II domenica di Avvento B Is 40,1-5.9-11; Sal 85; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8 Prima Lettura Is 40, 1-5.9-11 Dal libro del profeta Isaia «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». Seconda Lettura 2 Pt 3, 8-14 Aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova. Dalla seconda lettera di san Pietro apostolo Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta. Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia. Vangelo Mc 1, 1-8 Raddrizzate le vie del Signore. Dal vangelo secondo Marco Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». 1 La prima lettura (Is 40,1-5.9-11) riprende il prologo del Secondo Isaia, detto anche Isaia «babilonese», (yüša| yüša|`yäºhû, «salvezza di Yah», cc. 40-55, VI sec. a.C.), definito sëºper wütaºHánûnîºm «libro della consolazione». La grande profezia del ritorno dall'esilio (gälût gälût) gälût inizia con un oracolo introduttivo che tocca alcuni temi principali e giustifica l'intera profezia come «parola» di Dio. Essa si presenta come un messaggio repentino e gioioso che gli evangelisti attribuiranno alla predicazione del Battista. Tutto il poema del Secondo Isaia è concepito come un viaggio che ha come destinazione Gerusalemme (40,9) e come punto di partenza Babilonia (55,12): inversione paradossale, dove la speranza precede audacemente i fatti. Is 40,1: «Consolate, consolate il mio popolo - dice il vostro Dio (naHámû naHámû `ammî yö´mar ´élöhêkem, lett. «Consolate, consolate popolo mio, dice Dio vostro»). L'oracolo di Dio, affidato a un gruppo di profeti nelle cui file è attivo anche il Secondo Isaia (cf Am 3,7), si esprime con parole vibranti e amorose. La figura di Gerusalemme come sposa del Signore attraversa tutta la profezia del Secondo Isaia, emergendo in diversi momenti (49; 51-52; 54). - consolate, consolate (naHámû naHámû naHámû). naHámû Questo duplice imperativo è il primo di molti (51,9.17; 52,1; 57,14). Un tono di pietà unito a uno stile solenne aiutano a cogliere la bellezza e la profondità dell'annuncio. naHámû naHámû `ammî, «Consolate, consolate il mio popolo»: questo è il péshat, cioè il senso letterale del testo. «Consolatemi, consolatemi, o mio popolo»: questo è il dérash, cioè la lettura del midrash. La prima «voce» (vv. 1-2) interpella altre voci, e le invita a «consolare, consolare», forma raddoppiata che ha un valore intensivo. La consolazione è un'operazione complessa, che richiede il concorso di molte forze buone, prima nei cieli e poi sulla terra. Questo intervento interessa Israele in quanto è di nuovo l' `ammî «il mio popolo», il popolo di Dio. Questo crea un voluto contrasto con la vocazione del Primo Isaia: lëk wü´ämarTä lä`äm hazzè, «Va' e riferisci a questo popolo» (Is 6,9). Il Primo Isaia riceve la missione di annunciare un castigo al suo popolo. Ora la consolazione ripara questa condanna ed è già un primo rimando che collega Is 40 con Is 6. Questo primo versetto è considerato da alcuni il cuore della Bibbia. La neHám neHáma Háma, la «consolazione», è presentata dal Deuteroisaia come la chiave di lettura privilegiata dell’azione di Dio nei confronti del suo popolo, spesso provato dalla desolazione. Il Deuteroisaia (cc. 40-55), insieme ai Salmi, costituisce il ‘breviario’ quotidiano nel quale Gesù legge tutta la propria missione di Servo di Dio che obbedisce e annuncia. 40,2: Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati» (DaBBürû `al-lëb yürû|šälaºim wüqir´û ´ëlʺhä Kî mä|l´â cübä´äh Kî nircâ `áwönäh Kî läqHâ miyyad yhwh(´ädönäy) Kiplaºyim Bükol-Ha††ö´tʺhä, lett. «Parlate a cuore Gerusalemme e gridate a essa che finì servitù di essa, che fu gradita (l'espiazione della) colpa di essa, poiché prese da mano di Adonay doppio (castigo) per tutti peccati di essa»). - Parlate al cuore (DaBBürû DaBBürû `al`al-lëb). lëb Altra traduzione possibile: «parlate teneramente». Tutte le antiche versioni hanno la forma plurale dei verbi, ma la LXX aggiunge: ἱερεῖς, «o sacerdoti» e il Targum: «O voi profeti, profetate consolazione». Una costante tradizione biblica, però, allude a esseri celesti che ascoltano e approvano le decisioni divine. Pertanto la terra riflette le decisioni celesti (1Re 22,19-23; Sal 6; Gb 1-2; Dn 7,9; Ap 4,1-11). Le parole, profondamente sentite e dette con calore, come le parole di un innamorato alla donna amata (cf Gen 34,3; 50,21; Rt 2,13), rappresentano una delle molte espressioni delicate che caratterizzano l'amore divino. Anche se Gerusalemme è ridotta a un cumulo di rovine (49,17; 51,17 ss.) e con difficoltà recepisce le parole divine, Dio si riferisce a essa come se fosse una città ideale legata personalmente a lui come una Sposa bellissima (cf Sal 45; 47; 75; 86). - la sua tribolazione è compiuta (mä| mä|l´â cübä´äh, cübä´äh lett. «è finita la sua cübä = servizio militare coatto, servitù»). Il soggiorno in Babilonia viene paragonato alla schiavitù in Egitto e considerato come una punizione per i peccati commessi. In che cosa consiste la consolazione o questo «parlare al cuore di Gerusalemme»? La voce annuncia che mä|l´â cübä´äh «è compiuto il suo servizio» (cübä cübä «servizio» ancora oggi indica il servizio militare). Come dire: la guerra è finita, la missione è compiuta, adesso Israele può ritornare a casa. Ma la cübä è molto simile a un servizio liturgico (cf Nm 4,3, la legge sui leviti, che entrano in servizio a trent'anni come i militari). Infatti, si precisa che Gerusalemme ha scontato la sua iniquità. L'Israele esiliato ha compiuto un servizio che ha un valore liturgico, di espiazione dei peccati. Il termine ebraico `áwönäh «iniquità» può significare tanto il peccato quanto la punizione, sicché la frase potrebbe anche tradursi: «è stata gradita (da Dio) la sua punizione». A condizione, naturalmente, che questa punizione sia giusta, proporzionata. E invece veniamo a sapere che si è trattato del «doppio» (almeno secondo l'interpretazione più comune: un «doppio castigo»). Questa interpretazione non è del tutto inverosimile. Anche Geremia dice: «Ripagherò due volte la loro iniquità e i loro peccati» (Ger 16,18). 2 - perché ha ricevuto … il doppio per tutti i suoi peccati (Kî Kî läqHâ … Kiplaºyim BükolBükol-Ha††ö´tʺhä, ä lett. «perché prese … doppio per tutti peccati di essa»). Questa affermazione non segnala tanto un eccesso di collera divina, quanto la fine del dolore purificatore. Racconta il midrash: «Dieci parti di bellezza sono state concesse al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci parti di sapienza sono state concesse al mondo, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci parti di sofferenza sono state concesse al mondo, e Gerusalemme ne ha ricevute nove» (bQiddushin 49b). Con l'esilio è giunta l'alba di una nuova era, inaugurata dalla Parola di Dio che consola. La consolazione consiste nella fine del vassallaggio vissuto da Israele a Babilonia. A causa dell'arroganza del nemico, il popolo ha sofferto più del dovuto, ma tale sofferenza non resterà senza ricompensa. La Parola che apre questo canto rimanda a una fede vissuta personalmente nell'intimo del cuore. Il profeta ha poco o nulla da dire sui riti dei sacrifici offerti al Tempio e deliberatamente evita ogni frase liturgica. Tuttavia il commentatore ebreo più autorevole gli dà un senso completamente opposto. Scrive Rashì (Rabbi Shlomo Yitzchaqi 1040 - 1105): «L'accoglienza del calice delle consolazioni da parte del Signore è come prendere due contro uno per tutti i debiti». Il linguaggio è conciso, ma non oscuro. Quando Dio consola, dà il doppio di quanto ha chiesto prima, castigando. Nei termini di Rashì, che sono biblici: due calici di consolazione contro uno solo di amarezza. Perciò «ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati» non vuol dire un doppio castigo, ma una doppia consolazione. Anche più avanti, quando si dirà: «Invece dell'obbrobrio riceveranno il doppio» (Is 61,7) non si intende la punizione, ma la salvezza. 