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Capitolo e3
Principi di oncologia clinica
E. Bajetta, L. Celio
Oncologia clinica: la prospettiva storica
Negli Stati Uniti, a partire dal 1942, venivano condotte ricerche scientifiche segrete sui composti della
mostarda. L’osservazione di uno spiccato effetto antitumorale della mostarda azotata in un linfoma
murino portava al suo impiego in un paziente affetto da linfosarcoma refrattario alla radioterapia, che
otteneva una remissione clinica completa. I risultati di studi successivi, pubblicati nel 1946 dopo la
rimozione del segreto militare, confermavano l’attività delle mostarde azotate nei linfomi e segnavano
l’inizio della chemioterapia antitumorale. Il successivo affermarsi dell’impiego clinico della
chemioterapia citotossica portava alla nascita, nel 1972, di una nuova branca della medicina interna,
l’oncologia medica. Tuttavia, tra le molte sfide della medicina moderna, nessuna ha avuto un inizio
più controverso e un progresso più contrastato del trattamento medico delle neoplasie. Sebbene il
processo neoplastico fosse stato riconosciuto da secoli, era rimasta assai limitata la conoscenza dei
meccanismi biologici della trasformazione e della progressione tumorali fino all’avvento della
medicina molecolare, nella seconda metà del secolo scorso. Prima del 1950, il trattamento delle
neoplasie è stato, in gran parte, di pertinenza esclusiva del chirurgo. La radioterapia è divenuta uno
strumento prezioso per il controllo della malattia locale e regionale dopo il 1960, con l’invenzione
dell’acceleratore lineare, ma, analogamente alla chirurgia, non è in grado di eliminare la malattia
metastatica o micrometastatica. Un trattamento efficace per la maggior parte dei pazienti ha, pertanto,
la necessità di raggiungere ogni distretto corporeo. Farmaci citotossici, molecole biologiche e terapie
immunomediate sono divenuti il centro degli attuali sforzi indirizzati alla cura delle neoplasie. A
partire dai primi esperimenti condotti con la mostarda azotata oltre 60 anni fa e fino agli attuali
tentativi di sviluppare farmaci diretti contro specifici bersagli molecolari presenti nella neoplasia, gli
studiosi di diverse discipline si sono uniti nella ricerca di agenti antitumorali più efficaci. Nel corso
degli anni, lo sviluppo di terapie innovative, basato dapprima su osservazioni empiriche, è divenuto
sempre più dipendente dalla comprensione della biologia cellulare e molecolare della neoplasia.
Nell’ultima decade, acquisizioni fondamentali su origini e comportamento dei tumori nell’uomo
hanno rimodellato la comprensione di tali malattie e hanno generato progressi in campo clinico. La
caratteristica di tale ricerca, più promettente in termini di sviluppi futuri, è il focalizzarsi sulla
neoplasia in quanto entità clinica. Utilizzando idee e tecnologie originariamente derivate dalla ricerca
di base e le possibilità aperte dal sequenziamento del genoma umano, i ricercatori hanno spostato
l’avanguardia degli studi sul cancro dai modelli di crescita tumorale in vitro alla caratterizzazione del
profilo molecolare della neoplasia nel singolo paziente e alla conseguente possibilità di un trattamento
medico personalizzato.
Biologia della genetica della neoplasia
Aspetti di biologia cellulare
L’uomo adulto si compone di circa 1015 cellule, molte delle quali si dividono e differenziano per
ripopolare organi e tessuti a rapida proliferazione. Le cellule capaci di dividersi e di rifornire i tessuti
sono dette “cellule staminali”; si calcola che ogni giorno si verifichino circa 1012 divisioni nei
compartimenti corporei di cellule staminali. Nonostante l’enorme produzione di nuove cellule, la
proliferazione e il differenziamento sono processi strettamente regolati, in modo che organi e tessuti
non eccedano una specifica taglia e il rinnovamento tissutale sia proporzionato e limitato alla
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sostituzione di cellule danneggiate o invecchiate. Il controllo fine del numero di cellule è ottenuto
attraverso una rete di meccanismi molecolari che, da un lato, governano la proliferazione e, dall’altro,
l’apoptosi (morte cellulare programmata). L’inibizione da contatto è un importante meccanismo di
controllo negli organismi pluricellulari, assicurando che nessuna cellula presenti una proliferazione
non ristretta. Quando è raggiunta la confluenza cellulare, la sensibilità ai fattori di crescita diminuisce,
forse in conseguenza di una riduzione della densità di recettori specifici presenti sulla superficie
cellulare. I fattori di crescita sono un gruppo di macromolecole regolatrici isolate dal siero e da estratti
tissutali: sembra esistere una stretta relazione tra la loro produzione e lo sviluppo di molti tipi di
neoplasie. Dal punto di vista funzionale, si distinguono fattori di crescita positivi e negativi, a seconda
che la proliferazione cellulare sia stimolata o inibita. Il controllo del ciclo cellulare dipende
dall’equilibrio raggiunto tra i diversi fattori di crescita che agiscono contemporaneamente sulla
cellula. Pertanto, il funzionamento aberrante di segnali autocrini e paracrini mediati da fattori di
crescita può causare un’eccessiva proliferazione cellulare e promuovere lo sviluppo neoplastico.
Il ciclo cellulare prevede una serie ordinata di eventi che culminano nella divisione della cellula in
due cellule figlie uguali. Un aspetto critico è la necessità che le cellule replichino accuratamente il
loro DNA e contengano una massa sufficiente per sostenere la divisione. Si distinguono le seguenti
fasi del ciclo cellulare: G1, S, G2 e M. Nella fase G1, la cellula si prepara a iniziare la replicazione del
DNA, mentre nella fase S (sintesi) ha luogo la replicazione del materiale genetico. La fase G2
rappresenta il periodo intercorrente tra il termine della fase S e l’inizio della fase M (mitosi).
L’impegno alla mitosi si verifica al termine di G2 e fornisce alla cellula un’ulteriore opportunità per
controllare che la replicazione del DNA sia stata completata in modo corretto. Cellule quiescenti, che
sono considerate non in ciclo, si trovano nella fase G0. La transizione da G0 a G1 è controllata da
fattori di crescita. Esistono due importanti punti di controllo nella progressione attraverso il ciclo
cellulare. Uno è il punto di controllo G1-S, in cui si impedisce alle cellule di iniziare a replicare il loro
materiale genetico finché non sia stato riparato tutto il danno a carico del DNA. La proteina RB
(pRB), codificata dal gene oncosoppressore RB, gioca un ruolo centrale nel determinare se una cellula
procederà o meno attraverso la fase G1. La maggioranza delle neoplasie umane presenta alterazioni di
questa via. Un secondo punto di controllo è quello G2-M, che impedisce alle cellule di iniziare la
mitosi in presenza di un danno del DNA non riparato. La proteina p53, codificata dal gene
oncosoppressore TP53, ricopre un ruolo ben definito a livello di entrambi i punti di controllo. I
principali interruttori per il controllo del ciclo cellulare sono una serie di protein-chinasi, le chinasi
dipendenti da ciclina (CDK): ciascuna di esse forma un complesso con una particolare ciclina, una
proteina che lega e attiva la chinasi. Quest’ultima è un enzima che aggiunge un gruppo fosfato a varie
proteine necessarie per l’avanzamento di una cellula attraverso il ciclo. I gruppi fosfato alterano la
struttura della proteina, attivandola o inattivandola, in relazione alla sua funzione. Esistono specifici
complessi CDK/ciclina all’ingresso delle fasi G1, S, M e G2, oltre ad altri fattori che aiutano a
preparare la cellula a entrare nella fase S e in quella M. La pRB si lega, inibendolo, a E2F, un fattore
di trascrizione che attiva l’espressione di numerosi geni necessari per la progressione da G1 a S. La
fosforilazione di pRB da parte delle CDK inattiva la proteina e causa il rilascio di E2F attivo. La p53
è normalmente complessata a MDM2, una proteina che inibisce la p53 e ne promuove la
degradazione. Diversi segnali inattivano la MDM2, permettendo l’aumento della concentrazione della
p53 libera: questo può provocare l’arresto del ciclo cellulare per azione della proteina p21, che blocca
l’attività di una CDK richiesta per la progressione attraverso la fase G1, oppure indirizzare la cellula
all’apoptosi, se il danno al DNA è tale da non poter essere riparato. L’apoptosi è un processo di
controllo essenziale per la morte cellulare programmata. Le cellule che vanno incontro ad apoptosi
sono rapidamente fagocitate (inghiottite e digerite da cellule del sistema immunitario) senza alcuna
dispersione di componenti citoplasmatiche e senza l’avvio di una risposta infiammatoria. Le proteine
capaci di rilevare un danno del DNA possono aiutare ad attivare l’apoptosi e possono anche influire
sul ciclo cellulare, arrestando la divisione della cellula in modo che il danno possa essere riparato. La
riparazione, l’arresto della crescita e l’apoptosi sono tutte risposte legittime in caso di danno del DNA,
sebbene la scelta dipenda, di volta in volta, dal tipo cellulare, dalla localizzazione, dall’ambiente e
dall’estensione del danno. Se quest’ultimo è oltre le proprie possibilità di riparazione, la cellula
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generalmente va incontro ad apoptosi. L’incapacità di cellule che si stanno dividendo di iniziare
l’apoptosi, dopo essere state esposte a un danno severo del DNA, contribuisce allo sviluppo di una
neoplasia.
Basi molecolari della cancerogenesi
Le mutazioni possono essere considerate errori, ossia cambiamenti della normale sequenza di basi del
DNA. Sebbene le mutazioni siano generalmente considerate un evento negativo, il loro effetto varia a
seconda del tipo e della posizione. Alcune possono avere un effetto nullo sulla proteina codificata dal
gene mutato, mentre altre causano la sintesi di una proteina parzialmente o completamente alterata.
Infatti un cambiamento nella sequenza di aminoacidi può incidere sulle modificazioni posttraduzionali alle quali la catena polipeptidica è normalmente sottoposta e quindi sulla sua funzionalità
biologica. Le mutazioni sono divise in due categorie generali: anomalie geniche e cromosomiche. Le
mutazioni geniche o puntiformi sono piccoli cambiamenti nella sequenza delle basi del DNA, quali
addizione, rimozione o sostituzione di singole coppie o di un piccolo numero di coppie di basi. Le
anomalie cromosomiche comprendono sia alterazioni strutturali, quali addizione, amplificazione,
rimozione o riarrangiamento di parti di cromosomi, sia l’aumento o la diminuzione del numero dei
cromosomi. Una descrizione di tipi diversi di mutazioni è presentata nella Tabella e3.1. Le mutazioni
possono essere ereditarie se presenti nel DNA dei gameti, ma la grande maggioranza è acquisita dalle
cellule somatiche in seguito a un danno chimico del DNA. Le mutazioni ereditarie sono presenti in
tutte le cellule di un individuo e possono essere trasmesse ai discendenti, mentre le mutazioni
somatiche sono trasmesse solo alla progenie delle cellule inizialmente colpite. Non esiste un rischio
ereditario per la maggior parte delle neoplasie umane, che sono, pertanto, definite “sporadiche” e
dipendono esclusivamente da mutazioni somatiche. Le cellule tumorali presentano un numero finito di
vie molecolari e biochimiche aberranti, mentre la porzione alterata del DNA è relativamente
contenuta rispetto alla dimensione del genoma. I principali tipi di danno a carico del DNA sono: (1)
formazione di addotti alle basi; (2) perdita di una base; (3) deaminazione delle basi; (4) rottura di un
singolo filamento; (5) rottura del doppio filamento; (6) legami crociati tra i due filamenti.
Tab. e3.1. Alterazioni genetiche e cromosomiche.
Alterazione
Mutazione silente
Mutazione dissenso
(missense
mutation)
Mutazione non
senso (nonsense
mutation)
Mutazione con
spostamento del
modulo di lettura
(frame-shift
mutation)
Inserzione
Delezione
Traslocazione
Amplificazione
Descrizione
Alterazione puntiforme che cambia un codone specifico per un aminoacido in
un codone codificante per lo stesso aminoacido
Alterazione puntiforme che porta alla formazione di un codone codificante per
un aminoacido diverso da quello codificato dal codone originale
Alterazione puntiforme che porta alla creazione di uno dei tre codoni di stop
che fanno terminare prematuramente la catena polipeptidica
Addizione o delezione di coppie (singole o multiple) di nucleotidi, con
conseguente spostamento del modulo di lettura
Presenza di un tratto addizionale di coppie di basi nel DNA
Rimozione di una sequenza del DNA, con le regioni su entrambi i lati della
sequenza che sono unite insieme
Riarrangiamento strutturale di un cromosoma che comporta la fusione di
cromosomi diversi o di parti di un singolo cromosoma che non sono contigue
Produzione di copie aggiuntive di una sequenza cromosomica che può portare
ad aumentata espressione genica quando sono prodotte multiple copie di un
gene
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Le mutazioni somatiche sono il prodotto di uno di due processi interdipendenti.
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•
Esiste un tasso di errore intrinseco dei processi di sintesi e riparazione del DNA nei
tessuti normali, che causa l’acquisizione di mutazioni trasmesse poi alla progenie
cellulare durante la replicazione. Tale fenomeno è responsabile di una frequenza basale di
mutazione a livello di un particolare allele dell’ordine di 10-6, cioè solo una cellula su un
milione è mutata. Sebbene sia estremamente bassa la probabilità che un gene chiave per
la trasformazione neoplastica vada incontro a mutazione, una pressione di selezione
positiva opera ab initio, amplificando l’impatto di eventi a bassa frequenza. In altri
termini, il processo sequenziale dell’acquisizione di plurime mutazioni a carico di geni
cruciali può aver luogo solo se la cellula inizialmente mutata va incontro a espansione
clonale. Appena il clone raggiunge le 1.000 cellule, la probabilità che una di esse
acquisisca una seconda mutazione in un altro locus genico cruciale aumenta di 1.000
volte. La ripetizione del processo porta alla progressiva acquisizione di un insieme di
caratteristiche che conferiscono alle cellule un potenziale sempre maggiore di crescita
autonoma nell’organismo ospite.
Il tasso basale di mutazione somatica spontanea è aumentato da fattori ambientali che
interagiscono, direttamente o indirettamente, con il DNA cellulare. Questi comprendono
non solo l’esposizione ad agenti ambientali, quali radiazioni e sostanze chimiche, ma
anche gli effetti genotossici di agenti endogeni, quali i radicali liberi responsabili dello
stress ossidativo. Cancerogeni esogeni ed endogeni contribuiscono al tasso basale di
mutazione somatica e, in alcuni casi, possono aumentare notevolmente i tassi di
neoplasia.
Neoplasia e mutazioni
La neoplasia (letteralmente nuova formazione) è una malattia genetica a base cellulare: essa si verifica
attraverso un processo a più fasi, la cancerogenesi, caratterizzato dall’acquisizione sequenziale di
mutazioni stocastiche entro geni che conferiscono un vantaggio selettivo di crescita alla cellula mutata
rispetto alla controparte normale. Molte mutazioni sono già presenti in forme premaligne e nella
neoplasia intraepiteliale (IEN). I dati di incidenza di neoplasie comuni (della mammella, della
prostata, del colon o della cute) dimostrano un aumento dei casi con l’età, suggerendo che un minimo
di 4 o 5 eventi mutazionali debba verificarsi prima dello sviluppo neoplastico. Dal punto di vista
funzionale, le mutazioni producono due distinte conseguenze: inappropriata espressione o attivazione
di geni (mutazione con guadagno di funzione) oppure inattivazione funzionale del gene o della
relativa proteina (mutazione con perdita di funzione). I geni attivati sono detti oncogeni, mentre quelli
inattivati sono noti come oncosoppressori. Si ritiene che il processo di cancerogenesi si realizzi
nell’arco di molte decadi. Le mutazioni che si verificano frequentemente derivano da errori durante la
replicazione del DNA, ma possono anche verificarsi in seguito all’esposizione a complesse miscele
chimiche presenti nell’ambiente oppure attraverso lo stile di vita e la dieta. In quest’ultimo processo,
denominato “cancerogenesi chimica”, il mutamento genetico iniziale che deriva dall’interazione tra
agente chimico e DNA è definito iniziazione. La cellula iniziata deve poi trasferire l’alterazione
acquisita alla progenie, sfuggendo all’azione soppressiva del sistema immunitario e a quella
regolatrice del sistema endocrino dell’ospite (teoria della mutazione somatica). Le alterazioni presenti
nella cellula iniziata sono, generalmente, la conseguenza di mutazioni a carico di geni che codificano
per proteine regolatrici della divisione cellulare. Altri geni vanno poi incontro a mutazione in
conseguenza del fatto che geni codificanti per proteine responsabili della riparazione del danno del
DNA spesso non funzionano correttamente, essendo anch’essi mutati. L’aumento del numero di
alterazioni nella cellula mutata causa ulteriori alterazioni nella stessa e nella progenie. Un’aumentata
proliferazione caratterizza la maggior parte delle cellule tumorali, che hanno acquisito funzioni
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altrimenti represse nelle cellule normali. Le neoplasie spesso posseggono cloni cellulari differenti
all’analisi citogenetica, che derivano dall’iniziale cellula trasformata attraverso alterazioni genetiche
secondarie o terziarie. Questa eterogeneità contribuisce alle differenze riscontrabili nel
comportamento clinico e nella risposta alle terapie di neoplasie originate dallo stesso distretto
anatomico. Le neoplasie possono contenere anche cellule tumorali progenitrici, che costituiscono uno
spettro di cellule con differenti alterazioni genetiche e stati di differenziamento. Tali popolazioni
cellulari possono differire per la sensibilità alla chemioterapia, alla radioterapia e ad altri tipi di
trattamento, complicando la gestione clinica del paziente. Per questi motivi, le tappe iniziali dello
sviluppo delle neoplasie rivestono un’importanza clinica considerevole e sono una priorità per lo
sviluppo razionale di terapie mediche.
Tipi di geni alterati nella neoplasia
La neoplasia è causata da alterazioni in tre classi operative di geni: oncogeni, geni oncosoppressori e
geni di microRNA (miRNA). Gli oncogeni derivano da normali geni cellulari detti proto-oncogeni; i
loro prodotti sono proteine che controllano la proliferazione cellulare, l’apoptosi oppure entrambe. Gli
oncogeni possono essere attivati da alterazioni strutturali derivanti da riarrangiamenti cromosomici,
mutazioni e amplificazione genica. Traslocazioni e mutazioni possono verificarsi come eventi
inizianti oppure durante la progressione, mentre l’amplificazione si verifica generalmente durante la
progressione neoplastica. Tutti e tre i meccanismi causano un’alterazione della struttura dell’oncogene
oppure un aumento o un’alterata regolazione della sua espressione. L’attivazione di oncogeni
conferisce un vantaggio di crescita o un’aumentata sopravvivenza alle cellule portatrici delle
alterazioni. I prodotti degli oncogeni possono essere classificati in sei categorie generali.
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Fattori di trascrizione: sono spesso membri di famiglie multigeniche che condividono
domini strutturali comuni. Per poter agire, molti fattori di trascrizione richiedono
un’interazione con altre proteine. Per esempio, in alcune neoplasie la proteina di
trascrizione Fos dimerizza con il fattore di trascrizione Jun per formare il fattore di
trascrizione AP1, in grado di aumentare l’espressione di diversi geni che controllano la
divisione cellulare. Traslocazioni cromosomiche spesso attivano geni di fattori di
trascrizione in linfomi e talvolta in neoplasie solide come, per esempio, il carcinoma della
prostata.
Modificatori della cromatina: modificazioni nel grado di compattamento della cromatina
giocano un ruolo critico nel controllo dell’espressione, replicazione e riparazione dei geni
e della segregazione dei cromosomi. Due tipi di enzimi rimodellano la cromatina: enzimi
ATP-dipendenti che spostano le posizioni dei nucleosomi, le subunità ripetitive di istoni
attorno alle quali si avvolge il DNA, ed enzimi che modificano le code N-terminali degli
istoni. Il modello di modificazione degli istoni costituisce un codice epigenetico che
determina l’interazione tra nucleosomi e proteine associate alla cromatina. Queste
interazioni, a loro volta, determinano la struttura della cromatina e la sua capacità
trascrizionale.
Fattori di crescita: l’attivazione costitutiva del gene di un fattore di crescita può
contribuire alla trasformazione maligna. Il prototipo è il proto-oncogene c-sis, che
codifica per la catena β del Platelet-Derived Growth Factor (PDGF). Il PDGF, che è
rilasciato dalle piastrine, può indurre la proliferazione di vari tipi di cellule.
L’iperespressione del PDGF induce la trasformazione in vitro di fibroblasti che
presentano il recettore del fattore di crescita.
Recettori di fattori di crescita: sono alterati in molte neoplasie. Una delezione del dominio
di legame del ligando nel Recettore dell’Epidermal Growth Factor (EGFR), una proteina
tirosin-chinasi transmembrana, causa l’attivazione costitutiva del recettore in assenza del
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ligando (Box e3.1). Mutazioni con attivazione si verificano anche nel dominio della
tirosin-chinasi dei recettori Human Epidermal growth factor Receptor-2 (HER2) e KIT.
Tali mutazioni si verificano in neoplasie polmonari, mammarie e stromali del tratto
gastroenterico.
Trasduttori di segnale: molti oncogeni codificano per membri di vie intracellulari di
trasduzione del segnale. Essi ricadono in due gruppi principali: protein-chinasi non
recettoriali e proteine che legano la guanosina trifosfato. Le protein-chinasi non
recettoriali sono di due tipi: tirosin-chinasi (per es. ABL, LCK e SRC) e serina/treoninachinasi (per es. AKT, RAF1, MOS e PIM1). I geni di proteine coinvolte nella trasduzione
del segnale diventano oncogeni se sono colpiti da mutazioni con attivazione di funzione.
Regolatori dell’apoptosi: il gene BCL2 codifica per una proteina citoplasmatica che si
localizza nei mitocondri e aumenta la sopravvivenza cellulare mediante inibizione
dell’apoptosi. Le proteine bcl-xl e bcl2, membri della famiglia BCL2, inibiscono
l’apoptosi e sono sovraregolate in molte neoplasie. Due vie principali conducono
all’apoptosi: la stress pathway e la death-receptor pathway. La stress pathway è attivata
da proteine che contengono domini BH3 (bcl2 homology 3); questo dominio inattiva bcl2
e bcl-xl, attivando le caspasi che inducono l’apoptosi. La death-receptor pathway è
innescata dal legame del ligando di Fas, TRAIL, e del Tumor Necrosis Factor (TNF)-α ai
loro recettori sulla superficie cellulare, con conseguente attivazione delle caspasi.
Box e3.1. Caratteristiche generali dei recettori tirosin-chinasici
I recettori tirosin-chinasici (RTK) sono proteine transmembrana che mediano la
trasmissione di segnali extracellulari (come i fattori di crescita) nell’ambiente
intracellulare, regolando importanti funzioni cellulari. In termini strutturali, i RTK sono
generalmente costituiti di un dominio extracellulare di legame per il ligando, un singolo
dominio transmembrana, una regione catalitica citoplasmatica contenente la tirosin-chinasi
e sequenze regolatrici. I RTK sono attivati dal legame di uno specifico fattore di crescita al
dominio extracellulare, il che causa la dimerizzazione del recettore e la successiva
autofosforilazione del complesso recettoriale da parte del dominio intracellulare contenente
la chinasi che utilizza ATP. Il recettore fosforilato interagisce poi con una varietà di
molecole di segnale citoplasmatiche, consentendo la trasduzione del segnale. I RTK che
presentano un’alterata regolazione possono contribuire alla trasformazione di una cellula.
L’alterata regolazione può verificarsi attraverso diversi meccanismi: (1) amplificazione e/o
iperespressione di RTK; (2) mutazioni con guadagno di funzione o delezioni che causano
un’attività chinasica costitutivamente attiva; (3) riarrangiamenti genomici che producono
proteine di fusione con attività chinasica costitutivamente attiva; (4) stimolazione costante
di RTK da parte di elevati livelli di fattori di crescita; (5) trasduzione retrovirale di un
proto-oncogene che causa mutamenti strutturali di RTK. Ognuno di questi meccanismi
determina un aumento del segnale a valle del recettore.
A differenza degli oncogeni, i geni oncosoppressori sono normali componenti del genoma. I loro
prodotti sono componenti integrali delle vie regolatrici del ciclo cellulare e la perdita della normale
funzione di questi geni può portare a eccessiva proliferazione cellulare e a progressione neoplastica. I
geni della suscettibilità al carcinoma mammario, BRCA-1 e BRCA-2, sono oncosoppressori che
presentano un’ereditarietà di tipo autosomico dominante a penetranza variabile. Mutazioni a carico di
questi due geni sono responsabili di circa tre quarti dei casi ereditari di carcinoma mammario. A
livello cellulare, gli effetti di BRCA-1 e BRCA-2 sono recessivi ed entrambe le copie di un allele
devono essere perse o mutate ai fini della progressione neoplastica. Individui portatori di una
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mutazione di questi geni nella linea germinale hanno una suscettibilità ereditaria dominante e il
secondo evento mutazionale colpisce la cellula somatica. Tuttavia, mutazioni di BRCA-1 e BRCA-2
sono poco comuni nelle forme sporadiche di carcinoma mammario, che non sembrano derivare da
mutazioni somatiche acquisite in entrambi gli alleli. Sotto questo aspetto, BRCA-1 e BRCA-2 si
distinguono dai classici geni oncosoppressori TP53 e RB. I livelli nucleari di pRB sono determinanti
critici dello stato funzionale della cellula e quando la quantità della proteina diminuisce al di sotto di
un valore soglia, la cellula acquisisce un fenotipo oncogeno. Il gene TP53 è mutato in oltre il 70%
delle neoplasie umane e la quasi totalità di queste presenta mutazioni a carico di geni a monte o a
valle della funzione di p53, che è spesso definita “il guardiano del genoma” in quanto contribuisce
alla protezione contro il danno genotossico. Infatti, essa può agire come un fattore di trascrizione
omotetramerico, che è attivato in risposta a insulti cellulari, quali radiazioni, ipossia e danno del DNA
indotto da farmaci. A seconda delle circostanze, la p53 può provocare l’arresto del ciclo cellulare o
indirizzare la cellula verso l’apoptosi. Sebbene i livelli della p53 siano aumentati in alcune neoplasie,
la proteina è alterata e mutazioni del gene TP53 si associano, in generale, alla perdita della funzione
genica. Inoltre, il gene TP53 può agire in modo dominante negativo, danneggiando la funzione della
proteina normale in presenza di una qualunque forma alterata della proteina. Mutazioni del gene TP53
si verificano nella sindrome tumorale familiare di Li-Fraumeni, che si associa a neoplasia mammaria,
sarcomi e neoplasie del corticosurrene. La proteina APC, il prodotto del gene oncosoppressore APC,
controlla l’attività della β-catenina, che è una proteina coinvolta nell’adesione cellula-cellula e
nell’attivazione di diverse vie di trasduzione del segnale. Nella poliposi adenomatosa familiare, una
sindrome tumorale familiare caratterizzata dalla formazione di centinaia di polipi nel colon e nel retto,
mutazioni che inattivano il gene APC bloccano la degradazione della β-catenina, inibendone la
fosforilazione. Di conseguenza, la β-catenina libera trasloca dal citoplasma al nucleo, dove attiva geni
coinvolti nella proliferazione cellulare e nell’invasività locale.
Una terza classe di geni coinvolti nella trasformazione neoplastica è quella dei geni di miRNA, che
codificano per singoli filamenti di RNA lunghi circa 21-23 nucleotidi. Essi sono in grado di regolare
l’espressione genica: una molecola di miRNA può appaiarsi a un RNA messaggero, contenente una
sequenza nucleotidica complementare, e bloccarne la traduzione oppure causarne la degradazione. La
mappatura dei geni di numerosi miRNA ha dimostrato che molti di essi sono presenti in regioni
cromosomiche esposte a riarrangiamenti, delezioni e amplificazioni nelle cellule tumorali. Tali geni
possono essere sovra o sottoregolati e la loro funzione dipende dai bersagli contro i quali sono diretti
in uno specifico tessuto: un gene di miRNA può essere un oncosoppressore se, in un dato tipo
cellulare, il bersaglio critico è un oncogene e, viceversa, può essere un oncogene se, in un differente
tipo cellulare, il bersaglio è un gene oncosoppressore.
Instabilità genomica
L’acquisizione progressiva di mutazioni da parte delle cellule rende il genoma più instabile e incline
all’alterazione genetica. L’instabilità genomica aumenta fortemente la probabilità di ulteriori
mutazioni spontanee, che contribuiscono allo sviluppo neoplastico. Tuttavia, esistono meccanismi
specifici che servono a preservare l’integrità del genoma.
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I geni oncosoppressori caretaker (addetti alla manutenzione) sono coinvolti nel
riconoscimento e nella riparazione delle alterazioni dell’appaiamento delle basi
nucleotidiche o della rottura del filamento di DNA. I due meccanismi generali che
possono essere implicati sono la riparazione mediante escissione di basi oppure quella
mediante escissione di nucleotidi.
I geni oncosoppressori gatekeeper (guardiani) controllano la proliferazione cellulare e
arrestano le cellule in ciclo, se esse presentano danni al DNA. Questi geni svolgono la
loro funzione in collaborazione con geni caretaker, in modo che vi sia il tempo
sufficiente e l’opportunità per riparare il DNA danneggiato prima dell’inizio della mitosi.
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Se la funzione dei guardiani fallisce, vi è il rischio che porzioni danneggiate del DNA
siano trasmesse alle cellule figlie come potenziali mutazioni in grado di promuovere la
trasformazione neoplastica. I geni gatekeeper operano nei punti di controllo del ciclo
cellulare (G1-S e G2-M) e interagiscono con vie di trasduzione del segnale che
consentono una rapida integrazione dei segnali stimolatori o inibitori provenienti
dall’interno o dall’esterno della cellula. In questo modo, la cellula valuta la polarità finale
dei segnali e insieme all’analisi dell’integrità del DNA dirige l’attività dei geni
gatekeeper. Questi influenzano i punti di controllo del ciclo, impedendo alla cellula di
replicare il proprio DNA fino a che il danno non è stato riparato (punto di controllo G1-S)
oppure di iniziare la mitosi se c’è un danno non riparato del DNA (punto di controllo G2M). Alterazioni specifiche di geni caretaker e gatekeeper possono causare un drammatico
aumento dell’instabilità genomica e una rapida progressione verso il fenotipo maligno.
Le cellule tumorali presentano due tipi di instabilità genomica.
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L’instabilità cromosomica, che rappresenta la maggior parte dell’instabilità genomica
osservata, è caratterizzata dall’accumulo di anomalie cromosomiche strutturali e/o numeriche
nelle cellule tumorali. Le analisi del cariotipo indicano che la maggioranza delle neoplasie
epiteliali presenta aneuploidia (multiplo non intero dell’assetto cromosomico aploide a causa
della mancanza o della presenza di una copia addizionale di uno o più cromosomi). La
scoperta suggerisce che diversi geni, quando mutati, portano a questa forma di instabilità. La
base molecolare dell’aneuploidia è eterogenea, ma alterazioni di specifici punti di controllo
sono in grado di favorire tale forma di instabilità genomica. I geni del punto di controllo del
fuso assicurano che la segregazione dei cromosomi sul fuso mitotico proceda senza errori, ma
mutazioni di questi geni sono di comune riscontro nelle neoplasie umane. Probabilmente la
causa più frequente di instabilità cromosomica è rappresentata da alterazioni nel punto di
controllo del danno del DNA. La replicazione del DNA danneggiato causa alterazioni della
segregazione dei cromosomi e della ricombinazione mitotica. Grossolane alterazioni
strutturali cromosomiche si verificano se la replicazione del DNA procede in presenza di
rotture a singolo o a doppio filamento. Alcune forme ereditarie di predisposizione tumorale
sono legate alle vie implicate nel controllo delle rotture dei filamenti del DNA. Geni quali
ATM (Ataxia Teleangiectasia Mutated; probabilmente il sensore primario delle rotture a
doppio filamento), ATR (ATM and Rad-3 related), BRCA-1, BRCA-2 e TP53 sono tutti
implicati nel controllo del danno del DNA e nello sviluppo neoplastico. La presenza di
anomalie del numero e della funzione dei centromeri rappresenta anch’essa un meccanismo di
instabilità cromosomica. Un ulteriore meccanismo di aneuploidia con instabilità cromosomica
è la disfunzione dei telomeri, in grado di causare grossolane alterazioni strutturali
cromosomiche.
L’instabilità nucleotidica, che è relativamente poco comune nelle neoplasie, riflette
probabilmente l’impatto dei cancerogeni ambientali o del tasso basale di mutazione somatica.
Tuttavia, alterazioni dei due sistemi principali di riparazione del DNA cellulare possono
causare significativi livelli di instabilità genomica. La riparazione per escissione di nucleotide
(Nucleotide Excision Repair, NER) è responsabile dell’identificazione e riparazione di grosse
lesioni del DNA (filamenti lunghi da 2 a 30 nucleotidi) indotte da agenti esogeni. Essa è stata
riconosciuta, per la prima volta, in individui affetti da xeroderma pigmentoso. La riparazione
del mismatch (appaiamento errato) corregge errori di replicazione del DNA, che sono
responsabili della formazione di coppie di basi erroneamente appaiate e di loop anomali
causati da inserzioni/delezioni. Queste lesioni determinano acquisizioni o perdite di brevi
unità ripetitive di mono- o dinucleotidi (per es. ripetizioni di poliA oppure di poliCA) entro
sezioni del genoma denominate microsatelliti. Le sequenze dei microsatelliti sono
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caratterizzate da ripetizioni identiche di nucleotidi e sono frequentemente osservate nelle
regioni codificanti dei geni. Questo tipo di errore di replicazione di nucleotidi è noto come
instabilità dei microsatelliti ed è stato identificato nella maggioranza delle neoplasie che si
sviluppano in pazienti con cancro del colon ereditario non associato a poliposi (HNPCC),
noto anche come sindrome di Lynch. Tale sindrome è causata da mutazioni di geni
responsabili della riparazione dei mismatch del DNA. Difetti nella riparazione dei mismatch
accelerano il tasso di mutazione nelle forme sia ereditarie sia sporadiche di neoplasia del
colon e possono essere riscontrati in oltre il 10% delle neoplasie colo-rettali, gastriche ed
endometriali. Almeno il 95% dei casi di HNPCC sono attribuibili a mutazioni di due geni
coinvolti nella riparazione dei mismatch (MSH2 e MLH1). Il 15% delle neoplasie colo-rettali
sporadiche presenta l’instabilità dei microsatelliti, che è spesso causata dall’inattivazione
epigenetica di MLH1.
Epigenetica della neoplasia
L’epigenetica è definita come cambiamenti ereditabili nell’espressione genica che non sono dovuti ad
alterazioni nella sequenza del DNA. Il marcatore epigenetico più noto è la metilazione del DNA, che
riveste ruoli critici nel controllo dell’attività genica e dell’architettura del nucleo cellulare. Nell’uomo,
la metilazione del DNA si verifica a livello di residui di citosina che precedono residui di guanina: i
dinucleotidi CpG non sono distribuiti a caso nel genoma, ma ci sono regioni, le “isole CpG”, che
presentano un contenuto superiore al 50% di tali nucleotidi. Le cellule tumorali presentano uno
squilibrio della metilazione del DNA: la progressione neoplastica induce una perdita assai diffusa
della metilazione mentre esiste un’ipermetilazione aberrante delle isole CpG. Questi segmenti
altamente conservati del DNA si trovano nella regione dei promotori di quasi la metà dei geni di
mammifero e sono normalmente protetti dalla metilazione. Infatti, la metilazione è uno degli strati di
controllo di certi geni tessuto-specifici e di geni nella linea germinale, che sono silenti in quasi tutti i
tessuti eccetto che nelle neoplasie. La metilazione del DNA ha luogo nel contesto di modificazioni
chimiche degli istoni, che non sono solo delle proteine per l’impaccamento del DNA, ma strutture
molecolari che partecipano alla regolazione dell’espressione genica. Gli istoni immagazzinano
l’informazione epigenetica attraverso modificazioni post-traduzionali, quali l’acetilazione in lisina, la
metilazione in arginina e lisina e la fosforilazione in serina. Tali modificazioni influenzano la
trascrizione genica e la riparazione del DNA. Il basso livello di metilazione del DNA nelle neoplasie
umane, rispetto al livello di metilazione presente nelle controparti tissutali normali, è stato una delle
prime alterazioni epigenetiche riscontrate. La perdita della metilazione si determina principalmente a
carico di sequenze ripetitive del DNA, delle regioni codificanti dei geni e degli introni. Il grado di
ipometilazione del DNA genomico aumenta con la progressione della lesione da proliferazione
benigna a tumore invasivo.
