RAPPORTO FINALE aprile 2014 - Secondgen

RAPPORTO SECONDGEN
“SECONDGEN”: SECOND GENERATIONS:
MIGRATION PROCESSES AND MECHANISMS
OF INTEGRATION OF FOREIGNERS AND ITALIANS
(1950 – 2010)
Regione Piemonte - Bando Scienze umane e sociali
Settore: Scienze Sociali
PARTECIPANTI:
¾
Università degli Studi del Piemonte Orientale - Dipartimento di Ricerca
Sociale
¾
Università degli Studi di Torino - Dipartimento di studi Politici
¾
Università degli Studi di Torino - Dipartimento di Storia
¾
FIERI - Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’ Immigrazione
¾
Associazione Gruppo Abele ONLUS
RAPPORTO FINALE aprile 2014
L’interdisciplinarietà nei metodi e nella costruzione teorica è il tratto caratterizzante della ricerca
che si è sviluppata in un processo di integrazione e di interazione di competenze, saperi e
metodologie. Il lavoro dei vari partecipanti alla ricerca è così presentato nella sua reale unità.
Il presente rapporto intende illustrare i molteplici approcci e l’uso delle fonti quantitative e
qualitative che sono state fatte interagire con l’obiettivo di interpretare i dati quantitativi e di
chiarire i meccanismi sociali in gioco nei fenomeni migratori.
Si è voluto fornire al lettore sia un quadro delle varie operazioni svolte durante il lavoro di ricerca,
sia alcuni risultati selezionati. Questi ultimi sono esposti in modo sintetico, l’elenco delle
pubblicazioni rimanda alle esposizioni più complete.
In generale, nell’organizzazione del testo, la descrizione del lavoro svolto è separata dalla
presentazione dei risultati e si alterna con essa.
RAPPORTO SECONDGEN
INDICE
1. PERCHE’ STUDIARE LE MIGRAZIONI DEL PASSATO E DEL PRESENTE............................... 3
1.1 La specificità dei processi migratori........................................................................................................ 3
1.2. Oltre la prospettiva nazional culturale.................................................................................................... 5
1.3. Un approccio focalizzato sulle relazioni e sulle reti sociali ................................................................... 6
2. PERCORSI NELLA SCUOLA E NELL’AVVIAMENTO AL LAVORO ........................................... 9
2.1. Seconde generazioni delle migrazioni interne del passato .................................................................... 9
Il lavoro svolto........................................................................................................................................... 9
Alcuni risultati ......................................................................................................................................... 11
2.2. Seconde generazioni delle migrazioni internazionali contemporanee.................................................. 28
Il lavoro svolto......................................................................................................................................... 28
Alcuni risultati ......................................................................................................................................... 38
2.3. Analisi................................................................................................................................................... 61
Vie di radicamento e scelte di vita: migranti italiane e straniere a confronto - A.Badino ....................... 61
L’istruzione dei figli nei progetti delle famiglie immigrate. Elementi per una comparazione tra anni
Sessanta e oggi - F.Ramella .................................................................................................................... 78
Allievi stranieri nelle circoscrizioni torinesi - R.Ricucci......................................................................... 91
Ricette per il futuro: gli studenti di seconda generazione negli istituti alberghieri - E.Allasino ............. 96
Effetti d’origine nel sistema di istruzione piemontese - L.Donato ........................................................ 108
I consigli orientativi agli studenti di origine straniera. Un caso a parte? - M.Romito ........................... 114
Famiglie immigrate e interazioni con le scuole - M.Perino, E.Allasino................................................ 127
Le relazioni scuola-famiglia nelle rappresentazioni dei genitori migranti - A.Santero ......................... 138
Legami matrimoniali e di convivenza. Le pratiche transnazionali - C.Bergaglio, M.Perino, M.Eve ... 158
Discorsi sulle seconde generazioni in Italia e prospettiva identitaria nazional-culturale - M.Perino.... 175
3. GIOVANI, STRADE, QUARTIERI. OSSERVAZIONE ETNOGRAFICA E PARTECIPAZIONE
ALLE DINAMICHE DI GRUPPO............................................................................................................ 185
3.1. La ricostruzione della vita di quartiere dei figli di immigrati interni negli anni Settanta a Torino. ... 185
3.2. L’osservazione partecipante in un giardino pubblico di Torino: giovani non inseriti in circuiti
ricreativi, culturali, educativi e sportivi istituzionali e con percorsi di vita “devianti”. ............................ 186
3.3. L’osservazione partecipante e le interviste ai ragazzi incontrati attraverso attività educativa di
strada in un giardino pubblico di Torino. .................................................................................................. 187
3.4. Analisi................................................................................................................................................. 189
Giovani e vita di strada nella Torino della grande migrazione interna - D.Basile ................................ 189
Anatomia di un contesto “deviante”: reti e carriere di Fahmi e dei suoi amici - S.Caristia.................. 200
L’osservazione partecipante e le interviste ai ragazzi incontrati attraverso attività educativa di strada
in un giardino pubblico di Torino - S.Randino, F.Rascazzo, M.Reynaudo et al. .................................. 250
4. INTERVENTI PER IMMIGRATI? ...................................................................................................... 262
APPENDICE - Alcune pubblicazioni sui risultati di ricerca................................................................... 263
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RAPPORTO SECONDGEN
1. PERCHE’ STUDIARE LE MIGRAZIONI DEL PASSATO E DEL
PRESENTE
1.1 La specificità dei processi migratori
La ricerca Secondgen indaga la collocazione sociale e le carriere scolastiche e lavorative dei figli
degli immigrati in Piemonte. Lo fa in un’ottica insolita in quanto mette a confronto i percorsi dei
figli degli immigrati regionali arrivati attorno agli anni Sessanta con quelli dei figli degli
immigrati stranieri oggi. L’obiettivo di base infatti è di esaminare alcune condizioni strutturali
associate alle migrazioni di massa anche indipendentemente dalle specificità culturali e origini
nazionali delle famiglie immigrate.
Perché comparare l’immigrazione regionale e quella internazionale? Nel dibattito pubblico
odierno il confronto tra l’immigrazione regionale del passato e quella degli immigrati stranieri in
Italia di tanto in tanto viene accennato, spesso con l’intento implicito di ricordare le sofferenze
sperimentate dagli immigrati italiani ed di evocare la solidarietà con gli immigrati di oggi. Come
illustrazione della vasta diffusione di una simile prospettiva un po’ “miserabilista”, è pertinente
ricordare quanto sono note le immagini degli immigrati dal Sud in arrivo alla stazione torinese di
Porta Nuova con le valigie di cartone legate con lo spago. Le rappresentazioni della durezza
dell’esperienza di molti immigrati hanno un chiaro senso politico e civile, ma l’intento dell’attuale
ricerca è diverso. Nel nostro caso il confronto serve soprattutto per capire meglio i meccanismi
sociali in atto: infatti l’esistenza di profonde similarità tra l’esperienza dei figli degli immigrati
regionali e di quelli internazionali nella scuola, nei quartieri, negli spazi pubblici, all’interno della
stessa famiglia, suggerisce che le cause di tali similarità non si trovano unicamente nelle
caratteristiche culturali degli immigrati e nemmeno nel loro status giuridico.
Riconosciamo, naturalmente, l’importanza di molti aspetti tradizionalmente al centro del dibattito
sull’integrazione degli immigrati e dei loro figli, come appunto lo status giuridico (fondamentale
infatti il dibattito in corso sull’accesso alla cittadinanza dei figli degli immigrati). Ma
l’impostazione della ricerca Secondgen, spostandosi tra migrazioni regionali e internazionali,
costringe a focalizzare l’attenzione sull’immigrazione in sé, su ciò che si può chiamare “il
processo migratorio”. Cosa si intende con questa espressione? Innanzitutto va notato quanto le
migrazioni, comprese quelle regionali, hanno effetti duraturi. Come si vede nelle pagine che
seguono, l’esame dei dati censuari e anagrafici per la città di Torino mostra quanto le migrazioni
regionali abbiano inciso sulla stratificazione sociale della città. E’ ben conosciuto che gli
immigrati stessi arrivati negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si sono inseriti prevalentemente
in posizioni di operai generici (nelle fabbriche, ma anche nei servizi e nell’edilizia), quindi in
fondo alla gerarchia sociale e del mercato del lavoro. Ma è meno conosciuta l’esistenza di una
“seconda generazione” di figli di immigrati regionali, anch’essi sovente in posizioni meno
avvantaggiate rispetto ai figli dei locali. Infatti nel 2001 (momento in cui gli immigrati stranieri
erano ancora relativamente pochi), la grande maggioranza degli operai e assimilati a Torino tra i
quarantenni, trentenni e ventenni era costituita da figli di immigrati meridionali. Invece nelle
professioni più qualificate, retribuite e prestigiose i figli di immigrati regionali (soprattutto
meridionali) si trovavano fortemente sottorappresentati.
La ragione principale di questo svantaggio relativo dei figli degli immigrati regionali riguarda il
basso titolo di studio raggiunto, soprattutto da chi è nato al Sud (o, negli anni precedenti, al Nord
Est) e da chi è arrivato in città da ragazzo. Non si tratta semplicemente di un effetto delle
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RAPPORTO SECONDGEN
caratteristiche individuali dei genitori: la sociologia ha spesso dimostrato il legame tra genitori
operai o genitori poco istruiti e titoli di studio i dei figli inferiori rispetto a figli di genitori delle
classi medio-alte. La regressione logistica condotta da questa ricerca permette di separare questi
“normali” effetti di classe, dimostrando uno svantaggio specifico: si vede che i figli degli
immigrati regionali non sono stati svantaggiati solo dal fatto che i genitori erano spesso operai con
poca istruzione, ma anche dal fatto di essere figli di immigrati e si vede che lo svantaggio è
maggiore per chi arriva in città da ragazzo.
Le dimensioni dello svantaggio scolastico dei figli degli immigrati regionali e gli effetti che
questo ha sulla vita adulta trovano un forte parallelo nello svantaggio dei figli di immigrati
stranieri in Italia oggi, come del resto in molti dati internazionali. E’ proprio l’esistenza di molti
casi di difficoltà scolastiche, emersi tra popolazioni immigrate molto differenti tra loro in termini
di caratteristiche culturali (e posizione giuridica), che spinge ad indagare a fondo il rapporto tra la
famiglia immigrata e la scuola. Nel dibattito pubblico attorno all’immigrazione, la scuola è spesso
vista come una formidabile macchina di integrazione dei figli degli immigrati. Tuttavia vanno
distinte diverse dimensioni. Da una parte la scuola è l’ambiente in cui i bambini socializzano,
formano amicizie, imparano una lingua come veicolo di comunicazione quotidiana e così via.
Dall’altra parte è ciò che ha definito Sorokin (1927): “in primo luogo un’agenzia di selezione e
smistamento degli allievi”, quindi un’istituzione che crea e consolida disuguaglianze. Attirare
l’attenzione su questo aspetto della scuola non è abbracciare utopistici progetti di uguaglianza
totale. Si tratta più concretamente di capire come migliorare il capitale umano della forza lavoro
futura che sarà molto probabilmente cruciale per la crescita economica (Hanushek 2013;
Cipollone, Sestito 2010) e come contenere profonde diseguaglianze che possono avere vaste
conseguenze non solo per i singoli interessati ma per il funzionamento della società e
dell’economia nel suo complesso. I risultati scolastici dei figli degli immigrati delle molte
migrazioni nei vari paesi d’immigrazione sono abbastanza variabili (Portes, Rumbaut 2001;
Marks 2009; Crul et al. 2012). Proprio per questo sembra importante capire i meccanismi sociali
in gioco.
L’attenzione ai “fattori di rischio di esclusione” dei giovani di origine immigrata non è una novità
nell’ambito della ricerca e delle politiche. Le cause che possono produrre percorsi di integrazione
“verso il basso” sono ampiamente discusse e generalmente condivise, tuttavia le indagini in merito
presentano frequentemente due limiti fondamentali. Si ricorre spesso a una spiegazione culturalista
e non si spiegano concretamente il processo di selezione e i meccanismi sociali che lo
caratterizzano. E’ infatti facile constatare che la ricerca frequentemente considera lo svantaggio
etnico, costituito dall’origine nazionale, dalla religione, o da tratti somatici, come chiave
esplicativa dei percorsi, soffermandosi quindi su elementi dati, ascritti, assunti in modo non
problematico come scontati, piuttosto che sull’interazione e sulla azione delle persone. Poca
attenzione viene rivolta alla posizione e al percorso fatto di azioni e interazioni nella società di
arrivo e determinato dalle risorse relazionali, dai tempi sociali, dalle caratteristiche della famiglia
immigrata. Nella scuola e nel mercato del lavoro i giovani di origine immigrata si inseriscono in
determinate posizioni non tanto per le loro origini nazionali e le loro specificità culturali, ma per
altre specificità delle reti sociali, del mercato del lavoro, dei quartieri e della famiglia (Wimmer,
2009). Una domanda di fondo che percorre tutto il lavoro potrebbe essere così sintetizzata: quali
aspetti delle migrazioni comportano svantaggi?
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RAPPORTO SECONDGEN
1.2. Oltre la prospettiva nazional culturale
L’approccio che la ricerca adotta, basato sull’attenzione dettagliata al modo in cui le migrazioni
incidono sulle relazioni sociali tessute nel luogo di immigrazione (i quartieri, le scuole, i luoghi di
lavoro, i luoghi del tempo libero) distingue Secondgen da molti studi, più focalizzati sulle identità
nazionali e sulla specificità culturale.
Nel dibattito pubblico sulle migrazioni, in Italia come altrove, esiste una tendenza molto diffusa a
classificare le persone a partire dalle loro origini, utilizzando le categorie etniche o nazionali come
se fossero delle entità naturali con potenzialità euristiche e efficaci chiavi di lettura per ordinare le
informazioni e spiegare comportamenti e processi sociali. Malgrado le perplessità da più parti
espresse nei confronti delle interpretazioni culturaliste, le pratiche metodologiche spesso forgiano
l’analisi al punto di spiegare ciò che invece dovrebbe essere spiegato, come nel caso, per esempio,
delle interpretazioni che riconducono ad una presunta natura intrinseca di determinate comunità
nazionali i diversi risultati ottenuti a scuola dai minori di origine straniera o la concentrazione in
una certa attività lavorativa. Raramente tali nozioni vengono esplicitate con chiarezza; ci si limita
quasi sempre alla semplice constatazione della differenza. Il risultato però è di dare l’impressione a
chi legge che la nazionalità in se stessa abbia un valore esplicativo.
Lo “sguardo nazionale” e il criterio della discendenza sono adoperati anche per leggere la realtà
riferita al mondo dei minori di origine straniera. I giovani immigrati, o figli di immigrati, si
trovano ad essere sovraccaricati di attribuzioni di significati culturali, acquisiti “naturalmente” dai
genitori (Marazzi, 2006). Nell’ambito degli studi sulle immigrazioni, importanti filoni di ricerca dalla teoria assimilazionistica, anche nella variante dell’assimilazione segmentata, al
multiculturalismo e agli ethnic studies - ritengono infatti che sia analiticamente proficuo pensare le
società divise in gruppi etnici/nazionali caratterizzati da una specifica cultura, dense reti di
solidarietà e un’identità condivisa. Benché l’attenzione sia da tempo orientata ai meccanismi di
costruzione dei confini, tuttavia non solo nel senso comune il riferimento all’appartenenza
nazionale è un frequentissimo rimando al quale si danno poteri esplicativi, ma anche la ricerca
sociale continua ad essere influenzata dal “nazionalismo metodologico” (Wimmer, Glick Schiller,
2002) che presuppone la corrispondenza tra stato, nazione, società entro i confini di un territorio,
con conseguenze fondamentali sulla concettualizzazione delle migrazioni come movimenti di
appartenenti ad “altri popoli” che si inseriscono in una unitaria comunità solidale di cittadini. I
figli degli immigrati sarebbero pertanto in una situazione di tensione tra adesione alla cultura
nazionale della maggioranza e riferimento alle tradizioni familiari, secondo la frequente immagine
del giovane di seconda generazione “sospeso” tra due culture e dei gruppi nazionali, i gruppi
etnici, come realtà omogenee, costituenti della vita sociale, protagonisti dei conflitti sociali e
fondamentali unità di analisi.
Questo senso comune così pervasivo, invece di essere oggetto di analisi sistematiche, è un diffuso
quadro interpretativo (Brubaker, 2004) che stabilisce nello “sguardo nazionale” e nella
discendenza i criteri per leggere la realtà del fenomeno migratorio e dei giovani di origine
straniera.
Nella prospettiva che abbiamo chiamato "nazional culturale" (Eve, Perino, 2011), si tende a
focalizzare l’attenzione sulle reciproche influenze e contatti tra persone di diverse origini
nazionali, sul grado di mescolamento o separazione tra due unità-comunità immaginate in termini
essenzialmente nazionali (o nel caso delle migrazioni regionali, unità regionali con tratti culturali
differenti). Nel concreto, l'attenzione dei ricercatori è quindi su questioni come il numero di amici
connazionali che un giovane ha, sul grado di endogamia, sulla specificità del modo di vestirsi o di
pensare in termini nazionali, sull'intensità dei legami con il paese di origine. Nonostante l'interesse
di domande del genere, esse tendono a lasciare nell'ombra altri aspetti più cruciali. Infatti, dal
punto di vista dell'impatto che l'immigrazione ha sulla società locale, e sulle vite dei singoli, ciò
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RAPPORTO SECONDGEN
che è fondamentale non è necessariamente la nazionalità delle persone con cui si fa amicizia ma
piuttosto le attività e le capacità sviluppate con queste persone.
1.3. Un approccio focalizzato sulle relazioni e sulle reti sociali
L'idea che i figli degli immigrati si integrino in un'indifferenziata "società" nazionale ("la società
americana", "la società italiana", ecc.) è una semplificazione ingannevole. Ciò che conta dal punto
di vista della carriera effettivamente seguita da un giovane è piuttosto in "quale parte" della
società (in questo caso, la società italiana) si inserisce. Per questo motivo l'attuale ricerca si è
focalizzata sugli ambienti sociali: in quali scuole, spazi pubblici, associazioni, gruppi amicali i
giovani sono presenti, e quali azioni e interazioni sviluppano?
Il tentativo della ricerca Secondgen è stato quindi quello di esplorare il modo in cui "il
processo migratorio" abbia inciso sulle relazioni costruite dai giovani e dalle famiglie.
Le migrazioni hanno profondi effetti su molti aspetti della vita. Come si vedrà, incidono sul
quartiere in cui si va ad abitare, sull’esperienza scolastica (basti ricordare che, per molti bambini,
le migrazioni implicano diversi cambiamenti di scuola, che possono avere conseguenze sulla
scolarità, in particolare a determinate età), ma anche sul modo in cui si organizza la vita familiare
e la cura dei figli, su alcuni aspetti del tempo libero dei giovani. Gli spostamenti geografici
provocano una generale riorganizzazione della rete sociale che ha vaste conseguenze sociali. A
sua volta, il carattere delle reti sociali create nel luogo di immigrazione ha profonde conseguenze
per le informazioni di cui le famiglie dispongono, per esempio, rispetto alla scuola e al mercato
del lavoro. E ha conseguenze anche sugli atteggiamenti e orientamenti che i giovani sviluppano.
Con la sua domanda di fondo, “Quali aspetti accomunano l’esperienza dei figli degli immigrati
regionali e internazionali?”, la ricerca Secondgen ha cercato di individuare i molti modi in cui le
migrazioni in sé plasmano le vite delle persone.
Com’è noto, in tutte le immigrazioni di massa (Piore 1979), gli immigrati tendono ad inserirsi in
nicchie abbastanza specifiche del mercato del lavoro, quelle in cui esiste una domanda di lavoro
non interamente soddisfatta dai lavoratori locali. I lavoratori immigrati si distinguono anche per i
tempi necessari per trovare una certa stabilità: la scarsità di contatti nel locale mercato del lavoro e
l’inadeguatezza delle informazioni tendono a richiedere tempi lunghi prima di arrivare ad un
inserimento stabile anche per chi non ha i molteplici problemi legati alla regolarizzazione della
propria posizione giuridica. Tipicamente infatti, l’immigrato si inserisce in primo luogo in un
posto di lavoro piuttosto marginale, poi cambia diverse volte prima di accedere a una maggiore
stabilità (spesso sempre a livelli modesti). La specificità di questo tipo di inserimento lavorativo
osservato tra gli immigrati di epoche e contesti storici diversi ha importanti conseguenze anche
per la storia abitativa delle famiglie immigrate. Infatti anche l’inserimento degli immigrati nel
tessuto urbano tende ad essere molto caratteristico. L'analisi dei dati censuari torinesi ha permesso
di illustrare un modello che è probabilmente valido, nei suoi termini più generali, anche per altre
città. Come si vede dalle mappe riprodotte per la ricerca, una prima fase di concentrazione nel
vecchio centro storico, in case spesso disagevoli e sovraffollate ma ad affitti bassi, è stata seguita
(magari dopo diversi traslochi) dal trasferimento in zone di forte connotazione popolare, abitate
prevalentemente da altre famiglie immigrate. Questo modello di movimento attraverso il tessuto
urbano (prima in quartieri degradati poi tendenzialmente verso quartieri popolari, che in alcuni
casi corrispondono a complessi di edilizia popolare) è stato descritto da molti resoconti di
migrazioni internazionali. E negli anni recenti, l'immigrazione straniera a Torino e in altre città
piemontesi ha seguito traiettorie simili. Infatti il tipo di percorso è così simile che non di rado gli
stessi palazzi abitati trenta o quaranta anni fa da immigrati meridionali sono ora occupati da
famiglie straniere. Ma il fatto che il modello emerga con tanta chiarezza anche nel caso
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RAPPORTO SECONDGEN
dell'immigrazione regionale sembra suggerire che si tratta di dinamiche del mercato immobiliare
legate all'immigrazione stessa, ai prezzi degli affitti, poco accessibili agli immigrati nella prima
fase dell'immigrazione, ai criteri di accesso alle case popolari (che tendono a favorire gli
immigrati se abitano case sovraffollate o degradate), alla relativa mancanza di canali alternativi, di
cui i locali spesso godono, come l'accesso a case di parenti.
Vale la pena riflettere sulle conseguenze sociologiche di questa dinamica urbana per le famiglie e
per le carriere scolastiche dei figli. Innanzitutto va ricordato che la scuola elementare e anche
media è normalmente quella del quartiere: l’analisi dei dati comunali torinesi conferma quanto
questo localismo rimanga forte anche oggi nonostante il fatto che i genitori abbiano margini di
scelta maggiore rispetto al passato. La scuola frequentata è importante per le competenze che
fornisce (e non tutte le scuole forniscono le stesse competenze, come si vede anche oggi dai dati
Invalsi piemontesi analizzati per l’attuale ricerca). E’ importante anche per i legami amicali che si
formano, perché gli interessi e le aspirazioni dei giovani si formano in attività e conversazioni con
altri. Da questo punto di vista, ciò che è cruciale per i nostri obiettivi non sono tanto le origini
nazionali degli amici, tema su cui si tende a focalizzare l’attenzione in modo anche eccessivo, ma
piuttosto le capacità e gli orientamenti verso un tipo di carriera sociale piuttosto che un altro.
Va ricordato inoltre che il palazzo e il quartiere dove abita la famiglia non sono importanti solo
perché abitando in una certa via si frequenterà quella scuola. Alcuni intervistati, soprattutto
maschi, sia tra i figli di immigrati regionali sia tra i figli di immigrati stranieri, hanno raccontato di
una vita sociale estremamente locale, centrata su un giardino davanti casa e amicizie con compagni
di scuola che sono anche vicini di casa. Altri intervistati hanno costruito a partire dall’università o
dalla scuola superiore frequentata, o da un’associazione reti sociali assai poco localizzate. Non a
caso le carriere di queste persone sono diverse.
Anche i rapporti familiari e parentali tendono a cambiare proprio a causa dello spostamento
geografico. Nelle migrazioni è frequente che un nucleo familiare si sposti solo a tappe. Questo era
vero anche per le migrazioni regionali: le interviste con i figli degli immigrati regionali e con i loro
genitori dimostrano che in generale partiva un membro della famiglia, e solo dopo aver trovato un
posto di lavoro più stabile e un alloggio adatto ad accomodare altri membri, si procedeva al
ricongiungimento, magari gradualmente. Queste storie trovano riscontro anche nei racconti degli
intervistati stranieri, suggerendo che le separazioni e successivi ricongiungimenti dipendono in
parte dalle difficoltà strutturali di inserimento nel mercato del lavoro e in quello immobiliare.
Tuttavia, gli stranieri hanno dovuto superare anche i notevoli ostacoli giuridici e burocratici posti
dalle leggi sull’immigrazione. I costi elevati del viaggio, i problemi di regolarizzazione del primo
membro della famiglia che arriva, le difficoltà di ottenere e dimostrare di avere una casa e un
reddito sufficiente per poter chiedere il ricongiungimento familiare, sono fattori che complicano
enormemente il problema del ricongiungimento. Così in alcuni casi un ragazzo che arriva
ricongiunto, oltre ad inserirsi in una nuova scuola e in un nuovo contesto linguistico, deve anche
adattarsi a nuovi rapporti familiari con genitori (e a volte fratelli) con cui, in alcuni casi, non ha
convissuto da anni. Tali separazioni e ricombinazioni non sono necessariamente negative: come
hanno ricordato molti sociologi della famiglia, esiste una grande varietà di forme familiari
funzionali. E le nostre interviste con figli di immigrati che hanno sperimentato separazioni e
ricongiungimenti non hanno fatto emergere rapporti familiari patologici, tuttavia tra le varie
specificità della famiglia immigrata vanno tenuti in conto anche i periodi di distacco dai genitori.
Le migrazioni cambiano anche i rapporti con altre figure al di fuori del nucleo genitori-figli. In
generale i nonni non si trasferiscono e quindi non è possibile un modello di cura quotidiana dei
bambini in cui la nonna funge da perno fondamentale. E’più facile che le catene migratorie portino
gli zii e i cugini al nuovo posto d’immigrazione; ma ci sono molti casi in cui le migrazioni tagliano
anche questi scambi quotidiani.
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RAPPORTO SECONDGEN
La trasformazione che accompagna lo spostamento geografico è ancor più generale in quanto
tendono a cambiare anche una serie di rapporti con figure che, nel luogo di emigrazione, erano
significative nel mantenimento di un determinato stile di rapporti familiari. Basti pensare ai vicini
di casa, che magari tenevano d’occhio i ragazzi quando erano fuori casa e esercitavano un po’ di
controllo, oppure agli amici del marito che costituivano il centro della sua vita sociale. A volte,
come testimoniato da alcune interviste, la perdita di questi legami favorisce uno stile di vita molto
più centrato sulla casa e sul nucleo familiare. Senza dubbio i possibili cambiamenti sono molti. Il
corpus delle interviste testimonia, sia con figli di immigrati regionali sia con figli di immigrati
internazionali, che raramente i rapporti all’interno della famiglia restano immutati quando la
famiglia cambia il suo contesto.
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RAPPORTO SECONDGEN
2. PERCORSI NELLA SCUOLA E NELL’AVVIAMENTO AL LAVORO
2.1. Seconde generazioni delle migrazioni interne del passato
Il lavoro svolto
Fonti archivistiche
Gli archivi scolastici di alcune scuole elementari e medie situate in quartieri della vecchia
periferia operaia cittadina che all’epoca hanno accolto molti immigrati al loro arrivo: l’archivio
della scuola Padre Gemelli – anch’essa di Torino (quartiere Lucento) - che negli anni Sessanta e
Settanta era una scuola speciale e differenziale. Sono stati rilevati dati e informazioni di vario
genere relativi al periodo 1959-1974: in particolare sono state consultate:
−
le “Schede alunni”, anni campione
−
le “Relazioni medico-psico-pedagogiche”, anni campione
−
le “Relazioni degli alunni inseribili in scuola normale”, anni campione.
I registri scolastici
−
delle seconde e quinte elementari delle scuole del circolo didattico Pestalozzi (quartiere di
Barriera di Milano) a Torino per gli anni scolastici 1961-62, 1962-63, 1963-64, 1964-65 e 196970. Lo stesso lavoro è stato compiuto nella scuola elementare Margherita di Savoia (quartiere
Lucento) a Torino, dove sono stati consultati i registri scolastici delle classi dal 1960 al 1972.
−
della scuola media Viotti di Torino (quartiere Barriera di Milano) degli anni 1978-79,
1979-80 e 1980-81.
Ricerche e inchieste, soprattutto sociologiche e pedagogiche, condotte negli anni Settanta
Il corpus di indagini inedite costituito dalle tesi di ricerca della Scuola per assistenti sociali di
Torino (UNSAS). Si tratta di casi di studio, frutto di osservazione diretta su diversi aspetti della
realtà urbana realizzati tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Ottanta dalle studentesse al
termine di un tirocinio sul campo. Le tesi forniscono minuziose descrizioni delle situazioni
studiate e a esse sono sovente allegati in versione integrale preziosi materiali di ricerca, come
interviste in profondità, relazioni di operatori nel campo dei servizi sociali e verbali di riunioni.
Lo Studio Longitudinale Torinese
E’ stato stipulato un accordo di collaborazione di ricerca con il Servizio regionale di epidemiologia
(SEPI) dell’ASL TO3, titolare della custodia e del trattamento dei dati per conto del Comune di
Torino, grazie al quale i ricercatori di Secondgen hanno potuto accedere ai dati censuari e
anagrafici dello Studio longitudinale torinese (Slt). L’obiettivo di questa collaborazione sta
nell’approfondire il rapporto tra migrazioni, stratificazione sociale e indicatori correlati.
Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche
Sono state rilevate dagli Annuari statistici del Comune di Torino le iscrizioni e le cancellazioni
anagrafiche, che corrispondono agli immigrati in città e agli emigrati dalla città, nei venti anni
compresi tra il 1956 e il 1975, distinti in base al sesso per provenienza geografica e per fasce di
età.
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RAPPORTO SECONDGEN
Le schede di famiglia del censimento della popolazione di Torino del 1971
Su questa fonte, utile a studiare l’inserimento di individui e famiglie meridionali nella società
urbana, sono stati compiuti sondaggi: sono state rilevate le informazioni contenute nelle schede di
famiglia del censimento della popolazione di Torino del 1971 relative a cinque campioni di
individui residenti in caseggiati in altrettanti quartieri della città per un totale di più di 7000
persone: Barriera di Milano, Borgo S. Paolo, Vanchiglia, Mirafiori Sud, Mirafiori Nord. I dati
raccolti, che distinguono gli individui per origine geografica (intendendo per origine geografica il
luogo di nascita dei genitori) e per sesso, hanno riguardato per ogni gruppo: il numero medio di
componenti della famiglia, la composizione per fasce di età, il titolo di studio dei maggiori di 14
anni, la condizione professionale dei maggiori di 14 anni, il titolo di studio e la condizione
professionale degli individui tra 14 e 19 anni.
E’ stato possibile mettere a confronto i profili sociali e demografici degli abitanti immigrati e
locali e formulare ipotesi sulle reali possibilità di integrazione e interazione tra le due popolazioni
che in certi quartieri si trovavano a vivere a stretto contatto.
Le interviste in profondità
per ricostruire i percorsi biografici dei figli dell’immigrazione meridionale e ottenere informazioni
che il dato statistico non è in grado di fornire – soprattutto sotto il profilo delle relazioni sociali
degli individui:
sono state realizzate 30 interviste in profondità a uomini e donne di origine meridionale
nati tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta del Novecento, alcuni arrivati a Torino in età
infantile o adolescenziale, altri nati in città da genitori immigrati. La maggior parte dei testimoni è
cresciuta nel quartiere della vecchia periferia operaia in cui è situato il circolo scolastico di cui si è
consultato l’archivio
−
altre 14 interviste sono state realizzate per una tesi di laurea (relatori Anna Badino e
Michael Eve) mirata a indagare le migrazioni familiari negli anni sessanta e settanta e i percorsi
dei figli in un contesto di provincia, quella astigiana.
−
sono state realizzate 30 nuove interviste a protagonisti dell’immigrazione meridionale a
Torino, che si aggiungono alle oltre cinquanta interviste raccolte da Anna Badino dal 2004 al
2008, andando a costituire un ricco corpus donne della prima generazione di immigrate
meridionali di testimonianze relative all’esperienza dei genitori immigrati. Grazie a tali materiali
biografici in alcuni casi si è potuto mettere in relazione le vicende di fratelli e sorelle, mogli e
mariti, genitori e figli all’interno di una stessa famiglia e contestualizzare con maggiore precisione
il mondo sociale in cui si sono sviluppati i percorsi di vita delle seconde generazioni di immigrati.
−
attualmente è in corso la realizzazione di una serie di interviste a immigrati e figli di
immigrati regionali piemontesi nati tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta del Novecento.
Questo ulteriore materiale biografico dovrebbe servire ad approfondire il confronto tra i percorsi
sociali delle seconde generazioni di meridionali e quelli delle seconde generazioni di piemontesi.
−
10
RAPPORTO SECONDGEN
Alcuni risultati
Uno sguardo ravvicinato sulla realtà scolastica delle elementari
I registri scolastici hanno permesso due tipi di analisi.
In primo luogo, la rilevazione di dati relativi al decennio Sessanta e ai primi anni del decennio
successivo (1961-1972) ha consentito di analizzare da vicino per più anni le forme in cui in quel
periodo storico si manifestava lo svantaggio scolastico dei bambini nati in famiglie di
immigrati dal Sud rispetto a quello dei coetanei di altra origine: sono gli alunni meridionali a
registrare il maggior numero di bocciature, di ritardi scolastici di uno o più anni e di iscrizioni
nelle classi in corso d’anno. Quest’ultimo fattore rendeva più difficile sia il loro inserimento dal
punto di vista relazionale tra i nuovi compagni sia, sul piano dell’apprendimento, il mettersi in pari
con il programma scolastico.
In secondo luogo, i ricchi appunti delle maestre presenti nella sezione dei registri denominata
“cronaca di vita della scuola” hanno fornito informazioni molto interessanti sul tipo di
accoglienza riservata ai bambini meridionali da parte del corpo insegnante, oltre a notizie sulle
situazioni familiari degli alunni immigrati. Da questi commenti emergono:
- Una frenetica mobilità territoriale delle famiglie immigrate (per l’arrivo a Torino o per il
trasferimento in un quartiere diverso) che potevano comportare per i bambini l’abbandono della
classe frequentata nel corso dell’anno.
Scrive un’insegnante di una seconda elementare nel marzo 1962: «C., iscritta in questa scuola ad
anno inoltrato e proveniente dalle Puglie, stenta ancora a mettersi in carreggiata. Legge sempre
sillabando e scrive in modo disordinato e con moltissimi errori».
- Il ricorso da parte dei genitori immigrati ai collegi a Torino per affrontare difficoltà che sono
accentuate dalla specifica condizione della migrazione, in primis l’impoverimento della rete
famigliare.
«8 febbraio 1962: per la seconda volta si assenta per un lungo periodo. La casa (a Torino) è
chiusa. Ho saputo dalle compagne che tutta la famiglia era andata in Sicilia e che la bambina era
stata messa in collegio. È tornata accompagnata dalla mamma che non ha saputo rispondere in
quale collegio la bambina era stata e cosa avesse fatto».
‐ Specificità di genere nelle responsabilità familiari e nelle aspettative nei confronti
dell’istruzione. Le bambine erano spesso investite dai genitori di responsabilità di cura nei
confronti dei fratelli minori.
Scrive una maestra:
«12 dicembre 1964. La mamma (di T., nata a Brindisi, che fa troppe assenze e per questo è stata
fatta chiamare la madre, n. d. r.) si scusa dicendo che è sfrattata dall’alloggio e le è molto difficile
trovarne un altro perciò è costretta a lasciare i fratellini più piccoli in custodia alla sorella
maggiore per poter darsi con tranquillità alla ricerca di una casa».
Inoltre, maschi e femmine sembrano distinguersi nei comportamenti verso la scuola. Le
descrizioni delle maestre riportano spesso condotte degli uni e delle altre molto diverse. Le
bambine si dimostrano in generale più tranquille, ubbidienti e volenterose.
- Un atteggiamento ostile di insegnanti poco preparati ad affrontare il fenomeno migratorio, che
finisce per demotivare bambini e famiglie. Spesso i figli di meridionali appaiono “diversi” agli
occhi di certi insegnanti, compagni e, non raramente, della stessa istituzione scolastica. Nei
11
RAPPORTO SECONDGEN
registri scolastici appaiono frequentemente lamentele sulla loro scarsa disciplina ed educazione,
sulla loro poca pulizia.
Scrive una maestra di una seconda elementare nel 1961:
«L’alunno C. (nato a Barletta) non ha fatto l’antivaiolosa. Viene accompagnato dalla sorella che
mi ha detto che loro non possono recarsi all’ufficio di Igiene perché vanno a lavorare tutti. In
realtà queste sono soltanto delle scuse».
- Il biasimo nei confronti delle famiglie e delle madri in particolare: soprattutto se lavorano,
queste donne sono accusate di trascurare i figli e di tenere in scarsa considerazione la scuola: ogni
occasione è buona per rimarcare che il lavoro fuori casa arreca danno ai figli e alla scuola.
Scrive una maestra nel febbraio del 1962 che molte mamme, pur di parcheggiare i figli nella classe
per essere libere di andare a lavorare (nella sua interpretazione), li mandano «febbricitanti e con
qualche malessere» e in questo modo contribuirebbero a diffondere tra gli alunni i germi di
«malattie infettive come il morbillo o la varicella...»
«25 gennaio 1964. Visita del direttore che mi ha consigliato per quanto riguarda i bambini
provenienti da altre scuole e che sono arrivati in seconda senza saper leggere e scrivere di fare
tutto ciò che è nelle mie possibilità. Sono una quindicina (su 33) le cui mamme non si fanno mai
vedere e non s’interessano minimamente dei loro figli con la scusa che vanno a lavorare ».
- Retrocessioni e classi differenziali, diffusa pratica che colpisce, al momento dell’arrivo,
invariabilmente coloro che hanno già frequentato una o più classi al paese di origine.
Lo svantaggio dei figli di immigrati meridionali sembra confermarsi nella scuola media riformata
della fine degli anni Settanta. Qui colpisce l’effetto di dissuasione dal continuare gli studi giocato
dal giudizio che gli insegnanti erano tenuti a esprimere al termine della scuola dell’obbligo. Dai
nostri sondaggi realizzati i giudizi scritti frequentemente sono: «Si consiglia l’immediata
immissione nel mondo del lavoro»; «Non lo si ritiene idoneo al proseguimento degli studi»; «Si
consiglia un breve corso di formazione professionale». Emerge una significativa differenza tra
maschi e femmine a favore di queste ultime: le ragazze che sono invitate a proseguire gli studi
sono il 26% sul totale delle studentesse; i ragazzi solo il 16%.
12
RAPPORTO SECONDGEN
Lo svantaggio nei titoli di studio
Non meno dei figli degli immigrati stranieri oggi, i figli degli immigrati regionali erano
nettamente svantaggiati in termini di titolo di studio raggiunto. È quanto emerge dalle analisi
realizzate sui dati dell’Slt, in cui è stato operato un doppio confronto che ha accostato, da un lato, i
percorsi scolastici dei figli di meridionali e dei coetanei locali e di altra origine e, dall’altro, quelli
di maschi e femmine all’interno dei diversi gruppi. Sintetizziamo di seguito i principali risultati
emersi.
Vediamo i titoli di studio conseguiti dai giovani che al censimento del 1981 hanno tra i 20 e i
25 anni (tabella 1).
Gli appartenenti a questa coorte (nati tra il 1956 e il 1961) entrano nella scuola elementare nel
corso degli anni Sessanta e accedono alla scuola media trasformata dalla riforma del 1962 che è
ormai funzionante a pieno regime da tempo. Hanno potuto cioè beneficiare di opportunità di
istruzione inedite per le classi popolari poiché si è aperta la strada a gradi di scolarizzazione a cui i
bambini e i ragazzi appartenenti alle famiglie collocate più in basso nella gerarchia sociale non
avevano mai avuto un accesso generalizzato nella storia del Paese. I nostri dati mostrano che a
Torino di questa opportunità i figli degli immigrati meridionali hanno approfittato molto meno
degli altri. Il loro svantaggio scolastico rispetto ai coetanei di diversa provenienza è molto netto.
Tra i giovani di famiglie del Sud e delle isole addirittura un individuo su cinque dichiara al
censimento un titolo di studio che non va oltre la licenza elementare (e in qualche caso non ha
neppure avuto quella), mentre i coetanei di altra origine in questa condizione sono in numero
assolutamente irrisorio.
Se si guarda alle superiori (comprese le scuole oltre la media inferiore che danno una qualifica
professionale) il divario tra i figli degli immigrati meridionali e gli altri gruppi è tale da balzare
agli occhi: tra chi ha continuato e terminato gli studi oltre la licenza media, un abisso separa i
giovani di famiglie del Mezzogiorno e i figli di padre nato in città e di padre arrivato a Torino dalla
regione. Ma la distanza è grande anche con i giovani delle altre origini.
Tab. 1 - Grado di istruzione al 1981 dei 20-25enni residenti a Torino per origine geografica e per sesso
origine geografica*
Torino e Piemonte
Sud e isole
n.
%
n.
%
altre provenienze**
n.
%
titolo di studio
licenza elementare
F
217
2,1
3166
20,3
282
4,6
O meno
M
273
2,4
3416
19,1
373
5,4
licenza media
F
2127
20,4
6431
41,3
1828
29,9
Inferiore
M
2818
24,5
9122
51,0
2431
35,2
diploma o qualifica
F
7882
75,5
5930
38,0
3920
64,0
Professionale
M
8225
71,5
5292
29,6
4026
58,2
Laurea
F
214
2,0
64
0,4
88
1,5
M
192
1,6
48
0,3
82
1,2
Totale
F
10440 100
15591
100
6118
100
M
11508 100
17878
100
6912
100
Fonte: elaborazioni del gruppo di ricerca Secondgen su dati SLT.
* In questa tabella e in quella successiva per “origine geografica” s’intende l’area di nascita del padre.
**Per “altre provenienze” si intendono le altre regioni italiane e i Paesi esteri.
13
RAPPORTO SECONDGEN
La scolarità dei giovani di origine meridionale sorprendentemente bassa della coorte 1956-1961
suggerisce l’ipotesi che una certa quota di giovanissimi di entrambi i sessi si siano scolarizzati a
livelli minimi al Sud e siano emigrati al Nord in età da lavoro e quindi non siano neppure passati
per la scuola a Torino.
Ma un certo numero di figli di immigrati meridionali ha cominciato la scuola al paese e l’ha poi
continuata in città: sono fra coloro che hanno incontrato le maggiori difficoltà scolastiche
(documentate anche dai dati che abbiamo raccolto attraverso l’analisi dei registri scolastici e
attraverso le interviste in profondità). Con il passare del tempo questa componente si riduce a
vantaggio dei figli che nascono in città. Vi è quindi da chiedersi quanto queste peculiarità della
coorte 1956-1961 abbiano inciso sui livelli medi di scolarità così abnormi al 1981 generando le
dimensioni dello svantaggio dei figli degli immigrati meridionali nei confronti dei coetanei che
abbiamo sottolineato.
In realtà, i dati relativi alla coorte successiva, quella dei nati tra il 1966 e il 1971 che hanno da
20 a 25 anni al censimento del 1991 (tab. 2), ci dicono che la situazione denunciata al
censimento precedente non è molto cambiata nella sostanza.
Tab. 2 - Grado di istruzione al 1991 dei 20-25enni residenti a Torino per origine geografica e per sesso
origine geografica*
Torino e Piemonte
n.
%
Sud e isole
n.
altre provenienze**
%
n.
%
titolo di studio
licenza elementare
F
109
0,9
635
3,4
86
1,4
O meno
M
151
1,2
1149
5,6
155
2,4
licenza media
F
2480
19,7
9480
50,3
1816
30,3
Inferiore
M
3601
27,3
12272
2600
39,8
diploma o qualifica
F
9506
75,8
8510
45,2
3952
65,8
Professionale
M
9177
69,5
6689
33,8
3679
56,4
Laurea
F
452
3,6
209
1,1
150
2,5
M
270
2,0
100
0,5
93
1,4
F
12547
100
18834
100
6004
100
M
13199
100
20420
100
6527
100
Totale
60,1
Fonte: idem.
Al 1991 si riscontra un innalzamento del livello di scolarità dei giovani meridionali che va
collocato nel contesto di tendenziale aumento del grado di istruzione generale a Torino (e in
Italia). Ma i 20-25enni di questa origine che non vanno oltre la licenza media sono a quella data
ben più della metà tra i maschi e la metà tra le femmine. Dunque, nonostante il raggiungimento
della licenza media sia diventato un obiettivo largamente acquisito dalle famiglie immigrate dal
Mezzogiorno e dai loro figli, perdura il loro svantaggio scolastico: il proseguimento degli studi alle
superiori fino al loro completamento riguarda ancora una minoranza, a differenza di quanto si
14
RAPPORTO SECONDGEN
verifica nei giovani delle altre origini: la continuazione degli studi oltre la licenza della scuola
dell’obbligo arriva – sia al 1981 che al 1991 – ad interessare fino ai tre quarti (tra le ragazze) dei
figli di torinesi e piemontesi.
L’interpretazione dello svantaggio con la regressione logistica
Grazie all’accordo di collaborazione di ricerca con il Servizio regionale di epidemiologia (SEPI)
dell’ASL TO3, la ricerca Secondgen ha potuto accedere ai dati censuari e anagrafici dello Studio
longitudinale torinese (Slt) che contiene dati provenienti dai censimenti 1971, 1981, 1991 e 2001 e
dall’anagrafe per il comune di Torino. I dati possono essere messi in relazione fornendo una fonte
semi-longitudinale per i censiti nel comune di Torino nel periodo fra il 1971 e il 2001. Questo
strumento di lavoro si rivela prezioso per tracciare le carriere scolastiche e occupazionali dei
residenti della città ed analizzare le condizioni abitative e altri aspetti. La struttura di relazione
delle informazioni consente non solo di sapere quale sia il luogo di nascita dei soggetti ma anche
quello dei genitori. Si tratta di informazioni particolarmente utili per gli scopi della nostra ricerca
perché consentono di individuare chi è nato a Torino da genitori meridionali ad esempio come
“figlio di immigrati”, mentre gran parte delle fonti statistiche permettono di distinguere le persone
solo in base al luogo di nascita del soggetto.
Per procedere all’elaborazione dei dati è stato tuttavia necessario compiere alcune operazioni di
predisposizione della matrice dati. La fonte ha richiesto un trattamento preventivo di
riorganizzazione delle informazioni e l’istituzione di controlli di congruenza che sono stati
effettuati per consolidare statisticamente ogni singola variabile utilizzata nelle analisi. Il numero di
casi esclusi o mancanti non eccede mai le consuete soglie di significatività statistica
I ricercatori di Secondgen, con la collaborazione dei colleghi del SEPI, hanno così costruito un
nuovo file relazionale a partire dalle informazioni disponibili che permette di definire con
maggiore precisione la provenienza e la collocazione sociale degli immigrati regionali e
internazionali a Torino.
In questo modo non solo è stato possibile distinguere fra immigrati di prima e seconda
generazione (nati a Torino), ma anche fra differenti ondate migratorie: quelle italiane dal
Nord Est e dalle regioni del Sud e quella internazionale. Così è stato possibile descrivere lo
svantaggio educativo dei migranti (fig.1).
.
15
RAPPORTO SECONDGEN
Figura 1 - Lo svantaggio educativo dei migranti (1971-2001). Rapporto fra percentuale di persone che hanno
un titolo superiore o universitario contro coloro che hanno completato al massimo le scuole medie (distribuito
per piemontesi e migranti appartenenti alle differenti ondate migratorie).
Come mostra il grafico, fra i piemontesi l’incidenza relativa di titoli di scuola superiore o
universitari cresce nel tempo molto più velocemente rispetto a tutte le altre popolazioni prese in
considerazione. Invece i bambini nati al Sud e arrivati con i genitori (indicati nel grafico come
Born in South) hanno il rapporto meno favorevole fin dall’inizio e questo svantaggio dura nel
tempo e rimane assai forte anche nel 2001. I figli dei meridionali nati a Torino (G2.0 South) sono
meno svantaggiati ma la loro posizione migliora solo gradualmente tra i vari censimenti.
La situazione dell’ondata migratoria del Nord Est è intermedia fra quella dei piemontesi e quella
dei figli degli immigrati dal Sud. Coerentemente con le nostre ipotesi, queste differenze potrebbero
essere lette come un effetto del grado di stabilizzazione dei flussi migratori. Infatti l’ondata dal
Nord Est si è stabilita prima a Torino e per questo ha gradatamente avuto il tempo di colmare parte
dello svantaggio strutturale rispetto ai piemontesi, quella dal Sud è più recente e quindi il percorso
di integrazione strutturale è in una fase più arretrata. Nel grafico non sono ancora inseriti i flussi
dall’estero perché la loro numerosità negli anni presi in considerazione è troppo ridotta.
Per capire meglio quali siano i fattori che influenzano lo svantaggio educativo raggiunto dai figli
degli immigrati meridionali rispetto ai figli dei locali piemontesi abbiamo costruito modelli di
regressione logistica. Questa tecnica di analisi dei dati è stata utilizzata per poter isolare l’effetto
dovuto al fatto di provenire da una famiglia immigrata al netto di altri fattori che sono già
noti per la loro capacità di influenzare i risultati scolastici. In particolare, sono state prese in
considerazione la coorte di nascita; il genere; la classe sociale della famiglia; il titolo di studio del
padre e della madre; il numero dei fratelli. Le regressioni costruite per i vari anni di censimento
mostrano gli effetti tipici sull’istruzione di tutte queste variabili, in conformità con i risultati
consolidati della ricerca nazionale e internazionale sui determinanti sociali dell’istruzione. I
modelli tuttavia mostrano anche un significativo effetto riconducibile al fatto di essere immigrato
in città al netto di tutte questi altri fattori. La tecnica ci ha consentito di stimare alcune misure di
16
RAPPORTO SECONDGEN
questo svantaggio relativo. Ancora nel 2001, un trentenne figlio di meridionali nato al Sud, a
parità di tutte le altre condizioni, ha circa un terzo in meno (- 34 %) delle probabilità
rispetto al figlio di un piemontese di ottenere la laurea e un quarto in meno di ottenere il
diploma superiore.
Il modello mostra inoltre come lo svantaggio dei figli degli immigrati colpisce maggiormente
chi è arrivato in città da ragazzo o bambino, mentre lo svantaggio è molto minore per chi
nasce a Torino. Per i figli di immigrati dal Sud nati a Torino la differenza di probabilità di
conseguire la laurea rispetto ai piemontesi nel 2001 si riduce a solo il 10% in meno e appena al 7%
per il diploma superiore.
Questi effetti sono depurati da quelli di classe e da quelli del capitale culturale dei genitori che
comunque hanno un’influenza piuttosto forte: ad esempio il fatto di avere un genitore laureato
raddoppia le probabilità di conseguire la laurea. Ma l’esistenza di effetti significativi e piuttosto
grossi al netto di queste ben note variabili sociologiche sottolinea l’importanza del processo
migratorio in sé.
Infine i modelli di regressione fanno vedere come lo svantaggio cambia nel tempo. Così lo
svantaggio dei figli degli immigrati delle province dell’Italia nord-orientale non è più
statisticamente significativo (al netto di altre fattori) nel 1991 per i ragazzi nati a Torino. Lo
svantaggio dei figli dei meridionali – le famiglie dei quali sono generalmente arrivate in anni
successivi rispetto ai veneti – rimane consistente nel 2001 ma è comunque molto meno forte
rispetto al 1991. Questa regolare diminuzione dello svantaggio nel tempo sembra compatibile con
l’ipotesi di uno svantaggio che, in media, tende a smorzarsi man mano che le famiglie si
stabilizzano, migliorano la loro capacità di accedere alle informazioni rispetto alle possibilità di
istruzione e di collocazione sul mercato del lavoro locale in modo da adottare le strategie educative
e formative più opportune.
Per ulteriori dettagli sul modello di regressione e sul ragionamento, si rimanda al paper di M. Eve
e F. Ceravolo, A case of second generation disadvantage in internal migration: a challenge to
theory? scaricabile dal sito http://www.norface-migration.org (voce: Programme, Friday, April 12,
2.00-4.00, Session E12, Second Generation - 3) oppure più direttamente da:
https://cream.conference-services.net/resources/952/3365/pdf/MGDNF2013_0328.pdf
Tra i passi compiuti per capire meglio l’effetto dei percorsi migratori sull’istruzione dei figli,
abbiamo voluto indagare in quali quartieri della città le famiglie hanno abitato. Come già
accennato nell’introduzione, si ipotizza che la zona di residenza abbia potuto avere effetti
significativi sulle competenze acquisite a scuola e anche sulla rete sociale costruita
localmente.
Sono state costruite delle mappe per sezione di censimento (un’unità territoriale di dimensioni
variabili in corrispondenza alla densità della popolazione, ma comunque piccola e in molti casi con
solo un paio di isolati).
Dalle mappe riprodotte a titolo esemplificativo, che mostrano la distribuzione sul territorio torinese
delle famiglie operaie meridionali nel 1971 e nel 1991, si può vedere la tendenza ad un
insediamento prima concentrato nel centro storico, all’epoca zona degradata di case a basso affitto,
e in seguito in quartieri di marcata connotazione popolare. A volte si tratta di quartieri
prevalentemente di edilizia pubblica (Le Vallette, Falchera, Mirafiori Sud), a volte
prevalentemente privata (Barriera di Milano). Ma in entrambi i casi, si tratta di zone ben connotate
sia in termini delle professioni svolte dai residenti (in prevalenza professioni manuali) sia in
termini di provenienza geografica. Molti figli di immigrati meridionali sono pertanto cresciuti in
quartieri abitati in gran parte da operai o assimilati, ma anche da quegli operai specifici che erano
17
RAPPORTO SECONDGEN
gli immigrati meridionali. Frequentando scuole dove molti iscritti provenivano da famiglie con
caratteristiche simili, formando amicizie e magari fidanzandosi con vicini di quartiere, sembra
possibile che le aspirazioni professionali siano state plasmate in questi contesti e che la creatività e
le competenze delle persone si sono orientate in direzione diverse dalla scuola.
Le mappe per gli operai piemontesi invece mostrano una distribuzione molto più uniforme
(indicata nelle mappe dai colori meno intensi) sul territorio cittadino, senza la forte concentrazione
in zone popolari abitate in gran parte da famiglie immigrate.
Sembra probabile insomma che il figlio di un piemontese, anche se operaio, tendesse a crescere in
un quartiere dove non mancavano persone che potevano rappresentare un modello di altre
possibilità rispetto alla vita di fabbrica.
18
RAPPORTO SECONDGEN
DISTRIBUZIONE NELLE SEZIONI DI CENSIMENTO TORINESI
DEGLI OPERAI PIEMONTESI E MERIDIONALI. Elaborazione dati Slt
Censimento 1971
Fig. 2 - Operai piemontesi
Fig. 3 – Operai meridionali
19
RAPPORTO SECONDGEN
Censimento 1981
Fig. 4 – Operai piemontesi
Fig. 5 – Operai meridionali
20
RAPPORTO SECONDGEN
Il vantaggio femminile nel gruppo dei meridionali: un salto di genere e generazionale
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta anche a Torino comincia ad accentuarsi il fenomeno del
prolungamento degli studi delle donne oltre la licenza media: nelle scuole superiori il loro numero
tende a crescere in una misura maggiore rispetto a quanto avviene tra gli uomini.
La tabella 3, costruita sui dati forniti dall’Annuario statistico della città (che non fanno distinzioni
in base all’origine geografica), mostra chiaramente la progressione della presenza femminile nei
licei e alle magistrali ma anche negli istituti tecnici e professionali di vario grado. Tra il 1961-62 e
il 1975-76 i maschi che proseguono oltre la licenza media raddoppiano di numero ma le femmine
quasi quadruplicano: le iscritte a istituti tecnici e professionali (dove si concentra la seconda
generazione di meridionali) passano da 4.433 a circa 16 mila mentre i maschi passando da 11.000
circa a 22.945.
Tab. 3 - Iscritti nei diversi ordini di scuola per sesso a Torino (valori assoluti).
Anni scolastici 1961-62, 1966-67, 1971-72, 1975-76
1961/62
Elementari
Medie inferiori
Licei e magistrali
Istituti tecnici e professionali
1966/67
Elementari
Medie inferiori
Licei e magistrali
Istituti tecnici e professionali
1971/72
Elementari
Medie inferiori
Licei e magistrali
Istituti tecnici e Professionali
1975/76
Elementari
Medie inferiori
Licei e magistrali
Istituti tecnici e Professionali
M
F
32.044
16.743
4.291
11.005
29.586
14.049
3.185
4.433
38.946
17.684
5.673
18.318
35.616
16.355
6.357
6.117
46.081
24.599
7.293
21.003
43.730
21.933
8.213
11.235
45.812
28.073
7.813
22.945
43.756
26.049
9.308
16.010
Fonte: Annuario statistico della città di Torino
Il grande balzo nei livelli di istruzione femminili è un fenomeno noto (Pisati 2002), segnalato dagli
studiosi per l’intero territorio nazionale, e che si svilupperà in modo crescente negli anni successivi
fino ad arrivare al sorpasso.
Questa tendenza aveva cominciato a investire all'epoca anche la seconda generazione di immigrati
meridionali? La nostra documentazione sembra mostrarlo: una quota di ragazze consegue titoli di
studio più elevati di quelli che raggiungono i loro fratelli. In altre parole, sembra comparire un
fenomeno notato da alcuni studi internazionali sulla scolarità di figlie e figli di immigrati stranieri
(Feliciano, Rumbaut, 2009): in alcuni casi registrati negli ultimi anni, il divario di genere a favore
delle femmine sembra più pronunciato tra i figli degli immigrati che non tra la popolazione locale.
21
RAPPORTO SECONDGEN
Nel complesso di una bassa scolarità media, emerge che una parte – anche se minoritaria - dei figli
di immigrati meridionali a Torino ottiene un diploma o una qualifica professionale, ma tra questi la
percentuale di ragazze risulta nettamente maggiore di quella dei maschi. Il dato che più colpisce è
l’entità del divario. Al 1981 (tab. 1) sono quasi 9 i punti che dividono le femmine dai maschi (il
38% delle prime ha il diploma contro il 29% dei secondi) mentre negli altri gruppi regionali le
differenze sono più contenute (75% delle femmine e 72% dei maschi tra piemontesi e torinesi). Al
1991 (tab. 2) questa tendenza si è accentuata: la percentuale di ragazze con diploma è salita al 45%
mentre i ragazzi non arrivano al 34%. I punti che li dividono sono diventati 11.
È un dato per nulla scontato. Il salto rispetto alla scolarità delle madri è molto forte ed è dovuto
anche al fatto che la scolarizzazione delle donne delle classi popolari nel Mezzogiorno era
tradizionalmente molto bassa e più bassa di quella degli uomini. Le madri meridionali delle
ragazze della coorte 1956-1961 che non superano la licenza elementare (spesso fermandosi prima)
sono più del 90%. Il grado di scolarità delle madri al 1991 è ancora bloccata a questo livello nel
75% dei casi. È un salto tra generazioni più netto di quello realizzato dai maschi. Ed è
naturalmente un salto generazionale molto più radicale rispetto alle ragazze piemontesi.
Che cosa è avvenuto a Torino? Quali nuove aspirazioni si sono fatte strada fra le figlie degli
immigrati, come e perché?
I dati statistici non sono in grado di fornire elementi di spiegazione di questo fenomeno. Per
formulare delle ipotesi occorre esplorare altre fonti che permettano di indagare i percorsi biografici
di maschi e femmine. Sono le storie di vita di immigrati di seconda generazione a mostrare
chiaramente itinerari maschili e femminili assai differenziati.
22
RAPPORTO SECONDGEN
Femmine e maschi: traiettorie a confronto
Fin da bambini figli e figlie di meridionali a Torino conducono vite molto segnate dalle
appartenenze di genere: l’educazione ricevuta in famiglia assegna loro competenze, diritti e doveri
nettamente distinti. Alle prime sono affidati compiti di cura da cui i secondi sono tendenzialmente
esclusi: accudire i fratelli minori, svolgere mansioni domestiche, sbrigare commissioni. Le figlie
hanno un ruolo di fondamentale supporto alle madri immigrate che nel nuovo contesto cittadino
non possono contare su una rete di solidarietà femminile, nella parentela e nel vicinato, come
invece avveniva nei luoghi di origine. Un dato cruciale di cui è indispensabile tenere conto per
comprendere i comportamenti delle famiglie immigrate è proprio questo: l’impoverimento delle
reti di relazione che avviene a seguito della mobilità geografica. Tale impoverimento ha un effetto
particolarmente pesante sulla quotidianità delle donne sposate con figli che hanno qualche tipo di
occupazione extradomestica. Come in tutte le migrazioni, le nonne per lo più non emigrano con i
figli in età da lavoro (per ulteriori dettagli, vedasi Badino, 2008) e nelle abitazioni in cui vanno a
risiedere gli immigrati al loro arrivo non è automatico che si creino subito reti di vicinato tali da
garantire la custodia reciproca dei figli. La costruzione di tali rapporti richiede del tempo (Badino,
2011).
L’esperienza dei figli maschi è distante da quella delle femmine, anche se ugualmente
condizionata dalle reti di relazione rarefatte delle loro famiglie: l’identità maschile che essi
sviluppano fuori da una possibilità di controllo dei genitori è basata sulla cultura della strada
(Lepoutre, 1997; Mandich, 2010) che è centrale nella loro socializzazione e finisce per avere
importanti ripercussioni sui loro destini sociali. Essa infatti valorizza atteggiamenti che sono in
antitesi alla scuola (come il rifiuto dell’autorità e manifestazioni di ribellione nei confronti
dell’istituzione scolastica) e li porta a entrare molto presto nel mondo del lavoro: è in questo
diverso contesto che finiscono per ricercare gratificazione e realizzazione personale quando si
sentono respinti dagli insegnanti che ripetutamente ne sanzionano i comportamenti
“indisciplinati”. Tali atteggiamenti sono ripetutamente segnalati dalle maestre elementari nei
registri scolastici dell’epoca da noi esaminati nella parte dedicata alle “cronache di vita della
classe”.
La disciplina, al contrario, non manca alle ragazze, fin da bambine socializzate all’etica della
responsabilità e della cura (Belotti, 1975). La scuola sembra premiare alcuni comportamenti che
vengono sviluppati in questo modello educativo e che finiscono per essere considerati
“tipicamente femminili”, come l’ordine, la precisione, la pulizia, l’atteggiamento responsabile e
l’ubbidienza (Gasperoni, 1996). Come accade nel caso di altre migrazioni (Beaud, 2002), le
femmine sono estranee alla cultura della strada, o almeno lo è la maggior parte di esse. Le famiglie
immigrate infatti, che non possono contare sul controllo di un vicinato allargato per sapere cosa
succede alle loro figlie, sono insicure e sembrano avere come principale preoccupazione quella di
tenerle lontane dalla strada e dai potenziali pericoli che essa rappresenta. Le responsabilità
familiari di cui sono investite fin da piccole, oltre a servire da supporto alle madri, limitano
notevolmente il loro tempo libero e fanno sì che la loro esistenza si svolga prevalentemente entro
le mura domestiche, all’opposto di quanto avviene ai coetanei maschi.
Con la crescita il maggiore controllo esercitato sulle figlie si rafforza e va a distanziare sempre di
più l’esperienza di maschi e femmine. Ed è nella transizione all’età adulta che si definiscono in
modo più netto alcune differenze di genere capaci di portare ragazzi e ragazze su strade diverse nei
percorsi scolastici e lavorativi.
23
RAPPORTO SECONDGEN
Di seguito proponiamo, in estrema sintesi, una serie di temi che sono stati ampiamente
approfonditi nel volume di Anna Badino: Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione
meridionale al Nord, Carocci, Roma 2012.
Una situazione in apparenza penalizzante per le femmine non porta necessariamente a esiti più
modesti dal punto di vista scolastico o professionale. Al contrario, la diffusione tra ragazze di
origine meridionale degli studi oltre la licenza media e alcuni fattori legati alle caratteristiche del
mercato del lavoro dell’epoca portano non di rado le giovani di questa generazione su traiettorie
professionali più qualificate rispetto ai loro coetanei maschi: l’ingresso nelle professioni
impiegatizie. Ma la strada verso questo traguardo è tutt’altro che lineare:
non sempre l’atteggiamento dei genitori è orientato a investire sull’istruzione delle figlie e sulla
loro mobilità professionale. Al contrario, non mancano i casi in cui le famiglie privilegiano
l’istruzione dei figli maschi a scapito delle figlie femmine anche sulla base dei progetti che hanno
nei loro confronti: la meta principale è il matrimonio. Il raggiungimento di un’autonomia
economica o l’affermazione professionale sono elementi molto marginali rispetto al primo.
La reazione delle ragazze a questo modello educativo familiare basato da un lato sul controllo e
dall’altro su una scarsa valorizzazione dei loro percorsi scolastici può andare in due opposte
direzioni:
la fuga nel matrimonio in età precoce, per liberarsi da un controllo familiare vissuto cme
oppressivo. Tale tendenza nei percorsi biografici delle immigrate di seconda generazione a Torino
è ben evidenziata dai dati dello Studio longitudinale torinese. Rispetto alle coetanee locali, le
ragazze di origine meridionale si sposano in un’età più precoce. Al censimento del 1981 tra le
giovani di età compresa tra 20 e 22 anni più di una meridionale su quattro è già sposata, una
percentuale quasi tre volte superiore a quella delle piemontesi, che sono meno di una su dieci.
desideri di riscatto: un diverso tipo di reazione, non necessariamente in antitesi con il primo, ma
capace di porre le basi per una loro futura mobilità professionale. Anche quando s’interrompe
precocemente la scuola dopo l’obbligo, spesso la volontà di proseguire gli studi si realizza
attraverso altre strade: dopo essere entrare in un mercato del lavoro manuale che non richiede
particolari titoli di studio e che permette di contribuire al bilancio domestico, si moltiplicano le ore
lavorate e si risparmia il denaro necessario a pagare gli studi. Le scuole serali, o anche più semplici
corsi professionali brevi molto diffusi nella Torino dell’epoca, permettono la realizzazione di tale
progetto e sono un’opportunità colta da molte ragazze lavoratrici. Riportiamo, a titolo di esempio,
la testimonianza di Carmela, nata a Melfi nel 1962 e arrivata a Torino in seconda elementare, figlia
di un lavoratore manuale e di una casalinga.
«Ho ricominciato a lavorare verso i 16-17 anni. Quindi subito dopo il lavoro, la sera andavo a
fare i corsi serali. Mi sono iscritta alle serali, ho finito di fare la segretaria d’azienda e facevo
dattilografia, stenografia perché allora si usava tantissimo. (…) sono andata anche a scuola di
inglese, sempre private; me le pagavo io. (…) Perché io ho sempre - come anche mia sorella voluto crescere e non rimanere così come sono; invece gli altri (familiari. ndr) stanno bene nella
loro ignoranza; sia io che lei, nel nostro piccolo, abbiamo sempre voluto qualcosa di più».
Un’altra testimone, Gemma, ci fa comprendere l’entità di quel “desiderio di riscatto” di cui si è
scritto sopra:
«Una cosa che recrimino a mio padre è che aveva un concetto suo tutto particolare. Eravamo 2
femmine e 3 maschi e, finita la terza media, dice: “Guardate ragazze che purtroppo a voi due non
vi posso pagare gli studi perché siete due donne e le donne sono i mariti che devono mantenerle,
quindi con voi sprecherei i miei soldi. Preferisco far studiare i maschi perché con un titolo in
mano hanno una vita più agiata e loro devono mantenere una famigli. Ma con quei soldini che ci
dava (il negozio di fiori dove siamo andate a lavorare) nella settimana e la domenica noi ci
24
RAPPORTO SECONDGEN
pagavamo il corso di stenodattilografia e paghe e contributi in una scuola privata (…) La scuola
era di un anno soltanto, perché era una specializzazione. Ti davano un attestato del corso di
dattilografia, stenografia. Io avevo fatto contabilità meccanizzata e paghe e contributi, ma
un’infarinatura; quindi quell’anno lì avevo fatto full immersion. Noi praticamente avevamo fatto
un corso accelerato per segretaria d’azienda; in più, era a pagamento».
Grazie ai corsi serali frequentati, la testimone e la sorella raggiungeranno posizioni migliori in
ambito professionale rispetto ai fratelli maschi, e ai rispettivi mariti:
«Io e mia sorella in banca. Noi abbiamo avuto una carriera migliore. Infatti è quello che
dicevamo a mio padre: “Tu non ci hai fatto studiare, però alla fine eravamo quasi noi che
mantenevamo i mariti”. Dico esagerando, ma il nostro stipendio era il doppio dei nostri mariti;
perché mio cognato era nell’Arma e mio marito era operaio».
Se per le ragazze di origine meridionale non è raro che si riprendano gli studi in un momento
successivo all’ingresso nel mercato del lavoro manuale, il percorso di molti coetanei di sesso
maschile sembra andare esattamente in direzione opposta: anche chi è motivato dalle famiglie a
intraprendere una scuola superiore subisce il più forte richiamo del mercato del lavoro e finisce per
abbandonare presto gli studi.
La socializzazione avvenuta principalmente attraverso la cultura della strada unita alla facilità con
cui i ragazzi riescono a trovare un’occupazione manuale (come quella dei loro padri) nella Torino
a vocazione industriale finisce per rivelarsi un boomerang per i loro destini sociali,
disincentivando la prosecuzione degli studi oltre l’obbligo scolastico. Questo mondo, fatto di
occupazioni manuali (dall’industria all’artigianato e al commercio fino alla ristorazione) fornisce a
ragazzi appena adolescenti quelle soddisfazioni sia in termini di guadagno sia sotto il profilo
dell’autostima che non traggono dalla scuola. Si passa da un lavoro all’altro con estrema facilità,
alla ricerca di condizioni sempre migliori.
Ma il panorama economico del capoluogo piemontese muta radicalmente negli anni successivi con
la crisi del modello industriale che lo alimentava e l’abbondanza di lavoro poco qualificato
improvvisamente si esaurisce. Sono molti i figli di immigrati che si ritrovano a quarant’anni senza
un’occupazione stabile e in una condizione di grave precarietà economica. I bassi titoli di studio
che, come si è visto, caratterizzano questa generazione di ragazzi rendono difficile il loro
reinserimento in settori di lavoro non manuale che richiederebbero competenze più qualificate
(Avonto et al, 2007). Tale svantaggio farà sentire i suoi effetti soprattutto quando la crisi e il
continuo declino dell’industria locale causerà la perdita di un gran numero di posti di lavoro
operaio e risparmierà invece le posizioni occupazionali superiori. Secondo i dati dei censimenti tra
il 1981 e il 1991 la percentuale di occupati nell’industria passa dal 45% circa a meno del 40%. Il
settore perde nell’arco del decennio circa 106 mila addetti e il tasso di disoccupazione sale dal
10,1% al 12,4% (Unione Industriale di Torino 2010; Castagnoli, 1998).
La tendenza continua negli anni successivi.
Il terziario in crescita invece rende disponibili molti posti di lavoro non manuali aperti a chi ha la
qualificazione necessaria. È soprattutto la manodopera femminile ad approfittarne, facendosi
trovare preparata, come abbiamo mostrato, a cogliere questa nuova opportunità.
25
RAPPORTO SECONDGEN
Esperienze femminili. Una comparazione tra il passato e oggi
L’analisi condotta sull’esperienza dei figli dei meridionali a Torino ha mostrato come, anche per le
migrazioni interne, si possa parlare a tutti gli effetti di una seconda generazione, che deve affrontare
specifiche sfide rispetto ai coetanei di origine locale. Al di là del fatto che la loro storia migratoria si
è svolta all’interno di uno stesso confine nazionale e al di là delle mutate condizioni economiche e
sociali in cui avviene la migrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri di oggi, ci sembra che si
possano individuare alcuni aspetti che caratterizzano l’esperienza di entrambe queste seconde
generazioni. Il confronto tra i due casi presenta delle evidenti difficoltà, derivanti dalla necessità di
tenere in considerazione numerose differenze di contesto. Tuttavia, ci sembra utile tentare di
riflettere su quali possano essere le costanti legate alla mobilità geografica nei percorsi di bambini e
ragazzi di origine immigrata e quali le discontinuità principali in fenomeni migratori che avvengono
a distanza di diversi decenni.
L’analisi è concentrata sul processo di inserimento e radicamento nella società locale, a partire dal
primo impatto con l’ambiente scolastico, e cerca di mettere a fuoco le ricadute di questo processo
sui percorsi sociali delle seconde generazioni. Per rendere più semplice il confronto, l’attenzione è
stata focalizzata sull’esperienza femminile che, in entrambe le migrazioni, presenta delle specificità
di genere da cui non è possibile prescindere. (per approfondire vedi l’analisi a pag 61)
26
RAPPORTO SECONDGEN
Ruolo dell’istruzione nelle famiglie immigrate. Una comparazione tra il passato e oggi
E’ noto che contributi importanti allo sviluppo della ricerca sulle migrazioni sono venuti dagli
studi comparativi. Questo è vero in particolare per l’analisi dei processi di integrazione delle
seconde generazioni e in questo quadro delle diverse strategie che le famiglie hanno adottato
riguardo alla scuola dei figli. Il confronto è spesso avvenuto tra immigrati della stessa origine
in contesti diversi o tra immigrati di origine diversa negli stessi contesti ma vi sono state anche
ricerche che hanno comparato flussi migratori di massa lontani tra di loro nel tempo, come ad
esempio negli Stati Uniti1. Tutte – pur, come è ovvio, con risultati scientifici diseguali - hanno
mostrato la fecondità dell’approccio. In questa prospettiva, proponiamo nelle note che seguono
una comparazione tra la grande migrazione interna del dopoguerra a Torino e la migrazione
internazionale a cavallo tra fine 900 e inizio del nostro secolo con la stessa destinazione2.
E’ il ruolo assegnato dai genitori all’istruzione nelle loro aspettative nei confronti dei figli a
differenziare nettamente le due ondate migratorie. E’ noto che in grande maggioranza le
famiglie provenienti dal Mezzogiorno che si sono insediate (o si sono formate) a Torino nel
corso del lungo miracolo economico non hanno investito nella scolarità della nuova
generazione, la quale spesso non è andata oltre la scuola dell’obbligo3. Lo scenario offerto
dall’immigrazione internazionale su questo piano è radicalmente diverso. E’ molto raro che i
genitori stranieri giunti in Piemonte negli ultimi anni non prevedano la continuazione degli
studi dei figli dopo la licenza media: le famiglie ritengono pressoché scontata l’iscrizione ad
una scuola superiore, anche se gli indirizzi che vengono scelti variano considerevolmente.
Il confronto tra strategie così divergenti e nel contempo – come vedremo - le numerose e
sorprendenti somiglianze nell’esperienza del rapporto dei genitori (e dei loro figli) con
l’istituzione scolastica, aprono interrogativi e suggeriscono ipotesi di lavoro che possono
contribuire a riproporre da angolazioni inusuali nodi di ricerca al centro, come abbiamo detto,
degli studi, arricchendo la varietà delle nostre domande. (per approfondire vedi l’analisi a
pag 78)
1
La letteratura è amplissima. Ci limitiamo a citare lo studio classico di A. Portes and R. Rumbaut, Legacies: the story
of the Immigrant Second Generation, California University Press, Berkeley 2001 per I confronti tra gruppi all’interno di
un contesto nazionale e quello di M. Crul, J. Schneider, F. Lelie , The European Second Generations Compared. Does
the Immigration context matter?, Amsterdam University Press, Amsterdam 2012 per confronti tra la situazione in
diversi contesti nazionali. La comparazione tra immigrati a cavallo del 900 e immigrati dopo il 1965 a New York è al
centro del noto lavoro di N. Foner, From Ellis Island to JFK. New York’s Two Great Waves of Immigration, Yale
University Press, New Haven, Russell Sage Foundation, New York 2000.
2
Non è inutile rilevare – anche se non possiamo discutere qui la questione – che nella storiografia italiana la
comparazione tra migrazioni interne e migrazioni internazionali non ha finora suscitato grande interesse. Su questo
piano gli storici avrebbero probabilmente molto da imparare dai sociologi. E qualora la ricerca si sviluppasse non è
impensabile che i sociologi possano in futuro trarre vantaggio dalla ricerca storica. Ciò che sembra certo è che allo stato
attuale in Italia la contaminazione nel campo degli studi sulle migrazioni tra storici e sociologi si realizza assai meno di
quanto sarebbe auspicabile.
3
Le differenze nei livelli di istruzione a Torino tra seconde generazioni di origine meridionale e coetanei locali o
immigrati dal Piemonte o da altre aree sono forti. I dati relativi al titolo di studio dei giovani torinesi delle diverse
provenienze al 1981, 1991 e 2001 sono stati elaborati sulla base della banca dati dello Studio Longitudinale Torinese
nel quadro della ricerca Secondgen e pubblicati in A. Badino, Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione
meridionale al Nord, Carocci, Roma 2012.
27
RAPPORTO SECONDGEN
2.2. Seconde generazioni delle migrazioni internazionali contemporanee
L’analisi dei percorsi di giovani di origine straniera presenti oggi in Piemonte è costituita da un’
indagine qualitativa mediante interviste in profondità e osservazione etnografica, in connessione
stretta con gli altri segmenti del progetto. Il gruppo di ricerca infatti si è riunito regolarmente per
discutere e condividere le fondamentali prospettive di analisi pur nella specificità degli ambiti e
dei compiti.
Il lavoro svolto
Interviste e osservazione etnografica:
Realizzazione delle tracce di intervista
−
individuazione del quadro teorico: cosa studiare e con quali aspettative
−
aree tematiche da esplorare
−
costruzione della traccia dell’intervista
−
definizione della modalità dell’intervista
−
realizzazione di alcune interviste “test” a seguito delle quali sono state apportate alcune
modifiche e integrazioni alla traccia
L’intervista ai giovani è stata organizzata partendo dall’assunto che nelle scelte scolastiche e
lavorative intervengano i diversi ambienti che i giovani frequentano. E quindi, ad esempio, nella
carriera scolastica interviene la famiglia ( nella scelta o meno di proseguire gli studi, nel tipo di
percorso scelto..), così come l’ambiente scolastico (politiche delle singole scuole, dotazioni
laboratoriali, comportamento degli insegnanti …) etc. Ogni percorso è caratterizzato da vincoli
(giuridici, familiari, economici ...), opportunità, svolte.
L’intervistatore ha svolto l’intervista non standardizzata, suddivisa in sezioni tematiche e
organizzata secondo lo schema seguente:
AMBIENTI
(conflittualità,
isolamento,
continuità)
Vincoli,
opportunità, svolte
Famiglia
Amici
Luoghi (oratorio,
ass.
sportive,
ricreative…)
Scuola
Lavoro
Scuola
(come carriera)
Strutture/carriere
Lavoro
……
Æ Legami
mediati/strumentali/casuali
L’intervista ai genitori dei giovani era finalizzata a sollecitare il racconto dell'esperienza nei
diversi gradi scolastici, specialmente riguardo all’ambiente e ai rapporti con gli insegnanti.
I principali temi esplorati sono stati i seguenti:
28
RAPPORTO SECONDGEN
la storia migratoria della famiglia, i primi lavori e gli sviluppi professionali; le prospettive
e i luoghi del futuro.
−
la scelta della scuola superiore: com’è avvenuta, opzioni considerate e opzioni escluse,
criteri di scelta, informazioni , consigli e figure di riferimento. l’orientamento scolastico: come si è
svolto, è stato o no seguito, le eventuali discussioni familiari, le aspettative verso la scuola.
eventuali cambiamenti: i motivi, come si è arrivati e le strategie e competenze eventualmente
acquisite con quell’esperienza.
−
gli anni di scuola: i rapporti con la scuola, lo svolgimento dei colloqui e le relazioni
/interazioni con gli insegnanti; le azioni e le reazioni nei momenti difficili.
−
il controllo: sulla preparazione, sul tempo libero, le regole familiari, gli impegni casalinghi,
gli amici dei figli, lavoretti .
−
la partecipazione all’associazionismo: informazioni, rapporti con gli organizzatori.
−
figure “modello”
−
i rapporti col paese d’origine e i progetti sui figli : cambiamenti nel tempo
−
le difficoltà maggiori, le fatiche affrontate nell’educazione dei figli
−
differenze di educazione tra i figli (maschi/femmine, primogeniti/secondogeniti)
−
Sono state realizzate
170 interviste, rivolte a ragazze e ragazzi di origine immigrata di età compresa tra i 18 e i 30
anni, in Italia da almeno sette anni, che hanno quindi sviluppato in Italia un parte significativa
della loro carriera formativa
Rispetto al noto approccio di Rumbaut (1997) che propone il concetto di “generazione 1,25” per
coloro che emigrano in età compresa tra i 13 e i 17 anni; “generazione 1,5” per coloro che
cominciano l’educazione scolastica primaria nel paese d’origine per poi completarla nel paese
d’accoglienza, “generazione 1,75” per quanti emigrano in età pre-scolare (fino a 5 anni) e
“generazione 2” per coloro che sono nati, cresciuti e scolarizzati in Italia, i giovani intervistati di
Secondgen sono della generazione 1,50 e 1,75, con alcuni casi di generazione 2.
Gli intervistati sono stati contattati direttamente - spesso dopo numerosi tentativi che in alcuni casi
sono serviti a costruire una relazione di fiducia - nelle scuole, ai giardini, nei posti di lavoro, nei
luoghi di aggregazione, nei centri per l’impiego, nei bar. In questo modo si è tentato di raggiungere
persone al di fuori degli ambienti e delle reti sociali in contatto con le associazioni o con le
istituzioni. Si è deciso inoltre di non selezionare le persone da intervistare in base alla nazionalità,
preferendo appunto una selezione casuale, al fine di evitare un’eccessiva strutturazione a priori dei
risultati secondo il criterio delle “origini” delle persone in questione.
20 interviste rivolte ai genitori
Le strategie di campionamento adottate per la presa di contatto sono state le seguenti: giovani
intervistati; testimoni qualificati; esponenti di associazioni, volontariato, terzo settore. Le ragioni
del tasso di caduta dalla presa di contatto attraverso la prima strategia (genitori di giovani già
intervistati) sono state: difficoltà di trovare il tempo per l’intervista in particolare nel caso di
genitori con orari di lavoro lunghi, genitori single e genitori con titolo di studio non elevato;
mediazione e “filtro” da parte dei figli intervistati; disagio nei confronti dello strumento intervista
da parte dei genitori; cambi di residenza e numeri di telefono e rientri al paese da parte di figli già
intervistati o genitori (o entrambi). Per correggere gli eventuali processi di autoselezione del
campione così prodotti sono state seguite le altre due strategie per la presa di contatto, cercando di
mantenere l’eterogeneità del campione per titolo di studio, condizione occupazionale e paese di
origine dei genitori. In particolare sono state coinvolte madri mediatrici interculturali, in modo da
29
RAPPORTO SECONDGEN
avere sia informazioni derivate dalla loro esperienza professionale come osservatori privilegiati
nell’ambito dell’accompagnamento delle relazioni scuola-famiglia sia informazioni relative alla
loro personale esperienza rispetto all’inserimento a scuola dei figli e alle relazioni con il personale
scolastico e con l’istituzione scuola nei diversi ordini e gradi. (per approfondire vedi l’analisi
a pag.138)
Un’osservazione partecipante tra ragazzi di seconda generazione non inseriti in circuiti ricreativi,
culturali, educativi e sportivi e con percorsi di vita “devianti”. Il lavoro ha richiesto la costruzione
di un rapporto di fiducia con un giovane che ha dato la disponibilità ad aiutare nella ricerca di pari
amici e conoscenti che frequentano i giardini dove passa gran parte del suo tempo libero nelle
giornate di sole, i quali potessero rispondere alle finalità previste dal progetto Secondgen.
Pertanto, si è deciso di investire tempo insieme con il giovane - che ha assunto una posizione di
mediatore rispetto ai potenziali informatori - e con i suoi amici, nella speranza di poter con il
tempo arrivare a raccogliere alcune storie di vita e informazioni sensibili che potrebbero essere
facilmente celate dall’informatore per questioni di “sicurezza personale” e di desiderabilità sociale.
Ovviamente il processo di costruzione della fiducia ha i suoi tempi, spesso molto dilatati,
soprattutto quando si parla di attori devianti o semplicemente “svantaggiati”, per tre mesi infatti le
uscite ai giardini e nella zona limitrofa non hanno prodotto i risultati attesi . Tuttavia, una serie di
pratiche messe in atto e riconducibili all’osservazione partecipante, e la competenza sulle
dinamiche relazionali osservate hanno tranquillizzato i giovani avvicinati sulla presenza e sulle
oneste intenzioni di ricerca della ricercatrice che ha condotto il lavoro e che ha redatto un diario
puntuale.
La maggior parte delle informazioni sono state raccolte informalmente attraverso colloqui
collettivi e individuali per lo più dettati dal caso (incontrare uno di loro da solo che è uscito di casa
prima dell'appuntamento con gli amici, ad esempio), e questo ha impedito di avere per ogni
ragazzo informazioni complete relative alla traccia d'intervista. Informazioni interessanti sono
invece state raccolte durante i colloqui individuali o collettivi informali, avvenuti prima
dell'intervista o nei giorni successivi. Chi ha accettato di fare l'intervista formale, spesso ha
accettato in virtù dell'anonimato e per la solidarietà che questi ragazzi hanno nei confronti dei figli
degli immigrati ora più giovani di loro . "Beh, se può servire a migliorare la vita di chi ora è
bambino, allora ti aiuto e accetto!" è una frase ricorrente.
E’ stato inoltre compiuto un focus specifico negli istituti alberghieri con interviste a 38
studenti, incontri con insegnanti e dirigenti, e dieci mattine di osservazione diretta del lavoro
in aula e nei laboratori di cucina. L'obiettivo della focalizzazione era approfondire situazioni e
percorsi di studenti di seconda generazione nelle classi terminali di istituti professionali, ormai
prossimi alla transizione al lavoro o all'università. Le interviste hanno ricostruito in particolare il
percorso scolastico precedente (compresi gli eventuali cambiamenti di scuola), le ragioni della
scelta dei corsi professionali, gli eventuali lavoretti o tirocini collegati al corso scolastico e le
intenzioni e aspettative per il prossimo futuro.
L'osservazione diretta di alcune lezioni ha avuto come obiettivo da un lato di cogliere eventuali
differenze di comportamento o di trattamento degli studenti di origine straniera, dall'altro di avere
una
visione
diretta
della
realtà
scolastica
in
cui
essi
vivono.
La scelta dell'istituto Alberghiero nasce dall'ipotesi che esso consenta di studiare un segmento
della frontiera scuola/lavoro che offre sbocchi articolati sui servizi e sulla industria diversi dalle
più studiate occupazioni nel metalmeccanico e nel manifatturiero. Anche il ciclo congiunturale e
alcune logiche nel reclutamento e nell’organizzazione della manodopera si dovrebbero distinguere
da quelle dell’impresa manifatturiera. Anche se pochi diplomati saranno destinati a lavorare nei
ristoranti blasonati o negli hotel a cinque stelle, da diversi anni la ristorazione di qualità è diventata
un ramo della cultura creativa, con la valorizzazione dell’arte di cucinare, delle produzioni locali e
30
RAPPORTO SECONDGEN
tradizionali, degli stili di vita ecologici, dei prodotti biologici ecc. nonché delle cucine dette
etniche. Gli allievi hanno occasione di fare stage o visite all’estero, anche in paesi lontani. Questo
potrebbe rendere più ricco e stimolante l’approccio alle materie pratiche e forse aprire qualche
spiraglio su un approccio culturalmente più ricco e stimolante al mestiere.
Queste ipotesi di partenza sono state solo parzialmente confermate. Infatti le interviste descrivono
i lavori nella ristorazione, nei bar e negli alberghi molto vari e diversificati, con gerarchie
professionali articolate, con un forte turn over e un alternarsi di cicli stagionali che richiedono
mobilità territoriale (le “stagioni” al mare o nelle stazioni invernali). Sono frequenti le possibilità
di lavoro (o di lavoretti) a persone prive di formazione specifica. Questo mercato del lavoro
estremamente aperto rende debole la posizione del diplomato all’istituto alberghiero, diversamente
da quando accade ad esempio in Germania dove l’accesso alla professione è fortemente regolato .
Diventa quindi fondamentale l’indagine sulle reti di conoscenze, sulle strategie individuali per
orientarsi, sulle aspettative e sulle prospettive. (per approfondire vedi l’analisi a pag.96)
Altri contatti con ex allievi di istituti professionali per meccanici e per odontotecnici sono stati
realizzati per capire i meccanismi di inserimento professionale e il legame con la formazione
ricevuta.
Contatti e testimoni privilegiati
A Torino sono stati realizzati numerosi colloqui con insegnanti, dirigenti nelle scuole e nei centri
di formazione professionale, operatori e funzionari pubblici nella Circoscrizione3 che a vario titolo
si occupano di giovani per esplorare temi e problemi che sarebbero stati inseriti nella traccia
dell’intervista. Da ciò sono scaturiti anche i primi contatti con i giovani che si sono poi estesi ad
altre zone e realtà della città e della provincia.
In particolare si ringraziano per la collaborazione: Istituto Professionale per il Commercio Plana,
Istituto Professionale Albe Steiner Succursale, Istituto Professionale per il Commercio BossoMonti, Istituto Magistrale Berti, Istituto Tecnico Attività Sociali Santorre di Santarosa, Istituto
Professionale Boselli, Formazione Professionale MarioEnrico, punto internet di via Vigone,
Servizi Sociali Circoscrizione3, CTP di via Drovetti, oratorio salesiano via Luserna, UISP,
sportello lavoro Hatun Wasi, struttura di accoglienza via Pacini, associazione CEntroPEr, GMI,
Ufficio Pace Moncalieri, C.I.S.S.A. (Consorzio Intercomunale Servizi Socio Assistenziali)
Moncalieri, centro Asai, Unicredit, Intesa San Paolo, CNA Progetto Dedalo World Torino,
Ufficio J.P. Facoltà di Economia di Torino, Ufficio J.P. Politecnico di Torino, L.V.I.A. Torino,
Ufficio Rappresentanza Camera di Commercio di Tirana (Torino), Consolato del Marocco a
Torino, RdB- USB (Unione Sindacale di Base, UIL Torino (via Bologna), Ufficio del Comune di
Torino per il Servizio Civile dei Giovani Immigrati, Centro Per l'Impiego di Venaria, C.I.S.S.A.
(Consorzio Intercomunale Servizi Socio Assistenziali) di Pianezza, Associazione Mosaico, Ufficio
Immigrazione della Provincia di Torino, Casa Valdese di Torino, Mc Donald di Alpignano e
Rivoli, Burger King di Collegno, Moschea di Via Chivasso a Torino, Caffè Basaglia a Torino,
Centro Giovani Centro Anch'io e Idea Donna onlus a Torino.
Nell'area di Alessandria e provincia inizialmente è stata svolta una ricognizione attraverso colloqui
con testimoni privilegiati dei servizi del territorio quali: la referente del Consiglio territoriale per
l'immigrazione della Prefettura di Alessandria, la responsabile dello Sportello per cittadini stranieri
del Comune, un'assistente sociale del Consorzio servizi sociali di Alessandria.
Per il reperimento di contatti per le interviste sono stati utilizzati come canali, inizialmente, alcuni
mediatori interculturali di Alessandria, in parte attivi presso lo Sportello per cittadini stranieri del
Comune, in parte presso cooperative sociali e associazioni. Di grande utilità in fase iniziale sono
stati inoltre i contatti forniti da una studentessa universitaria di origine straniera che ha preso parte
alla ricerca come stagista. Si è ricorso agli Sportelli Immigrazione dei sindacati CISL e CGIL e a
31
RAPPORTO SECONDGEN
realtà associative ad esse collegate, come l'Auser di Alessandria. Un altro canale è stato il Centro
per l'impiego che ha fornito contatti su Alessandria e Casale. Per quanto riguarda l'ambito
educativo, importanti canali di contatto sono stati il centro di formazione professionale CNOSFAP e, in parte, la Scuola edile di Alessandria.
Ulteriori contatti sono stati forniti dalle educatrici del progetto di quartiere Habital nel quartiere
Cristo che hanno permesso di intercettare una fascia di ragazze di origine marocchina, altrimenti
difficilmente raggiungibile. In ambito sportivo, ci si è avvalsi dei contatti forniti dalla sezione
arbitri A.I.A. di Alessandria. Nello specifico per le interviste svolte a Novi Ligure, gli intervistati
sono stati reperiti attraverso una mediatrice marocchina, il Focus Group Immigrati del Comune e il
CTP.
Per tutti gli intervistati, si è cercato di procedere al reperimento di nuovi contatti attraverso la
modalità “palla di neve”, ma non sempre ciò è stato efficace per un certo “protezionismo” messo
in atto dagli stessi nei confronti della propria rete amicale e, soprattutto, parentale, nel caso di
fratelli e sorelle.
L’obiettivo, raggiunto, di questo paziente lavoro non era la realizzazione di un campione
rappresentativo ma il “carotaggio” di diverse categorie di giovani, anche di coloro che sono
difficilmente raggiungibili. Si pensi ad esempio a giovani ragazze che hanno terminato gli studi e
si sono sposate o sono in attesa del matrimonio, o ai ragazzi che hanno abbandonato gli studi e poi
vi sono rientrati, o a quanti vivono ai margini o dentro la devianza .
L’analisi delle interviste
le interviste sono state trascritte integralmente, tranne le poche interviste brevi o non
registrate per ragioni contingenti o desiderio dell’intervistato/a, rispetto alle quali l’intervistatore
ha trascritto gli appunti raccolti nel corso dell’intervista
•
•
all’inizio di ogni intervista è stata inserita una sintetica “scheda- intervistato” sintetica
rispetto ad alcune informazioni socio-demografiche
le trascrizioni sono state inserite nella pagina on line predisposta nel sito dell’Università del
Piemonte Orientale
•
il gruppo di ricerca si è regolarmente incontrato per riunioni di analisi e discussione delle
interviste che venivano realizzate e della letteratura scientifica italiana e internazionale
•
analisi delle interviste effettuata con Atlas.ti5
•
Il processo di codifica
L’analisi si è svolta con rapporto circolare tra teorie di riferimento, domande di ricerca e confronto
con la documentazione empirica e si è sviluppata attraverso diverse fasi (v. fig. 6).
32
RAPPORTO SECONDGEN
Fig. 6 - Le fasi dell’analisi
La fase 1 è stata svolta collegialmente nel gruppo di ricerca e individualmente da ogni ricercatore
oppure in piccoli gruppi in base al tema che si voleva sviluppare, attraverso il confronto costante
con il gruppo di ricerca per aspetti tecnici e analitici.
La struttura del libro codice
I codici sono stati pensati per etichettare brani di interviste in modo che siano estrapolabili
specifiche porzioni di testo in base al tema e che sia possibile visualizzarli all’interno
dell’intervista nella quale si collocano e in relazione ad altre interviste o parti di interviste (fig. 7).
Fig.7 - Esempio di brano di intervista codificato in Atlas.ti5
Il libro codice del progetto Secondgen è stato organizzato gerarchicamente per macro aree. Il
gruppo di ricerca ha stabilito di definire codici tematici generali e principalmente relativi a
pratiche e comportamenti in modo da garantire l’intersoggettività nelle fasi 1-3 (fig. 6), una
piccola parte di codici riguarda percezioni, atteggiamenti e valutazioni ( tab. 4).
33
RAPPORTO SECONDGEN
Tab. 4 – La struttura del libro codice (fase due)
Codice
1 info
2 scuola
3 lavoro
4 lavoretti
5 famiglia
6 amici
7 immagini del futuro
8 figure modello, punti di riferimento
9 impegno in ass, sport, ecc
10 consumi
Sottocodici
1.1 info: posizione giuridica
1.2 info: luogo di residenza
2.1 scuola:scelta
2.2 scuola:percorso
2.3 scuola:relazioni
2.4 scuola:struttura
2.5 scuola:aspettative
2.6 scuola: cosa si fa dopo
2.7 scuola:intervento genitori
3.1 lavoro:percorso
3.2 lavoro:perché scelta e rete info
3.3 lavoro:relazioni, ambiente
3.4 lavoro:valutazione
3.5 lavoro:congruenza con scuola
infermier
5.1 famiglia:storia
5.2 famiglia:educazione genitori
5.3 famiglia:lavoro genitori
5.4 famiglia:fratelli e cugini
5.5 famiglia:controllo e relazioni
10.1 consumi:abitazione
10.2 consumi:auto e altri mezzi
10.3 consumi:culturali
10.5 consumi:investimenti
10.6 consumi:ristorazione
10.8 consumi:tecnologia
10.9 consumi:viaggi e turismo
10.10 consumi:cura persona
Discriminazione
Devianza
identità e lingua
il ritorno?
Matrimonio
uso territorio
La lista delle famiglie e le caratteristiche del campione
Le famiglie sono pensate per classificare intere interviste (Primary Documents) laddove le
informazioni siano presenti. L’unità ermeneutica completa (HU II gen) è dunque costituita dalle
interviste realizzate con i giovani migranti, i codici applicati ai brani di intervista e la
classificazione di ogni intervista secondo la lista delle famiglie (tab. 5). Per ragioni di
comparabilità sono state escluse dalla documentazione empirica analizzata con Atlas.ti5 le
interviste brevi o non registrate per ragioni contingenti o desiderio dell’intervistato/a, le interviste
collettive, i focus group e le interviste con i genitori. In totale sono state analizzate 148 interviste.
34
RAPPORTO SECONDGEN
Tab. 5- HU IIgen, lista di famiglie e numero di primary documents per famiglia
Primary Doc Families
Primary Docs
Esecutore
Età
genitori conviventi
in Italia da
Lavoro
Luogo
origine genitori
scolarità interrotta
Sesso
stato civile
Studio
35
<18
18‐24
25‐29
>29
No
Si uno
si entrambi
<7 anni
7‐10 anni
>10 anni
no (disoccupato)
Si
al cit
al prov
to cit
to prov
Albania
Brasile
Cina
Congo
costa d'avorio
Croazia
(148)
(3)
(107)
(31)
(7)
(37)
(31)
(78)
(20)
(49)
(79)
(27)
(39)
(31)
(7)
(94)
(16)
(15)
(1)
(6)
(1)
(2)
(1)
Ecuador
(2)
Egitto
Filippine
Ghana
Kazakistan
Libano
Macedonia
(1)
(3)
(3)
(1)
(1)
(1)
Marocco
Mauritius
Nigeria
nuova zelanda
Perù
Polonia
Romania
Russia
Senegal
(49)
(2)
(3)
(1)
(17)
(2)
(32)
(1)
(1)
sierra leone
(1)
Sudan
No
Si
Femmina
Maschio
celibe/nubile
Convivente
Sposato
No
(1)
(127)
(16)
(79)
(69)
(128)
(3)
(15)
(58)
RAPPORTO SECONDGEN
titolo > tra genitori
titolo acquisito
ultima scuola di iscr
si studio e lavoretti
si studio e lavoro
si solo studio
Laurea
Diploma
Qualifica
Obbligo
Nessuno
Laurea
Diploma
Qualifica
corso di formazione
Obbligo
Medie
triennio qualif
Superiori
Università
(50)
(7)
(30)
(24)
(41)
(6)
(34)
(14)
(13)
(63)
(33)
(6)
(37)
(1)
(8)
(62)
(45)
L’analisi di dati quantitativi
Una parte delle attività è stata dedicata a verificare se nel capoluogo piemontese si stia assistendo a
fenomeni di concentrazione etnica in alcune scuole dell’obbligo.
A tal fine, in collaborazione con i Servizi Educativi del Comune di Torino, sono stati raccolti i
dati relativi alle iscrizioni degli allievi, italiani e di origine straniera, nei diversi plessi delle
scuole primarie e secondarie di I grado per alcuni anni. La collaborazione con l’Ente ha
favorito una disamina puntuale e articolata dei dati (ad esempio, scorporando gli allievi nati in
Italia da coloro che vi sono arrivati per ricongiungimento familiare), che sta permettendo di
approfondire la distribuzione degli alunni con cittadinanza straniera nelle scuole cittadine, anche
tenendo conto della circoscrizione di residenza.
Per capire meglio i risultati scolastici dei figli degli immigrati, il gruppo di ricerca ha richiesto i
file dati della rilevazione Invalsi 2010-2011 e 2011-2012. (per approfondire vedi l’analisi a
pag 108) Oltre ai risultati dei test di comprensione dell'italiano e di competenze matematiche, i
file contengono anche i dati dei questionari somministrati agli studenti delle scuole elementari,
medie e superiori. Questi dati permettono di capire meglio le specificità degli studenti stranieri, le
differenze tra stranieri nati in Italia e all'estero e possono aiutare a capire alcuni meccanismi
sottostanti lo svantaggio scolastico. I dati in questione riguardano ragazzi più giovani dei nostri
interlocutori delle interviste qualitative, arrivati in momenti storici differenti (per esempio, in un
momento in cui gli allievi stranieri erano più numerosi e le scuole più abituate alla presenza di
ragazzi stranieri). Ciò nonostante, la possibilità di spostarsi tra ipotesi derivate da interviste
discorsive e i dati di un questionario somministrati a ragazzi più giovani offre diversi spunti per
capire l'esperienza dei figli degli immigrati e le tendenze attualmente in corso.
L'analisi dei dati, ancora nelle prime fasi, impiega una gamma di tecniche dalla semplice analisi di
tabelle incrociate alla regressione e all'analisi multilivello. Tale analisi multivariata chiarirà il
rapporto tra la riuscita scolastica (misurata dai punteggi ottenuti nei test Invalsi o dai voti) e da una
parte varie caratteristiche individuali e familiari (regolarità negli studi, status sociale della
famiglia, cittadinanza, numero fratelli, strategie di apprendimento, ecc.) e dall’altra alcune
caratteristiche della classe e della scuola frequentata dallo studente.
Le analisi preliminari hanno anche rilevato alcuni limiti delle informazioni presenti nella base dati,
in particolare per quanto riguarda le informazioni sullo status sociale delle famiglie. Questi limiti
saranno tenuti in conto nell'interpretazione dei dati.
36
RAPPORTO SECONDGEN
Per capire meglio le cause e le conseguenze demografiche delle migrazioni sono stati inoltre
elaborati dati dei censimenti 1951-2011. Al fine di illustrare il contesto demografico delle
migrazioni in vari anni, sono stati utili le piramidi d’età e il calcolo di vari indici demografici
(tasso di fecondità totale, tasso di fecondità per fasce d’età, indice di dipendenza senile e giovanile,
ecc.). I dati censuari sono stati preziosi anche per mostrare gli effetti delle migrazioni sulla
struttura d’età delle varie province del Piemonte.
37
RAPPORTO SECONDGEN
Alcuni risultati
Uguaglianza e disuguaglianza tra scuole
Autoselezione degli studenti e “effetto scuola”
La ricerca sociologica sulla scuola ha dimostrato negli ultimi anni gli effetti sulla riuscita
scolastica non solo di caratteristiche individuali dello studente e della sua famiglia (es. classe
sociale, livello di istruzione dei genitori) ma anche delle caratteristiche medie della classe o della
scuola. Così, ad esempio, le prestazioni in test standardizzati tendono ad essere più elevate in
media in una classe in cui lo status medio dei genitori è più elevato anche indipendentemente
dell'effetto dello status familiare del singolo studente. In altre parole, anche uno studente
proveniente da una famiglia modesta tenderà ad avere punteggi più elevati in una classe in cui la
media dello status sociale è elevata. Questo risultato della ricerca italiana e internazionale degli
ultimi anni ha evidenti implicazioni per le riflessione sulla situazione dei figli degli immigrati in
Piemonte.
Le interviste qualitative analizzate dalla nostra ricerca hanno reso evidenti l'importanza della
scuola frequentata e della scelta scolastica nei percorsi dei giovani e l'analisi dei dati Invalsi potrà
dare un ulteriore contributo per precisare e testare la solidità di alcune conclusioni nel tentativo di
capire meglio l'importanza di "dove" si studia.
Gran parte dei giovani stranieri sono o sono stati dirottati in istituti tecnico/professionali. Nel 2011
in Italia, secondo i dati ministeriali, solo il 18,7% degli studenti stranieri si trovava nei licei, contro
il 43,9% degli studenti italiani.
Secondo i dati Invalsi elaborati dalla nostra ricerca, nelle classi seconde delle scuole superiori
piemontesi presenti al momento dei test 2011, il 46% degli studenti italiani era in un liceo, contro
il 22% degli studenti stranieri nati all'estero e il 32% di quelli nati in Italia. Gli istituti professionali
invece sono stati scelti dal 18% degli italiani, contro il 37% degli stranieri nati all'estero e il 26%
di quelli (meno numerosi) nati in Italia.
Una distribuzione così differente nei diversi tipi di scuola inevitabilmente avrà conseguenze sulla
stratificazione sociale dell'Italia del futuro. La concentrazione in filiere tendenzialmente più brevi
ovviamente non è negativa in sé: molto dipende dal livello di preparazione fornito e dalla
successiva capacità di inserimento nel mercato del lavoro. Rispetto alle competenze degli studenti
formati, va notato che le medie dei punteggi rilevati dai test Invalsi mostrano scarti molto netti tra i
vari indirizzi:
Tab. 6 - Risultati test Invalsi 2011
Liceo
Ist. Tecnico
Ist. Professionale
Punteggio italiano
77,9
67,9
57,3
Punteggio matematica
55,6
51,7
37,7
Fonte: Rilevazione Invalsi 2010- 2011, questionario studente
Questo ha evidenti implicazioni per la formazione del capitale umano della futura forza lavoro
piemontese. La sovra-rappresentazione degli stranieri nelle scuole che attualmente forniscono
38
RAPPORTO SECONDGEN
competenze meno adeguate rappresenta uno spreco di capacità che l'economia italiana avrebbe
invece bisogno di utilizzare (Cipollone, Sestito 2010, Hanushek 2013).
Come già affermato, il problema non è la concentrazione in filoni professionali in sé, ma piuttosto
la concentrazione in scuole che non forniscono competenze adeguate o legami utili per la carriera
futura. Mentre in alcuni contesti geografici e storici la formazione professionale ha certamente
fornito un ottimo inserimento nel mercato del lavoro, le nostre interviste con ex-studenti degli
istituti professionali indicano che la proporzione di studenti che lavorano nel settore per cui sono
stati formati è molto bassa.
A determinare questa distribuzione possono intervenire anche delle forme di “adattamento” alla
realtà sociale e scolastica, la percezione, plasmata dalla stessa scuola, delle opportunità a cui si
può realisticamente accedere, cosicché certe possibilità non sono neppure prese in considerazione.
Alcune domande erano orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati presi in
considerazione e perché. I racconti non sempre sono espliciti, molte risposte sono molto brevi e
generiche, altre sono più articolate e denotano una complessa analisi delle opzioni. Forse la scelta
o non scelta scolastica hanno a che fare anche con aspetti impliciti e ignoranza delle opportunità
che non emergono nelle interviste, tuttavia è evidente che il numero delle alternative prese in
considerazione è normalmente ridotto. Molti giovani delle famiglie meno istruite accolgono il
criterio dalla scuola che orienta i ragazzi di origine straniera a indirizzi più facili e più brevi, quelli
invece che provengono da famiglie più istruite non vedono un ostacolo nella difficoltà e nella
lunghezza di un indirizzo, anzi, queste esprimono una gerarchia scolastica nella quale si vogliono
occupare le posizioni più prestigiose. François Dubet (2008) sostiene che la scuola di massa, di
principio fondata sull’uguaglianza delle opportunità, dovrebbe mirare a un insegnamento
secondario che riduca al massimo gli effetti delle disuguaglianze sociali nei percorsi scolastici.
Tuttavia, secondo l’autore, tale apertura e le ambizioni di cui essa è caricata fanno di questo tipo di
scuola un agente di disuguaglianze, se non la loro causa. Infatti, la massificazione ha rafforzato la
partecipazione promuovendo lunghi percorsi di scolarità e selezioni tardive e progressive lungo il
corso degli studi, ma non ha sensibilmente accresciuto l’uguaglianza a causa del permanere
dell’effetto scuola, dell’effetto insegnanti e, come si vede anche dalle interviste di Secondgen,
dell’importanza che viene ad avere la capacità di orientarsi nel sistema. Le filiere restano, restano i
frazionamenti gerarchizzati delle qualifiche scolastiche ma sono cambiati i meccanismi della
selezione: questa oggi si situa durante il percorso scolastico, con l’orientamento. Tutti entrano ma
poi prendono direzioni diverse che selezionano gli studenti. Gli allievi inoltre possono essere
orientati a scuole che non desiderano, o ripiegare per un corso a causa della disoccupazione, per
“passare il tempo”, in un contesto i cui individui ritenuti uguali sono impegnati in una
competizione continua (analoga a quella sportiva) ma spostata nel tempo, si gioca sempre più tardi
e i posti offerti “in alto” sono sempre meno.
39
RAPPORTO SECONDGEN
Concentrazione scolastica? Il caso torinese delle scuole primarie e secondarie di primo grado
Lo scenario regionale si inserisce appieno in quello nazionale: anche il Piemonte ha visto
aumentare la componente minorile e giovanile straniera fra i residenti e fra gli studenti (Nanni,
2012). Guardando a quest’ultimo collettivo, come si coglie nella tabella successiva, è in crescita la
quota di studenti stranieri nati in Italia: dato significativo per i noti risvolti nella composizione
delle aule (cfr. questione del tetto del 30% di allievi con cittadinanza non italiana, dal cui computo
escono coloro che son nati in Italia) e per la gestione quotidiana dei programmi e delle attività (ad
esempio, si riduce il numero di richieste di corsi di lingua italiana per neo-arrivati).
Tab.7 - Percentuale di nati in Italia fra gli studenti stranieri, per ordine di scuola. A.s. 2011/2012
Piemonte
Italia
Infanzia
Primarie
81,8
80,4
57,8
54,1
Secondaria I
liv.
28
27,9
Secondaria II
liv
9,1
10,2
Totale
46,7
44,2
Fonte: elaborazione su dati MIUR
Nell’ambito di Secondgen si è analizzata la situazione torinese come “caso studio” per verificare
se siano in corso fenomeni di concentrazione della presenza straniera (o di origine straniera) in
alcuni istituti scolastici. Si tratta di un tema di grande interesse e centrale nel dibattito scientifico,
nonché utile per offrire indicazioni di policy sul tema. (per approfondire vedi l’analisi a
pag.91)
40
RAPPORTO SECONDGEN
I problemi dell’apprendimento dell’italiano
Un elemento concreto di specificità degli immigrati stranieri e dei loro figli, connesso al tema delle
competenze sociali necessarie a rapportarsi con la scuola, è rappresentato dalla lingua italiana, un
fattore ancora oggi sottovalutato e non affrontato con adeguati approcci e strumenti.
Le interviste (ricordiamo che riguardano giovani tra i 18 e i 30) evidenziano che le lezioni
scolastiche di lingua italiana non sono state concepite per l’apprendimento o il consolidamento
delle competenze di base, né si ammette (con alcune lodevoli eccezioni) che uno studente di
origine straniera possa utilizzare altre lingue per lo studio delle materie tecnico-scientifiche. La
conoscenza della lingua dei genitori (arabo, rumeno, albanese…) non viene valutata come una
risorsa scolastica.
L'apprendimento della lingua è un processo graduale che richiede tempo, mentre gli interventi più
diffusi descritti dagli intervistati tendono a focalizzarsi sul raggiungimento di una competenza
comunicativa minima che rischia di incrementare l’“inclusione subalterna”, trascurando le
conseguenze scolastiche di un italiano magari efficace per rispondere in modo
apparentemente appropriato all'insegnante in classe ma non sufficiente per comprendere
adeguatamente le lezioni o i testi.
Ancora scarsi investimenti sono dedicati a percorsi formativi di italiano per lo studio e il
potenziamento delle competenze linguistiche ad un livello più elevato. D’altra parte le famiglie
immigrate hanno poche risorse per ricorrere a lezioni o corsi privati: non resta che il volontariato.
La scuola italiana stenta ad affrontare in modo sistematico e con programmi strutturati
l'insegnamento dell'italiano per gli alunni di origine straniera, essendo caratterizzata da interventi
discontinui, frammentati, disomogenei, in molti casi lasciati alla buona volontà e all'iniziativa dei
singoli docenti. Nel complesso, dunque, l'insegnamento linguistico continua ad essere
sottovalutato e questo può costituire un elemento di penalizzazione per i figli degli immigrati, la
cui mancata formazione linguistica di alto livello può comportare serie difficoltà di studio nella
prosecuzione delle carriere formative.
Il quadro che si delinea dalle nostre interviste è variegato, ma conferma che l’insegnamento
dell’italiano ai giovani studenti stranieri non è strutturato uniformemente secondo un piano
comune a tutte le scuole. Capitare in un istituto o in un altro fa differenza.
Ci sono scuole organizzate, con iniziative programmate e sistematiche, in cui si riesce anche a
compensare l’eventuale presenza di insegnanti indisponibili; in altri casi, non solo non sono
previsti corsi, ma la condizione di giovane straniero arrivato da poco in Italia è equiparata a una
disabilità che richiede l’insegnante di sostegno. Oppure si cerca di arrangiarsi con iniziative
improvvisate. La mancanza o la brevità di corsi specifici fa aumentare considerevolmente il peso
della sensibilità personale degli insegnanti nella relazione con lo studente straniero. È ricorrente la
descrizione di esperienze positive che non riguardano le caratteristiche dei corsi ma la disponibilità
di un singolo insegnante, il quale diventa un punto di riferimento al di là dell’apprendimento
linguistico.
41
RAPPORTO SECONDGEN
L’orientamento
Nel sistema scolastico italiano, la scelta di un indirizzo di scuola superiore piuttosto che un altro è
in gran parte "libera" (le famiglie non sono vincolate dai voti o dal giudizio della scuola). Come ha
dimostrato Cecchi (2008, 2010), nelle sue analisi delle diseguaglianze di classe nella scuola
italiana, tali diseguaglianze sono dovute più alle scelte familiari che alle prestazioni alla scuola
media inferiore. Infatti, l'iscrizione a un liceo piuttosto che a un istituto tecnico o professionale è
poco correlata al voto nell'esame di terza media o ad altri risultati scolastici o misure di
competenze. In questo contesto, le procedure di orientamento messe in atto dalla scuola media
inferiore, insieme con i consigli forniti da singoli insegnanti nel corso di conversazioni informali
con gli studenti, meritano attenzione in quanto meccanismi che determinano in modo significativo
il futuro scolastico.
Lo studio etnografico di due classi della scuola media (per approfondire vedi l’analisi a pag
114) suggerisce che gli insegnanti tendono a ridimensionare le ambizioni di molti studenti
(italiani e stranieri); infatti nelle classi osservate da Romito, il numero di studenti orientati a
scegliere un liceo diminuisce considerevolmente nel corso dell'anno, in parte in corrispondenza ai
consigli degli insegnanti. All'inizio dell'anno, gli studenti tendevano ad orientarsi rispetto al
prestigio percepito di un indirizzo scolastico ("il professionale è per zombie") mentre man mano
che si avvicinava il momento della scelta tendevano a prevalere i criteri della "difficoltà" dei vari
indirizzi, e paure rispetto alle proprie capacità. In questa modifica dei criteri di scelta, gli
insegnanti sembrano avere un ruolo significativo.
Qual è la situazione tra gli studenti stranieri? A prima vista si potrebbe immaginare che la sovrarappresentazione nei percorsi tecnico professionali sia una scelta delle famiglie, ansiose della
sicurezza economica e desiderose di un inserimento lavorativo precoce. Ma questo non sembra
vero.
Le nostre interviste con studenti e genitori evidenziano che le famiglie raramente prediligono
percorsi scolastici brevi: al contrario tendono ad incoraggiare percorsi piuttosto "ambiziosi"
e a spingere i figli a persistere negli studi anche in presenza di difficoltà e di poca
motivazione.
Scartata l'immagine di famiglie che per motivi economici preferiscono percorsi brevi, come si può
spiegare la sovra-rappresentazione degli studenti stranieri negli istituti professionali e nei corsi di
formazione professionale, scelta "cruciale" che può avere conseguenze importanti sul futuro?
Contano molti fattori, tra cui le inadeguate informazioni dei genitori e degli stessi giovani sul
significato della scelta, le difficoltà incontrate a scuola negli anni precedenti, le scelte di amici e
talvolta di fratelli. Tuttavia tra i vari fattori che spiegano le scelte, sono senza dubbio importanti
anche l'orientamento formale e informale offerto dalla scuola media. Le nostre interviste
forniscono esempi abbastanza numerosi di un certo "orientamento verso il basso" .
Così diversi intervistati ricordano i consigli di insegnanti che sottolineano la presenza del latino
come deterrente per l’iscrizione a un liceo. «Ero un po' indecisa, perché volevo fare lo Scientifico,
mi piaceva la matematica, perché poi con lo Scientifico è più facile entrare a Medicina... però non
l'ho fatto per... latino! C'era latino per 5 anni e questo mi ha bloccato. Allora ho fatto il Sociale»
(Int. 106).
Al latino si aggiungono le difficoltà con l’italiano. «Il mio obiettivo, sinceramente era il
linguistico, però siccome c’era il latino e io comunque mi sarei trovata svantaggiata perché non
parlavo molto bene l’italiano, ho detto “Va beh, vado all’alberghiero che comunque si impara
un’altra lingua”, [...] cioè, per fortuna io avevo avuto un orientamento che ci seguiva molto, nel
42
RAPPORTO SECONDGEN
senso che parlavano direttamente con noi, nei singoli colloqui di che cosa vuoi fare, cosa ti
piacerebbe e allora, cioè, è uscito fuori ‘sto problema che a me piaceva andare in una scuola dove
si imparassero le lingue, che però il latino non l’avrei potuto imparare così facilmente perché.. e
allora mi hanno dato la opzione di “l’alberghiero potrebbe essere l’eventuale scelta” e allora l’ho
scelto» (Int.48).
Oppure si sottolinea la generica "difficoltà" di un tipo di scuola. «Come hai scelto le superiori?
Anche lì tramite i professori, diciamo che tra virgolette un po' me ne sono pentita. Quando finisci
le medie non hai la maturità tale da poter scegliere cosa vuoi fare dopo. Le superiori ti
indirizzano nella tua vita... anche lì è stata una scelta mia, mi hanno consigliato e io non sapendo
ancora bene cosa volevo sono andata lì alle Scienze sociali. Avevi preso in considerazione altre
scuole? [...] Avevo preso in considerazione anche il Linguistico , però me l'hanno un po'
sconsigliato per la difficoltà, adesso mi sono un po' pentita di non averlo fatto. Sicuramente ci
voleva più impegno, più studio, però l'avrei fatto» (Int. 135).
Il problema dell’orientamento scolastico, come terreno che può generare disuguaglianze, si
pone pertanto come una questione di assoluta rilevanza nei percorsi dei giovani di seconda
generazione e tocca trasversalmente famiglie, ragazzi e istituzioni scolastiche. Molti intervistati
ricordano che da parte dei docenti la conoscenza dell’italiano a scapito delle potenzialità personali
e la presunta necessità/volontà di un inserimento precoce nel mondo del lavoro sono stati criteri di
orientamento verso i corsi professionali. Può essere fatto in buona fede, per evitare cocenti
delusioni e ripetenze, ma indirizza comunque verso corsi considerati “facili” dagli stessi studenti e
per questo svalutati e svalutanti ai loro occhi.
Nelle scuole secondarie di primo grado frequentate dagli studenti da noi intervistati esistono da
tempo procedure ufficiali e formali per l’orientamento scolastico (test, presentazioni e visite delle
scuole superiori, colloqui orientativi) ma queste procedure non sembrano in grado di incidere in
profondità sul risultato finale che vede i giovani di origine immigrata indirizzati verso corsi
tecnico professionali in misura maggiore dei coetanei italiani.
Dalle interviste risulta che l’orientamento scolastico non ha fornito informazioni molto chiare o,
almeno, non sembra essere avvenuto nella maggior parte dei casi con modalità realmente incisive
sulla scelta della scuola superiore. In alcuni casi le famiglie resistono all’orientamento della
scuola. A volte accade grazie all’intervento di una figura esterna che diventa cruciale, spesso è il
datore di lavoro di uno dei familiari, utile per acquisire informazioni e per avere consigli. Questo
può essere un vantaggio che apre opportunità alternative all’orientamento “verso il basso” quando
il datore di lavoro è aggiornato sulla reputazione delle scuole secondo i parametri della classe
media locale (distinzione tra scuole di centro/scuole di periferia, a cui corrisponde la differenza tra
scuole che funzionano e scuole problematiche). La fiducia verso i datori di lavoro può così
superare l’indicazione della scuola. Tuttavia, per molti studenti con percorsi non brillanti,
l’orientamento alla scuola secondaria di secondo grado sembra semplicemente confermare
l’idea di non essere adatti a una “scuola difficile”. Alcune domande delle interviste erano infatti
orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati presi in considerazione e perché. I
racconti non sempre sono espliciti, alcune risposte sono molto brevi e generiche ma si può
affermare che il numero delle alternative effettivamente prese in considerazione è circoscritto e
generalmente basso.
Se si è figli di genitori istruiti l’analisi delle opzioni è più articolata, ci si informa, si discute ed è
più facile intraprendere percorsi diversi da quelli consigliati dalla scuola. La famiglia può vivere
una mobilità occupazionale discendente ma essere culturalmente attrezzata nel seguire e
consigliare i figli inducendoli ad esempio a scegliere scuole migliori e “più difficili” .
43
RAPPORTO SECONDGEN
Le esperienze degli intervistati sembrano suggerire che non bastano le azioni di
orientamento effettuate alla fine del percorso scolastico della scuola media: i test, le visite alle
scuole, gli opuscoli informativi forniscono elementi per la scelta ma hanno dei limiti:
innanzitutto sono difficili da interpretare, inoltre si presentano come “sommativi”,
“ufficiali”, rispetto alle discussioni informali tra ragazzi e tra allievi e insegnanti in aula.
Queste avvengono quotidianamente e si sviluppano nel tempo, sono influenzate dalle
impressioni degli insegnanti che si combinano con l’andamento scolastico e con i
comportamenti, fanno emergere pregiudizi, paure, plasmano meccanismi di rinuncia e di
ridimensionamento delle ambizioni, e saranno determinanti nella scelta della scuola
superiore.
44
RAPPORTO SECONDGEN
“Navigare il sistema”
Uno dei cambiamenti più netti tra l’esperienza dei figli degli immigrati stranieri contemporanei
rispetto ai figli degli immigrati regionali del passato riguarda la centralità della scuola: la
partecipazione di massa e l’aumento della durata media della scolarità fanno sì che le competenze
nell’orientarsi in un sistema, che nel frattempo è diventato più vario e complesso, siano
determinanti per le carriere. Nella scuola, e ancor prima, nelle modalità di scelta dell’indirizzo,
della sezione, si producono processi di selezione che occorre analizzare nel dettaglio poiché
condizionano i percorsi successivi. Un’attenzione particolare è stata pertanto posta ai meccanismi
della scelta al termine del ciclo della scuola secondaria di primo grado nel tentativo di individuare
che cosa influenza le scelte scolastiche, come avvengono, come intervengono i genitori, il valore
percepito della scuola intesa come struttura che ha una funzione rispetto al futuro, e come
ambiente nel quale si sviluppano relazioni e interazioni. Sono emersi elementi ricorrenti i quali
confermano, com’è stato detto, il ruolo cruciale che questa istituzione gioca nella riproduzione e
produzione delle disuguaglianze sociali e come i processi di selezione possano essere innescati da
pratiche e interazioni quotidiane che interessano alunni italiani e stranieri e questi ultimi con delle
particolarità specifiche. Consideriamo innanzitutto i criteri di scelta. Un aspetto fondamentale è
costituito dalle informazioni adeguate possedute.
I genitori non sono informati bene sul funzionamento della scuola e sono consapevoli che non
basta sapere quali indirizzi e corsi sono offerti, quindi molto spesso il fratello, la sorella maggiori o
altri parenti guidano nella scelta oppure si rivolgono a figure esterne alla famiglia, ai datori di
lavoro, a un conoscente che diventa modello per il lavoro che svolge, a un insegnante che sembra
particolarmente degno di fiducia, a una persona amica di famiglia, al materiale pubblicitario delle
scuole (per approfondire vedi l’analisi a pag.127)
Il caso di Juan è una sintesi esemplare di fattori che hanno determinato un percorso che si rivela
una scelta sbagliata. “Per me è stato un casino, perché io avevo sbagliato la scelta. Io volevo fare
il meccanico, ma il meccanico d’auto volevo fare. Perché mi piacevano e mi piacciono ancora le
macchine, aggiustare le macchine e così. Però ho scelto 'operatore meccanico' che era tutta
un’altra cosa. Ci hai messo tre anni per capirlo? Eh sì, perché io da solo… cioè mia madre mi
seguiva a scuola, però non è che lei col lavoro che fa, sempre al lavoro sempre al lavoro ha tutto
il tempo per sapere che meccanica è, se manco io me ne sono accorto. Poi quando sono arrivato
in terza mi sono accorto che non era la meccanica che io volevo, ho voluto cambiare scuola, però
mia madre mi ha detto “Ormai sei in terza…”. Poi anche a me era iniziato a piacere, ho iniziato a
farlo sono arrivato fino in quinta e ho fatto l’esame di maturità e poi… niente. Disgrazia mia sono
uscito col diploma di maturità a cercar lavoro, però era già iniziata la crisi, quindi… soprattutto
in questo settore qua della meccanica qua a Torino sono andato a cercare lavoro ma non c’era.
[...] Cioè mi avevano detto 'Tu vedi di scegliere cosa ti piace, liceo artistico, liceo linguistico…'
ma io non ne capivo bene allora, non sapevo bene cos’era un liceo artistico o linguistico, non
sapevo nemmeno la differenza tra un liceo e un istituto tecnico… non sapevo nemmeno la
differenza tra un liceo e un istituto tecnico… non la sapevo. Io son andato lì, uno perché era
vicino a casa mia e due perché, siccome era meccanica, io volevo fare il meccanico” (int. 5).
