilia e aperto una discussione in Toscana con alcuni sindaci sullo scorporo da
Acea.
L’ostilità dei governi e l’attacco allo stesso referendum erano scontati. Ma ciò non spiega il
perché del vicolo cieco in cui si è arenato il movimento. Credo sia tempo di rivedere
criticamente, non il contenuto della ripubblicizzazione in sé, ma la strategia con la quale è
stato perseguito, improntata al rigido spartiacque della coerenza al vincolo quasi
ideologico dell’eliminazione delle Ssp in house. Prescindendo dalla realtà, dai rapporti di
forza, dalla capacità di farsi capire dalla gente, dai limiti stessi presenti nel risultato
referendario che, al di là della volontà degli elettori, di certo fermava l’obbligatorietà
all’ingresso dei privati.
Non c’è stato un percorso, dove accumulare forze, con tappe e obbiettivi intermedi da cui
ripartire con le alleanze possibili.
Anzi, alla rigidità è stata aggiunta una campagna sulla «obbedienza civile»con relativa
autoriduzione delle tariffe, che non poteva che arenarsi.
In questa visione, tutti i Comuni, tutti i sindaci e tutte le aziende in house non potevano
oggettivamente che diventare avversari da attaccare. E il movimento non poteva che
connotarsi come parte di un fronte di sacrosante «resistenze» territoriali, (No Tav, No
Mose, No Expo, No dal Molin, No al gassificatore, No alla precarietà, No agli sgomberi
delle case, ecc…) tenuto assieme da un involucro politico/ideologico «il fronte antagonista
dei beni comuni». Un recinto, nel quale le ragioni dell’acqua, la novità della sua cultura
inclusiva, si sono perse assieme all’anima universale, il linguaggio popolare, la capacità di
dare passione a tanti e costruire ampie adesioni e alleanze.
Da qui l’impantanamento tra radicalità e interpretazioni giuridiche, localismi, attività
sindacali sulla tariffa, ricorsi ai tribunali. Occorre fare una pausa di riflessione per ripartire.
Proviamo a pensare come nostri interlocutori e possibili alleati tutti quei Comuni e (perché
no) anche a quelle aziende in house, che resistono ancora all’ingresso dei privati o quelle
che vorrebbero disfarsi dei privati.
C’è una relazione profonda tra la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali e quella di
svuotare d’ogni ruolo e credibilità i Comuni, che dovrebbe avvicinare le due condizioni.
L’alleanza non sarebbe solo una opportunità, ma una strategia politica da perseguire.
Oggi tutte le istituzioni sono sotto attacco e i Comuni sono la prima linea. Vincoli
economici, soppressione/privatizzazione, «Sblocca Italia», ne sono l’espressione. Nello
stesso tempo devono reggere l’urto dei cittadini arrabbiati per la decadenza e la
soppressione dei servizi, il degrado del territorio.
La sottrazione di sovranità alle istituzioni ad ogni livello è la politica di questo nostro
tempo. Dalla troika al trattato Usa — Ue si va prefigurando un nuovo ordine mondiale che
privatizza la politica e la trasferisce alle sedi finanziarie e ai tribunali arbitrari delle
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Multinazionali. Dobbiamo imparare a leggere la politica di Renzi come anticipazione di
questo nuovo ordine.
Gli organismi extra-istituzionali sull’acqua sono un esempio. Le multinazionali sono
diventate soggetti decisionali e attori ufficiali della «Governance», termine che oggi
sostituisce i «Governi politici e rappresentativi».
Il Consiglio Mondiale dell’acqua, partecipato dall’Onu è presieduto da Suez e Veolia (a
loro volta terreno di conquista di Goldman Sachs).
Il Ceo Water Mandate, delegato dall’Onu ha a che fare con più di 100 aziende
multinazionali produttive di tutti i comparti, impegnate ad assicurare acqua alle loro attività.
