I CONTRATTI rivista nr 10 2014 - Le Banche Dati per gli Operatori

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i Contratti
Anno XXII
SOMMARIO
GIURISPRUDENZA
Contratti
L’EQUILIBRIO SOGGETTIVO DELLO SCAMBIO (E L’INTEGRAZIONE) TRA CORTE DI GIUSTIZIA,
dei consumatori CORTE COSTITUZIONALE ED ABF: ‘‘IL MONDO DI IERI’’ O UN TROMPE L’OEIL CONCETTUALE?
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 30 aprile 2014, causa C-26/13
Corte costituzionale, ord. 2 aprile 2014, n. 77
ABF, Collegio di coordinamento, 24 giungo 2014, n. 3955
ABF, Collegio di Roma, 23 maggio 2014, n. 3415
il commento di Stefano Pagliantini
853
854
Contratti
VERIFICA DEL MERITO CREDITIZIO ED EFFICACIA DEI RIMEDI A TUTELA DEL CONSUMATORE
dei consumatori Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. IV, 27 marzo 2014, n. C-565/12
il commento di Tiziana Rumi
873
878
Appalto
Locazione
Caparra
confirmatoria
CORSI E RICORSI DELLE OBBLIGAZIONI ‘‘DI RISULTATO’’ E DELLE OBBLIGAZIONI ‘‘DI MEZZI’’:
LA DISTINZIONE E LA DOGMATICA DELLA SUA IRRILEVANZA
Cassazione Civile, Sez. II, 28 febbraio 2014, n. 4876
il commento di Fabrizio Piraino
888
891
LOCAZIONE NON REGISTRATA E REGIME GIURIDICO DEL RAPPORTO. A PROPOSITO
DI UN REVIREMENT (ANNUNCIATO) DELLA CASSAZIONE
Cassazione Civile, Sez. III, ord. 3 gennaio 2014, n. 37
il commento di Fulvio Gigliotti
914
914
APPLICAZIONE DIRETTA DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI E NULLITA` DELLA CAPARRA
CONFIRMATORIA ‘‘ECCESSIVA’’
Corte costituzionale, ord. 21 ottobre 2013, n. 248
il commento di Giovanni D’Amico
926
927
OSSERVATORIO DI LEGITTIMITA`
a cura di Francesco Macario
con la collaborazione di Giulia Orefice e Francesco Paolo Patti
OSSERVATORIO DI MERITO
a cura di Vito Amendolagine
938
941
ARGOMENTI
Vendita
CONSIDERAZIONI IN TEMA DI VENDITA OBBLIGATORIA
di Francesco Camilletti
946
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA
OSSERVATORIO COMUNITARIO
a cura di Pietro Michea -Studio Legale De Berti Jacchia Franchini Forlani, Bruxelles
956
INDICI
AUTORI
CRONOLOGICO
ANALITICO
961
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Giuseppe Amadio, Angelo Barba, Giuseppe Conte, Donato Carusi, Silvia Cipollina, Vincenzo Cuffaro, Giovanni Di Rosa, Angelo Federico, Aurelio Gentili, Michele Lobuono, Marisaria Maugeri, Salvatore Monticelli, Andrea Mora, Emanuela Navarretta, Fabio Padovini, Salvatore Patti, Stefano Pagliantini, Ugo Salanitro, Pietro Sirena, Chiara Tenella Sillani
i Contratti 10/2014
851
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Giurisprudenza
I singoli contratti
Contratti dei consumatori
L’equilibrio soggettivo dello
scambio (e l’integrazione) tra
Corte di Giustizia, Corte
costituzionale ed ABF: “il
mondo di ieri” o un trompe
l’oeil concettuale?
CORTE DI GIUSITZIA DELL’UNIONE EUROPEA, 30 aprile 2014, causa C-26/13 – Pres. Bay Larsen – Rel. Prechal – Árpad Kásler e Hajnalka Káslerné Rábai c. OTP Jelzálogbank Zrt
L’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole
abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che: 1) i termini “oggetto
principale del contratto” comprendono una clausola, integrata in un contratto di mutuo espresso in una valuta estera, concluso tra un professionista ed un consumatore e che non è stato oggetto di una trattativa individuale, come quella di cui al procedimento principale, a norma della quale il corso di vendita di tale valuta si
applica ai fini del calcolo dei rimborsi del mutuo, solo purché si constati, il che spetta al giudice del rinvio verificare alla luce della natura, dell’economia generale e delle stipulazioni del contratto nonché del suo contesto
giuridico e fattuale, che la suddetta clausola fissa una prestazione essenziale del contratto stesso che, come
tale, lo caratterizza; 2) una clausola del genere, in quanto implica un obbligo pecuniario per il consumatore di
pagare, nell’ambito dei rimborsi del mutuo, importi derivanti dalla differenza tra il corso di vendita ed il corso
di acquisto della valuta estera, non può essere considerata nel senso che implica una “remunerazione” la cui
congruità, in quanto corrispettivo di una prestazione effettuata dal mutuante, non può essere oggetto di una
valutazione del suo carattere abusivo a norma dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
L’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, quanto ad una clausola
contrattuale come quella di cui al procedimento principale, è necessario intendere il requisito secondo cui
una clausola contrattuale deve essere redatta in modo chiaro e comprensibile nel senso di imporre non soltanto che la clausola in questione sia intelligibile per il consumatore su un piano grammaticale, ma anche che
il contratto esponga in maniera trasparente il funzionamento concreto del meccanismo di conversione della
valuta estera al quale si riferisce la clausola in parola nonché il rapporto fra tale meccanismo e quello prescritto da altre clausole relative all’erogazione del mutuo, di modo che il consumatore sia posto in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche che gliene derivano.
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione come
quella di cui al procedimento principale, ove un contratto concluso tra un professionista ed un consumatore
non può sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva, tale disposizione non osta ad una regola di
diritto nazionale che permette al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo
a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva.
CORTE COSTITUZIONALE, ord. 2 aprile 2014, n. 77 – Pres. Silvestri – Rel. Morelli
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2, del codice
civile, sollevata, in riferimento all’art. 3, comma 2, della Costituzione.
i Contratti 10/2014
853
Giurisprudenza
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I singoli contratti
ARBITRATO BANCARIO FINANZIARIO, Collegio di Roma, ord. 23 maggio 2014, n. 3415 – Pres.
Marziale – Est. Sirena – T.I.F. c. Deutsche Bank S.p.a.
L’eliminazione degli interessi moratori, laddove essi siano stati determinati in misura manifestamente eccessiva, non compromette l’esistenza del contratto di finanziamento né può dirsi pregiudizievole per il consumatore. E, per altro verso, assumendo una finalità marcatamente preventiva e deterrente, risulta sistematicamente coerente con la disciplina speciale della nullità contrattuale derivante dalla violazione di norme poste
a tutela del cliente (artt. 117, commi 6 e 7, e 125-bis, commi 7 e 9, TUB). Soppressa la clausola nessun interesse è dovuto per il ritardo nel pagamento delle rate, fermo restando il decorso degli interessi corrispettivi contrattualmente pattuiti. È allora onere della banca provare il danno risarcibile a essa eventualmente cagionato
dalla mora debitoria, ai sensi dell’art. 1223 c.c.
ARBITRATO BANCARIO FINANZIARIO, Collegio di coordinamento, 24 giugno 2014, n. 3955 –
Pres. Marziale – Est. Gambaro
Il Collegio dichiara la parziale improcedibilità del ricorso. Accoglie parzialmente la parte residua e accerta la
nullità della clausola del contratto del settembre 2010 relativa alla misura degli interessi moratori, indicando
come applicabile al rapporto il disposto dell’art. 1224 c.c.
IL COMMENTO
di Stefano Pagliantini
La trasparenza delle clausole e la congruità dello scambio contrattuale sono i motivi che uniscono le decisioni in epigrafe, con un gioco di rimandi che vede la Corte di giustizia restringere l’effetto immunizzante delle clausole principali ex art. 4, § 2 dir. 93/13 orientando poi l’integrazione successiva del contratto
asimmetrico secondo un canone di effettività della tutela, la Corte costituzionale richiamare discutibilmente la Drittwirkung per la c.d. caparra confirmatoria iniqua e l’ABF rigettare un’interpretazione funzionalista, escludente l’integrazione per via dispositiva, nel caso di vessatorietà della clausola sugli interessi
moratori.
Prologo (in Lussemburgo, in Italia ed in
Spagna)
Tramonto dell’equilibrio soggettivo dello scambio? Le tre decisioni in epigrafe, una sentenza e
due ordinanze, se non la morte, parrebbero ufficializzare il declino, per la verità neanche troppo lento, di un principio messo sí pesantemente in discussione nell’ultimo ventennio ma, ciò nondimeno, rimasto in auge, per quanto arrugginito e sfilacciato, grazie ad un interscambio degli argomenti
preposti a certificarlo, da ultimo quel trittico che,
non soltanto nell’area tedesca, vede il classico
Darf-nicht-Motiv affiancato dal più pragmatico - ma
forse anche meglio acconcio - Kann-nicht-Motiv,
con sullo sfondo la sua variabile specificativa del
Braucht-nicht-Motiv (1). Si potrebbe allora pensare
che il suo attuale epicedio giurisprudenziale sia un
intermezzo provvisorio e volatile nell’attesa di un
qualche altro arresto che ne proclami, non meno
risolutamente la … resurrezione.
Di là dalle battute, l’occasione che si presenta
all’interprete è però di quelle davvero succose visto
che la gamma delle fattispecie toccate è a tutto
tondo, scorrendo in parallelo il contratto col consumatore e quello di diritto comune: anche se, va
detto, i tre provvedimenti in esame sono molto diversi tra di loro. La sentenza della Corte di giustizia, seppur provvista di un intercalare argomentativo di sicuro interesse, mette infatti in mostra un
dispositivo che, in quanto riproduttivo di almeno
due suoi precedenti, era di massima largamente
prevedibile. Una trasparenza sinallagmatica in senso forte, nell’ottica di un dovere di garantire l’effettiva conoscibilità del contenuto del contratto, per-
(1) V. le classiche pagine di Dylla-Krebs, Schranken der Inhaltskontrolle Allgemeiner Geschäftsbedingungen, Baden – Baden, 1990, 118 ss.
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i Contratti 10/2014
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Giurisprudenza
I singoli contratti
ché l’eccezione immunizzante dello squilibrio economico non può ossificare il giudizio di vessatorietà, è in realtà il suo asse portante, con la questione
correlata dell’integrabilità del contratto depennato
della clausola abusiva ad intercettare il tema,
sdrucciolevole in sé, dell’usurarietà degli interessi.
Secondo Cass. 350/2013, iterativa per la verità di
quanto già sentenziato da Corte cost. 29/2002, gli
interessi moratori vanno infatti assoggettati al vaglio di usurarietà com’è per quelli corrispettivi, con
l’annessa conseguenza allora che dovrebbero trovare applicazione o l’art. 1815, comma 2, c.c. donde
la decadenza del mutuante da tutti gli interessi convenuti ovvero quell’art. 125-bis, comma 7 TUB
che contempla una misura degli interessi legali pari
al tasso nominale minimo dei BOT annuali emessi
nei 12 mesi precedenti la stipula del contratto. Un
enunciato - questo - quanto meno dubbio (2), sulla
cui fondatezza può qui però anche esimersi dal riflettere giacché degli interessi moratori esosi integrano tradizionalmente una prestazione penale
donde il loro refluire o nel disposto dell’art. 1384
c.c. (ove il mutuatario sia un professionista) o nella
trama degli artt. 33, comma 2 lett. f) e 36, comma
1 c. cons. (ove l’obbligato invece sia un consumatore). Così almeno secondo una meditata decisione
di quel collegio di coordinamento dell’ABF (la
3412/2014), puntuale nell’evidenziare che, coll’escludere una vis attractiva dell’art. 1815, comma 2,
c.c., non si innesca certo il risultato di lasciare
«priva di risposta ordinamentale» la fattispecie degli interessi moratori eccessivi. Semplicemente,
non foss’altro allo scopo di evitare l’applicazione
analogica di una norma speciale quale indiscutibilmente è l’art. 1815, comma 2, sono altre le disposizioni deputate al governo della vicenda (3). La problematica, in ogni caso, non è soltanto nostrana
pendendo a Lussemburgo una decina di questioni
pregiudiziali originate da quella legislazione emergenziale spagnola, avviata nel 2012 e nota come “il
diritto civile dei poveri” (4), la quale, per contrastare il fenomeno del sovraindebitamento dei debitori ipotecari, inadempienti e convenuti in procedimenti di esecuzione immobiliare (5), ha variamente (ri)proposto quella correzione giudiziale riduttiva dei mutui, da ultimo nella forma della seconda disposizione transitoria della Ley 1/2013 de
Protección al Deudor Hipotecario, Reestructuración de
Deuda y Alquiler Social, implicante tuttavia e per
ciò stesso che gli interessi moratori siano tutt’ora
dovuti (6). Il che instilla il dubbio di un discorso
che sta deragliando perché tutta una serie di dati
(2) V. R. Tommasini, Il rimedio della nullità parziale e la ricostruzione del sistema, in Id., Autonomia privata e rimedi in trasformazione, Torino, 2013, 56 e, da ultimo, Mucciarone, Usura
sopravvenuta e interessi moratori usurari tra Cassazione, ABF e
Banca d’Italia, in Banca borsa tit. cred., 2014, 438 ss., spec.
446.
(3) E v., in precedenza, ABF, Collegio di coordinamento,
1875/2014.
(4) La definizione è Hornero Méndez, Il nuovo diritto civile
dei “poveri”: i Decreti legge del 2012 sulla protezione dei debitori ipotecari, in Annuario del contratto 2012, a cura di D’Angelo e Roppo, Torino, 2013, 421 ss., prendendo spunto dal libro
di Posada, El derecho civil y los pobres, Madrid, 1898. I precedenti della Ley 1/2013, sia il Real Decreto-ley 6/2012 che il
Real Decreto-ley 27/2012, nati allo scopo di aumentare la tutela dei debitori ipotecari, si erano rivelati infruttuosi tanto da indurre la BCE ad intervenire suggerendo l’adozione di misure
più efficaci. La stessa Ley 1/2013, come dimostra il fioccare di
questioni pregiudiziali, è però fortemente contestata quanto all’effettività di una tutela accordata non a tutti i debitori ipotecari ma soltanto a coloro che presentino dei requisiti, personali
e di reddito, alquanto stringenti. V., al riguardo, Hornero Méndez, La giurisprudenza (al salvataggio) della crisi: sentenza del
Tribunale Supremo 9 maggio 2013, sulle clausole abusive nei
contratti di mutuo ipotecario con interesse variabile, in Annuario
del contratto 2013, a cura di D’Angelo e Roppo, Torino, 2014,
297 ss. Quanto invece, al richiamo alle singole questioni pregiudiziali, alcune delle quali si suppone verranno riunite, v. infra
nt. 37.
(5) Aventi per lo più ad oggetto la casa adibita a residenza
familiare. Onde evitare sviamenti interpretativi va chiarito che
la questione di un tasso degli interessi moratori che può divenire usurario è una delle molteplici questioni che pone una legislazione spagnola la quale, scoppiata la bolla speculativa im-
mobiliare, vede tra le emergenze più macroscopiche: a) il problema di una facoltà per il mutuante - in base a quanto dispone l’art. 693 della LEC - di esigere immediatamente la restituzione dell’intero importo prestato nell’ipotesi di mancato pagamento di tre rate, senza una valutazione concorrente della durata o dell’ammontare della somma mutuata; b) il fatto che, se
la somma ottenuta dalla vendita all’incanto dei beni ipotecati è
insufficiente a coprire il debito, il creditore possa agire esecutivamente nei confronti del debitore per la quota parte mancante (art. 579 LEC). Vero infatti che creditore e debitore possono
convenire, all’atto di costituzione dell’ipoteca, che l’obbligazione garantita sia limitata al bene ipotecato. Ma occorre un’espressa pattuizione in quanto la regola di default è quell’art.
105 Ley Hipotecaria contemplante viceversa una responsabilità personale illimitata del debitore; c) la circostanza che, se all’incanto non vi sono offerenti, il creditore possa domandare
l’aggiudicazione dell’immobile ipotecato per un importo pari al
50% del valore stimato (art. 671 LEC); d) il dato per finire, nel
caso il valore dell’immobile ipotecato abbia subito una riduzione superiore al 20% del valore iniziale, che il creditore possa
pretendere dal debitore un’estensione dell’ipoteca ad altri beni
coll’effetto, se entro due mesi la suddetta estensione non sia
avvenuta, di presumere un’opzione del debitore per la restituzione totale - ed immediata - della somma mutuata. Tutte previsioni, com’è facile notare, che destano perplessità: epperò cave - non bypassibili adducendo la direttiva 93/13 perché trattasi di norme applicabili «senza che una modifica della loro
sfera di applicazione o della loro portata» avvenga «per effetto
di una clausola contrattuale» (CGUE, 30 aprile 2014, C-280/13,
Barclays Bank SA c. Sanchez Garcia, § 41). E, se non si fa questione di clausole predisposte, si è fuori notoriamente dal perimetro della direttiva sulle clausole abusive.
(6) Qualche cifra: nel solo 2013 le esecuzioni immobiliari
per insolvenza dei mutuatari sono state 49.694, dal 2008 al
i Contratti 10/2014
855
Giurisprudenza
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I singoli contratti
parrebbero invece avallare la deduzione che la nuda nullità della clausola azzeri gli interessi moratori,
con un’obbligazione restitutoria perciò limitata alla
somma capitale (ed ai corrispettivi). Insomma un
quadro altamente vischioso. Per parte loro, d’altro
canto, le due ordinanze gemelle della Corte costituzionale (248/2013 e 77/2014) (7), sollecitate entrambe dal Tribunale di Tivoli nel 2012, rischiano
di ingarbugliare ancora di più il contesto: e non
soltanto per uno stile redazionale stranamente
omissivo di alcuni precedenti interessanti della
Cassazione (8). Il fatto è che, dopo la reiterazione
dell’idea che il recesso ex art. 1385 c.c. formalizzi
una fattispecie di risoluzione stragiudiziale soggetta
al filtro dell’inadempimento grave di cui all’art.
1455 c.c., si profilano all’interprete due arresti che
sembrano quasi fatti apposta, come si sarebbe detto
un tempo, per épater les bourgeois. La questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2,
nella parte in cui non contempla una riduzione
giudiziale ad equità della caparra confirmatoria di
cui sia lamentata l’iniquità, è manifestamente
inammissibile per difetto di motivazione perché,
proclama la Corte, il disposto dell’art. 1385 non va
letto immaginando che l’automatismo della sua disciplina sia intangibile ma col sottinteso che il suo
perimetro applicativo cominci là dove finisce quello
di un art. 1418, comma 2 abilitante il giudice, pure
officiosamente, a sanzionare con la nullità, totale o
parziale, la clausola che dia veste ad una caparra
confirmatoria manifestamente eccessiva. Dunque
una nullità del patto perché la buona fede e la soli-
darietà sono un limite all’autonomia privata, e già
questo meriterebbe almeno un qualche robusto argomento di supporto (9): non anche tuttavia, come
invece a qualche commentatore è parso (10), una
Consulta abbozzante un giudice che sindaca il contratto in base al principio di proporzionalità (11).
Se ne deve arguire allora, quando non si faccia
questione di una caparra camuffata (12), che sia
andato in mille pezzi il dogma dell’irriducibilità
della caparra confirmatoria, dogma per Cass.
15391/2000 assolutamente pacifico?
Scontato che qualcuno replichi che, in fondo,
pure qui non c’è niente di così sorprendente perché se la concretizzazione della clausola generale di
buona fede passa per il medio indisponibile del
principio costituzionale di solidarietà sociale ex art.
2 Cost., la nullità di una pattuizione economicamente squilibrata è in re ipsa (13). Vero, pur se viene fin troppo facile ribattere che la notazione esposta è tutt’altro che irresistibile complice la circostanza che, per i giudici della Consulta, non necessariamente dovrebbe farsi questione di una buona
fede innervata o colorata costituzionalmente quanto e piuttosto di un art. 2 della Costituzione che
entra «direttamente nel contratto»: dunque una
Drittwirkung all’insegna di un principio di solidarietà civil - costituzionale che mette costitutivamente
tra parentesi l’utilizzo dell’analogia (14). Dopo di
che, se questo è il ragionamento portante della
Corte, allora il suo pendant immediatamente evocabile è quella Cass. 14343/2009 (15), sul divieto
convenzionale di sublocazione e di ospitalità (non
2012 i processi per esecuzioni immobiliari, conclusi col cambio
di titolarità dell’immobile, sono stati 415.081. E questo nonostante le misure adottate nel 2012. La legge 1/2013, per altro
fortemente contestata, nasce anche sulla scia di una raccomandazione della BCE ad adottare dei provvedimenti più stringenti.
(7) V. Corte cost., 13 ottobre 2013, n. 248 e 26 marzo 2014,
n. 77.
(8) L’ultimo, in ordine di tempo, è Cass., 1° dicembre 2000,
n. 15391, consultabile per esteso in www.dejure.it.
(9) V. infatti, di seguito in questa Rivista, la pungente analisi
critica di G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”.
(10) V., in special modo, F. Astone, Riduzione della caparra
manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e
di buona fede, nota (adesiva) all’ordinanza n. 248, in Giur. cost.,
2013, 3770 ss. mentre F. P. Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, in Riv. dir. civ., 2014, 690 - 692 è più sfumato.
(11) Che è quanto invece, più coerentemente, si legge in P.
Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei
contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 342 ss., specificamente sulla
riducibilità della caparra confirmatoria e penitenziale.
(12) Il che è fatto notare nella prima delle due ordinanze in
esame allorché la Corte censura il giudice a quo di avere
omesso «un necessario coerente giudizio di corrispondenza
del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria». Il passaggio non viene però riprodotto nell’ordinanza 77. E di qui una discordanza assai sviante. Per una spiegazione tecnica dell’omissione, ai più per la verità sfuggita, v.
D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità
della caparra confirmatoria “eccessiva” cit.
(13) V., in particolare, F. Astone, Riduzione della caparra
manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e
di buona fede, nota (adesiva), cit. 3770 ss. e, ma con toni (condivisibili) assai più interlocutori, F. P. Patti, Il controllo giudiziale
della caparra confirmatoria, cit. 685 ss. (al quale, per inciso, si
rinvia per l’ampia disamina comparatistica, specialmente tedesca).
(14) Il riferimento – riconoscibilissimo - è, per tutti, a P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei
contratti, in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato. Problemi di diritto civile, Napoli, 2003, 438 e 436 s. e dello stesso
v., da ultimo, Manuale di diritto civile, Napoli, 2014, 53 ss. 63
ss. e 73 ss., due dei tanti luoghi ove il leit motive del suo pensiero si esprime nell’ottica di una strategia neoconformativa di
ogni atto di autonomia privata.
(15) Per esteso in Rass. dir. civ., 2011, 992 ss. In dottrina,
per tutti, Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca
borsa tit. cred., 1997, I, 8 ss.
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temporanea) di terzi, fin troppo asciutta, a onor
del vero, nel sentenziarne la nullità per contrasto
con l’adempimento dei doveri di solidarietà ex art.
2 Cost.
Ci sono così, non v’è chi non veda, tutti i presupposti per rinfocolare un dibattito che conta ormai due tassonomie argomentative contrapposte,
con una libertà contrattuale che non si sa bene di
quali panni sia rivestita: se quelli nuovi di un’autonomia non più individualistica ma costituzionalizzata in senso solidaristico o quelli vecchi, mai dismessi, di un’autodeterminazione piena, finché si
muove entro il perimetro delle previsioni codicistiche di cui agli artt. 1427, 1448 c.c. e 644 c.p., nel
foggiare l’equilibrio delle prestazioni contrattuali.
Darf-nicht-Motiv per l’appunto, non si può sindacare il prezzo liberamente e responsabilmente convenuto perché è contrario ai principi di un’economia
di mercato (16). Epperò si ha la sensazione che, se
il dipanarsi di questo scritto seguisse l’ordine espositivo abituale di parteggiare per una tesi criticando
più o meno aspramente l’altra, non si avrebbe altro
risultato che indulgere – didascalicamente - in un
esercizio stucchevole - perché autoreferenziale - di
calligrafia giuridica. Il certamen dei contrapposti argomenti ha infatti il difetto di restituire l’immagine
di un’autonomia privata vista per come si vorrebbe
che fosse e non per com’è, ricalcando così le movenze di una principolâtrie sviante e vischiosa:
sviante perché se la proporzionalità tra (o del)le
prestazioni è una tecnica e non un principio, un
mezzo e non un fine, non c’è bisogno di scomodarla al cospetto di tante altre tecniche utilizzabili per
ristabilire un equilibrio contrattuale manifestamente iniquo o abusivo; labile per la complementare
ragione che ogni decisione delle Corti va sempre
contestualizzata, solidamente ancorandola alla questione contingente decisa.
E veniamo subito alla prima delle decisioni in
epigrafe
Il fatto in sé non desta soverchie difficoltà: un
mutuo al consumatore erogato e da restituire in
fiorini ma espresso in valuta estera (franchi svizzeri), con la peculiarità però di un tasso di cambio
dell’obbligazione restitutoria diverso da quello impiegato al momento di concessione del finanziamento, nella specie un’indicizzazione del rimborso
commisurata al corso di vendita della valuta estera
a fronte di un’erogazione per converso parametrata
sul corso di acquisto. Di qui l’eccezione di vessatorietà della clausola di cambio, abusività che tuttavia non riposerebbe sullo squilibrio economico ai
danni del consumatore perché, al pari dell’art. 34,
comma 2 c. cons., l’art. 209, § 5 del codice civile
ungherese conosce l’esimente dell’art. 4, § 2 dir.
93/13, quanto e piuttosto sull’intrasparenza delle
suddette clausole: diversamente dal disposto ambiguo dell’art. 34, comma 2 c. cons. ed al pari invece
di quel § 307, Abs. 1 del BGB ai sensi del quale
l’intrasparenza/opacità è una condizione di potenziale abuso del professionista, il § 4 dell’art. 209
ungherese decreta infatti che una clausola predisposta o una c.g.c. è da reputarsi abusiva «per il sol
fatto di non essere redatta in modo chiaro e comprensibile». Orbene, stante però la circostanza che
le suddette clausole sono essenziali al funzionamento del contratto, sicché una loro nuda espunzione
comporterebbe la nullità dell’intera operazione, diventa ineludibile la questione sull’integrabilità del
contratto per via dispositiva: quell’integrazione
che, ad avviso della Kuria ungherese, sarebbe dubbia dopo che Banesto (C-618/10) e Asbeek Brusse
c. Jahani BV (C-488/11) hanno, senza tante perifrastiche distintive, sentenziato che il caducarsi
della clausola vessatoria è rimedio, nell’ottica di
un’interpretazione autentica degli artt. 6 e 7 dir.
93/13, ad un tempo esclusivo (perché vince sulla
correzione giudiziale) ed in purezza (senza dunque
interpolazioni ovvianti alla lacuna successiva del
contratto).
In una cornice siffatta, la prima parte della pronunzia, che occupa ben 40 paragrafi, sulla qualificazione delle clausole di cambio come pattuizioni
principali esenti dal giudizio di vessatorietà ogni
qualvolta siano chiare e comprensibili, diventa evidentemente la pars princeps del discorso condizionante tutto il resto. Un resto, sull’an ed il quomodo
di un’integrazione rimodellante il contenuto della
fattispecie contrattuale, di grande impatto ma pur
sempre un posterius rispetto a quel prius che Kásler
Árpád rinviene, quanto all’inclusione delle clausole economiche nel campo di applicazione della direttiva 93/13, in Caja de Ahorros y Monte de Piedad
(16) V., anche per la raffinatezza dell’esemplificazione, una
cittadella dell’autonomia privata da preservare di fronte al moltiplicarsi di casi nei quali si materializza un potere del giudice
di «manomettere il contratto, … profondamente eccentrico»,
G. B. Ferri, Autonomia privata e poteri del giudice, in Dir. giur.,
2004, 5 ss.
Kásler Árpád (C-26/13): una trasparenza
performativa assecondante il giudizio di
vessatorietà
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(C-484/08) mentre, per le coordinate del sindacato
giudiziale di trasparenza, lo schizzo analitico che si
prende a modello è quello stilizzato nel precedente
RWE Vertrieb, C-92/11). Da ambedue gli arresti
Kásler Árpád prende le mosse per passare al setaccio le clausole che, in un contratto di mutuo, contemplano modalità diverse di quantificazione della
somma prestata «a seconda che si tratti della sua
erogazione o del suo ammortamento». Anche se
l’impressione è che la questione pregiudiziale abbia
offerto l’occasione contingente per riaffermare il
primato di un art. 3 dir. 93/13 la cui latitudine
operativa si restringe se fioccano o si sperimentano
enclaves eccettuative al controllo di vessatorietà.
Quindi, in concreto, una Corte che formalizza un
freno ai tentativi - sempre più sofisticati - della pratica contrattuale di rendere resistibile l’effettività
della lotta alle clausole abusive nei contratti b2c.
Se si vuole un arresto a futura memoria e di rinvigorimento della direttiva 93/13.
La rivisitazione della trasparenza in chiave
di effettiva possibilità di conoscenza di
tutte le clausole del contratto
Se, come si diceva, Caja de Ahorros y Monte de
Piedad detta le condizioni d’uso dell’art. 4, § 2
quando non ricorra l’eccezione nazionale di una tutela in melius per il consumatore ex art. 8 della dir.
93/13 (17), è RWE Vertrieb che ha ricesellato l’obbligo di informazione innervandolo secondo un canone, più protettivo, sintetizzabile così: è una puntuale informazione preventiva che dà sostanza alla
trasparenza delle clausole. La loro chiarezza e comprensibilità lessicale è infatti inutile se il professionista non ha adempiuto all’obbligo di rendere
edotto il consumatore di tutti i vantaggi ed i costi
del contratto sottoscritto. Insomma non c’è una vera trasparenza della clausola, perché la sua leggibilità e comprensibilità grammaticale è soltanto un
prius, se il consumatore non è stato messo nella
condizione di apprezzare chiaramente il contenuto
del contratto. È questo che la Corte intende per
un’interpretazione estensiva dell’art. 5 dir. 93/13, regola generale sulla chiarezza e comprensibilità delle
clausole predisposte, una trasparenza a tutela di
quell’affidamento del consumatore parametratosi
sulle clausole ch’egli abbia potuto davvero conoscere.
Originata da una controversia sul ius variandi del
professionista, in RWE Vertrieb è nitida la statuizione che l’interesse legittimo del professionista a
«premunirsi contro una variazione delle circostanze» non è meritevole quando l’«altrettanto legittimo» interesse del consumatore non risulta assistito
da una tempestiva ed esauriente informazione finalizzata a che costui possa utilmente comparare il costo della nuova rispetto alla vecchia clausola risolvendosi, se del caso, a recedere passando così ad
un altro fornitore. Non è un risultato di poco momento se è vero che il contravvenire all’obbligo di
informare sul contenuto delle c.g.c. potrà sottrarre all’area della validità la clausola di modifica unilaterale la quale, nonostante sia contenuta nei limiti positivamente richiesti dalla legge, per il modo in cui è stata presentata al consumatore, finisce
in concreto per sfuggire ad una valutazione ponderata in termini di costi/benefici.
Orbene, Kásler Árpád è pronunziata sulla scorta
di queste premesse ed il tassello che aggiunge nasce
dall’intersezione tra gli artt. 4, § 2 e 5 visto che la
trasparenza della clausola principale è – notoriamente - una qualità immunizzante che accantona il
sindacato di vessatorietà. Ed allora, come si diceva,
se l’art. 5 è da intendersi estensivamente perché la
trasparenza è di «fondamentale importanza» (§ 70)
quanto al decidere del consumatore se «vincolarsi», siccome sarebbe paradossale una trasparenza
formale che fa da preclusione ad un controllo di
merito, vien da sé che la trasparenza dell’art. 4, § 2
non potrà che essere una concretizzazione settoriale del canone generale. Dunque, e nell’ordine, per
Kásler Árpád tutto si sostanzia
- in un art. 4, § 2 che presuppone la regola dell’art. 5 unitamente ad
- una trasparenza trasformata in un lemma indicante l’obbligo del professionista di assicurare l’effettiva conoscibilità della giustificazione economica sottesa «all’applicazione … o all’articolazione» di una
specifica clausola. Il che, alle corte, sta a significare
che vanno resi comprensibili i motivi economici sottostanti l’inclusione nel contratto della clausola X
piuttosto che della clausola Y.
In un contesto siffatto, il destino delle clausole
relative ai corsi di cambio è segnato. Vero infatti
che il consumatore, sottoscrivendo contratti del
genere, si accolla un coefficiente di aleatorietà,
perché il tasso di cambio al corso di vendita potrà
(17) La sentenza si legge in questa Rivista, 2010, 880 ss.,
con nota giustamente critica di Viglianisi Ferraro, La sentenza
Caja de Ahorros e l’armonizzazione tradita.
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L’impatto di una siffatta tecnica decisionale è
stringente: da una trasparenza in senso debole, si potrebbe chiosare, ad una in senso forte, anche se,
probabilmente, l’appellativo meglio calzante è
quello di una trasparenza economica della clausola,
se chiara è soltanto la pattuizione che lasci antivedere o prevedere il livello di rischio o di spesa del
contratto in fieri. Operativamente la Corte riordina, in realtà, il perimetro dell’art. 4, § 2, prospettandone un’interpretazione doppiamente restrittiva,
con un tracciato che finora era stato appannaggio
soltanto degli interpreti (18). Nello specifico.
Intanto - prima interpretazione restrittiva - si circoscrive la tipologia delle clausole principali che, se
non opera la controeccezione dell’art. 8 dir. 93/13,
vanno immuni dal giudizio di vessatorietà. Sono
qualificabili come tali, sentenzia la Corte, soltanto
quelle o che «fissano le prestazioni essenziali del
contratto» (§ 49) o che vertono sul tipo e l’entità
del prezzo (§ 54). Risultato non da poco, viene subito da chiosare, perché franche di conseguenza dovranno reputarsi le clausole sul prezzo strettamente
inteso. Le clausole relative al prezzo, sia accessorie
(es. di indicizzazione o di calcolo) che di complemento (es. compensi per servizi o previsione di
supplementi) vanno invece di per sé soggette ad un
controllo contenutistico. Stanno così fuori dalla deroga le clausole camuffate da economiche mentre,
per il fatto di rivestire «un carattere accessorio» (§
50) o di concorrere al costo complessivo del contratto, in realtà impingono sul riparto tra i diritti e
gli obblighi delle parti. La species delle pattuizioni
“sulla definizione dell’oggetto principale del contratto” e “sulla perequazione tra il prezzo ed i servizi o i beni … forniti in cambio” è poco più di una
enclave, ci dice la Corte, perché l’art. 4, § 2 è anzitutto una norma antielusiva (19). Ed allora.
La citazione implicita della giurisprudenza pluridecennale del BGH (20), col distinguo tra determinazione diretta ed indiretta ovvero tra prestazioni
effettive e prestazioni apparenti (sì da acclarare se
il professionista abbia davvero erogato una echte
Zusatzleistung) non potrebbe essere più evidente ed
il risultato ermeneutico è molto intrigante anche
sul piano del metodo.
Così ragionando, per vero, la Corte non si fa inviluppare nelle secche del binomio squilibrio normativo-squilibrio economico, troppo spesso caricato viceversa di un senso eccessivo. Se infatti l’esclusione dell’Inhaltskontrolle per le c.d. core provisions si
ha soltanto per la clausola sul prezzo in quanto tale,
l’eccezione si ridimensiona e si spiega, senza tante
pre-comprensioni ideologiche con l’argomento del
Kann-nicht-Motiv. Il § 55 della motivazione, non
c’è al riguardo un «qualche tariffario o criterio giuridico che possa inquadrare ed orientare un controllo siffatto» parla da sé: specie per una Corte
che notoriamente, da Aziz (C-415/11) in poi (21),
àncora ormai il giudizio di vessatorietà al fatto che
la pattuizione predisposta deroghi in tutto o in parte
a delle norme di legge dispositive più vantaggiose
per il consumatore. Quindi, diversamente da quanto sembra voler fare la Consulta in epigrafe, non
una Corte europea impegnata a riscrivere o a recuperare il canone dello squilibrio economico. Semplicemente le clausole sull’equilibrio sinallagmatico
hanno una «portata [così] ridotta» (§ 54) che il
contemplare degli Schranken der Inhaltskontrolle è,
prima di tutto, una questione di ragion pratica.
Non a caso le clausole del mutuo disponenti un’asimmetria tra il corso di vendita e quello di cambio
(18) V. già Sirena, Sub art. 1469-ter, 2 comma, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, a cura di Alpa e
Patti, Milano, 1997, I, 559 ss. e Pagliantini, Per una lettura dell’abuso contrattuale: contratti del consumatore, dell’imprenditore debole e della microimpresa, in Riv. dir. comm., 2010, I, 409
ss.
(19) V. Sirena, La disciplina delle clausole contrattuali abusive
nell’interpretazione della giurisprudenza e dell’Arbitro Bancario
Finanziario, in AA.VV., Le clausole vessatorie a vent’anni dalla
direttiva 93/13, Napoli, 2013, 78.
(20) Vedila in Farneti, La vessatorietà delle clausole “principali” nei contratti del consumatore, Padova, 2009, 306 ss.
(21) Sul caso Aziz, per un commento a più mani, v. Las Casas - Maugeri - Pagliantini, Recent trends of the ECJ on consumer protection: Aziz and Constructora Principado, in ERCL,
2014, I, 1 ss.
essere maggiore o minore di quello di acquisto: ma
perché quest’alea sia misurabile ed il consumatore
possa per conseguenza consapevolmente apprezzare
se gli conviene oppure no correre questo rischio,
dev’essere preliminarmente informato sulla ratio
economica del costo. Tutto infatti si tiene: se, per
evitare l’intangibilità di clausole economiche sperequate ma formalmente ineccepibili, il livello di
trasparenza è pur sempre quello di cui all’art. 5,
chiarezza vi sarà soltanto al cospetto di una previa
informazione su come e quanto le suddette clausole
impattano sul sinallagma contrattuale. Nel lessico
della Corte il come ed il quanto de quibus prendono rispettivamente il nomen di “ragioni economiche sottostanti” e di “rapporto” (§ 60) della suddetta clausola con altre clausole del contratto.
Come l’art. 33, comma 1 finisca così per
fagocitare l’art. 34, comma 2
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non sono sul prezzo bensì clausole sul «corso di
conversione della valuta estera in cui è redatto il
contratto di mutuo» (§ 58) (22). In un contesto
siffatto finisce fuori quadro perciò anche l’argomento di un’insindacabilità dell’equilibrio economico sulla scorta del Brauch-nicht-Motiv, cioè un
sindacato è inutile perché il consumatore normalmente è conscio del prezzo (23). L’idea che le clausole di cambio non investono il prezzo in sé, esime
infatti la Corte dal vagliare la fondatezza di questo
pur robusto argomento.
Dopodiché, ecco il secondo tassello dell’argomentazione, quand’anche le clausole fissanti il tasso di cambio dell’obbligazione restitutoria inerissero all’oggetto principale del contratto, non cambierebbe granché in quanto è qui che si innesta il discorso sul livello accresciuto della regola di trasparenza. Quindi, e nell’ordine,
- siccome l’art. 4, § 2 non può formalizzare una
sottonozione autonoma di trasparenza (§ 69), proprio in virtù dell’interpretazione estensiva che i
giudici debbono praticare dell’art. 5 dir. 93/13,
- trasparente - per relationem - si candida ad essere il contratto nel quale sia stata garantita al consumatore un’illustrazione del «funzionamento in concreto» di questa o quella clausola tale da fargli apprezzare, «sul fondamento di criteri, precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche» (§ 75) di
un certo scambio. Si materializza qui la seconda interpretazione restrittiva, muovendo, per altro, da
quell’idea di trasparenza, quale rimedio contro la
sorpresa ed a tutela dell’affidamento, di cui pure
nell’ordinamento italiano si hanno più tracce (es.
art. 125-bis, c.c. 5-7 TUB) ma con un chiaro riferimento archetipico al § 305c del BGB dove, non a
caso, le überraschende Klauseln non diventano parte
del contenuto del contratto (werden nicht Vertragsbestandteil). Quindi delle clausole che non vincolano perché un prezzo totale, che non sia comprensivo delle imposte e delle spese aggiuntive, è un
prezzo a sorpresa (art. 5, lett. C, dir. 2011/83). L’enunciato che, sulla scorta di queste premesse si formula, e cioè trasparenza della clausola principale
come «possibilità effettiva … di valutar[n]e le con-
seguenze economiche», giacché l’ignorarle per certo
falsa la decisione del consumatore di «vincolarsi alle condizioni preventivamente redatte dal professionista» (§ 70), completa la germanizzazione giudiziale della direttiva 93/13. Senza una trasparenza
siffatta il consumatore non sa infatti quale possa
essere il costo totale del contratto, donde una rilevanza dello squilibrio economico perché la vessatorietà diventa una qualificazione di rimbalzo della
suddetta clausola. Un’opacità dunque, ancillare al
giudizio di abusività, alla tedesca nello specifico
perché eine unangemessene Benachteiligung può scaturire dalla circostanza che la clausola “nicht klar
und verständlich ist” (§ 307 BGB, Abs. 1).
La climax argomentativa della Corte sembra
dunque la seguente: un’informazione precontrattuale
dettagliata, di «fondamentale importanza» (§ 70)
perché il consumatore è un soggetto vulnerabile,
una trasparenza sul funzionamento del contratto, perché l’informazione preliminare si contrattualizza, quando si scantona, ammesso che la clausola
principale rientri nello spettro dell’art. 4, § 2, torna
operativo il sindacato di abusività ex art. 3. In
un’accezione volontaristica, si può chiosare dicendo che c’è controllo di abusività perché quella
clausola avrebbe attirato l’interesse del consumatore (24): cioè la trasparenza come una condizione
della clausola predisposta, una condizione che sovrasta la singola obbligazione contrattuale, rettificandone o adattandone gli effetti. Quasi una trasparenza che, al pari ma qui in luogo della buona
fede (25), si «sovrappone» al contratto come un
ordine rimediale ab extra comandato a correggere
lo scambio.
Per i riflessi sull’ordinamento italiano è sufficiente sostituire la numerazione delle norme, con
un art. 34, comma 2 che prende il posto dell’art. 4,
§ 2, il 35, comma 1 quello dell’art. 5 ed un art. 33,
comma 1 che subentra all’art. 3. Ma, primo caveat,
se il significato della chiusa dell’art. 34, comma 2 è
quello che si ricava per relationem dall’art. 35, comma 1, così come reinterpretato dalla Corte di giustizia, se ne dovrà dedurre che l’art. 33, comma 1
ne divora il campo di applicazione. Inoltre, secondo
(22) Per la verità l’argomento di un’esenzione dal controllo
contenutistico, perché difettano parametri normativi sulla congruità del prezzo, già traspariva in filigrana nel periodare di Invitel (C-242/2012,§ 23, con riguardo ad una clausola, non ricompresa infatti dalla Corte nell’eccezione dell’art. 4, § 2, illustrante le modalità di computo per la modifica delle spese dei
servizi da prestare al consumatore).
(23) Per questo argomento, v., soprattutto, Navarretta, Luci
ed ombre nell’immagine del terzo contratto, in AA.VV., Il terzo
contratto, a cura di Gitti e Villa, Bologna, 2008, 324 ss.
(24) E «sarebbe stata determinante per la decisione negoziale del consumatore, ma ciò di fatto non è accaduto perché
la sua concreta “formulazione” ha impedito al contraente di
coglierne l’importanza»: così puntualmente Farneti, La vessatorietà delle clausole “principali” e nei contratti del consumatore,
cit. 310.
(25) Alla quale si riferisce di Majo, Giustizia e materializzazione nel diritto delle obbligazioni e dei contratti tra (regole) di fattispecie e (regole) di procedura, in Eur. dir. priv., 2013, 810.
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caveat, nell’ottica di un’actio finium regundorum con
l’art. 35, comma 2, diventa problematico stabilire
quand’è che potrà trovare applicazione il canone
dell’interpretazione più favorevole al consumatore:
per l’elementare ragione che se l’opacità introduce
al sindacato di merito, il giudizio di vessatorietà,
ove sia controversa una core provision, è destinato a
scacciare ogni forma di temperamento preordinato
a conservare la clausola - nel contratto - sia pure
mitigandola.
La vexata quaestio sull’integrabilità del
contratto: il modello di una sostituzione
selettiva
Caducazione delle clausole di cambio o, visto
che sono essenziali al funzionamento dell’operazione, cade l’intero contratto ? È questa, come si diceva, la terza questione pregiudiziale, quella sulla
quale il periodare della Corte alimenta maggiormente la discussione: anche se - cave - il continuum
con la giurisprudenza precedente, come si diceva, è
nitido.
La vicenda, come più diffusamente si leggerà altrove (26), non si è dipanata in modo del tutto lineare ed è tuttora in fieri. Da starting point ha fatto
notoriamente Banesto (618/10), Asbeek (C488/11) (27) ha poi proseguito ed adesso Kásler Árpád aggiunge una nuova tessera al mosaico interpretativo di quell’art. 6 dir. 93/13 comminante l’espunzione della clausola abusiva senza, alla lettera,
contemplare una qualche integrazione del contratto che abbia perduto un suo pezzo.
La Corte, in estrema sintesi, non sembra per altro decampare dal seguente ordito:
A) Siccome il rimedio dev’essere dissuasivo ed è
l’art. 7 dir. 93/13 a misurarne il grado di effettività
ai sensi dell’art. 47 CDFUE, la nuda espunzione
della clausola scaccia via una riduzione conservativa per via giudiziale. Il mitigare la clausola vessatoria anziché scartarla, questo il sottinteso della Corte,
continua ad esporre il consumatore agli effetti di
questa. Sicché il rivedere giudizialmente il contratto, in quanto non protegge pienamente, è visto come un modo che induce a vessare.
(26) Si allude allo studio, in corso di elaborazione, Effettività
della tutela giurisdizionale, consumer welfare e diritto europeo
dei contratti nel canone interpretativo della Corte di Giustizia:
traccia per uno sguardo d’insieme.
(27) Tutte e due - v. CGUE, 14 giugno 2012, causa C618/10 e CGUE, 30 maggio 2013, causa C-488/11- ormai notissime. Per la loro ricadute a livello di diritto interno sia con-
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B) Caduta la clausola, l’integrabilità è esclusa,
pur se potesse aversi una norma dispositiva che
può supplire, quando il contratto b2c sia autosufficiente perché soltanto una disapplicazione pura è
servente ad una lotta sistematica alla confezione di
clausole predisposte abusive. E tuttavia, l’apparato
delle norme dispositive, prima facie messo tra parentesi perché l’integrabilità è bandita, in realtà
acquista una valenza prioritaria giacché, se il non
integrare spoglia il professionista pure di quell’utilità minima assicuratagli dalle norme suppletive, è in
re ipsa che il primo effetto preventivabile di questa
policy dovrebbe essere quello di un comprimersi
della prassi derogatoria, segnatamente di quella fuga dal diritto dispositivo tradottasi nell’imposizione
sistematica di un contenuto contrattuale abusivo.
In altri termini, si disloca la tutela fuori dal terreno
del diritto comune, quando il contratto sia autosufficiente, proprio per esaltare il ruolo e la funzione
delle norme dispositive quale modello di regolamentazione ideale. Trattasi però di una vis ottenuta ex post, a seguito di una politica interpretativa
praticante una diffusa assenza di deroga (28), sul
presupposto che il penalizzare il professionista restringa la percentuale dei casi nei quali sia patente
l’imposizione di un contenuto contrattuale prevaricante. Ecco perché, com’è capitato di scrivere altrove, si intravede la filigrana di un diritto dispositivo che, nell’area della contrattazione asimmetrica, diventa cripto-imperativo, all’insegna cioè di
una sua riscoperta effettività (29).
C) Non integrando per via dispositiva, per azzerare il rischio di un giudizio prognostico che comunque lasci antivedere anche contabilmente
quanto utile una predisposizione unilaterale sia comunque in grado di assicurare, si ottengono tra risultati:
- si punisce il professionista, privandolo di una
qualsiasi utilità, nell’ottica di una strict liability funzionale alla miglior efficienza di un mercato concorrenziale;
- si preconfeziona un rimedio apolide, con un
art. 7 a vagliare la deterrenza di ogni tecnica invalidante nazionale, delimitando così il suo stare al
di qua o al di là dell’art. 47 CDFUE;
sentito il rinvio a D’Amico - Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del contratto,Torino, 2013, 67 ss. e 213 ss.
(28) Sia consentito, per una disamina più puntuale, il rinvio
a D’Amico - Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del
contratto, cit. 121 ss.
(29) Più che di una semplice efficacia.
861
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di cui sopra, non incentiva certo il consumatore a
denunziare la clausola abusiva intaccando così la
stessa finalità deterrente dell’art. 7, evidentemente
commisurata al numero esponenziale di impugnazioni singole.
- si rinnova una pre-comprensione tutta rinserrata nell’idea – classica - del diritto dispositivo come
normativa ispirata ad un principio di giustezza: notoriamente la Leitbildfunktion di Raiser. Ed infatti
D) proprio perché la direttiva 93/13 ha come
scopo la protezione di un interesse al contratto e
non al recesso (Perenièová e Perenic, C-453/10), la
funzione integrativa del diritto dispositivo è destinata a riemergere quando la disapplicazione pura
della clausola finirebbe per importare il caducarsi
del contratto ovvero per renderne impossibile l’esecuzione, esponendo così il consumatore ad una tutela che in realtà non lo protegge. Il problema è che,
e Kásler Árpád lo certifica senza indulgere in troppe
sottigliezze (§ 82) (30), integrazione ed effettività
della tutela giurisdizionale, quando la lacuna involge un essentiale negotii dispositivamente regolato,
sono a tutta prima un binomio inscindibile. Altrimenti, visto che qui il contratto nel quale figura la
clausola essenziale abusiva è un mutuo, il risultato
che si avrà sarà quello di un caducarsi del titolo
importante per il consumatore l’obbligo coevo di
una restituzione immediata della somma mutuata.
E siccome il consumatore mutuatario, pure a non
supporre che versi in una situazione di precarietà
finanziaria, è un soggetto mancante solitamente
della liquidità necessaria ad una restituzione immediata, è in re ipsa che una nullità totale finirebbe
per occasionare a cascata pure il risultato di assoggettare il consumatore a quel procedimento di esecuzione che invera la garanzia reale associata normalmente al prestito. Insomma, nel periodare argomentativo della Corte, il ricorso al diritto dispositivo rileva - ci sembra - come forma manifestativa di
un’integrazione del contratto intesa come momento
nel quale si concretizza il diritto ad un rimedio effettivo ai sensi degli artt. 38 e 47 CDFUE. Se infatti la
sostituzione, sebbene possibile, non fosse consentita, la stessa «efficacia dissuasiva della sanzione della nullità [parziale] rischierebbe di essere compromessa» (31). Gli è, per vero, che un caducarsi del
contratto, costellato dalle conseguenze restitutorie
Sic stantibus rebus, c’è spazio allora per formulare
tre notazioni d’insieme.
La prima. Non ci potrebbe essere un argomento
più stringente, al cospetto di una siffatta integrazione selettiva, per avvalorare l’idea, a lungo viceversa
osteggiata nel panorama italiano, di una vocazione
dell’art. 1374 c.c. a porsi quale norma deputata ad
emendare tanto le lacune contrattuali originarie
quanto quelle sopravvenute (32). D’altronde, la
riespansione del diritto dispositivo, in chiave di sistema, richiama direttamente quell’immagine di un
art. 1374 tacitamente modificato che la migliore dottrina aveva subito intuito essere il vero effetto di
una direttiva 93/13 non intaccante, nella sua recezione domestica, la nozione di buona fede ma quella di un’equità implementata perché arricchitasi di
una funzione correttiva (33). La novitas sembra stare nel fatto che l’intercalare argomentativo della
Corte di giustizia mette in mostra un quid alii, facendo spiccare una coloritura rimediale dell’integrazione, con una riscrittura dell’art. 1374 trasformato in un’appendice del diritto del consumatore ad
un rimedio effettivo. Ecco perché il binomio integrabilità/inintegrabilità segue uno schema che dipende
dalla fattispecie: come si legge in Kásler Árpád, la
nullità totale tende di massima a penalizzare il consumatore piuttosto che il professionista, «il quale
non sarebbe dissuaso dall’inserire siffatte clausole
nei contratti da esso proposti» (§ 84).
In ogni caso, un vero e proprio ius commune dell’integrazione contrattuale, nei rapporti b2c, orientata al mercato (34).
(30) La direttiva 93/13 ha di mira il formalizzare «un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra [le parti] e
non ad annullare qualsiasi contratto contenente clausole abusive».
(31) Così - ma il c.vo, unitamente all’interpolazione parentetica, è aggiunto - le Conclusioni dell’A.G. Wahl, § 102.
(32) Alle prime corrisponde un’autonomia contrattuale che
si è determinata a non disporre, alle seconde un’autonomia
unilaterale che si è manifestata abusivamente. V., volendo,
D’Amico - Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del
contratto, cit. 241 ss.
(33) Il riferimento - ictu oculi - è alla pagina di Mengoni, Problemi di integrazione della disciplina dei «contratti del consuma-
tore» nel sistema del codice civile, ora in Scritti I. Metodo e teoria giuridica, a cura di Castronovo, Albanese, Nicolussi, Milano,
2011, 352 che vedeva, nella disciplina consumeristica, un caso
di nullità per iniquità (v. infra, § 7, testo e note). Successivamente, per un art. 33 formalizzante lo schema di una «tecnica
sanzionatoria individualizzante» v. pure Gazzoni, Obbligazioni e
contratti, Napoli, 2006, 794.
(34) In un commento a prima lettura - D’Adda, Il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola abusiva essenziale applicando una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, in www.dirittocivilecontemporneo.com, I, I, Aprile
- Giugno, 2014, 9, si è osservato «che la finalità di tutela risulta
assorbente di ogni ragione di coerenza tecnica, che tuttavia,
862
L’integrazione ed il dibattito sul grado di
dissuasività dell’art. 1224, comma 1 c.c.
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La seconda. C’è una profonda sintonia tra questa
pronuncia ed il decisum reso dal Pleno del Tribunal
Supremo spagnolo nel maggio del 2013 (35), con riguardo alla clausola floor nei contratti di mutuo
ipotecario a tasso variabile. Notoriamente la suddetta clausola anestetizza per il mutuante il rischio
di una riduzione eccessiva del parametro base per
l’indicizzazione della rata giacché il floor fissa per
l’appunto la soglia sotto la quale il tasso corrispettivo applicato al finanziamento mai potrà scendere
nonostante il decremento del correlato indice di
base (per es. tasso Euribor 3). Quindi il rischio è
effettivamente tutto a carico del consumatore. Orbene, vero è che la clausola floor è intrinsecamente
connessa al quantum che il mutuatario è tenuto a
corrispondere, sicché va annoverata tra le clausole
essenziali, definendo con tutta probabilità l’oggetto
principale del contratto ai sensi dell’art. 4, § 2 dir.
93/13. Ergo, nessun sindacato di vessatorietà, almeno nell’ottica italiana dell’art. 34, comma 2 c.
cons. Con un periodare che anticipa quello della
Corte di giustizia, il Pleno ha fatto però notare che
la legittimità in sé della clausola non la esime da
un vaglio di trasparenza ai sensi dell’art. 80 del
TRLGDCU del 2007. E questa trasparenza non v’è
se il mutuatario non è stato messo nella condizione
di conoscere il sacrificio economico derivantegli
dal contratto sottoscritto, nel dettaglio il costo da
sostenere come corrispettivo del finanziamento accordato. Di nuovo una trasparenza economica che
sia idonea ad offrire una delucidazione sul vero riparto «dei rischi che comportano la variabilità dei
tassi di interesse» (36). Altrimenti l’immunità non
opera (37).
La terza. Nonostante il trittico della Corte di
giustizia e forse perché, in termini di costi economici generali, non integrare un contratto di locazione corredato da una penale iniqua è assai diverso
dall’amputare un contratto standard di mutuo mo-
biliare e, maxime, se immobiliare, resta un (forte)
alone di incertezza. Tutto è condensabile in una
domanda: ma caduta la penale, è da ritenere che il
consumatore sarà tenuto a corrispondere i soli interessi corrispettivi (sulle rate già scadute e sulle quote di capitale da corrispondere) oppure i moratori
resteranno dovuti al tasso degli interessi corrispettivi secondo la regola dispositiva dell’art. 1224,
comma 1 ultimo cpv.? Vexata quaestio dalla quale
la Corte non sembra proprio riuscire a sottrarsi:
Unicaja Banco SA. c. Hidalgo Rueda (C-482/13) e
Banco Grupo Cajatres S.A. c. Manjón Pinilla (C90/14), la prima e l’ultima che si conoscono in ordine di tempo (38), sono infatti due pregiudiziali
che l’hanno riproblematizzata in conseguenza di
quella Ley 1/2013 de Protección al Deudor Hipotecario che, in Spagna, sta vedendo il giudice (re)investito di un potere di revisione della penale iniqua,
seppur nella forma di una facoltà concessa al mutuante di ricalcolare gli interessi entro un tetto
massimo di legge. E l’argomento binario che torna
nelle ben nove questioni pregiudiziali allo stato
pendenti è sempre lo stesso: un ricalcolo degli interessi moratori pattuiti, quando la clausola che li
contempla sia qualificata come vessatoria, limita la
tutela del consumatore perché la pattuizione vessatoria va sempre radiata dal contratto b2c, con l’annesso effetto di una non integrazione quale che sia il
tasso interpolabile: si tratti, come si legge in Banco
Bilbao c. Quintano (C-602/13), di quello risultante
dall’applicazione suppletiva dell’art. 1108 del Código Civil ovvero di quello originato dalla norma speciale della Ley 1/2013, in combinazione con l’art.
