XXII domenica TO A 2014

XXII domenica TO A
Ger 20,7-9; Sal 62; Rom 12,1-2; Mt 16,21-27
Prima Lettura Ger 20, 7-9
La parola del Signore è diventata per me causa di
vergogna.
Dal libro del profeta Geremia
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato
sedurre;
mi hai fatto violenza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno;
ognuno si beffa di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo urlare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me
causa di vergogna e di scherno tutto il giorno.
Mi dicevo: «Non penserò più a lui,
non parlerò più nel suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,
trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo.
Seconda Lettura Rm 12, 1-2
Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito
a Dio; è questo il vostro culto spirituale.
Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per
poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Vangelo Mt 16, 21-27
Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire
molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti
accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché
non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la
sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita
per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che
cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a
ciascuno secondo le sue azioni».
1
La prima lettura (Ger 20,7-9) ci propone la confessione più celebre di Geremia (Yirmeyà, «Dio sarà
magnanimo», VII sec. a.C.). È un testo che spaventa e attrae insieme perché esprime lo sgomento di chi ha
capito che il Signore ha anche una mano dura, eppure non si può non avere fiducia in lui.
In un giorno dell’anno 650, Chelkia gira, agitato, intorno alla sua casa di Anatòt. Sua moglie ha i dolori del
parto. Fuori, il padre attende. D’un tratto, qualcuno gli dà la notizia che lo riempie di gioia: “Un maschio!”.
Esultante, esclama: Geremia è il suo nome. Geremia nasce, dunque, ad Anatòt, tranquillo villaggio situato a
circa sei chilometri a nord-est di Gerusalemme. Appartiene alla tribù di Beniamino, del regno di Giuda.
Inverno dell’anno 604. Il re Ioiakim, comodamente seduto nella sua residenza invernale riscaldata da un
braciere, ordina a Ieudi di leggergli il rotolo che Geremia ha dettato a Baruc. Ieudi comincia la lettura a voce
alta davanti al re e davanti a tutti i capi che in piedi circondano il re. Lette tre o quattro pagine, il re le taglia
con il temperino e le getta nel fuoco del braciere. Elnatan, Delaias e Guemarias supplicano il re di non
bruciare il rotolo, ma egli non presta loro attenzione. Continua, con assoluta indifferenza, a tagliare le pagine
e a gettarle nel fuoco sino a far finire tutto il rotolo nel braciere. Ioiakim crede che sia possibile ridurre in
cenere la parola di Dio consegnata al suo profeta. Ma la parola di Dio arde e non brucia. Piuttosto, si
ravviva con il fuoco.
Ger 20,7: Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai
prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me (PiTTîtaºnî
yhwh(´ädönäy) wä|´ePPät HázaqTaºnî waTTûkäl häyîºtî liSHôq Kol-hayyôm Kullò lö`ëg lî, lett. «Seducesti me,
Adonay, e fui sedotto, rinforzasti me e prevalesti. Fui come scherno ogni giorno, tutto lui beffantesi di me»).
- Mi hai sedotto (PiTTîtaºnî). Il verbo pathah al qal (semplice attivo): «essere traviabile, essere stolto»; pièl
(intensivo attivo) e nifàl (riflessivo passivo), come qui: «persuadere», «adescare», «sedurre», «ammaliare»;
«lasciarsi adescare», «indurre», ripetuto due volte, può avere significato sessuale, come nella legge di Es
22,16. In 1Re 22,20-22 // 2Cr 18,19-21 ricorre sulle labbra del profeta Michea che, considerando falsa la
parola dei profeti, ritiene che servendosi di loro Adonay stesso aveva voluto «ingannare» il re Acab. Secondo
alcuni autori si può dare al verbo il significato di «persuadere», o di «tentare di persuadere», spesso per
mezzo delle parole. Per altri ancora il verbo indica che Adonay prevarica sulla volontà o decisione del
profeta, non ancora consapevole dei risvolti della missione. Si tratterebbe di un'azione analoga a quella
contemplata nella figura giuridica della circonvenzione di incapace. Nel nostro versetto, l'ipotesi che il
verbo esprima quest'ultima idea è corroborata dalla presenza del verbo chazaq «essere forte» (HázaqTaºnî «mi
hai fatto violenza») che alcune volte è usato pure in senso sessuale (all'hifìl, causativo attivo: Dt 22,25; 2Sam
13,11; Pr 7,13). Comunemente il versetto è interpretato come una protesta contro Dio che, approfittando
dell'inesperienza del profeta, lo chiamò in un'età in cui non poteva rendersi pienamente conto delle
conseguenze cui sarebbe andato incontro (1,6). Si può, tuttavia, leggere questo versetto alla luce di tutta
l'esistenza del profeta, vissuta come vera e propria lotta (11,18), alla fine vinta da Dio (20,9; cf 5,14; 23,29;
28,13).
- e io mi sono lasciato sedurre (wä|´ePPät). Tra Dio e Geremia c'è stato un incontro, come un abbraccio fra due
amanti, combattimento corpo a corpo. Geremia vive l’esperienza di essere afferrato da Dio come un uccello
caduto nella trappola, secondo l’espressione di Amos (Am 3,5) o come il corpo a corpo di Giacobbe al fiume
Iabbok (Gen 32,28.31). Dio si è comportato con Geremia come un uomo che inganna una donna attraendola
per poi impadronirsi di lei e possederla: mi hai sedotto, mi hai fatto forza, hai prevalso su di me, e ora io ti
accuso. Non volevo profetare e tu mi hai tratto in inganno facendomi credere una cosa per l’altra; mi hai
costretto a seguirti senza dirmi che cosa mi aspettava, io mi sono fidato di te e tu mi hai messo in un mare
di guai.