Da una parte c’è lo svuotamento delle istituzioni e dall’altra la mercificazione dei beni
comuni, di tutta l’acqua, da quotare in Borsa e istituzionalizzando la compra vendita dei
diritti al suo sfruttamento.
Negli Usa, in Canada, in Cile, in Australia, la compravendita dei diritti allo sfruttamento
dell’acqua è già operante. Ne dà una idea il magnate texano che ha comprato un lago in
Alaska e ne rivende il contenuto all’Arabia Saudita e alla Cina.
In Cile, l’acqua dei fiumi è lottizzata e venduta all’asta e la concessione ha la priorità sui
bisogni essenziali degli abitanti del luogo. Il Water grabbing è la realtà di tutta l’Africa.
Nella Detroit della crisi dell’auto, 90.000 persone sono private dall’accesso all’acqua
perché indigenti.
In Expo, è la multinazionale Barilla a lanciare un Protocollo Mondiale sull’alimentazione e
la politica e l’associazionismo corrono ad aderivi, ribaltando ogni ruolo. A Nestlè viene
delegata la piazza tematica dell’acqua mentre l’acqua pubblica di Milano viene esclusa.
C’è un contesto che fa correre verso il suicidio idrico. 15 milioni di persone all’anno
migrano nel mondo solo per effetto di scelte tecnologiche inerenti all’acqua. La domanda
di acqua del 2030, supererà la disponibilità del 40%; il 70% della popolazione mondiale
vivrà allora nelle città; la metà degli abitanti dei grandi centri vivrà in baraccopoli, con
carenze d’acqua potabile, servizi igienici, smaltimento dei rifiuti e reti energetiche. Una tale
realtà scarica sui comuni e le aree metropolitane tutti i drammatici problemi di questo
secolo, ma li priva al contempo di ruolo, poteri e risorse.
La corruzione e l’impotenza screditano la politica e le istituzioni, dall’Onu in giù, fino ai
comuni e cresce nei movimenti l’idea di combatterle, lasciarle affondare; poi si vedrà. Ma il
nostro compito è altro. È quello di riconquistarle in quanto istituzioni, alla politica, al bene
pubblico, alla fiscalità generale per le opere e i servizi di interesse collettivo. Inoltre quello
di difenderne il ruolo con la stessa volontà con la quale difendiamo la Costituzione.
Ecco, ripartire dall’acqua con i comuni che vogliono ritrovare l’orgoglio e la volontà di
«disobbedire». Ripartire per mettere in sicurezza l’acqua potabile, la raccolta dei rifiuti, i
servizi sanitari. Per costruire una rete di Città dell’acqua (water policy), ma anche di
imprese pubbliche e in house, che si muovano sapendo quale città progettare. Non con
l’anarchia dei costruttori, ma con i cittadini, il territorio agricolo e l’acqua circostante. Con i
contadini veri con i loro prodotti ( food policy). Una rete che in Italia e in Europa sia in
grado di fare politica; da soggetti, capaci di strappare ai governi leggi e direttive.
Nello stesso tempo si deve operare per rimuovere gli ostacoli alla riappropriazione delle
quote delle Spa in mano ai privati: A2a Acea, Iren, Hera.
Bisogna promuovere incontri tra sindaci di tutto il mondo affinché l’Onu concretizzi quella
che è stata una grande vittoria del movimento: la risoluzione del 2010 con la quale l’acqua
potabile e i servizi igienici sono diventati un diritto umano. Il fine da raggiungere è quello di
riaffermare nelle Carte delle Nazioni unite il diritto all’acqua e poi promuovere Protocolli,
Trattati e organismi internazionali politici, che garantiscano il diritto all’acqua ed escludano
il suo commercio, fissino regole, principi, quantità e ne sanzionino le violazioni. Un
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impegno nazionale deve essere quello di impedire la formazione di grandi multiutility
nazionali e quotate in borsa.