40,3: Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio (qôl qôrë´ BammidBär Pannû Deºrek yhwh(´ädönäy) yaššürû Bä`áräbâ müsillâ lë´löhêºnû, lett. «Voce gridante nel deserto: «Preparate via Signore, fate dritta nella steppa strada per Dio nostro»). La prima strofa (vv. 3-5) combina l'antica tradizione biblica dell'esodo dall'Egitto con lo scenario di Babilonia. Le imponenti processioni religiose babilonesi con statue degli dei, accompagnate da musiche e canti, si muovevano attraverso la pittoresca porta di Ishtar, dietro i meravigliosi giardini pensili del palazzo reale, fino al sagrato del tempio. Queste spettacolari celebrazioni costituivano una grande insidia per gli Ebrei. Ištar era, nella mitologia mesopotamica, la dea dell'amore e della guerra, derivata dall'omologa dea sumera Inanna. A lei era dedicata una delle otto porte di Babilonia. Essa aveva contemporaneamente l'aspetto di dea benefica (amore, pietà, vegetazione, maternità) e di demone terrificante (guerra e tempeste). I principali centri del suo culto erano Uruk, Assur, Babilonia, Ninive. Il rientro degli esuli è descritto come una di queste processioni babilonesi. - una voce grida (qôl qôl qôrë´). qôrë´ Qualcuno annuncia dal cielo (il participio qôrë´ significa «gridante») che il Signore stesso sta per guidare un nuovo esodo da Babilonia alla Palestina. Ancora una volta i termini sono più teologici che geografici. - Nel deserto preparate la via al Signore (BammidBär BammidBär Pannû Deºrek yhwh(´ädönäy). yhwh(´ädönäy). L'espressione Pannû Deºrek «preparate una strada» si trova tre sole volte nella Bibbia e tutte nella seconda metà di Isaia: 40,3; 57,14; 62,10. Essa rimanda a 35,8: wühäyâwühäyâ-šäm maslûl wädeºrek, Mello: «Là sarà appianata una strada»; CEI: «Ci sarà un sentiero e una strada». Infatti, in tutti i passi citati, «preparate una strada» si accompagna al verbo «appianare» o a un suo derivato «sentiero», proprio come in 35,8. Rispetto all'ebraico: qôl qôrë´ BammidBär Pannû «una voce grida: nel deserto preparate», LXX, Vg e NT dividono la frase diversamente: «una voce grida nel deserto: preparate». Il profeta introduce qui una delle più ricche espressioni della Bibbia. La «Via» è un modo di vivere per gli uomini (Gen 6,12; Is 55,7) e per Dio (Dt 32,4; Ez 18,25); ci possono essere due vie, quella del bene: yetzer hatov e quella del male: yetzer harà (cf Sal 1,6; Ger 21,8; Mt 7,13-14). I manoscritti del Mar Morto riconoscono l'adempimento di Is 40,3 nel ritiro della comunità nel deserto e nel suo «studio della Torà che Egli comandò mediante Mosè». La seconda «voce» (vv. 3-5) è diventata la «voce che grida nel deserto». Giovanni Battista, e gli asceti di Qumran prima di lui, hanno dato un'interpretazione spirituale di questo appello a preparare, nel deserto, la venuta del Signore. Ma gli esseri celesti del Secondo Isaia forse avevano in mente una cosa più concreta: preparare la «via regia», quella che avrebbe dovuto prendere la gloria di Dio per ritornare in Ziòn. In questo modo, il nostro profeta si ricollega alla profezia di Ezechiele, che aveva previsto l'abbandono del tempio da parte della Gloria, e il suo rifugio provvisorio presso gli esiliati. La gloria di Dio che è andata in esilio ora può ritornare proprio perché riconduce gli esiliati. 3 40,4: Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata (Kol-GÊ´ yinnäSë´ wükol-har wügib`â yišPäºlû wühäyâ he|`äqöb lümîšôr wühärükäsîm lübiq`â, lett. «Ogni valle sia sollevata e ogni monte e collina si abbasseranno, e diventerà il (luogo) storto dritto e scoscesi pianura»). - Ogni valle sia innalzata (Kol KolKol-GÊ´ yinnäSë´). yinnäSë´ Riconosciamo qui il messaggio ripreso con efficacia dal Sal 131. Il credente può unificare la sua vita tramite un cammino "umile" e non altezzoso (colline, montagne, cose grandi). Negando di paragonarsi con le niplä´ôt, «le opere grandi» (Sal 131,1) che solo Dio può compiere, senza pretendere di capire tutto o di mettersi al posto di Dio (cf Ez 28,2.17; 2Cr 26,16; 32,25s; Pr 16,5), l'orante si ritrova al proprio posto, tranquillo e in silenzio (cf Sal 37,7; 62,6; 65,2) in un completo abbandono fiducioso Kügämùl `álê ´immô KaGGämùl `älay napšî, lett. «come svezzato sulla sua madre, come svezzato è la mia anima»; CEI: «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l'anima mia» (Sal 131,2). 40,5: Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato» (wüniglâ Kübôd yhwh(´ädönäy) würä´û kol-BäSär yaHDäw Kî Pî yhwh(´ädönäy) DiBBër, lett. «E si scoprirà la gloria del Signore e vedranno ogni carne insieme poiché bocca del Signore parlò»). - Allora si rivelerà la gloria del Signore (wüniglâ wüniglâ Kübôd yhwh(´ädönäy). yhwh(´ädönäy) È difficile evitare la considerazione che «rivelarsi» ed «essere esiliato», in ebraico, si dicono con lo stesso verbo nifàl (riflessivo) di galâ. lâ L'idea di questa radice è «scoprirsi, denudarsi»: siccome i deportati venivano denudati, lo stesso verbo è venuto a significare anche «andare in esilio». Quindi, invece di «si rivelerà», si può anche leggere che la gloria di Dio «si scoprirà» in tutta la sua bellezza. Alla preparazione degli animi corrisponde la preparazione del cammino. Il ritorno non sarà puramente materiale e geografico, ma anche spirituale, di fede e di speranza. Perciò solo il popolo preparato si metterà in cammino. La tappa del deserto - tempo della sperimentazione di Dio nel primo esodo - acquista ora il rilievo di un cammino trionfale, aperto e preparato da messaggeri e che la terra predispone con docilità cosmica. Per ora si chiama «via del Signore nostro Dio» (v. 3). Nel primo esodo la gloria del Signore si manifestò al Mar Rosso (Es 14,17), nella manna (Es 16,10), sul Sinai (Es 19), alla presenza di egiziani e israeliti. Ora la gloria del Signore si manifesta a tutti i viventi. La gloria del Signore, che si era stabilita nel Tempio (Es 40,34) e che Ezechiele aveva contemplato a Gerusalemme e a Babilonia, ora apparirà nel deserto. - tutti gli uomini (kol kolkol-BäSär, BäSär lett. «tutta la carne»). La carne rappresenta l'impotenza dell'uomo che pur riceve un dono non meritato. - la bocca del Signore (Pî Pî yhwh(´ädönäy). yhwh(´ädönäy) È il profeta, come si deduce anche dal fatto che Aronne è la «bocca» di Mose (cf Es 4,10-16), ma Isaia è il solo profeta a usare questa espressione autoreferenziale (cf 1,20; 58,14). 40,9: Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! (`al har-Gäböªh `álî-läk mübaSSeºret ciyyôn härîºmî baKKöªH qôlëk mübaSSeºret yürûšäläºim härîºmî ´al-Tîräº´î ´imrî lü`ärê yühûdâ hinnË ´élöhêkem, lett. «Su monte alto sali te, annunciante in Sion, alza con forza voce tua, annunciante in Gerusalemme. Alza (la voce), non temere, dì a città di Giuda: «Ecco Dio vostro» ). - tu che annunci liete notizie a Sion! … liete notizie a Gerusalemme (mübaSSeº mübaSSeºret ciyyôn ... mübaSSeºret yürûšäläºim). m Per queste espressioni ci sono due possibilità di interpretazione a livello grammaticale: a) il participio femminile piel (intensivo attivo) da baSa baSar «portare una buona notizia, evangelizzare» è apposizione anticipata del soggetto: «Gerusalemme messaggera» o «Gerusalemme che evangelizzi». Questa è la spiegazione proposta già da David Qimchi (1160-1235) e condivisa da A. Mello; b) Il participio femminile è in stato costrutto: Zion e Gerusalemme diventano, perciò, dei complementi oggetto: «Tu che evangelizzi Gerusalemme» (cf CEI). In questo caso, resta da spiegare perché il participio è femminile: si può notare che anche altrove a recare un lieto annunzio sono le donne (cf Sal 68,12); oppure si può intendere il femminile come nome di professione, come sembra abbia inteso la Settanta che ha letto un maschile: εὐαγγελιζόμενος, da qui si può arrivare a identificare l'evangelista con il profeta. Così difatti intendono quelli che pongono in Giudea, e non in Babilonia, il ministero deuteroisaiano. Ma questa ipotesi poggia su basi esigue, mentre la prima interpretazione ha un fondamento più solido. La strofa finale (9-10) del prologo si muove con un crescendo incalzante: «sali su... alza la voce con forza... alza la voce non temere». La Gerusalemme gloriosa non è più caratterizzata dall'ipocrisia e dall'ingiustizia, come nei giorni anteriori all'esilio (2Re 21; Ger 22; Ez 24), ma è riconosciuta come dimora di Dio sulla terra e centro della redenzione universale. Anziché chiamarsi profeta, l'autore si presenta come araldo di buone notizie (mübaSSeº mübaSSeºret), et 4 un titolo che il greco tradurrà con euangelistés, «evangelista». La scena si trasferisce su un monte vicino a Gerusalemme e la voce si fa udire in tutte le città di Giuda. 40,10: Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede (hinnË ´ádönäy yhwh(´élöhîm) BüHäzäq yäbô´ ûzürö`ô möºšlâ lô hinnË Sükärô ´iTTô ûpü`ullätô lüpänäyw, lett. «Ecco, il Signore Adonay con forza viene e braccio di lui dominante per lui. Ecco salario suo e ricompensa sua (è) davanti a lui»). - Ecco, il Signore Dio (hinnË hinnË ´ádönäy yhwh(´élöhîm). yhwh(´élöhîm) Tutto questo versetto sembra un assemblaggio di Is 35,4 e 62,11, ma, più probabilmente, questi passi dipendono da Is 40,10. - Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede (hinnË hinnË Sükärô ´iTTô ûpü`ullätô lüpänäyw, lett. «Ecco, salario di lui (è) con lui e ricompensa di lui (è) davanti a lui»). Mentre Giacobbe ricevette come salario del proprio lavoro, in casa di Làbano, una grande famiglia e numerose greggi (Gen 32-33), Adonay, re vittorioso, entra in città preceduto dal bottino che nessuno potrà strappargli. L'araldo viene dal deserto, aprendo il cammino e annunciando la prossima venuta del Signore. Con un triplice hinnË «ecco», come grido e gesto indicatore, ci presenta prima ´élöhêkem «il vostro Dio» (v. 9), poi il ûzürö`ô möºšlâ, «suo braccio forte» (v. 10, immagine esodale), quindi il seguito del vincitore. Poiché la sua vittoria è una liberazione, suo bottino sono gli stessi liberati. Seguendo antiche tradizioni, si può contemplare questo seguito umano come un gregge guidato dal buon pastore. Il Signore in persona compie la nuova salvezza. Il profeta trascura deliberatamente i pretendenti davidici al trono e riconosce solo un re, il Signore. 