RASSEGNA STAMPA

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venerdì 10 ottobre 2014
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Da il FattoQuotidiano.it del 09/10/14
Matrimoni gay, Fassino a Alfano: “Serve
incontro, non possono decidere i prefetti”
Il presidente Anci: "Serve una legge per colmare il vuoto normativo". Il
ministro insiste: "Disobbedienza? Abbiamo potere di annullamento". Ma
Pisapia a Milano trascrive 7 matrimoni all'estero. Fdi: "Faremo ricorso".
La Corte di appello di Firenze annulla quelle di Grosseto. Il cardinale
Coccopalmerio: "Non giudichiamo le coppie gay, ma che l'unione tra
loro non è una cosa buona"
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Né caso per caso né ordinanze prefettizie: serve un orientamento chiaro sulla materia dei
matrimoni delle coppie omosessuali. E’ il senso del messaggio del sindaco di Torino e
presidente dell’Anci Piero Fassino che manda al presidente del Consiglio Matteo Renzi e
al ministro degli Interni Angelino Alfano per chiedere un incontro e definire meglio una
questione “che la legge riconosce in capo agli enti locali” come dichiara Fassino. Tutto
questo mentre vari sindaci d’Italia prendono posizione. L’ultimo in ordine di tempo è il
primo cittadino di Catania Enzo Bianco (Pd): “Sono pronto a garantire il rispetto dei diritti
civili”. Su posizioni simili i colleghi di Livorno, Messina, Bologna, Pescara. Meno netti i
sindaci di centrodestra. Nel frattempo il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha trascritto 7
matrimoni all’estero (Fratelli d’Italia ha già annunciato ricorso). La prefettura di Udine,
invece, ha inviato una lettera al Comune con cui ha rivolto un “invito” all’amministrazione a
cancellare la trascrizione nello stato civile del matrimonio di Adele Palmeri e Ingrid Owen,
che si sono sposate in Sudafrica e attualmente vivono in Belgio. ”Andremo avanti sul
percorso intrapreso – replica il sindaco Furio Honsell parlando all’Ansa – Non è nostra
intenzione accettare, sulla base di una circolare del ministro, di azzerare le considerazioni
etiche e giuridiche che sono alla base della scelta fatta. Porteremo un tema così
importante davanti a un tribunale”.
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Alfano: “Disobbedienza? Abbiamo il potere di annullamento”
In giornata Alfano era stato di nuovo chiaro sul tema, rifiutando qualsiasi indulgenza in
caso di disobbedienza civile dei sindaci italiani: “Noi abbiamo il potere di annullamento di
queste registrazioni ed è quello che abbiamo già indicato di fare nella direttiva” ha detto il
capo del Viminale entrando al Consiglio Ue. “Ho chiesto ai prefetti di far applicare la legge
– aggiunge – non c’è stata lesione dell’autonomia dei sindaci perché i sindaci agiscono
come ufficiali del governo e quella dei registri è competenza dello Stato. La legge non c’è
e dunque non si può fare quello che alcuni sindaci hanno fatto di registrare in Italia delle
nozze tra persone dello stesso sesso, contratte all’estero. Questa è la legge. Quando la
legge sarà cambiata, il ministero dell’Interno farà applicare la legge nuova, ma fino a
quando non cambia il dovere è quella di farla rispettare”.
Fassino: “Serve una legge che colmi un vuoto normativo”
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Fassino in una lettera a Renzi e Alfano spiega che “appare evidente come sulla questione
della trascrizione delle unioni coniugali contratte all’estero tra persone dello stesso sesso
sia indispensabile un quadro legislativo nazionale che, colmando un vuoto normativo,
consenta ai Comuni di gestire le ricadute operative in modo uniforme sull’intero territorio
del Paese”. Il presidente dell’Anci chiede un incontro e aggiunge: “Il tema, infatti, è troppo
delicato per essere lasciato al caso per caso, né d’altra parte si può affidarlo ad ordinanze
prefettizie. Peraltro giacciono in Parlamento numerose proposte di legge depositate da
tutti i gruppi parlamentari. E sul piano della coscienza civile il tema ha conosciuto una
evoluzione culturale che sollecita ad affrontarlo, superando paure e pregiudizi”. Per questo
“mi auguro – conclude Fassino – che il Governo voglia assumere iniziative che
consentano di favorire in tempi rapidi l’adozione da parte del Parlamento di soluzioni
legislative adeguate” e “per tutte queste ragioni sono a chiedervi un incontro urgente per
adottare orientamenti comuni”.
Pisapia: “Ho firmato personalmente nel pieno rispetto della legge”
Secondo Pisapia la trascrizione dei matrimoni all’estero è “un atto nel pieno rispetto della
legge che prevede questo obbligo quando si tratta di matrimoni celebrati legittimamente
secondo le norme dei Paese in cui si sono svolti”. Questo di oggi, scrive il sindaco di
Milano su facebook, “è un ulteriore passo avanti di… Milano come ‘Città dei Diritti’ dopo il
registro delle unioni civili, l’estensione alle coppie di fatto delle misure per il sostegno al
reddito, il testamento biologico, lo sportello per la consulenza per la fecondazione
eterologa e tante altre iniziative sui diritti sociali e civili che abbiamo promosso in questi
anni. Spero – conclude – che quanto stanno facendo in questi giorni molti sindaci serva
anche a sollecitare il Parlamento a varare una legge nazionale che possa superare ogni
forma di discriminazione”.
La Corte di appello di Firenze annulla trascrizione in registro Grosseto
E’ anche il giorno in cui il Comune di Grosseto ha dato esecuzione alla sentenza della
Corte di appello di Firenze che ha accolto il ricorso della procura contro la trascrizione di
un matrimonio omosessuale contro all’estero nel registro delle unioni civili. “C’è una
sentenza del giudice e noi la rispettiamo – ha affermato il sindaco di Grosseto, Emilio
Bonifazi - Il prefetto, nell’invito che ci ha spedito dopo le parole del ministro Alfano, ha
allegato la sentenza e quindi non potevamo fare altrimenti”. La Corte di appello di Firenze
a cui si era rivolta la procura ha annullato la sentenza del tribunale che ordinava al
comune di trascrivere l’unione nel registro dello stato civile tra Giuseppe Chigiotti e
Stefano Bucci, che si erano sposati a New York nel 2012 e avevano chiesto che la loro
unione fosse regolarizzata in Italia. Nel dispositivo dei giudici fiorentini si rileva che,
durante il procedimento di primo grado al tribunale di Grosseto, non era stata citata
l’avvocatura di Stato come prevede la legge. “L’ufficiale di stato civile, Mario Venanzi, così
come negò la trascrizione prima di essere costretto dalla sentenza grossetana, adesso
l’ha cancellata per lo stesso motivo. Non permetterei ad un dipendente comunale di
andare contro la legge. Esiste comunque un vuoto normativo che soltanto il Parlamento,
con una legge ad hoc, può risolvere” dice Bonifazi.
Architetto di Grosseto sposato a New York: “Costretti a lasciare l’Italia”
“A me e Stefano rimangono due strade da percorrere: o ricominciare l’iter per avere il
riconoscimento della nostra unione in tribunale a Grosseto, oppure cambiare paese dove
vivere” commenta Giuseppe Chigiotti, l’architetto grossetano che si era sposato con
Stefano Bucci a New York. “Vogliamo vivere in un paese dove esiste l’affermazione di
qualsiasi diritto – ha proseguito Chigiotti – Se il mio paese non riesce a garantirmi questi
diritti, vorrà dire che andremo a vivere da un’altra parte. Eventualità a cui stiamo pensando
fortemente. Ancora una volta hanno deciso di non decidere per non inimicarsi la
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magistratura. Se avessero annullato la sentenza perché era contro la legge, la cosa
sarebbe finita qui. Ma purtroppo non è così”.
Il cardinale dal Sinodo: “Nozze gay non sono cosa buona”
Sul tema dell’omosessualità interviene anche il Vaticano. Al Sinodo finora “non se n’è
parlato molto”, spiega il portavoce della sala stampa padre Federico Lombardi, però “se
n’è parlato nella linea pastorale dell’ascolto, del rispetto, dell’accoglienza, pur tenendo
fede alla visione della Chiesa che il matrimonio è sempre tra un uomo e una donna, non
tra un uomo e un uomo o tra una donna e una donna. Anche qui è stata sollecitata
attenzione al linguaggio quando esso possa sembrare poco rispettoso”.
Alla domanda dei giornalisti se si può pensare a una benedizione per le coppie
omosessuali, il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per
i testi legislativi, ha risposto che “si può parlare di tutto e dire tutto ma bisogna essere
molto onesti: per noi, per la cultura umana in genere, il matrimonio è quello fatto da un
uomo e da una donna, con elementi interiori precisi. Noi possiamo dire che non
giudichiamo le coppie omosessuali, che teniamo conto della buona fede, però dire che
benediciamo la loro unione, dire che questo è un matrimonio questo mai, secondo logica e
identità, ma neanche benedirla come cosa buona, questo no”. “Altra cosa è dire che
ognuno fa le sue scelte – ha aggiunto il porporato e canonista -, che ci possono essere
persone buone, ma altra cosa è dire che quell’unione è una cosa buona”.
L’Arci: “Alfano ci riporta al Medioevo”
Per l’Arci l’intervento di Alfano è un “provvedimento ci fa tornare al medioevo – dichiara la
presidente Francesca Chiavacci – Dal punto di vista del metodo è invasivo perché
cancella la storia delle autonomie locali, è fatto dal ministro degli Interni ma così suona
quasi come una cosa di ordine pubblica, dando un segnale molto pesante rispetto anche
ad alcune affermazioni del presidente del Consiglio sul possibile riconoscimento delle
unioni tra persone dello stesso sesso”. La presidente Chiavacci è intervenuta a Palermo
dove fa tappa la carovana antimafia con Libera e Avviso pubblico. “Il Paese è molto più
avanti delle norme a disposizione – ha aggiunto Chiavacci – così si dà un segnale di
arretratezza culturale: non so cosa faranno i sindaci, abbiamo appreso che alcuni faranno
una sorta di disobbedienza civile a questi provvedimenti, noi comunque siamo pronti a
stare loro vicini e a mobilitarci in qualsiasi maniera nelle città dove questo avverrà”.
Estonia, via libera a legge unioni civili senza distinzioni di genere
Intanto il Parlamento dell’Estonia ha approvato una legge che regolarizza le unioni
omosessuali, diventando la prima Repubblica ex sovietica ad adottare una decisione
simile. La proposta, che riconosce le unioni civili indipendentemente dal genere delle
persone che le compongono, è stata approvata con 40 voti favorevoli e 38 contrari; tre i
deputati assenti o astenuti nella terza e decisiva lettura della legge. Il testo prevede di dare
alle coppie unite civilmente, che siano eterosessuali o omosessuali, gli stessi diritti a livello
finanziario e sociale delle coppie sposate. Inoltre riconosce loro i benefici sanitari previsti
dal governo e tutele per i bambini. La nuova legge non concede però alle coppie unite
civilmente gli stessi diritti di adozione riconosciuti a quelle sposate; tuttavia permette a uno
dei due partner di adottare il figlio biologico dell’altro.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/09/matrimoni-gay-fassino-a-alfano-incontriamocinon-possono-decidere-i-prefetti/1149637/
Da Ansa del 09/10/14
NOZZE GAY: ARCI, CIRCOLARE ALFANO
RIPORTA AL MEDIOEVO
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(ANSA) - PALERMO, 9 OTT - "QUESTO PROVVEDIMENTO CI FA TORNARE AL
MEDIOEVO. DAL PUNTO DI VISTA DEL METODO E' INVASIVO PERCHE'
CANCELLA LA STORIA DELLE AUTONOMIE LOCALI, E' FATTO DAL MINISTRO DEGLI
INTERNI MA COSI' SUONA QUASI COME UNA COSA DI ORDINE PUBBLICA, DANDO
UN SEGNALE MOLTO PESANTE RISPETTO ANCHE AD ALCUNE AFFERMAZIONI
DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUL POSSIBILE RICONOSCIMENTO DELLE
UNIONI TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO". LO HA DETTO FRANCESCA
CHIAVACCI, PRESIDENTE NAZIONALE DELL'ARCI COMMENTANDO LA CIRCOLARE
DEL MINISTRO ALFANO SUL RICONOSCIMENTO DELLE TRASCRIZIONI DEI
MATRIMONI TRA OMOSESSUALI CONTRATTI ALL'ESTERO.
LA PRESIDENTE CHIAVACCI E' INTERVENUTA A PALERMO DOVE FA TAPPA
OGGI LA CAROVANA ANTIMAFIA CON LIBERA E AVVISO PUBBLICO. "IL PAESE E'
MOLTO PIU' AVANTI DELLE NORME A DISPOSIZIONE - HA AGGIUNTO CHIAVACCI COSI' SI DA' UN SEGNALE DI ARRETRATEZZA
CULTURALE: NON SO COSA FARANNO I SINDACI, ABBIAMO APPRESO CHE
ALCUNI FARANNO UNA SORTA DI DISOBBEDIENZA CIVILE A QUESTI
PROVVEDIMENTI, NOI COMUNQUE SIAMO PRONTI A STARE LORO VICINI E A
MOBILITARCI IN QUALSIASI MANIERA NELLE CITTA' DOVE QUESTO AVVERRA'".
(ANSA).
Da Asca del 09/10/14
"DECISIONE CONTRASTA CON QUANTO
AFFERMATO IN PASSATO DA PREMIER"
(ASCA) - PALERMO, 9 OTT 2014 - "E' UN PROVVEDIMENTO CHE FA TORNARE AL
MEDIOEVO. MOLTI SINDACI AVEVANO GIA' LAVORATO SIA ATTRAVERSO I
REGISTRI DELLE UNIONI CIVILI, CHE ATTRAVERSO LA TRASCRIZIONE DI
MATRIMONI TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO CELEBRATI ALL'ESTERO. IL
PAESE E' MOLTO PIU' AVANTI DELLE NORME CHE POSSIEDE DA QUESTO PUNTO
DI VISTA". LO HA DETTO IL PRESIDENTE NAZIONALE DELL'ARCI FRANCESCA
CHIAVACCI, A MARGINE DI UN INCONTRO ORGANIZZATO A PALERMO,
COMMENTANDO LA CIRCOLARE DEL MINISTERO DELL'INTERNO CHE INVITA I
SINDACI A NON TRASCRIVERE NEI REGISTRI DEI COMUNI LE UNIONI CIVILI
CONTRATTE ALL'ESTERO TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO.
"I SINDACI, CHE FORSE SONO LE ISTITUZIONI PIU' VICINO ALLA SOCIETA' CIVILE HA PROSEGUITO CHIAVACCI -, IN MOLTI CASI AVEVANO PROVATO A AVVICINARSI
TRAMITE QUESTA TRASCRIZIONE AD AVERE UNA NORMA CHE RICONOSCA LE
UNIONI CIVILI. QUESTO PROVVEDIMENTO E', DAL PUNTO DI VISTA DEL METODO,
ASSOLUTAMENTE INVASIVO, PERCHE' CANCELLA LA STORIA DELL'AUTONOMIA
DEGLI ENTI LOCALI. TRA L'ALTRO APPARE IN CONTRASTO ANCHE RISPETTO AD
ALCUNE AFFERMAZIONI CHE IL GOVERNO E IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
HANNO FATTO SULLA POSSIBILITA' CHE IL NOSTRO PAESE AVESSE POTUTO
RICONOSCERE LE UNIONI FRA PERSONE DELLO STESSO SESSO. E' UN SEGNALE
D'ARRETRATEZZA CULTURALE MEDIATICAMENTE MOLTO RILEVANTE.
NON SO COSA FARANNO I SINDACI. ALCUNI HANNO RESISTITO, E NOI SAREMO
PRONTI A STARE VICINO A LORO".
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Da TmNews del 09/10/14
Presidente Arci: Circolare Alfano su gay fa
tornare al Medioevo "Decisione contrasta con
quanto affermato in passato da premier"
Palermo, 9 ott. (TMNews) - "E' un provvedimento che fa tornare al medioevo. Molti
sindaci avevano già lavorato sia attraverso i registri delle unioni civili, che attraverso la
trascrizione di matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero. Il Paese è
molto più avanti delle norme che possiede da questo punto di vista". Lo ha detto il
presidente nazionale dell'Arci Francesca Chiavacci, a margine di un incontro organizzato a
Palermo, commentando la circolare del ministero dell'Interno che invita i sindaci a non
trascrivere nei registri dei Comuni le unioni civili contratte all'estero tra persone dello
stesso sesso.
"I sindaci, che forse sono le istituzioni più vicino alla società civile - ha proseguito
Chiavacci -, in molti casi avevano provato a avvicinarsi tramite questa trascrizione ad
avere una norma che riconosca le unioni civili. Questo provvedimento è, dal punto di vista
del metodo, assolutamente invasivo, perché cancella la storia dell'autonomia degli enti
locali. Tra l'altro appare in contrasto anche rispetto ad alcune affermazioni che il governo e
il Presidente del Consiglio hanno fatto sulla possibilità che il nostro Paese avesse potuto
riconoscere le unioni fra persone dello stesso sesso. E' un segnale d'arretratezza culturale
mediaticamente molto rilevante. Non so cosa faranno i sindaci.
Alcuni hanno resistito, e noi saremo pronti a stare vicino a loro".
Da Agi del 09/10/14
Mafia: 20 anni di "Carovana", don Ciotti
'fermarsi per capire' =
(AGI) - Palermo, 9 ott. - Dopo venti anni di "Carovana Antimafie" e' arrivato il momento di
"ripensare tutto".