20,8: Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del
Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno (Kî|-miDDê ´ádaBBër
´ez`äq Hämäs wäšöd ´eqrä´ Kî|-häyâ dübar-yhwh(´ädönäy) lî lüHerPâ ûlüqeºles Kol-hayyôm, lett. «Poiché da
che parlai, gridai: "Violenza e oppressione!", proclamai, poiché fu parola di Adonay a me come obbrobrio e come scherno tutto il
giorno»).
2
- Violenza! Oppressione! (Hämäs wäšöd). Questa coppia di termini ricorre anche in Ger 6,7; Am 3,10; Ab 1,3;
2,17. L'ebraico Hämäs «violenza» è di casa nell'ambiente giuridico, nel quale può esprimere situazioni
diverse. Probabilmente il significato originario dovette essere quello di «misfatto», ovvero di azione
contraria alla Legge, le cui conseguenze gravavano su tutta la comunità. Forse qui denota il grido di aiuto
che il profeta, vittima degli avversari, rivolge alla comunità, simile a quello che un innocente, accusato
ingiustamente, rivolge ai suoi giudici. Le conseguenze di questo inganno sono drammatiche. Il profeta vive
il tormento interiore, il conflitto di coscienza. La sua sembra quasi una bestemmia: non ti seguirò più, ho
deciso di dimenticarti. Si sente nato per la maledizione! Quel seno materno nel quale fu santificato, sarebbe
dovuta essere la sua tomba; ne è uscito solo per ferire la terra intera e, in primo luogo, per ferire se stesso e le
persone amate (15,10; 20,14). Tuttavia il lamento è espresso in preghiera, quindi con spirito di fede, come
parlava Giobbe o come leggiamo in alcuni salmi.
20,9: Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore
c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma
non potevo (wü´ämarTî lö|´-´ezKüreºnnû wülö|´-´ádaBBër `ôd Bišmô wühäyâ büliBBî Kü´ëš Bö`eºret `äcùr
Bü`acmötäy wünil´êºtî Ka|lkël wülö´ ´ûkäl, lett. «E dissi. "Non ricorderò lui, e non parlerò più in nome di lui". Ma fu in
cuore mio come fuoco ardente, nascosto in ossa mie e mi sforzai di contenere ma non potei»).
- Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente (wühäyâ büliBBî Kü´ëš Bö`eºret). Nei vv. 8-9 il profeta si
sofferma sugli effetti della predicazione: da una parte, predicando il giudizio contro il popolo suscita una
reazione negativa; dall'altra, se tace, è trascinato da una spinta incontenibile di segno opposto, di attrazione
verso la parola di Dio, divampante come un fuoco imprigionato nel suo intimo, immagine vulcanica, (cf 5,14
e 23,29), finalizzata a evidenziare l'irresistibilità della parola di Dio (analogamente a quella del leone che
ruggisce presente in Am 3,8). Riconosciamo in questo versetto parole d'amore, di un amore appassionato e
provato, proprio perché il profeta non riesce a dimenticare Colui che ama. La lamentazione si chiude
tragicamente: 14Maledetto il giorno in cui nacqui; … 18Perché sono uscito dal seno materno per vedere tormento e
dolore e per finire i miei giorni nella vergogna? (20,14-18).
Questo brano, l'ultimo delle cosiddette «confessioni» di Geremia, contiene gli indicatori
tipici del lamento individuale: invocazione (v. 7a); descrizione dello stato di sofferenza (vv. 7b-10);
confessione di fiducia e certezza di essere esaudito (v. 11); richiesta (v. 12). Il v. 13 è una dossologia composta
dell'invito a inneggiare a Dio (al plurale) e della motivazione. Si ha l'impressione che il brano sia
assemblaggio di differenti elementi, alcuni dei quali ripresi da altri luoghi del libro e riuniti insieme senza
badare alla linearità del pensiero. Così, per esempio, l'idea della parola come causa di persecuzione e
motivo di tormento, espressa nei vv. 7-9, proviene da 15,10-21, ma non è sviluppata nei vv. 10-12, in cui
invece ci si sofferma sul comportamento e la sorte degli avversari. Riguardo alla forma, è difficile
considerare i vv. 10-12 come la continuazione della poesia dei versetti precedenti. Inoltre, va notato che il v.
10a concorda quasi alla lettera con il Sal 31,14 e il v. 12 con Ger 11,20.
La Bibbia si rivela non solo nutrimento piacevole, ma diventa anche fonte di interrogativi, scuote e
purifica le coscienze, induce alla lotta. Il litigio con la Parola tocca l'intimo del credente e invita
continuamente a ripensare il mistero di Dio, al di là della banalità religiosa di cui talora ci si accontenta.
Geremia a un tratto si accorge che la Parola è debole, non ha il successo assicurato, viene
contestata, non ha il potere di compiere miracoli e di cambiare le situazioni. La gente un po' ascolta, un po’
deride, critica, lascia delusi e forse frustrati i servitori della Parola. In sintesi:
1. Le confessioni di Geremia ci ricordano la debolezza della Parola incarnata. Il servo è colui che
rivela Dio «e annunzia la giustizia alle genti». Non contende, né grida, né fa udire in piazza la sua voce. Non
spezza la canna incrinata, non spegne il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo
nome spereranno le genti (cf Mt 12,18-21).