Vari elementi sembrano intrecciati. Innanzitutto il non sapere, che non è solo mancanza di
informazioni ma soprattutto estraneità al sistema scolastico italiano pur avendolo frequentato fin
dalla quinta elementare. Questo aspetto evidenzia che il tempo di permanenza in Italia non
significa una lineare e progressiva integrazione ma che contano gli ambienti in cui si cresce e che
l’assimilazione non è generica né nelle forme né nei tempi.
Nel racconto di Juan emergono anche ulteriori fattori che condizionano il percorso scuola – lavoro:
i timori della madre per un cambio di scuola (altri genitori, invece, sembrano non turbati dai
passaggi da una scuola all’altra e da un indirizzo a un altro. Bisognerà approfondire che cosa fa la
differenza), la vicinanza a casa come elemento a favore di una certa scuola, la valutazione, in base
45
RAPPORTO SECONDGEN
alle esperienze o soprattutto ai racconti, di alcuni amici, che il diploma quinquennale non solo non
dà opportunità di lavoro, ma rappresenta uno svantaggio in momenti di crisi economica. In tanti
racconti entrano in gioco la casualità, il “sentito dire”, malintesi su che cosa significhi un corso,
conformità al percorso dei fratelli maggiori, assenza del sostegno della famiglia che in molti casi
esercita una pressione generica a continuare gli studi e lascia scegliere. “fai quello che vuoi tu”,
“fai quello che ti piace”, “basta che ti impegni” sono frasi frequenti nelle interviste che denotano
incompetenza nell’affrontare l’istituzione scolastica più che una particolare fiducia nelle capacità
decisionali dei figli.
Le famiglie istruite insistono di più per continuare gli studi e discutono, si informano e valutano
diverse possibilità. Anche tra gli italiani accade che nelle famiglie più istruite si insista di più per
continuare gli studi e si mettano in atto energie e strategie per acquisire informazioni sulle scuole.
Tuttavia, gli immigrati, comprese le famiglie dotate di elevato capitale umano, con progetti
migratori centrati sul futuro dei figli, devono affrontare i problemi specifici che sono stati illustrati:
la lingua, l’impoverimento della rete sociale e quindi la maggiore difficoltà ad avere informazioni
su determinati indirizzi scolastici e sulla reputazione di alcuni istituti, l’orientamento al ribasso
della scuola, che lascia poco tempo per acquisire padronanza nella lingua italiana, e che utilizza
questo limite come motivo per evitare il liceo.
Non basta avere accesso alle informazioni “ufficiali” (siti web, opuscoli, locandine), magari
tradotte per i genitori, ciò che manca alla famiglia immigrata o che fatica ad avere è ciò che
si acquisisce mediante le reti sociali, cioè una chiara visione di quella scuola, se quanto
enunciato, e formalmente corretto, sugli sbocchi professionali o le opportunità di accesso
all’università è realisticamente praticabile, se ci sono differenze tra sezioni, se il corpo
docente è stabile e competente, se ha connessioni col mondo del lavoro, se occupa una buona
posizione nella gerarchia locale degli istituti. Nel contesto scolastico italiano questo tipo di
informazioni conta.
46
RAPPORTO SECONDGEN
Aspirazioni educative e segnali di traiettorie diverse
In quale direzione stanno andando i figli degli immigrati stranieri in Piemonte?
Le informazioni raccolte dalla ricerca non possono essere prese come definitive in quanto quasi
tutte i giovani incontrati sono ancora “in cammino”, pochissimi hanno già raggiunto una
consolidata posizione all’interno di una professione. Questo rispecchia semplicemente i tempi
straordinariamente lunghi dell’inserimento lavorativo in questo momento storico: la situazione
sarebbe la stessa anche per i figli di italiani. Tuttavia è possibile conoscere i passi già compiuti
nella “carriera” e l’orientamento dei giovani e adolescenti intervistati. Infatti, come emerge anche
dall’attuale ricerca, proprio la gradualità e i tempi lunghi dell’inserimento in una comunità
professionale richiedono molte esperienze di formazione, stages, contratti temporanei,
frequentazione di un ambiente professionale anche nel tempo libero, l’accumulazione di contatti,
reti sociali e di un linguaggio. Le interviste contengono abbondanti informazioni su questi punti, e
permettono una valutazione della probabile “direzione” intrapresa dalle persone.
E’ chiaro che le persone incontrate durante la ricerca sono molto differenziate tra loro in termini di
“carriere” attualmente imboccate. Da una parte ci sono giovani che sono già ben avviati su
traiettorie verso il ceto medio, in quanto occupano una posizione qualificata e sono inseriti in reti
e organizzazioni che forniranno possibilità di crescita professionale. Si può dire quindi che è in
corso di formazione un ceto medio di origine immigrata (Allasino, Eve 2010). Al polo opposto ci
sono giovani che hanno intrapreso i primi passi di quello che, per alcuni, rischia di diventare una
“carriera” criminale. Di nuovo, va sottolineato che le informazioni ottenute dalle interviste
costituiscono una “fotografia” scattata in un determinato momento; infatti gli studi sulla devianza e
sulla criminalità dimostrano che per la grande maggioranza le attività devianti sono solo una fase,
che può essere abbandonata quando si trovano un lavoro stabile e un “serio” impegno
sentimentale. Tuttavia al momento dell’intervista, tale era la situazione di alcuni giovani .
Tra questi poli estremi sta la grande maggioranza degli intervistati. Molte persone hanno
intrapreso percorsi scolastici lunghi, che non assicurano certo il raggiungimento della sicurezza
economica né della soddisfazione professionale, ma tuttavia forniscono risorse che potranno essere
usate sul mercato del lavoro. Dall’altra parte un buon numero di giovani ha seguito fino a ora
percorsi erratici, sia nella scuola sia nei tentativi di ottenere lavoro, spesso alternando tentativi di
formazione, abbandoni, brevi o brevissimi lavori temporanei e periodi di inattività.
Consideriamo prima i percorsi scolastici lunghi. Al momento dell’intervista solo 13 giovani si
erano già laureati, ma questo dipende anche dal fatto che molti intervistati erano troppo giovani
per aver concluso. Altri 45 erano iscritti all’università ma non avevano ancora terminato, a volte a
causa di difficoltà, a volte semplicemente per motivi di età. Inoltre molti intervistati non ancora
diplomati o appena diplomati hanno l’intenzione di iscriversi all’università. Senza dubbio nei
prossimi anni le università piemontesi sperimenteranno un forte aumento delle iscrizioni di giovani
di origine straniera nello stesso modo in cui i diversi gradi di scuola, dalle elementari alle
superiori, hanno visto negli anni precedenti un’impennata delle iscrizioni di studenti stranieri.
Questo è confermato anche dall’analisi dei dati del questionario Invalsi (2010-2011) somministrato
nelle classi seconde delle scuole superiori piemontesi. Gli studenti che hanno risposto a questo
questionario hanno qualche anno in meno rispetto ai giovani delle interviste qualitative, ma i dati
sono utili per mostrare quanto sono diffusi i progetti di frequentare l’università.
Innanzitutto va notato che le aspirazioni dipendono in primo luogo dall’indirizzo di scuola
frequentata. Nello stesso modo in cui la grande maggioranza degli studenti liceali pensa di
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RAPPORTO SECONDGEN
continuare all’università, così accade anche per gli stranieri (anche se con qualche punto
percentuale in meno). Agli istituti tecnici invece, e ancora di più agli istituti professionali, le
percentuali sono nettamente più basse, con gli stranieri che si muovono - pur con qualche
differenza - in linea con i compagni italiani. Tale generale omogeneità all’interno dei singoli
indirizzi ricorda l’importanza dell’ambiente scolastico nel definire che cos’è un percorso realistico
e desiderabile. Questo a sua volta rammenta l’importanza della scelta compiuta alla fine della
scuola media e dell’orientamento.
Come si può vedere dalla tabella sotto, quasi 7 su 10 liceali stranieri prevedono di ottenere almeno
una laurea triennale e più del 40% pensa di continuare per ottenere anche il titolo magistrale. La
proporzione di stranieri che aspira a una seconda laurea è più bassa di quanto lo è tra gli italiani,
ma non dissimile; controllando per classe sociale, gli stranieri appaiono non meno “ambiziosi” e
orientati all’istruzione dei compagni italiani.
Tab. 10 - Percentuali studenti italiani e stranieri iscritti ai licei che prevedono di laurearsi: risposte alla
domanda “Qual è il titolo di studio più alto che pensi di conseguire?”
italiani
Laurea triennale
Laurea magistrale
2749
25%
5644
51%
Stranieri
nati all’estero
128
26%
204
42%
stranieri nati in
Italia
67
26%
113
44%
Fonte: Invalsi 2010-11, questionario studente.
Negli istituti tecnici la percentuale di studenti, siano italiani o stranieri, che pensano di laurearsi è
nettamente più bassa rispetto ai licei, a conferma non solo della selezione degli studenti all’entrata
ma anche del modo in cui i diversi indirizzi plasmano le identità e i progetti degli studenti.
Tuttavia,come si vede dalla seguente tabella, la proporzione di studenti stranieri che pensa di
continuare all’università è simile a quella tra gli italiani e rispetto agli stranieri nati in Italia un po’
più alta.
Tab11 - Percentuali degli studenti italiani e stranieri iscritti agli istituti tecnici che prevedono di laurearsi:
risposte alla domanda “Qual è il titolo di studio più alto che pensi di conseguire?”
italiani
Laurea triennale
Laurea magistrale
3654
19%
1472
17%
Stranieri
nati all’estero
172
19%
146
16%
stranieri nati in
Italia
77
23%
76
22%
Fonte: idem
Negli istituti professionali circa la metà degli studenti - sia stranieri sia italiani - pensa di fermarsi
al diploma o, per uno su nove, alla qualifica. Così gli studenti che pensano di laurearsi
rappresentano una minoranza. Ma all’interno di questa minoranza, gli stranieri, soprattutto quelli
nati in Italia, sono più propensi a voler continuare.
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RAPPORTO SECONDGEN
Tab12 - Percentuali degli studenti italiani e stranieri iscritti agli istituti professionali che prevedono di
laurearsi: risposte alla domanda “Qual è il titolo di studio più alto che pensi di conseguire?”
Italiani
Laurea triennale
Laurea magistrale
495
11%
321
7%
stranieri nati
all’estero
99
12%
64
8%
stranieri nati in Italia
25
12%
34
16%
Fonte: idem
Va notato quindi che nonostante le considerevoli difficoltà scolastiche degli studenti stranieri,
evidenti nei risultati di questa ricerca come in quelli di molte altre e nei dati del ministero
dell’istruzione, vi è una certa tendenza nel persistere negli studi.
I dati meritano considerazione anche perché sembrano simili ai risultati di ricerche svolte
all’estero, che hanno riscontrato, anch’esse, una combinazione di difficoltà scolastiche e
aspirazioni relativamente elevate, almeno in confronto alle famiglie native della stessa classe
sociale. Gli autori di queste ricerche hanno parlato di “ottimismo e realizzazione” (Kao, Tienda
1995), di “ambizione e persistenza” (Brinbaum, Kieffer 2005), di “scelte coraggiose” (Jackson
2012) e di “determinazione compresente con prestazioni deboli” (Jonsson, Ridolphi 2011).
Risultati del genere appaiono interessanti per diversi motivi. Innanzitutto sembrano degni di nota
in Italia in un momento in cui molti esperti dello sviluppo economico esprimono preoccupazione
per i livelli relativamente bassi dell’ istruzione in Italia (Cipollone, Sestito 2010). In secondo luogo
la combinazione di carriere scolastiche talvolta accidentate e “aspirazioni” o “determinazione”
sembra prevedere percorsi lunghi e tortuosi (cfr. Kasinitz et al. 2004 per gli esempi americani) che
forse richiederà una certa flessibilità organizzativa da parte dell’università. Si può prevedere che
alcuni studenti passando per “la via lunga” (Crul 2013) cercheranno di qualificarsi, anche se
potranno avere difficoltà nella realizzazione della meta (Beaud 2008). Infine va notato che, come
emerge anche dalle nostre interviste qualitative e da altre ricerche (Minello e Barban 2012), la
scelta di un istituto professionale alla fine della scuola media non è necessariamente una rinuncia
all’università. Infatti, almeno per gli stranieri, la scelta delle professionali non andrebbe
interpretata sempre come una mancanza di ambizione o come un progetto di scolarità breve.
Va precisato che l’orientamento a un percorso d’istruzione lungo non è necessariamente segno di
“ambizione” in quanto potrebbe essere anche semplicemente l’effetto della mancanza di
opportunità di lavoro. E’ possibile infatti che gli studenti nativi, avendo reti sociali migliori,
ricevano più offerte di lavoro sufficientemente appetibili da tentarli di abbandonare gli studi.
Questo è un nodo interpretativo importante, che la ricerca internazionale e italiana deve ancora
sciogliere.
Le aspirazioni dichiarate in un questionario o durante un’intervista non corrispondono,
ovviamente, a titoli di studio effettivamente perseguiti e raggiunti. E come già accennato, non
mancano tra gli intervistati, giovani iscritti all’università o al politecnico che stanno sperimentando
delle difficoltà o hanno già abbandonato gli studi. Comunque le aspirazioni espresse meritano
considerazione perché la ricerca internazionale ha spesso trovato una correlazione abbastanza
buona tra aspirazioni dichiarate e risultati effettivamente raggiunti e anche perché sembrano
interessanti indicatori delle prospettive.
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RAPPORTO SECONDGEN
Infine va ricordato che anche quei giovani che avranno ottenuto un titolo universitario non avranno
certo il futuro professionale assicurato. Tuttavia anche nel caso che la rendita del titolo sia più
bassa di quanto sperato, anche se non si riesce a realizzare la professione sognata, tutti i dati
indicano che la loro posizione sul mercato del lavoro sarà comunque ben più forte rispetto a quella
dei giovani descritti sotto.
Sono numerosi infatti tra i nostri intervistati i percorsi poco coerenti e erratici, vaghi,
indeterminati. La richiesta da parte dei genitori di abbandonare nettamente l'istruzione per trovare
subito un lavoro è rara. Certamente siamo in una situazione molto diversa rispetto alla prima metà
del Novecento quando era frequente che in famiglia si sollecitasse il figlio a lasciare la scuola, se i
risultati non erano positivi (Eve, 2012). Sono cambiati sia le aspettative rispetto alla normale
durata della scolarità sia il calcolo del costo economico accettabile per la famiglia e per il "futuro"
dei figli. Ma è cambiato anche il mercato del lavoro: le nostre interviste testimoniano il rischio di
cadere nella posizione del neet, non inserito né in un lavoro né a scuola, o di passare da un
lavoretto temporaneo a un altro, con periodi di disoccupazione in cui si trascorre molto tempo a
casa a dormire, o ai giardini, in una situazione che può diventare depressiva o “deviante”. Se il
lavoro precario e frammentato non protegge dai pericoli della strada” e dalle “cattive compagnie”,
per alcuni genitori può svolgere questa funzione un corso di formazione professionale. “Meglio il
corso che niente”.
Nei casi in cui gli svantaggi si accumulano - particolare debolezza delle reti sociali, il fatto che
alcuni giovani abbiano una reputazione locale che rende difficile l’accesso a un lavoro stabile, i
problemi col permesso di soggiorno, l’adesione a forme di “cultura di strada” che comportano il
“rifiuto” del lavoro - si possono produrre carriere nella devianza, come sta emergendo dalle storie
di vita raccolte con l’osservazione etnografica.
A parte questi casi piuttosto atipici, i percorsi erratici diffusi tra gli intervistati sono di altra natura
e hanno a che fare con gli aspetti già evidenziati in questo rapporto, come le difficoltà da parte dei
giovani e dei genitori a “navigare il sistema” scolastico italiano, o l’abbondanza di offerta
formativa apparentemente allettante rispetto a sbocchi lavorativi ma che risulteranno difficilmente
praticabili.
La storia scolastica di Marco esemplifica un percorso erratico. Marco si muove tra scuole diurne e
serali; da un istituto tecnico a un altro a seguito di una rissa in cui era stato coinvolto e
dell’intervento della madre che vuole proteggerlo da altre esperienze simili e dalla cattiva
reputazione. Al momento dell’intervista sta frequentando due scuole contemporaneamente, e porta
delle motivazioni molto deboli e vaghe. «Faccio l’*; fino a un mese fa facevo il diurno al *, terza,
aereonautica, e adesso faccio il serale, meccanica, perché non c’era tempo tra questa e l’altra,
neanche il tempo per mangiare. Quindi fai due scuole contemporaneamente?
Sì, qui faccio impianti, ma è solo pratica. Di là è tutta teoria, qui no, così non devo stressare
troppo il cervello.[…] Lì (nel primo istituto tecnico frequentato) si faceva meccanica generale,
stavo bene, ho fatto tre anni. Solo che ho conosciuto degli amici... anche mio fratello era lì... […]
un giorno a scuola c’è stata una rissa tra ragazzi, […] E allora i miei hanno detto che era meglio
cambiare, mia madre non accettava più che andassi n quella scuola, dato che aveva coinvolto così
mio fratello, e ho deciso di cambiare e sono andato al *, aereonautica, perché all’* era meccanica
molto generale, anche meccanica delle microonde, e invece là era più specifico. Mi piaceva, era
semplice, mi piaceva, ma richiedeva tanto tempo e non potevo fare anche qui, e allora dopo pochi
mesi sono andato via. Ma perché hai voluto aggiungere l’impegno di questo corso? La mia
ragazza aveva fatto qui un corso di ristorazione e mi ha consigliato di venire, fatti un corso,
boh...» (Int.9)
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RAPPORTO SECONDGEN
Probabilmente Marco spera di avere maggiori opportunità muovendosi lungo due percorsi, ma in
generale, le esperienze temporanee di lavoro raramente costruiscono una carriera, gli stage/tirocini
durante la formazione per alcuni giovani sono un’esperienza professionale positiva e di
socializzazione al lavoro, per pochi diventano un effettivo inserimento lavorativo.
In queste situazioni anche i lavoretti eventualmente svolti non sono un ingresso nel mondo del
lavoro ma possono diventare una condizione di lungo termine, alternata a periodi di
disoccupazione. L'apparente assenza di "progresso" tende a scoraggiare.
Si sono infatti colti due diversi significati dell’esperienza dei diversi lavoretti svolti da alcuni
intervistati (benché in molte famiglie, pur indigenti, prevalga durante gli anni di scuola la richiesta
dell’impegno nello studio):
a) successioni di lavori, lavoretti, lavori non-pagati, corsi di formazione, attività di volontariato o
di tempo libero che, nonostante tutto, potrebbe costituire un'accumulazione di esperienze, di
capitale umano, in un determinato ambiente lavorativo
b) lavori, lavoretti che sembrano portare in direzioni del tutto diverse tra loro e che non
potrebbero essere in nessun modo pensati come "carriera" in nessun specifico “ambiente”
lavorativo, ma che rispondono esclusivamente al desiderio/bisogno di guadagnare senza strategie
orientate all’integrazione in un ambiente lavorativo.
Risulta interessante, anche in questo caso, una comparazione con i figli degli immigrati interni del
passato. Negli anni dell’immigrazione meridionale l’abbandono degli studi (in età molto precoce)
sembra spesso lo sbocco di un percorso di progressivo rifiuto di una scuola che non dà alcuna
gratificazione (ma spesso umilia) e di un percorso di integrazione in un altro (e diverso) ambiente
sociale (quello del lavoro). Tuttavia, tra i ragazzi di origine meridionale che avevano interrotto
precocemente la scuola (la grande maggioranza) sembra prevalere ampiamente una successione di
lavoretti fatti durante la scuola dell’obbligo che sono del tipo b) il cui significato, cioè, starebbe
esclusivamente nel reddito che procurano (da spendere in consumi per la loro socialità) e che
quindi non comportano alcuna “crescita” professionale attraverso l’apprendimento del mestiere o
un percorso di specializzazione. Come forse avveniva - o era avvenuto - per i figli degli operai
piemontesi, nel mondo operaio “tradizionale”, in cui l’apprendistato “vero” era quello del ragazzo
messo “a bottega” a imparare senza percepire nessuna remunerazione ma addirittura in certi casi
era la sua famiglia che pagava.
Nei casi ‘di successo’ emersi dalle interviste, si è rivelata importante la successione di esperienze,
magari positive e motivanti, che portano a una determinata ricerca di esperienze ulteriori. E'
chiaro, anche indipendentemente dalle differenze tra periodi storici, che alcune esperienze
lavorative, come già detto, portano ad accumulare 'capitale sociale', mentre altre sembrano
prolungare il limbo, la galère", forse addirittura peggiorando la prospettiva di inserimento nel
mercato del lavoro e la possibilità di presentarsi come candidato credibile a un datore di lavoro.
La ricerca mira a indagare non solo le carriere scolastiche, ma più in generale i processi e i
meccanismi di inserimento lavorativo dei figli degli immigrati, e tra questi anche quelli che
conducono in posizioni tipiche del ceto medio (Donatiello, 2013). Un aspetto, quello della
transizione al mondo del lavoro e alla successiva carriera occupazionale, meno indagato dagli
studiosi anche in ragione del fatto che la presenza stabile di seconde generazioni nel nostro paese è
un fenomeno relativamente recente: nel dibattito pubblico così come in sede di elaborazione delle
politiche sta crescendo l’attenzione in questa direzione e ormai il problema dell’inserimento
lavorativo di questi giovani è percepito come una questione centrale per valutare il loro livello di
integrazione, non soltanto dal punto di vista economico ma anche da quello sociale. In particolare,
i meccanismi di inserimento dei giovani immigrati in posizioni sociali di ceto medio sono stati
indagati adottando una prospettiva processuale e relazionale che tenesse conto delle traiettorie di
vita e degli effetti di lungo termine della migrazione secondo l’idea di partenza che il processo
migratorio produce conseguenze sulle vite individuali dei primo-migranti – i genitori, coloro che
51
RAPPORTO SECONDGEN
hanno deciso di emigrare – ma anche sulle carriere biografiche, educative e occupazionali dei figli,
che l’onda lunga della migrazione dei genitori possa investire in qualche modo le traiettorie sociali
dei figli influenzando l’orientamento ai percorsi educativi e la riuscita scolastica, le strategie di
ingresso nel mercato del lavoro, la definizione di aspettative e aspirazioni che condizionano le
decisioni.
Sono stati individuati giovani di seconda generazione in posizione di ceto medio allo scopo di
ricostruire le sequenze salienti delle loro traiettorie di vita descrivendo snodi, condizioni e
situazioni fattuali che le caratterizzano. Un interesse più generale è stato quello di sottolineare
eventuali svolte – positive e negative – e riorientamenti tanto sul piano dei progetti quanto sul
piano delle carriere effettivamente intraprese per illustrare come sono diventati ceto medio.
Un ulteriore aspetto, utile soprattutto per indagare gli effetti di lungo periodo del processo
migratorio, è dato dalla combinazione tra risorse di capitale economico, umano e sociale a
disposizione dei giovani e la capacità di attingervi attraverso le reti sociali in cui sono inseriti. Si è
quindi cercato di ricostruire le dinamiche di definizione dei principali networks di riferimento
e i processi di costruzione di nuovi tessuti relazionali in una prospettiva che va oltre i
riferimenti generici alle "reti etniche". L’obiettivo è stato quello di individuare i contesti sociali in
cui si sono formate relazioni significative con persone che hanno svolto un ruolo importante dal
punto di vista dello scambio di informazioni, delle decisioni e delle azioni: un’ipotesi era che
comportamenti interpretabili di primo acchito come espressione della differenza culturale
potessero invece essere connessi a vincoli/opportunità messi a disposizione dalle reti sociali di
riferimento (scuola, famiglia, reti amicali, luogo di lavoro, ecc.). L’idea di base è che anche per
questi soggetti i progetti fossero frequentemente influenzati dagli ambienti a cui essi sono stati
socializzati: anche le stesse prospettive di studio, lavoro e carriera possono sembrare interessanti,
realistiche, vaghe o nemmeno essere prese in considerazione a seconda delle diverse cerchie
sociali con cui si entra in relazione.
L’analisi di queste traiettorie ha fatto emergere come gli effetti di lunga durata del processo
migratorio si intrecciano con altri elementi (dalla capacità di agency dei singoli attori ai networks
di riferimento) e influenzano alcune "scelte cruciali" (tipo di scuola, abbandono degli studi, una
determinata professione, transizione al lavoro autonomo). In questa direzione è possibile
interpretare l’ingresso nel ceto medio dei figli degli immigrati come un percorso di affermazione
individuale, o in alternativa come forma di riscatto familiare, al di là delle motivazioni e
aspirazioni di mobilità personali, ma anche all’opposto come percorso di emancipazione dalla
famiglia e dalla sua influenza.
52
RAPPORTO SECONDGEN
L’associazionismo
I risultati di Secondgen permettono di delineare un continuum di aggregazioni che va dalle più
informali - un gruppo occasionale di conoscenti, la formazione di squadre di calcio improvvisatea quelle via via più strutturate - frequentare un oratorio, un’associazione, un’attività sportiva, sino
alla piena appartenenza a un gruppo molto coinvolgente come sono alcune organizzazioni religiose
o politiche. E’ stata inoltre riscontrata una gamma di sfumature e posizioni intermedie (attività
semi strutturate, ad esempio: l'oratorio come cornice in cui non è detto che si facciano attività
strettamente strutturate sotto la supervisione di educatori, è anche uno spazio per attività informali
e spontanee dei ragazzi).
Pochi intervistati sono iscritti o frequentano regolarmente associazioni e luoghi di
aggregazione strutturati. Le differenze generazionali tra i ragazzi di “seconda generazione” (età
all'arrivo, il numero di anni in Italia, le differenze tra generazione 2.0 e 1.5) sono significative, per
esempio per quanto riguarda la frequentazione di giardini, parchi, luoghi pubblici aperti, così come
dell'associazionismo sportivo (calcio in particolare) che sono specifici contesti di socializzazione
per i neorrivati o arrivati da relativamente pochi anni.
Al momento non risulta dal materiale empirico l’esistenza di bande strutturate fra i giovani
immigrati, come nel caso dei latinos di Genova (Queirolo Palmas 2006, Melossi 2007). E’
possibile che questo derivi dall’azione delle stesse amministrazioni locali che hanno favorito
l’incontro dei giovani di Genova con loro presunti omologhi organizzati in bande negli Usa, ma
anche forse dalla necessità di interpretare certi comportamenti sulla base di una appartenenza
identitaria forte. Nessun giovane intervistato per la ricerca si definisce come appartenente a una
banda.
Ogni organizzazione ha propri criteri di esclusione e di selezione (ad es. le squadre di calcio
possono essere organizzate per gruppi di età e di abilità omogenea). Come, per quali canali, i
giovani entrano in contatto con gruppi e associazioni e come possono restarvi coinvolti?
Soprattutto: come ne possono ricavare una spinta positiva in termini di autostima, di aumento della
fiducia e della capacità relazionali ecc... contro invece un coinvolgimento che li frustra e ne limita
la libertà di scelta?
Il nodo fondamentale sta proprio nella possibilità che il soggetto resti nelle aggregazioni o
associazioni e ne ricavi un qualche orientamento significativo per il suo percorso. L’incontro
casuale con gruppi è frequente (ad esempio il caso che abbiamo individuato degli arbitri che
presentano sistematicamente la loro attività nelle scuole), molti forse transitano in oratori o
squadrette sportive ma poi ne escono senza alcuna conseguenza rilevabile nelle interviste. Altri
invece paiono influenzati in modo più rilevante, almeno secondo le dichiarazioni fatte: apprezzano
le responsabilità di cui sono investiti, frequentano un mondo di adulti, maturano scelte e decisioni
che forse in altre situazioni non avrebbero compiuto. Sembra che la frequentazione di adulti e di
persone di diverse origini sia un fattore fondamentale per valutare gli effetti della partecipazione a
gruppi, associazioni e attività sportive. Ne deriva una conoscenza di ambienti diversi e una
socializzazione a pratiche che possono essere molto utili per la ricerca del lavoro e per il passaggio
all’età adulta, nuovi contatti, acquisizione di competenze interpersonali, sociali e, in alcuni casi,
professionalizzanti. Chi invece frequenta solo coetanei di analoga estrazione sociale e nazionale
potrà maturare competenze relazionali anche significative, potrà diventare un leader, ma
difficilmente queste competenze saranno estensibili ed esportabili in altri ambienti, specialmente
di adulti.
Per i genitori, l'associazionismo rappresenta una forma di controllo/custodia del tempo
libero dei figli. «Allora, ci ero andato d’estate perché era morto mio zio e non era il caso di
53
RAPPORTO SECONDGEN
andare in vacanza in Albania con lo zio morto, e mia madre mi ha detto: vai a lavorare
nell’oratorio! E ho fatto l’animatore, ma non ti pagano e boh... e ho conosciuto un gruppo di
gente nuova...» (Int. 56). In altri casi l’esperienza associativa seleziona le amicizie, fornisce risorse
sociali e sviluppa valori consonanti con quelli familiari, spesso mediante figure di riferimento,
consiglieri, modelli.«(L’associazione ) la conosco da tanto tempo. Mia sorella ci andava, già dieci
anni fa. Io sono andata alle medie una o due volte e poi non ci sono andata più. Alla fine della
terza superiore mia cugina andava e allora io sono andata qualche volta con lei per curiosità.
Una volta sono andata a un convegno e mi ha colpito molto vedere che intervenivano persone di
un certo tipo ...una donna ingegnere con il velo, di successo e molto attiva, ad esempio ...persone
che erano dei modelli» (Int. 80).
Talvolta madri mediatrici culturali e parenti o genitori coinvolti nell’associazionismo religioso o
nazionale spingono i figli e le figlie a frequentarlo o forniscono informazioni su realtà associative
locali, “progetti” per i giovani di cui vengono a conoscenza.
Anche gli insegnanti possono indirizzare verso l’associazionismo giovanile che controlla lo
svolgimento dei compiti, assiste nell’apprendimento dell’italiano, organizza attività nel periodo
estivo, diventa il luogo del tempo libero, delle amicizie e di esperienze di volontariato o di piccoli
lavoretti.
I giudizi degli intervistati su queste esperienze sono generalmente positivi ma non mancano le
critiche alle pratiche di controllo e alle chiusure comunitarie di alcune associazioni religiose o
nazionali.
Dal materiale empirico raccolto sembra che chi frequenta attività e associazioni di tipo più
strutturato abbia le caratteristiche del “bravo ragazzo” con una carriera scolastica in
positivo.
Solitamente si pensa che la rete dell'associazione sia differente dalla rete della
famiglia/parentela, dalle interviste emerge invece una certa prossimità e commistione.
54
RAPPORTO SECONDGEN
Percorsi transnazionali?
Negli ultimi anni la nozione di “transnazionalismo” ha esercitato un’influenza significativa sulla
ricerca, evocando l’immagine di persone che si spostano fluidamente tra due paesi e partecipano
alla vita civile e sociale di entrambi. La nozione di transnazionalismo in questo senso non è parsa
appropriata e analiticamente proficua per spiegare le esperienze e i rapporti col paese di origine
descritti dai giovani intervistati. Al di là delle obiezioni teoriche riguardanti la scarsa definitezza e
conseguente ambiguità del termine (Kivisto,2001), condivise dal gruppo di ricerca, la maggior
parte dei nostri intervistati vive, in vari modi, l’esperienza dei ritorni periodici al paese d’origine,
in una dimensione “micro”, familiare e non comunitaria, con significati diversi, e “deboli”
rispetto a quello di un “processo mediante il quale i migranti si costruiscono campi sociali che
legano insieme il paese d’origine e quello di insediamento” (Glick Schiller et al. 1992).
Qualche intervistato ha fatto l’ipotesi di un trasferimento nel paese di origine se ci fosse la
possibilità di un inserimento lavorativo, ha costruito o mantenuto relazioni familiari e di
conoscenti in vista di questa possibilità. Tuttavia è difficile sapere le effettive possibilità di
realizzazione di questi progetti.
Altre persone ritengono che sia probabile un ritorno dei genitori e in certi casi questo era già
avvenuto al momento dell’intervista. I genitori che hanno fatto questa scelta hanno investito i
propri risparmi in terreni o abitazioni, in attività con altri familiari che l’età pensionistica permette
di seguire direttamente.
Per alcuni giovani tornare durante le ferie o le vacanze può significare “sentirsi a casa”,
circondati dall’affetto della famiglia allargata, tra molti amici.
Ma per divertirsi servono “tanti soldi” e i compaesani hanno certe aspettative rispetto a chi è
immigrato. «Vedevo connazionali che in Italia si sono fatti tanti soldi, si sono comprati
macchinoni enormi e hanno aperto delle belle attività in Marocco. [...] i pettegolezzi della gente
che è rimasta là in Marocco. La gente dice: “tanti anni che stai in Italia e non hai fatto nulla!”. In
Marocco c’è l’idea che se vieni qua e non fai soldi, non sei un buon migrante. A loro non interessa
come li hai fatti, importante è tornare con tanti soldi. Anche se la religione non lo permette, la
gente cerca i soldi facili con attività illegali, lo fa lo stesso» (Int.160).
Altri intervistati vivono il ritorno con un senso di estraneità agli ambienti che non sono più o non
sono mai stati familiari. «Io faccio difficoltà quando vado per le vacanze, stare lì, la prima
settimana mi devo ancora abituare al posto dove sto ma anche il modo di parlare con le persone,
il modo in cui loro reagiscono, la battuta che loro fanno, le altre cose, io lo vedo sempre anche se
ultimamente sto andando molto spesso però mi ci vuole sempre tempo per riuscire a capire…»
(Int. 151)
Emerge in molte interviste il desiderio di andare in altri paesi, ma nella maggior parte dei casi
non si tratta di progetti definiti. Per alcuni ragazzi marocchini andare in Francia, stabilmente o
praticare un transnazionalismo circolatorio, rappresenta una possibilità concreta grazie alla
presenza di parenti già inseriti. Altri intervistati citano il Belgio o l’Inghilterra per la maggiori
opportunità lavorative e le maggiori garanzie sociali, ma sono affermazioni spesso basate solo sul
“sentito dire”, denotano una vaga disponibilità, se l’occasione si presentasse.
Chi ha valorizzato la competenza linguistica e i contatti con il paese d’origine per attività
giornalistiche o diplomatiche tenta di costruire una carriera internazionale più che un progetto
transnazionale.
55
RAPPORTO SECONDGEN
Tra le ragazze, alcune vivono o hanno vissuto il ritorno periodico come il momento del
fidanzamento o della celebrazione del matrimonio con un connazionale che in tal modo potrà
avere il permesso di soggiorno in Italia. «La casa l'avevo presa da gennaio, perché avevo
spedito i documenti a mio marito e ho detto “se arriva tra poco, prendo la casa un po' prima così
la sistemo”. Ho comprato la camera da letto, degli oggetti per la cucina, un forno, mi mancano
pochissime cose... mio padre mi ha trovato un tavolo e delle sedie da un'altra casa. Pian piano ho
iniziato a mettere i mobili, mi manca solo un divano, ho comprato il frigorifero. Lui è arrivato ad
aprile, ci eravamo sposati agosto 2011, sono rimasta lì due mesi e sono tornata a ottobre l'anno
scorso» (Int. 131). In questo caso la conseguenza di un matrimonio voluto dai genitori comporta
di fatto un’inversione di ruoli per la giovane moglie lavoratrice.
Tornare d’estate, può significare essere “preda” dei tentativi di tanti giovani maschi che vedono
nel matrimonio, specialmente con una giovane che lavora, un’opportunità di trasferimento
“garantito“ in Italia. Una giovane diciottenne, sposata con un connazionale e madre, racconta che
quando tornava la infastidivano i ragazzi che si avvicinavano «solo per i documenti […] Fanno
vivere cose brutte alle ragazze arabe che lavorano, si sposano con questi giovani che si fermano
poco in Italia e poi tornano in Marocco e magari sposano altre donne» (Int. 129) .
In qualche intervista c’è il racconto dei pettegolezzi subiti e della decisione di non tornare
periodicamente al paese di origine dove le ragazze possono subire forti pressioni per il
matrimonio. «Mi trovo un pesce fuor d’acqua! No, soltanto che .... tante persone mi volevano e io
non volevo nessuno. La gente inizia a parlare e i miei .... erano un po’ diversi da quelli che sono
qua ... la gente: non ha accettato questo, non ha accettato quello, non ha accettato l’altro, chissà
cos’ha! E loro (i genitori): che cosa è successo? Cos’hai? Se è successo qualcosa, dillo ... ma ....
mi sono trovata in una situazione difficile per me. Avevi 18 anni e questi ragazzi che ti
presentavano tu li conoscevi? Li conoscevo , però non mi piacciono, cioè io non posso legare la
mia vita alla sua . niente da fare. Ho giurato di non andare più. Ho sofferto. Mi hanno giudicato
male .... La gente, boh: chissà cos’ha fatto, chissà cos’ha combinato , forse ha qualcuno. Hanno
girato delle voci che ... mi sono sentita proprio male» (Int. 119).
(per approfondire vedi l’analisi a pag. 158)
E’ importante sottolineare anche le migrazioni interne, dal Sud al Nord Italia e la mobilità
territoriale in Piemonte e in Nord Italia di molte famiglie. In questi casi gli effetti degli
spostamenti si sono accumulati determinando situazioni di svantaggio nell’inserimento scolastico
dei figli e nell’inserimento lavorativo dei genitori.
Il rapporto con il paese d’origine è raramente segno di reti che scavalcano le frontiere e che
contribuiscono a definire in senso bifocale e bilocalizzato le pratiche sociali e i percorsi
lavorativi.
Vi sono tuttavia possibili e significative eccezioni: in particolare alcuni hanno parenti nei
paesi di origine o in altri paesi di emigrazione che si sono offerti di aiutarli a trovare lavoro o
almeno di assisterli in una nuova migrazione. E' difficile dire se queste reti siano davvero in
grado di offrire alternative o se restino una vaga speranza: nella crisi attuale potrebbe essere
comunque una risorsa.
56
RAPPORTO SECONDGEN
Permessi di soggiorno e cittadinanza
La conquista del “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” è una tappa
cruciale nel percorso di stabilizzazione, mentre il diventare cittadini sembra rappresentare una
meta lontana. Entrambi sono utili “per stare tranquilli”, per potersi muovere più agevolmente in
Europa. «Lei è cittadina italiana? No, perché per avere la cittadinanza bisogna avere un certo
reddito e essendo io fino a poco tempo fa, quando ho fatto la domanda, minorenne avrebbero
dovuto guardare il reddito di mia madre che però non è abbastanza, cioè la maggior parte del
reddito non è regolare quindi nel Cud ciò che guadagna non è abbastanza e … non posso
ottenerla. E pensa che questo possa crearle qualche problema? No, non particolarmente... La
cittadinanza non è esattamente quello che mi serve, perché per viaggiare in Europa ho il
passaporto, salvo che in Inghilterra dove ho bisogno del visto. Per altri paesi d'Europa no.
Comunque ho la carta di soggiorno, ho i documenti che mi garantiscono.. due o tre anni fa sono
riuscita a ottenerla, prima era a scadenza, andavo e rinnovavo. Magari avrei qualche
agevolazione, ma neanche tante. Forse ho più agevolazioni a non essere cittadina italiana. Quindi
va bene così» (Int. 95).
In molti casi abbiamo riscontrato carenza di informazioni sulle procedure e sui requisiti per
l’acquisizione della cittadinanza. «Ho la carta di soggiorno con scadenza illimitato.... la
cittadinanza no, non l'ho ancora chiesta, devo informami per capire la mia situazione, forse a fine
del 2012... sono nell'anno dei 18, ma non so bene, devi avere anche il requisito del lavoro» (Int.
128).
Tutto ciò può essere letto come uno scollamento rispetto al dibattito in corso in Italia, che non
coinvolge gran parte dei giovani, e come inconsapevolezza che la piena partecipazione consiste
non solo nel diritto al voto ma anche nell’accesso ai concorsi pubblici, per ora riservati ai cittadini
italiani o in certi casi dell’unione europea. Alcuni nostri intervistati l’hanno infatti scoperto
“tardi” , anche in questo caso la mancanza di informazioni precise è determinante per le
traiettorie. «Anche durante l’orientamento non te lo dicevano. diciamo, come stranieri, proprio in
quella facoltà, in quel corso, sono pochissimi [...] Quando facevano l’orientamento davano per
scontato che fossimo italiani e quindi non…» (Int. 124).
E’ diffusa l’idea che “basti” il permesso per lungo residenti, perché il problema maggiore sta
nella scadenza del permesso di soggiorno, benché ci siano “aree grigie” entro le quali alcune
famiglie e giovani si muovono per ottenerne il rinnovo. «Come fai ad avere il permesso di
soggiorno se non lavori? Adesso ho due anni. Ho fatto la richiesta per quello a tempo
indeterminato. L'ho fatta quando lavoravo, sto aspettando la risposta. Se proprio va male
sicuramente un lavoro lo troverò. Ci sono tante soluzioni che si può fare, basta pagare ma ci sono.
Ci sono i contratti finti... » (Int.117).
Ciò che infatti viene evidenziato nei racconti dei giovani è soprattutto il problema del
meccanismo del permesso di lavoro legato al contratto di lavoro. Dice un giovane uscito dal
carcere: «Ora sto cercando lavoro ma senza i documenti è difficile trovare qualcuno che ti
assuma, senza lavoro regolare non posso rifare il permesso di soggiorno! » (Int.160). In alcuni
casi il mancato rinnovo del permesso di soggiorno ha contribuito al processo di accumulazione
dello svantaggio e allo scivolamento nell’economia sommersa e nell’illegalità.
Le forme contrattuali a progetto sono un altro elemento di difficoltà di posizionamento giuridico: «
I miei ce l’hanno a tempo indeterminato il permesso di soggiorno, chi ha un lavoro fisso, sì a
57
RAPPORTO SECONDGEN
tempo indeterminato lo può prendere, chi ha un contratto a tempo determinato in base alla durata
del contratto… io adesso avevo questo contratto a progetto per due anni e ho avuto lo stesso per
un anno il permesso in attesa di occupazione e non per motivi di lavoro» (Int.151)
Ciò rende più lungo il percorso per poter richiedere il permesso di soggiorno per soggiornanti di
lungo periodo e la cittadinanza italiana. «Ho fatto domanda (di cittadinanza) ormai 4 anni fa
perché in quel momento avevo tutti i requisiti, lavoro, entrate, eccetera, ma in mezzo a un blocco,
che vedo anche in altre persone. Perché la devo chiedere? Certo che è comoda, ma poi ci mette
tanti anni e io non so dove sarò ... la carta di soggiorno sarebbe comoda, ma in realtà bisogna
avere avuto un contratto di lavoro almeno di un anno e io non ho mai avuto un contratto che sia
durato un anno e quindi alla fine ho fatto domanda di cittadinanza ma ho molti dubbi perché per
ora non si prospettano possibilità di lavoro stabile per il 2012, e non so ...» (Int. 104).
La precarietà lavorativa che caratterizza molti nostri intervistati impedisce progetti di vita
di lungo periodo, e tra questi anche il vedersi italiani.
58
RAPPORTO SECONDGEN
Forme di identificazione e ambienti sociali
Quali sono le forme di classificazione usate dai giovani per spiegare e interpretare la propria
situazione, le scelte, il proprio mondo sociale?
Esaminando il materiale empirico raccolto, si può notare che i confini e i sistemi categoriali di
classificazione per definire la propria posizione sono appresi e costruiti negli ambienti sociali
in cui si è inseriti. Ad esempio: cabinotti/ non cabinotti; fighi e sfigati in base al consumo di
droghe e all’atteggiamento verso i professori; tamarri/non tamarri; tamarri/squatter; i
finocchietti/quelli che dicono parolacce; metallari/rappusi sono categorizzazioni ricorrenti nei
racconti degli intervistati e proprie di ambienti adolescenziali-giovanili, locali, che definiscono la
differenza tra noi/loro ma non su basi nazionali.
Le interazioni tra giovani intervistati e giovani “locali” non sono pertanto riconducibili a
interazioni tra membri di gruppi nazionali (o “etnici”) poiché nei processi di identificazione
contano, più che la cultura di origine, le relazioni e gli ambienti in cui si cresce.
Le interviste non prevedevano una sezione specificatamente dedicata a esplorare la questione dell’
“identità”, del “sentirsi” più o meno italiano, che avrebbe potuto indurre il ricorso a categorie
etniche/nazionali, pertanto le narrazioni dei giovani possono risultare interessanti per l’evidenza di
discorsi articolati su diversi schemi cognitivi e sistemi categoriali. Se l’intervista avesse previsto di
esplorare esplicitamente la dimensione identitaria, si sarebbe rischiato di indurre un discorso
essenzialistico, astratto dalle esperienze concrete. Invece, sono emersi complessi processi di
formazione dei gruppi e forme di autoidentificazione e di eteroidentificazione molto legate agli
ambienti specifici, al quotidiano e alle persone che si conoscono, che si frequentano o che si
evitano
Inoltre, interrogarsi sui processi di categorizzazione può assumere particolare rilievo in un
contesto, Torino e l’Italia in generale, dove è diffuso, sia con intenti di valorizzazione della
differenza, sia in termini xenofobi, il riconoscimento ai migranti e in parte ai loro figli di
un’identità ascritta e fondata sulle origini, che definirebbe delle “comunità” coese e omogenee
(per approfondire vedi l’analisi a pag 175).
Il senso della prossimità e della distanza che invece emerge dai racconti dei giovani intervistati
non è centrato sull’origine nazionale ma sugli ambienti sociali. L’analisi delle nostre interviste
evidenzia che i giovani apprendono e costruiscono categorie, schemi discorsivi e cognitivi
negli ambienti sociali in cui si trovano. La differenziazione tra radicati e esterni (Elias e Scotson,
2004) - che non corrisponde a quella tra italiani e stranieri - tra disciplinati e pigri, tra responsabili
e irresponsabili, tra devianti e non devianti, tra quelli che lavorano molto e quelli che lavorano
poco esprime codici morali, culture giovanili, etichette, criteri di classificazione appresi in Italia.
Con questo materiale fornito dalle esperienze e dalle interazioni quotidiane, i giovani intervistati
tracciano confini, valutano e descrivono se stessi e gli altri.
Certamente esiste in Italia un’ampia letteratura (Colombo, 2010) sui processi di costruzione
identitaria che evidenzia l’eterogeneità delle situazioni, i differenti modelli di appartenenza a
disposizione dei giovani per rappresentarsi e agire, e le forme di identificazione molteplici, deboli,
strategiche, “ibride”, “meticce”. Questi discorsi rischiano tuttavia di rimanere nell’orizzonte di
un’identità declinata in termini culturali tra appartenenza originaria e adesione al paese d’arrivo.
59
RAPPORTO SECONDGEN
Invece, le specificità sociologiche dei figli degli immigrati, da come emerge in tutta la ricerca,
stanno in altro.
Dalle interviste di Secondgen, mediante l’analisi dei dati empirici, si è cercato di esplorare come
nella prassi relazionale quotidiana in contesti e ambienti sociali variabili, mediante discorsi
spontanei, i giovani costruiscano appartenenze, identificazione e confini.
Appare infatti più promettente dal punto di vista interpretativo l’analisi delle categorie che sono
usate dai singoli individui per distinguersi, per identificarsi e caratterizzare sé e gli altri e dare
senso alla propria posizione, nei processi quotidiani di formazione dei gruppi, tra interazioni, reti e
risorse personali (Wimmer 2004, 2009).
Questa prospettiva, applicata al materiale empirico di Secondgen, permette di evidenziare che le
persone in certe circostanze usano certe categorie. Queste esprimono una specifica
esperienza migratoria, specifiche esperienze personali, posizione sociale, obiettivi, interessi,
sono utilizzate per avvicinarsi o prendere le distanze. Ed è interessante analizzare come sono
selezionate nella prassi quotidiana di costruzione di confini, nei discorsi e nelle reti sociali, con
risultati diversi. Possono emergere comunità etniche, o identificazioni in base al genere, al livello
di istruzione o di classe, a elementi delle “culture giovanili”.
Tra le categorie utilizzate dagli intervistati ci sono anche quelle etniche o nazionali. I giovani
dispongono, infatti, del riferimento alle origini in quanto categoria di classificazione alla quale
applicano stereotipi negativi o positivi, con la funzione di marcatore nelle interazioni a scuola, al
lavoro, negli spazi pubblici, nei luoghi di ritrovo e di divertimento. E spesso affermano nette
differenziazioni interne alla comune origine, volendo distinguersi, prendere le distanze dai
connazionali secondo diversi criteri. Tra questi abbiamo riscontrato il momento di arrivo in Italia
(vecchi e nuovi arrivati), la provenienza dalla città o dalla campagna, i diversi obiettivi
dell’emigrazione, il rapporto con le tradizioni locali, l’origine sociale.
60
RAPPORTO SECONDGEN
2.3. Analisi
Vie di radicamento e scelte di vita: migranti italiane e straniere a confronto
Anna Badino
La costruzione di nuovi legami: una questione di genere e di generazioni
Essere figli di immigrati è una condizione che incide sulle opportunità, i vincoli, le aspettative e i progetti
individuali, come sugli ambienti fisici e sociali frequentati, le scelte e i percorsi biografici. Ma cos’è che
differenzia gli immigrati dagli autoctoni? L’emigrazione comporta la perdita di alcuni rapporti e impoverisce
la rete di relazioni di chi lascia il luogo di origine per trasferirsi in un altro. Pertanto, la prima cruciale sfida
che qualsiasi immigrato deve affrontare è quella della costruzione di una propria rete sociale nel nuovo
contesto di arrivo (Eve 2010). A seconda delle modalità con cui questo processo di radicamento si realizza si
possono avere ricadute diverse su scelte di vita cruciali come quelle che riguardano il bivio tra lavoro da un
lato e la prosecuzione degli studi dopo l’obbligo dall’altro, i progetti migratori, i progetti legati alla vita di
coppia. Sarà questo il punto intorno al quale tenteremo una riflessione.
Le condizioni e i modi di radicamento dipendono dal ruolo sociale che si riveste al momento dell’arrivo nel
nuovo contesto. Come per altri processi sociali, le differenze di genere condizionano tipo e varietà di
ambienti frequentati e tempo a disposizione da dedicare all’attività sociale. Per la prima generazione di
immigrati meridionali al Nord, ad esempio, il luogo di lavoro e il vicinato rappresentavano le due sfere
tipiche, anche se non esclusive, in cui intrecciare nuovi rapporti (Ramella 2003, Gribaudi 1981), ma il primo
lo era soprattutto per gli uomini e il secondo per quelle donne che trascorrevano una buona parte della loro
giornata in casa (Badino 2009). Per queste donne, anche il mercato di quartiere frequentato regolarmente, o i
giardini pubblici vicino casa dove ci si recava con i figli piccoli potevano rappresentare altri ambienti in cui
fare nuove conoscenze, al di là dell’eventuale parentela presente in città, che costituiva un punto di
riferimento fondamentale per tutti i nuovi arrivati e poteva fare da ponte per la costruzione di nuovi rapporti
sociali.
Oltre al genere è però utile considerare anche il peso dell’elemento generazionale e della fase del ciclo di vita
in cui ci si ritrova nel condizionare la costruzione di nuovi rapporti: chi emigra da bambino (ma ciò vale
anche per i figli degli immigrati di oggi che arrivano da adolescenti) entra in contatto con i coetanei locali
principalmente attraverso la scuola.
È oggi abbastanza diffusa la convinzione secondo la quale negli anni del miracolo economico proprio questa
istituzione avrebbe favorito l’integrazione di una generazione di meridionali al Nord. In realtà, diverse fonti e
una serie di studi condotti all’epoca testimoniano per quel periodo un quadro tutt’altro che idilliaco (Badino
2012). L’inserimento nell’ambiente scolastico rappresenta, oggi come allora, un momento delicato
nell’esperienza dei piccoli o giovani immigrati. Nel caso dei bambini meridionali arrivati a Torino negli anni
Sessanta, i dati che abbiamo raccolto1 mostrano che l’impatto con la scuola locale è stato traumatico:
retrocessioni in classi inferiori all’arrivo, bocciature ripetute e confinamento nelle classi differenziali sono
fenomeni che hanno allarmato gli osservatori dell’epoca per la loro straordinaria diffusione (Deva e Pepe
1963; Quadrio 1967; Quadrio e Ravaccia 1967; Aymone 1972; Fofi 1976) e che segnalano seri problemi di
adattamento.
Oltre alle difficoltà prettamente legate all’attività didattica, testimoniate dagli appunti degli insegnanti sui
registri di classe, anche l’intreccio di legami amicali con i nuovi compagni torinesi non è stato per tutti facile.
1
Oltre agli studi di carattere pedagogico condotti durante gli anni Sessanta dedicati al tema dell’inserimento dei
bambini meridionali nelle scuole al Nord, per il caso specifico di Torino sono stati esaminati i registri di alcune
scuole elementari appartenenti a un circolo didattico di un quartiere della vecchia periferia operaia cittadina che
all’epoca ha accolto molti immigrati al loro arrivo. Tali registri hanno permesso due tipi di analisi. In primo luogo,
la rilevazione di dati relativi al decennio Sessanta e ai primi anni del decennio successivo (1961-1972), ha
consentito di analizzare da vicino bocciature e ritardi scolastici. In secondo luogo, i ricchi appunti delle maestre
presenti nella sezione dei registri denominata “cronaca di vita della scuola” hanno fornito informazioni
interessanti sul tipo di accoglienza riservata ai bambini meridionali da parte del corpo insegnante, oltre a notizie
sulle situazioni familiari degli alunni immigrati. Un’altra importante fonte è rappresentata dalle interviste in
profondità realizzate tra il 2010 e il 2014 a circa 50 figli di immigrati di allora e a figli di piemontesi e torinesi.
61
RAPPORTO SECONDGEN
Questo problema emerge da diverse interviste ai bambini di allora che abbiamo realizzato nella nostra
ricerca. Emblematico è il quadro tracciato da Enzo, nato nella provincia di Enna nel 1951 e arrivato a Torino
a 6 anni con i familiari. Della sua esperienza migratoria iniziale il testimone ricorda con turbamento
soprattutto la cattiva accoglienza ricevuta a scuola da compagni e insegnanti:
L’aspetto della scuola è stato drammatico nel senso che ho fatto fino alla quarta elementare e poi non ho fatto più
niente. (…) al momento che sono andato a scuola, non sono riuscito a legare con gli altri. I compiti erano
veramente diversi. Al paese ci davano delle cose diverse, ci aiutavano di più. (…) (Quando arrivavi qui) eri un
persona diversa, dai professori, dalle mamme, le torinesi. Per loro, eravamo persone diverse, ignoranti… io ci ho
litigato. Ho litigato con gli alunni, il maestro, le mamme. Non mi tenevo le cose, quando uno mi diceva “Questo
siciliano di merda”, dicevo ancora in siciliano: “Di merda sarai tu, tua mamma…”. Reagivo magari malamente, da
violento, però era così. Non ti venivano incontro, nel senso “aspettiamo, diamo il tempo…”. Niente! Dicevano:
“Questi ragazzi qui sono tutti maleducati”. Sono andato in seconda, poi ho fatto la terza e l’ho ripetuta due anni,
perché poi non andava. La quarta l’ho ripetuta e poi ho lasciato stare. Mi ricordo che c’era il cortile dove stavo
meglio, dove si andava a giocare. Era il momento che riuscivi ad esser più di compagnia perché giocavi e non c’era
la scuola di mezzo, c’era il compagno; invece la scuola era più drammatica. Forse per la lingua, non riuscivi a
spiegarti nell’italiano giusto.
L’inserimento poteva risultare più difficile se si arrivava in una classe in cui gli immigrati erano pochi.
Ce n’erano due o tre immigrati, ma non tutti; c’era l’altro che faceva la quarta elementare e in quella classe c’era
un altro ragazzo di Reggio Calabria; non ce n’erano tanti (immigrati) in quella scuola. In corso Belgio ce n’erano
due. Degli amici me li sono fatti poi nel palazzo, ma per quello che riguarda la scuola non ho fatto amicizie. (Era)
un ambiente ostile; per me è stato ostile; forse per il fatto di avere più compiti da fare che poi magari non capivi, ti
trovavi… non dico emarginato, ma sapendo che l’indomani mattina trovavi che avevano da dire; chiedevi aiuto
alla mamma e la mamma aveva altro da fare e la sorella non c’era, il fratello nemmeno…
Questa esperienza di spaesamento, vissuta dai figli di meridionali durante gli anni Sessanta, ritorna anche nei
racconti di alcune ragazze straniere arrivate in Piemonte da bambine negli anni Novanta o nei primi anni
Duemila, quando la presenza di immigrati nelle scuole italiane era ancora sporadica. La vicenda riportata da
Elsa, oggi ventiduenne, immigrata da Valona quando ne aveva 7, appare straordinariamente simile a quella
di molte bambine e bambini immigrati dal Meridione con la famiglia negli anni del miracolo economico. Il
primo impatto con la nuova città e il nuovo Paese avviene anche per lei alla scuola elementare. Di questo
periodo iniziale la ragazza ricorda il dileggio dei compagni per il fatto di non parlare correttamente l’italiano,
nonostante lo avesse già in parte appreso dalla televisione in Albania. Solo in un secondo momento la
bambina riesce a inserirsi, ma forse non del tutto, nel gruppo dei compagni.
Quando sono andata a scuola c’erano i miei compagni di classe che mi prendevano in giro perché non sapevo
parlare bene, così il primo impatto è stato un po’ brusco, poi quando mi sono trasferita (in un’altra scuola) non ho
avuto nessun problema, perché sapevo parlare meglio, non ero straniera straniera e mi facevano giocare con loro,
e non mi escludevano più tanto. Le maestre penso che non sempre si accorgevano , a volte sì.
Alina, arrivata dalla Romania nel 2004, va ad abitare con la famiglia in un piccolo comune in provincia di
Torino e anche lei ha il ricordo di un impatto difficile con i compagni della scuola media:
L’impatto non è stato proprio bellissimo, perché sono stata a scuola in un paesino dove non c’erano tanti stranieri,
e magari ero tanto accettata. E mi sono impegnata a studiare l’italiano, infatti dopo i primi due mesi più o meno…
parlavo… perché volevo proprio capire quello che dicevano i miei compagni. (…) Era un po’… non lo so mi
trovavo fuori luogo, mi sembrava strano. All’inizio è stato tranquillo, però poi andando avanti magari era un po’
difficile, visto che non sapevo la lingua… parlavo in inglese… che è stata l’unica lingua che mi ha aiutato a
capirmi un po’ con i compagni. Oppure mi davano un dizionario e io facevo vedere la parola e la facevo vedere a
una persona… così. (…) a scuola… c’era solo una compagna che era rumena… moldava. Dopo che se n’è andata
lei è stato difficile me ne stavo sempre da sola… quasi sempre. Mi dava fastidio che i compagni parlavano,
magari… cioè io non so che cosa dicevano su di me, ma parlavano di me (qualcosa lo sentivo!). E mi dava molto
fastidio.
L’inserimento le sembra invece più semplice alla scuola superiore, dove ritrova altri figli di immigrati:
62
RAPPORTO SECONDGEN
e’ stato molto diverso, perché qui c’erano tantissimi ragazzi stranieri, e allora non ho sentito questo peso di essere
straniera, anzi mi sono sentita molto ben accolta. Accolta perché ho cominciato a fare amicizie… magari alla
scuola media non tanto. Solo con una ragazza avevo iniziato a fare amicizia. Invece qui è stato molto più facile.
Se alcuni riescono, dopo un periodo, a superare le difficoltà iniziali, per altri queste difficoltà possono
perdurare e tramutarsi in una condizione di isolamento sociale dalla quale si fatica a uscire. Tristana,
coetanea della precedente testimone ma originaria del Perù, arriva a Torino all’età di 5 anni assieme alla
madre per ricongiungersi al padre emigrato un paio d’anni prima. La storia del suo inserimento nella società
torinese è caratterizzata per molti anni dalla difficoltà di entrare in relazione con i coetanei di origine locale e
di stringere con loro veri rapporti significativi. Il quartiere in cui la famiglia trova casa è quello di Barriera di
Milano, oggi come ieri caratterizzato da alloggi a basso costo e perciò approdo di immigrati (Cingolani
2012). A differenza di Elsa, che presto supera la condizione di isolamento iniziale a scuola, per Tristana le
cose non migliorano nel tempo, ma al contrario peggiorano: il momento più difficile, racconta, sono le scuole
superiori, un istituto tecnico industriale in cui è l’unica non italiana della classe. Trascorre il primo anno
emarginata e osteggiata dai compagni, che smettono di prenderla in giro solo dopo l’intervento di suo padre.
I professori, a suo dire, “o non volevano vedere le cose o non se ne accorgevano veramente”:
(l’esperienza dell’Istituto Tecnico) è stata un po’ dura per me per il fatto che passavo a un ambiente dove non
conoscevo nessuno, la mia classe era piena di italiani… e comunque senti sempre questa… ovunque dove vai c’è
sempre questa differenza tra stranieri e italiani. (Io l’ho sempre sentita). Alla fine, l’ho sentita più da grande che da
piccolina, perché da piccolina si gioca (…) elementari, medie, così, non ci pensavo tanto. Invece ho sentito questo
cambio tra medie e superiori. (…) Io non pensavo che.. forse perché ero tanto innocente, credevo che la gente
fosse tanto buona, ecc. Ho avuto dei problemi nel primo e nel secondo anno perché avevo tanta gente che mi
parlava dietro anche se davanti facevano i buoni, così. Io ero tanto buona, anche tipo passare gli appunti,
imprestare i quaderni, durante le verifiche, io tranquilla, io aiutavo, così, però poi hanno iniziato a ridermi in
faccia, io mi sono un po’ svegliata, neanche svegliata, mi sono detta “qua c’è qualcosa che non va”. Essendo
l’unica straniera in classe, perché ero l’unica, poi mi hanno un po’ emarginata. Sono stata da sola il primo anno,
sono stata male, hanno iniziato a offendermi, poi piano piano mi sentivo sempre più presa in giro, quindi sempre
più mi allontanavo, mi chiudevo sempre di più.
Il primo anno mi sono tenuta tutto per me. Poi, il secondo, le cose iniziavano a essere molto pesanti perché anche
tipo a educazione fisica, cominciavano a offendermi, a ridere, anche con parole grosse, i miei compagni. Quindi
una volta… poi mio padre cominciava a vedermi un po’ strana, un po’ così, ha iniziato a dirmi “Va tutto bene?”,
perché, comunque, non per colpa loro, per carità, non mi hanno seguito tantissimo, non dico che non mi
conoscono, però certe cose non riuscivano a intuirle. E quindi poi ad un certo punto io dico “si, si va tutto bene,
tutto bene”, poi però ad un certo punto un giorno è successa una scena in palestra in cui i miei compagni hanno
iniziato a dirmi sei una merda, sei una cacca schifosa, cose del genere, no, e quindi mi sono sentita male. Sono
arrivata a casa e mi sono messa a piangere, mi sono messa a piangere e poi ho dovuto raccontare tutto a mio padre.
Mio padre si è arrabbiato da morire, il giorno dopo è venuto a prendermi a scuola. E’ venuto a prendermi a scuola
e gli ha messo la macchina, perché mio padre era venuto a prendermi a scuola con la macchina e gli ha messo
davanti la macchina a questo qua che mi aveva chiamato così e questo ragazzo qua non mi ha detto mai più niente,
si è spaventato da morire, non mi ha detto mai più niente. Poi alla fine, sono andata avanti così tutti i cinque
anni…. Sono andata avanti così, a isolarmi, però non ho mai fatto amicizia con i miei compagni delle superiori”
(…) Ho avuto una ragazza italiana che siamo molto amiche, siamo ancora amiche, però da quando lei ha iniziato a
frequentare me in terza gli altri non hanno più, cioè, non hanno più frequentato neppure lei.
Come la testimone sottolinea, l’isolamento sociale è aggravato dal fatto di avere in città una rete parentale
povera di coetanei.
Mi sono trovata da sola senza… uno, sono figlia unica e già quello… poi non avevo neanche cugini, non avevo
parenti che abbiano la mia stessa età.
Una povertà di rapporti che si contrappone al mondo sociale “caldo”, costituito da una fitta parentela, che
invece avrebbe in Perù.
(Invece in Perù ) Ci sono un sacco di cugini che hanno la mia stessa età, infatti quando sono andata in Perù l’anno
scorso ero felicissima perché avevo tutti i miei parenti, i miei zii, tutti. Sono stata lì cinque mesi. Sono stati
bellissimi, sono stata bene. Sono stata bene, sono stata bene perché comunque c’erano i miei cugini, c’erano gli zii,
c’erano tutti i miei parenti, mio nonno, mia nonna, quindi… stavo ore e ore a parlare con mia nonna …
63
RAPPORTO SECONDGEN
Il futuro della ragazza sarà segnato dall’esperienza negativa vissuta a scuola. Più avanti ritorneremo sulle
conseguenze relazionali di questo difficile inserimento.
Il rischio di isolamento e le difficoltà di radicamento sociale si possono acuire se l’abitazione in cui la
famiglia si stabilisce è lontana dalla scuola e da altri centri di socialità giovanile, come i gruppi sportivi o
altre attività pomeridiane. L’esperienza di due testimoni mette in rilievo le conseguenze di una simile
condizione sulla formazione delle proprie reti di relazione.
Dopo le medie Alina riceve dai professori il consiglio di iscriversi a un liceo linguistico. Ma la scuola risulta
molto lontana dal comune in cui vive:
mi hanno mandato qua e (…) sono più di 35 chilometri. Quindi parto al mattino… al mattino verso le cinque e
mezza mi sveglio… La mia professoressa di italiano aveva detto che era abbastanza vicino a casa mia, ma non è
vero! Ha sbagliato un po’ i conti…
Buona parte della giornata di Alina è spesa negli spostamenti e difficilmente può frequentare le compagne di
classe in orario extrascolastico. Per lei una valvola di sfogo è rappresentata dai rapporti sociali che riesce a
intrecciare attraverso internet.
Lorena arriva dal Perù all’età di 17 anni. Il punto di riferimento in Piemonte sono alcuni parenti acquisiti che
abitano a Leinì (un comune della provincia torinese) e che procurano una casa ai nuovi arrivati nella stessa
zona. È qui che la ragazza va a vivere con la madre e il marito di lei, ma da subito percepisce il peso
dell’isolamento:
quando siamo arrivati non c’erano servizi, non c’era internet o un internet point per comunicare con gli altri. (…)
Purtroppo non era nemmeno nel centro città, era fuori in mezzo alla campagna e a volte io mi annoiavo tantissimo.
Mia madre faceva fatica a conoscere persone perché lavorava tanto e non c’era quasi nessuno dal Perù.
Come per Alina, anche Lorena è molto vincolata dagli spostamenti tra Torino, dove frequenta un istituto turistico,
e il comune in cui abita, in cui non riesce a costruire delle amicizie.
mi dovevo alzare preso e rientrare presto perché non c’erano i mezzi. Meno male che il marito di mia madre mi
veniva a prendere alla fermata perché casa mia non era tanto vicina.
Al problema della lontananza da scuola per la ragazza si somma il fatto di doversi inserire in una classe di
compagne più piccole di età, esperienza vissuta da molti figli di immigrati2:
io avevo 18 anni, loro ne avevano 15-16. Erano molto immature, quindi ho patito questa cosa. Purtroppo non mi
sono trovata bene. (…) io ero molto chiusa, parlavo con poche persone. A un certo punto ho deciso di pensare: “Io
vengo qui per il diploma, non me ne frega niente delle persone”.
Inoltre, anche Lorena si ritrova a essere una delle poche straniere della scuola:
ho avuto un’amica rumena: eravamo le uniche due immigrate e ci facevamo un po’ di compagnia. C’era anche un
altro gruppetto di ragazze a cui ci appoggiavamo, ma non sono rimasta in contatto praticamente con nessuno delle
superiori. Non si è creato nessun legame forte.
Per i bambini di meridionali a Torino, lo ricordava la testimonianza di Enzo sopra citata, una risorsa
importante alternativa alla scuola come luogo per intrecciare rapporti con i coetanei era il vicinato: nelle aree
urbane in cui le case costavano meno, i palazzi erano abitati da molte famiglie immigrate e con un alto
numero di figli piccoli. Bambini e ragazzini trascorrevano il loro tempo extrascolastico nei cortili o per le
strade del quartiere; le femmine tendevano a essere più controllate dalle famiglie rispetto ai maschi (Badino
2014), ma ugualmente entravano in relazione con bambine o ragazze che vivevano negli stessi palazzi.
Per le immigrate straniere che arrivano negli medesimi quartieri torinesi negli anni Novanta e Duemila
l’importanza del vicinato come fonte di nuove amicizie sembra essere più sfumata: nei decenni il profilo
demografico della città è cambiato, così come si è ridotto il grado di libertà di circolazione concessa ai
bambini da parte della famiglie (Belloni 2005). I giovani immigrati, a differenza dei loro predecessori, non
2
Un problema analogo emerge dalle interviste alle immigrate meridionali: le retrocessioni e le bocciature a cui molte
erano sottoposte nelle scuole elementari facevano sì che alcune bambine si ritrovassero al momento dello sviluppo in
classi di bambine più piccole con cui la differenza di età si percepiva molto forte. Il disagio causato da questa situazione
spingeva alcune ad abbandonare la scuola (Badino 2012).
64
RAPPORTO SECONDGEN
trovano cortili e vie popolati da bambini con cui fare amicizia. La vita extrascolastica delle giovani
immigrate, soprattutto nel primo periodo dopo l’arrivo, sembra svolgersi principalmente in casa. Si può
ipotizzare che negli anni successivi alle grandi migrazioni interne alcune condizioni rendessero più facile la
creazione di nuovi legami anche per chi aveva superato l’età infantile: la città in quel periodo conosce,
proprio grazie all’arrivo delle famiglie meridionali, un’iniezione di giovani che vanno ad animare strade e
quartieri della vecchia periferia operaia (Olagnero 1985). Diverse testimoni raccontano di avere stretto
amicizie importanti con vicine di casa conosciute conversando da un balcone all’altro (Petruzzi 1987), o di
aver conosciuto il futuro marito perché questi lavorava in un’officina affacciata su una via che si percorreva
tutti i giorni. Altre riferiscono che all’uscita dalla fabbrica di confezioni in cui erano occupate tante ragazze
nubili (il Gruppo finanziario tessile con uno stabilimento nella Barriera di Milano) si radunavano nugoli di
scapoli desiderosi di fare conoscenza con le giovani operaie.
Se paragonata alla mobilità interna dalle regioni meridionali che ha caratterizzato gli anni del boom
economico, la migrazione straniera a Torino dei decenni successivi non presenta la stessa connotazione di
massa: specialmente negli anni Novanta e i primi anni Duemila, gli immigrati rappresentano ovunque una
minoranza rispetto alla popolazione locale. Inoltre, il fatto di provenire da Paesi e continenti diversi può in
alcuni casi rappresentare una barriera alla creazione di legami tra immigrati che abitano negli stessi quartieri.
La cerchia sociale all’interno della quale trovare le amicizie e un partner è più ristretta e non di rado rimane
circoscritta al gruppo dei connazionali. La frequentazione di associazioni su base nazionale, che
rappresentano per alcuni un rifugio di fronte alla difficoltà di entrare in relazione con i locali, può facilitare
questo processo di segregazione. Certi luoghi di frequentazione giovanile in cui oggi avvengono incontri e si
formano legami tra coetanei sono gli stessi che emergono dai racconti dei ragazzi degli anni Sessanta e
Settanta: le sale da ballo (oggi discoteche), i giardini pubblici. Ma dalle testimonianze che abbiamo raccolto,
sembra che anche in questi luoghi non sia così facile la mescolanza tra gruppi nazionali diversi o tra stranieri
e italiani. Le discoteche latine richiamate dalle nostre testimoni, che a Torino sono frequentate
principalmente da peruviani, sono forse il caso più estremo di questa tendenza di certi gruppi
all’autoconfinamento.
Un ulteriore fattore che non favorisce la costruzione di relazioni localizzate nel quartiere di residenza o a
scuola è il ripetuto sradicamento causato dai frequenti i trasferimenti delle famiglie per cercare di migliorare
la condizione abitativa iniziale. Un movimento vorticoso che caratterizza tanto l’esperienza dei bambini
meridionali negli anni Sessanta (Ramella 2011) come quella degli immigrati di oggi. Najet arriva dal
Marocco ad Alessandria all’età di 10 anni. Il passaggio dal suo piccolo paese di origine alla cittadina
piemontese è da lei vissuto inizialmente in modo traumatico, ma nella quinta elementare in cui la bambina è
inserita, senza perdere anni di scuola, trova una buona accoglienza da compagni, tutti italiani, e maestre.
Anche il successivo passaggio alla scuola media, un anno dopo, è vissuto serenamente, poiché la maggior
parte dei vecchi compagni si ritrova insieme nella nuova classe. Con loro la bambina riesce a consolidare
l’amicizia, anche grazie al fatto di abitare nella stessa zona:
abitavamo in centro all’epoca, abbiamo avuto un bel rapporto. Eravamo anche vicini di casa, io andavo da oro, loro
venivano da me, abbiamo costruito tipo una compagnia, perché i loro genitori conoscevano mio padre e mio
fratello.
Il trasferimento della famiglia dopo appena un anno in un quartiere più lontano comporta un nuovo
sradicamento per la testimone, che si vede separata dalle amicizie che aveva appena costruito:
i miei hanno preso una casa popolare al quartiere Cristo e ho dovuto cambiare scuola… e sono tornata al punto da
capo! Lì di nuovo non volevo andare, mi ero appena ambientata e di nuovo un cambiamento. Non come quello di
prima, però avevo appena creato il mio “giro” e in seconda media mi sono dovuta di nuovo trasferire. Lì c’è voluto
un po’ per inserirmi di nuovo.
I casi fin qui presentati, in cui una serie di condizioni sfavorevoli rendono difficile la creazione di legami con
i coetanei locali, non sono rappresentativi dell’esperienza di tutte le giovani immigrate, ma hanno una certa
ricorrenza nelle testimonianze raccolte. Ci concentriamo su questo tipo di vincoli che possono caratterizzare
la condizione immigrata per ragionare sulle ricadute che questo tipo di difficoltà rischiano di avere, in modo
più o meno diretto, sul piano delle scelte personali delle ragazze e, in ultima analisi, sui loro percorsi sociali.
65
RAPPORTO SECONDGEN
Le conseguenze dell’isolamento sociale
Quali sono le strategie adottate dalle figlie degli immigrati quando l’inserimento nel contesto relazionale
della scuola locale è difficoltoso? L’ambiente di più facile accesso è spesso quello dei connazionali
immigrati, con cui si entra in contatto attraverso la parentela o le associazioni su base etnica. Ma il fatto di
frequentare principalmente ambienti socialmente omogenei può avere delle conseguenze importanti sulla
formazione delle aspettative personali per il futuro e per le informazioni sulle opportunità formative e
lavorative a disposizione. Per comprendere questo processo nelle sue sfumature riprendiamo alcune delle
vicende che abbiamo introdotto precedentemente.
Alina, che come si ricorderà abita in un comune lontano dalla scuola, si mette alla ricerca di nuovi amici
attraverso internet e approda a un sito di ragazzi immigrati come lei dalla Romania. Da qui scaturiranno
molte delle sue future relazioni amicali ed è attraverso lo stesso canale che conoscerà l’attuale fidanzato. Il
ragazzo, anche lui immigrato, frequenta l’ultimo anno di un istituto professionale e dopo il diploma ha come
unico orizzonte il mercato del lavoro. Al momento dell’intervista la nostra testimone, iscritta al quinto anno
del liceo linguistico, confessa di essere attratta dalla stessa prospettiva, che comporterebbe l’interruzione dei
suoi studi. Come vedremo meglio in seguito, non è dalla famiglia che arriva la pressione a trovare presto
un’occupazione. La madre e il padre di Alina, che lavorano rispettivamente come colf e come idraulico, al
contrario sembrano auspicare per lei una laurea scientifica, come medicina o farmacia. L’esempio del
fidanzato, e forse degli altri amici dello stesso giro, ha probabilmente un effetto sui progetti che la testimone
sta maturando.
Le ricadute che un certo tipo di frequentazioni possono avere sulle aspirazioni delle ragazze sono ancora più
evidenti nel caso di Tristana, la testimone peruviana di cui si è precedentemente parlato. Trovandosi isolata
nell’ambito scolastico, la ragazza s’inserisce nell’unico canale di contatti sociali con coetanei di cui dispone:
il gruppo di peruviani in cui la introduce un’amica connazionale conosciuta attraverso il padre:
La mia prima, prima amica è stata la figlia di un amico di mio padre, quindi ho conosciuto così lei. E quello è stato
il primo contatto. Tutti i miei amici, tutti, erano peruviani, e alla fine, da lì, cominciando a uscire con lei, diciamo
così, in discoteca, un po’ in centro, un po’ in giro, un po’…
Anche il primo fidanzato, che al momento dell’intervista rimane l’unico rapporto sentimentale importante, è
un ragazzo peruviano che frequenta la discoteca in cui regolarmente si recano i suoi amici. Nel caso di
Tristana sembra evidente l’influenza del tipo di rete sociale in cui si inserisce sull’atteggiamento che
progressivamente matura nei confronti della scuola: I ragazzi peruviani che frequenta, racconta, non hanno lo
studio nel proprio orizzonte di vita, e lei finisce per esserne condizionata.
Mi ero accorta che non frequentavo buoni ambienti. Nel senso che, comunque, un po’ tutto… tutto il mondo latino
che c’è qua a Torino, è un po’ tutto che non ha tanta voglia di fare, di andare avanti. I genitori li portano qua per
farli studiare, per lavorare, ecc. però loro non lo capiscono, anch’io, non lo capiamo. E quindi cioè, vogliamo solo
uscire, vogliamo solo divertirci, andare in discoteca, stare con gli amici, giocare di qua e di là e quindi alla fine ci
perdiamo. Ci perdiamo, diciamo bugie ai genitori, vado a scuola invece non ci vanno, vado di qua, vanno alle
feste, bevono anche, ecc.
Alla fine del terzo anno delle superiori la ragazza viene bocciata e al momento del diploma si ritrova
completamente demotivata nei confronti dello studio. Sotto la spinta delle ambizioni dei genitori, che
vorrebbero per lei un futuro da laureata, si iscrive all’università, alla facoltà di chimica, ma priva di
convinzione. Nessuno dei suoi amici del momento frequenta l’università, né ha in programma di andarci.
Presto la ragazza si ritira e comincia a cercare lavoro.
Come cercheremo di mostrare nei paragrafi successivi, la tensione verso il lavoro, visto soprattutto come
fonte di reddito prima che di gratificazione personale, sembra rappresentare un elemento costante nelle storie
delle figlie di immigrati che abbiamo raccolto. Tale tensione non sembra essere vissuta soltanto come
alternativa al proseguimento degli studi, ma come scelta che riveste molteplici significati legati alla
percezione della condizione migratoria familiare e che entra nelle vite di queste ragazze già durante le scuole
superiori.
66
RAPPORTO SECONDGEN
Una responsabilizzazione precoce
Nella varietà di esperienze che abbiamo raccolto attraverso le nostre interviste, un tratto ricorrente che
sembra di poter individuare è il fatto di aver sviluppato uno spiccato senso di responsabilità nei confronti
della famiglia di origine3. Nel raccontare la propria storia familiare le figlie appaiono molto colpite dai
sacrifici affrontati da madri e padri impegnati in lavori faticosi, prolungati, precari e che non di rado sono
molto al di sotto dei titoli di studio da loro posseduti: ex maestre che si adattano a lavorare come colf o
badanti, professori che diventano idraulici o muratori e così via. Talvolta, l’epopea migratoria dei genitori è
evocata dalle testimoni con sfumature eroiche, come nel caso di Elsa, che racconta con sentita ammirazione i
sacrifici affrontati dal padre, originariamente maresciallo in Albania, immigrato per primo per aprire la
strada agli altri familiari:
Mio padre ... ha faticato tanto .... è uno di quelli che è arrivato col gommone, non mi vergogno a dirlo, sono
esperienze difficili, tanti sacrifici. Mio padre ha fatto tanti sacrifici per noi e non mi vergogno a dire che è arrivato
col gommone. Per quattro mesi, non mi vergogno neanche di dire questo, aveva un parente che spacciava e ....
comunque .... era .... come si dice .... nel giro della prostituzione .... e questo parente gli poteva offrire qualsiasi
cosa e mio padre ha preferito dormire per terra, sulle panchine tipo un barbone... Poi è riuscito a trovare un lavoro
e, mi pare in Valle d’ Aosta, e questo qua gli ha dato anche la casa e si è ambientato meglio, a guadagnare soldi, mi
pare facesse cose col cartongesso ... non so ... Mio padre è sempre uno che cerca ... poi questo qua è andato in
fallimento e mio padre è riuscito ad andare a pulire scale in un ‘impresa di pulizia, qua a Torino, ha cercato casa,
ha messo i documenti per congiunzione familiare e ... siamo arrivati noi. Mio papà adesso lavora da un bel po’ di
anni ...come si chiama? ... prima lavorava alla “Galbani” come magazziniere, però hanno fallito e adesso è in
un'altra impresa sempre come magazziniere.
Le ragazze intervistate sembrano aver maturato un sentimento di riconoscenza e rispetto nei confronti dei
genitori, che si manifesta principalmente in due direzioni: la responsabilizzazione verso il lavoro domestico e
il desiderio di non gravare sul bilancio familiare con le proprie spese personali (comprese quelle relative agli
studi).
È l’esperienza familiare di mobilità che condiziona le tappe di questo processo di maturazione: la maggiore
precarietà, economica ma anche organizzativa, rende necessario che ogni membro della famiglia sia
responsabilizzato e non rimanga troppo a lungo in una condizione di totale dipendenza. Padri e madri sono
impegnati nel lavoro per molte ore al giorno e i figli, in assenza di altre figure che si prendano cura di loro,
devono, prima dei loro coetanei locali, imparare ad essere autonomi in molte azioni quotidiane. Una di
queste è andare e tornare da scuola, fin dalle elementari. Un’esperienza che ritroviamo nelle interviste alle
figlie di immigrati meridionali degli anni Sessanta. Carmela, una testimone arrivata da Melfi a 6 anni nel
1969, ricorda di aver vissuto male questa forzata autonomia, che la rendeva diversa, ai suoi occhi, dalle
compagne di classe locali:
sono rimasta alcuni mesi con la sorella perché mia mamma è tornata giù, ché doveva finire di chiudere tutta la
casa, tutte le cose così…, è tornata giù e io sono stata con loro. Io avevo queste sorelle, però il problema è che loro
lavoravano già, tutte. (…) lavoravano fino alle 10. Mi ricordo che rimanevo da sola; facevano il turno dalle 2 alle
10 e io rimanevo da sola e mi addormentavo sul tavolo ad aspettare che arrivasse mia sorella da lavorare. E quindi
tutti lavoravano e io ero sempre sola. (di pomeriggio stavo da sola in casa) se loro non c’erano che erano a
lavorare, oppure andavo a casa di qualcuno a fare i compiti. Ecco, questa (essere accompagnata a scuola) è un’altra
cosa che io ho sempre patito, perché non era lontana, ma non era neanche vicina (…) Allora non c’erano le
macchine, non c’era traffico, anche perché poi abitando in corso Regio Parco - allora poi era periferia. A parte
quando mi poteva accompagnare mia sorella che non andava a lavorare, sono sempre andata da sola; e questo mi
dava anche fastidio perché vedevo che tutti i bambini andavano con le mamme e io da sola.
3
In una recente inchiesta su “La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2013” si rileva una tendenza contraria:
i giovani di oggi, iperprotetti e aiutati dalle famiglie, rischierebbero di rallentare il processo di responsabilizzazione
nelle scelte di vita (www.rapportogiovani.it). Gli studi sociologici individuano oggi una tendenza a posticipare la
transizione all’età adulta, al punto che è stata coniata una nuova categoria definita “fase del giovane adulto”, come
prolungamento dell’adolescenza. Si può ipotizzare che i figli degli immigrati siano meno soggetti a questo processo di
prolungamento della giovinezza e che, rispetto alla popolazione locale, tendano a diventare adulti più in fretta. Se così
fosse il fenomeno sarebbe in continuità con l’esperienza dei figli dell’immigrazione meridionale al Nord (Badino 2012).
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RAPPORTO SECONDGEN
Tre decenni più tardi, anche Tristana si ritrova a trascorrere gran parte della giornata da sola in casa. Ma la
sensazione di solitudine è per lei accentuata dal fatto di essere figlia unica:
Le elementari le ho fatte dietro a casa mia perché dovevo andare da sola perché mia mamma lavorava, lavorava
sempre, mio padre anche, quindi io dovevo andarci da sola, 6 anni da sola. (…) io sono stata tanto da sola, non ho
né fratelli, niente. I miei non c’erano mai.(…) Un po’ studiavo, i miei non mi stavano dietro perché non avevano
tempo, quindi quello che potevo facevo, cioè me la sono sempre cavata, alla fine ce l’ho fatta a fare tutto, però è
sempre…
Nelle famiglie straniere di oggi, un ulteriore elemento che può contribuire ad accelerare il processo
responsabilizzazione delle figlie è la necessità di far fronte alle procedure burocratiche legate alla
migrazione. Può essere più semplice per loro orientarsi di fronte alle richieste amministrative, grazie a una
migliore conoscenza della lingua italiana e di alcuni processi amministrativi magari appresi attraverso la
scuola superiore. È quanto emerge dall’intervista di Ada, arrivata dall’Albania a Susa all’età di 16 anni
assieme ai genitori e al fratello minore. Il padre da qualche anno lavorava stagionalmente nella valle e il
progetto iniziale della famiglia era di rimanere in Italia alcuni mesi in attesa che la situazione politica del
Paese di origine si stabilizzasse. Il prolungarsi del clima di incertezza spinse però i genitori a rinunciare al
ritorno:
siamo venuti con la nave o il gommone, come viene detto, semplicemente per quei mesi lì da maggio a settembre,
sperando che la situazione in Albania si aggiustasse. Poi è successo che a settembre ci hanno iscritto a scuola sia
me che mio fratello perché la situazione giù non cambiava. E ormai siamo qui da 15 anni.
Negli anni successivi sarà sempre Ada, figlia maggiore, a occuparsi dei documenti di soggiorno di tutti i
familiari. Ci riporta un lungo episodio in cui ha dovuto assistere indignata all’umiliazione del padre negli
uffici della questura, e dal quale emerge uno spiccato senso di protezione nei confronti del genitore. Un paio
d’anni prima aveva accompagnato il padre a presentare la richiesta della cittadinanza:
Siamo entrati in due, ma io semplicemente perché se a mio padre non gli veniva in mente qualche parola, qualche
cosa…
Il funzionario, subito indispettito dalla presenza della ragazza, aveva cominciato ad alzare la voce,
tempestando di domande l’uomo, che aveva finito per andare in confusione:
Ha iniziato a dire “eh ma lei chi è?” e mio padre fa “è mia figlia e ha lei i documenti” - Nel senso che di solito
sono sempre stata io a seguire i documenti della famiglia - “eh ma lei deve sapere parlare italiano se vuole
richiedere la cittadinanza!”
Ne scaturisce un battibecco tra il funzionario, che diventa sempre più aggressivo, e la testimone, che prova
inutilmente a prendere le difese del padre:
veramente qua è lui che mi ha insegnato l’italiano. Sa parlare benissimo, meglio di me, ma io sono qua
semplicemente perché da quando siamo in Italia sono io che seguo per i documenti e tutto.
Purtroppo, nel preparare i documenti, la ragazza non si era accorta che occorreva allegare una copia del
contratto d’affitto dell’abitazione.
Io ho controllato diverse volte prima di andare in questura. Ci passo settimane a controllare tutti i documenti, alla
fine cerco di evitare tutte queste cose qua.
Quella mancanza fornisce il pretesto al suo interlocutore per rincarare la dose:
Ha cominciato a sbattere tutto quello che aveva sulla scrivania: “voi vivete sotto un ponte insomma che gente
siete?”- ma in questi termini! Io ero lì sbalordita. … Gli faccio “guardi, io è la prima volta che capito in questa
situazione”.
68
RAPPORTO SECONDGEN
La vicenda si conclude con l’invio del documento mancante da parte del fratello minore, e con un ulteriore
rimprovero al padre per il fatto di non avere la situazione dei documenti dell’intera famiglia sotto controllo.
L’episodio avvilisce profondamente la ragazza.
quando sono tornata c’era mio padre che c’aveva una faccia che stava proprio… poi mio padre è anche lui una
persona sensibile ma nello stesso modo cerca di far scivolare le cose non vuole poi soprattutto noi abbiamo sempre
avuto paura di chi c’è dall’altra parte della scrivania e noi… sia dall’inizio con il permesso di soggiorno con i
carabinieri con i poliziotti ci fanno un po’ ce ti dico mi mettono un po’ di ansia quando li vedo sin dall’inizio…
Praticamente gli hanno chiesto quando c’era l’intervista mia e di mia madre e mio padre gli aveva detto che non si
ricordava la data. “Lei non sa niente ma dove vive? Di cosa parla in famiglia quando vi vedete la sera?” Che poi
mio padre è una persona di 60 anni, non è neanche un ragazzino che ti puoi permettere di parlare in questo modo…
L’aiuto domestico delle figlie
Una specificità della famiglia immigrata, ieri come oggi, consiste nel fatto che la rete di relazioni su cui può
contare è ristretta e che sul posto spesso manca un’importante risorsa su cui le famiglie locali fanno grande
affidamento: le nonne che si dedichino alla cura dei nipoti e forniscano un aiuto domestico alle madri che
lavorano (Abburrà 2007). Inoltre, il progetto migratorio, volto all’accumulazione di risparmi e alla riduzione
delle spese quotidiane, non prevede (o non permette) di richiedere aiuti esterni a pagamento, strategia a cui
invece ricorrono molte coppie locali a doppio reddito. Nell’organizzazione familiare degli immigrati entrano
dunque in gioco altre risorse: il contributo delle figlie risulta fondamentale.
Nel caso dell’immigrazione meridionale, il fenomeno è testimoniato da più di una fonte. Lo segnalano, ad
esempio, le maestre sui registri scolastici dell’epoca, mal celando un certo biasimo nei confronti delle madri
che fanno affidamento sull’aiuto delle figlie per poter lavorare fuori casa. Anche nei racconti delle figlie
stesse è messo orgogliosamente in rilievo il loro contributo in casa a partire dall’infanzia; mentre il loro ruolo
non emerge dalle testimonianze delle madri4. In queste interviste è svelato più frequentemente l’innescarsi di
una redistribuzione dei carichi di cura tra moglie e marito nei casi in cui il lavoro regolare della madre
rientrava in una strategia di coppia (Badino 2008). Le ragioni di una simile omissione possono forse essere
ricercate nel fatto che all’epoca l’intervento casalingo richiesto alle figlie era ritenuto “normale” e che quindi
non si consideri degno di nota; mentre risulta più eccezionale il mutamento radicale nelle abitudini dei padri
che prima della migrazione non si occupavano della sfera domestica. Inoltre, va tenuto in considerazione che
negli anni è mutata l’idea di ciò che è lecito chiedere ai figli: come mostrano le più recenti inchieste
sociologiche, oggi il lavoro domestico e di cura tende ad essere considerato competenza esclusiva dei
membri adulti della famiglia (Todesco 2014)5. Forse le madri di allora, intervistate oggi, provano qualche
imbarazzo nel rivelare di aver contato sull’aiuto domestico delle figlie.
Nell’ambito delle famiglie straniere immigrate il fenomeno sembra ripresentarsi, sempre come risposta a una
mancanza di risorse sociali adulte disponibili, e coinvolge quasi esclusivamente l’esperienza delle figlie;
mentre l’aiuto domestico ai figli maschi è richiesto solo in situazioni eccezionali.
È Elsa a rimarcare la differenza tra l’educazione impartita a lei nei confronti dei lavori domestici e quella
impartita al fratello di poco più giovane; ma la testimone è altrettanto colpita dalla minore abitudine ad
aiutare in casa che riscontra nella fidanzata italiana di lui:
Adesso c’è (…) la ragazza di mio fratello, la prima che ha presentato ai genitori, lei studia psichiatria...
all’università, sotto medicina; è di un anno più grande di lui, italiana, è già venuta con noi l’anno scorso in
Albania, ecco, per me lei adesso è diventata come una sorella. E mia madre, essendo che è albanese... proprio
perché è albanese... Per esempio, io a casa faccio tutto: pulisco, stiro, faccio da mangiare, e lo faccio anche per
aiutare mia mamma, sono stata educata così, e lo faccio, non è un problema per me farlo. La ragazza di mio
fratello è figlia unica, non ha mai fatto niente, e questa cosa a mia mamma ... non è che gli dà fastidio, ma pensa al
futuro di mio fratello, ha paura che faccia qualcosa. Perché se io faccio qualcosa e lo vedo che sta seduto, gli dico:
4
A differenza delle interviste fatte alle figlie, raccolte appositamente per la ricerca sulle seconde generazioni, le
interviste alle madri sono state raccolte tra il 2005 e il 2006 per una ricerca precedente (Badino 2008). Altre interviste
utilizzate per ricostruire la divisione del lavoro in famiglia sono quelle raccolte alla fine degli anni Sessanta dalle
studentesse della scuola per assistenti sociali e allegate alla tesi di diploma (Crivelli, Gallione, Mirone, Prada 1969).
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Gli studi contemporanei sulla divisione del lavoro familiare rivelano in tutta Europa una scarsissima diffusione del
contributo dei figli al lavoro domestico e di cura. In questo quadro però persiste una marcata differenza di genere:
sono le bambine e le ragazze ad aiutare di più a in casa.
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RAPPORTO SECONDGEN
no, scusa, tu ti alzi e sparecchi; e lo fa. Ma mia mamma, figuriamoci se gli dice qualcosa!! Mai toccarlo!
Comunque io sono gelosa di mio fratello: magari il fatto di uscire, lui ha avuto più libertà, molto! Ma non è che
sono gelosa per mio fratello, ma per i miei genitori, sono gelosa perché mi scaricano tutto a me.
Per le figlie di immigrati, ieri come oggi, il fatto di essere utili in famiglia, non sembra vissuto come
un’imposizione: c’è coscienza della condizione familiare e si ritiene giusto dare un contributo al menage
domestico. Ma anche se assunto volentieri, questo impegno può avere qualche implicazione sul piano della
costruzione delle relazioni delle ragazze. Si può ipotizzare che il tempo dedicato agli impegni familiari sia in
parte sottratto alla socialità con i coetanei e contribuisca, in qualche misura, ad accentuare l’isolamento o il
confinamento in ambienti di connazionali.
Analizziamo, a titolo d’esempio, il caso di Tristana. Dopo aver abbandonato l’università, la ragazza avrà un
ripensamento, grazie all’intervento della madre che troverà il modo di allontanarla dalla compagnia di
connazionali poco inclini allo studio. Al momento dell’intervista la testimone è iscritta al primo anno del
corso di laurea in infermieristica, frequenta i corsi tutti i giorni dal lunedì al venerdì e continua a vivere con i
genitori. Alla famiglia riserva quasi per intero le uniche due giornate che le rimangono: il sabato mattina,
quando madre e padre sono al lavoro, si dedica alle pulizie della casa; nel pomeriggio, si reca con loro al
centro commerciale per aiutarli nella spesa settimanale.
I miei continuano a lavorare tutto il giorno, quindi sono sola a casa. Il sabato mattina pulisco, durante la settimana
non c’è mai nessuno a casa, ci vediamo tutti quanti diciamo di sera, mangiamo. Mia mamma… dipende da chi
arriva prima, io o mia mamma, cucina, o io o lei, mangiamo, io lavo i piatti. Sabato invece si pulisce tutto. Pulisco
io perché i miei lavorano al mattino, pulisco tutta la casa, arrivano i miei, andiamo a fare la spesa. Appena siamo
arrivati, quando abbiamo avuto la prima casa andavamo a fare la spesa all’Auchan e la facevamo senza macchina,
un mese intero di spesa, e invece da quando abbiamo la macchina andiamo ogni settimana.. (…) Io non esco mai al
sabato pomeriggio perché mia mamma arriva alle due, mio padre arriva all’una e mezza, quindi facciamo da
mangiare, mangiamo, andiamo a fare la spesa tutte e tre, sempre tutte e tre. Poi dopo la spesa ci vuole un po’ di …
a casa arriviamo cinque e mezza, sei, e noi di sera mangiamo presto, di sabato. Quindi appena arriviamo a casa ci
mettiamo a cucinare io e mia mamma, mangiamo.
Il tempo libero dagli impegni famigliari comincia per Tristana solo dopocena, quando si concede, e le è
concesso, di uscire con le amiche, alcune connazionali che come lei si sono staccate dal gruppo di peruviani.
poi o mi metto a studiare o esco. (…) Ma non tutti i sabati posso uscire. (…) se usciamo di domenica andiamo al
cinema. Se usciamo di sabato andiamo in discoteca. Ma di sabato sera ci sono sempre discoteche latine, quindi non
ci piace tanto.
Anche la domenica mattina è trascorsa con i genitori:
Tutte le mattine a messa, tutte e tre. Al Duomo. Poi facciamo un giro, in macchina, così, andiamo da qualche parte,
sempre con i miei genitori la domenica mattina, sempre. Poi a volte dipende, se abbiamo voglia di mangiare fuori
andiamo mangiamo fuori sennò cuciniamo e mangiamo e poi la domenica pomeriggio di solito se sono uscita al
sabato non mi fanno uscire la domenica, quindi la domenica pomeriggio sto a casa a studiare. E se invece non
sono uscita sabato mi fanno uscire domenica. Al pomeriggio vado ai giardini, prendiamo un po’ di sole alla
Pellerina o alla Colletta.
Le ricerche disponibili sull’uso del tempo nelle famiglie italiane sembrano delineare altri stili di vita per i
giovani non immigrati. In particolare, non si registra un’analoga dedizione al lavoro familiare. Di
conseguenza, si può ipotizzare che abbiano più tempo libero da dedicare alla propria vita sociale e ad attività
ricreative di vario genere che rappresentano occasioni importanti di socialità con gruppi di pari ( Belloni
2005; Belloni 2007).
Il ruolo del lavoro negli anni della scuola
Oltre all’aiuto fornito in casa, un secondo sbocco del senso di responsabilità maturato nei confronti della
famiglia di origine è rappresentato dal desiderio di pesare il meno possibile sul bilancio familiare, nella
speranza di alleviare il già intenso sforzo lavorativo dei genitori. Tale preoccupazione spinge le giovani a
considerare il lavoro sempre presente nel proprio orizzonte di vita, anche negli anni della scuola superiore,
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RAPPORTO SECONDGEN
durante i quali la maggior parte dei coetanei locali non svolge attività lavorativa. Dopo il diploma, poi,
sembra perdurare una tensione tra le aspirazioni a un lavoro qualificato da un lato e la volontà di ridurre al
minimo il percorso di studi per non pesare sulla famiglia dall’altro.
È il modello di spesa e di risparmio osservato in casa, tipico di molte famiglie immigrate, che forse
contribuisce a formare questa visione: ieri come oggi, i genitori immigrati conducono una vita sacrificata non
solo nei tempi di vita, ma anche in termini economici, poiché il denaro guadagnato è generalmente
risparmiato in vista di un progetto familiare (come l’acquisto di un immobile in Italia o al Paese di origine).
L’etica del risparmio che le ragazze acquisiscono in famiglia domina in tutte le testimonianze che abbiamo
raccolto, incide sulle spese per la vita sociale e segna la differenza da loro percepita nei confronti delle
coetanee non immigrate. Racconta Ioana:
io una vacanza non l'ho mai fatta, a parte quando vado in Romania... non sono come le mie compagne che sono
andate in Spagna, in vacanza con le amiche, queste cose qua. Uno perchè pur avendo tante amiche, nel senso che
non ho mai litigato con nessuno, non ho mai avuto una compagnia con tante amiche... massimo tre eravamo,
magari le mie compagne di liceo erano in 6-7 e sono andate a farsi la vacanza in Croazia. Io non ho mai avuto il
gruppone di amiche e per questo l'imput di organizzare una vacanza. E poi sempre per i soldi, i miei sì lavorano,
però... all'inizio non riuscivo a capire, facevo sempre storie, voglio soldi, voglio soldi. Poi come mi ha sempre
detto papà, noi siamo venuti qui per problemi economici, se stavamo bene lì, non saremmo venuti qua... Poi
comunque i miei genitori hanno preso la casa. Prima abitavamo in un appartamento in affitto, hanno preso questa
casa qua che ci sono tanti lavori da fare. Mio padre appena usciva dal lavoro veniva a fare i lavori qua, ha fatto
tutto lui, Questa casa era totalmente un'altra roba prima... poi i miei genitori hanno un'altra mentalità, loro
preferiscono risparmiare adesso, mettere dei sodi da parte e non viziarci tanto adesso perchè pensano “metti che un
giorno sta male mamma o papà, voi rimanete qua da soli...” ok che adesso mio fratello lavora. Mio padre mi ha
sempre detto “io potrei benissimo farti fare una bella vita, darti 100 euro a weekend, farti andare in vacanza, ma se
mai domani succede qualcosa, non abbiamo niente”.
Anche Tristana racconta di ricevere dai genitori una somma molto limitata per le proprie spese personali:
non ho mai avuto soldi miei, comunque paghette o ‘ste cose qua, non ne ho mai avute, non mi hanno mai dato
niente, cioè solo quando avevo bisogno chiedevo a mia mamma “dammi 5 euro”, lei me li dava, con il resto anche,
non ho mai avuto niente. E adesso è ancora così. Tipo adesso, all’Università, mangio in mensa quindi mi dà 5 euro
al giorno, 5 euro mi costa poi non mi dà più niente..
L’ingresso precoce nel mondo del lavoro caratterizza tanto l’esperienza delle immigrate straniere quanto
quella delle immigrate di origine meridionale, ma tra i due casi sembra possibile riscontrare un’importante
differenza. Negli anni Sessanta e Settanta tendevano ad essere i genitori stessi a fare in modo che figlie e
figli approfittassero, appena possibile, dell’abbondante domanda di lavoro manuale presente all’epoca. Il
reddito guadagnato dai ragazzi che vivevano in famiglia era generalmente consegnato alla madre e se ne
tratteneva, quando era concesso, solo una minima parte per le spese personali. Non sappiamo molto sulle
strategie di utilizzo di questo denaro da parte dei genitori immigrati, ma il fatto che questi riservassero un
significativo aiuto economico ai figli al momento del matrimonio fa supporre che fosse in gran parte
accantonato a questo fine. In tale quadro, le spese per l’istruzione oltre la scuola dell’obbligo potevano
apparire per alcuni genitori un peso, se non le si riteneva un investimento per il futuro professionale dei figli.
Dalle testimonianze raccolte oggi e da altre raccolte all’epoca (AA.VV., 1969), sembrano essere state
soprattutto le ragazze a soffrire di questa strategia familiare. Le figlie che maturavano il desiderio di
proseguire gli studi oltre l’obbligo scolastico, imitando i percorsi delle coetanee piemontesi, si dovevano
spesso scontrare con l’indifferenza o la contrarietà dei genitori. È ancora la vicenda di Carmela a
testimoniare questa situazione:
per i miei genitori andare a scuola era una cosa che non era nella loro cultura. Dopo tante peripezie, sono riuscita a
convincerli ad andare a scuola; (…) Però poi, il primo anno, sono stata bocciata. Siccome poi i miei genitori non
mi davano la paghetta, non mi davano niente, non mi davano i vestiti, alla fine, visto che non ero tanto brava, sono
andata a trovarmi un lavoro. Visto che sono stata bocciata, mia madre ha detto: “Vatti a trovare un lavoro”. E così
sono andata a lavorare e qui avevo 15-16 anni. Ho fatto tre lavori insieme, come tutte le mie sorelle, comunque: la
fioraia, la pettinatrice e la commessa, nello stesso periodo. La fioraia la facevo il sabato e la domenica.
Per madri e padri immigrati dal Mezzogiorno il lavoro manuale sicuro trovato a Torino aveva rappresentato
un netto miglioramento rispetto alle precarie condizioni occupazionali di partenza, mentre alcune figlie
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RAPPORTO SECONDGEN
cominciavano ad aspirare a posizioni di tipo impiegatizio. Era dunque diverso il modo in cui le due
generazioni guardavano alle opportunità di mobilità sociale offerte dalla città industriale e ciò poteva
rappresentare un punto critico nei rapporti tra genitori e figlie.
Diverso sembra il discorso per i ragazzi, i quali finivano per essere attratti molto presto dalla possibilità di
guadagnare un reddito, anche in continuità con le occupazioni manuali svolte dai padri (Badino 2012).
Come emerge dal racconto di Carmela, le figlie potevano essere introdotte precocemente nel mondo del
lavoro anche per essere preservate dai pericoli di una vita sociale di strada, tipica dell’esperienza maschile
dell’epoca:
Dopo le medie… nella mentalità dei miei genitori una donna non doveva andare a scuola, non doveva andare a
lavorare perché poi tanto si sposava e c’era il marito che ci pensava. Già che io non ero tanto brava, già che
comunque questa mentalità che io ho dovuto bisticciare in casa per iscrivermi alle superiori, io volevo in ogni caso
andare perché noi cosa facevamo con mia madre? Quando finivano le scuole, da giugno a ottobre, io lavoravo,
andavo a fare o la pettinatrice o andavo a fare la fioraia, dall’età di 10 anni, sì (già alle elementari). Ecco perché io
non ho tante amicizie: perché invece di stare a giocare come facevano tutti gli altri bambini, io andavo (a lavorare).
Anche perché mia mamma pur di non vedermi in mezzo alla strada, preferiva vedermi in un negozio a raccogliere
o scopare i capelli, o comunque passare il bigodo piuttosto che stare in mezzo alla strada!
La maggior parte dei genitori stranieri di oggi sembra invece favorevole a sostenere le figlie in un percorso
scolastico lungo e a credere nel valore di un titolo di studio oltre l’obbligo scolastico. Le testimonianze che
abbiamo raccolto fanno piuttosto ipotizzare che siano le figlie stesse a limitare, in alcuni casi, le proprie
ambizioni, confrontandosi con la vicenda migratoria familiare. Gli intensi ritmi di lavoro dei genitori, la loro
propensione al risparmio e la precarietà di molte occupazioni in cui padri e madri sono impiegati lasciano il
segno sulle ragazze e le portano a sviluppare un’etica del lavoro che può allontanarle dalla scuola.
Il diverso atteggiamento dei genitori immigrati nei confronti dell’istruzione dei figli non è facile da
interpretare, ma può essere contestualizzato tenendo conto di alcuni fattori. Se la grande maggioranza degli
adulti immigrati al Nord negli anni Sessanta aveva alle spalle pochi anni di scuola elementare (con le donne
mediamente meno scolarizzate degli uomini), molti immigrati di oggi, soprattutto quelli provenienti
dall’Europa dell’Est, arrivano in Italia con titoli di studio elevati. La parabola occupazionale e sociale che
questi immigrati vivono in prima persona è quasi sempre discendente: essendo passati da lavori non manuali
in patria a lavori manuali e meno qualificati nel nostro Paese. Questa esperienza li porta probabilmente a
sperare in un riscatto attraverso il futuro professionale figli. Gli immigrati degli anni Sessanta, al contrario,
percepiscono la propria esperienza migratoria come un percorso di successo che può, o deve, essere replicato
dai figli. Ma questa spiegazione basata sui titoli di studio dei genitori immigrati non funziona nei molti casi
di immigrati stranieri che oggi arrivano in Italia con pochi anni di scuola alle spalle e che ugualmente
sperano nel conseguimento della laurea per i propri figli. Sembra che l’intera generazione dei genitori
immigrati oggi condivida la fiducia nel valore del titolo di studio per il raggiungimento di una solida
posizione sociale. Il fatto di sostenere le figlie negli studi sembra rientrare nella normalità.
La vicenda migratoria familiare, però, osservata con gli occhi delle figlie, sembra avere importanti effetti
sulla formazione delle loro aspettative per l’età adulta. Le difficoltà incontrate dai genitori nell’inserimento
nella nuova società, con la necessità di adattarsi a lavori poco qualificati, sommati alla precarietà legata a
questo tipo di occupazioni, contribuiscono a creare un senso di insicurezza nelle ragazze. Alina racconta di
essere stata molto turbata dall’improvvisa disoccupazione in cui il padre si era trovato quando lei era iscritta
al quinto anno del liceo linguistico. Spaventata dalla situazione, aveva cominciato a cercare lavoro attraverso
internet e, senza comunicarlo in famiglia, aveva smesso di frequentare la scuola. Dopo il primo colloquio in
un’azienda telefonica, i genitori l’avevano scoperta e l’avevano convinta a ritornare agli studi, ma
l’interruzione le era costata una bocciatura.
mio padre ha avuto problemi col lavoro, infatti lui prima lavorava come giardiniere, e adesso ha trovato (però
lavora in nero) … e io quando ho sentito, perché magari discutevano di questa cosa, ci sono rimasta molto male
infatti sono caduta anche nella depressione, e ho cercato lavoro, e non andavo più a scuola. Ho fatto tante
assenze… e per quello che mi hanno bocciato. (…) i miei genitori… perché loro non sapevano cosa facevo,
quando mi hanno scoperto, allora mio padre c’è rimasto molto male e… siamo andati avanti. Io sono rimasta molto
traumatizzata da questa cosa, sono uscita difficilmente dalla depressione, però per fortuna ci sono stati i miei
genitori.
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Ci sembra di poter ipotizzare che la fiducia nel miglioramento sociale, personale e familiare, che le figlie di
immigrati stranieri oggi maturano sia minore rispetto a quella che potevano nutrire le figlie
dell’immigrazione meridionale agli inizi degli anni Settanta. In quel periodo, la mobilità sociale per le classi
popolari era ritenuta possibile e il mercato del lavoro locale, ancora dinamico rispetto al presente, poteva far
conservare parte dell’ottimismo che aveva spinto i genitori a emigrare al Nord. Le ragazze immigrate di oggi
sembrano avere progetti più misurati rispetto ai loro genitori e appaiono guidate da un forte senso di
pragmatismo nella scelta della scuola dopo le medie (anche se non sempre le loro previsioni sulle
opportunità occupazionali si rivelano esatte). Tristana, fin dalla scelta delle scuole superiori, ridimensiona le
proprie aspirazioni rispetto a quelle dei genitori:
loro volevano che facessi il liceo. Perché come esempio puntavano sempre in alto, tutti i genitori puntano sempre
in alto per i figli e pensavano che comunque fare un liceo era, ti preparava meglio alla vita, ecc. però comunque io
ho sempre avuto questa idea che almeno con un tecnico, un professionale, almeno puoi fare qualcosa poi quando
esci. (…) Li ho convinti perché… li ho anche delusi, quello sì, poi ho detto, ho iniziato a dirgli “comunque se
finisco ho già qualcosa in mano, posso già andare a lavorare, se invece faccio il liceo ho tutta la cultura che vuoi,
però poi non posso lavorare”. E quindi abbiamo un po’ parlato così con i miei e alla fine mi hanno detto “va bene,
scegli tu”.
Una volta conseguito il diploma da perito chimico, tuttavia, si accorge che questo titolo di studio non le apre
le abbondanti prospettive lavorative che aveva sperato e finisce per assecondare le ambizioni dei genitori che
sperano di vederla laureata.
Adesso me ne pento un po’ per il fatto che quando ho finito le superiori… ho avuto poi io una crisi mia, di
adolescente, dove non volevo più far niente, ero proprio… infatti ho avuto problemi con i miei genitori, un po’
disordinata, un po’… sono cose che succedono. E poi sono stata un anno ferma, così. Sono stata un anno ferma
perché cercavo lavoro ma volevano sempre gente con esperienza, quindi io ero appena diplomata, non è che
posso…
Nel caso di Ioana, alla fine delle medie, i genitori riescono ad avere la meglio sulle preoccupazioni lavorative
della figlia e a convincerla a scegliere il liceo in vista dell’università. Arrivata dalla Romania in provincia di
Alessandria in terza media, questa ragazza ha un inserimento dolce nella scuola italiana, anche grazie alle
lezioni integrative di italiano offerte dall’istituto. Il giudizio che ottiene all’esame di fine ciclo è ottimo, ma
la sua scelta sarebbe ricaduta su un istituto per geometri, con il quale pensava di poter entrare direttamente
nel mondo del lavoro. La determinazione dei genitori, che aspirano per lei a un percorso universitario, è tale
da supportare la ragazza anche di fronte alle prime difficoltà incontrate nella nuova scuola, a cui si iscrive
appena un anno dopo essere arrivata in Italia:
ricordo che dopo il primo anno volevo smettere perché dicevo “è difficile! Non ce la farò mai!” Poi mi ha
incoraggiato mio padre.
Ma le ambizioni dei genitori di vedere la figlia laureata vanno in direzione contraria al clima che la ragazza
respira nella compagnia di amici del paese che costantemente la fa vacillare rispetto al progetto universitario.
Questi ragazzi non hanno frequentato il liceo e sono già entrati nel mondo del lavoro manuale:
nella mia compagnia quasi tutti, anzi tutti, lavorano tranne io che studio (…). Gente che lavora e ha i soldi, cioè
normali... che si possono permettere delle cose. (…) Uno fa il saldatore, uno il fresatore, il mio ragazzo lavora in
una fabbrica metalmeccanica (…), poi un altro sempre in fabbrica... non ho persone laureate in compagnia, la
maggior parte sono maschi. Le uniche femmine che ci sono, due fanno le mantenute dei genitori perché sono piene
di soldi, una è la mia migliore amica Francesca, ha fatto 3 mesi di Economia e Commercio a Casale e poi ha
smesso... ma lei è piena di soldi, ora sta aprendo un'attività con suo padre, lei non ha problemi per il futuro, sarà
sua l'attività, un bar tabacchi, tra un mese aprono, suo padre le dà una mano, ma è tutto intestato a lei, sua madre ha
già una panetteria. Io se volessi smettere di studiare non potrei mai farlo, i miei genitori non hanno un'attività da
dire “sono a posto”.
Un’unica amica si accinge ad affrontare con convinzione un percorso universitario, ma la testimone vede in
questa ragazza una motivazione più forte rispetto alla sua:
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Poi c'è un'altra ragazza albanese, lei è intelligentissima, ha iniziato Economia insieme a Francesca, lei va anche in
America perché ha dei parenti lì, infatti vuole poi andare là a cercare lavoro perché si trova di più, è una persona
ambiziosa.
Negli anni del liceo la ragazza intreccia relazioni soprattutto con ragazzi conosciuti nel paese in cui risiede,
mentre ha meno occasioni di frequentare i compagni di scuola o di fare attività sportive a causa della
lontananza da Alessandria:
il pomeriggio perdevo già tanto tempo con i trasporti ad arrivare a casa, finivo alle 13 e arrivavo a casa alle 14.15,
dovevo farmi da mangiare perchè i miei erano al lavoro e iniziavo a studiare per le 16 quindi non mi permettevo di
fare attività. Avevo il fidanzato a Castellazzo e quindi avevo la compagnia. Con le mie compagne del liceo uscivo
magari il sabato pomeriggio ad Alessandria ma non più di tanto perchè non avevo la macchina, uscivo più qua. In
quel periodo avevo il fidanzato rumeno quindi frequentavo più gente rumena che italiana. Con le amiche del liceo
giusto qualche volta il weekend al pomeriggio o alla sera quando papà ci portava a ballare e ci aspettava fuori
all'uscita (ride)! Durante i 5 anni sport niente (…). Per me abitando qua e avendo i miei che lavoravano era
difficile spostarsi su Alessandria, tipo anche fare palestra alla sera, ai tempi ero piccolina, non avevo la patenta e
non potevo chiedere ai miei dopo una giornata di lavoro di portarmi.
Nel caso di questa testimone risulta fondamentale il ruolo dei genitori nell’indirizzarla su un percorso
scolastico lungo. In altre situazioni, dove le ragazze sono meno controllate dai familiari, l’attrazione verso il
lavoro, portata dal senso del dovere nei confronti della famiglia, può avere il sopravvento e spingerle a
mettere in secondo piano la scuola. Riprendiamo, a questo proposito, la vicenda di Elsa, che oggi ha 22 anni.
Similmente a molte ragazze meridionali durante gli anni Settanta, la testimone fa il suo ingresso nel lavoro
retribuito al raggiungimento dei 14 anni, cominciando ad aiutare in un negozio da parrucchiera proprio sotto
casa:
era lì, era una signora sola parrucchiera, un po’ anziana e io andavo lì, pulivo, mettevo i bigodini.
A questo primo lavoretto ne fanno seguito molti altri negli anni successivi:
da lì ho sempre fatto la babysitter, anche per un’impresa di pulizie, perché mia mamma , oltre a fare la custode ha
sempre avuto delle signore che andava a pulire, di pomeriggio, ha sempre fatto la signora delle pulizie, conosceva
donne in gravidanza, che partorivano, e io andavo a fare la babysitter. Tuttora faccio la babysitter, mi adorano, io
adoro loro. Ho fatto anche la dog sitter, la cat sitter, perché lì dove abito io sono persone ricche e il cane lo
prendevo con me, il gatto gli portavo da mangiare in casa. adesso faccio la babysitter in tre famiglie diverse,
quattro bambini, qualche ora al pomeriggio
Per questa ragazza il lavoro part-time negli anni delle superiori finisce per dilatarsi a tal punto da assorbire
anche parte delle ore scolastiche e a incidere pesantemente sul percorso di studi:
in quella scuola ci ho fatto 7 anni, perché sono stata bocciata in terza superiore e in quinta. (…)(…) poi lavoravo,
io ho sempre lavorato nella mia vita, i miei genitori mi possono dare tutto, ma per non affaticarli, ho sempre voluto
non chiedere a loro e quell’anno (in quinta) lavoravo tantissimo, pure qua vicino al caffè * dove lavorava un amico
di mio fratello. Era un po’ faticoso, dalle 11 di mattina alle 9 di sera, tre volte alla settimana. A scuola potevo
uscire prima, e così il martedì e il sabato arrivavo verso le 11,30.
Anche nel caso di questa testimone, la spinta a lavorare non proviene dalle pressioni familiari. Al contrario,
la madre avrebbe voluto che la figlia puntasse sullo studio:
Mia mamma l’ha presa malissimo, ha pianto. Loro non sono mai d’accordo per lavorare, anche adesso, vorrebbero
che studiassi, però io no .... (…) l’anno scorso io mi volevo ritirare e andare a lavorare , mia mamma ha detto: no,
devi prenderlo, devi prenderlo; e io ho detto: va bé, facciamolo per mia mamma, mi sono messa sotto e l’ho preso.
Come nel caso precedente, sulle scelte della ragazza sembrano pesare piuttosto altri due fattori: da un lato il
timore di pesare economicamente sulla famiglia, dall’altro l’influenza di un gruppo di amici del quartiere (la
Borgata Parella) all’interno del quale il valore della scuola sembra essere poco condiviso:
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In generale io sono sempre stata una che studiava, poi ho cominciato a uscire un po’ troppo, non avere proprio la
testa neanche a prendere il ritmo. (uscivo con) qualche compagno ... ragazzi di zona .... amici di amici ... con la
mia migliore amica. E cioè, ho sempre avuto amici che si facevano di cose, ma io ... le ho provate, però non mi
facevano un effetto che mi piaceva. Però ho sempre avuto amici che si drogavano, droghe leggere, che se le fanno
tuttora. Si andava a ballare, di nascosto, perché ero piccola: io dicevo che andavo a dormire dalla mia amica, lei
diceva che veniva a dormire da me!! Si andava a ballare ... in posti bruttissimi, che adesso non andrei (…), con
amici di amici, ragazzi di zona, compagnie ... per un certo periodo quelli, poi si cambia.
Anche il ragazzo con cui la testimone ha avuto una relazione importante nell’ultimo anno, conosciuto
attraverso il gruppo di amici, era tutt’altro che orientato allo studio e per questo preoccupava la madre della
ragazza:
Mia mamma (…) a pelle, lei capisce le persone. Ha sempre detto che non dovevo fidarmi tanto di lui, secondo lei
era falso e poi non fa niente; anche per quello diceva che non era un ragazzo che era da apprezzare perché non
lavorava, ha lavorato due mesi al Mac e l’hanno licenziato, aveva smesso la scuola, e adesso non fa niente, si sta
rovinando la vita.
La fedeltà al progetto migratorio familiare
Il senso di obbligo che si avverte nei confronti delle famiglie si può riscontrare anche in altri frangenti della
vita personale. Nel caso delle ragazze di origine marocchina, ad esempio, la fedeltà al progetto migratorio
familiare può coinvolgere la sfera della scelta del partner e portare le ragazze a non opporsi alla pratica del
matrimonio combinato. Questo evento, programmato generalmente alla fine delle scuole superiori, in
anticipo rispetto alle tendenze in atto tra i coetanei italiani (Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003), finisce
inevitabilmente per condizionare anche la scelta del percorso di studi e di quello lavorativo. Najet dopo il
diploma da odontotecnico, prende in considerazione l’idea di iscriversi alla facoltà di medicina, forse
incoraggiata dai consigli di alcuni insegnanti che la invitano a puntare in alto. Anche il padre, impresario
edile, sembra favorevole all’idea che la figlia studi per diventare dentista. Ma qualcosa, che nell’intervista la
testimone stenta a rivelare, scoraggia la ragazza al punto di non tentare neppure il test di ammissione e di
ripiegare, un anno dopo, sul corso di laurea in infermieristica. La testimone non parla esplicitamente di
matrimonio combinato, ma si dimostra oltremodo sintetica nel fornire informazioni sul suo matrimonio con
un connazionale, che non sappiamo come abbia conosciuto:
Mi sono sposata quando avevo 20 anni, prima di iscrivermi all’università. Lui è venuto, ho fatto il
ricongiungimento familiare, lavora, fa l’idraulico. Abitiamo insieme, in una casa da soli. Non abbiamo figli…
basta.
In molte testimonianze raccolte alle immigrate di oggi sembra che prevalga nelle scelte sul proprio futuro la
lealtà al progetto familiare piuttosto che la volontà di una realizzazione individuale. Un’abnegazione che
pare andare in senso contrario rispetto all’atteggiamento delle figlie di immigrati meridionali. Le loro
testimonianze, infatti, manifestano una volontà di percorrere strade in autonomia dalla famiglia, se non
addirittura in contrasto con le aspettative dei genitori. In molte interviste, infatti, abbiamo riscontrato il
bisogno di fuggire dal controllo familiare e di cercare vie di riscatto personale. Uno sbocco per molte era la
fuga nel matrimonio con il primo ragazzo conosciuto (Petruzzi 1987), nella speranza che, fondando una
famiglia propria, aumentasse l’autonomia personale e la libertà di scelta. Una seconda strada per cercare un
riscatto era perseguire un progetto di istruzione superiore contando unicamente sulle proprie forze, al di là
dell’indifferenza o della contrarietà dei genitori. Entrambe le strategie erano volte ad affermare un distacco
rispetto alla famiglia di origine: o in termini di progressione sociale, attraverso il passaggio al lavoro
impiegatizio, o in termini di indipendenza nelle scelte personali. Questo desiderio di distacco sembra
collegato anche a un forte desiderio di entrare a far parte a pieno titolo della società locale, lasciandosi alle
spalle la condizione immigrata da cui si proviene. Nelle parole di Carmela questo desiderio di distacco dalla
famiglia di origine è più che mai evidente e sembra avere origine fin dal primo impatto con le famiglie
torinesi e piemontesi:
Io mi vergognavo della mia casa. Io ho sofferto tantissimo. Ecco, quello che ho sofferto nella mia adolescenza è
proprio il fatto di notare la differenza della mia famiglia con la famiglia che c’era qua; perché la casa era strutturata
in modo diverso - e già questo mi dava fastidio - perché la mia casa era la classica casa di meridionali: camera,
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cucina e bagno fuori. Noi vivevamo non so quanti in casa, per cui non è che avevamo la nostra stanza, la nostra
cucina. Invece, notavo che quando andavo nelle case degli altri avevano il tinello, la camera; comunque, se non
altro, avevano uno spazio loro e il bagno dentro. E poi il fatto che mia madre non parlava l’italiano… io ho sempre
sofferto e infatti forse io sono l’unica che non sa parlare il dialetto, che invece le altre parlano. Io l’ho sempre
detestato. E quindi mi dava fastidio che le mie compagne venissero a conoscenza della mia realtà, perché volevo
sempre assomigliare a loro, non a quelli come me.
(…) Io mi ricordo anche che, in quel periodo, questa cosa anche mi pesava; io volevo andarmene via di casa,
quando facevo le elementari. Volevo andare a vivere da sola. Pensa cosa pensavo! “Adesso prendo due scatole di
tonno, 2 di simmenthal, una casetta piccolina e io vado a dormire lì da sola”, perché non mi piaceva la mia
famiglia, la struttura non mi piaceva: che mia mamma fosse severa, che parlasse il dialetto, che non si adeguasse
alla realtà e, comunque, che lei pensasse solo a lavorare. E non l’ho mai vista sorridere; (…) Era troppo severa,
troppo.
Se nelle famiglie meridionali abbiamo riscontrato situazioni di attrito tra genitori e figlie (soprattutto sulla
libertà concessa e sul tema della prosecuzione degli studi), per le ragazze straniere che abbiamo intervistato
la relazione con i genitori si presenta meno conflittuale: non emergono grandi dissidi sulla libertà di uscita e
soprattutto non sembrano esserci indicazioni rigide da parte di madri e padri sulle scelte relative allo studio.
Ancora una volta, merita ribadire come siano le figlie stesse a porsi dei limiti, spesso deludendo le
aspettative più ambiziose dei genitori. Sembra prevalere un ponderato esame di realtà, che scoraggia le
ragazze di fronte a percorsi scolastici lunghi e impegnativi. Giada, peruviana, al suo arrivo in Italia è iscritta
dai genitori al liceo scientifico, con l’idea che la ragazza prosegua gli studi fino alla laurea. Dopo il diploma,
conseguito senza grandi problemi, la testimone si iscrive al Politecnico, ma ancora prima di conseguire la
laurea di primo livello si mette in cerca di un lavoro il più possibile stabile. Grazie alle sue competenze in
campo informatico si trova a poter scegliere tra due proposte occupazionali e si indirizza verso quella che
appare più duratura, anche se più scomoda dal punto di vista degli spostamenti, perché richiede di recarsi
giornalmente da Torino a Ivrea. Il lavoro la gratifica e le fornisce quel senso di sicurezza economica che
sentiva necessario. Ma lo stesso lavoro sembra progressivamente allontanarla dall’idea di continuare gli studi
fino al conseguimento della laurea specialistica, con grande delusione dei genitori che la volevano ingegnere:
“è troppo per me”, conclude la ragazza.