114 della Ley Hipotecaria. Ergo la seconda disposizione transitoria della legge 1/2013, che tutto ciò
consente, è una misura inadeguata perché tecnica
di contrasto non sufficientemente dissuasiva nella
lotta alle clausole abusive ai sensi dell’art. 7 dir.
93/13. Integrando si riconosce infatti al mutuante
anche nella prospettiva del diritto comunitario, non sembra
poter essere del tutto obliterata». In realtà non pare, per le ragioni formulate nel testo, che vi sia uno iato tra le sentenze
della Corte. Anzi quella in epigrafe sembra decisamente presentarsi come un logico sviluppo delle precedenti.
(35) Sulla quale si può trovare una sintesi alquanto dettagliata in Hornero Méndez, La giurisprudenza (al salvataggio)
della crisi: sentenza del Tribunale Supremo 9 maggio 2013, sulle
clausole abusive nei contratti di mutuo ipotecario con interesse
variabile, cit. 298 ss.
(36) Così Hornero Méndez, op. ult. cit. 306.
(37) Ma c’è di più.
L’onda lunga di Kasler ha già trovato infatti il suo omologo
municipale: è il BGH del 13 maggio 2014 (XI ZR, 405/12), il cui
decisum ha decretato a) che la clausola sulle spese di istruttoria nei contratti di mutuo nella percentuale fissa dell’1% (ein
Bearbeitungsentgelt einmalig 1%), non sono annoverabili tra le
pattuizioni sul prezzo e b) che, determinando uno squilibrio
normativo in danno del consumatore, le clausole contemplanti
l’esigibilità delle suddette spese ricadono nel disposto del §
307, § 1 BGB.
Non si può certo derubricare ad un accidente la circostanza
che il riferimento all’interpretazione restrittiva dell’art. 4, § 2, in
vista di una trasparenza economica, compaia per ben due volte nella (ricca) motivazione dei giudici tedeschi.
(38) Le altre, per completezza informativa, questioni pregiudiziali pendenti sono, in rapida successione, Unicaja Banco
S.A. c. Steluta (C-483/13), Caixabank SA c. Rueda Ledesma (C484/13), Caixabank SA c. Labella Crespo ed altri (C-485/13),
Caixabank SA c. Galàn Rodriguez (C-486/13), Caixabank SA c.
Galán Luna (C-487/13), Caixabank SA c. Brenes Jiménez (C548/13) e Banco de Caja España de Inversiones, Salamanca y
Soria c. Rodriguez Barbero (C-75/14).
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il potere di pretendere quel tasso moratorio che gli
sarebbe spettato se non avesse abusato in contrahendo. Quindi consegue un lucro che la pura soppressione della clausola, ai sensi degli artt. 6 e 7 dir.
93/13, esclude. Non è però, tornando subito all’esperienza italiana, che il dato sia così pacifico visto
che, almeno per il Collegio ABF in epigrafe, gli interessi moratori sarebbero dovuti nella percentuale
di cui all’art. 1224, comma 1, donde un’integrazione dispositiva del contratto. Gli argomenti addotti,
in replica ad un’ordinanza di remissione del Collegio ABF di Roma orientato in tutt’altro modo (39),
sono principalmente due:
a) La mancata integrazione, secondo una curvatura di pura deterrenza per il professionista, sortisce
un effetto premiale per il mutuatario moroso, il
quale non sarà incentivato ad adempiere regolarmente;
b) la valutazione di dissuasività del rimedio è rimessa ai giudici nazionali: ed applicando l’art.
1224, comma1 c.c. la deterrenza si avrebbe in
quanto il mutuante perde, per tutta la durata della
mora, la quota di utile consistente nella differenza
tra il percepire non il superiore interesse moratorio
convenzionale ma quello più esiguo degli interessi
corrispettivi. Due argomenti raffinati, come si può
notare, ma non incontrovertibili. Vediamo il perché.
Quanto al primo, l’amputazione pura come premio all’inadempimento, un’istintiva controreplica
riposa nel rilievo che il creditore deluso, al quale
non si dovrebbe imporre un sacrificio meno compensativo di quanto sia stato convenuto in executivis, è pur sempre un soggetto che ha agito contra legem. Sicché integrare potrebbe avere il significato
di un favor immotivato. Dopo di che, nulla quaestio
che la tecnica dell’amputazione pura non si amalgami così bene col disposto di un art. 47 Cost. che
tutela pur sempre il risparmio in tutte le sue forme:
è autoevidente infatti che se il mutuante decade
dal diritto agli interessi in una sequela, tendenzialmente seriale, di rapporti pendenti di media-lunga
durata, l’effetto penalizzante di “sistema” è molto forse troppo - alto. È vero però anche il suo contrario, e cioè che i valori personalistici di mutuatari
seriali hanno un coefficiente di rilevanza costituzionale notoriamente più pronunziato di quanto
non sia quello che assiste l’interesse patrimoniale
dell’istituto mutuante. Semmai quel che andrebbe
sottolineato è il rischio collaterale, a fronte della
comminatoria giudiziale di rimedi così stringenti,
che gli istituti di credito si cautelino con politiche
di credit crunch, col risultato di un’esclusione di più
fasce della clientela dall’accesso al mercato (legale)
del credito.
Rispetto al secondo invece, è vero che la Corte
di giustizia discorre di una valutazione comparativa
del giudice tra gli «importi che il creditore avrebbe
riscosso come remunerazione del prestito secondo
il programma contrattuale originario con quelli
che egli percepirebbe in applicazione della regola
di diritto che sostituisce la clausola annullata (40)». La notazione si legge nella sentenza Aziz
ma a proposito della legittimità del pretendere l’applicazione degli interessi moratori - che superavano, per inciso, il 18% - non già alle rate scadute
bensì a tutte quelle dovute, quale conseguenza di
quella risoluzione anticipata del contratto che l’art.
693 della LEC accorda al mutuante nell’ipotesi del
mancato pagamento di tre rate a prescindere dalla
durata del finanziamento, con tutti i dubbi del caso
sulla gravità dell’inadempimento allegato. Nel trittico Banesto, Asbeek Brusse, Kásler Árpád non figura viceversa un enunciato fondante l’idea che, se
l’integrazione suppletiva ha un «carattere realmente dissuasivo», allora si integra perché il presupposto di un’efficienza deterrente del rimedio è assicurata. Nel trittico, quando il contratto è autosufficiente, non si integra e basta, senza un qualche distinguo legato alla graduazione dell’efficienza dissuasiva della norma applicabile. Se l’effettività della tutela è il parametro di commisurazione del rimedio, visto che per rimedio effettivo deve intendersi soltanto quello che risulti tale ai sensi degli artt.
38 e 47 CDFUE, è illusorio pensare che integrare
il contratto seppure entro un tetto massimo di mora - sia poi quello dell’art. 1224, comma 1 o il “tres
veces el interés legal” spagnolo - tuteli più o meglio
di una soppressione degli interessi moratori obbligante il consumatore a versare la sola somma capitale aumentata degli interessi corrispettivi. È vero
che tra il ridurre equitativamente la clausola penale e l’applicare il tasso dell’art. 1224, comma 1 corre una differenza, in quanto la correzione giudiziale
assicura un’esigibilità degli interessi moratori secondo una misura di giustezza quando invece il ricorso all’art. 1224, comma 1 postula l’effetto deterrente di una caducazione integrale del tasso mora-
(39) V., supra in epigrafe. Per un primo commento v. F. P.
Patti, Clausola vessatoria sugli interessi moratori ed integrazione
dal contratto, in questa Rivista, 2014, 741 ss.
(40) Così ABF, Collegio di coordinamento, 24 giugno 2014,
n. 3955, cit.
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torio convenzionale seguito dall’estensione al periodo di mora del tasso convenzionale degli interessi corrispettivi. Non è dunque che l’integrare dispositivamente annulli la differenziazione di trattamento tra professionisti e consumatori (41): ma rimane il fatto che il perdere, durante il periodo di
mora, la differenza tra il tasso corrispettivo ed il
(superiore) tasso moratorio, dischiude un e non
il deterrente significativo di cui all’art. 7. Certo, si
tratta di un costo economico potenzialmente cospicuo (42) ma e, per inciso, a voler ragionare in termini di graduazione della dissuasività, perché allora
non immaginare che i moratori siano dovuti alla
misura del tasso legale secondo il modo prescritto
dall’art. 125-bis, comma 7 TUB? Ratione materiae,
ove si facesse questione di un mutuo mobiliare, dovrebbe essere questa la disposizione di riferimento,
lex specialis derogat generalis, con un coefficiente di
deterrenza, non v’è chi non lo veda, ben più significativo. L’art. 125-bis, comma 7 è pur sempre una
previsione dettata nell’ipotesi di una nullità delle
clausole sui costi del contratto di finanziamento ed
il rendimento minimo dei BOT è un tasso punitivo
per il mutuante artefice della violazione, nell’ottica
così di una misura di private enforcement.
Quand’è così, il gioco degli argomenti contrapposti vede dunque fronteggiarsi due assiologie parimenti rilevanti ex iure, ma con una climax argomentativa che lascia vincere indiscutibilmente la
logica della non integrazione.
Per la verità, ad adiuvandum di una logica integrativa si potrebbe aggiungere che la direttiva
93/13 ha una ratio di efficienza mercantile, perseguendo l’obbiettivo di un mercato concorrenziale:
orbene l’intero blocco delle questioni pregiudiziali
pendenti trae viceversa origine dalla vicenda spagnola del proliferare massiccio di esecuzioni immobiliari per l’insolvenza dei crediti ipotecari. Non
integrare il contratto avrebbe così l’effetto, stante
la vastità dell’emergenza sociale in atto, di caricare
la direttiva 93/13 di finalità solidaristiche di redistribuzione del reddito, trasformandola in uno stru-
mento vocato a realizzare politiche di giustizia sociale. E, facile chiosarlo, non è metodologicamente
corretto intestare alla direttiva 93/13 scopi che
non gli appartengono, improvvisandosi epigoni di
Anton Menger e del suo Das Bürgerliche Recht und
die besitzlosen Volksklassen. Eine Kritik des Entwurfs
eine Bürgerlichen Gesetzbuches für das Deutsche Reich
del (lontano) 1890 (43). Sarebbe un’operazione
che riedita la stagione, ormai trascorsa, di un uso
alternativo del diritto. È vero pure, però, che la vicenda dei mutui immobiliari spagnoli esemplifica
appieno un caso di market failure per azzardo morale, col risultato che potrebbe suonare alquanto distonico invocare l’integrazione dispositiva a tutela
di una politica avventurista del credito immobiliare, concesso per lo più obliterando completamente
la verifica del merito creditizio. E non solo.
Se l’intento nascosto - ma riconoscibilissimo della Corte di giustizia sta nel depennare la clausola senza integrare perché questo incentiva a non
derogare al diritto dispositivo, non è del tutto corretto sostenere che il mutuante, ove si integri per
il tramite dell’art. 1224, comma 1, ottiene alla fine
lo stesso vantaggio che avrebbe potuto avere senza
convenire un tasso moratorio convenzionale. Un
diritto dispositivo cripto-imperativo per diffusa assenza di deroga ha una vis espansiva maggiore per
intensità qualitativa di una norma suppletiva applicabile previa impugnazione (44). Non soltanto
concettualmente: perché se il mutuatario, per una
qualsiasi ragione non impugna, il lucro del mutuante sarà maggiore. Sicché un tasso moratorio esoso
diventa una scommessa per il mutuante: nient’affatto votata all’insuccesso.
(41) Anche se qui un chiarimento va fatto. Tutto infatti dipende da come si riduce. Se il giudice mitiga entro il limite della misura dispositiva, nulla quaestio: ma se riduce al di sotto
dell’art. 1224, comma 1 la differenza c’è: col paradosso allora,
se dovesse applicarsi l’art. 1224, comma 1, di un professionista garantito più di un consumatore. Mentre, se non si integra
per il contratto di finanziamento b2c, il rischio di un’immotivata disparità di trattamento viene sicuramente meno.
(42) Significativamente, l’argomento del “costo economico
potenzialmente elevato” torna in Le Crédit Lyonnais, C-565/12,
quale rilievo addotto dalla Commissione per evidenziare la dissuasività - poi viceversa esclusa, come si vedrà tra breve - della normativa francese sulla decadenza dagli interessi conven-
zionali.
(43) Come si sa tradotto in Italia, da G. Oberosler, Torino,
1894, col titolo Il diritto civile e il proletariato: studio critico sul
progetto di un codice civile per l’impero germanico.
(44) E questa visione del diritto dispositivo, si diceva, sembra fare da collante all’indirizzo della Corte. Sicché non sembra
che sia corretto concludere che, «se la pronuncia Kásler merita
adesione, il quadro complessivo delineato dalla Corte di giustizia in tema di effetti della caducazione parziale è solo in parte
convincente», così invece D’Adda, Il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola abusiva essenziale applicando una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva,
cit. 9.
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Qualche spigolatura ancora
Un quadro, si diceva, frastagliato: ma – cave pensare ad una graduazione della vis dissuasiva del
rimedio, come suggerisce il secondo ABF in epigrafe, complica anziché semplificare. Basta riflettere
sul dato che segue.
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È vero che, nella sentenza Le Crédit Lyonnais SA
(C-565/12) (45), la Corte di giustizia sentenzia di
una «severità delle sanzioni che dev’essere adeguata alla gravità delle violazioni che esse reprimono
…, fermo restando il rispetto del principio generale
di proporzionalità» (§ 45). È vero pure che, per la
Corte, spetta al giudice nazionale vagliare la dissuasività del rimedio, raffrontando la remunerazione che il professionista mutuante avrebbe percepito rispettando gli obblighi di legge con quella ottenibile in conseguenza dell’applicazione della sanzione comminata per l’aver costui agito contra legem (§ 50). Parrebbe allora, come suggerisce l’ABF
in epigrafe, che il giudice italiano sia legittimato
ad accertare se l’impiego dell’art. 1224, comma 1
c.c. costituisca una «sanzione … adeguata alla gravità delle violazioni … e, in particolare, se una
sanzione del genere comporti un effetto realmente
dissuasivo». E tuttavia.
In Le Crédit Lyonnais SA, caso nel quale veniva
in rilievo un professionista che aveva omesso l’obbligo di verifica precontrattuale del merito creditizio, la Corte di giustizia ha negato che abbia natura
dissuasiva una decadenza del mutuante dal diritto
agli interessi convenzionali (art. 311-48, c. 2 cod.
cons.) che però gli assicuri il beneficio del diritto
agli interessi moratori al tasso legale (art. 1153
cod. civ.) maggiorati di 5 punti se, alla scadenza del
termine di 2 mesi dalla pronuncia della sentenza di
condanna, il mutuatario non ha provveduto alla
restituzione dell’intera somma. Nella specie, si
prenda nota, il difetto di dissuasività era in re ipsa
visto che il mutuante, a fronte di una decadenza
da un tasso convenzionale del 5, 60%, conservava
il diritto ad un tasso moratorio ammontante, per
effetto della maggiorazione, al 5,71 %. Non si può
certo dire che la sanzione comminata incentivasse
ad un agire negoziale osservante l’obbligo di legge
di una valutazione preventiva del grado di solvibi-
lità del potenziale mutuatario (art. 311-9 c. consomm.). Detto questo però, sebbene i giudici non si
pronuncino sulla percentuale degli interessi esigibile dal mutuante, non si esprimano cioè se come rimedio dissuasivo debba intendersi uno che comporti
la decadenza dalla totalità degli interessi o invece
quello che metta soltanto fuori gioco la maggiorazione automatica dell’art. 313 - 3 cod. mon. et
fin (46), difficilmente ci si potrà dividere sulla circostanza che degli interessi moratori al tasso legale
ex art. 1153 cod. civ. costituiscono un sacrificio ben
più pingue di una morosità al tasso dei corrispettivi,
com’è per l’art. 1224, comma 1 c.c. E per la Corte
la dissuasività in tanto c’è in quanto l’utile percepibile dal mutuante inadempiente (o che abbia abusato) risulti «notevolmente inferior[e]» al lucro «di
cui avrebbe potuto beneficiare» in pendenza di
un’esecuzione fisiologica del contratto. Non è dunque che, se si trasforma il problema de quo in una
questione di quantum del sacrificio imposto al professionista creditore, si corrobori obliquamente il
periodare dell’ABF sul qualificare l’interpolazione
dell’art. 1224, comma 1 come una giusta misura deterrente (47). Anche per la ragione che su questo
qualificativo di giusta è forse d’uopo abbozzare un
supplemento di riflessione.
Si ha infatti l’impressione che, se proprio si intende ragionare di una dissuasività quantitativa del
rimedio, debba allora procedersi ad una valutazione
condotta verificando non l’utile che il professionista mutuante perderà ma il costo processuale lato
sensu inteso dell’impugnativa. Se infatti l’utile che
deve acquisire il mutuante è quello di cui all’art.
1224, comma 1, considerato che il consumatore,
pur vittorioso, dovrà sommare questo esborso alle
spese processuali, è plausibile ritenere che la sommatoria finirà per produrre un effetto disincentivante dall’impugnare ove il risultato del corrispondere i moratori al tasso originario ed il costo com-
(45) Sulla quale v. l’attenta nota di Rumi, Verifica del merito
creditizio ed efficacia dei rimedi a tutela del consumatore, in
questo stesso numero della Rivista.
(46) Conservando così il tasso legale della norma di diritto
comune.
(47) Detto ancor più chiaramente: la motivazione della Corte di giustizia, se la si scorre attentamente, non giudica di per
sé carente di dissuasività una decadenza dal diritto agli interessi che veda esigibili gli interessi legali al tasso maggiorato
di cinque punti. La Corte boccia, perché contrastante col principio di effettività della tutela consumeristica, una decadenza
che contempli automaticamente l’esigibilità degli interessi legali, maggiorata oppure no, a vantaggio del professionista. È, si
vuol dire, il carattere sistematico di questo automatismo che
contravviene alla direttiva 2008/48: in suo luogo, per la Corte,
deve operare una valutazione rimessa, caso per caso, al giudice nazionale, il quale dovrà appurare, vagliando tutte le circo-
stanze, l’ammontare dell’utile che, nonostante l’inadempimento, il professionista si troverà a percepire colla sola decadenza
dagli interessi convenzionali. Tutto ruota, in altre parole, intorno ad una valutazione comparativa tra l’utile che sarebbe stato
percepito col tasso corrispettivo e quello conseguibile con i soli interessi legali. Epperò, qui sta il punto, soltanto quando lo
scarto tra le due somme sia notevolmente inferiore c’è modo,
secondo la Corte, di etichettare la decadenza - dai soli interessi
corrispettivi - come una misura dissuasiva. In altre parole la
Corte si pronuncia a favore della sola decadenza dagli interessi
convenzionali allorché questa déchéance si traduca in concreto
nella produzione di un utile, per il professionista, significativamente inferiore a quello percepibile in costanza di rapporto.
Ergo una valutazione casistica e per di più officiosa ma all’insegna di una cospicua differenza patrimoniale tra i due ammontare. Il che non si può dire che sia, tornando all’esperienza
italiana, se dovesse trovare applicazione l’art. 1224.
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plessivo dell’azione intrapresa si avvicinino. Coll’effetto però, se questo dovesse accadere, di vanificare la valenza cripto-imperativa del diritto dispositivo, marginalizzata se non si impugna, perché
non conviene o conviene assai poco, la penale esorbitante. Si noti che il suddetto rilievo ha un suo significato anche rispetto alla riduzione giudiziale
della penale iniqua nel caso di un mutuatario professionista, nel senso si vuol dire di orientare per
una rettifica giudiziale che non sia entro il limite
dell’art. 1224, comma 1 ma in melius, cioè ad un
tasso più basso per il mutuatario.
Quid iuris, allora?
L’impressione è che vada accantonata qualsiasi
lettura che si proponga di fare dell’integrazione o
del suo contrario un rimedio agglutinante od omnicomprensivo: bisogna viceversa distinguere tra le
tipologie di operazioni. La legislazione francese,
soltanto per citare un esempio, tratta separatamente la decadenza dagli interessi convenzionali a seconda che si faccia questione di credito immobiliare o al consumo. Mentre infatti l’art. 312-33, c. 5
contempla una decadenza giudiziale e con una modulazione ope iudicis se totale o parziale (48), l’art.
311-48, per il mutuo mobiliare, distingue tra una
decadenza piena (nelle fattispecie di omissione informativa del comma 1) ed una déchéance du droit
aux intérêts di nuovo totale o parziale (c. 2), ma in
ambedue le previsioni opera un automatismo che
confina il filtro giudiziale al solo quantum. Letteralmente la differenza è nitida: nell’art. 312-33, c. 5,
il mutuante pourra être dechu, mentre per l’art.
331-48, c. 1 e 2 il mutuante ést dechu. Ed anche la
maggiorazione di 5 punti di cui all’art. 313-3 cod.
mon et fin., se è vero che le Corti tendono a riconoscerla come di pieno diritto, conosce una pluralità di sfaccettature visto che il giudice, officiosamente o su domanda di parte, è ammesso a negarla
o ridurla in considerazione della situazione patrimoniale del consumatore. Un quadro dunque policromo e nel quale sembra aleggiare l’idea di una
proporzionalità tra l’illegalità commessa e la déchéance irrogabile. Una déchéance che costituisce
però una sanzione civile, a geometria variabile, di
stretta interpretazione (49). Si noti: c’è una cifra
che accomuna le diverse previsioni, ma non risiede
nel modus operandi o nell’entità del sacrificio imposto al mutuante quanto e piuttosto nella circostanza che questa sanzione civile è da preferire, in termini di effettività della tutela consumeristica, alla
nullità totale. E gli interessi moratori al tasso legale
ex art. 1153 code civil, pur a riconoscere che operano sempre e comunque, non sono certo una misura
così compensativa per il mutuante.
Non solo.
La contestatissima Ley 1/2013 de Protección al
Deudor Hipotecario contempla in realtà un tetto
massimo - “tres veces el interés legal” - per gli interessi moratori, nel segno di quella direttiva
2014/17/UE, sui mutui immobiliari ai consumatori,
il cui art. 28 non solo, al comma 3, contempla la
variabile nazionale di interessi moratori pattuibili
entro un massimale di legge, ma al comma 2 sancisce, per l’ipotesi di tassi moratori convenzionali,
che gli stessi «non siano superiori a quanto necessario per compensare il creditore dei costi sostenuti
a causa dell’inadempimento». Quindi, ove dovessero risultare superiori, ragionando a contrario si dovrebbe integrare per evitare un’ingiustificata perdita
al mutuante. Ma è questa la soglia massima di giustezza.
Una soluzione diversa, visto l’apparato argomentativo che si è fin qui esposto, sembra invece suggeribile nel credito al consumo: qui non si integra
o, al più, lo si può fare nella misura di cui all’art.
125-bis, comma 7 TUB, perché la ratio della direttiva 2008/48/CE è proiettata al perseguimento di
obbiettivi di efficienza del mercato contemplanti
una responsabilizzazione oggettiva dell’attività
d’impresa.
Certo, è una lettura che penalizza il mutuante:
ma il differenziare tra i due tipi di mutui dovrebbe
attenuare, se non sopire, i timori per una perdita
secca deleteria o eccessivamente drastica per l’intero sistema bancario.
Per inciso il distinguere è già nella traccia della
direttiva 2014/17/UE: il Considerando 22, laddove
tratta comparativamente il credito immobiliare
con quello al consumo (50), parla da sé. Il dato torna nel Considerando 27, nell’ottica di una tutela
del credito ispirata ad un’esigenza di bilanciamento (51): e se non si vuole cadere nell’equivoco di
(48) Tanto che la dottrina paventa una forma di arbitraire juridique. V., al riguardo, Piedelièvre, Droit de la consommation,
Paris, 2008, 251 s.
(49) Per inciso, nell’ipotesi contigua del prestito vitalizio ipotecario al consumatore (art. 314 -15, comma 1), la negligenza
del professionista peut entraîner déchéance (totale o parziale).
(50) Testualmente: “Un approccio differenziato è inoltre
giustificato dall’opportunità di tenere conto degli insegnamenti
tratti dalla crisi finanziaria e dalla necessità di garantire che il
credito avvenga in maniera sana. A questo proposito, per la
valutazione del merito di credito sarebbe opportuno prevedere
disposizioni più rigide rispetto al credito al consumo”.
(51) Sia consentito il rinvio, per un’illustrazione più diffusa
di questo aspetto, a Pagliantini, Il debito da eccezione a regola,
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una eterogenesi dei fini perseguiti dalla disciplina
sulle clausole abusive, neanche parrebbe palesabile
uno iato tra un dato normativo generale (la dir.
93/13) ed uno di settore (la dir. 17/2014).
L’ordinanza 77/2014
È tempo di passare alla Corte costituzionale.
Stando al giudice a quo, l’incostituzionalità dell’art. 1385, comma 2 trarrebbe origine dalla circostanza che l’automatismo della norma, se inadempiente è il solvens l’accipiens può recedere ritenendo
la caparra mentre, se inadempiente è l’accipiens, il
solvens può recedere domandando il doppio, preclude al giudice qualsiasi sindacato sulla congruità
della somma pattuita: col risultato, ove dovesse
aversi un quantum di manifesta sproporzione, di
inibire un qualche intervento perequativo che, sul
modello del potere correttivo di cui all’art. 1384,
riporti il sinallagma ad una misura di giustezza. Prima facie, dunque, un sillogismo stringente: siccome
un potere giudiziale di revisione del contratto non
è ammesso fuori dai casi tassativamente previsti
dalla legge (artt. 1450 e 1526, 1 cpv., c.c. in particolare), nelle fattispecie atipiche ove una correzione non è contemplata, una meccanicistica applicazione dello stretto diritto produce il risultato di formalizzare un trasferimento di ricchezza superiore
«al valore stesso dell’affare». Alle corte: il contraente fedele ottiene il vantaggio di lucrare un utile che non avrebbe mai conseguito se il contratto
avesse ricevuto regolare esecuzione. Né, a mo’ di
contrappunto, può addursi l’argomento che il recesso con caparra ripristina lo status quo ante, se è
vero che l’eccessivo ammontare della caparra lo
porrà in una condizione diversa e più vantaggiosa di
quella riservata agli altri contraenti fedeli negoin Foro nap., 2014, in corso di stampa, spec. §§ 3 e 4. Nel
Considerando 27 si immagina un reticolo che imbrigli virtuosamente il credito: nell’ordine, una procedura di pignoramento,
nel caso sussistano debiti residui, che non intacchi il minimo
vitale per il debitore e non produca un sovraindebitamento a
lungo termine; un “adoperarsi ragionevolmente dei creditori”
per una vendita all’incanto del bene “al miglior prezzo possibile”, pignorandolo al prezzo di mercato; un incentivo a valorizzare pratiche che prevedano l’estinzione del credito al trasferimento della garanzia reale. Tutte situazioni, come si può notare, che sono all’origine della vicenda economico-giudiziaria
spagnola. Per la quale v. supra nt. 5.
(52) Come non manca di pensare, v. per un’attenta messa
a punto Dellacasa, La caparra confirmatoria, in Tratt. Roppo, Rimedi, V, a cura di Roppo, Milano, 2006, 349 ss., chi reputa
che ricorrano tutti i presupposti dell’analogia legis ovvero perché l’art. 1384 non sarebbe una norma speciale. I percorsi, si
vuol dire, possono essere diversi e, tra questi, può ben annoverarsi quello di un art. 1384 come epifania del principio di solidarietà, donde poi un’estensione analogica perché non vi sa-
868
zianti correttamente, cioè secondo le prassi commerciali del settore. Ergo la riduzione conservativa,
nella misura in cui corregge aequitatis causa la somma da ritenere o il doppio da restituire, cancella
un’illegittima disparità di trattamento con la clausola penale.
Orbene, come si diceva nell’incipit, la Corte costituzionale non si pronuncia formulando un’interpretativa di rigetto, cioè l’art. 1385 non è incostituzionale perché lo si può leggere nel senso che un
intervento perequativo del giudice è implicitamente consentito per via analogica (52), ma comprimendo la latitudine operativa della norma contestata.
E siccome neanche riproduce il passo, che si leggeva viceversa nell’ordinanza 248/2013, sul «necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen
iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra
confirmatoria», i problemi fioccano: al netto si badi del prevedibile argomento contrario - in quanto
si dirà che la Drittwirkung lo neutralizza - di una
nullità quale tecnica troppo delicata per incistarla
su di una formula semanticamente indeterminata
com’è quella di solidarietà sociale di cui all’art. 2
Cost.
Se infatti si inclina per l’idea che la nullità della
caparra confirmatoria, spazzi via la clausola, l’effetto conseguente sarà una nuda espunzione legittimante il contraente fedele ad agire sì, ai sensi dell’art. 1385, comma 3, per l’adempimento o per la
risoluzione, ma con un risarcimento danni liquidato esclusivamente per via giudiziale. Il che, non v’è
chi non lo veda, avrebbe l’effetto di discriminare
in senso opposto, rispetto ad un contratto di diritto
comune o b2b (53), tra clausola penale e caparra
confirmatoria: soltanto la prima, infatti, rimane riducibile officio iudicis. Facile dunque chiosare: siccome il contraente fedele, che abbia abusato in serebbe un principio sovraordinato tutelante un valore poziore
(così F. P. Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, cit. 692). Peccato però che non sia questa l’operazione della Consulta, la cui logica scansa totalmente il riferimento all’analogia.
(53) Ove infatti il contratto sia b2c, il problema non sorge
perché tanto la clausola penale che la caparra confirmatoria,
ove manifestamente sproporzionate, verranno a refluire nel disposto dell’art. 33, comma 2, lett. F: d cui poi la nullità totale
della pattuizione. Potrebbe però anche accadere - e per la dimostrazione si rinvia a D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”,
cit. - che il professionista dia la prova che la caparra sperequata è stata oggetto di trattativa privata: sicché, non potendo farsi questione di vessatorietà, la clausola andrebbe immune da
un giudizio di validità; donde il paradosso di una minor tutela
del consumatore rispetto al contraente di diritto comune. L’ipotesi, per quanto più che plausibile, sembra però più teorica
che pratica.
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de di prestazione penale può almeno trattenere
quella parte di utile che il giudice reputerà congruo
assegnargli, non ha senso una discriminazione alla
rovescia. Molto probabilmente la Consulta ha però
in mente una nullità parziale, mimante gli effetti di
una riduzione giudiziale, con una cancellazione
della caparra per la parte eccedente. Insomma una
nullità che corregge. Ora, tra questa nullità e la riduzione di cui all’art. 1384, il distinguo concettualmente è netto. Sulla premessa infatti che riducibile
può essere soltanto la clausola che si presenti come
valida quantunque illegittima, tecnicamente la riduzione conservativa va catalogata come una forma alternativa alla nullità, dunque come un rimedio che previene e mette fuori gioco l’invalidità. Sostenendo che la caparra iniqua è in parte qua nulla,
sistematicamente si fa salvo il principio che la rettifica giudiziale è soggetta ad un principio di stretta
legalità. Epperò, non v’è chi non lo veda, la nullità
parziale della prestazione patrimoniale iniqua diventa un modo per aggirare la tassatività de qua.
Ma c’è dell’altro (ed anche di più spesso). In sequenza.
I precedenti che la Corte cita sono ben 4: Cass.
10511/1999 e Cass. 18128/2005 sono gli arresti notissimi - sulla clausola penale, privi però di qualsiasi obiter che legittimi una riduzione giudiziale officiosa di tipo ultrattivo, Cass. 3775/1994 proclama
la valenza integrativa della buona fede nella vicenda Fiuggi, mentre Cass. 20106/2009 è la notissima
sentenza sul caso Renault, una pronuncia che, per
opinione unanime, è affetta da più di una sbavatura argomentativa. Ora, nessuno degli arresti citati
avvalora però l’assunto che la nullità parziale fondi
il potere del giudice, fuori dai casi di cui all’art.
1419, comma 2, di confezionare un regolamento
contrattuale equo (54). Per inciso, se la caparra
confirmatoria, ad imitazione della clausola penale,
dovesse diventare iniqua perché non più rapportabile all’originario interesse del creditore all’adempi-
mento (55), non è un caso di scuola ma si tratta
della fattispecie decisa recentemente da Cass.
21994/2012, dovrebbe immaginarsi una nullità sopravvenuta. Com’è simmetricamente possibile però
che, per effetto di una sopravvenienza, accada il
contrario. Quindi un coefficiente endemico - di
soggettivismo giudiziale - destinato a divenire assai
marcato.
Sebbene la Corte non ne faccia menzione, la
questione sull’irriducibilità giudiziale della caparra
confirmatoria iniqua è tutt’altro che nuova. C’era
il precedente di Cass. 4850/1977 (56), tranchant
nell’escludere un’interpretazione analogica dell’art.
1384 c.c., ma con uno schizzo di motivazione, poi
ripreso dalle successive 6394/1979 e Cass.
1143/1982 (57), seppur discontinuo, robustamente
articolato. C’era soprattutto, animato da una giurisprudenza di merito altalenante, un vivace dibattito dottrinale che aveva cercato di sugellare o di ribaltare, a seconda della visione prescelta, la lettera
dell’art. 1385, comma 2 c.c. E riportarlo, criticamente non a mo’ di un’asfittica storia delle idee,
offre un utile sponda ad un tentativo de-ideologizzato di decrittazione del problema. Problema che
dischiude una falsa questione per chi, sulla scorta
di un autorevole insegnamento (58), dovesse ritenere che clausola penale e caparra confirmatoria
funzionalmente si toccano. Se la comune matrice
di pattuizione rafforzativa di un credito alla prestazione contrattuale lascia intravedere un «diretto
collegamento» tra le due figure, una correzione
giudiziale della caparra per relationem analogica dall’art. 1384 è in re ipsa. In quest’ottica, anche l’argomento dell’eccezionalità, se clausola penale e caparra confirmatoria sono effettualmente affini, cade. Per chi però non sia di questo avviso (59), il
problema rimane. Ed allora, scartata l’idea che il
diverso regime trovi la sua ragion d’essere nell’unilateralità della penale a fronte di una reciprocità
della caparra perché la bilateralità del rimedio evi-
(54) Per una diversa spiegazione del richiamo, che tuttavia
non convince, v. F. Astone, Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e di buona
fede, cit. 3770.
(55) Non è un caso di scuola ma si tratta della fattispecie
decisa recentemente da Cass. 6 dicembre 2012, n. 21994, in
questa Rivista, 2013, 680 ss., con nota di M. Conforti, Clausola
penale, valutazione della manifesta eccessività e modalità del
giudizio.
(56) V. Cass., 10 novembre 1977, n. 4850, in Riv. dir.
comm., 1978, II, 176 ss.
(57) Per esteso, Cass., 10 dicembre 1979, n. 6394, in Rep.
Foro it., 1979, voce Contratto in genere, n. 244 e Cass., 24 febbraio 1982, n. 1143, in Mass. Giust. civ., 1982, 2: e nello stesso
senso è pure Cass., 23 maggio 1995, n. 5644, in Rep. Foro it.,
1995, voce Contratto in genere, n. 368. Nella giurisprudenza di
merito, in conformità all’indirizzo di legittimità, v. App. Cagliari,
16 gennaio 1998, in Riv. giur. sarda, 1999, 399 ss. e, prima ancora, Trib. Cagliari, 9 marzo 1989, ivi, 1992, 364 ss.
(58) Il riferimento è V. M. Trimarchi, Caparra (dir. civ.), in
Enc. dir., VI, Milano, 1960, 202, nt. 46. In senso contrario però,
anche sul versante della riducibilità, era la dottrina del tempo.
V., in particolare, Bavetta, La caparra, Milano, 1963, 163, nt.
97 e Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., Torino, 1958, 266.
(59) V., in luogo di tanti, Sacco, in Sacco - De Nova, Il contratto, in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino, 2004, II, 175
e De Nova, Caparra, in Digesto disc. priv., sez. civ., Torino,
1988, II, 241.
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dentemente non scaccia di per sé il rischio di abuso, conviene meglio scrutinare la questione.
Primo argomento. L’inapplicabilità della reductio
ad aequitatem alla caparra confirmatoria potrebbe
spiegarsi, è forse la nota critica che meglio contrasta la lettura di un art. 1385, comma 2 come una
norma lacunosa (60), colla circostanza che, mentre
la penale, promessa fatta da una parte all’altra nell’eventualità di un suo inadempimento, ha un ammontare rimesso discrezionalmente ai contraenti,
sicché la riduzione ope iudicis tempera quella che
dovesse risultare manifestamente eccessiva, la caparra confirmatoria, tutt’al contrario, fissa un anticipo del corrispettivo pattuito (61). È infatti l’ammontare della prestazione principale che fa «da limite massimo prefissato» (62). Per conseguenza,
nel caso la caparra versata risultasse di un importo
pari (o che supera) la prestazione dovuta, molto
semplicemente a difettare sarebbe quell’inadempimento legittimante il recesso ai sensi dell’art. 1385
, comma 2 c.c. Ergo, se la caparra è cospicua, se ne
immagini una il cui importo sia finanche di poco
inferiore al prezzo convenuto, l’accipiens venditore
non potrà eccepire un qualche inadempimento che
sia grave: nell’art. 1384, tutt’al contrario, la riduzione giudiziale conservativa è la sola variabile che
può fare da schermo al potere abusivo di un contraente ai danni dell’altro. La Consulta, per la verità, sembra intuire il ragionamento quando, uniformandosi alle ben note S.U. 533/2009, accosta il recesso di autotutela ad una risoluzione stragiudiziale
corredata dal filtro di un inadempimento grave.
Ma se voleva alludere allo specifico di una caparra,
il cui quantum può fungere da parametro all’esservi
oppure no un inadempimento risolutorio (63), doveva essere meno criptica.
Replica: un’attenta dottrina, incline ad ammettere viceversa l’estensione analogica dell’art. 1384,
ha opposto all’idea della caparra irriducibile, perché parte del corrispettivo promesso, che si tratte-
rebbe di un argomento affetto da un qual «certo
formalismo» (64). In realtà, di là dalla circostanza
che la tesi esposta sia velata o no da una punta di
astrattismo, ci sembra che il discorso della caparra
come frazione del prezzo abbia piuttosto il difetto
di coprire la (sola) fattispecie nella quale inadempiente sia il solvens e recedente l’accipiens venditore, il quale non potrà, come si diceva, lamentare
un inadempimento (65): il tutto naturalmente sulla
premessa, come un acuto autore ha fatto notare,
che la caparra da corrispondere sia espressa in denaro (66). Pur con questo distinguo rimane però
fuori il caso in cui inadempiente sia invece chi abbia ricevuto la caparra, perché allora il promissario
acquirente potrebbe recedere dal contratto ed esigere dal venditore inadempiente il doppio della caparra. Qui vale in effetti l’osservazione che, a seguito dell’inadempimento, il promissario acquirente finirà per trovarsi nella situazione altamente
vantaggiosa di «recuperare la propria prestazione e
ritenere insieme quasi il controvalore della stessa» (67). A ragionare come propone la Cassazione
si profila, in altre parole, nitidamente il paradosso
che, se l’inadempiente ha convenuto una penale,
avrà lo scudo della riduzione giudiziale ex art. 1384
c.c. mentre se è stata prevista una caparra confirmatoria è alla mercé della controparte. Che la situazione strida sembra evidente: ma, per ora lo si
anticipa soltanto, l’iniquità è neutralizzabile col rilievo che, quando la caparra è a garanzia del risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento,
in quanto liquidazione pattizia anticipata, va rapportata alla misura del pregiudizio subito. Per tutto
ciò che supera l’entità del danno causato non è più
una caparra ma una prestazione penale. L’argomentazione costituzionalmente orientata ha qui il valore di una sovrastruttura, senz’altro à la page, ma
colla valenza tipica … dell’orpello.
Secondo argomento. L’irriducibilità della caparra
confirmatoria può pure intendersi come un riverbe-
(60) Così potrebbe sintetizzarsi la lettura suggerita da A.
Marini, Caparra confirmatoria e reductio ad aequitatem, in Riv.
dir comm., 1979, spec. 178 ss.
(61) Sulla caparra come anticipo del prezzo e liquidazione
forfettaria del danno v. Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv., a
cura di Iudica e Zatti, Milano, 2011, 520.
(62) Così Marini, op. ult. cit. 180.
(63) Perché qui, detto in sintesi, un inadempimento non c’è
in quanto il pagamento sarebbe già avvenuto.
(64) Così Zoppini, La pena contrattuale, Milano, 1991, 288.
Id., La clausola penale e la caparra, in I contratti in generale, a
cura di E. Gabrielli, in Tratt. dei contratti, diretto da Rescigno e
Gabrielli, Torino, 2006, 1027.
(65) Torna utilissimo quel passo nel quale C. M. Bianca, Il
divieto del patto commissorio, Milano, 1957 (rist. Napoli, 2013),
234 fa notare che il «recesso …. implica liberazione dal vincolo
contrattuale, mentre, se la caparra costituisse il surrogato della
prestazione inadempiuta, il creditore [dovrebbe considerarsi]
tenuto alla controprestazione».
(66) Il riferimento è a D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”, cit. Visto infatti che la caparra può pure consistere in una
quantità di altre cose fungibili, «l’idea che il valore delle cose
consegnate all’accipiens possa essere eguale, e financo superiore, a quello della prestazione … che il tradens è tenuto ad
effettuare, comincia a diventare plausibile». Di qui il delinearsi
di una fattispecie, assai meno infrequente di quanto si potrebbe pensare, per la cui concretizzazione si rinvia all’elegante disamina di D’Amico.
(67) Cfr. Zoppini, op. loc. ult. cit.
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ro della circostanza, e Cass. 4850/1977 molto insisteva su questo aspetto (68), che il recesso dell’art.
1385, è un rimedio del quale il contraente fedele
può servirsi se lo preferisce ad una domanda di risoluzione con annesso risarcimento giudiziale dei
danni. Il che dovrebbe stilizzare una stringente nota distintiva tra gli artt. 1384 e 1385: il primo infatti è una disposizione dettata a tutela di un debitore/parte inadempiente che non può contare su di
un limite massimo preconfezionato della penalità,
la seconda è invece una norma a tutela del creditore/contraente fedele il quale può sí fare affidamento, ai fini del risarcimento danni, su di una somma
rapportata al valore della prestazione mancata epperò colla peculiarità che, entro questo massimale,
la suddetta somma potrà essere stata convenuta in
modo esiguo. Ebbene, visto che il ius eligendi del
contraente fedele si indirizzerà sulla ritenzione della caparra tutte le volte che la stessa non sia per lo
meno troppo peggiorativa di un danno comunque
da provare (e liquidare) secondo le regole di diritto
comune, sorge il dubbio che l’interpolare una riducibilità giudiziale intorbidi questa valutazione prognostica. La variante di una riducibilità finirebbe
–si dice- per rendere incerta la scelta del contraente fedele, imputandogli il rischio di un recesso al
buio perché esercitato senza avere una previa conoscenza dell’esatto ammontare della caparra spettantegli (69).
Replica: vero, ma non è meno esatto, che l’alea
della riduzione giudiziale conservativa c’è pure nella clausola penale. Sicché l’argomento proverebbe
troppo e poi, a mo’di contrappunto, può farsi valere la notazione di una riducibilità ammessa entro il
limite implicito di un abbattimento non azzerante
o che vada «al disotto dell’ammontare del danno
subito» (70).
Quando la caparra confirmatoria sia iniqua: la
tutela di diritto comune (senza invocare lo scudo
dell’argomento costituzionale). L’eccesso di mezzo
rispetto allo scopo.
Il problema che maneggia la Consulta esiste
quindi seppure in parte qua: perché, quando sia di
un importo manifestamente eccessivo, la caparra
confirmatoria diventa una pattuizione che veicola
una coazione indiretta all’adempimento. Non a caso autorevole dottrina ne ha diffusamente discusso
la prossimità col patto commissorio (71). Ora il carattere ingente della caparra confirmatoria non ne
mina la validità giacché sembra consentito all’autonomia privata negoziare uno strumento che induca all’adempimento: visto che, se non dovesse
aversi l’esecuzione, la parte c.d. infedele finirebbe
per dover pagare un prezzo troppo alto. E tuttavia,
di massima lo si ripete nella seconda fattispecie di
cui all’art. 1385, comma 2, c.c., la caparra confirmatoria mostra di avere l’attitudine a diventare
uno strumento di abuso o di sopraffazione di un
contraente ai danni dell’altro. Se la caparra confirmatoria viene pattuita in funzione risarcitoria, ove
sia manifestamente eccessiva, si pone davvero una
questione di misura della tutela convenuta per l’interesse dell’acquirente alla stipula del contratto. E
se è una questione di misura, questo si vuol dire,
rientra ovviamente nei poteri del giudice accertare
il fatto che il quantum previsto ex ante ed il danno
subito ex post - dalla parte non inadempiente - si
trovino a collimare. Dunque, non una proporzionalità come nuovo principio generale del contratto,
questione del tutto avulsa dal thema decidendum,
più banalmente un vaglio giudiziale sulla continenza tra l’ammontare della caparra ed il pregiudizio
patito dal contraente fedele. Ed è un vaglio giudiziale, in ogni caso, che non ha nulla di eversivo.
Basta rispolverare, per avvedersene, la nozione di
caparra confirmatoria che illustrava l’art. 248,
comma 1 del Progetto del 1940 del Libro delle Obbligazioni (72). La disposizione, già scomparsa nel
Progetto dell’aprile del 1941 (73), recitava di una
somma di denaro la quale, se versata da una parte
all’altra al momento della stipula, «si intende data
a garanzia del risarcimento dei danni per inadempimento». Orbene, la soppressione di questo comma
non è che abbia fatto mutare, nella trama dell’art.
1385, il principio, che l’art. 248, forse troppo pedantemente formalizzava, di una necessaria corrispondenza tra la somma corrisposta all’atto della
stipula ed danno subito. Perché, questo il sottinteso, se tra le due voci si certifica l’esistenza di un
(68) Così come Marini, op. loc. ult. cit.
(69) Nel discorso, insomma, si insinuerebbe una componente di aleatorietà idonea a frustrare le ragioni del recedente:
ragioni, si prenda nota, comunque legittime perché non si tratta della parte responsabile del mancato compimento dell’affare.
(70) Così Zoppini, op. loc. ult. cit.
(71) V. per tutti, C. M. Bianca, Il divieto del patto commisso-
rio, cit. 232 ss.
(72) Consultabile in G. B. Ferri, Le annotazioni di Filippo Vassalli in margine a taluni progetti del Libro delle Obbligazioni, Padova, 1990, 110.
(73) All’art. 218, una norma, tranne che per qualche variazione lessicale dal sapore stilistico, sostanzialmente riprodotta
nell’attuale art. 1385 c.c.
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871
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cospicuo quid pluris, allora si ha a che fare con una
sanzione (74). Non con una caparra.
Ed allora, se così però stanno le cose, non è che
il diritto comune lasci l’inadempiente, penalizzato
in contrahendo, orfano di una qualsiasi tutela. Di là
dai nomina utilizzati, come la prima ordinanza
chiariva, la qualificazione è compito del giudice
non certo una potestà delle parti, sicché, quando
la c.d. caparra dovesse risultare iniqua, dovrà concludersi che il doppio preteso dal promissario acquirente integra in realtà una clausola penale. Dopo di che, non si tratta certo di immaginare un’applicazione analogica dell’art. 1384 (75): piuttosto
l’art. 1384 va applicato direttamente perché altrimenti si avrebbe un caso di patente frode alla legge
ex art. 1344.
Ergo, resta fermo che la caparra confirmatoria,
quando davvero è tale, non si riduce.
Il tutto in punta di penna, col rimanente apparato argomentativo, che si legge anche nella prima
ordinanza, dal richiamo all’art. 2 Cost. alla buona
fede oggettiva passando per la rilevabilità officiosa
della nullità, trasformato in qualcosa di esornativo:
insieme al dubbio strisciante, a motivare nel modo
fatto dalla Corte costituzionale, che ragionando
troppo per principi talvolta non gli si renda una
gran servizio, intorbidendo così anche la (sicura)
precettività delle norme costituzionali (76).
Insomma, nel segno di Trabucchi, pas par cette
voie s’il vous plaît. Non è in discussione, ça va sans
dire, «la sensibilità [del]l’estensore del provvedimento»: ma, proprio per l’attitudine della Consulta
ad «orientare [le] decisioni future» (77), diventa
un problema di impatto che certe ordinanze, se le
si prende troppo sul serio, possono avere nella pratica quotidiana delle Corti. Censurabile non è il
sintagma del controllo giudiziale ma, ancora una
volta (78), come questo controllo viene fatto e,
maxime, in quale modo lo si motiva.
(74) V. Dellacasa, La caparra confirmatoria, cit. 353.
(75) V. Zoppini, op. ult. cit. 288, «se e quando il patto sia destinato funzionalmente ad esercitare uno stimolo indiretto all’adempimento», anche se il discorso che questo A. conduce
riguarda principalmente la caparra penitenziale. Nell’equivoco
sembra invece cadere M. Tatarano, Sub art. 1385, in Codice civile, annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di Giov.
Perlingieri, Napoli, 2010, IV, T I, 896.
(76) Sarebbe allora più sensato sentenziare, come ebbe discutibilmente a fare App. Roma, 13 marzo 1959 (in Giust. civ.,
1959, I, 584 ss.), che la riducibilità della caparra confirmatoria
sproporzionata si fonda sui principii concorrenti dell’arricchi-
mento senza causa e del favor debitoris.
(77) Così invece Astone, Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e di buona
fede, cit. 3770 ss.
(78) Il precedente si riscontra evidentemente nella sentenza
del caso Renault, per la quale si rinvia al commento critico di
C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza
(verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in Nuova giur. civ. comm., 2010, I,
231 ss.
872
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Giurisprudenza
I singoli contratti
Contratti dei consumatori
Verifica del merito creditizio ed
efficacia dei rimedi a tutela del
consumatore
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, Sez. IV, 27 marzo 2014, causa C-565/12 – Rel.
Prechal – Pres. Bay Larsen – Avv. Gen. Wahl – LCL Le Crédit Lyonnais SA c. Fesih Kalhan
L’articolo 23 della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai
contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del Consiglio, deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di un regime nazionale di sanzioni in forza del quale, in caso di violazione, da parte del creditore, del suo obbligo precontrattuale di valutare la solvibilità del debitore consultando una banca dati pertinente, il creditore decada dal suo diritto agli interessi convenzionali, ma benefici di
pieno diritto degli interessi al tasso legale, esigibili a decorrere dalla pronuncia di una decisione giudiziaria
che condanna tale debitore al versamento delle somme ancora dovute, i quali sono inoltre maggiorati di cinque punti se, alla scadenza di un termine di due mesi successivi a tale pronuncia, quest’ultimo non ha saldato
il suo debito, qualora il giudice del rinvio accerti che, in un caso come quello del procedimento principale, che
implica l’esigibilità immediata del capitale del prestito ancora dovuto a causa dell’inadempimento del debitore, gli importi che possono essere effettivamente riscossi dal creditore in seguito all’applicazione della sanzione della decadenza dagli interessi non sono notevolmente inferiori a quelli di cui avrebbe potuto beneficiare
se avesse ottemperato al suo obbligo di verifica della solvibilità del debitore.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
Difforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 8 e 23 della direttiva
2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai
consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE del
Consiglio (GU L 133, pag. 66, e rettifiche GU 2009, L
207, pag. 14, GU 2010, L 199, pag. 40, e GU 2011, L
234, pag. 46).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una
controversia tra la LCL Le Crédit Lyonnais SA (in prosieguo: la “LCL”) e il sig. Kalhan in merito a una domanda di pagamento di somme ancora dovute su un
prestito personale che tale società aveva concesso a
quest’ultimo e che egli non ha rimborsato.
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
3 I considerando 7, 9, 26, 28 e 47 della direttiva
2008/48 sono formulati nei seguenti termini:
“(7) Per facilitare il sorgere di un efficiente mercato interno del credito al consumo è necessario prevedere un
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quadro comunitario armonizzato in una serie di settori
fondamentali. (...)
(9) È necessaria una piena armonizzazione che garantisca a tutti i consumatori della Comunità di fruire di un
livello elevato ed equivalente di tutela dei loro interessi
e che crei un vero mercato interno. Pertanto, agli Stati
membri non dovrebbe essere consentito di mantenere o
introdurre disposizioni nazionali diverse da quelle previste dalla presente direttiva. (...)
(26) Gli Stati membri dovrebbero adottare le misure appropriate per promuovere pratiche responsabili in tutte
le fasi del rapporto di credito, tenendo conto delle specificità del proprio mercato creditizio. (...) In un mercato
creditizio in espansione, in particolare, è importante che
i creditori non concedano prestiti in modo irresponsabile
o non emettano crediti senza preliminare valutazione del
merito creditizio, e gli Stati membri dovrebbero effettuare la necessaria vigilanza per evitare tale comportamento
e dovrebbero determinare i mezzi necessari per sanzionare
i creditori qualora ciò si verificasse. (...)
(28) Al fine di valutare lo status di merito creditizio di
un consumatore, il creditore dovrebbe anche consultare
le banche dati pertinenti; le circostanze di fatto e di di-
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ritto possono richiedere che tali consultazioni assumano
ampiezza diversa. (...)
(47) Gli Stati membri dovrebbero stabilire norme sulle
sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni interne adottate a norma della presente direttiva
ed assicurarne l’attuazione. Benché la scelta delle sanzioni sia lasciata alla discrezionalità degli Stati membri,
le sanzioni previste dovrebbero essere effettive, proporzionate e dissuasive”.
4 L’articolo 8 della medesima direttiva, intitolato “Obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore”,
al suo paragrafo 1, prevede quanto segue:
“Gli Stati membri provvedono affinché, prima della
conclusione del contratto di credito, il creditore valuti
il merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore
stesso e, ove necessario, ottenute consultando la banca
dati pertinente. Gli Stati membri la cui normativa prevede già una valutazione del merito creditizio del consumatore consultando una banca dati pertinente possono mantenere tale obbligo”.
5 L’articolo 23 della direttiva 2008/48, intitolato “Sanzioni”, così dispone:
“Gli Stati membri stabiliscono le norme relative alle
sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma della presente direttiva
e prendono tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive”.
Il diritto francese
6 La legge n. 2010-737, del 1° luglio 2010, recante riforma del credito al consumo (“loi n° 2010-737, du 1er
juillet 2010, portant réforme du crédit à la consommation”; JORF del 2 luglio 2010, pag. 12001), volta a recepire la direttiva 2008/48 nel diritto interno francese,
è stata integrata negli articoli L. 311-1 e seguenti del
codice del consumo (“code de la consommation”).
7 L’articolo L. 311-9 del suddetto codice così dispone:
“Prima della conclusione del contratto di credito, il creditore verifica la solvibilità del debitore sulla base di un
numero sufficiente di informazioni, comprese informazioni fornite da quest’ultimo su richiesta del creditore.
Il creditore consulta il registro di cui all’articolo L. 3334, nelle condizioni previste dal decreto menzionato all’articolo L. 333-5”.
8 Il 26 ottobre 2010 è stato emanato il decreto ministeriale relativo al registro nazionale dei cattivi pagatori
(“arrêt ministériel relatif au fichier national des incidents de remboursement des crédits aux particuliers”),
quale previsto dall’articolo L. 333-5 del codice del consumo (in prosieguo: il “registro nazionale”). Tale decreto prescrive le modalità in base alle quali i creditori devono conservare le prove della consultazione del registro nazionale per produrle in caso di controversia o di
revisione contabile.
9 L’articolo L. 311-48, comma secondo e terzo, del codice del consumo prevede quanto segue:
874
“Qualora il creditore sia venuto meno agli obblighi fissati dagli articoli L. 311-8 e L. 311-9, egli decade dal diritto agli interessi, totalmente o nella proporzione determinata dal giudice. (...)
Il debitore è tenuto unicamente al rimborso del capitale
secondo le scadenze previste, nonché, eventualmente,
al pagamento degli interessi dai quali il creditore non è
decaduto. Le somme riscosse a titolo di interessi, produttive di interessi al tasso legale a decorrere dal giorno
del loro versamento, sono restituite dal creditore o imputate al capitale ancora dovuto”.
10 Ai sensi dell’articolo L. 313-3 del codice monetario
e finanziario (“code monétaire et financier”):
“In caso di condanna pecuniaria con decisione giudiziaria, il tasso di interesse legale è maggiorato di cinque
punti alla scadenza di un termine di due mesi decorrenti
dal giorno in cui la decisione giudiziaria è divenuta esecutiva, anche solo provvisoriamente (...).
Tuttavia, su richiesta del debitore o del creditore, e in
considerazione della situazione del debitore, il giudice
dell’esecuzione può esonerare quest’ultimo da tale maggiorazione o ridurne l’ammontare”.
11 L’articolo 1153, comma primo, secondo e terzo, del
codice civile francese è del seguente tenore:
“Nelle obbligazioni che si limitano al pagamento di una
somma determinata, il risarcimento dovuto per il ritardo nell’adempimento consiste sempre solo nella condanna agli interessi al tasso legale, salvo le norme particolari vigenti in materia di commercio e di garanzia.
Tale risarcimento è dovuto senza che il creditore sia tenuto a giustificare alcun danno.
Esso è dovuto soltanto a partire dal giorno della messa
in mora, o da un altro atto equivalente come una missiva, qualora ne derivi un’intimazione sufficiente, salvo il
caso in cui la legge li faccia decorrere di pieno diritto”.
12 L’articolo 1154 del medesimo codice così recita:
“Gli interessi maturati sui capitali possono produrre interessi, a seguito di una domanda giudiziale o di un’apposita
convenzione, purché nella domanda o nella convenzione
si tratti di interessi dovuti per almeno un anno intero”.
13 L’articolo 1254 del codice civile così dispone:
“Il debitore di una somma che produce interessi o arretrati, senza il consenso del creditore, non può imputare
il pagamento effettuato sul capitale con preferenza agli
arretrati o agli interessi: il pagamento effettuato sul capitale e sugli interessi, ma non integrale, va imputato in
primo luogo agli interessi”.
