PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE La storia di

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
La storia di questo romanzo (la cui uscita nella presente edizione è stata molto ritardata dalla sua pubblicazione
a puntate su una rivista e dai problemi ad essa legati) è in breve la seguente. Lo schema venne tracciato nel 1890, sulla
base di appunti presi a partire dal 1887, anche se a suggerire alcune circostanze della trama era stata la morte di una
donna l'anno prima. Le scene furono rielaborate nell'ottobre del 1892; il testo fu scritto nelle linee essenziali nel 1892 e
nella primavera del 1893, e per esteso, nella forma attuale, dall'agosto del 1893 in poi. Ad eccezione di un paio di
capitoli fu consegnato all'editore alla fine del 1894. Nel novembre di quell'anno cominciò ad essere pubblicato a puntate
sulla «Harper's Magazine», che continuò a ospitarlo con scadenza mensile.
Ma, come già nel caso di Tess dei d'Ubervilles, per vari motivi quella della rivista fu una versione abbreviata e
ritoccata in più punti. La presente edizione è la prima a riprodurre il testo nella sua integrità originaria. Data la difficoltà
di scegliere un titolo, il romanzo uscì con un titolo provvisorio, cui ne seguì un secondo poi scartato a sua volta.
Quello attuale e definitivo, ritenuto il migliore, era stato uno dei primi a cui avevo pensato.
Per un romanzo rivolto a un pubblico adulto, che cerca di trattare senza affettazione l'inquietudine e
l'eccitazione, la derisione e il disastro causati dalla più forte tra le passioni umane, di raccontare senza perifrasi la storia
di una lotta mortale ingaggiata tra carne e spirito, e di evidenziare la tragedia di ambizioni non realizzate, non mi
sembra che nell'esposizione di questo materiale vi sia qualcosa a cui si possano levare obiezioni.
Come le opere prodotte in precedenza da questa penna, Jude l'oscuro è semplicemente un tentativo di dare
forma e coerenza a una serie di apparenze, o impressioni personali, la cui armonia o discordanza, permanenza o
transitorietà non è considerata dall'autore una questione di primaria importanza.
Agosto 1895
POSCRITTO
L'uscita di questo libro sedici anni fa, con la Prefazione esplicativa di cui sopra, fu seguita da incidenti
imprevisti. Il tempo trascorso permette ormai di riconsiderare quelle vicende. Nel giro di un paio di giorni dalla sua
pubblicazione, i critici si pronunciarono con toni in alcun modo paragonabili a quelli con cui era stato accolto Tess dei
d'Uberville sebbene in due o tre dissentissero dal coro unanime.
L'accoglienza riservatagli in Inghilterra fu telegrafata all'istante in America, e la musica si ripeté da quel
versante dell'Atlantico in un crescendo sempre più acuto.
Ai miei occhi, il lato deprimente di tali attacchi era che gran parte del romanzo - quella che trattava degli ideali
infranti dei due personaggi principali, e che per me aveva un interesse particolare, se non esclusivo - fu praticamente
ignorata dalla stampa dei due paesi; mentre le venti o trenta pagine di tristi dettagli necessarie a completare la
narrazione, e a mostrare le antitesi della vita di Jude, furono quasi le uniche ad essere lette e giudicate.
Inspiegabilmente, la ristampa l'anno dopo di un racconto fantastico pubblicato qualche tempo prima su una rivista per le
famiglie attirò da più parti sulla mia testa una dose ulteriore di invettive dello stesso tenore.
Tutto ciò per quanto riguarda l'infelice esordio della carriera di Jude come romanzo. Dopo questi verdetti della
stampa, la disavventura successiva che gli capitò fu quella di essere bruciato da un vescovo - probabilmente per la
disperazione di non poter bruciare me in persona - che si premurò di pubblicizzare la sua azione meritoria.
Poi qualcuno scoprì che Jude era un'opera morale - austera nel modo in cui affrontava un argomento difficile quasi l'autore non avesse ripetuto tutto il tempo che queste erano le sue intenzioni. In molti smisero allora di esecrarmi e
la faccenda finì lì.
L'unico suo effetto sulla condotta umana di cui io mi sia reso conto è quello su me stesso - poiché tale
esperienza mi guarì completamente da ogni ulteriore desiderio di scrivere romanzi.
Tra i molti fatti curiosi cui diede origine quella tempesta di parole, uno ebbe per protagonista un americano, un
uomo di lettere dai saldi principi morali, il quale mi scrisse che, essendo stato convinto dalle critiche scandalizzate che
aveva suscitato ad acquistare una copia del libro, man mano che era andato avanti nella sua lettura si era chiesto quando
sarebbe iniziata la parte immorale, finché non lo aveva gettato in mezzo alla stanza bestemmiando per essere stato
indotto da critici privi di scrupoli a buttare un dollaro e mezzo per ciò che definiva un trattato etico-religioso.
Io simpatizzai con lui, e lo rassicurai che l'erronea rappresentazione del libro non era un mio stratagemma
fraudolento per accrescere le vendite tra gli abbonati delle riviste su cui erano apparse quelle recensioni.
Ci fu poi il caso di una signora che, avendo raccontato in un articolo influente per una rivista diffusa in tutto il
mondo, nel cui titolo manifestava tutto il suo orrore, di essere rabbrividita leggendo il libro, mi scrisse poco dopo che
avrebbe desiderato conoscermi.
Ma per tornare al libro. Poiché le leggi del matrimonio sono state in gran parte usate per la trama tragica del
romanzo, e l'accento posto in generale sul suo lato domestico ha avuto l'effetto di mostrare che, per citare Diderot, la
legge civile dovrebbe essere null'altro che l'enunciazione di una legge naturale (una affermazione, questa, che peraltro
richiede di essere qualificata), sono stato accusato fin dal 1895 di avere una grande responsabilità per l'odierno
logoramento dell'istituto del matrimonio nel nostro paese (come ha scritto giorni fa un critico molto colto). Può essere.
Se ben ricordo, all'epoca la mia opinione era la stessa di oggi: si dovrebbe consentire che un matrimonio sia sciolto
appena diventa una crudeltà per l'una o l'altra delle persone sposate - poiché a quel punto non è più essenzialmente e
moralmente un matrimonio. L'argomento sembrava una buona base per una tragedia raccontata senza altro fine che
quello di presentare alcuni eventi particolari il cui contenuto aveva però in larga misura una valenza universale, con la
speranza che vi si potessero ritrovare delle qualità catartiche, in senso aristotelico.
Le difficoltà esistenti venti o trent'anni addietro di acquisire una cultura letteraria senza mezzi pecuniari, sono
state utilizzate nello stesso modo; anche se ho saputo che alcuni lettori hanno interpretato questi episodi come un
attacco ad istituzioni venerabili, e che quando in seguito fu fondato il Ruskin College, secondo alcuni lo si sarebbe
dovuto chiamare il College di Jude l'oscuro.
L'impegno artistico paga un prezzo alto per il fatto di trovare le sue tragedie nell'adattamento forzato degli
istinti umani a modelli rigidi e tediosi che non gli si confanno. A essere obiettivi con Bludyer e il vescovo piromane di
cui sopra, la loro opinione si potrebbe riassumere così: «Noi inglesi odiamo le idee e difenderemo sempre questo
privilegio del nostro paese. Il vostro quadro di vita potrebbe anche mostrare fatti veri e comuni, e persino essere
contrario ai canoni dell'arte; ma è una versione della vita che noi, che prosperiamo grazie alle convenzioni, non
possiamo permettere venga dipinta».
Ma per andare alla sostanza delle cose. Per quel che riguarda le scene matrimoniali, malgrado l'accusa di
mettere il dito sulla piaga, e gli strilli di una povera signora su Blackwood, secondo la quale esisteva una lega pagana
contraria al matrimonio, il famoso contratto - ossia il sacramento religioso - continua a godere di buona salute, e la
gente che si sposa si lega a cuor leggero come ha sempre fatto in quello che può essere o meno un vero matrimonio.
All'autore è stato persino rimproverato, da parte di persone oneste con cui intrattiene una corrispondenza epistolare, di
aver lasciato il problema insoluto come lo aveva trovato e di non aver indicato la strada per una riforma quantomai
necessaria.
Dopo che Jude l'oscuro era stato pubblicato a puntate in Germania, un rinomato critico di quel paese fece
presente a chi scrive che Sue Bridehead costituiva il primo abbozzo in un romanzo di quel modello di donna che si stava
affermando prepotentemente anno dopo anno - la donna del movimento femminista - l'esile, pallida, ragazza nubile quel groviglio di nervi intellettualistico ed emancipato che la società moderna produce, prevalentemente nelle città; che
non riconosce la necessità per la maggioranza del suo sesso di scegliere il matrimonio come una professione, ed è
orgogliosa della sua superiorità perché è autorizzata ad essere amata sul posto. Il critico in questione si rammaricava
soltanto del fatto che a tracciare il ritratto di questa donna all'avanguardia fosse stato un uomo, e non una rappresentante
del suo sesso, che non le avrebbe mai consentito di arrendersi alla fine.
Se questa certezza sia fondata su dati oggettivi non saprei. Né sono in grado, tanti anni dopo la stesura del
romanzo, di esercitare su di esso una critica generale che vada al di là della correzione di alcune parole,
indipendentemente dal suo contenuto. Senza dubbio, in un libro può esserci più di quanto l'autore vi abbia messo
consapevolmente, il che può tornare o meno a suo vantaggio, a seconda dei casi.
Aprile 1912
T.H.
PARTE PRIMA
A Marygreen
Yea, many there be that have run out of their wits for women, and become servants for their sakes. Many also have
perished, have erred, and sinned, for women... O ye men, how cant it be but women should be strong, seeing they do
thus?
Esdras
CAPITOLO I
Il maestro di scuola stava per lasciare il villaggio, e tutti sembravano dispiaciuti. Essendo più che sufficiente
per gli effetti che portava con sé, il mugnaio di Cresscombe gli aveva prestato il carretto con il telone bianco di farina, e
il cavallo, per trasportare le sue cose alla città cui era diretto, distante una ventina di miglia da lì. Il suo alloggio presso
la scuola, infatti, era stato arredato in parte dagli amministratori, e l'unico oggetto ingombrante di sua proprietà oltre alla
cassa dei libri era un piccolo pianoforte verticale, da lui acquistato a un'asta l'anno in cui aveva pensato di imparare a
suonare uno strumento. Svanito l'entusiasmo iniziale, non aveva mai raggiunto alcuna abilità con i tasti, e da allora
l'acquisto era stato per lui fonte di continui fastidi durante i traslochi.
Il parroco, un uomo che non sopportava assistere ai cambiamenti, si era assentato per l'intera giornata. Sua
intenzione era di non fare ritorno fino a sera, quando il nuovo maestro fosse già arrivato e sistemato, e tutto fosse
tornato come prima.
Il fabbro ferraio, il fattore, e il maestro stesso, stavano nel soggiorno in atteggiamento perplesso davanti allo
strumento. Il maestro aveva osservato che, pur se fosse riuscito a caricarlo sul carretto, non avrebbe saputo cosa farne
una volta giunto a Christminster, la sua nuova destinazione, dato che all'inizio si sarebbe cercato un alloggio
provvisorio.
Un ragazzetto di undici anni, che aveva assistito pensieroso al trasloco, si avvicinò allora al gruppo degli
uomini, e mentre costoro, incerti sul da farsi, si fregavano il mento, arrossendo al suono della propria voce disse: «Mia
zia ha una grande cantina, e forse potreste metterlo là finché non avrete trovato dove sistemarvi, signore».
«Un'ottima idea», disse il fabbro.
Fu deciso di inviare una deputazione dalla zia del ragazzo - una vecchia zitella del paese - per chiederle se
avrebbe tenuto in casa il pianoforte finché il signor Phillotson non avesse mandato a ritirarlo. Il fabbro e il fattore si
allontanarono per verificare la praticabilità di quella soluzione, e il ragazzo e il maestro rimasero soli, in piedi nel
soggiorno.
«Ti dispiace che parto, Jude?», domandò quest'ultimo con affetto.
Gli occhi del ragazzo si riempirono di lacrime, poiché egli non era uno degli scolari regolari della mattina, che
vivendo ogni giorno a contatto con il maestro erano alieni da qualsiasi romanticismo, ma aveva frequentato la scuola
serale solo durante il trimestre appena concluso. A dire il vero, in quel momento gli scolari regolari, come certi
discepoli del passato, evitavano di farsi vedere nei paraggi, essendo poco propensi a offrirsi con entusiasmo di aiutarlo.
Il ragazzo aprì imbarazzato il libro che teneva in mano, regalatogli dal signor Phillotson per ricordo, e ammise
che gli dispiaceva.
«Anche a me», disse il signor Phillotson.
«Perché ve ne andate, signore?», chiese il ragazzo.
«Oh, sarebbe troppo lungo spiegarlo. Non capiresti le mie ragioni, Jude. Forse potrai capirle quando sarai più
grande».
«Credo di poterle capire anche adesso, signore».
«E va bene - ma non andarlo a raccontare in giro. Sai cosa è una università e una laurea? È il lasciapassare
necessario per chiunque voglia concludere qualcosa nell'insegnamento. Il mio progetto, o il mio sogno, è di laurearmi, e
poi prendere gli ordini. Andando a vivere a Christminster o nei paraggi mi troverò per così dire al quartier generale, e se
il mio progetto è realizzabile, l'essere già là mi darà più opportunità di portarlo avanti che se vivessi altrove».
Il fabbro e il suo compagno tornarono. La cantina era asciutta e comoda, e la signorina Fawley pareva disposta
a ospitare lo strumento. Si decise di conseguenza di lasciarlo nella scuola fino a sera, quando avrebbero potuto contare
su più braccia per trasportarlo; e il maestro diede un'ultima occhiata intorno a sé.
Jude aiutò a caricare le poche cose rimaste, e alle nove in punto il signor Phillotson, salito sul carretto e
sedutosi vicino alla cassa dei suoi libri e agli altri impedimenta, si congedò dagli amici.
«Non ti dimenticherò, Jude», disse sorridendo mentre il carretto iniziava a muoversi. «Ti raccomando di fare il
bravo; sii gentile con gli animali e gli uccelli, e leggi più che puoi. E se un giorno verrai a Christminster, ricordati di
cercarmi, in nome dell'antica amicizia».
Il carretto scricchiolò passando attraverso il prato, e scomparve dietro l'angolo, nei pressi della casa del
parroco. Il ragazzo tornò verso il pozzo, al limite del prato, dove aveva lasciato i secchi per andare ad aiutare il suo
protettore e maestro a caricare le sue cose. Le labbra ora gli tremavano, e dopo aver sollevato il coperchio del pozzo per
calarvi il secchio, si fermò e si appoggiò con la fronte e le braccia contro il parapetto. Il viso aveva la fissità di un
bambino pensieroso che avesse provato le avversità della vita prima del tempo. Il pozzo in cui stava guardando era
antico almeno quanto il villaggio, e dalla sua posizione appariva come una lunga prospettiva circolare che terminava in
un disco lucente d'acqua leggermente increspata, alla profondità di un centinaio di piedi. Vicino all'imboccatura il pozzo
era coperto di muschio verde, e sul parapetto di felci minute.
Coi toni melodrammatici propri di un ragazzo pieno di fantasia, disse a se stesso che il maestro aveva attinto a
quel pozzo chissà quante volte in mattinate come quella, ma ora non l'avrebbe fatto più. «L'ho visto guardare dentro,
quando era stanco di tirare su secchi come me ora, e si riposava un attimo prima di tornare con i secchi su a casa! Ma
era troppo intelligente per restare qui più a lungo - un posto piccolo e addormentato come il nostro!».
Una lacrima gli scese dagli occhi giù nel pozzo. C'era un po' di nebbia quella mattina, e il respiro del ragazzo si
spandeva come una nebbia più densa nell'aria immobile e pesante. I suoi pensieri furono interrotti da un grido
improvviso:
«Cosa aspetti con quell'acqua, monellaccio?».
Proveniva da una vecchia, apparsa sulla porta che dava verso il cancello del giardino di una casetta lì accanto,
dal tetto verde. Il ragazzo si affrettò a fare un cenno di assenso, tirò su l'acqua con quello che doveva essere un grande
sforzo per uno della sua statura, posò a terra il secchio del pozzo, lo vuotò nei suoi due più piccoli, e dopo essersi
fermato un secondo a riprendere fiato, si incamminò sullo spiazzo umido ed erboso sul quale il pozzo si trovava - quasi
al centro del piccolo villaggio di Marygreen, appena più grande di una fattoria.
Il villaggio era antiquato quanto piccolo, e si adagiava nella conca di un altipiano ondulato, in prossimità delle
colline del nord del Wessex. Benché antico, il pozzo era probabilmente l'unica reliquia della storia locale ancora
completamente intatta. Molte delle case col tetto di paglia e l'abbaino erano state demolite negli ultimi anni, e nel prato
un gran numero di alberi era stato abbattuto. La stessa chiesa originaria, con la gobba, le torrette di legno, e le sue
singolari ondulazioni, era stata demolita, e le macerie ridotte a mucchi di pietrisco per il sentiero, o utilizzate per farci
pareti di porcili, panchine nei giardini, o a sostegno di palizzate, e come sassi ornamentali nelle aiuole del vicinato. Al
suo posto, un'alta costruzione, di un gotico moderno ben poco familiare agli occhi degli inglesi, era stata eretta su un
nuovo appezzamento di terreno da un certo distruttore di cimeli storici, venuto in gran fretta da Londra, dove era tornato
lo stesso giorno. Il luogo sul quale per tanto tempo era sorto l'antico tempio alle divinità cristiane non era neppure
segnato sullo spiazzo verde che da tempo immemorabile era stato il camposanto, le cui tombe abbandonate ora erano
commemorate da croci di ferro costate diciotto penny l'una e garantite per cinque anni.
CAPITOLO II
Per quanto gracile di corporatura, Jude Fawley portò fino a casa i due secchi pieni d'acqua senza fermarsi.
Sulla porta di casa c'era una piccola insegna rettangolare di legno, di colore azzurro, su cui era scritto con una vernice
gialla: «Drusilla Fawley, fornaia». Dietro ai piccoli vetri piombati della finestra - la sua era una delle poche case antiche
rimaste nel villaggio - c'erano cinque barattoli di dolciumi e tre ciambelle su un piatto di porcellana bianca con una
decorazione blu raffigurante un fiume con un ponte e degli alberi.
Mentre svuotava i secchi sul retro della casa, poteva ascoltare l'animata conversazione che si svolgeva
all'interno tra la prozia, la Drusilla dell'insegna, e altre donne del villaggio. Avendo assistito alla partenza del maestro,
riassumevano i particolari di quell'evento, tra congetture e previsioni sul suo futuro.
«E questo chi è?», chiese una di loro, meno addentro delle altre ai fatti del villaggio, quando entrò il ragazzo.
«Avete ragione a chiederlo, signora Williams. È un mio pronipote - è arrivato dopo la vostra ultima visita». A
rispondere era stata una donna vissuta da sempre nel villaggio, alta e magra, che parlava con tono tragico anche degli
argomenti più banali, e conversava rivolgendo una frase a turno a ognuna delle sue interlocutrici. «È giunto circa un
anno fa da Mellstock nel sud del Wessex... nessuno è più disgraziato di lui, Belinda» (e si volse a destra), «... dove suo
padre viveva e fu preso dalle convulsioni e morì in due giorni, come sai, Caroline» (e si volse a sinistra). «Sarebbe stata
una benedizione se Dio Onnipotente si fosse preso anche te, povero figlio, insieme ai tuoi genitori! Invece me lo sono
preso io, in attesa di vedere come sistemarlo, pur essendo costretta a fargli guadagnare quel poco che può. Al momento
fa lo spaventapasseri dal fattore Troutham. Almeno sta lontano dai monelli. Ma dove vai, Jude?», continuò, poiché il
ragazzo, sentendosi colpito dalle loro occhiate come da altrettanti schiaffi sul viso, si era messo in disparte.
La lavandaia del paese commentò che forse era un'ottima decisione quella della signorina o signora Fawley
(come la chiamavano indifferentemente) di tenerlo con sé -«ti farà compagnia nella tua solitudine, e poi potrà prendere
l'acqua, abbassare le imposte la sera, e aiutarti un po' al forno».
La signorina Fawley non ne era convinta... «Perché non hai chiesto al maestro di portarti con sé a
Christminster, per farti studiare?», riprese, con accigliata gaiezza. «Sono sicura che non avrebbe potuto scegliere
meglio. Il ragazzo va pazzo per i libri, questo è certo. È un po' una mania di famiglia. Sua cugina Sue è tale e quale, a
quanto mi si dice; ma io sono anni che non la vedo, anche se è nata proprio qui, tra queste quattro mura. Mia nipote e
suo marito, dopo essersi sposati, per un anno e più non misero su casa; poi ne ebbero solo una finché... ma lasciamo
perdere. Jude, bambino mio, non sposarti mai. È meglio per i Fawley che non compiano più questo passo. Lei, la loro
unica figlia, l'ho allevata come se fosse figlia mia, Belinda, fino a che non si divisero. Ah, che una bambina abbia
dovuto vivere tali rivolgimenti!».
Sentendo che l'attenzione generale si stava concentrando di nuovo su di lui, Jude se ne andò al forno, dove
mangiò la focaccia che la prozia gli dava per colazione. La fine della sua ricreazione era ormai giunta: uscì dal giardino
scavalcando la staccionata alle spalle della casa e prese un sentiero a nord, finché non giunse a un ampio e solitario
avvallamento (rispetto al resto dell'altipiano) coltivato a frumento. Questa vasta conca era il teatro delle sue fatiche per
il signor Troutham, il fattore, ed egli vi discese dirigendosi verso il centro.
Tutt'intorno, la superficie bruna del campo s'innalzava dritta verso il cielo, perdendosi gradualmente in una
nebbia che ne offuscava i confini, accentuandone la solitudine. L'uniformità generale della scena era contrastata solo da
un covone, con il prodotto dell'anno passato, che si trovava nel mezzo del campo arato, dalle cornacchie che si levarono
in volo all'avvicinarsi di Jude, e dal sentiero per il quale era venuto, che attraversava diagonalmente il campo, battuto
ora da persone a lui sconosciute, ma un tempo da molti dei suoi familiari defunti.
«Quant'è brutto, qui!», mormorò.
I solchi freschi dell'aratro ricordavano le coste di una pezza di velluto mai usata, e conferivano un'aria
essenzialmente utilitaristica a quella distesa, eliminandone ogni irregolarità e cancellandone tutta la storia, al di là di
quella degli ultimi mesi, sebbene ad ogni zolla e ad ogni pietra in realtà fossero associati ricordi in abbondanza - echi di
canzoni di lontani giorni della mietitura, di parole dette, di imprese faticose. Ogni pollice di terra, prima o poi, era stato
teatro di vitalità, gioia, scherzi, litigi e stanchezza. Ovunque nel campo, gruppi di spigolatrici si erano sdraiate al sole.
Storie d'amore che avevano popolato il piccolo villaggio vicino, erano sorte là mentre si mieteva e si trasportava il
grano. All'ombra della siepe che divideva il campo da un altro più distante, le ragazze si erano date ad amanti che non
avrebbero volto il capo per guardarle al prossimo raccolto; e in quell'antico campo di grano più di un uomo aveva
formulato promesse d'amore, poi onorate nella chiesa vicina, a una donna la cui voce lo avrebbe fatto tremare all'epoca
della semina successiva. Ma né Jude né le cornacchie che gli volavano intorno ci pensavano. Per loro era un luogo
solitario che al primo offriva solo l'opportunità di un lavoro, e alle altre un granaio ottimo per sfamarsi.
Il ragazzo si trovava accanto al covone, e a intervalli di pochi secondi scuoteva la raganella in modo energico.
Ad ogni colpo, le cornacchie smettevano di beccare, si alzavano in volo sulle ali pigre, brune come le maglie di
un'armatura, poi ritornavano fissandolo con circospezione, e scendevano a beccare a debita distanza.
Egli agitò la raganella finché il braccio non cominciò a fargli male, e alla lunga il suo cuore si commosse di
fronte ai desideri contrastati di quegli uccelli. Anche loro, come lui, sembravano vivere in un mondo che li rifiutava.
Perché doveva spaventarli? Ai suoi occhi apparivano sempre più come cari amici e compagni - gli unici dei quali poteva
pensare che provassero un po' d'interesse per lui, dal momento che la zia gli aveva spesso ripetuto di non provarne
alcuno. Smise di far rumore, e gli uccelli calarono di nuovo.
«Poveri cari!», disse ad alta voce. «Avrete di che mangiare - certo che lo avrete. Ce n'è abbastanza per tutti. Il
fattore Troutham può permettersi di darvene un po'. Mangiate, miei piccoli uccelli, e riempitevi bene!».
Le cornacchie, macchie d'inchiostro sulla terra, si fermarono e mangiarono, mentre Jude godeva del loro
appetito. Un filo magico di solidarietà lo univa a loro: quelle vite così tristi e precarie gli ricordavano la propria.
Nel frattempo aveva gettato via la raganella, trattandosi di un arnese sordido e vile, offensivo per gli uccelli e
per lui stesso in quanto loro amico. Ad un tratto avvertì un forte colpo sul didietro, seguito da un frastuono che rivelò ai
suoi sensi colti di sorpresa come la raganella fosse stato l'arnese utilizzato per percuoterlo. Gli uccelli e Jude
sobbalzarono all'unisono, e gli occhi atterriti di quest'ultimo scorsero il fattore in persona, proprio lui, il grande
Troutham, che rosso dalla rabbia agitava la raganella in aria, il volto chino sul corpicino tremante di Jude.
«Ah, è così! "Mangiate miei cari uccellini!", è così giovanotto? "Mangiate, cari uccellini", ma certo! Ora ti tiro
giù i pantaloni, e vedremo se continuerai a dire "Mangiate, cari uccellini", con tanto ardore! E sei stato pure a perdere
tempo dal maestro invece di venire qui, non è vero, eh? È così che guadagni i sei penny che ti do ogni giorno per tenere
le cornacchie lontane dal raccolto!».
Mentre si annunciava all'udito di Jude con questa retorica così appassionata, Troutham aveva afferrato la mano
sinistra del ragazzo con la propria, e facendo roteare quel gracile corpo intorno a sé per la lunghezza del proprio
braccio, lo colpì di nuovo sul sedere con il lato piatto della raganella, finché tutto il campo non echeggiò dei colpi che
gli venivano assestati una volta o due ad ogni giro.
«No, signore, per favore, no!», gridava il bambino sospeso in aria, impotente per la forza centrifuga della sua
stessa persona come un pesce preso all'amo che si dibatte mentre viene tirato fuori dall'acqua; e vedeva la collina, il
covone, la piantagione, il sentiero e le cornacchie girargli intorno in una folle corsa circolare. «Io... io... signore...
volevo solo... di grano in terra ce n'era parecchio... l'avevo visto seminare... e le cornacchie potevano prenderne un po'
per sfamarsi... voi non ve ne sareste neppure accorto... e il signor Phillotson mi ha detto che devo essere gentile con
loro... Oh, oh!».
Questa sincera spiegazione sembrò esasperare il fattore più che se Jude avesse caparbiamente negato di aver
detto alcunché; ed egli continuò a picchiarlo finché le note di quell'arnese risuonarono per i campi, giungendo alle
orecchie di contadini lontani - per essere da loro interpretate come la prova del grande impegno con cui Jude stava
svolgendo il suo lavoro - e dalla torre di legno, avvolta nella nebbia, della chiesa nuova di zecca echeggiarono
nell'edificio alla cui costruzione il fattore aveva contribuito con generosità, a riprova del proprio amore verso Dio e il
prossimo.
Finalmente Troutham si stancò di impartire la sua punizione, e posando in terra il ragazzo tremante, prese sei
penny dalla tasca e glieli diede a pagamento della sua giornata di lavoro, ammonendolo di non farsi vedere mai più in
uno di quei campi.
Con un salto Jude sfuggì alla presa del fattore, e s'incamminò lungo il sentiero piangendo - non per il dolore,
che pure era acuto, né per aver percepito una falla nello schema della creazione, dato che ciò che era buono per gli
uccelli di Dio pareva fosse un male per il giardiniere di Dio; ma per l'orribile sensazione di aver tradito in modo
irreparabile la fiducia altrui quando ancora non aveva passato un anno in quella parrocchia, con la probabile
conseguenza di divenire un peso sulle spalle della prozia per tutta la vita.
Con la mente offuscata da questo pensiero, non desiderava farsi vedere nel villaggio, e tornò a casa per un
sentiero più lungo che costeggiava un'alta siepe, passando in mezzo a un pascolo. Qui scorse un gran numero di vermi,
che sporgevano per metà della loro lunghezza sulla superficie di quel terreno bagnato, come sempre avviene quando
l'aria è umida in quella stagione dell'anno. Era impossibile mantenere un'andatura regolare senza calpestarne più d'uno
ad ogni passo.
Sebbene il fattore Troutham gli avesse appena fatto male, era un ragazzo cui era intollerabile l'idea di fare del
male a qualcuno. Non aveva mai portato a casa un nido di uccellini senza restare sveglio fino a notte fonda per
l'angoscia, e spesso poi il giorno dopo rimetteva nido e uccellini nel posto dove li aveva trovati. Sopportava a malapena
di essere presente quando si abbattevano o si potavano gli alberi, immaginando che ne soffrissero; e la potatura tardiva,
quando la linfa abbondava e l'albero sembrava sanguinare copiosamente, da bambino era stata fonte di dolore. Questa
debolezza di carattere, se così si può chiamare, indicava che egli era una di quelle persone destinate a iniziare a soffrire
molto tempo prima che, calando sulla sua vita inutile, il sipario restituisse la pace al suo spirito. Passò tra i vermi in
punta di piedi, facendo molta attenzione a non ucciderne nessuno.
Rientrando in casa, trovò la zia che vendeva un pane da un penny a una bambina. Dopo che questa fu uscita, la
zia gli chiese: «Come mai sei già di ritorno, a metà mattina?».
«Mi ha cacciato».
«Cosa?».
«Il signor Troutham mi ha cacciato perché ho lasciato che le cornacchie beccassero qualche chicco di grano.
Ecco la mia paga - l'ultima che mai guadagnerò!».
Con gesto tragico, gettò i sei penny sul tavolo.
«Ah!», disse la zia, trattenendo il respiro. Poi iniziò a fargli una paternale sul fatto che ora sarebbe stato sulle
sue spalle per tutta la primavera a non far nulla. «Se non sei capace di impaurire gli uccelli, che altro sai fare? Avanti!
Non avere quella faccia seria! Il fattore Troutham al dunque non è tanto meglio di me. È proprio come dice Giobbe:
"Ora mi deridono quelli che sono più giovani di me, i cui padri non mi sarei degnato di accogliere tra i cani del mio
gregge". Suo padre lavorava a giornata dal mio, dopotutto, e io devo proprio essere stata una stupida a lasciarti andare a
lavorare da lui, il che non avrei mai fatto se non per tenerti lontano dai monelli».
Arrabbiata con Jude più per averla umiliata davanti al resto del villaggio con il suo comportamento, che per
aver mancato al proprio dovere, lo sgridò innanzitutto da questo punto di vista, e solo in un secondo momento da quello
morale.
«Non avresti dovuto lasciare che gli uccelli mangiassero quello che il fattore Troutham aveva seminato. È
ovvio che hai fatto male. Jude, Jude, perché non sei andato con quel maestro a Christminster o dove che fosse? Non c'è
niente da fare, povero ragazzo insignificante, non c'è mai stata alcuna energia nella tua famiglia, né mai ve ne sarà!»
«Dove sta questa città così bella, zia, questo posto dove il signor Phillotson è andato a vivere?», chiese il
ragazzo dopo aver riflettuto in silenzio.
«Mio Dio! Dovresti saperlo dove sta la città di Christminster. È a una ventina di miglia da qui. Ho paura che
sia un posto troppo bello perché possa mai avere qualcosa a che fare con te, povero ragazzo».
«E il signor Phillotson resterà lì per sempre?».
«Che ne posso sapere io?».
«Non potrei andare a trovarlo?».
«Per carità! Si vede che non sei cresciuto da queste parti, o non chiederesti una cosa del genere. Noi non
abbiamo mai avuto niente a che vedere con la gente di Christminster, né quella con noi».
Jude uscì, e sentendo più che mai di essere abbandonato da tutti, andò a distendersi su un mucchio di rifiuti
vicino al porcile. Ora la nebbia si era un poco diradata, e lasciava intravedere la posizione del sole. Egli si tirò il
cappello di paglia sul viso, spiando tra gli interstizi della sua trama quel bianco bagliore dal debole riflesso. Scopriva
che, quando si cresce, aumentano le responsabilità. Gli eventi non rimavano tra loro come aveva immaginato. La logica
della natura per lui era troppo orrenda perché potesse accettarla. Il fatto che la misericordia verso un gruppo di creature
fosse crudeltà verso un'altra offendeva il suo senso dell'armonia del creato. Si rendeva conto che diventando adulti e
sentendo di essere al centro del proprio tempo, e non più in un punto della sua circonferenza, come ci si era sentiti da
bambini, si era presi da una sorta di tremore. Tutt'intorno sembrava esserci qualcosa di abbagliante, lucente, assordante,
e quei rumori e quei bagliori si abbattevano sulla piccola cellula chiamata vita, la scuotevano, e la corrompevano.
Se solo avesse potuto evitare di crescere! Egli non voleva essere un uomo.
Poi, come è naturale in un ragazzo, dimenticò la sua disperazione e si alzò in piedi. Per il resto della mattinata
aiutò la zia, e nel pomeriggio, quando non c'era più niente da fare, si recò al villaggio. Qui chiese a un uomo dove si
trovava la città di Christminster.
«Christminster? Ebbene, giù di là; anche se io non ci sono mai stato. Per carità. Non ho mai avuto motivo di
recarmi in un posto del genere».
L'uomo aveva puntato il dito a nord-est, proprio nella direzione dove si trovava il campo in cui Jude aveva
tradito la fiducia altrui. Lì per lì tale coincidenza non gli piacque affatto, ma la paura che in lui suscitava l'idea di dover
ripassare da quelle parti non fece che accrescere la sua curiosità per quella città. Il fattore aveva detto che non doveva
più farsi vedere di nuovo in quel campo; pure, Christminster si trovava al di là di esso, e il sentiero era un sentiero
pubblico. Così, uscendo senza farsi notare dal villaggio, scese in quella stessa conca che era stata teatro della sua
punizione la mattina, senza mai deviare di un passo dal sentiero, e si arrampicò per la lunga e monotona salita dall'altra
parte, finché il sentiero non si ricongiunse alla strada maestra, nei pressi d'una piccola macchia di vegetazione. Qui
terminavano i terreni coltivati, e davanti a lui si apriva uno squallido orizzonte.
CAPITOLO III
Non si vedeva anima viva sulla strada maestra priva di siepi, né nei paraggi, e quella strada bianca dava
l'impressione di salire e restringersi fino a toccare il cielo. Sulla sommità della collina, incrociava perpendicolarmente
un sentiero verde, la Icknield Street, che al tempo dei Romani era la strada che attraversava quel distretto. Questo antico
sentiero si diramava a est e ad ovest per molte miglia, e a memoria d'uomo era stato sempre usato per portare greggi e
mandrie alle fiere e ai mercati. Ormai, però, era abbandonato e ricoperto dall'erba.
Il ragazzo non si era mai spinto così lontano dal borgo isolato dove era stato depositato da un carrettiere pochi
mesi prima, in una notte buia, e fino a quel momento non aveva sospettato che una terra così vasta e pianeggiante si
distendesse a portata di mano sotto il confine di quell'altipiano. L'intero semicerchio settentrionale tra est e ovest, fino a
una distanza di quaranta e più miglia, si apriva davanti a lui - in un'atmosfera più azzurra, più umida, evidentemente, di
quella che respirava lassù.
Non lontano dalla strada, lungo il sentiero, si trovava un vecchio granaio di mattoni grigio-rossi, battuto dalle
intemperie, noto alla gente del luogo come la Casa Bruna. Jude fu sul punto di oltrepassarla quando notò una scala
contro la grondaia; e la considerazione che più saliva in alto e più poteva vedere lontano, lo spinse a fermarsi e ad
osservarla. In pendio sul tetto due muratori riparavano alcune tegole. Egli girò per il sentiero e si avvicinò al granaio.
Dopo aver osservato con ansia i due uomini per qualche minuto, si fece coraggio e salì sulla scala fino a
raggiungerli.
«Ehi, ragazzino, che vieni a fare quassù?».
«Volevo sapere dove sta la città di Christminster, per favore».
«Christminster sta laggiù, vicino a quel gruppo di alberi. Puoi vederla da qui... o meglio potresti in una giornata
limpida. Certo non oggi».
L'altro muratore, contento di qualsiasi diversivo alla monotonia del suo lavoro, a sua volta si era girato per
guardare nella direzione indicata. «È difficile vederla con un tempo simile», disse. «L'ora in cui appare è quando il sole
tramonta in un bagliore di fuoco, e assomiglia a... non saprei cosa».
«La Gerusalemme celeste», suggerì serio il ragazzo.
«Giusto - anche se io non ci avrei mai pensato... Ma non riesco a vedere nessuna Christminster, oggi».
Il ragazzo aguzzò lo sguardo, ma neppure lui riuscì a vedere la città lontana. Scese dal granaio, e
dimenticandosi di Christminster con la spensieratezza propria della sua età, s'incamminò alla ricerca di qualche
interessante oggetto naturale che potesse scovare lungo il sentiero. Quando ripassò davanti al granaio, di ritorno a
Marygreen, notò la scala ancora al suo posto mentre i muratori, terminata la loro giornata di lavoro, se n'erano andati.
Cominciava ad imbrunire; vi era ancora una leggera nebbia, ma si andava diradando tranne che nelle zone più
umide e lungo i corsi dei fiumi della campagna sottostante. Pensò di nuovo a Christminster, ed essendosi allontanato a
tal fine di qualche miglia dalla casa della zia, avrebbe voluto vedere almeno una volta questa attraente città di cui gli
avevano parlato. Ma anche se avesse aspettato, era difficile che la nebbia si diradasse del tutto prima che fosse buio.
Pure era restio ad andarsene, poiché la vista di quella pianura a nord sarebbe scomparsa non appena avesse iniziato a
scendere per tornare al villaggio.
Salì sulla scala per dare un ultimo sguardo al punto indicato dai due muratori, e si appollaiò sul piolo più alto,
al di sopra della grondaia. Temeva di non poter tornare lassù per molti giorni. Forse se pregava, il desiderio di vedere
Christminster si sarebbe avverato. La gente dice che pregando a volte i desideri si realizzano, sebbene non sempre
accade. In un opuscolo della parrocchia aveva letto di un uomo che aveva iniziato a costruire una chiesa, e che
mancandogli il denaro per terminarla si era inginocchiato a pregare, e il denaro gli era giunto con la posta successiva.
Un altro uomo, certo, aveva tentato lo stesso esperimento senza ottenere nulla; ma aveva scoperto che i pantaloni
indossati quando si era inginocchiato a pregare erano stati cuciti da un ebreo malvagio. Non c'era, dunque, di che
scoraggiarsi; e giratosi sulla scala, Jude si inginocchiò sul terzo piolo, e dopo essersi appoggiato su quelli più alti, pregò
che la nebbia potesse diradarsi.
Poi si sedette e attese. Nel giro di dieci o quindici minuti la nebbia sottile si diradò del tutto all'orizzonte verso
nord, come già aveva fatto altrove, e circa un quarto d'ora prima del tramonto le nubi ad ovest si aprirono scoprendo in
parte la posizione del sole, i cui raggi fuoriuscirono in linee visibili tra due cumuli di nuvole color ardesia. Il ragazzo
tornò immediatamente a guardare nella direzione che gli premeva.
Non lontano dall'orizzonte, brillavano dei punti luminosi come topazi. A poco a poco l'aria divenne più
trasparente finché i punti di topazio si rivelarono essere banderuole, finestre, tetti spioventi, e altre chiazze luminose tra
guglie, cupole, decorazioni in pietra, e sagome varie appena percettibili. Era Christminster, senza dubbio; vista
realmente, oppure immaginata come un miraggio in quell'atmosfera particolare.
Lo spettatore continuò a fissare lo spettacolo finché le finestre e le banderuole non persero la loro lucentezza,
estinguendosi quasi all'improvviso come candele smorzate. La città dai vaghi contorni era stata di nuovo avvolta nella
nebbia. Volgendosi ad ovest, egli notò che il sole era scomparso. Più vicino a lui era calata un'oscurità funerea, e gli
oggetti circostanti avevano preso i colori e le forme di chimere.
Jude scese impaurito dalla scala, e iniziò a correre verso casa cercando di non pensare ai giganti, a Herne il
cacciatore, ad Apollyon nascosto in attesa di Christian, o al capitano che sanguinava dalla fronte, circondato da cadaveri
che ogni notte tornavano ad ammutinarsi a bordo della nave stregata. Sapeva di essere ormai troppo grande per credere
a queste orribili storie, ma ciò non toglie che fu ben felice quando vide il campanile della chiesa e le finestre illuminate
della casa, anche se non era la sua casa natia, e alla prozia non importava molto di lui.
Dentro e nei paraggi della vetrina del «negozio» della vecchia fornaia - con i suoi ventiquattro piccoli riquadri
piombati, il vetro di alcuni di essi ossidato dal tempo tanto da rendere appena visibili i poveri articoli da due soldi
esposti all'interno, tali che un uomo robusto avrebbe potuto trasportarli tutti da solo - Jude trascorse la sua vita esteriore
per un lungo e monotono periodo. Ma i suoi sogni erano tanto giganteschi quanto ristretto era l'ambiente in cui viveva.
Al di là della solida barriera del freddo altipiano argilloso del nord, egli non si stancava di contemplare una
città magnifica - quel luogo di fantasia che aveva paragonato alla nuova Gerusalemme, sebbene forse nei suoi sogni, più
ancora che nei sogni dell'autore dell'Apocalisse, vi fosse l'immaginazione del pittore piuttosto che quella del mercante
di diamanti. E la città acquisiva una tangibilità, una permanenza, una presa sulla sua vita, principalmente per quell'unico
nucleo di realtà dato dal fatto che l'uomo per la cui cultura e per le cui finalità egli aveva nutrivo tanta venerazione,
viveva lì, e per di più in mezzo agli uomini più colti e brillanti di quel luogo.
Nei lunghi e cupi mesi di pioggia, pur sapendo che doveva piovere anche a Christminster, non riusciva a
credere che laggiù piovesse in modo così malinconico. Ogniqualvolta poteva allontanarsi dal villaggio per un'ora o due,
il che non accadeva spesso, fuggiva alla Casa Bruna sulla collina e aguzzava lo sguardo senza stancarsi mai; per essere
a volte ricompensato dalla vista di una cupola o di una guglia, altre volte da quella di una spirale di fumo, che a suo
avviso possedeva un po' del misticismo dell'incenso.
Un giorno, all'improvviso gli venne in mente che se fosse salito al suo punto di osservazione una volta calata
l'oscurità, o magari se si fosse avventurato una o due miglia più lontano, avrebbe potuto vedere le luci notturne della
città. Sarebbe dovuto poi tornare a casa da solo, ma neppure questa considerazione lo fece desistere dall'idea, ché senza
dubbio egli poteva infondere un po' di virilità al proprio spirito.
Il progetto fu debitamente attuato. Non era tardi quando giunse alla sua postazione, appena dopo il tramonto;
ma un cielo scuro a nord-est, e un vento proveniente dalla stessa direzione, avevano fatto calare un'oscurità sufficiente.
Fu ricompensato; ma quel che vide non furono file di lampioni, come si aspettava. Non una singola luce era visibile,
solo un alone o una nebbia lucente che sovrastava quel luogo sullo sfondo dell'oscurità del cielo, e dava l'impressione
che la luce e la città distassero un miglio o poco più.
Si provò a immaginare il punto esatto in quel bagliore dove si poteva trovare il maestro - che non era rimasto in
contatto con nessuno a Marygreen, e per loro era come se fosse morto. In mezzo a quel bagliore gli parve di scorgere
Phillotson passeggiare a suo agio, come una delle figure gettate nella fornace da Nabuccodonosor.
Aveva sentito dire che la brezza viaggia alla velocità di dieci miglia l'ora, e il fatto gli tornava in mente adesso.
Rivolto a nord-est, dischiuse le labbra e inspirò il vento come se bevesse un liquore dolce.
«Tu», disse rivolgendosi affettuosamente a quella brezza, «tu eri a Christminster un paio d'ore fa, fluttuavi per
le strade, facevi volteggiare i galli segnavento, carezzavi il volto del signor Phillotson, eri respirata da lui; ed ora sei qui,
respirata da me - proprio tu».
D'un tratto, portato dal vento, alle sue orecchie giunse qualcosa - un messaggio da quel posto - come di
un'anima che lì risiedesse. A chiamarlo era certo il suono delle campane, la voce della città, debole e musicale, che
diceva: «Qui siamo felici!».
Durante questo volo mentale, Jude aveva perduto completamente la percezione fisica del mondo circostante,
quando un brusco richiamo lo ricondusse alla realtà. Poco al di sotto del costale della collina su cui si era fermato,
apparve una coppia di cavalli, giunta lassù dopo mezz'ora di lento procedere lungo la strada a serpentina che dal fondo
di quell'interminabile pendio portava su in cima. Tiravano un carico di carbone - un combustibile che si poteva far
arrivare all'altipiano unicamente per quella particolare via. Ad accompagnarli vi erano un carrettiere, un altro uomo, e
un ragazzo impegnato a spingere col piede una grossa pietra dietro una delle ruote, per permettere ai cavalli ansimanti
di riposarsi un poco, mentre i due uomini presero dal carro una fiasca dalla quale sorseggiarono a turno.
Erano uomini di una certa età, con voci cordiali. Jude si rivolse loro, chiedendo se provenissero da
Christminster.
«Per carità, con un carico del genere!», dissero.
«Voglio dire, da quella città laggiù». Si stava affezionando in modo così romantico a Christminster che, come
un giovane che alluda alla propria amata, si vergognava di pronunciarne di nuovo il nome. Indicò quel bagliore in cielo
- appena percepibile da quegli occhi più stanchi dei suoi.
«Sì. A nord-est sembra esserci un punto un po' più luminoso che altrove, anche se non me ne sarei mai accorto
da solo, e senza dubbio si tratta di Christminster».
A questo punto, un libretto di racconti che Jude stringeva sotto braccio, e che aveva portato con sé per leggerlo
lungo la strada prima che facesse buio, scivolò e cadde a terra. Il carrettiere osservò Jude mentre lo raccoglieva, e ne
spianava le pagine sgualcite.
«Ah, giovanotto», osservò, «bisognerebbe avere la testa girata nell'altro senso per leggere quello che leggono
laggiù».
«Perché?», chiese il ragazzo.
«Oh, quelli non leggono mai nulla che la gente come noi possa capire», proseguì il carrettiere, tanto per
ingannare il tempo. «Solo lingue straniere usate al tempo della Torre di Babele, quando non vi erano due famiglie che
parlassero lo stesso linguaggio. Leggono queste cose con la rapidità con cui volteggia la nitticora. È solo cultura, là nient'altro che cultura, e religione. E anche questa è cultura, perché io non l'ho mai capita. Sì, è un posto serio. Non che
manchino le ragazze per le strade la notte... Immagino tu sappia che lì i preti crescono come i ravanelli nell'orto. E
sebbene ci vogliano - quanti anni, Bob? - cinque anni per trasformare un ragazzo svogliato in un predicatore autorevole
senza vizi, se ci riescono lo ripuliscono, da bravi lavoratori quali sono, e lo trasformano in un uomo dal viso lungo, la
sottana nera con tanto di panciotto, cappello e colletto, tali e quali quelli che portavano nelle Scritture, di modo che
neppure sua madre a volte saprebbe riconoscerlo... È un mestiere come un altro».
«Ma come fa a sapere...».
«Non interrompermi, ragazzo. Mai interrompere quelli più grandi di te. Accosta il cavallo, Bobby, che sta
arrivando qualcuno... Devi sapere che sto parlando della vita nelle università. Le loro sono vite a un livello superiore;
inutile negarlo, anche se io personalmente non è che li stimi molto. Come noi stiamo con i nostri corpi, quassù in alto,
così loro stanno con le loro menti sopra gli altri - uomini di nobili intenzioni senza dubbio, alcuni di loro, capaci di
guadagnare a piene mani pensando ad alta voce. Tra questi ci sono giovanotti robusti che possono guadagnare quasi
altrettanto in coppe d'argento. Per quanto riguarda la musica, ve n'è ovunque di bellissima a Christminster. Puoi essere
religioso e puoi non esserlo, ma non puoi fare a meno di unire la tua voce ordinaria alla loro. E c'è una strada laggiù, la
via principale della città, che non ha eguali al mondo. Mi pare di saperne abbastanza su Christminster!».
Intanto i cavalli avevano ripreso fiato, e si curvavano per farsi imbrigliare. Non senza lanciare un ultimo
sguardo d'adorazione al bagliore lontano, Jude si incamminò a fianco di quell'amico tanto ben informato, che non si fece
pregare per parlargli ancora di quella città - delle sue torri, dei suoi palazzi, delle sue chiese. Poi il carro s'inoltrò per
una strada laterale, e Jude ringraziò di cuore il carrettiere per le sue informazioni, dicendogli che non sarebbe mai stato
capace di parlare di Christminster bene come lui.
«Be', è quello che mi è venuto in mente», disse il carrettiere con modestia. «Non ci sono stato più di quanto
non ci sei stato tu; ma ho raccolto notizie qua e là, e sono contento di dartele. Andando in giro per il mondo come faccio
io, e mischiandosi a tutte le classi della società, è inevitabile sentire tante cose. Avevo un amico che da giovane faceva
il lustrascarpe al Crozier Hotel di Christminster e che nei suoi ultimi anni ho conosciuto bene come un fratello».
Jude proseguì il suo cammino verso casa da solo, così profondamente immerso nei suoi pensieri da scordarsi
d'aver paura. Era come se fosse diventato all'improvviso più adulto. Aveva sempre desiderato più di tutto di trovare
qualcosa a cui ancorarsi, aggrapparsi - un luogo che potesse definire meraviglioso. Lo avrebbe trovato in quella città, se
mai fosse riuscito ad andarci? Sarebbe stato un posto nel quale, senza temere i fattori, le difficoltà, o il ridicolo, avrebbe
potuto osservare e attendere, per poi dedicarsi a qualche impresa poderosa alla stregua degli uomini d'altri tempi di cui
aveva inteso parlare? Come quell'alone gli era rimasto impresso negli occhi quando lo aveva scrutato un quarto d'ora
prima, così ora gli restava impresso nella mente quel luogo mentre proseguiva per la strada buia.
«È una città di luce!», disse tra sé e sé.
«L'albero della conoscenza cresce laggiù», aggiunse dopo pochi passi.
«È il luogo dove nascono e si recano i maestri dell'umanità.
«È quello che si potrebbe chiamare un castello fortificato dallo studio e dalla religione».
Dopo questa figura retorica, rimase a lungo in silenzio, per poi concludere:
«Per me andrebbe benissimo».
CAPITOLO IV
Camminando a passo lento, assorto come era nei suoi pensieri, il ragazzo - un uomo anziano in alcune sue
riflessioni, assai più giovane della propria età in altre - fu raggiunto da un viandante dal passo leggero del quale,
nonostante l'oscurità, poteva vedere che indossava un cappello insolitamente alto, una giacca a coda di rondine, e una
catena da orologio che oscillava da ogni parte lanciando tutt'intorno riflessi della luce del cielo, mentre il suo
proprietario correva traballante su un paio di gambe sottili e di stivali silenziosi. Iniziando a sentirsi solo, Jude cercò di
tenergli dietro.
«Mio caro giovanotto! Io ho fretta, e se vuoi camminare con me bisogna che allunghi il passo. Sai chi sono?».
«Penso di sì. Il dottor Vilbert?».
«Ah... vedo che mi conoscono dappertutto! Ecco che succede quando si è un benefattore dell'umanità».
Vilbert era un medico ambulante, un ciarlatano, ben noto alla gente della zona e del tutto sconosciuto a
chiunque altro, come del resto egli si premuniva di rimanere per evitare indagini spiacevoli. I contadini costituivano i
suoi unici pazienti, e la sua reputazione in giro per il Wessex era diffusa solo tra quelli. La sua posizione era più umile e
la sua attività più misteriosa di quelle dei ciarlatani più ricchi, dotati di un sistema organizzato di propaganda. Era,
infatti, un sopravvissuto. Aveva attraversato in lungo e in largo l'intero Wessex, percorrendo a piedi distanze enormi.
Jude lo aveva visto un giorno vendere a una vecchia, come cura per la sua gamba malandata, un barattolo di lardo
colorato al prezzo di una ghinea; la donna aveva ottenuto di pagare a rate di uno scellino ogni quindici giorni quel
balsamo prezioso che, a detta del dottore, si ricavava solo da un animale che pascolava sul Monte Sinai, e che poteva
essere catturato solo rischiando la vita. Pur avendo già dei dubbi sui medicamenti di questo signore, Jude lo considerava
indiscutibilmente una persona di grande esperienza, e una fonte sicura d'informazione su problemi non strettamente
professionali.
«Voi a Christminster ci siete già stato, non è vero dottore?».
«Sì - molte volte», rispose quell'uomo alto e magro. «È uno dei miei centri».
«È vero che è una città meravigliosa per gli studi e la religione?»
«Così diresti, ragazzo, se l'avessi vista. Pensa che parlano latino persino i figli delle vecchie lavandaie delle
università - un latino che lascia a desiderare, certo: un latino da cani, o da gatti, come eravamo soliti dire ai miei tempi».
«E il greco?».
«Be', quello è più per coloro che studiano per diventare vescovi, e devono saper leggere il Nuovo Testamento
nell'originale».
«Anch'io voglio imparare il greco e il latino».
«Un nobile desiderio. Devi procurarti una grammatica in entrambe le lingue».
«Intendo andare a Christminster, un giorno».
«Ovunque tu vada, dì che il dottor Vilbert è l'unico in possesso di quelle famose pillole che curano
infallibilmente tutti i disordini del sistema digestivo, come pure l'asma e il fiato corto. Due o tre penny la scatola autorizzate espressamente con timbro governativo».
«Mi procurereste queste grammatiche, se prometto di dirlo qui in giro?».
«Ti vendo con piacere le mie - quelle che ho usato da studente».
«Oh, grazie signore!», disse Jude colmo di riconoscenza, ma con il fiatone, poiché il passo incredibile del
dottore lo faceva trottare come un cane, causandogli una atroce fitta alla milza.
«Penso sia meglio che tu vada più piano, giovanotto. Ora ti dico cosa farò. Ti procurerò le grammatiche e ti
darò la prima lezione se ti ricordi di raccomandare in ogni casa del villaggio la nota pomata, le gocce vitali e le pillole
per le donne del dottor Vilbert».
«Dove mi porterete le grammatiche?».
«Passerò di qua tra due settimane, esattamente alle sette e venticinque come oggi. I miei movimenti sono
regolati come quelli dei pianeti nel loro corso».
«Sarò qui ad aspettarvi», disse Jude.
«Con gli ordini per le mie medicine?».
«Sì dottore».
Poi Jude rallentò, attese alcuni minuti per riprendere fiato, e tornò a casa consapevole di aver fatto un passo
avanti lungo la strada che lo avrebbe portato a Christminster.
Nelle due settimane successive, corse da ogni parte sorridendo ai suoi pensieri nascosti come fossero persone
che lo incontrassero e lo salutassero - sorrideva emanando quella luce singolare che si nota diffondersi sui volti dei
giovani quando hanno una idea gloriosa, come se una lampada soprannaturale ardesse in quelle nature trasparenti,
dando loro in quell'attimo la sensazione lusinghiera di toccare il cielo con un dito.
Jude adempì onestamente alla promessa fatta all'uomo dai molti rimedi, nel quale credeva sinceramente,
camminando per miglia avanti e indietro tra i borghi circostanti, come un precoce agente del dottore. La sera fissata,
rimase immobile sull'altipiano, nel punto dove aveva salutato Vilbert, in attesa del suo arrivo. Il dottore ambulante fu
abbastanza puntuale; ma con sua somma sorpresa, quel camminatore non rallentò affatto quando Jude gli si affiancò, né
parve riconoscere il suo giovane compagno per quanto, essendo passati quindici giorni, le serate fossero divenute più
chiare. Jude pensò che forse era perché portava un cappello diverso; e salutò il dottore con dignità.
«Che c'è, ragazzo mio?», disse quest'ultimo soprappensiero.
«Eccomi qui», disse Jude.
«Tu? E tu chi sei? Ah, sì - certo! Hai delle ordinazioni?».
«Sì». E Jude gli diede nome e indirizzo dei contadini che avevano accettato di mettere alla prova le virtù di
quelle pillole e di quegli unguenti di fama mondiale. Il ciarlatano se li segnò con grande cura.
«E le grammatiche di latino e greco?», chiese Jude con voce che tremava per l'ansia.
«Quali grammatiche?».
«Dovevate portarmi le vostre, quelle che avevate all'università».
«Ah sì, sì! Me ne sono dimenticato - completamente! Tante sono le vite che dipendono dalla mia attenzione,
ragazzo mio, che non posso stare a pensare ad altre cose quanto vorrei».
Jude si controllò finché non fu assolutamente certo della verità; poi ripeté con tono sconsolato, «Non me le
avete portate!».
«No. Ma tu procurami altri ordini di gente malata, e vedrai che te le porto la prossima volta».
Jude rallentò il passo. Era un ragazzo semplice, ma quel dono di improvvisa intuizione che talvolta è concesso
ai bambini, gli mostrò all'istante a quale bassa specie umana appartenesse il ciarlatano. Da quella fonte non c'era da
aspettarsi alcuna luce intellettuale. Dalla sua corona d'alloro immaginaria le foglie iniziarono a cadere; egli si accostò a
un cancello, vi si appoggiò, e pianse amaramente.
Alla delusione seguì un senso di apatia. Forse avrebbe potuto ottenere le grammatiche da Alfredston, ma ciò
avrebbe richiesto del denaro, e una conoscenza di quali libri ordinare; e sebbene non gli mancasse nulla, la sua
dipendenza era così totale che di suo non aveva neppure un soldo.
In quei giorni il signor Phillotson mandò a ritirare il pianoforte, e a Jude venne un'idea. Perché non scrivere al
maestro per chiedergli la cortesia di procurargli le grammatiche a Christminster? Avrebbe potuto far scivolare una
lettera nella cassa d'imballaggio dello strumento, sicuro che sarebbe capitata sotto gli occhi desiderati. Perché non
chiedergli delle copie usate, che avrebbero avuto il fascino di essere impregnate dell'atmosfera dell'università?
Confidare il progetto alla zia avrebbe significato farlo fallire. Doveva agire da solo.
Dopo averci pensato ancora per qualche giorno agì, e la mattina della partenza del pianoforte, che cadde il
giorno del suo compleanno, collocò clandestinamente nella cassa dell'imballaggio la lettera per l'amico tanto ammirato,
attento a non rivelare l'operazione alla zia, per evitare che venendone a conoscenza lo costringesse ad abbandonare il
progetto.
Il pianoforte fu spedito, e Jude attese per giorni e settimane, in cui si recava ogni mattina all'ufficio postale
prima che la zia si alzasse. Finalmente arrivò un pacchetto al villaggio, e Jude comprese dalla sua forma che conteneva
due libretti. Se lo portò in un posto appartato dove, sedendosi su un tronco di un olmo abbattuto, lo aprì.
Fin dalla sua prima estasi, o visione, di Christminster e delle opportunità che offriva, Jude aveva riflettuto a
lungo e con curiosità sul tipo di processo che era probabilmente necessario per tradurre le espressioni di una lingua in
quelle di un'altra. Ne aveva concluso che la grammatica della lingua in questione avrebbe contemplato in primo luogo
una regola, una prescrizione, la chiave di un cifrario segreto, che una volta conosciuta, gli avrebbe permesso, con la sua
semplice applicazione, di mutare a suo piacimento tutte le parole del proprio idioma in quelle dell'idioma straniero. La
sua idea infantile, infatti, consisteva nello spingere all'estremo di una precisione matematica la legge generalmente nota
come Legge di Grimm - ampliando delle regole rudimentali fino a una loro ideale completezza. Così riteneva che chi
possedeva l'arte di rivelarle, avrebbe sempre trovato le parole di una lingua latenti in quelle di un'altra, e che quest'arte
si apprendeva dai libri appena ricevuti.
Quando, dunque, dopo aver notato che il pacchetto portava il timbro di Christminster, ne tagliò lo spago, aprì il
pacco, e iniziò a sfogliare la grammatica latina, che per caso era la prima a capitargli tra le mani, non poté credere ai
suoi occhi.
Era un vecchio libro - di almeno trent'anni, pieno di macchie, scarabocchiato senza ritegno con un nome
illeggibile in un modo che tradiva ogni sorta di ostilità verso la carta stampata, e annotato a casaccio con appunti
risalenti a vent'anni prima. Ma non era questa la causa della meraviglia di Jude. Per la prima volta egli apprendeva che
non esiste una legge di trasmutazione, come nella sua innocenza aveva ipotizzato (veramente esisteva, in certa misura,
ma l'autore della grammatica non la riteneva valida), e che ogni parola latina e greca andava imparata a memoria, al
costo di anni di duro lavoro.
Jude gettò i libri a terra, si appoggiò con la schiena contro il tronco dell'olmo, e per un quarto d'ora fu preda di
una incontenibile disperazione. Come spesso aveva fatto altre volte, si tirò il cappello sul viso e osservò il sole penetrare
furtivamente tra gli interstizi della paglia. Questo erano, dunque, il latino e il greco, sì, questa grande delusione! Il
fascino che si era promesso di ritrovare altro non era che una fatica degna di quella di Israele in Egitto.
Che cervelli devono esserci a Christminster e nelle grandi scuole, pensò in quel momento, capaci di imparare
decine di migliaia di parole una ad una! Certo egli non possedeva un cervello all'altezza di tale compito; e mentre i tenui
raggi del sole continuavano a filtrare nel suo cappello, desiderò di non aver mai visto un libro, di non vederne mai più
un altro, e di non essere mai nato.
Sarebbe potuto passare qualcuno per quel sentiero, che magari gli avrebbe chiesto le ragioni del suo dolore, e
che lo avrebbe consolato dicendogli che le sue idee erano più avanzate di quelle dei due autori dei libri. Ma non passò
nessuno, perché nessuno passa in questi casi; e schiacciato dal peso del suo errore, Jude continuò a desiderare di morire.
CAPITOLO V
Nei tre o quattro anni successivi, si poteva notare per le strade e i sentieri nei dintorni di Marygreen uno strano
e insolito veicolo, guidato in modo altrettanto strano e insolito.
Nel giro di un paio di mesi dall'arrivo dei libri, Jude aveva digerito il brutto scherzo giocatogli dalle lingue
morte. La delusione per la natura di quelle lingue aveva infatti suscitato una ammirazione ancora più profonda per
l'erudizione di Christminster. Apprendere delle lingue, antiche o moderne, malgrado gli ostacoli che ora sapeva essere
inerenti ad esse, era un'impresa erculea che gradualmente gli era parsa molto più interessante del metodo lineare da lui
ipotizzato. L'immensa mole di materiale sotto la quale giacevano le idee in quei volumi polverosi chiamati classici, lo
stimolò al tentativo ostinato di rimuoverla pezzo a pezzo, con destrezza analoga a quella di un roditore.
Aveva cercato di rendere la propria presenza tollerabile alla zia scorbutica aiutandola come meglio poteva, e
gli affari di quel piccolo forno erano cresciuti in misura corrispondente al suo impegno. Per otto sterline avevano
acquistato all'asta un vecchio cavallo con la testa penzoloni e, per poche altre, una carretta sgangherata coperta da un
telo sbiadito; e con questa, tre volte alla settimana, Jude consegnava il pane ai contadini che vivevano isolati nei
dintorni del villaggio.
La singolarità di cui parliamo consisteva, dopo tutto, meno nel mezzo di trasporto in sé che nella maniera in cui
Jude lo guidava per quelle strade. L'interno del carretto era il luogo in cui si svolgeva gran parte dell'educazione di Jude
- i suoi «studi da privatista». Non appena il cavallo ebbe imparato a conoscere la strada e le case presso le quali sostare,
il ragazzo, seduto a cassetta, lasciate scivolare le redini sul braccio, grazie a una cinghia legata al telone del carro, fissò
ingegnosamente il volume che stava leggendo e con il vocabolario aperto sulle ginocchia si immerse nei passi più
semplici di Cesare, Virgilio, o Orazio, a seconda dei casi, procedendo a tentoni ma con un dispendio di energia che
avrebbe commosso un pedagogo tenero di cuore; pure riusciva a modo suo a cogliere il significato di quanto leggeva,
spesso indovinando senza comprenderlo lo spirito dell'originale, a suo avviso diverso da quello che gli veniva insegnato
di cercare.
Gli unici libri che era riuscito e procurarsi erano delle vecchie edizioni Delphin, ormai superate e dunque a
buon mercato, che se erano inservibili per scolari pigri, erano passabili per lui. L'itinerante solitario e pieno di intralci
copriva coscienziosamente le note del libro, che consultava solo per studiare la costruzione dei periodi, come avrebbe
potuto consultare un compagno o un tutore che per caso fosse passato di lì. Per quanto avesse poche possibilità di
diventare un erudito con questi mezzi rudimentali e primitivi, tuttavia Jude era riuscito a imboccare la strada che
desiderava seguire.
Mentre con quelle pagine antiche, già sfogliate da mani che forse erano ormai state sepolte, si impegnava a far
riemergere il pensiero di menti ad un tempo remote ed attuali, il vecchio cavallo scheletrico proseguiva per i suoi giri, e
Jude era distolto dalle pene di Didone solo quando la carretta si fermava e la voce di qualche donna gridava: «Oggi due,
fornaio. E restituisco questa che è rafferma».
Spesso si imbatteva lungo i sentieri in viandanti e altre persone senza accorgersene, e un po' alla volta la gente
del vicinato iniziò a parlare della sua abitudine di unire lavoro e svago (tale era considerato il suo studio), che se a lui
poteva far comodo, non era certo sicura per quanti camminassero sulla stessa strada. Vi furono delle proteste. E un
giorno, un abitante dei dintorni informò la guardia del luogo che il ragazzo leggeva mentre guidava il carretto, pretese
che gli venisse proibito, e insistette affinché la guardia lo cogliesse in flagrante e lo portasse davanti al giudice ad
Alfredston, chiedendo che lo si multasse per comportamento pericoloso sulla pubblica via. Da allora la guardia fece la
posta a Jude, finché un giorno lo avvicinò e lo ammonì.
Alzandosi alle tre del mattino per accendere il forno e cuocere il pane che poi distribuiva durante la giornata,
Jude era costretto a coricarsi la sera subito dopo aver preparato l'impasto per il pane del giorno dopo; e se non avesse
potuto leggere i suoi classici lungo la strada, avrebbe dovuto abbandonare del tutto l'idea di studiare. Non gli restava,
dunque, che tenere gli occhi aperti davanti e intorno a sé, come meglio poteva in quelle circostanze, e nascondere i libri
non appena scorgesse qualcuno in lontananza, la guardia in particolare. Per amore di verità, bisogna dire che costui non
si diede molto da fare per incontrare Jude e il suo carretto: egli pensava che in quel distretto così disabitato Jude fosse
un pericolo innanzitutto per se stesso; e alla vista di quel telone bianco che sporgeva dalle siepi, spesso si allontanava
per un'altra strada.
Un giorno, quando Fawley, ormai sedicenne, aveva già compiuto dei discreti progressi, e mentre era alle prese
con il Carmen Saeculare, di ritorno verso casa si trovò a passare sulla sommità dell'altipiano, nei pressi della Casa
Bruna. La luce era improvvisamente cambiata, e fu proprio la percezione di tale cambiamento a spingerlo ad alzare lo
sguardo. Il sole tramontava, e la luna piena saliva contemporaneamente dietro ai boschi dal versante opposto. La sua
mente era così assorta dal poema che, sotto l'impulso di quella stessa emozione che lo aveva spinto anni prima a
inginocchiarsi sulla scala, egli fermò il cavallo, scese dal carretto, e dopo essersi guardato intorno per accertarsi che non
vi fosse nessuno, s'inginocchiò sul lato della strada con il libro aperto davanti a sé. Dapprima si rivolse alla deità
splendente che pareva guardare in modo così silenzioso e assorto alle sue azioni, poi alla stella celeste che dalla parte
opposta andava scomparendo, e declamò:
Phoebe silvarumque potens Diana!
Il cavallo rimase immobile finché Jude non ebbe terminato l'inno, che recitò trascinato da una fantasia
politeista, a cui non avrebbe mai osato lasciarsi andare in pieno giorno.
Giunto a casa, rifletté sulla curiosa superstizione, innata o acquisita, del suo atto, e sulla strana noncuranza che
aveva portato a una simile deviazione dal senso comune e dalla tradizione una persona come lui il cui sommo desiderio,
dopo quello di essere un erudito, era di divenire un ministro di Dio. Ecco cosa accade quando non si leggono che opere
pagane. Più ci pensava, e più si convinceva della propria incongruenza. Cominciò a chiedersi se stava leggendo i libri
adatti allo scopo che si era prefisso nella vita. Questa letteratura pagana appariva ben poco in armonia con i collegi
medievali di Christminster, vero e proprio poema ecclesiastico scolpito in pietra.
Finì per concludere che nel suo amore sviscerato per la lettura si era lasciato trascinare da un'emozione
deplorevole in un giovane cristiano. Si era tuffato nello studio di Omero, ma non si era mai applicato molto al Nuovo
Testamento in greco, pur possedendone una copia, speditagli per posta da un venditore di libri usati. Decise dunque di
dedicarsi a un nuovo dialetto, abbandonando lo ionico, ormai familiare, e da quel giorno per un lungo periodo limitò le
sue letture quasi esclusivamente ai Vangeli e alle Epistole, nell'edizione del Griesbach. Inoltre, una mattina ad
Alfredston fu introdotto alla letteratura patristica dalla scoperta di alcuni volumi dei Padri della Chiesa che un prelato
insolvente dei dintorni non aveva ritirato dal libraio di quella cittadina.
L'altra conseguenza di questo suo mutamento di indirizzo fu che iniziò a recarsi la domenica in tutte le chiese
che gli era possibile raggiungere a piedi, per decifrarne le iscrizioni latine sui bronzi e sulle tombe del quindicesimo
secolo. Nel corso di una di queste sue peregrinazioni, s'imbatté in una vecchia gobba molto intelligente, che leggeva
qualsiasi cosa le capitasse sottomano, la quale gli raccontò di nuovo del fascino romantico della città della luce e della
scienza. Il ragazzo decise più fermamente che mai di recarsi laggiù.
Ma come procurarsi da vivere in quella città? Al momento, egli non aveva alcun reddito. Non svolgeva alcuna
attività o professione che potesse garantirgli una vita dignitosa, né aveva una occupazione stabile su cui potesse contare
mentre proseguiva quella preparazione intellettuale che avrebbe potuto richiedere lunghi anni.
Di cosa soprattutto aveva bisogno chi abitava in città? Di cibo, abiti e case. Il guadagno che poteva ottenere nel
preparare i primi era troppo misero; fare i secondi non gli piaceva; mentre sentiva una certa inclinazione per il lavoro di
costruire case. Avevano costruito una città; quindi avrebbe imparato a costruire. Si ricordò di uno zio che non aveva mai
conosciuto, il padre di sua cugina Susanna, che era specializzato in lavori in ferro battuto per le chiese, e in qualche
modo quell'arte medievale, quale che fosse il materiale impiegato, gli andava a genio. Non poteva sbagliare troppo
seguendo le orme dello zio e lavorando alle carcasse che contenevano le anime degli studiosi.
Per cominciare, si procurò alcuni blocchi di pietra di dimensioni medie, dato che il metallo era troppo caro, e,
sospesi temporaneamente gli studi, occupò le mezz'ore di tempo libero che di tanto in tanto gli capitavano a copiare
fregi e iscrizioni della propria parrocchia.
Viveva ad Alfredston un modesto intagliatore in pietra, e non appena ebbe trovato chi lo sostituisse nella
piccola attività della zia, Jude offrì i propri servigi a quest'uomo per quattro soldi. Lì ebbe la possibilità di imparare i
primi rudimenti del mestiere. Qualche tempo dopo, passò alle dipendenze di un locale costruttore di chiese, e sotto la
direzione dell'architetto s'impratichì nel restauro delle opere in pietra delle chiese di molti villaggi dei dintorni.
Senza dimenticare che stava seguendo questo mestiere solo come un mezzo per proseguire la preparazione di
quei migliori strumenti che, adulando se stesso, egli riteneva gli si confacessero di più, era però interessato a questo
nuovo lavoro. Durante la settimana abitava ad Alfredston, e tornava al villaggio di Marygreen il sabato sera. Così
raggiunse e passò il suo diciannovesimo anno.
CAPITOLO VI
In quel periodo memorabile della sua vita, verso le tre del pomeriggio di un sabato, Jude tornava da Alfredston
a Marygreen. Era una bella giornata estiva, calda e tranquilla, ed egli camminava con gli arnesi sulle spalle; gli scalpelli
più piccoli tintinnavano nella sacca urtando i più grandi. Essendo finita la settimana, aveva lasciato il lavoro di buon'ora
ed era uscito dalla città per una strada più lunga di quella che percorreva di solito, avendo promesso di passare da un
mugnaio vicino a Cresscombe a fare una commissione per la zia.
Si sentiva pieno d'entusiasmo. Era come se vedesse il cammino che nel giro di un paio d'anni lo avrebbe
portato a vivere decorosamente a Christminster e a bussare alla porta di una di quelle roccaforti del sapere di cui aveva
tanto sognato. In un modo o nell'altro, già ora vi si sarebbe potuto recare, ma preferiva fare il suo ingresso in quella città
più sicuro nei propri mezzi di quanto non si potesse dire fosse al momento. Quando pensava al cammino già compiuto,
era pervaso da un caldo senso di soddisfazione. Di tanto in tanto, volgeva lo sguardo agli squarci del paesaggio che si
aprivano tra le siepi da ambo i lati della strada. Ma guardava senza vedere: il suo gesto era l'automatica ripetizione di
ciò che soleva fare quando era meno assorto nei propri pensieri; l'unica cosa che ora gli premeva veramente era di
valutare mentalmente i progressi compiuti fin lì.
«Ho acquisito una discreta padronanza nella lettura dei più noti classici antichi, dei latini in particolare». Era
vero: Jude possedeva una tale facilità in quella lingua, da permettergli senza alcuno sforzo d'ingannare la monotonia
delle sue passeggiate solitarie con delle conversazioni immaginarie tra sé e sé in latino.
«Ho letto due libri dell'Iliade, e ho piena familiarità con passi quali il discorso di Fenice nel libro nono, il
duello tra Ettore e Aiace nel quattordicesimo, l'apparizione di Achille senz'armi e della sua celeste armatura nel
diciottesimo, e i giochi funebri nel ventitreesimo. Ho studiato anche un po' di Esiodo, qualche frammento di Tucidite, e
gran parte del Nuovo Testamento in greco... E tuttavia quanto sarebbe meglio se esistesse una lingua soltanto.
"Ho fatto un po' di matematica, compresi i primi sei libri di Euclide, oltre all'undicesimo e al dodicesimo; e un
po' d'algebra, fino alle equazioni più semplici.
«Conosco qualcosa dei Padri, e della storia romana e inglese.
"Non è che l'inizio. Ma non posso fare molto di più se resto qui, data la difficoltà di procurarmi i libri. Bisogna
che d'ora in avanti concentri le mie energie per sistemarmi a Christminster. Una volta là, con l'aiuto di cui potrò disporre
compirò progressi tali che la mia cultura attuale mi apparirà quella di un bambino ignorante. Ma dovrò mettere da parte
dei soldi, e lo farò; e uno di quei college mi aprirà le porte - accoglierà a braccia aperte chi ora respingerebbe, anche se
dovessi attendere vent'anni.
«Diventerò dottore in teologia!».
Poi continuò a sognare, fantasticando di poter diventare persino vescovo, se avesse condotto una vita cristiana
pura, attiva, saggia. E che esempio per gli altri! Se avesse avuto un appannaggio di cinquemila sterline, ne avrebbe
donate quattromilacinquecento in beneficenza, e sarebbe vissuto con il resto in un modo che a lui pareva sontuoso. A
ripensarci bene, però, vescovo era impossibile. Gli sarebbe bastato essere arcidiacono. Forse un uomo poteva essere
altrettanto buono, colto e utile nell'esercizio delle funzioni di arcidiacono come in quelle di vescovo. Ma continuava a
pensare al vescovado.
«Nel frattempo, appena mi sarò sistemato a Christminster leggerò i libri che non sono riuscito a trovare qui:
Livio, Tacito, Erodoto, Eschilo, Sofocle, Aristofane...».
«Ehi, ehi! Là, là!» Le esclamazioni provenivano con voci allegre da dietro la siepe, ma egli non vi fece caso, e
proseguì nei suoi pensieri:
«...Euripide, Platone, Aristotele, Lucrezio, Epitteto, Seneca, Antonino. Poi dovrò approfondire altre cose: i
Padri della Chiesa al completo; Beda e la storia ecclesiastica in generale; un'infarinatura di ebraico... conosco solo
l'alfabeto...».
«Ehi! ehi!».
«...ma posso impegnarmi molto. Grazie a Dio, la forza di volontà non mi manca! Ed è questo che conta... Sì,
Christminster sarà la mia Alma Mater, ed io il suo figlio prediletto, del quale andrà fiera».
Profondamente concentrato in questi progetti per il futuro, Jude aveva rallentato il passo, e stava ora fermo con
lo sguardo a terra quasi il futuro si riflettesse sulla strada grazie a una lanterna magica. D'un tratto, qualcosa lo colpì
violentemente all'orecchio, e s'accorse che un corpo freddo e molliccio gli era stato gettato addosso ed era caduto ai suoi
piedi.
Un'occhiata gli bastò per capire cosa fosse - un pezzo di carne, quella parte caratteristica del maiale castrato
che, non potendo essere utilizzata in altro modo, i contadini usano per ingrassare i loro stivali. I maiali, allevati in gran
numero in alcune zone del nord del Wessex, abbondavano da quelle parti.
Dall'altro lato della siepe si trovava un ruscello, e da lì, come Jude notava ora per la prima volta, proveniva
l'allegra confusione di voci e risate che si erano mischiate ai suoi sogni. Salì sul ciglio della strada e guardò dall'altra
parte del sentiero. Sulla sponda opposta del ruscello c'era una piccola fattoria, con annesso un giardino e un porcile; di
fronte ad essa, nei pressi del ruscello, tre ragazze erano chine a lavare nell'acqua corrente una gran quantità di frattaglie
di porco ammassate in ceste e grossi catini. Due paia d'occhi lo guardarono timidamente, e notando che la sua
attenzione era stata alla fine attirata ed egli a sua volta guardava loro, si diedero un certo contegno, facendo assumere
alla bocca un'espressione compunta e riprendendo alacremente le loro occupazioni.
«Tante grazie!», disse Jude, in tono serio.
«Non sono stata io a gettarlo», asserì una ragazza alla vicina, fingendo di non aver notato che il giovane le
guardava.
«Neppure io», le rispose quella.
«Oh Anny, come hai potuto!», disse la terza.
«Se mai avessi gettato qualcosa, non sarebbe stata quella!».
«Uff! Cosa c'importa di lui!». Ridendo, ripresero il lavoro senza alzare lo sguardo, e continuando
ostentatamente ad accusarsi tra loro.
Intanto Jude si puliva il viso e le ascoltava.
«Voi non siete stata - Oh no!», disse in tono sarcastico alla più vicina delle tre.
Colei a cui si era rivolto era una ragazza dagli occhi scuri, non esattamente bella, ma che poteva passare per
tale a distanza, malgrado la sua pelle e la sua costituzione lasciassero a desiderare. Aveva un seno tondo e fiorente,
labbra turgide, denti smaglianti, e la pienezza dell'uovo di una cocincina. Era un esemplare di donna completo e ben
piantato - né più, né meno; e Jude era quasi certo di dover attribuire a lei l'iniziativa di aver deviato la sua attenzione
dalle fantasie sulla letteratura a ciò che covava nelle loro menti.
«Non lo saprete mai», la ragazza disse maliziosamente.
«Chiunque sia stata, ha sprecato qualcosa che non è suo».
«Oh, per quel che vale».
«Comunque sbaglio o volevate parlare con me?».
«Oh sì, se vi fa piacere pensarlo».
«Dovrò attraversare io il ruscello o verrete voi sulla passerella qui vicino?».
Forse la ragazza aveva previsto l'occasione, dato che i suoi occhi scuri, pur con notevole imbarazzo, non si
distolsero da quelli di Jude mentre pronunciava queste parole, e tra i due vi fu un lampo improvviso di intesa, il tacito
annuncio di una affinità in posse, che per quanto riguardava Jude Fawley, era tutto fuorché premeditata. Lei si era
accorta di essere la prescelta delle tre, come sempre una donna viene prescelta in questi casi, non allo scopo ben
meditato di approfondire una conoscenza, ma in semplice obbedienza a ordini superiori ricevuti inconsapevolmente da
uomini disgraziati, che a tutto pensano tranne che a occuparsi del sesso femminile.
Alzandosi di scatto, lei disse: «Non dimenticatevi quella cosa lì per terra».
Ormai Jude aveva capito che l'invio di quel segnale non aveva nulla a che fare con il lavoro della ragazza. Posò
la sacca con gli attrezzi, raccolse il pezzo di interiora, si aprì un varco con il bastone, e scavalcò la siepe. Per un po'
camminarono parallelamente sulle rive opposte del ruscello, fino alla passerella di legno. Giunta in prossimità di questa,
e senza che Jude se ne accorgesse, la ragazza iniziò a succhiarsi l'interno delle guance, e grazie a questa curiosa e
originale operazione su quelle superfici rotonde e levigate apparvero come per magia due fossette perfette, che le
rimasero finché continuò a sorridere. Questo stratagemma per farsi venire delle fossette al momento giusto non era
sconosciuto, ma per quanto fossero molte le ragazze che lo provavano, solo poche avevano successo.
Si incontrarono nel mezzo della passerella, e restituendole quel proiettile Jude sembrava attendersi che lei gli
spiegasse perché lo aveva fermato in modo così audace con quel pezzo d'artiglieria invece che chiamandolo.
Ma la ragazza, volgendo timidamente lo sguardo da un'altra parte, iniziò a dondolarsi avanti e indietro
appoggiandosi alla mano che era stretta al parapetto del ponticello; finché spinta dalla curiosità che nasce col desiderio,
non volse lo sguardo per osservarlo criticamente.
«Non crederete che io vi tirerei addosso degli oggetti?».
«Oh no».
«Stiamo lavorando per mio padre, che naturalmente non vuole che si butti mai nulla. Con questo ci lucida le
pelli». Con il capo indicò il brandello di grasso sull'erba.
«Chissà perché una delle vostre amiche me lo ha tirato», Jude le chiese, accettando per educazione di credere
alle sue parole, malgrado dubitasse molto della loro veridicità.
«Sfacciataggine. Allora non direte in giro che sono stata io?».
«E come potrei? Non conosco neppure il vostro nome».
«È vero. Volete che ve lo dica?».
«Sì!».
«Arabella Donn. Vivo qui».
«Lo avrei senz'altro saputo se passassi spesso per questa strada. Ma di solito vado dritto per la strada
principale».
«Mio padre alleva maiali, e queste ragazze mi aiutano a lavare le interiora per fare il sanguinaccio e altre cose
simili».
Parlarono ancora un poco, poi un altro poco, mentre appoggiati al parapetto del ponte si guardavano negli
occhi. Il richiamo inespresso della donna all'uomo, che si emanava violentemente dalla personalità di Arabella, trattenne
lì Jude contro le sue intenzioni - quasi contro la sua volontà, e in un modo che riusciva nuovo alla sua esperienza. Non è
esagerato dire che fino a quel momento Jude non aveva mai guardato una donna come tale, considerando vagamente il
sesso come un qualcosa di estraneo alla sua vita e ai suoi progetti. Come ipnotizzato, fissò gli occhi e poi la bocca di lei,
quindi il seno e le robuste braccia nude, bagnate e arrossate dal freddo dell'acqua, e sode come il marmo.
«Siete una ragazza bellissima!», mormorò, sebbene le parole non fossero necessarie per esprimere l'attrazione
da lui provata.
«Ah, dovreste vedermi la domenica!», lei rispose maliziosamente.
«Pensate che sarà possibile?», egli chiese.
«Sta a voi deciderlo. Al momento non ho nessuno che mi stia dietro, ma potrei averlo tra un paio di settimane».
Aveva pronunciato queste parole senza sorridere, e le fossette erano scomparse.
Jude provava una strana sensazione di insicurezza, ma non poteva farci nulla. «Me lo permetterete?».
«Se lo desiderate...».
Nel frattempo, approfittando del fatto che Jude continuava ad avere solo un'impressione molto generale del suo
aspetto, la ragazza era riuscita a farsi ritornare le fossette volgendo per un attimo il viso di lato e ripetendo l'insolita
operazione di succhiarsi le guance. «Domenica prossima?», egli azzardò. «Sarebbe a dire domani?».
«Sì».
«Vengo a prendervi?».
«Sì».
Un piccolo lampo di trionfo le illuminò il volto, i cui occhi nel voltarsi lo guardarono quasi con tenerezza, poi
la ragazza tornò sui suoi passi lungo il ruscello, per raggiungere le amiche.
Jude Fawley si rimise in spalla la sacca con gli arnesi e riprese il suo cammino solitario in preda a un ardore
cui nella propria mente guardava con sbalordimento. Aveva appena respirato una boccata di una nuova atmosfera che
evidentemente lo aveva circondato ovunque andasse, neppure lui sapeva da quanto tempo, ma dalla quale il suo respiro
era rimasto separato come da una lastra di vetro. I propositi riguardo alle letture, al lavoro e agli studi, così
meticolosamente formulati solo pochi minuti prima, subivano un curioso collasso relegati in un angolo, senza che egli
se ne facesse una ragione.
«Oh, non è che uno svago», egli disse a se stesso, vagamente consapevole che per il senso comune qualcosa
mancava, e in modo ancora più lampante qualcos'altro era presente in eccesso, nella natura di quella ragazza da cui era
stato attratto - che rendeva necessario che egli riconducesse, per parte sua, a un motivo di svago il desiderio di cercarla qualcosa in lei del tutto incompatibile con quel lato della propria personalità che era stato assorbito negli studi letterari e
nei sogni grandiosi su Christminster. Non era stata certo una vestale colei che aveva scelto quel proiettile per iniziare
l'offensiva contro di lui. Per un attimo, Jude riuscì a vedere questa realtà con l'occhio della mente, come qualcuno che
alla luce di una lampada in procinto di estinguersi veda momentaneamente un'iscrizione su un muro prima che sia celata
nell'oscurità. Ma questo temporaneo potere di discernimento venne subito meno, e Jude perse ogni senso della realtà
con il sopraggiungere di un piacere fresco e incontrollato, quello di aver scoperto una nuova fonte di interesse emotivo
fino ad allora insospettata, sebbene gli fosse stata sempre vicina. Avrebbe incontrato quell'affascinante esponente
dell'altro sesso la domenica seguente.
Frattanto, la ragazza era tornata dalle amiche, e aveva ripreso silenziosamente ad agitare e lavare le interiora
nell'acqua trasparente del ruscello.
«L'hai accalappiato, cara?», chiese laconicamente la ragazza di nome Anny.
«Non lo so. Vorrei avergli tirato qualcosa di diverso da quella robaccia!», mormorò Arabella con rammarico.
«Oddio! Guarda che non è nessuno, anche se magari tu pensi il contrario. Ha portato la carretta della vecchia
Drusilla Fawley da Marygreen, finché non è diventato apprendista ad Alfredston. Da allora si dà un sacco d'arie, e legge
sempre. Dicono che voglia diventare uno studioso».
«Oh, non mi importa chi sia e cosa faccia. Cosa ti passa per la mente!».
«Avanti! È inutile che cerchi d'ingannarci. Perché sei rimasta a parlarci se non t'interessa? Dì quello che vuoi,
ma è ingenuo come un bambino. L'ho capito quando gli facevi gli occhi dolci sul ponte, e ti guardava come se non
avesse mai visto una donna in vita sua. Credimi, è un uomo che sarà di qualsiasi donna riesca a piacergli un poco, se è
disposta a prenderlo per il verso giusto».
CAPITOLO VII
Il giorno seguente, Jude Fawley si riposava nella sua stanzetta dal soffitto spiovente, fissando ora i libri sul
tavolo ora le macchie nere sul soffitto formate dal fumo della lampada nei mesi passati.
Era una domenica pomeriggio, ventiquattr'ore dopo l'incontro con Arabella Donn. Per tutta la settimana aveva
deciso di dedicare questo pomeriggio a uno scopo particolare - la rilettura del Nuovo Testamento in greco - la sua nuova
copia, dai caratteri migliori della precedente, che seguiva il testo di Griesbach ma emendato da numerosi studiosi, e con
i loro commenti a margine. Era fiero del libro, ottenuto facendosi coraggio e scrivendo all'editore londinese - un passo
che non aveva mai osato compiere prima di allora.
Si era pregustato il grande piacere di quel pomeriggio di lettura sotto il tetto tranquillo della casa della vecchia
zia, dove ormai si fermava a dormire due volte alla settimana. Ma il placido e silenzioso corso della sua vita era stato
turbato da un nuovo evento, un grande intoppo, ed egli si sentiva come un serpente che liberatosi della sua vecchia pelle
invernale abbia difficoltà ad adattarsi alla lucentezza e alla sensibilità della nuova.
Aveva deciso: non sarebbe uscito con lei. Si sedette, aprì il libro, e con i gomiti ben piantati sul tavolo e le
mani sulle tempie, cominciò dal principio:
$Ç ÊÁÉÍÇ ÄÉÁÈÇÊÇ$
Ma non aveva promesso di andarla a prendere? Sì che lo aveva promesso! Lei lo avrebbe atteso a casa,
perdendo tutto il pomeriggio per colpa sua. E a parte la sua promessa, c'era qualcosa di attraente in lei. Non doveva
mancare alla parola data. Pur avendo solo la domenica e la sera degli altri giorni della settimana per leggere, poteva
concedersi un pomeriggio di vacanza, visto che gli altri giovanotti se ne concedevano tanti. E dopo quel giorno,
probabilmente non l'avrebbe rivista mai più. Anzi, considerando i progetti che aveva in mente, rivederla sarebbe stato
impossibile.
In breve, era come se un braccio di straordinaria forza muscolare cui non poteva resistere lo tenesse
materialmente stretto - qualcosa che non aveva nulla a che vedere con lo spirito e gli influssi che lo avevano spinto ad
agire fino ad allora. Questa forza sembrava curarsi poco delle sue ragioni e del suo volere, e trascurare del tutto le sue
cosiddette nobili aspirazioni, e sembrava trascinarlo come fa un maestro violento con lo scolaro che ha preso per il
colletto, in una direzione che lo avrebbe portato nelle braccia di una donna per la quale non provava alcun rispetto, e la
cui vita non aveva niente in comune con la propria, eccetto il luogo di residenza.
$Ç ÊÁÉÍÇ ÄÉÁÈÇÊÇ$: il predestinato Jude riprese a leggere ma senza prestare attenzione alle parole, finché
non si alzò in piedi di scatto e attraversò la stanza. In previsione di questo evento aveva indossato il suo vestito
migliore. Tre minuti dopo era fuori di casa e scendeva per il sentiero attraverso l'ampio e solitario avvallamento
coltivato a granturco che si distendeva tra il villaggio e la casa isolata di Arabella nella gola oltre l'altipiano.
Camminando, di tanto in tanto guardava l'orologio. Sarebbe potuto tornare in un paio d'ore senza alcuno
sforzo, e gli sarebbe rimasto ancora un bel po' di tempo per leggere dopo cena.
Oltrepassati alcuni abeti malandati e una casetta, là dove il sentiero si congiungeva alla strada principale,
affrettò il passo per poi allontanarsi sulla sinistra, scendendo lungo la campagna ripida a ovest della Casa Bruna. Qui,
alla base di quella formazione calcarea, si avvicinò al ruscello che scaturiva da essa, per seguirne il corso fino a
raggiungere l'abitazione di lei. Un odore di porcile proveniva dal retro, insieme ai grugniti degli animali che emanavano
quell'odore. Jude entrò nel giardino e bussò alla porta col pomo del bastone da passeggio.
Qualcuno alla finestra doveva averlo visto, poiché una voce maschile all'interno disse:
«Arabella! È arrivato il tuo giovane corteggiatore! Sbrigati!».
Jude trasalì udendo queste parole. Corteggiare Arabella, in quel senso pratico cui chiaramente alludeva chi
aveva parlato, era l'ultimo dei suoi pensieri. Avrebbero passeggiato insieme, magari l'avrebbe baciata; ma l'idea di
«corteggiarla» era troppo freddamente calcolata perché non ripugnasse alla sua mentalità. La porta venne aperta e Jude
entrò proprio mentre Arabella scendeva le scale in uno sgargiante abito da passeggio.
«Si sieda, Signori... come si chiama?», disse il padre, un uomo energico con un paio di baffoni neri, nello
stesso tono pratico udito da Jude poco prima.
«Non è meglio se usciamo subito?», la ragazza sussurrò a Jude.
«Sì», egli rispose. «Faremo una passeggiata fino alla Casa Bruna, e tra mezz'ora saremo di ritorno».
Arabella appariva così affascinante in mezzo a quelle sudice mura che egli fu felice di essere venuto, e tutti i
timori che lo avevano tormentato fino a quel momento svanirono di colpo.
Si arrampicarono in cima alla collina, e Jude ebbe occasione di prenderle la mano per aiutarla. Poi si diressero
a sinistra, lungo il crinale e raggiunsero il sentiero che incrociava la strada maestra, seguendolo fino alla Casa Bruna,
culla dei suoi ardenti desideri di un tempo di vedere Christminster. Ma ora non gliene importava nulla. Con Arabella
parlava delle più trite banalità sulla gente del luogo con zelo maggiore di quello che avrebbe potuto mostrare discutendo
di filosofia con tutti i professori dell'università fino a quel giorno venerata, e passò davanti al luogo dove si era
inginocchiato a Diana e a Febo senza ricordare che esistessero tali personaggi nella mitologia, o che il sole fosse
qualcosa di diverso da una lampada utile per illuminare il volto di Arabella. Un indescrivibile senso di leggerezza
sollevava i suoi passi da terra; e Jude, il promettente studioso, il futuro teologo, professore, vescovo e cos'altro ancora,
si sentì onorato ed esaltato della condiscendenza di quella bella ragazza di campagna, che aveva accettato di passeggiare
con lui addobbata con i fiocchi e i merletti del suo abito domenicale.
Raggiunsero il granaio della Casa Bruna - il punto in cui si era riproposto di tornare indietro. Mentre
guardavano l'ampio paesaggio che si distendeva a nord, furono colpiti da una densa nuvola di fumo che si levava dai
sobborghi di una cittadina che giaceva sotto di loro a una distanza di un paio di miglia.
«È un incendio», disse Arabella. «Corriamo a vedere - forza! Non è lontano!».
La tenerezza che era cresciuta nel cuore di Jude gli impediva di contrariare ora il desiderio della ragazza peraltro gradito poiché gli offriva una scusa per restare con lei più a lungo. Si lanciarono giù per la collina quasi di
corsa, ma giunti in piano, dopo aver camminato per un miglio, si accorsero che il luogo dell'incendio era molto più
lontano di quanto pensassero.
Tuttavia ormai erano scesi, e continuarono a camminare; ma non giunsero prima delle cinque sul luogo - che si
trovava a sei miglia da Marygreen e a tre dalla casa di Arabella. Intanto l'incendio era stato domato, e dopo una rapida
ispezione alle malinconiche macerie, i due giovani tornarono indietro, per la strada che attraversava Alfredston.
Arabella disse che voleva un tè, ed entrarono in una locanda di infima categoria. Non avendo chiesto della
birra, dovettero attendere a lungo. La cameriera riconobbe Jude, e bisbigliò il proprio stupore alla padrona nel
retrobottega per il fatto che lui, lo studioso, «con tutte le arie che si dava», all'improvviso dovesse scendere così in
basso da accompagnarsi con Arabella. Costei indovinò cosa quelle due si stavano dicendo e rise mentre incontrava lo
sguardo serio e tenero del proprio innamorato - con la risata sguaiata e trionfante propria di una donna senza scrupoli
che comprende che sta vincendo la partita.
Si sedettero dando un'occhiata al locale, al quadro di Sansone e Dalila appeso a una parete, alle chiazze di birra
sul tavolo, e alle sputacchiere per terra piene di segatura. Nell'insieme, la scena aveva su Jude quell'effetto deprimente
che pochi posti possono suscitare meglio di una locanda la domenica sera, quando il sole al tramonto penetra
obliquamente all'interno, l'aria è intrisa degli odori della notte precedente, non si servono liquori, e lo sfortunato
viandante non ha altro luogo dove sostare.
Cominciava a calare l'oscurità. Non potevano proprio aspettare oltre, dissero. «Pure, che possiamo fare?»,
chiese Jude. «Ci sono tre miglia prima di giungere a casa vostra».
«Forse potremmo ordinare della birra», disse Arabella.
«Birra. Oh, sì. Non ci avevo pensato. Però non sta bene venire in un locale pubblico a bere birra, la domenica
sera».
«Ma non siamo venuti per questo».
«No, è vero». Jude a questo punto non desiderava che di andarsene da quel posto così sgradevole; pure ordinò
la birra, che fu servita all'istante.
Arabella l'assaggiò. «Puah!», esclamò.
Jude l'assaggiò a sua volta. «Cos'è che non va?», chiese. «Io di birra non me ne intendo molto, lo ammetto. Mi
piace abbastanza, ma non è adatta per leggere, e preferisco il caffè. Ma mi pare buona».
«È adulterata - imbevibile!». Con grande sorpresa di Jude nominò tre o quattro ingredienti che aveva
riconosciuto nella bevanda, oltre al malto e al luppolo.
«Che esperta siete!», egli disse allegramente.
Comunque prese il boccale, ne bevve la metà e uscirono. Ormai era quasi buio, e non appena si furono lasciati
alle spalle le luci della città iniziarono a camminare più vicini, fino a sfiorarsi. Arabella non capiva cosa aspettasse Jude
a cingerle la vita con un braccio, ma egli non lo fece, limitandosi a dirle quella che a lui parve una frase già abbastanza
azzardata: «Appoggiatevi al braccio, se volete».
La ragazza vi si appoggiò completamente, fino alla sua spalla. Egli sentì il calore del corpo di lei contro il
proprio, e passando il bastone da passeggio sotto l'altro braccio strinse nella mano destra la destra della ragazza, che ne
aveva preso il posto.
«Ora va meglio, così insieme, vero cara?», osservò.
«Sì», lei disse; aggiungendo tra sé e sé: «Quant'è timido!».
«Che sfacciato sono diventato!», egli pensava nel frattempo.
Camminarono così abbracciati finché non giunsero ai piedi della collina, dove potevano vedere la strada bianca
inerpicarsi di fronte a loro nell'oscurità. Per arrivare a casa di Arabella dovevano per forza superare quella salita, e poi
ridiscendere nella vallata sulla destra. Avevano iniziato da poco a salire quando furono quasi travolti da due uomini che
scendevano non visti, poiché camminavano nell'erba.
«Ah, gli innamorati! Li trovi in giro in ogni stagione e con qualsiasi tempo - solo loro, gli innamorati e i cani
randagi», esclamò uno dei due mentre si dileguarono giù per la collina.
Arabella ridacchiò sottovoce.
«Siamo due innamorati?», chiese Jude.
«Se non lo sapete voi!».
«Ma come faccio a saperlo?».
Per tutta risposta, la ragazza inclinò il capo sulla sua spalla. Jude comprese il senso di questo gesto, e
cingendole la vita con il braccio la strinse a sé e la baciò.
Adesso camminavano non più sottobraccio ma abbracciati, come lei aveva desiderato fin dall'inizio. Dopotutto,
pensò Jude, che male c'è, con questo buio. A metà della salita si fermarono quasi per una tacita intesa, ed egli la baciò di
nuovo. Giunti in cima, la baciò ancora una volta.
«Puoi continuare a stringermi, se vuoi», lei disse dolcemente.
Così fece, pensando che si fidava di lui.
Si diressero lentamente verso la casa della ragazza. Jude era uscito alle tre e mezza con l'intenzione di
ricominciare a studiare il Nuovo Testamento due ore dopo. Furono le nove quando, dopo un ultimo abbraccio, si fermò
per salutarla sulla porta di casa del padre.
Arabella gli chiese di entrare, magari solo per un minuto, poiché sarebbe parso strano altrimenti, come se lei
fosse tornata da sola nel buio. Egli acconsentì, e la seguì all'interno. Non appena la porta si aprì trovò, oltre ai genitori di
lei, diversi vicini di casa seduti in circolo. Tutti si rivolsero a lui congratulandosi, e considerandolo seriamente come il
fidanzato di Arabella.
Non appartenevano al suo ambiente o alla sua cerchia, e Jude si sentì a disagio e imbarazzato. Nulla di ciò era
nelle sue intenzioni: aveva pensato di trascorrere un pomeriggio a passeggiare piacevolmente con Arabella, nient'altro.
Rimase solo il tempo necessario per parlare alla matrigna di lei, una donna semplice e tranquilla, dall'aspetto e dalla
personalità per nulla appariscenti, e dopo aver augurato a tutti loro la buona notte, si precipitò con un senso di sollievo
lungo il sentiero sulla collina.
Ma non fu che una sensazione passeggera: Arabella si rimpossessò subito del suo cuore. Camminava
sentendosi un uomo diverso dal Jude del giorno prima. Cosa erano i libri per lui? Cosa contavano i suoi propositi, fino
ad allora seguiti così scrupolosamente, di non sprecare un minuto delle sue giornate? «Sprecare!». È una questione di
punti di vista: non faceva che vivere per la prima volta, altro che sprecare la propria vita! Meglio amare una donna che
diventare uno studioso, un parroco... o foss'anche un papa!
Quando tornò a casa, la zia era già andata a dormire. Su tutti gli oggetti che gli si paravano davanti Jude ebbe
l'impressione di leggere una consapevolezza generale della propria negligenza. Salì in camera al buio, e l'interno
indistinto della stanza lo accostò con triste perplessità. Sul tavolo, il libro era rimasto aperto proprio come lo aveva
lasciato, e alla pallida luce delle stelle le lettere maiuscole del frontespizio lo fissavano con rimprovero, come gli occhi
socchiusi di un morto:
$Ç ÊÁÉÍÇ ÄÉÁÈÇÊÇ$
Jude sarebbe dovuto ripartire di buon'ora, la mattina dopo, per la sua consueta assenza settimanale; e fu con un
senso della loro futilità che, sopra gli arnesi e altri oggetti personali, gettò nella sacca il libro non letto che aveva portato
con sé.
Tenne segreto il loro incontro quasi anche a se stesso. Arabella, al contrario, ne parlò non solo alle amiche ma
a persone che conosceva appena.
Seguendo a ritroso alla luce dell'alba la strada percorsa solo poche ore prima protetto dall'oscurità con
l'innamorata al fianco, giunse ai piedi della collina, dove rallentò il passo fino a fermarsi. Proprio lì l'aveva baciata la
prima volta. Il sole si era levato da poco, ed era possibile che da allora nessuno fosse passato di lì. Jude guardò in terra e
sospirò. Osservando più attentamente il terreno, poté distinguere sulla polvere umida le orme dei loro piedi mentre si
stringevano l'uno nelle braccia dell'altro. Lei ora non c'era, e «il ricamo dell'immaginazione sul materiale della natura»
rievocava in modo così vivido quella passata presenza che egli avvertiva un incolmabile vuoto nel cuore. Lì vicino si
trovava un salice mezzo spoglio, che ai suoi occhi era diverso da tutti i salici del mondo. Poter cancellare i sei giorni
che dovevano passare prima di rivederla come le aveva promesso era ciò che più avrebbe desiderato in quel momento,
anche se gli fosse rimasta solo una settimana di vita.
Un'ora e mezza dopo, Arabella percorreva lo stesso sentiero con le due amiche del sabato precedente. Passò
senza far caso davanti al luogo in cui si erano baciati e al salice che lo contraddistingueva, malgrado stesse
spettegolando allegramente con le altre sull'accaduto.
«E poi cosa ti ha detto?».
«Poi ha detto...». E riferì quasi alla lettera alcuni dei discorsi più teneri di Jude. Se fosse stato nascosto dietro
alla staccionata, egli sarebbe rimasto non poco sorpreso di apprendere quante poche delle sue frasi e delle sue azioni
della sera precedente erano rimaste segrete.
«Sei riuscita a farlo innamorare, altro che!», sentenziò Anny. «Beata te!».
Dopo qualche attimo Arabella rispose con un curioso tono di voce, basso e teso, di latente sensualità: «L'ho
fatto innamorare: sì! Ma io voglio qualcosa di più; voglio essere sua - che mi sposi! Devo averlo. Non posso stare senza
di lui. È l'uomo che desidero. Impazzirò se non potrò darmi completamente a lui! Avrei voluto farlo la prima volta che
l'ho visto!».
«Siccome è un ragazzo romantico, semplice e onesto, lo avrai, e per marito, se saprai prenderlo nel modo
giusto».
Arabella si fermò a riflettere. «Quale sarebbe il modo giusto?», chiese.
«Oh vuoi farci credere che non lo sai - proprio tu!», disse Sarah, la terza ragazza.
«Lo giuro! - So, cioè, che devo farmi corteggiare e stare attenta a che non vada troppo oltre!».
La terza ragazza guardò la seconda. «Non lo sa sul serio!».
«Proprio così!», disse Anny.
«E sei pure vissuta in città! Be', potremo anche noi insegnare qualcosa a te, e non solo tu a noi».
«Sì. E che significa - un modo sicuro per conquistare un uomo? Fate pure conto che sono un'ingenua e
finiamola!».
«Un uomo per marito».
«Per marito».
«Io parlo di un contadino per bene e di serie intenzioni come è lui; non mi sognerei mai di pensare a un
soldato, a un marinaio, a un mercante di città, o a uno di quelli che piantano in asso le povere donne! Non augurerei una
cosa del genere a un'amica!».
«Sì certo, uno come lui, naturalmente!».
Le amiche di Arabella si guardarono, e roteando gli occhi in modo comico iniziarono a ridacchiare. Poi una
delle due le si avvicinò, e sebbene non vi fosse nessuno nei paraggi, le diede alcuni consigli sottovoce, mentre l'altra
osservava con curiosità l'effetto su Arabella.
«Ah!», disse quest'ultima lentamente. «Giuro che non ci avevo mai pensato!... Ma poniamo che non sia onesto?
Una donna farebbe meglio a non rischiare!».
«Chi non risica non rosica! Inoltre, capisci se è onesto prima di incominciare. Con lui puoi stare abbastanza
tranquilla. Magari fosse capitata a me l'occasione! Un sacco di ragazze lo fanno; o pensi che si sarebbero mai sposate?».
Arabella continuò a camminare riflettendo in silenzio. «Ci proverò!», disse, ma non a loro.
CAPITOLO VIII
Un sabato, Jude aveva lasciato come al solito la sua stanzetta di Alfredston diretto dalla zia a Marygreen - una
passeggiata che ora per lui aveva delle grandi attrattive, ben diverse dal desiderio di vedere la vecchia e scorbutica zia.
Deviò a sinistra prima di arrampicarsi su per la collina col preciso scopo di fermarsi lungo la strada per una visita ad
Arabella che non rientrasse nel conteggio degli appuntamenti regolari. Ancora non era giunto alla fattoria, che il suo
occhio vigile aveva scorto la testa della ragazza muoversi rapidamente su e giù alle spalle della siepe del giardino.
Oltrepassato il cancello, trovò che tre maialini da latte erano fuggiti dal porcile saltando lo steccato e che Arabella
cercava da sola di spingerli verso la porta della stalla che aveva lasciata aperta. Quando vide Jude, nei lineamenti del
suo viso la dolcezza dell'amore si sostituì alla tensione del lavoro, e i suoi occhi si posarono languidi su di lui. Gli
animali approfittarono dell'occasione per girare su se stessi e scappare più lontano.
«Li hanno appena messi là dentro stamattina!», esclamò la ragazza, intenzionata a inseguirli malgrado la
presenza del suo innamorato. «Li hanno portati ieri dalla fattoria di Spaddleholt, dove mio padre li ha comprati
pagandoli pure abbastanza cari. Vogliono tornarsene a casa, questi stupidi maiali! Ti dispiace chiudere il cancello del
giardino e aiutarmi a prenderli? Gli uomini sono usciti tutti, qui siamo rimaste solo io e mia madre, e se non facciamo
qualcosa li perderemo».
Jude si mise ad aiutarla, saltando di qua e di là tra i solchi delle patate e dei cavoli. A tratti correvano insieme
ed egli riusciva ad afferrarla per un attimo e a baciarla. Il primo maiale lo presero subito; il secondo con qualche
difficoltà; mentre il terzo, un animale dalle gambe lunghe più ostinato e agile, s'infilò attraverso un buco nella siepe e
fuggì per il sentiero.
«Lo perderemo, se non gli corro dietro!», disse la ragazza. «Vieni con me!».
Arabella si lanciò all'inseguimento fuori dal giardino insieme a Jude, riuscendo a malapena a non perdere di
vista il fuggitivo. Ogni tanto gridavano a qualche ragazzino di fermare l'animale, ma questi riusciva sempre a
svignarsela, e ricominciava a correre come prima.
«Lascia che ti prenda per mano, cara», disse Jude. «Non ce la fai più». Lei gli porse la mano accaldata con
palese compiacenza, ed essi ripresero a correre insieme.
«Ecco cosa succede quando si portano così», Arabella osservò. «Riconoscono sempre la strada di casa, se
vengono a piedi. Bisognava trasportarli con un carro».
A questo punto il maiale era arrivato a un cancello che dava nell'aperta campagna, attraverso la quale l'animale
si slanciò con tutta l'agilità che le sue gambette gli consentivano di avere. Non appena i due inseguitori giunsero al
cancello e si arrampicarono in cima a quel terrapieno, fu chiaro che per prenderlo avrebbero dovuto correre fino
all'abitazione del fattore. Dall'alto della collina, il maiale pareva una piccola macchiolina che seguiva una linea precisa
verso casa.
«È inutile!», esclamò Arabella. «Sarà arrivato molto prima di noi. Non importa, ora che sappiamo che non si è
perso e che nessuno lo ha rubato per strada. Vedranno che è nostro e ce lo rimanderanno. Oh caro, che caldo!».
Senza abbandonare la presa della mano di Jude, Arabella si chinò di lato e si gettò sull'erba sotto un rachitico
cespuglio, trascinando con sé Jude, che cadde sulle proprie ginocchia.
«Oh, perdonami - Ti ho quasi buttato per terra, non è vero? Ma sono così stanca!».
Giaceva supina, dritta come una freccia sul pendio erboso in cima alla collina, fissando la distesa azzurra del
cielo, e tenendo sempre la mano accaldata stretta in quella di Jude, che si era steso accanto a lei, appoggiandosi a un
gomito.
«Abbiamo fatto tutta questa corsa per niente», proseguì Arabella; il petto le si alzava e abbassava in brevi
respiri affannosi, aveva il viso paonazzo, le labbra rosse e carnose dischiuse, e sulla pelle una leggera rugiada di sudore.
«Be' - perché non dici nulla, caro?».
«Sono anch'io senza fiato. Era tutta in salita».
La loro solitudine era completa - era la più evidente di tutte le solitudini, quella di uno spazio vuoto circostante.
Nessuno si sarebbe potuto avvicinare a più di un miglio senza che se ne accorgessero. Si trovavano, in effetti, su uno dei
punti più alti della contea, e da lì potevano scorgere la campagna lontana intorno a Christminster. Ma non era a questo
che Jude pensava in quel momento.
«Oh, guarda che cosa carina su quell'albero», disse Arabella. «Mi pare... ma sì un bruco, del verde e del giallo
più belli che abbia mai visto!».
«Dove?», chiese Jude, sedendosi.
«Da lì non lo puoi vedere - devi venire qui», lei disse.
Egli si chinò in avanti, avvicinando la testa a quella della ragazza. «No - proprio non lo vedo», disse.
«Ma come! sul bordo lassù, dove l'albero si biforca - vicino alla foglia che si muove - lì!». E gentilmente lo
attirò a sé.
«Non lo vedo», egli ripeté, con il capo contro la sua guancia. «Ma forse se mi tiro su lo vedo». Così fece, per
porsi nella direzione indicata dallo sguardo della ragazza.
«Che stupido sei!», lei sbottò contrariata, volgendo il volto da un'altra parte.
«Io? Ma cosa vuoi che m'importi di vederlo, cara!», egli rispose, guardandola dall'alto. «Alzati, Abby».
«Perché?».
«Voglio baciarti. È da tanto che aspetto!».
Arabella girò il capo, per un attimo fissandolo ostentatamente di traverso; poi con una leggera smorfia della
bocca, tutt'a un tratto si alzò esclamando: «Devo sbrigarmi!», e si allontanò di corsa verso casa. Jude la seguì e la
raggiunse.
«Solo uno!», supplicò.
«Niente da fare!», lei disse.
E lui sorpreso: «Ma che ti succede?».
Arabella continuò a tenere le labbra ben strette per la rabbia, e Jude la seguì come un agnellino finché lei non
rallentò il passo per camminare accanto a lui, parlando tranquillamente delle questioni più banali e trattenendolo
ogniqualvolta cercava di afferrarle la mano o di stringerla in vita. Così discesero fino al cancello della fattoria del padre,
che Arabella oltrepassò salutando Jude con aria sprezzante e risentita.
«Dev'essere che mi sono preso troppa libertà con lei», Jude disse a se stesso mentre sospirando si allontanava
verso Marygreen.