76
RAPPORTO SECONDGEN
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77
RAPPORTO SECONDGEN
L’istruzione dei figli nei progetti delle famiglie immigrate. Elementi per una
comparazione tra anni Sessanta e oggi
Franco Ramella
Non c’è nessun motivo che autorizzi a pensare che i genitori meridionali di mezzo secolo fa fossero
meno interessati dei genitori stranieri di oggi all’avvenire dei loro figli. L’assenza (o la carenza) di
aspettative fondate sull’ottenimento di credenziali scolastiche non va interpretata come un segno di
mancanza di ambizioni sociali di queste famiglie o di una loro incapacità di elaborare dei progetti su cui
motivare la seconda generazione. In realtà ci troviamo di fronte a strategie che ruotano intorno all’idea
che sono altre le competenze da acquisire e le strade da seguire per conquistarsi una posizione
rispettabile nella società. Ma ciò che va spiegato è come si formano progetti in cui il ruolo degli studi è
così marginale.
La questione si pone anche per le famiglie straniere che, al contrario, riservano all’istruzione un posto
centrale. La letteratura non ci aiuta molto. Non mancano ricerche importanti che sottolineano quanto
siano diffuse le aspirazioni scolastiche fra i genitori delle migrazioni internazionali e ne mostrano gli
effetti sulle carriere dei figli negli studi. Per autori come Brinbaum e Kieffer 1, in Francia le aspirazioni
dei genitori immigrati esercitano una funzione positiva sul percorso scolastico dei figli. Per Vallet e
Caille2 rappresentano “l’explication principale” del successo nelle scuole d’Oltralpe di tanti giovani di
origine immigrata, a volte superiore a quello dei loro coetanei autoctoni appartenenti a famiglie con lo
stesso status socio-economico. Stabilire un rapporto tra le aspettative dei genitori e le carriere
scolastiche dei figli, come indicano gli studi che mostrano l’esistenza di una correlazione tra aspirazioni
dei genitori, aspirazioni dei figli e risultati di questi ultimi è plausibile (anche se nel caso italiano il
rapporto è spesso assai poco lineare – e si pone il problema di individuarne i motivi). Ma ciò che non è
ben chiaro nella letteratura è da dove nascano queste aspettative3.
E’ evidente che non si può ignorare il fatto che nelle nostre società viviamo in un regime di studi
lunghi. L’importanza dell’istruzione (e la sua utilità) è oggi riconosciuta a tutti i livelli della società - e
quindi in generale da tutte le componenti dell’immigrazione internazionale. Anche gli stessi grandi
mutamenti che si sono verificati nel mercato del lavoro hanno contribuito a creare la consapevolezza
che un diploma dopo l’obbligo è diventato quasi indispensabile per garantirsi l’accesso a un impiego – a
maggior ragione con la prolungata crisi occupazionale degli ultimi anni che colpisce duramente in
particolare i giovani meno scolarizzati.
Tuttavia, se per avanzare delle ipotesi sui fattori che concorrono a formare i progetti delle famiglie della
migrazione internazionale, distinguendoli in modo così radicale da quelli delle famiglie della
migrazione interna, ci limitiamo a prendere atto di aspetti generali come lo spettacolare aumento della
scolarizzazione di massa degli ultimi decenni o i cambiamenti nella struttura dell’offerta di lavoro,
corriamo il rischio di impoverire l’analisi. Per fare un esempio, costituisce un problema il fatto che
questi fenomeni, come si è detto, non avrebbero la stessa incidenza (o perlomeno non nella stessa
misura) sui genitori autoctoni che si trovano in una situazione occupazionale simile, le cui aspirazioni
per la scolarità dei figli risulterebbero spesso inferiori a quelle degli stranieri. Occorre quindi sondare
altre piste che, come vedremo, ci portano in più direzioni.
La ricerca Secondgen ha lavorato molto sul rapporto che le famiglie straniere a Torino e in Piemonte
costruiscono con la scuola dei figli, producendo conoscenze rilevanti4. Sono stati invece esaminati con
minore profondità gli atteggiamenti delle famiglie immigrate dal Sud. Ci proponiamo di cominciare a
colmare la lacuna e per questo motivo daremo più spazio in queste note all’analisi delle aspettative dei
genitori meridionali.
1
Y. Brinbaum et A. Kieffer, “Les scolarités des enfants d’immigrés, de la sixième au baccalauréat: différenciation et
polarisation des parcours”, Population, vol 64, 3, 2009, pp. 561-610.
2
L. A. Vallet et J.P. Caille, “La scolarité des enfants d’immigrés”, in A. van Zanten (dir.), L’école: l’état des savoirs,
La Découverte, Paris 2000, pp. 293-300
3
A volte sembrerebbe che la migrazione abbia selezionato alla partenza genitori con aspirazioni di questo tipo, cioè
individui con un chiaro progetto di mobilità sociale.
4
I vari contributi di Michael Eve, Enrico Allasino e Maria Perino in questo Rapporto e sul sito web della ricerca
forniscono analisi approfondite sia sulle aspirazioni scolastiche delle famiglie dell’immigrazione internazionale sia
sull’esperienza dei figli nella scuola e nel mercato del lavoro a Torino e in Piemonte.
78
RAPPORTO SECONDGEN
Il nostro intento è quello di cercare di suggerire alcuni elementi di riflessione che nascono dalla
comparazione tra migrazione interna del dopoguerra e migrazione internazionale di questi anni. Il
confronto andrebbe sviluppato più estesamente e in un modo più sistematico perché solleva un nodo
centrale: come e in che termini la condizione comune di famiglie immigrate contribuisce a rendere
specifici i meccanismi e i processi attraverso i quali aspirazioni che svolgono una parte cruciale nel
modellare i destini sociali delle seconde generazioni prendono forma, si definiscono, ne sono
condizionate e si modificano.
Le traiettorie migratorie: quale mobilità sociale ?
Allo scopo di dare una prima risposta alle nostre domande proponiamo di portare l’attenzione sui
percorsi sociali compiuti dagli immigrati di prima generazione (i genitori) nel trasferimento dalle
località di origine a quelle di arrivo e di insediamento. I fattori che agiscono sulla formazione dei
progetti per l’avvenire dei figli sono molteplici, come vedremo, e la loro azione si esercita
combinandosi insieme. La nostra ipotesi è che uno di questi vada ricercato nella traiettoria migratoria
che i genitori hanno vissuto.
Si tratta di una ipotesi convincente se la riferiamo a una specifica componente della migrazione
internazionale5. E’ noto che una parte non secondaria degli immigrati stranieri di prima generazione
giunti (e rimasti) in Italia – provenendo soprattutto da Paesi dell’Europa dell’est e dell’America Latina e
dalle Filippine e arrivati in particolare negli anni Novanta - ha un livello di istruzione medio-alto o alto.
Il contrasto su questo piano con l’immigrazione interna degli anni sessanta è stridente. Solo una
componente minoritaria degli immigrati internazionali di oggi probabilmente ha un grado di scolarità
che si avvicina a quello schiacciato verso il basso della grande maggioranza degli immigrati interni
dell’epoca. Si tratta di cose conosciute ma ciò che per noi è importante rilevare è che in genere una
istruzione elevata nella prima generazione di immigrati stranieri ha corrisposto nel Paese di origine a
una posizione sociale di classe media, prima che la situazione cambiasse generando la scelta della
partenza. Il punto è che, emigrando in Italia con lo scopo di costruire una vita migliore per sé e per i
propri familiari, la posizione occupazionale a cui questi immigrati hanno avuto accesso e in cui sono
rimasti bloccati è avvenuta, in grande prevalenza, in basso nella piramide occupazionale. In questi casi,
in sostanza, l’emigrazione ha comportato una discesa nella scala sociale6. Se la nostra domanda
riguarda la parte svolta dai percorsi compiuti dai genitori nel modellarne i progetti, non è difficile
vedere quanto pesi il desiderio di recupero di una posizione familiare perduta e quale sia nelle loro
strategie il ruolo assegnato ai figli. Le loro aspirazioni vanno collocate in questo contesto: ci si aspetta
che i figli si impegnino in un percorso scolastico lungo che possa aprire l’accesso a una professione di
prestigio. L’obiettivo è che conquistino per questa via una posizione sociale che segni il successo della
scelta migratoria per tutta la famiglia – un traguardo che la prima generazione ha mancato. Anche se
naturalmente l’ingresso all’università non è riservato esclusivamente a chi fa parte di famiglie
scolarizzate e gli indirizzi di scuola in cui si entra dopo la licenza media non sono sempre all’altezza
delle attese, vicende di ragazzi e ragazze incoraggiati a intraprendere studi di grande impegno da
genitori che hanno vissuto traiettorie migratorie come quelle a cui abbiamo fatto cenno sono frequenti
nei materiali raccolti da Secondgen. Colpisce nelle testimonianze la determinazione e la caparbietà con
cui le famiglie perseguono questi obiettivi.
L’ottica di individuare nelle traiettorie migratorie dei genitori una chiave di lettura delle loro aspettative
per l’avvenire dei figli sembra particolarmente utile per l’immigrazione meridionale. Proviamo dunque,
come abbiamo fatto per i genitori stranieri scolarizzati e con posizioni di classe media nei Paesi di
origine, a valutare in questa luce i progetti delle famiglie per la seconda generazione presenti nella
migrazione interna. Non si può certo dire che i percorsi compiuti dagli immigrati arrivati dal Sud a
Torino non abbiano compreso anche processi di declassamento sociale ma sembra fondato sostenere
5
Spunti utili a questo riguardo sono in E. Santelli, La mobilité sociale dans l’immigration, Presses universitaires du
Mirail, Toulouse 2001.
6
Nel suo lavoro citato alla nota precedente, E. Santelli accenna a genitori algerini che sono emigrati in Francia, dove
hanno trovato un’occupazione in fabbrica, avendo lasciato una posizione di status elevato nel sistema sociale della
società di origine, non indicato dal loro grado di istruzione né assimilabile a una posizione “di classe media”. E’
un’indicazione importante che ci fa capire che per valutare il segno e la direzione della traiettoria migratoria può essere
fuorviante generalizzare arbitrariamente i nostri criteri di classificazione sociale.
79
RAPPORTO SECONDGEN
che in grande prevalenza le traiettorie migratorie sono state di segno opposto rispetto a quello emerso
per i genitori stranieri scolarizzati di oggi che abbiamo sopra considerato. Mentre costoro, come si è
detto, hanno subìto uno scivolamento di status verso il basso, nell’immigrazione meridionale del
dopoguerra avrebbe infatti prevalso un modello radicalmente diverso: il trasferimento a Torino avrebbe
spesso comportato un percorso di mobilità sociale ascendente.
E’ il “salto di qualità” che molti immigrati dal Mezzogiorno di prima generazione avrebbero realizzato,
secondo l’immagine efficace con cui all’epoca un militante sindacale descriveva lo spostamento dalla
“campagna del Sud” alla città industriale del Nord: qui avevano trovato “la sicurezza, il lavoro 12 mesi
all’anno ecc.”7. Si tratta di una interpretazione della migrazione che gli stessi studi di quegli anni
avanzano. Per esempio Paci, discutendo della mobilità geografica degli anni del miracolo economico,
definisce i “passaggi fra il settore agricolo e quello urbano, che ha coinvolto la maggior parte dei
migranti provenienti dagli ampi strati agricoli del latifondo meridionale” come un fenomeno di”
evidente mobilità sociale”8. Ma è importante rilevare che in quel periodo storico di grandi movimenti di
popolazione verso le città in tutta l’Europa occidentale l’idea che l’entrata nell’industria degli immigrati
da aree di agricoltura potesse essere percepita come un passo decisivo lungo un percorso di ascesa nella
scala sociale è presente fuori d’Italia in ricerche sociologiche illustri. E’ il caso, ad esempio,
dell’inchiesta di Alain Touraine e Orietta Ragazzi che studiano in profondità alla fine degli anni
Cinquanta un piccolo campione di “ouvriers d’origine agricole” entrati da poco (da sei mesi a due anni)
in due grandi stabilimenti dell’industria dell’automobile dell’agglomerazione parigina e provenienti in
generale dalla Bretagna9, mettendolo a confronto con altri gruppi di lavoratori delle stesse fabbriche
(operai non qualificati di origine urbana, operai qualificati e specializzati). Secondo i due sociologi
francesi, “le déplacement réalisé est jugé comme une mobilité ascendante” da questi immigrati, partiti
in gran parte – secondo gli autori - con l’obiettivo dichiarato di migliorare la propria posizione (“ils ont
voulu s’élever, changer de condition”), alla ricerca “de la sécurité et un bon revenu”10.
Il “salto di qualità” nella testimonianza torinese che abbiamo citato sopra è quello compiuto dal
bracciante pugliese - una figura d’altronde molto presente nell’immigrazione al Nord di quegli anni e in
particolare verso la metropoli piemontese – che è diventato nella città industriale operaio della grande
fabbrica11. E’ scontato che i flussi migratori dal Meridione non abbiano coinvolto solo “la campagna”
(né solo il latifondo, né naturalmente solo il bracciantato). Questi movimenti di massa hanno coinvolto
una popolazione la cui eterogeneità non è riducibile solo alla presenza – accanto a una predominanza di
individui di estrazione genericamente popolare – di uomini e donne di ceto medio (molti di questi
nell’impiego pubblico, ma non soltanto). Occorrerebbe insomma guardarsi dal rischio di uniformare
arbitrariamente e quindi di appiattire su uno stesso comun denominatore profili sociali diversi e storie
individuali e familiari diverse, che possono essere all’origine di differenze significative nei percorsi.
Ma per il nostro tema a noi interessa in queste note mettere in luce (potremmo dire: selezionare) un
aspetto che sembra caratterizzare in modo significativo la vita prima della partenza di numerosi
immigrati: l’instabilità del lavoro, spesso la sua intermittenza, in una parola la sua precarietà. Una
condizione che è appunto tipica del bracciantato ma che coinvolge ampi strati sociali popolari, in
campagna e in città. Il suo superamento, in questi casi, è al centro delle speranze riposte
nell’emigrazione.
7
G. Girardi (a cura di), Coscienza operaia oggi, De Donato, Bari 1980, p. 161.
M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna 1973, p. 132.
9
A. Touraine et O. Ragazzi, Ouvriers d’origine agricole, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris 1961.
10
Ibidem, pp. 47 e 118. Gli autori scrivono (p. 19) che gli operai di origine agricola oggetto della loro ricerca, tutti figli
di contadini e che hanno essi stessi lavorato nell’agricoltura prima di trasferirsi, “sont venus à Paris et dans leur usine
attirés par ce type de travail ou par la perspective d’une situation matérielle meilleure et de débouchés professionnelles
plus vaste”. Si distinguono nettamente dagli intervistati di altre categorie di lavoratori dichiarando in una forte
percentuale che il motivo principale che li ha indotti a partire è stato (come indicava la domanda dell’inchiesta) “gout,
recherche de débouchés ou d’amélioration”. Solo in seconda e terza battuta (e a distanza in termini di percentuale di
risposte), la ragione indicata è “hasard” e “influence du milieu” (p. 19, “question 54”).
11
Occorrerebbe riflettere di più sulla posizione dell’operaio dell’industria, in particolare della grande industria, nella
gerarchia del prestigio delle occupazioni dell’epoca e più in generale nel mondo sociale locale (e non solo locale).
8
80
RAPPORTO SECONDGEN
Aspirazioni alla stabilità
Ciò che va notato, a questo riguardo, è che il trasferimento a Torino non produce di per sé alcun
mutamento sostanziale di quella condizione. L’idea che la migrazione rappresenti essenzialmente il
passaggio da un punto A a un punto B nello spazio geografico e in quello sociale è spesso implicita
negli studi. Non è così nella realtà: l’arrivo dal Sud a Torino segna l’inizio di un percorso in genere
accidentato e tortuoso che porta l’immigrato a spostarsi da un’occupazione a un’altra e da un’abitazione
a un’altra. L’ingresso nel mercato del lavoro locale avviene in genere attraverso la porta stretta delle
posizioni più periferiche. Si comincia a lavorare nei numerosi cantieri edili, nei servizi del terziario
urbano che richiedono manovalanza, nei laboratori artigianali, nella miriade di boite che utilizzano le
braccia a buon prezzo degli ultimi arrivati. Il lavoro è spesso al nero per salari al di sotto della media;
non ci sono forme di protezione, né sindacale né di legge; gli orari sono prolungati a dismisura, gli
infortuni all’ordine del giorno12. Questi segmenti del mercato del lavoro locale sono affollati da
immigrati perché all’inizio del loro itinerario a Torino i nuovi arrivati, tipicamente, hanno scarse
informazioni sulle occupazioni offerte dalla città, così come sul suo mercato immobiliare (ed è per
questo motivo che, per gli affitti che sono in grado di pagare - e che sono disposti a pagare, le prime
sistemazioni abitative sono spesso in case vetuste o degradate) .Sono soprattutto gli immigrati che
provengono dal Sud a trovarsi in questo stato di povertà di connessioni con le opportunità che, in teoria,
sono disponibili nel mondo urbano. E’ dunque facile che per loro le condizioni di precarietà lasciate al
paese si riproducano in nuove forme in città.
La prima occupazione è spesso presto lasciata. Comincia, nell’esperienza più comune, un percorso nel
mercato del lavoro locale (a cui si accompagna un percorso tra le abitazioni della città) alla ricerca di
un miglioramento del proprio stato. E’ un movimento apparentemente erratico ma che in realtà si svolge
secondo una logica sociale precisa: esprime una forte tensione al superamento della condizione di
precarietà. Il traguardo a cui puntano gli immigrati che vivono questa fase iniziale più o meno lunga del
loro insediamento in città è il raggiungimento di una posizione di stabilità: un posto di lavoro sicuro,
che offra un buon salario e dia la garanzia di una protezione sindacale a difesa dei diritti conquistati in
quegli anni di grandi lotte sociali, e una casa dignitosa per la propria famiglia, se possibile all’altezza
degli standard di confort che si stanno affermando all’epoca.
La sicurezza dell’impiego ha un ruolo centrale nella realizzazione delle loro aspirazioni: è una
conquista che segna il successo dell’emigrazione e distingue chi si è fatto strada nella società urbana da
chi è solo all’inizio della sua vicenda migratoria (o ha fallito). Non è dunque sorprendente che tra gli
immigrati dal Mezzogiorno di quegli anni rappresenti un valore fondamentale da trasmettere alla nuova
generazione. Coloro che hanno vissuto il percorso di integrazione di cui abbiamo detto la indicano
come l’obiettivo su cui concentrare gli sforzi perché lo ritengono la condizione basilare per costruirsi
un futuro. L’entrata precoce nel mercato del lavoro manuale – caratterizzato all’epoca da una grande
abbondanza di domanda di lavoro - ne è una conseguenza. E’ importante rimarcare che in queste
strategie l’interruzione degli studi non è vissuta come un fallimento dai genitori, e tantomeno dai figli i
quali si incanalano lungo una strada in cui molte delle competenze che contano sono acquisite al di
fuori della scuola.
All’epoca, tra chi era più a contatto con gli immigrati appena arrivati – in particolare gli insegnanti della
scuola dell’obbligo dei quartieri in cui le famiglie immigrate transitavano o si insediavano e gli
assistenti sociali - questo atteggiamento era interpretato come una conferma di un’opinione piuttosto
comune in questi ambienti (con diverse eccezioni, naturalmente): che vi fosse da parte di molti genitori
meridionali una sostanziale indifferenza nei confronti dell’istruzione. Un’indifferenza che si
manifestava, secondo il loro parere, fin dai primi anni di scuola dei figli. Era infatti in primo luogo tra le
maestre e i maestri elementari che l’accusa circolava, come risulta dai commenti annotati sui registri
scolastici: le famiglie sembravano non occuparsi di quanto i bambini e i ragazzi facevano a scuola13.
Questa opinione trovava ripetute conferme nel fatto che molti genitori immigrati ignoravano
sistematicamente le richieste di convocazione che nelle intenzioni avevano lo scopo di correggere i
comportamenti dei loro figli e di rimediare alle troppe insufficienze. In realtà, non era un presunto
12
E’ l’altra faccia del fordismo che spesso appare occultata oggi negli studi a causa della tendenza a contrapporre
l’integrazione “difficile” dell’immigrazione straniera a una presunta integrazione “facile” che avrebbe contraddistinto
l’immigrazione dei tempi del boom economico.
13
Sui registri scolastici degli anni Sessanta nelle scuole elementari di Torino si veda Badino, op. cit.
81
RAPPORTO SECONDGEN
disinteresse nei confronti dell’istruzione alla radice di questi comportamenti. Di fronte alla tendenza
degli insegnanti ad attribuire alle famiglie la responsabilità del cattivo rendimento scolastico degli
alunni, queste cercavano di sottrarsi a incontri che temevano si sarebbero trasformati in processi ai loro
metodi educativi, come in effetti spesso succedeva. “Sembra che vogliano dare il voto a me”, dicevano
le madri immigrate che subivano con grande disagio i rimbrotti dei maestri dei figli14.
Non mancano del resto le evidenze che attestano la grande considerazione in cui la scuola era tenuta
dalle famiglie che avevano i loro figli nelle classi dell’obbligo. Una maestra che aveva insegnato a
lungo all’epoca in una scuola elementare piena di immigrati di una zona particolarmente “difficile”
della periferia di Torino, molto empatica con i suoi alunni, spiega il significato della delega che i
genitori le davano: “Con le famiglie avevo ottimi rapporti, li ho visti poco, erano genitori che magari
accompagnavano i propri figli il primo giorno di scuola e mi dicevano: ‘maestra, questi sono i bambini
e li gestisca come lei crede’ (…) devo dire che ci tenevano che la scuola insegnasse ai propri figli
qualcosa di diverso da quello che apprendevano nella strada”15.
Tra saperi di base e scuola lunga
Una documentazione in grado di fornire informazioni preziose per conoscere le reazioni dei genitori - e
i conflitti che ne nascevano in famiglia – di fronte a figli che avevano abbandonato la scuola
dell’obbligo prima di arrivare alla licenza media o che, bocciati, stavano per lasciarla, è quella prodotta
nell’ambito di una vasta (e pressoché unica in questo campo, a mia conoscenza) inchiesta svolta
all’inizio degli anni Settanta nelle medie inferiori di un importante centro industriale lombardo16.
Emerge dai numerosi colloqui dei ricercatori con le famiglie, quasi tutte di origine meridionale, un
acuto disagio di fronte al fallimento scolastico precoce dei figli. Ma ciò che colpisce è la resistenza
opposta dai genitori, nella quasi totalità dei casi presi in considerazione, alla volontà dei ragazzi di
interrompere gli studi. E’ una dimostrazione di quanto fosse diffusa tra le famiglie immigrate la
consapevolezza dell’importanza di acquisire i saperi di base che la scuola dell’obbligo aveva il compito
di fornire.
Ha dunque scarso fondamento l’idea che tra i genitori meridionali che mostravano di non avere per i
figli aspirazioni scolastiche simili a quelle dei genitori stranieri di oggi vi fosse un atteggiamento di
noncuranza e di apatia nei confronti della scuola in quanto tale. Era invece molto diffusa – questo è il
punto - una grande incertezza sulla praticabilità della scelta della scolarità lunga, quella che aveva come
orizzonte e come traguardo un diploma (o addirittura una laurea). E’ il proseguimento degli studi dopo
l’obbligo che era guardato con diffidenza: in molti casi era escluso drasticamente, in altri sollevava forti
perplessità. Come mostrano le schede di famiglia dei censimenti della popolazione (che registrano gli
anni e il tipo di scuola frequentati, oltre al titolo di studio posseduto), sembra tutt’altro che raro il caso
di figli di immigrati meridionali che fanno un anno o due di scuola superiore e poi abbandonano. Si può
allora pensare che in una parte forse ampia di famiglie immigrate non vi fosse una chiusura
pregiudiziale nei confronti della continuazione degli studi ma appunto scarsa convinzione e
un’esitazione forte a far prendere questa strada ai figli.
Va anche aggiunto che all’epoca vi era un canale di mobilità sociale praticabile e praticato dalla
seconda generazione di origine meridionale che non richiedeva nessun particolare titolo di studio:
l’impianto di una piccola attività autonoma industriale o commerciale. Richiedeva competenze e
soprattutto una dotazione di risorse che non potevano certo venire dalla scuola: la capacità di reggere
un grande dispendio di energie personali, la mobilitazione piena di familiari disponibili, la possibilità di
reperire credito nella cerchia della parentela. Il percorso dal lavoro salariato al lavoro autonomo si
dimostrava spesso reversibile ma era un progetto di ascesa sociale che non passava attraverso
l’acquisizione di credenziali scolastiche.
14
E’ significativo che questi fenomeni siano largamente presenti nelle scuole dell’obbligo frequentate soprattutto da
alunni di famiglie immigrate anche fuori d’Italia e in periodi più recenti. Si veda tra gli altri ad esempio, per la Francia,
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15
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2000, p.134.
16
T. Aymone, Scuola dell’obbligo. Città operaia, Laterza, Roma-Bari 1972.
82
RAPPORTO SECONDGEN
Riguardo all’istruzione, sembra che le famiglie avessero, in generale, le idee chiare solo quando si
trattava delle figlie femmine. Era il matrimonio il futuro che ci si augurava per loro e quindi
l’alternativa tra proseguire gli studi oltre l’obbligo o interromperli praticamente non si poneva neppure.
Forse una delle differenze più radicali con l’immigrazione internazionale di oggi sta, su questo piano,
proprio nelle aspirazioni scolastiche dei genitori per le figlie femmine. Ma va notato che le strategie
delle famiglie meridionali di mezzo secolo fa non significavano – nelle intenzioni - una mortificazione
del ruolo femminile nella coppia che si sarebbe formata. Le madri originarie del Sud, d’altronde,
spesso scolarizzate ancora meno dei padri, avevano saputo svolgere una parte cruciale (seppure poco
visibile, perlomeno agli occhi degli studiosi) nel progetto migratorio e nella sua realizzazione.
Paradossalmente, come è stato messo in luce, nelle seconde generazioni di origine meridionale saranno
le ragazze, più che i loro fratelli, a perseguire e conquistare titoli di studio oltre l’obbligo17. Ma le scelte
compiute dai figli e la loro coerenza o incoerenza con le aspettative dei genitori non sono l’argomento
di questa analisi. Naturalmente le aspirazioni degli uni e degli altri si condizionavano a vicenda in varie
forme ma in questa sede le teniamo distinte. Il nostro interesse è focalizzato sui progetti della prima
generazione per il futuro della seconda.
Ambizioni sociali e progetti incerti
La stessa indeterminatezza nel decidere del futuro scolastico dei figli esistente tra gli immigrati dal Sud
la ritroviamo nei progetti degli operai di origine agricola entrati nella grande industria parigina studiati
da Touraine e Ragazzi. Ma con qualche elemento interessante in più, che ci aiuta a decifrarne il
significato e le motivazioni che le stanno dietro, pur nelle differenze tra i due contesti.
Gli immigrati interni francesi – con un grado di scolarità bassa, senza qualificazione, giunti
direttamente dalla campagna alla catena di montaggio – dichiarano di avere ambizioni sociali per i loro
figli ma le loro aspirazioni appaiono generiche e vaghe, di difficile lettura. Alcuni non sanno dire cosa
concretamente intendono quando auspicano per i figli una vita di successo; altri insistono soprattutto sul
fattore economico: “riuscire” significa “fare soldi”, ma non si capisce in quali modi né se ne dà una
qualche misura18. Gli intervistati appaiono incapaci di indicare quali possano essere le strade su cui
indirizzare i figli per affermarsi nella società urbana e tantomeno i mezzi da utilizzare per realizzare le
loro aspettative. E’ la conseguenza, secondo i due ricercatori (che rilevano la cosa con una certa
sorpresa) del fatto che non riconoscono - in netta maggioranza - nell’istruzione lo strumento di
promozione sociale coerente con lo scopo.
Il significato della scelta di escludere la scuola lunga dai progetti per l’avvenire dei figli sembra
diventare più complicato da interpretare quando gli autori dell’inchiesta cercano di capire con una serie
di domande specifiche quale sia la concezione prevalente delle divisioni sociali e quali i criteri che nella
loro visione della società differenzierebbero le varie classi. Notano i due sociologi che le risposte dei
loro intervistati sono apparentemente contraddittorie. Dichiarano infatti in grande maggioranza (i due
terzi) che è il grado di istruzione posseduto (a cui viene aggiunto il “milieu”, l’ambiente di
appartenenza) a distinguere tra di loro le diverse classi sociali; inoltre – e coerentemente – che è
attraverso l’istruzione che un “giovane operaio” cambia classe, cioè passa ad una classe collocata più in
alto nella scala sociale19.
Il carattere contraddittorio di queste affermazioni sta nel fatto che - come viene giustamente rilevato sono in aperto contrasto con la minimizzazione dell’importanza degli studi lunghi come mezzi da
indicare ai figli per farsi strada nella società urbana in cui cresceranno. E tuttavia è forse proprio in
questa ambiguità, a nostro parere, che può essere cercata una chiave di lettura del senso delle strategie
di questi genitori. Non sembra esserci contraddizione per loro tra un avvenire di successo dei figli e una
continuità di appartenenza all’ambiente sociale di appartenenza: è all’interno del mondo sociale
conosciuto (così sembrerebbe) che si ritiene che i figli possano realisticamente - e quindi debbano giocare le loro carte. Al contrario, un percorso di mobilità che comporti di uscirne verrebbe giudicato
una scelta azzardata, fuori della loro portata. Vi è forse tra questi “operai di origine agricola” la
convinzione che scegliere la strada dell’istruzione lunga proietti i loro figli su un terreno che non
conoscono e non controllano ?
17
Ne discute ampiamente Badino in op. cit. e nei contributi a questo Rapporto di ricerca.
Touraine et Ragazzi, op. cit., pp. 100 e 111.
19
Ibidem, pp. 75 e 76.
18
83
RAPPORTO SECONDGEN
E’ una ipotesi suggerita da questa inchiesta ma che può essere applicata anche al nostro caso:
nell’immigrazione originaria del Sud la diffusa diffidenza nei confronti della scuola lunga di cui
abbiamo detto e la conseguente esitazione, più o meno marcata, a spingere i figli in quella direzione
trovano alimento anche nell’idea che i sentieri su cui si avventurerebbero sono incerti e i loro sbocchi
nebulosi. Uno dei motivi per cui molti genitori meridionali non investono nell’istruzione dei figli oltre
l’obbligo è che - se la nostra ipotesi è fondata - non hanno una chiara percezione del tipo di attività (e
di status) verso cui conducono gli studi lunghi. Non sono quindi motivati a incoraggiare i figli in quella
direzione perché hanno difficoltà a individuare con sufficiente lucidità il nesso tra un titolo di studio di
scuola superiore e le opportunità vantaggiose di lavoro a cui darebbe accesso, tra l’acquisizione di
determinate credenziali scolastiche e una loro traduzione in posizioni corrispondenti nel mercato del
lavoro locale.
Quali informazioni da quali cerchie sociali ?
Occorre tenere presente che in genere gli immigrati meridionali di prima generazione hanno acquisito
nel tempo molte informazioni sul mercato del lavoro manuale locale ma ne possiedono poche su quello
non manuale. Tutto ciò è evidente se guardiamo alla rete sociale in cui risultano essersi inseriti nel loro
percorso di integrazione in città e concentriamo l’attenzione sui meccanismi che hanno presieduto alla
sua formazione: è una rete sociale di individui – spesso corregionali – che condividono posizioni
occupazionali affini e quindi assicurano connessioni soprattutto con i segmenti bassi dell’offerta locale
di posti di lavoro nell’industria e nei servizi in cui possono pensare di collocare i figli. Non vi è niente
di predeterminato dalle origini geografiche in questi processi: quali legami sociali e con chi vengono
costruiti sul posto è affare che dipende principalmente dagli spazi urbani frequentati dai nuovi arrivati.
In primo luogo da ambiti di interazione come i luoghi di lavoro attraverso cui passano e i vicinati in cui
transitano o si fissano, e dalle persone con cui entrano in contatto rendendo possibile il consolidamento
di rapporti. E’ per questo motivo che tra gli immigrati meridionali che si sono stabilizzati a Torino in
quegli anni avendo compiuto il percorso tra le occupazioni e i quartieri della città che conosciamo è
facile trovare reti connotate da una forte omogeneità sociale e professionale dei loro componenti. E’ una
omogeneità che risulta ulteriormente rafforzata dalla parentela presente in loco quando, come di solito
avviene, si concentra - per l’azione delle catene migratorie - negli stessi settori del mercato del lavoro (e
a volte negli stessi quartieri).
L’influenza esercitata dalla rete sociale in cui gli immigrati si trovano a vivere in città sulle loro
aspettative emerge chiaramente anche tra i genitori stranieri di oggi per esempio nei casi in cui
esercitano pressioni sui figli perché si iscrivano a una scuola professionale “che dia un mestiere” e
garantisca l’accesso al più presto, nelle loro speranze, a un lavoro (manuale). E quindi mostrano
l’esistenza di un atteggiamento verso gli studi che non sembra molto lontano da quello dei genitori
meridionali: anche qui infatti ritroviamo l’incertezza di fronte a strade che sono considerate poco
praticabili, fuori della loro portata e che non si sa prevedere dove possano parare. Progetti di questo tipo
sono in genere di immigrati con una bassa scolarità ma è lo spostamento del fuoco dell’analisi sulle loro
cerchie sociali che ci permette di capire come e perché questi progetti prendono forma: le loro relazioni
sul posto sono in gran parte con conterranei nella loro stessa situazione, con compagni di lavoro che
condividono attività di scarso prestigio, con vicini dal profilo sociale simile al loro.
La ricerca Secondgen mette in luce un atteggiamento nei confronti della scelta della scuola dei figli
piuttosto diffuso tra i genitori dell’immigrazione internazionale che potrebbe sembrare in
contraddizione con la considerazione in cui viene tenuta l’istruzione seppure, come abbiamo visto,
dentro a strategie diverse per le ambizioni sociali che esprimono. Le famiglie tendono a non intervenire
attivamente nella scelta del tipo di scuola superiore da frequentare; si astengono dal dare indicazioni ai
figli e si affidano a loro. In realtà non vi è alcuna contraddizione. Questi comportamenti infatti sono
chiaramente imputabili alla loro condizione di immigrati: hanno grande difficoltà ad orientarsi in un
sistema scolastico opaco ai loro occhi e non sono in grado di raccogliere informazioni utili a superare
questa situazione di minorità perché le reti sociali in cui si sono integrati sono inadeguate a questo
scopo. Il rapporto tra le famiglie dell’immigrazione straniera e la scuola tende ad essere caratterizzato
da questi aspetti, con numerose implicazioni: le scelte che vengono fatte dopo l’obbligo possono
rivelarsi nel tempo sbagliate, con ricadute molto negative sulla scolarità e sugli sbocchi lavorativi dei
figli. La divaricazione molto frequente tra il livello delle aspirazioni scolastiche dei genitori e la realtà
84
RAPPORTO SECONDGEN
dei corsi di studio in cui i giovani si avviano che hanno potenzialità non corrispondenti ai progetti
familiari – un aspetto su cui ritorneremo più avanti – si spiega anche in questo quadro.
E’ molto significativo, a questo proposito, che il disagio di fronte alla scelta della scuola a cui iscrivere i
figli non riguarda soltanto gli immigrati con bassa scolarità e quindi poca dimestichezza con gli studi
superiori nelle stesse aree di origine, ma anche spesso gli immigrati scolarizzati con grandi ambizioni
sociali per i figli da perseguire con un’istruzione di alto livello. La loro incertezza, che può portare di
fatto a un netto ridimensionamento delle aspettative, deriva dalla povertà di informazioni
sull’organizzazione degli studi in Italia su cui poter contare – una conseguenza specifica, come si è
detto, della migrazione.
Ambienti sociali di integrazione in città e formazione delle aspettative
Riprendiamo ora a discutere il tema, su cui abbiamo sopra insistito, degli effetti che l’ambiente di
appartenenza, definito dalle cerchie sociali nelle quali le famiglie immigrate si sono integrate in città,
produce sulla formazione delle loro aspettative. Ciò che va tenuto presente è che l’ambiente offre dei
modelli di carriere sociali da seguire. Sono modelli che, in quanto presenti nel mondo sociale di cui si è
parte, vengono percepiti come la norma e quindi la loro realizzabilità non è in discussione. L’auspicio
di tanti genitori meridionali che i figli perseguano carriere urbane il cui coronamento sia una posizione
di lavoro manuale stabile è pienamente coerente con ambienti come quelli che abbiamo descritto. E lo
stesso può essere detto, come si è accennato, dei genitori stranieri le cui aspettative di studi lunghi in
realtà non vanno oltre qualche anno di un modesto istituto professionale. Ma il primato dell’ambiente
sociale nel tracciare gli orizzonti su cui orientare i figli è anche più evidente quando genitori poco
scolarizzati manifestano aspirazioni scolastiche elevate e ripongono grandi speranze nel futuro
professionale della nuova generazione.
A questo riguardo è utile richiamare gli spunti offerti da un’ampia ricerca recente sui percorsi scolastici
e lavorativi delle seconde generazioni di immigrati internazionali all’inizio degli anni Duemila a New
York e sulle aspettative delle loro famiglie20. Esaminando l’atteggiamento verso l’istruzione, gli autori
discutono l’anomalìa dei cinesi di New York, tra i quali genitori con un livello di scolarità molto basso
mostrano, a differenza di altri gruppi di immigrati nella stessa condizione, di attendersi dalla scuola dei
figli grandi risultati e quindi li indirizzano verso studi prestigiosi. C’è una specificità che distingue i
cinesi della grande metropoli americana, in quanto sembra non riscontrarsi in altri gruppi immigrati, e
che secondo gli autori ha una parte decisiva nella formazione delle aspettative anche di chi non
possiede un capitale culturale: è la tendenziale sovrapposizione tra comunità cinese e aree di residenza
in cui questa si concentra. Questo fenomeno in genere non si verifica nell’immigrazione in cui
prevalgono largamente altri meccanismi: la ricerca dell’abitazione è fortemente condizionata dallo
status socio-economico che quindi seleziona e distribuisce le famiglie in aree nettamente distinte dello
spazio urbano. Una delle implicazioni della specificità dell’immigrazione dalla Cina è dunque che
anche i nuovi arrivati con una bassa scolarità e posizioni occupazionali molto modeste si stabilizzano
nei quartieri della metropoli americana abitati prevalentemente da connazionali, la cui composizione
sociale è molto mista e in cui la presenza di famiglie di classe media e medio-alta dotate di titoli di
studio importanti è significativa. Si trovano così nella condizione di integrarsi in un nuovo ambiente
sociale. Il quartiere etnico, in questo caso, presenta a chi vi arriva e vi risiede modelli di percorsi
professionali di successo fondati sull’acquisizione di credenziali scolastiche e consente non solo di
osservare direttamente queste traiettorie ma anche di entrare in contatto con gli individui che le
incarnano. Gli effetti sui nuovi arrivati con bassa istruzione sono che i progetti per i loro figli tendono
ad allinearsi a quelli presenti nella comunità. In questo modo i cinesi di New York si differenziano
nettamente da altri gruppi immigrati con il loro stesso livello di scolarità e in occupazioni analoghe: ai
loro occhi l’utilità e l’efficacia di percorrere la strada di studi molto impegnativi per affermarsi nella
società locale sono dimostrate da chi nella comunità l’ha già percorsa, rendendola così ai loro occhi
realisticamente praticabile.
E’ la dimostrazione che l’ambiente sociale in cui i genitori entrano in città rappresenta un fattore
cruciale nel definire le aspettative nei confronti dei figli. E’ fuori di dubbio che ci sia poco di
paragonabile tra la comunità cinese della grande metropoli americana così come ci viene descritta da
20
P. Kasinitz, J. Mollenkopf, M. Waters, J. Holdaway, Inheriting the City. The Children of Immigrants Come of Age,
Russell Sage Foundation, New York 2008
85
RAPPORTO SECONDGEN
questi autori e l’immigrazione internazionale di oggi a Torino o quella meridionale di mezzo secolo fa.
Né gli immigrati stranieri né quelli interni arrivati dal Sud si inseriscono nella società urbana in una
comunità di residenza con quelle caratteristiche, la quale dunque non esercita alcuna funzione in termini
di proposizione di modelli ambiziosi.
Ma in questo importante lavoro è l’indicazione su dove posare la lente che va colta. E va rimarcato,
come già abbiamo detto, che i meccanismi all’opera negli ambienti sociali di appartenenza (con le loro
implicazioni sulle strategie degli individui) sono gli stessi anche quando le famiglie non mostrano di
perseguire grandi traguardi ma esprimono aspirazioni modeste.
Percorsi inattesi
Si è visto come la grande maggioranza degli immigrati meridionali si radichi in reti sociali che limitano
le loro informazioni e i loro orizzonti e come dinamiche analoghe siano largamente presenti nelle
traiettorie della prima generazione di immigrati stranieri. Ma i processi di integrazione in città non
hanno esiti scontati. Non è infatti impossibile che, qualora esistano o se ne creino le condizioni, la
migrazione, cioè il trasferimento in un nuovo spazio in cui si devono intessere nuovi legami, favorisca
incontri e contatti capaci di condurre in direzioni impreviste. Alcune delle nuove relazioni che si
intrecciano in loco, infatti, possono funzionare da tramiti che portano a inserirsi progressivamente in
ambienti popolati da figure eterogenee sia per le loro occupazioni sia per il loro profilo sociale.
Nell’immigrazione meridionale di mezzo secolo fa questi casi sono forse poco visibili (e certamente
poco studiati nella nostra ottica) ma sono tutt’altro che eccezionali. I nuovi ambienti in cui si entra
dischiudono nuovi orizzonti, mutano la percezione delle opportunità aperte e fanno nascere ambizioni
per sé e per il futuro dei propri figli. Fra i genitori stranieri oggi una spia di tutto ciò nei materiali di
Secondgen sembrerebbe apparire quando, ad esempio, incontriamo persone senza o con poca istruzione
che sono passate da una condizione di lavoro subordinato a una carriera imprenditoriale di successo e
hanno così sviluppato relazioni e stretto legami al di fuori dell’ambiente di appartenenza iniziale. Una
delle chiavi esplicative delle aspirazioni scolastiche elevate per i figli da cui risultano essere animati
potrebbe proprio essere trovata nei loro percorsi di integrazione. Ma occorre guardarsi dalle risposte
univoche: aspettative analoghe sono condivise da genitori di varie posizioni occupazionali, oltre che di
varie estrazioni sociali. Questo fa pensare che i meccanismi in gioco siano più di uno.
E’ nel confronto tra i titoli di studio delle seconde generazioni di immigrati dal Meridione nel
dopoguerra e di immigrati di classe operaia dal Piemonte negli stessi anni a Torino, indicativi di
progetti familiari maturati nello stesso periodo storico in cui l’istruzione è valutata con metri molto
diversi da oggi, che la linea interpretativa che abbiamo proposto dimostra la sua utilità. Le differenze di
scolarizzazione dei figli degli uni e degli altri tendono ad essere spiegate nell’opinione comune (ma con
una eco significativa anche in una parte della comunità scientifica) con le differenze di grado di
scolarità dei genitori. In realtà, come è stato accertato, il divario su questo piano tra gli immigrati dal
Sud e quelli provenienti dalla regione che ricoprivano posizioni occupazionali simili non era tale da
dare conto di risultati scolastici e di aspettative delle famiglie così divergenti21. Le famiglie operaie con
basso capitale culturale originarie del Piemonte mostravano spesso di saper sfruttare le opportunità
educative offerte dalla grande città assai di più di quelle provenienti dal Mezzogiorno collocate nella
stessa classe occupazionale. Per quali motivi ?
Più che i livelli di istruzione, ciò che distingue l’immigrazione di operai, artigiani e contadini
piemontesi nel capoluogo regionale da quella meridionale in quegli anni è il contesto in cui si sviluppa:
è un contesto la cui specificità per il nostro tema risiede nella lunga consuetudine di rapporti e di scambi
tra città capoluogo e regione e nella loro continuità nel tempo. E’ su questo aspetto, apparentemente
ovvio ma carico di conseguenze, che dobbiamo concentrarci. Tra i vari effetti che l’intensità e il volume
dei movimenti di individui tra la campagna, la montagna e i centri urbani minori del Piemonte e Torino
avevano prodotto ve ne è uno di particolare significato nella nostra ottica: il costituirsi e il consolidarsi
negli anni (e nelle generazioni) di una trama di legami tra membri di parentele dislocati in parte in città
e in parte nelle varie località della regione. E’ su questa trama e sulle opportunità offerte in termini di
21
M. Eve e F. Ceravolo dimostrano, sulla base di dati dello Studio Longitudinale Torinese, questo assunto in “A case of
‘second generation’ disadvantage in internal migration: a challenge to theory ?”, paper presentato al convegno Norface,
“Migration: global developmen, new frontiers”, University College London, 10-13 aprile 2013 (paper disponinbile sul
sito http://secondgen.rs.unipmn.it/).
86
RAPPORTO SECONDGEN
informazioni e di sostegno a chi vi era inserito e decideva in quegli anni di spostarsi nel capoluogo che
va posto l’accento. Alcune differenze essenziali tra immigrati di breve distanza (dalla regione) e
immigrati di lunga distanza (dal Sud) - ma chiaramente il discorso riguarda anche gli immigrati stranieri
oggi - stavano infatti nella possibilità dei primi di utilizzare canali che ne facilitavano l’entrata nel
tessuto sociale e produttivo di Torino riducendo drasticamente i costi e le incognite dello spostamento e
allargando fin dall’arrivo le opportunità. L’entrata nel mercato del lavoro avveniva in questi casi
saltando la fase – tipica dell’immigrazione dal Sud, come abbiamo visto – della lunga trafila in
occupazioni precarie; le abitazioni a cui si aveva accesso consentivano di stabilirsi in quartieri diversi
da quelli affollati di immigrati meridionali appena arrivati, e così via. La possibilità di fare affidamento
a Torino su persone già radicate, spesso da tempo, nel mondo urbano assicurava vantaggi cruciali,
decisivi nel differenziare i percorsi migratori da quelli prevalenti tra i meridionali. Indirizzava i nuovi
venuti su una strada di integrazione in ambienti sociali che aprivano nuove prospettive. E’ in questo
quadro che va visto il maturare di progetti familiari per i figli in cui l’istruzione superiore – un salto
rispetto alla generazione precedente – diventava essenziale per continuare il percorso di mobilità sociale
avviato con l’insediamento nella società urbana dei padri.
Nella scuola dell’obbligo: i dilemmi dell’istituzione di fronte alla migrazione
E’ al termine della terza media che i genitori immigrati (e i loro figli) devono decidere fra l’interruzione
o la continuazione degli studi - come spesso avveniva in passato - oppure fra i vari indirizzi di scuola e
quindi fra percorsi scolastici più o meno impegnativi (e più o meno carichi di promesse), come avviene
oggi. Fin qui abbiamo cercato di individuare alcuni dei fattori che influenzano le posizioni dei genitori
ieri e oggi, mostrando che si tratta in prevalenza di posizioni che si definiscono in un quadro aperto nei
fatti a soluzioni diverse perché è l’incertezza in genere a dominare. Vi è ora da chiedersi quanto conti in
questo contesto - e in che termini - un fattore che finora non abbiamo ancora preso in considerazione: ci
riferiamo ai risultati scolastici ottenuti dai figli nei primi due cicli di studi. E’ un fattore che sembra
contare molto, e spesso con l’effetto di modificare le aspettative iniziali delle famiglie.
Nell’immigrazione interna del dopoguerra, la qualità dei risultati ottenuti durante la scuola dell’obbligo
non ha una grande incidenza sulle aspirazioni scolastiche. Solo nei casi di famiglie di classe media e
con scolarità elevata, l’istruzione dei figli rappresenta un obiettivo irrinunciabile, da perseguire
comunque, indipendentemente dall’impegno e dalle abilità mostrate (un comportamento che le
accomuna alle classi medie locali)22. Ne ha invece molta tra le famiglie immigrate di classe operaia, in
particolare fra quelle (la grande maggioranza, come sappiamo) che risultano integrate in città in reti
sociali limitate: risultati mediocri, disastrosi o buoni possono infatti contribuire in modo determinante a
superare, in una direzione o in un’altra, i dubbi e le esitazioni sulle decisioni da prendere per il futuro
dei figli. Rafforzando quindi la scarsa propensione dei genitori a investire nella loro scolarità oppure, al
contrario, rendendoli consapevoli della possibilità di una carriera scolastica fuori della norma
dell’ambiente sociale di cui sono parte. L’evenienza di una conclusione stentata del corso di studi della
scuola dell’obbligo di ragazzi di famiglie operaie di origine meridionale è molto frequente all’epoca:
costituisce un motivo decisivo per convincere i genitori che la strada migliore per il figlio è l’entrata
precoce nel mercato del lavoro.
Il successo o l’insuccesso negli studi che precedono il momento in cui deve essere compiuta la scelta di
quali percorsi seguire esercita una influenza importante, come è intuibile, anche sulla formazione degli
orientamenti dei genitori stranieri e dei loro figli, intervenendo a modificare in vari modi progetti e
aspettative. Negli anni dell’obbligo il potere della scuola e dei suoi operatori di precostituire le
condizioni per confermare o – come accade più spesso – frustrare aspirazioni e ambizioni e quindi di
influire sui percorsi dei figli condizionando le strategie delle famiglie immigrate è dunque grande.
La comparazione dell’atteggiamento dell’istituzione verso questa parte della popolazione scolastica ieri
e oggi mette in luce, tra vari aspetti che varrebbe la pena di analizzare in modo approfondito, un punto
cruciale per noi: il ripetersi, in una misura sorprendente, di fenomeni analoghi a distanza di decenni e
con protagonisti diversi per provenienza, possesso di diritti di cittadinanza, culture e così via (a
conferma che è la migrazione in sé a rendere simili certi processi). Nell’incontro tra l’istituzione
scolastica e le seconde generazioni di immigrati molti nodi non sono stati sciolti, rimanendo in larga
22
D. Gambetta, Per amore o per forza ?.Le decisioni scolastiche individuali, Il Mulino, Bologna 1990 (prima edizione
Cambridge University Press 1987).
87
RAPPORTO SECONDGEN
parte irrisolti. La natura di integrazione o di esclusione della scuola fin dai primi due cicli di studi
continua ad essere carica di conseguenze. Anche per questo motivo le politiche attuali di intervento nei
confronti degli alunni di origine immigrata hanno probabilmente da trarre lezioni utili dalle esperienze
passate.
Il rendimento a scuola è naturalmente condizionato da molti elementi. Ma per le seconde generazioni la
condizione di immigrati implica l’esigenza - che si manifesta fin dall’ingresso nel sistema scolastico
italiano - di affrontare ostacoli strettamente connessi al processo migratorio e quindi estranei
all’esperienza dei coetanei locali. La reazione dell’istituzione e dei suoi operatori di fronte ai problemi
specifici che questa popolazione scolastica pone nei primi anni di studi è dunque di particolare
rilevanza: ne può derivare un aiuto prezioso ad arginare le conseguenze negative degli handicap iniziali
oppure un aggravamento, con l’accumulazione progressiva di penalità, delle difficoltà che ne derivano.
Gli effetti sono di lungo termine, cioè si prolungano nel tempo perché possono compromettere o
favorire i successivi percorsi scolastici.
Quanto sia importante in generale l’atteggiamento della scuola risulta chiaro, come ci insegna la
sociologia dell’istruzione, nei casi in cui l’intervento degli insegnanti sui genitori porta a modificare
destini sociali che appaiono già in qualche modo segnati. Genitori poco o niente motivati sono
incoraggiati a far intraprendere ai figli percorsi scolastici che la loro posizione occupazionale e il loro
livello di scolarità (oltre al loro ambiente sociale) avrebbero escluso. Ma per le seconde generazioni di
immigrati e le loro famiglie il ruolo dell’istituzione e dei suoi operatori ha implicazioni peculiari a
causa, come si è detto, della specificità della condizione migratoria. Nei materiali raccolti da
Secondgen, dietro a carriere scolastiche brillanti non raramente vi sono maestri e docenti che hanno
operato attivamente per aiutare i ragazzi a rimuovere gli ostacoli legati alla migrazione. Ma più
frequenti sono i casi di risultati scolastici mediocri o anche pesantemente negativi, dovuti in gran parte
all’incapacità della scuola di farsene carico. In questo modo l’istituzione concorre a dare un fondamento
a scelte di rinuncia dei genitori alla continuazione degli studi oltre l’obbligo, come in genere succedeva
nell’immigrazione meridionale, o a ridimensionare più o meno seccamente le loro aspirazioni
scolastiche, come spesso succede oggi.
Gli handicap dovuti alla condizione migratoria e come (non) vengono affrontati
La descrizione dell’impatto dei figli degli immigrati meridionali negli anni Sessanta a Torino con una
scuola ostile perché del tutto impreparata ad accoglierne l’urto ci dà indicazioni dettagliate sul tipo di
handicap che la migrazione genera. Sono quelli che, significativamente, ritroviamo diversi decenni
dopo con la seconda generazione di immigrati stranieri. Come abbiamo già anticipato, è la difficoltà
della scuola ad attrezzarsi per farvi fronte che colpisce, considerando la portata delle conseguenze.
Negli anni Sessanta erano molti i figli di immigrati meridionali che entravano nelle scuole dell’obbligo
della città affollate all’inverosimile dopo aver già frequentato una o più classi al paese. Costituivano la
cosiddetta generazione uno e mezzo, quella che – come molti studi hanno dimostrato – è spesso (anche
se non sempre) la più svantaggiata23. Lo spostamento geografico aveva sconvolto la vita relazionale dei
ragazzi della generazione uno e mezzo imponendo perdite dolorose (dai compagni a molti parenti
adulti, in particolare i nonni); il loro spaesamento era inoltre aggravato dal fatto che venivano iscritti
spesso in corso d’anno, che si trovavano a cambiare scuola perché le famiglie cambiavano spesso
abitazione e quartiere nella prima fase dell’insediamento, che dovevano adattarsi nello stesso tempo al
nuovo contesto urbano di Torino e a nuovi metodi di insegnamento, e così via. Una delle risposte della
scuola all’epoca ai problemi che questi ragazzi immigrati presentavano era la retrocessione alla classe
23
Lo svantaggio della generazione uno e mezzo è stato analizzato nel caso di Torino nel saggio pionieristico di F.
Ceravolo. M. Eve e C. Meraviglia, Migrazioni e integrazione sociale: un percorso a stadi, in M. L. Bianco (a cura di),
L’Italia delle disuguaglianze, Carocci, Roma 2001. Sull’immigrazione meridionale del dopoguerra nel suo complesso
un saggio che conferma i risultati su Torino è R. Impicciatore e G. Dalla Zuanna, “A different social mobility: the
education of children of Southern parents emigrated to Central and North Italy”, Genus, 2006. Il rendimento scolastico
peggiore dei ragazzi di seconda generazione rispetto ai coetanei della generazione uno e mezzo (fra i messicani, ad
esempio) è analizzato in molta letteratura, soprattutto nord-americana, sulla “downward assimilation”. Una delle
indicazioni che questi studi suggeriscono è l’importanza cruciale delle specifiche condizioni sociali in cui crescono le
seconde generazioni. I quartieri di residenza in cui si sviluppano le reti amicali dei figli degli immigrati che alimentano
la loro cultura anti-scuola diventano centrali nell’analisi.
88
RAPPORTO SECONDGEN
precedente a quella che avrebbero dovuto frequentare. Un declassamento che non sempre teneva conto
delle reali competenze dell’alunno.
Le intenzioni erano le migliori perché si riteneva che questo provvedimento potesse facilitare
l’inserimento del nuovo arrivato nel nuovo ambiente. In realtà la perdita di un anno (a volte addirittura
due) al primo impatto con la nuova scuola non solo non assicurava nessun recupero ma al contrario
poteva spesso produrre - aggiungendosi a tutti i numerosi motivi di disagio - effetti irrimediabili: si
avviava una spirale negativa che portava ad accumulare ritardi e contribuiva a generare demotivazione e
disaffezione. Con il risultato di spingere i ragazzi a voler uscire dalla scuola appena possibile e a
convincere i genitori della inopportunità di tenerceli oltre l’età dell’obbligo.
Il declassamento è spesso anche oggi la soluzione adottata per gli alunni stranieri che emigrano con la
famiglia, o la raggiungono, in età scolare. Uno dei motivi che ne sono alla base è la nulla o scarsa
conoscenza dell’italiano di ragazzi appena arrivati da un altro Paese. Il problema, ovviamente, è reale.
E’ la risposta dell’istituzione ad essere di dubbio esito dato che il declassamento non è in grado di
portare i nuovi alunni ad acquisire dimestichezza con un italiano utile non solo per comunicare ma per
gli studi24. Anche in questo campo, l’istituzione sembra contare sulla buona volontà di singoli
insegnanti e sulle iniziative di singoli istituti: mancano corsi di sostegno e programmi specifici di
insegnamento della lingua. Accenniamo alla questione dell’italiano perché è esemplare per il tema che
stiamo trattando: proprio la sua padronanza più o meno incerta infatti è il motivo principale e ricorrente
addotto dagli insegnanti in terza media per un “consiglio di orientamento” che nei fatti penalizza i
ragazzi immigrati oggi – come ieri gli studenti di origine meridionale – in quanto li esclude (“per il loro
bene”) dagli studi più impegnativi25. E’ un fenomeno molto diffuso di fronte a cui spesso le stesse
famiglie dell’immigrazione internazionale che avevano nutrito grandi ambizioni per le carriere
scolastiche dei figli sono indotte a rinunciare a perseguire i loro progetti. La condizione migratoria è a
questo riguardo determinante. Genitori di classe media al Paese di provenienza con progetti centrati
sull’istruzione universitaria si trovano disarmati di fronte a indicazioni espresse da operatori di un
sistema scolastico su cui non dispongono di informazioni puntuali che li metta in grado di contestarle
(come in genere fanno le famiglie locali di classe media).
Non porsi in modo programmatico fin dall’inizio il problema cruciale della specificità della condizione
degli alunni immigrati crea situazioni difficili da modificare in seguito. Come i dati ufficiali
dimostrano, gli studenti di origine straniera in Italia sono distribuiti nei vari indirizzi di studi superiori
in modo anomalo rispetto ai loro coetanei autoctoni: sono infatti concentrati soprattutto negli istituti
tecnici e in quelli professionali26. Su questo fenomeno, che come già abbiamo rilevato contrasta
nettamente con le aspirazioni elevate di un gran numero di genitori dell’immigrazione internazionale,
incidono in buona parte percorsi scolastici accidentati nella scuola dell’obbligo. E’ una conferma del
peso esercitato fin dai primi cicli di studio dall’istituzione: i modi con cui accoglie i figli delle famiglie
immigrate da altri Paesi ne condiziona i destini sociali più di quanto non venga in genere riconosciuto.
In un contesto diverso da quello di oggi, tutto ciò si è già verificato per l’immigrazione meridionale.
A differenza di molti ragazzi di origine straniera che, come abbiamo detto, sono entrati nella scuola
italiana con gli handicap tipici della generazione uno e mezzo, l’esperienza dei figli degli immigrati dal
Sud è anche l’esperienza di bambini e ragazzi nati e socializzati a Torino (la “vera” seconda
generazione) che quindi non hanno dovuto subire l’onere di alcuni degli handicap della generazione uno
e mezzo. Non per questo l’origine migratoria delle loro famiglie ha cessato di influenzare le loro
carriere scolastiche, che hanno continuato ad essere caratterizzate da uno svantaggio nel confronto con
quelle dei coetanei locali, ma ha agito in modi diversi. Diventano così visibili ulteriori aspetti connessi
alla loro condizione di figli di genitori immigrati che esercitano un ruolo nel definirne i percorsi
scolastici. Li ritroviamo anche nelle testimonianze di ragazzi stranieri raccolte dalla ricerca Secondgen
ed è probabile che siano destinati ad assumere importanza crescente in futuro. Ne accenniamo ad alcuni
molto sommariamente, concludendo queste note.
24
Fra i figli degli immigrati meridionali era il dialetto uno dei motivi ritenuti responsabili del loro scarso rendimento in
italiano, sicuramente a ragione. L’istituzione non si poneva l’obiettivo di affrontare con misure adeguate ed efficaci il
problema, che veniva così affidato interamente ai singoli insegnanti. Questi spesso tendevano a scaricarlo sulle
famiglie: “parlate l’italiano in casa”, era l’esortazione rivolta a genitori che, probabilmente, conoscevano l’italiano
ancor meno dei figli.
25
Si veda sul tema il contributo di M. Romito a questo Rapporto di ricerca.
26
I dati ufficiali sono quelli del MIUR.
89
RAPPORTO SECONDGEN
Tra gli alunni meridionali il grado di preparazione acquisito al termine della scuola dell’obbligo
dipendeva anche, come è scontato, dalla qualità dell’insegnamento. Nelle scuole dei quartieri affollati di
immigrati una serie di fattori concorrevano ad abbassare il livello dell’istruzione impartita. Ad
esempio, fenomeni come in primo luogo il turnover degli insegnanti (massimo dove la popolazione
scolastica era carica di problemi) - che si aggiungeva alla piaga dei doppi turni (maggiore nelle
periferie) - contribuivano a compromettere gli standard dell’insegnamento. All’epoca le famiglie non
potevano scegliere le elementari e le medie inferiori in cui iscrivere i figli27 ma erano tenute a inviarli in
quelle del quartiere di residenza. Avveniva molto spesso che nelle scuole frequentate anche da alunni di
famiglie non immigrate, queste facessero pressioni (in genere con successo) su direttori e presidi
affinché i loro figli fossero dirottati in classi non “zavorrate” dalla presenza di bambini e ragazzi la cui
origine faceva presupporre un abbassamento del livello della classe. Forme più o meno accentuate di
segregazione in questo campo erano piuttosto comuni in molti quartieri di Torino28. Le disuguaglianze
all’interno della popolazione scolastica che si generavano erano forti: il confronto al termine della
scuola dell’obbligo tra il grado medio di preparazione degli alunni immigrati e quello dei coetanei locali
ne era la dimostrazione. Le scelte residenziali delle famiglie immigrate - che venivano effettuate dentro
a limiti definiti dalla migrazione stessa - finivano dunque per essere una delle cause dei cattivi risultati
dei figli, dato che l’istituzione non avvertiva l’esigenza di intervenire a modificare le disparità.
Sono molti gli indizi che attestano il riprodursi di fenomeni analoghi. Risulta dalle testimonianze di
Secondgen che spesso i genitori stranieri tendono a scegliere le scuole elementari e medie sulla base del
criterio della loro vicinanza a casa. In linea generale, non sembra che i genitori italiani si comportino
diversamente (la scelta della scuola è in questi casi chiaramente subordinata all’esigenza che
l’accompagnamento quotidiano dei figli si concili con le varie incombenze della famiglia – e per questo
motivo a volte è la vicinanza al lavoro e non a casa il motivo della predilezione di una scuola rispetto a
un’altra). Tuttavia non sembrano siano pochi i casi - perlomeno a giudicare dall’eco che ne hanno sui
media - di genitori locali che vorrebbero evitare le scuole o, più frequentemente, le classi affollate di
alunni immigrati. A volte ne ritirano i figli per questo motivo oppure, più frequentemente, premono sui
dirigenti scolastici come risulta facessero in passato i genitori locali. L’eventualità che nelle aree
urbane in cui famiglie di origine straniera transitano (trovando un’abitazione spesso provvisoria, poiché
è probabile che in questi quartieri che non sono di edilizia pubblica il turnover sia alto) si creino isole di
segregazione scolastica per i loro figli può facilmente verificarsi. Non è che uno dei tanti aspetti che
mostra come le sfide poste ieri dall’immigrazione alla scuola dell’obbligo si ripetano oggi, con le
implicazioni determinanti sul futuro delle seconde generazioni a cui abbiamo accennato.
27
Potevano naturalmente decidere di scegliere in alternativa scuole private. Spesso la decisione – comunque minoritaria
- di mandare i propri figli in una scuola privata (in genere confessionale) è chiaramente motivata dal desiderio di dare
un’educazione scolastica migliore di quella che si ritiene dispensi la scuola pubblica del quartiere. E’ una scelta che in
genere va di pari passo con la volontà di sottrarre i figli alla frequentazione di compagni di scuola di cui i genitori
diffidano.
28
Una documentazione molto utile a questo riguardo è quella contenuta in Giovani a bassa scolarità in due quartieri
torinesi. Testimonianze e storie di vita, Quaderni di ricerca IRES, 73, febbraio 1995, Torino.
90
RAPPORTO SECONDGEN
Allievi stranieri nelle circoscrizioni torinesi
Roberta Ricucci
L’attenzione sul tema dell’inserimento scolastico degli allievi stranieri è da lungo tempo al centro delle
riflessioni di insegnanti e operatori nella città subalpina, teatro di diverse proposte e sperimentazioni
(Ricucci e Ponzo 2011; Zincone 2009). La presentazione del caso torinese però non vuole essere intesa
come emblematica delle diverse situazioni regionali, quanto piuttosto usata come “caso studio” per
verificare se siano in corso fenomeni di concentrazione della presenza straniera (o di origine straniera) in
alcuni istituti scolastici. Si tratta di un tema di grande interesse e centrale nel dibattito scientifico, nonchè
utile per offrire indicazioni di policy sul tema.
Il tema della concentrazione scolastica degli allievi stranieri non solo in alcune filiere, ma anche in
specifici istituti scolastici, sino ad arrivare alla distinzione fra sede centrale (dedicata agli alunni nazionali)
e altri plessi (in cui concentrare gli studenti stranieri) è oggetto di analisi da parte degli studiosi. Numerosi
sono infatti gli studi internazionali che hanno indagato gli effetti di tale concentrazione sui risultati e sui
percorsi scolastici dei figli dell’immigrazione contribuendo a spostare l’attenzione dalle sole
caratteristiche degli alunni (biografie e background familiare) a quelle delle scuole, dei quartieri e degli
ambienti in cui si sviluppano i percorsi di vita dei giovani stranieri.
L’attenzione alla non equa dispersione degli alunni stranieri a livello di scuola primaria e secondaria di I
grado è entrata nel dibattito pubblico torinese alla fine degli anni Novanta con il ‘caso’ della scuola
Manzoni nel quartiere di San Salvario (Ricucci, Premazzi 2010) Da quell’episodio eclatante perché
richiamava l’attenzione su un’area cittadina già al centro di polemiche per la significativa presenza di
cittadini stranieri, il calo degli iscritti italiani a seguito di un ingresso significativo di allievi con
cittadinanza diversa ha rappresentato un ritornello per alcuni istituti scolastici situati nelle zone dove la
concentrazione di famiglie immigrate era più alta (Luciano, Demartini, Ricucci 2009). I timori che si
stessero ponendo le basi per una progressiva concentrazione degli studenti stranieri in alcuni istituti
sembrano però oggi fugati da un’attenta lettura dei dati degli scolastici più recenti.
91
RAPPORTO SECONDGEN
Tab. 1 – Confronto fra % stranieri nelle scuole primarie nelle 10 circoscrizioni.
A.s. 2011/2012
Circ.
Scuole Primarie
Alunni
stranieri
v.a.
A.s. 2012/2013
% sul tot
popolazione
scolastica
Alunni
stranieri
v.a.
% sul tot
popolazione
scolastica
8
2,3
7
2,0
144
108
13,1
19,8
139
101
12,6
18,0
77
10,7
72
9,7
2
D.D. C. CASALEGNO
P. GOBETTI
D.D. F. MAZZARELLO
G. MAZZINI
D.D. L. SINIGAGLIA
75
60
100
107
77
9,3
7,2
18,5
19,3
11,1
77
51
112
134
74
9,5
6,1
19,7
22,5
11,0
3
D.D. R. OTTINO AGAZZI
I.C. VIA PALMIERI (ex V. ALFIERI)
D.D. BARICCO
I.C. TORINO - c. Racconigi (ex D.D. CASATI)
I.C. M.L. KING (Primarie)
D.D. S. DI SANTAROSA
C.D. E. SALGARI
A. TOSCANINI
78
63
89
205
60
187
83
83
20,3
9,3
12,6
36,1
17,4
42,7
13,6
10,0
102
67
99
225
61
191
79
76
25,9
9,5
13,8
38,3
18,3
41,9
13,4
9,1
4
D.D. DUCA D'AOSTA
D.D. A. GAMBARO
D.D. KENNEDY (ex KENNEDY - DEWEY)
MANZONI (Sede)
I.C. PACINOTTI (Primarie)
214
37
80
133
215
28,6
8,5
9,8
28,2
34,6
203
41
86
129
315
25,9
9,6
10,6
27,2
49,5
5
D.D. S. ALERAMO
C.D. G. ALLIEVO
I.C. CASTELDELFINO (ex DON MURIALDO)
D.D. COSTA (ex N. COSTA)
I.C. PADRE GEMELLI (Primarie)
D.D. F. PARRI
I.C. U. SABA (Primarie)
I.C. D.M. Turoldo (Primarie)
249
264
73
116
175
144
88
93
29,1
34,5
18,3
17,7
25,2
23,8
18,4
21,8
256
279
77
126
167
166
103
82
30,9
36,2
18,5
19,1
23,4
27,1
21,5
20,0
6
I.C. G. CENA (Primarie)
D.D. A. FRANK
D.D. A. GABELLI
I.C. L. DA VINCI (Primarie)
D.D. A.S. NOVARO
D.D.S. A. SABIN (ex A. SABIN)
S.P.S. I. ALPI (ex D.D. VIA CIMAROSA)
121
164
454
85
197
282
210
25,7
26,8
64,9
28,9
26,1
47,4
23,9
142
158
493
90
227
309
238
32,8
25,3
68,4
31,4
30,2
52,1
27,2
7
I.C. MARCONI - ANTONELLI (ex VERCELLESE)
I.C. GOZZI - OLIVETTI (Primarie)
D.D. PARINI
I.C. REGIO PARCO - EX LESSONA (Primarie)
I.C. VIA RICASOLI - (ex RICASOLI - MURATORI)
I.C. SPINELLI - SC. INTER. EU. (succ.)
49
44
453
332
173
21
11,0
8,9
75,8
63,8
33,3
6,0
47
43
421
346
180
21
11,1
8,7
68,5
62,7
35,4
6,2
8
D.D. R. D'AZEGLIO
I.C. MANZONI - RAYNERI (Primarie)
D.D. S. PELLICO
28
167
173
5,1
38,5
18,9
41
169
193
7,1
36,3
21,5
9
D.D. C. COLLODI
I.C. VIA SIDOLI (ex D.D. DOGLIOTTI)
I.C. VIA MONTEVIDEO (ex D.D. D. ABRUZZI)
D.D. RE UMBERTO I
D.D. VITTORINO DA FELTRE
53
109
87
171
151
5,7
24,7
13,8
26,7
37,4
59
118
178
181
165
6,1
26,5
28,0
28,9
42,2
10
I.C. A. CAIROLI (Primarie)
I.C. CASTELLO DI MIRAFIORI
I.C. SALVEMINI
132
52
61
32,4
16,6
15,8
125
65
73
30,2
21,5
18,6
I.C. CONV. UMBERTO I
D.D. M. COPPINO
D.D. PACCHIOTTI - SCLOPIS
1
I.C. TOMMASEO (Primarie)
Fonte: elaborazione su dati Servizi Educativi, Comune di Torino.
92
RAPPORTO SECONDGEN
I dati presentati mostrano una presenza diffusa degli allievi con cittadinanza non italiana nelle diverse
circoscrizioni, con punte significative all’interno di quei quartieri dove il dato si concentra il maggior
numero di residenti stranieri: Barriera di Milano, Vanchiglia, Madonna di Campagna, San Salvario. Non si
può tuttavia negare la presenza di scuole (soprattutto fra quelle primarie) con una presenza che supera il
30%, ma esse si collocano in quartieri in cui il peso demografico dei minori stranieri è alto (al contrario di
un decremento di quello degli italiani). Risulta quindi fisiologica una maggiore incidenza degli allievi
stranieri in alcuni istituti.
Tab. 2. Stranieri: Confronto fra iscritti in anagrafe e iscritti nelle scuole primarie
a.s. 2011‐2012
a.s. 2012‐2013
6‐11 anni
iscritti nelle
6‐11 anni
iscritti nelle
CIRCOSC.
(iscritti in
scuole
(iscritti in
scuole
anagrafe)
primarie
anagrafe)
primarie
399
319
1
397
399
419
448
2
521
565
927
900
3
983
1050
674
774
4
908
1041
1.198
1.256
5
1253
1402
1.583
1.657
6
1722
1875
1.096
1.058
7
1254
1362
367
403
8
465
486
584
701
9
703
733
250
263
10
306
339
7.497
7.779
TOTALE
8512
9252
Fonte: ufficio statistica Comune di Torino; dati Servizi Educativi Comune di Torino
Ovviamente, il dato anagrafico non è l’unica determinante nello spiegare la scelta della scuola, soprattutto
per quanto concerne la scuola secondaria di I grado. Infatti, è a tale livello che – secondo quanto emerso
da alcuni ricerche (Gilardoni 2009) – si gettano le basi per la carriera scolastica. Diventano quindi
importanti variabili da considerare nella scelta la reputazione della scuola, il ‘pubblico’ di riferimento, le
informazioni raccolte e a disposizione dei genitori stranieri sull’offerta educativa, sui programmi e sulla
didattica. I casi infatti già accennati di “fuga degli italiani” da plessi scolastici dove la presenza di allievi
stranieri è in crescita riguardano soprattutto le scuole medie. I timori di un abbassamento della qualità
dell’insegnamento e un rallentamento dei programmi di insegnamento a causa delle energie da dedicare ad
allievi neo-arrivati dall’estero, privi di competenze linguistiche sono stati i timori maggiori. Gli allarmi
sono però rientrati e i casi in cui i numeri fanno ipotizzare fenomeni di concentrazione/ghettizzazione
vanno inquadrati in uno scenario più ampio che tiene conto della distribuzione abitativa delle famiglie
straniera e di una progressiva riduzione del peso percentuale dei minori italiani nelle fasce di età
considerate.
L’evoluzione della presenza straniera nella città, unitamente alla sua progressiva stabilizzazione, ha
favorito un processo di diffusione residenziale. Sebbene vi siano delle aree cittadine in cui si coglie una
caratterizzazione etnica (si pensi all’area nei dintorni di Porta Palazzo e di Barriera di Milano), le
iscrizioni scolastiche non sembrano delineare significative aree di ghettizzazione scolastica. Anche quando
si osserva la distribuzione degli allievi a livello di scuola secondaria di I grado, come indica il grafico
seguente.
93
RAPPORTO SECONDGEN
Fonte: elaborazione su dati Servizi Educativi, Comune di Torino.
Il dato interessante riguarda proprio la dispersione territoriale della presenza a conferma di come i cittadini
stranieri siano parte integrante del tessuto cittadino, in cui cresce la quota di minori nati in Italia, i cui
riflessi si colgono sia nella composizione delle scuole: nell’a.s. 2012/2013, il 70% degli alunni con
cittadinanza non italiana è nato in Italia.
L’incontro fra le domande di istruzione delle famiglie e le offerte delle istituzioni scolastiche richiede una
particolare attenzione a tre elementi, che rappresentano i pilastri su cui – per quanto si è colto dalle
discussioni con docenti e operatori del Settore Servizi Educativi del Comune di Torino - definire i nuovi
percorsi di istruzione:
1)
le caratteristiche socio-demografiche e il background culturale degli allievi, unitamente alle
condizioni e alle problematiche che vivono, ai consumi, agli stili di vita che si intrecciano nei modi con cui si
inseriscono all’interno del contesto in cui risiedono: tale conoscenza va compresa e aggiornata per superare
visioni stereotipate e, magari, proprie di fasi dell’immigrazione già superate;
2)
il contesto scolastico, valutato sia nelle caratteristiche tecnico-strutturali (ad esempio aule poco
attrezzate, mancanza di docenti di ruolo) sia sul suo ruolo educativo (metodologie attive e capaci di stimolare
una costruttiva dialettica fra docente e discente). In particolare, risulta importante sviluppare un’attenzione
nuova alle trasformazioni sociali che interessano la popolazione scolastica che diventi, nel tempo, trasversale
alle diverse discipline e non sia affidata, per competenza, agli insegnanti referenti per l’accoglienza e
l’inserimento degli allievi stranieri, ma coinvolga tutto il corpo docente;
3)
il territorio di riferimento, in quanto contesto entro cui gli studenti si muovono e dove partecipano
come destinatari e fruitori di iniziative, o nel quale sono attivamente inseriti attraverso il coinvolgimento in
associazioni sportive, ricreative, culturali o religiose.
Si tratta di tre elementi che presentano delle criticità su cui riflettere per migliorare sia l’offerta formativa
sia i risultati degli stessi studenti coinvolti. A questi aspetti si accompagna quello delle proposte educative
specificatamente rivolte agli studenti stranieri (corsi di lingua, sostegno allo studio, orientamento, ecc.),
che rischiano – dato il contesto di riduzione delle risorse – di diventare sempre più scarse, condizionando
sia il versante dell’offerta sia quello della domanda di istruzione.
94
RAPPORTO SECONDGEN
Riferimenti bibliografici
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che riparta dai giovani: analisi e politiche, report pubblicato su www.neodemos.it, 55-78.
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Migranti”, n. 2, 2012, pp. 123-148.
Ricucci R., Premazzi (2010), Il caso “San Salvario”. Prospetto dei protagonisti e delle iniziative,
Torino, FIERI Rapporto di ricerca
Zincone G. (a cura di), Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, Bologna, Il
Mulino
95
RAPPORTO SECONDGEN
Ricette per il futuro: gli studenti di seconda generazione negli istituti alberghieri
Enrico Allasino
L’individuazione della problematica
L’idea di studiare gli allievi stranieri1 di alcuni istituti tecnico-professionali, in particolare degli istituti
alberghieri, si basa sull’ipotesi che questi istituti, fortemente orientati al lavoro e con sbocchi occupazionali
relativamente numerosi e variegati, consentano di analizzare le difficoltà e le situazioni specifiche, rispetto ai
loro compagni italiani, che i giovani di seconda generazione possono incontrare nella formazione
professionale e nella transizione scuola-lavoro.
All’inizio della ricerca i dati (tab. 1) indicavano che gli istituti alberghieri non avevano una alta incidenza di
stranieri sugli iscritti totali, ma in numeri assoluti essi erano oltre 600, pari al 5% di tutti gli studenti stranieri
delle scuole superiori piemontesi2. Si può ipotizzare che vi siano molte somiglianze fra gli studenti di questo
indirizzo e quelli degli istituti tecnici e professionali industriali. L’orientamento vocazionale dalle medie
inferiori non dovrebbe differire di molto: gli istituti alberghieri potrebbero essere egualmente considerati
adatti per allievi ritenuti meno capaci e comunque con sbocchi occupazionali “adatti agli stranieri”. Si può
presumere che siano frequenti le possibilità di “lavoretti” durante l’anno scolastico e le vacanze, anche prima
di conseguire il diploma.
Tab. 1 Studenti stranieri nella scuola secondaria di II grado per indirizzo in Piemonte. A.S.
2008/2009(I.P.=Istituto professionale; I.T.= Istituto tecnico)
Femmine
I.P. Agricoltura e Ambiente
I.P. Industria e Artigianato
I.P. Serv. Comm. Turismo
Pubblicità
I.P. Servizi Alberghieri
I.P. Servizi Sociali
I.P. Atipico
I.P. Sanitario e Ausiliario
I.T. Agrario
I.T. Industriale
I.T. Commerciale
I.T. Per Geometri
I.T. Per il Turismo
I.T. Periti Aziendali
I.T. Attività Sociali
I.T. Aeronautico
Ex Istituto/Scuola Magistrale
Liceo Scientifico
Liceo Classico
1
Maschi
Totale
9
186
1.436
10
1.204
397
19
1.390
1.833
Incidenza
percentuale
su totale
degli
iscritti
1,1
18,0
17,5
357
290
53
104
6
447
915
140
76
342
131
5
681
800
190
270
31
37
103
13
1.595
495
519
23
82
26
12
67
492
33
627
321
90
207
19
2.042
1.410
659
99
424
157
17
748
1.292
223
6,8
12,4
7,2
18,4
0,7
8,4
10,1
7,9
9,0
11,2
13,3
6,0
5,0
3,4
1,8
Come è avvenuto in tutta la ricerca, ho intervistato anche giovani che non sono di seconda generazione in senso
proprio (cioè, nati in Italia da genitori stranieri). Mi riferirò a essi complessivamente come “seconde generazioni” o
“giovani di origine immigrata”.
2
Gli stranieri iscritti nei licei, in particolare allo scientifico, sono comunque numerosi (cfr. tab. 1): comprendendo tutti
gli indirizzi, oltre uno straniero su cinque li frequenta. Però essi sono una piccola quota percentuale degli iscritti totali.
96
RAPPORTO SECONDGEN
Liceo Linguistico
109
14
123
Istituto d'Arte
69
33
102
Liceo Artistico
90
55
145
Altri
20
13
33
Totale
6.456
5.524
11.980
Fonte: Rilevazione Scolastica della Regione Piemonte. Elaborazioni Ires
6,2
6,1
3,6
37,9
7,3
Gli istituti alberghieri consentono di studiare un segmento della frontiera tra scuola e lavoro che offre
sbocchi articolati sui servizi alberghieri e di ristorazione, ma anche sulla industria alimentare, diversi dalle
più studiate occupazioni nel metalmeccanico e nel manifatturiero. Anche il ciclo congiunturale e alcune
logiche nel reclutamento e nell’organizzazione della manodopera si dovrebbero distinguere da quelle di altri
tipi di imprese. Pochi diplomati andranno a lavorare nei ristoranti blasonati o negli hotel di lusso, ma da
tempo la ristorazione di qualità è considerata parte della cultura creativa, con la valorizzazione dell’arte di
cucinare, delle produzioni locali e tradizionali, degli stili di vita ecologici, dei prodotti biologici, del made in
Italy, ma anche delle cucine dette etniche. Gli allievi hanno occasione di fare stage o visite all’estero, anche
in paesi lontani. Questo potrebbe rendere più ricco e stimolante l’approccio alle materie pratiche e
prospettare un approccio culturalmente più ricco e stimolante al mestiere.
La letteratura e le ipotesi
Esiste una letteratura sociologica su questi lavori con studi risalenti anche a molti decenni or sono3, e non
mancano testimonianze giornalistiche o letterarie basate sull’esperienza personale, come The Woman Who
Waits di Frances Donovan (1920) e Down and Out in Paris and London di George Orwell (1933)4. Si tratta
di occupazioni diversificate, con gerarchie professionali articolate e rigide5, con un forte turn over e un
alternarsi di cicli stagionali (le “stagioni” al mare o nelle stazioni invernali) che richiedono mobilità
territoriale. Le relazioni fra clienti, camerieri, personale di cucina, cuochi esigono continue negoziazioni e vi
è una forte distinzione tra scena e retroscena. Questo potrebbe favorire l’indagine sulle reti di conoscenze,
sulle strategie individuali per orientarsi, sulle aspettative e sulle prospettive e quindi aiutare a far risaltare le
differenze fra italiani e stranieri, se ve ne sono.
La letteratura sulle professioni della ristorazione fornisce però solo uno sfondo, per quanto ricco di
suggestioni. Per analizzare la situazione di giovani ancora a scuola, o appena usciti da essa, e impegnati a
diventare professionisti (o a fallire nel tentativo) sono necessarie teorie e ipotesi più legate alla situazione
della formazione professionale, del vocational education and training. Questo però non in riferimento al
processo generale di apprendimento o all’organizzazione dei sistemi formativi nazionali, temi sui quali esiste
una vasta letteratura, ma che non sembrano pertinenti per una analisi comparativa dei percorsi di studenti di
diversa origine, che è il nostro problema. Sappiamo, ad esempio dai risultati del progetto TIES: The
Integration of the European Second Generation, che i diversi sistemi scolatici e formativi nazionali fanno sì
che i giovani di origine straniera abbiano risultati e percorsi significativamente diversi, anche se originari
dello stesso paese e nella stessa situazione socioeconomica familiare: permane comunque qualche svantaggio
rispetto agli autoctoni. Ma la ricerca Secondgen si svolge in un solo paese (e in una sola regione) e il
problema che dobbiamo affrontare non è tanto quello di documentare la diversità statistica dei risultati, ma di
capire come questa diversità fra immigrati e autoctoni si realizzi, di gettare uno sguardo sui micromeccanismi che spiegano la diversità degli esiti.
Provando ad attingere idee e ipotesi ecletticamente da varie ricerche, è parsa inizialmente promettente la
proposta teorica di Lave e Wenger (1991) basata sui concetti di legitimate peripheral participation e di
community of practice che mette in evidenza il processo di socializzazione al gruppo professionale e alle sue
procedure in luogo del semplice apprendimento di nozioni e tecniche6. Anche una vecchia ricerca sugli
studenti di medicina di Becker, Geer, Hughes e Strauss (1961), aiuta a distinguere il processo sociale per cui
3
Cfr. Fine, 1992, 1996, 2003; Liming, 2009; Ó Brien, 2010; Whyte, 1949.
Sull’utilizzo dei testi letterari per analizzare le organizzazioni cfr. Kaneklin e Olivetti Manoukian, 1990, cap. 3
“L’organizzazione nelle rappresentazioni dei letterati”.
5
Come sottolinea la nomenclatura professionale: chef, sous chef, maitre, brigata, plongeurs.
6
Suggestioni in qualche modo convergenti possono derivare anche dall’approccio basato sull’ hidden curriculum
(Kentli, 2009).
4
97
RAPPORTO SECONDGEN
si diventa buoni studenti da quello per cui si diventa, in seguito, professionisti, nonché le diverse situazioni
che portano alla scelta delle specializzazioni. A questi riferimenti si sono aggiunti alcuni studi sulle relazioni
fra docenti e studenti e sulle interazioni nella scuola.
L’indagine nelle scuole
La realizzazione di interviste mirate è avvenuta secondo la traccia di intervista basata su quella utilizzata da
tutti i ricercatori del quarto work package, ma più approfondita su alcuni temi, in particolare: il percorso
scolastico precedente (compresi gli eventuali cambiamenti di scuola), le ragioni della scelta dei corsi
professionali (orientamento scolastico, posizione dei genitori in merito, indicazioni da parte di amici e
compagni, soddisfazione per la scelta), gli eventuali lavoretti svolti, la valutazione dei tirocini collegati al
corso scolastico e le intenzioni e aspettative per il prossimo futuro. In complesso sono stati intervistati 38
studenti (singolarmente o in piccoli gruppi) e una decina di dirigenti e insegnanti di varie materie in istituti
tecnico-professionali. Inoltre ho assistito ad alcune ore di lezione in aula e in laboratorio di cucina o sala.
L'osservazione aveva come obiettivo da un lato di ottenere una visione diretta della realtà scolastica e
dall’altro di cogliere eventuali differenze di comportamento o di trattamento degli studenti di origine
straniera. Ho potuto inoltre leggere alcuni componimenti delle classi prime in cui agli alunni veniva richiesto
di spiegare la scelta dell’indirizzo alberghiero. Queste attività si sono svolte nell’anno scolastico 2011/2012.
Alcune considerazioni generali e sul metodo
Il tentativo di analizzare come, o almeno in quali fasi della formazione professionale avvengono processi di
discriminazione o di selezione che colpiscono in specifico i giovani seconda generazione ha incontrato alcuni
problemi. Un primo problema, come già accennato, è che su questi argomenti esiste una letteratura
vastissima, organizzata in prospettive teoriche diverse, che si confrontano da tempo senza trovare sintesi e
comunque segnata dalle persistenti barriere disciplinari, in particolare tra sociologia dell’educazione e
dell’immigrazione. In sintesi, da un lato abbiamo molti studi empirici che mostrano come i giovani immigrati
o di seconda generazione risultino svantaggiati all’uscita dai diversi sistemi scolatici, formativi, di ricerca
della prima occupazione, sia pure con molte differenze a seconda dei casi nazionali. In genere però queste
ricerche non analizzano i meccanismi che generano questi svantaggi o li attribuiscono alla discriminazione
diretta nei confronti della diversità etnica o culturale da parte del sistema o di alcuni attori (il che può essere
vero in molti casi, ma non basta come spiegazione). Dall’altra abbiamo una vasta letteratura sui processi di
selezione all’interno del sistema scolastico e formativo che analizza il processo di selezione soprattutto nelle
dimensioni basate sull’origine sociale degli studenti. Vi sono poi studi etnografici sulle relazioni quotidiane
tra docenti e discenti. Vi sono studi che analizzano le logiche più profonde del processo: è tutto il filone di
ricerche di Bourdieu, ma non solo. Vi è un rilevante, ma forse sempre marginale, filone critico che coinvolge
l’istituzione scolastica stessa (Illich, per citare un nome).
Mi sembra escluso che esista una spiegazione del processo di selezione/discriminazione basata su pochi
fattori ben individuati, ma piuttosto una interrelazione di molteplici fattori e meccanismi in un quadro
istituzionale complesso e sovente ambiguo. D’altra parte mi pare che il confronto tra una visione
funzionalista e una visione critica dell’educazione permanga e si riproduca. Come due facce della stessa
medaglia, c’è una visione positiva del ruolo integratore della scuola, che cerca di trasformare i giovani in
cittadini che aderiscono a determinati valori e adottano certi comportamenti, e una visione critica che
sottolinea invece la violenza simbolica e la dominazione di classe insite nel processo. Mi pare che molti studi
sulle seconde generazioni a scuola restino bloccati sul dilemma tra azioni didattiche specifiche che cercano
di favorire l’inserimento e le pari opportunità per tutti i giovani e dall’altro la coscienza di un processo di
selezione che gerarchizza e respinge inevitabilmente certe forme di diversità.
La scuola e il sistema formativo sono intrinsecamente basati su processi di selezione e di esclusione e il
compito di individuare e correggere tutti i fattori non basati sul “merito” individuale sono frustrati dal fatto
che il merito è definito socialmente nelle lotte per l’egemonia culturale ed economica. Non sostengo che dai
tempi di Lettera a una professoressa (che erano anche quelli della migrazione regionale interna) non sia
cambiato nulla: la coscienza del problema è più diffusa, ma lo stesso innalzamento del livello di
scolarizzazione è positivo e il fatto che oggi trattiamo fenomeni di discriminazione difficili da individuare
indica che molto è cambiato. Ma la logica di fondo, e il rischio del riaffiorare di logiche espulsive, non è
cambiata così in profondità.
98
RAPPORTO SECONDGEN
Alla fine resta la tensione irrisolta fra una istituzione, la scuola, che deve offrire pari opportunità a tutti,
garantire basi minime comuni e premiare il merito e le doti individuali e il fatto che questo processo deve
comunque selezionare certi valori, atteggiamenti, comportamenti che sono culturalmente e socialmente
molto marcati e parte di un sistema di potere. Ciò che si può fare, se non si vuole rovesciare il sistema o
descolarizzare la società, è rendere il più trasparenti e condivise possibile queste procedure, aumentando la
capacità di intervenire nel processo da parte dei ceti subalterni e delle minoranze dominate. E’ ovvio che
questo limitato tentativo non pretende di affrontare e chiarire questioni così complesse.
Inoltre, la scelta di studiare gli stranieri iscritti agli ultimi anni di istituti tecnico-professionali ha rivelato il
limite che la eventuale discriminazione e la selezione scolastica nei loro confronti fossero già stati attuati e
quelli relativi all’inserimento nel mercato del lavoro siano ancora all’inizio. La selezione in base alla
conoscenza della lingua, le difficoltà di orientamento scolastico, la caduta della motivazione hanno già avuto
modo di esercitare i loro effetti. Le materie pratiche possono permettere ai giovani di dimostrare le proprie
capacità al di là della lingua e della origine. E’ possibile che in queste classi gli iscritti di origine straniera
siano in una fase di minore discriminazione. Da questo punto di vista è probabilmente più interessante
studiare i mesi a cavallo tra la fine delle medie inferiori e l’inizio delle superiori perché, come gli stessi
intervistati testimoniano, è lì che avviene il grosso della selezione. Chi frequenta gli ultimi anni di scuola
secondaria superiore è già sopravvissuto alla selezione: forse è stanco e demotivato, ma ormai è stato
accettato dal ed ha accettato il sistema scolastico. E’ vero che a questo punto tutti hanno incontrato il mondo
del lavoro attraverso tirocini e lavoretti, ma è un contatto iniziale, anche se significativo e destinato a pesare
per il futuro, come noto. L’inchiesta sulla scuola dovrebbe estendersi alla situazione di lavoro, che presenta
evidenti discontinuità.
Qualche considerazione dal confronto tra generazioni di migranti interni e internazionali.
“Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse. E la scuola
perfetta non esiste.” scriveva la Scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa. Si parlava di contadini
del Mugello, a pochi chilometri da Firenze, di madrelingua toscana. Difficile immaginare qualcuno più
italiano. Eppure erano considerati di diversa cultura, come per altro avveniva anche altrove: nello stesso testo
si testimonia la discriminazione della classe operaia londinese che parlava cockney invece dell’inglese dei
ceti superiori. Ovviamente Lorenzo Milani non era un naif, né un isolato, dietro queste sintetiche
affermazioni vi era tutto il dibattito marxista e gramsciano sulle cultura subalterne in una società. Dall’altro
sappiamo dal noto filone teorico bartiano (Barth, 1969)che i confini culturali sono relativi, che definiscono
differenze e distanze, non contenuti. Il figlio del contadino del Mugello poteva allora essere discriminato
nella scuola come, se non più, del figlio del commerciante cinese di Prato oggi. Questo dovrebbe portare a
una riflessione sulla posizione delle diverse nazionalità in rapporto alla divisione del lavoro e ai rapporti di
egemonia a livello globale.
Il quadro economico e sociale in cui si sono inserite le due seconde generazioni esaminate in Secondgen è
cambiato profondamente e questo rende difficili i confronti diretti e forse anche la comprensione reciproca
tra queste generazioni. Negli anni sessanta - settanta un titolo di studio aveva ancora un forte effetto sulle
possibilità di mobilità sociale, legato all’espansione del lavoro qualificato nelle imprese e soprattutto del
terziario. D’altra parte la “scelta” di andare subito a lavorare permetteva di accedere a occupazioni che,
sebbene precarie e mal pagate, erano ritenute i primi passi per un inserimento lavorativo lungo la via
maestra7. In ogni caso il passaggio nel corso di una generazione, o nella vita di un individuo, da bracciante a
operaio a impiegato era una evidente e diffusa mobilità sociale. Ma la congiuntura economica e
occupazionale che aveva richiesto e permesso la grande migrazione interna non è durata a lungo e molti
giovani di seconda generazione meridionali entrati nelle imprese industriali negli anni settanta hanno poi
subito la crisi degli anni ottanta. In qualche modo ciò sta accadendo anche ai giovani di seconda generazione
immigrati dall’estero. Le condizioni che avevano consentito ai genitori di venire in Italia e di stabilirsi sono
in larga misura venute meno ed essi si trovano ad esplorare una situazione nuova e ignota, in cui l’esperienza
familiare pregressa può servire a poco.
Un elemento da tener presente nelle analisi, spesso confuso con la origine nazionale o culturale tout court, è
proprio l’esperienza generazionale dei diversi flussi migratori. Sappiamo che i nuclei più consistenti di arrivi
7
L’enfasi sul “lavoro a vita” del passato fordista potrebbe derivare da una eccessiva generalizzazione se non da prese
di posizione ideologiche (su opposti fronti): è stata una condizione che ha riguardato una parte, sia pure rilevante, dei
lavoratori e solo per l’arco di alcuni decenni.
99
RAPPORTO SECONDGEN
da una data area si sono in genere concentrati in pochi anni, in corrispondenza con crisi o opportunità
specifiche che hanno interessato non un’intera nazione, ma alcuni ceti o gruppi. Anche l’origine geografica è
quasi sempre molto più limitata dell’intero paese. I marocchini di Torino, per esempio, arrivarono in
maggioranza da un’area precisa negli anni in cui si verificò una particolare congiuntura economica e
approfittando di un quadro amministrativo favorevole. Poi la catena migratoria fece il seguito. L’esperienza
della prima generazione si ripercuote probabilmente anche sulla seconda e continua a condizionarla in
qualche misura, anche se in modo complesso. Si resta in qualche modo figli di una specifica esperienza
migratoria avvenuta in un tempo e in uno spazio sociale ed economico preciso.
I risultati della indagine
Quando un giovane di origine immigrata si iscrive a una scuola media superiore, per scelta o per caso,
informato o mal consigliato, che cosa significa la sua “integrazione” a scuola in questa prospettiva?
Anche negli anni delle scuole superiori le famiglie - i parenti emigrati e quelli che vivono in patria o in altri
paesi, con le loro reti di relazioni più o meno frammentate e limitate - continuano a influenzare il percorso
dei giovani. In questa fase però cresce la rilevanza delle reti che il soggetto stesso riesce a costruire: con
amici e conoscenti, compagni di scuola, colleghi di lavoro. L’influenza delle persone che compongono
queste reti si esercita su un attore sociale calato in un sistema (scolastico) in cui esso compie scelte e trova
vincoli o risorse. Il gruppo di pari che costruisce una alternativa antagonista alla scuola (Willis, 1977) o
l’insegnante che aiutano a superare le difficoltà nello studio, il parente che presenta a un potenziale datore di
lavoro, i compagni di squadra nello sport agiscono su attori sociali calati in una esperienza formativa che ha
proprie logiche, che vanno comprese.
Il processo migratorio del giovane o della sua famiglia ne condizionano in qualche misura anche il percorso
scolastico: l’integrazione fra le ricerche sulle seconde generazione di immigrati e le ricerche sulla scuola può
diventare più sistematica e proficua. La scuola non restituisce semplicemente diversità e difficoltà che si
generano e si riproducono altrove (Dubet et al., 2010), ma è parte attiva nel mantenimento della struttura di
classe e della diseguaglianza; oppure può consentire mobilità sociale e forme di promozione sociale che
vanno in direzione di una maggiore equità ed eguaglianza.
Seguendo la consolidata prospettiva di indagine sui processi formativi alla quale si è accennato, riteniamo
che apprendere non significa interiorizzare un sistema di nozioni, di informazioni o di schemi
comportamentali, ma entrare gradualmente in una relazione sociale complessa nel corso della quale avviene
una integrazione in una comunità di pratica e una costruzione dell'identità.
L'apprendista, il novizio, la matricola apprendono a muoversi in una rete di relazioni, a rispettare le gerarchie
e le prassi, a fare propria la cultura del gruppo e a riprodurla (ma introducendo variazioni di generazione in
generazione). Questo processo avviene tramite procedure interattive, negoziali, anche conflittuali fra gli
attori: nel caso della scuola insegnanti e discenti, vecchi e nuovi allievi, genitori, dirigenti, personale non
docente, compagni, professionisti esterni. Una delle dimensioni fondamentali di questo processo di
partecipazione è l'interiorizzazione dei processi di distinzione sociale e culturale (Bourdieu e Passeron,
1964). Si apprende la distinzione fra cultura alta e bassa, l'ordinamento gerarchico dei saperi e delle
competenze e la capacità di mantenere e creare distanza.
E’ probabile che le tensioni nel rapporto fra membri della comunità di pratica si accentuino quando si
presentano outsider: donne, ceti subalterni, stranieri, minoranze etniche e razziali8. La soluzione più
frequente era (ed è ancora in molti casi) che a costoro sia semplicemente negata la possibilità di diventare
legitimate peripheral participants: ad esempio le donne non sono ammesse nei seminari cattolici. Se invece
l’ammissione è formalmente possibile, questi outsider possono essere sottoposti a una serie di prove, di
procedure, di selezioni che, anche solo come effetto indiretto, ne riducono il numero o ne limitano l'accesso
alle posizioni centrali e più prestigiose. Il problema è mostrare come ciò avvenga esattamente in istituzioni la
cui ideologia ufficiale vuole che si selezioni sulla base di doti individuali e non ascritte. Ancor più
problematico considerando che le dimensioni di classe sociale e di origine nazionale risultano di fatto
strettamente intrecciate.
Occorre precisare che la comunità di pratica a cui si accede nel caso delle scuole, anche di quelle
professionali da noi studiate, non è quella delle professioni a cui lo studente dovrebbe essere formato, ma
quella della scuola stessa. Come già avevano individuato Becker, Geer, Hughes e Strauss (1961), le
8
La tensione può anche sorgere dall’esigenza di far cooperare membri di classi sociali molto diverse allo svolgimento
dicompiti tecnici complessi. Si veda a proposito degli ufficiali di marina (Elias, 2010) .
100
RAPPORTO SECONDGEN
matricole devono imparare a essere buoni studenti, non professionisti in erba. Lo studente deve apprendere le
nozioni che servono a superare gli esami, deve districarsi fra le discipline scolastiche e rispondere alle
richieste dei docenti. Essi non sono ancora in grado di conoscere la professione, ma devono accettare le
regole e le logiche dell'istituto di istruzione. Anticipare il giudizio su ciò che è utile per il lavoro è fuorviante
e può causare insuccessi scolastici. Anche quando sono previste lezioni pratiche, tirocini e, comunque, molti
studenti svolgono attività lavorative più o meno coerenti con il corso di studi, le due sfere restano
concettualmente distinte.
D’altra parte l’integrazione in una comunità di pratica non ha implicazioni solo positive perché essa può
divenire un ghetto (ma in certi casi anche una “torre d’avorio”) in cui ci si trova rinchiusi perdendo la
capacità di comprendere e avere relazioni con altre comunità, di modificare la propria identità professionale
o di trasferire competenze relazionali9.
I corsi professionali alberghieri
Raramente la scelta di un istituto professionale risponde alla precisa conoscenza e all’interesse per il mestiere
che in esso si apprende. Nel caso degli istituti alberghieri c’è l’apparente vantaggio che tutti conoscono la
preparazione domestica dei cibi e possono quindi ritenere di conoscere l’attività che impareranno. In alcuni
casi il fatto che il giovane si dedicasse alla preparazione domestica del cibo, soprattutto nel caso dei maschi,
viene indicato come la ragione per la scelta dell’alberghiero. Le matricole scoprono rapidamente che vi è una
netta differenza tra la attività domestica e quella professionale. Essi seguono il percorso già descritto da
Becker e colleghi che porta gradualmente a considerare la professione da un punto di vista interno – almeno
per quanto possibile a uno studente – abbandonando la visione esterna dei profani. Non solo apprendono a
usare un linguaggio tecnico, ma parlano poco di argomenti che interessano i dilettanti e vedono invece
aspetti positivi e negativi delle diverse attività e opportunità lavorative in termini di contenuto professionale,
di prospettive di sviluppo e di carriera, di arricchimento delle competenze. D’altra parte molti figli di
immigrati iscritti agli istituti alberghieri e da noi intervistati conoscono la cucina del paese di origine, ma la
scelta tra le diverse cucine nazionali resta sul piano tecnico, non dà luogo a particolari considerazioni
culturali o affettive nelle interviste, confermano anche in questo caso che non sembrano reggere spiegazioni
culturaliste. Queste valutazioni sono segno di integrazione nella comunità di pratica. Una prova a contrario
può essere che invece le studentesse cinesi che hanno superato una selezione per poter venire a completare
gli studi in Italia all’alberghiero di Pinerolo, si soffermano di più sulle differenze tra la cucina dei due paesi:
in qualche misura quella è la loro missione.
La scuola può essere noiosa. Ma non è facile. Bisogna districarsi fra lezioni pratiche, ove si lavora
manualmente, lezioni teoriche in cui si deve invece ascoltare e l'insegnante mantiene strettamente la
disciplina e altre ore in cui si attende il trascorrere del tempo mentre nessuno sembra prestare attenzione alla
cattedra. Questa potrebbe essere un'ulteriore difficoltà, per tutti, ma in particolare per i giovani immigrati:
imparare ad affrontare e dare senso a questo alternarsi di situazioni eterogenee e contraddittorie che pure
sono tutte parte integrante del loro essere studenti.
Ma c'è anche chi invece capisce perfettamente la situazione e riesce a utilizzare la scuola senza credere ai
suoi riti. E' il caso di Mun. Marocchino, di famiglia povera, si iscrive a un istituto alberghiero, ma dopo
pochi mesi il padre perde il lavoro e il ragazzo deve guadagnarsi da vivere. Allora abbandona gli studi e
inizia a lavorare nelle cucine di alcuni locali, grazie alla presentazione di un insegnante. Accetta orari gravosi
e appare molto determinato: riesce per anni a mantenere se stesso e a inviare denaro ai genitori rientrati in
Marocco. Frequenta alcuni corsi di formazione brevi, legati alla ristorazione: mentre per altri questi corsi
appaiono come tentativi di migliorare le scarse possibilità di impiego, nel suo caso ne rinforzano il profilo
professionale. Ora è cuoco in un ristorante e gode di buona reputazione, ma si è nuovamente iscritto al terzo
anno di un istituto alberghiero, dopo aver recuperato anni da privatista, perché vuole irrobustire il suo
curricolo “e poi per farmi più cultura, cioè ingrandirmi in questo lavoro, saperne di più.” Lavorare e
studiare è molto gravoso per lui, vorrebbe fare quarta e quinta in un anno solo, ma gli sono chiari i
meccanismi scolastici: “Ho fatto la richiesta ma penso di non farcela perché poi trovarmi a fare la maturità
9
Infatti Wenger ha in seguito accantonato il concetto di legitimate peripheral participation sviluppando una
prospettiva più centrata sulle possibilità di sviluppare in senso creativo le comunità di pratica negli ambienti di
lavoro (Wenger, 1998).
101
RAPPORTO SECONDGEN
di fronte, mi sono informato, di fronte alla commissione che guarda il tuo curriculum scolastico dice: questo
com'è che ha fatto cinque anni in due anni? Ti tartassano e magari non passi” (int. 127). In un certo senso
egli ha già superato la comunità scolastica, ne ha compreso logiche e limiti e sa utilizzarle in modo
strategico, senza farsi illusioni sulla possibilità di ignorare le regole del sistema e di far valere le proprie
competenze professionali direttamente nella sfera scolastica.
La scuola non si può quindi limitare a prendere atto del possesso di abilità e competenze acquisite sul lavoro
o con brevi corsi di formazione, ma richiede la conoscenza e l’accettazione di proprie regole e logiche. La
giustificazione ufficiale è che l’istituto alberghiero non forma dei meri esecutori, ma fornisce una formazione
professionale completa (comprendete nozioni di igiene, di diritto, di lingua straniera, ecc…) non solo per
specialisti ma per potenziali imprenditori del settore, in grado di creare e gestire autonomamente un’attività.
Questa enfasi sull’imprenditorialità è legata al tipo di professione, che offre numerose possibilità di lavoro
autonomo, ma forse anche alla rivalutazione dell’imprenditoria come possibile soluzione alla crisi (se non
c’è lavoro dovete crearvelo) e alla necessità di marcare la differenza con i corsi di formazione professionale
regionali.
Nelle ore di lezione in classe a cui abbiamo potuto assistere si notava la costanza con la quale gli studenti si
sentono valutare negativamente: il loro rendimento è scarso, il comportamento scorretto, i risultati finali
dubbi, sono necessari sempre nuovi sforzi. Non mancano riferimenti ad altre classi o istituti in cui i risultati
sono migliori e la presenza di stranieri è segnalata come una possibile fonte di problemi. E' quella chaîne du
mépris di cui parlano Dubet e Martuccelli (1996: 250). Non si tratta di accusare gli insegnanti di
insensibilità: è una questione strutturale, la scuola si propone anche negli anni terminali di istituti non
particolarmente problematici dal punto di vista della disciplina come una struttura di sorveglianza,
disciplinamento e punizione. Sarebbe necessaria una osservazione più lunga e sistematica per valutare se
questa pressione si eserciti in modi o quantità differenti sugli alunni stranieri10 ma l'effetto di un trattamento
eguale su giovani di origine immigrata che hanno già fronteggiato difficoltà di inserimento ed episodi di
discriminazione può essere comunque più negativo. Anche se gli studenti sembrano indifferenti a queste
valutazioni negative, è difficile pensare che esse abbiano il solo effetto di incitarli a comportarsi secondo le
richieste. Piuttosto possono confermare il loro scarso valore come studenti, l’inutilità della scuola e
dell’investimento in essa, l’ineluttabilità di una integrazione subalterna. Un ragazzo rumeno si è fatto fama di
ribelle scomparendo semplicemente un giorno dal liceo, mentre veniva accompagnato a un corso di italiano.
“Non avevo neanche capito cosa volessero” sostiene. Ora è iscritto all'alberghiero, all'ultimo anno. Non si
può dire un caso di dispersione scolastica o di insuccesso, ma durante le lezioni il suo sguardo è assente,
sembra considerare dall’esterno le piccole vicissitudini della classe. Pochi riescono a invertire questa logica:
come Anka (int. 118) che ha un lavoro, studia a casa e viene a scuola solo per superare le interrogazioni,
opponendo il suo ottimo profitto ai rimproveri per le numerose assenze e alla richiesta di recuperare le
lezioni perse. Come Norman (int. 123) che supera le interrogazioni e l’esame di maturità grazie alla sua
abilità dialettica pur avendo fama di alunno distratto e indisciplinato.
L'altro elemento notato nelle ore di osservazione diretta, abbondantemente descritto in letteratura (Geer,
1968), è la continua negoziazione dell'ordine in classe. Vi è una costante trattativa sui comportamenti, a
partire dalle ripetute richieste di uscire dall’aula, ai richiami agli alunni indisciplinati, ma anche un frequente
ricorso all'umorismo e alle battute11.
I figli di immigrati, ancora una volta, non si distinguono in modo evidente in questa negoziazione, o almeno
non sulla base di una breve osservazione. Alcuni sembrano perfettamente in grado di apprendere e applicare
le regole del gioco. Altri sembrano invece ai margini, taciturni e indifferenti. Andrebbe valutato quanto la
10
Ma alcune indagini empiriche recenti confermano, nei casi studiati, che questa differenza esiste, anche se può
intrecciarsi alla dimensione di classe sociale (Rapari, 2007; Delay, 2011).
11
I motti di spirito e gli scherzi verbali hanno un ruolo significativo nell'interazione fa allievi e insegnanti e
tra gli studenti. Questo comportamento può essere analizzato nei termini del joking behaviour di Radcliffe-Brown: il
joking behaviour è tipico di strutture di relazione fra persone tra le quali vi è al contempo legame e separazione. In
questi casi si può avere sia rispetto esagerato, sia burla. Sono modi alternativi di mantenere una particolare relazione
che l’antropologo britannico definisce di consociation in cui vi è una tensione non risolvibile tra le parti, che deve
essere controllata per non esplodere in conflitto (Radcliffe-Brown, 1940). E' anche una “tecnica di sopravvivenza”
degli insegnanti per controllare il conflitto, che pure adombra una potenziale aggressività (Woods, 1977).
102
RAPPORTO SECONDGEN
negoziazione e gli scherzi possano apparire loro estranei, forse pericolosi (la battuta xenofoba è sempre in
agguato), forse infantili.
Impara l'arte e mettila da parte, perché non serve?
Gli istituti da noi studiati prevedono nei loro programmi sia lezioni pratiche, sia stage presso imprese.
L'esperienza del lavoro – quello a cui dovrebbe prioritariamente destinare il corso – è quindi parte integrante
del curricolo scolastico. Qui avviene, ma non per tutti e non nello steso modo, il primo contatto con una
nuova comunità di pratiche, con i professionisti. Gli insegnanti sono reclutati sulla base di esperienze
significative di lavoro e non di rado continuano a praticare la professione. Le lezioni di cucina e sala non
sono simulazioni: già al primo anno gli alunni preparano e servono i pasti che vengo consumati nelle mense
dell'istituto. Non è sempre ovvio, per l'osservatore esterno, quali siano le dinamiche: vi sono relativamente
poche indicazioni verbali (anche perché le istruzioni – ricette, divisione dei compiti - sono fornite in una
precedente lezione in aula), lunghi minuti di apparente inattività, in cui gli studenti parlano fra loro o
osservano altri che manipolano cibi e attrezzature, si alternano a momenti di lavoro frenetico in cui ognuno
svolge un compito preciso. Si nota che alcuni studenti si muovono con maggiore abilità e precisione. Gli
insegnanti, che circolano fra i gruppi di lavoro e partecipano alla preparazione, non esercitano un controllo
visivo “panoptico” su tutto il gruppo, come nelle lezioni frontali in classe. Confermano però di saper valutare
rapidamente gli studenti. Questa valutazione – in cui contano certamente la precisione, l’attenzione, l’abilità
manuale – probabilmente utilizza anche criteri più legati alla sfera professionale: l’affidabilità, la capacità di
cooperazione, la responsabilità per il compito assegnato. Sembra avvenire una doppia selezione. Anche nelle
discipline pratiche alcuni studenti sono respinti, ma, inoltre, i docenti di materie tecniche individuano fra gli
allievi quelli che sembrano possedere competenze e interesse per diventare professionisti, e li segnalano ai
locali che offrono migliore qualità del lavoro e prospettive di carriera, giocando così un ruolo rilevante, forse
fondamentale, nell’integrazione lavorativa.
Queste lezioni sembrano molto basate su quelle competenze e capacità “artigianali” di cui parla Sennett
(2008): pare difficile che i giovani di seconda generazione siano direttamente ed evidentemente discriminati
o svantaggiati. Solo una lunga e attenta osservazione, che richiederebbe specifiche competenze tecniche,
potrebbe rilevare eventuali differenze di trattamento da parte dei docenti. E’ possibile che l’attività pratica si
presti meno a discriminazioni e valutazioni non oggettive. O meglio, la violenza simbolica (Bourdieu,
Passeron, 1970) si esercita più sulla padronanza di simboli, linguaggi, valutazioni estetiche e meno sulle
competenze e sulla padronanza di tecniche corporali. E’ possibile però che il pregiudizio si insinui in forme
sottili: l’aspetto fisico potrebbe precludere alcune posizioni lavorative o caratteristiche individuali potrebbero
essere interpretate come elementi culturali che limitano l’affidabilità e l’efficienza come lavoratore12. Una
studentessa ganese (int. 37) lamenta esasperata che il lavoro le viene rifiutato per mancanza di esperienza:
“Io quest'anno ho chiamato più di 30 alberghi per fare solo uno stage e nessuno mi prende: hai
un'esperienza? hai un'esperienza? sempre mi chiedono! Eh, ho fatto tre settimane in un albergo. No, noi
vogliamo esperienza! Ma se non mi fate iniziare voi, cioè se non imparo qualcosa praticamente o
fisicamente da voi, piano piano, l'esperienza dove la trovo? Se non volete nessuno che non ha esperienza chi
non ha esperienza non lavora? Cioè sta a casa... non lo so.” Questo circolo vizioso è certamente tipico di chi
cerca prima occupazione (Becker et al. 1961: 271), ma può nascere il sospetto che sia anche una scusa
neutrale (chiunque potrà avere esperienza in futuro) per rifiutare un candidato per ragioni razziali.
Con i tirocini in azienda gli studenti entrano formalmente in contatto con il mondo del lavoro. Nel caso degli
istituti industriali o per odontotecnici, il giudizio espresso dagli studenti è che si tratti di una esperienza poco
utile. I materiali e i macchinari sono costosi e delicati e le imprese non vogliono rischiare errori o guasti
affidandoli a giovani apprendisti. Gli stagisti lamentano di essere utilizzati per fare pulizie o per altre attività
marginali. L'eccezione in questo caso è uno studente di origine cilena che invece è riuscito a farsi presentare
12
Una ricerca sulla discriminazione nel mercato del lavoro in Italia ha in effetti evidenziato una diffusa resistenza ad
assumere camerieri marocchini, anche se qualificati. Dato che gli stranieri in queste attività sono comunque numerosi,
la resistenza potrebbe essere attribuita, in ipotesi, a una percezione pregiudiziale di inadeguatezza dei magrebini a
queste professioni a contatto con il pubblico, eventualmente attribuita ai clienti piuttosto che ai datori di lavoro. Cfr
Allasino et al, 2006.
103
RAPPORTO SECONDGEN
a un laboratorio odontotecnico e da alcuni anni fa pratica regolarmente. Egli conferma però l’idea, condivisa
dai compagni, che vi sia una distanza notevole fra le tecnologie insegnate dalla scuola, che considera limitate
e antiquate, e il ben più complesso e aggiornato lavoro richiesto nei laboratori (int. 91). L'istituto alberghiero,
a detta anche dei dirigenti, soffre meno di questo gap tecnologico. Interrogati sulle loro impressioni,
praticamente tutti gli stagisti di questi istituti dicono che la maggiore differenza sono i ritmi e i carichi di
lavoro. A scuola si ha molto tempo a disposizione per preparazioni programmate, il personale è
sovrabbondante e c'è modo di rimediare agli errori. Sul posto di lavoro si deve reggere un ritmo molto
intenso e per un lungo tempo. Ancora una volta invece i contenuti tecnici del lavoro sembrano meno
problematici: anche se lo stile di servizio o il tipo di cucina variano molto fra un hotel di lusso e una pizzeria
di quartiere, ci sia adatta rapidamente alle richieste (ma forse i meno abili non sono inviati ai locali più
esigenti). E’ più una questione di relazioni con i colleghi e i proprietari che di tecniche apprese da mettere in
pratica. I buoni rapporti dichiarati con i datori di lavoro possono, in certi casi, celare una divisione di ruoli
che non esclude tensioni e ostilità (Perrotta, 2011): il “buon padrone” è semplicemente colui che non si
comporta peggio di quanto ci si aspetti. In genere però i giovani intervistati sembrano apprezzare la
possibilità di lavorare con colleghi o con chef relativamente giovani che hanno con loro un rapporto
collaborativo, li incoraggiano e non esercitano su di loro un controllo scolastico.
Gli orari di lavoro risultano presto un punto cruciale, confermato anche dai docenti dell'istituto e dalla
letteratura sociologica sulle attività di ristorazione (White, 1949; Fine, 1996; 2003). Le ore di lavoro
contrattuali sono sovente superate – dovendo restare nel locale dopo l’uscita degli ultimi clienti, per
riordinare e pulire, anche sino a notte fonda. Il tempo di lavoro poi coincide con quello in cui normalmente si
frequentano amici e si ha una vita familiare: le ore dei pasti e le festività. Questo fa sì che i professionisti
finiscano per avere una scarsa vita di relazioni, se non con colleghi di lavoro e che il lavoro possa interferire
con la vita familiare. Alcune attività poi sono ritenute sostenibili solo dai giovani: è difficile trovare lavoro
come cameriera o reggere certi ritmi nei locali notturni dopo una certa età.
D'altra parte è necessario crearsi progressivamente una buona reputazione prima con gli insegnanti di materie
pratiche, poi con i datori di lavoro, i maître o gli chef per poter trovare nuove occupazioni (o migliorarle): i
legami, anche deboli, con amici e colleghi di lavoro possono a loro volta servire per trovare e impieghi più o
meno occasionali anche al di fuori del circuito strettamente professionale. Nella costruzione di questa rete di
relazioni possono pesare molti fattori: dalla abilità professionale alla capacità relazionale, alla disponibilità
ad accettare occasioni senza preavviso e in condizioni non ottimali, ma contano anche situazioni di fatto e
propensioni personali. Ana, (int. 115), diplomata con buoni voti all'alberghiero e con esperienza di sala e bar,
non può accettare lavori nei locali che chiudono a notte fonda perché non può usare l'auto del padre13 e non
osa rientrare a casa da sola. Questo le preclude una serie di possibili impieghi. Norman (int. 123) invece si è
diplomato in un istituto professionale per grafici, ma lavora da tempo nelle birrerie, ove è apprezzato il fatto
che è di madre lingua inglese: il lavoro di notte in questi locali affollati si concilia con le sue reti di amicizie
personali e con il desiderio di fare nuove conoscenze, ed è uno stile di vita che gli è congeniale, anche se non
esente da rischi.
Molti studenti hanno esperienze di lavoro anche al di fuori degli stage. Alcuni sono figli di ristoratori. Fra gli
immigrati sono pochi e la scelta è meno ovvia del previsto. Manuele è figlio del gestore di un ristorante
cinese, ma quando gli chiedo se pensa di continuare l'attività di famiglia, dice che hanno ceduto il ristorante
da qualche anno e ora gestiscono un negozio di abbigliamento. Anche il fratello, studente universitario,
lavora in un negozio (int. 15). Quello che conta è la redditività, non una inesistente tradizione familiare. Altri
svolgono attività occasionali. In alcuni casi esse hanno poco o nulla a che fare con il corso di studi (assistente
domiciliare, pulizie domestiche, baby sitter; all'istituto industriale alcuni hanno lavorato in fabbrica, ma con
mansioni non attinenti al corso di studi). Molti lavorano come camerieri o aiuto cuoco. In questo caso il
problema per gli studenti degli istituti alberghieri può derivare dal trovarsi a lavorare con altre persone che
non hanno alcuna formazione o hanno seguito solo brevi corsi. Gli studenti intervistati da un lato accolgono
la visione ufficiale della scuola: che essi acquisiscono competenze li preparano ad assumere maggiori
responsabilità in futuro. Dall'altro essi non polemizzano con i colleghi non professionisti. L'atteggiamento
verso il lavoro occasionale sembra molto pragmatico: serve a guadagnare, può servire a conoscere e farsi
conoscere, ma non è il luogo per rivendicare maggior prestigio rispetto ai colleghi non qualificati. Quando si
entra invece in una comunità di lavoro professionale, la relazione fra compenso, compiti e posizione nella
13
La vecchia automobile del padre ha una cilindrata superiore a quella che la giovane neopatentata può guidare: una
norma pensata per impedire l’utilizzo di potenti automobili da parte di giovani benestanti ha l’effetto di limitare le
possibilità di occupazione per altri giovani con redditi familiari modesti.
104
RAPPORTO SECONDGEN
gerarchia interna contano molto e riaffiora il tema della competenza. Gabriel, studente rumeno, lavora da
tempo nelle discoteche, dopo aver fatto un breve corso di formazione professionale come American
Bartender. E’ un ambiente difficile e faticoso in cui però sembra trovarsi a suo agio o, almeno, in cui accetta
la sfida di relazioni talora tese e potenzialmente conflittuali con gli avventori. “All’* ho lavorato in nero.
All’** sono andato tre volte e poi mi hanno fatto il contratto. Perché mi vedevano: ero da solo al bar, avevo
mille persone, e riuscivo in due ore a fare tutto! E poi tutti i miei compagni di lavoro lavorano senza corsi,
senza niente; solo io faccio come si deve, loro fanno a occhio, come gli pare... come hanno imparato a
casa...! [ride] [Quindi serve a fare il corso?] Eh già! Vieni in discoteca. Ti faccio io un cocktail, ti fa un mio
amico un cocktail e poi vediamo! [E come mai quelli dell'** allora hanno preso tutti gli altri senza il corso?]
Perché li pagano di meno![Quindi è strano che abbiano preso te! Ti dovevano pagare di più...] Ma loro non
sapevano che io avevo il corso. […] Non gliel'ho detto io! [apposta] Così...! Volevo che mi vedessero come
lavoravo. Se tu vai lì e non sai fare, a cosa ti serve il corso?! [a niente] Gli altri lavorano senza diploma.
No, non c'entra niente! Ti devono vedere che sei bravo e riesci a sparigliare la clientela.” (Int. 167)
L’apparente contraddizione tra l’aver seguito un corso scolastico pluriennale per poi trovarsi in diretta
concorrenza con altri giovani senza alcuna preparazione specifica potrebbe essere dovuta alla numerosità e
varietà di lavori disponibili. E’ relativamente facile trovare un’occupazione adatta anche per i più inesperti,
ma poi la precarietà delle situazioni, il rapido turn over, le difficoltà di orario, nelle relazioni personali, le
fatica fisica o semplicemente la visione di questo come un lavoro puramente occasionale si occupano di
selezionare rapidamente chi è in grado e interessato a tentare un’attività professionale o a mettersi in proprio.
Non necessariamente riuscendoci.
L’approssimarsi dell’esame di maturità ripropone il problema della scelta. Molti escludono di proseguire
all'università. Una delle ragioni più spesso addotte è l'età. Dopo anni persi per bocciature o inserimenti in
classi di età inferiori, a oltre venti anni si desidera uscire da un ormai lungo percorso scolastico. Molti
intervistati parlano dell’università come prosecuzione del precedente percorso scolastico, con i suoi limiti e
le sue incertezze, più che come accesso a una formazione superiore e a un futuro lavorativo migliore. Anche
la presenza di corsi universitari a numero chiuso scoraggia. In molte interviste raccolte nel progetto emerge
l’impressione che i test di accesso alle facoltà a numero chiuso siano un ostacolo particolarmente arduo per
giovani di famiglie con mezzi modesti e senza solide relazioni. La preparazione al test sembra un
investimento di tempo e di energie emotive notevole, a fronte di esiti che sospettano viziati da favoritismi e
comunque notevolmente aleatori: dipende dalle sedi e dai corsi scelti, dall’anno, dalle domande.
Qualche studente dell’alberghiero pensa comunque di iscriversi a scienze dell'alimentazione o a economia.
La presenza di sbarramenti iniziali ai corsi universitari a numero chiuso sembra avere l'effetto (si spera non
voluto) di scoraggiare in partenza questi studenti, non meno preparati dei loro compagni italiani, ma su cui
hanno già gravato difficoltà varie – ritardi, ostilità, famiglie con redditi bassi – facendo loro rinunciare a
tentare. Con un sistema più aperto forse alcuni avrebbero comunque abbandonato nei primi anni, ma
avrebbero avuto almeno la possibilità di mettersi alla prova. Becker e colleghi (1961: 416-417) mettono in
luce un altro meccanismo che diversifica la scelta (della specializzazione medica, nel loro caso): le scelte
precoci possono essere fatte solo per specializzazioni più note ai profani e in genere gli studenti di ceto
medio inferiore si orientano verso la professione di medico di famiglia, che conoscono e che gode di
prestigio nelle piccole comunità. Gli studenti di ceto medio superiore non vogliono fare i medici generici e
possono permettersi di cercare con calma ciò che li interessa ed esplorare più corsi. Dimostrando interesse
per specialità meno note innescano un circolo virtuoso con i docenti, che li coinvolgono e forniscono più
informazioni sulle opportunità. Questi meccanismi potrebbero operare anche nei contesti qui esaminati.