2. La missione della Chiesa consiste nel caricarsi dei dolori della gente, per curarli, per alleviarli,
per soccorrere i poveri e gli affamati; caricarsene, però, anche con la propria debolezza e povertà. Tale
3
debolezza della Chiesa è espressa molto bene nella realtà più povera e più inerme che ci sia: l’Eucaristia.
Non c’è nulla di più debole, di più incapace ad agire, di più passivo del pane e del vino dell’Eucaristia;
eppure in essa Dio compie il massimo della rivelazione del suo amore.
3. Quando la Parola ci viene a mancare, quando è debole in noi e siamo afferrati dallo
scoraggiamento e dallo sconforto, noi rimaniamo sempre servi del Signore e le sofferenze che
sperimentiamo ci rendono simili all’agnello mansueto. Non è dunque contrario alla vocazione cristiana
avvertire stanchezza, disgusto, disagio, ripugnanza, debolezza. Se ci poniamo in ascolto, ci accorgiamo che
proprio in tali condizioni il Signore si rende presente.
La seconda lettura (Rom 12,1-2) ci introduce nell'etica paolina, espressa magistralmente nella
seconda parte della lettera ai Romani (Rm 12-15). Per tre volte Paolo rileva l’orizzonte propriamente teologico
della sua esortazione. Dio si trova al centro della storia della salvezza e all’origine dell’esortazione etica.
Rom 12,1: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come
sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (Παρακαλῶ οὖν
ὑμᾶς, ἀδελφοί, διὰ τῶν οἰκτιρμῶν τοῦ θεοῦ παραστῆσαι τὰ σώματα ὑμῶν θυσίαν ζῶσαν ἁγίαν τῷ θεῷ,
εὐάρεστον τὴν λογικὴν λατρείαν ὑμῶν, lett. «Esorto dunque voi, fratelli, per le misericordie di Dio di offrire i corpi di
voi sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; il razionale culto di voi»).
- Vi esorto (παρακαλῶ). L'esortazione paolina comincia con questo verbo tipico: παρακαλέω, ind. pres., (inf.
παρακαλεῖν) «chiamo, invito, esorto, incito, ammonisco» che ha permesso di definire l’intera sezione come
paracletica più che come parenetica. Quest’esortazione è rivolta a destinatari definiti ἀδελφοί «fratelli».
- per la misericordia di Dio (διὰ τῶν οἰκτιρμῶν τοῦ θεοῦ, lett. «per le misericordie di Dio»). Per esortare i cristiani
di Roma, Paolo fa appello alle οἰκτιρμοί τοῦ θεοῦ, «misericordie di Dio». Il fatto che Paolo eviti il sostantivo
ἔλεος, éleos «misericordia, bontà, compassione» e usi il corrispondente οἰκτιρμός, oiktirmós generalmente al
plurale (tranne in Col 3,12) «pietà, compassione, misericordia», dimostra che abbiamo a che fare con un
semitismo: gli οἰκτιρμοί, oiktirmoí sono analoghi agli σπλάγχνα, splánchna, ossia alle «viscere» (in ebr.
rachamim), un antropomorfismo per esprimere la misericordia di Dio. In 2Cor 1,3 Dio stesso è definito ὁ
πατὴρ τῶν οἰκτιρμῶν καὶ θεὸς πάσης παρακλήσεως «padre di misericordie e di ogni consolazione».
- a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (παραστῆσαι τὰ σώματα ὑμῶν θυσίαν
ζῶσαν ἁγίαν τῷ θεῷ εὐάρεστον). Paolo introduce qui il vocabolario cultuale per descrivere l’esistenza
cristiana, invitando a offrire i vostri corpi come sacrificio. Il verbo παραστῆσαι, inf. aor. di παρίστημι, significa
«metto a disposizione, dimostro, offro, sono presente». Il sostantivo σῶμα, sỗma «corpo» si riferisce
all’intera persona posta in relazione con il Signore. Quest’originale vittima sacrificale è definita come
ζῶσαν, part. pres. di ζάω «vivente», ἁγία «santa», εὐάρεστος «gradita», τῷ θεῷ «a Dio».
- è questo il vostro culto spirituale (τὴν λογικὴν λατρείαν ὑμῶν). Il v. 1 si conclude con un’enigmatica
definizione del culto: λογική, logikē. Che cosa si intende con quest’aggettivo che sintetizza ogni altra
dimensione del culto cristiano? Non è facile tradurlo in modo corrispondente: un culto «logico», «spirituale», «vero» o «razionale»? Sembra che Paolo si riferisca al culto «razionale» o della mente dei credenti,
poiché in essa, che trova la sua sede nel cuore e non nella testa, si compie la conversione.
12,2: Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro
modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e
perfetto (καὶ μὴ συσχηματίζεσθε τῷ αἰῶνι τούτῳ, ἀλλὰ μεταμορφοῦσθε τῇ ἀνακαινώσει τοῦ νοὸς εἰς
τὸ δοκιμάζειν ὑμᾶς τί τὸ θέλημα τοῦ θεοῦ, τὸ ἀγαθὸν καὶ εὐάρεστον καὶ τέλειον, lett. «e non conformatevi
al secolo questo, ma trasformatevi col rinnovamento della mente per discernere voi cosa (è) la volontà di Dio, il bene e cosa
gradita e perfetta»).
- Non conformatevi a questo mondo (μὴ συσχηματίζεσθε τῷ αἰῶνι τούτῳ). Il verbo συσχηματίζεσθε è impt.
pres. med. di συσχηματίζομαι «rendo conforme, mi conformo». In che modo si realizza la λογικὴ λατρεία,
il «culto razionale» dei credenti? Il culto cristiano è anticonformista rispetto al tempo nel quale si vive,
grazie all’orizzonte escatologico offerto dalla fede.