L’ipermetilazione delle isole CpG nella regione del promotore può interessare geni coinvolti nel ciclo
cellulare, nella riparazione del DNA, nel metabolismo dei cancerogeni, nelle interazioni cellulacellula, nell’apoptosi e nell’angiogenesi, tutti processi implicati nello sviluppo neoplastico. I profili di
ipermetilazione delle isole CpG presenti in geni oncosoppressori sono specifici per tipo di neoplasia.
Questi pattern di inattivazione epigenetica si verificano non solo nelle neoplasie sporadiche, ma anche
in sindromi tumorali familiari, nelle quali l’ipermetilazione può rappresentare la seconda lesione
prevista dal modello di sviluppo neoplastico dei “due colpi” proposto da Alfred Knudson. Marcatori
di ipermetilazione del DNA sono sotto studio come mezzi diagnostici complementari, fattori
prognostici e fattori predittivi di risposta al trattamento.
Proprietà essenziali della cellula tumorale
Lo sviluppo di una neoplasia è il risultato finale di una serie di mutazioni ereditate e/o acquisite, che
causano un notevole cambiamento nel comportamento di una singola cellula e della sua progenie. Le
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cellule tumorali acquisiscono caratteristiche anomale che ne influenzano l’aspetto, l’espressione di
proteine sulla loro superficie, la crescita, la replicazione e la morte. È stato proposto che l’alterazione
di un numero limitato di vie regolatrici cellulari sia sufficiente per impartire un fenotipo oncogeno a
un’ampia varietà di cellule normali. Le cellule tumorali condividono una serie comune di sei proprietà
biologiche acquisite, delle quali hanno bisogno per svilupparsi e sopravvivere (Fig. e3.1).
L’acquisizione di ciascuna di esse significa superare un distinto meccanismo regolatorio o una linea di
difesa dell’organismo ospite. Una proprietà aggiuntiva è l’instabilità genomica che caratterizza, come
già visto, le cellule tumorali. L’aumentata tendenza alla mutazione è essenziale e porta a
un’evoluzione del danno genetico e all’acquisizione di un fenotipo oncogeno. Le sei proprietà
essenziali delle cellule tumorali sono le seguenti.
•
•
•
•
Capacità delle cellule di dividersi indipendentemente dalla presenza di segnali esterni di
crescita: le cellule normali richiedono segnali di crescita mitogenici per passare da una
condizione di quiescenza a uno stato di proliferazione attiva. Tali segnali sono trasmessi
nella cellula da recettori transmembrana che legano classi distinte di molecole di segnale:
fattori di crescita diffusibili, componenti della matrice extracellulare (ECM) e molecole di
adesione/interazione cellula-cellula. Molti oncogeni agiscono mimando, in qualche modo,
un normale segnale di crescita. Le cellule tumorali mostrano una dipendenza fortemente
ridotta dalla stimolazione esogena della proliferazione. Tre comuni strategie molecolari
per l’acquisizione dell’autonomia proliferativa coinvolgono l’alterazione di segnali
extracellulari di crescita, di trasduttori transcellulari di tali segnali oppure di circuiti
intracellulari che trasformano i segnali in effetti. La maggior parte dei fattori di crescita
solubili è prodotta da una cellula per stimolare la proliferazione di un altro tipo cellulare,
ma molte cellule tumorali acquisiscono la capacità di sintetizzare fattori di crescita ai
quali sono direttamente sensibili, creando un meccanismo di segnale a feedback positivo
spesso definito come “stimolazione autocrina”. Esempi sono la produzione del PDGF e
del Tumor Growth Factor (TGF)-α da parte di glioblastomi e sarcomi.
Capacità delle cellule di ignorare segnali esterni che si oppongono alla crescita: entro un
tessuto normale, multipli segnali antiproliferativi operano per mantenere lo stato di
quiescenza e l’omeostasi tissutale; tali segnali comprendono sia inibitori solubili della
crescita sia inibitori localizzati nell’ECM e sulla superficie di cellule vicine. I segnali
inibenti la crescita, analogamente a quelli stimolatori, sono ricevuti mediante recettori
transmembrana sulla superficie cellulare, che sono accoppiati a circuiti di segnale
intracellulare. Le cellule tumorali incipienti devono evadere da questi segnali
antiproliferativi per espandersi. Larga parte del circuito che consente alle cellule normali
di rispondere ai segnali antiproliferativi è associata con il ciclo cellulare, specificamente
con le componenti che governano il transito della cellula attraverso la fase G1. Le cellule
monitorano il loro ambiente esterno durante questo periodo e, sulla base dei segnali
ricevuti, decidono se proliferare, rimanere quiescenti oppure entrare in uno stato
postmitotico. A livello molecolare, molti e forse tutti i segnali antiproliferativi sono
incanalati attraverso la pRB.
Capacità delle cellule di evitare l’apoptosi: la capacità di popolazioni di cellule tumorali
di espandersi numericamente è determinata non solo dal tasso di proliferazione cellulare,
ma anche da quello di morte cellulare. L’apoptosi rappresenta una fonte principale di
morte cellulare e la resistenza acquisita a essa è una proprietà essenziale della neoplasia.
Capacità delle cellule di dividersi indefinitamente senza senescenza: cellule in coltura
hanno un potenziale di replicazione finito: una volta che le popolazioni cellulari sono
progredite attraverso un certo numero di raddoppiamenti, esse interrompono la crescita,
un processo noto come senescenza. La senescenza di fibroblasti umani in coltura può
10
•
•
essere elusa disabilitando pRB e p53, il che consente alle cellule di continuare a
moltiplicarsi per ulteriori generazioni fino a quando entrano in un secondo stato detto
“crisi”. La crisi è caratterizzata da morte cellulare massiva e dall’occasionale emergenza
di una variante cellulare (1 su 107) che ha acquisito la capacità di moltiplicarsi
illimitatamente; questo tratto è detto immortalizzazione. La maggior parte dei tipi di
cellule tumorali che sono propagati in coltura sembra essere immortalizzata. Il dispositivo
biologico che consente di contare il numero di generazioni cellulari è rappresentato dalle
estremità dei cromosomi, i telomeri, che sono composte da diverse migliaia di ripetizioni
di una breve sequenza di 6 coppie di basi. Le generazioni cellulari sono contate attraverso
la perdita di 50-100 coppie di basi del DNA telomerico dall’estremità di ogni cromosoma
durante ciascun ciclo cellulare. La conservazione dei telomeri è praticamente evidente in
tutti i tipi di cellule maligne; l’85-90% di esse riesce a fare ciò attraverso la
sovraregolazione dell’espressione dell’enzima telomerasi, il quale aggiunge ripetizioni
esanucleotidiche all’estremità del DNA telomerico. Il mantenimento della lunghezza dei
telomeri al di sopra di una soglia critica permette la moltiplicazione illimitata della
progenie cellulare.
Capacità di formare nuovi vasi sanguigni: l’ossigeno e i nutrienti forniti dalla
vascolarizzazione sono cruciali per il funzionamento e la sopravvivenza cellulare,
obbligando praticamente tutte le cellule di un tessuto a risiedere entro 100 μm da un
capillare sanguigno. Le cellule appartenenti a lesioni proliferative aberranti mancano
all’inizio di capacità angiogenica, con limitazione della loro capacità di espansione. Per
poter aumentare di dimensioni, le neoplasie incipienti devono sviluppare la capacità
angiogenica.
Capacità di invadere i tessuti e di stabilire metastasi a distanza: durante lo sviluppo della
maggior parte dei tipi di neoplasie umane, le lesioni primitive generano cellule capaci di
invadere i tessuti adiacenti e quindi di raggiungere sedi corporee distanti, dove possono
stabilire nuove colonie (metastasi). La capacità di invasività locale e di metastasi a
distanza consente alle cellule tumorali di sfuggire dalla massa neoplastica primitiva e di
colonizzare nuovi terreni nell’organismo ospite dove, almeno inizialmente, nutrienti e
spazio non sono fattori limitanti. Le metastasi di recente formazione nascono come
amalgami di cellule tumorali e di cellule normali di supporto arruolate dal tessuto ospite.
Analogamente alla formazione della lesione neoplastica primitiva, anche per le cellule di
lesioni metastatiche la capacità di invasione locale e di disseminazione a distanza dipende
dall’acquisizione delle altre cinque proprietà essenziali.
Fig. e3.1. Proprietà essenziali della neoplasia.
11
Neoplasie ereditarie e sporadiche
Le alterazioni nel genoma che sono alla base della trasformazione neoplastica possono essere
ereditarie o acquisite. Una predisposizione genetica ereditaria dell’ospite probabilmente gioca un
ruolo principale nello sviluppo di circa il 5-10% di tutte le neoplasie solide e di una fetta più piccola
di casi di leucemia e linfoma. Tutte le cellule degli individui predisposti presentano una mutazione
ereditaria e, successivamente, necessitano di un numero minore di eventi mutazionali per indurre la
cancerogenesi. La suscettibilità genetica occasionalmente può manifestarsi come un effetto sistemico
attraverso il quale mutazioni spontanee entro tutti i tessuti corporei diventano più frequenti, oppure
sostanze cancerogene sono metabolizzate in maniera meno efficiente. Nella Tabella e3.2 sono
presentati alcuni esempi di neoplasie che riconoscono una predisposizione genetica ereditaria e che si
associano a sindromi tumorali familiari.
Tab. e3.2. Esempi scelti di sindromi tumorali familiari.
Sindrome
Cancro familiare della mammella
Poliposi adenomatosa familiare
Cancro del colon familiare non poliposico
Sindrome di Li-Fraumeni
Cancro familiare della prostata
Neoplasie endocrine multiple di tipo 1
Neoplasie endocrine multiple di tipo 2
Melanoma familiare
Retinoblastoma familiare
Neurofibromatosi di tipo 1
Neurofibromatosi di tipo 2
Malattia di von Hippel-Lindau
Sindrome di Gorlin
Sindrome di Cowden
Gene
BRCA1, BRCA2
APC, MYH
hMSH2, hMLH1, hMSH6
TP53,CHECK2, LFS3
Loci multipli
MEN1
RET
CDKN2Ap16, CDK4
RB1
NF1
NF2
VHL
PTCH
PTEN
Da: Offit K. et al.: Genetic factors: hereditary cancer predisposition sindrome. In: Abeloff’s
clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 172; modificata.
Un significativo progresso nella comprensione del concetto di gene oncosoppressore si deve agli studi
sulla base genetica del retinoblastoma. Esistono due forme di questa neoplasia: il retinoblastoma
familiare e quello sporadico. Le caratteristiche distintive del retinoblastoma familiare sono l’età di
insorgenza assai precoce (spesso la diagnosi avviene nel primo anno di vita) e il numero di tumori
(generalmente sono interessati più punti di uno stesso occhio oppure entrambi gli occhi). L’analisi dei
casi di bambini con retinoblastoma monolaterale o bilaterale ha consentito ad Alfred Knudson di
formulare l’ipotesi dei “due colpi”, secondo la quale è necessario che, in una linea di cellule retiniche,
si verifichino due distinti eventi mutazionali per avere lo sviluppo del retinoblastoma. Nei casi
familiari della neoplasia, un evento è ereditato come una mutazione nella linea germinale, mentre il
secondo evento è acquisito precocemente nel corso della vita. Al contrario, il retinoblastoma
sporadico si sviluppa solo quando due eventi mutazionali indipendenti avvengono nella stessa linea
cellulare somatica. Si tratta di un’eventualità molto più rara della precedente e questo spiega sia
l’insorgenza più tardiva delle forme sporadiche sia la loro monolateralità. Adesso si sa che l’ipotesi
dei “due colpi” corrisponde, a livello molecolare, alla perdita dei due alleli del gene oncosoppressore
RB, con conseguente assenza della pRB nella neoplasia. Il modello di Knudson si applica soprattutto a
neoplasie che originano dalla perdita di funzione di geni oncosoppressori, condizione per la quale
l’inattivazione di entrambi gli alleli è essenziale prima che i livelli cellulari dello specifico prodotto
12
genico diminuiscano in misura sufficiente per indurre la trasformazione maligna. Gli oncogeni,
invece, si comportano in maniera dominante e una mutazione entro un singolo allele può essere
sufficiente per lo sviluppo neoplastico. Una condizione di eterozigosi a livello del locus di un
oncogene può determinare un fenotipo premaligno (come nel caso dei polipi del colon), suscettibile di
trasformazione maligna allorquando il secondo allele sia colpito da mutazione.
Metabolismo della cellula tumorale
Le cellule tumorali hanno un metabolismo notevolmente diverso da quello dei tessuti dai quali hanno
origine. Il metabolismo alterato consente loro di sostenere tassi di proliferazione più elevati e di
resistere ad alcuni segnali di morte cellulare, in particolare a quelli mediati da aumentato danno
ossidativo. Questo significa che le cellule tumorali sono più avide di nutrienti ed espellono più rifiuti
dei tessuti normali, con conseguente incremento di metaboliti intracellulari e formazione di un
ambiente esterno più ostile. Per dividersi, una cellula deve sia aumentare le dimensioni sia replicare il
DNA, processi che sono estremamente esigenti sotto il profilo metabolico, richiedendo grandi
quantità di proteine, lipidi, nucleotidi e di energia sotto forma di ATP. Le alterazioni e gli adattamenti
metabolici delle cellule tumorali creano un fenotipo che è essenziale per la loro crescita e
sopravvivenza, alterando il flusso lungo vie metaboliche chiave come la glicolisi e la glutaminolisi.
Alcuni dei meccanismi utilizzati dalle neoplasie per indurre tali mutamenti comprendono l’alterata
espressione, la mutazione e l’inattivazione post-traduzionale di un enzima oppure la selezione di una
diversa isoforma enzimatica.
La glicolisi è il processo metabolico che converte il glucosio intracellulare in acido piruvico,
generando anche ATP e NADH. Il destino dell’acido piruvico dipende da molti fattori, tra i quali la
disponibilità di ossigeno è uno dei più importanti. L’acido piruvico è ridotto ad acido lattico in
condizioni anaerobiche, mentre, in presenza di ossigeno, il mitocondrio può ossidare completamente
l’acido piruvico e il NADH prodotti dalla glicolisi, ottenendo una produzione maggiore di ATP
attraverso la fosforilazione ossidativa. Si ritiene, in generale, che le cellule normali in attiva
proliferazione abbiano elevati tassi di glicolisi a causa del fabbisogno di prodotti intermedi derivati
dal glucosio. Le vie anaboliche che si diramano dalla glicolisi sono responsabili della produzione di
aminoacidi, come pure di precursori di lipidi e nucleotidi. Quando il flusso attraverso queste vie
anaboliche è aumentato, la glicolisi e quindi la captazione di glucosio devono aumentare per
mantenere livelli normali di ATP (attraverso sia la glicolisi sia la fosforilazione ossidativa).
La prima alterazione specifica della neoplasia, ossia un metabolismo alterato, fu scoperta da Otto
Warburg negli anni Venti del secolo scorso. Nei tessuti normali, la maggior parte dell’acido piruvico,
derivante dall’ossidazione del glucosio nella glicolisi, è diretta nei mitocondri. In un ambiente
anaerobico, l’acido piruvico è invece reindirizzato nel citosol per la produzione di acido lattico, in
conseguenza della diminuita ossidazione di NADH da parte dei mitocondri. Le cellule tumorali
conservano la capacità di aumentare la captazione di glucosio in condizioni anaerobiche, ma mostrano
un’aumentata captazione dello zucchero in presenza di ossigeno (glicolisi aerobica). A differenza di
quanto avviene nei tessuti normali, una sostanziale quantità dell’acido piruvico prodotto viene ridotta
ad acido lattico anziché essere indirizzata nel mitocondrio (effetto Warburg). Sebbene l’effetto
Warburg non sia universalmente applicabile a tutte le neoplasie, l’aumentata captazione di glucosio è
sufficientemente comune da poter essere sfruttata in clinica, a fini diagnostici, utilizzando il 2-(18F)fluoro-2-deossi-D-glucosio nella tomografia a emissione di positroni (FDG-PET). Esistono diversi
motivi che spiegano perché un’aumentata captazione del glucosio per la generazione di ATP o per
reazioni anaboliche costituisca un vantaggio per la crescita tumorale (Box e3.2). In sintesi, nella
neoplasia ha luogo una riprogrammazione dell’intero metabolismo cellulare per aumentare le reazioni
anaboliche legate alla crescita e alla proliferazione cellulare. I meccanismi molecolari che sono alla
base della riprogrammazione metabolica delle cellule tumorali sono complessi. Alterazioni
metaboliche possono essere guidate da mutamenti in vie di segnale che coinvolgono chinasi, quali
13
PI3K (PhosphatidylInositol 3-Kinase) e mTOR (mammalian Target Of Rapamycin), e fattori di
trascrizione, compresi HIF (Hypoxia Inducible Factor) e MYC.
Box e3.2. Riprogrammazione metabolica: vantaggi per la cellula tumorale
•
•
•
•
In condizioni di glicolisi aerobica, le cellule possono vivere in presenza di una tensione di
ossigeno fluttuante (a causa dell’instabile emodinamica di vasi sanguigni distanti), che
sarebbe letale per cellule che si affidano alla fosforilazione ossidativa per generare ATP.
Le cellule tumorali generano acidi bicarbonico e lattico, che condizionano l’ambiente,
favoriscono l’invasività tumorale e sopprimono le cellule effettrici immuni antitumorali.
L’acido lattico prodotto dalle cellule tumorali può essere captato dalle cellule stromali per
rigenerare il piruvato, che può essere estruso per rifornire la cellula tumorale oppure può
essere usato per la fosforilazione ossidativa. Questo adattamento genera un microsistema
nel quale cellule tumorali e cellule stromali si impegnano in vie metaboliche
complementari, tamponando e riciclando, pertanto, prodotti del metabolismo anaerobico
per sostenere la sopravvivenza e la crescita delle cellule tumorali.
Le neoplasie possono metabolizzare il glucosio attraverso la via del pentoso fosfato per
generare NADPH, che assicura le difese antiossidanti della cellula contro un
microambiente ostile e gli agenti chemioterapici.
Infine, l’aspetto più importante è che le cellule tumorali utilizzano prodotti intermedi della
glicolisi per reazioni anaboliche responsabili della sintesi di aminoacidi, acidi nucleici e
lipidi.
Interazioni tra neoplasia e ospite
La maggior parte dei carcinomi umani è composta da cellule epiteliali tumorali che
coesistono con una varietà di componenti dell’ECM e di tipi cellulari, in particolare
fibroblasti, miofibroblasti, adipociti, cellule endoteliali, periciti e cellule del sistema
immunitario, che collettivamente formano lo stroma tumorale. La ricerca di base ha
dimostrato i contributi essenziali dei componenti lo stroma alla crescita, alla sopravvivenza,
all’invasività e alla capacità metastatica delle cellule epiteliali tumorali. Dal punto di vista
storico, l’evidenza più ovvia del ruolo di supporto svolto dallo stroma è venuta dagli studi
sull’angiogenesi tumorale, nella quale il rilascio di segnali proangiogenici da parte delle
cellule tumorali consente di reclutare le cellule endoteliali nella massa neoplastica, dando
luogo alla neovascolarizzazione tumorale. Le cellule infiammatorie, compresi i linfociti, un
tempo ritenute capaci solo di attenuare lo sviluppo tumorale, giocano chiaramente un ruolo
nel promuovere la formazione e la progressione maligna di molti tipi di carcinoma.
Fibroblasti e miofibroblasti, le cellule mesenchimali più abbondanti entro la maggior parte
dei carcinomi, promuovono la progressione tumorale in modelli sperimentali e sono presenti
nell’entità istopatologica denominata risposta desmoplastica. Lo stroma desmoplastico è
quasi sempre osservato nei carcinomi umani maligni ed è utilizzato dal patologo come un
parametro diagnostico a causa della sua associazione con invasività e prognosi sfavorevole.
Oltre al contributo fornito dai tipi cellulari dello stroma, si ritiene che l’ECM, prodotta dalle
cellule mesenchimali, regoli la crescita e la motilità delle cellule di carcinoma. Diverse
scoperte hanno messo in evidenza il ruolo critico svolto dai segnali paracrini che intercorrono
tra la neoplasia e le cellule dell’ospite nel microambiente locale. Tali interazioni sono
mediate da un ampio numero di citochine, chemochine e fattori di crescita, che si è scoperto
14
essere promotori della progressione neoplastica. Nei paragrafi successivi sono analizzate in
maggiore dettaglio le interazioni tra la neoplasia e l’ospite.
Regolazione immune della neoplasia
Infiammazione e neoplasia
Le principali caratteristiche del fenotipo maligno, quali l’invasività locale attraverso le
naturali barriere tissutali e la colonizzazione metastatica a distanza, si associano a un
sovvertimento della normale architettura tissutale, che ha tra le sue conseguenze più
importanti l’elaborazione di segnali proinfiammatori. Tali segnali, generalmente nella forma
di citochine e chemochine, possono iniziare risposte immuni. È ora noto che ciascuno stadio
dello sviluppo neoplastico è suscettibile di regolazione da parte di cellule del sistema
immunitario innato e adattativo (Box e3.3). Nell’infiammazione acuta, le cellule del sistema
immunitario innato formano la prima linea di difesa e regolano l’attivazione delle risposte
immuni adattative. Al contrario, nell’infiammazione cronica, i ruoli possono essere invertiti:
risposte immuni adattative possono causare un’eccessiva attivazione delle cellule immuni
innate. La completa attivazione del sistema adattativo in risposta alla neoplasia è
potenzialmente in grado di distruggere le cellule tumorali, ma l’attivazione cronica di vari tipi
di cellule del sistema innato, che sono presenti entro o intorno ai tessuti premaligni, può
invece promuovere lo sviluppo neoplastico (Tab. e3.3).
15
Box e3.3. Meccanismi con i quali le cellule del sistema immunitario regolano lo sviluppo
neoplastico
Meccanismi con i quali le cellule del sistema innato contribuiscono alla
neoplasia1
Meccanismi diretti:
•
•
induzione di danno del DNA mediante la generazione di radicali liberi;
regolazione paracrina di vie intracellulari (attraverso il fattore di trascrizione NF-kB, un
mediatore chiave della cancerogenesi indotta dall’infiammazione).
Meccanismi indiretti:
•
•
•
promozione dell’angiogenesi e del rimodellamento tissutale attraverso la produzione di
fattori di crescita, citochine, chemochine e metalloproteinasi della matrice;
sovraregolazione dell’enzima ciclo-ossigenasi-2;
soppressione delle risposte immuni adattative antitumorali.
Meccanismi con i quali le cellule del sistema adattativo modulano la neoplasia
Meccanismi diretti:
•
•
•
•
•
1
inibizione della crescita tumorale mediante l’attività antitumorale di linfociti T
citotossici;
inibizione della crescita tumorale mediante lisi cellulare mediata da citochine.
Meccanismi indiretti:
promozione della crescita tumorale da parte di linfociti T regolatori che sopprimono le
risposte antitumorali delle cellule T;
promozione dello sviluppo tumorale da parte di risposte immuni umorali che
aumentano l’infiammazione cronica nel microambiente tumorale.
In particolare, macrofagi associati al tumore, mastociti e granulociti.
Da: Visser K.E. et al.: Paradoxical roles of the immune system during cancer development.
Nature Rev. Cancer 6: 24-37, 2006; modificato.
16
Tab. e3.3. Ruolo di differenti tipi di cellule immuni e infiammatorie nell’immunità antitumorale
e nell’infiammazione protumorale.
Tipo cellulare
Macrofagi, cellule
dendritiche, cellule
soppressive mieloidi
Mastociti
Neutrofili
Cellule NK
Linfociti B
Linfociti T CD8+
Linfociti Th2 CD4+
Linfociti Th1 CD4+
Linfociti Th17
CD4+
Linfociti Treg CD4+
Linfociti T NK
Effetto antitumorale
Presentazione dell’antigene;
produzione di citochine (IL-12
e IFN tipo 1)
Effetto pro-tumorale
Immunosoppressione;
produzione di citochine,
chemochine, proteasi, fattori di
crescita e fattori angiogenici
Produzione di citochine
Produzione di citochine,
proteasi e ROS
Citotossicità diretta;
regolazione delle risposte CTL
Citotossicità diretta contro
cellule tumorali; produzione di
citochine citotossiche
Produzione di anticorpi tumore- Produzione di citochine e
specifici (?)
anticorpi; attivazione di
mastociti; soppressione
immunitaria
Produzione di citochine (?)
Lisi diretta di cellule tumorali;
produzione di citochine
citotossiche
Istruzione di macrofagi;
produzione di citochine;
attivazione di cellule B
Sostegno ai CTL nel rigetto
Produzione di citochine
tumorale; produzione di
citochine (IFN-γ)
Attivazione di CTL
Produzione di citochine
Soppressione
dell'infiammazione (citochine e
altri meccanismi soppressivi)
Citotossicità diretta contro
cellule tumorali;
produzione di citochine
citotossiche
Soppressione immunitaria;
produzione di citochine
CTL: linfociti T citotossici; IFN: interferone; IL: interleuchina; NK: cellule natural killer; ROS:
specie reattive dell’ossigeno; Th: linfociti T-helper: Treg: linfociti T regolatori.
Da: Grivennikov S.I. et al.: Immunity, inflammation, and cancer. Cell 2010; 140: 883-899, 2010;
modificata.
L’infiltrato leucocitario presente nelle neoplasie, identificato per la prima volta da Rudolf Virchow
nel XIX secolo, ha rappresentato l’indizio iniziale del legame tra infiammazione e neoplasia. Gli
attuali dati epidemiologici dimostrano una stretta connessione tra infiammazione cronica e sviluppo
della neoplasia (Tab. e3.4). Inoltre le evidenze accumulatesi suggeriscono che un microambiente
infiammatorio rappresenti una componente essenziale delle neoplasie (Box e3.4).
17
Tab. e3.4. Aumento del rischio di neoplasia per infiammazione o infezione cronica.
Patologia
Autoinfiammatoria
• Malattia di Crohn
• Rettocolite ulcerosa
• Pancreatite cronica
Tipo di neoplasia
Rischio aumentato
Neoplasia colon
3
Neoplasia colon
6
Neoplasia pancreas
2-50
•
Endometriosi
Neoplasia endometrio
1,4
•
Emocromatosi
Neoplasia fegato
219
•
Tiroidite
Neoplasia tiroide
3
•
Deficit di α1-antitripsina
Neoplasia fegato
20
Virale
• Epatite B
• Epatite C
• Epstein-Barr
Batterica
Neoplasia fegato
Neoplasia fegato
Linfoma
88
30
4
•
Helicobacter pylori
Neoplasia stomaco
11
•
Malattia infiammatoria pelvica
Neoplasia ovaio
3
• Prostatite cronica
Parassitaria
• Schistosoma haematobium
Neoplasia prostata
2-3
Neoplasia vescica
2-14
•
Neoplasia colon
2-6
Clonorchis sinensis, Fasciola
hepatica, Opisthorchis
Chimica/fisica/metabolica
Neoplasia vie biliari e
fegato
14
•
Alcol
Multiple neoplasie
(compresi fegato, pancreas,
testa-collo)
2-7
•
Asbesto
Mesotelioma
•
Obesità
Multiple neoplasie
> 10
1,3-6,5
•
Fumo di tabacco e inalazione di
altre sostanze nocive
Neoplasia polmone (e molte
altre)
> 10
•
Reflusso gastroesofageo,
esofago di Barrett
Neoplasia esofago
50-100
Schistosoma japonicum
•
Da: Schetter A.J. et al.: Inflammation and cancer: interweaving microRNA, free radical,
cytokine and p53 pathways. Carcinogenesis 31: 37-49, 2010; modificata.
18
Box e3.4. Infiammazione e neoplasia: elementi basilari
•
•
•
•
•
•
•
L’infiammazione cronica aumenta il rischio di neoplasia.
L’infiammazione subclinica, spesso non rilevabile, può essere importante
nell’aumentare il rischio di neoplasia (per es. l’infiammazione indotta dall’obesità).
Vari tipi di cellule immunitarie e infiammatorie sono frequentemente presenti entro le
neoplasie.
Le cellule immunitarie influenzano le cellule tumorali attraverso la produzione di
citochine, chemochine, fattori di crescita, prostaglandine e specie reattive di ossigeno e
azoto.
L’infiammazione ha impatto su ogni singola fase dello sviluppo neoplastico,
dall’iniziazione e, attraverso la promozione tumorale, fino alla progressione
metastatica.
Durante lo sviluppo neoplastico coesistono meccanismi immuni e infiammatori
antitumorali e protumorali, ma domina l’effetto protumorale se la neoplasia non è
eliminata.
Alcuni componenti del sistema immunitario e dell’infiammazione possono non essere
indispensabili durante uno stadio della tumorigenesi, ma assolutamente critici in un
altro.
(Da: Grivennikov S.I. et al.: Immunity, inflammation, and cancer. Cell 140: 883-899, 2010;
modificato.)
Esistono diversi tipi di infiammazione, distinti per causa, meccanismo, esito e intensità, che possono
promuovere lo sviluppo e la progressione neoplastica (Fig. e3.2). La risposta infiammatoria attivata da
un’infezione è una componente normale delle difese dell’ospite volte all’eliminazione dell’agente
patogeno. Tuttavia, microrganismi oncogeni sovvertono l’immunità dell’ospite e stabiliscono
infezioni persistenti associate a uno stato infiammatorio di basso grado, ma cronico. Per esempio, il
batterio Helicobacter pylori causa una gastrite cronica, mentre l’infezione da virus dell’epatite B
(HBV) o C (HCV) si associa a epatite cronica. Un altro tipo di infiammazione cronica, che precede lo
sviluppo tumorale, è quella causata dalla predisposizione genetica alla base di un’alterata regolazione
immunitaria e dell’autoimmunità. Un esempio è rappresentato dalla malattia di Crohn e dalla
rettocolite ulcerosa, due malattie infiammatorie intestinali che aumentano fortemente il rischio di
carcinoma colo-rettale. Uno stato infiammatorio cronico può anche essere indotto da agenti
ambientali: il particolato del fumo di tabacco e altre sostanze irritanti possono precipitare una
broncopneumopatia cronica ostruttiva, che si associa a un aumentato rischio di neoplasia polmonare.
Un tipo diverso di infiammazione è quello che segue lo sviluppo tumorale: la maggior parte delle
neoplasie solide attiva una risposta infiammatoria intrinseca che determina un microambiente
protumorale. Oltre a causare la proliferazione cellulare autonoma, certi oncogeni, quali i membri delle
famiglie RAS e MYC, inducono un programma trascrizionale che determina il rimodellamento del
microambiente tumorale attraverso il reclutamento di leucociti, l’espressione di chemochine e
citochine protumorali e l’induzione dell’angiogenesi. Durante il loro sviluppo, le neoplasie solide
vanno incontro a un insufficiente apporto di ossigeno e nutrienti, che determina la necrosi della parte
centrale della massa neoplastica e il rilascio di mediatori proinfiammatori. La conseguente risposta
infiammatoria promuove l’angiogenesi e fornisce alle cellule tumorali sopravvissute ulteriori fattori di
crescita, che sono rilasciati dalle cellule infiammatorie e immuni appena reclutate. Infine, una spiccata
risposta infiammatoria associata alla neoplasia può essere iniziata dalla terapia antitumorale.
Radioterapia e chemioterapia causano una necrosi massiva di cellule tumorali e dei tessuti circostanti,
la quale attiva una reazione infiammatoria analoga a quella associata alla guarigione delle ferite. Il
risultato netto dell’infiammazione indotta dalla terapia è controverso: da un lato può avere effetti
protumorali, come nel caso della necrosi che accompagna le neoplasie a rapida crescita, ma, dall’altro,
19
può aumentare la presentazione di antigeni tumorali e la successiva induzione di una risposta immune
specifica.
Fig. e3.2. Tipi di infiammazione nello sviluppo della neoplasia. L’infiammazione
cronica associata a infezioni o patologie autoimmuni precede lo sviluppo della
neoplasia e può contribuire a esso attraverso l’induzione di mutazioni oncogene,
instabilità genomica, promozione tumorale e aumentata angiogenesi. Una prolungata
esposizione ad agenti irritanti ambientali oppure l’obesità possono causare
infiammazione cronica di basso grado, che precede lo sviluppo della neoplasia e vi
contribuisce attraverso i meccanismi già menzionati. L’infiammazione associata al
tumore procede di pari passo con lo sviluppo della neoplasia: La risposta
infiammatoria può aumentare l’angiogenesi, promuovere la progressione neoplastica e
la disseminazione metastatica, causare una soppressione immunitaria locale e
aumentare ulteriormente l’instabilità genomica. La terapia antitumorale può anche
attivare una risposta infiammatoria attraverso l’induzione di trauma, necrosi e danno
tissutale, che stimolano la ricrescita tumorale e la resistenza al trattamento.
Comunque, in alcuni casi, l’infiammazione associata alla terapia antitumorale può
aumentare la presentazione dell’antigene, portando all’eliminazione immunomediata
del tumore. Nella figura i meccanismi protumorali sono in rosso, mentre quelli
antitumorali sono in blu. (Da: Grivennikov S.I. et al.: Immunity, inflammation, and
cancer. Cell 140: 883-899, 2010; modificata.)
In diretta conseguenza dei diversi tipi di infiammazione, il microambiente tumorale comprende cellule
del sistema immunitario innato (macrofagi, neutrofili, mastociti, cellule soppressive mieloidi, cellule
dendritiche e cellule natural killer) e adattativo (linfociti T e B), oltre che cellule stromali. I diversi
tipi cellulari comunicano tra loro mediante contatto diretto o rilascio di citochine e chemochine e
agiscono, in maniera autocrina e paracrina, per controllare e modellare la crescita neoplastica. Le
citochine, mediatori chiave dell’infiammazione o della risposta immune, sono molecole di segnale
con un’ampia varietà di funzioni cellulari, il rilascio delle quali è stimolato quando l’omeostasi
tissutale è alterata. Le citochine possono essere classificate in proinfiammatorie – comprendenti
interleuchina (IL)-1, IL-6, IL-15, IL-17, IL-23, e TNF-α – o antinfiammatorie – comprendenti IL-4,
IL-10, IL-13, TGF-β e interferone (IFN)-α. Sulla base del bilancio netto delle citochine, l’effetto
finale può essere pro- o antitumorale. Una volta legate al loro recettore di membrana, le citochine
attivano vie di trasduzione del segnale che portano ad apoptosi, proliferazione cellulare, angiogenesi e
20
senescenza cellulare. In generale, si ritiene che l’esposizione costitutiva a livelli elevati di citochine
proinfiammatorie abbia un effetto favorevole allo sviluppo tumorale. Le chemochine, un sottogruppo
di citochine che reclutano leucociti nelle sedi di infiammazione mediante chemiotassi, sono rilasciate
da vari tipi cellulari stimolati da citochine proinfiammatorie. Le neoplasie presentano livelli elevati di
espressione di chemochine responsabili del reclutamento di leucociti nella massa tumorale.
Le cellule immuni più frequenti nel microambiente tumorale sono i macrofagi associati ai tumori
(Tumor-Associated Macrophages, TAM) e i linfociti T. I macrofagi sono la fonte primaria di
citochine proinfiammatorie e, in generale, possono essere categorizzati in tipo 1 (M1) o 2 (M2). Gli
M1 secernono citochine come l’IL-12 e possono avere un effetto inibitorio sulla crescita neoplastica.
Al contrario, gli M2 rilasciano citochine immunosoppressive e promuovono la crescita neoplastica. I
TAM hanno generalmente un fenotipo M2 e la loro presenza nella neoplasia è un fattore predittivo
indipendente di prognosi sfavorevole. I TAM secernono: (1) proteasi che aumentano invasività e
capacità metastatica; (2) citochine che possono inibire la risposta immune adattativa antitumorale; (3)
fattori angiogenici che aumentano la neovascolarizzazione. Sulla base delle funzioni effettrici, i
linfociti T maturi possono essere classificati in cellule T citotossiche CD8+ (CTL) e cellule T helper
(Th) CD4+. Modelli sperimentali hanno dimostrato che l’eliminazione in vivo delle neoplasie è
mediata, principalmente, dall’azione specifica dei CTL. Negli ultimi anni, è cresciuta la
consapevolezza del ruolo importante svolto dai linfociti Th nell’aumentare o limitare le risposte dei
CTL. I linfociti Th manifestano diversi fenotipi: (1) cellule Th1 che secernono citochine quali IFN-γ,
TNF-α e IL-2 e supportano i CTL; (2) cellule Th2 che rilasciano citochine quali IL-10, IL-4 e IL-5 e
limitano la proliferazione dei CTL; (3) cellule Th17 che secernono IL-17 e sono operative in patologie
autoimmuni; (4) linfociti T regolatori (Treg) che secernono IL-10 e TGF-β e attenuano le risposte
immuni. Analogamente ai TAM, le funzioni protumorali dei linfociti T sono mediate da citochine,
mentre le funzioni antitumorali sono mediate sia da citochine sia da meccanismi citotossici.