Per quasi tutti comunque la fine della scuola non è attesa come il passaggio netto al lavoro, ma in qualche
modo come la continuazione di attività incerte, precarie e frammentate che si erano già sperimentate negli
anni precedenti. Lo status giuridico non sembra la prima preoccupazione dei giovani di origine straniera,
come si poteva immaginare: molti hanno la carta di soggiorno, se non la cittadinanza italiana, e gli altri
ritengono comunque di poter far fronte al rischio del rinnovo del permesso di soggiorno, se troveranno una
qualunque occupazione.
Più preoccupante sembra il fatto che la aspirazione a lavori “non da immigrato”, alla mobilità sociale
ascendente rispetto ai genitori, sovente indicata come una caratteristica di questi giovani, si scontri con un
mercato del lavoro che continua a offrire occupazioni poco qualificate e precarie per tutti e costringe,
realisticamente, ad accettare queste opportunità. Se per i figli degli immigrati meridionali a Torino negli anni
sessanta e settanta ottenere un diploma significava quasi sempre poter abbandonare il lavoro manuale
(sovente per le donne come casalinga) dei genitori, per questi giovani immigrati la situazione è più
105
RAPPORTO SECONDGEN
complessa: i cattivi lavori, il precariato, le attività senza prospettive di sviluppo si possono annidare
ovunque. Non è possibile per essi tracciare un solco netto con l’esperienza dei genitori.
Vi sono possibili e significative eccezioni: in particolare alcuni hanno parenti nei paesi di origine o in altri
paesi di emigrazione che si sono offerti di aiutarli a trovare lavoro o almeno di assisterli in una nuova
migrazione. Emergono nuove destinazioni, come Dubai, o percorsi di possibile emigrazione che prescindono
dalle origini nazionali. E' difficile dire se queste reti transnazionali siano davvero in grado di offrire
alternative o se restino una speranza, un sogno nel cassetto: nella crisi attuale questa potrebbe già essere per
essi una risorsa. Diventerebbero invece un problema, almeno per l’Italia, se alimentassero l’idea che
conviene scommettere solo su un altrove, che qui non c’è futuro.
106
RAPPORTO SECONDGEN
Riferimenti bibliografici
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107
RAPPORTO SECONDGEN
Effetti d’origine nel sistema di istruzione piemontese
Luisa Donato
In Piemonte, lungo il percorso del sistema d’istruzione, come si associano l’origine degli studenti e i risultati
ai test di valutazione degli apprendimenti del servizio nazionale di valutazione (INVALSI)? Per trovare
risposta a quest’interrogativo abbiamo analizzato i risultati del ciclo d’indagine SNV 2011-2012, il primo in
cui i risultati delle prove sono riportati su una scala di punteggio analoga a quella utilizzata nelle ricerche
internazionali (OCSE-PISA, IEA-TIMSS, IEA-PIRLS) e non più in termini di percentuali di risposte
corrette, come nei cicli precedenti. I livelli interessati sono la V primaria del primo ciclo, la I secondaria di
primo ciclo e la II secondaria di secondo ciclo, nel suo complesso e per indirizzi di studio (Licei, Istituti
Tecnici e Istituti Professionali). Grazie alla struttura gerarchica dei dati è stato possibile lavorare con modelli
di analisi multilivello che permettono di assegnare la variabilità dei risultati alle differenze tra gli individui o
tra le classi che essi frequentano e che permettono di associare le variabili ai differenti livelli con i risultati ai
test1, mostrando, al netto dei fattori considerati nelle analisi, le associazioni tra variabili e risultati.
Le variabili prese in considerazione nelle analisi sono:
•
A livello individuale: il genere, l’origine dello studente, lo status socioeconomico della famiglia
d’origine, le risorse materiali, educative e culturali2 a disposizione dello studente in famiglia, l’aver
frequentato l’asilo nido e la scuola dell’infanzia, essere in ritardo nel percorso di studi, vivere con entrambi i
genitori, il numero di fratelli e sorelle, la lingua parla in casa differente dall’italiano e, solo per la classe II
secondaria di secondo grado, l’aspettativa di titolo di studio.
•
A livello classe: lo status socioeconomico medio e la percentuale di studenti stranieri (di prima e
seconda generazione) per classe. Per il secondo ciclo è stato inoltre inserito l’indirizzo di studio.
V primaria
La prima informazione che emerge dai nostri modelli di analisi è la distribuzione della variabilità dei
risultati. In V primaria il 92% delle differenze nei risultati di italiano dipendono dalle differenze tra individui
mentre l’8% dipende dalla differenze tra classi. Ciò significa che nella V primaria del primo ciclo il sistema
d’istruzione non appare un fattore differenziale per quel che riguarda la variabilità dei risultati.
L’intercetta dei modelli si riferisce ad uno studente maschio di origine italiana. Osservando l’associazione tra
le variabili e i risultati emerge che, al netto di tutti fattori inseriti nei modelli, le variabili a livello classe,
ossia lo status socioeconomico medio e la percentuale di studenti stranieri per classe, non mostrano
coefficienti significativi. Al livello individuale appaiono significativi e con segno positivo: il genere (essere
una studentessa mostra un coefficiente di +7 punti), lo status della famiglia d’origine (all’aumentare di una
unità dell’indice ESCS si osserva un coefficiente di +8 punti), le risorse culturali (all’aumentare del numero
di libri in casa, inteso come numerosità di scaffali occupati da libri, si osserva un coefficiente di +6 punti),
aver frequentato la scuola dell’infanzia (essere andati alla scuola materna mostra un coefficiente di +5 punti)
e vivere con entrambi i genitori (con un coefficiente di +8 punti). Risultano significativi e di segno negativo:
il numero di fratelli e sorelle (all’aumentare si osserva un coefficiente di -4 punti) e parlare un’altra lingua in
casa (con un coefficiente di -8 punti). Non risultano significative le associazioni tra risultati e origine
straniera dello studente, risorse materiali, risorse educative e l’essere in ritardo con il percorso scolastico. Il
modello completo, in cui sono prese in considerazione tutte le variabili, spiega un 16% della variabilità dei
risultati dovuta alle differenze tra gli studenti e un 45% di quella attribuita alle differenze tra le classi.
1
Le analisi sono state svolte sul campione completo e pesato della regione Piemonte. I valori mancanti sono stati
imputati tramite sintassi di preparazione per l’elaborazione dei modelli multilivello. La variabile dipendente sono i
risultati in italiano al test SNV 2011-2012. La scelta dell’italiano, come ambito su cui osservare le associazioni tra
origine e risultati, è dovuto al fatto che la comprensione dell’italiano si ritiene alla base anche della capacità di
affrontare in maniera consapevole i problemi matematici.
2
Le risorse materiali sono calcolate a partire dalla disponibilità in casa di un collegamento ad internet e una camera
tutta per lo studente; le risorse educative sintetizzano informazioni sulla disponibilità di un posto tranquillo in cui
studiare, di un computer, di una scrivania per fare i compiti e di una enciclopedia; per risorse culturali s’intende la
numerosità di libri presenti nella casa dello studente.
108
RAPPORTO SECONDGEN
Fig. 1 MODELLI MULTILEVEL V PRIMARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo
V primaria 2011-2012 Piemonte
parla in casa un’altra lingua
numero di fratelli
vive con i genitori
posticipatario
materna
nido
risorse culturali
risorse educative
risorse materiali
status socioeconomico della famiglia di origine
Prima generazione
Seconda generazione
genere femminile
Percentuale di studenti stranieri per classe
status socioeconomico medio
-10 -8
-6
-4
-2
0
2
4
6
Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative.
8
10
I secondaria
A conferma della prima informazione emersa dai risultati dei modelli sulla V primaria, anche nella I
secondaria di primo grado la variabilità dei risultati è per il 92% dovuta alle differenze tra studenti e per l’8%
alle differenze tra classi. Lo studente di riferimento è un maschio di origini italiane. A livello classe se lo
status socioeconomico medio non mostra un’associazione con i risultati, come in V primaria, un aumento
percentuale della numerosità di studenti stranieri in classe risultata associata in maniera significativa e
negativa con i risultati ma con un coefficiente molto basso (-0,2 punti). A livello individuale si conferma
l’associazione positiva tra il genere femminile e risultati in italiano (+5 punti) così come quella con lo status
socioeconomico della famiglia di origine (+7 punti), quello con la maggior disponibilità di risorse culturali in
casa (+6 punti) e del vivere con entrambi i genitori (+4 punti). Risultano significative e di segno negativo le
associazioni tra i risultati e essere di prima generazione (-14 punti), di seconda generazione (-10 punti), aver
un ritardo scolastico (-22 punti) e il numero di fratelli (-4 punti). Non mostrano associazioni significative con
gli studenti l’aver frequentato il nido e la materna, le risorse materiali e educative e una lingua parlata in casa
differente dall’italiano. Dalle nostre elaborazioni abbiamo osservato che se il ritardo scolastico non viene
inserito nei modelli aumentano gli effetti negativi dovuti all’origine straniera dello studente, mentre
assumono valori significativi e positivi l’aver frequentato la scuola materna e la disponibilità di risorse
materiali in casa. Il modello completo arriva a spiegare un 21% delle differenze di risultato tra gli studenti e
un 65% delle differenze di risultato dovute alla differenze tra classi.
109
RAPPORTO SECONDGEN
Fig. 2 MODELLI MULTILEVEL I SECONDARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo
I secondaria 2011-2012 Piemonte
parla in casa un’altra lingua
numero di fratelli
vive con i genitori
posticipatario
materna
nido
risorse culturali
risorse educative
risorse materiali
status socioeconomico della famiglia di origine
Prima generazione
Seconda generazione
genere femminile
Percentuale di studenti stranieri per classe
status socioeconomico medio
-25
-20
-15
-10
-5
0
5
Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative.
10
II secondaria
Nel secondo ciclo d’istruzione, e precisamente per gli studenti della II secondaria di secondo grado, la
variabilità dei risultati risulta per un 55% dovuta alle differenze tra gli studenti e per un 45% alle differenze
tra le classi. Quindi, rispetto al primo ciclo del sistema d’istruzione, il secondo, suddiviso in tre indirizzi di
studio, mostra un effetto differenziale per quasi la metà della variabilità dei risultati.
L’intercetta dei modelli si riferisce ad uno studente maschio, di origine italiana che frequenta un Istituto
Tecnico. A livello classe lo status socioeconomico medio mostra un coefficiente positivo e significativo (+14
punti) così come frequentare un Liceo (+6 punti) piuttosto che un Tecnico. Se si frequenta un Istituto
professionale il coefficiente diventa significativo e negativo (-16 punti). Non appare significativa, invece,
l’associazione tra un aumento percentuale di studenti con origine straniera nella classe e i risultati in italiano.
A livello individuale mostrano associazioni positive e significative con i risultati ai test le risorse educative e
culturali delle famiglie, l’aver frequentato la scuola dell’infanzia e l’aspettativa di titolo di studio. Di segno
negativo e significativo risultano le associazioni tra risultati e origine straniera dello studente (-14 punti per
la prima generazione e -15 per la seconda), l’aver frequentato il nido (-4 punti, anche se tale associazione
può essere fuorviante perché tra gli studenti che ora frequentano la secondaria di II grado l’effetto è
significativo solo per gli studenti dei professionali e dei tecnici, mostrando quindi più un effetto
socioeconomico che uno legato alla partecipazione al sistema pre-scolastico), essere posticipatari (-6 punti) e
il numero di fratelli (-1 punti). Il modello completo spiega un 10% delle differenze di risultato dovute alle
differenze tra gli studenti e un 77% delle differenze dovute alle differenze tra classi.
110
RAPPORTO SECONDGEN
Fig. 3 MODELLI MULTILEVEL II SECONDARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo al tecnico
II secondaria 2011-2012 Piemonte
aspettativa titolo di studio
parla in casa un’altra lingua
numero di fratelli
vive con i genitori
posticipatario
materna
nido
risorse culturali
risorse educative
risorse materiali
status socioeconomico della famiglia di origine
Prima generazione
Seconda generazione
genere femminile
Percentuale di studenti stranieri per classe
professionale
liceo
status socioeconomico medio
-20
-15
-10
-5
0
5
10
15
20
Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative.
II secondaria per indirizzo di studi
Le analisi per gli studenti della II secondaria di II grado sono state effettuate anche per specifico indirizzo di
studi che, nella base dati SNV, coincidono con le generiche etichette di Liceo, Istituto Tecnico e Istituto
Professionale.
Prendendo in considerazione lo specifico indirizzo si osserva come la variabilità dei risultati tra Licei, Istituti
Tecnici e Professionali sia in buona parte dovuta alle differenze tra gli studenti (nei Licei il 76%, negli
Istituti Tecnici e Professionali l’80%). Quindi fa più differenza quale Liceo si frequenta rispetto a quale
Istituto Tecnico o Professionale.
111
RAPPORTO SECONDGEN
Fig. 4 MODELLI MULTILEVEL II SECONDARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo per
indirizzo di studi.
Liceo, Istuto Tecnico e Istituto Professionale 2011-2012 Piemonte
aspettativa titolo di studio
parla in casa un’altra lingua
numero di fratelli
vive con i genitori
posticipatario
materna
nido
risorse culturali
risorse educative
risorse materiali
status della famiglia di origine
Prima generazione
Seconda generazione
genere femminile
percentuale di studenti stranieri per classe
status socioeconomico medio
-25
-20
-15
Liceo
-10
-5
Tecnico
0
5
10
15
20
Professionale
Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative.
Per ogni indirizzo l’intercetta dei modelli si riferisce ad uno studente maschio di origine italiana. A livello
classe si osserva un coefficiente positivo e significativo solo per lo status socioeconomico medio nei Licei
(motivo per cui osserviamo una differenza nello studiare in un Liceo piuttosto che in un altro), mentre la
percentuale di studenti con origine straniera non mostra associazioni significative in nessuno degli indirizzi.
A livello individuale la variabili che mostrano un’associazione positiva e significativa con i risultati ai test di
italiano sono: il genere femminile negli Istituti Professionali (+4 punti), la disponibilità di risorse educative
in famiglia sempre per gli studenti dei professionali (+7 punti), la disponibilità di risorse culturali in famiglia
per gli studenti dei Licei e degli istituti Tecnici (rispettivamente +2 punti e più +4 punti) e le aspettative d
titolo di studio in tutti e tre gli indirizzi (+4 punti nei Licei, +3 punti negli Istituti Tecnici e +4 punti negli
Istituti professionali). Mostra, invece, un’associazione negativa e significativa con i risultati l’origine degli
studenti in tutti gli indirizzi di studio. La differenza è minore nei Licei in cui il coefficiente per la prima
generazione è -8 punti e per la seconda -11 punti, che negli Istituto Tecnici, in cui è -16 punti per la prima
generazione e -19 per la seconda, e negli Istituti Professionali in cui è -23 per la prima generazione e -15 per
la seconda. Una prima considerazione necessaria è che nel secondo ciclo si osserva un effetto selezione (sia
112
RAPPORTO SECONDGEN
cognitiva che socioeconomica) per cui la quota di studenti con origini straniere è maggiore negli indirizzi
tecnici e professionali rispetto ai licei3, da questo consegue la minor associazione negativa con i risultati nei
Licei. Una seconda riflessione è che nella II secondaria di secondo grado la quota di studenti di seconda
generazione è ancora molto bassa (rispetto alla presenza nel primo ciclo) e per questo nei Licei e negli istituti
Tecnici l’associazione negativa con i risultati è maggiore per questi studenti rispetto a quelli di prima
generazione. Solo nell’indirizzo professionale, in cui gli studenti con origine straniera di prima generazione
sono il 16%, rispetto ad un 5% di quelli di seconda, si osserva uno svantaggio maggiore per gli studenti di
prima generazione. A mostrare un’associazione negativa con i risultati sono anche la frequenza del nido per
studenti di tecnici e professionali (rispettivamente -4 e -10 punti) che, come commentato in precedenza,
rappresenta più un effetto di selezione socioeconomica, l’aver accumulato un ritardo nel percorso di studi al
Liceo o nel Tecnico (-8 punti e -7 punti) e il numero di fratelli ma solo se si frequenta un Liceo (-2 punti). Le
variabili che non mostrano associazioni significative con i risultati in nessuno degli indirizzi sono lo status
della famiglia di origine, le risorse materiali, aver frequentato la scuola dell’infanzia, vivere con entrambi i
genitori e parlare in casa una lingua differente dall’italiano.
I modelli completi arrivano a spiegare nei Licei il 7% della variabilità dei risultati dovuta alle differenza tra
individui e il 46% della variabilità dovuta alla differenza tra classi mentre negli Istituti Tecnici il 9% della
variabilità dei risultati dovuta alle differenza tra individui e l’8% della variabilità dovuta alla differenza tra
classi. Infine, negli Istituti Professionali il 17% della variabilità dei risultati dovuta alle differenza tra
individui e il 41% della variabilità dovuta alla differenza tra classi.
L’origine nel percorso del sistema d’istruzione in Piemonte
Le nostra analisi ci hanno quindi permesso di metter in evidenza come in Piemonte, lungo il percorso del
sistema d’istruzione, l’origine si associ in maniera differente con i risultati ai test di valutazione
dell’apprendimento dell’INVALSI nel ciclo 2011-2012. Se nella V primaria sia la numerosità degli studenti
con origine straniera nella classe che lo status di studente di prima e di seconda generazione non mostrano
associazioni significative con i risultati ai test, nella classe I secondaria di primo grado si iniziano ad
osservare le prime differenze. Infatti, un aumento di studenti con origine straniera mostra un’associazione
significativa e negativa, seppur di valore molto modesto. Ciò che cambia è l’associazione tra lo status di
origine dello studente e i risultati ai test. In I secondaria di primo grado essere di prima e seconda
generazione comporta uno svantaggio per lo studente, al netto di tutti i fattori di controllo presi in
considerazione nelle analisi (-14 punti per la prima e -10 per la seconda). Da un lato stupisce che ad un solo
anno di distanza (tra V primaria e I secondaria di primo grado) si osservino delle differenze così evidenti,
dall’altro il fatto di essere al termine di un ciclo nel caso della V primaria e di essere, invece, all’inizio del
successivo nella I secondaria di primo grado può in parte essere una possibile spiegazione della differente
associazione osservata. Nella classe II secondaria di secondo grado, sia che siano osservati gli studenti nel
complesso che per specifico indirizzo di studio, la numerosità degli studenti di origine straniera in classe non
risulta associata significativamente con i risultati ai test INVALSI. Tuttavia, lo status di studente straniero
(sia di prima che di seconda generazione) mostra una relazione negativa e significativa con i risultati. Come
detto, ciò è il risultato sia di un effetto di selezione che della conseguente differente distribuzione degli
studenti di origine straniera tra gli indirizzi. Infatti, nella classe II secondaria di secondo grado degli Istituti
Professionali, in cui gli studenti di prima generazione arrivano al 16% del totale degli studenti (generazione
per ora più presente nel secondo ciclo), si osserva un’associazione con i risultati in italiano, al netto di tutti i
fattori di controllo, particolarmente negativa (-23 punti).
3
Nei modelli relativi al Piemonte SNV 2011-2012 nei Licei risultano un 6% di studenti prima generazione e un 2%
della seconda, negli Istituti Tecnici un 9% di prima e un 2% di seconda e nei Professionali un 16% di prima generazione
e un 5% di seconda.
113
RAPPORTO SECONDGEN
I consigli orientativi agli studenti di origine straniera. Un caso a parte?
Marco Romito
Nella scuola secondaria di primo grado, solitamente nei giorni che precedono le vacanze natalizie, tutti gli
alunni che si apprestano a transitare verso la scuola superiore, ricevono un consiglio di orientamento. Si
tratta di una decisione formale del corpo docente che, riunito in un consiglio di classe, esprime il suo parere
circa il tipo di scuola superiore maggiormente appropriato a ciascuno dei loro studenti. Questa decisione
viene comunicata successivamente alle famiglie e ha una finalità di supporto e accompagnamento al difficile
compito di scegliere tra le diverse filiere formative che caratterizzano il secondo ciclo della scuola
secondaria italiana. Il consiglio di orientamento, istituito da una delle norme che hanno accompagnato la
Riforma della scuola media unica del 1962, è «un parere non vincolante»1. Alle famiglie e agli studenti,
l’ordinamento garantisce infatti la libertà di scegliere verso quale scuola superiore indirizzarsi anche in
contrasto con il parere ricevuto dagli insegnanti. Tuttavia, questo atto amministrativo rappresenta un tassello
centrale del processo attraverso cui gli studenti si orientano nell’offerta della scuola superiore. Si tratta infatti
di un momento in cui l’azione orientativa degli insegnanti si cristallizza e si formalizza in un documento
ufficiale2 e può essere visto come il punto di arrivo di un percorso di accompagnamento alla scelta della
scuola superiore che si realizza perlopiù nella quotidiana attività scolastica attraverso discussioni e
interazioni informali tra studenti e insegnanti. Il consiglio di orientamento ha un ruolo importante soprattutto
per quegli studenti e per quelle famiglie che si muovono con più difficoltà nel sistema di istruzione italiano,
per coloro che dispongono di scarse informazioni sulle diverse scuole e filiere formative del secondo ciclo
della scuola secondaria e dunque, si può ipotizzare, per le famiglie immigrate (Conte 2012; cfr. Allasino and
Perino 2012)
Come è noto, il passaggio dal primo al secondo ciclo della scuola secondaria ha ricadute importanti sulle
probabilità di abbandono scolastico, su quelle di accedere e su quelle di completare l’istruzione universitaria
(Cavalli e Facchini 2001; Ballarino e Checchi 2006 Cavalli e Argentin 2007; Montanaro, Mariani, e
Paccagnella 2013)3. L’assetto stratificato della scuola secondaria superiore italiana fa sì che gli studenti
potranno accedere ad ambienti molto differenti a seconda del tipo di filiera verso cui si indirizzano offrendo
loro opportunità relazionali, orizzonti culturali e sociali fortemente differenziati (Checchi 2010). Se i liceali
hanno probabilità superiori dei diplomati negli istituti professionali di conseguire una laurea, ciò non avviene
infatti solo in ragione del tipo di preparazione cui hanno avuto accesso, ma anche in virtù del fatto che questi
due gruppi di studenti hanno passato cinque anni della loro vita scolastica all’interno di contesti sociali
dominati da orizzonti di azione e pensiero talvolta radicalmente differenti4.
1
L’unico riferimento normativo al consiglio di orientamento lo si trova nell'ambito delle norme che hanno
accompagnato il processo di unificazione della scuola media del 1962 e la disciplina che regola il passaggio alla scuola
media superiore attraverso il possesso della licenza media: «il consiglio di classe […] esprime, per gli ammessi
all'esame, un consiglio di orientamento sulle scelte successive dei singoli candidati, motivandolo con un parere non
vincolante» (art. 2 comma 2, D. P. R. 14 maggio 1966, n 362: norme di esecuzione della Legge n. 1859/1962,
concernenti l'esame di Stato della licenza di scuola media).
2
Cosa sia scritto concretamente nei consigli orientativi è soggetto ad un’estrema variabilità tra le scuole. Generalmente
tuttavia i docenti si limitano a indicare (talvolta aggiungendovi un breve commento) la filiera formativa ritenuta più
adeguata (liceo; tecnico; istruzione professionale; formazione professionale) ma hanno anche facoltà di esprimere
indicazioni più specifiche ad esempio sottolineare il tipo di liceo, il tipo di istruzione tecnica o professionale.
3
Nell’Indagine sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati dell’Istat pubblicata più di recente (2010), e relativa ai
dati del 2007, si mostra che la quasi totalità degli studenti liceali (il 95%) si è iscritta ad un percorso di studio
universitario. Per contro, il 75 % dei diplomati in un istituto professionale e circa uno studente su due dei diplomati
presso gli istituti tecnici hanno abbandonato gli studi dopo il diploma.
4
Occorrerebbe sottolineare che la distinzione tra filiere formative (liceale, tecnica, istruzione professionale, e
formazione professionale) non esaurisce in alcun modo tutte le differenze che attraversano il mondo delle scuole
superiori italiano. Non solo all’interno di ciascuna filiera formativa ci sono indirizzi diversi, ma ciascuna scuola, per la
propria storia e per la sua collocazione geografica, si interfaccia con utenze specifiche. Manca in Italia una letteratura
che consenta uno sguardo più ravvicinato e sottile sui numerosi processi di distinzione e differenziazione che
attraversano il sistema scolastico (ma si veda Pitzalis, 2012). Le principali ricerche di taglio quantitativo si fermano
generalmente a un livello di aggregazione dei dati che non consentono osservazioni più dettagliate di quelle consentite
dalla distinzione tra filiere. La ricerca qualitativa, potenzialmente in grado di raccontare gli universi simbolici e sociali
che permeano contesti di apprendimento specifici è poco presente nelle scuole. Tuttavia, i dati quantitativi segnalano la
114
RAPPORTO SECONDGEN
In questo quadro, può essere importante interrogarsi sugli orientamenti ricevuti dagli studenti immigrati da
parte dei loro insegnanti al termine della scuola media. Se questi studenti accedono con maggiore difficoltà a
informazioni pertinenti e accurate sul mondo della scuola superiore, se con più fatica possono comprendere
le poste in gioco in qualche modo implicate in questa transizione scolastica, occorre chiedersi se
l’orientamento scolastico imprima alle loro carriere educative una direzione particolare e quale essa sia.
Le seconde generazioni di fronte ai consigli orientativi.
Le ricerche che si sono occupate della transizione alla scuola superiore degli studenti di origine straniera
hanno mostrato come questi ultimi – sia che si tratti di seconde generazioni in senso stretto che di minori
ricongiunti – hanno maggiori probabilità dei colleghi italiani, di scegliere un percorso professionale, anche a
parità di istruzione dei genitori, classe sociale e risultati scolastici (Canino 2010; Barban e White 2011;
Azzolini 2011; Azzolini e Barone 2012). A differenza di quanto è accaduto in altri paesi dove fin dagli anni
’60 la letteratura sociologica ha indagato le ripercussioni delle pratiche degli insegnanti in termini di
disuguaglianza sociale e di discriminazione etnico- razziale (Becker 1952; Rist 1970; Rist 1977; Ball 1981;
Mac an Ghaill 1988; Alexander, Entwisle, e Thompson 1987; Dunne e Gazeley 2008; Devine 2005), in
Italia, la ricerca empirica non ha sinora indagato nel dettaglio se, e in che modo, gli orientamenti che gli
studenti ricevono dalla scuola media contribuiscono ai processi di riproduzione delle disuguaglianze sociali5.
Si tratta di una carenza rilevante, dal momento che è ormai lampante che ci si sta muovendo nella direzione
di una sempre maggiore concentrazione dei figli dell’immigrazione lungo canali formativi spesso di bassa
qualità e spesso orientati a settori del mercato del lavoro poco qualificati. Chiedersi se, e in che modo,
l’istituzione scolastica contribuisca a questo processo è di fondamentale importanza non solo da un punto di
vista analitico ma, soprattutto, per ripensare alcuni aspetti delle pratiche orientative più comuni.
A questo proposito, alcune ricerche recenti condotte in Lombardia hanno messo in luce che i consigli
orientativi formulati dagli insegnanti possono essere condizionati da fattori in qualche modo legati alle
provenienze sociali e geografiche degli studenti. Checchi (2010b) ha analizzato la differenziazione delle
carriere formative degli alunni in uscita dalle scuole medie, considerando per la prima volta anche la
variabile relativa al consiglio orientativo fornito dagli insegnanti. I risultati della sua ricerca mostrano come
il consiglio orientativo risenta sia dei
risultati scolastici sia, a parità di questo, del titolo di studio dei genitori: al crescere di queste due variabili
aumenta le probabilità di ricevere un consiglio orientativo per il liceo. Una seconda recente ricerca condotta
su otto scuole medie milanesi (Conte 2012), è riuscita a mettere in luce le relazioni tra votazione all'esame di
licenza media, consiglio orientativo, nazionalità e scelte scolastiche mostrando disparità significative tra
studenti italiani e studenti con genitori stranieri. Tali disparità sono particolarmente evidenti per gli alunni
che si assestano su risultati scolastici intermedi (e che sono la maggioranza). Infatti, tra coloro che hanno
avuto 8 come giudizio in sede di esame finale, quasi l'80% degli italiani viene indirizzato verso un percorso
liceale contro poco più del 30% degli studenti di origine non italiana. Questi ultimi, con la medesima
votazione, vengono invece più spesso spinti verso il tecnico (il 52%, contro il 19% degli italiani), ma anche
verso l'istruzione professionale (il 16% contro l'1% degli italiani). Le differenze si riducono in presenza di
votazioni particolarmente elevate – con il 9 o il 10 né gli italiani né gli stranieri ricevono il consiglio di
intraprendere l'istruzione professionale – e tuttavia i figli degli immigrati hanno una maggiore probabilità di
essere indirizzati verso gli istituti tecnici piuttosto che verso i licei rispetto agli italiani. Con la votazione
media del 9, ad esempio, quasi la totalità degli italiani (il 95%) viene indirizzato verso un liceo. Tra i figli di
immigrati vi è, invece, quasi un equa distribuzione tra percorsi tecnici e liceali, il 43% viene indirizzato
verso i primi e il 57% verso i secondi. Infine, se una votazione particolarmente bassa come il 6 aumenta per
tutti le probabilità di essere indirizzati verso la Formazione Professionale, tra gli italiani si rileva comunque
rilevanza della filiera formativa frequentata per i conseguimenti educativi e sociali futuri e, sia da parte degli insegnanti,
sia da parte degli studenti, questo tipo di differenziazione evoca paesaggi culturali, sociali e formativi distinti. Nel corso
di questo breve contributo, sembra ragionevole dunque semplificare la realtà scolastica assumendo che la
differenziazione tra filiere formative sia perlomeno la più rilevante per i destini scolastici degli studenti e per gli assunti
che in qualche modo fondano l’attività orientativa degli insegnanti.
5
Sebbene non tratti del tema dell’orientamento verso la scuola superiore, va segnalato a questo proposito il lavoro di
Barbagli e Dei in cui le pratiche didattiche e valutative degli insegnanti vengono analizzate nei termini di un tentativo di
resistenza ai processi di apertura delle opportunità educative per le classi popolari (Barbagli e Dei 1969).
115
RAPPORTO SECONDGEN
un 10% di studenti che riceve il liceo come consiglio orientativo. Percentuale che è quasi nulla tra gli
studenti stranieri.
Inoltre, sia il lavoro di Checchi (2010) sia quello di Conte (2012) mostrano che il peso del consiglio
orientativo sulle scelte effettivamente intraprese al termine della scuola media è particolarmente elevato
soprattutto per quegli studenti e per quelle famiglie che hanno una minore familiarità con il mondo
dell’istruzione secondaria. Il primo mette in luce che avere dei genitori scarsamente istruiti aumenta la
probabilità di “seguire” il consiglio degli insegnanti; il secondo sottolinea la più elevata propensione delle
famiglie immigrate a indirizzarsi verso le filiere formative indicate dai docenti rispetto a quelle italiane.
E’ noto che gli studenti di seconda generazione6, soprattutto se non nati in Italia e se arrivati a un età scolare
avanzata, devono fare i conti con tutta una serie di fattori di svantaggio capaci di incidere significativamente
sui loro risultati scolastici ( Queirolo-Palmas 2006; Dalla Zuanna, Farina, e Strozza 2009; Ravecca 2009;
Ricucci 2010). E’ stato sottolineato che, anche mettendo tra parentesi le problematiche relative agli effetti
della discriminazione su base etnica o culturale, il processo migratorio espone a necessità di ridefinizione dei
reticoli sociali nei luoghi di arrivo e dunque al rischio di accedere a circuiti relazionali particolarmente privi
delle risorse necessarie per facilitare la riuscita scolastica delle seconde generazioni (Eve 2010). Difficoltà
tipiche delle famiglie immigrate, soggette a un’elevata precarietà abitativa e a un inserimento residenziale
nelle aree urbane periferiche (Borlini e Memo 2009; Saraceno, Sartor, and Sciortino 2013), possono avere un
impatto decisivo sui percorsi scolastici. Le caratteristiche dei circuiti relazionali in cui crescono, le scarse
risorse economiche su cui possono contare nell’età dell’adolescenza, i processi di stigmatizzazione di cui
sono spesso oggetto e le scarse gratificazioni ricevute a scuola, facilitano l’emergere di scelte e
comportamenti che spesso preludono un precoce abbandono scolastico poiché votate alla ricerca di
un’affermazione personale che passa attraverso l’indipendenza economica, l’accesso ai consumi, la ricerca
dello “stile” e della “popolarità” all’interno del gruppo dei pari (Willis 1977; Lepoutre 1997; Bourgois 2003;
Jamoulle 2005; Archer, Hollingworth, e Halsall 2007; Queirolo-Palmas 2009; Guerzoni e Antonelli 2009;
Giliberti 2011).
Inoltre, i processi in gioco nella produzione di questa situazione di svantaggio definiscono un quadro molto
complesso che coinvolge responsabilità importanti del funzionamento e dell’organizzazione del sistema
scolastico. Si pensi alle scarse risorse fornite alle scuole per i compiti di mediazione interculturale, di
insegnamento dell’italiano come seconda lingua o di italiano per lo studio ad alunni neoarrivati, alla scarsa
preparazione degli insegnanti ad operare in contesti sempre più plurali, agli imperativi dei programmi
scolatici e alla crescente richiesta ministeriale di standardizzare i risultati al fine di valutazione comparativa
che, di fatto, rende particolarmente difficile una didattica capace di includere e valorizzare le diversità socioculturali (McNail 2000)7. Come hanno mostrato recenti ricerche internazionali, aspetti dell’organizzazione
scolastica che possono differire da paese e paese e che attengono al suo funzionamento routinario (diffusione
della scuola dell’infanzia, selettività delle transizioni scolastiche, modalità di ripartizione del tempo dedicato
allo studio tra scuola e contesto familiare), hanno anch’essi un impatto importante sugli esiti scolastici dei
figli di immigrati e possono rendere più o meno rilevante il peso delle origini familiari sulle loro traiettorie
educative (Crul 2013).
Appare dunque particolarmente preoccupante se, all’interno di un processo scolastico in cui l’essere figlio di
genitori immigrati rappresenta già, di per sé, un elemento che va a detrimento delle competenze acquisite e
delle votazioni conseguite a scuola, le seconde generazioni risultino ostacolate, questa volta dalle pratiche di
orientamento dei loro insegnanti, nel transitare verso le filiere formative maggiormente capaci di
incoraggiarne la mobilità sociale (Cappellari 2005; Ballarino e Checchi 2006; Mocetti 2008; Montanaro,
Mariani, and Paccagnella 2013).
Per comprendere le logiche sottostanti, i processi coinvolti nel far sì che l’orientamento scolastico finisca per
rappresentare un ulteriore meccanismo capace di produrre e riprodurre disuguaglianze sociali, si è scelto di
entrare in alcune scuole medie, osservarne le pratiche orientative e di discutere approfonditamente con
insegnanti e dirigenti scolastici. L’obiettivo è stato quello di comprendere, dalla prospettiva degli insegnanti,
6
In questo scritto il termine “seconde generazioni” viene usato in un’accezione volutamente lasca più vicina a quello
usato comunemente nel dibattito pubblico. Talvolta, quando una maggiore distinzione analitica risulterà necessaria si
useranno alcune specificazioni per chiarire l’età di arrivo in Italia dei soggetti di cui si parla. Si veda Rumbaut (1997)
per un noto articolo in cui si afferma la necessità di spacchettare la nozione di seconde generazioni in sotto-insiemi a
seconda della fase del ciclo di vita in cui si innesta l’arrivo nel paese di destinazione.
7
Si veda anche il recente numero monografico della rivista di educazione e intervento sociale Gli Asini (anno IV n. 18,
2013).
116
RAPPORTO SECONDGEN
i fattori in gioco nella formulazione dei consigli orientativi cercando di capire quali siano i condizionamenti
e le logiche in grado di dar conto delle specificità registrate a proposito dell’orientamento degli studenti di
seconda generazione.
La ricerca
Il materiale empirico su cui si basano le riflessioni proposte nelle pagine seguenti è il frutto di una ricerca
etnografica condotta nell’ambito di un dottorato di ricerca in sociologia all’Università degli Studi di Milano.
Lo studio ha riguardato due scuole medie scelte, nel contesto urbano, perché in grado di rispecchiare, sia pur
parzialmente, realtà scolastiche abbastanza frequenti nei comuni di grandi dimensioni dell’Italia
settentrionale. Si tratta di una scuola situata in un contesto di ceto medio con una popolazione studentesca
piuttosto eterogenea per provenienze sociali e geografiche e di una scuola situata in un area popolare in cui,
nonostante gli studenti provenienti dai ceti medi e alti non siano del tutto assenti, vi è una maggioranza di
studenti di origine immigrata e provenienti da famiglie caratterizzate da disagio socioeconomico. In queste
due scuole è stata condotta un’osservazione partecipante che ha consentito di raccogliere dati sulla didattica e
sulle pratiche orientative formali e informali condotte dai docenti e da alcuni esperti di orientamento. Sono
state condotte trenta interviste in profondità a un campione di studenti e sono stati intervistati i loro genitori.
In particolare, per ciò che riguarda il materiale empirico analizzato di seguito, si sono raccolte interviste
semi-strutturate con i docenti delle due scuole che sono servite per ricostruire le logiche e le retoriche
attraverso cui hanno spiegato le loro pratiche orientative.
Questa ricerca si inserisce all’interno di un’indagine più ampia condotta attraverso una campagna di
interviste in profondità che ha riguardato i docenti e i dirigenti scolastici di dodici scuole milanesi. I risultati
di questo lavoro, condotto da Cristina Cavallo e Paola Bonizzoni, saranno pubblicati a breve e corroborano i
dati e le riflessioni elaborate a partire dalla ricerca etnografica qui presentata8. Uno studio in grado di
mappare le pratiche orientative in un numero più elevato di scuole ha il vantaggio di poter individuare una
maggiore variabilità dei discorsi e delle “politiche” che informano l’orientamento scolastico. Questo studio
permette altresì di far emergere alcune linee di tendenza generali che attraversano tutte le scuole studiate ed è
su queste che ci si soffermerà in questo saggio.
L’importanza del “vocabolario”
Rabeeha è una ragazza di origine pachistana. E’ nata in Italia. Sua madre e suo padre provengono da famiglie
di un ceto piuttosto elevato, lei è laureata in medicina, lui in ingegneria. Arrivato in Italia nei primi anni
Novanta, il padre di Rabeeha ha sempre avuto impieghi precari. Adesso è operaio. Sua madre, casalinga, si
occupa della cura dei suoi tre figli e della casa, un appartamento di due stanze in un edificio di proprietà del
Comune. Rabeeha ha sempre avuto, fin dalla scuola elementare risultati scolastici buoni, anche se non
eccellenti. E’ sempre stata riconosciuta dai suoi insegnanti una ragazza diligente, attenta, con molta voglia di
imparare. Una sua insegnante nel corso di un colloquio le ha detto «si vede che tu hai sempre voglia di
mostrare che ci tieni alla scuola, che ti impegni». La stessa insegnante, nel corso di un’intervista, mi ha
raccontato quanto la madre di Rabeeha fosse presente nelle questioni scolastiche di sua figlia, quanto facesse
di tutto per farle ottenere dei buoni risultati scolastici. A riprova di questo tipo di attitudine mi è stato
raccontato che sua madre ha scelto di utilizzare con la figlia l’italiano come lingua veicolare anziché la sua
lingua d’origine nella convinzione che questo l’avrebbe facilitata nel suo percorso scolastico9. All’inizio
della terza media sia Rabeeha, che i suoi genitori, hanno espresso con sicurezza e in più occasioni la loro
volontà di indirizzarsi verso la filiera liceale. Rabeeha vuole fare una scuola che la prepari bene per poi
accedere all’Università. Vuol studiare medicina, come sua madre, e vuole diventare medico, cosa che sua
8
Bonizzoni P., Cavallo C. e Romito M. 2014. L’orientamento nella scuola media: una concausa della segregazione
etnica nella scuola superiore? In Educazione Interculturale (in via di pubblicazione).
9
Sebbene molti tra gli insegnanti intervistati hanno apprezzato questa scelta in quanto indice di una forte volontà di
“integrazione” nel contesto di arrivo, ne andrebbero sottolineate piuttosto le conseguenze negative sul piano linguistico
e cognitivo. Rabeeha in questo modo ha infatti acquisito una scarsa competenza nella lingua italiana (che veniva parlata
dai suoi genitori come seconda lingua) e ha al contempo abbandonato la possibilità di familiarizzare con la lingua del
suo paese di origine.
117
RAPPORTO SECONDGEN
madre non ha potuto fare anche a causa delle circostanze legate all’immigrazione in Italia. Tuttavia,
nonostante i risultati scolastici di Rabeeha siano piuttosto buoni, nonostante le venga riconosciuta
l’ambizione e la voglia di impegnarsi molto nello studio, nonostante le vengano riconosciute alcune indubbie
virtù scolastiche, i suoi insegnanti ritengono che la filiera liceale non le sia appropriata. Riuniti in consiglio
di classe delibereranno un orientamento verso l’istruzione tecnica.
Nei casi di studenti che hanno ottenuto fino ad allora risultati scolastici mediocri, poco preparati o poco
capaci di mostrare una significativa dedizione allo studio, una simile scelta del consiglio di classe può
risultare facilmente comprensibile. Nel caso di Rabeeha, come in quello di altri suoi colleghi di origine non
italiana, le decisioni del consiglio di classe richiedono un approfondimento ulteriore, richiedono di sollecitare
maggiormente la riflessione degli interlocutori per raccogliere il senso e la logica delle loro pratiche. Così,
nel corso dei consigli di classe a cui si è avuto modo di assistere e nel corso delle interviste, è emerso che
«l’ampiezza del vocabolario» può rappresentare in molti casi uno dei fattori, non necessariamente legati ai
risultati scolastici, di cui gli insegnanti tengono conto nella formulazione dei consigli orientativi. E, in
particolare, che può fungere da fattore dirimente in caso di indecisione tra l’istruzione tecnica e quella
liceale.
Prof. C: Rabeeha ci tiene, ci tiene molto. Se prende dei voti bassi si dispera. Anche troppo secondo me. Sua madre le
sta molto dietro. E riesce, se si impegna riesce, infatti ha una media buona […] però il liceo… lei è povera, povera di
vocabolario, fa fatica quando deve esprimere qualcosa di un po’ più complesso.
Le interviste con gli insegnanti hanno messo in luce che l’«ampiezza del vocabolario» è un elemento più
sottile attraverso cui gli insegnanti stabiliscono una relazione di coerenza tra ciascuno dei loro studenti e le
diverse filiere formative di cui si compone il secondo ciclo della scuola secondaria. Ma cosa vuol dire essere
«ricchi» di vocabolario? Rabeeha si esprime perfettamente in Italiano, mostra alcune esitazioni e incertezze,
ma sono quelle tipiche dei ragazzi e delle ragazze della sua età. Perché dunque viene considerata così
«povera» dal punto di vista linguistico dal non essere ritenuta adatta a intraprendere un’istruzione liceale?
La risposta a questa domanda può essere esplorata confrontando il caso di Rabeeha con quello di Riccardo,
un suo compagno di classe, che nonostante sia stato spesso descritto dai suoi insegnanti come uno studente
«pigro e svogliato» e nonostante in molte materie, tra cui l’italiano, abbia conseguito una votazione più bassa
di quella di Rabeeha, è stato orientato verso un liceo.
Orientatore: Riccardo, io non lo capisco, ho la sensazione che potrebbe veramente essere un piccolo genio. Ma
secondo me è estremamente confuso. Il modo in cui si intromette nella discussione usando parole difficili per la sua
età
Prof N: ti dico, al test di inizio anno [per essere ammesso al corso di latino], ha fatto un disastro. Tant'è che non lo
volevano prendere.
Orientatore: sicuramente ha delle potenzialità, però se le gioca male.
Prof. N: se dovessi basarmi su quello che ha fatto con me quest'anno lo manderei al professionale! (ridendo).
Orientatore: ma sicuramente è uno che il liceo te lo fa, e magari te lo fa anche bene!
Prof. N: sicuramente.
In questa conversazione, registrata nel corso di un momento di confronto tra gli insegnanti e un'esperta di
orientamento, si può notare con chiarezza che rispetto allo studente di cui si sta parlando si ritiene che i
risultati scolastici sottostimino le sue «reali potenzialità». Il fatto che utilizzi «parole difficili per la sua età»
fa addirittura supporre che possa trattarsi di un «piccolo genio» e che quindi Riccardo sarà in grado di
affrontare brillantemente un percorso liceale. Ma su cosa si basano queste «sensazioni»?
Come ha mostrato un corposo filone di studi, la selezione scolastica si fonda su criteri che classificano gli
studenti non solo sulla base dei meriti acquisiti lungo il percorso scolastico, ma anche in relazione a tratti
culturali e linguistici che non sono “insegnati” nelle aule di scuola (Bourdieu 1966; Bourdieu e Passeron
1970; Keddie 1971). Nel campo scolastico sarebbero valorizzati stili linguistici, modalità espressive e
vocabolari che sono in qualche modo tipici di alcuni raggruppamenti sociali. Alle spalle del giudizio sulle
potenzialità scolastiche di Riccardo, che proviene da una famiglia di professionisti, vi è dunque il
riconoscimento di una relazione di affinità tra la sua hexis verbale e le qualità che sono solitamente premiate
in un percorso di studi prestigioso come quello liceale.
Da questo punto di vista, dunque, la situazione nella quale si trovano le seconde generazioni nate in Italia (in
forte crescita negli ultimi anni per via della progressiva “maturazione” flusso migratorio, MIUR 2013) è
118
RAPPORTO SECONDGEN
molto simile a quella degli studenti provenienti dalle famiglie di ceto popolare. Si tratta in entrambi i casi di
collettivi che non hanno avuto modo di familiarizzare nel corso della socializzazione primaria con gli
specifici “vocabolari” a cui viene riconosciuto un valore più elevato nel campo scolastico e che quindi
vengono ritenuti inadatti a percorrere le sue filiere più prestigiose.
Il caso degli studenti arrivati in Italia a un’età più avanzata rappresenta un caso estremo del processo appena
descritto. Le loro difficoltà linguistiche sono evidenti e gli insegnanti sospendono molto spesso ogni giudizio
sulle loro capacità e potenzialità scolastiche poiché ritengono che una buona conoscenza dell’italiano sia
«data per acquisita» dagli insegnanti della scuola superiore. In questo quadro, dunque, l’orientamento
giudicato più appropriato è quasi sempre la Formazione Professionale, cioè un percorso in cui l’impegno
«pratico», «laboratoriale», «manuale» predomina sulle modalità di apprendimento propriamente scolastiche.
Soprattutto nei confronti di coloro che sono arrivati in Italia nel corso delle scuole medie, molti insegnanti
sembrano nutrire la convinzione che il loro percorso scolastico sia in qualche modo già segnato. Attraverso i
loro consigli orientativi sembrano infatti accettare l’idea che i gap linguistici non possono essere recuperati
all’interno del ramo liceale poiché i processi di selezione che caratterizzano questo tipo di scuola finirebbero
per espellerli precocemente.
Prof. E: noi insegnanti dobbiamo assolutamente evitare le frustrazioni. Quindi il nostro giudizio orientativo non è,
come dire, limitato o cattivo ma è... se è basso come tipo di orientamento è proprio legato a evitare le frustrazioni.
[…] La ragazzina neoarrivata, che studia, che si impegna, magari anche con fatica, perché le devo consigliare un
classico dove so che le segheranno le gambe appena arriva?
Nel formulare i consigli orientativi, gli insegnanti provano a tener conto delle forze che definiscono il mondo
delle scuole superiori e il successo o l’insuccesso degli studenti che lo attraversano e mirano a evitare che
studenti pur meritevoli possano incappare in future frustrazioni. Così facendo, tuttavia, gli insegnanti
scoraggiano i loro studenti di seconda generazione dall’assumersi il rischio necessario per innescare processi
di mobilità (e dunque di cambiamento) sociale. Per quanto riguarda gli studenti nati in Italia, gli orientamenti
ricevuti dai loro insegnanti fanno da spia a meccanismi più generali di selezione sociale attraverso la scuola.
Come mostra bene il caso di Rabeeha, non basta saper parlare correttamente l’italiano per essere considerati
adatti a frequentare i percorsi di studio più prestigiosi. E’ necessario infatti aver acquisito un vocabolario,
uno stile linguistico e delle modalità espressive che sono proprie dei ceti più istruiti. Da questo punto di
vista, dunque, la posizione delle seconde generazioni non differisce molto da quella dei ceti popolari con cui,
molto spesso, condividono ambienti di vita e reti sociali. Per quanto riguarda invece gli studenti arrivati in
Italia più di recente, gli insegnanti sembrano sottovalutare l’importanza dei contesti sociali di apprendimento
nella riduzione progressiva dei gap linguistici. E, soprattutto, sembrano accettare (e dunque rafforzare) un
assetto scolastico che non riesce a valorizzare i “talenti” dei suoi studenti qualora non si esprimano (ancora)
nella stessa lingua usata dai docenti.
Un orientamento a 360 gradi
Non è tuttavia solo sotto la dimensione del capitale linguistico e culturale che gli studenti di seconda
generazione risulterebbero svantaggiati nell’ottenere un orientamento verso l’istruzione liceale. Rendendo
ancora più lasca la relazione tra risultati ottenuti e consigli orientativi, molti docenti ritengono che il loro
ruolo in questa fase di transizione debba privilegiare un «approccio a 360 gradi». Da questo punto di vista,
dunque, le indicazioni orientative sono il frutto di considerazioni che non riguardano solo gli studenti nella
loro individualità, le loro caratteristiche, qualità, capacità, attitudini, ma anche una valutazione dell’ambiente
di vita che li circonda. L’attività orientativa si trova dunque al centro di una specifica concezione del ruolo
della scuola nel suo rapporto con la società e con il sistema di stratificazione sociale10. Molti docenti, nel
formulare i consigli orientativi, sembrano pronti a far propri schemi di giudizio e valutazione in qualche
modo estranei al campo strettamente scolastico quando, ad esempio, tengono conto della possibile
“spendibilità” dei diversi tipi di diploma a cui gli studenti possono accedere, oppure quando si interrogano
10
Si veda il recente lavoro di Christian Laval per uno sguardo teorico più ampio sulla tendenza dei soggetti situati nel
campo scolastico a far propri gli imperativi e le esigenze del campo economico neoliberale nella definizione
dell’organizzazione scolastica e delle pratiche pedagogiche (Laval, Clement, e Dreux 2012).
119
RAPPORTO SECONDGEN
sulla volontà e sulla capacità delle famiglie di origine di sostenere finanziariamente a lungo gli studi dei loro
figli.
Prof. P: il classico io non lo consiglierei a nessuno. Perché non ha senso, oggi, una scuola di quel tipo, che non ti da
nessuno sbocco. Se non alla ragazzina o al ragazzino che ha una vena letteraria e che magari la matematica non la
può proprio soffrire. E che comunque, diciamocelo, ha una famiglia dietro che può permetterselo… di mantenere i
figli a scuola per un periodo di studi molto lungo.
Al di là dei meriti e dei demeriti di ciascuno studente, al di là delle sue possibili attitudini e potenzialità
scolastiche, i docenti ritengono, o meglio, «sanno», che le carriere scolastiche possono essere condizionate
da altri fattori riconducibili alle loro provenienze sociali. Così, i docenti credono opportuno che, in alcuni
casi, occorra «farsi carico» degli eventuali elementi di fragilità delle famiglie di origine dei loro studenti e
dei possibili rischi associabili ai diversi canali di istruzione secondaria. Tuttavia, nel tentativo di predire le
future chances di successo o di insuccesso, le possibili difficoltà e rischi connessi a ciascun percorso di studi,
nel «farsi carico» della complessiva situazione di vita dei loro studenti, si fa spazio la possibilità di un
orientamento tagliato su misura per le seconde generazioni, un orientamento condizionato da immagini,
rappresentazioni e stereotipi che tende a relegarle nelle filiere meno prestigiose del secondo ciclo
dell’istruzione secondaria.
Prof. E: lo sforzo più grosso che noi stiamo facendo è quello di riuscire a dare a ciascuno uno sbocco adeguato...
quindi accanto al discorso delle attitudini, c'è poi comunque un discorso di ordine economico […] perché alcuni
nostri studenti sono partiti già dalla prima con il bonus libri, per cui, alle elementari libri gratis, alle medie libri
gratis, si troveranno alle superiori a pagare una barca di soldi per i libri! Poi tutte le richieste, con i laboratori
eccetera. E bisogna stare attenti perché molti genitori non se ne rendono conto […] E' brutto dirlo perché questo è
discriminante, però va detto. Cioè io quando ho una ragazzina che mi viene a dire “vado all'Einstein” [un liceo
scientifico] voglio dire, al di là delle difficoltà sue, che potrebbe avere, è anche un discorso di difficoltà economiche.
Perché poi mi dice “ma ci sono borse di studio?” dico “figlia mia... e poi se fai un liceo scientifico si presuppone che
tu fai l'Università perché sennò non è completo. E quindi sono ulteriori soldi! e quindi significa ulteriormente
spostare l'inserimento nel mondo del lavoro”.
Come si evince da questo estratto, da parte di molti docenti, vi è l’esplicita consapevolezza della necessità di
ritagliare un «orientamento su misura» di alcune categorie di studenti che tenga conto della loro situazione di
vita complessiva. La rilevanza della dimensione economica per la definizione dei consigli di orientamento
emerge particolarmente evidente nel corso di una conversazione tra due insegnanti raccolta ai margini di un
consiglio di classe.
Prof B: Carmen dice che vuole fare il liceo…
Prof G: il liceo… (ridendo)
Prof. B: prima ha detto il classico
Prof G: il classico poi!
Prof. B: poi è passata a scienze umane… perché vuole fare criminologia… non so dove l’abbia sentito…
Prof. G: poverina....[rivolgendosi al ricercatore presente alla conversazione] il padre muratore, i suoi genitori si fanno
un mazzo così per andare avanti... lei deve scegliere qualcosa che le permetta anche di NON andare all'Università, e
non qualcosa che la obblighi a fare un percorso così lungo. Per lei andrebbe meglio una scuola tecnica.
Prof: B: sì una scuola tecnica.
L’apparente tendenza degli insegnanti a praticare un orientamento «su misura» per le seconde generazioni,
va letta, come si evince dagli stralci appena riportati, a partire dalla stretta relazione tra background
migratorio e una specifica situazione di classe. A partire cioè dal tipo di lavori in cui gran parte dei genitori
immigrati sono impiegati, i loro stipendi, la precarietà del loro impiego, la vulnerabilità dei segmenti del
mercato del lavoro in cui si sono inseriti (Ambrosini 2001). Ma, a questi dati, per così dire oggettivi, si
sommano le rappresentazioni che gli insegnanti hanno della situazione di vita ed economica da cui
provengono i loro studenti. E tali rappresentazioni tendono ad associare la famiglia immigrata ad un
immaginario di forte deprivazione e precarietà che non è detto corrisponda al vero.
Come si evince dai seguenti estratti, gli insegnanti utilizzano le informazioni spesso scarne e frammentarie
informazioni a loro disposizione sulle famiglie di origine degli studenti per provare a “indovinare” le
ambizioni genitoriali.
120
RAPPORTO SECONDGEN
Prof. G: la mamma conosce pochissimo l'italiano, poi so che fanno fatica… per cui secondo me una carriera lunga li
preoccupa”
Orientatore: il mio timore è sempre quello che magari il progetto familiare vada in una direzione di una concretezza
più veloce... però lei potrebbe averle le carte da giocarsi in un liceo.
Prof. A: Loro [gli immigrati] stanno risentendo moltissimo di questa crisi. Quindi dobbiamo tenere conto anche di
questo quando andiamo ad orientare i ragazzi.
Ricercatore: quindi per tutelare, in un certo senso, le “seconde generazioni” crede l’istruzione tecnica o professionale
sia da preferirsi?
Prof. A: Sì… forse si cerca anche di aiutare le famiglie. Perché, sai, i ragazzi vedono “liceo” e dicono “che bello”
vogliono fare quello, e questo magari mette anche la famiglia in difficoltà. Se i genitori per esempio preferiscono una
scuola che dia anche delle opportunità di lavoro. […] soprattutto in questo periodo, noi sappiamo, che molti dei
genitori dei nostri ragazzi sono in difficoltà.
Le rappresentazioni che gli insegnanti hanno delle aspirazioni scolastiche delle famiglie immigrate paiono
tuttavia distanti da quelle rilevate nel corso della ricerca. Infatti, in accordo con quanto emerso nelle
interviste sulle seconde generazioni in Piemonte, il materiale empirico raccolto nel corso del progetto di
dottorato su cui si fonda questo scritto, mette molto chiaramente in luce che le famiglie immigrate nutrono
spesso ambizioni elevate nei confronti dell’istruzione dei propri figli anche in presenza di difficoltà
socioeconomiche11.
Papà Carmen: io sono qui per lei (Carmen). Lavoro giorno e notte solo per vederla, poterle dare un futuro migliore.
Io non ho avuto la possibilità, mia moglie no, quindi io... sennò prendo me ne vado a casa mia, lavoro la terra e basta.
È inutile che sto qui.
Ricercatore: cosa vuol dire un futuro migliore?
Papà Carmen: un futuro migliore nel senso... un futuro migliore è studiare, diventare qualcuno, nel senso un lavoro
un po' più. Non la domestica, non lavorare in una fabbrica, non.. per me questo. Non fare sacrifici che ho fatto io per
comprare una casa, perché io ho già preparato tutto. Se vuole stabilirsi in Italia, dopo che ha finito il liceo,
l'università, io vendo tutto quello che c'ho nel mio paese e le compro la casa qua. C'è già tutto pronto... lei deve solo
studiare.
Le risorse economiche e le condizioni di vita degli studenti non incidono dunque direttamente sulle
ambizioni scolastiche familiari. Condizionano invece il modo attraverso cui gli insegnanti percepiscono e
tematizzano le aspirazioni educative delle famiglie immigrate, il modo attraverso cui immaginano ciò che
ritengono essere più appropriato per loro e dunque il modo attraverso cui la scuola orienta gli studenti.
Il coinvolgimento delle famiglie nell’orientamento
Nonostante la normativa che regola la procedura di formulazione dei consigli orientativi non preveda un
coinvolgimento attivo delle famiglie12, nonostante gli insegnanti rivendicano una sostanziale autonomia nelle
decisioni prese e la loro indifferenza alle preferenze e alle aspirazioni delle famiglie, l’osservazione
etnografica ha messo in luce quanto sovente l’orientamento ricevuto dagli studenti sia, in realtà, l’esito di
una negoziazione e di una mediazione tra le preferenze e le aspirazioni familiari e il punto di vista del corpo
docente13. Quest’ultimo infatti, in caso di indecisione, tende ad «accontentare» le famiglie che hanno
aspettative scolastiche precise per evitare motivi di disappunto o di conflitto capaci di rovinare le relazioni
scuola-famiglie nel corso dell’ultima parte dell’anno scolastico.
11
Conclusioni simili sono ricavabili a partire da diversi studi sulle scelte scolastiche condotti in altri paesi. Questi lavori
mostrano che, a parità di origine sociale e di rendimento scolastico degli studenti, da parte di molti gruppi immigrati vi
sia una tendenza a intraprendere percorsi più ambiziosi e “rischiosi” rispetto alla popolazione autoctona (Van De
Werfhorst and Van Tubergen 2007; Brinbaum e Kieffer 2009, 567-569; Jonsson e Rudolphi 2010).
12
Differente è, ad esempio, il caso francese in cui in corrispondenza delle transizioni scolastiche è previsto un momento
istituzionalizzato in cui le famiglie di origine devono esprimere le proprie preferenze sui percorsi da intraprendere (cfr.
Barg 2013)
13
Un capitolo a parte meriterebbe la disamina dei conflitti e delle negoziazioni che si devono raggiungere all’interno del
consiglio di classe. Su questo si veda ad esempio Masson (1997)
121
RAPPORTO SECONDGEN
Nel corso della ricerca sono stati intervistati i dirigenti scolastici di alcune scuole dell’area milanese e, alcuni
tra loro, coerentemente con una prassi in realtà molto comune, hanno esplicitamente riconosciuto che il
consiglio orientativo deve essere concepito come l’esito di un «confronto» tra famiglie e docenti. Questa
prassi può generare conflitti nei casi in cui i diversi punti di vista non giungano ad una sintesi condivisa da
entrambe le parti, tuttavia, è sempre aperta la possibilità che i docenti, fin dove ragionevole, provino di
accomodare le preferenze espresse dalle famiglie.
Ora, è necessario sottolineare che la misura del coinvolgimento delle famiglie nella co-costruzione del
consiglio orientativo dipende dalle risorse su cui queste ultime possono contare e, come viene riconosciuto
tra i docenti, le famiglie immigrate in questo processo sono molto spesso assenti.
Prof. Q: Per noi è molto difficile raggiungere queste famiglie [immigrate]. Non so se per gli orari che fanno,
molte mamme sono badanti, domestiche… hanno meno tempo da dedicare a… e poi anche se vengono, molto
spesso è difficile la comunicazione. Ti guardano, dicono “sì, sì” ma non hanno capito niente.
I grossi problemi con le famiglie ci sono se non parlano l’italiano, e se non si hanno i mediatori è difficile, ci si
attrezza con alunni grandi o particolarmente competenti, però sappiamo che non è la cosa migliore per fare i
colloqui con i genitori. (Funzione intercultura S_I_11)
Vincoli legati alla disponibilità di tempo libero e barriere linguistiche che l’istituzione scolastica spesso per
carenza di risorse è incapace di superare, rendono la partecipazione delle famiglie immigrate alle pratiche
orientative molto marginale. Vi è una letteratura internazionale consolidata che mostra come le famiglie
maggiormente coinvolte e presenti nelle questioni scolastiche dei loro figli sono quelle che possono contare
su di un elevato capitale culturale; cioè quelle che si muovono con agio nel campo scolastico, che conoscono
il modo più proficuo per interagire con gli insegnanti e che, in virtù di un’esperienza biografica segnata dal
successo educativo, sono in grado di rapportarvisi da pari a pari (Lareau 1987; 1989; 2003; Reay 1998). La
nostra ricerca è giunta a conclusioni analoghe e gli insegnanti intervistati hanno mostrato di avere bene in
mente l’identikit dei genitori più partecipativi.
Prof. C: Ci sono genitori che quando si comincia a parlare di orientamento vengono qui ogni settimana perché
vogliono essere sicuri che, alla fine, il consiglio orientativo sia quello che si aspettano.
Ricercatore: Chi sono questi genitori?
Prof. C: Mah, lo sai, sono sempre i soliti… quelli che magari sono laureati e che vogliono che i loro figli vadano al
liceo a tutti i costi, quelli che, insomma, anche per mantenere il loro status, manderebbero i figli al liceo anche se
sono delle capre.
Se le famiglie maggiormente coinvolte nel processo orientativo, che gli insegnanti indentificano con quelle
italiane di classe media e alta, riescono molto spesso ad ottenere un consiglio orientativo coerente con le loro
elevate aspettative scolastiche, quelle immigrate molto spesso accettano passivamente l’orientamento degli
insegnanti perché carenti delle informazioni necessarie anche solo per definire un ordine di preferenze (cfr.
Allasino and Perino 2012).
Particolarmente istruttiva, a questo proposito, è stata l’intervista con i genitori di Nicole, originari delle
filippine e in Italia da 10 anni. Sono entrambi laureati nel loro paese di origine, ma in Italia lavorano come
domestici. Parlano un italiano sufficiente per le questioni relative al lavoro e alla vita quotidiana, ma molto
incerto per ciò che riguarda le questioni scolastiche della loro figlia. Nel corso di un’intervista, all’inizio
dell’ultimo anno di terza media, ho chiesto loro se avessero idea di dove avrebbero voluto iscrivere Nicole
l’anno successivo. Ciò che mi ha stupito della risposta non è stata l’assenza di una preferenza o di un
ambizione ben definita, ma il riconoscere come per alcune famiglie, soprattutto immigrate, fosse sfumato e
incerto l’intero quadro di conoscenze necessarie per muoversi consapevolmente in questa fase di transizione.
Mamma Nicole: io le ho dato un consiglio che è: «quello che vuole lei». Perché lei è la prima che deve studiare. Però
prima lei dice «voglio fare l'artistico » e le chiedo, che cos'è l'artistico Nicole? E io non capisco niente! [ride] poi ha
detto il linguistico, poi adesso vuole fare Amministrazione finanza e marketing... cos'è!?? [risate]
Ricercatore: è una cosa più relativo alle materie economiche, però ci sono anche le lingue, il diritto...
Mamma Nicole: sì tipo internazionale, le lingue...
R: senti, ma tu hai capito qual'è la differenza tra istituti professionali, tecnico e un liceo?
MN:: [fa di no con la testa] sì me l'ha spiegata... ma poi dopo io non capisco niente. Non lo so è bello quello [si
riferisce al tecnico turistico]?
122
RAPPORTO SECONDGEN
R: Eh non lo so! [ridendo]
MN: perché alcune maestre hanno detto che... io ho parlato con una maestra.. ha detto «non farla andare a turistico,
non è adatta».
R: e cosa sarebbe meglio?
MN: E quello che vuole lei, io non lo so... anche mio marito, non sa niente... tra gli amici... lei parla con gli amici...
quella, quella... le due amiche fanno il linguistico, quell'altra fa Amministrazione... quella lì... e gli altri scientifico.. il
Volta.. ma lei non vuole quello... è così tutto tra gli amici...
Come si evince da questo estratto, la strategia della madre di Nicole di lasciare la decisione nelle mani di sua
figlia è legata a filo doppio con la sua incapacità di destreggiarsi nell’offerta formativa disponibile. Al di
fuori dell’Italia, non è così scontato che gli studenti debbano scegliere all’età di 13-14 anni tra percorsi
formativi così differenziati. Barriere linguistiche e molto spesso l’impossibilità di poter contare su reticoli
sociali in grado di veicolare informazioni accurate sul mondo scolastico fanno sì che i genitori immigrati
assumano una posizione marginale nell’orientamento scolastico. Come si è avuto modo di registrare nel
corso della ricerca, e come spesso mi hanno ripetuto gli stessi insegnanti, in molti casi le famiglie «non
hanno idea di quali siano le poste in gioco». Nell’assenza di una conoscenza diretta del sistema formativo
italiano, e talvolta nell’impossibilità di poter contare su informazioni ricche e attendibili reperite attraverso i
loro reticoli sociali, i genitori immigrati tendono a «fidarsi» dei consigli degli insegnanti e delle informazioni
ricevute dai loro figli. In questo quadro, dunque, il consiglio orientativo più che l’esito di una mediazione tra
il punto di vista degli insegnanti e quello delle famiglie è uno strumento utilizzato da queste ultime per
gestire una fase di passaggio di fronte a cui si sentono smarrite.
Conclusioni
Ci sono diversi motivi per ritenere che l’orientamento ricevuto dagli studenti al termine delle scuole medie
abbia un peso significativo sulle scelte di indirizzo nella scuola superiore soprattutto per gli studenti di
origine straniera. Per la specificità della loro biografia familiare e per i meccanismi connessi all’esperienza
migratoria, le seconde generazioni non possono affrontare il passaggio verso le scuole secondarie come
qualcosa da dare per scontato o con la stessa ricchezza di informazioni da cui emergono le preferenze degli
studenti italiani, specie se di ceto medio e alto. Questi figli di immigrati, nella loro famiglia, sono infatti la
prima generazione che avrà un’esperienza diretta nel secondo ciclo della scuola secondaria italiana. Nessuno,
se non un fratello o una sorella maggiore, prima di loro ha frequentato un liceo, un istituto tecnico o
professionale, e così non possono attingere a informazioni e conoscenze di prima mano su questi tipi di
scuola. Allo stesso modo, le famiglie immigrate faticano ancora di più a immaginare le poste in gioco
connesse con la transizione scuola-lavoro o scuola-università al termine dell’istruzione superiore poiché, per
loro, il quadro dei benefici, dei pro e dei contro, associabili a ciascun tipo di percorso di studio è sfumato.
Per queste ragioni, l’orientamento scolastico può svolgere un ruolo centrale nel ridurre o rafforzare la
segregazione, già evidenziata da molte ricerche, delle seconde generazioni lungo le filiere tecniche e
professionali (Queirolo-Palmas 2002; Ricucci 2010; Dalla Zuanna, Farina, and Strozza 2009).
Nel corso delle pagine precedenti sono state messe in luce le logiche e gli assunti che sottendono le pratiche
orientative degli insegnanti e, in particolare, quelle in grado di spiegare per quali motivi, a parità di risultati
scolastici ottenuti, gli studenti di seconda generazione vengano indirizzati verso filiere formative meno
ambiziose dei loro colleghi italiani. Dalla ricerca è emerso che un primo elemento che spinge i docenti a
praticare un orientamento «al ribasso» nei confronti dei figli di genitori stranieri ha a che fare con la sfera
linguistica.
I docenti conoscono i principi più o meno espliciti che determinano la riuscita scolastica nel secondo ciclo
delle scuole superiori. Sanno che i licei, in particolar modo il classico e lo scientifico, possono rappresentare
percorsi particolarmente escludenti per i figli di genitori stranieri perché richiedono una competenza
linguistica e un’attitudine culturale che è quella tipica dei ceti medio-alti italiani. Il «liceale ideale», secondo
i docenti intervistati, non è solo uno studente o una studentessa che si impegna, ma è anche, e forse
soprattutto, una persona che si esprime con fluidità e proprietà di linguaggio, che ha un vocabolario «ricco» e
che, in sostanza, ha avuto modo di assorbire lentamente, nel corso della sua socializzazione familiare, quelle
competenze e quelle doti «naturali» che, per chi non le ha ereditate, possono essere acquisite solo attraverso
un faticoso percorso di acculturazione (Bourdieu 1966; Bourdieu and Passeron 1970; Bourdieu 1989).
123
RAPPORTO SECONDGEN
Le logiche sottese a questa sorta di orientamento «su misura» per le seconde generazioni emergerebbero
anche qualora si analizzassero gli orientamenti ricevuti dagli studenti provenienti dai ceti popolari italiani
che, come i figli di immigrati, alla fine della terza media difficilmente mostrerebbero la stessa ampiezza di
vocabolario e fluidità di linguaggio dei loro colleghi provenienti da famiglie più istruite. Tuttavia, le seconde
generazioni si trovano in una condizione di particolare svantaggio a causa dei meccanismi connessi al
processo migratorio. Immaginando di disporre i figli di genitori immigrati lungo un continuum, ad un
estremo troveremmo coloro che sono nati in Italia e che hanno frequentato scuole e contesti sociali capaci di
farli familiarizzare con il linguaggio tipico dei ceti più istruiti (cosa tutt’altro che scontata a causa dei fattori
che conducono le famiglie immigrate a insediarsi nei contesti più deprivati dal punto di vista socioeconomico); a quello opposto si troveranno gli studenti arrivati in Italia nel corso delle scuole medie che
saranno dirottati verso l’istruzione professionale per il solo fatto di non conoscere ancora bene l’italiano.
Questa dimensione rappresenta dunque una condizione di specifico svantaggio per moltissimi studenti di
origine immigrata che attraversano il nostro sistema di istruzione e che vengono scoraggiati dal competere
con i loro colleghi italiani nei percorsi formativi più prestigiosi.
Una seconda dimensione capace di dar conto del modo specifico attraverso cui vengono orientati gli studenti
di seconda generazione rispetto ai loro colleghi autoctoni ha a che fare con la loro situazione di vita
complessiva e con il modo attraverso cui essa viene percepita e rappresentata dagli insegnanti. Gli impieghi
precari dei loro genitori, la scarsa disponibilità finanziaria, le difficili condizioni abitative, hanno infatti un
impatto sul modo attraverso cui gli insegnanti ipotizzano le loro chances di riuscita scolastica. Come nel caso
precedente considerazioni simili possono riguardare anche il caso delle famiglie italiane di ceto popolare.
Tuttavia, la ricerca ha messo in luce che spesso gli insegnanti utilizzano rappresentazioni stereotipiche delle
famiglie immigrate che le relegano in un immaginario di forte deprivazione anche quando ciò non
corrisponde al vero. Spesso, a partire da questo immaginario e in ragione delle difficili comunicazioni con le
famiglie, gli insegnanti assumono che un orientamento verso indirizzi formativi maggiormente “spendibili”
sul mercato del lavoro sia preferito dagli stessi genitori immigrati. E questo fa sì che la loro pratica
orientativa venga svolta nella convinzione di assecondare un progetto familiare condiviso. Come si è
accennato, vi sono invece evidenze empiriche sufficienti per affermare che questi fattori sembrano incidere
poco sulle aspirazioni educative di questi ultimi, che appaiono elevate anche in presenza di difficoltà
socioeconomiche. Da questo punto di vista, dunque, l’orientamento scolastico sembra svolgere la funzione di
scoraggiare studenti e famiglie immigrate a travalicare i confini dello spazio sociale in cui si muovono.
Infine va anche sottolineato che parte della spiegazione dell’orientamento «al ribasso» delle seconde
generazioni va letto a partire dalle strategie delle famiglie italiane, soprattutto quelle di ceto medio e alto, che
riescono in alcuni casi a negoziare un orientamento «al rialzo». Queste famiglie sono maggiormente
coinvolte nel processo orientativo e riescono a far sì che gli insegnanti si facciano carico, fin dove possibile,
delle loro elevate aspirazioni educative.
Nella loro attività di interazione quotidiana con studenti e famiglie, i docenti raccolgono una significativa
messe di informazioni sulle caratteristiche, sulle condizioni di vita, sulle difficoltà, sulle risorse e sulle
aspirazioni dei loro alunni e delle loro famiglie. In alcuni casi, i docenti sono consapevoli di ricoprire un
ruolo orientativo cruciale. Soprattutto gli studenti di seconda generazione non possono contare su genitori
capaci di maneggiare con agio il linguaggio specialistico e burocratico attraverso cui leggere l’offerta
formativa. In questo quadro gli insegnanti si fanno carico della responsabilità di dover «tutelare» questi
studenti dai possibili rischi connessi con il loro futuro scolastico. I consigli orientativi non si limitano dunque
a prendere atto dei risultati scolastici ottenuti fino a quel momento, ma incorporano una sorta di previsione o
di anticipazione dei possibili eventi e circostanze che potranno incidere sulle carriere scolastiche dei loro
studenti. Così facendo, tuttavia, l’orientamento scolastico diventa uno spazio in cui possono riverberarsi le
disuguaglianze sociali e dunque un meccanismo di indirizzo che finisce per rafforzare il peso del background
familiare sulle traiettorie educative degli individui. Rafforzando la segregazione degli studenti di seconda
generazione nelle filiere formative meno capaci di far loro intraprendere un percorso di mobilità sociale, la
scuola corre così il rischio di rinunciare alla sua funzione di garantire eguali opportunità educative e
soprattutto di essere lo specchio di quell’integrazione subalterna che colpisce le prime generazioni nella sfera
lavorativa.
124
RAPPORTO SECONDGEN
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RAPPORTO SECONDGEN
Famiglie immigrate e interazioni con le scuole.1
Maria Perino, Enrico Allasino
Le specificità delle seconde generazioni: eredità culturale o effetti delle migrazioni?
La letteratura scientifica nordamericana ed europea ha sovente interpretato i percorsi di integrazione dei
migranti e dei loro discendenti, le seconde generazioni, a partire dal fatto che essi originano da popolazioni
di storia, lingua e cultura diverse e che le differenze nazionali (o “etniche”) rispetto alla popolazione
“autoctona” spiegherebbero in larga misura il grado di successo e le caratteristiche della loro integrazione
nella società di arrivo.
Il doppio sguardo adottato dalla nostra ricerca, tanto sul presente quanto sul passato storico, ci permette di
cogliere similitudini e continuità, oltre che differenze, dei processi di inserimento che caratterizzano e hanno
caratterizzato le famiglie migranti e i loro figli nel nuovo contesto di arrivo, spostando l’attenzione dalla
questione delle diverse culture nazionali a quella dei meccanismi sociali propri del processo migratorio come
tale (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001; Eve, 2010). I risultati confermano l’ipotesi iniziale che sia l'effetto
“migrazione” a incidere in modo specifico sulle traiettorie degli individui e dei gruppi che la sperimentano, e
non tanto la presunta “cultura di origine”. Riteniamo infatti che la popolazione migrante e i suoi discendenti
abbiano delle specificità legate appunto alla migrazione e che lo spostamento geografico, in sé, abbia
importanti e duraturi effetti sull’accesso al mercato del lavoro, sulle reti sociali che devono essere ricostruite,
sulla struttura familiare che viene trasformata dalle separazioni e dai ricongiungimenti. In particolare, le
famiglie, oggi come un tempo, sono ristrutturate dalla migrazione e questo obbliga a dividere diversamente i
compiti e i carichi familiari (la lontananza dei nonni, ad esempio, ha degli effetti molto importanti
sull’organizzazione della cura dei figli piccoli), e a stabilire relazioni che non sono né quelle della situazione
di origine, né quelle del paese di arrivo (Grillo ed. 2008). La famiglia immigrata è diversa. Come indicano
Elias e Scotson (1964), le differenze tra le configurazioni a cui si dà il nome di “famiglia” stanno nelle “unità
più vaste di cui le famiglie fanno parte”, cioè nel nostro caso nei contesti di inserimento. Per questo motivo i
nostri intervistati non sono classificati in base alle origini, e lo svantaggio o il vantaggio non sono analizzati
risalendo ai “tratti originari”, ma si è cercato di spiegare la collocazione all’interno della scuola italiana
partendo dall’esperienza quotidiana, dagli ambienti sociali e dalle risorse tipiche di chi è dentro direttamente o indirettamente - a un “processo migratorio”.
Il processo migratorio è un processo di lungo termine che contribuisce a una collocazione specifica nel
sistema di stratificazione sociale poiché ha diversi effetti sulla vita degli individui, sulle carriere formative e
occupazionali dei figli (e forse dei nipoti). Esso influenza il percorso sociale degli immigrati – di diverse
origini e diverse generazioni – agendo sulle reti familiari e personali, costringe a esplorare gli ambienti di
inserimento con mappe che sono deformate e generiche non perché sono determinate dalla cultura o dal peso
di una indefinita tradizione, ma perché attingono a reti ristrette e povere di informazioni, a legami avviati
all’inizio della migrazione e che possono condizionare quelli che si formeranno successivamente.
Un aspetto centrale di questi processi è costituito dalle carriere scolastiche e professionali dei figli degli
immigrati, nelle quali sono in gioco non tanto questioni di differenza culturale e resistenze della popolazione
locale alla diversità culturale, ma altri meccanismi sociali. Le conseguenze dello spostamento geografico
sulle reti sociali e sui tempi sociali sono note e riconosciute (Grieco, 1987; Werbner, 1990, Portes e
Sensenbrenner, 1993; Bourdieu e Wacquant,1992) ma ciò che a noi pare ancora poco affermato è che le
condizioni sociali create dalla migrazione strutturano sistematicamente la vita delle famiglie, il capitale
sociale, le modalità di accesso alle informazioni e alle opportunità effettivamente disponibili. Nel dibattito
sulle politiche per l’integrazione si riscontra invece una propensione radicata e diffusa per interpretazioni e
spiegazioni di tipo culturalista, che fanno della cultura d’origine dei migranti la chiave esplicativa dei
comportamenti e dei percorsi d’inserimento. In questa prospettiva, le “reti comunitarie” di connazionali
sarebbero la conseguenza dell’immigrazione e sarebbero principalmente le differenze culturali dei migranti,
1
Dal paper presentato a Esa, European Sociological Association, 11th Conference: Crisis, Critique and Change,
Torino, 28 - 31 August 2013
127
RAPPORTO SECONDGEN
la presunta distanza tra la “nostra” e la “loro” cultura a dar conto dei processi di esclusione e marginalità
sociale e delle traiettorie verso il basso dei giovani di origine immigrata.
Anche la ricerca frequentemente considera il cosiddetto svantaggio etnico, costituito dall’origine nazionale,
dalla religione, o dai tratti somatici, come spiegazione dei percorsi, soffermandosi quindi su elementi ascritti,
assunti in modo non problematico – di solito identificati in modo omogeneo per cittadinanza o confessione
religiosa predominante – piuttosto che sull’interazione e sull’azione delle persone, sui meccanismi
d’inserimento e di selezione che caratterizzano i migranti nelle società di arrivo. Nella scuola e nel mercato
del lavoro invece, i giovani di origine immigrata si inseriscono in determinate posizioni non tanto in
conseguenza delle loro origini nazionali e delle loro specificità culturali, ma per le specificità delle reti
sociali, del mercato del lavoro, dei quartieri e della famiglia, degli ambienti sociali frequentati.
Tutti a scuola
Da un punto di vista scolastico, grande parte dei dati e delle ricerche recenti conferma che in Italia un’elevata
percentuale di giovani di origine immigrata si concentra nei segmenti dell’istruzione professionale e tecnica
e ha risultati inferiori alla media degli italiani, ma non dei compagni di classe (Miur, Fondazione Ismu,
2011).
Chi sono dunque i compagni di classe? Nelle aule delle scuole superiori i figli degli immigrati si siedono
spesso accanto a ragazzi italiani provenienti da famiglie meno abbienti e meno scolarizzate della media, in
cui i genitori svolgono professioni manuali o piccole attività autonome2. Si può ipotizzare che sia una
conseguenza del sistema scolastico italiano se i ragazzi stranieri e i loro specifici compagni di classe italiani
si trovano in percorsi meno prestigiosi in termini di credenziali scolastiche. E la collocazione in percorsi che
sembrerebbero più facili fa sì che i giovani di origine straniera si adattino al livello dei risultati “locali”
stabilito dalla classe, in una socializzazione fra pari che rende comportamenti e atteggiamenti degli allievi
stranieri simili a quelli di coetanei meno dotati di capitale culturale, sociale ed economico.
La concentrazione nei corsi professionali dei figli di immigrati è spesso interpretata con una spiccata
tendenza all’inserimento precoce nel mondo del lavoro che caratterizzerebbe le famiglie straniere. Dalle
nostre interviste emerge, diversamente da quanto si potrebbe immaginare, che anche nei casi di indigenza
economica le famiglie straniere, come le famiglie italiane, vogliono che i figli vadano a scuola o che
riprendano percorsi interrotti. L’esperienza scolastica è centrale, sia per coloro che hanno una traiettoria
lineare, sia per coloro che, non rinunciando agli studi, hanno percorsi accidentati, erratici e situazioni di
stagnazione caratterizzati da ripetenze, ritardo scolastico e passaggi da una scuola all’altra3.
Dalle interviste risultano molto numerosi i percorsi incerti e disorganizzati, concentrati nell’istruzione
professionale, dalla quale spesso si esce e si entra inseguendo corsi senza sviluppi in una carriera lavorativa.
La storia di Hasnaa4 è esemplare: “Allora, in terza media ho fatto uno sbaglio... cioè non è un mio sbaglio,
non so chi mi doveva dire che c'era la scuola professionale e la scuola regionale no? Io non sapevo la
differenza... sono andata prima all'* per fare la cuoca e non mi hanno accettato perché ero troppo piccola,
allora mi sono iscritta al *, odontotecnico, ho fatto 15 giorni e non mi piaceva, i compagni erano belli, ma i
professori non mi andavano, era tutto strano lì, non era come le altre scuole... Sono uscita e ho incontrato
un'amica di mia madre, a mia madre non ho detto che cambiavo scuola, questa qui era appena arrivata dal
Marocco e non sapeva l'italiano, le ho detto che mia madre non c'era, se poteva firmarmi delle cose. L'ho
portata allo *, lì mi ha firmato tutto e mi ha iscritta. Poi mia madre mi ha scoperto e le ho spiegato tutto ma
non mi ha detto niente! (ride) . Lì ho fatto 3 anni di “Commessa segreteria” e poi lo stage al *. Quando ho
finito, avevo quasi 17 anni ma non potevo ancora andare a lavorare perché non avevo ancora 18 anni e
2
Molti di questi compagni di banco italiani sono i nipoti degli immigrati arrivati durante la grande immigrazione
interna attorno agli anni ’60, come è emerso da una precedente ricerca condotta nelle scuole superiori delle province di
Asti, Alessandria e Torino. Questo sembra confermare gli effetti di lungo termine dell'immigrazione regionale del
passato sul sistema di stratificazione scolastica e sociale cfr. Eve, Perino (2011).
3
Anche in un’altra recente ricerca italiana (Lagomarsino, Ravecca, 2012, p 115-116) si evidenzia che gli intervistatori
hanno avuto difficoltà a incontrare ragazzi non inseriti in nessun tipo di percorso. Anche nei casi di abbandono, è
frequente un reinserimento nei corsi regionali di formazione professionale, magari mentre si fanno lavoretti. Questo è
confermato dalle nostre interviste nelle quali non si trovano dei “no” definitivi alla scuola, e neppure, in molti casi, nette
distinzioni tra lavoratori - precari, saltuari, irregolari - e studenti .
4
I nomi degli intervistati sono di fantasia. I nomi delle scuole sono sostituiti da un asterisco.
128
RAPPORTO SECONDGEN
boh... mi sono iscritta l'anno scorso all'* con una mia amica, ora sto facendo il secondo anno, è un corso di
2 anni. […] Non c'era più niente da fare, poi ho incontrato ‘sta mia amica e le ho detto: Devo iscrivermi da
qualche parte al posto di stare ferma, per prendere un'altra qualifica visto che posso. Così sono andata di
nuovo all'* per iscrivermi al corso di cuoca, ma non mi hanno accettato perché ero troppo grande sta volta!
Allora una prof. mi ha detto che c'è un altro corso da cameriera, è la stessa cosa più o meno, ci ho pensato...
e alla fine ci siamo iscritte io e ‘sta mia amica.”(Intervista 154).
Le famiglie, nella quasi totalità, anche nei casi di madri sole, sostengono e appoggiano la scelta di studiare –
talvolta come alternativa al “non fare niente” – e sono disposte ad affrontare difficoltà economiche ritenendo
che le spese per l’istruzione, secondaria e in alcuni casi universitaria, siano una priorità. Persino alcuni tra
coloro che hanno carriere ai margini o nell’illegalità sono iscritti a scuola. Andare a scuola, continuare a
studiare, è un “riparo” o un modo per evitare di “finire a fare un lavoro come il mio” ossia un lavoro
manuale sottopagato “da immigrati”.
Questo è un elemento di differenziazione dei percorsi scolastici e professionali dei giovani di seconda
generazione delle migrazioni contemporanee rispetto alle traiettorie dei figli degli immigrati regionali del
passato. Diversamente da quanto accadeva per le famiglie immigrate dal Meridione negli anni ‘60, sembra
rarissimo che le famiglie straniere chiedano ai figli di abbreviare il percorso scolastico per contribuire con un
proprio salario. I figli raccontano di essere stati incoraggiati a proseguire gli studi o a rimanere a scuola
anche nei casi di insuccesso scolastico.
«I tuoi genitori come hanno reagito alle bocciature? Alla prima male, perché io studiavo prima ma dalla
terza ho lasciato e l’hanno presa un po’ male, soprattutto mia mamma. Mia mamma l’ha presa malissimo,
ha pianto. Loro non sono mai d’accordo per lavorare, anche adesso, vorrebbero che studiassi, però io ... Poi
[dopo la seconda bocciatura ] i miei non mi volevano più fare uscire, solo con le mie migliori amiche, però
poi sono stata promossa e si sono ammorbiditi ....» (Intervista 75).
La famiglia vede nella scuola e nell’investimento in una scolarità lunga un possibile canale di mobilità
sociale, in alcuni casi ha ostacolato anche i “lavoretti” che i figli volevano fare per avere una disponibilità
economica ai propri consumi, poiché avrebbero rischiato di distrarsi dallo studio: «mia madre non ha mai
preteso che io facessi qualcosa. Lei mi dice: Io lavoro, guadagno e spendo anche per te, tu studi e fai quello
che devi .... Ognuno ha il suo ruolo. Lei e anche mio padre sentono che il loro ruolo è mantenerci e il nostro
è quello di studiare. Quindi non ho mai sentito l'esigenza di guadagnare qualcosa ...loro non me l'hanno mai
chiesto e anzi, se avesse preso troppo tempo sono sicura che non mi avrebbero permesso di farlo» (Intervista
80).
Per i ragazzi ciò può generare una situazione di paradosso dal momento che il supporto finanziario e morale
da parte delle famiglie sembra scontrarsi in alcuni casi con l’effetto, che vedremo, di scoraggiamento e di
demotivazione esercitato dall’istituzione scolastica nei confronti di chi ha risultati scolastici negativi o tempi
di apprendimento diversi a causa delle difficoltà linguistiche.
La scuola di massa e l’aumento della durata media della scolarità sono uno dei cambiamenti più netti tra
l’esperienza dei figli degli immigrati stranieri contemporanei rispetto ai figli degli immigrati regionali del
passato. Mentre per le seconde generazioni di immigrati interni degli anni ’60-’70 il lavoro era un’alternativa
allo studio, per le seconde generazioni di oggi non sembra messa in discussione l’utilità o l’opportunità di
provare comunque a proseguire la formazione: è una novità rilevante, almeno per l’Italia. In realtà, nei
racconti dei giovani degli anni sessanta figli di immigrati meridionali, il lavoro disponibile per chi
abbandonava la scuola era quasi sempre precario, mal pagato e poco professionalizzante, ma intanto era
percepito come un primo passo che avrebbe condotto prima o poi a un inserimento definitivo nel lavoro
operaio e comunque la scuola era vista come destinata ad altri, “non fatta per loro”.
La somiglianza col passato sta invece nel fatto che le famiglie immigrate hanno cercato nell’avviamento al
lavoro, e oggi nella scuola, anche un riparo da esperienze di devianza, uno strumento di formazione e di
controllo rispetto a un ambiente che non si conosce e che presenta potenziali rischi di devianza (in particolare
tossicodipendenza e microcriminalità). D’altra parte l’effettiva barriera per l’accesso alle occupazioni più
prestigiose si è spostata in avanti, dall’istruzione secondaria superiore all’università, e oggi è soprattutto
l’ammissione all’ università a bloccare la prosecuzione del percorso formativo.
Pochi dei giovani stranieri da noi intervistati che hanno un lavoro, come gran parte dei giovani italiani, sono
stabilmente inseriti in una posizione che prevede definiti passaggi di carriera, o che sia coerente con le
competenze acquisite a scuola. Non sappiamo quali conseguenze ne deriveranno rispetto alla collocazione di
classe, tuttavia è chiaro, dai racconti dei giovani, che una scolarità lunga non garantisce un percorso di
“integrazione riuscita”, anzi, talvolta produce, come vedremo, un disorientamento che si manifesta
129
RAPPORTO SECONDGEN
specialmente nella scelta dell’università, quando avviene “perché non ci sono posti di lavoro”, “tanto per
provare”, senza progetti e conoscenze dell’istituzione.
Come si arriva in quella classe? Informazioni e scelta scolastica
Quali sono i meccanismi che determinano una concentrazione dei figli degli immigrati nelle scuole
secondarie superiori dove si trovano gli italiani più svantaggiati e “problematici”?
In passato il problema era soprattutto la selezione precoce nelle scuole inferiori, anche se la scuola superiore
era chiaramente stratificata in una gerarchia di qualità e prestigio. Oggi la selezione non avviene più nei corsi
inferiori e tutti i diplomi consentono l’iscrizione all’università, ma alle superiori molti studenti sono respinti,
abbandonano gli studi o vengono instradati in percorsi di bassa qualità, con poche prospettive di lavoro e che
non preparano a superare le prove di ammissione e i primi anni di corso all’università.
L’aumento della durata media della scolarità fa sì che le competenze nell’orientarsi in un sistema, siano
determinanti per le carriere. Nella scuola, e ancor prima, nelle modalità di scelta dell’indirizzo, della sezione,
si producono processi di selezione che condizionano i percorsi successivi.
Pensiamo al tipo di informazioni che possono circolare all’interno delle reti sociali di famiglie migranti e su
come esse possono influenzare l’iscrizione a determinate scuole o l’inserimento in certe carriere lavorative.
«Che cosa hai scelto di fare dopo le medie? Ecco, questo è il grosso errore che ho fatto, avendo dei genitori
che non hanno studiato, qua in Italia, non sanno come funzionava la scuola italiana, io ero uscito con
“distinto” dalle medie e mio papà, così per sentito dire, io volevo fare magari geometra perché mi piaceva
molto disegno tecnico o liceo scientifico, mio papà ha detto: ma no, vai a fare un istituto professionale che ti
insegna un mestiere per andare a lavorare. Ed è stato il più grosso errore della mia vita che ho fatto. Anche
i professori ... non mi hanno indirizzato ... io ero uscito benissimo e loro mi hanno detto: vai a fare l’istituto
professionale; non capisco il perché; anche mio papà ha insistito per questa cosa qua che poi ti trovi un
lavoro, un mestiere, io allora pensavo che le scuole fossero uguali, cambiava solo l’indirizzo, non riuscivo a
visualizzare questa cosa del liceo, istituto tecnico, professionale» (Intervista 64). Il padre, di fronte a un
sistema che non conosce, orienta a un percorso che gli pare chiaro nelle finalità e che lascia aperta l’opzione
universitaria. Sua figlia non propone un’alternativa perché pure lei, nonostante abbia frequentato in Italia la
scuola media, non è informata sulle differenze tra indirizzi di studio.
I genitori stranieri incontrano maggiore difficoltà a conoscere quali corsi sono offerti, ad avere informazioni
su determinati indirizzi scolastici e sulla reputazione di alcuni istituti, a valutare se l’orientamento scolastico
è avvenuto “al ribasso”, nonostante i risultati nettamente positivi, come in questo caso, o perché si lascia
poco tempo per acquisire padronanza nella lingua italiana e la si usa come criterio, come è accaduto a Costel
e a Filippa.
Costel: «La scuola media mi aveva orientato verso un professionale, certamente non un liceo. Mi dicevano
che era troppo difficile per me per la questione della lingua, ed infatti non l’ho fatt.» (Intervista 3).
«In terza media, come hai deciso di andare al *?»
Filippa: «Io in quel momento non sapevo le scuole, di cosa di tratta. I professori dovevano aiutarci un po' e
la mia professoressa di italiano mi ha consigliato questa “Per te va bene questa dato che non sai ancora
l'italiano e non puoi fare una scuola difficile» (Intervista 84).
Le interviste raccolte consentono di mettere a fuoco i meccanismi sociali a livello micro che contribuiscono a
plasmare le scelte e i percorsi scolastici,
a) per esempio le informazioni trasmesse mediante “passaparola” tra i giovani e tra famiglie migranti rispetto
alla reputazione di una scuola:
«Quella scuola lì, (l’istituto professionale per elettricista.) non andava bene... vedendo i ragazzi che sono
usciti da quella scuola, gli esempi, sono ancora in giro adesso […] è sempre una scuola professionale,
t'insegna il lavoro, però per andare a rovinarmi tre anni... per la gente che ci va! Ovviamente cerco sempre
di andare nella scuola dove non studi molto, ma dove almeno cerco di non “rovinarmi” diciamo...non
esagerare. Se sei in una classe dove diciannove fanno casino, non puoi stare lì a non fare niente, proprio
non puoi... » (Intervista 114).
b) In qualche caso una scuola può aver fama di essere “accogliente e ben disposta verso gli stranieri”
(Kasinitz et al. 2008):
130
RAPPORTO SECONDGEN
«Io sinceramente all'inizio non sapevo neanche di cosa si trattasse quando sono venuta qua, poi pian piano
ho capito... avrei scelto un'altra scuola di sicuro, ma è andata così, pazienza! Sicuramente non la rifarei,
però da una parte sono anche contenta, ho conosciuto delle amiche... Se fossi andata in un'altra scuola,
forse non sarei stata così accolta... questa scuola è anche un po' per stranieri, diciamo che ci vanno
soprattutto stranieri, invece andare al liceo classico non ce ne sono così tanti, sono due o tre e basta. Invece
lì eravamo metà italiani e metà stranieri, allora ci capivamo» (Intervista 84).
c) Talvolta, se si verificano azioni di dirottamento verso scuole e indirizzi “da immigrati” lo si capisce tardi,
come testimonia la madre di Pilar:
« E’ andata al * . Me lo ricordo bene, perché non sapevo bene come fare. Io sono un’insegnante e per me la
scuola è importante. Quando sei in un paese straniero, non sai molte cose. Così ho chiesto un po’ in giro e
una mia amica mi ha parlato di questa scuola, ci andava sua figlia. Mi ha detto che poteva essere utile per
trovare un lavoro. Adesso so che il * non è una buona scuola. Ci vanno tanti stranieri. E secondo Lei per
questo non è una buona scuola? Si sa che agli stranieri non si lasciano i posti migliori. Nel lavoro e nella
scuola. Dovevo informarmi di più. La colpa è mia. Mi sono fidata» (Intervista 55).
d) Una giovane ha seguito le indicazioni dell’insegnante di italiano che le ha suggerito di fare l’istituto
professionale di servizio sociale perché spendibile nella “comunità di emigrati”. I genitori erano totalmente
disinformati. «Ma guarda, i miei genitori non sono, cioè, non hanno… cioè, ti dico, non hanno gli strumenti
anche per poter fare un confronto tra un istituto e l’altro. Anzi, i miei genitori, forse, magari con la poca
conoscenza… Beh, tieni conto, mio padre è da tanti anni che vive in Italia però non ha, diciamo, la
conoscenza approfondita di tutti i servizi sul territorio oppure sai di questioni amministrative» (Intervista
124).
e) Il materiale diffuso nelle scuole o in internet può dare degli orientamenti alle famiglie ma talvolta è visto
con diffidenza dai ragazzi: «sono tutte pubblicità, siamo tutti bravi a scrivere, poi alla fine non fanno nulla
di ciò che dicono» (Intervista 7) i quali sono consapevoli che non basta sapere quali indirizzi e corsi sono
offerti, bisogna conoscere bene il sistema.
Nella scelta entrano in gioco anche la casualità, il “sentito dire”, i malintesi su che cosa significhi un corso,
la conformità al percorso dei fratelli maggiori, l’assenza del sostegno della famiglia che in molti casi esercita
una pressione generica a continuare gli studi e lascia scegliere. “Fai quello che vuoi tu”, “fai quello che ti
piace”, “basta che ti impegni” sono frasi ricorrenti nelle interviste e denotano incompetenza nell’affrontare
l’istituzione scolastica più che una particolare fiducia nelle capacità decisionali dei figli.
L’intervista a un ragazzo marocchino (Intervista 101) illustra differenti difficoltà che si rinforzano
reciprocamente: «…e alla fine mi sono iscritto al *, meccanica, professionale, e sto facendo il quarto anno.
Perché hai scelto meccanica? perché ho saputo di meccanica, e credevo che era l’unica più facile che
riuscivo affrontare. L’ho deciso io questo. Ci avevano pure dato un libro arancione con le altre scuole
[orientamento della scuola], ma ho deciso io, poi mi hanno parlato, e hanno fatto loro l’iscrizione. Delle
medie solo uno [compagno] è venuto al *, altri, tipo liceo scientifico, istituti tecnici Mio padre? Niente.
[assenza di indicazioni dai genitori], era l’unica cosa che potevo fare. Ma non avevi in mente altre altre
idee? L’idea di diventare un giocatore, quello sì !!! in Marocco già giocavo a calcio, mi piace il calcio, mi
piace lo sport, lo faccio comunque. […] Non sapevo che c’erano delle scuole sportive, non lo sapevo,
[mancanza di informazioni], ho pensato solo a meccanica ma sinceramente pensavo un’altra cosa. Tipo,
quando si guasta una macchina tu vai dal meccanico, invece è totalmente un’altra cosa: calcolo numerico,
autocad ... non me l’aspettavo, mi aspettavo un’altra tipo chance, quando siamo scesi a veder le macchine e
... no, no, non ho pensato di cambiare scuola [difficoltà a cambiare scuola], ormai ero lì, e anche i miei
fratelli, uno fa elettricista, quello più grande, sempre lì al *, ultimo anno, e l’altro ha fatto un anno tipo il
dentista, ecco sì, odontotecnico, sempre lì al *, si è trovato in difficoltà, non sapeva proprio fare, l’hanno
bocciato e boh, ha deciso di passare a meccanico. Siamo pure tutti e tre in classe, sia io che mio cugino, che
lui.” Continua anche dopo la qualifica con queste motivazioni, benché non abbia alcuna voglia di studiare e
abbia dovuto ripetere un anno: la scuola è comunque un’ alternativa alla strada: “Tu però, alla fine del terzo
anno avresti potuto smettere. Sì, però, visto che dicono : la crisi, e altri miei compagni che avevano finito la
quinta non sono riusciti a trovare lavoro, quindi, meglio che continuo, tutto ok anche se studiare ... niente,
non mi piace niente.”
Il problema dell’orientamento scolastico, come terreno che può generare disuguaglianze, si pone dunque
come una questione di assoluta rilevanza nei percorsi dei giovani di seconda generazione che tocca
trasversalmente famiglie, ragazzi e istituzioni scolastiche.
L’orientamento verso i corsi professionali da parte dei docenti può essere fatto in buona fede, per evitare
cocenti delusioni e ripetenze, ma indirizza comunque verso corsi considerati “facili” dagli stessi studenti e
131
RAPPORTO SECONDGEN
per questo svalutati e svalutanti ai loro occhi. Nelle scuole secondarie di primo grado frequentate dagli
studenti da noi studiati esistono da tempo procedure ufficiali e formali per l’orientamento scolastico (test,
presentazioni e visite delle scuole superiori, colloqui orientativi) ma queste procedure non sembrano in grado
di incidere in profondità sul risultato finale che vede i giovani di origine immigrata indirizzati verso corsi
tecnico professionali in misura maggiore dei coetanei italiani.
Dalle interviste risulta che l’orientamento scolastico non ha fornito informazioni molto chiare o, almeno, non
sembra essere avvenuto nella maggior parte dei casi con modalità realmente incisive sulla scelta della scuola
superiore.
In alcuni casi le famiglie resistono all’orientamento della scuola. A volte accade grazie all’intervento di una
figura esterna che diventa cruciale, spesso è il datore di lavoro di uno dei familiari, utile per acquisire
informazioni e per avere consigli. Questo può essere un vantaggio che apre opportunità alternative
all’orientamento “verso il basso” quando il datore di lavoro è aggiornato sulla reputazione delle scuole
secondo i parametri della classe media locale: «Mi ha indirizzato la signora dove lavorava mia mamma, che
aveva i figli che avevano fatto quella scuola, e comunque io le avevo detto che cosa volevo fare giù e lei
conosceva il liceo scientifico e ha detto che corrispondeva» (Intervista 105).
La fiducia verso i datori di lavoro può così superare l’indicazione della scuola: “I miei non conoscono bene
come funziona la scuola in Italia e quando ho dovuto scegliere abbiamo chiesto alla famiglia dove lavora
mia nonna di aiutarci a capire. Io avevo le idee chiare, volevo diventare ingegnere. Nella nostra comunità
c’è un signore che è un ingegnere, ha lavorato nelle Filippine. Allora con la signora abbiamo guardato il
catalogo delle suole superiori e abbiamo scelto. E gli insegnanti: cosa ti hanno suggerito alla fine della
scuola media? La mia insegnante aveva detto a mia madre di scegliere per me un istituto tecnico, così posso
scegliere se andare all’università o cercarmi un lavoro. Mi avevano suggerito il *, ma il marito della
signora di mia nonna ci ha consigliato l’*, perché migliore. Il *, adesso, lo so è una scuola di periferia,
mentre questa è centrale; lì si sente che ci sono molti stranieri» (Intervista 7). Questo caso mette in luce i
criteri adottati dai datori di lavoro condivisi dalla famiglia e dal ragazzo che ha progetti scolastici ambiziosi.
La scelta di una scuola rispetto a un’altra nell’ambito dello stesso indirizzo di studio è motivata con una
distinzione tra scuole di centro/scuole di periferia, a cui corrisponde la differenza tra scuole che funzionano e
scuole problematiche, sostenendo che in queste ultime ci sono molti stranieri e che per questo i datori di
lavoro le avevano sconsigliate.
Tuttavia per molti studenti con percorsi non brillanti l’orientamento alla scuola secondaria di secondo grado
sembra semplicemente confermare l’idea di non essere adatti a una “scuola difficile”: «Io chiedevo... perché
non sapevo neanche che scuole c’erano qua. Il livello scolastico che avevo in terza media non era proprio
buonissimo per un liceo. Se tornassi indietro io farei un liceo, anche con quella media che avevo [votazioni
basse].... però va bene anche così, non mi pento. Ho scelto la scuola superiore non per tanti motivi, perché
avessi una preferenza sulla singola scuola, ma perché era la più vicina a casa mia, - perché mi dicevano che
era più facile rispetto al liceo... poi a quell’epoca avendo quei pensieri di bassezza, che non potevo farcela,
come mi dicevano quelle streghe là [le compagne]... “Tu non ce la fai a fare un liceo”. Alcune di loro si
l’han fatto, ma se le paragoni a me ora non sanno niente perché non studiano. I professori mi dicevano “Ma
fai questa scuola [un istituto professionale], è nello stesso edificio [delle scuole medie], è una bella scuola,
poi dopo cinque anni se non vai all’università hai già una professione in mano, ti fai due soldi”. Non mi
hanno indirizzato verso altre scuole» (Intervista 69).
Alcune domande delle interviste erano infatti orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati
presi in considerazione e perché. I racconti non sempre sono espliciti, alcune risposte sono molto brevi e
generiche ma si può affermare che il numero delle alternative effettivamente prese in considerazione è
circoscritto e generalmente basso.
Se si è figli di genitori istruiti l’analisi delle opzioni è più articolata, ci si informa, si discute ed è più facile
intraprendere percorsi diversi da quelli consigliati dalla scuola. La famiglia può vivere una mobilità
occupazionale discendente ma essere culturalmente attrezzata nel seguire e consigliare i figli inducendoli ad
esempio a scelte scolastiche nelle scuole migliori e “più difficili” .
Genitori e insegnanti: informarsi e negoziare
Le interazioni con la scuola e le istituzioni, che influenzano i percorsi scolastici dei figli, sono difficili ma
non tanto per differenze culturali o per un orario di lavoro particolarmente gravoso dei genitori di origine
straniera. Nei racconti dei figli la capacità di negoziazione delle famiglie risulta scarsa, e talvolta comporta
132
RAPPORTO SECONDGEN
l’abbandono del giovane alla burocrazia del sistema. Alì viene iscritto a una scuola professionale e tenta
dopo due anni di cambiare: « Già dal secondo anno vedendo cosa c’era in giro, scientifico, tecnico, un po’ i
compagni, che erano persone che gliene fregava poco o niente della scuola, in classe andavamo bene in tre,
e quindi lì ho deciso di cambiare istituto, di andare dal professionale a un tecnico. Sono andato a parlare a
scuola e mi hanno detto di fare il serale. No, io voglio fare il diurno. E con quali argomenti ti proponevano il
serale? Dicevano che è più difficile l’integrazione al diurno, c’erano tante materie, che al serale era meno
difficile, ma io non è che potevo fare il serale e fare niente di giorno, allora nel parlare, il preside ha detto:
ti preparo la documentazione e tutto. Io ho aspettato perché dovevo fare gli esami integrativi delle tre
materie col programma di due anni che non avevo fatto. Io sono andato, perché ero deciso di fare questo
cambiamento, ma quando sono tornato, si era dimenticato che doveva prepararmi i documenti. ... io mi sono
sentito un po’ .... non .... non rispettato, e allora, va be’, ho continuato il professionale» (Intervista 64)
La tendenza dei genitori a delegare l’educazione ai docenti e a intervenire poco nei colloqui e negli incontri
può venire scambiata per disinteresse per l’istruzione dei figli e attribuita alla loro cultura o al maggiore
autoritarismo del sistema scolastico del paese di origine. In realtà questo apparente distacco deriva non solo
da problemi oggettivi (gli impegni di lavoro, le difficoltà linguistiche), ma in particolare dal fatto che gli
insegnanti stessi rinviano una immagine negativa del rendimento scolastico dei figli e della influenza dei
genitori su di essi, attribuendo loro pratiche educative errate (Delay, 2011).
Anche quando i genitori stranieri interloquiscono con gli insegnanti, di rado hanno le risorse culturali e
sociali per negoziare attivamente le pratiche educative, i giudizi e gli orientamenti vocazionali.
Questo è un limite di tutti i genitori delle classi medio basse nei confronti del sistema scolastico5. I genitori di
ceto medio superiore (compresi i casi di immigrati) sono meno subalterni alla dominazione simbolica e
culturale del sistema scolastico e sanno controbattere gli argomenti e le proposte dei docenti. Ottengono
quindi condizioni più favorevoli per i figli e mantengono un maggior controllo del loro percorso (Lareau,
2011). In effetti, anche fra i nostri intervistati, come abbiamo visto, vi è qualche caso di giovani di seconda
generazione che ha rifiutato il consiglio di iscriversi a corsi professionali e si sono iscritti ai licei ottenendo
risultati positivi.
Tuttavia, la minore capacità delle famiglie immigrate di orientarsi nel sistema scolastico italiano non risente
solo di fattori di classe, comuni con gli italiani delle classi popolari, o di discriminazioni dirette e indirette da
parte della scuola. Vi è una serie di fattori specifici della condizione di migranti che agiscono con gli stessi
meccanismi dei fattori di classe . Anche quando le famiglie immigrate appartenevano ai ceti medi del paese
di origine, la situazione conosciuta è diversa da quella del nuovo paese di residenza e soprattutto la
migrazione ha troncato molti rapporti e comportato per tanti il declassamento .
La situazione dei genitori di classe media immigrati è ben illustrata da un padre colto e che ha elevate
aspettative rispetto all’istruzione del figlio :«io ricordo che andai dal preside, a parlare con il preside. non
sono riuscito a parlargli, lui era molto secco. Io gli volevo dire delle difficoltà del ragazzo, non sono
riuscito» E succede la stessa cosa con un’insegnante . «Non sono riuscito a parlare, ha solo detto dei voti,
che non aveva una buona preparazione...». Ripensando a quelle difficoltà, riconosce la sconfitta. Avevano
scelto scuole prestigiose frequentate dalla borghesia locale ma “l’integrazione” non è avvenuta. « Siamo stati
un po’ vanitosi. Avevamo chiesto in giro: qual è la scuola migliore a * senza fare domande precise. Dove
stavamo eravamo vicini alla scuola * dove ci dicevano che andava tutta l’élite di *, sai che chi arriva
dall’estero come noi ha l’idea fissa dell’istruzione, della scuola....»
Un altro padre, insegnante, si adatta, sceglie di apparire “modesto” nei colloqui con gli insegnanti che
probabilmente si aspettano dai genitori immigrati la docilità o l’opposizione diretta. «Le è mai capitato di
sentirsi a disagio nei rapporti con gli insegnanti di suo figlio in Italia? Non a disagio, mai, mai, anzi essendo
5
“The evidence shows that class position influences critical aspects of family life: time use, language use, and kin
ties.[…] Differences in family dynamics and the logic of childrearing across social classes have long-term
consequences. As family members moved out of the home and interacted with representatives of formal
institutions, middle-class parents and children were able to negotiate more valuable outcomes than their workingclass and poor counterparts. In interactions with agents of dominant institutions, working-class and poor children
were learning lessons in constraint while middle-class children were developing a sense of entitlement” (Lareau,
2002, p. 772 -774). L’autrice inoltre sottolinea che “Thus my data indicate that on the childrearing dynamics
studied here, compared with social class, race was less important in children’s daily lives” (p. 773). Anche i
risultati di una recente survey su famiglie di classe media e di classe operaia a Torino (Bonica, Olagnero,2011)
confermano che le traiettorie della classe operaia appaiono costantemente più critiche di quelle della classe media
riguardo alla scelta della scuola, agli insuccessi scolastici, ai difficili rapporti con gli insegnanti.
133
RAPPORTO SECONDGEN
che anche io sono stato insegnante, si è stabilita subito una linea di dialogo, anche perché mi piace di essere
sempre una persona modesta e non fare caso agli studi perché è il comportamento che conta» .
Questo padre non può condividere esperienze e informazioni con gli insegnanti del figlio e costruire una
relazione collaborativa paritaria, poiché non è effettivamente un loro “collega”.
Gli anni intercorsi da quando hanno terminato gli studi, oltretutto in sistemi scolastici differenti, rendono
sovente obsolete o poco utili le competenze e le informazioni possedute dai genitori. Vite familiari più o
meno centrate sulla casa, frequentazioni limitate a una cerchia di connazionali, di colleghi di lavoro o di
vicini limitano fortemente la possibilità di esplorare la società in cui ci si inserisce. Se i giovani stanno molto
in strada o ai giardinetti si trovano comunque a frequentare cerchi di giovani con conoscenze simili
Un risultato diffuso è che questi giovani hanno più probabilità di conoscere in modo parziale e distorto il
mercato del lavoro e il sistema formativo, avendo rapporti solo con pochi italiani lavoratori manuali o datori
di lavoro anziani. Anche gli amici e i parenti eventualmente presenti in Italia si concentrano in professioni,
aree geografiche, reti di relazioni piuttosto limitate e specializzate. Questo fa sì che a molti giovani di
seconda generazione manchi una percezione più ampia delle opportunità disponibili e delle vie migliori per
coglierle. Anche se non si pensa di fare lo stesso lavoro “da immigrati” dei genitori, si tende a restare in
attività affini (infermiere, ristorazione, metalmeccanica) perché non è facile conoscere le alternative e avere
testimonianze concrete (amici, parenti, vicini di casa) della loro praticabilità. Una madre che assiste anziani
può conoscere infermieri e ispirare ai figli la scelta di questa professione come concreta opportunità di
occupazione, ma più difficilmente questi immigrati conosceranno, per esempio, tecnici di laboratorio, biologi
o altri specialisti in campo sanitario che possano fornire un esempio di percorsi alternativi e più promettenti e
fornire concrete risorse per intraprenderli.
Conclusioni: aspetti strutturali e micro interazioni
Aldilà delle politiche specifiche adottate “per l’integrazione degli stranieri” sembrano ancora più importanti
per il futuro della seconda generazione le direzioni che prenderà la scuola italiana in generale. Si pensi, ad
esempio, al rischio della crescita delle disuguaglianze tra scuole e tipi di scuola nel fornire competenze (e un
avvio verso il lavoro) così come la svalutazione di alcuni indirizzi. Se si analizzano i vari tipi di scuola
(centri di formazione professionale, istituti professionali, istituti tecnici, licei) le differenze sono chiare. In tal
senso queste disuguaglianze daranno cruciali per l’integrazione futura. Pertanto sono necessari interventi non
solo rivolti specificatamente a contenere la segregazione etnica ma anche a contenere in generale le
disuguaglianze tra scuole. Ciò che può danneggiare il futuro del figlio dell’immigrato non è solo non fare
amicizia con figli di italiani ma anche, e forse soprattutto, il fatto di frequentare scuole scadenti, dove si
impara poco. La scuola produce e riproduce differenza. La scuola non è (solo) strumento principale di
integrazione dei giovani, in particolare dei giovani immigrati, in un’ottica universalista e basata sulle pari
opportunità, ma (anche) di discriminazione e di riproduzione di una stratificazione di classe. Il fatto che
giovani di origine immigrata e/o di ceti popolari siano svantaggiati nel sistema scolastico è prevedibile e
connaturato all’attuale sistema. Le numerose e approfondite ricerche sui fattori che influenzano il rendimento
scolastico finiscono per ribadire che chi possiede caratteristiche e comportanti più vicini a quelli di un
idealtipo di ceto medio superiore ha maggiori possibilità di venire inserito in percorsi che consentono
l’accesso o la permanenza in questo ceto. Non si mette in discussione il fatto che la scuola non dovrebbe
limitarsi a riprodurre e conservare la struttura di classe, ma promuovere attivamente il riconoscimento e la
promozione di doti individuali, della diversità culturale e delle capacità innovative.
E’ vero che la scuola pubblica italiana è più universalista e di migliore qualità media che in altri paesi
sviluppati e che si è organizzata bene per inserire gli immigrati nelle scuole primarie. Ma non nelle
secondarie.
Le dinamiche che stanno dietro a difficoltà e carenze non dipendono dalla presenza degli stranieri e non
possono essere affrontate da politiche e interventi indirizzati solo a loro. Per esempio, le difficoltà e le sfide
che la scuola professionale deve affrontare oggi in Italia (Santagati, 2011) non sono il risultato delle
difficoltà di adattamento culturale degli studenti stranieri, né delle difficoltà degli studenti stranieri e italiani
a stare insieme. Sono piuttosto il risultato di uno stress strutturale dovuto a diversi fattori, come il
cambiamento dell’assetto industriale e gli effetti di questo sulle carriere nel lavoro manuale e artigianale (ad
esempio le minori possibilità di mettersi in proprio), essenziale per motivare gli studenti. È interessante
notare che anche gli studi che confrontano il destino scolastico e professionale in contesti nazionali differenti
(Crul and Holdaway 2009; Crul and Schneider 2010; Crul and Vermeulen 2003) sembrano indicare che
assetti istituzionali - l’età in cui inizia la formazione scolastica; il numero di ore quotidiane di attività in aula,
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RAPPORTO SECONDGEN
a contatto con gli insegnanti, durante la scuola dell’obbligo; i meccanismi di selezioni delle scuole - ben
lontani da misure pensate per, o contro, gli immigrati e i loro figli sono quelli che hanno gli effetti maggiori
sulle seconde generazioni.
Attualmente, si tende ad immaginare le “politiche per gli immigrati” come un campo di intervento specifico
e focalizzato su temi “etnico-culturali”. Invece, se immaginiamo l’immigrazione come un processo che può
portare a posizioni specifiche nel sistema di stratificazione locale, si capisce la necessità di un approccio più
“integrato” che consideri il rischio dell’emergenza di nette disuguaglianze etniche negli anni futuri non in
primo luogo come una questione di discriminazione e di incomprensione culturale, ma piuttosto di
cambiamenti nel mercato del lavoro, nel sistema scolastico, nelle aree urbane ecc. Se quindi ragioniamo non
in termini di “popoli” che devono essere integrati, ma soprattutto di specifiche posizioni nella struttura di
classe locale, le implicazioni politiche derivanti sono significative.
Pensiamo, ad esempio, a politiche che prendono in considerazione aspetti come i ritmi temporali della
famiglia immigrata e la corrispondenza con i tempi dell’istituzione scolastica. Le ricerche che confrontano la
riuscita scolastica dei figli dei migranti in diverse nazioni suggeriscono, infatti, che le seconde generazioni
ottengono risultati migliori in quei sistemi in cui la scelta della scuola superiore arriva più tardi, dove è facile
cambiare tipo di scuola dove l’orario scolastico è prolungato e dove, specialmente nei primi anni di
inserimento, non è richiesto studio individuale a casa. Una maggiore sensibilità generalizzata agli effetti
strutturali dei processi migratori sarebbe importante. In quest’ottica, sul futuro delle seconde generazioni
incideranno in maniera rilevante i cambiamenti del mercato del lavoro o del sistema scolastico in generale
(cioè non solo per quanto riguarda le diseguaglianze tra stranieri e locali), che probabilmente tendono a
penalizzare in modo sproporzionato i figli degli immigrati, in molti casi concentrati nei filoni meno
prestigiosi del sistema scolastico e nei settori del mercato del lavoro meno protetti.
È importante intervenire non tanto con la prospettiva del “dialogo tra culture” e dell’appartenenza nazionale,
ma raccogliere dati sugli effetti sociali della migrazione, e agire su questi. In questo senso l’”integrazione”
dipenderà maggiormente da misure generali per contenere le diseguaglianze sociali che non da misure “per
gli immigrati” o da azioni “interculturali”. Proprio il fatto di riconoscere le famiglie immigrate e i loro figli
come parte costituente della società italiana (anche in tempi di crisi) dovrebbe spostare l’attenzione a
questioni più vaste, che includono gli immigrati e i loro figli in un quadro più generale.
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RAPPORTO SECONDGEN
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RAPPORTO SECONDGEN
Le relazioni scuola-famiglia nelle rappresentazioni dei genitori migranti
Arianna Santero
Introduzione
Questo capitolo analizza le relazioni scuola-famiglia dal punto di vista dei genitori migranti in Italia, e in
particolare in Piemonte, focalizzandosi sulle pratiche e sulle rappresentazioni attraverso cui la discontinuità
sociale e culturale è mantenuta, re-inventata e trasformata in disuguaglianze.
Dagli esordi della sociologia come sguardo sul (non) inserimento dei giovani appartenenti a minoranze
socio-culturali, il tentativo di dar conto delle loro difficoltà di inclusione fa riferimento al rapporto tra
genitori e figli. Già nel 1902, ad esempio, Hapgood aveva rilevato che i giovani ebrei russi del ghetto di New
York si vergognavano dei genitori, del loro modo di parlare, vestirsi e comportarsi, vivendo un distacco dai
loro ideali (in Barbagli e Schmoll, 2011). Anche Thomas e Znaniecki (1918), nel loro noto lavoro sugli
immigrati di origine polacca, attribuivano le difficoltà di integrazione delle “seconde generazioni” ai
cambiamenti nei rapporti tra genitori e figli, in particolare dovuti al fatto che negli Stati Uniti per i genitori
non fosse possibile mantenere modalità di socializzazione del paese di origine.
La famiglia, e in particolare il processo di socializzazione alle istituzioni attuato dai genitori nei confronti dei
figli in seguito all’emigrazione, è però accantonata negli anni seguenti, con la specializzazione delle ricerche
sociologiche per sotto-temi e approcci metodologici. Rimane, certo, citata spesso come fattore che influenza
il percorso sociale delle seconde generazioni, sottolineandone talvolta gli effetti inclusivi, ad esempio
attraverso norme e valori, sostegno economico o relazionale, talaltra evidenziando piuttosto gli effetti di
esclusione, etichettamento, demotivazione, stress (Acocella, 2011; Sen, 1992). Tuttavia, con il concentrarsi
degli studi sulle migrazioni su aspetti più relativi a mercato del lavoro e, successivamente, istruzione, la
famiglia intesa nel suo complesso sembra rimanere al margine. È stato solo più tardi, con il contributo degli
studi di genere sulla mobilità geografica, che il punto di vista più ampio sulle relazioni familiari torna in
primo piano, ma rimane confinato nel filone di ricerche sulle migrazioni femminili (es. Favaro e Tognetti
Bordogna, 1991).
Diversi studi quantitativi hanno mostrato una associazione tra risorse socio-economiche e svantaggi dei figli
degli immigrati rispetto ai figli dei nativi in istruzione e mercato del lavoro della società di destinazione,
tentando di pesare i fattori esplicativi secondo la nazione di origine dei genitori. All’interno di questo schema
teorico raramente la famiglia è compresa come una unità di analisi nel suo complesso. Si considera
l’individuo (in questo caso lo studente/la studentessa migrante) come unità di analisi e le risorse famigliari
vengono trattate come attributi individuali, ovviamente ascritti. Le famiglie sono categorizzate secondo
variabili che riguardano la struttura famigliare o la “coloritura culturale”, desunta dalla cittadinanza o
dall’“etnia”. Queste categorie sono impiegate come proxy di una serie di dotazioni di tipo socio-culturale,
che comprendono anche valori, impostazioni educative e credenze rispetto al ruolo dell’istruzione, oltre che
elementi economici, senza però mostrare i processi sociali attraverso cui queste caratteristiche plasmino
l’interazione scuola-famiglia. Prospettive che tendono a considerare come “normali” strutture familiari
costituite da madre, padre e figli coresidenti finiscono per imputare le eventuali difformità di riuscita
scolastica a forme familiari diverse, eludendo lo sforzo analitico necessario per provare a mettere in luce i
meccanismi attraverso il nesso tra origine nazionale dei genitori e riuscita a scuola del figlio.
Guardando alla letteratura sull’inserimento sociale dei giovani migranti degli anni 2000, mentre sono
numerose le indagini empiriche che mostrano un’associazione tra risorse familiari (capitale culturale,
capitale sociale, capitale economico, norme e valori) e inclusione sociale dei figli (operativizzata come
riuscita scolastica soprattutto, e in subordine integrazione occupazionale), sono pochi i lavori che si
concentrano sui processi attraverso cui il fatto di essere genitori migranti, in determinati contesti istituzionali
e sociali, plasmi aspetti specifici di inserimento nella società di destinazione dei figli. Questo limite può
essere dovuto al fatto che raramente nelle scienze psico-sociali la famiglia venga intesa nel suo complesso,
come unità d’analisi (Suárez-Orozco e Carchill, 2011; Berry e Sam, 2011), anche per difficoltà
metodologiche dovute alla prospettiva etnocentrica che impedisce di cogliere le differenze culturali delle
forme famigliari, e dunque, stabilirne i confini (Hughes et.al., 1993). In questo senso, la famiglia è stata per
lungo tempo ai margini degli studi sulle migrazioni (Grillo, 2008; Foner, 2009).
La mobilità geografica e l’inserimento nel paese di destinazione dei bambini, tuttavia, è una questione
familiare. Il progetto migratorio dei genitori assume nuovi significati e limiti temporali in base a idee relative
al “meglio per i figli”. Il confronto generazionale sulle aspirazioni di inclusione e di mobilità sociale può
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RAPPORTO SECONDGEN
spiegare come la perdita di status dei genitori primomigranti (dovuta alla loro omologazione verso il basso
nel mercato del lavoro) sia legittimata dalle aspettative di ascesa sociale delle seconde generazioni (Santero,
2012). Le famiglie al loro interno, e all’interno di gruppi che condividono la stessa origine nazionale, si
differenziano rispetto a tratti sociologicamente rilevanti come atteggiamenti nei confronti dell’istruzione,
risorse comunicative e linguistiche da impiegare nella negoziazione con insegnanti e educatori, modalità di
presentazione del sé e delle proprie intenzioni educative/di apprendimento. Descrivere le caratteristiche
dell’interazione tra genitori e funzionari scolastici a partire da informazioni raccolte soltanto attraverso la
testimonianza dai figli/figlie restituisce un quadro necessariamente incompleto, soprattutto per quanto
riguarda i primi anni di istruzione, durante i quali, malgrado il ruolo di “bambino mediatore” dei figli degli
immigrati spesso citato in letteratura, la gestione della vita scolastica, per mandato istituzionale, è affidata ai
tutori legali degli alunni, e non agli alunni stessi.