L'annuncio, alquanto a sorpresa visto il momento e il tono degli altri interventi, arriva dal
presidente nazionale dell'associazione nazionale "Libera", don Luigi Ciotti. Giovedi nella
tappa palermitana della giornata dedicata alla lotta contro "la tratta dei nuovi schiavi", il
prete antimafia, annunciando i prossimi stati generali contro la criminalita'
organizzata (Roma, 23-26 ottobre), ha sottolineato essere arrivato il "momento di fermarsi
per capire" dove si sta andando. Don Ciotti che nella mattinata aveva ricevuto la
cittadinanza onoraria di San Giuseppe Jato (Palermo), poche ore dopo nel quariere Zen
del capoluogo siciliano ha invitato i presenti "all'umilta' di fermarsi". Nel quartiere forse piu'
problematico di Palermo il sacerdote ha sostenuto che se "le mafie di Falcone e Borsellino
non esistono piu', ce ne sono altre". Bisogna prendere atto che cosa nostra ha cambiato
pelle, ha sottolineato don Ciotti. Citando le 3500 vittime della criminalita' organizzata in
Italia piu' i "morti vivi schiacciati nella propria dignita'", il presidente di Libera ha fatto
l'elenco degli obiettivi mancati dal movimento che oggi celebrava due decenni di vita.(AGI)
Can (Segue)
Mafia: 20 anni di "Carovana", don Ciotti 'fermarsi per capire' =
(AGI) - Palermo, 9 ott. - "Paralisi dei beni confiscati, legge antiriciclaggio insufficiente,
legge sulla corruzione pubblica incompleta" questi i motivi che hanno spinto il religioso a
parlare sempre al passato della "Carovana". Polemizzando con chi ritiene "l'antimafia un
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problema di carta d'identita' e non di coscienza" il sacerdote ha invitato la scuola "ad
allenare alla vita" ricordando come i ragazzi debbano farsi strada in un paese dove "non
c'e' lavoro, non c'e' casa, non c'e' politica giovanile". Insomma basta con
l'autocelebrazione, occorre rimboccarsi le maniche in un mondo che sta cambiando sotto i
nostri occhi, questo il messaggio del sacerdote che continua a ritenere indivisibili "giustizia
e carita'". Il 9 ottobre nelle sue due tappe siciliane di Monreale e Palermo, il ventennale
della "Carovana antimafie" e' stato dedicato alla "tratta dei nuovi schiavi". Giovedi
pomeriggio, nell'Istituto comprensivo Giovanni Falcone, nel cuore dello Zen 2, tutti i
protagonisti dell'Associazione hanno ripercorso le vicende della ventennale e travagliata
storia della "Carovana". In questa occasione la scuola intitolata al magistrato ucciso da
cosa nostra nel 1992, ha inaugurato una mostra fotografica "d'altri tempi". Immagini del
quartire scattate dai suoi piccoli abitanti, fatte usando esclusivamente rullini 35mm.
Intitolata "RiScatti", l'esposizione, una "visione dal basso" della vita quotidiana nel
quartiere, e' stata curata dall'associazione-laboratorio Zen Insieme che da anni lavora sul
territorio.(AGI)
Da Ansa del 09/10/14
Bindi, istituiremo gruppo lavoro contro
sfruttamento Messaggio presidente
commissione antimafia a carovana Libera
(ANSA) - PALERMO, 9 OTT - "Non possiamo chiudere gli occhi sulle nuove e crescenti
forme di sfruttamento. Su questo fronte la commissione parlamentare antimafia e' al vostro
fianco e intende avviare una propria indagine con uno specifico gruppo di lavoro". E' il
messaggio inviato dalla presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ai relatori
della carovana internazionale antimafia che oggi ha fatto tappa a Palermo con don Luigi
Ciotti, fondatore di Libera, Arci e Avviso pubblico.
"Sono davvero dispiaciuta di non essere con voi - osserva Bindi in una lettera inviata
agli organizzatori - ma sono al vostro fianco nella battaglia per un'Europa libera dai
condizionamenti dei poteri criminali". "Abbiamo contestato - prosegue la presidente Bindi
nel suo messaggio - la decisione di inserire nel calcolo del Pil la prostituzione, il traffico di
stupefacenti e il contrabbando e chiediamo che Istat e Eurostat ripensino questa scelta,
separando il Pil criminale, che va meglio conosciuto e conteggiato, dal Pil legale". "Si tratta
di fare un'operazione verita' che aiuti a indirizzare su nuovi binari - conclude Bindi - le
politiche di sviluppo europee a combattere con piu' efficacia le nuove mafie". (ANSA).
Da Ansa del 09/10/14
Ecomafie: Muroni (Legambiente), 30mila
infrazioni nel 2013 Manca legge su reati
ambientali, aumentano quelli agroalimentari
(ANSA) - PALERMO, 9 OTT - "Nel 2013 sono stati circa 30mila i crimini contro
l'ambiente, cioe' 80 infrazioni al giorno, pari a
3 l'ora. Il fatturato delle ecomafie, come ha evidenziato l'ultimo dossier di Legambiente,
ammonta a 15 miliardi di euro e coinvolge 321 clan. Oggi la nuova frontiera con cui le
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ecomafie fanno soldi e' il settore agroalimentare, con un danno enorme al Made in Italy".
Lo ha detto Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente nazionale, intervenendo a
Palermo alla tappa della carovana antimafia di Arci, Libera e Avviso Pubblico.
"Il disegno di legge sui reati ambientali e' fermo al Senato - ha aggiunto Muroni - e questa
e' una vicenda paradigmatica perche' a parole sono tutti contro la corruzione e le
ecomafie, ma la mancata introduzione dei reati contro l'ambiente nel codice penale del
nostro Paese racconta tanto dell'immobilismo italiano. Un vuoto che vanifica l'ottimo lavoro
svolto dalle forze dell'ordine nel nostro Paese, soprattutto se si pensa alla velocita' con la
quale i vuoti legislativi vengono immediatamente colmati dalle mafie". (ANSA).
Da Srf (tv svizzera) del 08/10/14
Servizio sul Festival Sabir
http://www.srf.ch/sendungen/kulturplatz/vom-leben-auf-der-insel
Da Repubblica.it del 10/10/14
Minore seviziato, il Garante per l'infanzia: "E'
stata violenza pura, non bullismo". Il
Comune: "Massima severità"
"Non accetto che l'episodio accaduto al quattordicenne a Napoli in un
autolavaggio venga definito 'bullismo'. Questa è violenza. Violenza
pura".
di CRISTINA ZAGARIA
È indignata la prima reazione dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza Vincenzo
Spadafora alle violenze su un quattordicenne di Napoli. Il Garante continua: "Dove siamo
arrivati? Quanto è accaduto a un minorenne, 'colpevole' di essere grasso, è indegno per
una società civile. Il degrado socio-culturale degli ultimi anni insieme alla crisi di valori e
all'assenza dello Stato stanno producendo una deriva inaccettabile. Sono vicino alla
famiglia e auspico quanto prima che il ragazzo esca dalla sua grave situazione clinica".
La Giunta comunale di Napoli esprime "massima vicinanza al piccolo Vincenzo, vittima di
una violenza efferata che provoca sconcerto e indignazione, ed alla sua famiglia.
Attraverso l'assessorato al Welfare, l'Amministrazione - si legge in una nota - sosterrà il
quattordicenne ed i suoi familiari in questo momento difficile. Non possiamo che invocare
da parte della giustizia la massima severità per i responsabili di questa violenza barbara".
"Questi episodi inspiegabili diventano chiari solo se comprendiamo che la violenza è ormai
strutturale nella nostra società e per questo si può attivare in qualsiasi momento, in
qualsiasi posto, senza la necessità di motivazioni significative. Solo un ritorno a un clima
sociale di rifiuto della violenza, vigilanza e protezione dei più deboli da parte di ciascuno di
noi, la cancellazione di qualunque comportamento violento da parte di chi ha un'immagine
sociale, politici, calciatori, opinion leader, renderà possibile la prevenzione della violenza".
Così Raffaele Felaco, presidente dell'associazione Psicologi per la responsabilità sociale
e coordinatore dell'area comunicazione del Consiglio nazionale dell'Ordine degli Psicologi,
sulla vicenda del 14enne seviziato nel quartiere Pianura di Napoli. "Episodi di cronaca
come questo - spiega Felaco - per la loro drammaticità, spingono le coscienze a un moto
di indignazione e solidarietà verso la vittima. Purtroppo, però, ben presto si attivano dei
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'meccanismi di difesa' che spingono le menti a sfuggire i pensieri angosciosi e quindi ben
presto si dimentica, fino ad attivarsi al nuovo episodio di violenza. In una società come
quella napoletana dove la violenza è sempre pronta ad esplodere i cittadini provano a
'proteggersi' attraverso la rimozione".
"La vicenda di Pianura è sconvolgente - interviene Mariano Anniciello, Presidente di Arci
Napoli - A Napoli occorre ricostruire il tessuto civico e sociale, partendo da una
rivisitazione delle politiche educative. Questa sfida riguarda anche noi del Terzo Settore.
Ci impone di rivedere il nostro agire per renderlo realmente efficace. Alla famiglia del
ragazzo colpito la nostra solidarietà".
“Occorre agire al più presto contro atti di bullismo ormai sempre più frequenti. Episodi
drammatici come quello accaduto ieri a Napoli nei confronti di un quattordicenne non
devono assolutamente ripetersi. E’ necessario dunque intervenire fin dalla prima infanzia,
con percorsi educativi strutturati e condivisi, da introdurre nelle scuole di ogni ordine e
grado.” Sul caso di Piaanura fa sentire la sua voce e la sua esperienza anche SOS il
Telefono Azzurro Onlus.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/10/09/news/minore_seviziato_il_garante_per_l_inf
anzia_e_stata_violenza_pura_non_bullismo-97714415/
Da Repubblica.it del 09/10/14
Cild, nasce la Coalizione per i Diritti Civili
L’unione fa i diritti. Declinare insieme campagne d’opinione, attività sui territori, lavoro nelle
istituzioni. E creare i presupposti per un fronte sociale in grado di rendere più efficace la
lotta per i Diritti Civili. Partendo dalla storia e dalle esperienze delle tante associazioni
italiane che negli ultimi decenni hanno messo al centro della propria agenda il lavoro per i
migranti, per le comunità Lgbt, per l’implementazione della libertà d’espressione e di
opinione. Il 17 ottobre – nella sala Capranichetta di piazza Montecitorio – nasce Cild, la
Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili. Per contaminare il Paese con la tolleranza e la
solidarietà.
Le adesioni. Il cartello delle associazioni che compongono la coalizione è la cartine
dell’Italia impegnata: A buon diritto, Antigone, Arci, Arcigay, Asgi, Associazione 21 Luglio,
Associazione Luca Coscioni, Cie Piemonte, Certi Diritti, Cipsi, Cittadinanzattiva, Cittadini
del mondo, Cospe, Diritto di sapere, Fondazione Leone Moressa, Forum Droghe,
LasciateCientrare, Lunaria, Movimento Difesa del Cittadino, Naga, Parsec, Progetto Diritti,
Società della Ragione, Zabbar. Anni di lotte e di lavoro. E si parte da cinque campagne
con obiettivi specifici. Li riportiamo:
Diritti dei migranti:
· Ratifica della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori
migranti e dei membri delle loro famiglie;
· La riforma del Testo Unico sull’Immigrazione (D.Lgs 286 del 25 luglio 1998), in
particolare per quanto riguarda la regolamentazione dell’accesso al paese per lavorare o
per cercare lavoro, per il ricongiungimento familiare e l’attuazione di provvedimenti di
espulsione;
· La riforma della legge n. 91/1992, che disciplina la cittadinanza italiana, al fine di
accelerare l’acquisizione della cittadinanza per i bambini nati in Italia da cittadini stranieri, i
minori che entrano nel paese, e gli adulti dopo 5 anni di residenza permanente;
· Il riconoscimento del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini
extracomunitari dopo 5 anni di residenza stabile in Italia;
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· Predisposizione di un piano nazionale per l’accoglienza dei migranti, richiedenti asilo e le
persone bisognose di protezione internazionale;
· Garanzia delle pari opportunità per i cittadini italiani e stranieri nell’accesso all’istruzione,
ai servizi sanitari, il benessere e la sicurezza sociale.
Diritto d’asilo:
· Incoraggiare attivamente tutte le Regioni italiane a formalizzare ed attuare pienamente
l’accordo 255/CSR;
· Definizione di standard di servizio efficaci e costanti per tutti i confini, gli sbarchi e le aree
di transizione, con libero accesso a tali aree per l’UNHCR e le altre autorità di protezione;
· Definizione di standard costanti per l’accesso alle procedure di protezione che
consentano la presentazione della domanda, senza formalità;
· Definizione di criteri rigorosi per la selezione dei membri delle “Commissioni Territoriali”,
compreso l’obbligo di adeguate competenze sulle questioni di asilo;
· Creazione di un unico sistema di accoglienza decentrato di alto livello;
· Previsione di un periodo di tempo sufficiente per l’accoglienza e il sostegno, al fine di
favorire l’inclusione sociale di tutte le persone che hanno ottenuto protezione;
· Abolizione di tutti i Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE);
· Una forte riduzione (solo quando è strettamente necessario) nella detenzione dei
migranti da espellere;
· Porre fine alla pratica delle espulsioni sommarie dalla Grecia, e che tutti i migranti che
raggiungono i porti adriatici abbiano accesso al territorio nazionale e protezione;
· Sospendere il trasferimento dei richiedenti asilo dall’Italia alla Grecia sulla base
dell’accordo di Dublino, fino a quando la Grecia non sarà in grado di fornire un sistema di
asilo e infrastrutture per il soggiorno temporaneo in linea con le norme comunitarie;
· In tutti i casi, un trattamento umano e dignitoso dei migranti deve essere sempre
garantito durante la detenzione e, se necessario, in ogni fase dell’espulsione, compreso il
viaggio di ritorno.
Anti discriminazione:
Verso le persone LGBT
· Modifica della legge n. 203/1995 (cd “Legge Mancino”), al fine di includere esplicitamente
nei crimini previsti la violenza e l’incitamento all’odio connessi all’orientamento sessuale e
all’identità di genere;
· Introduzione di nuovi programmi educativi e il miglioramento di quelle esistenti per il
personale della pubblica amministrazione, con l’obiettivo di garantire conoscenze e
competenze sufficienti per lavorare nel pieno rispetto dell’orientamento sessuale, l’identità
di genere delle altre persone;
· Introdurre l’orientamento sessuale e l’identità di genere all’interno delle fasce della
società italiana che devono essere rappresentate in modo da garantire il massimo
pluralismo nelle radio e nelle televisioni pubbliche;
· Adozione di misure volte esplicitamente a combattere l’omofobia e la transfobia nelle
scuole di tutto il paese.
Verso le donne
· Rafforzare le misure previste per prevenire e combattere la violenza contro le donne e
del sistema in atto per tutelare le vittime di violenza;
· Stabilire un’istituzione nazionale indipendente per i diritti umani con una sezione dedicata
ai diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere;
· Affrontare il vuoto giuridico in materia di custodia dei figli e includere le pertinenti
disposizioni relative alla protezione delle donne vittime di violenza domestica;
· Assicurare la fornitura di patrocinio legale di qualità per le donne vittime di violenza;
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· Promuovere forme alternative alla detenzione, tra cui gli arresti domiciliari e detenzione
in istituti a bassa sicurezza, per le donne con bambini;
· Attuare le misure previste dalla Costituzione, dalle normative e dalle politiche, per
aumentare il numero di donne, comprese quelle provenienti da gruppi emarginati, in
campo politico, economico, sociale, culturale e giudiziario;
· Rimuovere gli ostacoli giuridici che impediscono l’occupazione delle donne;
· Rafforzare il sistema di welfare sociale rimuovendo gli ostacoli all’integrazione delle
donne nel mercato del lavoro;
· Ratificare e attuare la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i
lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie;
Nei confronti di Rom e Sinti
· Porre fine alla segregazione delle famiglie Rom e Sinti nei “campi autorizzati” in
condizioni abitative degradate; assicurarsi che i Rom e Sinti siano dotati di un alloggio
adeguato senza discriminazione;
· Cessare immediatamente gli sgomberi forzati che riguardano le comunità Rom e Sinti in
tutta Italia, con l’adozione di un chiaro divieto di sgomberi forzati per mezzo di una legge
che esplicitamente enunci le tutele procedurali essenziali derivanti dalle leggi
internazionale sui diritti umani;
· Assumere tutte le misure necessarie per sradicare atteggiamenti anti-zingari nel sentire
della società e per affrontare efficacemente gli episodi che riguardano discorsi di odio
contro le comunità Rom e Sinti rafforzando il mandato dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e dotandolo di poteri esecutivi.
Libertà d’espressione:
L’obiettivo della Cild è dare forza e partecipare a una campagna di pressione attualmente
esistente e svolta da uno dei suoi membri, Diritto Di Sapere, che mira a riformare la legge
241/1990, adottando una legge quadro coerente in materia di accesso alle informazioni, in
modo che il diritto all’informazione sia conforme agli standard internazionali.
Sistema giudiziario\Droghe:
Cild porterà avanti una campagna affinché si adotti una nuova legge quadro coerente in
materia di droghe, che affronti anche le questioni relative al sistema carcerario, l’inefficacia
nella tutela dei diritti fondamentali, il rifiuto di accesso alle cure sanitarie e la mancanza di
approccio preventivo.
Il rapporto con le istituzioni. E per Patrizio Gonnella, presidente di CILD Italia, l’intenzione
della Coalizione è quella di porsi come “interlocutore unico nei confronti delle istituzioni,
dei media, dell’opinione pubblica. Si tratta di una decisione politica che vuole in questo
modo aumentare la propria forza di impatto nei confronti delle istituzioni italiane ed
europee. Nessuna delle nostre associazioni perde la propria identità, anzi”.