Procedimento principale e questione pregiudiziale
14 In data 4 maggio 2011, il sig. Kalhan ha stipulato
con la LCL un contratto relativo ad un prestito personale di un importo pari a EUR 38000 rimborsabile in
60 rate di EUR 730,46, con un tasso debitore annuo fisso del 5,60% e un tasso annuo effettivo globale
(TAEG) del 5,918%.
1 Poiché dal 12 gennaio 2012 il suddetto prestito non è
stato più rimborsato, la LCL ha fatto valere dinanzi al
tribunal d’instance d’Orléans l’esigibilità immediata delle somme prestate.
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I singoli contratti
16 Il 18 ottobre 2012, la LCL ha citato il sig. Kalhan
dinanzi al giudice del rinvio, segnatamente affinché
venga condannato al pagamento della somma di EUR
37611,23, con interessi al tasso annuo di 5,918% a decorrere dal 17 aprile 2012, e affinché venga ordinata la
capitalizzazione annuale degli interessi.
17 Il suddetto giudice ha rilevato d’ufficio il motivo attinente all’eventuale decadenza dal diritto agli interessi,
di cui all’articolo L. 311-48, secondo comma, del codice
del consumo, nei confronti del creditore per mancata
consultazione del registro nazionale previsto dall’articolo L. 333-4 del codice del consumo, nell’ambito della
verifica della solvibilità del debitore, quale imposta dall’articolo L. 311-9 dello stesso codice. La LCL ha riconosciuto che essa non era in grado di dimostrare di avere proceduto ad una siffatta consultazione prima della
conclusione del contratto di prestito.
18 Il giudice del rinvio evidenzia che la sanzione della
decadenza dal diritto agli interessi, di cui all’articolo L.
311-48, secondo comma, del codice del consumo, è stata interpretata dalla Cour de Cassation (Corte di Cassazione, Francia) nel senso che riguarda unicamente gli
interessi convenzionali, con la conseguenza che gli interessi al tasso legale rimangono tuttavia dovuti in forza
dell’articolo 1153 del codice civile.
19 Esso rileva che, a norma dell’articolo L. 313-3 del
codice monetario e finanziario, tale tasso legale è maggiorato di cinque punti qualora il debitore non abbia
saldato integralmente il suo debito entro un termine di
due mesi dal momento in cui la decisione giudiziaria ha
acquisito forza esecutiva.
20 Il giudice del rinvio indica inoltre che, secondo la
giurisprudenza della Cour de cassation, gli interessi al
tasso legale nonché la maggiorazione di cinque punti si
applicano di pieno diritto, vale a dire che gli interessi
così maggiorati sono dovuti automaticamente, persino
qualora non siano stati richiesti o qualora la decisione
giudiziaria non li abbia previsti.
21 Peraltro, il suddetto giudice rileva che, nel caso di
specie, il tasso degli interessi convenzionali è del
5,60%, mentre invece, dopo la dichiarazione di decadenza dal diritto a tali interessi, la LCL potrà beneficiare di interessi al tasso legale, i quali, ove vengano maggiorati di cinque punti due mesi dopo la data in cui la
sentenza è divenuta esecutiva, ammonteranno al 5,71%
per il 2012. Di conseguenza, l’applicazione della decadenza dal diritto agli interessi potrebbe procurare un beneficio al creditore.
22 Ciò premesso, il giudice del rinvio si interroga, in
primo luogo, sull’efficacia della sanzione della decadenza dal diritto agli interessi convenzionali nel caso di una
violazione comprovata dell’obbligo del creditore di consultare il registro nazionale all’uopo previsto al fine di
verificare la solvibilità del consumatore.
23 Secondo lo stesso giudice, la suddetta sanzione potrebbe essere efficace quando il consumatore versa l’integralità delle somme divenute esigibili entro un termine di due mesi dal momento in cui la decisione giudiziaria è divenuta esecutiva. Tuttavia, sul piano pratico,
tale eventualità sarebbe illusoria in quanto, in via gene-
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rale, se il creditore è stato costretto ad agire in giudizio
è perché la situazione del consumatore non gli consentiva più di ottemperare ai propri obblighi. Inoltre, sebbene il giudice investito della controversia possa concedere una proroga massima di 24 mesi, rimarrebbe comunque il fatto che gli interessi legali restano esigibili.
Peraltro, si può anche sostenere che l’inadempimento,
da parte del creditore, del proprio obbligo di verifica
della solvibilità del consumatore potrebbe aver contribuito all’eccessivo indebitamento di quest’ultimo.
24 Il giudice del rinvio rileva anche che l’articolo L. 3133 del codice monetario e finanziario prevede la possibilità
per il consumatore di chiedere al giudice di esonerarlo
dalla maggiorazione degli interessi al tasso legale o di ridurne l’ammontare. Tuttavia, sul piano pratico, i casi in
cui un consumatore abbia potuto beneficiare di una siffatta misura dopo una decadenza dal diritto agli interessi sarebbero estremamente rari, segnatamente per il fatto che
il consumatore non viene informato di tale diritto o che
il beneficio di quest’ultimo viene concesso tenendo conto
non della gravità degli inadempimenti del creditore, bensì
unicamente della situazione finanziaria del consumatore.
25 In secondo luogo, in merito alla proporzionalità del
regime di sanzioni di cui trattasi nel procedimento principale, il giudice del rinvio indica anzitutto che il giudice può certamente modulare la sanzione della decadenza
dal diritto agli interessi in considerazione della gravità
della violazione, da parte del creditore, dell’obbligo di
cui trattasi. Tuttavia, persino in tale caso, quest’ultimo
beneficerebbe ancora degli interessi al tasso legale sulle
somme ancora dovute.
26 Poiché, poi, a norma dell’articolo 1254 del codice civile, gli interessi al tasso legale diventano esigibili a
causa della decadenza dal diritto agli interessi convenzionali e i pagamenti sono imputati prioritariamente
agli interessi dovuti, il rimborso del capitale sarebbe necessariamente ritardato sicché diventerebbero esigibili
nuovi interessi al tasso legale.
27 Infine, l’effetto della suddetta decadenza sarebbe anche ridotto a causa della capitalizzazione degli interessi,
che può essere richiesta dal creditore conformemente al
principio dell’anatocismo quale previsto dall’articolo
1154 del codice civile.
28 In terzo luogo, il giudice del rinvio si interroga sul
carattere dissuasivo del regime della decadenza dal diritto agli interessi quale previsto dal codice del consumo.
Esso ritiene che, siccome i creditori possono contare
sull’esigibilità degli interessi al tasso legale maggiorato,
persino in caso di decadenza dal loro diritto agli interessi convenzionali, essi siano poco incentivati a modificare le loro pratiche nel senso di un rigoroso adempimento degli obblighi ad essi incombenti in forza della direttiva 2008/48 e della normativa di recepimento della
medesima nel diritto interno degli Stati membri.
29 Ciò premesso, il tribunal d’instance d’Orléans ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte la seguente questione pregiudiziale:
“Se l’esigenza di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, prevista dall’articolo 23 della [direttiva
2008/48], in caso di inadempimento, da parte dei credi-
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tori, degli obblighi sanciti dalla direttiva, osti all’esistenza di norme che permettono al creditore, sanzionato
con la decadenza dal suo diritto agli interessi come previsto dalla legislazione francese, di beneficiare, dopo la
pronuncia della sanzione, di interessi esigibili di pieno
diritto a un tasso legale maggiorato di cinque punti due
mesi dopo una decisione giudiziaria esecutiva, sulle
somme ancora dovute dal consumatore”.
Sulla questione pregiudiziale
30 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 23 della direttiva 2008/48
debba essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di un regime nazionale di sanzioni in forza
del quale, in caso di violazione da parte del creditore
del suo obbligo precontrattuale di valutare la solvibilità
del debitore mediante la consultazione di una banca dati pertinente, tale creditore decade dal suo diritto agli
interessi convenzionali, ma beneficia di pieno diritto
degli interessi al tasso legale, esigibili a decorrere dalla
pronuncia di una decisione giudiziaria che condanna tale debitore al versamento delle somme ancora dovute, i
quali sono inoltre maggiorati di cinque punti se, alla
scadenza di un termine di due mesi successivi a tale pronuncia, quest’ultimo non ha saldato il suo debito.
Sulla ricevibilità
31 La Commissione europea solleva un duplice interrogativo in merito alla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale.
32 Essa sostiene, in primo luogo, che il regime nazionale
di sanzioni, quale applicabile nel procedimento principale, mira a reprimere la violazione di un obbligo previsto
non dalla direttiva 2008/48 bensì da una norma nazionale che impone la consultazione, da parte del creditore, di
una banca dati che gli Stati membri possono mantenere
a norma dell’articolo 8 della citata direttiva, sebbene tale
regime si applichi anche alla violazione di altri obblighi
che, dal canto loro, derivano direttamente dalla stessa direttiva. Di conseguenza, la questione se un siffatto regime
di sanzioni rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 23 della suddetta direttiva non sarebbe chiara.
33 In secondo luogo, poiché il principio dell’applicazione di pieno diritto degli interessi al tasso legale e della
loro maggiorazione sembra implicare che il giudice nazionale non possa né disattendere le disposizioni in esame nel procedimento principale che prevedono il pagamento di tali importi né interpretarle alla luce del diritto dell’Unione, occorrerebbe quindi interrogarsi sull’utilità di una risposta della Corte alla questione che le viene sottoposta dal giudice del rinvio.
34 A tal proposito, da un lato, per quanto riguarda l’applicabilità dell’articolo 23 della direttiva 2008/48 al regime nazionale di sanzioni in esame nel procedimento
principale, va rilevato che, ai termini stessi di tale articolo, questo si applica alle “norme relative alle sanzioni
applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma [di tale] direttiva”.
876
35 Orbene, è giocoforza constatare che il suddetto regime di sanzioni mira a sanzionare la violazione di una disposizione nazionale adottata nell’ambito del recepimento della direttiva 2008/48.
36 Invero, siffatto regime, quale previsto dall’articolo L.
311-48 del codice del consumo, intende segnatamente
sanzionare la violazione da parte del creditore dell’obbligo, prescritto dall’articolo L. 311-9 del medesimo codice, di verificare la solvibilità del debitore consultando
il registro nazionale previsto a tal fine. Orbene, l’articolo 8 della direttiva 2008/48 prevede espressamente che
un siffatto obbligo di consultazione possa essere mantenuto. Inoltre, il regime di sanzioni di cui trattasi nel
procedimento principale si applica generalmente in caso
di violazione dell’obbligo in materia di verifica precontrattuale della solvibilità del consumatore quale previsto
dal suddetto articolo L. 311-9, il quale mira a dare attuazione all’articolo 8 della direttiva in parola. Peraltro,
dal considerando 28 della stessa direttiva emerge che
una consultazione del genere viene effettuata se le circostanze di diritto e di fatto lo richiedono.
37 Per quanto concerne, d’altro lato, i dubbi espressi dalla
Commissione circa l’utilità di una risposta alla questione
posta ai fini della soluzione del procedimento principale,
va ricordato che, secondo una giurisprudenza costante
della Corte, le questioni relative all’interpretazione del
diritto dell’Unione poste dal giudice nazionale nell’ambito normativo e fattuale da esso definito sotto la propria
responsabilità e la cui esattezza non spetta alla Corte verificare, godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto,
da parte della Corte, di statuire su una domanda di pronuncia pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è
possibile solo qualora risulti manifestamente che l’interpretazione richiesta del diritto dell’Unione non ha alcuna
relazione con la realtà o con l’oggetto del procedimento
principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per fornire una risposta utile alle
questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenza del 19 dicembre 2013, Fish Legal e Shirley, C279/12, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 30).
38 A tale proposito, non risulta in modo manifesto dal
principio dell’applicazione automatica o di pieno diritto
degli interessi al tasso legale, e della loro maggiorazione,
a una somma che non sia stata pagata entro i termini
prescritti, che il giudice del rinvio non sarebbe in condizione di tenere utilmente conto della risposta fornita
dalla Corte al quesito posto, segnatamente interpretando le disposizioni nazionali da cui deriva l’esigibilità di
tale somma alla luce del diritto dell’Unione se ciò dovesse risultare necessario considerata tale risposta.
39 Ciò posto, va constatato che gli interrogativi sollevati dalla Commissione non sono tali da rimettere in
questione la ricevibilità della domanda di pronuncia
pregiudiziale.
Nel merito
40 Dall’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2008/48,
letto alla luce del considerando 28 di quest’ultima,
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emerge che prima della conclusione di un contratto di
credito, il creditore è tenuto a valutare la solvibilità del
consumatore, ove tale obbligo può eventualmente comprendere la consultazione delle banche dati pertinenti.
41 In tal contesto, il considerando 26 della suddetta direttiva enuncia che in un mercato creditizio in espansione, in particolare, è importante che i creditori non
siano indotti a concedere prestiti in modo irresponsabile o a emettere crediti senza preliminare valutazione
della solvibilità del consumatore e che gli Stati membri
effettuano la necessaria vigilanza per prevenire tali comportamenti e definiscono i mezzi necessari per sanzionare gli autori di tali comportamenti.
42 L’obbligo precontrattuale del creditore di valutare la
solvibilità del debitore, nella misura in cui mira a tutelare
i consumatori contro i rischi di sovraindebitamento e di
insolvenza, contribuisce alla realizzazione dell’obiettivo
della direttiva 2008/48 che consiste, come emerge dai
considerando 7 e 9 della medesima, nel prevedere, in materia di credito ai consumatori, un’armonizzazione completa ed imperativa in una serie di settori fondamentali,
la quale viene ritenuta necessaria per garantire a tutti i
consumatori dell’Unione un livello elevato ed equivalente di tutela dei loro interessi e per facilitare il sorgere di
un efficiente mercato interno del credito al consumo.
43 Alla luce di un siffatto obiettivo, volto a garantire
una tutela effettiva dei consumatori contro la concessione irresponsabile di contratti di credito che eccedono
le loro capacità finanziarie e possono comportare la loro
insolvenza, l’articolo 23 della direttiva 2008/48 prevede,
da un lato, che il regime di sanzioni applicabili in caso
di violazione delle disposizioni nazionali in materia di
verifica precontrattuale della solvibilità del debitore,
adottate a norma dell’articolo 8 di tale direttiva, sia definito in modo tale che le sanzioni siano efficaci, proporzionate nonché dissuasive e, dall’altro, che gli Stati
membri adottino tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione. Dal considerando 47 della medesima direttiva emerge inoltre che, entro tali limiti, la
scelta del suddetto regime di sanzioni viene lasciato alla
discrezionalità degli Stati membri.
44 A tal riguardo, va ricordato che, in base alla giurisprudenza costante della Corte relativa al principio di leale
cooperazione, ora sancito dall’articolo 4, paragrafo 3,
TUE, pur conservando la scelta delle sanzioni, gli Stati
membri devono segnatamente vegliare a che le violazioni
del diritto dell’Unione siano sanzionate, sotto il profilo
sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto nazionale simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla
sanzione stessa un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 3
maggio 2005, Berlusconi e a., C-387/02, C-391/02 e C403/02, Racc. pag. I-3565, punti 64 e 65, nonché del 26
settembre 2013, Texdata Software, C-418/11, non ancora
pubblicata nella Raccolta, punto 50).
45 La Corte ha statuito, segnatamente, che la severità
delle sanzioni deve essere adeguata alla gravità delle
violazioni che esse reprimono e comportare, in particolare, un effetto realmente dissuasivo, fermo restando il
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rispetto del principio generale di proporzionalità (sentenza Texdata Software, cit., punto 51).
46 Nel caso di specie, l’obbligo precontrattuale di verifica da parte del creditore della solvibilità del debitore,
imposto dall’articolo L. 311-9 del codice del consumo,
disposizione volta a dare attuazione all’articolo 8 della
direttiva 2008/48, in caso di violazione è sanzionato
dall’articolo L. 311-48 di tale codice, disposizione volta
a dare attuazione all’articolo 23 della medesima direttiva e che prevede la decadenza, in linea di principio integrale, dal diritto agli interessi del creditore.
47 Di conseguenza, si pone la questione se la severità di
tale sanzione sia adeguata alla gravità delle violazioni
che essa reprime e, in particolare, se una sanzione del
genere comporti un effetto realmente dissuasivo.
48 A tal riguardo, il giudice del rinvio rileva che, secondo la giurisprudenza nazionale, la sanzione della decadenza dagli interessi riguarda unicamente gli interessi
convenzionali, sicché i creditori beneficiano di pieno
diritto degli interessi al tasso legale che nella stragrande
maggioranza dei casi sono, parimenti di pieno diritto,
maggiorati di cinque punti. Nel procedimento principale e per quanto attiene al 2012, tale giudice precisa che
il tasso degli interessi convenzionali era del 5,60%,
mentre gli interessi al tasso legale, maggiorati di cinque
punti, ammonterebbero al 5,71%. La differenza tra questi tassi sarebbe stata ancora più marcata per quanto riguarda il 2013. Ne deriverebbe che l’applicazione della
sanzione della decadenza, quale prevista dalla normativa
nazionale, può procurare un vantaggio al creditore.
49 Per contro, la Commissione sostiene che, in casi come quello ricorrente nel procedimento principale, in
cui il creditore esige il rimborso immediato del prestito
in seguito al mancato pagamento del debitore, il carattere effettivo e dissuasivo della sanzione sembra garantito. Infatti, i costi legati alla consultazione, nell’ambito
della verifica della solvibilità del debitore, delle banche
dati previste a tale fine, sarebbero relativamente limitati, mentre la sanzione della decadenza dagli interessi
convenzionali comporterebbe un rischio con un costo
economico potenzialmente elevato. Inoltre, sebbene,
certamente, il creditore non diligente possa comunque
reclamare gli interessi legali, eventualmente maggiorati
di cinque punti, rimarrebbe nondimeno il fatto che,
contrariamente al creditore che abbia ottemperato all’obbligo di verifica precontrattuale della solvibilità del
debitore, la base sulla quale tali interessi sono applicati
non include né gli interessi convenzionali né gli interessi legali dovuti su di essi.
50 A tal riguardo, al fine di valutare il carattere realmente dissuasivo della sanzione, spetta al giudice del
rinvio, che è l’unico competente ad interpretare ed applicare il diritto nazionale, raffrontare, nelle circostanze
della causa di cui è investito, gli importi che il creditore
avrebbe riscosso come remunerazione del prestito qualora avesse rispettato il suo obbligo precontrattuale di valutare la solvibilità del debitore consultando una banca
dati pertinente, con quelli che egli percepirebbe in applicazione della sanzione per violazione di questo stesso
obbligo precontrattuale. Al fine di determinare questi
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ultimi importi, spetta al suddetto giudice tenere conto
di tutti gli elementi e, in particolare, di tutte le conseguenze che possono discendere dal suo accertamento
della violazione, da parte del creditore, dell’obbligo precontrattuale di cui trattasi.
51 Se, in esito al raffronto di cui al punto precedente, il
giudice del rinvio dovesse accertare che, nella controversia di cui è investito, l’applicazione della sanzione della
decadenza dagli interessi convenzionali può conferire un
beneficio al creditore, in quanto gli importi di cui viene
privato sono inferiori a quelli derivanti dall’applicazione
degli interessi al tasso legale maggiorato, ne discenderebbe che, manifestamente, il regime di sanzioni in esame
nel procedimento principale non garantisce un effetto
realmente dissuasivo alla sanzione in cui si incorre.
52 Inoltre, tenuto conto dell’importanza, rilevata al punto 43 della presente sentenza, dell’obiettivo di tutela dei
consumatori inerente all’obbligo di verifica, da parte del
creditore, della solvibilità del debitore, la sanzione della
decadenza dagli interessi convenzionali, in via più generale, non può essere considerata realmente dissuasiva qualora il giudice del rinvio dovesse accertare, in esito al raffronto di cui al punto 50 della presente sentenza e alla luce di tutte le circostanze rilevanti indicate in tale punto,
che, in un caso come quello sottopostogli nella presente
fattispecie, che implica l’immediata esigibilità del capitale
del prestito ancora dovuto a causa dell’inadempimento
del debitore, gli importi che possono essere riscossi dal
creditore in seguito all’applicazione di tale sanzione non
sono notevolmente inferiori a quelli di cui avrebbe potuto beneficiare se avesse ottemperato a un siffatto obbligo.
53 Infatti, se la sanzione della decadenza dagli interessi
venisse mitigata, ovvero puramente e semplicemente
eliminata, a causa del fatto che l’applicazione degli interessi al tasso legale maggiorato può compensare gli effetti di una siffatta sanzione, ne discenderebbe necessariamente che essa non presenta un carattere realmente
dissuasivo (v., per analogia, sentenza dell’8 giugno
1994, Commissione/Regno Unito, C-382/92, Racc. pag. I2435, punti da 56 a 58).
54 Nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio accertasse che
la sanzione della decadenza dagli interessi convenzionali
non presenta un carattere realmente dissuasivo ai sensi
dell’articolo 23 della direttiva 2008/48, occorre ricordare
a tal riguardo che un giudice nazionale, investito di una
controversia che vede contrapposti esclusivamente soggetti privati, in sede di applicazione delle disposizioni del
diritto interno è tenuto a prendere in considerazione tutte le norme del diritto nazionale e ad interpretarle, per
quanto possibile, alla luce del testo nonché della finalità
della direttiva applicabile in materia per ottenere una soluzione conforme all’obiettivo da essa perseguito (v., in
particolare, sentenza del 27 febbraio 2014, OSA, C351/12, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 44).
55 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione posta dichiarando che l’articolo 23 della direttiva 2008/48 deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione
di un regime nazionale di sanzioni in forza del quale, in
caso di violazione, da parte del creditore, del suo obbligo precontrattuale di valutare la solvibilità del debitore
consultando una banca dati pertinente, il creditore decada dal suo diritto agli interessi convenzionali, ma benefici di pieno diritto degli interessi al tasso legale, esigibili a decorrere dalla pronuncia di una decisione giudiziaria che condanna tale debitore al versamento delle
somme ancora dovute, i quali sono inoltre maggiorati di
cinque punti se, alla scadenza di un termine di due mesi
successivi a tale pronuncia, quest’ultimo non ha saldato
il suo debito, qualora il giudice del rinvio accerti che,
in un caso come quello del procedimento principale,
che implica l’esigibilità immediata del capitale del prestito ancora dovuto a causa dell’inadempimento del debitore, gli importi che possono essere effettivamente riscossi dal creditore in seguito all’applicazione della sanzione della decadenza dagli interessi non sono notevolmente inferiori a quelli di cui avrebbe potuto beneficiare se avesse ottemperato al suo obbligo di verifica della
solvibilità del debitore.
IL COMMENTO
di Tiziana Rumi (*)
Con la sentenza Le Crédit Lyonnais SA la Corte UE affronta un profilo peculiare della nuova disciplina sul
credito ai consumatori, costituito dall’obbligo precontrattuale del finanziatore di verificare il merito creditizio del richiedente il prestito prima di concedergli il finanziamento. La violazione del suddetto obbligo
comporta, intanto, conseguenze giuridiche differenti nei vari ordinamenti nazionali (trattandosi di un
aspetto che il legislatore europeo non ha inteso armonizzare), ma soprattutto può determinare, (come è
accaduto nel caso in esame), anche in attuazione del principio dell’interpretazione conforme, la disapplicazione delle sanzioni statali che si rivelano inefficaci, sproporzionate e scarsamente dissuasive rispetto alle
finalità della direttiva 2008/48/CE sul credito ai consumatori.
(*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di Valutazione.
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Il caso da cui ha preso le mosse la sentenza in
commento riguardava la controversia insorta tra
l’istituto di credito LCL Le Crédit Lyonnais SA (in
seguito LCL) e il sig. Kalhan, avente ad oggetto il
mancato rimborso di un prestito personale richiesto da quest’ultimo alla suddetta società finanziaria
a maggio del 2011. A seguito dell’inadempimento
del debitore, la LCL lo citava in giudizio davanti
al tribunal d’instance d’Orléans sia per vederlo condannare al pagamento della somma di 37.611,23
euro, con interessi al tasso annuo di 5,918% a decorrere dal 17 aprile 2012, sia per ottenere la capitalizzazione annuale degli interessi. Per comprendere pienamente le scelte operate dal tribunale francese e la questione pregiudiziale dal medesimo sollevata alla Corte di giustizia occorre tenere presente lo scenario normativo in cui si colloca la vicenda in esame. Dopo l’attuazione, anche in Francia,
della direttiva 2008/48/CE, per effetto della legge
n. 2010-737, del 1° luglio 2010, recante riforma
del credito al consumo, il nuovo art. 311-9 Code de
la consommation prevede l’obbligo per il creditore
di verificare il merito creditizio del consumatore
“sulla base di un numero sufficiente di informazioni, comprese informazioni fornite da quest’ultimo
su richiesta del creditore”. Si prevede, inoltre, che
il creditore consulti il registro nazionale “dei cattivi pagatori”, previsto dall’art. L. 333-4, secondo le
condizioni dettate dal decreto ministeriale 26 ottobre 2010 (menzionato dall’art. L. 333-5), che “prescrive le modalità in base alle quali i creditori devono conservare le prove di tale consultazione per
produrle in caso di controversia o di revisione contabile” (punto 8 della sentenza). La normativa
francese, poi, prevede quale sanzione per l’ipotesi
in cui il creditore venga meno all’obbligo di verifica del merito creditizio “la decadenza dal diritto
agli interessi, totalmente o nella proporzione determinata dal giudice. (…)” (art. L. 311-48, comma
2, code cons.) con la conseguenza di poter pretendere dal debitore “unicamente il rimborso del capitale secondo le scadenze previste, nonché, eventualmente, il pagamento degli interessi dai quali il
creditore non è decaduto” (art. L. 311-48, comma
3, code cons.). Tale normativa va integrata sia con
l’art. L. 313-3 code monétaire et financier, per il qua-
le “In caso di condanna pecuniaria con decisione
giudiziaria, il tasso di interesse legale è maggiorato
di cinque punti alla scadenza di un termine di due
mesi decorrenti dal giorno in cui la decisione giudiziaria è divenuta esecutiva, anche sono provvisoriamente (…)”, sia con l’art. 1153 code civil, che,
in ipotesi di ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, prevede un risarcimento consistente nella condanna del debitore al pagamento
degli interessi al tasso legale, senza che il creditore
sia tenuto a giustificare alcunché. Sulla base della
disciplina appena descritta il tribunale francese rilevava d’ufficio la decadenza dal diritto agli interessi, di cui all’art. L. 311-48, comma 2, code cons.,
nei confronti della società LCL, “per mancata consultazione del registro nazionale previsto dall’art. L.
333-4 del codice del consumo, nell’ambito della
verifica della solvibilità del debitore, quale imposta
dall’art. L. 311-9 dello stesso codice” (punto 17
della sentenza). Posto, però, che la sanzione della
decadenza dal diritto agli interessi veniva costantemente interpretata dalla Suprema Corte francese
come relativa ai soli interessi convenzionali, con la
conseguenza che sarebbero ancora dovuti, ex art.
1153 code civil, gli interessi legali e che tali interessi, maggiorati di diritto di cinque punti a norma
dell’art. L. 313-3 code monétaire et financier, avrebbero finito addirittura per avvantaggiare il creditore in quanto il tasso legale maggiorato era del
5,71%, a fronte del tasso convenzionale del 5,60%,
il tribunale francese si è interrogato “sull’efficacia
della sanzione della decadenza dal diritto agli interessi convenzionali nel caso di una violazione comprovata dell’obbligo del creditore di consultare il
registro nazionale all’uopo previsto al fine di verificare la solvibilità del consumatore” (punto 22 della
sentenza), oltre che in merito alla proporzionalità
ed al carattere dissuasivo (1) del regime della decadenza dal diritto agli interessi previsto dal code de
la consommation (punti 25 e 28 della sentenza). Il
tribunal d’instance d’Orléans ha ritenuto, pertanto,
di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale: “Se l’esigenza di sanzioni efficaci proporzionali e
dissuasive, prevista dall’art. 23 della [direttiva
2008/48], in caso di inadempimento, da parte dei
creditori, degli obblighi sanciti dalla direttiva, osti
all’esistenza di norme che permettono al creditore,
(1) Il fatto che “i creditori possono contare sull’esigibilità
degli interessi al tasso legale maggiorato, persino in caso di
decadenza dal loro diritto agli interessi convenzionali” alimenta
il dubbio che gli stessi “siano poco incentivati a modificare le
loro pratiche nel senso di un rigoroso adempimento degli obblighi ad essi incombenti in forza della direttiva 2008/48 e della
normativa di recepimento della medesima nel diritto interno
degli Stati membri”.
Il fatto e la questione pregiudiziale
sollevata dal tribunal d’Instance d’Orléans
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Prima di passare ad illustrare la decisione della
Corte di giustizia, può essere utile esaminare, più
da vicino, l’obbligo precontrattuale di verifica del
merito creditizio e le problematiche che dallo stesso derivano in termini di tutela per il consumatore.
Tra le esigenze che la nuova direttiva
2008/48/CE in materia di credito ai consumatori
ha inteso soddisfare assume rilievo tutt’altro che
secondario quella di contrastare il dilagante fenomeno del sovraindebitamento (2) dei soggetti finanziati, favorito “sia dalla persuasività quasi aggressiva delle campagne pubblicitarie - che, per allocare prodotti e servizi, esaltano la possibilità di
acquistarli a rate, di differire nel tempo il pagamento della prima rata, di avvalersi di sofisticate
tecniche assicurative consumer credit insurance e di
altrettanto sofisticati e nuovi sistemi di finanziamento - sia per la trappola nella quale si trova invischiato il consumatore che, di fronte alla difficoltà di far fronte agli esborsi finanziari, per evitare le
conseguenze dell’inadempimento (…), è costretto
a ricorrere ad onerose operazioni di refinancing” (3).
Per contenere il rischio del credito il legislatore europeo ha adottato misure volte a realizzare una
maggiore responsabilizzazione dei creditori nella
concessione del finanziamento, procedendo, in un
primo tempo, ad introdurre formalmente il principio del “prestito responsabile”. Tale opzione compariva, infatti, nell’art. 9 della Proposta di Diretti-
va del 2002, così formulato: “quando il creditore
conclude un contratto di credito o di fideiussione
oppure aumenta l’importo totale del credito o la
somma garantita, si ritiene che questi abbia stimato preventivamente, con ogni mezzo a sua disposizione, che il consumatore e, se del caso, il fideiussore, saranno in grado di rispettare gli obblighi derivanti dal contratto”. Ma, soprattutto, esaminando
il dispositivo della Proposta suddetta, l’esigenza di
comportarsi responsabilmente veniva ribadita in
considerazione del fatto che già «in taluni Stati
membri esistono delle norme in materia di credito
che impongono al creditore di esercitare prudenza
o di agire da “buon creditore”. Tale articolo [9] mira a stabilire un principio simile su scala europea,
non solo nell’interesse dei consumatori o dei fideiussori, ma anche in quello di tutti i creditori.
Questi ultimi rischiano in effetti di veder diminuire la solvibilità dei loro clienti a causa di contratti
di credito ulteriori accordati dai loro concorrenti,
quando tali contratti sono accordati in circostanze
che mettono a grave rischio la solvibilità del consumatore o del fideiussore. Il principio del “prestito
responsabile” rappresenta l’obbligo di consultare le
banche dati centralizzate e di esaminare le risposte
fornite dal consumatore o dal fideiussore, di richiedere la costituzione di fideiussioni, di verificare i
dati forniti dagli intermediari del credito e di selezionare il tipo di credito da offrire … La valutazione da parte del creditore della solvibilità del consumatore non è tuttavia neutra: è in gioco la sua responsabilità contrattuale ed è opportuno precisare
a tale riguardo il legame tra la conclusione del contratto di credito e tale valutazione preventiva». All’interno della Proposta, il “principio del prestito
responsabile”, appena delineato, trovava concretizzazione attraverso le previsioni dell’art. 6, commi 2
e 3 (che introduceva specifici obblighi di informazione, di assistenza e di consulenza precontrattuali)
e dell’art. 8 (che prevedeva la costituzione in ogni
Stato membro di banche dati centralizzate preordi-
(2) In argomento, ex multis, cfr. G. Alpa, Sovraindebitamento del consumatore: l’esperienza francese, in Fallimento, 1998,
954 ss.; L. Stanghellini, Il credito “irresponsabile” alle imprese e
ai privati: profili generali e tecniche di tutela, in Società, 2007, 4,
395 ss., ed ivi anche E. Granata, Il fenomeno della concessione
del credito, 452, nonché P. Martinello, Credito al consumo: opportunità e rischi per i consumatori italiani, 455 ss.; M. Lobuono, M. Lorizio (a cura di), Credito al consumo e sovraindebitamento del consumatore, Torino, 2007; D. Spagnuolo, L’insolvenza del consumatore, in Contratto e impresa, 2008, 3, 674
ss.; E. Caterini, Credito al consumo, “tutela e incoraggiamento
del risparmio”, sovraindebitamento, in G. Villanacci (a cura di),
Credito al consumo, Napoli, 2010, 45 ss. Di recente il legislatore italiano è intervenuto a disciplinare il sovraindebitamento
con la legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di
usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da indebitamento, in Il Fallimento, 2013, 7, 802 ss., con commento
di Lo Cascio) e successive modificazioni. Sul punto, tra i primi
contributi, vedi AA.VV., Composizione della crisi da sovra-indebitamento, a cura di F. Di Marzio, F. Macario, G. Terranova, Milano, 2012; A. Guiotto, La continua evoluzione dei rimedi alle
crisi da sovraindebitamento, in Il Fallimento, 2012, 1285 ss.; R.
Battaglia, I nuovi procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento dopo il maquillage della l. n. 3/2012, in Il Fallimento, 2013,12, 1433 ss.
(3) Così M. Gorgoni, Spigolature su luci (poche) e ombre
(molte) della nuova disciplina dei contratti di credito ai consumatori, in Resp. civ. e prev., 2011, 4, 760 s.
sanzionato con la decadenza dal suo diritto agli interessi come previsto dalla legislazione francese, di
beneficiare, dopo la pronuncia della sanzione, di
interessi esigibili di pieno diritto a un tasso legale
maggiorato di cinque punti due mesi dopo una decisione giudiziaria esecutiva, sulle somme ancora
dovute dal consumatore”.
L’erogazione responsabile del
finanziamento nella disciplina europea
sul credito ai consumatori
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nate alla raccolta delle informazioni necessarie per
la valutazione del merito creditizio dei consumatori), e la sua osservanza veniva presidiata dalla previsione (all’art. 31) di sanzioni “efficaci, proporzionate e dissuasive” (rimesse all’autonomia dei singoli Stati), come ad es. la “perdita di interessi e di
spese per il creditore e il mantenimento del beneficio per il consumatore del pagamento rateale dell’importo totale del credito”. Il “principio del prestito responsabile”, però, ha suscitato un ricco dibattito e non poche critiche. Si è ritenuto, in dottrina, che l’introduzione di tale principio “avrebbe
determinato per l’ordinamento statuale la costruzione di un formale e penetrante complesso di doveri di protezione a carico del finanziatore, con il
superamento dei tradizionali principi fondamentali
della materia in questione: da un lato l’autoresponsabilità del consumatore; dall’altro la marginalità
degli obblighi di informazione e l’assenza di doveri
di consulenza e di assistenza” a carico dell’operatore bancario (4). Ma soprattutto, l’art. 9 sopra ricordato, avrebbe introdotto, oltre all’obbligo del finanziatore di valutare la capacità del consumatore
di rimborsare il credito, anche il divieto di concessione del credito al consumatore privo di tali requisiti. E, infatti, quantunque la norma non lo sancisse espressamente, tale divieto era desumibile dalle
“intenzioni” della stessa Commissione (5) che
avrebbe voluto esplicitamente introdurre, seguito
come conseguenza dell’esito negativo dell’indagine
volta ad accertare la solvibilità del consumatore, il
divieto di concedergli credito. Come anticipato,
sul principio del prestito responsabile la dottrina
ha manifestato parecchie riserve al punto da condizionare negativamente il legislatore europeo, inducendolo a far scomparire tale principio dalla versione definitiva della direttiva 2008/48/CE (6) con la
conseguenza di soddisfare implicitamente attraverso il combinato disposto dell’art. 8 e del considerando 26 della direttiva medesima l’esigenza di
un’erogazione del credito responsabile. L’art. 8, infatti, introduce l’obbligo di verifica del merito creditizio (7) del richiedente il prestito, esortando gli
Stati membri “a provvedere affinché, prima della
conclusione del contratto di credito, il creditore effettui la valutazione del merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se
del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando la banca dati pertinente …”. Il considerando 26, invece, invita gli
Stati membri ad “adottare le misure appropriate
per promuovere pratiche responsabili in tutte le fasi del rapporto di credito, tenendo conto delle specificità del proprio mercato creditizio. Tali misure
possono includere, per esempio, l’informazione e
l’educazione dei consumatori e anche avvertimenti
sui rischi di un mancato pagamento o di un eccessivo indebitamento. In un mercato creditizio in
espansione, in particolare, è importante che i creditori non concedano prestiti in modo irresponsabile o non emettano crediti senza preliminare valutazione del merito creditizio, e gli Stati membri dovrebbero effettuare la necessaria vigilanza per evitare tale comportamento e dovrebbero determinare
i mezzi necessari per sanzionare i creditori qualora
ciò si verificasse …”. Quantunque l’art. 8 non abbia introdotto il principio del prestito responsabile
e si sia limitato a positivizzare l’obbligo di verifica
del merito creditizio, una lettura del medesimo che
tenga conto anche di quanto previsto dal considerando 26 porta a concludere che la sua ratio non è
soltanto quella di tutelare il mercato del credito,
assicurando la corretta allocazione delle risorse a
tutela del finanziatore e dei suoi creditori, ma anche, e soprattutto, quella di garantire la promozione di pratiche responsabili in tutte le fasi del rapporto di credito, proprio a tutela dei consumatori (8). Di questo doppio valore da attribuire alla verifica del merito creditizio sono testimonianza anche le opinioni divergenti della dottrina italiana.
(4) Così G. Piepoli, Sovraindebitamento e credito responsabile, in Banca borsa tit. cred., 2013, 1, 38 ss.
(5) Vedi il dispositivo dell’art. 8, COM (2002)443 def.
(6) Cfr. G. Falcone, La responsabilità del creditore professionale nell’insolvenza del consumatore, in Dir. fall., 2008, I, 72 ss.
(7) Tale obbligo consiste essenzialmente nel valutare la capacità del consumatore di restituire il credito, indipendentemente dalla meritevolezza dell’impiego che del prestito sia stato fatto, e ciò in quanto il credito ai consumatori serve proprio
a promuovere i consumi, con la conseguenza che, anche laddove «il credito concesso venga impiegato per ripianare altri finanziamenti in essere o debiti pregressi, il mercato dei consumi ne trae un beneficio: si premia, infatti, quel particolare mercato che è il mercato del credito e si consente che un consumatore venga “riacquistato” al mercato, che possa continuare
a consumare». Così A. Simionato, Prime note in tema di valuta-
zione del merito creditizio del consumatore nella direttiva
2008/48/CE, in AA.VV., La nuova disciplina del credito al consumo, a cura di De Cristofaro, Torino, 2009, 183 ss.; M. Gorgoni,
op. cit., 764; diversamente E. Caterini, Controllo del credito, tutela del risparmio e adeguatezza nel finanziamento finalizzato, in
AA.VV., La tutela del consumatore nelle posizioni di debito e di
credito, Napoli, 2010, 49 s., per il quale la richiesta di credito
deve essere valutata “secondo la meritevolezza dell’utilità che
tende a soddisfare”.
(8) Così G. Piepoli, op. cit., 56, per il quale a ragionare diversamente si finirebbe col rendere la norma “superflua e priva di
effettivo significato: infatti, in un mercato del credito al consumo sempre più articolato e caratterizzato da singoli impieghi
di non grandi dimensioni, il finanziatore deve misurarsi, in via
di principio, con rischi non particolarmente elevati”.
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Per alcuni, infatti, l’obbligo di verificare la solvibilità del debitore sarebbe espressione del dovere di
sana e prudente gestione che incombe su tutti gli
intermediari (9), mentre altri autori escludono la
valenza prudenziale o, meglio, unicamente prudenziale (tendente cioè a salvaguardare la sola stabilità
dell’intermediario) della valutazione del merito
creditizio, collocandola, piuttosto, nell’ambito di
quelle misure volte a “responsabilizzare” sia chi assume il debito, sia colui che lo eroga (10). Una soluzione intermedia, più equilibrata è, invece, quella
che configura l’art. 124-bis TUB (risultato dal recepimento dell’art. 8 della direttiva) come «una norma “anfibologica”, in cui si intrecciano e si articolano contestualmente “pubblico” e “privato”, tutela
civilistica e disciplina della vigilanza bancaria»,
con conseguente necessità di un approccio interpretativo globale, coerente con la pluralità degli
interessi protetti (11). A nostro avviso, l’argomento decisivo per stabilire l’esatta valenza da attribuire all’obbligo di verifica del merito creditizio (da
cui dipende la valutazione se concedere o meno il
credito), non può che essere frutto di una lettura
dell’art. 124-bis che tenga conto della sua collocazione all’interno del Titolo VI del TUB, Capo II,
dedicato alla normativa sul credito al consumo e
che valorizzi la sua relazione con gli articoli (124 e
125) che immediatamente la precedono e la seguono. Tra i doveri di informazione precontrattuale
gravanti sul finanziatore (o intermediario) figura,
infatti, anche l’obbligo di fornire “al consumatore
chiarimenti adeguati, in modo che questi possa valutare se il contratto di credito proposto sia adatto
alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria,
eventualmente illustrando le informazioni precontrattuali che devono essere fornite ai sensi dei
commi 1 e 2, le caratteristiche essenziali dei prodotti proposti e gli effetti specifici che possono
avere sul consumatore, incluse le conseguenze del
mancato pagamento”. Si tratta, cioè, di un obbligo
di informazione personalizzata rispetto al profilo
del cliente/consumatore che presuppone, proprio,
la conoscenza della sua situazione finanziaria (da
intendere sia come storia debitoria – ricostruibile
anche mediante consultazione delle banche dati
creditizie – sia come attuale capacità patrimoniale
– variabile nel corso del tempo) e, quindi, la verifica del suo merito creditizio. Tale verifica, allora, è
strumentale all’espletamento dei doveri precontrattuali gravanti sul finanziatore e, più specificamente, rientra nell’ambito «della diligenza richiesta per
l’adempimento degli obblighi di informazione (personalizzata) a loro volta funzionali a che il consumatore confronti le diverse offerte di credito sul
mercato e prenda “una decisione informata e consapevole in merito alla conclusione del contratto
di credito” (art. 124, comma 1, TUB) ...» (12). Da
qui la possibilità di configurare una responsabilità
del finanziatore (o dell’intermediario) per aver fornito informazioni scorrette (recte inadeguate), salvo poi definirne la natura. Ma da valorizzare è anche il collegamento sussistente tra gli artt. 124-bis
e 125 TUB. L’informazione scorretta (perché erronea, illegittima o non aggiornata) contenuta nelle
banche dati creditizie, infatti, può incidere negativamente sulla verifica del merito creditizio del
consumatore/cliente che ne è vittima, e può determinare il rifiuto della domanda di credito da parte
del finanziatore. In tal caso si potrebbe prospettare
“una … fattispecie di responsabilità precontrattuale per rottura ingiustificata delle trattative” sempre
che il rifiuto sia “espressamente ed esclusivamente
motivato da rilievi sul merito creditizio fondati su
informazioni inadeguate” (13).
(9) Cfr. A. Mirone, L’evoluzione della disciplina sulla trasparenza bancaria in tempo di crisi: istruzioni di vigilanza, credito al
consumo, commissioni di massimo scoperto, in Banca borsa tit.
cred., 2010, 592 s.; M. Gorgoni, op. cit., 765; M. De Poli, Gli
obblighi gravanti sui “creditori” nella fase anteriore e posteriore
alla stipulazione del contratto e le conseguenze della loro violazione, in AA.VV., La nuova disciplina europea del credito al consumo, a cura di G. De Cristofaro, Torino, 2009, 69; S. Pellegrino, Le disposizioni attuative in materia di credito al consumo, in
Obbligazioni e contr., 2011, 4, 297 s.
(10) In questo senso, con riguardo all’art. 124-bis TUB con
cui il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva sul
credito ai consumatori, R. De Chiara, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, III ed., tomo III, Padova, 2012, 1871 ss. Ad allontanare
la verifica del merito creditizio dalla sana e prudente gestione
“a tutto vantaggio di una refluenza di quella verifica sul piano
squisitamente civilistico della relazione creditore/debitore” ci
prova anche L. Modica, Concessione “abusiva” di credito ai
consumatori, in Contratto e impresa, 2012, 2, 496, sia per la circostanza che “la disposizione di cui all’art. 124-bis non è più
assistita dalla sanzione pubblicistica che la accompagnava in
seno alla direttiva CE 48/2008”, sia per la collocazione della
norma “in un capo espressamente dedicato alla disciplina del
rapporto contrattuale”.
(11) Ovviamente la scelta di aderire all’una piuttosto che all’altra impostazione non è neutra ma si traduce in differenti
conseguenze giuridiche in punto di possibili rimedi da applicare, qualora venga violato il dovere di verifica del merito creditizio, rispetto ai quali la normativa di recepimento tace.
(12) Così L. Modica, op. cit., 503.
(13) In questi termini M. De Poli, Gli obblighi gravanti sui
“creditori” nella fase anteriore e posteriore alla stipulazione del
contratto e le conseguenze della loro violazione, in AA.VV., La
nuova disciplina europea del credito al consumo, a cura di De
Cristofaro, Torino, 2009, 70.
882
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Giurisprudenza
I singoli contratti
La direttiva 2008/48/CE sul credito ai consumatori, come altre direttive più o meno coeve (14), si
è posta l’obiettivo di realizzare un’armonizzazione
“completa” delle legislazioni degli Stati membri
«sottraendo ai legislatori nazionali qualsivoglia
margine di discrezionalità e negando loro anche la
possibilità di mantenere o introdurre regole “interne” suscettibili di assicurare ai consumatori un livello di protezione più elevato ed incisivo rispetto
a quello garantito dalla direttiva». Il provvedimento comunitario sul credito ai consumatori, tuttavia,
«lungi dal dettare una disciplina organica, completa ed esaustiva delle fattispecie negoziali rientranti
nel suo ambito di operatività, si limita ad affrontarne “alcuni aspetti”, assoggettandoli a frammenti di
disciplina che a loro volta non di rado si rivelano
gravemente lacunosi» (15). Vale la pena evidenziare, infatti, che la direttiva «mantiene alcuni spazi
di deroga su punti non del tutto secondari, come il
regime della pubblicità, la disciplina della concessione di “scoperture” con affidamento, la regolamentazione del rimborso anticipato» e, soprattutto,
che “il principio di armonizzazione esclude sia la
disciplina civilistica dei singoli contratti, sia il regime sanzionatorio per le violazioni dei vari obblighi
informativi previsti dalla direttiva” (16). In questo
ambito si colloca anche l’art. 23 che assegna agli
Stati membri il compito di stabilire “le norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione
delle disposizioni nazionali adottate a norma della
presente direttiva” e di prendere “ tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione” con
l’unico limite che tali sanzioni devono essere “efficaci, proporzionate e dissuasive” (17).
Ciò ha determinato, proprio con riguardo alla
violazione delle norme nazionali che hanno attuato la direttiva in punto di verifica del merito creditizio, una diversità di soluzioni da parte dei legislatori statali. Il legislatore francese, infatti, ha previsto quale specifica sanzione per la violazione dell’art. L. 311-48, Code de la consommation, la decadenza del creditore dal diritto agli interessi convenzionali, con la possibilità di pretendere interessi
al tasso legale, esigibili a decorrere dalla pronuncia
di una decisione giudiziaria che condanna il debitore al versamento delle somme ancora dovute, interessi che saranno maggiorati di cinque punti se,
alla scadenza di un termine di due mesi successivi
a tale pronuncia, il debitore medesimo non ha saldato il suo debito. Il legislatore italiano, invece,
non ha preso posizione in ordine ai rimedi applicabili in conseguenza della violazione dell’obbligo di
verifica del merito creditizio, lasciando all’interprete l’individuazione dei medesimi. In particolare,
l’art. 124-bis TUB non introduce obblighi di astensione nei confronti del finanziatore circa la concessione del credito ai consumatori immeritevoli, ma
impone all’operatore professionale di informare il
consumatore dell’esito negativo della verifica del
merito creditizio ottenuto anche la consultazione
delle banche dati pertinenti di cui all’art. 125
TUB. Da qui, quantomeno, la certezza che, in assenza di un esplicito divieto di concessione del credito, “il contratto di finanziamento stipulato in
violazione dell’art. 124-bis è senz’altro valido” (18).
Sgombrato il campo da possibili invalidità, sul
punto la dottrina ha assunto posizioni divergenti.
All’orientamento che si rifà alle soluzioni individuate dalla giurisprudenza in materia di intermediazione finanziaria (19), si affianca la posizione di
chi, richiamando l’art. 2, comma 1, cod. cons., ri-
(14) Si pensi, ad esempio, alla direttiva 2008/122/CE “sulla
tutela dei consumatori per quanto riguarda taluni aspetti dei
contratti di multiproprietà, dei contratti relativi ai prodotti per
le vacanze di lungo termine e dei contratti di rivendita e di
scambio”, e alla direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, di recente attuata nel nostro ordinamento con il d.lgs. 21
febbraio 2014, n. 21, pubblicato in GU 11 marzo 2014, n. 58.
(15) Così G. De Cristofaro, Premessa, in AA.VV., La nuova
disciplina europea del credito al consumo, Torino, 2009, IX.
(16) In questi termini, tra gli altri, A. Mirone, op. cit., 587.
(17) Secondo attenta dottrina «che il legislatore europeo lasci sovente “in bianco” (rimettendone la determinazione ai singoli legislatori nazionali) il profilo dei “rimedi” si spiega del resto abbastanza agevolmente, in considerazione del fatto che la
norma europea è destinata ad innestarsi in ordinamenti alquanto diversi l’uno dall’altro, il che costituisce motivo sufficiente a sconsigliare (quasi sempre) la “imposizione”, in relazione alle diverse normative che si vanno introducendo, di specifici rimedi (invalidità in una delle sue varie forme, risoluzione,
recesso, ecc.), suggerendo di limitarsi alla individuazione delle
diverse “fattispecie”, per poi lasciare ai legislatori dei singoli
ordinamenti il compito (e la libertà) di ricollegare a tali fattispecie il rimedio ritenuto più opportuno e, soprattutto, più conforme alla tradizione e al “sistema” propri di ciascun ordinamento» (G. D’Amico, Diritto europeo dei contratti (del consumatore)
e nullità virtuale (di protezione), in questa Rivista, 2012, 12,
977).
(18) Così, G. Piepoli, op. cit., 60.
(19) Vedi, in particolare, M. Gorgoni, op. cit., 768, che ritiene astrattamente praticabili sia la tesi che fa derivare dalla violazione della regola di condotta, da parte dell’intermediario finanziario, l’invalidità del contratto - è questo, ad esempio, l’indirizzo di una parte della giurisprudenza di merito sviluppatasi,
in particolare, prima della notissima Cass. 29 settembre 2005,
n. 19204 - sia la tesi che fa conseguire alla medesima violazione, verificatasi nel corso dell’esecuzione del contratto, una responsabilità per inadempimento (Cass., Sez. Un., 19 dicembre
2007, nn. 26724 e 26725).
La mancata armonizzazione dei rimedi alla
violazione della verifica del merito
creditizio
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883
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tiene perseguibile la tutela inibitoria e quella costituita dalla recente azione di classe (20), ferma restando, comunque, la tutela risarcitoria (21). Ma se
resta indubbia la configurabilità di un danno per il
finanziato (derivante sia dall’impossibilità di adempiere all’obbligo restitutorio, sia dal peggioramento
della sua esposizione debitoria), diverse sono le
opinioni sulla sua risarcibilità. Alcuni autori, infatti, escludono che il risarcimento possa avvenire per
via aquiliana poiché – si afferma – se “il finanziamento a un debitore già in crisi irreversibile comporta un aumento dell’esposizione debitoria legata
agli oneri di restituzione, il danno che ne deriva si
ascrive nitidamente all’area dei pecuniary losses, irrisarcibili per via extracontrattuale” (22) e ricercano gli strumenti di reazione al finanziamento “dannoso” nell’ambito del rapporto contrattuale banca/cliente (23). Altra dottrina attribuisce all’art. 124bis il ruolo di norma conformatrice dell’attività
professionale del finanziatore, il quale ha, tra gli altri obblighi di condotta, anche quello di verificare
il merito creditizio del consumatore cui è, corrispondentemente, assegnato un vero e proprio diritto soggettivo alla valutazione. Da qui la possibilità
del consumatore di pretendere il risarcimento del
danno in caso di inadempimento (del suddetto obbligo da parte) del finanziatore. Ma di che tipo di
danno si tratta? Secondo questa impostazione il finanziatore che non ha informato il cliente sull’esito negativo della verifica, inducendolo ad assumersi un rischio (quello del sovraindebitamento) che
il cliente stesso non avrebbe corso se fosse stato
adeguatamente informato, dovrà risarcire un danno
assimilabile a quello da perdita di chance con la differenza che, in questo caso, il consumatore non si
vede privato di un’alea positiva, ma si vede accollata un’alea negativa che avrebbe potuto evitare (24). Spetterà al finanziatore, che intenda “ridurre” la propria responsabilità “dimostrare che il
consumatore al momento di concludere il contrat(20) Cfr. S. La Rocca, L’obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore, in AA.VV., La tutela del consumatore nelle
posizioni di debito e di credito, Napoli, 2010, 266 ss.
(21) In questo senso, cfr. di recente anche ABF, Collegio di
Roma, 20 agosto 2013, n. 4440, per il quale l’informazione del
cliente, cui è funzionale l’obbligo di verifica del merito creditizio, “costituisce ormai la prestazione di un vero e proprio servizio di consulenza professionale, e in ogni caso l’adempimento
di uno specifico dovere di protezione nei confronti dell’altra
parte contraente”. Di conseguenza la violazione dell’obbligo
suddetto determina “il diritto del cliente di essere risarcito del
danno cagionatogli”. Viene escluso, invece, che la violazione
dell’art. 124-bis possa “determinare l’annullabilità del contratto
di finanziamento, considerato che tale sanzione non è stata
comminata dal legislatore e non è generalmente applicabile al
di fuori dei casi previsti dalla legge”.
884
to era comunque ben consapevole di non meritare
l’accesso al credito, perché ad es. in precedenza un
altro finanziatore aveva rifiutato di concedergli il
credito sulla base dell’esito negativo della valutazione ex art. 124-bis”, con conseguente applicazione dell’art. 1227 c.c. che disciplina il concorso del
fatto colposo del creditore (nella specie il cliente/consumatore) (25).
La decisione della Corte di giustizia
sull’efficacia della soluzione francese
Investita dell’interpretazione dell’art. 23 direttiva 2008/48/CE, la Corte di giustizia, dopo aver superato le questioni sollevate dalla Commissione
europea sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale (punti da 36 a 39 della sentenza), si sofferma sul carattere “effettivo, proporzionato e dissuasivo” delle sanzioni che la legislazione francese, di recepimento della direttiva sul
credito ai consumatori, ha introdotto per disincentivare gli istituti di credito dal porre in essere
pratiche irresponsabili, consistenti nell’erogare
prestiti ai clienti senza aver prima effettuato alcuna verifica sulla loro solvibilità. In particolare,
nel caso di specie, si è posta la questione se la severità della sanzione della decadenza dagli interessi (convenzionali) prevista dall’art. L. 311-48,
comma 2, cod. cons. francese, sia adeguata alla
gravità delle violazioni da reprimere e comporti
un effetto realmente dissuasivo. Sul punto le posizioni del giudice del rinvio e della Commissione
sono antitetiche. Il primo, infatti, ritiene che la
sanzione della decadenza, quale prevista dalla normativa nazionale, è inadeguata, non ha effetto deterrente e, addirittura, procura un vantaggio al
creditore che può lucrare interessi al tasso legale
(maggiorati di cinque punti, in applicazione dell’art. L. 313-3 code monétaire et financier), superiori
rispetto a quelli convenzionali dai quali risulta de(22) Cfr. L. Modica, op. cit., 512.
(23) Il mancato impiego da parte dell’istituto di credito della
diligenza professionale che deve caratterizzare il suo agire nel
compimento della valutazione del merito creditizio del consumatore, infatti, può fondare la sua responsabilità per violazione
dell’obbligo di verifica del merito creditizio, “codificato” dall’art. 124-bis TUB.
(24) Così G. Piepoli, op. cit., 64 ss., per il quale la chance
perduta è data qui dalla possibilità, per il consumatore, “di
non assumere un rischio e di rifiutarlo se correttamente informato e, più precisamente, di non concludere il contratto”. In
questo caso “il risarcimento è commisurato alla chance perduta” quale pregiudizio autonomo e distinto dall’ammontare del
credito.
(25) In questi termini ancora G. Piepoli, op. cit., 65.
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I singoli contratti
caduto. La Commissione, invece, “sostiene che, in
casi come quello ricorrente nel procedimento
principale, in cui il creditore esige il rimborso immediato del prestito in seguito al mancato pagamento del debitore, il carattere effettivo e dissuasivo della sanzione sembra garantito. Infatti, i costi legati alla consultazione, nell’ambito della verifica della solvibilità del debitore, delle banche
dati previste a tal fine, sarebbero relativamente limitati, mentre la sanzione della decadenza dagli
interessi convenzionali comporterebbe un rischio
con un costo economico potenzialmente elevato”.