Sorveglianza immunitaria
Il sistema immunitario ha tre ruoli principali nella prevenzione dei tumori:
•
•
•
protezione dell’ospite da neoplasie indotte da virus mediante l’eliminazione o la
soppressione di infezioni virali;
eliminazione di agenti patogeni e rapida risoluzione della risposta infiammatoria per
impedire l’instaurarsi di un ambiente infiammatorio favorevole allo sviluppo tumorale;
riconoscimento ed eliminazione di cellule tumorali.
Il sistema immunitario può reagire alla presenza di cellule tumorali in due modi: mediante una
risposta diretta contro antigeni tumore-specifici (Tumor-Specific Antigens, TSA), cioè proteine
caratteristiche delle cellule tumorali, oppure contro antigeni tumore-associati (Tumor-Associated
Antigens, TAA), cioè proteine espresse in maniera differenziale dalle cellule tumorali a confronto di
quelle normali. L’instabilità genomica fa sì che le cellule tumorali producano proteine anomale o
iperesprimano proteine normalmente presenti a bassi livelli. Multipli piccoli peptidi possono essere
prodotti a partire da una proteina, permettendo a differenti epitopi o TAA di essere presentati alla
superficie della cellula tumorale, nel contesto di molecole del complesso maggiore di
istocompatibilità. I TSA sono rari, potendo derivare da proteine con mutazioni puntiformi, alterata
modificazione post-traduzionale oppure da proteine di fusione generate da traslocazioni
cromosomiche (per es. K-ras mutata, p53 mutata, proteina BCR/abl). Molti TAA identificati nelle
neoplasie comuni derivano da proteine non mutate ma con alterata espressione che può renderle
immunogeniche; esempi sono Mucine 1 (MUC1), HER2, Melanoma Antigen A3 (MAGE A3),
CarcinoEmbryonic Antigen (CEA), Prostate-Specific Antigen (PSA), tirosinasi e gp100.
L’espressione di TAA, l’induzione di proteine associate a stress cellulare e la produzione di citochine
21
proinfiammatorie da parte delle cellule tumorali rappresentano, globalmente, sia anomalie antigeniche
sia un “segnale di pericolo” per il sistema immunitario dell’ospite.
Di recente, l’evasione dalla sorveglianza immunitaria è stata proposta quale settima proprietà
essenziale della neoplasia. La teoria della sorveglianza immunitaria ipotizza che il sistema
immunitario riconosca le cellule tumorali e/o pretumorali come agenti estranei e le elimini prima che
diano luogo a lesioni clinicamente rilevabili. Tuttavia, l’insorgenza di neoplasie, nonostante un
sistema immunitario funzionante, indica che le cellule tumorali possono evadere dalla sorveglianza
immunitaria mediante selezione immunomediata (selezione di varianti cellulari non immunogeniche,
un processo noto anche come immunoediting) oppure attraverso il sovvertimento della risposta
immune (soppressione attiva della risposta immune). Studi recenti hanno elucidato i legami esistenti
tra meccanismi estrinseci (immunomediati) e intrinseci alla cellula tumorale che, rappresentando delle
barriere allo sviluppo neoplastico, devono essere sovvertiti per permettere alla neoplasia di crescere
(Fig. e3.3).
Fig. e3.3. Relazione tra aspetti intrinseci ed estrinseci alla cellula tumorale nella progressione
neoplastica. La figura illustra il concetto centrale per cui il processo a più fasi della
cancerogenesi deriva da un crosstalk tra i fattori intrinseci alla cellula neoplastica e gli effetti
del sistema immunitario dell’ospite (fattori estrinseci). (Da: Zitvogel L. et al.: Cancer despite
immunosurveillance: immunoselection and immunosubversion. Nature Rev. Immunol. 6:
715-727, 2006; modificata.)
La recente ipotesi dell’immunoediting fornisce una chiave interpretativa più esauriente del ruolo del
sistema immunitario nello sviluppo neoplastico. Essa si fonda sul concetto che la limitazione della
crescita tumorale da parte del sistema immunitario determini una pressione selettiva in favore di
cellule portatrici di mutamenti genetici che favoriscano l’evasione dalla sorveglianza immunitaria. In
tale modello, il sistema immunitario ha il duplice effetto di proteggere l’ospite e di modulare
l’immunogenicità della neoplasia. Il processo di immunoediting può avere tre diversi esiti per la
neoplasia: eliminazione, equilibrio ed evasione. La fase di eliminazione è equivalente all’ipotesi
originale della sorveglianza immunitaria: le cellule tumorali che hanno superato le barriere cellulari
intrinseche alla crescita neoplastica sono riconosciute ed eliminate. La fase di eliminazione può essere
completa, con la distruzione di tutte le cellule tumorali, oppure incompleta. In quest’ultimo caso, la
teoria dell’immunoediting ipotizza l’instaurarsi di una temporanea condizione di equilibrio tra il
sistema immunitario e la neoplasia incipiente. Durante tale fase, l’eliminazione delle cellule tumorali
prosegue, ma il processo determina la selezione di varianti cellulari capaci di resistere, evitare o
sopprimere la risposta immune antitumorale. La fase di equilibrio potrebbe durare molti anni.
Osservazioni cliniche relative a lunghi periodi intercorrenti tra il trattamento della neoplasia primitiva
e la ricaduta oppure a pazienti liberi da malattia clinicamente rilevabile nonostante la presenza di
malattia micrometastatica, suggeriscono uno stato di quiescenza tumorale. Durante la fase di evasione,
22
l’equilibrio tra controllo immunitario e progressione tumorale si sposta in favore di quest’ultima. Le
neoplasie possono evadere dalla sorveglianza immunitaria mediante differenti strategie che, in
generale, comportano una ridotta immunogenicità, una resistenza alla citotossicità immunomediata
oppure una soppressione attiva della risposta immune. Le neoplasie possono sopprimere l’immunità
sia a livello sistemico sia nel microambiente tumorale. Oltre alla produzione locale di molecole
immunosoppressive quali il TGF-β e il ligando solubile di FAS, molte neoplasie umane producono
l’enzima immunosoppressivo indolamina-2,3-diossigenasi. Il microambiente tumorale può essere
dominato dalla presenza di cellule Treg, che sopprimono le cellule T effettrici antitumorali mediante il
rilascio delle citochine immunosoppressive TGF-β e IL-10. Un numero elevato di questo tipo di
linfociti può essere riscontrato nel carcinoma polmonare non microcitoma e in quello ovarico. Gli
effetti immunosoppressivi della neoplasia possono anche essere sistemici: un aumento delle cellule
Treg è stato riscontrato nel sangue periferico di pazienti con neoplasie del distretto testa-collo o con
melanoma. Pazienti con neoplasie del colon-retto o del pancreas presentano un numero aumentato di
granulociti attivati e di cellule soppressive mieloidi. Entrambi questi tipi cellulari sono in grado di
sopprimere le cellule T tumore-specifiche in modelli animali.
Interazioni ormonali
Le neoplasie che insorgono in tessuti ormono-sensibili, quali la mammella e la prostata, sono tra
quelle a maggiore incidenza nei Paesi industrializzati. Fattori dell’ospite quali lo stile di vita, la
costituzione corporea e i livelli ormonali endogeni, oltre a giocare un ruolo eziologico, rappresentano
dei fattori di rischio per lo sviluppo delle neoplasie ormono-sensibili. Gli ormoni sessuali (estrogeni,
androgeni e progestinici) influenzano anche la progressione della malattia, in quanto un trattamento
endocrino ablativo, che utilizzi degli inibitori specifici per modificare i livelli ormonali endogeni del
paziente, può indurre un notevole beneficio clinico.
Nel sesso maschile e nelle donne in premenopausa, le gonadi sono la fonte principale degli steroidi
sessuali circolanti. Il testosterone e l’androstenedione sono i principali androgeni ed essi sono
convertiti, rispettivamente, in estradiolo ed estrone in una reazione (aromatizzazione)
catalizzata dall’enzima aromatasi. Tale enzima è presente, in concentrazioni elevate, nelle
cellule della granulosa ovarica e nelle cellule di Leydig del testicolo, dove è responsabile
di una piccola quota di aromatizzazione. Nelle gonadi l’attività dell’aromatasi è regolata
mediante un controllo a feedback dei livelli circolanti dell’ormone follicolo-stimolante.
L’aromatasi è presente, in concentrazioni più basse, anche nei tessuti periferici, quali la
mammella, il tessuto adiposo, l’encefalo e il tessuto muscolare, sia degli uomini sia delle
donne, dove la sua attività è regolata da altri fattori compresi l’AMP ciclico, i
glucocorticoidi e la prostaglandina E2. Nelle donne, dopo la cessazione della produzione
ovarica di estrogeni con la menopausa, la conversione degli androgeni surrenalici
plasmatici in estrogeni ha luogo nei tessuti periferici. Da questo punto di vista, il ruolo
prominente del grasso sottocutaneo è evidenziato dalla relazione che i livelli di
aromatizzazione periferica e di estrogeni plasmatici presentano con l’indice di massa
corporea. Gli steroidi sessuali plasmatici sono pressoché interamente legati a proteine, ma
la frazione libera (ossia non legata), che ammonta a meno del 5% del totale, può
attraversare la membrana plasmatica.
Gli effetti biologici degli steroidi sessuali sono mediati da recettori affini, che agiscono come
fattori di trascrizione nel nucleo delle cellule dei tessuti sensibili a tali ormoni. Sono note due
isoforme del recettore per gli estrogeni (Estrogen Receptor, ER), α e β, ciascuna codificata da
geni distinti. Sebbene l’ERα corrisponda alla forma tradizionale del recettore determinata sui
campioni clinici di neoplasia mammaria, le due isoforme hanno, essenzialmente, affinità
23
differenti per certi ligandi, ma l’estradiolo, il principale estrogeno da un punto di vista
biologico, rimane un ligando ad alta affinità per entrambe (Fig. e3.4). Il recettore per gli
androgeni (Androgen Receptor, AR) è attivato dal legame del testosterone o del 5αdiidrotestosterone (Fig. e3.5). Sebbene ER e AR siano più sensibili ai ligandi ad alta affinità,
quando la concentrazione dell’ormone principale è scarsa, il legame di steroidi alternativi con
affinità più bassa può ugualmente innescare la trascrizione, contribuendo, in tal modo, alla
progressione della malattia. Il legame del ligando al recettore determina mutamenti
conformazionali, la dissociazione da proteine heat shock, la fosforilazione e la
dimerizzazione. I dimeri recettoriali reclutano molecole coregolatrici e si legano agli elementi
di risposta nella regione del promotore dei geni bersaglio, determinando l’attivazione della
trascrizione (Fig. e3.6). L’espressione delle molecole coregolatrici sembra essere un
determinante significativo della sensibilità tumorale alla stimolazione da parte degli ormoni
steroidei. Attraverso questo meccanismo molecolare, gli steroidi sessuali facilitano
mutamenti trascrizionali in vie coinvolte nella promozione della proliferazione cellulare,
nell’inibizione dell’apoptosi, nella stimolazione della metastatizzazione e nell’angiogenesi.
Fig. e3.4. Meccanismo molecolare degli estrogeni a livello del tessuto bersaglio. Le
trasformazioni dei vari steroidi sono necessarie per un’elevata affinità di legame al recettore
(ER), ma l’attivazione dei pro-ormoni ha luogo in tessuti differenti dal loro bersaglio. (Da:
Jordan V.C.: A century of deciphering the control mechanisms of sex steroid action in breast
and prostate cancer: the origins of targeted therapy and chemoprevention. Cancer Res. 69:
1243-1254, 2009; modificata.)
24
Fig. e3.5. Meccanismo molecolare degli androgeni a livello del tessuto bersaglio. Le
trasformazioni dei vari steroidi sono necessarie per un’elevata affinità di legame al recettore
(AR), ma l’attivazione dei pro-ormoni ha luogo in tessuti differenti dal loro bersaglio. (Da:
Jordan V.C.: A century of deciphering the control mechanisms of sex steroid action in breast
and prostate cancer: the origins of targeted therapy and chemoprevention. Cancer Res. 69:
1243-1254, 2009; modificata.)
Fig. e3.6. Rappresentazione schematica della modalità di azione dell’estradiolo. L’ormone
(E) si lega con alta affinità al suo recettore (ER); il complesso E-ER omodimerizza e si
localizza preferenzialmente nel nucleo della cellula. Gli omodimeri si legano al DNA a
livello della sequenza ERE (elemento di risposta agli estrogeni) presenti nel promotore dei
geni regolati dagli estrogeni. L’attivazione della trascrizione da parte di ER richiede
l’interazione delle due funzioni di attivazioni della trascrizione AF1 (attività indipendente
dall’ormone) e AF2 (attivata dal legame dell’ormone all’ER) del recettore con coattivatori e
corepressori della trascrizione per stimolare o inibire l’attività della RNA polimerasi II (RNA
POLII). (Da: Wakeling A.E.: Similarities and distinctions in the mode of action of different
classes of antioestrogens. Endocr. Related Cancer 7: 17-28, 2000; modificata.)
Angiogenesi
Il processo dell’angiogenesi tumorale
La dipendenza della crescita tumorale dallo sviluppo di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi) è ormai un
aspetto acquisito della biologia della neoplasia. L’angiogenesi è fondamentale per il rifornimento di
ossigeno, nutrienti, fattori di crescita, ormoni e enzimi proteolitici; essa influenza anche la
disseminazione a distanza delle cellule tumorali. L’angiogenesi è un processo altamente complesso e
dinamico, regolato da una serie di molecole pro e antiangiogeniche. Nelle fasi iniziali la crescita di
una neoplasia è alimentata dai vasi sanguigni limitrofi. Quando il fabbisogno tumorale di ossigeno e
nutrienti supera la capacità di rifornimento locale, tipicamente prima che il tumore raggiunga un
diametro di 1-2 mm, si instaura una condizione di ipossia nel microambiente, che porta all’attivazione
dell’angiogenesi. Il processo patologico si basa su molti degli stessi eventi coinvolti nell’angiogenesi
25
fisiologica (riparazione di ferite, infiammazione, crescita endometriale durante il ciclo mestruale).
Tuttavia, nel caso della neovascolarizzazione tumorale, la cascata angiogenica è persistente. Inoltre i
vasi tumorali si distinguono dalla normale vascolarizzazione in quanto appaiono disorganizzati e
tortuosi; i pori nelle pareti vasali sono sovradimensionati, contribuendo a generare uno stato di
ipertensione del liquido interstiziale che limita il trasporto dei farmaci dai vasi verso le cellule
tumorali.
La capacità della neoplasia di indurre la formazione di nuovi vasi sanguigni è detta “switch
angiogenico” e può verificarsi in differenti stadi della progressione tumorale, in relazione al tipo di
neoplasia e all’ambiente. L’acquisizione del fenotipo angiogenico, considerato una delle proprietà
essenziali della cellula tumorale, può derivare da mutazioni genetiche o da cambiamenti nell’ambiente
locale che portano all’attivazione delle cellule endoteliali. La neoplasia attiva le cellule endoteliali
attraverso la secrezione di fattori di crescita proangiogenici, che si legano a recettori presenti sulle
vicine cellule endoteliali del rivestimento interno della parete vasale (Fig. e3.7). La stimolazione di
tali cellule comporta l’aumento della vasodilatazione e della permeabilità vascolare, nonché il
distacco delle cellule endoteliali dall’ECM e dalla membrana basale mediante la secrezione di
proteasi, note come metalloproteinasi della matrice (MMP). Successivamente, le cellule endoteliali
migrano e proliferano per dar luogo a nuove ramificazioni del preesistente albero vascolare. I fattori
di crescita possono anche agire su cellule a distanza, determinando la migrazione verso la sede della
neovascolarizzazione di precursori midollari delle cellule endoteliali e di cellule endoteliali circolanti.
Fig. e3.7. Angiogenesi tumorale: attivazione di cellule endoteliali da parte di fattori di crescita. Le
cellule tumorali secernono fattori di crescita proangiogenici, che si legano a recettori sulla superficie
di cellule endoteliali quiescenti, causando vasodilatazione e aumento della permeabilità vasale. Le
cellule endoteliali migrano e proliferano per formare nuove ramificazioni dalla rete vascolare
preesistente, staccandosi dalla matrice extracellulare e dalla membrana basale. HIF-1α: Hypoxia
Inducible Factor-1α; MAPK: Mitogen-Activated Protein Kinase; PI3K: PhosphoInositide 3-Kinase;
VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor. (Da: Cook K.M. et al.: Angiogenesis inhibitors: current
strategies and future prospects. CA Cancer J. Clin. 60: 222-243, 2010; modificata.)
I fattori di crescita proangiogenici possono essere iperespressi in conseguenza di alterazioni genetiche
a carico di oncogeni e geni oncosoppressori, oppure in risposta a una ridotta disponibilità di ossigeno.
L’espressione da parte della cellula tumorale di molti di tali fattori, compreso il Vascular Endothelial
Growth Factor (VEGF), è regolata dall’ipossia, che si determina entro la massa neoplastica, mediante
il fattore di trascrizione HIF (Box e3.5). Mentre l’HIF è degradato in presenza di ossigeno,
l’instaurarsi dell’ipossia causa la sua attivazione e la trascrizione di geni bersaglio. Diversi altri fattori
di crescita e citochine possono contribuire all’aumento dell’espressione e dell’attività dell’HIF, quali
il TNF-α, l’IL-1β, l’Epidermal Growth Factor (EGF) e l’Insulin-like Growth Factor-1 (IGF-1), che
26
sono responsabili di un aumentato segnale cellulare. Analogamente, oncogeni che causano aumentata
espressione di fattori di crescita e iperattività di vie di segnale possono incrementare l’espressione e
l’attività dell’HIF. Per esempio, l’oncogene RAS può contribuire all’angiogenesi tumorale stimolando
l’espressione del VEGF attraverso un’aumentata attività dell’HIF. Anche gli oncogeni v-Src e HER2,
come pure l’alterata regolazione delle vie di segnale della PI3K e della Mitogen-Activated ProteinKinase (MAPK), risultano in grado di sovraregolare l’espressione e l’attività trascrizionale dell’HIF.
Box e3.5. HIF e angiogenesi tumorale
L’HIF (Hypoxia Inducible Factor) è un fattore di trascrizione coinvolto nell’adattamento cellulare
all’ipossia. L’attività trascrizionale dell’HIF è regolata dalla presenza dell’ossigeno e diventa attiva
in condizioni di ipossia. L’HIF controlla un gran numero di geni coinvolti nell’angiogenesi. Il
complesso attivo dell’HIF è composto di una subunità α e di una β oltre a coattivatori. La subunità
HIF-β è una proteina nucleare costitutiva con ulteriori ruoli nella trascrizione non associata all’HIFα. Rispetto all’HIF-β, i livelli delle subunità HIF-α e la sua attività trascrizionale sono regolati dalla
disponibilità di ossigeno. Nell’uomo esistono tre forme di HIF-α (HIF-1α, HIF-2α e HIF-3α),
ciascuna delle quali è codificata da un distinto locus genico. Sia la subunità HIF-α sia quella HIF-β
sono prodotte costitutivamente, ma in condizioni di normossia la subunità α è degradata dal
proteosoma in modo ossigeno-dipendente. L’idrossilazione di un residuo di asparagina nell’HIF-α
altera l’interazione tra la subunità e il coattivatore p300 attraverso un processo indipendente dalla
degradazione operata dal proteosoma, causando una ridotta attività trascrizionale dell’HIF. L’ipossia
consente a HIF-α di dimerizzare con HIF-β e di formare un complesso di trascrizione attivo
sull’elemento di risposta all’ipossia associato con i geni bersaglio dell’HIF. Poiché l’HIF regola geni
che rendono possibile la sopravvivenza cellulare in un ambiente ipossico, compresi quelli coinvolti
nella glicolisi, angiogenesi ed espressione di fattori di crescita, esso ha un ruolo significativo nella
biologia e nella regolazione della crescita tumorale. L’iperespressione tumorale di HIF-1α (e
occasionalmente di HIF-2α) è correlata con angiogenesi, aggressività, disseminazione metastatica e
resistenza alla radioterapia/chemioterapia.
Le basi molecolari dell’angiogenesi tumorale
La lunga ricerca condotta sui meccanismi molecolari dell’angiogenesi ha permesso di identificare una
serie di vie di segnale mediate da recettori di fattori di crescita, che promuovono l’angiogenesi
tumorale (Tab. e3.5). Una delle vie principali coinvolte in tale processo è quella della famiglia di
proteine e recettori del VEGF (Fig. e3.8). Sebbene la famiglia del VEGF comprenda almeno sette
membri, il principale mediatore dell’angiogenesi tumorale è il VEGF-A (detto generalmente VEGF)
e, più specificatamente, le isoforme circolanti VEGF121 e VEGF165. Inizialmente sono stati isolati due
recettori per il VEGF: il VEGFR-1 e il VEGFR-2, che presentano un’omologia del 44% e sono
proteine transmembrana con il dominio di legame del ligando extracellulare e il dominio della tirosinchinasi intracellulare. Più recentemente, è stato identificato un ulteriore recettore, il VEGFR-3, che è
principalmente associato alla linfoangiogenesi e non lega il VEGF-A. Le isoforme circolanti del
VEGF-A segnalano attraverso il VEGFR-2, che è espresso a livelli elevati dalle cellule endoteliali
ingaggiate nell’angiogenesi e da progenitori endoteliali derivati dal midollo osseo. Il ruolo del
VEGFR-1 rimane un mistero nell’ambito dell’angiogenesi mediata dal VEGF. Questo recettore lega il
VEGF con un’affinità di legame che è circa 10 volte quella del VEGFR-2, ma le sue proprietà di
trasduzione del segnale sono estremamente deboli. L’attivazione dell’asse VEGF/VEGFR innesca
multiple reti di segnale che determinano sopravvivenza, proliferazione, migrazione e differenziazione
delle cellule endoteliali, nonché permeabilità vascolare e mobilizzazione in circolo di progenitori
endoteliali derivati dal midollo osseo. La permeabilità vascolare indotta dal VEGF porta a un deposito
di proteine nell’interstizio, che facilita l’angiogenesi. L’iperespressione del VEGF è stata associata
con progressione tumorale e prognosi sfavorevole in diverse neoplasie umane, quali il carcinoma del
colon, dello stomaco, del pancreas, della mammella, della prostata, del polmone e il melanoma.
27
Tab. e3.5. Caratteristiche generali di alcuni fattori di crescita coinvolti nell’angiogenesi
tumorale.
Fattore di crescita
VEGF
PDGF
FGF
EGF
TGF-β
Angiopoietina
Funzione/Ruolo
Formazione fisiologica
di vasi sanguigni e
angiogenesi tumorale
Crescita e divisione
cellulare, formazione di
vasi sanguigni,
reclutamento e
proliferazione di
periciti e cellule
muscolari lisce
Proliferazione,
migrazione, sviluppo e
differenziamento di
cellule endoteliali
vascolari
Crescita,
proliferazione,
differenziamento e
sopravvivenza
cellulare, angiogenesi
Angiogenesi,
regolazione e
differenziamento
cellulare, sviluppo
embrionale, riparazione
di ferite e proprietà
inibenti la crescita
Inizio e progressione
dell’angiogenesi;
mantenimento, crescita
e stabilizzazione dei
vasi
Membri
VEGF-A, -B, -C e
-E,
PLGF-1 e -2
PDGF-A, -B, -C e
-D, che si
combinano per
formare i 5
omodimeri ed
eterodimeri attivi:
PDGF-AA, -AB, BB, -CC e -DD
23 membri (da
FGF-1 fino a FGF23)
Recettori
VEGFR-1, -2 e -3
EGF, TGF-α, HBEGF, AR, BTC,
epigenina,
epiregulina e
neureguline 1-4
TGF-β1, -β2 e -β3
EGF (ErbB1), HER2
(ErbB2/neu), HER3
(ErbB3) e HER4
(ErbB4)
Ang-1, -2 e -3/4
TIE-1 e -2
PDGF-α e -β
FGFR-1, -2, -3 e -4
Tipo I, II o III
Ang: angiopoietin; AR: AmphiRegulin; BTC: Betacellulin; EGF: Epidermal Growth Factor; EGFR:
EGF Receptor; FGF: Fibroblast Growth Factor; FGFR: FGF Receptor; HB-EGF: Heparin-Binding
EGF-like growth factor; HER: Human Epidermal growth factor Receptor; PDGF: Platelet-Derived
Growth Factor; PLGF: Placental Growth Factor; TGF-α: Tumor Growth Factor-α; TGF-β:
Transforming-Growth Factor-β; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor; VEGFR: VEGF
Receptor;
Da: Cook K.M. et al.: Angiogenesis inhibitors: current strategies and future prospects. CA Cancer J.
Clin. 60: 222-243, 2010; modificata.
28
Fig. e3.8. Ruolo del VEGF e del suo recettore nell’angiogenesi. Il Vascular Endothelial
Growth Factor (VEGF) si lega al suo recettore (VEGFR), un recettore tirosin-chinasico,
causando la dimerizzazione del recettore e la successiva autofosforilazione del complesso
recettoriale. Il recettore fosforilato interagisce poi con una varietà di molecole di segnale
citoplasmatiche, portando alla trasduzione del segnale e, alla fine, all’angiogenesi. mTOR:
mammalian Target Of Rapamycin; MEK: Mitogen-activated protein Kinase kinase; ERK:
Extracellular signal-Regulated Kinases; PI3K: PhosphoInositide 3-Kinase. (Da: Cook K.M. et
al.: Angiogenesis inhibitors: current strategies and future prospects. CA Cancer J. Clin. 60:
222-243, 2010; modificata.)
Si ritiene che l’azione del VEGF sia attribuibile a un meccanismo paracrino, in quanto le cellule
tumorali producono il VEGF ma non possono rispondere a esso direttamente, essendo prive degli
specifici recettori di membrana. Al contrario, le cellule endoteliali ingaggiate nell’angiogenesi
esprimono numerosi recettori per il VEGF, ma la loro produzione del fattore di crescita è trascurabile.
È ormai chiaro che la produzione di VEGF in quantità sufficienti per sostenere l’angiogenesi tumorale
origina da diversi tipi di cellule dell’ospite, quali piastrine e cellule muscolari, ma anche da cellule
dello stroma tumorale.
Un’altra via di segnale è mediata dal TIE-2, un recettore con attività tirosin-chinasica che è espresso
principalmente sull’endotelio vascolare. Esistono due ligandi principali per il recettore TIE-2,
l’Angiopoietin-1 (Ang-1) e l’Angiopoietin-2 (Ang-2). L’Ang-1 agisce come un agonista del TIE-2,
mentre l’Ang-2 si comporta come un antagonista del recettore. Tuttavia, il ruolo svolto dall'Ang-2
nell’angiogenesi tumorale non è del tutto compreso e sembra essere dipendente dal contesto
ambientale: l’Ang-2 promuove l’angiogenesi in presenza del VEGF, mentre, in sua assenza, causa una
regressione dei vasi. Le angiopoietine agiscono di concerto con il VEGF per stabilizzare e
promuovere la maturazione dei nuovi capillari.
Segnali angiogenici dallo stroma tumorale
I fibroblasti associati al tumore (Tumor-Associated Fibroblasts, TAF), analogamente alla loro
controparte normale, sintetizzano, depositano e rimodellano l’ECM. Le cellule tumorali reclutano
fibroblasti e inducono l’attivazione di un fenotipo miofibroblastico. I TAF, la cui origine attualmente
non è chiara, producono proteine dell’ECM e fattori di crescita paracrini, che influenzano la crescita
delle cellule di carcinoma e contribuiscono anche all’angiogenesi tumorale. I TAF possono mediare
l’angiogenesi direttamente attraverso la secrezione del VEGF e del Fibroblast-Growth Factor (FGF)
oppure, indirettamente, mediante la secrezione della chemochina CXCL12, capace di reclutare
progenitori endoteliali dal midollo osseo.
29
In molte neoplasie solide, l’entità della presenza di TAM correla con un’aumentata densità
microvasale e una prognosi sfavorevole. È stato dimostrato che i TAM, somiglianti per fenotipo a
macrofagi M2, si accumulano nelle regioni prive di vascolarizzazione di neoplasie avanzate ed
esprimono HIF-1α e HIF-2α. Questo comporta la trascrizione di numerosi geni che promuovono la
vascolarizzazione, alcuni dei quali includono molteplici fattori e modulatori proangiogenici, quali il
VEGF, il TNF-α, l’IL-8, l’FGF, l’IL-1β, la MMP9 e la semaforina 4D. Una differenza tra il ruolo dei
TAM e quello svolto dai macrofagi M2 nell’angiogenesi è relativa al fatto che i primi non sono
l’unica fonte di fattori angiogenici a livello delle lesioni tumorali, mentre gli M2 rappresentano la
fonte principale di VEGF durante la riparazione delle ferite. A differenza degli M2, che sono eliminati
una volta che la vascolarizzazione è stata ripristinata, i TAM restano presenti a causa della persistenza
di ipossia nella neoplasia.
In un’ampia varietà di neoplasie umane, l’accumulo di mastociti è risultato associato a un’aumentata
vascolarizzazione a una prognosi sfavorevole. Tali cellule, preferenzialmente localizzate alla periferia
della neoplasia, sono una fonte principale di fattori proangiogenici, quali VEGF, FGF2, IL-8, TGF-β,
TNF-α, Ang-1 e serin-proteasi. Nel microambiente tumorale è presente anche una popolazione
eterogenea di cellule mieloidi, identificata attraverso l’espressione dei marcatori di superficie cellulare
CD11b e Gr1, che consiste di granulociti, cellule dendritiche e monociti, come pure di cellule
soppressive mieloidi (Myeloid-Derived Suppressor Cells, MDSC). Le MDSC sono composte di due
popolazioni principali, granulociti e monociti, e possono essere espanse e reclutate mediante vari
fattori derivanti dalla neoplasia, compreso il VEGF. Le cellule CD11b+/Gr1+ mediano la refrattarietà
al blocco del segnale del VEGF attraverso la promozione dell’angiogenesi tumorale indipendente dal
VEGF. Livelli elevati di neutrofili sono stati osservati in carcinomi gastrici, del colon e
bronchioloalveolari; nel caso del mixofibrosarcoma i livelli di neutrofili correlano con un’aumentata
densità vasale. I neutrofili sono reclutati nella neoplasia da fattori quali il Granulocyte ColonyStimulating Factor (G-CSF) e chemochine CXC (CXCL8 e CXCL6). I neutrofili associati al tumore
potrebbero essere polarizzati come i TAM, esibendo un fenotipo antitumorale (N1) oppure un
fenotipo protumorale (N2), a seconda del livello del segnale del TGF-β1 presente nel microambiente
tumorale.
Invasività e disseminazione metastatica
La cascata invasione-metastasi
Per metastasi si intende la disseminazione nell’organismo del paziente di cellule tumorali derivate
dalla lesione primitiva in sedi anatomiche non contigue, dove danno origine a depositi tumorali
secondari. Si tratta di una caratteristica peculiare delle neoplasie, che rappresenta lo stadio evolutivo
finale e l’espressione massima di malignità. La diagnosi di malattia metastatica è indice di prognosi
sfavorevole: il 90% della mortalità per neoplasia è associata a questa condizione.
La formazione di depositi metastatici è un processo continuo che può iniziare precocemente durante
lo sviluppo della neoplasia, e la frequenza del fenomeno aumenta con l’età del tumore e il carico di
malattia. Le metastasi sono dette sincrone, quando sono diagnosticate contestualmente alla lesione
primitiva, o metacrone, quando sono diagnosticate a distanza di tempo dall’asportazione del tumore
primitivo. Esistono diverse modalità di disseminazione metastatica:
•
•
per via ematica (tipica del sarcoma): mediante la penetrazione delle cellule tumorali nell’albero
vascolare a livello del letto capillare o di piccole venule;
per via linfatica (tipica del carcinoma): il coinvolgimento dei linfonodi regionali adiacenti alla
neoplasia è considerato un indice precoce di malattia metastatica. Il mancato interessamento
linfonodale non esclude però la disseminazione metastatica;
30
•
•
per contiguità: a causa della presenza della neoplasia sulla superficie di un organo limitrofo (per
es. interessamento epatico da parte di una neoplasia della testa pancreatica);
per via celomatica: disseminazione neoplastica in cavità sierose (pleura, peritoneo).
Le sedi di metastasi più frequenti riscontrate all’esame autoptico interessano i linfonodi, i polmoni, il
fegato e lo scheletro (Tab. e3.6). La distribuzione nell’organismo ospite delle metastasi non è casuale
e tipi diversi di neoplasia hanno una caratteristica propensione a dare metastasi in certi organi ma non
in altri (Tab. e3.7). Attraverso il sangue e la linfa, le cellule tumorali possono distribuirsi in qualsiasi
distretto anatomico, ma nella circolazione esse incontrano organi “obbligati” riccamente
vascolarizzati (fegato, polmone, osso) che fungono da “punti più probabili di arresto”. Secondo
l’ipotesi formulata da James Ewing nel 1920, le sedi predominanti di metastasi riflettono
semplicemente un effetto di “primo passaggio” delle cellule tumorali presenti in circolo e il loro
intrappolamento nella rete capillare locale (effetto emodinamico). In altri termini, sarebbe il tipo di
percorso del sangue refluo dalla sede della neoplasia primitiva a determinare il tropismo d’organo.
Tipico esempio è la prevalente colonizzazione metastatica epatica delle neoplasie del tratto
gastroenterico, che è determinata dal facile accesso delle cellule tumorali alla circolazione del viscere
attraverso il sistema venoso portale. Il tropismo d’organo di certi tipi di neoplasia non sempre è
giustificabile sulla base del tipo di circolazione, ma sembra essere regolato da una complessa
interazione tra le proprietà intrinseche delle cellule metastatizzanti e le caratteristiche del
microambiente dell’organo bersaglio; è questa l'ipotesi del “seme” (cellula tumorale) e del “terreno”
(organo di arresto) formulata da Stephen Paget nel 1889. Allo stato dell’arte, le due ipotesi non sono
mutuamente esclusive. Molti fattori, tra i quali la formazione di una “nicchia premetastastica” e una
specificità d’organo, concorrono alla distribuzione delle metastasi. Dati sperimentali in vivo
suggeriscono che la formazione di una nicchia premetastatica sia indispensabile per la crescita delle
cellule tumorali nel parenchima dell’organo di arresto. Fattori secreti dalle cellule della neoplasia
primitiva stimolano la mobilizzazione di cellule derivate dal midollo osseo, che entrano in circolo e
vanno a localizzarsi nelle sedi di future metastasi. Queste cellule, che esprimono VEGFR-1, c-kit,
CD133 e CD134, aumentano l’angiogenesi nelle sedi premetastatiche. Un’ulteriore funzione della
nicchia è quella di guidare le cellule metastatizzanti verso specifici organi. Le basi molecolari della
specificità d’organo nella distribuzione delle metastasi di una neoplasia primitiva sono poco
conosciute, ma è probabile che essa dipenda dalla selezione positiva esercitata dal microambiente del
tessuto di arresto.
Tab. e3.6. Sedi frequenti di metastasi in pazienti portatori di comuni neoplasie.
Sede della
neoplasia
primitiva
Polmone
Mammella
Colon
Prostata
Pancreas
Ovaio
Tutte le neoplasie
epiteliali
Frequenza della metastasi all’autopsia (%)
Linfonodi Polmoni Fegato
Osso
Pleura
Encefalo
92-93
80-97
25-77
71-87
50-88
58-91
87
21-501
9-26
1-8
2-13
2
1-4
8
40
60-62
12-54
15-64
25-49
10-37
48
51-55
49-61
36-81
28-71
75-78
42-51
41
30-41
47-60
1-18
79-91
16-18
12-15
32
28
36-47
14
13-18
18
33
22
I range dei valori in tabella derivano da multiple serie autoptiche.
1
In dipendenza dal sottotipo istologico.
Da: Loberg R.D. et al.: The lethal phenotype of cancer: the molecular basis of death due to
malignancy. CA Cancer J. Clin. 57: 225-241, 2007; modificata.