40,11: Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Kürö`è `edrô yir`è Bizrö`ô yüqaBBëc †ülä´îm ûbüHêqô yiSSä´ `älôt yünahël, lett. «Come pastore gregge suo pasce, con braccio suo raduna agnelli e con braccio suo solleva allattanti conduce»). - Come un pastore egli fa pascolare il gregge (Kürö`è `edrô yir`è, yir`è lett. «come un pastore il suo gregge pasce»). Il re qui è presentato come un rö`è «pastore», perché facilmente nella Scrittura i due termini sono sinonimi (2Sm 5,2; Ger 3,15). Il profeta rivela Dio come re-pastore, che raduna e perfino conduce il suo popolo (cf Ger 31,10; Ez 34,11; Sal 23). Nell'immagine del pastore ci può essere anche un'allusione a Davide (Sal 78, 71s), che sarà menzionato alla fine della profezia (55,3). L'esegesi deuteroisaiana è in una fase di grande trasformazione. Un tempo prevaleva un approccio di tipo morfologico: gli oracoli profetici erano distinti in diversi generi letterari, inframmezzati l'uno con l'altro: gli inni, gli oracoli di salvezza, le dispute, le convocazioni a giudizio, i cosiddetti canti del Servo. Questo approccio morfologico ha una sua pertinenza, ma finisce inevitabilmente nel frammentare il testo profetico in tanti segmenti discontinui. Oggi è in corso un'inversione di tendenza, perché si cerca di recuperare la continuità del discorso profetico, al di là della sua catalogazione in generi letterari di diversa provenienza. In particolare, ci si trova di fronte a una distinzione che un tempo si sottovalutava: fino a Is 48 il protagonista incontestabile è il re Ciro, nominato espressamente due volte (44,28 e 45,1). Invece, nei capitoli 49-55 non si parla più di Ciro, ma prende sempre più rilievo l'enigmatica figura del Servo del Signore. Anche dal punto di vista ideologico e lessicale Is 40-48 presenta molte particolarità rispetto alla sezione successiva (p. es., «primo e ultimo», «nessun altro», «non essere», «fuori di me», töºhû «niente, nulla», «zero»). Ma è in atto soprattutto un cambio di uditorio: da Israele // Giacobbe (trentotto volte in Is 40,1-49,6; altrove, in Isaia, mai in parallelo) a Gerusalemme. In sostanza, Is 40-48 e Is 49-55 usano due linguaggi diversi per due uditori diversi. Ciò non esclude a priori l'unità di autore, ma per lo meno suppone un cambiamento importante della prospettiva. Si può pensare che il profeta, esule a Babilonia, sia stato tra i rimpatriati a Gerusalemme. O, ancora più semplicemente, può darsi che le sue attese iniziali siano andate deluse e che non ci sia stato un raduno in massa degli esiliati, come sembra che si possa dedurre proprio da Is 49,1-6, che è il brano che fa da cerniera tra le due sezioni, quello che determina il passaggio dall'una all'altra. Prologo in cielo (40,1-11). Questo testo viene comunemente considerato come il prologo del Secondo Isaia: l'autopresentazione del profeta e la premessa di tutto il suo discorso. La difficoltà deriva dal fatto che non precisa i 5 suoi referenti. Si parla soltanto di «voci», senza dire quali sono né a chi si rivolgono. Il problema è stato avvertito dalle antiche versioni, che tentano di individuare un destinatario: «Consolate, consolate» è un invito rivolto ai «profeti» (per il Targum) o ai «sacerdoti» (per la Settanta). Queste voci sono almeno tre, secondo la scansione masoretica: a) vv. 1-2: yö´mar ´élöhêkem «Dice il vostro Dio» sembra indicare che non è Dio che parla); b) vv. 3-5: qôl «una voce» (che non viene dal «deserto», come invece hanno inteso la Settanta e il NT); c) vv. 6-8: qôl ´ömër qürä´, «una voce dice: grida» e un'altra risponde. In altre parole, il testo ebraico dà l'impressione di un dialogo nei cieli, tra alcune voci angeliche. La difficoltà viene parzialmente superata leggendo il v. 6, con la Settanta, alla prima persona εἶπα «rispondo», e quindi coinvolgendo il profeta nel dialogo celeste. Il profeta dà voce al lamento degli esuli di Babilonia: waTTöº´mer ciyyôn `ázäbaº `ázäbaºnî yhwh(´ädönäy) wa´dönäy šükëHäºnî «Sion ha detto: Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (Is 49,14). Questo è il ritornello che ricorreva sulla bocca sia di quelli che riconoscevano le buone ragioni di Dio, e sia di coloro che ritenevano ingiustificato un simile trattamento. In questo contesto il messaggio del Deuteroisaia suona così: «Dio non castiga, ma consola!». Per bocca del Deuteroisaia Dio si rivolge a Israele esiliato con questi termini: io sono il tuo consolatore, il tuo redentore, il tuo salvatore, il tuo liberatore, il tuo creatore. È un messaggio carico di gioia che comporta il massimo coinvolgimento di Colui che manda e di chi annuncia o ascolta. Per la Bibbia consolare ha un significato forte: se, essendo nel lutto, vengo consolato, allora posso cambiare l’abito della tristezza e rivestire quello della gioia. Chi, dunque, potrebbe respingere la consolazione? Eppure nella Bibbia non mancano figure che rifiutano di essere consolate. Il salmista che dice: «Io rifiuto ogni conforto» (Sal 77,3) o Giacobbe (Gen 37,34s.), quando gli portano la tunica insanguinata che sembra testimoniare la morte certa del figlio Giuseppe. Il rifiuto della consolazione si verifica quando pensiamo che ormai tutta la nostra vita corre nel segno del lutto. Consolare è parlare al cuore (Is 40,2), cioè favorire un recupero del senso di appartenenza, come dice anche Osea (2,16), quando descrive le intenzioni di Dio riguardo al popolo che, come sposa infedele, lo ha abbandonato: Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Parlare al cuore evoca toni sommessi, un linguaggio quasi silenzioso, non verbale, l’esatto contrario di "gridare". La consolazione giova a non lasciarsi spaventare dalla fragilità. Dio, infatti, è un buon pastore che senza alcuna pretesa conduce l’umanità fragile e scombinata, adeguandosi alle sue esigenze e alla sua debolezza: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11). Quando il Deuteroisaia accosta la gloria (vv. 5-6) alla caducità dell’erba (vv. 6.7.8) e del fiore di campo (vv. 6.7.8) usa un linguaggio simile a quello del prologo di Giovanni (1,14), nel quale la carne non esclude Parola e gloria, al punto che il Verbo è disceso nella nostra carne fragile e mortale. Questa è consolazione: essere accompagnati nella discesa del Verbo e ritrovarsi in compagnia di Dio. «Io sono con te!» è quanto il profeta conferma a un popolo cieco (Is 42,19; 43,8), refrattario alla consolazione: Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto - oracolo del Signore - tuo redentore è il Santo di Israele (Is 41,14). La seconda lettura (2Pt 3,8-14) riprende un'esortazione di Pietro, che con linguaggio apocalittico invita i cristiani a cogliere il senso della storia alla luce della rivelazione divina. Se l'attenzione giustamente si ripone sulla prima venuta di Cristo è per poter meglio attendere la sua seconda venuta: la parusìa. Scomparsi gli apostoli che avevano predicato il Vangelo nel segno di una forte attesa escatologica - Paolo stesso considerava la possibilità di essere tra i vivi alla venuta del Signore (1Ts 4,15-17) - si fa strada la disillusione e il dubbio dell'inganno. I falsi maestri avevano buon gioco di obiettare: «Dov'è la sua venuta?... Tutto rimane come al principio...» (3,4). La lettera offre una duplice risposta: ribalta la misura del tempo partendo dall'eternità di Dio, per il quale «mille anni sono come un solo giorno» (3,8). Inoltre interpreta il ritardo in termini di misericordia: la parusìa è posticipata a causa della pazienza di Dio che vuole la nostra conversione. Da qui l'invito alla responsabilità morale: i cristiani sono chiamati a vivere in «santità» in modo da «affrettare» la venuta del Signore la quale non coinciderà semplicemente con la "fine" del mondo, ma con la sua "trasformazione". È attesa una nuova creazione in senso qualitativo, come partecipazione al mondo divino: «nuovi cieli e una terra nuova», nei quali abita la giustizia di Dio. 6 2Pt 3,8: Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (Ἐν δὲ τοῦτο μὴ λανθανέτω ὑμᾶς ἀγαπητοί, ὅτι μία ἡμέρα παρὰ κυρίῳ ὡς χίλια ἔτη καὶ χίλια ἔτη ὡς ἡμέρα μία). - carissimi (ἀγαπητοί). L'autore si rivolge ai lettori chiamandoli «carissimi»; così si passa dall'indicativo, terza persona plurale, utilizzato per gli avversari al v. 5: «costoro volontariamente dimenticano», all'imperativo, seconda persona plurale, per i credenti. Il discorso è esortativo: μὴ λανθανέτω «non dovete perdere di vista». Il verbo usato è lo stesso del v. 5: λανθάνω «sono nascosto, rimango inosservato, vengo ignorato» dove si afferma che ai falsi maestri sfugge volontariamente la storia biblica; nel v. 8 è impiegato in senso positivo e all'imperativo presente, per ordinare ai credenti un'azione continua e permanente. - davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (μία ἡμέρα παρὰ κυρίῳ ὡς χίλια ἔτη καὶ χίλια ἔτη ὡς ἡμέρα μία, lett. «un giorno presso Signore come mille anni e mille anni come giorno uno»). La cosa che non deve assolutamente sfuggire, per comprendere l'escatologia cristiana, è la misura del tempo da parte di Dio. L'autore attribuisce l'apparente ritardo della parusia alla sovranità e all'eternità di Dio, davanti al quale non si pone la misura umana del tempo perché il tempo umano è finito, quello divino infinito. Egli, citando il Sal 90,4: Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte, rivela