Prospettiva teorica e obiettivi della ricerca: famiglia come unità d’analisi e ricostruzione dei
microprocessi di interazione dei genitori con la scuola
Gli studiosi sottolineano come i genitori migranti nutrano “elevate aspirazioni” nei confronti della riuscita
scolastica dei figli, ma poi questo non si traduca in un sostegno adeguato all’apprendimento e alla
motivazione allo studio. È proprio così? Perché questo accade? Nelle pagine che seguono tenteremo di
rispondere a queste domande ricostruendo i processi di interazione tra i genitori migranti e le istituzioni
scolastiche italiane, nei vari ordini e gradi e nelle diverse fasi di inserimento scolastico. In questo modo
proveremo a superare il “nazionalismo metodologico” (Eve e Perino, 2011) e considerare la famiglia come
unità di analisi per esaminare i micro-processi di interazione scuola-famiglia. Sarà utile esaminare le loro
differenze tra famiglie, una volta inserite nel contesto sociale italiano, e all’interno della famiglia, tra membri
delle convivenze familiari i quali, a seconda della loro posizione e del loro ruolo, contribuiscono attivamente
a selezionare quali processi e quali comportamenti attuare in un dato momento e rispetto a diverse situazioni.
Solo considerando gli aspetti più direttamente connessi con l’emigrazione insieme a altri fattori, come la
propensione individuale di ogni bambino/a nei confronti dello studio, insieme a ideali educativi delle
famiglie, è possibile provare a distinguere processi che riguardano tutti, e dunque non solo, o non nello
specifico, le famiglie migranti, e aspetti invece propriamente legati al fatto di frequentare la scuola in un
paese diverso da quello in cui sono nati e hanno studiato i genitori.
I contributi dell’etnografia dell’educazione che si concentrano sulle differenti modalità in cui le famiglie in
diverse posizioni sociali, indipendentemente dall’origine nazionale, si rapportano con la scuola e
socializzano i bambini ai comportamenti e ai rituali previsti dall’istituzione scolastica forniscono
documentazione empirica e analitica dei processi sociali su cui focalizzare l’attenzione. Un lavoro utile in
questo senso è lo studio condotto da Lahire con famiglie di bambini iscritti a scuole primarie in Francia
(Lahire, 1995). Non basta, secondo lo studioso, affermare che il titolo di studio basso dei genitori offre ai
bambini minori risorse, ma occorre indagare attraverso quali meccanismi di interazione quotidiana le
differenze nei comportamenti e negli stili di apprendimento incoraggiati o meno dai genitori e dagli
insegnanti si traducono in diseguali esiti in istruzione formale. Occorre quindi problematizzare il concetto di
“trasmissione” di capitale culturale (e relativi vantaggi e svantaggi connessi alle differenze tra classi medie e
classi popolari), mettendo in primo piano le pratiche di accompagnamento allo studio attuate dai genitori
rispetto alle aspettative e alle richieste implicite e esplicite degli insegnanti. Il caso dei genitori immigrati con
titolo di studio alto e le loro narrazioni potranno offrire materiale empirico interessante in questo proposito.
Le pratiche che in particolare risulta utile indagare, almeno per i primi anni di scuola dell’obbligo, sono
quelle relative a: compiti, pause, valorizzazione delle attività scolastiche attraverso valutazioni positive e
applicazioni di quanto appreso anche nell’extrascuola, monitoraggio dell’andamento scolastico (non solo
frequenza ma anche modalità e contenuti dei controlli attuati dai genitori, modalità di socializzazione e
razionalizzazione delle regole disciplinari (Lahire, 1995).
Dalla ricerca longitudinale svolta dal gruppo di ricerca coordinato da Lareau (2011) negli Stati Uniti emerge
inoltre che i genitori di classi popolari considerano il loro agire educativo tendenzialmente più separato e
parallelo rispetto a quello portato avanti dalla scuola mentre quelli di classe media sono più propensi a
immaginare i compiti dei genitori e degli insegnanti come integrati. Per questa ragione, sostiene Lareau, i
padri e le madri di classe media partecipano più attivamente alla gestione dei processi formativi e di
apprendimento che hanno luogo a scuola o tramite la scuola, acquisendo attraverso costanti micro-interventi
e confronti formali e informali con gli insegnanti molte informazioni utili per riorientare gli insuccessi
scolastici dei figli verso l’ottenimento di migliori valutazioni. Lo studio mostra che queste pratiche di
139
RAPPORTO SECONDGEN
controllo fanno sentire i genitori di classe media più sicuri e efficaci dei genitori di classe popolare nel
rispondere e negoziare le richieste delle scuole, non solo per le loro competenze formalizzate, ma anche per
le relazioni che istaurano con insegnanti e altre persone qualificate - sempre in termini di istruzione formale,
riconosciuta dalle istituzioni scolastiche - come ad esempio altri genitori di classe media.
Ipotizziamo dunque che per i genitori migranti le relazioni con le regole e le procedure scolastiche e il
rapporto con gli insegnanti siano influenzate non solo dalle loro risorse cognitive e economiche, ma anche
dalle loro risorse relazionali, in un processo cumulativo e quotidiano di creazione di asimmetrie passando da
un ordine di scuola all’altro.
L’obiettivo dello studio qui presentato è duplice: 1) investigare come i genitori tentano di socializzare i loro
figli a pratiche culturali e valori educativi sia della famiglia sia della scuola – e di gestire le eventuali
contraddizioni emergenti; 2) esplorare come i genitori immaginano possa avvenire l’inclusione socioeconomica dei loro figli nel paese ricevente, in questo caso l’Italia.
In Italia molti degli studenti ora al termine della scuola superiore sono nati all’estero, per cui sarà
interessante ricostruire le diverse transizioni scolastiche che hanno costituito la carriera educativa, dal punto
di vista dei genitori. Le informazioni normalmente raccolte su questo tema, infatti, derivano dai racconti dei
figli, e quindi sono necessariamente lacunose. Inoltre cercheremo di restituire in queste pagine la
rappresentazione che i genitori hanno di alcuni momenti di incontro predisposti dalle organizzazioni
scolastiche (colloqui con gli insegnanti, assemblee, consegna delle pagelle), per fare emergere i processi di
negoziazione della definizione della situazione e i modi attraverso cui i genitori (non) hanno tentato di
condizionare la carriera educativa dei figli.
Documentazione empirica e metodo: un approccio qualitativo
La ricerca sul campo si è svolta in Piemonte tra il 2011 e il 2014. Le caratteristiche della presenza degli
studenti con cittadinanza non italiana nelle scuole italiane e piemontesi, dove è avvenuto il campionamento,
è stata ricostruita attraverso dati del Miur (livello nazionale) e della Edilizia scolastica (livello regionale e
comune capoluogo di regione). Lo studio si concentra sul Piemonte, regione dove la presenza delle “seconde
generazioni” sul territorio e anche nelle scuole superiori è più elevata rispetto alla media italiana, in modo da
poter considerare tutto il percorso scolastico.
Tab. 1 – Prospetto genitori intervistati
Paese
di
ID
Cognome origine
dei
famiglia alias
genitori
1
Pecher
Romania
2
Fianu
Romania
3
Azergui
Marocco
4
Pinilla
Perù
5
Treska
Albania
6
Santos
Filippine
7
Ouattara
Costa d'Avorio
8
M'Barka
Tunisia
9
Edeleanu
Romania
10
Giosan
Romania
11
Diaz
Argentina
12
Vidal
Perù
13
Alioski
Macedonia
14
Lena
Macedonia
15
Galai
Romania
16
Fedor
Romania
17
Kodra
Albania
18
Niko
Albania
19
Vata
Albania
20
El Maleh
Marocco
N. genitori
intervistati
2
2
1
1
1
1
1
2
2
1
2
1
2
2
1
1
1
1
1
1
Genitore
intervistato
entrambi
entrambi
padre
madre
padre
madre
madre
entrambi
entrambi
madre
entrambi
madre
entrambi
entrambi
madre
padre
padre
madre
madre
madre
Figlio/a
int.
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì
sì (2)
sì
sì
sì
sì
sì
no
no
Primo contatto con i
genitori
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
associazioni/volontariato
associazioni/volontariato
figlio/a
figlio/a
figlio/a
figlio/a
testimoni qualificati
testimoni qualificati
140
RAPPORTO SECONDGEN
21
22
23
24
25
26
Famiglie
coinvolte:
26
Cerruti
Perù
Pulgar
Albania
Mosaoud
Egitto
Oufkir
Marocco
Chebel
Algeria
Roble
Perù
Famiglie
per
paese:
Romania 6, Albania 5, Perù
4, Macedonia 3, Marocco 3,
altri 1
1
1
1
1
1
1
Genitori
intervistati:
33
padre
padre
madre
madre
padre
madre
Di
cui
madri 19,
padri 14
no
no
no
sì
no
sì
Figli
intervistati:
21
testimoni qualificati
testimoni qualificati
associazioni/volontariato
figlio/a
associazioni/volontariato
associazioni/volontariato
Famiglie
contattate
tramite: figli 17, altri
canali 9
Le interviste hanno coinvolto 26 famiglie per un totale di 54 persone provenienti dai paesi di origine più
rappresentati nel territorio considerato (v. Tab. 1) e sono state condotte nell’ambito del progetto Secondgen e
della Tesi di Dottorato “Portami con te lontano”. Istruzione e inserimento sociale dei giovani migranti al
termine della scuola secondaria di II grado. Sono stati intervistati 33 genitori nati all’estero con almeno un
figlio o una figlia scolarizzati in Italia con più di 18 anni, di cui 7 coppie intervistate contemporaneamente,
madre e padre. Sono stati intervistati anche 21 figli, tranne in due casi è stato possibile scegliere con loro un
momento e uno spazio separati rispetto all’incontro con i genitori.
Le interviste alle coppie nei casi in cui le competenze in italiano come L2 erano simili hanno permesso di
osservare differenze tra ruoli dei genitori nella negoziazione di alcuni aspetti della relazione scuola-famiglia
e fra componenti della famiglia rispetto alla riuscita dei figli, nei casi di diseguali fluidità in italiano uno dei
genitori ha interagito maggiormente per cui si è deciso di privilegiare nella composizione del campione le
interviste individuali.
Le strategie di coinvolgimento impiegate per la presa di contatto con i genitori sono state le seguenti: 1)
comunicazione attraverso figli già intervistati; 2) indicazione di testimoni qualificati; 3) primo contatto con
l’aiuto di esponenti di associazioni, volontariato, terzo settore. Il campionamento a partire dalla prima
strategia è avvenuto sulla base delle interviste già rivolte ai figli nell’ambito dei due progetti di ricerca, in
particolare nella città di Torino a partire dai sei istituti scolastici frequentati dai figli (due istituti
professionali, due istituti tecnici e due licei caratterizzati da diversa composizione degli studenti e attività
interculturali), e nella Regione Piemonte (province di Alessandria, Asti, Cuneo e Torino) sulla base delle
indicazioni dei testimoni qualificati coinvolti per massimizzare l’eterogeneità del campione secondo il
criterio del tipo di percorso scolastico dei figli e del titolo di studio nel paese di origine dei genitori. Le
ragioni del tasso di caduta dalla presa di contatto attraverso la prima strategia (genitori di giovani già
intervistati) sono state: difficoltà di trovare il tempo per l’intervista in particolare nel caso di genitori con
orari di lavoro lunghi, genitori single e genitori con titolo di studio non elevato; mediazione e “filtro” da
parte dei figli intervistati; disagio nei confronti dello strumento intervista da parte dei genitori; cambi di
residenza e numeri di telefono e rientri al paese da parte di figli già intervistati o genitori (o entrambi). Per
correggere i processi di autoselezione del campione così prodotti sono state seguite le altre due strategie per
la presa di contatto, cercando di mantenere l’eterogeneità del campione per percorso scolastico in Italia dei
figli e paese di origine dei genitori. In particolare sono state coinvolte madri mediatrici interculturali, in
modo da avere sia informazioni derivate dalla loro esperienza professionale come osservatori privilegiati
nell’ambito dell’accompagnamento delle relazioni scuola-famiglia sia informazioni relative alla loro
personale esperienza rispetto all’inserimento a scuola dei figli e alle relazioni con il personale scolastico e
con l’istituzione scuola nei diversi ordini e gradi.
Il materiale è stato integrato con colloqui informali e interviste non strutturate con insegnanti e educatori
attivi nella regione, consultati come testimoni qualificati sia per la presa di contatto con gli intervistati sia per
tratteggiare alcune “difficoltà di inserimento” scolastico nella definizione delle istituzioni italiane riceventi.
La traccia di intervista con i genitori ha seguito un canovaccio contenente i seguenti punti da trattare, non
necessariamente in questo ordine, con tutti i genitori intervistati:
ƒ
percorsi migratori famigliari e la decisione di partire per/con i figli;
ƒ
genitorialità durante il periodo della separazione del nucleo famigliare;
ƒ
rinegoziazione dei ruoli di genitori e figli dopo la riunione in Italia, partecipazione e controllo;
ƒ
percorso scolastico dei figli dal punto di vista dei genitori:
‐
ruolo dei genitori nel (non) indirizzare il globale percorso di istruzione dei figli,
‐
inserimento scolastico dei figli: relazioni con gli insegnanti, valutazioni dell’offerta formativa,
141
RAPPORTO SECONDGEN
‐
scelte scolastiche dal punto di vista dei genitori,
‐
aspettative e immagini dei genitori rispetto al ruolo della carriera scolastica/universitaria sulla
successiva carriera occupazionale/di inserimento sociale dei figli;
ƒ
rappresentazioni di futuro: aspettative su vincoli e opportunità di inclusione e mobilità sociale e
geografica per sé e per i figli.
L’analisi è avvenuta con la tecnica “carta e penna” e attraverso il software Atlas.ti7 e è consistita
nell’individuazione di temi e narrazioni ricorrenti all’interno dei racconti dei genitori migranti sul loro
rapporto con le istituzioni scolastiche e nel successivo inquadramento dei brani così tratti dai testi di
intervista intorno a processi “tipo”. Infine si è tentato di identificare gli aspetti dell’interazione tra scuola e
famiglia, tra genitori e figli e tra genitori e funzionari scolastici da un lato influenzate nello specifico dal
processo migratorio e dall’altro lato, pratiche legate a altri processi, tra cui in particolare la percezione delle
proprie competenze di genitori rispetto all’istruzione formale e gli ideali educativi sul ruolo e i compiti degli
insegnanti. Vediamo dunque nel paragrafo seguente i risultati dell’analisi.
Il percorso scolastico dei figli dal punto di vista dei genitori migranti
Diverse ricerche svolte in Italia1 hanno imputato le difficoltà di seguire il percorso scolastico dei figli dei
genitori immigrati a problemi linguistici e limitata esperienza dei programmi italiani, con conseguente
richiesta ai figli stessi di “mediare” il rapporto con le istituzioni educative, rarefatte interazioni genitoriinsegnanti (Acocella, 2011; Ambrosini, 2006) e incapacità dei genitori immigrati di stimolare l’interesse per
lo studio dei figli e aiutarli a superare le difficoltà scolastiche quotidiane (Colombo, 2004; Besozzi e Tiana,
2005). Orari di lavoro lungo di entrambi i genitori (in Italia segnalata come situazione anomala) e assenza
della parentela allargata sono altri elementi che diminuirebbero il tempo per seguire il percorso scolastico dei
figli (Impicciatore, 2008; Ambrosini, 2006; Barban e Dalla Zuanna, 2008). Specie nel caso delle madri, e
soprattutto se madri sole, l’assenza da casa per motivi di lavoro è interpretato come negligenza dagli
assistenti sociali (Lostia, 1999) e indubitabile segno di carenza genitoriale di sostegno scolastico. Inoltre la
“dissonanza tra i modelli educativi” specie per le madri di “cultura araba” produrrebbe disorientamento,
anche in caso di madri che non lavorano fuori casa, con conseguente incapacità di seguire i figli (Acocella,
2011). La poca conoscenza dei servizi sul territorio, anche dopo lunghe permanenze in Italia, sembra ridurre
le competenze che i genitori possono mettere a disposizione per il sostegno scolastico dei loro bambini
(Ambrosini, 2006). Questi studi, condotti in altre regioni italiane, restituiscono quanto emerso dalle interviste
a insegnanti e educatori sul punto di vista dei servizi educativi e sociali anche in Piemonte. Nelle pagine
seguenti vedremo quali sono le rappresentazioni della situazione dei genitori rispetto a questi temi.
L’inserimento a scuola tra senso di inadeguatezza e percezione di accoglienza
I racconti del primo ingresso dei figli a scuola sono caratterizzati da timore di non avere gli strumenti
adeguati per comprendere le regole della scuola, innanzitutto per le difficoltà linguistiche.
Ma lei si ricorda di questa questione della scuola? Ne avevate parlato in famiglia, era un problema per voi?
Problema, sì, tanti i problemi in famiglia. Quando vorrei qualcosa miei figli piccoli anche portati per parlare,
come adesso.
(Figlia): Quando chiamavano gli insegnanti lei non sapeva parlare molto bene (fam. Oufkir, madre e figlia).
Inoltre ritardi di iscrizione o iscrizione in corsi inferiori rispetto all’età possono dipendere anche da difficoltà
di conciliazione, e il conseguente appoggio a aiuto di amici o conoscenti.
Lei si ricorda, comunque, come mai suo marito aveva scelto proprio quella scuola media per iscrivere G. e
suo fratello?
Perché il marito prima anche non è capito tante cose. Il problema, il problema è anche quando faccio la…
1
Una delle peculiarità del caso italiano rispetto ad altri paesi è che la maggior parte dei genitori di studenti con
background di immigrazione siano primomigranti. I modi in cui lo status migratorio plasma le carriere scolastiche dei
figli nei paesi a recente immigrazione dunque ha caratteristiche in parte strutturalmente diverse rispetto ai paesi in cui le
scuole sono frequentate da terze e quarte generazioni migratorie, nei quali tendenzialmente le ricerche evidenziano
differenze tra gruppi nazionali, o “etnie”, più che per fasi del processo migratorio.
142
RAPPORTO SECONDGEN
(Figlia): Lavora tutta la notte, poi la mattina va e doveva chiamare qualche suo amico capace di scrivere tutte
le… compilare i moduli. Infatti per l’iscrizione è venuto un signore con noi, quindi non è… era sempre
accompagnato da qualcuno (fam. Oufkir, madre e figlia).
Non avendo le famiglie, cioè i genitori che ti aiutano, se non si trovano queste modalità non riesci poi
neanche a lavorare (fam. Niko, Albania, madre).
Uno dei motivi per cui i genitori non interagiscono in queste fasi iniziali con i docenti è il timore di
infrangere norme non scritte, di palesare “accento, ascendenza, appartenenza” (Zanfrini, 2004) e in questo
modo danneggiare la valutazione data dagli insegnanti al figlio/a, o di essere etichettati secondo visioni
stereotipate.
Ci sono dei casi in cui sono gli insegnanti che sono stanchi, sono stufi, e quindi conoscere il bambino non è
che si impegnano tanto, e quindi tagliano con gli schemi mentali, i pregiudizi che si sono già creati. […] E
poi dall’altra c’è anche dalla parte dei genitori che partono dal pregiudizio che l’insegnante mi vede subito
come straniero, che io sono straniero, e quindi partono già con appunto il piede sbagliato diciamo.
Temono di essere visti come stranieri.
Sì, sì, temono molto, temono molto.
Ma in che cosa?
Allora, già appunto essere visto come albanese o marocchino. Allora sei un albanese, testardo, cocciuto,
questi sono, che non hai voglia di fare, serie B, un bambino di serie B, insomma, si vedono queste (fam.
Vata, Albania, madre).
Hanno sempre paura i genitori di far qualcosa che potrebbe istigare il professore a fare male ai loro figli,
quindi cercano di prendere le distanze.
Piuttosto non vanno agli incontri e non partecipano più di tanto?
Sì, sì, sì. Purtroppo è questo (fam. El Maleh, Marocco, madre).
Inoltre una serie di procedure date per scontate, come i tempi scolastici e l’utilizzo di strumenti come il
diario per la comunicazione scuola-famiglia, devono essere spiegati ai nuovi arrivati, ma l’ansia di apparire
“bravi genitori” nello spazio pubblico scolastico può inibire la richiesta di spiegazioni.
Nella scuola albanese il diario non esiste. Invece qui il diario c’è eccome, ed è una delle trovate molto belle
come strumento di comunicazione tra scuola e famiglia, e spesso sono i genitori che sanno parlare ma non
sanno scrivere e quindi su questo c’è un disguido diciamo, un problema, perché a volte non firmano gli
avvisi, le notizie, le comunicazioni che devono susseguire durante l’anno scolastico e lì quindi ci sono un po’
di scintille. […] E si vergognano di conoscere… il genitore ammettere davanti all’insegnante che non ha
capito cosa ha scritto lì dentro. Mi è capitato di vedere diverse volte genitori che non capivano dentro il
proprio diario che cosa c’era scritto, con un livello bassissimo anche nella propria lingua, figuriamoci con
l’italiano, perché poi va anche… insieme (fam. Vata, Albania, madre).
Prassi informali e strategie di interazioni basate su assunti diversi
Si può riscontare una differenza tra il gruppo dei genitori con alta scolarità e collocazione professionale,
almeno nel paese di origine, media, e il gruppo dei genitori con bassa scolarità e collocazione lavorativa non
qualificata. Dal primo gruppo di interviste emerge un processo di graduale socializzazione dei genitori
migranti alle prassi informali della scuola italiana, passando da un figlio all’altro e da un ordine di scuola
all’altro.
Com’era all’inizio l’interazione con queste insegnanti? Si ricorda se era stato strano o…?
No… strano no, perché… va beh, con quelli di mia figlia ero io abbastanza, mi trovavo io abbastanza in
difficoltà e quindi cercavo di non… cioè… di non relazionarmi troppo con loro. Perché non mi sentivo in… °
inadeguata o… capace di interloquire con loro, perciò cercavo di non parlare tanto con loro ° (sorride).
Questo i primi due mesi. E poi a settembre con l’insegnante di mio figlio ho avuto l’esperienza piena, no?
Perché già all’inizio della’anno scolastico eravamo tutti i genitori, quindi a parlare con la maestra che dice:
“Questa è una classe in cui ci sono anche dei bambini stranieri per cui i genitori devono essere attenti
all’inizio”. Cioè a me già questa attenzione delle maestre mi è piaciuta. Poi più avanti, facendo il corso,
cioè… un avviso così ti mette a disagio perché… ma in quel momento no, comunque ho capito che sono
delle persone sensibili che capiscono con chi stanno lavorando e che ci sono delle novità. Non è la solita
143
RAPPORTO SECONDGEN
classe con solo genitori e bambini italiani, ma anche… e è stato bello perché facevamo le riunioni, era
proprio anche un interagire con i genitori, abbiamo mangiato le pizze insieme, ho tenuto dei rapporti con i
genitori, sempre della classe di mio figlio. […] poi ho lavorato come mediatrice sempre nella scuola di mio
figlio, quindi è stato un rapporto stretto e bello con loro […] Ero cresciuta (sorride). No, no. Non avevo più
problemi poi. Né a comunicare con gli insegnanti, né a comunicare con i genitori. Ma anche perché… è dal
2003 che lavoro qui. Poi ho conosciuto abbastanza genitori, insegnanti… e quindi… cioè mi sentivo sicura,
non ho avuto poi paura di dire la mia (fam. Niko, Albania, madre).
Per il secondo gruppo di interviste invece le differenze rilevate dai genitori nell’interazione con gli
insegnanti sono solo legate alle competenze linguistiche. Non emerge una esplicita riflessione e
consapevolezza sul fatto che le norme dell’interazione tra genitori e insegnanti si basano su assunti diversi.
Iniziamo a esaminare ad esempio il racconto dei coniugi Alioski. Innanzitutto per Goran Alioski gli
insuccessi scolastici sono normali, dato che i suoi figli sono stranieri. Lui e la moglie si aspettano che i figli
proseguano con gli studi e sono disposti a garantirgli la sicurezza economica necessaria, ma solo se la
motivazione dei figli è elevata.
Int.: E come voti come andava?
Donjeta: Mah, non tutti ottimo, però…
Int.: Come tutti i ragazzi, così e così…
Goran: Io come uno straniero non pretendo che sta tutto… liscio.
Donjeta: Noi siamo contenti se vanno avanti. Anche se non è tutto ottimo e ottimo, però… se ha voglia di
andare avanti va (fam. Alioski, Macedonia, genitori)
L’idea di base dei coniugi Alioski è che il sostegno allo studio dei genitori non possa essere efficace per
aumentare la motivazione interiore all’apprendimento dei figli, ma piuttosto fornire vincoli esterni e regole
materiali. Gli insuccessi scolastici di due dei tre figli sono collegati alla scelta della scuola superiore lasciata ai figli stessi – e viste le bocciature tale scelta si è dimostrata “sbagliata”, mentre il contatto dei
genitori con i docenti è percepito come ininfluente. Il signor Alioski pensa quindi di avere “sbagliato” a non
orientare diversamente il figlio, ma continua a pensare che comunque la scelta della scuola spettasse al
ragazzo e che il suo insuccesso è dovuto alla frequentazione di cattive compagnie e alla mancanza di
impegno, dimostrato invece autonomamente dalla sorella.
È già successo che qualcuno dei vostri figli fosse bocciato?
Donjeta: Eh sì. Il più piccolo.
E come era andata? Alle medie? O alle superiori?
Donjeta: Anche alle medie, e poi alle superiori di nuovo.
Voi siete andati a parlare con gli insegnanti prima, lo sapevate?
Donjeta: Ma sì! Però…
Goran: A dire la verità abbiamo provato tutto per lui, però… [...] Perché con lui, il mio grande sbaglio, non
lo so. Lui dalla quinta elementare, ha deciso: «Vado a fare il liceo artistico». Perché disegna bene. Donjeta:
Ma disegna, disegna! Però… non è solo quello eh?
Goran: E adesso, quando è andato il primo anno, ha trovato… amici […] Martina (l’altra figlia, Ndr) è
andata a scuola ad Alba. Per quei cinque anni che è stata ad Alba, io sono andato due o tre volte, non sono
andato diciamo come per il piccolo. Ogni momento io vado a scuola, lascio il lavoro magari per andare a
scuola.
Donjeta: In cinque anni siamo andati due volte per Martina. Quando uno studia studia. Se non studia anche
se stai tutti i giorni lì, non aiuta niente (fam. Alioski, Macedonia, genitori).
Dalle considerazioni dei coniugi Alioski sulle differenze di riuscita scolastica tra i loro figli sembra emergere
l'idea che la riuscita scolastica non dipenda dal controllo esercitato dai genitori, né dal coordinamento e dal
contatto dei genitori con gli insegnanti, ma piuttosto dalla motivazione individuale.
Anche la scelta scolastica non sembra basarsi su una valutazione effettuata dai genitori delle possibilità di
riuscita dei figli, ma dalla loro richiesta ai figli di auto-valutarsi e stabilire da sé le proprie capacità e i propri
desideri.
Vi hanno spiegato bene, e avevate chiesto a loro? Come era andato? Vi ricordate?
Goran: Ma noi parliamo chiaro in casa. «Cosa vuoi studiare?»
Donjeta: Da noi è sempre stato così. Perché se non ha voglia di andare…
Goran: Non si nasconde proprio niente. Quello che lo so io…
144
RAPPORTO SECONDGEN
Donjeta: … è inutile andare a studiare quello che non gli piace.
Goran: … lo sa anche il più piccolo. Non è…
Allora avete chiesto a loro cosa piaceva?
Donjeta: Sì, sì.
Goran: Loro hanno scelto questo, e sono andati (fam. Alioski, Macedonia, genitori)
Le considerazioni simili a quelle espresse della famiglia Alioski accomunano altri genitori che, oltre a
ritenere i figli responsabili della loro carriera educativa, si auto-definiscono non esperti delle regole e dei
contenuti della scuola secondaria.
Stefan: Mi dispiace per lui, però… (0.02) non puoi fare niente, in queste condizioni non puoi fare niente, non
puoi stargli dietro, di mandarlo a scuola, di chiedergli sempre… e alla fine… ti trovi che… lo bocciano di
nuovo e… non fai niente.
Diceva che non si può stare dietro perché…
Stefan: No, con la forza non puoi…
Non puoi costringerlo?
Stefan: No, non puoi costringerlo, con la forza non si può fare niente. Ha deciso di non andare avanti con gli
studi.
Voi cosa gli avevate detto?
Stefan: Gli abbiamo consigliato di andare avanti, però se non vuole, non posso andare io al posto suo a
scuola. […] Ha preso subito un lavoro, non con lui, ma con un altro, però subito ha iniziato a lavorare, e io
sono contento. Quello che poteva fare, contemporaneo con il lavoro, la sera poteva fare il serale, poteva fare
un corso di… ma neanche quello (voce triste). Sempre attaccato al computer, sempre con amici in giro…
adesso è comodo per lui. Più tardi, si pentirà. Quando arriverà problemi di famiglia, che avrà anche lui un
figlio, deve pagare una casa… io spero che si aggiusta così, come va avanti. Però un pezzo di carta che ti
giustifica una preparazione in questa vita, un mestiere… non faceva male (fam. Fianu, Romania, padre).
Lei partecipa, controlla il suo andamento scolastico? L’aiuta a scegliere un indirizzo o l’altro?
Quando era minorenne, vado di là a parlare con insegnanti, così. Però adesso può fare da sola, dopo 20 anni
può fare da sola. No! Lei ha fatto tutto ha scelto tutto! Non io. Perché io non capisco niente! Lei sa tutto
quello che le serve. Sì, sta chiedendo cosa ha fatto, cosa c’è bisogno, solo quello, e non hai niente (fam.
Santos, Filippine, madre).
I miei figli sono come noi, perché a noi i nostri genitori non hanno mai detto di studiare. Noi, figli, lì a
studiare (fam. Fianu, Romania, madre).
Il signor Chebel invece, algerino laureato in Italia alla Facoltà di Agraria, segue da vicino il percorso del
figlio anche durante le scuole secondarie. Nel suo caso la valutazione della riuscita del figlio avviene giorno
per giorno. Dalle sue parole, tuttavia, non emergono tentativi di negoziazione con la scuola sulle valutazioni
negative attribuite dagli insegnanti al figlio, per una sostanziale condivisione dei giudizi espressi dagli
insegnanti.
A lei è capitato che uno dei suoi figli fosse bocciato?
Sì, a mio figlio è capitato.
Voi avete provato a parlare con i professori?
Parlo per conto mio. Io penso che quell’anno dovesse essere bocciato. Per fortuna io riesco a valutare lo
studio dei miei figli anche al di fuori del voto della scuola. So cosa sta facendo a casa, come ragiona e cosa
studia. Per cui se prende un certo voto, più o meno so che sarà un mezzo punto in più o in meno, ma più o
meno…
E in quella occasione non aveva trovato ingiusto?
No, no.
Le sono successi casi in cui il rapporto con gli insegnanti è stato difficile o ci sono stati momenti di disagio
per lei?
No, no, neanche quell’anno con quei due insegnanti no no (fam. Chebel, Algeria, padre).
La signora Niko, mediatrice culturale laureata in pedagogia, spiega che non ha mai provato a negoziare con
gli insegnanti sui voti perché interessata più alle conoscenze e competenze acquisite dai figli che alla
valutazione attribuita dai docenti.
145
RAPPORTO SECONDGEN
Non sono mai stata una tanto… che rompe. Comunque anche i ragazzi quando prendevano dei brutti voti ed
erano arrabbiati perché pensavano che non era meritato, soprattutto lei perché se prendeva un brutto voto
diceva “Ah..” io dicevo “Ma non ha importanza il voto che prendi. Perché se tu hai studiato e sai le cose, ti
serviranno poi dopo, cioè se proseguirai alle superiori, se tu hai studiato non importa se oggi hai preso sette o
otto, quando arriverai alle superiori lo sai già e quindi il tuo impegno sarà minore e è una conoscenza che
rimane a te, il voto è oggi, finisce lì”. […] Sì, sì, ci sono dei genitori che voglio capire il voto, lo vogliono
capire. Io vedevo alle superiori che c’erano dei genitori arrabbiati là fuori in fila con me e dicevano “No, mia
figlia ha preso il sette, io voglio capire perché ha preso il sette” perché avevano il compito in mano e… o
perché erano arrabbiati perché tutti i ragazzi avevano preso voti bassi e allora dicevano: “A questo punto non
è colpa dei ragazzi ma è dell’insegnante che non ha spiegato bene, che non doveva andare avanti visto che il
voto è questo (fam. Niko, Albania, madre).
I genitori laureati raccontano di motivare all’apprendimento i figli attraverso un continuativo rinforzo di
attribuzioni positive alla riuscita scolastica, con modalità che secondo la letteratura etnografica sulle
disuguaglianze educative sono tipiche delle classe alte e conformi alle richieste scolastiche.
E fin da piccole sì sempre le ho incentivate a... voler questa voglia di... avere i migliori voti, la si valuto da 0
a 20, e dicevo devi avere 20, che venti fosse il massimo. Perché anche quando stavano all'asilo nido li
mettevano dei delle formine, con... si vedeva, come si chiama, una corona con un sorrisino, cosi diceva che
era il massimo, l'eccellente così. E a loro piaceva questo da piccoline. Io mi ricordo. E poi li invitavo ad
avere dei voti migliori. Ma non in modo negativo, nel senso che se tu non hai i voti migliori io ti devo punire.
No. Una cosa che anche a lei dà soddisfazione. Una volta che loro hanno acquisito, si sentono felici,
contente, hanno un voto alto, a volte si sforzano di più per averlo sempre, cosa che per loro diventa non un
carico pesante, non di dover avere un buon voto che mamma sia contenta, no. Per loro stesse. E allora da
piccoli li ho sempre incentivai così. E allora arrivando qua ovviamente mi sono dedicata a loro al millimetro,
nel senso che ogni giorno gli chiedevo come sei stata oggi? Chi è davanti a te? Accanto a te? Cosa ti hanno
parlato? Cosa dice l'insegnante? Cosa ti ha detto? Per sapere cos'era a loro intorno […] Certamente, sono
cose, possono parere, possono sembrare non utili, però alla fine aiutano moltissimo perché se non sei vicino
a loro poi alla fine loro possono avere anche una conclusone sbagliata, no? (fam. Pinilla, Perù, madre).
Io come genitore […] vado a fare la coda e sentire dai professori, cosa sta facendo. Non perché non mi fido
di lei, è una consolazione mia che sai, anche lei vuole, lei apprezza, che sono suoi passi, che partecipo al suo
progetto. È un dato morale, non che dai i conti sui voti, ma dai sostegno psicologico, anche io ho bisogno,
no? Di qualcuno che mi dice “stai facendo male o bene” (fam. Diaz, Argentina, padre).
Il ricorso al tema dei ritorni occupazionali dell’istruzione per motivare i figli a conseguire buoni risultati a
scuola emerge soprattutto nelle famiglie che hanno subìto un processo di mobilità sociale discendente dopo
l’arrivo in Italia.
Poi dice che gli ha anche fatto vedere dove lavora, per capire…
Valeriu: Sì. L’ho portato sul posto di lavoro, per capire se lui… no, ma io ripeto. Lui è capace. Può andare
avanti con la scuola perché si vedono i risultati che lui tira fuori, no? Ho detto guarda, ma prima volta gli ho
chiesto io se vuole venire con me. È venuto, non mi ha detto niente. Ma le altre volte è venuto lui a vedere,
quando abbiamo fatto lavori un po’ più sporchi, un po’ più pesanti, no. “Questo è il mio lavoro, se non studi,
arrivi qua, in questo punto”.
Nicoleta: Se lo trovi, se lo trovi.
Valeriu: Se lo trovi, arrivi in questo punto.
Nicoleta: O magari lo trovi e non sei pagato. Perché è capitato.
Valeriu: In questi giorni non lo trovi, perché è difficilissimo (fam. Pecher, Romania, genitori).
Dalle interviste tuttavia non emerge un confronto tra insegnanti di scuola secondaria e genitori sulle pratiche
concrete attraverso cui sostenere la motivazione all’apprendimento dei figli, a parte l’invito generico a
seguirli di più sui compiti (che, così esplicitato, rimanda però a dimensioni esterne e coercitive più che a
processi di valorizzazione positiva e piacevole dell’apprendimento).
Nel caso dei genitori scolarizzati nel paese di origine si può cogliere una riflessione sulla corrispondenza o
meno dei presupposti educativi alla base dell’impostazione didattica della scuola, rispetto a quelli dei
genitori. Dal primo brano che segue l’intervistata descrive una sostanziale corrispondenza di impostazione
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RAPPORTO SECONDGEN
(non riscontrata dagli altri genitori italiani), nel secondo brano invece il padre spiega come le differenze
culturali siano oggetto di uno sforzo di mediazione – unilaterale – da parte sua.
Nelle medie ho avuto e ho ancora oggi ottimi rapporti con delle insegnanti, una è l’insegnante di italiano, che
ora è andata in pensione, e poi quella di storia non ancora, che è stata bravissima perché le ha insegnato il
metodo di studio. È quello che io insisto tantissimo anche quando arrivano i ragazzi qui dall’Albania,
importante è il metodo di studio, perché se tu riesci a dare lo strumento del come studiare, hai risolto più del
60% del problema. Quella era un’insegnante bravissima, molto rigida, aveva lamentele dai genitori in modo
pazzesco, quella insegnante è stata abbastanza… criticata diciamo, per non dire altro (sorride), ma lei grazie
a lei ha imparato come studiare e le è servito molto al classico, al liceo (fam. Vata, Albania, madre).
Il contenuto che si insegna qua, non le materie scientifiche, ma tipo storia o quelle cose lì, molte cose o la
maggior parte delle cose vanno in contrasto con le nostre tradizioni, con la nostra visione, proprio come…
come viene studiato e come viene spiegata. Allora lì diventa non dico proprio fatica ma un doppio lavoro per
me. […] Mi impegno di più a convincere mia figlia che quello che studia, un argomento che studia a scuola,
va bene che lo studia in quel modo, va bene per il voto, ma diciamo secondo il nostro pensiero, secondo il
nostro paese o nella nostra abitudine, quella cosa noi la vediamo in un altro modo. Allora lei si trova a
studiare ogni argomento in due visioni diverse (ride) e è anche difficile per noi (ride). […] Quindi lei quando
studia un argomento me lo dice prima come l’ha imparato a scuola, e io gli dico: adesso permettimi che
questo qua io non lo posso accettare, va bene per l’insegnante, per lo studio a scuola, per l’insegnante che lo
dice in questo modo, però noi crediamo molto, adesso ti spiego il modo in cui lo intendiamo noi.
Su questo ha provato a parlare con le insegnanti?
No. Perché non credo che la pensano… cioè non penso che lo fanno solo per me, perché piace così a me, non
so se lei me lo può, cioè per due o tre bambini cambia tutto… già così dice che non ha tempo (ride). Poi
magari le da anche una forma in modo sbagliato, anche in buona fede, in buona fede però va bene, magari la
farà anche in modo sbagliato. […]
Per lei cosa si potrebbe fare? Degli incontri con i genitori per capire i diversi punti di vista sugli argomenti
o…
No, per me sono quelli lì che decidono i percorsi, perché questi insegnanti… se vogliono fare qualcosa
possono farlo, ma se non vogliono farlo… Deve essere deciso dall’alto di cambiare il programma (fam.
Chebel, Algeria, padre).
Anche in questo caso il signor Chebel non tenta di negoziare con le docenti approcci diversi: non si sente
della posizione di poter inviare richieste individualmente, ma auspica un cambiamento istituzionale più
ampio. La percezione di modelli educativi diversi è espressa anche da un padre che racconta la sua
esperienza di rappresentante dei genitori.
Ci sono i termini, orientativi, questi… io non li capivo questi. Io era li, per un termine diceva “ma scusa, cosa
vuol dire questo termine qua”. Io segnava, andava a casa, vedeva il vocabolare. Eh, si. Arrivavo a casa, noi
abbiamo a casa di più di 15 vocabolari (ride) […] andavo lì, dicevo “Cos’è questa parola, Ivo?”. Eh così,
sinonim e antinonim, sinonim o antinonim, cosa devo dire? Ero un po’ di difficoltà, per me, perché mi
sentivo anche un po’ in pressione, perché quando si facevano le riunioni io dovevo stare lì con… con la
maestra e tutti italiani lì e… Mi sentiva un po’… anzi, una volta mi sono sudato. Per l’emozione. Ho detto io:
porca puttana!
Però perché i rappresentanti dei genitori devono anche parlare, cioè devono anche dire cose.
Devono parlare, devono dire delle cose, poi io avevo la mia mentalità. Io sono un po’ duro come mentalità.
Eh, per l’educazione. A me non mi scappa niente, se sbagli io... no, no, io ti dico “Oh, cosa fai? Vieni qua.
Non si fa questa”. E poi a me non mi piace ° come si vestono, come i vestiti, come parlano ° . […] No, no,
non avevano la presenza di un’insegnante. Deve essere una presenza, essere seria, bella, distinta, pulita,
invece loro… Eh, una volta ho fatto una, diciamo… Io ho detto “Ma, per me bisogna iniziare da zero in
questa scuola, perché non va bene così, non va bene” - ho detto io – “non sappiamo che strada prendono i
nostri figli domani”. Fanno loro “Oh! Come non sai?!”. E io “Eh, non lo sai, se un figlio di 12 anni, una
figlia di 12 anni, scusa la parola ma ti manda a vanfanculo, mica è giusto, quando arriva a 25 cosa fa questa
qua? Ti ammazza” ho detto. “Eh, no”, faceva questa signora. “Per me funziona così “ ho detto io, “per questo
dico di iniziare da zero”. “Torniamo più indietro” – ho detto io – “i nostri genitori, i nostri nonni, che
educazione avevano loro? Come andavano loro, fra loro, marito e moglie, fra figli, che differenza c’era fra
zio, zia”. Loro “Eh, no, no, non ci torniamo più di la, perché era i tempi così, i tempi di là”. […]
E quindi questo, cioè quindi questo era stato un po’ un momento di rottura fra lei e la scuola.
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RAPPORTO SECONDGEN
Sì. Fra me e… Proprio questo giorno qua, e poi io quando faceva riunione non parlava più.
Ah, dopo quella volta.
No, non parlava più io perché già ho visto, erano contrari a queste mie idee, non volevano questa, volevano
la libertà. Beh, la libertà c’è – ho detto io – libertà, però fino a un certo punto. Eh, no, mi fanno, ai tempi di
Mussolini siamo qua?
Quindi era stato proprio uno scontro molto forte…
Eh sì, molto forte, molto forte. Da questo giorno poi io ho detto no…
Però era stato comunque molto chiaro, poi anche con una lingua che non è la sua lingua madre.
Eh… Per trovare la parola giusta..,
Eh, si.
Per trovare la parola giusta, è questo, anch’io sono rimasto, non so cosa, che parola usa adesso. Non sapeva
la parola giusta. Può darsi anche questo, che la parola che ho usato io era un po’ brutta, un po’ pesante, può
darsi se era un’altra parola più dolce, invece io ho detto diretto così “dove siamo qua, cosi non si fa” (ride)
(fam. Kodra, Albania, padre).
Sentirsi inappropriati (forse similmente ai genitori di classe operaia) e cogliere le diverse sensibilità
educative come stigmatizzanti frena anche i più competenti in L2 a candidarsi come rappresentati dei
genitori negli organismi decisionali delle istituzioni scolastiche come consigli di classe o di istituto.
L’orientamento subìto, l’orientamento gestito e l’orientamento non percepito
La consapevolezza dei servizi di orientamento forniti dalla scuola è diversa anch’essa in base alle risorse
educative dei genitori, così come la capacità di aggiornarsi sui mutamenti istituzionali che caratterizzano i
percorsi di istruzione superiore.
Lei sapeva che lo scientifico era una buona scuola, perché aveva già conoscenze del sistema scolastico
italiano?
La verità no. Ma ho chiesto così “Per me basta mia figlia va a studiare” io non sapevo neanche quanti anni
saranno cinque o saranno dieci. Per me basta che vanno avanti negli studi. Grazie alla maestra, buonanima
della maestra che mi ha spiegato. Mi ha detto al liceo ha più probabilità di andare avanti, con l’altro è un po’
più… ci vanno quelli che studiano di meno, mi ha detto così (fam. Arzegui, Marocco, padre).
La disinformazione rispetto alla scelta della scuola secondaria di II grado, in questo senso, non sembra tanto,
o non solo, esito del fatto che i genitori scolarizzati in altri paesi applicano schemi diversi, relativi al sistema
scolastico del paese di origine (anche perché in alcuni casi è simile) ma piuttosto il fatto che i genitori
migranti, soprattutto se con titoli educativi bassi e lavori manuali, tendono a pensare al rapporto con gli
insegnanti e all'orientamento come a qualcosa per cui l’attivazione dei genitori è richiesta in situazioni
istituzionali, non come a un processo in cui è necessario raccogliere, anche informalmente e attraverso altri
momenti e incontri e fonti, il più possibile delle informazioni.
In terza media i professori avevano dato dei consigli, avevano spiegato i diversi tipi di scuola?
Goran: Sì, sì.
Donjeta: Sì.
Goran: Come tutti gli anni fanno, anche in quegli anni.
Donjeta: Siamo andati tutti i genitori insieme, in assemblea.
Vi hanno spiegato la differenza tra liceo, istituto tecnico, istituto professionale? Perché in Macedonia è
diverso…
Goran: Ma adesso è così anche da noi.
Cioè voi sapevate che il liceo è diverso dall’istituto tecnico e professionale oppure era una cosa che non…
Goran e Donjeta: Sì, sì, sì.
Goran: Lo sapevamo quello […] Loro hanno scelto questo, e sono andati.
La grande cosa aveva detto che voleva fare?
Donjeta: Informatica Tatiana.
Ma cos’era? Un istituto tecnico o…
Donjeta: A Nizza (M.to, Ndr). Come si chiamava già? Informatico-tecnologico mi sembra.
Ma era liceo scientifico oppure un corso professionale…?
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RAPPORTO SECONDGEN
Martina: No, no, proprio scientifico no, era un’altra cosa, sai quello della M. (nome gergale della scuola,
Ndr)? (fam. Alioski, Macedonia, genitori e figlia).
Nel caso del sig. Chebel, invece, è più chiara la varietà dei tipi di scuola, il fatto di avere intrapreso un
percorso diverso da quello suggerito a scuola e la prospettiva dell'istruzione terziaria. Dalle sue parole
emerge inoltre, rispetto alle scelte dei connazionali degli istituti tecnici e professionali per i figli, anche un
orientamento verso il paese di origine e il rientro eventuale anche dei figli con una qualifica spendibile nel
mercato del lavoro locale. Il tema del “far scegliere la scuola ai figli” appare un tema narrativo più legato
agli ideali sul “the best for the child” che alle pratiche, dato che in questo caso il padre è stato molto
coinvolto nella decisione di non seguire il consiglio degli insegnanti delle medie.
Rispetto alla scelta della scuola superiore, l’orientamento ricevuto dalla scuola media secondo lei come era
stato? Vi hanno dato un elenco di scuole, dei consigli?
Hanno fatto un test, hanno fatto delle valutazioni per mostrare le sue possibilità, e in base al risultato gli
hanno consigliato di andare al (nome istituto tecnico). Però lui ha deciso di andare a… ha deciso di andare
qua vicino al liceo scientifico. Con il latino però… non si è trovato (ride).
Lei cosa ne pensava di questo?
Io gli avevo dato la libertà di scegliere lui, di provare cosa voleva proprio lui. Anche se dicevano che il
tecnico era più tranquillo, io gli avevo dato la libertà di scegliere. Io in Algeria ho studiato e poi ho rifatto
l’università qui a Torino. Dato che ho fatto anche l’università, ho fatto anche il liceo ma in Algeria, e quindi
non avevo un’idea di come era fatto qua in Italia da questo punto di vista. Abbiamo sentito gli insegnanti
suoi della scuola. E anche alcuni amici, e tutti dicevano di lasciarlo scegliere lui.
Prima faceva il liceo scientifico qui a Torino come prima scelta?
Sì. Adesso fa quello lì, sempre scientifico ma normale. Era tecnologico, era tecnologico e poi la Gelmini ha
fatto… tecnico. […]
Rispetto a questa scelta di scuola superiore, voi pensavate che il liceo dava accesso all’università come
qualcosa di quasi obbligatorio per entrare nel mondo del lavoro, avevate già l’idea che poi lui avrebbe fatto
l’università? Cioè avevate questa idea: liceo uguale università dopo oppure non avevate pensato a questo?
No, io… cioè io già non volevo che lui facesse l’altro istituto lì. Volevo che lui facesse un liceo così poteva
andare, andata più avanti per andare all’università. Se io diciamo, il mio obiettivo, è quello di andare
all’università. Poi il mercato del lavoro… abbiamo pensato più alla formazione. […] Io vedo anche gli amici
di mio figlio, o figli di amici miei, tutti sono andati… all’istituto. […] Perché, parlo per conto mio, c’è
sempre quella diciamo sirena che richiama, magari è meglio fare qualcosa per tornare più al mio paese. Però
gli anni passano e io sono sempre qua. Io sono 30 anni che sono qua. Allora ti accorgi a un certo punto che è
meglio pensare al presente. Se capita di andare al paese, in Algeria, vedremo quando capita. Magari gli altri
stranieri pensato: magari se lì c’è uno che fa meccanica, ad esempio questo è il pensiero di questo amico di
mio figlio, pensa che magari può aprire una officina o una scuola di meccanica al suo paese. E ho diciamo…
l’orientamento, come la pensiamo… non dico che mi sto sacrificando per il loro, però… viviamo qua, e
quindi sfruttare al massimo la situazione per dargli il massimo di istruzione finche ce la facciamo, e poi tra
cinque anni, fra dieci anni, non si sa. Allora io mi oriento non in senso economico, ma da padre, di dar loro
tutti i premi, tutti gli strumenti, di farli istruire al massimo possibile, poi…(fam. Chebel, Algeria, padre)
Rispetto alla scelta scolastica, il gruppo di genitori con maggiori risorse educative precedenti all’emigrazione
racconta di essersi attivato per reperire informazioni aggiuntive rispetto a quelle istituzionali.
Io non so ma però direi una cosa: tutti i ragazzi devono avere l'opportunità di fare una buona scuola
superiore, perché io ricordo che alla scuola media c'erano delle insegnanti, quelle di matematica non so, che
li indirizzavano alle mamme, dicevano “signora suo figlio non può pensare neanche di metterlo in un istituto
tecnico, deve andare in una scuola professionale. Perché in un istituto tecnico non ce la farà. Un liceo non si
parla neanche. E le mamme accettavano questo. Mamme italiane. Io non ho avuto di questi problemi, perché
le mie figlie andavano molto bene a scuola. [...] Che cosa fanno i genitori, che non conoscono, è
importantissimo conoscere come è il sistema di studio italiano. […] è importantissimo che appena arrivano il
genitore chieda il sistema di studio e quali sono le percorsi di studio per i figli, che possono immaginare
anche quello, perché importantissimo allora non sanno, io quando sono arrivata qua ho chiesto ma nessuno
mi sapeva dire della superiore com'era, un istituto tecnico, quell'altro aziendale, chi questo? Alla fine lo sono
andato a cercare al ministero dell'istruzione, e ho visto lì. Ho visto leggendo da sola, perché nessuno mi
sapeva dire (fam. Santos, Perù, madre).
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RAPPORTO SECONDGEN
La negoziazione con i figli e con gli insegnanti
I genitori Alioski non si confrontano quotidianamente con gli insegnanti sulla riuscita della figlia alle scuole
secondarie. Per questa ragione la comunicazione dell'insuccesso e del rischio di bocciatura arriva inattesa. La
comunicazione con tutor e insegnanti avviene dopo una convocazione formale da parte della scuola, prima
della quale i genitori non avevano chiesto informazioni o colloqui individuali per monitorare l'andamento
scolastico della figlia. Le aspettative del sig. Alioski sono che la scuola debba avvertire in caso di difficoltà.
Goran: L’ultimo mese, come si dice? Sette o otto… materie non sufficienti. Sette o otto! E io sono andato
con… a ricevimento, quando ho saputo quello. L’ho detto anche alla direttrice «Perché mi chiama adesso?
All’ultimo momento. Ora cosa volete?» e quella insegnante che è sulla classe, preside di quella scuola e in
più professoressa di Tatiana, di quella classe. […] Erano quelle tre, e io sono andato. E ho chiesto «Ma cosa
volete adesso?». Ho chiamato la direttrice eh? «Dovevate chiamare due o tre mesi prima!» hanno detto «Ah,
io non so». Adesso devo prendere con le stampelle e darle in testa a tutte e tre?
E come ha fatto?
Donjeta: Eh, ha cominciato a studiare e si è fatta un culo così! (ride).
Goran: L’ho chiusa in casa a studiare!" (fam. Alioski, Macedonia, genitori)
Per la maggior parte dei genitori intervistati, anche quelli con titoli di studio elevati, la negoziazione con gli
insegnanti sulle loro decisioni didattiche è una pratica “da genitori italiani”.
In altri paesi è diverso quello che la scuola si aspetta dai genitori?
Sì, sì. Ci sono le udienze, ma una volta al… sono di meno e non c’è questo… questo modo di andare spesso
alle udienze personali, andare al mattino, parlare con il professore… io faccio quello che può fare un genitore
anche al Marocco, nel senso vado nelle udienze che sono essenziali. Quando mi chiamano i professori,
quando c’è questa udienza tre volte all’anno, vado perché faccio vedere che mi occupo di mio figlio, perché
se no, se non vado, ti etichettano, rischi di essere etichettato come un genitore che non si occupa dei propri
figli. Il problema di tanti genitori è che non capiscono questo, che rischiamo di essere etichettati, ma non è
vero, perché magari lei si occupa, ma non ha quell’idea che il professore o la scuola la vedrà in quel modo lì
(fam. El Maleh, Marocco, madre).
E quando avete capito che G. avrebbe perso un paio di anni e che l’avrebbero messa nella stessa classe del
fratello, voi avete reagito? Che cosa avete fatto? Avete provato a convincere il preside?
Non mi piace, però è andata così. Non mi piace questa, però non… […]
Si ricorda degli episodi in cui era andata a scuola per parlare con gli insegnanti?
No.
(Figlia): Solo le pagelle, la consegna delle pagelle (fam. Oukfir, Marocco, madre e figlia).
La signora Oukfir segue da vicino la vita scolastica e sociale dei figli, e quando il minore dei tre, l’unico nato
in Italia, ha difficoltà di riuscita e ripete due anni lo manda in Francia dallo zio per cercare di separarlo dal
gruppo di amici italiani, con “mamme tutte dottoresse” che lei non conosce e che hanno stili di vita e
consumi per lei rischiose come frequentare le discoteche, uscire in orari notturni e usare sostanze
stupefacenti. Poi iscrive il figlio alla scuola tecnica che aveva frequentato il fratello maggiore. La signora
Oukfir prova a attuare una forma di controllo fisico coercitivo, ma ha compreso il disagio adolescenziale del
figlio, nato in Italia e quindi, come racconta la sorella maggiore, più “solo” senza l’appoggio della rete
migratoria dei pari per riorientare il proprio tempo libero anche nell’ottica di trovare lavoretti da unire allo
studio. La madre racconta che avrebbe voluto dagli insegnanti una maggiore comprensione del bisogno di
sostegno educativo del figlio, forse quello di cui lei non può godere dopo il trasferimento in Italia per
l’assenza di altri adulti come nonni, zii, né associazioni. Tuttavia non esprime agli insegnanti questo
sentimento e non descrive il figlio dal suo punto di vista durante i colloqui con le insegnanti, anzi tende a
mostrare, insieme alla figlia maggiore che la accompagna per tradurre, un adeguamento della famiglia alle
richieste e alle immagini del figlio restituite dalle docenti, come emerge dal brano seguente.
E come sono andati questi incontri?
Non fa i compiti, sempre l’ultimo.
E lei che cosa diceva?
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RAPPORTO SECONDGEN
Non mi piace così, piace faccia a casa compiti. Anche maestri non ha capito il ragazzo… vorrei capiscano il
ragazzo. Il ragazzo in questo momento di adolescenza non si è capito. Vorrei andato fuori, vorrei giocare,
vorrei tante cose. Quando andato maestra ha detto così. Ha detto «faccio, faccio, io mamma faccio tante
cose, lei non piace cosa faccio».
Allora, lei mi sta dicendo che suo figlio ha passato un periodo dell’adolescenza un po’così e c’è stata poca
comprensione da parte dei professori?
Sì.
(Figlia): Sì, c’è stata poca comprensione.
Anche ragazzi non è tranquilli. […]
Ma lei come si sentiva durante questi colloqui con i professori?
Messo così io non mi sta bene, non mi è sentito bene.
E che cosa vorrebbe?
Vorrei professore fosse come papà. Non è così il professore, come papà. Non è…
(Figlia): Lei vorrebbe che i ragazzi avessero rispetto. Quando andiamo non è che diciamo «ah, no la
professoressa non ha ragione, mio figlio è bravo» No. A casa, poi. No, anzi, prima di uscire dalla scuola
cominciamo a martellarlo. «Come mai hai fatto questo, come mai…» Quindi a casa poi si parla, ma non
davanti… Abbiamo sempre dato ragione ai professori.
E comunque in questi incontri con i professori lei come si è sentita? Cioè, lei dà ragione ai professori, ma si
è sempre sentita a suo agio?
Non è che posso dare torto al professore, non posso dirlo però anche lei capisce, ragazzi, avevamo sempre….
(Figlia): Nei colloqui con i professori lei voleva una comprensione maggiore dato il suo orgoglio. […]
Con i professori non abbiamo mai avuto discussioni. Io ho visto tanti italiani urlano ai professori. No, così
noi no, perché anche in Marocco è così. Il professore è grande, qualcosa di grande (fam. Oukfir, Marocco,
madre e figlia).
Malgrado la signora Oufkir controlli ogni giorno i compiti del figlio, durante i colloqui non ha provato a
negoziare l’immagine di lei come una madre disattenta né a far notare ai docenti il momento di difficoltà del
figlio. Anche il sig. Adeleanu, il quale accompagna i figli nella comprensione dell’organizzazione scolastica,
non prova a negoziare con la scuola le valutazioni.
E ho dovuto fare, non proprio così, come insegnante, ma quasi ai figli, perché anche loro a scuola non
capivano come era… (fam. Adeleanu, Romania, padre).
Nei casi di grande insoddisfazione e non condivisione delle scelte didattiche dei docenti, ad esempio in
seguito a ripetenze inattese o legate dagli intervistati a atteggiamenti propriamente di chiusura degli
insegnanti nei confronti degli studenti migranti e dei loro bisogno specifici di apprendimento, come quella
espressa di seguito dalla signora Fianu, i genitori intervistati hanno cambiato scuola invece di tentare una
negoziazione delle valutazioni ricevute dai figli, dei programmi o delle procedure di comunicazione scuolafamiglia.
Nicoleta: Non ci siamo trovati per niente al liceo, e mi dispiace se devo dirlo, uno per cento dei docenti
meritano essere nominati docenti.
Non avete…
Nicoleta: Non io, ma ci sono tanti genitori italiani che… io l’ho già detto, in nostro paese, tutti i professori,
anche insegnanti delle elementari, ogni due o tre anni, hanno un esame di verifica delle conoscenze! Qua no.
Io le dico, al liceo A. erano dei professori malati di mente. Se io, è vero che non so l’italiano, che non sono
andata a scuola, ma quello che va a scuola non ti capisce, come vuoi che studi. Qua purtroppo… mi dispiace,
peccato.
Non si era trovato bene.
Nicoleta: Ma non solo mio figlio! Anche molti altri, che hanno rinunciato al liceo. Ma arrivi all’ultimo anno,
cinque o sei allievi?
Molti vanno via…
Nicoleta: Sì, vanno via, perché non ce la fanno.
Valeriu: Sì, ma non è sempre colpa degli insegnanti.
Nicoleta: No, ci sono anche loro. Però se tu vai a colloquio dai docenti, a me non piace quando si dice prof,
da noi si dice signora. Non esiste prof, non è bello. Non riesco a capire quello. Ma il libro? Ma allora tu che
cavolo fai qua? No, no, purtroppo non sono preparati.
Valeriu: È un altro… sono preparati.
151
RAPPORTO SECONDGEN
Nicoleta: No. Magari questi giovani sono preparati, ma… no (fam. Fianu, Romania, genitori).
Ha bocciato in modo non giusto, hanno fatto un po’ la vigliaccheria. Io conoscevo la nostra responsabilità,
non avere una esperienza… ma c’erano troppe famiglie piemontesi, eliminiamo qualcosa che è un po’
diverso, e il diverso era mio figlio e questo suo amico. Ma tu non devi lasciare occasioni a un professore di
bocciarti. Se sei bravo non possono bocciarti. Basta cambiare ambiente, è lo stesso liceo scientifico, uguale,
ha trovato posto e subject… simili a questa qua (fam. Treska, Albania, padre).
Milena: Per esempio alle medie avevo fatto lo stesso punteggio di una ragazza italiana, il suo voto era più
alto e il mio era più basso.
Cioè c’erano gli stessi errori?
Milena: Sì, c’era lo stesso punteggio e lei aveva un voto più alto, a me aveva tolto un voto.
Tu avevi protestato?
Milena: No, me n’ero stata zitta.
Lidja: Finche c’era [nome della dirigente scolastica precedente a quella in carica attualmente] non
succedevano quelle cose (sottovoce).
Perché controllano le insegnanti?
Milena: Sì, per esempio nei Consigli di classe per quanto ne ho io la dirigente è presente e i compiti dei
ragazzi si tirano fuori. Una direttrice che è attenta nota poi se due compiti hanno lo stesso punteggio “Come
mai questa ragazza ha il voto più basso e questa più alto?”
Perché non avevi detto nulla?
Milena: Ma perché sinceramente l’ho sempre pensata così: molto italiani discriminavano.
Compagni di classe?
Milena: In generale. Ma succede ancora adesso.
Lidja: Quando eri stata bocciata, quel ragazzo come si chiamava? [nome di un ragazzo italiano] Lui con otto
materie insufficienti non l’hanno bocciato, lei invece con quattro sì.
Milena: Eh però vedendo oggi, per i ragazzi macedoni, gli facilitano un po’ le cose. Quindi c’è già un
appoggio in più. Che tanto tempo fa. A scuola.
[…] Lidja: Non lo so, ma no pensato sempre così. Siamo venuti NOI a casa vostra. Dobbiamo adattarci NOI
alla vostra cultura. Non voi alla nostra. L’ho pensata sempre così (fam. Lena, Macedonia, madre e figlia).
Anche i conflitti tra compagni sono oggetto di negoziazione tra genitori e insegnanti, ma, nel caso dei
migranti intervistati, tendenzialmente le questioni sono risolte tra genitori e figli.
Per il primo anno ha faticato un po’, ma adesso è al secondo… alla grande. Sono andato a 7-8 colloqui con i
professori e mi hanno consolato tantissimo, mi hanno detto “è molto, molto attento in rispetto ai suoi
compagni!” perché quello che ho saputo da lui, pensa, ° ci sono bambini che a quell’età, rientrano alle dieci,
dieci e mezza di sera, ubriachi a casa ° il professore mi ha detto “Se avessero un’educazione come il tuo,
sarebbero promossi tutti!”. A parte che i genitori se ne fregano! Come non fosse suo figlio! Purtroppo io
dico: “Questa scuola la devi continuare, perché siamo qua, e le tue capacità lavorative e tutto… lascia
perdere il mondo dei tuoi compagni casinisti e segui i professori e i tuoi risultati, e per il resto prega che
arrivino al risultato a cui sei arrivato te”. Un po’ meno succedeva con Saloua perché lavoravano, studiavano,
è un altro mondo il liceo, ma all’istituto professionale è proprio così, c’è tutto questo menefreghismo
diciamo, sia dei genitori che da parte dei professori (fam. M’Barka, Tunisia, padre).
Solo una mediatrice culturale racconta di avere il desiderio di costruire un piano formativo comune con gli
insegnanti e di essere entrata nel merito di scelte specifiche didattiche, non solo legate a aspetti più relativi
alla cura, invece più negoziati durante la scuola dell’infanzia e primaria.
Anch’io ero così. Perché per noi l’insegnante è quasi un profeta si dice nel nostro… io sono del Marocco.
Adesso purtroppo i professori non sono più quelli di una volta. Io vedo adesso con la prof. di mio figlio di
italiano. Lui è nato qua. Non parla l’arabo, parla solo l’italiano. Lei per offenderlo, gli ha dato il libro di
italiano, per stranieri. Gli ha detto “Guarda, deve imparare l’italiano”. Ma…? È nato qua, lui è italiano! (fam.
El Maleh, Marocco, madre).
152
RAPPORTO SECONDGEN
Il rapporto tra pari, compagni e genitori, è segnato anche dalla dimensione dell’origine sociale, oltre che
geografica, aspetto che, nel momento in cui è vissuto come asimmetrico, diminuisce il senso di fiducia in sé
e nella propria capacità negoziale.
Ha studiato a Savigliano, e allora li vedevo, andavano anche ben vestiti, anche le mamme fuori da scuola, e
così poi non si è trovata bene, ed è andata a Torino, e poi più stranieri, e vestiti anche normale, anche come
genitore ho notato quello, anche io, io eh? Prima a Savigliano non lo notavo, invece a Torino anche all’uscita
da scuola, con gli altri genitori, le altre mamme… ho visto che ero più trattata… alla pari. Mi sono resa
conto. Invece a Savigliano no, i genitori andavano più per le sue, io non ci facevo caso, andavo e venivo solo
per quello che dovevo fare e non guardavo, non lo notavo… ma poi andando a Torino, ho capito. Perché
[sott.: a Savilgiano] erano piemontesi, sai… Invece a Torino c’è tutta una mischia, no? Erano più abituati ad
avere stranieri, e mi sono trovata a mio agio, e ho detto “adesso ho capito mia figlia” (fam. Vidal, Perù,
madre).
Lui era considerato una creatura inferiore, era circondato da ragazzi di buona famiglia, non c’era un altro
straniero nel suo gruppo, era un po’ ciccione, sentiva qualche presa in giro per il suo fisico, e aveva questo
handicap di essere albanese. Le professoresse non hanno mai valutato veramente il problema, lui ha sofferto
così tanto che dopo il secondo anno abbiamo dovuto trasferirlo nella scuola media *** là era a un livello
sociale a portata di mano, e ha chiuso la terza media lì. Bene, con gli amici, si è fatto gli amici là.
Mi sembra di avere capito che nei colloqui che tu hai avuto avresti voluto dire qualcosa di tuo figlio, e non
ci sei riuscito. E’ così?
Sì, volevo raccontare un po’ delle sue difficoltà precedenti, che secondo me venivano proprio da come
avevano fatto gli insegnanti, quindi la diversità e gli insegnanti. (Al preside, Ndr) volevo dirgli: a te hanno
dato quell’incarico che potevano dare a un altro... ero arrabbiato... ma non l’ho detto, e... quindi .... non sono
riuscito stabilire un dialogo... anche perché non capivo tante cose... […] se non eravamo vanitosi di scegliere
scuole di élite, se l’avessimo lasciato stare tranquillo con altri stranieri, con altri ragazzi ... e non abbiamo
neanche ascoltato *** (il figlio), mia moglie insisteva, gestiva lei e io non le toglievo il primato, per non
creare contrasti, lasciavo fare (fam. Pulgar, Albania, padre).
La presentazione di sé come genitori nello spazio pubblico scolastico quindi è segnato da episodi che
collegano scuola e extrascuola, e anche il senso di maggiore o maggiore adeguatezza nei confronti degli altri
genitori influenza la propensione a partecipare attivamente alla vita scolastica.
Quando c’è stato il compleanno di mio figlio è stato bellissimo, perché sono venute anche le mamme. ° i
primi due anni no, perché avevo paura. Ha presente, no? Sa, mi portano, non mi portano i loro figli, sono
straniera, hanno paura, cioè sono le nostre difficoltà, no? Perché non sappiamo se siamo accettati o no.
E quindi non l’ha organizzata per i primi due anni?
Perché avevo paura: e se la organizzo e non viene nessuno? Avevo paura di deludere mio figlio e di rimanere
male e quindi boh. […] Invece i bambini si sono divertiti, sono stati bene. È stato bello. Cioè è un ricordo
che io… cioè ce l’ho…
Forse è stato un po’ un evento che superato quello…
E allora vuol dire che sei accettato dagli altri. Diventi più forte, diventi più… cioè non è solo che gli altri ti
mettono in difficoltà. Siamo anche noi che abbiamo questa come posso dire, chiusura per la paura di non
essere accettati dagli italiani (fam. Niko, Albania, madre).
Le relazioni tra insegnanti e genitori migranti sono dunque caratterizzate da processi di negoziazione delle
regole del gioco all’interno dei quali gli attori coinvolti non hanno – o non percepiscono di avere – una
posizione simmetrica.
Perché c’è la timidezza dalla parte di… la timidezza uno e poi il genitore straniero si vede sempre un po’
come un sottomesso. Non si vede come un cittadino uguale all’altro, di serie A. Sempre ha questo… giudizio
sopra la sua testa che è sempre un cittadino B, di serie B. quindi non partono a pari livello.
Ma anche se nella scuola non percepisce razzismo? Perché è un razzismo che si percepisce nel resto della
società?
Sì. Nel complesso, nel complesso, sì sì. È tutto il percorso migratorio che uno ha vissuto qua. Poi dipende da
che vita fa. Come dicevo io ho avuto tantissime difficoltà ma sono stata facilitata dal modo… da fattori che
io facevo parte della società molto attiva nel mio paese. E quindi questo mi ha aiutato di saper stare con…
ma ci sono persone che sono state chiuse, casa e chiesa tra virgolette, e quindi trovarsi qui non è facile,
153
RAPPORTO SECONDGEN
perché gli aiuti sono se li vai a trovare, ma se non li vai a trovare nessuno ti bussa alla tua porta (fam. Vata,
Albania, madre).
“Ormai sono grandi”. Prospettive universitarie e lavorative
Beh, però sarà una soddisfazione sapere che ora prende il diploma.
Eh sì, certo! Sì, sì, certo!!! Proprio, proprio contenta! Ma speriamo eh! [ride]. Anche per trovare lavoro
buono dopo. Speriamo, speriamo, speriamo. [ride] È quello! Facciamo per studiare per fare più bello il
lavoro, non come me, lavorare come anziani, lavorare come domestica! Speriamo che lo studio porta un
lavoro più bello per lei (fam. Santos, madre, Filippine).
Gli studi sulle migrazioni nei diversi approcci disciplinari (economia, antropologia, sociologia, psicologia e
demografia) per lungo tempo hanno mantenuto un’ottica retrospettiva (Suárez-Orozco e Carchill, 2011).
Nelle interviste abbiamo chiesto ai genitori di descrivere le loro aspirazioni di mobilità sociale dei figli,
evidenziando che, contrariamente all’assunto spesso presente in letteratura, non sempre sono elevate. Dal
punto di vista del loro compito di genitori, emerge prevalentemente il desiderio di aiutare i figli a conseguire
una qualifica secondaria.
È questa una abitudine da noi, l’importante è che i figli finiscono l’istruzione, così abbiamo fatto il nostro
dovere di genitore. E i genitori hanno la voglia così, anche se i genitori non sono laureati o non hanno il
diploma così, però hanno la voglia sempre che il loro figlio finisce una cosa bella, una cosa buona. Anche se
poi non hanno trovato il lavoro, l’importante è che finisci il diploma, finisci la laurea, così io ho fatto il mio
lavoro (fam. Mosaoud, Egitto, madre).
Interrogandosi sulle prospettive occupazionali, in primo piano viene messa la possibilità di trovare lavoro e
quindi anche l’attenzione a settori lavorativi simili a quelli in cui sono impiegati i genitori.
Perché dice che sua figlia ha patito di più?
Allora, lei ha scelto la scuola perché nel sociale c’è più lavoro. Lei voleva fare il turistico, ma cosa vai nel
turismo? Sei anche straniera, puoi fare infermiera, che hanno bisogno tanto, o l’assistente sociale, l’educatore
professionale, nel settore sociale cercano tanto, hanno bisogno tanto (fam. Vidal, Perù, madre).
Compare anche la dimensione del prestigio, legata al titolo conseguito e non necessariamente al lavoro
svolto.
Secondo lei perchè un diploma può essere utile?
Stefan: Perché da tutte le parti te lo chiedono, no? Anche se sei capace di fare quel lavoro, però devi avere
un pezzo di carta. O no?
Ho capito. Quindi proprio per trovare lavoro, per…
Stefan: Anche per tua personalità. Quando dici a qualcuno quante classi hai fatto “No, non ho fatto niente” lo
guardi dall’alto in b… lo guardi in un altro modo. No? (sorride) (fam. Fianu, Romania, padre).
Accanto al desiderio che i figli concludono l’istruzione secondaria c’è anche l’aspirazione al fatto che
possano emanciparsi economicamente e formare una loro famiglia, in tempi non così lunghi come accade ai
giovani italiani.
C’è una differenza perché i figli perché quando ti sei sposato i figli, cresci insieme con i figli. Più o meno io
sono cresciuta con i miei figli, insieme, no. Io ho 53 anni, mia figlia ce ne ha 35. Ce l’hanno anche la
nipotina, già.
Ah, si, è già nonna.
Si, io sono già nonna, così io posso aiutare i miei figli, che si sposano, ci sono i nipoti, sono ancora in gamba
per aiutare i miei figli, no. Sono una nonna giovane, ma se si sposa a 40 anni, i genitori sono vecchi e devi
mettere un baby sitter, per forza.
Si è un sistema meno, cioè..
A mio paese tutti sono giovani, aiuta anche i figli, crescono i figli (ride).
Si, è un sistema più…
Io conosco una signora che ha la mia età, ha un figlio piccolo di 6 anni lei e sua figlia ha anche lei un nipote
di 4 anni.
Hanno la stessa età, simile.. si, si…
Crescono in due.
154
RAPPORTO SECONDGEN
Quindi per lei andrebbe bene se i suoi figli si sposassero anche giovani e facessero…
Si, mio figlio questo grande si è sposato giovane però… un po’ la mentalità è cambiata. Perché adesso come
qua, che si pensa prima la casa, prima la macchina e dopo mi sposo. Prima studio e puoi fare tutto insieme.
Una volta devi rischiare! altrimenti…
Passano gli anni, poi ti prendi una casa, ti prendi niente, tanto che aggiusti la casa, diventi vecchio, dopo vai
al dottore per vedere cosa fai, non fai niente. Hai già 40 anni, dopo i bimbi non arrivano più, dopo 40 anni
(fam. Galai, Romania, madre).
Soltanto nel gruppo di interviste con genitori altamente qualificati è in primo piano la valenza espressiva del
titolo di studio e l’insieme delle risorse personali ad esse collegate.
Una persona che non sa scrivere, che non sa niente come fa? A girare nel mondo, non si può! Eh?
L’istruzione è tutto, è tutto, no? Si può avere i soldi o fare tanti soldi o lasciare tanti soldi e per quello io ho
fatto tutti i sacrifici per mio figlio qua, che accetto tutto quello che sto facendo per la signora, perché io so
che va bene, una persona può lasciare tanti soldi per i bambini e POI UNA NOTTE LORO POSSONO
BUTTARE TUTTI VIA, ANCHE TRENTA MINUTI POSSONO BUTTARE TUTTI VIA, INVECE
QUANDO UNO DA ISTRUZIONE È PER TUTTA LA VITA. Eh? è per tutta la vita. È per questo che io
faccio tutto questo. Mi sono sacrificata per loro. Per dare istruzione a loro (fam. Ouattara, Costa d’Avorio,
madre).
Conclusioni
Abbiamo provato a rispondere alle seguenti domande: come i genitori migranti influenzano le carriere
educative dei loro bambini, (non) negoziando con insegnanti e genitori specifici aspetti della vita scolastica
quotidiana come processi di valutazione, orientamento scolastico, norme formali e informali relative al
rapporto scuola-famiglia? È vero, come diversi studiosi hanno evidenziato, che i genitori migranti nutrono
“alte aspirazioni” nei confronti dell’istruzione dei loro figli, ma non riescono a tradurle in supporto
all’apprendimento adeguato? Se è così, quali processi sociali sono coinvolti?
Abbiamo cercato di fare emergere i meccanismi alla base del “disagio” delle relazioni scuola-famiglia. Si
tratta da un lato di problemi legati alla conciliazione dei tempi, in particolare quando sorgono problemi a
scuola, dall’altro lato a disagio nella presentazione del sé e delle proprie competenze socio-linguistiche dei
genitori nei confronti degli insegnanti, infine di una serie di assunti alla base delle caratteristiche che
dovrebbero avere le relazioni scuola-famiglia, differenti tra genitori e insegnanti. I rinforzi della motivazione
e i ri-orientamenti in caso di fallimento scolastico sono resi più difficili dalla difficoltà dei genitori migranti a
negoziare le responsabilità educative con gli insegnanti. Soprattutto i genitori che godono di minori risorse in
istruzione formale hanno una doppia difficoltà a porsi come “bravo genitore”: da un lato considerano il loro
ruolo in subordine rispetto a quello degli insegnanti e dei figli stessi nell’indirizzare il percorso scolastico
degli studenti, sia rispetto alle competenze necessarie sia rispetto alla legittima capacità di essere efficaci;
dall’altro fondano la collaborazione scuola-famiglia su un presupposto diverso rispetto ai ruoli che insegnanti
e genitori dovrebbero avere. Le relazioni con gli insegnanti, specie di scuola secondaria di II grado,
improntate sulla fiducia e su valutazioni generalmente positive dell’offerta formativa possono essere
scambiate dai docenti per assenza e incapacità a sostenere l’apprendimento. Inoltre le micro-pratiche
quotidiane di monitoraggio e controllo dello svolgimento dei compiti e dell’andamento della frequenza alle
lezioni, nella scuola secondaria, sono intese solo dai genitori scolarizzati come momenti “cruciali”.
Le aspettative dei genitori rispetto al ruolo della carriera scolastica/universitaria sulla successiva
carriera occupazionale/di inserimento sociale dei figli sono caratterizzate da una consapevolezza dei vincoli
materiali posti nell’attuale contesto economico all’inclusione nel mercato del lavoro dei più giovani, anche
considerando le risorse economiche familiari in molti casi ridotte dalla crisi. Le aspirazioni di mobilità
sociale inoltre si intrecciano a quelle relative ai tempi per l’ingresso dei figli nell’età adulta, intesa come
raggiungimento di una loro piena autonomia finanziaria. I progetti dei figli che vorrebbero lavorare date le
situazioni economiche della convivenza familiare malgrado l’incoraggiamento dei genitori a proseguire
l’istruzione terziaria possono leggersi anche come “desiderio di adultità”.
Raggruppando le interviste in base alle risorse educative dei genitori e alla loro collocazione occupazionale
nel paese di origine, si possono cogliere due modelli idealtipici di interazione delle famiglie migranti con le
scuole italiane. Il primo gruppo di intervistati, dopo un lungo momento iniziale di socializzazione alle
procedure informali che caratterizzano le interazioni scuola-famiglia nel paese di destinazione, in questo
caso l’Italia, e in parte sono diverse da quelle attuate nel paese di origine, esprimono una maggiore sicurezza
155
RAPPORTO SECONDGEN
dell’interazione negoziale con le figure educative. La loro esperienza formativa precedente e le risorse
relazionali e linguistiche collegate permette a questi genitori di “sentirsi alla pari” e di esprimere e utilizzare
più competenze e più fluidità nel rapporto scuola famiglia, che aumentano passando da un ordine di scuola
all’altro e dai figli maggiori a quelli minori, sulla base dell’esperienza precedente maturata in Italia e dagli
scambi con altri genitori. In questo gruppo i racconti contengono anche più riflessioni sul fatto che, mentre
sul piano della motivazione all’apprendimento, si possa cogliere una sostanziale coerenza tra il modello
educativo familiare e quello scolastico, sul piano degli orientamenti valoriali specificamente legati al ruolo
dell’insegnante e più ampiamente attinenti ai contenuti curricolari si manifestino non corrispondenze, e in
alcuni casi visioni in conflitto, tra orientamento dei genitori e orientamento dei docenti. In questi casi i
genitori raramente negoziano con la scuola approcci più interculturali, per una generale sfiducia nella
possibilità di cambiare metodo di insegnamento e per una diffusa credenza che alcuni aspetti educativi
spettino alla famiglia.
Nel secondo gruppo di interviste, realizzate con genitori con percorsi più brevi in istruzione nel paese di
origine, si rilevano le difficoltà evidenziate dagli studi sull’effetto della classe sociale sulle capacità di gestire
il rapporto con le istituzioni educative. Inoltre questi sono i casi in cui gli effetti della mobilità geografica
sull’organizzazione familiare (assenza di parentela allargata, orari di lavoro dei genitori molto lunghi,
situazioni abitative e economiche poco incoraggianti la prosecuzione degli studi dopo l’obbligo, rete
migratoria costituita da persone collocate in basso nella stratificazione occupazionale, difficoltà linguistiche,
ecc.), si manifestano più direttamente come ostacoli all’accompagnamento allo studio, sia sul piano del
rapporto dei genitori con i figli per motivarli alla riuscita scolastica, sia sul piano delle aspettative, sia infine
ma non meno importante, sulla percezione di incompetenza da parte dei genitori, e conseguente evitamento
di situazioni interattive fonte di disagio.
156
RAPPORTO SECONDGEN
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157
RAPPORTO SECONDGEN
Legami matrimoniali e di convivenza. Le pratiche transnazionali.
Chiara Bergaglio, con Maria Perino e Michael Eve
Tra i diversi nodi tematici indagati, il tema delle relazioni affettive e di coppia, pur non costituendo una
questione cardine della ricerca Secondgen, è inevitabilmente emerso nelle interviste con i ragazzi e ragazze
di seconda generazione, in alcuni casi in modo marginale, in altri come aspetto centrale del proprio percorso
di vita.
La formazione di relazioni di coppia di tipo più o meno stabile e/o istituzionalizzato (convivenza o
matrimonio) insieme alla conclusione della carriera formativa e all'ingresso nel mondo del lavoro,
costituiscono infatti delle tappe essenziali nei percorsi di vita che scandiscono la transizione all'età adulta.
Seguendo l'impianto teorico e metodologico generale della ricerca, la nostra prospettiva nell'esplorare questo
tema ha privilegiato l'analisi delle reti sociali dell'intervistato: quali ambienti sociali frequenta? In quali di
questi è stato conosciuto il partner? Il legame affettivo a quali reti sociali ha dato accesso o ha precluso?
Inoltre, si è cercato di indagare quali implicazioni ha avuto la relazione, in particolare di tipo coniugale, sulla
carriera formativa e lavorativa dell'intervistato.
Quando si affronta il tema delle relazioni affettive e coniugali dei giovani di seconda generazione, con
riferimento, in particolare, a quelli che vengono definiti matrimoni combinati, spesso si adotta una
interpretazione culturalista che ritiene che la provenienza dei genitori da Paesi di tradizione arabomussulmana sia sufficiente da sola a giustificare e a spiegare il fenomeno, senza prendere in considerazione
la complessità di tale istituto, le trasformazioni che sono in atto nel contesto di partenza e quelle prodotte dal
processo di migrazione, come invece cercheremo di illustrare. Partendo infatti dall’ipotesi di fondo di tutta la
ricerca Secondgen, e cioè che essere figlio di genitori immigrati comporti delle specificità nella
strutturazione delle reti sociali e nei percorsi scolastici e lavorativi, ci siamo chiesti se tali meccanismi sono
all'opera anche nella scelta del partner e nella formazione di coppie.
Tra le interviste analizzate, abbiamo riscontrato una notevole varietà di situazioni: relazioni più o meno
stabili e durature, fidanzamenti, coppie cosiddette “omoetniche”, coppie miste, convivenze, matrimoni,
presenza di figli, separazioni e divorzi.
Dopo qualche considerazione iniziale su questa varietà presente nella ricerca nel suo complesso, si
focalizzerà l’attenzione su una situazione particolare, quella di matrimoni “transnazionali” contratti da alcune
intervistate marocchine. Nonostante il fatto che i legami di questo tipo interessino solo poche intervistate
della ricerca (e quindi non riflettono l’esperienza della maggior parte delle figlie dei migranti in generale e
nemmeno delle figlie di migranti maghrebini) meritano attenzione a causa della mancanza di letteratura sul
tema in Italia e a causa dell’interesse che suscitano. Se gli studi sulle seconde generazioni in Italia hanno
conosciuto solo recentemente un certo sviluppo rispetto ad altri contesti nazionali, il tema specifico delle
relazioni affettive e coniugali è stato finora decisamente poco indagato e si configura come una nuova e
innovativa area di indagine. In Italia segnaliamo lo studio del 2009 “Per forza, non per amore. Rapporto di
ricerca sui matrimoni forzati in Emilia-Romagna” condotto nell'ambito del privato sociale dall'associazione
Trame di Terra, per altro incentrato non sulle seconde generazioni, ma sulle donne di origine immigrata in
generale, caratterizzato da un'impostazione di genere non scevra da culturalismo. L'indagine ha tuttavia il
merito di essere tra le prime a sollevare la questione in Italia su quelli che vengono definiti, anche da un
punto di vista legislativo, come “matrimoni forzati”.
Anche nel panorama internazionale, sebbene il dibattito a riguardo sia presente da più tempo, abbiamo
riscontrato una certa lacunosità nella letteratura scientifica e una scarsità di studi specifici sulla
matrimonialità delle seconde generazioni. Un filone di studi che ci è parso proficuo per orientarci in questo
campo sono state le indagini condotte dalle sociologhe francesi Hamel, Collet, Santelli e Streiff-Fenart sulle
formazione di coppie coniugali dei figli degli immigrati in Francia, con un focus particolare sulle famiglie di
origine maghrebina. Sebbene tali ricerche fotografino situazioni e tendenze che da un punto di vista empirico
si discostano parzialmente da quelle rilevate dalla nostra ricerca, esse ci hanno fornito stimolanti spunti
comparativi e sguardi interpretativi sul fenomeno.
L'approccio comparativo ha infatti costituito una asse portante della nostra ricerca per quanto riguarda la
comparazione sistematica tra le migrazioni contemporanee e le migrazioni interne dell'Italia degli anni '60.
Anche rispetto al tema specifico delle relazioni affettive e coniugali, si è cercato di mettere a confronto le
strategie matrimoniali delle famiglie e dei giovani di seconda generazione di oggi con quelli delle famiglie
meridionali immigrate al Nord, (Badino 2012) nel tentativo di trovare analogie, differenze e possibili quadri
158
RAPPORTO SECONDGEN
interpretativi comuni. Un altro termine di confronto sono state le ricerche di Wessendorf (2008) sulle
famiglie italiane emigrate in Svizzera riguardanti scelte educative e modalità di relazione con i figli.
Pochi matrimoni e convivenze
Nonostante gli intervistati ci abbiano parlato anche di altri tipi di relazioni affettive e sentimentali più
transitorie (fidanzamenti, “storie”, “relazioni”) del presente o del passato, in questa analisi prenderemo in
considerazione solo le relazioni più stabili e strutturate, quali appunto i casi di matrimonio e di convivenza,
specificatamente 14 casi di matrimonio e 7 di convivenza. Anche se non si tratta di numeri elevati, la gamma
di situazioni, percorsi e significati che abbiamo riscontrato è ampia.
Può essere d'aiuto per un inquadramento iniziale del fenomeno, la tipologia recentemente proposta da Collet
e Santelli (2012) relativa alle opzioni matrimoniali “a disposizione” dei figli degli immigrati:
- coppie miste
- coppie endogamiche
- coppie transnazionali, dove uno dei due partner ha intrapreso un percorso migratorio.
Nella nostra indagine, nella maggior parte dei casi si tratta di coppie endogamiche e transnazionali, in cui
l'accezione “transnazionale” acquisisce inediti significati come vedremo, mentre le coppie miste sono in
numero esiguo. Tra i 21 casi presi in considerazione tra coppie sposate e conviventi, abbiamo 19 femmine e
solo due maschi.
Chi sono dunque queste ragazze? Come è avvenuto il processo di scelta o non scelta del partner? All'interno
di quali ambienti sociali – famiglia, rete amicale, rete parentale - è avvenuto? Quali sono le strategie
famigliari sottese alla formazione della coppia coniugale? Quali sono state le ripercussioni sulla carriera
formativa e lavorativa di queste giovani? Qual è il margine tra vincoli e propria agency?
Come ricordano Collet e Santelli (2012:7): le lien conjugal comme un des liens sociaux fondamentaux de
notre existence, se construise entre les conditions structurantes et les décisions individuelles qui
interviennent au cours de tout processus social.
Il nostro focus verterà su ragazze di seconda generazione principalmente di origine marocchina, ma non solo,
nate o cresciute in Italia, dove hanno frequentato la scuola, in alcuni casi interrompendola, spesso fino al
conseguimento del diploma o fino all’università, che si sposano con partner conosciuti nel Paese di origine.
In queste situazioni è molto problematico il ricongiungimento famigliare del neo-marito che vive in Marocco
con la moglie in Italia e molte volte costringe la coppia a lunghi periodi, talvolta anche anni, di separazione.
Proprio la questione dell'ingresso legale del marito in Italia apre inquietanti interrogative sul ruolo di queste
ragazze di seconde generazione “lascia passare” per l'Italia. Inoltre, sembra essere in atto un evidente
ribaltamento dei ruoli di genere: se prima era l'uomo, padre di famiglia e primomigrante, ad occuparsi del
ricongiungimento della moglie e/o dei figli che vivevano in Marocco, ora è la giovane moglie ad accollarsi la
responsabilità di trovare un lavoro e una casa che soddisfino tutti i requisiti necessari per il
ricongiungimento del marito.
Tale fenomeno ci ha colpito per la sue caratteristiche di originalità e per il fatto che sembra non essere ancora
stato oggetto di specifici studi e approfondite analisi in letteratura. Ne sono una dimostrazione le ricerche di
Collet e Santelli che da anni si occupano di questi temi in Francia. Le due studiose hanno rilevato quattro
opzioni coniugali a disposizione dei figli degli immigrati a seconda del tipo di partner (Collet, Santelli,
2012:.6):
1. un discendente di immigrati dello stesso Paese o area geografica d'origine dei genitori nato o arrivato in
Francia prima degli 11 anni d'età;
2. una persona immigrata dal Paese di origine dei genitori o dalla stessa area geografica arrivata in Francia
dopo i 10 anni di età;
3. un francese senza ascendenza immigratoria;
4. qualsiasi altra persona con un'ascendenza immigratoria.
Nonostante la differenza di criteri utilizzati per la definizione di “seconda” e “prima” generazione
riconducibile alla diversa anzianità del fenomeno migratorio in Francia rispetto all'Italia, si nota come non
sia contemplata l'opzione “persona che vive nel Paese di origine dei genitori e non emigrata” che costituisce
invece la peculiarità dei casi da noi riscontrati.
Ma andiamo con ordine, quali sono le scelte o non scelte individuali e famigliari, quali i meccanismi sociali
più ampi che portano alla formazione della coppia coniugale per le ragazze di seconda generazione? Come
hanno dimostrato Bozon e colleghi in vari lavori sul matrimonio e sulla formazione della coppia in Francia
nel secondo Novecento e nel 2000 (Bozon e Héran 2006; Bozon e Rault, 2012), è determinante la frequenza
159
RAPPORTO SECONDGEN
di ambienti sociali (dagli incontri parentali alle feste, dal vicinato agli ambiti universitari) che, in determinati
momenti storici, per i giovani di un determinato ambito sociale, possono portare alla costituzione di un
legame sentimentale e al matrimonio.
Ambienti e reti sociali
Per indagare dunque la pratiche matrimoniali di queste ragazze più che rivolgerci ai concetti di cultura e
identità culturale, di matrimonio tradizionale, ci baseremo su altri strumenti interpretativi, quali l'analisi della
composizione delle reti sociali e degli ambienti frequentati, le forme di controllo e le strategie messe in atto
dalle famiglie, strumenti che si rivelano decisamente più proficui ai fini della comprensione del fenomeno.
Collet e Santelli hanno identificato alcuni ambienti sociali di riferimento intesi come possibili occasioni
d'incontro del proprio partner:
- la sphère familiale,
- les relations amicales,
- les lieux sélectifs,
- les lieux festifs
- les lieux publics
Dalle interviste analizzate in questo testo emerge chiaramente come gli ambienti sociali più importanti siano
costituiti in primis dalla sfera famigliare e parentale, dove si sviluppano anche buona parte delle relazioni
amicali (cugine, figlie di amici di famiglia). L'unico contesto che sembra fare da contrappeso alla famiglia è,
come si può intuire, la scuola dove si ha la chance di costruire amicizie che esulano dalla cerchia famigliare
Come spiega Karima, 20 anni, diplomata, parlando delle sue amicizie:
Dunque amici amici.. ho un'amica marocchina che è propria mia amica, la prima da quando sono arrivata
in Italia. Pensa le coincidenze: abitavamo vicine quando stavamo in centro, ci conosciamo da 11 anni,
stavamo sempre insieme (….) poi lei si è trasferita al Cristo due anni e ci vedevamo meno. Poi quando ci
hanno dato la casa popolare anche a noi, siamo finite di nuovo vicine! Io sotto, lei sopra, i casi della vita.
(...)
Poi ci sono pure altre amiche strette. Un'amica italiana che conosco da 6 anni, ci siamo conosciuti alle
superiori, io vado a casa sua, lei viene a casa mia, usciamo insieme. Poi ho un'altra amica che però è
tornata in Sicilia da quattro anni, ma siamo sempre in contatto (...)
Poi ho un'altra amica marocchina, che non conoscevo tanto, cioè le nostra famiglie si, per me era la figlia
di amici dei miei genitori, venivano da noi, andavamo da loro, non ci consideravamo tanto, poi dalle
medie siamo diventate più amiche, poi abbiamo fatto le superiori insieme, compagne di banco, siamo
diventate molto strette.
In determinate condizioni di segregazione abitativa della popolazione immigrata 2 il vicinato acquisisce una
centralità come ambiente sociale in cui le famiglie immigrate e i loro figli costruiscono e mantengono le loro
relazioni sociali. Da alcune interviste emerge anche come le famiglie e la rete parentale allargata siano in
grado di esercitare un notevole controllo sociale, in particolare sulle figlie femmine, riproducendo, pur con le
dovute differenze, dinamiche e meccanismi all'opera anche nei quartieri e nei villaggi di origine. I parchi e i
giardini presenti nel quartiere diventano luoghi di incontro e aggregazione caratterizzati da una certa
segregazione di genere: vi sono spazi riservati alle donne e alle ragazze. Ecco due diversi punti di vista a
riguardo. Per Hasnaa, 18 anni, la frequentazione di questi ambienti soprattutto d'estate è molto gratificante
dal punto di vista relazionale:
2
L'intervista citata, come la maggior parte di quelle seguenti, è stata raccolta ad Alessandria e implicitamente fa
riferimento ai processi d'insediamento e alle trasformazioni urbanistiche proprie di questa cittadina. Dalla seconda metà
degli anni '90 fino al 2000 circa, infatti, si è assistito ad una certa segregazione abitativa della popolazione immigrata in
una particolare zona del centro storico della città, dove le famiglie recentemente ricongiunte si sistemavano in alloggi per
lo più fatiscenti. Dai primi anni del 2000, a seguito di politiche urbanistiche e sociali, tali famiglie sono diventate
assegnatarie di case popolari in un quartiere periferico della città, “il Cristo” appunto citato nell'intervista . All'interno del
quartiere tali famiglie sono state collocate in alcune specifiche vie e isolati, ricreando dunque una nuova e evidente forma
di segregazione abitativa.
160
RAPPORTO SECONDGEN
D'estate ci vediamo nel giardino vicino a casa mia, lì è pieno di gente straniera sia marocchini che
albanesi, italiani e spagnoli, tutto mischiato! Ci vediamo lì per parlare, giocare a calcio... anche con le
donne! ci divertiamo un casino! L'anno scorso mi ricordo stavamo lì fino alle 3, alle 2 di notte... perché
facevamo il Ramadan di giorno, di giorno non usciamo per il sole... di sera mangiavamo verso le otto e
poi uscivamo per camminare un po' perché non puoi stare in casa. Stavamo lì e giocavamo.
Quindi anche di sera è considerato un luogo in cui vi fanno uscire, “sicuro” diciamo?
Sì, sì i miei mi fanno uscire da sola, le altre vengono con le loro madri... ma mio padre sa come siamo,
si fida di noi, io vado sempre da sola, delle volte con le mie sorelle, altre volte con la mia amica.
Mounia, 20 anni, recentemente diplomata e in cerca di occupazione, invece, sente il quartiere come “troppo
stretto” e sembra adottare una strategia di diplomatico distacco:
Abito al Cristo, lì ci sono tante famiglie marocchine, conoscenti tanti, ma amicizie amicizie no... a
parte questa mia amica marocchina con cui ho fatto le superiori, poi altre due... Di vista ne conosco
tanti, anche perché fa parte della nostra cultura se vedi un'altra persona musulmana è buona
educazione salutarla anche se non la conosci.
Esci nel quartiere, nei giardinetti....?
Non tanto, non mi piace tanto perché io sono una persona diretta, odio la falsità, essendo comunque
che quelle persone lì non mi piacciono, sono false, ti fanno il sorrisetto... questo non mi piace,
piuttosto “un ciao ciao”, una distanza che un'amicizia falsa.
Quindi non frequenti i luoghi del quartiere?
C'è un parco in via …., ci vanno tanto le ragazze che abitano in quella via e poi ce n'è un altro … io
ci vado spesso con mio nipotino, mia sorella, mia mamma, lo portiamo un po' a giocare. Lo
frequento più con la famiglia che con le ragazze... piuttosto che andare lì e ascoltare cose, poi io mi
conosco, non tengo niente, invece di fare scenate, preferisco stare tranquilla
Le reti sociali di alcune donne intervistate sono caratterizzate da una certa carenza in termini di ampiezza ed
eterogeneità dei contatti, nonché da specificità legate al vissuto migratorio della famiglia d'origine
(collocazione sociale, reti sociali, situazione abitativa...). Quindi una ragazza come Mounia che sembra
rifiutare i contatti e le conversazioni nei giardini non ha un giro d’amicizie alternativo ma è semplicemente
un po’ isolata.
Solo uno studio approfondito, con interviste mirate o un’etnografia, potrebbero far capire quanto sia capillare
il controllo sui contatti formati non attraverso la famiglia ma, per esempio, attraverso le amiche del quartiere.
Tuttavia, almeno per alcune intervistate, i contatti con persone (uomini, ma anche donne) al di fuori
dell’ambito parentale sembrano limitati.
Non solo le intervistate residenti in questo tipo di contesto di edilizia popolare, ma anche altre hanno
conosciuto il partner all'interno della cerchia di amici del fratello o di un cugino, comunque attraverso la
mediazione e il controllo di un parente maschio, ancora una volta ad indicare la scarsa autonomia nella
creazione di proprie reti amicali, come per le seguenti ragazze coniugate o conviventi:
Luisa, albanese di 27 anni, sposata con un connazionale, lavora nella pasticceria di famiglia e
contemporaneamente fa l'università:
Ci conoscevamo da quattro anni
Avete un giro di amicizie in comune tu e tuo marito?
Sì sì... anche perché l'ho conosciuto tramite mio fratello, era un suo amico. Sì, abbiamo amici in
comune. Li vediamo ogni due settimane, diciamo, anche perché mio marito lavora anche il sabato
e la domenica...
Elena, 20 anni di origine rumena, apprendista in un negozio di parrucchiera, ha conosciuto il suo convivente
in questo modo:
Tramite mio fratello, il migliore amico di mio fratello... diciamo che (ride) gli ho rovinato
l’amicizia, perché, diciamo, la sorella adesso si è messa in mezzo (ride), e boh, ci siamo conosciuti
quattro anni non è che ci siamo subito messi insieme, prima abbiamo visto, poi boh... lui è qua da
otto anni, andava sempre nella stessa scuola e faceva il corso di elettricista, ha finito i cinque anni, e
adesso lavora come frigorista.
161
RAPPORTO SECONDGEN
Naturalmente, anche molte italiane conoscono il marito attraverso i fratelli o cugini3. E’ possibile comunque
che questo canale sia più frequente tra le immigrate, magari come conseguenza della relativa ristrettezza
delle reti sociali. Siccome tale ristrettezza delle reti sociali sembra particolarmente caratteristica delle
persone che arrivano in Italia già adolescenti, sembra ipotizzabile che si tratti di un fenomeno in cui incide il
percorso migratorio e l’età all’arrivo.
I ritorni estivi nel Paese d'origine
La rete famigliare e parentale riveste un ruolo centrale nella selezione del partner non solamente in Italia, ma
anche nel Paese d'origine, in occasione dei ritorni estivi. Per molte delle ragazze sposate all'epoca
dell'intervista i ritorni estivi nel Paese d'origine hanno rappresentato una tappa fondamentale del percorso che
le ha condotte al matrimonio, come contesto in cui è stato conosciuto il futuro marito, è avvenuto il
fidanzamento e in qualche modo è maturata la decisione di sposarsi, non senza subire pressioni e attraversare
forti tensioni.
Sulla centralità dei ritorni periodici nel paese d'origine finalizzati alla ricerca di una moglie o di un marito
per il propri figli da parte delle famiglie immigrate vi sono molti riscontri in letteratura tanto per le
migrazioni del passato quanto per quelle del presente. Wessendorf (2008) cita a riguardo i ritorni estivi in
Italia delle famiglie italiane immigrate in Svizzera negli anni '60 e '70 del Novecento, caratterizzati da visite
ai nonni e alla rete parentale allargata. In tali occasioni i genitori nutrivano forti aspettative nei confronti dei
figli affinché si adeguassero alle norme di comportamento ritenute appropriate al contesto, in particolare una
maggior ubbidienza e pudore da parte delle figlie femmine, anche se in contrasto con la condotta
normalmente tenuta nel Paese di immigrazione, in modo da mantenere intatta la reputazione famigliare.
Così anche Badino (2012) nella sua ricerca sulle seconde generazioni di origine meridionale a Torino,
focalizzata su una dimensione di genere, rileva una forte omogamia sociale e territoriale nella formazione
delle coppie coniugali raggiunta attraverso il mantenimento di legami tra il luogo di immigrazione e il luogo
di origine: Un aspetto che evidenzia particolarmente il ruolo della parentela nel condizionare la formazione
delle reti sociali e, in ultima analisi, delle giovani coppie, nell’ambito della stessa origine territoriale sono i
lunghi periodi di vacanza trascorsi dai figli degli immigrati meridionali nei luoghi di origine dei genitori.
Durante questi soggiorni si formano coppie che sovente hanno come unico modo di superare la fase del
fidanzamento “a distanza” quello di passare direttamente alle nozze, spesso senza avere avuto sufficiente
tempo per conoscersi a fondo.
Certamente l’omogamia regionale rilevata da Badino ha diverse radici (tra cui la concentrazione negli stessi
quartieri e nelle stesse scuole a Torino) ma senza dubbio i ritorni estivi erano importanti per la formazione di
alcune unioni. Se nel caso delle migrazioni interne in Italia, era sopratutto un ragazzo di seconda generazione
che era cresciuto al Nord a sposare una ragazza non emigrata che viveva al Sud, nel caso delle migrazioni
contemporanee è presente anche la tendenza opposta, ovvero ragazze di seconde generazioni che vivono in
Italia che si sposano con giovani non emigrati che risiedono nel Paesi d'origine dei genitori.
Venendo a studi sulla realtà migratoria attuale, Brouwer (2006) si è concentrato sulle seconde generazioni di
origine marocchina in Olanda e su come esse mantengano rapporti sociali e culturali con il Marocco,
mettendo in luce l'esistenza di un “immaginario transnazionale” fatto di siti web e community digitali.
All'interno di questo spazio transnazionale, virtuale e non, vengono annoverati anche i ritorni estivi come
occasioni propizie per i matrimoni, complici ormai anche le nuove tecnologie con spazi dedicati alla ricerca
del proprio partner.
Vediamo attraverso alcune delle testimonianze raccolte nella ricerca, quali sono le dinamiche matrimoniali
durante tali ritorni estivi e quali le conseguenze.
Naima, 23 anni, di origine marocchina, diplomata, lavora come operaia e all'epoca dell'intervista era da pochi
mesi andata a vivere con il marito che era finalmente riuscita a ricongiungere in Italia:
Io conoscevo già lui ma segretamente perché sai come sono i genitori nostri, più difficili di quelli italiani.
Lui era in Marocco e lo vedevo solo una volta l'anno, quando tornavo in Marocco. Si, torniamo tutti gli
anni (...)
3
In Francia Bozon e Rault hanno trovato che il 7% delle donne francesi che hanno cominciato una vita di coppia tra il
1984 e il 2006 hanno conosciuto il partner attraverso la famiglia (Bozon e Rault, 2012, tabella 1, pag, 460)
162
RAPPORTO SECONDGEN
Siamo di Fes, abita lì vicino a noi, siamo rimasti sempre in contatto, però non così strettamente, da
lontano è difficile essere proprio fidanzata fidanzata. Non uscivo con ragazzi qua... italiani, non mi sono
mai interessati come fidanzati. Amici si, ma non mi è mai venuto in mente di interessarmi a un italiano,
non so, non c'è stato il caso. (…) Non ho mai pensato di avere qualcuno italiano. Questo qua era il
ragazzo che mi interessava di più, quando andavo giù mi raccontava cosa faceva, (…) . Ci siamo
conosciuti sempre di più e poi mi ha detto “Sei fidanzata? Ti vuoi sposare? Voglio venire a chiedere la
mano a tuo papà, se sei d'accordo... vuoi?” Io ho detto si. Questo è successo l'estate 2010, poi nel 2011
abbiamo fatto il matrimonio. (...)
No, non era mai emigrato prima, era andato solo un periodo in Tunisia.
Naima dice: “non ho mai pensato di avere un italiano”. Evidentemente, non è mai stata con italiani in
situazioni che possano portare a un fidanzamento o anche solamente sviluppare affettività.
Più problematica la relazione coniugale di Fouzia, 30 anni, due figli piccoli, operaia che al momento
dell'intervista era in fase di separazione dal marito, ricongiunto
Nel 2000 dovevo scendere giù e sposarmi, matrimonio combinato! (pausa di silenzio).... Purtroppo è uno
sbaglio che ha fatto mio papà.
Sono andata giù e mi sono sposata, così avevo bisogno di un lavoro fisso in una fabbrica per poter fare il
ricongiungimento famigliare a mio marito (….). Ho trovato lavoro a San Germano... ho fatto tutti i
documenti, sono andata ad affittare una casa e boh... ho iniziato la mia vita, ero la prima a sposarmi nella
mia famiglia. Erano tempi duri, proprio duri, ma ho tirato avanti. (….)
Praticamente mio padre vedendo che eravamo cresciute aveva paura che seguivamo quella strada lì... di
uscire, quindi ha fatto quest'errore qua... matrimonio combinato giù in Marocco, mi ha fatto sposare
questo qua, poi ha capito che è stato un grandissimo errore, infatti ai miei fratelli ha detto “Non metto
neanche un dito nei vostri matrimoni, scegliete da soli”.
Amina, 18 anni, di origine marocchina, ha sposato un uomo rimasto in Marocco il quale per motivi di lavoro
viaggia tra il Paese d'origine e l'Europa. La ragazza al momento dell'intervista era incinta e viveva ancora in
casa della sua famiglia. Racconta di quanto i ritorni estivi prima del matrimonio non siano stati facili:
La mia città è molto religiosa e non si può uscire di sera, io lo facevo lo stesso perché uscivo con i miei fratelli
e un mio cugino che è come mio fratello, e mio padre si fidava.
Questo destava le gelosie delle altre ragazze. Si sentiva isolata e “strana” e soprattutto la infastidivano i
ragazzi che si avvicinavano “solo per i documenti”.
Fouzia e Amina sono tra le poche intervistate che parlano esplicitamente di “matrimonio combinato”. Amina
racconta infatti che a 16 anni è stata promessa in matrimonio a seguito di un viaggio del padre in Marocco e
di accordi presi tra le famiglie. Alla reazione di rabbia e sgomento della figlia, il padre reagiva con calma
dicendole “nessuno ti obbliga, se ti va lo sposi, altrimenti no”. Dopo i primi contatti avvenuti al cellulare, il
fidanzamento è durato circa un anno.
In Italia il fenomeno dei matrimoni combinati, solo recentemente apparso nell'orizzonte dell'opinione
pubblica, è stato oggetto più che di specifiche indagini, di alcuni dibattiti pubblici il più delle volte impostati
su una visione culturalista. Se quello dei matrimoni combinati è un “fatto sociale” riscontrabile, nella sua
complessità e mutevolezza, in molte realtà migratorie, occorre prestare attenzione agli strumenti concettuali e
interpretativi che si utilizzano per “leggere” tale fenomeno. La deriva essenzialista, ovvero ricondurre tali
matrimoni in modo esclusivo all'appartenenza a determinate tradizioni culturali o alla provenienza da
determinate Paesi o aree geografiche, è dietro l'angolo. Sotto questa luce, i matrimoni combinati sarebbero
un tratto culturale tipico dei migranti originari dei Paesi arabo-musulmani che, nonostante la migrazione e il
contatto con le società occidentali, permane e si ripercuote sulle seconde generazioni. E' implicito in questa
visione un giudizio etnocentrico sulla superiorità dei “nostri” modelli matrimoniali, fondati sulla libera scelta
individuale, contrapposti all'arretratezza e in alcuni casi alla barbarie dei “loro” matrimoni combinati, frutto
di costrizioni e violenze. Inoltre, tale istituto matrimoniale viene spesso visto come un unico, atavico,
modello che si ripete in maniera identica e “quasi” meccanica dal Marocco al Senegal al Pakistan senza
alcuna differenziazione tra i vari contesti culturali. I molteplici rischi contenuti in queste prospettive, che
spesso predominano all'interno delle policies pubbliche e dell'operato del terzo settore, sono di “fossilizzare”
questo fenomeno come fosse un retaggio culturale del passato e, di conseguenza, non vederne le
trasformazioni di cui è oggetto proprio a seguito dei processi migratori. Si ammetterà che è ben diverso un
matrimonio combinato tra due partner in loco da un matrimonio combinato tra due partner di cui uno o
163
RAPPORTO SECONDGEN
entrambi sono emigrati fuori dal Paese d'origine. Quest'ultimo avrà senz'altro dinamiche sociali e significati
culturali diversi e assumerà nuove, inedite forme.
Per una ricognizione basilare sul dibattito che si è sviluppato a riguardo a livello europeo e internazionale,
può essere utile rifarsi al già citato studio “Per forza, non per amore” che s'inscrive, è bene precisarlo, in una
cornice concettuale discorsiva e metodologica di “contrasto alla violenza sulle donne” ed è finalizzato a
delineare policies e pratiche di intervento per arginare il fenomeno nelle sue derive più violente. E’ bene
introdurre una distinzione di fondo che sembra essersi consolidata sia dal punto di vista legislativo sia da
quello del movimento antiviolenza femminile, ovvero quella tra matrimonio imposto/forzato (forced
marriage) e matrimonio combinato (arranged marriage). Il matrimonio forzato o imposto è ritenuto dagli
organismi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani, quali l'ONU, una violazione dei diritti umani4 e
inscritto tra le forme di violenza contro le donne. In questa prospettiva, la controversa e delicata linea di
confine tra matrimoni forzati e matrimoni combinati risiederebbe nel grado di consenso della donna. Su
questo punto si apre un ampio dibattito su concetti di fondo quali quelli di “scelta individuale”, “libertà del
soggetto”, sui concetti stessi di “amore” e “matrimonio” che in un’ epoca di globalizzazione e pluralismo
non possono più essere dati per scontati. Il confronto e il dialogo con tradizioni culturali diverse da quella
occidentale e un approccio maggiormente relativista diventano l'unica strada percorribile. La sociologa
francese Hamel (2011) utilizzando i dati dell’ indagine Trajectoires et Origines propone di inquadrare la
questione del consenso come una sorta di continuum, in cui sono possibili vari gradi, individuandone tre
livelli:
1) le unioni scelte, con il consenso di entrambe le parti;
2) i “matrimoni non consenzienti” espressione che la studiosa ritiene preferibile rispetto a “matrimonio
forzato”, quindi i casi di matrimonio senza consenso, non voluti;
3) situazioni intermedie che racchiudono les situations moins tranchées, mêlant acceptation et contraintes,
sans que l’on puisse bien déterminer si la personne était pleinement désireuse de se marier. (...) Cette
catégorie englobe donc des situations diverses où le mariage a certes été accepté, mais dans des
circonstances où la volonté individuelle a pu être fortement influencée voire contrainte, que ce soit par le
conjoint, par la famille ou par le poids des normes sociales en général. En d’autres termes, le consentement
a pu être altéré.
Quest'area grigia si presta bene a cogliere il fenomeno nella sua complessità, poiché tiene in considerazione
contemporaneamente norme sociali, pressioni e vincoli famigliari da un lato e margini per l'azione
individuale dall'altro.
Tra strategie famigliari e scelte individuali
Dalle nostre interviste sembrano delinearsi specifiche strategie matrimoniali messe in atto dalle famiglie
immigrate di origine marocchina per le figlie di seconda generazione che prevedono il reperimento del
partner nel proprio contesto sociale di origine in Marocco, tra i giovani che non sono ancora emigrati in
Europa, ma che coltivano tale progetto migratorio e vedono in tali ragazze una via d'accesso facilitata, come
illustreremo più avanti.
Tali dinamiche si discostano da quello che capita in Francia e che è stato evidenziato dalle già citate ricerche
sulle famiglie immigrate di origine maghrebina. In questo caso i modelli matrimoniali preferenziali
prevedono l'unione delle figlie femmine con giovani di seconda generazione della cerchia parentale o della
rete di connazionali che vivono in Francia e che in Francia hanno trascorso la maggior parte dell'esistenza..
Si tratta di una differenza non da poco, in quanto nel contesto francese per la neo coppia è probabile che vi
sia una certa condivisione di esperienze comuni, ovvero l'essere cresciuti in Francia come “figli d'immigrati”,
non si presentano ostacoli al ricongiungimento e sarà più facile andare direttamente a coabitare.
Ben diverso è il caso italiano, in cui ragazze cresciute e scolarizzate in Italia, che conoscono il Paese di
origine attraverso i ritorni estivi o attraverso quell'”immaginario transnazionale” che si sta sviluppando nella
rete di cui parla Brouwer, si fidanzano o sposano ragazzi nati e vissuti in Marocco che non hanno un vissuto
4
Riferimenti legislativi: l’Art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che “Il matrimonio potrà essere
concluso solo con il libero e pieno consenso dei futuri sposi” e lo stesso principio è ribadito nella Convenzione per
l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Inoltre nel 1962 Assemblea Generale delle
Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sul consenso al matrimonio, l’età minima per il matrimonio e la registrazione dei
matrimoni (CCM).
164
RAPPORTO SECONDGEN
migratorio di lunga durata alle spalle. Da qui il problema di ricongiungere il marito in Italia e la coabitazione
ritardata, per cui a volte la neocoppia è costretta a vivere separata anche per alcuni anni, anche in presenza di
figli piccoli.
Nei casi delle nostre intervistate, per i genitori il mercato matrimoniale di riferimento è costituito
principalmente dalla rete parentale e sociale rimasta in Marocco, all'interno della quale si cerca di reperire il
futuro marito per le figlie femmine.
Un'interessante lettura di tali strategie famigliari ci viene da Streiff-Fenart, in particolare dal suo studio di
caso su una rete famigliare-parentale di ca. 300 persone che si estende tra un paesino del sud della Francia e
un villaggio della Tunisia. La studiosa mostra come i matrimoni combinati tra parenti tra le due sponde del
Mediterraneo e la conseguente proibizione di matrimoni misti rappresenti lo strumento principale per il
mantenimento e la riproduzione dell'unità della rete parentale dislocata tra Francia e Tunisia a seguito delle
migrazioni. Anche dopo 30 o 40 anni trascorsi in Francia, essa rimane le réfèrent principal et le groupe dont
on attend la reconnaissance sociale mentre la région d'origine reste l'espace privilégié des investissements
sociaux et financiers (Streiff-Fenart, 1999b) dove avviare piccole imprese commerciali ed economiche,
comprare e ristrutturare case, attività che senza la presenza di famigliari di fiducia in loco sarebbero
difficilmente gestibili e controllabili.
Se la cerchia famigliare e parentale che si estende in maniera transnazionale rimane la fonte principale di
riconoscimento sociale, i capofamiglia di prima generazione emigrati all'estero si trovano di fronte alla
preoccupazione di mantenere la rispettabilità, minacciata dalla disorganizzazione sociale e valoriale che può
portare la migrazione in Europa. Streiff-Fenart ci dice che misura della propria onorabilità diventa la
costruzione di una “buona famiglia” all'estero che “tiene” rispetto alle molteplici spinte disgreganti. Una
buona famiglia si contraddistingue innanzitutto dalla buona condotta dei figli e in particolare delle figlie
femmine, dalla loro adesione alle norme valoriali e di comportamento del gruppo e dai risultati scolastici dei
figli. Un buon padre di famiglia è colui che riesce tenere lontani i figli maschi dalla delinquenza delle
periferie e le figlie femmine dal matrimoni misti.
Da qui discende lo stretto controllo famigliare a cui sono sottoposte le figlie e che traspare anche dalle nostre
interviste. Su questo fronte possiamo trovare interessanti analogie con le famiglie di origine meridionale
immigrate al Nord negli anni ’60. In entrambi i casi la nuova città, il nuovo quartiere di residenza
rappresenta per i genitori un luogo che non si conosce e potenzialmente pieno di pericoli per le ragazze
anche proprio perché non possono contare sul controllo sociale esercitato da reti di parentela, di vicinato o
amicali, come invece avveniva nei luoghi di origine” (Badino, 2012).
Ciò è testimoniato anche da alcune ragazze intervistate che confrontano le restrizioni a cui sono sottoposte in
Italia in fatto di uscite, orari, amicizie, rispetto alla maggior “libertà” di cui godono quando tornano nei Paese
d'origine. Badino evidenzia in proposito marcate differenze di genere nella gestione educativa dei figli, che
sembrano riproporsi anche nelle famiglie straniere di oggi. Ai figli maschi, liberi da obblighi famigliari di
accudimento di fratelli minori e compiti domestici, è concessa un'ampia libertà di movimento e di
frequentazione che spesso li porta a contatto con la cosiddetta “cultura della strada” e il conseguente rischio
di coinvolgimento in reti devianti (spaccio, piccoli furti) come abbiamo riscontrato in varie interviste a
ragazzi di seconda generazione. Le figlie femmine sono invece sottoposte a un controllo famigliare
decisamente più intenso e “capillare” rispetto ai loro fratelli maschi. Aldina, 22 anni, diplomata come
Operatore di moda e attualmente in cerca di occupazione, sembra accettare e ritenere giusto tale controllo:
Ad esempio, che cosa non vogliono che tu faccia?
Che sto con qualcuno, non vogliono che vada a ballare, non vogliono che bevo , non vogliono che vado
scoperta. Ma non dico che loro mi obbligano, perché è stata la mia scelta anche mettere il velo, alla fine
loro ti danno le dritte e tu ... alla fine tutti noi sbagliamo, non c’è nessuno che non sbaglia, perché alla
fine loro vogliono solo il mio bene. Prima non potevo uscire di sera, hanno ragione su questo. Dall’anno
scorso uscivo, a mangiare la pizza con i compagni. Una volta sono andata in discoteca con la scuola,
per curiosità, per vederli, però ci sono delle cose che non riesci ad accettarle, ci sono delle persone che
appena le conosci ... quindi i miei genitori avevano ragione!
Dalla nostra ricerca emerge come il controllo famigliare messo in atto dai genitori immigrati nei confronti
delle figlie possa assumere varie forme e avere obiettivi diversi. Per esempio nei casi di cui abbiamo appena
trattato è evidente una finalità di protezione rispetto alle reti sociali cosiddette “eteroetniche”, siano esse
autoctone o di altre provenienze nazionali, impedendo soprattutto la frequentazione di determinati ambienti
sociali (esempio la discoteca, locali notturni). In altri casi, invece, esistono forme di controllo sociale che
165
RAPPORTO SECONDGEN
agiscono nella direzione opposta, ovvero rispetto alle reti sociali e amicali “omoetniche”, tenendo lontane le
figlie dalla frequentazione di propri connazionali, non ritenuti moralmente o socialmente “all'altezza”, come
spiega Elisabeth, 25 anni, originaria dall'Ecuador:
Perché io qua non ho mai avuto amici stranieri, sempre e solo italiani... non so come dire... sono stata così
protetta da non relazionarmi con persone del mio Paese, forse è stato un bene, ma forse anche un po' un
male (….). Anche questo modo di protezione di mia madre è stato un bene perché non so se avessi
frequentato ragazze dell'Ecuador che vengono qua con l'idea di lavorare, sarei andata a lavorare e non
avrei avuto questo percorso, sarei stata inserita in un giro diverso...
Uno dei timori principali dei genitori riguarda gli ambienti sociali ritenuti “pericolosi” per le figlie femmine;
preoccupa, oltre che l'assunzione di comportamenti non accettabili (per esempio il bere), soprattutto la
possibilità per le figlie di conoscere potenziali partner ritenuti non adeguati.
Se finora abbiamo considerato alcune delle strategie famigliari che ruotano attorno alla vicenda del
matrimonio, ci concentreremo ora sui punti di vista dei giovani di seconda generazione sia femmine che
maschi, che si trovano direttamente implicati in questo, per comprendere quali siano gli spazi per le scelte
individuali e come esse possano o meno articolarsi con i vincoli e le pressioni famigliari.
Dalle nostre interviste sono emerse alcune categorizzazioni e preferenze che sembrano orientare la scelta del
futuro marito e moglie all'interno del mercato matrimoniale, in particolare riguardo ai coetanei di seconda
generazione in Italia. Per esempio Mounir, 21 anni, con una burrascosa carriera scolastica alle spalle e il
coinvolgimento in reti devianti in passato, da cui sembra ora essere uscito, esprime così la sua esperienza e la
sua visione:
Sono stato con un'italiana due anni, sono già molti, lei aveva anche intenzioni di convivere, ma io non
me la sentivo, non ho un lavoro, non ho niente, poi mi ha fatto conoscere tutta la sua famiglia, io invece
no e lei è rimasta un po'... quello anche è stato un errore, potevo fargliela conoscere. E' finita lì, ma
comunque ci sentiamo come amici.
Io non ho problemi se italiana, se è senegalese, l'importante è che ti trovi, che siamo innamorati, perchè
l'importante è l'amore, anche se i miei genitori mi dicono di sposare una del mio Paese, una marocchina,
non una di qua. Preferisco sposare un'italiana se ci mettiamo insieme e ci troviamo benissimo. Non mi
sposo con una marocchina che conosco da un mese o due e tuo padre ti dice devi sposarla. Fanno tipo
tanti anni fa, i nonni o i bisnonni dicevano ti devi sposare quella, spesso tua cugina, la maggioranza si
sposa con sua cugina.
Come funzionano i matrimoni?
Adesso la maggioranza che è in Italia si sposa con gente del suo Paese, che è nata lì, come è tradizione
nostra, che la donne migliori sono nel tuo Paese (ride). Perché magari se sei in Italia e anche lei è venuta
in Italia, è una che si monta più la testa, da noi si dice così.
Mounir, in quanto maschio, rispetto alle coetanee femmine di seconda generazione, gode di una ben
maggiore libertà nel scegliere e gestire le proprie reti sociali e fare esperienza di relazioni affettive, che
comunque deve tenere nascoste ai genitori. Abbiamo riscontrato dinamiche simili anche tra altri ragazzi di
origine marocchina, ai quali la famiglia sembra in qualche modo concedere e tollerare un periodo prematrimoniale di “sperimentazione” di relazioni sentimentali più libere non finalizzate al matrimonio. Mounir
vorrebbe “prorogare” questo spazio di autonomia anche per il futuro, appellandosi a una concezione di
matrimonio fondata appunto sulla libera scelta del partner, opponendosi al matrimonio combinato voluto dal
padre e che sembra essere la norma tra i suoi coetanei. Significativa è la considerazione che fa sulle sue
coetanee femmine, ragazze di seconda generazione cresciute in Italia come lui: sono ragazze “che si montano
la testa”, che dunque non sembrano avere le caratteristiche adeguate per diventare partner coniugali e a cui si
preferiscono le ragazze nate e vissute in Marocco. Questa affermazione trova il suo corrispettivo nelle parole
della già citata Naima, che così parla dei suoi coetanei maschi di origine marocchina cresciuti in Italia:
Ma perché qua non si trova marito! Qua anche se vedevo dei ragazzi, su Internet ne conosci, però
hanno sempre qualcosa che... pensano troppo in maniera diversa, non so, quando vivi qua hai
cultura diversa, ti incroci, ti sbandi... la tua cultura s'incontra con l'altra e ne nasce una terza che è
fatta metà della tua e metà di quella nuova e cambi molto. Certi ragazzi cercano di diventare
completamente italiani, secondo me non è giusto, le tue origini non devi cancellarle, se cancelli le
tue origini cancelli i tuoi antenati, per me non è giusto, è una cosa troppo sbagliata rinnegare le tue
166
RAPPORTO SECONDGEN
origini, è come non essere te stesso, cambi, sei una persona diversa, hai una seconda faccia. Se
invece vivi normalmente, sempre comunque integrandoti, ce la fai.
Invece i ragazzi qua entrano nella cultura italiana, non che sia sbagliata, per me ogni cultura è
bellissima, non è sbagliata o giusta, per me è normale... però quando loro diventano così come gli
italiani si comportano in un altro modo con i loro compaesani, e come se ti dicessero “tu sbagli” ed
abbiamo la stessa origine! A volte prendono il peggio degli italiani, questo non lo sopporto proprio,
prendere il peggio... era meglio se rimanevi nelle tue origini.
Appellandosi ad argomentazioni di tipo culturalista (“entrare in una cultura”, “cultura giusta/cultura
sbagliata”) Naima ritiene che vi sia incompatibilità tra ragazzi e ragazze di seconda generazioni in Italia nel
poter costruire relazioni affettive. Secondo lei, ciò è dovuto al fatto che i suoi coetanei vogliono “diventare
italiani” a tutti i costi, spesso prendendo il “peggio” e mascherando le proprie presunte origini culturali.