31
Tab. e3.7. Sedi convenzionali di metastasi a distanza in relazione al tipo di neoplasia.
Tipo di neoplasia
Carcinomi mammari
Carcinomi polmonari
Carcinoma colo-rettale
Carcinoma prostatico
Carcinoma pancreatico
Carcinoma ovarico
Sarcomi
Glioma
Sede di metastasi
Principalmente osso, polmone, pleura e fegato; meno
frequentemente encefalo e surrene. I tumori ER-positivi
colonizzano preferenzialmente l’osso; i tumori ER-negativi
metastatizzano più aggressivamente ai visceri
I due istotipi più comuni hanno differenti eziologie. Il
microcitoma dissemina rapidamente in molti organi inclusi
fegato, encefalo, surreni, pancreas, polmone controlaterale e
osso. Il carcinoma non a piccole cellule spesso metastatizza al
polmone controlaterale e all’encefalo, ma anche a surreni,
fegato e osso
Il circolo portale favorisce la disseminazione al fegato e nella
cavità peritoneale, ma metastasi si verificano anche nei
polmoni
Quasi esclusivamente all’osso; forma lesioni osteoblastiche
riempiendo la cavità midollare di matrice ossea mineralizzata,
a differenza del carcinoma mammario che causa lesioni
osteolitiche
Disseminazione aggressiva a fegato, polmoni e visceri
circostanti
Disseminazione locale nella cavità peritoneale
Vari tipi di sarcoma; metastatizzano principalmente ai
polmoni
Neoplasie encefaliche con scarsa propensione alla
disseminazione a distanza, ma invadono aggressivamente il
sistema nervoso centrale
ER: recettore per gli estrogeni.
La proliferazione delle cellule tumorali nella lesione primitiva si accompagna a ulteriori mutamenti
genetici favoriti dall’instabilità genomica. Ne consegue una crescente eterogeneità genetica, che si
traduce nell’emergenza di cloni cellulari con gradi variabili di potenziale metastatico, ossia di capacità
di superare barriere fisiche tissutali, penetrare nel circolo sistemico e colonizzare nuove sedi a
distanza. Il processo metastatico è altamente selettivo e prevede la successione di questi singoli
eventi, complessi e strettamente interdipendenti, l’esito dei quali dipende sia dalle proprietà
intrinseche delle cellule tumorali sia dalla risposta dell’organismo ospite. Osservazioni cliniche e
sperimentali indicano che lo sviluppo di metastasi è un processo inefficiente: in modelli animali,
meno dello 0,01% delle cellule tumorali penetrate in circolo forma depositi metastatici a distanza.
Una rappresentazione largamente accettata di come si produca la disseminazione metastatica è la
sequenza denominata “cascata invasione-metastasi” (Fig. e3.9). Essa prevede una serie di fasi
sequenziali che possono essere caratterizzate come segue.
32
Fig. e3.9. Rappresentazione schematica della cascata invasione-metastasi.
Fase 1. Invasione del tessuto circostante:
cellule con la capacità di metastatizzare devono distaccarsi dalla neoplasia primitiva e
superare una serie di barriere esterne, create dal microambiente tumorale, che limitano la
progressione neoplastica. Le forze esterne includono barriere sia fisiche (componenti
dell’ECM e della membrana basale) sia fisiologiche (limitata disponibilità di ossigeno, di
nutrienti e mutamenti del pH), nonché barriere immunologiche da parte del sistema
immunitario dell’ospite. Le pressioni del microambiente possono non solo selezionare cellule
tumorali capaci di adattarsi e sopravvivere in condizioni sfavorevoli, ma anche indurre
l’acquisizione del fenotipo maligno. L’ipossia tumorale, che esercita una potente influenza
ambientale e si associa a sviluppo di metastasi e ridotta sopravvivenza dei pazienti, seleziona
cellule a basso potenziale apoptotico e aumenta l’instabilità genomica, consentendo rapidi
adattamenti mutazionali. Si tratta di mutamenti che consentono l’adattamento alla carenza di
ossigeno e il suo superamento attraverso l’angiogenesi tumorale o lo spostamento della
cellula verso un ambiente ricco di ossigeno. Sebbene l’angiogenesi si associ a un drammatico
aumento del potenziale metastatico, il fenotipo invasivo richiede anche mutamenti
nell’espressione di geni che controllano le interazioni adesive cellula-cellula e quelle cellulamatrice extracellulare, nonché la degradazione proteolitica dell’ECM. L’attivazione di un
programma di “transizione epiteliale-mesenchimale” (Epithelial-Mesenchimal Transition,
EMT) è stata proposta come il meccanismo critico per l’acquisizione del fenotipo maligno da
parte delle cellule tumorali epiteliali. Si tratta di un processo biologico attraverso il quale una
cellula epiteliale, che normalmente interagisce con la membrana basale attraverso la sua
superficie basale, è sottoposta a multipli mutamenti biochimici che le consentono di assumere
un fenotipo mesenchimale, con aumentata capacità di migrazione, invasività, elevata
resistenza all’apoptosi e produzione fortemente aumentata di componenti dell’ECM. Il
completamento dell’EMT è segnalato dalla degradazione della membrana basale e dalla
formazione di una cellula mesenchimale, che può migrare lontano dall’epitelio di origine.
L’adesione intercellulare è mediata principalmente dalle caderine, proteine espresse a livello
delle giunzioni intercellulari. Durante l’EMT, si passa dall’espressione della caderina-E, che
normalmente promuove l’adesione tra le cellule epiteliali e ne blocca il distacco dalla
neoplasia primitiva, a quella della caderina-N, che è normalmente presente su cellule
mesenchimali e promuove l’adesione cellula-matrice durante la migrazione invasiva.
L’adesione cellulare a glicoproteine specifiche dell’ECM (collagene, vitronectina,
33
fibronectina, laminina) è, in larga parte, mediata dalle integrine, una grande famiglia di
proteine transmembrana costituite da eterodimeri αβ (18 tipi di catene α e 8 di catene β) con
ampio spettro di specificità. Il superamento della membrana basale avviene attraverso
un’alterata espressione di recettori sulla superficie cellulare, che consentono l’adesione a
componenti della membrana. Per esempio, le cellule tumorali aumentano l’espressione di
integrine che possono legare laminina e collagene di tipo IV. L’impegno di integrine e di altre
molecole di adesione si accompagna al reclutamento di enzimi che degradano l’ECM (MMP,
catepsine, serin-proteasi), una fase essenziale dell’invasività neoplastica. Le cellule tumorali
sono capaci di locomozione attraverso i tessuti nei quali sono localizzate. Questa motilità è
regolata da segnali mediati da componenti dell’ECM, che sono riconosciuti dalle integrine,
oppure da fattori secreti dall’ospite o dalla neoplasia, che si legano a recettori specifici sulla
cellula tumorale.
Fase 2. Penetrazione e sopravvivenza nel sistema circolatorio:
la neoformata rete capillare tumorale, caratterizzata da pareti vasali più fenestrate e con
minori strutture di sostegno, come pure i linfatici dello stroma circostante la neoplasia, sono
rapidamente penetrati dalle cellule tumorali per guadagnare l’accesso alla circolazione
sistemica. I sistemi vascolare e linfatico presentano numerose connessioni e le cellule
tumorali metastatizzanti possono facilmente passare da un sistema all’altro. Una volta
raggiunto il compartimento vascolare, le cellule tumorali devono sopravvivere a insulti
emodinamici, immunologici e all’apoptosi da perdita dell’adesione cellulare. Le probabilità
di sopravvivenza sono accresciute dal loro legame a cellule dell’ospite (leucociti e linfociti) e,
in particolare, alle piastrine. Le cellule tumorali legano anche fattori della coagulazione, quali
trombina, fibrinogeno, fattore tissutale (TF) e fibrina, creando emboli neoplastici che, oltre a
essere più resistenti agli effetti emodinamici distruttivi e alla lisi immune mediata da cellule
NK, hanno un potenziale metastatico maggiore delle singole cellule tumorali.
Fase 3. Arresto nel letto capillare della sede anatomica secondaria:
le cellule tumorali devono arrestarsi in organi distanti o in linfonodi. L’arresto può verificarsi
passivamente, ossia per restrizioni dovute alla taglia all’ingresso nel letto capillare, oppure
può essere consentito da molecole della superficie cellulare. Cellule endoteliali sono
costantemente perse dalla parete dei vasi sanguigni, creando brecce temporanee alle quali le
cellule tumorali possono aderire più facilmente, grazie all’esposizione di componenti della
membrana basale. Un danno della parete vasale attrae anche piastrine e cellule tumorali
associate a piastrine; il tutto è aumentato dall’espressione del fibrinogeno sulla superficie
della cellula endoteliale. Coaguli di fibrina nelle sedi di arresto delle cellule tumorali possono
danneggiare ulteriormente i vasi, attirando altre piastrine e cellule tumorali circolanti.
Interazioni eterotipiche cellula-cellula implicate nell’arresto delle cellule tumorali in sedi
secondarie sono mediate dalle selectine P ed E, che sono presenti sulla cellula endoteliale e
sono capaci di legare strutture sulle cellule di carcinoma.
Fase 4. Fuoriuscita dal vaso e crescita di metastasi nella sede secondaria:
le cellule potenzialmente metastatiche fuoriuscite dal vaso devono sfuggire all’eliminazione
da parte della sorveglianza immunitaria e proliferare nel parenchima della nuova sede. Si
tratta di una fase altamente inefficiente, in quanto solo alcuni dei depositi micrometastatici si
svilupperanno in macrometastasi (clinicamente rilevabili). Quest’ultimo processo è detto
colonizzazione e gli studi hanno dimostrato che il tessuto ospite può influenzare
34
profondamente la crescita delle micrometastasi attraverso segnali autocrini, paracrini ed
endocrini. Tuttavia, è il bilancio netto tra segnali positivi e negativi che determinerà o meno
la proliferazione metastatica. Singole cellule o micrometastasi possono sopravvivere a lungo
in uno stato di quiescenza proliferativa che è detto “dormienza”. Cellule dormienti a livello di
polmoni, fegato e midollo osseo sono di frequente riscontro in pazienti con neoplasia
prostatica o mammaria, o con melanoma. Queste micrometastasi rappresentano la cosidetta
“malattia minima residua”, che deriva dall’inefficienza delle cellule metastatizzanti nel
colonizzare nuove sedi anatomiche, dopo la loro fuoriuscita dalla circolazione sistemica. La
dormienza può derivare dall’incompatibilità tra cellule tumorali e organo di arresto, che
impedisce la risposta a segnali proliferativi tessuto-specifici, oppure dall’incapacità delle
cellule di generare una sufficiente angiogenesi. Uno stato di equilibrio tra la proliferazione e
l’apoptosi, che impedisce la neovascolarizzazione e l’espansione cellulare, si determina nelle
metastasi preangiogeniche. Pertanto, la crescita sostenuta di queste lesioni è possibile una
volta che l’angiogenesi è innescata dall’aumentato rapporto locale tra fattori stimolatori e
inibitori. La neovascolarizzazione, a partire dalla preesistente rete vascolare, aumenta il
potenziale metastatico delle stesse metastasi, analogamente a quanto avviene per la neoplasia
primitiva. I depositi metastatici devono poi sfuggire all’eliminazione da parte di risposte
immuni non specifiche oppure specificamente dirette contro di essi (evasione dalla
sorveglianza del sistema immunitario). Infine, le cellule tumorali che hanno colonizzato sedi
secondarie sono capaci di metastatizzare ulteriormente e di colonizzare altri organi (metastasi
di metastasi).
Il fenotipo letale
Dal punto di vista clinico, il “fenotipo letale” della neoplasia è definibile come ciò che porta a
morte il paziente. I dati autoptici documentano la sede corporea dove si è verificata la
metastasi, ma raramente delineano in che modo la malattia metastatica ha causato la morte
dell’ospite. Sebbene l’effettiva causa di morte dipenda dai pattern specifici di
metastatizzazione dei diversi tipi di neoplasie, le sindromi cliniche a causa delle quali i
pazienti soccombono possono essere sostanzialmente divise in due categorie: (1) mortalità
dovuta a uno specifico interessamento d’organo con successivo scompenso funzionale, come
si osserva in molti pazienti con metastasi encefaliche; (2) mortalità dovuta a fattori
scarsamente definiti che determinano una varietà di sindromi cliniche tutte caratterizzate
dall’iperproduzione di citochine (Tab. e3.8; Fig. e3.10).
35
Tab. e3.8. Esempi scelti di citochine e fattori che giocano un ruolo nella produzione del fenotipo
letale della neoplasia metastatica.
Citochine e fattori
Chemochine
CCL2/CCR2
CXCL12/CXCR4
Citochine
IL-1
IL-6
Fattore nucleare kB
(NF-kB)
TNF-α
TGF-β
Proteasi
Metalloproteinasi della
matrice
Attivatore
dell'uroplasminogeno
(uPA)
Cascata coagulativa
Trombina
Fattore tissutale (TF)
Ruolo nella produzione del fenotipo letale
Facilita invasività e metastasi, promuove la crescita delle cellule
tumorali mediante regolazione autocrina, contribuisce alla
regolazione dell’angiogenesi
Regola l’homing delle cellule staminali e gioca un ruolo cruciale
nel facilitare le neoplasie che metastatizzano all’osso
Contribuisce alla capacità di metastatizzare; implicata come
fattore di crescita di cellule tumorali; stimola fattori angiogenici;
implicata in trombosi, cachessia e metastasi ossee
Promuove la crescita tumorale; implicata come fattore di crescita
di cellule tumorali; stimola fattori angiogenici; implicata in
trombosi, cachessia e metastasi ossee
Mediatore e regolatore chiave dell’infiammazione, partecipa al
controllo a feedback di citochine proinfiammatorie, sopprime
l’apoptosi, promuove invasività e metastasi, contribuisce alla
proliferazione tumorale attraverso l’attivazione dell’espressione di
geni di fattori di crescita, contribuisce all’instabilità genomica
delle cellule tumorali
Induce danno al DNA e ne inibisce la riparazione, promuove la
crescita tumorale, induce fattori angiogenici, ruolo chiave
nell’inizio della cascata infiammatoria, regola chemochine,
contribuisce alla capacità di invasione, contribuisce alla sindrome
cachettica, implicato nella trombosi, contribuisce alle metastasi
ossee
Contribuisce all’angiogenesi, implicato nella trombosi,
contribuisce alle metastasi ossee
Enzima coinvolto nella degradazione della matrice extracellulare,
è sovraregolato nelle maggior parte delle neoplasie, consentendo
invasività e metastasi
I livelli di uPA nel tumore resecato e nel plasma hanno significato
prognostico indipendente per la sopravvivenza in diversi tipi di
neoplasie umane
La sua genesi è cruciale per la metastasi attraverso il deposito di
fibrina e piastrine; la sovraregolazione del suo recettore è riportata
in una varietà di neoplasie
La malattia avanzata si associa a stato ipercoagulativo attivato dal
TF; il TF partecipa significativamente all’angiogenesi tumorale e i
suoi livelli di espressione sono stati correlati al potenziale
metastatico
IL-1: interleuchina 1; IL-6: interleuchina 6; TGF-β: Transforming Growth Factor-β; TNF-α: Tumor
Necrosis Factor-α.
Da: Loberg R.D. et al.: The lethal phenotype of cancer: the molecular basis of death due to
malignancy. CA Cancer J. Clin. 57: 225-241, 2007; modificata.
36
Fig. e3.10. La genesi del “fenotipo letale” della neoplasia. Le proprietà che una neoplasia
deve acquisire per crescere e metastatizzare producono molteplici fattori che si traducono in
differenti sindromi cliniche letali per il paziente. Tali sindromi possono essere
sostanzialmente categorizzate in quelle dovute a iperproduzione di citochine e quelle dovute a
insufficienza d’organo. (Da: Loberg R.D. et al.: The lethal phenotype of cancer: the
molecular basis of death due to malignancy. CA Cancer J. Clin. 57: 225-241, 2007;
modificata.)
L’incidenza della cachessia varia a seconda del tipo di neoplasia: la frequenza più elevata (83-87%) si
osserva in pazienti con neoplasia del colon, della prostata, del polmone e con linfoma non-Hodgkin a
prognosi sfavorevole, mentre la frequenza più bassa (31-40%) si riscontra in pazienti con neoplasia
mammaria, sarcomi, leucemie e sottotipi a prognosi favorevole di linfoma non-Hodgkin. Circa il 20%
della mortalità per neoplasia è attribuibile alla cachessia e usualmente il decesso sopraggiunge quando
la perdita di peso si avvicina al 30%. La cascata infiammatoria messa in atto dall’ospite e dalla
neoplasia determina uno squilibrio tra citochine proinfiammatorie (compresi il fattore inducente
proteolisi, il TNF-α, l’IL-1, l’IL-6 e l’IFN-γ) e antinfiammatorie (comprese l’IL-4, l’IL-12 e l’IL-15).
Queste citochine agiscono su multipli bersagli, inclusi miociti, adipociti, epatociti, midollo osseo,
cellule endoteliali e neuroni, determinando una complessa cascata di risposte biologiche che, alla fine,
culminano in progressiva perdita di peso, anoressia, anemia, alterazioni metaboliche, astenia,
deplezione dei depositi di grasso e severa perdita di proteine muscolo-scheletriche. Inoltre, i pazienti
spesso sviluppano intolleranza al glucosio, insulino-resistenza, aumentata gluconeogenesi a partire da
acido lattico e aminoacidi, aumentata ossidazione di grassi e ridotta lipogenesi in conseguenza
dell’attivazione di cicli futili e inefficienti sotto il profilo energetico. Nei pazienti neoplastici esiste un
incremento globale della lipolisi con produzione di glicerolo e acidi grassi, che possono essere
utilizzati per la gluconeogenesi, e la contemporanea inibizione della lipogenesi che contribuisce alla
deplezione dei depositi di grasso. Si ritiene che l’ipercatabolismo muscolare osservato nella cachessia
neoplastica dipenda dall’iperattivazione di vie proteolitiche da parte di citochine. La progressiva
perdita di massa muscolare nei pazienti cachettici contribuisce, in maniera significativa, alle disabilità
funzionali globali, alla debolezza della muscolatura respiratoria e alla diminuita immunità, il tutto
culminando nella morte del paziente.
La trombosi è una complicanza comune della neoplasia e si associa a una significativa morbilità e una
ridotta sopravvivenza. Sebbene la coagulopatia sia direttamente connessa alla mortalità in circa il 10%
dei casi, la sua presenza è stata dimostrata in oltre il 50% dei pazienti al momento del decesso. Le
caratteristiche che possono facilitare la capacità delle cellule tumorali di invadere localmente e di
metastatizzare, determinano anche un danno alle cellule endoteliali e l’attivazione della cascata
37
coagulativa, la quale ha come risultato la triade di Virchow con ipercoagulazione, stasi e danno
endoteliale. Le attività procoagulanti, fibrinolitiche e proaggreganti delle cellule tumorali forniscono il
perfetto ambiente locale per la trombosi. Per demolire il microambiente circostante e permettere alla
neoplasia di crescere, nonché alle cellule tumorali di spostarsi e ai nuovi vasi sanguigni di raggiungere
la massa neoplastica, vengono attivati i programmi cellulari utilizzati nella guarigione delle ferite e
sono rilasciate citochine e fattori di crescita che hanno effetti locali e sistemici. Tali fattori
comprendono la trombina, il VEGF, il TNF-α, l’IL-1β, l’attivatore dell’uroplasminogeno, le MMP, le
catepsine e il TF.
Il coinvolgimento dell’osso è la causa principale di dolore diretto da neoplasia. All’autopsia le
metastasi scheletriche sono presenti, in media, nel 32% dei pazienti, con una prevalenza molto
maggiore nei pazienti con neoplasia del polmone, della mammella, del rene e della prostata.
L’attivazione degli osteoblasti e degli osteoclasti da parte delle cellule tumorali determina un circolo
vizioso di distruzione dell’osso e di aumentata crescita tumorale, che causa dolore, fratture e
compressione del midollo spinale.
La dispnea si verifica nel 20-80% dei pazienti neoplastici ed è severa nel 10-60% di essi,
specialmente nelle ultime 6 settimane di vita. La causa della dispnea in un dato paziente è
generalmente multifattoriale, derivando dal diretto coinvolgimento polmonare, dalla
produzione locale e sistemica di citochine, da cause connesse al trattamento e da patologie di
accompagnamento, quali lo scompenso cardiaco e la broncopneumopatia cronica ostruttiva. Il
carico tumorale presente nel parenchima polmonare, la linfangite neoplastica polmonare, il
versamento pleurico neoplastico e l’embolia polmonare sono cause comuni e ben note di
dispnea. Il trattamento della neoplasia può contribuire alla dispnea del paziente attraverso
polmoniti radio- o chemioindotte e versamenti pleurici connessi a farmaci, attraverso
polmoniti secondarie a neutropenia e attraverso la tachipnea dovuta ad anemia. La dispnea da
neoplasia è generalmente ritenuta un evento tardivo nel corso della malattia.
Epidemiologia e prevenzione delle neoplasie
Cancerogenesi
La cancerogenesi è lo studio dei fattori che contribuiscono alla patogenesi della neoplasia, ai
processi che regolano la differenziazione e la maturazione delle cellule normali e ai fattori
genetici ed epigenetici che aumentano o producono la formazione di una neoplasia. Il
processo della cancerogenesi è stato classicamente suddiviso in tre fasi distinte: iniziazione,
promozione e progressione (Fig. e3.11). La prima fase è quella dell’iniziazione, che ha come
risultato la produzione di un danno irreversibile del DNA da parte di un agente fisico,
chimico o virale, cioè un cancerogeno. Gli eventi di iniziazione si verificano rapidamente. In
alcuni casi il danno del DNA può essere riparato prima che esso sia “fissato” come mutazione
e, pertanto, la cellula può ritornare alla propria condizione basale. In generale, qualunque
intervento che rallenti la proliferazione cellulare dovrebbe procurare più tempo per la
riparazione del DNA e dovrebbe ridurre il danno e la mutazione a carico del genoma. In
alternativa, le cellule iniziate risultano danneggiate e, se riconosciute come tali, vanno
incontro ad apoptosi e sono eliminate prima che possano evolvere in una neoplasia.
38
Fig. e3.11. Rappresentazione schematica del processo della cancerogenesi.
La promozione si verifica nel corso di un periodo di tempo prolungato (molti anni nell’uomo) e ha
come risultato l’espansione di un clone di cellule iniziate senza ulteriore o con minimo mutamento
genetico. Fattori esogeni o endogeni, che incrementano il ciclo cellulare o la sensibilità endocrina
della cellula, giocano un ruolo principale in questa fase dello sviluppo della neoplasia. La comparsa di
una lesione clinicamente rilevabile, frequentemente indicata come preneoplasia o, nel caso dei tumori
solidi, neoplasia intraepiteliale (IEN) è generalmente considerata come la frattura tra promozione e
progressione. La caratterizzazione sistematica della IEN e dei fattori biologici che ne determinano
rischio ed evoluzione è stata un’importante area di ricerca negli ultimi anni (Tab. e3.9). Durante la
progressione, si verificano ulteriori danni genetici che determinano l’acquisizione graduale da parte
delle cellule anomale delle proprietà essenziali del fenotipo completamente trasformato, comprese le
proprietà di invasività e disseminazione a distanza.
Tab. e3.9. Comuni precursori clinici (neoplasia intraepiteliale) di neoplasia.
Organo
Orofaringe
Cute
Esofago
Colon
Mammella
Cervice
Precursore
Leucoplachia
Cheratosi attinica
Esofago di Barrett
Adenoma
Carcinoma lobulare o duttale in
situ
Neoplasia intraepiteliale
Metodo di rilevazione
Visivo
Visivo
Endoscopia
Sigmoidoscopia, colonscopia
Mammografia, ecografia,
risonanza magnetica
Colposcopia
Da: Zell J.A. et al.: Cancer prevention, screening, and early detection. In: Abeloff’s clinical
oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 362; modificata.
Concetti generali di epidemiologia
In oncologia, l’epidemiologia studia la distribuzione e la frequenza delle neoplasie, nonché l’influenza
dei loro determinanti di rischio (fattori di esposizione, l'alterazione dei quali induce un cambiamento
nella frequenza o nei caratteri della malattia), di esito e di controllo nella popolazione di individui sani
o ammalati. I principali indicatori utilizzati per descrivere la presenza della neoplasia nella
popolazione sono: incidenza, prevalenza, mortalità e sopravvivenza (Box e3.6). L’epidemiologia ha
permesso di acquisire conoscenze sull’evoluzione, a livello mondiale, nazionale o regionale,
39
dell’incidenza e della mortalità nel tempo, nonché di studiare le associazioni tra presunte cause (o
fattori di rischio) e specifiche forme di neoplasia. Inoltre, questa disciplina può essere utilizzata per
prendere in esame una gamma più ampia di ipotesi nella ricerca biomedica, quali le ipotesi
traslazionali e cliniche generate in campo oncologico. Gli studi epidemiologici possono essere
sperimentali e osservazionali. In uno studio sperimentale (studio randomizzato controllato), il
ricercatore sperimenta l’effetto dell’esposizione assegnando quest’ultima a un campione casuale dei
soggetti in studio. Al contrario, in uno studio osservazionale, il ricercatore può soltanto osservare
l’effetto dell’esposizione sui soggetti; egli non esercita alcun ruolo nell’assegnare l’esposizione ai
soggetti in studio e ciò rende gli studi osservazionali molto più vulnerabili a problemi metodologici.
È, pertanto, del tutto ragionevole considerare gli studi clinici randomizzati come il modo migliore per
dimostrare un nesso di causalità. Tuttavia, non tutti i quesiti di ricerca sono adatti a un disegno
sperimentale. Inoltre, gli studi randomizzati controllati sono spesso dispendiosi in termini sia di tempo
sia di risorse economiche e un tale studio può essere condotto solo dopo che studi osservazionali non
abbiano fornito una risposta univoca al quesito oggetto di studio. Tali aspetti spiegano perché gli studi
osservazionali costituiscano la gran parte della ricerca epidemiologica condotta finora sulle neoplasie.
Box e3.6. Principali indicatori epidemiologici di neoplasia nella popolazione
•
•
•
•
Incidenza: indica il numero di nuovi casi diagnosticati per una sede di insorgenza di
neoplasia, che si verificano in un determinato intervallo di tempo e in una specifica area
geografica. Rappresenta il rischio di ammalare e, quindi, esprime il carico di fattori di
rischio e gli effetti delle misure di prevenzione.
Prevalenza: corrisponde, in un dato momento, alla proporzione di individui di una data
area geografica che si sono ammalati di neoplasia in passato, sia esso recente o lontano,
e che ne sono sopravvissuti. Rappresenta, quindi, la quota di malati presenti in una
società ed è un indicatore dell’impatto esercitato dalle malattie oncologiche sulla
domanda assistenziale in una società.
Mortalità: indica il numero di decessi per neoplasia in una data popolazione e in un dato
periodo di tempo. Esprime il rischio di morire che deve essere interpretato in rapporto
alla letalità della malattia.
Sopravvivenza: esprime la percentuale di individui sopravvissuti alla malattia
oncologica in una data popolazione. Rappresenta un importante indicatore di esito delle
pratiche diagnostiche, cliniche e, in generale, di efficacia dei sistemi sanitari.
Gli studi osservazionali possono essere distinti in descrittivi e analitici. Gli studi descrittivi sono
generalmente grandi studi, condotti a livello di popolazione, che descrivono il verificarsi di neoplasie
in relazione a variabili personali, geografiche e temporali. La conoscenza dell’evoluzione
dell’incidenza nel tempo è essenziale non solo per la pianificazione di interventi sanitari, ma anche
per la formulazione di ipotesi di studio. Ne sono esempi la determinazione dei tassi di carcinoma
mammario del colon fra gli asiatici emigrati in Paesi occidentali oppure quella dei tassi di melanoma
fra individui di origine anglosassone in Australia. Gli studi analitici sono disegnati per analizzare il
ruolo di determinanti di malattia, testando ipotesi di associazione causa-effetto per specifiche forme di
neoplasia. Un esempio è rappresentato dallo studio del ruolo dell’esposizione solare nello sviluppo del
melanoma in soggetti anglosassoni emigrati in Australia.
Nell’epidemiologia clinica, le due componenti fondamentali di qualunque studio sono
l’esposizione e l’esito (outcome). L’esposizione può essere un fattore di rischio, un fattore
prognostico, un test diagnostico o un trattamento e l’esito è generalmente rappresentato dalla
morte o dalla malattia. In uno studio osservazionale, la frequenza di un esito o di
un’esposizione (in dipendenza dal disegno dello studio) è misurata, stimata o visualizzata.
40
L’associazione tra esposizione ed esito può essere misurata con procedimenti diversi. Rischi,
tassi, prevalenze e odds (il concetto può essere reso con “probabilità a favore”) sono misure
comuni della frequenza di un esito e il loro confronto tra gruppi produrrà misure di frequenza
relativa, cioè rischio relativo, rapporti di tasso, rapporti di prevalenza e odds ratio. Queste
misure descrivono la forza dell’associazione tra esposizione ed esito e forniscono la base per
le conclusioni dello studio. I principali disegni sperimentali utilizzati negli studi
osservazionali sono quello di coorte e quello dei casi-controlli. In uno studio di coorte, che è
anche detto “prospettico” perché procede secondo la sequenza naturale degli eventi, individui
con differenti livelli di esposizione sono seguiti nel tempo per determinare l’incidenza
dell’esito atteso in ciascun gruppo di esposizione. La misura di frequenza più comune in
questo tipo di studio è il rischio relativo, che indica la probabilità di sviluppare l’esito negli
esposti rispetto ai non esposti. Se l’esito di interesse è raro, occorre studiare una popolazione
molto ampia per osservare un numero di eventi sufficiente per dimostrare una precisa
associazione tra l’esposizione e l’esito. In uno studio casi-controlli, che è detto anche
“retrospettivo” in quanto indaga sui possibili fattori di rischio quando l’esito atteso si è già
verificato, il primo passo è quello di identificare gli individui con l’esito di interesse, cioè i
casi. Questa caratteristica lo rende un buon disegno per studiare esiti rari, che richiederebbero
un campione enorme in uno studio di coorte. Una volta identificati i casi, l’investigatore
seleziona i controlli dalla stessa popolazione di origine dei casi. Esiste una serie di metodi per
fare ciò, ma indipendentemente dal metodo, il livello di esposizione è comparato tra casi e
controlli. La misura di frequenza relativa è l’odds ratio, che è una stima del rischio relativo.
Un ratio pari a 1 implica mancanza di effetto; un valore < 1 suggerisce un effetto protettivo
del fattore di esposizione nei casi, mentre un valore > 1 suggerisce un effetto nocivo
dell’esposizione misurata (fattore di rischio). La significatività dell’associazione è poi
esaminata mediante un test statistico. La potenza degli studi casi-controlli è relativamente
debole. Pertanto, a meno che non sia stata riscontrata un’associazione marcata (per es. un
odds ratio < 0,5 oppure > 2) e/o multipli studi casi-controlli della stessa entità abbiano
prodotto risultati coerenti, è rischioso trarre conclusioni definitive. I risultati di uno studio
casi-controlli non forniscono, generalmente, un’evidenza definitiva di un nesso di causalità,
ma possono suggerire che è giustificato un disegno di studio più rigoroso. L’interpretazione
dei risultati degli studi analitici è complessa: distorsione (bias), confondimento e caso
possono essere alla base di associazioni riscontrate in studi analitici. Uno scopo essenziale del
disegno e delle fasi di analisi è quello di prevenire, ridurre e valutare la distorsione, il
confondimento e il caso in modo da stimare un rapporto causa-effetto obiettivo tra
l’esposizione e l’esito. Infine, deve essere verificato il rispetto dei criteri di causalità.
Accettati dalla comunità scientifica, questi criteri sono stati proposti dallo statistico inglese
Austin B. Hill nel 1965 ed elaborati in un ampio studio riguardante l’effetto del fumo
nell’uomo (Box e3.7).
41
Box e3.7. Criteri di causalità di Austin B. Hill (1965)
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Forza: indica che tanto maggiore è il valore della misura di associazione (rischio
relativo o odds ratio), tanto più probabile è il rapporto di causa-effetto.
Consistenza: richiede che la stessa associazione sia stata dimostrata in studi condotti
utilizzando disegni differenti in differenti popolazioni.
Specificità: richiede che il fattore di esposizione sia associato solo all’esito atteso e che
sia l’unico trovato associato a tale esito.
Temporalità: richiede che l’esposizione in studio preceda la comparsa dell’esito atteso.
Gradiente biologico: richiede che l’entità della misura di associazione aumenti (o
diminuisca) con l’aumentare (o il diminuire) dell’esposizione.
Plausibilità: richiede che la presunta associazione sia verosimilmente inquadrabile nel
contesto delle conoscenze sull’argomento e sulla patogenesi.
Coerenza: può anche essere definita come “plausibilità biologica” (vedi punto
precedente).
Sperimentazione: richiede che la forza della misura di associazione diminuisca (o
aumenti) con il mutare dello stato di esposizione.
Analogia: richiede che siano state osservate associazioni tra esposizioni simili ed esiti
simili.
Da: Sutcliffe S. et al.: Use of epidemiology in oncology. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th
ed. 2008, vol. 1, p. 359.
Incidenza e mortalità delle neoplasie
Le neoplasie sono la seconda causa di morte in Italia: sono stati registrati 162.000 decessi
(circa 93.000 tra gli uomini e 69.000 tra le donne) nel 2002 (ultimi dati forniti dall’Istituto
Superiore di Sanità). La stima per il 2010 prevede un totale di circa 255.000 nuove diagnosi
di neoplasia (Fig. e3.12). Il costante incremento dei casi registrato in Italia, negli ultimi 30
anni, è da imputare al progressivo invecchiamento della popolazione, che ha fatto seguito al
cambiamento delle abitudini di vita e di lavoro determinatosi a partire dagli anni Cinquanta.
Recenti stime indicano che, nel 2010, le neoplasie di prostata, colon, polmone e stomaco
costituiranno oltre il 70% delle nuove diagnosi oncologiche e causeranno oltre il 55% della
mortalità nella popolazione maschile italiana; le neoplasie di mammella, colon, polmone e
stomaco costituiranno oltre il 55% dei nuovi casi e causeranno circa il 45% dei decessi per
tumore nella popolazione femminile. La prevalenza stimata per tutte le neoplasie nel 2010 è
di circa il 4% nella popolazione femminile e del 3% in quella maschile, il doppio di quella di
20 anni prima.
42
Fig. e3.12. Incidenza stimata delle neoplasie nella popolazione italiana per il 2010. (Da:
Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute – Istituto
Superiore di Sanità; www.tumori.net/it/banchedati.php)
A livello mondiale, le neoplasie rappresentano la terza causa di morte: si stima che nel 2007
siano stati diagnosticati oltre 12 milioni di nuovi casi e vi siano stati 7,6 milioni di decessi. A
partire dal 2030, le stime prevedono un’incidenza annuale di circa 26 milioni di nuovi casi,
con 17 milioni di morti per anno. Inoltre, la distribuzione dei tipi predominanti di neoplasia
continua a mutare, specialmente nei Paesi in via di sviluppo. Nel 2007, i dati di incidenza
hanno mostrato che il 55% delle diagnosi oncologiche ha interessato individui residenti in
Paesi a basso reddito; si prevede che tale proporzione salirà al 61% a partire dal 2050. Gran
parte dei casi di neoplasia del polmone, della mammella, del colon e della prostata non è più
confinata ai Paesi occidentali industrializzati, ma è tra i tipi tumorali di più comune riscontro
nella popolazione mondiale. L’incremento globale delle neoplasie e il loro sproporzionato
impatto sui Paesi in via di sviluppo sono stati alimentati sia da mutamenti demografici nelle
popolazioni a rischio sia da mutamenti temporali e geografici nella distribuzione dei
principali fattori di rischio. I tre fattori più importanti che contribuiscono a questa evoluzione
sono:
•
la crescita e l’invecchiamento delle popolazioni. Si tratta, in larga parte, della diretta
conseguenza del progresso ottenuto nella riduzione della mortalità per malattie infettive
acute tra bambini e giovani adulti;
• il concentrarsi di fattori di rischio modificabili (in particolare fumo di sigaretta, dieta di
tipo occidentale e inattività fisica) nei Paesi in via di sviluppo;
• il declino più lento delle neoplasie a eziologia infettiva nei Paesi a basso reddito rispetto a
quelli più ricchi.