la relatività del tempo. Il termine Κύριος «Signore», nel salmo si riferisce a Dio, ma impiegato nella lettera indica Gesù Cristo e la sua autorità divina (cf 2Pt 1,1.11.14.16; 2,9.11.20; 3,2.15.18). Davanti al Signore «mille anni (sono) come un giorno solo» e, per ragionamento inverso: «Un solo giorno (presso il Signore) è come mille anni». In questo modo l'Autore interpreta il Sal 90,4 alla luce della tradizione giudaica: «Perché mille anni sono come un solo giorno nell'ordinamento del cielo» (Libro dei Giubilei 4,30). «Per te le ore sono come le ere e i giorni sono come le generazioni» (2Baruc 48,12-13). «Un'ora dell'eternità (letteralmente: del secolo) è come cento anni» (Apocalisse di Abramo 28,3). Questo gli consente di cambiare l'accento del testo citato, perché il salmo insiste sul contrasto tra eternità di Dio e brevità della vita umana. I tempi fanno parte del mistero di Dio, come Gesù stesso riconosce: Περὶ δὲ τῆς ἡμέρας ἐκείνης ἢ τῆς ὥρας οὐδεὶς οἶδεν, οὐδὲ οἱ ἄγγελοι ἐν οὐρανῷ οὐδὲ ὁ υἱός εἰ μὴ ὁ πατήρ «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre» (Mc 13,32). In questa direzione va anche 1QpHab 7,1314: «Tutti i tempi finali di Dio vengono secondo il loro ordine, conformemente a ciò che lui ha decretato per essi nei misteri della sua prudenza». L'autore ottiene così tre risultati: 1) confuta efficacemente i falsi maestri, togliendo loro la possibilità stessa di misurare il tempo umano dell'attesa della venuta di Cristo; 2) incoraggia i credenti: non bisogna essere sorpresi da una lunga attesa della parusia; 3) riafferma la libertà di Dio nel suo operare nella storia. 3,9: Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi (οὐ βραδύνει κύριος τῆς ἐπαγγελίας, ὥς τινες βραδύτητα ἡγοῦνται ἀλλὰ μακροθυμεῖ εἰς ὑμᾶς, μὴ βουλόμενος τινας ἀπολέσθαι ἀλλὰ πάντας εἰς μετάνοιαν χωρῆσαι, lett. «Non tarda Signore della promessa come alcuni lentezza considerano, anzi è paziente verso di voi, non volendo che alcuni periscano ma che tutti alla conversione facciano posto»). - Il Signore non ritarda (οὐ βραδύνει κύριος). In genere il testo viene tradotto con: «Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa» (CEI). Tuttavia in greco vi è un genitivo che chiaramente si rivolge ai falsi maestri che mettono in dubbio la fedeltà di Dio e di Cristo. Perciò va tradotto letteralmente: κύριος τῆς ἐπαγγελίας «il Signore della promessa». Si tratta di un genitivo di definizione! L'autore rivela con forza che «il Signore della promessa» non tarda ad agire, cioè non esita, non ritarda. Questa è la terza confutazione, tratta dalla natura stessa del Signore. Qui il termine κύριος «Signore» è senza articolo perché chi scrive considera Cristo come Figlio di Dio. - Egli invece è magnanimo con voi (ἀλλὰ μακροθυμεῖ εἰς ὑμᾶς). L'apparente ritardo della parusia è rivelato come amore paziente di Cristo e di Dio. In questo modo, l'autore affronta e risolve un fatto che turbava i credenti del suo tempo e rivela il volto paziente di Dio. Proprio la diversità di misurare il tempo apre anche un altro modo di concepire l'amore stesso di Dio. Il verbo βραδύνω, bradýnō, «ritardo, indugio, esito» è opposto al verbo μακροθυμέω, makrothyméō, «sono paziente, longanime, tollerante». Il Signore non temporeggia, come alcuni ritengono, ἀλλὰ μακροθυμεῖ εἰς ὑμᾶς «ma è paziente verso di voi», dove il verbo all'indicativo presente, con valore durativo continuo, sottolinea la stabilità, persistenza e continuità della sua pazienza, perché non vuole che alcuni si perdano. - perché non vuole che alcuno si perda (μὴ βουλόμενος τινας ἀπολέσθαι). Qui il verbo ἀπολέσθαι, inf. aor. di ἀπόλλυμι, apóllymi, «perdo, mando in rovina, smarrisco, vado in perdizione», è usato nel senso traslato di perire nel giudizio finale, cioè perdere la salvezza. 7 - tutti abbiano modo di pentirsi (πάντας εἰς μετάνοιαν χωρῆσαι). Dio vuole che tutti giungano alla conversione, cioè al pentimento. Il pentimento occupa un posto centrale nella tradizione rabbinica, perciò Rabbì Eliezer (I-II sec. d.C.) invita: «Non essere facile ad adirarti. Pèntiti un giorno prima della tua morte» (Abot 2,10). Il verbo χωρέω, chōréō, «dare spazio, trovare posto, andarci, comprendere», significa, qui, giungere alla mèta, nel senso traslato di giungere al pentimento, alla conversione. Al sostantivo μετάνοια «conversione, cambiamento di mente» è opposta la realtà della ἀπώλεια, ας, ἡ «perdizione» (2Pt 2,1.3; 3,6.7.16). L'appello alla conversione è riferito a πάντες «tutti», come la pazienza è assicurata εἰς ὑμᾶς «verso di voi». In due affermazioni è svelato così l'equivoco di fondo dei falsi maestri: 1) il lungo tempo concesso nell'attesa della parusia non è segno di lentezza e di infedeltà di Dio alla sua promessa; 2) al contrario, rivela la sua pazienza nel ritardare la fine del creato perché vuole salvare tutti, dando a tutti il tempo necessario per la conversione. 1Tm 2,3-4 conferma questa intenzione di Dio con una formulazione positiva: «Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati». Abacuc annuncia un pronto intervento di Dio per il popolo in difficoltà ed esorta ad attendere senza vacillare: Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. 3È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. 4Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede»» (Ab 2,2-4). Pertanto 2Pt 3,9 rappresenta una vera perla, che rivela il volto paziente di Dio. La longanimità di Dio si trova affermata più volte nella Bibbia (cf Es 34,6; Nm 14,18: Sal 86,15; Gl 2,13; Mt 18,26.29; Rm 2,4; 9,22-24; 1Pt 3,20). In At 3,19-20 la conversione di Israele è la condizione per la fine dei tempi. Paolo in Rm 11,25-33 afferma che la fine dei tempi verrà quando tutte le genti, compreso Israele, saranno salvate. Interessante è 1Pt 3,20, perché parla della pazienza di Dio in rapporto al diluvio, mentre la 2Pietro ne parla in rapporto al giudizio finale. Il tema della pazienza di Dio è largamente ripreso anche dalla tradizione giudaica e rabbinica: «Signore, sovrano, noi siamo tutti pieni di peccati e forse la vendemmia della terra può essere ritardata a causa dei peccati degli abitanti della terra» (4Esdra 4,38-39; cf 4Esdra 7,33). Il Talmud babilonese sostiene: «Tutte le fini sono passate (e il Messia non è venuto); dipende solo dal pentimento e dalle buone opere (Sanhedrin 97b). Rabbì Levi (300 ca.) sosteneva: «Se Israele si pentisse un giorno solo, immediatamente verrebbe il figlio di Davide; se Israele osservasse a dovere un solo Shabbàt, immediatamente verrebbe il figlio di Davide» (Ta'anìt I, 64a) (cf G. Ghiberti, Paolo di Tarso a 2000 anni dalla nascita, Effatà 2009, p. 69; Communio, Venga il tuo Regno, Jaka book 86 (1986) 44). Dice Rabbì Jochanan a nome di Shimòn ben Jochaj: «Se Israele osservasse di seguito due sabati come si deve, sarebbe subito redento, come è detto: ‘Perché così dice il Signore circa gli eunuchi che osserveranno i miei sabati’ (Is 66,4) e subito dopo è detto (Is 66,7): ‘e li condurrò sul mio monte santo’» (Shabbàth 118). 3,10: Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta (Ἥξει δὲ ἡμέρα κυρίου ὡς κλέπτης ἐν ᾗ οἱ οὐρανοὶ ῥοιζηδὸν παρελεύσονται στοιχεῖα δὲ καυσούμενα λυθήσεται καὶ γῆ καὶ τὰ ἐν αὐτῇ ἔργα εὑρεθήσεται). - Il giorno del Signore verrà come un ladro (Ἥξει δὲ ἡμέρα κυρίου ὡς κλέπτης). La parusia è posticipata per la pazienza di Dio ma il «giorno» arriverà! L'autore è talmente sicuro della parusia che descrive anche come avverrà: ὡς κλέπτης «come un ladro», cioè in maniera inaspettata e improvvisa. L'immagine del ladro risale a Gesù stesso (cf Mt 24,43 par.; 1Ts 5,2.4; Ap 3,3; 16,15). - allora i cieli spariranno in un grande boato (οἱ οὐρανοὶ ῥοιζηδὸν παρελεύσονται). Con una terminologia di stile apocalittico, l'autore tenta di descrivere nei particolari la conflagrazione del mondo. In primo luogo, i cieli svaniranno nel fuoco con un sibilo. L'avverbio ῥοιζηδόν, rhoizēdón «con rumore, fracasso, fragorosamente», è termine onomatopeico che ricorre solo qui nel NT e rende bene il suono del vento, il rumore provocato da un corpo che fende lo spazio a tutta velocità. Qui esprime la velocità sibilante con la quale i cieli alla fine παρελεύσονται «spariranno» (ind. fut. di παρέρχομαι «passo oltre, trascorro, perisco, trasgredisco»). - gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno (στοιχεῖα δὲ καυσούμενα λυθήσεται). Gli στοιχεῖα «elementi» che si dissolveranno nel fuoco sono gli astri: il sole, la luna e le stelle (cf Gl 4,15; Mt 24,29; Mc 13,24-27; Ap 6,12-17. In Gal 4,3; Col 2,8 il termine «elementi» designa le potenze cosmiche, descritte come esseri personali). L'apocrifo Testamento di Levi 4,1 afferma: «Quando il Signore farà il giudizio dei figli degli uomini, si spaccano le pietre, il sole si spegne, le acque si asciugano, il fuoco si congela, tutta la creazione si spaventa, gli spiriti invisibili si struggono e lo Sheol è spogliato dalla sofferenza dell'Altissimo». Questa piccola apocalisse giudaica descrive i cataclismi che accompagnano il giorno del giudizio e parte di questo materiale è ripreso nel racconto della passione di Mt 27,45.51. Il Testamento di Dan 5,11 afferma che Dio toglierà a Beliar (satana) i prigionieri; il 8 Testamento di Zàbulon 9,8: «Il Signore stesso, luce di giustizia, libererà da Beliar tutti i figli degli uomini prigionieri... e convertirà tutte le nazioni». Il verbo καυσούμενα, part. pres. pass. di καυσόω «brucio, ardo», è usato per affermare che gli elementi del mondo saranno bruciati, dissolti dal fuoco; il verbo λυθήσεται è ind. fut. pass. di λύω, «sciolgo, slego, libero». - la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta (γῆ καὶ τὰ ἐν αὐτῇ ἔργα εὑρεθήσεται). In terzo luogo si avrà la consumazione della terra e delle opere. Però la traduzione letterale è «terra e le opere in essa saranno trovate», sottinteso da Dio. Il termine chiave dell'affermazione è il verbo εὑρεθήσεται, indicativo futuro passivo III sing. di εὑρίσκω heurískō «trovo, ottengo, ricevo, incontro, raggiungo», al passivo saranno salvate da Dio! Il verbo qui è un passivum divinum ed essendo all'indicativo descrive un'azione, un atto giudicato certo nella sua realizzazione: saranno visitate da Dio! Il verbo ha qui un senso soteriologico, perché descrive il momento dell'incontro definitivo di Dio con il creato. Sintatticamente esso si collega sia a ἔργα «opere» sia a γῆ «terra». Nella 2Pietro il verbo εὑρίσκω «trovo» diventa un termine di conoscenza, di esperienza e salvezza. 