the human software

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the human software
volume stampato in occasione di
il software umano
M. Pessione, R. Piaggio, G. Ricuperati............... 3
Scrittura e Architettura
intervista a
Rem Koolhaas.............................................. 5
Una disciplina sola non può affrontare
le sfide del presente
TheHuman
Software
TORINO
27 settembre 2012 Museo Regionale di Scienze Naturali
via G. Giolitti 36
Jazz Club Torino
via G. Giolitti 30
Produzione culturale e imprese
Evento organizzato
dalla Società Consortile OGR - CRT
nell’ambito della Social Media Week 2012
e del progetto europeo CCAlps
Abbiamo una mèta
PROGRAMMA:
La forma architettonica
di un hub delle culture contemporanee
L’Opera quasi Totale
Nuove narrazioni fra tecnologia,
arte e architettura
CON
Ute Meta Bauer................................................................ 9
Matteo Pessione............................................................ 11
Riccardo Piaggio.......................................................... 13
Joseph Grima.................................................................. 15
Multidisciplinare,
Culturale, Commerciale
Carlo Antonelli............................................................ 17
Il tempio della sinestesia
Marco Rainò.................................................................... 19
l’esperienza interdisciplinare
di minimum fax
Daniele di Gennaro..................................................... 21
L’uomo è multidisciplinare
Alberto Pagliarino...................................................... 23
Ute Meta Bauer, Joseph Grima,
Mafe De Baggis, Luca Mastrantonio
e Gianluigi Ricuperati
La produzione partecipata
Scenari e opportunità
tra industrie creative e consumatori
CON
Daniele di Gennaro, Carlo Cresto Dina,
Massimiliano Tarantino,
Alberto Pagliarino e Riccardo Piaggio
Per un hub della cultura
e dell’innovazione a Torino
CON
Altri saperi, altri giornali
Massimo Lapucci, Roberto Moriondo
e Matteo Pessione
Menti selvagge proprio sotto casa
Esiste il Software Umano?
CON
Luca Mastrantonio........................................................ 25
Gianluigi Ricuperati.................................................. 27
I giovani d’oggi (e di domani)
non hanno più discipline
Max Casacci.................................................................... 29
PARLARE PERCHÈ ASCOLTINO
ASCOLTARE PERCHè PARLINO
Carlo Cresto-Dina........................................................ 31
1
Carlo Antonelli
Performance
Il tempo è un bastardo
A visit from the goon squad
CON
Licia Maglietta, Max Casacci,
Vaghe Stelle, Jennifer Egan
e Peter Saville
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the human software
il
software
umano
Matteo
Pessione
Riccardo
Piaggio
Gianluigi
Ricuperati
Perchè vogliamo immaginare un hub dell’innovazione e
della conoscenza multidisciplinare?
Perchè crediamo che sia giusto e conveniente - giusto da
tutti i punti di vista e conveniente da tutti i punti di vista
- puntare sulla qualità delle persone migliori, sulla qualità
delle idee migliori, e dare loro forza, e farle crescere. Il
software umano è l’unico programma che va perseguito
prima degli altri, e a sostegno di qualsiasi altro.
Perché vogliamo un luogo di altissima qualità e massima
permeabilità sociale e intellettuale, capace di diventare
un’antenna locale, italiana, ed internazionale. E la vogliamo
nel segno della piena sostenibilità economica, dell’apertura
al mercato e nel contempo della totale devozione al vero
fulcro del nostro progetto: la compenetrazione totale dei
linguaggi.
Perché non esiste un’istituzione culturale del genere al
mondo.
Perché il nostro paese, e la nostra città in particolare,
ha necessità di scommettere tutto sui processi della
conoscenza – come motore di rigenerazione sociale,
spirituale ed economica.
Perché per vincere le scommesse di un tempo complesso
è necessario inventare nuovi formati per la produzione di
conoscenza.
Immaginate questo piccolo libro come un programma di
sala per una giornata di produzione di conoscenza pubblica.
3
Un quaderno di lavoro nel quale alcune tra le menti più
interessanti del paese - e non solo - immaginano un nuovo
modo di costruire e sostenere il dialogo tra le discipline,
che è già in questo momento lo stemma che presiede ai
tentativi più seri di rendere conto di un frangente storico
difficilissimo ed eccitante.
Ci sono visioni, ragionamenti, proposte, racconti, punti
di vista - tutto quel che serve a realizzare un progetto che
soddisfi le esigenze del vecchio acronimo pensato tanti
anni fa da Raymond Loewy: m.a.y.a., most advanced yet
accessible. Ossia - estremamente avanzato, completamente
accessibile. Buona lettura.
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the human software
the human software
Scrittura e
Architettura
Intervista a
Rem Koolhaas
Gianluigi
Ricuperati
di
Una conversazione
con Rem Koolhaas
su due discipline
a confronto
Cagliari
maggio 2007
I primi passi di Rem Koolhaas verso la scrittura sono
legati al giornalismo. Credo che scrivere sui giornali
per una persona curiosa di tutto costituisca un piacere
e una dannazione allo stesso tempo, perché se da un lato
il giornalismo è il mestiere per eccellenza delle persone
curiose, dall’altro i giornali tendono a rivolgersi a fasce di
pubblico molto specifiche. E uno scrittore curioso di tutto
ha bisogno di lettori curiosi di tutto. A lei piaceva scrivere
sui giornali?
R.K.: Quando ho iniziato, negli anni Sessanta, non
c’erano vere e proprie regole professionali nel giornalismo;
chiunque poteva farlo, soprattutto in Olanda, dove vivevo
e facevo parte di una sorta di “collettivo”, più che di un
giornale, che però ha funzionato come trampolino di lancio
per un gran numero di scrittori, poeti e anche pittori della
nostra generazione. Era una situazione piuttosto insolita
perché il caporedattore era una donna, una persona di
destra molto irascibile ma anche molto spiritosa, che
credeva di essere un capitano d’industria, e che però
riusciva a garantire ai suoi autori la massima libertà. Potevo
fare quello che volevo e visto che mi interessava il cinema
avevo deciso di intervistare Fellini e altri registi italiani,
ma anche alcuni architetti come Le Corbusier e Constant.
L’unica cosa che il nostro caporedattore pretendeva era che
gli articoli non fossero firmati, un’esperienza fondamentale
5
per la mia scrittura, di cui ancora sento nostalgia. Infatti,
successivamente, ricordo di aver scritto Delirious New York
quasi come un ghostwriter con una sorta di voce anonima
che apprezzavo moltissimo. Tuttavia dopo un po’ di tempo
lei mi chiese di occuparmi anche del layout della rivista,
quindi di curare sia i contenuti sia la parte estetica, e
credo sia stata questa combinazione a suggerirmi l’idea di
connettere fra loro arte, scrittura e architettura.