A livello mondiale, la crescita demografica e l’invecchiamento sono i principali responsabili
dell’incremento dell’incidenza delle neoplasie e dello spostamento del picco di incidenza
verso i Paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la popolazione mondiale è stata di 6,7 miliardi di
individui, ma si prevede un aumento fino a 8,3 miliardi per il 2030 e fino a 8,9 miliardi per il
2050. La crescita demografica sarà maggiore nei Paesi a basso reddito rispetto ai quelli più
ricchi e analogo andamento è atteso anche nella fascia dei soggetti anziani. L’invecchiamento
della popolazione inciderà prevalentemente sul numero di individui che si ammaleranno di
43
neoplasia, dal momento che, nel 2002, il 45% delle diagnosi effettuate nel mondo ha
interessato individui di età superiore a 65 anni.
Fattori di rischio per le neoplasie
L’uomo è da sempre esposto a cancerogeni ambientali. Tuttavia, sia l’industrializzazione sia,
in particolare, lo sviluppo dell’industria chimica, agli inizi del XX secolo, hanno creato le
condizioni per livelli elevati di esposizione tra i lavoratori. L’esposizione professionale ha
determinato un forte incremento del rischio di neoplasia a partire dalla metà del secolo scorso
e, di conseguenza, gli studi epidemiologici hanno documentato rischi particolarmente elevati
tra lavoratori esposti a concentrazioni di sostanze chimiche (composti organici, metalli e
polveri) molto superiori a quelle oggi consentite. Oltre all’identificazione di cancerogeni per
l’uomo attraverso studi condotti tra gli addetti a specifiche lavorazioni, gli studi
epidemiologici classici hanno prodotto contributi fondamentali all’identificazione
dell’eziologia delle neoplasie più comuni e hanno avuto un impatto sostanziale sulla salute
pubblica. L’associazione tra fumo e neoplasia polmonare è forse l’esempio meglio noto di
questi successi, ma meritano menzione anche gli studi che hanno documentato la
cancerogenicità di molti chemioterapici e immunosoppressori, di ormoni, di alcuni antibiotici
e della radioterapia. Nonostante siano noti i rischi associati con vari farmaci e trattamenti,
alcuni di essi continuano a essere impiegati, in quanto i benefici sono giudicati superiori ai
rischi ed essi rimangono la migliore opzione disponibile. In sintesi, numerosi studi di coorte e
di casi-controlli hanno fornito evidenza convincente sul ruolo eziologico di specifici fattori di
rischio ambientali legati allo stile di vita, all’esposizione professionale, a infezioni e alla dieta
in una gamma di neoplasie (Tab. e3.10). L’opinione che i fattori ambientali siano le principali
cause di neoplasia nell’uomo si basa, in larga misura, sulla seguente serie di osservazioni
epidemiologiche:
•
•
•
•
sebbene l’incidenza globale sia ragionevolmente costante tra i diversi Paesi, l’incidenza di
specifici tipi di neoplasia può variare di centinaia di volte;
esistono ampie differenze di incidenza entro popolazioni di un singolo Paese;
popolazioni di emigranti assumono l’incidenza tipica del loro nuovo Paese nello spazio di
una o due generazioni;
i tassi di neoplasia entro una popolazione possono mutare rapidamente.
44
Tab. e3.10. Esempi scelti di agenti e processi considerati cancerogeni nell’uomo dalla IARC.
Agente o processo
Esposizione ambientale e dietetica
Organo o tessuto sede di neoplasia
Aflatossine
Arsenico e composti dell’arsenico
Fegato
Polmone, cute
Abitudini culturali
Bevande alcoliche
Cavità orale, faringe, laringe, esofago, fegato
Fumo di tabacco
Tratto respiratorio, vescica, pelvi renale,
pancreas
Cute
Radiazione solare
Esposizione professionale
Asbesto
Polmone, pleura, peritoneo, laringe, tratto
gastroenterico
Benzene
Berillio
Cadmio
Composti del cromo esavalente
Formaldeide
2-Naftilamina
Nichel e composti del nichel
Benzo[α]pirene
Cloruro di vinile
Leucemia
Polmone
Polmone
Polmone
Fegato
Vescica
Polmone, seni nasali
Polmone
Fegato, polmone, tratto gastroenterico, encefalo
Uso terapeutico
Azatioprina
Leucemia
Clorambucile
Leucemia
Ciclosporina
Linfoma
Ciclofosfamide
Vescica, leucemia
Tamoxifene
Agenti infettivi
Virus di Epstein-Barr
Helicobacter pylori
Virus dell'epatite B
Virus dell'epatite C
Papillomavirus umano tipi 16, 18, altri
Endometrio
Linfoma
Stomaco
Fegato
Fegato
Cervice
Radiazioni ionizzanti
Radon
Polmone
IARC: International Agency for Research on Cancer.
L’International Agency for Research on Cancer (IARC) ha valutato il potenziale cancerogeno di oltre
935 sostanze chimiche, processi industriali e altre esposizioni, classificando l’evidenza disponibile in
cinque categorie (Tab. e3.11). Fino a oggi, la IARC ha classificato 108 agenti, miscele ed esposizioni
45
nel gruppo 1; 63 nel gruppo 2A; 248 nel gruppo 2B; 515 nel gruppo 3; e 1 nel gruppo 4. La politica
della IARC raccomanda di trattare le sostanze chimiche nei gruppi 2A e 2B come se presentassero un
rischio cancerogeno per l’uomo. Oltre ai cancerogeni esogeni, processi endogeni quali
l’infiammazione e il metabolismo del cibo generano esposizioni reattive che danneggiano il DNA e,
pertanto, possono contribuire alla cancerogenesi.
Tab. e3.11. Categorie di cancerogenicità della IARC.
Gruppo
1
Categoria
Cancerogeni umani
2A
Probabili cancerogeni umani
2B
Sospetti cancerogeni umani
3
Sostanze non classificabili per la
cancerogenicità per l’uomo
4
Non cancerogeni per l’uomo
Definizione
Questa categoria è riservata alle
sostanze con sufficiente evidenza di
cancerogenicità per l’uomo
Questo sottogruppo è riservato alle
sostanze con limitata evidenza di
cancerogenicità per l’uomo e
sufficiente evidenza per gli animali.
In via eccezionale, anche sostanze
per le quali sussiste solo limitata
evidenza per l’uomo o solo
sufficiente evidenza per gli animali
purché supportata da altri dati di
rilievo
Questo sottogruppo è usato per le
sostanze con limitata evidenza per
l’uomo in assenza di sufficiente
evidenza per gli animali o per quelle
con sufficiente evidenza per gli
animali e inadeguata evidenza o
mancanza di dati per l’uomo. In
alcuni casi possono essere inserite in
questo gruppo anche le sostanze con
solo limitata evidenza per gli animali
purché questa sia saldamente
supportata da altri dati rilevanti
In questo gruppo vengono inserite le
sostanze che non rientrano in
nessun'altra categoria prevista
A tale gruppo vengono assegnate le
sostanze con evidenza di non
cancerogenicità sia per l’uomo sia
per gli animali. In alcuni casi,
possono essere inserite in questa
categoria le sostanze con inadeguata
evidenza o assenza di dati per l’uomo
ma con provata mancanza di
cancerogenicità per gli animali,
saldamente supportata da altri dati di
rilievo
IARC: International Agency for Research on Cancer.
Da: Fontham E.T.H. et al.: American Cancer Society perspectives on environmental factors and
cancer. CA Cancer J. Clin. 59: 343-351, 2009.
46
La maggioranza delle neoplasie umane è probabilmente la conseguenza dell’interazione tra alcune o
molte influenze cancerogene (spesso non identificate) e fattori dell’ospite (geni, ormoni, stato
immunitario). Di grande importanza è stato il riconoscimento che fattori estrinseci interagiscono con
fattori dell’ospite per determinare la suscettibilità e il rischio globale. Un ruolo centrale in queste
interazioni è stato attribuito alla dieta, a seguito dell’osservazione che molte sue componenti possono
influenzare, positivamente o negativamente, lo sviluppo neoplastico attraverso meccanismi
cancerogeni o anticancerogeni. Virtualmente tutte le sostanze cancerogene per l’uomo lo sono anche
per l’animale di laboratorio, questo assunto ha fatto sì che l’approccio sperimentale primario per
valutare la cancerogenicità di sostanze chimiche consista nell’effettuazione di saggi biologici nei quali
topi o ratti sono esposti a due o tre livelli dell’agente in studio per 2 anni. Un cancerogeno può essere
definito come un agente la cui somministrazione ad animali non pretrattati determina un aumento
statisticamente significativo dell’incidenza di tumori maligni rispetto a quella osservata in animali di
controllo non trattati, indipendentemente dal fatto che questi ultimi presentino bassa o alta incidenza
spontanea dei tumori in questione. L’avvento di questi studi di tossicologia ha permesso, in molti casi,
di ottenere l’evidenza di cancerogenicità prima che gli studi epidemiologici arrivassero alla stessa
conclusione. Tuttavia, la durata e il costo dei saggi biologici limita il numero di sostanze che possono
essere testate. Inoltre, può essere difficile o impossibile generare esposizioni negli animali che
rispecchino quelle ambientali.
I cancerogeni chimici comprendono sostanze con svariati tipi di strutture chimiche, compresi
composti sia organici sia inorganici, ai quali gli individui possono essere esposti, spesso
inconsapevolmente, nel corso della loro vita. Relativamente pochi cancerogeni hanno azione diretta,
in quanto la reattività innata di tali composti tende anche a renderli instabili. Al contrario, la gran
parte dei cancerogeni richiede un’attivazione metabolica in specie reattive, spesso nelle cellule
bersaglio. Una volta formati, gli intermedi reattivi reagiscono con il DNA per produrre lesioni
genetiche che possono causare mutazioni a carico di geni cellulari critici. Le vie metaboliche possono
essere fortemente influenzate da una varietà di fattori estrinseci e intrinseci, ed esse rappresentano
importanti determinanti della suscettibilità ai cancerogeni su base sia interindividuale sia d’organo
bersaglio.
La classificazione da parte della IARC di una sostanza come cancerogena per l’uomo non è di per sé
informativa del carico di neoplasie da essa causato. Il passo successivo è, pertanto, quello di valutare
l’entità del problema in termini di salute pubblica. Il carico di malattia nella popolazione generale
dipende sia dal livello di rischio tra gli individui esposti sia dalla prevalenza dell’esposizione nella
popolazione. Il rischio per gli individui esposti, a sua volta, varia a seconda di intensità, potenza e
durata dell’esposizione, come pure di altri potenziali fattori, inclusa l’esposizione ad altri cancerogeni.
In Gran Bretagna si è stimato che, nel 2004, circa l’8% della mortalità per neoplasia tra gli uomini e
l’1,5% di quella tra le donne è da attribuire a cancerogeni presenti nell’ambiente di lavoro. A livello
mondiale, il 10% della mortalità stimata per neoplasia polmonare, il 2% di quella per leucemia e quasi
il 100% della mortalità per mesotelioma è ascrivibile all’esposizione professionale. Nella popolazione
mondiale, tra le esposizioni più importanti associate allo sviluppo di neoplasia polmonare vi sono
quelle al gas radon in ambiente domestico, al fumo di tabacco e, nei Paesi in via di sviluppo, ai
combustibili solidi utilizzati per la cucina e il riscaldamento. A causa dell’elevata prevalenza di
fumatori di lunga data e della forza del fumo come causa di malattia, il fumo di sigaretta rimane
responsabile sia dell’elevato rischio individuale nei fumatori sia di circa il 30% della mortalità per
neoplasia nella popolazione degli Stati Uniti. È importante ricordare che il fumo di tabacco contiene,
in grandi quantità, molte specifiche sostanze riconosciute come cancerogene o probabilmente
cancerogene sulla base degli studi epidemiologici. Nonostante il fumo di tabacco sia una causa nota di
neoplasia e di altre patologie croniche per l’uomo, esso rimane un’importante fattore di esposizione a
livello mondiale.
L’infezione persistente causata da vari agenti infettivi è responsabile di circa il 18% dei nuovi casi di
neoplasia nel mondo, mentre la percentuale di neoplasie attribuite a infezioni rimane circa tre volte
47
maggiore nei Paesi in via di sviluppo (26%) rispetto a quelli industrializzati (8%). Le neoplasie più
comuni che riconoscono una base infettiva cronica sono il carcinoma della cervice causato dal
papillomavirus umano (HPV), il carcinoma gastrico causato dal batterio H. pylori e l’epatocarcinoma
causato da HBV o HCV. Il carcinoma della cervice è la seconda neoplasia più comune nel mondo
nella popolazione femminile, con una stima di 555.000 nuovi casi e di 310.000 decessi nel 2007.
Circa l’80% dei casi si verifica nei Paesi in via di sviluppo. Virtualmente, tutti i casi di questa
neoplasia sono causati da infezioni cervicali ricorrenti da HPV. I tassi di incidenza e di mortalità sono
diminuiti drasticamente negli ultimi 25 anni nei Paesi industrializzati, grazie fondamentalmente allo
screening mediante il test di Papanicolaou (Pap-test), che consente la diagnosi e il trattamento della
IEN. Nel 2007, si è stimata un’incidenza mondiale di 711.000 nuovi casi di neoplasia epatica
primitiva; circa i tre quarti sono casi di epatocarcinoma. La neoplasia epatica è la terza causa di
mortalità per tumore nel mondo, con 680.000 decessi stimati nel 2007. Globalmente, circa il 75% dei
casi e il 50% della mortalità sono causati da un’infezione cronica di HBV o HCV; la frazione di casi
attribuibili all’HBV è maggiore nei Paesi in via di sviluppo (59%) rispetto a quelli industrializzati
(23%). Le percentuali corrispondenti per l’HCV sono, rispettivamente, 33 e 20%. I tassi di incidenza e
mortalità per carcinoma gastrico sono fortemente diminuiti negli ultimi 50 anni, anche se questa
neoplasia rimane la quarta più comune al mondo ed è seconda solo alla neoplasia polmonare come
causa di mortalità. Nel 2007, il carcinoma gastrico è stato responsabile di un numero stimato di nuovi
casi superiore a 1 milione e di 800.230 decessi, con il 60% dei nuovi casi che si sono verificati nei
Paesi in via di sviluppo. L’infezione cronica o ricorrente da H. pylori è la principale causa di gastrite
cronica e di ulcera peptica, e aumenta il rischio di sviluppare il linfoma gastrico e il carcinoma dello
stomaco distale. Le cause reali del declino mondiale dell’incidenza di neoplasie gastriche, nelle
passate decadi, non sono note, ma si ritiene che esse comprendano miglioramenti nella dieta e nella
conservazione dei cibi, e un declino dell’infezione da H. pylori dovuto a un generale miglioramento
delle condizioni sanitarie e a un aumentato impiego di antibiotici (Box e3.8). L’eliminazione di H.
pylori in portatori asintomatici è stata proposta come metodo potenziale di prevenzione della
neoplasia gastrica.
Box e3.8. Effetto della refrigerazione dei cibi sull’incidenza del carcinoma gastrico
Nei Paesi occidentali l’incidenza del carcinoma gastrico, una tempo molto comune, è drasticamente
diminuita tra il 1950 e il 1990, apparentemente senza alcun specifico intervento ma in
corrispondenza di un’aumentata disponibilità della refrigerazione degli alimenti. Dopo la fine del
secolo, nuovi metodi di lavorazione e refrigerazione hanno portato a un’enorme varietà di alimenti
disponibili nei Paesi sviluppati. Il carcinoma gastrico rimane una delle neoplasie più comuni nei
Paesi in via di sviluppo e sembra essere associato alla dieta, specialmente a un elevato consumo di
cibi sotto sale. L’uso della refrigerazione può essere inversamente correlato all’uso della salatura, di
altri metodi di conservazione degli alimenti che utilizzino il sale, come salatura e affumicatura, e
alla quantità di sale nella dieta. Il declino della mortalità da neoplasie dello stomaco, del fegato e
del retto è stato attribuito all’aumentato impiego della refrigerazione e alla diminuzione dell’uso di
metodi più antichi di conservazione dei cibi. L’uso a lungo termine della refrigerazione è stato
dimostrato dimezzare il rischio di neoplasia gastrica, mentre il rischio è risultato elevato in coloro
che da bambini non hanno avuto la possibilità di conservare i cibi con il freddo. La valutazione di
studi di coorte e di casi-controlli (1980-1990) ha rilevato un rischio consistentemente aumentato di
neoplasia gastrica in condizioni di rifornimento idrico non centralizzato (specialmente acqua di
pozzo), elevata assunzione di sale e tardiva disponibilità di impianti frigoriferi. Il punto di vista
condiviso è che il declino dell’incidenza della neoplasia gastrica nei Paesi sviluppati sia attribuibile
alla migliorata igiene degli alimenti e all’aumentata disponibilità di impianti frigoriferi e, forse,
anche alla transizione nei metodi di conservazione degli alimenti dalla salatura alla refrigerazione.
Da: Bode A.M. et al.: Cancer prevention research – then and now. Nature Rev. Cancer 9: 508-516,
2009; modificato.
48
Tipi di prevenzione
La forma migliore di trattamento della neoplasia è la prevenzione e la malattia da prevenire è la
cancerogenesi. All’epoca della diagnosi, anche con le tecnologie avanzate attualmente disponibili,
oltre il 90% della vita biologica della neoplasia è trascorsa ed è stata persa la possibilità più efficace di
controllare il processo maligno. La prevenzione è distinta in primaria, secondaria e terziaria. La
prevenzione primaria mira alla fase di iniziazione della neoplasia e si pone come obiettivo globale la
riduzione della comparsa della malattia. La prevenzione primaria è indirizzata a individui normali e
asintomatici. Principali strategie di riduzione del rischio comprendono la cessazione dell’abitudine al
fumo, la riduzione dell’esposizione solare, l’aumento dell’attività fisica, i cambiamenti nella dieta e la
riduzione dell’assunzione di alcol. A seguito della crescente identificazione di alterazioni genetiche
ereditarie che predispongono i portatori allo sviluppo della neoplasia, questi individui sono stati
identificati come il bersaglio per interventi primari quali la chirurgia profilattica. Anche la
mammografia annuale di screening in donne di età superiore a 50 anni e la cessazione dell’abitudine
al fumo o la chemioprevenzione in fumatori asintomatici sono esempi di prevenzione primaria mirata.
Altri esempi di interventi primari sono il recente impiego di vaccini contro l’infezione da HPV e la
vaccinazione contro l’HBV. Oltre alla mammografia, altre modalità di screening ben accette sono la
pan-colonscopia e il Pap-test.
Di recente, la chemioprevenzione è emersa come una nuova modalità medica per la prevenzione
primaria delle neoplasie. Essa prevede l’utilizzo di agenti farmacologici per prevenire, sopprimere o
revocare lo sviluppo della neoplasia. Il suo razionale scientifico è basato sul concetto fondamentale di
cancerogenesi, un processo a lunga evoluzione e a più fasi (durata fino a 20 o più anni) che porta allo
sviluppo di un carcinoma invasivo. Agenti per la chemioprevenzione sono sottoposti a valutazione per
la loro capacità di interrompere attività biologiche in fasi differenti del processo della cancerogenesi,
con l’obiettivo globale di ridurre l’incidenza delle neoplasie. Agenti promettenti approdano alla
sperimentazione clinica solo dopo che dati sufficienti siano stati raccolti in studi epidemiologici, di
laboratorio e nell’animale da esperimento. In maniera del tutto simile alla tradizionale ricerca clinica,
agenti per la chemioprevenzione sono sottoposti alla valutazione della sicurezza e dell’efficacia
nell’ambito di studi di fase I, II e III (Tab. e3.12). In oncologia, gli studi di chemioprevenzione
differiscono da quelli terapeutici per diversi aspetti chiave, quali la popolazione dello studio, gli
agenti e la misura di efficacia (end point). La popolazione appropriata per questo tipo di studi è
costituita da individui apparentemente sani, ma che possono essere a rischio aumentato di sviluppare
una neoplasia a causa dell’esposizione a cancerogeni o di una suscettibilità genetica. Questo gruppo
può comprendere individui che hanno uno stile di vita ad alto rischio, delle lesioni preneoplastiche
oppure sono stati precedentemente trattati e guariti per una neoplasia e presentano un rischio
aumentato di sviluppare una ricaduta oppure un secondo primitivo. La classificazione di agenti per la
chemioprevenzione è difficile a causa del fatto che i meccanismi di azione non sono sempre
conosciuti. In generale, gli agenti potenziali possono essere classificati in due ampie categorie: agenti
bloccanti e agenti soppressori. Gli agenti bloccanti sono composti che inibiscono le fasi più precoci
della cancerogenesi, mentre gli agenti soppressori bloccano l’evoluzione delle cellule pretumorali in
un carcinoma invasivo, negli stadi più avanzati della cancerogenesi. L’incidenza della neoplasia è
considerata la misura di efficacia definitiva nell’ambito della chemioprevenzione ed è valutata nel
contesto di grandi studi randomizzati di fase III. Gli studi di fase II si concentrano su misure
intermedie capaci di predire lo sviluppo della neoplasia, le quali sono rappresentate da biomarcatori
clinici, istologici, biochimici e molecolari, in grado di misurare processi biologici normali, sottili
mutamenti nella cancerogenesi o risposte farmacologiche. Sebbene nessun biomarcatore sia ancora
stato validato, le ricerche in corso continuano a essere una priorità nel campo della
chemioprevenzione. Solo pochi agenti per la chemioprevenzione delle neoplasie sono stati approvati
per l’impiego clinico; tra questi vi è il tamoxifene, che è stato approvato per la riduzione del rischio di
carcinoma mammario in donne ad alto rischio.
49
Tab. e3.12. Confronto delle caratteristiche degli studi di chemioprevenzione.
Fase
I
Scopo
Stabilire la dose più sicura con
tossicità minima o assente
IIa
Valutazione preliminare di end
point intermedi (surrogati di
incidenza della neoplasia)
IIb
Conferma della modulazione di
end point intermedi (surrogati di
incidenza della neoplasia)
III
Determinare l’effetto dell’agente
sull’incidenza della neoplasia
Disegno
• Incremento di dose
• Breve durata (fino a 6 mesi)
• Arruolamento di 15-30
soggetti ad alto rischio di
sviluppare una neoplasia
• Incremento di dose per
determinare quella più bassa e
meno tossica che mantiene
l’attività biologica
• Breve durata (6-12 mesi)
• Arruolamento di 30-100
soggetti ad alto rischio di
sviluppare una neoplasia
• Randomizzato
• Placebo controllato
• Doppio cieco (quando
possibile)
• Lungo follow-up (5-10+ anni)
• Arruolamento di centinaia
fino a molte migliaia di
soggetti ad alto rischio di
sviluppare una neoplasia
• Randomizzato
• Placebo controllato
• Doppio cieco
Da: Smith J.J. et al.: Chemoprevention: a primary cancer prevention strategy. Semin. Oncol.
Nurs. 21: 243-251, 2005.
La prevenzione secondaria mira alla fase di promozione della cancerogenesi. Una volta che il
mutamento iniziale del genotipo si è verificato, esiste una probabilità che il processo maligno
evolverà, alla fine, in una neoplasia. La prevenzione secondaria è definita come la diagnosi e il
trattamento precoci della malattia prima della comparsa di segni o sintomi. La prevenzione secondaria
attraverso lo screening appropriato di individui asintomatici è in grado di produrre diminuzioni
significative nella morbilità e mortalità legate alle neoplasie. Le neoplasie per le quali uno screening è
appropriato hanno diverse caratteristiche (Box e3.9). Nella Tabella e3.13 sono presentate le
raccomandazioni formulate dall’American Cancer Society per lo screening di neoplasie in individui
asintomatici con rischio intermedio.
50
Box e3.9. Caratteristiche delle neoplasie per le quali è appropriato lo screening
•
•
•
•
•
La neoplasia deve presentare un chiaro pericolo per morbilità e mortalità se non diagnosticata.
La neoplasia deve avere una fase preclinica che abbia prevalenza e incidenza elevate come pure
una storia naturale e una biologia che possano essere predette. In altri termini, la neoplasia deve
verificarsi abbastanza di frequente ed essere presente a un tasso significativo per giustificare lo
screening di una popolazione asintomatica.
Deve essere disponibile un trattamento efficace per la neoplasia in fase iniziale, in modo che
una diagnosi precoce porti a un trattamento che diminuirà la mortalità per la malattia.
Il test di screening deve essere accessibile e ben accetto sia dal paziente sia dal curante, in modo
che possa essere ottenuta l’adesione allo screening.
Dovrebbe essere possibile somministrare il test a una popolazione asintomatica in maniera
costo-efficace.
Tab. e3.13. Raccomandazioni dell’ACS per la diagnosi precoce di neoplasie in individui a rischio
intermedio, asintomatici.
Sede della
neoplasia
Mammella
Colon-retto
Popolazione
Test o procedura
Frequenza
Donne
età ≥ 20 anni
Autopalpazione
Esame clinico del seno
Uomini e donne età ≥
50 anni
Mammografia
Sangue occulto fecale
(SOF)
Sigmoidoscopia
Almeno ogni 3 anni se età
di 20-30 anni
Preferibilmente annuale se
età ≥ 40 anni
Annuale dall’età di 40 anni
Annuale dall’età di 50 anni
SOF e sigmoidoscopia
oppure
clisma a doppio
contrasto
oppure
colonscopia
TC colongrafia
Prostata
Uomini
età ≥ 50 anni
Esame digitale rettale e
valutazione del PSA
Cervice
Donne
età ≥18 anni
Test di Papanicolaou
(Pap-test)
Ogni 5 anni dall’età di 50
anni
Ogni 5 anni dall’età di 50
anni
Ogni 10 anni dall’età di 50
anni
Ogni 5 anni dall’età di 50
anni
Annuale dall’età di 50 anni
se aspettativa di vita di
almeno 10 anni
Tre anni dopo l’inizio dei
rapporti sessuali, ma non
oltre età di 21 anni. Ogni
2-3 anni se età ≥ 30 anni e
3 test normali in fila
ACS: American Cancer Society.
Da: Smith R.A. et al.: Cancer screening in the United States, 2009: a review of current American
Cancer Society guidelines and issues in cancer screening. CA Cancer J. Clin. 59: 27-41, 2009;
modificata.
La prevenzione terziaria rappresenta un tentativo di diagnosticare precocemente le neoplasie. Una
diagnosi precoce, nella quale le neoplasie siano diagnosticate a seguito di visite di controllo per segni
51
o sintomi, è classificata come prevenzione terziaria ed è divenuta parte integrante della pratica
dell’oncologia clinica. La chemioprevenzione di una seconda neoplasia primitiva in un individuo che
ha avuto un precedente tumore rappresenta anch’essa una forma di prevenzione terziaria.
Aspetti di metodologia clinica in oncologia
Sperimentazione clinica in oncologia
Gli studi clinici sono esperimenti per determinare il valore dei trattamenti. In oncologia, l’uso di studi
clinici è simile a quello di discipline mediche che studiano prevenzione, farmaci e dispositivi. Negli
stadi precoci di sviluppo di nuove terapie, i ricercatori clinici valutano l’evidenza riguardante
trattamenti correlati e conducono studi clinici non comparativi con la terapia sperimentale. La
transizione dal laboratorio alla clinica è guidata da piccoli studi mirati piuttosto che da studi clinici di
grandi dimensioni. Gli studi traslazionali sono esperimenti di dimensione limitata e possono essere il
tipo più comune di studi clinici condotti. La metodologia degli studi traslazionali non è stata
pienamente formulata in letteratura e spesso si è detto che la tradizionale linea di demarcazione tra il
laboratorio e la clinica sia lo studio di fase I. In realtà, l’interfaccia tra ricerca di laboratorio e sviluppo
clinico è costituita dagli studi traslazionali. L’esito (outcome) in uno studio traslazionale è un
marcatore biologico (target), che può richiedere una validazione quale parte integrante dello studio.
Non si tratta di un esito surrogato, poiché esso non è usato per valutare il beneficio clinico, sebbene
possa anticipare quesiti successivi a esso relativi. L’azione del trattamento sul target definisce quelli
che saranno i successivi passi sperimentali da intraprendere. In particolare, l’assenza di un
cambiamento positivo del target è indice di inattività del trattamento. Pertanto, l’esito biologico di
uno studio traslazionale può fornire un’evidenza definitiva nel contesto del paradigma accettato della
specifica malattia e del relativo trattamento. Buoni segnali biologici potrebbero essere basati su un
cambiamento nei livelli di una proteina, nell’espressione di un gene o nell’attività di un enzima. Le
caratteristiche fondamentali di uno studio traslazionale sono descritte nella Tabella e3.14. Occorre
però sottolineare che esistono limitazioni degne di nota in questi disegni di studio: una è la mancanza
di una dimostrata validità clinica dell’esito, mentre un’altra è rappresentata dalle scadenti proprietà
statistiche delle stime effettuate su campioni di piccole dimensioni.
Tab. e3.14. Caratteristiche fondamentali di uno studio traslazionale.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Lo studio è fondato su un’evidenza preclinica promettente
L’algoritmo di trattamento di una specifica neoplasia può essere cambiato
La valutazione del trattamento e del marcatore biologico (target) è pienamente specificata in un
protocollo di studio
La valutazione dipende da uno o più target biologici che forniscano l’evidenza definitiva di un
effetto meccanicistico
L’esito è misurabile con un piccolo livello di incertezza. La validazione del target può anche
essere un obiettivo dello studio, nel qual caso l’imprecisione nella misurazione dell’esito
potrebbe anche rappresentare un fallimento
Si cercano grandi effetti sul target sotto studio
Il protocollo definisce chiaramente “l’assenza di effetto” sul target
Il protocollo specifica le successive valutazioni sperimentali da intraprendere in relazione a un
qualunque possibile esito dello studio
Lo studio è dimensionato per guidare ulteriori esperimenti ma non necessariamente per
produrre una forte evidenza statistica
Da: Piantadosi S. et al.: Biostatistics and bioinformatics in clinical trials. In: Abeloff’s clinical
oncology. 4th ed. 2008, vol. 1, p. 311; modificata.
52
Gli studi clinici focalizzati sulla valutazione della relazione tra dose e sicurezza di nuovi farmaci o
agenti biologici sono spesso denominati studi di fase I. Il loro scopo è quello di studiare la
distribuzione, il metabolismo, l’escrezione, la tossicità e, nel caso di farmaci citotossici, determinare
la dose associata con effetti collaterali tollerabili e reversibili. Gli studi di fase I sono spesso condotti
in pazienti oncologici che sono già stati trattati con le terapie ritenute “standard” per la loro specifica
neoplasia. Le caratteristiche del disegno classico di fase I sono le seguenti: (1) predefinizione di una
piccola serie di dosi del farmaco da valutare; (2) trattamento di un piccolo numero (per es. 3) di
pazienti per ciascuna dose con monitoraggio della tossicità; (3) regole decisionali per interrompere lo
studio sulla base degli esiti clinici; (4) regole decisionali per incrementare o ridurre la dose in coorti
successive di pazienti. Spesso pochi pazienti addizionali sono studiati alla dose finale, con un numero
totale di pazienti trattato che è generalmente inferiore a 25-30. Questo tipo di disegno riduce certi
problemi di carattere pratico ed etico connessi alla somministrazione nell’uomo di agenti con
proprietà sconosciute; esso tende però a trattare numeri relativamente maggiori di pazienti alle dosi
più basse (inefficaci). Queste caratteristiche tendono a selezionare dosi conservative da utilizzare nella
successiva valutazione di fase II. Disegni migliorati di fase I sono stati proposti per correggere tali
problemi. In alcuni di questi disegni, le dosi non sono predefinite ma vengono determinate sulla scorta
dei risultati ottenuti nel corso dello studio e di un modello matematico della curva dose-tossicità. La
dimensione finale della popolazione studiata, pertanto, non è fissata in anticipo ma dipende dalle
tossicità osservate.
Dopo la fase I, gli studi che si focalizzano sulla dimostrazione di sicurezza e di attività di un nuovo
trattamento sono, convenzionalmente, detti di fase II. Il quesito principale al quale dare risposta in
questo stadio dello sviluppo è se o meno il nuovo trattamento è abbastanza promettente da giustificare
una valutazione comparata con la terapia standard nell’ambito di un grande studio di fase III, ossia di
uno studio rigoroso con un gruppo interno di controllo. In tale fase intermedia dello sviluppo, il
disegno di studio generalmente adottato è quello che prevede una singola coorte di pazienti con un
gruppo esterno di controllo. Il confronto con il gruppo di controllo è basato sulla letteratura, sulla
precedente esperienza del ricercatore o sull’opinione condivisa di ciò che costituisca un livello utile di
attività per una data malattia. Gli studi di fase II fanno uso, di solito, di esiti clinici surrogati in luogo
di quelli definitivi quali la sopravvivenza. Esiti surrogati sono scelti poiché, idealmente, possono
essere conosciuti subito dopo il trattamento, possono essere misurati facilmente e accuratamente e
sono ritenuti informativi rispetto a successivi esiti definitivi. La regressione tumorale, espressa come
tasso di risposta, è un classico esito surrogato di attività nella fase II, dove, sulla base del modello
citotossico, implica la distruzione delle cellule tumorali. Sfortunatamente, la regressione tumorale è
un cattivo surrogato della sopravvivenza. Inoltre, alcune terapie non inducono una significativa
regressione tumorale come quella attesa nell’usuale modello citotossico. A tale riguardo, un esempio
può essere quello di agenti con meccanismo citostatico. Due tipi di disegno sono comunemente
utilizzati per gli studi di fase II: quello con dimensione fissa del campione e quello a stadi. Negli studi
con dimensione fissa del campione, il numero dei soggetti da studiare è stabilito in anticipo; il disegno
a stadi utilizza invece una valutazione del trattamento dopo che siano stati arruolati gruppi
numericamente predefiniti di pazienti, consentendo un’interruzione precoce dell’arruolamento se si
osservano tassi di risposta elevati o bassi. Eccellenti disegni di studio possono essere ottenuti con
soltanto due stadi di arruolamento della casistica.
Lo stadio finale dello sviluppo clinico è lo studio di fase III. In generale, il disegno di questi studi
prevede l’assegnazione casuale (randomizzazione) di un gran numero di pazienti, portatori di uno
specifico tipo di neoplasia, al trattamento sperimentale o a quello standard (gruppo interno di
controllo), se ne esiste uno, oppure a placebo. Gli studi di fase III tentano di fornire una guida che
aiuti gli oncologi medici ad assumere decisioni terapeutiche, basate su prove oggettive, nella gestione
dei pazienti. Di conseguenza, gli esiti da valutare in questi studi sono quelli che misurano direttamente
lo stato di benessere del paziente. Sopravvivenza e controllo dei sintomi rappresentano due di questi
esiti, anche se l’ultimo non è utilizzato di routine a causa delle difficoltà di misurazione in maniera
affidabile e del fatto che possa essere influenzato da trattamenti concomitanti. Dal momento che i
53
risultati di fase III devono essere applicabili a pazienti osservati nella comune pratica clinica, è
importante che i criteri di eleggibilità dei pazienti non siano troppo selettivi, riducendo così la
possibilità di generalizzare le conclusioni dello studio.
Criteri di stadiazione delle neoplasie
L’estensione anatomica della malattia è uno dei tre assi principali della classificazione delle neoplasie,
mentre gli altri due sono rappresentati dalla sede topografica e dall’istotipo. La stadiazione fornisce un
formato per lo scambio uniforme di informazioni tra i clinici sull’estensione di malattia nonché una
base per la scelta degli approcci terapeutici iniziali e per giudicare se vi sia la necessità o meno di un
trattamento adiuvante. Per i ricercatori clinici, la stadiazione consente la stratificazione dei pazienti
nell’ambito degli studi osservazionali e di quelli terapeutici e facilita lo scambio di informazioni
attraverso la raccolta di dati e la letteratura scientifica. La stadiazione fornisce un mezzo per la
valutazione di fattori prognostici di tipo non anatomico nell’ambito di specifici stadi anatomici.
Infine, la stadiazione può anche essere utilizzata per misurare gli sforzi indirizzati alla diagnosi
precoce (per es. per vedere quale impatto potrebbe avere lo screening sulla distribuzione in stadi di
una neoplasia al momento della diagnosi).