Il nostro paese deve dotarsi di una Carta dell’acqua, nella quale gli aderenti si impegnano
a: promuovere l’acqua pubblica del proprio acquedotto; promuovere la cultura del diritto
all’acqua; fuoriuscire dalla logica della tariffa, garantendo il diritto ai 50 litri al giorno per
ogni persona e il risparmio con una tariffa progressiva; non togliere l’acqua a nessun
cittadino o immigrato, Rom o baraccato; dare vita ad un fondo con le imprese, per progetti
nel Sud del mondo attraverso partenariati pubblico/pubblico.
Il movimento dell’acqua ha indicato a tutti qualcosa di straordinariamente nuovo, da cui
partire non solo per realizzare gli obiettivi in sé, ma per riprendere a ragionare sul nostro
tempo, sulla necessità di una nuova visione della politica e dei movimenti con al centro i
diritti universali. Una traccia per trovare la strada perduta da un ceto politico incapace e
compromesso e per chiedergli di rinnovarsi totalmente o togliersi di mezzo e salvare la
democrazia.
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INFORMAZIONE
del 31/10/14, pag. 9
RAI, IL CARTELLO DEGLI APPALTI:
“QUI LA CONCORRENZA NON ESISTE”
ANTITRUST, SFILATA DEGLI IMPRENDITORI ACCUSATI DI ACCORDI IN
GARE PUBBLICHE
Non siamo noi, ma è la Rai a porre delle regole anti-concorrenziali”.
È scontro tra i titolari di alcune imprese che si occupano di post produzione per importanti
programmi televisivi e l’azien - da pubblica. Infatti, la tv di Stato nei mesi scorsi ha fatto un
esposto contro 23 aziende accusandole di essersi accordate per “spartirsi gli appalti di
montaggio e riprese”, nonché di aver posto in essere “presun - te distorsioni concorrenziali
per l’affidamento di servizi di post produzione per la stagione televisiva 2013-2014”. La
denuncia è nata dopo che a Viale Mazzini sono arrivate alcune lettere anonime, molte
spedite anche prima dell’apertura delle buste relative alle gare, in cui si parlava delle
offerte concordate dalle aziende. Cinque missive finite in due procedimenti. Il primo è
quello della procura di Roma che indaga per turbativa d’asta e ha già iscritto quattro
persone nel registro degli indagati, oltre fare alcune perquisizioni. Il secondo procedimento
è quello invece aperto all’Anti - trust, dove nei mesi scorsi sono stati convocati alcuni
imprenditori, come pure i delegati della Rai.
COSÌ NEL MIRINO dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ci sono finite 23
aziende che hanno partecipato alle gare di 20 procedure di selezione nel periodo che va
dal 15 luglio al 3 ottobre 2013. Anche se l’autorità avrebbe allargato le verifiche anche al
2012. Tra le imprese attenzionate (e ne citiamo solo alcune) ci sono ad esempio la
Euroscena srl, specializzata in passato nelle riprese di Silvio Berlusconi che ha seguito
negli anni in trasmissioni pubbliche e interviste e che (oggi guidata da Luigi Sciò) si è
aggiudicata la gara del contratto di post produzione della “Rai Italia Doc doc” per 118 mila
euro. E ancora: La Grande Mela srl che tra i lavori fatti sul proprio sito cita anche la
fortunata serie Gomorra ; la Mav Television guidata da Roberto Mastroianni (questi già
iscritto a Roma insieme ad altre tre persone) che si è aggiudicata l’appalto per il
programma “Rai World Community” per un valore di 331 mila euro; la EuroGroup, di Laura
Vairano, che ha vinto le gare degli appalti di post produzione per l’Eredità (91 mila euro) e
Ballarò (209 mila euro). I titolari di molte aziende quindi sono stati sentiti in Antitrust e
hanno anche depositato alcuni atti, come una memoria dove spiegano la situazione in Rai
e la loro posizione. A firmare la memoria è un’associazione di imprese fondata nel 2011, la
Niba, nata “per monitorare i comportamenti anticoncorrenziali della Rai che le imprese
erano costrette a subire”. Ed è qui che i toni si alzano. “Rispetto a quanto rappresentato
dalla Rai – scrivono –la situazione è diversa: è sempre la Rai che decide i nominativi delle
società chiamate a partecipare alle proprie procedure di selezione (che non sono affatto
bandi aperti, si tratta di soggetti convocati perchè di fiducia della Rai e iscritti al proprio
albo fornitori). La situazione evidenzia l’esistenza di una evidente barriera di ingresso alle
imprese aprioristicamente escluse”. Inoltre, “per la totalità delle imprese associate, la Rai
costituiva pressoché l’unico committente, talché aveva (ed ha tuttora) facile gioco
nell’imporre i prezzi dei servizi, progressivamente ridotti, nelle aggiudicazioni, per
migliorare i risultati di bilancio della concessionaria pubblica”. Le lamentele su come si
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lavora in Rai erano già arrivate otto mesi con una lettera inviata al direttore generale e al
direttore direzioni acquisti tv: gare al ribasso, lavoro pagato troppo poco e spese che non
riescono ad essere coperte soprattutto per l’alto costo anche delle attrezzature.