3,11-12: Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, 12mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! (τούτων οὕτως πάντων λυομένων ποταποὺς δεῖ ὑπάρχειν [ὑμᾶς] ἐν ἁγίαις ἀναστροφαῖς καὶ εὐσεβείαις, 12προσδοκῶντας καὶ σπεύδοντας τὴν παρουσίαν τῆς τοῦ θεοῦ ἡμέρας δι’ ἣν οὐρανοὶ πυρούμενοι λυθήσονται καὶ στοιχεῖα καυσούμενα τήκεται, lett. «Queste così cose tutte venendo dissolte quali è necessario essere voi in santi comportamenti e opere di pietà, 12 aspettando e affrettando l'avvento del di Dio giorno per il quale cieli incendiati si dissolveranno ed elementi consumati dal fuoco saranno liquefatti»). - la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere (ἐν ἁγίαις ἀναστροφαῖς καὶ εὐσεβείαις). In attesa del giudizio l'autore invita a vivere in santità di vita. L'aggettivo ποταπός, ή, όν, potapós è interrogativo e significa: di che sorta? Ma riferendosi a persone, qui ha valore sia interrogativo sia esclamativo: quali dovete essere voi! L'attesa della parusia deve tradursi in atti che mostrino una santità di vita. - 12mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio (12προσδοκῶντας καὶ σπεύδοντας τὴν παρουσίαν τῆς τοῦ θεοῦ ἡμέρας). L'autore afferma che i cristiani possono affrettare con la loro vita di fede la parusia. L'espressione τὴν παρουσίαν τῆς τοῦ θεοῦ «la venuta del giorno di Dio» è originale, ricorre solo qui in tutto il NT. - i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno (οὐρανοὶ πυρούμενοι λυθήσονται καὶ στοιχεῖα καυσούμενα τήκεται). L'autore conferma la fine del mondo tramite il fuoco, annunciata già al v. 7 e al v. 10. Qui usa un verbo unico nel NT, l'indicativo presente passivo di τήκω, «fondo, dissolvo, liquefaccio». Nei discorsi escatologici, compresi quelli dei vangeli, la trasformazione dell'universo costituisce l'apparato scenico della potente apparizione del Figlio dell'uomo (cf Mt 24,29-44), perciò è al servizio dell'annuncio del giorno di Dio, che coincide con quello di Cristo. 3,13: Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia (καινοὺς δὲ οὐρανοὺς καὶ γῆν καινὴν κατὰ τὸ ἐπάγγελμα αὐτοῦ προσδοκῶμεν, ἐν οἷς δικαιοσύνη κατοικεῖ). - aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova (καινοὺς δὲ οὐρανοὺς καὶ γῆν καινὴν … προσδοκῶμεν). La fine del mondo non è tanto un evento distruttivo, ma una nuova creazione, messa in grande evidenza. L'affermazione si rifà a Gn 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra». L'attesa della 2Pietro pone tutta la creazione nella prospettiva del rinnovamento finale. I termini «cielo-terra» sono due vocaboli polari che designano la totalità del creato. Si tratta del mondo nuovo di Dio come futuro della creatura umana, la mèta finale verso cui l'umanità è incamminata. Qui l'autore attinge da Is 65,17; 66,22, dove l'espressione šämaºyim Hádäšîm wä´äºrec Hádäšâ «cieli nuovi e terra nuova» era simbolo del rinnovamento messianico. Così Ap 21,5 può affermare: ἰδοὺ καινὰ ποιῶ πάντα «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»; si tratta della nuova creazione annunciata da Gesù in Mt 19,28 e da Paolo in Rm 8,19-23. Domina nel testo l'aggettivo καινός, ή, όν, kainós, «nuovo»: è un termine che vuole evidenziare la novità qualitativa della creazione. - nei quali abita la giustizia (ἐν οἷς δικαιοσύνη κατοικεῖ). L'ambiente nuovo della salvezza finale è precisato come il luogo dove δικαιοσύνη κατοικεῖ «abita la giustizia». Il verbo κατοικέω «abito» è usato all'indicativo presente per esprimere la residenza permanente, stabile della giustizia. Già nel Primo Testamento il Messia viene qualificato come caDDîq, ὁ δίκαιος «il Giusto» che porta la giustizia nel mondo (cf Zc 9,9; Sap 2,18), così pure nel NT (cf At 3,13-14; 7,52). Pensiero centrale di 1Enoc 10,18; 38,2; 45,4-6; 46,3; 53,6 è che la giustizia è il segno dell'età 9 messianica, della salvezza finale. A questa giustizia aveva già fatto riferimento con «Noè, messaggero di giustizia» (2Pt 2,5) e «Lot, uomo giusto» (2Pt 2,7-8). Così l'intera promessa cristiana, τὴν ὁδὸν τῆς δικαιοσύνης «la via della giustizia » (2Pt 2,21 ), sarà di tutta l'umanità che entrerà nel mondo nuovo. Mediante la nuova creazione Dio si manifesterà come il Giusto. La giustizia è qui presentata in senso pieno come caratteristica unica del mondo nuovo atteso e ciò è in sintonia con l'inizio della lettera, dove si parla della δικαιοσύνῃ τοῦ θεοῦ ἡμῶν καὶ σωτῆρος Ἰησοῦ Χριστοῦ «giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 1,1). 3,14: Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia (Διὸ, ἀγαπητοί, ταῦτα προσδοκῶντες σπουδάσατε ἄσπιλοι καὶ ἀμώμητοι αὐτῷ εὑρεθῆναι ἐν εἰρήνῃ, lett. «Perciò, amati, queste cose aspettando siate solleciti senza macchie e irreprensibili da lui a essere trovati in pace»). - carissimi … fate di tutto (ἀγαπητοί). L'appellativo «amati» esprime un tono accorato, quasi una supplica. I lettori sono esortati con un imperativo aoristo di σπουδάζω «mi affretto, mi premuro, m'impegno» a fare uno sforzo (cf 2Pt 1,5.10.15), nell'attesa di ταῦτα «questi eventi», a vivere ἄσπιλοι καὶ ἀμώμητοι «senza colpa e senza macchia». L'umanità sarà trovata αὐτῷ «da lui», Dio, ἐν εἰρήνῃ «in pace». Il vangelo (Mc 1,1-8) ci propone il prologo del «lieto annunzio» di Marco che intende narrare la storia di «Gesù da Nàzaret di Galilea» (1,9), che offre «un insegnamento nuovo, dato con autorità» (1,27). Le forze demoniache e i regnanti brutali di questo mondo non riescono a trionfare su Gesù. La profezia di «Isaia» permette di riconoscere la novità della missione di Gesù, che avanza con determinazione verso Gerusalemme. Giovanni il Battista chiama il popolo a un cambiamento di mentalità e prepara la via a Cristo. Una seconda caratteristica del prologo è il modo con cui presenta i rapporti tra Giovanni Battista e Gesù. In Marco, il messaggio della conversione resta sullo sfondo, mentre la funzione primaria di Giovanni Battista è quella di preparare il terreno per Gesù, egli è principalmente un araldo del «più forte». Mc 1,1: Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio (ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ Χριστοῦ [υἱοῦ θεοῦ]). - Inizio (ἀρχὴ). Il titolo del vangelo di Marco (1,1) è una sorta di piccolo Credo. I primi cristiani useranno il termine εὐαγγέλιον «vangelo» per indicare il lieto messaggio di Gesù, Messia e Figlio di Dio, che il Padre ha risuscitato dai morti per la salvezza di tutti. Il termine ἀρχή, ῆς, ἡ, arché può significare «punto di partenza, fondamento, origine» e perfino «regola» o «principio dominante». La CEI interpreta il v. 1 come il titolo dell'intera opera, di modo che la fede della comunità di Marco ha sia un «inizio» e sia una «norma» per l'interpretazione della storia di Gesù. Molto si è scritto su questo vocabolo per tentare di stabilirne il significato. Un parere qualificato è quello di Rudolf Pesch (1936-2011, esegeta tedesco, laico, cattolico): «l'inizio e il fondamento del Vangelo è la storia di Gesù Cristo dal battesimo di Giovanni fino alla sua morte e risurrezione». Il termine ἀρχή ricorre quattro volte nel vangelo (1,1; 10,6; 13,8.19). In due casi (10,6; 13,19) viene evocato l'inizio per eccellenza, quello della creazione, perciò ἀρχὴ si può tradurre con «principio». Usurpando il primo vocabolo della Genesi, Bürë´šît, qui Marco non esita ad applicarlo a Gesù che inizia a realizzare un mondo nuovo, una nuova genesi, una nuova Scrittura. Il termine ἀρχή «inizio, principio» invita il lettore a essere aperto al futuro, cioè al mistero pasquale, e aperto al passato, cioè ai due grandi esodi della storia d'Israele, quello dall'Egitto (Es 23,20a) e quello dall'esilio (Is 40,3). - del vangelo (τοῦ εὐαγγελίου). Il sostantivo singolare εὐαγγέλιον, ου, τό non è mai usato nella LXX; il sostantivo plurale ευαγγέλια e il verbo εὐαγγελίζω «annuncio buone notizie» traducono il sostantivo ebraico büSôrä e il verbo baS baSar, che vengono usati per l'annuncio di un messaggio lieto (cf 1Sam 31,9; Na 1,15; Ger 20,14-15). È un termine molto importante nel Deuteroisaia e nel NT. Un esempio nel greco extrabiblico si è trovato nell'iscrizione trovata a Priene, nell'Asia Minore, che celebra il compleanno dell'imperatore Augusto nel 9 a.C.: «La nascita del dio [l'imperatore] è stata per il mondo l'inizio di un lieto annuncio che è stato proclamato sul suo conto». Il termine viene usato da Paolo oltre 60 volte come ricapitolazione dell'evento pasquale di Cristo (cf 1Ts 1,2-9; 1Cor 15,1-11; 1,17-25; Rm 1,1.9.16-17; 10,14-21; 15,14-21). Marco si distingue tra i sinottici perché usa il termine in modo assoluto: τὸ εὐαγγέλιον «il vangelo», che non si riferisce solo alla parola di Gesù, ma alla sua stessa vita, che sfocia nel mistero della sua morte e risurrezione. Marco è considerato "l'inventore" del genere letterario «vangelo». 