Riguardo alla scelta del partner preferenziale e la formazione di coppie coniugali nel contesto italiano da noi
indagato si delinea dunque una tendenza differente rispetto a quella messa in luce in Francia (Collet e
Santelli, Streiff-Fenart) in base a cui le ragazze di seconda generazione di origine maghrebina tenderebbero a
sposare prevalentemente i loro coetanei di seconda generazione. Solo in futuro si potrà vedere se ci sarà
un’evoluzione in tal senso anche in Italia.
Se la pratica dei matrimoni combinati è presente tra le seconde generazioni in Italia, ci siamo interrogati di
conseguenza sugli “spazi di resistenza” possibili, in particolare per le ragazze, per fronteggiare, negoziare o
respingere le pressioni famigliari, le quali possono essere intese come un continuum che va da suggerimenti,
proposte più o meno insistenti a decisioni già prese. Tra le testimonianze raccolte vi sono alcuni casi
interessanti: Aldina ha deciso di non seguire più la famiglia nei ritorni estivi in Marocco, a seguito di
esperienze negative che ha avuto e temendo le conseguenze per il suo futuro. I genitori sembrano aver
accettato la scelta della figlia:
Tu hai detto che non torni in Marocco, e i tuoi famigliari? Perché non torni in Marocco?
Mi dicono di venire! Cioè, i miei genitori tornano ogni anno, dalla famiglia di mia mamma (...)
Mia sorella fa la casalinga. Io però non vorrei mai fare la casalinga (…). Cioè, alla fine dipende da te. Non
è che mio padre dice: devi prendere quello e punto e basta. Lui cioè dice: se vuoi, se siete d’accordo,
altrimenti bon. Però c’è gente che obbliga i suoi figli , però questa gente secondo me non può dire che è
musulmana, perché l’Islam non dice mai ‘sta cosa. Dice che deve chiedere prima alla figlia se vuole. Se lei
vuole, va bene, altrimenti niente. Secondo me non funziona neanche. Perché quando sei obbligata a
prendere una persona che non vuoi, è molto brutto, non è piacevole (….).
Ecco , torniamo a questo: che tu non torni in Marocco
Sinceramente io sono cresciuta qua e oggi ho una mentalità più aperta. Invece, io non dico che tutti sono
chiusi, però, la maggior parte ... è così. Non riuscirei mai ad ambientarmi lì. Loro vanno d’estate, io resto
qua
un
mese
con
mio
fratello
e
poi
vado
in
Francia
(…).
I tuoi genitori sono d’accordo che non vai giù?
Alla fine, cioè, loro rispettano la mia decisione perché sta a me decidere, non mi sento di andare e boh,
loro capiscono (...).
Il motivo per cui non ti senti di andare è perché, come hai detto, c’è una mentalità chiusa?
Sì, che non mi capiscono. Mi trovo un pesce fuor d'acqua!
Quando hai fatto questa esperienza? in che cosa consiste?
Tre anni fa, e da lì .... io non dico che il mio paese è brutto, è bello, ok, ma .... eh .... ci sono stati dei
problemi.
Silenzio
Puoi raccontarli?
Mah... no
Ricorda che nessuno ti giudica
No, soltanto che.... tante persone mi volevano e io non volevo nessuno. La gente inizia a parlare e i miei ....
erano un po’ diversi da quelli che sono qua ... la gente: non ha accettato questo, non ha accettato quello, non ha
accettato l’altro, chissà cos’ha! E loro (i genitori): che cosa è successo? Cos’hai? Se è successo qualcosa, dillo
... ma .... mi sono trovata in una situazione difficile per me
Avevi 18 anni e questi ragazzi che ti presentavano tu li conoscevi?
Li conoscevo, però non mi piacciono, cioè io non posso legare la mia vita alla sua. Niente da fare. Ho
giurato di non andare più. Ho sofferto. Mi hanno giudicato male ....
Silenzio
167
RAPPORTO SECONDGEN
La gente, boh: chissà cos’ha fatto, chissà cos’ha combinato, forse ha qualcuno. Hanno girato delle voci che
... mi sono sentita proprio male
Aldina espone, non senza reticenze, il malessere e la frustrazione sperimentati a causa delle pressioni al
matrimonio e del suo rifiuto di varie proposte durante i fatidici ritorni estivi nel Paese d'origine. La sua
decisione di non tornare più non è stata priva di conseguenze per lei e per la famiglia, anzi ha alimentato
spiacevoli dicerie sul suo conto.
Eva, 23 anni, di origini albanesi, con un percorso scolastico interrotto e una carriera lavorativa precaria che si
divide tra il lavoro di cameriera, addetta alla pulizie e commessa, si oppone al matrimonio che la famiglia le
aveva combinato in Albania, rompendo il fidanzamento quando il futuro sposo è già in Italia:
Il problema è questo, che io non ho finito la scuola...
Ho fatto la quarta, sono arrivata fino in quinta ma non ho finito la quinta. Perché ho avuto un po’ di
problemi , diciamo che non riuscivo più a continuare, e diciamo che è stato lì che ho lasciato anche il
lavoro al ristorante, diciamo che ho lasciato quasi tutti e due contemporaneamente. Non ce la facevo.
Perché.... perché io diciamo che... ero promessa sposa giù... non che la mia famiglia è stata rigida con
me, per carità, mio padre è uno dei migliori padri che ci siano al mondo, però... ormai era fatto il
fidanzamento... quando avevo 12 anni... tutte le estati tornavo... e io non ero tanto contenta di questa
cosa, finché è arrivato ... più cresci più te ne rendi conto di questa cosa. Finché sei ragazzina dici: sì,
c’ho il fidanzato giù, non te ne frega niente, io sono qua. Più cresci, più ti rendi conto che lui è l’uomo
della tua vita, anche se non l’hai scelto... a me questa cosa qui ... ha cominciato darmi un grande
sbandaggio ... me ne sono andata di casa. Ho lasciato prima lui. L’ho fatto venire in Italia, con la scusa,
perché la mia famiglia aveva già preso la casa, con la scusa che l’avevano comprata con lui perché erano
rimasti senza soldi... di qua e di là ... gli ho detto: guarda, io a te non ti amo, gli ho fatto i bagagli, gli ho
fatto il biglietto del treno perché lui doveva andare in Svizzera per lavorare. Gli ho detto: parti, non dire
niente, diciamo che abbiamo litigato. Perché diciamo che lui era innamorato, era lui che aveva voluto il
fidanzamento, un po’ più grande di me, 31 anni, lavorava a Tirana ... Guarda che ci ripenserai, di qua e
di là, fa , perché tu... poi in casa mia si sono animati un po’ gli animi, perché giù è un po’ una vergogna
lasciare un fidanzamento... e me ne sono andata... c’è una ragazza C., è stata una delle mie migliori
amiche, poi anche lei aveva bisogno di stare con me, andiamo, prendiamo una casa in affitto ... invece le
cose sono andate in modo diverso... ho conosciuto mio marito... da quella sera che ci siamo messi
insieme, diciamo che lui mi ha preso un po’ sotto la sua protezione, lui è 8 anni più grande di me, lui
aveva 27 anni e io 19 quando ci siamo messi insieme, e mi ha fatto stare da lui e tutto quanto. E adesso
abbiamo una bambina.
Ancora diverso è il caso, già presentato, di Fouzia, 30 anni, operaia con due figli piccoli a carico che al
momento dell'intervista stava attraversando una problematica quanto “liberatoria” separazione dopo 12 anni
di matrimonio:
(…) Ora nel 2012 sono arrivata a un bivio, la separazione
Come sei arrivata a questa decisione?
Mah, se fosse stato per la mia famiglia, l'avrei già fatto da tempo, io ci tenevo... non volevo mollare,
speravo in questo marito che sarebbe cambiato, che quando avrebbe fatto abbastanza soldi si sarebbe
accorto anche della famiglia, invece niente! Lui più li faceva, più li voleva. Lui lavorava e li mandava
tutti giù in Marocco... vedevo che la sua vita era segreta, i suoi soldi erano solamente i suoi, invece i
miei erano di tutti e due, ero obbligata a dire cosa facevo con i miei soldi, dove li portavo (…)
Allora lì mi sono stufata e ho detto basta. Gli ho detto o i tuoi genitori o me, ma lui niente, i genitori
sono i miei genitori, non devi toccarli. Ho visto che se n'è fregato talmente dei suoi figli, della sua
famiglia... ultimamente ha perso il lavoro, ha iniziato a fare tanti viaggi giù in Marocco, ne fa talmente
tanti che non chiede neanche più dei figli al telefono, sa che non lavoro e non mi chiede neanche come
faccio a mantenermi, se con l'assistente sociale o i miei fratelli, niente! Poi in questi dieci anni
maltrattamenti fisici... psichici... ecco, è arrivato il momento di dire basta! Poi c'è tutta la mia famiglia
con me... mio padre per primo, mi ha sostenuto sin dal primo giorno, sapendo lo sbaglio che ha fatto.
Infatti lui mi chiama “mio figlio” e non “mia figlia” sapendo del mio carattere forte per andare avanti
tutto sto tempo. Finchè sono andata a fare denuncia per maltrattamento.... (si commuove), mio padre mi
ha detto “io ti conosco bene, se sei andata a farlo, è perchè eri al limite, io speravo che lo facessi da
tempo, ma non volevo mettere le mani in queste cose.
168
RAPPORTO SECONDGEN
Il matrimonio, un affare? Ricongiungimenti e vita di coppia in Italia
Una delle valenze di tali matrimoni transnazionali che emergono chiaramente dalle interviste raccolte e a cui
vogliamo dare il giusto rilievo è quella strumentale, legata a strategie opportunistiche per agevolare l'ingresso
legale in Europa di migranti. Per tanti giovani rimasti nei Paesi di origine che coltivano il progetto di migrare
il contrarre matrimonio con ragazze di seconda generazione che vivono in Italia, con o senza cittadinanza
italiana, costituisce senza dubbio una via privilegiata di accesso legale all'Europa. Le ragazze sembrano ben
consapevoli di questi meccanismi e non celano la paura di essere vittima di questi accordi utilitaristici tra
famiglie e reti parentali allargate, finendo per essere considerate dei “lasciapassare” per l'Italia. Vari sono
stati i riferimenti a riguardo. Fouzia ad esempio dice:
Quest'uomo che ho sposato... sapendo che vai in Italia, che hai lì la famiglia di tua moglie... ti sposano
perchè sei una banca aperta! Prima gli dicevano che in Italia i soldi piovono dal cielo, allora lui più che
sposare una donna per fare una famiglia, ha sposato una donna che gli facessi i documenti per venire, per
aprirgli quella porta... gli uomini se ne approfittano tantissimo! Già adesso tutte le ragazze marocchine che
sono cresciute in Italia o sono venute qua e non sono ancora sposate, hanno questo terrore di andare a
sposarsi giù in Marocco perchè non sanno che l'uomo che sposano le vuole per se stesse oppure solo per
venire in Italia... come dico è stato un errore mio, ma anche mia sorella che ha scelto da sola, ha fatto tutto
da sola le è andata lo stesso male! (...) Anche lui vedeva in lei solo una porta d'ingresso per l'Italia. O lo fa
tramite il mare o tramite il matrimonio. Tramite il mare devi pagare un sacco di soldi e non sai se arrivi, se
arrivi sei senza documenti, invece sposandoti con una ragazza già in Italia... per esempio mio marito ha
trovata già la casa a posto, tutto a posto, la moglie che lavorava, soldi da parte.
Fouzia parla senza mezzi termini: vi sono uomini che approfittano di tali matrimoni non solo per entrare
legalmente in Italia tramite ricongiungimento famigliare ma per godere di tutta una serie di vantaggi che ne
derivano, ovvero usufruire delle risorse economiche, del capitale sociale e culturale della moglie e della sua
famiglia per un inserimento “agevolato” nella nuova realtà di arrivo. Pensiamo solo alla casa già pronta
allestita dalla moglie, alla sua mediazione linguistica e culturale per i documenti e per accedere ai vari
servizi, ai contatti per trovare un lavoro.
Anche Mounir sembra conoscere bene tali situazioni e quasi voler mettere in guardia le sue coetanee,
accennando anche alle conseguenze che tali matrimoni di comodo hanno sul lungo periodo:
Se invece tu sei donna e vuoi sposarti uno del Marocco, l'uomo in Marocco dice “anche se non mi piace la
sposo, così vengo in Italia, mi fa i documenti”. Infatti la donna deve stare più attenta, perché ci son tanti che
le sposano anche se non gli piacciono, anche se non c'è amore, poi infatti sono matrimoni che quando sei in
Italia si vede, si creano molti problemi, per la donna, per la famiglia, magari fai un bambino, poi la madre
litiga tutto il giorno con il marito. Quindi la donne secondo me preferibilmente si deve sposare... se è in
Italia con uno che è in Italia, ma l'uomo che è in Italia dice che la donna che è in Italia si monta la testa,
quindi sono sempre problemi.
Anche Amina è convinta che questa pratica del matrimonio finalizzato al permesso di soggiorno sia
ricorrente: “fanno vivere cose brutte alle ragazze arabe” che lavorano, “si sposano con questi giovani che si
fermano poco in Italia e poi tornano in Marocco e magari sposano altre donne” .
Sembrerebbe dunque che le giovani di seconda generazione abbiano acquisito una posizione privilegiata
all'interno del mercato matrimoniale in Marocco, divenendo quindi particolarmente ambite dai giovani locali
e oggetto di richieste pressanti durante i cruciali rientri estivi. Lo descrive bene Naima:
Le ragazze che vengono da fuori sono sempre più ben viste in Marocco, sono ammirate... in Marocco
comunque c'è ancora il pensiero che andare in Europa sia molto meglio che stare lì, anche se poi quando
vengono qua ci ripensano. Anche mio cugino ha una storia... è arrivato qua i primi mesi e diceva era
meglio il mio Paese. Ma quando vedono una ragazza che arriva dalla Francia o dall'Italia o da qualsiasi
posto basta che non sia il Marocco... a parte che si nota, sei sempre vestita meglio, in un certo modo, ti
notano...
Per le giovani di seconda generazione il matrimonio combinato in Marocco rischia di diventare un affare,
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RAPPORTO SECONDGEN
inserito all'interno di più vaste logiche di potere e di scambio tra famiglie e cerchie parentali in cui la posta in
gioco diventa la possibilità di un ingresso legale in Europa per il futuro marito.
Ma quali sono le implicazioni che tali inedite dinamiche matrimoniali hanno dal punto di vista dei ruoli di
genere e delle relazioni di coppia nella migrazione?
Innanzitutto sembra delinearsi un nuovo “modello” migratorio basato sul ricongiungimento famigliare che ha
come protagonisti una seconda generazione immigrata (la moglie) e un primomigrante (il marito). Fino a
tempi recenti è prevalso, specie dai Paesi del Maghreb, il modello del “breadwinner”, in cui l'uomo come
primomigrante si trasferiva in Europa in cerca di lavoro e, una volta sistematosi, provvedeva al
ricongiungimento della moglie e di eventuali figli, accollandosi tutte le responsabilità riguardanti i
documenti, la casa, la sussistenza, l'inserimento dei famigliari in Italia, poiché era inizialmente l'unico
“mediatore” linguistico e culturale tra la famiglia e il nuovo contesto d'arrivo. Questo è il tipico processo
migratorio attraverso cui sono giunti o sono nati in Italia gran parte dei giovani di seconda generazione di
cui ci siamo occupati. Quello che vediamo abbozzarsi tramite la nostra indagine è una tendenza che sembra
collocarsi all'opposto di quella precedente: è una ragazza di seconda generazione che vive in Italia a sposare
un partner che vive in Marocco e a diventare la “testa di ponte” del suo ricongiungimento e inserimento in
Italia. Ciò comporta una grossa assunzione di responsabilità da parte della giovane, che deve attivarsi per
trovare e mantenere un lavoro che soddisfi i requisiti del ricongiungimento famigliare, seguirne le procedure
burocratiche, nonché accantonare le risorse economiche per preparare la casa per la neocoppia. Inoltre nella
fase iniziale d'inserimento del marito, sarà lei la principale figura di riferimento e di mediazione, da un punto
di vista linguistico, culturale e sociale, per l'integrazione nel nuovo contesto. Naima riassume in modo
esemplare tali dinamiche, raccontando del brusco passaggio da “figlia”, quando suo padre decideva tutto per
lei, a “moglie” con tutta una serie di nuove responsabilità che le sono inaspettatamente piovute addosso:
E' difficile, io non mi sono mai trovata a dirigere qualcosa, mi rendo conto che ora ho molte più
responsabilità, prima ce le aveva mio papà, faceva tutto lui, decideva tutto lui, prima dicevo “ma
perché deve decidere tutto lui?”, ora dico “magari decidesse qualcuno per me!”, è cambiato tutto
completamente per me, da quanto decideva tutto mio padre ed era meglio, secondo me, perché erano
cose che andavano benissimo anche se a volte sembravano strane o... non le capivo.(...) Ora devo
decidere io ed è molto più difficile... per esempio mio cugino si è sposato, dovrebbe venire sua
moglie tra qualche mese e mi ha detto se andiamo a vivere insieme, tutte e quattro così facciamo un
po' di soldi da parte, dividiamo l'affitto. (…) Dobbiamo decidere se vivere insieme o no. (….)
Da quanto tempo abiti con tuo marito nella casa nuova?
Da un mese e due settimane, ma la casa l'avevo presa da gennaio, perché avevo spedito i documenti a
mio marito e ho detto “se arriva tra poco, prendo la casa un po' prima così la sistemo”. Ho comprato
la camera da letto, degli oggetti per la cucina, un forno, mi mancano pochissime cose... mio padre mi
ha trovato un tavolo e delle sedie da un'altra casa. Pian piano ho iniziato a mettere i mobili, mi manca
solo un divano, ho comprato il frigorifero.
Fouzia, che si sta separando dal marito, ripercorre retrospettivamente i momenti del suo arrivo in Italia,
molto simili a quelli di Naima, ma alla luce di una visione decisamente più disincantata, dato che i tanti
sacrifici fatti non sono stati corrisposti:
Appena entrato in Italia, mi dispiaceva vederlo meno dei miei fratelli e compragli la macchina
giusta, come i miei fratelli, fagli fare la vita in modo che non sentisse quella differenza “i tuoi
fratelli sono cresciuti in Italia, hanno più di me”, è stato uno sbaglio anche mio, gli ho dato tutto e
subito, come tutte le donne, quando una si sposa, fa tutto per la famiglia. Perché la donna cosa
vuole da un maschio? Una vita sicura... io pensavo la stessa cosa (voce rotta dal pianto). Mio
marito mi ha chiesto di andare sempre a lavorare e portare lo stipendio a casa, poi ultimamente ho
deciso di tenerlo da parte perchè lui lo prendeva e lo metteva via, e io mantenevo la casa e tutto.
Quando ho deciso “Basta! Tu sei l'uomo! Dovresti tu mantenere la casa, la famiglia e tutto”...
Queste ragazze si trovano dunque ad assumere ruolo direttivo assolutamente cruciale nella gestione del
ricongiungimento e della nuova vita di coppia in Italia, prendendo decisioni, lavorando e procurandosi i
soldi, diventando di fatto i nuovi “capofamiglia”, anche se questo ruolo non viene facilmente accettato e
riconosciuto nella coppia. I ruoli di genere tradizionali vengono intaccati in un duplice senso. Sia rispetto ai
ruoli di genere e ai modelli di coppia predominanti nel Paese d'origine, sia rispetto a modelli famigliari
consolidati nella migrazione in cui il marito nei panni del breadwinner è l'unico ad occuparsi del
sostentamento famigliare, mentre la donna ha il ruolo di casalinga. Nonostante queste giovani donne di
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RAPPORTO SECONDGEN
seconda generazione detengano nelle loro mani un potere di tipo decisionale ed economico, un capitale
culturale e sociale potenzialmente destabilizzante nei confronti dell'autorità del marito, occorre interrogarsi
su quali siano i margini per un reale cambiamento nei rapporti di genere. La storia di Fouzia non è molto
rincuorante a riguardo e, a livello generale, forse è troppo presto per valutare. Sta di fatto, che a seguito dei
processi migratori nuovi scenari si stanno aprendo e nulla può essere dato per scontato.
Un altro aspetto problematico che emerge dalla ricerca sono i tempi e le modalità del ricongiungimento del
marito: in molti casi la neocoppia è costretta a vivere separata per molto tempo, anche per anni, lui nel Paese
d'origine e lei in Italia, con la famiglia d'origine, anche quando sono ormai nati dei figli.
Il motivo di queste situazioni risiede nel fatto che la moglie non ha un lavoro fisso tale da garantire il
ricongiungimento del marito e nell'attuale congiuntura di crisi economica questi casi sembrano destinati a
crescere. Zahra, 22 anni, diplomata perito odontotecnico, sposata, al momento dell'intervista era incinta e
molto preoccupata perché passando da un lavoro precario all'altro non poteva richiedere il ricongiungimento
del marito:
Io d'altronde sono anche sposata, da 3 anni... adesso sto cercando un contratto a tempo indeterminato per
avere l'opportunità di portare mio marito che purtroppo adesso è in Marocco. Purtroppo non ho ancora avuto
quest'opportunità, ho avuto solo lavori distaccati, certi con il contratto, certi no...
Lui ha intenzione di venire qua?
Si... in realtà è quella la speranza, ma nelle condizioni in cui sono qua lo trovo molto difficile
(….). Che progetti avete per il futuro?
Lui venire qua, avere una nostra casa propria e vivere una vita tranquillamente. Potrebbe venire qua con un
contratto di lavoro, cosa che non sono riuscita a trovargli. Ho provato con il permesso da turista, ma non
sono riuscita... e niente... Ci aiutiamo a vicenda, anche dal punto di vista economico.
Ricontattata circa un anno dopo l'intervista, la sua situazione è apparsa ancora più complicata: Zahra, infatti,
non era ancora riuscita a ricongiungere il marito e aveva affidato il figlio piccolo ai suoi genitori che nel
frattempo si erano trasferiti in Francia da alcuni parenti, in modo da poter essere libera di lavorare. Era
rimasta così in Italia con i fratelli maggiori in una persistente condizione di precarietà occupazionale,
dividendosi tra lavori stagionali in fabbrica e il lavoro di badante.
Amina, al momento dell'intervista, viveva con il figlio piccolo a casa dei genitori, dopo aver interrotto la
scuola a causa della gravidanza e anche tutte le relazioni amicali ad essa collegata, trovandosi quindi in una
situazione di isolamento. La giovane non ha intenzione di trasferirsi in Marocco perché ormai “è abituata
qui” e non vuole rinunciare alla qualità dei servizi in Italia. Il marito, imprenditore edile a Tangeri, viaggia
per lavoro tra Francia e Spagna e perciò sono giunti al compromesso di affittare una casa a Tangeri dove
passare insieme i mesi estivi.
Gli ostacoli alla stabilizzazione di tali coppie sono di tipo burocratico-legale ed economico e danno origine a
quelle che sono state definite “famiglie transnazionali”, ovvero families that live some or most of the time
separated from each other, yet hold togheter and create something that can be seen as a feeling of collective
welfare and unity, namely “familyhood”, even across national borders (Bryceson e Vuorela, 2002: 3).
Conseguenze sulle carriere scolastiche e lavorative
Uno dei nodi tematici della ricerca condotta sono state le carriere scolastiche e professionali dei giovani di
seconda generazione. Particolare attenzione è stata dunque posta sulle implicazioni che tale fenomeno dei
matrimoni può avere sui percorsi scolastici e lavorativi di queste ragazze.
Nella maggior parte dei casi incontrati, le ragazze si sono sposate dopo aver terminato la scuola superiore e
aver ottenuto un diploma. Najet, 26 anni, infermiera, ha proseguito gli studi universitari da sposata,
frequentando i 3 anni di Scienze Infermieristiche dopo il matrimonio avvenuto a 20 anni dopo il diploma in
perito odontotecnico.
La relazione tra carriera scolastica e pratiche matrimoniali delle ragazze di seconda generazione offre un
ulteriore terreno di confronto tra migrazioni contemporanee e migrazioni storiche dal Meridione. Il già citato
studio di Badino (2012) evidenzia come le famiglie immigrate dell'epoca investissero prioritariamente
nell'istruzione dei figli maschi, incoraggiandoli a terminare la scuola o a proseguire gli studi, mentre le figlie
femmine venivano in genere dissuase dall'intraprendere percorsi scolastici qualificanti. L'atteggiamento delle
famiglie immigrate di oggi riguardo i percorsi d'istruzione dei figli è decisamente differente, dal momento
che tali genitori si mostrano intenzionati a investire nelle carriere formative dei figli, sia maschi che
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RAPPORTO SECONDGEN
femmine, in termini di sostegno economico e morale. Le aspettative che essi ripongono rispetto alla riuscita
scolastica dei figli e al conseguimento di diplomi o lauree sono anzi molto elevate poiché l'innalzamento dei
titoli di studio è visto come un canale di mobilità sociale.
Tra i 21 casi di donne e uomini sposati o conviventi nelle nostre interviste, non sono particolarmente
numerose le persone che hanno interrotto il percorso scolastico prima del diploma. Tuttavia abbiamo già
citato il caso di Amina, che, dopo essersi sposata, viene bocciata al terzo anno della scuola superiori per le
troppe assenze dovute a una gravidanza difficile con continui ricoveri e che decide così di lasciare la scuola.
Eva abbandona il quinto anno di ragioneria e contemporaneamente anche il lavoro di cameriera perché sta
passando un periodo travagliato dovuto al rifiuto del matrimonio combinato dai genitori nel Paese d'origine.
Le pressioni famigliari verso il matrimonio sembrerebbero intensificarsi dunque al termine della scuola
superiore e al conseguimento del diploma, in particolare se il percorso scolastico pregresso non è stato molto
brillante e l'opzione di proseguire gli studi all'università sembra essere troppo rischiosa economicamente. E'
il caso di Naima, la cui sorella minore Hanane racconta che il padre ha escluso l'università per la primogenita
poiché nella sua carriera scolastica era stata bocciata tre volte e quindi non era a suo giudizio portata per lo
studio.
Per quanto riguarda invece le carriere lavorative delle ragazze di seconda generazione coniugate emerge
come il matrimonio abbia delle implicazioni più dirette sui percorsi professionali. Spesso infatti l'inserimento
precoce in segmenti del mercato del lavoro a bassa qualificazione e precari, “i lavori delle 5 P” di cui parla
Ambrosini (2005) come tipici della collocazione professionale della prima generazione, sembra essere una
tappa obbligatoria per poter garantire il ricongiungimento del marito e provvedere al sostentamento iniziale
della coppia. Il divario tra titoli di studio conseguiti e posizione occupazionale è quanto mai evidente, se
pensiamo che molte di queste ragazze sono diplomate e svolgono lavori operai o comunque manuali. Naima
è diplomata in segretaria d'azienda e fa l'operaia in una piccola fabbrica di prodotti cosmetici e dice
apertamente che “non era il mio sogno fare questo lavoro, però mi è capitato, adesso ne ho bisogno perciò lo
tengo” e ne ha bisogno per poter ricongiungere il marito e per la sussistenza economica dato che lui arrivato
da poco non lavora. Anche Zahra con un diploma ha smesso di fare stage sottopagati con la speranza di
essere assunta, abbandonando dunque la carriera lavorativa per cui ha studiato. La giovane ha accettato
qualsiasi lavoro che le capitasse, dall'operaia stagionale alla badante, per le stesse ragioni di Naima: la
possibilità di ricongiungere il marito in Marocco. Nel suo caso però la situazione lavorativa non si è ancora
stabilizzata in modo tale da consentire l'avvio delle procedure burocratiche.
La sottoccupazione rispetto ai titoli di studio ottenuti nel percorso formativo e l'inserimento in segmenti non
qualificati e precari del mondo lavoro, da cui spesso è poi difficile uscire, sembra essere un tratto
caratteristico delle attuali seconde generazioni in Italia. Nei casi delle ragazze coniugate la ricerca di un
lavoro tale da permettere il ricongiungimento del marito si fa particolarmente cogente e urgente e comporta
una ridimensionamento delle proprie aspettative d'impiego. Esse accantonano progressivamente ambizioni e
progetti per la propria carriera professionale e spesso sono costrette ad accettare il primo lavoro che capita,
senza avere la possibilità di rifiutare in attesa di offerte migliori.
Le ragazze di seconda generazione implicate in tali matrimoni sperimentano rispetto alle loro coetanee
italiane un passaggio piuttosto brusco all'età adulta almeno su due fronti: da un lato, l'ingresso nel mercato
del lavoro, dall'altro, l'assunzione di obblighi e responsabilità coniugali, resi particolarmente ardui dalle
condizioni legislative connesse all'essere migrante. Se, come dimostra Badino (2012), il matrimonio in età
precoce per le ragazze figlie di immigrati meridionali rappresentava essenzialmente una via di fuga dalla
famiglia e dal rigido controllo a cui erano sottoposte, un modo per conquistare quell'autonomia e
indipendenza, anche economica, di cui erano prive, una lettura analoga non può essere data ai matrimoni che
hanno come protagoniste le giovani di seconde generazioni di oggi. Per le ragazze di origine meridionale
sposarsi e uscire dalla famiglia significava godere di una maggiore libertà, la possibilità di ampliare le
proprie reti sociali e di gestire le risorse economiche guadagnate con il proprio lavoro, che spesso venivano
investite nella
formazione personale, precedentemente negata dai genitori. Frequentando corsi
professionalizzanti serali, animate da un desiderio di riscatto e autodeterminazione, queste giovani
intraprendevano carriere lavorative ascendenti, passando dal lavoro operaio al quello impiegatizio.
Tenendo in considerazione le mutate condizioni strutturali ed economiche dell’attuale contesto di crisi, i
matrimoni di cui abbiamo trattato assumono per le ragazze di seconda generazione significati alquanto
differenti rispetto alle migrazioni interne passate, soprattutto non sembrano rappresentare un veicolo di
emancipazione o realizzazione della propria condizione. Il matrimonio non è mai presentato dalle intervistate
come una tappa di un progetto di vita, come qualcosa di voluto e ricercato attivamente, quanto piuttosto
172
RAPPORTO SECONDGEN
come un inevitabile “accadimento” del proprio percorso evidentemente voluto da altri, dai genitori, se non
addirittura un cedimento alle pressioni famigliari. Dal punto di vista della carriera lavorativa, sembra essere
un fattore di spinta verso un inserimento nei segmenti non qualificati del mondo del lavoro. Inoltre, sotto il
profilo del capitale sociale, ne consegue spesso un'interruzione o comunque un indebolirsi delle già esigue
relazioni sviluppate al di fuori dalla cerchia parentale o del vicinato, ovvero in ambito scolastico, generando
un ulteriore impoverimento della propria rete sociale. Le ragazze che sono sposate raccontano di aver perso i
precedenti contatti con le compagne della scuola superiore e di non avere più tempo per tali frequentazioni.
Il tema delle pratiche matrimoniali dei giovani di seconda generazione merita sicuramente di essere
approfondito attraverso ricerche mirate volte a produrre una migliore comprensione del fenomeno. Questo
per due ordini di motivi. Innanzitutto da un punto di vista scientifico, in quanto si tratta di un fenomeno
sociale emergente non ancora indagato in Italia e indagato poco anche negli altri contesti europei sul quale
occorre potenziare tanto gli studi empirici quanto la riflessione teorico-interpretativa. La scarsità di
letteratura esistente che abbiamo riscontrato sull'argomento ne è la principale spia.
In secondo luogo, le ricerche future su questo tema potranno fornire utili orientamenti e indicazioni per le
policies pubbliche in materia di coesione sociale e integrazione. La sfera delle relazioni affettive e della
matrimonialità dei giovani di seconda generazione può aprire interessanti prospettive di osservazione e
analisi dei loro processi di “posizionamento” sociale in Italia e sui loro futuri percorsi di vita. Come abbiamo
visto, il fenomeno dei cosiddetti matrimoni combinati può generare tensioni all'interno delle famiglie di
origine immigrata tra genitori e figli e diventare un terreno più o meno aperto di conflitto intergenerazionale
con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Nell'affrontare tali argomenti, il pericolo di una deriva
culturalista tanto nel dibattito pubblico quanto in quello scientifico è molto concreto, come ho già cercato di
evidenziare. Il rischio di alimentare visioni stereotipate o, peggio, facili allarmismi (per cui tutte le ragazze di
origine maghrebina che si sposano hanno alle spalle vicende di matrimoni forzati e sono vittima di violenza
psicologiche e fisiche) può indurre a interventi politici e sociali avventati e non corrispondenti a un reale
bisogno, per cui sono più che mai necessari cautela e un approccio di fondo pluralista e interculturale.
173
RAPPORTO SECONDGEN
Riferimenti bibliografici
Ambrosini M., 2005, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino.
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174
RAPPORTO SECONDGEN
Discorsi sulle seconde generazioni in Italia e prospettiva identitaria nazionalculturale.
Maria Perino
La prospettiva nazional culturale si fonda sulla nozione di popolo considerato come una comunità con
legami stretti tra i suoi membri, con coscienza di sé e un’identità basata su un destino condiviso nella
continuità storica, dotato di una propria cultura e lingua che definiscono un’unitaria visione del mondo.
Secondo questa prospettiva gli individui sono legati naturalmente e in modo uniforme alla loro comunità di
appartenenza, considerata come qualcosa di naturale.
Tale concezione di popolo come dato naturale è stata ampiamente criticata di essenzialismo, di astoricità, e
di naturalizzazione dei rapporti politici e sociali. Tuttavia è possibile sostenere che, in forma implicita, la
prospettiva nazional-culturale continua ad essere presente nel dibattito pubblico sulle migrazioni, in Italia
come altrove, e le persone che migrano continuano ad essere considerate come un’eccezione all’isomorfismo
tra popolo, sovranità, cittadinanza, nazione, culturalmente “altre”, uno speciale oggetto delle politiche e della
ricerca (Wimmer, Glick Shiller, 2002). E’ facile infatti constatare un’organizzazione del discorso fondata
sugli assunti del culturalismo: che gli immigrati siano classificabili a partire dalle loro origini, utilizzando
categorie etniche o nazionali, che ci sia una corrispondenza tra l’origine nazionale1 e una specificità
culturale, che queste abbiano valore esplicativo2.
Parole scivolose, equivoche, come popolo, nazione, identità, etnia – prevalentemente in senso inferiorizzante
o specifico di una lontananza esotica – danno forma alla rappresentazione e auto rappresentazione degli
immigrati e costituiscono una cornice accessibile entro la quale collocare i discorsi sulle migrazioni e
suddividere le società di immigrazione per linee etniche, assumendo che i gruppi etnici siano unità di analisi
auto-evidenti.
Si tratta della Herder’s social ontology che Wimmer (2009) ha ben descritto come prospettiva che
considera il mondo sociale composto da popoli, evidenziando come, nell’ambito degli studi sulle
immigrazioni, importanti filoni di ricerca3 ritengano analiticamente proficuo pensare le società divise in
gruppi etnici/nazionali caratterizzati da una specifica cultura, reti di solidarietà e identità condivisa.
Certamente, a partire dai lavori di Moerman (1965) e di Barth (1969), e in successivi orientamenti di ricerca
(Wimmer, ibid: 254) si è andati oltre l’approccio della Herder’s social ontology spostando l’attenzione alla
costruzione dei confini e alla natura relazionale delle identità etniche. Tuttavia, non solo nel senso comune il
riferimento all’appartenenza nazionale è un frequentissimo rimando al quale si danno poteri esplicativi, ma
anche molta ricerca continua ad accogliere non problematicamente la suddivisione in gruppi etnici/nazionali.
A parere di Brubaker (2004: 3) infatti è diffuso tra gli studiosi un clichéd constructivism (ad esempio, i
riferimenti “obbligati” a Barth, alle identità “ibride “ e meticce”, al fatto che si considera la dimensione
interazionistica dei processi culturali), in cui i concetti di ibridazione, fluidità che sono richiamati per
prendere le distanze, apparentemente, dall’essenzialismo nazional-culturale, non sempre mettono in
discussione il groupism, cioè la tendenza a considerare i gruppi etnici o nazionali come entità sostanziali,
basi costituenti della vita sociale, protagonisti dei conflitti sociali e fondamentali unità di analisi (ibid: 7-10) .
1
Molto spesso si intende addirittura con origine nazionale la semplice provenienza da uno stato, presumendo l’unità
nazionale.
2
“Following the Dutch anthropologist Vermeulen we summarise this culturalist approach in four points: first, the
tendency to understand cultures as homogeneous and fixed entities with sharp boundaries without paying attention to
‘internal’ diversity and ‘external’ influences; secondly, the tendency to reify cultures, that is to see cultures as fixed
things that exist independently from their specific ‘bearers’, rather than as processes involving human agency and
creativity; thirdly, and as a consequence of the latter point, cultural continuity, rather than change, is depicted as the
‘normal situation’; fourthly, these homogeneous, reified and static cultures are depicted as determining human
behaviour: people do things because it is their culture (Vermeulen 1992 and 2000; Baumann & Sunier 1995). This
conception of the relationship of culture and human behaviour is a ‘culturalistic fallacy’ (Bidney 1953). Culture is not a
fixed and autonomous entity, but something that is constantly produced and reproduced by human agency. It cannot be
used to explain human behaviour, nor can religion. On the contrary, it is these terms – culture and religion – that need
explaining, and it is from human behaviour that we get our clues” (Snel, Stock, 2008).
3
L’autore fa riferimento alla teoria assimilazionistica, anche nella variante dell’assimilazione segmentata, al
multiculturalismo e agli ethnic studies.
175
RAPPORTO SECONDGEN
Ne derivano discorsi e retoriche che insistono sulla centralità della comunità etnica o nazionale come
riferimento per gli immigrati, e sulla cultura nazionale come universo di senso che definisce la maggioranza
e le minoranze.
I figli degli immigrati sarebbero pertanto in una situazione di tensione tra adesione alla cultura nazionale
della maggioranza e riferimento alle tradizioni familiari, secondo la frequente immagine del giovane di
seconda generazione “sospeso” tra due culture o “ponte” tra un “là” e un “qua”. Alla base c’è sempre il
groupism. Questo senso comune così pervasivo è una diffusa risorsa interpretativa (ibidem:7-27) focalizzata
sulla “differenza”, sulla “diversità” nazional-culturale utilizzata da accademici, politici, amministratori,
operatori sociali, educatori.
La ricognizione di documenti governativi e di lavori della recente letteratura italiana sui giovani di seconda
generazione ha evidenziato, pur nella differenza delle posizioni, lessico, struttura del discorso, temi che
rimandano alla prospettiva nazional-culturale. Vediamone alcuni esempi.
Nella metà degli anni duemila, in una situazione italiana caratterizzata da polemiche sulla necessità di
riaffermare con forza le radici cristiane e l’identità culturale italiana, e discorsi sull’integrazione piegati sulla
dimensione culturale, fu stabilito un quadro di regole e valori di riferimento a cui gli immigrati - islamici
soprattutto - dovrebbero aderire esplicitamente, mediante la sottoscrizione della Carta dei valori della
Cittadinanza e dell’Integrazione redatta da un comitato scientifico nominato dall’allora ministro dell’Interno
Amato del governo Prodi (Cnel, 2012). In essa all’inizio si legge che “L´Italia è uno dei Paesi più antichi
d´Europa che affonda le radici nella cultura classica della Grecia e di Roma. Essa si è evoluta nell´orizzonte
del cristianesimo che ha permeato la sua storia e, insieme con l´ebraismo, ha preparato l´apertura verso la
modernità e i principi di libertà e di giustizia”, e poco oltre, “la posizione geografica dell´Italia, la tradizione
ebraico-cristiana, le istituzioni libere e democratiche che la governano, sono alla base del suo atteggiamento
di accoglienza verso altre popolazioni. Immersa nel Mediterraneo, l´Italia è stata sempre crocevia di popoli e
culture diverse, e la sua popolazione presenta ancora oggi i segni di questa diversità”. Il documento avrebbe
dovuto inserirsi nel quadro di una riforma della cittadinanza, invece è diventato uno degli elementi del
cosiddetto “accordo di integrazione”, un dispositivo introdotto nel “pacchetto sicurezza” nel 2009 che
accentua ulteriormente la dimensione culturale delle politiche di integrazione. Nel successivo Piano per
l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro (2010) a cura dei Ministeri del Lavoro, dell’Interno e
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, si delinea nelle prime pagine un “modello italiano “ di
integrazione che dovrebbe esprimersi in tre parole chiave: identità, incontro ed educazione. Si legge:
“diffidiamo, dunque, dell’approccio culturale per cui il confronto avvenga tra categorie sociali, etniche o
religiose, tagliando fuori, in modo ideologico, la responsabilità di ciascuno nell’essere protagonista
dell’incontro con l’altro. Il presupposto di ogni interazione è la capacità di comunicare se stessi, di
trasmettere la propria identità. L’Italia, per storia e posizionamento geografico, è da sempre terra di incontro
tra culture e tradizioni differenti che hanno saputo mantenersi – salvo poche e brevi eccezioni – in un
equilibrio di rispetto e di pace. Per costruire una convivenza civile stabile, in un contesto di crescente
pressione sociale, non possiamo non riscoprirne nel nostro passato le condizioni essenziali, rivitalizzandone
le radici. L’identità del nostro popolo è stata plasmata dalle tradizioni greco-romana e giudaico-cristiana, che
unendosi in maniera originale hanno saputo fare dell’Italia un Paese solidale nel proprio interno e capace di
ospitalità e gratuità rispetto a chiunque arrivi dentro i suoi confini. Il rispetto della vita, la centralità della
persona, la capacità del dono, il valore della famiglia, del lavoro e della comunità: questi sono i pilastri della
nostra civiltà, traendo origine e linfa vitale direttamente da quella apertura verso l’altro e verso l’oltre che ci
caratterizza” (p.8). Se l’avvio del discorso sembra andare nella direzione di un altro approccio, poche righe
dopo, con il richiamo alla “cultura italiana”, si impone la prospettiva nazional-culturale, spinta a formule
retoriche sulle specificità del popolo italiano, capace di solidarietà, ospitalità e gratuità, sui valori che lo
connotano, fino ad affermarne come tratto distintivo l’apertura “verso l’altro e verso l’oltre”, una ’Identità
Aperta” (p.10, maiuscolo nel testo), “premessa per un incontro sincero e per una accoglienza all’interno
dell’alveo tramandato dai nostri padri”.
“Il soggetto adeguato che rende possibile l’interazione necessaria all’integrazione è il popolo, una esperienza
umana viva, con la sua tradizione, la sua cultura e i suoi valori” (p.10).
La nozione di popolo come dato naturale, con forza affermata in questo documento governativo di indirizzo,
è proposta come riferimento fondamentale per comprendere e governare le migrazioni.
Negli stessi anni sono stati formulati documenti più specifici di orientamento delle politiche scolastiche.
176
RAPPORTO SECONDGEN
Nelle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del 2006 4 si legge: “Si sta
delineando in Italia una scuola delle cittadinanze, europea nel suo orizzonte, radicata nell’identità nazionale,
capace di valorizzare le tante identità locali e, nel contempo, di far dialogare la molteplicità delle culture
entro una cornice di valori condivisi”. Tali affermazioni esprimono categorie poco accurate e risultano
problematiche. La cittadinanza, se non viene chiarita nella sua dimensione civica, non può essere partecipata
da chi non ha un passato condiviso. Anche la nozione di “identità locali” da “valorizzare” non è ovvia né
riguardo alla definizione, né riguardo al riconoscimento, anzi, richiama proprio quella riproduzione culturale
che in altri passaggi di questo e di altri documenti ministeriali è rifiutata. Ma soprattutto il ricorso al
“dialogo” nasconde la stessa logica, lo stesso paradigma dello “scontro” tra culture, tra universi omogenei e
compatti in cui non è affatto scontato che si possa ravvisare una “cornice di valori condivisi”. Il
“riconoscimento” identitario e il “dialogo tra culture” rimandano a una concezione rigida e reificata delle
appartenenze nazionali, entro le quali si dovrebbero rintracciare “valori condivisi” .
Un altro documento, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri
(2007)5, sembra prendere le distanze dalla prospettiva che “tende a confrontarsi con le culture d’origine in
quanto tali, e che rischia di assolutizzare l’appartenenza etnica degli alunni, predeterminando i loro
comportamenti e le loro scelte”. Ma si può interpretare come un esempio di quel clichéd constructivism di
cui abbiamo detto. Si afferma infatti che la scuola italiana sceglie di adottare la prospettiva interculturale,
ricondotta alla “promozione del dialogo e del confronto tra le culture”. Benché più avanti nel testo si legga
che “le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili”,
e si esorti a orientare l’attenzione alla persona e alla singolarità dell’alunno, la prospettiva interculturale
che vorrebbe essere l’alternativa al multiculturalismo “essenzialistico” e “separatista”, non è concettualmente
chiara6. Le Linee guida del 2014 richiamano i precedenti documenti e ribadiscono che l’educazione
interculturale costituisce “lo sfondo da cui prende avvio la specificità di percorsi formativi rivolti ad alunni
stranieri”. Si ritrovano le solite formule: “favorire il confronto, il dialogo, il reciproco riconoscimento e
arricchimento delle persone nel rispetto delle diverse identità ed appartenenze e delle pluralità di esperienze
spesso multidimensionali di ciascuno, italiano e non” (pag.4).
In che cosa consiste quindi l’orientamento interculturale in pedagogia, nato in Italia sotto la spinta
migratoria?7 Tra i vari testi, in Morcellini (2012:12) si legge che è la “disponibilità a uscire dai confini della
4
le C.M. 301/89; 205/90 e 73/94 avevano già affrontato il tema degli alunni appartenenti “a una diversa etnia” e del
compito educativo di “mediazione tra le diverse culture di cui sono portatori gli alunni”. La C.M. 73/94 introduceva il
tema dell'educazione interculturale come strumento e risposta “ più alta e globale al razzismo e all'antisemitismo”,
nella “consapevolezza della propria identità e delle proprie radici come base essenziale per il confronto”. Si sottolineava
inoltre “di questa identità, la struttura composita, il carattere dinamico e l'articolazione secondo livelli diversi di
appartenenza:locale, regionale, nazionale, europeo, mondiale”. Il rituale richiamo al carattere dinamico e
multidimensionale dell’identità non modifica la visione della storia presentata come l’insieme degli incontri/scontri tra
“popoli”: l'insegnamento della storia deve riconoscere gli apporti e i valori autonomi delle diverse culture e liberarsi da
rigide impostazioni a carattere etnocentrico o eurocentrico, per un'analisi obiettiva dei momenti di incontro e di scontro
tra popoli e civiltà. Allo stesso tempo la storia può aprirsi alle problematiche della pacifica convivenza tra i popoli e
affrontare il tema del razzismo, nelle sue manifestazioni e nei suoi presupposti e il tema delle migrazioni, come vicenda
storica ricorrente”. Le caratteristiche del lessico e della struttura del discorso presenti in questi testi si ritrovano nei
documenti successivi e in molta letteratura sull’argomento.
5
A cura dell’Osservatorio Nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale.
6
La questione si allarga al dibattito sul “fallimento del multiculturalismo” che si è sviluppato tra il 2008 e il 2011 e che
ha contribuito a presentare l’interculturalismo come una “narrativa” alternativa all’assimilazionismo e al
multiculturalismo e come strategia per politiche inclusive. Per una analisi critica di questo dibattito cfr. Vertovec,
Wessenfdorf (2010) e W. Kymlicka (2012), e l’ampia discussione che ha coinvolto diversi autori, apparsa in
Intercultural Studies (2012), al termine della quale Tariq Modood e Nasar Meer (p.242) evidenziano un generale
accordo su un punto: “that for the objectives of the integration and recognition of various migration-related minorities in
contemporary Europe, political interculturalism as it is currently being discussed is an unpersuasive alternative to
modes of multiculturalism”.
7
In una ricerca sulle pratiche interculturali nella scuola italiana (Serpieri, Grimaldi, 2013) è stata proposta l’immagine
del “concetto ombrello” sotto il quale si sarebbero sviluppati dagli anni ’90 un processo di costruzione di policy
framework europeo e la “via italiana all’educazione interculturale”. Tuttavia gli autori, nell’osservazione dettagliata dei
curricula, delle pratiche di educazione interculturale e di valutazione che le scuole sperimentano, sostengono che le
retoriche apparentemente progressiste e attente alla differenza (e alla differenziazione delle strategie), possono avere
effetti di mascheramento intrinseco all’educazione interculturale che contribuiscono alla riproduzione delle
disuguaglianze su base etnica e culturale (61-67).
177
RAPPORTO SECONDGEN
propria cultura, per entrare nei territori di altre culture e imparare a conoscere e interpretare la realtà secondo
schemi e sistemi simbolici differenti e molteplici, [quindi] un progetto di educazione interculturale comporta,
come obiettivo fondamentale, lo sviluppo di un pensiero aperto, capace di decentrarsi, di allontanarsi dai
propri riferimenti cognitivi e valoriali senza per questo ripudiarli, dirigersi verso quelli di altre culture per
scoprire e comprendere le differenze e le connessioni tra culture diverse, e capace, inoltre, di tornar nella
propria cultura arricchito dall’esperienza del confronto”. Il ricorso a termini come “uscire”, “entrare”,
“confini delle culture”, propri di una prospettiva fondata sull’incontro o scontro di popoli “portatori” (altro
termini frequente) di una cultura, evidenzia quanto resti costante il riferimento a culture pensate
essenzialmente in termini nazionali. I giovani immigrati o figli di immigrati sarebbero infatti “portatori”
della “cultura di origine”, del paese di provenienza. Nel discorso interculturale si ricorre spesso a simili
metafore (Gobbo, 2008)8, diventate senso comune che trascura la grossa eterogeneità dei valori, norme, stili
di vita, esistenti all'interno di un qualsiasi paese, i differenti quadri concettuali, le pratiche, il linguaggio, le
esperienze che possono differenziare profondamente uomini e donne, gente di città o di campagna, giovani o
vecchi, soggetti collocati in ambienti sociali diversi.
Inoltre, l’attenzione è totalmente focalizzata sulle differenze culturali le quali sarebbero motivo di conflitto
se non mediate col “dialogo” e lo “scambio”, come si legge in Caneva (2012: 35) : “il sistema educativo
italiano, utilizzando il concetto di interculturalismo, cerca di sottolineare l’importanza del dialogo e dello
scambio tra persone che sono culturalmente differenti, al fine di evitare conflitti e favorire la convivenza”.
La vaghezza della definizione può essere un motivo di spiegazione del fatto che tra gli insegnanti che
promuovono progetti interculturali si intrecciano e si confondono visioni diverse dell’educazione
interculturale, da quella che insiste sulla “conoscenza e valorizzazione delle altre culture”, alla formula dello
“scambio e rielaborazione culturale”, a un “approccio più efficace per promuovere atteggiamenti di apertura,
rispetto e attenzione nei confronti degli altri”, a un approccio metodologico per “ trattare temi e argomenti da
diversi punti di vista” (Favaro 2004, 28-29). La pratica della didattica e le difficoltà quotidiane incontrate
nell’affrontare i vari problemi della classe, evidenziano l’incertezza concettuale che non viene risolta dal
richiamo al prefisso “inter” il quale servirebbe a “indicare la centralità, non tanto delle singole culture e delle
differenze, ma delle relazioni e interazioni tra gruppi, individui, identità” (pag. 34). Queste frequenti
modalità di rappresentare l’eterogeneità che caratterizza i contesti educativi, cioè, da un lato “le
rappresentazioni di tipo multiculturalista che si focalizzano sulle caratteristiche e sulle rivendicazioni di
determinate “comunità” culturali”, dall’altro le “rappresentazioni che elogiano e promuovono varie forme di
meticciamento e ibridazione” (Zoletto, 2012: 19) si prestano entrambe, come già abbiamo sottolineato, a un
doppio equivoco. “Che un individuo sia per così dire completamente o ampiamente sovra determinato da una
cultura, e che le nostre società fossero (o che le società in generale possano mai essere) monoculturali prima
dell’arrivo dei migranti” (ibidem: 22).
Un testo esemplare che utilizza in forma esplicita il repertorio concettuale nazional culturale, e nel quale è
evidente l’uso scontato del termine “etnia” come gruppo e degli immigrati come “Altro”, è l’indagine Io e
gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti promossa dalla Conferenza dei presidenti delle
assemblee legislative delle regioni e delle province autonome del 2010, e quindi presumibilmente finalizzata
e fornire strumenti di intervento ai politici locali . Vediamone alcuni aspetti particolarmente significativi:
uno degli obiettivi era il sondaggio delle “reazioni emotive suscitate da una serie di categorie di persone
(etnie o minoranze)” (pag. 6), da cui sembrerebbe emergere che le motivazioni della “maggiore simpatia “
per certi gruppi sono dovute alla vicinanza ai giovani intervistati, in quanto “appartenenti – malgrado le
indubbie differenze – alla medesima cultura occidentale” (pag.7). La nozione di “cultura occidentale “ che
accomunerebbe i giovani italiani a certi gruppi etnici non è affatto chiara, così come la nozione di minoranza
e di etnia, che più avanti nel testo diventano sinonimi di “gruppo sociale”. Si dice infatti che “un livello di
tolleranza leggermente inferiore caratterizza un’eterogenea serie di gruppi sociali […]. Si tratta: degli ebrei,
degli italiani di origine diversa rispetto all’intervistato (settentrionali o meridionali), di alcune etnie
considerate evidentemente meno “aggressive” nei confronti della nostra società, provenienti dall’Africa nera,
filippini, indiani (pag. 8). E si prosegue, elencando “etnie e gruppi che destano apprensioni e
tendenzialmente allarme”, “etnie e gruppi con tassi rilevanti di “antipatia”, “etnie e gruppi che suscitano
8
Per un’interessante analisi dell’impianto metaforico del discorso che promuove la differenza culturale, la diversità e
l’incontro tra culture, cfr. Baroni (2013), in particolare il secondo capitolo, Retorica dei saperi interculturali, in cui
vengono presi in considerazione diversi testi italiani che appartengono alle aree della pedagogia, della psicologia e
della comunicazione interculturale.
178
RAPPORTO SECONDGEN
un’intensa antipatia “, fino alla minoranza “più odiata”, i Rom (pag.10). Il frequente ricorso alla formula
“l’Altro da sé” per indicare gli immigrati e “ altre minoranze” serve anche a identificare le paure dei
giovani (p.43).
E così via per oltre cento cinquanta pagine, in cui meccanismi di etichettamento basati sulle categorie etniche
e la logica nazional-culturale, secondo la quale gli immigrati sono un’eccezione all’unità del popolo,
producono “stereotipi e macchiette etniche”e “semplificazioni razziste” (Baroni, 2013).
La burocrazia scolastica e le statistiche ufficiali utilizzano la categoria giuridica, facilmente identificabile
da parte delle scuole, di “alunno con cittadinanza non italiana”, cioè figlio di due genitori stranieri, per
definire i minori di origine straniera presenti nelle aule. E poi si procede con distinzioni più specifiche in
base al criterio nazionale ( “i marocchini”, “i cinesi”, “gli albanesi” …). Dal punto di vista dello studio delle
specificità migratorie, sarebbe certamente importante poter conoscere il paese di nascita dei genitori,
cosicché si otterrebbe il quadro della popolazione che ha avuto un’esperienza familiare di migrazione
internazionale, comprendente anche coloro che non sono classificati come stranieri dal punto di vista
giuridico in quanto figli di genitori naturalizzati.
Tuttavia, tra le specificità che caratterizzano questi ragazzi, risulta molto spesso predominante, e quindi
oggetto di analisi e di progettazione di interventi, il fatto che vivono in “un contesto familiare intriso dei
riferimenti culturali del paese di origine, che non possono essere cancellati dal documento che ne attesta la
cittadinanza italiana” (Mantovani, 2011:72) 9. Secondo questo punto di vista, è rischioso utilizzare il requisito
della cittadinanza come criterio per distinguere gli ”italiani “ dagli “stranieri”, poiché porta a classificare
come “italiani” degli studenti “che vivono in nuclei familiari dove si parla un’altra lingua, si celebrano altre
ricorrenze e festività, si cucinano altre pietanze, e si professa un’altra religione” (ibidem: 90). Sono qui
espresse come evidenti e scontate la differenziazione culturale su base nazionale, la corrispondenza tra lingua
e cultura, e quindi l’alterità culturale delle famiglie immigrate, permanente nel tempo come elemento
distintivo sostanziale. Su queste specificità delle migrazioni, più che sugli effetti sociali degli spostamenti, si
tende spesso a formulare la domanda di ricerca e le ipotesi di intervento, ponendo al centro dell’attenzione i
temi riferibili alla “cultura” e all’”identità”.
In alcune ricerche italiane10 sui giovani di origine immigrata, la prospettiva nazional culturale è
sottoposta a critica ma si resta con l’impressione che si tratti in certi casi del “clichéd constructivism". In
Marzulli (2009: 198-202) si legge: “lo straniero, in generale, è portatore di un universo valoriale fortemente
connotato…”, ma poi si sottolinea che non si deve insistere sull’eterogeneità e incompatibilità tra culture
piuttosto che sulla loro capacità di ibridazione e si prendono le distanze dall’essenzialismo e da una
concezione reificata delle culture, intese invece come “sistemi complessi e permeabili, all’interno dei quali
avvengono processi di comunicazione, scambio e innovazione”. L’analisi dei processi di costruzione
identitaria dovranno pertanto assumere, secondo l’autore, una prospettiva interculturale, che “sottolinea i
processi di ibridazione tra culture e il riconoscimento delle differenze all’interno di un orizzonte comune”,
avvalendosi degli studi sui processi di acculturazione. Questo dovrebbe permettere di cogliere “la
complessità di una condizione che può oscillare tra gli estremi del disorientamento (come nel caso del profilo
marginale), della perdita di radici (come nel caso dell’assimilazione) o della multi appartenenza (come nel
caso dell’integrazione)”. I marginali sono infatti definiti in base alla distanza rispetto alla “cultura di origine”
e a quella “autoctona”, mentre gli integrati adottano una strategia di “doppia etnicità caratterizzata da
comportamenti di apertura nei confronti delle due culture”. Invece, “coloro che sono assorbiti nella cultura
prevalente” compiono un processo di piena assimilazione (p. 201). Ciò che caratterizza questo discorso, oltre
alle debolezze del concetto di interculturalità di cui si è già detto, è che la condizione del giovane di origine
immigrata è comunque connotata in base alle diverse forme che può assumere la relazione cultura d’origine cultura autoctona, nominate come fossero cose evidenti, con un significato noto e condiviso.
9
Nelle già citate Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del 2014 viene proposto un
ampliamento delle “locuzioni” utili nella didattica: gli alunni con cittadinanza non italiana vengono distinti in “alunni
con ambiente familiare non italofono”, “minori non accompagnati”, “figli di coppie miste”, “alunni arrivati per adozioni
internazionale”, “alunni rom, sinti e camminanti”, “studenti universitari con cittadinanza straniera” (pagg.5-6), cosicché
il criterio della differenza culturale si mescola con considerazioni sul disagio psicologico e sociale. E’ significativo
inoltre che si affermi la necessità di formazione e di specifiche competenze “per il personale delle aree a rischio o a
forte processo migratorio o frequentate da nomadi"(pag.14). La sequenza delle parole rischio (di che cosa?), migrazioni,
nomadi (ma sono tali?) induce a metterle in relazione.
10
Per una rassegna delle ricerche italiane cfr. Santagati (2012).
179
RAPPORTO SECONDGEN
Nella prospettiva del nazionalismo metodologico, come già detto, le persone che migrano sono infatti una
eccezione alla corrispondenza tra popolo e nazione, culturalmente “altre”, uno specifico oggetto delle
politiche e della ricerca. Questa immagine dell’immigrato è palese nelle pagine conclusive del rapporto Cnel
del 2009, Aspettative delle famiglie immigrate nei confronti del sistema scolastico italiano (a cura di Cotesta
e Tognonato). Riportiamo, in forma di elenco, alcune espressioni riferite ai giovani di origine immigrata:
“diverso; mette in gioco l’individualità solida delle persone e delle culture; frequenterà il gruppo di amici ma
in lui resterà sempre il segno di un taglio, di una scissione e infine di un destino mancato; io diviso tra due
mondi; difficoltà a trovare un’identità che non sia estranea né al contesto né segnata da un tradimento delle
proprie origini; rischiano di diventare stranieri perfino per i loro genitori; se rompono con la tradizione si
produce uno strappo culturale che può essere vissuto come tradimento; in molti casi i figli assumono il ruolo
dell’ interprete, di mezzo di trasmissione, di collegamento tra le due culture” (94-102).
Le ultime affermazioni sono particolarmente significative del fatto che la distinzione loro/noi, cultura di
origine/ cultura della società di arrivo si declina frequentemente nella distinzione tradizione/modernità, la
prima ancora presente nei genitori, la seconda propria dei figli “acculturati” in Italia e motivo di contrasti
familiari. La contrapposizione genitori-figli in termini di dissonanze culturali che producono conflitti si
ritrova in molti lavori, qui basti citare Ambrosini, Caneva (2009) in cui si afferma che “genitori e figli sono
chiamati a operare sintesi tra esigenze diverse e talora contrapposte: tra l’adesione al contesto ricevente, con i
suoi stili di vita da una parte, e i riferimenti identitari e valoriali originari dall’altra, tra mantenimento della
rispettabilità nella comunità e desiderio di accettazione nella società più ampia” (p. 31); e ritorna la diffusa
definizione dei figli “adultizzati”, “genitori dei genitori” (p.32). Eppure ciò che sappiamo sui rapporti
genitori-figli nelle famiglie immigrate non evidenzia la prevalenza di conflitti di questo tipo. Esistono senza
dubbio alcuni conflitti che si potrebbero classificare come conflitti tra culture: sul modo di vestirsi, sui
matrimoni combinati, ecc. Ma questi sembrano meno numerosi e spesso meno gravi rispetto ai conflitti che
derivano dalla situazione all'interno dei contesti quotidiani, rispetto alla scuola, alle "cattive compagnie", alle
uscite serali, alla partecipazione alla vita familiare. Non raramente invece, si presuppone che il problema
principale affrontato dalle famiglie immigrate sia quello dell'incompatibilità tra la "cultura italiana" che
sarebbe trasmessa dalla scuola, dai media, ecc. e la "cultura dei genitori" propria del luogo di origine11.
In un testo italiano abbiamo trovato una critica a questo approccio, “e in generale [a] nozioni aprioristiche o
reificate di concetti come cultura, nazione, maggioranza, minoranza, etnicità” (Caneva 2011, p.49), ma il
tentativo di prenderne le distanze si concretizza in questo caso nel proporre il transnazionalismo e il
cosmopolitismo come quadro teorico alternativo, pensati come sviluppo di “ progetti di vita orientati qui e
là” che permettono di “evitare la rottura con i contesti di partenza”. In questi termini il nazionalismo
metodologico ritorna nella forma del “nazionalismo a lunga distanza” che lega comunque persone residenti
in luoghi diversi a un comune riferimento nazionale. Rimangono salienti tutti i caratteri e i legami che
contraddistinguono i gruppi nella prospettiva del nazionalismo metodologico, pur fuori da confini territoriali
congruenti. “In short, approaching migrant transnational social fields and networks as communities tends to
reify and essenzialise these communities in a similar way that previous approaches reified national
communities” (Wimmer, 2009, p. 323 -324).
La distinzione per nazionalità frequentemente è usata per descrivere i comportamenti scolastici. In
Terzera (2011) si legge: “C’è una maggiore concentrazione di rendimenti scarsi o appena discreti tra gli
studenti di origine latino americana che evidenzia una particolare debolezza di questi ragazzi malgrado la
minor distanza rispetto alla cultura italiana (non solo dal punto di vista linguistico, ma anche, ad esempio, da
quello religioso)”. Si dice cioè che la debolezza degli studenti latino americani deve essere ricercata in altri
elementi, “malgrado” la minor distanza di questi allievi dalla cultura italiana. Nella prospettiva nazionalculturale infatti, le affinità linguistiche e religiose risultano sinonimo di affinità culturali e dovrebbero
11
Cfr. i lavori di Lahire (1995) dai quali, mediante un esame preciso e minuzioso dei comportamenti nelle famiglie,
emergono elementi legati non tanto al contesto d'origine ma piuttosto al contesto attuale, e relativamente trasversali
nelle classi popolari. Questo indica, a nostro avviso, la necessità di sviluppare un'analisi centrata sulla situazione delle
famiglie nel contesto in Italia più che sulle caratteristiche nazionali. Nella ricerca di Lahire inoltre “le interviste
realizzate volte a capire le radici del successo/insuccesso scolastico nelle pratiche e interazioni familiari contengono
diversi esempi di figli che hanno un ruolo di intermediari tra gli uffici o la scuola e i genitori che non leggono il
francese. Eppure in molte famiglie questo ruolo sembra istituire scambi gratificanti tra genitori e figli, valorizzando le
competenze scolastiche: infatti Lahire menziona queste situazioni proprio come una pratica che motiva l'impegno a
scuola inserendo la lettura e la scrittura nel contesto relazionale” (Eve, Perino, 2011: 187)
180
RAPPORTO SECONDGEN
garantire inserimenti più facili. Il caso segnalato dall’autrice da una parte sollecita la ricerca di altri elementi
esplicativi dei rendimenti scolastici di quei ragazzi ma dall’altra sembra rappresentare un’eccezione alla
forza esplicativa della “appartenenza culturale”, talvolta declinata per genere. Questo porta ad affermare,
rispetto alle relazioni con gli insegnanti: “tra le ragazze che criticano maggiormente le professoresse
troviamo ecuadoriane e romene … Le ragazze marocchine e filippine mostrano valori più elevati di difficoltà
con insegnanti di genere maschile”. Lo stesso tipo di descrizione ricorre molto spesso anche nei discorsi
degli insegnanti. (M. Colombo, 2009: 109-115)
La prospettiva nazional-culturale caratterizza anche i discorsi sull’integrazione, che molti lavori italiani
definiscono con la formula, di successo12, secondo la quale “l’integrazione è un processo multidimensionale
finalizzato alla pacifica convivenza, entro una determinata realtà sociale, tra individui e gruppi culturalmente
ed etnicamente differenti, fondato sul rispetto della diversità a condizione che queste non mettano in pericolo
i diritti umani fondamentali e le istituzioni democratiche” (Cesareo, 2009:23). La centralità delle nozioni di
differenza culturale/etnica e di rispetto, condizionato, di tali differenze si impone come chiave interpretativa
e normativa, orientando le politiche a interventi che favoriscano l’incontro e il dialogo. La questione
dell’integrazione è infatti frequentemente correlata ai discorsi sull’identità che in Italia, come già detto,
connotano da tempo un’ampia letteratura (Colombo, 2010). Da una parte la ricerca focalizzata sui processi di
costruzione identitaria insiste sull’eterogeneità delle situazioni e dei differenti modelli di appartenenza a
disposizione dei giovani per rappresentarsi e agire, sottolineando che le forme di identificazione sono
molteplici, strategiche, “ibride”, più o meno sensibili alla dimensione globale. Dall’altra parte, questa
ortodossia dell’identità “fluida” che critica la reificazione della nozione di immigrato, di seconda
generazione e di paese provenienza, rimane comunque nell’orizzonte di un’identità declinata in termini
nazional culturali, senza metterne in questione l’impostazione etnica. In Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le
strategie di una generazione ponte (Besozzi e al. 2009), il paragrafo 1.1.2 (20-26) si intitola: “la questione
dell’integrazione come questione identitaria”, perché si ritiene che questo aspetto abbia una particolare
rilevanza per i giovani stranieri, con un richiamo all’“appartenenza”, in senso “molteplice e interdipendente”.
Si ritrova quindi la solita critica al multiculturalismo, al quale sarebbero preferibili la “concezione dialogica
e negoziale dell’incontro” (p. 22), e “il modello dialogico e aperto alla reciprocità e al riconoscimento”
poiché “si può osservare come sia proprio la dimensione culturale a essere in primo piano nei processi di
inclusione o acculturazione” (p. 23).
Segue una tabella sui “modelli di acculturazione, concezione
dell’identità e trattamento della diversità etnica”, concludendo che nell’ambito dei processi di
globalizzazione si arriverà ad avere, a seconda delle politiche di trattamento della differenza, un’omogeneità
culturale globale, un mosaico di culture e civiltà immutabilmente diverse o un mescolamento continuo e
illimitato. E’ evidente in queste affermazioni la densità della prospettiva nazional-culturale e del groupism.
Questo apparato concettuale informa ovviamente innanzitutto i questionari e le interviste realizzati nella
ricerche.
Scegliamo due lavori esemplari in tal senso. Il cap 7 del già citato Giovani stranieri nuovi cittadini studia
“l’acculturazione dei giovani migranti in un contesto di pluralismo di valori” (M. Marzulli: 195-218)
mediante intervista, per comprendere “come sia vissuta la condizione tra due culture”(p. 212). Alcune
domande poste sono basate sulla solita alternativa cultura di origine-cultura di residenza. Queste sono date
come unitarie e autoevidenti, alcuni ragazzi riescono a farne una “costruzione originale, capace di prendere
elementi delle due culture, porli a confronto e sottoporli a rielaborazione personale”, come se i “riferimenti
plurimi” fossero propri soltanto delle seconde generazioni, in quanto non è prevista, in questa prospettiva,
una pluralità di produzioni culturali entro lo stesso territorio nazionale: ti senti più italiana o più rwandese? ti
senti più italiana o più africana? seguite le feste della vostra tradizione? (ibidem 214-215). Chiaramente la
forma dell’interrogazione condizionerà la risposta (Bichi, 2002). E ancora, in Caneva (2011a): ”Secondo voi
ci sono problemi di convivenza tra italiani e stranieri (139) , e poi nel capitolo che esplora la vita in Italia
ricorrono domande di questo tipo: ma lei (la madre) vuole anche che tu magari mantieni certe tradizioni, certi
valori? Ci sono delle situazioni in cui ti senti italiano? Ci sono delle situazioni in cui ti senti straniero? Per te
la nazionalità , il fatto che vieni da … , è importante?, secondo te in Italia c’è razzismo? Secondo voi la
convivenza è possibile oppure no? (158 -243).
12
Cfr altri lavori che hanno condiviso questa definizione di integrazione : Gilardoni (2012); Caselli ( 2009); Berti e
Valzania (2010).
181
RAPPORTO SECONDGEN
E’ evidente che gli intervistati saranno indotti a rispondere utilizzando le stesse categorie concettuali,
confermando l’impianto culturalista dei ricercatori, come quando, chiedendo se “avere in classe compagni di
altri paesi è positivo”, si constata che gli stranieri che rispondono “sì” sono proporzionalmente più numerosi,
e si afferma che questo indica che “essi, in quanto promotori in prima persona della multiculturalità, ne sono
anche convinti sostenitori” (M. Colombo, 2012:159). Il nazionalismo metodologico e la prospettiva
culturalista diventano così forme di rappresentazione e di autorappresentazione, alimentate dai discorsi (e
dalle domande della ricerca) sull’identità.
Non vogliamo dire che il tema dell’identità non sia rilevante, ma che l’indagine sugli strumenti prevalenti
fra i giovani immigrati per definirsi e su come si sviluppino le loro identità, spesso ricorre a un’attribuzione
categoriale basata sull’origine nazionale e sul background culturale, tanto da far dire che “i confini
coincidono con l’appartenenza nazionale, alla quale vengono collegate dai soggetti precise caratteristiche e
stili di vita” (Caneva, 2011b, 202). Secondo l’autrice questa tesi è confermata dal fatto che “da alcune
interviste è emerso che la socialità dei ragazzi si è sviluppata anche grazie a cugini e fratelli, tramite i quali
gli intervistati hanno conosciuto altri connazionali e formato il gruppo dei pari con cui trascorrono il tempo
libero” (ibidem, 222). Invece che in termini nazional culturali questo fenomeno si potrebbe spiegare
mediante altri meccanismi di formazione dei legami e dei confini: le amicizie con connazionali sono infatti
spesso facilitate dalle reti parentali, e i ragazzi stanno con certi coetanei non perché sono connazionali, ma
perché sono parenti o figli di conoscenti della famiglia. La socialità dei ragazzi si sviluppa anche grazie a
cugini e fratelli, e tramite loro si conoscono altri connazionali secondo la tendenza a frequentare gli amici
degli amici, che è diversa dalla “omofilia etnica” (Wimmer e Lewis, 2010).
Nelle interviste di Secondgen, che non prevedevano una sezione specificatamente dedicata a esplorare la
questione dell’ “identità”, del “sentirsi” più o meno italiano, le narrazioni dei giovani risultano interessanti
per l’evidenza di discorsi articolati su diversi schemi cognitivi e sistemi categoriali. Sono emersi complessi
processi di formazione dei gruppi e forme di autoidentificazione e di eteroidentificazione molto legate agli
ambienti specifici, al quotidiano e alle persone che si conoscono, che si frequentano o che si evitano.
Il senso della prossimità e della distanza non è quindi centrato sull’origine nazionale ma sugli ambienti
sociali. Dall’analisi delle nostre interviste emerge infatti che i giovani apprendono l’uso di categorie, di
schemi discorsivi e cognitivi negli ambienti sociali in cui si trovano. “La differenziazione tra “radicati” e
“esterni” che non corrisponde a quella tra italiani e stranieri, tra disciplinati e pigri, tra responsabili e
irresponsabili, tra devianti e non devianti, tra quelli che lavorano molto e quelli che lavorano poco, espressa
in una varietà di forme, esprime codici morali, etichette, criteri di classificazione appresi in Italia. Con questo
materiale fornito dalle esperienze e dalle interazioni quotidiane i giovani intervistati delineano confini,
descrivono e valutano” (Perino, 2013).
Vogliamo pertanto sottolineare che il ricorso a categorie nazional culturali nel dibattito pubblico e nello
studio delle migrazioni, e delle seconde generazioni in particolare, rischia di non essere appropriato, di
insistere eccessivamente sui problemi culturali e di deviare l’attenzione dai meccanismi e processi di
stratificazione sociale e dalle logiche connesse alla migrazione, allo spostamento geografico, che di per sé
ha degli effetti sociali.
182
RAPPORTO SECONDGEN
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184
RAPPORTO SECONDGEN
3. GIOVANI, STRADE, QUARTIERI. OSSERVAZIONE ETNOGRAFICA E
PARTECIPAZIONE ALLE DINAMICHE DI GRUPPO.
I contributi derivano da tre specifici filoni della ricerca.
3.1. La ricostruzione della vita di quartiere dei figli di immigrati interni negli anni
Settanta a Torino.
Fonti utilizzate:
−
interviste informali per orientare l'indagine con seconde generazioni di immigrati interni e
con osservatori privilegiati
−
40 interviste qualitative a seconde generazioni di immigrati interni
−
dati statistici provenienti dai censimenti e da pubblicazioni dell'ufficio statistico del
comune di Torino; dati dell’Archivio Storico della Città di Torino
−
censimento di tutti gli ingressi nell’Istituto Penale per i Minori Ferrante Aporti di Torino,
dal 1° gennaio al 31 dicembre 1979 (sono di quell’anno i fascicoli più vecchi presenti
nell’archivio del carcere)
−
archivi giornalistici
−
fonti private, di associazioni e di parrocchie
Campo principale dell’indagine sono stati i quartieri periferici e di edilizia popolare del
comune di Torino. La ricerca sul campo e la raccolta delle interviste e delle storie di vita dei figli
di immigrati è servita a tracciare le traiettorie sociali delle seconde generazioni di immigrati
interni.
La ricerca ha ripercorso le storie di alcune strade, che negli anni hanno acquisito una “cattiva
fama” e che nella memoria collettiva sono associate alla delinquenza minorile, alla droga, al
degrado.
I risultati dicono che i ragazzi entrati all’interno del carcere minorile di Torino in quell’anno hanno
in prevalenza un’origine meridionale e un’età compresa fra i sedici e i diciassette anni. Sono di
gran lunga più numerosi i reati contro il patrimonio, in particolare i furti d’auto e i furti su auto. I
ragazzi in maggioranza sono poco scolarizzati e sono disoccupati. La città di Torino è quella con il
numero di ingressi più alto rispetto al resto delle città della regione. Nel capoluogo piemontese, i
quartieri con un numero maggiore di minori arrestati sono in prevalenza quelli periferici, con
ampie zone di edilizia pubblica.
Come emerso dalle testimonianze di molti degli intervistati questi pezzi di città furono per molti
aspetti pezzi di una città “lontana”, soprattutto nelle prime fasi di insediamento. Poche strutture
ricreative a disposizione dei più giovani, che scelgono la strada come luogo principale di
interazione. L’alto numero di bambini e di adolescenti è una caratteristica comune di tutti i
quartieri di recente immigrazione. E così negli anni Sessanta e Settanta negli isolati appena
edificati le strade, le piazze ed i giardini sotto casa divengono il luogo di incontro per molti
figli maschi della migrazione interna. Questi giovani iniziano a costruire il loro mondo in strada.
Un mondo fatto di attività autogestite, con una tendenza ad essere separato dal mondo adulto. La
migrazione modifica le relazioni familiari ed il controllo sociale sui più giovani può diminuire.
Tutto questo non favorisce le carriere scolastiche e lavorative ed in alcuni quartieri si diffonde tra i
ragazzi una “cultura di strada”, che si manifesta sotto forma di una crescente sfiducia nei
185
RAPPORTO SECONDGEN
confronti delle istituzioni e di una certa insofferenza verso le regole e verso le attività gestite dagli
adulti, come la scuola.
Il “rispetto” che si può guadagnare in strada di fronte agli amici non ha spesso nulla a che vedere
con i risultati ottenuti tra i banchi di scuola.
Talvolta i giochi di strada finiscono per diventare reati e la sfida alle istituzioni viene considerata
più affascinante rispetto alla carriera del “bravo ragazzo”. (per approfondire vedi l’analisi a
pag 189)
3.2. L’osservazione partecipante in un giardino pubblico di Torino: giovani non
inseriti in circuiti ricreativi, culturali, educativi e sportivi istituzionali e con percorsi
di vita “devianti”.
Le interviste e l’osservazione partecipante con giovani coinvolti in attività devianti o comunque “a
rischio” forniscono preziosi elementi sugli atteggiamenti di questi giovani rispetto alle proprie
azioni illegali, alla polizia e all’ambiente in cui sono inseriti. Forniscono inoltre informazioni, pur
parziali, rispetto al background familiare, ai progetti futuri e al modo in cui questi giovani passano
il tempo insieme negli spazi pubblici e alle forme di interazione che sviluppano.
Le forme di vita giovanile raccontate in questa fase della ricerca come possono essere messe in
relazione con le migrazioni?
Innanzitutto, va notato semplicemente che l’esame dei comportamenti devianti, come quello di
tanti altri aspetti della vita documentati in questa ricerca, fa emergere forti rassomiglianze tra
ondate migratorie differenti. Infatti, l’esplorazione tramite lo spoglio della stampa periodica
degli anni settanta e ottanta, le interviste con magistrati e operatori attivi in quegli anni, nonché
l’esame di registri dell’Istituto Ferrante Aporti del 1979, mostra, come si è detto, la forte sovrarappresentazione dei figli degli immigrati regionali tra i giovani caduti nella rete dell’azione
giudiziaria. Questo parallelismo costringe a riflettere sulle possibili cause legate al processo
migratorio.
Innanzitutto va ricordato che la presenza in statistiche giudiziarie o anche nella cronaca della
stampa rappresenta la fine di un percorso, in cui hanno un ruolo gli amici, la famiglia ma anche la
polizia e le autorità giudiziarie. Gli studi etnografici sull’operato della polizia nella sua azione di
controllo del territorio (Reiner 1997; Fassin 2011) mostrano che i giovani di determinati quartieri
popolari sono molto più soggetti a controlli da parte della polizia. Questo determina da una parte lo
sviluppo collettivo di atteggiamenti di indifferenza e di resistenza, dall’altra parte, nei casi in cui
gli atti devianti sono rilevati dalla polizia e conducono ad azioni penali, trasforma il significato di
comportamenti giovanili assai diffusi - le survey trovano percentuali estremamente elevate di
giovani di tutti gli strati sociali che hanno commesso piccoli furti, sono stati coinvolti in risse, ecc.
- da una “bravata” in un atto criminale con conseguenze ben diverse. Vale la pena richiamare
questo risultato consolidato della criminologia per ricordare l’importanza del quartiere in cui
crescono i figli degli immigrati e dell’ambiente sociale frequentato dai giovani.
Sembra abbastanza frequente che i figli degli immigrati (ieri come oggi) facciano un uso intenso
dei giardini, degli spazi davanti ai condomini, dei pezzi di terrain vague che possono esistere nel
vicinato, dei parcheggi dei supermercati e dei centri commerciali. Anche questi spazi si
distinguono per l’attenzione che possono ricevere da parte della polizia e per la visibilità da parte
dei cittadini locali. Fumare o bere in un giardino pubblico ha un altro significato rispetto a fare lo
stesso in uno spazio privato.
186
RAPPORTO SECONDGEN
Qualche elemento dell’osservazione etnografica e delle interviste svolte in questa parte della
ricerca sembra confermare quanto accadeva nel passato, cioè le difficoltà sperimentate dalle
famiglie nel controllo degli adolescenti. Colpisce la madre di un ragazzo, appena arrivato in
Italia, che lo invita a scendere nei giardini sotto casa, quando questi giardini sono un noto luogo di
spaccio e di traffici vari.
Emerge inoltre l’importanza dei giardini e degli spazi informali nella formazione di
competenze e conoscenze, nonché nella costruzione di contatti (con venditori, compratori,
intermediari) necessari per il coinvolgimento nelle attività devianti. In questo senso è rilevante che
molti figli di immigrati crescano in quartieri in cui ci sono gruppi che fanno acquisire le tecniche
necessarie per gestire il confronto con la polizia. (per approfondire vedi l’analisi a pag 200)
Conta infatti l’inserimento in reti sociali in cui sono presenti persone che hanno già
sviluppato delle attività illegali. E’ illuminante il confronto tra i giovani intervistati durante
l’osservazione etnografica e quelli di un altro giardino dove l’Uisp aveva organizzato tornei di
calcio e dove c’era la presenza regolare di una mediatrice culturale che è diventata un punto di
riferimento per i giovani. Molti dei ragazzi di questo secondo giardino hanno un percorso
scolastico disorganizzato, raccontano di risse, amici in carcere, abuso di alcool ma al momento
dell’intervista non avevano intrapreso una carriera nello spaccio e nelle rapine, probabilmente
perché si era prospettata la possibilità di altre reti - sportive, dell’associazionismo ( ma di un
genere “leggero”, poco strutturato e con
ridottissimi momenti etero diretti), di
“accompagnamento” - in cui inserirsi.
In particolare, l’importanza dell’ambiente aggregativo è stata analizzata dalla sezione
seguente della ricerca.
3.3. L’osservazione partecipante e le interviste ai ragazzi incontrati attraverso
attività educativa di strada in un giardino pubblico di Torino.
La parte di ricerca condotta dal Gruppo Abele ha maggiormente focalizzato l’attenzione
sull’analisi degli ambienti di vita di ragazzi di origine straniera incontrati in una specifica area
della città di Torino situata all’interno della V circoscrizione, nel quartiere Borgo Vittoria, più
precisamente nella zona che comprende e circonda i giardini Don Gnocchi, comunemente
conosciuti in quartiere con il nome di giardini Sospello. In quest'area agisce l’Educativa di Strada
del Gruppo Abele grazie al progetto Stradivaris, finanziato dalla Compagnia di San Paolo di
Torino.
Due le macrofasi previste dalla ricerca: la prima di osservazione con uscite in giardino (come una
parte del quartiere) e redazione di 45 diari etnografici è stata centrale per descrivere l’utilizzo del
giardino pubblico come luogo di aggregazione informale, il ruolo che tale luogo assume per i
ragazzi di origine straniera, eventuali “effetti di vicinato” rilevati attorno alla frequentazione del
luogo con relativi elementi di eventuale segregazione. La seconda fase ha previsto il
coinvolgimento dei ragazzi in intervista biografica. La peculiarità dell’azione di ricerca curata dal
Gruppo Abele è consistita nel cercare di intercettare quei ragazzi talvolta sfuggenti ai circuiti
educativi formali, ma a pieno titolo oggetto di interrogativo per la progettazione di efficaci
politiche di inclusione.
In merito al contesto “quartiere”, è stato ritenuto importante rilevare anche quegli elementi che
portano i ragazzi a spostarsi da una zona all’altra della città, e che possono essere utili ad
evidenziare dinamiche di emancipazione, desideri di inclusione, ecc. In aggiunta, in merito agli
argomenti affrontati in sede di intervista, si è posta attenzione anche all’area dei diritti (lavoro,
casa, cittadinanza..), al tema della formazione/conoscenza, al tema della partecipazione ed al
187
RAPPORTO SECONDGEN
tema dell’ambizione e delle attese dei ragazzi. Il lavoro di ricerca, in sintesi, si è proposto di far
luce sul modo in cui possono costruirsi percorsi di svantaggio per giovani figli
dell’immigrazione, siano essi di generazione 1.25, 1.50, 1.75 e/o 2.00.
L'analisi dei dati rilevati nel corso della fasi di ricerca ha consentito di caratterizzare il territorio
“quartiere” come spazio di vita secondo alcune direttrici: è “il primo luogo” della città in cui
giungono i ragazzi immigrati e si concretizza nelle strade e nei giardini pubblici vicini alla
propria casa. Il giardino in quartiere è il luogo dove si possono trovare ragazzi con la stessa
esperienza di disorientamento, timore e desiderio di conoscenza, che parlano però la medesima
lingua, con i quali si può parlare e giocare gratuitamente. Queste relazioni possono cambiare la
qualità della giornata, e da quel momento il giardino diventa un appuntamento fisso.
Al giardino stesso si incrociano alcuni fattori influenti sulle traiettorie di vita di questi giovani: vi
può essere interazione con ragazzi di età differenti, più grandi o più piccoli, e si può accedere a
vari tipi di informazioni. Essendo però il giardino un luogo pubblico, si incontrano regole di
condotta comuni per tutti, ma al contempo si innescano conflitti tra utilizzatori degli spazi di
gioco e con gli abitanti della zona. In quei casi si confrontano direttamente con l’immagine
negativa dello straniero dalla quale prendono le distanze.
I conflitti in giardino però possono condizionare il loro rapporto con quel luogo, sino
all’allontanamento, per virare su altri posti. Ciò può significare cambiare giro, amicizie, e talvolta
portarsi dietro un’esperienza di esclusione.
Le ragazze, soprattutto se di origine araba sono raramente presenti negli spazi pubblici. In
generale paiono più concentrate sullo studio, e probabilmente protette dalle famiglie, poiché la
città è luogo di opportunità, ma anche di pericolo. Talvolta le regole familiari si ridefiniscono
proprio nel paese di arrivo, e i ragazzi perdono una certa libertà di movimento che avevano
invece nel paese d’origine.
Se da un lato, forse, le ragazze sviluppano maggiormente competenze legate alla formazione e
allo studio, e sembrano progettare e sognare “un po’ più in là” dei ragazzi, esse sembrano avere
però reti di relazioni più ridotte.
Stare con i connazionali o con gli italiani, e cosa “convenga” di più in termini di occasioni di
inserimento è un’altra delle questioni analizzate. I gruppi di ragazzi che frequentano il giardino
sono molto eterogenei sotto questo punto di vista. Probabilmente lo spazio del gioco, dello
scambio con i pari, del divertimento è sostanzialmente vissuto alla pari tra i ragazzi, ma
lievemente diverso è il loro racconto in merito alla reti e relazioni utilizzate dai familiari sul
quartiere o nella città. Non sempre la comunità di origine è elemento di supporto nell’uso del
quartiere: una funzione solidaristica della comunità d’origine non è scontata per quello che i
ragazzi raccontano. Resta l'interrogativo se stare con gli italiani sia una strategia delle famiglie,
per avere maggiori opportunità, anche per i figli, perché siano a contatto con possibilità di
inclusione maggiori e con occasioni di vita di maggiore successo e ascesa sociale. (per
approfondire vedi l’analisi a pag 250)
188
RAPPORTO SECONDGEN
3.4. Analisi
Giovani e vita di strada nella Torino della grande migrazione interna
Dario Basile
Perché i figli delle grande migrazione interna?
Ci si potrebbe chiedere che senso abbia parlare oggi di immigrazione interna, oggi che sono passati circa
cinquant’anni dall’apice del fenomeno. Ci sono per lo meno due buone risposte a questa domanda; la prima,
forse banale, è che non se ne è parlato abbastanza. Esiste a tutt’oggi poca letteratura socio-antropologica
sulla migrazione interna in Italia ed ancora più scarsa è l’attenzione rivolta alle seconde ed alle terze
generazioni di questi immigrati. In realtà tali e tanti sono i fenomeni correlati agli straordinari movimenti di
popolazione che, come ha scritto Enrico Pugliese, parlare di migrazioni interne significa affrontare un
fenomeno che compendia in sé alcune delle più importanti trasformazioni della società italiana (Pugliese,
2002 : 41).
Esiste poi almeno una seconda ragione per affrontare questi temi: capire cosa sia successo nel nostro recente
passato può gettare una luce su alcuni fenomeni del presente. L’ottica di un confronto tra vecchie e nuove
immigrazioni può essere utile, per comprendere meglio alcuni meccanismi sociali, che sono tutt’oggi in atto.
Adottare questa prospettiva comparativa - tra immigrazione del recente passato e del presente - presuppone
l’implicita considerazione che l’immigrazione interna sia stata una “vera immigrazione”; e che sia possibile
indagarla servendosi delle recenti teorie elaborate per lo studio delle migrazioni internazionali e delle sempre
stimolanti opere classiche nel campo dell’antropologia urbana.
Si potrebbe dire che ciò che unisce il passato ed il presente è il “processo migratorio in sé”, da indagare
tralasciando i concetti di nazionalità, cittadinanza e di differenza culturale. La migrazione è un processo di
lungo termine, che ha diversi effetti autonomi non solo sulla vita degli individui che emigrano, ma anche
sulle carriere formative e occupazionali dei figli e forse persino dei nipoti (Ceravolo, Eve, Meraviglia, 2011;
Badino, 2012). Quelli che vanno indagati sono, dunque, i meccanismi sociali che generano tali effetti e
studiando le migrazioni regionali del passato, si ha l’indubbio vantaggio di avere una prospettiva di lungo o
medio termine.
Con la mia ricerca ha voluto analizzare un aspetto particolare di questi complessi fenomeni: ho cercato di
capire se, anche in seguito alla grande migrazione interna a Torino che ebbe il suo apice a cavallo tra gli anni
Cinquanta e Sessanta, si formarono fenomeni come le gang giovanili o quella fiorente vita di strada,
sapientemente narrata in alcune opere classiche dell’antropologia urbana (Whyte, 1943; Thrasher, 1966;
Shaw e McKay, 1942); fenomeni tutt’oggi esistenti e che, il alcuni casi, vedono protagonisti giovani migranti
e di seconda generazione in Europa (Queirolo Palmas, 2010: 7). Per fare questo ho condotto un’indagine sul
campo - durata circa tre anni – durante la quale ho condotto una serie di lunghe interviste in profondità e
numerose chiacchierate informali. La fonte orale non è stata, però, l’unica mia risorsa a disposizione, i
ricordi delle persone sono stati supportati da una parte di ricerca archivistica. Infatti, a differenza del passato,
in cui gli antropologi consideravano gli archivi come un luogo “pericoloso”, dove era possibile smarrire la
strada della propria ricerca, oggi è dato quasi per scontato un dialogo ed un connubio tra antropologia e
storia (Viazzo, 2004).
I dati da me ricavati provengono da fascicoli giudiziari, da sentenze del Tribunale dei Minori di Torino, da
archivi pubblici e privati. L’indagine sul campo si è, invece, concentrata essenzialmente nei quartieri
periferici di Torino, con una particolare attenzione ad alcuni isolati di edilizia popolare. In questi luoghi ho
incontrato persone, le ho intervistate e ho cercato di ricostruire tramite i loro ricordi la storia di quelle realtà.
Mi interessavano in modo particolare quelle zone della città o quelle vie divenute note alla cronaca cittadina
per numerosi atti di criminalità minorile. Ero incuriosito da alcune strade, che negli anni avevano acquisito
una “cattiva fama” e che nella memoria collettiva erano associate alla delinquenza, alla droga, al degrado. Un
ricordo probabilmente selettivo, forse influenzato dai mezzi di informazione e dalle azioni delle forze
dell’ordine, ma che comunque era interessante da indagare.
Negli anni Sessanta a Torino, con l’allargamento della città verso le periferie si vennero a creare, in modo
particolare in alcuni isolati formati da sole case popolari, degli ambienti socialmente omogenei, abitati quasi
esclusivamente da immigrati interni e per lo più provenienti dal Sud Italia. I quartieri appena costruiti, specie
nei negli anni Sessanta, risultarono particolarmente isolati dal resto della città, anche per mancanza di
infrastrutture e collegamenti. E così questi pezzi di “città di edilizia pubblica” furono, nei decenni passati,
189
RAPPORTO SECONDGEN
per molti aspetti pezzi di “una città altra”. Un mosaico non ancora perfettamente riuscito, dove i quartieri più
periferici non apparivano pienamente integrati con il resto della struttura urbana.
In questi luoghi tantissimi ragazzi, figli della grande immigrazione interna, divennero adulti. È sembrato
quindi utile condurre la ricerca in questi spazi della città, per provare a capire in che modo i rapporti sociali e
le risorse offerte dal vicinato influenzarono le carriere dei loro giovani abitanti, in gran parte figli di
immigrati.
La vita in strada
Le strade del capoluogo piemontese negli anni Sessanta e Settanta pullulavano di ragazzi ed alcuni dati
descrivono bene il fenomeno: basti pensare che nelle scuole elementari di Torino si passò dai 48.725 iscritti
del biennio 1955/56 ai 91.805 iscritti del 1973/74 (Annuario statistico della città di Torino, ad annum). Una
buona parte di questi giovani erano figli della grande immigrazione interna, bambini nati altrove e trasferitisi
in tenera età (la cosiddetta generazione uno e mezzo) o nuovi torinesi già nati al Nord (le seconde
generazioni). L’alto numero di bambini e di adolescenti è una caratteristica comune di tutti i quartieri di
recente immigrazione. L’età degli immigrati è infatti generalmente situata nelle fasce di età più fertili: questo
fa sì che i nuovi arrivati mettano alla luce i figli nei primi anni del loro insediamento o portino con sé
bambini in tenera età dalla città o dal Paese di origine. Per tale motivo le città e i quartieri che ricevono un
numero consistente di immigrati vedono contemporaneamente aumentare il numero dei bambini;
l’immigrazione va a modificare la struttura di età locale. Anche a Torino tra il 1962 ed il 1973, invertendo
una secolare tendenza, si registrò un aumento della natalità (Musso, 2002: 47). Come si può notare dalla
tabella 1, analizzando i dati di censimento dal 1951 al 1981, la percentuale di ragazzi di età inferiore ai 14
anni sul totale della popolazione residente a Torino aumenta negli anni successivi al grande afflusso
migratorio, avvenuto a partire della fine degli anni Cinquanta.
Tabella 1. Minori di anni 14 sul totale delle popolazione residente a Torino al censimento del 1951,
1961, 1971, 1981. ( Fonte ISTAT)
Censimento 1951
Censimento 1961
Censimento 1971
Censimento 1981
Fino a 14 anni
105.420
166.421
242.676
201.499
Popolazione totale Percentuale
719.300
15%
1.025.822
16%
1.167.968
21%
1.117.154
18%
In quegli anni si cominciarono a vedere molti ragazzi sotto la Mole e in modo particolare nei quartieri di
edilizia pubblica, anche perché le famiglie numerose sono privilegiate nell’assegnazione di una casa
popolare. Le strade, le piazze ed i giardini sotto casa divennero i luoghi di interazione principale per diversi
ragazzi, che in strada iniziarono a costruire il loro mondo. Il ricordo di un giovane immigrato di allora ci
descrive molto bene questa realtà: “Io abitavo in via Roveda e nella mia scala c’erano più di sessanta
ragazzi, dopo pranzo si scendeva a giocare a pallone e c’era un tornado: uuuuuhhhh… Tutti ci si bussava:
dai, dai scendiamo. Nascono delle aiuole, tempo sei mesi non c’è più niente. Attila è passato! Si giocava,
non è che si guardava il verde e le cose. Erano solo aiuole invase da bambini che giocano in qualsiasi modo,
perché hai solo quello”.
In questi microcosmi abbastanza isolati, pezzi di una città “lontana” e privi di strutture ricreative e
aggregative, una delle poche vere alternative alla strada o al bar è rappresentata dalla parrocchia. Così nel
1972 si scrive su un giornalino parrocchiale: “Frotte di ragazzi sono lasciati indisturbati per ore e ore sulla
strada, ci rendiamo tutti conto come la strada non sia affatto maestra di virtù. Alcuni genitori, pochi in realtà,
hanno orientato i propri figli all’oratorio. Questo non risolve tutto il problema, sia perché le ore di oratorio
sono poche, sia perché lo spazio è ristretto” (Mirafiori Sud, 1972: 4). Nei quartieri di recente immigrazione i
ragazzi riescono a ricostruire, probabilmente molto prima dei loro genitori, delle dense reti di relazione con il
proprio gruppo di pari. In Borgo Cina – uno degli isolati di edilizia popolare a Torino - i ragazzi elaborano
addirittura un proprio linguaggio, un gergo. Vi sono delle caratteristiche morfosintattiche comuni ai vari
gerghi: una di queste caratteristiche è proprio la tecnica utilizzata dai ragazzi di Borgo Cina (un isolato di
edilizia popolare nella periferia sud di Torino): l’inversione delle sillabe o l’anagramma di parole (sia gergali
sia non gergali) (Sanga, 1993: 162). Ricorda Saverio: “Quando comincio a prendere possesso del corpo di
Borgo Cina cominciai a capire che quelli più vecchi parlavano strano, parlavano all’incontrario. Ad
190
RAPPORTO SECONDGEN
esempio, ciao come stai. “ocia meco ista”, cioè metà della parola all’incontrario ed eravamo diventati
bravissimi tutti a parlare così”. La tecnica consiste nel dividere le parole in sillabe: cia-o, co-me sta-i, e poi
ricomporre le stesse parole, ma invertendo le sillabe: cia-o = ocia, co-me = meco, sta-i = ista, anche se
possono esistere delle eccezioni. Come scrive Sanga, il gergo serve a farsi riconoscere: parli il nostro gergo?
Sei uno dei nostri. È interessante notare come la stessa tecnica di invertire le sillabe viene utilizzata nel
linguaggio “verlan”, usato oggi dai ragazzi nelle banlieue delle città francesi (Lepoutre, 2001). In alcuni
ambienti, quindi, si sviluppa una vita giovanile così intensa e autonoma dalla “società” adulta da generare un
linguaggio proprio.
L’autonomia dal mondo adulto e la mancanza di attività organizzate sono due costanti, che tornano
ripetutamente nei racconti degli abitanti di questi quartieri popolari negli anni Sessanta e Settanta. Lì molti
ragazzi passano buona parte della loro giornata in strada, la presenza degli adulti c’è, ma non è costante. Nei
quartieri di recente immigrazione il tessuto relazionale può risultare lacerato, soprattutto nella prima fase
dell’insediamento, perché la comunità adulta non ha ancora sviluppato quei legami necessari ad esercitare un
forte controllo sociale sui più giovani. Con le partenze, la parentela si divide; ed anche se spesso ci si
riunisce - attraverso le catene migratorie - non sempre la famiglia emigrata dispone delle risorse sociali ed
economiche necessarie ad assistere i più giovani durante tutto l’arco della giornata. Diversamente dal paese
di origine, dove spesso i ragazzi sono inseriti in legami a maglie strette e possono contare sul supporto di vari
gradi di parentela, nei quartieri di recente insediamento i giovani sono più indipendenti e questo favorisce la
formazione di una loro socialità separata: da una parte i ragazzi con il proprio mondo e dall’altra gli adulti.
Le migrazioni, anche se non annullano le reti di relazioni parentali e amicali, sicuramente, le modificano. I
più anziani difficilmente partono: viene quindi a mancare, tra le altre cose, il prezioso supporto dei nonni
nella cura dei figli. Come già notato da Norbert Elias e John Scotson, per i nuovi arrivati la relativa
mancanza di rapporti di vicinato stretti e di legami di parentela locali crea specifici problemi in quasi ogni
sfera della vita, in modo particolare nell’accudire e controllare i figli (Elias e Scotson, 2004).
E così può capitare che, tra i ragazzi che si autogestiscono la giornata senza la supervisione degli adulti, il
confine tra il lecito e l’illecito penale appaia molto vago e talvolta i giochi divengano dei veri atti di
vandalismo. Ricorda Toni: “Noi per divertimento si spaccava i vetri dei portoni, cazzatelle di tutti i
ragazzini. Partivamo scherzando e ridendo, dai facciamo gli scherzi? Mettevamo gli stuzzicadenti nei
campanelli, e dovevano scendere, e dietro i cespugli facevamo le pernacchie. Erano stupidaggini, per
ridere… Addirittura se dico che eravamo ragazzini qua e acchiappavamo i gatti e gli davamo fuoco, per
ridere. Era un modo per passare la giornata”.
Tra i ragazzi maschi che vivono la strada si sviluppa con facilità uno scetticismo nei confronti delle
istituzioni e nei confronti dell’istruzione; ciò è confermato indirettamente dal fatto che esiste spesso una
differenza di genere nei rendimenti scolastici delle seconde generazioni, con le figlie degli immigrati
generalmente avvantaggiate rispetto ai coetanei maschi, vantaggio forse ricollegabile ad un maggiore
controllo esercitato sulle ragazze, che vengono protette da un certo tipo di relazioni di strada (Ramella,
2013; Badino, 2012). Ci sono poi alcuni giovani che finiscono per sviluppare un vero risentimento verso la
scuola in quanto istituzione, che diviene così un simbolo da combattere, piuttosto che un luogo di
promozione del sapere (Willis, 1977). L’allora giudice di sorveglianza e per la rieducazione presso il
Tribunale dei Minorenni di Torino Graziana Calcagno, da me intervistata, ricorda: “Alla fine degli anni
Settanta, c’erano stati non pochi reati commessi ai danni degli istituti scolastici o addirittura ai danni degli
insegnanti. E interessante è la motivazione di questi comportamenti: erano ragazzi che avevano frequentato
quegli istituti e che si erano sentiti trattati male. O non capiti, castigati ingiustamente, bocciati
ingiustamente. Ingiustamente non perché il loro livello di preparazione avrebbe giustificato la promozione,
bocciati ingiustamente perché non capiti. Era una sorta di rivendicazione dei loro diritti, se non di vendetta,
per quelle che avevano percepito come ingiustizie, maltrattamenti.”
Il rifiuto di sottostare ad un qualche tipo di autorità si esprime, talvolta, con assalti alla proprietà privata; ma
questo rifiuto viene altresì manifestato con attacchi diretti a simboli concreti del sistema istituzionale stesso
(come la scuola) e con sfide ai rappresentanti di esso (insegnanti, polizia) (Emler e Reicher, 2000: 223).
Il frequentare la strada, piuttosto che attività organizzate e gestite da adulti, può però rivelarsi un fattore
negativo per la carriera professionale di un giovane (Lareau, 2011). Ben inteso, anche in strada si possono
apprendere delle competenze e dei codici comportamentali, ma questi sono meno funzionali al mondo della
scuola prima e del lavoro specializzato poi. Una delle regole della strada sembra essere quella di “farsi
rispettare”. Come scritto da Philippe Bourgois nella sua etnografia sul ghetto di East Harlem, i giovani dello
slum, aderendo orgogliosamente alla cultura di strada, vanno in cerca di un’alternativa alla marginalizzazione
sociale cui sono destinati (Bourgois, 2005: 156-157). Tutti temi che riemergono costantemente nei ricordi dei
191
RAPPORTO SECONDGEN
miei intervistati, come ricorda Gianni: “Quando arrivavano le giostre, c’era la rivalità perché venivano
anche ragazzi di altre zone. Si finiva a cazzottate. Però la cosa di bello era che erano solo mani, che poi
magari oggi ti menavi e domani diventavi amici. All’epoca ti potevi dare uno schiaffo, un pugno, il giorno
dopo eravamo di nuovo amici. Una volta… insomma hai vinto tu o ho vinto io, ti rispetto”.
I giovani ragazzi di quelle strade spesso però non si sentono rispettati al di fuori dell’ambito giovanile del
quartiere. Sembrano soffrire il fatto di provenire da una determinata zona della città, che nel tempo ha
acquisito una cattiva fama. Essere nato in un certo quartiere poteva divenire nel tempo uno stigma, capace di
influire negativamente anche sulle carriere professionali. Nei curricula spesso non veniva indicata la via di
residenza per paura di essere giudicati male dal possibile datore di lavoro. I ragazzi venivano quindi
giudicati, e in un certo senso loro stessi si giudicavano, secondo l’immagine negativa che la collettività aveva
affibbiato loro (Elias e Scotson, 2004). Ricorda Massimo, un mio intervistato: “C’era rabbia, perché tu ti
rendevi conto che eri diverso rispetto a quello che c’era oltre il quartiere. Cioè noi se camminavamo per
strada ci fermavano gli sbirri, come oggi fermano gli immigrati. Perché eravamo riconoscibili, come gli
albanesi, gli albanesi eravamo noi. Perché eravamo a volte vestiti male o vestiti bene in maniera pacchiana,
come chi ha il soldo ma non ha lo stile, oppure è eccessivo nel seguire la moda”. I ragazzi sembrano
percepire una distanza tra il proprio quartiere ed il resto della città ed è forse per questo che quando si recano
in centro dicono di recarsi “a Torino”, come se il loro quartiere non appartenesse alla città.
Si verifica però paradossalmente anche un meccanismo inverso: i luoghi ritenuti negativi dal resto della città
assumono valore positivo per i loro giovani abitanti. Lo stigma diviene emblema, come avviene anche oggi
con alcuni figli di immigrati sudamericani: in contesti dove essere latinos può rappresentare uno svantaggio,
i soggetti che ne sono portatori operano una trasformazione che acquista un significato positivo capace di
esprimere orgoglio (Cerbino e Rodriguez, 2010: 55 ).
I luoghi nei quali i ragazzi vivevano, seppur degradati e marginalizzati, erano rassicuranti perché
rappresentavano - in un gioco di specchi - l’intensa vita sociale dei ragazzi. E così i più giovani e i gruppi di
adolescenti spesso si identificavano con la propria zona di appartenenza. La città diviene così il terreno
dell’alterità, dove si sviluppano delle forti identità di quartiere. Microcosmi che corrispondono pressappoco
ad un isolato, a quattro vie che si intersecano in mezzo a grossi edifici popolari; luoghi non presenti nella
toponomastica ufficiale e spesso marginali, ma che assumono per i loro giovani abitanti un importante valore
identitario. Questi ragazzi si sentono in qualche modo diversi, hanno la percezione, forse confusa,
dell’esistenza di una società che tende ad escluderli, ma ritrovano nella solidarietà reciproca un modo per
affrontare la realtà. I giovani si uniscono, solidarizzano fra di loro, si organizzano, nascono dei gruppi ed
anche alcune bande che quasi sempre sono composte da ragazzi provenienti dalla stessa zona di residenza.
In una ricerca sul disagio giovanile a Torino nella metà degli anni Ottanta (Bajardi e Guglielminotti, 1987) si
stimarono, con una buona dose di approssimazione, 220 bande giovanili presenti in città. Secondo gli autori
alcuni di questi gruppi erano impegnati in azioni di piccola delinquenza come scippi e furti. Altri gruppi
avevano, semplicemente, un atteggiamento provocatorio e violento. Altri ancora erano principalmente
impegnati in atti vandalici, spesso contro le istituzioni. Non sappiamo con quale base scientifica sia stata
condotta questa indagine né se le bande mappate fossero dei veri gruppi organizzati dotati, ad esempio, di un
nome e di una struttura gerarchica o delle semplici aggregazioni di ragazzi; ma il dato ci dà comunque
un’indicazione di un fenomeno presente in quegli anni. Ricorda Antonio, un mio intervistato: “Non esisteva
la banda intesa come organizzazione capillare, con una divisione dei ruoli, era tutto molto anarcoide, non so
come dire. Le cose chiare erano che non ci si infamava, ci si aiutava, c’era un senso di appartenenza”. Si
pianificano piccoli o grandi atti delinquenziali: vengono chiamati “i lavori” e sono principalmente scippi e
furti d’auto. Le azioni vengono effettuate in piccoli gruppi di tre, al massimo cinque partecipanti, gruppi che
vengono chiamati dai ragazzi “batterie”. Ricorda ancora Antonio: “Le prime cose che abbiamo fatto è stato
scassinare i flipper, le macchinette, quelle cose lì. Oppure entravamo in una panetteria, distraevamo la
padrona e uno gli faceva la cassa. Poi gli appartamenti delle altre zone. E così prendevamo e che facciamo?
Andiamo a farci un appartamento? O andiamo a farci qualche stappo (in gergo rapina ndr)? Per comprarti i
vestiti, il motorino, avere i soldi in tasca da spendere così, andare a mangiare, andare al bar, ai
videogiochi”. Di conseguenza molti di questi giovani, prima di aver compiuto la maggiore età, iniziano ad
avere problemi con la legge.
I ragazzi del carcere minorile
I dati da me raccolti negli archivi del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino sembrano evidenziare una
correlazione quantitativa tra migrazione interna e criminalità minorile. Prima, però, di presentare i risultati
192
RAPPORTO SECONDGEN
ottenuti, è bene fare alcune considerazioni. La prima di tipo metodologico. Vengono infatti mosse varie
obiezioni alle ricerche sulla devianza basate sulle statistiche ufficiali: una è quella che questi dati non
tengono conto, ad esempio, di quei reati commessi da autori che sono più capaci di altri a nascondere il
comportamento tenuto (Ferraris, 2012: 36); un’altra obiezione è che le statistiche ufficiali forniscono più
informazioni sulla natura dell’amministrazione statale che definisce il reato penale, piuttosto che su coloro
che l’hanno commesso. Questi dati, cioè, non forniscono solo informazioni sulla criminalizzazione primaria
ma anche sulle modalità con cui viene esercitato il controllo sociale (criminalizzazione secondaria). Vi è
infatti l’idea che il sistema istituzionale non sia indifferente all’identità del colpevole del reato: i membri cioè
di certe categorie sociali sarebbero trattati con maggiore clemenza nelle indagini di polizia, nei processi e
nelle condanne loro comminate (Emler e Reicher, 2000: 100-01).
Non è naturalmente la sola discrezionalità di chi esercita il controllo ad influenzare risultati, ma è comunque
bene tenere presente che le statistiche ufficiali sono anche il risultato di determinate procedure
amministrative. Secondo queste considerazioni, quindi, la possibilità di sfuggire o meno alle pene della legge
può essere non solo influenzata dal tipo di reato che viene commesso, ma anche da altri fattori; chi ad
esempio passa molto tempo in strada ha più probabilità di essere sottoposto a controlli di polizia, la presenza
delle forze dell’ordine è più costante in alcune della città rispetto ad altre. E così - anche per questi motivi - i
ragazzi appartenenti ad alcuni ambienti sociali più svantaggiati hanno maggiori probabilità di essere presenti
nelle statistiche ufficiali sulla criminalità. Fatte queste doverose premesse, pensiamo sia comunque
interessante notare che in quegli anni a venire maggiormente in contatto con l’istituzione carceraria fossero
proprio i figli degli immigrati interni. I dati che sto per illustrare sono stati ricavati dagli archivi dell’Istituto
Penale per i Minori Ferrante Aporti di Torino dove sono stati registrati tutti gli ingressi nell’istituto di pena,
dal 1° gennaio al 31 dicembre 1979. I dati sono stati rilevati dai fascicoli dei ragazzi entrati nell’Istituto
durante questo intervallo di tempo.
Di norma in quell’anno entrano nell’Istituto di pena i soli ragazzi maschi arrestati in Piemonte o in Valle
D’Aosta. All’epoca, gran parte dei ragazzi varca le soglie del carcere a seguito di arresto operato dalle forze
di polizia in flagranza di reato, dunque prima dell’intervento di un magistrato. Le statistiche penitenziarie che
sto per presentare sono, dunque, differenti da analoghe statistiche italiane odierne, perché diversa era la
procedura penale1.
Ho scelto l’anno 1979 per due motivi: il primo perché in quell’anno molti dei figli degli immigrati interni da
me studiati hanno raggiunto l’età tra i quattordici e diciotto anni2; il secondo perché sono di quell’anno i
fascicoli più vecchi presenti nell’archivio del carcere. I dati che ho potuto ricavare da ciascun fascicolo sono:
la data e la città di nascita dell’arrestato, il luogo di residenza, il titolo di studio, il mestiere, la data di arresto
e di scarcerazione ed il reato per il quale il ragazzo è stato incarcerato. Inoltre, cosa importante, sono riuscito
a ricavare l’origine di uno dei due genitori. In molte fonti statistiche, spesso le seconde generazioni di
immigrati interni rimangono “nascoste” in quanto non è possibile risalire al luogo di nascita dei genitori:
tuttavia nei casi da me esaminati è stato possibile ottenere questo dato grazie ad un documento, presente
all’interno di ciascun fascicolo, in cui vengono riportati i dati anagrafici del genitore al quale è stato affidato
il minore rilasciato. Oltre a questi dati ricavabili per tutti gli arrestati, spesso dai fascicoli è stato passibile
desumere qualche informazione aggiuntiva sul ragazzo grazie ad altri documenti: il verbale di arresto delle
forze di polizia giudiziaria o il mandato di cattura del pubblico ministero, eventuali rapporti disciplinari,
talvolta una scheda biografica redatta dai servizi sociali e, nei casi più gravi, la sentenza di condanna.
Veniamo dunque all’analisi dei dati, cominciando col dire che il totale degli ingressi in quell’anno è di 621,
ricordando che, quando parliamo di ingressi, non ci riferiamo ai singoli individui, per cui un minore entrato
più volte nel corso dell’anno viene considerato tante volte quanto sono i suoi ingressi. Iniziamo col dire che
esiste una correlazione progressiva tra età e numero di ingressi. Con l’aumentare dell’età aumentano gli
ingressi e le fasce di età più presenti all’interno della struttura sono quelle relative ai sedici e ai diciassette
anni, le quali rappresentano il 66,5% degli ingressi totali. Al netto dei recidivi abbiamo 547 ragazzi entrati
nell’Istituto nel corso dell’anno, con 57 ragazzi che sommano più ingressi. La maggior parte dei recidivi
totalizza due ingressi nell’anno, anche se non mancano gli ingressi multipli: tra i casi limite segnaliamo un
ragazzo nomade iugoslavo che colleziona sei ingressi in un anno e due ragazzi italiani che ne collezionano
quattro. Non sappiamo invece se qualcuno degli arrestati nel 1979 sia già stato arrestato negli anni
precedenti.
1
In Italia il nuovo codice di procedura penale è entrato in vigore nel 1989.
Articolo 98 Codice Penale. È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici
anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita.
2
193
RAPPORTO SECONDGEN
Per tutti i dati che riportiamo nelle tabelle qui di seguito abbiamo sempre considerato una sola volta il
ragazzo che ha effettuato più ingressi in un anno ad eccezione della tabella sui reati.
Circa la residenza dei ragazzi, quasi la metà dei ragazzi arrestati proviene da Torino città (45%), dove
sembra concentrarsi maggiormente la devianza minorile, o dove questa viene più severamente sanzionata.
Ad incidere su questo dato ci potrebbe, infatti, essere un atteggiamento diverso da parte delle forze
dell’ordine in Torino città, rispetto alle realtà di paese.
A seguire, ai primi posti di questa classifica si collocano alcuni paesi della cintura torinese, dove molti
immigrati interni sono andati ad abitare. Segnalo, ad esempio, che i diciassette ragazzi di Settimo Torinese
sono tutti di origine meridionale. I ragazzi di Rivoli provengono invece quasi tutti da edifici di edilizia
popolare; la relazione dei servizi sociali su uno di loro dice: “Il ragazzo vive in un quartiere di case popolari
alla periferia di Rivoli, fuori da ogni contesto culturale e sociale, dove quotidianamente si verificano episodi
di devianza. Alla luce delle esperienze fatte dal minore si comprende come fosse quasi inevitabile il suo
inserimento in gruppi di giovani con tendenze devianti; gruppi che hanno avuto un ruolo quasi determinante
nell’avviarlo ad un certo tipo di vita da cui Vincenzo non riesce a sottrarsi da solo, seppure in un certo modo
si renda conto di dovere uscire”. Di un altro ragazzo di Rivoli i servizi sociali scrivono: “Un altro elemento
positivo è costituito senz’altro dal fatto che i genitori del minore sono arrivati alla decisione di tornare al loro
paese di origine per sottrarlo all’ambiente estremamente negativo in cui vivono adesso, un ambiente di
violenza e di abbandono sociale e culturale costituito da un agglomerato di case popolari alla periferia di
Rivoli, dove quotidianamente si verificano episodi di violenza”. L’invito a tornare al paese di origine torna
spesso nella letteratura, già negli anni Venti il celebre esponente della Scuola Sociologica di Chicago W. I.
Thomas riportava una sentenza, nella quale il giudice scriveva di una ragazza figlia di immigrati: “Penso che
ci siano scarse possibilità di adattarla ai costumi americani. […] Sento che il suo Paese è il posto migliore
per lei e che lì sarà molto più adatta a vivere una vita normale e dritta, con i vincoli della sua famiglia e delle
relative norme per aiutarla, che non qui.” (Thomas, 2012: 143 )
Quale era, invece, l’origine dei ragazzi arrestati e residenti a Torino?
Per stabilire l’origine regionale del ragazzo ho fatto riferimento alla regione di nascita di un genitore. Nel
caso in cui non sia stato possibile risalire all’origine del padre o della madre, pochi casi in percentuale,
abbiamo considerato la regione o la città di nascita del ragazzo.
Tabella 2. Origini dei ragazzi presenti nel carcere minorile Ferrante Aporti e residenti a Torino nel
1979.
Origine
Sud e isole
Torino e prov.
Piemonte
Nord - est
Altra origine
Totale
Numero
192
30
7
7
12
248
Percentuale
77,4 %
12,0 %
02,8%
02,8%
04,8%
Come si può vedere dalla tabella 2, il 77,4% dei ragazzi arrestati e residenti a Torino ha un’origine
meridionale. Bisogna inoltre tener presente che una buona parte di questi giovani è nata nel Sud Italia:
potrebbero essere le cosiddette “generazioni uno e mezzo”, ovvero nate in un luogo ed emigrate in un altro in
tenera età. È però anche possibile che molti di questi ragazzi siano solo nati in Meridione, nonostante
entrambi i genitori si fossero già trasferiti stabilmente al Nord. Esisteva, infatti, l’usanza da parte di molte
madri meridionali di andare a partorire nel paese d’origine per avere il supporto dei parenti o anche
semplicemente per ragioni affettive: “anche mio figlio è nato al mio paese”. Se sommiamo ai meridionali il
quasi 3% di ragazzi che hanno un’origine del Nord-Est, scopriamo che gran parte di questi ragazzi del
Ferrante Aporti hanno una storia migratoria di lungo raggio alle spalle. Di contro, i figli dei piemontesi
(Torino e provincia inclusa) rappresentano solo il 14,8% del totale. Bisogna tener presente che, al
censimento del 1981 e nella fascia di età 14-17 anni, i ragazzi di origine piemontesi tra i residenti a Torino
sono il 34,01%, mentre i meridionali (nati al Sud e Isole o nati a Torino da genitori meridionali) sono il
54,07% della popolazione. (Elaborazione su dati SLT - Studio Longitudinale Torinese per il censimento
1981). In termini di odds ratio, dunque, i figli di meridionali hanno 2,9 volte più probabilità di essere
incarcerati dei figli dei piemontesi.
194
RAPPORTO SECONDGEN
Tabella 3. Residenza in Torino per quartieri dei ragazzi arrestati nel 1979.
Quartiere
Numero
32
Le Vallette - Lucento
28
Barriera di Milano
27
Mirafiori Sud
23
Centro
19
San Paolo
18
San Salvario -Valentino
12
Barca Bertolla Regio Parco
12
Mirafiori Nord
10
Aurora Rossini Valdocco
10
Pozzo Strada
Crocetta - San Secondo - Santa Teresina 9
9
Parella
7
Lanzo - Madonna di Campagna
7
Vanchiglia - Vanchiglietta
6
Borgata Vittoria
6
Falchera - Rebaudengo
5
Campidoglio - San Donato
3
Millefonti - Nizza
3
Santa Rita
1
Lingotto - Mercati Generali
0
Borgo Po
0
Cenisia - Cit Turin
0
Madonna del Pilone
247
Totale
Con la tabella 3 vediamo invece in quali quartieri risiedano i ragazzi di Torino, arrestati. Come era
immaginabile, questi giovani provengono maggiormente dai quartieri periferici della città, abitati in
prevalenza da immigrati. Anche nel 1977 - due anni prima - i quartieri che davano più ragazzi al carcere
erano Vallette e Mirafiori Sud (il dato proviene da una ricerca condotta nello stesso anno presso il Tribunale
per i Minorenni di Torino. È bene, ancora una volta, ricordare che le cifre segnalano anche processi di
controllo da parte della polizia e più in generale delle autorità. Quindi non riflettono solo diversità di
comportamenti dei ragazzi, ma anche differenze nei comportamenti delle forze dell’ordine, che sono
probabilmente più presenti nei quartieri popolari. Inoltre molti di questi giovani sono più vulnerabili
all’eventualità dell’arresto, a causa della loro intensa vita di strada e del fatto di passare molto tempo fuori
casa e negli spazi pubblici. Anche a Milano i ragazzi entrati nel carcere minorile dal 1976 al 1980
provengono prevalentemente da quartieri popolari. Nel capoluogo lombardo le sette zone con il tasso più alto
di ingressi nell’Istituto Cesare Beccaria rientrano nelle zone a preminenza operaia - abitati in quegli anni
presumibilmente da molti immigrati interni - mentre tra le sette zone con i tassi inferiori se ne rinviene solo
una a preminenza operaia (Gatti - Fossa - Lagazzi - Verde, 1988: 49). A Genova nel 1973 è stato rivelato che
i quartieri ove il tasso di devianza giovanile è più alto sono quelli in cui si è verificata una più intensa
immigrazione interna. Ad esempio i quartieri del centro storico e di Cornigliano, particolarmente colpiti dal
problema del disadattamento e della delinquenza minorile, sono anche i due quartieri che si discostano in
modo rilevante dagli altri per l’alto numero di immigrati (Bandini e Gatti, 1979: 188).
Circa l’istruzione dei ragazzi risulta ampiamente documentata una relazione tra insuccesso scolastico e
criminalità minorile (Bandini - Gatti - Marugo - Verde, 1991: 445). I nostri dati lo confermano: un ragazzo
su tre ha raggiunto al massimo la licenza elementare e pochi hanno continuato dopo la scuola media.
Segnaliamo, inoltre, che alcuni dei ragazzi frequentanti le scuole superiori sono stati arrestati durante
manifestazioni di piazza o scioperi. Gli analfabeti sono invece praticamente tutti “nomadi” jugoslavi.
A conferma di quanto appena detto sopra, si nota che soltanto 50 ragazzi su 547 sono studenti al momento
dell’arresto. Più della metà di loro invece non studia e non lavora; non stupisce questo dato: infatti la
maggior parte delle ricerche empiriche svolte in questo campo rivela una relazione tra criminalità ufficiale e
disoccupazione. Sembra esistere una relazione di tipo circolare tra i due fattori: la disoccupazione induce alla
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RAPPORTO SECONDGEN
criminalità e questa conduce a sanzioni penali. A loro volta, queste ultime peggiorano l’inserimento nel
mercato del lavoro e favoriscono perciò la disoccupazione (Ivi, p. 453).
La stragrande maggioranza dei ragazzi nel 1979 entra nel carcere minorile di Torino a seguito di arresto
operato dalle forze di polizia; dopo pochi giorni vengono poi scarcerati con la concessione della libertà
provvisoria per scadenza dei termini, per perdono giudiziale o con una condanna, ma con il beneficio della
sospensione condizionale della pena.
Tabella 4 Reato dei ragazzi arrestati nel 1979 e presenti presso le carceri minorili Ferrante Aporti di
Torino e Cesare Beccaria di Milano.
Tipo di reato
Torino Milano
Contro la persona
Omicidio volontario
4
2
Omicidio tentato
2
2
Omicidio preter. e colposo
0
0
Lesioni personali
11
5
Altri reati contro la persona
3
12
Totale contro la persona
20
21
Contro il patrimonio
Furto
469
544
Rapina
64
87
Estorsione
10
5
Sequestro di persona
1
0
Danneggiamento
1
6
Ricettazione
12
36
Altri reati contro il patrimonio
3
1
Totale contro il patrimonio
560
679
Reati sessuali
Violenza carnale
6
0
Atti di libidine
0
0
Atti osceni
0
0
Altri reati sessuali
0
0
Totale reati sessuali
6
0
Altri reati
13
14
Violenza res.oltraggio p.u.
0
0
Altri contro p.a.
7
6
Stupefacenti
46
45
Detenzione armi
0
0
Contro pers. Stato
1
0
Contro amm. Giustizia
0
0
Contro incolumita' pubblica
1
0
Contro la fede pubblica
0
0
Contro l'economia pubblica
0
0
Contrabbando
3
4
Associazione a delinquere
0
0
Altri contro l'ordine pubblico
0
13
Altri
771
668
Totale
Nella tabella 4 possiamo vedere i reati commessi dai ragazzi reclusi nel carcere Ferrante Aporti di Torino; il
numero totale dei reati è superiore agli ingressi, perché ci sono giovani arrestati per aver commesso più reati
contemporaneamente. I reati vengono generalmente commessi in concorso fra due o più minori e talvolta
anche con maggiorenni. Come si può vedere, il reato di gran lunga più comune è il furto: in modo particolare
sembra essere molto diffuso il furto d’auto e il furto su auto (autoradio, ruote di scorta, pezzi d’auto).