Ho spesso avuto l’impressione, confortata da ciò che mi
ha appena detto a proposito del ghostwriter, che nella sua
scrittura manchi uno dei grandi luoghi comuni nelle scuole
di scrittura, oltre che un elemento ricorrente in molte
teorie narratologiche: il punto di vista. Questo ovviamente
non è una critica, quanto piuttosto il riconoscimento
di una peculiarità, come se la voce narrante Koolhaas,
anziché scrivere, venisse scritta. Ecco perché mi viene da
chiedere: quando un architetto concepisce uno spazio o un
paesaggio, pensa al problema del “punto di vista”?
R.K.: Uno degli aspetti più piacevoli del mio lavoro è la
possibilità di operare in due discipline diverse. Chi scrive
può scegliere fra una vasta gamma di generi letterari, a
differenza di quanto avviene in architettura dove non c’è
la stessa ricchezza di repertorio, o per meglio dire c’è, ma
non ci si rende conto di averla. Il mio coinvolgimento con
la letteratura è dovuto al fatto che posso assumere identità
diverse, e chiunque abbia un background letterario sarà in
grado di comprendere che se scrivo Junkspace non sono
volutamente la stessa persona che scrive, per esempio, di
Singapore. In architettura invece la reazione tipica potrebbe
essere: è cambiato, non lo riconosco più. Credo però che, per
trasmettere un messaggio con il maggior impatto possibile,
la possibilità di scegliere voci differenti sia una libertà
preziosa.
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Ho la sensazione che in alcuni dei suoi scritti Rem
Kolhaas sia il ghostwriter di una moltitudine, e che
questa moltitudine coincida con una sorta di sistema di
interconnessioni nervose dell’identità contemporanea, di
una contemporaneità allargata, che sfuma già nella Storia.
Ha anche lei ha la stessa sensazione?
R.K.: È una faccenda complicata, e naturalmente ha a
che fare con la scrittura e con l’architettura. Prima di
cominciare a lavorare su New York mi sono reso conto che
in architettura esiste sì l’anonimato, ma l’architettura a cui
siamo interessati come collettività non è un’architettura
anonima, e quindi in un certo senso è legata all’avanguardia.
Negli anni Settanta, quando cominciai a farmi un’idea di
cosa fosse l’architettura, ancora prima di cominciare a
studiarla davvero capii che ciò che realmente contava, in
architettura, era la storia delle avanguardie in Germania, in
Russia, in misura inferiore in Olanda, in Francia, persino
in Cina: il paese dove esse parevano del tutto inesistenti
era l’America. Mi sembrava inoltre evidente che i momenti
cruciali dell’architettura moderna si fossero tradotti sia
in edifici sia in manifesti scritti da menti geniali. L’idea
del libro su New York era una specie di formula letteraria
in cui in retrospettiva fornivo le prove di un movimento
artistico che a mio parere non è meno importante di quello
delle avanguardie. Nel corso di un intenso lavoro scoprii
che c’erano state, per esempio, relazioni segrete fra le
avanguardie sovietiche e americane. In un certo senso
quindi l’idea era che il mio non fosse un manifesto, ma un
costrutto letterario.
Ripeto, non era inteso come scritto sull’architettura,
ma piuttosto come una sorta di formula letteraria che
permettesse manipolazioni.
Uno dei generi che hai praticato è la sceneggiatura
cinematografica, e so che negli anni Settanta lei si è
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cimentato con questo tipo di scrittura. Può raccontarci
com’è andata?
Ho cominciato a studiare a 26 anni, frequentavo una
scuola molto costosa e dovevo guadagnarmi da vivere.
Avevo un amico che faceva il regista, così iniziammo a
scrivere sceneggiature. Il nostro primo lavoro si intitolava
“White slave” ed è stato influenzato da Werner Fassbinder,
i cui film sono molto interessanti perché trattano di temi
quali la colpa, il piacere, il dramma, la storia, senza che lo
spettatore ne percepisca l’estrema serietà. Anche il nostro
era un melodramma sull’idealismo il cui protagonista
principale era un tedesco buono. Quando lo facemmo, nel
1972, l’Olanda era molto reazionaria per quanto riguardava
il perdono ai tedeschi e il film fu fonte di controversie così
aspre che il regista dovette abbandonare il paese – io me ne
ero già andato – e diventammo entrambi persona non grata.
Il secondo film che scrivemmo, e che non fu mai realizzato,
era per un regista americano, Russ Meyer, anch’egli autore
di melodrammi e di film considerati allora pornografici.
Fu scritto nel 1974, all’epoca della scoperta degli enormi
giacimenti di petrolio in Medio Oriente, e per me continua
ad avere una struttura molto interessante, perché si
componeva di tre storie diverse.
Rem Koolhaas
Architetto olandese, ha
progettato con il suo
studio OMA alcuni degli
edifici più importanti
degli ultimi vent’anni,
tra i quali la sede della
televisione cinese CCTV
8
a Pechino; ha pubblicato
alcuni saggi seminali come
Delirious New York (1977),
ed è considerato uno dei
pensatori più rilevanti
sui temi della condizione
urbana. Vive tra Rotterdam
e Londra.
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Una disciplina
sola non può
affrontare
le sfide
del presente
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C’è una domanda che ci si pone frequentemente in ambiente
universitario, ma anche in tanti altri: come sfruttare e
utilizzare le nuove forme di produzione e di distribuzione
di informazione e di conoscenza, in modo efficace e solido,
e duraturo. In altre parole, come sfruttare le nuove reti
sociali per produrre conoscenza. La domanda è anche quale
approccio seguire per armonizzare il dialogo di tutti i settori
delle discipline culturali, come possiamo collaborare, come
possiamo trovare accordi ma anche come possiamo essere
in disaccordo per vivere in modo proficuo questa nuova
dimensione sociale.
Io, prima di diventare dean al Royal College of Art di
Londra ho lavorato per anni al MIT di Boston e ho potuto
assistere personalmente alla nascita di moltissime nuove
discipline, la biochimica, le neuroscienze, sappiamo che
oggi i problemi e le sfide non possono essere affrontati da
una disciplina da sola. Pensiamo al fatto dell’architettura,
se si parla di eco sostenibilità l’architettura deve
necessariamente collaborare con l’ingegneria perché una
disciplina sola non può affrontare le sfide del presente.