10 - di Gesù, Cristo, (Ἰησοῦ Χριστοῦ). Come indicano le lettere paoline, già ai tempi di Marco «Gesù Cristo» era diventato praticamente un nome proprio. Il termine «Messia» (Χριστὸς in greco) in ebraico significa «unto, consacrato» e serve da titolo regale. Gesù è chiamato mašîªH mašîªH, šîªH Χριστὸς «Messia» in 8,29; 14,61 e 15,32. Il genitivo Ἰησοῦ Χριστοῦ che specifica la natura del Vangelo, può essere inteso sia in senso epesegetico, cioè come spiegazione del termine «vangelo», sia in senso oggettivo: il vangelo che riguarda Gesù Cristo. Nella prima accezione il termine «vangelo» viene particolarmente usato dall'apostolo Paolo. Fin dall'inizio della narrazione il lettore è invitato ad accostare il testo con fede: Gesù è il Messia riconosciuto dal Padre come «Figlio amato» (1,11), ma anche Messia riconosciuto «Figlio di Dio» dal centurione romano ai piedi della croce (15,39). Questo legame tra 1,1 e 15,39 rende plausibile l'interpretazione di alcuni che vedono Gesù come una figura antitetica a quella dell'imperatore: Gesù è l'unico vero «Figlio di Dio» che offre al mondo l'unico e vero «lieto annuncio» che nessun imperatore può dare. - Figlio di Dio ([υἱοῦ θεοῦ]). L'inciso manca nel codice Sinaitico ma è presente in un altrettanto autorevole codice come il Vaticano (B); non viene citato da Origene (185-254 d.C.) ma lo ritroviamo in molti manoscritti latini. Se da un lato alcuni studiosi ritengono l'espressione un'aggiunta giustificabile con l'influsso di espressioni simili o con un tentativo del copista di precisare l'identità di Gesù, dall'altro il sostegno alla variante è troppo significativo per essere omesso o sottovalutato. Altri titoli cristologici usati da Marco sono: ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός «il Figlio mio, l’amato» (1,11; 9,7; 12,6); ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ «il Figlio di Dio» (3,11); υἱὲ τοῦ θεοῦ τοῦ ὑψίστου «Figlio del Dio altissimo» (5,7); ὁ υἱός «il Figlio» (13,32); ὁ υἱὸς τοῦ εὐλογητοῦ, «figlio del Dio benedetto» (14,61); υἱὸς θεοῦ «Figlio di Dio» (15,39). L'abbondanza di termini chiave in 1,1 prepara il lettore al drammatico svolgimento dell'intera opera, imperniata su Gesù, Messia e Figlio di Dio. L'uso del titolo υἱὸς θεοῦ «Figlio di Dio» nella confessione del centurione al momento della morte di Gesù (15,39) depone a favore della sua inclusione anche in questo versetto, vista la propensione di Marco per i richiami a distanza. 1,2-3: Come sta scritto nel profeta Isaia: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. 3Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, (Καθὼς γέγραπται ἐν τῷ Ἠσαΐᾳ τῷ προφήτῃ• ἰδοὺ ἀποστέλλω τὸν ἄγγελόν μου πρὸ προσώπου σου• ὃς κατασκευάσει τὴν ὁδόν σου, 3φωνὴ βοῶντος ἐν τῇ ἐρήμῳ• ἑτοιμάσατε τὴν ὁδὸν κυρίου, εὐθείας ποιεῖτε τὰς τρίβους αὐτοῦ,). - Come sta scritto (Καθὼς γέγραπται). L'uso del perfetto γέγραπται (da γράφω «scrivo, compongo, firmo») mette in evidenza un'azione passata i cui effetti permangono ancora nel presente: in questo caso viene usato per sottolineare la perenne validità delle antiche profezie. Questa formula è usata anche nella letteratura di Qumran ed è molto frequente in Paolo (14 volte in Romani). Questo uso e i testi citati indicano che i lettori di Marco erano a conoscenza sia del contenuto sia del modo di citare l'AT. È anche indice di un elevato livello di scolarità tra i Giudei e i cristiano-giudei del primo secolo. Lo storico Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) scrive: «La Legge ordina che a essi [i bambini] venga insegnato a leggere e che imparino sia le leggi che le gesta dei loro antenati» (Contro Apione 2,204). - nel profeta Isaia (ἐν τῷ Ἠσαΐᾳ τῷ προφήτῃ). Anche se viene menzionato il libro del profeta Isaia, solo il v. 3 è attribuibile a questo. Il v. 2 riprende piuttosto Ml 3,1. Forse per tale ragione alcuni copisti hanno corretto l'espressione con ἐν τοῖς προφήταις «nei profeti», come troviamo nel codice Alessandrino (A). La citazione di Ml 3,1 viene combinata dall'agiografo con quella di Es 23,20a: hinnË ´änökî šölëªH mal´äk lüpänʺkä, «Ecco, io mando un angelo davanti a te». Marco cita a senso dando una piega cristologica ai testi antichi. Giovanni Battista è destinato ad annunciare «la via del Signore» (Mc 1,3); Gesù dichiara che lui è la Via (Gv 14,6; Eb 10,20). Il cristianesimo degli inizi era chiamato ἡ ὁδός, οῦ, «la via» (At 9,2; 19,9.23). Isaia e i Salmi erano i libri dell'AT maggiormente conosciuti tanto a Qumran quanto nell'antica letteratura cristiana. - Voce di uno che grida nel deserto (3φωνὴ βοῶντος ἐν τῇ ἐρήμῳ). La citazione è attinta da Is 40,3 secondo il testo della Settanta (LXX). L'ebraico, infatti, richiederebbe una punteggiatura diversa: qôl qôrë´ BammidBär Pannû Deºrek yhwh(´ädönäy), yhwh(´ädönäy) Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore». Il testo greco, modificando l'ebraico, rende possibile un'applicazione a Giovanni Battista: questi è la «voce di uno che grida nel deserto» e invita a «preparare la strada del Signore». Il termine midBär, midBär, ἔρημος «deserto» richiama agli Ebrei l'uscita dall'Egitto (Es 19-24), nonché il ritorno dall'esilio (Is 40,3). Il deserto, in senso positivo, è il luogo degli interventi salvifici di Dio e della sua alleanza nuziale con il popolo (Ger 2,2-3; Os 2,14-15; Sal 78,12-53; 105,39-45); in senso negativo è il luogo della prova e della ribellione (Es 16; Nm 11; Sal 78,17-22.32-41; 106,6-43). Anche la comunità di Qumran si appellava a Is 40,3 per la sua collocazione nel deserto (1QS 8,13-14; 9,19-20). Gesù viene messo alla prova nel deserto in Mc 1,12-13, vi si ritira a pregare in 1,35 e per evitare le folle in 1,45, e in 6,31-32 nel deserto dà da mangiare a una moltitudine. 11 - preparate la via del Signore (ἑτοιμάσατε τὴν ὁδὸν κυρίου). La ὁδὸν κυρίου «via del Signore» è un'immagine molto usata dal Deuteroisaia (40,3; 42,16.19; 48,17; 49,11; 51,10) per indicare la strada per la quale Dio farà tornare il suo popolo dall'esilio. È un elemento centrale anche per Marco che ne coglie il doppio significato di via per un viaggio e di cammino per diventare discepoli. Menachem Mor (docente all'Università di Haifa, specialista della storia del Secondo Tempio, mishnaico e del periodo di Talmud) sostiene che il giudaismo postesilico era caratterizzato da due ideologie dominanti. La prima, riconoscibile nei libri di Esdra e Neemia, è l'ideologia dei Giudei che, tornati da Babilonia, si ritenevano di essere il «seme santo» o «il resto» (Esd 9,2.15). Perciò erano decisamente contrari ai matrimoni misti con quelli che erano rimasti in Israele, ritenuti immondi «per le nefandezze di cui hanno colmato il paese da un capo all'altro con le loro impurità» (Esd 9,11). Il programma di questi riformatori di ritorno dall'esilio comportava la ricostruzione del Tempio, la codifica della Legge, l'assoluto divieto di contrarre matrimoni misti e la costruzione delle mura attorno a Gerusalemme. Contro l'ideologia della «stirpe santa» si ergeva un secondo gruppo che era interessato a riunire assieme tutti i servi e i profeti, la cui teologia è attestata in Isaia 52 e 63 e nei libri di Giona, Rut e Giuditta. Caratteristico di questo periodo quindi era il conflitto tra diversi gruppi di Giudei, tra quelli che propugnavano un'ideologia separatista e quelli che propendevano per un'ideologia universalistica. Questo contrasto di fondo caratterizzerà il pensiero giudaico fino a tutto il I secolo d.C. Marco, fondandosi sul profeta Isaia, si colloca nella corrente «universalistica» del giudaismo postesilico. Il Deuteroisaia comincia con la voce di promessa nel deserto e termina con la «gente che tu non conoscevi» che corre a unirsi al popolo di Dio (Is 55,4-5); Marco comincia con la voce nel deserto (1,3) e termina con la confessione del centurione pagano (15,39). Marco pertanto crede in una comunità della Diaspora che vive «tra le nazioni». 