La Corte di giustizia, piuttosto che offrire una soluzione generalizzata alla questione, preferisce rinviare la valutazione circa il carattere “realmente
dissuasivo della sanzione” al giudice del rinvio
“che è l’unico competente ad interpretare ed applicare il diritto nazionale”, nonché il più idoneo
a “raffrontare, nelle circostanze della causa di cui
è investito, gli importi che il creditore avrebbe riscosso come remunerazione del prestito qualora
avesse rispettato il suo obbligo precontrattuale di
valutare la solvibilità del debitore consultando
una banca dati pertinente, con quelli che egli percepirebbe in applicazione della sanzione per violazione di questo stesso obbligo precontrattuale”
(punto 50 della motivazione). Se in esito a tale
raffronto, tenendo conto anche di tutti gli elementi del caso, il suddetto giudice “dovesse accertare che, nella controversia di cui è investito,
l’applicazione della sanzione della decadenza dagli
interessi convenzionali può conferire un beneficio
al creditore, in quanto gli importi di cui viene privato sono inferiori a quelli derivanti dall’applicazione degli interessi al tasso legale maggiorato”
(punto 51 della motivazione) ne conseguirebbe la
manifesta inidoneità del regime sanzionatorio a
garantire effetti realmente deterrenti. Attraverso
un’interpretazione more comunitario, si finisce allora per disapplicare il regime francese delle sanzioni
dettate per l’inadempimento, da parte degli istituti di credito, dell’obbligo di verifica del merito
creditizio del consumatore e si giunge alla conclusione che “l’art. 23 della direttiva 2008/48/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile
2008, … deve essere interpretato nel senso che
esso osta all’applicazione di un regime nazionale
di sanzioni in forza del quale, in caso di violazione, da parte del creditore, del suo obbligo precontrattuale di valutare la solvibilità del debitore
consultando una banca dati pertinente, il creditore decada dal suo diritto agli interessi convenzionali, ma benefici di pieno diritto degli interessi al
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tasso legale, esigibili a decorrere dalla pronuncia
di una decisione giudiziaria che condanna tale debitore al versamento delle somme ancora dovute,
i quali sono inoltre maggiorati di cinque punti se,
alla scadenza di un termine di due mesi successivi
a tale pronuncia, quest’ultimo non ha saldato il
suo debito, qualora il giudice del rinvio accerti
che, in un caso come quello del procedimento
principale, che implica l’esigibilità immediata del
capitale del prestito ancora dovuto a causa dell’inadempimento del debitore, gli importi che possono essere effettivamente riscossi dal creditore in
seguito all’applicazione della sanzione della decadenza dagli interessi non sono notevolmente inferiori a quelli di cui avrebbe potuto beneficiare se
avesse ottemperato al suo obbligo di verifica della
solvibilità del debitore”. La pronuncia merita interesse non tanto per la possibilità che la stessa
costituisca un precedente vincolante per futuri
giudizi che abbiano ad oggetto regimi nazionali di
sanzioni analoghi a quello francese, quanto piuttosto per la finalità punitiva nei confronti degli
istituti di credito francesi che, a causa del loro
comportamento scorretto (recte irresponsabile), finiscono per perdere il beneficio della maggiorazione di cinque punti degli interessi legali cui, altrimenti, avrebbero diritto ai sensi dell’art. L. 313-3
code monétaire et financier.
L’effettività del rimedio come pietra
angolare della valutazione della Corte.
Conclusioni
La decisione della Corte di giustizia, volta a garantire effettività all’obbligo di verifica del merito
creditizio nella logica di tutelare tanto il mercato
del credito, attraverso l’erogazione responsabile dei
finanziamenti, quanto i consumatori, garantendo
che gli stessi assumano responsabilmente i prestiti,
non costituisce un episodio isolato nel panorama
giurisprudenziale europeo. Anche, a proposito di un
altro istituto indubbiamente tipico del diritto comunitario, lo ius poenitendi, non sono mancate pronunce volte ad assicurarne l’efficacia e l’effettività, con la
duplice finalità di favorire (lo sviluppo di) determinate modalità di transazioni transfrontraliere e di
consentire ai consumatori scelte contrattuali ponderate e consapevoli. La questione si è posta, innanzitutto, con riguardo alla mancata, intempestiva o erronea informazione sul diritto di recesso, che finiva
per rendere sostanzialmente inoperante un diritto
“irrinunciabile” del consumatore. A tal proposito, la
Corte di giustizia europea, nella sentenza Heininger
885
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del 13 dicembre 2001, causa C-481/99 (26), ritenendo applicabile anche ai contratti di credito fondiario (stipulati tra professionisti e consumatori) le
disposizioni sulle “vendite porta a porta” ha ritenuto
impossibile interpretare l’art. 4, comma 3, della direttiva 85/577/CEE nel senso di consentire al legislatore nazionale (nella specie, quello tedesco) “di
stabilire che il diritto di recesso del consumatore
debba comunque essere esercitato entro il termine
di un anno, anche se il commerciante non ha informato il consumatore dell’esistenza di tale diritto”
(punto 46 della sentenza) (27).
L’effettività del diritto di ripensamento è assicurata oltre che da una corretta informazione sul medesimo, anche dalla eliminazione degli ostacoli di ordine
economico che possono disincentivarne o renderne
più oneroso l’esercizio per il consumatore. Così, in
diverse pronunce concernenti il diritto di recesso dai
contratti negoziati fuori dai locali commerciali e dai
contratti a distanza, i giudici di Lussemburgo hanno
ritenuto ammissibili richieste di pagamento che, a
vario titolo, il professionista ha avanzato nei confronti del consumatore a condizione che non venisse
pregiudicato il fine ultimo delle direttive comunitarie a tutela dei consumatori costituito dall’“efficacia”
e dall’“effettività” del diritto di recesso. Così, nel caso Messner (sentenza 3 settembre 2009, causa C489/07), la Corte di giustizia, dovendo risolvere la
questione se fosse compatibile con l’art. 6 nn. 1 e 2
della direttiva 97/7/CE una normativa nazionale
(nei fatti quella tedesca) che prevedeva, in caso di
recesso del consumatore esercitato entro i termini,
la possibilità per il venditore di esigere un’indennità
per l’uso del bene di consumo fornito, si è pronunciata nel senso di escludere la compatibilità con l’effettività del diritto di recesso di una normativa che
imponesse genericamente al consumatore il pagamento di un’indennità per l’uso o, anche per il solo
fatto di aver esaminato e testato il bene acquistato
tramite un contratto a distanza, in quanto la paura
di dover pagare tale indennità priverebbe il consumatore della possibilità di esercitare il diritto di ripensamento in piena libertà e senza alcuna pressione
(punti 22, 23 e 24 sentenza). Tuttavia, poiché al
consumatore non si possono accordare diritti che vadano oltre quanto necessario a consentirgli di esercitare effettivamente il suo diritto di recesso i giudici
introducono un nuovo principio, ovvero considerano compatibile con la direttiva 97/7 la normativa
nazionale che imponga al consumatore il pagamento
di un’equa indennità nel caso in cui egli abbia fatto
uso del bene acquistato a distanza (punto 26 sentenza). Più di recente, infine, nella sentenza del 15 aprile 2010, causa C-511/08 (caso Handelsgesellschaft
Heinrich Heine) la Corte di giustizia UE dovendo
pronunciarsi sull’interpretazione da dare all’art. 6
nn. 1 e 2, direttiva 97/7/CE, al fine di stabilire se la
richiesta, avanzata da un fornitore in base alla legge
tedesca, di addebitare le spese di consegna dei beni
al consumatore, qualora questi eserciti il diritto di
recesso, fosse compatibile con la direttiva in materia
di contratti a distanza, hanno precisato (al punto 54
della sentenza) che il divieto (previsto nel quattordicesimo considerando della direttiva 97/7) «di addebitare al consumatore, in caso di suo recesso, spese
risultanti dal contratto è finalizzato ad assicurare che
il diritto di recesso garantito da tale direttiva “[non]
rest[i] formale” (…). Dal momento che il citato art.
6 persegue quindi chiaramente lo scopo di evitare
che il consumatore possa essere scoraggiato dall’esercitare il suo diritto di recesso, sarebbe contrario a
detto scopo interpretare tale articolo nel senso che
esso autorizzerebbe gli Stati membri a consentire che
le spese di consegna siano addebitate al consumatore
nel caso di un siffatto recesso».
Ovviamente gli esempi potrebbero continuare.
Basti pensare che al principio dell’effetto utile (artt.
6 e 7 direttiva 93/13/CEE) fa richiamo anche quel
nutrito filone giurisprudenziale che, a partire dalla
sentenza Ocèano Grupo Editorial SA (28), ha dovu-
(26) In Corr. giur., 2002, 7, 865 ss. con nota di Conti, Il diritto di recesso tra “contratti porta a porta e credito al consumo”.
Un’importante sentenza della Corte UE.
(27) Qualche anno più tardi questo orientamento viene ripreso e sviluppato nella sentenza della Grande Sezione, 25 ottobre 2005, causa C-350/03 (caso Schulte), in Corr. giur., 2006,
4, 481 ss. con nota di Conti. All’assenza di informazione è, poi,
equiparata l’informazione data in modo erroneo. Sul punto cfr.
CGUE sentenza 10 aprile 2008, n. 412, causa C- 412/06 (caso
Hamilton) in Obbligazioni e contr., 2008, 7, 661.
(28) Proprio in questa pronuncia, resa dalla Corte di giustizia
il 27 giugno 2000 sulle cause riunite da C-240/98 a C-244/98 e
pubblicata in Racc. 2000, I-04941, si afferma che l’obiettivo perseguito dall’art. 6 della direttiva (che obbliga gli Stati membri a
prevedere che le clausole abusive non vincolino i consumatori),
nonché quello, indicato dall’art. 7 (che impone agli Stati membri
di fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di
clausole abusive) possono essere conseguiti riconoscendo al giudice nazionale la facoltà di valutare d’ufficio l’illiceità della clausola abusiva, in quanto tale valutazione può avere un effetto dissuasivo e contribuire a far cessare l’inserimento di clausole abusive nei contratti conclusi tra professionisti e consumatori (v.
punti 26-29 motivazione). Tale impostazione è stata ripresa, qualche anno più tardi, dalla sentenza Cofidis SA del 21 novembre
2002, C-473/00, in Racc. 2002, I -10875, dove si è precisato che
la facoltà riconosciuta al giudice (di valutare d’ufficio l’abusività
delle clausole) risulta necessaria “per garantire al consumatore
una tutela effettiva, tenuto conto, in particolare, del rischio non
trascurabile che questi ignori i suoi diritti o incontri difficoltà ad
esercitarli”. La tutela prevista a favore dei consumatori dalla direttiva si estende così anche al caso in cui il consumatore si
astenga dal dedurre l’abusività di detta clausola o perché ignora
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I singoli contratti
to risolvere importanti questioni in materia di
clausole abusive nei contratti dei consumatori (29).
Un’ultima osservazione: le decisioni della Corte di
giustizia relative all’effettività dei rimedi, inclusa la
pronuncia in esame, si legano strettamente al (più
generale) principio della c.d. interpretazione conforme o more comunitario, la quale, essendo funzionale a garantire un’effettiva tutela dei consumatori,
consente al giudice del rinvio di mettere fuori gioco la norma nazionale che impedisca la realizzazione delle finalità della direttiva, di volta in volta,
applicabile. Questo principio, da tempo consolida-
to nella giurisprudenza della Corte (30), è stato di
recente ribadito dalla sentenza OSA del 27 febbraio 2014, causa C-351/12, (richiamata al punto
54 della sentenza LCL) e, con riguardo al carattere
proporzionale e adeguato delle sanzioni anche dalla
sentenza Asociaţia Accept, del 25 aprile 2013, punti
70, 71e 72 della motivazione. All’operare congiunto dei due criteri (effettività del rimedio, interpretazione conforme), la Corte affida dunque l’ulteriore “presa” del diritto comunitario, anche negli spazi
che le direttive affidano (apparentemente) alla libertà e alla discrezionalità dei legislatori nazionali.
i suoi diritti o perché viene dissuaso dal farli valere a causa delle
spese che un’azione giudiziaria comporterebbe. In considerazione di ciò, si è stabilito che la fissazione di un limite temporale al
potere del giudice di disattendere, d’ufficio e a seguito di un’eccezione sollevata dal consumatore, siffatte clausole può compromettere l’effettività della tutela voluta dagli artt. 6 e 7 della direttiva (punti 33, 34 e 35 della motivazione). L’obiettivo perseguito
dall’art. 6 della direttiva, peraltro, sarebbe irraggiungibile “qualora il giudice investito di un’impugnazione di un lodo arbitrale non
potesse valutare la nullità di tale decisione per il solo motivo che
il consumatore non ha fatto valere la nullità della clausola compromissoria nell’ambito del procedimento arbitrale”. In questo
senso si è pronunciata la Corte di giustizia nel caso Mostaza Claro, C-168/05 del 26 ottobre 2006, in Racc., I-10421, dove, riconoscendosi valore di norma imperativa al suddetto art. 6, si prevede che la sua violazione determini il diritto del giudice nazionale
di rilevare d’ufficio la nullità dell’accordo arbitrale ed annullare il
lodo “nel caso in cui ritenga che tale accordo contenga una clausola abusiva, anche qualora il consumatore non abbia fatto valere tale nullità nell’ambito del procedimento arbitrale, ma solo in
quello per l’impugnazione del lodo” (punti 30,36 e 39 motivazione). Un’ ultima tessera di questo importante mosaico è costituita
dalla sentenza Pannon GSM Zrt., C-243/08, del 4 giugno 2009, la
quale ribadisce il compito del giudice nazionale di “garantire l’effetto utile della tutela cui mirano le disposizioni della direttiva” e,
quindi, l’obbligo, in capo al medesimo, di esaminare d’ufficio la
natura abusiva di una clausola contrattuale, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal
fine. Tuttavia - si precisa - “nell’esecuzione di tale obbligo il giudice nazionale non deve …, in forza della direttiva, disapplicare la
clausola in esame qualora il consumatore, dopo essere stato avvisato da detto giudice, non intenda invocarne la natura abusiva
e non vincolante” (punti 32 e 33 della motivazione).
(29) Al riguardo, vale la pena citare alcune importanti pronunce della Corte di giustizia che, di recente, si sono soffermate sulle
conseguenze derivanti dalla dichiarazione di abusività di una
clausola contrattuale inserita nei contratti dei consumatori. In
particolare nella sentenza Banesto, C-618/10, del 14 giugno
2012, al punto 71 della motivazione, si è precisato che “l’articolo
6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 non può essere interpretato
nel senso che consente al giudice nazionale, nel caso in cui accerti l’esistenza di una clausola abusiva inserita in un contratto
stipulato tra un professionista ed un consumatore, di rivedere il
contenuto di detta clausola invece di escluderne semplicemente
l’applicazione nei confronti di quest’ultimo”. A ragionare diversamente, nel senso di consentire al giudice nazionale di rivedere il
contenuto delle clausole abusive inserite nei contratti b2c, si finirebbe per “compromettere la realizzazione dell’obiettivo di lungo
termine di cui all’articolo 7 della direttiva 93/13. Infatti tale facoltà
contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti
del consumatore di siffatte clausole abusive (v., in tal senso, ordinanza Pohotovost, cit., punto 41 e giurisprudenza ivi citata), dal
momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole,
consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario,
dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti” (punto 69 motivazione). Tale impostazione viene ripresa dalla successiva sentenza Asbeek Brusse, C488/11 del 30 maggio 2013 (punti 57 e 58 della motivazione) nella quale si specifica, altresì, che il giudice nazionale, dopo aver
accertato il carattere abusivo di una clausola penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, non può
“limitarsi, come lo autorizza a fare il diritto nazionale, a ridurre
l’importo della penale imposto da tale clausola”, ma deve disapplicare siffatta clausola nei confronti del consumatore. La soluzione offerta dai giudici europei nelle pronunce appena indicate
ha dato vita ad un ricco dibattito, in dottrina. Tra i diversi contributi segnaliamo S. Pagliantini, L’integrazione del contratto tra Corte di giustizia e nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il segmentarsi dei rimedi, in questa Rivista, 2013, 406 ss.; nonché Id.,
Profili sull’integrazione del contratto abusivo parzialmente nullo, in
G. D’Amico, S. Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del
contratto, Torino, 2013, 67 ss., spec. 110 ss., ed ivi anche G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante il diritto dispositivo, 213 ss.; D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e “massimo effetto utile per il consumatore”: nullità (parziale) necessaria
della clausola abusiva e integrazione del contratto, in questa Rivista, 2013, 16 ss.; R. Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice: alcuni punti fermi dopo le sentenze Joros e
Asbeek Brusse, in www.juscivile.it, 2013, 7, 400 ss. Con riguardo
all’integrazione del contratto abusivo parzialmente nullo merita di
essere citata, da ultimo, la recentissima sentenza Árpad Kàsler e
Hajnalka Kàslerné Ràbai, C-26/13, del 30 aprile 2014, dove si stabilisce che se un contratto concluso tra un professionista e un
consumatore non può sussistere dopo la rimozione di una clausola abusiva, l’art. 6 della direttiva 93/13/CEE “non osta ad una
regola di diritto nazionale che permette al giudice nazionale di
ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva”.
Se così non fosse si obbligherebbe il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme ed “il consumatore potrebbe essere esposto a conseguenze particolarmente dannose talché il carattere
dissuasivo risultante dall’annullamento del contratto rischierebbe
di essere compromesso. Infatti un annullamento del genere ha
in via di principio per conseguenza di rendere immediatamente
esigibile l’importo del residuo prestito dovuto in proporzioni che
potrebbero eccedere le capacità finanziarie del consumatore e,
pertanto, tende a penalizzare quest’ultimo piuttosto che il mutuante il quale non sarebbe di conseguenza dissuaso dall’inserire
siffatte clausole nei contratti da esso proposti” (punti 83, 84 e 85
della motivazione).
(30) Cfr., ex multis, sentenze von Colson e Kamann del 10 aprile 1984, in Racc. pag. 1891, punti 26 e 28; Marleasing del 13 novembre 1990, C-106/89, in Racc. I, 4135, punto 8; Nikoluodi del
10 marzo 2005, C-196/02, in Racc. I-1798, punto 73; Uniplex
(UK) del 28 gennaio 2010, C-406/08, in Racc. I-817, punti 45 e
46.
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Giurisprudenza
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I singoli contratti
Appalto
Corsi e ricorsi delle obbligazioni
“di risultato” e delle
obbligazioni “di mezzi”: la
distinzione e la dogmatica della
sua irrilevanza
CASSAZIONE CIVILE, Sez. II, 28 febbraio 2014, n. 4876 – Pres. Burdese – Est. Scalisi - P.m.
Russo – E.F. c. Cedax S.r.l.
Le obbligazioni, siano esse “di risultato” o “di mezzi”, sono sempre finalizzate a riversare nella sfera giuridica
del creditore una utilitas oggettivamente apprezzabile, fermo restando che, nel primo caso, il soddisfacimento dell’interesse primario, detto anche interesse presupposto, del creditore è in rapporto di diretta e stretta
causalità con l'attività del debitore, non dipendendo da alcun fattore ad essa estraneo, mentre nell'obbligazione “di mezzi” tale soddisfacimento dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da fattori ulteriori e
concomitanti (come, nella specie, fattori agronomici non controllabili dall'appaltatore, impegnatosi solo alla
corretta esecuzione di un trattamento antiossidante della frutta stoccata in celle frigorifere). Ne consegue che
il debitore “di mezzi” prova l'esatto adempimento dimostrando di aver osservato le regole dell'arte e di essersi conformato ai protocolli dell'attività, mentre non ha l'onere di provare che il risultato è mancato per cause a lui non imputabili.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
Difforme
Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Danno e resp., 2008, 788; Cass., 21 maggio 2012, n. 8016, in questa
Rivista, 2013, 473.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo E.F., lamenta la violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione alle domande proposte ex
art. 1218 c.c.
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe
omesso di pronunciarsi sulla richiesta di condanna al risarcimento dei danni patiti in relazione al mancato
esatto adempimento della prestazione cui la società Cedax S.r.l. si era obbligata nei suoi confronti. In particolare, specifica il ricorrente, la sentenza impugnata non
conterrebbe in nessuna parte un riferimento alla domanda indicata facendo esclusivo esplicito riferimento
solo alla cc.dd. garanzia per i vizi e difetti della prestazione dell'appaltatore.
Dica, pertanto la Corte Suprema di Cassazione, conclude il ricorrente, se viola l'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, il Giudice d'appello che omette di pronunciare sulla domanda di riforma della sentenza impu-
888
gnata relativa alla richiesta di condanna della Cedax
S.r.l., al risarcimento danni ex art. 1218 c.c.
1.1. Il motivo è infondato.
Appare opportuno precisare, anche in questa sede, che
l'omessa pronuncia avverso specifiche domande e/o eccezioni fatte valere dalla parte, integrando una violazione dell'art. 112 c.p.c., costituisce una violazione della
corrispondenza tra chiesto e pronunciato che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell'art. 360
c.p.c., n. 4, e non come violazione o falsa applicazione
di norme di diritto, né tanto meno come vizio della motivazione.
Tuttavia, la sentenza impugnata non presenta il vizio
denunciato.
Va qui premesso che la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza
impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi
che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ov-
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vero quando sia evincibile l'obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti,
al suo convincimento.
Ora, nel caso in esame, la Corte di merito non poteva
non disattendere la domanda di risarcimento dei danni
avanzata da E.F. per il mancato esatto adempimento
della prestazione cui la società Cedax S.r.l. si era obbligata nei suoi confronti dal momento che la sentenza
impugnata ha escluso un mancato adempimento dell'obbligazione di cui si dice. La sentenza ha avuto modo
di chiarire che “(...) il mancato conseguimento dell'obiettivo che le parti si erano prefisse non poteva costituire di per se prova del mancato adempimento dell'obbligazione che l'appaltatore si era assunto. Né l'attore su
cui gravava l'onere di dimostrare la sussistenza del fatto
costitutivo della sua domanda ha offerto neppure il
principio di prova dell'assenza dei menzionati fattori
esterni” che avrebbe potuto determinare il cc. riscaldo
comune. Ed ancora, la sentenza in esame specifica “In
tal modo resta confermato l'accertamento della mera
possibilità che vi sia stata una non congrua esecuzione
del trattamento antiossidante da parte della Cedax e
che questo possa aver svolto un ruolo determinante nella produzione dei danni in questa sede lamentati”.
Piuttosto, escluso un mancato esatto adempimento della
prestazione cui la società Cedax S.r.l. si era obbligata la
relativa domanda di risarcimento del danno non solo
restava priva di fondamento ma restava assorbita dalla
decisione di esclusione di un inadempimento da parte
della Cedax, così come, la Corte di merito, ha ritenuto
di specificare: “sulla base delle considerazioni che precedono resta assorbita ogni ulteriore questione”.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1655 e
2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Secondo il ricorrente, la Corte di merito, pur avendo
correttamente ricondotto il caso in esame alla fattispecie dell'appalto di servizi, tuttavia, erroneamente riteneva che l'obbligazione a carico dell'appaltatore, Cedax
S.r.l., non costituiva un'obbligazione di risultato (l'utilità come risultato del facere e cioè la conservazione dei
menzionati prodotti agricoli), ma atteneva alla sola corretta somministrazione dei prodotti chimici necessari ad
evitare il fenomeno di riscaldamento comune sulla frutta immagazzinata nelle celle frigorifere, liberando di fatto l'appaltatrice dalla garanzia dei vizi derivante dalla
gestione a proprio rischio dell'attività effettuata volta a
soddisfare un'utilità del committente. Piuttosto, ritiene
il ricorrente nel contratto di appalto l'obbligo dell'appaltatore non è di mezzi ma di risultato onde egli nell'esecuzione dei lavori non deve solo attenersi alle norme
tecniche ed alle direttive dell'appaltante, ma deve fare
in modo che sia raggiunto il risultato previsto dalla stesso appaltatore.
Dica la Corte Suprema di Cassazione, pertanto, conclude il ricorrente se viola l'art. 1218 c.c., in relazione agli
artt. 1665 e 2697 c.c., trattandosi di prestazioni di risultato l'obbligazione assunta dall'appaltatore, la cui opera
o servizio non ha raggiunto il risultato che si era assun-
i Contratti 10/2014
to, esente da responsabilità e quindi non tenuto al risarcimento del danno patito dal committente.
2.1. La censura non merita di essere accolta.
Occorre osservare che la letteratura giuridica prevalente
esclude che la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed
obbligazioni di risultato possa mettere in discussione l'unità concettuale dell'obbligazione, e/o se si vuole della
prestazione oggetto dell'obbligazione, considerando che
qualunque obbligazione si risolve in una condotta funzionale alla produzione di un risultato utile al creditore.
In verità, è necessario tener conto che il diritto vigente
non consente una marcata distinzione tra obbligazioni
di mezzi ed obbligazioni di risultato, risalente ad una
elaborazione dogmatica priva di riscontro normativo e
di dubbio fondamento, dato che non esistono obbligazioni nelle quali il risultato possa prescindere da un dovere di condotta, così come non esistono obbligazioni
nelle quali la condotta non sia orientata positivamente
alla produzione di un risultato utile al creditore. Piuttosto, occorre segnalare che l'obbligazione, qualunque obbligazione, è sempre finalizzata a riversare nella sfera
giuridica del creditore, un'utilitas oggettivamente apprezzabile che può consistere ora nella stessa attività del
debitore ora in un effetto utile che nell'attività del debitore trova la sua causa. Con l'ulteriore specificazione,
che è possibile identificare obbligazioni, per così dire di
risultato, nell'ipotesi in cui il risultato viene a trovarsi
in un rapporto di causalità necessaria con l'attività del
debitore, ovvero, il raggiungimento del risultato non dipende da alcun altro fattore estraneo al comportamento
del debitore. E, viceversa, in tutte le ipotesi in cui il
raggiungimento del risultato dipende oltre che dal comportamento del debitore dalla concomitanza di ulteriori
fattori, l'obbligazione può continuarsi a qualificare quale
obbligazione di mezzi.
Ora, nel caso in esame, la Corte di merito si è attenuta
a questi principi fondamentali ed ha chiarito che l'obbligazione che si era assunta la società Cedax S.r.l. non
costituiva un'obbligazione di risultato attenendosi semplicemente all'apprestamento dei prodotti chimici e dei
mezzi inerenti alla relativa somministrazione, nonché
alla corretta esecuzione del trattamento richiesto, il cui
buon esito (cioè il risultato di evitare il riscaldo comune
della frutta conservata nelle celle frigorifere), come, pure, affermato dal consulente tecnico d'ufficio dipendeva
anche da fattori tecnologici e agronomici prevalentemente estranei all'azione dell'appaltatore e da questo
non controllabili né dominabili.
La Corte di merito, pertanto, avendo accertato che il
c.d. riscaldo comune poteva essere provocato non solo
da una ritardata o insufficiente esecuzione del trattamento di cui si dice, ma anche da scorrette modalità di
conservazione dei frutti o ancor prima dalle condizioni
climatiche in prossimità dell'epoca della raccolta e dalla
scelta dei tempi di quest'ultima (se anticipata l'insorgenza delle fisiopatie ne risulta facilitata) nonché dalla
ubicazione dei frutti sull'albero da cui sono stati staccati
ha escluso correttamente che l'obbligazione a carico
della Cedax potesse integrare gli estremi di un'obbligazione di risultato.
889
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3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1667, 1668 e 2697
c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Secondo il ricorrente, avrebbe errato la Corte di merito
nell'aver ritenuto che l'attore (E.F.) non avesse dato la
prova dell'assenza dei fattori esterni da cui poteva dipendere il c.d. riscaldo comune dato che gli artt. 1667 e
1668 c.c., non esclude la responsabilità dell'appaltatore,
se ha eseguito un servizio, omettendo di esercitare in
virtù della sua autonomia un qualsiasi eventuale sindacato in ordine alla concreta conservazione della frutta
alla sua racconta (rectius raccolta?) o alla scelta dei tempi di quest'ultima. Piuttosto, l'art. 1668 c.c., comma 1,
pone a carico dell'appaltatore tutte le conseguenze dell'inesatto adempimento obbligandolo a sopportare a seconda della scelta operata dal committente l'onere integrale dell'eliminazione dei vizi o la riduzione del prezzo
salvo il risarcimento del danno. Non era, pertanto, ritiene il ricorrente, onere del committente dimostrare
l'assenza di eventuali fattori esterni come sostenuto dalla Corte di merito ma al contrario era onere dell'appaltatore dimostrare la sussistenza di idonee cause che
avrebbe determinato l'esclusione della propria responsabilità.
Dica la Corte di Cassazione, conclude il ricorrente, se
viola gli artt. 1666, 1667 e 2697 c.c., in relazione all'art.
360 n. 3, il Giudice di appello che ritiene che l'appaltatore non è tenuto alla garanzia per i vizi derivanti dal
mancato raggiungimento del risultato assunto come oggetto della prestazione. In ogni caso, viola gli artt. 1665
e 1667 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3, il Giudice
d'appello che ritiene onere del committente fornire la
prova che il vizio e il difetto è imputabile esclusivamente all'appaltatore senza il concorso del committente?
3.1. Il motivo in parte rimane assorbito dal precedente
laddove presuppone che l'obbligazione assunta dall'appaltatore, nel caso in esame, fosse un'obbligazione di risultato, ed in parte è infondato, perché correttamente
la Corte di merito, ha, nel caso concreto, distribuito l'onere della prova in ordine all'esatto adempimento dell'obbligazione di cui al contratto oggetto della controversia.
È giusto il caso di evidenziare che è ancora attuale il dibattito tra dottrina e giurisprudenza se l'inesatto adempimento della prestazione debba essere provato dal creditore che agisce in giudizio, oppure se è il debitore a
dover dimostrare l'esatto adempimento anche nell'ipotesi in cu sia stato eccepito dal creditore l'inesatto
adempimento. Tuttavia, tenendo presente che le Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 13533 del
2001 hanno definitivamente chiarito che l'onere della
prova dell'esatto adempimento è a carico del debitore
anche nell'ipotesi in cui venga eccepito dal creditore
un inesatto adempimento, va evidenziato che nell'ipotesi di prestazioni che si possono considerare obbligazioni di mezzi, secondo quanto è stato già detto in prece-
890
denza, o, come vuole una parte della dottrina, obbligazioni non routinarie, il debitore assolve l'onere di provare l'esatto adempimento dimostrando di avere adempiuto alla prestazione cui è tenuto, rispettando le regole
dell'arte, cioè, di essersi conformato nella esecuzione
della prestazione ai protocolli imposti dall'attività esercitata e non anche che l'eventuale mancato raggiungimento previsto fosse dovuto a cause a se non imputabili.
3.1.a). Ora, nel caso in esame, E.F., nell'impugnare la
sentenza del Tribunale, aveva lamentato che il primo
Giudice si era limitato a valutare l'esecuzione della prestazione (ricondotta all'obbligazione di mezzi) solo sotto
l'aspetto della diligenza, trascurando quello del risultato
dell'attività dell'appaltatore e della collegata garanzia
per difformità e vizi a cui questo era tenuto ex art. 1667
c.c., (pag. 6 della sentenza impugnata).
Pertanto, per affermazione dello stesso attuale ricorrente, originariamente, attore ed appellante, nell'ipotesi
concreta non veniva messo in dubbio che la prestazione
cui era tenuta la Cedax fosse stata adempiuta e fosse
stata adempiuta con diligenza. Con la conseguenza che,
per stessa ammissione di E.F., la Cedax aveva dato prova di aver adempiuto la prestazione, cui era tenuta, in
ragione del contratto intercorso tra la parti. D'altra parte, come si legge nella stessa sentenza impugnata (pag.
4) laddove s riporta la decisione del Tribunale, il giudice del primo grado aveva chiarito che “(...) non vi era
prova di un'inesecuzione non corretta o irregolare del
trattamento antiossidante né di negligenza o imperizia
dei tecnici nell'applicazione dei prodotti (...)”.
E di più, la decisione del giudice del primo grado di giudizio, secondo cui la Cedax aveva adempiuto correttamente e con diligenza la prestazione cui era tenuta, non
essendo stata censurata in sede di appello, era passata in
giudicato ed era divenuta presupposto della stessa decisione della Corte di merito.
3.1.b). A sua volta, posto che la Cedax aveva dimostrato di aver adempiuto correttamente la prestazione cui
era tenuta, restava a carico del creditore, cioè, di E.F.,
dimostrare la sussistenza di un inesatto adempimento.
Pertanto, correttamente, la Corte di merito, ritenendo
di escludere che, il mancato conseguimento dell'obiettivo che le parti si erano prefisse, fosse riconducibile alla
prestazione della Cedax, ha specificato che, l'originario
attore, non aveva offerto, neppure, la prova di altro fatto, oltre l'esistenza del riscaldo comune, che manifestasse l'inesatto adempimento della Cedax e neppure aveva
offerto la prova dell'assenza dei fattori esterni cui era riconducibile il riscaldo comune.
In definitiva, il ricorso va rigettato e il ricorrente, in ragione del principio della soccombenza ex art. 91 c.p.c.,
condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che verranno liquidate con il dispositivo.
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IL COMMENTO
di Fabrizio Piraino
La Corte di Cassazione si sofferma sulla prestazione dell’appaltatore e ritiene che, in presenza della prova
da parte di quest’ultimo della perizia della prestazione e in assenza di contestazione sul punto da parte
dell’attore né della prova di un fattore esterno idoneo a rendere impossibile la prestazione, non sussistano i presupposti per configurare la responsabilità dell’appaltatore. La Suprema Corte reputa che la prestazione di quest’ultimo non si possa configurare come un vincolo di risultato, così da ricavare dall’allegata sfrustrazione del fine atteso da parte del committente la sussistenza dell’inadempimento dell’appaltatore. La Cassazione argomenta la propria decisione avvalendosi della distinzione tra obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, ma la scelta non appare felice sia perché la categoria viene adoperata
in maniera non pienamente consapevole delle sue implicazioni sia perché il ricorso ad essa non si rivela,
ad ogni modo, indispensabile alla soluzione del caso.
Il fatto
Nella sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione si pronuncia sull’esecuzione di un contratto di
appalto di servizi relativo alla realizzazione di un
trattamento antiossidante su diverse partite di frutta finalizzato a contrastare il c.d. riscaldo comune,
vale a dire quella fisiopatia che consiste nel riscaldamento superficiale del frutto nei processi successivi alla raccolta che determina l’imbrunimento
della buccia, con evidente svalutazione del prezzo
del prodotto. Nonostante il trattamento cui le partite venivano sottoposte, nel giro di qualche mese
si riscontrava il deterioramento del tessuto esterno
dei frutti, che alcuni periti agronomi accertavano
essere dovuto proprio al riscaldo comune. Il committente si determinava, pertanto, ad agire in giudizio per l’accertamento della responsabilità contrattuale della società appaltatrice, ma tanto in primo quanto in secondo grado le domande venivano
respinte poiché, a seguito dell’istruttoria inclusiva
della CTU, emergevano elementi tali da escludere
un qualche profilo di imperizia o di scorrettezza
nell’esecuzione della prestazione, tanto sotto il profilo del trattamento antiossidante prescelto quanto
sul piano della concreta applicazione dei prodotti
chimici ad opera dei tecnici. Tale statuizione dei
giudici di prime cure non veniva censurata in appello e, da quanto emerge dalla sentenza in esame,
sembrerebbe che la difesa del committente si sia
prevalentemente affidata alla qualificazione del
vincolo della società appaltatrice come obbligazione “di risultato”, così da includere l’impedimento
del c.d. riscaldo comune nel perimetro dell’oggetto
dell’obbligazione, ottenendo l’effetto di considerare
assolta la prova dell’inadempimento con la dimostrazione del deterioramento dei frutti riconducibile proprio a tale fisiopatia. Né il Tribunale né la
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Corte di appello di Brescia hanno condiviso una
tale qualificazione, individuando piuttosto la prestazione della società nel mero apprestamento dei
prodotti chimici e delle attività necessarie alla loro
somministrazione giacché l’impedimento del riscaldo comune dipende da fattori tecnologici e agronomici estranei all’azione dell’appaltatore e, per di
più, neppure da quest’ultimo controllabili. Ne veniva fatto discendere che la prova del deterioramento non potesse costituire prova prima facie dell’inadempimento della prestazione dell’appaltatore.
Il ragionamento della Suprema Corte
Investita del ricorso, la Corte di Cassazione lo rigetta, confermando la sentenza della Corte d’appello, e la ragione principale del mancato accoglimento delle censure viene individuata nel mancato
assolvimento da parte del ricorrente alla prova dell’inadempimento della società appaltatrice. La Suprema Corte concorda con la Corte d’appello sulla
valutazione che l’intervenuto deterioramento delle
partite di frutta a causa del riscaldo comune non
integri gli estremi della dimostrazione della violazione del vincolo e il ricorrente, al di là di tale elemento, non ha fornito la prova di nessun altro fatto da cui si possa ricavare l’inesattezza della prestazione e né la prova «dell’assenza dei fattori esterni
cui era riconducibile il riscaldo comune». La Cassazione osserva anzi che, tutt’al contrario, il ricorrente non ha censurato quella parte della sentenza
di prime cure in cui veniva accertata l’assenza di
imperizia, negligenza o anche scorrettezza nella
prestazione dell’appaltatore e che, pertanto, l’avvenuto adempimento è oramai coperto da giudicato.
In effetti, questo rilievo è decisivo perché, se anche
avesse accolto la prospettazione del ricorrente sulla
natura di obbligazioni “di risultato” del vincolo
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dell’appaltatore, la Suprema Corte non avrebbe
potuto comunque accogliere le censure in ordine
alla violazione degli artt. 1218, 1665 e 2697 c.c.
perché sarebbe contraddittorio dare per assunto un
inadempimento per mancato conseguimento di un
risultato, se è oramai acquisito che l’attività strumentale si è svolta in maniera ineccepibile. In altri
termini, anche a voler accogliere la discussa categoria dell’obbligazione “di risultato”, il mancato
conseguimento del fine dovuto costituisce una prova dell’inadempimento soltanto prima facie, ma, se
il debitore dimostra l’esattezza della propria prestazione e, in tal modo, scuote il convincimento del
giudice sull’identificazione del fine dovuto con
quello invocato dal creditore, viene allora meno il
valore indicativo dell’inadempimento proprio dell’allegazione iniziale della mancata realizzazione del
risultato. E ciò impone al creditore di contestare
l’eccezione di controparte con quella che i processualisti chiamano mera difesa, ossia confutando gli
elementi addotti da controparte senza introdurre di
nuovi, oppure di vincere tale eccezione con la prova della sopravvenuta impossibilità derivante da
causa imputabile al debitore.
L’itinerario argomentativo della Cassazione ha
però imboccato una via diversa e si è incentrato
sul difetto di assolvimento dell’onere della prova
ad opera del committente, sul presupposto – già segnalato – che l’impedimento del riscaldo non vada
incluso nel perimetro dell’obbligazione assunta dall’appaltatore. A tal fine, la Suprema Corte si profonde in una considerazione che presenta elementi
di indiscutibile interesse anche in chiave di analisi
psicologica: afferma quel che nega per escludere
che quanto affermato sia applicabile alla fattispecie
concreta. La Cassazione dichiara, infatti, di aderire
alla svolta operata dalla propria giurisprudenza a
partire dal 2005 e coronata con la sentenza n. 577
del 2008, condividendo la confutazione della validità della distinzione tra obbligazioni “di risultato”
e obbligazioni “di mezzi” compiuta in dottrina a
partire dallo studio di Luigi Mengoni (1), salvo poi
inopinatamente virare verso quella che appare come la presa d'atto che, in effetti, nella fenomenologia delle obbligazioni è dato riscontrare vincoli nei
quali il fine è eziologicamente collegato alla sola
condotta del debitore e vincoli nei quali il fine dipende anche da fattori esterni. Il passaggio è cruciale per cogliere l'approccio della Cassazione al te-
ma e, quindi, conviene riportarlo: «Occorre osservare che la letteratura giuridica prevalente esclude
che la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato possa mettere in discussione
l'unità concettuale dell'obbligazione, e/o se si vuole
della prestazione oggetto dell'obbligazione, considerando che qualunque obbligazione si risolve in
una condotta funzionale alla produzione di un risultato utile al creditore. In verità, è necessario tener conto che il diritto vigente non consente una
marcata distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, risalente ad una elaborazione
dogmatica priva di riscontro normativo e di dubbio
fondamento, dato che non esistono obbligazioni
nelle quali il risultato possa prescindere da un dovere di condotta, così come non esistono obbligazioni nelle quali la condotta non sia orientata positivamente alla produzione di un risultato utile al
creditore. Piuttosto, occorre segnalare che l'obbligazione, qualunque obbligazione, è sempre finalizzata a riversare nella sfera giuridica del creditore,
un'utilitas oggettivamente apprezzabile che può
consistere ora nella stessa attività del debitore ora
in un effetto utile che nell'attività del debitore trova la sua causa. Con l'ulteriore specificazione, che
è possibile identificare obbligazioni, per così dire di
risultato, nell'ipotesi in cui il risultato viene a trovarsi in un rapporto di causalità necessaria con l'attività del debitore, ovvero, il raggiungimento del
risultato non dipende da alcun altro fattore estraneo al comportamento del debitore. E, viceversa,
in tutte le ipotesi in cui il raggiungimento del risultato dipende oltre che dal comportamento del debitore dalla concomitanza di ulteriori fattori, l'obbligazione può continuarsi a qualificare quale obbligazione di mezzi». Dopo questa piroetta, la Suprema corte trae spunto per la conclusione secondo
cui la prestazione assunta dall'appaltatore non riveste natura “di risultato” perché non include l'esito
della perfetta conservazione delle partite di frutta
contro il c.d. riscaldo comune. Tale obiettivo infatti - come si è accertato in sede di merito - può
essere pregiudicato non soltanto dal tardivo o inesatto trattamento chimico da parte dell'appaltatore
ma anche da fattori esogeni, come dalle inadeguate
modalità di conservazione dei frutti o ancor prima
dalle condizioni climatiche all'epoca della raccolta,
nonché dalla scelta dei tempi per effettuare quest'ultima e anche dalla collocazione dei frutti sul-
(1) L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi» (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, I 185-209, 280320, 366-396 e ora in Scritti. II., Obbligazioni e negozio, a cura
di C. Castronovo - A. Albanese - A. Nicolussi, Milano, 2011,
141 ss.
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l'albero. Quel che la Cassazione intende sostenere
è che l’impedimento del riscaldo comune si presenta come un esito troppo distante sulla scala eziologica rispetto ai mezzi che dal titolo e dalla natura
della prestazione è possibile assumere come dovuti
per poterlo considerare come il risultato legittimamente preteso. La valutazione è legittima e razionale e, in ogni caso, rientra nell’ambito delle qualificazioni che competono al giudice, ma non impone il ricorso alla distinzione tra obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, il cui richiamo
in seno alla motivazione sembra piuttosto una scorciatoia argomentativa grazie alla quale i giudici di
legittimità si sono risparmiati un ragionamento più
diffuso sull’individuazione dello specifico risultato
della prestazione assunta dall’appaltatore.
La ratio decidendi
Come si è anticipato, l'elemento cruciale della
decisione consiste nell'applicazione dell'art. 2697
c.c., che - com'è noto - costituisce una regola di
decisione, che impone al giudice di non accogliere
la domanda quando sprovvista di una prova adeguata dei fatti che integrano la causa petendi o anche quando l'attore non è stato in grado di confutare i fatti provati da controparte e posti a fondamento delle sue eccezioni. Nel caso di specie, si è
verificata la seconda ipotesi: l'appaltatore ha fornito la prova dell'esattezza della propria prestazione,
il committente non ha fornito la prova contraria,
il giudice di primo grado ha accertato la perizia
nell'espletamento della prestazione e il punto è
passato in giudicato in quanto il committente, nei
successivi gradi di giudizio, ha insistito nel sostenere che la conservazione delle partite di frutta rappresentasse l'esito finale della prestazione incluso
nell'oggetto dell'obbligazione dell'appaltatore, in
quanto vincolo “di risultato”, ritenendo che, in tal
modo, l'allegazione del deterioramento dei beni a
causa del riscaldo comune potesse equivalere ad allegazione dell'inadempimento del debitore. Non
v'è però nessun assertore della distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e obbligazioni “di risultato”,
per entusiasta che possa essere, che sarebbe disposto a ritenere che, in presenza del passaggio in giudicato della statuizione che riconosce l'esattezza
della prestazione, la generica contestazione del
mancato conseguimento del risultato atteso possa
integrare la prova dell'inadempimento. La presunta
obbligazione “di risultato” non si traduce in un
vincolo al conseguimento di un fine a prescindere
dalla condotta necessitata (2) e, pertanto, anche
nell'orizzonte di tale discussa categoria, l'allegazione della frustrazione dell'esito necessitato dà luogo
alla c.d. prova prima facie dell'inadempimento ma
sul presupposto che non sia stata fornita la prova
dell'esattezza della condotta. Se l’obbligazione rappresenta un vincolo poietico e, se tale rimane anche nel caso in cui sia chiaramente preindividuato
il fine da conseguire, allora è necessario essere conseguenti e riconoscere che l’allegazione della mancata realizzazione di tale fine rappresenta una semplificazione dell’attività tesa ad attestare l’inadempimento e non già un assunto dirimente. Anche
nell’orizzonte concettuale dell’obbligazione “di risultato”, la documentazione dell’insuccesso della
prestazione da parte del creditore costituisce un indice di inesattezza ma ciò non lo autorizza a non
contestare in sede processuale le prove addotte dal
debitore a sostegno della puntualità e correttezza
dell’attività espletata. Se, come nel caso in esame,
il creditore consente che sull’eccezione del debitore si formi il fatto pacifico, l’allegazione del mancato conseguimento del risultato perde la propria valenza persuasiva ed è giocoforza introdurre nel giudizio un ulteriore elemento di fatto, ossia la sopravvenuta impossibilità della prestazione, che non integra una nuova domanda, sottraendosi alla mannaia dell’inammissibilità ex art. 345 c.p.c., in quanto inadempimento e impossibilità imputabile sono
equivalenti quoad effectum ai sensi dell’art. 1218
c.c. Se, infatti, il risultato non è stato conseguito
nonostante la non contestata adozione dei mezzi
prescritti dal titolo o dalle leges artis, a meno che
non emerga un profilo di scorrettezza - di cui nel
caso di specie non è stata mai ventilata l'esistenza
- il creditore non può fare altro che dimostrare che
il cattivo esito è conseguito all'impossibilità della
prestazione imputabile al debitore. È questo il significato da attribuire a quel passaggio della motivazione della sentenza, viceversa oscuro, nel quale
la Suprema Corte riconosce che il ricorrente «non
aveva offerto, neppure, la prova di altro fatto, oltre
l’esistenza del riscaldo comune, che manifestasse
l’inesatto adempimento della [società appaltatrice]
e neppure aveva offerto la prova dell’assenza dei
fattori esterni cui era riconducile il riscaldo comu-
(2) In tal senso, di recente, G. Cerdonio Chiaromonte, L’obbligazione del professionista intellettuale. Tra regole deontologiche, negoziali e legali, Padova, 2008, 120 ss.
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Conviene a questo punto riepilogare nella maniera più concisa possibile il senso della distinzione
in obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di
mezzi” e le conclusioni del dibattito che l'ha investita. Oggetto di concettualizzazione dapprima in
Francia (3), ma su di uno spunto offerto dalla dottrina tedesca (4), la distinzione influisce sulla regola di responsabilità, diversificandola in senso più rigido in presenza di un'obbligazione “di risultato” e
in senso più mite in presenza di un'obbligazione
“di mezzi”. Il diverso trattamento giuridico sul versante della regole di responsabilità e dell'onere della prova discenderebbe dalla diversità di contenuto
che distingue due tipologie di obbligazioni. La differenza di contenuto può essere descritta in questi
termini: le obbligazioni “di risultato” si caratterizzano per la previsione come fine dovuto del conseguimento di un risultato in grado di determinare la
piena soddisfazione del movente, economico o
non, che ha sollecitato il creditore all'acquisizione
del diritto di credito; mentre le obbligazioni “di
mezzi” non si spingono sino al punto di imporre al
debitore il conseguimento di un fine determinato,
il quale, pertanto, resta al di fuori del perimetro
della prestazione, sicché l'interesse protetto del
creditore si arresta al ricevimento di un comportamento del debitore qualificato da un certo grado di
convenienza o di utilità in funzione di quel fine rimasto all'esterno del perimetro del vincolo, la cui
realizzazione non è di per sé compresa nell’orbita
del rapporto obbligatorio (5). Nell'ordinamento
francese, che alla distinzione ha riservato non solo
la prima elaborazione ma anche il più ampio riconoscimento (6), la coppia è stata concepita per
modulare in maniera più favorevole al debitore la
questione dei temi di prova nelle obbligazioni di
(3) R. Demogue, Traité des obligations en général, V, Paris,
1925, n. 1237; VI (Paris 1931), n. 599.
(4) Bernhöft, Kauf, Miete und verwandte Verträge, in Beiträge zur Erläuterung und Beurtheilung des Entwurfs eines BGB
für das d. Reich, quaderni diretti da E.I. Bekker e O. Fischer,
XII, Berlin, 1889, 17; H.A. Fischer, Vis maior im Zusammenhang mit Unmöglichkeit der Leistung, in Jherings Jharbücher,
37, 1897, 234 ss.
(5) La definizione fornita nel testo rielabora in termini più divulgativi quella fornita dal massimo studioso e critico della distinzione: Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 190-191.
(6) Oltre al già ricordato Demogue (Id., Traité des obligations
en général, V, cit., n. 1237 e VI, cit., n. 599; H. Mazeaud, Essai
de classification des obligations: obligations contractuelles et extracontractuelles; “obligations déterminées” et “obligations générales de prudence et diligence”, in RTDciv., 1936, 1 ss.; A.
Tunc, La distinction des obligations de résultat et obligations de
diligence, in J.C.P. (chronique), 1945, I, n. 449; Id., La distinzione delle obbligazioni di risultato e delle obbligazioni di diligenza,
in Nuova riv. dir. comm., I, 1947-1948, 126 ss.; J. Frossard, La
distinction des obligations de moyens et des obligations de résultat, Paris, 1965, passim; G. Viney, Les obligations. La respon-
sabilité: conditions, in Traité de droit civil Ghestin, Paris, 1982,
629 ss.; Carbonnier, Droit civil, IV, Les obligations, Paris, 2000,
nn. 156 ss., 288 ss.; M. Faure Abbad, Le fait générateur de la
responsabilité contractuelle, Poitiers, 2003, 242 ss.; G. Genicot,
Droit médical et biomédical, Bruxelles, 2010, 336 ss. Criticano
invece la distinzione H. Capitant, Les effets des obligations, in
RTDCiv., 1932, 724 ss.; P. Esmein, Rémarques sur des nouvelles classifications des obligations, in Etudes Capitant, Paris,
1930, 235; Id., Le fondement de la responsabilité contractuelle
rapprochée de la responsabilità délictuelle, in RTDCiv, 1933, 627
ss.; Id., Obligations, in M. Planiol-G. Ripert, Traité pratique de
droit civil franēais, VII, Paris, 1952, 498 ss.; G.M. Marton, Obligations de résultat et obligations de moyens, in RTDCiv, 1935,
499 ss.; Ph. Remy, Critique du système franēais de responsabilité civile, in Droit et Cultures, 1996, 31 ss., in part. 45 ss.; Id., La
«responsabilité contractuelle»: histoire d’un faux concept, in
RTDCiv, 1997, 323 ss.; nonché ora J. Bellissent, Contribution à
l’analyse de la distinction des obligations de moyens et des obligations de rèsultat. À propos de èvolution des ordres de responsabilité civile, Paris, 2001, ma la critica non si è mai spinta oltre
il giudizio di inutilità della bipartizione, dovuta ad un eccesso
di schematismo e di genericità: v. Remy, La «responsabilité
contractuelle», cit., 343.
ne». In altri termini, il caso di specie si segnala per
la curiosa piega assunta dal giudizio sull’inadempimento rispetto alle cadenze usuali che esso assume
quando è in discussione la violazione o meno di
un’obbligazione “di risultato”. Secondo l’opinione
favorevole a tale quadro categoriale, l’allegazione
del mancato conseguimento del risultato è un indice di inadempimento che esonera il creditore dall’individuazione di uno o più elementi di inesattezza nella prestazione del debitore, il che comporta,
per lo più, che questi debba imboccare la via della
prova del fattore esterno e non imputabile generatore di impossibilità per poter andare esente da responsabilità. Nella fattispecie concreta, la doglianza del creditore appare abbastanza generica e in
ogni caso il debitore si è impegnato con successo
nella dimostrazione dell’esattezza della propria condotta in tal modo scuotendo il convincimento del
giudice in ordine alla sussistenza dell’inadempimento e persuadendolo invece che il risultato della
cui mancanza il creditore si lamenta sia estraneo
all’oggetto dell’obbligazione. La prospettiva dischiude uno scenario molto suggestivo e concorre
a svelare - nonostante le affermazioni sul punto
davvero infelici della Suprema corte - le debolezze
della contrapposizione delle obbligazioni “di risultato” alle obbligazioni “di mezzi”.
L'origine della distinzione tra obbligazioni
“di risultato” e obbligazioni “di mezzi” e le
posizioni di Giuseppe Osti e di Luigi
Mengoni
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fare professionale (7) ed è assurta se non proprio a
summa divisio (8) - come abitualmente si ripete per lo meno a ripartizione dogmatica delle obbligazioni, ossia una distinzione dalla quale discendono
ricadute sul piano della disciplina e idonea a sostituire le distinzioni ancorate alla fonte del vincolo.
Sono, dunque, il contenuto e l'ampiezza del vincolo, più che la sua fonte, a determinare la disciplina
applicabile, che vede alle obligations de résultat riservato l'art. 1147 code civil, alla luce dell'individuazione del fatto di esonero dalla responsabilità
nella causa estranea, mentre alle obligations de
moyens dedicato l'art. 1137 code civil, che invece è
incentrato sulla diligenza, tanto che l'obbligazione
nasca da contratto quanto da delitto (9). In Italia,
si è soliti ricondurre la distinzione al capitale studio di Giuseppe Osti sull'impossibilità sopravvenuta del 1918 (10), nel quale essa è in effetti profilata
e per di più anticipando la riflessione del Demogue, per quanto Osti non abbia mai rivendicato la
paternità della distinzione e anzi, tornato successivamente sul tema, si sia dichiarato neppure dispiaciuto della minor fortuna arrisagli in Italia, giudicando il successo della coppia individuata da Demogue persino eccessivo (11). Osti distingue il
«dovere di mettere in essere un determinato risultamento concreto» dal «dovere di una determinata
diligenza» (12) ma non può essere considerato un
fautore della ripartizione giacché essa nel pensiero
dell'autore riveste sostanzialmente un ruolo descrittivo, frutto della presa d'atto della varietà fenomenologica delle obbligazioni e della presenza di vincoli meno ampi degli altri. Tale distinzione è non
destinata, infatti, a rompere l'unitarietà della re-
sponsabilità contrattuale, che, nella costruzione
concettuale offertane da Osti, si fonda sull'inadempimento nella sua materialità ossia nella sua oggettività, senza che la colpa giochi alcun ruolo, e incontra il limite dell'impossibilità oggettiva e assoluta. Anzi, in un certo qual senso Osti cerca di ridimensionare il ruolo dei doveri di una determinata diligenza, in primo luogo presentandoli limitati
nel numero e nella significatività (13) e in secondo
luogo conferendo loro un certo risalto soltanto per
ribadire che, anche rispetto ad essi, la colpa non riveste alcun ruolo giacché il ricorrente e tradizionale riferimento a quest'ultima si rivela soltanto apparente in quanto in tali obbligazioni colpa e inadempimento coincidono (14). Osti coglie il dato
significativo della connessione tra contenuto dell'obbligazione e caratteristiche dell'adempimento
ma non si spinge al di là di ciò e anzi ribadisce l'unitarietà del regime di responsabilità, assegnando
all'art. 1176 c.c. il ruolo di criterio di valutazione
dell'esattezza della prestazione e all'art. 1218 c.c.
quello di regolare la responsabilità, individuando
l'unitaria causa di esonero nell'impossibilità oggettiva e assoluta.
Lo spunto di Osti è stato sviluppato da Mengoni (15), al quale si devono lo studio più approfondito e la più compiuta critica della distinzione, generalmente ritenuta definitiva. Pur dissentendo da
Osti sui caratteri della causa di esonero, Mengoni
condivide che soltanto a causa di una distorsione
prospettica si è potuto individuare nella colpa il
fondamento della responsabilità nelle obbligazioni
“di mezzi” e, infatti, quella che viene assunta come
colpa in realtà è una forma oggettiva di inadempi-
(7) Demogue, Traité des obligations en général, VI, cit., n.
599.
(8) Sopratutto a partire dall'impulso fornito alla distinzione
da Mazeaud, Essai de classification des obligations: obligations
contractuelles et extracontractuelles; “obligations déterminées”
et “obligations générales de prudence et diligence”, cit., nn. 24
ss., giacché in Demogue l'innalzamento della distinzione a vera e propria bipartizione dei rapporti obbligatori è soltanto profilata, come ricorda, molto puntualmente, E. Carbone, Diligenza e risultato nella teoria dell'obbligazione, Torino, 2007, 14, 2427.
(9) H. e L. Mazeaud, A. Tunc, Traité théorique et pratique de
la responsabilité civile délictuelle et contractuelle, I, Paris, 1965,
nn. 103 ss.
(10) G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità
della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 ss. e poi Id., Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle
obbligazioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 593 ss.; Id., Impossibilità sopravveniente, in Novissimo Dig. it., VIII, Torino,
1962, 294 ss.