La mattina dopo, come ogni domenica, la casa di Arabella era teatro di grandiosi preparativi culinari per lo
speciale pranzo festivo. In cucina, suo padre si stava radendo davanti a uno specchietto appeso al montante della
finestra, mentre la ragazza e sua madre sgusciavano fagioli. Una vicina passò di ritorno a casa, dopo aver assistito alla
messa domenicale nella chiesa del villaggio, e vedendo Donn alle prese col rasoio accennò a un saluto ed entrò.
Immediatamente si rivolse ad Arabella con tono scherzoso: «Ti ho visto che correvi con lui, eh eh! Quand'è che
vi decidete?».
Arabella le gettò uno sguardo di consapevolezza senza alzare gli occhi.
«Si dice che andrà a Christminster, appena gli riuscirà».
«Lo avete sentito dire di recente - in questi ultimi giorni?», chiese Arabella pazza di gelosia, trattenendo il
respiro.
«Oh no! Ma si sa da tempo che questo è il suo progetto. Sta qui solo in attesa di un'occasione. E che volete: nel
frattempo dovrà pure uscire con qualcuno, immagino. Dei giovanotti al giorno d'oggi c'è poco da fidarsi. Se la fanno
con chi capita. Ai miei tempi era diverso».
Quando quella pettegola se ne fu andata, Arabella improvvisamente disse alla madre: «Voglio che tu e papà
andiate a trovare gli Edlin, dopo cena. Oppure no - stasera c'è la messa a Fensworth - potreste fare una passeggiata
laggiù».
«Perché? Cosa succede stasera?».
«Niente. È solo che voglio la casa tutta per me. Lui è timido, e non riesco a convincerlo a venire qui se ci siete
voi. Me lo lascerò sfuggire di mano, se non sto attenta, per quanto bene gli voglia!».
«D'accordo, possiamo uscire, se è questo che desideri».
Nel pomeriggio Arabella aveva un appuntamento con Jude, che da settimane non apriva un libro di greco,
latino o di qualsiasi altra lingua. Insieme vagarono per i pendii di quella campagna finché non giunsero al sentiero verde
lungo il crinale, che seguirono fino allo spiazzo circolare contiguo. Jude pensava intanto a quanto antico fosse il
viottolo, ai mandriani che lo avevano percorso, forse anche prima che i Romani conoscessero quel paese. Dalla pianura
che si stendeva ai loro piedi iniziarono a salire i suoni delle campane delle chiese. Ben presto si fusero in un'unica nota,
che si ripeté a intervalli sempre più brevi, finché la sua eco non si perse nell'aria.
«È ora di tornare», disse Arabella, dopo aver ascoltato quello scampanio.
Jude assentì. Purché le fosse accanto, poco gli importava dove era. Giunti a casa di lei, disse con
rassegnazione: «Io vado. Perché stasera hai tanta fretta di rientrare? Non è ancora buio».
«Aspetta un momento», lei disse. Provò la serratura della porta e la trovò chiusa a chiave.
«Ah, sono andati in chiesa», aggiunse. E cercando dietro al raschietto trovò la chiave e aprì la porta. «Allora,
che ne pensi di entrare un attimo?», chiese in tono lieve. «Saremo tutti soli».
«Certo», si affrettò a rispondere Jude, dal momento che la situazione era inaspettatamente mutata.
Entrarono. Voleva un tè? No, era troppo tardi: preferiva sedersi a parlare con lei. Arabella si tolse la giacca e il
cappello, e si sedettero - ovviamente vicini.
«Non toccarmi, per favore», lei disse dolcemente. Sono in parte un guscio d'uovo. O forse è meglio che lo
metta al sicuro». Iniziò a slacciarsi il colletto del vestito.
«Cos'è?», chiese il suo innamorato.
«Un uovo - un uovo di cocincina. Sto covando una razza molto rara. Me lo porto dietro ovunque, e dovrebbe
nascere in meno di tre settimane».
«E dove lo tieni?».
«Proprio qui». Infilò la mano nel petto e tirò fuori un uovo, che era avvolto nella lana e poi ancora in un pezzo
di vescica di maiale, per proteggerlo da qualsiasi incidente. Dopo averglielo mostrato, lo rimise al suo posto. «Quindi
attento a non avvicinarti. Non voglio che si rompa e che debba ricominciare da capo con un altro».
«Perché fai una cosa così strana?».
«È una vecchia tradizione. Immagino sia naturale che una donna voglia mettere al mondo degli esseri viventi».
«Sarà naturale, ma in questo preciso momento per me è un fastidio e basta», egli disse, ridendo.
«Ti sta bene. Ecco - questo è tutto quello che puoi avere di me».
Aveva girato la sedia, e sporgendosi all'indietro gli aveva offerto la propria guancia con circospezione.
«Non puoi essere così cattiva!».
«Avresti dovuto approfittarne un minuto fa, quando avevo poggiato l'uovo! Ecco!», disse con tono di sfida,
«L'ho tolto di nuovo!». Aveva tirato fuori rapidamente l'uovo per la seconda volta, ma prima che il suo innamorato
potesse raggiungerla, lo aveva altrettanto rapidamente rimesso al suo posto, ridendo eccitata alla propria strategia. Poi ci
fu una breve lotta in cui Jude infilò la mano nella scollatura e lo catturò trionfalmente. Lei arrossì, e notandolo
improvvisamente, lui arrossì a sua volta.
Si guardarono ansimando, finché Jude non si tirò su e disse: «Un bacio, ora che posso dartelo senza
danneggiare il tuo prezioso oggetto; e poi me ne andrò!».
Ma anche lei era balzata in piedi. «Prima devi prendermi!», esclamò.
Il suo innamorato la inseguì mentre indietreggiava. Nella stanza ormai era buio, ed essendo la finestra piccola
per qualche tempo non riuscì a indovinare dove si fosse nascosta, finché una risata non gli rivelò che era scappata di
sopra, dove si affrettò a raggiungerla.
CAPITOLO IX
Trascorsero un paio di mesi, e in quell'intervallo di tempo i due continuarono a vedersi regolarmente. Arabella
pareva scontenta; sempre a fantasticare, quasi fosse in attesa di qualcosa, e a pensare.
Un giorno incontrò l'errante Vilbert. Come tutti in quella zona, conosceva bene il ciarlatano, e si mise a
raccontargli della sua vita. All'inizio era stata malinconica, ma al momento di congedarsi da lui era divenuta più allegra.
Quella sera si recò a un appuntamento con Jude, che sembrava triste.
«Vado via», le disse. «Devo farlo. Sarà meglio per entrambi. Magari questa faccenda non fosse mai
cominciata. Naturalmente la colpa è innanzitutto mia, lo so. Ma non è mai troppo tardi per rimediare».
Arabella si mise a piangere. «Come fai a sapere che non è troppo tardi?», gli chiese. «Fai presto a dirlo, tu! Ma
c'è qualcosa che non sai!», aggiunse, fissandolo con occhi pieni di lacrime.
«Cosa?», egli chiese impallidendo. «Non...?».
«Sì! E cosa farò se mi abbandoni?».
«Oh Arabella... come puoi dire una cosa simile, cara! Sai che non potrei mai!».
«Allora...».
«Al momento non guadagno quasi nulla; forse avrei dovuto pensarci prima... Ma naturalmente, se così stanno
le cose, dovremo sposarci! Cos'altro credevi che avessi in mente di fare?».
«Credevo... credevo che forse saresti voluto andare via a maggior ragione per questo motivo, lasciandomi ad
affrontare la situazione da sola!».
«Dovresti conoscermi meglio! Sei mesi fa, o anche solo tre mesi fa, non mi sarei mai sognato di sposarmi.
Manda all'aria tutti i miei progetti - cioè quelli che avevo fatto prima di incontrarti, cara. Ma che sono, dopo tutto! Sogni
su libri, e lauree, e impossibili borse di studio, e via dicendo. Certo che ci sposeremo: dobbiamo!».
Quella sera egli uscì da solo a passeggiare al buio, immerso nei suoi pensieri. Nel segreto centro del suo
cervello sapeva bene, troppo bene, che Arabella non valeva un gran che quale rappresentante del sesso femminile. Pure,
come ci si aspettava in campagna dai giovani d'onore che si erano lasciati andare a tanta intimità con una donna, come
disgraziatamente egli aveva fatto, era pronto a tener fede alle proprie parole, e accettarne le conseguenze. Per sua
consolazione personale, continuò a far finta di credere in lei. Contava l'idea che aveva di Arabella, non Arabella
medesima, si diceva laconicamente.
Le pubblicazioni furono affisse la domenica successiva. Tutti nella parrocchia commentarono che il giovane
Fawley era stato uno stupido. Ecco il risultato di tanti studi: egli avrebbe dovuto vendere i libri per comprarsi di che
mangiare. Coloro che avevano intuito come stesse in realtà la faccenda, tra i quali i genitori di Arabella, dichiararono
che era il genere di comportamento che si sarebbero aspettati da un giovane per bene quale era Jude per riparare al male
arrecato alla sua innocente fidanzata. Anche il parroco che li sposò sembrò ritenere soddisfacente quella soluzione.
Così, in piedi di fronte al suddetto officiante, i due giurarono che in ogni momento della loro vita, finché la
morte non giungesse a separarli, avrebbero fermamente creduto, sentito e desiderato proprio quel che avevano creduto,
sentito e desiderato in quelle poche settimane precedenti. Degno di nota quanto il loro stesso giuramento era il fatto che
nessuno dei presenti sembrava per nulla stupito di ciò che i due avevano giurato.
Essendo una fornaia, la zia di Fawley aveva preparato una torta nuziale dicendo amaramente che era l'ultima
cosa che avrebbe potuto fare per lui, povero sciocco; e che sarebbe stato molto meglio se, invece di continuare a vivere
per darle dei dispiaceri, fosse stato sepolto anni prima insieme al padre e alla madre. Arabella prese due fette del dolce,
le avvolse in fogli di carta bianca, e le inviò alle amiche di un tempo, Anny e Sarah, scrivendo su ogni pacchetto: «In
ricordo di un buon consiglio».
Le prospettive della coppia appena sposata non erano certamente molto rosee, anche agli occhi della persona
più ottimista. Jude, un apprendista scalpellino di diciannove anni, lavorava a mezza paga fino al termine del tirocinio.
Sua moglie non era di alcuna utilità in un appartamento cittadino, dove in un primo momento egli aveva ritenuto
necessario che vivessero. Il bisogno impellente di incrementare le loro entrate, fosse pure in misura minima, lo spinse
ad affittare una casetta tra la Casa Bruna e Marygreen, per godere dei prodotti di un orto e usare l'esperienza passata
della ragazza lasciandole allevare un maiale. Ma non era il genere di vita che Jude aveva sognato, e la distanza da
percorrere a piedi ogni giorno da e per Alfredston era lunga. Arabella, comunque, sentiva che tutte queste difficoltà
erano temporanee; lei aveva preso marito, questa era la cosa importante - un marito che avrebbe potuto guadagnare un
sacco di soldi per comprarle vestiti e cappelli non appena avesse iniziato a spaventarsi un poco, e si fosse dedicato di
più al lavoro, mettendo da parte quegli stupidi libri per imprese più pratiche.
In quella casetta Jude condusse Arabella la sera del matrimonio, abbandonando la sua vecchia stanza a casa
della zia - dove aveva svolto tanta parte del duro lavoro sui libri di greco e latino.
Quando la vide spogliarsi la prima volta, Jude fu colto da una leggera sensazione di gelo. Per nulla imbarazzata
dalla presenza del marito, Arabella sciolse, pettinò e appese allo specchio che le aveva comprato una lunga treccia che
portava annodata in una enorme crocchia sulla nuca.
«Cosa - non erano capelli tuoi?», egli disse con un improvviso senso di ripugnanza verso di lei.
«Oh no - è così che si usa oggigiorno tra le persone eleganti».
«Che stupidaggine! Forse in città. Ma in campagna si suppone che sia diverso. Non mi dirai che pensi di non
averne abbastanza di tuoi?».
«Abbastanza per i gusti della campagna. Ma in città gli uomini si aspettano di più, e quando facevo la
cameriera a Aldbrickham...».
«La cameriera a Aldbrickham?».
«Be' non proprio la cameriera... per un po' ho servito da bere, tutto qui. Qualcuno mi convinse a metterli e li
comprai per capriccio. Più ne hai e meglio è ad Aldbrickham, che è una città molto più bella di tutte le tue
Christminster. Ogni vera signora porta i capelli finti - me lo ha detto il garzone del barbiere».
Jude pensò con un senso di disgusto che sebbene in certa misura ciò potesse essere vero, per quanto ne sapeva
lui molte ragazze non sofisticate sarebbero andate e andavano in città restandoci per anni senza perdere la loro
semplicità di vita e i loro gusti. Altre purtroppo avevano nel sangue una inclinazione all'artificialità, e al primo contatto
con la città diventavano esperte provette nell'arte della simulazione. Forse, però, non era un peccato così grande che una
donna aggiungesse dei capelli finti ai propri; e decise di non pensarci più.
Una sposa novella di solito riesce a suscitare interesse per alcune settimane, per quanto le prospettive
economiche della coppia possano apparire incerte. C'è qualcosa di piccante nella sua situazione, nei suoi modi e nel
come la percepisce, che toglie la tristezza dai fatti e rende persino la sposa più umile indipendente per un certo tempo
dalla realtà. La signora Fawley passeggiava per Alfredston uno dei giorni di mercato con questa caratteristica nel suo
portamento quando incontrò Anny, l'amica di un tempo, che non aveva visto da prima del matrimonio.
Come al solito, si misero a ridere prima ancora di parlare: il mondo pareva loro divertente, senza bisogno che
se lo dicessero.
«Hai visto che si è rivelato un buon piano!», fece osservare la ragazza all'amica da poco sposatasi. «Lo sapevo
che con uno come lui avrebbe funzionato. È un caro ragazzo e dovresti esserne orgogliosa».
«Lo sono», disse la signora Fawley tranquillamente.
«E per quando aspetti?».
«Ssh! Mai!».
«Cosa!».
«Mi ero sbagliata».
«Oh Arabella, Arabella, tu sì che sei furba! Sbagliata! Sei stata proprio brava - un vero colpo di genio! Con
tutta la mia esperienza, confesso di non averci mai pensato! Non avevo mai pensato al di là del realizzare la cosa reale mai che si potesse far finta!».
«Fai presto tu a dire far finta! Io non ho fatto finta. Non lo sapevo».
«Parola d'onore - se non gli prenderà un colpo! Vedrai sabato sera! Comunque stiano le cose, dirà che lo hai
ingannato, e due volte, per Dio!».
«Ammetto la prima volta, ma non la seconda... Mah! - Non gliene importerà nulla! Sarà ben contento che mi
sono sbagliata in quello che ho detto. Gli passerà presto, vedrai - gli uomini sono sempre così. E che potrebbe fare
altrimenti? Sposato è sposato».
Ciononostante, fu con una certa apprensione che Arabella vide avvicinarsi il momento in cui, nel corso
naturale delle cose, avrebbe dovuto confessare che l'allarme dato era stato privo di fondamento. L'occasione si presentò
una sera all'ora di andare a dormire, quando si trovavano nella camera da letto della loro casetta solitaria nei pressi della
strada maestra, dove Jude tornava a piedi ogni giorno dal lavoro. Aveva lavorato sodo per tutta la giornata e si era
coricato per riposarsi prima della moglie. Quando lei entrò nella stanza, egli era in un dormiveglia, e si accorse a
malapena che la moglie si stava spogliando davanti allo specchio della toeletta.
Un gesto di Arabella, tuttavia, lo fece tornare pienamente in sé. Il viso della ragazza si rifletteva nello specchio
ed egli poté notare che si divertiva a produrre artificialmente le fossette di cui abbiamo già parlato, un curioso effetto
nel quale era maestra, e che otteneva succhiandosi per un po' le guance. Per la prima volta, Jude realizzò che in quei
giorni le fossette le comparivano molto più di rado sul viso rispetto alle prime settimane dopo che si erano conosciuti.
«Smettila, Arabella!», disse all'improvviso. «Non c'è nulla di male, ma... non mi piace vederti quando lo fai».
Lei si girò e rise. «O mio Dio, non sapevo che fossi sveglio!», disse. «Sei proprio uno zoticone! Non sto
facendo nulla di male».
«Dove lo hai imparato?».
«Da nessuna parte, che mi ricordi. Quando stavo alla birreria restavano senza difficoltà, ma ora non restano
più. Avevo il viso più tondo, allora».
«Non me ne importa niente delle fossette. Non credo rendano più bella una donna - soprattutto una donna
sposata e florida come sei tu».
«La maggior parte degli uomini la pensa diversamente».
«Non m'importa di quello che pensano gli altri uomini, ammesso che lo pensino. Tu che ne sai?».
«Me lo dicevano sempre quando lavoravo in quella birreria».
«Ah - è stata l'esperienza in quel locale a farti riconoscere che era adulterata la birra che abbiamo bevuto quella
domenica sera. E io che quando ti ho sposato credevo fossi sempre vissuta a casa di tuo padre».
«Avresti dovuto capirlo e accorgerti che ero un po' più raffinata di quanto sarei potuta essere restando dove ero
nata. Non c'era molto da fare a casa, e io non facevo che mangiare, così me ne sono andata via per tre mesi».
«Presto avrai un gran da fare, cara, non è vero?».
«Che vuoi dire?».
«Ma sì, tante piccole cose da preparare».
«Oh».
«Quando sarà? Puoi dirmelo con precisione, invece che in termini così generali, come hai fatto finora?».
«Dirtelo?».
«Sì - la data».
«Non c'è niente da dire. Mi sono sbagliata».
«Cosa?».
«Mi sono sbagliata».
Jude balzò a sedere sul letto e la fissò. «Come può essere?».
«Le donne immaginano delle cose sbagliate a volte».
«Ma...! Impreparato com'ero, senza un mobile e con le tasche quasi vuote, ovviamente non avrei precipitato gli
eventi e non ti avrei portato prima del tempo in questa casetta in cui c'è appena l'essenziale, se non per la notizia che mi
avevi dato, e che lo aveva reso necessario per salvarti, che fossi pronto o meno... buon Dio!».
«Non prendertela, caro. Quel che è fatto è fatto».
«Non ho altro da aggiungere!».
Jude aveva pronunciato queste parole con semplicità, e si era di nuovo steso sul letto; tra di loro era sceso il
silenzio.
Al risveglio la mattina dopo, gli parve di vedere il mondo con occhi diversi. Per quanto riguarda la faccenda in
questione non poteva far altro che accettare la spiegazione di lei; date le circostanze, non poteva agire altrimenti fintanto
che prevalevano determinate norme di vita. Ma come era accaduto che prevalessero?
In modo vago e oscuro, gli pareva che vi fosse qualcosa di errato in un rito sociale che rendeva necessario
l'annullamento di solidi schemi frutto di anni di riflessione e lavoro, la negazione dell'unica possibilità che un uomo
aveva di mostrarsi superiore agli animali più infimi, e contribuire con le sue unità di lavoro al progresso generale della
sua generazione, a causa di una sorpresa momentanea prodotta da un istinto nuovo e transitorio che in sé non aveva
nulla della natura del vizio, e tutt'al più si poteva definire debolezza. Jude era incline ad analizzare cosa lui avesse fatto,
o lei avesse perso, per meritare di essere incastrato in una trappola che avrebbe storpiato lui, se non anche lei, per tutto il
resto della vita. Era forse una fortuna che la ragione immediata del suo matrimonio si fosse dimostrata inesistente. Ma il
matrimonio rimaneva.
CAPITOLO X
Giunse il giorno stabilito per l'uccisione del maiale che Jude e la moglie avevano allevato nella stalla in
autunno, e l'operazione era stata fissata per le prime ore del mattino, di modo che Jude potesse poi recarsi ad Alfredston
senza perdere più di qualche ora di lavoro.
La notte era sembrata stranamente silenziosa. Jude guardò fuori dalla finestra molto prima dell'alba, e si rese
conto che il terreno era tutto coperto di neve - uno strato insolitamente alto data la stagione, e qualche fiocco ancora
cadeva.
«Temo che il macellaio non potrà venire», disse ad Arabella.
«Oh, verrà, verrà. Alzati e va' a scaldare l'acqua, se vuoi che Challow lo scotti. Anche se io sarei per
abbrustolirlo».
«Mi alzerò», disse Jude. «Preferisco il metodo delle mie parti».
Scese in cucina, accese il fuoco sotto il bollitore di rame, e iniziò ad alimentarlo con gambi di fave senza
accendere una candela, dal momento che la fiamma spargeva un allegro chiarore per la stanza; sebbene per lui quella
sensazione di allegria fosse attenuata dal pensiero della funzione di quel fuoco - che serviva a scaldare l'acqua per
scottare le setole del corpo di un animale ancora vivo, la cui voce si faceva continuamente sentire da un angolo del
giardino. Alle sei e mezza, l'ora in cui il macellaio sarebbe dovuto venire, l'acqua bolliva e la moglie lo raggiunse in
cucina.
«È arrivato Challow?».
«No».
Attesero, e intanto il cielo si schiariva con la luce malinconica di un'alba di neve. Arabella uscì fuori, diede
un'occhiata alla strada e rientrando disse: «Non viene. Si sarà ubriacato stanotte. Certo non è per colpa della neve».
«Allora dobbiamo rimandare. Abbiamo solo fatto bollire dell'acqua per niente. Può essere che giù a valle la
neve sia molto alta».
«Non si può rimandare! Non abbiamo più nulla da dare da mangiare al maiale. Ha mangiato l'ultimo pastone
d'orzo ieri mattina».
«Ieri mattina? E da allora che ha avuto?».
«Niente».
«Cosa - è stato a digiuno?».
«Certo. Si fa sempre così gli ultimi due giorni, per faticare di meno a pulire le budella. Non sai proprio nulla,
tu!».
«Ecco perché si lamenta tanto, povera bestia!».
«Be' - dovrai essere tu a scannarlo - non c'è alternativa. Ti farò vedere come. Oppure lo farò io stessa, credo
che sarei capace. Anche se, essendo un maiale così grande, avrei preferito lo facesse Challow. Fortuna che aveva già
mandato il cesto con i coltelli, così potremo usarli».
«È chiaro che non sarai tu a farlo», disse Jude. «Se qualcuno deve farlo, sarò io».
Andò al porcile, spalò via la neve sullo spiazzo antistante, e vi sistemò lo sgabello con i coltelli e le corde a
portata di mano. Un pettirosso curiosò dall'albero più vicino ai preparativi, e non piacendogli l'aspetto sinistro della
scena volò via, sebbene affamato. Nel frattempo Arabella aveva raggiunto il marito e Jude, con la corda in mano, entrò
nel porcile e la passò intorno al collo dell'animale atterrito che, dopo un urlo acuto di sorpresa, si lasciò andare a
ripetute grida di terrore. Arabella aprì la porta del porcile e insieme al marito issò la vittima sullo sgabello a gambe
all'aria, e mentre Jude la teneva, la legò passandole le corde intorno alle zampe in modo da impedirle di muoversi.
Le grida dell'animale cambiarono di tono: il suo non era più un grido di terrore, ma di disperazione strascicato, lento, rassegnato.
«Giuro che avrei preferito restare senza maiale pur di non dover fare questo!», disse Jude. «Una creatura cui ho
dato da mangiare con le mie mani».
«Non essere uno stupido sentimentale! Ecco, prendi il coltello - quello appuntito. Ora sta' attento a non infilarlo
troppo dentro».
«Lo colpirò con tutte le mie forze, per farla finita il prima possibile. Non m'interessa nient'altro».
«Per carità!», esclamò Arabella. «Bisogna che la carne sia ben dissanguata, e per questo la bestia deve morire
lentamente. Perderemo uno scellino al chilo se la carne è rossa e sanguinolenta. Devi solo tagliare la vena. L'ho visto
fare da quando sono nata, e lo so. Tutti i bravi macellai lo lasciano sanguinare a lungo. Dovrebbe metterci tra gli otto e i
dieci minuti almeno a morire».
«Non ci metterà mezzo minuto se posso evitarlo, quale che sia l'aspetto della carne», disse Jude con decisione.
Scostando le setole dalla gola del maiale rivolta all'insù, come aveva visto fare ai macellai, incise il grasso; poi affondò
il coltello con tutta la sua forza.
«Maledizione», gridò Arabella, «quando mai ti ho detto di farlo tu! Gliel'hai ficcato troppo dentro! Come se
non te l'avessi già detto...».
«Calmati, Arabella, abbi un po' di pietà per questa creatura!».
«Prendi il secchio per raccogliere il sangue e sta' zitto!».
Per quanto in modo abborracciato, il compito era stato assolto con misericordia. Il sangue iniziò a scorrere in
un torrente invece che nel sottile rigagnolo auspicato da Arabella. L'urlo dell'animale morente assunse il suo terzo e
ultimo tono, il rantolo dell'agonia; gli occhi vitrei fissarono la ragazza con il rimprovero eloquente e intenso di una
creatura che alla fine realizza il tradimento di coloro che aveva creduto fossero i suoi unici amici.
«Finiscilo!», lei disse. «Con questo baccano prima o poi verrà qualcuno e non voglio si sappia che l'abbiamo
fatto da noi». Raccolto il coltello da terra dove Jude lo aveva gettato, lei stessa lo conficcò nella ferita, tagliando la
trachea. Il maiale ammutolì all'istante, mentre dalla ferita uscivano i suoi ultimi respiri.
«Così va meglio», disse Arabella.
«È un lavoro orribile!», disse Jude.
«Qualcuno deve pur ucciderlo».
L'animale ebbe un'ultima convulsione, e malgrado fosse legato scalciò con le ultime forze rimastegli. Una
cucchiaiata di sangue nero raggrumato sgorgò dalla ferita, quando il rivolo di sangue rosso aveva già cessato di scorrere
da qualche secondo.
«Ecco fatto, ora morirà», lei disse. «Esseri astuti - trattengono sempre un grumo di sangue finché possono!».
L'ultima convulsione era giunta così inaspettatamente da cogliere Jude di sorpresa, e nel riprendersi egli
rovesciò il secchio nel quale il sangue era stato raccolto.
«Ma bravo!», Arabella esclamò fuori di sé. «Ora non potrò fare nessun sanguinaccio. Che spreco, tutto per
colpa tua!».
Jude raddrizzò il secchio, ma non vi era rimasto che un terzo di quel liquido tiepido. La maggior parte era
schizzata sulla neve creando uno spettacolo lugubre, sordido e rivoltante - per coloro che lo avessero visto come altro
che non un modo comune per ottenere la carne. Le labbra e le narici dell'animale divennero livide, e i muscoli delle sue
membra si rilassarono.
«Sia ringraziato Iddio!», disse Jude. «È morto».
«Vorrei proprio sapere che c'entra Dio con un lavoro disgustoso come quello di uccidere un maiale!», osservò
lei stizzita. «La povera gente deve pur campare».
«Lo so, lo so», disse Jude. «Non ce l'ho con te».
All'improvviso udirono una voce alle loro spalle.
«Complimenti, sposini! Non avrei potuto fare molto di meglio io stesso. Che mi prenda un colpo se non è
vero!». La voce, che era rauca, provenne dal cancello del giardino, e alzando lo sguardo dalla scena di quel macello essi
videro la figura massiccia di Challow appoggiato al cancello, che sorvegliava con occhio critico il loro lavoro.
«Fate presto voi a stare lì a scherzare!», disse Arabella. «Per colpa vostra che siete arrivato tardi la carne è
sanguinolenta e mezza rovinata! Non varrà più di uno scellino al chilo!».
Challow espresse il suo rammarico. «Avreste dovuto aspettare un poco», disse scuotendo il capo, «invece di
farlo da soli - soprattutto considerando il vostro stato, signora. Avete corso un bel rischio».
«Non c'è bisogno che vi preoccupiate di questo», disse Arabella ridendo. Anche Jude rise, ma vi era una
profonda amarezza nella sua allegria.
Challow compensò la sua assenza all'uccisione dedicandosi con grande zelo a sbollentare e scorticare la bestia.
Jude si sentiva scontento di sé come uomo per quanto aveva fatto, pur essendo consapevole della propria mancanza di
senso comune, e ben sapendo che l'azione sarebbe stata altrettanto orrenda se compiuta per interposta persona. La neve
bianca, macchiata dal sangue di quella creatura mortale, assumeva un aspetto illogico agli occhi di un amante della
giustizia, per non dire di un cristiano, quale lui era; ma non vedeva in che modo la faccenda si potesse riparare. Come
gli aveva detto la moglie, senza dubbio era uno sciocco sentimentale.
La strada per Alfredston adesso non gli piaceva più. Lo fissava cinicamente in viso. Gli oggetti lungo la strada
gli ricordavano tanta parte del suo corteggiamento della moglie, che per evitare di vederli cercava il più possibile di
leggere, mentre a piedi andava e tornava dal lavoro. E tuttavia a volte sentiva che il suo amore per i libri non bastava per
sfuggire alla banalità né per acquisire idee fuori dal comune, avendo egli ormai gli stessi gusti di qualsiasi lavoratore.
Un giorno che passò vicino al punto nei pressi del torrente in cui aveva conosciuto Arabella, gli parve di sentire delle
voci proprio come gli era accaduto quella prima volta. Una delle ragazze che quel giorno stavano con Arabella parlava
con un'amica in una stalla, e lui stesso era l'oggetto della loro conversazione, forse perché lo avevano visto arrivare da
lontano. Le due ragazze non sospettavano che i muri di quella capanna fossero così sottili da permettergli di sentire le
loro parole mentre passava.
«Comunque fui io a istigarla! "Chi non risica non rosica", le dissi. Altrimenti, ora non sarebbe la sua signora
più di quanto lo sia io».
«Sono convinta che lei sapeva che non c'era nulla quando gli disse...».
A cosa era stata istigata Arabella da questa donna, di modo che egli ne facesse la sua «signora», cioè a dire sua
moglie? Il sospetto era terribilmente spiacevole, e infiammò la mente di Jude al punto che, giunto a casa, invece di
entrare gettò la sacca degli arnesi al di là del cancello del giardino e continuò a camminare, intenzionato a recarsi a far
visita alla vecchia zia e a cenare con lei.
Per questa ragione, rincasò molto tardi. Arabella, comunque, era affaccendata a sciogliere il lardo dal grasso
del defunto maiale, dal momento che era stata in giro tutto il giorno, e aveva procrastinato il lavoro. Temendo che
quanto aveva udito lo spingesse a dirle cose di cui poi si sarebbe pentito, egli parlò poco. Ma Arabella era molto
loquace, e tra le altre cose disse che aveva bisogno di soldi. Notando il libro che gli sporgeva dalla tasca, aggiunse che
doveva guadagnare di più.
«Di regola, dal salario di un apprendista non ci si può aspettare che basti a mantenere una moglie, cara».
«Allora non avresti dovuto prenderne una».
«Avanti Arabella! Questo è troppo quando sai bene come sono andate le cose».
«Giuro davanti a Dio che credevo che quello che ti ho detto fosse vero. Anche il dottor Vilbert lo credeva.
Comunque non mi dirai che ti dispiace che non lo fosse!».
«Non è a questo che penso», egli rispose irritato. «Penso a prima di allora. So che non era colpa tua; ma quelle
tue amiche ti hanno dato un cattivo consiglio. Se non te lo avessero dato, o se tu non le avessi ascoltate, a quest'ora
saremmo liberi da un legame che, per dirla chiaramente, ci tormenta entrambi in modo insopportabile. Sarà triste dirlo,
ma così stanno le cose».
«Cosa ti hanno raccontato delle mie amiche? Quale consiglio? Esigo che tu me lo dica».
«Ah, lascia perdere».
«Ma devi - voglio saperlo. Saresti crudele se non lo facessi!».
«E va bene». E accennò pacatamente a quanto era venuto a sapere. «Ma non ho voglia di discuterne. Non
parliamone più».
Arabella smise di essere sulla difensiva. «Sciocchezze», disse, ridendo freddamente. «Ogni donna ha diritto di
fare una cosa simile. È lei che corre un rischio».
«Non sono affatto d'accordo, Bella. Sarebbe così se ciò non comportasse una condanna a vita per l'uomo o, se
non per lui, per se stessa; se la debolezza di un momento potesse finire con quel momento, o almeno con l'anno. Ma
quando le conseguenze durano tutta una vita, lei non dovrebbe mettersi a fare una cosa che intrappola l'uomo, se è
onesto, o se stessa, se non lo è».
«Cosa avrei dovuto fare?».
«Darmi tempo... Perché ti affanni tanto a sciogliere quel grasso di maiale stasera? Smettila, per favore!».
«Se non lo faccio ora dovrò farlo domattina. Altrimenti va a male».
«D'accordo - fai pure».
CAPITOLO XI
Il giorno dopo, una domenica, verso le dieci di mattina Arabella si rimise al lavoro. Subito ricordò la
discussione della sera prima con Jude, forse perché era intenta in quelle stesse occupazioni, e ciò la fece tornare
nuovamente di un umore intrattabile.
«Questo si racconta di me a Marygreen, vero? che sono stata io a intrappolarti! Per un partito come te valeva
certo la pena, che Dio me ne guardi!». Mentre si infiammava in tal modo, notò alcuni dei classici antichi cui Jude
teneva tanto su un tavolo dove non avrebbero dovuto essere. «Non voglio più questi libri tra i piedi!», gridò stizzita; e
prendendoli uno alla volta iniziò a gettarli per terra.
«Lascia stare i miei libri!», egli disse. «Potevi metterli da una parte se volevi, ma insozzarli in questo modo fa
proprio schifo!». Nel preparare il lardo, le mani di Arabella erano diventate tutte unte di grasso caldo, cosicché le sue
dita avevano lasciato delle impronte ben visibili sulle copertine dei libri. Arabella continuò intenzionalmente a gettare i
libri per terra finché, persa la pazienza, Jude non le afferrò le braccia per farla smettere. Non si sa come, ma nel fare ciò
le allentò il fermaglio dei capelli, che si sciolsero sulle sue spalle.
«Lasciami!», lei gridò.
«Prometti di non toccare i libri».
Lei esitò. «Lasciami!», ripeté.
«Prometti!».
Dopo una pausa: «Va bene», disse.
Jude allentò la presa, e subito Arabella attraversando la stanza si diresse decisa verso la porta, e uscì per strada.
Qui iniziò a camminare avanti e indietro, spettinandosi ostinatamente i capelli in un disordine peggiore di quello
causato da lui e slacciandosi alcuni bottoni del vestito. Era una bella domenica mattina, l'aria era asciutta, limpida e
fredda, e, con la brezza del nord, si potevano sentire le campane della chiesa di Alfredston. La gente passeggiava lungo
la strada, vestita con gli abiti da festa; erano quasi tutti degli innamorati - coppie come era stata quella di Jude e
Arabella quando appena pochi mesi prima passeggiavano per quelle stesse strade. I passanti si volsero a guardare
l'insolito spettacolo che lei offriva, senza cappello, con i capelli sciolti al vento, il corsetto slacciato, le maniche
rimboccate sopra il gomito e le mani unte di grasso. Uno dei passanti disse, fingendosi terrorizzato: «Che Dio ci
protegga!».
«Guardate come mi ha ridotto!», gridò Arabella. «Mi fa lavorare la domenica mattina quando dovrei andare in
chiesa, mi strappa i capelli dalla testa e il vestito di dosso!».
Jude era fuori di sé, e uscì per trascinarla dentro con la forza. Ma poi d'un tratto si calmò. Resosi
improvvisamente conto che tra loro tutto era finito e che poco importava quello che lei o lui facessero, rimase immobile,
a guardarla. Le loro vite, pensò, erano rovinate; rovinate fondamentalmente dall'errore di essersi uniti in matrimonio;
dall'aver basato un contratto permanente su un sentimento temporaneo che non aveva alcuna necessaria connessione
con le affinità che sole rendono tollerabile una unione per la vita.
«Mi maltratterai per partito preso, come tuo padre maltrattava tua madre, e la sorella di tuo padre suo marito?»,
lei chiese. «Siete proprio una bella razza di mariti e mogli, voi!».
Jude la fissò con sguardo attonito. Ma lei non aggiunse nulla, e continuò a camminare avanti e indietro finché
non si stancò. Jude andò via, e dopo aver vagato per un poco senza meta, decise di recarsi a Marygreen. Qui fece visita
alla prozia, i cui acciacchi crescevano di giorno in giorno.
«Zia - è vero che mio padre maltrattava mia madre, e mia zia suo marito?», le chiese di punto in bianco
sedendosi vicino al camino.
Lei alzò gli occhi stanchi sotto l'orlo della vecchia cuffietta che portava sempre. «Chi te lo ha detto?», gli
domandò.
«L'ho sentito dire e vorrei sapere se è vero».
«Mi pare non ci sia nulla di male a dirtelo; anche se tua moglie - ché immagino sia stata lei - è stata proprio
stupida a parlartene. Non c'è molto da sapere, alla fin fine. I tuoi genitori non andavano d'accordo e decisero di
separarsi. Fu un giorno, tornando dal mercato di Alfredston, quando tu eri bambino, che sulla collina nei pressi della
Casa Bruna ebbero la loro ultima discussione e si lasciarono per sempre. Poco dopo, tua madre morì - per farla breve, si
annegò, mentre tuo padre si trasferì con te nel sud del Wessex, e non tornò più qui».
Jude ricordava il silenzio del padre riguardo al nord di quella regione e a sua madre, dei quali non parlò mai,
nemmeno in punto di morte.
«Fu lo stesso con la sorella di tuo padre. Il marito la offendeva e lei arrivò a odiare così tanto la vita insieme a
lui, che si trasferì a Londra con la bambina. I Fawley non sono fatti per il matrimonio: non ha mai funzionato con noi.
Dev'esserci qualcosa nel nostro sangue che rifiuta l'idea di essere costretti a fare ciò che saremmo pronti a fare se non
fossimo costretti. È per questo che avresti dovuto darmi retta e non sposarti».
«Dov'è che i miei si lasciarono... hai detto alla Casa Bruna?».
«Un po' più su... all'altezza della pietra miliare, dove la strada per Fensworth si biforca. Un tempo lì c'era una
forca, che a modo suo c'entra con questa storia. Ma lasciamo stare».
All'ora del crepuscolo, quella sera, Jude uscì dalla casa della vecchia prozia come per tornare alla propria. Ma
non appena fu fuori dal paese, iniziò a salire su per la collina finché non giunse a un grande stagno circolare. Era ancora
ghiacciato, sebbene il freddo non fosse così pungente, e le stelle più grandi iniziavano lentamente a stagliarsi in cielo,
tremolanti. Appoggiò un piede sulla superficie ghiacciata, poi l'altro: il ghiaccio scricchiolò sotto il suo peso; ma ciò
non gli impedì di proseguire. Avanzò a fatica verso il centro dello stagno, con il ghiaccio che scricchiolava ad ogni
passo. Giunto nel mezzo, si guardò intorno e saltò. Lo scricchiolio si ripeté; ma il ghiaccio non si ruppe. Saltò di nuovo,
ma lo scricchiolio era cessato. Allora tornò sui suoi passi finché non fu di nuovo sulla sponda di terra circostante.
Era strano, pensò. Per che cosa veniva risparmiato? Immaginava di non essere una persona abbastanza degna
per il suicidio. La morte che gli avrebbe portato la pace lo disprezzava come proprio oggetto, e non voleva prenderlo
con sé.
Che altro avrebbe potuto fare di più spregevole che togliersi la vita? Cosa vi era di meno nobile, di più consono
alla sua degradante situazione? Avrebbe potuto ubriacarsi. Sì, c'era questa possibilità: se n'era dimenticato. Il bere era la
risorsa usuale, stereotipata, di tutti i disgraziati. Iniziava a capire, ora, perché vi erano uomini che passavano il tempo a
bere nelle osterie. Scese lungo la collina verso nord e giunse a un'oscura osteria. Mentre entrava e si sedeva, la vista di
un quadro di Sansone e Dalila appesa alla parete gli fece riconoscere il luogo per quello dove si era recato con Arabella
la prima domenica che erano usciti insieme. Chiese un liquore e bevette smodatamente per più di un'ora.
Barcollando verso casa ormai a notte fonda, senza più alcun senso di depressione e con la mente ancora
abbastanza lucida, iniziò a ridere sfrenatamente, chiedendosi come Arabella lo avrebbe accolto in quel suo nuovo
aspetto. Quando entrò, la casa era al buio e con il suo incedere malsicuro gli ci volle del tempo prima di poter accendere
una luce. Allora notò che se le tracce della lavorazione del maiale - le macchie di grasso e gli avanzi - erano ancora
visibili, i suoi prodotti erano stati portati via. Due righe scritte dalla moglie all'interno di una vecchia busta appuntata
sul soffietto del camino dicevano:
«Sono andata dalle mie amiche. Non tornerò».
Jude passò il giorno dopo da solo in casa, e inviò la carcassa del maiale ad Alfredston. Poi pulì la casa, chiuse
la porta, lasciò la chiave in un posto a lei noto, se mai fosse voluta entrare, e ritornò dallo scalpellino ad Alfredston.
La sera, quando giunse a casa distrutto dalla fatica, Arabella non si era ancora fatta viva. Né si fece viva il
giorno dopo e quello dopo ancora. Poi gli arrivò una sua lettera.
Arabella ammetteva francamente di non sopportarlo più. Diceva che era un vecchio bigotto e che non provava
alcuna attrattiva per la vita che lui conduceva. Non credeva che Jude potesse migliorare la propria situazione, o quella di
lei. Aggiungeva inoltre che i suoi genitori, come egli ben sapeva, da qualche tempo avevano preso in considerazione
l'ipotesi di emigrare in Australia, visto che l'allevamento dei maiali non rendeva più come un tempo. Alla fine avevano
deciso di partire, e se egli non aveva nulla in contrario pensava di andare con loro. Una donna del suo genere avrebbe
avuto maggiori possibilità laggiù che in quello stupido paese.
Jude rispose che non aveva assolutamente nulla in contrario alla sua partenza. Riteneva che fosse una decisione
saggia, dal momento che desiderava partire, e tale che si sarebbe potuta rivelare proficua per entrambi. Insieme alla
lettera, mise nella busta il denaro ricavato dalla vendita del maiale e tutti i suoi risparmi, che non erano molti.
Da quel giorno non ebbe più sue notizie se non indirettamente, sebbene il padre di lei e la sua famiglia non
partirono subito, ma attesero la vendita dei loro beni e di quant'altro possedevano. Quando venne a sapere che vi
sarebbe stata un'asta alla casa dei Donn, caricò le proprie masserizie su un carro e le inviò alla moglie al suindicato
indirizzo, di modo che potesse venderle insieme al resto o tenerne una parte, se così preferiva.
Tornò a vivere ad Alfredston, dove nella vetrina di un negozio scorse un foglietto che annunciava la vendita
delle masserizie di suo suocero. Si appuntò il giorno, che arrivò e passò senza che Jude si avvicinasse alla casa, o
notasse che a causa dell'asta il traffico in uscita da Alfredston lungo la strada che portava a sud era aumentato. Qualche
giorno dopo entrò nel negozietto di un rigattiere sulla strada principale del paese, dove sepolta tra pentole, selle,
matterelli, candelabri d'ottone, specchietti e altre cose chiaramente acquistate da poco a una svendita, notò una
fotografia incorniciata, che si rivelò essere il suo ritratto.
L'aveva appositamente fatta fare e montare in una cornice ovale di acero da un negoziante locale, per regalarla
ad Arabella il giorno delle nozze. Sul retro si poteva ancora leggere, «Jude ad Arabella» con la data. Doveva essere
finita all'asta con il resto della roba.
«Oh», disse il rigattiere notando che Jude s'interessava a questo e ad altri oggetti nel mucchio, e senza
accorgersi che si trattava della fotografia del giovane, «è un po' di roba che ho preso a un'asta in una casa lungo la strada
per Marygreen. La cornice è ancora buona, se ci levate la fotografia. Ve la do per uno scellino».
L'assenza di qualsiasi sentimento d'affetto nella moglie, di cui era prova muta e non intenzionale la vendita del
ritratto che le aveva regalato, fu il colpo di grazia necessario per distruggere ogni suo sentimento verso di lei. Jude pagò
lo scellino, prese la fotografia, e giunto a casa la bruciò insieme alla cornice.
Un paio di giorni dopo, venne a sapere che Arabella e i genitori erano partiti. Le aveva scritto offrendosi di
vederla per un ultimo saluto ma lei gli aveva risposto che era meglio di no, essendosi ormai decisa a partire, il che forse
era vero. La sera successiva alla loro partenza, al termine della sua giornata di lavoro, Jude uscì di casa dopo cena e
sotto un cielo stellato si incamminò per la strada fin troppo familiare verso l'altipiano dove aveva provato le emozioni
più importanti della propria vita. Ora sembrava appartenergli di nuovo.
Ma faticava a riconoscere se stesso. Sulla vecchia mulattiera si sentiva ancora un ragazzo, appena più grande di
quando si era fermato a sognare in cima a quella collina e per la prima volta aveva provato un'intensa attrazione per
Christminster e lo studio. «Eppure sono un uomo», disse a se stesso, «e ho preso moglie. Anzi, sono passato ormai a
quello stadio ulteriore quando un marito non va più d'accordo con la propria moglie, smette di amarla, ci litiga, e se ne
separa».
Si ricordò allora che si trovava non lontano dal luogo in cui si diceva che i suoi genitori si fossero lasciati.
Un po' più in alto vi era la vetta dalla quale un giorno lontano gli era parso di vedere Christminster, o ciò che
aveva scambiato per quella città. Una pietra miliare, ora come sempre, era conficcata al margine della strada. Jude vi si
avvicinò, e indovinò più che leggere a quante miglia distava la città. Si ricordò che una volta, di ritorno a casa, fiero di
sé aveva inciso con lo scalpello acquistato da poco un'iscrizione sul retro di quella pietra miliare, che riassumeva tutte le
sue aspirazioni. Era all'inizio del suo apprendistato, prima che una donna irresponsabile lo distogliesse dai suoi
propositi. Volle vedere se l'iscrizione fosse ancora leggibile, e girando dietro la pietra miliare strappò via le ortiche che
la coprivano. Alla luce di un fiammifero poté ancora discernere ciò che aveva inciso con tanto entusiasmo molto tempo
prima:
LAGGIÙ
J.F.
La vista dell'iscrizione, rimasta intatta dietro a quei ciuffi di erba e di ortiche, gli riaccese nell'animo una
scintilla dell'antica fiamma. Non c'erano dubbi: doveva proseguire nel bene e nel male per la sua strada, evitando di
lasciarsi andare a una malsana tristezza, anche se ora aveva toccato con mano la bruttezza del mondo. Bene agire et
laetari, agire bene e con letizia, che aveva sentito dire essere la filosofia di un certo Spinoza, poteva tutt'ora essere
anche la sua.
Avrebbe dovuto combattere la sua cattiva stella e seguire la sua intenzione originaria.
Spostatosi in un punto poco distante, vide l'orizzonte a nord-est aprirsi davanti ai suoi occhi. Dalla pianura
lontana saliva un debole chiarore, una piccola e opaca nebulosità, che solo l'occhio della fede poteva percepire. Bastò
questo per lui. Sarebbe andato a Christminster non appena i mesi del suo tirocinio si fossero conclusi.
Tornò a casa risollevato nello spirito e recitò le sue preghiere.
PARTE SECONDA
A Christminster
Save his own soul he hath no star.
Swinburne
Notitiam primosque gradus vicinia fecit
Tempore crevit amor.
Ovidio
CAPITOLO I
Dopo queste vicende, il primo evento di un qualche rilievo nella vita di Jude fu quando attraversò a passo
sostenuto il paesaggio malinconico di una vegetazione il cui fogliame era già cambiato tre volte dal tempo in cui aveva
fatto da sfondo al suo amore per Arabella e al disintegrarsi della loro tormentosa vita coniugale. Era diretto a
Christminster, che si trovava a un paio di miglia a sudovest.
Finalmente abbandonava sia Marygreen che Alfredston: terminato il suo apprendistato, con la sacca e gli
attrezzi da lavoro sulle spalle era ormai prossimo ad iniziare una nuova vita - quell'inizio che, se si esclude la parentesi
dell'intimità e dell'esperienza matrimoniale con Arabella, aveva desiderato da quasi dieci anni.
In quel periodo, Jude appariva come un giovane pieno di vitalità, dall'aspetto meditativo e serio, più che bello.
Era di carnagione scura, gli occhi erano neri e in armonia con essa, la barba ben curata e portata più lunga di quanto non
si usasse alla sua età; la barba, e la gran massa di capelli neri e ricci, gli dava qualche fastidio quando doveva pettinarsi
e pulirsi dalla polvere delle pietre di cui si copriva lavorando. La sua abilità di artigiano, essendo stata acquisita in
provincia, spaziava in un campo molto vasto che includeva pietre tombali, decorazioni gotiche utilizzate nel restauro
delle chiese, e intagli di ogni genere. A Londra, si sarebbe probabilmente specializzato nelle cornici in pietra, o nella
decorazione a fogliame - o forse sarebbe divenuto uno scultore.
Quel pomeriggio si era fatto portare in un carretto da Alfredston al villaggio più vicino alla città in quella
direzione, e ora percorreva a piedi le rimanenti quattro miglia più per scelta che per necessità effettiva, avendo sempre
sognato di arrivare a Christminster in questo modo.
L'impulso decisivo che lo aveva spinto a recarsi laggiù aveva una origine curiosa - di tipo più strettamente
emotivo che intellettuale, come spesso accade nei giovani. Un giorno si era recato da Alfredston a Marygreen a trovare
la prozia, e tra i candelabri d'ottone sul suo caminetto aveva notato la fotografia di un grazioso volto di fanciulla con un
ampio cappello le cui falde si irradiavano sotto l'orlo come i raggi di un alone. Aveva chiesto chi fosse. La zia gli aveva
risposto in tono burbero che era sua cugina Sue Bridehead, del ramo ostile della famiglia; e dietro sua insistenza, aveva
aggiunto che la ragazza viveva a Christminster, sebbene lei non sapesse dove o cosa facesse.
Non aveva voluto dargli la fotografia. Ma il ricordo di essa non smise di perseguitarlo, aggiungendo una
sollecitazione ulteriore al suo proposito latente di raggiungere il maestro amico.
Si fermò a riposare in cima a un gentile e sinuoso pendio, da cui ebbe la prima chiara visione della città. Con le
sue case in pietra grigia e i suoi tetti scuri, era a un passo dal confine del Wessex, che quasi toccava con la punta di una
piccola sporgenza all'estremità settentrionale di quella linea attorcigliata lungo la quale il lento Tamigi bagna i campi di
quell'antico regno. Gli edifici riposavano quieti alla luce del tramonto, una banderuola qua e là sulle tante guglie e
cupole aggiungeva vivacità a un insieme sobrio di tonalità misurate.
Giunto in piano, s'incamminò tra salici la cui cima si perdeva sullo sfondo di quel cielo crepuscolare, e presto
si trovò davanti i primi lampioni della città - alcuni di quelli che avevano irradiato in cielo il bagliore e la gloria da cui
era stato catturato il suo sguardo ben predisposto tanti anni prima, nei giorni in cui sognava un grande futuro.
Ammiccarono verso di lui con dubbiosi occhi gialli come se, avendolo atteso tutto quel tempo, frustrati dai suoi indugi
ora fossero indifferenti alla sua venuta.
Egli era una sorta di Dick Whittington il cui spirito fosse mosso da motivazioni più nobili di quella del
semplice guadagno materiale. Jude s'avventurò per quelle strade di periferia con il passo cauto di un esploratore. Della
città vera e propria, da questo lato della periferia, non vide nulla. Poiché la sua prima necessità era di trovarsi un posto
dove dormire, si recò in perlustrazione in quelle zone della città che sembravano offrire a condizioni vantaggiose il tipo
di alloggio da lui richiesto; e raccolte informazioni da più parti, optò per un quartiere periferico chiamato Beersheba,
come venne a sapere in seguito. Preso possesso della sua stanza, dopo aver cenato uscì.
Era una notte ventosa, piena di sussurri, senza luna. Per orientarsi, aveva aperto sotto un lampione la mappa
che aveva portato con sé. La brezza gliela spiegazzava e accartocciava, ma egli riuscì a vedere quanto gli bastava per
decidere sulla direzione da prendere per raggiungere il centro cittadino.
Dopo molti giri, s'imbatté nel primo edificio antico, di epoca medievale, che avesse mai visto. Era un collegio
universitario, come poté capire guardando al di là dalla cancellata. Entrò, girò qua e là esplorando gli angoli più bui che
nessuna lampada rischiarava. Accanto a questo collegio ve n'era un altro, e poco più in là un altro ancora; fu allora che
Jude iniziò a sentirsi circondato dall'atmosfera e dallo spirito di quella città venerabile. Quando passava davanti ad
oggetti che stridessero con quell'impressione generale, con lo sguardo andava oltre, quasi non li avesse visti.
Una campana cominciò a suonare, e Jude l'ascoltò finché non ebbe udito centouno rintocchi. Doveva aver
contato male, pensò: sicuramente uno di troppo.
Quando i cancelli vennero chiusi ed egli non poté più aggirarsi tra i chiostri, si mise a passeggiare lungo le loro
mura e i portoni esterni, toccando decorazioni e intagli. I minuti passavano, la gente per le strade andava diradandosi,
ma Jude continuava a girovagare tra le ombre. Cosa era una notte di riposo di fronte a quelle scene che aveva cercato di
immaginare per dieci anni? Alto contro il cielo scuro, il bagliore di una lampada illuminava guglie e merlature decorate.
Passando per vicoli oscuri, all'apparenza mai calpestati dal piede di un uomo e la cui stessa esistenza sembrava del tutto
dimenticata, si ritrovava davanti a portici, facciate, portali carichi di decorazioni in stile medievale, la cui impressione di
appartenere al passato era accentuata dall'aspetto logoro delle pietre. Sembrava impossibile che il pensiero moderno
potesse risiedere in luoghi così antichi e abbandonati.
Non conoscendo nessuno in quella città, iniziò ad essere colpito dall'isolamento della propria personalità, quasi
fosse un fantasma che camminava ma non poteva farsi vedere o udire. Sospirò pensosamente, e sentendosi il fantasma
di se stesso, rivolse i propri pensieri agli altri fantasmi che aleggiavano in quei recessi.
Negli anni trascorsi a preparare questa avventura, da quando la moglie e la casa erano svaniti nel nulla, aveva
letto e studiato quasi ogni opera che avrebbe potuto leggere e studiare uno nella sua posizione, sui grandi uomini che
avevano trascorso la giovinezza tra quelle mura venerabili e le cui anime erano tornate a soggiornarvi in età più matura.
Alcune di esse, per la casualità delle sue letture, si stagliavano nella sua fantasia in modo sproporzionato rispetto alle
altre. Il fruscio del vento contro gli angoli, le arcate, gli stipiti era come il passaggio di questi altri abitanti, e lo sbattere
di ogni foglia d'edera contro quella a lei vicina era come i borbottii delle loro anime malinconiche, le ombre erano come
le loro forme sottili che si muovevano nervosamente, tenendogli compagnia nella sua solitudine. Nel buio, era come se
egli corresse incontro a loro senza sentirne la consistenza corporea.
Le strade erano ormai deserte, ma Jude era talmente assorbito da queste sue fantasie da non poter tornare a
casa. C'erano poeti antichi e moderni, dall'amico e panegirista di Shakespeare a quello entrato da poco nel silenzio, e a
quel poeta musicale ancora tra noi. Passavano filosofi speculativi, non sempre con le fronti corrugate e i capelli grigi
come nei ritratti ufficiali, e piuttosto con le guance rosee, magri, e attivi come erano stati in gioventù; divinità moderne
avvolte nelle loro cotte, le più note delle quali per Jude Fawley erano i fondatori della scuola religiosa detta dei
Tractariani: il famoso terzetto - l'entusiasta, il poeta, il teorico, - l'eco dei cui insegnamenti aveva influito su Jude
persino nel villaggio sperduto in cui aveva vissuto fino ad allora. Un senso d'avversione, nella sua fantasia, parve esser
loro provocato dalla vista degli altri figli del luogo, lo statista imparruccato, libertino, ragionatore, scettico; lo storico
accuratamente sbarbato, tanto ironicamente cortese verso il cristianesimo; e altri dello stesso temperamento incredulo,
che conoscevano ogni angolo come i credenti e si aggiravano per i chiostri con pari libertà.
Vide statisti di ogni genere, uomini dall'aspetto deciso e poco inclini ai sogni; lo studioso, l'oratore, il
lavoratore assiduo; l'uomo la cui mente si era sviluppata con l'età e quello la cui mente con l'età era decaduta.
Scienziati e filologi seguivano nella sua fantasia in una strana e impossibile combinazione, uomini dai volti
meditabondi, dalle fronti aggrottate, e miopi come pipistrelli per via del troppo studio; poi personalità ufficiali governatori e viceré, che lo interessavano poco; giudici e cancellieri, figure discrete dalle labbra sottili di cui conosceva
a malapena i nomi. Lo attiravano di più i prelati, per via delle speranze passate. Davanti a sé ne aveva una folta schiera alcuni erano uomini di cuore, altri di testa; c'era colui che aveva scritto l'apologia della Chiesa in latino, l'autore santo
dei Vespri, e accanto ad essi il grande predicatore itinerante, scrittore di inni e uomo zelante, vittima come Jude delle
sue difficoltà matrimoniali.
Jude si sorprese a parlare a voce alta, conversando con loro quasi esistessero realmente, come un attore in un
melodramma che apostrofi il pubblico in platea; finché non si fermò stupito dalla propria assurdità. Forse le parole
incoerenti di questo visitatore furono udite tra quelle mura da uno studente o da un pensatore chino sui libri alla luce di
una lampada; e può essere che costui abbia alzato il capo e si sia chiesto di chi fosse quella voce e cosa volesse dire.
Jude s'accorse che, per quanto riguardava la presenza di persone in carne ed ossa, aveva tutta l'antica città per sé, fatta
eccezione per qualche passante ritardatario qua e là, e sentì che stava per prendersi un raffreddore.
Una voce lo raggiunse dall'ombra; una voce vera, con l'accento del luogo:
«È un bel po', giovanotto, che siete seduto su quel basamento. Cosa state cercando?».
La voce era di un poliziotto che aveva tenuto d'occhio Jude senza essere visto da lui.
Jude tornò a casa a dormire dopo aver letto un poco di questi grandi uomini e dei loro svariati messaggi al
mondo in un paio di libri sui figli dell'Università che aveva portato con sé. Mentre si stava addormentando, gli parve
che molte delle frasi memorabili lette or ora fossero pronunciate da costoro con dei mormorii a volte appena percettibili,
altre volte del tutto incomprensibili. Uno di questi spettri (che in seguito avrebbe rimpianto Christminster come «la casa
delle cause perse», sebbene Jude non lo ricordasse) ora l'apostrofava così:
Bella città! Così venerabile, così adorabile, così incontaminata dalla violenta vita intellettuale del nostro
secolo, così serena!... Il tuo fascino ineffabile ha sempre continuato a richiamarci alla vera meta di tutti noi, all'ideale,
alla perfezione.
Un'altra voce era quella dell'autore della legge sul grano, il cui fantasma Jude aveva appena visto nel cortile
con la grande campana. Nel proprio animo, a Jude parve di poter risentire le parole storiche del suo discorso più
magistrale:
Signore, posso sbagliarmi, ma credo che il mio dovere verso un paese minacciato dalla carestia richieda al
presente il ricorso a quello che in passato è stato il rimedio più diffuso in circostanze analoghe, cioè a dire il libero
accesso al cibo prodotto dall'uomo da qualsiasi parte provenga... Revocate il mio mandato domattina, ma non potrete
togliermi la coscienza di aver esercitato i poteri affidatimi non per bassi motivi d'interesse, o per il desiderio di
gratificare la mia ambizione, o per lucro personale.
Fu poi il turno dell'acuto autore dell'immortale capitolo sul cristianesimo: «Come potremo perdonare la supina
indifferenza del mondo pagano e filosofico di fronte ai miracoli evidenti offerti dall'Onnipotente?... I saggi della Grecia
e di Roma distolsero lo sguardo da quello spettacolo tremendo e parvero ignorare qualsiasi alterazione nel governo
fisico e morale del mondo».
Poi l'ombra del poeta, l'ultimo degli ottimisti:
Il mondo è fatto per ognuno di noi!
...
Ed ognuno di noi aiuta a rafforzare
La vita della razza secondo un piano generale.
Poi il primo dei tre entusiasti che aveva appena visto, l'autore dell'Apologia:
La mia tesi era [...] che la certezza assoluta riguardo alle verità della teologia naturale era il risultato di un
insieme di probabilità concorrenti e convergenti [...] quelle probabilità che non conseguono una certezza logica, ma
potevano generare una certezza mentale.
Il secondo di essi, privo di spirito polemico, mormorava parole più tranquille:
Perché dovremmo smarrirci e temere di vivere soli,
Se tutti soli il Cielo ha voluto che moriamo?
Udì pure alcune frasi pronunciate dal fantasma dal viso tondo, il geniale fondatore dello «Spectator»:
Quando guardo queste tombe dei grandi, qualsiasi senso di invidia si spegne in me; quando leggo gli epitaffi
del bello, ogni desiderio disordinato scompare; quando assisto al dolore dei genitori su una pietra tombale, il cuore mi si
strugge per la compassione; quando vedo le tombe di quei medesimi genitori, penso alla vanità del dolore per coloro
che presto noi stessi dovremo seguire.
Infine, parlò un prelato dalla voce gentile, i cui versi dolci e familiari, a Jude noti fin dall'infanzia, lo
addormentarono:
Insegnami a vivere, che io possa temere
La tomba non più del mio letto.
Insegnami a morire...
Non si svegliò fino al mattino dopo. Il passato con i suoi fantasmi sembrava essersi dileguato, e tutto parlava
del presente. Si mise a sedere di scatto, pensando di aver dormito troppo, poi disse:
«Per Giove - mi ero quasi dimenticato della mia bella cugina, che vive qui!... e anche del vecchio maestro».
Ma il nome del maestro era stato forse pronunciato con minore entusiasmo di quello della cugina.
CAPITOLO II
Una serie di necessarie considerazioni di tipo concreto, compresa la questione banale di come procurarsi da
mangiare, dissiparono per un po' ogni fantasticheria, obbligando Jude a soffocare pensieri più elevati per far fronte a
bisogni più urgenti. Doveva alzarsi e uscire di casa a cercarsi un lavoro, un lavoro manuale; l'unico che secondo molti
della sua professione si poteva chiamare veramente lavoro.
Camminando per le strade, nel corso di questa ricerca notò che i collegi universitari avevano mutato in modo
crudele il loro aspetto simpatico: alcuni erano pomposi, altri sembravano tombe di famiglia di enormi dimensioni; e
qualcosa di barbarico appariva nelle decorazioni in pietra di tutti. Gli spiriti dei grandi uomini erano scomparsi.
Naturalmente, Jude leggeva le innumerevoli pagine architettoniche, che ovunque gli si aprivano davanti, meno
come un artista-critico delle loro forme che come un artigiano e compagno di coloro che con la forza delle loro braccia
nei fatti avevano eseguito il lavoro. Esaminava le decorazioni, le accarezzava come uno consapevole del lavoro
necessario per crearle, sapeva dire se realizzarle era stato facile o difficile, se avevano richiesto più o meno tempo, se
erano state faticose per il braccio o agevoli per gli attrezzi.
Quel che di notte aveva creduto perfetto e ideale, di giorno gli appariva più o meno difettosamente reale. Egli
non poteva evitare di notare che a quelle antiche costruzioni erano state inflitte crudeltà ed affronti. Lo stato in cui molte
di esse erano ridotte lo commuoveva come avrebbe potuto commuoverlo la vista di esseri umani mutilati. Erano
sfregiate, cadenti, stravolte nel loro aspetto esteriore dalla lotta mortale contro gli anni, le intemperie, l'uomo.
Lo stato di degrado di questi monumenti storici gli ricordò che stava facendo ben poco per iniziare la giornata
in senso pratico come si era ripromesso. Era venuto per lavorare, e per vivere del proprio lavoro, e la mattinata era già
quasi terminata. Da un certo punto di vista, era incoraggiante pensare che in un luogo di edifici in disfacimento doveva
esserci molto lavoro per uno come lui nel campo dei restauri. Chiese la strada per il cantiere dello scalpellino il cui
nome gli era stato dato ad Alfredston; e ben presto udì il rumore familiare di spazzole e scalpelli.
Il cantiere era un piccolo centro di rigenerazione. C'erano forme dagli angoli affilati e dalle curve morbide,
all'apparenza identiche a quelle che Jude aveva visto sui muri della città corrose e mangiate dal tempo. Erano queste le
idee espresse in una prosa moderna che i collegi universitari coperti di muschio presentavano in una poesia antica.
Anche alcune di quelle antichità si sarebbero potute definire prosa quando erano nuove. Esse non avevano fatto altro
che attendere, ed erano divenute poetiche. Nulla di più facile persino per l'edificio più modesto; nulla di più impossibile
per gran parte degli uomini.
Jude chiese del capocantiere, e nel frattempo guardò intorno a sé i nuovi trafori, i montanti, gli architravi, le
colonnine, i pinnacoli, le merlature, appoggiati ai banconi di pietra in attesa di essere completati o portati a
destinazione. Di essi risaltava la precisione, l'esattezza matematica, la levigatezza, l'accuratezza: là, sui vecchi muri,
rimanevano le linee spezzate dell'idea originaria - curve frastagliate, disprezzo della precisione, irregolarità, confusione.
Per un attimo, Jude ebbe una vera e propria illuminazione: che lì in quel cantiere vi fosse un centro di iniziativa
non meno nobile di quella resa illustre dagli studi accademici svolti nel migliore dei collegi universitari. Ma subito la
perse, assillato com'era dalla sua vecchia idea. Avrebbe accettato qualsiasi lavoro gli venisse offerto grazie alla
raccomandazione del suo ultimo principale; ma lo avrebbe accettato solo come un'attività provvisoria. Questa era la
forma che in lui veniva ad assumere il vizio moderno dell'inquietudine.
Inoltre si rendeva conto che nella migliore delle ipotesi in quel cantiere non si faceva altro che copiare,
restaurare e imitare; il che attribuiva a qualche causa temporanea propria del luogo. All'epoca, non aveva ancora
compreso che il medievalismo era morto quanto una foglia di felce in un mucchio di carbone; e altri sviluppi stavano
prendendo forma intorno a lui, nei quali l'architettura gotica e i suoi derivati non trovavano più posto. L'ostilità radicale
della logica e della visione del mondo contemporanee verso tutto ciò che lui più stimava, ancora non gli si era
manifestata.
Non essendo per il momento riuscito a trovare un lavoro in quel cantiere, se ne andò e pensò di nuovo alla
cugina, la cui presenza da qualche parte lì vicino sembrava sentire in piccole onde di interesse, se non di vera emozione.
Come avrebbe desiderato avere con sé quel bel ritratto! Alla fine si decise a scrivere alla zia di mandarglielo. Fu
accontentato, con la richiesta però che non provocasse dei malumori in famiglia andando a trovare la ragazza o i
genitori. Jude, un ragazzo affettuoso in modo ridicolo, non promise nulla, pose la fotografia sulla mensola del
caminetto, la baciò - senza sapere il perché - e si sentì più a suo agio. Sembrava che lei lo guardasse e presenziasse alla
sua cena. Lo rincuorava - era l'unica cosa che lo univa alle emozioni degli esseri che vivevano in quella città.
Rimaneva il maestro - probabilmente ora un reverendo parroco. Ma non gli pareva opportuno andare a
disturbare un uomo così rispettabile in quella condizione: il suo aspetto era così rozzo e grossolano, le sue fortune così
precarie. Perciò rimase solo. Malgrado un gran numero di persone gli si muovesse intorno, di fatto non vedeva nessuno.
Poiché non si era ancora immerso nella vita attiva del luogo, questa ai suoi occhi sostanzialmente non esisteva. Ma i
santi e i profeti nelle finestre gotiche, i quadri nelle gallerie, le statue, i busti, le nicchie, i capitelli - questi sì che
parevano respirare la sua stessa atmosfera. Come chiunque fosse appena giunto in un luogo dove il passato è
profondamente radicato, aveva l'impressione che esso si rivelasse con una forza del tutto insospettata, se non addirittura
incredibile, agli occhi dei suoi abitanti.
Per giorni, passandovi davanti, perlustrò chiostri e cortili dei collegi alle ore più strane, stupito dagli echi
sbarazzini dei suoi stessi passi, acuti come colpi di maglio. Il «sentimento» di Christminster, come qualcuno lo ha
definito, penetrò ulteriormente in lui; finché egli finì probabilmente col conoscere quegli edifici, da un punto di vista
materiale, artistico e storico, meglio di chi li abitava.
Fu solo ora, trovandosi nel luogo che aveva suscitato in lui tanti entusiasmi, che Jude comprese quanto lontano
dall'oggetto di quell'entusiasmo fosse in realtà. Soltanto un muro lo divideva da quei felici suoi coetanei con i quali
condivideva una comune vita mentale; giovani che dalla mattina alla sera non avevano altro da fare che leggere,
prendere appunti, studiare e assimilare. Solo un muro - ma che muro!
Ogni giorno, ad ogni ora, mentre andava in cerca di lavoro, li vedeva a loro volta andare e venire, sfiorava le
loro spalle, udiva le loro voci, osservava i loro movimenti. A causa senza dubbio della sua lunga e tenace preparazione
per quel luogo, la conversazione di alcuni tra i più colti di loro spesso gli pareva stranamente in sintonia con le proprie
idee. Pure, era distante da loro come se si trovasse agli antipodi. Non poteva essere altrimenti. Era un operaio in casacca
bianca, con la polvere delle pietre tra le pieghe dei vestiti; e, nel passargli davanti, quelli non lo vedevano né udivano le
sue parole, tutt'al più guardavano attraverso di lui, come attraverso una lastra di vetro, i loro simili. Qualunque cosa
rappresentassero per lui, per loro era come se egli non fosse in quel luogo; eppure aveva immaginato che trasferendosi
laggiù sarebbe stato più a contatto con la loro vita.
Ma il futuro era davanti a lui; e se solo avesse potuto avere la fortuna di trovare un buon lavoro, avrebbe
accettato questa situazione. Ringraziò Dio per la salute e la forza che gli aveva dato, e si fece coraggio. Al momento era
escluso da tutto, collegi compresi; forse un giorno, però, avrebbe potuto accedervi. Quei palazzi di luminari: un giorno
avrebbe forse guardato al mondo dall'alto delle loro finestre.
Finalmente ricevette un avviso dal capomastro del cantiere che gli offriva un lavoro. Era il primo segnale
positivo ed accettò subito la proposta.
Era un giovane robusto, altrimenti non avrebbe mai portato avanti con tanto zelo gli obiettivi cui ora aveva
deciso di dedicarsi, e che richiedevano da parte sua che studiasse gran parte della notte dopo aver lavorato tutta la
giornata. Per prima cosa, acquistò una lampada schermata per quattro scellini e sei penny, ottenendo in tal modo una
luce decente. Poi si procurò carta e penna, e tutti gli altri libri che gli erano indispensabili e che non era riuscito a
trovare altrove. Infine, con grande costernazione della padrona di casa spostò tutti i mobili della camera dove mangiava
e dormiva, montò una tenda su una corda che la divideva nel mezzo per ricavare una stanza doppia da una singola,
appese alle finestre degli scuri molto spessi per evitare che gli altri sapessero quante ore sottraeva al sonno, tirò fuori i
libri e si sedette a studiare.
Essendosi fortemente indebitato a causa del matrimonio, della casetta che aveva dovuto affittare, dell'acquisto
dei mobili che erano scomparsi insieme alla moglie, dall'epoca di quelle disavventure non era più stato in grado di
risparmiare un soldo, e finché non avesse riscosso il suo salario era costretto a vivere in grandi ristrettezze. Avendo
comprato un paio di libri, non poteva permettersi di accendere il fuoco nel camino; e quando le notti erano battute dal
vento gelido che proveniva dall'altipiano, egli sedeva alla luce della lampada col cappotto, il cappello e i guanti di lana.
Dalla finestra poteva scorgere la spirale della Cattedrale, e la cupola ogivale sotto la quale risuonava la grande
campana della città. Salendo sulle scale di casa, poteva anche intravedere l'alta torre, le lunghe e strette finestre del
campanile e i pinnacoli del collegio nei pressi del fiume. Questi oggetti avevano una funzione di stimolo quando la sua
fede nel futuro si affievoliva.
Come in generale tutte le persone entusiaste, non prestava molta attenzione ai particolari della procedura.
Raccogliendo delle nozioni generali da conoscenze casuali, non si soffermava mai su di esse. Al presente, disse a se
stesso, la sola cosa necessaria era di tenersi pronto, e accumulare denaro e cultura, in attesa di una qualche opportunità,
di quelle che potevano presentarsi a uno come lui, per entrare all'università. «Perché se difende la sapienza, difende
anche il denaro; però la sapienza ha questo vantaggio: dà vita a colui che la possiede». Il suo desiderio lo assorbiva
totalmente senza lasciare alcuna parte di lui a soppesarne la praticabilità.
Fu in questo periodo che ricevette una lettera piena d'ansia e di preoccupazione dalla povera vecchia zia
sull'argomento che già l'aveva angustiata in passato - la paura che Jude non fosse abbastanza forte per tenersi lontano
dalla cugina Sue Bridehead e dai suoi familiari. La zia credeva che il padre di Sue fosse ritornato a Londra ma che la
ragazza fosse rimasta a Christminster. Per di più era un'artista o una disegnatrice di qualche genere in quello che era
chiamato un magazzino ecclesiastico, una vera e propria sorgente di idolatria, e per questo motivo si era certamente
lasciata andare a quelle ridicole messinscene - se non era addirittura una papista (la signorina Drusilla Fawley
apparteneva alla sua epoca, era una evangelica).
Dal momento che Jude seguiva un percorso intellettuale piuttosto che teologico, queste informazioni sulle
probabili opinioni di Sue non ebbero su di lui un grande influsso né in un senso né in un altro; ma l'indicazione sul suo
ambiente di lavoro era decisamente interessante. Con un piacere del tutto fuori dal comune, non appena ebbe cinque
minuti di tempo passò davanti a quei negozi che potevano corrispondere alla descrizione della zia; e in uno di essi vide
una giovane seduta a una scrivania, sospettosamente simile all'originale del ritratto. Si azzardò a entrare con un pretesto,
e acquistato un oggetto indugiò ad osservare quel luogo. Sembrava che il negozio fosse tenuto interamente da donne. Vi
si vendevano libri anglicani, cancelleria, testi vari, e articoli di fantasia: piccoli angeli di gesso esposti su alcune
mensole, dipinti di santi dalla cornice gotica, croci di ebano che erano quasi dei crocifissi, libri di preghiere che erano
quasi dei messali. Jude si sentiva troppo timido per guardare la ragazza seduta alla scrivania; era così bella, che a stento
riusciva a credere fosse una sua parente. Poi lei si rivolse ad una delle due donne più anziane che stavano alla cassa; ed
egli riconobbe nel suo accento alcuni tratti della propria voce - era più dolce e delicata, ma come la sua. Cosa stava
facendo? Lanciò furtivamente un'occhiata. Davanti a lei vi era un pezzo di zinco, tagliato a forma di rotolo di
pergamena lungo tre o quattro piedi, e dipinto da una parte di vernice opaca. Su di essa, la ragazza era intenta a
disegnare o a miniare nei caratteri dei testi della Chiesa una sola parola
ALLELUJA
«Che dolce e santa occupazione cristiana, la sua!», pensò Jude.
La ragione della presenza di lei in quel luogo adesso era chiara: la sua abilità in un lavoro del genere era stata
senz'altro acquisita a contatto con il padre, un fabbro specializzato in oggetti sacri. La scritta cui era dedita con tanto
impegno era chiaramente destinata ad essere affissa in qualche coro per invitare alla preghiera.
Jude uscì dal negozio. Sarebbe stato facile parlarle subito, ma gli sembrava poco onesto nei confronti della zia
ignorare così, senza ritegno, la sua richiesta. Lo aveva sì trattato senza tanti riguardi; ma lo aveva tirato su: ed il fatto
che non avesse più alcun potere di controllo su di lui dava una forza patetica a un desiderio che da un punto di vista
puramente logico non avrebbe avuto alcuna efficacia.
Così Jude non si fece sentire. Non sarebbe andato a far visita a Sue per il momento, né la volontà della zia era
l'unica ragione di questa decisione. Rispetto a lui, con la sua ruvida giacca da lavoro e i calzoni impolverati, Sue
appariva talmente elegante che all'idea di incontrarla si sentiva intimorito, come già gli era accaduto quando aveva
pensato di andare a trovare il signor Phillotson. Né era da escludere che la cugina avesse ereditato le antipatie della sua
famiglia e di conseguenza lo disprezzasse, nella misura in cui un cristiano poteva nutrire un tale sentimento,
particolarmente quando le avesse raccontato quella parte più sgradevole della propria storia che riguardava il legame
con una creatura di sesso femminile per la quale lei non avrebbe certo potuto avere alcuna stima.
Continuò, però, a non perderla di vista, e gli piaceva sapere che fosse là. La consapevolezza della sua presenza
fisica lo stimolava. Ma la ragazza restava più o meno una creatura ideale, sul cui aspetto egli aveva iniziato a tessere
curiose fantasticherie.
Due o tre settimane dopo, Jude era impegnato con altri operai, fuori dal collegio Crozier in Old-time Street, a
scaricare da un carro un blocco di pietra lavorata per poterlo poi issare sul parapetto che stavano riparando. Ognuno era
al suo posto quando il capomastro disse: «Pronti a tirarla su! Oh issa!». Ed essi lo sollevarono.
All'improvviso, mentre alzava la pietra, fu quasi sfiorato dalla cugina, costretta a fermarsi finché l'oggetto che
ostruiva la strada fosse stato spostato. Lei lo guardò dritto in viso, con quegli occhi liquidi, indescrivibili, che univano, o
a lui sembrava unissero, intensità e dolcezza, e un qualcosa di misterioso proprio di entrambe. La loro espressione,
come quella delle sue labbra, si era accompagnata ad alcune parole dette a un'amica, e si era poi trasferita intatta e del
tutto inconsapevolmente sul viso di lui. Lei non aveva notato la sua presenza più di quanto avesse notato la nuvola di
polvere che Jude e i suoi compagni avevano alzato spostando la pietra.
La sua vicinanza era così emozionante che egli iniziò a tremare e volse lo sguardo altrove con un timido gesto
istintivo, per evitare che lei lo riconoscesse, anche se, non avendolo mai visto prima, era del tutto impossibile; e d'altra
parte, forse non aveva mai neppure sentito il suo nome. Jude notò come, se era nata in campagna, gli anni
dell'adolescenza passati a Londra e gli inizi dell'età adulta lì a Christminster avevano cancellato in lei ogni grossolanità.
Quando se ne fu andata, continuò a lavorare senza smettere mai di pensarla. Era stato così affascinato dalla sua
presenza che non aveva fatto alcuna attenzione al suo aspetto fisico. Rammentava ora che non aveva una figura
prosperosa, anzi era agile e sottile, quel tipo che si considerava elegante. Questo era più o meno tutto quello che era
riuscito a vedere. Non c'era nulla di statuario in lei; tutto era movimento nervoso. Era mobile, vivace, eppure un pittore
avrebbe potuto non definirla bella o attraente. Ma a maggior ragione egli ne era stupito. Era ben lontana dalla rozzezza
che egli si sentiva ancora addosso. Come era accaduto che una persona che apparteneva alla sua razza così irascibile,
sfortunata, quasi maledetta, fosse riuscita a giungere a quel livello di raffinatezza? Londra, immaginò, doveva aver
compiuto il miracolo.
Da quel momento, l'emozione che gli si era andata accumulando nel cuore, quale effetto a lungo represso della
solitudine e del luogo romantico in cui viveva, iniziò inavvertitamente a scaricarsi su questa forma per metà
immaginaria; ed egli notò che, per quanto forte la volontà di obbedire alla zia lo spingesse nella direzione opposta, ben
presto sarebbe stato incapace di resistere al desiderio di conoscerla.
Cercò in ogni modo di pensare a lei come a una parente, essendoci dei motivi insormontabili per i quali non
avrebbe dovuto, né potuto, pensare a lei in altro modo.
In primo luogo era già sposato, e avrebbe commesso un peccato. In secondo luogo, erano cugini. Un amore tra
cugini era sconsigliabile, pur quando le circostanze sembravano incoraggiare tale sentimento. Inoltre, anche se fosse
stato libero, in una famiglia come la sua in cui di solito il matrimonio era sinonimo di tragica tristezza, quello tra
consanguinei avrebbe raddoppiato le avversità, e la tragica tristezza si sarebbe intensificata fino a divenire un tragico
orrore.
A maggior ragione, quindi, doveva pensare a Sue solo nei termini di un reciproco interesse per un parente;
guardare a lei con i piedi per terra, come a una persona di cui andare fiero; con la quale avrebbe potuto parlare e che
avrebbe potuto salutare; e che magari un giorno avrebbe potuto invitarlo per un tè, sempre che il sentimento per lei
fosse rigorosamente quello di un consanguineo e di un amico. In tal modo, Sue sarebbe stata per lui una stella gentile,
uno stimolo, una compagna nell'adempimento dei doveri religiosi, una tenera amica.
CAPITOLO III
Date queste considerazioni così poco incoraggianti, l'istinto di Jude era di avvicinarsi alla cugina con
discrezione, e la domenica successiva si recò alla funzione mattutina nella cattedrale del Collegio Cardinal per poterla
vedere di nuovo, avendo scoperto che vi andava assai spesso.
Ma lei non venne, e Jude tornò a cercarla nel pomeriggio. Sapeva che se mai fosse venuta, avrebbe raggiunto
l'edificio dal lato est, attraversando il grande spiazzo erboso quadrangolare di fronte alla chiesa, e aspettò lì fuori in un
angolo mentre suonava la campana. Pochi minuti prima dell'ora della funzione, la vide tra le persone che stavano
camminando lungo le mura del collegio, e subito si mosse dal lato opposto del prato, dove era rimasto ad attenderla, e la
seguì in chiesa, contento più che mai di non essersi ancora presentato. Vederla senza essere a sua volta visto o
riconosciuto, al momento gli bastava.
Indugiò un poco nell'atrio, e la funzione era già a buon punto quando trovò un posto dove sedersi. Era uno di
quei tristi pomeriggi, cupi e monotoni, in cui una religione quale che sia pare una necessità anche alle persone comuni, e
non solo un lusso delle classi più sensibili e agiate. Alla luce sommessa della chiesa, cui si aggiungeva il riflesso
disorientante delle finestre del lucernario, intravedeva i fedeli della navata opposta in modo confuso, ma ciò non gli
impedì di notare che Sue era tra loro. Non aveva individuato da molto il posto esatto dove era seduta quando il coro, che
stava cantando il Salmo 119 attaccò la seconda parte, In quo corriget, con l'organo che iniziò un patetico motivo
gregoriano mentre i cantori intonarono ad alta voce:
In che modo un giovine purificherà la sua strada?
Era proprio la questione su cui era concentrata la mente di Jude in quel momento. Che essere debole e indegno
era stato, a sfogare come aveva fatto una passione animale per una donna, e consentire che portasse a conseguenze così
disastrose; a pensare quindi di porre fine alla propria vita; e poi a perdere ogni ritegno e ubriacarsi. Le onde sonore
dell'organo si riversavano all'interno del coro, e non desta meraviglia che, saturo di soprannaturale quanto lo era lui,
Jude non potesse evitare di pensare che una Provvidenza premurosa avesse scelto quel Salmo per il suo primo ingresso
in quell'edificio solenne. Eppure era il normale salmo corrispondente al ventiquattresimo vespro del mese.
La ragazza per cui iniziava a provare una tenerezza straordinaria era rapita dalle stesse armonie che
giungevano alle orecchie di lui; e il pensiero che così fosse dava a Jude un grande piacere. Lei era probabilmente
un'assidua frequentatrice di quel luogo e, con l'anima e il corpo imbevuti di sentimento religioso, come doveva avere
per via del suo lavoro e delle sue abitudini, senza dubbio aveva molte cose in comune con lui. Per un giovane che si
lasciava impressionare e che era solo, la sensazione di aver trovato alla fine un punto, a cui ancorare i propri pensieri,
che prometteva di offrire vantaggi insieme sociali e spirituali, era come la rugiada di Ermone, e per tutta la durata della
funzione egli rimase in un'atmosfera sostenuta di euforia.
Sebbene avesse faticato a crederlo, qualcuno gli avrebbe potuto dire che lo stesso vento soffiava tanto da Cipro
quanto dalla Galilea.
Jude aspettò a muoversi che lei si fosse alzata e fosse uscita. Sue non guardò mai verso di lui, e quando a sua
volta egli raggiunse l'uscita la ragazza era già a metà del sentiero. Siccome aveva indosso l'abito della domenica, ebbe la
tentazione di seguirla e rivolgerle la parola. Ma qualcosa ancora lo tratteneva; e dopotutto non era meglio così, data la
natura del sentimento che andava risvegliandosi in lui?
Se durante la funzione tale sentimento era parso possedere un fondamento religioso, ed egli si era persuaso che
ciò corrispondesse a verità, non poteva però rimanere completamente cieco di fronte alla reale natura del magnetismo
che la ragazza esercitava su di lui. Sue era a tal punto un'estranea, che chiamare in causa la loro parentela era del tutto
ingiustificato. «È peccato!», disse Jude. «Io, un uomo sposato, non devo conoscerla!». E tuttavia Sue era sua parente, e
l'avere una moglie, anche se di lei non vi era traccia in questa parte dell'emisfero terrestre, a suo modo poteva essergli
d'aiuto. Avrebbe cancellato dalla mente di Sue qualsiasi sospetto sulle proprie reali intenzioni, e reso il suo rapporto con
Jude libero e fiducioso. Fu con una stretta al cuore che s'accorse di quanto poco gli importava della libertà e della
fiducia che tale consapevolezza avrebbe generato nella ragazza.
Qualche giorno prima di quella funzione nella cattedrale Sue Bridehead, la giovane graziosa dagli occhi liquidi
e dal piede leggero, aveva preso un pomeriggio di vacanza, e uscendo dal negozio di oggetti ecclesiastici in cui non solo
lavorava ma abitava, fece una passeggiata in campagna portando con sé un libro. Era una di quelle giornate limpide che
a volte capitano nel Wessex come altrove in mezzo a giornate di freddo e di pioggia, come intercalate dal capriccio del
dio delle stagioni. Camminò per un paio di miglia, finché non giunse a un punto molto più in alto della città che si era
lasciata alle spalle. In prossimità di una staccionata, lungo la strada che passava tra campi verdeggianti, fece una pausa
per finire la pagina che stava leggendo, poi guardò dietro di sé le torri, le cupole e i pinnacoli vecchi e nuovi.
Dall'altro lato della staccionata notò un giovane con i capelli neri e la carnagione giallastra seduto sull'erba con
accanto una larga tavola quadrata sopra la quale erano fissate, strette il più possibile l'una all'altra, un certo numero di
statuette di gesso, alcune delle quali rivestite di bronzo, che lo sconosciuto stava riordinando prima di rimettersi in
cammino. Si trattava in gran parte di copie in scala ridotta di statue antiche, e comprendevano delle divinità di un
genere ben diverso da quello che la ragazza era abituata a vedere dipinte, tra le quali vi era una Venere di fattura
tradizionale, una Diana e, dell'altro sesso, Apollo, Bacco e Marte. Sebbene le statuette fossero abbastanza lontane, il
sole del pomeriggio le faceva risaltare in modo così vivido contro il verde dell'erba da consentirle di distinguerne i
contorni con luminosa nitidezza; e trovandosi quasi in linea retta tra la ragazza e le torri delle chiese della città,
suscitarono in lei per l'inevitabile confronto con quest'ultime una serie di idee quantomai inattese e poco ortodosse.
Vedendola, l'uomo si alzò, si tolse educatamente il cappello ed esclamò «Statuette», con un accento che ben si
accordava al suo aspetto. In un attimo, poggiò con destrezza su un ginocchio la grande tavola con quell'accolita di
personalità divine e umane, e sollevandola al di sopra della testa raggiunse la ragazza e la pose sulla staccionata. Per
prime le offrì le più piccole - i busti di re e regine, poi un menestrello, e dopo ancora un Cupido alato. Lei scosse la
testa.
«Quanto costano queste due?», chiese, indicando con un dito la Venere e l'Apollo - le due statuette più grandi.
Egli rispose che gliele avrebbe vendute per dieci scellini.
«È troppo caro per me», disse Sue. Gli offrì molto meno, e con suo grande stupore l'uomo le estrasse dal loro
sostegno di metallo e gliele porse attraverso la staccionata. Lei le afferrò come tesori.
Dopo che li ebbe pagati e che l'uomo se ne fu andato, cominciò a pensare a cosa ne avrebbe fatto. Sembravano
così grandi, ora che le teneva in mano, e così nude. Essendo nervosa per temperamento, iniziò ad agitarsi per
quell'acquisto. Come se non bastasse, l'argilla bianca che perdevano al contatto le sporcava i guanti e la giacca.
Camminò un poco, portandosele dietro, quando le venne un'idea: raccolse delle grandi foglie di bardana, del
prezzemolo e altre piante rigogliose che crescevano nei pressi della strada, e vi avvolse come meglio poté il suo carico,
di modo che ciò che portava sembrasse un'enorme mazzo di piante raccolte da una zelante amante della natura.
«Tutto è meglio di quei fronzoli ecclesiastici!», esclamò. Ma era ancora agitata, e quasi pentita del suo
acquisto.
Di tanto in tanto dava un'occhiata tra le foglie per accertarsi che il braccio di Venere non si fosse spezzato.
Seguendo una stradina secondaria parallela a quella principale, entrò con quel suo fardello pagano nella città più
cristiana del paese e, voltato un angolo, nell'edificio dove lavorava, attraverso la porta di servizio. Portò subito i suoi
acquisti in camera, e cercò di chiuderli a chiave in una scatola di sua proprietà; ma visto che erano troppo ingombranti,
finì per avvolgerli in grandi fogli di carta marrone e lasciarli per terra, in un angolo.
La padrona di casa, una certa signorina Fontover, era una signora anziana con gli occhiali, vestita quasi come
una badessa; un'esperta di etichetta, come lo divenivano quelle del suo mestiere, assidua alle funzioni della chiesa già
menzionata di San Sila, nel sobborgo di Beersheba, cui anche Jude aveva iniziato a partecipare. Figlia di un prelato
ridotto in miseria, alla sua morte, avvenuta molti anni prima, reagì con coraggio alla propria situazione rilevando un
negozietto di articoli religiosi che sviluppò fino alle attuali, rispettabili, dimensioni. Suoi unici ornamenti erano una
croce e un rosario intorno al collo, e conosceva a memoria tutto L'anno cristiano.
La signorina Fontover salì a chiamare Sue per la cena, e dal momento che la ragazza non rispondeva, entrò
nella sua stanza proprio mentre stava legando in fretta e furia ciascun pacco.
«Avete comprato qualcosa, signorina Bridehead?», chiese, guardando gli oggetti incartati.
«Sì - solo degli oggetti per ornare la stanza», disse Sue.
«Credevo che di ornamenti ve ne fossero già abbastanza», disse la signorina Fontover, gettando un'occhiata
alle immagini di santi nelle cornici gotiche, alle pergamene di testi sacri, e ad altri articoli che, troppo vecchi per essere
venduti, erano stati utilizzati per arredare questa stanza così buia. «Cosa sono? Che pacchi voluminosi!». Strappò
appena la carta marrone, facendo un buco grande come un'ostia, e cercò di guardare dentro. «Ah, delle statue? Due
figure? Dove le avete prese?».
«Oh - le ho comprate da un venditore ambulante».
«Due santi?».
«Sì».
«Quali?».
«San Pietro e... Santa Maria Maddalena».
«Be', ora scendete per la cena, e poi andate a finire il testo per l'organo, se c'è abbastanza luce».
Questi piccoli ostacoli al godimento di ciò che era stato frutto di un semplice capriccio passeggero, fecero sì
che Sue non vedesse l'ora di scartare i suoi oggetti per guardarli; e prima di coricarsi, quando era certa che nessuno
l'avrebbe disturbata, disfò i due pacchi in santa pace. Mise le statue sul cassettone tra due candele, poi arretrò fino al
letto, vi si buttò sopra, e iniziò a leggere un libro che aveva preso dal baule, del quale la signorina Fontover ignorava
l'esistenza. Era un volume della storia di Gibbon, e Sue lesse il capitolo sul regno di Giuliano l'Apostata. Di tanto in
tanto guardava le statuette, che gli sembravano strane e fuori posto poiché accadeva che in mezzo ad esse fosse appesa
al muro una immagine del Calvario, e quasi questo contrasto la stimolasse ad agire, saltò giù dal letto e tirò fuori dal
baule un altro libro, un volume di versi, in cui cercò la poesia che conosceva così bene,
Hai vinto, pallido Galileo:
Il mondo è diventato grigio per il tuo respiro!
che lesse fino alla fine. Poi estinse le candele, si spogliò, e spense anche la luce accanto al letto.
Aveva un'età in cui di solito si dorme profondamente, ma quella notte non faceva che svegliarsi, e ogni volta
che apriva gli occhi entrava abbastanza luce dalla strada per permetterle di vedere le due statue di argilla sul cassettone,
in curioso contrasto con i testi e i martiri, e il dipinto della crocifissione con la sua cornice gotica, del quale in quella
penombra poteva distinguere solo una croce latina, essendo la figura del Cristo nascosta nell'ombra.
In una di queste occasioni, l'orologio della chiesa suonò le ore piccole. I rintocchi giunsero alle orecchie anche
di un'altra persona che stava china sui libri in un punto non molto distante della stessa città. Essendo sabato, non aveva
caricato la sveglia per svegliarsi all'alba come di consueto, e quindi era rimasto alzato a studiare, come faceva ogni sera,
un paio d'ore più a lungo di quanto non potesse permettersi durante la settimana. In quel momento era impegnato nella
lettura del testo di Griesbach. Alla stessa ora in cui Sue gettava di tanto in tanto un'occhiata alle sue statuette, il
poliziotto e i ritardatari che si fossero trovati a passare sotto la finestra di Jude avrebbero potuto sentire mormorare
all'interno, se fossero rimasti in silenzio, delle strane sillabe con grande fervore - parole che avevano per Jude un
incanto indicibile - suoni incomprensibili come questi:
All hemin heis Theos ho Pater, ex hou ta panta, kai hemeis eis auton,
finché le parole non furono declamate con riverenza, e si udì un libro chiudersi:
Kai heis Kurios Iesous Christos, di hou ta panta kai hemeis di autou!
CAPITOLO IV
Jude era molto abile nel proprio mestiere, ma anche un tuttofare, come sempre gli artigiani di provincia
tendono ad essere. A Londra, colui che incide una decorazione di foglie rifiuta di tagliare il frammento di marmo che
termina nella decorazione, quasi quella seconda metà del lavoro sia degradante. Quando al cantiere non aveva da fare
modanature in stile gotico, né decorazioni intorno alle finestre, Jude si dedicava alle iscrizioni su monumenti e pietre
tombali, per nulla dispiaciuto di queste variazioni nel suo lavoro.
Rivide Sue un giorno in cui, su una scala, eseguiva un lavoro di questo genere all'interno di una chiesa della
città. Era in corso una breve funzione mattutina, e quando entrò il parroco, Jude scese dalla scala e prese posto fra una
mezza dozzina di fedeli che formavano la congregazione, aspettando che le preghiere terminassero per riprendere il
lavoro. Solo a metà della funzione si accorse che una delle donne era Sue, la quale aveva dovuto accompagnare
l'anziana signorina Fontover.
Jude rimase seduto a osservare le sue spalle graziose, il modo semplice e spigliato di alzarsi e sedersi, le
genuflessioni a dire il vero un po' frettolose, e pensò a quanto in circostanze più favorevoli avrebbe potuto essergli
d'aiuto un'anglicana così devota. Non fu tanto l'ansia di riprendere a lavorare che lo spinse ad alzarsi appena i fedeli
iniziarono ad uscire, quanto il fatto che in quel luogo sacro non osava trovarsi di fronte alla donna che esercitava su di
lui un ascendente sempre più forte. I tre serissimi motivi per i quali doveva rifuggire da un rapporto intimo con Sue
Bridehead, ora che l'interesse per lei si era rivelato inconfutabilmente di natura sessuale, lo perseguitavano con
accresciuta ostinazione. Ma si sa che l'uomo non può vivere di solo lavoro; e che Jude in particolare aveva bisogno di
qualcuno da amare. La maggior parte degli uomini si sarebbe subito precipitata da lei, avrebbe colto il piacere di una
amicizia senza complicazioni, che difficilmente lei avrebbe potuto negare, e lasciato il resto al caso. Non così Jude almeno all'inizio.
Man mano però che i giorni, e ancor più le serate trascorse in solitudine, si trascinavano stancamente, con sua
grande costernazione morale egli dovette riconoscere di pensare alla cugina sempre di più invece che sempre di meno, e
di provare una gioia inquietante nel fare ciò che era eccentrico, informale, inatteso. Circondato dal suo influsso per tutta
la giornata, passando spesso davanti ai luoghi che Sue frequentava, non smetteva mai di pensare a lei, e fu costretto ad
ammettere con se stesso che in questa battaglia probabilmente la sua coscienza avrebbe perso.
Certamente ai suoi occhi la ragazza rimaneva un qualcosa di ideale. Forse conoscendola avrebbe potuto guarire
di questa improvvisa e illecita passione. Ma dentro di sé una voce gli sussurrava che, se desiderava moltissimo
conoscerla, non desiderava altrettanto guarire.
Non c'era il minimo dubbio che dal suo punto di vista ortodosso la situazione stesse diventando immorale. Per
Sue, essere amata da un uomo che le leggi del suo paese avevano autorizzato ad amare Arabella e nessun'altra donna
per tutta la vita, costituiva un pessimo secondo inizio, se quell'uomo era deciso a percorrere una certa strada come era
nelle intenzioni di Jude. Questa convinzione era a tal punto radicata in lui che un giorno quando, come accadeva spesso,
era andato a lavorare da solo alla chiesa di un villaggio vicino, sentì di dover pregare Dio di aiutarlo contro la propria
debolezza. Ma per quanto ambisse a un comportamento esemplare in situazioni del genere, non ci riuscì. Comprese che
era assolutamente impossibile chiedere di essere liberato da una tentazione quando il cuore non desiderava altro che
essere tentato. Allora giustificò se stesso. «Dopo tutto», disse, «non è affatto una questione di attrazione fisica, come
l'altra volta. Mi rendo conto che ha un'intelligenza straordinaria; e il mio è in parte un desiderio di amicizia intellettuale
e un bisogno d'affetto nella mia solitudine». Così continuò ad adorarla, temendo di scoprire che si trattava di
depravazione umana. Poiché quali che fossero le virtù, i talenti o la saturazione ecclesiastica di Sue, queste prerogative
non avevano certo nulla a che vedere con il suo amore per lei.
Un pomeriggio di quel periodo, una giovane entrò esitante nel cantiere dove Jude lavorava, e sollevando la
gonna per evitare di impolverarla, si diresse all'ufficio del proprietario.
«Che bella ragazza», disse uno degli operai che tutti chiamavano zio Joe.
«Chi è?», chiese un altro.
«Non lo so - la incontro ogni tanto. Ah, sì, è la figlia di quel tipo in gamba, Bridehead, che ha fatto tutti i lavori
in ferro battuto a San Sila, dieci anni fa, e poi se n'è andato a Londra. Non so come se la passi ora - non bene, immagino
- visto che lei è tornata qui».
Nel frattempo, la giovane aveva bussato alla porta dell'ufficio e chiesto se il signor Jude Fawley lavorasse in
quel cantiere. Accadeva che quel pomeriggio fosse fuori per lavoro: la giovane accolse con rammarico l'informazione e
subito andò via. Quando Jude tornò e gli raccontarono il fatto descrivendogli la ragazza, esclamò: «Ma certo - è mia
cugina Sue!».
Guardò per strada se poteva ancora vederla, ma era troppo tardi. Da tempo non pensava più di doverla evitare
ad ogni costo, e decise di recarsi quella sera stessa a farle visita. Tornato a casa, trovò un suo biglietto - il primo che
riceveva da lei - uno di quei documenti semplici e banali in se stessi, che retrospettivamente sembrano essere pregni di
appassionate conseguenze. L'inconsapevolezza stessa di un dramma incombente, che appare in queste prime lettere
innocenti di una donna a un uomo e viceversa, rende quest'ultime, quando si rileggono alla luce vivace o cupa del
dramma successivo, ancor più sconcertanti, solenni, e in alcuni casi terribili.
Il biglietto di Sue era del tipo più ingenuo e sincero. In esso, si rivolgeva al caro cugino Jude; diceva di aver
appena appreso per puro caso che viveva a Christminster, e lo rimproverava di non essersi fatto vivo. Avrebbero potuto
tenersi compagnia, proseguiva, poiché lei era praticamente sola e non aveva amiche che le andassero a genio. Ma
adesso, purtroppo, con ogni probabilità sarebbe dovuta partire, e forse la possibilità di diventare amici sarebbe svanita
per sempre.
Alla notizia della sua probabile partenza, Jude iniziò a sudare freddo. Era un'eventualità alla quale non aveva
neppure pensato, e che tanto più lo spronò a risponderle immediatamente. L'avrebbe incontrata quella sera stessa, disse,
un'ora dopo averle scritto quella lettera, alla croce che segnava sul selciato il cosiddetto «luogo del martirio».
Una volta speditale la lettera con un ragazzo, si pentì di averle proposto di vedersi all'aperto, quando le avrebbe
potuto proporre di andarla a trovare a casa. In effetti, era in campagna che ci si vedeva in quel modo, ma lì per lì non
aveva pensato a un'altra possibilità. Così aveva conosciuto Arabella, purtroppo, e forse a una cara ragazza come Sue
sarebbe parso sconveniente. Adesso, comunque, non c'era modo di rimediare, e qualche minuto prima
dell'appuntamento uscì per recarsi al luogo indicato, sotto la luce debole dei lampioni appena accesi.
L'ampia strada era silenziosa e pressoché deserta, malgrado non fosse tanto tardi. Sul lato opposto vide una
figura in cui riconobbe la cugina, che contemporaneamente a lui si avvicinò alla croce. Prima che uno dei due vi
giungesse, lei gli gridò:
«Non voglio incontrarti qui, la prima volta! Andiamo più avanti».
La voce, pur chiara e argentina, era stata incerta. Continuarono a camminare parallelamente ai due lati della
strada e Jude, in attesa di un suo cenno, la osservò finché non diede segno di avvicinarsi, al che si avvicinò a sua volta.
Si fermarono al posteggio diurno delle corriere, nel quale a quell'ora non c'era nessuno.
«Mi dispiace di averti chiesto d'incontrarci per strada e di non essere venuto da te», esordì Jude con la
timidezza di un innamorato. «Ma ho pensato che avremmo risparmiato tempo, nel caso avessimo voluto fare una
passeggiata».
«Oh - non fa nulla», lei rispose con la disinvoltura di un'amica. «Veramente non ho un posto dove poter
invitare qualcuno. Quello che volevo dire era che avevi scelto un punto orribile - forse non dovrei dire orribile insomma triste e di cattivo auspicio per le cose che ricorda... Ma non è buffo cominciare così quando neppure ti
conosco?». Lo squadrò dalla testa ai piedi con curiosità, mentre Jude non osava fare altrettanto.
«Si direbbe che tu mi conosca più di quanto io conosca te», lei aggiunse.
«Sì - ti ho vista qualche volta».
«E sapevi chi ero e non mi hai rivolto la parola? Ed ora che sto per partire!...».
«Sì, è una vera sfortuna. E pensare che praticamente non ho altri amici. A dire il vero ho un vecchio amico,
qui, da qualche parte, ma non me la sento ancora di andarlo a cercare. Magari tu ne hai sentito parlare - un tale signor
Phillotson? Penso sia parroco in un paese della contea».
«No - Conosco un solo Phillotson. Vive in campagna a Lumsdon, poco lontano da qui. È il maestro della
scuola del villaggio».
«Ah! Chissà se è la stessa persona. È sicuramente impossibile! Ancora solo un maestro elementare! Sai qual è
il suo nome - Richard?».
«Sì è lui. Gli ho spedito dei libri, anche se non l'ho mai visto di persona».
«Allora non c'è riuscito!».
Jude si alterò in volto, poiché come avrebbe mai potuto riuscire in un'impresa nella quale il grande Phillotson
aveva fallito? Sarebbe precipitato per un giorno intero nella disperazione più nera se quella notizia non gli fosse giunta
in presenza della sua dolce Sue, ma anche così non gli era difficile immaginare che il fallimento dell'ambizioso progetto
universitario di Phillotson lo avrebbe depresso non appena lei se ne fosse andata.
«Se facciamo una passeggiata, che diresti di andare a trovarlo?», chiese Jude all'improvviso. «Non è tardi».
La ragazza acconsentì, e si diressero su per una collina, per poi attraversare una campagna fitta di alberi. Presto
la torre merlata e il campanile quadrangolare della chiesa si stagliarono contro il cielo, quindi videro l'edificio della
scuola. Chiesero a un passante se credeva che il signor Phillotson fosse in casa, e venne loro risposto che non usciva
mai. Udendo dei colpi alla porta, scese ad aprire, con una candela in mano e una espressione interrogativa sul volto, che
si era fatto smunto e rugoso da quando Jude lo aveva veduto l'ultima volta.
Che dopo tutti quegli anni l'incontro con il signor Phillotson avesse un aspetto così domestico distrusse di
colpo l'aura che aveva circondato la figura del maestro nell'immaginazione di Jude dal giorno in cui si erano separati.
Allo stesso tempo, suscitava in lui un sentimento di simpatia per il maestro, come per un essere duramente punito e
deluso dalla vita. Jude si presentò, e disse di essere venuto a trovarlo come un vecchio amico che era stato gentile con
lui quando era un ragazzo.
«Non mi ricordo affatto di voi», rispose il maestro, pensieroso. «Dite che eravate uno dei miei scolari? Sarà
senz'altro vero; ma ne ho avuti a migliaia in tutti questi anni, e naturalmente sono così cambiati, che potrei riconoscerne
pochissimi, tranne i più recenti».
«Era al tempo di Marygreen», disse Jude desiderando in cuor suo di non essere mai andato a trovarlo.
«Sì. Sono stato lì per un breve periodo. E anche lei è una mia vecchia scolara?».
«No - questa è mia cugina... Vi scrissi per delle grammatiche, se vi ricordate, e voi me le spediste».
«Ah... sì! Ricordo vagamente questo particolare».
«Foste molto gentile a farlo. E mi indirizzaste voi su questa strada. La mattina in cui partiste da Marygreen,
quando le vostre cose erano sul carro, mi salutaste, e mi diceste che il vostro progetto era di studiare all'università e poi
entrare nella Chiesa - che il diploma era un traguardo necessario per chi volesse divenire un teologo o un maestro».
«Ricordo di aver pensato tutto ciò tra me e me; ma mi stupisce di avervelo raccontato. Rinunciai a quest'idea
anni fa».
«Io non me ne sono mai dimenticato. È ciò che mi ha indotto a trasferirmi da queste parti, e a venire a trovarvi
stasera».
«Entrate», disse Phillotson. «E anche vostra cugina».
Si accomodarono nel salotto della casa del maestro, dove c'era una lampada con un paralume di carta che
indirizzava la luce su tre o quattro libri sopra un tavolo. Phillotson lo tolse, in modo che si potessero vedere meglio l'un
con l'altro, e la luce illuminò il visino mobile e i vivaci occhi scuri di Sue, i lineamenti severi del cugino, il volto e la
figura più matura del maestro, rivelando un uomo magro e pensoso di quarantacinque anni con le labbra sottili, una
bocca a suo modo ben fatta, una leggera tendenza a incurvarsi e una finanziera nera che a causa dell'uso ininterrotto era
un po' lucida sulle scapole, nel mezzo della schiena, e sui gomiti.
La vecchia amicizia si rinnovò impercettibilmente, con il maestro che raccontava le proprie esperienze, e i due
cugini che raccontavano le loro. Egli confessò di pensare ancora alla carriera ecclesiastica a volte, e che se non poteva
entrare nella Chiesa nel modo in cui aveva pensato di fare in passato, poteva però entrarvi come un licenziato. Nel
frattempo, disse, non si lamentava della sua attuale collocazione, anche se aveva bisogno di un insegnante che lo
aiutasse.
Non rimasero a cena, poiché Sue doveva tornare a casa prima che fosse troppo tardi, e ripercorsero la strada
per Christminster. Pur se non avevano parlato che di argomenti generali, Jude fu stupito di scoprire che rivelazione la
cugina fosse per lui di come può essere una donna. Era così piena di vita, che qualsiasi cosa facesse sembrava avere
origine nella sua sensibilità. Un pensiero eccitante la spingeva a camminare così velocemente, che egli faceva fatica a
tenerle dietro; e la sua suscettibilità su alcune questioni era tale da poter essere scambiata per vanità. Con una stretta al
cuore sentì che, se lei aveva per lui solo sentimenti della più sincera amicizia, egli al contrario l'amava più di quanto
l'amasse prima di conoscerla; e la tristezza che lo colse sulla via del ritorno fu dovuta non all'oscurità della notte che
incombeva su di loro, ma al pensiero della partenza di lei.
«Perché hai deciso di andartene?», le chiese con rincrescimento. «Come puoi fare a meno di restare legata a
una città nella cui storia giganteggiano uomini come Newman, Pusey, Keble!».
«Sì... è vero. Ma giganteggiano poi anche nella storia del mondo?... Che buffo motivo per convincermi a
restare! Non ci avrei mai pensato». E rise.
«Comunque non ho scelta», proseguì. «La signorina Fontover, una delle coproprietarie per cui lavoro, è
arrabbiata con me, ed io con lei; ed è meglio che me ne vada».
«Cosa è successo?».
«Mi ha rotto delle statuine».
«Oh! Apposta?».
«Sì. Le ha trovate nella mia stanza, e sebbene fossero mie, le ha gettate per terra e ha iniziato a calpestarle,
perché non andavano d'accordo con il suo gusto. Poi ha frantumato le braccia e la testa di una di esse con il tacco di una
scarpa - una cosa orrenda!».
«Immagino che saranno state troppo cattoliche-apostoliche. Sono sicuro che le ha chiamate immagini papiste e
avrà parlato di invocare i santi».
«No... non proprio. Ha visto la faccenda in tutt'altro modo».
«Ah! Questo sì mi stupisce!».
«È per altri motivi che non le sono piaciuti i miei santi protettori. Così sono stata costretta a risponderle; e in
conclusione, ho deciso che non potevo rimanere e dovevo cercarmi un lavoro che mi desse maggiore indipendenza».
«Perché non ricominci a insegnare? Ho sentito che l'hai già fatto in passato».
«Non ho mai pensato di ricominciare; perché facevo progressi come disegnatrice».
«Lascia che chieda al signor Phillotson di farti provare nella sua scuola. Se ti trovi bene, puoi iscriverti a un
istituto magistrale e diventare una maestra diplomata a pieni voti; potresti guadagnare il doppio di qualsiasi disegnatore
o artista ecclesiastico, e avere il doppio di libertà».
«D'accordo - chiediglielo. E ora devo rientrare. Arrivederci, caro Jude! Sono così contenta di averti conosciuto
alla fine! Non c'è motivo che noi litighiamo perché hanno litigato i nostri genitori, non trovi?».
Jude cercò di non farle vedere del tutto fino a che punto fosse d'accordo, e s'incamminò per conto suo fino alla
strada in periferia dove abitava.
Impedire che Sue Bridehead partisse era diventato, a questo punto, un desiderio che si manifestava senza
curarsi delle sue conseguenze, e la sera dopo Jude si recò di nuovo a Lumsdon di persona, perché restio a fidarsi
dell'effetto persuasivo di un semplice biglietto. Il maestro non si aspettava una proposta del genere.
«Quello che cercavo, era piuttosto un supplente del secondo anno, come lo chiamano», disse. «Naturalmente,
per quanto mi riguarda vostra cugina andrebbe bene; ma non ha alcuna esperienza. Oh... ce l'ha? Pensa sul serio di
scegliere l'insegnamento come professione?».
Jude disse che propendeva a fare ciò, così almeno egli credeva; e gli argomenti ingegnosi sulla naturale
capacità di Sue nell'assistere il signor Phillotson, capacità della quale Jude non aveva la benché minima prova,
suonarono così convincenti che il maestro promise di prenderla, avvertendo però Jude in tutta amicizia che se la cugina
non aveva sul serio intenzione di proseguire lungo quella strada, e considerare questo passo come il primo di un
apprendistato, di cui l'addestramento in una scuola normale sarebbe stato il secondo, avrebbe soltanto perso tempo, dato
che lo stipendio era puramente nominale.
Il giorno dopo questa visita, Phillotson ricevette una lettera da Jude in cui lo informava di aver nuovamente
consultato la cugina, che era sempre più entusiasta all'idea di insegnare, e accettava il posto di supplente. Quel maestro
e recluso non sospettò neppure che a motivare l'ardore di Jude nel favorire quella sistemazione fossero ben altri
sentimenti verso Sue che non l'istinto di cooperazione comune ai membri della stessa famiglia.
CAPITOLO V
Il maestro era seduto alla finestra della sua modesta abitazione, un edificio annesso alla scuola e come questo
di costruzione moderna, e guardava dall'altro lato della strada la vecchia casa nella quale abitava Sue, la nuova maestra.
La faccenda si era risolta rapidamente. Un maestro che doveva essere trasferito alla scuola del signor Phillotson aveva
rinunciato e Sue era stata assunta come supplente. Le assunzioni temporanee di questo genere potevano durare solo fino
alla visita annuale dell'ispettore scolastico, la cui approvazione era necessaria per renderle definitive. La signorina
Bridehead aveva insegnato qualche anno a Londra, e pur avendo in seguito abbandonato quella vocazione non si poteva
considerare esattamente una principiante; Phillotson pensava che non sarebbero sorte difficoltà per la conferma, che già
desiderava le venisse data, per quanto la ragazza avesse lavorato con lui da meno di quattro settimane. L'aveva trovata
brillante come Jude l'aveva descritta; e quale insegnante o artigiano non desidererebbe tenere un apprendista che gli
risparmia metà del lavoro?