1,4: vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (ἐγένετο Ἰωάννης [ὁ] βαπτίζων ἐν τῇ ἐρήμῳ [καὶ] κηρύσσων βάπτισμα μετανοίας εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν). - vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto (ἐγένετο Ἰωάννης ὁ βαπτίζων ἐν τῇ ἐρήμῳ). L'articolo [ò] davanti a βαπτίζων è da considerarsi un'aggiunta posteriore, dovuta all'uso dell'espressione in numerosi passaggi dei vangeli Sinottici (cf Mc 6,25 e 8,28 ma anche sette volte in Matteo e tre in Luca). L'inserimento dell'articolo sposta l'attenzione dall'agire di Giovanni alla sua persona. Nei manoscritti che attestano la presenza dell'articolo davanti a βαπτίζων la congiunzione καὶ viene omessa in modo da integrare βαπτίζων all'interno del soggetto («Giovanni il battezzatore»), trasformandolo in sostantivo. In tal caso, κηρύσσων «che proclamava» diventa il verbo che ne esprime l'azione. La congiunzione καὶ mantiene sullo stesso piano i due verbi che esprimono la duplice azione del Precursore: «battezzava e proclamava». - proclamava (κηρύσσων). Il participio κηρύσσων, kērýssōn (κηρύσσω «fungo da araldo, da banditore, proclamo, annuncio, divulgo») descrive l'attività di un κῆρυξ «araldo» nel richiamare la gente a una risposta immediata. Questo caratterizzerà anche l'attività di Gesù (1,14.38-39), dei discepoli (3,14; 6,12), degli indemoniati guariti (1,45; 5,20; 7,36) e della comunità post-pasquale (13,10; 14,9). È uno di quei termini mediante i quali Marco lega insieme Giovanni Battista, Gesù e i seguaci di Gesù. - un battesimo (βάπτισμα). La traduzione «battesimo» non aiuta a capire il rito di iniziazione praticato da Giovanni. I verbi βαπτίζω, baptízō «lavo, immergo, battezzo» e βάπτω, báptō «immergo, intingo, tingo», nella forma riflessiva significano «lavarsi». Marco è al corrente delle abluzioni rituali ebraiche (7,4), perciò usa il termine «battesimo» anche in senso metaforico per indicare l'essere «immersi» nella sofferenza (10,38-39). Riguardo al battesimo di Giovanni non abbiamo notizie precise. Due sono le ipotesi attuali: 1) rituale di purificazione con l'acqua praticato nell'AT e a Qumran (Lv 14,5-6.50-52; Nm 19,13.20-21), che è simbolo di purificazione interiore (Is 1,16; Sal 51,9; 1QS 3,4-12; 4,20-22; 1QH 7,6-7; 17,26); 2) battesimo per proseliti, cioè lavaggio rituale di iniziazione per i convertiti al giudaismo. Giovanni comunque si distingue perché offre un battesimo che non viene ripetuto, che prepara all'eschaton e che implica una conversione morale. Egli non ha cercato di formare una comunità di battezzati che stesse solo attorno a lui. John Paul Meier (1942 - biblista e presbitero statunitense, in Un ebreo marginale 2) è del parere che la pratica del battesimo di Giovanni doveva essere originale. - un battesimo di conversione (βάπτισμα μετανοίας). Ci troviamo di fronte a un genitivo descrittivo, ossia a un battesimo caratterizzato dalla conversione, seguito da εἰς ἄφεσιν «per il perdono» che rivela lo scopo. Il battesimo è qui strettamente associato alla μετάνοια «conversione», sostantivo che evoca un cambio di mentalità. L'idea è quella di una «inversione» (greco ἐπιστροφή, ῆς, ἡ, «conversione» ἐπιστρέφω «faccio ritornare, riconduco, 12 ritorno»; ebraico šûb, šûb «tornare indietro») e ricorda il richiamo profetico rivolto al popolo di Israele perché «faccia ritorno» a Dio. - per il perdono dei peccati (εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν). Il sostantivo ἄφεσις, εως, ἡ «perdono, remissione, condono» (dal verbo ἀφίημι, aphíēmi, «dimetto, permetto, emetto, congedo, condono, perdono, abbandono») può significare perdono, liberazione dalla schiavitù o cancellazione di una punizione. Come è detto nel v. 5, la «confessione» dei peccati è il presupposto per ottenerne il perdono. 1,5-6: Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico (καὶ ἐξεπορεύετο πρὸς αὐτὸν πᾶσα ἡ Ἰουδαία χώρα καὶ οἱ Ἱεροσολυμῖται πάντες, καὶ ἐβαπτίζοντο ὑπ' αὐτοῦ ἐν τῷ Ἰορδάνῃ ποταμῷ ἐξομολογούμενοι τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν. 6καὶ ἦν ὁ Ἰωάννης ἐνδεδυμένος τρίχας καμήλου καὶ ζώνην δερματίνην περὶ τὴν ὀσφὺν αὐτοῦ καὶ ἐσθίων ἀκρίδας καὶ μέλι ἄγριον). - Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme (καὶ ἐξεπορεύετο πρὸς αὐτὸν πᾶσα ἡ Ἰουδαία χώρα καὶ οἱ Ἱεροσολυμῖται πάντες). Il greco presenta una struttura chiastica: «tutta (πᾶσα) la regione della Giudea e da Gerusalemme «tutti (πάντες)», sottolineando in tal modo la Giudea e Gerusalemme dove il racconto raggiunge il culmine (cc. 11-16). Gerusalemme è la capitale della Giudea, che nel primo secolo faceva parte di una provincia romana. Una caratteristica dello stile di Marco è l'«universalizzazione» delle scene mediante l'uso di «tutto - tutti». L'espediente normalmente serve a dar risalto alla figura di Gesù. Qui l'evangelista rileva la grande popolarità goduta da Giovanni il Battista, attestata anche da Giuseppe Flavio (Ant. 18,118). - E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano (καὶ ἐβαπτίζοντο ὑπ' αὐτοῦ ἐν τῷ Ἰορδάνῃ ποταμῷ). La gente veniva battezzata nel fiume Giordano nel senso che veniva «immersa» nelle sue acque. Il Giordano scorre per 200 km, nella grande faglia o «valle del Giordano», dalle falde del monte Ermon fino al Mar Morto (la più profonda depressione sulla terraferma: 415 metri sotto il livello del mare; superficie 650 km², lunghezza 67 km, larghezza 18 km, profondità massima 306 m). Il Giordano ha sempre rappresentato il confine tra il deserto e la terra della promessa. - confessando i loro peccati (ἐξομολογούμενοι τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν). Il verbo ἐξομολογέω significa «accetto, convengo, riconosco, professo, confesso, lodo, benedico». Nella Settanta (LXX), assume il senso di «ringraziare, lodare» Dio per i suoi benefici. Questo è anche l'uso che ne fa Mt 11,25: ««Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (cf Lc 10,21. Il prefisso ἐξ- mette in evidenza l'aspetto pubblico della confessione. La ὁμολογία «confessione, dichiarazione, testimonianza» sia pubblica che privata dei peccati era molto diffusa nel giudaismo (Lv 5,5; Sal 32,5; 38,19; 51,3-6), al punto di diventare una forma standard di preghiera (Dn 9,4-19; Bar 2,6-10). L'apocrifo Preghiera di Manasse, scritto tra il 100 a.C. e il 100 d.C. e attribuita al più malvagio dei re dell'antico Israele (cf 2Re 21,1-18; 2Cr 33,12-13.18), è un limpido esempio di questo genere letterario. In un linguaggio simile a Mc 1,4-5, Giuseppe Flavio (Guerra 5,415) dice che Dio «si riconcilia facilmente con quelli che confessano [i peccati] e si pentono (ἐξομολογουμένοις καὶ μετανοοῦσιν)». - Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi (6καὶ ἦν ὁ Ἰωάννης ἐνδεδυμένος τρίχας καμήλου καὶ ζώνην δερματίνην περὶ τὴν ὀσφὺν αὐτοῦ). Dopo il resoconto delle attività di Giovanni, la descrizione del suo aspetto fisico sembra quasi un ripensamento. - era vestito (ἐνδεδυμένος). L'uso della forma perifrastica (alla lettera «era solito vestirsi») permette all'evangelista di sottolineare un'azione abituale di Giovanni Battista. - di peli di cammello (τρίχας καμήλου). Alcuni manoscritti sostituiscono τρίχας «peli» con δέρριν «pelle», ma tale interpolazione sembra essere opera di copisti poco aggiornati sui costumi del Vicino Oriente. La pelle di cammello è troppo spessa e dura per poter essere utilizzata come capo di vestiario. Del resto, la prima preoccupazione dell'autore non è quella di descrivere i capi indossati dal Battista ma di accostare la sua figura a Elia, secondo la presentazione di tale profeta in 2Re 1,8 (cf Zc 13,4). - e mangiava cavallette e miele selvatico (καὶ ἐσθίων ἀκρίδας καὶ μέλι ἄγριον). L'espressione καὶ ἐσθίων, lett. «stava mangiando» esprime un'azione abituale. In Lv 11,20-23 le cavallette sono incluse tra gli insetti alati che si possono mangiare, e secondo CD 12,14 anche la comunità di Qumran mangiava locuste. Il μέλι ἄγριον «miele selvatico» è il miele raccolto tra le rocce (Dt 32,13), sugli alberi (1Sam 14,25-26) e perfino nella carcassa di un animale morto (Gdc 14,8-9). 13 1,7: E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali (καὶ ἐκήρυσσεν λέγων• ἔρχεται ὁ ἰσχυρότερός μου ὀπίσω μου, οὗ οὐκ εἰμὶ ἱκανὸς κύψας λῦσαι τὸν ἱμάντα τῶν ὑποδημάτων αὐτοῦ). - E proclamava (καὶ ἐκήρυσσεν λέγων). La solenne introduzione, lett. «ed egli proclamava dicendo» conferisce risalto al messaggio, che contiene le prime parole pronunciate direttamente da un personaggio in Marco; l'imperfetto ἐκήρυσσεν, ekéryssen suggerisce un'azione continuativa. A differenza degli altri Sinottici (Lc 3,7-9; Mt 3,7-10), il Giovanni marciano non pronuncia nessuna minaccia di giudizio escatologico ma è in primo luogo l'araldo che annuncia Gesù. - Dopo di me (ὀπίσω μου). L'espressione ὀπίσω μου, opísō mou «dopo di me» è usata da Gesù quando chiama i discepoli a seguirlo. - colui che è più forte (ὁ ἰσχυρότερος). L'aggettivo ἰσχυρός, ά, όν «forte, robusto, vigoroso» è qui usato nella forma comparativa: ἰσχυρότερος «più forte». L'aggettivo è usato nel NT per qualificare diversi personaggi: satana (Mc 3,27); l'Apocalisse lo riferisce agli oppressori (6,15; 19,18), agli angeli (10,1; 18,21 ), a Dio stesso (18,8). Nel nostro caso, il figlio di Zaccaria usa il comparativo per mettere a confronto Gesù, «il più forte», con se stesso, presentandolo quale vero liberatore escatologico. - io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali (οὗ οὐκ εἰμὶ ἱκανὸς κύψας λῦσαι τὸν ἱμάντα τῶν ὑποδημάτων αὐτοῦ). L'immagine evoca un rapporto tra padrone e schiavo; vedi il detto di Rabbi Joshùa ben Levi nel Talmud Babilonese: «Tutti i servizi che uno schiavo fa per il suo padrone l'allievo deve farli per il suo maestro, a eccezione di slegargli i sandali» (III Ordine Nashim «Donne», trattato Ketubbot [P e B] «contratti matrimoniali» 96a). Giovanni sembra che si ritenga meno di uno schiavo dinanzi al «più forte». Tra gli studiosi non manca chi coglie dietro questa immagine un'allusione alla legge del levirato (ibbùm): una vedova rimasta senza figli aveva diritto ad avere dei figli da eventuali fratelli del marito (Dt 25,5-10). Chiamata così, dal latino levir, «cognato» (ebr. yabàm), quando l'avente diritto rifiutava di sposare la vedova senza figli, il nuovo pretendente era invitato a sfilargli il calzare, per significare la perdita di ogni diritto sulla donna. Giovanni Battista, perciò, lascia intendere che la sposa/Israele appartiene al «più forte» ed egli non è degno di compiere il gesto destinato a trasferirne la potestà, qualora Gesù rifiutasse una simile missione. 