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- lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare (μεταμορφοῦσθε τῇ ἀνακαινώσει τοῦ νοὸς). Il
verbo μεταμορφοῦσθε è impt. pres. pass. di μεταμορφοῦμαι «vengo cambiato, trasformato, trasfigurato».
In termini positivi, il culto cristiano si rivela come trasformazione di sé attraverso la ἀνακαίνωσις, il
«rinnovamento» del νοῦς, della «mente». La finalità della trasformazione della mente, che rende possibile il
culto della ragione, intesa come centro totalizzante di sé, è rappresentata dal discernimento della volontà di
Dio.
- per poter discernere la volontà di Dio (εἰς τὸ δοκιμάζειν ὑμᾶς τί τὸ θέλημα τοῦ θεοῦ). Il discernimento della
volontà di Dio si realizza grazie alla ἀνακαίνωσις, al «rinnovamento» del νοῦς, della «mente» che valuta le
decisioni da compiere. Contro il vanto di chi pretende di conoscere la volontà di Dio (cf Rm 2,18), si colloca il
dinamico discernimento di chi la cerca senza illudersi di possederla. Non è un caso che il verbo δοκιμάζειν
«saggiare, mettere alla prova, valutare, discernere» si trovi spesso nelle sezioni propriamente etiche
dell’epistolario paolino: in fondo, senza questa funzione della mente, non è possibile alcun
riconoscimento della volontà divina. Per il momento, Paolo non definisce la volontà di Dio: preferisce
descriverla come ciò che è ἀγαθὸν καὶ εὐάρεστον καὶ τέλειον «buono, gradito e perfetto». Altrove, Paolo
considera come τέλειοι «perfetti» coloro che hanno raggiunto un livello superiore di maturazione nella
fede. Poiché al culmine della condotta cristiana si trova l'ἀγάπη «agape» che è σύνδεσμος τῆς τελειότητος
«vincolo di perfezione» (cf Col 3,14), Paolo introduce qui un altro orizzonte fondamentale della sua etica:
quello dell’amore. Non c’è dubbio che un modo concreto per non conformarsi alla mentalità del proprio
tempo consiste nel non lasciarsi andare all’esaltazione di sé, ritenendosi migliori degli altri, bensì nel
mettere a disposizione i propri carismi, come fanno le membra con il proprio corpo.
Il vangelo (Mt 16,21-27) continua a farci leggere quanto è accaduto dopo la confessione messianica di
Pietro, a Cesarea di Filippo.
Mt 16,21: Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a
Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi,
e venire ucciso e risorgere il terzo giorno (ἀπὸ τότε ἤρξατο [ὁ] Ἰησοῦς (Χριστὸς) δεικνύειν τοῖς
μαθηταῖς αὐτοῦ ὅτι δεῖ αὐτὸν εἰς Ἱεροσόλυμα ἀπελθεῖν καὶ πολλὰ παθεῖν ἀπὸ τῶν πρεσβυτέρων καὶ
ἀρχιερέων καὶ γραμματέων καὶ ἀποκτανθῆναι καὶ τῇ τρίτῃ ἡμέρᾳ ἐγερθῆναι, lett. «Da allora cominciò Gesù
a mostrare ai discepoli di lui che era necessario per lui a Gerusalemme andare e molte cose soffrire dagli anziani e sommi
sacerdoti e scribi es essere ucciso e il terzo giorno risorgere»).
- Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli (ἀπὸ τότε ἤρξατο [ὁ] Ἰησοῦς (Χριστὸς) δεικνύειν τοῖς
μαθηταῖς αὐτοῦ). Che cosa intendeva dire Pietro, riconoscendo in Gesù il Cristo? (16,16). Certo che egli era
il Figlio di David, il re d'Israele. Ma come interpretare questa figliolanza davidica e questa regalità su
Israele? Pietro può arrivare a dire: Tu sei il Messia, ma non può andare oltre. La vocazione messianica è
singolare, unica, e solo colui che è stato chiamato può spiegarla. Nel nostro caso, Gesù inizia a spiegare un
po' alla volta in che senso è Messia, l'Unto del Signore. La prima cosa che egli inizia a precisare è la
necessità per lui di salire a Gerusalemme. Nella città di David e dei suoi discendenti vi era un tempo il
trono regale. Ora, quale sarà il trono di Gesù? Gesù, reinterpretando tutte le Scritture, in qualità di maestro
afferma che il suo trono sarà la croce. Questo più che il destino di David, è stato quello di Abele o dei
profeti. Perciò la necessità di andare a Gerusalemme per morirvi, deriva a Gesù non tanto dalla sua
missione messianica ma da quella profetica: Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti (23,37). Ma è
proprio questa l'originalità della sua reinterpretazione della figura messianica. Matteo indica Gerusalemme
come la meta del viaggio di Gesù. Tra i suoi nemici non sono nominati i farisei.
- venire ucciso e risorgere il terzo giorno (ἀποκτανθῆναι καὶ τῇ τρίτῃ ἡμέρᾳ ἐγερθῆναι). Il verbo
ἀποκτανθῆναι è inf. aor. pass. di ἀποκτείνω «faccio morire, uccido, distruggo». Il verbo ἐγερθῆναι è inf.
aor. pass. di ἐγείρω «sveglio, desto, faccio alzare, risorgo». L'espressione τῇ τρίτῃ ἡμέρᾳ «il terzo giorno»
segna una svolta decisiva (cf Os 6,2; Gv 1,17; 2,10).