(11) Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per
inadempimento delle obbligazioni, cit., 606 nt. 31. Al riguardo
C. Castronovo, La responsabilità per inadempimento da Osti a
Mengoni, in Europa dir. priv., 2008, 4 nt. 8, osserva che Osti in
Deviazioni dottrinali, in certa misura propugna la distinzione
ed anzi se ne proclama primo assertore in Italia già dall’epoca
di Revisione critica, benché si affretti a precisare - come ricordato nel testo - che ad essa non vada riconnessa tutta l’importanza che le è stata attribuita in Francia; ma mostra anche
che, andando a verificare lo scritto del 1918, non solo non si
rintraccia l’accoglimento della distinzione - che ad Osti appariva nello scritto successivo addirittura una preconizzazione rispetto all’opera di Demogue - ma si riscontra anzi il dissenso
dell’a. dalla posizione di F. Leone (La negligenza nella colpa extra-contrattuale e contrattuale, in Riv. dir. civ., 1915, 84 ss.), il
quale si colloca invece, sostanzialmente, nella scia di Fischer.
(12) Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della
prestazione, cit., 425.
(13) Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della
prestazione, cit., 458 ss.
(14) Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della
prestazione, cit., 423.
(15) Mengoni lo riconosce espressamente (Id., Obbligazioni
«di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., 201), pur ritenendo
che nell'intuizione di Osti vi sia un elemento di equivocità che
consiste nella mancata distinzione tra le due nozioni di diligenza.
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mento poiché in questa classe di obbligazioni la diligenza assolve al compito di «determinazione concreta del contenuto dell'obbligo, di guisa che il dovere di diligenza viene a coincidere col dovere di
adempimento» (16). Mengoni approfondisce l'analisi strutturale (17) e rintraccia due nozioni di diligenza. La prima, designata come diligenza in senso
tecnico, viene espressa dall'art. 1176, comma 1,
c.c. e consiste in un criterio di imputazione, ossia è
misura della colpa del debitore, identificandosi con
il dovere di sforzo ed entrando in ballo quando la
prestazione diviene impossibile ed è necessario stabilire se ciò sia imputabile o meno al debitore (18).
La seconda, indicata come diligenza in senso improprio, risiede innanzi tutto nell'art. 1176, comma
2, c.c. e riguarda le obbligazioni di fare professionale, indicando la perizia ossia «tutti gli atti oggettivamente richiesti - secondo le regole della buona
tecnica (cfr. art. 1618) - dallo scopo della prestazione» (19). In altre ipotesi, coincidenti con le prestazioni di fare non professionale, il discrimine tra
le due nozioni di diligenza diviene invece più sfumato ma permane, e la diligenza in senso improprio va identificata con gli atti richiesti per conseguire l'utilità finale cui tende l'obbligazione e commisurati alle capacità personali del debitore (il facere quantum possum), senza che ciò privi la diligenza del suo connotato di oggettività e del suo
ruolo di contenuto della prestazione (20). La violazione della diligenza in senso atecnico è, dunque,
inadempimento e nulla ha a che spartire con la
colpa. Mengoni, al pari di Osti, riconosce la varietà fenomenologica delle obbligazioni ma esclude in
maniera assoluta che ciò metta in discussione, sul
piano dogmatico, l'unità del concetto di obbligazione e, sul piano normativo, l'unitarietà della fattispecie di responsabilità contrattuale. Sul primo
versante, è rimasta celebre l'affermazione secondo
cui la distinzione «non vuole significare l'assenza,
in certe obbligazioni, di un risultato dovuto, il che
sarebbe assurdo, ma piuttosto separare i rapporti
obbligatori in due categorie, caratterizzate da una
maggiore o minore corrispondenza del termine finale dell'obbligazione (risultato dovuto) al termine
iniziale, cioè all'interesse da cui l'obbligazione trae
origine» (21). Tale interesse viene indicato come
interesse-presupposto ed è sempre orientato al mutamento o alla conservazione di una situazione iniziale, ma esso si attesta nella dimensione del fatto
e, in alcuni casi, viene giurificato integralmente divenendo così l'interesse protetto, ossia quello la
cui realizzazione individua il risultato dell'obbligazione, e dando vita alle obbligazioni dette “di risultato”; mentre, in altri casi, tale piena giurificazione
non si compie e l'interesse protetto, che segna
l'ampiezza del dover ricevere del creditore, coincide con un momento intermedio nella sequenza delle modificazioni che posso condurre al soddisfacimento dell'interesse-presupposto e ciò da vita alle
obbligazioni dette “di mezzi”. In quest'ultima l'interesse protetto si presenta, dunque, come strumentale all'interesse-presupposto ma ciò non comporta
certo l'assenza di un risultato, il quale, tutt'al contrario, c'è ma «non è che un mezzo nella serie teleologica che costituisce il contenuto dell'interesse
primario del creditore» e quel che il creditore ha
diritto ad attendersi consiste nella «produzione di
una serie più o meno ampia di mutamenti intermedi ai quali è condizionata la possibilità di tale soddisfacimento» (22).
(16) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 198.
(17) Sulla centralità dell'attenzione alla struttura dell'obbligazione tanto in Osti quanto soprattutto in Mengoni v. S. Mazzamuto, Luigi Mengoni e la tutela dei diritti, in Europa dir. priv.,
2012, 145 ss.
(18) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 199-200, 203.
(19) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 205-206.
(20) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 206-209.
(21) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 188.
(22) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 189, il quale aggiunge che «ciò che si attende dal
debitore, affinché l'obbligazione possa dirsi adempiuta, è un
comportamento idoneo a dare principio a un processo di mu-
tamento (o di conservazione), l'esito del quale dipende peraltro
da condizioni ulteriori, estranee alla sfera del vincolo». Il lavoro
in cui Mengoni affronta nella maniera più compiuta il tema
della struttura dell'obbligazione è Id., L’oggetto della obbligazione, in Jus, 1952, 156 ss., ora in Scritti. II, Obbligazioni e negozio, a cura di C. Castronovo-A. Albanese-A. Nicolussi, Milano, 2011, 53 ss., sul cui pensiero e sui relativi sviluppi nella riflessione dottrinaria successiva sia concesso il rinvio a F. Piraino, L'adempimento del terzo e l'oggetto dell'obbligazione, in Riv.
dir. civ., 2011, II, 305 ss., oltre ovviamente a C. Castronovo,
Luigi Mengoni: dalla dogmatica alla coscienza del metodo, in
Jus, 2002, 67 ss.; Id., Il significato vivente di Luigi Mengoni nei
suoi scritti, in Europa dir. priv., 2012, 205 ss.; A. di Majo, Le obbligazioni nel pensiero di Luigi Mengoni, ivi, 2012, 119 ss. A. Nicolussi, L'interesse del creditore e il risultato dell'obbligazione, in
Obligatio-obbligazione. Un confronto interdisciplinare, a cura di
L. Capograssi Colognesi - M. F. Cursi, Napoli, 2011, 107 ss., in
part. 138 ss.
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Il favore per la distinzione e la tesi
di Giovanni D'Amico
Nonostante la confutazione, la giurisprudenza ha
adottato la distinzione e l'ha largamente adoperata
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per l'inquadramento e la disciplina delle prestazioni di fare professionale, specie nel settore della prestazioni mediche (23) e in maniera ancor più monolitica in quello della prestazione dell'avvocato (24). L'effetto che si è voluto ottenere è la sostanziale sottrazione delle prestazioni professionali,
salvo quelle talmente sperimentate da ridurre sostanzialmente l'incertezza dell'esito (25), al rigoroso
regime delineato dall'art. 1218 c.c., specie sul ver-
sante della causa di esonero, riconducendole piuttosto all'art. 1176 c.c. (26). Il guadagno è duplice:
sul versante dell'onere della prova, si addossa al
creditore la prova dell'inadempimento e, sul versante dell'esclusione della responsabilità, è consentito al debitore di esonerarsi fornendo la prova del
rispetto delle regole di condotta sancite dalla leges
artis, piuttosto che costringerlo alla prova dell'impossibilità sopravvenuta non imputabile (27). E
(23) Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it., 1979, I, 4
ss.; Cass., 15 gennaio 1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771 ss.;
Cass., 4 febbraio 1998, n. 1127, in Giur. it., 1998, I, 1800 ss.;
Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno resp., 1999, 294 ss.;
Cass., 21 giugno 2004, n. 11488, in Corr. giur., 2004, 33 ss.,
con nota di A. di Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita; Cass., 14 febbraio 2008, n. 3520, in La
resp. civ., 2009, 402 ss., con nota di F. Zauli, Responsabilità
medica e interventi di natura routinaria: l’onere probatorio incombe sul dentista. Al riguardo, v. la rassegna compiuta da V.
Zeno-Zencovich, Una commedia degli errori? La responsabilità
medica fra illecito e inadempimento, in Riv. dir. civ., 2008, I, 306
ss. Sulla responsabilità medica cfr., tra i tanti, A. De Martini,
La responsabilità civile del medico, in Giust. civ., 1954, I, 1236
ss.; A. M. Princigalli, La responsabilità del medico, Napoli,
1983, passim; D. Carusi, Responsabilità del medico e obbligazioni di mezzi, in Rass. dir. civ., 1991, 491 ss.; M. Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente, 1993, passim; V. Zambrano, Interesse del paziente e responsabilità medica nel diritto civile italiano e comparato, Napoli, 1993, passim; in R. De Matteis,
La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità
civile, Padova, 1995, passim e Id., Dall'atto medico all'attività
sanitaria. Quali responsabilità, in Le responsabilità in medicina, a
cura di A. Belvedere - S. Riondato, in Tratt. biodiritto, diretto da
S. Rodotà - P. Zatti, Milano, 2011, 117 ss.; G. Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 318 ss.; R. Quadri, La
responsabilità medica tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in
Danno resp., 1999, 1165 ss.; M. Paradiso, La responsabilità
medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, 235 ss. e
Id., La responsabilità medica tra conferme giurisprudenziali e
nuove aperture, in Danno resp., 2009, 703 ss.; A. Ciatti, Responsabilità medica e decisione sul fatto incerto, Padova, 2002,
passim.; M. Franzoni, Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2011, 55 ss., 191 ss.; G. Smorto, Responsabilità medica, in Digesto disc. priv., sez. civ., Agg. I, Torino,
2013, 640 ss.
(24) Per limitarci alle ultime pronunzie: Cass.,11 gennaio
2010, n. 230, mass. in Vita not., 2011, con nota di A. Sesti, La
responsabilità dell'avvocato tra obbligazioni di mezzi e di risultato; Cass., 14 dicembre 2010, n. 25234, in Foro it. Rep., 2010;
Cass., 18 aprile 2011, n. 8863, in questa Rivista, 2011, 984 ss.,
con commento di L. Tricomi, Responsabilità dell'avvocato nello
svolgimento dell'attività professionale; Cass., 13 maggio 2011,
n. 10686, in Danno resp., 2012, 295 ss. con commento di L.
Bugatti, Mancata proposizione dell'appello e responsabilità del
professionista forense.
(25) In campo medico, ciò ha condotto alla oltremodo criticata distinzione tra interventi di routine ed interventi altri (erroneamente ai primi vengono contrapposti quelli che implicano
la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, i quali
rappresentano invece un ambito a sé stante, assoggettato alla
regola dell’art. 2236 c.c.). Nelle prestazioni di routine, a causa
della solidità e dell’univocità del sapere tecnico da applicare,
l’allegazione del mancato conseguimento del fine atteso o dei
danni subiti equivale ad allegazione dell’inadempimento del
professionista, e se è per questo se ne ricava anche una presunzione di sussistenza del nesso causale (v. Cass., 29 settembre 2009, n. 20806, in La resp. civ., 2010, 92 ss., con nota di F.
R. Fantetti, Consenso informato e responsabilità medica; Cass.,
14 febbraio 2008, n. 3520, in Nuova Giur. civ. comm., 2008,
948 ss., con nota di commento di V. Cugno Garrano, Spetta
sempre al medico fornire la prova della mancanza di colpa;
Cass., 26 giugno 2007, n. 14759, in La resp. civ., 2008, 546
ss., con nota di F. Zauli, Intervento di routine: il giudice esige
che sia infallibile; Cass., 16 febbraio 2001, n. 2335, in Resp. civ.
prev., 2001, 580 ss.; Cass., 10 settembre 1999, n. 9617, ivi,
2000, 315 ss.). Per chi si ostina ad ancorare la responsabilità
contrattuale alla colpa (sia permesso il rinvio a F. Piraino, Sulla
natura non colposa della responsabilità contrattuale, in Europa
dir. priv., 2011, 1019 ss.), tutto ciò equivale ad una presunzione di colpa, che è però figura perniciosa. Al di là di tale iuris
preceptum, la categoria della prestazione di routine fa segnare
la declinazione italiana di quell’alleggerimento dell’onere probatorio a favore del debitore che in altri sistemi giuridici è affidato alla massima res ipsa loquitur o alla Anscheinsbeweis o
prova prima facie (v., per un ridimensionamento allo stato di
strumenti neppure di probatio inferior ma di mera allegazione,
M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, in Tratt.
dir. civ., diretto da A. Cicu - F. Messineo, continuato da L.
Mengoni, Milano, 1992, 475 ss.). Assai critici sulla distinzione
tra interventi di routine e interventi altri, nonché sulla bipartizione in obbligazioni “di mezzi” e obbligazioni “di risultato”, sono
C. Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Studi in
onore di Pietro Rescigno. V. Responsabilità civile e tutela dei diritti, Milano, 1998, 121 ss.; E. Quadri, La responsabilità medica
tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Danno resp., 1999,
1170 ss., in part. 1173, L. Nivarra, La responsabilità civile dei
professionisti (medici, avvocati, notai): il punto della giurisprudenza, in Europa dir. priv., 2000, 519 ss. Una rivalutazione del
ricorso alla figura delle prestazioni di routine è compiuta, invece, da Carbone, Diligenza e risultato nella teoria dell'obbligazione, cit., 58-61 in nome della flessibilità in campo probatorio.
(26) Per una recente riaffermazione della fondatezza di tale
esigenza e, dunque, della bontà della distinzione tra obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” v. Carbone, Diligenza e risultato nella teoria dell'obbligazione, cit., 53 ss., dove
si ribadisce, sull'onda della dottrina francese, la discutibile correlazione tra la preservazione della libertà del professionista e
il riconoscimento in capo a quest'ultimo di un'obbligazione “di
mezzi”. È critico al riguardo A. Nicolussi, Sezioni sempre più
unite contro la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno resp.,
2008, 874-875 e nt. 18.
(27) Fa notare Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la
distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La
responsabilità del medico, cit., 873, ma già Id., Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e
obbligazioni di mezzi, in Europa dir. priv., 2006, 781 ss., che la
figura dell’obbligazione “di mezzi” comporta l’appiattimento
della responsabilità contrattuale che consegue alla sua violazione sulle cadenze delle responsabilità extracontrattuale e la
ragione risiede nella circostanza che questa tipologia di obbligazione, se presa sul serio, riduce l’obbligo di medico ad un
mero dovere di sforzo, ponendo «inopinatamente la colpa a
fondamento della responsabilità proprio in casi in cui la professionalità del debitore è fonte di un particolare affidamento e
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d'altro canto è proprio sul piano dei temi di prova
che la distinzione è sorta e la ragione di politica
del diritto va individuata nell'esigenza di salvaguardare la libertà dei professionisti alla luce del contributo al progresso e alla sviluppo offerto dalla loro
attività (28). Va segnalato però che la posizione
della dottrina è sempre stata in prevalenza contraria al riconoscimento del valore dogmatico della
distinzione e, quindi, alla bipartizione delle regole
di responsabilità
In tutt’altra direzione, si incammina la più recente concettualizzazione del binomio, nella quale
la categoria delle obbligazioni “di risultato” viene
invocata non certo per rompere l’unitarietà di funzionamento del giudizio di responsabilità, ma per
conferire forma al rigorismo che caratterizza le obbligazioni presidiate dalle regole di responsabilità
del receptum (29). Si tratta, senza alcun dubbio,
della più seria e coerente teorizzazione (30), nella
quale obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di
mezzi” assumono la veste di coppia con rilevanza
dogmatica, sicché dall'indubbia differenza di contenuti che le due specie di obbligazioni esibiscono
viene ricavato il diverso fondamento della responsabilità contrattuale. La colpa nelle obbligazioni
“di mezzi”, in quanto l'inadempimento consiste
nella negligenza e, giacché la diligenza è un concetto unitario (31), si è dunque al cospetto di una
situazione analoga a quella in cui il debitore si viene a trovare in presenza di un’impossibilità della
prestazione imputabile, ossia, per l'appunto, la colpa (32); mentre il fondamento diviene il rischio
nelle obbligazioni “di risultato” (33). La diversità
di fondamento influisce poi sulla distribuzione dei
temi di prova e sulla dinamica del giudizio di responsabilità, ma non ne intacca l'unitarietà (34).
L'idea è che nelle obbligazioni “di mezzi” il debitore si possa liberare dalla responsabilità limitandosi
a fornire la prova dell’osservanza degli standard tecnici e di diligenza normalmente praticati - ferma
ovviamente la possibilità di invocare l’impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile - in quanto, una volta fornita la prova prima facie della diligenza e della perizia del debitore,
il mancato conseguimento del risultato sperato dal
creditore determina l'insorgere di una presunzione
che tale frustrazione sia dipesa da una causa estranea che il debitore non è peraltro tenuto ad individuare, spettando piuttosto al creditore la sua identificazione per dimostrarne la prevedibilità ed evitabilità da parte del debitore (35). Tutt'altro scenario fa da sfondo alle obbligazioni “di risultato”, nelle quali, proprio alla luce dell'intensità del vincolo
e dell'inclusione nell'oggetto dell'obbligazione della soddisfazione dell'interesse primario del creditore, appare plausibile, nel caso di mancata realizzazione di tale fine - il quale assume, quindi, la consistenza dell'inadempimento, anche se non vi sono,
almeno apparentemente, censure da muovere alla
condotta del debitore - addossare a quest'ultimo
l'onere di individuare l'accadimento sopravvenuto
che ha reso la prestazione impossibile e la sua imprevedibilità e inevitabilità, esponendolo così al rischio della causa ignota (36), ossia al pericolo di
non riuscire ad individuare il fattore impossibilitante (37). E pertanto «nelle obbligazioni “di risultato” il debitore risponde sino al limite della possibilità astratta, ed è liberato solo dalla dimostrazione
quindi di una relazione qualificata».
(28) Su questa ragione insiste molto Carbone, Diligenza e risultato nella teoria dell'obbligazione, cit., 53 ss.
(29) G. D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”. Contributo alla teoria
della responsabilità contrattuale, Napoli, 1999, 88 ss., in part.
92 ss., seguito da G. Orlando, Contratto di parcheggio stipulato
dall'albergatore e responsabilità ex recepto, in questa Rivista,
2012, 917 ss.
(30) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 124-132 nonché Id., Responsabilità per inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Riv. dir. civ., 2006, 141 ss.
(31) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 133 ss. dove è
sviluppata una critica alla tesi della dualità di nozioni di diligenza di Mengoni. D. accede a una nozione unitaria e oggettiva di
diligenza che assolve ad una funzione di criterio regolativo e
pertanto «"colpa" è un'entità che può intendersi solo e interamente su un piano "normativo"» e di conseguenza «le qualifiche legislative che nel nostro ordinamento la definiscono ("negligenze", "imprudenza", "imperizia") consistono in elementi
puramente "oggettivi". La "negligenza"/colpa, in conclusione,
non è altro che "l'antitesi tra il comportamento tenuto e quelle
regole sociali che prescrivono di svolgere certe azioni con date
modalità"» (la citazione contenuta nel brano è di G. Marinucci,
La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, 167).
(32) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 119-120.
(33) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 130.
(34) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 115 ss. 152-153,
il quale infatti ritiene che gli artt. 1176 e 1218 c.c. si applichino
ad entrambe le specie dell'obbligazione, ma si riferiscano a
due fattispecie distinte: la prima disposizione fornisce il criterio
di apprezzamento dell'esattezza o meno della prestazione e
quindi disciplina la responsabilità per inesatto adempimento;
mentre la seconda regola la responsabilità per impossibilità
sopravvenuta e imputabile della prestazione.
(35) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 124-125.
(36) Su tale questione v. di recente F. Busoni, L'onere della
prova nella responsabilità del professionista, Milano, 2011, 141
ss. e A. Plaia, Ambito operativo dell'art. 1229 c.c. e responsabilità ex recepto, in Obbl. contr., 2012, 838 ss.
(37) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 130.
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di una impossibilità concreta, rimanendo a suo carico
il rischio della causa ignota; mentre nelle obbligazioni “di mezzi” il debitore risponde solo sino al limite della possibilità concreta (misurata dalla diligenza “ordinaria”), al di là del quale è presunta l'impossibilità, così rimanendo questa volta a carico del
creditore il rischio della “causa ignota”» (38). Ne
discende che nelle obbligazioni “di risultato” la responsabilità riveste natura oggettiva poiché il debitore che non riesca a fornire la prova della causa di
esonero risulta responsabile anche se nessuna specifica colpa possa essergli imputata; mentre nelle
obbligazioni “di mezzi” la responsabilità riveste un
fondamento colposo poiché il debitore che appaia
prima facie adempiente è reso responsabile soltanto
se il creditore prova l'impossibilità della prestazione per causa a lui imputabile (39).
In dottrina è stata formulata una replica a questa
tesi che si incentra sulla dimostrazione che, per re-
gola generale (40), il c.d. rischio delle cause ignote
grava sempre in capo al debitore (41) e il cuore
della dimostrazione risiede nella struttura del giudizio di responsabilità contrattuale come delineato
dall'art. 1218 c.c., il quale, nel considerare esonerato il debitore soltanto in presenza della prova
dell'impossibilità della prestazione prodotta da una
causa a lui non imputabile, implicitamente indica
come imprescindibile l'individuazione dell'evento
che ha prodotto l'impossibilità (42), perché l'incertezza o la mancata individuazione impedisce di
svolgere il giudizio sulla sua imputabilità o meno (43). La conseguenza da trarne è l'equiparazione
dell'impossibilità derivante da causa ignota all'impossibilità prodotta da causa imputabile e, dunque,
la sopportazione di tale rischio da parte del debitore, che va considerato responsabile per mancato
espletamento della prova della causa di esonero (44). In ciò risiede la specificità dell'obbligazione come vincolo che - fatta salva l'attenuazione di
rigore in caso di inesigibilità ex art. 1175 c.c. - impegna, sino al limite dell'impossibilità, al compi-
(38) D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 132.
(39) D'Amico, ibidem.
(40) Resta sempre aperta la possibilità di un ribaltamento in
concreto dei ruoli, ma ciò non è strutturale in una tipologia di
obbligazioni (quelle “di mezzi”), come sostiene invece D’Amico, essendo piuttosto un’eventualità propria di qualunque obbligazione, come si segnalerà meglio nel prosieguo.
(41) F. Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi» ovvero dell'inadempimento incontrovertibile e dell'inadempimento controvertibile, in Europa dir. priv., 2008, 132-133;
Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011,
570. Di recente sembra orientato nel senso che la causa ignota gravi sul debitore G. Smorto, sub 1256. Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea, in Comm. cod. civ., diretto da E.
Gabrielli, Delle obbligazioni. Artt. 1218-1276, a cura di V. Cuffaro, Torino, 2013, 690-691, ma più che altro come conseguenza
della convinzione nutrita dall’a. che l’impossibilità non imputabile coincida con l’impedimento esterno alla sfera del debitore.
V. anche R. Breda, Responsabilità medica tra regole giurisprudenziali e recenti interventi normativi, in Contr. impr., 2014, 794.
(42) Diversamente Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di
mezzi. La responsabilità del medico, cit., 875-876, sulla scia di
L. Mengoni, Responsabilità contrattuale (dir. vig.), in Enc. dir.,
XXXIX, Milano, 1988, 1092 ss., in part. 1093, sulla base dell’assunto che l’art. 1218 c.c. si riferisca all’impossibilità e non
già alla sua causa specifica e non adotti in generale un criterio
oggettivo di imputazione dell’impossibilità sopravvenuta, «la
quale invece è imputata solo a titolo di colpa, quando cioè il
debitore abbia violato il dovere di conservare diligentemente la
propria possibilità di adempiere». Il problema è che il giudizio
di imputabilità non si può esaurire nella verifica della diligenza
in punto di preservazione della propria capacità ad adempiere
perché, se qui la diligenza va intesa in senso proprio e, quindi,
assolve alla funzione di criterio di imputazione, presentandosi
come il contraddittorio della colpa, allora significa che il giudizio che si instaura deve riguardare la prevedibilità e l’evitabilità
e, dunque, tale valutazione non può che concernere eventi.
L’impossibilità della prestazione costituisce invece una conse-
guenza e non sembra sufficiente per escludere la colpa la dimostrazione di aver adottato tutte le generiche regole precauzionali per scongiurare l’esito dell’impossibilità della prestazione. Il giudizio di colpevolezza deve convergere specificamente
sulla causa dell’impossibilità.
(43) Piraino, Sulla natura non colposa della responsabilità
contrattuale, cit., 1062 ss.
(44) Nella discussione scaturita a seguito della lettura in anteprima di questo studio, il prof. D’Amico mi ha obiettato una
certa ambiguità nell’equiparazione compiuta supra nel testo,
segnalandomi che, se la causa rimane ignota, non è neppure
dato sapere se ci si trova al cospetto di un’ipotesi di impossibilità e, pertanto, si può porre soltanto un problema di rischio.
L’appunto è opportuno perché mi consente di chiarire questo
passaggio argomentativo particolarmente delicato, se non addirittura cruciale: se il risultato dovuto, predeterminato o individuabile solo a posteriori poco conta, non è stato conseguito
nonostante l’esatta adozione dei mezzi ai quali il debitore si è
vincolato, è verosimile che vi sia stata l’influenza di un fattore
esogeno che ha reso impossibile la realizzazione del risultato
pur con il dispiegamento esatto delle attività prescritte dal vincolo: fattore che spetta al debitore provare con l'obiettivo di inquadrarlo nella fattispecie dell'impossibilità derivante da causa
non imputabile. La struttura della responsabilità contrattuale
non consente, infatti, al debitore di limitarsi a fornire la prova
dell’adozione dei mezzi dovuti in presenza dell’acclarata frustrazione del risultato poiché, alla luce della correlazione funzionale di debito e credito, una tale dimostrazione non integra
la prova dell’avvenuto adempimento (di recente, in senso diverso v. Busoni, L'onere della prova nella responsabilità del professionista, cit., 152, 155, 156 ss., 160-161). Il debitore è costretto, quindi, a imboccare la strada della prova della sopravvenuta impossibilità derivante da causa a lui non imputabile (v.
l'interessante impostazione di Cass., 17 maggio 2002, n. 7214,
in Gius, 2002, 1720 ss.; Cass., 28 maggio 2004, n. 10297, in
Danno resp., 2005, 23 ss. e in La resp. civ., 2005, 396 ss., con
nota di M. Martinelli, L'art. 2236 c.c. e la responsabilità medica:
La Suprema Corte quadra il cerchio; Cass., 14 febbraio 2008, n.
3520, in La resp. civ., 2008, 371 ss.) e, qualora non riesca ad
individuare lo specifico fattore impeditivo, si concretizza la fat-
La replica
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mento della prestazione e al conseguimento del fine cui essa è strumentale e, oltre tale limite, all'eliminazione del costo del danno provocato dell'inadempimento, a meno che non venga provata l'impossibilità della prestazione scaturita da un fatto
non imputabile al debitore (45). Quelle opinioni
che sostengono la sostanziale unitarietà delle due
specie della responsabilità civile, ravvisando un'identità strutturale, trascurano proprio la consecuzione tra l'oggetto originario dell'obbligazione e la
succedanea prestazione di risarcimento del danno.
E la consecuzione si riflette nella maggiore severità
dei presupposti del risarcimento del danno c.d.
contrattuale, che soltanto un'analisi superficiale
può ridurre alle pur fondamentali diversità di temi
di prova e di termine prescrizionale - oltre alla
controversa disposizione dell'art. 1225 c.c. - perché
in questo modo non si tiene conto che la condizione in cui versa un soggetto obbligato rispetto al
pregiudizio non è certo paragonabile alla condizione in cui versa un soggetto libero oppure vincolato
da doveri generici, ossia non individualizzati. Per
un verso, salta il meccanismo dell'imputabilità fondata sulla colpa o sui criteri oggettivi aquiliani e,
soprattutto, la responsabilità si insedia anche in
quegli spazi governati dall'incertezza, sempreché il
pregiudizio invocato dal creditore sia coerente con
il contenuto dell'obbligazione, sotto il profilo tanto
della prestazione quanto della protezione, e sussista
il nesso di causalità. E il rischio delle causa ignote (46) dell'impossibilità della prestazione costituisce forse la più eclatante conseguenza dell'incertezza che l'obbligazione addossa al debitore (47).
La critica alla tesi di D'Amico si svolge su due
piani. Il primo è rappresentato dalla scelta del parametro di valutazione della prestazione debitoria
nelle obbligazioni “di mezzi”, in definitiva identificato, per lo meno in maniera indiretta, nell'inte-
tispecie della causa ignota, della quale il debitore, salve le ipotesi di ribaltamento dei ruoli con il creditore che è un'eventualità prodotta dalla concreta piega assunta dalla dinamica processuale, risponde - qui D’Amico ha ragione - a titolo di rischio, inteso come l'alea normale connessa all'assunzione dell'obbligazione. Dal punto di vista degli effetti, la causa ignota,
pur essendo in effetti altro rispetto all’impossibilità della prestazione derivante da causa imputabile al debitore, produce
una conseguenza analoga tale da giustificare non certo l’identificazione ma per lo meno equiparazione: essa rende definitivo e irrefragabile il vincolo di responsabilità per inadempimento a carico del debitore. A voler calare tutto ciò nella fattispecie all’esame della sentenza in commento, si deve tener conto
della particolarissima connotazione del caso: qui si assistite sì
alla prova da parte dell’appaltatore della messa in campo delle
attività e delle procedure richieste ma, ciononostante, il risultato auspicato dal committente non si è prodotto. Di per sé le attestazioni fornite dall’appaltatore non equivalgono in maniera
inequivocabile alla prova dell’adempimento perché è rimasto
non chiarito quale fosse il risultato che allora il committente
poteva in concreto pretendere. Tuttavia, la mancata contestazione delle deduzioni dell’appaltatore relative all’esattezza è
valsa a persuadere il giudice che allora il risultato atteso dal
creditore non corrisponde al risultato dovuto. Il che evidenzia
un'altra debolezza del binomio delle obbligazioni “di risultato”
e delle obbligazioni “di mezzi”: l'inesistenza di obbligazioni tipologicamente sempre riconducibili ad una categoria o all'altra
(v. Cerdonio Chiaromonte, L’obbligazione del professionista intellettuale, cit., 81 ss., in part. 122 ss.). Anche la prestazione
dell'appaltatore, tradizionalmente annoverata tra le obbligazioni “di risultato”, può esibire una variabilità di risultati, specie
nella versione dell'appalto di servizi, tale da lasciare al giudice
una certa discrezionalità nel fissare di volta in volta dove cada
il risultato.
(45) Resta ovviamente la possibilità di concentrarsi sulla
rottura del nesso di causalità e, anzi, non va sottovaluto l'itinerario che riformula il problema della causa ignota nei termini
propri del discorso eziologico. Il nesso di causalità non entra
però in ballo per ascrivere al debitore il danno collegato al valore della prestazione ossia ragguagliato all'id quod interest, inteso qui come il risultato atteso, a causa della particolare conformazione della responsabilità contrattuale che, limitatamente
al pregiudizio pari al valore dell'utilità che il progetto di azione
e di fine in cui l'obbligazione consiste avrebbe dovuto far con-
seguire, non pone una questione di causalità, la quale viene risolta ex ante dalla preesistenza del vincolo preordinato proprio
a produrre l'effetto di cui il danno rappresenta la vanificazione.
L'incidenza delle concause non è però irrilevante, ma semplicemente viene assorbita nella prova dell'impossibilità della
prestazione derivante da causa non imputabile al debitore e,
sotto questo profilo, in effetti le viene conferita una forma giuridica che rende meno agevole la sua invocazione. La ricostruzione del nesso causale torna in campo per i danni c.d. consequenziali e per i danni da violazione degli obblighi di protezione.
(46) Una questione ulteriore investe il ruolo delle presunzioni semplici: una parte della dottrina ritiene, infatti, che la concezione che addossa al debitore il rischio della causa ignota
come conseguenza della necessità per quest'ultimo di individuare lo specifico fattore che ha determinato l'impossibilità
della prestazione produce l'effetto - ritenuto ingiustificato - di
escludere la rilevanza della prova critica, giacché la dimostrazione dell'esattezza della condotta di prestazione adottata potrebbe integrare la presunzione dell'interferenza di un fattore
esterno a carattere impeditivo: così U. Breccia, Le obbligazioni,
in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica-P. Zatti, Milano, 1991,
484-487; G. Villa, Impossibilità, imputabilità e contenuto del rapporto obbligatorio, in Tratt. contr., diretto da V. Roppo, V, Rimedi-2, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, 783 e nt. 13. L'argomento è suadente ma sottace che la presunzione qui sarebbe
duplice, investendo tanto l'esistenza della causa di impossibilità quanto la sua non imputabilità al debitore, il che pare francamente troppo. Pur formulata sulla base di presupposti diversi e pur poggiando su una corretta e rigorosa configurazione
della fattispecie della responsabilità contrattuale, questa posizione non differisce però, nella sostanza, da quella che reputa
sufficiente per l'esonero dalla responsabilità la prova da parte
del debitore della condotta esatta, giacché perita e diligente.
(47) Non per questo va condivisa però l'affermazione secondo cui la sopportazione del rischio della causa ignota attenga ad una sorta di segmento oggettivo della responsabilità
contrattuale: così Busoni, L'onere della prova nella responsabilità del professionista, cit., 142 ss. Mentre coglie soltanto un profilo della questione delle cause ignote M. Azzalini, Obbligazioni
di mezzi e obbligazioni di risultato. Categorie giuridiche travisate,
Padova, 2012, 101 ss., il quale fa coincidere queste ultime con
il problema dell’aleatorietà del risultato che caratterizza taluni
rapporti obbligatori.
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resse primario, o interesse-presupposto che dir si
voglia, del creditore (48) e ciò è tanto più vero se
si conviene sull’estraneità di tale interesse dall’oggetto dell’obbligazione. Nello schema di D’Amico,
la prova del rispetto da parte del debitore delle regole di diligenza e di perizia richieste dalla specificità della prestazione da attuare determina che
debba «ritenersi presunto (atteso il particolare oggetto dell’obbligazione) che il mancato conseguimento del “risultato” finale - non dedotto in obligatione - sia dovuto all’operare di una “causa estranea”, che peraltro il debitore non è chiamato ad
individuare» (49). Quel che non convince è come
possa ciò che non è dedotto in obbligazione assumere un rilievo, anche se soltanto indiretto (50),
nel giudizio di responsabilità contrattuale (51). Il
presupposto di una tale conclusione risiede, con
tutta evidenza, nella convinzione che anche nelle
obbligazioni “di mezzi” l’unico risultato che possa
davvero considerarsi tale, e dunque risultare rilevante, consista nel fine che produce il soddisfacimento dell’interesse primario del creditore; ma qui
appare preclusiva proprio la distinzione mengoniana tra interesse-presupposto non dovuto e interesse
formalizzato invece dovuto (52).
A tutto ciò si aggiunga che in dottrina è parso
fuori fuoco rispetto al contenuto dell’obbligazione
“di mezzi” anche l’oggetto della presunzione, la
quale mira ad inferire dalla dimostrazione del rispetto da parte del debitore delle regole di perizia
la prova prima facie che il mancato raggiungimento
dell’interesse finale vada ascritto allora alla sopravvenienza di un causa estranea non imputabile al
debitore. L’incongruenza riguarda il significato da
attribuire alla presunzione, che individua la causa
efficiente della mancata realizzazione dell’interesse
finale in un evento esterno non imputabile. Anche
a voler ammettere che la prova prima facie del rispetto delle leges artis valga a fondare una tale presunzione in caso di mancato conseguimento dell’interesse finale, si osserva che il venire meno della possibilità di realizzare tale interesse, proprio
perché non dedotto in obligatione, di per sé non
coincide con l’impossibilità della prestazione “di
mezzi” né si può affermare che ne costituisca un indice rilevante (53). E la ragione è semplice: l’impossibilità della prestazione “di mezzi” va identificata o nell’impossibilità di porre in essere l’attività
strumentale al raggiungimento del risultato intermedio cui tende il vincolo obbligatorio o nell’impossibilità di tale ultimo risultato, detto anche “risultato di prestazione” (54); mentre l’eventuale
prova da parte del creditore dell’imputabilità al debitore della causa estranea che ha determinato la
(48) Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 114 ss.; Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 551 ss., e così ora anche Cerdonio Chiaromonte,
L’obbligazione del professionista intellettuale, cit., 130 ss.
(49) D’Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione
tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 125. In senso
analogo cfr. Carbone, Diligenza e risultato nella teoria dell’obbligazione, cit., 58 ss. e ancora prima G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 50-51, secondo il quale «in
tanto la prestazione dei “mezzi” è utile al creditore, in quanto
è per lui utile il risultato finale. Ciò significa allora anche che in
tanto l’attività del debitore corrisponde all’interesse del creditore e adempie quindi l’obbligazione, in quanto essa sia obiettivamente diretta ad ottenerlo. Il risultato ultimo assume quindi
anche la funzione di criterio per controllare l’esattezza del risultato immediato, cioè della esatta esecuzione della prestazione.
Anche il risultato ultimo dunque, che pur sta fuori della prestazione, ha una sua rilevanza».
(50) L’unica influenza che è possibile riconoscere nelle obbligazioni “di mezzi” all’interesse finale non dedotto in obbligazione consiste nel condizionamento esercitato ab externo sulla
tipologia e sulla quantità dei mezzi da impiegare nell’attuazione del rapporto obbligatorio. Sotto questo profilo, il risultato
sperato esercita a priori un rilievo indiretto sulla determinazione del contenuto della prestazione, nel senso, alquanto circoscritto, che rappresenta il termine esterno alla cui stregua individuare il tipo di contegno in cui dovrà tradursi il vincolo di
prestazione; ma, una volta assolta tale funzione, il risultato
fuoriesce dal fuoco dell’indagine sull’esattezza dell’adempimento. Tale circostanza è stata colta, con la consueta maestria, da di Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche,
cit., 38, il quale precisa che nelle obbligazioni “di mezzi” «il “risultato”, seppur non oggetto di promessa, è pur sempre sulla
cinta esterna dell’obligatio e in ordine ad esso va commisurato
l’impegno e lo sforzo del medico».
(51) Una conferma indiretta dell’irrilevanza del risultato non
dedotto in obbligazione la fornisce di Majo, Mezzi e risultato
nelle prestazioni mediche, cit., 39 e nt. 2, 41, il quale sottolinea
il nesso inscindibile tra contenuto della prestazione “di mezzi”
e danno risarcibile, nel determinare la cui consistenza il giudice non può dunque assumere come punto di riferimento il risultato sperato ma non dovuto. Nel commentare una recente
sentenza attenutasi a tale regola di determinazione del danno,
l’a. esprime la sua adesione a codesto indirizzo poiché «l’inadempimento del medico non è tale sul versante delle condotte
idonee ad impedire le malformazioni (evidentemente non evitabili) ma della mancata rilevazione delle stesse e tale condotta
non può essere di per sé fonte di danno se non sotto il profilo
dei comportamenti e degli esiti che quella informazione (ove vi
fosse stata) avrebbe provocato, (nel caso di specie, l’esercizio,
da parte della gestante, del diritto all’aborto)».
(52) Lo stesso D’Amico, La responsabilità ex recepto cit.,
124 s. e 170, riconosce che anche le obbligazioni “di mezzi”
non sono prive di un risultato proprio, che «non coincide integralmente (e necessariamente) con il soddisfacimento dell’interesse finale (o, come altri preferisce chiamarlo, “primario”)
del creditore». Tuttavia, l’a. non trae le dovute conseguenze da
tale premessa ed anzi con un salto logico mostra di ritenere
che anche nelle obbligazioni “di mezzi” l’unico risultato davvero tale, e dunque rilevante, consiste nel fine che produce il
soddisfacimento dell’interesse primario del creditore.
(53) Cerdonio Chiaromonte, L’obbligazione del professionista
intellettuale, cit., 131-132.
(54) Cerdonio Chiaromonte, L’obbligazione del professionista
intellettuale, cit., 131 e nt. 127 secondo cui: «la prestazione è
impossibile solo quando tale è l’attività dovuta o il risultato del-
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mancata realizzazione dell’interesse finale costituisce in realtà prova dell’inadempimento del debitore e non già dell’imputabilità della causa che ha
comportato l’impossibilità della prestazione (55). A
ciò va aggiunta un'altra e forse anche più radicale
obiezione: quella dell'eccessiva penalizzazione del
creditore “di mezzi” al quale è addossato un rischio
che travalica i confini del suo diritto, giacché la
causa dell'impossibilità imputabile da rintracciare
per rendere responsabile il debitore che ha fornito
la prova prima facie dell'esattezza della prestazione
compiuta è commisurata al suo interesse finale e,
pertanto, potrebbe collocarsi in quel segmento di
condotte non dovute che separa la realizzazione di
quest'ultimo dall'autentico fine dovuto, che è quello cui il debitore “di mezzi” può pervenire adottando le leges artis alla luce delle caratteristiche del caso concreto.
Un ultimo rilievo investe la conclusione relativa
alla diversità di fondamento della responsabilità
nelle due specie di obbligazioni. Nella tesi di D'Amico, la descrizione delle piega assunta dall'unitario giudizio di responsabilità in presenza dell'inadempimento di una o dell'altra tipologia di obbligazione viene condotta isolando due momenti diversi della possibile fase probatoria (56). Nell’esemplificazione della regola di responsabilità in atto
nelle obbligazioni “di risultato” si immagina che il
creditore abbia allegato l’inadempimento del debitore mediante l’indicazione del mancato conseguimento del risultato dovuto e che il debitore eccepisca una specifica causa di impossibilità a lui non
imputabile per esonerarsi dall’addebito. Nella rappresentazione delle cadenze del giudizio di responsabilità proprie delle obbligazioni “di mezzi”, si presuppone, invece, la prova prima facie dell’esatto
adempimento da parte del debitore, cui può essere
equiparata la sequenza: allegazione dell’inadempi-
mento da parte del creditore-eccezione di rispetto
degli standard tecnici e di diligenza ordinaria da
parte del debitore-ulteriore prova a carico del creditore di una specifica “causa estranea” e delle sua
imputabilità al debitore. La diversità di “ipotesi di
lavoro”, ossia la differenza tra i modelli astratti di
articolazione della dialettica debitore-creditore in
relazione all’inadempimento assunti a presupposto
della descrizione del giudizio di responsabilità nelle
due specie di obbligazione, è tale da collegare la
validità della conclusione relativa al fondamento
soggettivo della responsabilità nelle obbligazioni
“di mezzi” all’esclusiva circostanza che il debitore
abbia fornito la prova del rispetto delle regole di
diligenza, di perizia e di prudenza richieste in abstracto dalla tipologia di obbligazione da adempiere.
I blocchi di partenza dell’analisi dei due giudizi di
responsabilità appaiono, pertanto, non allineati
poiché, a ben vedere, un conto è il giudizio sull’inadempimento o sull’inesatto adempimento e un
altro conto è il giudizio sull’impossibilità della prestazione (57). Inadempimento e impossibilità rappresentano, infatti, temi di indagine differenti e
non a caso l’art. 1218 c.c. ne distingue il ruolo e
gli effetti in seno al giudizio di responsabilità: l’inadempimento costituisce il presupposto della responsabilità, sempre che abbia provocato un danno; mentre l’impossibilità della prestazione, se derivante da causa non imputabile al debitore, integra
la causa di esonero dalla responsabilità. Né va dimenticato che l’art. 1218 c.c., mentre è anodino
sul versante del soggetto a cui competa la prova
dell’inadempimento, è inequivocabile nell’imporre
al debitore la prova dell’impossibilità per causa
non imputabile. Sembra, dunque, sforzato elaborare un modello di responsabilità per inadempimento
di obbligazioni “di mezzi” imperniato sul capovolgimento della distribuzione degli oneri probatori rea-
l’attività stessa, a prescindere dal risultato finale. Quando
manchi quest’ultimo, non solo non si avrà per questo impossibilità della prestazione, ma addirittura potrà accadere che l’obbligazione risulti perfettamente adempiuta, se l’attività è stata
svolta correttamente ed è stato raggiunto il risultato di prestazione».
(55) Cerdonio Chiaromonte, L’obbligazione del professionista
intellettuale, cit., 133-134 e nt. 132, secondo cui la prova della
sussistenza di un causa estranea che ha inciso sull’interesse finale, vanificandolo, e della sua prevedibilità ed evitabilità alla
stregua della diligenza «non è prova di una impossibilità della
prestazione imputabile al debitore, bensì prova di un inadempimento, poiché dimostra in realtà che la cura era stata solo in
apparenza una “buona cura”».
(56) Questa obiezione è già in Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 562 ss.
(57) Non la pensa così D’Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit.,
130, il quale ridimensiona le differenze tra l’accertamento dell’inadempimento e l’accertamento dell’impossibilità per causa
imputabile, trascurando tuttavia che la valutazione della diligenza in adimplendo è altro dalla verifica della diligenza c.d.
conservativa della possibilità di adempiere. Da ciò la conclusione che «la “colpa”, dunque, risulta essere un elemento che
il creditore deve sempre provare per affermare la responsabilità del debitore “di mezzi”. Sia che si tratti del caso in cui il debitore non abbia rispettato (neanche) gli standards “ordinari”
di diligenza e di perizia, sia che si tratti del caso in cui l’osservanza di questi standards si dimostri inadeguata o insufficiente
perché nelle circostanze concrete il debitore avrebbe dovuto
applicare regole di diligenza diverse e/o ulteriori (in relazione
alla sopravvenienza di un fattore “anomalo”, ma cionondimeno evitabile), sempre il tema della prova è quello della “colpa”
del debitore; e questo tema di prova incombe sul creditore, quale prova di un fatto “costitutivo” della responsabilità (del debitore) e dunque della pretesa al risarcimento del danno».
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Una volta riallineato correttamente il tema di
prova, individuandolo in entrambe le specie dell’obbligazione nella replica all’allegazione dell’inadempimento da parte del creditore, si prospettano
due diversi scenari: o il debitore non è in grado di
fornire la prova dei fatti su cui si fonda la sua eccezione o meglio la sua mera difesa, e men che meno
è in grado di offrire la c.d. prova prima facie, ed allora v’è responsabilità ed il suo fondamento consiste nell’inadempimento nella sua oggettività; o il
debitore fornisce la prova, ed allora il peso della
prova ulteriore si sposta sul creditore (59).
Nel primo caso, non si può certo sostenere che
la dichiarazione di responsabilità del debitore “di
risultato” sia intervenuta pur in assenza - a voler
adoperare il lessico di D'Amico - di una “specifica
colpa”, ossia dell'inadempimento. L’esaustività dell’allegazione del mancato raggiungimento del risultato ai fini dell’individuazione dell’inadempimento
non vale certo ad escludere dall’area della prova il
momento della violazione specifica dell’obbligo,
ma si limita - come si è visto in precedenza - a rendere superflua, per lo meno in prima battuta, l’indagine sulla condotta debitoria. L’inadeguatezza
dei mezzi (ossia la c.d. colpa specifica) è infatti implicita ed assorbita nel mancato conseguimento
dell’obiettivo del vincolo cui non venga contrapposta una causa di impossibilità non imputabile,
idonea a spezzare il nesso di derivazione dell’inadempimento dall’azione del debitore, oppure - come nel caso deciso dalle sentenza in commento cui non venga contrapposta l’eccezione di esattezza
della prestazione dinanzi alla quale il creditore resti
acquiescente, consentendo il formarsi del fatto pacifico. Nel secondo caso, il creditore “di risultato”
si scontra, invece, con la necessità di contestare la
prova della specifica causa di impossibilità della
prestazione non imputabile addotta dal debitore e,
pertanto, viene chiamato a dimostrare o che la
presunta “causa estranea” consiste in realtà in una
mera difficultas praestandi o che tale causa estranea
è in ogni caso imputabile a negligenza del debitore:
tanto nell’un caso quanto nell’altro, dunque, è richiesta - sempre per usare la terminologia adottata
da D'Amico - la prova di una “specifica colpa”.
Nell’ipotesi in cui vi sia acquiescenza alla prova
dell’esattezza della prestazione, si assiste, invece, ad
un ribaltamento del ruoli e il creditore si trova, infatti, costretto a scivolare sul terreno dell’individuazione dell’evento di impossibilità imputabile al
debitore, addossandosi in questo frangente il rischio della causa ignota.
Il creditore “di mezzi” è chiamato, a sua volta, a
fornire la medesima prova del debitore “di risultato” tanto nell’ipotesi in cui il debitore eccepisca
una causa di impossibilità della prestazione tale da
impedire il conseguimento del risultato realizzabile
adottando i mezzi ordinariamente richiesti dal tipo
di vincolo obbligatorio assunto (60), quanto nell’ipotesi in cui eccepisca il suo agire conforme alle leges artis e a diligenza e perizia. In quest’ultimo caso,
il creditore è, infatti, chiamato a negare l’esattezza
della prestazione addotta dal debitore contrapponendovi specifici elementi di fatto indicativi di
una negligenza, di un'imprudenza o di un'imperizia
ovvero dimostrando la sussistenza di una causa di
impossibilità della prestazione prevedibile ed evitabile con il rispetto dei parametri di condotta imposti dal vincolo obbligatorio: ancora una volta, dunque, il tema di prova consiste nella dimostrazione
(58) Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit.,
565-566.
(59) Quest'impostazione è argomentata in maniera più diffusa in Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit.,
567 ss.
(60) Il debitore “di mezzi” è, dunque, chiamato a fornire
non certo la prova di una causa di impossibilità del risultato
corrispondente all’interesse primario del creditore, poiché tale
obiettivo non rientra nel piano dell’obbligazione, bensì la prova
di una “causa estranea” impeditiva della realizzazione di quel
risultato oggettivamente auspicabile come conseguenza di
una condotta improntata agli standard di diligenza, prudenza e
perizia richiesti dal rapporto obbligatorio. Non si può, dunque,
condividere quel giudizio di “irragionevolezza” che colpisce
l’attribuzione al debitore dell’onere di addurre una specifica
causa di impossibilità della prestazione idonea a vanificare il risultato del vincolo obbligatorio. È contestabile infatti l’assunto
secondo cui la prova per il debitore consista nell’impossibilità
della prestazione che ha impedito la realizzazione dell’interesse
finale del creditore. Le obbligazioni “di mezzi” hanno infatti un
loro risultato che, come visto supra nel testo, non si identifica
con l’interesse c.d. primario del creditore e, pertanto, la prova
della “causa estranea” si traduce nella dimostrazione dell’impossibilità di conseguire tale risultato.
lizzata dal legislatore, giacché nello schema ideale
suggerito dalla dottrina in esame - come si è visto è il creditore costretto a provare l’impossibilità imputabile della prestazione per riuscire a fare dichiarare la responsabilità del debitore e non già quest’ultimo ad invocare l’impossibilità per sfuggire all’addebito (58).
Il rifiuto del valore dogmatico della
distinzione tra obbligazioni “di risultato” e
obbligazioni “di mezzi” e il suo abbandono:
giudizio teleologico a posteriori e
inadempimento più o meno agevolmente
controvertibile
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di una “specifica colpa” (61) e nella seconda ipotesi
- esattamente come accade nella c.d. obbligazione
“di risultato” - a causa del ribaltamento dei ruoli
che questa linea difensiva comporta, il creditore si
sobbarcherà il rischio della causa ignota.
La distinzione tra le obbligazioni “di mezzi” e le
obbligazioni “di risultato” non poggia su una diversità di oggetto dei due tipi di obbligazione e non
determina conseguenze in punto di responsabilità (62). L’unico elemento reale su cui essa insiste è
la varietà fenomenica delle obbligazioni pur all’interno dell’unitario schema concettuale di riferimento e il tratto distintivo delle obbligazioni “di
risultato” dalle obbligazioni “di mezzi” è ben più
sottile della contrapposizione tra un vincolo che
porta a conseguire un obiettivo finale apprezzabile
in termini obiettivi e un vincolo che si esaurisce in
un’attività strumentale. Anche nelle obbligazioni
“di mezzi” opera l'imprescindibile correlazione tra
condotta strumentale e risultato e, proprio sulla base di tale consapevolezza, in alcuni precedenti studi (63) è stata avanzata una lettura del sindacato di
inadempimento in grado di valorizzare la completezza dell'oggetto che caratterizza quelle obbligazioni tradizionalmente indicate come “di mezzi” (64).
Il ruolo del risultato nella valutazione dell'inadempimento nelle c.d. obbligazioni “di mezzi” può essere esaltato strutturando tale giudizio secondo uno
schema che si può designare come “modello teleologico a posteriori”. Esso comporta l’individuazione
dell'effettiva modificazione o dell'effettivo atto di
conservazione della sfera giuridica del creditore o
di terzi realizzato dal debitore (risultato in concreto) da assumere come oggetto di un raffronto il cui
termine di comparazione è costituito dal risultato
cui si sarebbe dovuti pervenire ove si fossero adottati contegni diversi e più adeguati rispetto a quelli
posti in essere dal debitore (risultato in astratto) (65). Quale sia questo risultato-modello (risultato in astratto) che il debitore perito avrebbe dovuto realizzare è questione non sempre risolvibile a
priori, ma anzi è sovente frutto di una valutazione,
anch’essa, a posteriori, che tiene conto di tutte le
circostanze del caso concreto e della natura del
vincolo assunto. Qui risiede la diversità morfologica delle obbligazioni “di mezzi” rispetto alle obbligazioni “di risultato”: la natura mobile del risultato
dovuto e, dunque, la possibilità di farne oggetto di
una valutazione caso per caso, rendendolo un elemento controvertibile. Ciò non autorizza, tuttavia,
a sminuirne la portata in sede di accertamento dell’esattezza o meno dell’adempimento né consente
di offuscarne il ruolo per conferire, tutt'al contrario, rilievo preminente all’interesse primario del
creditore, il quale, invece, non rientra nell’oggetto
dell’obbligazione e, dunque, non può fungere da
parametro, ancorché esterno, di valutazione (66).
Si faccia il caso della prestazione sanitaria, rispetto
alla quale il risultato dedotto in obbligazione «non
è la guarigione, bensì lo stato che il paziente è in
grado di attingere mediante la cura suggerita dalla
scienza del luogo e del tempo. Ora se a tale stato
corrisponde una certa probabilità di guarigione, il
mancato conseguimento di esso equivale alla perdita di detta chance» (67).
Il presupposto concettuale del modello teleologico a posteriori prospettato per il giudizio di inadempimento delle obbligazioni “di mezzi” consiste nella
(61) Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit.,
568-569.
(62) Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit.,
574 ss.
(63) Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 139 ss.; Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 576 ss. Questa impostazione è condivisa da F. Cappai, La natura della garanzia per vizi nell'appalto, Milano, 2011,
27 ss., in part. 45, 51-53.
(64) Ecco perché, nonostante le distanze prese dalla distinzione, appare equivoca la scelta di Azzalini, Obbligazioni di
mezzi e obbligazioni di risultato. Categorie giuridiche travisate,
cit., 103 ss. di designare le obbligazioni connotate dalla difficoltà o dall’impossibilità di predeterminare il risultato come
«obbligazioni di mera condotta».
(65) Imposta il problema dell’inadempimento del medico a
partire dal «risultato positivo che, secondo le normali tecniche
sanitarie, avrebbe dovuto raggiungere» Cass., 22 gennaio
1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, 3332; in Danno resp., 1999,
294 ss., con nota di V. Carbone, La responsabilità del medico
ospedaliero come responsabilità da contatto e 781 ss. con nota
di R. De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale; in Corr. giur., 1999, 441
ss., con nota di A. di Majo, L’obbligazione senza prestazione
approda in Cassazione; in Giust. civ., 1999, 999 ss., con nota di
G. Giancalone, La responsabilità del medico dipendete dal servizio sanitario nazionale: contrattuale, extracontrattuale o transtipica?, sulla quale v. P. Proto Pisani, La natura della responsabilità
del medico, in Il danno risarcibile, a cura di G. Vettori, II, Padova, 2004, 1369 ss., ai più nota come la sentenza con la quale
la S.C. ha sancito, con un certo sforzo argomentativo, la natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente delle struttura sanitaria.
(66) Così invece D’Amico, La responsabilità ex recepto e la
distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 166
ss., in part. 170 ss. Nel pensiero di D. il risultato riveste un ruolo centrale anche nell'ambito delle obbligazioni “di mezzi”, ma,
per un verso, esso coincide con l'interesse primario del creditore, o per lo meno gli si approssima e, per altro verso, si presta ad essere individuato a priori senza però divenire suscettibile di riconsiderazione in presenza della prova dell'esattezza
della propria prestazione offerta dal debitore. Tanto è vero che
per D. tale prova piuttosto che mettere in discussione il risultato preindividuato fa scattare la presunzione che si sia interposta una causa estranea.
(67) C. Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi,
danno c.d. esistenziale, in Europa dir. priv., 2008, 324-325.