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2014/10/09/cild-nasce-la-coalizione-per-i-diritti-civili/
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ESTERI
del 10/10/14, pag. 19
Il reportage
Al confine tra Turchia e Siria si intravede il fumo della sanguinosa
battaglia “Non ci arrendiamo ma siamo soli” Ieri i funerali di 22
combattenti. Fra le vittime anche una giovane donna
Tra i profughi curdi scappati da Kobane “Qui
non siamo ricchi e nessuno ci aiuta”
ALBERTO STABILE
SURUC (CONFINE TURCO-SIRIANO)
ARRAMPICATI sul tetto di una moschea, in bilico sui muri a secco, o accovacciati su una
pietra all’ombra di un ulivo in quel modo tutto loro di riposare, i curdi fuggiti da Kobane
prestano l’orecchio agli schianti che risuonano nell’aria e aspettano che le colonne di fumo
si alzino dal caseggiato, non più lontano di un chilometro o due, per decifrare l’andamento
della battaglia. Dopo una giornata in cui sembrava che i bombardamenti della coalizione
avessero danneggiato i jihadisti, l’armata del califfato è stata capace di contrattaccare e di
prendere il controllo di un terzo della città. Notizie pessime, che però non piegano l’ardore
di Ibrahim, il traduttore curdo che mi accompagna in questo viaggio: «Kobane — dice
sicuro — sarà la nostra Stalingrado».
Ma non tutti la pensano così. Anzi, a dire il vero, un certo scoramento serpeggia fra gli
spettatori di questa battaglia in diretta. Un sorta di fatalismo misto alla sfiducia nei
confronti della comunità internazionale e ad un’aperta acrimonia verso la Turchia. Il finto
protettore accusato di doppiezza, che osserva il dramma di Kobane dipanarsi senza
muovere un dito. Al punto, persino, da smarcarsi dagli Stati Uniti e dalla coalizione,
dichiarando apertamente, come ha fatto ieri il ministro egli Esteri Mevlut Cavusoglu, che
«non è realistico aspettarsi che la Turchia conduca un’operazione di terra da sola». Il che
agli occhi dei curdi è la riprova, come abbiamo sentito ripetere mille volte in questa
giornata, che «la Turchia aiuta quelli dell’Is».
In segno di lutto, di protesta e di solidarietà con Kobane i negozi di Suruc sono quasi tutti
chiusi. Posti di blocco dell’esercito di Ankara scandagliano passaporti e carte d’identità
decidendo a insindacabile giudizio dei militari chi può raggiungere il confine e chi no.
Siamo sul primo gradino che porta all’altopiano del Kurdistan turco, quella che per i
governanti di Ankara è e deve restare l’Anatolia sud-orientale. Terra contesa, teatro di un
lunga e sanguinosa guerriglia mossa dal Pkk (Il partito dei lavoratori del Kurdiatan
considerato da Ankara e da Washington un’organizzazione terroristica) guidato da Ocalan.
E qui si capisce come la nascita di un’entità autonoma o semi-autonoma come quella di
Kobane, agli inizi della guerra civile siriana, abbia fatto temere ai governanti turchi la
possibilità di una saldatura tra le due comunità.
Tuttavia, nonostante i controlli, la strada che porta verso il confine con la Siria é un
continuo via vai di persone, poche in macchina, molte a piedi, di ogni genere e di tutte le
età. Si direbbe che stessero andando a una qualche manifestazione contadina, se non
fosse che nell’aria echeggiano i suoni della battaglia. Un pentagramma che i curdi hanno
imparato a decrittare. Questo tonfo secco è un mortaio. Questo boato, invece, è una
bomba degli alleati. I pennacchi di fumo piegati dal vento non sono tutti uguali: «Se il fumo
è nero vuol dire che sono stati quelli dell’Is a provocarlo, incendiando taniche di nafta o
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copertoni, per nascondersi agli aerei della coalizione. Se è bianco, invece, significa che
sono stati colpiti», dice Maja, ex studentessa di Architettura all’Università di Aleppo, da tre
settimane rifugiata in Turchia.
Un coro insistente, come di slogan gridati con rabbia, copre la colonna sonora della
battaglia. In un fazzoletto di terra a ridosso di Ziarad, una borgata di Suruc, sono state
scavate 22 fosse, ciascuna con il suo perimetro di pietre levigate. Sono le tombe che
accoglieranno 22 combattenti curdi di Kobane morti nelle ultime 24 ore negli ospedali della
zona. Ad accompagnarli è una folla in cui spiccano alcuni giovani con il volto coperto da
sciarpe colorate e le bandiere dei vari partiti curdi. Fra i morti c’è anche una donna, la cui
cassa di legno grezzo, viene portata a spalla da altre donne.
Tutto avviene molto in fretta. Le bare ondeggiano sopra i cortei. Vengono poggiate a terra
e scoperte. I corpi avvolti nei sudari sono adagiati nelle buche, in direzione della Mecca.
Poi un gruppo di uomini fa mulinare le pale per smuovere quanta più terra possibile.
Farman Sheikh aveva soltanto 25 anni. «L’ho portato ieri da Kobane», dice il padre,
Ahmad Shiek, un uomo sui 50 anni, la faccia tesa e immobile come un maschera di legno,
gli occhi gonfi e arrossati. «Far- man era stato ferito alla testa durante gli scontri vicino alla
stazione di polizia — continua, voltandosi verso le colonne di fumo che si levano
all’orizzonte — Sono andato io ad andare a prenderlo per portarlo in ospedale. Ma al
posto di frontiera di Mursit Pinar i soldati turchi ci hanno fatto aspettare quattro ore». Gli
chiedo quanti figli abbia: «Dieci — risponde guardando Sauli, la moglie, impietrita — e tre
sono a Kobane».
Daushan, Misanter, Atmanak. I villaggi che incoronano Kobane sono pieni di rifugiati in
ansia per la sorte della città, in breve, per il loro destino. Da una fattoria di Atmanak si
vede il sole brillare sui parabrezza delle macchine che la gente di Kobane ha dovuto
abbandonare vicino al posto di frontiera per passare a piedi. Ora, non si possono più
avvicinare. I blindati dell’esercito turco fanno barriera e, al tramonto, cominciano a tirare
fuori i cannoni ad acqua e i lacrimogeni. Mahmud sfoga la sua frustrazione litigando con
altri profughi: «Tutti quelli che sono fuggiti da Kobane sono dei traditori», grida senza
considerare che lui non è diverso dagli altri.
Sulla via del ritorno incontro Abdul Rahaman Muslim, uno dei maggiorenti della comunità,
operatore umanitario e fratello di Salah Muslim, il presidente del Partito dell’Unione
Democratica del Kurdistan (PYD) le cui unità di autodifesa (YPD) hanno finora impedito la
caduta di Kobane. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto — dice senza mezzi termini
alludendo all’Europa, all’Occidente — Se avessimo due raffinerie tutto il mondo
occidentale sarebbe qui ad aiutarci. Ma non le abbiamo e, sfortunatamente, il mondo
occidentale che ha pianificato il nostro destino pensa soltanto al denaro».
del 10/10/14, pag. 7
PALESTINA · Incontro tra Hamas e il premier Anp
Tra le macerie di Gaza si ricostruisce l’unità
Michele Giorgio
GERUSALEMME
«Gaza è un simbolo di fermezza e dignità, custode dei diritti e della storia. Portiamo un
messaggio al nostro popolo nella Striscia: il ripristino della speranza, l’unità delle istituzioni
di governo e la ricostruzione. Vengo per assumere le nostre responsabilità ». Con la voce
a tratti rotta dall’emozione, il premier palestinese Rami Hamdallah (nella foto tra le macerie
di Gaza, reuters) ieri ha salutato la gente di Gaza e i dirigenti del movimento islamico
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Hamas giunti ad incontrarlo. Emozione comprensibile. Hamdallah ha presieduto la prima
riunione a Gaza dal 2007 di un governo palestinese di consenso nazionale, dando sfogo
concreto alla riconciliazione tra Fatah e Hamas avvenuta ad aprile. Uno sviluppo politico
reclamato a lungo da tutti i palestinesi ma fortemente osteggiato da Israele che, si dice,
solo per le pressioni “occidentali” non ha ostacolato l’ingresso a Gaza di Hamdallah
attraverso il valico di Erez. Il premier palestinese e i 12 ministri giunti dalla Cisgiordania
(altri 5 sono di Gaza), hanno visitato in silenzio i centri abitati, da Beit Hanun a Shajayea,
devastati dai bombardamenti e dai cannoneggiamenti israeliani della scorsa estate.
«Quello che abbiamo visto è terribile e doloroso - ha commentato Hamdallah - Abbiamo
anni di divisioni dietro di noi e la massima priorità di questo governo è di garantire agli
abitanti di Gaza il ritorno a una vita normale e l’unità con la Cisgiordania». Salutato in
apparenza con calore dalla gente, Hamdallah ha riunito il governo nella residenza del
presidente dell’Anp Abu Mazen. Quindi ha incontrato l’ex premier islamista Ismail Haniyeh,
leader di Hamas a Gaza. Hamdallah ha reso omaggio alle vittime della scorsa estate, civili
e combattenti che, ha detto, «hanno protetto la dignità del nostro popolo e irrigato la terra
di Palestina con il loro sangue e una leggendaria fermezza». Hamdallah ieri ha lasciato
intendere che tra gli obiettivi della storica riunione a Gaza non c’è solo la necessità di
estendere l’autorità del governo sulla Striscia ma anche, se non soprattutto, l’urgenza di
creare le condizioni politiche ed amministrative per garantire l’arrivo nelle casse palestinesi
dei 4miliardi di dollari che occorreranno per ricostruire Gaza. «Abbiamo avviato la
riconciliazione in modo che la comunità internazionale mantenga le sue responsabilità
nella ricostruzione e metta fine all’assedio di Gaza aprendo tutti i valichi», ha detto.
Domenica al Cairo, per la conferenza dei donatori per Gaza, ci saranno almeno 30 ministri
degli esteri, tra i quali Federica Mogherini, le delegazioni di 50 Paesi, il capo uscente della
diplomazia Ue Catherine Ashton e di quella Usa, John Kerry, oltre ad Abu Mazen e al
segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Non sarà facile per i palestinesi vincere la
diffidenza dei potenziali donatori, preoccupati di impegnarsi nella ricostruzione di un
territorio colpito da tre offensive militari israeliane in cinque anni. L’ultima, “Margine
Protettivo”, ha fatto quasi 2.200 morti palestinesi (e 73 israeliani), ha distrutto o
danneggiato decine di migliaia di edifici e infrastrutture e centinaia fabbriche e aziende.
Mascherata dalla richiesta di ricostruire in modo “permanente”, c’è la condizione posta da
Europa e Usa del ritorno delle forze di sicurezza dell’Anp nella Striscia di Gaza. La guardia
presidenziale di Abu Mazen e le Nazioni Unite, come chiede Israele, avranno il compito di
monitorare l’ingresso e la destinazione dei materiali per la ricostruzione. Quello tra Fatah e
Hamas è un matrimonio d’interessi, non certo d’amore. Abu Mazen ha bisogno di
un’ampia base di sostegno politico in Cisgiordania e a Gaza alla sua iniziativa al Consiglio
di Sicurezza per il ritiro di Israele dai Territori occupati. Hamas vuole rompere l’isolamento
e ottenere un maggior riconoscimento regionale e internazionale. «In politica questo tipo di
matrimonio è legale e comunque dopo 7 anni di divisioni e conflitti interni tutti i palestinesi
volevano la riconciliazione e il governo unitario – ci spiega Hamada Jaber, analista del
Palestinian Center for Policy and Survey Research –, le insidie però non mancano: Fatah
e Hamas hanno ideologie molto diverse. Il senso di responsabilità (delle sue formazioni
politiche) e un accordo sulla sicurezza a Gaza (tra i servizi dell’Anp e il braccio armato di
Hamas, “Ezzedin al Qassam”) saranno decisivi per il successo di questa importante fase
politica».
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Del 10/10/2014 – pag. 25
Ebola, corsa contro il tempo: è l’epidemia
peggiore dopo l’Aids
L’allarme dagli Stati Uniti. Più controlli negli aeroporti di tutto il mondo
DAL NOSTRO INVIATO MADRID Vedendolo uccidere da vicino, in una camera
d’ospedale pulita e attrezzata a portata di metrò, il virus Ebola fa più paura. Fino a che
colpiva in Africa era diverso, solo terrore da film come quel Virus Letale girato ormai quasi
20 anni fa. Ora invece spuntano casi sospetti ovunque, segno di una psicosi che si allarga.
In Macedonia, in Francia, nei Paesi Baschi spagnoli, negli Usa. Ora 200 inservienti
dell’aeroporto di New York si rifiutano di pulire i vettori in arrivo dall’Africa e il Comune di
Madrid deve indire un bando perché non trova infermieri disposti a lavorare nel reparto
infettivi.
È bastata una settimana. Anzi meno perché Thomas Eric Duncan, liberiano giunto in Usa
con il virus in corpo, è morto a Dallas mercoledì e Teresa Romero, infermiera di Madrid,
ha scoperto di essersi infettata nel suo stesso ospedale lunedì. I farmaci anti virali,
sperimentali, rari e costosi, non si sono dimostrati decisivi. Il tentativo, fatto in Africa di
iniettare anticorpi di chi ha superato naturalmente il contagio neppure. La situazione
mondiale resta comunque squilibrata. Da dicembre 2013, un solo contagiato in Occidente
contro 8.011 in Africa, meno di 10 morti contro 3.870 in Africa.
L’Assemblea Generale dell’Onu ascolterà oggi la relazione dell’inviato speciale per il
morbo, ma già il 58% degli americani vorrebbe bloccare i voli dai Paesi a rischio e il
direttore del Centro Usa di controllo e prevenzione delle malattie Thomas Frieden si è
lanciato in una paragone ardito: «Questo di Ebola è il rischio peggiore dopo l’Aids.
Dobbiamo reagire in fretta».
A guidare è come al solito Washington. Domenica gli aeroporti Usa cominceranno a
misurare la febbre ai viaggiatori dalle aree a rischio. Canada e Gran Bretagna hanno già
deciso di fare lo stesso. Non è più tempo di ponti levatoi, però sono misure che potrebbero
essere seguite da tutti gli europei. L’Italia non ha collegamenti diretti con l’area a maggior
rischio. Per questo la ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, ha ipotizzato una
«tracciabilità» dei passeggeri. Una decisione europea potrebbe arrivare venerdì 17.
Intanto Roma ha messo a punto una procedura in caso di sospetto contagio (basta una
febbre) a bordo degli aerei. A Fiumicino e Malpensa sono pronte aree di sosta riservate,
ambulanze speciali e tute protettive.
Stanno cambiando anche le procedure ospedaliere in modo che un malato non diventi suo
malgrado anche un untore. In questo caso è l’Europa a guidare visto che il primo contagio
extra africano è successo in Spagna all’infermiera Teresa Romero. La Commissione
europea di salute e prevenzione ha condiviso l’esperienza spagnola e gli Stati membri
dovrebbero essere impegnati ad aggiustare le procedure. Le condizioni della donna sono
peggiorate. Il fratello parlava di cedimento degli organi interni. Poi è stato smentito.
L’ospedale Carlos III di Madrid dov’è ricoverata ha deciso di liberare l’intero quarto piano
per gestire i troppi pazienti in osservazione e prepararsi al peggio. Rischiano l’infezione
decine di sanitari entrati in contatto con lei in una fase in cui la malattia non era neppure
presa in considerazione. Anche in Texas sono in osservazione poco più di 20 «contatti» di
Thomas Eric Duncan.
E per l’Africa? Il presidente della Banca mondiale, Jim Yong Kim, ex medico, ha esortato
ad aiutare i Paesi più colpiti. «Chiudere i confini non funzionerà». Il segretario generale
dell’Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto di aumentare di 20 volte gli aiuti. Risposte? Nessuna.
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Andrea Nicastro
del 10/10/14, pag. 1/6
Berlino vede la recessione crolla anche
l’export ma non ascolta i richiami a investire
di Bruxelles
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
L’economia tedesca è in brusca frenata e fa registrare i risultati peggiori dal 2009, quando
si era nel pieno della crisi economico-finanziaria. Calano le esportazioni, calano le
importazioni, cala la produzione industriale, cala l’indica di fiducia delle imprese, si
riducono drasticamente le prospettive di crescita economica. E i principali istituti economici
del Paese si uniscono al coro ormai generale in Europa e nel mondo che chiede al
governo di intervenire per stimolare la crescita e la domanda interna.
Dopo i dati diffusi l’altro giorno sul calo della produzione industriale, ieri sono stati resi noti
quelli sulla bilancia commerciale, che resta ancora fortemente attiva ma registra risultati
molto inferiori alle attese. Ad agosto l’export tedesco è sceso bruscamente del 5,8 per
cento, il crollo più pesante dal 2009. Anche le importazioni si sono ridotte, sia pure solo
dell’1,3 per cento. Sull’anno, il calo dell’export made in Germany è per ora dell’1 per cento,
mentre le importazioni, che dovrebbero alimentare la crescita nel resto d’Europa, sono
contratte del 2,4 per cento.