Erano da poco passate le otto e mezza, e Phillotson aspettava di vederla attraversare la strada che portava a
scuola per seguirla. Sue arrivò dieci minuti dopo, con in testa un cappello leggero; Phillotson la guardò come una rarità.
Un fascino nuovo, che non aveva nulla a che vedere con la sua bravura d'insegnante, sembrava emanare da lei quella
mattina. La seguì alla scuola, in cui Sue insegnò tutto il giorno all'altra estremità dello stanzone dove le lezioni si
svolgevano sotto i suoi occhi. Senza dubbio, era una maestra eccellente.
Rientrava nei doveri di Phillotson quello di darle delle lezioni private la sera, e in qualche articolo del Codice
si prescriveva che una matura e rispettabile signora fosse presente se maestro e allievo erano di sesso diverso. Richard
Phillotson trovava la regola assurda nel suo caso, dato che era abbastanza vecchio per fare da padre alla ragazza; ma vi
si conformò scrupolosamente e così sedettero a fare lezione nella stanza dove la signora Hawes, la vedova nella cui casa
Sue alloggiava, passava il tempo a cucire. Il regolamento, a dire il vero, non sarebbe stato comunque facile da
trasgredire, mancando in quell'abitazione un altro soggiorno.
A volte, mentre faceva di conto - studiavano aritmetica - Sue gli lanciava involontariamente un'occhiata con un
leggero sorriso interrogativo, quasi presumesse che lui, come maestro, dovesse intuire tutto quello che le passava per la
mente, giusto o sbagliato che fosse. In realtà, Phillotson non pensava affatto all'aritmetica, ma a lei, in un modo nuovo
che gli sembrava un po' strano nella sua veste di precettore. Forse Sue ne era consapevole.
Per qualche settimana il lavoro nella scuola era andato avanti con una monotonia che per il maestro era un vero
piacere. Poi accadde che si dovessero portare i bambini a Christminster a vedere una mostra itinerante di un plastico di
Gerusalemme, alla quale gli scolari erano ammessi pagando un penny a testa, per promuovere la loro educazione. Gli
scolari marciavano in fila per due lungo la strada, Sue accanto alla sua classe con un semplice parasole di cotone, che
reggeva con la mano ben stretta intorno al manico; e dietro Phillotson, con la lunga finanziera svolazzante, il bastone da
passeggio che muoveva in modo manieroso, e un'aria meditabonda che aveva dal giorno in cui Sue era arrivata alla
scuola. Il pomeriggio era assolato e polveroso, e quando entrarono la sala della mostra era praticamente vuota.
Il plastico dell'antica città si trovava nel mezzo del locale, e il proprietario, che nei suoi lineamenti aveva
stampati i sentimenti della più nobile filantropia religiosa, vi girò intorno indicando agli scolari con una bacchetta le
varie zone e località il cui nome era a loro noto per averlo letto nella Bibbia: il Monte Moriah, la valle di Giosafat, la
città di Sion, le mura e le porte della città, una delle quali aveva di fronte un'ampia duna a forma di tumulo, con sopra
una piccola croce bianca. Stava a indicare, spiegò, il Calvario.
«Io penso», disse Sue al maestro mentre si teneva insieme a lui un po' in disparte, «che questo plastico, per
quanto elaborato, sia una riproduzione del tutto immaginaria. Chi può dire se Gerusalemme al tempo di Cristo era così?
Sono sicura che l'autore se l'è inventato».
«È stato costruito secondo le migliori mappe ipotetiche, sulla base di visite alla città per come è al giorno
d'oggi».
«Per me ci siamo occupati troppo di Gerusalemme», insistette Sue, «considerando che non discendiamo dagli
ebrei. Dopotutto, in quel luogo o tra quella gente non c'era nulla di speciale - al contrario di Atene, Roma, Alessandria,
e altre città antiche».
«Ma, cara ragazza, pensate a cosa rappresenta per noi!».
Sue rimase in silenzio, poiché si lasciava facilmente azzittire; e poi notò dietro al gruppo di bambini che si
affollavano intorno al plastico un giovane in giacca di flanella bianca, così curvo e intento a studiare la Valle di
Giosafat, che aveva il volto quasi nascosto dal Monte degli Ulivi. «Guardate, c'è vostro cugino!», riprese il maestro.
«Lui non pensa che ci siamo occupati troppo di Gerusalemme!».
«Ah - non l'avevo visto!», esclamò Sue con la sua voce allegra e vivace. «Jude - con quanta serietà lo stai
studiando!».
Jude si risvegliò dalle sue fantasticherie e la vide. «Oh, Sue!», esclamò con improvviso e felice imbarazzo.
«Questi sono i tuoi alunni, certo! Avevo letto che le scolaresche erano ammesse nel pomeriggio e avevo pensato che
forse saresti venuta; ma sono rimasto così preso dal plastico che mi sono dimenticato di dov'ero. Come ci riporta
indietro al passato, non è vero? Potrei studiarlo per ore, ma purtroppo non ho che un paio di minuti; poiché devo
terminare un lavoro qui vicino».
«Vostra cugina è così incredibilmente intelligente che lo critica senza pietà», disse Phillotson prendendola in
giro in tono benevolo. «È alquanto scettica riguardo alla sua esattezza».
«No, signor Phillotson, non lo sono - affatto! Odio essere quella che si chiama una ragazza intelligente - ce ne
sono fin troppe di quel genere!», rispose Sue punta sul vivo. «Volevo solo dire - oh, non so cosa volessi dire - ma non è
quello che avete capito!».
«So cosa vuoi dire», intervenne Jude con ardore (anche se non era vero). «E penso che hai proprio ragione».
«Oh, grazie Jude! Tu sì che mi capisci». Con gesto impulsivo gli afferrò la mano, e lanciando uno sguardo di
rimprovero al maestro, si girò verso il cugino, la voce tremante di collera, sebbene lei stessa si rendesse conto che era
del tutto ingiustificata da una ironia così leggera. Sue non aveva la minima idea della reazione che la momentanea
rivelazione dei suoi sentimenti provocava nel cuore di quei due, e delle complicazioni che così andava a creare nel
futuro di entrambi.
Il plastico era di un tipo troppo finalizzato allo studio per non annoiare ben presto i bambini, e poco dopo la
scolaresca s'incamminò per Lumsdon, mentre Jude doveva tornare al proprio lavoro. Ma restò a guardare quel gregge
infantile con i fiocchi e i grembiulini bianchi avviarsi in fila per due sulla strada che usciva dal paese dietro a Phillotson
e a Sue, e fu preso da un senso di tristezza e di insoddisfazione all'idea di non rientrare nello schema delle loro vite.
Phillotson lo aveva invitato ad andarli a trovare il venerdì sera, quando non doveva fare lezione a Sue, e Jude era ben
deciso a non perdere l'occasione.
Nel frattempo, maestri e scolari si erano diretti verso casa, e il giorno dopo, nell'osservare la lavagna della
classe di Sue, Phillotson fu sorpreso di trovarci abilmente disegnata con il gesso, una veduta in prospettiva di
Gerusalemme, in cui ogni edificio era al suo posto.
«Credevo che il plastico non vi interessasse, e che lo aveste guardato a malapena», commentò.
«È vero», lei rispose, «ma un po' lo ricordo».
«È più di quanto non ricordi io stesso».
L'ispettore scolastico effettuava in quei giorni delle «visite a sorpresa» nei dintorni per verificare la qualità
dell'insegnamento senza preavvertire; e due giorni dopo, nel mezzo della lezione del mattino, la maniglia della porta
della classe venne aperta senza fare rumore, e quel gentiluomo, il terrore più temibile dei supplenti, fece il suo ingresso.
Per Phillotson la sorpresa non fu grande: come alla signora della favola, quello scherzo gli era stato giocato
troppe volte per coglierlo di sorpresa. Ma la classe di Sue era in fondo allo stanzone, e lei volgeva le spalle alla porta;
per cui l'ispettore poté sedersi per qualche minuto ad osservarla mentre insegnava, prima che si accorgesse della sua
presenza. Quando si voltò, capì che il momento tanto temuto era giunto. L'effetto sulla sua timidezza fu tale che lanciò
un grido di paura. Spinto da un insolito senso di premura assolutamente incontrollabile, Phillotson le si avvicinò giusto
in tempo per evitare che svenisse. La ragazza si riprese subito, e rise; ma appena l'ispettore andò via ebbe un
mancamento, e divenne così pallida che Phillotson la condusse nella propria stanza e le diede del brandy per tirarsi su.
Lei notò che le teneva la mano.
«Avreste dovuto dirmelo», ansimò con petulanza, «che una visita a sorpresa dell'ispettore era imminente! E
adesso cosa farò! Scriverà alla direzione riferendo che sono una buona a nulla, e la mia carriera sarà rovinata per
sempre!».
«Non lo farà, mia cara ragazza. Siete l'insegnante migliore che abbia mai avuto!».
Egli la guardò con tale affetto che Sue si commosse, pentendosi di averlo rimproverato. Appena si sentì
meglio, tornò a casa.
Nel frattempo, Jude attendeva con impazienza il venerdì. Sia il mercoledì che il giovedì precedenti era stato
preso dal desiderio di rivederla tanto da incamminarsi dopo cena lungo la strada che portava al villaggio; per poi tornare
a casa e dover riconoscere di non essere in grado di concentrarsi sui libri. Il venerdì, dopo essersi vestito come pensava
sarebbe piaciuto a Sue, e aver bevuto in fretta del tè, uscì di corsa, malgrado piovesse. Gli alberi sopra la sua testa
accrescevano l'oscurità e gocciolavano malinconicamente su di lui, suggerendogli tristi presentimenti - illogici
presentimenti, ché, pur amandola, sapeva bene che non poteva essere per lei più di quello che era.
Nel girare l'angolo per entrare nel villaggio, la prima immagine che si presentò ai suoi occhi fu quella di due
persone sotto un unico ombrello che uscivano dal cancello della parrocchia. Si trovava troppo indietro perché loro
potessero notarlo, ma capì subito che si trattava di Sue e Phillotson. Quest'ultimo le riparava il capo con l'ombrello, ed
erano stati ovviamente a far visita al parroco - forse per motivi legati all'attività della scuola. Mentre camminavano per
il sentiero bagnato e deserto, Jude vide Phillotson cingere la vita della ragazza con il braccio. Sue lo scostò con
gentilezza ma il maestro insistette, e lei lo lasciò fare, guardandosi intorno con apprensione. Non guardò, però, dietro di
sé e dunque non vide Jude, che si accasciò dentro a un cespuglio, come colpito da un fulmine. Lì rimase nascosto finché
i due non raggiunsero la casa di Sue dove lei entrò, mentre Phillotson proseguì per la scuola.
«Oh, ma è troppo vecchio per lei - troppo vecchio!», esclamò Jude con il dolore angoscioso di un amore
disperato, impossibile.
Non poteva intromettersi. Non apparteneva ad Arabella? Non se la sentiva più di recarsi all'appuntamento e
tornò a Christminster. Ogni passo sembrava dirgli che in nessun modo doveva ostacolare il maestro. Phillotson aveva
forse vent'anni più di Sue, ma molti matrimoni in cui vi era stata questa differenza d'età erano stati felici. Quanto a se
stesso, il pensiero che non vi sarebbe stata nessuna intimità tra sua cugina e il maestro se non grazie a lui, aggiungeva
una nota ironica al suo dolore.
CAPITOLO VI
La vecchia e acida zia di Marygreen era malata e la domenica dopo Jude andò a farle visita - una visita frutto di
una lotta vittoriosa sulla tentazione di deviare per il villaggio di Lumsdon e mendicare un avvilente colloquio con la
cugina, nel quale avrebbe dovuto tacere le parole che più aveva a cuore, e tenere per sé ciò che aveva visto e che tanto
lo torturava.
La zia era ormai confinata a letto, e Jude dedicò gran parte del poco tempo che passò con lei ad assisterla. La
piccola attività del forno era stata ceduta a un vicino, e tra il ricavato della vendita e i suoi risparmi la zia aveva tutto il
necessario e poteva permettersi di tenere con sé una vedova del villaggio che l'accudisse. Fu soltanto quando ormai era
quasi in procinto di partire che Jude trovò un attimo di calma per parlarle, e il discorso cadde impercettibilmente sulla
cugina.
«Sue è nata qui?».
«Sì - in questa stanza. I genitori vivevano qui all'epoca. Perché me lo chiedi?».
«Oh - solo per curiosità».
«Non dirmi che l'hai vista!», sbottò la vecchia severamente. «Che ti avevo detto?».
«Di... di non vederla».
«Le hai parlato?».
«Sì».
«Allora devi smetterla. Suo padre l'ha cresciuta insegnandole ad odiare la famiglia di sua madre; e lei non
guarderà certo con simpatia a un semplice operaio come te - una ragazza di città quale è. Non mi è mai stata troppo
simpatica. Una ragazzina impertinente, ecco cos'era, con i nervi sempre a fior di pelle. Gliene ho date molte volte per la
sua impertinenza. Pensa che un giorno camminava nello stagno dopo essersi tolta scarpe e calze, e con le sottane sopra
il ginocchio, e prima che potessi gridarle di vergognarsi mi disse: "Va via, zia! Non è uno spettacolo per occhi
innocenti!"».
«Ma era una bambina, allora».
«Avrà avuto dodici anni».
«Sì, ti capisco. Ma ora che è più grande, ha un carattere dolce e meditativo, e una sensibilità come...».
«Jude!», gridò la zia, sedendosi di scatto sul letto. «Non avrai perso la testa per lei?».
«No, no, certo che no».
«Il tuo matrimonio con quella donna, Arabella, è stato il danno peggiore che un uomo potesse fare a se stesso,
mettendocela tutta. Ma per fortuna se ne è andata all'altro capo del mondo e speriamo che non torni più a tormentarti.
Ma peggio sarebbe se tu, legato e vincolato come sei, andassi a innamorarti di Sue. Se tua cugina è gentile con te,
prendi la sua gentilezza per quel che vale. Qualsiasi cosa al di là di un normale affetto tra parenti sarebbe una pura follia
da parte tua. Se è una ragazza di città e non ha scrupoli, può portarti alla rovina».
«Non parlare male di lei, zia! Ti prego, non farlo!».
Jude fu sollevato dall'ingresso dell'amica e infermiera della zia che doveva essere stata ad origliare la
conversazione, poiché iniziò a fare commenti sugli anni passati, introducendo Sue Bridehead nei suoi ricordi. Raccontò
di come Sue fosse una strana ragazzina al tempo in cui frequentava la scuola del villaggio dall'altro lato del prato di
fronte a casa, prima che il padre si trasferisse a Londra - di come, quando il parroco organizzava delle letture e delle
recite, apparisse sul palco, la più minuta di tutte le sue compagne, «con il grembiulino e le scarpe bianche, e una cinta
rosa intorno alla vita», per recitare l'Excelsior, e Ci fu un rumore di baldoria quella notte, e Il corvo; e recitasse
aggrottando le sopracciglia e con una espressione tragica, rivolgendosi all'aria vuota di fronte a sé quasi una creatura in
carne ed ossa fosse là Spettrale, tetro e antico corvo, vagante dalle rive della notte,
Dimmi il tuo nobile nome sulle rive plutoniane della notte!
«Sapeva rendere così bene quella carogna di uccello», confermò riluttante la zia malata, «mentre se ne stava lì
con la cinta rosa e il resto, che ti sembrava quasi di vedertelo davanti. Anche tu, Jude, da piccolo avevi questa tendenza
a immaginare le cose davanti a te».
La vicina di casa raccontò anche altre particolarità di Sue:
«Non si può dire fosse proprio un monellaccio; ma faceva cose che di solito fanno solo i ragazzi. L'ho vista
gettarsi a capofitto, su una tavola di legno, giù per la discesa nei pressi dello stagno, i riccioli al vento, alla testa di una
ventina di ragazzi che si stagliavano contro il cielo come figure dipinte su vetro, e subito risalire senza fermarsi. Tutti
maschietti tranne lei; e una volta che l'applaudirono, disse "Non fate gli scemi, ragazzi", e subito corse a casa».
Questi ricordi di Sue ebbero su Jude solo l'effetto d'intristirlo più di quanto già non fosse all'idea di non poterla
corteggiare, e fu col cuore grosso che quel giorno lasciò la casa della zia. Gli sarebbe piaciuto poter dare un'occhiata
alla scuola per vedere la classe dove da bambina Sue si era fatta tanto onore, ma si controllò e proseguì per la sua strada.
Essendo una domenica sera, alcuni abitanti del villaggio che lo avevano conosciuto da bambino formavano un
crocchio vestiti con i loro abiti da festa. Uno di loro salutò Jude facendolo trasalire:
«Ci sei riuscito, insomma!».
Jude mostrò di non capire.
«Ma sì, ad andare a vivere nella città della cultura - la "Città della luce" di cui parlavi da ragazzo! È come
l'immaginavi?».
«Sì, e meglio!».
«Una volta ci sono stato per un'oretta ma non è che abbia visto niente di particolare; edifici cadenti, per metà
chiese e per metà ospizi, e ben poca vita».
«Non è vero, John; c'è molta più vita di quanto non appaia passeggiando per le strade. È un centro unico del
pensiero e della religione - il granaio intellettuale e spirituale del paese. Quel silenzio e quell'assenza di vita non sono
altro che l'immobilità del moto perpetuo - il riposo di un filatoio, per dirla con la metafora di un noto scrittore».
«Sarà così, non discuto. Ma nel paio d'ore che ho passato là non mi è sembrato un granché, tanto che entrai in
un'osteria e ordinai una caraffa di birra e pane e formaggio, restando lì fino al momento di tornare a casa. Ormai sarai
entrato in un collegio, immagino?».
«Magari!», disse Jude. «In questo non ho fatto molti progressi».
«E come è possibile?».
Jude si batté la tasca con la mano.
«Proprio come pensavamo! Quei posti non sono per gente come noi - solo per coloro che sono pieni di soldi».
«Qui ti sbagli», disse Jude con una certa amarezza. «Sono anche per noi!».
Pure, l'osservazione bastò per distogliere l'attenzione di Jude dal mondo immaginario che aveva abitato negli
ultimi tempi, nel quale la sua mente era stata assorbita da una figura astratta, più o meno lui stesso, in una sublimazione
di arte e scienza, nella certezza che lo avrebbero chiamato o eletto a un seggio del paradiso dei colti. Jude si trovava ora
a considerare le proprie prospettive alla luce di una fredda obiettività. Negli ultimi tempi aveva provato una crescente
insoddisfazione per i suoi studi - quello dei drammaturghi greci in particolare. Era così stanco a volte, dopo una giornata
di lavoro, che non riusciva a mantenere l'attenzione critica necessaria per una seria applicazione. Sentiva che gli
mancava un precettore - un amico al suo fianco che gli spiegasse in un attimo ciò che a volte lui riusciva ad apprendere
da libri ostici e noiosi solo dopo un mese di duro lavoro.
Era assolutamente indispensabile che analizzasse la situazione in modo un po' più concreto di quanto aveva
fatto in passato. Che senso aveva, dopo tutto, usare il tempo libero in una vaga impresa chiamata «studio privato» senza
occuparsi per nulla della sua fattibilità?
«Avrei dovuto pensarci prima», si disse tornando a casa. «Sarebbe stato meglio non imbarcarsi mai in questo
progetto piuttosto che portarlo avanti senza vedere chiaramente dove stavo andando o a cosa stavo puntando... Questo
gironzolare fuori dalle mura dei collegi, quasi in attesa di un braccio teso che mi tiri dentro, non serve a nulla! Devo
procurarmi delle informazioni precise».
Fu così che la settimana dopo iniziò a cercarle. Quella che in un primo momento parve un'occasione gli si
presentò un pomeriggio quando vide un signore attempato, che gli era stato indicato come il rettore di uno dei collegi,
passeggiare lungo il sentiero di un parco pubblico vicino alla panchina dove per caso Jude era seduto. Mentre il signore
si avvicinava, lo scrutò ansiosamente. Sembrava benevolo, comprensivo, e tuttavia un poco riservato. A ripensarci
meglio, parve a Jude che non poteva andargli incontro e rivolgergli la parola; ma fu abbastanza colpito dall'incidente
per pensare che sarebbe stato saggio esporre le proprie difficoltà per iscritto in una lettera da inviare ad alcuni professori
tra i più stimati e saggi, per chiedere un consiglio.
Nelle due settimane successive fece dunque in modo di trovarsi in quei punti della città che gli consentissero di
intravedere alcuni dei più noti tra i rettori, i presidi e le altre autorità dell'università; e sulla base di queste rapide
occhiate giunse a selezionarne cinque la cui fisionomia gli faceva supporre che fossero persone disponibili e
lungimiranti. A costoro scrisse una lettera, spiegando brevemente le sue difficoltà, e chiedendo la loro opinione sulla
sua situazione così priva di prospettive.
Impostate le lettere, Jude iniziò mentalmente a criticarle, tanto da desiderare di non averle mai scritte. «È una
di quelle richieste indiscrete, volgari e impudenti così comuni al giorno d'oggi», pensò. «Non potevo pensarci prima
invece di scrivere a estranei in quel modo? Fino a prova contraria, per loro potrei essere un imbroglione, uno
scansafatiche, un caratteraccio... E forse lo sono, dopotutto!».
E tuttavia non smise mai di sperare in una risposta a questa sua ultima possibilità di salvezza. Attese giorno
dopo giorno, dicendo a se stesso che era del tutto assurdo attendere, eppure continuando a farlo. Nel frattempo, entrò in
agitazione per delle notizie riguardo a Phillotson. Il maestro andava via dalla scuola vicino Christminster per trasferirsi
in una più grande nel Midwessex. Cosa significasse, come avrebbe influito su sua cugina e se, come sembrava
plausibile, si trattava di una scelta compiuta dal maestro per accrescere le proprie entrate, dovendo queste essere
sufficienti per due persone e non più una sola, non sapeva dire. E i teneri rapporti tra il maestro e la giovane, della quale
Jude era così follemente innamorato, rendevano ripugnante ai suoi occhi l'idea di rivolgersi al suo amico di un tempo
per un consiglio.
Intanto le personalità accademiche cui aveva scritto si erano ben guardate dal rispondergli e il giovane fu
abbandonato a se stesso, come in passato, con in più la delusione di una speranza venuta meno. Per via indiretta, presto
capì chiaramente ciò che da tempo sospettava non senza disagio, e cioè che l'unica via per lui praticabile fosse di
qualificarsi per una borsa di studio. Ma per far ciò, sarebbe stato necessario un grande impegno oltre al possesso di
considerevoli doti naturali. Per quanto ampie e profonde fossero le sue conoscenze, era pressoché impossibile per una
persona che aveva studiato per proprio conto, pur per dieci lunghi anni, di riuscire a competere con coloro che per tutta
la vita avevano studiato sotto la guida di ottimi maestri e seguendo programmi ben definiti.
L'altra strada, quella di pagarsi la retta con i suoi soldi, gli pareva l'unica veramente accessibile a persone come
lui, non fosse che per la difficoltà materiale di fare una cosa del genere. Sulla base delle informazioni ricevute, Jude
cercò di misurare l'entità di questo ostacolo materiale, e con grande costernazione giunse alla conclusione che,
calcolando i soldi che nella migliore delle ipotesi sarebbe stato in grado di risparmiare, gli sarebbero occorsi quindici
anni prima di poter essere nella condizione di presentare domanda al rettore di uno dei collegi e accedere a un esame di
ammissione. Era un'impresa senza speranza.
Si rese conto del curioso e ingannevole fascino che i dintorni di quel luogo avevano esercitato su di lui.
Trasferirsi a vivere laggiù, camminare tra chiese e collegi assorbendone il genius loci, alla sua giovinezza sognante era
parsa la cosa ovvia e ideale da fare, mentre l'alone di quel luogo all'orizzonte gliene mostrava il fascino. «Che io possa
recarmi laggiù», si era detto con la leggerezza di Crusoe sulla sua grande barca, «e il resto sarà solo una questione di
tempo e di energia». Sarebbe stato molto meglio da ogni punto di vista se non fosse mai giunto a contatto con quei
luoghi così ingannevoli, e si fosse recato invece in qualche affollata città commerciale con il solo obiettivo di fare
fortuna col proprio lavoro, per poi ripensare al suo progetto con maggiore realismo. Nel frattempo una cosa gli era
chiara, che il suo piano, come una iridescente bolla di sapone, a contatto di una analisi ragionata si era dissolto nel nulla.
Guardò alla sua vita passata nella prospettiva degli ultimi anni, e il suo pensiero fu simile a quello di Heine quando
scrisse:
Sopra gli occhi ispirati e ardenti della gioventù
Vedo levarsi il berretto variopinto e ironico del buffone!
Fortunatamente, non aveva avuto l'occasione di far pesare la propria delusione nella vita della cara Sue,
coinvolgendola nel suo fallimento. E i penosi particolari della presa di coscienza dei propri limiti dovevano ora esserle
risparmiati il più possibile. Dopotutto, lei non conosceva che una piccola parte della lotta miserabile da lui ingaggiata
senza alcuna preparazione, povero e imprevidente.
Non dimenticò mai quel pomeriggio in cui si era risvegliato dal suo sogno. Non sapendo cosa fare, si recò nella
stanza ottagonale del lucernario di un teatro dalla forma insolita, costruito nel mezzo di quella antica e singolare città.
La stanza aveva finestre tutt'intorno dalle quali si poteva ammirare la vista dell'intera città e dei suoi edifici. Gli occhi di
Jude passarono in rassegna le diverse immagini del panorama, meditabondi, tristi, eppure decisi. Quegli edifici, con i
legami e i privilegi di cui erano espressione, non erano per lui. Dal tetto spiovente della grande biblioteca in cui non
aveva quasi mai avuto tempo di entrare, il suo sguardo vagò sulle guglie, i palazzi, i timpani, le strade, le chiese, i
giardini, i cortili, che componevano l'insieme di quel panorama senza eguali. Jude comprese che il suo destino non era
tra quegli edifici, ma tra i lavoratori manuali nello squallido sobborgo dove lui stesso viveva, non riconosciuto come
parte della città da visitatori e panegiristi, ma senza il quale, però, gli studiosi non avrebbero potuto leggere né i
pensatori vivere.
Guardò oltre la città alla campagna sconfinata, agli alberi che nascondevano lei, la cui presenza era stata in un
primo momento il sostegno del suo cuore, e la cui perdita adesso era una tortura che lo faceva impazzire. Non fosse
stato che per questo colpo, avrebbe potuto sopportare il proprio destino. Con Sue come compagna, avrebbe potuto
rinunciare alle proprie ambizioni con un sorriso. Senza di lei, era inevitabile che la reazione al lungo sforzo cui aveva
sottoposto se stesso si ritorcesse contro di lui in modo disastroso. Phillotson era senza dubbio passato attraverso una
delusione intellettuale simile a quella che egli provava adesso. Ma a ricompensare il maestro vi era poi stato il conforto
della dolce Sue, mentre per lui non c'era alcuna consolazione.
Scendendo per strada, vagò incurante di dove andava finché giunto a un'osteria, vi entrò. Bevve svariati
bicchieri di birra uno dopo l'altro, e quando uscì era notte. Alla luce tremolante dei lampioni, barcollò verso casa per
cenare, e poco dopo essersi seduto a tavola la padrona di casa gli consegnò una lettera, appena arrivata. La posò sul
tavolo quasi consapevole della sua ipotetica importanza, e osservando la busta, Jude notò subito che portava il timbro di
uno dei collegi ai cui rettori aveva scritto. «Una, alla fine!», esclamò.
Il messaggio era breve, e non esattamente quello che egli avrebbe desiderato; anche se il rettore lo aveva scritto
di suo pugno. Diceva:
COLLEGIO DI BIBLIOLL
Egregio signore,
ho letto la vostra lettera con interesse, e basandomi sulla vostra descrizione di voi stesso come di un operaio,
mi permetto di osservare che avrete una possibilità di successo molto maggiore nella vita restando nel vostro ambiente
sociale e applicandovi nel vostro lavoro, che seguendo qualsiasi altra strada. Questo, dunque, è il consiglio che vi do.
Cordiali saluti,
T. TETUPHENAY
Al sig. J. Fawley, scalpellino.
Questo consiglio così atrocemente sensato esasperò Jude. Lo aveva sempre saputo. Sapeva che era vero.
Eppure dopo dieci anni di fatiche gli sembrava uno schiaffo in faccia, e l'effetto che ebbe su di lui in quel momento fu
di farlo alzare all'istante da tavola, invece che per andare a leggere come al solito, per uscire di nuovo per strada. Si
sedette a una bettola e bevette tutto d'un fiato un paio di bicchieri, per poi girovagare inconsciamente fino a che non
giunse in un luogo chiamato il Quadrivio nel mezzo della città, dove si mise a fissare distrattamente i gruppi di persone
presenti come se fosse in catalessi finché, tornando in sé, attaccò discorso con il poliziotto di guardia in quel luogo.
Il poliziotto sbadigliò, stirò le braccia, si sollevò un pollice e mezzo sulla punta dei piedi, sorrise, e guardando
Jude divertito gli disse: «Siete stato a bere tutta la sera, giovanotto».
«No, ho appena cominciato», Jude rispose con cinismo.
Per quanto fosse ubriaco, la mente era ancora abbastanza lucida. Udì solo in parte le ulteriori osservazioni del
poliziotto, poiché gli venne da chiedersi quali persone, ormai del tutto dimenticate e che come lui avevano lottato contro
un destino avverso, avessero sostato a quel crocevia. Quel luogo racchiudeva una maggior quantità di storia del più
antico dei collegi della città. Era letteralmente brulicante, stratificato, dalle ombre umane di gente passata di lì in
momenti tragici, comici, farseschi; espressioni reali della massima intensità. Al Quadrivio, la gente si era fermata a
parlare di Napoleone, della perdita dell'America, dell'esecuzione di re Carlo, del rogo dei Martiri, delle Crociate, della
Conquista Normanna, forse della venuta di Cesare. Lì i due sessi si erano incontrati per amarsi, odiarsi, accoppiarsi,
lasciarsi; avevano atteso e sofferto l'uno per l'altro; avevano trionfato l'uno sull'altro; si erano maledetti per gelosia,
amati di nuovo nel perdono.
Iniziò a rendersi conto che la vita in città costituiva un libro dell'umanità infinitamente più palpitante, varia e
completa di quella universitaria. Questi uomini e queste donne con la loro lotta continua per l'esistenza erano la realtà di
Christminster, anche se ben poco sapevano di Cristo o della Chiesa. L'ironia della situazione era anche in questo. La
popolazione fluttuante di studenti e professori, che in un certo senso conosceva entrambi, non era affatto di
Christminster inteso come un luogo specifico.
Guardò l'orologio, e inseguendo questa nuova idea proseguì a camminare finché non giunse a un locale
pubblico, dove era in corso un concerto all'aperto. Entratovi, lo trovò pieno di commessi di negozio e di ragazze, di
soldati, apprendisti, ragazzi di undici anni che già fumavano, e donne di facili costumi del genere più rispettabile e
dilettantesco. Alla fine aveva scoperto la vera vita di Christminster. Suonava una banda, la gente si accalcava nei
paraggi, di tanto in tanto qualcuno saliva sul palco e cantava una canzone comica.
Lo spirito di Sue sembrava aleggiare intorno a lui e impedirgli di amoreggiare e bere con quelle ragazze allegre
che cercavano di attaccare discorso - desiderose di un po' di svago. Alle dieci uscì, e decise di tornare a casa facendo un
giro più lungo per passare davanti ai cancelli del collegio il cui rettore gli aveva appena scritto quella lettera.
I cancelli erano chiusi, e guidato da un impulso Jude tirò fuori dalla tasca il gessetto che come ogni operaio
portava sempre con sé e scrisse sul muro:
«Ma anch'io ho un cuore come voi, e chi non sa tali cose?».
CAPITOLO VII
Quel gesto di disprezzo sollevò il suo stato d'animo, e il giorno dopo egli rise della propria presunzione. Ma era
una risata amara. Rilesse la lettera del rettore e la saggezza delle parole di costui, che in un primo momento lo aveva
esasperato, ora aveva su di lui un effetto raggelante e deprimente. Si sentiva proprio uno stupido.
Privato sia dell'oggetto dell'intelletto che di quello del cuore, non riusciva a lavorare. Ogniqualvolta si sentiva
riconciliato al fallimento dei suoi progetti di studio, il rapporto senza prospettive con Sue giungeva a turbare la sua
serenità. Che l'unico essere a lui affine fosse perso per via del suo matrimonio era un pensiero che gli ritornava in mente
con crudele persistenza fino a che, non riuscendo a sopportarlo più a lungo, si tuffò di nuovo in cerca di distrazione
nella vera vita di Christminster. La andò a cercare in una oscura locanda dal soffitto basso, in fondo a un vicolo ben
noto a certi notabili del luogo, che in tempi più felici lo avrebbe interessato solo per la sua originalità. Lì passò più o
meno tutta la giornata, convinto di essere un vizioso da cui era inutile attendersi alcunché.
La sera iniziarono ad arrivare alla spicciolata gli avventori del locale, mentre Jude restava seduto in un angolo,
benché non avesse più un soldo e in tutta la giornata non avesse mangiato che un biscotto. Osservò gli altri avventori
con l'equanimità e la filosofia di uno che ha bevuto a lungo e metodicamente, e iniziò a chiacchierare con alcuni di essi:
vale a dire Tinker Taylor, un fabbro disoccupato di oggetti ecclesiastici che da giovane pareva aver avuto una certa
inclinazione alla religione, ma adesso bestemmiava in continuazione; un banditore d'asta col naso rosso; due scalpellini,
come Jude, specializzati nello stile gotico, chiamati zio Jim e zio Joe. Erano presenti anche alcuni impiegati,
l'apprendista di un sarto per prelati, due signore che ostentavano un carattere morale dalla solidità mutevole, a seconda
di dove erano, soprannominate Felicità e Lentiggini; alcuni allevatori di cavalli «conosciuti» negli ambienti delle corse,
un attore di teatro ambulante e due giovani scapestrati che si rivelarono essere studenti universitari, entrati senza dare
nell'occhio per incontrare un tipo che doveva procurar loro dei cani da combattimento, che stavano seduti a bere e a
fumare delle pipe corte insieme alla gente delle corse di cui si è già detto, guardando di tanto in tanto l'orologio.
Si parlava del più e del meno. Si criticava la società di Christminster, commiserando in particolare cattedratici,
magistrati e altre personalità per i loro limiti, e ognuno diceva la sua senza pregiudizi e in modo disinteressato su come
avrebbero dovuto gestire se stessi e i loro affari al fine di essere rispettati sul serio.
Con la presunzione, la sfrontatezza e la disinvoltura di un ubriaco con un grande cervello, Jude esponeva le
proprie opinioni con arroganza; e gli scopi della sua vita essendo stati quelli che erano stati per così tanti anni, qualsiasi
cosa di cui gli altri parlassero, per una sorta di reazione automatica veniva da lui riportata al tema dell'università e degli
studi, con un'insistenza sulla vastità della propria cultura che se fosse stato sobrio gli sarebbe parsa penosa.
«Non mi importa nulla», diceva, «di tutti i rettori, governatori, professori, studiosi dell'università o di avere una
maledetta laurea in lettere! Quel che so è che farei loro mangiare la polvere se me ne dessero l'opportunità, e gli farei
vedere un paio di cose che neppure s'immaginano!».
«Senti, senti!», dissero i due studenti dall'angolo dove erano seduti e stavano parlando tra loro di cani da
combattimento.
«Ho sentito che ti sono sempre piaciuti i libri», disse Tinker Taylor, «e non discuto quello che dici. Ma nel
caso mio è diverso. Io ho sempre pensato che s'impara di più fuori dai libri che dentro; e mi sono comportato di
conseguenza, o non sarei l'uomo che sono».
«Immagino che tu punti alla carriera ecclesiastica», disse zio Joe. «Se sei uno studioso tale da avere ambizioni
così elevate, perché non ci dai una prova della tua cultura? Sapresti recitare il Credo in latino, ad esempio? Così
facevano un tempo al mio paese per metterti alla prova».
«Ci mancherebbe pure!», disse Jude con aria di sufficienza.
«Ma guarda che presuntuoso!», esclamò una delle signore.
«Sta' zitta, Felicità!», disse uno dei due studenti. «Silenzio!». Poi trangugiò il liquore nel suo bicchiere, batté
con esso sul tavolo, e annunciò: «Il gentiluomo all'angolo reciterà gli articoli del Credo, in latino, a edificazione della
compagnia».
«Non lo farò!», disse Jude.
«Sì, provaci!», lo esortò il sarto.
«Ma se non è capace!», disse zio Joe.
«Giuro che sono capace!», disse Jude. «E va bene, datemi un whisky, e lo reciterò tutto d'un fiato».
«Vada per il whisky», disse lo studente, gettando i soldi sul bancone.
Il barista versò il liquore con l'aria di una persona obbligata a vivere tra animali di una specie inferiore, e
allungò il bicchiere a Jude che, dopo averne bevuto il contenuto, si alzò in piedi e iniziò a declamare, senza esitazioni:
«Credo in unum Deum, Patrem onnipotentem, Factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium».
«Bravo! Un latino eccellente!», esclamò uno degli studenti, che a dire il vero non aveva la più pallida idea del
significato di quelle parole.
Nella bettola regnava il silenzio, la stessa cameriera non osava muoversi, e la voce di Jude rimbombò sonora
fin nella saletta interna, dove il padrone stava riposando, facendolo uscire a vedere cosa stesse accadendo. Jude aveva
declamato senza interrompersi, e ora continuava:
«Crucifixus etiam pro nobis: sub Pontio Pilato passus, et sepultus est. Et resurrexit tertia die, secundum
Scripturas».
«Ma questo è il Niceno», ghignò l'altro studente. «E noi vogliamo quello degli Apostoli!».
«Non l'avevate chiesto! E anche il più stupido, tranne voi due, sa che quello di Nicea è il credo più storico!».
«Lasciatelo finire! Lasciatelo finire!», intervenne il banditore.
Ma la mente di Jude cominciava a offuscarsi, ed egli non riusciva a continuare. Si mise una mano sulla fronte e
il volto gli si contrasse in un'espressione di dolore.
«Dategli un altro bicchiere - così si tira su e arriverà alla fine», disse Tinker Taylor.
Qualcuno tirò fuori tre penny, diedero il bicchiere a Jude, che allungò una mano per prenderlo senza neanche
guardarlo, lo trangugiò in un sol sorso, e proseguì subito rinfrancato, alzando il tono della voce man mano che si
avvicinava alla fine, alla maniera del prete che diriga le preghiere di una congregazione:
«Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit. Qui cum Patre et Filio
simul adoratur et conglorificatur. Qui locutus est per prophetas.
«Et unam Catholicam et Apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum Baptisma in remissionem peccatorum. Et
expecto Resurrectionem mortuorum. Et vitam venturi saeculi. Amen».
«Bravo!», dissero in molti, apprezzando l'ultima parola, che era anche la prima e l'unica che avevano
compreso.
A quel punto Jude parve schiarirsi la mente dai fumi dell'alcool, e fissò i suoi interlocutori:
«Un branco di ignoranti, ecco che siete!», gridò. «Chi di voi sa se l'ho detto bene o se mi sono sbagliato? Potrei
avervi raccontato la storia della figlia dell'acchiappatopi in tedesco, per quanto ne sanno le vostre teste inebetite! Ma
guarda come mi sono ridotto - in quale compagnia mi trovo!».
Il padrone, cui già una volta avevano ritirato la licenza per aver fatto entrare delle persone poco
raccomandabili, temendo una rissa passò dall'altra parte del bancone; ma Jude, nel suo improvviso barlume di ragione,
aveva voltato loro le spalle in segno di disprezzo ed era uscito, mentre dietro di lui la porta del locale sbatteva con un
colpo soffocato.
Si precipitò giù per il vicolo, prese il viale che attraversava la città e lo percorse fino all'incrocio con la strada
provinciale, lasciandosi dietro ogni rumore dei compagni da cui si era appena separato. Continuò a camminare, in preda
al desiderio infantile di vedere l'unico essere al mondo dal quale sembrava possibile rifugiarsi - un desiderio
irragionevole, della cui irresponsabilità al momento non si rendeva conto. Nel giro di un'ora, quand'erano circa le undici
di sera, giunse al villaggio di Lumsdon, e dirigendosi a casa di Sue vide che la luce era accesa in una delle stanze al
pianterreno, che indovinò essere, come infatti era, quella della cugina.
Avvicinatosi alla finestra, bussò sul vetro chiamandola con impazienza: «Sue! Sue!».
Evidentemente, lei riconobbe la voce, poiché la luce scomparve dalla stanza, e dopo un paio di secondi Sue
tolse il catenaccio dalla porta, la aprì, ed apparve con in mano una candela.
«Sei tu Jude? Sì, sei tu! Oh, caro cugino, cosa succede?».
«Oh, sono... non potevo fare a meno di venire, Sue!», egli disse lasciandosi cadere sui gradini della porta.
«Sono così malvagio, Sue - ho il cuore spezzato, e non riuscivo a sopportare più la mia vita come era! Così ho iniziato a
bere e a bestemmiare, o quasi, e a parlare di cose sacre in luoghi disdicevoli - ripetendo, solo per fare lo spaccone,
parole che non dovrebbero essere mai pronunciate in modo irriverente! Oh, fai di me quello che vuoi, Sue - uccidimi non importa! Solo non odiarmi e non disprezzarmi come fa il resto del mondo!».
«Ma tu stai male, povero caro! No, non ti disprezzo; certo che no! Entra a riposarti, e lascia che pensi cosa
posso fare per te. Ora appoggiati e non preoccuparti». Reggendo con una mano la candela e con l'altra lui, lo portò
dentro, e lo fece sedere nell'unica poltrona disponibile in quella casa arredata così miseramente, allungandogli le gambe
una sull'altra e tirandogli via gli stivali. Tornando pian piano a essere sobrio, Jude riuscì solo a dire: «Cara, cara Sue!»,
con voce rotta dal dolore e dal pentimento.
Lei gli chiese se voleva qualcosa da mangiare, ma egli scosse la testa. Poi, raccomandandogli di mettersi a
dormire, e promettendogli di scendere da lui di buon'ora a preparargli la colazione, gli augurò la buonanotte e salì di
sopra.
Quasi subito, egli cadde in un sonno profondo e si svegliò solo all'alba del giorno dopo. Lì per lì, non ricordava
dove fosse, ma un po' alla volta la situazione gli si chiarì, e gli apparve in tutto il suo orrore. Sue aveva conosciuto il
lato peggiore di lui - il peggiore di tutti. Come avrebbe potuto guardarla in faccia, ora? Presto sarebbe scesa a preparare
la colazione, come aveva promesso, e lo avrebbe trovato là con tutta la sua vergogna. Il solo pensiero che ciò potesse
accadere gli era insopportabile, e infilatosi gli stivali senza far rumore, prese il cappello dal chiodo su cui era stato
appeso e si dileguò in silenzio.
La sua idea fissa era di fuggire in qualche luogo oscuro in cui nascondersi, e magari pregare; e l'unico luogo
che gli veniva in mente era Marygreen. Passò da casa a Christminster, dove trovò ad aspettarlo una lettera di
licenziamento del suo principale, e raccolte le sue cose volse le spalle alla città che era stata per lui una tale spina nel
fianco, per dirigersi nel sud del Wessex. Era senza un soldo, avendo per fortuna lasciato intatti i suoi pochi risparmi in
una banca di Christminster. Per recarsi a Marygreen non aveva quindi altro mezzo di locomozione che le proprie
gambe; e dovendo percorrere una ventina di miglia, ebbe tutto il tempo di completare lo smaltimento della sbornia della
notte precedente.
Ad Alfredston giunse la sera. Qui impegnò il panciotto, poi uscì per un paio di miglia dalla città, passò la notte
sotto un covone di fieno. Si alzò all'alba, scosse dai vestiti i fili di paglia, e si rimise in cammino; prese la lunga strada
bianca che s'inerpicava su per la collina che aveva avvistato da lontano, e giunto in cima oltrepassò la pietra miliare su
cui aveva inciso le proprie speranze anni prima.
Arrivò all'antico villaggio all'ora di colazione. Stanco e infangato, ma assolutamente lucido di mente, si sedette
nei pressi del pozzo, pensando che doveva sembrare un povero cristo. Scorgendo un secchio d'acqua lì accanto, si bagnò
il viso e proseguì per la casetta della prozia, che trovò mentre faceva colazione a letto assistita dalla donna che viveva
con lei.
«Cosa... ti hanno licenziato?», gli chiese, guardandolo con occhi infossati, sotto palpebre pesanti come
coperchi di pentole, non venendo in mente nessuna altra causa di un aspetto così miserevole a una che da quando era
nata aveva dovuto fare i conti con la realtà concreta della vita.
«Sì», disse Jude in tono grave.
Rinfrancato da una buona colazione, salì nella sua camera di un tempo e si stese sul letto in maniche di
camicia, come era costume tra gli artigiani. Si addormentò per un poco, e quando si svegliò era come se si fosse
svegliato all'inferno. Era l'inferno -«l'inferno di chi è consapevole di aver fallito» nelle ambizioni personali come in
amore. Ripensò all'abisso precedente in cui era precipitato prima di lasciare questa parte del paese; gli era parso, allora,
di non poter scendere più in basso, e invece era accaduto. Allora era crollato il baluardo esterno delle sue speranze;
questa volta si trattava della sua seconda linea di difesa.
Se fosse stato una donna, avrebbe urlato per la tensione nervosa che stava vivendo. Ma quel sollievo era negato
alla sua virilità, egli strinse i denti per la disperazione, e ai lati della bocca come tra le sopracciglia gli vennero delle
rughe simili a quelle di Lacoonte.
Un vento malinconico soffiava tra gli alberi e risuonava per le cappe dei camini come le note a pedale di un
organo. Ogni foglia d'edera che fosse cresciuta più su del muro del cimitero lì vicino, rimasto senza chiesa ed ora
abbandonato, urtava contro la vicina senza complimenti, e la banderuola della chiesa in stile gotico vittoriano aveva già
iniziato a cigolare. Pure, pareva non fosse sempre il vento al di fuori a produrre quei profondi mormorii; era una voce.
Poco dopo ne indovinò la provenienza: il curato stava pregando con la zia nella camera adiacente. Ricordò che la zia gli
aveva parlato di lui. In quel momento, le voci tacquero e sembrò che dei passi attraversassero il pianerottolo. Jude si
sedette ed esclamò: «Ehi!».
I passi si diressero verso la porta della sua stanza, che era aperta, e un uomo si affacciò all'interno. Era il
giovane curato.
«Il signor Highridge?», disse Jude. «La zia mi ha parlato tanto di voi. Be' eccomi qui, appena tornato a casa; un
giovane finito male anche se un tempo avevo le migliori intenzioni del mondo. Ora la malinconia mi rende folle, tra il
bere e una cosa e l'altra».
Un po' alla volta, Jude rivelò al curato i progetti e quel che aveva fatto negli ultimi tempi, soffermandosi di
meno, per scelta inconscia, sul lato intellettuale e ambizioso del suo sogno, e più su quello teologico, sebbene fino ad
allora questa fosse stata solo una piccola parte nel suo piano generale di avanzamento.
«Mi accorgo ora di essere stato un folle e che questa follia è in me», aggiunse in conclusione. «Non me ne
importa un'acca del crollo delle mie aspirazioni universitarie. Non inizierei di nuovo neppure se fossi sicuro di riuscire.
Del successo sociale me ne infischio. Ma sento che vorrei fare qualcosa di buono; e rimpiango amaramente la Chiesa, e
di aver perso ogni possibilità che mi ordinasse sacerdote».
Il curato, che era nuovo del circondario, aveva seguito la storia di Jude con crescente interesse, e alla fine
disse: «Se sentite una vocazione vera al sacerdozio, e non negherei a giudicare dalle vostre parole che la sentiate, poiché
sono quelle di un uomo riflessivo e con una buona cultura, potreste entrare nella Chiesa come un licenziato. L'unica
cosa è che dovete decidere una volta per tutte di smettere di bere».
«Non mi costerebbe nulla, se avessi una qualche speranza che mi sostenga».
PARTE TERZA
A Melchester
For there was no other girl, O brigegroom, like her!
Sappho (H.T. Wharton)
CAPITOLO I
Era un'idea nuova - la differenza tra una vita ecclesiastica e altruista e una intellettuale e competitiva. Un uomo
poteva predicare e fare del bene ai suoi simili senza per forza laurearsi a pieni voti a Christminster, o possedere una
cultura superiore alla media. Ad ispirare la vecchia fantasia, culminata nella visione di un vescovado, non era stato un
entusiasmo di tipo etico o teologico, ma un'ambizione mondana mascherata con una tonaca. Jude temeva che il suo
progetto fosse degenerato, anche se poteva non essere ciò da cui aveva tratto spunto, in un'insoddisfazione sociale che
non si fondava sugli istinti più nobili, ma era soltanto un prodotto artificiale della civiltà. I giovani che come lui a quel
tempo erano alla ricerca di se stessi, non si contavano. Il contadino sensuale che mangiava, beveva e trascorreva senza
troppi problemi con la moglie gli anni più belli della vita, era un essere più simpatico di lui.
Ma entrare nella Chiesa senza possedere un titolo di studio, con ogni probabilità gli avrebbe impedito di
ambire a diventare, nella sua carriera ecclesiastica, più di un umile curato in un oscuro villaggio o nel sobborgo di una
città - anche ciò poteva essere a suo modo buono e grande: quella era forse la vera religione, una scelta di penitenza che
si confaceva a un uomo pieno di rimorsi.
La luce favorevole in cui, rispetto alle sue passate intenzioni, si presentava questo nuovo ragionamento rallegrò
Jude, mentre stava là seduto, malandato e solo; e nei giorni immediatamente successivi si può dire che diede il coup de
grâce alla sua carriera intellettuale - una carriera cui aveva dedicato quasi una dozzina d'anni. Tuttavia vi fu un lungo
periodo di stasi nel quale non fece nulla per attuare il suo nuovo desiderio, e occupò il proprio tempo in piccoli lavoretti,
piantando nei villaggi della zona pietre tombali da lui incise, e accettando di essere considerato un fallito della società,
una merce restituita al venditore, dalla mezza dozzina, uno più uno meno, di fattori e altra gente della campagna che si
degnarono di salutarlo.
L'interesse umano del nuovo progetto - e un interesse umano è indispensabile anche al più spirituale e altruista
dei mortali - venne da una lettera di Sue, che aveva un timbro recente. Evidentemente gli aveva scritto in preda all'ansia,
raccontandogli molto poco di sé oltre al fatto di aver superato un certo esame per una borsa di studio e che si sarebbe
iscritta alla Scuola Magistrale di Melchester per completare la propria preparazione per la carriera da lei scelta, in parte
influenzata da lui. A Melchester c'era un Collegio Teologico; Melchester era un luogo tranquillo e riposante, quasi
esclusivamente ecclesiastico nel tono; un paese dove la cultura mondana e l'arguzia intellettuale erano bandite; dove un
sentimento altruistico come il suo forse sarebbe stato apprezzato più di una mente brillante quale a lui mancava.
Poiché era necessario che continuasse il suo mestiere ancora per un certo periodo, mentre studiava quella
teologia che aveva trascurato a Christminster per sgobbare sui classici, non avrebbe fatto meglio a cercarsi un lavoro in
quella città lontana, continuando a studiare? Che il suo eccessivo interesse umano per quel nuovo posto fosse dovuto
interamente a Sue, quando ancor meno di prima era giusto e legittimo che lei lo suscitasse, era una contraddizione etica
che a Jude non sfuggiva. Ma la addebitò alla debolezza umana, e sperò di riuscire a imparare ad amare la ragazza
soltanto come un'amica e una parente.
Stimò che avrebbe potuto mettere a frutto gli anni futuri in modo da prendere gli ordini a trent'anni - un'età che
lo attraeva moltissimo essendo stata quella del suo Maestro quando per la prima volta aveva insegnato in Galilea.
Avrebbe avuto in tal modo tutto il tempo che gli serviva per studiare coscienziosamente e mettersi da parte dei soldi che
gli sarebbero serviti in seguito per pagarsi gli studi al Collegio Teologico.
Il Natale era venuto e passato, e Sue aveva iniziato la Scuola Magistrale di Melchester. Era il periodo peggiore
dell'anno per trovare lavoro, e Jude le aveva scritto proponendole di posporre il proprio arrivo di un paio di mesi, in
attesa che le giornate fossero diventate più lunghe. Lei aveva accettato così prontamente che egli desiderò non
averglielo mai proposto - evidentemente non teneva molto a lui, per quanto non una volta lo avesse rimproverato dello
strano comportamento quando era andato a trovarla quella notte e si era poi dileguato in silenzio. Né aveva mai fatto
parola dei rapporti con il signor Phillotson.
Ma improvvisamente ricevette una lettera appassionata da Sue. Gli diceva di sentirsi sola e triste. Odiava quel
luogo, era peggio del negozio di oggetti ecclesiastici, peggio di qualsiasi cosa. Si sentiva del tutto abbandonata: non
poteva venire subito... anche se quando fosse venuto sarebbe stata in grado di vederlo solo a certe ore per via delle
regole della Scuola che lei trovava quanto mai severe? Era stato il signor Phillotson a consigliarle di andare là, e lei si
pentiva di averlo ascoltato.
Evidentemente la stella di Phillotson era in declino, e di ciò Jude si rallegrò, senza motivo. Fece i bagagli e
partì per Melchester con un cuore leggero che non conosceva da mesi.
Trattandosi di un nuovo inizio, si diede da fare per cercare un albergo dove non si vendessero alcoolici, e ne
trovò uno rispondente a questa descrizione nella strada che partiva dalla stazione. Dopo aver mangiato qualcosa, uscì
nella cupa luce invernale giungendo al ponte della città, dove girò l'angolo verso la Cattedrale. C'era nebbia, e passando
sotto le mura del più armonioso esempio di architettura di tutta l'Inghilterra si fermò a guardare in alto. L'elevato
edificio si vedeva fino all'orlo del tetto, al di sopra del quale il campanile a spirale s'innalzava sempre più sottile e
indistinto, fino a scomparire nella nebbia che ne avvolgeva la cima.
Si accesero i lampioni, e dirigendosi verso il lato ovest della Cattedrale, Jude girò intorno al muro di cinta di
quell'edificio. Considerava un segno di buon auspicio che vi fossero tanti blocchi di pietra poggiati qua e là, poiché ciò
significava che la Cattedrale era sottoposta a un restauro o a una radicale riparazione. Superstizioso com'era nelle sue
convinzioni religiose, gli sembrava un segno della Provvidenza divina che potesse trovare lavoro in abbondanza
nell'arte che praticava, in attesa di una chiamata a più alte responsabilità.
Poi fu invaso da un'ondata di calore al pensiero di quanto vicino si trovasse alla ragazza vivace dagli occhi
luminosi, con una fronte spaziosa, incorniciata da una gran massa di capelli neri; la ragazza dallo sguardo gentile, a
volte dolce in maniera impertinente - un po' come quello delle ragazze che egli aveva visto nelle riproduzioni di quadri
di pittori della scuola spagnola. Lei era lì, all'interno del recinto della Cattedrale, in una delle case di fronte ad essa.
S'incamminò lungo l'ampio sentiero ghiaioso verso l'edificio. Era una costruzione antica del quindicesimo
secolo, a suo tempo un palazzo ora adattato a scuola, con finestre a montante e a lunetta, e un cortile che un muro
nascondeva alla strada. Aprì il cancello e salì alla porta d'ingresso, passata la quale, dopo che ebbe chiesto di sua
cugina, fu fatto entrare con circospezione in una sala d'aspetto, dove pochi minuti dopo lei lo raggiunse.
Sebbene vivesse lì da poco, non era come lui la ricordava. La sua espansività passata era spenta; l'ondeggiare
del suo modo di muoversi era divenuto più controllato. Le giustificazioni e le astruserie della convenzione erano a loro
volta scomparse. Né era la donna che aveva scritto la lettera spingendolo a partire. Quella lettera doveva essere stata
scritta di getto, in un impulso del quale lei si era in parte pentita; un pentimento che forse andava messo in relazione al
modo in cui egli si era comportato. Jude fu quasi sopraffatto dall'emozione.
«Non... non penserai che io sia un miserabile relitto, per essere venuto da te come sono venuto e sparire come
un vigliacco, Sue?».
«Oh, ho cercato di non pensarlo! Mi avevi raccontato abbastanza per farmene capire la ragione. Spero di non
dover mai dubitare del tuo valore, Jude! E sono felice che tu sia venuto!».
Sue portava un vestito rosso vermiglio con un piccolo collo di merletto. Era di taglio semplice e le aderiva con
grazia alla figura minuta. I capelli, che prima acconciava secondo la moda, adesso erano raccolti, e nel complesso aveva
l'aria di una donna sottoposta a una severa disciplina, sebbene dotata di una vivacità sotterranea che risplendeva da
quelle profondità cui quella disciplina ancora non era riuscita a giungere.
Gli era venuta incontro graziosamente, ma Jude sentì che non si aspettava che la baciasse, come moriva dalla
voglia di fare, se non in quanto suo cugino. Non scorgeva alcun segno da cui dedurre che Sue pensasse a lui come a un
innamorato, adesso o in futuro, ora che aveva conosciuto il suo lato peggiore, ammesso che egli avesse il diritto di
comportarsi come tale; e ciò contribuì alla decisione che andava maturando da tempo di parlarle del proprio legame
matrimoniale, sempre rimandata unicamente per il timore di perdere la gioia della sua compagnia.
Sue uscì con lui a passeggio, e camminarono parlando soltanto del più e del meno. Jude disse che voleva farle
un regalino, e allora lei confessò, non senza vergognarsi, di avere una gran fame. Alla Scuola servivano delle porzioni
molto modeste, e ciò che più desiderava al mondo era di fare un pranzo, un tè e una cena tutti insieme. Jude la condusse
in una locanda e ordinò tutto quello che la casa poteva offrire, peraltro non molto. Comunque, il locale diede loro una
deliziosa opportunità per un tête-à-tête, dato che non vi erano altre persone nella sala, ed essi poterono parlare
liberamente.
Sue gli raccontò della Scuola, di come le era parsa fino a quel giorno, della sua vita spartana, del carattere
eterogeneo delle sue compagne, che provenivano da ogni parte della Diocesi, e di come lei dovesse alzarsi e lavorare
alla luce della lampada a gas di prima mattina, con tutta l'amarezza di una giovane per la quale la vita di collegio era
una novità. Jude ascoltò con attenzione, ma ciò che gli premeva particolarmente di sapere era altro - come andava il
rapporto con Phillotson. Ed era ciò di cui lei non parlava. Sedutisi a tavola, Jude posò impulsivamente la mano su quella
minuta e delicata di lei; Sue lo guardò con un sorriso, e la strinse spontaneamente, separandone le dita ed esaminandole
con calma, come se fossero quelle di un guanto che si riprometteva di acquistare.
«Hai le mani alquanto ruvide, Jude, non trovi?», disse.
«Sì. Anche le tue lo sarebbero se lavorassi con scalpello e martello tutto il giorno».
«Oh, non mi dispiacciono affatto, sai. Penso sia nobile vedere le mani di un uomo segnate dal suo lavoro...
Dopotutto sono contenta di essermi iscritta a questa Scuola Magistrale. Pensa a quanto sarò indipendente dopo i due
anni del corso! Ho fiducia che passerò gli esami con un voto alto, e il signor Phillotson userà la sua influenza per farmi
assegnare a una scuola importante».
Alla fine, aveva toccato l'argomento. «Ho avuto l'impressione, il timore», disse Jude, «che... si occupasse di te
con molta dedizione, e forse volesse sposarti».
«Non dire stupidaggini!».
«Non mi meraviglierei se ti avesse detto qualcosa al riguardo».
«E se lo avesse fatto, cosa conta? Un vecchio come lui!».
«Andiamo, Sue, non è poi così vecchio. Almeno a giudicare da ciò che gli ho visto fare...».
«Non baciare me, di sicuro!».
«No. Ma stringerti la vita col braccio, sì».
«Ah, sì... ricordo. Ma io non avevo idea che stesse per farlo».
«Sono tutte scuse, Sue, e non è gentile da parte tua!».
Le labbra di Sue, sempre così sensibili, furono percorse da un fremito, e gli occhi iniziarono a sbattere
nervosamente al pensiero di qualcosa che questo rimprovero la spingeva a dire.
«So che ti arrabbieresti se ti dicessi tutto, ed è per questo che non voglio!».
«D'accordo, allora, cara», egli disse cercando di calmarla. «Non ho nessun diritto di chiedertelo, né desidero
saperlo!».
«Invece voglio dirtelo!», lei riprese con l'ostinazione che le era propria. «Ecco quello che ho fatto: gli ho
promesso... gli ho promesso che lo sposerò una volta che avrò finito la scuola, tra due anni, e mi sarò diplomata; poiché
la sua idea è di prendere una scuola mista in una grande città - lui i ragazzi, io le ragazze - come spesso fanno le coppie
di insegnanti, mettendo insieme così uno stipendio discreto».
«Oh, Sue!... Ma naturalmente hai fatto bene - non potevi fare meglio!».
Alzò lo sguardo e i loro occhi si incrociarono; il rimprovero che si leggeva negli occhi di Jude smentiva le sue
parole. Poi, con gesto brusco ritirò la propria mano da quelle di lei, e volse il volto alla finestra, con distacco. Sue lo
fissava passivamente, senza muoversi.
«Sapevo che ti saresti arrabbiato!», disse senza manifestare la benché minima emozione. «D'accordo evidentemente ho sbagliato! Non dovevo farti venire qui! Era meglio se non ci incontravamo di nuovo; vorrà dire che ci
scriveremo ogni tanto, solo di cose di lavoro!».
Di tutte, questa era l'unica cosa che egli non sopportava, come con ogni probabilità lei sapeva; e difatti sbottò
all'istante. «Oh sì, che ci vedremo», disse di scatto. «Che tu sia fidanzata o meno, per me non fa alcuna differenza. Io ho
ogni diritto di vederti quando voglio; e lo farò!».
«E allora non parliamone più. Ci rovina la serata insieme. Cosa importa quello che uno fa, se lo fa tra due
anni!».
Per Jude Sue era una sorta d'enigma, ed egli non volle insistere sull'argomento. «E se andassimo a sederci nella
Cattedrale?», le chiese quando ebbero finito di cenare.
«Nella Cattedrale? Sì. Anche se per quanto mi riguarda preferirei andare a sedermi alla stazione», lei rispose,
con un residuo di rabbia nella voce. «È là il centro della vita cittadina, ora. La Cattedrale ha fatto il suo tempo!».
«Come sei moderna, tu!».
«Anche tu lo saresti se fossi vissuto tanto a lungo nel Medioevo, come me in questi ultimi anni! La Cattedrale
era un ottimo posto quattro o cinque secoli fa; non più ora... ma non sono moderna. Se solo mi conoscessi, diresti che
sono più antica del Medioevo».
Jude la guardò smarrito.
«Va bene, lasciamo perdere!», esclamò Sue. «Il fatto è che tu non hai idea di quanto io sia cattiva, o altrimenti
non penseresti così tanto a me, né t'importerebbe se sono fidanzata o meno. Adesso c'è rimasto tempo solo per fare una
passeggiata fino alla Cattedrale, e poi devo rientrare, o resterò chiusa fuori tutta la notte».
Jude l'accompagnò al cancello dove si separarono. Tra sé e sé, era convinto che la sua visita infelice in quella
notte malinconica avesse fatto entrare in crisi il matrimonio con Phillotson, e ciò non poteva che renderlo più felice. Le
parole di riprovazione di Sue agli occhi di Jude avevano assunto quel significato, pur così opposto al loro senso
letterale. Il giorno dopo, comunque, si mise alla ricerca di un lavoro che non si trovava così facilmente come a
Christminster, poiché in quella città tranquilla venivano realizzate meno opere in pietra, e da lavoratori in gran parte
fissi. Ma un po' alla volta, Jude riuscì a sistemarsi. Il primo lavoro che gli venne affidato fu di intagliare alcune pietre
tombali nel cimitero sulla collina; infine riuscì ad ottenere il lavoro che più desiderava - i restauri della Cattedrale, di
notevole entità, poiché dopo un esame minuzioso delle decorazioni in pietra all'interno era stato deciso di sostituirne
una gran parte.
Era un lavoro che avrebbe potuto richiedere anni, e Jude era abbastanza sicuro della propria abilità con il
maglio e il cisello per sapere che la durata del suo impiego sarebbe dipesa da lui.
L'alloggio che aveva affittato nei pressi della Cattedrale non sarebbe stato disdegnato da un curato: in
proporzione al suo salario, l'affitto costituiva una parte percentuale molto più alta di quanto solitamente un operaio non
sia disposto a pagare. La camera da letto, che fungeva anche da soggiorno, era arredata con le fotografie incorniciate dei
rettori e dei decani dai quali la padrona di casa era vissuta un tempo, come una fedele domestica, e sul caminetto nel
soggiorno al piano di sotto vi era un orologio con una dedica che diceva come fosse stato regalato a quella donna così
coscienziosa dalle sue compagne di servizio il giorno in cui si era sposata. Jude aggiunse all'arredamento della sua
stanza alcune fotografie delle decorazioni ecclesiastiche e dei monumenti da lui eseguiti con le proprie mani; e la
padrona di casa si disse contenta di aver affittato l'appartamento a un tale inquilino.
Nelle librerie della città trovò un'ampia scelta di libri di teologia, e con essi i suoi studi ripresero in uno spirito
e seguendo una direzione ben diversi dal passato. Per riposarsi dai Padri e da opere impegnative come quelle di Paley e
di Butler, leggeva Newman, Pusey, e molti altri ingegni moderni. Inoltre affittò un armonium, che sistemò nella camera,
per esercitarsi nelle salmodie, semplici e doppie.
CAPITOLO II
«Domani è il nostro grande giorno. Dove andiamo?».
«Io sono libera dalle tre alle nove. Ovunque si possa andare e tornare per quell'ora. Ma non per rovine, Jude, ne
ho abbastanza».
«Allora Wardour Castle. E poi possiamo vedere Fonthill se ci va - tutto nello stesso pomeriggio».
«Wardour è una rovina gotica, e io detesto il gotico!».
«No. Tutt'altro. È un edificio classico... corinzio, credo; con molti quadri».
«Ah, allora va bene. Mi piace il suono della parola "corinzio"».
Tale era stata la loro conversazione alcune settimane più tardi, e la mattina dopo si prepararono a partire. Ogni
particolare di quella giornata era una sfaccettatura che con il suo sfavillio accecava Jude, impedendogli di vedere
l'incongruenza della vita che stava conducendo. L'atteggiamento di Sue nei suoi confronti era per lui un adorabile rebus;
altro non poteva sapere.
Venne così il momento tanto atteso di chiedere di lei al portone della Scuola; la sua apparizione, vestita con
una semplicità da monaca piuttosto imposta che desiderata; la passeggiata fino alla stazione, l'ossequio dei facchini e il
fischio dei treni - tutto formava la base di una splendida cristallizzazione. Sue passava quasi inosservata perché vestita
in modo così semplice, e a consolare Jude era il pensiero di essere il solo a conoscere il fascino nascosto sotto quegli
abiti. Dieci sterline spese in un negozio di tessuti - il che non aveva nulla a che vedere con la sua personalità o la sua
vita - avrebbero fatto girare tutta Melchester. Il controllore sul treno pensò fossero due innamorati, e riservò loro un
intero scompartimento.
«Una buona intenzione sprecata!», lei disse.
Jude non rispose. Giudicò l'osservazione inutilmente crudele, e vera solo in parte.
Giunti al parco e al castello, visitarono le gallerie di quadri. Jude si fermava di preferenza davanti alle pitture
sacre di Del Sarto, Guido Reni, Spagnoletto, Sassoferrato, Carlo Dolci, e altri. Sue lo seguiva pazientemente lanciando
occhiate critiche al suo volto, che al cospetto di Vergini, Sacre Famiglie e Santi assumeva un'espressione riverente e
ispirata. Una volta compiuto questo esame, si spostava ad attenderlo davanti al quadro successivo, un Lely o un
Reynolds. Era evidente che il cugino la interessava molto, come si può essere interessati da un uomo che cerca di
fuggire da un labirinto dal quale noi stessi siamo riusciti a fuggire.
Quando uscirono, restava loro ancora molto tempo, e Jude propose di fare uno spuntino e poi di andare subito
su per l'altipiano a nord rispetto a dove si trovavano in quel momento, fino a una stazione a sette miglia da lì, dove
avrebbero potuto prendere un treno che li riportasse a Melchester. Propensa com'era a qualsiasi avventura che
intensificasse la sensazione di libertà di quella giornata, Sue acconsentì subito; e così andarono, lasciandosi alle spalle la
stazione vicina.
Erano in aperta campagna, una campagna ampia e ondulata. Continuarono a chiacchierare mentre
camminavano a passo spedito, dopo che Jude aveva staccato da un cespuglio un lungo bastone da passeggio per Sue
alto quanto lei, piegato in cima, che la faceva assomigliare a una pastorella. A metà cammino incrociarono la strada
provinciale che si diramava a destra e a sinistra - la vecchia strada che andava da Londra a Land's End. Si fermarono
guardandosi intorno, e commentarono la desolazione di questa arteria un tempo così trafficata, mentre il vento spazzava
il terreno sollevando fili di paglia e d'erba.
Attraversarono la strada e continuarono a camminare, ma dopo un altro mezzo miglio Sue diede segni di
crescente stanchezza e Jude iniziò a preoccuparsi per lei. Avevano già percorso un lungo tratto, e se non ce l'avessero
fatta a raggiungere la stazione si sarebbero trovati in difficoltà. Per molto tempo, nell'ampia distesa di colline e terreni
coltivati a rape non videro un solo casolare; ma alla fine si imbatterono in un ovile e subito dopo nel pastore, intento a
piantare i pali di una staccionata. Costui disse loro che l'unica casa nelle vicinanze era quella sua e della madre,
indicando un piccolo pendio di fronte a loro dal quale s'innalzava un leggero fumo azzurro, e raccomandò loro di recarsi
là e riposare.
Così fecero, e venne loro ad aprire una vecchia tutta sdentata, verso la quale si sforzarono di essere cortesi
come sanno esserlo solo degli estranei la cui unica possibilità di riposo e rifugio sia nelle mani della padrona di casa.
«Una casetta molto graziosa», disse Jude.
«Se lo dite voi. Tra poco dovrò ricoprire il tetto di paglia, e dove prenderemo la paglia proprio non lo so,
perché è così cara, che prima o poi costerà meno ricoprire la casa di piatti di porcellana».
Si sedettero a riposare, fin quando non entrò il pastore. «Non fate complimenti», diss'egli, mentre con un gesto
della mano li invitava a non muoversi, «restate pure finché volete. Ma siete sicuri che volete tornare a Melchester questa
sera col treno? Perché non potrete farcela per tutto l'oro del mondo, se non conoscete le scorciatoie per la campagna. Io
vi accompagnerei volentieri per un pezzo, ma anche così è probabile che il treno sia già passato».
Essi si alzarono di scatto.
«Potete restare qui, se volete, per la notte... vero mamma? Siete i benvenuti. I letti saranno un po' duri, ma c'è
chi dorme su qualcosa di peggio». Poi si volse e chiese a Jude, sottovoce: «Siete sposati?».
«Sss, no!», Jude rispose.
«Oh... non volevo dire nulla di male, per carità! D'accordo, lei può stare in camera di mia madre mentre noi
due possiamo dormire nella camera qua fuori, dopo che loro saranno andate a letto. Vi sveglierò in tempo per prendere
il primo treno che torna a Melchester. Ormai avete perso l'ultimo».
Dopo averci riflettuto, i due decisero di accettare l'offerta, e condivisero con il pastore e sua madre la pancetta
bollita con piselli che costituiva la loro cena.
«Adoro questo», disse Sue mentre i padroni di casa sparecchiavano la tavola. «Fuori da qualsiasi legge tranne
quella della gravitazione e della germinazione».
«Credi di adorarlo, ma non è vero: sei anche tu un prodotto della civiltà», disse Jude, che improvvisamente
s'intristì ripensando al fidanzamento di lei.
«Non è vero, Jude. Mi piace sì leggere e via dicendo, ma ciò che più desidero è tornare alla vita dell'infanzia e
alla sua libertà».
«Te la ricordi così bene? A me sembra che in te non vi sia nulla che non sia convenzionale».
«Oh sì che c'è! Tu non conosci quello che c'è dentro di me».
«Cosa?».
«L'ismaelita».
«Tu sei soltanto una signorina di città».
Lei gli lanciò un'occhiata di profondo disaccordo e si volse da un'altra parte.
Il pastore li svegliò la mattina dopo, come aveva promesso. Il cielo era terso e luminoso e le quattro miglia fino
alla stazione furono per loro una piacevole passeggiata. Arrivarono a Melchester, e alla vista dei tetti a spiovente del
vecchio edificio nei pressi della Cattedrale in cui sarebbe stata di nuovo rinchiusa, Sue apparve come spaventata.
«Temo che mi prenderò una bella sgridata!», mormorò.
Suonarono la grossa campana del portone e attesero.
«Oh, ti avevo portato una cosa e quasi dimenticavo di dartela», lei disse in fretta, cercando nelle tasche. «È una
nuova fotografia fatta da poco. La vorresti?».
«Altro che!». La prese, felice, quando giunse il portiere. In volto gli si leggeva un'espressione che non
prometteva nulla di buono. Sue entrò, poi si volse a guardare Jude e lo salutò con la mano.
CAPITOLO III
Le settanta ragazze, la cui età si aggirava sui vent'anni, anche se ve ne erano di più grandi, che all'epoca
vivevano in quella specie di convento chiamato Scuola Magistrale di Melchester, formavano una comunità assai
eterogenea che includeva figlie di operai, curati, chirurghi, negozianti, fattori, lattai, soldati, marinai e contadini. La sera
di cui abbiamo già parlato, sedevano in una grande sala della scuola, e circolava voce che Sue Bridehead non fosse
rientrata in tempo.
«È uscita con il suo ragazzo», disse una studentessa del secondo anno, che la sapeva lunga sui ragazzi. «La
signorina Traceley l'ha vista alla stazione con lui. Povera lei quando torna».
«Ha detto che era suo cugino», osservò una matricola della scuola che sembrava più giovane della sua età.
«Questa scusa è stata usata un po' troppo spesso nella scuola per essere creduta», disse seccamente la
caposquadra delle ragazze.
Non più di un anno prima vi era stato un riprovevole episodio di seduzione, vittima una delle allieve che era
ricorsa alla stessa giustificazione per riuscire a incontrare il suo innamorato. La storia aveva suscitato uno scandalo e da
allora la direzione della scuola era stata ben poco comprensiva verso i cugini.
Alle nove si fece l'appello. La signorina Traceley pronunciò tre volte il nome di Sue ad alta voce senza ottenere
risposta.
Alle nove e un quarto, le settanta ragazze si alzarono in piedi a cantare l'«Inno della Sera», e poi si
inginocchiarono a pregare. Dopo le preghiere andarono a cena, tutte con un pensiero fisso in testa: dove sarà Sue
Bridehead? Alcune di loro, che avevano visto Sue dalla finestra, sentivano che avrebbero volentieri rischiato di essere
punite per il piacere di essere baciate da un giovane dal volto così gentile. Praticamente nessuna di loro credeva alla
storia del cugino.
Mezz'ora dopo erano a letto, i loro dolci volti femminili rivolti alla fiamma brillante delle lampade a gas che
illuminavano a tratti le lunghe corsie del dormitorio; ogni volto portava impressa la leggenda sulla «Debolezza» quale
punizione del sesso cui erano state plasmate, che nessuno sforzo possibile dei loro cuori generosi e nessuna abilità
personale poteva rendere forte quando le leggi inesorabili della natura restavano quelle che erano. Le ragazze
formavano un quadro grazioso, suggestivo, patetico, del cui pathos e della cui bellezza esse stesse non si rendevano
conto, né se ne sarebbero rese conto fino a che, tra le bufere e le battaglie degli anni a venire, con la loro ingiustizia e la
loro solitudine, la maternità e i lutti, non fossero riandate con la mente a questa esperienza come a qualcosa che si erano
lasciate passare davanti senza darle la dovuta considerazione.
Una delle insegnanti entrò per spegnere le luci, e prima di fare ciò diede un ultimo sguardo al letto di Sue, che
continuava ad essere vuoto, e alla sua piccola toeletta ai piedi del letto che, come tutte le altre, era abbellita da quegli
oggetti tipici delle ragazze, tra i quali le fotografie incorniciate occupavano un posto considerevole. Il tavolo di Sue ne
offriva una selezione molto modesta, due uomini nelle loro cornici di filagrana e velluto, accanto allo specchio.
«Chi sono questi... ve ne ha mai parlato?», chiese l'insegnante. «Come sapete, secondo il regolamento solo i
ritratti di parenti sono ammessi sui tavoli».
«Uno, quello di mezza età», disse una ragazza dal letto accanto, «è il maestro per il quale lavorava... il signor
Phillotson».
«E l'altro - questo studente con il berretto e la toga?».
«È un amico, o almeno lo era. Non ci ha mai detto il suo nome».
«Non era uno di questi due quello che è venuto a prenderla?».
«No».
«Siete sicure che non fosse lo studente?».
«Assolutamente. Era un giovane con una barba nera».
Le luci furono subito spente, e finché non si addormentarono le ragazze continuarono a fare ipotesi su Sue, e a
chiedersi che genere di vita avesse condotto a Londra e a Christminster prima di venire lì, e alcune, più agitate delle
altre, si alzarono dal letto per guardare dalle finestre l'ampia facciata occidentale della Cattedrale di fronte e il
campanile che si innalzava alle sue spalle.
Al risveglio, la mattina dopo, le ragazze gettarono un'occhiata all'angolo di Sue, per trovarlo ancora vuoto.
Dopo le prime lezioni, che si svolgevano alla luce delle lampade a gas e in veste da camera, mentre si stavano vestendo
per la colazione udirono la campana del portone suonare con decisione. La responsabile del dormitorio andò via per
tornare subito dopo e comunicare che per ordine della Direttrice della Scuola nessuna di loro doveva parlare alla
Bridehead senza permesso.
Quando, dunque, rossa dall'imbarazzo e stanca, Sue entrò nel dormitorio per darsi una veloce rassettata, si recò
alla sua celletta in silenzio, senza che nessuna di loro la salutasse o le rivolgesse la parola. Una volta scese di sotto, le
sue compagne si accorsero che Sue non le aveva seguite nella sala da pranzo per la colazione, e vennero a sapere che
era stata severamente redarguita e le avevano ordinato di restare in una stanza da sola per una settimana, senza mai
uscire, né per i pasti né per studiare.
Le settanta ragazze accolsero la notizia con un certo mormorio, ritenendo la punizione troppo severa. Scrissero
una lettera di supplica alla Direttrice, in cui le chiedevano di revocare la punizione di Sue. Ma la Direttrice non ne tenne
conto. Verso sera, quando l'insegnante di geografia iniziò a dettare la sua lezione, le ragazze nella classe rimasero a
braccia incrociate.
«Cosa succede? Perché non scrivete?», chiese loro dopo un poco. «Sappiate che è stato accertato che il giovane
con cui la Bridehead è rimasta fuori non è suo cugino, per la semplice ragione che lei non ha un parente del genere.
Abbiamo chiesto informazioni a Christminster».
«Noi crediamo a Sue sulla parola», disse la caposquadra.
«Questo giovane è stato licenziato dal lavoro a Christminster per ubriachezza e comportamento blasfemo in
luogo pubblico, ed è venuto a vivere qui esclusivamente per stare con lei».
Tuttavia, le ragazze furono inamovibili, e l'insegnante lasciò la stanza per chiedere istruzioni alle sue superiori.
All'imbrunire, mentre erano sedute nella classe, d'un tratto le ragazze udirono delle esclamazioni provenire da
quelle del primo anno della classe attigua, e una di loro corse a dire che Sue Bridehead era uscita dalla finestra che dava
sul retro della stanza in cui era stata confinata, e nell'oscurità era fuggita per il prato, ed era scomparsa. Come fosse
riuscita a uscire dal giardino nessuno era in grado di dirlo, visto che da un lato era delimitato dal fiume e che la porta
laterale era chiusa a chiave.
Tutte corsero alla stanza vuota, dove notarono che il telaio tra i montanti centrali era aperto. Si cercò nel
giardino con una lanterna, ispezionando ogni cespuglio, ma di Sue non vi era traccia. Poi interrogarono il portiere
all'ingresso che, dopo averci riflettuto su, disse di ricordare di aver sentito come un tuffo nel fiume sul retro, ma di non
aver dato importanza alla cosa pensando fosse un'anatra che vi si era tuffata dentro.
«Deve aver attraversato il fiume!», disse l'insegnante.
«O sarà annegata», disse il portiere.
La Direttrice inorridì al pensiero non tanto del possibile annegamento di Sue, quanto della mezza colonna in
cui lo si raccontava nei particolari sui giornali - un evento che aggiunto allo scandalo dell'anno precedente, avrebbe dato
alla scuola per parecchi mesi una notorietà per nulla invidiabile.
Si procurarono altre lanterne, e perlustrarono il fiume; finché alla fine, sulla riva opposta che si apriva sulla
campagna, rinvennero nel fango delle piccole impronte di stivali, che non lasciarono alcun dubbio sul fatto che quella
fanciulla così irritabile aveva passato a guado l'acqua profonda del fiume che doveva esserle arrivata quasi alle spalle poiché quello era il fiume principale della contea, e lo si menzionava con rispetto in tutti i libri di geografia. Dato che
Sue non aveva danneggiato la reputazione della scuola annegandosi nel fiume, la Direttrice si mise a parlare di lei con
indifferenza, senza nascondere che era contenta che se ne fosse andata.
Quella stessa sera, Jude era seduto a studiare nella propria stanza nei pressi della Cattedrale. A quell'ora, spesso
entrava nel chiostro silenzioso della Cattedrale per sostare di fronte all'edificio che racchiudeva Sue, a guardare sulle
tendine l'ombra delle teste delle ragazze che passavano avanti e indietro, desiderando di non avere altro da fare che
leggere e studiare tutto il giorno ciò che molte di quelle studentesse svogliate disprezzavano. Quella sera, però, dopo
essersi lavato e aver finito di cenare, era immerso nella lettura del ventinovesimo volume dell'Edizione Pusey dei Padri,
una collana di libri acquistata di seconda mano a un prezzo che gli era parso miracolosamente a buon mercato per
un'opera inestimabile come quella. Gli sembrò di aver udito battere leggermente contro il vetro della finestra; poi il
rumore si ripeté. Qualcuno aveva senz'altro tirato della ghiaia contro i vetri. Si alzò, e scostò con cautela le imposte.
«Jude!» (da sotto).
«Sue!».
«Sì, sono io! Posso salire senza che mi vedano?».
«Ma certo!».
«Allora è inutile che scendi tu. Chiudi la finestra».
Jude attese, sapendo che non avrebbe avuto difficoltà ad entrare poiché la porta di casa si apriva
semplicemente con una maniglia che chiunque poteva girare, come in tanti vecchi paesi di campagna. Iniziò a battergli
il cuore al pensiero che lei si rifugiasse da lui quando era in difficoltà come già lui aveva fatto con lei. Erano proprio
uguali! Jude girò la chiave della porta della stanza, udì un fruscio furtivo per le scale buie, e poco dopo Sue apparve
illuminata dalla sua lampada. Egli le prese la mano e sentì che era umida come quella di una divinità marina, e che i
vestiti le erano appiccicati addosso come quelli delle statue del fregio del Partenone.
«Ho così freddo!», lei disse battendo i denti. «Posso sedermi accanto al fuoco, Jude?».
Attraversò la stanza fino al camino dove ardeva un fuoco molto modesto, ma ad ogni movimento l'acqua le
grondava da tutte le parti e l'idea di asciugarsi era manifestamente assurda. «Ma cosa hai fatto, tesoro?», egli chiese
allarmato lasciandosi sfuggire inconsapevolmente l'epiteto affettuoso.
«Ho attraversato a nuoto il più grande fiume della contea - ecco cosa ho fatto! Mi avevano chiuso in una stanza
perché ero stata fuori con te; e mi sembrava così ingiusto che non potevo sopportarlo, così sono fuggita dalla finestra
attraversando il fiume!». Aveva iniziato la spiegazione con quel suo tono che denotava sicurezza, ma mentre parlava le
sue rosee labbra sottili avevano iniziato a tremarle e a stento riuscì a non piangere.
«Cara Sue!», egli disse. «Devi toglierti tutti i vestiti! E fammi pensare - forse la padrona di casa può imprestarti
qualcosa. Vado a chiederglielo».
«No! No! Non voglio che lo sappia, per carità! Siamo così vicini alla scuola che verrebbero a cercarmi!».
«Allora dovrai metterti uno dei miei. Ti dispiace?».
«Oh no».
«Ti darò il vestito della domenica. Ce l'ho proprio qui». In effetti, in quell'unica stanza di Jude tutto era vicino
e a portata di mano, ché altrimenti non avrebbe saputo dove mettere le sue cose. Egli aprì un cassetto, tirò fuori il suo
vestito migliore, e dopo avergli dato una spazzolata disse: «Quanto tempo ti ci vorrà per cambiarti?».
«Dieci minuti».
Jude uscì dalla stanza e scese per strada, a camminare avanti e indietro di fronte al portone di casa. Quando
l'orologio batté le sette e mezza, tornò su. Seduta nell'unica poltrona della stanza, vide una creatura fragile e sottile
mascherata da lui stesso di domenica, così commovente e indifesa che il cuore gli si gonfiò di tenerezza. Su due sedie
accanto al focolare c'erano i suoi vestiti. Lei arrossì appena le si sedette accanto, ma solo per un momento.
«Immagino, Jude, che sia insolito che tu mi veda in questo stato con tutte le mie cose appese lì. Ma poi, che
assurdità! Sono solo i vestiti di una donna - indumenti senza sesso e biancheria... Quanto vorrei non sentirmi così stanca
e malandata! Ti dispiace asciugarmi i vestiti? Per piacere, Jude. Così poi andrò a cercarmi un alloggio. Non è troppo
tardi».
«No, non puoi, se ti senti male. Devi restare qui. Cara, adorata Sue, cosa posso fare per te?».
«Non lo so! Sono tutta un brivido. Se potessi riscaldarmi un poco». Jude le mise sulle spalle il proprio
cappotto, poi fece una corsa alla taverna più vicina, e tornò con una bottiglietta. «Ecco qua un po' di brandy, del
migliore», disse. «Adesso, cara, bevilo tutto».
«Ma come faccio a berlo dalla bottiglia?». Jude prese un bicchiere dalla toeletta e versò il liquore diluendolo
con un po' d'acqua. Al primo sorso a Sue mancò il respiro, ma poi lo mandò giù e si lasciò andare contro lo schienale
della poltrona.
Poi iniziò a raccontargli in modo circostanziato le proprie disavventure da quando si erano lasciati; ma nel
mezzo del racconto la sua voce si affievolì, il capo iniziò a ciondolarle, e tacque. Era caduta in un sonno profondo. In
preda all'angoscia al pensiero che Sue potesse aver preso un malanno tale da soffrirne le conseguenze per tutta la vita,
fu felice di ascoltare il suo respiro regolare. Le si avvicinò senza far rumore e notò che le guance fino a un attimo prima
livide ora prendevano un colorito roseo, e sentì che la mano penzoloni non era più fredda. Poi volgendo le spalle al
caminetto restò immobile a guardarla, e vide in lei quasi una divinità.
CAPITOLO IV
L'estasi di Jude fu interrotta da uno scricchiolio di passi su per le scale.
Presi i vestiti di Sue dalla sedia dove si stavano asciugando, li infilò subito sotto al letto, e si sedette a leggere.
Qualcuno bussò e immediatamente dopo aprì la porta. Era la padrona di casa.
«Oh, non sapevo se eravate o no in casa, signor Fawley. Venivo a chiedervi se dovevo prepararvi la cena. Vedo
che avete un amico...».
«Sì, signora. Ma penso che stasera non scenderò. Le dispiacerebbe portarmi la cena quassù su un vassoio, se
possibile con una tazza di tè?».
Di solito, Jude scendeva di sotto e cenava con il resto della famiglia per non creare fastidi. Tuttavia, questa
volta la padrona di casa gli portò la cena in camera, passandogli il vassoio sulla soglia dove egli l'attendeva.
Dopo che l'udì scendere di nuovo le scale, Jude pose la teiera sulla mensola del camino, e tirò fuori i vestiti di
Sue, che erano ben lontani dall'essere asciutti. Una spessa gonna di lana era ancora zuppa d'acqua. Così li appese di
nuovo e riattizzò il fuoco, per poi mettersi a riflettere mentre dai vestiti il vapore saliva su per il camino.
All'improvviso Sue lo chiamò: «Jude!».
«Sono qui. Come ti senti?».
«Meglio. Sto bene. Mi sono addormentata, vero? Che ore sono? Non sarà troppo tardi, spero?».
«Le dieci passate».
«Sul serio? E ora che faccio?», disse balzando in piedi.
«Nulla. Rimani dove sei».
«Sì, non desidero di meglio. Ma chissà cosa diranno! E tu che farai?».
«Resterò seduto a leggere tutta la notte accanto al fuoco. Domani è domenica e non devo andare da nessuna
parte. Se rimani qui, eviterai forse di prenderti un serio malanno. Non preoccuparti, sto benissimo così. Guarda cosa ho
per te. Qualcosa da mangiare».
Tiratasi su, la ragazza sospirò malinconicamente e disse: «Mi sento ancora debole. Credevo di star bene; e non
dovrei essere qui, vero?». La cena le restituì un po' di forze, e dopo aver bevuto del tè ed essersi sdraiata di nuovo sulla
poltrona, parve aver riacquistato la sua vivacità e il suo buon umore.
Il tè doveva essere troppo fresco, o forse era rimasto troppo nell'acqua, poiché Sue sembrò straordinariamente
sveglia mentre Jude, che non ne aveva bevuto affatto, sentiva una certa sonnolenza; finché la sua attenzione non fu
stimolata dalla conversazione della cugina.
«Una volta mi hai definito un prodotto della civiltà, o qualcosa del genere, non è vero?», lei disse rompendo il
silenzio. «È molto strano che tu lo abbia pensato».
«Perché?».
«Perché è insopportabilmente falso. Semmai sono la negazione di ciò».
«Hai proprio una mente filosofica. "La negazione": è un modo astruso di parlare».
«Tu pensi? Ti do l'impressione di essere una persona colta?», lei chiese con una punta di ironia.
«No - non colta. Ma non parli esattamente come una ragazza... una ragazza che non abbia potuto studiare».
«Io ho studiato. Non so il latino e il greco, sebbene conosca la grammatica di queste due lingue. Ma conosco
gran parte dei classici latini e greci in traduzione, e anche altri libri. Ho letto Lemprière, Catullo, Marziale, Giovenale,
Luciano, Beaumont e Fletcher, Boccaccio, Scarron, de Brantôme, Sterne, Defoe, Smollett, Fielding, Shakespeare, la
Bibbia, e altri libri simili; e ho trovato che ogni interesse nella parte corrotta di quei libri finiva con il suo mistero».
«Hai letto più di me», egli disse sospirando. «Ma come mai alcuni tra gli autori più eccentrici?».
«Be'», lei rispose riflettendo, «è stato per caso. A dare forma alla mia vita è stato soprattutto ciò che la gente
definisce la mia peculiarità. Io non ho paura degli uomini in quanto tali, né dei loro libri. Sono stata con loro, con un
paio in particolare, quasi come se fossi del loro stesso sesso. Voglio dire che non mi sono sentita come alla maggior
parte delle donne insegnano a sentirsi - in guardia contro possibili attacchi alla loro virtù; poiché nessun uomo - se non
un selvaggio - molesterà una donna di giorno o di notte, a casa o fuori, se lei non lo provoca. Finché lei non gli dice con
uno sguardo "Vieni", egli avrà sempre paura di avvicinarsi, e se non glielo dice o non glielo fa capire mai, non si
avvicinerà mai. Comunque, quello che volevo dire era che a diciott'anni ho stretto un'amicizia intima con uno studente
di Christminster che mi ha insegnato moltissimo e mi ha imprestato dei libri che altrimenti non avrei mai letto».
«E questa amicizia è finita?».
«Oh sì. È morto, poveraccio, qualche anno dopo che aveva finito l'università e se n'era andato da
Christminster».
«Immagino che tu lo abbia frequentato molto».
«Sì. Avevamo l'abitudine di uscire insieme, a passeggio o per delle gite culturali, e cose di quel genere - quasi
come se fossimo stati due uomini. Mi chiese di andare a vivere con lui, e gli risposi per lettera accettando. Ma quando lo
raggiunsi a Londra, scoprii che non intendeva la stessa cosa che intendevo io. Infatti, voleva che fossi la sua amante, ma
io non lo amavo, e avendogli detto che sarei ripartita se non avesse accettato il mio piano, lo accettò. Abbiamo
condiviso la stessa stanza per quindici mesi; in quel periodo divenne editorialista in uno dei maggiori quotidiani
londinesi; finché un giorno si ammalò, e dovette recarsi all'estero. Disse che gli avevo spezzato il cuore resistendogli
tanto a lungo mentre vivevamo così intimamente; e che non se lo sarebbe mai aspettato da una donna. Disse ancora che
forse stavo giocando quel gioco una volta di troppo. Tornò a casa soltanto per morire. La sua morte provocò in me un
terribile senso di rimorso per la mia crudeltà - anche se spero sia morto di consunzione e non unicamente per causa mia.
Andai a Sandbourne al suo funerale, e fui l'unica a piangerne la morte. Mi lasciò del denaro... immagino perché gli
avevo spezzato il cuore. Così sono gli uomini... molto meglio delle donne!».
«Santo Cielo! E poi che hai fatto?».
«Ah - adesso ce l'hai con me!», lei disse, con una nota tragica da contralto nella sua voce argentina. «Non te
l'avrei raccontato se lo avessi immaginato!».
«No, non è vero. Raccontami tutto».
«D'accordo. Povero amico mio, investii il suo denaro in un affare campato per aria e persi tutto. Vissi a Londra
da sola per qualche tempo, e poi ritornai a Christminster, dal momento che mio padre - lui pure stava a Londra, e aveva
iniziato a lavorare come fabbro dalle parti di LongAcre - non voleva che tornassi da lui; e ottenni un lavoro nella
bottega artigiana dove mi hai trovato... Te l'avevo detto che non potevi immaginare quanto sono cattiva!».
Jude fissò la poltrona e chi la occupava quasi volesse scrutare più attentamente la creatura cui aveva dato
rifugio. La voce gli tremò quando disse: «Comunque tu abbia vissuto, Sue, io credo che sei tanto innocente quanto priva
di pregiudizi!».
«Non sono particolarmente innocente, come vedi, ora che ho
strappato il drappo
Dal manichino senza vita che la tua fantasia rivestì»
lei disse, ostentando un sorriso beffardo, sebbene egli si accorse che la sua voce era in procinto di essere soffocata dalle
lacrime. «Ma non ho mai ceduto a un uomo, se è questo che hai in mente! Sono rimasta quella che ero all'inizio».
«Ti credo. Ma altre donne non sarebbero rimaste quelle che erano all'inizio».
«Forse no. Donne migliori di me avrebbero ceduto. Sentendo questa storia, la gente dice che devo essere
frigida, asessuata. Ma io non lo accetto! Alcuni dei poeti erotici più appassionati, nella loro vita di ogni giorno sono stati
le persone più morigerate».
«Hai raccontato al signor Phillotson di questo amico universitario?».
«Sì... tempo fa. Non ne ho mai fatto mistero con nessuno».
«E lui che ha detto?».
«Non mi ha criticato... ha detto soltanto che ero tutto per lui qualsiasi cosa avessi fatto, e discorsi del genere».
Jude fu preso da un senso di sconforto; lei sembrava allontanarsi sempre di più da lui con quel suo strano modo
di fare e la sua curiosa inconsapevolezza del proprio sesso.
«Davvero non sei arrabbiato, Jude?», Sue gli chiese d'un tratto, con voce così straordinariamente tenera che
quasi non sembrava provenire dalla stessa donna che aveva appena finito di raccontargli la propria storia con tanta
leggerezza. «Preferirei offendere chiunque al mondo piuttosto che te!».
«Non so se sono arrabbiato o meno. So che ti voglio molto bene!».
«Anch'io ti voglio bene, quanto ho mai potuto voler bene a una persona».
«Ma non di più! Non avrei mai dovuto parlare! È inutile che mi rispondi!».
Ci fu un altro lungo silenzio. Jude sentiva che lei era crudele nei suoi confronti, anche se non sapeva veramente
dire in che modo. La stessa fragilità di Sue sembrava renderla più forte di lui.
«Io sono terribilmente ignorante di questioni generali, sebbene mi sia impegnato moltissimo», egli disse per
cambiare argomento. «Sai, ora sono preso dalla teologia. Ti sei chiesta cosa starei facendo ora se tu non fossi qui?
Reciterei le preghiere serali. Immagino che a te non vada...».
«Oh no, no», lei rispose, «preferirei di no, se non ti dispiace. Mi sentirei così... ipocrita».
«Era quello che pensavo, e per questo non te l'avevo proposto. Ma ricordati che spero di diventare un utile
ministro della Chiesa».
«E ricevere gli ordini, mi pare tu abbia detto un giorno?».
«Sì».
«Quindi non hai rinunciato all'idea? - Credevo che forse ormai ti fossi arreso».
«Tutt'altro. In un primo momento, mi ero ingenuamente convinto che tu avessi i miei stessi sentimenti al
riguardo, dato che eri così addentro alla vita ecclesiastica a Christminster. E il signor Phillotson...».
«Non ho alcun rispetto per Christminster, tranne in parte per la sua componente intellettuale», sbottò Sue
Bridehead. «L'amico di cui ti ho parlato me lo fece perdere del tutto. Egli era la persona più irreligiosa che ho mai
incontrato, e la più morale. E a Christminster, l'intelletto è come il vino nuovo nelle vecchie botti. Il medievalismo di
Christminster dovrà scomparire, essere spazzato via, o altrimenti scomparirà Christminster stessa. Certo, a volte è
inevitabile provare un segreto piacere per le tradizioni dell'antica fede, per come è stata preservata da alcuni pensatori
laggiù con semplice e commovente sincerità; ma nel mio stato d'animo più triste e più saggio, ho sempre pensato,
O glorie spettrali dei santi, membra defunte di dèi impiccati!».
«Non sei una buona amica, Sue, se parli in questo modo!».
«Allora starò zitta, caro Jude!». Una nota di commozione le era tornata in gola, e lei si volse da un'altra parte.
«Io penso ancora che Christminster abbia molte cose di cui andare fiera, anche se provo del risentimento
perché ne sono stato escluso». Egli parlò con tono gentile, e controllò l'impulso di provocarla fino a farla piangere.
«È una città ignorante, ad eccezione della sua gente, gli artigiani, gli ubriachi, i poveri», lei disse, continuando
ad essere indispettita dal fatto che Jude non condividesse la sua opinione. «Loro vedono la vita per come è,
naturalmente; ma sono poche le persone dei collegi che fanno altrettanto. Tu stesso ne sei una prova. Tu sei uno dei
pochissimi uomini per i quali Christminster era stata concepita quando furono fondati i collegi; un uomo appassionato
allo studio, ma privo di denaro, opportunità, amici. E sei stato cacciato via dai figli dei milionari».
«Posso farne a meno di una laurea. Adesso mi preme qualcosa di più elevato».
«E a me qualcosa di più ampio e di più vero», lei insistette. «Al momento, a Christminster l'intelletto spinge in
una direzione, e la religione in un'altra; e così si bloccano a vicenda, come due arieti che cozzano tra loro».
«E Phillotson cosa...».
«È un posto pieno di feticisti e visionari!».
Egli notò che ogni volta che cercava di parlare del maestro, Sue volgeva la conversazione su generalizzazioni
sull'università e le sue discriminazioni. Jude era estremamente, morbosamente, curioso riguardo alla vita di lei come
protégée e promessa sposa di Phillotson; ma Sue non gli dava alcuna illuminazione.
«Anch'io sono uno di quelli», disse. «Ho paura della vita, e sono un visionario».
«Ma tu sei buono e caro!», lei mormorò.
A Jude batté il cuore dall'emozione e non rispose.
«Sei nella fase dei Tractariani, ora?», Sue aggiunse, con un'aria impertinente, che spesso assumeva quando
voleva nascondere i suoi veri sentimenti. «Vediamo... quand'è che io ci sono passata?... nell'anno milleottocento...».
«Il sarcasmo delle tue parole mi ferisce. Farai adesso quello che ti chiedo? Come ti ho detto, di solito a
quest'ora leggo un capitolo e poi dico le preghiere. Che ne penseresti di concentrarti su uno di questi libri, volgendomi
le spalle e lasciandomi alle mie abitudini? Sei sicura di non voler pregare con me?».
«Ti guarderò».
«Smettila di prendermi in giro, Sue!».
«D'accordo, farò come vuoi e non ti infastidirò più», lei rispose, con il tono di una bambina che si riproponeva
di essere buona da quel momento in poi, volgendogli le spalle come le era stato richiesto. Accanto a sé notò una piccola
Bibbia, che non era quella adoperata da Jude, e mentre egli era in raccoglimento, la prese e la sfogliò.
«Jude», disse allegramente quando lui ebbe finito e tornò da lei; «potrei regalarti un nuovo Nuovo Testamento
come quello che ho fatto per me a Christminster?».
«Magari. Come era fatto?».
«Ho modificato quello vecchio che avevo separando le Epistole e i Vangeli in altrettante brochure, e poi
riunendoli insieme nell'ordine cronologico in cui furono scritti, iniziando con i Tessalonicesi, proseguendo con le
Epistole e mettendo i Vangeli molto più avanti. Poi ho fatto rilegare il volume. Il mio amico universitario, il signor - ma
cosa importa come si chiama, povero ragazzo - la definì un'idea eccellente. So che a rileggerlo dopo era molto più
interessante di prima, e molto più comprensibile».
«Hm!», disse Jude pensando che era un atto sacrilego.
«E che assurdità letteraria è mai questa», lei disse, mentre dava un'occhiata alle pagine del Cantico di
Salomone. «Voglio dire la sinopsi all'inizio di ciascun capitolo, che spiega la vera natura di quella rapsodia. Non
spaventarti: nessuno pretende che i titoli dei capitoli siano frutto d'ispirazione divina. Anzi, molti teologi ne parlano con
disprezzo. Non mi viene in mente niente di più buffo di questi ventiquattro anziani, o vescovi, o chi altri fossero, seduti
con le loro lunghe facce a scrivere questa roba».
Jude la guardò con un'espressione di sofferenza. «Sei proprio una seguace di Voltaire!», mormorò.
«Tu pensi? Allora non dirò più nulla, tranne che la gente non ha diritto di falsificare la Bibbia! Odio un
impostore quale quello che ha cercato di stravolgere con astrazioni ecclesiastiche un amore così estatico, naturale,
umano, come quello di questa grande e appassionata canzone!». Man mano che parlava si era andata accalorando, quasi
stizzita dal suo rimprovero, mentre i suoi occhi erano lucidi. «Avessi un amico che mi aiutasse; ma nessuno è mai stato
dalla mia parte!».
«Ma cara Sue, carissima Sue, io non sono contro di te!», egli disse prendendole la mano, sorpreso che lei
scendesse su un piano così personale in una semplice discussione.
«Ah sì che lo sei, certo, certo!», Sue esclamò, guardando altrove per non fargli vedere gli occhi bagnati di
lacrime. «Tu sei dalla parte delle persone della Scuola Magistrale - o così almeno sembri essere! Quello che insisto a
dire è che spiegare versi come questo: "Dove è andato il tuo amato, o tu, bellissima tra le donne?" con la nota "La
Chiesa professa la sua fede" è incredibilmente ridicolo!».
«Va bene, d'accordo! Tu fai una questione personale di qualsiasi cosa! Io, io... non potrei essere più incline in
questo momento a mettere in pratica quelle parole in senso profano. Avanti! Non dirmi che non sai che per me sei la
donna più bella che conosco!».
«Ma non devi dirlo ora!», Sue rispose con una nota appena percettibile di severità nella voce. Poi i loro occhi si
incontrarono, ed essi si strinsero la mano come vecchi compagni in una bettola, e Jude comprese quanto era assurdo
litigare su argomenti così ipotetici, e Sue quanto era stupido piangere a proposito di cosa era scritto in un vecchio libro
come la Bibbia.
«Non voglio offendere le tue convinzioni, per carità!», Sue proseguì nell'intento di tranquillizzarlo, poiché ora
egli appariva più agitato di lei. «Ma volevo e desideravo elevare un uomo a degli alti fini; e quando ti vidi la prima volta
e capii che tu volevi essermi amico, io - posso confessartelo? - mi chiesi che uomo potevi essere. Ma tu credi così tanto
nella tradizione che non so proprio cosa dire».
«Ebbene, mia cara; immagino che in qualcosa bisogna pur credere per fede. La vita non dura abbastanza a
lungo per analizzare ogni cosa come se fosse un problema di Euclide, prima di credere ad essa. E io ho scelto il
cristianesimo».
«Certo, potevi scegliere di peggio».
«Forse hai ragione. Forse è quello che ho fatto!» disse, andando col pensiero ad Arabella.
«Non ti chiederò cosa, perché d'ora in poi dovremo essere molto buoni l'uno con l'altro, e non litigheremo più,
vero?». Lei lo guardò fiduciosa e la sua voce sembrò volesse penetrargli nel petto.
«Io ti vorrò sempre bene!», disse Jude.
«Anch'io. Perché sei sincero, e comprensivo con la tua noiosa Sue e con i suoi difetti!».
Jude guardò altrove, poiché questa sua tenerezza così epicena era troppo straziante. Era stata questa tenerezza a
spezzare il cuore del povero editorialista? Ed era suo destino essere la prossima vittima?... Ma Sue era così cara! Se solo
egli avesse potuto non provare alcuna attrazione sessuale per lei, come a lei sembrava risultare facile con lui, sarebbe
stata un'ottima compagna; dato che le loro divergenze di opinione su argomenti astratti non avevano altro effetto che
quello di avvicinarli ancora di più nei problemi concreti della vita quotidiana. Sue gli era più vicina di qualsiasi donna
egli avesse mai conosciuto, e non riusciva a pensare che il tempo, la religione o la lontananza potessero mai separarlo
dalla cugina.
Ma il dolore di fronte alla sua mancanza di fede tornò a farsi sentire. Rimasero a sedere finché Sue non si
addormentò di nuovo ed egli si appisolò su una sedia. Ogni volta che si svegliava, si alzava a girare i vestiti di lei e a
ravvivare il fuoco. Verso le sei del mattino si svegliò del tutto, e accesa una candela notò che i vestiti erano asciutti. La
poltrona di Sue era molto più comoda della sua, e la ragazza continuò a dormire avvolta nel suo soprabito, calda come
una ciambella appena sfornata, e adolescenziale come un Ganimede. Dopo averle sistemato i vestiti accanto e averla
toccata su una spalla per svegliarla, Jude scese a lavarsi in cortile alla luce delle stelle.
CAPITOLO V
Quando risalì, la trovò vestita con i suoi abiti.
«E ora, credi che potrei uscire senza essere vista?», lei chiese. «La città dorme ancora».
«Ma non hai fatto colazione».
«Oh, non ne ho voglia. Forse non sarei dovuta scappare da quella scuola! Le cose appaiono diverse alla fredda
luce del mattino, non trovi? Chissà cosa dirà il signor Phillotson! È stato per un suo esplicito desiderio che ci sono
andata. È l'unico uomo al mondo per cui provo rispetto o timore. Spero mi perdoni; ma ho l'impressione che mi
rimprovererà moltissimo».
«Andrò io a spiegargli...», iniziò Jude.
«Per carità! Di lui non mi importa nulla. Può pensare quello che vuole... io farò di testa mia!».
«Ma appena un attimo fa hai detto...».
«Anche se l'ho detto continuerò a fare di testa mia! Ho pensato a quel che farò... andrò dalla sorella di una delle
mie compagne alla Scuola Magistrale che mi aveva invitato a casa sua. Ha una scuola vicino a Shaston, a circa diciotto
miglia da qui, e resterò là fino a che questa faccenda non si sia sgonfiata, e possa di nuovo rientrare alla Scuola».
All'ultimo momento, egli la persuase a permettergli di prepararle una tazza di caffè con un fornelletto portatile
che teneva in camera per usarlo ogni giorno quando si alzava per andare a lavorare e nella casa dormivano ancora tutti.
«Mangiaci insieme questa focaccia», disse Jude, «e poi andiamo. Potrai fare una vera colazione al tuo arrivo
laggiù».
Uscirono in punta di piedi, e Jude la accompagnò alla stazione. Mentre si allontanavano lungo la strada, una
testa si sporse da una delle finestre della casa e subito si ritirò. Sue pareva ancora pentita della sua avventatezza e
avrebbe voluto non essersi ribellata. Salutandolo alla stazione, gli disse che si sarebbe fatta viva subito non appena
l'avessero riammessa alla Scuola. Rimasero malinconicamente insieme sul marciapiede del binario; ed era chiaro che
egli desiderava ancora dirle qualcosa.
«C'è qualcosa che voglio dirti... due cose», mormorò in fretta mentre il treno entrava in stazione. «Una è bella,
l'altra è brutta».
«Jude», lei disse, «conosco la prima, e non devi!».
«Non devo cosa?».
«Amarmi. Devi essermi amico e basta!».
Il volto di Jude si intristì tanto che quello di Sue fu sconvolto dalla compassione mentre dal finestrino del
vagone lo salutava. Poi il treno partì, e agitando la mano graziosa in direzione di lui, la ragazza scomparve.
Quella domenica della partenza di Sue, Melchester apparve a Jude una cittadina desolata, e la Cattedrale un
luogo tanto odioso da impedirgli di partecipare alla funzione religiosa. Il mattino dopo giunse una lettera che, con la sua
solita prontezza, Sue gli aveva scritto non appena giunta a casa dell'amica. In essa gli raccontava di essere arrivata bene
e di come si trovasse in una casa accogliente, e poi aggiungeva:
Ciò di cui volevo veramente scriverti, Jude, è qualcosa che ti ho detto alla tua partenza. Sei stato così buono e
gentile con me, che non appena il treno ha lasciato la stazione mi sono resa conto di essere stata una donna crudele e
ingrata. Da allora non faccio che rimproverarmi. Se vuoi amarmi, Jude, puoi: a me non dispiace affatto, e non dirò
mai più che non devi.
Ed ora non parliamone più. Perdonerai la tua amica sventata per la sua crudeltà? E non la renderai infelice
negandole il tuo perdono? Sempre tua
SUE
Sarebbe stato superfluo raccontare cosa egli rispose; e che si mise a pensare a come avrebbe agito se fosse stato
libero, e al fatto che il non esserlo rendeva la lunga permanenza di Sue dall'amica del tutto inutile. Egli si sentiva certo
della sua vittoria se avesse dovuto competere con Phillotson per il possesso della ragazza.
Pure, Jude correva il rischio di attribuire alla nota impulsiva di Sue un significato maggiore di quello che lei
intendeva darle.
Passato qualche giorno, si scoprì a sperare di ricevere un'altra lettera da lei. Ma non ne ricevette alcuna; e
sull'onda dell'intensità della propria ansia le inviò un altro biglietto, proponendole di farle visita una domenica, dato che
a separarli vi era una distanza di meno di diciotto miglia.
Due mattine dopo averle inviato il suo biglietto, era in attesa di una risposta; ma non ricevette nulla. Venne il
terzo giorno, ma il postino non si fermò. Era un sabato, e nel suo febbrile stato di ansia per lei le inviò due righe in cui
le annunciava che sarebbe arrivato il giorno dopo, poiché era sicuro che era successo qualcosa.
Il suo primo pensiero spontaneo era stato che si fosse ammalata in seguito all'immersione nel torrente; ma
subito realizzò che in tal caso qualcuno gli avrebbe scritto per informarlo. Le sue congetture ebbero fine con l'arrivo alla
scuola del villaggio vicino Shaston la mattina luminosa di quella domenica, tra le undici e mezzogiorno, quando il
paesetto era deserto, poiché la maggior parte degli abitanti si era radunata nella chiesa, dalla quale di tanto in tanto le
loro voci si udivano all'unisono.
Una ragazzina aprì la porta. «La signorina Bridehead è di sopra», disse. «Vuole salire?».
«È malata?», chiese Jude con ansia.
«Un poco, ma niente di serio».
Jude entrò e salì. In cima alle scale una voce gli indicò da che parte dirigersi - la voce di Sue che lo chiamava.
Oltrepassò la soglia della stanza e la trovò distesa su un letto piccolissimo in una stanza altrettanto piccola.
«Oh Sue!», esclamò, sedendosi accanto a lei e prendendole la mano. «Che ti succede? Non ce la facevi a
scrivere?».
«No, non è per questo!», lei rispose. «Mi sono presa un brutto raffreddore - ma avrei potuto scriverti. Solo che
non ho voluto!».
«Perché mai? Spaventarmi così!».
«Sì, era quello che temevo! Ma avevo deciso di non scriverti più. Non mi riammettono a scuola - per questo
non ce la facevo a scriverti. Non per il fatto in sé, ma per la motivazione».
«E quale sarebbe?».
«Non solo non vogliono che torni, ma al momento di congedarsi mi hanno dato un consiglio...».
«Quale?».
Lei non rispose direttamente. «Avevo giurato che non l'avrei mai detto a nessuno, Jude... è così volgare e
inquietante!».
«Riguarda noi due?».
«Sì».
«Allora dimmelo!».
«Insomma... qualcuno ha inviato loro delle informazioni calunniose sul nostro conto, e loro dicono che noi due
dovremmo sposarci il prima possibile, per salvare la mia reputazione!... Ecco, ora che te l'ho detto avrei preferito stare
zitta!».
«Povera Sue!».
«Non penso a te in quel senso! Mi era venuto in mente di pensarti nel modo in cui essi credono ti pensi, ma
non avevo ancora iniziato. Avevo compreso che la nostra parentela era puramente formale, dato che ci eravamo
incontrati come due perfetti sconosciuti. Ma sposarti, Jude... voglio dire che se questa fosse stata la mia intenzione non
sarei venuta da te così spesso! E immagino che a te non sia mai passato per la testa di sposare me fino all'altra sera,
quando mi è parso di sentire che eri un poco innamorato di me. Forse ti ho trattato con troppa intimità. È tutta colpa
mia. È sempre tutta colpa mia!».