Ed ecco perché è giusto creare uno spazio in cui ci possa
essere una contaminazione tra diverse aree del pensiero.
Al MIT di Boston si dà e si è sempre data molta importanza
ai giovani, gli si aiuta a compiere i primi passi, ad
avvicinarsi al mondo della produzione, a fornire ai giovani
le infrastrutture e gli strumenti per passare dal mondo
accademico al mondo poi della produzione.
Immaginare istituzioni che esplorino il dialogo tra le
discipline significa prima di tutto non replicare esperienze
già fatte, a qualsiasi latitudine - bensì generarne di nuove,
costruire esempi che possano essere di ispirazione per i
propri contemporanei e per i posteri.
Le nostre stesse biografie dimostrano il cambiamento
che è avvenuto nel mondo delle idee e delle professioni
intellettuali negli ultimi vent’anni. Io ho iniziato studiando
design, poi sono stata curatrice e adesso sono insegnante
universitaria. Quindi la biografia non è più una linea
continua come poteva essere nel passato ma è invece una
dimensione molto più completa e complicata e lo sarà
sempre di più per le generazioni future.
Ecco perché abbiamo veramente bisogno di un intenso
dialogo tra discipline, di questo scambio, che sia uno spazio
sperimentale, uno spazio che sia, come dicevamo, un
laboratorio in cui le persone si possono incontrare e ci può
essere una impollinazione, una in contaminazione reciproca
di idee.
Ute Meta Bauer
Tedesca, ha co-diretto
nel 2002 Documenta,
l’appuntamento centrale
dell’agenda dell’arte
contemporanea globale, e
ha insegnato per diversi
anni al M.I.T. di Boston.
Ute
Meta
Bauer
9
10
Da settembre è preside del
Royal College of Arts di
Londra, dove vive. Ha curato
decine di mostre e suoi
scritti sono apparsi in
cataloghi e riviste in tutto
il mondo.
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Produzione
culturale
e imprese
Matteo
Pessione
I network
multidisciplinari
per l’innovazione
e la crescita
economica europea
In una fase di perdurante crisi dell’economica e dei modelli
che finora ne hanno indirizzato le politiche, diventa
fondamentale individuare percorsi di innovazione creativa e
tecnologica di un territorio.
Le industrie culturali rappresentano uno degli asset più
interessanti per favorire una crescita sostenibile che generi
trasformazioni di ordine sociale e culturale. In questa
ottica, la creazione di un hub della cultura, in grado di
connettere le imprese, le comunità di creativi locali e
internazionali e le più innovative competenze nell’ambito
delle nuove tecnologie, diventerebbe leva per valorizzare e
rafforzare l’attrattività di un territorio, la sua identità, il suo
“software umano”. La prospettiva è quella della creazione
di valore economico e sociale.
Anche la Commissione Europea ha recentemente
riconosciuto l’importanza dei settori culturale e creativo
ponendoli tra gli obiettivi prioritari della strategia “Europa
2020”. Nel libro verde “Le industrie culturali e creative, un
potenziale da sfruttare” l’Europa invita gli stati membri a:
potenziare le sinergie verticali e orizzontali tra il settore
culturale e gli altri settori nonché i partenariati tra soggetti
interessati, pubblici e privati; favorire la creazione di
incubatori di imprese nel settore culturale e creativo
a livello locale e regionale, rafforzando in tal modo
l’imprenditorialità; vagliare soluzioni per promuovere
nuovi modelli d’impresa e consolidare i raggruppamenti di
11
attività creative e i centri di ricerca delle imprese sfruttando
le opportunità offerte dall’applicazione e dall’utilizzo delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
È evidente l’importanza attribuita alla capacità di creare
connessioni e reti tra le imprese culturali e gli altri settori
dell’economia, supportando, in particolare, la fase di ricerca
e sviluppo: una delle aree più critiche per le piccole e medie
imprese italiane, spesso caratterizzate da risorse inadeguate
a sostenere i processi di innovazione del prodotto. Diviene
quindi essenziale dotarsi di strumenti e competenze
funzionali alla creazione di una piattaforma dedicata alle
imprese culturali e alle industrie creative. Un hub capace
di garantire un approccio progettuale condiviso secondo
quelle dinamiche bottom up che stanno rivoluzionando
i processi creativi e i sistemi di raccolta delle risorse
economiche da parte dei produttori e delle imprese. Si pensi
alla rivoluzione avviata dalle piattaforme di crowd funding
tra cui Kickstarter. Piattaforma web internazionale che nel
2011 ha raccolto dalla sua community la strabiliante cifra
di 99 milioni di dollari per il finanziamento di progetti nei
principali settori culturali: cinema (32 mln), musica (19
mln), design e architettura (9 mln), editoria e letteratura (5
mln), performing art (4 mln).
Non a caso, gli stessi ambiti disciplinari nei quali potrebbe
operare l’hub torinese della creatività a cui stiamo
lavorando!
Matteo pessione
Lavora per la Fondazione CRT
come coordinatore progetti
di Venture Philanthropy. È
Vice Direttore della Società
Consortile OGR – CRT.
Docente di Management
e Marketing delle
12
Attività Culturali presso
l’Università di Torino e
tiene corsi e seminari
presso la IULM di Milano.
Ha collaborato con Alessi
Spa e altre realtà del mondo
del design italiano.
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Abbiamo
una
Mèta
Riccardo
Piaggio
Cosa significa parlare di conoscenza e non semplicemente
di creatività, nel contesto della progettazione culturale
e delle agorà della cultura? Significa cercare un ritorno
a casa dell’idea di artigiano (colui che produce cultura)
su quella di artista (colui che «crea»), ricucendo quella
frattura, avvenuta con la modernità, tra arte e artigianato,
tra arte e vita. E guadagnare una visione multidisciplinare,
interdisciplinare e metadisciplinare della cultura (delle
culture) e della creatività. È la «speranza progettuale», una
dimensione tutt’altro che compiuta, in cui le persone e i
sistemi progettano continuamente cultura in relazione.
È l’homo faber che si contrappone all’animal laborans.
Faber e metadisciplinare. Dove il prefisso meta (μετά) già
dice molto, l’andare al di là, l’essere insieme. Proviamo ad
applicare questa parola, metadisciplinarità, alla missione
di un polo culturale, di un museo, di un’agorà della cultura,
della creatività e della conoscenza: andare al di là, significa
avere una visione, innovare, prendere ciò che esiste non per
produrre una somma, ma per immaginare una nuova unità.