16,22: Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia,
Signore; questo non ti accadrà mai» (καὶ προσλαβόμενος αὐτὸν ὁ Πέτρος ἤρξατο ἐπιτιμᾶν αὐτῷ
5
λέγων• ἵλεώς σοι, κύριε• οὐ μὴ ἔσται σοι τοῦτο, lett. «E avendo preso con sé lui, Pietro cominciò a rimproverare lui
dicendo: misericordioso con te (sia Dio), Signore; non affatto sarà a te questo»).
- Pietro si mise a rimproverarlo (ὁ Πέτρος ἤρξατο ἐπιτιμᾶν αὐτῷ). Il verbo ἐπιτιμᾶν è inf. pres. di ἐπιτιμάω
«redarguisco, rimprovero, minaccio, intimo, proibisco». Pietro, dinanzi al primo preannuncio della morte di
Gesù, reagisce negativamente con tono minaccioso e inibente, al punto da essere assimilato alla figura di
satana. Nell'Apocalisse si denuncia lo stile accusatorio tipico del δράκων ὁ μέγας, ὁ ὄφις ὁ ἀρχαῖος, ὁ
καλούμενος Διάβολος καὶ ὁ Σατανᾶς «grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il
Satana» (Ap 12,9), ὁ κατήγωρ τῶν ἀδελφῶν ἡμῶν «l'accusatore dei nostri fratelli» (Ap 12,10).
- Dio non voglia, Signore (ἵλεώς σοι, κύριε). L'aggettivo greco ἵλεώς significa «propizio, favorevole».
L'espressione ἵλεώς σοι, híleōs soi è una forma ellittica d'augurio che significa: «(Dio) ti sia propizio». Solo
Matteo riporta questa apostrofe di Pietro. Pietro, quando ha chiamato Gesù «Messia», probabilmente non s'è
nemmeno chiesto che cosa volesse dire. Adesso che Gesù comincia a spiegarglielo, Pietro lo prese in disparte e
si mise a rimproverarlo come si farebbe con un bambino. Pietro, che da poco era stato dichiarato μακάριος
«beato», adesso si adegua alla mentalità degli uomini non accettando un destino di rifiuto e di morte.
16,23: Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo,
perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (ὁ δὲ στραφεὶς εἶπεν τῷ Πέτρῳ• ὕπαγε
ὀπίσω μου, Σατανᾶ• σκάνδαλον εἶ ἐμοῦ, ὅτι οὐ φρονεῖς τὰ τοῦ θεοῦ ἀλλὰ τὰ τῶν ἀνθρώπων, lett. «Egli
allora essendosi voltato disse a Pietro: Va' dietro di me, Satana! Inciampo sei di me, perché non pensi le cose di Dio, ma le
cose degli uomini»).
- Va’ dietro a me (ὕπαγε ὀπίσω μου). Qui Pietro è visto come un presunto apripista, colui che anziché vivere
la sequela ὀπίσω «dietro» a Gesù, si pone ἔμπροσθεν «davanti» al Maestro, in qualità di esperto della via da
seguire.
- Satana (Σατανᾶ). L'ebraico Śāṭān, in greco è reso con Σατᾶν o Σατανᾶς; in latino Satănas; in aramaico Śiṭnâ;
in arabo Šayṭān. Il significato in ebraico è «avversario, colui che si oppone, accusatore in giudizio,
contraddittore». Egli rappresenta l'incarnazione e la personificazione del principio del male supremo, in
contrapposizione a Dio, principio del sommo bene. Secondo la kabbalà, il valore numerico del nome ha-Satan
è 364. Giovanni Semerano (filologo di Ostuni 1913-2005) ne fa derivare il termine dal sumero ša-tām,
attraverso il babilonese Šatām dal quale šatān, šatāmu, šatāmmu indicanti «controllore e capo di una
amministrazione», poi nome di una divinità e successivamente «capo di un tempio». L'ebraico Satàn (cf Gb
1,2; Zc 3,1-2) fu tradotto dalla LXX con διάβολος, diábolos, (dal verbo διαβάλλω, «getto di traverso, accuso,
calunnio») e significa «colui che divide, che distoglie, che separa» da Dio; è l’esatto contrario di σύμβολον,
sýmbolon «segno» che a sua volta deriva dal tema del verbo σύμβάλλω, sýmballō (da σύμ- «insieme» e βολή
«getto»), avente il significato approssimativo di «mettere insieme» due parti distinte. Il simbolo perciò
designa una realtà che unisce. Nell'antica Grecia διάβολος era un aggettivo denotante «il maldicente, il
calunniatore, il detrattore». Paolo e Matteo lo chiamano ὁ πειράζων «il tentatore» (1Ts 3,5). Nel mondo
cristiano è visto come Principe delle Tenebre, Principe di questo Mondo, Belzebù (divinità fenicia il cui nome
significa «Signore delle Mosche»), Belial, Mefistofele, Lucifero. È anche chiamato Mitricoleon poiché, secondo
un'antica tradizione ebraica, si fa piccolo con i grandi e grande con i piccoli.