Le sue parole sembravano un poco forzate e irreali, e i due giovani si guardarono l'un l'altro con reciproco
disagio.
«Sono stata cieca, all'inizio!», Sue proseguì. «Non mi sono resa conto affatto di quello che tu provavi. Ah, sei
stato poco gentile con me, proprio così, a considerarmi la tua innamorata senza dirmelo, e lasciando che lo scoprissi da
sola! Sono state notate le tue premure nei miei confronti, e ovviamente alla scuola pensano che ci stiamo comportando
male! È l'ultima volta che mi fido di te!».
«Va bene, Sue», egli rispose semplicemente, «è colpa mia... più di quanto tu non pensi. Mi ero perfettamente
reso conto che tu non avevi il minimo sospetto dei miei sentimenti per te fino all'ultimo nostro incontro l'altra sera.
Ammetto che siccome non ci conoscevamo affatto non sentivo un legame di parentela, e che si è trattato di una sorta di
sotterfugio di cui mi sono avvalso. Ma non credi che io meriti un po' di considerazione per aver tenuto segreti
sentimenti così colpevoli, dal momento che non potevo evitare di provarli?».
Lei lo guardò con espressione dubbiosa, poi si volse da un'altra parte, quasi avesse paura di perdonarlo.
Secondo la legge della natura o del sesso, un bacio sarebbe stato l'unico atto adeguato all'atmosfera di quel
momento, e non era assurdo pensare che un gesto del genere avrebbe persuaso Sue a mutare il suo atteggiamento così
riservato. Certi uomini avrebbero abbandonato ogni scrupolo e avrebbero tentato, dimentichi sia della dichiarazione di
Sue sulla neutralità dei propri sentimenti, sia di quel paio di firme poste nel registro della parrocchia di Arabella. Ma
non Jude. Per l'appunto, una ragione della sua visita a Sue era stata quella di raccontarle questa storia. L'aveva sulla
punta della lingua; pure, in quel momento così angoscioso, non ne ebbe il coraggio. Preferì insistere sugli ostacoli al
loro rapporto, ben noti ad entrambi.
«Naturalmente so che... che mi vuoi bene solo come un amico», egli disse in tono lamentoso. «Non avresti
dovuto volermi bene in altro modo, e non lo hai fatto. Tu appartieni a... al signor Phillotson. Immagino sia venuto a
trovarti?».
«Sì», lei rispose seccamente, con un leggero mutamento di espressione nel volto. «Anche se non gli avevo
chiesto di venire. Tu, naturalmente, sarai contento che è venuto! Ma quanto a me, non mi importerebbe nulla se non
tornasse più!».
Jude non riusciva a capire perché Sue dovesse prendersela di fronte alla sua onesta accettazione del rivale,
considerando che non condivideva i suoi sentimenti d'amore verso di lei. Ma non ne parlò e passò ad altro.
«Si sgonfierà tutto, cara Sue», disse. «Le autorità della Scuola Magistrale non sono le uniche al mondo. Potrai
frequentarne senza dubbio un'altra».
«Lo chiederò al signor Phillotson», lei disse con decisione.
L'amica gentile che ospitava Sue tornò a quel punto dalla chiesa, ed ogni conversazione intima tra loro cessò.
Jude se ne andò nel pomeriggio, irrimediabilmente infelice. Ma l'aveva vista, ed era stato con lei. Si sarebbe dovuto
accontentare di un rapporto del genere per il resto della sua vita. Era necessario e giusto che lui, un aspirante parroco,
imparasse la lezione della rinuncia.
Ma al suo risveglio, la mattina dopo, lo prese un senso di rabbia verso di lei, e decise che era una ragazza
irragionevole, per non dire capricciosa. Poi, a illustrazione di quella che da poco aveva imparato a riconoscere come una
delle caratteristiche redentrici del carattere di lei, ricevette un biglietto, che Sue doveva avergli scritto appena se n'era
andato:
Perdonami per la mia petulanza di ieri! Sono stata orribile con te; lo so, e il pensiero di come mi sono
comportata mi rende infelice. Sei stato così caro a non prendertela! Jude, per piacere, non smettere di essermi amico e
compagno, per quanti difetti io abbia. Cercherò di non essere più così.
Verrò a Melchester sabato, a prendere le mie cose dalla Scuola, e se ti fa piacere potremmo stare insieme una
mezz'ora. La tua pentita,
SUE
Jude la perdonò immediatamente, e le chiese di venirlo a cercare al cantiere della Cattedrale non appena fosse
arrivata.
CAPITOLO VI
Nel frattempo, un uomo di mezza età era immerso in un sogno sublime che riguardava l'autrice della
summenzionata lettera. Era Richard Phillotson, da poco trasferitosi dalla locale scuola mista di Lumsdon, vicino a
Christminster, per assumere la direzione di un istituto maschile più grande nel suo paese nativo di Shaston, situato su
una collina a sud-ovest a una distanza in linea d'aria di sessanta miglia.
Un'occhiata a quel luogo e alle sue caratteristiche bastava quasi per capire che i progetti e i sogni così a lungo
coltivati dal maestro erano stati abbandonati per un sogno completamente diverso in cui la Chiesa e la letteratura
c'entravano ben poco. Un uomo essenzialmente privo di senso pratico, la sua preoccupazione al momento era quella di
guadagnare e risparmiare soldi per uno scopo preciso - mantenere una moglie che, se lo avesse desiderato, avrebbe
potuto dirigere una delle scuole femminili vicine alla sua. A tal fine, e considerando che non desiderava sposarsi subito,
le aveva consigliato di frequentare la Scuola Magistrale.
Più o meno al tempo in cui Jude si trasferiva da Marygreen a Melchester, e iniziava le sue vicissitudini con
Sue, il maestro si sistemava nella sua nuova casa, adiacente alla scuola di Shaston. Dopo che ebbe finito di mettere a
posto i mobili, sistemare i libri sugli scaffali, e conficcare chiodi, aveva ripreso l'abitudine di sedersi in soggiorno nelle
buie notti invernali per ricominciare i suoi vecchi studi - che comprendevano tra l'altro l'antichità romanobritannica una fatica assolutamente non remunerativa per un insegnante statale, ma un argomento che, da quando aveva rinunciato
alle sue ambizioni universitarie, lo aveva interessato essendo una miniera relativamente inesplorata; praticabile da chi,
come lui, era vissuto in luoghi fuori mano dove i resti di quell'epoca abbondavano, e stimolavano deduzioni in forte
contrasto con le teorie tradizionali sulla civiltà di allora.
Una ripresa di queste ricerche costituiva l'apparente passatempo di Phillotson al presente - la giustificazione
per recarsi da solo per campi dove argini, dighe, e tumuli abbondavano, o chiudersi in casa con qualche urna, piastrella
o mosaico da lui raccolti, invece di far visita ai suoi nuovi vicini, che per parte loro si erano mostrati abbastanza
desiderosi di diventare suoi amici. Ma al dunque, non era questa la ragione vera del suo comportamento. Tant'è che una
sera di quel mese, quando ormai era molto tardi - era infatti quasi mezzanotte - e dalla finestra situata in un angolo bene
in vista di quella città in cima alla collina la luce brillava sulla vallata a occidente per miglia e miglia suggerendo, come
se parlasse, un luogo e una persona dediti allo studio, il maestro non stava veramente studiando.
L'interno della stanza, i libri, i mobili, il soprabito sdrucito del maestro, il modo come era seduto al tavolo,
persino il crepitio del fuoco, confermavano la nobile leggenda di una ricerca condotta con dedizione assoluta, più che
onorevole per un uomo che non aveva avuto altri privilegi oltre a quelli che si era conquistato da solo. Eppure quella
leggenda, se aveva avuto un fondamento di verità fino a qualche tempo prima, ormai lo aveva perso del tutto. Ciò che il
maestro stava guardando non erano dei reperti storici. Erano gli appunti di storia scritti alcuni mesi prima con calligrafia
decisa da una mano femminile sotto sua dettatura, e ad assorbirlo era il loro pedante esame parola per parola.
Ad un certo punto, tirò fuori da un cassetto un pacco di lettere legato con accuratezza, poche, pochissime, se si
pensa all'importanza della corrispondenza al giorno d'oggi. Ciascuna stava nella propria busta, così come era arrivata, e
la calligrafia aveva lo stesso tratto femminile degli appunti di storia. Egli le aprì una ad una e si mise a leggerle
pensosamente. A prima vista, si sarebbe detto che in questi documenti non vi fosse nulla su cui riflettere. Erano lettere
semplici e franche, firmate «Sue B.», del genere che si scrive nel corso di brevi assenze, nella certezza che verranno
distrutte non appena lette, e che trattavano essenzialmente di libri letti e di altre esperienze alla Scuola Magistrale, senza
dubbio dimenticate da chi scriveva le lettere lo stesso giorno in cui le aveva spedite. In una di esse - tra le più recenti la giovane raccontava di aver ricevuto la lettera ponderata del maestro, e che era onesto e generoso da parte sua
comunicarle che non sarebbe andato a trovarla più spesso di quanto lei desiderasse (poiché la Scuola certo non
incoraggiava le visite di amici e parenti, e a lei premeva che la notizia del loro fidanzamento rimanesse segreta, il che
sarebbe stato impossibile se egli fosse andato a trovarla più spesso). Su queste frasi, il maestro si soffermò a riflettere.
Che genere particolare di soddisfazione andava ricavato dalla gratitudine di una donna perché l'uomo che l'amava non si
recava più spesso a trovarla? Il problema lo tenne occupato, impedendogli di lavorare.
Aprì un altro cassetto, per cercarvi una busta dalla quale tirò fuori una fotografia di Sue da bambina, molti anni
prima del giorno in cui la conobbe, sotto un'inferriata con un cestino in mano. Ce n'era un'altra di lei da ragazza, dove si
poteva notare la bellezza insolita degli occhi e dei capelli scuri, e in cui emergeva anche la serietà che si nascondeva
dietro alla leggerezza dei suoi modi. Era una copia di quella data da Sue a Jude come avrebbe potuta darla a qualsiasi
altro uomo. Phillotson l'avvicinò alle labbra per baciarla, ma si trattenne dubbioso ripensando alle frasi che gli aveva
scritto e che lo avevano lasciato perplesso: e poi baciò quel cartoncino senza vita con tutta la passione e la devozione di
un diciottenne.
D'aspetto, il volto del maestro era malaticcio e all'antica, reso ancor più tale dal taglio della sua barba. La
natura aveva donato ad esso una certa aria signorile, che suggeriva un innato desiderio di agire rettamente. Il suo modo
di parlare era un po' lento, ma il suo tono di voce era sincero abbastanza perché la sua esitazione non fosse un difetto. I
capelli grigi erano ondulati, e si irradiavano da un punto nel mezzo del capo. Aveva quattro rughe sulla fronte, e portava
gli occhiali solo quando leggeva la sera. Quasi certamente era stata una rinuncia a lui imposta dai suoi progetti
accademici, piuttosto che un'avversione per le donne, a impedirgli di legarsi in matrimonio a una di loro.
Atti silenziosi come questi si ripetevano continuamente quando il maestro era al riparo dagli occhi dei suoi
studenti. Il loro sguardo così vivace e penetrante spesso diveniva quasi intollerabile per chi, come lui, già si sentiva
imbarazzato a causa del suo ansioso affetto per Sue; ed è per questo che nelle grigie ore mattutine temeva di incontrare
nuovamente quegli sguardi acuti, per paura che scoprissero il sogno che coltivava dentro di sé.
Aveva onorevolmente accettato la volontà espressa da Sue di non andare a trovarla spesso alla Scuola
Magistrale; ma alla lunga la sua pazienza fu messa alla prova, e un pomeriggio decise di farle una sorpresa. Alla Scuola
gli comunicarono, senza tanti complimenti, la notizia della partenza o dell'espulsione (come non sarebbe improprio
considerarla) di Sue, mentre in piedi sulla porta egli si aspettava di vederla comparire nel giro di pochi minuti; e quando
si girò per andarsene, quasi non riusciva più a vedere la strada davanti a sé.
In effetti, nelle lettere al suo pretendente Sue non aveva fatto il minimo accenno alla vicenda, sebbene fosse già
accaduta da un paio di settimane. Ma dopo un attimo di riflessione decise che ciò non significava nulla, poiché a
spingerla al silenzio poteva essere stata una delicatezza naturale non meno di un senso di colpa.
Alla Scuola lo informarono su dove viveva, e sollevato da ogni preoccupazione immediata sulla sua situazione,
volse i propri pensieri con cocente indignazione contro la Direzione della Scuola medesima. In preda a sconcerto, entrò
nella Cattedrale adiacente che proprio allora era in uno stato pietoso di smantellamento per via dei lavori di restauro. Si
sedette su un blocco di pietra senza badare alle impronte di polvere che gli lasciava sui pantaloni, e mentre con lo
sguardo assente seguiva i movimenti degli operai d'un tratto notò che colui che era considerato il colpevole, l'amante di
Sue, Jude, era tra loro.
Jude non aveva più avuto modo di parlare con il suo eroe di un tempo dal giorno in cui si erano incontrati nella
visita al plastico di Gerusalemme. Essendo stato inavvertitamente testimone del tentativo di Phillotson di corteggiare
Sue quella sera lungo il sentiero, nella mente del giovane era venuta maturando una curiosa avversione al solo pensiero
dell'uomo più anziano, all'idea di incontrarlo, di comunicare in qualsiasi modo con lui; e da quando era venuto a
conoscenza del successo di Phillotson nell'ottenere almeno una promessa da Sue, Jude aveva ammesso con franchezza
con se stesso che non desiderava vedere più il suo amico passato o sentirne parlare, sapere alcunché dei suoi progetti, o
pur solo congetturare sulle possibili qualità del suo carattere. Proprio quel giorno della visita inattesa del maestro, Jude
aspettava Sue, come lei gli aveva promesso; e quando vide il maestro nella navata della chiesa, e che per giunta gli
veniva incontro, provò un certo imbarazzo; imbarazzo che, provato a sua volta da Phillotson, impedì a quest'ultimo di
notare.
Jude lo raggiunse, e insieme si allontanarono dagli altri operai verso il punto dove Phillotson era rimasto
seduto. Jude gli offrì un pezzo di tela da sacco a mo' di cuscino, dicendogli che era pericoloso sedersi sulla nuda pietra.
«Sì, sì», disse Phillotson distrattamente, mentre si sedeva di nuovo, lo sguardo fisso a terra quasi cercasse di
ricordare dove stava. «Non vi tratterrò a lungo. È che mi è giunta voce che avete visto di recente la mia piccola amica
Sue. Ho pensato di venire a parlarvene. Volevo solamente chiedervi... di lei».
«Immagino di sapere cosa!», si precipitò a rispondere Jude. «Della sua fuga dalla Scuola Magistrale, e del fatto
che sia venuta da me?».
«Sì».
«Ebbene...». Per un attimo, provò il desiderio privo di scrupoli e diabolico di distruggere il suo rivale ad ogni
costo. Con il ricorso a quella slealtà che l'amore per la stessa donna rende possibile anche a uomini tra i più onorati in
tutti gli altri rapporti della loro vita, avrebbe potuto gettare Phillotson nella disperazione e sconfiggerlo confermandogli
che lo scandalo era vero, e che Sue si era compromessa in modo irreparabile con lui. Ma ciò che fece non corrispose
neppure per un attimo al suo istinto animale; e gli disse invece: «È molto gentile da parte vostra venire a parlarne
chiaramente con me. Sa cosa si dice in giro?... che dovrei sposarla».
«Come!».
«E io darei non so che cosa per poterlo fare!».
Phillotson tremò, e il viso già pallido di suo nei lineamenti acquisì l'angolosità di un cadavere. «Non sospettavo
minimamente che la faccenda stesse in questi termini! Dio misericordioso!».
«No, no!», Jude esclamò spaventato. «Credevo aveste capito. Volevo dire che se fossi nella posizione di
sposare lei, o un'altra, e di sistemarmi stabilmente da qualche parte invece di vivere in camere d'affitto qua e là, sarei
felice!».
Ciò che veramente intendeva era che l'amava.
«Ma - visto che avete accennato a questa triste vicenda - cos'è accaduto veramente?», chiese Phillotson con la
determinazione di un uomo consapevole che un duro colpo ora era meglio di una lunga agonia di incertezza in seguito.
«Vi sono casi, e questo è uno, in cui bisogna porre anche delle domande imbarazzanti per smentire ogni falsa
supposizione e soffocare lo scandalo».
Jude era ben lieto di spiegare ogni cosa, e raccontò tutte le loro avventure, compresa la notte passata dal
pastore, l'arrivo di Sue zuppa d'acqua in casa sua, il malanno seguito al bagno nel fiume, la notte passata a discutere, e la
partenza di Sue la mattina dopo.
«Bene», disse Phillotson al termine del racconto. «Devo quindi ritenere la vostra parola come definitiva e
pensare, sapendo di potervi credere, che il sospetto che portò alla sua fuga è assolutamente infondato?».
«Sì», disse Jude in tono solenne. «Assolutamente. Lo giuro!».
Il maestro si alzò. Entrambi compresero che il loro colloquio non si sarebbe potuto trasformare senza
imbarazzo in una conversazione tra due amici sulle reciproche esperienze recenti; e dopo che Jude l'ebbe accompagnato
in giro per la Cattedrale per mostrargli alcuni aspetti dei lavori di restauro in corso, Phillotson salutò il giovane e andò
via.
Il loro colloquio si era svolto all'incirca verso le undici; ma Sue ancora non si era vista. Quando Jude si recò a
pranzare all'una, notò la sua amata davanti a sé lungo la strada che portava alla North Gate camminare come se non
fosse affatto venuta per lui. Raggiuntala in fretta, le fece osservare che le aveva chiesto di venirlo a cercare alla
Cattedrale e che lei glielo aveva promesso.
«Sono stata a prendere le mie cose alla Scuola», rispose Sue - osservazione che nelle intenzioni della ragazza
Jude avrebbe dovuto accettare come risposta, anche se non lo era affatto. Trovandola di un umore così evasivo, egli si
sentì propenso a darle i ragguagli sulla propria vita tanto a lungo tenuti per sé.
«Non hai visto il signor Phillotson, oggi?», si avventurò a chiederle.
«No. E non ho alcuna intenzione di subire un interrogatorio su di lui; qualsiasi cosa mi chiedi, non rispondo!».
«È molto strano che...». Egli si fermò fissandola.
«Cosa?».
«Che spesso non sei così gentile di persona come lo sei nelle tue lettere!».
«È questo che pensi?», lei chiese sorridendo con un guizzo di curiosità. «Be', è strano; ma ti voglio bene lo
stesso, Jude. Quando non ci sei, tutto mi sembra così indifferente...».
Dato che lei conosceva i suoi sentimenti, Jude capì che stavano scivolando su un terreno pericoloso. Era il
momento, pensò, di parlare come un uomo onesto.
Ma non disse nulla, e lei proseguì: «È stato questo a spingermi a scriverti e a dire...che non mi dispiaceva se mi
amavi... se proprio lo volevi!».
La gioia che avrebbe potuto provare alle implicazioni di queste parole fu vanificata dalla propria intenzione, ed
egli rimase rigido finché non iniziò: «Non ti ho mai detto...».
«Sì che me lo hai detto», lei mormorò.
«Voglio dire, non ti ho mai detto la mia storia... tutta quanta».
«Posso immaginarla. E la conosco abbastanza».
Jude alzò gli occhi per guardarla. Possibile che lei sapesse di quella cerimonia mattutina sua e di Arabella che
in pochi mesi aveva cessato d'essere un matrimonio più completamente che se la morte li avesse separati?
Evidentemente no.
«Non posso parlartene qui per strada», egli proseguì a dire con voce cupa. «Ed è meglio che non vieni da me.
Entriamo qua dentro».
L'edificio davanti al quale si trovavano era quello del mercato: era l'unico luogo disponibile ed essi vi
entrarono, poiché il mercato era finito, i banchi erano vuoti e non c'era nessuno. Jude avrebbe preferito un luogo più
adatto, ma come spesso accade, invece che in un campo romantico o nella navata di una chiesa, il suo racconto fu fatto
camminando avanti e indietro sopra uno strato di foglie di cavolo marce, in mezzo al consueto squallore di verdure
deteriorate e scarti invendibili. Egli iniziò e finì il suo breve racconto la cui sostanza era data dall'informazione che
aveva sposato una ragazza qualche anno prima, e che sua moglie era ancora in vita. Quasi prima di aver tempo di
mutare espressione del volto, Sue sbottò:
«E non me lo hai mai detto prima!».
«Non potevo. Sembrava così crudele dirtelo».
«Crudele per te, Jude. Così hai preferito essere crudele con me!».
«No, mia adorata!», esclamò Jude appassionatamente. Cercò di prenderle la mano, ma lei la ritrasse. Sembrava
che il rapporto di confidenza che fino ad allora era esistito tra loro improvvisamente si fosse spezzato, e che gli
antagonismi tra i sessi fossero rimasti senza altri desideri per controbilanciarli. Sue non era più una compagna, una
amica, una donna amata a sua insaputa; e i suoi occhi lo guardavano con un silenzio di estraneità.
«Mi vergogno dell'episodio della mia vita che mi ha portato al matrimonio», egli continuò. «Ma ora non riesco
a parlarne in modo più preciso. Avrei potuto farlo se tu l'avessi presa diversamente!».
«Ma come posso?», lei sbottò. «Adesso che ti ho appena detto, o scritto, che... che puoi amarmi, o quantomeno
volermi bene! Solo per compassione... e tutto questo tempo... Oh, è spaventoso che le cose stiano in questo modo!»,
aggiunse, battendo un piede per terra con uno scatto di nervosismo.
«Non merito queste parole, Sue! Non ho mai pensato che mi volessi bene, se non in quest'ultimo periodo; e
quindi credevo non importasse! Mi vuoi bene, Sue?... sai che voglio dire? Quel tuo "per compassione" non mi piace
affatto!».
La sua era una domanda cui, date le circostanze, Sue decise di non rispondere.
«Immagino che lei, tua moglie, sia... molto carina, anche se è cattiva?», gli chiese immediatamente.
«È abbastanza carina, per quello che conta».
«Più carina di me, senza dubbio!».
«Siete completamente diverse. E non la vedo da anni... Ma certo un giorno tornerà... è sempre così!».
«Come è strano che siate separati in questo modo!», disse Sue, le labbra tremanti e un groppo in gola che
smentivano la sua ironia. «Tu, un uomo così religioso. Come potranno i semidei del tuo Pantheon - voglio dire le
persone leggendarie che chiami santi - intercedere per te, dopo tutto questo? Se avessi fatto io una cosa del genere
sarebbe stato diverso, e non ci sarebbe di che meravigliarsi, dato che almeno io non considero il matrimonio un
sacramento. Le tue teorie non sono così avanzate come la tua pratica!».
«Sue, riesci ad essere incredibilmente sarcastica, quando vuoi - un perfetto Voltaire! Ma trattami pure come
credi!».
Notando quanto egli era infelice lei si intenerì, e cercando di trattenere le lacrime di commozione, con
l'affascinante disapprovazione di una donna ferita nel profondo del cuore esclamò: «Ah... avresti dovuto dirmelo prima
di farmi credere che volevi il mio consenso per amarmi! Io non provavo alcun sentimento per te prima di quella volta
alla stazione, tranne quando...». Per una volta, Sue era infelice quanto lui, nei suoi tentativi di controllare le proprie
emozioni con così scarso successo.
«Non piangere, cara!», egli l'implorò.
«Io non... non sto piangendo... perché volevo... amarti; ma perché non hai avuto fiducia in me!».
Nessuno poteva vederli dalla piazza del mercato lì fuori, ed egli non poté evitare di cingerle la vita con un
braccio. Il suo momentaneo desiderio provocò la reazione di lei. «No, no!», Sue disse, tirandosi indietro irrigidita e
asciugandosi gli occhi dalle lacrime. «Proprio no! Sarebbe ipocrita pretendere che lo fai con l'affetto di un cugino; e non
è lecito in altro modo».
Fecero una dozzina di passi, e lei parve essersi ripresa. Jude era confuso da questa sua reazione, e il suo cuore
avrebbe sofferto di meno se Sue gli fosse apparsa in qualsiasi altro modo tranne quello in cui gli appariva: tollerante e
generosa, a pensarci bene, sebbene poco prima, in uno scatto di rabbia, fosse stata preda di quei ristretti stati d'animo
femminili che era necessario concedere al suo sesso.
«Non ti rimprovero per ciò che non potevi evitare», lei disse sorridendo. «Dovrei essere proprio matta! Ti
rimprovero un poco di non avermelo detto. Ma in fin dei conti, non importa. Anche se tutto ciò non fosse accaduto, non
avremmo potuto vivere insieme».
«Sì che avremmo potuto, Sue! Questo è l'unico ostacolo».
«Dimentichi che, anche se non ce ne fossero altri, avrei dovuto amarti e desiderare di sposarti», disse Sue, in
tono ad un tempo serio e gentile che non rivelava i suoi pensieri. «E poi siamo cugini, e non è bene sposarsi tra cugini.
E io... io sono già fidanzata con un altro. Per quanto riguarda il fatto di uscire insieme come facevamo, come due amici,
la gente ci avrebbe impedito di continuare a farlo. La loro concezione dei rapporti tra uomo e donna è limitata, come
prova la mia espulsione da scuola. La loro filosofia concepisce soltanto rapporti basati sul desiderio animale. Essi
ignorano completamente il campo più ampio della sincera amicizia nel quale il desiderio svolge tutt'al più una parte
secondaria, la parte di - come si chiama? - Venere Urania».
Che Sue fosse in grado di sfoggiare la propria cultura dimostrava come fosse di nuovo padrona di sé; e prima
che si lasciassero, lei aveva quasi riacquistato lo sguardo vivace, la mutevolezza del tono di voce, l'allegria e
l'atteggiamento riflessivo di magnanimità critica verso le altre persone della sua età e del suo sesso, che le erano propri.
Adesso egli riusciva a parlare più liberamente. «C'erano molte ragioni che mi sconsigliavano di raccontarti
tutto avventatamente. Una era quella che ho già detto; un'altra era che mi hanno sempre ripetuto che non dovevo
sposarmi - che la mia era una famiglia particolare - una razza non adatta ai matrimoni».
«Ah... e chi te lo diceva?».
«La mia prozia. Diceva che con noi Fawley finiva sempre male».
«Che strano. Mio padre era solito dirmi la stessa cosa!».
Si fermarono assorbiti dallo stesso pensiero, abbastanza triste anche solo come supposizione; che un'unione tra
loro, ammesso che fosse stata possibile, avrebbe significato un'intensificazione della loro inadattabilità - due bocconi
amari in un sol piatto.
«Oh, ma non può essere vera!», disse Sue con nervosa allegria. «Nella nostra famiglia, sono stati sfortunati
negli ultimi anni nella scelta dei compagni - tutto qui».
E poi pretesero di essersi convinti che quanto era accaduto non avesse alcun peso, e che potevano rimanere
cugini e amici e affettuosi corrispondenti, e passare delle ore allegre e felici insieme quando si sarebbero visti, sebbene
si sarebbero frequentati meno che in passato. Si separarono da buoni amici, e tuttavia l'ultimo sguardo di Jude negli
occhi di Sue tradiva la sua perplessità, la sensazione di non conoscere ancora del tutto ciò che lei aveva in mente.
CAPITOLO VII
Le notizie che giunsero da Sue qualche giorno dopo si abbatterono su Jude come un cataclisma.
Ancor prima di leggere la lettera, egli sospettò che contenesse qualcosa di serio quando scorse la firma in
fondo - poiché Sue firmava con il suo nome per esteso, il che non era mai avvenuto prima nella loro corrispondenza,
neppure all'inizio:
Mio caro Jude, devo dirti qualcosa che forse non sarai sorpreso di sentire, anche se certamente ti parrà
troppo accelerata (per usare il linguaggio delle compagnie ferroviarie). Il signor Phillotson ed io ci sposeremo presto tra tre, quattro settimane. Avevamo intenzione, come sai, di attendere che io avessi terminato il corso di formazione e
mi fossi diplomata, di modo che potessi assisterlo, se necessario, nell'insegnamento. Ma egli ha generosamente detto
che non vede alcun motivo per attendere, ora che non frequento più la Scuola Magistrale. È gentile da parte sua,
perché la colpa della situazione imbarazzante in cui mi trovo è unicamente mia che mi sono fatta espellere.
Augurami ogni felicità. Non dimenticare che sono io a chiedertelo e dunque non puoi rifiutarti! La tua
affezionata cugina,
SUSANNA FLORENCE MARY BRIDEHEAD
La notizia lo paralizzò: non poté mangiare nulla, e continuò a bere tè perché aveva la bocca molto secca. Poi
andò a lavorare, con il sorriso amaro di un uomo provato. Tutto sembrava concludersi in farsa. Eppure che poteva fare
quella povera ragazza?, si chiese: e si sentì peggio che se fosse riuscito a piangere.
«Oh Susanna Florence Mary!», esclamò mentre lavorava. «Non sai cosa vuol dire sposarsi!».
Poteva essere che l'aver saputo del suo matrimonio avesse spinto Sue a questo passo, come la visita che le
aveva fatto quella notte in cui era ubriaco l'aveva spinta a fidanzarsi? Certo sembravano esistere altre ragioni
convincenti, di carattere pratico e sociale, per la sua decisione; ma Sue non era una persona molto pratica o calcolatrice,
e ciò lo incoraggiò a pensare che l'offesa inflittale confessandole il suo segreto l'avesse indotta ad accettare la probabile
considerazione di Phillotson che il modo migliore per provare l'infondatezza dei sospetti delle autorità scolastiche fosse
di sposarlo immediatamente, a compimento di un regolare fidanzamento. Sue, in effetti, si trovava in un dilemma
imbarazzante. Povera Sue!
Egli decise di comportarsi da spartano; di prenderla come meglio poteva e di aiutarla; ma per un paio di giorni
non riuscì a scrivere la lettera di auguri richiestagli. Nel frattempo gli arrivò un altro biglietto dalla sua impaziente
adorata:
Jude, mi accompagnerai all'altare? Non conosco nessuno più adatto di te, e anche se mio padre fosse tanto
gentile da accettare, il che non credo, tu sei l'unico parente sposato che io abbia qui. Non ti secca troppo? Ho dato
un'occhiata alla cerimonia nuziale nel Libro delle Preghiere, e mi pare molto umiliante che la sposa debba comunque
avere qualcuno che la dia allo sposo. Secondo la cerimonia per come è scritta nel libro, il mio sposo sceglie me di sua
spontanea volontà e per suo piacere, ma io non scelgo lui. Qualcuno mi dà a lui, come se fossi un'asina, una capra, o
un qualsiasi altro animale domestico. Che Dio benedica le tue elevate nozioni della donna, o uomo di chiesa! Ma
dimenticavo: non ho più il diritto di prenderti in giro. Tua
SUSANNA FLORENCE MARY BRIDEHEAD
Jude s'impose uno sforzo eroico e rispose:
Mia cara Sue, naturalmente ti auguro ogni felicità. E naturalmente t'accompagnerò all'altare. Ma suggerisco
che, non avendo una tua casa, per andarti a sposare tu esca non dalla casa del tuo amico, ma dalla mia. Ritengo che
sarebbe più appropriato dal momento che sono, come tu dici, il tuo parente più stretto in questa parte del mondo.
Non capisco perché firmi la tua lettera in questo nuovo modo così formale. Mi vorrai ancora un po' di bene,
dopotutto! - Il tuo affezionato
JUDE
Ciò che lo aveva infastidito ancor più della firma, era stata la frecciatina sulla quale aveva taciuto - la frase
«parente sposato». Come lo rendeva stupido nella sua veste di innamorato! Se Sue lo avesse scritto in senso sarcastico,
difficilmente avrebbe potuto perdonarla; se perché soffriva - be', allora era un'altra cosa!
L'offerta della casa doveva essere stata riferita a Phillotson, poiché il maestro gli scrisse una calorosa lettera di
ringraziamento, in cui l'accettava. Anche Sue lo ringraziò. Jude si trasferì subito in una casa più ampia, sia per sfuggire
al controllo della sospettosa padrona di casa, che era stata una delle cause delle disavventure di Sue, e sia per avere più
spazio.
Poi Sue gli scrisse per annunciargli la data delle nozze; e Jude decise, dopo essersi informato, che avrebbe
dovuto trasferirsi da lui il sabato seguente, il che avrebbe permesso una permanenza di dieci giorni in città prima della
cerimonia, sufficiente a rappresentare una residenza nominale di quindici.
Sue arrivò con il treno delle dieci del giorno stabilito, senza che Jude andasse a prenderla alla stazione, per
esplicita richiesta della ragazza, che si giustificò dicendo che non voleva fargli perdere mezza giornata di lavoro e di
paga. Ma egli ormai conosceva Sue così bene, da pensare che il ricordo della loro reciproca sensibilità alle crisi emotive
avesse pesato in questa decisione. Quando tornò a casa la sera, lei aveva preso possesso dell'appartamento.
Sue viveva nella stessa casa di Jude, ma a un piano diverso e si vedevano poco; l'unico pasto consumato
insieme era la cena, durante la quale Sue aveva un atteggiamento da bambina impaurita. Cosa provasse, lui non sapeva;
la loro conversazione era meccanica, sebbene lei non sembrasse pallida o malata. Phillotson veniva spesso a trovarla,
soprattutto quando Jude non era in casa. La mattina del matrimonio, avendo Jude preso un giorno di vacanza, Sue e suo
cugino fecero colazione insieme, per la prima e l'ultima volta durante quell'insolita parentesi, nella stanza, il soggiorno,
da lui presa in affitto per il periodo della permanenza di Sue. Notando, come notano le donne, quanto egli fosse
incapace di rendere confortevole quel locale, si diede da fare per aiutarlo.
«Che hai, Jude?», gli chiese all'improvviso.
Egli era appoggiato con i gomiti sul tavolo e il mento tra le mani, e scrutava un futuro che sembrava delinearsi
sulla tovaglia.
«Oh, niente!».
«Tu sei il "padre", sai. È così che chiamano l'uomo che mi dà via».
Jude avrebbe potuto risponderle, «Phillotson ha l'età per essere chiamato tale!»; ma non voleva provocarla con
battute così scontate.
Lei non smise mai di parlare, quasi temesse di lasciarlo solo con i suoi pensieri, e già prima che la colazione
fosse terminata entrambi avrebbero preferito non aver avuto tanta fiducia nella loro nuova visione delle cose, e aver
fatto colazione ciascuno per conto suo. Ad opprimere Jude era il pensiero che, dopo aver compiuto lui stesso uno
sbaglio del genere, stava ora aiutando e incoraggiando la donna amata a compierlo a sua volta, invece di metterla in
guardia implorandola di non farlo. Aveva sulla punta della lingua la domanda: «Sei sicura di quello che fai?».
Dopo colazione, uscirono a fare due passi spinti dal comune pensiero che era l'ultima opportunità che
avrebbero avuto di essere in compagnia senza formalità. Per ironia del fato, e per quel tratto curioso del carattere di Sue
che la portava a provocare la Provvidenza nei momenti critici, lei lo prese sottobraccio e camminarono così lungo la
strada fangosa - una cosa che lei non aveva mai fatto prima in vita sua - finché, girato l'angolo, non si trovarono davanti
a una chiesa grigia dal tetto spiovente - la chiesa di S. Tommaso.
«Ecco la chiesa», disse Jude.
«Dove mi sposerò?».
«Sì».
«Davvero!», lei esclamò incuriosita. «Come mi piacerebbe entrare e vedere da dentro il luogo dove tra poche
ore mi inginocchierò per sposarmi».
Di nuovo, Jude commentò tra sé e sé: «Non si rende conto di cosa sia il matrimonio!».
Assecondò passivamente il suo desiderio ed entrarono in chiesa per una porta laterale. L'unica persona
all'interno di quel tetro edificio era una donna intenta a fare le pulizie. Sue continuava a tenersi stretta a Jude, quasi
fosse la sua amata. E in effetti, era stata crudelmente dolce con lui tutta la mattina; ma i pensieri del giovane sulla
penitenza cui lei andava incontro, erano temperati da un dolore:
... non riesco a capire
Come una disgrazia possa accadere, quale accade agli uomini,
E non rivelarsi troppo forte per la tua femminilità!
Camminarono con discrezione lungo la navata verso il recinto dell'altare, e lì sostarono in silenzio, per poi
girarsi e tornare indietro, la mano di lei che stringeva sempre il braccio di Jude, come una coppia appena sposata.
L'avvenimento troppo suggestivo, provocato esclusivamente da Sue, gettò Jude quasi nello sconforto.
«Mi piace fare queste cose», lei disse con una voce delicata da epicurea delle emozioni che non lasciava alcun
dubbio sulla sincerità delle sue parole.
«Lo so che ti piace!», disse Jude.
«Sono interessanti perché probabilmente nessuno le ha mai fatte prima. Tra un paio d'ore camminerò così in
chiesa con mio marito!».
«Certamente!».
«È stato così quando ti sei sposato?».
«Santo Cielo, Sue - non essere tanto crudele!... Scusa, cara, non volevo offenderti!».
«Ah - sei arrabbiato!», lei disse piena di rimorso, battendo gli occhi per controllare le lacrime. «E avevo
promesso di non farti più arrabbiare!... Non avrei dovuto chiederti di portarmi qui. Proprio non avrei dovuto! Me ne
rendo conto, ora. La curiosità che mi porta a inseguire una nuova sensazione mi mette sempre nei guai. Perdonami!...
Mi perdonerai, Jude?».
L'appello era così commovente, che mentre le stringeva la mano in segno di perdono, gli occhi di Jude
divennero ancora più lucidi di quelli di Sue.
«Adesso andiamocene subito, e prometto che non lo farò più!», lei proseguì in tono mesto; e uscirono
dall'edificio. Sue voleva andare alla stazione a prendere Phillotson. Ma giunti sulla strada principale, la prima persona
che incontrarono fu proprio il maestro, il cui treno era arrivato prima del previsto. A dire il vero non c'era nulla di
sconveniente nel fatto che lei stringesse il braccio di Jude; ma Sue ritrasse subito la mano e a Jude Phillotson parve
sorpreso.
«Abbiamo fatto una cosa così divertente!», Sue disse sorridendo candidamente. «Siamo stati in chiesa a fare le
prove di come sarà. Vero Jude?».
«Che vuoi dire?», chiese Phillotson incuriosito.
Dentro di sé, Jude deplorò quella che considerava un'inutile franchezza; ma lei si era spinta troppo in là perché
ora potesse fare a meno di spiegare ogni cosa; il che, coerentemente, la ragazza fece, raccontandogli della loro marcia
nuziale fino all'altare.
Accortosi dell'imbarazzo di Phillotson, Jude disse col tono più allegro possibile: «Devo ancora comprarle un
altro regalino? Verreste tutti e due con me?».
«No», disse Sue. «Andrò a casa con lui»; e dopo aver raccomandato al suo innamorato di tornare presto, si
allontanò con il maestro.
Jude li raggiunse poco dopo nel suo alloggio, e subito iniziarono a prepararsi per la cerimonia. Phillotson si era
lisciato i capelli fino al ridicolo, e il colletto della sua camicia appariva più rigido di quanto non fosse stato nei
precedenti vent'anni. Al di là di ciò, egli sembrava un uomo dignitoso e posato, e tutto considerato non era avventato
predire che sarebbe stato un marito gentile e premuroso. Che adorasse Sue era palese; e lei dava l'impressione di sentire
di non meritare la sua adorazione.
Sebbene la distanza fosse breve, aveva noleggiato una carrozza al «Leone rosso», e un gruppo di sei o sette tra
donne e bambini attesero incuriositi fuori dalla porta. Non conoscevano il maestro e Sue, ma Jude iniziava ad essere
considerato un concittadino; della coppia si pensò che fossero suoi lontani parenti, e nessuno immaginò che Sue era
stata di recente un'allieva della Scuola Magistrale.
Nella carrozza, Jude tirò fuori dalla tasca il regalo di nozze appena comprato, consistente in un paio di iarde di
tulle bianco, che gettò sopra il cappello e il vestito di Sue a mo' di velo.
«Sembra così ridicolo sopra il cappello», lei disse. «È meglio il velo da solo».
«Oh no... tutt'altro», disse Phillotson. E lei si tranquillizzò.
Non appena furono entrati in chiesa e ciascuno si fu sistemato al suo posto, Jude sentì che la visita precedente
aveva indubbiamente attenuato l'effetto di quella cerimonia; ma quando furono a metà della funzione religiosa, desiderò
con tutto il cuore di non aver accettato il compito di farle da padrino. Come poteva Sue essere stata così temeraria da
chiederglielo - crudele forse con se stessa quanto lo era con lui? Riguardo a queste faccende, si disse, le donne sono
diverse dagli uomini. Forse che invece di essere più sensibili, come si pensa, sono più dure e meno romantiche? E se
fossero più eroiche? O era Sue ad essere così perversa da infliggere deliberatamente un tale dolore a lui e a se stessa per
lo strano e lugubre lusso di sottoporre la propria persona a una lunga sofferenza, e di provare una tenera pietà per lui,
avendolo fatto soffrire a sua volta? Egli si accorse che il volto di lei aveva una compostezza nervosa, e quando venne il
momento che li avrebbe messi a dura prova, in cui Jude doveva dare la ragazza a Phillotson, Sue riuscì a stento a
controllarsi; più tuttavia, si sarebbe detto, perché conosceva i sentimenti che doveva provare suo cugino, la cui presenza
non aveva avuto alcuna necessità di esigere, che perché pensava a se stessa. Forse, nella sua colossale incoerenza
avrebbe continuato a infliggere pene del genere, e ad addolorarsi per colui che faceva soffrire.
Phillotson sembrava non accorgersi di nulla, quasi fosse avvolto in una nebbia che gli impediva di scorgere le
emozioni altrui. Non appena ebbero firmato il registro e furono usciti dalla chiesa, la tensione cessò e Jude si sentì
sollevato.
Il pranzo a casa sua fu frugale, e alle due gli sposi partirono. Mentre attraversava il marciapiede per entrare in
carrozza, Sue volse lo sguardo verso Jude: e negli occhi aveva un'espressione di paura. Era possibile che avesse agito
con un'incoscienza tale da buttarsi in qualcosa di cui non sapeva nulla al solo fine di affermare la propria indipendenza
da lui, di vendicarsi del suo segreto? Forse Sue era così audace con gli uomini perché con ingenuità infantile ignorava
quel lato della loro natura che logorava il cuore e la vita delle donne.
Con un piede già sul predellino, lei si girò dicendo di essersi dimenticata qualcosa. Jude e la padrona di casa si
offrirono di andare a prendergliela.
«No», disse Sue, correndo dentro casa. «È il fazzoletto. So dove l'ho lasciato».
Jude la seguì. Lei l'aveva trovato, e stava uscendo tenendolo in mano. Con gli occhi pieni di lacrime lo guardò,
e le sue labbra all'improvviso si aprirono come se stesse per confessargli qualcosa. Ma proseguì; e quale che fosse la
cosa che intendeva dirgli, rimase non detta.
CAPITOLO VIII
Jude si chiese se lei si fosse veramente dimenticata il fazzoletto, o se invece avesse desiderato confessargli un
amore che all'ultimo momento non aveva avuto la forza di esprimere.
Una volta rimasto solo, non ce la fece a restare nel suo alloggio silenzioso, e temendo che avrebbe potuto
affogare il proprio dolore nell'alcool, si cambiò i vestiti neri con quelli bianchi, gli stivali leggeri con quelli pesanti, e si
recò come ogni pomeriggio al lavoro.
Ma nella Cattedrale sembrava udire una voce alle sue spalle ed essere ossessionato dall'idea che lei sarebbe
tornata. Era impossibile che fosse tornata a casa con Phillotson, pensava. Questa sensazione andò crescendo mettendolo
in agitazione. L'attimo in cui l'orologio batté l'ultima delle sue ore di lavoro egli gettò per terra gli arnesi e corse a casa.
«Mi è venuto a cercare nessuno?», chiese.
Non era venuto nessuno.
Avendo affittato il soggiorno di sotto fino alla mezzanotte, vi sedette per tutta la sera; ed anche quando
l'orologio batté le undici e la famiglia si era ritirata a dormire, non poté scuotersi di dosso la sensazione che lei sarebbe
tornata e avrebbe dormito nella stanzetta, accanto alla sua, in cui aveva dormito gli ultimi giorni. Le sue azioni erano
sempre imprevedibili: perché non sarebbe potuta venire? Egli avrebbe accettato ben volentieri che non fosse la sua
innamorata né sua moglie pur di averla a vivere così come coinquilina e amica, anche nei termini più formali. La sua
cena rimase nel piatto; e dopo aver lasciato appena socchiusa la porta di casa, tornò nella stanza e si sedette come coloro
che vegliavano in tempi lontani alla vigilia della notte di mezza estate, in attesa del fantasma dell'amata. Ma lei non
venne.
Dopo aver indugiato in questa folle speranza, salì di sopra e guardò fuori dalla finestra, cercando di
immaginare Sue in viaggio quella sera per Londra, dove andava con Phillotson in luna di miele - il tragitto in carrozza
nella notte umida fino all'albergo, sotto lo stesso cielo coperto di nuvole che egli vedeva, attraverso il quale la luna
mostrava la sua posizione piuttosto che la sua forma, e un paio delle stelle maggiori erano visibili solo come deboli
nebulose. Era un nuovo inizio della storia di Sue. Jude cercò di immaginare mentalmente il suo futuro e la vide
attorniata da bambini che più o meno le assomigliavano. Ma la consolazione di guardare a costoro come ad una
continuazione dell'identità di lei fu negata a Jude, come ai sognatori a lui simili, dalla determinazione della Natura a non
consentire che la procreazione avvenga da un solo genitore. Il desiderio di rinnovare un'esistenza è frustrato
realizzandosi solo per metà. «Se alla separazione o alla morte del mio amore perduto potessi andare a vedere una
creatura - sua soltanto - ne trarrei conforto!», disse Jude. E poi ripensò di nuovo con disagio, come sempre più spesso
gli accadeva di pensare negli ultimi tempi, a come la Natura disprezzi le più fini emozioni dell'uomo, e sia indifferente
alle sue aspirazioni.
La forza opprimente del suo affetto per Sue si fece sentire la mattina dopo e ancor più chiaramente nei giorni
che seguirono. Egli non poteva sopportare più la luce dei lampioni di Melchester; mentre quella del sole era una pittura
incolore e l'azzurro del cielo zinco. Un giorno ricevette la notizia che la vecchia prozia di Marygreen era gravemente
malata, ed essa coincise quasi con il recapito di una lettera da parte del suo datore di lavoro di Christminster che gli
offriva un posto fisso e ben retribuito, se fosse tornato a lavorare con lui. Per Jude, le due lettere furono quasi un
sollievo. Si recò a far visita alla zia Drusilla, e poi decise di andare a Christminster a vedere se valesse la pena di
accettare l'offerta del costruttore.
Trovò la zia peggio di quanto la lettera della vedova Edlin non lasciasse supporre. Era possibile che andasse
avanti in quello stato per settimane o mesi, anche se era improbabile. Scrisse a Sue per informarla delle condizioni della
zia, immaginando che potesse farle piacere vedere l'anziana parente ancora viva. Si offriva d'incontrarla la sera
seguente, un lunedì, alla stazione di Alfredston, se riusciva a prendere il treno diretto a nord che in quella stazione
incrociava il suo diretto a sud. Il mattino dopo, quindi, andò a Christminster con l'intenzione di tornare ad Alfredston in
tempo per l'appuntamento con Sue.
La Città del sapere aveva un aspetto insolito, e Jude aveva perso ogni sensibilità per ciò che essa
rappresentava. Pure, quando il sole si mise ad accentuare le luci e le ombre delle decorazioni delle facciate e a tracciare
i contorni delle mura merlate sull'erba fresca dei cortili, Jude pensò che quel luogo non gli era mai parso tanto bello.
Giunse alla strada dove aveva visto Sue la prima volta. La sedia da lei occupata quando, china sulla pergamena
ecclesiastica, un pennello in mano e la figura infantile che aveva attirato lo sguardo degli occhi indagatori di Jude, era
esattamente al suo antico posto, vuota. Era come se lei fosse morta, e non si fosse trovato nessuno in grado di sostituirla
in quell'occupazione artistica. Nella città ora aleggiava il fantasma di lei, mentre quelli delle figure intellettuali e
religiose che un tempo lo avevano emozionato così tanto non erano più capaci di affermare la loro presenza.
Comunque stava là; e seguendo i propri propositi, si recò nel suo alloggio di allora in «Beersheba», vicino alla
chiesa ritualistica di San Sila. L'anziana padrona di casa che venne ad aprirgli sembrò contenta di rivederlo, e mentre gli
portava qualcosa da mangiare lo informò che il costruttore dal quale a suo tempo lavorava era venuto a chiederle il suo
indirizzo.
Jude andò al cantiere dove aveva lavorato. Ma la vista dei capannoni e dei lunghi banconi da lavoro gli fu
odiosa; e sentì che gli era impossibile impegnarsi a tornare a vivere nella città dei suoi sogni svaniti. Non vedeva l'ora di
riprendere il treno per Alfredston, dove avrebbe probabilmente incontrato Sue.
Poi, nel corso di un'orribile mezz'ora di depressione causata da queste scene, tornò ad essere preda di quel
sentimento che più di una volta lo aveva portato alla rovina - l'impressione di non meritare che né egli stesso né qualcun
altro si occupasse di lui; e durante quella mezz'ora incontrò al Quadrivio Tinker Taylor, il fallito fabbro di oggetti
ecclesiastici, che gli propose di andare a bere insieme. Si incamminarono lungo la strada finché non giunsero di fronte a
uno dei centri più palpitanti di vita di Christminster, la bettola dove in passato aveva raccolto la sfida di recitare il Credo
in latino - e che adesso era una locanda con un ingresso spazioso e accogliente, dal quale si accedeva a un bar che,
dall'ultima volta in cui Jude vi aveva messo piede, era stato tutto restaurato e arredato in stile moderno.
Tinker Taylor trangugiò il suo bicchiere e andò via, dicendo che era diventato un locale troppo elegante perché
egli potesse sentirsi a casa, a meno che non fosse più ubriaco di quanto i soldi che aveva gli permettevano di essere.
Jude era più lento a finire il suo e restò in silenzio astraendosi da quel luogo momentaneamente deserto. Il locale era
stato completamente svuotato e ammobiliato di nuovo, mobili di mogano avevano sostituito quelli vecchi dipinti,
mentre dietro la zona in cui si stava in piedi vi erano dei divani imbottiti. Il locale era stato diviso in compartimenti,
secondo la moda di allora, delimitati da paraventi di vetro smerigliato in una cornice di mogano, per evitare che gli
ubriaconi di un compartimento dovessero arrossire per essere stati riconosciuti da quelli del compartimento accanto.
Dietro al bancone, due cameriere erano chine sulle impugnature bianche della birra e la fila di beccucci argentati che
sgocciolavano in una condotta di stagno.
Sentendosi stanco, e non avendo altro da fare fino alla partenza del treno, Jude sedette su uno dei divani. Alle
spalle delle cameriere si innalzavano degli specchi smussati, con delle mensole di vetro per tutta la loro lunghezza, sulle
quali si trovavano liquidi preziosi il cui nome Jude ignorava, in bottiglie color topazio, zaffiro, rubino e ametista.
L'atmosfera fu ravvivata dall'ingresso di alcuni avventori nel compartimento accanto, e da una addizionatrice meccanica
che contava i denari ricevuti ed emetteva un rumore metallico ogni volta che vi si inseriva una moneta.
Jude non poteva vedere direttamente la cameriera addetta a questo compartimento, sebbene a tratti potesse
scorgerne le spalle riflesse sullo specchio che le stava dietro. Aveva notato ciò senza particolare interesse quando
all'improvviso lei si girò per un attimo verso lo specchio per aggiustarsi i capelli. Allora rimase di sasso alla scoperta
che si trattava del volto di Arabella.
Se fosse entrata nel suo compartimento, lo avrebbe visto. Ma non entrò, poiché se ne occupava un'altra
cameriera. Abby indossava un vestito nero con i polsini di lino bianco e un ampio colletto, bianco a sua volta, e la sua
figura, più formosa che in passato, era messa in risalto da un mazzetto di narcisi che portava appuntato sul seno sinistro.
Nel compartimento in cui serviva si trovava un serbatoio metallizzato d'acqua sopra una lampada a spirito la cui fiamma
azzurra faceva si che del vapore uscisse dal beccuccio. Jude vedeva tutto ciò dallo specchio, che rifletteva anche i volti
degli uomini che Arabella stava servendo - tra i quali vi era un giovane bello e dissoluto, forse uno studente, che le
stava raccontando una storiella piccante.
«Oh, signor Cockman! Come potete raccontare una storia del genere in presenza di una ragazza innocente
come me!», esclamò allegramente. «Signor Cockman, cosa usate per arricciarvi così bene i baffi?». Dato che il giovane
era perfettamente rasato, l'affermazione provocò una risata generale.
«Insomma!», egli disse. «Vorrei un curaçao e un fiammifero, per favore».
Arabella versò il liquore da una di quelle allegre bottiglie, e acceso un fiammifero lo avvicinò alla sua sigaretta
con magistrale abilità mentre egli aspirava.
«Allora, hai avuto di recente notizie di tuo marito, cara?», egli chiese.
«Non una parola», lei rispose.
«Dov'è che vive?».
«L'ho lasciato in Australia; e immagino sia ancora lì».
Jude strabuzzò gli occhi.
«Perché lo hai lasciato?».
«Non fate domande, se non volete udire bugie».
«D'accordo, allora, dammi il resto che ti sei tenuta già da un quarto d'ora; e io mi dileguerò romanticamente per
le strade di questa città pittoresca».
Lei gli porse il resto sopra il bancone, e nel prenderlo egli le prese la mano e gliela strinse. Seguì una breve
schermaglia e delle risatine, poi il giovane la salutò e uscì.
Jude aveva assistito alla scena con gli occhi di un filosofo in preda a smarrimento. Era incredibile quanto
Arabella adesso sembrasse lontana dalla sua vita. Egli non poteva capacitarsi della loro passata intimità. E così stando le
cose, nel suo attuale stato d'animo, il fatto che Arabella fosse sua moglie gli era del tutto indifferente.
Il compartimento che lei serviva si vuotò, e dopo averci pensato un attimo egli vi si trasferì, dirigendosi verso il
bancone. Per un attimo, Arabella non lo riconobbe. Poi i loro sguardi si incrociarono. Lei ebbe un sussulto; poi
un'allegra impudenza le brillò negli occhi e disse:
«Che mi prenda un colpo! Credevo fossi sottoterra già da anni!».
«Oh!».
«Non ho mai avuto tue notizie, altrimenti non so se sarei venuta qui. Pazienza! Cosa posso offrirti da bere? Un
whisky e soda? Avanti, qualsiasi cosa la casa possa permettersi, in nome di una vecchia amicizia!».
«Grazie, Arabella», Jude rispose restando serio. «Ma non voglio bere nient'altro». La verità era che la sua
inattesa presenza in quel luogo gli aveva fatto passare completamente il desiderio momentaneo di un liquore forte, come
se lo avesse riportato indietro al tempo in cui era un lattante».
«È un peccato, potresti averlo gratis».
«Da quant'è che stai qui?».
«Da sei settimane circa. Sono tornata da Sidney tre mesi fa. Mi è sempre piaciuto questo lavoro, sai».
«Strano che tu sia ritornata in questa città!».
«Be', è come ti ho detto. Ti credevo defunto, e lessi a Londra di questa opportunità in un annuncio. Era
improbabile che qui qualcuno mi conoscesse, anche se non me ne importava nulla, perché non ci sono mai venuta da
ragazza».
«E perché sei tornata dall'Australia?».
«Oh, avevo le mie ragioni... Quindi non sei ancora un "prof"».
«No».
«E neppure un Reverendo?».
«Neppure».
«Neanche una sorta di quasi Reverendo dissenziente?».
«Sono quello che ero».
«Già. Si vede». Poggiò pigramente la mano sulla leva per spillare la birra mentre lo osservava con aria critica.
Egli notò che le sue mani erano più piccole e più bianche di quando vivevano insieme, e nella mano che tirava la leva
c'era un anello che sembrava incastonato da veri zaffiri - e lo era, suscitando grande ammirazione da parte dei giovani
che frequentavano la locanda.
«Così fai credere di avere un marito», egli continuò.
«Sì. Mi è parso che sarebbe stato imbarazzante se avessi detto di essere vedova, come avrei voluto».
«Giusto. Qui mi conoscono un poco».
«Non intendevo in quel senso... perché, come ti ho detto, non mi aspettavo di incontrarti. Era per altre ragioni».
«Quali?».
«Non mi va di spiegartele», lei rispose in tono evasivo. «Qui guadagno bene e non so se desidero la tua
compagnia».
A questo punto un tizio senza mento e con dei baffi simili alle sopracciglia di una signora venne e chiese una
bevanda dalla curiosa composizione, che Arabella dovette andare a preparare. «Non possiamo parlare, ora», gli disse
tornando un attimo. «Non potresti attendere fino alle nove? Dimmi di sì e non fare lo scemo. Posso smettere di lavorare
due ore prima del solito, se chiedo il permesso. Non vivo qui al momento».
Jude rifletté e disse con malinconia: «Tornerò. Immagino sia meglio chiarire la nostra situazione».
«Ma che ci sarà mai da chiarire! Io non devo chiarire niente!».
«Ci sono un paio di cose che vorrei sapere; e come tu hai detto, non possiamo parlarne ora. D'accordo; ti
aspetto fuori».
Posato il bicchiere senza attendere di finirlo, uscì e si mise a camminare avanti e indietro per la strada. Era
stato un colpo violento per il trasparente sentimentalismo del suo attaccamento per Sue. Per quanto le parole di Arabella
non meritassero alcuna fiducia, poteva esserci una qualche verità nella sua affermazione che non voleva disturbarlo e
aveva realmente creduto fosse morto. Comunque, restava solo una cosa da fare, ora, cioè a dire comportarsi in modo
franco, poiché la legge è la legge, e quella donna, con cui non c'erano più punti di contatto che tra est e ovest, era agli
occhi della Chiesa un tutt'uno con lui.
Dovendo incontrarsi lì con Arabella, non avrebbe potuto incontrare Sue ad Alfredston, come le aveva
promesso. Ogni volta che ci pensava, lo prendeva una fitta di dolore; ma la situazione era quella che era. Arabella era
forse una punizione divina per il suo amore illecito. Passò quindi la serata vagando per le strade senza una meta precisa,
ben attento a evitare i dintorni di qualsiasi chiostro o collegio, la cui vista lo avrebbe troppo addolorato, e tornò alla
locanda mentre il grande campanile del Collegio Cardinal batteva cento e uno colpi, una coincidenza che gli parve una
gratuita ironia. Adesso la locanda brillava di luce, e nell'insieme l'atmosfera era più vivace e allegra. I volti delle
cameriere si erano fatti più accesi, avendo ognuna di esse un rossore sulle guance; i loro modi erano ancora più vivaci di
prima - più abbandonati, eccitati, sensuali, ed esse esprimevano i loro sentimenti e desideri meno eufemisticamente,
ridendo con un tono languido, senza riserve.
Nell'ora precedente, la locanda era stata affollata di uomini di ogni genere, e dall'esterno egli ne aveva udito il
baccano delle voci; ma per fortuna, ora di clienti ne erano rimasti di meno. Jude fece un cenno col capo ad Arabella, per
dirle che l'avrebbe attesa all'uscita.
«Ma prima devi bere qualcosa», disse lei, di ottimo umore. «Appena un bicchierino; io lo bevo sempre. Poi
puoi uscire e aspettarmi fuori un minuto, poiché è meglio che non ci facciamo vedere insieme». Versò un paio di
bicchieri di brandy; e sebbene dal suo aspetto si sarebbe detto che aveva già assunto abbastanza alcool vuoi bevendolo
vuoi, il che era più probabile, respirandolo per tante ore in quell'atmosfera, lei vuotò il suo subito. Anche Jude finì in
fretta il suo, e uscì dalla locanda.
Pochi minuti dopo Arabella lo raggiunse, vestita con una giacca pesante e in testa un cappello con una penna
nera. «Vivo qui vicino», gli disse, prendendolo sottobraccio, «e ho la chiave per entrare e uscire di casa quando voglio.
Di quale faccenda volevi parlarmi?».
«Oh, niente di particolare», egli rispose, stanco e nauseato, mentre con la mente riandava ad Alfredston e al
treno che non aveva preso, alla probabile delusione di Sue che non lo avrebbe trovato al suo arrivo, e al mancato piacere
della sua compagnia nella lunga e solitaria salita per la collina di Marygreen alla luce delle stelle. «A dire il vero, sarei
dovuto tornare a casa! Mia zia sta per morire».
«Verrò con te domattina. Non credo ci siano problemi se prendo un giorno di vacanza».
C'era qualcosa di assolutamente fuori posto nell'idea di Arabella, che verso i parenti di Jude non aveva più
simpatia di una tigre per gli esseri umani, di accompagnarlo dalla zia morente e così incontrare Sue. Pure, egli disse:
«Certo, se ti va io non ho nulla in contrario».
«Be', ci penserò... Ora, finché non abbiamo trovato una qualche sistemazione è imbarazzante farci vedere
insieme qui - dove tu sei conosciuto e io comincio ad esserlo, anche se nessuno sospetta che abbia qualcosa a che
vedere con te. Visto che stiamo camminando in direzione della stazione, che ne diresti di prendere il treno delle nove e
quaranta per Aldbrickham? Saremo là in poco più di mezz'ora; e nessuno ci riconoscerà per una notte, e saremo liberi di
fare quel che vogliamo finché non abbiamo deciso se rendere la nostra situazione pubblica o meno».
«Come vuoi».
«Allora aspetta che prendo un paio di cose. Io abito qui. A volte, quando faccio troppo tardi, dormo alla
locanda dove lavoro, per cui nessuno si meraviglierà se dormo fuori».
Tornò in fretta, andarono alla stazione e fecero il viaggio di mezz'ora fino a Aldbrickham, dove scesero in un
albergo di terza categoria vicino alla stazione in tempo per cenare, malgrado l'ora.
CAPITOLO IX
La mattina dopo, tra le nove e le nove e mezza, erano nuovamente in viaggio per tornare a Christminster, gli
unici due occupanti di uno scompartimento in un vagone di terza classe. Avendo fatto, come lo stesso Jude, una toeletta
frettolosa per prendere il treno, Arabella aveva un aspetto trasandato, e sul suo volto non vi era nulla di
quell'animazione che aveva mostrato alla locanda la sera precedente. Quando uscirono dalla stazione, lei scoprì di avere
ancora mezz'ora libera prima di entrare in servizio. Camminarono un poco in silenzio fuori città, in direzione di
Alfredston. Con lo sguardo, Jude andò alla strada maestra ancora lontana.
«Ah... che debole sono!», mormorò alla fine.
«Come dici?», lei gli chiese.
«Questa è esattamente la strada per la quale sono venuto qui a Christminster anni fa, pieno di progetti!».
«Be', quale che sia la strada, credo che dovrei ritornare, poiché devo essere alla locanda per le undici. Come ti
ho detto, non chiederò un giorno di permesso per accompagnarti a trovare tua zia. Per cui forse è meglio che ci lasciamo
qui. Preferirei non passare per la strada principale con te, visto che non siamo giunti a nessuna conclusione».
«D'accordo. Ma quando ci siamo svegliati stamattina non avevi detto che c'era qualcosa che volevi dirmi prima
che ci lasciassimo?».
«Sì, l'ho detto - due cose - una in particolare. Ma tu non mi hai promesso di mantenere il segreto. Se ora te lo
dico, me lo prometti? Dato che sono una donna onesta, vorrei che tu lo sapessi... era quello che avevo iniziato a dirti ieri
notte - su quel signore che gestiva un albergo a Sidney». Arabella parlava in un modo affrettato per lei insolito. «Te lo
tieni per te?».
«Va bene, va bene, te lo prometto!», disse Jude con impazienza. «Che vuoi che me ne importi di rivelare i tuoi
segreti».
«Ogni volta che lo incontravo per strada mi diceva che lo affascinavo moltissimo, e continuava ad insistere che
voleva sposarmi. Io non avrei mai immaginato di ritornare in Inghilterra; e trovandomi laggiù in Australia senza una
casa, dopo che me ne ero andata dalla casa dei miei, alla fine cedetti e accettai».
«Cosa... di sposarlo?».
«Sì».
«Regolarmente, legalmente, in chiesa?».
«Sì. E ho vissuto con lui fino a poco prima di partire. Sono stata stupida, lo so, ma l'ho fatto! Ecco, te l'ho
detto. Non saltarmi addosso, ora! Quel poveraccio parla di tornare in Inghilterra. Ma se lo fa, è improbabile che mi
trovi».
Jude rimase immobile, pallido, lo sguardo fisso davanti a sé.
«Perché diavolo non me l'hai detto ieri notte?», le chiese.
«Be', non potevo... Non ti vuoi rappacificare con me, dunque?».
«E così quando parlavi di "tuo marito" al giovane nel locale intendevi lui, naturalmente... non me!».
«Naturalmente... Avanti, non arrabbiarti!».
«Non ho nient'altro da dire!», rispose Jude. «Non ho parole per il... crimine... che mi hai confessato!».
«Crimine! Puah. Non gli danno tutto questo peso, laggiù! Sono in tanti a farlo... Be', se la prendi così, torno da
lui! Mi amava molto, e abbiamo vissuto insieme dignitosamente, rispettati come qualsiasi coppia sposata di quella
colonia! Che ne sapevo di dove stavi tu?».
«Non voglio prendermela con te. Potrei dire molte cose; ma forse sarebbero fuori luogo. Cosa vorresti che
faccia?».
«Niente. C'è un'altra cosa che vorrei dirti; ma mi sembra che ci siamo già detti abbastanza per il momento!
Penserò a quello che mi hai detto della tua situazione e ti farò sapere».
Così si lasciarono. Jude guardò Arabella scomparire in direzione dell'albergo, poi andò alla stazione ferroviaria
lì vicino. Scoprendo che il treno per Alfredston non sarebbe partito prima di tre quarti d'ora, s'incamminò
meccanicamente in città fino al Quadrivio, dove si fermò, come spesso in passato, e guardò la strada principale della
città che si apriva davanti a lui, con le facciate dei collegi una di seguito all'altra, pittoresca come forse lo sono solo certi
luoghi sul continente quali la strada dei palazzi a Genova. Il contorno degli edifici era nitido nell'aria di quella mattina
come in un progetto architettonico. Ma Jude era lontano dal notare o dal criticare queste cose, turbato com'era
dall'indescrivibile sensazione della contiguità notturna con Arabella, da un senso di degradazione per quella rinnovata
esperienza, e dal ricordo di lei mentre giaceva addormentata all'alba, che disegnò sul suo volto inanimato l'espressione
di un uomo perseguitato dalla maledizione. Se solo avesse potuto provare risentimento nei suoi confronti, sarebbe stato
meno infelice; ma pur disprezzandola, la compativa.
Jude tornò sui propri passi. Dirigendosi verso la stazione, ebbe un sussulto sentendo che qualcuno pronunciava
il suo nome - meno per il nome che per la voce che lo chiamava. Con sua grande sorpresa, davanti a lui c'era Sue, come
in una visione - il suo sguardo presago e trepidante come in un sogno, la piccola bocca tremante, e gli occhi spalancati
in un'interrogazione piena di rimprovero.
«Oh Jude - sono così felice di incontrarti!», Sue disse con voce spezzata, sul punto di rompere in un
singhiozzo. Poi arrossì notando che Jude stava pensando che non si erano più visti dal giorno del matrimonio.
Distolsero lo sguardo uno dall'altra per nascondere la loro reciproca emozione, poi si presero per mano senza
dire una parola, e camminarono così insieme per un po', finché lei gli lanciò un'occhiata di furtiva premura. «Sono
arrivata alla stazione di Alfredston, ieri sera, come mi avevi chiesto, e non c'era nessuno ad attendermi! Ma sono
riuscita lo stesso a raggiungere Marygreen e mi hanno detto che la zia sta un po' meglio. Sono rimasta con lei, e poiché
non arrivavi mi sono messa paura - ho pensato che forse tornando in questa antica città ti fossi arrabbiato all'idea che io
ero... sposata, e non qui come in passato; e che non avessi nessuno con cui parlare, e avessi cercato di annegare la
tristezza... come quella volta quando eri deluso di non poter entrare all'Università, e ti fossi scordato di avermi promesso
che non l'avresti fatto mai più. Questo, ho pensato, era il motivo per cui non eri arrivato!».
«E sei venuta a cercarmi e a salvarmi come un angelo buono!».
«Ho pensato di venire con il treno della mattina a vedere dove eri nel caso che... che...».
«Non ho mai dimenticato la promessa che ti avevo fatto, cara! Non mi lascerò mai più andare in quello stato, te
l'assicuro. Forse non ho fatto molto in questo periodo, ma certo quello no... il solo pensiero mi disgusta».
«Sono contenta che non è per questo che ti sei trattenuto. Ma», aggiunse con appena una punta di risentimento
nella voce, «ieri sera non sei venuto a prendermi, come avevi promesso!».
«Hai ragione... mi dispiace. Avevo un appuntamento alle nove, troppo tardi per riuscire a prendere il treno che
avrebbe incrociato il tuo, o comunque per tornare a casa».
Guardando la sua amata come gli appariva in quel momento, la compagna più dolce e disinteressata che egli
avesse mai incontrato, che viveva essenzialmente di una vivida immaginazione, una creatura così eterea che si poteva
scorgere il suo spirito tremare nelle sue membra, egli provò un profondo senso di vergogna per la materialità mostrata
nel passare in compagnia d'Arabella tutte le ore che vi aveva passato insieme. C'era qualcosa di rozzo e immorale nel
raccontare queste vicende della sua vita a una mente che, ai suoi occhi, era così immateriale che a tratti pareva
impossibile potesse aver sposato un normale essere umano. Eppure era la moglie di Phillotson. Come lo era diventata,
come viveva in questo ruolo, travalicava la comprensione di Jude, mentre la guardava.
«Torniamo insieme?», le chiese. «C'è un treno proprio ora. Chissà come starà la zia... E così, Sue, hai fatto
tutta questa strada per me! Sarai partita prestissimo, poverina!».
«Sì. Seduta sveglia tutta la notte mi ero proprio impensierita per te, e invece di andare a letto quando fu giorno,
venni qui. E ora non farmi preoccupare più senza motivo per il tuo comportamento!».
Egli non era così certo che si fosse preoccupata senza motivo. Le lasciò la mano finché non salirono sul treno aveva l'impressione che fosse lo stesso vagone nel quale poche ore prima era stato seduto con un'altra - dove si sedettero
uno accanto all'altra, Sue tra Jude e il finestrino. Egli contemplò i lineamenti delicati del suo profilo, e le piccole e
compatte rotondità del busto simili a due mele, così diverse dalle forme abbondanti di Arabella. Pur sapendo che la
guardava, Sue non si voltò verso di lui ma continuò a guardare davanti a sé, quasi temesse che se avesse incontrato il
suo sguardo tra loro sarebbe iniziata una violenta discussione.
«Sue... tu sei sposata, ora, come me; eppure tutto è accaduto così in fretta, che non abbiamo avuto il tempo di
parlarne!».
«Non ce n'è bisogno!», lei rispose prontamente.
«Be'... forse no... Ma io vorrei...».
«Jude, non parliamo di me, vorrei proprio evitarlo!», lo implorò. «Mi mette in agitazione. Scusa se te lo dico...
Dove hai dormito ieri notte?».
Gli aveva posto la domanda del tutto innocentemente, tanto per cambiare argomento. Egli lo sapeva e si limitò
a dire «In albergo», anche se sarebbe stato per lui un sollievo poterle raccontare del suo incontro con una persona
inaspettata. Ma la notizia che quest'ultima gli aveva dato, prima di salutarlo, di essersi sposata in Australia lo tratteneva,
per paura che quanto avrebbe detto avrebbe fatto torto alla moglie.
Continuarono a parlare, ma con imbarazzo, finché non giunsero a Alfredston. Che Sue non fosse più come
l'aveva conosciuta, ma portasse il marchio «Phillotson» paralizzava i tentativi di Jude di stabilire un rapporto più intimo
con lei come persona singola. Pure, sembrava la stessa - e Jude non sapeva dire il perché. Restavano loro le cinque
miglia fino al villaggio, distanza che era altrettanto facile percorrere a piedi che in carrozza, trattandosi in gran parte di
una ripida salita. Jude non aveva mai percorso con Sue quella strada in precedenza, anche se l'aveva fatto con un'altra
ragazza. Adesso era come se portasse con sé una luce sfolgorante che rimuoveva momentaneamente i cupi ricordi di
poche ore prima.
Sue parlò animatamente, ma Jude notò che si guardava bene dal parlare di sé. Finché non le chiese se suo
marito stava bene.
«Oh sì», lei disse. «È stato costretto a rimanere a scuola tutta la giornata, altrimenti sarebbe venuto con me. È
così buono e gentile che pur di accompagnarmi una volta tanto avrebbe trascurato la scuola, anche se l'idea di concedere
delle vacanze supplementari era contraria ai suoi principi, ma io non ho voluto. Ho pensato che sarebbe stato meglio
venire da sola. Sapevo che la zia Drusilla è una persona un poco bizzarra, e il fatto che lui fosse quasi uno sconosciuto
avrebbe reso la situazione imbarazzante ad entrambi. Dal momento che sembra non sia quasi più in sé, sono contenta di
non averglielo chiesto».
Mentre Sue cantava le lodi di Phillotson, Jude aveva camminato sempre più cupo. «Il signor Phillotson ti
accontenta in tutto, come è giusto», disse.
«Ovviamente».
«Dovresti essere una moglie felice».
«E naturalmente lo sono».
«Sposa, avrei quasi potuto dire, ancora. Non sono passate molte settimane da quando ti ho dato a lui, e...».
«Sì, lo so! Lo so!». C'era qualcosa nel suo volto che smentiva le sue parole rassicuranti, formalmente così
ineccepibili ma pronunciate con così scarso entusiasmo che potevano essere state prese dall'elenco delle frasi fatte della
Guida al buon comportamento della moglie. Jude conosceva ogni sfumatura della voce di Sue, sapeva discernere ogni
sintomo della sua condizione mentale; ed era convinto che lei fosse infelice, sebbene non fosse ancora passato un mese
da quando si era sposata. Ma quel suo precipitarsi al capezzale di una parente che aveva a malapena conosciuto in vita
non significava nulla, poiché Sue faceva questo genere di cose del tutto naturalmente.
«Comunque, ora come sempre ti auguro ogni bene, signora Phillotson».
Lei lo rimproverò con un'occhiata.
«No, tu non sei la signora Phillotson», mormorò Jude. «Tu sei la cara e libera Sue Bridehead, solo che non lo
sai! La vita matrimoniale ancora non ti ha schiacciato e digerito nel suo enorme stomaco come un atomo privo di
qualsivoglia individualità».
Sue assunse il contegno di chi è offeso, finché a un certo punto rispose: «Neppure a te, per quel che posso
vedere!».
«Come ti sbagli!», egli disse, scuotendo tristemente il capo.
Quando passarono davanti alla casetta isolata in mezzo agli abeti tra la Casa Bruna e Marygreen, in cui Jude e
Arabella avevano vissuto e litigato, egli si volse a guardarla. Ora ci viveva una famiglia molto povera. Jude non poté
evitare di dire a Sue: «Ecco la casa dove ho abitato con mia moglie tutto il tempo che siamo stati insieme. Qui la portai
appena sposati».
Sue la guardò. «È stata per te quello che per me è la casa di Shaston adiacente alla scuola».
«Sì; tranne che nella mia io non sono stato molto felice, come tu nella tua».
Per tutta risposta Sue rimase in silenzio, ed essi proseguirono per un po' senza parlare, quando lei gli lanciò
un'occhiata per vedere come l'aveva presa. «Certo posso aver esagerato sulla tua felicità... non si sa mai», egli aggiunse
in tono gentile.
«Non ti permetto di pensarlo neppure per un attimo, Jude, anche se puoi averlo detto solo per punzecchiarmi!
Non c'è marito al mondo che sia più buono del mio e lasci la libertà completa che egli lascia a me - cosa che in generale
i mariti di una certa età non fanno mai... Se credi che non sono felice perché è troppo vecchio per me, ti sbagli di
grosso».
«Io non penso nulla di male su di lui... riguardo a te, cara».
«Prometti allora di non dire cose che mi addolorano».
«Prometto».
Egli non aggiunse altro, ma in qualche modo sapeva che nel prendere Phillotson per marito, Sue sentiva di aver
fatto quello che non avrebbe dovuto fare.
Discesero nel campo sul versante opposto a quello su cui sorgeva il villaggio, il campo dove Jude era stato
malmenato dal fattore molti anni prima. Risalendo verso il villaggio e avvicinandosi alla casa, trovarono sulla porta la
signora Edlin, che vedendoli alzò le braccia con aria di disapprovazione. «Non ci crederete, ma è scesa di sotto!»,
esclamò la vedova. «Si è alzata dal letto, e non c'è stato verso di fermarla. Non so proprio cosa accadrà!».
Entrarono, ed effettivamente la vecchia sedeva accanto al camino, avvolta in coperte, e si voltò verso di loro
con l'atteggiamento del Lazzaro di Sebastiano del Piombo. Il loro stupore dovette apparire nel modo più palese poiché
lei disse con voce falsa:
«Ah, vi ho messo paura, eh! Non ce la facevo più a stare lassù, per il piacere di qualcuno! È più di quanto una
persona in carne ed ossa possa sopportare, che le venga ordinato di fare questo e quello da un tizio che non ci capisce
niente!... Ah - ti pentirai di esserti sposata, proprio come lui!», aggiunse, rivolgendosi a Sue. «Tutti nella nostra famiglia
alla fine si pentono, e lo stesso accade nelle famiglie degli altri. Avresti dovuto starmi a sentire, sciocchina! E tra tanti,
proprio Phillotson il maestro dovevi andarti a scegliere! Cosa ti ha spinto a sposarlo?».
«Cosa spinge la maggior parte delle donne a sposarsi, zia?».
«Ah! Vuoi dirmi che lo amavi?».
«Io non voglio dire nulla di particolare».
«Lo ami?».
«Non chiedermelo, zia».
«Me lo ricordo molto bene. Un vicino molto educato, per bene; ma Santo Cielo!... Per carità, non voglio ferire i
tuoi sentimenti, ma ci sono alcuni uomini qua e là che nessuna donna appena sensibile riesce a digerire. Avrei detto che
lui è uno di questi. Ora non lo direi mai, dal momento che tu devi averlo giudicato diversamente, ma questo è quello
che avrei detto!».
Sue s'alzò di scatto e uscì. Jude la seguì e la trovò a piangere sulla soglia di casa.
«Non piangere, cara!», la supplicò addolorato. «Le sue intenzioni sono buone, è solo che ora è intrattabile e
non ci sta con la testa».
«Oh no... non è questo!», disse Sue cercando di asciugarsi gli occhi. «Non m'importa niente dei suoi modi
bruschi».
«Cos'è allora?».
«È che quello che dice è... è vero!».
«Dio mio!... Ma come... non lo ami?».
«Non voglio dir questo!», lei si affrettò a precisare. «È che non avrei... forse non avrei dovuto sposarlo!».
Jude si domandò se era veramente quello che stava per dire in un primo momento. Rientrarono, l'argomento fu
accantonato e la zia trattò Sue con gentilezza, e le disse che non molte ragazze appena sposate avrebbero fatto un
viaggio così lungo per andare a trovare una vecchia malata come lei. Nel pomeriggio, Sue si preparò a ripartire; un
vicino di casa, dietro pagamento, l'avrebbe condotta ad Alfredston.
«Se vuoi vengo con te alla stazione», disse Jude.
Ma Sue non volle. Giunse l'uomo con il calesse, e Jude l'aiutò a salire, forse con premura eccessiva, poiché lei
gli lanciò un'occhiata ammonitrice.
«Spero... che potrò venirti a trovare un giorno, quando tornerò a Melchester?», egli disse in tono vagamente
irritato.
Sue si chinò e gli disse a mezza voce: «No, caro - ancora non è il momento. Non mi sembra che tu sia nello
stato d'animo adatto».
«Come vuoi», disse Jude. «Addio!».
«Addio!». Gli fece un cenno di saluto con la mano e partì.
«Ha ragione lei! Non andrò!», egli mormorò.
Jude passò la serata e i giorni seguenti mortificando in ogni modo possibile il desiderio di vederla, lasciandosi
quasi morire di fame nel tentativo di soffocare digiunando la tendenza appassionata di amarla. Lesse i sermoni sulla
disciplina; e cercò nella storia della Chiesa i brani che trattavano degli asceti del secondo secolo. Prima di lasciare
Marygreen per tornare a Melchester, gli arrivò una lettera da Arabella. La vista di questa lettera rinnovò in lui un
sentimento di rimorso più per aver accettato sia pur brevemente la sua compagnia che per il suo attaccamento a Sue.
Notò che la lettera portava il timbro di Londra invece che quello di Christminster. Arabella lo informava che
pochi giorni dopo che si erano lasciati quella mattina a Christminster, con sua grande sorpresa aveva ricevuto una lettera
affettuosa dal marito australiano, l'ex direttore d'albergo di Sidney. Era venuto in Inghilterra per cercarla; e aveva
rilevato una locanda nel quartiere di Lambeth, dove desiderava che lei lo raggiungesse per aiutarlo nell'impresa, che
aveva l'aria di essere promettente, dato che la locanda era situata in un'ottima zona, molto popolata e piena di bevitori di
gin, e già faceva affari per duecento sterline, cifra che facilmente si sarebbe potuta raddoppiare.
Poiché le aveva scritto che l'amava ancora molto e l'implorava di fargli sapere dove fosse, e considerando che
si erano lasciati per un battibecco di scarsa importanza e che il lavoro a Christminster era solo temporaneo, aveva deciso
di cedere alle sue insistenze e raggiungerlo. Sentiva di appartenere a lui più che a Jude, poiché lo aveva regolarmente
sposato ed era vissuta con lui molto più a lungo che con il suo primo marito. Nel congedarsi quindi da Jude, diceva di
non serbargli rancore, e confidava che non si sarebbe vendicato di lei, povera donna, calunniandola in pubblico e
portandola alla rovina ora che aveva una possibilità di migliorare la sua situazione e di vivere una vita più agiata.
CAPITOLO X
Jude fece ritorno a Melchester, che aveva la dubbia prerogativa di essere a una dozzina di miglia dalla
residenza ormai definitiva di Sue. In un primo momento, gli era parso che la vicinanza della ragazza fosse un'ottima
ragione per non recarsi affatto in quella città; ma Christminster era un luogo troppo triste perché potesse continuare a
viverci, e la vicinanza di Shaston a Melchester poteva procurargli la gloria di vincere in un corpo a corpo il Nemico, del
genere ricercato deliberatamente da preti e vergini della Chiesa antica, che sdegnando una fuga ignominiosa dalle
tentazioni, giungevano persino a coabitarvi impunemente. Jude non si fermò a ricordare, nelle laconiche parole dello
storico, che in queste circostanze «talvolta la Natura offesa rivendica i suoi diritti».
Si dedicò nuovamente con febbrile disperazione ai suoi studi per essere ordinato prete - implicito
riconoscimento del fatto che negli ultimi tempi la concentrazione con cui aveva perseguito i propri scopi e la fedeltà alla
propria causa erano state più che discutibili. La passione per Sue gli turbava l'anima, eppure l'essersi abbandonato, pur
nel pieno dei suoi diritti, alla compagnia di Arabella per dodici ore, istintivamente gli sembrava una azione peggiore sebbene solo il giorno dopo avesse saputo del marito di Sidney. Credeva sinceramente di aver superato ogni tentazione
di darsi al bere - tentazione cui, in verità, non aveva mai ceduto per gusto, ma esclusivamente per sfuggire a un
intollerabile sconforto mentale. Tuttavia, si rendeva conto con disperazione di essere un uomo troppo passionale per
diventare un buon prelato; il massimo cui poteva aspirare era che in una vita di ininterrotta lotta interiore tra carne e
spirito, la prima non avesse sempre la meglio.
Quale passatempo complementare alle sue letture ecclesiastiche, ampliò le sue modeste nozioni di musica sacra
e basso continuo, fino ad essere in grado di cantare una parte leggendo lo spartito con una certa accuratezza. A un paio
di miglia da Melchester si trovava la chiesa restaurata di un villaggio, dove in origine Jude si era recato per curare la
sistemazione di colonne e capitelli. In tal modo aveva conosciuto l'organista, e il prodotto ultimo di tale amicizia fu che
egli entrò a far parte del coro come voce di basso.
Si recava a piedi a questa chiesa due volte ogni domenica, e di tanto in tanto durante la settimana. Una sera
verso Pasqua il coro si era riunito per esercitarsi e provava per la settimana successiva un nuovo inno che Jude aveva
sentito dire essere opera di un compositore del Wessex. Era una composizione stranamente commovente. A forza di
cantarlo con il resto del coro, le armonie del brano toccarono il cuore di Jude, turbandolo profondamente.
Terminate le prove, andò a cercare l'organista per saperne di più. La partitura era scritta a mano, e il nome del
compositore era all'inizio, insieme al titolo dell'inno: Ai piedi della Croce.
«Sì», disse l'organista. «Abita da queste parti. È un musicista di professione a Kennetbridge - a metà strada tra
qui e Christminster. Il vicario lo conosce. È stato allevato ed educato secondo le tradizioni di Christminster, il che
spiega la qualità del pezzo. Credo che laggiù suoni in una grande chiesa e che abbia un coro di chierici. Ogni tanto
passa per Melchester, e una volta cercò di ottenere il posto di organista nella chiesa locale quando era vacante. L'inno lo
suoneranno ovunque a Pasqua».
Mentre ritornava a casa canticchiando l'aria dell'inno, Jude si mise a pensare al compositore e alle ragioni che
lo avevano ispirato. Che uomo comprensivo doveva essere! Perplesso e tormentato com'era riguardo a Sue e ad
Arabella, e turbato nella coscienza dalla complessità della sua posizione, quanto gli sarebbe piaciuto conoscere
quell'uomo! «Egli soltanto potrebbe capire le mie difficoltà», disse l'impulsivo Jude. Se avesse dovuto scegliere
qualcuno come confidente, sarebbe stato questo compositore, poiché egli doveva aver sofferto, e conosciuto il fuoco e
l'intensità della passione.
In poche parole, malgrado il sacrificio di tempo e denaro che il viaggio comportava, Fawley, da quel bambino
che era, decise di andare a Kennetbridge la domenica successiva. Partì a tempo debito di primo mattino, poiché per
giungere a quella città doveva cambiare treno più di una volta. Verso mezzogiorno arrivò a destinazione, e passato il
ponte per accedere all'antico borgo chiese della casa del compositore.
Gli dissero che era una casetta di mattoni rossi poco più avanti, e aggiunsero che il maestro stesso era passato
di lì non più di cinque minuti prima.
«Da quale parte?», chiese Jude con impazienza.
«Veniva dalla chiesa ed era diretto verso casa».
Jude accelerò il passo, e subito ebbe il piacere di scorgere, non molto distante da lui, un uomo con un cappotto
nero e un cappello a cencio di feltro nero. Allungò ancora il passo pensando, «Un'anima affamata all'inseguimento di
una appagata! Devo parlare a quell'uomo!».
Non riuscì, tuttavia, a raggiungere il musicista prima che questi entrasse in casa, e allora gli si presentò il
problema se era un'ora conveniente per fargli visita. Ma anche se non lo fosse stata, decise di farla subito, ora che si
trovava là, essendo la distanza da casa troppo grande perché potesse attendere fino al pomeriggio inoltrato. Un
individuo superiore come quell'uomo avrebbe perdonato la sua poca discrezione e sarebbe potuto essere un consigliere
perfetto in un caso come il suo, in cui una passione terrena e illegittima era penetrata furtivamente nel suo cuore
attraverso la porta lasciata aperta per la religione.
Jude suonò quindi il campanello e fu invitato a entrare.
Il musicista lo ricevette subito, e osservando che era vestito in maniera rispettabile, e aveva un aspetto
piacevole e modi franchi, lo accolse con cortesia. Ciononostante Jude provava un certo imbarazzo a spiegare il motivo
della sua visita.
«Da qualche tempo canto nel coro di una piccola chiesa vicino a Melchester», spiegò. «Questa settimana
abbiamo provato Ai piedi della Croce, che se non sbaglio è una sua composizione».
«È vero. L'ho scritta circa un anno fa».
«Io... io la trovo assolutamente stupenda!».
«Ah, bene - non siete la prima persona a dirmelo. Sì, potrei fare un po' di soldi, se solo riuscissi a pubblicarla.
Ho scritto anche altre composizioni da unire a quella; magari potessi farle uscire, ché a dire il vero non mi hanno
fruttato ancora neppure cinque sterline. Questi editori - quando si tratta di un compositore sconosciuto come me,
vogliono i diritti d'autore dell'opera per meno di quello che a me costa far fare da qualcuno una bella copia dello
spartito. Quella di cui lei parla l'ho imprestata a diversi amici qui nei dintorni e a Melchester, e così è stata cantata un
poco. Ma se per vivere si fa affidamento sulla musica non si va molto lontano - io ho intenzione di dedicarmi ad altro.
Chi vuole guadagnare qualcosa, al giorno d'oggi, deve mettersi nel commercio. Quanto a me, farò il mercante di vini.
Ecco la lista dei miei prodotti - ancora non è ufficiale - ma può prenderne una copia».
Passò a Jude un elenco pubblicitario a forma di libretto, con una decorazione rossa sul bordo delle pagine, nella
quale si reclamizzavano i vari tipi di chiaretto, champagne, porto, sherry e altri vini con cui si proponeva di avviare la
sua nuova attività. Jude rimase più che stupito all'idea che l'uomo con un animo così profondo fosse un tipo del genere;
e sentì che non avrebbe potuto aprirgli il proprio cuore.
Parlarono ancora un poco ma senza naturalezza, poiché non appena il musicista scoprì che Jude era povero
assunse un atteggiamento ben diverso da quello che aveva avuto quando l'aspetto e le maniere del giovane lo avevano
ingannato riguardo alla sua posizione e alle sue intenzioni. Jude balbettò qualcosa sui propri sentimenti nel volersi
congratulare con l'autore di una composizione così elevata, e si congedò con grande imbarazzo.
Per tutto il viaggio di ritorno nel lento treno domenicale, e mentre sedeva in sale d'attesa non riscaldate
malgrado la fredda giornata primaverile, si sentì depresso per l'ingenuità con cui aveva intrapreso quel viaggio. Ma
giunto al suo alloggio di Melchester, trovò ad attenderlo una lettera che era arrivata quella mattina pochi minuti dopo
che era uscito di casa. Era un biglietto di scuse di Sue, nel quale diceva con dolce umiltà che sentiva di essere stata
orribile per avergli vietato di andarla a trovare e odiava se stessa per essere stata così convenzionale, e che egli doveva
senza indugio prendere il treno delle undici e tre quarti quella stessa domenica e pranzare con loro all'una e mezza.
Jude si sarebbe strappato i capelli per aver letto quella lettera quando ormai era troppo tardi per agire come gli
veniva richiesto; ma negli ultimi tempi aveva imparato a disciplinarsi e finì col vedere nella inutile spedizione a
Kennetbridge un altro intervento speciale della Provvidenza per tenerlo lontano dalle tentazioni. Tuttavia una crescente
impazienza verso la fede, che ultimamente aveva notato in se stesso più di una volta, gli fece apparire come ridicola
l'idea che Dio coinvolgesse le persone in imprese insensate. Moriva dalla voglia di vederla; non si capacitava di aver
perso l'occasione; e le scrisse subito, raccontandole cosa era accaduto e dicendole che non aveva la pazienza di
attendere la domenica successiva e che era pronto ad andarla a trovare qualsiasi giorno della settimana lei gli avesse
indicato.
Notando che la lettera di Jude era un po' troppo accorata, Sue, secondo il suo carattere, tardò a rispondergli fino
al giovedì prima del Venerdì Santo, quando gli offrì di venire il pomeriggio, se lo desiderava, essendo quello il primo
giorno in cui poteva riceverlo, poiché ora assisteva il marito nell'insegnamento a scuola. Jude prese quindi un
pomeriggio di vacanza dal lavoro alla Cattedrale, al costo insignificante di una diminuzione della paga, e partì.
PARTE QUARTA
A Shaston
Whoso prefers either Matrimony or other Ordinance before the Good of Man and the plain Exigence of charity, let him
profess áPapist, or Protestant, or what he will, he is no better than a áPharisee.
J. Milton
CAPITOLO I
Shaston, l'antica Palladour britannica,
La cui fondazione già originò sì strane storie,
come cantò il Drayton, in sé era ed è una città di sogno. Gli scarsi resti del castello, le tre zecche, la splendida abbazia
con la sua abside, gloria suprema del sud del Wessex, le dodici chiese, i tabernacoli, i cori, gli ospedali, i palazzi dalle
mura merlate - tutti ora abbattuti senza ritegno - mettono il visitatore, pur contro la sua volontà, in uno stato di pensosa
malinconia che l'atmosfera stimolante e il paesaggio sconfinato intorno a lui non aiutano certo a scacciare. Quel luogo
ospitava le tombe di un re e di una regina, abati e badesse, santi e vescovi, cavalieri e nobili. Le ossa di re Edoardo detto
il Martire, lì trasferite con estrema attenzione per essere conservate santamente, portarono a Shaston una fama che ne
fece una meta per i pellegrini di ogni parte d'Europa, consentendogli di mantenere una reputazione che si estendeva ben
al di là delle coste inglesi. Per questa bella creazione di quella grande epoca che fu il Medioevo, la soppressione dei
monasteri fu, come raccontano gli storici, una condanna a morte. Con la distruzione dell'enorme abbazia, tutta la
cittadina precipitò nella rovina più completa: le ossa del Martire condivisero il fato dell'urna sacra che le conteneva, ed
ora non è rimasta neppure una pietra a indicare dove si trovino.
Il carattere spontaneamente pittoresco e la singolarità della cittadina sono rimasti; ma strano a dirsi, queste
qualità, che furono notate da molti scrittori in secoli spesso accusati di non apprezzare la bellezza scenica, passano
inosservate nel nostro, cosicché uno dei posti più insoliti e bizzarri dell'Inghilterra non viene visitato praticamente da
nessuno.
La sua è una posizione unica, in cima a un ripido e suggestivo pendio, che si erge sui lati nord, sud e ovest
della zona sopra la profonda vallata alluvionale di Blackmoor. La vista dal Castello verde che abbraccia tre contee di
pascoli verdeggianti - il Wessex meridionale, centrale e settentrionale - è una sorpresa per il viaggiatore impreparato
quanto l'aria benefica che vi si respira lo è per i suoi polmoni. Irraggiungibile col treno, il modo migliore per arrivarci è
a piedi, o tutt'al più con un veicolo leggero; e anche a quest'ultimo è quasi inaccessibile, se non passando per una sorta
di istmo a nord-est, che da quel lato congiunge la rocca del paese all'altipiano calcareo.
Tale è, ed era, la città ormai dimenticata dal mondo di Shaston o Palladour. Data la sua posizione, per essa
l'acqua è sempre stata un bene prezioso; e a memoria d'uomo non si ricorda giorno in cui non si siano visti cavalli, muli
e esseri umani arrampicarsi fino in cima per i sentieri a tornanti, carichi di botti e secchi ricolmi d'acqua presa dai pozzi
ai piedi della montagna, che poi i trasportatori vendevano al prezzo di mezzo penny al secchio.
Questa difficoltà per il rifornimento dell'acqua, unita ad altri due fatti inconsueti, cioè a dire che il cimitero
principale era situato dietro la chiesa su un pendio ripido come un tetto, e che in passato la città attraversò un raro
periodo di corruzione, conventuale e domestica, è all'origine del detto che Shaston era rimarchevole perché poteva
offrire all'uomo tre consolazioni, quali non si trovavano da nessuna altra parte al mondo. Era un luogo dove il cimitero
era più vicino al cielo del campanile della chiesa, dove vi era più abbondanza di birra che di acqua, e dove vi erano più
prostitute che mogli o ragazze oneste. Si diceva anche che dopo il Medioevo gli abitanti furono troppo poveri per
pagarsi i prelati, e furono quindi obbligati a demolire le chiese e ad astenersi dalla pubblica adorazione di Dio; una
necessità della quale si lamentavano tra un boccale di birra e l'altro seduti sulle panche delle locande la domenica
pomeriggio. In quei giorni, ad essi sembra non mancasse il senso dell'umorismo.
C'era un'altra peculiarità - in questo caso risalente a tempi più moderni - che sembra Shaston dovesse alla sua
posizione. Era luogo di sosta e quartier generale dei proprietari di carrozzoni ambulanti, spettacoli, sale di tiro a segno, e
altri passatempi itineranti, i cui affari si svolgevano in gran parte alle fiere e ai mercati. Come accade di vedere
radunarsi su qualche ampio promontorio strani uccelli selvatici, che si riposano in silenzio prima di intraprendere voli
più lunghi, o ripercorrere il tragitto compiuto sino a quel punto, così qui, in questa città sospesa come su uno scoglio, i
carrozzoni gialli e verdi dai nomi stranieri sostavano in un silenzio attonito, quasi stupiti da un mutamento nel
paesaggio, così violento da impedire loro di proseguire; e lì solitamente restavano tutto l'inverno, fin quando con lo
sbocciare della primavera tornavano sui loro passi alla ricerca dei sentieri battuti in passato.
Fu in questo luogo ventoso e strano che Jude salì dalla stazione più vicina per la prima volta in vita sua un
pomeriggio verso le quattro, e giunto alla sommità della rocca dopo una salita faticosa, passò le prime abitazioni di
quella città aerea, diretto alla casa del maestro. Era troppo presto, gli alunni erano ancora a scuola, ronzando come uno
sciame d'api; egli tornò indietro alla strada dell'abbazia, da dove contemplò il luogo che il fato aveva eletto a dimora di
quanto egli più amava al mondo. Di fronte alle scuole, che consistevano di due grandi edifici in pietra, svettavano due
enormi faggi dal tronco levigato di un color grigio topo, tipico degli alberi che crescevano su quell'altipiano calcareo.
Guardando attraverso le finestre a bifora e a lunetta, emergevano al di sopra dei parapetti le teste nere, brune e dorate
degli alunni. Per ingannare l'attesa, Jude camminò fino al terrapieno dove un tempo remoto si trovavano i giardini
dell'abbazia; ma per quanto cercasse di calmarsi, il cuore gli palpitava fortissimo.
Non volendo entrare prima che i bambini fossero stati congedati, rimase lì fin quando non udì le loro giovani
voci per la strada, e vide le bambine con i loro grembiulini bianchi ornati da fiocchi rossi e azzurri saltellare lungo i
sentieri che la badessa, la madre priora, e cinquanta monache avevano calpestato con discrezione tre secoli prima.
Tornando sui suoi passi, scoprì di aver atteso troppo a lungo, e che Sue era uscita dirigendosi in città dietro all'ultima
scolaretta, dato che il signor Phillotson era stato assente tutto il pomeriggio, impegnato in una riunione di insegnanti a
Shottsford.
Jude entrò nell'aula vuota e si sedette, dopo che la donna delle pulizie lo aveva informato che la signora
Phillotson sarebbe tornata nel giro di pochi minuti. Vicino a dove era seduto si trovava un pianoforte - per l'esattezza il
vecchio pianoforte che Phillotson già possedeva a Marygreen - e sebbene l'oscurità del crepuscolo quasi gli impedisse
di distinguere i tasti, egli si mise a suonare con la modestia che gli era propria, e senza accorgersene attaccò l'inno che
tanto lo aveva commosso la settimana precedente.
Una persona si mosse alle sue spalle, e pensando che fosse sempre la donna delle pulizie Jude non se ne curò,
finché non gli si avvicinò e non poggiò delicatamente le dita sulla sua mano sinistra. Allora gli sembrò di riconoscere
quella mano così piccola e si girò.
«Non fermarti», disse Sue. «Mi piace. L'ho imparato prima di partire da Melchester. Erano soliti suonarlo alla
Scuola Magistrale».
«Non posso strimpellare davanti a te! Suonalo tu per me».
«Oh, se proprio insisti».
Sue si sedette, e la sua interpretazione del pezzo, per quanto non priva di difetti, rispetto a quella di Jude
sembrava divina. Come lui, anche lei era visibilmente commossa - e la prima a stupirsi di questo fatto - dalla melodia
rievocata; quando terminò e Jude fece per prenderle la mano, si incontrarono a metà strada. Jude gliela strinse - proprio
come aveva fatto prima del matrimonio.
«È strano», disse Sue con voce completamente diversa, «che mi debba piacere tanto quell'aria; perché...».
«Perché cosa?».
«Non sono quel tipo... proprio no».
«Non ti commuovi facilmente?».
«Non esattamente».
«Oh, ma sì che sei quel tipo, perché nel cuore sei come me!».
«Ma non nella testa».
Sue continuò a suonare, poi si girò di scatto; e per un istinto non premeditato ognuno dei due strinse di nuovo
la mano dell'altro.
Ritirando subito la sua, Sue se ne uscì con una risatina forzata.
«Che buffo!», disse. «Chissà perché entrambi lo abbiamo fatto».
«Immagino perché siamo simili, come ho detto prima».
«Non nei nostri pensieri! Forse un poco nei nostri sentimenti».
«Che governano i pensieri... Quasi si diventa atei all'idea che il compositore di quell'inno è uno degli uomini
più ordinari che io abbia mai incontrato!».
«Perché, lo conosci?».
«Sono andato a trovarlo».
«Oh, che ingenuo! Hai fatto proprio quello che avrei fatto io! Perché ci sei andato?».
«Perché non siamo simili», egli rispose seccamente.
«È l'ora del tè», disse Sue. «Preferisci prenderlo qui invece che su a casa? Non ci vuole niente a portare qui la
teiera. In realtà non viviamo nell'edificio della scuola, sai, ma in quella vecchia casa dall'altro lato della strada chiamata
la Casa del Boschetto. È così antica e tetra che mi deprime tremendamente. Case come quella vanno bene per visitarle,
ma non per viverci - io mi sento schiacciata dal peso di così tante vite trascorse lì dentro in passato. In costruzioni nuove
come queste scuole devi sostenere il peso solo della tua vita. Siediti, e dirò ad Ada di portarci il tè qui».
Jude attese alla luce della stufa, il cui sportello Sue aveva spalancato prima di uscire, e quando lei tornò seguita
dalla cameriera con il tè, essi sedettero illuminati da quella stessa luce, resa appena più intensa dai raggi azzurri di un
fornelletto a spirito sulla cui griglia stava il bollitore d'ottone.
«È uno dei tuoi regali di matrimonio», lei disse intendendo il bollitore.
«Sì», disse Jude.
Il suo regalo fischiettava, per via del vapore, con una nota a suo avviso di sarcasmo; e per cambiare argomento,
egli disse: «Conosci una buona edizione leggibile dei libri apocrifi del Nuovo Testamento? Immagino tu non li abbia
letti a scuola, vero?».
«Oh, no davvero! Avrebbe allarmato i vicini... Sì, ce n'è una. Non la ricordo molto bene, ora, ma mi interessò
molto quando il mio amico di un tempo era vivo. I Vangeli apocrifi di Cowper».
«Sembra proprio quello che cerco». I pensieri di Jude, tuttavia, tornarono con una fitta di dolore all'«amico di
un tempo» - con cui lei intendeva, come Jude sapeva bene, il compagno d'università della sua giovinezza. Jude si
domandò se ne avesse parlato a Phillotson.
«Mi piace il Vangelo di Nicodemo», lei proseguì, per distrarlo dalla gelosia che come sempre sapeva
discernere così chiaramente nei suoi pensieri. In effetti, ogniqualvolta parlavano di un argomento di scarso interesse,
come accadeva adesso, si svolgeva sempre una seconda conversazione parallela tra le loro emozioni, tanto era perfetta
la reciprocità tra di loro. «È molto simile all'originale. Anche diviso in versi; è come leggere in sogno uno degli altri
evangelisti, tutto sembra lo stesso, eppure non lo è. Ma Jude, continui a interessarti a questi problemi? Ti sei messo a
leggere gli Apologeti?».
«Sì. Studio per prendere gli ordini, impegnandomi al massimo».
Lei lo guardò con curiosità.
«Perché mi guardi in quel modo?», le chiese.
«Oh... perché vorresti saperlo?».
«Sicuramente ci sono un sacco di cose che potresti insegnarmi su quest'argomento. Devi aver imparato
moltissimo dal tuo caro amico defunto!».
«Oh, non ricominciamo con questo», lo supplicò. «La settimana prossima ti rimetterai a lavorare in quella
chiesa dove hai imparato l'inno?».
«Sì, forse».
«Che bellezza! Posso venirti a trovare? È da queste parti, e forse potrei venire un pomeriggio per una
mezz'ora?».
«No. Non voglio!».
«Cosa... non siamo più amici come un tempo?».
«No».
«Non lo sapevo. Credevo che saresti sempre stato gentile con me!».
«No, non lo sono».
«E che ti ho fatto? Io... io credevo che noi due...». La voce le tremava al punto da costringerla a interrompersi.
«Sue, a volte penso che per te sia tutto uno scherzo», egli disse all'improvviso.
Ci fu una pausa momentanea, finché lei non si alzò di scatto; e alla luce della fiamma del fornello Jude vide
con grande meraviglia che era arrossita.
«Non possiamo più rimanere qui a parlare, Jude», gli disse, e nella voce tornò a farsi sentire come altre volte in
passato una nota tragica da contralto. «Si sta facendo troppo buio per restare insieme qui in questo modo, dopo aver
suonato delle arie sensuali del Venerdì Santo che ti fanno sentire ciò che non bisognerebbe!... Non dobbiamo più stare
seduti a parlare in questo modo. Sì... devi andartene, perché mi fraintendi! Io sono proprio il contrario di quello che tu
hai detto così crudelmente - Oh Jude, sei stato molto crudele a dirlo! Pure, non posso dirti la verità... ti scandalizzerei se
ti raccontassi quanto mi lascio andare ai miei impulsi, e quanto sento che non avrei dovuto possedere nessuna attrattiva
fisica se poi non potevo utilizzarla! Il desiderio di alcune donne di essere amate è insaziabile; come lo è, spesso, il loro
desiderio di amare; e in quest'ultimo caso, possono scoprire di non poterlo dare continuamente al funzionario
autorizzato per licenza vescovile a riceverlo. Ma tu sei così ingenuo, Jude, che non puoi capirmi!... Adesso devi andare.
Mi dispiace, ma mio marito non è in casa».
«Ti dispiace?».
«Hai ragione, l'ho detto per puro rispetto delle convenzioni! A essere onesta, non è vero che mi dispiace. Non
me ne importa nulla, in un senso o nell'altro, purtroppo!».
Avendo superato poco prima il ritegno di tenersi mano nella mano, quando Jude uscì per andar via Sue gli
sfiorò le dita. Non aveva fatto in tempo ad uscire dalla porta di casa che Sue, con uno sguardo di delusione, saltò su una
panca e aprì la grata di una finestra che dava sul sentiero per il quale egli stava passando. «A che ora devi partire da qui
per prendere il treno, Jude?», gli chiese.
Egli la guardò con un certo stupore. «La carrozza che è in coincidenza parte più o meno tra tre quarti d'ora».
«E che farai nel frattempo?».
«Oh, girerò un poco. Forse andrò a sedermi nella vecchia chiesa».
«Oh, mi sembra brutto lasciarti andare in questo modo! Già pensi abbastanza alle chiese senza bisogno che
vada a sostare in un'altra al buio! Resta qui».
«Qui dove?».
«Dove sei. Posso parlarti meglio così che quando eri dentro... È stato molto gentile e dolce da parte tua
rinunciare a mezza giornata di paga per venire a trovarmi!... Tu sei come Giuseppe il sognatore, caro Jude. E un Don
Chisciotte tragico. E a volte sei un santo Stefano che, mentre lo lapidavano, vedeva aprirsi per sé le porte del Cielo. Oh
mio povero amico e compagno, se dovrai ancora soffrire!».
Ora che a separarli vi era l'alto davanzale della finestra, per cui egli non poteva avvicinarla, Sue sembrava non
temere di indulgere in una franchezza che quando erano seduti uno accanto all'altra non avrebbe mai osato manifestare.
«È un po' che penso», continuò, ancora nel tono di una persona traboccante sentimenti, «che i legami sociali che la
civiltà ci spinge ad accettare, non hanno maggiore affinità alla nostra vera essenza di quanta ne abbiano le forme
convenzionali delle costellazioni a quelle effettive delle stelle. Io sarei la signora Phillotson che vive una vita coniugale
tranquilla con la mia controparte dal suddetto nome. E invece non sono affatto la signora Phillotson, ma una donna
sballottata, tutta sola, con delle passioni aberranti, e delle antipatie inspiegabili... Adesso non devi fermarti un minuto di
più o perderai la carrozza. Vieni a trovarmi di nuovo. La prossima volta devi venire a casa».
«Senz'altro!», disse Jude. «Quando?».
«Giovedì prossimo. Addio!... Addio!». Sue allungò il braccio e gli accarezzò la fronte con tenerezza... una
volta soltanto. Jude la salutò a sua volta e sparì nell'oscurità della sera.
Passando per Bimport Street, gli parve di aver sentito il rumore delle ruote della carrozza che partiva, ed
effettivamente quando giunse al «Duke's Arms» nella piazza del mercato la carrozza se n'era già andata. Non sarebbe
mai riuscito ad arrivare alla stazione a piedi in tempo per il treno, e così si rassegnò ad attendere il prossimo - l'ultimo
per Melchester quella notte.
Gironzolò per un poco, si fece preparare qualcosa da mangiare; e poi, dovendo attendere ancora un'altra
mezz'ora, le gambe lo portarono involontariamente di nuovo in direzione della scuola, attraverso il cimitero venerabile
della chiesa della Trinità, con i suoi viali di tigli. Erano completamente immersi nell'oscurità. Lei gli aveva detto che
viveva sopra la strada alla Casa del Boschetto, una casa che egli riconobbe subito grazie alla sua descrizione della
facciata antica.
Da una delle finestre della facciata, le cui imposte ancora non erano state chiuse, brillava una luce di candela.
Jude poteva vedere benissimo l'interno - il pavimento digradante un paio di passi al di sotto del livello della strada, che
era stata innalzata nel corso dei secoli, da quando la casa era stata costruita. Sue, chiaramente appena rientrata, stava
ancora col cappello in testa, in piedi in quel salotto o soggiorno le cui pareti erano ricoperte da pannelli di rovere che
andavano dal pavimento al soffitto, a sua volta attraversato da grandi travi di legno lavorate, poco al di sopra della testa
della ragazza. Il caminetto era stato decorato nello stesso gusto pesante, con due pilastri dell'epoca di Giacomo I e delle
volute. I secoli, senza dubbio, incombevano pesantemente sulla giovane moglie che passava lì il suo tempo.
Sue aveva aperto una scatoletta di legno di rosa e stava guardando una fotografia. Dopo averla contemplata un
poco, la premette contro il petto e la rimise al suo posto.
Accortasi di non aver chiuso le imposte, si avvicinò poi alle finestre con la candela in mano. Fuori era troppo
buio perché potesse notarlo, ma Jude poteva vedere distintamente il suo viso e gli occhi scuri, dalle ciglia lunghe,
bagnati dalle lacrime.
Chiuse le imposte, e Jude se ne andò per iniziare il suo viaggio solitario verso casa. «Di chi sarà stata la
fotografia che stava guardando?», si chiese. Una volta le aveva dato la sua; ma sapeva che ne aveva anche di altri. Pure
sarà stata senz'altro la sua, no?
Sapeva che sarebbe di nuovo andato a trovarla, come lo aveva invitato a fare. Quegli uomini integri di cui
parlavano i suoi libri, i santi che Sue con irriverenza gentile chiamava i suoi semidei, avrebbero evitato incontri del
genere, se solo non fossero stati certi della loro forza interiore. Ma egli non ci riusciva. Poteva digiunare e pregare per
l'intero intervallo tra un incontro e l'altro, ma in lui l'umano aveva il sopravvento sul divino.
CAPITOLO II
Se non era il Signore a disporre, era la donna. Due giorni dopo, con la posta della mattina gli arrivò questo
biglietto da Sue:
Non venire la prossima settimana. Non da solo! Ci siamo concessi troppe libertà per colpa di quell'inno
morboso e del crepuscolo. Pensa il meno possibile a
SUSANNA FLORENCE MARY
La delusione di Jude fu profonda. Immaginava benissimo l'umore e l'espressione del viso di Sue quando si
firmava per esteso in tal modo. Ma indipendentemente dall'umore di lei, non poteva negare che avesse avuto ragione a
scrivere queste cose. Così rispose:
Mi adeguo. Hai ragione. È una lezione di rinuncia che spero questa volta di riuscire a imparare.
JUDE
Egli spedì la sua risposta alla vigilia di Pasqua, e sembrava che le loro decisioni fossero definitive. Ma altre
forze e leggi oltre alle loro erano presenti. Il lunedì dopo Pasqua, Jude ricevette un telegramma dalla vedova Edlin, cui
aveva dato istruzioni di avvertirlo immediatamente se fosse accaduto qualcosa di grave:
Vostra zia si sta spegnendo. Venite subito.
Gettò gli arnesi e partì. Tre ore e mezza più tardi attraversava le colline nei dintorni di Marygreen, e poco dopo
il campo dal quale passava la scorciatoia per il villaggio. Mentre risaliva dall'altra parte, un contadino, che lo osservava
avvicinarsi appoggiato a un cancello lungo il sentiero, si mosse impacciato dando l'impressione di volergli parlare.
«Capisco dal suo volto che è morta», pensò Jude. «Povera zia Drusilla!».
Era come aveva immaginato, e la signora Edlin gli aveva mandato incontro quell'uomo a dargli la triste notizia.
«Non vi avrebbe riconosciuto. Se ne stava come una bambola con gli occhi di vetro; non importa, quindi, che
non eravate presente», gli disse.