Problematiche che, dopo lo scoppio dell’inchiesta, i titolari di imprese hanno riferito anche
ad alcuni esponenti politici durante degli incontri tenuti segreti. Questione che però non
interessa l’Autorità garante della concorrenza che agli imprenditori ha posto domande
specifiche, anche su quanto trovato durante le perquisizioni. Come un messaggio che
conteneva la foto dell’esito di una gara trovato sul cellulare del titolare di un’azienda
durante le perquisizioni. La donna all’Antitrust avrebbe spiegato che quel messaggio gli è
stato recapitato da un’amico titolare di un’altra impresa dopo che la gara era stata già
chiusa. Ad un altro imprenditore è stato chiesto degli incontri tra aziende organizzati a
luglio e settembre nella sala della parrocchia di santa Lucia, a Prati.
L’ANTITRUST sospetta che qui gli imprenditori si sarebbero organizzati per mettersi
d’accordo sulle offerte da fare alle gare. Circostanza smentita da un titolare dell’azienda
che sentito dal Fatto vuole rimanere anonimo per paura delle conseguenze lavorative:
“Era una riunione per parlare dei problemi che avevamo in Rai. Poi però i toni si sono
alzati, hanno iniziato a litigare. Così nella discussione sono entrati anche i prezzi delle
gare, ma non per accordarsi. In ogni caso io sono andato via”.
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CULTURA E SCUOLA
del 31/10/14, pag. 1/36
Se Leopardi al cinema diventa un supereroe
VALERIO MAGRELLI
Aneddoto: trascinato al cinema da mia figlia ventiduenne, sono rimasto stupefatto nel
trovare solo due posti in prima fila, circondato da un pubblico undertrenta. Non c’è molto
da aggiungere: sbarazzatosi di Pasolini, liberatosi dei guardiani di ogni galassia possibile,
Il giovane favoloso aspetta ormai di battersi giusto con L’uomo ragno.
L’accostamento, si badi, non è casuale, e chiama in causa le ragioni di un simile,
benemerito successo (perché è superfluo dire quanto dobbiamo esultare per l’arrivo di un
paladino italiano e poeta). Infatti, Spiderman è “uno scolaro attento e studioso, ma anche
timido ed impacciato” (Wikipedia dixit), trasforma- to in imbattibile paladino della giustizia
dalla puntura di un animale velenoso. E chi è Leopardi, se non un tranquillo bambino che
diventa gobbo per la sua dannosissima passione della lettura? La forza nel primo,
l’intelligenza nell’altro, appaiono entrambi prodotti di una mutazione e insieme di un dolore.