- Tu mi sei di scandalo (σκάνδαλον εἶ ἐμοῦ). Alla lettera lo σκάνδαλον è qualcosa che fa cadere, un ostacolo
sul cammino. In questo versetto è personificato da quelli che fanno cose contro la Torà. Il lessema ricorre
anche in 13,41 e 18,7. In Is 8,14 si parla di ûlü´eºben negep «pietra d'inciampo», qui Pietro anziché essere la
«roccia» su cui è fondata la Chiesa (cf 16,18), diventa la pietra che fa inciampare Gesù. Da «pietra» di
fondazione, ora viene additato come «scandalo», da beato diventa come satana. La reazione petrina al primo
annunzio della passione non annulla ma ridimensiona il macarismo μακάριος εἶ «beato sei tu» (16,17) di
Gesù rivolto a Pietro. La pietra di fondazione della Chiesa allora non è tanto Pietro, quanto Gesù stesso:
nessuno può mettere un fondamento diverso da questo (cf. 1Cor 3,11). Pietro stesso lo riconosce nella sua
prima lettera: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso.
Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è
diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla
Parola. A questo erano destinati» (1Pt 2,6-8). Quelli che rifiutano la passione e la morte di Gesù sono dalla
parte di Satana (cf 4,10), sono coloro che vorrebbero costruire sulla base della carne e del sangue,
rinunciando così alla vittoria sulle potenze infernali. Il duro intervento di Gesù è motivato dalla necessità
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continua di sconfessare la mentalità mondana che rappresenta una sottile tentazione per la Chiesa di
sempre. Pietro di fatto sta rifiutando il Messia-Servo sofferente, per sostenere la sapienza di questo mondo.
La mentalità di questo mondo per Paolo va rigettata (cf Rm 12,2).
16,24: Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi
se stesso, prenda la sua croce e mi segua (τότε ὁ Ἰησοῦς εἶπεν τοῖς μαθηταῖς αὐτοῦ• εἴ τις θέλει
ὀπίσω μου ἐλθεῖν, ἀπαρνησάσθω ἑαυτὸν καὶ ἀράτω τὸν σταυρὸν αὐτοῦ καὶ ἀκολουθείτω μοι, lett. «Allora
Gesù disse ai discepoli suoi: Se qualcuno vuole dietro a me venire, rinneghi se stesso e prenda la croce sua e segua me»).
- Gesù disse ai suoi discepoli (ὁ Ἰησοῦς εἶπεν τοῖς μαθηταῖς αὐτοῦ). Matteo sottrae le istruzioni che seguono al
dominio pubblico e le riserva ai soli discepoli. Nella stessa occasione in cui profetizza la necessità della sua
morte a Gerusalemme, Gesù inizia pure a rendere noto quale sia il destino dei discepoli impegnati nella sua
sequela. La comunanza di destino tra il maestro e i discepoli era già stata tracciata: Οὐκ ἔστιν μαθητὴς ὑπὲρ
τὸν διδάσκαλον «un discepolo non è più del maestro» (10,24). Ora è dato di capire che il dissenso di Pietro
non è tanto motivato dall'apprensione per la sorte del maestro, ma dal rifiuto di condividerla dietro di lui.
Due sono le condizioni per seguire Gesù: 1) ἀπαρνησάσθω ἑαυτὸν «rinneghi se stesso». Il verbo
ἀπαρνησάσθω è impt. aor. pass. di ἀπαρνέομαι «nego, rinnego, rigetto», verbo usato anche per indicare il
rinnegamento di Pietro (cf 26,34s). Il rinnegare se stessi significa rinunciare alla propria volontà, ad avere
qualcosa da difendere; 2) ἀράτω τὸν σταυρὸν αὐτοῦ «prenda la sua croce». Il verbo ἀράτω è impt. aor. di
αἴρω «alzo, sollevo, prendo, porto», quindi disporsi ad andare incontro alla morte.
- prenda la sua croce (ἀράτω τὸν σταυρὸν αὐτοῦ). Nella Palestina occupata dai Romani non doveva essere
raro vedere qualche condannato portare la croce. Questi detti hanno la funzione di legare la passione di
Gesù (16,21) alle sofferenze dei seguaci di Cristo.
16,25: Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita
per causa mia, la troverà (ὃς γὰρ ἐὰν θέλῃ τὴν ψυχὴν αὐτοῦ σῶσαι ἀπολέσει αὐτήν• ὃς δ' ἂν
ἀπολέσῃ τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἕνεκεν ἐμοῦ εὑρήσει αὐτήν, lett. «Chi infatti voglia la vita sua salvare perderà essa; chi
ma perde la vita sua salvare a causa mia troverà essa»).
Questo versetto ci offre un mashal, un proverbio che forse è la più autentica di tutte le parole di Gesù. È un
proverbio volutamente paradossale: si può salvare la vita solo perdendola, mentre la si perde quando la si
vuol salvare a tutti i costi.
16,26: Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la
propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? (τί γὰρ
ὠφεληθήσεται ἄνθρωπος ἐὰν τὸν κόσμον ὅλον κερδήσῃ τὴν δὲ ψυχὴν αὐτοῦ ζημιωθῇ; ἢ τί δώσει
ἄνθρωπος ἀντάλλαγμα τῆς ψυχῆς αὐτοῦ; lett. «Che infatti utilità avrà uomo se il mondo intero guadagna, ma la vita
di lui danneggia? O cosa darà uomo in cambio della vita sua?»)