Jude salì a casa, e nel pomeriggio, dopo che ebbe sbrigato ogni incombenza e che i becchini, bevuta la birra,
furono andati via, sedette da solo in quel luogo silenzioso. Era assolutamente necessario comunicare con Sue, malgrado
un paio di giorni prima avessero deciso di non vedersi. Le annunciò nel modo più stringato:
La zia Drusilla è morta, quasi all'improvviso. Il funerale si svolgerà venerdì pomeriggio.
I giorni successivi rimase a Marygreen, e il venerdì mattina uscì a controllare che la tomba fosse pronta. Si
domandava se Sue sarebbe venuta o meno. Lei non gli aveva risposto, e da ciò arguiva piuttosto che sarebbe venuta che
non il contrario. Avendo calcolato l'ora del suo arrivo in base all'orario dell'unico treno che avrebbe potuto prendere,
verso mezzogiorno chiuse la porta di casa e attraversò il campo concavo al limite dell'altipiano nei pressi della Casa
Bruna, dove si fermò a guardare l'ampia campagna a nord e più vicino quel tratto di pianura in cui si trovava Alfredston.
Due miglia più in là, un pennacchio di fumo bianco si andava spostando da sinistra a destra nel panorama.
Avrebbe dovuto aspettare a lungo prima di sapere se lei fosse arrivata. Attese pazientemente, e alla fine un
piccolo calesse preso in affitto si avvicinò ai piedi della collina; una persona scese e, mentre il veicolo tornava indietro,
il passeggero iniziò a salire su per la collina. La riconobbe; e pareva così fragile che nell'intensità di un abbraccio troppo
appassionato, quale egli non aveva il diritto di darle, avrebbe potuto stritolarla. A due terzi della salita, il capo di lei
assunse all'improvviso una posa ansiosa, ed egli capì che da quel momento lo aveva riconosciuto. Sul volto le apparve
subito un sorriso mesto che conservò finché non la raggiunse.
«Ho pensato», Sue disse parlando in fretta, con nervosismo, «che era troppo triste lasciarti solo al funerale!
Così all'ultimo momento ho deciso di venire».
«Sei una cara amica, Sue!», mormorò Jude.
Con i modi evasivi della sua duplice natura tanto strana, Sue non si fermò per salutarlo con più calma, sebbene
mancasse ancora molto tempo prima della sepoltura. Un sentimento di pietà così insolitamente intenso come quello
legato a quell'ora ben difficilmente si sarebbe ripetuto per molti anni, se mai, e Jude al contrario avrebbe voluto
fermarsi, riflettere, parlare. Ma Sue non lo sentiva, oppure vivendolo più intensamente di lui, non permetteva a se stessa
di sentirlo.
La triste e semplice cerimonia durò poco: il corteo funebre si recò in chiesa quasi al trotto poiché l'indaffarato
impresario delle pompe funebri aveva un funerale più importante un'ora dopo, tre miglia più lontano. Drusilla fu sepolta
in un angolo appartato del cimitero, molto distante dai suoi antenati. Sue e Jude avevano seguito la bara camminando
fianco a fianco, e alla fine della cerimonia presero un tè nella casa di famiglia; le loro vite si unirono almeno in
quest'ultimo tributo alla defunta.
«Hai detto che è sempre stata contraria al matrimonio?», mormorò Sue.
«Sì. Particolarmente per i membri della nostra famiglia».
Gli occhi di Sue incrociarono quelli di Jude, e lo fissarono per un poco.
«Siamo una famiglia piuttosto sfortunata, noi, non trovi Jude?».
«Lei diceva che saremmo stati dei pessimi mariti e delle pessime mogli. Certo non siamo felici. Almeno io!».
Sue rimase in silenzio. «Jude», riprese poi con un accenno di tremore nella voce, «pensi sia sbagliato che un
marito o una moglie confessino a una terza persona che il loro è un matrimonio infelice? Se la cerimonia nuziale è un
atto religioso, forse lo è; ma se è solo un sordido contratto basato sulla convenienza materiale e faccende come la casa,
le tasse e la possibilità che i figli ereditino terre e denaro, rendendo con ciò necessario che il nome del padre sia noto - e
questo sembra essere il caso - allora non dovrebbe esserci nulla di male se una persona dice, addirittura proclama ai
quattro venti, che l'offende e l'addolora, no?».
«Io comunque a te l'ho detto».
Lei proseguì: «Credi siano molte le coppie nelle quali uno dei due odia l'altro senza un motivo particolare?».
«Immagino di sì. Ad esempio se è innamorato di un'altra persona».
«E oltre a ciò? Bisogna per forza dire, ad esempio, che una donna ha un'indole molto cattiva se non le piace
vivere con suo marito; semplicemente» - il tono della voce le divenne più incerto mentre Jude indovinava a cosa Sue
alludesse -«semplicemente perché lei ha una personale ripugnanza nei suoi confronti, un rigetto fisico, un senso di
fastidio o come altro vuoi chiamarlo - per quanto possa rispettarlo ed essergli grata? Sto solo facendo un'ipotesi. Pensi
che lei dovrebbe cercare di superare la sua avversione?».
Jude le diede un'occhiata preoccupata. Poi guardando altrove disse: «Sarebbe solamente uno di quei casi in cui
la mia esperienza si scontra con i miei dogmi. Parlando da uomo di chiesa, quale spero di diventare, sebbene non ne sia
affatto sicuro, direi di sì. Parlando per esperienza e secondo il mio istinto, direi di no... Sue credo che tu non sia felice!».
«Certo che lo sono!», lei lo contraddì. «Come può essere infelice una donna che è stata sposata solo da otto
settimane a un uomo da lei scelto liberamente?».
«"Scelto liberamente"!».
«Perché ripeti le mie parole?... Ma devo tornare col treno delle sei. Tu resti qui, immagino?».
«Un paio di giorni, il tempo di sistemare gli affari della zia. Questa casa non ha più ragion d'essere, ora. Vuoi
che ti accompagni al treno?».
Sue fece una risatina contrariata. «Meglio di no. Potremmo, però, fare insieme un pezzo di strada».
«Ma aspetta - non puoi andar via stanotte! Il treno non arriverà fino a Shaston. Devi restare e tornare domani.
La signora Edlin potrà ospitarti senza problemi, se non vuoi dormire qui!».
«D'accordo», lei disse in tono dubbioso. «Non gli avevo detto che sarei tornata sicuramente stasera».
Jude si recò alla vicina casa della vedova, per informarla; tornò dopo pochi minuti e si rimise a sedere.
«La situazione in cui ci troviamo è orribile... Sue, orribile!», egli esclamò all'improvviso, guardando il
pavimento della stanza.
«No! Perché dici questo?».
«Non posso raccontarti tutta la mia parte di sventure. La parte tua è che non avresti dovuto sposarlo. L'avevo
capito prima che tu lo facessi, ma ho pensato che non dovevo impicciarmi. Uno sbaglio. Avrei dovuto dirtelo!».
«Ma perché dici questo, caro?».
«Perché... posso vedere sotto le tue penne, mio povero uccellino!».
Sue teneva la mano sul tavolo e Jude la coprì con la propria. Ma la ragazza ritrasse la sua all'istante.
«È assurdo Sue», esclamò Jude, «dopo ciò di cui abbiamo parlato! Tra noi due sono io il più rigido e il più
formale, se dobbiamo metterla in questo modo; e che tu abbia questa reazione a una azione così innocente dimostra che
ti contraddici in modo ridicolo!».
«Forse è stato un gesto troppo pudico», lei disse pentendosene. «È solo che credevo fosse uno dei tuoi tentativi
- forse un po' troppo frequenti. Ecco, tienila quanto ti pare. Sono brava, ora?».
«Sì; molto».
«Ma dovrò dirglielo».
«A chi?».
«A Richard».
«Oh... naturalmente, se pensi sia necessario. Ma dal momento che non ha alcun valore, potresti infastidirlo
inutilmente».
«Be'... sei sicuro che il tuo è solo l'affetto di un cugino?».
«Assolutamente. Non provo più alcun sentimento d'amore per te».
«Questa è una novità. E come mai?».
«Ho visto Arabella».
Sue sgranò gli occhi alla notizia; poi chiese incuriosita: «E quando?».
«Quando ero a Christminster».
«Dunque è tornata; e non me l'hai mai detto! Immagino che andrai a vivere con lei, ora?».
«Certo... proprio come tu vivi con tuo marito».
Sue volse lo sguardo alle piante di gerani e cactus sul davanzale della finestra, appassite perché nessuno se ne
occupava, e al di là di esse agli spazi aperti della campagna, finché i suoi occhi non si inumidirono. «Cosa c'è?», le
chiese Jude con dolcezza.
«Perché dovresti essere così felice di tornare da lei se... se ciò che mi hai sempre detto è vero... voglio dire se
era vero allora! Certo non lo è ora! Come può il tuo cuore ritornare così repentinamente da Arabella?».
«Un intervento speciale della Provvidenza immagino lo avrà aiutato».
«Ah... non è vero!», lei disse con velato risentimento. «Mi prendi in giro, nient'altro, perché pensi che sono
infelice!».
«Non lo so. E non voglio saperlo».
«Se fossi infelice sarebbe colpa mia, della mia malvagità; non ho alcun diritto di respingere mio marito! È un
uomo premuroso con me in ogni modo, e molto interessante grazie alla grande cultura accumulata leggendo tutto quello
che gli capitava sottomano... Tu pensi, Jude, che un uomo dovrebbe sposare una donna della sua età o una più giovane
di lui - di diciotto anni - quanti ve ne sono tra me e lui?».
«Dipende dai loro reciproci sentimenti».
Jude non le dava alcuna opportunità di sfogarsi, e Sue dovette continuare senza il suo aiuto, il che fece in tono
dimesso, quasi sul punto di scoppiare a piangere:
«Io... io penso che dovrei essere altrettanto onesta con te come tu lo sei stato con me. Forse hai già indovinato
quello che voglio dire, che sebbene voglia bene al signor Phillotson come amico, non lo amo... è una tortura per me...
vivere con lui come marito! Ecco, ora te l'ho detto. Non posso farci niente, anche se ho cercato, fingendo di essere
felice. Adesso mi disprezzerai per sempre!». Chinò il viso tra le mani appoggiate sulla tavola, e si mise in silenzio a
singhiozzare a piccoli singulti che fecero traballare quel tavolo a tre gambe.
«Sono sposata da appena un paio di mesi!», proseguì, sempre china sulla tavola a singhiozzare. «E si dice che
ciò che disgusta una donna nei primi tempi del matrimonio, se lo scuote di dosso con assoluta indifferenza dopo una
mezza dozzina d'anni. Ma più o meno è come dire che l'amputazione di un arto non è una disgrazia dato che col tempo
ci si abitua a usare una gamba o un braccio di legno!».
Jude quasi non riusciva a parlare, ma disse: «Lo sapevo che qualcosa non andava, Sue! Lo sapevo!».
«Ma non è quello che pensi! Non c'è nulla che non vada, tranne la mia cattiveria, come immagino tu la
chiameresti - una ripugnanza da parte mia per una ragione che non posso rivelarti, e che nessuno al mondo
accetterebbe!... Quello che tanto mi tortura è la necessità di corrispondere quest'uomo nei suoi desideri, per quanto sia
moralmente irreprensibile! L'orribile impegno a sentirsi in un certo modo in una faccenda la cui essenza sta nella sua
spontaneità!... Magari mi picchiasse, mi tradisse, o facesse qualunque cosa tale da giustificare questi miei sentimenti!
Ma egli non fa nulla, è soltanto divenuto più riservato da quando gli ho detto come mi sentivo. Per questo non è venuto
al funerale... Oh, che sciagurata sono! Non so cosa fare!... Non avvicinarti, Jude, perché non devi. No... no!».
Ma Jude era balzato in piedi e aveva messo il volto contro quello di lei, o meglio contro il suo orecchio, dato
che il volto di Sue era inaccessibile.
«Ti avevo detto di no, Jude!».
«Lo so, ho sentito... ma volevo solo... consolarti! Nasce tutto dal fatto che mi sono sposato prima di conoscerti,
vero? Avresti sposato me, Sue, non è vero, se non fosse stato per questo?».
Invece di rispondergli, lei si alzò di scatto, dicendo che voleva camminare fino alla tomba della zia al cimitero
per riprendersi, e se ne andò. Jude non la seguì. Venti minuti dopo la vide attraversare il prato del villaggio in direzione
della casa della signora Edlin, e poco dopo venne una bambina a prendere la sua borsa e a dirgli che Sue era troppo
stanca per rivederlo quella sera.
Solo nella stanza della casa della zia, Jude rimase seduto a guardare la casetta della vedova Edlin mentre
scompariva nell'oscurità della notte. Sapeva che Sue sedeva tra quelle mura, altrettanto sola e scoraggiata; e ancora una
volta mise in dubbio la pia convinzione che tutto accadeva a fin di bene.
Andò a dormire presto, ma il suo fu un sonno turbato dal fatto di sapere che Sue era così vicina. Verso le due di
notte, quando iniziava a dormire più profondamente, fu svegliato da un acuto squittio che gli era familiare al tempo in
cui viveva stabilmente a Marygreen. Era il grido di un coniglio preso in trappola. Come sempre in questi casi, la piccola
creatura non ripeté subito il suo grido, e probabilmente non lo avrebbe ripetuto più di un paio di volte in tutto e sarebbe
rimasta a sopportare quella tortura fino al mattino, quando chi aveva messo la trappola sarebbe venuto a ucciderlo con
un colpo sulla testa.
Jude, che da bambino salvava la vita ai vermi, ora iniziò ad immaginare l'agonia di quel coniglio con la gamba
spezzata. Se era rimasto intrappolato male, con una delle zampe posteriori, l'animale avrebbe tirato con forza per le sei
ore successive finché i denti della trappola non gli avessero spolpato la gamba fino all'osso, e nel caso una molla un po'
debole gli avesse permesso di liberarsi sarebbe morto dissanguato nei campi per l'arto mutilato. Se invece era rimasto
intrappolato bene, con una delle zampe anteriori, gli si sarebbe spezzato l'osso e l'arto si sarebbe quasi piegato in due nel
tentativo di una fuga impossibile.
Passò quasi mezz'ora, e il coniglio ripeté il suo grido. Jude non avrebbe potuto riaddormentarsi finché non
avesse posto fine alla pena di quell'animale, e vestitosi scese in fretta di sotto e si diresse al chiaro di luna attraverso il
prato in direzione dello squittio. Giunse alla palizzata che delimitava il giardino della vedova, e si fermò. Adesso a
guidare Jude era il debole tintinnio della trappola che l'animale si trascinava dietro nel tentativo di divincolarsi. Appena
lo individuò, lo colpì dietro alla nuca con la mano di taglio, e il coniglio si lasciò andare, morto.
Stava per tornare a casa quando vide una donna affacciarsi alla finestra del piano terra della casa adiacente.
«Jude!», disse una voce timidamente - la voce di Sue. «Sei tu, vero?».
«Sì cara!».
«Non riuscivo ad addormentarmi, quando ho sentito il coniglio; mi sono messa a pensare a quanto soffriva, e a
un certo punto ho sentito che dovevo scendere a ucciderlo! Ma sono contenta che tu sia arrivato prima di me...
Bisognerebbe proibirle, queste trappole!».
Jude si era avvicinato alla finestra, che essendo piuttosto bassa gli permetteva di vedere Sue fino alla vita. Lei
lasciò le imposte e posò una mano su quella di Jude, mentre il volto illuminato dalla luna lo guardava malinconico.
«Ti ha tenuta sveglia?».
«No... già lo ero».
«E come mai?».
«Oh, non dirmi che non lo sai! Perché sono sicura che tu, con le tue dottrine religiose, pensi che una donna
sposata piena di problemi come me commetta un peccato mortale se si confida con un uomo, come ho fatto con te.
Magari fossi stata zitta!».
«Non dire così, cara», rispose Jude. «Forse lo avrei pensato un tempo; ma io e le mie dottrine cominciamo a
non andare più d'accordo».
«Lo sapevo... lo sapevo! Ed è per questo che avevo giurato che non avrei turbato le tue convinzioni. Ma... sono
così felice di rivederti!... e poi, avevo deciso di non rivederti più, ora che la zia Drusilla è morta!».
Jude le prese la mano e la baciò. «C'è qualcosa di più forte che resta!», disse. «Non m'importa più nulla delle
mie dottrine e della religione! Che se ne vadano al diavolo! Lascia che ti aiuti, anche se ti amo, e anche se tu...».
«Non dirlo!... so cosa intendi, ma non posso ammetterlo. Ecco! Immagina quello che vuoi, ma non
costringermi a rispondere a delle domande!».
«Io vorrei che tu fossi felice, quale che sia la tua felicità!».
«Non posso esserlo! Sono così pochi quelli che potrebbero capire i miei sentimenti... la gente direbbe che si
tratta di mie fantasie e che sono incontentabile, o qualcosa del genere, e darebbero a me ogni colpa... Non è una delle
naturali tragedie dell'amore, di quell'amore che è la tragedia usuale della vita civile, ma una tragedia creata
artificialmente per persone che in condizioni naturali troverebbero sollievo nella separazione!... Sarebbe forse sbagliato
che io venissi a raccontare a te la mia pena se avessi qualcun altro a cui raccontarla. Ma non ho nessuno. E io devo
confidarmi con qualcuno! Jude, prima di sposare lui non ho mai veramente pensato a ciò che il matrimonio comportava,
anche se lo sapevo. È stata un'idiozia da parte mia... non ho attenuanti. Ero abbastanza grande e credevo di avere molta
esperienza. Così mi ci sono buttata dentro, dopo quella disavventura alla Scuola Magistrale, con tutta la spavalderia di
una matta come me!... Sono sicura che bisognerebbe permettere a una persona di sciogliere un legame che ha accettato
con tanta ingenuità! Oso dire che accade a un sacco di donne: solo che loro si sottomettono e io mi ribello... Quando i
nostri posteri studieranno le convenzioni e le superstizioni barbare dell'epoca in cui noi abbiamo avuto la sfortuna di
vivere, cosa non diranno!».
«Tu sei molto amareggiata, cara Sue! Come vorrei, come vorrei...».
«Torna a casa, ora!».
In un attimo di slancio, lei si sporse dal davanzale e accostò il volto sui capelli di lui, piangendo, e poi
imprimendo un bacio appena percettibile sulla sua testa, per ritrarsi subito, di modo che egli non poté stringerla tra le
sue braccia, come altrimenti avrebbe senza dubbio fatto. Sue chiuse le imposte, e Jude tornò a casa.
CAPITOLO III
Jude ripensò tutta la notte all'angosciata confessione di Sue, che gli pareva veramente triste.
La mattina dopo, all'ora della partenza della ragazza, i vicini videro il compagno di Sue e lei stessa dileguarsi a
piedi giù per il sentiero della collina verso la strada solitaria per Alfredston. Passò un'ora prima che egli tornasse da solo
lungo la stessa strada, e sul volto aveva un'espressione esultante non priva di avventatezza. Era accaduto qualcosa.
Una volta giunti alla tranquilla strada provinciale, si erano fermati per salutarsi e il loro stato d'animo, teso e
appassionato, li aveva spinti a rivolgersi l'un l'altro domande inquietanti sul livello di intimità cui potevano giungere;
finché quasi non litigarono, e con la voce rotta dal pianto lei disse che non era degno di un parroco in embrione, quale
egli era, pensare di baciarla, pur solo per salutarla, come ora desiderava fare. Poi aveva ammesso che il bacio in sé non
era nulla: tutto dipendeva dallo spirito con cui lo si dava. Se era quello di un cugino, non aveva nulla da obiettare; se
invece era quello di un innamorato, non poteva acconsentire. «Giuri che non è in questo spirito?», gli aveva chiesto.
No, non poteva. Allora si volsero le spalle in segno di rottura, e ognuno andò per la sua strada; percorsero
appena una trentina di iarde quando entrambi si girarono simultaneamente. Quello sguardo fu fatale per la riservatezza
mantenuta più o meno fino ad allora. Si corsero incontro all'istante, e abbracciatisi senza accorgersi di quel che
facevano, si baciarono con passione e a lungo. Al momento di salutarsi per l'ultima volta, a Sue bruciavano le guance e
a Jude il cuore batteva forte.
Quel bacio segnò una svolta nella vita di Jude. Tornato a casa, si mise a riflettere e capì una cosa: che sebbene
il bacio che aveva dato a quell'essere celestiale era sembrato il momento più puro della sua vita peccaminosa, fintanto
che avesse incoraggiato in se stesso quella illecita tenerezza sarebbe stato palesemente incoerente che avesse insistito
nell'idea di diventare soldato e servo di una religione che guardava all'amore fisico nella migliore delle ipotesi come a
una debolezza, e nella peggiore come a una dannazione. Ciò che Sue aveva detto nella sua eccitazione era la pura verità.
Poiché non pensava ad altro che a difendere con le unghie e con i denti l'affetto per Sue, e a insistere in modo avventato
nelle appassionate attenzioni nei suoi confronti, egli era ipso facto condannato come maestro della scuola accettata di
morale. Ovviamente non era adatto, per carattere, come già non lo era per la sua posizione sociale, a ricoprire il ruolo di
predicatore del dogma ufficiale.
Strano che la sua prima aspirazione, la carriera accademica, fosse stata ostacolata da una donna, e che una
donna ostacolasse anche la sua seconda aspirazione - l'apostolato. «È forse colpa delle donne», si chiese; «o invece è un
sistema artificiale che trasforma i normali impulsi sessuali in trappole e tagliole domestiche per accalappiare e trattenere
coloro che vogliono progredire?».
Aveva sempre desiderato diventare un profeta, per quanto umile, che aiutasse i suoi simili in maniera del tutto
disinteressata. Pure, con una moglie che viveva lontano con un altro marito e lui stesso che era preso da un amore
illecito, nella misura in cui era una possibile causa della rivolta dell'amata contro i suoi obblighi per la morale comune,
si poteva considerare una persona ben poco rispettabile.
Non aveva senso rifletterci ancora sopra: doveva solo prendere atto di ciò che era ovvio, ossia che come
maestro religioso ligio alla legge, egli non era che un impostore.
Quella sera, verso il crepuscolo, si recò in giardino dove scavò una buca poco profonda nella quale pose tutte le
opere di etica e di teologia che possedeva, e che aveva conservato a casa della zia. Egli sapeva che in quel villaggio di
anime semplici non avrebbe potuto venderle a un prezzo molto più alto della carta straccia, e preferì liberarsene a modo
suo, anche se per soddisfare quell'impulso di distruzione avesse dovuto rinunciare a un po' di denaro. Incominciando col
dar fuoco ad alcuni opuscoli leggeri, fece a pezzi i volumi come meglio poté, e con un tridente li gettò tra le fiamme.
Presero fuoco, e illuminarono il retro della casa, il porcile, e il suo volto, finché non si furono più o meno consumati.
Sebbene ormai fosse quasi un estraneo, i passanti lo salutavano da sopra la siepe di recinzione.
«State bruciando le cartacce di vostra zia? Certo se ne accumula di roba negli angoli e nei ripostigli di una casa
in ottant'anni!».
Fu all'incirca all'una del mattino prima che pagine, copertine e rilegatura dei libri di Jeremy Taylor, Butler,
Doddridge, Paley, Pusey, Newman e altri fossero ridotti in cenere; ma la notte era quieta, e mentre egli girava e rigirava
i brandelli di carta con il tridente, la sensazione di non essere più un ipocrita verso se stesso arrecava alla sua mente un
sollievo che gli ridiede la calma. Avrebbe forse continuato a essere un credente come in passato, ma senza predicare
nulla, e non possedeva né ostentava strumenti di fede dei quali, si supponeva a buon diritto, potesse farne uso per sé
prima che per altri. Nella sua passione per Sue, non poteva continuare a sentirsi come un comune peccatore, né come un
sepolcro imbiancato.
Nel frattempo Sue, dopo averlo lasciato di prima mattina, era andata alla stazione con le lacrime agli occhi per
essergli corsa incontro ed avergli permesso di baciarla. Jude non avrebbe dovuto fingere di non essere innamorato di lei,
spingendola ad agire contrariamente alle convenzioni, se non addirittura in modo sbagliato. Sue propendeva per la
seconda ipotesi; poiché la sua logica era straordinariamente complessa, e sembrava sostenere che prima che una cosa
fosse fatta era giusto farla, mentre dopo diveniva sbagliata; o in altre parole, quelle cose che erano giuste in teoria non
lo erano in pratica.
«Sono stata troppo debole!», esclamò singhiozzando mentre continuava a camminare asciugandosi di tanto in
tanto una lacrima. «Bruciava, come quello di un innamorato... Altroché! Non gli scriverò mai più, o almeno non per un
lungo periodo, per impressionarlo con la mia dignità! E spero di fargli molto male... in attesa di una lettera domani, e il
giorno dopo, e quello dopo ancora, senza ricevere niente. Allora soffrirà per l'attesa - è solo questo che cerco,
nient'altro! - e ne sarò molto felice!». Lacrime di pietà per le prossime sofferenze di Jude, per mano di lei, si
mischiavano a quelle già versate per pietà verso se stessa.
Poi la mogliettina minuta di un marito di cui non sopportava la presenza, la ragazza eterea, nervosa e sensibile,
completamente inadatta per temperamento e per istinto a soddisfare le condizioni del rapporto matrimoniale con
Phillotson, e forse con qualsiasi uomo, rallentò il passo, senza fiato, con gli occhi irritati a forza di guardarsi intorno e
piangere senza speranza.
Phillotson andò a prenderla alla stazione, e notando il suo stato d'animo credette che fosse dovuto all'effetto
deprimente della morte della zia e del suo funerale. Si mise allora a raccontarle quello che aveva fatto il giorno prima, e
come il suo amico Gillingham, maestro di un paese vicino che lui non vedeva da anni, era venuto a trovarlo. Seduta
accanto al marito al piano di sopra dell'omnibus che li portava su in città, mentre guardava la strada bianca e i cespugli
di noccioli che la delimitavano, Sue disse ad un tratto e con l'aria come di voler infliggere una punizione a se stessa:
«Richard... ho permesso al signor Fawley di stringermi la mano per un certo tempo. Pensi che abbia
sbagliato?».
Scuotendosi apparentemente da pensieri di tutt'altro genere, egli le rispose in modo vago: «Davvero? E perché
lo hai fatto?».
«Non lo so. Voleva e l'ho lasciato fare».
«Speriamo gli sia piaciuto. Non si può certo dire che sia una novità».
Rimasero entrambi in silenzio. Si fosse trattato di un caso alla corte di un giudice onnisciente, costui avrebbe
potuto annotare nei suoi appunti il fatto curioso che Sue aveva sostituito la mancanza minore alla maggiore, e si era ben
guardata dal dire una parola sul bacio.
Dopo cena, quella sera, Phillotson si sedette a mettere in ordine i registri della scuola. Contrariamente al solito,
Sue era silenziosa, tesa, agitata, e alla fine, dicendo che era stanca, andò a dormire prima del solito. Quando Phillotson
la raggiunse di sopra, esausto dopo l'ingrato lavoro di controllare le presenze, mancava un quarto a mezzanotte.
Entrando nella stanza, dalla quale di giorno si godeva una vista di trenta, quaranta miglia sulla valle di Blackmoor fino
ai confini del Wessex, si diresse alla finestra, e premendo il volto contro il vetro, guardò fissamente e con il respiro
pesante l'oscurità misteriosa che ora copriva quel panorama sconfinato. Stava riflettendo. «Penso», disse alla fine senza
volgersi a guardare Sue, «che dovrò chiedere al comitato scolastico di cambiare cartolaio. Questa volta i quaderni che ci
ha mandato sono tutti sbagliati».
Non ci fu risposta. Credendo che Sue stesse sonnecchiando, proseguì:
«E bisognerà sistemare altrove quel ventilatore nella classe. Il vento mi soffia sulla testa senza tregua, e mi fa
venire il mal d'orecchi».
Dal momento che il silenzio nella stanza sembrava essere più completo del solito, si girò. I pesanti pannelli di
quercia che ricoprivano i muri di sopra come di sotto e la cappa massiccia del camino, alta fino al soffitto, di quella
Casa del Boschetto per tanto tempo abbandonata, stridevano con il letto d'ottone nuovo e lucente e i mobili di legno di
betulla comprati per lei, e i due stili sembravano farsi un inchino a tre secoli di distanza sul pavimento traballante.
«Suu!», esclamò (in questo modo pronunciava il nome di lei).
Lei non era a letto, anche se si sarebbe detto che vi era stata - poiché dalla sua parte era sfatto. Pensando che
forse aveva scordato qualcosa giù in cucina e fosse scesa un attimo, si tolse la giacca e rimase qualche minuto
pigramente ad attenderla finché, dato che non risaliva, andò sul pianerottolo con la candela in mano e la chiamò di
nuovo: «Suu!».
«Sì!», gli rispose la voce di lei da quella parte lontana della casa dove si trovava la cucina.
«Cosa fai là sotto a quest'ora - Non stancarti inutilmente!».
«Non ho sonno, e sto leggendo; e il fuoco è ancora acceso, qui».
Egli andò a letto. In mezzo alla notte si svegliò: lei ancora non era risalita. Accesa una candela, si precipitò sul
pianerottolo e di nuovo la chiamò.
Sue rispose: «Sì!», come prima, ma il tono della sua voce era debole e attutito, e in un primo momento egli non
riusciva a capire da dove provenisse. Nel sottoscala c'era un grande ripostiglio per gli abiti, privo di finestra: pareva
giungere da lì. La porta era chiusa, ma non c'era serratura né catenaccio di sorta. Allarmato, Phillotson scese di sotto,
chiedendosi se d'un tratto lei fosse uscita di senno.
«Cosa stai facendo qua dentro?», le chiese.
«Non volevo disturbarti, visto che era molto tardi».
«Ma non c'è neppure un letto! E non c'è aria! Morirai soffocata se resti qui tutta la notte!».
«Oh no, penso di no. Non preoccuparti per me».
«Ma...». Phillotson afferrò la maniglia e tirò la porta verso di sé. Lei l'aveva fermata all'interno con dello
spago, che si spezzò non appena il maestro si mise a tirare. Non essendoci un letto, Sue aveva gettato per terra dei
tappeti facendosi così, nel poco spazio che il ripostiglio consentiva, un piccolo giaciglio.
Quando il maestro guardò dentro per cercarla, balzò fuori dalla sua cuccia con gli occhi sgranati e tutta
tremante.
«Non avresti dovuto aprire la porta!», gridò eccitata. «Da te non me l'aspettavo! Esci di qui, per piacere, va'
via!».
Aveva un aspetto così misero e supplichevole nella sua camicia da notte bianca in quello stanzino buio, che
egli iniziò a preoccuparsi sul serio. Lei continuò a implorarlo di lasciarla in pace.
Phillotson disse: «Sono stato gentile con te, e ti ho lasciato la massima libertà; ed è mostruoso che tu ti senta in
questo modo!».
«Sì», lei rispose, piangendo. «Lo so! È ingiusto e cattivo da parte mia! Mi dispiace molto. Ma non è
esclusivamente colpa mia!».
«E di chi altro? Forse mia?».
«No... non lo so! Dell'universo, immagino - della vita in generale che è così orribile e crudele!».
«Va bene, non ha senso parlare in questo modo. Rendere la casa di un uomo per bene così indecorosa a
quest'ora di notte! Eliza sentirà tutto, se non stiamo attenti». (Eliza era la cameriera). «Pensa se uno dei prelati di questa
città ci vedesse ora! Odio queste stravaganze, Sue! Non c'è ordine né regolarità nei tuoi sentimenti!... Ma non voglio
intromettermi ulteriormente; comunque se fossi in te lascerei un po' socchiusa la porta, altrimenti domani ti troverò
soffocata».
Appena alzato, la mattina dopo, il maestro si recò immediatamente a guardare nel ripostiglio, ma Sue era già
scesa di sotto. Il giaciglio dove aveva dormito era ancora visibile, e dal soffitto dello stanzino pendevano delle
ragnatele. «Quanto grande deve essere l'avversione di una donna, per superare la paura dei ragni!», pensò con amarezza.
La trovò seduta al tavolo della prima colazione, che iniziò quasi in silenzio, mentre la gente del luogo
camminava sul marciapiede - o meglio sulla strada, poiché in quel punto il marciapiede era quasi inesistente - due o tre
piedi più in alto del pavimento del soggiorno. Man mano che passavano davanti alla loro finestra, con un cenno del
capo auguravano il buongiorno a quella coppia felice.
«Richard», lei chiese ad un tratto; «ti dispiacerebbe se andassi a vivere per conto mio?».
«Per conto tuo? Era quello che facevi prima che ci sposassimo. Ma allora che ci siamo sposati a fare?».
«Forse sarebbe meglio per te se non te lo dicessi».
«Non ho nulla in contrario a saperlo».
«Perché credevo di non avere alternative. Hai ottenuto che te lo promettessi molto tempo prima, ricordi? Poi,
col passare del tempo, mi ero pentita di avertelo promesso, e avevo cercato un modo dignitoso per uscire da quella
situazione. Ma non riuscendoci, divenni alquanto sprezzante e indifferente riguardo alle convenzioni. Poi ci sono stati
gli scandali che conosci e fui cacciata dalla Scuola Magistrale cui tu avevi dedicato tempo ed energie per prepararmi e
riuscire a iscrivermi; mi misi paura, e mi parve che l'unica cosa che potevo fare sarebbe stata di restare fedele alla parola
data. Naturalmente, proprio io tra tanti avrei dovuto essere quella che non dava peso a ciò che si diceva sul suo conto,
avendo sempre immaginato che non me ne sarebbe importato mai nulla. Ma fui una codarda - come lo sono così tante
donne - e il mio anticonformismo teorico rimase lettera morta. Se la paura non fosse entrata in gioco, sarebbe stato
meglio ferire i tuoi sentimenti una volta per tutte allora, piuttosto che sposarti e continuare a ferirli per tutta la vita... E
tu sei stato così generoso da non dare mai alcun credito, neppure per un attimo, alle dicerie sul mio conto».
«Per amor di verità, ho il dovere di dirti che presi in esame la possibilità che fossero vere, e chiesi informazioni
a tuo cugino».
«Ah!», lei disse con dolorosa sorpresa.
«Non dubitavo di te».
«Ma ti sei informato!».
«Credetti alla sua parola».
Gli occhi di Sue si riempirono di lacrime. «Lui non avrebbe chiesto informazioni a nessuno!», disse. «Ma non
hai risposto alla mia domanda. Mi lascerai andar via? So quanto sia contro le regole una richiesta del genere...».
«È contro le regole».
«Ma io insisto a chiedertelo! Le leggi che regolano la famiglia dovrebbero essere concepite nel rispetto dei
temperamenti della gente, che andrebbero classificati. Se alcune persone hanno un carattere particolare, devono soffrire
per via delle stesse leggi che permettono ad altre persone di essere felici?... Mi lascerai andare?».
«Ma siamo sposati... ».
«Che senso ha pensare a leggi e sacramenti», lei sbottò, «se ti rendono infelice anche se sai che non stai
commettendo alcun peccato?».
«Ma tu stai commettendo un peccato nel momento in cui smetti di volermi bene».
«Io ti voglio bene! Ma non avevo riflettuto che ci sarebbe... che ci sarebbe voluto molto più di questo...
Quando un uomo e una donna vivono in un rapporto di intimità, se uno dei due prova i sentimenti che io provo al
momento, è adulterio, quali che siano le circostanze, e per quanto non infranga la legge. Ecco... l'ho detto!... Mi lascerai
andar via, Richard?».
«Mi addolori, Susanna, con questo tuo comportamento!».
«Perché non possiamo tornare a essere liberi di comune accordo? Siamo stati noi a fare un patto, e non si vede
perché non dovremmo poterlo annullare - non legalmente, certo; ma moralmente, soprattutto perché non sono
intervenuti altri interessi, come la nascita di figli, di cui tener conto. Poi potremmo restare amici, e vederci senza che
l'uno faccia soffrire l'altro. Oh Richard, sii mio amico ed abbi pietà di me! Tra pochi anni saremo entrambi morti, e
allora a chi importerà qualcosa del fatto che mi hai sollevato dai miei obblighi per un certo tempo? So che pensi che
sono una donna eccentrica o ipersensibile, o qualcosa di assurdo. D'accordo - perché dovrei soffrire perché sono nata in
un certo modo, se non fa del male ad altre persone?».
«Ma fa... fa male a me! E tu avevi giurato di amarmi».
«Sì... hai ragione! È colpa mia. Lo è sempre! È sempre una colpa impegnarsi ad amare per sempre come lo è
credere in qualcosa per sempre, e altrettanto assurdo quanto giurare che ti piacerà sempre un cibo o una bevanda
particolare!».
«E quando dici di voler vivere per conto tuo, intendi da sola?».
«Be', se insisti sì. Ma sarebbe mia intenzione vivere con Jude».
«Come sua moglie?».
«Come meglio credo».
Phillotson fu percorso da un fremito.
Sue continuò: «Colei o colui "che lascia al mondo, o a parte di esso, scegliere il suo schema di vita, non ha
bisogno di altre facoltà che non sia quella, propria delle scimmie, dell'imitazione". Sono parole di J.S. Mill. Le ho lette
di recente. Perché non puoi agire in modo conforme ad esse? Io vorrei, sempre».
«Che vuoi che m'importi di J.S. Mill!», si lamentò il maestro. «Io voglio solo condurre una vita tranquilla! Non
te la prendere se ti dico che avevo indovinato ciò che non avevo mai sospettato prima del nostro matrimonio - che tu eri,
e tutt'ora sei, innamorata di Jude Fawley!».
«Puoi continuare a immaginare che lo sono, dato che hai iniziato. Ma pensi davvero che se lo fossi stata ti avrei
chiesto di lasciarmi andare a vivere con lui?».
Il campanello della scuola risparmiò a Phillotson l'obbligo di rispondere subito a quello che evidentemente non
lo aveva colpito per essere un convincente argumentum ad verecundiam, come lei, venutale a mancare il coraggio
necessario all'ultimo momento, aveva cercato di farlo apparire. Sue iniziava ad essere così imprevedibile e instabile che
egli era propenso a considerare la richiesta più radicale che una moglie possa fare, come una delle sue tante piccole
peculiarità.
Si recarono a scuola, quella mattina, come se nulla fosse. Sue entrò nella classe dove Phillotson poteva vederla
di spalle attraverso il vetro della parete divisoria ogni volta che volgesse lo sguardo in quella direzione. Mentre egli
continuava a spiegare e a risentire le lezioni, la fronte e le sopracciglia gli si aggrottarono a causa dell'agitazione
concentrata dei suoi pensieri; finché alla lunga non strappò un pezzo di carta da un blocco per gli appunti e scrisse:
La tua richiesta mi impedisce completamente di lavorare. Non so cosa sto facendo. Parli sul serio?
Ripiegò minutamente il pezzo di carta e lo diede a uno scolaro perché lo portasse a Sue. Il bambino trotterellò
dentro l'altra classe. Phillotson vide la moglie girarsi e prendere il biglietto, e la sua testa graziosa china mentre lo
leggeva con le labbra appena increspate per prevenire qualsiasi espressione impropria sotto il fuoco di tanti giovani
occhi. Non poteva vederle le mani, ma notò che cambiò posizione, e subito dopo il bambino ritornò, ma senza alcuna
risposta. Tuttavia non passarono che pochi minuti quando un'alunna della classe di Sue apparve con un bigliettino
simile a quello che egli le aveva inviato. Le parole seguenti erano scritte solo a matita:
Mi dispiace sinceramente ma sì, parlo sul serio.
Phillotson apparve più angustiato di prima e la sua fronte tornò ad aggrottarsi. Dopo una decina di minuti
richiamò l'alunno che le aveva inviato prima, e gli consegnò un'altra missiva:
Dio sa quanto poco io voglia ostacolarti in qualsiasi richiesta che sia sensata. Mi preme solo il tuo benessere
e la tua felicità. Ma non posso accettare un'idea così assurda come quella che tu vada a vivere con il tuo amante.
Perderesti la stima e il rispetto di tutti; e io con te!
Dopo un intervallo, una scena analoga si svolse nell'altra classe finché non giunse una risposta:
So che vuoi solo il mio bene. Ma non ci tengo a essere rispettata! Produrre «lo sviluppo umano nella sua più
ricca diversità» (per citare il tuo Humboldt) a mio modo di vedere conta molto di più dell'essere rispettati. Senza
dubbio dal tuo punto di vista i miei gusti sono volgari, drammaticamente volgari! Se non mi lascerai andare da lui,
acconsentirai a quest'unica richiesta - lasciarmi vivere in casa tua separatamente da te?
A questa richiesta, egli non rispose.
Sue scrisse ancora:
So cosa pensi. Ma non puoi avere pietà di me? Ti scongiuro, ti supplico di essere misericordioso! Non te lo
chiederei se non fossi quasi costretta da ciò che non riesco più a sopportare! Nessuna povera donna più di me
desidererebbe che Eva non avesse mai peccato, cosicché (come credevano i primi cristiani) il Paradiso fosse popolato
da una forma innocua di vegetazione. Ma non voglio scherzare! Sii gentile con me, anche se io non lo sono stata con
te! Andrò via, all'estero, dove vuoi, e non ti disturberò mai più.
Trascorse quasi un'ora prima che egli le inviasse una risposta;
Non voglio che tu soffra. Sai bene che non lo voglio! Dammi un po' di tempo. Sono disposto ad accettare la
tua ultima richiesta.
Un rigo da lei:
Grazie di tutto cuore, Richard. Non merito la tua gentilezza.
Per tutta la giornata Phillotson continuò a fissarla sempre più disorientato attraverso la vetrata, sentendosi solo
come lo era stato prima di conoscerla.
Ma era un uomo buono non solo a parole, e accettò che lei vivesse separata in casa. In un primo momento,
quando si incontravano per i pasti, Sue gli era parsa più calma grazie alla nuova sistemazione; ma la tensione di quella
situazione non tardò a influire sul temperamento di lei, e le fibre della sua natura sembrarono tese come le corde di
un'arpa. Pur di impedire che egli tornasse sull'argomento, Sue parlava vagamente e a casaccio di qualsiasi cosa.
CAPITOLO IV
Phillotson era rimasto in piedi fino a tardi, come faceva spesso, cercando di riordinare il materiale per gli studi
a lungo trascurati sull'antichità romana. Per la prima volta da quando aveva ricominciato a occuparsi dell'argomento
sentiva rinascere dentro di sé l'interesse che aveva provato all'inizio. Si dimenticò l'ora e il luogo, e quando si scosse e
salì in camera per dormire erano quasi le due.
Si era talmente concentrato sulla sua ricerca, che sebbene ora dormisse all'altro lato della casa, si recò
meccanicamente nella stanza che lui e la moglie avevano occupato all'inizio quando si erano trasferiti alla Casa del
Boschetto, e che dal giorno in cui si erano separati era abitata esclusivamente da lei. Entrò e senza pensarci iniziò a
spogliarsi.
Ci fu un grido e una grande agitazione nel letto. Prima che si rendesse conto di dove fosse, nella penombra
della stanza il maestro vide Sue fissarlo mezza addormentata, terrorizzata, e saltare fuori dalla parte opposta del letto,
vicino alla finestra. Quest'ultima era nascosta quasi del tutto dal baldacchino del letto, e un attimo dopo Phillotson la udì
spalancare le persiane. Prima che potesse chiedersi quale erano le sue intenzioni, oltre a quella di prendere una boccata
d'aria, lei si era seduta sul davanzale per gettarsi dalla finestra. Scomparve nell'oscurità, ed egli sentì il tonfo di sotto.
Sconvolto, Phillotson corse giù, sbattendo violentemente nella fretta contro il sostegno del corrimano della
scala. Aperta la pesante porta di casa, salì un paio di gradini per giungere a livello della strada, dove sulla ghiaia giaceva
per terra una massa bianca. Phillotson la prese in braccio, e portandola in soggiorno la fece sedere su una sedia, dove
l'esaminò alla luce tremolante di una candela posata in mezzo a una corrente d'aria ai piedi delle scale.
Per fortuna non si era rotto l'osso del collo. Lo guardò con occhi che sembravano non accorgersi di lui; e
sebbene in generale non fossero particolarmente grandi, apparivano tali ora. Si toccò un fianco e si fregò un braccio,
come se sentisse dolore; poi si alzò, nascondendo il volto, ovviamente imbarazzata dallo sguardo di lui.
«Grazie a Dio non sei morta! Anche se ce l'hai messa tutta; spero che non ti sia fatta molto male?».
La sua caduta, in effetti, non era stata grave, probabilmente perché le stanze di quella casa antica erano basse e
perché il livello della strada era più alto di quanto non fosse in origine. A parte un gomito screpolato e un livido sul
fianco, sembrava che non si fosse fatta nulla.
«Credo proprio che dormissi!», lei iniziò, il volto pallido ancora nascosto alla vista di lui. «E qualcosa mi ha
impaurito... un sogno terribile... mi è parso di vederti...». A quel punto si ricordò un po' meglio cosa era accaduto e
tacque.
Il mantello di Sue era appeso dietro la porta, e quel pover'uomo di Phillotson glielo gettò sulle spalle. «Ti aiuto
a salire di sopra?», le chiese in tono malinconico; ché il significato di tutto ciò lo aveva disgustato di se stesso e di ogni
altra cosa.
«No, grazie, Richard. Non mi sono fatta quasi niente. Posso camminare da sola».
«Dovresti chiudere la porta a chiave», egli disse meccanicamente, come se stesse facendo una lezione. «A quel
punto nessuno si potrebbe introdurre nella stanza, neppure per sbaglio».
«Ho cercato... ma non si chiude. Non c'è una porta che funzioni in questa casa».
L'aspetto delle cose non migliorava certo per questa ammissione. Sue salì le scale lentamente, illuminata dalla
luce tremolante della candela. Phillotson evitò di avvicinarsi a lei, né accennò a salire a sua volta prima di sentire che
era entrata nella propria stanza. Poi mise il catenaccio alla porta di casa e andò a sedersi ai piedi delle scale, tenendo una
mano stretta alla ringhiera e nascondendosi il volto nell'altra. Rimase così per lungo tempo - e a chi fosse capitato di
vederlo avrebbe fatto grande compassione; finché alzando il capo e con un sospiro che sembrava voler dire che
bisognava pure continuare a vivere, che avesse o no una moglie, prese la candela e salì nella sua stanza solitaria
dall'altra parte del pianerottolo.
Quell'incidente non ebbe alcun seguito fino alla sera dopo quando, appena terminata la scuola, Phillotson partì
dicendo che non voleva cenare, e senza informarla della propria destinazione. Prese una strada molto ripida in direzione
nord-ovest, e continuò a scendere finché il terreno bianco e arido non divenne compatto e argilloso. Si trovava ora sui
più bassi strati alluvionali,
Dove Duncliffe è meta del viaggiatore
E lo Stour melmoso scorre torbido.
Più di una volta si girò a guardare alle sue spalle la crescente oscurità della sera. Sullo sfondo del cielo si
trovava Shaston, appena visibile
In cima alla rocca grigia
Di Paladore, mentre il giorno pallido
Svaniva...
Le luci appena accese delle finestre risplendevano di un bagliore fisso, quasi lo stessero guardando. Una di
quelle finestre era la sua. Più su, poteva appena distinguere la torre appuntita della chiesa della Trinità. L'aria giù in
pianura, temperata da uno strato spesso e umido di compatto terreno argilloso, non era come quella di Shaston, ma
umida e pesante, e dopo aver camminato per un paio di miglia egli dovette asciugarsi la fronte con il fazzoletto.
Lasciandosi Duncliffe Hill sulla sinistra, procedette senza esitazione nell'oscurità, come un uomo che di notte o
di giorno cammini in una zona in cui giocava da bambino. Complessivamente aveva percorso circa quattro miglia e
mezzo
Dove lo Stour riceve la sua forza
Da sei chiare sorgenti
quando attraversò un affluente dello Stour e giunse a Leddenton, una cittadina di tre o quattromila abitanti dove si recò
alla scuola maschile e bussò alla casa del maestro.
Gli aprì un giovane assistente che alla domanda di Phillotson se il signor Gillingham fosse in casa rispose di sì,
e immediatamente si congedò per tornarsene a casa propria, lasciando che Phillotson scoprisse dove andare da solo.
Trovò l'amico mentre riponeva sugli scaffali alcuni libri che aveva usato per le lezioni serali. La luce della lampada alla
paraffina illuminò il volto di Phillotson - pallido e triste in confronto a quello dell'amico, che aveva uno sguardo calmo
e pratico. Erano stati compagni di scuola nell'infanzia, e poi di nuovo alla Scuola Magistrale di Wintoncester, molti anni
prima di allora.
«Felice di rivederti, Dick! Ma non stai bene? È accaduto qualcosa?».
Phillotson avanzò senza rispondere e Gillingham chiuse gli sportelli della libreria e si avvicinò all'amico.
«È da un secolo che non ci vediamo - fammi pensare - sì, da quando ti sei sposato, vero? Una volta sono
passato a trovarti, ma eri uscito; e giuro che è una tale scarpinata da fare al buio che avevo deciso di attendere che le
giornate si allungassero prima di riprovarci. Comunque sono ben contento che tu sia venuto prima».
Malgrado come maestri fossero ben preparati e persino colti, di tanto in tanto parlando tra loro usavano una
parola dialettale della loro infanzia.
«George, sono venuto a spiegarti le ragioni per le quali sto per compiere un certo passo, di modo che almeno tu
possa capirne i motivi quando gli altri mi criticheranno, come forse, anzi certamente, accadrà... Ma tutto è meglio della
situazione attuale. Che Iddio ti protegga dal vivere mai un'esperienza come la mia!».
«Siediti. Non vorrai dirmi... che qualcosa non va tra te e la signora Phillotson?».
«Esattamente... La mia sventura è di avere una moglie che amo, la quale non solo non ama me, ma... ma... be'
lasciamo perdere, conosco i suoi sentimenti! Preferirei che mi odiasse!».
«Ma che dici!».
«E la cosa più triste è che devo prendermela non tanto con lei quanto con me stesso. Era una mia assistente,
come sai, e ho approfittato della sua inesperienza, l'ho persuasa a uscire con me a passeggio, e infine l'ho convinta ad
accettare un lungo fidanzamento prima che sapesse bene cosa voleva. In seguito conobbe qualcun altro, ma restò fedele
ciecamente al suo fidanzamento».
«Ama l'altro?».
«Sì, con un curioso atteggiamento di tenerezza; sebbene il suo sentimento sia per me un mistero - come anche
per lui, suppongo - e forse anche per lei stessa. È una delle creature più strane che mai abbia conosciuto. Tuttavia mi
hanno colpito questi due fatti: la straordinaria affinità, o somiglianza, tra i due - egli è suo cugino, il che forse spiega in
parte tale somiglianza, ed essi sembrano una persona divisa in due! E la sua intollerabile avversione nei miei confronti
come marito, anche se può volermi bene come amico. Non ce la faccio più a sopportare questa situazione. Lei ha
cercato con impegno di vincersi, ma inutilmente. Non ce la faccio più - basta! Non posso rispondere alle sue
argomentazioni... ha letto dieci volte più di me. Il suo intelletto brilla come un diamante mentre il mio brucia senza
fiamma come la brace... È troppo per me!».
«Le passerà, vedrai!».
«Mai! È che - ma non voglio annoiarti - ci sono delle ragioni per le quali non le passerà mai. Alla fine è
riuscita a chiedermi in tono calmo e risoluto se poteva lasciarmi per andare a vivere con lui. Il culmine lo abbiamo
raggiunto ieri sera quando, essendo io entrato per sbaglio nella sua camera da letto, si è gettata dalla finestra... tale è la
sua paura di me! Ha preteso che fosse colpa di un sogno, ma solo per consolarmi. Ora, quando una donna si getta dalla
finestra senza temere di rompersi il collo, non ci possono essere più dubbi; ed essendo questo il caso, sono giunto a una
conclusione: è sbagliato continuare a torturare così un essere umano; e non sarò io lo sciagurato privo d'umanità che si
comporta in quel modo, costi quel che costi!».
«Cosa? La lascerai andare? E a vivere con il suo innamorato?».
«Con chi vuole. La lascerò andare anche con lui, se è questo che desidera. Forse sbaglio, e so per certo di non
poter difendere da un punto di vista logico o religioso la mia resa a un desiderio come il suo; o conciliarlo con le
dottrine a cui sono stato educato. Ma so anche una cosa; qualcosa dentro di me mi dice che sbaglierei se non le
permettessi di andarsene. Come altri uomini, anch'io credo che se un marito si sente rivolgere dalla propria moglie una
richiesta così incredibile, l'unico atteggiamento che si possa considerare giusto e appropriato e onorevole da parte sua
sia quello di respingerla, chiudere virtuosamente la moglie a chiave e forse uccidere l'amante. Ma è davvero giusto,
appropriato, onorevole, o è invece odiosamente meschino e egoista? Non pretendo di saperlo. So solo che agirò secondo
il mio istinto, lasciando che i principi badino a se stessi. Se una persona senza accorgersene è finita in una palude e
chiede aiuto, cerco di darglielo, se ne sono capace».
«Ma vedi, c'è la questione dei vicini e della società - cosa accadrebbe se tutti...».
«Oh, ho smesso di fare il filosofo! Vedo solo quello che ho sotto gli occhi».
«Non sono d'accordo con il tuo istinto, Dick!», disse Gillingham in tono grave. «A dirti la verità mi stupisce
veramente che un tipo posato e serio si lasci venire in mente anche per un attimo delle idee così assurde. Tu dici che lei
è una persona sorprendente e singolare: ma per me sei tu ad esserlo!».
«Ti è mai successo di trovarti in piedi davanti a una donna che sai essere intrinsecamente buona, mentre lei ti
supplica di lasciarla andare... di essere l'uomo davanti al quale si inginocchia e dal quale implora perdono?».
«Mai, grazie al Cielo!».
«Allora non penso tu sia in grado di giudicare. A me è successo, e ti giuro che è un'esperienza indimenticabile,
se solo hai un po' di virilità e di cavalleria nel sangue. Non avrei mai pensato, vivendo lontano dalle donne come ho
vissuto per tanti anni, che il semplice atto di portare una donna in chiesa e metterle un anello al dito potesse trascinarmi
in una continua tragedia quotidiana, come quella che ora condivido con lei!».
«Potrei anche capire che ti lasci, purché rimanga sola. Ma che se ne vada sottobraccio a un cavaliere... è questo
che rende la faccenda diversa».
«Nemmeno un po'. E se lei, come io credo sceglierebbe di fare, preferisse sopportare l'infelicità attuale pur di
non essere costretta a promettere di stare lontana da lui? È una faccenda che riguarda lei soltanto. Non è affatto lo stesso
del tradimento di chi continua a vivere col proprio marito ingannandolo... Comunque, non ha detto in modo esplicito di
volerci vivere insieme come una moglie, anche se io penso sia questo che intenda... Per quanto ho potuto capire, tra loro
due non vi è un sentimento ignobile, di puro desiderio fisico: ed è questo il dramma, perché mi fa pensare che l'affetto
che li lega sia destinato a durare. Non avevo intenzione di confessarti che nelle prime settimane di matrimonio, in preda
alla gelosia e quando ancora non avevo capito quale fosse veramente la situazione, una sera mi nascosi nella scuola,
dove loro si trovavano, ad origliare quello che si dicevano. Me ne vergogno, ora, anche se immagino rientrasse nei miei
diritti. Mi resi conto da come si comportavano che nel loro reciproco attaccamento vi era una straordinaria affinità, o se
vuoi una comprensione, che in qualche maniera eliminava qualsiasi impressione di grossolanità. La loro massima
aspirazione era di stare insieme - di condividere l'un con l'altro emozioni, fantasie, sogni».
«Platonici!».
«Non proprio. Semmai shelleiani. Mi ricordano, come si chiamano?... Laon e Cythna. Un poco anche Paolo e
Virginia. Più ci penso, e più mi sento completamente dalla loro parte!».
«Ma se tutti si comportassero come vorresti comportarti tu, vi sarebbe una disintegrazione generale della
famiglia. La famiglia non sarebbe più la cellula della società».
«Sì - forse quello che dico è insensato», osservò Phillotson tristemente. «Non sono mai stato un pensatore
brillante, come sai bene... Eppure, non vedo perché la donna e i bambini non potrebbero essere una cellula senza
l'uomo».
«Ci mancava pure questa! Il matriarcato!... Lo pensa pure lei?».
«Oh no. Non immagina nemmeno che io l'abbia superata in quanto a anticonformismo... e tutto nelle ultime
dodici ore!».
«Sconvolgerai tutte le opinioni radicate tra la gente! Buon Dio - cosa diranno a Shaston!».
«Non lo nego. Non lo so. Non lo so!... Come ti ho detto, sono uno che ragiona con l'istinto, non
razionalmente».
«Ora», disse Gillingham, «ripensiamoci con calma e beviamoci sopra qualcosa». Si recò nel sottoscala e tirò
fuori una bottiglia di sidro, di cui entrambi bevettero un bicchiere abbondante. «Secondo me sei semplicemente uscito
di senno», riprese a dirgli. «Torna a casa e convinciti che si tratta soltanto di un piccolo capriccio. Ma non la lasciare.
Tutti dicono che è tanto graziosa».
«Ah sì! È questo che rende amara la vicenda! Ma è meglio che vada. Mi aspetta una lunga camminata».
Gillingham accompagnò l'amico per un miglio, e al momento di salutarlo espresse la speranza che quella visita,
per quanto insolita riguardo all'argomento di cui avevano discusso, servisse a riprendere la loro vecchia amicizia.
«Rimani con lei!», fu l'ultima esortazione che rivolse a Phillotson nel buio, quando già aveva ripreso il suo cammino, e
alla quale costui rispose: «Sì, sì!».
Ma una volta solo sotto il cielo notturno coperto di nuvole, e senza che si udisse alcun rumore oltre al
gorgoglio degli affluenti dello Stour, Phillotson disse: «Dunque, mio caro amico Gillingham, non hai avuto argomenti
più convincenti di questi!».
«Per me dovrebbe farla ragionare prendendola a schiaffi - ecco cosa dovrebbe fare!», mormorò Gillingham
tornando a casa da solo.
La mattina dopo, a colazione, Phillotson disse a Sue:
«Puoi andartene... con chi ti pare. Io sono d'accordo nel modo più completo e senza alcuna condizione».
Dopo essere giunto a questa conclusione, Phillotson si convinceva sempre di più che era indubbiamente quella
giusta. La pacata serenità datagli dalla sensazione che stava facendo il proprio dovere verso una donna del tutto in suo
potere superava il dolore della sua perdita.
Passarono alcuni giorni, finché arrivò la sera in cui avrebbero cenato insieme per l'ultima volta - una sera
nuvolosa e piena di vento - che a dire il vero di rado era assente in quel luogo posto così in alto. Quanto sarebbe rimasto
impresso in permanenza nella sua mente lo sguardo di lei mentre entrava in camera da pranzo per la cena, la sua figura
sottile e flessuosa, il volto che per la tensione aveva perso la sua rotondità, segnato dal pallore di notti e giorni inquieti,
che suggeriva delle tragiche possibilità del tutto insospettate in tempi di spensieratezza, e quel modo di assaggiare una
cosa e l'altra senza essere capace di mangiare niente. Il nervosismo di Sue, dovuto al timore di ferirlo con il proprio
comportamento, avrebbe potuto essere interpretato da un estraneo come dispiacere per il fatto che Phillotson le
imponeva la sua presenza nei pochi, brevi, minuti che le restavano.
«Dovresti mangiare almeno una fetta di prosciutto, o un uovo, o qualcos'altro con il tè. Non puoi viaggiare solo
con un boccone di pane e burro».
Lei prese la fetta che egli le aveva porto; e seduti a tavola discussero di insulse questioni relative alla casa dove egli avrebbe trovato la chiave di questo o quell'armadio, quali conti restavano da pagare, e via discorrendo.
«Come sai bene, Sue, io sono uno scapolo di natura», egli disse, nel tentativo eroico di farla sentire a suo agio.
«E quindi il fatto di rimanere senza moglie non sarà così seccante per me come potrebbe essere per altri uomini che si
erano abituati ad averne una. Inoltre, ho in testa questa grande ambizione di scrivere "Le antichità romane del Wessex",
che occuperà tutte le mie ore libere».
«In qualsiasi momento mi invierai il manoscritto o una sua parte da copiare, come eri solito fare, lo copierò con
molto piacere!», lei rispose con amabile gentilezza. «Mi piacerebbe molto esserti ancora di qualche aiuto... come...
un'amica».
Phillotson ci pensò sopra, poi disse: «No, credo che se dobbiamo separarci è meglio farlo una volta per tutte. È
per questo motivo che non desidero farti domande, e particolarmente non voglio che tu mi dia alcuna informazione sui
tuoi spostamenti, o persino il tuo indirizzo... Ora, di che denari hai bisogno? Non puoi andar via senza un soldo».
«Oh, certo che posso, Richard. Non potrei pensare di accettare soldi da te per andarmene via! Non voglio nulla.
I miei risparmi mi basteranno per un lungo periodo, e Jude mi farà avere...».
«Preferirei che non nominassi il suo nome, se non ti dispiace. Tu sei libera, completamente, e quello che fai
riguarda solo te».
«D'accordo. Ma volevo dirti che ho preso con me solo un paio di vestiti, e due o tre cose anch'esse mie. Vorrei
che tu guardassi nel mio baule prima di chiuderlo. Oltre a quello, ho solo un piccolo pacco che entrerà nella valigetta di
Jude».
«Figurati se ho voglia di mettermi a rovistare nei tuoi bagagli! Fosse per me, vorrei che prendessi tre quarti dei
mobili di casa che a me danno solo fastidio. Ce ne sono due a cui tengo, che appartenevano ai miei poveri genitori. Ma
quanto al resto, ben venga il giorno in cui manderai a prenderli».
«Non lo farò mai».
«Prendi il treno delle sei e mezza, vero? Adesso sono già le sei meno un quarto».
«Tu... tu non sembri molto triste che me ne vada, Richard!».
«Oh no... forse no».
«Ti vorrò sempre bene per come ti sei comportato. È curioso che non appena ho smesso di considerarti mio
marito e ho ripreso a vederti come il mio vecchio maestro, ti ho voluto di nuovo bene. Non sono così toccata dal tuo
comportamento da arrivare a dire che ti voglio bene, perché sai che non è vero, se non come amico. Ma un amico lo sei,
sul serio!».
Per un attimo Sue fu sul punto di accompagnare con le lacrime queste sue riflessioni, poi l'omnibus diretto alla
stazione passò a prenderla. Phillotson sorvegliò che le sue cose fossero fissate sul tetto, la aiutò a salire, e per salvare le
apparenze dovette far finta di baciarla mentre le augurava buon viaggio, un gesto che lei comprese e imitò a sua volta.
Guardando l'allegria con cui si salutavano, il conducente dell'omnibus pensò che la signora stesse partendo per una
breve visita.
Tornato a casa, Phillotson salì di sopra e aprì la finestra nella direzione presa dall'omnibus. Ben presto il
cigolio delle ruote morì in lontananza. Scese allora di sotto, il volto tirato di chi sopporta un grande dolore; si mise il
cappello e uscì, seguendo per circa un miglio la stessa strada della carrozza. Poi d'un tratto si voltò e tornò indietro.
Non aveva fatto in tempo a rientrare che la voce del suo amico Gillingham lo salutò dal soggiorno.
«Non riuscivo a farmi sentire; e così, trovando che la porta non era chiusa a chiave, sono entrato e mi sono
seduto. Ti avevo detto, se ti ricordi, che sarei venuto a farti visita».
«Sì. E ti sono particolarmente grato, Gillingham, di essere venuto proprio stasera».
«Come sta tua moglie?».
«Molto bene. Se ne è andata... un attimo fa. Questa è la tazza di tè che ha bevuto appena un'ora fa. E questo il
piatto...». Phillotson ebbe un groppo alla gola e non riuscì a proseguire. Si girò e spinse da una parte tazze e bicchieri.
«A proposito, hai cenato?», chiese poi all'amico con voce più ferma.
«No... sì... insomma non importa», disse Gillingham preoccupato. «Hai detto che se ne è andata via?».
«Sì... avrei potuto morire per lei, ma non essere crudele con lei in nome della legge. È andata, per quel che ne
so, a raggiungere il suo innamorato. Cosa faranno, non chiederlo a me. Qualsiasi cosa sia, ha il mio pieno assenso».
C'era un senso di stabilità, di determinazione, nell'affermazione di Phillotson che impedì all'amico qualsiasi
commento. «Vuoi... restare solo?», costui gli chiese.
«No, no. È una fortuna che tu sia qui. Devo sistemare e riporre alcuni oggetti. Mi aiuteresti?».
Gillingham disse di sì; e salito nelle stanze di sopra il maestro iniziò ad aprire i cassetti e a tirare fuori le cose
di Sue che lei si era lasciata dietro, per riporle in un grande baule. «Non ha voluto prendere tutto quello che avrei
desiderato prendesse», proseguì. «Ma quando decisi di lasciarla vivere a modo suo, lo decisi sul serio».
«Qualcun altro si sarebbe limitato ad accettare una separazione».
«Ho pensato a tutte queste possibilità ed è inutile riparlarne. Ero, e continuo ad essere, l'uomo più all'antica del
mondo per quanto riguarda il matrimonio - tant'è che non avevo mai pensato a riflettere criticamente sul suo
fondamento etico. Ma mi sono trovato a dover fare i conti con una realtà precisa, e non ho potuto mettermi contro di
essa».
Continuarono a riporre le cose di Sue in silenzio. Alla fine, Phillotson chiuse il baule a chiave.
«Ecco qua», disse. «Le servirà a farsi bella per essere ammirata da qualcun altro; mai più da me!».
CAPITOLO V
Ventiquattr'ore prima, Sue aveva scritto a Jude il seguente biglietto:
È come ti ho detto: partirò domani sera. Sia Richard che io crediamo dia meno nell'occhio se parto non
appena fa buio. Ho molta paura, e per questo ti raccomando di venirmi a prendere alla stazione di Melchester.
Arriverò poco prima delle sette. Naturalmente so che verrai, caro Jude; ma mi sento così intimidita che ti scongiuro di
essere puntuale. Lui è stato così gentile con me in tutta questa vicenda!
Ed ora, al nostro incontro!
S.
Mentre l'omnibus si allontanava sempre di più dal paese arroccato in montagna - Sue era l'unico passeggero
quella sera - lei guardava la strada che si lasciava alle spalle con occhio triste. Ma non mostrava alcuna esitazione
riguardo alla sua partenza.
Il treno per Melchester si fermava solo a richiesta. Sembrava strano che una macchina così potente come un
treno dovesse fermarsi unicamente per lei - che fuggiva dalla sua residenza legale.
I venti minuti del viaggio stavano per concludersi e Sue iniziò a raccogliere le sue cose per scendere. L'attimo
in cui il treno si fermò alla stazione di Melchester qualcuno poggiò una mano sulla porta e lei riconobbe Jude. Egli salì
subito nello scompartimento. Aveva con sé una sacca nera, e indossava il completo scuro che portava i giorni di festa e
la sera dopo il lavoro. Nell'insieme era un bel giovane, nei cui occhi bruciava l'ardente affetto per la ragazza.
«Oh Jude!». Gli afferrò la mano con entrambe le sue, e tale era la tensione da lei provata che iniziò a
singhiozzare senza piangere. «Io... io sono così felice! Scendo qui?».
«No, sono io che salgo, cara! Ho fatto i bagagli. Oltre a questa sacca ho solo un baule, che ho già spedito».
«Ma non dovremmo scendere? Non vivremo qui?».
«Vedi, non potremmo. Ci conoscono... io, almeno, sono conosciuto da tutti. Ho preso il biglietto per
Aldbrickham; ecco il tuo biglietto per la stessa destinazione, dato che ne avevi uno solo fino a qui».
«Credevo che saremmo rimasti qui», lei ripeté.
«Sarebbe stato impossibile».
«Ah!... Forse è vero».
«Non c'era tempo per scriverti e comunicarti la destinazione che avevo scelto. Aldbrickham è una città molto
più grande - sessanta o settantamila abitanti - e nessuno sa nulla di noi laggiù».
«E tu hai lasciato il lavoro alla Cattedrale?».
«Sì. Tutto è accaduto in fretta... non mi aspettavo la tua lettera così presto. Se avessero voluto, avrebbero
potuto chiedermi di finire la settimana di lavoro, ma ho spiegato loro che si trattava di un affare urgente e mi hanno
lasciato andare. Avrei abbandonato il lavoro in qualsiasi giorno, se me l'avessi chiesto, cara Sue. Ho abbandonato ben
altre cose per te!».
«Ho paura di procurarti un sacco di guai. Prima ho rovinato i tuoi progetti ecclesiastici, ora il tuo lavoro...
tutto!».
«La Chiesa non è più nulla per me. Lasciala perdere! Io non sarò uno dei
Soldati della fede che in fila, uno dopo l'altro,
Ardono, ciascuno proteso verso la sua felicità celeste,
se mai esistono! La mia felicità non è in cielo, ma qui in terra».
«Oh, mi sento così malvagia... a sconvolgere in questo modo la vita degli uomini!», lei disse, raccogliendo
nella sua voce l'emozione che aveva sentito in quella di lui. Ma dopo che ebbero percorso una dozzina di miglia, aveva
ritrovato la sua serenità.
«È stato molto buono a lasciarmi andare», riprese. «E qui c'è un biglietto per te che ho trovato sulla mia
toeletta».
«Sì, non è una persona indegna», disse Jude, dando un'occhiata al biglietto. «E mi vergogno di averlo odiato
perché ti aveva sposato».
«Secondo la teoria che le donne sono capricciose, immagino che io dovrei improvvisamente amarlo, perché mi
ha permesso di andarmene in modo così generoso e inatteso», lei rispose sorridendo. «Ma io devo essere così fredda, o
così priva di gratitudine, o non so cos'altro, perché neppure questa sua generosità è bastata per amarlo, pentirmi e voler
continuare a essere sua moglie; anche se ho apprezzato la sua larghezza di vedute, e mai come ora l'ho rispettato tanto».
«Tutto sarebbe stato forse più difficile per noi due se lui fosse stato meno gentile, e tu fossi scappata via contro
la sua volontà», mormorò Jude.
«Non l'avrei mai fatto».
Gli occhi di Jude si posarono pensosi sul suo volto. Poi la baciò improvvisamente, e stava per farlo di nuovo
quando lei disse: «No... basta una volta... per piacere, Jude!».
«Sei crudele!», lui rispose; ma si rassegnò. «Mi è accaduta una cosa molto strana», riprese poi dopo una pausa.
«Ha scritto Arabella chiedendomi di divorziare... per gentilezza nei suoi confronti, dice. Vuole sposare onestamente e
legalmente quell'uomo che ha già sposato di fatto; e mi supplica di consentirglielo».
«E tu cosa hai risposto?».
«Ho detto che ero d'accordo. In un primo momento mi è sembrato difficile senza tirare in ballo il suo secondo
matrimonio, e non avevo alcuna intenzione di danneggiarla. Forse lei non è peggio di me, dopo tutto! Ma nessuno la
conosce da queste parti, e credo si possa portare a termine senza problemi. Se lei vuole ricominciare da capo, io ho delle
ragioni fin troppo ovvie per non ostacolarla».
«Poi sarai libero?»
«Sì. Sarò libero».
«Dov'è che stiamo andando?», lei chiese con la discontinuità che la caratterizzava quella sera.
«Ad Aldbrickham, te l'ho detto».
«Ma non sarà tardissimo quando arriveremo?».
«Sì. Ci ho pensato, e ho telegrafato per prenotare una stanza per noi all'"Albergo della Temperanza"».
«Una?».
«Sì... perché?».
Lei lo guardò. «Oh Jude!», esclamò e si appoggiò con la fronte a un angolo dello scompartimento. «Temevo
che lo avresti fatto, e che ti stavo ingannando, ma io non intendevo questo!».
Nella pausa che seguì, gli occhi di Jude si fissarono con un'espressione stupefatta sul sedile di fronte. «Io...»,
disse, «io...».
Rimase in silenzio; e notando quanto era a disagio, Sue appoggiò il volto contro la sua guancia, mormorando
«Non te la prendere, caro!».
«Oh... non è niente», egli disse. «Ma era questo che avevo capito... Hai improvvisamente cambiato idea?».
«Non hai diritto di farmi questa domanda, e non ho intenzione di risponderti!», lei disse sorridendo.
«Mia adorata, la tua felicità è quello che più conta - anche se si direbbe che siamo così spesso lì lì per litigare! e ogni tuo desiderio è legge per me. Non sono un egoista... almeno spero. Facciamo come vuoi tu!». Tuttavia continuò a
riflettere sulla questione, e la sua fronte denotava perplessità. «Ma forse la verità è un'altra, è che non mi ami, e non che
all'improvviso sei diventata conformista! Tra le due, quest'ultima ipotesi sarebbe molto meglio della prima, così
terribile, per quanto tu mi abbia convinto ad odiare le convenzioni!».
Persino in quel momento così adatto per dirsi la verità, Sue non riusciva ad essere abbastanza sincera sulla
natura di quel mistero, il suo cuore. «È colpa della mia timidezza», disse in modo vago e sbrigativo; «della timidezza
naturale di una donna di fronte a una crisi. Posso essere d'accordo che abbiamo ogni diritto di vivere insieme, come tu
vorresti... da questo momento in poi. Sono convinta che, in una società ideale, la paternità del figlio di una donna è una
faccenda che riguarderebbe lei soltanto, né più e né meno del taglio della sua biancheria intima. Ma in parte forse
perché è grazie alla sua generosità che io ora sono libera, mi pare giusto essere un poco rigida e formale. Se fossi
fuggita calandomi con una scala di corda ed egli ci fosse corso dietro impugnando una pistola, sarebbe stato diverso e
avrei potuto comportarmi in altro modo. Ma non insistere e non criticarmi, Jude! Pensa che non ho il coraggio delle mie
opinioni. So di essere una povera miserabile. Non ho un carattere passionale come il tuo!».
Egli si limitò a ripetere: «Avevo pensato... ciò che è naturale pensare. Ma se non siamo amanti, non lo siamo.
Phillotson crede che lo siamo, ne sono certo. Ecco, guarda che mi ha scritto». Aprì la lettera che lei gli aveva portato e
lesse:
Pongo solo una condizione: che siate dolce e buono con lei. So che la amate, ma a volte anche l'amore può
essere crudele. Voi siete fatti l'uno per l'altro: è ovvio, palpabile, a qualsiasi persona più grande di voi che sia
imparziale. Durante tutta la mia breve vita con lei, siete sempre stato «il terzo nell'ombra». Vi raccomando di nuovo di
aver cura di Sue.
«È proprio una brava persona, non trovi?», Sue disse con le lacrime agli occhi. Poi, dopo aver riflettuto ancora,
aggiunse: «Era rassegnato a lasciarmi andare... quasi troppo! Non sono mai stata così vicina ad amarlo come quando lo
vidi preoccuparsi, con tanta premura da offrirmi del denaro, che nel viaggio non mi mancasse nulla. Eppure neanche
allora l'ho amato. Se lo amassi soltanto un poco come moglie, tornerei subito da lui».
«Ma non lo ami, vero?».
«Sì è vero... tragicamente vero! Non lo amo».
«Né ami me, temo!», egli disse irritato. «E forse non hai mai amato nessuno! Sue, a volte quando ce l'ho con
te, penso che tu sia incapace di amare veramente».
«Non è giusto né leale da parte tua!», lei disse allontanandosi il più possibile da lui e fissando imbronciata
l'oscurità fuori dal finestrino. Poi aggiunse in tono risentito, senza girarsi: «Forse non ti voglio bene nel modo in cui te
ne vorrebbero altre donne. Ma stare con te è un piacere di un genere quantomai delicato, e io non voglio spingermi oltre
e rischiare di perderlo per... un tentativo di renderlo più intenso! Ero consapevole che, come donna, correvo un rischio
ad andare con un uomo. Ma trattandosi di me e di te, mi sono decisa a credere che tu avresti posto i miei desideri al di
sopra di ogni tua gratificazione. Non parliamone più, Jude!».
«Per carità, se parlarne ti fa avere dei rimorsi... ma mi vuoi molto bene, vero Sue? Dimmi di sì! Dimmi che mi
ami un quarto, un decimo almeno di quanto io amo te; e mi accontento!».
«Ti ho permesso di baciarmi, e questo già vuol dire qualcosa».
«Un paio di volte!».
«Su, non fare il bambino insaziabile».
Jude si appoggiò allo schienale e non la guardò per lungo tempo. Quell'episodio della sua storia passata che gli
aveva raccontato - del povero studente di Christminster da lei trattato in quel modo, gli tornò in mente; ed egli vide se
stesso come un possibile successore in quel destino di tortura.
«È una fuga ben strana, la nostra!», Jude mormorò. «Forse mi hai usato come pretesto con Phillotson, tutto
questo tempo. Parola mia, sembra quasi così... a vederti seduta lì, così sulle tue!».
«Adesso non arrabbiarti... ti prego!», lei cercò di convincerlo con qualche moina, girandosi e avvicinandosi a
lui. «Mi hai baciato un attimo fa, ricordi? E a me non è dispiaciuto affatto, te l'assicuro Jude. È solo che non voglio che
tu lo faccia di nuovo, proprio qui - data la nostra situazione!».
Jude non poteva far altro che arrendersi quando Sue lo supplicava (come lei sapeva benissimo). Ed essi si
sedettero fianco a fianco tenendosi per mano, finché a lei non tornò in mente un pensiero.
«Non posso assolutamente andare all'"Albergo della Temperanza", dopo che hai telegrafato quel messaggio!».
«Perché no?».
«Dovresti capirlo da solo!».
«D'accordo; ce ne sarà sicuramente un altro aperto. Sai, a volte ho pensato che avendo tu sposato Phillotson per
via di uno stupido scandalo, sotto la pretesa di essere anticonformista sei succube del codice sociale come qualsiasi altra
donna!».
«Non mentalmente. Ma non ho il coraggio delle mie idee, come ti ho già detto. Non l'ho sposato unicamente
per via dello scandalo. Ma a volte il desiderio di una donna di essere amata ha la meglio sulla sua coscienza, e
malgrado non sopporti l'idea di trattare crudelmente un uomo, lo incoraggia ad amarla pur non amandolo affatto a sua
volta. Poi, quando lo vede soffrire, è presa dai rimorsi e fa il possibile per riparare il male causato».
«Vorresti dire che ti sei lasciata corteggiare per gioco da lui, povero vecchio, e poi ti sei pentita e quale gesto
riparatore lo hai sposato, anche se sposandolo ti sei torturata a morte».
«Se vuoi metterla in termini così brutali... sì è andata in questo modo... è stato questo e lo scandalo insieme...
e tu che mi nascondevi quanto avresti dovuto dirmi prima!».
Jude si accorse che le sue critiche l'avevano turbata al punto da farla quasi piangere, e per consolarla le disse:
«Cara, non importa! Crocifiggimi, se vuoi! Sai bene che sei tutto per me, qualsiasi cosa tu faccia!».
«Sono malvagia e senza scrupoli... so che è questo che pensi!», lei disse, cercando di trattenere le lacrime.
«Io penso e so che tu sei la mia cara Sue, dalla quale tempo o distanza, cose presenti o a venire, non potranno
mai separarmi!».
Pur essendo sofisticata in tante cose, in altre Sue era una tale bambina che queste parole la soddisfecero, ed essi
giunsero alla fine del viaggio in ottimi rapporti. Erano circa le dieci di sera quando arrivarono ad Aldbrickham, la
capitale del nord del Wessex. Dal momento che lei non avrebbe messo piede all'«Albergo della Temperanza», per via
del modo in cui egli aveva formulato il telegramma, Jude si informò se ve n'erano altri, e un ragazzo, che si offrì di
trovargliene uno, portò il loro bagaglio al «George», poco più avanti, che si rivelò essere l'albergo dove Jude era stato
con Arabella l'unica volta che si erano incontrati anni dopo essersi separati.
Ma poiché entrarono da un altro ingresso ed era sovrappensiero, lì per lì Jude non riconobbe il posto. Presero
possesso delle rispettive stanze, e si diedero appuntamento di sotto per la cena. Mentre Sue lo attendeva, la cameriera
attaccò discorso.
«Credo, signora, di ricordare che il vostro parente, o amico, o come volete chiamarlo, è già venuto qui una
volta, tardi, proprio come stasera, con la moglie... comunque con una signora, e certamente non eravate voi... proprio
come potrebbe essere qui con voi ora».
«Davvero?», disse Sue sentendosi stringere il cuore. «Siete certa di non confonderlo con un altro? Quanto
tempo fa sarebbe accaduto?».
«Uno o due mesi fa. Una donna formosa, abbastanza bella. Avevano preso questa stanza».
Quando Jude tornò e si sedette a tavola, notò subito che Sue era triste e avvilita. «Jude», gli disse in tono
lamentoso al momento di augurargli la buonanotte sul pianerottolo, «tra noi le cose non vanno più come in passato! E
non mi piace qui... non sopporto questo posto! E non ti voglio più bene come prima!».
«Sembri così nervosa, cara! Perché cambi d'umore in questo modo?».
«Sei stato crudele a portarmi qui».
«Perché?».
«Sei stato qui ultimamente con Arabella. Ecco il perché!».
«Io? Ma cara...», rispose Jude guardandosi intorno. «Sì... è lo stesso posto! Giuro che non lo sapevo, Sue.
D'altronde... non puoi dire che è crudele, visto che siamo... solo due parenti».
«Quand'è che sei venuto qui? Dimmelo, dimmelo!».
«Il giorno prima che ti incontrai a Christminster, quando siamo tornati a Marygreen insieme. Ti avevo detto
che l'avevo incontrata».
«Sì, mi avevi detto che l'avevi incontrata, ma non mi avevi detto tutto. Mi hai raccontato che vi siete visti come
due estranei che non erano affatto marito e moglie agli occhi del Cielo... non che avevate fatto la pace».
«Non abbiamo fatto nessuna pace», egli disse tristemente. «Ma non posso spiegarti, Sue».
«Mi hai mentito, proprio tu, la mia ultima speranza! Non lo dimenticherò mai!».
«Ma sei tu, Sue, a volere che noi siamo solo amici e non amanti! È così incoerente da parte tua che...».
«Anche gli amici possono essere gelosi!».
«Non vedo come. Tu non mi concedi nulla, ma pretendi che io ti conceda tutto. In fin dei conti, eri in buoni
rapporti con tuo marito, all'epoca».
«No, non è vero Jude. Come puoi pensare una cosa del genere! E mi hai portato qui, anche se non l'hai fatto
apposta». Lei si sentiva così mortificata che egli dovette accompagnarla in camera e chiudere la porta per evitare che la
gente li udisse. «Era questa la stanza? Sì che lo era... te lo leggo negli occhi che lo era! Non ci voglio stare! Oh, sei stato
un traditore a passare con lei la notte. E pensare che io mi sono buttata dalla finestra!».
«Ma Sue, dopo tutto era mia moglie, legalmente se non...».
Lasciandosi cadere sulle ginocchia, Sue nascose il volto tra le coperte del letto e pianse.
«Non ho mai conosciuto un sentimento così irragionevole... come un cane nella mangiatoia», disse Jude. «Io
non dovrei avvicinarmi né a te, né a qualsiasi altra donna!».
«Oh, ma non capisci come mi sento! Perché non lo capisci! Perché sei così insensibile? Io mi sono buttata
dalla finestra!».
«Ti sei buttata dalla finestra?».
«Non posso spiegarti!».
Era vero che egli non capiva bene come lei si sentiva. Ma un poco lo capiva; e ciononostante, sentì di amarla.
«Io... io credevo che non tenessi a nessuno, che non desiderassi nessuno al mondo tranne me, allora... e per
sempre!», continuò Sue.
«Infatti. Ho sempre amato solo te!», dichiarò Jude turbato quanto la cugina.
«Ma devi aver pensato molto a lei! Altrimenti...».
«No, perché avrei dovuto? Neanche tu capisci me... le donne non mi capiscono mai! Perché te la prendi tanto
per nulla?».
Alzando gli occhi dalla trapunta del letto, lo guardò imbronciata, come per provocarlo: «Non fosse stato per
questo, forse sarei andata all'"Albergo della Temperanza", dopo tutto, come tu avevi suggerito; poiché iniziavo a
pensare di appartenerti!».
«Oh, non ha alcuna importanza!», Jude rispose distaccato.
«Pensavo, naturalmente, che lei non fosse mai stata tua moglie, dal momento che vi eravate lasciati molti anni
fa! La mia percezione della cosa era che una separazione come quella tra lei e te, e tra me e lui, segnava la fine del
matrimonio».
«Non posso aggiungere altro senza parlare male di lei, e questo non voglio farlo», spiegò Jude. «Ma una cosa
devo dirti, che dovrebbe bastare a chiudere il discorso. Ha sposato un altro uomo... sul serio! Io non seppi nulla fin dopo
la notte che abbiamo passato qui».
«Sposato un altro?... È un crimine... così lo considera il mondo, anche se poi non ci crede».
«Ecco... ora sei tornata te stessa. Sì, è un crimine, come tu non vuoi riconoscere, ma poi ammetti per paura. Ma
io non la denuncerò mai! Ed è evidentemente uno scrupolo di coscienza che l'ha spinta a chiedermi di divorziare, in
modo che possa risposarsi legalmente. Così vedi quanto è improbabile che la incontri di nuovo».
«E veramente non sapevi nulla di tutto ciò quando l'hai vista?», gli chiese Sue in tono più gentile, alzandosi dal
letto.
«Veramente. Tutto sommato, non ha senso che tu sia arrabbiata con me, cara!».
«Non lo sono. Ma non andrò all'"Albergo della Temperanza"».
Egli rise. «Come vuoi!», disse. «Finché sono accanto a te, sono relativamente felice. È più di quanto questo
relitto terreno chiamato me si meriti - tu spirito, tu creatura incorporea, tu caro, dolce, spettro tentatore, che non sembri
fatto di carne; tanto che quando ti stringo tra le mie braccia mi aspetto quasi di passare attraverso il tuo corpo come
attraverso l'aria! Perdonami se sono insensibile, come tu dici! Ricorda che il fatto di chiamarci cugini quando in realtà
eravamo due estranei è stata una trappola. Per via dell'inimicizia tra i nostri genitori, tu hai suscitato in me un interesse
più intenso della novità di una nuova conoscenza».
«Allora recitami quei bei versi dell'Epipsychidion di Shelley, come se si riferissero a me!», lei lo sollecitò,
avvicinandosi a lui. «Li conosci?».
«Non conosco quasi nessuna poesia», egli rispose mortificato.
«Davvero? Eccone alcuni:
C'era un essere che spesso il mio Spirito
Incontrava nelle sue peregrinazioni immaginarie
......................
Un serafino del Cielo, troppo gentile per essere umano,
Celato dietro quelle sembianze radiose di donna...
Oh, è troppo lusinghiero, non posso continuare! Ma dimmi che sono io - ti prego, dimmelo!».
«Sei tu, cara, proprio tu!».
«Adesso sì che ti perdono! E mi bacerai qui, ma una volta sola... e non troppo a lungo». Con circospezione
pose la punta del dito sulla propria guancia; ed egli obbedì. «Mi vuoi molto bene, vero, anche se io non...?».
«Sì, mia cara!», Jude rispose con un sospiro; e le augurò la buona notte.
CAPITOLO VI
Tornando alla sua città nativa di Shaston in qualità di maestro, Phillotson aveva risvegliato l'interesse e i
ricordi dei concittadini di un tempo i quali, sebbene non lo onorassero per la sua cultura enciclopedica come sarebbe
stato onorato altrove, conservavano per lui un affetto sincero. Quando, poco dopo il suo arrivo, portò a casa una moglie
graziosa - fin troppo graziosa per lui, dissero, se non stava attento - furono felici di accoglierla tra loro.
Per qualche tempo dopo la sua fuga da quella casa, l'assenza di Sue non suscitò alcun commento. Il suo posto
di assistente nella scuola era stato preso da un'altra giovane pochi giorni dopo che lei lo aveva lasciato libero, ed anche
questa sostituzione era passata inosservata, dal momento che il lavoro di Sue aveva avuto un carattere esclusivamente
temporaneo. Ma quando, un mese dopo, Phillotson dichiarò per caso ad alcuni conoscenti di ignorare dove la moglie si
trovasse, la gente iniziò a far domande; finché, saltando alle conclusioni, non sentenziò che Sue lo aveva tradito ed era
scappata via. L'indifferenza e l'apatia crescenti del maestro nel proprio lavoro non facevano che avvalorare tale
congettura.
Sebbene Phillotson avesse tenuto la bocca cucita il più a lungo possibile, tranne che con il suo amico
Gillingham, quando cominciarono a diffondersi maldicenze sul comportamento di Sue, la sua onestà e la sua sincerità
gli impedirono di continuare a tacere. Un lunedì mattina il presidente del comitato scolastico lo chiamò, e dopo aver
sbrigato gli affari della scuola lo prese in disparte, lontano dalle orecchie dei bambini.
«Scusi se mi permetto, Phillotson, ma dato che tutti ne parlano: è vero che la sua situazione domestica... che
sua moglie è partita non per una visita, ma per fuggire insieme a un amante? Se è così, le esprimo tutto il mio
rammarico».
«Non ce n'è bisogno», disse Phillotson. «Non c'è nulla di segreto nella sua partenza».
«È andata a trovare degli amici?».
«No».
«E allora che è successo?».
«È partita in circostanze che solitamente richiedono che si facciano le condoglianze al marito. Ma io le ho dato
il permesso».
Il presidente diede l'impressione di non aver capito la frase.
«Proprio così», Phillotson proseguì con decisione. «Mi ha chiesto il permesso di andarsene via con il suo
amante, e gliel'ho dato. Perché non avrei dovuto? È maggiorenne, la cosa riguarda la sua coscienza, non la mia. Non
sono il suo carceriere. Ma non posso spiegarle di più; e meno ancora rispondere a delle domande».
I bambini notarono che i volti dei due uomini erano segnati da una grande serietà, e tornati a casa raccontarono
ai loro genitori che c'erano delle novità riguardo alla signora Phillotson. Poi la giovane cameriera di Phillotson, che
aveva appena terminato le elementari, disse che il signore aveva aiutato la moglie a fare le valigie, le aveva offerto tutto
il denaro di cui avesse bisogno, e aveva scritto una lettera amichevole al giovanotto di lei, dicendogli di trattarla bene. Il
presidente del comitato ripensò alla faccenda e ne parlò agli altri responsabili della scuola, finché a Phillotson non
giunse una richiesta di incontrarli privatamente. L'incontro durò a lungo, e alla fine il maestro tornò a casa pallido e
stanco come al solito. Gillingham lo aspettava seduto in soggiorno.
«In effetti è come tu avevi previsto», osservò Phillotson, lasciandosi cadere per la stanchezza su una sedia. «Mi
hanno chiesto di firmare le mie dimissioni per via dello scandoloso comportamento di cui ho dato prova restituendo a
una moglie torturata la libertà... o come dicono loro, perdonando il suo adulterio. Ma io non mi dimetto!».
«Secondo me dovresti».
«Non lo farò. Non è affare loro. Non ha nulla a che vedere con la mia funzione pubblica. Se vogliono, possono
cacciarmi».
«Se crei uno scandalo, finirà sui giornali, e non troverai più una scuola disposta ad assumerti. Capisci, loro
devono considerare ciò che tu hai fatto in quanto è stato fatto da un maestro... e pensare alle conseguenze d'ordine
morale per l'intera città. Agli occhi dell'opinione pubblica, il tuo comportamento è indifendibile. Lascia che te lo dica».
Tuttavia Phillotson non era disposto ad ascoltare un consiglio tanto saggio.
«Non m'importa», disse. «Io non me ne vado se non mi cacciano. E per un motivo preciso: che dimettendomi,
ammetterei di aver sbagliato con lei; quando ogni giorno che passa sono sempre più convinto, agli occhi del Cielo e
secondo un semplice e naturale principio di umanità, di aver preso la decisione giusta».
Gillingham si rese conto che il suo amico alquanto testardo non avrebbe potuto difendere una posizione simile;
ma non aggiunse altro, e a tempo debito - in effetti, appena un quarto d'ora dopo - giunse una lettera formale di
licenziamento, che i dirigenti della scuola erano rimasti a scrivere al termine del colloquio con il maestro. Egli rispose
che non accettava il provvedimento; e chiese un pubblico incontro al quale prese parte, sebbene fosse così debole e
malato che il suo amico lo implorò di restarsene a casa. Quando si alzò in piedi per illustrare i motivi per cui contestava
la decisione dei dirigenti della scuola, li spiegò senza tentennamenti, come aveva fatto con il suo amico, aggiungendo
inoltre che a suo avviso si trattava di una faccenda di carattere privato che non li riguardava in alcun modo. Gli
replicarono ribadendo che le stravaganze private di un maestro rientravano pienamente nella loro sfera di controllo, dal
momento che influivano sull'educazione morale dei suoi alunni. Phillotson ribatté di non comprendere come un
semplice atto di carità umana potesse offendere la morale pubblica.
Tutti i cittadini rispettabili e le persone benestanti di quella cittadina si schierarono compatti contro Phillotson.
Ma con sua grande sorpresa, venne fuori come dal nulla una mezza dozzina di persone che si alzarono in sua difesa.
Come abbiamo detto, Shaston costituiva il rifugio di un gruppo curioso e interessante di girovaghi, i quali
frequentavano le numerose fiere e i mercati che si tenevano in ogni parte del Wessex nei mesi estivi e autunnali.
Sebbene Phillotson non avesse mai attaccato discorso con uno di questi signori, costoro si assunsero nobilmente la
difesa disperata della sua causa. Il gruppo includeva due venditori ambulanti, un proprietario di tiro a segno e le ragazze
addette alla ricarica dei fucili, due maestri di pugilato, il proprietario di una giostra a vapore, due fabbricanti di scope
che si dicevano vedove, il padrone di una bancarella di pan di zenzero, il gestore di un otto volante, e quello di una
macchina per misurare la forza delle persone.
Questa generosa falange di sostenitori, e pochi altri spiriti indipendenti le cui esperienze familiari non erano
state prive di vicissitudini, si avvicinò a Phillotson per stringergli calorosamente la mano; e poi espresse le proprie
opinioni ai presenti in modo così energico da far scoppiare un'accesa discussione che sfociò in una lite generale, durante
la quale fu spezzata una lavagna, si ruppero i vetri di tre finestre, un calamaio pieno d'inchiostro fu rovesciato sullo
sparato di un consigliere comunale, il sagrestano di una chiesa ricevette una tale botta con un'asta intorno alla quale era
avvolta una mappa della Palestina, che la testa gli finì dritta dentro la Samaria, e si ebbero molti occhi neri e nasi
sanguinanti, uno dei quali, con orrore generale, fu quello del venerabile rettore, frutto dello zelo di un esuberante
spazzacamino che aveva preso le parti di Phillotson. Alla vista del sangue che scorreva sul volto del rettore, il maestro
deplorò quasi piangendo quello spettacolo così increscioso e degradante, pentendosi di non essersi dimesso appena gli
era stato richiesto, e tornò a casa così nauseato che il giorno dopo non riuscì ad alzarsi dal letto.
Quell'episodio, ad un tempo farsesco e malinconico, non fu che l'inizio di una seria malattia; egli rimase
confinato a letto nello stato mentale patetico di un uomo di mezza età che alla fine comprende come la sua vita,
intellettuale e familiare, sia avviata al fallimento e alla tristezza. Gillingham andava a trovarlo la sera, e una volta gli
capitò di menzionare Sue.
«Non le importa niente di me!», disse Phillotson. «Perché dovrebbe?».
«Non sa che sei ammalato».
«Meglio così per entrambi».
«Dove vivono lei e il suo amante?».
«A Melchester, immagino; almeno egli viveva là qualche tempo fa».
Giunto a casa, Gillingham si sedette a riflettere, e alla fine scrisse un biglietto anonimo a Sue, nella speranza
remota che le fosse recapitato, poiché la lettera era racchiusa in una busta indirizzata a Jude presso la diocesi della città.
Arrivata laggiù, fu respinta a Marygreen, e da qui a Aldbrickham, dall'unica persona che conosceva l'indirizzo attuale di
Jude - la vedova che aveva assistito sua zia.
Tre giorni dopo, una sera, quando il sole calava in tutto il suo splendore sulla vallata di Blackmoor, facendo
apparire le finestre di Shaston agli occhi dei contadini in fondo alla valle come altrettante lingue di fuoco, l'uomo
malato ebbe l'impressione di sentire qualcuno entrare in casa, e pochi minuti dopo sentì bussare alla porta della stanza.
Phillotson non parlò; la porta venne aperta con una certa esitazione, e Sue entrò.
Portava un leggero abito primaverile, e la sua presenza pareva avere un che di spettrale - come se fosse entrata
una falena. Egli la guardò, e arrossì; ma sembrò controllare l'impulso iniziale a parlare.
«Non dovrei essere qui», lei disse, chinando il volto impaurito verso di lui. «Ma ho sentito che eri malato,
molto malato; e... e dato che so che tu apprezzi altri sentimenti tra un uomo e una donna oltre all'amore fisico, ho deciso
di venire».
«Non sono molto malato, mia cara amica. Appena un po' indisposto».
«Non lo sapevo; e ho paura che solo una seria malattia potrebbe giustificare la mia venuta!».
«Sì... sì. E quasi vorrei che non fossi venuta! È un po' troppo presto... è questo che voglio dire. Comunque,
visto che sei venuta... Immagino tu non sappia nulla della scuola, vero?».
«No... che è successo?».
«Solo che mi trasferirò da un'altra parte. Non vado d'accordo con i direttori, e quindi dovrò partire. Tutto qui».
Sue non sospettò, né in quel momento né in seguito, quanti guai gli fossero capitati per averle permesso di
andarsene; non le venne mai in mente di pensarci, né aveva ricevuto alcuna notizia da Shaston. Parlarono del più e del
meno, e quando gli portarono il tè, egli disse alla cameriera stupefatta di prendere una tazza anche per lei. Quella
ragazza era più interessata alla loro storia di quanto non supponessero, e scendendo le scale alzò gli occhi e le braccia al
cielo in segno di grottesco stupore. Mentre sorseggiavano il tè, Sue andò alla finestra e disse meditabonda: «È un
tramonto così bello, Richard».
«Sono quasi sempre bellissimi da qui, con i raggi che penetrano attraverso la nebbia della vallata. Ma io li
perdo tutti, perché non arrivano in questo angolo buio dove mi trovo».
«Vorresti guardare questo? È come se si sia aperto il cielo».
«Magari! Ma non posso».
«Ti aiuto io».
«No... non si può spostare il letto».
«Aspetta e vedrai».
Si diresse verso uno specchio a bilico, lo prese e lo portò in un angolo vicino alla finestra dove poteva
rispecchiare il tramonto, per poi orientarlo in modo che i raggi si riflettessero sul volto di Phillotson.
«Ecco... ora puoi guardare il grande disco infuocato!», disse. «E sono sicura che ti tirerà su di morale... vorrei
tanto!». Parlò con una gentilezza infantile, piena di rimorsi, quasi sentisse di non poter fare abbastanza per lui.
Phillotson abbozzò un sorriso velato di tristezza. «Sei proprio una strana creatura!», mormorò, mentre il sole
gli accecava gli occhi. «Che idea venire a trovarmi dopo tutto quello che è accaduto!».
«Non ricominciamo a parlare di questo!», lei disse subito. «Devo prendere l'omnibus per la stazione, poiché
Jude non sa che sono qui. Era fuori quando sono partita, e quindi devo tornare a casa quasi subito. Richard, sono così
felice che stai meglio. Non ce l'hai con me, vero? Sei stato un amico così gentile!».
«Mi fa piacere sentirtelo dire», rispose Phillotson con voce opaca. «No, non ce l'ho con te».
L'oscurità avanzò rapidamente in quella stanza buia mentre loro chiacchieravano, e quando portarono le
candele e per Sue era giunta l'ora di ripartire, lei posò una mano in quella di lui, o meglio la fece scivolare nella sua,
dato che il suo tocco era significativamente leggero. Aveva già quasi chiuso la porta quando egli chiamò: «Sue!».
Aveva notato che, nell'allontanarsi da lui, il viso di lei era bagnato di lacrime e le labbra le tremavano.
Richiamarla era stata una mossa sbagliata - egli se ne rese conto immediatamente. Ma troppo tardi: lei tornò.
«Sue», mormorò Phillotson, «vorresti fare la pace e restare? Io ti perdono e dimentico ogni cosa!».
«Oh non puoi, non puoi!», Sue si affrettò a dire. «Non puoi più perdonarmi, ora!».
«Vuoi dire, naturalmente, che di fatto ora egli è tuo marito?».
«Per così dire. Sta divorziando da sua moglie Arabella».
«Sua moglie! Mi giunge nuovo che abbia una moglie».
«Un matrimonio sbagliato».
«Come il tuo».
«Come il mio. Non lo fa tanto per se stesso, quanto per lei. Gli ha scritto chiedendogli questa gentilezza, per
consentirle di sposarsi e vivere in maniera rispettabile. E Jude ha accettato».
«Una moglie... Una gentilezza... ah sì, la gentilezza di liberarla da ogni legame... Ma non mi piace il suono di
questa parola. Io ti posso perdonare, Sue».
«No, no! Non puoi riprendermi ora che sono stata così malvagia da fare quello che ho fatto!».
Sul volto di Sue iniziava ad apparire quella paura che le veniva ogniqualvolta da amico egli tornava ad essere
marito, e la spingeva ad adottare qualsiasi linea di difesa contro l'emergere in lui di un sentimento coniugale. «Devo
proprio andare, ora. Tornerò... posso?».
«Io non ti chiedo di andartene, anche ora. Ti chiedo di restare».
«Grazie, Richard; ma devo andare. Visto che non sei molto malato, non penso di poter rimanere!».
«È sua... dalla testa ai piedi!», commentò Phillotson; ma così a bassa voce, che chiudendo la porta lei non lo
sentì. Il timore di una reazione che portasse a un cambiamento nei sentimenti del maestro, unito forse a una sorta di
vergogna all'idea di metterlo al corrente di quanto abborracciato e manchevole, dal punto di vista di un uomo, fosse il
suo trasferimento di fedeltà, le impedì di raccontargli del rapporto fino ad allora incompleto con Jude; e Phillotson restò
lì a soffrire come un dannato mentre immaginava quella miscela folle di simpatia e avversione che portava il suo nome,
graziosamente vestita, mentre tornava impaziente a casa dell'amante.
Gillingham era così interessato alle vicende di Phillotson, e così seriamente preoccupato per lui, che si
arrampicava sulla rocca di Shaston due o tre volte alla settimana, sebbene tra andata e ritorno dovesse percorrere ben
nove miglia, tra l'ora del tè e l'ora di cena, dopo una faticosa giornata di lavoro a scuola. Quando venne a trovare il
maestro la prima volta dopo la visita di Sue, l'amico era sceso di sotto, e Gillingham notò che all'irrequietezza dei giorni
precedenti si era sostituito un atteggiamento più calmo e composto.
«È venuta a trovarmi, dopo la tua ultima visita», lo informò Phillotson.
«Tua moglie?».
«Sì».
«Ah! Avete fatto la pace?».
«No... è soltanto venuta, ha sfiorato il cuscino con la sua manina bianca, ha giocato all'infermiera coscienziosa
per mezz'ora, e se ne è andata».
«Ah, che mi prenda un colpo! È una sgualdrinella!».
«Come dici?».
«Oh, niente!».
«No, spiegami!».
«Voglio dire, che donnina tentatrice e capricciosa! Se non fosse tua moglie...».
«Non lo è; è la moglie di un altro, tranne che per il nome e per la legge. E stavo pensando - mi è venuto in
mente mentre parlavo con lei - che per gentilezza nei suoi confronti, dovrei sciogliere del tutto ogni legame legale; una
cosa che, per quanto sembri strana, sento di poter fare ora che è tornata a trovarmi e ha respinto la mia offerta di
rimanere dopo che le avevo detto che l'avrei perdonata. Credo che questo fatto dovrebbe permettermi di compiere
questo atto, anche se lì per lì non ci ho pensato. Che senso ha tenerla incatenata a me se non mi appartiene? So, ne sono
assolutamente certo, che considererebbe un mio passo in tale direzione come la più grande carità che io possa farle.
Poiché, se come essere umano ha simpatia per me, mi compatisce, e arriva persino a piangere per me, come marito non
mi sopporta... la disgusto... è inutile nascondere la verità, la disgusto, e l'unica decisione virile, dignitosa e magnanima
che io possa prendere è quella di completare ciò che ho già iniziato... E anche per ragioni pratiche, sarà meglio per lei
essere indipendente. Ho rovinato senza speranza le mie prospettive di carriera a causa di ciò che ho deciso ritenendo che
fosse la cosa migliore per tutti e due, anche se lei non ne sa nulla; davanti a me, vedo solo la miseria più nera, poiché
nessuno mi vorrà più come maestro. Probabilmente avrò un gran da fare per racimolare di che vivere per il resto dei
miei giorni, ed è meglio se devo pensare solo a me. Tanto vale dirti che a suggerirmi quest'idea è stata una notizia
datami da lei - che Fawley sta facendo la stessa cosa».
«Oh, era sposato anche lui? Una strana coppia, questi due!».
«Oh... non m'interessa la tua opinione in proposito. Quello che stavo per dire era che la decisione di sciogliere
il nostro matrimonio non può recarle alcun danno, ed anzi le darà una possibilità di essere felice che finora non si era
neppure sognata. Perché a quel punto loro si sposeranno, come avrebbero dovuto fare fin dall'inizio».
Gillingham attese prima di rispondere. «Posso non condividere la tua motivazione», disse poi in tono gentile,
perché rispettava le opinioni altrui anche quando non le condivideva. «Ma penso che la tua decisione sia giusta... se hai
la forza di portarla a termine. Dubito, tuttavia, che tu l'abbia».
PARTE QUINTA
Ad Aldbrickham e altrove
Thy aerial part, and all the fiery parts which are mingled in thee, though by nature thei have an upward tendency, still
in obedience to the disposition of the universe they are over-powered here in the compound mass the body.
Marco Aurelio (G. Long)
CAPITOLO I
Come si siano risolti i dubbi di Gillingham lo scopriremo prima se sorvoliamo su una serie di mesi e di
avvenimenti, uno più triste dell'altro, successivi agli eventi dell'ultimo capitolo, e passiamo a una domenica nel mese di
febbraio dell'anno seguente.
Sue e Jude vivevano ad Aldbrickham, in quegli stessi rapporti che avevano stabilito tra loro quando Sue aveva
abbandonato il marito per andare a vivere insieme a lui, l'anno prima. Le notizie delle sentenze del tribunale giunsero
loro come echi lontani, e con qualche lettera occasionale della quale capirono ben poco.
Si incontrarono come al solito la mattina per colazione nella casetta affittata da Jude a suo nome per quindici
sterline all'anno, più tre sterline e dieci scellini di tassa sul suolo e altre imposte, e arredata con i mobili vecchi e
ingombranti della zia, per il cui trasloco da Marygreen aveva pagato una cifra pari al loro valore. Sue puliva la casa e si
occupava della sua gestione.
Quando Jude entrò nel soggiorno, Sue gli porse una lettera appena arrivata.
«Di che si tratta?», le chiese, dopo averle dato un bacio.
«La sentenza sul caso Phillotson contro Phillotson e Fawley pronunciata sei mesi fa è diventata definitiva».
«Ah», disse Jude, sedendosi.
Lo stesso avvenimento conclusivo nella causa tra Jude e Arabella era accaduto un paio di mesi prima.
Entrambi i casi erano stati troppo insignificanti perché i giornali dessero altre notizie oltre a scrivere i loro nomi in un
lungo elenco di casi analoghi.
«Comunque, Sue, ora potrai fare quello che vuoi!». Guardò la sua dolce metà con curiosità.
«Vuol dire che noi... io e te... adesso siamo liberi come se non ci fossimo mai sposati?».
«Proprio così - tranne che forse un prelato potrebbe rifiutarsi personalmente di risposarci, e delegare l'incarico
a qualcun altro».
«Ma mi chiedo - sei proprio sicuro che sia così nel caso nostro? So che lo è in generale. Ma ho la spiacevole
sensazione di aver ottenuto la mia libertà con l'inganno!».
«Che vuoi dire?».
«Be'... se la verità su di noi fosse stata nota, la sentenza non sarebbe stata emanata. È solo perché abbiamo
rinunciato a difenderci e li abbiamo lasciati credere il falso che c'è stata una sentenza, no? E mi domando, è legittima
oltre che rispettabile la mia libertà?».
«Se è questo che pensi, perché hai accettato di dichiarare il falso? La colpa è soltanto tua», egli disse con
malizia.
«Jude, ti prego! Te la prendi sempre quando ne parliamo! Devi accettarmi come sono».
«D'accordo, cara: lo farò. Forse avevi ragione. Riguardo alla tua domanda, non avevamo alcun obbligo di
produrre alcunché. Stava a loro pensarci. Comunque, è vero che viviamo insieme».
«Sì. Anche se non nel senso che loro intendono».
«Una cosa è certa, che al di là delle ragioni di una sentenza quando un matrimonio è sciolto, è sciolto. La gente
povera e sconosciuta come noi ha questo vantaggio - che queste faccende vengono trattate in modo grossolano e
sbrigativo. È stato lo stesso per me e Arabella. Io temevo che il suo secondo e illegale matrimonio venisse scoperto, e
lei fosse punita; ma nessuno se ne è occupato, nessuno ha chiesto o sospettato nulla. Se fossimo stati nobili paludati,
avremmo avuto una quantità infinita di impicci, e giorni e mesi sarebbero passati in indagini».
Un po' alla volta Sue divenne lei pure allegra come il suo amante all'idea di essere libera, e suggerì di fare una
passeggiata per i campi, anche se avrebbero dovuto accontentarsi di un pranzo freddo. Jude si disse d'accordo e Sue salì
di sopra a prepararsi, indossando una vivace gonna colorata per celebrare la sua libertà; al che Jude si mise a sua volta
una cravatta meno seria.
«Ora potremo passeggiare sottobraccio come una coppia qualsiasi. Ne abbiamo ogni diritto».
Vagarono fuori città lungo un sentiero che attraversava una piana bassa, anche se questa era ghiacciata in quel
periodo e i vicini campi coltivati erano spogli e monotoni. La coppia, comunque, era così presa dalla propria situazione,
da non vedere nulla intorno a sé.
«Allora, cara, il risultato di tutto ciò è che potremo sposarci, dopo un dignitoso intervallo di tempo».
«Sì, hai ragione», disse Sue senza entusiasmo.
«Perché, non vuoi?».
«Non mi piace dirti di no, caro Jude; ma continuo a sentire ora quello che ho sentito in tutto questo tempo. Ho
la stessa paura che un contratto vincolante estingua la tua tenerezza con me, e la mia con te, come è accaduto ai nostri
sfortunati genitori».
«E allora che facciamo? Io ti amo, lo sai, Sue».
«Lo so benissimo. Ma preferirei se continuassimo a vivere come due innamorati, come adesso, stando insieme
solo di giorno. È tanto più dolce... per la donna almeno, se può fidarsi del suo uomo. E d'ora in poi, non dobbiamo più
preoccuparci tanto delle apparenze, come abbiamo fatto finora».
«Le nostre esperienze di matrimonio con altri non sono state incoraggianti, lo so», egli disse con tristezza;
«vuoi per i nostri caratteri, entrambi scontenti e poco pratici, vuoi perché perseguitati dalla sfortuna. Ma noi due...».
«Se due persone scontente si unissero in matrimonio, sarebbe due volte peggio di prima... Credo che inizierei
ad aver paura di te, Jude, l'esatto istante in cui tu avessi firmato un contratto per prenderti cura di me con tanto di timbro
governativo, ed io fossi autorizzata in base alle stesse promesse ad accettare il tuo amore. Quanto sarebbe orribile e
meschino! Sebbene per come tu sei ora, libero, io credo a te più che a qualsiasi altro uomo al mondo».
«No, no... non dirmi che cambierei!», la supplicò; eppure anche nella sua voce c'era una qualche apprensione.
«Al di là di noi stessi e delle nostre infelici peculiarità, è alieno alla natura umana in generale continuare ad
amare una persona una volta che questo è diventato un obbligo per tutta la vita. Ci sarebbero molte più probabilità che
una persona ne amasse un'altra per sempre se le venisse detto di non amarla. Se il matrimonio consistesse in un
giuramento e nella firma di un contratto tra le parti in causa nel quale si stabilisse di smettere di amarsi da quel giorno in
poi in considerazione del possesso personale concesso, e di evitare il più possibile la reciproca frequentazione in
pubblico, ci sarebbero molte più coppie di amanti di quante ce ne sono oggi. Immagina gli incontri segreti tra marito e
moglie spergiuri, le bugie per negare di essersi visti, le fughe dalle finestre delle camere da letto, le volte in cui uno dei
due dovrebbe nascondersi nell'armadio! Ci sarebbe molta meno freddezza!».
«Sì, ma anche ammesso che questo, o una cosa analoga, sia vero, non sei l'unica al mondo ad accorgertene,
cara piccola Sue. Le persone continuano a sposarsi perché si arrendono alle forze naturali, sebbene molti di loro
sappiano perfettamente che il prezzo di un mese di piacere sarà forse una vita d'inferno. Senza dubbio mia madre e mio
padre e tua madre e tuo padre lo sapevano, se ci assomigliano pur alla lontana in quanto a costumi e spirito
d'osservazione. Ma poi sono andati per la loro strada sposandosi lo stesso, perché avevano delle passioni come tutti noi.
Ma tu, Sue, tu sei una creatura così spettrale, così eterea, così - se permetti che te lo dica - priva di passioni animali, che
puoi ragionare a freddo sulla faccenda, mentre noi poveri disgraziati fatti di una sostanza più grossolana non possiamo».
«Almeno», sospirò Sue, «hai ammesso che probabilmente finiremo infelici entrambi. E io non sono la donna
eccezionale che tu credi. A molte meno donne di quanto tu non immagini piace sposarsi, solo che accettano per la
dignità che quell'atto si ritiene conferisca, e per i vantaggi sociali che a volte si ottengono - dignità e vantaggi di cui io
farei volentieri a meno».