Ancora più preoccupante di questi dati, è il rapporto congiunto presentato ieri dagli istituti
di previsione economici tedeschi, che fungono da consulenti del governo. Le prospettive di
crescita della Germania sono bruscamente tagliate. Per quest’anno si scende all’1,3 per
cento dall’1,9 previsto ad aprile. Per l’anno prossimo la crescita si dovrebbe fermare all’1,2
per cento rispetto al 2 per cento stimato in primavera. La produzione industriale è prevista
in calo nel terzo trimestre dell’anno. E secondo alcuni economisti non si può escludere che
la «locomotiva d’Europa» entri in recessione tecnica registrando due trimestri consecutivi
di calo del Pil. D’altra parte la Banca centrale europea sottolinea che l’indice di fiducia
economica registra proprio in Italia e Germania la flessione più importante tra tutti i Paesi
europei. Il rapporto degli istituti economici tedeschi sottolinea la necessità che il governo di
Berlino stimoli gli investimenti per alimentare i consumi interni e con essi la crescita. E
critica senza mezzi termini la politica di austerità della cancelliera Merkel che si è posta
come obiettivo il pareggio di bilancio per l’anno prossimo tagliando duramente sul fronte
delle spese. «L’azzeramento del deficit è un obiettivo di prestigio, che non ha
necessariamente senso da un punto di vista economico », dice il rapporto, che invita ad
«aumentare le spese pubbliche nei settori che hanno maggior potenziale di contribuire alla
crescita», come la ricerca e l’educazione.
E’ una richiesta, questa, che l’Europa, nelle raccomandazioni di politica economica, rivolge
da tempo alla Germania con scarsissimi risultati invitandola a utilizzare il bilancio pubblico
per stimolare la domanda interna e riportare così il proprio surplus commerciale a livelli più
sopportabili per i partner europei. Ma le cifre raccontano una storia opposta, che vede il
calo dell’import tedesco ancora superiore alla flessione dell’export. Anche il presidente
della Bce, Mario Draghi, recentemente è tornato sulla questione invitando «i Paesi che
dispongono di un margine di manovra sui conti pubblici ad utilizzarlo per stimolare la
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crescita ». Raccomandazioni simili, in toni ancora più pressanti, arrivano a Berlino dal
Fondo monetario internazionale.
Per ora, comunque, Angela Merkel non recede dalla sua linea e dal dogma del pareggio di
bilancio, che vuole applicare in Germania per avere la giustificazione morale di poterlo
imporre agli altri partner europei. E dunque per Berlino gli unici investimenti destinati a
stimolare la crescita devono essere quelli privati. Che però non arrivano. La Commissione
protesta. Ma per ora non ha gli strumenti giuridici per intervenire in tempi brevi ed imporre
ai tedeschi il rispetto delle raccomandazioni di politica economica, visto che la Germania
non si trova in una situazione di «grave squilibrio macroeconomico », come è invece
l’Italia. Ora però la pressione per una politica più espansiva comincia a crescere anche
all’interno del Paese. E questo potrebbe forse incrinare la determinazione della
cancelliera.
del 10/10/14, pag. 1/45
La moglie di Bill Gates si scaglia contro la piaga dei matrimoni infantili
“Violenze, morti premature, niente più scuola: dobbiamo agire subito”
Spose bambine
L’appello di Melinda “Salviamo il futuro di Selam e le sue sorelle”
MELINDA GATES
SELAM pensava che la cena in programma quella sera nella sua casa, in Etiopia, fosse
una festa come un’altra. Aveva passato tutta la giornata ad aiutare i suoi genitori nei
preparativi. C’era da cucinare, andare a prendere l’acqua, pulire tutto. Non le venne in
mente di chiedere cosa si festeggiasse. Di certo non le venne in mente che quella notte
sarebbe diventata la moglie di uno sconosciuto. Dopo tutto aveva solo 11 anni.
Fu solo quando gli ospiti furono arrivati che il padre di Selam le spiegò che quella era la
sua notte di matrimonio. Lei fu presa dal panico e cercò di scappare, ma i suoi genitori la
riportarono a forza dentro la casa. Alla fine della serata, Selam lasciò la sua casa per
trasferirsi nell’abitazione dei suoceri, in un villaggio in cui non era mai stata e di cui non
aveva nemmeno mai sentito parlare, lontana dai suoi amici, dalla sua famiglia e dalla sua
scuola.
Questa storia devastante si ripete in continuazione. Ogni anno, in tutto il mondo, quasi 14
milioni di ragazze vanno spose prima di aver compiuto 18 anni. Complessivamente, all’età
di 18 anni una ragazza su 3 è già sposata.
Spesso pensiamo al matrimonio minorile come a un problema sociale, o una questione di
diritti umani. Le Nazioni Unite lo classificano addirittura come una violazione dei diritti. Ma
il mondo sta cominciando a vederlo sempre di più anche come un problema economico.
Le famiglie e le nazioni devono conoscere il prezzo reale del matrimonio minorile.
Selam (non è il suo vero nome) vive nella Regione degli Amara, in Etiopia, un posto dove
le percentuali di matrimonio minorile sono fra le più alte del mondo: 56 diciottenni su cento
sono già sposate, e di queste la metà sono andate in sposa prima dei 15 anni. Quando i
genitori di bambine come Selam scelgono di maritare le loro figlie, sono convinti di farlo
con buone ragioni: garantire la sicurezza della figlia o assicurarsi una dote (che conta
tantissimo per una famiglia che vive in estrema povertà). Ma quello che è più difficile
vedere sono le ramificazioni sociali ed economiche a lungo termine.
L’inverno scorso, mentre mi trovavo nella Regione dell’Amara, ho incontrato Selam e altre
ragazze nella sua stessa situazione. La cosa che più mi ha colpito è stato il loro desiderio
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disperato di poter continuare a frequentare la scuola. Una sposa bambina, così piccola
che sembrava avere non più di 8 anni, mi ha detto che sapeva che l’istruzione era l’unica
strada per andare via dal suo villaggio e dalla miseria, ma aveva paura che ora che si era
sposata quella strada fosse preclusa per lei. E in effetti è quello che dicono le statistiche.
Quando una ragazza lascia la scuola per anquesta dare in sposa, di solito perde
l’opportunità di guadagnare un salario decoroso e contribuire all’economia della sua
comunità. Quando una ragazza rimane incinta in età adolescenziale, di solito fa più figli di
quelli che la sua famiglia può permettersi di nutrire e istruire. La loro salute ne risente, e
anche la salute dei loro figli. Queste spose bambine sono prigioniere non solo del
matrimonio, ma anche di un circolo vizioso di povertà che blocca loro, le loro famiglie, le
loro comunità e le loro nazioni.
Eppure, anche di fronte a una sfida di simili proporzioni e complessità, ci sono buone
ragioni per essere ottimisti. Gli attivisti che si battono contro questo problema mi hanno
detto che la loro sensazione è che a livello globale il fenomeno presto toccherà l’apice e
comincerà a ridimensionarsi. E gli esempi positivi cominciano a emergere. Per esempio il
Governo etiope sta prendendo misure per educare le comunità sui costi di pratica
tradizionale nociva, fornendo incentivi alle famiglie perché facciano studiare le bambine e
applicando una serie di misure legislative per mettere fine al matrimonio minorile.
Ma non bastano le leggi per debellare una pratica culturale profondamente radicata:
perché questi provvedimenti possano produrre effetto serve tempo, e bambine come
Selam questo tempo non ce l’hanno. Una strada per agire nell’immediato è fare in modo
che queste ragazze abbiano accesso alle informazioni e ai metodi contraccettivi necessari
per ritardare il momento di fare figli.
Per molte spose bambine, avere la possibilità di rinviare la prima gravidanza è
letteralmente una questione di vita o di morte. I decessi collegati alla gravidanza sono la
prima causa di morte fra le ragazze tra i 15 e i 19 anni di età nei Paesi a basso e medio
reddito. Non avendo ancora un corpo pronto per fare figli, le bambine di questa fascia
d’età hanno il doppio delle possibilità di morire durante il parto, rispetto alle ragazze fra i
20 e i 24 anni.
La notte del suo matrimonio, Selam si sentiva molto sola. Oggi possiamo stare al suo
fianco fornendo alle spose bambine il supporto di cui hanno bisogno, e lavorando insieme
per chiedere che la loro sia l’ultima generazione di bambine costrette a diventare spose.
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INTERNI
Del 10/10/2014 – pag. 5
Renzi va avanti sulla riforma e non esclude la
fiducia alla Camera
«Ci sarà un maggior coinvolgimento dell’Italia nella lotta all’Isis, saremo
duri»
ROMA Di prima mattina arriva alla segreteria del Pd è dà la prima analisi del voto notturno
e contestato sul Jobs act, due notti fa: «Sono contento anche del risultato numerico, 165 a
111 è molto forte. Poi le immagini dei fascicoli che volano fanno pensare agli italiani che
senso ha. Rimane l’amarezza, immagini tristi. Gli italiani sono stanchi delle sceneggiate di
alcuni, ma ieri è stato fatto un grandissimo passo in avanti. Loro continuano a fare
sceneggiate, noi andiamo avanti».
«Loro» forse sono anche una fetta del suo partito, quella minoranza che ha minacciato
spaccature e poi ha votato, ma soprattutto i grillini. È un altro pezzo di analisi e Matteo
Renzi la fa a porte chiuse: «La cosa da notare, e di cui essere contenti, è che si sono
divisi, vedrete che alla fine in tanti verranno con noi, cominciano ad avere problemi, si
stancheranno anche i loro elettori...».
Poi una giornata intera chiuso a Palazzo Chigi, dove alle guardie del portone sembra sia
arrivata una curiosa consegna del silenzio, ai cronisti che passano, d’ora in poi, meglio
non comunicare più chi entra e chi esce. Ovvero, soprattutto, chi si è recato in visita dal
presidente del Consiglio. Si diffonde anche la voce di un incontro con l’ad della Rai,
smentita immediatamente.
Poco dopo le nove Renzi si accomoda negli studi di Virus , su Rai 2, conferma che
potrebbe mettere la fiducia sul Jobs act «anche alla Camera», si discute dell’arte di
governare, con apparati che remano contro, il premier riassume così: «Non mi frega niente
del consenso intorno a me, ma sul fatto di restituire un minimo di dignità all’Italia io sento
che la stragrande parte degli italiani approva».
Si discute delle riforme in corso, compresa la giustizia. I magistrati ce l’hanno con lui? «A
me non interessa se i magistrati ce l’hanno con me: io non ce l’ho con loro. Se però mi
dice che ridurre le ferie è un attentato alla democrazia si faccia vedere da uno bravo. I
sacrifici li devono fare tutti, i politici, i sindacalisti, tutti».
Maurizio Landini, Fiom, «vuole occupare le fabbriche, io le voglio tenere aperte, domani
inauguro una fabbrica, io me le faccio a una a una, vado a parlare con i lavoratori». È ora
di «smetterla di fare un ritratto caricaturale dell’Italia e cambiare le cose, siamo fermi da 30
anni, purtroppo non abbiamo la capacità di Fonzie, cambiare le cose con lo schiocco delle
dita». Settore smentite: «Non aumenteranno le tasse di successione e l’Iva». Mentre nella
legge di Stabilità, che arriverà «il 15 ottobre», ci saranno «sgravi contributivi per i contratti
a tempo indeterminato». A fine trasmissione parla anche della lotta all’Isis: « Per ora l’Italia
interviene con un supporto logistico, dando armi ai curdi. Un maggior coinvolgimento è
questione di settimane, con armi migliori e interventi nelle aree dei Paesi confinanti,
saremo molto duri».
Marco Galluzzo
19
del 10/10/14, pag. 2
La segreteria contro i ribelli “Si sono messi
fuori dal Pd” Renzi: “Nuova fiducia? Forse”
Civati: è il soviet. Il premier: Tocci resti. Bersani: non do coltellate La
Fiom avverte: chi vota la fiducia stia fuori dai nostri cortei
ROMA .
I dissidenti dem non possono pensare di farla franca. Renzi non è entrato nel merito di
espulsioni o altre sanzioni, né lo hanno fatto i vice Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani.
Ma all’indomani della tempestosa fiducia sul Jobs Act nel Pd è l’ora della resa dei conti.
Un cartellino giallo ci vuole: batte un colpo il segretario-premier.
Dovrebbe abbattersi su Mineo, Casson e Ricchiuti, i tre civatiani che sono usciti dall’aula
al momento della fiducia, mentre a Walter Tocci, il senatore che ha detto sì per disciplina
di partito ma poi ha dato le dimissioni da Palazzo Madama, chiede di restare: «Ci ripensi,
è un errore».
Guerini avverte: «Non votare la fiducia è essere fuori dalla comunità del Pd». Ma la patata
bollente è scaricata sull’assemblea dei senatori.
Il premier ha comunque incassato un buon risultato e fa notare che è la seconda migliore
fiducia in termini numerici al suo governo: 165 i sì. Non molla la strada intrapresa: «Io
sono convinto che questo è il Tourmalet, è una salita difficile, impegnativa. Ma con me c’è
la stragrande maggioranza di persone perbene. Questo è un paese fermo da 30 anni».
Aggiunge che se Landini, il leader Fiom, vuole occupare le fabbriche per protesta, «io
voglio aprirle». E che andrà nelle fabbriche a una a una.
Non esclude la fiducia anche alla Camera: «È un’ipotesi». In tv assicura che non ci sarà
aumento dell’Iva e della tassa di successione. Tuttavia la minoranza è in fibrillazione. Non
solo Pippo Civati che dice: «No alla disciplina di stampo sovietico» e annuncia: «Non
voterò la fiducia se verrà posta alla Camera». Molti dem saranno in piazza con la Cgil a
Roma il 25 ottobre. Di certo ci sarà Fassina. Forse Bersani.
L’ex segretario spiega: «La vicenda lavoro non è chiusa ma non si può aprire un vuoto di
governo. Non si aspetti da me una coltellata a Renzi. Preferisco prenderla». Quindi una
stoccata: «Matteo sputa sul 25% preso alle elezioni ma è con quello che governa». E poi:
«La prima riforma è la lotta all’evasione non il Jobs Act». Via Facebook il segretario Fiom
emiliano, Bruno Papignani avverte: «Non sfili chi ha votato la fiducia, non è il benvenuto».
Comunque da qui alla manifestazione la mappa del dissenso potrebbe cambiare ancora. Il
20 è stata convocata una direzione del Pd proprio sul partito.
( g. c.)
del 10/10/14, pag. 4
E se il Colle non firmasse? La delega viola
l’art.76
20
TROPPO VAGO IL MANDATO AL GOVERNO DI CAMBIARE IL
MERCATO DEL LAVORO. IN TEORIA NAPOLITANO AVREBBE
ARGOMENTI PER UNA BOCCIATURA
E se il presidente Giorgio Napolitano non firmasse il Jobs Act? È un periodo ipotetico,
ovviamente, perché il capo dello Stato si è molto speso per spingere il Parlamento a
votare la legge delega sul lavoro. Eppure le ragioni per non firmare il testo che arriverà
sulla scrivania del Quirinale ci sarebbero. Le ha segnalate, qualche giorno fa,
l’associazione Giuristi democratici in una lettera aperta firmata dal presidente, l’avvocato
Roberto Lamacchia. La richiesta è che Napolitano dica “una parola di chiarezza non certo
sul merito dei provvedimenti, ma sul doveroso rispetto da parte delle Camere del disposto
dell’art. 76 e sul doveroso rispetto da parte del governo delle prerogative del Parlamento ai
sensi dell’art.77 della Costituzione”. Quest’ultimo è quello che regola i decreti legge:
dovrebbero essere emanati soltanto “in casi straordinari di necessità e urgenza”, ma
neppure una sentenza della Corte costituzionale in materia del 1996 è bastata a frenare gli
esecutivi e a scoraggiare i presidenti dal firmare decreti che servivano semplicemente a
scavalcare il Parlamento e a lasciargli soltanto il compito di votare sì o no a una legge di
conversione su cui magari viene posta la fiducia. Il Colle, per dire, ha avallato anche un
decreto che poteva sembrare incostituzionale fin dal nome, quello “Imu-Bankitalia”.
ALMENO PER ORA, il governo Renzi ha rinunciato all’idea di intervenire sul mercato del
lavoro e l’articolo 18 per decreto. Anche se, per la verità, lo ha già fatto con il decreto
Poletti che modificava la disciplina del contratto a termine, chissà sulla base di quali
requisiti di necessità e urgenza. Più critico l’articolo 76: “L’esercizio della funzione
legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e
criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. E l’oggetto della delega
sul lavoro non è affatto definito, tanto che si continua a discutere di come cambierà
l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa. Se ne discute
perché nel testo della delega non c’è scritto, lo stabilirà il governo con i decreti delegati
che dovrà emanare e che verranno poi discussi soltanto nelle commissioni parlamentari e
non dall’Aula. In questi anni la Corte costituzionale si è espressa diverse volte cancellando
riforme molto pubblicizzate perché i governi erano andati oltre la delega concessa dal
Parlamento. È successo per esempio con la mediazione obbligatoria (poi in parte reintrodotta). In questo caso i dubbi di costituzionalità dovrebbero essere invece
sull’eccessiva libertà che il Parlamento ha concesso al governo: una delega molto ampia,
passata con un voto di fiducia, dimostrazione quindi che il premier non era sicuro di avere i
numeri. La costituzionalità è dubbia, la firma di Napolitano è sicura.
del 10/10/14, pag. 14
LE NUOVE FAMIGLIE
Pisapia sfida Alfano trascritte 7 nozze gay
I sindaci al governo “Subito la legge”
Fassino: inaccettabile invadenza dei prefetti Dietrofront a Grosseto,
annullata in appello la registrazione ordinata dal tribunale
DIEGO LONGHIN
TORINO .
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Nel giorno in cui il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, firma la trascrizione di sette
matrimoni gay, la Corte di appello di Firenze annulla la sentenza del Tribunale di Grosseto
che ordinava al Comune di inserire nel registro il matrimonio tra Giuseppe Chigiotti e
Stefano Bucci, celebrato a New York. E il presidente dell’Anci, Piero Fassino, scrive al
premier Matteo Renzi e al ministro degli Interni, Angelino Alfano, per chiedere un incontro
urgente. Due i concetti cari a Fassino: non ci può essere un’invadenza dei prefetti nelle
decisioni dei sindaci, che non possono essere commissariati, ed è indispensabile che
governo e parlamento prendano l’iniziativa.