- se guadagnerà il mondo intero (ἐὰν τὸν κόσμον ὅλον κερδήσῃ). Il verbo κερδήσῃ è cong. aor. di κερδαίνω
«guadagno, conquisto, risparmio». L'espressione si riferisce alla possibilità di avere a disposizione le
ricchezze e tutta l'abbondanza del creato. Eppure tutto ciò non vale quanto il salvaguardare la propria ψυχή
«vita», che è più preziosa di tutti i beni terreni e si può garantire solo in relazione alla passione e morte di
Gesù. Il v. 26 ricorda la terza tentazione nel deserto; guadagnare il mondo intero (cf 4,8). Anche il rimprovero
fatto a Pietro: Va' dietro a me, Satana! (16,23) rimanda al modo in cui Gesù ha vinto il tentatore (4,10). L'uomo
non è padrone della sua vita: se la perde, inseguendo dei vantaggi fasulli, non è in grado di "riscattarla",
di riaverla indietro, pagasse pure tutto l'oro del mondo.
16,27: Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli,
e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni (μέλλει γὰρ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ἔρχεσθαι ἐν
τῇ δόξῃ τοῦ πατρὸς αὐτοῦ μετὰ τῶν ἀγγέλων αὐτοῦ, καὶ τότε ἀποδώσει ἑκάστῳ κατὰ τὴν πρᾶξιν αὐτοῦ,
lett. «Sta per infatti il Figlio dell'uomo venire nella gloria del Padre suo con gli angeli di lui e allora darà a ciascuno secondo
l'azione di lui»).
- il Figlio dell’uomo sta per venire (ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ἔρχεσθαι). Per Matteo, il Figlio dell'uomo è il Giudice
nel suo regno, coadiuvato dai suoi angeli (16,27).
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- renderà a ciascuno (ἀποδώσει ἑκάστῳ). Il verbo ἀποδώσει è ind. fut. di ἀποδίδωμι «consegno, do, affido,
rendo». Matteo parla del giudizio secondo i meriti di ciascuno (cf Sal 62,13; Pr 24,12). La stessa idea ha
grande spicco anche nelle lettere di Paolo (cf Rm 14,12; 1Cor 4,5; 2 Cor 5,10). Il Figlio dell'uomo renderà a
ciascuno secondo le sue azioni. In questo contesto, l'agire richiesto è uno solo: la sequela di Gesù. L'uomo non
può riscattare se stesso né pagare a Dio il suo prezzo (Sal 49,8). Qualunque cosa faccia, l'uomo non è in grado di
salvarsi. Il metro del giudizio dunque non sono le "buone azioni". L'obbedienza richiesta dal Figlio
dell'uomo è la sequela del Messia nel suo destino sofferente e rischioso. L'uomo, per Matteo, sarà giudicato
sulla sua obbedienza alla Parola e non sulle sue iniziative; questo significa che egli sarà giudicato sulla sua
relazione con Gesù (cf il giudizio finale in Mt 25).
Il primo annuncio della morte e risurrezione (Mt 16,21-23). Per tre volte Gesù nei vangeli
sinottici parla della sua passione, della sua morte e della risurrezione con annunci che si trovano, nel
primo vangelo, in 16,21-23; 17,22-23; 20,17-19. In Matteo il primo annuncio del destino futuro di Gesù è caratterizzato dalla formula che ricorre solo un'altra volta nel suo vangelo, in 4,17, ἀπὸ τότε ἤρξατο Ἰησοῦς
«da allora Gesù cominciò a...». Inoltre Matteo parla espressamente della città di Gerusalemme, che nel
primo vangelo ha un ruolo importante. Da ciò possiamo dedurre che il contesto in cui Gesù prevede la sua
passione e morte è quello di una delle feste di pellegrinaggio che portavano a Gerusalemme. Tale
elemento emerge non solo grazie al verbo συστρέφω «radunarsi», che potrebbe implicare il ritrovarsi
insieme per iniziare un tale viaggio in occasione del secondo annuncio (cf 17,22), ma anche dall'utilizzo
dell'espressione tecnica ἀναβαίνειν εἰς Ἱεροσόλυμα «salire a Gerusalemme» (cf Sal 122,4), usata in
occasione del terzo annuncio della passione (cf 20,17-18). In questo modo, Gesù viene presentato come un
ebreo osservante (Shomer) dei precetti che prevedevano per ogni maschio l'obbligo di salire tre volte
all'anno a Gerusalemme, per le feste di Pasqua, di Pentecoste e delle Capanne (Shalosh Regalim: Es 23,17;34,23;
Dt 16,16; 2Cr 8,13).
All'inizio dell'annuncio della sua passione Gesù usa il verbo δεῖ, «bisogna, conviene, è necessario,
si deve» (cf Mc 8,31), che ricorrerà anche nelle parole di Gesù al momento del suo arresto; al discepolo
anonimo che mette mano alla spada dice: πῶς οὖν πληρωθῶσιν αἱ γραφαὶ ὅτι οὕτως δεῖ γενέσθαι; «allora
come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26,54). Il destino di sofferenza e
morte che Gesù annuncia non è frutto di un capriccio divino, ma di una volontà che se è misteriosa o
inaudita, è anche paterna, e che Gesù accoglie inaugurando un modo diverso di essere Messia. Ma poiché
sembra assurdo credere a un Messia che si sarebbe caricato delle sofferenze del mondo, questo δεῖ non è
compreso, come è accaduto a Pietro (cf Gv 18,10).
In questo primo annuncio Gesù si riferisce a coloro che saranno gli agenti della sua passione,
«anziani, capi dei sacerdoti e scribi»; se le ultime due categorie spariranno nel secondo annuncio,
ritorneranno ancora nel terzo. Si vede bene che gli avversari coi quali Gesù si scontra più frequentemente, i
farisei, scompaiono nella fase cruciale della vita di Gesù ed entrano in gioco invece i capi dell'establishment
politico e religioso del tempo.