Jude ritornò sulla vecchia lamentela - che per quanto vivessero in intimità non aveva ancora mai ricevuto una
volta da lei una sincera e onesta dichiarazione in cui diceva di amarlo o almeno di credere di poterlo amare. «A volte
temo proprio che tu non possa», egli disse, con un atteggiamento in cui il dubbio rasentava la collera. «E sei così
reticente. So che le donne imparano dalle altre donne a non dire mai tutta la verità a un uomo. Ma la più elevata forma
di affetto è basata su una piena sincerità da entrambe le parti. Non essendo uomini, queste donne non sanno che il cuore
di un uomo, nel ripensare a quelle con cui ha avuto un legame affettivo, torna da colei che è stata l'anima della verità
per come si è comportata. Gli uomini migliori, anche se si fanno prendere dall'affettazione frivola della ritrosia e delle
schermaglie, non si faranno mai conquistare da esse. Una nemesi attende la donna che gioca troppo a essere elusiva,
nella forma del completo disprezzo che prima o poi i vecchi ammiratori sentiranno per lei, e che l'accompagnerà alla
tomba senza che essi se ne dolgano».
Sue, che guardava dritto davanti a sé, aveva assunto un'aria di rimprovero; all'improvviso gli rispose, con tono
di voce tragico: «Oggi non penso di volerti bene come al solito, Jude!».
«No? perché?».
«Perché non sei molto carino... predichi troppo. Anche se immagino di essere così cattiva e indegna da
meritare i più aspri rimproveri!».
«No, non sei cattiva. Sei adorabile. Ma sgusci come un'anguilla quando cerco di farti ammettere qualcosa».
«Oh sì che sono cattiva, e ostinata, e piena di difetti! È inutile che tu pretenda il contrario. Le persone buone
non hanno bisogno di essere rimproverate come me... ma ora che non ho altri al mondo che te, e nessuno che mi
difenda, è molto difficile accettare che non posso fare di testa mia e decidere come vivere con te, e se sposarti o meno!».
«Sue, mia adorata compagna, io non voglio costringerti a sposarmi o a restare come siamo - certo che non
voglio! Non è giusto che tu sia così permalosa. Ora non parliamone più e continuiamo a vivere come sempre abbiamo
vissuto; e nel resto della nostra passeggiata parleremo soltanto di pascoli, torrenti, e delle prospettive degli agricoltori
per l'anno prossimo».
Dopo questa conversazione, del matrimonio non si parlò più per diversi giorni, sebbene vivendo nel modo in
cui loro vivevano, con solo un pianerottolo a separarli, ci pensassero costantemente. Sue ora aiutava Jude in modo
molto concreto: di recente egli si era messo in proprio a lavorare e incidere pietre tombali, che teneva in un piccolo
cortile sul retro della casa, dove negli intervalli tra le faccende domestiche, Sue disegnava per lui le iscrizioni a
grandezza naturale, e le tingeva di nero dopo che lui le aveva incise. Era un genere di lavoro più modesto di quello
svolto in precedenza nei restauri della Cattedrale di Melchester, e i suoi unici clienti erano persone povere che vivevano
nel vicinato, e sapevano quanto fosse economico questo «Jude Fawley: scalpellino» (come chiamava se stesso sulla
porta di casa), per le semplici pietre tombali che i loro defunti richiedevano. Ma egli si sentiva più indipendente di
prima, e quella era l'unica soluzione che permettesse a Sue, che teneva tanto a non essere un peso per lui, di dargli una
mano.
CAPITOLO II
Una sera, verso la fine del mese, Jude era appena tornato a casa da una conferenza sulla storia antica tenuta
nella sala comunale non molto lontano. Quando entrò, Sue, che era rimasta a casa, gli portò la cena. Contrariamente al
solito, non disse una parola. Jude si mise a sfogliare una rivista, finché alzando gli occhi non si accorse che qualcosa
non andava.
«Sei depressa, Sue?», le chiese.
Lei fece una pausa. «Ho una cosa da dirti», rispose poi.
«È venuto qualcuno?».
«Sì. Una donna». La voce le tremò mentre parlava, e d'un tratto smise di occuparsi della cena e si sedette con le
mani in grembo, a guardare il fuoco. «Non so se ho fatto bene o no!», proseguì. «Le ho detto che non eri in casa, e
siccome insisteva che avrebbe aspettato, ho pensato di dirle che credevo non avresti potuto vederla».
«Perché hai detto questo, cara? Sarà venuta per una lapide. Vestiva a lutto?».
«No non era a lutto, e non voleva una lapide; e io ho pensato che non potevi riceverla». Sue lo fissò con
un'espressione insieme critica e supplichevole.
«Ma chi era? Ha detto niente?».
«No. Non ha voluto lasciare il suo nome. Ma io so chi era - penso di saperlo! Era Arabella!».
«Santo cielo! È che è venuta a fare? Perché hai pensato fosse lei?».
«Oh, è impossibile dirlo. Ma so che era lei! Ne sono sicura - per la luce che emanava dai suoi occhi mentre mi
guardava. Era una donna formosa e volgare».
«Può essere... io non avrei mai detto che Arabella è veramente volgare, tranne che per come parla, sebbene può
esserlo diventata in tutto questo tempo, a forza di lavorare in una locanda. Quando l'ho conosciuta era abbastanza
bella».
«Bella! Ma sì... in fondo è vero!».
«Mi pare di aver sentito un tremito nella tua voce. Non ha senso: dal momento che non è nulla per me e per di
più è sposata con tutti i crismi a un altro uomo, perché dovrebbe venire a infastidire noi?».
«Sei sicuro che sia sposata? Hai avuto notizie certe in proposito?».
«No... nulla di certo. Ma era per sposarsi che mi aveva chiesto il divorzio. Sia lei che il suo uomo volevano
entrambi condurre una vita rispettabile - questo avevo capito».
«Oh Jude era Arabella, non c'è dubbio!», esclamò Sue, coprendosi il volto con le mani. «E io mi sento così
infelice! Sembra di cattivo auspicio, quale che sia il motivo per cui è venuta. Tu non potresti vederla, vero?».
«Non mi è mai passato per la testa. Sarebbe così doloroso parlare con lei ora - per lei come per me. Comunque
se ne è andata. Ha detto se sarebbe tornata?».
«No. Ma è andata via molto a malincuore».
Sue, cui bastava un nonnulla per agitarsi non riuscì a mangiare, e dopo che Jude ebbe finito di cenare, si
preparò per andare a dormire. Spense il fuoco nel caminetto, chiuse a chiave la porta di casa, ed aveva appena salito le
scale quando sentì bussare alla porta. Subito uscì dalla stanza in cui era appena entrata.
«Eccola di nuovo!», gli sussurrò in preda al panico.
«Come lo sai?».
«Ha bussato in questo modo l'altra volta».
Rimasero in ascolto, e i colpi alla porta si ripeterono. In casa non avevano persone di servizio, e se bisognava
andare ad aprire la porta, doveva farlo uno dei due, di persona. «Aprirò una finestra», disse Jude. «Chiunque sia non
può pretendere di entrare a quest'ora».
Andò quindi in camera da letto e scostò le persiane. La strada solitaria abitata da operai che tornavano presto
dal lavoro era deserta da un capo all'altro tranne che per una figura - quella di una donna che camminava avanti e
indietro nei pressi di un lampione poco più in là.
«Chi è», chiese Jude.
«Il signor Fawley?», chiese a sua volta la donna con una voce che era inconfondibilmente quella di Arabella.
Jude rispose di sì.
«È lei?», chiese Sue da dentro la stanza, con apprensione.
«Sì, cara», disse Jude. «Cosa vuoi Arabella?», domandò.
«Perdonami se ti disturbo, Jude», disse Arabella umilmente. «Ma ero venuta prima... avrei proprio bisogno di
vederti stasera, se è possibile. Mi trovo in un guaio, e non ho nessuno che possa aiutarmi!».
«In un guaio?».
«Sì».
Seguì un silenzio. A questa richiesta di aiuto, nel cuore di Jude sembrò sorgere un sentimento inopportuno di
comprensione. «Ma non sei sposata?», le disse.
Arabella esitò. «No, Jude, non lo sono», rispose. «Alla fine non ha voluto. Sono in grandi difficoltà. Spero di
trovare presto un altro lavoro in una locanda. Ma non e facile, e sono veramente in una grave situazione, per via di una
improvvisa responsabilità che mi è arrivata tra capo e collo dall'Australia; altrimenti non sarei venuta a scocciarti,
credimi. Ho bisogno di parlarti».
Sue era rimasta attonita, in una tensione dolorosa, mentre udiva ogni parola, senza dire nulla.
«Non è che ti servono soldi, Arabella?», egli chiese con un tono sensibilmente più gentile.
«Ne ho abbastanza per pagare l'alloggio che ho trovato per questa notte, ma appena il necessario per tornare a
casa».
«Dove vivi?».
«Sempre a Londra». Stava per dargli l'indirizzo, ma poi disse: «Ho paura che qualcuno ci possa sentire, e non
vorrei raccontare ai quattro venti i particolari che mi riguardano. Se tu potessi scendere e accompagnarmi per un pezzo
a piedi verso la locanda "Il principe" dove starò questa notte, ti spiegherei tutto. In fondo potresti, in nome dei vecchi
tempi!».
«Poveraccia! - Immagino che debba farle la cortesia di ascoltare qual è il problema», disse Jude con grande
perplessità. «Visto che riparte domani, che vada o meno non fa una gran differenza».
«Ma puoi vederla domattina, Jude! Non andare ora, te ne prego!», fu la supplica accorata che giunse dalla porta
della stanza. «È solo un modo per intrappolarti, lo so, come in passato! Non andare caro, no! È una donna dalle passioni
così vili... lo vedo dal suo aspetto e lo sento dalla sua voce!».
«Devo andarci», disse Jude. «E non cercare di impedirmelo, Sue. Dio sa quanto poco la ami, ora, ma non
voglio essere crudele con lei». E si diresse verso le scale.
«Ma non è tua moglie!», gridò Sue senza pensare alle proprie parole. «E io...».
«Neppure tu lo sei, cara, non ancora», disse Jude.
«Oh, allora andrai da lei? Non farlo! Resta a casa! Ti prego, ti prego, resta a casa, Jude, non andare da lei, ora
che non è tua moglie più di quanto lo sia io!».
«Be', se la metti così, lo è più di te», egli disse, prendendo il cappello deciso ad uscire. «Avrei voluto che tu lo
diventassi, e ho atteso con la pazienza di Giobbe, ma non mi pare di aver fatto un solo passo avanti malgrado tante
rinunce. Le darò sicuramente qualcosa, e sentirò cosa ha da dire di così urgente; nessun uomo si comporterebbe
altrimenti!».
Nei suoi modi c'era qualcosa che faceva capire a Sue quanto fosse futile cercare di opporsi. Non disse più
nulla, e volgendosi verso la propria stanza con la rassegnazione di una martire, lo udì scendere le scale, togliere il
chiavistello dalla porta, e chiuderla alle proprie spalle. Con l'indifferenza di una donna per la propria dignità quando non
era in presenza di altri che di se stessa, a sua volta scese di corsa le scale, in preda ai più violenti singhiozzi. Poi rimase
in ascolto. Conosceva esattamente la distanza fino alla locanda che Arabella aveva nominato quale suo alloggio. Ci
sarebbero voluti circa sette minuti per arrivare lì a un passo normale; e sette per tornare indietro. Se non tornava entro
quattordici minuti, voleva dire che si era fermato. Guardò l'ora: mancavano venticinque minuti alle undici. Avrebbe
potuto fare in tempo ad entrare nella locanda insieme ad Arabella, poiché vi sarebbero giunti prima della chiusura; lei
avrebbe potuto convincerlo a bere qualcosa; e Dio solo sa, allora, quale disastro non gli sarebbe capitato.
Rimase ad attenderlo in uno stato di immobile tensione. Il tempo stabilito era quasi tutto trascorso quando la
porta di casa si aprì di nuovo e Jude entrò.
Sue esplose in una esclamazione di estasi. «Oh, lo sapevo che potevo fidarmi di te!... Quanto sei buono!»,
disse.
«Non sono riuscito a trovarla da nessuna parte giù in strada, e sono uscito in pantofole. Deve essersene andata,
pensando che ero così insensibile da rifiutare del tutto la sua richiesta di parlarmi, povera donna. Sono tornato a
prendere gli stivali, perché sta iniziando a piovere».
«Oh, ma perché ti dai tanto da fare per una che ti ha trattato così male!», disse Sue delusa, in uno sbotto di
gelosia.
«Ma Sue, è una donna, e un tempo le ho voluto bene; e non ci si può comportare così brutalmente in
circostanze del genere».
«Ma non è più tua moglie!», esclamò Sue, eccitata dalla passione. «Non devi uscire a cercarla! Non è giusto!
Non puoi farti vedere con lei, ora che è un'estranea per te. Come puoi dimenticare una cosa del genere, mio caro,
adorato Jude!».
«A me pare sempre la stessa... una creatura instabile, trascurata, irriflessiva», egli proseguì, continuando a
infilarsi gli stivali. «I giochetti legali degli avvocati a Londra non contano nulla nel mio rapporto con lei. Se lei era mia
moglie quando conviveva con un altro uomo in Australia, lo è anche adesso».
«Ma non lo era! Questo il punto! È un'assurdità!... Comunque... tornerai subito dopo qualche minuto, vero
caro? È troppo vile, troppo volgare perché tu le parli a lungo, Jude, e lo è sempre stata!».
«Forse anch'io sono volgare! Ho in me i germi di ogni infermità umana, lo credo sul serio - è per questo che ho
pensato fosse così insensato da parte mia pensare di diventare un curato. Credo di aver guarito me stesso
dall'ubriachezza; ma non si può mai sapere in quale nuova forma questo vizio soppresso riesploderà dentro di me! Ti
amo, Sue, anche se ti ho fatto da cavalier servente per tutto questo tempo in cambio di ben poco! La parte migliore e più
nobile di me ti ama, e la tua emancipazione da tutto ciò che è grossolano ha elevato il mio spirito permettendomi di fare
ciò che io, come ogni altro uomo, non mi sarei mai sognato di fare solo uno o due anni fa. È facile predicare
sull'autocontrollo e la malvagità di sottomettere una donna con la forza. Ma mi piacerebbe vedere alcuni di quei
benpensanti che mi hanno condannato in passato, a proposito di Arabella ed altre vicende, nella mia posizione con te,
che sei una tentazione costante, in tutti questi mesi! Penserebbero, spero, che abbia dato prova di spirito di rinuncia
accettando sempre la tua volontà - vivendo qui nella stessa casa, e da soli».
«Sì, sei stato buono con me, Jude, riconosco che lo sei stato, mio caro custode».
«Bene. Arabella mi ha scongiurato di aiutarla. Devo parlarle Sue, almeno questo!».
«Non so più che dire! Se devi andare, vai!», lei disse scoppiando in singhiozzi che sembravano spezzarle in
due il cuore. «Non ho altri che te, Jude, e mi stai abbandonando! Non immaginavo fossi così... non posso sopportarlo,
non posso! Se fosse tua moglie sarebbe diverso!».
«O se lo fossi tu».
«D'accordo, allora... se è necessario, sono pronta. Visto che è questo che vuoi, accetto! Ti sposerò. Solo che
non intendevo esserlo! Né volevo sposarmi di nuovo!... Ma va bene, accetto. Accetto! Ti amo. Avrei dovuto saperlo in
partenza che l'avresti avuta vinta prima o poi, vivendo in questo modo!».
Attraversò la stanza di corsa e gli gettò le braccia al collo. «Non pensi, vero, che sono una creatura fredda e
insensibile perché ti ho tenuto a distanza? Sono certa che non lo pensi! Aspetta e vedrai! Sono tua, no? Mi arrendo!».
«Inizierò le pratiche del matrimonio domattina, o non appena tu vorrai».
«Sì, Jude».
«In questo caso non andrò da lei», disse Jude abbracciandola con dolcezza. «Mi sembra che sarebbe ingiusto
per te che la vedessi, e forse anche per lei. Non è come te, cara, e non lo è mai stata: è il minimo che si possa dire. Ma
smetti di piangere. Ecco, su, brava!». La baciò su una guancia, poi sull'altra, infine sulla fronte, e richiuse a chiave la
porta di casa.
La mattina dopo pioveva.
«Ora, cara», disse Jude con allegria a colazione, «essendo sabato sarebbe una buona idea fare subito le
pubblicazioni, in modo che possano uscire già domani, o altrimenti perderemo una settimana. Vanno bene le
pubblicazioni, vero? Risparmieremo un paio di sterline».
Sue acconsentì con aria distratta. Ma con la mente era altrove. Il suo viso aveva perso ogni colorito e lasciava
trasparire in lei un senso di depressione.
«Sento che sono stata cattiva ed egoista ieri notte!», mormorò. «Sono stata molto sgarbata, se non peggio, a
trattare Arabella in quel modo. Non mi è importato nulla che fosse nei guai, e volesse parlarti. Forse era qualcosa che
aveva ogni diritto di dirti. Immagino che sia un altro lato della mia malvagità! L'amore ha una sua oscura moralità
quando la rivalità entra in gioco - almeno per me è così, se non per tutti... chissà dove è andata. Spero che sia riuscita a
tornare alla locanda sana e salva, povera donna».
«Oh, sicuramente», disse Jude in tono disteso.
«Speriamo che non l'abbiano chiusa fuori, e che non sia rimasta per strada sotto la pioggia. Ti dispiace se mi
metto l'impermeabile e vado a vedere se è riuscita a tornare? È tutta la mattina che non penso ad altro»
«Be'... è proprio necessario? Non sai quanto Arabella sappia arrangiarsi. Comunque, cara, se vuoi andare a
domandare, vai pure».
Non c'erano limiti alle strane e inutili punizioni cui Sue poteva umilmente sottoporre se stessa quando era presa
dal rimorso; e questa in particolare di andare a trovare ogni sorta di persone tra le più incredibili, il cui rapporto con lei
era tale da spingere un altro a evitarle, era sempre stata una delle sue reazioni istintive, per cui la sua richiesta non stupì
affatto Jude.
«Al tuo ritorno», disse Jude, «sarò pronto per andare a fare le pubblicazioni. Verrai con me?».
Sue assentì, e uscì con l'impermeabile e l'ombrello dopo essersi abbandonata ai baci di Jude e averlo baciato a
sua volta come mai in passato. I tempi erano decisamente cambiati. «L'uccellino è in gabbia, alla fine!», lei disse, con
un sorriso velato di tristezza.
«No, solo nel suo nido», Jude la rassicurò.
S'incamminò per la strada fangosa fino a raggiungere la locanda menzionata da Arabella, che non era molto
lontana. La informarono che ancora non aveva lasciato la stanza, e nel dubbio su come farsi annunciare in modo che
colei che per prima aveva conquistato il cuore di Jude capisse chi era, le mandò a dire che era qualcuno da Spring
Street, la strada dove si trovava la casa di Jude. Le fu risposto di salire di sopra, e fatta entrare in una stanza scoprì che
era la camera da letto di Arabella, e che quest'ultima non si era ancora alzata. Si fermò sulla soglia e stava per girarsi e
andarsene quando Arabella esclamò dal fondo del letto: «Entra e chiudi la porta». Così fece.
Il letto di Arabella si trovava di fronte alla finestra, e lei non si girò subito: e Sue fu così maligna, malgrado il
suo spirito di mortificazione, da desiderare per un attimo che Jude potesse essere lì a vedere la sua prima moglie, mentre
la luce del sole la illuminava in pieno. Poteva apparire abbastanza bella di profilo alla luce di una lampada, ma quella
mattina almeno tradiva un'aria di trasandatezza; e la vista del proprio fascino fresco e giovanile rese Sue raggiante, fin
quando non pensò che la sua era un'emozione bassa e sensuale, e odiò se stessa per averla provata.
«Sono venuta a vedere se eravate tornata sana e salva ieri notte, tutto qui», disse con gentilezza. «Ho temuto
che poteste aver avuto qualche disavventura».
«Oh che stupida! Credevo che a trovarmi fosse venuto... il vostro amico... vostro marito... signora Fawley,
come suppongo vi farete chiamare?», disse Arabella gettando la testa all'indietro sui cuscini con un gesto di delusione, e
smettendo di conservare le fossette che si era appena data la briga di produrre.
«In effetti no», disse Sue.
«Oh, pensavo che poteste esserlo, anche se lui non vi appartiene veramente. La decenza è la decenza, ad ogni
ora della giornata».
«Non capisco cosa vogliate dire», rispose Sue irrigidendosi. «Se è questo che intendete, certo che mi
appartiene!».
«Non vi apparteneva ieri».
Sue arrossì un poco e disse: «Come lo sapete?».
«Dal modo in cui mi avete parlato alla porta. Bene, mia cara, non ci avete messo molto a decidere, e immagino
che la mia visita di ieri notte sia servita a qualcosa - ah, ah! Ma non voglio portarvelo via».
Sue guardò la pioggia fuori dalla finestra, la sudicia copertura della toeletta, e la coda di capelli di Arabella che
pendeva dallo specchio, proprio come ai tempi di Jude; e si rammaricò di essere lì. In quell'attimo si sentì bussare alla
porta, e la cameriera portò un telegramma per la «signora Cartlett».
Arabella lo aprì senza alzarsi dal letto, e parve rasserenarsi.
«Vi sono molto grata per essere stata in ansia per me», disse in modo blando appena la cameriera uscì dalla
stanza; «ma non c'era alcun motivo di preoccuparsi. Il mio uomo trova che alla fine non può vivere senza di me, e
accetta di adempiere alla promessa che mi aveva fatto tanto tempo fa di risposarmi qui. Ecco, leggete! È in risposta a un
mio telegramma». Porse il telegramma a Sue perché lo leggesse, ma Sue non lo prese. «Mi chiede di tornare. Dice che
la sua piccola locanda a Lambeth andrebbe a rotoli senza di me. Ma la smetterà di picchiarmi appena ha bevuto una
goccia di troppo dopo che la legge inglese ci avrà uniti in matrimonio, come prima!... Quanto a voi, al posto vostro
persuaderei Jude a portarmi subito davanti a un parroco, e a sistemare la questione. È un consiglio da amica, mia cara».
«Non desidera di meglio», rispose Sue con gelido orgoglio.
«E allora lasciate che lo faccia, santo cielo. La vita con un uomo dopo averlo sposato prende un'altra piega, e i
problemi di soldi si risolvono meglio. E poi vedete, se litigate ed egli vi caccia di casa, avete dalla vostra la legge a
proteggervi, il che non accade altrimenti, a meno che non vi passi da parte a parte con un coltello, o vi spacchi la testa
con un attizzatoio. E se vi pianta - lo dico in amicizia, da donna a donna, perché non si sa mai cosa un uomo non possa
combinare - potrete sempre tenervi i mobili senza che nessuno vi consideri una ladra. Risposerò il mio uomo, ora che è
d'accordo, perché c'era un piccolo inconveniente la volta precedente. Nel mio telegramma di ieri notte, cui egli ha
risposto con questo, dicevo che avevo quasi fatto pace con Jude; ed è ciò ad avergli messo paura, immagino! Forse ci
sarei riuscita sul serio, non fosse stato per voi», disse ridendo, «e allora pensate a quanto sarebbero cambiate le nostre
storie a partire da oggi! Nessuno si intenerisce con tanta ingenuità come Jude, se una donna gli sembra nei guai e lo
commuove un poco! Proprio come era con gli uccelli e con ogni altra cosa. Tuttavia è andata altrettanto bene che se
avessi fatto la pace con lui, e non ho rancore verso di voi. E vi ripeto, sistemate la faccenda legalmente il prima
possibile. Se non lo farete ora, più tardi scoprirete a quante grane andrete incontro».
«Vi ho già detto che ha chiesto di sposarmi - di legalizzare il nostro matrimonio naturale», disse Sue in tono
ancor più altezzoso. «È stato solo perché io ero contraria, che non l'ha fatto quando ho riavuto la mia libertà».
«Ah, già, voi pure siete un po' ribelle, come me», disse Arabella fissando la sua ospite con divertita ironia.
«Fuggita dal primo come ho fatto io, vero?».
«Arrivederci!... Devo andare», disse Sue frettolosamente.
«Io pure devo alzarmi e uscire!», replicò l'altra saltando giù dal letto con tanta energia che le parti più morbide
del suo corpo ondeggiarono. Sue arretrò di qualche passo, trepidante. «Santo cielo!, sono solo una donna, non un
soldato alto sei piedi!... Aspettate un attimo, cara», continuò Arabella, trattenendo Sue per un braccio. «C'era in effetti
una piccola faccenda su cui volevo consultare Jude, come gli avevo detto. Ero venuta essenzialmente per questo.
Farebbe una corsa alla stazione per parlarmi prima che parta? Crede di no, eh? Va bene, gli scriverò. Non volevo
scrivergli, ma lo farò».
CAPITOLO III
Tornata a casa, Sue trovò Jude ad attenderla sulla soglia per andare con lei a iniziare le pratiche del
matrimonio. Egli la prese a braccetto, e insieme s'incamminarono in silenzio, come accade spesso tra due veri amici.
Jude notò che era turbata, ma evitò di chiederle il perché.
«Sai Jude, le ho parlato», Sue disse alla fine. «Avrei preferito non esserci andata! Eppure è sempre meglio
toccare con mano la realtà delle cose».
«Spero che non ti abbia trattata male».
«Oh no. C'è qualcosa in lei che mi piace... solo un poco! Ha un carattere generoso, e sono così contenta che
all'improvviso le sue difficoltà si siano risolte». Gli spiegò che il marito di Arabella le aveva chiesto di tornare, e che
avrebbe potuto ricominciare a vivere come prima. «Pensavo al nostro eterno problema. Ciò che Arabella mi ha detto, mi
ha convinto più che mai che come istituzione il matrimonio legale è un qualcosa di irrimediabilmente volgare... una
trappola per incastrare un uomo... non posso neppure pensarci. Mi pento di averti promesso di fare le pubblicazioni
questa mattina!».
«Oh, non preoccuparti di me. Un altro giorno per me è lo stesso. Credevo che a questo punto volessi sbrigarti il
prima possibile».
«In realtà non sono più ansiosa ora di quanto lo sia stata prima. Forse con un altro uomo avrei potuto sentirmi
meno sicura; ma tra le poche qualità possedute dalla nostra famiglia, caro, penso vi sia la fedeltà. E non ho alcuna paura
di perderti, ora che sono veramente tua come tu sei veramente mio. Anzi, la mia mente è più tranquilla che non in
passato, perché mi sento la coscienza a posto con Richard, che ora ha riconquistato la sua libertà. Prima sentivo che lo
ingannavamo».
«Sue, quando parli così sembri vivere ancora in una delle grandi civiltà dell'antichità, quelle di cui ho letto nei
giorni lontani e sprecati dei miei studi classici, piuttosto che abitare in un paese cristiano. In momenti come questo quasi
mi aspetto che tu dica di aver appena parlato con un'amica, incontrata sulla Via Sacra, delle ultime novità su Ottavia o
Livia; o di aver ascoltato l'eloquente Aspasia, o di aver osservato Prassitele intento a scolpire la sua ultima Venere,
mentre Frine protestava che era stanca di posare».
Intanto erano giunti alla casa del parroco. Sue rimase indietro mentre il suo innamorato si avvicinò alla porta.
Jude aveva alzato la mano per bussare quando lei lo chiamò: «Jude!».
Egli si voltò.
«Aspetta un attimo, ti prego».
Egli tornò da lei.
«Pensiamoci bene», gli disse timidamente. «Ho fatto un orribile sogno, la notte scorsa!... E Arabella...».
«Che ti ha detto Arabella?», chiese Jude.
«Ha detto che quando due persone sono sposate, è più facile farsi proteggere dalla legge se un uomo ti
picchia... e che quando una coppia litiga... Jude pensi che il giorno in cui dovrai avermi per legge saremo felici come lo
siamo oggi? Gli uomini e le donne della nostra famiglia sono molto generosi fintanto che dipende dalla loro buona
volontà, ma si ribellano sempre alla costrizione. Non temi l'atteggiamento che nasce inevitabilmente dall'aver contratto
un obbligo legale? Non pensi che distrugga una passione la cui essenza sta nella sua spontaneità?».
«Parola d'onore, amore mio, incominci a preoccupare anche me con questi presagi! D'accordo, torniamo
indietro e ripensiamoci».
Il volto di lei si rasserenò. «Sì... è meglio!», disse. E si allontanarono dalla porta del parroco. Sue prese Jude
sottobraccio, mormorando mentre si dirigevano verso casa:
Si può impedire all'ape di ronzare,
O al collo di un colombaccio di cambiare?
No! Né all'amore incatenato...
Ci ripensarono, o rinviarono il ripensamento. Di certo rinviarono ogni iniziativa al riguardo, e parvero vivere in
un paradiso di sogno. Trascorsero due o tre settimane e la situazione era rimasta immutata: nessuna pubblicazione era
giunta alle orecchie della congregazione dei fedeli di Aldbrickham.
Mentre continuavano a posporre così il matrimonio, una mattina giunsero una lettera e un giornale da parte di
Arabella. Notando la calligrafia, Jude salì per informare Sue, che si vestì subito e scese di sotto. Sue aprì il giornale,
Jude la lettera. Dopo aver scorso con un'occhiata il giornale, gli passò la prima pagina con il dito puntato su un
paragrafo; ma egli era così preso dalla lettera che per un po' non le prestò attenzione.
«Guarda!», lei disse.
Egli guardò e lesse. Si trattava di un giornale diffuso solo nell'area sud di Londra, e il paragrafo indicato era
semplicemente l'annuncio di un matrimonio nella chiesa di San Giovanni, Waterloo Road, della coppia «CartlettDonn»,
cioè Arabella e il suo albergatore.
«Sono contenta per lei», disse Sue con magnanimità. «Sebbene dopo di loro sembra volgare fare altrettanto.
Comunque, al di là delle sue colpe adesso ci sarà qualcuno ad occuparsi di lei, poveretta. Fa più piacere poter pensare
questo che essere preoccupati. Forse anch'io dovrei scrivere a Richard per avere sue notizie».
Ma l'attenzione di Jude era ancora assorbita dalla lettera. Senza interessarsi più di tanto all'annuncio sul
giornale, disse con voce scossa dall'emozione: «Ascolta che dice. Cosa le rispondo?».
«I tre corni», Lambeth
Caro Jude (non sarò così formale da chiamarti signor Fawley) - ti invio un giornale, un utile documento dal
quale apprenderai che mi sono risposata con Cartlett martedì scorso. Così quella faccenda è stata sistemata una volta
per tutte, alla fine. Ma il motivo per il quale ti scrivo riguarda quella questione personale della quale avrei voluto
parlarti quando venni ad Aldbrickham. Non potevo raccontarlo alla tua amica, e avrei preferito molto di più parlartene
a tu per tu, perché sarei riuscita a spiegarmi meglio che per lettera. Il fatto è, Jude, che anche se non te l'ho mai detto
prima, dal nostro matrimonio era nato un bambino, otto mesi dopo che ci siamo lasciati, quando mi trovavo a Sidney,
con mia madre e mio padre. Tutto ciò è facilmente dimostrabile. Dal momento che ci eravamo lasciati, non avrei
pensato che una cosa del genere potesse mai accadere, e poiché io ero laggiù e ci eravamo salutati in malo modo, non
ritenni opportuno metterti al corrente della sua esistenza. All'epoca stavo cercando un buon lavoro, e così del bambino
si occuparono i miei genitori, con cui è vissuto fino ad oggi. Per questo non ti dissi nulla quando ci vedemmo a
Christminster, o all'udienza per il divorzio. Adesso è nell'età della ragione, e i miei genitori mi hanno scritto di recente
per dire che, non passandosela bene laggiù, ed essendo io invece ben sistemata qui, non vedono perché il peso del
bambino dovrebbe continuare a gravare sulle loro spalle, considerando che i suoi genitori sono vivi. Io lo prenderei
con me all'istante, ma non è abbastanza grande per aiutarmi alla locanda, né lo sarà per anni, e naturalmente Cartlett
potrebbe lamentarsi che è d'impiccio. I miei, comunque, mi hanno mandato il bambino affidandolo ad amici che
tornavano da laggiù, e devo chiederti di prenderlo con te quando arriva, perché io non saprei dove metterlo.
Legalmente è tuo, lo giuro su Dio. Se qualcuno dice il contrario è uno sporco bugiardo! Qualsiasi cosa abbia potuto
fare prima o dopo, sono stata onesta con te da quando ci sposammo fino al giorno in cui andai via. Un saluto cordiale
ecc. ecc.,
ARABELLA CARTLETT
Sue era costernata. «E ora che farai, caro?», chiese con un filo di voce.
Jude non rispose; Sue lo guardò apprensiva, respirando a fatica.
«Non me l'aspettavo!», egli disse con un filo di voce. «Potrebbe essere vero! Chi lo sa? Certo se è nato quando
dice lei, è mio. Non riesco a capire perché non mi ha detto nulla quando l'ho incontrata a Christminster e siamo venuti
qui quella sera!... Ah ora ricordo, accennò a qualcosa che desiderava io sapessi, se mai fossimo vissuti insieme di
nuovo».
«Quel povero bambino, sembra che nessuno lo voglia!», osservò Sue mentre gli occhi le si riempivano di
lacrime.
Intanto Jude si era ripreso da quella notizia: «Che idea della vita deve avere, che sia mio o no!», disse.
«Confesso che se stessimo meglio, non perderei un secondo a pensare di chi sia. Lo prenderei con me e lo tirerei su.
Questa storia così squallida della paternità... che significa, dopo tutto? Cosa importa, a pensarci bene, se un bambino è
del tuo stesso sangue o no? I bambini sono collettivamente figli degli adulti, e hanno diritto di essere accuditi da
costoro. Un eccesso di affetto dei genitori per i propri figli e l'indifferenza per quelli altrui, come l'orgoglio di classe, il
patriottismo, l'egoismo e altre virtù, al fondo nascondono uno squallido senso di superiorità».
Sue balzò in piedi e baciò Jude con appassionata devozione. «Sì... è proprio così, caro! E lo terremo noi! E se
non è tuo, tanto meglio! Io spero che non lo sia, anche se forse non dovrei pensarlo! Se non lo è, mi piacerebbe
moltissimo che lo tenessimo con noi come figlio adottivo».
«Be', devi immaginare di lui ciò che più ti fa piacere, mia cara, piccola compagna!», egli disse. «Io, comunque,
sento che non vorrei lasciare quel piccolo infelice al suo destino. Pensa soltanto alla sua vita in una locanda a Lambeth,
a tutte le cattive compagnie, con un genitore che non lo vuole e praticamente non l'ha mai visto, e un patrigno che non
conosce. "Perisca il giorno nel quale fui generato, e la notte in cui si disse: üÈ stato concepito un uomo!'" Ecco forse
cosa il ragazzo, il mio ragazzo, si troverebbe a dire tra non molto!».
«Oh no!».
«Visto che la colpa del divorzio è di Arabella, credo di essere autorizzato a chiedere la sua custodia».
«Comunque dobbiamo averlo. Su questo non ho dubbi. Farò del mio meglio per essere una brava madre per
lui, e in qualche modo tireremo avanti. Lavorerò di più. Hai idea di quando arriverà?».
«Tra un paio di settimane, suppongo».
«Vorrei... quando avremo il coraggio di sposarci, Jude?».
«Io sono pronto, appena lo sei anche tu. La decisione spetta solo a te, cara. Non hai che da dirlo e sarà fatto».
«Prima che arrivi il ragazzo?».
«Benissimo».
«Gli darebbe maggiormente la sensazione di una famiglia, forse», mormorò Sue.
Jude scrisse quindi in termini puramente formali per richiedere che il ragazzo fosse inviato loro al suo arrivo,
senza alcun commento sul carattere sorprendente della notizia di Arabella, né lasciandosi sfuggire una sola parola
riguardo alla paternità del ragazzo, o alla questione se, nel caso fosse stato a conoscenza di tale situazione, si sarebbe
comportato diversamente con lei.
Nel treno che da Londra scendeva nel Wessex e il cui arrivo ad Aldbrickham era previsto per le dieci della sera
successiva, in mezzo allo squallore del vagone di terza classe si poteva notare il volto minuto e pallido di un bambino.
Aveva gli occhi grandi e spauriti e portava una sciarpa bianca di lana sopra la quale pendeva una chiave legata al collo
da un pezzo di spago: la chiave attirava l'attenzione perché a tratti luccicava alla luce della lampada. Il suo biglietto
ridotto era stato infilato nella fascia del cappello. Per gran parte del tempo, fissò con lo sguardo lo schienale del sedile
di fronte e non lo volse mai al finestrino, neppure quando si annunciava o si passava per una stazione. Gli altri posti
erano occupati da due o tre viaggiatori, tra cui un'operaia con una cesta sulle ginocchia nella quale c'era un gattino
tigrato. Ogni tanto la donna sollevava la coperta e il gattino tirava fuori la testa e si metteva a giocare. I viaggiatori
ridevano, tutti tranne il bambino solitario, con il suo biglietto e la sua chiave, che guardando il gattino dagli occhi grandi
e tondi sembrava pensare: «Ogni risata nasce da un'incomprensione. A guardarla nel modo giusto, non c'è cosa di cui
ridere in tutto il creato».
Di tanto in tanto, a una fermata, il controllore entrava nello scompartimento e diceva al ragazzo: «Tutto bene,
ragazzo mio? Il tuo baule è al sicuro nel bagagliaio». E il ragazzo rispondeva «Sì» senza animazione, cercando di
sorridere ma senza riuscirci.
Era la Vecchiaia mascherata da Giovinezza, e così male che la sua vera natura fuoriusciva tra le crepe. Un
sommovimento dalle profondità della notte di tempi lontani sembrava aver sospinto al mattino della sua vita il bambino,
il cui volto contemplava l'immagine passata di un grande Atlantico del tempo, e appariva non curarsi di quel che vedeva
davanti a sé.
Quando gli altri viaggiatori uno dopo l'altro chiusero gli occhi - persino il gattino, raggomitolato nella cesta,
stanco di giocare in quello spazio angusto - il ragazzo rimase nella stessa posizione di prima. Sembrò allora che fosse
doppiamente sveglio, come una minuscola divinità imprigionata, seduto immobile a osservare i suoi compagni di
viaggio quasi di loro vedesse la vita in tutta la sua interezza, più che l'immagine presente.
Era questo il figlio di Arabella. Con la sua solita trascuratezza aveva aspettato a scrivere a Jude fino alla vigilia
del suo arrivo, sebbene sapesse da settimane che sarebbe stato imminente e si fosse recata ad Aldbrickham, come diceva
nella lettera, soprattutto per metterlo al corrente dell'esistenza del ragazzo e del suo prossimo ritorno a casa. Lo stesso
giorno in cui la mattina aveva ricevuto la risposta del suo primo marito, il bambino era sbarcato al porto di Londra, e la
famiglia cui era stato affidato, dopo averlo messo su una carrozza per Lambeth e aver dato al vetturino l'indirizzo della
casa della madre, lo aveva salutato e se n'era andata per la sua strada.
Quando giunse ai «Tre corni», Arabella lo aveva squadrato con un'espressione come per dire: «Sei proprio
come t'immaginavo», gli aveva preparato una merenda sostanziosa, un po' di denaro e, malgrado l'ora, lo aveva spedito
da Jude col primo treno, per evitare che il marito Cartlett, uscito qualche ora prima, lo vedesse.
Il treno giunse ad Aldbrickham e il ragazzo fu depositato sulla banchina deserta della stazione accanto al suo
baule. Il controllore gli ritirò il biglietto e, perplesso dall'inadeguatezza di quella situazione, gli chiese dove fosse diretto
tutto solo a quell'ora della notte.
«Vado a Spring Street», disse il piccolo, impassibile.
«Sul serio? Ma è molto lontana da qui, quasi fuori in campagna, e tutti saranno già andati a dormire».
«Devo andare lo stesso».
«Ci vorrebbe un calesse per il baule».
«No. Andrò a piedi».
«Se lo dici tu. In questo caso è meglio se lasci qui il baule e lo mandi a prendere domani. C'è un omnibus col
quale potrai fare metà della strada, ma per l'altra metà dovrai andare a piedi».
«Non ho paura».
«Perché i tuoi amici non sono venuti a prenderti?».
«Immagino che non sapessero del mio arrivo».
«Chi sono i tuoi amici?».
«La mamma non vuole che lo dica».
«Allora tutto quello che posso fare è occuparmi del baule. E ora cammina più in fretta che puoi».
Senza aggiungere altro, il ragazzo uscì sulla strada, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno lo seguisse
o lo osservasse. Dopo aver camminato per un po', chiese come giungere a destinazione. Gli fu detto di proseguire dritto
fino alla periferia della città.
La sua lenta andatura così regolare e meccanica, aveva una sorta di qualità impersonale, come il movimento di
un'onda, della brezza, o di una nuvola. Seguì le indicazioni alla lettera, senza interessarsi minimamente a ciò che vedeva
intorno a sé. Era chiaro che la sua idea di cosa fosse la vita era ben diversa da quella dei ragazzi del luogo. I bambini
iniziano osservando dei particolari, per poi apprendere le idee generali; iniziano con ciò che è contiguo, per
comprendere un po' alla volta l'universale. Il ragazzo invece era come se avesse iniziato dagli aspetti generali della vita
e non si fosse mai occupato di quelli particolari. Le case e i salici lungo la strada, i campi sullo sfondo immersi
nell'oscurità, per lui sembrava non fossero residenze di mattoni, piante rigogliose, terreni coltivati, ma abitazioni umane
in senso astratto, vegetazione, e un mondo sconfinato ed oscuro.
Riuscì a raggiungere il viottolo e bussò alla porta di casa del padre. Jude era appena andato a dormire e Sue
stava per entrare nella propria camera da letto quando sentì bussare e scese di sotto.
«Vive qui mio padre?», chiese il ragazzo.
«Chi?».
«Un signore di nome Fawley».
Sue salì di corsa a chiamare Jude e costui scese in gran fretta, sebbene a Sue, tanto era impaziente, parve un
tempo lunghissimo.
«Ma come... è lui... così presto?», gli chiese mentre scendeva.
Sue scrutò i lineamenti del bambino, poi all'improvviso si allontanò nel piccolo soggiorno adiacente. Jude lo
prese in braccio e lo guardò attentamente con malinconica tenerezza, dicendogli che gli sarebbe andato incontro alla
stazione se avesse saputo del suo arrivo; poi lo fece sedere provvisoriamente su una sedia mentre andava a chiamare
Sue, la cui ipersensibilità, com'egli sapeva bene, doveva essere stata scossa. La trovò al buio, china su una poltrona. La
strinse tra le sue braccia, e accostando il proprio viso al suo le sussurrò: «Che c'è?».
«Arabella ha ragione... ha ragione! Ti assomiglia molto!».
«Che vuoi che dica: almeno una cosa nella mia vita va come deve andare».
«Ma l'altra metà di lui è... lei! Ed è questo che non riesco a sopportare! Ma devo... cercherò di abituarmi; sì,
devo!».
«La mia piccola Sue è gelosa! Ritiro ogni affermazione sulla tua freddezza. Non importa! Il tempo aggiusterà
tutto... Senti, cara Sue, ho un'idea! Lo educheremo e lo faremo studiare perché possa andare all'Università. Forse quello
che non sono riuscito a realizzare io stesso riuscirò a portarlo a compimento tramite lui! Sai, ho sentito che sta
diventando meno difficile per gli studenti poveri».
«Il solito sognatore!», lei disse, e dandogli la mano tornarono insieme dal bambino. Egli scrutò Sue come lei
aveva scrutato lui. «Sei tu la mia vera mamma, insomma?», chiese.
«Perché? Sembro la moglie di tuo padre?».
«Be', sì; tranne che lui sembra voler bene a te e tu a lui. Posso chiamarti mamma?».
Allora sul viso del ragazzo apparve un'espressione di commozione, ed egli scoppiò a piangere. Al che Sue non
riuscì a trattenersi e fece altrettanto, essendo come un'arpa che la più leggera onda emotiva proveniente da un altro
cuore poteva far vibrare immediatamente, come se fosse scaturita dal proprio.
«Puoi chiamarmi mamma, se lo desideri, mio povero caro!», disse chinando il volto contro quello del bambino
per nascondere le lacrime.
«Cos'hai intorno al collo?», chiese Jude sforzandosi di restare calmo.
«La chiave del mio baule che è alla stazione».
Si affaccendarono per preparargli la cena, e gli allestirono un letto di fortuna in cui subito si addormentò.
Entrambi andarono a guardarlo mentre dormiva.
«Ti ha chiamato mamma due o tre volte prima di addormentarsi», mormorò Jude. «Non è strano che lo
desiderasse tanto!».
«Penso... che sia significativo», disse Sue. «Ci sono più cose sulle quali dobbiamo riflettere in quel piccolo
cuore assetato d'affetto che in tutte le stelle del firmamento... Non pensi, caro, che dovremo farci coraggio e organizzare
la cerimonia? È inutile andare controcorrente e io sento che mi sto legando al genere umano. Oh Jude, continuerai ad
amarmi anche dopo, vero? Voglio essere buona con questo bambino, e fargli da madre; e legalizzare il nostro
matrimonio può rendermelo più facile».
CAPITOLO IV
Il tentativo successivo fu compiuto con maggior decisione, pur avendo luogo la mattina seguente all'inatteso
arrivo del bambino nella loro casa.
Notarono che egli tendeva a restare seduto in silenzio, con quel suo strano volto immobile come fosse
incantato, e lo sguardo fisso su oggetti del mondo reale da loro non visti.
«Sembra la maschera tragica di Melpomene», disse Sue. «Come ti chiami, caro? Ce l'hai detto?».
«Mi hanno sempre chiamato Piccolo Padre Tempo. È un soprannome, perché dicono che sembro tanto
vecchio».
«E parli anche così», disse Sue con tenerezza. «È strano, Jude, che questi bambini precocemente vecchi
provengano sempre da paesi giovani. Ma con quale nome ti hanno battezzato?».
«Non sono battezzato».
«E come mai?».
«Perché se muoio dannato, si risparmiano le spese di un funerale cristiano».
«Non ti chiamerai Jude, per caso?», chiese suo padre con una certa delusione.
Il ragazzo scosse il capo. «Nessuno mi ha mai chiamato così».
«Certo che no», s'intromise Sue immediatamente; «dato che lei non ha mai smesso di odiarti tutto questo
tempo!».
«Lo faremo battezzare», disse Jude; e sottovoce a Sue: «Il giorno in cui ci sposiamo». Pure, l'arrivo del
bambino lo turbava.
La posizione in cui si trovavano li aveva resi più timidi, e avendo l'impressione che un matrimonio davanti al
funzionario comunale desse meno nell'occhio di quello ecclesiastico, decisero di evitare la chiesa, questa volta. Sue e
Jude si recarono insieme all'ufficio del distretto per notificare il matrimonio: erano diventati così affiatati tra loro da fare
quasi tutto insieme.
Jude Fawley firmò il modulo della dichiarazione mentre Sue lo guardava da dietro le spalle osservando la sua
mano mentre scriveva. Leggendo le quattro sezioni del modulo, che non aveva mai visto prima, in cui fu inserito il suo
nome insieme a quello di Jude, e per il quale quell'impalpabile essenza, il loro amore reciproco, si riteneva fosse reso
permanente, il suo volto si fece dolorosamente apprensivo. «Nomi e cognomi delle parti» (essi erano parti in causa, ora,
non più amanti, lei pensò). «Condizioni» (un'idea ripugnante) -«Titolo o occupazione» -«Età» -«Domicilio» -«Durata
della residenza» -«Chiesa o Ufficio in cui il matrimonio verrà celebrato» -«Distretto o Contea in cui le parti hanno
rispettivamente abitato».
«Distrugge ogni sentimento, non trovi?», lei disse sulla strada del ritorno. «Lo rende un affare ancor più
sordido persino della firma del contratto in sacrestia. Almeno in chiesa c'è un po' di poesia. Ma a questo punto non ci
resta che cercare di arrivare alla fine il prima possibile, caro».
«Ci riusciremo. "L'uomo si è fidanzato con una donna e non l'ha sposata? Vada e ritorni alla sua casa, affinché,
se egli muore in guerra non la sposi un altro." Così dice il legislatore ebreo».
«Come conosci bene le Scritture, Jude! Avresti proprio dovuto diventare un parroco. Io posso citare solo
scrittori profani!».
Nell'intervallo prima del rilascio del certificato, Sue passava a volte davanti all'ufficio, facendo la spesa per
casa, e una volta dando un'occhiata furtiva al tabellone dell'ufficio notò la pubblicazione della prossima ratifica della
loro unione. Quella vista le era odiosa. Giungendo dopo la sua precedente esperienza di matrimonio, tutta la poesia del
loro legame sembrava annullata dal fatto che il suo caso presente fosse posto nella stessa categoria. Di solito teneva per
mano il piccolo Padre Tempo, e le piaceva che la gente pensasse che era figlio suo, e considerasse la loro futura
cerimonia come la correzione di un antico errore.
Nel frattempo, Jude decise di ristabilire un sia pur tenue legame tra il presente e il passato della sua vita
invitando al matrimonio l'unica persona ancora su questa terra che avesse avuto a che fare con la sua infanzia a
Marygreen - l'anziana vedova Edlin, l'amica che si era occupata della prozia nei mesi della sua lunga malattia. Egli non
credeva veramente che sarebbe venuta; ma venne, portando regali un po' insoliti, come una cesta di mele, della
marmellata, un paio di tabacchiere d'ottone, un vecchio piatto di peltro, uno scaldavivande, e un enorme piumino di
penne d'oca per il letto. Si sistemò nell'unica stanza vuota della casa, dove si ritirò di buon'ora, e dove dal piano di sotto
la sentirono recitare senza alcun imbarazzo ad alta voce le preghiere, come prescriveva la liturgia.
Non riuscendo tuttavia ad addormentarsi, e vedendo che Sue e Jude erano ancora in piedi - erano, infatti, solo
le dieci di sera - la vedova si rivestì e scese di sotto; e tutti insieme sedettero intorno al camino fino a tardi, compreso
Padre Tempo, che era così silenzioso da far dimenticare agli altri la sua presenza.
«Ebbene, io non sono contro il matrimonio come vostra zia», disse la vedova. «E spero che sia un matrimonio
felice per voi da ogni punto di vista, questa volta. Nessuno può desiderarlo più di me, conoscendo quanto mi sono data
da fare per le vostre famiglie, più di qualsiasi altra persona, credo. Perché Dio sa quanto sono stati sfortunati, in
questo».
Sue iniziò a respirare con affanno.
«Sono sempre state anche delle persone di cuore... non avrebbero ucciso una mosca se avessero potuto
evitarlo», continuò l'invitata al loro matrimonio. «Ma accaddero degli avvenimenti contro di loro, e se qualcosa non
andava per il verso giusto, loro se la prendevano. Senza dubbio è per questo che colui di cui si racconta la storia finì col
fare quello che fece, sempre che sia stato uno della vostra famiglia».
«Quale storia?», chiese Jude.
«Quella... sicuramente la conoscete... dell'uomo impiccato proprio sul crinale della collina nei pressi della Casa
Bruna... non lontano dalla pietra miliare tra Marygreen e Alfredston, da dove parte l'altra strada. Ma Dio mio, è
accaduto al tempo di mio nonno; e forse non era affatto uno della vostra famiglia».
«Conosco benissimo il posto dove si dice avessero messo la forca», mormorò Jude. «Ma non ho mai sentito
questa storia. Quell'uomo, dunque... un antenato mio e di Sue... uccise la moglie?».
«Non esattamente. Lei lo abbandonò portando con sé il loro bambino e andò a vivere da amici; e mentre era là,
il bambino morì. Egli ne reclamò il corpicino per seppellirlo insieme alla sua gente, ma lei non volle darglielo. Il marito
allora venne di notte con una carretta, entrò in casa forzando la porta e si portò via la piccola bara; ma fu colto in
flagrante, ed essendo ostinato, non volle dire per quale motivo era entrato in casa. Lo accusarono di furto, e per questo
venne impiccato nei pressi della Casa Bruna. Sua moglie impazzì dopo la sua morte. Ma può non essere più vero che
appartenesse alla vostra famiglia che alla mia».
Una vocina grave giunse dall'ombra del camino, quasi provenisse dall'oltretomba: «Se fossi in te, mamma, non
sposerei papà!». Era la voce di Piccolo Padre Tempo, e tutti sobbalzarono, poiché si erano dimenticati che era là.
«Oh, è solo una storia», disse Sue in tono spensierato.
Dopo un aneddoto così esilarante come questo raccontato dalla vedova alla vigilia delle nozze, Sue e Jude si
alzarono, e augurata la buona notte alla loro ospite, si ritirarono nelle rispettive camere.
La mattina dopo Sue, il cui nervosismo cresceva di ora in ora, prima che uscissero chiamò Jude in disparte nel
salotto. «Jude, voglio che mi baci, come un amante, spiritualmente», gli disse rifugiandosi tutta tremante tra le sue
braccia, con le lacrime agli occhi. «Non sarà mai più così, vero! Vorrei non averti dato il mio assenso. Ma ora
immagino che non abbiamo scelta. Come era orribile quella storia, ieri sera! Mi ha rovinato tutti i pensieri sulla giornata
di oggi. Mi fa pensare che un destino tragico gravi sulla nostra famiglia, come su quella di Atreo».
«O su quella di Geroboamo», disse il teologo di un tempo.
«Sì. E sembra una terribile temerarietà da parte nostra sposarsi! Io farò a te lo stesso giuramento che ho fatto
all'altro mio marito, e tu lo farai a me nello stesso modo in cui lo hai fatto all'altra tua moglie; ignorando la terribile
lezione che quegli esperimenti ci hanno insegnato!».
«Se tu non sei convinta, non riesco a essere felice», egli disse. «Avevo sperato che saresti stata veramente
allegra. Ma non lo sei, non lo sei. È inutile far finta. Per te è un'odiosa incombenza, e così lo diventa anche per me!».
«Assomiglia in modo spiacevole all'altra mattina... tutto qui», lei mormorò. «E ora andiamo».
Uscirono sottobraccio diretti al Municipio, senza testimoni che li accompagnassero, tranne la vedova Edlin.
Era una giornata fredda e grigia, e la città era avvolta in una densa nebbia proveniente dal «Tamigi dalle torri reali». Sui
gradini c'erano le impronte fangose delle persone che erano entrate, e l'ingresso era pieno di ombrelli bagnati.
Nell'ufficio erano radunate molte persone, e la coppia capì che era in corso un matrimonio tra un soldato e una giovane
ragazza. Sue, Jude e la vedova rimasero dietro mentre questa cerimonia aveva luogo, e Sue si mise a leggere le
pubblicazioni appese alla parete. La stanza appariva un luogo lugubre per due con il loro temperamento, sebbene agli
abituali frequentatori dovesse sembrare alquanto normale. Una parete era coperta da libri di legge, rilegati in pelle
ammuffita, mentre sulle altre vi erano gli annuari delle Poste e altri volumi di consultazione. Qua e là si notavano pile di
pacchi di documenti legati con un nastro rosso, mentre delle casseforti metalliche riempivano un angolo della stanza.
Sul nudo pavimento di legno, come sui gradini dell'atrio, erano visibili le impronte dei visitatori che li avevano
preceduti.
Il soldato appariva di cattivo umore e riottoso, la sposa triste e timida: era evidente che presto sarebbe diventata
madre, e aveva un occhio nero. La loro cerimonia si concluse in breve tempo, e la coppia seguita dai loro amici affollò
l'uscita. Uscendo, uno dei testimoni, come se li conoscesse già, disse casualmente a Sue e Jude: «Vista la coppia che sta
entrando? Ah, ah! Quel tizio è uscito stamattina dalla galera. La ragazza è andata a prenderlo e l'ha portato subito qui.
Paga tutto lei».
Sue volse il capo e vide un uomo dall'aspetto sgradevole, con una donna dal viso grasso e butterato stretta al
suo fianco, paonazza per l'alcool e la soddisfazione di essere a un passo dall'appagare un desiderio. Essi salutarono
scherzosamente la coppia che usciva e entrarono davanti a Jude e a Sue, la cui diffidenza andava aumentando. Sue
arretrò di un passo e si girò verso il suo amante con la bocca che prendeva la forma di quella di un bambino in procinto
di piangere:
«Jude... non mi piace qui! Quanto era meglio se non ci fossimo mai venuti! È un posto che mi fa venire i
brividi: sembra così innaturale come momento culminante del nostro amore! Se mai dovevamo farlo, era meglio andare
in chiesa. Non sarebbe stato così squallido!».
«Bambina mia», disse Jude. «Sembri così tesa e pallida!».
«Immagino che ora dovremo sposarci qui?».
«No... forse non è necessario».
Jude andò a parlare al pubblico ufficiale e tornò da lei. «No... non dobbiamo sposarci né qui né altrove se non
vogliamo, neppure ora!», disse. «Possiamo sposarci in una chiesa, se non con questo certificato con un altro che ci
daranno, credo. Comunque usciamo finché non ti sei calmata, ed io pure, e parliamone».
Uscirono furtivamente e con aria colpevole, come se avessero commesso un crimine, chiudendosi la porta alle
spalle senza fare rumore, e dicendo alla vedova, rimasta in attesa nell'atrio, di andare ad aspettarli a casa, e che
avrebbero chiesto a un passante di fare loro da testimone, se fosse stato necessario. Una volta all'aperto, voltarono per
un vicoletto laterale poco frequentato, dove camminarono avanti e indietro come già avevano fatto tanto tempo prima al
Mercato di Melchester.
«E ora, cara, che facciamo? Mi pare che stiamo rovinando tutto. Comunque, quello che va bene a te va bene
anche a me».
«Oh Jude, adorato, non faccio che tormentarti! Tu volevi sposarti lì, no?».
«A dire il vero, una volta entrato lì dentro ho sentito che non m'importava più molto. Quel luogo mi è parso
deprimente quasi quanto a te... era orribile. E poi ho pensato a quello che avevi detto stamattina, se cioè era un passo
giusto da compiere o meno».
Continuarono a camminare senza meta, quando lei si fermò e con la sua vocina ricominciò: «E anche
continuare a essere così incerti è una prova di debolezza! Comunque, è meglio che agire troppo in fretta una seconda
volta... Che impressione quella scena! L'espressione sul viso cadente di quella donna, pronta a darsi a quell'avanzo di
galera non per alcune ore, come avrebbe voluto, ma per tutta la vita, come doveva. E quell'altra poveraccia... sfuggire a
una vergogna formale dovuta alla debolezza del suo carattere degradandosi alla vera onta di un legame con un tiranno
che la disprezza - un uomo che avrebbe dovuto evitare per tutta la vita, se voleva avere una possibilità di salvezza... È
questa la nostra parrocchia, vero? È qui che ci saremmo sposati se avessimo rispettato le consuetudini? Sembra che sia
in corso una celebrazione, o qualcosa del genere».
Jude andò a curiosare alla porta della chiesa. «Pensa! È un matrimonio, anche qui!», disse. «Pare che tutti ci
stiano copiando, oggi».
Sue commentò che forse era perché la Quaresima era appena finita, e in quel periodo si celebravano sempre
tanti matrimoni. «Andiamo a sentire», disse, «e a vedere che effetto fa sposarsi in chiesa».
Entrarono, presero posto su una panca, e seguirono lo svolgimento della cerimonia all'altare. La coppia che si
stava sposando sembrava appartenere alla borghesia benestante, e il loro matrimonio aveva luogo con un decoro e una
partecipazione normali. Potevano vedere i fiori tremare in mano alla sposa, anche a quella distanza, e udire il mormorio
meccanico delle parole il cui significato la mente di Sue non riusciva ad afferrare per via del proprio disagio. Entrambi
rimasero a sentire, e più volte rividero se stessi in anni passati passare per la stessa cerimonia vincolante.
«Per lei, poveretta, non è come sarebbe per me, che lo rifarei da capo sapendo già quel che mi aspetta», Sue
mormorò. «Vedi, per loro è una novità, e prendono la cerimonia come se fosse una cosa naturale. Ma se sai per
esperienza personale, come è accaduto a noi, o almeno a me, che la sua solennità è carica di conseguenze, e magari sei
una persona ipersensibile, come sono io, sembra proprio immorale ripetere consapevolmente la stessa cerimonia. Ora
che abbiamo assistito al suo svolgimento, il matrimonio in chiesa mi spaventa quanto quello in Municipio... Siamo una
coppia debole e insicura, Jude, e ciò che gli altri fanno fiduciosi a me suscita dei dubbi - una forma di resistenza ad
accettare di nuovo le sordide condizioni di un contratto del genere!».
A quel punto cercarono di scherzarci sopra, commentando a bassa voce quanto avveniva davanti a loro. Jude
disse che lui pure pensava che erano troppo sensibili... che non sarebbero mai dovuti nascere... e men che meno
ritrovarsi insieme per l'avventura più insensata di tutte per loro due - il matrimonio.
La sua amata fu scossa da un brivido, e gli chiese in buona fede se credeva sul serio che non dovessero firmare
a sangue freddo per la seconda volta quel contratto a vita. «È orribile pensare che ci manca la forza per compiere un tale
passo, e pur sapendolo, ci riproponiamo di ingannare noi stessi», lei disse.
«Visto che me lo chiedi, in effetti è vero», disse Jude. «Ma non dimenticare che io sono pronto non appena tu
pure lo sarai, cara». Mentre Sue appariva esitante, Jude proseguì per confessarle che, se prima aveva creduto che
avrebbero potuto farlo, ora si sentiva come lei paralizzato dalla paura di essere inadeguato - forse a causa delle loro
peculiarità, poiché erano così diversi dalla gente comune. «Siamo troppo sensibili... ecco il nostro problema, Sue!»,
dichiarò.
«Secondo me quelli come noi sono più di quanto non si pensi!».
«Questo non lo so. Le intenzioni del contratto sono buone, e per molti anche giuste; ma nel nostro caso può
essere controproducente. Siamo una strana razza, noi... gente in cui un legame familiare, quando è imposto, estingue
subito cordialità e spontaneità».
Sue continuava a insistere che non erano poi così strani o fuori dal comune: che tutti erano come loro. «Tutti
prima o poi sentono ciò che sentiamo noi. Siamo un po' in anticipo, tutto qui. Tra cinquanta, cento anni, i discendenti di
questi due proveranno dei sentimenti e si comporteranno in modi ben peggiori dei nostri. Vedranno l'umanità nella sua
confusione in maniera ancor più vivida di quanto non la vediamo noi ora, alla stregua di
Forme, come i nostri io, odiosamente moltiplicate,
e avranno paura di riprodurle».
«Che verso terribile!... sebbene anch'io abbia sentito la stessa cosa dei miei simili, in momenti di sconforto».
Continuarono a parlare così a bassa voce, quando d'un tratto Sue concluse con animo più sereno:
«Comunque della questione generale non ci importa nulla, e non si vede perché dovremmo tormentarci
continuando a parlarne. Quali che siano le tue ragioni, la sostanza non cambia: per noi in particolare, un giuramento
irrevocabile è un rischio. E allora Jude torniamocene a casa senza uccidere il nostro sogno! Sul serio? Come sei buono,
amico mio, a darmela vinta in tutti i miei capricci!».
«Sono molto simili ai miei».
Le diede un bacio dietro a una colonna, mentre l'attenzione dei presenti era assorbita dal corteo nuziale che
entrava in sacrestia; poi uscirono dall'edificio. Fuori, attesero che un paio di carrozze, allontanatesi un attimo,
tornassero, e che i novelli sposi uscissero alla luce del sole. Sue sospirò:
«Quei fiori in mano alla sposa sono tristemente simili alla ghirlanda che nell'antichità mettevano al collo delle
giovenche prima del sacrificio!».
«Pure, Sue, l'uomo non sta tanto meglio della donna. È questo che alcune donne non riescono a capire quando,
invece che con le convenzioni, se la prendono con l'uomo, l'altra vittima; è come se una donna tra la folla insulti un
uomo che le finisce addosso quando egli trasmette impotente una pressione esercitata su di lui».
«Sì... alcune si comportano così, invece di unirsi all'uomo contro il nemico comune, la coercizione». I due
sposi se n'erano ormai andati e Sue e Jude si allontanarono dalla folla dei curiosi. «No, non sposiamoci», lei proseguì.
«Almeno non ora».
Giunsero a casa, e passando davanti alla finestra sottobraccio notarono che la vedova li stava guardando.
«Bene!», esclamò la loro ospite mentre entravano, «quando vi ho visto camminare così stretti mi sono detta "Si sono
decisi, alla fine!"».
Le accennarono brevemente che si sbagliava.
«Cosa?... Non l'avete davvero fatto? Che mi prenda un colpo se non dovevo vivere per vedere il vecchio detto
"sposati in fretta e pentiti con calma" rovinato da voi due! È ora che me ne torni a Marygreen - a Dio piacendo - se
questo è il risultato delle nuove idee! Nessuno aveva paura del matrimonio ai miei tempi, né di molto altro, a parte una
palla di cannone e una dispensa vuota! Quando io e il mio povero marito ci siamo sposati ci è sembrato normale come
giocare una partita a sottomuro!».
«Non ditelo al bambino quando arriva», sussurrò Sue nervosamente. «Penserà che tutto è andato bene, ed è
meglio così, per evitare che sia stupito e disorientato. Peraltro abbiamo solo deciso di prendere tempo per ripensarci. Se
noi siamo felici così, agli altri che gliene importa?».
CAPITOLO V
Il compito di un semplice narratore di stati d'animo e avvenimenti non richiede che egli esprima le sue opinioni
sulla grave controversia di cui sopra. Che la coppia fosse felice - pur con qualche momento di tristezza - era fuor di
dubbio. E quando l'inatteso arrivo del figlio di Jude mostrò di non essere l'elemento perturbatore che si era temuto
all'inizio, ma un evento che portava nelle loro vite un nuovo interesse affettivo, nobile e generoso, la loro felicità, lungi
dall'essere messa a repentaglio, ne trasse giovamento.
A dire il vero, per due persone affettuose e apprensive come loro, l'arrivo del ragazzo portò con sé anche molti
pensieri riguardo al suo futuro, soprattutto perché al presente sembrava singolarmente privo di quelle qualità che di
solito alimentano le speranze dei genitori sul futuro dei figli. Ma almeno per un po', la coppia cercò di evitare previsioni
troppo lontane nel tempo.
C'è, nel nord del Wessex, un'antica città di circa diecimila anime; potremmo chiamarla col nome di StokeBarehills. Si trova con la sua antica chiesa, spoglia e senza attrattive, e i nuovi sobborghi di mattoni rossi, tra campi
aperti di granturco dal suolo calcareo, quasi nel mezzo di un triangolo immaginario ai cui vertici sorgono le città di
Aldbrickham e Wintoncester, e l'importante roccaforte militare di Quartershot. La grande arteria, che collega Londra
all'ovest del Paese e attraversa quella zona, a un certo punto si biforca, unicamente per ricongiungersi di nuovo venti
miglia più avanti. Prima dell'avvento della ferrovia, tale biforcazione provocava tra i conducenti di veicoli dispute
interminabili sulla via da scegliere. Ma la questione è ormai venuta meno, come lo sono il piccolo agricoltore, il
carrettiere, e il conducente del postale che ne discutevano; e forse non uno degli abitanti di StokeBarehills sa oggi che le
due strade che si dipartono dalla sua città s'incontrano più avanti, perché nessuno oggi percorre quotidianamente quella
grande arteria.
Al giorno d'oggi, il luogo più familiare a Stoke-Barehills è il cimitero, che sorge in mezzo a pittoresche rovine
medievali nei pressi della ferrovia, e le cui cappelle e lapidi in stile moderno, come gli alberi piantati da poco,
sembravano degli intrusi in mezzo a quelle antiche mura in rovina coperte di edera.
Tuttavia vi è un giorno di quell'anno particolare cui siamo giunti con la nostra storia, agli inizi del mese di
giugno, in cui sebbene la città abbia ben poco da offrire, diviene meta di molti visitatori che vi giungono in treno:
soprattutto alcuni treni provenienti dal sud, lì quasi si svuotano. È la settimana della Fiera agricola del Wessex, la cui
superficie si estende fino ai sobborghi della città e oltre, come l'accampamento di un esercito invasore. File di
capannoni, tende, bancarelle, padiglioni, portici - ogni sorta di struttura purché non fosse permanente - coprivano i
campi verdi per una superficie di mezzo miglio quadrato, e la folla dei visitatori attraversava a piedi la città come
un'unica massa di persone, avviandosi direttamente al luogo della Fiera. La strada per l'esposizione è affollata di
bancarelle e venditori ambulanti che la trasformano in un vero e proprio mercato, e spingono alcune persone
imprevidenti ad alleggerire notevolmente le loro tasche prima ancora di raggiungere i cancelli della Fiera, per vedere la
quale erano espressamente venuti.
È un giorno di festa, un giorno di spese, e del gran numero di treni veloci approntati per l'occasione, due
provenienti da direzioni opposte entrarono in stazione quasi nello stesso minuto. Uno, come altri che lo avevano
preceduto, proveniva da Londra; l'altro con un collegamento indiretto da Aldbrickham. Dal treno proveniente da Londra
scese una coppia - un uomo basso e gonfio, con una grossa pancia e le gambe sottili, che assomigliava a una mela su
due stecchini, insieme a una donna dall'aspetto abbastanza elegante e dal volto alquanto rosso, vestita in nero e ricoperta
dalla testa ai piedi da lustrini che la facevano luccicare come se indossasse un'armatura.
Si guardarono intorno. L'uomo stava per affittare un calesse, come altri avevano fatto, quando la donna disse,
«Non avere tanta fretta, Cartlett. Non è così lontana, la Fiera. Andiamoci a piedi. Forse trovo per quattro soldi un
mobile o una porcellana. È passato un secolo da quando sono stata qui l'ultima volta - da giovane quando vivevo ad
Aldbrickham a volte ci venivo in gita col mio ragazzo».
«Non si possono portare mobili in treno», disse con un vocione rauco suo marito, il padrone dei «Tre corni» di
Lambeth; poiché avevano deciso di prendersi entrambi un giorno di vacanza dalla locanda che si trovava in quel
«quartiere eccellente, densamente popolato e amante del gin», dove abitavano dal giorno in cui un annuncio formulato
con queste precise parole li aveva convinti a trasferirsi in quella zona. La conformazione dell'oste mostrava che lui pure,
come gli avventori del suo locale, iniziava a patire le conseguenze dei liquori che serviva.
«Vuol dire che se trovo qualcosa, lo spedirò», disse la moglie.
S'incamminarono a passo lento, ma erano appena entrati in città quando l'attenzione di Arabella fu attirata da
una coppia di giovani, arrivata con il treno da Aldbrickham fermatosi in una nuvola di vapore sul secondo binario, che
camminava proprio davanti ai due Cartlett, tenendo per mano un bambino.
«Che combinazione!», disse Arabella.
«Cosa succede?», chiese Cartlett.
«Ti dice nulla quella coppia? Non riconosci lui?».
«No».
«Neppure nelle fotografie che ti ho mostrato?».
«È Fawley?».
«Sì, certo».
«E con ciò? Sarà voluto venire anche lui come tutti noi per dare un'occhiata». L'interesse di Cartlett per Jude,
quale che fosse stato al tempo in cui conobbe Arabella, era palesemente svanito da quando il fascino e le idiosincrasie di
lei, le trecce finte e le fossette sulle guance, stavano diventando come una storia detta e ridetta.
Arabella adeguò il proprio passo e quello del marito in modo da seguire da vicino gli altri tre, il che, in quella
marea di gente, poteva facilmente fare senza dare nell'occhio. Le risposte che dava ai commenti di Cartlett
sull'esposizione erano vaghe e distratte: più di quello spettacolo, a interessarla era il gruppo davanti a lei.
«Sembra che si vogliano molto bene, e che ne vogliano anche al loro bambino», continuò l'oste.
«Loro? Non può essere loro», disse Arabella con un'improvvisa e inspiegabile irritazione. «Non sono sposati
da abbastanza tempo perché sia loro!».
Ma per quanto il suo istinto materno, mai sopito del tutto, fosse abbastanza forte in lei da stroncare le
supposizioni del marito, a ben vedere non era disposta a essere più sincera del necessario. Il signor Cartlett sapeva
soltanto che il figlio della moglie avuto dal primo marito viveva con i nonni agli antipodi.
«Sì, hai ragione. Lei è giovanissima».
«Sono solo amanti, o forse si sono sposati da poco, e il bambino deve essere stato affidato loro. È così
evidente».
Continuarono tutti a camminare. Gli inconsapevoli Sue e Jude, la coppia in questione, avevano deciso di
cogliere l'occasione offerta da quell'esposizione agricola a venti miglia dalla loro città per fare un po' di movimento,
svagarsi, e imparare qualcosa, senza spendere molto. Non pensando solo a se stessi, avevano deciso di portare con loro
Padre Tempo, cercando con ogni mezzo di renderlo vivace e allegro come gli altri bambini, anche se in certa misura era
un ostacolo al rapporto deliziosamente libero che in queste gite amavano tanto avere. Ma presto dimenticarono di essere
osservati da lui e continuarono a camminare con quella tenera attenzione reciproca che i più timidi di rado sanno celare,
e che questi due in particolare, credendo di essere in mezzo a una folla di sconosciuti, si preoccupavano di nascondere
ancor meno di quanto avrebbero fatto nella loro città. Sue, flessibile e leggera come un uccellino, con un nuovo abito
estivo e il parasole bianco stretto in pugno, camminava dando l'impressione che non toccava terra e che sarebbe bastato
un soffio di vento per farla volare al di là della siepe in mezzo ai campi vicini. Jude, nel suo completo grigio chiaro
della domenica, era veramente orgoglioso della sua compagna, per il suo fascino esteriore non più che per le sue parole
e i suoi modi affettuosi. Quella loro completa comprensione reciproca in cui ogni sguardo e movimento era efficace
quanto le parole per capirsi, li rendeva quasi le due metà di un insieme unico.
La coppia con il suo fardello oltrepassò i cancelli d'ingresso; Arabella e il marito seguivano a breve distanza.
Una volta entrati, la moglie dell'oste notò che essi si preoccupavano di indicare e spiegare al ragazzo le cose
interessanti, vive o morte, in cui s'imbattevano; e una tristezza passeggera velava i loro volti quando constatavano la
loro incapacità di scuotere la sua indifferenza.
«Ma come gli sta attaccata!», disse Arabella. «Oh no... non credo siano sposati, altrimenti non sarebbero tanto
presi uno dall'altro in quel modo... Chissà!».
«Ma credevo tu avessi detto che l'aveva sposata?».
«Avevo sentito che aveva intenzione di sposarla... solo questo, che avrebbe fatto un altro tentativo, dopo averlo
rinviato un paio di volte... Sembra che pensino che qui ci sono soltanto loro due. Se fossi in lui, mi vergognerei di
rendermi così ridicolo!».
«Io non vedo nulla di particolare nel loro comportamento. Non mi sarei mai accorto che sono innamorati, se tu
non me l'avessi detto».
«Tu non t'accorgi mai di niente», lei ribatté. Eppure l'opinione di Cartlett sul comportamento dei due amanti o
sposi coincideva senza dubbio con quella delle persone in mezzo alla folla, la cui attenzione non pareva essere attirata
in alcun modo da quanto l'occhio acuto di Arabella aveva intravisto.
«È stregato da lei, neppure fosse una fata!», continuò Arabella. «Osserva come si gira a guardarla e la fissa
negli occhi. Per me, non lo ama quanto la ama lui. Non ha un carattere passionale, anche se di bene gliene vuole
parecchio... quanto può essere capace di volergliene; ed egli potrebbe ferirla al cuore se solo desiderasse provarci, ma è
troppo ingenuo per farlo. Ecco, stanno dirigendosi al padiglione dei calessi. Vieni».
«A me i calessi non interessano. Non abbiamo motivo di seguire quei due. Se siamo venuti a vedere la Fiera,
vediamola a modo nostro, e non come vogliono vederla loro».
«E se ci incontrassimo da qualche parte tra un'ora - diciamo alla tenda dei rinfreschi laggiù, e adesso andassimo
ognuno per conto suo? Così tu vedi quello che vuoi, e io pure».
Cartlett non si oppose a questa proposta ed essi si separarono, lui diretto al padiglione dove si mostravano i
procedimenti della lavorazione del malto, lei dietro a Jude e Sue. Ma prima di riuscire a raggiungerli, si trovò davanti un
volto sorridente, quello della sua amica di gioventù Anny.
Anny era scoppiata a ridere semplicemente pensando alla casualità del loro incontro. «Vivo ancora laggiù»,
disse dopo essersi calmata. «Presto mi sposerò, ma il mio fidanzato non è potuto venire oggi. Lo stesso siamo venuti in
molti dal paese, anche se in questo momento non trovo più nessuno».
«Hai mai conosciuto Jude e la sua ragazza, o moglie, o come la si voglia chiamare? Mi sono passati davanti
proprio ora».
«No. Sono anni che l'ho perso di vista!».
«Be', sono qui vicino da qualche parte. Sì, eccoli là, vicino a quel cavallo grigio!».
«Oh, è quella la sua ragazza... sua moglie, hai detto? Perché, si è risposato?».
«Non lo so».
«È carina, non trovi?».
«Sì, niente male, ma niente di eccezionale. Non è una su cui puoi contare molto, comunque... un tipo magro e
nervoso come lei».
«Lui pure è un bel ragazzo! Avresti dovuto restarci, Arabella!»
«Non so perché, ma lo penso anch'io».
Anny rise. «Non cambi mai, Arabella! Vuoi sempre un uomo diverso da quello che hai».
«E quale donna non lo vorrebbe? Mi piacerebbe proprio conoscerla. Quanto a quella là... quella non sa neppure
cos'è l'amore, almeno ciò che io intendo per amore! Glielo leggo in faccia che non lo sa».
«E forse, cara Abby, neppure tu sai nulla su quello che per lei è l'amore».
«Per carità non ci tengo!... Ah, si stanno dirigendo al padiglione dell'Arte. Anch'io vorrei vedere qualche
quadro. Ti andrebbe? Che mi prenda un colpo se qui non c'è tutto il Wessex al completo! Ecco là il dottor Vilbert. Sono
anni che non lo vedo e non sembra invecchiato di un giorno dall'ultima volta. Come state, dottore? Stavo giusto dicendo
che siete rimasto sempre uguale da quando io ero una ragazza».
«È soltanto l'effetto delle mie pillole che prendo regolarmente, signora. Due scellini e tre penny la scatola - con
tanto di timbro governativo che ne attesta l'efficacia. Permettete di consigliarvi di comprare la stessa immunità contro i
danni del tempo, seguendo il mio esempio. Solo due scellini e tre penny».
Il dottore aveva estratto una scatola dalla tasca del soprabito, e Arabella si lasciò convincere a comprarla.
«Inoltre», proseguì quello dopo aver ricevuto i soldi, «avete un vantaggio su di me, signora... Non siete la
signora Fawley, la figlia di Donn che abitava nei dintorni di Marygreen?».
«Sì. Ma ora sono la signora Cartlett».
«Ah, non ditemi che lo avete perso? Un giovane promettente! Un mio alunno, sapete... gli ho insegnato io le
lingue classiche. Parola d'onore, ben presto le conosceva quasi quanto me».
«L'ho perso, ma non come voi pensate», disse Arabella seccamente. «Ci hanno separato gli avvocati. Eccolo là,
vivo e vegeto, che insieme a quella giovane sta entrando nel padiglione dell'Arte».
«Ah, perbacco! Sembra molto innamorato».
«Si dice che siano cugini».
«L'essere cugini fa proprio comodo ai loro sentimenti, direi!».
«Sì. Così deve aver pensato il marito di lei quando ha divorziato... Andiamo anche noi a guardare i quadri?».
Il terzetto attraversò il prato antistante ed entrò. Jude e Sue, ignari dell'interesse che suscitavano, si erano diretti
a un'estremità del padiglione, per fermarsi a guardare con una certa attenzione un plastico, prima di proseguire. Arabella
e i suoi amici vi giunsero a loro volta e ne lessero la targhetta, che diceva: «Plastico del Collegio Cardinal di
Christminster, di J. Fawley e S.F.M. Bridehead».
«Contemplano la loro opera!», commentò Arabella. «Come è tipico di Jude... sempre a pensare ai collegi e a
Christminster, invece che al suo lavoro!».
Diedero un'occhiata superficiale ai quadri, e procedettero verso il palco dove suonava la banda. Dopo essere
rimasti un poco a sentire la musica della banda militare, Jude, Sue e il bambino si diressero dalla parte opposta. Ad
Arabella non importava di essere riconosciuta; ma essi erano troppo profondamente assorbiti dalle loro esistenze, per
come venivano tradotte in emozioni dalla banda militare, per scorgerla sotto il velo ricamato. Fece un giro intorno alla
folla e passò alle spalle dei due amanti, i cui movimenti quel giorno esercitavano su di lei un fascino inatteso.
Osservandoli più attentamente da dietro, notò che la mano di Jude cercava quella di Sue mentre i due stavano vicini in
modo da nascondere, almeno così credevano, questa tacita espressione del loro reciproco affetto.
«Che stupidi... proprio come due bambini!», Arabella sussurrò a se stessa stizzita, mentre tornava dai suoi
amici, con i quali mantenne un silenzio preoccupato.
Nel frattempo, Anny aveva commentato scherzosamente con Vilbert l'acceso interesse di Arabella per il suo
primo marito.
«Sentite signora Cartlett», chiese il dottore ad Arabella quando tornò; «vorreste una cosa del genere? Non
rientra nella lista dei miei prodotti farmaceutici, ma a volte mi vengono richieste cose di questo tipo». Le fece vedere
una piccola fiala di un liquido trasparente. «È un filtro d'amore, di quelli usati dagli antichi con ottimi risultati. L'ho
scoperta studiando i loro scritti, e ha sempre funzionato».
«Cosa c'è dentro?», chiese Arabella incuriosita.
«Dunque... un distillato del succo dei cuori delle colombe... dette altrimenti piccioni... uno degli ingredienti è
questo. Ci sono voluti circa cento cuori per riempire questa bottiglietta».
«E come fate a trovare tanti piccioni?».
«È un segreto, ma comunque prendo un pezzo di salgemma del quale i piccioni vanno matti, e lo metto nella
piccionaia sul tetto di casa. In poche ore gli uccelli arrivano dai quattro punti cardinali - est, ovest, nord, sud - e ne
prendo quanti me ne servono. Per usare il liquido, dovete assicurarvi che l'uomo desiderato ne beva una decina di gocce
sciolte in una bevanda. Ma mi raccomando, vi ho detto tutto questo perché ho dedotto dalle vostre domande che
l'avreste comprata. Ora non dovete deludermi!».
«D'accordo... la prendo... la darò a qualche amica perché la provi con il suo ragazzo». Gli porse cinque scellini,
il prezzo richiesto, e infilò la fiala nel suo petto capace. A quel punto disse che aveva un appuntamento col marito, e si
avviò lentamente verso il padiglione dei rinfreschi, mentre Jude, la sua compagna e il bambino proseguivano per il
reparto di orticoltura, dove Arabella li scorse in ammirazione di un cespuglio di rose in fiore.
Si fermò qualche minuto ad osservarli, poi andò a ricongiungersi al marito, in uno stato d'animo certo non
amabile. Lo trovò seduto su uno sgabello accanto al bancone, a parlare con una delle cameriere che indossava un vestito
dai colori vivaci, e che gli aveva servito dei liquori.
«Credevo che ne avessi abbastanza a casa, di questi intrugli!», Arabella osservò irata. «Non ti sarai allontanato
cinquanta miglia dal tuo bancone per rimanere qui? Avanti, portami in giro per la Fiera, come fanno gli altri uomini con
le loro mogli! Accidenti! Si direbbe che sei un giovane scapolo senza nessuno che si occupi di te!».
«Ma eravamo d'accordo di incontrarci qui; e che altro potevo fare se non aspettare?».
«Va bene, ora che ci siamo incontrati andiamo», rispose, pronta a litigare anche con il sole perché splendeva su
di lei. Lasciarono il padiglione insieme, lui con la sua pancia tonda, lei con le sue forme floride, ed entrambi con
quell'umore astioso e recriminatorio tipico di tante coppie del mondo cristiano.
Nel frattempo, la coppia più atipica e il ragazzo si trattenevano ancora nel padiglione dei fiori - un palazzo
incantato per il loro gusto sensibile - e le guance solitamente pallide di Sue riflettevano il rosa dei fiori che osservava;
poiché l'allegria del luogo, l'aria aperta, la musica e l'eccitazione della giornata di vacanza con Jude le avevano fatto
fluire il sangue alle gote e brillare gli occhi di vivacità. Sue adorava le rose, e Arabella si era accorta che tratteneva Jude
quasi contro la sua volontà, mentre imparava il nome di questa e quella varietà, e avvicinava il volto ai loro petali per
sentirne il profumo.
«Se potessi, vi immergerei dentro il viso! Bellissime!», aveva detto. «Ma immagino toccarli sia proibito, vero
Jude?».
«Sì, bambina», egli rispose: e poi le diede una piccola spinta in modo da farla finire col naso tra i petali.
«Se viene il poliziotto gli dirò che la colpa è di mio marito!».
Poi alzò gli occhi per guardarlo, e sorrise in quel modo che ad Arabella aveva fatto capire molto.
«Felice?», egli le sussurrò.
Sue annuì.
«Perché? Perché sei venuta alla Fiera agricola del Wessex, o perché ci siamo venuti insieme?».
«Tu cerchi sempre di farmi confessare ogni sorta di assurdità. È ovvio che lo sono perché imparo nuove cose
vedendo tutti questi aratri a vapore, trebbiatrici, frantoi, per non parlare di mucche, maiali e pecore...!».
A Jude fece piacere l'ironia della sua amica sempre così evasiva. Ma quando ormai si era dimenticato di averle
posto la domanda, e non desiderava alcuna altra risposta, lei proseguì: «Mi sento come se fossimo tornati alla gioia dei
Greci, e avessimo chiuso gli occhi a infermità e dolori, dimenticando quanto per venticinque secoli è stato insegnato
alla razza umana, come uno dei tuoi luminari di Christminster dice... Vi è però un'ombra, al momento, solo una». E con
gli occhi indicò il bambino dall'aspetto di un vecchio, che non si era interessato a nulla pur se avevano cercato di
mostrargli qualsiasi cosa potesse stimolare un'intelligenza giovane come la sua.
Sapeva quello che dicevano e pensavano: «Mi dispiace molto, papà e mamma», disse. «Ma per favore, non
prendetevela! Non è colpa mia. Mi piacerebbero molto, i fiori, se riuscissi a non pensare che saranno appassiti tra un
paio di giorni!».
CAPITOLO VI
L'esistenza discreta che fino ad allora la coppia aveva condotto, dal giorno del rinvio del matrimonio iniziò ad
attirare l'attenzione di altre persone, oltre ad Arabella. Gli abitanti di Spring Street e i vicini di casa non capivano, né
forse avrebbero potuto capire, la mentalità, i sentimenti, la posizione e le paure personali di Sue e di Jude. Un insieme di
fatti curiosi - l'arrivo inatteso di un bambino che chiamava Jude papà e Sue mamma, il rinvio di una cerimonia di
matrimonio che già si doveva celebrare in Municipio per non dare nell'occhio, e le indiscrezioni sulle sentenze dei
rispettivi casi di divorzio - per menti semplici come quelle dei loro concittadini non potevano avere che un significato.
Piccolo Padre Tempo, ancora chiamato con questo soprannome azzeccato sebbene formalmente avesse preso il
nome di Jude, la sera ripeteva domande e commenti sentiti a scuola dagli altri ragazzi, causando a Sue e a Jude, appena
udivano le sue parole, un grande dolore e una profonda tristezza.
Il risultato fu che poco dopo il fallito tentativo di sposarsi in Municipio la coppia partì - diretta a Londra, si
disse - per diversi giorni, dopo aver assunto qualcuno che badasse al bambino. Tornati a casa, con totale indifferenza e
stanchezza per le apparenze lasciarono capire a tutti di essersi sposati legalmente. Sue, che prima si faceva chiamare
signora Bridehead, ora adottò apertamente il nome di signora Fawley. Il contegno annoiato, remissivo e incurante che
ebbe per molti dei giorni che seguirono sembrò sostanziare tutto ciò.
Ma l'errore (come fu definito) della loro partenza così segreta per andarsi a sposare, avvalorò gran parte del
mistero che circondava la loro vita passata; ed essi scoprirono di non riuscire a fare con i vicini di casa quei progressi
che speravano sarebbero seguiti alla decisione di sposarsi. Un mistero vivente non era molto meno interessante di uno
scandalo morto.
Il garzone del fornaio e il ragazzo del droghiere, che all'inizio davanti a Sue si levavano con gesto galante il
cappello, ora, quando venivano a casa per le consegne, non si curavano più di renderle quell'omaggio, mentre le mogli
degli artigiani che vivevano in quella strada quando la incontravano guardavano dritto davanti a loro.
Nessuno li molestava, era vero; ma un'atmosfera opprimente iniziò a pesare sul loro animo, particolarmente
dopo la loro gita alla Fiera, quasi quella visita avesse attirato sulla coppia un qualche influsso nefasto. E il loro
temperamento era esattamente di quel genere che più risentiva di tale atmosfera, e non era disponibile ad alleggerirla
con dichiarazioni decise e chiare. Il loro apparente tentativo di riparare a questa situazione era troppo tardivo per avere
un qualche effetto.
Le ordinazioni di lapidi ed epitaffi diminuirono: e qualche mese dopo, quando venne l'autunno, Jude si rese
conto che doveva tornare a lavorare a giornata, una necessità tanto più disgraziata poiché ancora non aveva finito di
rimborsare il debito contratto l'anno precedente per pagare gli avvocati.
Una sera, seduto a tavola come al solito per cenare insieme a Sue e al ragazzo, disse: «Sto pensando che non ce
la faccio più a restare qui. Ci si sta bene, sì; ma se potessimo trasferirci in un posto dove nessuno ci conosce, la vita
potrebbe essere meno opprimente e offrirci maggiori opportunità. Temo che dovremmo andarcene, anche se non sarà
facile per te, povera cara!».
Sue, che si commuoveva sempre quando qualcuno la commiserava, si intristì.
«Veramente... non mi dispiace andarmene», disse. «Trovo troppo avvilente il modo in cui mi guardano qui. E
tu hai messo su casa con tutti questi mobili esclusivamente per me e il ragazzo! Per te non ne hai bisogno, ed è una
spesa superflua. Ma qualunque cosa faremo, ovunque andremo, non mi toglierai il ragazzo, vero Jude? Non potrei
separarmi da lui, ora! La nube che avvolge la sua mente infantile lo rende così patetico ai miei occhi, e un giorno spero
di riuscire a dissipargliela! E lui mi vuole così bene! Non me lo toglierai, vero?».
«Ma ti pare, piccola mia! Affitteremo una bella casetta, ovunque andiamo. Probabilmente io dovrò spostarmi...
un lavoro qui, uno là».
«Mi darò da fare anch'io, naturalmente, fino a che... Be', ora che non posso più aiutarti a disegnare le lettere, è
giusto che mi cerchi qualcos'altro».
«Io non mi preoccuperei troppo di trovarmi un lavoro», egli disse con rammarico. «Non voglio che lavori.
Preferirei che stessi a casa, Sue. Già hai da badare a te stessa e al ragazzo».
Qualcuno bussò alla porta di casa, e Jude andò ad aprire. Sue poté udire la conversazione:
«C'è il signor Fawley?... Biles e Willis l'impresa di costruzioni mi ha mandato da lei per sapere se le interessa
riscrivere le lettere dei Dieci Comandamenti in una chiesetta che hanno restaurato da poco qui nei dintorni».
Jude ci pensò un attimo e accettò.
«Non è un lavoro molto artistico», riprese a dire l'altro. «Il parroco è un tipo all'antica, e non ha voluto sentir
parlare di altri lavori nella chiesa al di là delle riparazioni necessarie e di una ripulitura generale».
«Ha ragione lui!», si disse Sue che era sentimentalmente contraria agli orrori di un restauro eccessivo.
«I Dieci Comandamenti sono scolpiti in fondo a destra», continuò quello, «e hanno bisogno di essere restaurati
in sintonia con il resto di quel muro, poiché egli non vuole che siano rimossi quale materiale di scarto che appartiene a
chi fa i lavori, come avviene di solito».
Si accordarono sul compenso, e Jude rientrò in casa. «Ecco un altro lavoro», disse allegramente. «E tu puoi
aiutarmi... almeno puoi provarci. Avremo la chiesa tutta per noi, dato che il resto del lavoro è già finito».
Il giorno dopo, Jude si recò alla chiesa, che distava appena due miglia dal paese. Notò che le informazioni
dell'impiegato della ditta erano corrette. Le tavole della legge ebraica troneggiavano nella loro austerità sugli strumenti
della grazia cristiana, essendo l'ornamento principale in fondo a quella navata, intagliate nello stile elegante e semplice
del secolo passato. E dal momento che erano incorniciate da uno stucco ornamentale, bisognava ripararle senza
staccarle dal muro. Una parte di esse, corrosa dall'umidità, andava sostituita; e dopo aver portato a termine questo
restauro e aver ripulito l'insieme, Jude si dedicò all'iscrizione. La mattina successiva Sue lo accompagnò per vedere
come poteva aiutarlo, e anche perché loro amavano stare insieme.
Il silenzio e la solitudine dell'edificio le diedero coraggio, e in piedi su una bassa impalcatura eretta da Jude,
sulla quale salì con un certo timore sebbene fosse solida, iniziò a dipingere le lettere della prima Tavola, mentre egli
restaurava un pezzo della seconda. Sue era compiaciuta della propria abilità, che aveva acquisito nei giorni in cui
dipingeva testi miniati per il negozio di articoli religiosi a Christminster. Sembrava che nessuno dovesse disturbarli; e il
piacevole cinguettio degli uccelli unito al fruscio delle foglie in quel mese di ottobre penetrava da una finestra aperta
per confondersi con le loro parole.
Ma era destino che non fossero lasciati in pace per molto tempo. Verso mezzogiorno e mezzo sentirono dei
passi sulla ghiaia antistante la chiesa. L'anziano vicario e il sacrestano entrarono per vedere come procedeva il lavoro, e
parvero sorpresi quando s'accorsero che Jude era assistito da una giovane donna. Poi proseguirono per una navata
laterale, ma a quel punto la porta si aprì di nuovo e un'altra figura fece il suo ingresso - quella minuta di Padre Tempo in
lacrime. Sue gli aveva detto dove li avrebbe trovati nelle ore di scuola, se avesse avuto bisogno di loro. Appena lo vide,
scese dall'impalcatura e gli chiese: «Che succede, caro?».
«Non potevo restare a pranzo a scuola, perché mi hanno detto...». Raccontò come alcuni ragazzi lo avessero
preso in giro su colei che chiamava sua madre e Sue, addolorata, espresse ad alta voce a Jude la propria indignazione. Il
bambino andò nel giardino del cimitero e Sue tornò al suo lavoro. Nel frattempo la porta si aprì ancora una volta, e
strusciando sul pavimento entrò la donna delle pulizie, con un grembiule bianco e un'aria indaffarata. Sue la riconobbe
come un'amica di alcune donne che abitavano in Spring Street. La donna la vide, rimase a bocca aperta e alzò le braccia
al cielo: lei pure, evidentemente, aveva riconosciuto Sue. Poi entrarono due signore, e dopo aver parlato con
l'inserviente a loro volta si avvicinarono al fondo della navata e si misero a guardare Sue mentre in punta di piedi
tracciava le lettere con la mano, e a fissare con aria critica la sua persona che pareva in rilievo sullo sfondo del muro
bianco, finché lei non si innervosì al punto da iniziare a tremare visibilmente.
Le due signore raggiunsero la donna delle pulizie e il sagrestano e si misero a parlare sottovoce; una di loro,
Sue non riuscì a sentire chi, disse: «Immagino sia sua moglie».
«C'è chi dice sì e chi dice no», rispose l'inserviente.
«No? Allora dovrebbe diventarlo... altrimenti vuol dire che è sposata con qualcun'altro, mi pare chiaro!».
«Se sono sposati, lo sono solo da poche settimane».
«Una strana coppia per dipingere le due Tavole! Che idea quella di Biles e Willis di prendere questi due!».
Il sagrestano avanzò l'ipotesi che Biles e Willis non sapessero della loro situazione, poi l'altra donna, che stava
chiacchierando con l'anziana inserviente, spiegò cosa intendesse dire quando li aveva definiti una strana coppia.
La piega probabile della conversazione che seguì fu resa palese da un aneddoto che la donna delle pulizie
iniziò a raccontare, con una voce che tutti nella chiesa avrebbero potuto udire, malgrado le fosse stato suggerito
chiaramente dalle circostanze presenti:
«Sì, è una cosa curiosa, ma mio nonno mi raccontò una strana storia di uno dei casi più immorali che io abbia
mai sentito, accaduto mentre dipingevano i Comandamenti in una chiesa vicino a Gaymead - che si raggiunge a piedi da
qui. A quel tempo, i Comandamenti erano quasi sempre scritti a lettere d'oro su sfondo nero, e così furono dipinti nella
chiesa che vi ho detto, prima che fosse ricostruita per intero. Sarà stato all'incirca cent'anni fa quando quei
Comandamenti avevano bisogno di essere restaurati, proprio come questi qui, e chiamarono qualcuno da Aldbrickham
per fare il lavoro. Poiché volevano che tutto fosse finito per una certa domenica, gli uomini dovettero lavorare il sabato
fino a tarda notte, contro voglia, perché allora non si pagava lo straordinario quanto oggi. A quei tempi, nel paese un
vero spirito religioso mancava tra i parroci e i chierici come tra la gente comune, e per convincere gli uomini a
continuare a lavorare il parroco dovette dar loro da bere in abbondanza nel pomeriggio. Mentre calava la sera, ne
chiesero ancora: del rum, tanto per capirci. Si fece sempre più tardi, ed essi divennero sempre più ubriachi, finché non
andarono a posare la bottiglia di rum e i bicchieri sull'altare, e presi un paio di sgabelli non si sedettero comodamente
tutti intorno, e riempirono i loro bicchieri fino all'orlo. Non fecero in tempo a scolarli, così si racconta, che caddero tutti
a terra svenuti. Quanto tempo rimasero in quello stato non lo seppero mai, ma quando tornarono in sé era in corso un
terribile temporale, e nella penombra della chiesa parve loro di vedere una figura nera con le gambe molto sottili e degli
strani piedi che, salita sulla scala, stava terminando il lavoro. All'alba, notarono che il lavoro era effettivamente finito,
ma non ricordavano di essere stati loro a finirlo. Tornarono a casa, e successivamente seppero che nella chiesa era
scoppiato un grande scandalo la domenica mattina, perché quando i fedeli entrarono e iniziò la messa, tutti s'accorsero
che i Dieci Comandamenti erano stati scritti senza i "non". Le persone per bene rifiutarono di rimetter piede in quella
chiesa, e si dovette chiamare il vescovo perché la riconsacrasse. Questa è la storia che sentivo da bambina. Dovete
prenderla per quel che vale, ma questo caso di oggi me l'ha fatto tornare in mente».
I visitatori lanciarono altre occhiate, quasi per accertarsi che Jude e Sue non avessero tralasciato a loro volta di
scrivere i «non», poi uscirono tutti dalla chiesa, compresa la donna delle pulizie. Sue e Jude, che non avevano smesso di
lavorare, rimandarono il ragazzo a scuola, e per un po' rimasero senza parlare; finché Jude, avvicinatosi a Sue, non si
accorse che stava piangendo in silenzio.
«Non prendertela, amica mia», disse. «Non serve a nulla».
«Non posso sopportare che loro, o chiunque altro, condannino le persone perché decidono di vivere a modo
loro! Sono proprio queste opinioni che rendono la gente meglio intenzionata sprezzante, e alla fine la fanno diventare
immorale!».
«Non farci caso! Era solo una storia divertente».
«Ah, ma siamo stati noi a fargliela ricordare! Temo di averti recato un danno, Jude, venendo qui, invece di
aiutarti!».
Aver fatto ricordare a qualcuno quella storia non era certo molto piacevole, a voler considerare seriamente la
loro posizione. Tuttavia, dopo qualche minuto, Sue iniziò a cogliere il lato comico della loro situazione quella mattina, e
asciugandosi gli occhi si mise a ridere.
«È curioso, a ben vedere», disse, «che tra tante persone proprio a noi due, con la nostra strana storia, sia
toccato dipingere i Dieci Comandamenti! Tu un reprobo, e io... nella mia condizione... Oh caro!... E coprendosi gli
occhi con la mano ricominciò a ridere in silenzio e in modo intermittente, fin quasi a sentirsi mancare dalla debolezza.
«Ecco, brava!», disse Jude di buon umore. «Ora va meglio, vero bambina?».
«Oh, ma è comunque una faccenda seria!», lei sospirò prendendo i pennelli e rialzandosi in piedi. «Non capisci
che loro non credono che siamo sposati? Non vogliono crederci! È straordinario!».
«Non m'importa di quello che pensano», disse Jude. «Non cercherò di convincerli».
Fecero una pausa per il pranzo, che si erano portati per non perdere tempo, e stavano per riprendere il lavoro
quando entrò in chiesa un uomo che Jude riconobbe: era l'appaltatore Willis. Costui fece un cenno al giovane, e gli
parlò in disparte.
«Ascolti...ho appena ricevuto delle lamentele», disse con voce incerta e imbarazzata. «Non desidero entrare nel
merito - dato che ovviamente non so cosa sia accaduto - ma devo purtroppo chiedervi di lasciare che altri finisca il
lavoro! È meglio evitare ogni situazione spiacevole. Vi pagherò lo stesso la settimana».
Jude era troppo orgoglioso per discutere; e l'appaltatore lo pagò e andò via. Jude prese i propri arnesi, e Sue
pulì i pennelli. Poi i loro occhi si incrociarono.
«Che ingenui siamo stati a credere una cosa del genere!», disse lei, mentre una nota tragica le era tornata nella
voce. «È ovvio che non dovevamo, che non dovevo, accompagnarti!».
«Io non avrei mai pensato che qualcuno sarebbe venuto a spiarci in un luogo così fuori mano!», Jude rispose.
«Comunque, non possiamo farci niente, cara; e io non volevo compromettere gli affari di Willis insistendo per
rimanere». Sedettero passivamente per qualche minuto, poi uscirono dalla chiesa e, raggiunto il bambino, proseguirono
mesti per Aldbrickham.
Fawley credeva ancora con un discreto entusiasmo nella causa dell'istruzione e, come era naturale date le sue
vicende passate, si adoperava con ogni mezzo a disposizione, per quanto limitato, per promuovere una politica di
«eguali opportunità». Si era iscritto a una Società di Mutuo Soccorso degli Artigiani, fondata in città al tempo in cui era
andato a stabilirsi lì; i suoi membri erano giovani di ogni credo e denominazione - ecclesiastici, congregazionalisti,
anabattisti, unitariani, positivisti e altri (gli agnostici all'epoca erano ancora pochi) - e avevano in comune il desiderio di
ampliare i loro orizzonti dando vita a una forte associazione. L'iscrizione costava poco e la sede era accogliente;
l'attivismo di Jude, la sua cultura fuori dal comune e più ancora la sua singolare intuizione su cosa leggere e come
incominciare, acquisita in anni in cui aveva lottato contro un destino avverso, gli era valso l'elezione nel comitato
direttivo.
Qualche sera dopo il suo licenziamento dal lavoro di restauro in quella chiesa e prima che gli venisse offerto un
altro lavoro, egli si recò a presenziare a una riunione del suddetto comitato. Quando giunse era tardi: gli altri erano tutti
già arrivati prima di lui e al suo ingresso lo guardarono dubbiosi e senza rivolgergli la parola. Egli capì subito che
avevano discusso o deciso qualcosa che lo riguardava. Parlarono dell'andamento della Società e qualcuno relazionò sul
calo improvviso delle iscrizioni nell'ultimo quadrimestre. Uno dei membri, un uomo onesto e irreprensibile, iniziò a
parlare in modo enigmatico delle possibili cause: osservò che era opportuno studiare bene la loro costituzione, poiché se
il comitato non era rispettato, e pur tenendo conto delle differenze individuali non avesse quantomeno un comune
criterio di condotta, l'istituzione avrebbe chiuso i battenti. Nulla di più si disse davanti a Jude, ma egli sapeva cosa
intendessero, e chinatosi sul tavolo scrisse lì per lì una lettera di dimissioni.
Giorno dopo giorno, la coppia ipersensibile si sentiva sempre più costretta ad andarsene. Vi erano dei conti da
pagare e sorse il problema di cosa avrebbe fatto Jude con i vecchi e ingombranti mobili della prozia se fossero partiti
senza una destinazione precisa. Questa considerazione, unita alla necessità impellente di denaro, lo convinse a venderli
all'asta, sebbene fosse loro molto legato affettivamente.
Arrivò il giorno dell'asta, e Sue preparò per l'ultima volta la colazione sua, del bambino, e di Jude, in quella
casetta arredata con tanto amore. Fuori pioveva; Sue non si sentiva bene, e non volendo in una circostanza tanto triste
abbandonare il suo povero Jude, che non poteva andarsene subito, su consiglio del banditore si ritirò in una stanza del
piano di sopra, svuotata di tutti i mobili e perciò chiusa agli eventuali acquirenti. Lì la trovò Jude e, insieme al bambino,
ai pochi bauli, alle ceste, alle sacche, a un paio di sedie e a un tavolo che non erano in vendita, sedettero a riflettere sulla
situazione.
Iniziarono a sentire su e giù per le scale i passi delle persone venute a esaminare gli oggetti in vendita, alcuni
dei quali erano così strani e antichi da acquisire accidentalmente un valore artistico. Un paio di volte qualcuno provò ad
aprire la porta della loro stanza e, per difendersi da possibili intrusioni, Jude scrisse «Riservato» su un pezzo di carta,
che appese sulla porta.
Presto notarono che anziché i mobili, a essere discusse in modo inatteso e intollerabile dai possibili acquirenti
erano le loro storie personali e la loro condotta passata. Fu solo allora che compresero in quale paradiso fantastico di
ipotetica discrezione erano vissuti negli ultimi tempi. Sue strinse silenziosamente la mano del suo compagno, e con gli
occhi fissi l'uno sull'altro essi rimasero ad ascoltare questi commenti casuali. La strana e misteriosa personalità di Padre
Tempo era un tema che forniva uno degli spunti maggiori alle insinuazioni e alle allusioni di quella gente. Finalmente
l'asta ebbe inizio nella stanza al piano terra, dove poterono sentire che ciascuno di quegli oggetti a loro così familiari era
battuto, i più preziosi per quattro soldi, i più scadenti a un prezzo inaspettato.
«La gente non ci capisce», egli sospirò malinconicamente. «Sono contento che abbiamo deciso di partire».
«Sì, ma dove andremo?».
«Per me, io andrei a Londra. Lì uno può vivere come vuole».
«No... non Londra, caro! La conosco bene. Non saremmo felici».
«Perché dici questo?».
«Non lo immagini?».
«Perché anche Arabella vive là?».
«Questa è la ragione principale».
«Ma in un piccolo paese non sarò mai a mio agio per paura che si ripeta l'esperienza di questi ultimi tempi. E
non ho alcuna voglia di ridurre questo rischio mettendomi a spiegare, per dirne una, la storia del ragazzo. Per sollevarlo
dal suo passato, sono intenzionato a non parlarne. E non ne posso più di lavorare in chiese e cimiteri, e anche se me
l'offrissero non l'accetterei!».
«Avresti dovuto imparare l'arte classica. Quella gotica è un'arte barbara, dopo tutto. Pugin aveva torto, mentre
Wren aveva ragione. Ti ricordi gli interni della Cattedrale di Christminster... dove ci siamo guardati negli occhi forse
per la prima volta? Dietro al carattere pittoresco di quei particolari normanni si può scorgere l'infantilismo grottesco di
un popolo rozzo che cercava di imitare le forme romane del passato, tramandate loro confusamente dalla tradizione».
«Sì... mi hai quasi convertito alle tue idee per quanto hai detto prima. Ma uno può lavorare, e disprezzare
quello che fa. Io devo fare qualcosa al posto delle decorazioni gotiche per le chiese».
«Quanto mi piacerebbe se potessimo entrambi avere un'occupazione in cui le situazioni personali non contino»,
lei disse sorridendo con malinconia. «Per me sarà impossibile insegnare a scuola quanto per te restaurare chiese. Dovrai
dedicarti a stazioni ferroviarie, ponti, teatri, sale da ballo, alberghi - qualsiasi cosa non c'entri nulla con la condotta».
«È un campo dove non ho esperienza... Dovrei fare il fornaio. Come sai, sono cresciuto lavorando nel forno
della zia. Ma anche un fornaio deve essere rispettabile per avere dei clienti».
«A meno che non abbia una bancarella di dolci e pan di zenzero ai mercati e alle fiere, dove alla gente interessa
unicamente la qualità della merce».
Le loro riflessioni furono interrotte dalla voce del banditore: «E ora questa cassapanca di quercia...un rarissimo
esempio di antico mobile inglese, che merita l'attenzione di ogni collezionista!».
«Quella apparteneva al mio bisnonno», disse Jude. «Quanto avrei voluto tenerla!».
Uno alla volta, tutti gli oggetti messi all'asta furono venduti nel corso del pomeriggio. Jude, Sue e il ragazzo
erano ormai stanchi e affamati, ma dopo tutti i pettegolezzi ascoltati su di loro non se la sentivano di scendere di sotto
prima che gli acquirenti se ne fossero andati. Comunque anche gli ultimi lotti furono venduti, e ben presto avrebbero
dovuto uscire nella pioggia, per portare le cose di Sue nel loro alloggio provvisorio.
«Ed ora il lotto successivo: due coppie di piccioni vivi e vegeti...un magnifico arrosto per qualcuno, domenica
prossima!».
La vendita imminente di quegli uccelli aveva costituito l'attesa più difficile del pomeriggio. Erano i beniamini
di Sue, e scoprire di non poterli tenere aveva causato una tristezza maggiore della vendita di tutta la mobilia. Sue cercò
di trattenere le lacrime quando sentì per quale somma irrisoria erano stati proposti e le contro offerte con cui a piccoli
passi si giunse al prezzo di aggiudicazione. A comprarli era stato il locale pollivendolo, ed era fuor di dubbio che
sarebbero morti prima del successivo giorno di mercato.
Notando il suo dispiacere appena dissimulato, Jude la baciò, e disse che era giunta l'ora di vedere se le loro
stanze erano pronte. Andava avanti lui con il ragazzo, e sarebbe tornato a prenderla il prima possibile.
Rimasta sola, Sue attese pazientemente, ma Jude non tornava. Dopo un po' uscì a cercarlo - la via era ormai
libera - e passando davanti al negozio del pollivendolo vide i suoi piccioni in gabbia vicino alla porta. La commozione
suscitata dalla loro vista, incoraggiata dal buio sempre più fitto della sera, la fece agire d'impulso. Dopo aver dato una
rapida occhiata intorno a sé, tirò il fermo che teneva chiuso il coperchio della gabbia, e proseguì. Spingendo il
coperchio da sotto, i piccioni fuggirono sbattendo le ali così rumorosamente da richiamare il pollivendolo di cui Sue si
era preso gioco, che accorse alla porta bestemmiando.
Sue arrivò al suo alloggio provvisorio tutta tremante, e trovò Jude e il ragazzo che si davano da fare per
renderlo accogliente. «Gli acquirenti pagano prima di portarsi via gli oggetti?», lei chiese col respiro mozzo.
«Credo di sì. Perché?».
«Perché se è così ho fatto una cosa tremenda!». E raccontò cosa era accaduto, pentita amaramente.
«Dovrò rimborsare il pollivendolo, se non riesco a trovarli», disse Jude. «Ma non è una cosa grave. Non
preoccuparti, cara».
«Sono stata così stupida! Oh, perché la legge della Natura deve essere quella della reciproca carneficina!».
«È davvero così, mamma?», chiese il ragazzo allarmato.
«Sì», Sue rispose con veemenza.
«Poveracci, questa è la loro ultima possibilità di sopravvivere», disse Jude. «Non appena avremo chiuso i conti
dell'asta e pagato i debiti, ce ne andremo».
«E dove andremo?», chiese Padre Tempo, preoccupato.
«Lo decideremo all'ultimo momento, in modo che nessuno possa rintracciarci... Non dobbiamo andare ad
Alfredston o a Melchester o a Shaston o a Christminster. Esclusi questi posti, possiamo andare dove vogliamo».
«E perché non possiamo andare lì, papà?».
«Perché una nube si è addensata su di noi; anche se "non abbiamo fatto torto ad alcun uomo, né corrotto alcun
uomo, né defraudato alcun uomo!". Sebbene forse abbiamo fatto "quello che ai nostri occhi era giusto"».
CAPITOLO VII
Da quel giorno, Jude Fawley e Sue non misero mai più piede nella città di Aldbrickham.
Dove fossero andati nessuno lo sapeva, essenzialmente perché a nessuno importava saperlo. Chiunque fosse
stato abbastanza curioso da mettersi sulle tracce di quella coppia di ignoti avrebbe scoperto senza grande fatica che,
sfruttando la capacità di adattamento di Jude, si erano dati a una vita di continui spostamenti, quasi da nomadi, che per
un certo periodo poteva avere anche i suoi lati piacevoli.
Jude si recava ovunque venisse a sapere che vi era richiesta di scalpellini, scegliendo preferibilmente luoghi
lontani da quelli dove sia lui che Sue avevano vissuto. S'impegnava in un lavoro, breve o lungo che fosse, finché non
era finito; e poi ripartivano.
Passarono così due anni e mezzo. A volte lo si poteva trovare a riparare i montanti di una villa di campagna,
altre volte a costruire il parapetto del palazzo civico, altre volte ancora a lastricare la facciata di un albergo a
Sandbourne, o di un museo a Casterbridge, e si spingeva fino a Exonbury e in qualche occasione a Stoke-Barehills. In
seguito avrebbe lavorato a Kennetbridge, una prospera cittadina a non più di una dozzina di miglia a sud di Marygreen,
e questa fu la volta in cui più si avvicinò al villaggio dove tutti lo conoscevano - perché aveva una paura istintiva di
essere interrogato sulla sua vita e le sue vicende passate da coloro che lo avevano conosciuto durante gli anni, pieni di
studio e di promesse, della sua adolescenza e della sua breve e sfortunata vita coniugale di allora.