Numerosi sono anche i furti di motocicli, a seguire vengono gli scippi e i borseggi. Si finisce per essere
arrestati anche per furti di poco valore: segnaliamo i casi di un arresto per il furto di un cappotto da un’auto e
di un gruppo di ragazzi arrestati per aver sottratto alcuni gettoni da un autoscontro. Il furto in appartamento è
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RAPPORTO SECONDGEN
commesso quasi esclusivamente dai giovani iugoslavi senza fissa dimora; è curioso notare come i pochi
italiani a commettere questo tipo di reato siano i ragazzi di via Artom. Il numero di rapine è invece
nettamente inferiore rispetto ai furti: questo potrebbe essere dovuto all’età dei ragazzi (la rapina richiede
quasi sempre uno scontro fisico violento) ed al fatto che le rapine portano maggiori sanzioni sia da parte del
vicinato sia da parte della giustizia. Il terzo reato più diffuso è quello della detenzione di armi: si tratta
generalmente di coltelli anche se non mancano le armi da fuoco. Segnaliamo che 10 dei 13 reati alla voce
“altri” sono di guida senza patente: gli esecutori sono quasi sempre ragazzi sorpresi in flagranza alla guida di
auto appena rubate.
Abbiamo voluto, infine, comparare i reati commessi dai ragazzi detenuti presso il carcere minorile di Torino
con quelli dei ragazzi detenuti nello stesso anno presso il carcere minorile di Milano. Come si può constatare,
sia il numero sia il tipo di reati commessi è molto simile. [Per un’analisi dei dati milanesi si rimanda a (Gatti
- Fossa - Lagazzi - Verde, 1988)].
Riassumendo, i ragazzi entrati all’interno del carcere minorile nel 1979 di Torino hanno in prevalenza
un’origine meridionale ed una età compresa fra i sedici e i diciassette anni. Sono di gran lunga più numerosi i
reati contro il patrimonio, in particolare i furti d’auto e i furti su auto. I ragazzi hanno in maggioranza un
basso tasso di scolarità e sono disoccupati. La città di Torino è quella con il tasso di ingressi più alto rispetto
al resto delle città della regione. Nel capoluogo piemontese, i quartieri con un numero maggiore di minori
arrestati sono in prevalenza quelli periferici, con ampie zone di edilizia pubblica.
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RAPPORTO SECONDGEN
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198
RAPPORTO SECONDGEN
RAPPORTO SECONDGEN
Anatomia di un contesto “deviante”: reti e carriere di Fahmi e dei suoi amici
Silvia Caristia
Nel tentativo di indagare la collocazione sociale, le carriere scolastiche e lavorative dei figli degli
immigrati in Piemonte, si è voluto dare spazio anche alla comprensione dei meccanismi sociali che
potrebbero influire su percorsi devianti. Per pratiche devianti si intendono comportamenti, azioni e
modalità d’interazioni che deviano dalle norme, dai valori e dagli atteggiamenti dell’ordine sociale
dominante (Matza e Sykes, 1961) e per questo sono condannate (legalmente e/o socialmente): il consumo
e di sostanze legali e illegali, i furti, le rapine, lo spaccio di sostanze, l’uso della violenza89. In questa sede,
si vogliono presentare le storie di figli di immigrati coinvolti in attività illegali cercando di evidenziare il
ruolo del capitale sociale nella società di arrivo nel plasmare stili di vita paralleli e non accettati come
“normali percorsi d’integrazione”.
È interesse dimostrare che non sia tanto l’origine sociale o etnico-nazionale della famiglia ad influenzare
le carriere e i percorsi di integrazione e mobilità sociale. Piuttosto sembrano essere fondamentali le
relazioni sociali in cui le famiglie si inseriscono all’arrivo e quelle che i giovani costruiscono durante la
scuola dell’obbligo, ovvero prima di scegliere se accedere al mercato del lavoro o continuare con un
percorso scolastico in vista di progetti futuri “più ambiziosi”. Si è cercato, quindi, di capire come la rete
sociale in cui si inseriscono i figli degli immigrati influenzi e plasmi le loro carriere scolastiche e
lavorative, il tempo libero e la scelta dei luoghi di socialità, le pratiche e, infine, le stesse interazioni
sociali quotidiane e future.
Note metodologiche
La raccolta delle informazioni e delle storie dei giovani è avvenuta attraverso un approccio non-standard,
utilizzando l’osservazione partecipante come principale strumento di studio della realtà. Al fine di poter
conoscere giovani di seconda generazione non inseriti in circuiti ricreativi, culturali, educativi e sportivi
istituzionali e con percorsi di vita “devianti” è stato contattato Fahmi90, un giovane marocchino conosciuto
anni prima in occasione di una precedente ricerca etnografica sugli adolescenti di Barriera di Milano91, un
quartiere storicamente operaio di Torino. Fahmi ha dato immediatamente la sua disponibilità nella ricerca
di suoi pari che potessero rispondere alle finalità previste dal progetto di ricerca, amici e conoscenti di
seconda generazione che frequentano il giardino dove lui passa gran parte del suo tempo libero nelle
giornate di sole. L’osservazione ha inizio a settembre 2012 ed è stata conclusa a settembre 2013; gran
parte del materiale è stato raccolto in modo sistematico tra maggio e settembre 2013.
Fahmi, durante questi mesi, è stato fondamentale come mediatore con i potenziali informatori. Lui, infatti,
ha occupato un ruolo fondamentale nel mediare l’entrata nel campo e nella costruzione del rapporto di
fiducia con i giovani d’interesse. Sono stati due gli ostacoli più grandi incontrati: il tempo necessario per
la costruzione del rapporto di fiducia e il “genere dell’osservatore”. Ovviamente il processo di costruzione
della fiducia ha i suoi tempi, spesso molto dilatati quando si parla di attori “devianti” o semplicemente
“svantaggiati” socialmente e/o giuridicamente92. La fiducia è stata costruita: attraverso pratiche
riconducibili all’osservazione partecipante; rendendo “scoperta” l’identità e il ruolo professionale
ricoperto dall’osservatore; attivando un atteggiamento empatico e normalizzante delle pratiche sociali
devianti messe da loro in atto.
Un altro ostacolo imponente è legato al genere dell’osservatore: essere una giovane donna sola che cerca
di raccogliere storie di vita in uno spazio fisico (la strada) e sociale (il contesto deviante) non
culturalmente e socialmente abitato dal genere femminile. Questo ha rallentando la raccolta delle
89
Tale definizione è adottata nel testo per il concetto di devianza o di pratiche devianti.
Tutti i nomi degli informatori, giovani e non, incontrati sono nomi di fantasia.
91
Si rimanda al progetto di ricerca “Street Monkeys” svolto con la collaborazione del Dipartimento dell’Asl TO2 e
dell’Associazione Gruppo Abele onlus (Centro Studi, Documentazione e Ricerche e educativa di strada che opera nel
quartiere Barriera di Milano).
92
La fatica più grossa è stata quella di convincerli di non essere una poliziotta. In molti di loro la paura del controllo
delle forze dell'ordine non è legata solo al fatto di essere "attori devianti" ma anche alla condizione di immigrato. Una
condizione a volte denigrata dalle pratiche messe in atto dalle istituzioni deputate al controllo e al mantenimento dell'
"ordine". Questo accade anche a giovani regolarmente presenti in Italia e che non attivano pratiche devianti, ma in virtù
dell’ origine straniera e della loro frequenza abituale di alcuni luoghi noti come “luoghi dello spaccio e della microcriminalità” (Dal Lago e Quadrelli, 2003; Queirolo Palmas e Torre, 2005).
90
RAPPORTO SECONDGEN
informazioni soprattutto nei primi momenti di osservazione, avvenuti inizialmente solo in presenza di
Fahmi. Tuttavia, l’essere una donna sola non vista prima ha permesso di avvicinare questi giovani con
molta facilità, anche con atteggiamenti tipici del corteggiamento adolescenziale (spesso erano loro che
rivolgevano per primi la parola), sebbene molti sparissero senza “lasciare traccia”93 una volta compresi i
fini professionali e non “sentimentali” della presenza sul campo.
La raccolta delle informazioni è avvenuta partecipando alle loro discussioni, a volte stimolandole e altre
volte assecondandole. Si è sempre tentato di rispettare la loro tendenza ad alternare l'uso dell'italiano e
della lingua di origine come fosse una sola lingua, chiedendo una traduzione senza essere eccessivamente
intrusivi e rispettando anche la volontà di escludere la ricercatrice da alcune conversazioni. La maggior
parte delle informazioni sono state raccolte informalmente attraverso colloqui collettivi e individuali per lo
più dettati dal caso (incontrare uno di loro da solo che è uscito di casa prima dell'appuntamento con gli
amici, ad esempio). Tuttavia, anche quando è stata accettata l'intervista, difficilmente questa è stata
registrata, così come difficilmente sono state raccolte informazioni sulle pratiche devianti in questi
momenti di colloquio formale. Chi ha accettato di fare l'intervista spesso ha accettato in virtù
dell'anonimato e dopo essere stato assicurato di non finire in prima pagina sulla stampa94, ma anche grazie
alla solidarietà che questi giovani hanno nei confronti dei figli degli immigrati ora più giovani di loro o per
la possibilità di raccontare finalmente agli italiani come loro stanno vivendo qui in Italia.
Marocchini, ma non solo
I giovani che si sono raccontati durante l’osservazione sul campo non sono nati in Italia da genitori
stranieri, ma giunti qui tra i 7 e i 13 anni tramite ricongiungimento familiare. Nonostante non si possa
propriamente parlare di seconde generazioni, sono tuttavia giovani arrivati durante la scuola dell’obbligo e
che hanno subito, più che scelto e condiviso, il progetto migratorio iniziale dei genitori. Al momento
dell’osservazione alcuni di loro hanno dato vita a progetti migratori distinti e diversi da quelli che li hanno
portati in Italia, restando momentaneamente a Torino da soli o con i fratelli mentre i genitori sono tornati
al paese di origine, e progettando a volte il proprio futuro in altri paesi europei. Di seguito presento i veri
protagonisti della ricerca.
I giovani di seconda generazione incontrati e conosciuti durante l’osservazione sono per lo più di origine
marocchina, maschi, tra i 14 e i 30 anni. Tra i più e meno giovani di origine straniera incontrati presso il
“giardino di Fahmi”95, quelli nati in Italia da genitori immigrati sono adolescenti o bambini con meno di
18 anni. Per questo motivo non si sono raccolte informazioni direttamente su di loro. Trascorrere diversi
pomeriggi presso il Giardino anche senza la presenza e la mediazione di Fahmi ha permesso di conoscere
e parlare anche con adulti e giovani adulti, magrebini e dell’Africa sub-sahariana, che lo abitano
quotidianamente. I risultati di ricerca di seguito presentati si rifanno per lo più ai racconti di sei giovani
dei quali sono state raccolte informazioni durante i colloqui informali e attraverso interviste semistrutturate. Le informazioni raccolte da altri abitanti del Giardino, di seconda o prima generazione, sono
usate per delineare con più precisione il contesto sociale di vita dei protagonisti e per comprendere le loro
carriere.
Fahmi ha 20 anni, è nato in Marocco dove ha vissuto con sua mamma e i suoi due fratelli fino all’età di 13
anni. In Italia è arrivato con il ricongiungimento familiare richiesto dal padre, a Torino da diversi anni.
Ho venti anni sono nato in Marocco a *** [città di 172.000 abitanti] e sono rimasto lì fino a 13 anni. Era venuto mio
padre qua che ha fatto il carico familiare. A dire la verità non pensavo di venire qua, non avevo mai… hm, non ho
mai sognato di venire in Italia! Quando sono arrivato, ho iniziato la seconda media [...] Non so, io stavo studiando in
Marocco tranquillamente e solo che mio padre non gli piaceva la situazione che eravamo lontani da lui, ci chiamava
solo per telefono, si sentiva solo e visto che lui era qui ha fatto il ricongiungimento familiare e siamo venuti [Fahmi,
20 anni].
93
Sono molti i giovani che hanno dato subito la disponibilità all’intervista ma poi pochi quelli che hanno realmente
speso parte del loro tempo libero raccontando la loro storia.
94
Esclusa l’ipotesi della “poliziotta in borghese”, la paura di raccontare la propria storia alla stampa emerge quando si
comincia ad indagare sulla disponibilità all’intervista. Il fatto che questo emerga solo tra chi ha raccontato
esplicitamente di aver attivato pratiche devianti porta a pensare che anche il giornalista sia evitato per tutelare
l’“invisibilità” delle pratiche stesse.
95
Il nome del giardino è celato per la tutela e il rispetto della privacy dei suoi abituali frequentatori e per evitare
processi ulteriori di stigmatizzazione di chi lo “abita”. Da qui in avanti sarà nominato “Giardino”.
RAPPORTO SECONDGEN
Il padre aveva lasciato il Marocco quando Fahmi era molto piccolo e i ricordi sul padre prima dell’arrivo
in Italia sono legati a quei brevi periodi di vacanza quando tornava a casa. I genitori non hanno studiato
nel paese di origine, il padre ha frequentato le 150 ore a Torino per prendere la licenza media, mentre la
madre continua a non sapere né leggere né scrivere. Il padre in Marocco era muratore, mestiere che ha
continuato come lavoratore dipendente in Italia, mentre la madre ha sempre fatto la casalinga, anche a
Torino. Durante l’estate del 2013, Fahmi racconta che i genitori sono tornati in Marocco definitivamente:
il padre ha deciso di aprire un locale nel paese di origine e tornare a “casa” con la moglie. Al momento del
primo contatto con Fahmi, settembre 2012, i suoi genitori erano ancora a Torino e la famiglia viveva in un
appartamento nei pressi di corso Giulio Cesare96, dove ora Fahmi vive con la sorella e il fratello. La
sorella, di un anno più grande e con la qualifica da aiuto cuoco, lavora in modo saltuario anche in settori
non coerenti con il suo titolo di studio; il fratello di un anno più piccolo, ha preso una qualifica presso
l’Enaip e ancora nell’estate 2013 era l’unico che stava lavorando presso un’azienda torinese97. Al
momento dell’intervista Fahmi, avendo la qualifica da operatore elettrico (CAD), stava per iniziare il
quinto anno per prendere il diploma e diventare un tecnico. Nell’estate del 2013 Fahmi si è diplomato e
dopo qualche mese di ricerca (novembre 2013) è stato preso con un contratto di tirocinio presso
un’azienda che si occupa di installare cavi della rete ADSL.
Un amico di Fahmi incontrato diverse volte durante l’osservazione è Mufeed, anche lui nato in Marocco.
Mufeed ha più volte rifiutato l’intervista e quindi molte informazioni sono state raccolte durante i colloqui
informali di gruppo a cui lui partecipava. Un giorno, Mufeed decide di raccontarmi la sua storia:
mi chiamo Mufeed, ho quasi 20 anni, li compio a dicembre, sono arrivato in Italia a Torino nel 2006 con mia mamma
e mio fratello, il secondo, raggiungendo mio padre. Ho tre fratelli, due maschi e una femmina, gli ultimi due sono
gemelli e sono nati qui in Italia. Mio padre è venuto in Italia nei primi anni ‘90, è stato un paio d’anni poi è tornato in
Marocco, ha sposato mia madre e sono nato io e poi mio fratello. Mio padre in Marocco aveva un bar, andava anche
bene sai? Il problema è che lui spendeva quasi tutti i soldi nell’alcol, aveva il problema del bere e questo ci ha messo
un po’ in difficoltà. Visto che il bar andava bene, un giorno si è messo in società con mio zio, suo fratello che era
sposato con la sorella di mia madre. Allora andava mio zio a lavorare nel bar insieme a mio padre, ma lui beveva e
aveva le mani bucate, spendeva tutti i soldi, così ha deciso di partire per venire in Italia. […] Mio padre ogni tanto
tornava in Marocco ma lo vedevamo poco, finché siamo riusciti a venire qui anche noi. Io avevo 13 anni, mi sembra
[…] Quando sono arrivato mi hanno iscritto alla scuola qui [indica la scuola media affianco al Giardino], ho fatto le
medie, ho preso la licenza […] Ora sto ancora andando a scuola, quest’anno devo prendere la qualifica come tecnico
meccanico [Mufeed, 20 anni].
Ziyad si è avvicinato il giorno che sono riuscita a raccogliere la storia di Mufeed. Ziyad è nato in
Marocco, ha 22 anni ed è a Torino da quando ne aveva 11 anni. Ziyad è un ragazzo chiacchierone,
simpatico, molto intelligente, parla molto bene l’italiano senza accento straniero, non sembra marocchino,
una caratteristica che sottolinea anche lui quando parla dei colloqui di lavoro. Ha il diploma da perito
meccanico. Nell’estate 2013 Ziyad dice di essere disoccupato.
Abed è un altro amico di Fahmi che non appena viene a sapere della ricerca si mette subito a disposizione.
Impressionò la sua voglia di aiutare. Come con altri giovani, Abed alla fine accetta l’intervista formale
grazie all’insistenza di Fahmi, anche se molte informazioni sono state raccolte durante colloqui
“spontanei” di gruppo, come se la presenza degli altri lo mettesse più a suo agio. Lui stesso ha detto di
essere un ragazzo riservato, che fatica a parlare in confidenza sulla sua vita privata anche con chi
considera amici. Abed non ha voluto parlare di suo padre e ha esplicitato il fastidio che gli crea parlare
della sua famiglia.
Mi chiamo Abed, ho 19 anni, sono nato in Marocco, sono venuto qui in Italia… mi ha portato mia madre quando
avevo 9 anni. Siamo venuti qua perché c’era mio zio, il fratello di mia madre, ho due fratelli che ora stanno in
Marocco, sono più piccoli, uno di 4 anni e uno di 8 anni. In questo momento vivo da solo, mia mamma non sta più
qua, ora è in Marocco con i miei fratelli. Mia mamma è venuta qua prima, mi sembra nel 1999, nel ‘98, sì credo di sì.
Quando poi sono venuto io nel 2003, lei lavorava in una fabbrica di biciclette. Lei è venuta qualche anno prima e poi
mi ha portato anche a me, io ero rimasto in Marocco con i nonni. Lei non è venuta subito a Torino ma a Milano, mio
zio sta lì, in una città in provincia di Milano, mio zio stava lì prima di mia madre. Siamo arrivati qui a Torino,
96
Indicazione molto approssimativa per la tutela e il rispetto della privacy.
Secondo il racconto di Fahmi, è riuscito ad entrare in questa azienda attraverso lo stage curriculare svolto prima di
prendere la qualifica. Attualmente ha un contratto di lavoro sempre nell’azienda.
97
RAPPORTO SECONDGEN
abbiamo cambiato casa perché mia mamma aveva perso l’altro lavoro e ne aveva trovato un altro a Torino… qui a
Torino lavorava per un’impresa di pulizie, c’erano degli amici di mio zio che stavano qui e hanno detto che qui c’era
un’impresa di pulizie che cercava donne per lavorare e siamo venuti cinque anni fa mi sembra… più o meno cinque,
sei anni. I miei fratelli, tutti e due, sono nati qua [Abed, 19 anni].
Abed è arrivato a Milano ed è stato subito inserito nella seconda elementare, anche se aveva già
frequentato quella classe in Marocco. Finite le elementari, sua mamma ha trovato lavoro a Torino e sono
andati a vivere a pochi passi dal giardino, ha frequentato la scuola media del quartiere e dopo un percorso
scolastico tortuoso durato circa tre anni durante il quale ha cambiato due scuole professionali, ha preso un
attestato di frequenza del primo anno da elettricista. Al momento dell’intervista Abed dice di essere
disoccupato da due anni.
Rajab è un ragazzo di origine tunisina conosciuto tramite Fahmi in un giardino vicino, nei pressi di corso
Vercelli, dove Fahmi è solito recarsi per comprare la marijuana da fumare “dai boss negri della zona”
[Fahmi], ovvero da giovani adulti e adulti provenienti dall’Africa sub-sahariana dai quali si rifornisce per i
suoi consumi personali e non solo. Anche Rajab è un abituale frequentatore del Giardino.
Sono Rajab, ho 18 anni, sono nato in Tunisia. Mio padre è qui in Italia da circa venticinque anni, è venuto subito a
Torino, qui c’erano due suoi fratelli che lavoravano. Io sono arrivato otto anni fa, avevo dieci anni, sono arrivato
tramite ricongiungimento familiare. Quattro anni prima del mio arrivo in Italia, mio padre era riuscito a far venire qui
mia madre e i miei due fratelli, quello più grande di 20 anni e quello più piccolo di 14. Io sono rimasto quattro anni
in Tunisia con mia nonna, lì ho terminato la scuola elementare e poi sono venuto qui [Rajab, 18 anni].
Rajab ha fatto la scuola media a Torino e, al momento dell’intervista, aveva appena conseguito la qualifica
da elettricista. Racconta di non aver più voglia di studiare e per questo di aver deciso di non prendere il
diploma: vuole cominciare a cercare lavoro.
Altri giovani magrebini di seconda generazione incontrati durante l’osservazione, dei quali tuttavia non si
hanno complete informazioni personali, hanno caratteristiche biografiche simili: ricongiunti al padre con
la madre e i fratelli in tarda infanzia/prima adolescenza, riorganizzazione della famiglia attraverso la
migrazione, venuti ad abitare in una zona di Torino dove gli affitti sono accessibili (tra Porta Palazzo e il
quartiere di Barriera di Milano), i genitori spesso hanno poca istruzione e a Torino si inseriscono nel
settore dei lavori manuali non qualificati o semi-qualificati. Inoltre, la maggior parte di loro ha conseguito
la licenza media a Torino nella scuola del quartiere che spesso coincide con quella che si affaccia sul
Giardino. Qualcuno di questi ha interrotto gli studi senza conseguire il diploma o la qualifica (pochi non
hanno conseguito nemmeno la licenza media) e tutti si stanno inserendo nel mercato del lavoro in modo
precario, con difficoltà e spesso accumulando brevi esperienze in diversi settori manuali non qualificati
(magazziniere, ristorazione, volantinaggio, edilizia) che non sempre coincidono con il titolo di studio
professionale conseguito. Nessuno per ora si è inserito in modo stabile nel mercato del lavoro.
Spazi fisici e sociali quotidiani: “il giardino e il quartiere sono casa mia”
Il Giardino, conosciuto in altre zone limitrofe come “il giardino dei marocchini”, è un enorme piazzale
cementificato e incorniciato da alberi lungo tutto il suo perimetro che si situa immediatamente oltre il
confine sud-est del quartiere Barriera di Milano, a pochi passi da Porta Palazzo, a Torino. È abitato
quotidianamente da differenti gruppi di popolazione che si danno il cambio o convivono più o meno
pacificamente in base alle ore della giornata e alle condizioni metereologiche. Al mattino, nel periodo
scolastico e nelle giornate fredde, il giardino è abitualmente frequentato da adulti e giovani adulti
magrebini e dell’Africa sub-sahariana disoccupati, non sempre regolari e, a volte, impegnati in attività di
spaccio. Nelle prime ore pomeridiane, molto meno nei mesi invernali, la popolazione cresce e si
diversifica per poi tornare ad essere luogo privilegiato di aggregazione e di attività illegali nelle ore serali,
anche se queste non si fermano durante le ore centrali del giorno.
Le diverse popolazioni che vivono il Giardino danno vita a gruppi più o meno numerosi, flessibili e
distinti sulla base dell’età, del sesso e dell’origine nazionale Ogni gruppo occupa quotidianamente un
preciso spazio andando a sedersi quasi sempre sulle stesse panchine. Il Giardino si estende come un
enorme rettangolo: in una prima metà vi è un parco giochi per bambini recintato che si situa al centro,
nella seconda metà un grosso spiazzale di cemento con panchine ogni due, tre metri. Lungo tutto il suo
perimetro vi sono altre panchine ogni cinque metri circa, intervallate da grandi alberi, e un passaggio che
costeggia il suo perimetro, usato dagli abitanti della zona che portano a passeggio i propri cani.
RAPPORTO SECONDGEN
Il parco giochi è occupato, soprattutto nei periodi primaverili ed estivi, dalle mamme italiane e straniere
con i propri bambini. Sul lato opposto, vi sono le panchine solitamente occupate da giovani e adulti
dell’Africa sub-sahariana, quelle occupate da adulti magrebini, quelle del gruppo dei giovani marocchini
tra i 20 e i 30 anni circa (anche di seconda generazione), quelle del gruppo dei marocchini di seconda
generazione più piccoli, quelle solitamente occupate da anziani pensionati italiani. Le panchine poste sul
lato del parco giochi sono occupate da popolazioni differenti: a volte dalle mamme che accompagnano i
figli o da qualche spacciatore “solitario”.
Diario etnografico: 7 marzo 2013, ore 14.30
Faccio un giro dei giardini e dell’isolato, fuori per strada ci sono solo giovani per lo più magrebini, qualche giovane
dell’Africa sub-sahariana seduto sulle solite panchine vicino alla scuola, qualche mamma e un gruppetto di giovani
(penso rumeni) al parco giochi con i bambini, qualche anziano che passeggia e scambia due chiacchiere. Dal lato
della scuola ma dalla parte opposta al gruppo degli africani, tre adulti, sembra del nord Africa, con aria malandata.
Mi siedo su una panchina vicino al parco giochi, apro il mio libro e leggo mentre aspetto. Verso le 15.00 arrivano un
gruppetto di adolescenti italiani e marocchini di 13 anni circa che cominciano a giocare a pallone usando come porta
proprio quei due alberi davanti a me… io li guardo e sapendo di essere presto vittima dello sbaglio del portiere, mi
sposto più in là.
Lo spazio pubblico di questo giardino urbano ospita gruppi di popolazioni differenti che ne fanno un uso
sociale diverso a seconda dei propri interessi. I bambini lo vivono come gioco, le mamme come luogo di
socializzazione e di divertimento per i figli, gli adolescenti e i pensionati come luogo di aggregazione e
socializzazione, qualche giovane e giovane-adulto come luogo di affari e, in generale, gli abitanti della
zona come luogo di passaggio o di passeggio. Il dover condividere lo stesso spazio con chi dà a questo un
diverso significato, può portare a conflitti più o meno manifesti. Dall’osservazione sono emersi due tipi di
conflitti spesso letti dai giovani incontrati in termini di conflitti etnico-nazionali; tuttavia, entrambi sono
conflitti che nascono per usi differenti dello stesso spazio pubblico.
Diario etnografico: 26 marzo 2013, ore 14.00
Sono le 14.00 circa, faccio un giro per i giardini. Non c’è nessuno, vuoti. Mi incammino verso corso Giulio e vado
verso il famoso bar della cinese. All’angolo mi fermano due giovani magrebini che mi chiedono se ho una sigaretta.
Gli dico che fumo tabacco e se vogliono gliene avrei lasciato un po’. Loro accettano e mi chiedono anche se volessi
comprare dell’hashish. Gli ringrazio e gli dico di no… e uno di loro “e… con questa crisi si smette di fumare!” e
l’altro “ma fuma tabacco!” e il primo “sì ma costa meno!” io sorrido, lascio loro tutto il pacchetto di tabacco che
stava finendo, ci saranno state due sigarette dentro. Loro me lo ridanno dicendo che son gentile ma di tenermelo dato
che era alla fine. Io gli dico “nessun problema, ne sto andando a comprare un altro”. Entro in tabaccheria e poi vado
verso il bar, entro per un caffè ma ci sono solo adulti. Prendo un caffè ed esco un po’ triste.
Mi incammino verso i giardini dove avevo lasciato la macchina ed ecco che su una panchina incontro i due
magrebini di prima che si erano appena girati una grossa e ricca canna. Hanno difficoltà ad accendere, così ridendo
gli dico “avete bisogno anche dell’accendino?” “sì grazie!”… glielo porgo, accendono e me lo ridanno. Mi invitano a
sedermi lì con loro. Io mi siedo e comincio a scambiare due parole con loro. Dicono di essere egiziani, non
marocchini e sembra che ne vadano fieri perché dicono che qui i marocchini hanno una brutta reputazione, anche se i
cattivi si trovano in tutto il mondo. Sono in Italia da un anno, sono disoccupati adesso anche se uno fa il muratore e
l’altro il decoratore. Il problema è che nel periodo invernale non lavorano perché, a causa del freddo, c’è meno
lavoro. Così cercano di vivere spacciando un po’ di hashish, facendo i commercianti al dettaglio.
Diario etnografico: 9 maggio 2013, ore 16.30
Arrivo ai giardini alle 16.30, faccio un giro veloce e noto che ci sono sempre i soliti tre uomini adulti magrebini
seduti sulla solita panca e due giovani più giovani, sempre magrebini, seduti su una panca vicina. Non li avevo visti
prima. Mi incammino in direzione del parco giochi, finalmente pieno di vita: questa bella giornata di sole ha
permesso ai più piccini di passare qualche ora all’aperto, mentre le loro mamme chiacchierano tra di loro e vigilano
sui figli. Inoltre, non mancano i soliti padroni dei cani della zona che passeggiano lungo il perimetro dello spazio
“verde” (per essere un giardino urbano, a mio parere c’è troppo cemento e poco verde, tipico degli spazi verdi nelle
zone periferiche della città) con i loro “fedeli compagni”. Vicino al parco giochi, su una panchina vi è un gruppetto
di quattro/cinque adolescenti che avranno 12/13 anni, mentre su un’altra panchina due giovani magrebini, uno di
circa 40 anni, l’altro sicuramente ventenne […] il più giovane mi chiede una sigaretta, io rispondo che ho il tabacco e
lui accetta dicendo “va benissimo anche il tabacco!”. Mentre gli passo il tabacco, l’uomo seduto accanto a lui, un
magrebino sui 40 anni e più, tira la mano fuori dalla tasca e mi fa vedere un 5 g circa di hashish “Ne vuoi?” mi
chiede, “No, grazie!” rispondo io. Mette l’hashish in tasca e mi chiede se può farsi anche lui una sigaretta “Certo!”
gli dico sorridendo, “oggi offri tu, domani ti offriamo qualcosa noi! Ma siediti un po’ qua!” mi dice il più giovane.
RAPPORTO SECONDGEN
Il primo conflitto è quello che nasce tra anziani e giovani adolescenti. Il fatto che i confini intergenerazionali in questo caso coincidano con quelli etnico-nazionali, porta i giovani interessati a leggere
questo conflitto in termini di rapporti “etnici”: “quei vecchi lì seduti, italiani, ci guardano male perché
siamo stranieri e ora guardano male anche te perché stai con noi”. Il secondo conflitto invece contrappone
la popolazione residente ai giovani adulti di origine straniera che attivano pratiche devianti (spaccio e altre
attività micro-criminali) e di controllo territoriale, soprattutto quando cala il sole.
In entrambi i casi, il motivo dello scontro sta nei differenti interessi legati al contesto fisico e sociale del
Giardino e a differenti percezioni dello spazio pubblico come luogo di opportunità d’azione e di
costruzione di relazioni sociali. Interessi e percezioni differenti che creano “lo spazio della differenza”,
ovvero quello spazio urbano che ospita apparizioni, azioni, rivendicazioni da parte degli attori che lo
vivono e dal quale traggono possibilità di esprimersi (Colombo e Semi, 2007). Qualsiasi spazio, esistendo
in virtù dell’azione sociale (Simmel), comporta una tensione nel processo di individuazione delle
specifiche forme di interazione lì ammesse. In qualsiasi spazio, l’interazione sociale quotidiana basata su
rapporti di potere stabilisce le cose che si possono fare, quelle che si devono fare e le forme del controllo
dello spazio stesso: è l’esistenza di pratiche spaziali legittime che delinea i confini di quelle illegittime
(ibidem, 2007).
Nel primo conflitto, gli anziani che passano il loro tempo libero chiacchierando sulle panchine del
Giardino si pongono come controllori dello spazio abitato quotidianamente mentre i giovani usano questo
spazio come luogo privilegiato per dare forma ad una socialità “adolescenziale”. Da una parte, la visibilità
delle pratiche dei giovani, come quella del fumare hashish e del consumo di alcolici, e la rumorosità delle
loro conversazioni in lingua; dall’altra, la non comprensione dei linguaggi e delle forme di socialità
adolescenziale porta gli anziani a non tollerare le pratiche “chiassose” dei più giovani, considerandole
illegittime e inadeguate al contesto. L’incontro, e lo scontro, di questi due modi di vivere lo stesso spazio
si manifesta con sguardi giudicanti e qualche mala parola da entrambe le parti. Gli anziani si sentono
“disturbati” dalle pratiche degli adolescenti, mentre questi si sentono controllati dagli anziani.
Infine, sembra emergere una tendenza a rivendicare la legittimità della propria presenza e dell’uso dello
spazio fatto dal proprio gruppo, cercando di negare la legittimità delle pratiche spaziali messe in atto
dall’altro gruppo. La negazione avviene etichettando l’altro come “piccolo criminale” che,
illegittimamente, si esprime nello spazio pubblico con pratiche inadeguate al contesto (i giovani secondo
gli anziani); oppure, come razzista che non tollera la presenza degli stranieri e si infastidisce per la loro
presenza nel luogo pubblico (gli anziani secondo i giovani). Entrambi i gruppi rivendicano il potere e il
diritto di definire cosa è legittimo o meno nello spazio del Giardino, luogo sentito da tutti come familiare e
nel quale hanno sviluppato un senso di appartenenza.
Anche nel secondo caso non è corretto parlare di conflitti etnico-nazionali anche se di nuovo i confini tra i
gruppi in gioco coincidono. Da una parte ci sono gli anziani che vedono il giardino come luogo dove
incontrarsi e prendere il fresco nei caldi pomeriggi estivi e che interpretano come legittimo un uso
“normale” dello spazio pubblico, ovvero come un luogo di incontro e socializzazione, di passeggio e
passaggio, di gioco e di divertimento secondo forme e regole accettate socialmente. Dall’altra parte, vi
sono giovani adulti magrebini e africani che usano questo spazio per “fare affari” e “vivere la giornata”,
definendo il Giardino come territorio di una socialità tra pari dove si mescolano opportunità aggregative e
“professionali”.
Diario etnografico: 30 maggio 2013
Arrivo ai giardini verso le 14.30, faccio un giro attorno con l’auto e appena trovo un posto all’ombra mi fermo.
Subito si affianca una camionetta della polizia con una decina di poliziotti dentro e penso “adesso cosa vogliono da
me?”… spengo l’auto mentre loro mi superano e parcheggiano davanti alla mia macchina. Dietro di loro c’era anche
un jeep dell’esercito italiano con due militari dentro. Attraverso il giardino e vado verso il corso mentre i poliziotti e i
militari si dividono in gruppetti verso i pochi giovani magrebini e africani (Africa sub-sahariana) che sono seduti a
piccoli gruppi sulle panchine. Non mi fermo lì, non ho voglia di farmi controllare, portando i dread potrebbero
fermarmi pensando a me come una cliente degli spacciatori del posto! Mi dirigo verso il bar della cinese, prendo un
caffè ed esco. Ritorno ai giardini, sono comunque curiosa di sapere cosa succede. Vado verso il parco giochi e su una
panchina in fondo trovo seduto da solo Mufeed, uno dei giovani conosciuti la scorsa volta. Mi saluta, io lo saluto, gli
chiedo “come va?” “bene, grazie!” risponde lui sorridendo “e tu?” “bene, bene!”. Racconta che stava andando alle
solite panchine quando sono arrivati i poliziotti e per evitare controlli si è fermato lì. Gli chiedo se posso sedermi lì
con lui, lui acconsente e ne approfitto per farmi spiegare il motivo della presenza delle forze dell’ordine. Lui mi
racconta che ultimamente stanno sempre passando il pomeriggio presto, o di mercoledì o giovedì, per fare controlli
perché la gente del posto si lamenta per la presenza di giovani che fumano e di spacciatori, così fanno vedere che ci
sono. “ma non fanno niente sai? Controllano i documenti e si caricano chi non li ha, normalmente fanno così, quando
RAPPORTO SECONDGEN
vengono con la camionetta però è perché si portano via qualcuno senza documenti e lo rimandano in Africa!” lo dice
con una normalità come se la presenza della polizia, i controlli e i rimpatri fossero all’ordine del giorno! Non sembra
essere preoccupato, come se sapesse che su quella panchina al lato opposto dello stesso giardino ora controllato, la
polizia non sarebbe mai venuta. “e tu hai paura che sei rimasto qui?” chiedo con discrezione “no, non mi fanno
paura. Mi hanno fermato tante volte! È che non ho i documenti perché sto aspettando il rinnovo del permesso di
soggiorno! Se mi fermano, prendono il mio nome e controllano chi sono e che cosa ho fatto, di chi sono figlio e
basta! Meglio però stare qui!”
Il luogo di arrivo in Italia, e in particolare in Torino, è fondamentale nel plasmare le carriere future dei
giovani di seconda generazione e nel riprodurre diseguaglianze nel momento in cui i confini territoriali dei
quartieri, o di parte di questi, coincidono con quelli socio-economici. In particolare, importante è il
contesto sociale di “partenza” nella società di arrivo (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). A Torino non si
può parlare di processi di ghettizzazione etnico-nazionale, così come è avvenuto in molte altre città
europee meta di immigrazione esterna antecedente alla realtà italiana e torinese. Tuttavia, il mercato della
casa e la politica dell’edilizia pubblica stanno favorendo processi di concentrazione spaziale degli stranieri
in alcune zone più o meno periferiche della città. Chiunque passi da Porta Palazzo o dal cuore del
quartiere di Barriera di Milano non può non notare una moltitudine di colori, suoni e lingue diverse nelle
persone che abitano queste zone: basterebbe semplicemente soffermarsi a leggere i campanelli dei
condomini.
Molti giovani incontrati durante l’osservazione dichiarano di abitare nei pressi del Giardino fin dal primo
arrivo in Torino e di essere entrati nel suo spazio sociale poco tempo dopo perché attirati dall’elevata
presenza di coetanei connazionali. Il Giardino e la scuola media affianco si presentano dunque come i
primi luoghi sociali di approdo nella società di arrivo, offrendo loro possibilità relazionali e di inserimento
nel nuovo contesto di vita. Tutti i giovani raccontano che le prime conoscenze sono avvenute in Giardino e
a scuola, tuttavia da quasi tutti emerge un’immediata presa di distanza dalla scuola come luogo in cui sono
riusciti a costruire legami con coetanei che vadano oltre il suo contesto. Dopo le prime esperienze negative
a scuola, tutti hanno sperimentato la facilità di inserimento e adattamento al nuovo contesto di vita
socializzando e imparando norme e valori sociali, pratiche di vita quotidiana, gusti, stili di vita e
preferenze da connazionali incontrati nello spazio pubblico.
I motivi che spingono questi giovani a limitare i rapporti con i compagni di scuola al contesto scolastico
sono legati alla classe d’inserimento, alla difficoltà linguistica e al senso di estraneità che provano in
mezzo a coetanei italiani o stranieri in Italia da molto tempo. Innanzi tutto, il fatto che spesso i giovani
stranieri ricongiunti siano inseriti in classi inferiori rispetto all’età che hanno, li costringe a doversi
relazionare con giovani più piccoli di uno, due, tre anni in un momento, l’adolescenza, in cui piccole
differenze di età implicano esperienze molto diverse. Il problema linguistico è un altro fattore che emerge
dai loro racconti, e che in parte è legato al senso di estraneità provato. Come sottolinea Colombo (2005b),
l’italiano si configura fin da subito come la lingua delle istituzioni, della scuola e delle relazioni
occasionali e superficiali mentre la vita quotidiana, del piacere e delle relazioni amicali e intime è «vissuto
attraverso l’utilizzo della lingua madre» (Colombo, 2005b, pag. 91). La mancanza di momenti
extrascolastici con chi si conosce a scuola favorisce contesti sociali dove la lingua di origine rappresenta il
collante più forte, almeno inizialmente.
Io: Quindi gli amici che hai conosciuto all’inizio erano di origine marocchina?
Fahmi: Sì perché non parlavo la lingua e cercavo quelli che parlavano la mia lingua, con cui sapevo esprimermi
perché con quelli italiani, uscivo con loro, con quelli che andavo a scuola dello stesso quartiere, sai la scuola era
vicina a casa nostra, uscivamo dal viale e io mi sedevo con loro e ridevano e io dicevo nella mia mente “ma per cosa
ridono, per cosa ridono!” cè, ti senti strano, ti senti uno straniero in mezzo a loro, però dopo che hai imparato la
lingua sai, inizi anche a capire delle cose.
Io: Quindi all’inizio ti sentivi a tuo agio con i tuoi connazionali, con cui riuscivi a comunicare?
Fahmi: Sì, parlavano la mia lingua [Fahmi, 20 anni].
Quando sono arrivato in Italia, mia mamma mi ha detto “vai in giardino, così conosci qualcuno!” e sono andato e mi
è piaciuto subito, c’erano tanti marocchini, va beh, non sono connazionali ma con loro riuscivo a comunicare
almeno! [Rajab, 18 anni].
Pertanto, il giardino si configura come il primo luogo di costruzione di reti sociali con alcune
caratteristiche tipiche degli spazi pubblici periferici urbani, almeno dal punto di vista socio-economico98.
98
Cfr. analisi a pag. 189
RAPPORTO SECONDGEN
Il Giardino si presenta come il luogo privilegiato dai nuovi arrivati in quanto offre una socialità centrata
sulla comune appartenenza nazionale, linguistica e, spesso, sulla comune esperienza di migrazione. Al
Giardino si conoscono coetanei connazionali, e non, che con il tempo diverranno amici o rimarranno
semplicemente conoscenti. Nonostante oggi vi siano precise ubicazioni spaziali proprie di ogni gruppo, è
frequente anche osservare la compresenza in uno stesso gruppo di panchine di marocchini e originari
dell’Africa sub-sahariana, di grandi e piccoli. Questo aspetto è importante perché gli abituali abitanti del
Giardino si conoscono tutti, spesso per nome, e il fatto di condividere, anche se in zone separate, lo stesso
spazio del giardino porta i diversi gruppi ad entrare in relazione - passandosi semplicemente una “canna” –
e quindi, a scambiare informazioni, conoscenze, esperienze.
Inoltre, a differenza dei luoghi strutturati, lo spazio pubblico è aperto allo scambio, all’incontro e allo
scontro di informazioni, modelli comportamentali e valoriali, credenze, preferenze e gusti diversi, ovvero
di parte del frame culturale che sostiene e legittima l’azione. Tuttavia, i processi di emulazione e
apprendimento che si attivano nello spazio pubblico usato come luogo di aggregazione informale,
prendono forma da interazioni asimmetriche dove la distanza generazionale si presenta come ciò che
struttura i rapporti di potere e regola i processi stessi.
Infatti, configurandosi come spazio pubblico aperto a tutte le età, il giardino si presenta come un luogo
privilegiato di insegnamento e apprendimento di pratiche di “sopravvivenza” quotidiana, dove i più piccoli
emulano i più grandi osservandoli, mentre i più grandi insegnano e, nello stesso tempo, agiscono da
controllo sociale nei confronti dei più piccoli. I trentenni sono un modello comportamentale e identitario
per i ventenni, a loro volta modelli per i più piccoli. Sebbene i pre-adolescenti osservino quotidianamente
pratiche sociali devianti e, pertanto, siano esposti già da piccoli ad un elevato rischio di emulazione e di
apprendimento di “tecniche alternative di sopravvivenza”, tuttavia questi sono nello stesso tempo protetti e
controllati dai più grandi.
Il controllo si attiva con la segregazione spaziale dei gruppi d’età, dove i più grandi impediscono ai piccoli
di sedere sulle stesse panchine: i bambini sono in questo modo esclusi dai discorsi dei più grandi, non
ricevono informazioni e non vedono direttamente gli scambi che prendono forma tra gli adolescenti e i
giovani adulti. Così, i più piccoli continuano a usare lo spazio del giardino come luogo nel quale giocare a
pallone con i coetanei, anche se è possibile che presto cambino anche per loro le forme del divertimento,
oltre alle modalità dell’uso dello spazio stesso.
Dalle storie dei giovani incontrati emergono due trasformazioni legate all’uso sociale dello spazio del
Giardino e come questo viene da loro percepito. Cambiamenti legati alla crescita (adolescenza), ma nello
stesso tempo appresi in Giardino osservando i più grandi. Da una parte si trasformano le forme del
divertimento, passando dal gioco al divertimento basato sullo stare sulle panchine a raccontarsi la giornata
e a sperimentare le prime alterazioni psichiche consumando alcolici e cannabis. Le nuove forme di
divertimento e di socialità con i pari sono accompagnate da una diversa percezione del giardino: dallo
spazio urbano protetto dal traffico per giocare a pallone, allo spazio protetto dagli sguardi inopportuni per
“sballare con gli amici”. Più avanti, lo stesso spazio può essere oggetto di un’ulteriore trasformazione,
assumendo un significato professionale oltre a quello ludico-ricreativo, uno “spazio dove si possono fare
affari” con pratiche devianti.
Ecco che, giorno dopo giorno, i nuovi arrivati si inseriscono in questo spazio di aggregazione informale
costruendo le prime reti sociali che, per qualcuno, rimarranno le uniche per molto tempo. È in questa
cerchia sociale che i giovani si integrano e si “acculturano”, imparando le norme e i valori sociali che
regolano la vita quotidiana di chi parte svantaggiato, oltre alle strategie di neutralizzazione dello
svantaggio iniziale99.
Oltre alla scuola, alcuni di questi giovani sono passati almeno una volta da uno spazio di aggregazione
formale e strutturato, come l’oratorio o un’associazione sportiva. Quando parlano di quelle esperienze,
emerge da una parte la loro difficoltà a stare in posti strutturati, ad accettare le regole di questi luoghi e
l’autorità degli adulti che li gestiscono; dall’altra, la rigidità delle norme e dei criteri di accesso a questi
spazi e l’incapacità degli educatori a interagire con chi “devia” dalla norma socialmente accettata,
preferendo la via dell’esclusione. Diversi giovani incontrati in strada tra Porta Palazzo e Barriera di
Milano raccontano di essere stati cacciati dagli oratori o dalle associazioni sportive.
La difficoltà a rispettare ed accettare le norme sociali e le regole dei luoghi strutturati è legata all’abitudine
nel frequentare uno spazio sociale, quello della “strada”, nel quale le norme e i modelli veicolati, e
appresi, sono “devianti” rispetto alle norme che regolano l’accesso e l’uso degli spazi strutturati. Le
99
Si rimanda a pag. 219.
RAPPORTO SECONDGEN
norme sociali e i modelli a cui sono socializzati in strada appaiono più accattivanti perché offrono
visibilità e occasioni d’interazione facilmente accessibili, lasciando margini di scelta più ampi nei processi
di individuazione e identificazione (costruzione dell’identità). Inoltre, in strada le compagnie sono scelte e
i legami non sono imposti dalla condivisione di uno spazio chiuso comune (come l’oratorio o la scuola) o
di un’attività del tempo libero (come uno sport).
Nonostante la capacità d’influenza dei pari non si esprima in modo assoluto e totale, ma ogni ragazzo
tenda a privilegiare dei legami come vettori d’influenza (Bidart, 2010), la pressione dei pari assume
comunque un ruolo importante soprattutto in un periodo in cui si è alla ricerca di un proprio posto nella
società. Un momento della vita, l’essere giovane, in cui è fondamentale il micro-mondo dei pari come
spazio in cui articolare i propri ruoli sociali (ibidem, 2010). In questo caso i pari che agiscono da vettori
d’influenza, non sono coetanei che frequentano quotidianamente l’oratorio e conoscono le “regole dello
stare” in luoghi di questo tipo, ma sono giovani conosciuti in strada e che interagiscono secondo altri
modelli e norme sociali.
Il tentativo “fallito” di accedere a luoghi strutturati del quartiere li spinge ad auto-escludersi: sono esclusi
in quanto portatori di un’alterità irriducibile che si manifesta con la “devianza” dalla norma socialmente
accettata nel luogo strutturato, come se fossero portatori di norme e modelli comportamentali
“inconvertibili” e “immodificabili” (cultura percepita come essenza anziché come processo); si autoescludono andando alla ricerca di spazi fisici e sociali accoglienti, attraenti e nei quali imparano ad
identificarsi. Fahmi un giorno raccontò di quando era più piccolo e andava all’oratorio con un gruppetto di
suoi coetanei connazionali conosciuti al giardino, tra i quali vi era Mufeed. Da lì furono cacciati perché
avevano rubato delle merendine, il giorno dopo tornarono e furono di nuovo invitati ad andarsene, così
tornarono il giorno dopo ancora finché non tornarono più. Fahmi ammette tuttavia di essere ritornato più
volte perché era con un gruppetto di amici: da solo non avrebbe ritentato100.
Un altro ambito dal quale questi giovani marocchini si sentono esclusi e, pertanto, tendono ad autoescludersi, sono i luoghi del divertimento notturno giovanile torinese. Molti di quelli intervistati e
incontrati, sia nel contesto del Giardino sotto osservazione sia fuori dai suoi confini101, raccontano di
essere discriminati e percepire una forma di razzismo quando tentano di raggiungere alcune discoteche e
100
Il fatto che siano stati esclusi dall’oratorio non è un caso. Infatti in molti contesti urbani gli oratori sono ancora oggi
gli unici luoghi strutturati e “controllati” che offrono alternative alla strada per bambini e adolescenti.
101
La ricerca ha permesso di entrare in contatto anche con giovani marocchini di seconda generazione cresciuti
nell’hinterland torinese (Safy è uno di questi) e in un piccolo paese di provincia a circa 50 km da Torino. Molti di loro
hanno dei legami con Torino e in particolare con la zona di Barriera di Milano e Porta Palazzo perché vi hanno vissuto
o perché attirati in questi luoghi per motivi di consumo legale (mercato di Porta Palazzo) e illegale (per lo più sostanze
stupefacenti). Inoltre, raccontano di essere andati in passato a ballare nei locali del centro (Murazzi e Valentino) ma di
essersi allontanati perché stigmatizzati o perché i gestori impediscono loro l’accesso.
Safy: molti che vengono qua, che vedo che scippano… ai Murazzi, ai Murazzi! È da quello che so io un posto
come questo non c’è in tutto il Piemonte, non ci sarà neanche in tutta Italia ed è ridotto uno schifo perché appunto,
uno non può scendere, l’italiano c’ha paura della sua collana […]
Io: Ma tu pensi di essere mai stato trattato diversamente perché c’è qualche tuo connazionale che ha fatto cavolate?
Safy: Sì sì uh! Uh! Guarda io non sono il tipo che va in discoteca, però va beh quando c’era tutto il gruppo che
andava in discoteca io andavo, non è che mi attaccavo come un coglione, a me bastava solo divertirmi, non mi
facevano entrare a me! Io me la sono pure sentita dire che… uh! Alla Rotonda! Poi sono locali che a me non
piacciono però boh! Rotonda… quasi tutte le discoteche… è successo due tre settimane fa che il mio amico è sceso
ai Muri [Murazzi], io ero a casa, siamo scesi ai Muri, io e la mia amica non c’avevamo voglia, abbiamo preso
minchia un ventino [20 euro] d’erba. Siamo tornati a casa, ci siamo fumati un paio di canne, lei si è messa a
dormire, io mi sono messo lì! Il ragazzo cosa ha fatto? È ritornato a casa, mi ha trovato sveglio e mi fa “dai Safy
scendi!” “dai” io faccio “no, non c’ho voglia” “dai scendi frocio, te lo sto chiedendo io” “va boh scendo!” andiamo
alla Zoccola minchia, posto bellissimo [ironico] eh! Andiamo alla Zoccola, tanto a me che cazzo me ne frega, che
io con un secchiello sono a posto [intende un recipiente di circa un litro di cocktail] che poi io neanche volevo bere
perché avevo passato un paio di giorni un po’ letali… boh! Sta di fatto che vado là davanti “no, non puoi entrare!”
“ah sì!” boh! Poi quando mi dicono ste cose io non sono uno di quello che “come minchia, non mi fai entrare!” io
aspetto quando c’è il momento giusto chiedo di nuovo, con calma e tranquillità te lo dico di nuovo, tu mi dici di
nuovo “no” io sono là muto a braccia conserte, zitto. Quando sono andato a chiederlo mi fa “eh non ti faccio
entrare perché non possono entrare più marocchini! Scippano, scappano, vanno via” e io boh gli faccio “ma io che
c’entro? Devo pagare per loro scusami!” lui fa “eh lo so, non è colpa tua!” e dai ancora con sta cosa che non è
colpa mia, perché io devo pagare anzi io ti pago pure per entrare… costa 3 euro [Safy, 26 anni]
RAPPORTO SECONDGEN
alcuni locali del centro città. Molti di loro raccontano di non andare più ai Murazzi102 a ballare o perché
viene negato loro l’accesso o perché percepiscono forme di discriminazioni legate ad una tendenza dei
giovani autoctoni e dei gestori dei locali a stigmatizzare “il marocchin” presenti in questi luoghi come
ladro e spacciatore.
In questo caso lo stigma è in parte legato al basso status sociale veicolato, agli occhi degli osservatori
(gestori, buttafuori e altri utenti dei locali), dallo stile di abbigliamento e dal tipo di compagnia
(prevalentemente maschile). Processo che probabilmente non subirebbe un calciatore magrebino per la
diffusione nel senso comune del mito pauperista dell’immigrato, ovvero l’idea che vi sia una relazione tra
povertà e immigrazione e quindi se non sei povero non sei immigrato: la ricchezza sbianca (Ambrosini e
Buccarelli, 2009); inoltre, per un’altra idea comunemente diffusa sulla presenza di una relazione tra
criminalità e classi povere e popolari, idea strategicamente costruita all’interno del processo di
criminalizzazione gestito dalla classe dominante (Cottino, Prina e Sarzotti, 1991).
Ad ogni modo, anche per questi giovani la discriminazione, stigmatizzazione e violenza simbolica subita
prendono forma non nei pochi contesti istituzionali a cui hanno accesso (come la scuola) ma nei luoghi
pubblici di transito (bus, vie del centro città), di aggregazione informale e del divertimento giovanile
(Queirolo Palmas e Torre, 2005; Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b).
Io: Ma ad esempio vai a ballare ai Murazzi?
Fahmi: No, ai Murazzi non ci vado più perché ti prendono per uno spacciatore o un ladro [Fahmi, 20 anni].
Se da una parte le storie di questi giovani fanno emergere una tensione tra esclusione e auto-esclusione da
luoghi aggregativi, culturali e del divertimento, dall’altra emerge in loro una richiesta di inclusione che si
manifesta in termini di “accessibilità” (Colombo, 2005a). Nei loro racconti prendono forma, in modo più o
meno esplicito, rivendicazioni del diritto all’accesso a particolari contesti sociali, senza tuttavia che questo
ingresso si presenti come piena partecipazione, condivisione degli obblighi di fedeltà o assunzione di
responsabilità collettive. Si rivendica quindi il diritto a non essere bloccati sulla soglia, ma nello stesso
tempo il diritto a scegliere i termini della partecipazione (le norme che regolano l’accesso) e dell’exit.
Come evidenzia bene Colombo, la questione dell’inclusione è andata oltre la sfera pubblica e politicoamministrativa: oggi investe principalmente l’interazione quotidiana tra noi e loro (Ibidem, 2005a).
La difficoltà di accedere ai luoghi strutturati, spinge i giovani incontrati a tornare sulla “strada”
idealizzando questo spazio fisico e sociale come se fosse casa loro. Il giardino diventa un luogo sociale
talmente familiare che più di uno ammette il senso di disagio e estraneità che prova quando è fuori dalla
“sua zona”. Disagio legato in parte ad un senso di inferiorità riscontrato anche in altri, autoctoni o seconde
generazioni, cresciuti in contesti simili e omogenei rispetto allo status socio-economico e culturale (Foote
Whyte, trad., 2011). Senso di inferiorità legato alla consapevolezza di vivere in un contesto svantaggiato e
di non riuscire a raggiungere il mondo sociale esterno.
Probabilmente Chick, giovane italo-americano di Cornerville la cui storia è stata raccolta da Foote White
a metà del secolo scorso, ha ragione quando in merito alla bassa autostima dice: «Penso che l’unica
maniera per vincere quel senso di inferiorità sia di andare in giro e mescolarsi con altra gente, perché
finché non ti senti amalgamato non riesci a perdere quella sensazione» (Foote Whyte, trad., 2011, pag.
105)103. L’accesso ad altri “mondi sociali” alimenta un circolo virtuoso nel momento in cui permette
interazioni che insegnano modelli comportamentali e norme sociali adatte a produrre e riprodurre relazioni
con mondi diversi, favorendo in questo modo la crescita della propria autostima. Ed è di nuovo lo stesso
Chick che evidenza come abbia imparato a muoversi in mondi sociali esterni a quello di Cornerville dove
è cresciuto, osservando e imitando tutto ciò che faceva una ragazza conosciuta in un contesto sociale altro.
Fahmi: Tutti i giorni mi svegliavo e venivo qua direttamente senza saperlo, camminavo, arrivavo qua
102
Con i Murazzi del Po a Torino si identificano gli approdi e le rimesse delle barche localizzate sulla sponda del Po nel
centro della città. L’origine del nome è legata ai margini (muri) costruiti nel XIX secolo per arginare il fiume e
proteggere la città dalle sue piene. All’interno di questi margini vi sono dei locali che fino al secondo dopoguerra erano
usati per il rimessaggio delle barche da pesca, convertiti in locali (per lo più notturni) per il divertimento giovanile con
la riqualificazione degli anni settanta in seguito al progressivo abbandono della pesca a causa dell’inquinamento
fluviale. Oggi, con il termine Murazzi a Torino e provincia si intendono i locali notturni del divertimento giovanile.
103
Lo stesso senso di inferiorità è emerso in molti giovani adolescenti di Barriera di Milano incontrati durante la ricerca
Street Monkeys, già citata.
RAPPORTO SECONDGEN
Ragazzo marocchino sui 30 anni: No, ma anche se sei fuori, per esempio sei a Milano, non vedi l’ora di tornare per
venire qua, veramente!
Fahmi: Non si sa perché!
Ragazzo marocchino sui 30 anni: Perché siamo abituati, trovi gente che conosci, ti sei già ambientato qui in questo
posto
Fahmi: È il nostro habitat
Ragazzo marocchino sui 30 anni: Questa è la favelas di Torino. Perché ti dico la verità, noi che fumiamo le canne,
così, quando tu esci ti allontani da Barriera di Milano, esci e ti senti un altro, ti senti strano, non ti senti come le altre
persone vero?
Fahmi: Sì!
Ragazzo marocchino sui 30 anni: Perché l’altra gente ti guarda in un modo strano e tu dici “Vaffanculo! Non esco
più da lì, rimango qua, almeno che mi sento bene!” capito? [Fahmi, 20 anni].
Il Giardino, così come anche il quartiere, si configura quindi come un posto familiare perché ci si passa
tanto tempo. Da un lato, è uno spazio che evoca frustrazione e consapevolezza della ristrettezza della
propria vita, essendo un luogo vissuto quotidianamente anche perché non si hanno le risorse economiche e
relazionali per raggiungerne altri (anche esterni al quartiere) che si vorrebbero frequentare. Non
conoscono luoghi e modi alternativi di passare il tempo libero quotidiano perché non accedono alle
informazioni su questi posti e, quando li conoscono, non hanno il denaro per accedervi.
Dall’altro lato, emerge un forte attaccamento al quartiere e agli amici/conoscenti della strada che
costituiscono gran parte della vita. È uno spazio in cui si è rispettati, riconosciuti e in cui si sta bene, ci si
diverte. È uno spazio dove ognuno ha acquisito un ruolo, un’identità e nel quale le stesse pratiche attivate
con i pari si caricano di senso e significato, sono riconosciute ed elevano il loro nome. Al di fuori di
questo spazio, tutto è più labile ed incerto e i giovani si sentono spaesati, mentre le stesse pratiche di
gruppo attivate rischiano di perdere il loro potere simbolico nel veicolare status e riconoscimento sociale,
per essere etichettate semplicemente come “devianti”. Le stesse pratiche che tra i “pari” in Giardino, e in
parte in quartiere, sono fonte di riconoscimento e rispetto, al di fuori diventano espressione di criminalità,
violenza, non integrazione nella società di arrivo.
Nonostante presentino sentimenti simili ai coetanei autoctoni della zona appartenenti a classe sociali
basse, tuttavia questi non sono spiegabili unicamente dal tipo di capitale sociale in cui sono inseriti i
giovani che vivono le nostre periferie urbane e sociali. Infatti, sentimenti contrastanti verso le proprie
relazioni sociali quotidiane e il Giardino, di frustrazione ma nello stesso tempo di attaccamento, di
attrazione ma nello stesso tempo di rifiuto, compaiono in molte storie di figli di immigrati presentate nella
letteratura (Lepoutre, 1997; Dubet, 1987; Foote Whyte, trad., 2011) e possono essere connessi anche alla
migrazione. In particolare, alle difficoltà scolastiche specifiche dei figli di immigrati, alle specificità
familiari associate proprio al percorso migratorio, alle difficoltà dei genitori immigrati di controllare i figli
o anche semplicemente di sapere come vivono fuori di casa, alla consapevolezza di essere identificabile
come appartenente a un gruppo di basso status in virtù dell’integrazione subalterna dei loro genitori, della
loro origine nazionale o semplicemente della loro residenza in zone della città prevalentemente abitate
dalla popolazione straniera.
Io: Quindi vi siete conosciuti così ai giardini?
Fahmi: Ai giardini, in discoteche, in centro, dappertutto… sai conosci gente se per esempio sei uno che spacca, ti
conoscono tutti!
Io: In che senso “che spacca”?
Fahmi: Un bullo diciamo, eh! Che tutti hanno paura di te, queste cose qua… ti conoscono… chi ti manca di rispetto
lo pesti, se un tuo amico ha bisogno di te vai con lui, queste cose qua da ragazzini! [Fahmi, 20 anni].
Nel momento in cui lo spazio sociale del giardino si presenta come privilegiata, e a volte unica, fonte di
socializzazione e “acculturazione” alla società di arrivo, esso diventa anche luogo nel quale prendono
forma i processi di identificazione collettiva e di costruzione di una propria identità individuale e di un
proprio posto nella società.
Pertanto, in Giardino e in altri spazi pubblici della zona questi giovani imparano a farsi rispettare, anche
con la forza facendo a pugni quando qualcuno li umilia pubblicamente, o quando bisogna aiutare un amico
a difendere il proprio nome: solo se si fanno rispettare diventano qualcuno e il loro nome conta qualcosa.
E quando sei uno che “spacca” allora conosci tante persone anche in luoghi diversi dal Giardino e di
cerchie sociali diverse, nonostante spesso siano posizionate sullo stesso livello della scala sociale (Bianco,
2001). L’uso della forza e della violenza, individuale e di gruppo, per regolare i rapporti di potere
RAPPORTO SECONDGEN
interpersonale tra pari e ottenere rispetto e riconoscimento, comportamenti e norme sociali che si
accompagnano ad altri atteggiamenti da macho, come la giustizia fai-da-te, sono emersi anche tra diversi
adolescenti e giovani italiani incontrati nel quartiere Barriera di Milano e zone limitrofe. Ma il Giardino è
un luogo che offre anche uno spazio “etnicizzato” con risorse identificative comuni (Queirolo Palmas e
Torre, 2005) facendo emergere tra i giovani magrebini osservati una tensione tra la socialità “etnicizzata”
degli spazi pubblici e quella degli spazi educativi o aggregativi strutturati. I gruppi e le compagnie
quotidiane che si strutturano attorno al Giardino sono costituiti da giovani di prima o seconda generazione
provenienti dal Marocco, al massimo da altri paesi del Maghreb, come se i processi di esclusione dai
luoghi strutturati e ibridi alimentassero in loro il bisogno di una comunanza etnico-nazionale/linguistica
(auto-esclusione), alimentando un circolo vizioso di esclusione e auto-esclusione. Altro aspetto connesso
alla loro storia migratoria: la delocalizzazione obbligata dallo spazio sociale e culturale d’origine è seguita
dall’inserimento in un contesto straniero che in parte esclude (molti contesti aggregativi e del divertimento
giovanile autoctono) e in parte include (la scuola, alcuni contesti aggregativi strutturati “multiculturali” o
che rispondono a logiche di mercato, i connazionali conosciuti nei luoghi pubblici). Ed è proprio la
“presunta” appartenenza ad una società e cultura altra che ostacola la loro inclusione in determinati
ambienti sociali, favorendola in altri, ovvero in quei luoghi dove emerge (ai loro occhi) una prossimità
negli stili di vita, nella lingua e nelle credenze. Infine, legata sempre al processo migratorio vissuto, c’è
l’incapacità delle famiglie di offrire loro risorse sociali e culturali diverse da quelle offerte dalla scuola e
dalla “strada” e di accompagnarli verso quei luoghi che offrirebbero tali alternative.
Sebbene si creino anche contatti in luoghi esterni, come quelli del divertimento notturno, fuori dai confini
della propria zona difficilmente si sentono “qualcuno”, né negli spazi pubblici più anonimi come le piazze
o le vie del centro città, né nei luoghi di aggregazione e del divertimento. Il senso di disagio e di estraneità
emerge in tutti quei contesti aperti e chiusi, formali e informali dove le norme sociali di acquisizione di
status e identità sono diverse da quelle del proprio Giardino e delle aree limitrofe. Infatti, non solo il
giardino, ma anche altre zone di Barriera di Milano, Porta Palazzo, i corsi principali e le vie limitrofe con i
loro giardinetti, bar, call center, internet-points e fast food “etnici” diventano spazi fisici e sociali di vita
che offrono senso di appartenenza e identità.
Diario etnografico: 5 settembre 2012, ore 16.30
[camminando da piazza della Repubblica verso Barriera di Milano su corso Giulio Cesare] Mentre parliamo delle sue
ultime novità, camminiamo lungo corso Giulio Cesare in direzione Barriera Di Milano. Mi dice che questa zona di
Torino non gli piace, che è brutta, sporca e degradata, ma almeno qui si sente tranquillo, si sente a casa. Mentre
camminiamo il suo racconto è continuamente interrotto da saluti e da qualche parola in lingua scambiata di fretta con
diversi gruppi di giovani marocchini, più o meno grandi, che incrociamo lungo la strada. Ad un certo punto saluta
anche due poliziotti di una volante ferma lungo il corso. Qui lui conosce molte persone e anche gli “sbirri”, così
come loro conoscono lui: è un vantaggio secondo Fahmi, perché quando sei conosciuto anche dalle forze dell’ordine,
queste non ti fermano in continuazione per chiedere documenti.
Di fronte all’incapacità di stare in spazi strutturati, l’esclusione e l’auto-esclusione da questi luoghi
spingono verso il contesto della “strada” con conseguenze importanti sulle capacità di “costruire”
opportunità sociali e di carriera, contribuendo all’immobilismo e alla segregazione territoriale e, di
conseguenza, sociale (Bianco, 2001).
Capacità che, come si cercherà di dimostrare, non non si apprendono se si resta segregati nelle cerchie
sociali della “strada”, ovvero del Giardino e del quartiere. Non uscendo dalla zona, le reti locali di questi
giovani, man mano che crescono e diventano più “duri”, diventano più dense ma non si diversificano. Lo
status dei nodi delle loro reti rischia di rimanere lo stesso e non si avvia un processo di differenziazione
della specializzazione e della localizzazione delle reti stesse, fondamentale per avviare un processo di
ascesa accettato socialmente come “carriera di successo” (Bianco, 2001).
Carriere di “seconda generazione”
L’analisi delle reti sociali in cui l’attore è inserito, e delle risorse e vincoli derivanti, permette di superare
alcuni limiti delle teorie classiche e moderne sulla mobilità sociale (neo-marxiste, neo-weberiane,
riformiste e teorie dell’ideologia meritocratica), facilitando la comprensione dei casi di successo, ad
esempio, tra i figli degli operai. Il superamento della classe sociale (concepita come blocco omogeneo) o
dell’idea di meritocrazia (vista come movente individuale) come modelli per spiegare le carriere
individuali, avviene nel momento in cui ci si focalizza sul capitale sociale individuale inteso come
RAPPORTO SECONDGEN
l’insieme delle risorse a cui gli attori accedono entrando in interazione ripetuta nel tempo con altri
soggetti.
Come evidenzia Bianco (2001), il concetto di capitale sociale permette di restituire all’attore un ruolo
attivo e capacità di scelta perché il sistema di interazioni in cui gli attori sono inseriti è il luogo di
produzione di cultura e preferenze individuali, oltre che di produzione e valutazione delle risorse e dei
vincoli. L’individuo, pertanto, non è ridotto a qualcosa di passivo la cui carriera è determinata
dall’appartenenza di classe. Piuttosto è un agente che sceglie sulla base delle informazioni sulla condotta
passata dell’Altro con cui interagisce, cercando di non compromettere il futuro dell’interazione, e sulla
base delle aspettative positive sui comportamenti futuri dell’Altro, ovvero sulla base della fiducia (Bianco,
2001).
Inoltre, l’analisi delle reti sociali in cui è immerso un attore per comprendere, in questo specifico caso, i
meccanismi d’integrazione dei giovani di seconda generazione, permette di far emergere quanto in realtà
questi siano integrati nella cultura dei giovani autoctoni torinesi o, meglio, del quartiere, ma non sul piano
sociale ed economico104, almeno apparentemente. Infatti, come si cercherà di dimostrare con il presente
scritto, sebbene le carriere lavorative dei giovani incontrati, anche se appena avviate, sembrino essere
molto distanti da quello che normalmente si definisce un’integrazione di successo ma molto vicine al
concetto di assimilazione verso il basso (Portes, Fernandez-Kelly e Haller, 2004), rispetto agli obiettivi di
breve periodo e al loro spazio sociale di vita, i giovani incontrati sono più integrati socialmente105 ed
economicamente. Infatti, parafrasando Merton, raggiungono i loro scopi legittimi presenti con mezzi
illegittimi, e nell’attivare pratiche considerate devianti dalla società dominante, acquisiscono status
sociale, identità e “capacità d’acquisto”.
La questione, pertanto, non è se sono integrati o meno nella nostra società ma in quale contesto sociale
sono integrati: quali sono le norme e i valori sociali, le preferenze, i gusti e gli stili di vita a cui sono stati
socializzati e che crescendo stanno interiorizzando come normali per il loro contesto di vita quotidiana? E
ancora, con quali forme e contenuti si manifestano queste norme, valori, preferenze, gusti e stili di vita
appresi in strada? In quale modo la normalità della “cultura di strada” e il loro essere immersi in cerchie
sociali segregate influiscono sulle capacità di avviare un processo d’integrazione sociale ed economica
socialmente accettato? Quali sono le strategie di neutralizzazione delle pratiche devianti che legittimano
socialmente le pratiche stesse, rendendole possibili? Come si manifesta la tensione tra valori e norme
apprese in famiglia e nella società, e quelli appresi in strada? Come queste carriere “devianti” influiscono
sulle progettualità future?
La scuola tra scelta e costrizione: puntare all’ascesa sociale sognando di fare l’elettricista
Come avviene per quasi tutti i giovani italiani, anche tra i giovani magrebini incontrati, la scuola
elementare e media frequentata in Italia è quella della circoscrizione dove vivono, spesso la più vicina alla
residenza. La scelta se proseguire o meno gli studi dopo la licenza media e, nel caso, la scelta del tipo di
scuola superiore presentano dinamiche non dissimili a quanto osservato in altri contesti sociali, nonché tra
molti giovani autoctoni. Emerge il ruolo centrale dei professori della scuola media, dell’orientamento fatto
a scuola, della famiglia e del gruppo dei pari.
I giovani incontrati hanno quasi tutti cominciato una scuola professionale, scegliendo istituti in cui si
imparano mestieri (meccanico, elettricista, idraulico). Qualcuno, dopo alcuni insuccessi nell’avanzamento
della carriera scolastica, ha deciso di abbandonare per tentare l’entrata nel mercato del lavoro con la
licenza media. Altri, con molta fatica e tempi abbastanza dilatati per bocciature e cambi di scuola, hanno
raggiunto la qualifica o il diploma. Ma come hanno scelto la scuola superiore da frequentare e come
questa scelta influisce in parte sull’orientamento allo studio, sulle loro carriere scolastiche e sulle
opportunità di entrare nel mercato del lavoro? Quanto conta la famiglia nella scelta di proseguire gli studi
e del tipo di scuola scelta?
104
La non menzione dell’integrazione politica è voluta nel momento in cui, trattandosi di immigrati non comunitari, la
mancata integrazione politica è determinata, in modo più forte rispetto alle altre dimensioni d’integrazione
dell’individuo in una società, da fattori strutturali connessi alla Legge sull’immigrazione italiana e molto meno al
capitale sociale.
105
Per integrazione si intende: processi specifici e micro-sociali attraverso i quali un esterno accede e diventa parte di
una determinata cerchia sociale (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001).
RAPPORTO SECONDGEN
Tutti i magrebini incontrati, sia quelli intervistati sia quelli con i quali è capitato casualmente di
“chiacchierare” anche su questo tema, dichiarano quanto sia importante la scuola e il proseguimento degli
studi per le loro famiglie. Quasi tutti motivano questa enorme aspettativa delle famiglie nei loro confronti
come un modo per avviare un processo di mobilità in vista di un riscatto sociale generazionale. Tanti
raccontano di avere madri analfabete, o con la licenza elementare, che spesso non sono mai entrate nel
mercato del lavoro né nel paese di origine né in Italia; di avere padri che, anche quando hanno un titolo di
scuola secondaria, a Torino diventano operai, manovali e muratori o artigiani vari (elettricisti, idraulici,
falegnami, etc.) alle dipendenze di qualcuno, anche in virtù delle competenze ed esperienze professionali
accumulate al paese.
Mio padre è diplomato, in Tunisia faceva l’artigiano e quando è venuto qua ha sempre fatto il falegname che io
sappia. Ora lavora sempre come falegname come dipendente presso una ditta. Mia mamma ha solo la licenza media e
sia in Tunisia sia qui ha sempre fatto la casalinga, occupandosi della casa e di noi [Rajab, 18 anni].
Io: Per loro è importante che tu studi?
Fahmi: Sì! Fino adesso sto studiando grazie ai miei! Insistono perché comunque mio padre non ha studiato e vuole
darci questa possibilità a noi. Mio padre ha preso la terza media qui, non ha mai studiato
Io: In Marocco non è mai andato a scuola?
Fahmi: Mai! Adesso sa scrivere… però non tanto! [Non ha fatto] neanche le elementari! Mia mamma non ha studiato
proprio, non sa scrivere niente, invece mio padre grazie alla Parini ha studiato, lo hanno aiutato un po’… hm… nel
2010 pure lui ha preso la terza media! È uscito con buono! Però mio padre c’ha la testa buona, sa leggere il disegno,
sai il disegno tecnico del lavoro? Lo sa leggere visto che fa il muratore, lo sa leggere e costruisce i muri! Ho lavorato
con lui, è abbastanza bravo!
Io: E tuo padre cosa faceva in Marocco?
Fahmi: Il muratore
Io: Arrivato qua ha fatto sempre il muratore?
Fahmi: Sì! Anche se non ha diploma o qualifica l’ha imparato sul lavoro, sul campo di lavoro
Io: E tua mamma invece cosa faceva?
Fahmi: Un bel lavoro: la casalinga! [Fahmi, 20 anni]
Lo studio sembra essere importante per i genitori di questi giovani che investono molto nella loro
istruzione nel momento in cui non chiedono ai figli di andare a lavorare per contribuire all’economia
familiare e, addirittura, li incoraggiano a proseguire la scuola anche quando questi non sono molto
motivati.
Ho finito le elementari a Milano poi sono venuto qua e ho iniziato le medie in quella scuola lì [indica la scuola media
vicino al giardino] e boh! Poi… sempre qua mi sono iscritto in un’altra scuola, al Birago qua, di meccanica e poi…
poi mi sono iscritto al Mario Enrico che è per elettricisti, ho preso un attestato di qualifica di un anno che dice che,
boh, ho frequentato quella scuola e ho fatto un anno di elettricista e boh! [Al Birago] ho fatto due anni però non ho
finito, ho deciso di cambiare perché ho fatto un anno e sono rimasto bocciato, ho fatto un altro anno e sono rimasto di
nuovo bocciato e poi ho cambiato. Ho capito che non era la scuola che mi piaceva! Avevo scelto la scuola sbagliata!
… sono venuti da noi a scuola alle medie, boh sono venuti ci hanno spiegato com’è la scuola “bla bla bla” … e poi
ho scelto quella scuola perché ci andava un mio amico e sono andato anche io, così non è che… come fanno tutti
penso! E poi ho deciso di andare a fare l’elettricista perché lo faceva lui [indica Fahmi] eheheh [ridiamo] e lì ho fatto
un anno e mi hanno dato questa qualifica, poi basta […] non è che avevo voglia di studiare… pochissima voglia di
studiare! Pochissima! Non mi impegnavo niente, neanche per passare l’anno… qualcosina ma proprio poco… non ho
imparato molto a scuola! Ma ci andavo perché mia madre rompeva le scatole, diceva “Vai, vai, vai, vai, se no cosa
vuoi fare?” lei ci teneva che andavo a scuola, per lei era importante e allora andavo ma non facevo nulla! Preferivo
molto di più andare a lavorare [Abed, 19 anni].
Inoltre, in qualcuno emerge la preoccupazione dei genitori nel momento in cui il figlio comincia a
mostrare il bisogno di indipendenza economica manifestando la volontà di trovare un lavoretto durante il
periodo scolastico. Il lavoretto, anche se occasionale, viene percepito come un ostacolo allo studio nel
momento in cui porta via tempo e rischia di stimolare il ragazzo ad abbandonare la scuola per entrare
prima nel mercato del lavoro.
Io: Senti i tuoi genitori ti hanno mai chiesto un aiuto di qualche tipo?
Fahmi: No mai… mai… in Marocco sì, in casa mi chiede mio padre di aiutarlo, a verniciare le porte, a fare ste cose
qua, ma mai, mai mio padre mi ha chiesto soldi o… vai a lavorare… a lui quando sente che devo andare a lavorare si
arrabbia perché pensa che mollo la scuola e lui vuole che io studi
RAPPORTO SECONDGEN
Io: Quindi lui ha paura che il lavoro ti distragga dallo studio?
Fahmi: Sì… che non riesco più ad andare a scuola. Gli ho detto a mio padre “voglio fare il serale” si è incazzato mi
fa “ma no! cosa ti manca? cosa vuoi?”… un sacco di cose
Io: Lui non capisce quello che ti manca?
Fahmi: Sì… ma mi mancano i soldi a me [ridendo] [Fahmi, 20 anni].
Altri, nel tentativo di stimolare il ragazzo a proseguire gli studi, di fronte alla sua incertezza lo stimolano a
provare a lavorare, con il padre o con parenti, in settori del mercato del lavoro manuale più o meno
qualificato, al fine di sperimentare cosa significhi davvero lavorare senza un titolo di studio.
Un’esperienza volta a educare il figlio e a responsabilizzarlo nella speranza che capisca quanto alla sua età
sia meglio andare a scuola.
Mio fratello più grande, lui è stato un po’ stupido perché presa la licenza media non ha voluto più studiare. Ha
iniziato a lavorare a 15 anni come tubista e idraulico, ha iniziato a lavorare perché i miei genitori vedendo che non
voleva studiare gli hanno detto “Se non vuoi studiare vai a lavorare, non pensare di stare tutto il giorno sul divano a
fare niente! […] Alla fine della terza media, mia mamma essendo stufa di vedermi sempre sul divano a non fare nulla
davanti alla TV o alla playstation, e per paura che finissi come mio fratello passando un anno a non fare nulla, mi ha
detto “Senti, è ora che ti dai da fare, cercati un lavoretto, vai a lavorare con lo zio o con tuo padre, comincia ad
imparare cosa significa lavorare, magari ti viene lo stimolo per studiare!”. Non sapendo se continuare a studiare e
quale scuola scegliere, ho ascoltato mia mamma e mio papà pensando che così avrei capito anche quale lavoro o
mestiere mi sarebbe piaciuto imparare. Allora ho fatto un paio di settimane come magazziniere da mio zio e poi da
mio padre, aiutandolo con il suo lavoro da falegname. Sia mio padre sia mio zio mi davano di tasca loro 20 euro al
giorno, così, non avevo nessun contratto di lavoro con i loro datori ma avevano un accordo con loro “Lo faccio
lavorare con me, gli insegno qualcosa e i soldi glieli do di tasca mia, dal mio stipendio!” e i datori hanno accettato.
Quando ho lavorato con mio padre, ho conosciuto un ragazzo italiano, simpatico, che faceva l’elettricista e che mi ha
consigliato di fare quella scuola perché è un lavoro ben retribuito e che non richiede eccessivo lavoro, in termini di
ore giornaliere. Così, mi ha convinto e ho scelto quella scuola! [Rajab, 18 anni].
Non sembra quindi che siano le famiglie a indirizzare i figli verso percorsi scolastici professionali brevi,
almeno non tutte. Tra i giovani incontrati nessuno ha raccontato di essere stato indirizzato o consigliato
dai genitori, piuttosto hanno scelto sulla base delle informazioni raccolte a scuola dai professori delle
medie e da quelli delle superiori, durante gli orientamenti, così come da amici o conoscenti. Le famiglie di
questi giovani da una parte li stimolano a continuare gli studi, dall’altra non hanno informazioni sul tipo di
scuola adatta ad avviare un percorso professionale utile all’ascesa sociale, anche in virtù del
funzionamento del mercato del lavoro italiano e locale. Nello stesso tempo non stimolano i giovani a
sognare una professione diversa da quella dei padri e da quella che osservano nei contesti sociali
quotidiani (il quartiere e il Giardino)106.
L’incapacità delle famiglie a indirizzare i figli nella scelta della scuola ha inizio già nelle prime fasi del
ricongiungimento: nonostante i padri siano in Italia da molti anni non hanno acquisito informazioni utili
per l’inserimento dei figli nella società di arrivo, probabilmente perché rimangono isolati nelle cerchie
sociali attraverso le quali sono giunti a Torino (compaesani già presenti), a quelle legate al lavoro che
svolgono e alla zona di residenza. E se il quartiere è, come nel caso specifico di Barriera di Milano,
caratterizzato dall’avere una popolazione con i titoli di studio più bassi della città e dall’avere sul
territorio una moltitudine di scuole tecniche e professionali rispetto ai licei, è facile immaginare il tipo di
informazioni rispetto alle possibilità formative per i figli a cui accedono i padri “vivendo” lo spazio
urbano di residenza. L’incapacità dei padri non è poi colmata dalle madri che, ricongiungendosi con i figli
al marito, spesso rimangono “rinchiuse” nello spazio domestico, in quanto casalinghe, accedendo
all’esterno solo per espletare il lavoro di relazione che connette la famiglia ai servizi, spesso socioassistenziali.
Il risultato è che le famiglie lasciano completamente “liberi” e soli i giovani nella scelta della scuola,
dicendo loro “scegli quello che vuoi, importante è che studi!”. La ridotta dimensione e l’elevata
omogeneità e localizzazione delle reti sociali dei genitori è legata al processo migratorio che stanno
vivendo. Importante sono le reti sociali in cui si inseriscono all’arrivo, ma anche il fatto che il loro
progetto migratorio non sempre è orientato alla permanenza stabile e definitiva in Italia, come mostrano
alcune storie dei giovani incontrati, con genitori che sono oggi tornati al paese di origine. Tale progetto
migratorio potrebbe spiegare, in parte, anche la segregazione e localizzazione delle reti sociali in cui sono
106
Cfr. analisi a pag. 127
RAPPORTO SECONDGEN
inseriti i genitori: si inseriscono in determinate reti all’arrivo senza sviluppare progetti di cambiamento,
ampliamento e diversificazione delle reti stesse nel tempo.
Pertanto, da una parte i genitori tendono a responsabilizzare precocemente i figli (Queirolo Palmas e
Torre, 2005) lasciando loro la scelta sul tipo di scuola superiore da frequentare, dall’altra i figli imparano
in famiglia quanto sia importante studiare per trovare un buon lavoro ma non imparano a sognare percorsi
“ambiziosi”. Tutti sperano in un percorso di ascesa sociale attraverso occupazioni qualificate manuali
scegliendo di diventare elettricista, meccanico piuttosto che idraulico specializzato. Il liceo e l’università
non sono sentiti come delle possibilità, non perché non sappiano che questo tipo di percorso scolastico sia
utile per la mobilità sociale, ma perché i loro contesti sociali quotidiani (in particolare la famiglia e il
gruppo dei pari) non offrono loro modelli culturali adatti a creare preferenze di questo tipo.
L’università è sentita come qualcosa che non appartiene al proprio mondo, non è un percorso normale nel
momento in cui nessuno tra parenti, conoscenti e amici è laureato. E per questo spesso è idealizzata, così
come lo è il laureato che, anche se oggi fatica a trovare un lavoro qualificato e compatibile con il suo titolo
di studio, acquisisce status solo in virtù del titolo di studio che possiede. Ecco dunque come «le carriere
dei genitori (a qualunque livello sociale esse si collochino) influenzano duplicemente il destino dei figli:
prima concorrendo a plasmare le preferenze occupazionali e le competenze sociali, poi consentendo
l’accesso alle informazioni giuste al momento giusto (su opportunità di mercato, posti vacanti,
caratteristiche della domanda, aspettative nei confronti dei lavoratori, ecc.)» (Bianco e Eve, 1999, pag.
177).
Quindi, anche se durante l’orientamento scolastico fatto alle scuole medie si offrono informazioni sul
liceo, questo non viene preso in considerazione. Tra i giovani incontrati non è emersa una tendenza dei
professori a ridimensionare i sogni verso carriere scolastiche meno impegnative, ma questo non esclude il
fatto che possano non aver ricevuto la giusta quantità e qualità di informazioni. Ad ogni modo, la scelta è
spesso condizionata da quella dell’amico, che raramente è un compagno di classe italiano107, ma spesso un
connazionale conosciuto in Giardino. Altre volte da qualcuno con cui si è entrati in relazione in modo
casuale perché conoscente di un amico o di un parente. Le informazioni acquisite tramite l’orientamento
scolastico e le reti sociali non sono quindi sufficienti ad offrire una gamma di carriere formative possibili,
indirizzando spesso gli adolescenti verso percorsi scolastici non desiderati.
Il fatto che siano lasciati soli nella scelta, li spinge a scegliere percorsi brevi non solo perché quelli lunghi
non rientrano nelle loro possibilità immaginabili, ma anche perché nel gruppo dei pari tutti scelgono
percorsi brevi, poco impegnativi al di fuori dell’orario scolastico e perché in Giardino tanti non vanno più
a scuola. L’unico che ha parlato della possibilità di andare all’università è Fahmi, una possibilità nata
mentre frequentava il quinto anno per diventare tecnico elettrico, su stimolo di un suo professore108.
Fahmi, presa la maturità, non si è iscritto all’università ma ha preferito entrare nel mercato del lavoro.
[Parlando dei ragazzi che frequentano il giardino] hanno studiato ma non hanno mai finito. La licenza media ce
l’hanno… tipo lui [indica un ragazzo marocchino sui 20 anni] è arrivato con la famiglia, adesso è qui con i fratelli.
Ha studiato un po’, poi ha preso questa brutta strada, ha mollato la scuola e rimane lì a scaldare le panchine [Fahmi,
20 anni].
Mio fratello più piccolo per ora sta studiando, sta facendo la scuola per tornitori, lui è quello che studia un po’ di più,
che va meglio a scuola! Quando sono arrivato qua, ho iniziato le medie e poi ho fatto tre anni nella scuola
professionale per elettricisti, il terzo anno l’ho appena finito, ho appena preso la qualifica. Ora non ho più voglia di
studiare quindi non andrò avanti per il diploma ma ho deciso che cercherò lavoro [Rajab, 18 anni].
Diario etnografico: 7 marzo 2013
Alle 15.30 mi sento chiamare dal centro dei giardini e vedo Fahmi che agita le braccia. È in compagnia di tre ragazzi
marocchini. Arrivo, lo saluto e mi presento agli altri tre: Feisal, Hassan e Hadi (nomi di fantasia). Feisal si presenta
subito dicendo di avere 19 anni, la cittadinanza italiana anche se ha origini marocchine. Feisal è il più chiacchierone,
sembra non abbia problemi a raccontare e raccontarsi. Afferma inoltre che sono quasi tutti disoccupati, come loro
107
Il fatto, tuttavia, di essere un coetaneo italiano conosciuto nella scuola del quartiere non esclude che anche questo
non sia stimolato a progettare percorsi di formazione ambiziosi a causa del suo inserimento in una rete sociale simile a
quella dei giovani magrebini incontrati, con genitori e pari che non aiutano a sognare percorsi e carriere diverse dalle
loro. Questo, infatti, è emerso durante la ricerca Street Monkeys, anche tra giovani italiani residenti nella zona e
appartenenti a contesti familiari e sociali deprivati.
108
Anche tra i giovani di Foote Whyte (2011) emerge il ruolo del professore che stimola e consiglia l’iscrizione
all’Università a quei giovani particolarmente brillanti e interessati allo studio rispetto alla media dei figli degli
immigrati italiani che vivono in Cornerville (Boston).
RAPPORTO SECONDGEN
d'altronde. Feisal gira una canna e la fuma assieme a Fahmi e a Hadi. Gli chiedo che cosa hanno studiato e subito
Feisal mi dice ridendo di essersi fermato alla scuola che dà sul giardino. Io gli dico “Ma non è una scuola media?” e
lui mi risponde “Appunto! Anzi non ho nemmeno preso il titolo!” “Quindi non hai la licenza media?” “No” sempre
ridendo. Subito però mi dice che si è informato per prenderla con le 150 ore ma dice che costa 400 euro e quindi
questo lo sta scoraggiando.
Non solo la scelta della scuola, ma anche l’orientamento verso lo studio, la voglia di studiare e i risultati
scolastici sono in parte condizionati dai pari e dall’elevata disponibilità di tempo libero che osservano nei
disoccupati del Giardino; tuttavia, sono anche spiegati dalla loro età sociale, un periodo in cui si cresce,
cambiano i bisogni e le priorità e, se non seguiti e accompagnati da una figura adulta, lo studio rischia di
essere spostato agli ultimi posti nella scala delle preferenze, soprattutto tra i maschi. Se, infatti, da una
parte i genitori non chiedono aiuti ai figli affinché si concentrino negli studi, dall’altra non li seguono e
non li controllano nell’andamento scolastico, abbandonandoli al loro senso di responsabilità e volontà di
studio, spesso entrambi carenti negli adolescenti. Infine, se la scelta dell’istituto scolastico superiore è
legata più a quello che fanno i pari e meno a ciò che si desidera studiare e “diventare da grandi”, il rischio
è che il ragazzo non abbia il giusto stimolo ad impegnarsi nello studio, approcciandosi a questo più come a
un obbligo (“i miei genitori vogliono che studi”) e meno come a una scelta.
In generale si può affermare che, nonostante tanti di loro abbiano interrotto gli studi presto per mancanza
di volontà di impegnarsi, tanti altri hanno continuato a studiare fino alla qualifica se non al diploma, anche
se tutti hanno concluso o stavano concludendo il percorso scolastico in ritardo, o perché bocciati o perché
inseriti in classi inferiori all’arrivo in Italia. La bocciatura avviene a volte per il mancato impegno nello
studio, altre volte per le frequenti assenze motivate dalla cosiddetta “tagliata perché il prof. interroga e io
non ho studiato”, perché “i miei amici che non vanno a scuola e non lavorano, oggi hanno organizzato una
gita fuori Torino e non posso perdermela”, per uscire con delle amiche o per un viaggio lungo nel paese di
origine per motivi familiari.
La volontà di continuare fino al conseguimento del titolo viene spiegata dall’idea che la scuola serva per il
proprio futuro. Tuttavia, questa consapevolezza appresa dai genitori, si trasforma in un stimolo emotivo a
proseguire gli studi nonostante le difficoltà, se supportata dal gruppo dei pari, dalla famiglia e dagli
insegnanti. Tra i magrebini incontrati questo, per i motivi già detti, avviene raramente.
Per avviare una carriera scolastica di successo, non è solo necessario impegnarsi nello studio ma anche
conoscere le norme che regolano le condotte in classe e le regole istituzionali della scuola. Questi giovani
non motivano gli insuccessi scolastici con fenomeni di discriminazione e razzismo, ma piuttosto con la
loro incapacità a rispettare la disciplina attesa dagli insegnanti e le regole della scuola e, in alcuni casi, con
lo scarso impegno nello studio. L’incapacità di accettare il ruolo dell’insegnante e la sua autorità, così
come l’incapacità di “stare in classe” in modo consono e accettato dal corpo docente, non è un’incapacità
appresa nel paese di origine, ma nelle scuole della società di arrivo. La vivacità di alcuni di loro durante le
ore di lezione, l’indifferenza verso quello che spiega il professore e atteggiamenti anche provocatori nei
suoi confronti possono essere letti come simbolo dell’integrazione nella cultura giovanile locale, composta
da giovani italiani e di origine straniera. Infatti alcuni marocchini incontrati raccontano della diversità
osservata e vissuta nel rapporto tra insegnante e alunno in Italia (per lo più in Barriera di Milano a Torino)
e in Marocco. Dove in Marocco la relazione insegnante-alunno è fortemente e marcatamente asimmetrica
e autoritaria, con ricordi di punizioni corporali e di insegnanti che “avevano sempre ragione”, mentre in
Italia è maggiormente improntata sull’ autorevolezza intellettuale e morale dell’insegnante non mantenuta
in modo coercitivo, sul rispetto dell’alunno e, spesso, sulle capacità degli insegnanti di attirare l’attenzione
anche di alunni poco orientati a “stare in classe”.
Inoltre, i compagni italiani sono giovani che, soprattutto alle medie, sono residenti nello stesso quartiere
(Barriera di Milano e zone limitrofe), con un origine socio-economica bassa, con genitori con bassi titoli
di studio, con famiglie spesso seguite dai servizi sociali e con una socialità spesso appresa in strada, nei
campetti e nei giardini pubblici locali109. Emerge pertanto il ruolo della scuola come luogo sociale di
apprendimento di modelli culturali utili all’integrazione dei giovani nelle classi (Ceravolo, Eve e
Meraviglia, 2001), dove l’apprendimento si trasmette tra pari (italiani e non) che crescono e sono esposti a
modelli e norme sociali tipiche dello spazio urbano vissuto quotidianamente, il quartiere. Entrando nelle
109
Tra alcuni di giovani incontrati nella zona anche durante la precedente ricerca in Barriera di Milano (Street
Monkeys) è cool tagliare la scuola, non studiare, non obbedire al professore e sfidarlo con atteggiamenti provocatori,
non ascoltare o passare la lezione fuori dalla classe fumando tabacco e cannabis, tutti comportamenti apprezzati che
conferiscono prestigio e fama tra i pari nella scuola e negli spazi pubblici del quartiere.
RAPPORTO SECONDGEN
aule italiane, imparano un altro modo di stare in classe e di relazionarsi con gli insegnanti e, nel tentativo
di integrarsi tra i pari, acquisiscono e adottano comportamenti e atteggiamenti che permettono di essere
riconosciuti dai compagni e magari diventare dei leader. Dalle loro pratiche emerge un bisogno di
inclusione tra i compagni di classe e di ottenere riconoscimento. Proprio in relazione a questo bisogno,
l’incapacità di “stare in classe” o di ascoltare la volontà dell’insegnante mostra una abilità di adattamento
e di “apprendimento” delle norme sociali che regolano le interazioni tra pari. Si tratta di norme che si
basano su precisi modelli comportamentali orientati ad ottenere riconoscimento e rispetto dai compagni,
quali la sfida dell’autorità e la ricerca della trasgressione (tipico del periodo adolescenziale) piuttosto che
l’uso della forza come regolatore dei rapporti di potere tra pari (molto diffuso nella loro zona di
residenza).
Tuttavia, le norme che regolano le interazioni tra compagni di classe, e l’acquisizione di riconoscimento,
spesso non coincidono con quelle accettate e attese dal corpo insegnante. Così, il bisogno di integrarsi nella
classe ed essere riconosciuti spinge ad adottare comportamenti ammirati dai pari, ma condannati dai
docenti. Se rispondere ad un professore con tono arrogante, burlarsi di lui mentre spiega, “tagliare”
l’interrogazione o fare a pugni con un pari a scuola fa loro guadagnare reputazione da macho tra i coetanei,
agli occhi degli insegnati il giovane viene etichettato come indisciplinato, maleducato, violento, come un
problema. Oppure addirittura come leader trascinatore che crea disordine in classe, come racconta bene
Rajab di seguito.
A scuola andavo volentieri perché mi divertivo, sai, ero un po’ vivace in classe, non facevo casino, diciamo come
tutti! C’erano i professori che non sapevano tenere la classe e allora ce ne approfittavamo un po’, ma ci divertivamo.
In particolare con un’insegnante, quando c’era lei volava di tutto per la classe, lei spiegava e nessuno l’ascoltava
[…]. Con un’altra professoressa, quella di italiano, la più bella, è proprio figa quella lì, comunque quando c’era lei, le
tiravo le palline di carta con la penna, sai come una cerbottana, e le si fermavano sul sedere… che ridere, belle
giornate ho passato a scuola. Il professore di tecnica, che ridere, questo è calabrese quindi parla tutto così sai [fa
l’accento calabrese e lo fa anche bene] al momento delle pagelle, dice ai miei genitori “Signori *** [cognome di
Rajab], quando c’è Rajab la classe cambia da così a così!” eheheh [ride] e mia madre che doveva dire? Mi dava degli
scappellotti leggeri sgridandomi, mio padre invece sembrava quasi divertito… ma alla fine me la sono sempre cavata
con lo studio, per quello non se la sono mai presa! Inoltre, avevano capito che i professori ce l’avevano un po’ con
me, non so bene perché, non penso per razzismo anche perché non ero l’unico straniero in classe ma perché mi
consideravano un po’ il trascinatore della classe, quello che istigava al casino durante le lezioni! È un po’ avevano
ragione! Sono rimasto bocciato solo un anno, il primo anno delle superiori ma non è stata colpa mia! Il fatto è che ho
fatto tre mesi di assenza perché sono finito all’ospedale, ma non è stata colpa mia! Vedi qui? [mi fa vedere una
grossa cicatrice sul polso della mano destra] il motivo è che mi sono picchiato o meglio ho picchiato un razzista, uno
della mia scuola, e sono finito all’ospedale, ma anche lui mi hanno detto sai? Questo qui non veniva in classe con
me, ma tutti i giorni mi diceva “tornate al tuo paese, non ti vogliamo qui in Italia, tuo padre è venuto a rubarci il
lavoro e ora usi i soldi degli italiani per studiare” tutti i giorni, tutti i giorni così, ogni volta che mi vedeva “tunisino
di merda!” fino a che io non l’ho più retto e l’ho aspettato davanti alla scuola e l’ho picchiato, gli ho rotto il naso, il
labbro e poi non so, perché poi è scappato e quando è scappato, io per l’arrabbiatura ho tirato un pugno contro il
muro e mi è uscito l’osso del polso, vedi? […] Avevo l’osso di fuori, sono stato più di un mese all’ospedale.[…] I
miei genitori quando hanno saputo che ero stato bocciato ci sono rimasti male ma sapevano anche qual era il motivo,
quindi non mi hanno costretto ad andare a lavorare come con mio fratello, ma mi hanno dato un’altra possibilità
[Rajab, 18 anni].
In questi casi, cominciano i problemi con i professori che non vengono accusati di essere razzisti ma di
non saper tenere la classe. Ad ogni modo, non emergono grandi conflitti con i professori che possano
spiegare gli insuccessi scolastici.
Quando si diventa un leader in classe è facile che si instaurino legami con i compagni che vanno oltre il
contesto scolastico, anche se il Giardino e gli amici della propria zona continuano ad essere il gruppo dei
pari privilegiato con cui passare il tempo, soprattutto nel periodo di interruzione estiva della scuola.
Un altro aspetto interessante che emerge è la scarsa conoscenza delle regole istituzionali della scuola e la
scarsa volontà di informarsi su queste. Anche in questo caso i genitori sembrano lasciare i figli soli nella
gestione della loro vita scolastica. Tuttavia, non sempre i giovani sono così responsabili, non
interessandosi personalmente su quando riapre la scuola o su come vengono calcolate le assenze,
comportamenti che possono portare alla bocciatura. La non supervisione della famiglia non è indicatore di
disinteresse nei confronti della condotta scolastica dei figli, ma piuttosto di una difficoltà di controllo, in
parte legata alla loro storia migratoria. In particolare, la specificità del processo migratorio familiare,
l’integrazione subalterna dei genitori e il loro inserimento in reti sociali segregate e localizzate non
RAPPORTO SECONDGEN
permettono di accedere alla giusta quantità/qualità di informazioni sul “nuovo” contesto nel quale si
muovono i figli. Come emerge nella letteratura (Ambrosini, 2004; Queirolo Palmas e Torre, 2005;), la loro
capacità di controllo viene meno anche per la perdita di autorità nei confronti dei figli in seguito alla
distanza vissuta prima del ricongiungimento. Questi autori parlano di delegittimazione e perdita
dell’autorità genitoriale durante il percorso migratorio, soprattutto quando uno o entrambi i genitori sono
partiti molto tempo prima, lasciando i figli in patria. Questo processo emerge in parte anche tra i
magrebini incontrati. Infatti, molti di loro raccontano di avere rapporti difficili con il “genitore apri-pista”
della migrazione. Nelle loro storie sottolineano che, essendo partiti quando ancora molto piccoli, sono
cresciuti con la madre e, soprattutto all’inizio del ricongiungimento, faticano a riconoscere la figura
genitoriale del padre una volta giunti a Torino. Una perdita dell’autorità genitoriale che fatica ad essere
recuperata quando il genitore delegittimato è anche quello che nel nuovo contesto è più assente, perché
impegnato nel mercato del lavoro110. Inoltre, l’incapacità del padre non è compensata dalla madre che,
nonostante sia il punto di riferimento principale per tutti i giovani magrebini incontrati, non ha le risorse
necessarie (riconoscimento dell’autorità genitoriale, informazioni e a volte capacità linguistiche) per
seguire il figlio nel sistema scolastico. Questo non significa che le famiglie non si interessano, ma che non
accedono alle risorse per farlo nel modo corretto e, magari, si fidano “eccessivamente” delle informazioni
che raccolgono direttamente dai figli, almeno fino alla loro prima bocciatura.
Di fronte alla mancata guida dei genitori, i figli si “arrangiano” sulla base delle informazioni che
raccolgono nel gruppo dei pari. Esemplare è il caso di Fahmi presentato sotto.
Diario etnografico: 22 maggio 2013
Fahmi mi racconta che non sta andando tanto bene, che rischia di essere rimandato a scuola perché quest’anno ha
superato i 52 giorni di assenza previsti in un anno. Dato che è stato in carcere un mese, quando è uscito il padre ha
voluto che cambiasse scuola per evitare che si spargesse la voce e lui avesse difficoltà con i docenti “A mio padre
non piace che si sappia che io sono stato arrestato per spaccio e mi sono fatto un mese dentro!”. Così, da settembre
ha iniziato a non andare più a scuola, in attesa di iscriversi in un’altra, perché pensava che i giorni di assenza glieli
avrebbero contati iniziando dal primo giorno di frequenza nella nuova scuola. Però a scuola si è iscritto a novembre
e, dal momento che il conteggio lo fanno nell’anno scolastico e non per scuole, ora rischia di non essere promosso e
non diplomarsi a causa delle troppe assenze. Gli insegnanti, vedendo i risultati positivi e sopra la sufficienza di
Fahmi, gli dicono tuttavia che deve in qualche modo giustificare i due mesi di assenza, in modo da poter essere
ammesso all’esame. “L’unico problema è che ho paura che il medico non me lo faccia il certificato perché lo scorso
giugno me lo ha già fatto per l’anno scorso e mi ha detto che non mi voleva più vedere perché non mi avrebbe più
aiutato!” dice Fahmi preoccupato. “Ma sì, non si ricorda di te! Poi quello che c’è lì” Hadi indica il corso che passa di
fianco “è un ubriacone! Non si ricorda nulla, stai tranquillo!” ribatte sicuro Hadi111.
La discussione sul da farsi continua per un bel po’, con Hadi che offre informazioni su come comportarsi e
ottenere una giustificazione falsa dei giorni d’assenza e Fahmi che sembra essere preoccupato anche
perché sa che non può chiedere aiuto a suo padre: “a lui non piace fare le cose non oneste!”. Il fatto che
Hadi abbia delle informazioni utili per superare questo ostacolo improvviso al raggiungimento della meta
scolastica, è indicatore del fatto che non è la prima volta che loro necessitano di soluzioni per “riparare”
ad errori nelle condotte e nel rispetto delle regole della scuola. Soluzioni che si trovano grazie alle
informazioni acquisite nel gruppo dei pari in virtù di esperienze già vissute. E sarà di nuovo un amico di
Fahmi che lo accompagnerà dal suo datore di lavoro, il quale per soldi sarà disposto a rilasciare un
certificato che giustifichi i mesi di assenza a scuola. Il Giardino, permettendo di incontrare giovani più
grandi che hanno già vissuto determinate esperienze, si presenta anche come il luogo nel quale acquisire
informazioni e imparare le strategie di sopravvivenza al fine di riparare al mancato rispetto delle regole
scolastiche e riuscire a concludere gli studi.
Nei racconti emerge quella tensione tra “scuola come investimento per il futuro” e “scuola come obbligo”
imposto dai progetti che i genitori hanno sul loro futuro, già emersa tra i giovani latino-americani a
Genova (Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Una tensione che spesso si manifesta: con un
impegno nello studio che possa permettere di superare l’anno e ottenere il titolo di studio, con la scelta di
110
L’incapacità del controllo dei genitori sui figli adolescenti, la difficoltà dei rapporti tra genitori e figli ricongiunti e la
perdita della funzionalità genitoriale per il mancato riconoscimento dei figli, sono elementi emersi anche tra i giovani
rumeni incontrati per la ricerca “Street Monkeys” nei confronti delle madri o di entrambi i genitori partiti anni prima di
loro.
111
Hadi è un amico di Fahmi, anche lui di seconda generazione, di origine marocchina e sui 20 anni.
RAPPORTO SECONDGEN
un percorso scolastico breve112, con la tendenza a seguire gli amici “disoccupati” “tagliando” la scuola e
con l’attivazione delle proprie reti sociali per riparare il danno quando si rischia la bocciatura, con la
credenza che studiare e ottenere un diploma sia importante per trovare lavoro perché serve il “pezzo di
carta”.
Tutti i giovani che ho incontrato e con cui ho potuto affrontare questo tema, ammettono che la scuola
professionale che hanno frequentato non sia utile in sé per entrare nel mercato del lavoro ma nel momento
in cui permette di costruire un capitale sociale sfruttabile per le proprie scelte future. È a scuola che si
costruiscono una serie di relazioni che offrono risorse materiali e sociali utili ad accedere e ad adattarsi
all’ambiente sociale a cui si aspira (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Come avviene questo
nell’esperienza dei magrebini incontrati? Attraverso lo stage obbligatorio richiesto dalla scuola prima di
ottenere la qualifica e il diploma. Lo stage sembra essere importante per tre motivi: in primo luogo,
cominciano a conoscere aziende o professionisti del proprio campo di studi che altrimenti non
raggiungerebbero; in secondo luogo, permette loro di fare esperienza pratica e di imparare il lavoro per il
quale si stanno formando; terzo, offre loro visibilità facendosi conoscere direttamente dal datore di lavoro;
infine, offre occasioni per costruire relazioni utili per entrare nel mercato del lavoro una volta conseguito
il titolo. Tutti ammettono che la scuola non ha insegnato come cercare lavoro, come presentarsi, come
mettere in pratica quello che studiano, se non nelle poche ore di laboratorio. Ciò che è stato davvero utile è
lo stage, anche solo nel fare capire quanto poi le scelte scolastiche fatte siano state corrette in base alle
preferenze personali che, crescendo, possono cambiare.
[Parlando dello stage] Sì ho fatto, sì ho fatto quattro mesi, con la scuola quella di elettricista, l’ho fatto in un’azienda
e sono serviti quei mesi, per forza, è lì che impari un po’ il lavoro, diciamo molto più che a scuola, sì! [lo dice con un
tono come se fosse scontato che la scuola non ti prepara per lavorare] è per questo che se andavo prima a lavorare
imparavo prima e anche… mi veniva quella voglia di imparare non come a scuola [Abed, 19 anni].
Fahmi: Ho fatto dei lavoretti… quest’anno finito lo stage mi ha preso a lavorare con lui, mi ha fatto un contratto
occasionale cè, solo quando c’è da lavorare però lavoravo tutti i giorni […]
Io: Hai lavorato nel settore in cui ti stai diplomando?
Fahmi: Sì ho fatto due impianti civili, abbiamo allestito un ufficio, abbiamo montato prese, lampade, torrette internet,
abbiamo fatto praticamente tutto quello che si trova in ufficio. Lavoravo dalle nove fino alle cinque e facevano due
ore di pranzo… io non li facevo perché mangiavo e iniziavo direttamente a lavorare, loro andavano a mangiare, mi
diceva “fai quello! fai quello!”
Io: Quindi lavoravi anche di più di quello che avresti dovuto?
Fahmi: Eh sì, nello stage lavoravi anche di più! Dovevi fare sei ore di stage al giorno invece noi a volte uscivamo
alle otto, cè, non dicevo niente… per imparare io… anche io volevo cè, lui mi ha sfruttato di più, anche io l’ho
sfruttato nel senso che volevo imparare
Io: E lo stage non era retribuito?
Fahmi: No, non era retribuito però lui mi dava venti euro ogni venerdì… una cortesia da lui, diciamo [con tono
ironico]… mi ha mandato la scuola… la scuola ci ha chiesto se conoscevamo qualcuno che fa il nostro mestiere, se
conoscevamo potevamo andare a fare lo stage da lui. La scuola faceva l’assicurazione, faceva quelle cose là, boh!
Non conoscevo nessuno, ho affidato alla scuola questa cosa e mi hanno mandato qui, anche se il datore di lavoro mi
trattava bene, mi rispettava, però solo nel lavoro! Cè, mi teneva di più mi… per esempio mi ha fatto montare degli
scaffali, pulire la cantina… nello stage! Non potevi dire niente perché in fondo tanto lui scriveva il suo rapporto “è
normale, così, qua, di là” e ti rimaneva sempre nel… Sì le mie dita mi facevano male qua per avvitare le vite [viti], i
bulloni con la mano… pazzesco! A volte mi sentivo sfruttato da matti però… quello è il mondo del lavoro, devi
lavorare… l’unica cosa che passa per la mente la impari e boh!
Io: Lo stage è durato quanto?
Fahmi: È durato… un mese
Io: Lui dopo ha cominciato a farti dei contratti?
Fahmi: Sì dei contratti occasionali… ti fa cinque giorni di contratto, poi ti fa altri cinque giorni o quattro giorni che
lui anche aveva paura che se non c’era più lavoro non riusciva poi a pagarmi
Io: Lui ti ha detto così?
Fahmi: Eh sì! [Fahmi, 20 anni].
Io: Senti un po’, ma secondo te la scuola italiana serve per entrare nel mercato del lavoro?
Rajab: hm… no! Nessuno a scuola ti insegna cosa vuol dire lavorare e come cercare il lavoro, la teoria serve poco
soprattutto se non studi e comunque quello che ti serve dopo è l’esperienza pratica ma a scuola si fa poca pratica,
pochi laboratori, l’unica cosa positiva è che ti fanno fare lo stage obbligatorio, lì sì che impari qualcosa e ti crei
anche i contatti per dopo. Ad esempio, io ho fatto lo stage presso un’azienda che sta qui a Torino, qui vicino [azienda
112
Molti di quelli che si fermano alla qualifica, all’inizio della scuola superiore erano orientati al raggiungimento del
diploma.
RAPPORTO SECONDGEN
manifatturiera italiana, che produce apparecchiature e macchine elettriche vendute nell’area mediterranea presso
clienti appartenenti al comparto oil&gas, produzione e distribuzione di energia, centrali petrolchimiche in genere,
raffinerie, altre aziende] e lì mi sono trovato bene, ho imparato delle cose, più di quello che ho imparato a scuola.
Ora mi hanno detto che per il periodo estivo hanno bisogno, un part time, a me va benissimo, mi hanno detto di
mandare il curriculum con copia della qualifica per vedere se prendermi [Rajab, 18 anni].
Lo spazio di apprendimento delle pratiche “devianti”: il Giardino e i suoi abitanti
I giovani incontrati in Giardino, così come quelli incontrati in altri contesti torinesi o della provincia, sono
accomunati dal fatto di essere bene integrati nella cultura giovanile italiana locale. Come emerge dagli
studi sui giovani latinos di Genova e da altri studi sulle seconde generazioni (Dal Lago e Quadrelli, 2003;
Colombo, 2005b; Queirolo Palmas e Torre, 2005; Queirolo Palmas, 2006a, 2006b), le aspettative, gli
orientamenti di valore, le preferenze e i gusti di questi giovani coincidono con quelli dei loro coetanei
autoctoni di tutte le classi sociali. Dai racconti emerge quanto già confermato da autori come Queirolo
Palmas, Colombo, Quadrelli: il consumo e l’accesso al denaro si configurano come simbolo ed
espressione di identità e integrazione sociale, mentre l’indipendenza, l’autonomia e la libertà individuale
sono valori considerati fondamentali per una piena realizzazione di sé.
Per questi giovani, è fondamentale avere l’ultimo modello di smartphone uscito sul mercato, l’ultimo
modello di scarpe Nike o Adidas, l’ultimo modello d’auto di una precisa casa automobilistica oltre che
l’andare in discoteca e poter “tirare fuori i soldi” per consumare o offrire un cocktail alla ragazza che
interessa. L’abbigliamento, così come l’attività del consumo centrata sul divertimento e sulle relazioni
sociali, sono simboli che veicolano identità e status ricercati da molti adolescenti di qualunque origine
nazionale, soprattutto quando è percepita una deprivazione relativa e per il carico simbolico che assumono
alcuni beni e stili di consumo (Colombo, 2005b; Queirolo Palmas e Torre, 2005).
Come è emerso precedentemente, sono principalmente due i luoghi frequentati quotidianamente all’arrivo
in Italia da questi giovani, luoghi che si presentano come i primi “mondi sociali” ai quali accedono: la
scuola e gli spazi pubblici urbani del quartiere di residenza. L’“acculturazione” ai modelli valoriali e agli
stili di vita dei magrebini incontrati comincia nella scuola dell’obbligo quando, giunti in Italia, entrano in
contatto con un ambiente sociale “ibrido”, formato da coetanei italiani e seconde generazioni arrivate
prima (Bourdieu, 2001; Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001; Queirolo Palmas, 2006a, 2006b). È a scuola
che questi giovani imparano gusti, preferenze e modelli culturali di inclusione e di ascesa sociale,
acquisiscono informazioni utili a muoversi nella società più ampia ma soprattutto quelle utili ad integrarsi
tra i pari della società di arrivo. Loro non solo imparano le norme e le regole del funzionamento della
società italiana, imparando ad esserne cittadini, ma soprattutto imparano ad essere “giovani italiani” di
quartieri periferici apprendendo gusti e preferenze da chi proviene da contesti socio-economici simili.
Tuttavia, come si cercherà di mostrare, anche in Giardino apprendono e, soprattutto, danno forma e
manifestano gusti, preferenze, valori attraverso la scelta dell’abbigliamento, della musica, dei luoghi e
delle forme del divertimento.
Durante l’osservazione sono emersi due stili prevalenti tra i giovani italiani e di origine straniera residenti
nella zona113. Uno stile è quello del “tamarro di Barriera”, molto diffuso in diversi contesti periferici
urbani, come quelli dell’hinterland torinese. Il dizionario italiano definisce, il tamarro come “giovane dei
quartieri periferici, che segue gli aspetti più appariscenti e volgari della moda” (Hoepli.it), mentre
l’enciclopedia Treccani lo definisce come “voce regionale, in uso nell’Italia meridionale, e da lì diffusa
anche altrove nel gergo giovanile per indicare persona, per lo più di periferia, dai modi e dall’aspetto
rozzi, volgari, villani” (Treccani.it).
Conosciuto anche come truzzo, zarro o zama nel contesto torinese, il tamarro si distingue dal “fighetto”
perché quest'ultimo acquista ogni capo d’abbigliamento originale e a prezzo pieno. Al contrario, il truzzo
privilegia marche diffuse ma non necessariamente pregiate ed elitarie (come la Nike) e spesso indossa
abiti “taroccati” che riproducono quelli originali di firme quali Prada, Gucci, Lacoste, Louis Vuitton
oppure originali acquistati al mercato di Porta Palazzo a basso costo114. Inoltre, ha la tendenza ad apparire
ed esporre in modo sfarzoso capi d’abbigliamento e accessori vari, risultando tuttavia pacchiano e non
113
Il fatto che in quartiere è possibile osservare due stili ai quali ricondurre secondo una logica fuzzy gran parte dei
giovani, non significa che non ci siano giovani che si esprimono con stili differenti.
114
Al mercato di Porta Palazzo accedono sia a beni contraffatti sia a quelli originali rubati e rivenduti a prezzi inferiori e
accessibili alla popolazione del luogo sul mercato nero.
RAPPORTO SECONDGEN
sempre “all’ultima moda”, anche a causa di un’impossibilità economica e culturale (il gusto appreso nel
contesto sociale di vita) ad accedere a beni di lusso.
L’abbigliamento tipico del tamarro della zona è composto da jeans molto stretti o pantaloni della tuta un
po’ larghi ma stretti alla caviglia, maglietta aderente meglio se con la firma ben stampata davanti, poco
importa se originale, e scarpe da ginnastica alte Nike o Adidas. A volte portano visibile una spilla con la
scritta “Barriera domina”, amano ricoprirsi il corpo con tatuaggi tribali e girano su auto con l’assetto basso
tanto da toccare i dossi, luci possibilmente blu e impianto stereo super tecnologico e potente: il “tamarro di
Barriera” prima si sente e poi si vede. Ascoltano per lo più musica pop, techno115, latino-americana e tutta
quella musica offerta dai mass media.
Altri hanno un abbigliamento più vicino allo stile del rapper, richiamando elementi dell’hip hop116, dove la
marca è sempre ricercata, ma solo quella dello stile: da Majestic a Franklin & Marshall, da Nikita a Puma,
da Nike ad Adidas. Indossano pantaloni più o meno larghi, portati rigorosamente bassi e a volte al di sotto
del sedere in modo che possano essere visibili gli indumenti intimi, anche questi di marca, magliette e
canotte molto larghe che spesso riproducono quelle da baseball “New York Yankees” o da basket, felpe
molto grosse, giubbotti da baseball e berretti con la visiera “Starter”. Spesso hanno catene al collo o
collane molto grosse. Girano o aspirano a girare con auto potenti e costose, nelle quali è importante
l’impianto stereo per ascoltare la musica. Ascoltano per lo più musica rap, spesso anche improvvisata
(freestyle) che esprime sentimenti e storie vicine al contesto sociale in cui sono inseriti i giovani del
quartiere. Oltre al vestiario e alla musica, si atteggiano da rapper con i movimenti del corpo che
accompagnano le loro interazioni verbali.
Può capitare di trovare giovani che hanno uno stile intermedio tra quello “tamarro” e quello hip hop.
Infatti, i giovani magrebini osservati in Giardino non hanno appreso in modo passivo gusti, preferenze e
modelli identificativi, ma li hanno reinterpretati in base anche ai pari frequentati quotidianamente. I
magrebini incontrati si collocano a metà tra il tamarro e il rapper, creando un ibrido particolare. Tra di loro
ci si veste con abiti che ricordano entrambi gli stili, ascoltano sia musica pop sia musica rap e qualche
brano famoso reggae. Spesso è musica di cantanti e gruppi del paese di origine, in lingua araba o
marocchina. Si tratta di uno stile ibrido che nasce dall’incontro di ciò che trovano nella micro-società di
arrivo (nelle scuole e nei luoghi di aggregazione del quartiere) e ciò che i più grandi del giardino
indossano, diventando dei modelli del gusto117.
I gusti per un determinato abbigliamento, per la musica ascoltata ad alto volume nel luogo pubblico, i
movimenti del corpo e le interazioni fisiche legate al saluto, così come il gergo parlato, sono appresi in
Giardino, ovvero un contesto socio-culturale che a sua volta è inserito in altri contesti più ampi (quello del
quartiere di Barriera di Milano e Porta Palazzo, quello urbano di Torino, ma anche quello mediatico
italiano). Contesti dai quali i giovani prendono spunti per poi acquisire una propria specificità. A scuola e
in Giardino hanno conosciuto stili musicali e di abbigliamento, ma è in Giardino che apprendono le norme
e le regole d’interazione tra pari, così come i linguaggi verbali e del corpo usati durante l’interazione,
come specifici del loro gruppo. La lingua che parlano è un ibrido che nasce dal marocchino e da forme
dialettali specifiche e dal gergo giovanile diffuso in Barriera di Milano118. Le conversazioni sono spesso
115
La musica techno è un genere musicale nato a Detroit, Michigan (USA), negli anni ‘80 e appartenente alla electronic
dance music, suddivisa in innumerevoli sottogeneri, a seconda di varie caratteristiche di tipo ritmico, melodico e
sonoro. È un genere elettronico da ballo dove la musica è prodotta da suoni sintetici, ovvero è generata da segnali e non
da vibrazioni acustiche.
116
L’hip hop è un movimento culturale che nasce nei primi anni '70 del secolo scorso nelle comunità afroamericane e
latinoamericane del Bronx, quartiere “ghetto” di New York di fama mondiale. L’hip hop è caratterizzato dalla musica
rap introdotta dagli afroamericani, il Djing introdotto dai giamaicani, dai Block party (feste di strada), dal writing (l’arte
urbana che simboleggia l’appropriazione del territorio urbano come spazio di vita e spazio di espressione), dal B-boying
ovvero uno stile molto dinamico e acrobatico di ballo nato direttamente nel Bronx, il Beatboxing ovvero l’arte di creare
melodie e ritmi utilizzando esclusivamente la voce, infine, dall’attivismo politico, la moda nell’abbigliamento, lo slang
utilizzato.
117
Questo stile ibrido è stato osservato anche tra alcuni gli adolescenti rumeni e italiani incontrati durante la precedente
ricerca in Barriera di Milano “Street Monkeys”.
118
Ad esempio è molto diffuso l'uso dell'intercalare “cè” e del “minchia” nelle conversazioni in lingua o di termini
specifici che hanno imparato nel luogo, come “ciocchi” per indicare le pratiche illegali attivate per guadagnare denaro o
risparmiarne in caso ci si trovi di fronte ad un problema. Un esempio è il mettere in scena un incidente stradale fasullo
al fine di prendere soldi dall'assicurazione per aggiustare l'auto danneggiata per altri motivi.
RAPPORTO SECONDGEN
intercalate da parole italiane, per lo più provenienti dal linguaggio triviale, e da parole gergali diffuse tra i
giovani della zona.
Tra i ciondoli appesi al collo, vi sono sovente simboli religiosi e l’abbigliamento del rapper/tamarro spesso
è accompagnato dalla kefiah, altro indumento simbolico conosciuto spesso nella società di arrivo.
Si osserva la creazione di uno stile specifico che evoca sia l’identificazione con un gruppo definibile, sia
una certa “auto-sufficienza” nei riferimenti culturali rispetto ai consumi. Si tratta di un processo molto
vicino a quello descritto da Roy (2003) sui giovani beur delle periferie francesi. Anche qui si intravede un
processo di “etnicizzazione di uno spazio di esclusione sociale” (Roy, 2003, pag. 62), dove l’essere
magrebini e arabi è scoperto e costruito nel contesto urbano periferico della società di arrivo.
L’abbigliamento, i gusti culinari (fast food occidentali e “etnici”), la musica, la lingua, la “sete” di
consumo, le norme sociali che regolano l’interazione tra pari sono marcatori di un’identità costruita in
Giardino in modo creativo e contestuale allo spazio sociale, culturale ed economico in cui vivono
quotidianamente: quello italiano e, nello specifico, quello torinese.
È in giardino che si apprende l’appartenenza al mondo arabo, imparando a solidarizzare con il popolo
palestinese e a indossare la kefiah oppure conoscendo i gruppi musicali magrebini. Come sottolinea
l’autore francese, i contenuti della costruzione etnica sono molto più vicini a quelli che caratterizzano
l’identità dei gruppi di giovani italiani e di origine straniera che vivono in contesti sociali simili a quello
osservato, piuttosto che a quelli dei giovani connazionali rimasti al paese d’origine. Sono più vicini ai
giovani dell’Africa sub-sahariana che frequentano il giardino e ad alcuni giovani italiani e rumeni
incontrati in quartiere, che ai coetanei rimasti al paese con quali hanno difficoltà ad identificarsi e
interagire quando, ad esempio, tornano al paese di origine.
[Parlando dell’Italia] E mi piace anche perché oramai la mia vita è costruita qua, i miei amici sono qua…
Lì la vita inizia da 13 anni, 14 in poi inizi a conoscere… io in Marocco non ho tanti amici, cè, quelli della
scuola non li conosco, ormai sono cresciuti, sono sposati pure [Fahmi, 20 anni].
Questi sono solo alcuni elementi che permettono ai giovani incontrati di ottenere riconoscimento nel
gruppo dei pari, prima ancora che al di fuori, quando si esce dal Giardino, dal quartiere e dal suo spazio
sociale. Se in centro a Torino non è possibile girare con le “scarpe dei cinesi” (Fahmi), perché questo
sottolinea la povertà confermando lo stereotipo pauperista dell’immigrato (povero e bisognoso), lo è
ancora di più nel quartiere e nel Giardino dove loro hanno reali possibilità di ottenere riconoscimento
sociale e status, a differenza di quanto possa avvenire nelle strade più anonime del centro. Per questo
quando si esce in quartiere, ma soprattutto in Giardino, ci si veste bene e non si mette quello che capita, si
fa attenzione a cosa si indossa, agli accessori di accompagnamento e a come ci si è pettinati per evitare di
diventare oggetto di battute e scherni degli amici.
Come tanti coetanei, anche loro raccolgono informazioni utili, apprendono modelli culturali e formano le
proprie preferenze, credenze e i propri gusti in famiglia, tra i compagni di scuola, tra i pari e attraverso i
mass media. Tuttavia, come molti coetanei italiani e stranieri di bassa classe sociale, questi giovani sono
accomunati dal fatto di vivere con un capitale economico e sociale ridotto119: le famiglie non sostengono i
loro gusti e preferenze sia economicamente sia culturalmente. I genitori di questi giovani non hanno
disponibilità economica da offrire per i consumi, i divertimento e spesso non comprendono che questi
sono bisogni importanti per l’età sociale che vivono (l’adolescenza) e l’inclusione nella società di arrivo
(il mondo dei pari).