Inutile spiegare quanto la malinconia della New York a fumetti o ripresa nei film, somigli a
quella Recanati illustrata da Martone. Il punto focale, tuttavia, sta altrove, ossia nel
celibato cui si votano questi due autentici cavalieri templari. Né cambia molto il fatto che la
ragione dipenda ora dalla necessità dell’anonimato, ora dalla calamità della bruttezza. Ciò
che più conta è l’atroce solitudine, sentimentale e erotica, di entrambi. Solitudine che, del
resto, fa tutt’uno con la loro rivolta verso il conformismo della società. Nel suo feroce odio
per l’ipocrisia cattolica e progressista, Leopardi (peraltro esperto nel tradurre La guerra dei
topi e delle rane) va incontro all’Uomo Ragno e alle sue battaglie in difesa dei deboli, degli
oppressi, degli irregolari. Ora, però, bisogna svelare l’arcano di questa alquanto bizzarra
congiunzione. Per farlo, occorre convocare un terzo personaggio, avvicinando il poeta
deforme al Gobbo di Notre Dame. Ciò che li unisce (e unisce Spiderman al Cavaliere della
Valle Solitaria, a tanti vendicatori senza donna, a Superman o a Batman, per non dire del
Corvo, addirittura tratto da E. A. Poe), sono elementi comuni a ogni eroe romantico, primi
fra tutti proprio quelli esaltati da Victor Hugo.
In breve, Leopardi è semplicemente L’uomo che ride ( altro romanzo di Hugo), il bambino
prodigio, nobile e sensibilissimo, rapito dagli zingari e sfigurato, per diventare un
fenomeno da baraccone. Vogliamo aggiungere Elephant man? Il gioco è chiaro. Il meritato
successo di Martone sta nell’aver ridato vita a un secolare archetipo romantico,
trovandolo, però, dove nessuno l’aveva mai cercato: dentro i compiti in classe di ragazzi i
quali, rifiutando un Paese prostrato, sperano nella voce di uno storpio favoloso e ribelle.
del 31/10/14, pag. 1/27
Pagella sui corsi
Fa discutere la decisione dell’università di “ritoccare” da quest’anno la
valutazione dei questionari compilati on line e allargare la platea dei
docenti promossi
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“Ai prof il 6 politico” E l’ateneo di Padova fa
infuriare gli studenti
JENNER MELETTI
PADOVA .
C’era una volta — correva l’anno 1968 — il “18 politico”. C’era pure l’esame di gruppo,
così anche se non dicevi una parola tornavi a casa con un voto in più sul libretto
universitario. Per i ragazzi dei licei c’era il “6 politico”. Anni lontani. Polemiche quasi
dimenticate che a volte ritornano. Stavolta, a decidere che un cinque e mezzo diventa un
sei — in sintesi: invece di essere bocciato sei promosso — sono coloro che stavano e
stanno dall’altra parte della cattedra: i docenti. Succede a Padova, nel grande ateneo dove
Concetto Marchesi fu rettore e già nel 1943, nella città occupata dai tedeschi, disse che
compito dell’università è soprattutto «discutere e sperimentare cosa sia la libertà». Forse
non era compresa la libertà di cambiare le regole. «Per alzare il numero dei docenti
“promossi” — protestano gli studenti dell’Udu, Unione degli universitari — hanno
abbassato la soglia di valutazione. Questa decisione, fuorviante e inaccettabile, promuove
il demerito e alimenta l’inerzia ».
I voti per valutare i docenti del Bo, come nella scuola elementare, vanno dall’1 al 10. A
decidere è il “Presidio di ateneo per la qualità della didattica e della formazione”. Fino
all’anno scorso la sufficienza si otteneva ovviamente con il 6. Nella graduatoria non
venivano annunciati i risultati precisi. Il professore veniva inserito nella “fascia bassa”, in
quella “intermedia” oppure in quella “alta”. Si è scoperto che il 5,5 è diventato un 6 solo
quando la graduatoria per l’anno accademico 2013-2014 è stata pubblicata sul sito
dell’ateneo. È stata cambiata anche la soglia minima per la fascia alta, portata da 7 a 7,5.