In alcuni di questi posti, il lavoro lo tratteneva per mesi, in altri solo per qualche settimana. La sua strana e
improvvisa antipatia per lavori di carattere ecclesiastico, episcopale o non conformista che fosse, sorta in lui quando
soffrì per la dolorosa sensazione di non essere compreso, gli era rimasta anche in seguito, non tanto per la paura di
essere nuovamente criticato, quanto per una consapevolezza spinta fino all'eccesso che non gli avrebbe permesso di
cercarsi da vivere presso coloro che avrebbero disapprovato le sue scelte; e anche per la sensazione che la sua vita
presente era in contraddizione con i dogmi in cui aveva creduto in passato, dal momento che non rimaneva in lui più di
una parvenza di quelle convinzioni che lo avevano spinto a trasferirsi a Christminster. La sua mentalità era adesso più
vicina a quella di Sue quando si erano conosciuti.
Un sabato di maggio, quasi tre anni dopo che Arabella riconobbe Jude e Sue alla Fiera agricola, alcuni di
coloro che si erano visti in quella occasione si incontrarono di nuovo.
Si teneva a Kennetbridge una Fiera di primavera, e sebbene questa antica manifestazione non avesse le
dimensioni di un tempo, la strada lunga e dritta che attraversava il paese presentava verso mezzogiorno un aspetto
vivace. A quell'ora, tra gli altri veicoli, entrò in città proveniente da nord un calesse, che si fermò davanti alla porta di
una di quelle locande dove il bere era proibito. Ne scesero due donne, di cui una, alla guida del calesse, era una
contadinotta qualunque, mentre l'altra aveva un personale elegante ed era vestita a lutto. Il suo mesto abito, dal taglio
aderente, la faceva apparire un po' fuori posto tra la folla e la confusione di quella Fiera di provincia.
«Vado solo a vedere dov'è, Anny», disse la signora a lutto alla sua compagna dopo che il calesse e il cavallo
erano stati affidati a un uomo che era andato loro incontro, «e torno subito. Ci rivediamo qui, e poi andremo a mangiare
e a bere qualcosa. Incomincio a sentirmi male».
«D'accordo», disse l'altra. «Anche se avrei preferito andare agli "Scacchi" o da "Jack". In queste locande dove
non si beve non si trova neppure molto da mangiare».
«Adesso non incominciamo con la tua golosità, ragazza mia», disse la donna vestita a lutto con riprovazione.
«Questo è il posto giusto. D'accordo, dunque: ci incontreremo tra mezz'ora, a meno che non vuoi venire con me a
cercare la nuova cappella».
«Non ci tengo. Me lo dirai dopo».
Le due compagne s'incamminarono ognuna per la sua strada, quella a lutto con passo fermo e un atteggiamento
di distacco dal trambusto intorno a lei. Seguendo le indicazioni datele dai passanti, giunse a una palizzata provvisoria
all'interno della quale vi erano degli scavi per le fondamenta di un edificio; e sui tabelloni eretti appena fuori un paio di
grandi manifesti che annunciavano che la posa della prima pietra della cappella avrebbe avuto luogo alle tre del
pomeriggio con la partecipazione tra gli altri di un predicatore londinese di grande popolarità.
Una volta accertato tutto questo, la vedova vistosamente a lutto tornò sui suoi passi, e si concesse la distrazione
di osservare quella Fiera così movimentata. A un certo punto la sua attenzione fu attratta da una piccola bancarella di
dolci e pan di zenzero, che si trovava in mezzo a due costruzioni più pretenziose di tela su cavalletti. Era coperta da una
tovaglia immacolata, e ad occuparsene era una giovane che dava l'impressione di non essere pratica del mestiere,
insieme a un ragazzo con un volto da ottuagenario.
«Che mi prenda un accidente!», mormorò la vedova tra sé e sé. «Sua moglie Sue... se si sono sposati!». Si
avvicinò alla bancarella e disse in tono gentile: «Come state, signora Fawley?».
Sue arrossì all'istante non appena riconobbe Arabella sotto al velo di crêpe.
«Siete voi, signora Cartlett?», rispose irrigidita. Poi, notando che era a lutto la sua voce divenne più dolce, suo
malgrado. «Non ditemi... che avete perso...?».
«Sì, mio marito, poveraccio. È morto di colpo sei settimane fa, lasciandomi con pochi soldi, anche se è stato un
buon marito con me. Ma quali che siano i profitti di una locanda, essi vanno a coloro che producono i liquori, e non a
coloro che li vendono... E tu vecchio mio! Immagino che non mi riconosci?».
«Sì che vi riconosco. Siete la donna che per un po' ho creduto fosse mia madre, fino a quando ho scoperto che
non lo era», rispose Padre Tempo, che ormai aveva imparato a parlare con naturalezza nel dialetto del Wessex.
«Hai ragione, non importa. Sono un'amica».
«Juey», disse Sue d'un tratto, «va' giù alla stazione con questo vassoio... credo sia in arrivo un altro treno».
Quando si fu allontanato, Arabella riprese a dire: «Non sarà mai una bellezza, povero disgraziato! Sa che in
realtà sono io sua madre?».
«No. Pensa solo che c'è un mistero riguardo ai suoi genitori... tutto qui. Jude glielo dirà quando sarà cresciuto».
«Ma come siete finita a fare questo lavoro? Sono sorpresa».
«È solo un'occupazione temporanea... un'idea che ci era venuta in mente quando siamo stati in difficoltà».
«Quindi vivete ancora con lui?».
«Sì».
«Sposati?».
«Naturalmente».
«Bambini?».
«Due».
«E un terzo in arrivo, vedo».
Dopo aver retto per un po' a questo interrogatorio così pressante ed esplicito, Sue iniziò ad agitarsi, e la sua
bocca delicata prese a tremare.
«Perdio... voglio dire Dio buono... e cosa c'è da piangere, adesso? Molte donne sarebbero orgogliose!».
«Non è che mi vergogno... non come credete! Ma sembra una cosa così tragica mettere degli esseri al mondo,
così presuntuosa, che a volte mi chiedo se ne ho il diritto!».
«Calmatevi, signora... Ancora non mi ha detto cosa vi ha spinto a fare un lavoro del genere. Un tempo Jude era
un tipo orgoglioso, non si sarebbe mai messo nel commercio, e men che meno a vendere a una bancarella al mercato».
«Forse mio marito è cambiato un poco da allora. Vi assicuro che ora ha smesso di essere orgoglioso!». La
bocca di Sue tremò di nuovo. «Mi sono messa a fare questo perché all'inizio dell'anno si è preso un malanno lavorando
alla facciata di una sala da ballo a Quartershot, malgrado piovesse a dirotto, poiché il lavoro andava finito il giorno
previsto. Ora sta molto meglio, ma abbiamo passato un periodo lungo e difficile! Un'anziana vedova amica nostra è
venuta ad aiutarci; ma tra pochi giorni dovrà tornare al suo paese».
«Be', io pure sono diventata più rispettabile grazie a Dio, e più seria, dalla morte di mio marito. E perché avete
scelto di vendere il pan di zenzero?».
«Per puro caso. Jude da piccolo aveva lavorato al forno della zia e gli venne in mente di provare, considerando
che era un lavoro che poteva fare senza uscire di casa. Li chiamiamo dolci di Christminster. Hanno un grande
successo».
«Non ho mai visto nulla di simile. Ma guarda un po'! Ci sono finestre, torri, campanili! Sono proprio carini».
Ne aveva preso uno, che ora stava masticando incurante delle buone maniere.
«Sì. Sono ricordi dei collegi di Christminster. Finestre ad arco e chiostri. È stata una sua idea di farli di pasta
frolla».
«Sempre a pensare a Christminster... anche con i dolci!», rise Arabella. «È tipico suo. Una passione più forte di
lui. È proprio uno strano tipo. Non cambierà mai!».
Sue sospirò e non nascose il proprio imbarazzo per le critiche al marito.
«Non pensate che ho ragione? Avanti, sì che lo pensate, anche se gli volete bene!».
«Certo Christminster è un'idea fissa a cui non penso smetterà mai di credere. È ancora convinto che sia un
grande centro del pensiero più nobile e coraggioso, e non gli verrà mai in mente che è abitato da maestri senza qualità
particolari ad eccezione di un timido servilismo alla tradizione».
Arabella guardava divertita Sue più per come parlava che per ciò che diceva. «Che strano, sentire una donna
che vende dolci parlare in questo modo!», osservò. «Perché non tornate a insegnare a scuola?».
Sue scosse il capo. «Non mi prenderebbero».
«Per via del divorzio?».
«Per quello e altri motivi. Né vorrei veramente. Abbiamo perso ogni ambizione, e non siamo mai stati tanto
felici nella nostra vita fino a quando è sopraggiunta questa malattia».
«Dove vivete?».
«Non credo vi interessi».
«Qui a Kennetbridge?».
Dall'espressione di Sue, Arabella capì che la sua supposizione era giusta.
«Ecco che torna il ragazzo», continuò Arabella. «Il ragazzo mio e di Jude!».
Sue le lanciò una frecciata con lo sguardo. «Non c'è bisogno che me lo rinfacciate in questo modo!», esclamò.
«Va bene, va bene... anche se avrei una mezza idea di riprenderlo con me!... Ma per carità, non ve lo porterei
mai via... non oso neppure pensarlo... anche se a voi i figli non mancano di certo! È in ottime mani, questo mi consola; e
non sono una donna che ha da ridire su ciò che il Signore ha disposto. Ho acquisito una maggiore rassegnazione».
«Beata voi! Vorrei poter dire lo stesso!».
«Dovrebbe provare», replicò la vedova dall'alto della serenità di un'anima conscia di una superiorità non solo
spirituale, ma anche sociale. «Non voglio certo vantarmi della mia conversione, ma non sono più quella che ero. Dopo
la morte di Cartlett, un giorno passavo davanti alla cappella in una strada accanto alla nostra ed entrai a ripararmi da una
pioggia improvvisa. Sentivo il bisogno di un qualche sostegno per la perdita di mio marito, e siccome era meglio del
gin, iniziai a recarmici regolarmente, e trovai che era di grande conforto. Ma ora non abito più a Londra, al momento
vivo ad Alfredston con la mia amica Anny, per essere vicina al paese dove sono nata. Sono qui non per la Fiera, oggi.
Ci sarà la cerimonia di posa della prima pietra di una nuova chiesa questo pomeriggio, e sarà presente un famoso
predicatore giunto da Londra, così sono venuta con Anny. Ora devo tornare da lei».
Detto questo salutò Sue e andò via.
CAPITOLO VIII
Nel pomeriggio, Sue e tutta l'altra gente che affollava la Fiera di Kennetbridge sentirono cantare all'interno del
recinto in fondo alla strada dove sarebbe sorta la nuova cappella. Coloro che andarono a curiosare videro una folla di
persone vestite di una stoffa di lana spessa, con in mano il libro degli inni, in piedi tutt'intorno agli scavi per le
fondamenta. Arabella Cartlett con il suo abito vedovile era tra quelle. Aveva una voce forte e chiara, che si poteva
distinguere nettamente tra le altre, mentre si alzava e si abbassava con la melodia, accompagnata da un analogo
movimento del suo petto abbondante.
Fu solo parecchio più tardi che Anny e la signora
Cartlett, dopo aver cenato all'«Albergo della Temperanza», iniziarono il viaggio di ritorno attraverso la campagna
aperta e ondulata che si distende tra Kennetbridge e Alfredston. Arabella era meditabonda; ma i suoi pensieri non
riguardavano la nuova cappella, come Anny in un primo momento aveva creduto.
«No... sto pensando ad altro», disse alla fine in modo scontroso. «Sono venuta qui oggi pensando solo al
povero Cartlett e a come diffondere il Vangelo grazie al nuovo tabernacolo alla cui costruzione abbiamo dato il via
questo pomeriggio. Ma è successo qualcosa che mi ha distratto. Anny, ho sentito di nuovo parlare di lui, e ho visto lei!».
«Chi?».
«Ho sentito parlare di Jude e ho visto sua moglie. Da quel momento, per quanto mi sia sforzata e ce l'abbia
messa tutta, quando si è trattato di cantare gli inni, non sono riuscita a pensare ad altro; cosa che un membro della
congregazione non avrebbe dovuto fare».
«Perché non ti concentri sulle parole del predicatore venuto da Londra, e cerchi di dimenticare queste tue
fantasie?».
«Ci provo. Ma il mio debole cuore continua a distrarsi malgrado i miei sforzi».
«Eh, so bene anch'io cosa vuol dire avere dei cattivi pensieri! Se tu solo sapessi cosa non sogno a volte la notte,
del tutto contro la mia volontà, diresti che io pure ho le mie tentazioni!» (Anche Anny negli ultimi tempi era diventata
più seria, da quando il suo amante l'aveva abbandonata.)
«Cosa posso fare?», l'assillò Arabella con morbosità.
«Potresti prendere una ciocca dei capelli di tuo marito, e farne un medaglione da lutto, da poter guardare ad
ogni ora della giornata».
«Non ho neanche un suo capello! E se pure l'avessi, sarebbe inutile... Dopo tutto quello che si dice sui conforti
della religione, rimane il fatto che io vorrei tornare con Jude».
«Devi combattere contro questo sentimento, visto che lui è di un'altra. E ho sentito dire che una cosa che
funziona, quando esso affligge le vedove sensuali, è quello di recarsi alla tomba del marito al calar del sole e stare a
lungo china a pregare».
«Figurati! So bene quanto te cosa dovrei fare; solo che non lo faccio!».
Proseguirono in silenzio lungo la strada dritta fin quando non videro Marygreen, che si trovava poco distante a
sinistra della loro strada. Giunsero così all'incrocio tra la strada principale e il sentiero che portava al villaggio, il cui
campanile si poteva vedere al di là di una conca. Più avanti lungo la strada, quando si trovarono a passare davanti alla
casetta solitaria in cui Arabella e Jude erano vissuti nei primi mesi del loro matrimonio e dove c'era stata la scena
dell'uccisione del maiale, lei non riuscì più a controllarsi.
«È più mio che suo!», sbottò. «Che diritti ha su di lui, vorrei proprio saperlo! Me lo riprenderei se potessi!».
«Vergognati Arabella! Tuo marito è morto da appena sei settimane! Chiedi perdono al Signore!».
«Che mi venga un accidente se lo faccio! I sentimenti sono sentimenti! Non voglio più essere un'ipocrita
penitente... mi sono stufata!».
Nella furia, tirò fuori dalla tasca un pacco di opuscoletti che aveva portato con sé per distribuirli alla Fiera; di
questi ne aveva dati via un certo numero. Mentre parlava, gettò il resto del pacco al di là della siepe che delimitava la
strada. «Ho provato questo tipo di cura, ma non ha funzionato. Devo essere quella che sono!».
«Zitta! Adesso sei troppo eccitata, cara! Ora torniamo tranquille a casa a bere una tazza di tè, e non parliamone
più. Non rifaremo più questa strada, dato che passa davanti alla vostra casa e ti agiti in questo modo. Vedrai che starai
subito meglio».
Arabella si calmò poco alla volta; intanto superarono il dorsale della collina. Quando iniziarono a scendere il
lungo e ripido pendio dal versante opposto, videro camminare a fatica davanti a loro un uomo anziano, non molto alto e
dall'aria meditabonda. Portava una cesta sottobraccio e nel suo abbigliamento vi era un ché di trasandato, insieme a quel
qualcosa di indefinibile nel suo aspetto complessivo che faceva pensare fosse il maggiordomo, il cuoco, il confidente e
l'amico di se stesso, non avendo nessun altro al mondo che svolgesse per lui queste funzioni. Il resto del tragitto era in
discesa, e indovinando che era diretto a Alfredston gli offrirono un passaggio che accettò.
Arabella lo guardò più da vicino, e dopo averci pensato un poco gli disse: «Se non mi sbaglio, siete il signor
Phillotson?».
Il viandante si girò e la guardò a sua volta. «Sì, mi chiamo Phillotson», disse. «Ma non posso dire di
riconoscervi, signora».
«Io ricordo abbastanza bene di quando insegnavate a Marygreen e io ero uno dei vostri alunni. Andavo a
scuola a piedi da Cresscombe ogni giorno, perché giù da noi c'era solo una maestrina, che non era molto brava. Ma voi
non vi ricorderete certo di me. Arabella Donn?».
Egli scosse il capo. «No», disse educatamente. «Non ricordo il vostro nome. Ed è difficile che riconosca nella
donna formosa che siete ora la ragazzina pelle e ossa che senza dubbio eravate a quel tempo».
«Veramente sono sempre stata cicciottella. Comunque vivo qui da amici, al momento. Immagino ricorderete
almeno chi ho sposato?».
«No».
«Jude Fawley, lui pure era un vostro alunno alla scuola serale... per un certo tempo, vero? E poi se non sbaglio
l'avete rivisto in seguito?».
«Altroché, altroché», disse Phillotson, mentre i suoi modi diventavano meno formali. «Voi siete la moglie di
Fawley? Perbacco se aveva una moglie! E lui... se ho capito bene...».
«Divorziò, come avete fatto anche voi da vostra moglie, e forse per ragioni più valide».
«Davvero?»
«Diciamo che poteva essere la cosa giusta da fare... giusta per tutti e due. Io mi risposai subito, e tutto è andato
liscio fino alla morte recente di mio marito. Ma voi... voi avevate decisamente torto a divorziare!».
«No», disse Phillotson con improvvisa irritazione. «Preferirei non parlarne, ma... sono convinto di aver fatto
soltanto quel che era giusto, doveroso, e morale. Ho pagato care le mie azioni e le mie idee ma continuo a difenderle;
anche se perdendo mia moglie, ho perso molte altre cose».
«Avete perso la scuola e un buon guadagno per colpa sua, vero?».
«Veramente non vorrei parlarne. È poco che sono tornato qui... a Marygreen».
«Insegnate a scuola lì, come un tempo?».
La pressione di una tristezza sul punto di rompere in pianto lo spinse a parlare. «Sono qui», rispose. «Come un
tempo, no. Sono tollerato. Era la mia ultima risorsa... una piccola cosa cui tornare dopo qualche successo e anni di
speranze lungamente accarezzate... un ritorno a zero, con tutte le sue umiliazioni. Ma è un rifugio. Mi piace il suo
isolamento, e avendomi conosciuto prima che la mia cosiddetta condotta eccentrica verso mia moglie rovinasse la mia
reputazione di maestro, il vicario ha accettato di assumermi quando tutte le altre scuole mi avevano rifiutato.
Comunque, pur se prendo solo cinquanta sterline all'anno invece delle duecento che prendevo in passato, preferisco
stare qui che correre il rischio di sentirmi rinfacciare la mia vita familiare passata, come accadrebbe senz'altro se mi
trasferissi».
«Siete saggio. Chi s'accontenta gode. E lei non ha avuto maggiore fortuna».
«Volete dire che se la passa male?».
«L'ho incontrata per caso a Kennetbridge proprio oggi, e tutto si può dire di lei tranne che abbia fatto i soldi. Il
marito è malato e lei è preoccupata. Caro signor Phillotson, avete fatto un bello sbaglio a lasciarla andare, credetemi, e
il danno che avete causato a voi stesso svergognando la vostra casa, perdonate le mie parole, ma ve lo siete proprio
meritato».
«Come sarebbe a dire?».
«Vostra moglie era innocente».
«Che stupidaggine! Non hanno fatto nulla per difendersi!».
«Perché non ci tenevano. Ma all'epoca in cui avete riconquistato la vostra libertà, vostra moglie non aveva
nessuna delle colpe che vi hanno permesso di riconquistarla. Ricordo che la vidi poco dopo, e ne ebbi una conferma
indiscutibile, parlandole».
Phillotson afferrò il bordo del calesse, e apparve alquanto stupito e turbato dalla notizia. «Pure... voleva
andarsene», disse.
«Sì. Ma non avreste dovuto lasciarla andare. È l'unico modo con questo genere di donne capricciose che
disprezzano la gente comune... innocenti o colpevoli che siano. A tempo debito si sarebbe ravveduta. Facciamo tutte
così: è il nostro modo di essere! Ma alla fine non fa alcuna differenza! Comunque credo voglia ancora bene al suo
uomo... qualsiasi cosa egli pensi di lei. Siete stato troppo precipitoso con lei. Io non l'avrei lasciata andare! Piuttosto
l'avrei legata - e non preoccupatevi, che il desiderio di scalciare le sarebbe passato presto! Nulla è meglio di una corda e
di un padrone inflessibile per domare noi donne. Inoltre avevate la legge dalla vostra parte. Mosè se ne intendeva.
Ricordate quello che disse?».
«Non al momento, signora, mi dispiace».
«Bel maestro! Ci pensavo sempre quando lo leggevamo in chiesa e io civettavo un poco. "L'uomo sarà immune
di colpa; la donna sconterà la colpa". Veramente duro con noi donne; ma dobbiamo riderci sopra e sopportare questo
fardello! Ah! Ah! Comunque ha avuto quel che merita, ora».
«Sì», disse Phillotson triste e amareggiato. «La crudeltà è la legge che governa la natura come la società; e non
possiamo sfuggirle neppure se volessimo!».
«Allora non dimenticate di provarci la prossima volta, vecchio mio».
«Non so che rispondervi, signora. Non ho mai capito molto delle donne».
Erano intanto giunti ai campi pianeggianti vicino ad Alfredston, e passando nei sobborghi si avvicinarono a un
mulino, dove Phillotson disse che era arrivato; si fermarono ed egli scese augurando loro la buona notte con voce
preoccupata.
Nel frattempo, sebbene gli affari alla Fiera di Kennetbridge le fossero andati molto bene, Sue aveva perso
l'allegria momentanea per quel successo che aveva cominciato a scacciare la sua tristezza. Una volta venduti tutti i
«dolci di Christminster», prese la cesta vuota sottobraccio e la tovaglia che aveva coperto la bancarella da lei affittata e,
facendosi aiutare a portare le cose dal ragazzo, andò via. Seguirono un sentiero per circa mezzo miglio, finché non
incontrarono una donna anziana che teneva in braccio un bambino in pantaloni corti, e con l'altra mano un pupo che
camminava appena.
Sue baciò i bambini e disse: «Come sta ora?».
«Sempre meglio!», rispose la signora Edlin di buon umore. «Prima che giunga il vostro momento, sarà di
nuovo in piedi, non dubitate».
Proseguirono, e giunsero a una serie di vecchie casette dal tetto grigio, nei cui giardinetti vi erano alberi da
frutta. Entrarono in una di esse sollevando il paletto senza bussare, e passarono subito nel soggiorno comune. Qui
salutarono Jude, che era seduto in poltrona. L'accentuata delicatezza dei suoi lineamenti già tanto delicati, e un infantile
sguardo come di attesa negli occhi, bastavano a mostrare che egli era passato attraverso una malattia molto grave.
«Cosa?... Li hai venduti tutti?», egli disse mentre un bagliore di interesse gli illuminava il viso.
«Sì. Archi, timpani, finestre e tutto il resto». Gli comunicò quanti soldi avevano fatto, poi parve indecisa.
Finalmente, una volta rimasti soli lo informò dell'inatteso incontro con Arabella, e della sua vedovanza.
Jude era molto agitato. «Cosa... vive qui?», le chiese.
«No, ad Alfredston», Sue rispose.
Ma la risposta non bastò a rasserenarlo. «Pensavo che avrei fatto meglio a dirtelo», lei proseguì, baciandolo
ansiosamente.
«Sì... Poveri noi! Arabella che non vive più da qualche parte a Londra, ma quaggiù! Sono poco più di sei
miglia fino ad Alfredston. Che ci fa lì?».
Sue lo mise al corrente di quel che sapeva. «Ha iniziato ad andare in chiesa», aggiunse, «e a parlare in maniera
conseguente».
«Mah», sospirò Jude, «forse non è una cattiva cosa che abbiamo quasi deciso di andarcene. Mi sento molto
meglio, oggi, e in un paio di settimane al massimo starò abbastanza bene per partire. Poi la signora Edlin potrà tornare a
casa - cara, vecchia amica - l'unica che abbiamo al mondo!».
«Dove pensi di andare?», chiese Sue con voce preoccupata.
Jude le confessò cosa aveva in mente. Disse che l'avrebbe sorpresa, forse, dopo che così a lungo aveva insistito
con tanta determinazione affinché evitassero i paesi dove li conoscevano. Ma una cosa e l'altra gli avevano fatto pensare
molto a Christminster negli ultimi tempi, e se lei non fosse stata contraria, gli sarebbe piaciuto tornare là. Che importava
se li conoscevano? Erano troppo suscettibili a dare tanto peso a questo fatto. Avrebbero potuto continuare a vendere
dolci anche lì, se lui non avesse trovato lavoro. Non aveva alcuna vergogna della loro povertà, e magari in poco tempo
si sarebbe sentito di nuovo in forze per ricominciare a intagliare pietre, e avrebbe potuto addirittura rimettersi in
proprio.
«Ma perché t'importa tanto di Christminster?», lei disse cercando di capire. «A Christminster di te non importa
nulla, povero caro!».
«M'importa, non so che farci. Amo quel luogo... anche se so quanto le persone laggiù odino gli uomini come
me, i cosiddetti autodidatti, e disprezzino la nostra cultura acquisita a fatica, quando dovrebbero essere i primi a
rispettarla; quanto prendano in giro i nostri accenti sbagliati e gli errori di pronuncia, quando dovrebbero dire, vedo che
hai bisogno d'aiuto, povero amico!... Ciononostante, per me è il centro dell'universo, a causa del mio sogno giovanile: e
nulla potrà cambiare ciò. Forse quella città potrebbe ridestarsi ed essere generosa. Prego perché accada!... Mi
piacerebbe tornare a vivere là... forse a morirci! Tra un paio di settimane credo di potercela fare. Allora sarà giugno, e
vorrei arrivare là un certo giorno».
La sua speranza di guarire si dimostrò così ben fondata che nel giro di tre settimane erano giunti in quella città
dai tanti ricordi; e stavano passeggiando lungo i marciapiedi, sotto il riflesso del sole sulle sue mura in rovina.
PARTE SESTA
Di nuovo a Christminster
... And she humbled her body greatly, and all the places of her joy she filled with her torn hair.
Esther (Apoc.)
There are two who decline, a woman and I,
And enjoy our death in the darkness here.
R. Browning
CAPITOLO I
Al loro arrivo, la stazione era affollata di giovanotti con la paglietta venuti a prendere fanciulle dai tratti
somatici simili ai loro, vestite in abiti vivaci e leggeri.
«Sembra un posto allegro», disse Sue. «Ma certo! È il Giorno della Rimembranza! È stato furbo da parte tua,
Jude... ecco perché ci tenevi ad arrivare oggi!».
«Sì», egli rispose pacatamente mentre, raccomandando al figlio di Arabella di non allontanarsi, prendeva in
braccio il più piccolo e Sue si occupava della bambina più grande. «Ho pensato che tanto valeva venire oggi piuttosto
che un altro giorno».
«Ma ho paura che ti deprimerà!», lei disse scrutandolo con ansia.
«Oh, non dobbiamo farci distrarre dalla festa: abbiamo molte cose da fare prima di riuscire a sistemarci. E la
prima è trovare un alloggio».
Depositati i bagagli e i suoi arnesi alla stazione, proseguirono a piedi per la strada che era loro familiare, nella
stessa direzione in cui si muoveva tutta quella gente in vacanza. Giunti al Quadrivio, stavano per girare verso il
quartiere dove speravano di trovare più facilmente un alloggio quando, guardando l'ora e la folla che affrettava il passo,
Jude disse: «Perché non andiamo a vedere il corteo e lasciamo perdere l'alloggio per il momento? Lo cercheremo più
tardi».
«Non sarebbe meglio essere sicuri innanzitutto di avere un tetto dove ripararci?», obiettò Sue.
Ma Jude sembrava pensare solo all'anniversario, e tutti insieme scesero lungo il corso, Jude con in braccio il
più piccolo, Sue tenendo per mano la bambina, e il ragazzo di Arabella che camminava pensoso e in silenzio dietro di
loro. Una folla di graziose sorelle e di genitori remissivi nella loro ignoranza, che non erano mai stati in un collegio
nella loro giovinezza, era convogliata nella stessa direzione da fratelli e figli che portavano scritta a grandi lettere sui
loro volti l'opinione che nessun essere umano che si potesse veramente dire tale fosse mai vissuto al mondo finché non
erano venuti loro stessi a nobilitarlo.
«Il mio fallimento mi viene rammentato da ognuno di questi giovani», disse Jude. «Oggi mi aspetta una lezione
sulla presunzione! Per me è il Giorno dell'Umiliazione!... Se tu, mia adorata, non fossi venuta a salvarmi, a quest'ora
sarei un disperato, finito chissà dove!».
Sue si accorse dalla sua espressione che stava per entrare in uno di quei suoi violenti stati d'animo in cui non
faceva che tormentare se stesso. «Avremmo fatto meglio ad occuparci dei nostri problemi, caro», lei rispose. «Sono
sicura che questo spettacolo riaprirà in te delle antiche ferite, e ti farà solo del male!».
«Comunque siamo quasi arrivati; andiamo a dare un'occhiata», egli disse.
Voltarono a sinistra nei pressi della chiesa con il portico all'italiana, dalle cui colonne a spirale l'edera cadeva
come fosse un pesante drappeggio, e proseguirono per quel viottolo finché Jude non si trovò davanti al teatro circolare
con il suo famoso lucernaio, che gli era rimasto nella mente come un triste simbolo delle sue speranze perdute; poiché
fu da lassù che egli aveva contemplato quella città di collegi nel pomeriggio di quella sua cruciale riflessione, in cui si
era convinto alla fine della futilità del suo tentativo di entrare all'Università.
Quel giorno, nell'ampio spiazzo tra questo edificio e il collegio più vicino, era assiepata una folla in attesa. Un
corridoio era stato tenuto sgombro con due file di transenne di legno, che dal portone del collegio si estendevano fino a
quello dell'imponente edificio tra il collegio e il teatro.
«Ecco il posto... dovrebbe passare a momenti!», esclamò Jude con improvvisa eccitazione. E cercando di farsi
largo verso la prima fila riuscì a conquistarsi una posizione vicina alle transenne, sempre coccolando il piccino in
braccio, mentre Sue e gli altri gli tenevano dietro. La folla accalcata alle loro spalle parlava, scherzava, rideva, mentre
una dopo l'altra le carrozze si fermavano alla porta secondaria del collegio, per far scendere delle figure con un aspetto
solenne, quasi regale, vestite con mantelli rosso sangue. Il cielo era diventato grigio e pesante, e ogni tanto si sentiva il
rombo di tuoni in lontananza.
Padre Tempo ebbe un brivido. «Sembra proprio il Giorno del Giudizio!», sussurrò.
«Sono solo degli eruditi», disse Sue.
Mentre aspettavano, delle grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere loro sulla testa e sulle spalle, e l'attesa
divenne fastidiosa. Sue, ancora una volta, tornò a dire che era meglio andar via.
«Ormai stanno per arrivare», disse Jude, senza neppure volgere il capo.
Ma il corteo non accennava a passare, e qualcuno nella folla, per ingannare il tempo, guardando la facciata del
collegio più vicino disse che era curioso di sapere cosa significavano quelle iscrizioni in latino nel mezzo. Jude, che si
trovava accanto a lui glielo spiegò, e, notando che la gente intorno lo ascoltava con interesse, proseguì descrivendo le
decorazioni del fregio (che aveva studiato anni prima), e criticando alcuni particolari del modo in cui avevano lavorato
la pietra sulla facciata di altri collegi della città.
La folla di curiosi, compresi i due poliziotti di guardia alle porte dell'edificio, lo fissò incredula come i
Licaoniani Paolo, anche perché Jude era propenso a entusiasmarsi per qualsiasi argomento di cui avesse occasione di
parlare, e parve stupirsi che uno straniero sapesse più cose sugli edifici della loro città di loro stessi; finché uno non
disse: «Ma certo! Conosco quell'uomo: lavorava qui anni fa... Jude Fawley, ecco come si chiama! Non vi ricordate che
lo avevano soprannominato il Patrono dei Bassifondi... visto che gli piaceva bazzicare da quelle parti? Deve essersi
sposato, dunque, e quello che porta in braccio sarà suo figlio. Taylor dovrebbe conoscerlo, lui che conosce tutti».
A parlare era un uomo di nome Jack Stagg, con il quale Jude aveva lavorato in passato nel restauro delle
decorazioni di un collegio. Videro Tinker Taylor lì vicino. Sentendosi chiamare, costui gridò alla volta di Jude dalla
transenna di fronte: «Ci onori di nuovo della tua presenza, amico!».
Jude annuì.
«Non si direbbe che andando via hai combinato un granché!».
Jude annuì di nuovo. «Tranne che hai più bocche da sfamare!». A pronunciare queste parole era una voce
diversa, che Jude riconobbe per quella dello zio Joe, un altro scalpellino conosciuto in passato.
Jude rispose di buon umore che non poteva negarlo; e tra una battuta e l'altra, tra lui e quella folla di oziosi
prese forma una sorta di conversazione generale durante la quale Tinker Taylor chiese a Jude se ricordava ancora il
Credo degli Apostoli in latino, e la notte in cui lo sfidarono a recitarlo alla taverna.
«Ma non c'era la Fortuna ad aspettarti in quella direzione, eh?», osservò Joe. «Le tue forze non sono bastate per
farti riuscire?».
«Smetti di rispondere!», s'intromise Sue.
«Non mi piace Christminster!», mormorò Padre Tempo intristito, mentre stava in piedi sommerso e invisibile
in mezzo alla folla.
Ma notando di essere al centro della curiosità, delle domande e dei commenti della gente, Jude era poco incline
a schermirsi dal fare delle dichiarazioni aperte su ciò di cui non aveva alcuna ragione di vergognarsi, e poco dopo,
rivolto in generale a quella folla che lo ascoltava, si sentì spinto a dire ad alta voce:
«Amici miei, è un problema difficile per qualsiasi giovane - quello che io ho cercato di affrontare e nel quale
migliaia d'altri si dibattono in questi tempi agitati - se seguire acriticamente la strada in cui ci si trova, ignorando la
propria vocazione, o chiedersi quale sia o possa essere tale vocazione, ridefinendo il proprio cammino di conseguenza.
Io ho cercato di fare la seconda cosa, e ho fallito. Non per questo penso che il mio fallimento abbia dimostrato che la
mia idea era sbagliata, o che la mia riuscita avrebbe dimostrato che era giusta; anche se è così che valutiamo tali
tentativi al giorno d'oggi - voglio dire non per la loro plausibilità sostanziale, ma per i loro risultati contingenti. Se io
fossi finito per diventare uno di questi signori vestiti di rosso e nero che abbiamo visto scendere qua e là dalle carrozze,
oggi tutti direbbero: "Vedete quanto è stato saggio quell'uomo a seguire l'inclinazione della sua natura!". Ma poiché
sono rimasto al punto di partenza, dicono: «Vedete quanto è stato folle quell'uomo, a seguire un capriccio della sua
immaginazione!».
«Comunque è stata la povertà e non la mancanza di volontà a far sì che io fossi sconfitto. Ci vogliono due o tre
generazioni per fare ciò che io ho provato a fare in una; e i miei impulsi, affetti, o si dovrebbe forse chiamarli vizi,
erano troppo forti per non frenare un uomo senza mezzi come me; che avrebbe dovuto essere freddo come un pesce ed
egoista come un maiale per avere veramente una possibilità di divenire una personalità del suo paese. Potete prendermi
in giro - non sarò io a impedirvelo - gli spunti non mancano. Ma se sapeste cosa ho passato in questi ultimi anni,
semmai provereste pietà per me. E se lo sapessero loro», e con un cenno del capo indicò il collegio dove i professori
stavano arrivando alla spicciolata, «non è escluso che farebbero lo stesso».
«Sembra malato e stanco, questo sì!», disse una donna.
Il volto di Sue tradiva la sua commozione; ma per quanto fosse vicina a Jude, nessuno poteva vederla.
«Potrei ancora combinare qualcosa di buono prima di morire - riuscire a modo mio quale tremendo esempio di
quello che non bisogna fare; e così illustrare una storia morale», riprese Jude e nella sua voce all'inizio abbastanza
serena, ora si percepiva una crescente amarezza. «Dopo tutto, forse non sono che una misera vittima di quello spirito di
irrequietezza mentale e sociale che rende tanti infelici di questi tempi!».
«Non parlare in questo modo!», gli sussurrò Sue tra le lacrime, notando lo stato d'animo di Jude. «Tu non sei
affatto una vittima. Hai lottato nobilmente per studiare, e solo degli spiriti meschini possono biasimarti!».
Jude sistemò il piccolo in una posizione più comoda sul braccio e concluse: «E il mio aspetto, quello di un
uomo povero e malato, non è il lato peggiore di me. Non so più a che credere, brancolo nel buio, agisco d'istinto e non
seguendo l'esempio altrui. Otto o nove anni fa, quando arrivai qui la prima volta, avevo un insieme coerente di idee
precise, ma pian piano le ho perse, e più vado avanti più mi sento disorientato. Dubito che a guidare la mia vita oggi vi
sia qualcosa di più del principio di seguire delle inclinazioni che non facciano male né a me né ad altri, ed anzi
soddisfino coloro che più amo. Ecco, signori miei, visto che volevate sapere come me la passavo, ve l'ho detto. Che
possa esservi utile! Di più qui non posso spiegare. Credo ci sia qualcosa di sbagliato da qualche parte, nel nostro
sistema sociale: cosa sia, possono scoprirlo solo uomini e donne più capaci di me... se mai lo si può scoprire, almeno
nella nostra epoca. "Poiché chi sa cosa sia buono per l'uomo in questa vita? E chi può dire a un uomo cosa avverrà dopo
di lui su questa terra?"».
«Senti, senti!», disse la gente.
«Una bella predica!», disse Tinker Taylor a bassa voce a chi gli stava intorno: «Uno di quei parroci di
professione che bazzicano da queste parti per prendere servizio quando i nostri Reverendi vogliono andarsene in
vacanza, non avrebbero fatto un discorso così per meno di una ghinea in contanti! Come? Giuro che non uno di loro
l'avrebbe fatto! E comunque avrebbe dovuto scriverselo su un foglio. E costui non è che un operaio!».
A mo' di commento oggettivo delle osservazioni di Jude, a quel punto uno di quegli eruditi, in ritardo, tutto
affannato nel suo abito da cerimonia, saltò giù da una carrozza il cui cavallo non si era fermato dove avrebbe dovuto ed
entrò nel collegio. Il cocchiere, sceso a sua volta, iniziò a prendere a calci nel ventre l'animale.
«Se è lecito comportarsi così», disse Jude, «davanti all'ingresso di un collegio nella città più colta e religiosa
del mondo, che senso ha parlare di progresso?».
«Silenzio!», disse uno dei poliziotti, che si occupava insieme a un altro di aprire il portone di fronte al collegio.
«Tenete la bocca chiusa, buonuomo, mentre passa il corteo». Iniziò a piovere a dirotto, e chi aveva un ombrello lo aprì.
Jude non era tra questi mentre Sue ne aveva uno piccolo, per metà un parasole. Era diventata pallida, anche se Jude non
se n'era accorto.
«Andiamocene, caro», gli sussurrò mentre cercava di ripararlo. «Ricordati che ancora non abbiamo un alloggio
e tutte le nostre cose sono alla stazione, e tu non stai affatto bene. Ho paura che con tutta quest'acqua ti ammalerai di
nuovo».
«Eccoli, stanno arrivando. Un attimo solo e poi andremo!», egli disse.
Sei campane suonarono a stormo, la gente si affollò alle finestre che davano sulla strada, mentre il corteo dei
Rettori e dei professori di nuova nomina avanzava lentamente - le loro figure ammantate di rosso e nero attraversavano
il campo visivo di Jude come pianeti inaccessibili la lente di un binocolo.
Man mano che comparivano, i loro nomi venivano pronunciati dai ben informati tra la folla; e quando giunsero
al teatro circolare di Wren, la gente scoppiò in un applauso.
«Andiamo a vedere!», esclamò Jude, e, sebbene ormai piovesse senza sosta, egli sembrava non accorgersene e
li portò tutti fino al teatro. Lì si fermarono sulla paglia con cui avevano cosparso la strada per attutire il rumore
assordante delle carrozze, dove gli insoliti busti di pietra corrosi dal freddo che circondavano l'edificio osservavano
pallidi e accigliati quanto stava accadendo, e in particolare Jude, che era tutto fradicio, Sue e i loro bambini, quasi
fossero persone ridicole che non avevano nulla a che fare in quel posto.
«Magari potessi entrare!», egli le disse con fervore. «Ascolta... forse riesco ad afferrare qualche parola del
discorso in latino stando qui: le finestre sono aperte».
Tuttavia, tra il frastuono dell'organo e le grida e gli evviva che accompagnavano i vari discorsi, restando sotto
la pioggia, Jude non riuscì a cogliere di quel che si diceva più di una occasionale parola in latino con la desinenza in um
o ibus.
«Inutile... sarò un emarginato fino alla fine dei miei giorni!», egli sospirò dopo un poco. «Ora possiamo andare,
Sue. Sei stata così buona e paziente ad aspettare nella pioggia tutto questo tempo, solo per gratificare la mia
infatuazione! Non mi interesserà mai più niente di questo posto maledetto, te lo giuro! Ma perché tremavi così tanto
quando stavamo alle transenne? E come sei pallida, Sue!».
«Ho visto Richard tra la gente dall'altra parte».
«Ah... che coincidenza!».
«Evidentemente è venuto a Gerusalemme a vedere la festa come tutti noi: e a giudicare da ciò, non dovrebbe
vivere molto lontano. Aveva anche lui come te la fissazione dell'Università, anche se era più attenuata. Non credo mi
abbia vista, anche se deve aver visto te parlare alla folla. Ma sembrava non farci caso».
«E anche se c'avesse visto? Nulla dovrebbe più preoccuparti al riguardo, no?».
«Sì, hai ragione. Ma sono debole. Anche se so che non c'è nulla da biasimare nel nostro comportamento, ho
provato una strana paura di lui: una soggezione, o un terrore, delle convenzioni in cui non credo. A volte mi prende
come una sorta di paralisi strisciante, e mi rende così triste!».
«Sei stanca, Sue. Oh... mi ero dimenticato, cara! Sì, andiamocene all'istante».
Si avviarono alla ricerca di un alloggio, e finalmente trovarono qualcosa che sembrava fare al caso loro in
Mildew Lane - un angolo della città di una bellezza irresistibile per Jude, anche se Sue non lo trovava tanto affascinante
- un vicolo stretto proprio alle spalle di un collegio, che sul vicolo non aveva porte d'accesso. Le casette erano oscurate,
fino ad apparire tetre, dagli alti edifici del collegio, all'interno del quale la vita era così distante da quella della gente del
vicolo che sembrava quasi aver luogo agli antipodi della terra; eppure, a dividere quelle due realtà era solo lo spessore
di un muro. Un paio di quelle case avevano ancora delle camere da affittare, e i nuovi venuti bussarono alla porta della
prima, che venne aperta da una donna.
«Ah, ascolti!», disse Jude improvvisamente, invece di presentarsi alla padrona di casa.
«Cosa?».
«Ma come, le campane... che chiesa sarà? Il timbro è familiare».
Un altro scampanio si sentì a una certa distanza.
«Non saprei», disse la padrona di casa stizzita. «Ha bussato per chiedermi questo?».
«No, per le stanze», disse Jude, tornando in sé.
La donna scrutò la figura di Sue per un momento. «Non ne abbiamo di disponibili», disse allora, chiudendo la
porta.
Jude si sentì umiliato, e Padre Tempo fu preso dall'angoscia.
«Lascia che provi io, adesso», disse Sue. «Tu non sei capace».
Trovarono un secondo posto lì vicino; ma la padrona, vedendo non solo Sue, ma anche il ragazzo e i due
piccoli, disse in tono garbato: «Mi dispiace, ma non affittiamo quando ci sono bambini», e a sua volta chiuse la porta.
Il più piccolo spalancò la bocca e iniziò a piangere in silenzio, intuendo che le cose si stavano complicando.
Padre Tempo sospirò. «Non mi piace Christminster!», disse. «Quelle grandi case sono tutte prigioni?».
«No, collegi», disse Jude, «dove forse tu studierai un giorno».
«Speriamo di no!», ribatté il ragazzo.
«Ora ci proveremo di nuovo», disse Sue. «Mi coprirò meglio con il mantello... Lasciare Kennetbridge per
questo posto è come andare da Caifa a Pilato!... Che aspetto ho adesso, caro?».
«Nessuno se ne accorgerebbe, ora», rispose Jude.
C'era ancora un'altra casa, e provarono anche quella. La donna che venne ad aprire era più simpatica delle
precedenti; ma aveva poco spazio disponibile e avrebbe preso Sue e i bambini solo se Jude fosse andato a stare altrove.
Dovettero accettare tale sistemazione, avendo rinviato la ricerca di un alloggio fino a quell'ora. Si accordarono sul
prezzo, anche se la cifra che lei chiedeva era abbastanza onerosa per le loro tasche. Ma non potevano permettersi di fare
obiezioni fino a che Jude non avesse avuto tempo di trovare una sistemazione meno provvisoria; e in questa casa
presero possesso di una stanza al secondo piano sul retro della casa, con annessa un'altra stanza per i bambini. Jude
rimase per una tazza di tè; e fu contento di scoprire che dalla loro finestra si vedeva il retro di un altro collegio. Dopo
aver baciato tutti e quattro, prese le poche cose necessarie e andò a cercare un posto per dormire.
Dopo che fu uscito, la padrona di casa salì di sopra a parlare un poco con Sue, e a raccogliere qualche notizia
sulla famiglia che aveva appena accettato di ospitare. Sue non era brava a eludere le domande che le venivano rivolte, e
dopo aver fatto qualche ammissione circa le difficoltà e gli spostamenti dell'ultimo periodo della loro vita, ebbe un
sussulto quando la padrona di casa le chiese all'improvviso:
«Ma è veramente sposata?».
Sue esitò; e poi senza riflettere disse alla donna che sia lei che suo marito erano stati sfortunati nel loro primo
matrimonio, e che dopo tali esperienze erano terrorizzati all'idea di una seconda unione irrevocabile, per paura che le
condizioni del contratto uccidessero il loro amore; e, pur desiderando vivere insieme, non avevano trovato il coraggio di
ripetere quella cerimonia, anche se ci avevano provato due o tre volte. Di conseguenza, se nel senso che lei dava alla
parola era una donna sposata, nel senso che intendeva la padrona di casa non lo era.
Quest'ultima parve imbarazzata, e scese di sotto. Sue sedette alla finestra come incantata, a guardare la pioggia.
La sua quiete fu interrotta dal rumore di qualcuno che rientrava in casa, poi dalle voci di un uomo e una donna che
chiacchieravano nel corridoio di sotto. Era arrivato il marito della padrona di casa, e lei gli stava raccontando l'arrivo
dei nuovi inquilini durante la sua assenza.
All'improvviso, il marito si arrabbiò e si mise a urlare. «Chi vuole una donna del genere, qui? Che magari
partorisce... E non ti avevo detto che non volevo bambini? Abbiamo appena ridipinto le scale e l'ingresso perché loro
camminino da tutte le parti! Avresti dovuto pensare che c'era qualcosa di strano, visto che arrivavano in questo modo.
Prendere un'intera famiglia quando avevo detto che volevo solo una persona!».
La moglie cercò di giustificarsi, ma, a quanto pareva, il marito era irremovibile nella sua opinione, poiché poco
dopo si sentì bussare alla porta di Sue, e la donna entrò.
«Mi dispiace doverle dire, signora», le annunciò quella, «che non posso affittarle la stanza come promesso.
Mio marito è contrario e devo perciò chiedervi di andarvene. Non importa se restate per questa notte, dal momento che
si sta facendo tardi, ma le sarei molto grata se potesse lasciare libera la stanza domattina sul presto».
Pur sapendo che era suo diritto rimanere per tutta la settimana, Sue non voleva creare un conflitto tra moglie e
marito, e disse che se ne sarebbe andata come richiestole. Dopo che la padrona di casa uscì, Sue guardò di nuovo fuori
dalla finestra. Notando che aveva smesso di piovere, propose a Padre Tempo di uscire a cercare un altro alloggio, una
volta messi i piccoli a letto, così da fissarlo per il giorno dopo ed evitare un'altra giornata faticosa come quella che stava
volgendo al termine.
Quindi, invece di disfare le valigie che Jude le aveva appena mandato dalla stazione, si avventurarono nelle
strade umide anche se piacevoli da percorrere; infatti Sue aveva deciso di non disturbare il marito con la notizia che
dovevano andarsene da quell'alloggio, quando forse egli non era ancora riuscito a trovare un posto per sé dove passare
la notte. In compagnia del ragazzo, vagò da una strada all'altra; ma, pur provando in una dozzina di case, ottenne da sola
un risultato peggiore di quello che avrebbe ottenuto insieme a Jude, e non riuscì a strappare a nessuno la promessa di
affittarle una stanza il giorno successivo. Tutti gli affittacamere guardavano con sospetto quella donna in compagnia del
bambino che a quell'ora della notte cercava una sistemazione.
«Sarebbe stato meglio se non fossi nato, vero?», disse il ragazzo sfiduciato.
Esausta, alla fine Sue tornò nella casa dove non era ben accetta, ma dove perlomeno aveva un rifugio
temporaneo. Durante la sua assenza, Jude aveva lasciato il proprio indirizzo; ma ben sapendo quanto ancora egli fosse
debole, si attenne alla decisione di non disturbarlo fino al giorno seguente.
CAPITOLO II
Seduta nella sua stanza, Sue rimase a fissare il nudo pavimento (la casa era una vecchia e disadorna villetta a
schiera); poi si mise a guardare fuori dalla finestra, che non aveva tendine. A una certa distanza, dal lato opposto della
strada, le mura del Collegio Sarcophagus - silenziose, scure e senza finestre - riflettevano i loro quattro secoli di
malinconia, fanatismo e decadenza nella stanzetta da lei occupata, impedendo alla luce della luna, di notte, e a quella
del sole, di giorno, di entrare. Anche i contorni del Collegio Rubric si potevano scorgere alle spalle di quel muro, e la
torre di un terzo collegio ancora più lontano. Si mise a riflettere sullo strano modo di agire della passione predominante
in un uomo semplice, che portava Jude, il quale pure amava lei e i bambini con tanta tenerezza, a farli alloggiare lì, in
quel luogo deprimente, perché era ancora ossessionato dal suo sogno. Neppure adesso egli udiva distintamente il
glaciale rifiuto al suo desiderio che echeggiava da quelle mura così colte.
La ricerca infruttuosa di un altro alloggio e la mancanza di un posto per il padre in quella casa, avevano
lasciato un'impressione profonda sul ragazzo, che sembrava preda di un terrore meditabondo e inespresso. Ad un certo
punto, ruppe il silenzio che regnava nella stanza chiedendo: «Mamma, cosa faremo domani?».
«Non lo so!», disse Sue scoraggiata. «Temo che questa situazione impensierirà tuo padre».
«Vorrei che papà stesse bene, e che ci fosse posto per lui, qui! Allora, tutto andrebbe meglio! Povero papà!».
«Hai ragione!».
«Posso fare qualcosa?».
«No! La vita non è che dolore, avversità, sofferenza!».
«Papà è andato via per lasciare il posto a noi bambini, vero?».
«In parte».
«Sarebbe meglio non essere a questo mondo che esserci, no?».
«Quasi, caro».
«Ed è per colpa di noi bambini che non riesci a trovare un'altra casa?».
«Vedi, a volte la gente non vuole i bambini».
«Ma se i bambini danno tanti fastidi, perché la gente continua ad averli?».
«Oh... è una legge di natura».
«Ma non siamo noi a chiedere di nascere?».
«No, certo».
«E quel che è peggio per me è il fatto che tu non sei la mia vera mamma, e nessuno ti obbligherebbe a tenermi
se non volessi. Non sarei dovuto venire da te... ecco la verità! Davo fastidio in Australia e do fastidio qui. Vorrei non
essere nato!».
«Non dipende da te, caro».
«Io penso che quando nascono dei bambini che nessuno vuole, li si dovrebbe uccidere subito, prima che
abbiano un'anima, e non lasciare che crescano e vadano in giro per il mondo!».
Sue non rispose. Si chiedeva, piena di dubbi, come comportarsi con questo bambino troppo riflessivo.
Alla fine concluse che, circostanze permettendo, sarebbe stata onesta e sincera con qualcuno che entrava nella
sua vita da adulto.
«Presto ci sarà anche qualcun altro nella nostra famiglia», disse con una certa esitazione.
«Che vuoi dire?».
«Un altro bambino».
«Cosa!», Il ragazzo balzò in piedi furioso. «Oh Dio, mamma, non avresti dovuto chiederne un altro; hai già
abbastanza problemi con quelli che hai!».
«Sì, l'ho chiesto, mi dispiace!», mormorò Sue con gli occhi che le luccicavano per le lacrime trattenute a
stento.
Il ragazzo scoppiò a piangere. «Oh non t'importa niente! Proprio niente!», esclamò, rimproverandola con
amarezza. «Come hai potuto, mamma, essere così cattiva e crudele, quando non avresti dovuto farlo fino a che non ci
fossimo sistemati un poco, e papà non fosse stato meglio!... Creare a noi tutti un altro problema! Per noi non c'è posto e
papà è dovuto andar via, e a noi ci cacciano domani; eppure tu ne avrai un altro presto!... L'hai fatto apposta! Apposta!».
E intanto camminava piangendo su e giù per la stanza.
«Perdonami, piccolo Jude, perdonami!», lei l'implorò, mentre il respiro le si faceva affannoso come quello del
ragazzo. «Non posso spiegarti... lo farò quando sarai più grande. Sembra come se... come se l'abbia fatto apposta, ora
che siamo in mezzo a tante difficoltà! Oh, non posso spiegarti, caro! Ma... non l'ho fatto apposta... non c'entro nulla,
io!».
«Sì che c'entri... per forza! Nessuno interferirebbe così nella nostra vita se tu non fossi d'accordo! Non potrò
perdonarti mai, mai! Non crederò mai più che tu vuoi bene a me, o a papà, o a chiunque di noi!».
Si alzò, e se ne andò nello stanzino adiacente alla camera della madre, nel quale avevano steso un materasso
per terra. Lì, lo sentì dire: «Se noi bambini fossimo morti, non ci sarebbero più problemi».
«Basta pensare a queste cose, caro!», lei esclamò, quasi in tono autoritario. «Va' a dormire, ora!».
La mattina dopo si svegliò poco dopo le sei, e decise di alzarsi subito e di correre prima di colazione alla
locanda dove Jude l'aveva informata che avrebbe alloggiato, per raccontargli l'accaduto prima che uscisse. Si alzò senza
far rumore per non svegliare i bambini che immaginava stanchi per le fatiche del giorno prima.
Trovò Jude a fare colazione nell'oscura taverna che aveva scelto per controbilanciare il costo dell'alloggio per
la famiglia; e gli spiegò che erano senza casa. Egli era stato tanto in ansia per lei tutta la notte, disse. In qualche modo,
forse perché la giornata era appena agli inizi, la richiesta di lasciare le stanze prese in affitto non sembrava più un
incidente tanto disastroso come era parso la sera prima, né l'insuccesso nella ricerca di un altro posto aveva su di lei
l'influsso profondo che aveva avuto in un primo momento. Jude convenne che non valeva la pena insistere sul loro
diritto di restare tutta la settimana, e che era meglio darsi subito da fare per andare altrove.
«Dovreste venire tutti in questa locanda per qualche giorno», le propose. «È un postaccio, e non sarà tanto
accogliente per i bambini, ma avremo più tempo per guardarci intorno. Gli alloggi non mancano in periferia... nel mio
vecchio quartiere di Beersheba. Facciamo colazione insieme, uccellino mio, ora che sei qui. Sei sicura che ti senti bene?
Non mancherà il tempo per tornare e preparare la colazione ai bambini prima che si sveglino. Anzi, verrò con te».
Fecero una rapida colazione, e dopo un quarto d'ora uscirono insieme, avendo deciso di andarsene dall'alloggio
troppo rispettabile di Sue il prima possibile. Giunti a casa, salirono di sopra. Sembrava che tutto fosse tranquillo nella
stanza dei bambini; allora chiamarono la padrona di casa e le chiesero timidamente di portar loro di sopra la teiera e
qualcosa da mangiare per la colazione. La richiesta venne subito esaudita, e dopo aver preso un paio d'uova che si era
portata con sé, Sue le mise nel bollitore, pregando Jude di farle bollire per i bambini mentre lei sarebbe andata a
svegliarli, poiché erano quasi le otto e mezza.
Jude era chino sul bollitore con l'orologio in mano a contare i minuti, e volgeva quindi le spalle alla stanzetta
dove i bambini dormivano. Un grido di Sue lo fece girare di colpo. Vide che la porta della camera, o meglio della
stanzetta - che era parsa aprirsi a fatica quando lei l'aveva spinta - era aperta, e che Sue era svenuta sul pavimento lì
accanto. Precipitandosi nello stanzino per rialzarla, volse lo sguardo al materasso disteso sul pavimento: i bambini non
c'erano più. Si guardò intorno in preda al panico. Dietro alla porta erano fissati due ganci per appendere gli abiti, e su di
essi erano sospesi con una corda da pacchi intorno al collo i corpi dei due più piccoli, mentre il corpo del giovane Jude
era appeso in maniera simile a un chiodo poco più in là. Vicino a lui c'era una sedia rovesciata, e i suoi occhi vitrei
fissavano spalancati la stanza; ma quelli della ragazzina e del bambino più piccolo erano chiusi.
Mezzo paralizzato dallo strano e inimmaginabile orrore della scena, lasciò Sue per terra, tagliò le corde con il
temperino; ma dal contatto con i loro corpi nei pochi attimi in cui li tenne in braccio si rese subito conto che erano
morti. Rialzò Sue, ancora svenuta, e la distese sul letto nell'altra stanza, dopo di che chiamò affannato la padrona di casa
e corse a cercare un dottore.
Al suo ritorno, Sue era rinvenuta; disperate, le due donne erano chine sui bambini nel tentativo impossibile di
richiamarli in vita, e alla vista di quei tre corpicini anche Jude si abbandonò al proprio dolore. Il dottore più vicino
venne ma, come Jude aveva immaginato, la sua presenza era superflua. Per i bambini non c'era più nulla da fare, e
sebbene i loro corpi non fossero ancora freddi, fu stimato che fossero rimasti impiccati per oltre un'ora. Quando furono
in condizione di ragionare sull'accaduto, i genitori immaginarono che il ragazzo più grande, svegliatosi, era andato a
cercare Sue nell'altra stanza, e, non trovandola, era stato ripreso in modo ancor più violento da quel senso di sconforto
che gli avvenimenti e le notizie della sera prima avevano provocato nel suo temperamento ipersensibile. A conferma di
questa tesi, fu trovato un foglio per terra in cui, con la matita che portava sempre con sé, egli aveva scritto di suo pugno:
L'ho fatto perché siamo in troppi.
Alla vista del biglietto, i nervi di Sue cedettero, e l'orribile convinzione che il suo discorso al ragazzo fosse
stata la causa prima della tragedia la gettò in una convulsa agonia che non accennava a placarsi. La portarono contro la
sua volontà in una stanza al piano terra, e lì rimase distesa, la figura minuta scossa dai singhiozzi, e gli occhi che
fissavano il soffitto, mentre la padrona di casa cercava invano di calmarla.
Da questa stanza potevano udire la gente che si muoveva di sopra. Sue implorò che la lasciassero salire, e fu
dissuasa solo quando le dissero che, se ci fosse stata una qualsiasi speranza, la sua presenza avrebbe potuto essere
dannosa, e le ricordarono che doveva aver cura di se stessa, per non mettere a repentaglio la vita del bambino che stava
per nascere. Ma non la smetteva di fare domande, e alla fine Jude scese giù a dirle che non c'era speranza di salvarli.
Non appena riuscì a parlare, Sue gli confessò ciò che aveva detto al ragazzo, e che si sentiva la responsabile di tutto ciò.
«No», disse Jude. «Era nella sua natura agire così. Il dottore dice che si iniziano a vedere dei ragazzi come lui ragazzi che nella nostra generazione non esistevano - prodotto di una nuova concezione della vita. Sembra che sentano
l'orrore dell'esistenza prima di essere abbastanza grandi per potervisi opporre. Secondo lui, è l'inizio di un incombente
desiderio universale di non vivere. È un uomo per nulla conformista, il dottore; ma non può offrire alcuna
consolazione...».
Jude si era trattenuto dal manifestare il proprio dolore dato lo stato di Sue; ma ora scoppiò a piangere, e ciò
stimolò Sue a compiere degli sforzi per consolarlo che in qualche modo ebbero l'effetto di distrarla dal proprio acuto
rimorso. Quando tutti se ne furono andati, le fu permesso di vedere i bambini.
Il volto del ragazzo riassumeva la storia della loro situazione. Su quel piccolo volto si potevano leggere le
avversità e le ombre che avevano offuscato la prima unione di Jude, e tutti gli incidenti, gli errori, le paure e gli sbagli
della seconda. Egli era il loro punto nodale, il centro focale, ciò che li esprimeva in un'unico termine. Per l'avventatezza
dei suoi genitori aveva sofferto, per la loro incompatibilità si era perso d'animo, per le loro disgrazie era morto.
Tornato il silenzio, mentre loro erano in attesa dell'arrivo della polizia, nella stanza penetrò un suono
sommesso, ampio, e dalla tonalità bassa proveniente da dietro le mura massicce del collegio di fronte alla casa.
«Cos'è?», disse Sue, smettendo di respirare in modo affannoso.
«L'organo della chiesa del Collegio. Sarà forse l'organista che si esercita. È l'antifona dal settantatreesimo
salmo: "Certo Iddio è buono con Israele"».
Sue iniziò di nuovo a piangere. «Oh, i miei bambini! Non avevano fatto male a nessuno! Perché ad essere
portati via sono stati loro e non io!».
Ci fu un nuovo silenzio - rotto a un certo punto da due persone che chiacchieravano giù in strada.
«Stanno parlando senz'altro di noi!», si lamentò Sue. «"Siamo divenuti uno spettacolo per il mondo, per gli
angeli e per gli uomini!"».
Jude cercò di sentire cosa dicevano. «No, non stanno parlando di noi», disse. «Sono due prelati di diverso
credo che discutono sulla posizione orientata ad est del celebrante. Mio Dio... che si discuta di ciò mentre tutto il creato
soffre!».
Poi ancora un altro silenzio, fin quando Sue non fu preda di un altro, incontrollabile, attacco di dolore. «C'è
qualcosa fuori di noi che ci dice sempre di no. Dapprima aveva detto "Non studierai!"; poi "Non lavorerai!". Ed ora dice
«Non amerai!"».
Jude cercò di consolarla dicendo: «Che amarezza sentirti parlare così, cara».
«Ma è vero!».
Continuarono ad attendere, e lei tornò di nuovo nella stanza di sopra. Il vestitino, le scarpe e i calzini del più
piccolo, che si trovavano su una sedia al momento della morte non voleva che fossero portati via, laddove Jude avrebbe
desiderato allontanarli dalla vista di lei. Ma ogni volta che Sue li toccava, implorava Jude che li lasciasse dove erano, e
scoppiava a piangere quasi subito in modo incontrollato non appena la padrona di casa cercava di metterli via.
I suoi silenzi apatici facevano paura a Jude quasi quanto le sue crisi di parossismo. «Perché non mi parli,
Jude?», esclamò, dopo una di esse. «Non lasciarmi sola! Non posso sopportare la solitudine di non essere guardata da
te!».
«Ma sono qui, cara, qui», egli disse, accostando il proprio volto al suo.
«Sì... Oh mio compagno, la nostra perfetta unione, il nostro essere due in uno, è ora macchiata di sangue!».
«Rattristata dalla morte - solo questo».
«Ah, sono stata io in realtà ad incitarlo, pur senza rendermene conto! Ho parlato al ragazzo come si dovrebbe
parlare a un adulto. Gli ho detto che il mondo era contro di noi, che era meglio morire che vivere a questo prezzo; e mi
ha preso alla lettera. E gli ho detto che avrei avuto un altro bambino. Lo ha sconvolto. Non puoi immaginare con quanta
amarezza mi ha sgridata!».
«E perché gli hai detto queste cose, Sue?».
«Non saprei. Volevo essere sincera. Non potevo sopportare di ingannarlo sulla realtà della vita. Allo stesso
tempo non ero sincera, poiché con falsa delicatezza gli parlai in modo troppo oscuro. Perché sono stata solo per metà
più saggia delle altre donne? Perché non del tutto? Perché non gli ho raccontato delle piacevoli bugie, invece che delle
mezze verità? Colpa della mia mancanza di autocontrollo, per cui non sono riuscita né a nascondere le cose, né a
rivelarle!»
«La tua idea avrebbe potuto essere buona nella maggior parte dei casi; solo nel nostro aveva forse delle
probabilità di andare male. Prima o poi lo avrebbe saputo».
«E stavo per l'appunto facendo un nuovo vestitino al più piccolo; ed ora non glielo vedrò mai indossare, e non
gli parlerò mai più!... Ho gli occhi così gonfi che riesco a malapena a vedere qualcosa; eppure, sarà stato poco più di un
anno fa quando mi consideravo felice! Ci siamo amati troppo l'un l'altro... dedicandoci l'uno all'altro con totale
egoismo! Dicevamo - ricordi? - che avremmo fatto virtù della gioia. Io dicevo che era nelle intenzioni della Natura,
nella legge e nella raison d'être della Natura che fossimo felici per gli istinti che ci aveva dato - istinti che la civiltà ha
cercato in ogni modo di contrastare. Che cose orribili ho detto! Ed ora il Fato ci ha dato questa pugnalata nella schiena
per essere stati così folli da credere alla Natura sulla parola!».
Piombò in una silenziosa contemplazione, finché disse: «Forse è meglio che se ne siano andati. Sì. Lo capisco!
Meglio essere colti ancora freschi che rimanere ad appassire miseramente!».
«Sì», replicò Jude. «Alcuni dicono che gli adulti dovrebbero rallegrarsi quando i loro bambini muoiono da
piccoli».
«Ma che ne sanno loro!... Oh, bambini miei, bambini miei, se solo poteste vivere ancora! Sì, il ragazzo forse
voleva morire, altrimenti non l'avrebbe fatto. Non era irragionevole morire, per lui: era parte della sua natura
incurabilmente triste, povero bambino! Ma gli altri... i miei bambini, miei e tuoi!
Sue gettò un'altra occhiata al vestitino appeso al muro insieme ai calzini e alle scarpe; e si mise a tremare come
una foglia. "Sono una creatura da compatire", disse, «non più buona né per la terra né per il Cielo! Le cose mi fanno
uscire di senno! Cosa dovremmo fare?». Fissò Jude, e gli strinse forte la mano.
«Non c'è nulla da fare», egli rispose. «Le cose sono quelle che sono, e giungeranno alla loro conclusione
predestinata».
Per qualche attimo, lei non disse nulla. Poi con voce stanca gli chiese: «Sì! Chi l'ha detto?».
«Sta nel coro dell'Agamennone. Ci penso continuamente da quando tutto ciò è accaduto».
«Mio povero Jude... hai perso proprio tutto!... Tu più di me, che almeno ho te! Pensare che tu sai anche questo
dopo aver studiato senza nessun aiuto, eppure sei nella povertà e nella disperazione più nera!»
Dopo tali digressioni momentanee, il suo dolore tornava a farsi sentire come un'onda irresistibile.
Venne il giudice incaricato dell'inchiesta, che esaminò i corpi; poi giunse la mattina malinconica del funerale.
Le notizie pubblicate dai giornali attirarono sul luogo alcuni curiosi, che rimasero in attesa apparentemente contando i
vetri delle finestre e le pietre sui muri. Dei dubbi sui reali rapporti della coppia aggiunsero interesse alla loro curiosità.
Sue aveva espresso il desiderio di accompagnare i due più piccoli al cimitero, ma all'ultimo momento aveva rinunciato,
e le bare furono portate in silenzio fuori dalla casa mentre lei si era coricata. Jude era salito sul carro funebre, ed esso si
allontanò con grande sollievo dell'affittacamere, cui restavano solo Sue e i suoi bagagli, di cui sperava di disfarsi nel
corso di quello stesso giorno in modo da liberare la propria casa dall'esasperante notorietà che aveva acquisito in quella
settimana, per l'infelice decisione della moglie di far entrare quegli estranei. Nel pomeriggio si consultò a tu per tu con
il proprietario, ed entrambi decisero che se fosse sorto un qualsivoglia inconveniente a causa della tragedia che aveva
avuto luogo lì, avrebbero provato a chiedere un nuovo numero civico.
Quando Jude ebbe assistito alla sepoltura delle due piccole bare - una contenente il piccolo Jude, l'altra i due
bambini - tornò di corsa da Sue, e vedendo che ancora dormiva nella sua stanza decise di non disturbarla per il
momento. Poiché tuttavia, si sentiva in ansia, tornò di nuovo verso le quattro. La padrona di casa credeva che stesse
ancora riposando, ma salita a vedere, si precipitò giù a dirgli che in effetti non era più nella sua stanza. Mancavano
anche il cappello e la giacca, e dunque doveva essere uscita. Jude si precipitò alla locanda dove alloggiava: ma non
l'avevano vista. Poi, riflettendo sulle diverse possibilità, prese la strada per il cimitero, in cui entrò dirigendosi dove
poco prima aveva avuto luogo la sepoltura. I curiosi che avevano seguito il carro funebre attratti dalla tragedia se
n'erano andati tutti. Un uomo con una pala cercava di riempire la fossa dove i tre bambini erano sepolti insieme, ma era
trattenuto per un braccio da una donna che lo supplicava, in piedi dentro la fossa riempita a metà. Era Sue, il cui vestito
dai vivaci colori, che non aveva mai pensato di cambiare con quello a lutto da lui compratole, suggeriva visivamente un
dolore più profondo di quello che il tradizionale abito nero avrebbe potuto esprimere.
«Li sta seppellendo, ma glielo impedirò finché non avrò visto i miei piccoli un'ultima volta!», lei gridò fuori di
sé quando vide Jude. «Voglio vederli un'ultima volta. Oh Jude, per piacere Jude, li voglio vedere! Non sapevo che
avresti permesso che li portassero via mentre dormivo! Avevi detto che forse li avrei visti ancora una volta prima che
chiudessero la bara; e invece li hai fatti portare via! Oh Jude, anche tu sei crudele con me!».
«Vuole che scavi di nuovo la fossa, e le faccia vedere le bare», disse l'uomo con la pala. «Andrebbe portata a
casa, a giudicare dal suo stato. È fuori di sé, povera donna. Non posso tirarli fuori ora, signora. Tornate a casa con
vostro marito e cercate di calmarvi, e ringraziate il Cielo che presto ce ne sarà un altro a consolarvi nel vostro dolore».
Ma Sue insisteva implorante: «Non posso vederli un'ultima volta, solo una? Non posso? Solo per un minuto,
Jude? Non ci vorrà molto! Mi renderebbe così contenta! Sarò sempre buona, e non ti disobbedirò mai più, Jude, se me
lo permetti! Dopo tornerò a casa tranquillamente, e non vorrò vederli mai più! Non posso? Perché non posso?».
Non si dava pace. Jude era in preda a un dolore così acuto, che era quasi tentato di convincere l'uomo ad
acconsentire. Ma non sarebbe servito a nulla, e avrebbe potuto peggiorare la situazione; ed egli si rendeva conto che era
essenziale riportarla subito a casa. Allora, per cercare di convincerla le parlò sottovoce, dolcemente, cingendole la vita
con un braccio per sostenerla; finché, esausta, lei s'arrese e si lasciò persuadere ad andar via dal cimitero.
Per tornare a casa Jude avrebbe voluto prendere un calesse, ma dovendo risparmiare ad ogni costo lei si oppose
e tornarono a piedi, camminando lentamente, Jude vestito a lutto, Sue con l'abito rosso e marrone. Si sarebbero dovuti
trasferire in un nuovo alloggio quel pomeriggio, ma Jude capì che non era possibile, e a tempo debito rientrarono nella
casa che ora tanto odiavano. Sue fu messa a letto all'istante e venne chiamato un dottore.
Jude attese tutta la sera di sotto. A un'ora molto tarda della notte qualcuno gli venne a riferire che un bambino
era nato prematuro e che lui pure, come gli altri, era morto.
CAPITOLO III
Sue si stava lentamente rimettendo, per quanto avesse sperato di morire, e Jude aveva trovato di nuovo lavoro
nella sua occupazione di un tempo. Abitavano in un'altra casa, ora, dalle parti di Beersheba, non lontano dalla chiesa di
San Sila, altrimenti detta Chiesa delle Cerimonie.
Spesso sedevano in silenzio, presentendo l'antagonismo diretto delle cose più che il loro insensato e stolido
ostruzionismo. Nei giorni in cui il suo intelletto scintillava come una stella, Sue era stata ossessionata da immagini
vaghe e stravaganti come quella che il mondo assomigliava a una strofa o a una melodia composta in sogno, che se
poteva essere considerata straordinaria da uno spirito ancora mezzo addormentato, appariva drammaticamente assurda
al suo pieno risveglio; o quella che la Causa Prima agiva automaticamente come un sonnambulo, e non in modo
riflessivo come un saggio; o ancora quella secondo cui al tempo della formazione delle condizioni terrestri non sembra
sia stato contemplato uno sviluppo di percettività emotiva tra le creature soggette a tali condizioni quale è stata poi
conseguita dall'umanità pensante e istruita. Ma il dolore fa apparire antropomorfiche le forze in opposizione; e al posto
di quelle idee vi era adesso la sensazione che lei e Jude stessero fuggendo da un persecutore.
«Dobbiamo rassegnarci!», Sue disse sconsolata. «Tutta l'antica ira della Potenza che ci sovrasta si è riversata
su di noi, sue povere creature, e dobbiamo sottometterci. Non c'è alternativa. Dobbiamo. È inutile combattere contro
Dio!».
«È solo contro l'uomo e le sue insensate circostanze», disse Jude.
«Hai ragione!», lei mormorò. «Ma che mi passa per la testa! Sto diventando superstiziosa come una
selvaggia!... Ma quale che sia il nostro nemico, il timore che suscita in me mi porta a sottomettermi. Dentro di me, non
ho più la forza di combattere, né l'iniziativa. Sono sconfitta... sconfitta!... "Siamo divenuti uno spettacolo nel mondo,
per gli angeli come per gli uomini!". Me lo ripeto sempre, ora».
«Anch'io sento questo».
«Che faremo? Tu lavori, adesso; ma ricorda, potrebbe essere solo perché la nostra storia e i nostri rapporti non
sono del tutto noti... Forse, se sapessero che il nostro matrimonio non è stato formalizzato, ti caccerebbero dal lavoro
come già a Aldbrickham!».
«Chi può dirlo? Forse invece non lo farebbero. Comunque credo che dovremmo legalizzarlo a questo punto...
non appena tu sarai in grado di uscire».
«Pensi che dovremmo?».
«Certamente».
E Jude si mise a riflettere. «Ultimamente», disse, «mi è parso di appartenere a quella vasta genia di uomini con
i quali la gente per bene non vuole avere nulla a che fare - coloro che chiamano seduttori. Lo trovo sorprendente quando
ci penso! Non me ne ero mai reso conto, né mi ero reso conto di aver agito in modo errato verso di te, che amo più di
me stesso. Pure, sono uno di quegli uomini! Mi chiedo se nessun altro di loro sia altrettanto cieco e ingenuo quanto lo
sono io!... Sì, Sue, è questo che sono - un seduttore. Ti ho sedotto... Tu eri un tipo distinto - una creatura raffinata,
destinata dalla Natura a rimanere intatta. Ma io non ho potuto lasciarti in pace!».
«No, no, Jude!», lei lo interruppe. «Non accusare te stesso di essere quel che non sei. Se qualcuno è colpevole,
sono io».
«Io ti ho incoraggiata a decidere di lasciare Phillotson; e senza di me, forse non lo avresti implorato di
permettertelo».
«Lo avrei fatto lo stesso. Quanto a noi, il non aver sottoscritto un contratto legale è ciò che ha preservato la
nostra unione. Abbiamo così evitato di profanare la solennità dei nostri primi matrimoni».
«Solennità?». Jude la guardò con un certo stupore, e per la prima volta sentì che Sue non era più quella di un
tempo.
«Sì», lei disse con un leggero tremolio della voce, «ho provato delle paure orribili, un'orribile sensazione di
fronte all'insolenza delle mie azioni. Ho pensato... che sono ancora sua moglie!».
«Sua di chi?».
«Di Richard».
«Santo Cielo, cara! Che ti salta in mente?».
«Oh, non riesco a spiegartelo! So solo che mi viene da pensarlo».
«È la tua debolezza... una fantasia malata priva di ragione o significato! Smetti di torturarti!».
Sue sospirò imbarazzata.
Quasi per compensare delle discussioni come questa, nella loro posizione economica vi era stato un
miglioramento, che in altri tempi li avrebbe resi felici. Jude aveva inaspettatamente trovato un buon lavoro come
scalpellino poco dopo il suo arrivo, grazie anche al clima estivo che si confaceva alla sua fragile costituzione; e viste dal
di fuori, le sue giornate trascorrevano con quella uniformità monotona che è così gradita dopo tante vicissitudini. La
gente sembrava essersi scordata che aveva mai dato mostra di strane aberrazioni; ed egli saliva quotidianamente su
parapetti e cornicioni di collegi cui non avrebbe mai potuto accedere, e sostituiva le pietre sgretolate di finestre a bifora
da cui non si sarebbe mai affacciato, come se non avesse mai desiderato fare altrimenti.
Ci fu questo cambiamento in lui: ora si recava di rado a sentir messa in chiesa. Una cosa gli dava da pensare
più di tutto: che lui e Sue, dal giorno della tragedia, con la mente avevano preso direzioni opposte - quegli avvenimenti
che avevano ampliato la sua visione della vita, delle leggi, delle convenzioni e dei dogmi, non avevano avuto un
influsso analogo sulla mente di Sue. Lei non era più la stessa ragazza indipendente di un tempo, quando il suo brillante
intelletto colpiva come un fulmine convenzioni e formalità da lui tenute in gran conto allora, anche se non più ora.
Una domenica sera, Jude rientrò più tardi del solito. Sue non era in casa, ma tornò presto ed egli notò che era
taciturna e meditabonda.
«A cosa stai pensando, piccola mia?».
«Oh, non saprei dirti chiaramente! Ho pensato che siamo stati egoisti, incuranti, persino empi nella nostra
condotta, tu ed io. La nostra vita è stata spesa nella vana ricerca di un piacere personale. Ma quanto è più nobile
l'autoabnegazione! Dovremmo mortificare la carne... la terribile carne, la maledizione di Adamo!».
«Sue!», egli mormorò. «Ma cosa ti ha preso?».
«Dovremmo sacrificarci costantemente sull'altare del dovere! Ma io ho sempre cercato di fare quello che mi
piaceva. Mi sono meritata la punizione che ho ricevuto! Vorrei che qualcosa mi liberasse dal male, da tutti i miei errori
mostruosi, e dai miei comportamenti da peccatrice!».
«Sue... cara, adorata che hai sofferto troppo!... non c'è nessun demonio in te. I tuoi istinti naturali sono
assolutamente sani; forse non così passionali come avrei desiderato, ma buoni, dolci e puri. E come ho spesso detto, sei
in assoluto la donna più eterea e la meno sensuale che abbia mai incontrato senza però essere frigida in maniera
disumana. Perché parli in questo modo, così diverso dal solito? Non siamo stati egoisti, se non quando nessuno poteva
trarre profitto dal fatto che non lo fossimo. Dicevi sempre che la natura umana è nobile e generosa, non vile e corrotta, e
dopo tanto ho capito che avevi ragione. E ora sembri avere una visione tanto più negativa!».
«Voglio avere un cuore umile; e una mente casta; non li ho mai avuti finora!».
«Tu sei sempre stata coraggiosa nei tuoi pensieri come nei tuoi sentimenti, e meriti un'ammirazione molto
maggiore di quella che ti ho tributato. Io a quel tempo ero troppo alla mercé di dogmi ristretti per accorgermene».
«Non dire così, Jude! Quanto vorrei che le mie idee e le mie parole intrepide fossero cancellate una per una
dalla mia storia. La rinuncia di sé - non c'è altro! Non potrò mai umiliarmi troppo. Vorrei pungermi tutto il corpo con
degli spilli per far uscire col sangue tutto il male che è in me!».
«Zitta!», egli disse, stringendosi al petto il piccolo volto di lei come avrebbe fatto con un bambino. «È il dolore
per la morte dei piccoli che ti ha ridotto così! Questo genere di rimorsi non è per te, con la tua sensibilità, ma per i
malvagi della terra - che non l'hanno provato mai!».
«Non dovrei stare così!», lei mormorò, dopo essere rimasta tra le sue braccia per un certo tempo.
«Perché no?».
«È autoindulgenza».
«Di nuovo con quest'idea! Ma c'è qualcosa di meglio sulla terra del nostro amore reciproco?».
«Sì. Dipende dal tipo di amore; e il tuo, il nostro, è quello sbagliato».
«Non puoi dire questo, Sue! Avanti, quand'è che vuoi andare a registrare il nostro matrimonio in sacrestia?».
Lei attese a rispondere, imbarazzata. «Mai», sussurrò.
Non immaginando l'intero significato della sua risposta, Jude la accettò con serenità e non disse nulla.
Passarono diversi minuti, ed egli pensò che si era addormentata; ma parlandole sottovoce, notò che era rimasta sveglia
tutto il tempo. Poi lei si tirò su con un sospiro.
«C'è uno strano, indescrivibile profumo, o un'atmosfera, che emana da te stasera, Sue», egli disse. «Voglio dire
non solo dalla tua mente, ma anche dai tuoi vestiti. Una sorta di essenza vegetale, che mi sembra di conoscere, ma che
pure non ricordo».
«È incenso».
«Incenso?».
«Sono stata alla messa a San Sila, e devo aver assorbito i vapori dell'incenso».
«Oh... San Sila?».
«Sì, ci vado spesso».
«Davvero? Tu vai là?».
«Vedi Jude, si è soli qui durante la settimana quando tu sei al lavoro, e io non faccio altro che pensare ai... ai
miei...». Si fermò finché non riuscì a controllare il nodo che le stringeva la gola. «E ho iniziato ad andare lì, poiché è a
un passo».
«Sì... naturalmente, non ho nulla in contrario. Solo che è strano da parte tua. Non immaginano nemmeno chi
hanno accettato tra loro!».
«Che vuoi dire?».
«Be'... una scettica, per parlarci chiaro».
«Come puoi dirmi di queste cose, Jude, nella situazione in cui mi trovo! Io so che non le pensi. Ma non
dovresti dirle».
«Hai ragione. Ma rimango molto stupito!».
«Comunque... c'è qualcos'altro che vorrei dirti, Jude. Prometti di non prendertela? Ci ho pensato molto dopo la
morte dei miei bambini. Penso che dovrei smettere di essere... o vivere come... tua moglie».
«Cosa?... Ma lo sei!».
«Dal tuo punto di vista; ma...»
«Naturalmente avevamo paura della cerimonia, come l'avrebbero avuta molti altri al nostro posto se avessero
avuto ragioni serie come le nostre per sentirsi inquieti. Ma l'esperienza ha dimostrato che abbiamo giudicato male noi
stessi, ed esagerato le nostre infermità; e se tu inizi a rispettare riti e cerimonie, come sembra, mi chiedo cosa aspetti ad
accettare che la nostra abbia luogo all'istante. Non c'è dubbio, Sue, che tu sei mia moglie, in tutto tranne che per la
legge. Cosa volevi dire con le tue parole?».
«Che non penso di esserlo!».
«No? Ma supponi che ci fosse stata la cerimonia. Penseresti di esserlo a quel punto?».
«No. Neppure in quel caso penserei di esserlo. Mi sentirei peggio di adesso».
«E perché mai... perché tanta ostinazione, mia cara?».
«Perché sono di Richard».
«Ah... non è la prima volta che accenni a quest'assurda fantasia!».
«No, ma allora era solo un'impressione che sentivo; adesso, più passa il tempo e più ne sono convinta...
appartengo a lui o a nessuno».
«Santo Cielo!... come abbiamo invertito le nostre posizioni!».
«Sì. Forse hai ragione».
Alcuni giorni dopo, al crepuscolo di una sera d'estate, erano seduti in quella stanzetta di sotto, quando qualcuno
bussò alla porta della casa del falegname dove erano in affitto, e poco dopo a quella della loro stanza. Prima che
potessero aprirla loro, l'aprì la persona venuta a trovarli, ed apparve la figura di una donna.
«C'è il signor Fawley?».
Entrambi ebbero un sussulto mentre egli rispondeva meccanicamente in senso affermativo, poiché la voce era
quella di Arabella.
Jude la invitò formalmente ad entrare, e lei andò a sedersi sulla panca nei pressi della finestra, dove gli altri due
potevano vedere distintamente il suo profilo controluce, ma nessuna caratteristica che consentisse loro di valutare il suo
aspetto o la sua aria generale. Pure, qualcosa sembrava denotare che non se la passava così bene, né era così
vistosamente acconciata, come ai tempi in cui Cartlett era ancora in vita.
I tre tentarono una conversazione imbarazzante sulla tragedia, di cui Jude si era sentito in dovere di informarla
immediatamente, anche se lei non aveva mai risposto alla sua lettera.
«Torno appena dal cimitero», disse. «Mi sono fatta spiegare dove era la tomba del bambino. Non potevo venire
al funerale... grazie lo stesso per avermi invitato. So tutto dai giornali, e ho sentito di non essere desiderata... No... non
potevo proprio venire», ripeté Arabella che, sembrando incapace pur solo di avvicinarsi all'ideale di un'espressione
tragica, annaspava tra le ripetizioni. «Comunque sono contenta di aver trovato la tomba. Dato che lo fai di mestiere,
Jude, potrai metterci una bella lapide».
«Ci metterò una pietra tombale», disse Jude con malinconia.
«Era il mio bambino, ed è per lui che soffro naturalmente».
«È ovvio. Noi tutti soffriamo».
«Gli altri non erano miei e non soffro per loro così tanto, com'è naturale».
«Certo».
Un sospiro giunse dall'angolo dove Sue era seduta.
«Avevo spesso desiderato di riprendermelo», continuò la signora Cartlett. «Forse se lo avessi fatto, non
sarebbe accaduto! Ma non volevo portarlo via a tua moglie».
«Non sono sua moglie», disse Sue.
Le sue parole giunsero così inattese da far tacere Jude.
«Oh, vi chiedo scusa, davvero», disse Arabella. «Credevo lo foste!».
Jude aveva compreso dal timbro del tono di voce di Sue che, dietro le sue parole, si nascondevano le nuove
idee trascendentali in cui professava di credere; ma Arabella, naturalmente, non colse che il loro significato palese.
Quest'ultima, dopo aver mostrato tutto il suo stupore di fronte alla confessione di Sue, si riprese, e continuò a parlare
con la massima naturalezza del «suo» ragazzo per il quale, sebbene quando era vivo non aveva provato alcun affetto,
ora ostentava un lutto formale, che era apparentemente di conforto alla propria coscienza. Accennò al passato, e nel fare
alcune considerazioni, di nuovo si rivolse a Sue. Ma senza ottenere risposta: Sue era uscita dalla stanza.
«Ha detto che non è tua moglie?», riprese a dire Arabella con voce diversa. «Perché si comporta così?».
«Non posso risponderti», disse Jude tagliando corto.
«Ma lo è, vero? Me lo disse lei, una volta».
«Io non discuto quello che dice».
«Ah... capisco! Va bene, devo andare. Mi fermo qui stanotte, e ho pensato che una visita era il minimo che
potessi fare, dopo il nostro dolore comune. Dormo alla locanda dove ho lavorato come cameriera, e domani torno ad
Alfredston. Mio padre è di nuovo qui, ed ora vivo con lui».
«È tornato dall'Australia?», disse Jude con vaga curiosità.
«Sì. Non ce l'ha fatta laggiù. È stata dura, per lui. La mamma è morta di diss... come si dice... cioè per il caldo,
e papà con i miei due fratellini sono appena arrivati. Ha preso una casetta vicino a quella che avevano un tempo, e al
momento io sto con lui».
La ex moglie di Jude, anche ora che Sue era uscita dalla stanza, aveva mantenuto dei modi stereotipati in
ossequio alla più rigida buona educazione e limitato la sua permanenza a quei pochi minuti che andassero d'accordo con
la massima rispettabilità. Quando andò via, sentendosi molto sollevato, Jude si avvicinò alle scale per chiamare Sue,
essendo in ansia perché non sapeva cosa avesse fatto.
Non ebbe risposta, e il falegname che aveva loro affittato la camera disse che non era in casa. Per un attimo
Jude rimase perplesso, poi iniziò ad allarmarsi per la sua assenza, data anche l'ora tarda. Il falegname chiamò la moglie,
che avanzò l'ipotesi che Sue si fosse recata alla chiesa di San Sila, dal momento che ci andava spesso.
«Ma come è possibile a quest'ora di notte?», disse Jude. «È chiusa».
«Conosce qualcuno che ha la chiave, e può averla in qualsiasi momento».
«Da quanto tempo si comporta così?».
«Oh, da qualche settimana, credo».
Jude si diresse incerto verso la chiesa, alla quale non si era avvicinato da quando era vissuto da quelle parti
anni prima, quando le sue convinzioni giovanili erano più mistiche di quelle odierne. Il luogo era deserto, ma la porta
era indiscutibilmente aperta; egli girò la maniglia senza fare rumore, e chiudendosi la porta alle spalle rimase
completamente immobile. Nel silenzio generale sembrava di poter udire un debole suono, come di qualcuno che
respirava, o singhiozzava, proveniente dall'altra estremità dell'edificio. Il panno sul pavimento attutiva i suoi passi
mentre avanzò in quella direzione nell'oscurità che solo un debolissimo riflesso delle luci provenienti dall'esterno
rischiarava appena.
In alto sopra di lui, all'altezza dei gradini dell'altare, Jude riuscì a intravedere un'enorme croce latina dalla
solida costruzione - larga probabilmente quanto l'originale che era chiamata a commemorare. Pareva sospesa in aria
grazie a fili invisibili; era incastonata con grandi pietre, che rilucevano debolmente quando qualche tenue raggio vi si
rifletteva dall'esterno, poiché la croce ondeggiava avanti e indietro, con un movimento silenzioso e appena percettibile.
Più in basso, sul pavimento, giaceva quello che a prima vista era un ammasso di abiti neri, dal quale si ripeteva quel
singhiozzare da lui udito in precedenza. Era il corpo di Sue, prostrata a terra.
«Sue!», egli sussurrò.
Qualcosa di bianco si rese visibile: il volto di Sue che si era girato verso di lui.
«Cosa... vuoi da me qui, Jude?», lei disse con tono quasi aspro. «Non dovevi venire! Io volevo restare sola!
Cosa sei entrato a fare?».
«Che domanda!», egli ribatté con un risentimento che gli usciva dal cuore ferito profondamente
dall'atteggiamento di lei. «Perché sono venuto? Chi ha diritto di venire, vorrei proprio saperlo, se non io! Io, che amo te
più che me stesso... più... Oh molto più di quanto tu hai amato me! Cosa ti ha spinto a lasciarmi per venire qui da
sola?».
«Non criticarmi, Jude... non posso sopportarlo!... Te l'ho già detto tante volte. Devi accettarmi per come sono.
Sono una miserabile... distrutta dalla mia follia! Non potevo rimanere quando è venuta Arabella... mi sono sentita così
infelice che dovevo andarmene via. Lei sembra essere ancora tua moglie, come Richard mio marito!».
«Ma non contano nulla per noi!».
«Sì, caro amico, sì che contano. Ora vedo il matrimonio in modo diverso. Mi hanno tolto i bambini per farmelo
vedere! Che il bambino di Arabella abbia ucciso i miei è stato un giudizio... il bene che annienta il male. Cosa, cosa
posso fare! Sono una creatura così vile... troppo indegna per mischiarmi a comuni esseri mortali!».
«Ma è terribile!», esclamò Jude, quasi sul punto di piangere. «È mostruoso e innaturale che tu sia così piena di
rimorsi quando non hai fatto nulla di male!».
«Ah... tu non sai quanto sono cattiva!».
Egli ribatté con veemenza: «Sì che lo so! Conosco ogni atomo e particella della tua cattiveria! Mi hai fatto
odiare il cristianesimo, o il misticismo, o il sacerdozio, o chiamalo come vuoi, se è ciò che ha causato questo
deterioramento in te. Che una donna-poeta, una donna-veggente, una donna la cui anima ha brillato come un diamante,
di cui tutti gli spiriti migliori del mondo sarebbero stati fieri se avessero potuto conoscerla, debba degradarsi in questo
modo! Io sono felice di non aver avuto nulla a che vedere con la Divinità, non lo sono mai stato tanto, se deve rovinarti
in questo modo!».
«Tu sei arrabbiato, Jude, e scortese con me, e non ti rendi conto di come stanno le cose».
«Se è così, torniamo a casa insieme, cara, e forse me ne renderò conto. Mi sento così schiacciato dalle cose... e
tu pure in questo momento sei sconvolta». Le cinse la vita con il braccio per aiutarla ad alzarsi in piedi; ma anche se
accettò di seguirlo, lei preferì camminare senza appoggiarsi a lui.
«Non è che non ti voglio più bene, Jude», gli disse con voce dolce e implorante. «Io ti amo come sempre! Solo
che... dovrei smettere di amarti. Devo riuscirci!».
«Non posso permetterlo».
«Ma ho capito che non sono tua moglie! Io appartengo a lui... nel sacramento mi sono unita a lui per la vita.
Nulla può alterare tale fatto!».
«Ma se mai a questo mondo due persone sono state marito e moglie, di certo quelle siamo noi. È un
matrimonio secondo natura, il nostro, indiscutibilmente!».
«Ma non secondo il Cielo. Lì ce n'è stato un altro per me, ed è stato ratificato nella chiesa di Melchester».
«Sue, Sue... il dolore ti ha ridotto in questo stato in cui non ragioni più. Dopo avermi convertito alle tue idee su
così tante cose, scoprire che all'improvviso cambi completamente opinione in questo modo... per nessun motivo di
sorta, rinnegando tutto quello che hai detto in passato solo perché ti lasci trasportare dal sentimento! Tu hai sradicato in
me quel poco di affetto e di rispetto che era rimasto per la Chiesa come per un'antica amicizia... Quello che non capisco
di te, è la tua incredibile cecità presente verso la tua logica passata. È una caratteristica tua, o comune a tutte le donne?
La donna è una unità pensante a sé, o una frazione all'eterna ricerca dell'intero? Come sostenevi che il matrimonio era
solo un goffo contratto, quale in effetti è, come mi spiegavi tutte le tue obiezioni, tutte le sue assurdità! Se due più due
faceva quattro quando eravamo felici insieme, certo continua a fare quattro ora, no? Lo ripeto, non capisco più!».
«Ah, caro Jude, è perché sei come un uomo completamente sordo che osserva della gente ascoltare musica. Tu
dici "Ma cosa guardano? Non c'è niente lì". Ma qualcosa c'è».
«È un'osservazione severa da parte tua e il parallelo non regge! Tu hai gettato via vecchie scorze di pregiudizi,
e mi hai insegnato a fare altrettanto; ed ora ti rimangi tutto. Confesso che non so più cosa pensare di te».
«Caro amico, mio unico amico, non essere così duro con me! Non posso farci niente se sono come sono, e
credo di avere ragione... di vedere la luce, alla fine. Ma oh, come è difficile trarne profitto!».
Camminarono ancora un poco fino all'uscita dall'edificio dove Sue restituì la chiave. Al suo ritorno Jude, che
da quando erano usciti era parso riprendersi un poco, le disse: «Può essere questa la ragazza... può essere questa la
ragazza che ha introdotto gli dèi pagani nella più cristiana delle città? Che si beffò della signorina Fontover quando le
fece a pezzi calpestandole?... Citava Gibbon, Shelley e Mill? Chissà dove sono finiti il caro Apollo e la cara Venere,
ora!».
«Oh basta, Jude, non essere così crudele con me, che sono tanto infelice!», lei singhiozzò. «Non posso sentirti!
Sbagliavo... è inutile ragionare con te. Sbagliavo... orgogliosa delle mie idee! La venuta di Arabella è stata la fine. Non
prendermi in giro: mi ferisce come una lama!».
Egli la prese tra le braccia e la baciò appassionatamente in quella strada silenziosa prima che lei potesse
fermarlo. Continuarono a camminare finché non raggiunsero una piccola locanda. «Jude», Sue disse allora sopprimendo
le lacrime, «ti dispiacerebbe restare qui per questa notte?».
«D'accordo... se è questo che veramente vuoi. Ma lo vuoi davvero? Lascia che ti accompagni a casa e che provi
a capirti».
Così fecero, e Jude l'accompagnò dentro casa. Sue disse che non voleva mangiare nulla e salì al buio di sopra,
dove accese una luce in camera sua. Girandosi, s'accorse che Jude l'aveva seguita e si era fermato sulla soglia. Gli si
avvicinò, gli porse una mano, e gli disse «Buonanotte».
«Ma Sue! Non viviamo qui tutti e due?».
«Avevi detto che avresti fatto come volevo!».
«Sì. D'accordo!... Forse ho sbagliato a discutere con tanta insistenza, come ho fatto! Forse, dal momento che
eravamo consapevoli di non poterci sposare all'inizio secondo la tradizione, ci saremmo dovuti lasciare allora. Forse il
mondo non è abbastanza progredito per esperimenti come il nostro! Chi eravamo noi per pensare che avremmo potuto
agire come due pionieri?».
«Sono così felice che ti rendi conto almeno di questo. Non avevo mai voluto fare deliberatamente ciò che ho
fatto. Sono scivolata in questa falsa posizione per colpa della gelosia e dell'inquietudine!».
«Ma certo anche dell'amore... Non mi amavi?».
«Sì. Ma volevo fermarmi lì, e continuare a vivere come se fossimo due innamorati; finché...».
«Ma quando le persone sono innamorate non possono continuare a vivere così per sempre!».
«Le donne possono: gli uomini no perché... non vogliono. La donna è generalmente superiore all'uomo in
questo - che non istiga mai, e si limita solo ad assecondare. Avremmo dovuto vivere esclusivamente in una comunione
spirituale».
«Sono stato io la causa infelice del cambiamento, come ho detto prima!... Comunque come vuoi tu! Ma la
natura umana non può evitare di essere quella che è».
«Oh sì... è proprio questo che deve imparare... a dominarsi».
«Insisto, se di qualcuno è la colpa, è mia».
«No, è mia. La tua debolezza è solo il desiderio naturale di un uomo di possedere una donna. Ma io non ho mai
avuto il desiderio corrispondente al tuo finché l'invidia non mi ha spinto a spodestare Arabella. Avevo anche pensato
che per pietà dovevo permetterti di avermi - che era crudelmente egoista torturarti come avevo fatto con l'altro mio
amico. Ma non lo avrei mai fatto se tu non mi avessi vinta minacciando di tornare da lei... Ma non parliamo più di
queste cose! Jude, mi lascerai da sola, adesso?».
«Sì... Ma Sue... mia moglie, quale sei!», egli sbottò. «Il vecchio rimprovero che ti muovevo, dopotutto era
vero. Tu non mi hai mai amato come io amo te... mai... mai! Il tuo non è un cuore appassionato... il tuo cuore non ha
mai bruciato d'amore! A ben vedere, tu sei una sorta di fata, uno spirito... non una donna!».
«All'inizio non ti ho amato, Jude; lo riconosco. Quando ti ho conosciuto la prima volta, volevo semplicemente
che tu amassi me. Non era semplicemente un gioco, no, ma quell'innato desiderio che mina la moralità di alcune donne
più di una passione incontrollata... quel desiderio di attrarre e conquistare, incurante del male che può fare a un uomo,
era in me; e quando mi resi conto di averti conquistato, mi misi paura. E poi... non ricordo com'è andata... non
sopportavo l'idea di lasciarti - magari perché tornassi da Arabella - e così ho iniziato ad amarti, Jude. Ma vedi, per
quanto affettuosamente si sia conclusa, questa storia ha avuto inizio nel desiderio egoista e crudele di far soffrire il tuo
cuore per me senza che il mio soffrisse per te».
«Ed ora aggiungi a tale crudeltà quella di lasciarmi!».
«Ah... sì! Più esito e peggio è!».
«Oh Sue!», disse Jude percependo all'improvviso il pericolo che correva. «Non fare una cosa immorale per
ragioni morali! Tu sei stata la mia salvezza sociale. Rimani con me per un senso d'umanità! Sai che sono un debole!
Conosci i miei due eterni nemici - il mio debole per le donne e la mia propensione all'alcool. Non abbandonarmi a loro,
Sue, soltanto per salvare la tua anima! Li ho tenuti a bada da quando tu sei diventata il mio angelo custode! Da quando
ho te, mi sono potuto avvicinare ad ogni sorta di tentazioni senza correre rischi. La mia salvezza non vale un piccolo
sacrificio di un principio dogmatico? Temo che se tu mi lasci, si ripeterà il caso di quel maiale che appena lavato si
rotolava di nuovo nel fango!».
Sue scoppiò a piangere. «Oh, ma non devi, Jude! Non lo farai! Io pregherò per te, giorno e notte!».
«Va bene, non importa; non piangere», disse Jude con generosità. «Dio solo sa quanto ho sofferto per te allora;
ed ora soffro di nuovo. Ma forse non tanto quanto te. Nel lungo periodo, è la donna ad avere sempre la peggio!».
«È vero».
«A meno che non sia del tutto indegna e vile. E tu certamente non lo sei!».
Sue fece un paio di respiri affannosi. «Lo sono, temo!... E ora, Jude, buonanotte... per favore!».
«Devo proprio andarmene? Non posso restare ancora un poco? Come tante altre volte... Oh, Sue, moglie mia,
perché no?».
«No, no, non sono tua moglie!... Sono nelle tue mani, Jude... non tentarmi a tornare indietro ora che sono
andata così avanti!».
«D'accordo. Farò come vorrai. Te lo devo, cara, quale penitenza per essermi imposto all'inizio. Dio mio,
quanto sono stato egoista! Forse... forse ho rovinato uno degli amori più nobili e puri che mai siano esistiti tra un uomo
e una donna!... Se è così, che il velo del nostro tempio sia lacerato in due da ora in poi!».
Jude andò verso il letto, prese una delle due coppie di cuscini e la gettò sul pavimento.
Sue lo guardava e, appoggiata alla spalliera del letto, piangeva in silenzio. «Tu non ti rendi conto che è un
problema di coscienza e non è che non ti amo più!», mormorò con voce rotta. «Io non amarti più! Ma non posso dire
altro... mi si spezza il cuore... rovinerebbe tutto quello che ho iniziato! Jude... buonanotte!».
«Buonanotte», egli disse e si volse per andarsene.
«Oh, ma non vuoi darmi un bacio?», lei disse avvicinandosi. «Io non potrei... sopportare...!».
Egli l'abbracciò e baciò il suo volto rigato dalle lacrime come forse non aveva mai fatto prima, ed essi
restarono in silenzio finché lei non disse: «Addio, addio!». Poi allontanandolo da sé con gentilezza si liberò, cercando di
mitigare la propria tristezza dicendo: «Saremo due cari amici lo stesso, Jude, vero? E ci vedremo qualche volta... Sì!... e
dimenticheremo tutto questo, e cercheremo di essere come eravamo tempo fa?».
Jude si impose di non risponderle, e giratosi scese le scale.
CAPITOLO IV
L'uomo che Sue nel suo voltafaccia mentale considerava il proprio inseparabile marito viveva ancora a
Marygreen.
Il giorno precedente la tragedia dei bambini, Phillotson aveva visto sia Sue che Jude sotto la pioggia tra la folla
di Christminster che assisteva al corteo verso il Teatro. Ma lì per lì non aveva detto nulla a Gillingham che, essendo un
vecchio amico, lo accompagnava al villaggio summenzionato ed aveva anzi avuto l'idea di andare per una giornata a
Christminster.
«A cosa stai pensando?», disse Gillingham, mentre tornavano a casa. «Al diploma universitario che non hai
mai ottenuto?».
«No, no», disse Phillotson in tono burbero. «A qualcuno che ho visto oggi». Un attimo dopo aggiunse:
«Susanna».
«L'ho vista anch'io».
«E non mi hai detto nulla».
«Non volevo attirare la tua attenzione su di lei. Ma, dal momento che l'avevi vista, avresti dovuto dirle: "Come
stai mia cara di un tempo?"».
«Sì, avrei potuto. Ma che ne dici di questo: ho dei validi motivi per ritenere che lei fosse innocente all'epoca
del divorzio, e che io mi ero completamente sbagliato. Non sto scherzando! Strano, vero?».
«Si direbbe, comunque, che da allora si sia data da fare perché tu avessi ragione».
«Ehm. Tu ci scherzi. Ma io avrei dovuto aspettare, senza dubbio».
Alla fine della settimana, dopo che Gillingham era tornato alla sua scuola di Shaston, Phillotson si recò come
era solito fare, al mercato di Alfredston, continuando a rimuginare tra sé e sé la notizia datagli da Arabella mentre
scendeva giù per quella lunga collina da lui conosciuta prima che la conoscesse Jude, anche se non era stata battuta con
altrettanta intensità dalla sua storia. Arrivato in città, comprò come sempre il settimanale locale; e dopo essersi seduto in
una locanda per rinfrescarsi prima di avviarsi per le cinque miglia del ritorno, tirò fuori di tasca il giornale e si mise a
leggere. L'occhio gli cadde sul resoconto dello «Strano suicidio dei bambini di uno scalpellino».
Pur non essendo un tipo emotivo, lo impressionò dolorosamente e lo stupì non poco, poiché non riusciva a
capire come fosse possibile che il maggiore avesse l'età che gli veniva attribuita nell'articolo. Tuttavia, era indiscutibile
che la notizia riportata dal settimanale doveva essere in qualche modo vera.
«Il calice del loro dolore è ormai colmo!», commentò: e si mise a pensare e a ripensare a Sue, e a cosa aveva
guadagnato lasciandola.
Poiché Arabella abitava ad Alfredston, e il maestro si recava al mercato di quella città ogni sabato, non desta
meraviglia che, qualche settimana dopo il loro primo incontro, si rivedessero - per la precisione subito dopo il ritorno di
lei da Christminster, dove era rimasta molto più a lungo di quanto non avesse previsto, poiché il suo interesse per Jude
l'aveva spinta a non perderlo di vista, sebbene lui non l'avesse più incontrata. Quando la vide, Phillotson stava tornando
a casa, mentre Arabella si stava recando in città.
«Vi piace camminare per questa strada, signora Cartlett?», egli disse.
«Ho ricominciato da poco», rispose. «Vivevo qui da ragazza e da sposata, e tutti i ricordi della mia vita passata
che per me hanno un valore sentimentale sono legati a questa strada. Di recente sono stata a Christminster, e ciò li ha
risvegliati in me. Sì, ho rivisto Jude».
«Ah! Come hanno reagito alla loro terribile disgrazia?».
«In modo molto strano - molto strano! Lei non vive più con lui. L'ho saputo con certezza solo il giorno della
mia partenza, pur avendo avuto l'impressione che le cose andassero male dal loro comportamento il giorno in cui sono
andata a trovarli».
«Non vive più con suo marito? Ma come, avrei detto che quanto è accaduto li avrebbe uniti ancora di più».
«Egli non è suo marito, dopo tutto. Lei non lo ha mai veramente sposato, per quanto agli occhi di tutti sono
passati per tanto tempo come marito e moglie. Ed ora, invece di correre a legalizzare la loro posizione, dopo questa
disgrazia lei è stata presa da un curioso fervore religioso, come è successo a me dopo la morte di Cartlett, solo che il suo
è più isterico del mio. Pare dica, così mi è stato riferito, che agli occhi del Cielo e della Chiesa lei è moglie del suo
primo marito, soltanto sua, e nessun atto umano può farla diventare di qualcun altro».
«Ah, davvero?... Si sono separati!».
«Vede, il ragazzo più grande era mio...».
«Suo?».
«Sì, povero bambino... nato da un regolare matrimonio, grazie a Dio. E forse lei sente, sopra ogni altra cosa,
che avrei dovuto essere al suo posto. Non saprei dirle. Comunque per quanto mi riguarda me ne andrò presto da qui. Ho
da badare a mio padre, e non possiamo vivere in un posto che è un mortorio come questo. Spero di tornare a lavorare
presto in una locanda a Christminster, o in un'altra grande città».
Si salutarono. Dopo aver fatto pochi passi su per la salita della collina, Phillotson tornò indietro di corsa e la
chiamò.
«Qual è, o quale era il loro indirizzo?».
Arabella glielo diede.
«Grazie. Buon pomeriggio».
Arabella sorrise maliziosamente mentre riprese il suo cammino, e si esercitò a fare le fossette per tutta la strada
da dove iniziavano le finestre squadrate fino ai vecchi ospizi alla periferia della città.
Nel frattempo Phillotson salì a Marygreen, e per la prima volta in quel lungo periodo viveva con un occhio
rivolto al futuro. Mentre passava sotto i grandi alberi del prato di fronte alla umile scuola del paese in cui era stato
costretto a insegnare, si fermò un attimo e si immaginò Sue che usciva per venirgli incontro. Nessun uomo aveva mai
sopportato tanti inconvenienti per via del suo spirito di carità, cristiano o pagano che fosse, più di Phillotson da quando
aveva deciso di permettere a Sue di andarsene. Era stato sballottato da un posto all'altro ad opera di virtuosi, oltre ogni
limite sopportabile; aveva quasi fatto la fame, ed ora dipendeva interamente dal magro stipendio della scuola del
villaggio (dove la reputazione del parroco era stata compromessa per essergli stato amico). Spesso aveva ripensato alle
parole di Arabella quando gli aveva detto che avrebbe dovuto essere più severo con Sue, che lo spirito recalcitrante di
lei sarebbe stato presto domato. Pure, tale era il suo disprezzo ostinato e illogico delle opinioni altrui e dei principi ai
quali era stato educato, che la sua convinzione della giustezza del proprio comportamento con la moglie non era stata
scossa minimamente.
Principi che potevano essere travisati dal sentimento in una direzione, erano soggetti alla stessa catastrofe in
un'altra. L'istinto che gli aveva consentito di restituire a Sue la sua libertà, ora gli permetteva di non giudicarla male per
la sua vita con Jude. Le voleva ancora bene, a modo suo, se non l'amava, e al di là della convenienza presto sentì che
sarebbe stato contento di riaverla con sé, sempre a condizione che tornasse di sua spontanea volontà.
Ma aveva imparato che l'artificio è necessario per fronteggiare la pressione fredda e disumana del disprezzo del
mondo. Ed ecco che gli ingredienti per farlo erano pronti. Riprendendosi Sue e risposandola sulla base della rispettabile
giustificazione che aveva condiviso in passato delle opinioni errate sul suo conto, e ottenuto il divorzio senza averne il
diritto, egli poteva ritrovare un certo benessere, riprendere l'insegnamento di un tempo, e forse tornare alla scuola di
Shaston, se non addirittura entrare nella Chiesa come licenziato.
Pensò che avrebbe scritto a Gillingham per chiedergli un parere, e vedere come reagiva all'idea che lui,
Phillotson, le inviasse una lettera. Gillingham rispose naturalmente che dal momento che ormai se ne era andata, era
meglio lasciarla perdere; e osservò che se mai era la moglie di qualcuno, costui era l'uomo al quale aveva dato tre
bambini e a cui era legata da eventi così tragici. Probabilmente, dato l'attaccamento così forte che quell'uomo aveva per
lei, quella coppia così fuori dal comune, a tempo debito, avrebbe legalizzato il suo legame e tutto sarebbe andato per il
meglio, nel rispetto dell'ordine e della decenza.
«Ma non vorranno... Sue non vorrà!», esclamò Phillotson tra sé e sé. «Gillingham è troppo razionale. Sue
subisce l'influsso dei sentimenti e dell'insegnamento di Christminster. Riesco a immaginare abbastanza le sue idee
sull'indissolubilità del matrimonio, e so dove le ha prese. Non sono le mie; ma le userò per far trionfare le mie».
Scrisse una breve risposta a Gillingham. «So che ho completamente torto, ma non sono d'accordo con te. Per
quanto riguarda il fatto che sia vissuta e abbia concepito tre bambini con lui, la mia impressione (che so di non poter
difendere da un punto di vista logico o morale secondo i principi tradizionali) è che ha avuto l'unico effetto di
completare la sua educazione. Le scriverò, e così saprò se quanto dice quella donna è vero o meno».
Dal momento che si era deciso in tal senso prima di rispondere al suo amico, non c'era motivo di rispondergli
affatto. Tuttavia era tipico di Phillotson agire in questo modo.
Di conseguenza, scrisse una lettera attentamente ponderata a Sue, e conoscendo il suo temperamento emotivo
introdusse qua e là tra le frasi una severità radamantina, attento a nascondere i suoi sentimenti eterodossi per non
spaventarla. Nella lettera affermava che, essendo venuto a sapere che le idee di lei erano considerevolmente cambiate, si
sentiva in dovere di dirle che anche le proprie erano state in gran parte modificate dagli eventi seguiti alla loro
separazione. Non le nascondeva che l'amore appassionato aveva poco a che vedere con quella lettera. Essa nasceva da
un desiderio di rendere le loro vite, se non un successo, almeno non quel disastroso fallimento che minacciavano di
diventare, per avere egli agito secondo ciò che all'epoca aveva considerato un principio di giustizia, carità e ragione.
Aveva capito che un'antica civiltà come la nostra non consentiva di indulgere impunemente in un sentimento
istintivo e incontrollato di giustizia. Era necessario agire secondo quello acquisito e assecondato dalla società, se si
desiderava godere la propria parte di benessere e di onorabilità, e accantonare l'impulsiva generosità dell'amore.
Le proponeva infine di andare da lui a Marygreen.
Poi, ripensandoci, decise di togliere il penultimo paragrafo; e dopo aver riscritto la lettera la inviò
immediatamente, e attese una risposta con ansia.