Questo con i linguaggi creativi (la musica, il teatro, la
fotografia, l’audiovisivo), con le discipline della conoscenza
(dalla letteratura, alla filosofia, alle scienze), dentro
ciascun linguaggio e disciplina e tra l’uno e gli altri.
Con una visione insieme poetica ed estetica, oltre che
necessariamente etica e sociale. A questo serve un’agorà
13
della cultura, della conoscenza e della creatività: a essere
uomini e cittadini liberi e consapevoli. Perché questo
concetto aperto non resti né vuoto né astratto, è però
necessario che si passi da una visione «contemplativa»
dell’arte ad una produttiva della cultura. È necessario un
processo che rompa le degenerazioni dovute a quelle che
Edward Said definisce «le ortodossie dei campi separati»,
vale a dire quell’atteggiamento, piuttosto comune, che
porta a specializzazioni nei campi più diversi della
cultura, dell’arte e della scienza, e che impedisce uno
sguardo aperto, autenticamente interrogativo e dunque
profondamente libero, sulla realtà. Un polo di produzione
culturale metadisciplinare, per usare una metafora che
assuma la prospettiva dei network cosiddetti 2.0, dovrebbe
essere simile a Linux, piuttosto che a Windows, un sistema
aperto e «orizzontale», open source e pubblico, un bazar
in una piazza viva, per usare le parole del sociologo
Richard Sennett, in cui ciascuno decide cosa vendere e
cosa comprare, se barattarla o farsi pagare, se costruirla o
coltivarla o commissionarla ad altri.
C’è bisogno bisogno di una Casa (un centro “sociale”, anche
immateriale) abitata da produttori di cultura che, prima che
project manager, siano demiurghi visionari e appassionati,
con una meta preziosa da guadagnare.
Riccardo Piaggio
Giornalista culturale,
ricercatore e curatore di
eventi culturali, collabora
con il Domenicale de «Il
Sole 24 Ore» e «Wired
Italia». Ha pubblicato saggi
per il Melangolo, il Mulino
e Marsilio. Ha ideato e
diretto Festival ed eventi
14
(Babel, Festival della
parola), curato produzioni
musicali e culturali. È
consulente Autogrill SpA
per i progetti innovativi.
È ricercatore presso il
Centro Studi CSS-EBLA di
Torino. Ha condotto attività
di ricerca per il Progetto
OGR.
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Joseph
Grima
La forma
architettonica
di un hub
delle culture
contemporanee
Per me è inevitabile chiedersi che forma architettonica
potrebbe avere un hub della cultura e dell’innovazione
dedicata all’esplorazione del dialogo tra discipline
diverse. E altrettanto interessante, nel quadro culturale
contemporaneo, sarebbe pensare a una specie di
piattaforma privilegiata che in qualche maniera funga da
trampolino di lancio per iniziative proposte da giovani, o da
persone che magari hanno idee ma che non trovano spazio
per la realizzazione in altri luoghi e altrove non riescono
a incontrare una dimensione di investimento finanziario.
Un hub del genere potrebbe avere scopi di sperimentazione
scientifica, teatrale, musicale, letteraria, estendersi in tutti
gli ambiti.Per essere più precisi, si potrebbe immaginare
una sorta di laboratorio aperto, declinato fisicamente in uno
spazio costituito da una serie di container, tanti volumi che
diventino sede per programmi culturali anche molto diversi
tra di loro e che possono essere influenzati l’uno dall’altro
attraverso lo scambio di idee e prospettive differenti. Ciò
potrebbe essere veramente il seme che riesce a condurre
alla realizzazione di un grande progetto culturale e sociale a
lungo termine, indipendentemente dall’istituzione stessa.
In realtà questa non è un’idea nuova. È esattamente
l’ambizione che spingeva l’architetto inglese Cedric Price,
che a metà anni Sessanta aveva progettato il Fun Palace,
ovvero una struttura che sostanzialmente possedeva
15
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l’estetica di una piattaforma petrolifera.
E in qualche maniera funzionava davvero così, visto che era
un laboratorio di estrazione di materiali culturali grezzi:
proprio le idee. La cosa singolare è che non è mai stato
realizzato, anche se come sappiamo certe istituzioni come
il Beaubourg a Parigi hanno acquisito dall’eredità del Fun
Palace la propria forma e identità fisica.
Ma ciò che tutti gli altri spazi non sono riusciti a fare è
stato appunto realizzare un’istituzione colonizzabile, non
unicamente dagli artisti (tipo residenza), e nemmeno
soltanto dal pubblico, come nel modello classico del
museo o dell’istituzione culturale - ma entrambe le cose,
contemporaneamente.
Un’idea che è emersa più volte pensando a un hub delle
culture contemporanee, è quella di creare non tanto una
forma architettonica precisa che in qualche modo determina
i suoi contenuti; ma piuttosto di assemblare un kit, una
serie di dispositivi spaziali che possono essere combinati e
ricombinati attraverso una serie di forme architettoniche
mutevoli nel tempo. Quindi un progetto architettonico
non necessariamente prescrittivo ma capace di adattarsi,
qualcosa che si plasma seguendo le visioni molto forti di chi
è di volta in volta a capo di questo spazio.
Credo davvero che un’istituzione del genere possa e
debba prendersi dei rischi, essendo una piattaforma per
la produzione di idee – la merce più scarsa, a qualunque
latitudine.
Quando si pensa all’impatto internazionale, ecco che la
caratura unica di un’istituzione del genere si presenta in
tutta la sua forza.
Joseph Grima
Dopo aver conseguito il
dottorato a Londra, ha
diretto per anni Storefront
for Art & Architecture di
16
New York, ora dirige il
mensile Domus. Ha pubblicato
saggi di architettura e
urbanistica. Vive a Milano.
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Multidisciplinare,
Culturale,
Commerciale
Carlo
Antonelli
testo scritto
in occasione
di un incontro
a Torino nel 2010
un luogo che
risuona idee fin
dal suo ingresso
Esiste un problema - ma anche un’opportunità - che riguarda
la parola “cultura”. Sarebbe troppo lungo discuterne in
questa sede, ma è importante pensare che se c’è una cosa
divertente del tempo presente è lo sbriciolarsi delle divisioni
tra campi culturali commerciali, tra campi industriali,
materici e immateriali, e tra la fruizione e la produzione.
Già Alvin Toffler scrisse più di vent’anni fa questo libro sul
prosumer, sul consumatore e il produttore, che però pochi
mettono in campo. Molti lo mettono in campo nell’economia
digitale ma pochi lo mettono in campo quando si tratta di
progettare uno spazio vero.