«Tutto questo — raccontano Anna Azzolin e Pietro Bean, studenti dell’Udu — è
inaccettabile. Qui davvero si incentiva chi non si dà da fare, chi non si impegna a
migliorare la propria didattica. E c’è anche un problema in più. Sono inseriti nella stessa
fascia media i prof che hanno preso 5,5 e anche quelli che hanno raggiunto un 7,4. Come
può, una graduatoria come questa, aiutare lo studente nella scelta dei corsi da
frequentare? Dobbiamo sapere se i docenti sono bravi o no a fare il loro mestiere».
Perché lo sconto? «Alcuni colleghi — ha dichiarato Ettore Felisatti, delegato del rettore per
la valutazione della didattica — risultavano insufficienti pur avendo preso 5,8 o 5,9.
Abbiamo deciso di arrotondare per rispondere a una logica di riconoscimento». Quale sia
questa logica, non è facile comprendere. «Ieri mattina — dice invece Paolo Guiotto,
docente di matematica — ho aperto la mia lezione con un annuncio: sarete promossi con
16,5 su 30, in virtù della proprietà riflessiva. Insomma, se per un docente va bene una
sufficienza a 5,5, è giusto che uno studente possa superare un esame con 16,5. Hanno
capito lo scherzo, si sono messi a ridere».
La mutazione da insufficienza a promozione appare strana in questa università statale che
con 63.000 studenti e 2.200 docenti riceve comunque un gradimento alto: 7,5 per la
soddisfazione complessiva, 7,9 per gli aspetti organizzativi, 7,8 per la didattica. I
questionari si fanno da più di quindici anni ed hanno dato risultati. Nel 2013, ad esempio,
due docenti a contratto di Economia, accusati dagli studenti di assenteismo, sono stati
rimossi dall’incarico. «Anche quei contratti non rinnovati — dice il rettore, Giuseppe
Zaccaria — hanno fatto clamore ma in realtà sono stati una tempesta in un bicchiere
d’acqua. Io ho fatto il preside a Scienze politiche per nove anni e i contratti saltati, per i
docenti non di ruolo, sono stati decine. Ma allora non c’era Facebook, dove tutto viene
drammatizzato. Bastano un paio di associazioni di studenti e otto o dieci docenti per fare
scoppiare un caso che — anche in questo caso — è la classica tempesta nel bicchiere».
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Il Magnifico appare sicuro. «Noi, questi voti in graduatoria, non li abbiamo mai pensati
come rigide pagelle. Servono soprattutto a capire quali siano le aspettative degli studenti e
a fare emergere i problemi. Servono anche a decidere gli incentivi per i docenti, soprattutto
per spingerli verso il miglioramento. Non ci piace una lista che deprezzi il nostro corpo
insegnante». Il rettore annuncia una novità. «Da circa due anni stiamo lavorando perché i
docenti, come succede nelle migliori università europee, valutino da soli il proprio lavoro ».
Almeno in questo caso, si spera, senza cambiare i cinque e mezzo in sei.
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ECONOMIA E LAVORO
del 31/10/14, pag. 14
Fiom allo sciopero generale “Fermiamo il
Jobs Act” ma su Ast riparte la trattativa
Il premier: chiudere la vicenda Terni imperativo morale il 6 novembre
vertice con il governo. Aperture dell’azienda
LUISA GRION
ROMA .
Dopo le manganellate, lo spiraglio. Dopo gli scontri in piazza fra operai e forze dell’ordine
sulla vertenza Ast ieri è ripresa la trattativa. Se sulla politica del lavoro la tensione fra Cgil
e governo non cala e produce l’annuncio di uno sciopero generale - la Fiom lo farà a metà
novembre in vista, a dicembre, di quello dell’intero sindacato guidato da Susanna
Camusso - su Terni i tavoli si riaprono.
La parola d’ordine della giornata - al di là delle infuocate polemiche sul perchè e sul come
sia partita la carica della polizia nel corteo di due giorni fa - è stata: pensiamo alla fabbrica.