Qualche giorno dopo, una figura attraversava la coltre di nebbia bianca che avvolgeva Beersheba, il sobborgo
di Christminster, diretta verso la zona dove Jude Fawley aveva fissato la propria dimora dopo la separazione da Sue.
Qualcuno bussò timidamente alla sua porta.
Era sera, e Jude era in casa; per una sorta di divinazione balzò in piedi e si precipitò ad aprire di persona.
«Usciresti con me? Io preferirei non entrare. Vorrei... parlarti... e andare insieme a te al cimitero».
Era stato con la voce tremante di Sue che queste parole gli erano giunte. Jude si mise il cappello. «Con questo
tempo non dovresti stare fuori», egli disse. «Ma se preferisci non entrare, esco senz'altro».
«Sì, preferisco. Non ti tratterrò a lungo».
In un primo momento Jude era troppo emozionato per continuare a parlare; lei pure, a questo punto, era un tale
groviglio di nervi che qualsiasi forza avesse all'inizio sembrava averla abbandonata, e per un po' essi procedettero nella
nebbia come ombre dell'Acheronte, senza una parola né un gesto.
«Volevo dirtelo», lei alla fine iniziò, parlando ora in fretta ora lentamente, «perché tu non venga a saperlo per
caso. Torno da Richard. Egli si è offerto... con tanta magnanimità... di perdonarmi».
«Torni da lui? Ma come puoi...».
«Mi risposerà. È una pura formalità per dare soddisfazione al mondo, che non vede le cose come le vediamo
noi. Ma naturalmente io sono già sua moglie. Nulla ha cambiato ciò».
Egli si volse verso di lei con un'angoscia quasi incontrollata.
«Ma tu sei mia moglie! Sì che lo sei. E lo sai bene. Ho sempre deplorato quella finzione di andarcene e
pretendere al ritorno di essere legalmente sposati, per salvare le apparenze. Io ti ho amato e tu hai amato me; e abbiamo
vissuto insieme, e questo ci ha reso marito e moglie. Ci amiamo tutt'ora... tu quanto io... è inutile che lo neghi, Sue!
Quindi il nostro matrimonio è ancora valido».
«Sì, so come la pensi», lei rispose cercando disperatamente di controllarsi. «Ma sono decisa a sposarlo di
nuovo, come tu diresti. In senso stretto tu pure - spero che non ti arrabbi se lo dico, Jude - dovresti riprenderti...
Arabella».
«Io dovrei? Santo Cielo... e che altro! Ma che accadrebbe se noi due fossimo sposati legalmente, come
eravamo sul punto di fare?».
«Penserei la stessa cosa... che il nostro non era un matrimonio. E tornerei da Richard senza ripetere la
cerimonia, se me lo chiedesse. Ma "il mondo e i suoi costumi hanno il loro valore", (suppongo): e quindi accetto di
ripetere la cerimonia... Non distruggere quel po' di vita che è in me facendo del sarcasmo e delle obiezioni, ti scongiuro!
Un tempo ero più forte, lo so, e forse sono stata crudele con te. Ma Jude, ricambia il male con il bene. Ora sono più
debole. Non vendicarti su di me, sii buono. Sì, buono... con una povera donna che cerca di riparare ai suoi errori!».
Egli scosse il capo desolato, gli occhi bagnati di lacrime. Il colpo subito per la perdita dei figli sembrava aver
distrutto in lei ogni capacità di ragionare. L'immagine un tempo nitida adesso era offuscata. «È tutto sbagliato, tutto
sbagliato!», egli disse con voce rauca. «Errore, perversità! Mi fa diventare matto. Non mi vuoi bene? Non mi ami più?
Sai che non è vero! La tua sarà la prostituzione di una fanatica religiosa - che Dio mi perdoni, sì - ecco cosa sarà!».
«Io non lo amo... e devo, devo confessarglielo con il rimorso più profondo! Ma cercherò di imparare ad
amarlo, obbedendogli».
Jude discusse, insistette, implorò; ma lei restava irremovibile nella sua convinzione. Sembrava l'unica cosa al
mondo di cui fosse certa, e che questa certezza la facesse vacillare in qualsiasi altro suo impulso o desiderio.
«Sono stata abbastanza premurosa da metterti al corrente io stessa di come stanno le cose», lei aggiunse con
risentimento, «di modo che tu non ti sentissi umiliato venendole a sapere da altri. Ho persino confessato l'orribile verità
di non amarlo. Non credevo che in cambio tu saresti stato così insensibile con me! Stavo per chiederti...».
«Di accompagnarti all'altare?».
«No. Di spedire... i miei bagagli... se potevi. Ma immagino che non vorrai farlo».
«Certo che lo farò! Ma come, non viene a prenderti, per portarti in chiesa da qui? Era contrario?».
«No... sono io che non ho voluto. Vado da lui di mia spontanea volontà, così come me ne sono andata via. Ci
sposeremo nella chiesetta di Marygreen».
Sue era così tristemente dolce in quella che lui chiamava la sua errata ostinazione, che Jude non poté evitare di
commuoversi fino alle lacrime più di una volta, per la compassione che gli suscitava. «Non ho mai conosciuto una
donna capace come te di punirsi per un impulso, Sue! Uno non fa in tempo ad aspettarsi che tu vada dritta, secondo un
criterio razionale, che giri l'angolo!».
«Ah forse; ma non parliamone più!... Jude, devo salutarti! Ma prima volevo che venissi con me al cimitero.
Lasciamoci là... accanto alle tombe di coloro che sono morti per farmi capire quanto sbagliate erano le mie idee».
Si volsero in direzione di quel luogo, e dietro richiesta venne aperto loro il cancello. Sue vi si era recata spesso,
e conosceva come arrivarci al buio. Raggiunsero la tomba e si fermarono, immobili.
«È qui... che vorrei ci lasciassimo», lei disse.
«E sia!».
«Non pensare che sono insensibile perché ho agito secondo le mie convinzioni. La tua generosa devozione per
me non ha eguali, Jude! Il tuo fallimento terreno, se hai fallito, va ascritto a tuo onore e non a tuo discredito. Ricorda
che gli uomini migliori e più grandi non si curano del loro bene terreno. Qualsiasi uomo di successo è chi più chi meno
un egoista. I più generosi falliscono... "La carità non cerca il suo interesse"».
«Su questo punto siamo d'accordo, mio eterno amore, e con ciò ci lasceremo da amici. Le sue parole
rimarranno quando tutto il resto che tu chiami religione sarà passato!».
«Può essere... è inutile discuterne. Addio, Jude, compagno nel peccato e amico dolcissimo!».
«Addio, moglie mia in preda all'errore. Addio!».
CAPITOLO V
Il pomeriggio successivo la nebbia consueta di Christminster ancora avvolgeva ogni cosa. La figura sottile di
Sue si poteva appena intravedere mentre si recava alla stazione.
Jude non se l'era sentita di andare a lavorare, quel giorno. Voleva anche evitare d'imbattersi in lei
incamminandosi nella direzione per cui probabilmente sarebbe passata. Così prese la direzione opposta, inoltrandosi per
una campagna piatta, triste e desolata, dove non era mai stato prima e dove i cespugli erano carichi di umidità, e la tosse
e la tisi erano in agguato.
«Sue mi ha lasciato... lasciato!», mormorava disperato.
Nel frattempo, Sue era partita col treno e aveva raggiunto Alfredston Road, dove aveva preso il tram a vapore
che l'aveva portata in città. Era stata una sua esplicita richiesta che Phillotson non la venisse a prendere. Desiderava
andare da lui di sua spontanea volontà, gli aveva detto, proprio fino alla casa, al focolare di lui.
Era un venerdì sera, e il giorno era stato scelto perché il maestro avrebbe smesso di lavorare alle quattro di quel
pomeriggio fino alla mattina del lunedì successivo. Il calesse da lei affittato alla «Locanda dell'orso» per farsi condurre
a Marygreen la lasciò, secondo il suo desiderio, alla fine del sentiero, un mezzo miglio dal villaggio, e la precedette alla
casa del maestro con i suoi bagagli. Incrociando il veicolo mentre tornava indietro, Sue chiese al vetturino se aveva
trovato qualcuno in casa. L'uomo le rispose di sì, informandola che le sue cose erano state portate dentro dal maestro in
persona.
Poté così entrare a Marygreen senza dare troppo nell'occhio. Nascosta dagli alberi, attraversò il prato nei pressi
del pozzo fino alla nuova scuola, un edificio grazioso terminato di recente, e alzò il chiavistello senza bussare.
Phillotson l'attendeva in mezzo alla stanza, come lei gli aveva chiesto.
«Eccomi, Richard», disse pallida e tremante, lasciandosi cadere su una sedia. «Non riesco a credere che tu
perdoni tua... moglie!».
«Tutto, cara Susanna», disse Phillotson.
Sue trasalì a quella parola gentile, anche se di proposito era stata pronunciata senza alcun fervore. Poi si fece di
nuovo coraggio.
«I miei bambini... sono morti... ed è giusto che lo siano! Io sono felice... quasi. Erano stati concepiti nel
peccato. Sono stati sacrificati per insegnarmi a vivere!... La loro morte è stato il primo passo della mia purificazione.
Non sono morti invano!... Vuoi davvero riprendermi?».
Egli era così commosso dalle sue strazianti parole e dal tono della sua voce che fece quel che non era sua
intenzione fare: si chinò e le diede un bacio sulla guancia.
Sue arretrò impercettibilmente, rabbrividendo al contatto delle sue labbra.
Phillotson provò una stretta al cuore, sentendo rinascere dentro di sé il desiderio. «Provi ancora avversione nei
miei confronti!».
«Oh no, caro... io... era molto umido per strada e avevo freddo!», lei disse con un sorriso imbarazzato e
apprensivo. «Quand'è il giorno delle nozze? Presto?».
«Domani, di prima mattina, avevo pensato... se veramente lo vuoi. Manderò qualcuno dal parroco ad avvertirlo
del tuo arrivo. L'ho messo al corrente di tutto, ed egli è pienamente d'accordo... dice che in tal modo le nostre vite
avranno una conclusione trionfante che ci porterà molte soddisfazioni. Ma... sei sicura di volerlo? Non è troppo tardi per
ripensarci, sai... se credi di non poterlo fare».
«Sì, sì, che posso! Voglio farlo il prima possibile. Diglielo, diglielo subito! La mia forza è messa a dura prova
da questo impegno... non posso attendere più a lungo!».
«Perché non mangi e bevi qualcosa, allora, prima di recarti nella tua stanza dalla signora Edlin. Fisserò con il
parroco per le otto e mezza di domattina, prima che la gente sia in giro... se non è troppo presto per te. Il mio amico
Gillingham è qui per assistere alla cerimonia. È stato così buono da venire apposta da Shaston, sebbene gli creasse non
pochi problemi».
Diversamente dalla maggioranza delle donne, sempre attente alle cose materiali, sembrava che Sue non notasse
nulla della stanza in cui si trovava, o degli oggetti intorno a sé. Ma nell'attraversare il soggiorno per posare il manicotto,
si lasciò sfuggire un debole «Oh!» e divenne più pallida di quanto già non fosse. Aveva l'aspetto del condannato a morte
che intravede la propria bara.
«Cosa c'è?», le chiese Phillotson.
Era accaduto che, essendo la ribalta della scrivania aperta, mentre posava il manicotto lo sguardo di Sue era
caduto su un documento lasciato lì da Phillotson. «Oh... solo... una bella sorpresa!», lei rispose, cercando di cancellare
con un sorriso la sua esclamazione mentre tornava a sedersi al tavolo.
«Ah sì», disse Phillotson. «La licenza... È appena arrivata».
In quel momento Gillingham si unì a loro scendendo dalla camera di sopra, e con un certo nervosismo Sue
cercò di rendersi simpatica ai suoi occhi parlando di qualsiasi cosa riteneva potesse interessargli, tranne che di se stessa,
anche se proprio questo lo interessava più di ogni altra cosa. Cenò, ubbidiente, e si preparò per recarsi nella casa lì
vicino. Phillotson la seguì fino alla porta della signora Edlin, dove le augurò la buonanotte.
L'anziana donna accompagnò Sue al suo alloggio provvisorio, e la aiutò a disfare le valigie. Tra le altre cose,
Sue tirò fuori una camicia da notte ricamata con gran gusto.
«Oh... non ricordavo di averla messa dentro!», si affrettò a dire Sue. «Non era mia intenzione. Ecco l'altra». E
prese in mano un capo assolutamente nuovo e del tutto semplice, di una stoffa grezza e non candeggiata.
«Ma la prima è più carina!», disse la signora Edlin. «Questa non è meglio del saio delle Scritture!».
«Sì... e vuole esserlo. Datemi l'altra».
La prese, e iniziò a stracciarla con tutte le sue forze, mentre il rumore della tela strappata risuonava per tutta la
casa come un barbagianni.
«Ma cara, cara!... Cosa...».
«È adultera! Ha un significato che non mi appartiene più... l'ho comprata tanto tempo fa... per piacere a Jude.
Deve essere distrutta!».
La signora Edlin alzò le braccia al cielo mentre Sue continuava, in preda all'eccitazione, a strappare la veste i
cui brandelli gettava nel fuoco.
«Avreste potuto darla a me!», disse la vedova. «Mi piange il cuore veder bruciare un così bell'indumento... non
che a una donna come me una camicia da notte così ricamata servirebbe a molto. I giorni in cui mi sarebbe potuta
servire sono passati da un pezzo!».
«È un indumento maledetto... mi ricorda quello che voglio dimenticare!», Sue ripeté. «Merita solo di essere
bruciata».
«Santo Cielo, come siete rigida! Esprimendovi così condannate all'inferno i piccoli innocenti che avete
perduto! Parola mia, questa non è religione!».
Sue nascose il volto sul letto, singhiozzando. «Oh non parlate così! Mi uccidete!». E scossa dal dolore, cadde
in ginocchio.
«Lasciatevi dire una cosa... non dovreste risposare quest'uomo!», disse la signora Edlin con indignazione.
«Siete ancora innamorata dell'altro!».
«Sì, devo... sono già sua!».
«Puah! Siete di quell'altro. Il non aver voluto impegnarvi a un giuramento vincolante una seconda volta come
la prima torna a credito della vostra coscienza, considerate le vostre ragioni. Avreste potuto continuare a vivere e alla
fine tutto sarebbe andato per il meglio. Dopotutto, era una faccenda che riguardava solo voi due».
«Richard è disposto a riprendermi, e il mio dovere è di andare! Se si fosse rifiutato, forse non avrei avuto lo
stesso dovere di... abbandonare Jude. Ma...». Rimase col volto nascosto tra le coperte del letto, e la signora Edlin uscì
dalla stanza.
Nel frattempo Phillotson era tornato dall'amico Gillingham, che era rimasto seduto a tavola. Poco dopo si
alzarono entrambi e uscirono a passeggiare nello spiazzo verde e a fumare. Nella camera di Sue era accesa una luce, e
un'ombra si muoveva su e giù dietro le persiane.
Gillingham era rimasto evidentemente colpito dal fascino indefinibile di Sue, e, dopo un poco che
camminavano in silenzio, disse: «Sei riuscito a riaverla, alla fine. Non potrà andarsene una seconda volta. La pera ti è
caduta in mano».
«Sì!... Immagino di aver ragione a prenderla in parola. Confesso che mi pare ci sia una punta d'egoismo nel
mio comportamento. Oltre al fatto che, naturalmente, lei è un lusso per un vecchio come me, mi rimetterà in regola agli
occhi della Chiesa e dei laici ortodossi, che non mi hanno mai perdonato di averle permesso di andarsene. Forse potrei
allora riprendere la mia vecchia carriera».
«Be'... se hai un qualche plausibile motivo per sposarla di nuovo fallo ora, in nome di Dio! Io sono sempre
stato contrario all'idea che tu aprissi la gabbia e lasciassi scappare l'uccello in maniera così palesemente deleteria. Ormai
potresti essere un ispettore scolastico, o un reverendo, se non fossi stato così debole con lei».
«Ho causato a me stesso un danno irreparabile... lo so».
«Una volta che l'hai riportata a casa, stalle dietro».
Phillotson era più evasivo del solito, quella sera. Non ci teneva ad ammettere che il fatto di riprendere Sue con
sé al fondo non aveva niente a che vedere con un suo presunto pentimento per averla lasciata andar via, ma era un
semplice istinto umano nel totale disprezzo delle convenzioni e della professione. Disse all'amico: «Sì... lo farò. La
conosco meglio, ora. Per quanta giustizia ci fosse nel liberarla dai suoi obblighi, per uno con le mie idee c'era poca
logica».
Gillingham lo guardò, e si chiese se il nuovo spirito conformista indotto in Phillotson dalla derisione del
mondo e dal desiderio di Sue lo avrebbe reso crudele con lei in nome del rispetto delle convenzioni più di quanto non
fosse stato gentile, con ostinata indifferenza alla tradizione, fino ad allora.
«Mi rendo conto che devo evitare di agire d'impulso», riprese Phillotson, che col passare dei minuti sentiva una
crescente necessità di agire secondo i propri principi. «Ho disdegnato gli insegnamenti della Chiesa; ma senza cattive
intenzioni. Le donne esercitano un influsso così strano, che ti inducono a far cattivo uso della bontà. Comunque, ora
conosco meglio anche me stesso. Un po' di giudiziosa severità, forse...».
«Sì, ma devi tirare le redini gradualmente. Non essere troppo rigido, all'inizio. Lei accetterà tutto, col tempo».
Il consiglio era superfluo, anche se Phillotson non lo disse. «Ricordo che una volta il parroco di Shaston disse,
dopo che partii in seguito allo scandalo suscitato dall'averle permesso di andarsene: "La sola cosa che possiate fare per
riabilitare voi stesso e vostra moglie è riconoscere d'aver sbagliato a non averla trattenuta con mano saggia e decisa, e
accettare di riprenderla se tornerà, deciso ad essere più severo in futuro". Ma io ero così ostinato, allora, che non lo stetti
a sentire. E che, dopo il divorzio, lei avrebbe mai pensato di fare una cosa del genere, non lo sognavo neppure».
Il cancelletto del giardino della signora Edlin fece uno scatto, e qualcuno iniziò ad attraversare il prato in
direzione della scuola. Phillotson disse: «Buonasera».
«Oh, siete voi signor Phillotson», disse la signora Edlin. «Stavo venendo a trovarvi. Sono stata di sopra con la
ragazza, per aiutarla a disfare le valigie; e, parola d'onore, signore, io non penso che debba aver luogo!».
«Cosa... il matrimonio?».
«Sì. La ragazza si sta forzando di accettarlo, poveretta; e voi non avete idea di quanto soffra. Io non sono mai
stata a favore della religione o contro di essa, ma non può essere giusto farle fare una cosa del genere, e dovreste
persuaderla a rinunciare. So bene che tutti diranno che è stato molto buono e misericordioso da parte vostra
riprendervela. Ma per quel che mi riguarda, non lo penso».
«È lei a desiderarlo, e io sono d'accordo», disse con contegnoso riserbo Phillotson, che d'un tratto l'opposizione
della vedova rendeva illogicamente tenace. «Una grande prova di lassismo verrà corretta».
«Non ci credo. Se è moglie di qualcuno, lo è dell'altro. Ha avuto tre bambini con lui ed egli la ama
teneramente; ed è una vergognosa malvagità incoraggiarla a fare ciò, povera creatura! Non ha nessuno che la difenda.
L'unico uomo che le è amico, si ostina a non volere che si avvicini. Mi domando chi le ha messo in testa queste idee!».
«Non saprei. Non io di certo. Ha fatto tutto lei di sua spontanea volontà. E non parliamone più», disse
Phillotson con rigida formalità. «Avete cambiato idea, signora Edlin. Non è da voi!».
«Sapevo che ve la sareste presa; ma non m'importa. La verità è la verità».
«Non me la sono presa, signora Edlin. Siete stata una vicina di casa troppo gentile perché possa prendermela.
Ma credo di sapere cosa sia meglio per me e per Susanna. Immagino, dunque, che non verrete in chiesa con noi?».
«No. Che io possa essere impiccata piuttosto... Non ci capisco più nulla! Il matrimonio di questi tempi è
diventato un passo così serio, che si ha veramente paura a compierlo. Ai tempi miei lo prendevamo più alla leggera, e
non mi pare che fossimo peggiori per questo! Quando ci unirono, io e il mio uomo, facemmo baldoria per una settimana
e ci bevemmo tutta la parrocchia, tanto che dovemmo farci imprestare mezza corona per cominciare a fare la spesa!».
Quando la signora Edlin uscì per tornare a casa, Phillotson disse incupito: «Non so se dovrei farlo... almeno
così in fretta».
«Perché?».
«Se veramente va contro il suo istinto solo per questo suo nuovo senso del dovere o della religione, forse
sarebbe meglio aspettare un poco».
«Ora che sei giunto a questo punto, non puoi tornare indietro. Io almeno la penso così».
«Non è facile rinviare tutto, questo è vero. Ma quando lei fece quella piccola esclamazione alla vista della
licenza, fui preso dai rimorsi».
«Senti, basta con i rimorsi, vecchio mio. Io ho intenzione di accompagnarla all'altare domattina, e tu di
sposarla. Mi sono sempre sentito in colpa per non essermi opposto con più decisione alla scelta di lasciarla andar via, ed
ora che siamo giunti a questo punto non sarò soddisfatto se non ti avrò aiutato a mettere tutto in ordine».
Phillotson annuì, e, colpito dalla risolutezza dell'amico, divenne più franco. «Certo, quando si saprà del mio
gesto molti diranno che sono stato uno stupido. Ma non conoscono Sue come la conosco io. Pur se è sfuggente, al fondo
il suo è un carattere così onesto che non credo abbia mai fatto nulla contro la sua coscienza. Che abbia vissuto con
Fawley non significa nulla. Quando mi lasciò per andare da lui, credeva fosse suo diritto. Ora pensa il contrario».
Venne la mattina dopo, e il sacrificio della donna all'altare di quelli che lei si compiaceva di chiamare i suoi
principi si compì con l'acquiescenza dei due amici, ciascuno dal suo punto di vista. Phillotson andò dalla signora Edlin a
prendere Sue pochi minuti dopo le otto. La nebbia dei due giorni precedenti, giù in pianura, era salita lassù, e gli alberi
l'avevano raccolta a piene mani, volgendola in una pioggia di goccioloni. La sposa aspettava pronta, con il cappello in
testa. Mai in vita sua era assomigliata tanto al giglio che il suo nome ricordava, quanto alla pallida luce di quella
mattina. Castigata, esausta, piena di rimorsi, la tensione nervosa l'aveva logorata nel fisico al punto da farla apparire più
minuta che in passato, pur non essendo mai stata una donna formosa anche nei giorni in cui scoppiava di salute.
«Andiamo», disse il maestro, prendendole magnanimamente la mano. Ma egli si trattenne dal baciarla,
ricordando il sussulto del giorno prima - un ricordo spiacevole che continuava a tornargli in mente.
Gillingham si unì a loro ed insieme uscirono di casa, mentre la vedova Edlin era più che mai decisa nel suo
rifiuto di assistere alla cerimonia.
«Dov'è la chiesa?», disse Sue. Non era più tornata a vivere lì da quando avevano abbattuto la vecchia chiesa, e
assorbita come era da se stessa si era dimenticata che ve ne era una nuova.
«Lassù», disse Phillotson; e subito la torre svettò massiccia e solenne nella nebbia. Il parroco era già
all'ingresso dell'edificio, e quando entrarono disse di buon umore: «Abbiamo quasi bisogno delle candele».
«Tu... desideri sul serio che io sia tua, Richard?», sussurrò con voce affannata Sue.
«Certo, cara; più di ogni altra cosa al mondo».
Sue non disse altro; e per la seconda o terza volta egli sentì di tradire quell'istinto di umanità che lo aveva
indotto a permetterle di andarsene.
In tutto erano in cinque: il parroco, il sacrestano, la coppia e Gillingham; e la sacra cerimonia fu celebrata di
nuovo. Nella navata dell'edificio c'erano un paio di abitanti del villaggio, e quando il prelato pronunciò le parole «Ciò
che Dio ha unito», si udì una voce di donna proveniente da questo gruppo che disse ad alta voce:
«Dio ha unito veramente!».
Era come una replica, recitata dai fantasmi delle persone di un tempo, della scena identica che si era svolta a
Melchester anni prima. Firmati i registri, il parroco si congratulò con il marito e la moglie per aver compiuto un atto
nobile, giusto e di reciproco perdono. «Tutto è bene quel che finisce bene», egli disse sorridendo. «Possiate essere felici
a lungo insieme dopo che in questo modo vi siete salvati dalle fiamme».
Si diressero verso l'uscita di quell'edificio quasi vuoto, e di lì alla casa del maestro. Gillingham voleva essere di
ritorno a casa quella sera, e partì presto. Lui pure si congratulò con la coppia. «Ora», disse nel congedarsi da Phillotson,
che lo aveva accompagnato per un tratto, «potrò raccontare alla gente nella tua città nativa una storia a lieto fine; e
quella dirà "ben fatto", sono sicuro».
Quando il maestro tornò, Sue stava cercando di occuparsi della casa come se vivesse lì. Ma parve timida,
vedendolo avvicinare, e un senso di rimorso s'impossessò di lui quando se ne accorse.
«Naturalmente, cara, non ho intenzione di intromettermi nella tua vita privata più di quanto non abbia fatto
prima», egli disse in tono grave. «La ragione per cui ci siamo sposati è che ci avvantaggia da un punto di vista sociale,
anche se io posso aver avuto altri motivi».
Sue si rasserenò un poco.
CAPITOLO VI
La scena si svolgeva all'ingresso della casa di Jude, alla periferia di Christminster - lontano dal recinto di San
Sila, nei cui dintorni aveva vissuto in passato, e che ora lo rattristava fino a farlo star male. Pioveva a dirotto. Una
donna, con un vestito nero sgualcito, parlava sulla soglia di casa con Jude, che teneva aperta la porta con la mano.
«Sono sola, abbandonata e senza casa - ecco come sono ridotta! Mio padre mi ha buttata fuori dopo avermi
succhiato tutto fino all'ultimo penny per finanziare i suoi affari, e poi mi ha accusato di essere una sfaccendata quando
stavo solo aspettando che si presentasse l'occasione giusta. Sono alla mercé del mondo! E se non puoi prendermi con te
e aiutarmi, Jude, dovrò andare all'ospizio, se non in qualche posto peggiore. Solo un attimo fa, due studenti per strada
mi hanno fatto l'occhiolino. È difficile per una donna restare virtuosa dove ci sono tanti giovani!».
A pronunciare tali parole sotto la pioggia era Arabella, la sera dello stesso giorno in cui Sue si era risposata con
Phillotson.
«Mi dispiace per te, ma io ho affittato solo una stanza», disse Jude con freddezza.
«Dunque mi cacci via?».
«Ti darò quanto basta per mangiare e dormire un paio di giorni».
«Oh, ma non potresti essere così gentile da farmi restare con te? Non ce la faccio più ad andare in una locanda;
e mi sento così sola. Per favore, Jude, in ricordo dei vecchi tempi!».
«No, no», disse Jude in modo sbrigativo. «Non voglio sentirmi ricordare quelle cose; e se incominci a parlarne
non ti aiuto di certo».
«Allora immagino che debba proprio andare!», disse Arabella. Chinò il capo contro la porta e scoppiò a
piangere.
«La casa è piena», disse Jude. «E io ho pochissimo spazio libero per me stesso, non più di uno sgabuzzino,
dove tengo i miei arnesi, le sagome, e i pochi libri che mi sono rimasti!».
«Per me sarebbe una reggia!».
«Manca pure il letto».
«Me ne farò uno per terra. Andrà benissimo».
Incapace di essere severo con lei, e indeciso sul da farsi, Jude chiamò l'affittacamere e gli disse che si trattava
di una sua amica in grandi difficoltà, in quanto sprovvista al momento di un alloggio.
«Forse vi ricordate di me quando facevo la cameriera all'"Agnello con bandiera"», disse Arabella. «Mio padre
mi ha trattato male questo pomeriggio, ed io sono andata via, senza un penny!».
L'affittacamere disse che non ricordava il suo volto. «Comunque, se siete amica del signor Fawley, faremo il
possibile per sistemarvi per un paio di giorni - sempre che egli si renda garante».
«Sì, sì», disse Jude. «Mi ha proprio colto di sorpresa; ma vorrei se possibile aiutarla in questa situazione». E
alla fine si decise che avrebbero messo un letto per terra nello sgabuzzino di Jude per dare ad Arabella una sistemazione
confortevole finché non avesse risolto le difficoltà in cui si trovava - non per colpa sua, lei aveva dichiarato - e non
fosse tornata dal padre».
Mentre attendevano che portassero il letto, Arabella disse: «Hai avuto la notizia, immagino?».
«Capisco che vuoi dire, ma non ne so nulla».
«Ho ricevuto una lettera da Anny, oggi. Aveva appena sentito che il matrimonio avrebbe avuto luogo ieri: ma
non sapeva se poi ci fosse stato sul serio».
«Non ho voglia di parlarne».
«No, no, certo che no. Solo che dimostra che genere di donna...».
«Ti ho detto di non parlare di lei! È folle!... Ed è anche un angelo, povera cara!».
«Se lo hanno fatto, egli avrà una possibilità di riprendere il suo vecchio lavoro, così ha sentito dire Anny. Tutti
i suoi amici ne saranno contenti, compreso il vescovo».
«Arabella, basta!».
Arabella si installò come d'accordo nel piccolo attico, e in un primo momento non osava avvicinarsi a Jude.
Andava avanti e indietro per i fatti suoi, che consistevano - lo informò una volta incrociandolo per le scale o sul
pianerottolo - nel trovarsi un altro posto in quel mestiere che conosceva meglio di qualsiasi altra. Quando Jude suggerì
che Londra le avrebbe offerto maggiori opportunità in quel campo, scosse il capo. «No... ci sono troppe tentazioni»,
disse. «Preferisco una qualsiasi locanda qui in campagna».
La domenica seguente, di mattina, quando Jude faceva colazione più tardi degli altri giorni, lei venne a
chiedergli timidamente se poteva unirsi a lui, poiché la sua teiera si era rotta e non c'era modo si sostituirla quel giorno
stesso, dato che i negozi erano chiusi.
«Sì, se vuoi», egli disse con indifferenza.
Mentre erano seduti in silenzio, Arabella osservò all'improvviso: «Stai rimuginando qualcosa, vecchio mio. Mi
dispiace per te».
«Sì, sto rimuginando qualcosa».
«È a lei che pensi, vero? Non è affar mio, ma potrei sapere ogni cosa del matrimonio - se c'è stato veramente se tu volessi».
«E come faresti?».
«Devo comunque tornare ad Alfredston a prendere un paio di cose che ho lasciato lì. Potrei andare a trovare
Anny che sicuramente ne avrà sentito parlare, visto che ha delle amiche a Marygreen».
Jude non poteva accettare una proposta del genere; ma lo stato d'ansia in cui si trovava si contrappose alla sua
discrezione ed ebbe la meglio. «Chiedi pure, se vuoi», disse. «Io non ho saputo nulla fino ad oggi. Deve essere stata una
cerimonia molto privata... sempre che si siano sposati».
«Purtroppo non ho abbastanza denaro per pagarmi il biglietto di ritorno, altrimenti sarei già andata. Dovrò
attendere fino a quando non avrò guadagnato qualche soldo».
«Oh... posso pagarti io il viaggio», egli disse impaziente. E così la preoccupazione per la situazione di Sue e il
possibile matrimonio, lo spinsero a inviare in cerca di notizie l'ultimo emissario che mai gli sarebbe venuto in mente di
scegliere a mente fredda.
Arabella partì, e Jude le raccomandò di tornare al più tardi col treno delle sette. Appena fu solo disse: «Perché
mai ho dovuto chiederle di tornare a un'ora particolare! Per me lei non conta nulla... né lei né l'altra!».
Ma avendo finito di lavorare, non riuscì a trattenersi dall'andare a prenderla alla stazione, trascinato dall'ansia
febbrile di conoscere le notizie che poteva portargli, per quanto tristi potessero essere. Lungo il tragitto verso casa,
Arabella aveva passato il tempo a fare fossette con grande successo, e quando scese dal vagone lo accolse con un
sorriso. Egli si limitò a chiederle: «Allora?», con un'espressione che a tutto poteva assomigliare tranne che a un sorriso.
«Si sono sposati».
«Sì... c'era da aspettarselo!», egli rispose. Lei notò, comunque, la contrazione penosa delle sue labbra mentre
parlava.
«Anny dice che ha sentito da Belinda, la sua parente che vive nei paraggi di Marygreen, che è stato molto
triste, e curioso!».
«In che senso triste? Lei voleva risposarlo, no?... e così lui!».
«Sì... infatti. In un certo senso lei voleva, ma in un altro no. La signora Edlin è rimasta molto turbata da tutta la
vicenda, e ha detto quello che pensava a Phillotson. Ma Sue era in un tale stato di esaltazione da bruciare la sua più
bella camicia da notte, che aveva indossato con te, per cancellarti del tutto dalla sua vita. Insomma... se una donna ha di
questi sentimenti, non può che fare una cosa del genere. Io non posso che elogiarla, anche se altri la giudicherebbero
diversamente». Arabella sospirò. «Sente che è il suo unico marito, e che agli occhi di Dio Onnipotente lei non può
appartenere ad altri finché lui è vivo. Forse anche un'altra donna pensa lo stesso di sé!», disse, sospirando di nuovo.
«Lascia perdere queste idiozie!», esclamò Jude.
«Non sono idiozie», disse Arabella. «Io sento esattamente quello che sente lei!».
Jude chiuse l'argomento osservando bruscamente: «Bene... ora so tutto quello che volevo sapere. Grazie mille
per l'informazione. Credo che tornerò a casa più tardi». E se ne andò immediatamente.
In preda alla tristezza e alla depressione, Jude si diresse in tutti i luoghi di quella città che aveva visitato con
Sue; poi vagò senza meta, finché non pensò di tornarsene a casa a cenare come ogni sera. Ma possedendo tutti i vizi
delle sue virtù, e semmai qualcuno di troppo, per la prima volta dopo molti mesi entrò in una locanda. Tra le possibili
conseguenze del suo matrimonio, Sue non aveva pensato a questa.
Nel frattempo Arabella era rientrata a casa. Gran parte della sera trascorse senza che Jude si facesse vedere.
Alle nove e mezza decise di uscire, dirigendosi in un primo momento in una zona di periferia vicino al fiume dove di
recente il padre aveva aperto una piccola salumeria.
«Malgrado la scenata di ieri sera», disse, «sono venuta perché devo dirti qualcosa. Penso che mi sposerò e mi
sistemerò di nuovo. Solo che devi aiutarmi: e non puoi rifiutarti, dopo quello che ho fatto per te».
«Farei qualsiasi cosa per levarti dai piedi!».
«Bravo. Adesso vado a cercare il mio giovane. Temo che sia un po' brillo, e devo riportarlo a casa. Tutto quello
che ti chiedo è di non chiudere a chiave la porta, nel caso io voglia tornare a dormire e si sia fatto tardi».
«Lo dicevo che ti saresti stancata presto di darti delle arie e startene da sola!».
«Sì, va bene... basta che non chiudi la porta. Non ho altro da dirti».
Uscì di nuovo, dapprima precipitandosi a casa di Jude per essere sicura che non fosse tornato, e poi iniziando a
cercarlo in giro. Una intuizione azzeccata sui suoi possibili spostamenti la portò dritta alla locanda che Jude aveva
frequentato un tempo, e dove lei aveva lavorato come cameriera per un breve periodo. Non fece in tempo ad aprire la
porta del locale che gli occhi le caddero su di lui - seduto in un angolo in fondo al locale, con lo sguardo fisso a terra, in
uno stato di vuota contemplazione. Non aveva bevuto nulla di più forte di un bicchiere di birra, fino a quel momento.
Non fece caso a lei, che entrò e gli si sedette accanto.
Jude alzò lo sguardo e disse senza sorpresa: «Sei venuta per bere qualcosa, Arabella?... Sto cercando di
dimenticarla: tutto qui! Ma non ci riesco; e non voglio tornare a casa». Lei notò che aveva bevuto un poco, ma solo un
poco, per il momento.
«Sono venuta soltanto a cercare te, caro ragazzo. Non stai bene. Dovresti bere qualcosa di meglio di quello».
Arabella fece un cenno alla cameriera. «Dovresti prendere un liquore - è più adatto a un uomo di cultura della birra. Ti
ordinerò del maraschino, o del curaçao secco o dolce, o uno cherry. Offro io, povero amico!».
«Ordina quello che vuoi! Diciamo uno cherry... Sue mi ha trattato molto male, molto male. Io sono rimasto con
lei, e lei sarebbe dovuta rimanere con me. Per lei avrei venduto l'anima, ma lei non ha voluto rischiare un briciolo della
sua per me. Per salvare la sua anima, lascia che la mia sia dannata!... Ma non è colpa sua, povera ragazza... sono certo
che non lo è!».
Dove Arabella avesse trovato i soldi non era chiaro, ma sta di fatto che ordinò un liquore a testa e pagò di tasca
sua per entrambi. Finitolo, Arabella propose di prenderne un altro; e così Jude ebbe la fortuna di essere condotto di
persona in mezzo alle varietà di piacere alcoolico da una che le conosceva a fondo. Arabella fece attenzione a bere
molto meno di Jude; ma pur limitandosi a sorseggiare i bicchieri che egli scolava fino all'ultima goccia, bevette quanto
era possibile senza perdere la testa - non poco, a giudicare dall'acceso colorito del suo volto.
Verso di lui, Arabella quella sera era uniformemente conciliante e lusinghiera; e ogni volta che lui diceva:
«Non mi importa che accadrà di me» - e fu abbastanza spesso - lei rispondeva: «A me sì, moltissimo!». Giunse l'ora
della chiusura e furono costretti ad uscire. Arabella gli mise un braccio intorno alla vita e guidò i suoi passi incerti.
Una volta per strada, disse: «Chissà cosa dirà il padrone di casa quando ti vedrà in questo stato. Immagino che
avrà chiuso la porta e dovrà scendere ad aprirci».
«Non lo so, non so nulla».
«Ecco che succede a non avere una casa propria. Ti dico io, Jude, cosa è meglio fare. Andiamo da mio padre...
mi sono un po' riconciliata con lui, oggi. Ho la chiave, e così nessuno ti vedrà; e domani mattina starai di nuovo bene».
«Come vuoi, fai tu...», rispose Jude. «Che diavolo vuoi che me ne importi?».
Si incamminarono insieme, come una qualsiasi coppia di ubriachi, lei che lo sorreggava alla vita con un
braccio, e lui che finalmente le aveva a sua volta messo un braccio intorno alla vita, sebbene senza alcuna passione,
unicamente perché era stanco, vacillava e aveva bisogno di sostegno.
«Questo... è... il luogo del rogo... dei martiri», egli balbettò mentre attraversavano a fatica una larga strada.
«Ricordo... in Stato sacro del vecchio Fuller... perché passiamo di qui... il vecchio Fuller dice nel suo Stato sacro che,
quando bruciarono Ridley, il dottor Smith... tenne una predica e per testo scelse "Anche se donassi il mio corpo al
fuoco, se non ho la carità a nulla mi serve!"... Ci penso spesso quando passo di qui. Ridley era un...».
«Sì. Proprio così. È molto onorevole da parte tua, anche se non c'entra molto con il nostro attuale problema».
«Come, certo che c'entra! Io offro il mio corpo affinché sia bruciato! Ma... già... tu non capisci!... ci vuole Sue
per capire queste cose! Ed io sono stato il suo seduttore... povera ragazza! E lei se n'è andata... e non m'importa più
nulla di me stesso! Portami dove vuoi!... Eppure l'ha fatto per la propria coscienza, povera piccola Sue!».
«Che le venga un colpo!... Voglio dire che penso abbia ragione», disse Arabella, che non riusciva a fermare il
singhiozzo. «Anch'io ho i miei sentimenti, non solo lei, e sento d'appartenere a te agli occhi del Cielo, e a nessun altro,
finché morte non ci separi! Non è... hic... mai troppo... hic... tardi per rimediare!».
Erano arrivati alla casa del padre, e Arabella aprì lentamente la porta, cercando a tastoni una luce all'interno.
Le circostanze non erano così diverse da quelle del loro ingresso nella casetta di Cresscombe, tanto tempo
prima. Né, forse, lo erano le ragioni di Arabella. Ma a Jude non venne in mente, anche se Arabella ci pensò.
«Non riesco a trovare i fiammiferi, caro», lei disse dopo aver richiuso la porta. «Ma non importa... da questa
parte. Fai meno rumore che puoi, per piacere».
«È nero come la pece», disse Jude.
«Dammi la mano, e ti porto io. Ecco, bravo. Ora siediti qui che ti levo gli stivali. Non voglio che lo svegli».
«Chi?».
«Mio padre. Potrebbe arrabbiarsi».
Gli tolse gli stivali. «E ora», gli sussurrò, «appoggiati a me... non ti preoccupare del peso. Su... primo gradino...
secondo gradino...».
«Ma... siamo tornati alla nostra vecchia casa di Marygreen?», chiese Jude meravigliato. «Sono anni che non ci
rientro! Ehi? E dove sono i miei libri? Vorrei proprio saperlo!».
«Siamo a casa mia, caro, dove nessuno può accorgersi di quanto stai male. Su... terzo gradino... quarto
gradino... bravo. Continuiamo così».
CAPITOLO VII
Arabella stava preparando la colazione nella stanza sul retro di quella casetta affittata recentemente dal padre.
Fece capolino nella piccola salumeria che dava sulla strada per dire al signor Donn che era pronto. Donn, che cercava di
sembrare un esperto salumiere, con un camice azzurro sporco di grasso, e una cinta intorno alla vita da cui pendeva un
coltello d'acciaio, non se lo fece ripetere.
«Devi occuparti tu del negozio, stamattina», disse per inciso. «Io devo andare a prendere delle interiora e
mezzo maiale da Lumsdon, e per affari altrove. Se vuoi vivere qui, è l'ora che ti dai da fare, almeno finché il negozio
non sarà avviato!».
«Oggi, però, non sono sicura di potere». Guardò il padre con malizia. «Ho una sorpresa di sopra».
«Oh?... Come sarebbe?».
«Un marito... quasi».
«No!».
«Sì. È Jude. È tornato».
«Jude, il tu primo marito? Che mi venga un colpo!».
«Mi è sempre piaciuto, questo posso dirlo».
«Ma come è possibile che stia di sopra?», disse Donn stupito, indicando il soffitto.
«Non fare domande inopportune, papà. Quello che dobbiamo fare è tenerlo qui finché io e lui non siamo...
quelli che eravamo».
«Sarebbe a dire?».
«Sposati».
«Ah... è la cosa più assurda che abbia mai sentito... sposarsi di nuovo un vecchio marito quando in giro c'è
tanta carne fresca! Per me non mette conto. Fossi in te, me ne troverei uno nuovo».
«Non è assurdo per una donna volersi riprendere il marito per una ragione di rispettabilità, sebbene per un
uomo riprendersi la propria moglie... mah, forse è divertente, dopotutto!». All'improvviso Arabella scoppiò a ridere ad
alta voce, e il padre si unì a lei, anche se con più moderazione.
«Trattalo bene, e io penso al resto», riprese a dire, tornando seria. «Mi ha detto stamattina che gli scoppia la
testa e non ricorda dove è stato ieri notte. È chiaro, considerando tutti i miscugli che si è bevuto! Dobbiamo tenerlo qui
e farlo star bene e allegro per un paio di giorni, evitando che torni a casa sua. Tutti i soldi che anticipi te li restituirò in
seguito. Ma ora devo tornare su a vedere come sta, povero caro».
Arabella salì le scale, aprì lentamente la porta della prima stanza da letto, e vi si affacciò. Constatando che il
suo Sansone tosato dormiva, entrò nella stanza e si fermò a guardarlo. Il rossore quasi febbricitante del suo volto,
provocato dalla baldoria della sera precedente, aveva ceduto il posto alla fragilità del suo aspetto normale, e le sue
lunghe ciglia, le sopracciglia scure, la barba e i capelli ricci neri, accentuati dal cuscino bianco, completavano la
fisionomia di uno che ad Arabella, donna sensuale e passionale, pareva ancora degno di essere riconquistato, e, più che
degno, indispensabile per una come lei i cui mezzi non erano superiori alla sua reputazione. Il suo sguardo ardente
parve avere un influsso su di lui: il respiro gli si fece meno affannoso, ed egli aprì gli occhi.
«Come ti senti, caro?», lei disse. «Sono io... Arabella».
«Ah!... dove... Oh sì, ricordo! Siamo andati da te... Mi sento confuso... stanco... demoralizzato... malissimo!
Ecco come sto!».
«Allora non ti alzare. In casa non c'è nessuno, tranne me e mio padre, e puoi riposarti finché non ti sarai
ripreso. Andrò io a dire al cantiere che sei malato».
«Chissà che penserà il padrone di casa!».
«Passerò anche da lui e gli spiegherò tutto. Forse sarebbe meglio se lasciassi che lo paghi io, o altrimenti
penserà che siamo scappati per non pagare».
«Sì. Troverai abbastanza soldi nella mia tasca lì».
Indifferente a tutto, e chiudendo gli occhi perché non poteva sopportare la luce del giorno nelle pupille dilatate
dall'alcool, Jude parve appisolarsi di nuovo. Arabella prese il portafoglio di Jude, uscì piano dalla stanza, e dopo essersi
messa il cappotto si recò alla casa che entrambi avevano lasciato la sera precedente.
Non era trascorsa mezz'ora quando la si vide girare l'angolo di ritorno a casa, accompagnata da un ragazzo che
spingeva un carretto su cui aveva accatastato tutti gli effetti di Jude, e le poche cose che lei stessa aveva portato con sé
dopo aver litigato col padre. Jude era così prostrato sia fisicamente, per il triste tracollo della sera prima, che
mentalmente, perché aveva perso Sue e nel suo stato di semi-incoscienza aveva ceduto ad Arabella, che quando vide la
propria roba ammucchiata in quella strana camera in mezzo ai vestiti di Arabella non si chiese neppure come fosse
giunta lì, o cosa il suo arrivo significasse.
«Ed ora», disse Arabella al padre di sotto, «bisogna che non manchi mai del buon liquore in casa nei prossimi
giorni. Conosco il suo carattere, e se per caso egli sprofonda in uno di quegli stati di depressione nei quali si ritrova di
tanto in tanto, non compirà mai il passo che tornerà a farmi essere rispettabile agli occhi del mondo, e mi pianterà in
asso. Bisogna che sia allegro. Ha un po' di soldi in banca, e mi ha dato il portafoglio per far fronte a ogni necessità.
Bene, questa è la licenza di matrimonio; poiché devo averla a portata di mano, per intrappolarlo non appena sarà nello
spirito giusto. I liquori dovrai pagarli tu. Pochi amici e una festicciola tranquilla, se possiamo organizzarla. Farebbe
pubblicità al negozio e aiuterebbe anche me».
«Organizzarla è facile, se c'è chi paga da mangiare e da bere... D'accordo, va bene, farà pubblicità al negozio, è
vero».
Tre giorni dopo, quando Jude si era abbastanza ripreso dal dolore terribile agli occhi e alla testa, ma aveva
ancora la mente alquanto offuscata da ciò che Arabella gli aveva somministrato nel frattempo - per tenerlo su di giri,
diceva - la tranquilla festicciola proposta da lei per invogliarlo al grande passo, ebbe luogo.
Donn aveva appena aperto la sua piccola e squallida salumeria, che praticamente non aveva ancora un cliente;
tuttavia, la festa fece al negozio una buona pubblicità, e regalò ai Donn una reale notorietà in quella classe sociale di
Christminster che non conosceva i collegi universitari, né le loro opere, né le loro usanze. Chiesero a Jude se desiderava
invitare qualcun altro, oltre a coloro cui avevano pensato Arabella e suo padre, e in uno stato d'animo saturnino di totale
indifferenza egli menzionò lo zio Joe e Stagg, il battitore d'asta fallito, e altri che ricordava essere frequentatori abituali
della ben nota locanda ai vecchi tempi delle sue ubriacature. Suggerì d'invitare anche Lentiggini e Felicità. Arabella
eseguì alla lettera le sue richieste riguardo agli uomini, ma si guardò bene dall'invitare anche le donne.
Un altro uomo che loro conoscevano, Tinker Taylor, pur vivendo nella stessa strada non fu invitato; ma, di
ritorno a casa da un lavoro finito tardi, egli si fermò per caso alla salumeria a comprare uno zampetto. Al momento ne
erano sprovvisti, ma promisero di procurarne qualcuno per il giorno dopo. Mentre era lì, lo sguardo gli cadde sul retro
del negozio e vide gli invitati seduti intorno a un tavolo a giocare a carte, bere e divertirsi in vario modo a spese di
Donn. Andò a casa a dormire, e la mattina dopo, recandosi al lavoro, era curioso di sapere come era andata la festa.
Pensò non fosse il caso di fermarsi al negozio così presto per prendere la merce ordinata la sera prima, immaginando
che Donn e la figlia fossero ancora a letto, se avevano fatto baldoria la notte prima. Tuttavia, passando davanti al
negozio, notò che la porta era aperta e udì delle voci all'interno, anche se le saracinesche delle vetrine erano ancora
abbassate. Si fermò, bussò alla porta ed entrò.
«Per la miseria!», disse, stupefatto.
I padroni di casa e i loro ospiti erano ancora seduti a giocare a carte, a fumare e a parlare, esattamente come li
aveva visti undici ore prima; le lampade a gas bruciavano, e le tende erano abbassate, malgrado già da due ore fosse
pieno giorno.
«Eh sì!», esclamò Arabella, ridendo. «Siamo ancora qui come ieri sera. Dovremmo vergognarci, proprio così!
Ma è una sorta di festa di inaugurazione della casa, e i nostri amici non hanno fretta di andar via. Entrate, signor Taylor,
e accomodatevi».
Il fabbro, che a dire il vero si era ridotto a vendere ferri vecchi, non era tipo da farsi pregare, e così entrò e si
mise a sedere. «Farò un po' tardi, ma non importa», disse. «Non credevo ai miei occhi, parola d'onore, quando sono
entrato! Mi sembrava di essere tornato tutto d'un tratto alla notte scorsa».
«In effetti. Date qualcosa da bere al signor Taylor».
Taylor s'accorse allora che Arabella era seduta accanto a Jude, e lo teneva abbracciato. Come il resto della
compagnia, Jude mostrava sul volto i segni di quanto si fosse lasciato andare.
«Sa, a dire il vero stiamo aspettando che si faccia una certa ora legale», lei continuò sfacciatamente, cercando
di rendere il suo rossore dovuto all'alcool il più possibile simile a quello di una ragazza pudica. «Io e Jude abbiamo
deciso di risolvere i problemi tra noi legandoci di nuovo assieme, dal momento che abbiamo scoperto di non poter fare a
meno l'uno dell'altro. E così abbiamo avuto la brillante idea di restare alzati finché non fosse l'ora, e poi andare a
toglierci subito il pensiero».
Jude sembrava non prestare grande attenzione a queste parole, se mai le aveva ascoltate. L'arrivo di Taylor
infuse nuova allegria nella compagnia, e tutti rimasero a sedere finché Arabella non sussurrò al padre: «È ora di
andare».
«Ma il parroco lo sa?».
«Sì. L'ho avvertito ieri sera che saremmo arrivati tra le otto e le nove, dato che per ragioni di decenza era
meglio farlo il prima e il più discretamente possibile, poiché è il nostro secondo matrimonio e attirerebbe molti curiosi
se lo si venisse a sapere. Abbiamo tutta la sua approvazione».
«Oh, va bene: io sono pronto», disse il padre alzandosi e dandosi una sistemata ai vestiti.
«E ora caro», Arabella disse a Jude, «andiamo, come hai promesso».
«Quando mai ho promesso qualcosa?», chiese Jude, che lei aveva reso così ubriaco grazie alla sua esperienza
in quel campo da farlo essere quasi sobrio di nuovo - o almeno tale all'apparenza per coloro che non lo conoscevano.
«Come!», disse Arabella, mostrandosi costernata. «Hai promesso più volte di sposarmi mentre eravamo qui
seduti tutta la notte. Questi signori ti hanno sentito bene».
«Io non ricordo niente», disse Jude con ostinazione. «C'è solo una donna... ma non la nominerò in questo
Cafarnao!».
Arabella diede un'occhiata al padre. «Avanti signor Fawley, siate un uomo d'onore», disse Donn. «Voi e mia
figlia avete vissuto qui, questi tre o quattro giorni, facendo capire che avevate intenzione di sposarla. Ovviamente non
avrei permesso una cosa del genere in casa mia, se non avessi capito così. Se siete un uomo d'onore, ora dovete farlo».
«Lasciate in pace il mio onore!», ribatté Jude accalorato, mentre si alzava in piedi. «Sposerei la p... di
Babilonia pur di non compiere un'azione disonorevole! Non mi riferivo a te, cara! È una semplice figura retorica...
quella che nei libri chiamano iperbole».
«Tenetevi le vostre figure e pagate i debiti con gli amici che vi hanno ospitato», disse Donn.
«Se devo sposarla per una questione d'onore, come credo di dovere - sebbene non sappia come abbia finito col
trovarmi qui con lei più di quanto possa saperlo un morto - vuol dire che la sposerò, che Dio mi protegga! Non mi sono
mai comportato in modo disonesto con una donna o un qualsiasi essere vivente. Non sono il tipo d'uomo che vuole
salvare se stesso a spese dei più deboli tra noi!».
«Ecco... non preoccuparti, caro», disse lei, accostandosi con il viso a quello di Jude. «Vieni di sopra, datti una
sciacquata e una ripulita, che poi andiamo. E fai la pace con mio padre».
Si strinsero la mano. Jude salì di sopra con lei e poco dopo ridiscese, con un aspetto pulito e tranquillo. Anche
Arabella si era rimessa un po' in ordine in gran fretta, e accompagnati da Donn i due uscirono di casa.
«Non andatevene», lei disse agli ospiti prima di allontanarsi. «Ho dato ordini alla cameriera di preparare la
colazione mentre saremo via; e quando torneremo la faremo tutti insieme. Una tazza di tè bello forte rimetterà tutti in
sesto».
Dopo che Arabella, Jude e Donn furono scomparsi per la loro spedizione matrimoniale, gli ospiti lì riuniti, tra
uno sbadiglio e l'altro, si svegliarono e si misero a discutere della situazione con grande partecipazione. Tinker Taylor,
essendo il più sobrio della compagnia, era quello che ragionava più lucidamente.
«Non che voglia parlar male di amici», disse. «Ma sembra proprio strano che una coppia si risposi! Per conto
mio, se non potevano andare d'accordo la prima volta quando hanno dalla loro la passione, non potranno neppure la
seconda».
«Pensi che la sposerà?».
«Lei l'ha messa come una questione d'onore, e dunque potrebbe».
«Sarà difficile che lo faccia così su due piedi. Non ha neanche una licenza».
«Quella ce l'ha lei, figurati! Non hai sentito che lo diceva al padre?».
«Comunque», disse Tinker Taylor, riaccendendosi la pipa con la fiamma della lampada a gas, «nell'insieme,
presa pezzo per pezzo, non è poi tanto male - particolarmente a lume di candela. Certo, non si può pretendere che una
moneta già in circolazione sia come una appena uscita dalla zecca. Ma per essere una donna che si è sbattuta ai quattro
angoli della terra, è ancora passabile. Un po' grossa di fianchi, forse: ma a me piacciono le donne che un colpo di vento
non si porta via».
I loro occhi seguirono i movimenti della servetta che stendeva la tovaglia sulla tavola, intorno alla quale erano
stati seduti tutta la notte, senza neppure asciugare le macchie di liquore. Tirarono le tende e la casa prese un aspetto
mattutino. Ciò non impedì ad alcuni degli ospiti di addormentarsi. Altri più di una volta aprirono la porta di casa per
dare un'occhiata alla strada. Tra i più apprensivi vi era lo stesso Tinker Taylor, che dopo un minuto rientrò avendo sul
volto un'espressione maliziosa.
«Per Dio, stanno tornando! Ormai è fatta!».
«No!», disse lo zio Joe, dietro di lui. «Scommetto che si è tirato indietro all'ultimo momento. Stanno
camminando in modo molto strano; il perché è chiaro!».
Attesero in silenzio finché non sentirono gli sposi rientrare in casa. La prima a entrare nella stanza fu Arabella,
raggiante; e il suo volto bastava per capire che la sua strategia aveva funzionato.
«La signora Fawley, immagino?», disse Tinker Taylor con ironica cortesia.
«Certamente. Di nuovo la signora Fawley», rispose affabilmente Arabella togliendosi un guanto e mostrando la
mano. «Ecco la fede, vedete... Be', è stato un uomo molto gentile, proprio un signore. Parlo del parroco. Mi ha detto,
gentile come un bambino, dopo che la cerimonia era finita, "Signora Fawley, mi congratulo di tutto cuore". Ha poi
aggiunto: "Avendo sentito la vostra storia e quella di vostro marito, credo abbiate fatto entrambi la cosa più giusta e
appropriata. E per i vostri errori come moglie, e per i suoi come marito, penso che ora il mondo debba perdonarvi, come
ognuno di voi ha perdonato l'altro". Sì, è stato molto gentile, un vero signore. "La Chiesa non riconosce il divorzio tra i
suoi dogmi", ha detto ancora. "E ricordatevi le parole pronunciate durante la cerimonia nelle vostre azioni future: Quel
che Dio ha unito, nessun uomo potrà dividere". Sì, è stato molto gentile, proprio un signore. Ma Jude, caro, tu avresti
fatto ridere anche un gatto! Camminavi così rigido, e ti tenevi così dritto, che si sarebbe detto andassi come apprendista
da un giudice; anche se ho capito che per tutto il tempo devi averci visto doppio, a giudicare da quante difficoltà hai
avuto a infilarmi l'anello al dito».
«Ho detto che avrei fatto qualsiasi cosa per... salvare l'onore di una donna», blaterò Jude. «E l'ho fatto!».
«Bravo, caro, ed ora vieni a fare colazione».
«Vorrei... ancora... del whisky», disse Jude intontito.
«Per carità, caro. Non ora! Non ce n'è più. Il tè ti schiarirà la mente, e ci farà tornare vispi come due
fringuelli».
«D'accordo. Io... ti ho sposato. Lei aveva detto che dovevo sposarti di nuovo, e l'ho fatto. Ecco la vera
religione! Ah, ah ah!».
CAPITOLO VIII
Venne e passò la festa di San Michele e Jude e la moglie, che erano vissuti solo per poco tempo a casa del
padre di lei dopo essersi risposati, avevano preso in affitto l'ultimo piano di un'abitazione più vicina al centro della città.
Egli aveva lavorato qualche giorno nei due o tre mesi successivi al matrimonio, ma la sua salute non si era mai
pienamente ristabilita, ed ora appariva di nuovo precaria. Era seduto in poltrona accanto al camino e tossiva molto.
«Mi è convenuto proprio risposarti!», Arabella gli diceva. «Sarò io a lavorare per te, ecco come finirà! Mi
toccherà fare sanguinacci e salsicce, e andarli a vendere per le strade, per mantenere un marito invalido che non avevo
alcun bisogno di caricarmi sul groppone. Perché ti sei ammalato, ingannandomi in questo modo? Non stavi così il
giorno del matrimonio!».
«Eh sì!», disse Jude, ridendo con amarezza. «Stavo pensando alla mia assurda reazione quando abbiamo ucciso
il maiale durante il nostro primo matrimonio. Adesso mi sembra che la grazia più grande che mi si potrebbe accordare
sarebbe quella di fare a me quello che io ho fatto a quell'animale».
Questo era il genere di discorso che normalmente si svolgeva tra di loro ogni giorno. Il padrone di casa, il
quale aveva sentito dire che erano una coppia strana, dubitava addirittura che fossero sposati, in particolare perché una
sera aveva visto Arabella baciare Jude dopo aver bevuto un bicchierino di cordiale; e stava per dar loro lo sfratto
quando per caso la udì coprire Jude di insulti e tirargli una scarpa in testa, e riconosciuta nella scena la prova di un vero
matrimonio, concluse che dovevano essere rispettabili e non disse più nulla.
Jude non migliorava, e un giorno domandò ad Arabella tra molte esitazioni di fargli un piacere. Lei chiese con
indifferenza di cosa si trattava.
«Vorrei che scrivessi a Sue».
«Vuoi dire a nome... e perché vorresti che le scrivessi?».
«Per chiederle come sta e di venire a trovarmi, poiché sono malato e mi farebbe piacere rivederla... un'ultima
volta».
«Solo tu potresti insultare una moglie legittima chiedendole una cosa del genere!».
«È proprio per non insultarti che te l'ho chiesto. Sai bene che amo Sue. Tanto vale parlar chiaro, è un fatto: la
amo. Potrei trovare una dozzina di modi per farle recapitare una lettera a tua insaputa. Ma vorrei essere leale con te, e
con suo marito. Un messaggio scritto da te, in cui le chiedi di venire, almeno non susciterà il sospetto di un intrigo. Se
ha conservato un po' del carattere di un tempo, verrà».
«Non hai alcun rispetto del matrimonio, dei suoi diritti e dei suoi doveri!».
«Cosa importa quello che penso... un relitto come me! A chi può interessare chi viene a trovarmi per
mezz'ora... a me che sto con un piede nella fossa!... Avanti, Arabella, scrivi per piacere!», egli la implorò. «Ripaga il
mio candore con un po' di generosità!».
«Non ci penso per niente!».
«Neppure una volta?... Ti prego». Egli sentiva che la debolezza fisica lo aveva privato di ogni dignità.
«Perché vorresti che lei sapesse come stai? Lei non ha voglia di vederti. È come un topo che è scappato dalla
nave prima che affondi!».
«Smettila, smettila!».
«E io che ti sono andata dietro... che cretina! Ci manca pure che quella sgualdrina venga in casa!».
Arabella non aveva fatto in tempo a pronunciare queste parole che Jude era balzato in piedi, e prima che lei
potesse rendersene conto l'aveva gettata su un divano lì vicino, immobilizzandola.
«Ripeti un'altra volta quella parola e ti ammazzo... qui, seduta stante! Ho tutto da guadagnare a farlo... A
cominciare dalla mia morte. E non pensare che non parlo sul serio!».
«Cosa vuoi che faccia?», disse Arabella con affanno.
«Prometti di non nominarla mai più».
«D'accordo. Lo farò».
«Ti prendo in parola», egli disse sprezzante, lasciandola andare. «Ma cosa valga, non lo so».
«Non potevi uccidere il maiale, ma puoi uccidere me!».
«Ah, ecco che ricominci! No, non avrei potuto ammazzarti, neppure se fossi uscito di testa. Lasciami in pace!».
A quel punto ebbe un forte attacco di tosse e Arabella si mise a valutare con occhio da esperta quanto gli
restava da vivere, mentre egli ricadde a sedere pallido come un fantasma. «Le chiederò di venire», gli disse a bassa
voce, «se accetti che io sia presente nella stanza tutto il tempo che lei è qui».
Il lato più arrendevole del suo carattere, il desiderio di vedere Sue, gli impedirono di rifiutare l'offerta persino
in quel momento, per quanto fosse stato provocato; e le rispose senza fiato: «Sì, sono d'accordo. Basta che la chiami!».
La sera le chiese se aveva scritto.
«Sì», lei rispose. «Le ho scritto un biglietto comunicandole che sei malato e chiedendole di venire domani o
dopodomani. Ma non l'ho ancora impostato».
Il giorno dopo Jude si domandava se l'avesse spedito sul serio, ma non volle chiederglielo; e la folle Speranza,
che vive su una briciola come su una goccia, lo rese agitato per l'attesa. Conosceva a memoria l'orario dei possibili treni,
e ogni volta restava in attesa di sentirla arrivare.
Non arrivò; ma Jude decise di non parlarne più con Arabella. Sperò e restò in attesa tutta la giornata
successiva: ma Sue non venne, né un suo biglietto. Poi Jude decise tra sé e sé che Arabella non aveva mai impostato
quello da lei scritto. Qualcosa nel suo modo di fare glielo diceva. La debolezza fisica di Jude era tale che si mise a
piangere per la delusione quando la moglie non poteva vederlo. A dire il vero, i suoi sospetti erano fondati. Come altre
infermiere, Arabella credeva che suo dovere fosse di tranquillizzare l'ammalato in ogni modo, tranne che eseguendo le
sue richieste.
Non accennò più con lei ai propri desideri né ai propri sospetti. In lui crebbe una silenziosa e nascosta
determinazione che, se non lo rimise in forze, gli diede perlomeno stabilità e tranquillità. Un giorno, intorno all'ora di
pranzo, quando tornò dopo essere stata fuori due ore, Arabella vide che la poltrona di Jude era vuota.
Si accasciò sul letto, dove rimase seduta a riflettere. «E ora dove diavolo sarà andato!», esclamò.
Una pioggia proveniente da nord-est era caduta quasi senza sosta per tutta la mattina, e, guardando dalla
finestra l'acqua che gocciava dalle grondaie, sembrava impossibile che un malato si fosse avventurato fuori per andare
incontro a una morte quasi sicura. Eppure Arabella era convinta che era uscito, e la sua convinzione divenne certezza
dopo che lo ebbe cercato per tutta la casa. «Se è così matto, affari suoi!», disse. «Io non posso fare altro».
In quel momento Jude era su un treno diretto ad Alfredston, vestito in modo insolito, pallido come una statua di
alabastro, osservato con meraviglia dagli altri viaggiatori. Un'ora dopo, la sua figura smagrita, avvolta nel lungo
cappotto e nella coperta che aveva portato con sé, ma senza un ombrello per ripararsi dalla pioggia, si sarebbe potuta
vedere percorrere le cinque miglia che separavano la stazione da Marygreen. Sul suo volto si leggeva la determinazione
che sola lo spingeva a proseguire, ma alla quale la sua debolezza forniva un misero sostegno. Quando iniziò il tratto in
salita era già sfibrato, ma continuò a camminare, e alle tre e mezza giunse al pozzo familiare di Marygreen. La pioggia
scoraggiava dall'uscire; passando inosservato, Jude attraversò il prato diretto alla chiesa, che trovò aperta. Qui si fermò
fissando la scuola dalla quale provenivano le usuali cantilene dei bambini che ancora non avevano imparato il lamento
del Creato.
Attese finché non uscì un alunno - che evidentemente aveva avuto il permesso di uscire in anticipo. Jude gli
fece un cenno con la mano e il ragazzo si avvicinò.
«Per favore, andresti a casa del maestro a chiedere alla signora Phillotson se è così gentile da raggiungermi qui
in chiesa un attimo?».
Il ragazzo andò e Jude lo udì bussare alla porta dell'abitazione. Per reazione, arretrò ulteriormente all'interno
della chiesa. Tutto era nuovo per lui, tranne alcune decorazioni in pietra appartenenti al vecchio edificio diroccato, ora
fissate sulle pareti nuove. Vi si fermò accanto: gli ricordavano le persone scomparse di quel luogo, che erano i suoi
antenati e quelli di Sue.
Dei passi leggeri, che si sarebbero potuti scambiare per gocce che andavano ad aggiungersi alla pioggia
incessante, risuonarono nel portico, ed egli si guardò intorno.
«Oh... non pensavo fossi tu! Io non... oh Jude!». Una contrazione isterica nel respiro di lei sfociò in un
ansimare affannato. Jude si avvicinò, ma Sue si riprese subito e indietreggiò.
«Non andartene... non andartene!», Jude la implorò. «Questa è la mia ultima occasione! Credevo fosse meno
importuno che se fossi venuto a casa tua. E non verrò mai più. Non essere spietata. Sue, Sue! Stiamo tenendo fede alla
lettera; e "la lettera uccide"!».
«Resterò... non voglio essere scortese!», lei disse, con le labbra tremanti e le lacrime che le scendevano sul
volto mentre consentiva a Jude di avvicinarsi. «Ma perché sei venuto, perché questa azione così sbagliata, dopo aver
compiuto un'azione tanto giusta?».
«Quale azione giusta?».
«Quella di risposare Arabella. Era nel giornale di Alfredston. Lei non è mai stata d'altri che tua, Jude... agli
occhi di Dio. Per cui hai fatto così bene... così bene a riconoscerlo, e a riprenderla con te».
«Santo Cielo... e sarei venuto a sentire questo? Se c'è qualcosa di degradante, immorale, innaturale, nella mia
vita, è il contratto falso e ipocrita con Arabella che tu definisci un'azione giusta! E anche tu... tu ti dici moglie di
Phillotson! Sua moglie! Tu sei mia».
«Non costringermi ad andarmene... non posso sopportare molto! Ma su questo punto sono decisa».
«Non riesco a capire come tu possa averlo fatto... come tu possa averlo pensato... non ci riesco!».
«Non importa. È un marito gentile con me. E io... io ho lottato, sofferto, digiunato, pregato. Ho quasi portato il
mio corpo alla più completa sottomissione. E tu non devi... non puoi... risvegliare...».
«Oh, la mia piccola, folle, Sue! Non ragioni più? Sembri aver perduto le tue facoltà mentali! Discuterei con te
se non sapessi che una donna nelle tue condizioni di spirito è ben al di là di qualsiasi appello alla ragione. O magari stai
ingannando te stessa, come fanno molte altre donne su queste faccende, e non credi a ciò che fingi di credere, e ti stai
semplicemente abbandonando al lusso di un'emozione suscitata da una fede non sincera?».
«Lusso! Come puoi essere così crudele?».
«Oh tu, caro, triste, dolce relitto di un promettente intelletto umano, malinconico come mai sia apparso su
questa terra! Dove è andato a finire il tuo disprezzo delle convenzioni? Io avrei lottato fino alla fine!».
«Tu mi distruggi, quasi mi insulti, Jude! Vattene da me!», e si volse di scatto.
«D'accordo. Non verrò più a trovarti anche se avessi la forza per venire, che comunque non avrò. Sue, Sue, tu
non meriti l'amore di un uomo!».
Il petto di lei iniziò ad ansimare. «Non posso sopportare che tu dica questo!», sbottò, e dopo averlo fissato per
un attimo, si volse verso di lui impulsivamente. «No, non disprezzarmi! Baciami, baciami mille volte, e dimmi che non
sono una vigliacca e una bugiarda che merita solo di essere disprezzata... non lo sopporto!». Si gettò tra le sue braccia, e
con la bocca contro la sua proseguì: «Devo dirti una cosa... devo... mio amore adorato! È stato... è stato solo un
matrimonio in chiesa... un matrimonio apparente, voglio dire. Me lo ha proposto lui fin dall'inizio!».
«Cosa intendi dire?».
«Voglio dire un matrimonio solo di nome. Non c'è stato nulla di più da quando sono tornata da lui!».
«Sue!», egli disse. Stringendola tra le sue braccia, le tempestò la bocca di baci. «Se la disperazione può
conoscere la felicità, io ho vissuto un momento di felicità, adesso! E ora in nome di quanto tu più consideri sacro dimmi
la verità e non una bugia. Mi ami ancora?».
«Sì! Lo sai fin troppo bene!... Ma non devo fare questo! Non devo ricambiare i tuoi baci come vorrei!».
«Ma fallo!».
«Eppure ti voglio così bene... e sembri così malato...».
«Tu pure! Ancora uno, in memoria dei nostri poveri bambini... che furono tuoi e miei!».
Le sue parole la colpirono nel profondo, e lei chinò il capo. «Io non devo... non posso continuare così!», disse
respirando a fatica. «Ma ecco, ecco, amore mio; ricambio i tuoi baci, sì, sì!... Ed ora odierò me stessa per sempre per
questo peccato!».
«No... lascia che ti supplichi per l'ultima volta. Ascoltami! Ci siamo entrambi risposati senza volerlo. Per
costringermi a farlo, mi hanno ubriacato. Io ero ubriaco di gin, tu di fede. Sia l'una che l'altra forma di intossicazione
cancella la visione più elevata... Scuotiamoci di dosso i nostri errori e fuggiamo insieme!».
«No, questo no!... Perché mi tenti fino a questo punto, Jude? Sei troppo crudele!... Ma ora sono tornata in me.
Non seguirmi, non guardarmi. Lasciami, per amor di carità!».
Corse in fondo alla chiesa, lungo la navata di destra, e Jude non la seguì come gli aveva chiesto. Non volse il
capo per guardarla, ma raccolse da terra la coperta, che lei non aveva notato, e uscì subito fuori. Mentre stava uscendo
dalla chiesa, Sue udì i suoi colpi di tosse confondersi al ticchettio della pioggia che batteva sui vetri, e per un ultimo
impulso di affetto umano, tutt'ora non piegato dalle catene che si era imposta, balzò in piedi come per soccorrerlo. Ma si
inginocchiò di nuovo, e si tappò le orecchie con le mani finché ogni possibile rumore dei suoi passi non fosse svanito.
Jude era intanto giunto all'angolo del prato, dal quale partiva il sentiero attraverso i campi in cui aveva
scacciato le cornacchie da ragazzo. Si voltò una volta per guardare dietro di sé l'edificio in cui ancora si trovava Sue;
poi continuò a camminare, consapevole che i suoi occhi non si sarebbero più posati su quella vista.
Ci sono dei punti freddi su e giù nel Wessex, durante i mesi autunnali e invernali; ma quando soffia un vento
da nord o da est, più freddo di tutti è il crinale della collina nei pressi della Casa Bruna, dove la strada per Alfredston
incrocia l'antica mulattiera. Lì cadono, destinate a restare, le prime gelate e le prime nevi invernali, e lì a primavera il
ghiaccio si scioglie più tardi che altrove. Lì, tra i morsi del vento di nord-est e della pioggia, Jude proseguiva per la sua
strada, bagnato fino al midollo e senza che l'inevitabile lentezza del suo passo, ora che non lo soccorreva più la forza di
un tempo, fosse sufficiente a riscaldarlo. Arrivò alla pietra miliare e, malgrado piovesse a dirotto, aprì la coperta e vi si
distese a riposare. Prima di proseguire, andò a cercare con la mano la propria incisione sul retro della pietra. Era ancora
là, ma quasi nascosta dal muschio. Poi passò davanti al punto dove era stata collocata la forca per l'antenato suo e di
Sue, e scese lungo la collina.
Era ormai buio quando giunse ad Alfredston, dove si fermò a bere una tazza di tè poiché il gelo mortale che
aveva iniziato a penetrargli nelle ossa era troppo pungente per sopportare di essere a stomaco vuoto. Per tornare a casa
doveva prendere un tram a vapore e due treni, con una lunga attesa per la coincidenza. A Christminster arrivò che erano
le dieci di sera.
CAPITOLO IX
Alla stazione, c'era Arabella. Lo squadrò dalla testa ai piedi.
«Sei stato a trovarla?», gli chiese.
«Sì», rispose Jude, tremando per il freddo e la stanchezza.
«Bravo. E ora faresti meglio a tornartene subito a casa».
L'acqua gli gocciolava dai vestiti ad ogni passo, e per reggersi in piedi mentre tossiva doveva appoggiarsi ai
muri delle case.
«Ti sei rovinato da solo in questo modo, bello mio», lei disse. «Non so se lo sai».
«Certo che lo so. L'ho fatto apposta».
«Cosa... di suicidarti?».
«Certamente».
«Non credo alle mie orecchie. Uccidersi per una donna».
«Ascolta, Arabella. Tu pensi di essere la più forte, e ormai lo sei in senso fisico. Potresti buttarmi per terra
come un birillo. Non hai impostato quella lettera l'altro giorno, e io non ce l'ho fatta neppure a lamentarmi per questo
tuo comportamento. Ma in un altro senso non sono così debole come tu pensi. Mi è venuto in mente che un uomo
relegato nella sua stanza da una infiammazione ai polmoni, un poveraccio cui sono rimasti due desideri al mondo,
quello di vedere una certa donna e quello di morire, avrebbe potuto realizzarli in un colpo solo facendo questo viaggio
sotto la pioggia. Ed è quello che ho fatto. Ho visto lei per l'ultima volta, e ho distrutto me stesso - ponendo fine a una
vita agitata che non avrebbe mai dovuto iniziare!».
«Dio... parli così difficile! Non vuoi una cosa calda da bere?».
«No, grazie. Andiamo a casa».
S'incamminarono passando davanti ai collegi della città immersi nel silenzio, e Jude si fermava di continuo.
«Cosa stai guardando?».
«Stupide fantasie. In un certo senso vedo di nuovo, in questa mia ultima passeggiata, quegli spiriti dei morti
che vidi la prima volta che venni qui!».
«Sei proprio un tipo curioso!».
«Mi sembra di vederli, e quasi di sentire il fruscio delle loro vesti. Ma non li venero più come allora. Non
credo alla metà di loro. Teologi, apologisti, metafisici, statisti arroganti e altri, non mi interessano più. Tutto questo ha
perso per me ogni fascino perché è stato annientato dalla cruda realtà!».
L'espressione cadaverica del volto di Jude alla luce dei lampioni sotto la pioggia faceva veramente credere che
vedesse qualcuno laddove non c'era nessuno. A tratti rimaneva immobile davanti a un porticato, quasi riconoscesse una
persona; poi alzava lo sguardo a una finestra come se distinguesse un volto familiare all'interno. Sembrava che udisse
voci, le cui parole ripeteva come per afferrarne il senso».
«Sembra che mi prendano in giro!».
«Chi?».
«Oh... parlavo tra me e me! I fantasmi che qui sono ovunque, nei porticati e alle finestre dei collegi. Allora mi
guardavano in maniera amichevole, in particolare Addison e Gibbon, e Johnson e il dottor Browne, e il vescovo Ken...».
«Avanti, andiamo! Fantasmi! Non c'è un'anima viva né morta qui intorno, tranne un maledetto poliziotto! Non
ho mai visto le strade più deserte».
«Lo dici tu! Il poeta della libertà passeggiava qui di solito, e laggiù il grande analista della malinconia!».
«Non voglio sapere nulla di loro! Mi annoiano».
«Walter Raleigh mi sta facendo cenno da quel vicolo... Wycliffe, Harvey, Hooker, Arnold, e tutto il gruppo dei
Tractariani...».
«Non voglio sapere i loro nomi, te l'ho già detto! Che vuoi che m'importi di gente morta e sepolta? Parola
d'onore, sei più lucido quando sei ubriaco che quando sei sobrio!».
«Devo riposarmi un momento», Jude disse; e mentre si appoggiava a un'inferriata, misurò con l'occhio l'altezza
della facciata di un collegio. «Questo è il vecchio Rubric. E quello il Sarcophagus; in cima a quel viottolo il Crozier e il
Tudor: e tutto quello laggiù è il Cardinal con la sua lunga facciata e le finestre come occhi sgranati a voler significare lo
stupore educato dell'università per gli sforzi di uno come me».
«Cammina, che poi starai meglio!».
«D'accordo. È meglio andare a casa, ché sento la nebbia gelata proveniente dai prati del Cardinal come se gli
artigli della morte mi afferrassero da parte a parte. Come disse Antigone, non abito né tra gli uomini né tra gli spiriti.
Ma quando sarò morto, Arabella, vedrai il mio spirito aggirarsi su e giù in mezzo a loro!».
«Puah! Potresti non morire, dopotutto. Hai la pellaccia ancora abbastanza dura, vecchio mio».
Era notte a Marygreen, e la pioggia del pomeriggio non accennava a diminuire. Più o meno all'ora in cui Jude e
Arabella camminavano per le strade di Christminster diretti verso casa, la vedova Edlin attraversò il prato e aprì la porta
di servizio dell'abitazione del maestro, come spesso faceva prima di andare a letto, per aiutare Sue a rassettare la cucina.
Senza un aiuto, Sue lasciava sempre la cucina in disordine, perché non era una brava donna di casa, per quanto provasse
ad esserlo, e le faccende domestiche la spazientivano.
«Che Dio vi benedica! Ma perché vi ostinate a fare le cose voi stessa quando ci sono qua io apposta per
aiutarvi! Sapevate che sarei venuta, no?».
«Oh, non lo so... mi ero dimenticata! No, non mi ero dimenticata. L'ho fatto per punire me stessa. È dalle otto
che sono carponi a lavare le scale. Bisogna assolutamente che mi impratichisca nei doveri domestici. Li ho
vergognosamente trascurati!».
«E perché dovreste? Vostro marito troverà un posto migliore, forse un giorno diventerà parroco, e potrete
tenere due persone di servizio. È un peccato che sciupiate quelle belle manine!».
«Non parlatemi delle mie belle manine, signora Edlin. Questo mio bel corpo è già stato la mia rovina!».
«Per carità! Voi non avete un corpo di cui parlare! Mi fate pensare più a uno spirito. Ma mi pare che qualcosa
non vada stasera, cara. Vostro marito è arrabbiato?».
«No. Non si arrabbia mai. È andato a letto presto».
«E allora che cos'è?».
«Non posso dirvelo. Ho peccato, oggi. E voglio cancellarlo... Va bene, vi dirò questo... Jude è stato qui nel
pomeriggio, e ho capito di amarlo ancora... Oh, e in modo così volgare! Non posso dirvi di più».
«Ah!», disse la vedova. «Ve l'avevo detto che sarebbe successo!».
«Ma non succederà più! Non ho detto nulla a mio marito della sua visita, perché è inutile che si agiti dato che
intendo non vedere più Jude. Ma mi metterò la coscienza a posto riguardo ai miei doveri con Richard facendo una
penitenza... ciò che non avrei mai fatto. Devo!».
«Io non lo farei... lui non ha obiettato nulla alla vostra intesa, e sono già tre mesi che va avanti benissimo».
«Sì, è d'accordo che io viva come preferisco; ma io la sento come una concessione che non posso chiedergli.
Non avrei dovuto accettarla. Cambiare sarà terribile... ma devo essere più giusta con lui. Oh, perché sono stata così
codarda!».
«Ma cos'è che non vi piace in vostro marito?», chiese la signora Edlin per curiosità.
«Non posso dirvelo. È qualcosa... non posso dirvelo. Ciò che più mi addolora è che nessuno la accetterebbe
come una ragione valida per provare i miei sentimenti; così non mi rimane alcuna giustificazione».
«Avete mai detto a Jude di che si tratta?».
«Mai».
«Ho sentito strani racconti sui mariti ai miei tempi», osservò la vedova abbassando la voce. «Dicevano che
quando sulla terra c'erano ancora i santi, i demoni la notte prendevano le sembianze di mariti, e creavano alle povere
donne ogni sorta di problemi. Ma chissà perché mi è venuto in mente, visto che si tratta solo di una fantasia... Che vento
e che pioggia ci sono stanotte! Insomma... non abbiate fretta ad alterare la situazione, cara. Pensateci bene».
«No, no! Ho piegato la mia povera anima all'idea di trattarlo con più generosità, e devo farlo ora... subito...
prima che ci ripensi!».
«Io non credo che dovreste forzare la vostra natura. Da nessuna donna ci si può attendere tanto».
«È un dovere per me. Berrò il mio calice fino in fondo!».
Mezz'ora dopo, quando la signora Edlin prese la cuffietta e lo scialle per uscire, Sue sembrava preda di un
terrore imprecisato.
«No, no... non andatevene, signora Edlin», la implorò con gli occhi sbarrati, lanciando un'occhiata improvvisa
dietro di sé.
«Ma è ora di andare a letto, bambina mia».
«Sì, ma... ci sarebbe una stanzetta che è vuota... quella che era la mia stanza. È già pronta. Per favore restate,
signora Edlin! Avrò bisogno di voi, domattina».
«Se insistete... per me va bene. Nulla accadrà alle mie quattro mura, che io sia dentro o no».
Chiuse a chiave la porta, e salirono insieme le scale.
«Aspetti qui, signora Edlin», disse Sue. «Vorrei entrare nella mia vecchia stanza un attimo da sola».
Lasciata la vedova sul pianerottolo, Sue entrò nella stanza che era stata esclusivamente sua da quando era
tornata a Marygreen, e dopo essersi chiusa la porta alle spalle si inginocchiò accanto al letto per qualche minuto. Poi si
rialzò, e presa la camicia da notte da sotto il cuscino si spogliò e tornò dalla signora Edlin. Si poteva udire un uomo
russare nella stanza di fronte. Sue augurò la buonanotte alla signora Edlin, e la vedova entrò nella stanza dalla quale lei
era appena uscita.
Sue girò la maniglia dell'altra camera da letto e, come presa da un improvviso malore, si accasciò per terra
sulla soglia. Rialzatasi, dischiuse la porta e disse: «Richard!». E nel pronunciare quel nome, tremò visibilmente.
Per qualche secondo non sentì più russare, ma egli non rispose.
Sue parve sollevata, e tornò di corsa nella camera della vedova. «Siete già a letto, signora Edlin?», chiese.
«No cara», disse la vedova, aprendo la porta. «Sono vecchia e lenta, e ci metto un po' di tempo a svestirmi.
Non mi sono slacciata ancora il corpetto».
«Io... non mi risponde! E forse... forse... ».
«Cosa, bambina?».
«Forse è morto!», lei disse ansimando. «E allora... sarei libera, e potrei tornare da Jude!... Ah, no... ho
dimenticato lei... e Dio!».
«Andiamo a sentire. No... sta russando di nuovo. Ma la pioggia e il vento fanno un tale rumore che non si può
sentire nulla, se non a tratti».
Sue si trascinò fuori dalla stanza. «Signora Edlin, buonanotte di nuovo! Mi dispiace di avervi richiamata». La
vedova si ritirò nella sua stanza una seconda volta.
Sul volto di Sue riapparve un'espressione tesa e rassegnata non appena fu sola. «Devo farlo!... Devo! Devo
bere questo calice amaro!», sussurrò. «Richard!», chiamò di nuovo.
«Eh... cosa? Sei tu Susanna?».
«Sì».
«Che vuoi? C'è qualche problema? Aspetta un attimo». Si rivestì alla meno peggio e venne alla porta. «Sì?».
«Quando eravamo a Shaston, mi buttai dalla finestra per paura che tu ti avvicinassi a me. Non ho mai cambiato
il mio atteggiamento fino ad ora... ma adesso sono venuta a chiederti di perdonarmi e lasciarmi entrare».
«Forse pensi soltanto che sia un tuo dovere farlo? Io non voglio che tu venga da me contro il tuo istinto, te l'ho
già detto».
«Ti scongiuro di farmi entrare». Attese un attimo e poi ripeté: «Ti scongiuro di farmi entrare! Ho sbagliato...
anche oggi. Ho abusato dei miei diritti. Non volevo dirtelo, ma forse dovrei. Ho peccato contro di te, questo
pomeriggio».
«Come?».
«Ho incontrato Jude! Non sapevo fosse venuto. E...».
«E allora?».
«L'ho baciato e ho lasciato che mi baciasse».
«Oh, ancora la vecchia storia!».
«Richard, non sapevo che ci saremmo baciati finché non è stato troppo tardi!».
«Quante volte?».
«Parecchie. Non lo so. Provo orrore a ripensarci, e il meno che posso fare dopo una cosa del genere è venire da
te in questo modo».
«Insomma... è orribile da parte tua dopo quello che ho fatto! Non hai altro da confessare?».
«No». Avrebbe avuto intenzione di aggiungere: «L'ho chiamato amore mio adorato». Ma siccome nessuna
donna, per quanto pentita, racconta sempre tutto, quella parte dell'episodio rimase non detta. Lei proseguì: «Non lo
vedrò mai più. Mi ha parlato di alcune cose del passato: e mi sono commossa. Ha parlato dei... dei bambini... Ma come
ti ho detto, sono contenta... quasi felice, vorrei dire... che sono morti, Richard. Cancella tutta quella parte della mia
vita!».
«D'accordo, se dici di non volerlo più vedere. Vieni... ma lo vuoi veramente?». C'era qualcosa nel tono di voce
di Phillotson dal quale si poteva dedurre che per lui quei tre mesi, da quando si era risposato con Sue, in qualche modo
non erano stati così soddisfacenti come la sua magnanimità o la sua affettuosa pazienza avevavo anticipato.
«Sì, sì!».
«Lo giureresti sul Vangelo?».
«Sono pronta».
Egli rientrò in camera sua a prendere un piccolo Vangelo in cuoio marrone. «Avanti, allora: e che Dio ti
protegga!».
Giurò.
«Brava!».
«Ed ora ti supplico, Richard, tu che sei l'uomo a cui appartengo e che, come ho giurato di fare, desidero
onorare e obbedire, lasciami entrare».
«Ripensaci bene. Sai cosa significa. Riprenderti in casa era una cosa... questa è un'altra. Per cui pensaci bene».
«Ci ho pensato... lo voglio!».
«A parlare è uno spirito compiacente... e forse hai ragione. Con un innamorato che ti gira intorno, un
matrimonio solo a metà andrebbe completato. Ma ripeto la mia ammonizione per la terza e ultima volta».
«È quello che desidero!... Oh Dio!».
«Perché hai esclamato "Oh Dio"?».
«Non lo so!».
«Sì che lo sai! Ma...». Egli osservò rabbuiato la sua figura fragile e sottile per un altro attimo, mentre si
accovacciava ai suoi piedi in camicia da notte. «D'accordo, penso che questo basti», allora disse. «Non ti devo nulla,
dopo quanto hai fatto; ma ti prendo in parola e ti perdono».
Le mise un braccio intorno alla vita per aiutarla a rialzarsi. Sue con una mossa impulsiva indietreggiò.
«Che succede?», egli chiese, parlando per la prima volta in tono severo. «Ti ritrai da me, di nuovo... come in
passato!».
«No, Richard... io... non pensavo...».
«Vuoi davvero entrare?».
«Sì».
«Rammenti sempre che significa?».
«Sì. È mio dovere!».
Posato il candelabro sul cassettone, la accompagnò dentro; poi la prese in braccio e la baciò. Un'immediata
espressione di repulsione le passò sul viso, ma stringendo i denti si trattenne dal gridare.
Nel frattempo la signora Edlin si era spogliata e stava per andare a letto, quando si disse: «Forse è meglio che
vada a vedere se tutto va bene. Accidenti che vento! E che pioggia!».
La vedova uscì sul pianerottolo e vide che Sue era scomparsa. «Ah, poveretta! I matrimoni sono diventati
funerali al giorno d'oggi. Cinquantacinque anni il prossimo autunno che io e il mio uomo ci siamo sposati! I tempi sono
cambiati da allora!».
CAPITOLO X
Suo malgrado, Jude si ristabilì, quanto bastava almeno per andare a lavorare per qualche settimana. Dopo
Natale, tuttavia, ebbe una ricaduta.
Con i soldi che aveva guadagnato si trasferì a vivere in una zona più centrale della città. Ma Arabella capì che
difficilmente avrebbe potuto continuare a lavorare per molto, ed era alquanto irritata per la piega presa dagli eventi dopo
il matrimonio. «Che mi prenda un colpo se non sei stato furbo, questa volta», diceva. «Sposandomi ti sei trovato
un'infermiera gratis!».
Jude era del tutto indifferente a quanto lei diceva, e spesso anzi sembrava trovasse divertenti le sue
imprecazioni. A volte il suo stato d'animo era più serio, ed egli passava il tempo a rimuginare sulla sconfitta delle sue
aspirazioni giovanili.
«Ogni uomo ha una sua inclinazione naturale», diceva. «Io non sono mai stato abbastanza robusto per fare lo
scalpellino, in particolare per i lavori di fissaggio. Muovere i blocchi di pietra è sempre stato un grande sforzo, e
lavorare in mezzo alla corrente in edifici dove ancora non erano state montate le finestre mi ha sempre procurato dei
raffreddori, e credo che lì sia iniziato il male che ho dentro. Ma una cosa sentivo di poter fare se ne avessi avuto
l'occasione. Potevo accumulare idee, e insegnarle ad altri. Chissà se i Padri fondatori avevano in mente uno come me...
un giovane buono a nulla se non a quella cosa particolare?... Ho sentito che presto si offriranno maggiori opportunità
per gli studenti privi di mezzi come ero io. Ci sono progetti per rendere l'Università un luogo meno esclusivo, ed
estendere il suo influsso. Non ne so molto. E per me è troppo tardi, troppo tardi! Ah... e per quanti altri più degni prima
di me!».
«Ma che stai brontolando!», disse Arabella. «Credevo ti fosse passata quella mania per i libri. Te la saresti fatta
passare, se solo avessi un po' di cervello. Ma continui ad avere la testa tra le nuvole, ora come quando ci siamo sposati
la prima volta».
In una occasione, durante uno di questi soliloqui, la chiamò «Sue», senza volerlo.
«Se non ti dispiace, ricordati con chi stai parlando!», disse Arabella indignata. «Chiamare una rispettabile
donna sposata col nome di quella...». Lei stessa ricordò con chi stava parlando, ed egli non afferrò l'epiteto.
Ma con l'andare del tempo, quando si rese conto di come stava la situazione e di quanto poco dovesse temere
dalla rivalità di Sue, fu presa da uno slancio di generosità. «Non desidereresti rivedere la tua... Sue?», gli disse un
giorno. «Per me può anche venire. Puoi invitarla qui, se vuoi».
«Io non desidero affatto rivederla».
«Oh... questa è una novità!».
«E non dirle nulla di come sto... che sono malato o che so io. Lei ha scelto la sua strada. Che la segua!».
Un giorno ricevette una sorpresa. La signora Edlin era venuta a trovarlo, di sua iniziativa. La moglie di Jude,
cui non importava più nulla ormai di dove rivolgesse i propri affetti il marito, uscì lasciandolo solo con l'anziana donna.
Jude non attese un secondo a chiederle notizie di Sue, e poi disse senza mezzi termini, ricordando quello che Sue gli
aveva detto: «Immagino siano sempre marito e moglie solo di nome?».
La signora Edlin esitò. «Be', veramente no... ora è diverso. Negli ultimi tempi ha iniziato... tutto di sua
spontanea volontà».
«Quando ha iniziato?», egli chiese subito.
«La notte dopo la vostra visita. Per punire se stessa. Egli non lo voleva, ma lei ha insistito».
«Sue, la mia povera Sue... folle adorata... questo è quasi più di quanto possa sopportare!... Signora Edlin, non
impressionatevi per i miei discorsi... non posso che parlare a me stesso dato che passo tante ore qui a letto da solo... un
tempo Sue era una donna il cui intelletto stava al mio come una stella a una lampada a spirito: che giudicava tutte le mie
superstizioni alla stregua di ragnatele che lei avrebbe potuto spazzar via con una parola. Poi ci capitò quell'atroce
tragedia, e il suo intelletto non resse, e si volse verso l'oscurità. È una strana differenza tra i sessi questa, che laddove il
tempo e le circostanze ampliano le vedute di gran parte degli uomini, restringono quasi invariabilmente quelle delle
donne. Ed ora è accaduta la cosa più orribile di tutte, che si è data in questo modo a qualcuno che la ripugna, per puro
asservimento alle convenzioni! Lei che è così sensibile, così schiva, che il vento stesso pare sfiorare con un tocco di
deferenza... per quanto riguarda Sue e me, nei nostri anni più belli, tanto tempo fa, quando le nostre menti erano lucide e
il nostro amore per la verità impavido, i tempi non erano maturi per noi! Le nostre idee erano in anticipo di
cinquant'anni e non poteva finire altrimenti. E così la resistenza che hanno incontrato ha spinto lei a una conversione al
conformismo, e a me ha portato disperazione e rovina! Ecco... queste sono le cose che ripeto a me stesso mentre sto qui
a letto, signora Edlin. Ma temo di avervi annoiata a morte».
«Affatto, caro ragazzo. Potrei starvi a sentire tutto il giorno».
Più Jude ripensava a quanto gli aveva detto la signora Edlin, più cresceva in lui l'inquietudine, al punto che
nella sua agonia mentale cominciò a usare un terribile linguaggio blasfemo parlando delle convenzioni sociali, che gli
provocò un accesso di tosse. Proprio in quel momento si sentì bussare alla porta di casa. Visto che nessuno andava ad
aprire, la signora Edlin scese di persona.
Il visitatore si presentò con noncuranza come «il dottore». La figura allampanata era quella del dottor Vilbert,
che era stato chiamato da Arabella.
«Come sta oggi il mio paziente?», chiese il medico.
«Oh male, molto male! Povero ragazzo, si è eccitato e ha iniziato a bestemmiare, per via di un pettegolezzo che
mi è sfuggito... è tutta colpa mia! Ma che vuole, bisogna perdonare a un uomo che soffre quello che dice, e io spero che
Dio stesso lo perdonerà».
«Ah. Salgo a vederlo. La signora Fawley è in casa?».
«In questo momento no; ma tornerà tra poco».
Vilbert salì; ma sebbene fino a quel giorno Jude avesse preso le medicine di quell'astuto dottore con la
massima indifferenza ogni volta che Arabella gliele faceva ingoiare, ora era così sconvolto da quanto era venuto a
sapere che confessò a Vilbert l'opinione che aveva di lui con tanta virulenza e con degli epiteti così offensivi, che costui
si affrettò a tornare di sotto. La signora Edlin era già andata via. Egli pure stava per andarsene quando sulla porta di
casa incontrò Arabella, che gli chiese come aveva trovato il marito, e vedendo che il dottore pareva turbato, gli offrì di
bere qualcosa. Egli accettò.
«Ve lo porto io qui in ingresso», lei disse. «In casa sono sola oggi».
Gli portò una bottiglia e un bicchiere, ed egli bevve. Arabella tratteneva a stento le risate. «Che c'è, cara?», il
dottore chiese leccandosi le labbra.
«Oh, una goccia di vino... e qualcos'altro». Continuando a ridere, disse: «Ci ho versato dentro il filtro d'amore,
quello che mi vendeste alla Fiera agricola, ricordate?».
«E come no! Che donna astuta! Ma ora dovete essere pronta a subire le conseguenze». E con un braccio sulle
spalle la attirò a sé e la baciò ripetutamente.
«No, no», lei sussurrò, ridendo di buonumore. «Mio marito potrebbe sentirci».
Lo accompagnò alla porta di casa, e tornando indietro disse tra sé e sé: «Le donne devono premunirsi per i
giorni di pioggia. E se il mio povero compagno lassù mi pianta in asso come immagino farà tra non molto... è sempre
bene tenersi aperta un'altra strada. E ora non posso scegliere a piacimento come quando ero più giovane. E chi non si
può permettere un giovane, bisogna si accontenti di un vecchio».
CAPITOLO XI
Le ultime pagine sulle quali il narratore di queste vite vorrebbe chiedere al lettore di dedicargli la sua
attenzione si occupano degli eventi dentro e fuori la camera di Jude quando l'estate rigogliosa sopraggiunse di nuovo.
Il suo volto era così smagrito che i suoi vecchi amici avrebbero faticato a riconoscerlo. Era un pomeriggio, e
Arabella stava allo specchio ad arricciarsi i capelli, operazione che compiva riscaldando alla fiamma di una candela la
stecca di un ombrello, attorno alla quale avvolgeva le ciocche di capelli. Dopo aver finito di acconciarsi, ed essersi
esercitata a fare le fossette, volse lo sguardo verso Jude. Sembrava che dormisse, anche se era soltanto semidisteso sul
letto poiché la malattia gli impediva di esserlo completamente.
Arabella si mise il cappello e i guanti, e pronta per uscire si sedette, come se aspettasse qualcuno che venisse
ad assistere Jude al posto suo.
Una certa animazione che si sentiva per strada faceva pensare che la città era in festa, anche se ben poco delle
celebrazioni, quali che fossero, si poteva vedere da lì. Le campane iniziarono a suonare, e le loro note penetrarono nella
stanza dalla finestra, giungendo alle orecchie di Jude come un ronzio. Arabella divenne impaziente, e alla fine esclamò
tra sé e sé: «Ma che aspetta mio padre ad arrivare!».
Guardò di nuovo Jude, valutando con occhio critico la vita che gli era rimasta, come tante altre volte negli
ultimi mesi, e dopo aver dato un'occhiata all'orologio, appeso al muro a mo' di pendolo, si alzò impaziente. Poiché Jude
continuava a dormire, si decise, uscì piano dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle senza far rumore e scese le scale.
In casa non c'era nessuno. L'attrazione che spingeva Arabella ad uscire aveva evidentemente richiamato anche gli altri
inquilini della casa.
Era un giorno caldo e sereno, che invitava ad uscire. Chiuse la porta di casa, si precipitò per la strada principale
della città, e nei pressi del Teatro poté udire le note di un organo che provava per il concerto imminente. Passò sotto
l'arcata del Collegio Oldgate, dove gli operai stavano issando le tende intorno a una piattaforma quadrata per il ballo di
quella sera. Poi prese un sentiero di ghiaia all'ombra di vecchi cedri mentre la gente giunta dalla campagna per la
giornata faceva merenda sul prato circostante. Ma trovando che il posto era noioso, tornò verso la strada, dove restò a
guardare le carrozze che si fermavano per il concerto, diversi professori con le loro mogli, e studenti in compagnia di
allegre ragazze che affollavano a loro volta l'ingresso del Teatro. Quando chiusero le porte e il concerto iniziò, andò via.
Le possenti note del concerto fuoriuscivano attraverso le gialle tende ondeggianti delle finestre aperte del
Teatro, e passando sopra i tetti delle case si riversavano nell'aria immobile dei vicoli. Giunsero fino alla camera di Jude;
e fu più o meno a quest'ora che la tosse gli riprese e lo svegliò.
Non appena riuscì a parlare, disse con un filo di voce e gli occhi ancora chiusi: «Un po' d'acqua, per favore».
Oltre alla stanza deserta, nessuno udì la sua richiesta, ed egli riprese a tossire fino ad essere prostrato, e
sussurrare ancor più debolmente di prima: «Acqua, datemi dell'acqua... Sue... Arabella!».
La stanza rimase immobile come prima. Allora riprese con affanno crescente: «La gola... dell'acqua... Sue,
cara... un po' d'acqua per favore... oh ti prego!».
Ma nessuno gliela offrì mentre dalla finestra, deboli come un ronzio d'api, continuavano a entrare le note
dell'organo.
Si accasciò di nuovo rassegnato, e il suo volto mutava d'aspetto, mentre si sentivano grida ed esclamazioni di
evviva provenire da qualche parte in direzione del fiume.
«Ah, sì! I giochi della Rimembranza», egli mormorò. «E io qui. E Sue si è defilata!».
Le esclamazioni furono ripetute sommergendo le deboli note dell'organo. Il volto di Jude si fece ancor più
pallido: egli sussurrò lentamente, muovendo a malapena le labbra riarse:
«Perisca il giorno nel quale fui generato, e la notte che disse: Concepito maschio».
(Evviva!)
«Quel giorno sia tenebra; non se ne curi Dio dall'alto, la luce non brilli su di esso!... Quella notte se la prenda
l'oscurità, non si aggiunga ai giorni dell'anno, non entri nel computo dei mesi».
(Evviva!)
«Perché fin dal seno, dal ventre uscito non spirai?... Poiché ora giacerei disteso e tranquillo, dormirei e
sarebbe un riposo per me».
(Evviva!)
«I prigionieri possono riposare insieme; non sento più la voce dell'aguzzino... Il piccolo e il grande là è
tutt'uno, e lo schiavo è libero dal padrone. Perché dare la luce a un'infelice e la vita a chi ha l'anima amareggiata?».
Nel frattempo, durante i suoi giri, curiosando qua e là, Arabella aveva preso una scorciatoia lungo una strada
stretta, passando sotto un'arcata buia nel cortile del Collegio Cardinal. I fiori erano messi in risalto dalla luce del sole, e
anche qui fervevano i preparativi per il ballo della sera. Un falegname che in passato aveva lavorato insieme a Jude la
salutò. Stavano addobbando con una vivace stoffa rossa e festoni brillanti un corridoio che dall'entrata portava alla
scalinata dell'ingresso. C'erano interi carri di casse contenenti delle piante rigogliose che venivano disposte ovunque, e
la grande scalinata era ricoperta di un panno rosso. Arabella salutò un altro operaio e un altro ancora, e grazie alle sue
conoscenze salì fino all'ingresso, dove stavano posando un nuovo pavimento e le decorazioni per le danze. La campana
della cattedrale lì vicino suonava per la messa delle cinque.
«Non mi dispiacerebbe fare qualche giravolta qui con il braccio di un amico intorno alla vita», lei disse a uno
degli uomini. «Ma devo purtroppo tornare a casa... ho molto da fare. Niente balli per me!».
Quando arrivò a casa, incontrò Stagg sulla soglia, insieme a due altri scalpellini amici di Jude. «Stiamo
andando al fiume», disse Stagg, «a vedere le regate. E siamo passati a chiedere notizie di suo marito».
«Sta dormendo tranquillamente, grazie», disse Arabella.
«Per fortuna. Allora, perché non vi concedete una mezz'ora di riposo, signora Fawley, e venite con noi? Vi farà
bene».
«Mi piacerebbe molto», lei rispose. «Non ho mai visto le regate, e dicono che sono molto divertenti».
«Andiamo, dunque!».
«Come vorrei!». E guardò con malinconia lungo la strada. «Se mi aspettate un minuto, faccio un salto su a
vedere come sta. Mio padre è con lui, credo; quindi dovrei poter venire».
Aspettarono, e lei entrò. Gli inquilini di sotto non erano ancora tornati, ed infatti erano tutti andati al fiume
dove il corteo delle barche sarebbe dovuto passare. Arrivata in camera da letto, vide che suo padre non era ancora
arrivato.
«Sarebbe anche potuto venire!», disse spazientita. «Vuole andare anche lui alla regata... ecco cos'è!».
Tuttavia, gettando un'occhiata al letto, si rasserenò, perché vide che Jude stava apparentemente dormendo,
sebbene non fosse nella sua usuale posizione sollevata in cui era costretto per via della tosse. Era scivolato giù, e
giaceva disteso. Una seconda occhiata la fece trasalire, e subito si avvicinò al letto. Il volto di Jude era bianchissimo, e
un po' alla volta si stava irrigidendo. Lei gli toccò le mani: erano fredde, anche se il resto del corpo era ancora caldo.
Pose un orecchio sul suo petto e ascoltò. Dentro tutto era fermo. Il battito del cuore di un giovane non ancora trentenne
era cessato.
Dopo lo sbigottimento iniziale per quanto era accaduto, le deboli note di una banda militare o di altro genere le
giunsero alle orecchie provenienti dal fiume; e con tono irritato lei esclamò: «Proprio adesso doveva morire! Non
poteva scegliere un altro momento!». Poi, dopo aver riflettuto qualche altro secondo, uscì dalla stanza chiudendo la
porta senza far rumore come la volta precedente, e scese di nuovo le scale.
«Eccola!», disse uno degli operai. «Incominciavamo a pensare che non sareste più venuta. Avanti; dobbiamo
sbrigarci se vogliamo trovare un buon posto... Allora, come sta? Dorme sempre? Naturalmente non vogliamo
costringervi a venire se pensate che...».
«Oh sì... dorme profondamente. Non si sveglierà per un po'», lei disse in tono sbrigativo.
Si accodarono alla folla lungo Cardinal Street, e arrivarono al ponte, dove all'improvviso apparvero loro quelle
allegre imbarcazioni. Da lì, attraverso una scorciatoia molto stretta giunsero al sentiero lungo il fiume - che ora era
polveroso, soffocante e pieno di gente. Poco dopo il loro arrivo, il grandioso corteo delle barche cominciò a muoversi; i
remi, quando dalla posizione perpendicolare venivano abbassati, colpivano con un bacio sonoro la superficie dell'acqua.
«Oh, accidenti... ma è splendido! Sono proprio contenta di essere venuta», disse Arabella. «E... non recherà
alcun danno a mio marito il fatto che mi sono allontanata».
Dalla parte opposta del fiume, sulle barche affollate, c'era la più strabiliante varietà di bellezze femminili,
vestite alla moda in verde, rosa, azzurro e bianco. La bandiera blu del Circolo Canottieri era il punto intorno al quale
gravitava l'interesse di tutti, e sotto di essa una banda in uniforme rossa suonava le note che lei aveva già sentito dalla
camera mortuaria. Collegiali di ogni sorta, sulle loro canoe in compagnia delle rispettive signore, seguendo
attentamente la «loro» barca, passavano su e giù lungo il fiume. Mentre Arabella stava ammirando questa scena così
vivace, qualcuno le pose una mano intorno alla vita, e quando si girò vide che era Vilbert.
«Quel filtro sta facendo effetto, sapete!», le disse lanciandole uno sguardo lascivo. «Dovreste vergognarvi a
spezzare così il cuore di una persona!».
«Non voglio parlare d'amore, oggi».
«Perché no? È un giorno di vacanza».
Lei non rispose. Egli le cinse la vita col braccio, ed essendo in mezzo alla folla poté farlo senza essere visto.
Sul volto di Arabella comparve un'espressione maliziosa non appena sentì il contatto del suo braccio, ma lei tenne gli
occhi fissi sul fiume come se non si fosse accorta che egli l'abbracciava.
La folla avanzò ondeggiando, e a tratti spingeva Arabella e i suoi amici quasi nel fiume; lei avrebbe riso di
cuore agli scherzi che seguirono, se nella sua mente l'impronta di una figura pallida e statuaria che aveva osservato poco
prima non l'avesse resa un poco malinconica.
L'allegria sul fiume raggiunse il culmine dell'eccitazione: c'era chi si tuffava in acqua, chi gridava; la regata era
persa e vinta, le signore in rosa, azzurro e giallo scesero dalle barche, e la gente che era rimasta a guardare iniziò ad
allontanarsi.
«Bene... è stato proprio divertente», esclamò Arabella. «Ma penso che devo tornare dal mio povero marito.
Mio padre è là, per quel che ne so, ma è meglio che torni».
«Ma che fretta avete?».
«Devo andare... Caro, caro, così mi mettete in imbarazzo!».
Presso la stretta cancellata in cima al sentiero lungo il fiume, dove tutti risalivano per tornare sul ponte, la folla
era accalcata letteralmente come un'unica massa umana - Arabella e Vilbert insieme agli altri. Rimasero bloccati, ed
Arabella esclamò: «Caro, caro!», con crescente impazienza; poiché le era appena venuto in mente che se si fosse
scoperto che Jude era morto da solo sarebbe stata necessaria un'inchiesta.
«Come sei impaziente, amore mio», disse il dottore, che spinto dalla folla contro di lei non doveva compiere
alcuno sforzo personale per starle addosso. «Tanto vale aspettare: è impossibile muoversi al momento!».
Trascorsero quasi dieci minuti prima che la calca si diradasse quanto bastava per farli passare. Appena furono
di nuovo sulla strada, Arabella allungò il passo, proibendo al dottore di accompagnarla oltre quel giorno. Non si recò
dritta a casa; ma andò all'abitazione di una donna che svolgeva gli ultimi servizi indispensabili per i defunti più poveri,
e bussò alla porta.
«Mio marito è appena morto, pover'uomo», disse. «Potreste venire a sistemare la salma?».
Arabella attese qualche minuto; poi le due donne si incamminarono facendosi largo tra la folla di persone
eleganti che uscivano dal prato del Collegio Cardinal, rischiando quasi di essere travolte dalle carrozze.
«Bisogna che avverta anche il sacrestano per la funzione», disse Arabella. «È proprio da queste parti, vero? Ci
rivediamo davanti a casa».
Alle dieci di quella sera Jude giaceva sul letto del suo alloggio coperto da un lenzuolo e rigido come una
freccia. Attraverso la finestra socchiusa giungeva, dalla sala da ballo del Collegio Cardinal, l'allegro ritmo di un valzer.
Due giorni dopo, mentre il cielo era sempre sereno e l'aria afosa, due persone stavano in piedi accanto alla bara
aperta di Jude, nella stessa cameretta. Da una parte c'era Arabella, dall'altra la vedova Edlin. Guardavano entrambe il
volto di Jude, e le palpebre vecchie e logore della signora Edlin erano arrossate.
«Come è bello!», lei disse.
«Sì. È un bel cadavere», disse Arabella.
La finestra era ancora aperta per ventilare la stanza, ed essendo quasi mezzogiorno l'aria tersa all'esterno era
immobile e tranquilla. Si udirono delle voci lontane e un rumore come di persone che camminavano con passo pesante.
«Che è?», mormorò la donna anziana.
«Oh, sono i professori nel Teatro che conferiscono la laurea ad honorem al Duca di Hamptonshire e a molti
altri personaggi illustri di quel genere. È la Settimana della Rimembranza, sa. Le acclamazioni vengono dai giovani».
«Ah, giovani e coi polmoni in salute! Non come il nostro povero ragazzo, qui».
A tratti, dalle finestre aperte del Teatro giungeva nella stanza una parola come di qualcuno che teneva un
discorso, e sembrava che sui lineamenti marmorei di Jude apparisse una sorta di sorriso; mentre le vecchie e superate
edizioni Delphin di Virgilio e Orazio, il volume del Vecchio Testamento con gli angoli piegati sullo scaffale accanto e i
pochi altri volumi di quel genere che aveva voluto tenere con sé, incartapecoriti dalla polvere di marmo, avendo preso
l'abitudine di leggerli nelle brevi pause tra un lavoro e l'altro, udendo quei rumori sembravano impallidire fino ad
assumere un aspetto malato. Le campane suonavano gioiose; e i loro riverberi si spargevano per la stanza.
Lo sguardo di Arabella si spostò da Jude alla signora Edlin. «Pensate che verrà?».
«Difficile a dirsi. Ha giurato di non vederlo più».
«Come sta?».
«Stanca e infelice, poveretta. Più vecchia di molti anni da quando l'avete vista l'ultima volta. Una donna
dall'aspetto grave e provata dalla vita. È colpa di lui: tutt'ora non lo sopporta!».
«Se Jude fosse ancora vivo per vederla, forse non gl'importerebbe più nulla di lei».
«Questo non lo sapremo mai... Non vi ha mai chiesto di mandarla a chiamare, dato che è venuto a trovarla in
quello strano modo?».
«No, al contrario. Fui io a proporglielo, ma disse che non voleva farle sapere quanto stava male».
«L'aveva perdonata?».
«Che io sappia, no».
«Be'... poverina, dobbiamo credere che abbia trovato il perdono altrove! Dice di aver trovato la pace!».
«Può giurarlo in ginocchio sulla Santa Croce che porta al collo finché non resta senza voce, ma non sarà mai
vero!», disse Arabella. «Non ha trovato pace da quando lo ha lasciato, e non la troverà finché non sarà come è lui
adesso!».