La classificazione internazionale TNM, formulata congiuntamente dall'International Union Against
Cancer e dall'American Joint Committee on Cancer, descrive l’estensione anatomica di una neoplasia
nel paziente ed è basata sulla premessa che la scelta del trattamento e la probabilità di sopravvivenza
siano connesse all’estensione del tumore a livello della sede di origine (T), alla presenza o assenza del
tumore nei linfonodi regionali (N), e alla presenza o assenza di metastasi al di là dei linfonodi
regionali (M; Tab. e3.15). Le neoplasie devono essere classificate prima del trattamento (stadiazione
clinica – cTNM) e dopo l’intervento chirurgico (stadiazione patologica – pTNM). Il T è generalmente
diviso in quattro parti principali (da T1 a T4), che esprimono l’aumento di dimensione o di diffusione
del tumore primitivo. L’N e l’M comprendono almeno due categorie ciascuno (0 e 1, ossia assenza o
presenza di tumore). Diverse sedi anatomiche presentano delle sottocategorie, con fino a quattro
suddivisioni di T1 e T4 e sei suddivisioni di pN1 nel carcinoma mammario, e tre suddivisioni dell’M
nel carcinoma prostatico. La classificazione mediante il sistema TNM ottiene una descrizione e
registrazione ragionevolmente precise dell’estensione apparente della malattia nel paziente. Tuttavia,
una neoplasia con quattro gradi per il T, tre gradi per l’N e due gradi per l’M presenterà
complessivamente 24 categorie TNM. Ai fini della tabulazione e dell’analisi dei dati, eccetto nelle
casistiche molto ampie, è necessario condensare queste categorie in un numero conveniente di gruppi
di stadio TNM. Il raggruppamento adottato deve assicurare che ciascun gruppo sia omogeneo rispetto
alla sopravvivenza e che i tassi di sopravvivenza di questi gruppi specifici per ciascuna sede tumorale
siano caratteristici (per es. pazienti con neoplasie in stadio I generalmente sopravvivono alla malattia;
quelli in stadio IV generalmente soccombono alla malattia). L’importanza della stadiazione nella
gestione del paziente non può essere troppo enfatizzata. Il ruolo principale della stadiazione è quello
di stratificare i pazienti in gruppi che siano simili dal punto di vista prognostico e terapeutico. Senza
questa cornice di riferimento, sarebbe difficile avere studi clinici significativi. Un secondo scopo della
stadiazione è quello di consentire un confronto attraverso grandi popolazioni entro confini geopolitici
o tra Paesi diversi. Dal momento che l’attuale strategia di stadiazione anatomica (TNM) rappresenta
uno standard mondiale, questa opportunità di confronto diventa ancora più importante. In terzo luogo,
la stadiazione consente di avere una cornice di riferimento per la discussione, specialmente tra i clinici
direttamente coinvolti nel trattamento dei pazienti. Una delle critiche rivolte alla sesta edizione (la
settima è stata pubblicata nel 2010) del sistema TNM è stata quella che esso potesse essere troppo
semplice da un punto di vista biologico. È noto che, generalmente, una neoplasia crescerà a livello
locale e si espanderà in modo locoregionale. A seguito di questa crescita locale, può esserci o meno
un coinvolgimento ordinato dei linfonodi regionali, sebbene i meccanismi di tale diffusione non siano
stati ancora del tutto elucidati. Infine, le neoplasie diffondono ai visceri e possono o meno interessare
le strutture linfovascolari circostanti. La biologia della maggior parte delle neoplasie è certamente più
complessa di questa semplice cornice di riferimento, sebbene la base del sistema TNM abbia retto alla
54
prova del tempo. Gli elementi fondamentali e la combinazione di questi elementi (gruppi di stadio
specifici per neoplasie di particolari sedi anatomiche) servono come uno dei più importanti fattori
prognostici nel formulare ipotesi sulla sopravvivenza globale del paziente oncologico. Una
definizione di fattore prognostico è quella che esso “serva come una variabile in grado di spiegare un
po’ dell’eterogeneità associata con l’andamento e l’esito attesi di una malattia”. Questo fattore ha un
ruolo nella previsione della prognosi di uno specifico paziente oncologico, ma deve essere modificato
e modulato da altri importanti fattori biologici che, nel frattempo, siano stati sottoposti a valutazione.
Una delle difficoltà incontrate nella creazione della sesta edizione del sistema TNM è stata quella di
riesaminare e di classificare tutte le variabili prognostiche che erano state pubblicate per una data sede
di neoplasia. Insieme a fattori relativi alla neoplasia, è importante considerare fattori specifici
dell’ospite. L’età del paziente e lo stato menopausale si sono naturalmente dimostrati importanti,
poiché sono specificamente collegati al ruolo di marcatori ormonali. Oltre a fattori dell’ospite quali
età e storia riproduttiva, la storia familiare e fattori molecolari (per es. l’instabilità dei microsatelliti)
continueranno a essere importanti fattori prognostici. Altri fattori, quali lo stato immunitario e
l’obesità, hanno anche un ruolo da giocare nella prognosi di alcune forme di neoplasia.
Tab. e3.15. Sistema di classificazione TNM.
Categoria
Tumore primitivo (T)
TX
T0
Tis
T1, T2, T3, T4
Linfonodi regionali (N)
NX
N0
N1, N2, N3
Metastasi a distanza (M)
MX
M1
M2
Grading istologico (G)
GX
G1
G2
G3
G4
Tumore residuo (R)
RX
R0
R1
R2
Descrizioni aggiuntive
cTNM
pTNM
rTNM
aTNM
Definizione
Il tumore primitivo non può essere definito
Non segni di tumore primitivo
Carcinoma in situ
Aumento delle dimensioni e/o dell’estensione locale del tumore primitivo
I linfonodi regionali non possono essere definiti
Non metastasi nei linfonodi regionali
Aumento dell’interessamento dei linfonodi regionali
La presenza di metastasi a distanza non può essere accertata
Non metastasi a distanza
Metastasi a distanza
Il grading non può essere definito
Ben differenziato
Moderatamente differenziato
Poco differenziato
Indifferenziato
La presenza di tumore residuo, dopo trattamento, non può essere accertata
Non vi sono residui tumorali
Residui tumorali microscopici
Residui tumorali macroscopici
Stadio TNM clinico
Stadio TNM patologico
Stadio TNM di un tumore recidivato
Stadio TNM definito al riscontro autoptico
Da: Badellino F.: TNM Classificazione dei tumori maligni. Prontuario per la stadiazione, 6a ed. Minerva
Medica, Torino, 2003.
55
Fattori prognostici e predittivi
Fattori prognostici e predittivi sono entrambi di grande rilevanza nel processo decisionale relativo alla
scelta terapeutica al fine di individualizzare il trattamento, ma hanno ruoli distinti. Fattori prognostici
e predittivi possono essere derivati dalle caratteristiche del paziente oppure dal tipo di neoplasia. I
fattori prognostici intendono prevedere in maniera obiettiva e autonoma l’esito clinico del paziente
indipendentemente dal trattamento, mentre i fattori predittivi hanno lo scopo di predire la risposta di
un paziente a uno specifico intervento terapeutico e sono associati alla sensibilità o alla resistenza a
quella terapia. I fattori prognostici di necessità richiedono una definizione nell’ambito di coorti di
pazienti che non siano sottoposti a trattamento sistemico adiuvante (Tab. e3.16). La sfida più
importante per la classificazione TNM è l’interfacciarsi con il gran numero di fattori prognostici non
anatomici che sono attualmente in uso o in corso di valutazione (Tab. e3.17).
Tab. e3.16. Definizione di categorie di rischio di ricaduta per pazienti operate di
carcinoma mammario invasivo.
Categoria di rischio
Rischio basso
Rischio intermedio
Rischio alto
Gruppo di fattori prognostici
Linfonodi ascellari negativi e tutte le seguenti caratteristiche:
pT ≤ 2 cm
Grado 1
Assenza di estesa invasione vascolare peritumorale
ER e/o PgR espressi
Nessuna iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu
Età ≥ 35 anni
Linfonodi ascellari negativi e almeno una delle seguenti
caratteristiche:
pT > 2 cm
Grado 2-3
Presenza di estesa invasione vascolare peritumorale
ER e PgR assenti
Iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu
Età < 35 anni
Linfonodi ascellari positivi (1-3 linfonodi interessati) e tutte le
seguenti caratteristiche:
ER e/o PgR espressi
Nessuna iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu
Linfonodi ascellari positivi (1-3 linfonodi interessati) e almeno una
delle seguenti caratteristiche:
ER e PgR assenti
Iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu
Linfonodi ascellari positivi (≥ 4 linfonodi interessati)
ER: recettore per gli estrogeni; PgR: recettore per il progesterone; pT: dimensione
patologica del tumore primitivo.
Da: Goldhirsch A. et al. Progress and promise: highlights of the International expert
consensus on the primary therapy of early breast cancer 2007. Ann. Oncol. 18: 11331144, 2007; modificata.
56
Tab. e3.17. Esempi scelti di fattori prognostici essenziali, aggiuntivi e nuovi per il carcinoma
colo-rettale.
Categoria
Essenziali
Aggiuntivi
Nuovi e promettenti
Tipo di fattore prognostico
Categorie T, N, M
Grado istologico
Invasione venosa extramurale
Occlusione
Qualità della chirurgia
Grado
Perforazione tumorale
Invasione perineurale
Pattern invasivo
Reazione linfoide peritumorale
Tipo midollare
Livelli circolanti di CEA
Numero di linfonodi resecati
Instabilità dei microsatelliti
LOH 18q
P53
Ploidia
Espressione del VEGF
Numero di copie di 20q
Cariotipo
(Altri)
CEA: antigene carcinoembrionale; LOH 18q: perdità di eterozigosità del braccio lungo del
cromosoma 18; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor.
Da: Greene F.L. et al.: The staging of cancer: a retrospective and prospective appraisal. CA Cancer J.
Clin. 58: 180-190, 2008; modificata.
I fattori predittivi possono essere il bersaglio di una specifica terapia. Per esempio, il recettore tirosinchinasico codificato dall’oncogene HER2/neu è il bersaglio dell’anticorpo monoclonale trastuzumab e
l’amplificazione dell’oncogene è predittiva di risposta favorevole alla terapia anti-HER2 nel
carcinoma mammario. È importante notare che lo stato di HER2 è anche un indicatore prognostico e,
come molti fattori, ha un significato misto prognostico/predittivo. Similmente il Ki67, una proteina
nucleare non istonica universalmente espressa da cellule in attiva proliferazione e assente in cellule
quiescenti, è un marcatore di proliferazione che mostra un forte effetto prognostico, ma sembra anche
capace di predire una risposta favorevole alla chemioterapia sistemica nel carcinoma mammario. In
generale, i marcatori prognostici aiutano a stabilire se un paziente richieda o meno un trattamento,
mentre un fattore predittivo è utile per decidere quale sia il trattamento migliore.
Recentemente si è assistito a un aumento nella formulazione di combinazioni di marcatori per definire
prognosi specifiche per tipo di trattamento (Tab. e3.18). Questo aspetto è di interesse speciale per
definire il rischio residuo di ricaduta quando un paziente è trattato in un modo specifico e per valutare
l’importanza potenziale di ulteriori opzioni terapeutiche. Per esempio, grandi sforzi, specialmente a
livello del trascrittoma (l’intero set di molecole di RNA prodotte in una cellula o in una popolazione
cellulare), sono stati fatti per discriminare quali pazienti con carcinoma mammario in fase precoce ed
ER-positivo possano beneficiare realmente dell’aggiunta della chemioterapia adiuvante e quali di
esse, invece, possano evitare il trattamento chemioterapico e i suoi effetti collaterali.
57
Tab. e3.18. Indicazioni relative alla chemioendocrinoterapia adiuvante nel carcinoma mammario ERpositivo e HER2-negativo.
Caratteristica
patologica
Grado istologico
Proliferazione2
Fattori a favore di
CT + ET
Livello di espressione
più basso di ER e PgR
G3
Elevata
Linfonodi
ascellari
PVI
pT
Positivi
(≥ 4N+)
Presenza di estesa PVI
> 5 cm
ER e PgR1
Fattori non utili per
la decisione
–
G2
Intermedia
Positivi
(1-3N+)
Fattori a favore di sola
ET
Livello di espressione più
alto di ER e PgR
G1
Bassa
Negativi
–
2,1-5 cm
Assenza di estesa PVI
≤ 2 cm
CT: chemioterapia; ER: recettore per gli estrogeni; ET: endocrinoterapia; PgR: recettore per il
progesterone; pT: dimensione patologica del tumore; PVI: invasione vascolare peritumorale.
All’immunoistochimica una colorazione per i recettori in ≥ 50% delle cellule tumorali può essere
considerata indicativa di neoplasia altamente responsiva all’endocrinoterapia.
1
Misure convenzionali di proliferazione comprendono l’indice di marcatura del Ki67 (per es. basso, ≤
15%; intermedio, 16-30%; elevato, > 30%) e la descrizione patologica della frequenza di mitosi.
2
Da: Goldhirsch A. et al.: Thresholds for therapies: highlights of the St Gallen International Expert
Consensus on the primary therapy of early breast cancer 2009. Ann. Oncol. 20: 1319-1329, 2009;
modificata.
Criteri di valutazione della risposta al trattamento
Nel 1981 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fu la prima a pubblicare criteri di risposta
alle terapie antitumorali. Secondo questi criteri, la risposta completa implica la scomparsa di tutta la
malattia misurabile e valutabile, nonché di ogni segno, sintomo e mutamento biochimico indotti dalla
malattia per almeno 4 settimane, durante le quali non può comparire alcuna nuova lesione. La risposta
parziale implica una riduzione superiore al 50% nella somma dei prodotti dei due diametri
perpendicolari di tutte le lesioni misurabili (rispetto alle misure pretrattamento) per almeno 4
settimane, durante le quali non può comparire alcuna nuova lesione e nessuna lesione esistente può
ingrandirsi. La malattia stabile presenta una riduzione inferiore al 50% oppure un incremento inferiore
al 25% nella somma dei prodotti dei due diametri perpendicolari di tutte le lesioni misurabili e la non
comparsa di nuove lesioni per 8 settimane. La progressione o ricaduta è definita come un incremento
nel prodotto dei due diametri perpendicolari di qualsiasi lesione misurabile maggiore del 25% rispetto
alla dimensione che essa presenta pretrattamento o, nel caso di pazienti che rispondono, rispetto alla
dimensione raggiunta al momento della massima regressione oppure la comparsa di nuove lesioni (di
solito escludendo le metastasi del sistema nervoso centrale). Un deterioramento dello stato di validità,
una perdita superiore al 10% del peso pretrattamento oppure un peggioramento dei sintomi non
costituisce una progressione; tuttavia, la loro comparsa dovrebbe indurre ad avviare una rivalutazione
dell’estensione di malattia.
I criteri di risposta dell’OMS sono stati sostituiti nel 2000 dai criteri RECIST (Response Evaluation
Criteria in Solid Tumors). Le caratteristiche salienti di questi nuovi criteri sono la definizione della
dimensione minima delle lesioni misurabili, le istruzioni su quante lesioni valutare e l’utilizzo di
misure unidimensionali, anziché bidimensionali, per la valutazione globale del carico tumorale (Tab.
e3.19). Nel 2009 è stata pubblicata una versione aggiornata dei criteri RECIST. Le principali
58
modifiche introdotte riguardano il numero di lesioni target da valutare, la definizione di linfonodo
patologico, la conferma della risposta, la definizione della progressione di malattia, una guida su ciò
che rappresenta una progressione inequivocabile della malattia non target e, infine, un algoritmo per
l’interpretazione di nuove lesioni, rilevate in corso di terapia mediante la FDG-PET, ai fini della
valutazione della progressione.
Tab. e3.19. Criteri di risposta RECIST: versioni originale e aggiornata.
Caratteristica
Misurabilità
delle lesioni
pretrattamento
Risposta
obiettiva
RECIST1
versione 1.0
1. Lesione target: misurabile,
unidimensionale (solo DLM,
dimensioni ≥ 20 mm con tecniche
convenzionali o ≥ 10 mm con TC
spirale)
2. Lesione non target: tutte quelle
non misurabili, comprese quelle
piccole
1. Lesioni target: variazioni nella
somma dei DLM, per un massimo
di 5 per organo e fino a 10 in totale
(più di un organo)
RC: scomparsa di tutte le lesioni target
per ≥ 4 settimane
RP: regressione ≥ 30% rispetto alla
condizione di base per ≥ 4 settimane
PRO: aumento ≥ 20% rispetto alla
somma più piccola dei DLM osservata
durante il trattamento o comparsa di
nuove lesioni
Stabilità: né RP né PRO
2. Lesioni non target
RC: scomparsa di tutte le lesioni non
target e normalizzazione dei dei
marcatori tumorali
PRO: progressione inequivocabile delle
lesioni non target esistenti e/o comparsa
di nuove lesioni
Non PRO: persistenza di una o più
lesioni non target e/o marcatori tumorali
sopra la norma
RECIST2
versione 1.1
1. Definizione di linfonodi
patologici: lesione target
(diametro minore ≥ 15 mm)
2. Definizione di linfonodi
patologici: lesione non target
(asse minore ≥ 10 mm e < 15
mm). Linfonodi con diametro
minore < 10 mm sono normali
1. Lesioni target: variazioni nella
somma dei DLM, per un massimo
di 2 per organo e fino a 5 in totale
(più di un organo)
RC: conferma richiesta solo se la
risposta è l’end point primario. Non è
richiesta in studi randomizzati con
braccio di controllo. Il diametro minore
di qualunque linfonodo patologico
(target o non target) deve ridursi a < 10
mm
RP: vedi RC
PRO: oltre ad aumento relativo del
20%, la somma deve anche dimostrare
un aumento assoluto di ≥ 5 mm. Forniti
criteri per classificare le nuove lesioni
rilevate alla FDG-PET durante la terapia
2. Lesioni non target
RC: tutti i linfonodi devono essere non
patologici (diametro minore pari a < 10
mm)
PRO: per una progressione
inequivocabile occorre un livello
globale di peggioramento delle lesioni
non target tale da indurre a ritenere
importante modificare la terapia, anche
in caso di stabilità o RP della malattia
target
DLM: diametro longitudinale maggiore; PRO: progressione; RC: risposta completa; RP: risposta parziale.
1
Da: Therasse P. et al.: New guidelines to evaluate the response to treatment in solid tumors (RECIST
guidelines). J. Natl. Cancer Inst. 92: 205-216, 2000.
2
Da: Eisenhauer E.A. et al.: New response evaluation criteria in solid tumors: revised RECIST guideline
(version 1.1). Eur. J. Cancer 45: 228-247, 2009.
59
Principi di terapia
Aspetti generali di chirurgia oncologica
La chirurgia è stata, dal punto di vista storico, il solo metodo utilizzato nel trattamento delle neoplasie.
Tuttavia, con l’avvento delle radiazioni ionizzanti e lo sviluppo dei farmaci antitumorali, la strategia
terapeutica è progredita rapidamente fino a comportare l’accurata integrazione di un’ampia serie di
opzioni per il trattamento sia delle neoplasie primitive sia delle recidive. A seguito di ciò, il chirurgo
oncologo è divenuto una delle componenti di un gruppo multidisciplinare coinvolto nel trattamento
della maggior parte delle neoplasie solide e nel disegno e nella realizzazione di studi clinici. Esistono
molte ragioni alla base dell’evoluzione della chirurgia oncologica come specialità a sé stante entro la
chirurgia generale, ma le più significative sono le seguenti: (1) la crescente complessità del
trattamento multidisciplinare delle neoplasie; (2) le opportunità di ricerca clinica e di base sulla
biologia della neoplasia; (3) l’aumentato numero di oncologi medici e di radioterapisti in grado di
erodere, in maniera significativa, la figura tradizionale del chirurgo quale coordinatore del trattamento
di pazienti oncologici (anche di quelli con malattia in fase precoce); (4) l’aspettativa dei pazienti che
il chirurgo sia in possesso delle informazioni più aggiornate e delle opzioni terapeutiche più
innovative.
La valutazione per il trattamento chirurgico dovrebbe essere basata sulla diagnosi, confermata
all’esame istologico, di neoplasia confinata ai tessuti locali o regionali. La diagnosi di neoplasia non
può essere dimostrata senza una biopsia, che dovrebbe essere ripetuta se la diagnosi è ambigua.
Notevoli progressi sono stati ottenuti nelle tecnologie di imaging (tomografia computerizzata,
ecografia e risonanza magnetica) per migliorare l’esecuzione e il risultato delle procedure bioptiche.
Attualmente, quattro tecniche sono utilizzate per ottenere un campione tissutale a scopo diagnostico:
(1) biopsia mediante agoaspirato; (2) agobiopsia percutanea; (3) biopsia incisionale; (4) biopsia
escissionale. La tecnica bioptica scelta dovrebbe essere appropriata per la lesione sospetta e dovrebbe
produrre un campione tissutale adeguato per la diagnosi istologica. È importante anche che il chirurgo
mantenga una stretta collaborazione con il patologo. Inoltre, se il paziente presenta una diagnosi
istologica effettuata presso altra istituzione, è sempre necessario avere una conferma della diagnosi.
Può anche essere necessario ottenere blocchi di tessuto per l’allestimento di ulteriori preparati
istologici e per effettuare studi più estesi di marcatori citologici e, occasionalmente, effettuare ulteriori
biopsie per pervenire a una diagnosi definitiva.
La valutazione del rischio chirurgico è basata su diversi fattori. Lo stato fisico del paziente oncologico
e le comorbilità, che spesso si accompagnano alla neoplasia, rappresentano delle sfide specifiche per
l’équipe chirurgica. L’enfasi dovrebbe essere collocata sulla funzionalità fisiologica piuttosto che
sull’età cronologica del paziente. Le scale più utilizzate dagli specialisti in oncologia per la
misurazione dello stato di validità del paziente sono la scala dell’Eastern Cooperative Oncology
Group (ECOG) e quella di Karnofsky. Queste scale sono utili anche ai chirurghi e agli anestesisti per
la determinazione del rischio operatorio. Un confronto tra la scala ECOG e quella di Karnofsky ha
dimostrato che entrambe sono validi indicatori prognostici dello stato funzionale, ma la scala ECOG
sembra leggermente superiore. Nel caso ve ne sia la necessità, ciascuna scala può essere convertita
nell’altra con sufficiente accuratezza (Tab. e3.20). Il paziente oncologico rappresenta un candidato
particolarmente difficile per la chirurgia. La mortalità operatoria è generalmente definita come quella
che si verifica entro i 30 giorni successivi a una procedura chirurgica maggiore. Tuttavia, le statistiche
sulla mortalità operatoria dei pazienti oncologici possono essere ingannevoli. Per esempio, i pazienti
sottoposti a una procedura palliativa presentano un tasso di mortalità operatoria molto alto, anche se
l’intervento è perfettamente riuscito. In definitiva, il chirurgo oncologo è responsabile di assicurare
che l’intervento chirurgico, indipendentemente dalla sua specifica finalità, sia intrapreso senza
pericoli, con la consapevolezza dei possibili rischi e complicanze.
60
Tab. e3.20. Scala di misurazione dello stato di validità dell’Eastern Cooperative Oncology Group e
corrispondente punteggio della scala di Karnofsky.
ECOG
(grado)
0
Karnofsky (%)
100
1
80-90
2
60-70
3
40-50
4
≤ 30
Definizione
Paziente in grado di svolgere senza restrizioni la normale
attività pretrattamento
Paziente limitato nell’attività fisica massima; può essere
seguito in ambulatorio e svolgere un lavoro leggero o di
tipo sedentario
Paziente ambulatoriale e in grado di accudire a se stesso,
ma incapace di svolgere ogni attività lavorativa
Paziente in grado di accudire a se stesso solo
parzialmente e costretto a letto per più del 50% delle ore
di veglia
Paziente grave costretto a letto e non in grado di accudire
a se stesso
Da: Niederhuber J.E.: Surgical interventions in cancer. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008,
vol. 1, p. 413; modificata.
Il trattamento appropriato delle neoplasie primitive varia a seconda del tipo di neoplasia e della
regione corporea interessata. Il principio cardine del trattamento chirurgico è la rimozione completa
della neoplasia. Questo richiede: (1) di evitare l’impianto di cellule staccatesi dalla neoplasia; (2) di
minimizzare la disseminazione iatrogena, linfatica e vascolare delle cellule tumorali; (3) di ottenere
un margine completo di tessuto sano intorno alla neoplasia primitiva. Procedure in laparoscopia sono
state adottate per il trattamento di diverse neoplasie. I principali vantaggi di tali procedure sono una
riduzione del trauma perioperatorio, l’accorciamento dei tempi di degenza e il recupero più rapido da
parte del paziente. In molti casi, pazienti nei quali sia stata rilevata la presenza di una singola lesione
metastatica possono essere sottoposti a resezione chirurgica con un ragionevole tasso di successo.
Molti pazienti con un numero limitato di metastasi a livello di sedi quali il fegato, l’encefalo o il
polmone possono essere curati mediante la chirurgia. Tuttavia, il chirurgo deve considerare diversi
elementi prima di intraprendere una chirurgia per malattia metastatica. Questi comprendono
l’istologia tumorale, l’intervallo libero da malattia, il tempo di raddoppiamento del tumore nonché la
localizzazione, la dimensione e l’estensione di malattia. Studi sperimentali suggeriscono che la
citoriduzione o debulking chirurgico di una recidiva tumorale presenta importanti vantaggi potenziali.
In modelli di laboratorio, la riduzione del tumore aumenta la sensibilità della malattia residua alla
chemioterapia e alla radioterapia attraverso l’aumentata proporzione di cellule tumorali in
proliferazione, la riduzione del numero di cicli terapeutici necessari per eliminare la malattia,
l’aumentata distribuzione cellulare di ossigeno e nutrienti entro il tumore e la riduzione della
probabilità di comparsa di cloni cellulari resistenti. Tuttavia, l’evidenza di beneficio clinico nell’uomo
sembra essere più limitata. Inoltre, i benefici derivanti dalla citoriduzione risultano notevolmente più
evidenti quando la chirurgia si accompagna a un’efficace chemioterapia o radioterapia. Pertanto, il
valore della citoriduzione è stato riconosciuto nelle neoplasie solide dell’età pediatrica, nei linfomi e
nel carcinoma ovarico.
La chirurgia palliativa ha il solo scopo di alleviare i sintomi del paziente. Essa è specificamente
indirizzata al miglioramento della qualità di vita e deve essere intrapresa esclusivamente a tale scopo.
Esempi di chirurgia palliativa comprendono la risoluzione dell’occlusione intestinale, la rimozione di
lesioni neoplastiche per controllare il dolore o l’emorragia e il confezionamento di una digiunostomia
per consentire un’alimentazione adeguata. La qualità di vita è un fattore importante nel trattamento
del paziente oncologico e il chirurgo oncologo ha la grande responsabilità di fare fronte alle necessità
chirurgiche del paziente, sia in termini cosmetici sia in termini terapeutici. La ricostruzione mammaria
dopo mastectomia, il trasferimento di tessuto dopo chirurgia del distretto testa-collo e la lisi di
61
contratture o la trasposizione muscolare per restaurare la funzionalità dopo radioterapia sono esempi
di tecniche che offrono al paziente un grado maggiore di benessere e una migliore qualità di vita.
Oggi è essenziale che lo specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva sia coinvolto nel gruppo
multidisciplinare ai fini della pianificazione del trattamento, in modo da ottimizzare i risultati
ricostruttivi. L’impianto di cateteri venosi centrali a breve o a lungo termine è anch’esso divenuto una
procedura chirurgica di comune effettuazione in pazienti oncologici. Questi dispositivi forniscono un
accesso venoso per l’infusione di chemioterapici e per prelievi ematici. Infine, nella chirurgia delle
emergenze oncologiche occorre tenere conto del fatto che il paziente presenta un eccezionale rischio
chirurgico. Questi pazienti sono spesso neutropenici e piastrinopenici, e hanno un elevato rischio di
emorragia e sepsi. Le emergenze più comuni comprendono l’emorragia, la perforazione, l’occlusione
intestinale, l’infezione o l’insufficienza d’organo.
Aspetti generali di radioterapia oncologica
L’uso di radiazioni ionizzanti nel trattamento delle neoplasie risale alla fine del XIX secolo, poco
dopo la scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Roentgen, nel 1895, e quella del radio a opera dei
coniugi Curie, nel 1898. Questi sforzi iniziali hanno stimolato una rivoluzione in termini di
innovazioni concettuali e tecnologiche nel corso del secolo scorso, le quali formano la base degli
attuali trattamenti. Tra gli sviluppi più importanti vi sono stati: (1) il paradigma del frazionamento di
dose; (2) i progressi tecnologici nella produzione ed erogazione di raggi X; (3) i miglioramenti
nell’imaging e nella pianificazione computerizzata del trattamento; (4) lo sviluppo di modelli per la
previsione del comportamento delle neoplasie e del modo nel quale esse dovrebbero essere affrontate
da un punto di vista terapeutico. Nel secolo scorso sono state compiute scoperte rivoluzionarie anche
nel campo della radiobiologia e oggi esiste un enorme corpo di conoscenze sulla biologia della
neoplasia e sul modo nel quale le radiazioni influenzano i tessuti umani a livello cellulare.
La radioterapia è utilizzata per il trattamento di neoplasie localizzate nella maggior parte delle sedi
corporee. Il primo impiego della radioterapia è avvenuto in alternativa alla resezione chirurgica o nel
trattamento di lesioni non resecabili. A seguito dei progressi nella diagnosi e nelle modalità di
trattamento in campo oncologico, tale paradigma è stato gradualmente sostituito durante il secolo
scorso. Sebbene la radioterapia continui ad avere il ruolo di unico trattamento negli stadi precoci di
alcune neoplasie, essa è ora più comunemente utilizzata quale componente di trattamenti multimodali
(Tab. e3.21). Questo sviluppo concettuale è in parte connesso all’evolversi della percezione del modo
in cui le neoplasie originano e si diffondono. Per lungo tempo, dalla fine del XIX secolo, la maggior
parte dei clinici ha accettato la nozione che le neoplasie avessero origine locale e si diffondessero
attraverso uno schema centrifugo. Tale teoria, enunciata più compiutamente da William Halsted nel
1894, ipotizzava che le neoplasie si diffondessero, in modo prevedibile e graduale, a partire dalla
lesione primitiva verso i linfonodi regionali e poi, a livello sistemico, verso sedi a distanza. Di
conseguenza, ha influenzato i trattamenti oncologici, che si concentravano prevalentemente sul
tumore primitivo e sui linfonodi regionali, ma infine è stata messa in discussione dall’ipotesi che le
neoplasie fossero di due tipi: permanentemente localizzate oppure capaci di disseminazione
metastatica precoce. Tale ipotesi, sostenuta da Bernard Fisher nel 1968, asseriva che la metastasi fosse
un evento precoce, che si verifica ancora prima della diagnosi della neoplasia. Questa scuola di
pensiero poneva l’accento sulla necessità percepita dell’applicazione precoce di terapie sistemiche e
ridimensionava l’importanza del controllo locale. Un terzo modello, la teoria dello spettro, è stato
formulato nel 1994. Tale modello ipotizza che gli schemi di diffusione delle neoplasie siano più
complessi di quanto ritenuto in precedenza e che esse esistano come un continuo di propensioni alla
malattia, enfatizzando il concetto secondo il quale, durante l’accrescimento della neoplasia, le cellule
tumorali sviluppano un potenziale metastatico e il processo della progressione neoplastica facilita
l’acquisizione della capacità metastatica. Questa teoria afferma che il controllo locoregionale e il
controllo sistemico sono entrambi importanti nel disegno di terapie con intento curativo, ed è
appoggiata da evidenze cliniche. Per esempio, in studi sul carcinoma mammario ad alto rischio nei
quali le pazienti sono state sottoposte a mastectomia seguita o meno da radioterapia su parete toracica
62
e i linfonodi regionali, il trattamento radiante è risultato associato a un numero minore di recidive a
distanza e a tassi migliori di sopravvivenza, anche quando la chemioterapia faceva parte del
trattamento adiuvante.
Tab. e3.21. Elenco di tipi comuni di neoplasie trattate con radioterapia.
Neoplasie curabili in stadio precoce con sola radioterapia
• Carcinoma prostatico
• Carcinoma del distretto testa-collo
• Carcinoma polmonare non microcitoma
• Carcinoma basocellulare e carcinoma squamoso della cute
• Linfoma di Hodgkin
• Carcinoma della cervice uterina
Neoplasie curabili con regimi che comprendono la radioterapia
• Carcinoma mammario
• Carcinoma polmonare localmente avanzato (sia non microcitoma sia
microcitoma)
• Seminoma
• Carcinoma endometriale
• Carcinoma della cervice uterina localmente avanzato
• Diverse neoplasie del sistema nervoso centrale (per es. ependimoma, glioma)
• Sarcoma dei tessuti molli
• Carcinoma rettale e anale
• Linfoma (sia di Hodgkin sia non-Hodgkin)
• Carcinoma avanzato del distretto testa-collo
• Carcinoma vescicale
• Numerose neoplasie pediatriche (per es. tumore di Wilms, medulloblastoma,
neuroblastoma, sarcoma di Ewing, rabdomiosarcoma)
Da: Connell P.P. et al.: Advances in radiotherapy and implications for the next century: a
historical perspective. Cancer Res. 69: 383-392, 2009.
Un altro grande progresso concettuale è stato rappresentato dall’impiego della radioterapia come
trattamento definitivo (in associazione o meno alla chemioterapia). Questo tipo di radioterapia è
utilizzato in luogo di una procedura chirurgica demolitiva, allo scopo di ottenere la preservazione
d’organo. Esempi comprendono il trattamento del carcinoma laringeo, del carcinoma della cervice e
del carcinoma vescicale localizzato. Se la neoplasia non è eliminata completamente dalla radioterapia
oppure se vi è una recidiva, la successiva resezione chirurgica viene descritta come di salvataggio. La
radioterapia può anche essere utilizzata prima della chirurgia (radioterapia neoadiuvante) per ridurre
la morbilità dell’intervento chirurgico oppure dopo chirurgia definitiva (radioterapia adiuvante) per
aumentare le probabilità di controllo locoregionale. Lo scopo dell’associazione delle due modalità
terapeutiche è quello di migliorare le possibilità di guarigione e di preservare la funzionalità d’organo.
Esempi clinici di queste strategie comprendono il trattamento della neoplasia mammaria e dei sarcomi
dei tessuti molli. La chemiosensibilizzazione dei tessuti alla radioterapia è in grado di produrre un
effetto sinergico sulla distruzione delle cellule tumorali, aumentando pertanto l’indice terapeutico. I
farmaci chemioterapici sono gli agenti attualmente più utilizzati a scopo radiosensibilizzante (Tab.
e3.22). Effetti radiosensibilizzanti sono stati dimostrati nel trattamento delle neoplasie del distretto
testa-collo, del microcitoma polmonare, del carcinoma polmonare non microcitoma, del carcinoma
della cervice, della vescica, dell’ano, del pancreas, dell’esofago, del retto e del glioblastoma
multiforme. L’importanza della chemioterapia in concomitanza con la radioterapia definitiva è
63
esemplificata dai miglioramenti nella sopravvivenza dimostrati, in seguito all’aggiunta di cisplatino
alla radioterapia radicale, nel trattamento del carcinoma localmente avanzato della cervice o del
distretto testa-collo. Tuttavia, il rischio di tossicità severa ai danni dei tessuti normali dovrebbe essere
attentamente considerato quando si pianifica un trattamento combinato di radiochemioterapia. A
livello mondiale, la radioterapia rimane la modalità più diffusamente impiegata per il trattamento
palliativo dei sintomi causati dalla diffusione o dalla crescita tumorale. L’esempio più comune di tale
impiego clinico è il trattamento delle metastasi ossee a scopo antalgico. La radioterapia palliativa è
spesso utilizzata per arrestare sanguinamenti e per risolvere ostruzioni (per es. delle vie aeree, del
lume intestinale) o il dolore. Un ulteriore esempio di miglioramento della qualità di vita ottenuto con
la radioterapia è il trattamento precoce della compressione midollare causata dal mieloma multiplo o
dal carcinoma prostatico.
Tab. e3.22. Esempi di agenti chemioterapici con effetti radiosensibilizzanti.
Agente
5-fluorouracile
Meccanismo proposto di
sensibilizzazione
Inibizione della timidilato sintetasi
Platino-derivati
Formazione di legami crociati e
addotti del DNA
Mitomicina C
Formazione di legami crociati e
addotti del DNA
Inibizione della ribonucleotide
reduttasi
Inibizione della polimerizzazione
dei microtubuli
Alchilazione e metilazione del
DNA
Gemcitabina
Paclitaxel
Temozolomide
Impiego clinico
Neoplasie distretto testa-collo,
gastroenteriche, vescicali, anali
Neoplasie della testa-collo,
ginecologiche, vescicali,
polmonari, anali
Neoplasie anali, vescicali
Neoplasie pancreatiche, della testacollo, polmonari, vescicali
Neoplasie polmonari,
ginecologiche, della testa-collo
Glioblastoma multiforme
Da: Sharma R.A. et al.: Basics of radiation therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed.