Nelle pratiche di progettazione culturale una questione
molto forte in questo momento si rifà direttamente a un
libro del 1959 di quel signore che si chiama Charles Snow,
intitolato “Le due culture”, nel quale l’autore afferma che
nel secolo scorso l’informazione scientifica correva a pari
passo con la conoscenza culturale. Tutti noi sapevamo
negli anni Settanta cos’erano i quanti e cose del genere. In
questo momento invece viviamo nella situazione speciale
in cui mentre la comunità scientifica conosce più o meno
tutto ciò che produce la comunità culturale, la comunità
culturale non ha un’idea di cosa produce la comunità
scientifica. Cioè è rimasta una nozione delle materie
scientifiche che più o meno è basata sulle scoperte del
dopoguerra. Quindi la conoscenza che nel Novecento si
era avvicinata nel campo scientifico e nel campo culturale
17
si sta riallontanando, quindi scopo di questo posto sarà
quello invece di riavvicinarlo ancora perché c’è molta più
intelligenza, questo è un mio personale parere, in questo
momento nell’avanzamento scientifico e tecnologico di quello
che non c’è in campo culturale. Quindi c’è la necessità di
riallineare paradossalmente la produzione culturale alla
supersonica progressione che sta accadendo in altri campi.
Quindi al centro dell’idea di cultura sarà l’idea di diffusione e
di informazione su ciò che si può fare e che è già consentito.
Questo ci consente di mettere in rete questo luogo con la
produzione diffusa di conoscenza che c’è anche sul terreno
torinese. Senza farsi troppi problemi su ciò che sono e che
erano le vecchie divisioni tra i campi.
Altra cosa riguarda la questione commerciale. Io sono
fermamente convinto che in questo momento non esiste
iniziativa commerciale che si possa definire di successo
senza che essa includa della forte intelligenza al suo interno.
È una situazione specialmente locale troppo darwiniana
nella quale la crisi ha impattato soprattutto in termini di
inventiva. In termini di capacità di pensare e in termini
di eccessiva restrizione dell’immaginazione, quindi è
fondamentale che non ci sia alcuna divisione di saperi. Le
due culture non sono solo la cultura scientifica e la cultura
così detta umanistica ma anche la cultura commerciale e
la cultura intesa come un campo di kindergarten, dove gli
adulti sono come dei bambini e si divertono a fare delle cose
che poi non producono denaro.
Se riusciremo a concepire un luogo che risuona idee fin dal
suo ingresso forse riusciremo ad ottenere un luogo davvero
unico in Italia o nel mondo e che quindi possa risultare da
esempio per istituzioni di questo genere anche da altre parti.
CARLO ANTONELLI
Ha lavorato per la Sugar di
Caterina Caselli, fondato
e diretto l’edizione
italiana del mensile Rolling
Stone, co-prodotto il film
18
pluripremiato ‘Io sono
l’Amore’ di Luca Guadagnino.
Ha pubblicato diversi saggi.
È direttore del mensile
Wired, e vive tra Roma e
Milano.
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Il tempio
della sinestesia
Marco
Rainò
Viviamo un’epoca pervasivamente transdisciplinare, in
cui l’ibridazione di competenze o la miscela di stimoli
provenienti da distinti ambiti del sapere produce
spesso meraviglie inattese o, in alternativa, nuovi
“oggetti” d’interesse ottenuti per amalgama di reagenti
apparentemente insolubili.
Prendiamo ad esempio un numero recente del magazine
Wallpaper, un “servizio moda” tanto tradizionale quanto
visivamente anomalo.
La scelta dei vestiti presentati nel reportage - realizzata
dalla stylist Ursula Geisselmann - è il punto di innesco per
una collaborazione sperimentale che coinvolge l’artista
audiovisivo Carsten Nicolai e il fotografo Armin Linke,
“complici” in un tentativo di esplorazione che non si limita
a rappresentare per immagini le architetture di stoffa
indossate dalla modella, ma intende interpretarle attraverso
una modalità di “decodifica” specifica e originale.
Nicolai e Linke realizzano il progetto per il servizio con
l’ausilio dell’ANS, un esoterico sintetizzatore fotoelettrico
di grandi dimensioni, un solido di metallo scuro inventato
nel 1938 dall’ingegnere sovietico Eugeny Murzin e ora
custodito, in unico esemplare, presso il Glinka Museum of
Musical Culture di Mosca. La macchina - il cui nome deriva
dalla composizione delle iniziali del compositore
Alexander Nikolayevich Scriabin - produce suoni senza
19
essere uno strumento musicale e senza l’ausilio di un
esecutore. La musica, limpida, enigmatica e dai timbri
siderali, viene generata in modo autonomo e automatico
dalla lettura di un’immagine, perché il sintetizzatore ottico
trasforma in suono ciò che si disegna su una lastra resa
opaca da un velo di mastice nero o, al contrario, produce
sulla medesima lastra una rappresentazione visibile di
un’onda sonora.
Il dispositivo trasforma strutture grafiche in strutture
sonore - e viceversa - sfruttando il metodo del suono
foto-ottico utilizzato in cinematografia, in cui una traccia
impressa su pellicola viene colpita da un fascio di luce e, in
ragione della diversa intensità luminosa dalla quale si lascia
attraversare, genera una corrente elettrica che una volta
amplificata produce un tono.
I pattern dei diversi tessuti, le geometrie dei singoli vestiti,
prima fotografati e poi “somministrati” all’ANS da Nicolai
e Linke, sono diventati musica e luce. Il minuto traforo a
piccoli triangoli di una gonna di Calvin Klein; la ripetizione
di un decoro floreale su una camicetta di Gucci; il decor
reticolare su un cappotto di Alexander McQueen; tutti segni
trasformati in stimoli uditivi o nella proiezione, bianca e
luminosissima, del corrispondente spettro grafico dell’onda
sonora.
I suoni raccontano una piccola storia che parla dell’ingegno
umano e accendono nuovi fuochi di conoscenza, offrendo
stimoli per ulteriori ricerche. Dando l’occasione - ad
esempio - di scoprire che Eduard Artemiev, nel 1972,
impiega il medesimo sintetizzatore ANS per realizzare
la meravigliosa, visionaria colonna sonora del Solaris di
Andrei Tarkovsky. Ma questa è un’altra storia.
marco rainò
Nato a Torino nel 1970,
è architetto, designer e
art director. Fondatore insieme a Barbara Brondi dello studio BRH+, affianca
20
all’attività di progettista
l’impegno come critico e
curatore, occupandosi di
architettura di ricerca e
design sperimentale.
the human software
the human software
l’esperienza
interdisciplinare
di minimum fax
Daniele
di Gennaro
All’inizio dell’esperienza di minimum fax, (1992), cambia
il concetto stesso di editoria. I fruitori “si fanno sentire”
prima via fax, poi sul web, flussi di informazioni e di
indicazioni preziose si muovono in senso inverso: non è più
l’editore a somministrare dall’alto verso il basso una cultura
“necessaria” volta a rimediare al peccato originale del non
sapere ancora. Il mestiere dell’editore diventa sempre più
una mediazione di sensibilità, un atto di ascolto e selezione,
di incontro e di vera relazione fra le persone.