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presa d’atto che «in qualunque obbligazione il bene
dovuto è qualche cosa oltre l’atto del debitore» (68) ed è allora con riferimento a tale quid pluris rispetto alla condotta debitoria che va instaurato il giudizio di inadempimento (69). Qui è necessario però un chiarimento. L’affermazione che il
bene dovuto è qualche cosa che si colloca oltre
l’atto debitorio non è il frutto di una concettualizzazione né del passaggio dal piano del reale al piano della sua riproduzione giuridica; ma, tutt’al contrario, tale alterità poggia su basi concretissime e
rappresenta la conseguenza della presa d'atto che
l'obbligazione mira sempre alla modificazione o alla
conservazione di una situazione preesistente, di fatto e di diritto, e non si esaurisce mai nel conseguimento di una prestazione fine a sé stessa. Inoltre e si tratta di un profilo troppo spesso trascurato - il
c.d. bene dovuto, ossia il fine alla cui realizzazione
è preordinata l'obbligazione, e la sua congruità al
piano del vincolo rappresentano approdi determinati dalla condotta debitoria e tuttavia non interamente esauribili in essa poiché destinati a subire
anche l’incidenza di fattori esterni, che né singolarmente né complessivamente si pongono come
loro causa efficiente. Viceversa, verrebbe smentito
il concetto stesso di obbligazione come forma giuridica dell’attribuzione di un’utilità prodotta o provocata dalla necessaria attività di cooperazione del
debitore. Tali fattori esogeni, se non costituiscono
fattori causali di per sé determinanti il conseguimento del bene dovuto, si possono però porre come profili di rischio del conseguimento dell’obiettivo divisato ove in concreto rappresentino gli ultimi anelli di una catena eziologica tra l’impulso del
debitore e il risultato della prestazione non interamente dominata dal debitore. Ebbene, non sempre
questi fattori si traducono in altrettante cause di
impossibilità della prestazione non imputabili al
debitore anzi assai più di frequente costituiscono
dei margini di alea posti ragionevolmente a carico
del debitore (70).
Sul piano della conformazione dell'inadempimento la distinzione, perduta qualsiasi attitudine
ad incidere sulla distribuzione del temi di prova,
sulla causa di esonero e sul fondamento della responsabilità, si limita a segnalare che nelle obbligazioni “di risultato” tale qualificazione è agevolata
dall’automatismo di un termine finale ben definito,
tanto da consentire una tipizzazione della figura di
inadempimento; mentre nelle obbligazioni “di mezzi” diviene necessario ripercorrere, a partire dal risultato in concreto ottenuto, la condotta del debitore attuativa del vincolo per verificarne l’adeguatezza. E i mezzi possono dirsi congrui solo rispetto
ad un fine, poiché viceversa si è costretti ad immaginare che i giudici dispongano di tanti protocolli
di azione quanti sono gli operatori giuridici avvinti
da un vincolo obbligatorio “di mezzi” (ad es. i debitori di prestazione professionale) (71). Il giudizio di
inadempimento delle obbligazioni “di mezzi” non
presenta la struttura della sussunzione in uno schema astratto di condotta ma, tutt’al contrario, mette
capo a una valutazione in senso teleologico, la cui
caratteristica è quella di muovere dall’ultimo anello della catena causale presa in considerazione e di
risalirla sino all’origine: in tal modo l’ultimo termine diventa il primo, «ossia il principio che governa
i termini intermedi e il fine verso il quale muovono i termini intermedi, ordinati come mezzi. Considerato sotto il profilo teleologico, l’effetto (o risultato) diventa causa, precisamente causa finale» (72).
(68) Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 189. L’a. esemplifica tale affermazione proprio mediante l’obbligazione del medico e rileva che «l’interesse, che è
la premessa del rapporto stretto dal cliente col medico, tende
al mutamento di uno stato di malattia (situazione iniziale) in
uno stato di salute (situazione finale). Invero fine della medicina, e così ciò per cui si ricorre all’arte medica, è la sanità. Ma
il risultato dovuto, ossia il termine finale dell’obbligazione, non
è la guarigione, bensì un complesso di cure adatte a guarire:
in breve, una buona cura. La guarigione dipende troppo poco
dalla volontà del medico e dalla collaborazione del malato, perché possa essere dedotta in obbligazione. Il medico può soltanto mettere in essere alcune condizioni necessarie o utili per
promuovere il risanamento dell’infermo: ma la riuscita della
cura esige purtroppo la presenza di altri elementi, sui quali il
medico non ha potere».
(69) A tale quid pluris non crede granché invece P. Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 3.
(70) Lo scenario si complica nell’ipotesi di mora del debitore, la quale introduce una deroga alla distribuzione del rischio
rispetto alle regole sul limite della responsabilità e sul decorso
causale: sul punto cfr. il recente bel saggio di N. Rizzo, Inadempimento e danno da ritardo tra diritto comune e diritto privato europeo, in Riv. dir. civ., 2013, 827 ss., in part. 831 ss.
(71) Torna utile l’osservazione di L. Bigliazzi-Geri, Buona fede nel diritto civile, in Digesto disc. priv., sez. civ., II, Torino,
1988, 171, espressa però in ben altro contesto: quello della critica alla funzione integrativa diffusamente attribuita alla buona
fede e della correlativa attribuzione alla clausola generale della
ben diversa funzione valutativa, ossia di metro oggettivo ed
elastico di valutazione a posteriori della condotta dei soggetti
del rapporto obbligatorio al fine di contenere le conseguenze
negative di un’applicazione formalistica del diritto sul piano
della conciliazione di interessi confliggenti secondo una misura insuscettibile di determinazione aprioristica. Rileva B.G. che
«attribuire al principio di buona fede funzione lato sensu integrativa a priori equivale a ridurre il complesso gioco delle relazioni intersubiettive ad una serie standardizzata di comportamenti preindicati, in virtù di una sorta di ars divinandi, nella
quale è assai improbabile che sia esperto il giudice».
(72) Mengoni, L’oggetto della obbligazione, cit., 165.
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Oltre alla particolare conformazione teleologica
che il giudizio di inadempimento assume nelle c.d.
obbligazioni “di mezzi”, l'altro elemento connesso
alla distinzione consiste nella possibilità per il debitore di fornire la controprova dell’inadempimento (73). L’allegazione dell’inadempimento offerta
dal creditore di un’obbligazione “di mezzi” si presta,
infatti, ad essere vinta dal debitore già sul terreno
dell’inadempimento medesimo (74), contestando la
doglianza ed adducendo elementi di prova idonei a
dimostrare che, nella circostanza concreta, l’esito
attingibile con l’impiego dei mezzi congrui è specificatamente quello contestato dal creditore. In altri
termini, il carattere per sua natura mobile del risultato (75) rende nelle obbligazioni “di mezzi” l’allegazione dell’inadempimento da parte del creditore
un punto altamente controvertibile, giacché frutto
di una valutazione in concreto priva di quel grado
di oggettività e - viene da dire - di autoevidenza
propri, invece, del termine finale delle obbligazioni
“di risultato” (76). Sia chiaro: nulla vieta al debitore “di risultato” di contestare il fatto stesso che l’inadempimento si sia prodotto, ma l’oggettività e
l’autoevidenza di quel che costituisce inadempimento rendono nelle obbligazioni “di risultato” ta-
le contestazione, in pratica, processualmente vana,
o comunque poco o nulla conducente (77), e, in
astratto, neanche ipotizzabile se non nei termini di
una generica contestazione dell’evidenza: una volta
che il creditore abbia allegato il mancato conseguimento del risultato dovuto, non residua spazio per
la controprova (78). Sarà pertanto giocoforza per il
debitore scivolare sul piano dell’invocazione dell’impossibilità della prestazione derivante da causa
a lui non imputabile pur di contrastare la domanda
di adempimento e/o di risarcimento del danno. Se
ne ricava che dinanzi al debitore “di mezzi”, a differenza del debitore “di risultato”, si offrono due
vie per disinnescare la domanda dell’attore: confutare il proprio presunto inadempimento, fornendo
la prova che il risultato ottenuto è esattamente
quello conseguibile nel caso di specie con l’impiego
dei mezzi imposti dal vincolo e dallo standard di
condotta di riferimento, oppure non contestare l’inadempimento ma addurre una specifica causa di
impossibilità della prestazione a lui non imputabile (79). Il doppio canale difensivo del debitore “di
mezzi” può essere descritto anche in termini processualistici avvalendosi della distinzione tra le c.d.
mere difese e le eccezioni in senso tecnico (80). La
(73) Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit.,
583 ss.
(74) In senso analogo P. Proto Pisani, L’onere della prova
nella colpa medica, in Il danno risarcibile, a cura di G. Vettori, II,
Padova, 2004, 1390.
(75) Parla del risultato delle obbligazioni “di mezzi” come di
un bersaglio “mobile” che si presta ad essere posto a distanze
diverse, più o meno ravvicinate, di Majo, Mezzi e risultato nelle
prestazioni mediche, cit., 39.
(76) Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di
mezzi», cit., 146. Il profilo è sottovalutato da Cerdonio Chiaromonte, L’obbligazione del professionista intellettuale, cit., 123125.
(77) A meno che non si verifichi l'ipotesi della formazione
del fatto pacifico relativo all'esattezza della prestazione del debitore che - come nel caso in commento - potrebbe mettere in
discussione l'identificazione del risultato dovuto con quello invocato dal creditore.
(78) Così Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni
«di mezzi», cit., 146-147, ma v. la critica M. Fortino, I danni ingiusti alla persona, in Tratt. teor. prat. dir. priv. diretto da G. Alpa-S. Patti, Padova, 2009, 229 nt. 53 e 230 e la replica in Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 584 nt.
204.
(79) La soluzione prospettata supra nel testo risulta antitetica alla nota articolazione del giudizio di responsabilità nelle obbligazioni “di mezzi” suggerita da H. e L. Mazeaud, Traité théorique et pratique de la responsabilité civile delictuelle et contractuelle, I, Paris 1947, n. 670, 622, secondo cui, fermo l’assunto
dell’unicità dell’onere della prova dell’inadempimento nelle
due specie del rapporto obbligatorio, la diversa natura dei fatti
posti ad oggetto della prova dell’inadempimento incide sulla
prova liberatoria, identificata nel caso fortuito, di cui è elemento costitutivo l’assenza di colpa. La conclusione è che, mentre
nelle obbligazioni “di risultato” la prova fornita dal creditore lascia margine al debitore per addurre la prova del caso fortuito,
nelle obbligazioni “di mezzi” il debitore non gode di alcuna
prova liberatoria in quanto l’inadempimento consiste in una
condotta negligente, imprudente o imperita, ossia nella prova
della colpa, che esclude in radice, per incompatibilità logica, la
possibilità di addurre il caso fortuito poiché, «una volta che il
creditore abbia dimostrato questa imprudenza o negligenza, il
debitore non può più evidentemente stabilire una causa a lui
estranea». Contra Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., 318 ss.; Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 469-470; D’Amico,
La responsabilità ex recepto e la distinzione tra obbligazioni “di
mezzi” e “di risultato”, cit., 124.
(80) La letteratura processualistica distingue le mere difese,
in quanto contestazione dei fatti costitutivi dell’azione, dalle
eccezioni quali deduzioni di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del fatto costitutivo dell’azione: sul punto v. R. Oriani, Eccezione, in Digesto disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, 265
ss. Le eccezioni in senso lato non sono altro che le contestazioni della domanda attrice, basata anche su fatti impeditivi o
estintivi efficaci ipso iure, mentre le eccezioni in senso stretto
sono controdiritti del convenuto, arbitro di esercitarli o meno,
e pertanto rilevanti solo a seguito di un atto di volontà dell’eccipiente: cfr. G. Chiovenda, Sulla «eccezione», Saggi di diritto
processuale civile, I, Roma, 1930, 149 ss.; E. Betti, Diritto processuale civile italiano, Milano, 1936, 92 ss.; V. Colesanti, Eccezione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 173-174,
191 s.; Oriani, Eccezione, cit., 266 ss.; F. P. Comoglio, Le prove
civili, Torino, 2010, 273 ss.; S. Patti, Le prove. Parte generale,
in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica-P. Zatti, Milano, 2010, 41
ss. e in giurisprudenza, da ultimo, Cass., Sez. Un., 4 novembre
2004, n. 21095, in Rep. Foro it., 2004, «Contratto in generale»,
n. 533. Tale ultima distinzione rileva soprattutto sul versante
della decadenza dal potere di formulare eccezioni nell’ulteriore
corso del processo di primo grado e di appello, dopo lo sbarramento previsto dall’art. 167 c.p.c. e 416 c.p.c., nel primo caso,
e dall’art. 345 c.p.c.
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prova dell’avvenuto adempimento è volta a disinnescare l’allegazione dell’inadempimento da parte
del creditore mediante la negazione di quest’ultimo
e costituisce, pertanto, una mera difesa in quanto
non destinata ad introdurre nel giudizio nuovi fatti, ma preordinata piuttosto a fornire una lettura
diversa di quelli dedotti dall’attore a fondamento
della propria domanda. Anche la prova dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non
imputabile al debitore rappresenta una mera difesa
e non già un’eccezione in senso tecnico poiché,
per quanto fondata su elementi di fatto ulteriori,
essa è pur sempre tesa a contestare il fondamento
della domanda attorea, smentendo la sussistenza
dei presupposti della responsabilità per inadempimento (81), invece affermati dall'attore, e non già
introducendo un fatto modificativo, impeditivo o
estintivo (82).
Tutto ciò non influisce in alcun modo sulla fattispecie della responsabilità contrattuale, che resta
delineata interamente dall'art. 1218 c.c., né comporta una disciplina diversificata (83) e, pertanto,
il fondo di verità sottostante alla distinzione tra
obbligazioni “di mezzi” e obbligazioni “di risultato”
si esaurisce nell'aver colto la varietà morfologica
del contenuto delle obbligazioni. Non si tratta, però, di un dato in alcun modo sufficiente a giustificare una diversità di trattamento e anzi la conservazione della distinzione rischia di rinnovare anti-
chi equivoci e di rendere il discorso sulle obbligazioni meno limpido dal punto di vista concettuale.
I riflessi della varietà morfologica delle obbligazioni
sulla fisionomia dell’inadempimento e sull’individuazione dei temi di prova in capo ai soggetti del
rapporto obbligatorio in precedenza segnalati (84)
possono essere tenuti in adeguata considerazione e
valorizzati nella giusta misura limitandosi a rammentare che, all'interno dell'unitario schema dell'obbligazione, è dato riscontrare vincoli nei quali
l'inadempimento è verificabile soltanto in concreto
(e dunque sempre controvertibile), a causa del rilievo assunto da fattori non predeterminabili, e
vincoli nei quali invece l'inadempimento può essere valutato in forma semplificata tramite un confronto - di immediato compimento - tra la realizzazione concreta del debitore e uno schema di azione
predefinito in astratto (e dunque meno controvertibile nella sua mera oggettività) (85).
La distinzione tra obbligazioni “di risultato” e
obbligazioni “di mezzi” mostra segni di vitalità nel
dibattito europeo (86) e una conferma è offerta
dall’art. 148 del Common European Sales
Law (CESL) allegato alla proposta di regolamento
del 11 ottobre 2011 (87), rubricato «Obligation to
achieve result and obligation of care and skill» ossia,
letteralmente obbligazione di un risultato determinato e obbligazione di prudenza e perizia (88). Il
dato significativo è rappresentato, però, dal carat-
(81) Sul ruolo dell'impossibilità e sulla sostanziale equiparazione di quella imputabile all'inadempimento v., di recente e
nell'ambito di un'assai interessante concettualizzazione del
ruolo e della funzione del risarcimento, L. Nivarrra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, in Europa dir.
priv., 2014, 74 ss., il quale riprende e sviluppa una proposta interpretativa già avanzata in Id., I rimedi specifici, ivi, 2011, 173
ss.
(82) Sulla distinzione tra mere difese ed eccezioni in senso
tecnico v. di recente Cass., 21 giugno 2011, n. 13588.
(83) E su questo punto la convergenza con D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit., 152-153 è piena.
(84) Cfr. l’obiezione di Orlando, Contratto di parcheggio stipulato dall’albergatore e responsabilità ex recepto, cit., 919 nt.
23 secondo cui l’individuazione dei temi di prova ha anche rilevanti conseguenze sulla distribuzione del rischio contrattuale
e, in ultima analisi, sul fondamento della responsabilità contrattuale. L’affermazione è in astratto corretta ma in concreto,
ossia con riferimento alla tesi esposta nel testo e già formulata
in Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 537 e nt.
80, lo è meno, perché la specifica articolazione dei temi di prova legata alla varietà fenomenologica dei rapporti obbligatori
riconducibile alla critica distinzione tra obbligazioni “di risultati” e obbligazioni “di mezzi” non è tale da incidere sulla regola
di distribuzione del rischio che governa la responsabilità contrattuale. A una diversa conclusione si deve pervenire nel caso
di obbligazione di receptum.
(85) Questa è la conclusione formulata in Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., 152-153; Id.,
Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 593-594. In en-
trambe le occasioni, si è adoperata la formula «inadempimento controvertibile e incontrovertibile», ma conviene ora attenuarne la perentorietà, inizialmente finalizzata a rappresentare
nella maniera più icastica possibile la tesi della imprescindibile
presenza di un risultato in ogni obbligazione e della sua centralità nel giudizio di inadempimento, anche nelle fattispecie in
cui tale risultato si presenta non preindividuabile. Proprio la vicenda all’esame della sentenza in commento dimostra come
l’allegazione del mancato conseguimento del risultato, anche
nelle ipotesi in cui esso appare predeterminato, è certamente
indice di inadempimento ma non è assunto incontestabile perché, se senza alcun dubbio esonera il creditore dalla specifica
individuazione dell’elemento di inesattezza della prestazione
del debitore, non lo solleva però dall’incombente di contestare
le prove addotte dal debitore a sostegno dell’avvenuto adempimento. Qualora, come nel caso in esame, non replichi, il creditore si espone alla necessità di ancorare la responsabilità del
debitore all’identificazione di un fattore esterno alla prestazione e tale da renderla impossibile e alla dimostrazione dell’imputabilità al debitore di tale elemento, perché viceversa resta
impigliato nella propria acquiescenza.
(86) Cfr. D’Amico, Responsabilità per inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, cit., 142-145.
(87) COM(2011) 635 final.
(88) Assai critico sull’adozione della distinzione C. Castronovo, L'utopia della codificazione europea e l'oscura realpolitik
di Bruxelles. Dal DCFR alla proposta di regolamento di un diritto
comune europeo della vendita, in Europa dir. priv., 2011, 858859, il quale osserva che «Anche su questo punto la Proposta
trae dal DCFR, in particolare da quel serbatoio iniziale di “principi”, del quale abbiamo discorso in precedenza. Talora questo
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di sostituirla con categorie diverse, come quella
dell’inadempimento più o meno agevolmente controvertibile nella sua oggettività, sul presupposto
però della centralità del risultato nella verifica di
qualunque forma di inadempimento.
tere assolutamente descrittivo della distinzione, alla quale il CESL non riconnette alcuna conseguenza sul piano dei rimedi, specie sul versante della responsabilità contrattuale, come emerge in maniera
inequivocabile dalla formulazione degli artt. 159 ss.
CESL. Anzi la ratio della disposizione sembra coincidere piuttosto col riconoscimento che, per regola
generale, anche le prestazioni di fare professionale
perseguono un risultato specifico (art. 148, comma
1, CESL) e che, soltanto quando tale risultato non
è predeterminato né predeterminale, allora il parametro alla cui stregua valutare la condotta del prestatore e il risultato del relativo servizio si arresta
alla perizia e alla prudenza (art. 148, comma 2,
CESL). Perizia e prudenza vanno, per di più, valutate non in astratto, o per meglio dire in chiave tipologica - come invece vorrebbe la tradizione favorevole alla distinzione tra obbligazioni “di risultato”
e obbligazioni “di mezzi” - ma nella prospettiva della concreta realizzazione prodotta dal professionista
(art. 148, comma 3, CESL) (89). L’art. 148 CESL
corrobora, quindi, il convincimento dell’irrilevanza
dogmatica della distinzione (90) e dell’opportunità
Dell'ampio e articolato dibattito che sommariamente è stato ricostruito la Suprema Corte non
tiene conto e, pertanto, la riesumazione del binomio di obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di
mezzi” non sembra neppure pienamente consapevole, vista la rappresentazione estremamente schematica cui il collegio accede (91). L'indicazione
che se ne trae è quella di una sostanziale indifferenza riservata dai giudici supremi al dibattito dottrinale che negli ultimi decenni si è riacceso intorno alla questione della bipartizione dei rapporti obbligatori in obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, toccando punte di approfondimento
e di qualità notevoli (92) e culminata con la ripubblicazione dello studio monografico di Mengo-
fa, però, in maniera improvvida e inopportuna. Questo è il tipico caso dell'art. 148, che disciplina l'obbligazione del prestatore di servizi articolandola nella distinzione tra obbligazione di
risultato e obbligazione di diligenza e perizia. I PDEC avevano
evitato di avallare tale distinzione, limitandosi a farne menzione nel commento all'art. 6:102 in materia di clausole implicite
del contratto, e ricordando i diversi atteggiamenti rilevabili negli ordinamenti europei in proposito. Avere adottato questa regola, derivante dagli artt. IV.C.-2:105 e 2:106 del DCFR, dettati
in materia di prestazione di servizi, non sembra una soluzione
saggia. La sciagurata distinzione non sarà mai a sufficienza vituperata per l'inconsistenza che la caratterizza, costituita, in
essenza, dalla trasformazione di una regola di adempimento
(la diligenza e la perizia, che concorrono a definire il contenuto
dell'obbligazione) in una regola di responsabilità, articolando
quest'ultima in un doppio regime che finisce per caratterizzare
nel segno della colpa l'inadempimento delle obbligazioni altrimenti dette di diligenza. L'idea che ogni obbligazione ha un risultato, in relazione al quale va misurato l'adempimento e l'eventuale inadempimento, sfugge a questa descrizione banale
del contenuto dell'obbligazione».
(89) I criteri di specificazione del giudizio di perizia e di prudenza sono particolarmente significativi e meritano, quindi, di
essere riportati: «3. In determining the reasonable care and skill
required of the service provider, regard is to be had, among
other things, to: (a) the nature, the magnitude, the frequency
and the foreseeability of the risks involved in the performance of
the related service for the customer; (b) if damage has occurred,
the costs of any precautions which would have prevented that
damage or similar damage from occurring; and (c) the time
available for the performance of the related service».
(90) Pare abbastanza perplesso sull’adozione della coppia
obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” anche P.
Stanzione, Il regolamento di Diritto comune europeo della vendita, in questa Rivista, 2012, 632-633.
(91) Per quanto concerne la vitalità della distinzione tra obligation de moyens e obligation de résultat in Francia, nell’ambito
della responsabilità medica, cfr. L. Klesta, La responsabilità medica in Francia: l’epilogo di un percorso movimentato?, in Nuova
Giur. civ. comm., 2013, II, 479 ss., in part. 482-486, la quale ritiene che l’efficacia del modello francese di responsabilità medica esiga l’abbandono delle categorie giuridiche disomogenee, come quelle della responsabilità contractuelle e della distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, a favore di
un dispositivo unitario e per di più in grado di rendere legittime
le aspettative dei pazienti, vale a dire il congegno dello status
professionale del medico.
(92) Per limitarsi agli ultimi anni, sul fronte dei critici: Castronovo, Profili della responsabilità medica, cit., 117 ss.; Id., La
nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 560 ss.; 785 ss.; A. di
Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, in Corr. giur., 2005, 33 ss.; S. Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita di beni di consumo, in Europa e diritto priv., 2004, 1068
ss.; C. M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in
Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja-G. Branca, sub art. 1174,
Bologna-Roma, 1979, 33; Id., Diritto civile. 4. L’obbligazione,
Milano, 1993, 73-75; Breccia, Le obbligazioni, cit., 137 s., 488491; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Il Codice Civile. Comm., fondato da Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2006, 117-118; Nivarra, La responsabilità civile
dei professionisti (medici, avvocati, notai): il punto della giurisprudenza, cit., 518 s.; Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni
di mezzi, cit., 781 ss.; Id., Sezioni sempre più unite contro la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La
responsabilità del medico, cit., 871 ss.; Piraino, Obbligazioni «di
risultato» e obbligazioni «di mezzi» ovvero dell'inadempimento
incontrovertibile e dell'inadempimento controvertibile, cit., 83
ss.; Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 509 ss.;
G. Cerdonio Chiaromonte, L'obbligazione del professionista intellettuale tra regole deontologiche, negoziali e legali, Padova,
2008, 67 ss.; Busoni, L'onere della prova nella responsabilità del
professionista, cit., 147 ss.; M. Franzoni, Illecito, I, in Tratt. resp.
civile diretto da M. Franzoni, Milano, 2010, 256 ss., che alla distinzione riconosce soltanto una funzione descrittiva, come anche Paradiso, La responsabilità medica tra conferme giurisprudenziali e nuove aperture, cit., 710; e, ultimo in ordine di tem-
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Un dibattito trascurato
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ni (93). Questa amara constatazione potrebbe dare
la stura a diverse interessantissime considerazioni
sullo stato della cultura giuridica, sui rapporti tra
giurisprudenza e dottrina, sull'oramai inarrestabile
scivolamento della professione del magistrato verso
un modello professionale distante dall'iniziale connotazione di alta intellettualità, sull'autoreferenzialità della dottrina, sulla perdita di freni e di controllo nella produzione scientifica divenuta torren-
ziale e, dunque, di difficile selezione etc.; ma lo
svolgimento di riflessioni di questa natura esigerebbe più tempo di quello che gli ideali destinatari sarebbero disposti a dedicare alla loro lettura e alla
successiva meditazione e, quindi, conviene soprassedere. Non si può, invece, sottacere la scelta, che
sembra divenuta una modalità operativa costante
della Suprema Corte (94), di proclamare la propria
adesione agli indirizzi delle Sezioni Unite per poi
po, Azzalini, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Categorie giuridiche travisate, cit., passim, in part. 87 ss., ma la
sensazione è che lo studio sia stato chiuso anzitempo. Sul
fronte dei favorevoli cfr. D'Amico, La responsabilità ex recepto
e la distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, cit.,
105 s., in part. 124 ss.; Id., Responsabilità per inadempimento e
distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Riv. dir. civ.,
2006, 141 ss.; A. Perulli, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera
e professioni intellettuali, in Tratt. dir. civ., diretto da A. Cicu - F.
Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 1996, 454 ss.;
Carbone, Diligenza e risultato nella teoria dell'obbligazione, cit.,
passim, in part. 53 ss.; Id., Verso lo statuto unitario della responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 1327 ss. e
sostanzialmente anche R. Conte, In tema di responsabilità civile
e deontologica dell'avvocato: novità giurisprudenziali e normative, in Corr. giur., 2012, 360 ss. e M. Nardella, Responsabilità
medica: prova della diligenza nell’intervento a basso rischio, in
questa Rivista, 2012, 161-162.
(93) L. Mengoni, Scritti. II., Obbligazioni e negozio, a cura di
C. Castronovo - A. Albanese - A. Nicolussi, Milano, 2011, 141
ss.
(94) Basti pensare alla vicenda emblematica del danno non
patrimoniale aquiliano, che molto fa riflettere. Di recente,
Cass., 20 novembre 2012, n. 20292, in Danno resp., 2013, 129
ss., con commento di G. Ponzanelli, Non è tanto il danno esistenziale, ma il "quantum" il vero problema del danno non patrimoniale, e in Resp. civ. prev., 2013, 116 ss., con nota di P. Ziviz, Danno esistenziale: nuova tappa di un lungo cammino, e la
speculare Cass., 3 ottobre 2013, n. 22585, in Foro it., 2013, I,
3445 ss., con nota di A. Palmieri, R. Pardolesi, Il ritorno di fiamma del danno esistenziale (e del danno morale soggettivo): l'incerta dottrina della Suprema corte sull'art. 2059 c.c., si producono nell'evoluzione, al limite della spericolatezza, di esprimere
dapprima la propria strumentale e dichiarata adesione all'indirizzo delle Sezioni Unite, 11.112008, 26972, 26973, 26974,
26975, senza poi riuscire neppure a celare la riottosità a rispettarlo, come conferma la conclusione di Cass., 20 novembre
2012, n, 20292 in evidente e aperto contrasto con l'assetto delineato dalle Sezioni unite. Una conclusione che conviene riportare in quanto esempio difficilmente eguagliabile di argomentazione pseudo-adesiva: «Sulla base di tali premesse, e
sgombrato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla
autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello
biologico (escluso nel caso di specie), ma anche a quello “dinamico relazionale” (predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta la questione, specificamente
sottoposta oggi dal ricorrente incidentale al vaglio di questa
Corte, della legittimità di un risarcimento di danni “esistenziali”
così come riconosciuti dalla Corte di appello di Potenza. Questione da valutarsi, non diversamente da quella afferente al
danno morale, alla luce del dictum dalle Sezioni Unite di questa corte nel 2008, che lo ricondussero, in via di principio, a
species descrittiva di danno inidonea di per sé a costituirne
autonoma categoria risarcitoria. Un principio affermato, peraltro, nell’evidente e condivisibile intento di porre un ormai improcrastinabile limite alla dilagante pan-risarcibilità di ogni
possibile species di pregiudizio, benché priva del necessario
referente costituzionale, e sancito con specifico riferimento ad
una fattispecie di danno biologico. Un principio che, al tempo
stesso, affronta e risolve positivamente la questione della risarcibilità di tutte quelle situazioni soggettive costituzionalmente
tutelate (diritti inviolabili o anche “solo” fondamentali, come
l’art. 32 Cost., definisce la salute) diversi dalla salute, e pur tuttavia incise dalla condotta del danneggiante oltre quella soglia
di tollerabilità indotta da elementari principi di civile convivenza (come pure insegnato dalle stesse Sezioni Unite). Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non
equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione che discorre di centralità della persona e di integralità
del risarcimento del valore uomo - così dettando un vero e
proprio statuto del danno non patrimoniale alla persona per il
terzo millennio. La stessa (meta)categoria del danno biologico
fornisce a sua volta risposte al quesito circa la “sopravvivenza”
- predicata dalla Corte di appello lucana - del c.d. danno esistenziale, se è vero come è vero che “esistenziale” è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza, sì, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile. Prova ne sia che un danno biologico propriamente considerato - un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma consequenzialista - non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano risarcitorio, non ontologico) tutte le volte
che la lesione (danno evento) non abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal
(costoso) dentista è certamente una “lesione medicalmente
accertabile”, ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id
est, del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile, poiché nessuna conseguenza dannosa
(anzi…), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell’ambito
di una specifica terapia ossea che attende di lì a poco il danneggiato). La mancanza di “danno” (conseguenza dannosa)
biologico, in tali casi, non esclude, peraltro, in astratto, la configurabilità di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un possibile danno “dinamico-relazionale”, sia pur
circoscritto nel tempo. Queste considerazioni confermano la
bontà di una lettura delle sentenze delle Sezioni Unite del
2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di
tipo induttivo che, dopo aver identificato l’indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l’onore, la reputazione, la libertà religiosa,
il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello
all’ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi
ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del
suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale)». Come tutto ciò si concili con l'affermazione
delle Sezioni Unite secondo cui «3.13 In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non
suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichet-
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Eppure la Corte di Cassazione era giunta al ripudio della distinzione tra obbligazioni “di risultato”
e obbligazioni “di mezzi”, sostanzialmente allineandosi all'insegnamento di Mengoni (95). Precedute
da due sentenze, una a Sezioni Unite in materia di
obbligazione del professionista progettista ma al
contempo direttore dei lavori di esecuzione dell'appalto (96), e l'altra in tema di obbligazione del me-
dico (97), le Sezioni Unite nel 2008 hanno riconosciuto sul terreno più delicato, quello della prestazione medica (98), l'inconsistenza della distinzione
tra obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di
mezzi”. La Suprema Corte prende atto che «La
dottrina ha assunto posizioni critiche sull’utilizzo
della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorché operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa
divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato
contrasti sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione, sia in relazione all’onere della prova
e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista» (99). E dopo
tate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica
sottocategoria denominata "danno esistenziale", perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui
tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste
dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è
necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059
c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici
valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/ 2005; n.
11761/2006; n. 23918/2006, che queste Sezioni Unite fanno
propri). 3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta
negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza
dell'autonoma categoria del danno esistenziale» (Cass., 11 novembre 2008, n. 26972, cit.). La pretesa di sminuire il senso di
questa affermazione sostenendo che non v'è contraddizione
perché l'identificazione di una figura di danno relazionale etichettata come esistenziale non contrasta con la liquidazione
unitaria del danno non patrimoniale è quasi beffarda, perché
aggira il cuore della questione: l'assenza di una base normativa, alla luce del diritto positivo vigente, inclusivo dei suoi testi
normativi apicali, per l'affermazione di una "voce" di danno alla
persona identificata nell'alterazione in sé dello stile o delle prospettive di vita. L'orientamento "insubordinato" si sta peraltro
ingrossando Cass., 12 novembre 2013, n. 25409; Cass., 11 novembre 2013, n. 23147; Cass., 3 ottobre 2013, n. 22585;
Cass., 22 agosto 2013, n. 19402 e Cass., 17 aprile 2013, n.
9231, in Resp. civ. prev., 2014, 103 ss., con nota di P. Russo,
La Cassazione e l'anno d'oro del danno esistenziale e Cass., 11
ottobre 2013, n. 23147, in Danno resp., 2014, 249 ss., con
commento di G. Ponzanelli, Il "buonismo" della Cassazione e la
facile dimenticanza del danno conseguenza. E sia chiaro che la
profonda insoddisfazione nei confronti di questo indirizzo deriva non certo dal tentativo che lo caratterizza di riaffermare la
categoria del danno esistenziale, ma dalle modalità discorsive
di tale tentativo: affermando una continuità con le Sezioni Unite del 2008 in realtà inesistente. Se la bontà di una tesi si saggia anche dalle modalità con cui viene affermata, quella propostaci da quest'orientamento ha ben poco di buono da offrire.
(95) Lo segnala Castronovo, La responsabilità per inadempimento da Osti a Mengoni, cit., 3.
(96) Cass., Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15781, in Europa dir.
priv., 2006, 781 ss. con nota di A. Nicolussi, Il commiato della
giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi; in questa Rivista, 2006, 346 ss., con commento di F. Toschi Vespasiani, F. Taddei, Il contratto d’appalto
e la responsabilità del progettista-direttore dei lavori per i vizi e
le difformità dell’opera; in La resp. civ., 2006, 229 ss., con nota
di G. Facci, L’obbligazione di risultato del progettista al vaglio
delle Sezioni Unite; in Obbl. contr., 2006, 712 ss., con nota di L.
Follieri, Obbligazioni di mezzi e di risultato nella prestazione del
progettista-direttore dei lavori; in Nuova Giur. civ. comm., 2006,
I, 828 ss., con nota di commento di R. Viglione, Prestazione
d’opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazioni di
mezzi e di risultato; in Riv. trim. app., 2007, 275 ss., con nota di
L. Tecce, La prestazione del progettista tra locazione d'opera
manuale e prestazione d'opera intellettuale.
(97) Cass., 13 aprile 2007, n. 8826, in Resp. civ. prev., 2007,
1824 ss. con nota di M. Gorgoni, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile; in Nuova Giur. civ. comm.,
2007, I, 1428 ss. Sul punto cfr. M. Faccioli, Vecchi e nuovi
orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità medica
in una sentenza “scolare” della Cassazione, in La resp. civ.,
2007, 967 ss.; R. Pucella, I difficili assetti della responsabilità
medica, in Nuova Giur. civ. comm., II, 2007, 445 ss.
(98) Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Danno
resp., 2008, 788 ss., con nota di G. Vinciguerra, Nuovi (ma
provvisori?) assetti della responsabilità medica e ivi, 2008, 871
ss., con nota di A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la
distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La
responsabilità del medico, di M. Gazzarra, Le S.U. “fanno il punto” in tema di onere della prova della responsabilità sanitaria,
1002 ss. e di R. Breda, Contenuto del rapporto obbligatorio e
onere della prova nella responsabilità medica, cit., 1265 ss.; in
Nuova Giur. civ. comm., I, 2008, 612 ss. con nota di commento
di R. De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per
danno da emotrasfusione e in Resp. civ. prev., 2008, 856, con
commento di M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della
distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato; in Giur. it.,
2008, 1653 ss., con nota di A. Ciatti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato e di
M. G. Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio, ivi, 2197 ss.; in La resp. civ., 2009, 221 ss.,
con nota di C. Miriello, Nuove e vecchie certezze sulla responsabilità medica, di R. Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e
responsabilità della struttura sanitaria, ivi, 397 ss. e di M. Dragone, Le S.U., la “vicinanza alla prova” e il riparto dell’onere probatorio, ivi, 687 ss. Sui più recenti orientamenti giurisprudenziali v. anche G. Vettori, Le fonti e il nesso di causalità nella responsabilità medica, in Obbl. contr., 2008, 393 ss.; Paradiso, La
responsabilità medica tra conferme giurisprudenziali e nuove
aperture, cit., 703 ss. e Fortino, I danni ingiusti alla persona, cit.,
209 ss.
(99) Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, n. 5.1.
smentirne i contenuti in sede applicativa, come è
accaduto anche in questa occasione con l'iniziale
adesione, soltanto nominale, al superamento della
distinzione.
Il ripudio della distinzione da parte della
giurisprudenza
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aver riepilogato gli assunti dei fautori del binomio,
le Sezioni Unite ammettono che «Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della
struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo
conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le
obbligazioni. In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del
debitore che del risultato, anche se in proporzione
variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso
il vincolo, come l’impegno che il debitore deve
porre per ottenerlo» (100).
Non si potrebbe immaginare abbandono più pieno e, almeno apparentemente, più consapevole,
ma la sentenza in commento testimonia che il
cambiamento culturale che le Sezioni Unite sembravano aver compiuto non è invece ancora completo. Permane con tutta evidenza tra i giudici il
convincimento che la distinzione assolva comunque ad un ruolo nella disciplina delle prestazioni di
fare e quest'attaccamento dipende, con ogni probabilità, dalla circostanza che il ripudio coronato nella sentenza delle Sezioni Unite non scaturisce soltanto né prevalentemente da ragioni di ordine dogmatico, legate all'insostenibilità della rottura dell'unitarietà dell'obbligazione e della conseguente
responsabilità per inadempimento; ma piuttosto
dalla sopravvenuta inutilità della distinzione a seguito dell'uniformazione della distribuzione dei temi di prova nei giudizi contro l'inadempimento (101), realizzata dalla Cassazione con la sentenza
a Sezioni Unite del 2001 (102) ed estesa alla responsabilità medica a partire dal 2004 (103). La
scelta di addossare al creditore in ogni caso la sola
prova del titolo e dell'esigibilità del diritto credito,
consentendogli di allegare semplicemente l'inadempimento ha tolto il terreno sotto i piedi della
distinzione, la quale - come si è visto - esplicava la
propria efficacia proprio sulla diversa distribuzione
dei temi di prova. In un caso come quello in esame
in cui sono in questione non tanto problemi relativi a difficoltà probatorie, quanto piuttosto all'ampiezza del vincolo, non può destare troppo stupore
che torni a fare capolino una distinzione dalla quale la giurisprudenza non si è allontanata con piena
convinzione ma sostanzialmente per riflesso del
mutato orientamento in tema di prova. Eppure la
dottrina più autorevole ha tentato di fornire delle
pronunzia delle Sezioni Unite una lettura che l'affrancasse dalla propria contingenza, spiegando che
«il risultato dovuto deve essere [...] sempre precisato nello specifico rapporto obbligatorio in modo da
non gravare il medico di un vincolo di garanzia
qualora il risultato dovuto fosse troppo distante
eziologicamente dai mezzi che è tenuto a impiegare. In altri termini l'obbligazione va presa per quello che è: senza farle assumere il rigore della garanzia vincolando sic et simpliciter il debitore al risultato astrattamente configurato e senza imboccare la
scorciatoia della c.d. obbligazione di mezzi che rischia di far smarrire il senso dell'ob-ligatio» (104).
(100) Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, n. 5.2.
(101) Lo segnala, con il consueto acume, D'Amico, Responsabilità per inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, cit., 148 ss., in part. 152.
(102) Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it.,
2002, I, c.c. 769 ss., con nota di P. Laghezza, Inadempimento
e onere della prova: le Sezioni Unite e la difficile arte del rammendo; in Corr. giur., 2001, 1565 ss., con commento di G. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite
compongono un contrasto e ne aprono un altro; in questa Rivista, 2002, 113 ss., con commento di U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova; in Nuova Giur. civ. comm., 2002, I,
349 ss., con nota di B. Meoli, Risoluzione per inadempimento
ed onere della prova; su cui cfr. altresì G. Villa, Onere della prova, inadempimento e criteri di razionalità economica, in Riv. dir.
civ., 2002, II, 707 ss.; G. Visintini, La Suprema Corte interviene
a dirimere un contrasto tra massime (in materia di materia di
onere probatorio del creditore vittima dell’inadempimento), in
Contr. impr., 2002, 903 ss.; S. Mazzamuto, Il mobbing, Milano,
2004, 66 ss.; M. Maggiolo, Inadempimento ed oneri probatori,
in Riv. dir. civ., 2006, 165 ss.; F. Busoni, Inesatto adempimento
ed onere probatorio, in Riv. dir. priv., 2006, 787 ss. Su tema è
ritornata di recente G. Visintini, Onere probatorio nelle azioni di
adempimento e di risoluzione del contratto, in Contr. impr.,
2014, 23 ss.
(103) Cass., 28 maggio 2004, n. 10297 e Cass., 21 giugno
2004, n. 11488, in Danno e resp., 2005, 23 ss (unitamente a
Cass., 19 maggio 2004, n. 9471), con commento di R. De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?; Cass., 21 giugno
2004, n. 11488 è pubblicata anche in Corr. giur., 2005, 33 s.,
con nota di A. di Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita.
(104) Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, cit., 874-875, il quale aggiunge che: «La
flessibilità del rapporto obbligatorio si gioca non già escludendo da esso il risultato utile al creditore, ma determinandolo, in
base alla buona fede e al contratto, nei singoli casi o tipi di
rapporti».
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L'ulteriore debolezza della decisione: il
ruolo della garanzia pura
C'è da domandarsi se per escludere l'impedimento del riscaldo comune dall'oggetto della prestazione della società appaltatrice fosse davvero necessario ricorrere alla qualificazione come l'obbligazione
“di mezzi”. E la risposta è chiaramente negativa. La
Suprema Corte non tiene conto del fatto che in
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materia di appalto l'alternativa alla obbligazione
“di mezzi” non è l'obbligazione “di risultato” ma la
garanzia (105), peraltro delineata in maniera inequivocabile dagli artt. 1667 e 1668 c.c. (106). Non
c’è d’altro canto da stupirsi vista la confusione che
regna in materia di garanzia, non di rado identificata con un vincolo obbligatorio di risultato in
sé (107). Se a ciò si aggiunge che di frequente - e
certo non con minore approssimazione - l’obbligazione “di risultato” viene concepita dalla vulgata
per giunta come un vincolo al conseguimento di
un determinato fine a prescindere dalla condotta,
ecco istituita l’identificazione, o anche soltanto l’equiparazione. Nonostante la ricostruzione più diffusa renda un’immagine diversa (108), è preferibile
intendere il vincolo dell'appaltatore nei termini di
una struttura complessa: in parte riveste natura di
obbligazione e in parte di garanzia (109). L'obbligazione conferisce la forma giuridica alla fase di realizzazione dell'opera o del servizio ed è qui che la
poiesi svolge il proprio ruolo; mentre la garanzia
conferisce forma giuridica all'impegno dell'appaltatore in ordine alle caratteristiche e alla qualità dell'opera realizzata (110). Qui, a differenza che nella
vendita, specie quella di diritto comune, il modo
di essere dell'opera o del servizio dipende dall'attività del debitore e, quindi, non si frappone alcuna
impossibilità logico-giuridica a farne oggetto di obbligazione; ma il legislatore ha inteso rafforzare la
posizione del committente includendo i profili qualitativi dell'opus o del servizio in un vincolo assoluto qual è la garanzia. Peraltro, in tal modo, si ovvia
al problema del possibile scollamento temporale
tra il completamento della prestazione di fare e
l'insorgere del difetto di conformità. La c.d. garanzia pura consiste, infatti, in una forma di attribuzione di utilità (in questo caso l'assenza di vizi e difformità) senza alcuna intermediazione ad opera
della controparte. Il garante interviene, infatti, soltanto nell'eventualità che l'utilità non si produca
ma non deve anche attivarsi per produrla e, nel caso dell'appalto, l'intervento prende la forma dell'e-
(105) Sulla figura della garanzia pura cfr., su tutti, P. Corrias, Garanzia pura e contratti di rischio, Milano, 2006, passim,
in part. 20-22, 317 ss.; Cappai, La natura della garanzia per vizi
nell'appalto, cit., passim, in part. 55 ss.
(106) Per la qualificazione degli artt. 1667 e 1668 come garanzia v. L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni. III,
L’attuazione, Milano, 1946, 1089; ma soprattutto Mengoni,
Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., 205 nt.
55; A. Nicolussi, Diritto europeo della vendita dei beni di consumo e categorie dogmatiche, in Europa dir. priv., 2003, 554-555;
Id., Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, cit., 819, nonché F.
Marinelli, In tema di garanzia per le difformità e i vizi dell’opera
nel contratto d’appalto, in Giust. civ., 1984, I, 275, ma per il mutato avviso v. Id., La responsabilità dell’appaltatore, in Dir. impr.,
1986, 139; G. Tucci, Garanzia, in Digesto disc. priv., sez. civ.,
VIII, Torino, 1992, 586 ss.; Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 286 ss.; contra, di recente, A. di Majo, L'adempimento «in natura» quale rimedio (in margine a un libro recente), in Europa dir. priv., 2012, 1166-1167.
(107) Basti pensare alla nozione di garantie diffusa in Francia come obbligazione e, in particolare, come un’obligation de
résultat absolue: B Starck, H. Roland, L. Boyer, Droit civil. Les
Obligations. 2. Contrat6, Paris, 1998, 425 ss. e così già P.
Esmein, L’obligation et la responsabilité contractuelles, in Le
droit franēais au milieu du XXe siècle. Études offertes à Georges
Ripert, II, Paris, 1950, 101 ss., il quale pure è critico sulla distinzione tra obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”. In Italia, ancora di recente F. Rocchio, La promessa con
funzione di garanzia, Napoli, 2009, 7-8.
(108) Tra gli autori che inquadrano interamente la prestazione dell’appaltatore nell’area della responsabilità contrattuale, con tratti più o meno accentuati di specialità, ora riferendosi all'obbligazione ora all'inesattezza dello scambio v., per limitarsi ai contributi più recenti, D. Rubino, G. Iudica, Dell'appalto,
Art. 1655-1677, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F.
Galgano, Bologna-Roma, 2007, 425 ss.; G. Musolino, La responsabilità dell’appaltatore, Rimini, 1992, 98; Id., La natura
della garanzia per i vizi e le difformità dell’opera, in Riv. trim.
app., 2008, 541 ss.; P. Corrias, In tema di eliminazione dei difetti e di risarcimento del danno nel contratto di appalto, in Riv.
giur. sarda, 1992, 666 e nt. 7; Id., Garanzia pura e contratti di ri-
schio, cit., 353-354; A. Cianflone, G. Giovannini, L’appalto di
opere pubbliche, Milano, 2003, 1123 ss.; L. Bellanova, Difformità, vizi e difetti nell’appalto: a proposito del I comma dell’art.
1667 c.c., in Contr. impr., 1994, 588 ss.; E. Lucchini Guastalla,
La risoluzione di diritto per inadempimento dell’appaltatore, Milano, 2002, 91; S. Polidori, La responsabilità dell’appaltatore. I
rapporti tra disciplina generale e norme speciali nell’appalto, Napoli, 2004, 32 ss. in part. 56 ss.; Ch. Romeo, I presupposti sostanziali della domanda di adempimento, Milano, 2008, 285; C.
Menichino, Clausole di irresponsabilità contrattuale, Milano,
2008, 250 ss.
(109) Questa impostazione è stata proposta in Piraino,
Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 286 ss.
(110) Ad una concezione complessa, o per meglio dire
composita, perviene anche Cappai, La natura della garanzia
per vizi nell'appalto, cit., 93-97 per quanto in un quadro concettuale diverso da quello proposto nel testo, ma negli esiti poi
non così tanto distante. C. tende a qualificare in termini unitari
l'intera prestazione dell'appaltatore, considerandola tutta ricompresa nel meccanismo della garanzia e, nella consapevolezza della varietà di profili della prestazione dell'appaltatore,
perviene a concepirla come una figura nella quale coesistono
la responsabilità per inesatto adempimento (nel caso di difetti
imputabili) e il rischio per l'inesatta attuazione dello scambio
(nel caso di imperfezioni non imputabili). La garanzia accumuna queste due possibili disfunzioni della prestazione dell'appaltatore e, quindi, diviene espressione tanto di responsabilità
quanto di rischio. Tale modello per C. vale anche - e anzi trova
una conferma - nella disciplina della c.d. garanzia europea di
cui agli artt. 128 ss. cod. cons. (ibidem, 123 ss.). L'uniformazione della tutela che tale accomunamento comporta a me
sembra però che venga ritagliato sulle caratteristiche rigidamente tipologiche, od oggettive che dir si voglia, proprie delle
difformità ascritte a titolo di rischio, dando luogo ad un meccanismo di tutela irriducibile alla responsabilità. Se ciò è vero,
in definitiva la garanzia - per lo meno quella degli artt. 1667 e
1668 c.c. - presenterebbe le caratteristiche regolative evidenziate supra nel testo. Se si conviene sul fatto che non ogni violazione della prestazione dell'appaltatore vada assoggetta al
regime assai rigido della garanzia, allora non si può che convergere sulla complessità della prestazione dell'appaltatore: in
parte obbligazione e in parte garanzia.
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liminazione del difetto di conformità. La fattispecie
dell'appalto presenta, però, la singolarità che qualità e requisiti del bene o del servizio dipendono dalla condotta obbligatoria dell'appaltatore, ma la loro sussistenza in conformità del titolo o di quanto
è ragionevole attendersi in quel tipo di realizzazione viene dalla legge imposta come dovuta in termini assoluti come soltanto la garanzia pura può consentire. Ciò significa che l'appaltatore risponde
non soltanto di quei difetti che sono frutto di inesattezze dell’attività di progettazione e di realizzazione, ma anche di quelli dipendenti da cause
ignote o da eventi esterni non prevedibili né evitabili e tutte e tre le ipotesi sono accomunate sotto
un'unica disciplina, quella della garanzia. I difetti
determinati da imperizia e manifestatisi successivamente al collaudo vengono, quindi, estrapolati dall'area della responsabilità per inadempimento e ricondotti nell'alveo della garanzia: trattati e disciplinati come suoi presupposti. Quest'indubbio irrigidimento del regime della prestazione dell'appaltatore viene controbilanciata dalla limitata durata
della garanzia, circoscritta a due anni dal giorno
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della consegna del bene o della messa a disposizione del servizio (art. 1667, comma 3, c.c.).
Nel caso oggetto della decisione in commento,
non è stato mai chiarito con sufficiente rigore quale fosse il risultato della prestazione dell'appaltatore
e, dunque, è parsa sufficiente la prova del rispetto
delle regole dell'arte fornita da quest'ultimo per
escludere l'inesattezza della prestazione. Il nodo era
però rappresentato dall'inclusione o meno dell'impedimento del riscaldo comune nell'oggetto del
vincolo dell'appaltatore e, se la Suprema Corte si
fosse impegnata nell'individuazione del fine, magari nell'ottica del modello teleologico a posteriori delineato in precedenza, e così facendo avesse chiarito che il risultato dovuto consisteva nell'effetto
protettivo conseguito con la sottoposizione della
merce ad un trattamento antiossidante idoneo a
prevenire il riscaldo comune, senza però che quest'ultimo risultasse assorbito nel vincolo - e specialmente in quel suo segmento che assume la forma
della garanzia - non sarebbe stato necessario scomodare la perniciosa distinzione tra obbligazioni
“di risultato” e obbligazioni “di mezzi”.
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Locazione
Locazione non registrata e
regime giuridico del rapporto.
A proposito di un revirement
(annunciato) della Cassazione
CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, ord. 3 gennaio 2014, n. 37 – Pres. Berruti – Est. Scarano - P.m.
Sgroi - F.E. c. S.V.C.
Al fine di evitare, in una materia connotata da una diffusissima contrattazione e caratterizzata da un'accentuata litigiosità, un contrasto potenzialmente foriero di disorientanti oscillazioni interpretative - e, comunque,
quale questione di massima di particolare importanza - deve trasmettersi al Primo Presidente, per l'eventuale
relativa assegnazione alla Sezioni Unite, il ricorso avente ad oggetto la questione se, nel vigore della legge n.
431 del 1998, costituisca requisito di validità della locazione, oltre alla forma scritta, anche la registrazione del
contratto medesimo (come - anche con particolare riferimento alla pattuizione contrattuale non registrata (o
registrata tardivamente) recante un canone diverso da quello concordato dalle stesse parti in altro contratto
scritto e registrato - la Sezione remittente è orientata a ritenere, pure alla stregua dell'evoluzione interpretativa maturata in tema di causa concreta del contratto e di abuso del diritto).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Palermo, 20 novembre 2000; Trib. Verona, 21 giugno 2000; Trib. Roma, 16 maggio 2000.
Difforme
Trib. Bergamo, 7 febbraio 2012; Trib. Pescara, 14 ottobre 2010; Cass., 7 aprile 2010, n. 8230; Cass., 3 aprile 2009,
n. 8148; Trib. Monza, 6 giugno 2007; Trib. Como, 9 marzo 2007; Trib. Roma, 24 luglio 2006; Trib. Salerno, 24 febbraio 2006; Trib. Arezzo, 24 gennaio 2006; Trib. Bari, 31 marzo 2005; Cass., 29 settembre 2004, n. 19568; Cass.,
27 ottobre 2003, n. 16089.
Omissis.
IL COMMENTO
di Fulvio Gigliotti
L’ordinanza in commento affronta, problematicamente, la questione della rilevanza – nel contesto della
locazione immobiliare – della mancata registrazione del contratto, con particolare riguardo al caso in cui
esistendo un contratto scritto e registrato esista, altresì, una ulteriore pattuizione negoziale, ancorché
non successiva, non sottoposta a registrazione e recante un canone diverso (e, segnatamente, maggiore)
rispetto a quello risultante dal contratto registrato. Al riguardo, muovendo articolate e molteplici censure
all’orientamento ormai corrente presso la giurisprudenza di legittimità, inteso ad escludere la rilevanza invalidante della mancata registrazione, la citata ordinanza – tanto in ragione del rilievo da assegnare alla
causa concreta dell’operazione, quanto in ragione del divieto di abuso del diritto in materia di imposizione fiscale – segnala l’opportunità di una rimeditazione della soluzione corrente, prospettando, conseguentemente, la necessità che il Primo Presidente valuti se rimettere la soluzione della predetta questione
(comunque di particolare importanza) al giudizio delle Sezioni Unite.Nel commento all’ordinanza – valutando la questione nei suoi termini generali (e perciò prescindendo dallo stretto riferimento al caso concretamente sottoposto a giudizio) – si tiene altresì conto di ulteriori dati positivi (anche sopravvenuti) riferibili, in linea di principio, al tema trattato (con particolare riguardo, tra l’altro, alla disciplina dettata dall’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 23 del 2011, ed agli sviluppi da esso generati, tanto con riguardo alla re-
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i Contratti 10/2014
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cente sentenza n. 50/2014 della Corte costituzionale, che con riferimento alla disciplina transitoria dettata, in proposito, dalla l. n. 80/2014), prospettando – in linea di principio (e a prescindere dallo specifico riferimento al caso concreto) – soluzioni in ampia misura difformi da quelle proposte nel provvedimento
considerato.
Il caso concreto
Tizio – locatore – e Caio, Mevio e Sempronio –
conduttori – stipulano, per iscritto, un contratto di
locazione avente ad oggetto un immobile urbano
destinato ad uso abitativo, provvedendo, in data
31 marzo 2003, alla sua registrazione: il contratto
reca l’indicazione di un canone mensile pari ad euro 387,35; con contestuale (ma distinta) pattuizione scritta le stesse parti convengono – per la locazione del medesimo immobile – un canone mensile
di euro 1.700,00.
Nel corso della locazione parte conduttrice provvede al pagamento del canone soltanto nella misura del minor importo fissato nel contratto registrato: in conseguenza di ciò il locatore promuove un
giudizio di sfratto per morosità, lamentando il
mancato pagamento di più mensilità del (maggior)
canone concordemente pattuito; correlativamente,
intanto, in separato giudizio – a quanto sembra
“implicitamente” riunito al primo – parte conduttrice chiede ed ottiene (con decisione di merito
poi confermata in sede di gravame) l’accertamento
del canone dovuto nella (sola) misura recata dal
primo patto scritto e registrato, sul presupposto
della nullità dell’(altro)accordo – peraltro, successivamente anch’esso registrato – recante il maggior
canone.
Contro la pronuncia d’appello – confermativa di
quello del primo grado – il locatore propone, infine, ricorso per cassazione, lamentando (tra l’altro)
la violazione, da parte dei giudici del merito, del
principio – enunciato da Cass., 27 ottobre 2003, n.
16089 (1), e poi confermato nella giurisprudenza
successiva, anche di legittimità (2) – secondo il
quale «in tema di locazioni abitative, deve esclu(1) Che si legge, tra l’altro, in Foro it., 2004, I, 1155; Vita
not., 2004, 292; Corr. giur., 2004, 1342, con nota di S. Giove;
Giust. civ., 2004, I, 961, con nota di N. Izzo; Nuova giur. civ.
comm., 2004, I, 623, con nota di G. Cascione.
(2) In senso conforme alla pronuncia richiamata nel testo
v., più di recente: Trib. Bergamo, 7 febbraio 2012, in Arch. locaz., 2012, 4, 434; Trib. Pescara, 14 ottobre 2010, in Giur. merito, 2011, 657; Cass., 7 aprile 2010, n. 8230, in Giust. civ.
Mass., 2010, 504: Cass., 3 aprile 2009, n. 8148, in Giust. civ.
Mass., 2009, 583.