Oggi il comune di Grosseto depennerà dagli archivi l’unione tra Chigiotti e Bucci. «Io ho
rispettato una sentenza del tribunale quando abbiamo registrato l’atto — spiega il sindaco
di Grosseto Emilio Bonifazi — e oggi non ho altra strada che rispettare la sentenza della
corte d’appello di Firenze. Serve una legge o sarà il caos». Nonostante la sentenza
fiorentina, la polemica sulla possibilità o meno per i sindaci di iscrivere nei registri le nozze
gay non si placa. Anzi. La circolare Alfano, che chiede l’intervento dei prefetti, ha fatto
reagire i primi cittadini di mezza Italia. «Ho firmato personalmente la trascrizione di sette
matrimoni tra persone dello stesso sesso che si sono celebrati all’estero — dice il sindaco
Pisapia — si tratta di un atto nel pieno rispetto della legge che prevede questo obbligo
quando si tratta di matrimoni celebrati legittimamente secondo le norme del Paese in cui si
sono svolti». E aggiunge: «È un ulteriore passo avanti di Milano come Città dei Diritti.
Spero che quanto stanno facendo molti sindaci serva a sollecitare il Parlamento a varare
una legge nazionale che possa superare ogni forma di discriminazione ».
I sindaci di Catania, Prato e Livorno si aggiungono a quelli che hanno già detto che non
rispetteranno le direttive di Alfano, mentre il primo cittadino di Udine, Furio Honsell, ha
annunciato che si rivolgerà al tribunale per opporsi alla lettera inviata dal prefetto che
impone la cancellazione delle unioni gay. Ieri anche la prefettura di Bologna si è mossa e
ha acquisito i registri del Comune. Il prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca, sta
ancora riflettendo: «Prima di qualsiasi valutazione bisogna conoscere lo stato dei fatti.
Applico la legge con grande attenzione e devo capire come stanno le cose».
A Roma la discussione è slittata al 16 ottobre. Fassino, sindaco di Torino, dove lunedì la
questione sarà affrontata in Consiglio comunale, e presidente dell’Anci, scrive a Renzi e
Alfano. «Serve al più presto una legge in materia. Il tema è troppo delicato per essere
lasciato al caso per caso, né d’altra parte si può affidarlo ad ordinanze prefettizie su
competenze che la legge affida agli enti locali». Un invito ad uscire dal caos, senza far
ricadere tutto sui sindaci.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 10/10/14, pag. 10
“No ai boss al Quirinale l’istituzione va
tutelata” I legali: processo nullo
Palermo, la Corte d’assise boccia la videoconferenza Insorge anche
Mancino: ho diritto di partecipare
SALVO PALAZZOLO
PALERMO .
Il 28 ottobre, al Quirinale, non ci sarà alcuna diretta tv con le celle dei capimafia delle
stragi. Totò Riina e Leoluca Bagarella non potranno assistere all’audizione del presidente
della Repubblica nel processo trattativa in trasferta. E al Colle non potrà salire neanche
l’altro imputato eccellente di questo caso giudiziario, l’ex ministro Nicola Mancino. I giudici
della corte d’assise di Palermo sono stati perentori: l’udienza sarà a porte chiuse (ma non
segreta), senza pubblico e senza imputati, solo con i pubblici ministeri e gli avvocati.
Prevalgono «esigenze tutte connesse alle speciali prerogative di un organo costituzionale
quale è la presidenza della Repubblica », dice il giudice Alfredo Montalto, leggendo il suo
provvedimento in aula. Prevale «l’immunità della sede». E poi ragioni «correlate all’ordine
pubblico e alla sicurezza nazionale». Tutto questo, spiega un’articolata ordinanza di
cinque pagine, prevale sul diritto alla difesa degli imputati che volevano essere presenti al
Quirinale. E gli avvocati insorgono.
Questa volta, non con la classica opposizione, che è l’anima del processo. Ma con
un’eccezione di nullità, che potrebbe segnare la morte del processo trattativa Stato-mafia.
È la difesa di Nicola Mancino a mettere l’ipoteca su tutto ciò che avverrà da questo
momento in poi. «Per noi l’ordinanza è nulla — esordisce l’avvocato Nicoletta Piergentili
Piromallo — perché viola il diritto dell’imputato Mancino di intervenire personalmente
all’udienza al Quirinale ». L’avvocato Massimo Krogh rincara la dose: «Se in questo
processo arriverà una condanna, porteremo subito avanti la questione della nullità della
sentenza, perché non si può impedire a un imputato di partecipare alle sue udienze». Il
caso è aperto. La nullità potrà essere fatta valere in ogni «stato e grado del giudizio »,
anche in Cassazione, non importa fra quanti anni. I pubblici ministeri volevano evitare
proprio questa eventualità, ecco perché in extremis avevano dato parere favorevole alla
presenza degli imputati al Quirinale, anche in videoconferenza. «Il diritto di difesa va
tutelato — aveva ribadito a Repubblica il procuratore aggiunto Vittorio Teresi — non
abbiamo fatto alcuna valutazione sulla qualità degli imputati».
Dunque: nullità sì, nullità no. D’ora in poi, sarà il tormentone del processo trattativa.
Almeno fra pubblici ministeri e avvocati. Il presidente della corte d’assise Alfredo Montalto,
invece, non appare affatto preoccupato per la tenuta della sentenza che verrà. Ieri mattina,
ha letto con la sua solita serenità le cinque pagine dell’ordinanza, che sostanzialmente
ribadisce quanto aveva già deciso quindici giorni fa. La questione era certo complessa
dopo le istanze degli imputati che invocavano il diritto alla difesa, «riconosciuto anche
dalla convenzione europea per i diritti dell’uomo», ma le argomentazioni di Montalto sono
lapidarie. L’immunità del Quirinale «impedisce anche l’accesso alle forze dell’ordine».
Dunque, nessuno potrebbe accompagnare un imputato al Colle o «assicurare l’ordine in
udienza». E la videoconferenza si può fare solo con le aule di giustizia. Infine, a proposito
della convenzione per i diritti dell’uomo: «Nessun contrasto », taglia corto il giudice,
ribadendo che la stessa convenzione prevede «deroghe» in presenza di «interessi
23
supremi». Conclude la corte: «Il diritto di difesa è adeguatamente assicurato» dagli
avvocati, che eventualmente «nel prosieguo del dibattimento potranno far valere ogni
forma di difesa ritenuta utile».
Dall’udienza al Colle resterà fuori anche Giovanna Maggiani Chelli, la presidente
dell’associazione familiari vittime della strage dei Georgofili, anche lei aveva chiesto di
assistere alla deposizione del presidente Napolitano.
del 10/10/14, pag. 8
Taranto choc: ”Infiltrazioni mafiose in
Comune”
SCIOGLIERE il consiglio di Taranto per mafia. È questa la richiesta, rivolta al prefetto, dai
consiglieri Angelo Bonelli, dei Verdi e Dante Capriulo, Gianni Liviano e Francesco Venere,
dei Democratici per la città. La Direzione distrettuale antimafia di Lecce infatti ha ipotizzato
infiltrazioni della criminalità organizzata nell’amministrazione, i consiglieri hanno chiesto
spiegazioni al sindaco Ippazio Stefano che non ha chiarito. E così hanno lasciato l’aula e
organizzato una raccolta firme per lo scioglimento. L’operazione Alias, della Polizia di
Stato, ha portato all’arresto di 52 persone presunte appartenenti al clan D’Oronzo-De Vitis.
Uno degli arrestati è il marito di una consigliera Ncd e il presidente della commissione
urbanistica è citato nelle intercettazioni telefoniche dell’inchiesta.
del 10/10/14, pag. 11
CINESI, RUMENI, RUSSO-GEORGIANI:
A ROMA LA MAFIA È MULTIETNICA
FURTI, COCAINA E SOLDI SPORCHI: COSÌ GLI STRANIERI SI
SPARTISCONO LA CITTÀ
di Silvia D’Onghia
C’è una linea, neanche troppo sottile, che collega la Grande Muraglia a Napoli, e Napoli al
quartiere Prenestino di Roma: è un nuovo sodalizio criminale, che mette insieme gli
imprenditori cinesi ai camorristi dei clan Giuliano e Anastasio e questi ultimi ai laziali
Terenzio. Una sinergia che serve a far arrivare direttamente dalla Cina nei porti di Napoli,
Civitavecchia e Gioia Tauro la merce contraffatta, e da lì a farla finire nei magazzini del
Prenestino e del Casilino.
ROMA È una città multietnica, e anche le mafie si sono dovute adeguare. Così, dopo
l’invasione di ’Ndrangheta e Camorra, le forze dell’ordine devono adesso fare i conti con la
criminalità “endogena”. I delinquenti africani hanno il controllo dell’immigrazione
clandestina e della droga. La mafia di origine slava, albanese e rumena, considerata di
“elevata pericolosità sociale per l’indole violenta e per l’assenza di scrupoli” – scrive la
polizia –, è invece responsabile di delitti predatori, di traffico di stupefacenti e di
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sfruttamento della prostituzione. Rumeni e bulgari, poi, hanno una predilezione per i reati
“informatici”: la clonazione di carte di credito e l’alterazione dei bancomat. Le bande di
matrice sudamericana e filippina sono dedite principalmente ai reati contro il patrimonio e
contro la persona, nella maggior parte dei casi ai danni di connazionali. I cinesi, grazie al
sodalizio con la Camorra, sono anche in grado di creare società fittizie di intermediazione
finanziaria per il trasferimento, in madre patria, di ingenti somme di denaro. Un esponente
di spicco del clan Moccia, al quale sono stati sequestrati beni per un valore di 150 milioni
di euro, gestirebbe gli affari commerciali all’Esquilino, dopo aver acquistato una villa nei
Castelli Romani appartenuta ad Alcide De Gasperi, e sarebbe il dominus di una società
che porta i clienti al Casinò di Sanremo e presta loro i soldi. Un modo per fare impresa. Ma
c’è una nuova mafia che spaventa le polizie: è quella di origine russo- georgiana .
Secondo gli ultimi rapporti dell’antimafia, sono loro a compiere i principali furti nelle case
dei romani, ma soprattutto ad avere la capacità di riciclare i soldi sporchi in tutta Italia e
negli altri Stati europei. La collaborazione con l’Europol ha consentito di individuare a
Roma personaggi di spicco dell’organizzazione mafiosa vor v zakone (ladro nella legge in
russo), responsabili di reati di sangue e in costante contatto con l’organizacija . Tra gli altri,
sono stati arrestati gli autori di un duplice tentato omicidio avvenuto il 4 agosto 2011 a
Mechelen, una città della provincia di Anversa. Tutto questo naturalmente si inserisce in
un contesto non certo vergine. A scorrere i nomi delle famiglie mafiose presenti ormai da
anni a Roma (come in tutto il Lazio), vengono i brividi: gli Alvaro, i Bellocco-Piromalli, i
Pelle, i Gallace, i Bonavota e i Fiarè per la ’Ndran - gheta; i Senese per la Camorra; i
Triassi-Cuntrera per Cosa Nostra; senza dimenticare gli autoctoni, i Casamonica e i
Fasciani. Le novità investigative degli ultimi mesi riguardano, per esempio, la tanto citata
movida notturna: secondo gli inquirenti, per esempio, il clan camorristico degli Esposito
(Luigi, detto “Nacchella”, è membro dell’alleanza di Secondigliano) potrebbe aver messo
gli occhi sui locali della movida, rimpiegando così i capitali di provenienza illecita.
DEL RESTO, che la ’ndrina Bonavota abbia “investito” nelle attività di Monteverde e di
Prati è ormai cosa nota. “C’è un altro fenomeno che sta emergendo – afferma Gianni
Ciotti, segretario del sindacato di polizia Sed – ma che la politica non è ancora in grado di
decifrare: le mafie dell’est gestiscono interamente il traffico della prostituzione,
riciclandone i proventi in attività commerciali e in ville”.
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SOCIETA’
del 10/10/14, pag. 5
In Italia i minori vittime di reati sono
aumentati del 56%, in 10 anni
Raffaele K. Salinari
Terre des Hommes. Il report Indifesa, presentato al Senato
I minori vittime di reati in Italia sono aumentati del 56% negli ultimi 10 anni, le bambine
sono le più colpite. Questa è la denuncia di Terre des Hommes documentata nel «Dossier
Indifesa» presentato alla presenza del Presidente del Senato Grasso e del Garante per
l’infanzia Spatafora. Grasso, aprendo i lavori, ha dichiarato che è «urgente un cambio di
rotta per assicurare maggiore protezione e dare voce alle protagoniste del futuro. Un
cambio di paradigma culturale che abbatta le barriere che ancora separano le bambine
dalla piena fruizione dei loro diritti».
Alla vigilia della Giornata Mondiale delle Bambine (11 ottobre), si accenderanno i riflettori
sui diritti negati a milioni di bambine in Italia e nel mondo. Dire basta allo sfruttamento e
agli abusi sulle bambine, liberarle per farle tornare ad una vita fatta di scuola, amici e
giochi l’obiettivo della campagna «Indifesa» 2014. I dati della violenza sulle bambine sono
allarmanti. Più di 5.100 bambini nell’ultimo anno sono stati vittime di reati. Il 61% di loro
erano bambine. Questo numero, di per sé terribile, tanto più drammatico se si pensa che
10 anni fa erano 3.311, con un incremento del 56%. Sono cresciuti dell’87% i
maltrattamenti in famiglia (passando da 751 nel 2004 a 1.408 vittime nel 2013, il 51%
femmine) così come l’abbandono di minori (+94%) e le violenze sessuali aggravate
(+42%). Continua ad evolvere, in questi anni, lo sfruttamento sessuale dei minori a fini
commerciali da parte della criminalità organizzata, che si va orientando sempre di più
sull’uso dell’immagine del loro corpo per arricchirsi nelle reti pedofile: +411% di vittime dei
reati di pornografia minorile, +285% nella detenzione di materiale pornografico. In
entrambi i casi l’80% delle vittime sono bambine e ragazze.
A questo quadro già di per sé allarmante si aggiungono i dati forniti dalle Forze dell’Ordine
sui reati contro le donne. In Italia, 1 donna su 3 ha subìto almeno una forma di violenza da
bambina, l’11% abusi sessuali. In Europa, sono circa 21 milioni le donne ad aver subìto
una forma di abuso o atto sessuale da parte di un adulto prima dei 15 anni (12%).
Secondo la ricercail 67% delle donne europee vittime di abusi non avevano denunciato
l’accaduto, il che significa che solo 3 casi su 10 vengono alla luce.
A livello europeo, il 30% delle donne che hanno subìto abusi sessuali da grandi avevano
già vissuto episodi di violenza sessuale o psicologica durante l’infanzia. Un’ulteriore prova
di come le bambine abusate, se non adeguatamente assistite, possono assecondare
comportamenti abusanti anche da adulte, tornando a essere vittime di violenza.
Emerge quindi l’estremo bisogno di assicurare a bambine, ragazze e donne adulte una
rete di servizi d’assistenza efficienti — medici, psicologici e legali — concepiti
specificatamente per le vittime di violenza di genere e allo stesso tempo, sono
indispensabili investimenti per azioni volte alla prevenzione, alla sensibilizzazione e
all’educazione contro la discriminazione di genere, come richiesto dalla Convenzione di
Istanbul.
Il panorama delle violazioni dei diritti fondamentali delle bambine nel mondo è ancora
desolante. 515 milioni di loro vivono in condizioni di povertà. Oltre 100 milioni sono le
bambine mai nate, risultato dell’atroce pratica degli aborti selettivi in Cina, India e altri
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Paesi del Sud-Est asiatico e Caucaso. 14 milioni di baby spose, con 39 mila matrimoni
celebrati ogni giorno che coinvolgono bambine con meno di 18 anni. Non basta: sono oltre
68 milioni di baby lavoratrici nel mondo, che non più hanno la possibilità di studiare né
tantomeno di giocare. Di queste, 30 milioni di bambine sono costrette a lavori pericolosi e
oltre 11 milioni sono domestiche in casa d’altri. Nelle sole Filippine oltre 60 mila tra
bambine e bambini sono costretti a prostituirsi online. E ancora, ogni giorno 20 mila
ragazze sotto i 20 anni danno alla luce un bambino diventando baby mamme. 125 milioni
sono le donne e le bambine che hanno subìto una mutilazione genitale.
E ieri, Maud Chifamba, nominata da Forbes tra le 5 giovani donne più influenti del
continente africano, ha lanciato su Change.org una petizione per chiedere al Segretario
dell’Onu di portare davanti ai governi di tutto il mondo le istanze troppo spesso dimenticate
delle ragazze raccolte nella «Girls Declaration».
* Presidente Terre des hommes
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 10/10/2014 – pag. 29
Battaglia sulle norme antipaesaggio
Carandini: dare il via ai cantieri con il silenzio assenso è un rischio per
l’ambiente
«Se questo governo vuole direttamente abolire la tutela del nostro paesaggio e del nostro
patrimonio, che lo dica apertamente… Non c’è più spazio per una semplice
preoccupazione, è ormai allarme rosso per il paesaggio e per il nostro patrimonio
urbanistico e monumentale». Andrea Carandini, presidente del Fondo Ambiente Italia ed
ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha appena analizzato il disegno di
legge Madia sulla riforma della Pubblica amministrazione in discussione al Senato.
L’allarme rosso di cui parla Carandini (che non esclude un appello al presidente
Napolitano, suo e di altri intellettuali impegnati nell’universo della tutela, se le cose non
cambieranno) riguarda l’articolo 3 comma 2 e 3 sotto il titolo «Silenzio assenso tra
amministrazioni». Ovvero quel meccanismo per cui se un’amministrazione locale chiede
un parere a un’altra amministrazione per un progetto edilizio o urbanistico, dopo 60 giorni
può considerare un eventuale silenzio come un assenso, quindi un via libera (ed ecco il
passaggio che intimorisce Carandini e molti altri) «anche ai casi in cui è prevista
l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute
dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di
amministrazioni statali o di altre amministrazioni pubbliche». La prima parte riguarda
direttamente gli uffici delle soprintendenze e i loro compiti istituzionali di tutela.