2008, vol. 1, p. 433; modificata.
Aspetti generali di terapia sistemica antitumorale
La terapia sistemica antitumorale è definita come chemioterapia citotossica, endrocrinoterapia o
terapia con bersaglio molecolare (targeted therapy). Dal punto di vista storico, la chemioterapia è
stata utilizzata principalmente per il trattamento della malattia metastatica, dopo il fallimento delle
terapie locali, ed essa rimane il trattamento di scelta in tali casi. Tuttavia, i progressi della terapia
sistemica hanno stimolato un crescente apprezzamento dell’importante ruolo che la chemioterapia può
rivestire nel trattamento della malattia apparentemente localizzata e resecabile. Tale riconoscimento
ha reso possibile lo sviluppo di altre applicazioni della terapia sistemica volte a ridurre l’incidenza
delle ricadute postchirurgia (terapia adiuvante) oppure a consentire procedure chirurgiche
conservative e con preservazione della funzionalità d’organo (chemioterapia primaria o
radiochemioterapia concomitanti). La recente introduzione di agenti con bersaglio molecolare ha
aperto la strada a nuove opzioni terapeutiche.
Polichemioterapia
Agli inizi la chemioterapia si basava sull’uso di agenti in monoterapia, ma lo sviluppo di nuovi
farmaci ha portato rapidamente al concetto di chemioterapia di combinazione o polichemioterapia
(Tab. e3.23). Quest’ultima è stata sviluppata sia su basi empiriche sia attraverso l’applicazione di
64
principi e ipotesi derivate dallo studio della cinetica cellulare tumorale (ipotesi di Norton-Simon) e del
fenomeno della farmacoresistenza (modello di Goldie-Coldman). La maggior parte delle neoplasie
solide segue il modello di Gompertz, con la frazione di accrescimento tumorale che si riduce nel
tempo. Nella fase precoce di sviluppo, la neoplasia è caratterizzata da un’elevata frazione di
accrescimento, ma l’aumento dimensionale è minimo, in quanto la nascita di nuove cellule è
controbilanciata da un’elevata mortalità cellulare. Dopo che le cellule hanno acquisito caratteristiche
che ne favoriscono lo sviluppo, ha luogo una nuova fase di espansione, caratterizzata da un elevato
accrescimento che si accompagna a una diminuzione della mortalità cellulare. Una volta raggiunte
grandi dimensioni, il tasso di crescita della neoplasia diventa basso e la frazione di accrescimento
risulta minima. In un paziente con neoplasia avanzata e un carico (o numero di cellule) tumorale
elevato, il modello gompertziano prevede una frazione di accrescimento più bassa e una minore
frazione di cellule eliminate per una data dose di trattamento rispetto a quanto si verificherebbe in un
paziente con un carico di malattia più basso.
Tab. e3.23. Classi di chemioterapici citotossici.
Classe
Alchilanti
Complessi di coordinazione del platino
Antimetaboliti
Alcaloidi della vinca
Epipodofillotossine
Taxani
Camptotecine
Antracicline
Antibiotici non antraci clinici
Agenti esemplificativi
Mecloretamina
Ciclofosfamide
Ifosfamide
Melfalan
Clorambucile
Estramustina
Busulfano
Carmustina
Lomustina
Fotemustina
Dacarbazina
Temozolomide
Carboplatino
Cisplatino
Oxaliplatino
Metotrexato
6-mercaptopurina
5-fluorouracile
Gemcitabina
Capecitabina
Pemetrexed
Vinblastina
Vincristina
Vindesina
Vinorelbina
Etoposide
Docetaxel
Paclitaxel
Irinotecano
Topotecano
Doxorubicina
Epirubicina
Idarubicina
Actinomicina D
Bleomicina
Mitomicina C
65
Il modello di Norton-Simon per la risposta dei tumori alla chemioterapia ha utilizzato il concetto di
crescita gompertziana per spiegare fenomeni osservati in clinica e per suggerire strategie di
trattamento. Questo modello prevede che il tasso di regressione tumorale, in relazione alla dimensione
della neoplasia e a un medesimo trattamento, sarà maggiore per le neoplasie di piccole dimensioni e
minore per quelle di grandi dimensioni. Il modello di Goldie-Coldman, un modello matematico di
resistenza genetica delle cellule tumorali ai chemioterapici, descrive la probabilità che cellule
farmacoresistenti siano presenti in un paziente al momento della diagnosi. Un principio fondamentale
di questo modello è che mutazioni con acquisizione di chemioresistenza si verifichino in una
popolazione di 103-106 cellule, che risulta sostanzialmente inferiore al limite di rilevazione clinica,
pari a circa 109 cellule o a una massa di 1 cm3. Secondo Goldie e Coldman, le cellule tumorali
possono acquisire la farmacoresistenza prima dell’esposizione ai farmaci in base al tasso di mutazione
spontanea, che è intrinseco all’instabilità genetica di una particolare neoplasia. La prevista frequenza
di mutazione spontanea di 1 ogni 105-106 divisioni di cellule tumorali è in accordo con studi in vitro
su questo fenomeno. Per superare più efficacemente la farmacoresistenza, il modello di GoldieColdman prevede che: (1) il maggior numero possibile di farmaci debba essere somministrato nel più
breve intervallo di tempo e il prima possibile durante la crescita di una neoplasia; (2) il maggior
numero possibile di farmaci, somministrati simultaneamente, risulterà più efficace dei singoli agenti
somministrati, in sequenza, a dosi più elevate.
I principi per lo sviluppo di regimi polichemioterapici sono riassunti nella Tabella e3.24.
L’applicazione clinica di tali principi ha portato a una serie di concetti con ipotesi valutabili
sperimentalmente per il disegno di regimi di combinazione. Questi hanno compreso la chemioterapia
alternata senza resistenza crociata, la chemioterapia ibrida, la chemioterapia a intensità di dose
(dose totale di chemioterapia aumentata durante un intervallo di riciclo fisso) e la chemioterapia a
densità di dose (aumento della dose somministrata per unità di tempo, generalmente mediante
riduzione dell’intervallo per il riciclo). La chemioterapia alternata senza resistenza crociata prevede
l’uso di plurimi agenti chemioterapici attivi con differenti meccanismi di azione, i quali sono
organizzati in due diversi regimi somministrati in maniera alternata. Il modello di Goldie-Coldman
suggerirebbe una frequente alternanza dei regimi (per es. ogni secondo ciclo) e questo è stato
l’approccio generale adottato negli studi clinici prospettici che hanno esaminato la questione. Una
variazione più recentesul tema è stata rappresentata dallo sviluppo di regimi ibridi, nei quali gli
elementi di ciascun regime sono somministrati durante ogni ciclo (per es. al giorno 1 e al giorno 8),
anziché ogni secondo ciclo. L’ipotesi di Norton-Simon propugna una strategia di crossover mediante
la quale ciascun regime attivo è utilizzato per un periodo di tempo più lungo (cioè per diversi cicli)
prima di passare al regime alternativo. Da un punto vista teorico, questo approccio ottiene due scopi
importanti. In primo luogo, esso mantiene la maggiore intensità di dose di ciascun regime
somministrandolo durante ogni ciclo anziché a cicli alternati. In secondo luogo, prende di mira
popolazioni eterogenee di cellule, distruggendo prima le cellule a rapida crescita, che sono più
sensibili, e poi colpendo le cellule a lenta crescita, più resistenti, nel modo più efficace possibile.
Tab. e3.24. Principi di combinazione di agenti chemioterapici.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Dovrebbero essere utilizzati solo farmaci risultati efficaci come agenti singoli
Ciascun agente utilizzato dovrebbe avere un differente meccanismo di azione
Ciascun agente dovrebbe avere un differente spettro di tossicità e (idealmente) di resistenza
Ciascun agente dovrebbe essere utilizzato alla dose massima
Agenti con simili tossicità limitanti la dose possono essere combinati in modo sicuro solo
riducendo le dosi, il che determina diminuzione degli effetti
Le combinazioni di farmaci dovrebbero essere somministrate con il più breve intervallo tra i
cicli che consenta il recupero dei tessuti normali
Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1.
p. 451; modificata.
66
Endocrinoterapia
Terapie endocrine ablative dirette contro gli estrogeni endogeni sono state prevalentemente, anche se
non esclusivamente, applicate al trattamento del carcinoma mammario (Fig. e3.13). Ne esistono tre
tipi principali: (1) interventi diretti ad abbassare la concentrazione degli estrogeni in circolo, che
comprendono, da un lato, l’ablazione ovarica oppure la soppressione ovarica mediante agonisti
dell’ormone ipotalamico GnRH (Gonadotropin-Releasing Hormone) nelle pazienti in premenopausa
e, dall’altro, gli inibitori dell’aromatasi (IA) nelle pazienti in postmenopausa; (2) modulatori selettivi
del recettore per gli estrogeni (Selective Estrogen Receptor Modulator, SERM), come per esempio il
tamoxifene, che si legano in maniera competitiva all’ER, esercitando effetti tessuto-specifici; (3)
l’antiestrogeno puro fulvestrant che si lega in maniera competitiva all’ER e ne causa la degradazione.
L’endocrinoterapia rappresenta l’opzione terapeutica più importante per le neoplasie mammarie che
esprimono l’ER. Il tamoxifene è stato largamente utilizzato, in prima linea, in donne con carcinoma
mammario avanzato, dove ha un grande impatto sulla progressione della malattia. Ancora più
importante è il dato che, nella malattia in fase precoce che esprime l’ER, la terapia adiuvante con
tamoxifene per 5 anni riduce il tasso annuale di mortalità per carcinoma mammario del 31% rispetto a
quello di pazienti che non ricevono nessuna terapia adiuvante. Inoltre, la riduzione cumulativa della
mortalità risulta pari a più del doppio a 15 anni dalla diagnosi rispetto a quanto osservato dopo i primi
5 anni. L’assenza di efficacia, in caso di malattia che non esprima l’ER, conferma l’importanza degli
estrogeni endogeni quali fattori determinanti della progressione delle neoplasie ormonosensibili.
L’attività di agonista parziale del tamoxifene o di suoi metaboliti nella specie umana potrebbe essere
responsabile della maggiore efficacia degli IA di terza generazione nella malattia avanzata, come
anche nella terapia primaria e in quella adiuvante. Gli IA di terza generazione letrozolo, anastrozolo e
il composto steroideo exemestano sono capaci di inibire l’attività dell’aromatasi periferica in media
del 99, 97 e 98%, rispettivamente. Pertanto, ciascuno di questi agenti sopprime profondamente i livelli
plasmatici di estrogeni. Perfino dopo deprivazione estrogenica a lungo termine, tumori responsivi
possono sopravvivere e, alla fine, progredire. Nel fenomeno della resistenza al tamoxifene, i
meccanismi di segnale dell’ER restano funzionanti nella maggior parte delle neoplasie e sono
presumibilmente responsabili delle risposte alla deprivazione estrogenica di seconda linea con un IA.
Le conoscenze sulla resistenza acquisita agli IA sono minori, sebbene modelli preclinici suggeriscano
che essa possa verificarsi attraverso un’aumentata sensibilità ai bassi livelli residui di estrogeni, il che
è compatibile con le risposte secondarie agli IA, osservate quando essi sono aggiunti agli agonisti del
GnRH in pazienti in premenopausa con malattia avanzata.
Fig. e3.13. Sito di azione delle strategie di endocrinoterapia in relazione alla fonte di estrogeni nella
donna in pre- e in postmenopausa. FSH: ormone follicolostimolante; GnRH: ormone rilasciante le
gonadotropine; LH: ormone luteinizzante; SERM: modulatore selettivo del recettore per gli estrogeni.
67
Nella prostata, gli androgeni agiscono attraverso l’AR per regolare la sopravvivenza cellulare. Una
terapia ablativa mirata agli androgeni nell’uomo può essere ottenuta, a livello sistemico, mediante
castrazione chirurgica o farmacologica (agonisti del GnRH) e, a livello locale, mediante trattamento
con antiandrogeni quali flutamide e bicalutamide. Inoltre, la sintesi di androgeni da parte del surrene
può essere soppressa in pazienti castrati, utilizzando l’abiraterone acetato, un nuovo inibitore
dell’enzima 17α-idrossilasi/17,20 liasi che catalizza reazioni chiave nella biosintesi degli androgeni.
L’opzione terapeutica standard in prima linea è la castrazione, che provoca un abbassamento dei
livelli plasmatici del PSA (antigene prostatico specifico), seguito da una regressione tumorale in quasi
tutti i pazienti. Il trattamento mediante orchiectomia o agonisti del GnRH determina l’ablazione della
sintesi gonadica di androgeni, con i livelli plasmatici di testosterone che si riducono fin quasi al limite
di rilevazione della maggior parte dei saggi convenzionali. La sintesi di androgeni da parte dei surreni
persiste dopo la castrazione e rappresenta un bersaglio per il trattamento del carcinoma prostatico.
L’efficacia terapeutica della deprivazione di androgeni è una chiara evidenza della loro importanza
nel guidare la progressione del carcinoma prostatico. Nel tempo, la malattia diviene inevitabilmente
resistente all’endocrinoterapia e sopravvive in un ambiente povero di androgeni. In passato, questo
stato di malattia è stato definito “carcinoma prostatico resistente agli androgeni”, ma, di recente, è
divenuto chiaro che la neoplasia, nella maggior parte dei pazienti, è ancora dipendente dalla
stimolazione degli androgeni. Pertanto, questa condizione è stata rinominata “carcinoma prostatico
resistente alla castrazione”. I meccanismi alla base di tale resistenza comprendono mutazioni dell’AR,
che ne permettono l’attivazione da parte di antiandrogeni o di steroidi endogeni, come il progesterone
o i corticosteroidi, e la sovraregolazione di enzimi coinvolti nella biosintesi degli androgeni entro il
tessuto neoplastico, con livelli intratumorali di androgeni più elevati rispetto a quelli circolanti. Sono
stati sviluppati nuovi farmaci diretti contro la sintesi degli androgeni, allo scopo di sopprimerne la
produzione residua, dopo castrazione, da parte sia del surrene sia del tessuto neoplastico. In studi
clinici recenti, l’abiraterone ha dimostrato attività antitumorale in circa il 70% dei pazienti castrati con
malattia resistente alla castrazione farmacologica. Tuttavia, il 30% dei pazienti presenta “resistenza de
novo” (ossia intrinseca) e quasi tutti, alla fine, vanno incontro a progressione durante il trattamento.
Tra i possibili meccanismi di resistenza vi è l’attivazione dell’AR da parte di ligandi alternativi:
l’azione dell’abiraterone causa l’accumulo di elevati livelli di desossicorticosterone e di altri steroidi a
monte del blocco enzimatico, i quali sono risultati capaci di attivare l’AR in linee cellulari. La
soppressione di tali steroidi, mediante la somministrazione al paziente di desametasone, può
ripristinare la sensibilità all’abiraterone. In alternativa, la progressione di malattia potrebbe essere la
conseguenza di un’attivazione indipendente dal ligando del recettore causata da un cross-talk con
recettori tirosin-chinasici attivati o dall’attivazione di vie di segnale intracellulari.
Terapia con bersaglio molecolare
Agenti antitumorali con bersaglio molecolare sono farmaci diretti contro caratteristiche molecolari
specifiche della cellula tumorale, quali aberrazioni di geni, proteine o vie che regolano la crescita, la
progressione e la sopravvivenza della neoplasia. Al contrario, i chemioterapici citotossici non sono
selettivi, interferendo direttamente con la mitosi, la sintesi del DNA e i sistemi di riparazione del
danno genetico, e producendo una considerevole tossicità anche a carico dei tessuti normali.
L’identificazione di differenze molecolari tra cellule tumorali e cellule normali ha quindi permesso lo
sviluppo di farmaci non solo più efficaci, ma anche più selettivi. Inoltre, l’impiego di agenti con
bersaglio molecolare può realisticamente aprire la strada alla medicina personalizzata, un obiettivo
chiave della moderna oncologia.
Esiste un numero crescente di bersagli molecolari, che possono essere categorizzati, in relazione alle
proprietà genetiche o funzionali, nel seguente modo: (1) prodotti di mutazioni geniche con attivazione e di
traslocazioni; (2) fattori di crescita e recettori; (3) vie aberranti di trasduzione del segnale e dell’apoptosi;
(4) fattori che controllano l’angiogenesi tumorale e il microambiente tumorale; (5) proteine con alterata
regolazione; (6) aberrazioni del meccanismo di riparazione del DNA e di meccanismi epigenetici (Tab.
e3.25). È comprensibile che qualsiasi categorizzazione dei bersagli molecolari sia destinata a contenere
68
considerevoli sovrapposizioni. Per esempio, il PDGFR-α e il PDGFR-β sono recettori per fattori di
crescita per molti tipi di neoplasie, ma sono anche espressi nel tessuto stromale e giocano un ruolo
nell’angiogenesi. Inoltre, un’anomala espressione di PDGFR-α e PDGFR-β può derivare da anomalie
genetiche, da mutazioni con attivazione del PDGFR-α in alcuni casi di tumore stromale gastroenterico
(GastroIntestinal Stromal Tumor, GIST) e da traslocazioni cromosomiche che danno luogo alla proteina di
fusione TEL/PDGFR-β nella leucemia mielomonocitica cronica.
Tab. e3.25. Esempi scelti di bersagli molecolari e di agenti con bersaglio molecolare.
Bersaglio
Neoplasia
Agente approvato
Tipo di
agente
Traslocazioni
cromosomiche
• BCR-ABL
• PML-RAR
• PDGFR-β
Ph+LMC, LLA
Leucemia promielocitica acuta
LMMC, DFSP
Imatinib, dasatinib
Acido retinoico
Imatinib
TKI
Retinoide
TKI
Mutazioni somatiche
• KIT
• PDGFR-α
GIST
GIST
Imatinib, sunitinib
Imatinib, sunitinib
TKI
TKI
Ca. polmone non microcitoma
Ca. colo-rettale
Gefitinib, erlotinib
Cetuximab,
panitumumab
Cetuximab
Trastuzumab
Lapatinib
TKI
mAb
mAb
mAb
Fattori di crescita o
recettori
• EGFR
•
ErbB-2
Angiogenesi
• VEGF
Ca. testa-collo
Ca. mammella HER2+
mAb
TKI
•
VEGFR
Ca. colo-rettale
Ca. polmone non microcitoma
Ca. a cellule renali
•
mTOR
Ca. a cellule renali
Bevacizumab
Bevacizumab
Sunitinib, sorafenib
Temsirolimus,
everolimus
Sindrome mielodisplastica
Azacitidina
AP
Linfoma cutaneo a cellule T
Vorinostat
Acido
idroxamico
Mieloma multiplo
Bortezomib
IP
Silenziamento
epigenetico
• DNA
metiltransferasi
• Istone deacetilasi
Proteine con alterata
regolazione
• Proteosoma
TKI
TKI
AR
AR
AP: analogo della pirimidina; AR: analogo della rapamicina; DFSP: dermatofibrosarcoma protuberans;
EGFR: Epidermal Growth Factor Receptor; IP: inibitore del proteosoma; LLA: leucemia linfoblatica
acuta; LMMC: leucemia mielomonocitica cronica; mAb: anticorpo monoclonale; PDGFR: PlateletDerived Growth Factor Receptor; Ph+LMC: leucemia mieloide cronica cromosoma Philadelfia positiva;
TKI: inibitore di tirosin-chinasi; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor.
Da: Murgo A.J. et al.: Principles of molecularly targeted therapy: present and future. In: Abeloff’s clinical
oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 486; modificata.
69
I bersagli molecolari più promettenti sono quelli responsabili di sostenere unicamente la crescita e la
sopravvivenza della neoplasia. È probabile che agenti in grado di inibire, in maniera potente e
selettiva, questi bersagli critici abbiano un grande impatto clinico. L'esempio migliore di bersaglio
critico è, probabilmente, BCR-ABL nella leucemia mieloide cronica (LMC), una proteina di fusione
formata dalla traslocazione reciproca dei cromosomi 9 e 22. L’evidenza che questa tirosin-chinasi con
regolazione alterata giochi un ruolo causale nella patogenesi di essenzialmente tutti i casi di LMC ha
portato allo sviluppo dell’imatinib mesilato, un inibitore potente e selettivo della tirosin-chinasi ABL.
L’imatinib ha rappresentato non solo la prima terapia con bersaglio molecolare di elevata efficacia
contro la LMC, ma, essendo un potente inibitore di altre tirosin-chinasi, è risultato anche altamente
efficace nel trattamento di GIST che portano mutazioni con attivazione di c-KIT, nonché di alcuni
GIST che portano mutazioni con attivazione di PDGFR.
Esistono diverse strategie attraverso le quali bersagli molecolari sensibili possono essere sfruttati dal
punto di vista terapeutico. Finora gli approcci clinici risultati più efficaci hanno visto l’impiego di
anticorpi monoclonali e di inibitori a piccola molecola di protein-chinasi. L’uso di anticorpi
monoclonali è particolarmente adatto contro bersagli legati alla membrana plasmatica e i meccanismi
di azione proposti possono essere sostanzialmente divisi in quelli che richiedono cellule effettrici
immuni e quelli che non le richiedono. Questi meccanismi non funzionano in maniera indipendente,
ma interagiscono estesamente tra loro. Gli anticorpi monoclonali diretti contro specifici antigeni
tumorali possono bloccare l’attivazione di segnali necessari per la crescita e/o la vitalità delle cellule
tumorali attraverso il blocco delle interazioni tra il ligando e il suo recettore, inducendo una
modulazione del recettore o interferendo con il legame del ligando e/o con la dimerizzazione del
recettore. Questi ultimi meccanismi sembrano essere particolarmente importanti per anticorpi specifici
anti-EGFR, anti-CD20 e anti-VEGF. In alternativa, alcuni anticorpi diretti contro specifici antigeni
tumorali possono esercitare i loro effetti attraverso meccanismi quali la citotossicità cellulo-mediata
anticorpo-dipendente (ADCC) e la citotossicità mediata dal complemento (CDC). L’innesco sia della
ADCC sia della CDC non solo attiva cellule NK, neutrofili, fagociti mononucleati e/o cellule
dendritiche, ma induce anche la secrezione di IFN-γ, TNF-α, chemochine e opsonine che reclutano
cellule effettrici immuni. Di conseguenza, la proliferazione delle cellule tumorali e l’angiogenesi sono
inibite, la presentazione dell’antigene è aumentata e le cellule tumorali sono lisate. In generale, gli
effetti collaterali dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali diretti contro specifici antigeni
tumorali sono abbastanza lievi rispetto alle tradizionali chemioterapia e radioterapia. Per la maggior
parte, le tossicità indotte da questi anticorpi sono indipendenti dal meccanismo di azione e sono legate
a reazioni allergiche o di ipersensibilità causate da una proteina contenente sequenze xenogeniche.
Tossicità rare ma clinicamente più serie dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali diretti contro
specifici antigeni tumorali sono spesso dipendenti dal meccanismo di azione e derivano dal legame
dell’anticorpo all’antigene bersaglio. Nonostante l’appropriata espressione dell’antigene tumorale, i
pazienti possono non avere una risposta clinica all’anticorpo e/o possono sviluppare resistenza alla
terapia nel corso del trattamento.
Gli inibitori a piccola molecola di protein-chinasi sono efficaci contro bersagli sia legati alla
membrana sia non legati. Questi agenti sono chimicamente diversi e, in generale, possono essere
classificati in analoghi dell’ATP, agenti leganti il dominio catalitico, agenti leganti il dominio non
catalitico, prodotti naturali e ligandi che si legano alla conformazione inattiva della chinasi. Molti di
tali composti a piccola molecola possono inibire più di una chinasi (per es. il sorafenib) a causa
dell’omologia strutturale esistente entro la stessa classe di protein-chinasi. La capacità di un singolo
inibitore di avere come bersaglio varie chinasi e vie di segnale è interessante dal punto di vista
terapeutico. Tuttavia, tale capacità può anche ostacolare la comprensione dei meccanismi di azione
dell’inibitore in specifici tipi di neoplasia, un aspetto che è di vitale importanza per lo sviluppo di
questi composti.
La maggior parte delle neoplasie umane, comprese quelle più frequenti, è geneticamente
complessa e non presenta un singolo bersaglio critico. Inoltre, quello che può essere un
bersaglio critico per un tipo di neoplasia può essere espresso ma non essere così rilevante per
70
un altro. La maggior parte delle neoplasie presenta varie anormalità genetiche e molecolari
responsabili della loro crescita e sopravvivenza. La presenza di varie anomalie è un
meccanismo che può spiegare la resistenza alle terapie con bersaglio molecolare e fornire un
razionale per strategie di associazione di due o più agenti. Tuttavia, recenti evidenze
suggeriscono che le cellule tumorali possono diventare fisiologicamente dipendenti
dall’attività sostenuta di specifici oncogeni per il mantenimento di un fenotipo maligno e per
la sopravvivenza. Questo meccanismo, definito “dipendenza da oncogene”, si associa a tassi
di attenuazione differenziale dei segnali prosopravvivenza e proapoptosi derivanti
dall’oncoproteina, con predominanza dei segnali di apoptosi che causano la morte cellulare.
Quest’ultimo processo, definito “shock oncogeno”, potrebbe spiegare le risposte cliniche
assai rapide a inibitori di tirosin-chinasi in alcuni pazienti con neoplasie solide, comprese
quelle che tipicamente presentano complesse anomalie molecolari. Altri possibili fattori che
controllano la sensibilità o la resistenza alle terapie con bersaglio molecolare comprendono
un’aumentata espressione del bersaglio dovuta ad amplificazione o trascrizione genica, la
comparsa di mutazioni geniche del bersaglio responsabili di resistenza e l’iperespressione di
proteine di membrana capaci di trasportare diversi tipi di farmaci.
Lo sviluppo ottimale di agenti con bersaglio molecolare può richiedere strategie differenti da
quelle tradizionalmente utilizzate per lo sviluppo dei farmaci citotossici (Tab. e3.26). In
modelli animali, molti dei nuovi agenti possono mostrare marcati effetti di inibizione della
crescita e antimetastatici, in assenza di una sostanziale regressione tumorale, proprietà
comunemente considerate citostatiche. Sebbene gli effetti specifici di ciascuna classe siano
dipendenti dal/i bersaglio/i inibito/i, nei pazienti è più probabile che molti di questi agenti
determinino un’inibizione della crescita piuttosto che una regressione del tumore. Pertanto, i
tradizionali criteri di risposta obiettiva possono risultare non ottimali per valutare l’efficacia
di farmaci prevalentemente citostatici. Inoltre, un importante aspetto relativo
all’arruolamento di pazienti in studi clinici di agenti con bersaglio molecolare è il ricorso a
una selezione dei pazienti che ottimizzi la possibilità di un effetto positivo. Questo non è
fattibile a meno che i pazienti arruolati non abbiano neoplasie che esprimano o abbiano
elevata probabilità di esprimere il bersaglio terapeutico specifico. Fino a tempi recenti, quasi
tutti gli studi di fase II hanno valutato i farmaci sulla base dell’organo di origine della
neoplasia, con un’ulteriore categorizzazione mediante il tipo istologico (per es. carcinoma
mammario, carcinoma polmonare non a piccole cellule). Il presupposto è che un dato tipo
istologico entro un organo rappresenti una patologia relativamente uniforme. Tuttavia, esiste
una crescente evidenza che le neoplasie siano molto eterogenee, sotto il profilo molecolare,
entro un dato tipo istologico di un particolare organo e che variazioni genetiche nella
neoplasia possano influenzare significativamente la sensibilità a un farmaco. Buoni esempi di
selezione dei pazienti sulla base del fenotipo molecolare sono l’uso dell’espressione dell’ER
e del PgR (recettore per il progesterone) o dell’oncogene HER2/neu (e del suo prodotto) per
selezionare, rispettivamente, pazienti con carcinoma mammario candidate a endocrinoterapia
o a trattamento con l’anticorpo monoclonale trastuzumab.
71
Tab. e3.26. Proprietà e sviluppo di agenti chemioterapici rispetto ad agenti con bersaglio
molecolare.
Scoperta
dell’agente
Agenti chemioterapici
Approcci empirici; screening di
composti che inibiscono la
crescita/sopravvivenza tumorale
Effetti
antitumorali
Tossicità per
l’ospite
Citotossici; riduzione
dimensionale del tumore
Non selettivi; tossici per molti
tessuti normali
Finestra
terapeutica
End point
primari in fase
I
Dosaggio
End point di
efficacia in
fase II
Dose in fase II
Generalmente stretta
Selezione dei
pazienti
Intervallo alla
risposta
clinica
Tossicità limitante la dose e dose
massima tollerata;
farmacocinetica
Intermittente
Regressione tumorale obiettiva
Basata sulla dose massima
tollerata
Istologia
Relativamente breve (per es. 4-8
settimane)
Agenti con bersaglio molecolare
Approcci basati sul bersaglio
molecolare; screening di composti
che colpiscono il bersaglio
tumorale
Possono essere citostatici;
inibizione della crescita
Selettivi; dipende dalla specificità
del bersaglio; effetti
extrabersaglio
Generalmente più ampia
Inibizione del bersaglio e dose
biologica ottimale;
farmacocinetica
Intermittente o continuo
Risposta tumorale o
sopravvivenza libera da
progressione
Dose biologica ottimale
Espressione del bersaglio, se
possibile
Variabile
Da: Murgo A.J. et al.: Principles of molecularly targeted therapy: present and future. In:
Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 490; modificata.
La crescente esperienza clinica con l’impiego di agenti con bersaglio molecolare indica che
essi hanno qualche attività clinica contro tipi selezionati di neoplasie. Tuttavia, prescindendo
da poche eccezioni, come l’imatinib nel trattamento della LMC e dei GIST, gli agenti con
bersaglio molecolare hanno efficacia limitata in monoterapia e il beneficio clinico è ristretto a
un gruppo relativamente limitato di pazienti. Una strategia per migliorare il potenziale
terapeutico di questi farmaci è di utilizzarli in combinazione con altri agenti o modalità
terapeutiche (Tab. e3.27).
72
Tab. e3.27. Strategie di associazione tra agenti con bersaglio molecolare e altre modalità
terapeutiche antitumorali.
Strategie di combinazione
Associazione con terapia citotossica:
• chemioterapia
• Con radioterapia
Associazione di due o più agenti con
bersaglio molecolare:
• Anticorpo diretto contro il ligando o
il recettore + TKI diretto contro lo
stesso recettore (per es. anticorpo
anti-VEGF più TKI di VEGFR)
• Agenti che inibiscono due o più
molecole di trasduzione del segnale
nella stessa via (per es. TKI di EGFR
+ inibitore di RAF)
• Agenti che inibiscono vie parallele
(inibitore di EGFR + inibitore di
HER2)
• Agenti che inibiscono un bersaglio e
un feedback compensatorio (per es.
inibitore di mTOR R+ inibitore di
Akt)
• Agenti diretti contro microambiente/
vascolarizzazione tumorali + un
agente diretto contro la proliferazione
cellulare tumorale
• Agenti di rimodellamento epigenetico
(per es. inibitori della metilazione del
DNA; inibitori della istone
deacetilasi) usati in combinazione o
in concerto con agenti diretti contro
un bersaglio riespresso
Associazione con chirurgia:
• Somministrazione di un agente con
bersaglio molecolare dopo resezione
anatomica completa
Meccanismo potenziale
Modulazione di bersagli coinvolti nella
sensibilità/resistenza tumorale o in
meccanismi di riparazione
Massimizzazione dell’inibizione del
bersaglio
Massimizzazione dell’inibizione della via
Massimizzazione dell’inibizione tumorale
attraverso l’influenza su multipli
meccanismi cellulari
Massimizzazione della risposta tumorale
attraverso l’inibizione di meccanismi
compensatori di resistenza
Massimizzazione del beneficio clinico
attraverso l’inibizione di proliferazione,
invasività e metastatizzazione della cellula
tumorale
Aumento della restituzione dell’espressione
di geni oncosoppressori, di meccanismi
apoptotici o di antigeni tumorali
Massimizzazione del beneficio attraverso il
controllo della malattia minima residua
EGFR: Epidermal Growth Factor Receptor; TKI: inibitore a piccola molecola di tirosinchinasi; VEGFR: Vascular Endothelial Growth Factor Receptor.
Da: Murgo A.J. et al.: Principles of molecularly targeted therapy: present and future. In:
Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 495; modificata.
73
Terapia antitumorale personalizzata: un paradigma emergente
In oncologia medica si è da tempo riconosciuto che è probabile che solo un sottogruppo di pazienti in
una data coorte tragga un beneficio significativo dalle varie terapie sistemiche antitumorali. Tuttavia,
la capacità di identificare in anticipo la sottopopolazione di pazienti con maggiore probabilità di
rispondere a una particolare terapia non solo aumenterebbe la possibilità di risposta, ma eviterebbe
anche di trattare inutilmente quei pazienti che hanno poca probabilità di beneficiare dal trattamento.
Uno dei migliori esempi di terapia antitumorale personalizzata deriva dallo sviluppo e dalla
validazione clinica del SERM tamoxifene nel carcinoma mammario. Molto probabilmente l’ER è il
biomarcatore che ha avuto l’impatto più profondo sulla pratica clinica in oncologia medica. Nel
carcinoma mammario in fase precoce, 5 anni di terapia adiuvante con tamoxifene nelle pazienti con
malattia che esprime l’ER riducono significativamente il tasso annuale di morte per carcinoma
mammario, in gran parte indipendentemente dall’uso della chemioterapia o dall’età. Al contrario,
nessun effetto protettivo del tamoxifene è osservato nelle pazienti con malattia che non esprime il
recettore. Il concetto di medicina oncologica personalizzata guidata da biomarcatori sta avendo un
influsso particolarmente importante sulla valutazione clinica di vari inibitori selettivi di chinasi, una
classe relativamente nuova di agenti antitumorali, dei quali si sta cominciando ad apprezzare il
potenziale impatto clinico.
Alla base del concetto di terapia antitumorale personalizzata vi sono due principi fondamentali: (1)
esiste una significativa eterogeneità genomica tra le neoplasie, anche tra quelle derivate dallo stesso
tessuto di origine; (2) tali differenze possono giocare un ruolo importante nel determinare la
probabilità di una risposta clinica al trattamento con particolari agenti. L’ eterogeneità genomica può
coinvolgere differenze nello spettro di mutazioni di sequenze codificanti, come pure di amplificazioni,
delezioni o traslocazioni geniche focali. Essa potrebbe anche coinvolgere mutamenti epigenetici nel
profilo di espressione di una cellula tumorale, sebbene le fonti della variazione epigenetica tra le
neoplasie rimangano scarsamente comprese. I recenti sviluppi delle tecnologie per il profilo
molecolare, che consentono di valutare DNA, RNA, proteine e metaboliti, hanno reso possibile
interrogare, rapidamente e in modo completo, il genoma della neoplasia e identificare recidive che
possono contribuire alla risposta al trattamento. Gli studi hanno rivelato una sostanziale eterogeneità
attraverso i genomi delle neoplasie, coinvolgendo un numero stimato di 384 geni del cancro, compresi
quelli di molte protein-chinasi, che vanno incontro a mutazione e sembrano implicati in maniera
causale nell’oncogenesi. Tali risultati hanno evidenziato la diversa natura delle neoplasie umane e
hanno suggerito un ruolo potenzialmente importante della patologia molecolare nella valutazione e
nella gestione clinica dei singoli pazienti. Diversi saggi molecolari validati effettuati sul tessuto
tumorale o che valutano il genoma del paziente fanno ora parte del processo decisionale standard nel
trattamento delle neoplasie mammarie, colo-rettali e polmonari.