A questa prima situazione di inevitabile apertura ne succede
un’altra. Lo stesso contenuto della ricerca editoriale si può
sviluppare e può prendere vita su diversi piani linguistici
e formati: un’inchiesta giornalistica testuale, un romanzo
o un libro di poesie possono dare vita a uno spettacolo
teatrale, un documentario, un abbinamento editoriale libro
più homevideo, a un adattamento per un lungometraggio o
a puntate di serial fiction. E ognuno di questi processi può
essere raccontato in un progetto didattico di formazione per
l’ulteriore racconto dei mestieri della cultura e dei metodi
della sua comunicazione. Ognuna di queste attività diffonde
in altri ambiti di risonanza il medesimo contenuto e dallo
stesso genera altri valori economici.
La ricerca editoriale inizia quindi a ragionare
essenzialmente in termini di contenuto: l’orologeria
produttiva di libri, teatro, audiovisivo, formazione,
21
dipende dalla stessa serie di attenzioni. Ricerca di
linguaggi innovativi, cura dei processi produttivi e dei loro
dettagli, cura degli standard qualitativi: quindi identità e
riconoscibilità che generano mercato, domanda e stimolo
alla concorrenza.
Mentre gli artisti non sono quindi più monomaniaci
verticali di una sola arte ma subiscono l’influenza di più
generi linguistici, la multidisciplinarità si impone non
come un’addizione asettica di linguaggi, ma un movimento
di arti e attitudini che dialogano integrandosi fra di loro
e generando nuove formule con piena identità e dignità di
genere. Il concetto di creazione artistica aumenta quindi
il suo senso trasformativo, dove i debiti intellettuali e
artistici sono rintracciabili non solo all’interno di una sola
disciplina.
In tante città del mondo il ricupero di spazi post industriali
ha generato dei varchi sociali dove le persone vivono
quotidianamente questo virtuoso ed esteso fenomeno
dialogico. Creare le condizioni perché questi spazi si
moltiplichino generando sul piano culturale qualità di
scambio sociale e sostenibilità economica è la risposta più
efficace in un periodo economico e psicologico come quello
attuale, in cui l’esperienza dell’incertezza fa sì che le città e
i loro settori di produzione culturale tendano al contrario a
chiudersi.
Daniele di Gennaro
Nato a Roma nel 1967, ha
fondato nel 1994 la casa
editrice Minimum Fax,
e a seguire le unità di
produzione audiovisiva
Minimum Fax Media e
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teatrale Minimum Fax
Live. È docente presso
l’Università la Sapienza di
Roma nel Master in Editoria,
Giornalismo e Management
Culturale.
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L’uomo è
multidisciplinare
Alberto
Pagliarino
Non è tanto l’arte o la produzione culturale in genere a
essere interdisciplinare. È l’uomo a esserlo. E lo è perché
è l’unico modo che ha per fare esperienza del mondo che
lo circonda e per comprenderlo: un mondo complesso,
difficile e meraviglioso. Allora pensare a un evento culturale
in termini monolinguistici (solo musica, solo danza, solo
parola, ecc.) significa offrire a chi partecipa un’esperienza
che lo farà sentire segmentato. Un accadimento culturale
interdisciplinare considera invece l’uomo nella sua
totalità, come un essere che gusta, che ascolta e vede, che
ha intelletto, che ha pancia e ha cuore. Una produzione
culturale che mi considera come essere capace di tutte
queste possibilità di esistenza contemporaneamente mi dà
la possibilità di una esperienza più piena.
È il caso del Teatro di Comunità dove l’organizzazione
di un grande evento culturale offre a chi partecipa la
possibilità di muoversi all’interno delle proprie abilità
umane – le relazioni sociali e rituali, le declinazioni
dell’intelletto, il movimento e la percezione dello spazio e
del tempo attraverso i cinque sensi - ed è in questo potersi
spostare dall’una all’altra che si può produrre un livello
di esperienza interamente interdisciplinare. Un evento
culturale totale è quello in grado di far vivere a chi partecipa
una comprensione del mondo attraverso la declinazione
armonica e integrata di diversi linguaggi. Fare esperienza:
23
mettere in moto i diversi livelli con cui l’uomo può
percepire, comprendere, vivere.
Immergendosi nella drammaturgia dell’evento, ad esempio,
si potrà ascoltare un attore che racconta una storia di vita
vissuta, il pubblico attraverserà i luoghi in cui quelle storie
hanno preso vita, si sentirà una musica in sintonia con le
emozioni e i sentimenti che la drammaturgia dell’evento
vuole toccare nel far fare una precisa esperienza allo
spettatore. Gli spazi verranno trasformati attraverso
installazioni scenografiche in sintonia con le parole
ascoltate, le sensazioni percepite e i silenzi. Potrà accadere
che da un vecchio muro scrostato fioriscano rami carichi
di gemme e fiori, che uno spazio venga trasformato da un
gioco di specchi, che vengano offerti a chi ascolta cibo e
bevande scelti appositamente, che ci sia la possibilità per
chi partecipa di condividere le esperienze fatte attraverso
momenti rituali o addirittura di intervenire attivamente
nell’opera.
Secondo questa consapevolezza la domanda che ci muove
nell’organizzazione di un evento culturale interdisciplinare
non è tanto “cosa è” quell’evento – che porta con sé il
rischio di chiuderlo in una categoria piatta come spettacolo,
aperitivo, lettura, ecc. -, ma “cosa fa” e cioè come i diversi
linguaggi artistici, sociali e scientifici agiscano su chi è lì
presente. E lo trasformino.
Alla meraviglia del fare esperienza serve uno spazio
dedicato. Un luogo dove possano prendere forma e
incontrarsi linguaggi diversi. Uno spazio aperto a comunità
di spett-attori attive e partecipi e alla sperimentazione di
forme e di relazioni trasversali e di dispositivi culturali
innovativi.