Carandini ritiene «gravissima e senza precedenti» questa formulazione: «So che sarà
possibile presentare emendamenti fino al 17 ottobre e mi auguro che si intervenga senza
indugio. Voglio essere chiaro. Il governo fa bene a voler snellire le procedure, a
“sbloccare” questo Paese. Ma se un iter prevede un parere sul paesaggio, su un bene
urbanistico o architettonico, la macchina del ministero dei Beni culturali deve essere in
grado di esprimerlo per evitare devastazioni». E allora, Carandini? Non è uno sprone a
darsi da fare? «Le soprintendenze sono state svuotate di personale e mezzi. Sono state
volutamente prosciugate e azzoppate. Negli uffici delle soprintendenze milanesi, sempre
più impoverite, è stato calcolato che ogni funzionario avrebbe 3-4 minuti per esaminare le
pratiche contenenti un parere, se si dovesse osservare il termine di legge. Ma se si
azzoppa un’amministrazione non le si può poi chiedere di correre. Vedo, insomma,
l’intenzione di togliere di mezzo ciò che viene visto come un intralcio, appunto la tutela e il
sistema delle soprintendenze, mentre parliamo invece di un sistema che assicura
l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione, cioè la tutela del paesaggio e del nostro
immenso patrimonio storico-artistico». Proprio citando l’articolo 9, c’è chi sta progettando
un appello al Quirinale per evitare che il silenzio assenso metta i Comuni nelle condizioni
di costruire anche in aree vincolate, per non parlare dei centri storici.
Positivo, invece, il parere di Carandini sull’articolo 17 dello sblocca Italia che introduce
misure fiscali che favoriscono il recupero del patrimonio edilizio esistente, disincentivando
il consumo di suolo: «Il provvedimento appare positivo, ma andrebbe inserito in un
intervento più generale, che vincoli lo sviluppo alla pianificazione dell’uso del territorio che
manca da due generazioni».
Paolo Conti
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del 10/10/14, pag. 42
Timori sull’effetto serra, maggiore efficienza delle fonti alternative, alti
costi di estrazione Nel mondo dell’energia il vento sta cambiando E c’è
chi volta le spalle a “Big Oil”: dalle banche ai consumatori, fino ai
mattoncini della Lego
Vivere senza petrolio
MAURIZIO RICCI
PRESTO , l’Europa non avrà più centrali elettriche. «Magari, non tutte quelle che ci sono
oggi saranno scomparse fra 10 anni — precisano ad una delle più grandi banche globali,
la svizzera Ubs — ma scommettiamo che non saranno sostituite ». E, forse, non ci
saranno più, o saranno molti di meno, i distributori di benzina. Il mondo dell’energia, come
lo conosciamo, sta galleggiando su un gigantesco sommovimento. Avvertirlo oggi, nel
tripudio per il boom dei nuovi metodi di trivellazione di shale oil o shale gas, non è facile.
Ma i progressi della tecnologia che, da un lato, esaltano il futuro di gas e petrolio, dall’altro
promettono di affondarlo. E l’inesorabile ticchettio dell’effetto serra rischia di oscurarlo in
un colpo. Gente dal naso fino avverte il cambio del vento. Gli analisti delle grandi banche
— da Ubs a Barclays, da Citigroup a Hsbc, fino ai cervelloni della consulenza McKinsey —
ma anche i superesperti internazionali della Iea (Ocse), i grandi investitori alla Rockefeller,
fino ai grandi consumatori, tipo il gigante dei supermercati Walmart, sodali e amici da
sempre di Big Oil, ora ostentano freddezza, si tirano indietro: i Rockefeller non investono
più nel petrolio, Walmart annuncia il passaggio dei suoi supermercati al 100 per cento di
solare. Persino la Lego abbandona la nave e rinuncia alla storica presenza (dagli anni ’60)
sui “mattoncini” del logo della Shell per aderire a una campagna di Greenpeace contro le
trivellazioni nell’Artico.
L’incubo, per i grandi dell’energia, comincia con i negoziati per il clima. Nelle stanze in cui
si svolgono le interminabili trattative sulla lotta all’effetto serra, c’è, infatti, un elefante che,
finora, Big Oil è riuscito a tenere nascosto, ma che non può restare invisibile per sempre.
Se, infatti, la temperatura media del pianeta non deve salire più di 2 gradi entro il 2050,
pena catastrofe, come tutti dicono, bisogna ridurre le emissioni di CO2 , ma, per ridurre le
emissioni, i tre quarti delle riserve di petrolio che oggi ci sono sottoterra, devono restarci.
Gli scienziati dell’Ipcc, nell’ultimo rapporto Onu, sono chiari: se quelle riserve vengono
estratte e bruciate, nelle auto o nelle centrali, il mondo è destinato a friggere. I soliti
scienziati visionari, creduloni, malati di ecologismo? Niente affatto. Gli esperti della Iea,
l’Agenzia internazionale dell’energia, filiazione dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi
industrializzati, cioè tecnici che vivono quotidianamente gomito a gomito con gli uomini di
Big Oil, arrivano a conclusioni poco diverse: per centrare l’obiettivo dei 2 gradi, bisogna
rinunciare ad usare almeno il 66 per cento delle riserve di petrolio, carbone, metano. Gli
analisti che hanno fatto di conto dicono che sono 28 mila miliardi di dollari di patrimonio
che svaniscono. Quasi 20 mila solo per il petrolio. Finanziariamente, una catastrofe che,
nei quartier generali dei grandi del petrolio, conta assai di più del riscaldamento del
Pianeta.
Infatti, Exxon e Shell, ad esempio, hanno già detto ai loro azionisti che questa storia dei 2
gradi è fin troppo pompata e, comunque, il mondo di petrolio non può fare a meno. E
hanno prodotto i loro numeri. Secondo la Exxon, nel 2040 la domanda di energia sarà
soddisfatta per il 75 per cento da gas, petrolio e carbone, con le rinnovabili confinate al 5
29
per cento. Per la Shell, i combustibili fossili forniranno il 66 per cento dell’energia. Presto,
dunque, bisognerà scegliere fra i numeri di Big Oil e quelli degli scienziati. Ci avviamo ad
uno scontro epocale fra capitalismo ed ecologia. In qualche modo, peraltro, lo scontro è
già in corso. Le grandi compagnie petrolifere hanno avuto l’occasione di salire sul treno
delle rinnovabili, ma se ne sono tenute lontane o l’hanno abbandonato in fretta. Al
contrario, nel mondo, fra il 2000 e il 2008, l’investimento in combustibili fossili, nonostante
le polemiche, è raddoppiato e, nel 2013, ha sfiorato i mille miliardi di dollari. Con risultati,
peraltro, scarsi. Nonostante il boom del fracking e dello shale, i costi sono triplicati, ma la
produzione complessiva è salita solo del 14 per cento. Nella dispe- rata ricerca di riserve
che, forse, domani si riveleranno inutilizzabili, le compagnie accettano di far produrre pozzi
che, per rientrare della spesa, pretendono prezzi del greggio sempre più alti. Ormai, non
meno di 80 dollari a barile di costo alla produzione e, spesso, fino a 120.
Rischia di rivelarsi un vicolo cieco. Nonostante le sanzioni alla Russia e la guerra in Medio
Oriente, per la prima volta da due anni il greggio è stabilmente sotto i 100 dollari a barile.
Ieri, poco sopra quota 90. Colpa della crisi e della recessione, ma non solo. I tecnici della
Iea prevedono che, ancora per qualche anno, la domanda di petrolio continuerà ad
aumentare, ma perderà velocità prima del 2020. Si aspettano una svolta: «La crescita
della domanda — hanno scritto questa estate in un rapporto — può iniziare a rallentare,
per il combinarsi di alti prezzi del greggio, preoccupazioni ambientali e combustibili
alternativi meno cari e più puliti, che risulteranno in una rinuncia al petrolio e in risparmi
complessivi di combustibile». Niente picco della produzione e neanche picco della
domanda di petrolio, precisano prudentemente, ma picco nella crescita della domanda sì.
In termini più espliciti, i grandi del petrolio hanno il fiato corto. Non l’accetteranno con un
sorriso. Ma, per fare un esempio, se il mondo vuole rispettare il limite dei 2 gradi, nei
prossimi cinque anni deve mettere per strada tre milioni di auto elettriche. Nei corridoi dei
ministeri che decidono la politica dell’energia, a cominciare dagli incentivi, la partita sarà
senza esclusione di colpi.
I grandi dell’energia rischiano di vincere qualche battaglia, ma di perdere, alla fine, la
guerra. Perché, se i progressi della tecnologia hanno dato loro il fracking, stanno anche
facendo volare le rinnovabili. Smentendo Exxon e Shell, la Iea calcola che, già fra quattro
anni, le rinnovabili (compreso l’idroelettrico) saranno il 25 per cento della produzione
globale di energia, superando l’ex grande promessa di ieri, il nucleare, ma anche il gas. A
tirare la volata è soprattutto la crescita esponenziale del solare, in particolare quello dei
pannelli che ogni famiglia può mettersi sul tetto. Il costo sta crollando, i risultati sono
sempre migliori. La Iea stima che, nel 2050, il 25 per cento dell’elettricità sarà prodotta dal
sole. Sembra ancora poco? Non per i bilanci aziendali. Spiegano gli esperti di McKinsey
che, in un mercato dell’energia competitivo, in cui i prezzi non si possono manipolare, gli
incassi delle compagnie crescono soprattutto grazie ai nuovi contratti. E, qui, le percentuali
minuscole del solare sul totale dei consumi, diventano, già oggi, impressionanti, anche nel
cuore dell’America ecoscettica: fino al 50 per cento dei nuovi consumi. In posti come
Florida e Colorado, le aziende tradizionali devono prepararsi a perdere il 10 per cento
degli utenti nel giro di pochi anni. Quanto basta per metterle in ginocchio.
del 10/10/14, pag. 25
Alluvione a Genova: un morto
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Le piogge fanno esondare tre torrenti: strade allagate, auto trascinate
dalla piena, quartieri al buio Il corpo di un giovane recuperato a
Brignole. Il Comune: non uscite, rifugiatevi ai piani alti
GIUSEPPE FILETTO
GENOVA .
Ancora acqua e fango. Ancora morti di alluvione. Ancora il torrente Bisagno, “l’acqua che
porta male, che sale dalle scale... altro che benedetta”, come cantava De Andrè. Acqua
che a notte fonda si porta via la vita di un uomo. La valanga di fango squarcia Genova e
l’entroterra. Il Bisagno, dopo una giornata di pioggia, alle 23,16 esonda in prossimità del
ponte di Sant’Agata. Come aveva fatto nel ’70 con 44 morti, come ha rifatto nel ’92, eppoi
ancora nel 2011 il Fereggiano, un suo affluente, con sei vittime. Mettendo sott’acqua
Borgo Incrociati, allagando tutta la zona della stazione Brignole, piazza Verdi, viale Brigate
Partigiane, la Foce e l’area della Fiera.
È il torrente Scrivia, come una bomba, già nel tardo pomeriggio di ieri a rompere gli argini
a Montoggio, nell’entroterra. Trascina auto e quanto incontra davanti. E fino a tarda notte
nella località della Valle Scrivia i sommozzatori dei vigili del fuoco cercano due persone
che sarebbero rimaste intrappolate nelle loro auto. Sono date per disperse e le operazioni
di recupero sono ancora più difficili per il black out elettrico e telefonico. Anche se il
sindaco ed i carabinieri della località della Valle Scrivia dicono che a loro non risultano
esserci dispersi.
Un morto accertato, invece, nel capoluogo. Intorno alla mezzanotte e mezza, dopo una
giornata intensa di pioggia, i vigili del fuoco, tra le auto trascinate dal torrente che è uscito
fuori dagli argini, tirano su il corpo ormai senza vita di un uomo, apparentemente di età
compresa tra i 25 ed i 30 anni. Lo hanno trovato nei pressi di una fermata dell’autobus.
Non è chiaro se sia deceduto per un malore e si sia trovato per strada, oppure se travolto
dalla piena ed annegato nel metro e mezzo di d’acqua che in quel momento aveva
trasformato la zona in un lago. Sarà l’autopsia, disposta dal magistrato di turno, a stabilire
la causa del decesso.
Scantinati, negozi allagati, gente che ha abbandonato i piani bassi e si è rifugiata dai
vicini. Sottopassi trasformati in trappole. Auto come barche. È tornato l’incubo, per l’intera
giornata. Poi il terrore a sera inoltrata. Prima nell’entroterra. E mentre l’intera macchina dei
soccorsi era concentrata a Montoggio, il finimondo si è abbattuto sulla città. Dalle 22 i
nubifragi si sono scaricati sulla Valbisagno, la zona dello stadio. È bastata un’ora e mezza
di pioggia intensa per mandare al tappeto la rete fognaria, che non ha ricevuto più la piena
del Bisagno. La Protezione Civile ha fatto appello ai cittadini che vivono nella parte di
Genova attraversata dal torrente, a non uscire di casa e rifugiarsi ai piani alti. Oggi, con
ogni probabilità, le scuole rimarranno chiuse.
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CULTURA E SCUOLA
del 10/10/14, pag. 3
Novanta città in piazza contro il Jobs Act e la
scuola-impresa di Renzi
Roberto Ciccarelli
Istruzione. Studenti, docenti precari, Cobas e Flc-Cgil, movimenti
sociali: «Tra i due provvedimenti c’è un rapporto speculare:
peggioreranno il precariato». E' la prima manifestazione nazionale e di
massa contro il governo dell'autunno
Saranno novanta le città a scendere in piazza stamattina contro la riforma della scuola
targata Renzi-Giannini. Studenti, docenti precari, sindacati, movimenti sociali impegnati
nella costruzione dello sciopero sociale del 14 novembre, tutti insieme nella prima
manifestazione di massa contro il governo nato da una lotta fraticida dentro il Pd, il partito
al centro di tutte le polemiche dopo la fiducia in bianco alla legge delega sul Jobs Act al
Senato.
Dopo giorni di intensa mobilitazione negli istituti, e di approfondite analisi consultabili
anche in rete, tutte le organizzazioni studentesche hanno compreso il rapporto speculare
tra la «Buona scuola» del ministro dell’Istruzione Giannini e il Jobs Act del ministro del
lavoro Poletti. La «Buona scuola» prevede la gestione manageriale degli istituti, affidata a
un preside plenitopotenziario che dirigerà una struttura gerarchica dove i 148 mila precari
assunti solo dalle graduatorie ad esaurimento verranno gestiti con le modalità del «lavoro
a chiamata» percependo un aumento di stipendio in media ogni sei anni.
Gli «scatti di competenza» riguarderanno solo il 66% dei docenti. Secondo alcune stime
perderanno fino a 75 euro al mese. Gli studenti criticano anche la vocazione
«professionalizzante» del «modello tedesco», quello dell’”alternanza scuola-lavoro”, che il
governo vuole introdurre negli istituti tecnici e professionali a discapito dei saperi critici
capaci di garantire un’autonomia perlomeno di pensiero sul mercato del lavoro.
Il Jobs Act sembra invece raccogliere i frutti di questa semina malefica imponendo a tutti i
neo-assunti il fantomatico «contratto a tutele crescenti». Per gli studenti questa
espressione allude ad una forma di precarietà garantita per almeno tre anni, durante i
quali l’impresa sarà libera di licenziarli in ogni momento. Alle loro analisi non è sfuggita
l’aberrazione di questa visione: tanto più a lungo il soggetto lavorerà, tante più tutele
riceverà in cambio. Ma se potrà essere licenziato su due piedi, in cambio di un’indennità
commisurata al periodo di lavoro, su quali tutele potrà contare?
Forte è il timore di una precarizzazione definitiva. Lo si è notato ieri a Palazzo Chigi dove
la rete degli studenti medi ha fatto un blitz esponendo lo striscione: «Jobs Act non me lo
posso permettere». «Il governo ha approvato una riforma che non sostiene i giovani nel
percorso formativo, ma ne precarizza ulteriormente il lavoro» ha detto Gianluca
Scuccimarra, coordinatore nazionale dell’Udu. «La nostra condizione sociale non può
essere usata come uno slogan mediatico dal Premier» ha aggiunto Alberto Irone,
portavoce della Rete degli studenti medi. «La Buona scuola apre le porte agli interessi e ai
finanziamenti delle imprese – sostiene Danilo Lampis, coordinatore dell’Unione degli
Studenti – valuta e punisce studenti e docenti, assume la competizione e le classifiche
premiali come unico fine». Gli studenti rivendicano una legge sul diritto allo studio,
massicci interventi per il welfare universalistico e il reddito minimo, elementi assenti nel
Jobs Act.