(3) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 13,
comma 1, l. n. 431 del 1998: «è nulla ogni pattuizione volta a
determinare un importo del canone di locazione superiore a
quella risultante dal contratto scritto e registrato». Su tale di-
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dersi che l’art. 13, comma 1, l. n. 431/98 sanzioni
con la nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a
quello risultante dal contratto scritto e registrato,
dovendosi intendere riferita tale disposizione […]
non all’ipotesi della simulazione parziale del contratto di locazione relativa alla misura del canone,
bensì al caso in cui nel corso di svolgimento del
rapporto venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario,
che deve restare invariato, a parte l’eventuale aggiornamento Istat, per tutta la durata del rapporto
legalmente imposta» (3).
Nel ritenere – peraltro, con motivazione in certa
misura disorganica e non sempre sufficientemente
limpida (tanto nei profili di dettaglio, che nell’impianto sistematico) (4) – di dovere per più aspetti
dissentire dall’orientamento giurisprudenziale riferito (anche con riguardo a taluni rilevanti presupposti della decisione sopra richiamata), l’ordinanza
in commento rimette, perciò, al Primo Presidente
la valutazione dell’opportunità di sottoporre la decisione (anche in ragione del suo prospettarsi come
questione di massima di particolare importanza) alle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Le questioni implicate
I problemi sollevati dall’ordinanza in commento
travalicano, in certo modo, la stessa necessità di
dare una specifica soluzione al caso concretamente
sottoposto a giudizio; e ciò non soltanto in ragione
della (dichiarata) prospettazione di una “questione
di massima di particolare importanza”, ma anche, a
ben vedere, in considerazione del fatto che nella
sposizione v., ad es., A. Mazzeo, Il punto sull’interpretazione
dell’art. 13, primo comma, della legge n. 431 del 1998, in Arch.
loc. e cond., 2002, 691 ss.
(4) Invero, la scelta (compiuta nell’ordinanza) di motivare le
proprie argomentazioni con il riferimento ad una molteplicità
di opinioni dottrinali e giurisprudenziali (non sempre adeguatamente coordinate o tra esse compatibili) accompagnata dal rilievo che alcune di esse “non sono prive di fondamento”, unitamente ad alcune incongruenze del ragionamento (su cui in
seguito si ritornerà), non contribuisce minimamente alla linearità dell’esposizione, la quale, per dirla tutta, non costituisce
certamente (al di la della possibilità di condividerne, o meno,
le conclusioni) un monumento di chiarezza.
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motivazione del provvedimento in esame sono state assunte – a fondamento delle argomentazioni
conclusivamente proposte – alcune premesse di
fondo che vanno ben oltre quanto strettamente
necessario per dare soluzione al caso da decidere:
invero, la fattispecie concretamente sottoposta a
giudizio si può riassumere nel contrasto tra due pattuizioni contrattuali relative al canone locatizio, delle
quali una (quella recante la minore determinazione
di esso) tempestivamente sottoposta alla registrazione dovuta; e l’altra (quella indicante un canone
maggiore) non (immediatamente (5)) registrata.
Per contro, nel rimettere la valutazione della vicenda al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della Corte, l’ordinanza
muove dalla convinzione – chiaramente esplicitata
(muovendosi, si badi, sopra un piano più generale)
– di non poter più condividere la soluzione giurisprudenziale corrente (anche presso il giudice di legittimità) secondo la quale, nel vigore della l. n.
431 del 1998 (6), “la mancata registrazione del
contratto non determina nullità”, tanto che nel
provvedimento viene espressamente censurata l’affermazione intesa a sottolineare che “il contratto
scritto ma non registrato è valido”.
Per tale via, l’ordinanza in commento chiede all’eventuale vaglio delle Sezioni Unite di pronun-
A fondamento delle proprie conclusioni, l’ordinanza remittente – nel prendere le distanze dall’assunto secondo il quale (vigente la l. n. 431 del
1998) la mancata registrazione del contratto di locazione non ne comporta la nullità – pone soprattutto l’avvenuta recezione, da parte della giurisprudenza di legittimità (10), della teoria della c.d. cau-
(5) Dal momento che - secondo l’esposizione recata dal
provvedimento in commento - la pattuizione relativa al maggior canone sarebbe stata comunque registrata, seppure solo
(successivamente) in data 24 maggio 2004 (laddove la registrazione dell’accordo sul minor canone è del 31 marzo 2003).
(6) La precisazione s’impone in ragione di quanto disposto
dall’art. 1, comma 346, della l. n. 311 del 2004 (l. finanz.
2005), a norma del quale «i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli
se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati». La disposizione appena citata (sulla quale v., ad es., N. Scripelliti, Ganasce fiscali sulle locazioni non registrate: prime considerazioni su
una nuova ipotesi di nullità, in Arch. loc., 2005, 111 ss.; S. Giove, Contratti di locazione e registrazione, ivi, 605 ss.), a differenza di quanto dettato dalla l. n. 431/1998, ha riguardo a tutte le
locazioni, anche se non riferibili ad immobili destinati ad uso
abitativo. Ritiene, in proposito, F. Caringella, Studi di diritto civile. II, Milano, 2005, 1880, nt. 22, esser possibile argomentare
dalla lettera della legge (che parla di “unità immobiliari”) un
campo di applicazione della norma limitato ai soli contratti di
locazione, ad uso abitativo e non, ed ai contratti di comodato,
aventi ad oggetto costruzioni, con esclusione, pertanto, del
contratto di affitto di (altra) cosa produttiva e del contratto di
locazione di terreni. La soluzione sembrerebbe effettivamente
confermata, sul piano letterale, dalla considerazione che in tutto il corpo della l. n. 311/04 l’espressione “unità immobiliari”
appare riferita ai fabbricati.
(7) Secondo la disciplina fiscale vigente - quale (per quanto
qui d’interesse) conseguente all’art. 21, comma 8, l. 27 dicembre 1997, n. 449 - la registrazione del contratto di locazione
(con imposta pari al 2% del canone annuo e misura minima, in
ogni caso, di euro 67,00) è dovuta, a prescindere dall’importo
del canone, qualora la durata complessiva del rapporto, nel
corso dell’anno, sia pari o superiore a trenta giorni. La registrazione è “a termine fisso”, e va eseguita entro trenta giorni dalla
data della decorrenza del contratto (o della sua stipulazione,
qualora essa preceda la decorrenza): art. 17 d.p.r. 26 aprile
1986, n. 131 e s.m.i.
Per la disciplina dalla registrazione e dell’imposta di registro
in materia di locazione v., per tutti, J. C. Mochet,, Le imposte
indirette sui contratti di locazione, Milano, 2006, 15 ss.; e più di
recente, anche per ulteriori rinvii, G. Grasselli, in G. Grasselli,
R. Masoni, Le locazioni. I. Contratti e disciplina, Padova, 2013,
31 ss.
Per il regime dell’IVA in materia di locazioni effettuate dalle
imprese, con sottrazione all’imposta di registro, v. ancora J. C.
Mochet, Le imposte indirette, cit., 75 ss.
è evidente, peraltro, che l’interesse fiscale prevalente non è
(tanto) all’esazione dell’imposta (di registro) dovuta per la registrazione, ma a quella riferibile al reddito imponibile generato
dal rapporto di locazione, che la (corretta) registrazione del
contratto rende pubblicamente verificabile (e quindi assoggettabile a imposizione da parte del Fisco).
(8) Il profilo è rilevato anche da V. Cuffaro, Il problema della
mancata registrazione del contratto di locazione, in Giur. it.,
2014, 535.
(9) Che, come già detto, prescrive entro termini ben più
ampi la registrazione del contratto di locazione immobiliare a
pena (almeno testualmente) di nullità.
(10) In proposito v., soprattutto, Cass., 8 maggio 2006, n.
10490, in Corr. giur., 2006, 1718 ss. (ma v. già, in una fattispecie del tutto peculiare, Cass., 9 gennaio 1999, n. 917, in Giur.
it., 1999, 1360 ss.). Da ult. v. Cass., 3 aprile 2014, n. 7776 e
Cass., 20 marzo 2014, n. 6517, entrambe in www.iusexplorer.it.
916
ciarsi non solo (o non tanto) sulla rilevanza del
conflitto tra pattuizione (relativa al canone) registrata
e non, ma, più in generale, sul rilievo in sé – nel
contratto di locazione – della (mancanza della) registrazione (7) dell'intero contratto (8): in questa
prospettiva si colloca, evidentemente, anche la
considerazione secondo la quale la previsione recata dall’art. 13, comma 1, l. n. 431/1998 costituisce
“specifica e puntuale estrinsecazione” di un “principio immanente dell'ordinamento”, in forza del quale la norma tributaria qui considerata (che, nella
specie, richiede, per la realizzazione delle finalità fiscali antielusive, la registrazione del contratto di
locazione) è “elevata al rango di norma imperativa” a prescindere (anche temporalmente) dall’esplicitazione che ne è (stata) fatta nell’art. 1, comma 346, della l. n. 311 del 2004 (9).
Le argomentazioni proposte nell'ordinanza
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sa concreta (11) e di quella dell’abuso del diritto (12) in materia fiscale (13). In questo contesto,
infatti, almeno secondo l’ordinanza in commento,
l’operazione negoziale – che la Corte individua nella
pattuizione contrattuale del maggior canone – diretta
a conseguire un “ingiustificato” vantaggio fiscale (14) dovrebbe considerarsi sotto varî profili illecita: intanto perché – questo il giudizio della Corte
– la pattuizione negoziale del maggior canone (successiva, coeva o persino anteriore che sia rispetto al
contratto scritto e registrato), in quanto “funzionalmente volta” (non alla determinazione del ca-
none, ma) “a realizzare il risultato vietato dalla
norma” (i.e: garantire al locatore di trarre dal contratto un reddito superiore rispetto a quello assoggettato ad imposta) ha causa concreta di elusione fiscale, risultando perciò illecita; e comunque perché
il principio del divieto di abuso del diritto in materia fiscale (15) renderebbe egualmente antigiuridica
l’operazione negoziale, atteso che essa risulta sostanzialmente orientata al solo fine di conseguire –
da parte del locatore – un indebito vantaggio fiscale (16).
(11) Per il progressivo passaggio dall’idea della causa come
funzione economico-sociale del negozio giuridico a quella della causa come funzione economico-individuale o ragione pratica dell’affare, e dunque alla teoria della c.d. causa concreta, v.
per tutti, anche per i necessari riferimenti (dottrinali e giurisprudenziali), la sintesi di U. Breccia, Dei requisiti del contratto,
in E. Navarretta, A. Orestano (a cura di), Dei contratti in generale, nel Comm. del codice civile dir. da E. Gabrielli, Torino, 2011,
239 ss.; nonché, nel medesimo volume, E. Navarretta, Della
causa del contratto, 590 ss. e 614 ss.
Sul tema v., anche, da ultimo, C. M. Bianca, Causa concreta
del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 251 ss.
(12) Sul problema dell’abuso del diritto, nei suoi termini generali, v. i classici saggi di P. Rescigno, oggi raccolti in Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1998. In una rinnovata prospettiva v.
anche F. Losurdo, Il divieto dell’abuso del diritto nell’ordinamento europeo. Storia e giurisprudenza, Torino, 2011.
(13) Per la giurisprudenza più rilevante sul tema v., soprattutto, Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30057, in Giust.
civ., 2009, 10, I, 2131 (e già Cass., 25 ottobre 2005, n. 22932,
in Fisco, 2006, 144); e, più di recente, Cass., 6 dicembre 2013,
n. 27352, in Dir. Giust. on line 2013, 9 dicembre; nonché, nella
giurisprudenza comunitaria, la fondamentale CGUE, Grande
Sez., 21 febbraio 2006, n. 255, in Riv. dir. trib., 2007, 1, IV, 3,
la quale ha ritenuto che «il soggetto passivo ha diritto a minimizzare il carico fiscale corrispondente alle proprie operazioni,
a condizione di non realizzare fattispecie qualificabili come
abuso del diritto. L’abuso del diritto sussiste quando, sulla base di un insieme di elementi oggettivi, sia possibile ricavare
che, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalla legge, il soggetto ottiene un vantaggio fiscale la cui
concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni. Non è abusiva quell’operazione che
possa giustificarsi sulla base di ragioni diverse dal mero conseguimento del predetto vantaggio fiscale»
Sul tema dell’abuso del diritto in materia fiscale v., per la
dottrina (con varietà di opinioni): M. Beghin, Note critiche a
proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione in campo domestico, nel comparto
delle imposte sul reddito, del principio comunitario del divieto di
abuso del diritto, in Riv. dir. trib., 2008, II, 448; P. Turis, Pratiche
elusive e abuso di diritto, in Fisco, 2008, 3095; S. Orsini, L’abuso del diritto rende l’atto inefficace: sul contribuente l’onere della
prova contraria, in Riv. giur. trib., 2008, 695.
(14) Al riguardo, la cit. Cass. n. 37/2014 (ord.) reputa indifferente che la fattispecie sottoposta a giudizio sia ricostruita
(come è stato fatto dai giudici del merito) in termini di successione di due contratti - dei quali il secondo (recante la previsione del maggior canone) nullo perché diretto alla elusione fiscale - ovvero (come argomentato dal ricorrente) di complessiva
“intesa simulatoria vertente sul prezzo, per meri fini fiscali”,
poiché anche in questo seconda ipotesi l’operazione negoziale
posta in essere emergerebbe (a giudizio della Corte) nella sua
“intima realtà di strumento negoziale funzionalmente” elusivo
dell’imposizione fiscale; laddove soltanto un nuovo accordo,
novativo del precedente, ed avente causa concreta diversa da
quella del mero risparmio fiscale, potrebbe reputarsi idoneo a
“modificare il precedente assetto negoziale, con conseguente
relativo assoggettamento alla corrispondente imposizione fiscale”.
(15) Alla stregua del quale, secondo l’orientamento di legittimità richiamato dall’ordinanza in commento, sono da reputarsi vietate quelle “operazioni che, seppure realmente volute
e quand’anche immuni da invalidità, risultino, alla stregua di
un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo
scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”
(in tal senso v., da ult., Cass., 19 febbraio 2014, n. 3938 e
Cass., 15 gennaio 2014, n. 653, entrambe in www.iusexplorer.it).
(16) Si noti, peraltro, che la copiosa giurisprudenza tributaria sul punto - come, in particolare, è a dirsi con riguardo alle
due pronunce appena citate nella nota precedente, ma v. anche, ex multis: Cass., 15 novembre 2013, n. 25671, in Dir.
Giust. on line 2013, 21 novembre; Cass., 7 novembre 2012, n.
19234, in Giust. civ. Mass., 2012, 11, 1277; Cass., 16 febbraio
2012, n. 2193, in Riv. dir. trib., 2012, 5, V, 20 - ha sempre ritenuto, nei casi in questione, non che gli atti posti in essere fossero (in ragione della finalità abusivamente elusiva) civilisticamente nulli, ma solo che la finalità abusivamente elusiva comportasse, nei singoli casi “l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva”.
Questa impostazione - si aggiunga - è ora tradotta in dettato normativo dall’art. 5 l. 11 marzo 2014, n. 23, il quale - intervenendo positivamente proprio in tema di “disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale” (come recita la sua rubrica) dispone: «1. Il Governo è delegato ad attuare […] la revisione
delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione
dei seguenti principi e criteri direttivi, coordinandoli con quelli
contenuti nella raccomandazione della Commissione europea
sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012: a) definire la condotta abusiva come uso distorto
di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta,
ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione; b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico
fiscale e, a tal fine: 1) considerare lo scopo di ottenere indebiti
vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;
2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una
redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento
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Su queste premesse la Corte motiva il proprio
dissenso (17) dall’orientamento giurisprudenziale
corrente, prospettando – per quanto se ne può arguire – la necessità di considerare comunque nulla
la locazione non registrata, a prescindere dalla rife-
ribilità temporale della singola fattispecie alla previsione (successivamente (18)) dettata dall’art, 1,
comma 346, l. n. 311/04, la quale – ritenuta semplicemente esplicativa di una regola immanente
del sistema (19) – espressamente assegna rilievo,
strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente; c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a)
all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della
stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta […]».
Dalle indicazioni positive che precedono, peraltro confermative di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, sembrerebbe
allora doversi ricavare (piuttosto che la condivisione dell’idea,
oggi propugnata dalla Corte, della nullità dell’atto abusivamente diretto a finalità fiscalmente elusive) la conferma del tradizionale orientamento - positivamente enunciato, tra l’altro, come regola di principio, dall’art. 10, comma 3, l. n. 212/2000
(c.d. Statuto del contribuente), a norma del quale «le violazioni
di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono
essere causa di nullità del contratto» - che esclude l’invalidità
dell’atto posto in essere in violazione di norme fiscali, ferma,
però, l’inopponibilità all’Erario dell’elusione perseguita (con la
conseguenza che la (ritenuta) “causa concreta” elusiva non rileva in termini di nullità dell’atto, ma solo ai fini della inopponibilità al Fisco dell’indebito risparmio fiscale avuto di mira).
Ciò, tra l’altro, appare anche più conforme alle finalità “di
cassa” (che risultano) sottese alle norme che prescrivono imposizioni di carattere fiscale: sì che, anche da questo punto di
vista la posizione espressa dalla Corte - in fine del provvedimento, quando essa afferma che nella l. n. 431 del 1998, «rispetto alla maggiore tassazione del singolo contratto [...] ha
fatto [...] premio l’esigenza di porre in essere una disciplina [...]
idonea a rendere le parti contrattuali avvertite dell’imprescindibilità dell’assolvimento dell’obbligo fiscale», a pena di nullità
dell’atto - risulta scarsamente plausibile, o, quanto meno, manifestamente contraria al dato che emerge dalle indicazioni positive del legislatore, il quale si preoccupa piuttosto di garantire alle casse erariali la perseguibilità dell'imposizione esigibile, a
tal fine disponendo la mera inopponibilità al Fisco dell’elusione
(comunque) realizzata dalle parti e (con ciò) implicitamente
confermando, sul piano civilistico, la piena validità degli atti a
quel fine posti in essere (massimamente, poi, se - come nel
caso di un contratto di locazione - idonei a generare, nel tempo, un reddito imponibile, che l’invalidità del rapporto finirebbe,
invece, per sottrarre al prelievo fiscale generale).
In termini più generali, per la non equivoca formulazione del
principio - seppur solo implicitamente assunto - della validità
degli atti non registrati v. gli artt. 65, comma 6, e 66, comma
2, lett. b), d.p.r. n. 131/1986.
(17) Se bene se ne è inteso il diffuso - ma ampiamente disarticolato e a tratti confuso - argomentare, potenzialmente foriero, se ben si riflette, di prospettive finanche paradossali: così, ad es., nella misura in cui, tra l’altro, l’ordinanza in commento segnala persino l’irrilevanza temporale dell’accordo relativo al maggior canone (che potrebbe essere: successivo, coevo, ma finanche anteriore al contratto scritto e registrato), mette conto evidenziare che ciò che soprattutto parrebbe rilevare,
in una prospettiva di elusione fiscale, non è tanto la pattuizione del maggior canone, quanto quella (appunto in quanto formata per la registrazione) recante il minore importo. Invero, per
quanto il vantaggio fiscale sia concretamente conseguito dal
locatore percependo un canone maggiorato (senza averne pagato la relativa imposizione, né di registro, né, soprattutto, di
prelievo fiscale generale, essendo per tale via occultato un reddito imponibile), ciò che rende possibile l’elusione è - soprattutto - la registrazione del contratto recante il minore importo, la
quale rende pubblica una quantificazione del corrispettivo imponibile idonea a realizzare l’elusione fiscale.
Conseguentemente, seguendo le indicazioni fornite dalla
Corte, soprattutto questa condotta negoziale (formazione di un
accordo contrattuale da sottoporre a registrazione recante un
corrispettivo diverso da quello - secondo l’effettiva intenzione
delle parti - realmente pagato e percepito, rispettivamente, da
queste) dovrebbe reputarsi strumentale alla realizzazione dell’elusione fiscale, perché è proprio attraverso essa che si rende
possibile il risultato decettivo verso il Fisco: in questa prospettiva, la causa concreta dell’accordo da sottoporre (secondo l’intesa delle parti) a registrazione non potrebbe individuarsi, evidentemente, nella fissazione di una diversa misura del canone
(in realtà non voluta), ma soltanto, al contrario, nella formazione di un patto idoneo a consentire, attraverso la sua (concordata e) successiva registrazione, l’indebito vantaggio fiscale
(sia con riferimento all’imposta di registro elusa, che alla sottrazione ad imposizione di parte del reddito imponibile), con
conseguente invalidità (volendo seguire le direttrici assunte
dalla Corte) dell’accordo (invece, esattamente al contrario, reputato in ogni caso valido - ed anche prevalente (rispetto a
quello non registrato) - dall’artt. 13, comma 1, l. n. 431/1998).
Se a ciò si aggiunge che - sempre secondo le indicazioni
fornite dalla Corte - il contratto di locazione non registrato dovrebbe per ciò stesso considerarsi (anch'esso) nullo, l’intera
operazione negoziale dovrebbe allora rimettersi in discussione,
sotto il profilo della sua (in)validità.
(18) In tal senso, appunto, si è espressa l’ordinanza in commento. Peraltro, è orientamento diffuso - al contrario - quello
secondo il quale la disciplina dettata dall’art. 1, comma 346, l.
311/04 abbia una natura sostanzialmente innovativa, essendosene anche negata, ripetutamente, la portata retroattiva; ex
multis, cfr.: Trib. Pescara, 17 aprile 2012, in Giur. merito, 2012,
2335; Trib. Palermo, 28 gennaio 2010, in Arch. loc., 2010, 3,
289; Trib. Monza, 30 marzo 2006, in www.iusexplorer.it; Trib.
Salerno, 3 marzo 2006, in Arch. loc., 2006, 3, 313. Ha ritenuto,
invece, che la sanzione della privazione di effetti giuridici (ferma la validità dell’atto, in ragione della natura non retroattiva
della disposizione) possa essere riferita al rapporto in corso,
determinandone una inefficacia sopravvenuta (fatti salvi gli effetti già prodottisi anteriormente all’entrata in vigore della disposizione) Trib. Palermo, 25 marzo 2009, in Corr. merito,
2009, 7, 726.
In dottrina, per la portata non retroattiva dell’art. 1, comma
346, l. finanz. 2005, v., per tutti, M. Di Marzio, in M. Di Marzio,
M. Falabella, La locazione. Contratto. Obbligazioni. Estinzione, t.
I, Torino, 2010, 311. Sul punto v., altresì, G. Grasselli, Le locazioni, cit., 42.
(19) Manifesta serie perplessità sulla natura della sanzione
(ritenuta palesemente abnorme) F. Caringella, op. loc. ult. cit.,
in considerazione (oltre che della eccessività rispetto alle finalità perseguite) della sua dipendenza da un fatto successivo alla
stipulazione dell’atto; su questa premessa l’A. - sia pure dubitativamente (affacciando, in alternativa, l’ipotesi di una nullità
ex art. 1418, comma 1, c.c., per violazione di norma imperativa) - propende per una rilettura della sanzione in termini di
inefficacia, ritenendo - in conformità di un indirizzo giurisprudenziale diffuso nella giurisprudenza di merito (v. il § che segue) - che ricorra, piuttosto, una condicio iuris (da ravvisare
nella formalità della registrazione).
La soluzione della nullità, in senso tecnico, è stata confermata, peraltro, da Corte cost., ord. 5 dicembre 2007, n. 420 che si legge, ad es., in Nuov. giur. civ. comm., 2008, 590 ss.,
con nota di G. La Marca, Costituzione di diritti personali di godimento e difetto di registrazione: legittima la previsione della nullità del contratto, ivi, 594 ss.- la quale, nel respingere il dubbio
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sul piano della validità negoziale, ad elementi esterni alla fattispecie negoziale (20).
Il dibattito dottrinale e l'esperienza
giurisprudenziale sul tema
Il problema della rilevanza della registrazione
nel contratto di locazione – nel contesto della l. n.
431/1998 – ha formato oggetto, com'è noto, di vivaci discussioni (21). Tralasciando, al riguardo, altri possibili profili d’interesse (22), mette conto soffermarsi, in questa sede, sulla disciplina recata daldi legittimità costituzionale (sollevato con riferimento all’art. 24
Cost.) dell’art. 1, comma 346, della l. n. 311/04 (cfr. Trib. Torino, ord., 1° giugno 2006, in Foro it., 2007, I, 2926), ha rilevato
che «tale norma […] non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del
negozio ai sensi dell’art. 1418 c.c.» (per una decisa considerazione critica di tale profilo v. le interessanti osservazioni di G.
La Marca, Costituzione di diritti, cit., 597). Deve peraltro osservarsi che il richiamo alla nullità del contratto per contrasto con
norma imperativa appare scarsamente plausibile, poiché non è
il contratto - in sé - ad essere contrario a norma imperativa,
ma, al più, l’omissione della (dovuta) registrazione: conseguentemente, potrebbe al limite giustificarsi un rinvio alle ipotesi di
nullità testuali di cui al comma 3 dell’art. 1418 c.c. (e v., al riguardo, G. La Marca, Costituzione di diritti personali di godimento, cit., 598), ma non una nullità derivante dal (preteso)
contrasto del contratto con norma imperativa.
Per l’asserita giustificazione dell’art. 1, comma 346, l. finanz. 2005 in ragione delle finalità di controllo sociale enunciate nell’art. 41, comma 3, Cost. v. F. Petrolati, Uso abitativo, forma scritta e la registrazione del contratto, in Imm. e dir., 2007,
4, 6 ss. (spec. 17).
(20) Per un’ulteriore (e più recente) forzatura sistematica relativa alla nullità dell’atto (anche) in tema di locazione (ma riferibile, peraltro, anche alla vendita e, in genere, agli atti traslativi a titolo gratuito) v., ora, l’art. 1, comma 8, del D.L. n.
145/2013 (conv., con modif., nella l. n. 9/2014), il quale - intervenendo per l’ennesima volta sul tema della certificazione
energetica relativa agli edifici (materia già caratterizzata da un
andamento legislativo a dir poco “schizofrenico”) - contempla
una singolare ipotesi di nullità convertibile in sanzione amministrativa, a richiesta di una delle parti e salva l’intangibilità dell’eventuale pregresso giudicato sulla nullità.
La previsione di una nullità del rapporto contrattuale in dipendenza di fatti estranei alla fattispecie negoziale - pur se contraria alla tradizionale sistematica civilistica (ma v. l'art. 1 r.d.l.
27 settembre 1941, n. 1015, peraltro significativamente abrogato a breve distanza di tempo) - non è, peraltro, sconosciuta
al sistema attuale, che ne contempla, ormai, significative ipotesi (v., ad es., l’art. 67 septies decies, comma 4, cod. consumo). Sul progressivo superamento della tradizionale concezione della nullità - la quale attraversa un’evoluzione che la vede
transitare dalla (tradizionale) logica del “rimedio di fattispecie”
verso la configurazione in termini di “rimedio del regolamento”
- v., per tutti, V. Scalisi, Contratto e regolamento nel piano d’azione delle nullità di protezione, in P. Sirena (a cura di), Il diritto
europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati
e regolazione del mercato, Milano, 2006, 413 ss. (e spec. 432
ss.). Da notare, in ogni caso, che anche con riguardo al remoto precedente positivo più sopra richiamato (art. 1 r.d.l. n.
1015/1941) si era negato, per lo più, trattarsi di nullità in senso
tecnico, essendosi piuttosto assimilata la prescritta registrazione (degli atti di trasferimento immobiliari) ad una condizione
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l’art. 13 della l. n. 431/1998 (relativa, come già anticipato, ai soli contratti di locazione stipulati ad
uso abitativo).
In proposito, se un primo orientamento ha sottolineato la riferibilità della disposizione al (solo)
contrasto (23) tra due accordi relativi al canone,
dei quali uno (facente parte del contratto) tempestivamente sottoposto a registrazione e l’altro non
registrato, con statuizione della nullità di quest’ultimo (24), non è mancato chi, al contrario, ne ha
ricavato una più generale nullità del(l’intero) contratto di locazione (ad uso abitativo) non registralegale di efficacia dell'atto, in sé pienamente valido e perfetto
(cfr., ex multis: E. Redenti, Sugli effetti del d.lgs. 20 marzo
1945, n. 212, abrogante l'obbligo di registrazione "a pena di nullità" delle alienazioni immobiliari, in Giur. it., 1946, I, 1, 289; V.
Andrioli, Scritture private non registrate e trasferimenti immobiliari, in Foro it., 1944-46, IV, 54).
Simile impostazione - come subito si dirà (nel § che segue)
- è stata ora proposta anche con riguardo alla mancata registrazione del contratto di locazione.
(21) Caratterizzate - oltre che da divergenze specifiche (v., in
particolare, Trib. Palermo, 20 novembre 2000, in Arch. loc.,
2001, 114 ss.; e Trib. Verona, 12 novembre 2002, in Rass. loc.
cond., 2003, 64 ss.) - anche da sospetti di illegittimità costituzionale (formulati da Trib. La Spezia, 16 ottobre 2003, in Nuova
giur. civ. comm., 2004, I, 368 ss.), poi fugati da Corte cost.,
ord. 19 luglio 2004, n. 242, in Foro it., 2004, I, 2638 ss., anche
in considerazione di quanto, nel frattempo deciso da Cass., 27
ottobre 2003, n. 16089, cit.
(22) Per i quali v., soprattutto, (oltre al cit. art. 13) gli artt. 7,
8 e 11 della l. n. 431/1998 (su cui, per un commento sintetico,
v. R. T. Bonanziga, in M. Trimarchi (a cura di), Codice delle locazioni, Milano, 2010, 432 ss.). Per la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 7 l. n. 431/1998 v. Corte cost., 5 ottobre
2001, n. 333, che si legge, ad es., in Foro it., 2001, I, 3017 (su
tale pronuncia v., per tutti, N. Izzo, Pregiudiziale fiscale per lo
sfratto di immobili: la fine dell’ennesimo “incubo”, in Giust. civ.,
2001, 2598 ss.). Può essere utile rilevare, al riguardo, come anche l'art. 7 della l. n. 431/1998 (ancorché ormai eliminato dalla
Corte costituzionale) contribuisse a smentire la conclusione
(arieggiata, invece, dall’ordinanza in commento) secondo la
quale (anche) nell’impianto della l. n. 431 del 1998 la mancata
registrazione del contratto comporta nullità dell’atto: tale disposizione, infatti, collegava alla mancata registrazione del
contratto non già conseguenze invalidanti sul piano della sostanza del rapporto, ma soltanto una preclusione operante nella dimensione meramente processuale, impedendo l’esecuzione del rilascio).
(23) Da leggere, sostanzialmente, nei termini della tradizionale simulazione relativa parziale (riferita al canone): per tutti v.
G. La Marca, Costituzione di diritti personali di godimento, cit.,
595.
(24) Cfr. A. Mazzeo, Il punto sull’interpretazione dell’art. 13,
primo comma, della legge n. 431 del 1998, cit., 691; V. Cuffaro,
Le invalidità del contratto, in Id., Le locazioni ad uso di abitazione, Torino, 2000, 186 ss.; G. Bernardi, Patti contrari alla legge,
in AA.VV., Il nuovo diritto delle locazioni abitative, Milano, 2000,
215 ss.; A. Bucci, La disciplina delle locazioni abitative dopo le
riforme, Padova, 1999, 20; C. Marrone, La nuova disciplina delle locazioni abitative, Padova, 1999, 31 ss.; P. Giuggioli, P. F.
Giuggioli, La nuova disciplina delle locazioni abitative, Milano,
1999, 114 ss. In giurisprudenza v. Trib. Roma, 16 maggio
2000, in Arch. locaz., 2000, 608; Trib. Verona, ord., 21 giugno
2000, in Rass. loc. cond., 2000, 249.
919
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to (25); mentre altra soluzione – poi condivisa dalla cit. Cass., 27 ottobre 2003, n. 16089 (26) – ne
ha desunto una pretesa invariabilità del canone locatizio per tutta la durata del rapporto legalmente
imposta (27).
Altrettanto diversificata, al riguardo, si è presentata l’esperienza giurisprudenziale: infatti, anche prescindendo dal potenziale contrasto della
giurisprudenza di legittimità delineato dall’ordinanza in commento, deve essere segnalato che la
stessa giurisprudenza di merito non ha fatto registrare posizioni unanimi nell’applicazione dell’art.
13 l. n. 431/1998. In particolare, alla soluzione
che ha escluso una rilevanza della (mancata) registrazione in punto di validità ed efficacia del
contratto (28) si è opposta quella incline a ritenere che la registrazione ne integri, addirittura, un
requisito di esistenza giuridica (29); in prevalenza,
tuttavia, si è individuato nella registrazione un
requisito di mera efficacia del contratto, ammet-
Su questo scenario normativo (riferibile alle sole
locazioni ad uso abitativo), che è quello che – agli
effetti della decisione da rendere – è stato tenuto
presente dall’ordinanza in commento, si sono poi
innestate nuove (e persino più “rivoluzionarie”)
previsioni positive, le quali hanno ulteriormente
complicato il quadro dei rapporti tra (mancata) registrazione del contratto e regime del rapporto locativo.
Per un verso, infatti, con riguardo a tutti i rapporti
di locazione immobiliare (anche se non abitativi (31))
è stata disposta – dall’art. 1, comma 346, della l. n.
311/2004 (32) – la nullità (33) del contratto non re-
(25) F. De Stefano, in AA.VV., Commento alla l. 9 dicembre
1998, n. 431, sub art. 7, in Rass. loc. cond., 1999, 124 ss.; S.
Giove, in N. Lipari (a cura di), Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo, sub art. 13, in Nuove
leggi civ. comm., 2002, 609. Contraddittoria, invece, la posizione di G. Grasselli, Le locazioni, cit., 38 ss. il quale, per un verso,
scrive che «l’art. 13 l. n. 431/98 non sancisce affatto la nullità
del contratto di locazione scritto ma non registrato, nella sua
interezza, bensì sanziona di nullità le sole pattuizioni concernenti il canone» (op. cit., 38); e, per altro verso, soltanto poche
pagine più avanti osserva che con l’art. 1, comma 346, l. finanz. 2005 il legislatore «ha ritenuto di dover integrare una disposizione normativa vigente per le sole locazioni ad uso abitativo [...] estendendo la sanzione di nullità a tutti i contratti di
locazione in genere, e quindi anche a quelli ad uso diverso dall’abitativo i quali, evidentemente, in precedenza ne erano
esclusi» (op. cit., 42), senza tener conto della (non trascurabile)
circostanza che l’art. 1, comma 346, l. finanz. 2005 è norma riferita al(l’intero) contratto di locazione (e non alle sole pattuizioni relative al canone): per cui, se essa (come afferma l’A.) si
fosse limitata ad estendere oltre l’ambito delle locazioni immobiliari abitative la sanzione di nullità già disposta per queste ultime, in thesi, dall’art. 13 l. n. 431/98, quest’ultima norma dovrebbe coerentemente intendersi riferita all’intero contratto di
locazione, e non già alle sole pattuizioni relative al canone.
(26) Manifesta piena adesione ai principi enunciati dalla richiamata decisione di legittimità G. Grasselli, Le locazioni, cit.,
41 s.
Per una diffusa valutazione critica della pronuncia v., invece,
V. Cuffaro, Violazione di obblighi tributari e nullità del contratto
(di locazione), in Riv. dir. civ., 2011, 357 ss.; F. Petrolati, La costituzione e i lumi della ragione a garanzia della simulazione, in
Arch. locaz., 2004, 462; A. Scarpa, L’art. 13, comma uno, legge
n. 431/98: obbligo di registrazione del contratto di locazione o
principio di invariabilità del canone, in Arch. locaz., 2004, 130
ss.
(27) La soluzione è stata proposta da N. Izzo, La rilevanza
degli adempimenti tributari, in Rass. loc. cond., 1999, 371 s.,
che - dopo il conforme pronunciamento del Giudice di legittimità - la ha ribadita in N. Izzo, Validità dell'accordo non registrato fiscalmente e nullità del patto di aumento del canone successivo alla conclusione del contratto, in Giust. civ., 2004, 969.
(28) Cfr. Trib. Pordenone, 19 gennaio 2002 e Trib. Modena,
13 novembre 2001, entrambe in Rass. loc. cond., 2002, 89.
Esclude espressamente la nullità del contratto (per intero) non
registrato App. Salerno, 16 febbraio 2004, in Giur. merito,
2005, 83.
(29) Trib. Palermo, 20 novembre 2000, in Arch. locaz.,
2001, 114.
(30) Secondo Trib. Roma, 16 maggio 2000, cit.; e Trib. Verona, ord., 21 giugno 2000, cit., ricorrerebbe una nullità sanabile mediante la registrazione tardiva, che avrebbe efficacia ex
nunc (in tal senso v. già V. Cuffaro, Patti contrari alla legge
(contratto di locazione e nullità speciali), in Riv. dir. civ., 1999,
497); medesima soluzione, ma con efficacia sanante ex tunc, è
sostenuta da Trib. Verona, 21 novembre 2002, in Giur. merito,
2003, I, 1163. Diversamente, ancora, App. Milano, 16 settembre 2004, in www.civile.it, la quale esclude l’efficacia sanante
della tardiva registrazione, anche soltanto ex nunc.
(31) V. supra, nota 6.
(32) Che l’ordinanza in commento ha preso in considerazione solo alla stregua di norma rivelatrice di un principio immanente del sistema (implicitamente espresso già dall’art. 13 l. n.
431/1998), in virtù del quale la norma tributaria è collocata al
livello della norma imperativa.
Sulla questione dell’efficacia temporale dell’art. 1, comma
346, l. finanz. 2005 v. supra, nt. 18.
(33) Sebbene la norma richiamata parli espressamente di
“nullità” delle locazioni non registrate, è diffuso il convincimento che si tratti, tecnicamente, di mera inefficacia, rimanendo sempre «possibile la registrazione, anche se tardiva, sia pure con il pagamento della prevista sanzione» (così G. Grasselli,
Le locazioni, cit., 42). In questa prospettiva - per la quale v. anche A. Mazzeo, Federalismo fiscale municipale e mancata registrazione dei contratti di locazione ad uso abitativo, in Arch. loc.
cond., 2012, 18; M. Di Marzio, Anche dopo la Finanziaria 2005
il contratto di locazione non registrato non è nullo, in Immob. e
proprietà, 2007, 41 ss. - la registrazione viene considerata alla
stregua di una «condicio iuris da cui dipende l'efficacia del contratto, sicché, in applicazione dell'art. 1360, comma 1, c.c., l’adempimento dell’obbligo di registrazione opera retroattivamente, mentre la sua omissione non determina nullità della
pattuizione» (così Trib. Modena, ord., 12 giugno 2006, in Giust.
civ., 2007, 483; analogamente: Trib. Bari, 18 ottobre 2012, in
www.iusexplorer.it; Trib. Lecce, 10 luglio 2012, in Arch. locaz.,
2013, 500; Trib. Bergamo, 7 febbraio 2012, ivi, 2012, 434; Trib.
920
tendosene anche una regolarizzazione tardiva,
seppure con conclusioni diverse in ordine alla decorrenza temporale degli effetti in tal modo prodotti (30).
Il quadro normativo complessivo
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gistrato (34); per altro verso, poi, con più recente e
del tutto inusuale previsione normativa (35) – limitata, però, ai soli contratti di locazione ad uso abitativo (36) – si è introdotta una singolare efficacia
“sanante” della registrazione tardiva (anche se eseguita d’ufficio), dettando per tale ipotesi (37) una disci-
plina legale del rapporto – sostitutiva di quella convenzionale (38) – relativa alla durata del contratto,
al regime del rinnovo e, soprattutto, alla (ri)determinazione della misura del canone annuo, salva la
conservazione della misura convenzionale se inferiore a quella legalmente imposta (39).
Catanzaro, 22 luglio 2010, in Giur. merito, 2012, 2335. Ha ritenuto, invece, che la registrazione tardiva non restituisca retroattivamente efficacia al contratto, il quale diverrebbe efficace soltanto ex nunc, Trib. Bari, 24 ottobre 2011, in Giur. merito,
2012, 2335; nella medesima direzione v., altresì, T.AR. Trentino
Alto Adige (Trento), 9 dicembre 2010, n. 230, in Foro amm.
TAR, 2010, 12, 3791). Per la rilevanza della mancata registrazione in termini (non di nullità ma) di inefficacia v., altresì: Trib.
Messina, 23 maggio 2013, in www.iusexplorer.it; Trib. Reggio
Emilia, 5 marzo 2009, in Arch. loc. cond., 2009, 374; Trib. Firenze, 1° aprile 2009, in Riv. giur. edil., 2009, I, 1805; nel senso
della nullità, invece, v. G. La Marca, Costituzione di diritti personali di godimento, cit., 597, il quale, peraltro, manifesta dubbi
in ordine alla legittimità costituzionale della norma (in giurisprudenza v. App. Brescia, 28 febbraio 2013, in Arch. locaz.,
2013, 633; App. Brescia, 28 maggio 2012, ivi, 2013, 71; Trib.
Bergamo, 15 aprile 2011, ibidem, 2012, 435; Trib. Firenze, 10
marzo 2008, ibidem, 2008, 388; parla testualmente di “nullità”,
aderendo, però, alla tesi dell’efficacia (retroattivamente) sanante, J. C. Mochet, Le imposte indirette sui contratti di locazione, cit., 65; per la tesi della nullità, con efficacia sanante ex
nunc della registrazione v., invece, Trib. Napoli, 19 ottobre
2009, in Arch. locaz., 2010, 412).
(34) Come rileva M. Di Marzio, Anche dopo la Finanziaria
2005, cit., 42, «l’omessa registrazione non si cristallizza irreversibilmente allo spirare del termine per l’adempimento tributario, dirimendo definitivamente il negozio, giacché, al contrario,
la registrazione può nondimeno intervenire - ed anzi deve intervenire, dal momento che la disciplina dettata in materia lo impone, quantunque dietro comminatoria di sanzioni - anche
successivamente».
(35) Espressamente dichiarata applicabile (art. 3, comma 9,
lett. a) d.lgs. n. 23/2011, cit.) - si badi - anche a fattispecie quali quelle ipoteticamente considerate nell’ordinanza in commento, di simulazione relativa parziale riferibile al canone (invece,
non plausibilmente, reputate escluse - da Cass. n.
16089/2003, cit. - dall’ambito di applicazione della più risalente
previsione normativa recata dall’art. 13 l. n. 431/1998).
(36) Si tratta di una disposizione inserita nel contesto della
disciplina introduttiva della c.d. cedolare secca sugli affitti, la
quale permette al locatore di sostituire con un’unica imposta
agevolata (diversificata per locazioni ordinarie e quelle a canone concordato) le imposizioni fiscali sul reddito delle persone
fisiche e relative addizionali, nonché le imposte di registro e di
bollo sul contratto di locazione e altre imposte minori (art. 3
d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23).
(37) Testualmente, l’art. 3, comma 8, d.lgs. n. 23/2011 riferisce la propria disciplina «ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i
presupposti, non sono registrati entro il termine stabilito dalla
legge»; nondimeno, poiché gli effetti legalmente determinati si
producono solo a far data dalla registrazione, una correzione
ermeneutica della lettera della legge induce senz'altro a riferirne il regolamento ai contratti di locazione immobiliare ad uso
abitativo registrati tardivamente: prima della (tardiva) registrazione, conseguentemente, il contratto (di locazione immobiliare abitativa) non è sottoposto alla disciplina appena illustrata,
rimanendo invece assoggettato, ormai, alla sanzione recata, in
termini generali, dall’art. 1, comma 346, l. n. 311/2004 (non
per caso espressamente richiamato dallo stesso art. 3, comma
9, d.lgs. n. 23/2011), che non troverà applicazione in caso di
registrazione tempestiva, con la quale si evita qualsiasi conse-
guenza sanzionatoria (su tale ultimo profilo v., per tutti, G.
Grasselli, Le locazioni, cit., 47; diversamente N. Scripelliti, La
nullità dei contratti di locazione non registrati supera, per ora, il
vaglio della Corte Costituzionale, in Arch. locaz., 2008, 389 ss.,
il quale reputa la registrazione elemento costitutivo di una fattispecie contrattuale a formazione progressiva, ritenendo che
“nel limbo della non registrazione” il contratto non produce effetti).
Sul termine della registrazione, agli effetti dell’art. 3, commi
8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011, v. il comma 10 (su cui infra, di seguito nel testo) dello stesso d.lgs.
(38) Sul piano tecnico non è agevole procedere ad un inquadramento sistematico della singolare previsione normativa
richiamata nel testo: se ne è esclusa la riconduzione al meccanismo di cui all’art. 1339 c.c, in quanto «la “registrazione” non
è una “clausola” del contratto, ovverosia, non essendo espressione di volontà delle parti, ne costituisce un elemento estraneo» (G. Grasselli, Le locazioni, cit., 47); e si è invece proposto
di leggerla nei termini di una peculiare «conversione legale (in
senso improprio) del contratto non registrato in un contratto di
locazione con lo schema legale dei contratti ordinari» (A. Mazzeo, Federalismo fiscale municipale e mancata registrazione dei
contratti di locazione ad uso abitativo, cit., 19).
Qualche accostamento sembrerebbe anche possibile rispetto all’integrazione ex art. 1374 c.c., che qui opererebbe, peraltro, in funzione sostitutiva.
(39) Questo il testo completo della novella legislativa, per la
parte (commi 8, 9 e 10) qui di interesse: «8. Ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che,
ricorrendone i presupposti, non sono registrati entro il termine
stabilito dalla legge, si applica la seguente disciplina: a) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla
data della registrazione, volontaria o d’ufficio; b) al rinnovo si
applica la disciplina di cui all’articolo 2, comma 1, della citata
l. n. 431 del 1998; c) a decorrere dalla registrazione il canone
annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al
75 per cento dell’aumento degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati ed operai. Se il contratto
prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone
stabilito dalle parti. 9. Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 346, della l. 30 dicembre 2004, n. 311, ed al comma 8 del
presente articolo si applicano anche ai casi in cui: a) nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo; b) sia stato registrato un contratto di
comodato fittizio. 10. La disciplina di cui ai commi 8 e 9 non si
applica ove la registrazione sia effettuata entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore del presente decreto».
Come già anticipato (supra, nt. 37), la nuova, singolare, previsione normativa pone il problema - almeno rispetto ai contratti di locazione immobiliare ad uso abitativo - di un suo
coordinamento con l’art. 1, comma 346, l. n. 311/2004, a norma del quale la mancata registrazione del contratto impedisce
senz’altro ad esso di produrre effetti giuridici. Se, peraltro, si
tiene presente quanto al riguardo già segnalato (supra, nella
cit. nt. 37), un plausibile coordinamento tra le due discipline
(prescindendo, qui, da ogni considerazione sulla loro razionalità sistematica e sulla stessa legittimità delle medesime, specialmente con riferimento alla più recente di esse) appare rintracciabile nel riferire l’art. 1, comma 346, della l. finanz. 2005
al contratto non regsitrato e la disciplina del D.Lgs. n. 23/2011
(e, poi, di quella transitoria dettata in esito alla sentenza n.
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Di tale ultima disposizione non è chiara, anzitutto, l’efficacia temporale.
Invero, il comma 10 dell’art. 3 d.lgs. n. 23/2011
ha disposto che «la disciplina di cui ai commi 8 e
9 non si applica ove la registrazione sia effettuata
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore
del presente decreto»: in proposito, considerando
che la registrazione deve essere effettuata, secondo
la legislazione vigente, nel termine di trenta giorni,
potrebbe allora esserne tratta la deduzione che il
legislatore abbia offerto un termine di regolarizzazione (dall’entrata in vigore della norma) anche
delle omesse registrazioni pregresse, con la conseguenza di ritenere applicabile la nuova disciplina
anche ai contratti (dei quali fosse stata omessa la
registrazione) stipulati anteriormente alla sua entrata in vigore (40). A complicare le possibili “letture” della norma va segnalata, però, quella generale direttiva recata dall’art. 3, comma 2, della l. n.
212/2000 (c.d. “Statuto del contribuente”), in forza
della quale «le disposizioni tributarie non possono
prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la
cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore»:
ciò che potrebbe indurre a ritenere che il termine
di 60 giorni indicato dal comma 10 dell’art. 3
d.lgs. n. 23/2011 abbia proprio la funzione di salvaguardare (rispetto ai contratti successivi all’entrata
in vigore del provvedimento normativo) il suddetto principio (41).
Ad ogni modo, sotto altro (e ben più radicale)
profilo il contenuto della novella legislativa appare
ancora più problematico; di esso, infatti, è stata discussa la conformità a Costituzione, sotto svariati
profili: in particolare, della legittimità costituzionale di tale previsione – già oggetto di perplessità
dottrinali (42) – ha largamente dubitato la giurisprudenza di merito, benché delle diverse questioni
di legittimità costituzionale sollevate (43) solo
quella relativa all’eccesso di delega (44) abbia poi
trovato preliminare accoglimento (45), lasciando
così nel dubbio la legittimità dell’articolato normativo sotto altri, molteplici, profili (46). A complicare ulteriormente il panorama normativo, infine,
è intervenuto nuovamente il legislatore, disponendo – con l’art. 5, comma 1-ter, della l. 23 maggio
2014, n. 80, di conversione del d.l. 28 marzo 2014,
n. 47 (recante, per quanto qui di interesse, misure
di “salvaguardia degli effetti di disposizioni in materia
di contratti di locazione”) – che «sono fatti salvi, fino alla data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’art. 3,
commi 8 e 9, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23» (47):
si è in tal modo riaperto, seppure solo transitoriamente (48), il problema della disciplina alla quale
50/2014 della Corte cost., di cui subito nel testo) al contratto
sottoposto a registrazione tardiva (sì che, in questa prospettiva,
la più recente normativa sul tema derogherebbe più che all’art.
1, comma 346, l. finanz. 2005, agli effetti che sarebbero altrimenti discesi, in quel caso, da una registrazione non tempestiva).
(40) Per l’applicazione della nuova disciplina anche ai contratti precedentemente stipulati v. la recente decisione di Trib.
Roma, 17 gennaio 2013, in Arch. locaz., 2013, 348, secondo la
quale «i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2011 e
non registrati nel termine di sessanta giorni dalla sua entrata
in vigore sono sottoposti alla disciplina prevista dall’art. 3,
comma 8, del decreto medesimo»; nello stesso senso Trib. Firenze, ord., 15 gennaio 2013, che si legge per esteso in
www.confedilizia.it/Tribfir.htm. In senso opposto, invece, Trib.
Napoli, 22 gennaio 2013, in Arch. locaz., 2013, 347; e Trib. Palermo, 21 dicembre 2012, in www.ilcaso.it, che hanno ritenuto
la nuova disciplina non applicabile ai contratti stipulati prima
della sua entrata in vigore.
(41) In ogni caso, peraltro (e fatto comunque salvo, quanto
di seguito si dirà in ordine alla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità di tali previsioni, e alla disciplina transitoria poi
introdotta, in merito, sul piano positivo), dovranno comunque
considerarsi esclusi dall’applicazione dell’art. 3, commi 8 e 9,
d.lgs. n. 23/2011 i contratti stipulati precedentemente che, alla
data di entrata in vigore della normativa richiamata fossero anche, già, stati tardivamente registrati (nonché quelli che lo siano stati nei 60 giorni dalla data di entrata in vigore medesima).
(42) Per tutti v. G. Grasselli, Le locazioni, cit. 47.
(43) Per le quali v.: Trib. Genova, ord., 30 gennaio 2013;
Trib. Firenze, ord., 15 gennaio 2013; Trib. Palermo, ord., 15
gennaio 2012; Trib. Salerno, 29 ottobre 2012, tutte in www.iusexplorer.it; nonché Trib. Roma, Sez. Ostia, ord., 7 maggio
2013, in GU PrimaSerie Speciale, Corte cost. n.43 del 23 ottobre 2013.
(44) Sollevata, in pratica, in tutte le ordinanze di rimessione
alla Corte costituzionale, essendosi in ciascuna di esse fatta rilevare l’assenza, nella legge di delega (n. 42/2009) di previsioni
atte a legittimare il Governo all’adozione della disciplina censurata.
(45) Cfr. Corte cost., 14 marzo 2014, n. 50, in Dir. Giust.,
2014, 17, secondo la quale «va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. 14 marzo 2011, n.
23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale)
per contrasto con l’art. 76 Cost., atteso che la disciplina oggetto di censura si presenta del tutto priva di “copertura” da parte
della legge di delegazione in riferimento sia al relativo àmbito
oggettivo, sia alla sua riconducibilità agli stessi obiettivi perseguiti dalla delega». In conseguenza di ciò, la Corte cost. ha poi
dichiarato (punto 6 del “considerato in diritto”) «assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità prospettati».
(46) Tra i diversi profili di illegittimità segnalati si evidenziano, in particolare: la possibile violazione degli artt. 3 (per diversità di trattamento tra le parti del contratto nonché - secondo
taluna delle ordinanze remittenti - anche per diversità di trattamento tra locazioni abitative e commerciali), 42 e 53 Cost. (per
l’irragionevole compressione del diritto di proprietà per ragioni
fiscali).
(47) La norma, introdotta dalla legge di conversione, è apparsa, a giudizio dei primi osservatori, di dubbia legittimità costituzionale, soprattutto in quanto diretta a ripristinare, sia pure
solo transitoriamente, norme dichiarate incostituzionali.
(48) In particolare, avuto riguardo ai soli rapporti di locazio-
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Non si può né si vuole (50) esprimere – in questa sede – un (possibile) pronostico in ordine alle
determinazioni che potranno essere assunte dalle
Sezioni Unite in ordine al caso concretamente sottoposto, eventualmente, alla sua decisione.
Sembra utile, invece, in chiusura delle presenti
riflessioni, qualche considerazione d’ordine generale in merito al rapporto tra mancata registrazione
del contratto e regime giuridico del rapporto locativo, (naturalmente) allo stato della legislazione vigente.
In proposito, avuto specificamente riguardo al
mercato delle locazioni immobiliari ad uso abitativo, sembra intanto necessario distinguere secondo
che si tratti di rapporti (ormai più risalenti) soggetti soltanto, ratione temporis, alla l. n. 431/1998, ovvero ad altri, più recenti, regimi normativi.
A) Nel primo caso, alcuni punti fermi (in ordine
all’interpretazione dell’art. 13 l. n. 431/1998) possono essere sicuramente delineati:
a) intanto, perché appare ragionevolmente plausibile dissentire dalla tesi (51) – propugnata dalla
cit. Cass. n. 16089/2003 – che intende l’art. 13
della richiamata l. n. 431/98 come semplicemente
esplicativo di un principio di invariabilità del canone locatizio: si tratta, invero, di soluzione che non
trova alcun riscontro nel dettato normativo (52), il
ne per i quali sia stata effettuata, prima del richiamato intervento normativo, la tardiva registrazione del contratto, rimanendo negli altri casi operante la disciplina dettata dall’art. 1,
comma 346, l. n. 311/2004 (mentre non potranno più trovare
applicazione né l’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 23/2011 (in
quanto dichiarato incostituzionale), né l’art. 5, comma 1-ter,
del d.l. n. 47/2014 (come conv. dalla l. n. 80/2014), essendo
quest’ultima previsione riferibile ai soli contratti di locazione
medio tempore registrati).
(49) Va qui segnalato, tra l’altro, che della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 23/2011 aveva anche dubitato il Trib Napoli, ord., 13 novembre 2013 (nonché,
successivamente, Trib. Napoli, ord., 12 dicembre 2013, di analogo tenore; entrambe le ordinanze si leggono in GU Prima Serie Speciale, n. 14/2014), per ritenuta violazione dell’art. 42
Cost. In proposito, con la recentissima ord. n. 195/2014, depositata in data 9 luglio 2014 (che si legge, on line, nel sito della
Corte: www.cortecostiuzionale.it), la Corte cost., rilevato: «che,
successivamente alla pronuncia dei provvedimenti di rimessione, questa Corte, con sentenza n. 50 del 2014, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs.
n. 23 del 2011; che, peraltro, dopo la predetta dichiarazione di
illegittimità costituzionale, la l. 23 maggio 2014, n. 80 ([…] ha
stabilito, all’art. 5, comma 1-ter, che “sono fatti salvi, fino alla
data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi
dell’art. 3, commi 8 e 9, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23”; che,
alla luce di tale nuova disposizione, palesemente destinata a
regolare, in via transitoria, situazioni giuridiche conseguenti alla richiamata pronuncia di questa Corte, sul piano della validità
e dell’efficacia di “contratti di locazione registrati ai sensi” di
una disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima, occorre
che il giudice rimettente valuti se e in quali termini il prospettato dubbio di costituzionalità presenti rilevanza attuale ai fini
della definizione dei giudizi a quibus», ha restituito gli atti al
giudice remittente, per l’ulteriore valutazione dei profili evidenziati.
(50) Anche in ragione della pendenza del giudizio; e della
conseguente inopportunità di prospettare, al riguardo, possibili
soluzioni concrete del singolo caso ancora sub iudice.
(51) In tal senso è la prevalente opinione dottrinale, perché,
come si è puntualmente rilevato (G. La Marca, Costituzione di
diritti personali di godimento, cit., 596), la soluzione proposta è
stata «unanimemente riconosciuta come un’arbitraria modifica, di fatto abrogativa, dell’art. 13, comma 1». Presta invece
adesione alla pronuncia richiamata nel testo - ma non senza
contraddizioni, specialmente quando si muova dalla dichiarata
premessa (riferita, dall’A., all’art. 13, comma 1, l. n. 431/1998)
di un «evidente intento del legislatore di contrastare l’evasione
fiscale in tema di contratti di locazione ad uso abitativo» - G.
Grasselli, Le locazioni, cit., 41 ss., il quale ritiene le soluzioni offerte da Cass. 16089/2003 “pienamente condivisibili” (la citazione che precede è in G. Grasselli, op. cit., 35).
(52) E che, per altro verso, appare addirittura in contrasto
con lo spirito innovatore della l. n. 431/1998, la quale - rispetto
alla previgente disciplina in tema di c.d. equo canone - si caratterizza, appunto, per un impianto fondato, almeno per le tipologie contrattuali che qui interessano, proprio sulla possibilità di una libera determinazione convenzionale del canone (sì
che appare manifestamente irragionevole ritenere che tale criterio informatore possa reputarsi limitato dalla prima determinazione convenzionale operata dalle parti).