Il tentativo di raggiungere i modelli culturali, valoriali e stili di vita appresi non è spiegato dalla volontà di
distinguersi, come succede tra le classi elitarie (Bourdieu, 2001), ma di uguagliarsi al gruppo dei pari e al
mondo della società dominante - la classe media -, della quale condividono norme, valori e atteggiamenti.
Così come le classi medie emulano la borghesia (Ibidem, 2001), i giovani incontrati lo fanno emulando
quelli della classe media italiana nell’ottica di poter avviare un percorso di ascesa sociale, cominciando
dall’ottenere riconoscimento attraverso il consumo: il potere del possedere e il potere di spendere.
Tuttavia, questo tentativo di uguagliarsi non significa emulare passivamente gusti e preferenze. Al
contrario, le preferenze e il gusto sono adattati, modellati e interpretati in base alle individualità, alle
appartenenze di gruppo e anche alle reali possibilità. Si ricerca il bene di marca, ma lo si personalizza
accostandolo a qualche indumento più umile che fanno risaltare consapevolmente, come le mutande con la
scritta “Abibas” anziché “Adidas”.
119
Caratteristica che accomuna i magrebini qui presentati a molti italiani appartenenti alle classi più basse residenti nel
quartiere di Barriera di Milano e incontrati durante la ricerca Street Monkeys.
RAPPORTO SECONDGEN
Sebbene qualcuno tenda a “fare di necessità virtù”, quando la credenza che un determinato bene sia
fondamentale per acquisire status, posizione sociale, identità e inclusione si scontra con le reali
opportunità a disposizione, questo attiverà pratiche e scelte conformi a quelle opportunità d’azione e a
quei desideri (Hedström, 2006). Pratiche che, nel caso di alcuni giovani incontrati, sono etichettate come
devianti e illegali: guadagnano soldi durante la scuola dell’obbligo (medie e superiori) attraverso spaccio
di strada, furti, scippi, rapine e ricettazione, e li spendono nel mercato nero dei beni rubati e/o contraffatti.
Tuttavia, come sostengono Matza e Sykes (1961), i “devianti” sono parte della società che li etichetta
come tali: condividono norme, valori e atteggiamenti dell’ordine sociale dominante e l’approccio che i
magrebini incontrati hanno con il denaro e con il lavoro non “devia” da quello della società dominante. Né
la volontà di accumulare denaro né quella di spenderlo fa di loro degli “stranieri” della società dominante:
il deviante è conforme alla società nel momento in cui incorpora il denaro nel suo sistema di valore
(Ibidem, 1961).
Fahmi: io conosco lo spacciatore, glielo vado a prendere dallo spacciatore in prestito, io lo vendo, gli vado a dare allo
spacciatore i suoi soldi e mi guadagno una parte… faccio da intermediario… sei seduto qua, arriva uno che ha
bisogno di fumo, tu glielo vai a prendere dallo spacciatore che lo conosci, visto che fumo anch’io, poi se c’avevo del
fumo mio che compravo io vendevo una parte e mi rimaneva una parte gratis…
Io: Ho capito… quindi così riesci a metterti dei soldi da parte per i tuoi consumi
Fahmi: Esatto […]
Io: Ma questo bisogno di indipendenza economica dai tuoi genitori da dove nasce?
Fahmi: Non è che i miei genitori mi devono mantenere a vita sai, ho vent’anni! Mi devono mantenere gli studi, la
scuola. Sai, a volte mi viene fame a scuola, mi devo comprare i panini, mi devo comprare le sigarette, mi devo
comprare i vestiti, sai tuo padre mica ti compra le scarpe che costano duecento, cento euro… no! Ti compra delle
scarpe normali che costano meno
Io: Quindi i tuoi consumi personali non sono soddisfatti dai tuoi genitori e tu di conseguenza senti il bisogno di avere
dei soldi tuoi?
Fahmi: Sì non vengono soddisfatti come voglio io cè, mangiare, comprarmi dei vestiti, vestirmi normalmente, andare
a scuola quello sì, però… non mi manca niente a casa, nel senso che non mangio, non ho vestiti, però sai, mica ti
compra vestiti che costano tanto, no? Non spende tutto lo stipendio solo per me! Scarpe che costano cento, vestiti che
costano cento, e mio fratello la stessa cosa, mia sorella la stessa cosa, paga l’affitto, che cosa gli rimane? Cosa fa?
[ridendo] […] lui per i soldi, se io voglio comprare un libro, se gli dici che costa cento euro ti dà cento euro… per le
scarpe no, per le scarpe ti dice “Compra scarpe normali, cosa ti servono quelle da cento euro?” invece tu vuoi scarpe
firmate, vuoi i vestiti firmati sai, no?... è questo il problema! [Fahmi, 20 anni].
Diario etnografico: 30 maggio 2013
[chiacchierando con Mufeed e Ziyad] “I giovani italiani non fanno più figli, e fanno bene in un certo senso, e se ne
vanno da qui, tra poco gli unici giovani e bambini saremo noi immigrati!” dice Ziyad con tono serio, Mufeed
annuisce. Io allora chiedo: “Ma cosa intendete quando dite che gli italiani non fanno figli e fanno anche bene?
“Perché qui non si può vivere e pensare di fare una famiglia, non c’è lavoro e non ci sono soldi, come puoi fare figli
se non puoi garantire nulla a loro per dopo? Da noi fanno figli anche se non hanno certezze, è sbagliato! Ecco poi
come andiamo a finire, che noi spacciamo per vivere perché i nostri genitori non hanno i soldi nemmeno per loro!”
dice Mufeed con un tono angoscioso e arrabbiato.
Queste pratiche rispondono al desiderio di inclusione sociale, economica e in parte giuridica dei magrebini
incontrati, e sono cariche di valenza simbolica. Il processo di “integrazione” mostra in parte la loro
capacità di “adattamento” e apprendimento di valori, credenze, norme e modelli comportamentali proprie
della società di arrivo. Infatti, i giovani incontrati agiscono sulla base di valori presenti nella società
dominante italiana, sia quando “deviano” mettendo in pratica attività illecite di guadagno e pratiche
trasgressive di divertimento, sia quando fanno emergere il loro “senso di colpa” legato all’atto “deviante”
compiuto. I giovani “devianti” non fanno altro che mettere in pratica i valori presenti e in parte condivisi
anche da parte della classe dominante (Matza e Sykes, 1961), ma celati in spazi privati, in contesti e
luoghi protetti, dove questi sono accettati. In effetti Veblen (1999) ha evidenziato molto bene quali fossero
già a fine Ottocento i valori della classe agiata: il rifiuto della disciplina del lavoro, il gusto per la lussuria
e per i consumi corposi, l’enfasi sul coraggio e l’avventura, il rispetto per la forza come simbolo di virilità.
La dimostrazione della “appartenenza” al sistema valoriale dominante emerge nei racconti dei giovani
incontrati quando valutano l’atto “deviante” come moralmente sbagliato, ammirano chi rispetta la legge e,
infine, frequentano anche altri ambienti sociali (famiglia e scuola) nei quali ricevono pressioni verso la
conformità alle norme, valori e atteggiamenti dell'ordine sociale, anziché verso la devianza. Elementi
fondamentali utilizzati da autori come Sutherland, Matza e Sykes per smentire la teoria delle sub-culture
RAPPORTO SECONDGEN
come modello comprensivo ed esplicativo della devianza stessa: questi giovani non sono portatori di una
cultura della devianza perché le loro norme, valori, atteggiamenti non rientrano in tale cultura. Sono parte
della società dominante e sono “integrati” in questa apprendendone i valori attraverso la mediazione delle
cerchie sociali in cui sono inseriti e agiscono (famiglia, scuola, pari e altri incontrati negli spazi di
aggregazione informale). Avendo incorporato norme e valori della società dominante, nessuno dei giovani
incontrati sostiene che spacciare o rubare sia una forma di lavoro. Questo, infatti, è definito come
un’attività onesta e utile alla società, che non danneggia altri, che piace, che da soddisfazioni personali,
riconoscimento sociale e monetario adeguato ad una vita dignitosa. Tutti raccontano che spacciare, bere
alcolici, rubare, rapinare sono pratiche non buone perché implicano un guadagno personale danneggiando
l’altro.
Queste pratiche possono essere lette come un tentativo di ribellione all’accettazione della condizione di
emarginazione in quanto poveri e stranieri (giuridicamente e perché così percepiti), rivendicando la
possibilità e la libertà di mettere anche in pratica quei valori appresi dalla società (guadagno e spesa).
Infatti, da un lato sono pratiche che rispondono al bisogno di dare forma, specificità e visibilità120 al
proprio essere, cercando di costruire una propria identità e visibilità nel gruppo dei pari e nella società più
ampia. Dall’altro lato, il consumo diventa un sostituto del mancato riconoscimento dei diritti di
cittadinanza, un modo per manifestare la propria presenza rivendicando partecipazione in una società
dove il consumo non solo ti rende visibile (essere) ma ti rende anche una persona e un “cittadino” nel
momento in cui permette il riconoscimento (esistenza) (Quadrelli, 2003; Queirolo Palmas e Torre, 2005;
Dal Lago, 2006).
Il bisogno di riconoscimento e inclusione emerge tra i pari incontrati a scuola e nel tempo libero, ovvero
tra coetanei autoctoni e di origine straniera. Tuttavia, il bisogno di liquidità da spendere, la “sete” di
consumo come mezzo per ottenere riconoscimento, prestigio e integrazione tra i pari, prendono forma
nell’esperienza extra-scolastica. È in Giardino che apprendono la necessità di avere una grossa quantità di
soldi a disposizione per il consumo, per il divertimento e per la costruzione delle relazione sociali, nonché
per il loro mantenimento nel tempo.
Fahmi: Eh vedi i ragazzi che sono vestiti con la roba firmata, dipende dalla gente che frequenti… se ti vedono con
delle scarpe… per esempio, se vai in centro mica vedi uno che c’ha scarpe cinesi sai? [Mio padre] dice: “Cosa ti
servono questi soldi! Stai mangiando, hai i vestiti cosa vuoi questi soldi?” però se c’hai soldi è un’altra cosa! Magari
se esci compri una cosa che ti piace, mica vai a chiedergli “Oh! Voglio comprare quello, quello e quello!” no! non mi
piace chiedere i soldi a mio padre, non mi piace perché so che lui ha sudato, già paga l’affitto, paga le bollette, paga
queste cose qua… non mi piace chiedergli i soldi! […] Se gli dico “Vado in discoteca” mi dice “No, non andare” non
vuole ha paura che litigo con qualcuno e vado in galera, e queste cose qua! Lui pensa sempre al negativo [Fahmi, 20
anni].
Non solo il bisogno, ma anche il comportamento “deviante” è appreso nei gruppi primari (Sutherland e
Cressey, 1986). Nel contesto sociale quotidiano del Giardino si impara che lo spaccio di strada è utile per
guadagnare la propria parte di consumo della sostanza o per avere soldi per altri consumi; il furto nel
supermercato per poter avere tutto ciò che serve per divertirsi (come ad esempio l’alcol per fare serata); il
consumo di Rivotril121 per ottenere il coraggio per fare una rapina; la ricettazione di beni rubati al fine di
guadagnare qualche soldo. Beni più o meno costosi (Tablet, i-Phon, smartphone, biciclette, pc, ecc.)
passano continuamente dalle loro mani, sono usati per esigenze personali contingenti e spariscono non
appena trovano un potenziale acquirente.
Io: Senti nei posti che frequenti, per esempio questi giardini, cosa hai imparato?
Fahmi: Hm… ho imparato ad apprezzare il lavoro se lo trovo non lo mollo più… qualsiasi lavoro legale, se lo volevo
illegale lo facevo, non è difficile… non ho bisogno di un datore di lavoro eheheh [ride]
120
Visibile anche nel gusto espresso in termini di abbigliamento, accessori, musica e luoghi del divertimento scelti e che
si è tentato di descrivere sopra.
121
Dalla precedente ricerca a cui ho partecipato, Street Monkeys, è emerso l’importante uso del Rivotril tra i giovani
marocchini. Il Rivotril, al quale sembra accedano nel mercato nero in uno scambio tra spacciatori e consumatori di
sostanze che spesso non hanno denaro per acquistare la sostanza, è un anti-epilettico che, se usato da chi non ha
bisogno, provoca degli stati di incoscienza forti. Usato tradizionalmente in Marocco in pratiche autolesioniste di alcuni
giovani della capitale, in Italia spesso è usato per dimenticare momenti dolorosi o la situazione difficile che molti di
loro sperimentano (uno degli effetti della sostanza è il cancellare completamente la memoria) e/o per avere il coraggio e
la forza necessaria per fare rapine.
RAPPORTO SECONDGEN
Io: Dici che è più facile fare un lavoro illegale?
Fahmi: Sì… come spacciare o rubare… ed è facile
Io: Ma rubare cosa fai, poi vai a rivendere quello che rubi?
Fahmi: Eh sì… [Fahmi, 20 anni].
Interessante, inoltre, come non solo apprendano la pratica illegale che permette di accedere al consumo e,
quindi, avere quei beni status symbol che implicano riconoscimento sociale, ma anche come intraprendere
una “carriera nella devianza”. Tutti iniziano con piccoli furti nei supermercati, passano al piccolo spaccio
di strada (la sostanza spacciata è l’hashish) e piano piano, grazie ad una crescita delle loro reti sociali
locali più specializzate nelle pratiche illegali, imparano le norme e le pratiche che permettono di accedere
ad un percorso di mobilità sociale ascendente nella devianza. Apprendono, ad esempio, che per fare una
rapina è bene uscire dalla propria “zona” affinché non si venga riconosciuti dalle vittime, da altri residenti
e dalle forze dell’ordine del quartiere. Inoltre, che il furto nel supermercato è semplice rispetto allo scippo,
e ancora di più alla rapina, perché quest’ultima richiede più coraggio per entrare in interazione fisica e
verbale con la vittima (Barbagli, 1995), coraggio dato dal Rivotril.
Infine, imparano che per poter vivere di queste pratiche devono puntare a qualcosa di più remunerativo
che possa effettivamente bilanciare i rischi dell’atto illegale. Solo diventando corriere o “commerciante”
di grosse quantità di droga si può guadagnare quel capitale sociale ed economico che permette di
mantenere una famiglia e di “sopravvivere” nel sistema giudiziario in caso di arresto. Infatti, tutti quelli
che sono già incappati nel sistema penale, si scontrano con una realtà più dura: quella del carcere, dei
processi, del potersi permettere l’avvocato giusto e dell’avere i giusti contatti per sopravvivere
all’esperienza di detenzione. Quando iniziano i processi, i soldi guadagnati fino a quel momento non sono
sufficienti per pagare un avvocato, spesso i genitori non possono sostenerli economicamente e, per alcuni,
emerge anche il rischio di perdita delle relazioni sociali (la paura di essere “abbandonato” dalla famiglia di
origine e di perdere legami amicali importanti e non centrati sulla devianza) oltre che di capitale
economico.
Si tratta di riflessioni che, tuttavia, emergono tra i più grandi d’età e per questo concordo con quanto detto
sui giovani latinos di Genova (Queirolo Palmas e Torre, 2005): molte attività e modi di passare il tempo
con i pari sono riconducibili anche all’età sociale che stanno vivendo (l’adolescenza), in contesti sociali
particolarmente svantaggiati. Sono ragazzi che si divertono anche come gli autoctoni: consumano sostanze
insieme ai pari, iniziando con l’hashish e l’alcol in quanto facilmente accessibili sia da un punto di vista
culturale, sia in termini di disponibilità del bene ricercato e quindi di offerta sul mercato. L’hashish si
trova con facilità anche a credito senza spostarsi dal proprio spazio urbano quotidiano, mentre l’alcol è
facilmente accessibile ovunque, anche quando non ci sono soldi.
Diario etnografico: 12 giugno 2013
[Fahmi racconta] un giorno che ero sempre con Abed, quel giorno abbiamo tagliato scuola e siamo andati con due
ragazze, una era quella con cui stava uscendo lui, siamo andati al Lingotto. Come spesso succedeva in quel periodo
avevamo gli zaini pieni di alcol. Quando siamo arrivati, dopo qualche giro, abbiamo tirato fuori le bottiglie e
abbiamo cominciato a bere. Sai, le ragazze non hanno bevuto tanto ma io e Abed… soprattutto io, mi sono scolato
quasi una bottiglia di Pampero, da allora non riesco più berlo. Non so come ho fatto, io non ero abituato a bere, sai,
erano le prime volte e non avevo mai bevuto Pampero prima ma soprattutto non sapevo che conviene mischiarlo con
Coca-cola o succo di frutta e non berlo così, liscio. Invece io continuavo a buttare giù, sai c’erano anche le ragazze!
Facevo anche un po’ il figo! Avevo sedici anni mi pare! Comunque alla fine mi hanno di nuovo raccontato tutto, io
che mi strisciavo sulle scale mobili, non mi reggevo in piedi e pure verso sera, quando sono tornato di qua con il bus,
ho incontrato *** [giovane marocchino di seconda generazione coetaneo di Fahmi] che mi ha riportato a casa e poi
mi ha raccontato lo stato in cui ero! Comunque, quando succede così, non sono più io!!!. Quante cazzate abbiamo
fatto insieme, sai? Andavamo in giro, rubavamo nei supermercati super alcolici, bevevamo, facciamo cavolate… ma
tu non sai che cavolate! Quando bevi o prendi le pastiglie, ad esempio, non sei più tu! Fai delle cose che altrimenti
non avresti mai fatto! Comunque, solo di tre volte non mi ricordo proprio nulla, come se avessi cancellato quelle
giornate, so quello che è successo sulla base di quello che mi raccontano gli altri! Una volta era un capodanno,
eravamo nel pomeriggio in giro io e Abed, abbiamo rubato diverse bottiglie di Vodka al supermercato, avevamo gli
zaini pieni di bottiglie e poi siamo venuti qui, siamo stati qui con altri amici, altri ragazzi, abbiamo bevuto e poi
siamo andati in giro per il centro di Torino tutta la notte. Ma non ricordo niente di quel capodanno! So che mi sono
divertito però! Un’altra volta che ho completamente cancellato dalla mia memoria è stato quando oltre a bere ho
preso una pastiglia, mi sembra una, sì. Ma non quelle di anfetamine o cose così, una pastiglia di Rivotril, sai, l’antiepilettico. Lì dopo poco sono stato male, ero a terra e non mi alzavo più, hanno chiamato l’ambulanza, è venuto il
118 e i carabinieri, mi hanno portato al pronto soccorso sai! I miei amici avevano detto che ero solo ubriaco, dicevo
cazzate ma non ricordo. Mi hanno raccontato che non volevo dare loro il portafoglio, nemmeno ai mie amici! Quelli
RAPPORTO SECONDGEN
dell’ambulanza e poi all’ospedale hanno chiesto i documenti per registrarmi, sai, ma io dicevo che non glieli avrei
dati perché non mi fidavo di nessuno e avevo paura che me lo avrebbero rubato. Quello era il mio portafoglio, non
avevo niente, solo i documenti, ma per me i documenti erano molto importanti! Poi sono scappato dal pronto
soccorso e quando due settimane dopo sono tornato casualmente nello stesso ospedale perché mia sorella doveva
essere operata di appendicite, quello della sicurezza mi dice “sei di nuovo ubriaco?” ridendo. Io subito non capivo e
comunque facevo finta di nulla, sai ero con mio papà! Sospettando la cosa, non volevo che mio padre scoprisse cosa
avessi combinato! Poi da solo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto e lui mi ha raccontato che cosa avevo
combinato!
Il Giardino, quindi, non crea solo la necessità ma offre anche la soluzione, insegnando ai “nuovi” arrivati
le pratiche per guadagnare soldi facilmente, così come i significati dati alle pratiche stesse. In Giardino
imparano a legittimare l’azione deviante, interiorizzando le tecniche di neutralizzazione (Sykes e Matza,
1957): apprendono dai pari quelle strategie discorsive messe in atto per minimizzare, giustificare, scusare
le implicazioni morali e psicologiche dell’atto deviante. Si tratta di negazioni giustificative (Vidoni
Guidoni, 2000) che, agendo prima dell’azione, la rendono possibile in quanto accettabile al ragazzo stesso
e agli altri con cui interagisce. Si tratta di un processo di neutralizzazione delle norme giuridiche e sociali
dominanti a cui anche il deviante parzialmente aderisce, al fine di infrangerle senza compromettere la sua
identità sociale (Sykes e Matza, 1957).
Tra i ragazzi incontrati sono emersi due tipi di negazioni giustificative: le giustificazioni e le scuse.
Giustificazioni e scuse utilizzano vocabolari motivazionali (Mills, 1940), ovvero modelli di spiegazione
dei comportamenti dominanti nella società, appresi e situati socialmente. Solo se le motivazioni sono
accettate dal discorso dominante in quando parte di questo, quindi se hanno senso in un determinato
gruppo o contesto sociale, possono legittimare l’atto e renderlo possibile: una negazione giustificativa è
“tanto più accettata più è coerente con l’insieme dei vocabolari motivazionali prevalenti in una certa
situazione sociale” (Vidoni Guidoni, 2000, pag. 79). Infine, non sempre è possibile distinguere in modo
netto e chiaro le giustificazioni e le scuse perché i confini tra queste due forme di negazioni giustificative
possono essere molto labili, sfocati e difficilmente individuabili nei racconti dei ragazzi.
Le giustificazioni sono negazioni dove non si nega la responsabilità individuale dell’atto deviante, ma la
sua connotazione negativa. Osservando cosa fanno i più grandi e attraverso le informazioni che circolano
tra i pari, imparano a rivendicare la legittimità morale delle pratiche attivate di fronte ad una dichiarazione
contraria (Scott e Lyman, 1968). Si tratta, pertanto, di un processo discorsivo che modifica la percezione
che gli altri (il pubblico) possono avere dell’accaduto, attraverso la minimizzazione delle regole violate e
invocando altre norme che trasformano l’atto deviante in qualcosa di buono, giusto, normale (Sykes e
Matza, 1957; Scott e Lyman, 1968; Vidoni Guidoni, 2000).
I magrebini incontrati si rifanno a giustificazioni come la diffusione della responsabilità o cinismo (Vidoni
Guidoni, 2000). Un esempio è il tentativo di minimizzare l’azione deviante presentandola come un
comportamento diffuso, normale nell’ambiente sociale quotidiano: “in quartiere e in giardino fanno tutti
così!”. In questo caso, l’esistenza di una normalità percepita nel contesto di vita extra-familiare, il gruppo
dei pari e chi si incontra in quartiere, autorizza l’atto che diventa legittimo.
Io: Senti ma cosa vi spinge a scegliere di farvi soldi spacciando o rubando?
Mufeed: Il problema è questo posto, sai? Io vivo lì [indica un palazzo che si affaccia nel giardino], andavo a scuola lì
[indica le scuole medie] e i primi amici che ho conosciuto stavano qui in giardino. Tutti facevano e fanno queste cose
qua, e ho imparato anch’io a farle. È questo posto che ti insegna a vivere così, anche perché non ci sono altre
possibilità per ragazzi come noi! Io uscivo dalla scuola media, lasciavo lo zaino a mio fratello “portalo a casa!” gli
dicevo, e poi stavo qui qualche ora a spacciare hashish! È il posto e anche gli amici sai? Loro non sono come un
fratello che tiene alla tua vita, loro lo fanno e ti coinvolgono, visto che hanno scelto quella strada, sapendo che è
sbagliato, è come se si sentissero più sicuri se lo fai anche tu! Così cominci, tanto è facile e ti fai anche tanti soldi,
solo quando ti beccano cominci a capire che stai facendo delle cazzate! Soltanto che altre possibilità non ci sono e
come fai vivere senza soldi? [Mufeed, 20 anni].
Un altro esempio è la percezione dei comportamenti devianti attivati come normali per l’età sociale che
stanno vivendo, ovvero l’adolescenza: “ora sono giovane, poi metterò la testa a posto, anche mio padre
fumava e beveva quando era giovane e adesso è un brav’uomo!”. Loro non negano la propria
responsabilità ma la legano ad una fase della vita antecedente a quella adulta, dove è più diffuso il
comportamento deviante, percependo la devianza come parte di un percorso normale di crescita. In questo
RAPPORTO SECONDGEN
caso, la devianza è legittimata trasformando l’atto illegale in “una cavolata da ragazzi!” che non
pregiudica l’onestà futura del ragazzo, una volta adulto.
Altre giustificazioni a cui si rifanno i ragazzi incontrati al fine di trasformare l’atto deviante in qualcosa di
non negativo e sbagliato, sono quelle che ricadono nella categoria richiamo a lealtà superiori (Vidoni
Guidoni, 2000), ovvero l’appello a valori, norme, imperativi del gruppo sociale a cui appartengono:
l’amicizia, la solidarietà, la reciprocità, la sopravvivenza. Tra queste vi sono tutte quelle razionalizzazioni
che definiscono l’atto deviante come una scelta “obbligata” dalla mancanza di alternative all’azione.
Un esempio è la motivazione ampiamente diffusa che la loro appartenenza di classe, così come la
disoccupazione e la difficoltà a trovare lavoro, non permettono di trovare altre forme di guadagno e di
accedere ai beni del consumo e del divertimento: “i miei genitori non mantengono i miei consumi e
desideri, loro mi danno da mangiare e da vestire ma non mi comprano le scarpe da 200 euro”; “la crisi e il
razzismo mi ostacolano nel trovare un posto di lavoro, devo pur sopravvivere!”. Oppure affermare che
l’atto deviante è praticato per essere accettati in un gruppo, l’unico gruppo al quale si crede che si possa
accedere in virtù delle caratteristiche personali che si pensa di avere, sottolineando come probabilmente
tutto questo non sarebbe successo se si fosse incontrato qualcun altro prima,. In questi casi, i ragazzi non
negano la responsabilità dell’atto deviante, ma semplicemente percepiscono l’azione come inevitabile di
fronte alla mancanza di alternative. Il vincolo che costringe alla violazione non è unicamente materiale ma
anche valoriale, come il richiamo al bisogno di essere accettati nel gruppo dei pari, al legame di amicizia o
all’imperativo della sopravvivenza.
Io prima ho iniziato a fumare le canne, cè, a fare come gli altri, all’inizio ti sembra tutto bello, figo! Fai il gaggio, poi
dopo solo la salute e il tuo futuro che stai distruggendo, nient’altro! Marinavo la scuola, andavo in altri posti, per
esempio andavo al Lingotto a giocare, a fumare, a uscire con le ragazze. Io non andavo più a scuola perché volevo
andare con gli altri, volevo fare parte di un gruppo per essere… per far parte di quel gruppo dovevo fumare anch’io,
dovevo fare come facevano loro, per esempio, vedere delle persone, fare i prepotenti e tante altre cose! Farsi vedere
gaggi, poi andare in centro, il nostro gruppo con altri gruppi a volte ci picchiavamo, è brutto! Perché non avevo
nessun gruppo e stavo da solo, non volevo stare da solo, è brutto stare da solo! Cè, se ho [avessi] avuto delle persone
che mi fossero venute incontro, a farmi fare altre cose, non avrei nemmeno conosciuto quel mondo lì! Conosco
spacciatori, conosco ladri, conosco… li conosco tutti! È stato inevitabile conoscere loro, c’erano solo loro! [Fahmi,
20 anni].
Una giustificazione che alcuni autori, come Vidoni Guidoni (2000), fanno rientrare in questa categoria è la
rivendicazione di un diritto, visibile nelle parole che seguono:
Diario etnografico: 7 marzo 2013
[Parlando di furti in appartamento] “Rubare ai ricchi per dare ai poveri, alle banche, ai ricchi, come Robin Hood”
dice Feisal! “Il mio cartone preferito fin da bambina” gli dico io, “Anche il mio!” risponde lui. […] “Ma chi sono
questi ricchi?” e Feisal risponde “Le banche” continuando “facciamo una cosa, riuniamo un centinaio di ragazzi,
andiamo in centro a Torino e spacchiamo tutto, derubiamo banche e negozi di lusso, spacchiamo e bruciamo!” con
tono scherzoso!
Nonostante il tono di Feisal fosse ironico, tuttavia manifesta il bisogno di partecipare ad un’azione
collettiva forte con chiare connotazioni di classe (Roy, 2003). Lui non parla infatti delle condizioni
critiche dei giovani di origine straniera in quanto stranieri, ma dei problemi di chi ha poco capitale
economico e sociale utile per muoversi nella società e che rivendica una vita dignitosa e degna di essere
vissuta. Ironicamente comunica uno stato di disagio collettivo, prima che individuale, che accomuna molti
giovani della zona. Usando la metafora della “guerriglia urbana” e alludendo alla leggenda di Robin Hood,
Feisal utilizza una giustificazione per legittimare l’atto deviante trasformando la pratica in un atto
rivendicativo di un diritto: l’uguaglianza socio-economica. Ed ecco come il furto, lo spaccio e la rapina
diventano forme “non convenzionali” di protesta e ribellione nei confronti di una società che esclude,
emargina, innalza confini ostacolando le carriere e i percorsi di vita di chi sta oltre questi confini. Ecco
come la pratica deviante assume un significato diverso e legittimo, rendendola possibile.
Altre giustificazioni sono quelle che tendono a negare la vittima, che assegnano la responsabilità
dell’azione deviante alla vittima stessa ponendo l’attenzione sulla legittimità della propria azione in virtù
di determinate circostanze. Un esempio è il pensare che si possa rapinare i non appartenenti alla comunità
musulmana, come i cristiani. In questo caso, la rapina praticata verso di loro perde la sua connotazione
negativa in quanto la vittima è “straniera” alla propria comunità religiosa, e per questo può essere
RAPPORTO SECONDGEN
percepita come qualcuno che non riceve un’offesa o che si può offendere senza perdere reputazione e
prestigio. Infine, vi sono giustificazioni che rientrano nella categoria condanna chi ti condanna, ovvero
quando il “deviante” sposta l’attenzione dal proprio atto a chi lo sta sanzionando, al fine di screditare e
ridurre l’autorevolezza del sanzionatore. Un esempio è giustificare il non rispetto dell’autorità dei docenti
a scuola e il comportamento non adeguato tenuto in classe, dando la colpa agli insegnanti che “non sanno
tenere la classe”122.
Tra i ragazzi incontrati, infine, sono diffuse anche delle scuse a cui si appellano per legittimare l’azione
deviante. Le scuse sono strategie di negazione in cui il deviante ammette la scorrettezza dell’atto ma ne
nega la piena responsabilità, presentandosi come l’opposto delle giustificazioni. Nel tentativo di ridurre la
relazione tra l’atto deviante e l’attore, con le scuse si cerca di diminuire la responsabilità personale o di
spostare l’attribuzione di causalità da elementi dell’identità quali l’intenzionalità e la personalità, ad
elementi esterni (Vidoni Guidoni, 2000).
I ragazzi magrebini incontrati utilizzano scuse che tendono a negare la responsabilità o volontà personale,
mentre nessuno usa scuse che negano l’intenzionalità dell’atto (Ibidem, 2000). Infatti, molti di loro
affermano di non essere responsabili quando attribuiscono la propria azione deviante all’influenza di forze
esterne che li guidano indipendentemente dalla loro volontà. Due esempi sono emersi dai racconti. Molto
diffuso è il richiamo all’influenza delle cattive compagnie o amicizie del giardino: si inizia a fumare
perché lo fanno gli altri, poi si comincia a tagliare la scuola per andare con gli amici in giro per Torino,
infine, si prova a rubare, spacciare o rapinare perché la vicinanza di pari che attivano questi
comportamenti aiutano a “definire la situazione come favorevole alla violazione”, trasmettendo i valori e
le motivazioni necessari (Sutherland e Cressey, 1986).
Se fumi per gli altri, per essere accettato fumi per gli altri, è brutto! Fumi, tossisci, loro ti ridono dietro, ehm, devi
fare quello che ti piace, quello che pensi, non so come spiegarlo! Devi essere libero: nessuno deve dirti, per esempio,
“tu vai là!”. Se dici “io cerco lavoro”, non lo trovi, vai al giardino a stare con degli amici e uno comincia a contare
vicino a te i soldi, devi anche avere la buona volontà perché c’è quello che ruba, c’ha i soldi, tu lo vedi, provi a fare
come lui. Però è brutto, non si fa! Non è una libertà perché i soldi poi dove vanno? Mica li porti a casa, i tuoi non
hanno bisogno di soldi, tu quei soldi li sprechi in cose da niente! Forse all’altra persona che ce li aveva li servivano
però tu gli togli tutto! Devi trattare gli altri come ti piace essere trattato, questo sto comprendendo adesso, spero che
non è troppo tardi! [...] per esempio, a me se solo qualcuno mi prende qualcosa mi sento male cè, ti senti inutile, ti
senti una merda, ehm, non sai proteggerti capito? E costringi quella persona ad andare a comprare una pistola,
magari spara ad un altro. Questo è il brutto! [Fahmi, 20 anni].
Un altro motivo emerso è il richiamo all’alterazione psichica dovuta al consumo di Rivotril: “non volevo
farlo, è colpa delle pastiglie”. Fahmi, a tal proposito, parla di suo fratello e di alcuni amici che hanno
avuto dei comportamenti sbagliati e non controllati sotto effetto dell’anti-epilettico, come fare una rapina,
rispondere in modo maleducato e irrispettoso al padre o non obbedire ai genitori e stare fuori casa senza
dare proprie notizie per alcuni giorni.
Come confermato da parte della letteratura sulla devianza (Matza e Sykes, 1961), Fahmi non è l’unico
ragazzo incontrato che sottolinea come queste pratiche siano moralmente sbagliate. Spesso il giudizio
negativo è presentato alludendo a precetti religiosi: la contrapposizione tra Halal e Haram nella religione
islamica emerge in continuazione nei loro discorsi quando raccontano il comportamento “deviante”,
sottolineando come queste pratiche siano cattive per la religione a cui dicono di appartenere. Inoltre, tutti
hanno interesse a esplicitare che questi comportamenti sono condannati dalle loro famiglie, nelle quali
ricevono pressioni alla conformità a norme, valori e atteggiamenti della società dominante. Emerge dai
racconti un senso di colpa non completamente neutralizzato dalle giustificazioni e scuse alle quali
imparano a credere in Giardino e in quartiere, utili per legittimare l’atto deviante e compierlo.
Per noi musulmani è un problema perché i soldi guadagnati così non sono soldi buoni, sono sporchi perché non
guadagnati con il lavoro onesto e la fatica. I miei genitori sono onesti, sai? Anche se hanno passato brutti momenti
come adesso che nessuno dei due lavora, non hanno mai accettato soldi sporchi provenienti da attività illegali. Mai!
[…] Io non voglio più spacciare o rubare perché i miei genitori ci stanno male, li ho delusi e loro non hanno mai
accettato i soldi che portavo a casa dopo che hanno saputo come li guadagnavo [Mufeed, 20 anni].
Le continue allusioni al loro essere “musulmani” sembrano essere più un riflesso dei valori e credenze
apprese in famiglia, indipendentemente dal loro grado di religiosità individuale, e declinate parlando di
122
Si rimanda al paragrafo a pagina 211.
RAPPORTO SECONDGEN
“cosa sia giusto e sbagliato per un musulmano”. Infatti, tutti raccontano di avere famiglie oneste, di padri
che sono partiti per assicurare loro un futuro migliore e che hanno sempre lavorato nel mercato del lavoro
legale insegnando l’importanza del lavoro onesto e l’illusione dei soldi facili. È come se quello che
apprendono in famiglia, in strada valga soltanto in termini di “ciò che dice il Corano”.
Un senso di colpa che potrebbe essere spiegato con il concetto di costo morale, ovvero l’utilità persa dalla
messa in pratica di una violazione a una norma a cui si crede, o il cui rispetto conferisce reputazione e
prestigio in un determinato contesto sociale. In questo caso, il comportamento “deviante” è percepito
come tale là dove i valori civili, quali l’onestà e il rispetto delle leggi, sono sostenuti, come avviene nelle
loro famiglie (Vidoni Guidoni, 2000). L’atto deviante implica una perdita di reputazione e prestigio nella
rete parentale che, rappresentando una cerchia di legami fondamentali e di socializzazione primaria, causa
il senso di colpa. Inoltre, il fatto che alludano alla religione non significa che credano necessariamente alla
validità e legittimità della norma religiosa. Infatti, per non violare una norma è sufficiente che il giovane si
senta obbligato a seguirla e a mostrare che la osserva o a legittimare socialmente il suo non rispetto. Pena,
la perdita di riconoscimento e reputazione (Ibidem, 2000).
È interessante come si esprima in questo caso la specificità locale, ovvero il fatto di passare gran parte del
loro tempo libero in una periferia italiana con altri giovani di origine araba e, molto probabilmente,
musulmani. Questo permette di trovare un collante, quello religioso, che spesso viene fatto risaltare come
espressione della appartenenza ad un gruppo con precisi confini sociali e spaziali: i magrebini che vivono
nella zona. In questo caso, l’essere musulmani emerge come uno dei tanti marcatori del gruppo del
Giardino, insieme all’abbigliamento, alla musica, al linguaggio, al modo di passare il tempo, al bisogno di
consumare, al loro essere arabi o magrebini-italiani. Tutti elementi che permettono di dare senso allo
stare insieme, alle norme sociali e alle pratiche svolte e apprese in Giardino. Tutti elementi che marcano
un’identità collettiva come risultato della storia migratoria e dell’inserimento in un preciso contesto socioeconomico e culturale della società di arrivo.
È in Giardino, dove apprendono le pratiche devianti, che imparano a legittimarle utilizzando le risorse
valoriali e normative che hanno in comune e che arrivano in parte dalla loro storia migratoria ma anche dal
contesto sociale e culturale vissuto quotidianamente oggi. È in Giardino che imparano ad usare queste
risorse in modo creativo e contingente alla situazione, incontrando giovani che arrivano per lo più dallo
stesso paese di origine, ma che hanno rapporti diversi con la religione e il suo sistema normativo e
valoriale. Ma anche giovani e adulti di altra origine, come i sub-sahariani. Infine, imparano ad usare la
religione in modo contingente alla cultura giovanile italiana, utilizzando giustificazioni che legittimano la
violazione di una norma religiosa, come l’avere il cane in casa piuttosto che il bere alcolici.
Apprendono come usare la religione islamica come una fonte normativa che ridimensiona le loro
aspettative sulla possibilità di avviare una carriera criminale: “non si può mantenere una famiglia con i
soldi Haram (sporchi)”. Nello stesso tempo, la religione è vissuta come qualcosa di contingente, che può
essere reinterpretata a seconda delle situazioni e dei bisogni del momento. Un esempio è la
razionalizzazione che qualcuno dà al consumo di alcol e agli altri atti devianti. Sanno che, ad esempio,
l’alcol è vietato ma lo bevono ugualmente perché sono giovani, solo quando avranno una famiglia queste
indicazioni diventeranno più vincolanti moralmente.
Io credo in Dio, un giorno mi perdonerà, un giorno smetterò di fare ste cose, un giorno smetterò di fare
tutto [Fahmi, 20 anni].
Anche se sono consapevoli che come stanno vivendo non è accettabile per motivi religiosi, imparano a
mettere in discussione i “precetti islamici” nel momento in cui una situazione è da loro definita come
favorevole alla violazione. E le motivazioni, razionalizzazioni e atteggiamenti che contribuiscono a
definire la situazione come tale, sono appresi nei “gruppi primari” (Sutherland e Cressey, 1986) incontrati
a Torino semplicemente “scendendo” nel giardino sotto casa. Un luogo dove il giovane se viola la norma
religiosa per le ragioni accettate nella cerchia dei pari (e adulti del Giardino), acquisisce reputazione e
prestigio sociale.
Diario etnografico: 7 marzo 2013
[Se vincessi tanti soldi…] Alla mia affermazione “Beh, io con 20 milioni di euro non saprei cosa fare, sono talmente
tanti!” Hadi conferma la mia posizione mentre Feisal123 dice “Con il cazzo, io saprei come usarli, andrei subito a
123
Feisal è un giovane di seconda generazione, di origine marocchina, intorno ai 20 anni e conosciuto all’inizio in
quanto amico di Fahmi. Feisal si accompagna spesso ad altri due amici, tra i quali vi è Hadi. Feisal sembra quello con
più potere d’acquisto, ha i vestiti firmati stile rapper, occhiali da sole costosi, uno smartphone e altri due telefonini più
vecchi che tira fuori continuamente. Feisal parla perfettamente italiano, racconta di non aver preso nemmeno la licenza
RAPPORTO SECONDGEN
Santo Domingo dove comincerei a fare venire qui le donne per farle lavorare come prostitute, darei loro però degli
appartamenti dove vivere e lavorare. E poi farei venire i trasportatori di droga, avanti e indietro dall’Italia a Santo
Domingo! Sai quanti soldi ti fai?” e Fahmi con tono di disprezzo e quasi incredulo “Capisco fare cazzate perché non
hai soldi e cerchi di vivere, ma se hai già 20 milioni che cosa ti metti ancora a guadagnare soldi sporchi? Investiresti
soldi sporchi per fare altri soldi sporchi? Vuoi proprio andare in carcere e non uscire più!”. Feisal a quel punto si
corregge dicendo che Fahmi in fondo aveva ragione, anche perché i soldi guadagnati con una vincita o con una
pratica illegale sono soldi sporchi per l’Islam, sono il simbolo del diavolo, l’unico modo per purificarli è darli in
beneficienza ai poveri […] Io chiedo loro quali siano i soldi puliti, loro rispondono “quelli che guadagni con il lavoro
e la fatica, in modo onesto!”.
Diario etnografico: 12 giugno 2013
[Fahmi parla di un giovane marocchino sui 30 anni che arriva in Giardino] “Davvero è cambiato! Prima di partire
spacciava, fumava, beveva e faceva un sacco di cazzate. Poi è stato un paio di mesi in Marocco e si è avvicinato di
nuovo a Dio, è tornato cambiato, sai? Ora non fa più niente, non fuma nemmeno più una sigaretta, si sta facendo
crescere la barba, sai è molto importante per l’Islam!”.
Da un lato, il Giardino è il luogo sociale nel quale acquisiscono i mezzi per soddisfare i propri scopi,
apprendono i modelli culturali e valoriali che li legittimano, fino a farli diventare “normali mezzi di
sostentamento quotidiano”: interagendo con i più grandi e con i pari, imparano ad essere “buoni devianti”
interiorizzando gusti e preferenze dello spazio sociale quotidianamente vissuto e valori, credenze, norme e
strategie discorsive che legittimano l’atto deviante. Nello stesso tempo, come emerge dal dialogo tra
Fahmi e Feisal sul vivere intraprendendo una carriera criminale o dall’ammirazione verso il trentenne
“riavvicinato a Dio”, lo spazio sociale del Giardino, con le sue credenze e valori, funziona anche come
controllo sociale ridimensionando eventuali ambizioni di ascesa nella carriera criminale.
La presenza di marcatori identitari, dall’abbigliamento al linguaggio, dalle pratiche devianti ai vocabolari
motivazionali usati per legittimarle, mostrano un processo di etnicizzazione di uno spazio sociale
emarginato legato al processo migratorio: delocalizzazione dallo spazio sociale e culturale dell’infanzia
(nel paese di origine); inserimento obbligato in un contesto sociale e culturale straniero; esclusione da
alcuni spazi sociali del contesto di arrivo (come gli oratori) e attrazione per pari che hanno una prossimità
negli stili di vita, nella lingua e nelle credenze; incapacità delle famiglie ad offrire risorse sociali e
culturali alternative a quelle della scuola e della “strada”.
Come sottolineano alcuni autori, l’etnicità può portare a forme di valorizzazione e di successo nei percorsi
d’inserimento oppure può diventare il propulsore di un’assimilazione verso il basso, come per i magrebini
incontrati o gli ecuadoregni di Genova (Roy, 2003; Feixa, 2005; Queirolo Palmas e Torre, 2005). In
questo caso, l’apprendimento di nuovi riferimenti culturali e identitari e l’ingresso sociale nella società
italiana dei giovani magrebini sta avvenendo in un preciso spazio fisico (il Giardino e il quartiere) e
sociale che non conduce a percorsi di mobilità ascendente e accettati dalla società dominante (Portes,
Fernandez-Kelly e Haller, 2004).
Tuttavia, non si tratta di un’etnicità che implica appartenenza esaustiva, ma riconoscimenti e forme di
solidarietà instabili e mutevoli a seconda delle situazioni d’azione e del contesto d’interazione (Colombo,
2005a). Innanzi tutto, marcano la loro specificità e differenza (l’essere magrebino, arabo e musulmano)
soprattutto quando sono insieme e nel contesto quotidiano del quartiere e dei suoi spazi pubblici. In
contesti esterni rivendicano il diritto a non essere etichettati come stranieri o come chi non vuole
integrarsi, perché si sentono italiani. Esemplificativo è il discorso tra Mufeed e Ziyad quando si lamentano
della tendenza, ad esempio degli insegnanti, a pensare che non vogliano includere i compagni quando
capita loro di parlare in marocchino con un connazionale: “a noi viene naturale farlo se c’è un
connazionale, non vogliamo escludere o essere esclusi, non è cattiveria!”.
Inoltre, non si tratta di un gruppo o di una banda che richiede partecipazione, identificazione e fedeltà
esclusiva. Siamo di fronte ad un gruppo flessibile, mobile, mutevole che offre possibilità d’azione e
d’identificazione ma lascia libertà di exit. Capita che qualcuno di loro frequenti, sebbene solo per brevi
momenti, altre compagnie anche di altra nazionalità, conosciute in discoteca o girando per il quartiere.
Non c’è un gruppo istituito, strutturato gerarchicamente, denso di rituali e organizzato attorno ad
un’identità collettiva forte (Foote Whyte, trad., 2011; Queirolo Palmas e Torre, 2005). Tra i frequentatori
media anche se sta pensando di conseguirla con le 150 ore perché ha sempre più difficoltà a trovare lavoro. Racconta di
avere la cittadinanza italiana e che viaggia spesso – altre regioni del nord e in Svizzera - per lavoro (movimenti
agevolati dall’aver la cittadinanza). Tuttavia, non ha mai esplicitato che tipo di lavoro svolga per vivere, a parte i furti in
casa e le rapine.
RAPPORTO SECONDGEN
del Giardino nascono nel tempo degli obblighi e forme di reciprocità che in qualche modo li legano, anche
se non sviluppano legami basati sull’affettività e l’intimità (Bidart, 2010).
Nonostante la precarietà, i legami e le forme identificative che ne derivano, sono significativi e a volte
richiedono l’accettazione dei valori e delle pratiche “devianti”: se vuoi far parte del gruppo, sei costretto e
nello stesso tempo attratto dal provare “nuove esperienze” e rispettare le sue norme sociali (come il
consumo di sostanze, lo spaccio, l’uso della forza, i furti e le rapine). Esemplificative sono le
giustificazioni e scuse usate da molti che chiamano in causa l’influenza degli amici del Giardino e, nello
stesso tempo, l’attrazione/costrizione a emulare i pari al fine di essere accettati nel gruppo e per non
rimanere soli.
Sono pronti ad aiutare un membro del gruppo nel momento del bisogno, ma sono anche pronti a lasciare il
gruppo e chi lo forma quando si intravedono altre possibilità, come quando anni fa Fahmi e altri due suoi
amici si sono allontanati per circa un anno su stimolo di alcuni educatori di strada che operavano nella
zona proponendo alternative al Giardino. Molte delle attività illegali sono per lo più svolte
individualmente o con un paio di amici più stretti, dei quali ci si fida, amici che con il tempo saranno
importanti nell’influenzare le scelte future sul proseguire una carriera deviante.
Come ha messo bene in evidenza Bidart (2010), la socializzazione in cerchie sociali non composte
esclusivamente da amici intimi è un tratto che caratterizza i rapporti amicali dei giovani, i quali danno vita
a forme di socialità flessibili per lo più fondate sull’abitudine delle frequentazioni di determinati luoghi in
determinate ore della giornata, piuttosto che socialità fondate su legami personali. E infatti, proprio come
spiega l’autrice francese, anche i giovani incontrati sanno bene che andando in Giardino a quell’ora
incontreranno quelle precise persone: sanno chi è seduto alle solite panchine e chi vicino alla fontana in un
preciso momento della giornata. Il fatto di sapere chi si incontra quando si va al Giardino, di sapere che
anche se non ci sono gli amici più intimi, si può parlare con qualcuno ugualmente, si può passare il tempo
e accedere ad informazioni, rende il luogo attrattivo e di difficile abbandono:
Io vado lì per stare con i miei amici, è l’unico posto in cui ci vanno loro, magari proviamo a cambiare posto, non ci
riusciamo, abbiamo provato tante volte! Non ci riusciamo perché non c’è la gente che vediamo ogni giorno, cè, per
esempio andare in un altro giardino stai là, non conosci nessuno, vi conoscete solo voi tre, parlate, parlate, e poi
nessuno viene a dirvi una novità, capisci? [Fahmi, 20 anni].
Il gruppo dei magrebini incontrati al Giardino è un insieme flessibile fatto di amici, amici di amici e
conoscenti, tutte persone a cui loro in qualche modo assomigliano (visibile ad esempio nella pratica del
fumo della cannabis, che offre molte occasioni di socializzazione in Giardino anche con altri giovani e
adulti non parte del gruppo) e con cui chiacchierano, scambiano informazioni e pratiche, e nell’interazione
quotidiana formano credenze, valori e atteggiamenti. Come ribadisce Bidart (2010), la loro cerchia sociale
assume la forma più di una nuvola anziché di una rete, fatta di relazioni poco particolarizzate e poco
personali: capita che fumino una canna e parlino con persone di cui non sanno o ricordano il nome, ma
con cui sanno che si può stare insieme. All’interno di questa cerchia fatta di pari, giovani più grandi e
adulti (come alcuni adulti spacciatori), vi è un altro cerchio concentrico più piccolo degli amici vicini, più
protetto, omogeneo e caratterizzato da giudizi più morbidi in virtù dell’affetto e dell’intimità (ibidem,
2010).
Non esiste il gruppo del Giardino con cui si fanno delle cose assieme, dalla pratica deviante all’andare in
discoteca, ma solo qualche amico. Gli altri del Giardino sono conoscenti o amici che portano sulla “cattiva
strada”, ma i veri amici sono quelli che vengono a casa, che conoscono i genitori, che ti accompagnano ad
un colloquio di lavoro o a fare una commissione, che ascoltano quello che hai da dire, che ti consigliano e
ti aiutano quando hai bisogno e con i quali insieme si decide di uscire dall’ambiente sociale “sbagliato”. I
“magrebini del Giardino” esistono solo nel momento in cui condividono lo stesso spazio pubblico e,
spesso, una simile condizione giuridica, sociale ed economica. Quando si viene arrestati, loro non ci sono;
quelli che restano sono gli “amici veri”.
Io: Senti ma qualche amico o conoscente che ha fatto cose più gravi?
Fahmi: Molti ce n’è! […] Siamo amici capito? Ci conosciamo, ci parliamo, sorridiamo, ti dai il numero però quando
sei in difficoltà mica ti… per esempio, non come la nostra amicizia che tu adesso hai bisogno di me e io ti aiuto,
capito? Se hai bisogno di me in qualcosa basta che non sia soldi io ci sono…
Io: Quindi è un’amicizia o forse meglio una conoscenza legata al fatto che frequentate lo stesso luogo come questi
giardini
Fahmi: Sì
RAPPORTO SECONDGEN
Io: Magari fumate anche assieme passate delle ore assieme ma non è un’amicizia vera?
Fahmi: Sì!
Io: Un amico, amico chi è?
Fahmi: Ti sta accanto sempre, ti consiglia delle cose, ce, sente le stesse cose che senti. Non so! Quando hai un amico
lo vuoi sempre a fianco, quando hai bisogno di andare in una parte va con te, se devi fare una commissione viene con
te, così! Non è che deve fare chissà che cosa! Non sono quelli qua del giardino! Per esempio qua al giardino siamo
amici, ci salutiamo, parliamo però se devo andare in una parte mica viene con te, ti dice “no troppo lontano! Tu vai
poi torni qua, tanto è la stessa cosa!” [Fahmi, 20 anni].
I miei amici, beh ne ho sette/otto italiani, della mia età più o meno, tutti compagni di classe con cui però mi vedo
anche fuori la scuola: andiamo a ballare, andiamo a mangiare una pizza, a giocare a calcetto. Loro sono miei amici.
Poi milioni di marocchini, più piccoli e più grandi, tutti conosciuti ai giardini. Quando sono arrivato in Italia, mia
mamma mi ha detto “Vai in giardino, così conosci qualcuno!” e sono andato e mi è piaciuto subito, c’erano tanti
marocchini, va beh non sono connazionali ma con loro riuscivo a comunicare almeno! E poi mi sono fermato qui,
normalmente sto qui o agli altri giardini, qualche volta esco anche con i miei amici italiani della scuola. Qui ho
imparato a fumare le canne, ho imparato che non ti puoi fidare dei rumeni, gli unici che non sopporto perché sono
sempre ubriachi, violenti e molesti. La sera ai giardini sono sempre lì che bevono e poi infastidiscono e sono
attaccabrighe soprattutto con noi nord-africani e di pomeriggio non è possibile vederli sdraiati sulle panchine ai
giardini con il gin affianco e le mamme che portano i bambini ai giardini devono stare in piedi e i bambini giocare
davanti a questi, ma che esempi dai ai bambini! [si riferisce ad un altro giardino vicino il Giardino, dove si è fatta
l'intervista] Non fanno nulla tutto il giorno se non bere ed essere rompi coglioni! Mi danno proprio fastidio, non tutti
eh! I ragazzi e gli uomini, le ragazze rumene no, quelle sono tranquille, simpatiche e belle! [Rajab, 18 anni].
Tuttavia è il cerchio più grande ad essere più importante per la socializzazione dei giovani, presentandosi
come lo spazio sociale più diversificato e critico a cui accedono, lo spazio del conflitto e dell’adattamento
identitario. L’identità, in questo caso, è fondamentale nella strutturazione del legame, più dell’affettività o
della condivisione di un’attività (Bidart, 2010). Il fatto che tra di loro si conoscano ma non abbiano
instaurato legami di gruppo basati sull’affettività, non significa che non vi siano tuttavia forme di
identificazione e solidarietà con chi è percepito condividere la stessa condizione e lo stesso “destino”.
Tutto questo, infatti, è visibile nel linguaggio usato e nei vestiti indossati come marcatori di appartenenza
ad un gruppo. È visibile nella teatralità dei saluti, apparentemente confidenziali e sinceri, anche quando
l’altro è un conoscente che si critica, ma che si saluta “affettuosamente” solo perché è “uno del Giardino”.
È visibile nella ricerca della prossimità degli stili di vita quando si sceglie con chi passare il tempo libero,
che permette di identificare e distinguere il proprio gruppo da un altro.
Pertanto, si tratta di forme di identificazione dove il luogo frequentato e la classe di appartenenza, prima
ancora della loro origine nazionale o appartenenza religiosa, è la condizione che li accomuna e li fa sentire
uguali. Da questo punto di vista, infatti, sembrano costruire nel contesto del Giardino un’identità di quelle
con il “trattino” (Colombo, 2005b), sentendosi italiani ma nello stesso tempo marocchini piuttosto che
tunisini. E ancora, sono musulmani ma anche giovani adolescenti, studenti, amanti della musica, del ballo
e del divertimento con i pari e, infine, sono cresciuti in Italia dove hanno passato almeno metà delle loro
vite imparando ad essere come i giovani torinesi. Tuttavia, il loro essere marocchino (o tunisino, ecc.),
così come il loro essere musulmano nasce nel momento in cui si scontrano con la difficoltà a integrarsi nel
mondo sociale accettato come normale, fatto di studio, progetti futuri, divertimento e alternative alla
“strada”. Quel mondo sociale il cui accesso permette di definire l’inserimento nella società come
“un’integrazione di successo”. È la loro appartenenza di classe e la credenza che non ci siano possibilità
di ascesa – credenza appresa in Giardino, e non in famiglia124 – che li spinge a sentirsi come parte di una
condizione comune che rischia di trasformarsi in un reale “destino comune”.
Il fatto che non vi sia una “banda” nei termini dei latinos di Genova o dei ragazzi italo-americani di
Cornerville (Foote Whyte, trad., 2011), non significa che i loro atti devianti non possano essere letti come
un tentativo di rivendicare il diritto al riconoscimento e che non si possa arrivare nel prossimo futuro a
forme di ribellione estrema, come successe qualche anno fa nelle banlieue parigine e nelle periferie
londinesi. Infine, il fatto che non si parli di una banda, non significa che questi legami non siano attrattivi
e significativi nella costruzione dell’identità, degli atteggiamenti e per l’interiorizzazione delle sue norme
sociali (Bidart, 2010). Come è stato esposto in questo paragrafo, i pari e i grandi del Giardino (la cerchia
124
Come ho sostenuto nel paragrafo precedente dedicato alla scuola, non sono le famiglie a ridimensionare i progetti
scolastici lunghi dei figli e a non investire sulla loro istruzione, ma sono i legami sociali in cui sono inseriti a non
fornire loro le giuste e corrette informazioni su quali percorsi scolastici portano a determinati settori del mercato del
lavoro.
RAPPORTO SECONDGEN
sociale più ampia) diventano dei modelli nell’influenzare attitudini e comportamenti: il fatto che non siano
legami basati sull’intimità e l’affettività, non implica che questi legami non siano importanti nella
strutturazione delle loro interazioni quotidiane e delle opportunità d’azione che a loro si presentano, come
si è cercato di mostrare fino adesso.
Ma che cosa li differenzia dal caso degli ecuadoregni di Genova? Osservando i marocchini durante questa
ricerca e anche gruppi di adolescenti di altre nazionalità (rumeni e italiani) durante quella precedente, sono
emerse delle differenze che possono essere in parte spiegate dal processo migratorio vissuto e dal tipo di
inserimento dei genitori nella società e nel mercato del lavoro locali. Entrambi sembrano essere
fondamentali nel determinare il tipo di rapporto tra genitori e figli e la legittimità genitoriale. Infatti, a
differenza di ciò che si è osservato tra i giovani rumeni i cui processi migratori sono simili a quelli degli
ecuadoregni125, tra i marocchini non emerge quell’indebolimento della funzione genitoriale causata
dall’integrazione subalterna dei genitori, almeno non ai livelli osservati da Queirolo Palmas e Torre
(2005). Infatti, a differenza degli ecuadoregni, loro hanno vissuto sempre con la madre che rappresenta il
punto di riferimento più importante che hanno nella società di arrivo, anche quando questa è tornata nel
paese di origine.
Io: E visto che adesso non c’è tua mamma se avessi bisogno di qualcosa tu sai dove andare a chiedere o hai qualcuno
da cui andare, un parente vicino o un amico?
Abed: A mia madre eheheh [ride] Che è in Marocco! Eheheh [ride] una telefonata e chiedo e mia mamma mi dice
come fare anche qui, mi dice dove devo andare, i posti, dipende quello che mi serve! Se devo andare all’ASL lei sa, i
servizi sociali beh ora li conosco, dipende! Qua sono solo, poi dipende da quello che mi serve, ci sono cose che so
che su alcuni amici posso contare ma non c’è nessuno su cui posso contare sempre e per qualsiasi cosa a parte mia
madre che so che qualsiasi cosa succedesse lei mi aiuterebbe sempre. A parte mia madre non c’è nessuno
Io: Senti ma secondo te chi è un amico?
Abed: Ehm, un amico è un amico! Tu stai diventando un’amica, ti conosco, sei un’amica, a lui lo conosco è un amico
ma però ci sono quelli che sono conosciuti di più che è con loro che vado a fare serata, è con loro che ehm, che a
volte parlo, racconto quello che passo, sono cinque o quattro ragazzi, tutti connazionali e più o meno della mia età,
come Fahmi
Io: Quindi con loro passi del tempo assieme e racconti cose che magari a qualcuno che conosci meno non diresti?
Abed: Sì ma solo quando sono ubriaco parlo e racconto [Abed, 19 anni].
Anche i ragazzi marocchini tendono a delegittimare l’autorità e la funzione genitoriale del padre che è
partito e con il quale non hanno vissuto da bambini, spesso conoscendolo davvero solo in Italia. Ma loro
hanno avuto una figura adulta importante durante l’infanzia trascorsa nel paese di origine, al momento
dell’arrivo in Italia e nel presente. La mamma marocchina che emigra insieme a loro ricongiungendosi al
padre è idealizzata da questi ragazzi al punto da essere presentata come una “santa”. La madre è inoltre
quella che spesso non entra nel mercato del lavoro in Italia, occupandosi dei figli e attivando forme di
mediazione tra i figli e il padre: tra la tendenza dei figli a disobbedire al padre perché non riconosciuto e la
tendenza del padre ad essere autoritario e, spesso, chiuso nei confronti dei loro bisogni per paura che i figli
prendano “la strada sbagliata”. Dove la strada sbagliata non è l’acculturazione dei figli alla società italiana
(non si tratta di conflitti interculturali tra generazioni cresciute in contesti diversi) ma l’acculturazione dei
figli alle pratiche devianti (consumo di droghe e altre attività illegali). Infine, la madre è anche quella che,
scoperte le attività illegali del figlio, agisce da controllo sociale dandogli i soldi di nascosto dal marito per
evitare che li vada a guadagnare illegalmente.
[Parlando di quando, da poco in Italia, scappò in Francia da solo] stavamo dicendo che volevi cambiare vita perché
qua non ti piaceva?
Fahmi: Sì ma anche non ero abituato a mio padre, lo conoscevo, è normale è mio padre però lui veniva, quando
tornava dall’Italia nelle vacanze, veniva in Marocco, però veniva, ci trattava bene, sai ci comprava le cose belle però
125
I giovani rumeni incontrati durante la ricerca Street Monkeys in Barriera di Milano avevano un processo
migratorio simile agli ecuadoregni di Genova (Queirolo Palmas e Torre, 2005), dove la madre ha fatto da apri-pista
nella migrazione inserendosi nel settore del lavoro di cura agli anziani, lavorando spesso come badante fissa presso
famiglie italiane. I padri, quando anche loro in Italia, sono inseriti nell’edilizia; altre volte i padri spariscono dalla
vita dei figli presto e questi crescono con i nonni fino al momento del ricongiungimento. I giovani rumeni incontrati
imparano a conoscere la madre, che spesso si è unita ad un altro uomo in Italia, nell’esperienza del
ricongiungimento. La lunga assenza della madre o di entrambi i genitori per la migrazione e la successiva assenza
quotidiana per motivi lavorativi una volta che i figli arrivano in Italia, porta questi ultimi a delegittimare e a non
riconoscere nelle loro madri e padri la funzione genitoriale (Ambrosini, 2004; Ambrosini in Molina, 2004).
RAPPORTO SECONDGEN
non ero abituato alle sue regole sai? Mia mamma non mi dice “torna a casa quest’ora” mio padre invece mi dice
sempre “torna a casa a quest’ora, fai questo, vai a scuola, non frequentare amici così, non frequentare amici così!” e a
me non andava che qualcuno, non ero abituato a questo controllo!
Io: Tuo papà ti controlla di più?
Fahmi: Sì! Non ero abituato alle sue regole! […] Cè, lui non voleva che frequentassi dei miei amici marocchini qua,
“Gli amici marocchini ti portano sulla brutta strada” era vero anche! In fondo adesso ho capito che quello che diceva
era giusto, se lo seguivo dall’inizio non avrei avuto mai problemi […]
Io: Ok… senti tornando sui tuoi genitori, com’è il rapporto con loro?
Fahmi: Bello, bellissimo adesso che sono io, che ho maturato, bello! Tanto non ti chiedono niente loro! Vogliono
solo che hai un futuro pulito, sicuro, che sono sicuri del tuo futuro, che se loro muoiono o vanno via, ti lasciano che
sono tranquilli di te cè, non ti lasciano fuori: per esempio che non hai scuola, non hai niente, tipo quel ragazzo che
c’era qua! C’è suo padre, solo che non ha voluto parlare, è sposato con un’altra donna e non c’ha mai pensato a loro
e lui andava in comunità, in questi posti qua e allora i miei non vogliono ste cose, vogliono che sono sicuri di avermi
cresciuto bene, di avermi istruito, cè, vogliono sentirsi soddisfatti, non avermi fatto così “Vai via, fai quel che cazzo
vuoi!” e boh
Io: Quindi anche l’autorità di tuo papà è legato a questo, secondo te? È un modo di controllarti?
Fahmi: Sì, sì, la paura che divento un cattivo ragazzo, un monello! [tono ironico]
Io: Senti ma a chi racconti di più quello che ti succede quello che provi?
Fahmi: A mia madre, sa tutto di me, a mio padre a volte le cose non gliele racconto perché so che anche se non dice
niente lo farò sentire male cè, se faccio per esempio qualche cazzata la racconto a mia madre e dice “Non lo fare più,
non dire questo, non lo dire a tuo padre perché si arrabbia!” […] Mia madre sai, non le piace il fumo, però che vado a
prendere i soldi da un’altra parte non vuole e dice “Piuttosto te li do io, chiedo a tuo padre, te li do” tanto dice “vado
a fare quello, vado a fare la spesa” […]
Io: Quindi quando prima mi dicevi che tua mamma preferisce darti i soldi anziché sapere che tu fai queste cose… le
cazzate di cui parlavi prima erano queste? [si intende spaccio e furti, è stato tagliato un pezzo]
Fahmi: Eh sì, anziché arrivare a fare queste cagate, per niente andavo in carcere, non vuole, dice “Piuttosto li prendo
io da tuo padre” o anche mia sorella quando lavorava ci dava cinquanta euro per andarci a comprare vestiti [intende a
lui e suo fratello] [Fahmi, 20 anni].
La figura e il ruolo della madre tuttavia non sono sufficienti al controllo sociale e ad evitare non tanto che
questi ragazzi non sperimentino alcune di queste pratiche come eventi unici e limitati all’età giovanile, ma
piuttosto che non intraprendano una “carriera criminale”. La mamma, quando casalinga, è anche quella
che accede a poche informazioni ed è meno inserita nella società. Spesso questi ragazzi sono lasciati soli
nelle proprie scelte legate alla scuola e a chi “essere da grandi”, ma anche in quelle legate a come passare
il tempo libero. Non sono accompagnati dai genitori a cercare alternative al Giardino - e al suo mondo
sociale - quando sono appena adolescenti, anche se a volte vengono rimproverati di frequentare le persone
“sbagliate”. E quando i genitori, ma soprattutto il padre, si accorgono come il figlio si guadagna i soldi o
come si diverte126, cominciano i conflitti familiari che non ruotano attorno alla “cattiva strada”, non a
questioni di identità: il pericolo non sono l’italianizzazione e la perdita dell’identità etnico-nazionale di
origine, ma i giovani connazionali che portano su una brutta strada. Tuttavia, questi non sempre hanno gli
strumenti culturali e le giuste informazioni per accompagnare il figlio verso un altro stile di vita e altri
“mondi” sociali e culturali.
Esemplificativo è il caso di Fahmi che, nell’estate 2012, racconta di essere stato in Marocco con i suoi
genitori e che suo padre lo ha “fregato” organizzando un matrimonio combinato con una ragazza
compaesana che vive in Marocco. Il matrimonio è l’unico strumento a disposizione del padre per
responsabilizzare il figlio, accelerando la sua crescita, nel tentativo di dissuaderlo dal frequentare “cattive
amicizie”. La risposta del padre è legata alla sua capacità di affrontare il problema, connessa al suo
capitale culturale (ignoranza in materia di consumi di sostanze) e sociale. Scarse informazioni e incapacità
di comprendere i figli adolescenti e i loro gusti, portano quest’uomo a scelte che, paradossalmente,
potrebbero generare l’effetto che intendeva evitare con le scelte stesse:
Diario etnografico: settembre 2012
Fahmi mi racconta di essere appena tornato dal Marocco (due giorni prima) dove si è sposato. Io gli faccio gli auguri,
lui ride e con un po’ di tristezza mi dice di essere stato incastrato da suo padre che ha combinato il matrimonio
all’improvviso. Si è sposato con una ragazza che vive in Marocco e con la quale stava uscendo durante questo mese
trascorso giù. Quando suo padre scoprì che si vedeva con questa ragazza, lo convinse prima a fidanzarsi
ufficialmente e poi a sposarla. Dal racconto emerge la sua preoccupazione legata alle responsabilità del matrimonio:
126
Spesso i genitori scoprono le attività illegali del figlio quando questo, minorenne, viene arrestato la prima volta.
RAPPORTO SECONDGEN
Fahmi racconta che sposarsi in Marocco significa mantenere la moglie e occuparsi di lei. Sposarsi significa dover
crescere, diventare adulto. “Come faccio se io sono qui e lei è in Marocco? E come faccio a mantenere lei, i suoi
bisogni e desideri se non lavoro?”. Queste domande compaiono continuamente durante il suo racconto. Mi confida di
non sentirsi pronto per queste responsabilità, che deve ancora finire di studiare e che ora è costretto a trovare un
lavoro non per sé stesso e i suoi bisogni di ventenne a Torino ma per sua moglie rimasta in Marocco. Racconta di
sentirsi ancora piccolo per queste responsabilità da uomo, da adulto.
Cercando di concludere, i giovani magrebini incontrati non sono completamente soli perché non hanno
entrambi i genitori inseriti in settori del mercato del lavoro che richiede orari lunghi ed estesi all’intero
arco della giornata. Hanno quotidianamente un punto di riferimento nel mondo degli adulti diverso da ciò
che offre il contesto del Giardino, che è la madre. La madre, più del padre, agisce in parte da controllo
sociale, ma anche da mediatrice con il padre e con i servizi socio-assistenziali. Parte del controllo sociale è
attivato anche dall’importanza che i giovani incontrati danno alla famiglia, ancora prima degli amici o dei
pari. Emerge nei loro racconti la centralità della famiglia dove la madre è la figura cardine, il padre è la
fonte economica e i fratelli più piccoli sono il motivo per i quali si decide di smettere di deviare dalle
norme della società dominante – per dare loro un buon esempio – e da controllare quando cominciano a
frequentare anche loro la “strada”. Ed è proprio la centralità dei legami familiari che potrebbe spiegare il
perché i giovani adolescenti incontrati non abbiano dato vita ad una banda.
Infine, come accade in molti contesti sociali simili (Queirolo Palmas e Torre, 2005; Queirolo Palmas,
2006a; Queirolo Palmas, 2006b; Foote Whyte, trad., 2011) e come accennato in parte sopra, queste
pratiche sono anche spiegate dall’età sociale che stanno vivendo, oltre che dal processo migratorio e dal
contesto sociale e culturale d’inserimento nella società di arrivo. Infatti, trovato lavoro nel mercato
formale e legale, questi ragazzi tendono ad allontanarsi dal Giardino, dal suo contesto sociale e dalle sue
pratiche.
Fahmi: Adesso tutti ormai sono cresciuti, ci siamo conosciuti da minorenni, adesso siamo tutti maggiorenni e tutti,
sinceramente, sono cambiati, pensano al loro futuro, sai? Non pensano più alle cazzate, inizi a capire che quella
strada non ti porta da nessuna parte, rimani bloccato anche se continui a correre, come se stai correndo su una
macchina sai quelle che vai in palestra che corri? Il tapis roulant, quello là! Che sei sempre nello stesso posto, corri,
corri, ma sei nello stesso posto! […] Per esempio la gente che ha cominciato a lavorare, dei nostri amici, non
frequenta più qui, non ci frequenta più, hai capito? Adesso ha fatto i soldi e pensa a fare delle cose, hai capito?
Io: Quindi chi comincia a lavorare tende a andarsene?
Fahmi: Non andarsene, allontanarsi, sì, perché ha capito che stare al giardino non gli da niente, stare ai giardini tutto
il giorno cosa ti da? Niente! Tanto quando inizi a lavorare inizi a guadagnare soldi, boh, dici “Eh! Esco e spendo
soldi, no! Magari faccio questo!” inizi a fare dei progetti così la vita diventa semplice, più bella e diventi felice. Non
come noi adesso, sei triste, non c’è lavoro, ti senti abbandonato dal mondo, ti senti solo [Fahmi, 20 anni].
Chi riesce ad uscire dalle reti sociali costruite in strada, entrando nel mercato del lavoro legale (e magari
formale), tende a non frequentare più i contesti informali pubblici nei quali è cresciuto e nei quali ha
centrato la sua socialità durante “l’adolescenza”. Come già messo in evidenza da studi simili svolti in altri
contesti (il recente studio di Queirolo Palmas e Torre sui giovani ecuadoregni di seconda generazione a
Genova) e in altri tempi (come lo studio di Foote Whyte della prima metà del ‘900 sui giovani italiani di
seconda generazione a Boston), il contesto sociale della strada è in continua evoluzione. In circa un anno
di osservazione, la popolazione giovanile che frequenta quotidianamente il giardino è cambiata molte
volte. I più grandi, sopra i venticinque anni, una volta trovato un lavoro cominciano a fare progetti sulla
loro vita da “adulti” orientando le loro scelte in base alla possibilità di costruire una carriera professionale
e una famiglia propria. L’entrata nel mercato del lavoro legale e, crescendo, la costruzione di una propria
famiglia corrisponde a nuovi interessi che vanno oltre lo spazio sociale del Giardino.
Più di sessant’anni fa, Foote Whyte spiegava così il cambiamento del contesto sociale della strada, parole
che descrivono bene anche la situazione oggi osservata: «In realtà dei cambiamenti ce ne sono
continuamente, e il gruppo stesso pare avviato a disgregarsi allorché gli individui che lo compongono
arrivano a toccare la trentina. Alcuni mettono su famiglia e, pur continuando a bighellonare agli angoli
delle strade allargano la sfera dei loro interessi oltre i limiti di quell’area sociale» (Foote Whyte, trad.,
2011, pag. 82).
I ventenni incontrati sentono il peso del “diventare grandi” manifestando una tensione tra le aspettative
delle famiglie volte a responsabilizzare i figli affinché diventino adulti, a volte precocemente rispetto a
quanto avvenga tra i giovani autoctoni, e il bisogno dei giovani stessi di “vivere un’adolescenza
RAPPORTO SECONDGEN
prolungata” come fanno i loro coetanei. Quasi tutti dicono che lo stile di vita che stanno vivendo non sia
compatibile con una vita da adulto, fatta di responsabilità per le scelte prese, lavoro onesto, casa, mogli e
figli. Molti di loro sostengono che una carriera criminale, nonostante possa portare guadagni maggiori
rispetto a quanto ricavino dalle pratiche illegali messe in atto nel presente o quanto si possa guadagnare
con un lavoro onesto, non può essere la base per realizzare i progetti futuri in quanto eticamente sbagliata.
Emerge una contrapposizione tra il mondo adulto, dove la violazione (la devianza) implica perdita di
prestigio e reputazione, e quello giovanile, dei pari e degli adulti con cui passano il tempo libero, dove
questi sono acquisiti anche grazie la violazione.
“Uscire dalla strada” ed entrare nel mercato del lavoro significa sicuramente accedere ad una nuova
cerchia sociale, in questo caso di tipo professionale. Tuttavia, non tutti quelli che cominciano a lavorare,
una volta finita la scuola, abbandonano il Giardino, il suo mondo sociale e le sue pratiche di
“sopravvivenza quotidiana”. Molti, infatti, continuano a muoversi attraverso il confine legale-illegale a
causa della precarietà che caratterizza il mercato del lavoro legale e, sicuramente, a causa della loro
difficoltà a trovare nuova occupazione alla fine di un contratto di lavoro a termine.
A cosa è legata la capacità di alcuni di chiudere definitivamente con le pratiche illegali per dare finalmente
forma alla loro vita da adulti, così come l’hanno sognata? Da dove nasce la scelta di altri di continuare a
“guadagnare soldi facili” anche quando riescono ad accedere a lavori onesti, legali e accettati dalla società
più ampia? Entrare nel mercato del lavoro, significa che questi ragazzi sono riusciti ad attivare un
processo di differenziazione e delocalizzazione delle loro interazioni sociali, oppure significa rinchiudersi
in cerchie sociali professionali di altro tipo – legate al settore lavorativo legale in cui si sono inseriti –
rischiando di riattraversare il confine dell’illegalità ogni volta che scade un contratto o si perde il posto?
Quanto contano i legami familiari, parentali e comunitari per entrare nel mercato del lavoro in modo
esclusivo o per aver nuove opportunità di guadagno al termine di un contratto di lavoro? Infine, quando
l’entrata nel mercato del lavoro significa avviare un processo di mobilità sociale e quando questo coincide
invece con l’immobilismo?
Entrare nel mercato del lavoro o “navigare” in spazi di frontiera?
Nessuno dei giovani incontrati abitualmente in Giardino al momento dell’osservazione stava lavorando.
Alcuni di loro stavano ancora studiando mentre altri erano disoccupati. Tutti, con poche eccezioni tra chi
ancora studente, erano pronti ad iniziare un’attività lavorativa anche nell’immediato. Tuttavia, non tutti al
momento dell’osservazione stavano cercando attivamente lavoro. Parlando delle difficoltà incontrate nella
ricerca del lavoro legale, a volte emerge un razzismo percepito in quanto stranieri che, per alcuni, è
aumentato con la crisi economica, mentre per altri è legato allo stereotipo del marocchino criminale, che
spaccia e ruba:
Io: Ma quali sono le difficoltà che stai incontrando nel trovare lavoro qui?
Ashraf: Beh, prima di tutto perché sono marocchino per questo mi scartano sempre “Sai ci sono tanti marocchini qua
che fanno i delinquenti e così poi tutti pagano per causa loro!” e poi l’Italia ha una mentalità troppo chiusa […] la
difficoltà oggi del lavoro è anche legata alla crisi, infatti nemmeno i miei connazionali mi chiamano! Gli lascio il
curriculum e i miei contatti, loro dicono che mi chiameranno ma non lo fanno mai! Sai io parlo anche tre lingue:
arabo, italiano e francese, eppure non riesco a trovare lavoro! [Ashraf, 24 anni].127
Pensa che una volta sono andato a fare un colloquio di lavoro in un’azienda di meccanici con un mio ex compagno di
classe, lui italiano, diplomato con 60, il minimo, lo avevano diplomato per farlo uscire perché non ne potevano più di
questo ragazzo! Non sapeva fare nulla, nemmeno cambiare una gomma, gliel’ho insegnato io! Eppure hanno preso
lui e non me. Quando siamo arrivati per il colloquio, mi hanno fatto entrare prima a me. Sai, quando hanno visto il
mio nome mi hanno chiesto “Ma che nome è Ziyad?” “Sono marocchino!” non se lo aspettavano, non so, tante volte
succede che pensano che sia italiano! Comunque mi hanno chiesto le solite cose, sai “Sei disposto a fare i turni o
preferisci lavorare con l’orario normale?” io subito gli ho detto che a me andava bene tutto, che se mi avrebbero
chiamato alle tre del mattino per andare a lavorare l’avrei fatto perché avevo bisogno di lavorare per aiutare i miei
127
Ashraf ha 24 anni, anche lui nato in Marocco e arrivato in Italia all’età di 7 anni. Ashraf parla un italiano senza
accento straniero, anche se sbaglia a volte qualche tempo verbale. È vestito secondo la moda dei giovani della zona, con
scarpe e maglietta della Nike, berettino da baseball, si aggira con un iPhon che spesso tira fuori dalla tasca. Ashraf è
solito girare con un signore sui 40 anni (Mustafà). Non fa parte degli amici/conoscenti di Fahmi anche se è un abituale
frequentatore del Giardino. Ashraf, come gli altri giovani incontrati, è disoccupato e si “arrangia” vendendo hashish
insieme a Mustafà.
RAPPORTO SECONDGEN
genitori a mantenere la famiglia. Loro mi hanno liquidato in due secondi dicendo che mi avrebbero fatto sapere.
Dopo di me entra il mio ex compagno italiano e, dopo un po’ esce sorridendo “Mi hanno preso per una settimana di
prova, ho già firmato!”. Io ci sono proprio rimasto male perché lui non solo era uscito con un voto più basso ma non
aveva neanche nessuna esperienza e ho capito che il problema era la mia nazionalità marocchina, un problema che
mi porto avanti ancora adesso [Ziyad, 22 anni].
La crisi economica e del lavoro in Italia sicuramente non permette a tanti giovani di trovare facilmente
nuova occupazione, in caso si perda il lavoro, o di entrare nel mercato del lavoro per la prima volta.
Inoltre, probabilmente il razzismo percepito è reale, ma da solo non spiega come mai in giardino ho
incontrato giovani che, nonostante abbiano cercato attivamente lavoro, non sono mai entrati nel mercato
del lavoro legale e altri che in passato hanno accumulato diverse esperienze che, seppur brevi, hanno
permesso di attraversare anche solo temporaneamente il confine legale-illegale. L’esperienza maturata
anche solo con lo stage curriculare o con temporanee occupazioni svolte in passato, non sembra essere
sufficiente a permanere nel mercato del lavoro legale. Ragazzi come Ziyad, Ashraf, Fahmi e in parte
Abed, hanno accumulato nel passato alcune esperienze lavorative sia nel settore di loro formazione
(tramite lo stage curriculare) sia in altri settori. Eppure, cosa spiega la difficoltà di Abed e Ashraf oggi a
trovare nuova occupazione e l’abilità di Fahmi e Ziyad a lavorare, seppur occasionalmente, in modo
precario e non sempre in settori conformi alla loro formazione e ai loro progetti?
Io: E tu non lavori, ma stai cercando e non trovi nulla?
Abed: No, non sto cercando, cercavo lavoro, cercavo ma adesso no perché mi sono stufato, non trovo nulla! Ma
neanche qualcuno che ti fa venire la voglia di continuare a cercare!
Io: E come cercavi lavoro?
Abed: Mandavo curriculum, andavamo insieme io e lui [indica Fahmi] la mattina, lasciavamo il curriculum, sono
andato direttamente alle fabbriche a lasciare curriculum, niente! Non mi ha mai chiamato nessuno, nemmeno per un
colloquio, mai! Sì, mi hanno chiamato a fare porta a porta per vendere le cose, come si chiamano? Ma a me quelle
cose lì non mi piacciono! E ho lasciato stare, ho cercato in tutte le fabbriche andavo anche fuori Torino, qualsiasi
fabbrica che vedevo entravo e lasciavo perché c’avevo scritto anche nel curriculum che facevo il magazziniere e gli
lasciavo il curriculum, poi l’ho lasciato anche alle agenzie, le solite cose ma nessuno mi ha mai chiamato, mai!
[Abed, 19 anni].
Io: Ma Fahmi tu dici che c’è più razzismo rispetto a prima?
Fahmi: Sì
[giovane marocchino frequentatore del giardino]: sì adesso dicono “ci rubano i posti di lavoro”
Fahmi: Sì perché tutti - anche gli italiani - hanno iniziato a non lavorare [Fahmi, 22 anni].
Siamo stati qui fino a quando io facevo la terza media, poi siamo tornati in Marocco per un periodo; insieme alla mia
famiglia abbiamo deciso che io dovevo raggiungere dei miei parenti in Francia e ho vissuto per un po’ a Grenoble e
poi a Lione, poi sono tornato a Torino dove ho fatto terza, quarta e quinta superiore e mi sono diplomato da
elettricista. In Italia ho vissuto prima a Torino con i miei genitori ma sono stato anche qualche mese a Roma,
Milano, Novara, Vercelli e Biella. Mi spostavo presso connazionali, conoscenti miei o dei miei genitori per cercare
lavoro. [Ashraf, 24 anni].
Il capitale sociale è utile per comprendere e spiegare le diverse traiettorie che stanno percorrendo i giovani
incontrati. Come teorizzato dalla letteratura sul capitale sociale e sulla mobilità, l’efficacia delle reti in cui
un attore è inserito nell’ascesa sociale è legata alle caratteristiche delle loro trame più che all’intensità dei
legami: più sono diversificate dal punto di vista sociale e occupazionale e meno sono segregate, più è
probabile che questo favorisca prima la formulazione e poi la realizzazione di progetti di mobilità sociale
(Bianco, 2001). Prima di parlare di possibilità di mobilità sociale, difficilmente valutabile a causa della
giovane età degli intervistati128, è bene riflettere sulle possibilità di accedere al lavoro legale e formale e di
permanervi.
Dato il livello odierno di precarietà delle forme contrattuali in tutti i settori occupazionali, per riuscire a
raggiungere una stabilità occupazionale garantita da un contratto scritto, oltre che dalla fiducia, si deve
imparare a “sopravvivere” nella precarietà contrattuale e dei posti di lavoro. Un’abilità non tanto legata
all’esperienza – e capacità – professionale, ma alle risorse – informazioni, fiducia, influenza – provenienti
dalle proprie reti sociali e all’esperienza acquisita nell’interazione con i nodi di queste reti. Quali sono le
128
Sono tutti giovani che, quando già conseguita, hanno ottenuto la qualifica o il diploma recentemente e perciò sono da
poco entrati nel mercato del lavoro. Pertanto quando si parlerà di mobilità sociale, si deve intendere in termini di
probabilità futura e non di certezza di evoluzione delle loro carriere professionali.
RAPPORTO SECONDGEN
caratteristiche del capitale sociale dei giovani di seconda generazione osservati e che tipo di risorse utili
per entrare e permanere nel mercato del lavoro legale derivano da queste reti?
Dai colloqui informali e dalle interviste sono emerse tre fonti di rete diverse, dalle quali deriva il capitale
sociale individuale di questi ragazzi: familiari/parenti, amici/conoscenti, insegnanti/mondo scuola. Come
confermato già dalla letteratura, le reti dei giovani incontrati sono simili a quelle di molti figli di operai
italiani: sono per lo più private, ovvero reti parentali e amicali costruite in ambito non lavorativo (il
quartiere), spesso composte esclusivamente da connazionali (stessa origine geografica) di diversa età, con
una buona preminenza di giovani e adulti in età da lavoro. Sono reti che permettono ai giovani magrebini
incontrati di trovare lavoro in modo mediato (lavorare insieme al padre o allo zio nella piccola impresa per
la quale sono dipendenti) o indiretto (avere un contratto a termine da una grande azienda per la quale
lavora anche lo zio o dopo lo stage curriculare).
Ho studiato qui in Italia, ho preso il diploma meccanico e nonostante abbia anche esperienza di lavoro ora non riesco
a trovare niente. Ho lavorato tre mesi in posta, smistavo la posta, avevo lasciato a loro il curriculum tramite mio zio
che lavora lì e mi hanno chiamato per tre mesi, ora fanno solo contratti così! Ho lavorato anche in un bar-ristorante
qui vicino e in un supermercato come magazziniere, ho fatto anche qualche mese da un meccanico e nonostante
l’esperienza e gli studi fatti ora non trovo nulla! Ho studiato anche molto e mi sono diplomato anche bene, sono
uscito con 76! [Ziyad, 22 anni].
Sì, con mio padre ho fatto il manovale anche se mi sembrava difficile, invece è stato facilissimo, ci sono degli
strumenti che ti facilitano il lavoro. È meglio fare il manovale che il muratore, sì il manovale sembra una brutta
parola però quando sei lì […] facevo dei lavoretti tipo al signore a cui avevamo venduto la casa, gli abbiamo
verniciato la villa, gli abbiamo costruito dei muri, e boh! Avevo sedici anni […] Mi pagava il suo datore di lavoro,
mio padre era dipendente, ho lavorato, tipo facevo le pulizie, portavo la carriola piena di calce, era facile il lavoro cè,
ho lavorato per due mesi e boh! [Fahmi, 20 anni]129.
Io: Senti, ma quali sono le difficoltà che incontri nel trovare lavoro?
Abed: Qua secondo me devi avere delle conoscenze che un po’ ti aiutano a trovare sto lavoro se no boh, rimani così
come sono io, come siano tutti noi qua! Devi conoscere le persone che possono farti entrare nei posti di lavoro
Io: Ma quali sono le tue conoscenze?
Abed: Tutti quelli che stanno qua! Quelli che incontro qua, con loro passo del tempo, passo il tempo fumando io,
passo il tempo con lui [Fahmi] passo il tempo con altri amici e altre persone che stanno qua, sono tutti connazionali,
hanno la mia età e anche più grandi, tra i 20 e i 30 anni più o meno, più piccoli no, nel gruppo sono io il più piccolo
Io: E come li hai conosciuti?
Abed: Venendo qua, non frequento quelli che ho conosciuto a scuola, venendo qua li ho conosciuti, sono persone che
frequentano questi giardini e la zona qui, il quartiere. Alcuni di loro ora stanno ancora studiando, come Fahmi, altri
lavorano, c’è uno che fa il muratore, uno che fa il tornitore fresatore, uno che fa il saldatore, ehm c’è l’idraulico… di
quello che hai bisogno c’è in questo gruppo! [Abed, 19 anni].
[Parlando della scuola] l’unica cosa positiva è che ti fanno fare lo stage obbligatorio, lì sì che impari qualcosa e ti
crei anche i contatti per dopo. Ad esempio, io ho fatto lo stage presso un’azienda che sta qui a Torino qui vicino
[azienda manifatturiera italiana che produce apparecchiature e macchine elettriche] e lì mi sono trovato bene, ho
imparato delle cose, più di quello che ho imparato a scuola. Ora mi hanno detto che per il periodo estivo hanno
bisogno, un part time, a me va benissimo, mi hanno detto di mandare il curriculum con copia della qualifica per
vedere se prendermi [Rajab, 18 anni].
Quasi tutti i ragazzi incontrati sono riusciti ad avere almeno un’esperienza di lavoro attraverso le loro reti
in modo mediato, attraverso familiari/parenti, o indiretto dove lo stage obbligatorio previsto per
conseguire la qualifica permette al ragazzo di conoscere il mestiere per il quale si sta formando e di creare
legami professionali. Come sostiene la letteratura, lo status sciale non è utile di per sé affinché si trovi
lavoro, ma conta l’omogeneità occupazionale - rispetto ai fini - delle reti sociali in cui un attore è inserito.
In vista dei progetti lavorativi, le loro reti sociali sembrano coerenti e pertanto, come spiegare la loro
difficoltà a permanere, seppur in modo precario, nel mercato del lavoro?
Abed, nella citazione precedente, presenta la situazione in modo esplicito. Non si tratta solo di omogeneità
occupazionale delle reti sociali, ma anche di alcune caratteristiche morfologiche delle reti in cui si è
129
Fahmi, inoltre, circa tre anni fa ha fatto un tirocinio con borsa presso un centro di aggregazione giovanile comunale e
gestito da un’associazione del privato sociale. Il centro è nato per l’intercettazione dei minori stranieri non
accompagnati “caduti” nel mondo della droga – spaccio e consumo – spesso scappati dalle comunità per minori soli. Gli
educatori, che hanno lavorato in strada per anni, hanno incontrato anche giovani di seconda generazione del quartiere
Barriera di Milano e della zona di Porta Palazzo. Alcuni dei primi giovani seguiti, oggi trentenni, lavorano stabilmente
nel mercato del lavoro.
RAPPORTO SECONDGEN
inseriti130. È vero che grazie all’omogeneità accedono molto facilmente anche solo a informazioni su dove
portare un curriculum o sull’esistenza di un posto vacante: infatti, il problema di questi ragazzi non è dove
mandare il curriculum. Sanno muoversi nella ricerca del lavoro, iscrivendosi alle agenzie interinali e ai
centri per l’impiego e tutti raccontano di avere passato giornate andando a consegnare direttamente
curriculum alle aziende. Tuttavia, quando hanno lavorato, le occupazioni le hanno trovate quasi
esclusivamente attraverso capitale privato (parenti, amici e conoscenti in contesti extra-lavorativi).
Le reti di questi ragazzi sono casuali e disordinate (Bianco, 2001), ovvero sono reti senza una traiettoria
strutturata ma che si formano in virtù di incontri/opportunità contingenti ai luoghi frequentati
(quotidianamente e occasionalmente) e allo “status dei nodi” a cui sono legati e che li collegano ad altre
cerchie in base ai loro bisogni momentanei (come la ricerca di occupazione piuttosto che della sostanza da
consumare). Se da un lato succede che incontrino casualmente chi appartiene a cerchie sociali diverse e
con i quali possono attivare forme di scambio vantaggiose (come ad esempio avere più informazioni sul
funzionamento del mercato del lavoro locale), tuttavia le reti dei giovani magrebini incontrati portano per
lo più a lavori occasionali. Innanzi tutto, il fatto che non abbiano un capitale sociale diretto131, soprattutto
per il tipo di professioni che cercano, ostacola in parte un loro inserimento stabile. Nessuno, infatti, ha
dichiarato di lavorare per la piccola ditta del padre o dello zio, ma al massimo di lavorare per il datore di
lavoro del padre o dello zio. Questo rischia di essere uno svantaggio nel momento in cui le aziende che
assumerebbero meccanici o elettricisti, solo per fare alcuni esempi, spesso sono piccole aziende a
conduzione familiare, quindi aziende che vivono grazie ad un capitale sociale diretto, per lo più formato
da contatti informali (parenti, amici e conoscenti nel mondo extra-lavorativo).
Inoltre, sebbene la scuola permetta di “mettere un piede” oltre il confine dell’illegalità, tuttavia sono
pochi, se non assenti, i nodi delle reti che insegnano loro a presentarsi nel modo più appropriato al futuro
datore di lavoro. Tutti raccontano di non sapere scrivere un curriculum o la lettera di presentazione per
rispondere ad un annuncio o per presentarsi in cerca di un posto. Inoltre, pochi accedono e conoscono i
servizi gratuiti comunali come l’informa-giovani, che offrono informazioni utili non solo sul campo
lavorativo ma anche sul divertimento, sui viaggi all’estero o sulla scuola e la cultura presentando
alternative al contesto del Giardino e del quartiere di residenza. Per di più, hanno scarse conoscenze delle
norme sociali che regolano l’incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro, non tanto quelle legate
all’abbigliamento - sono ragazzi abbastanza curati dal punto di vista estetico - quanto quelle legate al tipo
di linguaggio da usare durante un colloquio o all’importanza di uscire dallo spazio sociale quotidiano per
aprirsi ad altri mondi ed esperienze, utili spesso anche a fini lavorativi.
Infine, questi ragazzi subiscono in parte le conseguenze sociali del processo di criminalizzazione causato
dalla definizione di determinati atti come criminali e accompagnato dalle continue azioni di controllo della
polizia (fermi e arresti effettuati in strada, autobus e giardini pubblici) di alcune precise nazionalità in
precisi spazi urbani dove la micro-criminalità visibile è incarnata dalla popolazione magrebina e
dell’Africa sub-sahariana (si intendono alcune zone della città come Barriera di Milano, Porta Palazzo,
San Salvario, Murazzi). Infatti, i magrebini incontrati parlano di razzismo percepito in relazione ai luoghi
del divertimento, delle aree pubbliche di passaggio e nella fase “ricerca del lavoro”. In relazione alla
discriminazione nel trovare un’occupazione, atteggiamenti razzisti di questo tipo sono emersi soprattutto
quando cercano lavoro in queste “zone calde”, dove la divisione del lavoro legale, così come di quello
illegale, è fortemente etnicizzata (Becucci, 2006). È come se la (quasi) esclusiva presenza in strada di
spacciatori di origine magrebina e africana, trasformasse automaticamente tutti coloro che vengono
ricondotti a quella nazionalità-etnia in spacciatori e criminali.
Ma se davvero così fosse, come mai non cercano lavoro fuori? Molti raccontano di essere andati fuori dal
quartiere e dalla città di Torino a cercare lavoro nelle imprese e nelle fabbriche, senza spesso riuscire
nemmeno a fare un colloquio. Tuttavia, se lo erano in passato durante il benessere economico (MacLeod,
130
Per caratteristiche morfologiche delle reti si intende la forza dei legami, lo status dei nodi, la presenza o meno di
buchi strutturati (Burt), la specializzazione e la localizzazione delle reti in cui un attore è inserito (Bianco, 2001).
131
La letteratura classifica il capitale sociale in base alla fonte della rete da cui proviene il capitale sociale attivato
(contatti informali di amici, parenti e conoscenti nell’ambito extra-lavorativo, e contatti formali o professionali) e in
base alla lunghezza delle catene di contatti usate dagli attori. Sulla base della lunghezza delle catene vi è il capitale
sociale diretto, ovvero quando ad esempio si è stati assunti direttamente dal proprio contatto di rete (catena corta); il
capitale sociale mediato, quando si è avuta un’informazione importante o si è stati segnalati da chi conosceva
personalmente il futuro datore di lavoro (catena di media lunghezza) e, infine, il capitale sociale indiretto, ovvero
quando si è trovato lavoro in virtù di un contatto che non ha legami con il datore di lavoro (catena lunghe, ovvero catene
professionali) (Bianco, 2001).
RAPPORTO SECONDGEN
1987), oggi con la crisi e la diffusione della precarietà le conoscenze risultano essere ancora più
importanti, e se non si riesce a creare legami al di fuori della proprie cerchie parentali e comunitarie,
queste reti non fanno altro che consolidare le diseguaglianze sociali ostacolando processi di mobilità
(Bianco, 2001). Mobilità sociale sia verticale, avviando carriere professionali in ascesa, sia orizzontale,
che non permettono una crescita di status ma garantiscono l’occupazione, permettendo di “adattarsi” alla
precarietà. Dal momento che è difficile costruire un legame sociale nuovo partendo dal nulla, ma è molto
più semplice ampliare la propria rete sociale sulla base dei nodi – e dei legami – già esistenti, diventa
basilare riuscire ad occupare un «buco strutturale» (Burt, 1992) instaurando legami con altre cerchie
sociali precedentemente non in contatto (Eve, 2001).
Chi è riuscito ad accedere al lavoro legale molto più frequentemente aprendosi una strada alternativa alla
micro-criminalità, ha acquisito anche la possibilità di scegliere più liberamente di altri se avviare o meno
una carriera criminale. Questa possibilità è legata proprio alla capacità di uscire dalle cerchie sociali
private legate alla famiglia e al contesto del Giardino/quartiere, ovvero da quei contesti sociali per lo più
informali in cui sono ben integrati ma che non stimolano percorsi e progettualità di mobilità sociale e,
pertanto, d’integrazione anche in altri contesti (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Una capacità non
innata, ma acquisita giorno dopo giorno frequentando attori provenienti da altri mondi sociali: si impara
dalle reti non solo a muoversi nella società ma anche a muoversi nelle e tra le reti. Solo frequentando nodi
di altri mondi sociali si acquisiscono quelle informazioni utili a sviluppare credenze e preferenze che
permettono di scegliere, ad esempio che tipo di lavoro cercare o se cercare lavoro.
Giovani come Mufeed e Abed, che hanno contatti per lo più privati con connazionali (contatti familiari e
amicali/di conoscenza costruiti per lo più in ambito extra-lavorativo), non hanno mai iniziato a cercare
lavoro, o hanno perfino smesso come Abed, perché dalle loro reti arrivano informazioni scoraggianti:
“senza un diploma non trovi lavoro” o “con la crisi non prendono me perché sono marocchino, non mi
hanno mai chiamato nemmeno per un colloquio!”. E se non trovano lavoro a condizioni dignitose, o
pensano che non lo troveranno almeno nel presente, ma hanno bisogno di soldi per vivere – Mufeed ha
entrambi i genitori disoccupati e Abed attualmente è rimasto solo in Italia – allora non resta loro che
tornare a spacciare e rubare. Tutto questo è visibile nelle esperienze dei magrebini incontrati.
Io ora non ho un lavoro onesto e pulito, non l’ho mai cercato e per ora non intendo cercalo perché tanto non avendo
nemmeno un titolo di studio come la qualifica o il diploma nessuno mi prenderebbe e poi sono marocchino. Questo
lo so perché ho diversi amici che non trovano lavoro perché non hanno nessun titolo. E sai quanti miei amici faticano
a trovare un lavoro perché sono marocchini? Ora con la crisi preferiscono dare prima il lavoro agli italiani e noi… a
noi rimane la strada brutta, lo spaccio, le rapine e i furti. […] Ecco perché mi hanno già arrestato tre volte per
spaccio. Ora devo finire di scontare una pena, ho fatto già due anni di lavori socialmente utili in un centro anziani,
ora mi mancano ancora delle ore da scontare e con l’assistente sociale abbiamo stabilito di fare due ore alla settimana
così posso andare a scuola e cominciare un lavoro con una borsa lavoro. Ma lei mi ha già detto che mi pagheranno
poco, dovrei fare quattro ore al giorno presso un auto-officina o anche un super mercato, dove trovo, solo che se mi
danno 300/400 euro al mese sono troppo pochi, posso farne molti di più in una serata rubando! [Mufeed, 20 anni].
Inoltre, è attraverso le reti che si impara a costruire nuovi legami sociali e più queste reti sono diversificate
e delocalizzate più è facile costruire nuovi legami, non solo per la “proprietà transitiva” delle reti132, ma
anche perché si apprendono le norme sociali e i modelli di comportamento di altri mondi sociali. Solo così
è possibile creare nuovi contatti ed accedere a mondi sociali che, se prima erano estranei, diventano in
questo modo meno distanti e più familiari.
Pertanto, hanno reti sociali specializzate e localizzate in precisi settori del mercato del lavoro legale (reti
familiari e parentali) e illegale (reti amicali di tipo residenziale) che permettono loro di “vivere la
giornata” ma non di progettare un futuro. Le informazioni e le influenze acquisite in virtù delle loro reti
sono deboli ed estremamente specializzate, impedendo loro non solo di muoversi in verticale nella scala
sociale ma anche in orizzontale. Fino a quando non trovano un lavoro stabile continuano a vivere
attraversando il confine legale-illegale in modo casuale – perché si è aperta una possibilità – e disordinato,
senza un preciso progetto di vita. Quando non si trova più lavoro, il rischio di non oltrepassare più quel
confine restando segregato nell’illegalità e nell’informalità aumenta, anche se non sempre è percepito
132
Per proprietà transitiva delle reti si intende che se l’individuo A conosce due individui B e C, che appartengono a due
cerchie sociali differenti e non in contatto, allora è molto probabile che B e C entreranno in interazione, creando un
legame, in virtù del loro legame con A. In questo caso, A occuperebbe un buco strutturale (Burt) in quanto mette in
contatto B e C, ovvero due nodi di cerchie sociali altrimenti non in relazione.
RAPPORTO SECONDGEN
come tale dai ragazzi stessi. Infatti, nello spazio sociale del Giardino si acquisiscono anche informazioni
sulla possibilità di lavorare facendo attività che occupano una posizione di frontiera tra la legalità e
illegalità, la formalità e l’informalità, come mostrano le parole che seguono.
Io: Senti ma come fai a vivere se non lavori?
Ashraf: Cerco i soldi per sopravvivere la giornata, anche per questo sto qui, sai? [intende che va lì in giardino per
spacciare] Vorrei accumulare i soldi per comprarmi una vespa [intende un Ape], sai quella a tre ruote con dietro lo
spazio per trasportare le cose? Così con quella potrei andare in giro a raccogliere il ferro e il rame e rivenderlo, lo
pagano bene sai? 0,30 euro al kg e il rame anche di più! Conosco diversi ragazzi che fanno questo. Almeno così farei
un lavoro onesto perché io cerco quello, un lavoro onesto solo un lavoro onesto! Ma non so come acquistare una
vespa! [Ashraf, 24 anni].
È curioso come, nel tentativo di abbandonare lo spaccio, Ashraf stia tentando di risparmiare per comprare
un mezzo di trasporto al fine di avviare un’attività redditizia informale, come quella della vendita del rame
e del ferro in nero come “libero professionista”, che tuttavia sta al confine tra la legalità – compra vendita
del rame e del ferro – e l’illegalità – gran parte del rame/ferro che circola in questo modo è rubato. Ma in
virtù delle informazioni a cui accede, lui pensa in questo modo di cominciare a fare un lavoro onesto.
Pertanto, da una parte hanno famiglie che non hanno le capacità e le risorse per pensare ad un futuro per i
propri figli diverso dal loro, non li stimolano ad essere ambiziosi nel progettare la loro “vita da grandi” e
hanno pochi contatti e capacità di influire sulla loro entrata nel mercato del lavoro; dall’altra, hanno
conoscenze e amicizie fatte di coetanei che si adattano alle difficoltà adolescenziali e sociali attivando
pratiche illegali, e di giovani-adulti che hanno acquisito beni status symbol grazie a queste pratiche.
Configurandosi in questi termini, il capitale sociale individuale a disposizione è assolutamente efficace per
i fini di breve periodo, ovvero avere la liquidità necessaria per consumi centrati sul divertimento e sulle
relazioni sociali o per vivere la giornata. È efficace anche dal punto di vista culturale, offrendo modelli e
stili di vita, valori, preferenze e credenze utili per orientare le proprie scelte. Infine, è efficace anche dal
punto di vista identitario, offrendo simboli e pratiche sociali utili ai processi di individuazione e
identificazione con un gruppo. Infatti, sono reti che permettono di attivare facilmente forme di guadagno
alternative a quelle lecite nei momenti di disoccupazione. Quindi, la buona integrazione in contesti sociali
privati e comunitari (famiglia, connazionali e vicini di casa) può alimentare il processo di
(auto)segregazione sociale, confermando che per molti giovani stranieri la sola forma di integrazione certa
rischia di essere quella nella “devianza” (Dal Lago e Quadrelli, 2003).
Questo avviene perché faticano a creare legami al di fuori delle loro cerchie sociali, legami che
influiscono già durante la scelta del percorso scolastico, predeterminando in qualche modo la futura
possibilità di ascesa (Bianco, 2001). Il contesto sociale familiare e “residenziale” di vita ha importanti
conseguenze nel plasmare i progetti futuri di questi giovani. Come è già emerso prima, loro non sognano
percorsi professionali ambiziosi in termini di retribuzione monetaria e simbolica. Sognano di poter trovare
un lavoro stabile, che piaccia, gratifichi e che sia onesto. Un lavoro che li faccia sentire utili e, nello stesso
tempo, che dia un posto nella società italiana a cui sentono di appartenere. Inoltre, sognano un lavoro che
permetta loro di costruire una propria famiglia, di avere una casa dignitosa e tutti quei beni che li facciano
sentire “come gli altri”. E tutto questo lo sognano in Italia, a Torino e non nel paese di origine133.
Pochissimi vorrebbero tornare al paese di origine, opzione tra l’altro non possibile senza aver soldi a
sufficienza per poter aprire un’attività che permetta di vivere.
133
Come evidenziato da altri studi, da un lato emerge il mito del ritorno (Anwar, 1979): tutti hanno nostalgia del
paese e delle relazioni lasciate alla partenza, ricordano bene la sofferenza iniziale nell’aver abbandonato amici e
parenti e le difficoltà d’inserimento a Torino ma nessuno dichiara con convinzione di poter mai tornare in Marocco.
Hanno passato almeno metà della loro vita in Italia, sono diventati giovani italiani almeno da un punto di vista
culturale e, quando tornano in Marocco per le vacanze, vivono un forte spaesamento (Ambrosini, 2004; Queirolo
Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Non si riconoscono nel paese lasciato anni prima, gli amici sono cresciuti
e diventati adulti con proprie famiglie, mentre loro stanno ancora cercando di avviare i loro progetti. Non si sentono
più parte del paese di origine, anche se hanno la cittadinanza, si sentono emigrati. Questa tensione si manifesta
dando vita spesso a progetti migratori propri, diventando i veri attori di questi progetti. Progetti orientati alla
costruzione di una famiglia e di una vita in Italia, anche se a causa delle elevate difficoltà economiche e di
inserimento nel mercato del lavoro, sempre più emergono progetti di vita in altri paesi europei, dove è possibile
trovare un occupazione onesta e dignitosa e, soprattutto, dove “lo Stato aiuta”, come in Francia, consapevolezza
acquisita tramite le reti di connazionali. Progetti, infine, che spesso si slegano da quelli dei genitori orientati al
ritorno nel paese di origine.
RAPPORTO SECONDGEN
Fahmi: Ah io mi vedo con un lavoro, con una famiglia, con una bella macchina ed una bella casa, parto alla mattina,
torno alla sera, mangio insieme a mia moglie, guardo i miei figli! Sempre qua, se non qua in Europa, sai in Svizzera
o in Francia o in Belgio o in Olanda o in Svezia, non Svizzera, Svezia. Sì basta che ho un lavoro e la famiglia, mi
basta
Io: E qua a Torino resteresti sempre in questa zona?
Fahmi: Sì magari a Torino se trovo un lavoro anche qua che c’è di male? Se trovo un lavoro sto qui, basta che sono
utile alla società e a me stesso [Fahmi, 20 anni].
Appena prendo la qualifica voglio andarmene di qui, voglio andare a Modena o Bologna ma non in città, nei villaggi
[intende dire in campagna] perché nelle città c’è più povertà e più persone che non lavorano e cercano, invece nelle
campagne c’è più lavoro e meno persone! Oppure vorrei andare in Francia o in Canada, lì sì che si sta bene! Oppure
in Norvegia, c’è lavoro e lo Stato ti aiuta se hai bisogno, qui non ti aiuta nessuno! [Mufeed, 20 anni].
Io: E tu sai come tua mamma ha scelto di tornare in Marocco?
Abed: Ha scelto di tornare in Marocco perché volevamo che i miei fratelli studiano in Marocco, e boh, finché sono
loro in Marocco che sono piccoli sta lei là…
Io: E tu come hai scelto di rimanere qua?
Abed: Io ehm, sta cazzo di abitudine di stare qui, mi piace tornare giù in vacanza però poi voglio tornare qui, se non
torno qui è un casino, non ce la faccio a stare sempre in Marocco, è troppo tempo che non vivo più lì! [Abed, 19
anni].
Quasi nessuno progetta, invece, una carriera criminale anche se tutti sanno che questa potrebbe portare
molti soldi e potere. Una consapevolezza che nasce anche osservando quello che succede nella società più
ampia, osservando i modelli culturali trasmessi attraverso i media. In questo caso, è curioso come gran
parte dei magrebini incontrati ammirino il percorso di ascesa sociale, seppur illegale, di Silvio Berlusconi
lodandolo per le sue capacità imprenditoriali, non politiche134. Infatti, Berlusconi rappresenta il simbolo
che l’ascesa sociale è in qualche modo possibile: è riuscito a passare dal “nulla”, condizione in cui loro
pensano di trovarsi, ad essere uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo. Non importa con quali
mezzi, almeno non per tutti. In fin dei conti, chi quotidianamente si vede ridurre le possibilità di
integrazione e ascesa secondo le norme sociali accettate e percepisce alcune pratiche illegali di guadagno
come normali e unico mezzo di sopravvivenza, perché dovrebbe rifiutare pratiche di ascesa sociale
accettate da parte della popolazione italiana? Infatti, anche loro sono stati socializzati alla cultura
dominante della nostra società, e questi valori “devianti” sono parte di questa, come ricordato nel
paragrafo precedente (Matza e Sykes, 1961).
Tuttavia, nel caso della carriera deviante, questi ragazzi hanno poche occasioni di intraprendere un’ascesa
sociale nella criminalità nel momento in cui non hanno i legami e i contatti giusti. Come è emerso finora,
non hanno le capacità di passare da un mondo sociale all’altro. Infatti, a differenza di alcuni criminali di
origine nigeriana, albanese, dominicana e italiana, solo per fare degli esempi, gran parte di quelli di
origine magrebina (per lo più marocchini, algerini e tunisini) non sono né organizzati e strutturati né
hanno elevato potere economico, sociale e politico sul territorio di azione (Becucci, 2006)135. I magrebini,
come altre nazionalità citate da Becucci (2006), sono inseriti nelle occupazioni più marginali, rischiose in quanto più visibili - e meno retribuite anche nel mercato delle attività illegali. Questi infatti fanno gli
spacciatori di strada o i corrieri ma non occupano posizioni elevate e redditizie e non sono affiliati a
nessuna organizzazione. Per questo motivo, anche chi tra loro progetta una carriera criminale deve riuscire
a costruire legami di questo tipo oltre lo spazio del giardino, altrimenti rischia di rimanere immobile
nell’economia parallela.
134
Non è un caso che ammirino le sue capacità imprenditoriali e non politiche. Infatti, Silvio Berlusconi è per loro, sul
piano politico, quello che ha permesso una legge sull’immigrazione ingiusta rendendo difficile l’integrazione politica
ma anche sociale ed economica degli immigrati non comunitari. Inoltre, qui il paragone non è con la classe sociale di
partenza (bassa per molti dei giovani incontrati e media per il leader politico) piuttosto con il percorso di ascesa sociale
compiuto.
135
Secondo alcuni dati riferiti al 2005, in Italia le percentuali più alte di arresti per spaccio riguardano marocchini
(73%), algerini (88%), tunisini (79%) e senegalesi (86%), a differenza del 40% dei nigeriani, del 45% degli albanesi e
del 71% dei dominicani, arrestati perché coinvolti per lo più nel traffico e nella produzione, o per associazione
finalizzata al traffico (18% degli albanesi arrestati per droga). Magrebini e senegalesi sono molto meno coinvolti nella
produzione e traffico (con una media del 15% sulle quattro nazionalità) e nell’associazione finalizzata al traffico (media
del 3%). (Becucci, 2006, pag. 85).
RAPPORTO SECONDGEN
Come uscire da quel mondo sociale?
Con questa analisi l’obiettivo non è quello di connotare i luoghi pubblici aperti e informali, o meglio la
strada, come spazi sociali necessariamente devianti. Questi luoghi, soprattutto nei contesti urbani più
periferici, sono ancora oggi territori significativi di socialità e costruzione di identità, appartenenza e
occasioni d’interazione che plasmano la quotidianità di popolazioni diverse per origine sociale, culturale,
nazionale, generazionale. Possono essere luoghi “positivi” nel contribuire a intrecciare relazioni sociali
fondamentali per gestire il quotidiano e sostenere nei momenti di crisi. Tuttavia, possono diventare anche
luoghi “negativi” in cui si apprendono e sperimentano assimilazioni verso il basso. Il positivo e il negativo
sono legati a ciò che la società dominante accetta come normale stile di vita e, nel caso di chi ha origini
straniere, come il “giusto modo di integrarsi” nella società di arrivo. Il punto non è tanto il luogo
privilegiato nel quale si costruiscono le proprie reti sociali, né lo status dei nodi con cui si entra in
relazione o l’intensità dei legami. Se vi è omogeneità e congruenza nelle reti sociali rispetto ai propri
obiettivi futuri, è molto probabile che si creino quelle possibilità che permettono di raggiungere
“un’integrazione di successo” (Bianco, 2001). Declinato secondo le esperienze presentate, il punto non è
la strada come luogo quotidiano di vita, ma il tipo di spazio sociale che “abita” quella strada.
Da diversi studi, più o meno recenti che hanno osservato i ghetti statunitensi, è emersa l’importanza del
capitale sociale di partenza nella riproduzione delle diseguaglianze sociali, anche se gli autori non parlano
esplicitamente di reti sociali. Autori come Foote Whyte (trad., 2011) e Wilson (1987; 1996) hanno
contributo a dimostrare che indipendentemente dall’orientamento personale o dalle proprie ambizioni, dal
ruolo della famiglia e da aspetti discriminatori di tipo etnico o razziale, chi nasce in un contesto sociale
emarginato dovrà riuscire a colmare uno svantaggio di partenza: l’essere nato o cresciuto in una zona con
elevata povertà economica, sociale, culturale e spesso istituzionale/associativa. Entrare in relazione
quotidiana con soggetti socialmente svantaggiati (disoccupati, immigrati irregolari, con bassi livelli di
istruzione e basse ambizioni) significa limitare la gamma delle scelte possibili con effetti nella
progettualità futura e nella sua realizzazione (MacLeod 1987), e quindi con effetti nella riproduzione delle
diseguaglianze sociali. L’ambiente sociale e di lavoro dei genitori, l’eterogeneità sociale del contesto di
vita (quartiere) e scolastico dei figli offrono immagini di futuri alternativi creando aspettative di ascesa
sociale e favorendo percorsi di integrazione nella società di arrivo (Bianchi et al., 2001; Bianco, 2001;
Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Parafrasando Bianco (2001), sono i quartieri misti a fare la differenza
perché permettono di differenziare le reti di relazioni in cui le famiglie e i loro figli sono inseriti
quotidianamente.
Per illustrare meglio questa tesi, mi limiterò a presentare brevemente la storia di Igor, un ragazzo di
origine russa nato a Torino e cresciuto in una città della cintura, che può servire da punto di confronto con
i giovani descritti finora. Igor ha 24 anni, la cittadinanza italiana ed è stato arrestato circa tre anni prima
con un carico di hashish - sopra al kg - mentre lo trasportava in Toscana. Faceva il corriere come “libero
professionista”, si riforniva da spacciatori di Barriera di Milano conosciuti tramite coetanei che ha
frequentato durante un periodo – coincidente con la quarta superiore – fatto di serate in discoteca, sballo e
consumi legati al divertimento. A differenza dei giovani magrebini del Giardino, Igor ha una madre
laureata, risposata con un italiano, con buone risorse sociali, economiche e culturali, e che nell’infanzia lo
ha accompagnato anche in contesti sociali strutturati e chiusi. Igor ha scelto di frequentare il liceo perché lì
andavano tanti suoi amici e, fino alla quarta superiore, ha sempre frequentato coetanei appartenenti alla
classe media, italiani e con ambiziosi progetti futuri.
Sono tre gli elementi che lo differenziano dai giovani magrebini incontrati: i motivi dell’atto deviante, il
contesto sociale di crescita e lo status giuridico. Igor non ha cominciato a fare il corriere perché aveva
bisogno di soldi, anche se questa attività è molto più redditizia dello spaccio in strada. I genitori di Igor
mantenevano i suoi consumi e suoi bisogni di adolescente e l’atto riflette un malessere diverso da quello
dei “ragazzi di strada”, un malessere legato al rapporto con i genitori e non alle diseguaglianze di classe
vissute quotidianamente.
Igor: È in questo periodo, frequentando delle persone che ho conosciuto a Torino e impegnate in traffici più grossi,
ho capito che con un viaggio in Toscana puoi davvero guadagnare più di quello che un ragazzo della mia età
qualunque può guadagnare in un mese lavorando otto ore al giorno. Così, ho cominciato a trasportare kili di hashish
in Toscana, un kilo qui lo paghi circa 1200 euro e lì lo rivendi a 3000 euro, capisci? Perché dovrei lavorare 8/10 ore
al giorno, spaccarmi il culo per nemmeno 1000 al mese?. In realtà non avevo bisogno di soldi perché i miei,
soprattutto mia mamma, mi avrebbero dato tutto quello che volevo, vestiti, telefono, soldi per uscire. La situazione
pesante in casa, i litigi dei miei genitori mi hanno spinto ad allontanarmi da casa e da loro alla ricerca di una mia
RAPPORTO SECONDGEN
indipendenza. Non volevi più dipendere da loro, non volevo più chiedergli niente. Infatti, non stavo più a casa, ero
spesso in giro e non chiedevo più nulla a loro. Diciamo che appunto guadagnando tanto per quattro ore di lavoro, tra
virgolette, cè, andare anche a chiedere quattro soldi, se lo facevo lo facevo proprio per non farmi sgamare, per non
dare troppo nell’occhio però cercavo di far capire loro che non facevo una vita dispendiosa legata al divertimento e
alle sostanze ma in realtà non era così… poi in quel momento avevo anche la ragazza quindi equilibravo anche
abbastanza bene il tutto…
Io: Senti ma come è nata questa cosa di guadagnare i soldi così, come sei arrivato a dire “boh, così si guadagna bene
io ci provo, lo faccio!”?
Igor: E quando ti vedi i soldi in mano, cè, nel senso alla fine se ti vedi in cinque ore 6000 euro in mano di guadagno
dici “perché devo mandare i curriculum in giro!” [ridendo] cè, purtroppo è così!
Io: Come hai preso informazioni sulla possibilità di guadagnare così tanti soldi in poco tempo?
Igor: Queste persone che avevano traffici più grossi che ho conosciuto a Torino mi hanno spiegato che c’era questa
possibilità di fare soldi così, io lì in Toscana avevo un gancio
Io: E questo era legato a queste persone?
Igor: Sì, non è che andavo in giro con un chilo a chiedere chi lo volesse comprare! Io facevo il trasportatore e avevo
anche dei miei chili dai quali prendevo il mio guadagno, io ero incensurato avevo la patente e diciamo che non davo
troppo nell’occhio… ero perfetto per loro! Il fatto è che se tu dai a un diciottenne 1.500 euro in mano non penserai
mai alla gravità della situazione capito? Non pensi alla gravità della situazione, non pensi che ci siano delle reali
conseguenze, non hai una visione… ti dicono “sì ma sei incensurato ma se dovesse succedere non ti succede un
cazzo” hai capito?
Io: E tu quanti viaggi hai fatto prima di essere preso?
Igor: E ne ho fatti un po’, non mi ricordo il numero però ne ho fatti un po’ che non sono due o tre ma di più e avevo
qualcosa come 30mila euro, 40mila euro, che ci stanno! [Igor, 24 anni, origine russa].
Inoltre, Igor ha vissuto l’esperienza economica e ricreativa del “mondo droga” con coetanei conosciuti
fuori dal suo contesto sociale quotidiano. Una volta arrestato e scelto di allontanarsi da quel mondo
sociale, lui aveva un altro mondo pronto ad accoglierlo, familiare, e grazie al quale ha imparato a
muoversi nella società. Una volta diplomato, Igor si è trovato con tutte quelle risorse e capacità acquisite
dalla differenziata trama del capitale sociale a lui disponibile. Infine, particolare da non sottovalutare, Igor
è anche cittadino italiano, status che gli ha permesso di vivere due anni a Londra dove ha potuto conoscere
e apprendere nuove realtà e fare scelte più libere, non avendo la preoccupazione del permesso di
soggiorno. Pertanto, lui non è costretto né a trovare immediatamente lavoro una volta terminati gli studi,
né a trovare un altro modo per vivere in caso di disoccupazione prolungata.
Per Igor l’attività illegale intrapresa per un breve periodo della sua adolescenza e lo stile di vita basato sul
divertimento e sullo sballo, sono parte di quello che per molti suoi coetanei è una condizione di passaggio
all’età adulta (Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Anche per molti giovani del Giardino
probabilmente questa si configurerà come una fase della vita, ma non è così scontato. Anche loro hanno
iniziato con queste pratiche durante il periodo scolastico, come mezzi per raggiungere quel “diritto al
consumo” non soddisfatto dai genitori (Quadrelli, 2003). Inoltre, ho già sottolineato come questo mondo
sociale, e le pratiche che ne derivano, tenda ad essere abbandonato non appena i ragazzi escono dalla
scuola e si inseriscono nel mercato del lavoro. Tuttavia, ad oggi tra i giovani magrebini incontrati
disoccupati solo Fahmi ha trovato nuova occupazione136. Ma chi non trova lavoro?
Chi non trova lavoro invece non ha molte probabilità di “successo”, rischia di rimanere segregato in quel
mondo sociale continuando a vivere in una zona di frontiera economica, sociale, culturale e giuridica.
Significa, molto probabilmente, continuare a passare in modo casuale e instabile il confine legale-illegale
dei mezzi di sostentamento, delle forme di socialità e della condizione giuridica. In questo caso, per chi è
uscito dalla scuola e non trova lavoro (come Abed, Ashraf), rimane la “strada” con le sue pratiche illegali
di guadagno che permettono di vivere la giornata. Se per riuscire ad entrare nel mercato del lavoro è
importante che questi ragazzi sperimentino relazioni nuove che vadano oltre lo spazio sociale del Giardino
e del quartiere, come “ridurre il danno” provocato dall’omogeneità sociale di alcuni contesti urbani? Se
per prevenire processi di “assimilazione verso il basso” e per favorire processi di mobilità sociale,
indipendentemente dalla classe di origine, si dovrebbero promuovere quartieri misti nelle origini sociali,
culturali, economiche e nazionali, come aiutare chi sta crescendo in spazi sociali emarginati ed escludenti?
136
Tramite una Onlus locale aveva mandato il curriculum a un’azienda che lo ha chiamato per fargli fare una prova
presso questa azienda. Dopo una settimana di prova e un mese di tirocinio, lo hanno assunto per sei mesi con un
contratto a tempo determinato.
RAPPORTO SECONDGEN
Sono giovani che hanno da una parte famiglie che li acculturano a valori e stili di vita accettati
socialmente, che li stimolano a studiare e a costruirsi un posto nella società di arrivo, ma che non hanno
sufficienti risorse sociali ed economiche per accompagnarli nel sognare e vivere futuri alternativi, anche
con percorsi di mobilità ascendente. Inoltre, sono inseriti in contesti extra-scolastici (luoghi di
aggregazione e socializzazione tra pari) che offrono possibilità relazionali, economiche e risorse
identitarie che non permettono di avviare un processo di inserimento accettato socialmente. Un grosso
problema di questi giovani è il fatto che non sperimentano relazioni “positive” negli spazi quotidiani di
vita, mentre la scuola o non si presenta come luogo significativo di costruzione di relazioni sociali (in
quanto non è un luogo dove acquisiscono riconoscimento e prestigio) o contribuisce a riprodurre
quell’attitudine alla “devianza” a causa di un’elevata concentrazione di coetanei provenienti da contesti
sociali simili.
Sebbene sia importante il contesto scolastico, tuttavia è fondamentale anche il tipo delle relazioni
intrecciate nel contesto quotidiano extra-scolastico. È qui che i giovani magrebini incontrati dovrebbero
conoscere altri modelli culturali, valori e norme sociali che li aiutino a formare credenze, preferenze e
gusti diversi. È anche qui che dovrebbero sperimentare come si interagisce con mondi sociali diversi,
come si creano nuove relazioni. Bisognerebbe inoltre puntare ad un processo di “acculturazione” al luogo
strutturato e istituzionale, alla costruzione di alternative alla strada e ad interventi finalizzati a far sì che la
strada non sia vissuta solo da pratiche e interazioni sociali devianti.
Innanzi tutto, è importante apprendere il modo di stare nei luoghi strutturati, adattandosi alle loro norme e
regole sociali, e imparare a sentirli come spazi sociali significativi per la costruzione e il mantenimento di
relazioni sociali. Bisognerebbe veicolare il messaggio che l’inclusione non passa solo attraverso il
consumo centrato sul divertimento e su relazioni sociali circoscritte, ma anche attraverso la partecipazione
e l’interazione in realtà istituzionali (associazioni, centri di aggregazione giovanile, eccetera). Luoghi,
oltre la scuola, nei quali si imparano le norme sociali che regolano la società più ampia, ovvero quelle
regole del gioco utili a muoversi nella società. Questo implica interiorizzare meccanismi di