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Al loro fianco oggi ci saranno i coordinamenti dei docenti precari e i Cobas che hanno
dichiarato lo sciopero generale. «Rifiutiamo i grotteschi scatti di merito e chiediamo il
mantenimento di quelli di anzianità» afferma il portavoce Piero Bernocchi. In piazza ci sarà
anche la Flc-Cgil che, tra l’altro, denuncia l’esclusione dalle assunzioni degli abilitati Tfa e
Pas e degli altri precari. A difesa della scuola pubblica, e laica, sfileranno Rifondazione,
l’Arci Gay e il coordinamento «per la scuola della costituzione», una rete associativa che si
oppone al «disegno autoritario» contenuto nella riforma costituzionale, oltre che in quelle
del lavoro e della scuola. La mobilitazione proseguirà in rete. Oggi farà il suo esordio lo
«sciopero digitale». L’hashtag #followthestrike s’intreccierà con #10o, #entrainscena
#nonservi e #lagrandebellezzasiamonoi. #IoNonCiSto è l’hashtag della rete StudAut che
parteciperà allo «sciopero sociale» del 16 ottobre.
del 10/10/14, pag. 1/50
L’Accademia di Svezia premia l’autore francese che racconta la Parigi
occupata e il dopoguerra
Il Nobel a Modiano lo scrittore che cerca un
tempo non suo
BERNARDO VALLI
PATRICK Modiano è uno scrittore della memoria come dicono i giudici del Nobel, ma di
una memoria che non è la sua. Da mezzo secolo si aggira nella sua Parigi alla ricerca di
ricordi che non gli appartengono, servendosi di vecchie fotografie sfuocate, troppo bianche
o troppo nere, di numeri civici in apparenza senza storia, di elenchi del telefono in disuso,
di facce di uomini e donne sospette, di una toponomastica municipale superata, per
tratteggiare più che ricostruire un passato precedente alla sua nascita.
Precedente di poco perché Patrick Modiano è stato concepito nel ‘44, in un appartamento
del numero 15, Quai de Conti, sulla Riva sinistra della Senna. E nel ‘45, quando è nato,
era appena finito il periodo che l’ossessiona ancora a quasi settant’anni, quello
dell’occupazione e del collaborazionismo con gli invasori nazisti. Quel periodo è come un
labirinto di nome Parigi in cui Patrick Modiano si addentra da decenni per afferrare i fili di
esistenze legate alla sua e sempre rimaste nebbiose, ossessionanti perché compromesse
con quella buia epoca della Francia del tradimento: legami di sangue (il padre, la madre)
sofferti, non ammorbiditi dal minimo affetto, soltanto subiti, e non scindibili, perché naturali,
e quindi qualcosa di simile a un’inestinguibile maledizione.
Lo scrittore ha cercato e cerca di estrarre quei legami dall’ambiguità ormai difficile da
scrostare. Una montagna di ossessioni e non «un mucchietto di segreti» come diceva
banalizzando l’esistenza degli uomini in generale André Malraux che fu testimone insieme
a Raymond Queneau alle nozze di Patrick Modiano. Nella prima opera dello scrittore
ventenne, Place de l’Etoile, il guru Malraux, al vertice della fama, disse che «c’era
atmosfera ». Aveva ragione. Quell’atmosfera ha fatto di Patrick Modiano lo scrittore più
amato (e tra i più letti) di Francia.
Con gli anni il giovane allampanato e silenzioso è diventato un signore più loquace. Il suo
balbettio alla televisione, nelle rare apparizioni per presentare lo smilzo libro che dava e dà
ogni anno, puntuale, a Gallimard, suscitava sorrisi e simpatia tra i lettori assiepati davanti
al video. Non aveva nulla dell’intellettuale parigino onnisciente. L’età ha cancellato o
attenuato la timidezza che portava con eleganza. E penso che abbia anche di- radato le
interminabili passeggiate nella città che resta la protagonista dei suoi romanzi. Una città
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un po’ opaca per i misteri che racchiude, angosciata per i drammi irrisolti, ma anche ricca
di curiosità, e per lui oggetto di una doppia passione: sofferenza e attrazione. Penso che
non abbia mai alzato la testa per ammirare la Torre di Montparnasse, solitario e irriverente
grattacielo piantato nella vecchia Parigi, e non si sia molto interessato alla Defense,
scombinata Manhattan sulla Senna, se non per ammirare il Cnit, la bella costruzione di
Bernard Zehrfuss, suo grande amico e padre di sua moglie Dominque.
Patrick Modiano è un ammiratore di Simenon. Si può del resto rintracciare nel suo stile
lineare, semplice e studiato come quello dei grandi scrittori, un richiamo al celebre au- tore
anche di romanzi polizieschi, ma nell’opera di Modiano non ci sono gialli. Ci sono le
atmosfere ma non le trame. Non c’è niente di avventuroso nelle sue storie, che sono
spezzoni di quella grande trama che ha come protagonista un passato che non ha vissuto
ma che lo insegue. Spezzoni spesso incompiuti che ci lasciano in sospeso. In un mondo
che impone una conclusione o un giudizio a ogni avvenimento, anche se è in corso,
Modiano è lo scrittore degli enigmi irrisolvibili. I numerosi lettori francesi non sono
prigionieri di fiction romanzesche, ma dell’atmosfera che scaturisce dalla narrazione.
(Atmosfera che i traduttori dei cinque libri in italiano non sempre hanno saputo ricreare).
«Sono nato da un ebreo e da una fiamminga che si erano conosciuti a Parigi durante
l’occupazione», ha scritto Pa- trick. Ma il padre, Albert Modiano, discendente di una
famiglia di ebrei italiani di Salonicco, trafficava con gli ufficiali tedeschi; e la madre Louisa
Colpeyn lavorava per la Continental Films, fondata dai tedeschi durante l’occupazione. Il
padre frequentava gente che aveva rapporti con quelli della Rue Lauriston, dove si trovava
la Gestapo francese. E la madre recitava e redigeva le didascalie in fiammingo per i film
della Continental. Da bambino Patrick, prima di imparare il francese, parlava la lingua della
madre. Secondo alcuni biografi, nella camera in Quai de Conti dove è cresciuto Patrick
c’erano ancora dei libri di Maurice Sachs. Sachs (1906-1945), amico di Jean Cocteau e di
André Gide, e infine ebreo collaborazionista, contrabbandiere al servizio dei tedeschi,
sbranato dai cani in Pomerania mentre seguiva la sorte dei guardiani nazisti, era uno
scrittore di talento. Il suo Sabbat è un libro che non manca di interesse. Ma l’uomo era
sconcertante. Era un’aberrazione. La sua vicenda, tremenda e inquietante, si intrecciava
con l’ambiente frequentato da Albert Modiano e da Louisa Colpeyn, i genitori di Patrick?
Più che cercare la verità impossibile di quell’intreccio nella collaborazione con i nazisti,
Patrick si interroga, ricostruisce personaggi ai quali cambia nome e lascia nell’ambiguità.
In Pédigrèe esce però dalla vaghezza e parla direttamente della sua famiglia. E spara a
zero. In altri libri la figura di Sachs, assurdo esempio di collaborazionismo, è
probabilmente nascosta sotto qualche pseudonimo. L’opera di Modiano ruota attorno a
quell’epoca, meglio all’atmofera di quell’epoca ormai uscita dalla memoria ed entrata nella
storia. È sempre alla ricerca di quel passato che l’ha preceduto. Tutto questo continua più
di sessant’anni dopo. Ad esempio attraverso una telefonata misteriosa, come in Pour que
tu ne te perdes pas dans le quartier , l’ultimo romanzo. Patrick è la memoria. Lo fu anche
nella veste di sceneggiatore in Lacombe Lucien , il film di Louis Malle in cui si racconta la
storia di un collaborazionista contadino.
del 10/10/14, pag. 9
GLI EDITORI PER LA PARIFICAZIONE
DELL’IVA TRA DIGITALE E CARTA
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In apertura della Fiera Internazionale del Libro di Francoforte, l'Associazione Italiana
Editori (Aie) ha diffuso un comunicato dove il suo presidente, Marco Polillo, ha chiesto la
parificazione dell'Iva sugli ebook a quella dei libri di carta: per l’Aie una questione
fondamentale per il futuro del settore e che dovrà essere affrontata a breve in sede
europea. Per questo, Polillo ha chiesto al Ministro italiano dei Beni e delle Attività culturali
e del Turismo, Dario Franceschini, di continuare a far pressione sull'Europa affinché la
questione sia riformata permettendo agli Stati di attuare politiche differenti in materia di Iva
sugli ebook, perché «continuare a considerare il libro elettronico al pari di un servizio
digitale è una scelta che penalizza la diffusione della cultura e lo sviluppo della lettura».
del 10/10/14, pag. 1/29
La storia
Per la sala sgomberata a Roma si sono mobilitati i migliori registi
italiani Viaggio dentro alla protesta tra rivendicazioni e polemiche. E
demagogia
Nuovo cinema America gli squatter perbene
che sognano di salvare il mondo con i film
FRANCESCO MERLO
ROMA
È L’OSSIMORO dell’eversione benedetta, il cinema America. È un caso di scuola
all’italiana di occupazione per bene, la rivolta di Stato sgombrata dalla polizia ma celebrata
da Giorgio Napolitano in quirinalese: «Non può che considerarsi altamente positivo sotto il
profilo della storia e della cultura cinematografica...». Ma l’occupazione, che cominciò il 13
novembre del 2012 e per il ministro Franceschini è «preservazione del territorio», è stata
anche una lunga violazione del diritto di proprietà del signor Simone Paganini e
dell’ingegnere Victor Raccah che infatti dice: «Ci danno addosso. Qui sono innocenti tutti,
anche quelli che calpestano i diritti fondamentali. Solo noi siamo i banditi perché siamo
proprietari». E però lo Stato che protegge e, attraverso il presidente della Regione
Zingaretti promette «staremo al vostro fianco, non vi abbandoneremo », è anche lo Stato
che reprime. E infatti la Procura ha cacciato con la forza i civilissimi incivili guidati da
Valerio Curcio e Valerio Carocci, 22 anni, più Nouvelle Vague che Racailles de banlieue,
più Truffaut che Lars Von Trier, al punto che persino i post-it di protesta che ieri hanno
invaso Trastevere sono 400, come i colpi: «Sono arrivati alle 6 del mattino, 60 poliziotti in
tenuta antisommossa, 7 camionette. C’ero solo io che dormivo».
Adesso sono asserragliati in un locale adiacente al cinema, un ex panificio che un ragazzo
di Trastevere ha dato loro in comodato d’uso. Sullo sfondo c’è un murales pretenzioso che
non abbellisce, con una grande A che non è Anarchia ma America. I due Valerio e i loro
cinefili non appendono foto del Chiapas e di Che Guevara ma locandine del Marchese del
Grillo e dei Soliti Ignoti. E dove i ragazzi dei centri sociali sporcano, loro puliscono.
Attraverso questi locali abusivi non sono passati i brividi e le vertigini dell’Impero di Toni
Negri ma le partite della Roma e della nazionale, qualche libro d’esibizione, da Gramsci a
Geymonat, niente alla cool, una sala computer, film recuperati, magliette che somigliano a
quelle confindustriali: «Hic sunt leones». Solo il linguaggio di Valerio è social-epico e
allegramente astruso: «Vogliamo diventare protagonisti e non fruitori; difendiamo la
proprietà privata ma anche il progetto di spazio polivalente; offriamo ai giovani un percorso
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alternativo alla movida violenta. Noi non vogliamo tutto, ma vogliamo essere tutto». E però
il Codice non riconosce lo squatter virtuoso, il rammendo fuorilegge nel degrado di
Trastevere che forse piacerebbe a Renzo Piano: «Abbiamo fatto una colletta e siamo
riusciti a mettere a posto il pavimento e il tetto. E adesso abbiamo pure un cordata di
aspiranti compratori guidata dal produttore Carlo Degli Esposti», quello di Montalbano.
E, come sempre, quest’America è anche un caso di evidente demagogia: il cinema
italiano, che fa davvero pochi bei film, si è mobilitato compatto perché vuole nel cuore di
Roma una Ramallah di celluloide, il campo profughi degli sfrattati da Cinecittà, degli
esuberi del Centro sperimentale, dei fantasmi delle 50 sale chiuse a Roma per mancanza
di spettatori. E non solo quelle trasformate o in trasformazione, dal Metropolitan (Benetton)
al Roge et Noir (un bingo) all’Etoile di San Lorenzo in Lucina, piano terra dello storico
palazzo Ruspoli di proprietà della contessa Daniela Memmo. Nel 2012 i francesi di Vuitton
riuscirono, con un accordo con il Campidoglio di Alemanno e un aiuto economico proprio
al Centro sperimentale di cinematografia, a farne il loro più sontuoso negozio d’Europa,
scandalizzando persino Dagospia, ma non i registi, gli attori e i cineasti che oggi
protestano per l’America.
Sono una quarantina i cinema chiusi, in qualche caso da decenni, con il catenaccio: il
Rivoli di via Veneto, il Maestoso sull’Appia, il Volturno, l’Espero, sino all’incredibile Airone
nel quartiere Caffarella, progettato da Libera e dipinto da Capogrossi, di proprietà del
Comune e non di Paganini e Raccah.
Ogni tanto, nell’ombra e nel silenzio della notte romana, in questi cinema arrivano gli
squatter: i pirati della danza, i cinefili erranti, le maestre senza asilo o i semplici homeless,
il cui sgombero, quando «l’aria odora / de matina abbonora» non fa mai notizia, anche se
sono i soli che prendono botte. Massimo Arcangeli, segretario dell’Anica, mi dice disperato
che le sale «hanno bisogno di aiuto e di almeno un poco di quella solidarietà delle
istituzioni che si riversa sugli occupanti dell’America, che sono pure bravi e hanno fatto
tante cose lodevoli, mostre, dibattiti, proiezioni, ma senza rispettare le regole».
Inaspettatamente anche il proprietario dell’immobile tesse le lodi e non solo «alla qualità
del lavoro» ma anche allo «stile moderato» degli squatter: «Ho 58 anni, se ne avessi
trenta di meno sarei sicuramente con loro e tra loro. Anche io sognavo da ragazzo. Ma,
guardi, pure se quel cinema non fosse nostro, ora mi batterei come un leone per difendere
il diritto dei privati. Quello non è uno spazio pubblico. È facile fare i rivoluzionari in casa
d’altri e con i soldi degli altri». L’ingegnere Raccah vuole farne appartamenti, «almeno un
garage se gli scavi non ci porteranno a scoprire preziose antichità», e prevede che «tutto il
piano terra, vale a dire più della metà dell’intera superficie, che è di 1650 metri quadri,
venga adibito a spazi culturali come richiede il Piano Regolatore». Ma il ministro
Franceschini «ha messo i vincoli sugli arredi». Secondo lui «per compiacere gli
occupanti». La battaglia legale dei ricorsi è cominciata, l’America è la palude di ogni
genere di diritto italiano, anche quello storto.
Il solo a non esporsi è il sindaco Ignazio Marino che dialoga con i proprietari ma non
risponde alle ‘lettere aperte’ portate al Campidoglio in bicicletta: «Spero che dia un cenno
di vita» ha detto Ettore Scola. Come al solito Marino sbaglia la misura: stracanta e stecca
all’Opera e fa cinema muto all’America, dove tutto è fuori misura, spettacolo da grande
schermo. Paolo Sorrentino minaccia di restituire la cittadinanza onoraria. E Salvatores, per
non essere da meno, di restituire l’Oscar, che ovviamente non c’entra nulla, ma al cinema
è un effetto speciale. E si sentono offesi Rosi, Verdone, Montaldo, Virzì. E poi Bertolucci,
Servillo, Garrone, Alessandro Gassman, Gregoretti e, scendendo e allargando, si arriva
agli eterni precari e alle comparse, agli occupanti di professione, ai sodali dell’orchestra
dell’Opera e degli sgombrati del Valle, i facili bersagli del renzismo di risulta, i parenti
dell’orso in rottamazione, i tagli della pellicola. E ci sono pure quelli che fanno la smorfia a
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Gian Maria Volonté e Carla Gravina, come Elio Germano, il Leopardi con il pugno chiuso,
o Sabina Guzzanti, che ieri ha twittato così: «Solidarietà a Riina e Bagarella privati di un
loro diritto. I traditori delle istituzioni ci fanno più schifo dei mafiosi». Insomma ci sono i
lavoratori dello spettacolo che in sindacalese da bacheca vogliono (copio testualmente)
«rilanciare la battaglia per conquistare un’acquisizione pubblica e partecipata e ripristinare
e rendere permanente la fruizione, la condivisione e la diffusione della cultura libera e
accessibile a tutti». Chiedo ad alcuni antagonisti, di quelli che preferiscono i centro sociali
Acrobax e Forte Prenestina e sfilano con lo slogan «Renzi schiavista / sei il primo della
lista». Mi dicono che «quelli dell’America hanno ragione anche se sono ragazzi ben nati,
figli di gente di cinema». Lo racconto a Valerio che si mette a ridere e giura che «nessuno
tra noi ha parenti che lavorano nel cinema, e semo tutti poveracci». Cos’è, indivia? «Si,
invidia di estrema sinistra».
del 10/10/14, pag. 15
Il fantasma dell’Opera: “Come hanno buttato i
soldi?”
UN ORCHESTRALE: “FUORTES PARLÒ DI BILANCI A POSTO, DOPO
TRE MESI AVEVA CAMBIATO IDEA. TROPPO FACILE SCARICARE LA
COLPA SU DI NOI”
di Emiliano Liuzzi
Valerio Lo Monaco
L’epilogo è stato quello di licenziare gli orchestrali e il corpo di ballo. Ma in mezzo c'è un
capitolo che nessuno è riuscito ancora a scrivere e riguarda i 30 milioni di euro che l’Opera
di Roma deve pagare, un debito che nessuno sostiene di aver fatto. Il gioco –non lo
inventano a teatro, ne è stracolma la storia – è quello di dare la colpa ai predecessori. Gli
unici che fino a oggi quel debito l’hanno saldato sono gli artisti, colpevoli di essere tali. La
fantasia, col passare dei giorni, si è evoluta, ha preso forme strane sotto la forma di casta,
indennità riconosciuta per l’umidità, abiti pagati. La realtà è che un musicista con vent’anni
di anzianità, un merito artistico riconosciuto, può guadagnare fino a 2.100 euro.