Alberto Pagliarino
È docente di Teoria
e Tecniche del Teatro
Educativo e Sociale presso
l’Università di Torino. È
autore di eventi teatrali
24
e culturali. È Direttore
Artistico del progetto
europeo Caravan. Artists
on the Road di cui la
Fondazione CRT è capofila.
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Altri saperi,
altri giornali
Luca
Mastrantonio
Una delle cose più divertenti del suonare a quattro mani
il pianoforte è la convivenza in uno spazio ristretto di
note, spalla a spalla ci si divide le scale, toni e melodie,
accompagnamento, dovendo rispettare lo stesso tempo.
Difficile, e divertente, è fare da o avere il coautore. La
prima volta con una collega venezuelana, per raccontare in
maniera critica e documentata quello strano Caudillo pop di
Hugo Chavez. A parte la scrittura diretta di alcuni capitoli,
ho svolto il ruolo, sorprendente, del lettore implicito (l’ideale
destinatario, cioè un italiano che sa poco del caudillo
rispetto ad una venezuelana) divenuto autore esplicito
(autore di testi e committente di altri). Più editor che coautore. Per L’irrazionalpopolare, scritto con il critico d’arte
Francesco Bonami, abbiamo suonato a distanza.
L’idea del libro è venuta mentre si commissionavano i
pezzi per Il Riformista e l’abbiamo scritto a distanza, con
il fuso orario Italia-Usa, essendoci visti un paio di volte,
poche ore. Credo che questa dimensione non strettamente
individuale del mio lavoro derivi da quello che ho fatto
nei giornali, prima a Il Riformista e ora a La Lettura del
Corriere: un lavoro collettivo, crossover per quanto riguarda
i settori, nel tentativo di creare un open space mentale, una
Rete di collaboratori che crei una specie di intellettuale
collettivo. Per dire: seguendo i meccanismi dell’arte
contemporanea, la volatile ma seducente oscillazione delle
25
sue valutazioni, si comprende meglio tanto la Finanza
quanto il mondo dell’editoria odierno. Idem con la tv, che ha
fatto gli italiani, linguisticamente parlando. A non seguirla
ci si analfabetizza, ci si colloca al di fuori di narrazioni
globali come le fiction americane. I nuovi linguaggi amo
ibridarli con vecchie grammatiche o sintassi. Chiedendo
per esempio agli scrittori Errico Buonanno e Tommaso
Pincio di produrre testi sintetici e autonomi, un tot di tweet,
per narrare l’affondamento del Titanic e la bio di Marilyn
mettendoli online rispettando quasi il tempo di lettura.
Luca Mastrantonio
Nato a Milano nel 1979,
ha diretto le pagine
culturali del Riformista.
Ha collaborato con Radio
Città Futura, Radio24 e
26
RaiCinema. È arrivato al
Corriere della Sera nel
2011, per la progettazione
e realizzazione dell’inserto
La Lettura.
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Menti selvagge
proprio sotto casa
Gianluigi
Ricuperati
S’intitola The WIlderness. Downtown. L’ha girato Chris Milk.
Lo trovate all’indirizzo www.thewildernessdowntown.com.
La musica è degli Arcade Fire. La tecnologia è di Google.
Secondo me - e ragiono su queste cose da molti anni,
vivendo e lavorando sospeso tra mondi espressivi diversi
come la letteratura, l’arte, l’architettura – è un esempio
semplice, eccitante, efficace, di dialogo riuscito fra pensiero
sofisticato e urgenza pop, tensione emotiva e avventurosità
tecnologica: musica, video, arte digitale, gioco mentale,
gioco sentimentale.
La storia è questa: per la canzone We Used to Wait, uscita
nel 2011, anziché realizzare il video, la band di Montrèal uno dei gruppi rock di maggior successo critico e popolare
degli ultimi vent’anni - ha lavorato con gli ingegneri di
Mountain View per combinare l’esperienza di fruizione di
una canzone e del suo clip con l’esperienza di utilizzo di
Google Earth. La canzone parla di tante cose, ma tra le tante
parla di adolescenza, come la maggior parte dei testi rock:
l’invito è di digitare sulla mascherina l’indirizzo esatto del
luogo in cui si è cresciuti, in cui si è passati dall’infanzia alla
giovinezza: la casa in cui si è diventati grandi, insomma.
Dopo qualche istante, l’applicazione rumina dati, e a meno
che tu non abbia passato i tuoi tredici anni nello stretto
di Bering (ma ormai le fotocamere di Google arrivano nei
posti più inattesi), inizia una meravigliosa combinazione di
27
immagini in movimento che si allineano miracolosamente
alle fotografie zenitali del motore di ricerca. Il ragazzino
che corre è uguale per tutti. Il contesto in cui corre – grazie
all’abile sovrapposizione dei programmatori e del regista,
e alla naturale tendenza del cervello a dare unità di luogo
e di tempo a ciò che vede sullo schermo – è diverso per
ciascuno. La canzone è toccante. L’effetto è magnetico: mai
un video musicale è stato così personalizzato, talmente
personalizzato che sembra sia stato fatto per te – sembra
che la canzone sia stata scritta per te. E sembra che ciò
che si guarda, e si ascolta, le parole le note le immagini,
appartengano a un taglio di realtà che è stata per davvero.
Dura quattro minuti o poco più.
Provatelo.
Se siete sentimentali, avrete qualche ragione per provare a
piangere un po’.
Se siete rapiti dalle idee, avrete un’idea praticamente
perfetta: popolare, avanzata, di diamante.
Se siete interessati, come noi, alla conversazione furiosa tra
discipline, avrete la musica la narrazione visiva, la geografia
e la tecnologia, armonicamente vicine ad esplodere, per
esplorare qualcosa che vi tocca il cuore, e la mente – e dice
un paio di cose vere sull’essere umano.
Nel progetto che stiamo sognando, sarà pieno di persone
come Chris Milk.
Gianluigi Ricuperati
Scrittore, ha pubblicato
diversi saggi e romanzi.
Il suo prossimo romanzo
uscirà da Mondadori. Scrive
su Repubblica, IL, Il Sole
24 Ore - Domenicale, GQ,
Rolling Stone, Domus. Ha
collaborato come curatore
28
e consulente con musei,
festival, fondazioni
bancarie e altre istituzioni
italiane ed estere. Ha fatto
l’autore per Le Invasioni
Barbariche. Ha condotto
attività di ricerca per il
Progetto OGR.
the human software
Max
Casacci
I giovani d’oggi
(e di domani)
non hanno più
discipline
Mi capita spesso spesso di venire interrogato sul futuro
della musica, sulle possibili forme di fruizione divulgazione,
sostenibilità economica.