«Portare a casa la vicenda Terni è un imperativo morale» ha detto Renzi aprendo il vertice
con i sindacati assieme al sottosegretario Delrio e al ministro Federica Guidi. Un incontro
voluto dalla titolare dello sviluppo economico per fare con Cgil,Cisl e Uil il punto della
situazione e informarli che l’azienda ha accettato di rimettere mano al piano industriale per
scendere dai 537 esuberi preventivati ad un «massimo» di 290, già indicato nelle
settimane scorse dal governo. Considerato che 140-150 persone avrebbero già accettato
la mobilità volontaria con incentivi economici, gli esuberi si ridurrebbero quindi ai restanti
150. L’azienda - cui sarebbero stati assicurati risparmi energetici e da taglio dell’Irap per
un totale di quindici milioni - avrebbe anche garantito il mantenimento dei due forni,
assicurando volumi produttivi per almeno un milione di tonnellate di acciaio l’anno.
Un punto dal quale sarà possibile ripartire, hanno convenuto i sindacati, anche se ora si
tratta di trovare le garanzie, contenere il più possibile gli esuberi, negoziare sugli integrativi
aziendali e sui tagli in busta paga chiesti dall’azienda e far in modo che la crisi del sito
siderurgico e la chiusura dei forni non sia solo rinviata di qualche anno. Rischio che a
Terni temono. Tutti temi del tavolo fra sindacati e impresa che è stato riconvocato dal
ministro per il 6 novembre. L’ottimismo, dicono Cgil, Cisl e Uil potrà arrivare solo davanti
alla riscrittura del piano aziendale e per far tornare gli operai in fabbrica si aspetterà il
pagamento degli stipendi - fermi a settembre - e il ripristino dei turni cancellati.
Tutti sono comunque convinti che dopo gli scontri di mercoledì era necessaria una svolta.
«La voce degli operai di Terni va presa con serietà» ha detto il cardinale Bagnasco,
presidente della Cei. «La tenuta sociale non è a rischio, il Paese ha un sistema solido» ha
assicurato il sottosegretario a Palazzo Chigi Delrio. «Terni è una vertenza su cui siamo
impegnati da mesi, ma non bisogna mescolarla con altre questioni o con altre trattative
come quella del dibattito in Parlamento sul mercato del lavoro».
Una separazione che in realtà non c’è, sia perché i sindacati aspettano un chiarimento
sugli scontri in piazza (la Camusso ha esortato il premier ad «abbassare i manganelli
dell’ordine pubblico»), sia perché - apertura su Terni a parte - il Jobs act non piace alla
Cgil e lo sciopero annunciato da piazza San Giovanni prende forma. Lo spiraglio su Ast
non è bastato alla Fiom, che ha proclamato otto ore di sciopero generale a novembre
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contro la politica del governo, in preparazione di quello di tutte le categorie che la Cgil
deciderà nel direttivo del 12 novembre.
del 31/10/14, pag. 2
La Fiom raddoppia lo sciopero
Massimo Franchi
In piazza . I metallurgici Cgil sdoppiano la mobilitazione: venerdì 14
toccherà ai lavoratori del centro nord con manifestazione a Milano, il 21
al centro sud a Napoli. Camusso applaudita al comitato centrale: la
battaglia sarà lunga. Contro il Jobs act e il governo astensione dal
lavoro di 8 ore. Landini: sarà la continuazione di piazza San Giovanni
Sempre uno sciopero generale. Ma sdoppiato: venerdì 14 novembre toccherà ai
metalmeccanici del centro-nord con manifestazione a Milano, una settimana più tardi sarà
l’altra metà della penisola a scioperare per 8 ore ritrovandosi a Napoli.
La Fiom prova ad innovare uno strumento che in molti considerano superato, rilanciandolo
a livello macroregionale. Potrebbe poi essere il primo tentativo di quello «sciopero a
rovescio» di cui Landini ha parlato nelle settimane scorse per mobilitare tutte le persone,
anche chi non può scioperare. A questo proposito il segretario della Fiom precisa:
«Qualcosa ci inventeremo, ma il tema è da approfondire».