Impieghi clinici della terapia sistemica antitumorale
Terapia adiuvante
La terapia adiuvante prevede l’impiego della chemioterapia e/o dell’endocrinoterapia in pazienti ad
alto rischio di ricaduta, dopo che la neoplasia primitiva e tutta la malattia evidente sono state asportate
chirurgicamente oppure trattate con radioterapia definitiva (Tab. e3.28). Nonostante la resezione
apparentemente radicale di una neoplasia primitiva (della mammella, del colon o di altri distretti
corporei) assieme ai linfonodi regionali, è possibile identificare prospetticamente pazienti che sono ad
alto rischio di una ricaduta della malattia. I criteri di rischio possono essere diversi per ciascuna
neoplasia, ma, in termini generali, il grado di estensione locale del tumore primitivo, la presenza di
linfonodi positivi e certe caratteristiche morfologiche o biologiche delle cellule tumorali sono
importanti fattori di rischio. Sebbene il vantaggio teorico di trattare pazienti con un basso carico
tumorale sia molto promettente, alcuni pazienti sottoposti a terapia adiuvante possono essere già stati
resi liberi dalla malattia mediante la sola terapia locale. L’impiego della chemioterapia, in presenza di
74
un carico tumorale minimo, evita i problemi legati all’aumento del numero di cellule tumorali, alla
diminuzione della frazione di crescita, al ridotto apporto vascolare, all’ipossia, all’eterogeneità delle
cellule tumorali e alla probabilità di sviluppo di farmacoresistenza. La frequenza di ciascuno di questi
eventi tende ad aumentare con l’incremento dimensionale della neoplasia. Una considerevole
evidenza sperimentale suggerisce che le neoplasie siano più sensibili alla chemioterapia durante gli
stadi precoci della crescita.
Tab. e3.28. Principi di chemioterapia adiuvante.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Deve essere disponibile una chemioterapia efficace
Tutta la neoplasia evidente dovrebbe essere rimossa con la chirurgia
La chemioterapia dovrebbe essere iniziata il più presto possibile dopo la chirurgia
La chemioterapia dovrebbe essere somministrata alla dose massima tollerata
La chemioterapia dovrebbe continuare per un periodo limitato di tempo
La chemioterapia dovrebbe essere intermittente, quando possibile, per minimizzare
l’immunosoppressione
Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1,
p. 455; modificata.
La scelta del regime chemioterapico da impiegare in fase adiuvante per una data neoplasia si basa sui
tassi di regressioni obiettive osservati in pazienti portatori della malattia in fase avanzata. Infatti, è
irrealistico che un regime chemioterapico possa essere efficace in fase adiuvante se lo stesso non
induce un sostanziale tasso di risposte in fase avanzata. La selezione dei pazienti candidati a terapia
adiuvante si basa sul tasso atteso di ricaduta per lo stadio clinico iniziale della neoplasia sottoposta al
solo trattamento locale. La dimostrazione iniziale di efficacia di un dato trattamento adiuvante
richiede un confronto diretto, nel contesto di uno studio prospettico randomizzato, con un gruppo di
controllo sottoposto al solo trattamento locale oppure alla terapia sistemica standard, se questa è
disponibile. La sopravvivenza libera da ricaduta (relapse-free survival) e la sopravvivenza globale
(overall survival) sono le principali misure di esito del trattamento negli studi clinici di terapia
adiuvante. Occorre sottolineare che non esiste alcun mezzo per stabilire se la terapia adiuvante – e la
conseguente tossicità – abbia o meno prodotto un beneficio nel singolo paziente. La strategia della
terapia adiuvante è stata tentata in un’ampia varietà di neoplasie pediatriche e dell’adulto, con qualche
successo, e i suoi principi sono ben stabiliti. Neoplasie trattate efficacemente con chemioterapia
adiuvante sono il tumore di Wilms, l’osteosarcoma, il carcinoma mammario e quello colo-rettale. Il
numero di vite salvate dalla terapia adiuvante in caso di neoplasia mammaria o del colon è
significativo per l’elevata incidenza, nonostante le modeste differenze osservate tra il gruppo dei
trattati e quello dei controlli negli studi randomizzati che hanno validato gli attual i programmi di
trattamento.
Chemioterapia primaria
La chemioterapia primaria (o neoadiuvante) è una seconda strategia che riconosce la presenza
di micrometastasi in sedi anatomiche distanti dalla neoplasia primitiva al momento della
diagnosi iniziale (Tab. e3.29). Analogamente alla terapia adiuvante, il trattamento è diretto
contro la possibilità di malattia disseminata in pazienti con neoplasia apparentemente
localizzata, sebbene in questo caso la chemioterapia sia somministrata prima dell’atto
chirurgico. Tale approccio presenta diversi vantaggi potenziali rispetto alla chemioterapia
adiuvante. In primo luogo, la terapia primaria consente un’esposizione più precoce alla
chemioterapia delle potenziali micrometastasi rispetto a quella ottenibile con l’approccio
adiuvante. In secondo luogo, una risposta obiettiva della lesione primitiva fornisce
75
un’importante prova in vivo che la chemioterapia utilizzata sia attiva nel caso specifico e
suggerisce che anche le micrometastasi a distanza siano sensibili. Al contrario, se la lesione
primitiva non regredisce, la probabilità che il regime chemioterapico possa eliminare le
micrometastasi sembra fortemente diminuita. Il monitoraggio della risposta fornisce,
pertanto, un’opportunità precoce per valutare la necessità di un cambiamento del regime
terapeutico con il passaggio a regimi alternativi. In terzo luogo, una significativa regressione
della neoplasia primitiva potrebbe consentire di adattare il trattamento locale al singolo
paziente. Per esempio, la chirurgia potrebbe essere tecnicamente più facile grazie alla ridotta
massa tumorale oppure potrebbe essere considerata una procedura chirurgica più conservativa
o valutato l’impiego della radioterapia in luogo della chirurgia. In alcune situazioni la
chemioterapia primaria è somministrata simultaneamente alla radioterapia, allo scopo sia di
migliorare il controllo locale sia di trattare la malattia micrometastatica a distanza. Nei casi di
carcinoma anale e vescicale, tale approccio ha consentito l’effettuazione di procedure
conservative in un’elevata percentuale di pazienti.
Tab. e3.29. Neoplasie trattate efficacemente con chemioterapia primaria.
Sarcoma dei tessuti molli
Osteosarcoma
Carcinoma anale
Carcinoma vescicale
Carcinoma laringeo
Carcinoma esofageo
Carcinoma mammario localmente avanzato
Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1,
p. 455; modificata.
La chemioterapia primaria presenta anche potenziali svantaggi. In primo luogo, l’impiego ab
initio della chemioterapia in pazienti con neoplasie potenzialmente curabili con la sola
chirurgia in una piccola percentuale di casi. Infatti, se la chemioterapia risulta inefficace,
esiste la concreta possibilità che la malattia divenga non più resecabile durante il trattamento.
In secondo luogo, l’impiego della chemioterapia primaria potrebbe oscurare il reale stadio
patologico della neoplasia, alterando dimensione e margini tumorali e trasformando linfonodi
positivi in negativi all’esame istologico. La conseguente imprecisione nella stadiazione di
molte neoplasie rende difficile esser certi che un gruppo omogeneo di pazienti sia stato
trattato e questo fatto potrebbe confondere l’interpretazione dei risultati degli studi clinici.
Infine, una drammatica risposta clinica può determinare il ricorso a una procedura
conservativa inappropriata o una scarsa accettazione da parte del paziente della procedura
raccomandata.
Terapia sistemica della malattia avanzata o metastatica
L’impiego più comune della terapia sistemica è nel trattamento della malattia avanzata o
metastatica dopo il fallimento delle terapie locali oppure di una neoplasia per la quale non
esista un’alternativa terapeutica. Questo è forse il test più severo per la chemioterapia, poiché
il volume tumorale è significativo e i pazienti sono spesso fisicamente compromessi dagli
effetti della malattia. Tuttavia, questa è anche la condizione clinica nella quale l’attività di
nuovi agenti antitumorali e di regimi chemioterapici è inizialmente valutata. Il trattamento di
76
pazienti con malattia avanzata consente sia di determinare l’attività antitumorale su base
individuale sia di definire con accuratezza il tasso di risposta, arruolando in uno studio clinico
un numero appropriato di pazienti con la stessa diagnosi e caratteristiche pretrattamento
simili. Il beneficio della terapia sistemica nei pazienti può essere dedotto dall’entità della
risposta a carico della malattia misurabile o valutabile. Ovviamente, la misura più importante
di efficacia della terapia sistemica è il conseguimento di una risposta completa, che determina
una significativa riduzione o la scomparsa dei sintomi dipendenti dalla malattia e,
generalmente, si traduce in un significativo prolungamento della sopravvivenza, anche in
pazienti che, alla fine, ricadono. La terapia può essere definita curativa solo quando la
risposta completa è conservata dopo il termine del trattamento. L’importanza clinica della
risposta completa è, pertanto, misurata attraverso la durata della sopravvivenza libera da
malattia (disease-free survival) oppure da ricaduta (relapse-free survival). Anche le risposte
parziali possono determinare un beneficio sintomatico per i pazienti, ma raramente si
associano a un prolungamento significativo della sopravvivenza. La somministrazione
continua del regime chemioterapico è, di solito, richiesta per il mantenimento della risposta
parziale. A meno che il regime non sia estremamente ben tollerato, gli effetti cumulativi della
terapia potrebbero, alla fine, limitare il beneficio per il paziente. La durata mediana delle
risposte complete e parziali è spesso utilizzata come una misura di esito (end point) negli
studi clinici di terapie sistemiche. Per i ricercatori clinici, il maggior valore della
documentazione di risposte parziali risiede forse nella valutazione di nuovi farmaci. Se questi
ultimi hanno indotto risposte parziali in pazienti trattati negli studi di fase I o II, può essere
giustificata un’ulteriore valutazione in stadi più precoci di malattia, oppure in combinazione
con altri agenti attivi. Alcuni studi clinici valutano il numero di pazienti che presentano una
stabilità di malattia durante il trattamento, ossia risposte che non soddisfano i criteri per la
risposta obiettiva o per la progressione, ma il valore scientifico di tale misura nella
valutazione di un trattamento citotossico può legittimamente essere messo in dubbio. In
singoli pazienti nei quali, dopo una fase di rapida progressione, il trattamento determini un
periodo prolungato caratterizzato da malattia stabile e miglioramento sintomatico, l’oncologo
medico potrebbe giudicare efficace la terapia e, su tale base, proseguirla. L’importanza della
stabilità di malattia è cresciuta da quando nuovi agenti non citotossici sono entrati nelle
sperimentazioni cliniche per la valutazione di efficacia. In questi casi è possibile che
l’evidenza di un effetto biologico assuma una forma differente da quella alla quale si è
abituati con l’impiego di citotossici convenzionali. È ormai chiaro che, oltre alle tradizionali
misure di esito (risposta obiettiva, durata della sopravvivenza e tassi di cura) impiegate negli
studi di terapia sistemica, debbano essere adottati anche altri tipi di misure. In generale,
queste si riferiscono al controllo dei sintomi indotti dalla neoplasia e al miglioramento della
qualità di vita del paziente. Nonostante tali misure di esito possano risultare più soggettive di
quelle tradizionali, è importante che i criteri per la loro valutazione siano concordati e che
esse siano impiegate di routine in studi clinici nei quali un miglioramento del tasso di cura sia
improbabile.
La chemioterapia risulta curativa per diverse neoplasie umane in fase avanzata (Tab. e3.30).
Queste comprendono la malattia trofoblastica gestazionale e diverse neoplasie ematologiche,
ma si può affermare che un solo tipo di tumore solido avanzato, le neoplasie germinali del
testicolo, risulti abitualmente curabile con la sola chemioterapia. Le neoplasie solide più
comuni come, per esempio, i carcinomi della mammella, del polmone, della prostata e del
tratto gastroenterico, non sono invece curabili con le attuali terapie quando sono in fase
metastatica.
77
Tab. e3.30. Neoplasie curabili od occasionalmente curabili con la sola chemioterapia.
Neoplasie curabili con sola chemioterapia
• Coriocarcinoma gestazionale
• Malattia di Hodgkin
• Neoplasia germinale del testicolo
• Leucemia linfatica acuta
• Linfoma non-Hodgkin (alcuni sottotipi)
• Leucemia a cellule capellute (probabile)
Neoplasie occasionalmente curabili con chemioterapia
• Leucemia mieloide acuta
• Carcinoma ovarico
• Microcitoma polmonare (assieme alla radioterapia)
Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1,
p. 456; modificata.
Criteri generali di impiego della chemioterapia
La scelta della chemioterapia come modalità di trattamento per un dato paziente richiede una
dettagliata conoscenza del paziente, dei suoi problemi medici, del suo retroterra sociale ed emotivo,
oltre che una conoscenza generale della chemioterapia, una specifica conoscenza del programma
chemioterapico da utilizzare e la disponibilità di servizi di laboratorio e di supporto (Tab. e3.31).
Tab. e3.31. Requisiti per il trattamento chemioterapico.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Dimostrazione bioptica di malattia residua o metastatica1
Lesione parametro1
Stato di validità e nutrizionale soddisfacenti
Paziente capace di consenso informato
Funzionalità midollare, renale ed epatica accettabili (occasionalmente è importante la
funzionalità polmonare o cardiaca)
Disponibilità di monitoraggio e di funzioni di supporto
1
Eccetto che per la chemioterapia adiuvante.
Da: Freter C.E. et al: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 457;
modificata.
Selezione del paziente
La selezione del paziente candidato a chemioterapia si basa sulla valutazione di una serie di parametri,
quali l’età fisiologica, lo stato di validità, lo stato nutrizionale, l’obesità, la terapia precedente, la
funzionalità d’organo e la comorbilità.
•
La neoplasia è una patologia associata all’invecchiamento: la maggior parte delle
diagnosi e della mortalità per tumore si registra in individui con più di 65 anni.
Ciononostante, i pazienti anziani sono scarsamente rappresentati negli studi clinici
randomizzati, sui risultati dei quali sono principalmente basate le scelte terapeutiche.
Numerose spiegazioni sono state avanzate sulla connessione biologica tra neoplasia e
invecchiamento, quali una prolungata esposizione ai cancerogeni, un’aumentata
78
instabilità del DNA che determina un più elevato potenziale di mutazione,
l’accorciamento dei telomeri, un’alterata regolazione immunitaria e un’aumentata
suscettibilità allo stress ossidativo. La biologia della neoplasia può anche essere diversa in
relazione all’età di presentazione, e la comprensione dell’associazione tra la biologia di
specifiche neoplasie e l’invecchiamento può aiutare a guidare la pratica clinica. Per
esempio, nel carcinoma mammario le caratteristiche tumorali variano con l’età: vi è un
aumento delle neoplasie che esprimono i recettori ormonali e una diminuzione di quelle
con iperespressione dell’oncogene HER2/neu all’aumentare dell’età. L’età avanzata
raramente rappresenta un valido criterio per escludere la possibilità di un trattamento
chemioterapico nei pazienti anziani. Tuttavia, il processo di invecchiamento si associa a
una diminuzione della riserva fisiologica, che può influenzare la tollerabilità della terapia
antitumorale a causa dei mutamenti fisiologici che si verificano in vari sistemi d’organo
(in aggiunta ai mutamenti dipendenti dalla neoplasia). La diminuzione del flusso ematico
renale e il conseguente declino della filtrazione glomerulare con l’età possono influenzare
l’eliminazione di agenti citotossici escreti per via renale, quali cisplatino, carboplatino,
etoposide e metotrexato. La creatininemia non riflette, in maniera accurata, la funzionalità
renale dell’anziano, a causa della diminuzione della massa muscolare con
l’invecchiamento. Pertanto, è richiesta una misurazione del tasso di filtrazione
glomerulare per ottenere una stima più accurata della funzionalità renale al crescere
dell’età. L’età avanzata si associa anche a una diminuita secrezione di enzimi gastrici e a
un ridotto flusso ematico splancnico, che possono entrambi incidere sull’assorbimento
gastroenterico degli agenti orali. La massa epatica e il contenuto di citocromo p450
sembrano diminuire con l’aumentare dell’età, ma il significato clinico di questi
mutamenti rimane controverso. Infine, la diminuzione della riserva midollare con
l’invecchiamento può causare, nel paziente anziano, un’aumentata tossicità da parte di
terapie mielodepressive. Dal momento che l’invecchiamento è un processo eterogeneo,
strumenti quali la valutazione geriatrica multidimensionale (VGM) consentono di
identificare pazienti anziani a rischio aumentato di morbilità e mortalità. In tali individui,
i possibili rischi e i potenziali benefici di una terapia antitumorale devono essere
specificamente valutati. La VGM comprende domini di rilevanza prognostica, in grado di
fornire elementi sull’età fisiologica del paziente, a differenza della sola età cronologica
(Tab. e3.32). Diverse associazioni internazionali hanno sviluppato linee guida per il
trattamento del paziente oncologico anziano, allo scopo di fornire una cornice di
riferimento per la pratica clinica (Tab. e3.33).
•
•
Se si utilizza la scala di misura dello stato di validità proposta da Karnofsky o
dall’ECOG, essa risulta correlata strettamente con la sopravvivenza in certe presentazioni
tumorali. Questo è chiaramente espresso nel caso del carcinoma polmonare non
microcitoma, per il quale ciascuna riduzione del 10% nella scala di Karnofsky determina
una diminuzione misurabile della sopravvivenza. La conseguenza è che pazienti con uno
stato di validità di 3 o 4 secondo la scala ECOG, o inferiore al 30% secondo la scala di
Karnofsky non sono, di solito, candidati a chemioterapia (Tab. e3.20).
Sebbene il mantenimento del peso corporeo abituale possa essere impossibile nella
condizione di malattia avanzata, un introito giornaliero di 1.500-2.000 calorie è
necessario per consentire una soddisfacente possibilità di risposta al trattamento
antitumorale. Tale obiettivo è meglio perseguito, se possibile, attraverso l’assunzione
orale di cibi, utilizzando degli integratori, se necessario. Quando il paziente non è in
79
•
•
•
•
grado di ingerire abbastanza calorie, dovrebbe essere considerato il ricorso
all’alimentazione per via enterale o parenterale.
L’impiego della chemioterapia in pazienti obesi espone al rischio potenziale di
sovradosaggio, in caso di impiego del peso reale del paziente, se la dose è calcolata in
mg/kg o in base alla superficie corporea. Non esistono linee guida relative a questa
condizione: se i pazienti devono essere trattati con intento curativo, la chemioterapia
dovrebbe essere somministrata a dosaggio pieno, utilizzando la superficie corporea
calcolata in base al peso reale oppure a quello ideale, in quest’ultimo caso aumentando la
dose in relazione alla tollerabilità. I pazienti candidati a un trattamento con finalità
palliativa possono essere trattati, in modo più sicuro, con dosaggi calcolati in base al loro
peso ideale.
Praticamente in tutte le neoplasie, la mancata risposta alla chemioterapia di prima linea
riduce le probabilità di risposta alla terapia di seconda linea, a causa spesso dello sviluppo
di resistenza pleiotropica.
Un’alterata funzionalità d’organo (midollare, renale, epatica, cardiaca e polmonare) può
precludere del tutto l’utilizzo di alcuni agenti chemioterapici oppure richiedere una
modificazione della dose. Per evitare un’eccessiva tossicità, è essenziale conoscere il
processo di distribuzione e il metabolismo del farmaco in tali circostanze. La
maggioranza degli oncologi medici trova utile determinare la funzionalità midollare
basale mediante esame emocromocitometrico, la funzionalità epatica e renale mediante il
profilo ematochimico e, occasionalmente, la funzionalità cardiaca mediante
ecocardiografia e quella polmonare mediante radiografia del torace e spirometria.
La presenza di patologie concomitanti non neoplastiche (comorbilità) potrebbe
determinare un cambiamento nella scelta dei farmaci chemioterapici, anche se le
comorbilità non eliminano il razionale all’impiego della chemioterapia. Il numero di
comorbilità aumenta con l’età: dati della letteratura indicano che pazienti di età compresa
tra 55 e 64 anni presentano, in media, 2,9 comorbilità, mentre quelli di età ≥ 75 anni
presentano, in media, 4,2 comorbilità. La comorbilità ha importanti implicazioni di
carattere prognostico. Quando l’oncologo medico formula un piano di trattamento
giustappone il rischio di morte per la neoplasia a quello derivante dalla comorbilità. Viene
valutato anche l’effetto del trattamento sulla diminuzione di questo rischio. In tale
contesto, le neoplasie indolenti possono essere trattate in maniera più conservativa,
quando sia presente una sostanziale comorbilità che abbia una maggiore probabilità di
incidere sull’attesa di vita. Al contrario, le neoplasie più aggressive richiedono un
trattamento se hanno maggiore probabilità, rispetto alla comorbilità, di influenzare
l’attesa di vita. La comorbilità sembra anche influenzare l’utilizzazione della
chemioterapia in vari tipi di neoplasie. È possibile che questa tendenza rifletta i risultati di
studi che suggeriscono una maggiore tossicità indotta dalla chemioterapia nei pazienti con
comorbilità, sebbene i dati siano contraddittori. Specifiche comorbilità possono avere un
peso notevole sulla prognosi e sull’esito del trattamento (Box e3.10). Vi è anche un
apprezzamento crescente del fatto che la comorbilità possa avere un’influenza sostanziale
sulla tollerabilità del trattamento. Dati relativi a pazienti con carcinoma mammario
trattate con chemioterapia adiuvante a densità di dose hanno identificato un’associazione
tra comorbilità e sviluppo di tossicità severa. Inoltre, certe comorbilità possono avere un
impatto sulla tollerabilità di specifiche terapie. Per esempio, osservazioni preliminari
hanno suggerito un aumentato rischio di neuropatia severa in pazienti diabetici trattati con
paclitaxel. Analogamente, il rischio di cardiotossicità indotta dall’anticorpo monoclonale
trastuzumab è più elevato in pazienti ipertese.
80
Tab. e3.32. Componenti della VGM ed esempi scelti che indicano le implicazioni di questi domini per il
trattamento e la prognosi delle neoplasie.
Dominio della VGM
Stato funzionale
Comorbilità
Stato cognitivo
Stato psicologico
Supporto sociale
Polifarmacia
Stato nutrizionale
Implicazioni per trattamento e prognosi della neoplasia:
esempi scelti
Disabilità nelle attività strumentali della vita quotidiana sono
associate con una diminuita sopravvivenza nel carcinoma
polmonare non microcitoma e nella leucemia acuta
Un’estensione crescente della comorbilità è stata associata con
aumenti paralleli nella mortalità dovuta sia alla neoplasia sia a
ogni altra causa in pazienti con carcinoma mammario
La presenza di demenza può diminuire la probabilità di ricevere
la terapia sistemica adiuvante per neoplasie mammarie e del
colon
L’angoscia correla con una funzionalità fisica peggiore in
pazienti con neoplasie solide
Un aumento della mortalità dovuta sia alla neoplasia sia a ogni
altra causa è stato osservato in donne anziane con carcinoma
mammario che sono socialmente isolate
Studi su pazienti oncologici anziani suggeriscono una media di
fino a 9 farmaci per paziente, con sforzi limitati per valutare le
interazioni farmacologiche con la chemioterapia
La perdita di peso prima dell’inizio della chemioterapia è stata
connessa a un cattivo esito in molti tipi di neoplasia, compresi il
carcinoma del colon e il carcinoma polmonare non microcitoma
VGM: valutazione geriatrica multidimensionale.
Da: Pal S.K. et al.: Impact of age, sex, and comorbidity on cancer therapy and disease progression. J. Clin.
Oncol. 28: 4086-4093, 2010; modificata.
Tab. e3.33. Linee guida del NCCN per il trattamento dell’anziano con neoplasia.
1.
2.
3.
4.
5.
Tutti i pazienti di età ≥ 65 anni dovrebbero essere sottoposti a una qualche forma di valutazione
geriatrica prima dell’inizio del trattamento
Per l’impiego di composti eliminati attraverso i reni o che danno origine a metaboliti attivi e tossici
escreti attraverso i reni, la dose dovrebbe essere adattata al tasso di filtrazione glomerulare
individuale in soggetti di età ≥ 65 anni. L’incremento di dose può cominciare se nessuna evidenza di
tossicità è incontrata
Pazienti di età ≥ 65 anni che sono sottoposti a chemioterapia moderatamente tossica (intensità di
dose simile a quella del regime CHOP) dovrebbero ricevere la profilassi con fattori di crescita della
serie bianca
I livelli di emoglobina dovrebbero essere mantenuti pari a 12 g/dL o più con fattore di crescita
Pazienti di età ≥ 65 anni che presentano mucosite di grado 3 o 4 dovrebbero essere ospedalizzati per
essere sottoposti a una terapia reidratante aggressiva
NCCN: National Cancer Center Network; CHOP: ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina, prednisone.
81
Box e3.10. Diabete e progressione neoplastica
Dati della letteratura indicano che i pazienti affetti da carcinoma del colon, che soffrono
anche di diabete, presentano un tasso di mortalità più elevato. Il razionale molecolare di
tale fenomeno può essere messo in relazione a elevati livelli circolanti di insulina, che
accelera la proliferazione di linee cellulari colo-rettali. Fornendo una validazione clinica di
questa teoria, uno studio condotto in pazienti operati di carcinoma colo-rettale ha
evidenziato che livelli più elevati di peptide C e bassi livelli di Insulin-like Growth Factor
Binding Protein-1 (IGFBP-1) sono associati a un’aumentata mortalità. Inoltre, elevati livelli
a digiuno di insulina in pazienti con carcinoma mammario sono risultati associati a un
rischio aumentato di recidiva a distanza e di morte nella malattia in fase precoce. Queste
evidenze hanno portato allo sviluppo di studi clinici che valutano se la modulazione
dell’asse dell’insulina sia in grado di influire sugli esiti delle malattie neoplastiche. Uno
studio retrospettivo ha identificato un tasso più elevato di risposta completa patologica alla
chemioterapia primaria tra le pazienti diabetiche, che assumono metformina, rispetto alle
pazienti non diabetiche. Questi risultati hanno portato all’avvio di uno studio americano
intergruppo di fase III, che esamina l’effetto della metformina come terapia adiuvante per il
carcinoma mammario.
Farmacogenetica e farmacogenomica degli agenti antitumorali
È noto da tempo che la variabilità tra i pazienti nella risposta ai farmaci si associa a uno spettro di esiti
che spaziano dall’assenza dell’effetto terapeutico atteso a una reazione avversa, la quale causa una
significativa morbilità e mortalità per i pazienti. Il termine “farmacogenetica” indica lo studio dei
fattori genetici che influenzano la risposta ai farmaci e alle sostanze chimiche ed è stato introdotto per
la prima volta nel 1959. I recenti progressi nel sequenziamento su grande scala del DNA e i
miglioramenti delle tecnologie bioinformatiche hanno portato alla transizione dalla farmacogenetica
alla farmacogenomica. Lo scopo di queste discipline emergenti è quello di personalizzare la terapia
sulla base del genotipo individuale. L’informazione genetica è stata utilizzata nell’identificazione del
rischio di malattia (per es. valutazione della mutazione del gene BRCA1 per stimare il rischio di
carcinoma mammario), nella scelta del trattamento (per es. varianti alleliche del gene CYP2D6 nel
trattamento del carcinoma mammario con tamoxifene) e nel guidare il dosaggio dei farmaci (per es.
polimorfismo del gene UGT1A1 e tossicità dell’irinotecano). Questo è particolarmente importante nel
caso degli agenti chemioterapici, che possono colpire sia le cellule tumorali sia quelle normali e,
pertanto, hanno il potenziale di indurre una tossicità letale. Oncologi medici ed ematologi stanno
dedicando grandi sforzi all’individualizzazione del trattamento antitumorale nel tentativo di
massimizzare l’efficacia e di minimizzare la tossicità per il paziente. L’identificazione di varianti
genetiche dell’ospite che contribuiscano all’efficacia e/o al rischio di tossicità di un farmaco può
fornire un mezzo con il quale individualizzare la terapia. Una variante genetica potrebbe spiegare
mutamenti che riguardano la farmacocinetica nonché le alterazioni dell’attività oppure
dell’espressione del bersaglio terapeutico o di proteine coinvolte nel meccanismo di azione del
farmaco (Box e3.11). Gli studi di farmacogenetica e farmacogenomica degli agenti antitumorali sono
potenzialmente complicati dalle mutazioni somatiche presenti nella neoplasia, ma è improbabile che
esse incidano sulla tossicità.
82
Box e3.11. Farmacogenetica delle fluoropirimidine
Le fluoropirimidine sono antimetaboliti che inibiscono l’enzima timidilato sintetasi (TS) e
la sintesi del DNA. Il 5-fluorouracile (5-FU) e i suoi profarmaci, capecitabina e tegafur,
sono tra i chemioterapici di impiego più comune nel trattamento di neoplasie solide (per es.
il carcinoma colo-rettale). La diidropirimidina deidrogenasi (DPD) è l’enzima responsabile
di oltre l’85% del catabolismo e dell’eliminazione del 5-FU. Un deficit di DPD è stato
riscontrato in una piccola minoranza di pazienti che sviluppano tossicità severa, con
diarrea, mucosite/stomatite e neutropenia di grado elevato. È stata anche esaminata la
rilevanza del test di routine del deficit di DPD in pazienti candidati a trattamento con 5-FU.
Sebbene il deficit di DPD fornisca la prova del principio per l’analisi farmacogenetica, la
traslazione nella pratica clinica non si è verificata a causa dei seguenti fattori: (1) sebbene
gli alleli DPYDË2A e DPYDË13 siano associati a diminuita attività della DPD e ad
aumentata tossicità da 5-FU, questi alleli sono rari; (2) il valore predittivo positivo del
genotipo DPYDË2A per lo sviluppo di tossicità di grado severo è stato solo del 46%; (3)
una ridotta attività della DPD è stata rilevata in alcuni pazienti con livelli normali del gene
DPYP wild-type, suggerendo che variazioni genetiche o epigenetiche aggiuntive siano
responsabili di questa variazione dell’attività enzimatica. Un tale gruppo di geni include
una variante della TS, che è stata associata a espressione differenziale della TS e a ricaduta
della neoplasia. Altri polimorfismi che possono esercitare effetti differenziali sull’esito del
trattamento sono stati trovati nel gene MTHFR, poiché l’enzima metilenetetraidrofolato
reduttasi interagisce con la TS.
Principi di selezione dei farmaci
La polichemioterapia è ora il trattamento standard per molte neoplasie disseminate o metastatiche ed è
curativa per alcune di esse. Sfortunatamente, la maggior parte di queste ultime è rappresentata da rare
neoplasie ematologiche o pediatriche, mentre le neoplasie più comuni dell’adulto, una volta che hanno
metastatizzato, sono raramente curabili. Con il termine chemioendocrinoterapia si intende l’utilizzo di
agenti citotossici e di agenti endocrini, come nel caso dell’inclusione del prednisone nel regime di
combinazione MOPP (mecloretamina, vincristina, procarbazina, prednisone). Nel carcinoma
mammario, la somministrazione sequenziale dell’agente endocrino tamoxifene, dopo chemioterapia
contenente ciclofosfamide e doxorubicina, è un altro esempio di chemioendocrinoterapia.
Modificatori della risposta biologica, come l’IFN e l’IL-2, sono utilizzati singolarmente oppure in
associazione alla chemioterapia. Per quanto attiene alla via di somministrazione, la maggior parte
degli agenti chemioterapici è somministrata per via endovenosa, eliminando eventuali problemi di
compliance al trattamento e di assorbimento. Molti degli agenti endocrini e alcuni agenti
chemioterapici, come il melfalan, il clorambucile, il busulfano, la 6-mercaptopurina e la 6-tioguanina,
sono somministrati per via orale. Di recente, l’etoposide orale e la capecitabina, un profarmaco orale
del fluorouracile, si sono aggiunti al catalogo degli agenti citotossici attivi per os. La
somministrazione del metotrexato può avvenire per via orale, endovenosa, intramuscolare o
intratecale. IFN e IL-2 sono di solito somministrati sottocute. Alcuni agenti chemioterapici possono
essere instillati in cavità corporee per il trattamento di versamenti neoplastici, come nel caso della
bleomicina per il trattamento di versamenti pleurici. La somministrazione in infusione continua offre
un vantaggio potenziale nel caso di farmaci ciclo-specifici, come gli antimetaboliti, per i quali
un’esposizione prolungata potrebbe aumentare il numero di cellule tumorali uccise. Occorre
considerare anche la disponibilità di un accesso venoso, in quanto, se esso non può essere stabilito, la
terapia endovena potrebbe non essere fattibile. Fortunatamente, lo sviluppo di dispositivi di accesso
venoso impiantabili sottocute, di cateteri esterni multi-lume e di cateteri inseriti a livello periferico ha
permesso l’impiego della chemioterapia in molte condizioni nelle quali prima non era possibile. I
83
programmi di trattamento farmacologico, compreso il dosaggio, dovrebbero essere tratti dalla
letteratura scientifica e modificati secondo la funzionalità d’organo del paziente. Le dosi dei farmaci
sono modificate di routine a seguito di diminuzioni del numero di cellule ematiche circolanti e di
mutamenti nella funzionalità epatica e renale. Il verificarsi di certi tipi di tossicità, come la
neurotossicità da alcaloidi della vinca oppure la mucosite da metotrexato, è utilizzata anche come
un’indicazione alla riduzione di dose o alla sospensione del farmaco.
Follow-up dei pazienti
La terapia adiuvante è di solito somministrata per un numero definito di cicli, come, per esempio, sei
cicli di chemioterapia dopo una mastectomia radicale modificata o una quadrantectomia per
carcinoma mammario in stadio I o II. In altre situazioni, come la malattia metastatica, è prassi comune
rivalutare il paziente dopo 2-3 cicli di terapia per determinarne l’efficacia. Se la terapia ha
inequivocabilmente prodotto una risposta obiettiva ed è tollerata dal paziente, di solito viene
continuata per un numero definito di cicli oppure per ulteriori due cicli dopo una risposta completa
(allo scopo di eliminare qualunque residuo tumorale microscopico). Se invece la neoplasia è
progredita, la terapia viene interrotta ed è intrapresa una rivalutazione dell’estensione di malattia. La
stabilità di malattia in corso di terapia rappresenta la situazione clinica più difficile: se il paziente può
tollerare la terapia in termini di effetti collaterali, una decisione condivisa di proseguire il trattamento
è ragionevole, con la consapevolezza che, alla fine, si verificherà la progressione.
Aspetti generali del trattamento multidisciplinare
Attualmente, la maggior parte delle neoplasie solide, anche quelle in fase molto precoce, è trattata
mediante più di una modalità terapeutica, allo scopo di aumentare la possibilità di cura o la qualità di
vita. L’approccio multidisciplinare richiede l’apporto e il coordinamento di più figure specialistiche.
A complicare ulteriormente il quadro, occorre tenere presente che spesso esiste più di un’opzione
terapeutica. Questa situazione richiede che i diversi specialisti coinvolti siano d’accordo sul regime di
trattamento da adottare. Sebbene i progressi nella terapia multimodale abbiano mutato il ruolo del
chirurgo nella diagnosi e nel trattamento delle neoplasie, egli continua a essere il referente principale
per la maggior parte dei pazienti oncologici e, frequentemente, si trova a coordinare il trattamento
assieme ad altri specialisti, compresi il radioterapista e l’oncologo medico. Alla stregua del chirurgo,
il radioterapista fornisce una modalità importante di trattamento oncologico locoregionale. La
radioterapia è spesso utilizzata dopo la chirurgia per migliorare i tassi di controllo locale di malattia o
anche prima della chirurgia per ridurre la massa tumorale o lo stadio della neoplasia. Inoltre, è una
condizione sempre più comune che la radioterapia sia associata alla somministrazione simultanea di
agenti chemioterapici a scopo radiosensibilizzante. I compiti dell’oncologo medico comprendono la
somministrazione e il monitoraggio della chemioterapia, dell’endocrinoterapia e, in alcuni casi, della
terapia biologica. Inoltre, l’oncologo medico è chiamato a gestire gli effetti collaterali causati dalle
terapie sistemiche antitumorali e, di conseguenza, fornisce un considerevole apporto in termini di
terapia di supporto, soprattutto in quanto nuovi farmaci sono stati sviluppati per migliorare il controllo
dell’emesi e della fatigue. È importante, nonché vantaggioso, per il paziente che i diversi specialisti
lavorino in maniera coordinata e collaborativa per il conseguimento del risultato terapeutico ottimale.
Dati della letteratura dimostrano che l’approccio multidisciplinare nel trattamento delle neoplasie
determina un aumento della sopravvivenza. Il chirurgo oncologo non è soltanto coinvolto, assieme al
radioterapista e all’oncologo medico, nello sviluppo del piano di trattamento, ma è anche responsabile
del riconoscimento della necessità di ricorrere all’apporto di specialisti oncologi in altre branche
chirurgiche (chirurgia toracica, urologica, plastica, della testa-collo, ginecologica e ortopedica) o
dell’appropriatezza nell’indirizzare il paziente a uno studio clinico. Infatti, la partecipazione a studi
clinici si è dimostrata di enorme beneficio per i pazienti. Sebbene gli studi clinici possano mancare di
una componente chirurgica, il chirurgo oncologo può aiutare a perseguire tale beneficio, affiancando
gli studi e arruolandovi i pazienti eleggibili.
84
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