Domeniche e indennità comprese. Né un euro più né meno. “Hanno scaricato la colpa su
di noi”, spiega Antonio Pellegrino, violoncellista licenziato dell’Opera. “Questo era
l'obiettivo e fino a oggi ci sono riusciti. Le cose sono andate in maniera diversa. Iniziamo
da otto mesi fa, quando il soprintendente Carlo Fuortes si presenta. E lui, le sue parole,
ma anche i documenti scritti, ci dicono quello che noi sapevamo: bilanci in pareggio, una
star universalmente riconosciuta come il maestro Riccardo Muti, un avvenire davanti agli
occhi”.
I MUSICISTI prendono atto. Ma con enorme diffidenza: “Il nostro male sono i politici, ogni
volta che ci sono stati ribaltoni noi siamo stati sommersi, fino al licenziamento. Ma
andiamo avanti. Tre mesi dopo, Fuortes ha già cambiato idea: all'improvviso siamo
diventati lavativi, privilegiati, poco inclini al sacrificio. E soprattutto ci presenta un vecchio
debito, 12 milioni di euro, che diventeranno 20, poi 50 e poi stabilizzato sui 30. Che ci
dicessero come e perché sono stati spesi questi soldi. Non sono finiti nella mia busta
paga, questa è l’unica affermazione certa”. Trenta milioni. Un buco che non si matura in un
giorno. Ma soprattutto che non si nasconde così, con estrema facilità. Eppure è accaduto.
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Come è accaduto che tutti siano stati licenziati con una promessa farlocca di essere
riassunti con un contratto di collaborazione, nell’eventualità formassero una cooperativa.
“Sono parole, promesse. Non c’è niente che sia credibile”, dice ancora Pellegrino. “Credo
che una cosa emerga e sia evidente a tutti: sono stati licenziati orchestrali e coristi. Sono
rimasti dipendenti quindici ballerini e 242 impiegati. Saranno loro a mettere in scena un
qualsiasi spettacolo? Oppure l’azienda è semplicemente nella direzione di una
bancarotta? Io credo molto di più a questa seconda ipotesi. Nessun teatro si priverebbe
degli artisti e manterrebbe gli impiegati. Come viene risanato il buco, con i direttori a libro
paga, gli addetti stampa, i capi del personale senza un personale? Andiamo avanti, oggi è
toccato a noi, domani toccherà al resto. Potranno dire che l'Opera non esiste più. La
prossima bugia sarà quella di convincere il pubblico che prima o poi riapriranno”.
Premessa: le persone di cui parliamo sono professionisti. Hanno iniziato a rimettersi in
auto, girare l’Italia, accettare incarichi di minor prestigio. Ma ovviamente riescono a
lavorare. C’è chi ha studiato quarant’anni, quello riesce a fare nella vita e non altro: “Siamo
stati licenziati perché scioperavamo, siamo stati il laboratorio dell’articolo 18”, chiude
Pellegrino. “Il resto è fare il conto col nostro futuro. La fabbrica nella quale lavoravamo non
esiste più. Guardiamo avanti. Mi piacerebbe che un giorno il maestro Muti spiegasse
perché ha lasciato. Credo che la versione che danno il sindaco Ignazio Marino, il ministro
Dario Franceschini, che ancora non abbiamo visto né sentito, e il sovrintendente Fuortes,
offerta sul piatto alla stampa compiacente, non corrisponda al vero. Muti se n'è andato
senza nessuna polemica con l’orchestra che lui aveva cresciuto, scelto, aveva partecipato
in prima persona alle audizioni per i nuovi assunti, ci aveva portato in giro per il mondo in
tour, non credo sia andato via in polemica con quelli che eseguivano le sue opere. Forse
ha lasciato per altri motivi. Che Marino e Fuortes conoscono, noi ancora no”.
INTANTO il sindacato dei musicisti “Unione artisti – Unams” ha depositato ieri, al Tribunale
di Roma, un ricorso contro il Teatro dell’Opera chiedendo l’immediata revoca della
delibera adottata il 2 ottobre, giudicata senza se o ma, illegale. A giudizio di Dora Liguori,
segretario generale dell’Unams, “la vicenda dell’Opera di Roma s’inseri - sce in un
contesto di smantellamento delle istituzioni musicali nel nostro Paese che calpesta i diritti
dei lavoratori e le prerogative sindacali e mostra l’intento di perseguire modelli gestionali
che, di fatto, ledono il nome e la dignità dei musicisti italiani nel mondo”.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 10/10/14, pag. 3
USTICA: 5 MILIONI E MEZZO AI FAMILIARI
Un altro giudice palermitano, Sebastiana Ciardo, condanna i ministeri dei Trasporti e della
Difesa per la strage di Ustica, 81 persone morte, e sentenzia che lo Stato dovrà risarcire
con 5 milioni 437.199 euro i 14 familiari, o eredi. di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel,
Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi. Il
giudice monocratico fa proprie le considerazioni dei magistrati – e della Cassazione – che
hanno deciso prima di lei sulle cause proposte da altri parenti di vittime e ribadisce che
”solo con la conclusione delle indagini penali e dopo l’individuazione delle possibili cause
del disastro è stato possibile enucleare una condotta illecita riferibile alle amministrazioni
dello Stato le quali, avendo avuto conoscenza che lo spazio aereo percorso dal Dc9 era
interessato da operazioni militari, avrebbero dovuto vigilare e indicare altra rotta idonea da
seguire e, in ogni caso, porre in essere ogni utile accorgimento e condotta necessaria a
scongiurare la collisione”.
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ECONOMIA E LAVORO
del 10/10/14, pag. 1/3
Controllo operaio
Tommaso Di Francesco
25 ottobre
«Questo Parlamento non serve a niente, siamo pronti ad occupare le fabbriche»: Maurizio
Landini non poteva essere più esplicito e «storico», anche nel riferimento alle occupazioni
di fabbriche che hanno contrassegnato nel secolo breve la storia del movimento operaio,
non solo italiano. Qualcuno ci ha letto una sorta di candidatura «politica», altri l’hanno vista
come «narrazione» agli iscritti sindacali, la Confindustria l’ha giudicata come una
minaccia.
Ma le parole del segretario della Fiom non sono una suggestione, corrispondono in pieno
alla precipitosa crisi italiana finita nelle mani, improprie, dell’apprendista stregone Matteo
Renzi. Siamo infatti con la fiducia sul cosiddetto Jobs Act, all’ennesima riduzione degli
spazi di democrazia, dopo la cancellazione dell’elezione diretta del Senato e l’accumulo di
decretazione come mai prima nessun governo della Repubblica. Ma se sui temi del lavoro
si cancellano le difese degli stessi lavoratori, è legittimo o no che si alzi la loro voce e di
chi legittimamente li rappresenta?
Rendendo così evidente che ormai la questione non è più solo sindacale, ma politica
perché chiama in causa contenuti di rappresentanza e di potere. Nella convinzione che la
mancanza di lavoro e di investimenti, non sia dovuta al peso delle tutele fin qui
faticosamente conquistate dai lavoratori con straordinarie stagioni di lotta che si vogliono
azzerare, e che non dipende dalla mancata riforma del mercato lavoro tanto cara alla
fallimentare destra neoliberista. Ma al contrario proprio dalla mancata riforma del mercato
dei capitali. Vale a dire dal fatto macroscopico, che questo governo misconosce, che la
crisi finanziaria del capitalismo ha devastato risorse e umanità. E che ora, come assai
timidamente avviene negli Stati uniti per effetto della possibilità di soccorrere con la
moneta domanda e investimenti, è necessario un ruolo di controllo e imprenditorialità del
governo e dello Stato.
Mentre in Italia e in Europa, irresponsabilmente, invece si avvia l’itinerario opposto delle
privatizzazioni, smantellando aziende tutt’altro che in rosso e con capacità di guida e
indirizzo dell’intera economia italiana e continentale, privata, pubblica e cooperativa.
Ora — ed è la riflessione che come manifesto vogliamo rilanciare, anche perché è parte
della nostra cultura fondativa — le parole di Maurizio Landini chiamano insieme ad una
grande manifestazione il 25 ottobre ma anche ad attivare un movimento sul controllo da
parte dei lavoratori dei processi della crisi in atto, a partire dalle crisi aziendali. Convinti
che dalla crisi si esce con più democrazia non con meno, come vogliono Matteo Renzi e il
nuovo Pd. Se tra le pieghe del Jobs Act compariva a gennaio una specie di fantasma di
cogestione — tutti uniti tutti insieme, il lavoro subalterno che subisce il disastro
dell’impresa capitalistica e il padrone protagonista del crollo — la crisi in corso pone
all’o.d.g. ancora una volta il ruolo centrale dei lavoratori.
Si dirà: ma se le fabbriche non ci sono più? Non è proprio vero, ma quando tragicamente
lo è, proviamo a capovolgere lo sguardo: non ci troviamo forse da anni di fronte a drappelli
di lavoratori protestatari che insistono a trovare un padrone che ripristini mercato e
sfruttamento? Oppure, all’opposto, a fabbriche dismesse, considerate inadeguate o
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obsolete, occupate e riattivate dagli stessi lavoratori? E ancora ai «nuovi lavori» precari o
ai senza lavoro spesso in conflitto sordo con chi il lavoro ancora ce l’ha, ma sempre più
incerto? Trasformiamo questa protesta che rischia di apparire come routinaria in un
presidio di fronte al fantasma del ruolo del «capitalista». «Siamo pronti ad occupare le
fabbriche» chiama a ruolo perfino la funzione del governo Renzi che, con l’austerity Ue,
adesso siamo costretti a subire in una convivenza forzosa.
Se come scriveva Luigi Pintor «la sinistra come l’abbiamo conosciuta non esiste più», le
parole di Landini rinominano la speranza.
del 10/10/14, pag. 3
La Cgil alla sfida finale
Antonio Sciotto
Jobs Act. Scioperi e proteste in tutta Italia, ma non sarà facile sfondare
il muro mediatico di Renzi. Landini vuole occupare le fabbriche. Miceli
(chimici e tessili Filctem): «Bisogna concentrarsi piuttosto sulla
piazza». Oggi il premier sarà a Bologna e la Fiom annuncia
contestazioni
La macchina della mobilitazione è partita, per culminare nella manifestazione Cgil del 25
ottobre: e nel frattempo fermate spontanee, scioperi – anche improvvisati. In alcuni casi,
stando agli annunci della Fiom, addirittura l’occupazione delle fabbriche. Ma non è certo
che tutto questo riuscirà a cambiare l’onda del Paese, ancora incantato da Matteo Renzi: il
premier, dopo la fiducia approvata la scorsa notte al Senato, è intenzionato ad andare
avanti. E dal canto suo il sindacato vuole giocarsi il tutto per tutto.
Martedì scorso, dopo l’incontro in Sala verde andato sostanzialmente male, la Cgil aveva
diffuso una nota in cui si invitavano i lavoratori alla protesta, anche autorganizzata e
spontanea: «A fronte della fiducia da parte del governo è necessaria un’immediata e forte
risposta dai luoghi di lavoro, attraverso ordini del giorno, fermate e scioperi aziendali con
assemblee». Maurizio Landini, dal canto suo, il giorno prima aveva minacciato la
possibilità di «occupare le fabbriche». Dopo il voto di fiducia la tensione è salita, e si
prevede un’accelerazione delle proteste, in tutta Italia.
Ieri una nuova dura nota del sindacato: «Con la richiesta della fiducia sul Jobs Act – dice
la Cgil – il governo, dopo aver negato il confronto con la rappresentanza del lavoro, ha
compiuto una palese forzatura che ha compresso il dibattito parlamentare, ha posto le basi
per un’ulteriore precarizzazione dei giovani lavoratori, ha tolto diritti invece di estenderli, ha
accentuato una logica di subordinazione del lavoro nei confronti dell’impresa, ha aperto
spazi all’arbitrio e al sopruso». La delega viene definita «lacunosa, ambigua, indefinita e,
in molte parti, sfuggente nei criteri».
Oggi le proteste si concentreranno in Emilia Romagna, perché è attesa una visita di Renzi:
il premier inaugurerà a Crespellano, in provincia di Bologna, il nuovo stabilimento della
Philip Morris. La Cgil ha già organizzato uno sciopero generale di 8 ore, previsto il 16
ottobre, ma il segretario Vincenzo Colla nega che sia stata organizzata una contestazione
per questa mattina nel bolognese: «Noi non abbiamo organizzato nulla, poi ovviamente
quando si muove il premier le contestazioni si muovono».
Più esplicita la Fiom, che invece annuncia contestazioni al premier, unitamente a quelle
che verranno dalla Lista l’Altra Emilia Romagna. Ma le notizie di mobilitazione vengono
anche da altre categorie: la Filctem ad esempio fa sapere che nel lucchese si fermeranno
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la Servizi Ospedalieri e la Scott Italvetro, e analogamente due impianti a Vicenza. Ma sono
solo esempi, perché gli scioperi – a macchia – stanno dilagando.
Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil – 230 mila iscritti, in rappresentanza di
un settore che tra chimici, elettrici e tessili conta un milione di persone – spiega che «la
categoria è impegnata in scioperi e assemblee, perché la battaglia è appena iniziata».
Miceli non sembra sostenere la linea delle occupazioni di Landini, ma si rende conto che
la sfida con il premier necessita di un impegno senza precedenti: «L’occupazione è
certamente un atto eroico, ma rischia di farti rimanere chiuso nella fabbrica: mentre al
contrario adesso devi parlare al Paese. Perché Renzi ha la tv dalla sua, può parlare a
milioni di persone contemporaneamente. E allora dobbiamo farlo anche noi, ma faccia a
faccia, nelle assemblee. L’essenziale adesso è informare, spiegare quello che c’è nel Jobs
Act: non solo il licenziamento libero, ma anche il demansionamento, e la messa in
discussione del contratto nazionale. Poi dobbiamo cercare di migliorare il testo alla
Camera. Ricordiamoci che in mezzo ai prossimi passaggi parlamentari c’è la grande
manifestazione di San Giovanni».
La Filctem d’altronde, insieme alle categorie “sorelle” di Cisl e Uil – Flaei Cisl e Uilctem –
ha firmato un documento unitario contro l’abolizione dell’articolo 18, ma per il momento
non è riuscita a convincere le colleghe a farle compagnia nelle proteste. Come per ora Fim
e Uilm non seguono la Fiom, e analogamente Cisl e Uil con la Cgil. Anche se Susanna
Camusso ieri ha voluto lasciare una porta aperta, e a chi le chiedeva se altre sigle si
uniranno al 25 ottobre, ha risposto: «Il tempo è con noi».
del 10/10/14, pag. 1/2
L’interesse generale
Alessandro Portelli
Che cosa hanno in comune un’orchestra e un coro operistici e una fabbrica
metalmeccanica? Sono culture, storie, etiche del lavoro molto diverse; ma sono entrambi
oggetto di un licenziamento di massa in forme fino a poco tempo fa inimmaginabili. Con
tutte le differenze, sono diventati il banco di prova di una politica che vede nel diritto di
licenziare i lavoratori a piacimento l’asse di una brutale restaurazione classista che
trasforma la «repubblica democratica fondata sul lavoro» in un’entità fondata sulla
negazione del lavoro e dei suoi diritti.
Dieci anni fa la ThyssenKrupp, multinazionale proprietaria delle storiche acciaierie di Terni,
annunciò la chiusura del magnetico, il reparto fiore all’occhiello della fabbrica e della sua
cultura. Formalmente, si trattava solo di un reparto — che comunque era già una ferita
grave, con 900 posti di lavori persi.
Ma gli operai lo percepirono come l’inizio di uno smantellamente più radicale, della fine
dopo 120 anni del polo siderurgico ternano. E avevano ragione.
Da tempo, le forze politiche, sinistra compresa, parlavano della necessità di «emancipare»
la città dall’acciaieria (e dalla classe operaia). Ma l’aggressione della multinazionale toccò
un nervo – echi della rivolta contro i licenziamenti di massa nel 1952–53, memorie familiari
di generazioni che all’acciaieria avevano buttato sangue, sudore, e sapere operaio. Gli
operai della AST di allora erano giovani, ma avevano ereditato quella memoria e quella
coscienza. Sapevano che la fabbrica non era della ThyssenKrupp, ma loro e della loro
città.
L’unità tra operai e città riuscì a sventare la chiusura del magnetico. Ma un anno dopo la
multinazionale tornò alla carica. Gli operai erano ancora compatti ma la città intorno a loro
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cominciava a essere stanca, e la vicenda si chiuse con un compromesso che conteneva i
semi del dramma di oggi: una multinazionale che di questa fabbrica non sa che farsene e
presenta proposte provocatorie, un governo subalterno che balbetta e non fa niente, e una
classe operaia che diventa ancora una volta la portatrice dell’interesse generale.
Certo, sono in gioco in primo luogo centinaia di posti di lavoro, di persone e di famiglie,
una fabbrica, una città, una regione. Ma è anche in gioco la visione di un’Italia che non
sembra più avere la capacità, il desiderio e il diritto di avere una politica industriale. E
ancora: una fabbrica come questa è anche un bene culturale, una memoria, un’etica, un
sapere, un senso di orgoglio e dignità di cui il nostro paese avrebbe disperato bisogno e
che invece (come la maggior parte dei beni culturali) vengono rottamati e buttati al macero
in nome di un «nuovo» che è vecchio di secoli.
Una giovane filmmaker ternana, Greca Campus – figlia e nipote di operai, naturalmente —
mi raccontava di un progetto a cui sta lavorando, un’esplorazione sulla molteplice identità
della nuova classe operaia ternana. Tre vite di lavoratori assai diversi: uno impegnato
sindacalmente, un altro che fa l’operaio per mantenersi ma si considera musicista, e un
immigrato albanese. Oggi sono tutti e tre a rischio: l’aggressione della multinazionale
ricompatta e riunifica (sia la Cgil sia Cisl e la Uil respingono il cosiddetto piano i industriale
dei padroni). Se davvero a Terni si arriverà, come dice Landini, a forme di lotta radicale
come l’occupazione della fabbrica, dovremo sapere he la loro unità ci rappresenta tutti.
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