Niente manifestazione nazionale unica a Roma — risulterebbe un doppione del 25 ottobre
— dunque. La proposta della segreteria acciaccata dalle manganellate di mercoledì —
Rosario Rappa si presenta nonostante 5 punti in testa — viene approvata dal comitato
centrale con 111 voti favorevoli e 6 astensioni.
Inizialmente Landini puntava a triplicare gli scioperi e le manifestazioni. «Abbiamo pensato
che rispetto ad un classico sciopero generale sarebbe più utile mettere insieme 2–3
manifestazioni con i rispettivi scioperi in diverse date per il nord, il centro e il sud. Le città
potrebbero essere Milano, Napoli e Terni, quest’ultima da valutare in base a quello che
succederà», spiegava nella sua relazione. Poi, vista la delicatezza e la possibile modifica
della vertenza delle Acciaierie speciali di Terni, ha optato per due sole manifestazioni.
I metallurgici della Cgil rilanciano così la loro battaglia contro il governo e il Jobs act. E la
collocano a ridosso del Direttivo della Cgil del 12 novembre che dovrà varare lo sciopero
generale di tutta la confederazione.
La comunità d’intenti con la confederazione è riaffermata dagli applausi che hanno accolto
l’intervento di Susanna Camusso. Il segretario generale della Cgil ha chiesto ai
metalmeccanici di prepararsi ad una «lunga battaglia». «Man mano che andremo avanti le
provocazioni si moltiplicheranno, spero non come quella di ieri (mercoledì, ndr)», ha detto
ricordando gli scontri in piazza Indipendenza. «Per vincere la partita di lungo periodo» è
indispensabile che «tutti insieme siamo convinti che stiamo attraversando una stagione
nuova diversa dal passato e perciò dobbiamo avere un forte radicamento sul territorio,
conquistarne ogni giorno uno in più. Solo così possiamo farcela».
A cinque mesi dal congresso e a sei dal richiamo disciplinare al segretario della Fiom sulle
vicende del Testo unico sulla rappresentanza, Camusso e Landini marciano ora di pari
passo. Potere del renzismo e della svolta pro-Confindustria intrapresa dal premier.
Un accenno se n’è avuto anche ieri mattina quando Renzi davanti ai sindacati
metalmeccanici riuniti a palazzo Chigi per la vertenza Ast Terni ha ribadito la sua
preferenza per i sindacati aziendali: «Non vogliamo fare a meno del sindacato sulle
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trattative aziendali», lasciando intendere che continuerà invece ad avversare il sindacato
confederale.
Un passaggio non passato inosservato a Susanna Camusso. «Credo che il governo abbia
provato a ricostruire una verginità nel confronto con i lavoratori persa negli scontri — ha
spiegato Camusso — . Resta però il veleno del riconoscimento del sindacato solo quando
si occupa di una vertenza aziendale e non come interlocutore sui temi del lavoro».
Su questo punto ha poi approfondito l’analisi in un’intervista al Tg3. «Noi siamo pronti a
discutere e a trovare soluzioni. È il governo che si fa scudo del non volere discutere con il
sindacato. C’è — ha sottolineato il segretario generale della Cgil — una tendenza della
discussione ad ignorare i contenuti della manifestazione del 25 ottobre, ad ignorare i
contenuti delle nostre proposte per ridurre tutto al dibattito tra i partiti o dentro un partito. Il
nostro obiettivo è avere politiche che creano lavorano, estendano i diritti e salvaguardino
quelli che ci sono». Per Camusso per trovare una soluzione all’attuale tensione
«basterebbe non continuare a dire che con il sindacato non si discute».
Nella sua replica conclusiva al Comitato centrale, Landini ha ribadito l’importanza della
manifestazione di sabato scorso a piazza San Giovanni, sottolineando «la dimostrazione
di autonomia della Cgil». In questo quadro «lo sciopero generale che abbiamo indetto è la
prima continuazione di quella mobilitazione».
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