Gli studiosi si sono domandati se gli annunci sulla sua morte possano risalire a Gesù stesso; tutto
dipende da come si intende il rapporto tra storia e verità nei vangeli. Non si può negare che Gesù avesse
coscienza di un suo imminente destino di sofferenza, che poteva essere dedotto: 1) dalle crescenti ostilità; 2)
dalle incomprensioni che incontrava nel suo ministero; 3) dalla sorte che il Battista stesso aveva subìto. Ciò che
solo il primo vangelo dice dell' ἀναχωρέω «ritirarsi» (14x nel NT, 10x in Mt) di Gesù davanti alle minacce di
morte, non nascondendo i sentimenti di timore che egli potrebbe aver provato, rende molto probabile che
egli abbia intuito la sua fine. Un grande significato ha il detto soteriologico sul «riscatto» di 20,28: ὥσπερ ὁ
υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου οὐκ ἦλθεν διακονηθῆναι ἀλλὰ διακονῆσαι καὶ δοῦναι τὴν ψυχὴν αὐτοῦ λύτρον ἀντὶ
πολλῶν «Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita
in riscatto per molti». Lo scopo della sua passione e morte perciò sarà quello di διακονῆσαι «servire» i
πολλοί «molti». Sempre nel primo vangelo, tale coscienza giungerà al suo apice nell'espressione unica di
Matteo: τοῦτο γάρ ἐστιν τὸ αἷμά μου τῆς διαθήκης τὸ περὶ πολλῶν ἐκχυννόμενον εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν
«questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati» (26,28).
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Ammesso che i tre annunci sinottici della morte presentano segni di una lettura postpasquale (cf Lc
9,44 dove non si parla di risurrezione), ciò non esclude la possibilità che il Gesù terreno abbia parlato
anche di un «terzo giorno», quello che nella tradizione biblica e in quella rabbinica successiva è il giorno in
cui Dio ridona la vita, come si legge in una delle più antiche professioni di fede cristiana: ἐγήγερται τῇ
ἡμέρᾳ τῇ τρίτῃ κατὰ τὰς γραφὰς «fu risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture» (1Cor 15,4).
Benedetto XVI ha affermato, nel suo secondo volume di Gesù di Nazaret, che il terzo giorno «non è una
"data teologica", ma il giorno di un avvenimento» che per i discepoli diventerà poi la svolta decisiva dopo
la croce di Gesù. Ciò non impedisce a noi di ricordare quanto era creduto a proposito di quel giorno, e che
confluirà poi nelle antiche tradizioni giudaiche. In un commento midrashico a Genesi si legge:
«Sta scritto "Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà risorgere e vivremo alla sua presenza" (Os
6,2). Il terzo giorno delle tribù: "Al terzo giorno Giuseppe disse loro..." (Gen 42,18); il terzo giorno del dono
della Torà: "Il terzo giorno, al mattino..." (Es 19,16); il terzo giorno delle spie: "là state nascosti tre giorni"
(Gs 2,16); il terzo giorno di Giona: "Giona restò nel ventre del pesce tre giorni" (Gio 2,1); il terzo giorno di
coloro che ritornano dall'esilio: "Là rimanemmo accampati per tre giorni" (Esd 8,15); il terzo giorno della
risurrezione dei morti: "Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci farà risorgere e vivremo alla
sua presenza" (Os 6,2). Il terzo giorno di Ester: "Il terzo giorno [Ester...] si ammantò del suo splendore"
(Est 5,1). E in virtù di che cosa? I nostri maestri dicono: in virtù del terzo giorno del dono della Torà, e
rabbi Levi dice: in virtù del terzo giorno del nostro padre Abraam: "Il terzo giorno» ecc."» (Bereshit
Rabba 56,1).
Abbiamo qui una charizà «collana» di testi costruita attraverso le citazioni bibliche in cui appare
l'espressione «il terzo giorno», dalla quale si capisce che per i Saggi ebrei esso è molto più che una
definizione cronologica. Anzi, la comparazione fra tutti questi passi dimostra che il terzo giorno è quello
nel quale si risolve una situazione critica, addirittura disperata. Il terzo giorno è quello del dono della
vita. È ciò che afferma sinteticamente un adagio riferito da Bereshit Rabbah: «Mai il Santo, benedetto Egli sia,
lascia i giusti nell'angoscia per tre giorni» (M. Remaud).
La reazione di Pietro alle parole di Gesù sulla sua morte è di rifiuto: l'apostolo, che anche in ciò
rappresenta i discepoli, nonostante la sua confessione appena formulata, prende in disparte Gesù per
rimproverarlo. Questo gesto e le sue parole dicono la sua poca fede, della quale si prenderà però cura Gesù,
quando lo porterà con sé sul monte della trasfigurazione. Gesù non invita Pietro ad andarsene da lui, ma
ad andare dietro (ὀπίσω) di lui, perché Pietro con il suo rifiuto ha abbandonato il posto di discepolo che
deve camminare dietro Gesù, e si è messo davanti a lui, diventando ostacolo e causa di inciampo
(σκάνδαλον). Anche se Gesù si rivolge a Pietro con lo stesso nome di colui che vuole dividerlo dal progetto
del Padre («Satana», al quale Gesù dice proprio «Vattene»: 4,10), è pur vero che il primo degli apostoli non
viene redarguito perché se ne vada, ma perché sia confermato nella sequela. È esattamente quanto viene
richiesto non solo a lui, ma a tutti coloro che vogliono andare dietro (ὀπίσω) Gesù.
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