1,8: Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» (ἐγὼ ἐβάπτισα ὑμᾶς ὕδατι, αὐτὸς δὲ βαπτίσει ὑμᾶς [ἐν] πνεύματι ἁγίῳ). - egli vi battezzerà in Spirito Santo» (αὐτὸς δὲ βαπτίσει ὑμᾶς [ἐν] πνεύματι ἁγίῳ). Nel Vangelo di Marco lo «Spirito Santo» è nominato solo qui, in 3,29 e in 13,11. L'autenticità di questi testi è problematica. Il fatto stesso che qualche codice aggiunga «e fuoco» indica la tendenza ad armonizzare il testo con i passi paralleli di Mt 3,11 e Lc 3,16: «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». L'idea tipica del battesimo cristiano in cui il battezzando riceve lo Spirito Santo (cf At 19,1-7; Tt 3,5) è assente in Marco, come pure lo è l'immagine di Gesù che battezza. Lo Spirito Santo non è tanto una persona, come nella successiva teologia trinitaria, quanto piuttosto la potenza e lo spirito di Dio che porta la santità. Il parallelo anticotestamentario più vicino a Mc 1,8 è Ez 36,25-26, dove Dio promette di rinnovare il popolo purificandolo con l'acqua e infondendo in esso uno spirito nuovo (cf Gl 2,28; Is 44,3; Ez 39,29). Il battesimo di Giovanni era in preparazione a un rinnovamento più profondo che si realizzerà per l'intervento di «colui che è più forte». Il secondo vangelo si apre con un prologo il cui carattere programmatico emerge già dal v. 1. Scandito in tre scene, esso presenta: l'annuncio di Giovanni Battista, a cui risponde la corsa di una folla assetata di salvezza (1,2-8); il battesimo di Gesù nell'assoluto anonimato (1,9-11); il ritorno alle origini con il ristabilimento dell'armonia della creazione (1,12-13). Le tre scene corrispondono alle grandi tappe della vita di Gesù: il ministero pubblico; il battesimo «di sangue»; la rinascita di ogni cosa in quel «primo giorno dopo il sabato». L'annuncio del Battista (1,2-8). La novità del Vangelo marciano si fonda su tre passi biblici: Es 23,20 parla di un angelo inviato da Dio per accompagnare il suo popolo nella marcia verso la terra promessa; Ml 3,1 evoca la figura di Elia, il cui compito sarà quello di vivere con i figli di Israele il giorno grande e terribile del Signore; Is 40,3 annuncia al popolo in esilio quel «nuovo esodo» che lo ricondurrà da Babilonia alla terra della promessa. La 14 combinazione dei tre brani permette di identificare il Battista con l'Elia atteso e Gesù come Colui in cui si compie il nuovo esodo e si manifesta la potenza del Signore. La figura del Battista. Giovanni irrompe sulla scena con tratti sorprendenti: lui che è figlio di Zaccaria sacerdote, non opera al tempio ma nel deserto; lui che dovrebbe seguire la ritualità dei sacrifici, assicura il perdono con un battesimo in acqua che va oltre un semplice rituale di purificazione; lui che dovrebbe sottomettersi alla Legge, grida e convoca, scuotendo i cuori degli Israeliti. Quando Gesù si presenta al Giordano, Giovanni è già un profeta conosciuto che attira l'attenzione della folla. Erode Antipa, stando al secondo vangelo, lo definisce un «uomo giusto e santo» (6,20) e lo storico Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) lo riconosce come «il» Battista (Antichità giudaiche 18,5,2 § 116), distinguendolo dai diversi battezzatori che circolavano nella regione. L'area della sua attività sembra essere la Perea o Transgiordania che appartiene, come la Galilea, alla tetrarchia di Erode Antipa. Giovanni sembra tenersi lontano dalla Giudèa; il suo messaggio e il suo battesimo, offerti in una cornice che di sacrale ha ben poco, rischiano di essere troppo scomodi: forse per questo non opera nel tempio, ma nel deserto; non parla di sacrifici, ma di conversione; non in Giudea, ma al di là del Giordano; non come sacerdote, ma come profeta. Nella sua predicazione egli distingue se stesso da colui che deve venire, descrivendolo come uno che «è più forte» (v. 7) e che «battezzerà in Spirito Santo» (v. 8). Giovanni si ritiene persino indegno «di sciogliere i legacci dei (suoi) sandali» (v. 7). I battesimi. Il rito praticato dal Battista è diverso dai rituali di purificazione tipici del giudaismo. Esso è, infatti, caratterizzato da un cambiamento radicale e unico nella vita, al punto tale che senza un atteggiamento di conversione tale battesimo non avrebbe alcun senso. La μετάνοια «conversione» è parte integrante del rito praticato da Giovanni. Alcuni studiosi vi colgono un'analogia con il rito in uso presso la comunità degli esseni dove il battesimo non poteva essere amministrato senza una disposizione previa alla conversione. Nella Regola della Comunità di Qumran troviamo scritto: «Non si libera dalla colpa mediante riti di espiazione, non può purificarsi mediante l'acqua della purificazione... Impuro, impuro egli resta, finché disprezza gli ordinamenti di Dio, finché non si disciplina nella comunità del suo consiglio» (1QS 3,4-6). Altri studiosi vi colgono un nesso con il battesimo dei proseliti, una sorta di rituale di purificazione per quanti si convertivano al giudaismo. Finora, però, non abbiamo nessuna testimonianza che assicuri l'esistenza di un simile uso ai tempi di Gesù. Sta di fatto che il battesimo di Giovanni non si presenta come definitivo: esso, infatti, orienta verso un altro battesimo, quello «nello Spirito Santo» che sarà amministrato dal «più forte». Gli Ebrei attendevano per gli ultimi tempi un'effusione dello Spirito su ogni creatura (cf Gl 3,1), ma la promessa del Battista si spinge oltre: colui che verrà non battezzerà più in acqua, né si limiterà a conferire il dono dello Spirito, ma immergerà nella vita stessa di Dio quanti si accostano a lui. Così, fin dalla prima pagina del suo vangelo, Marco colloca al giusto posto Giovanni Battista, la sua missione e il suo battesimo: la sua non è che una preparazione a quanto Gesù sta per dire e fare; egli non è colui che compie l'attesa messianica, ma lo sarà «il più forte» di cui egli è araldo e annunciatore. L'accorrere della folla. Il «grido» del Battista trova riscontro nella «corsa» della folla. Né Gerusalemme né il tempio bastano a soddisfare la sete di salvezza presente nel cuore dell'uomo che accorre nel deserto. In filigrana traspare il tema del nuovo esodo e del ritorno a Dio. Emerge chiara l'enfasi con cui l'autore evidenzia la totalità della risposta: accorrono «tutti gli abitanti della Giudea» e «tutti gli abitanti di Gerusalemme». Un contesto simile, anche se nella cornice della Galilea, caratterizzerà l'ingresso in scena di Gesù: più avanti il narratore si troverà a sottolineare la totalità di una risposta positiva verso il Maestro (1,33: «tutta la città»; 1,37: «tutti ti cercano»; 1,39: «tutta la Galilea»), al punto che questi sarà progressivamente costretto a trovare spazi più adeguati per incontrare la folla, fino a doversi inoltrare in luoghi solitari (1,45). La volontà di conversione della folla si manifesta nella confessione pubblica dei peccati, una pratica abbastanza conosciuta nel giudaismo del I secolo. Tra gli esempi più significativi merita di essere citato il testo apocrifo della Preghiera di Manasse, composto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Una confessione pubblica caratterizzava a Qumran la festa del rinnovamento dell'alleanza. Ne è prova un passaggio della Regola della Comunità. «I sacerdoti narrino la giustizia di Dio nelle opere della sua potenza, proclamino tutte le benevolenze misericordiose verso Israele; i leviti narrino le iniquità dei figli di Israele, tutte le loro colpevoli trasgressioni e i loro peccati compiuti sotto l'impero di Belial. Dopo di loro, tutti coloro che passano nel patto faranno la confessione, dicendo: "Siamo stati perversi, ci siamo ribellati, abbiamo peccato, abbiamo agito iniquamente sia noi sia i padri nostri prima di noi poiché abbiamo camminato nell'ingiustizia e non nella verità"» (1QS 1,21-26). Viene così anticipata la duplice disposizione destinata ad accompagnare la diffusione del Vangelo: la conversione e l'adesione di fede ai segni del Regno (1,14-15). 15 16
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