Ritengo sia difficile riferirsi alla musica prescindendo dalla
stessa, per considerarla unicamente un prodotto in cerca di
nuove collocazioni nello scenario incerto di questa epoca
Insomma è difficile se non impossibile tracciare una
previsione senza partire dalle caratteristiche dei nuovi
musicisti e dei futuri fruitori.
Alziamo lo sguardo dalle cifre e dai bilanci e osserviamo che
cosa succede nel mondo vero, quello dove la musica è una
necessità primaria che impregna le abitudini, modalità di
comunicazione tra i ragazzi.
Provate ad immaginare se nel passato gli adolescenti,
avessero avuto accesso quotidiano a apparecchi fotografici,
macchine da presa, moviole centraline di montaggio video,
studi di registrazione audio, strumenti musicali, sofisticati
programmi di eleborazione grafica, e canali diretti con tute
le principali realtà creative del pianeta. In tempo reale.
Provate, adesso, a pensare che è quello che sta succedendo in
questi anni.
I ragazzi oggi crescono con una quantità enorme di strumenti
espressivi, un tempo inaccessibili per costi tecniche di
apprendimento, a portata di mano. Con questi strumenti
familiarizzano giocandoci da quando sono bambini.
29
the human software
E tutte queste possibilità sono racchiuse nello schermo di un
personal computer, sul tavolo di una cameretta.
Provate ora a considerare che i nostri lap top, smar
phone, tablet, sono anche apparecchi dotati di canali che
potenzialmente consentono la divulgazione, promozione e
distribuzione e vendita, di opere creative.
Osservando le caratteristiche dei musicisti più giovani, la
loro propensione a non considerare al musica come un o
spazio finito e a sé stante, la loro disinvoltura nell’utilizzare
in parallelo linguaggi e tecniche espressive sovrapposte, non
credo di sbagliarmi affermando che siamo alle porte di un
potenziale i Rinascimento creativo.
Dove la musica , da sempre vettore primario di creatività
giovanile, sarà il nuovo perno per veicolare opere: visive,
narrative, interattive e chissà quant’altro. Abbiamo
quotidianamente nelle nostre tasche, dispositivi che
rappresentano ancora dei contenitori vuoti, in attesa di opere
che ne sappiano sfruttare tutte le potenzialità.
I musicisti di domani saranno costretti a essere artisti a tutto
tondo, non si limiteranno a scrivere e a eseguire canzoni o
temi musicali, ma saranno spinti a esprimersi con differenti
tecniche, cercando a 360 gradi il modo per sostenersi
attraverso la propria creatività.
Avranno inoltre la necessità di cercare attraverso le strade
del suono nuove forme di sostenibilità economica, saranno
costretti a sconfinare dal solco della tecnica strumentale, dai
modelli e dagli stereotipi precedenti.
E i nuovi ascoltatori, non saranno solo ascoltatori.
MAX CASACCI
Dopo un’iniziale esperienza
con gli Africa Unite, ha
fondato i Subsonica, uno
dei gruppi rock di maggior
successo di pubblico
30
e critica in Italia.
Ha scritto una canzone
registrata da Mina, ideato
e diretto festival musicali,
prodotto nuovi gruppi.
the human software
Carlo
Cresto-Dina
PARLARE
PERCHÈ ASCOLTINO
ASCOLTARE
PERCHè PARLINO
È un’impressione sempre più frequente e precisa.
Come se si fosse prodotta, si stesse producendo in
questi anni, una frattura nel mestiere di raccontare per
immagini. Guardando un film, o anche solo leggendo
una sceneggiatura, un progetto per un film, si sente
immediatamente: ci sono autori che sembrano essersi resi
conto di questa frattura, altri che sembrano essere restati
indietro. Ci sono opere che pertengono al tempo presente,
altre che magari sono infiocchettate di musica rap, parlano
slang più o meno moderni, o affrontano temi di bruciante
attualità, ma sembrano essere pensati per il-secolo-scorso.
Aver provato ad indagare questa frattura accomuna e
rende prezioso, a mio giudizio, il lavoro degli autori con
cui tempesta ha lavorato in questi anni, Alice Rohrwacher,
Leonardo Di Costanzo, Maurizio Braucci e gli altri.
Come se noi insieme, ciascuno progredendo per un pezzo
e poi condividendo, si stesse mettendo a punto un modo di
raccontare il presente e di renderne conto, si cominciasse a
capire questa frattura.
Sono “presenti” le opere e gli autori che concentrano le
loro energie non sull’espressione della loro sensibilità
individuale, più o meno dolente, ma quelli che sono capaci
di elaborare un percorso creativo, o meglio ancora un
processo generativo che determina il film. Alice Rohrwacher
ha sintetizzato scherzando “dopo la politique des auteurs e
31
the human software
la politica delle opere, è tempo della politica dei processi”.
Certi film sono diversi perché sono fatti in modo diverso.
E attenzione: non significa che gli autori non servano più,
al contrario. Solo che servono autori con un’altra energia!
Un talento unico e ardito è necessario per ideare, come ha
fatto Leonardo Di Costanzo, il complesso processo creativo
che ha generato quell’opera unica che è L’intervallo, un
talento lucido e robusto gli è servito per reggere nel tempo
questo processo e condurlo alla fine, sapendo mettere
insieme altri talenti come Maurizio Braucci e Mariangela
Barbanente che hanno scritto e riscritto per mesi, mentre
Antonio Calone e Alessandra Cutolo cercavano per strada i
ragazzi, organizzavano con loro, sera dopo sera, laboratori
di espressione e scrittura per riuscire a “tradurre” con loro i
testi e i significati del lavoro. Il risultato è nel film, e chi l’ha
visto sa di cosa parlo.
Lavorare sul processo creativo è accettare un atteggiamento
completamente nuovo, dove non ci si affanna più a
“parlare perché il nostro tempo ascolti” ma si cerca invece,
con fatica e umiltà, di imparare ad “ascoltare perché il
nostro tempo parli”.
Carlo Cresto-Dina
Ha fondato nel 2008 Tempesta
con cui ha prodotto Corpo
Celeste diretto da Alice
Rohrwacher (Cannes 2011,
Sundance 2011, Ingmar
Bergman Award for Best
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International Debut Feature
2011, Nastro d’Argento Opera
Prima 2011) e L’intervallo
diretto da Leonardo Di
Costanzo (Venezia 2012,
Toronto 2012, FIPRESCI Award
2012). Vive a Londra.