D’altra parte, se l’obiettivo del legislatore fosse stato quello
(a protezione del conduttore) della invariabilità del canone convenzionalmente determinato, per un verso sarebbe stata più lineare una esplicita previsione in tal senso (come opportunamente rileva, ora V. Cuffaro, Il problema della mancata registrazione del contratto di locazione, cit., 534, il quale osserva che
«se il legislatore avesse effettivamente voluto sancire la invalidità dei patti aggiuntivi sul canone stipulati nel corso del rapporto lo avrebbe potuto dire espressamente, senza necessità
di ricorrere ad una ambigua perifrasi, ricavabile dai primi due
commi dell’art. 13»); mentre, per altro verso, resterebbe comunque inesplicabile la ragione di una tutela del conduttore
ancorata alla rilevanza del contratto registrato (si domanda,
problematicamente, «perché il legislatore avrebbe inteso parametrare la tutela del contraente debole non già al contratto
scritto, come originariamente pattuito, ma al contratto anche
registrato?» M. Falabella, in M. Di Marzio, M. Falabella, La locazione. Contratto. Obbligazioni. Estinzione, t. 2, Torino, 2010,
1313).
Va anche aggiunto, sebbene si tratti di argomento di per sé
non decisivo, che anche l’andamento dei lavori preparatori dell’art. 13, comma 1, l. n. 431/98 denuncia come intento del legislatore fosse quello di adottare, con la citata previsione, misure di salvaguardia dell’interesse del Fisco, e non già del conduttore: in particolare, nella Relazione illustrativa della proposta
di legge n. 4161/97 (presentata, nel corso della XIII Legislatura, il 24 settembre 1997, d’iniziativa dei deputati Riccio-Foti) dalla quale origina la speciale rilevanza assegnata, nella l. n.
431/98, alla registrazione del contratto, e che attribuiva inizialmente rilevanza alla registrazione del contratto solo sul piano
probatorio, recando la previsione (art. 15) che «il canone di locazione è quello risultante dal contratto registrato. Non è ammessa altra prova») - si rilevava non potersi trascurare «il fatto
che nel 1995 sono stati registrati 420.000 contratti di locazio-
assoggettare contratti di locazione non tempestivamente registrati (49).
Alcune riflessioni conclusive
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quale si limita a considerare la fattispecie del contrasto – relativo alla misura del canone – tra l’accordo scritto e registrato e una diversa determinazione convenzionale (della quale non viene definita la
collocazione temporale, ma soltanto la misura del
corrispettivo, in quanto) maggiore, la quale, secondo il dettato normativo, è destinata a rimanere
inefficace non in quanto (semplicemente) superiore, ma in quanto (essendo superiore, sia anche)
non registrata. Ne deriva altresì – con tutta evidenza – che restano al di fuori della previsione normativa (oltre all’ipotesi dell’intero contratto non
registrato) tanto l’ipotesi del contrasto – sempre in
tema di determinazione del corrispettivo – tra pattuizioni egualmente non registrate; che (l’altra) tra
pattuizioni egualmente registrate;
b) per altro verso, poi, perché non sembra neppure plausibile – sul fronte opposto – prestare adesione all’assunto da cui (se ben s’intende) sembrerebbe muovere l’ordinanza in commento in ordine
ad una pretesa rilevanza invalidante – nel vigore
della l. n. 431/1998 (53) – della mancata registrazione dell’intero contratto di locazione: invero, com’è stato ripetutamente rilevato in dottrina (54),
(l’adempimento fiscale del)la registrazione non
rientra tra i requisiti di validità del contratto, che
l’art. 1, comma 4, l. n. 431/98 restringe alla (sola)
forma scritta. D’altra parte, in un sistema che attri-
buisce rilevanza finanche ad una locazione di mero
fatto (art. 13, comma 5, l. n. 431/98) – la quale deriva da un patto non solo non registrato, ma neppure stipulato per iscritto – l’ipotizzata invalidità
del contratto scritto ma non registrato risulterebbe
assolutamente distonica; e ciò senza considerare,
ancora, che le stesse disposizioni premiali (cfr. artt.
8, comma 2, e 11, comma 2, l. n. 431/98) dettate
per i contratti registrati non avrebbero senso se la
registrazione fosse (sempre) requisito di validità del
contratto, perché esse sarebbero allora da riferire a
qualsiasi rapporto immobiliare locativo ad uso abitativo, ovvia essendone la non invocabilità a fronte di un rapporto contrattuale affetto da nullità;
c) infine, perché l'unico dato ricavabile con certezza dal dettato normativo (a parte ogni considerazione sulla sua razionalità o legittimità) è che
non sono ammesse pattuizioni (55) del canone superiori a quelle risultanti dal contratto scritto e registrato; e che le somme eventualmente corrisposte
in esecuzione di simili accordi possono essere ripetute dal conduttore con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato (art. 13, cpv., l. n. 431/98), senza che, tuttavia, possano da ciò trarsi conclusioni generali sulla
rilevanza della mancata registrazione del contratto (56).
ne, mentre all’Autorità di pubblica sicurezza ne sono stati denunciati 876.641. La emersione del sommerso risponde ad esigenze di certezza del diritto, di corretto rapporto tra proprietario ed inquilino, di interesse della collettività anche per via di
una equa corresponsione dei tributi. Ed è per questo motivo
che occorre incentivare la registrazione dei contratti anche riducendo la pressione fiscale tanto sui proprietari quanto sugli
inquilini». Inoltre, ancora nella Relazione illustrativa al testo unificato delle proposte di legge nn. 790, 806, 825, 1222-bis,
1718, 2382, 4146, 4161 e 4476-A - discusso nella XIII legislatura (e nel quale compare, all’artt. 12, comma 1, quello che sarà poi il testo dell’art. 13, comma 1, l n. 431/1998) - si precisava, al riguardo, che «la proposta contiene misure atte a combattere il fenomeno della evasione fiscale che appare particolarmente presente in questo settore», mentre nessun riferimento
era presente a pretese esigenze di invariabilità del canone pattiziamente concordato.
(53) Con riguardo alla più recente normativa sul tema v., invece, quanto di seguito precisato nel testo.
(54) Per tutti v., anche per altri riferimenti, M. Falabella, in
M. Di Marzio, M. Falabella, La locazione, t. 2, cit., 1306.
(55) La formula legislativa («è nulla ogni pattuizione [...]») induce ragionevolmente a ritenere che la disposizione possa trovare applicazione tanto se si tratti di accordo autonomo (anteriore o successivo che sia) rispetto a quello recato dal contratto scritto e registrato; quanto - e sarà certamente il caso più
frequente, per non dire pressoché esclusivo - se ricorra una
ipotesi di simulazione relativa parziale, riferibile al canone.
(56) Detto altrimenti, ciò significa che - nel vigore della l. n.
431 del 1998 - la registrazione è effettivamente assunta (sul
piano dello ius positum) a requisito di validità (ma) delle sole
pattuizioni relative al canone se e in quanto ne rechino una de-
terminazione superiore rispetto alla misura quantificata nell’accordo registrato: e ciò sia se si tratti - come ordinariamente si
tratterà - di simulazione relativa parziale (nel qual caso la previsione considerata dovrà allora reputarsi in deroga alla disciplina codicistica della simulazione); sia nelle (più rare, se non
proprio fantasiose) ipotesi di modifiche successive (rispetto alle
quali, si badi, la finalità non sarebbe comunque - diversamente
da quanto inteso da Cass. 16089/2003, cit. - di protezione del
conduttore, ma sempre di salvaguardia delle ragioni del Fisco,
volendosi sostanzialmente impedire l’occultamento di un reddito imponibile giuridicamente esigibile). In questa prospettiva,
evidentemente, si spiega anche la ripetibilità delle somme indebitamente percepite dal locatore, poiché giuridicamente non
dovute.
A questo riguardo va anche segnalato, per vero, che il cit.
art. 13 l. n. 431/98 non prevede, espressamente, che la pattuizione di un canone maggiore rispetto a quello risultante dal
contratto scritto e registrato è nulla se non registrata; ma si limita a sancire, sic et simpliciter, la nullità di patti di maggiorazione di quel canone, sì che, una lettura meramente letterale
del dato positivo porterebbe anche a convalidare, prima facie,
la soluzione prospettata da Cass. n. 16089/2003, cit. Sennonché, atteso che non vengono qui in considerazione ipotetiche
(e, in realtà, inammissibili) variazioni unilaterali (ad opera del locatore) del canone precedentemente concordato, ma, piuttosto, variazioni negoziate dalle parti, proprio la durata legalmente imposta del rapporto (la quale riduce, evidentemente, la posizione di debolezza del conduttore) conduce a ritenere che sarebbe largamente irragionevole una previsione che si prefiggesse di proteggere, attraverso la nullità del patto, la posizione
del conduttore (al quale ultimo, invero, sarebbe già sufficiente
- essendo egli ampiamente salvaguardato sotto altri profili di
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B) Più problematica, certamente, si presenta invece, sotto svariati profili, la questione della rilevanza della mancata registrazione del contratto di
locazione nella più recente disciplina positiva sul
tema.
E ciò non tanto – o (forse meglio) non solo –
con riferimento all’art. 1, comma 346, della l. n.
311 del 2004 (rispetto al quale la singolarità sistematica risiede nella subordinazione della validità
del contratto alla mancata registrazione e dunque
ad un elemento ad esso strutturalmente estraneo);
quanto, soprattutto, con riguardo alle più recenti
previsioni normative richiamate in fine del § precedente.
Infatti, una disciplina intesa ad imporre (o, più
recentemente, almeno a conservare), in luogo del
regolamento negoziale concordato dalle parti, una
disciplina totalmente diversa da quello – in conseguenza dell’adempimento, sempre possibile (57) ed
anzi doveroso, di un obbligo fiscale – appare, oltre
che (mutuando una considerazione di Corte cost.
n. 50/2014, cit.) fortemente “rivoluzionaria”, anche
sistematicamente irragionevole, in quanto contra-
stata dai principi che governano, in ogni altro caso,
la materia dell’imposizione fiscale, la quale esclude,
in linea di principio, e in termini generali, l’invalidità negoziale degli atti posti in essere in violazione
degli obblighi tributari, limitandosi, anche a fronte
di operazioni palesemente abusive, a sancire la
inopponibilità al Fisco degli accordi elusivi (58): sì
che, anche avuto riguardo ai parametri ricavabili
dall’art. 3 Cost., qualche sospetto di legittimità di
una regolamentazione positiva così congegnata appare, quanto meno, plausibile.
Su tutte le predette (delicatissime) questioni,
ancorché non sempre direttamente implicate dal
caso concreto, è allora auspicabile che – proprio al
fine del necessario ordine sistematico “in una materia connotata da una diffusissima contrattazione
e caratterizzata da un’accentuata litigiosità” – possa
intervenire l’autorevole pronunciamento nomofilattico delle Sezioni Unite, augurandosi che possa
esso contribuire a far chiarezza su una materia che,
come poche, appare oggi connotata da rilevante
approssimazione e mancanza di disegno sistematico
da parte del legislatore.
tutela del rapporto ormai instaurato - rifiutare il consenso alla
rideterminazione del canone per tutelare la propria posizione).
Non varrebbe, in contrario, la pretesa di trarre opposti argomenti dal tenore dell’art. 2, comma 1, secondo inciso, l. n.
431/98. il quale consente soltanto alla seconda scadenza del
rapporto di attivarsi per la procedura di rinnovo del contratto
“a nuove condizioni”: tale previsione, invero, non implica che
siano precedentemente vietate intese modificative del rapporto
(volute da ambedue le parti), ma soltanto che la proposta di
modifica di una di esse anteriore a quella scadenza non comporta - se non accettata dall’altra parte - conseguenze sul regime del rapporto. Né, si aggiunga, potrebbero infine invocarsi
possibili pressioni o prevaricazioni del locatore, tali da inficiare
altrimenti la genuinità del consenso del conduttore (la cui salvaguardia sarebbe piuttosto da ricercare in altre disposizioni
normative: e segnatamente, soprattutto, nell’art. 1438 c.c.).
Le considerazioni che precedono confermano, allora, l’arbitrarietà della soluzione che legge il comma 1 dell’art. 13 l. n.
431/98 come una regola di “invariabilità” del canone concordato durante lo svolgimento del rapporto: esso, piuttosto, si
spiega in funzione della protezione di un interesse esterno al
rapporto (che non fa capo né al locatore né al conduttore, ma
ad un terzo: il Fisco), a protezione del quale viene strumentalizzato l’obbligo fiscale di registrazione (il cui assolvimento rende
giuridicamente esigibile, ma anche obiettivamente imponibile,
il corrispettivo concordato); del che, ovviamente, la legislazione successiva sul tema dà ampiamente conferma (in disparte
ogni considerazione sulla effettiva legittimità di simili previsioni): invero, avuto riguardo al profilo della registrazione del contratto di locazione, emerge limpidamente che la preoccupazione del legislatore - come ampiamente dimostra la previsione
contenuta nell’art. 1, comma 346, l. finanz. 2005 e, soprattutto, la precisazione che del suo ambito applicativo (oltre che
della novella legislativa) è stata poi fatta dall’art. 3, comma 9,
d.lgs. n. 23/2011 - è proprio per fenomeni di simulazione contrattuale ed occultamento del reddito, piuttosto che per esigenze di tutela del conduttore (pur sistematicamente presenti,
ma diversamente salvaguardate nel contesto della l. n. 431 del
1998).
(57) Anche nella forma del c.d. ravvedimento operoso, di
cui all’art. 13 d.lgs. 14 dicembre 1997, n. 472.
(58) Cfr. supra, nt. 16.
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925
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Caparra confirmatoria
Applicazione diretta dei principi
costituzionali e nullità della
caparra confirmatoria
“eccessiva”
CORTE COSTITUZIONALE, ord. 21 ottobre 2013, n. 248 – Pres. Silvestri – Est. Morelli
A fronte di una clausola negoziale (nella specie prevedente una caparra confirmatoria “eccessiva”) che rifletta
un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte, il giudice
può rilevare ex officio la nullità (totale o parziale) ex art. 1418 c.c., della clausola stessa, per contrasto con il
precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa,
«funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato».
Ne consegue l’inammissibilità per difetto di motivazione in punto di rilevanza della questione di legittimità
costituzionale sollevata con riferimento all’art. 1385, comma 2, c.c., nella parte in cui non prevede un potere
del giudice di ridurre la caparra in ipotesi di manifesta sproporzione o ove sussistano giustificati motivi.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
Difforme
Non sono stati rinvenuti precedenti in termini.
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1385,
comma 2, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento vertente tra P. S. ed
altro e C. C. ed altro, con ordinanza del 10 ottobre
2012, iscritta al n. 2 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5,
prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2013 il
Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
Ritenuto che in un giudizio civile promosso per ottenere la restituzione di somma che gli attori assumevano
versata come anticipo (in misura di circa un terzo del
pattuito) per l’acquisto di un immobile, che non aveva
poi potuto, però, aver luogo per la mancata erogazione,
ad essi, di un mutuo bancario destinato a coprire il residuo prezzo l’adito Tribunale ordinario di Tivoli, premesso che nel preliminare di vendita, l’importo corrisposto
dai promissari acquirenti, era stato testualmente qualificato come “caparra confirmatoria”, ha sollevato d’ufficio, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1385, comma 2, del codice civile,
926
«nella parte in cui non dispone che - nelle ipotesi in
cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e
nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte
che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed
esigere il doppio della caparra - il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove […]
sussistano giustificati motivi»;
che, ad avviso del rimettente, si prospetta, nella specie,
una esigenza di bilanciata tutela del diritto della parte
non inadempiente (cioè del venditore), a percepire la
caparra, e dell’opposto interesse di quella inadempiente
(cioè del promissario acquirente) a non perdere un capitale notevole, ed eccessivo nella sua quantificazione,
a fronte di un (proprio) inadempimento che, «seppur
colposo, certamente non è stato voluto e rispetto al
quale si è adoperato in ogni modo per trovare una soluzione»;
che, però, l’automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice
per alcun rimedio ripristinatorio dell’equità oggettiva e
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del complessivo equilibrio contrattuale; dal che il dubbio, appunto, della sua “irragionevolezza”;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità
della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali violati; e, in subordine, per la sua
non fondatezza.
Considerato che, dal contesto dell’ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile, nell’art. 3, comma
2, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il
giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta
sua «intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva
finalità perseguita dal legislatore», per cui non risulta
fondata l’eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall’Avvocatura;
che la questione in esame è, però, comunque, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, in
punto sia di non manifesta infondatezza che di rilevanza;
che, infatti, per il primo profilo, nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria
da parte dell’accipiens (e, specularmente, tra l’inadempimento dell’accipiens e il diritto della controparte ad esigerne il doppio), il rimettente omette di considerare
che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della
disciplina del recesso recata dall’art. 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «gravemente colpevole, […] cioè imputabile (ex art. 1218 c.c. e art.
1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456
c.c.)», come ben posto in evidenza nella sentenza delle
Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009;
che, in punto poi di rilevanza, il Tribunale rimettente,
per un verso, trascura di indagare compiutamente la
reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali,
così da poter esprimere un necessario coerente giudizio
di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva
funzione della caparra confirmatoria; per altro verso,
non tiene conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale
che rifletta (come, nella specie, egli prospetta) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente
sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della
rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex
art. 1418 c.c., della clausola stessa, per contrasto con il
precetto dell’art. 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra
direttamente nel contratto, in combinato contesto con
il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla
tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella
misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato» (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già
n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni unite, n.
18128 del 2005 e n. 20106 del 2009).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2, del
codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.
IL COMMENTO
di Giovanni D’Amico
Il Commento alle due recenti ordinanze della Corte costituzionale, che hanno affermato la possibilità per
il giudice di dichiarare la nullità ex art. 1418, comma 1, c.c. (per contrasto con l’art. 2 Cost. e con il principio di “solidarietà sociale” ivi enunciato) della clausola contrattuale che preveda una caparra confirmatoria manifestamente eccessiva, evidenzia la problematicità (in questa come in consimili ipotesi) di una
“applicazione diretta” dei principi costituzionali, e il rischio che essa produca esiti virtualmente “destabilizzanti” dell’intero sistema legislativo dei diritto dei contratti.
Premessa. Il problema della “(ir)
riducibilità” della caparra confirmatoria
Due recenti ordinanze (gemelle) della Corte
costituzionale (1) - per quanto dichiarative
della inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo
- non hanno mancato (e giustamente) di richiamare l’attenzione della dottrina civilisti-
(1) All’ordinanza del 13 ottobre 2013, n. 248 (sopra pubblicata) ha fatto seguito, a distanza di qualche mese, l’ord. 26 marzo
2014, n. 77 (Pres. Silvestri, red. Morelli), sostanzialmente identica alla precedente nell’argomentazione e nella soluzione.
i Contratti 10/2014
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ca (2). Non tanto (o non solo) perché si tratta
di pronunce che (come non di rado accade
nella giurisprudenza della Consulta) “suggeriscono” una particolare “interpretazione” delle
norme sottoposte al vaglio di costituzionalità
(interpretazione che sovente equivale ad un sostanziale accoglimento della questione di legittimità, pur a fronte di un formale rigetto o come nel caso di specie - di un fin de non recevoir per inammissibilità), quanto piuttosto e
proprio per il contenuto dell’interpretazione
proposta, la quale - pur nella sinteticità della
argomentazione - mette in discussione orientamenti giurisprudenziali che (sul punto specifico, e nel merito dello stesso (3)) sembravano
assolutamente consolidati, e soprattutto solleva
problemi generali di cruciale rilevanza in ordine alla diretta applicabilità dei principi costituzionali e ai poteri in tal senso del giudice
ordinario.
Qual era la questione sottoposta al vaglio dei
giudici della Consulta? Un contratto preliminare
di vendita immobiliare era rimasto ineseguito da
parte degli acquirenti, in quanto agli stessi era stata
rifiutata l’erogazione di un mutuo, con il quale
avrebbero dovuto essere pagati in sede di stipula
del definitivo circa i due terzi del prezzo pattuito,
essendo invece il restante terzo già stato versato al
momento della conclusione del preliminare, sotto
forma di caparra confirmatoria.
I promissari acquirenti avevano agito per ottenere la restituzione della somma versata, assumendo
che essa costituisse un (semplice) “acconto” (del
prezzo). Il giudice - ritenuto, invece, di trovarsi in
presenza di una caparra confirmatoria (come, del
resto, la qualificava esplicitamente la convenzione)
- aveva sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2, c.c. «nella parte in cui non dispone che (…) il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il
doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove […] sussistano giustificati motivi».
L’ordinanza della Corte statuisce l’inammissibilità (manifesta) della questione in quanto carente di
motivazione sia sotto il profilo della (non) manifesta infondatezza sia sotto il profilo della rilevanza.
Sotto il primo profilo i giudici della Consulta
contestano che vi sia l’“automatismo” (tra l’inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria da parte dell’accipiens; ovvero,
specularmente, tra l’inadempimento dell’accipiens e
il diritto del tradens di pretendere il doppio della
caparra) ritenuto dal giudice a quo, il quale - osserva il redattore dell’ordinanza - «omette di considerare che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art. 1385
c.c., è comunque un inadempimento “gravemente
colpevole, […] cioè imputabile (ex artt. 1218 c.c. e
1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456
c.c.) …».
Sotto il secondo profilo (ossia, in punto di “rilevanza”), i giudici della Consulta osservano che - a
parte l’assenza (nell’ordinanza di rimessione) di
una compiuta indagine «sulla reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali» (indagine che
avrebbe dovuto consentire di «esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen
iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra
confirmatoria» (4)) - quel che difetta è la considerazione dei «possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale
che rifletta (come, nella specie, egli prospetta) un
Le due ordinanze, tuttavia, non sono totalmente sovrapponibili: sia perché esiste una differenza nella motivazione, rappresentata dal mancato richiamo (nella ordinanza più recente) alla possibilità di una diversa qualificazione della clausola contrattuale (la
differenza non è sfuggita a Pagliantini, L’equilibrio soggettivo
dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia e Corte costituzionale: “il mondo di ieri” o un trompe l’oeil concettuale?, supra,
in questo stesso numero della Rivista); sia, e soprattutto, perché
erano diversi i “casi” in relazione ai quali il giudice a quo (che, in
entrambe le ipotesi, era il Tribunale di Tivoli) aveva sollevato la
questione di legittimità costituzionale (v. anche infra, quanto illustriamo alla nt. 19).
In particolare, nella fattispecie che veniva in rilievo nella ordinanza del 2014, ad agire era stato il promissario acquirente,
chiedendo - in conseguenza dell’asserito inadempimento del
promittente venditore -, la restituzione del doppio della (elevata)
caparra versata al momento della conclusione del contratto.
(2) Oltre alle osservazioni contenute nello scritto di Pagliantini citato nella nota precedente, cfr. in particolare F. Astone,
Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere
generale di solidarietà e di buona fede, in Giur. cost., 2013,
3770 ss.; e F. P. Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, in Riv. dir. civ., 2014, 685 ss.
(3) Un “merito” - è appena il caso di sottolinearlo - che solo
apparentemente la Corte si astiene dal considerare, smentendo di fatto un orientamento interpretativo del tutto consolidato
(almeno a livello giurisprudenziale).
(4) Non è chiaro quale sia la diversa “qualificazione” della
clausola, ipotizzata nell’ordinanza della Corte costituzionale.
Probabilmente, l’estensore dell’ordinanza immagina che la dazione della somma potesse essere qualificata - come avevano
sostenuto nel giudizio di merito i promissari acquirenti - quale
“acconto sul prezzo” (anziché come caparra confirmatoria).
Meno plausibile è, invece, che l’alternativa qualificatoria fosse
quella di considerare (eventualmente) la somma corrisposta all’atto della stipula come una “penale” (così invece F. Astone,
Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di “penale” e nullità per violazione del dovere
generale di solidarietà e di buona fede, cit., 3770 ss.; analogamente P. F. Patti, op. cit., spec. 693 ss.). Sebbene la circostanza che la dazione della somma sia avvenuta “successivamen-
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regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte».
Questi (asseriti) “margini di intervento” sono in
particolare (individuati e) indicati nel potere-dovere del giudice di rilevare e dichiarare (anche ex
officio) «la nullità (totale o parziale) ex art. 1418
c.c., della clausola stessa, per contrasto con il precetto
dell’art. 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento
degli inderogabili doveri di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con
il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, “funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato” (Corte di cassazione n.
10511 del 1999; ma già 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni riunite, n. 18128 del 2005 e n.
20106 del 2009)».
Così riassunto il contenuto essenziale (5) dell’ordinanza in questione, va subito detto che essa interviene su una questione attorno alla quale, in
passato, si è più volte discusso, soprattutto in dottrina (gli orientamenti della giurisprudenza essendo
invece - nel caso di specie - abbastanza univoci (6)): ossia, se possa ipotizzarsi una “riduzione”
della caparra (confirmatoria) “eccessiva”, sebbene
l’art. 1385 c.c. non faccia alcuna menzione di una
simile eventualità, espressamente prevista invece
dalla disposizione precedente (art. 1384 c.c.) a proposito della clausola penale.
Nonostante la vicinanza delle due norme lasci
supporre che la diversità di disciplina sia (frutto di
una scelta) consapevole, e che dunque non si possa
ipotizzare una “lacuna” vera e propria (ossia, involontaria) nell’art. 1385 c.c., una parte della dottrina
- partendo dalla premessa secondo cui esisterebbe
una indubbia affinità funzionale tra la (clausola) penale e la caparra confirmatoria - ha sostenuto che
la regola della riducibilità sancita per la penale può
essere estesa analogicamente anche alla caparra confirmatoria (7).
Questa possibilità è contestata tuttavia da altra
(non meno autorevole) parte della dottrina (8) (oltre che e, soprattutto - dalla giurisprudenza), che evidenzia i molteplici profili che differenziano - sul
piano strutturale, ma anche su quello funzionale la penale e la caparra confirmatoria.
In questa logica si mette in evidenza, anzitutto,
la unilateralità della penale a fronte della bilateralità
della caparra (che graverà sull’accipiens, nel caso in
cui sia questi ad essere inadempiente): primo profilo di differenza, che induce a ritenere “attenuato”
(se non proprio escluso) il rischio di approfittamento e di abuso di un contraente nei confronti
dell’altro (9).
In secondo luogo, la circostanza che la caparra
sia (normalmente) versata al momento della conclusione del contratto, mentre la “penale” consiste in una somma di danaro “promessa” per l’ipotesi che si verifichi un inadempimento, induce a
supporre che sia più difficile - nel primo caso che si realizzi un “abuso”. Anche sul piano dell’interpretazione della clausola, è ragionevole
supporre che la dazione di una somma (10)elevata
al momento della conclusione del contratto vada
intesa come (prestazione di un) “acconto”, anziché come “caparra” (a ciò inducendo anche la
considerazione che quest’ultima qualificazione
esporrebbe lo stesso accipiens all’eventualità qualora dovesse essere lui, per avventura, a non
adempiere alla propria obbligazione - di dover
versare alla controparte il doppio della caparra ricevuta) (11).
Le considerazioni appena svolte forniscono, dunque, una spiegazione (se non proprio risolutiva, al-
te” alla conclusione del contratto non valga ad escludere in assoluto la qualificazione in termini di “caparra”, non è vero il reciproco (e cioè che una dazione contestuale alla conclusione
del contratto - come era avvenuto nel caso di specie - possa
essere qualificata come “penale”).
(5) La motivazione non va molto al di là delle frasi che sono
state (ampiamente) riprese nel testo.
(6) Ma - è bene notarlo subito - in una direzione del tutto
opposta a quella prospettata, adesso, dalle ordinanze della
Consulta.
(7) In questo senso v., in part., V. M. Trimarchi, voce Caparra (dir. civ.), in Enc. dir., VI, Milano 1960, 202 e nt. 46.
Ma va segnalato che altri autori, pur non negando l’analogia funzionale tra penale e caparra confirmatoria, escludono
cionondimeno che la disciplina della prima (considerata eccezionale, sotto il profilo del potere giudiziale di riduzione della
caparra) possa essere estesa alla seconda: cfr. Marini, Caparra.
I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988, 4.
(8) Cfr. Sacco, in Sacco - De Nova, Il contratto, in Trattato
dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino, II, 175, nonché De Nova,
voce Caparra, in Digesto disc. priv./Sez. civ., Torino, 1988, II,
241.
(9) Ferma l’osservazione (del tutto condivisibile) che «la bilateralità del rimedio non scaccia di per sé il rischio di abuso»
(così Pagliantini, op. cit.).
(10) Il discorso che si fa nel testo non vale quando, a fronte
di una prestazione pecuniaria da lui dovuta, il contraente versi
non una caparra in danaro, bensì mediante la dazione di «una
quantità di altre cose fungibili» (come recita l’art. 1385 c.c.). In
quest’ultimo caso la qualificazione come “caparra” è fuori discussione.
(11) Come abbiamo già rilevato, è probabilmente a questa
diversa (possibile) qualificazione che fanno riferimento i giudici
della Consulta, laddove censurano la carenza di motivazione
dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza della questione sollevata nel concreto giudizio.
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Contratti in generale
meno) plausibile, di una differenza di disciplina sotto il profilo qui considerato - della penale rispetto alla caparra. La riducibilità della prima (sia pure
come ipotesi, in qualche modo, eccezionale, e motivata da una manifesta sproporzione), e non anche
della seconda, si spiegherebbe - insomma - con il
minor rischio che la previsione di una caparra confirmatoria possa aprire la strada ad una pattuizione
veramente “iniqua” (anche se questa eventualità
non possa escludersi del tutto).
Meno convincente è un’altra spiegazione che è
stata avanzata per giustificare la differenza di disciplina di cui ci stiamo occupando. Si è evidenziato
- con indubbia acutezza (ma, cionondimeno, tutt’altro che persuasivamente) - che, mentre l’ammontare della penale è rimesso alla determinazione
(libera) delle parti, quello della caparra sarebbe
(per sua natura) delimitato dall’entità della prestazione dovuta dal contraente che presta la caparra,
costituendo l’ammontare di questa prestazione il
«limite massimo» che la caparra potrebbe raggiungere (12).
L’argomentazione - per quanto apparentemente
suggestiva - non convince (13). Certo, se si pensa
ad un contraente debitore di prestazione pecuniaria
e ad una caparra corrisposta anch’essa in danaro, potrà apparire ovvio che la caparra non possa essere
di ammontare (non diciamo superiore, ma neanche) eguale a quello della prestazione principale,
per la semplice ragione che - ove ciò avvenisse - ci
si troverebbe di fronte ad un adempimento (addirittura contestuale alla conclusione del contratto)
della prestazione principale (che toglierebbe - di
fatto - qualsiasi ragion d’essere ad ulteriori dazioni
da parte del contraente, e financo a qualificazioni
delle dazioni effettuate in termini diversi da quelli
di un pagamento). Anche l’ipotesi di una dazione
(di denaro) inferiore (ma di poco) rispetto all’ammontare della prestazione principale mal si concilierebbe con una qualificazione in termini di “caparra”, perché potrebbe dubitarsi che possa mai
prospettarsi - in un caso del genere (e con riferimento al residuo prezzo da pagare, in ipotesi alquanto esiguo) - quell’inadempimento grave che deve sussistere perché l’accipiens possa pretendere (di
recedere dal contratto e) di ritenere la caparra ricevuta (14).
Ma con riferimento ad una “caparra” che sia “rilasciata” attraverso la dazione (non di denaro, bensì) di «una quantità di altre cose fungibili», l’idea
che il valore delle cose consegnate all’accipiens possa essere eguale, e financo superiore, a quello della
prestazione (pecuniaria o meno) che il tradens è tenuto ad effettuare, comincia a diventare plausibile.
L’ipotesi consente di evidenziare un profilo che contrariamente a quelli sin qui rimarcati, e almeno
apparentemente - avvicina (piuttosto che allontanare) la “caparra confirmatoria” alla “penale”: ossia
il profilo per cui entrambi gli istituti danno vita a
forme di liquidazione convenzionale (e anticipata)
del danno (15). Questa “finalità” della caparra, come della penale, apre la porta alla possibilità che il
valore della “quantità di cose fungibili” (diverse
dal denaro) (16) che vengano consegnate a titolo
(12) Così A. Marini, Caparra confirmatoria e reductio ad aequitatem, in Riv. dir comm., 1979, spec. 178 ss., 180.
(13) Critica la tesi di Marini, sia pure con argomentazioni diverse da quelle che svolgiamo nel testo, anche Zoppini, La pena contrattuale, Milano, 1991, 288, e Id., La clausola penale e la
caparra, in I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, in Tratt.
dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, Torino, 2006,
1027.
(14) A volte l’entità particolarmente elevata della “caparra”
può tradire un uso (per così dire) “anomalo” (o “indiretto”) della caparra, quale strumento per realizzare finalità diverse (e,
sovente, illecite) da quelle proprie dell’istituto.
Ad es., attraverso la dazione di una (cospicua) “caparra”
(asseritamente versata in occasione della stipula di un “preliminare” di vendita) è possibile nascondere quello che è propriamente un “prestito” che il tradens eroga all’accipiens, tutelandosi dal rischio (in ipotesi elevato) di mancata restituzione
(in tutto o in parte) della somma “mutuata” attraverso la pattuizione di interessi particolarmente elevati, e, anzi, addirittura
usurari (infatti, la restituzione del “doppio della caparra”, in caso di inadempimento del simulato preliminare di vendita, comporterebbe il pagamento di interessi pari al 100%, o anche superiori se il termine pattuito per la stipula del definitivo dovesse essere inferiore all’anno).
Un altro esempio di uso “fraudolento” al quale si potrebbe
prestare lo strumento della caparra potrebbe aversi nell’ipotesi
in cui un debitore prossimo ad essere dichiarato insolvente in-
tenda favorire taluno dei propri creditori: in tal caso, sempre ricorrendo ad un fittizio preliminare di vendita (con versamento
di una cospicua caparra), si potrebbe “legittimare” la restituzione del doppio della caparra (ove si verifichi il programmato
inadempimento del preliminare), sottraendo (o, almeno, tentando di sottrarre) tale “pagamento” ad una eventuale azione
revocatoria.
Infine - e si tratta, questa volta, di un tema più volte evocato
dalla dottrina (cfr., per tutti, Bianca, Il divieto del patto commissorio, Milano, 1957 [rist. Napoli, 2013], 232 ss.) - è possibile
immaginare un uso della caparra in funzione elusiva del divieto
del divieto di alienazioni “commissorie” (ricavabile dall’art.
2744 c.c.). La dazione di una caparra (attraverso la consegna
di cose fungibili diverse dal denaro, che l’accipiens acquisterebbe il diritto di “ritenere” in caso di inadempimento) potrebbe costituire una forma di “garanzia” sostanzialmente “commissoria” (e si tratterebbe - a seconda dei casi - di verificare se
ci si trova di fronte ad atti simulati o ad una operazione in fraudem legis).
(15) E si tratta, ovviamente, del profilo che viene enfatizzato
dagli autori che affermano la possibilità di estendere analogicamente alla caparra la regola della “riducibilità”, dettata dall’art.
1384 c.c. a proposito della penale.
(16) Ma potrebbe immaginarsi la stessa cosa anche con riferimento ad una caparra in denaro, che “garantisca” l’adempimento di una prestazione non pecuniaria (il cui valore sia - in
sé - inferiore a quello della caparra, ma il cui inadempimento
930
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di caparra (17) possa anche (per quanto rara si prospetti l’eventualità) superare il valore della prestazione dovuta, soprattutto quando il danno conseguente all’inadempimento si configuri come prevedibilmente elevato, e - in ipotesi - superiore al valore della stessa prestazione in relazione alla quale
si effettua la dazione della caparra (18).
Una domanda che, allora, è necessario porsi è la
seguente: in relazione a quale parametro (può e)
deve essere valutata la “congruità” (id est: la non
eccessività) della caparra? Al valore della prestazione
oppure (come sembra senz’altro corretto ritenere)
all’entità del danno che potrà scaturire dall’inadempimento del tradens? Ancora, e ulteriormente: quale che sia il parametro alla stregua del quale venga
effettuata la valutazione, si può ipotizzare che l’esito della stessa risulti identico tanto se si considera
la caparra in relazione alla prestazione del tradens quanto se la si considera in relazione alla prestazione dell’accipiens (ove sia quest’ultimo - in
conseguenza del proprio inadempimento - a dover
prestare il doppio della caparra ricevuta) (19)?
La prima domanda, ci avverte che - se proprio si
vuole supportare la (asserita) analogia tra caparra e
penale - occorre abbandonare l’idea che la “congruità” vada valutata in relazione al (valore del)la
“prestazione” (20), dovendo essa semmai essere
considerata in relazione all’entità del (prevedibile)
“danno” che il contraente non inadempiente potrebbe ricevere dalla mancata esecuzione del contratto da parte dell’altro (21).
La seconda domanda - peraltro - ci rende altresì
consapevoli che (anche operata la necessaria “parametrazione” della congruità, all’entità del danno
piuttosto che al valore della prestazione inadempiuta) la “bilateralità” della caparra (a fronte della
“unilateralità” della penale) si risolve probabilmente in una accentuazione del carattere (per così dire) “convenzionale e soggettivo” sotteso alla valutazione di “congruità” (della caparra), e finisce allora
nuovamente per corroborare quella differenza di disciplina tra caparra e penale, consistente nella irriducibilità della prima a fronte della riducibilità (sia
pure eccezionale) della seconda.
possa provocare un danno notevolissimo, e di gran lunga più
grave del valore della stessa prestazione).
Un esempio (sia pure “di scuola”) potrebbe essere quello di
un avvocato di grande fama che si impegna (per un compenso
di 100.000 euro) a difendere un cliente in una causa “milionaria”, e che versa una “caparra” di 120.000 euro a “conferma”
dell’impegno assunto. Ove l’avvocato dovesse abbandonare la
difesa, il cliente potrebbe trattenere la “caparra” (che, in ipotesi, potrebbe risultare inferiore al danno che egli possa aver subito per non aver potuto usufruire dell’assistenza del famoso
legale).
(17) Il problema, infatti, sembra porsi solo (o prevalentemente) in questa ipotesi. Quando, invece, la caparra sia corrisposta “in denaro”, l’ipotesi di una sua “eccedenza” rispetto al
valore della prestazione può profilarsi (sia pure come caso “di
scuola”) solo con riferimento ad una prestazione diversa da
un’obbligazione pecuniaria.
(18) Si pensi, per fare un esempio, alla promessa di erogare
una fideiussione, necessaria per concludere un contratto (o
per partecipare ad una gara) di rilevante valore.
(19) Il caso esaminato dalla seconda ordinanza della Corte
costituzionale (la n. 77 del 2014), che forma oggetto del presente commento, può essere utilmente richiamato per illustrare il problema.
La fattispecie era “speculare” a quella esaminata nella ordinanza n. 248/13. Si trattava sempre dell’inadempimento di un
preliminare di vendita, ma questa volta ad essere inadempiente era il promittente venditore, al quale la promissaria acquirente aveva versato una cospicua caparra al momento della
conclusione del contratto. Anche in questo caso il giudice ritiene che sia “ingiusto” che (in via “automatica”, e senza alcuna
possibilità di eventuale “riduzione” da parte del giudice) il contraente adempiente possa “beneficiare” della caparra, quando
questa sia particolarmente elevata.
(20) Abbandonata questa prospettiva fuorviante (ossia la
prospettiva che lega la “congruità” della caparra al valore della
prestazione anziché all’entità del danno), si può spiegare quello che altrimenti appare prima facie come un esito paradossale
(e difficilmente giustificabile), e cioè che in ipotesi di caparra di
entità equivalente o addirittura superiore al “valore della pre-
stazione” il contraente non inadempiente consegua “quanto
gli era dovuto” restando peraltro esonerato dall’obbligo di eseguire la propria prestazione.
Il paradosso è solo apparente (e, del resto, ammesso che
esso sussista, ricorrerebbe anche nell’ipotesi della penale). In
realtà, è bensì vero che il contraente che ha diritto a trattenere
la penale ricevuta (o a vedersi restituito il doppio di quella versata) consegue un “vantaggio” senza contropartita, ma in realtà questo c.d. “vantaggio” non è altro che la compensazione
(convenzionalmente e forfettariamente predeterminata) per il
danno che il contraente fedele viene a risentire in conseguenza
dell’inadempimento dell’altra parte.
(21) È evidente che - di norma - ci sarà un rapporto tra il valore della prestazione che il contraente deve ricevere e l’entità
del danno che egli può risentire in caso di inadempimento.
Questa corrispondenza è, tuttavia, soltanto tendenziale, e la liquidazione “convenzionale” (e anticipata) del danno sembra
proprio adattarsi (sia pure in via non esclusiva) all’ipotesi in cui
possa esservi divergenza tra il valore della prestazione inadempiuta, in sé considerata, e l’entità del pregiudizio (anche non
patrimoniale) che il creditore può subire in conseguenza dell’inadempimento. Soprattutto la “penale” sembra avere la funzione (anche) di segnalare al debitore l’entità di questo (possibile/prevedibile) “danno”, specie quando al pregiudizio “patrimoniale” possa aggiungersi un danno “non patrimoniale” (tradizionalmente più difficile da provare).
Si aggiunga che una parte della dottrina discorre apertamente di un carattere “sanzionatorio” che sarebbe proprio della caparra confirmatoria (e che accosterebbe questo istituto alla penale), e tale carattere emergerebbe proprio quando «l’entità della somma consegnata alla conclusione del contratto è
manifestamente superiore rispetto al danno che può derivare
dall’inadempimento» (così Dellacasa, La caparra confirmatoria, in Tratto del contratto, dir. da V. Roppo, vol. V, Rimedi (cur.
Roppo), Milano, 2006, 349 ss., 353, ove si legge altresì che
«… quando, invece, la misura della caparra è compatibile con
l’entità del danno, è verosimile che le parti abbiano inteso non
tanto sanzionare il debitore per il suo inadempimento quanto
liquidare preventivamente il risarcimento, prefigurando, nel
contempo, lo scioglimento stragiudiziale del contratto»).
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Il quadro “complesso”, che si è descritto nel paragrafo precedente, viene drasticamente “semplificato” dalle due ordinanze della Corte costituzionale, oggetto del presente commento.
Il ragionamento svolto dal redattore delle due
ordinanze è sintetizzabile come segue: ammesso di
trovarsi di fronte ad una fattispecie di caparra (22),
non è detto che sia inevitabile considerare l’art.
1385 c.c. come una norma contenente una “lacuna” (laddove esso non prevede un potere giudiziale
di riduzione della caparra “eccessiva”), perché il
problema della “eccessività” della caparra può (e
deve) essere risolto “a monte”, ritenendo la clausola
che prevede una caparra “sproporzionata” come
nulla (in tutto o in parte) ai sensi dell’art. 1418 c.c.,
per contrasto con l’art. 2 Cost. (e con il principio
di solidarietà sociale in detta norma consacrato).
Da questa affermazione consegue (così almeno
sembrerebbe) che:
a) se la clausola prevedente la caparra dovesse
essere considerata totalmente nulla (23), la caparra
deve essere restituita al contraente (inadempiente)
che l’aveva corrisposta (o non sarà dovuta all’altra
parte dal contraente inadempiente che l’aveva ricevuta) (24);
b) se la clausola prevedente la caparra dovesse,
invece, essere considerata (solo) parzialmente nulla,
allora il giudice potrebbe ridurre la caparra entro i
limiti in cui l’entità della stessa risulti non eccessiva (o, se si vuole, non sproporzionata).
Tre osservazioni.
La prima consiste nel constatare - premesso che
l’ipotesi della nullità parziale della (clausola prevedente la) caparra “eccessiva” è, presumibilmente,
quella che il redattore dell’ordinanza ha in mente che il risultato finale non è molto diverso da quello
cui si perviene affermando l’applicabilità analogica
del potere di riduzione giudiziale della penale (e
dunque dell’art. 1384 c.c.) anche alla caparra.
La seconda considerazione non può non prendere atto, tuttavia, del fatto che a questo risultato si
pervenga (seguendo il ragionamento dei giudici
della Consulta) in maniera del tutto diversa rispetto
all’impostazione corrente. Una cosa, infatti, è dire
che il potere giudiziale di riduzione della penale
previsto dall’art. 1384 c.c. può essere esteso analogicamente anche alla fattispecie della caparra (perché
ricorrono - e purché ricorrano - tutti i presupposti
dell’analogia legis: sussistenza di una lacuna in senso
proprio, sussistenza di una eadem ratio tra il caso regolato e quello non regolato, non eccezionalità della
norma di cui si predica la estensibilità in via analogica (25)), altra cosa è dire che quel potere sussiste
in base ad un principio generale (nel nostro caso, di
rango costituzionale: principio della solidarietà sociale, di cui all’art. 2 Cost.) del quale si assume la
immediata e diretta applicabilità nei rapporti tra
privati (c.d. Drittwirkung) (26).
La terza ed ultima osservazione è che i giudici
della Consulta non propugnano ? si badi bene ? una
interpretazione adeguatrice (o, come anche si dice,
conforme alla Costituzione) dell’art. 1385 c.c. (come
pure sarebbe stato - astrattamente - possibile fare) (27), ma assumono che questa norma sia (nella
(22) Le ordinanze della Corte (o meglio, solo la prima: v. retro, nt. 1) sollevano il dubbio che la fattispecie concreta potesse ricevere (da parte del giudice a quo) una qualificazione diversa.
Naturalmente, questa eventualità è per noi poco interessante, in quanto esclude in radice i problemi di cui qui si discute.
(23) Non è chiaro, per la verità, in base a cosa il giudice dovrebbe sciogliere l’alternativa tra nullità totale ovvero parziale della clausola.
A parte i dubbi circa la possibilità di dichiarare la nullità
ex art. 1418, comma 1, c.c. in relazione ad una singola clausola (anziché all’intero contratto), osserviamo che ancora più
problematica si presenta l’ipotesi di una nullità “parziale” della
clausola, ipotesi che sembra risolversi in una semplice “variante nominalistica” di un potere di riduzione giudiziale, il cui esercizio varrebbe a riportare la clausola entro i limiti del lecito.
Su questi problemi sia consentito rinviare a D’Amico - Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del contratto,Torino,
2013.
(24) Una ulteriore conseguenza della (ipotetica) nullità totale
della caparra dovrebbe essere quella per cui il contraente non
inadempiente conserva la possibilità (a quel punto costituente
una via “obbligata”, e non l’oggetto di una scelta opzionale
quale la configura l’art. 1385 c.c.) di chiedere la risoluzione
(giudiziale) del contratto, e la liquidazione dei danni secondo le
regole ordinarie.
(25) È soprattutto sotto quest’ultimo profilo, come si è già
evidenziato, che la dottrina e la giurisprudenza solitamente
escludono l’estensione analogica della “riducibilità” della penale anche alla caparra, in quanto si considera “eccezionale” il
potere conferito al giudice di “correggere” il contratto.
(26) Le premesse teoriche sottese alla motivazione delle ordinanze in commento si rinvengono in un saggio di alcuni anni
fa dell’autore dei due provvedimenti: Morelli, Materiali per una
riflessione sull’applicazione diretta delle norme costituzionali da
parte dei giudici, in Giust. civ., 1999, 3 ss.
(27) Sul tema cfr. nella letteratura più recente, i contributi
raccolti in Femia (cur.), Interpretazione a fini applicativi e legittimità costituzionale, Napoli, 2006, ed ivi - in particolare - gli
scritti di: Perlingieri, Giustizia secondo Costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, 1 ss.; Palombi, La Corte
costituzionale tra interpretazione correttiva e interpretazione adeguatrice, 73 ss.; e Presta, Dalle norme programmatiche all’applicazione diretta, 361 ss.).
Si veda anche, nella dottrina costituzionalistica, il recentissimo contributo di Panzera, Interpretare Manipolare Combinare.
Una nuova prospettiva per lo studio delle decisioni della Corte
costituzionale, Napoli, 2013, passim (cui si rinvia anche per in-
La soluzione prospettata dalle ordinanze
nn. 248/13 e 77/14 della Corte
costituzionale
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sua lettura corrente: vale a dire nella lettura che
… esclude un potere del giudice di “correggere” la
caparra, sancendo così la immodificabilità della
stessa) del tutto legittima dal punto di vista costituzionale, purché però inserita in un “sistema” nel
quale si riconosca (come l’estensore delle due ordinanze è convinto debba farsi) l’esistenza di un generale potere conformativo del giudice rispetto al contenuto negoziale, valutato alla luce dei principi costituzionali (e della clausola di buona fede) (28).
Giova insistere, ancora un attimo, su quest’ultimo punto. La preservazione dell’art. 1385 c.c. da
dubbi circa una possibile illegittimità costituzionale
da parte della Corte è possibile non perché la Consulta faccia propria l’interpretazione corrente della
disposizione (29) (come apparentemente sembrerebbe), bensì perché i giudici costituzionali modificano radicalmente i termini del problema.
Secondo l’interpretazione corrente, invero, il
giudice non può “correggere” la caparra, perché
l’art. 1385 c.c. non lo prevede, e non esiste un potere correttivo “generale” che possa riconoscersi al giudice rispetto al contenuto del contratto.
Anche secondo l’impostazione dei giudici della
Consulta, l’art. 1385 c.c. non prevede uno (speciale) potere “correttivo” della caparra, epperò (questa specifica previsione in realtà non serve, perché)
l’autorizzazione del giudice ad intervenire (correggendolo) sul contenuto del contratto deve conside-
rarsi generale (e dunque applicabile anche in questo
caso, senza bisogno di una norma specifica), costituendo i principi costituzionali e le clausole generali come la “buona fede” un limite dell’autonomia
privata, dalla cui violazione può farsi discendere la
nullità delle convenzioni tra privati (30).
Non occorre spendere molte parole per evidenziare il carattere dirompente di una impostazione
siffatta. Non si tratta, infatti, di propugnare una interpretazione ovvero un’altra di una specifica o di
specifiche disposizioni, bensì di introdurre un’idea
che - nella sua apparente semplicità - contiene un
principio “eversivo” dell’intero diritto contrattuale.
Se i “principi” costituzionali (e le clausole generali) sono direttamente idonei a conformare il potere di autonomia privata, viene “relativizzata” d’un
solo colpo qualsiasi regolamentazione legale dell’esercizio di tale potere, perché qualsiasi limite potrà
(più o meno agevolmente) ricondursi ad un principio costituzionale (o ad una clausola generale), sicché la sua esplicita previsione da parte del legislatore non aggiungerebbe nulla che non sia già immanente nel “sistema” (31), e, per converso, la mancata previsione espressa non impedirebbe affatto di
affermare comunque l’esistenza del limite (ricavandolo da principi e clausole generali). Il destino di
(buona parte) delle norme del diritto contrattuale
si collocherebbe, così, nell’alternativa tra una valutazione di inutilità/superfluità della loro produzione
dicazioni circa la copiosa bibliografia in argomento).
(28) Si spiega in tal modo il risultato (apparentemente) paradossale e contraddittorio che le ordinanze della Corte costituzionale sembrano propugnare: da un lato escludendo che la
norma rispetto alla quale era stata sollevata la questione di legittimità possa dirsi in contrasto con la Costituzione, dall’altro
però giustificando questo esito con una lettura del tutto “nuova” del sistema (v. quanto diciamo nel testo).
(29) Il c.d. “diritto vivente”, concetto sul quale si vedano, almeno: Mengoni, Diritto vivente, in Jus, 1988, 19 ss. (e poi anche in Dig. disc. priv./Sez. civ., Torino, 1990), e Zagrebelsky, La
dottrina del diritto vivente, in Giur. cost., 1986, I, 1152 ss.
Ulteriori indicazioni bibliografiche nel recente contributo di
Santorelli, Il c.d. diritto vivente tra giudizio di costituzionalità e
nomofilachia, in Femia (cur.), Interpretazione a fini applicativi,
cit., 509 ss.
(30) Secondo Pagliantini, L’equilibrio soggettivo dello scambio, cit., «sostenendo che la caparra iniqua è in parte qua nulla,
sistematicamente si fa salvo il principio che la rettifica giudiziale è soggetta ad un principio di stretta legalità».
L’A., peraltro, aggiunge immediatamente che «epperò, non
v’è chi non lo veda, la nullità parziale della prestazione patrimoniale iniqua diventa un modo per aggirare la tassatività de
qua».
A noi sembra - come scriviamo nel testo - che l’effetto dell’impostazione della Corte sia più radicale: non si tratta infatti
del mantenimento del principio di stretta legalità (recte: tassatività) delle ipotesi di rettifica giudiziale del contratto, accompagnato dal suo aggiramento (sostanziale). La verità è che il
principio viene radicalmente negato nel momento in cui si af-
ferma che esiste un generale potere correttivo del contenuto
contrattuale, sia pure esercitabile attraverso una declaratoria
di nullità.
Sotto quest’ultimo profilo non deve ingannare la differenza
(che è puramente nominalistica) tra una clausola valida, ma illegittima che il giudice potrebbe “ridurre” (sarebbe il caso della
penale eccessiva) e una clausola nulla (ma solo) parzialmente, che sarebbe soggetta a caducazione fino a ricondurla alla
soglia “lecita” (sarebbe il caso della caparra confirmatoria eccessiva). In entrambi i casi il risultato non cambia, e - anzi - la
stessa distinzione concettuale or ora evocata si rivela - a ben
vedere - fragile, se si accoglie l’argomentare della Corte costituzionale. Non c’è motivo infatti per considerare nulla (parzialmente) una caparra confirmatoria eccessiva, e per ritenere che
invece sia valida (ancorché riducibile) una penale parimenti eccessiva.
(31) È appena il caso di osservare che i modi e le forme in
cui le diverse “norme” dell’ordinamento (scaturenti da fonti di
diversa natura, e intrecciate tra loro attraverso articolazioni
sempre più complesse) “fanno sistema” - recte: sono componibili in un complesso organico ed unitario - costituisce esso
stesso un problema (o, se si vuole, il problema).
Per un primo orientamento tra diverse posizioni prospettabili al riguardo, si vedano rispettivamente: Perlingieri, Complessità e unitarietà dell’ordinamento giuridico vigente, in Rass. dir.civ., 2005, 188 ss., spec. 202 ss., e Falzea, La Costituzione e
l’ordinamento, in Riv. dir. civ., 1998, I, 261 ss. (e ora in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, I,
Teoria generale del diritto, Milano, 1999, 456).
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ed esistenza (comunque surrogabili attraverso regole direttamente ricavate da principi o clausole generali), e la considerazione - nella migliore delle
ipotesi - del loro contenuto come meramente orientativo e tendenziale (potendo quel contenuto essere
disatteso/superato attraverso una regola diversa,
tratta dai suddetti principi e clausole generali).
Difficile immaginare un esito maggiormente in
contrasto con il principio dell’autonomia privata (ammesso che un tale “principio” si possa - a questo
punto - considerare ancora esistente e dotato di un
significato non meramente nominalistico).
Si badi: non si pensa affatto, ovviamente, di negare la possibilità che le norme che disciplinano (i
limiti del)l’autonomia contrattuale possano essere
assoggettate ad un controllo di legittimità costituzionale, come appunto chiedeva (con riferimento
all’art. 1385 c.c.) il giudice a quo, nella vicenda di
cui ci stiamo occupando. Ma altro è che sia il giudice costituzionale a sancire (eventualmente) l’illegittimità di una norma del legislatore che non ponga limiti (o non ponga limiti di un certo tipo) all’autonomia contrattuale, altro è che si affidi al
giudizio del singolo giudice ordinario la valutazione
se il concreto atto di esercizio dell’autonomia privata contrasti o meno con un principio costituzionale (nella specie: il principio di solidarietà sociale).
In quest’ultimo caso, qualsiasi pattuizione (pur
formalmente consentita dalla legge, o comunque da
essa non vietata) si troverebbe esposta ad un sindacato giudiziale dall’esito imprevedibile, in quanto
ogni giudice potrebbe ritenere (o meno) violato un
principio costituzionale (ad es., per restare al tema,
il principio di solidarietà sociale) secondo variabili
(e inevitabilmente soggettivi) parametri.
Nel caso di specie, per es., si dovrebbe dire che
sarebbe molto più “stabile” la pattuizione di una
(clausola) penale, che le parti sanno poter essere
messa in discussione solo in caso di eccessività manifesta dell’importo pattuito (come recita un articolo
di legge, art. 1384 c.c.), piuttosto che la dazione di
una caparra confirmatoria (magari di importo inferiore) che potrebbe essere ritenuta eccessiva dal
giudice senza alcun predeterminato parametro che
circoscriva l’ambito della valutazione discrezionale
a lui (in ipotesi) riservata.
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Epilogo. La complessità “perduta” e la
(insostenibile) “leggerezza” della
semplificazione. Dalla valutazione
«secondo diritto» alla valutazione
«secondo equità»
C’è ancora una ragione che induce a considerare
con sguardo critico le ordinanze in esame.
Si sono esaminate, nelle pagine precedenti, le
molteplici ragioni che sono (presumibilmente) alla
base della scelta del legislatore del codice civile di
non estendere anche alla caparra (confirmatoria)
quella regola di “riducibilità” (sia pure rigorosamente circoscritta, in modo da farla apparire come
senz’altro “eccezionale”) che l’art. 1384 c.c. sancisce invece per la penale.
La contestualità rispetto alla conclusione del
contratto, e, soprattutto, la “bilateralità” della penale, sono - in questa prospettiva - elementi plausibilmente decisivi (come abbiamo visto) per dare
fondamento (ratio) ad una differenziazione che
solo una lettura superficiale potrebbe considerare
immotivata e arbitraria (anche se questo non significa che la disciplina prevista sia l’unica possibile).
Dettando la disposizione dell’art. 1385 c.c., il legislatore ha dunque operato una ponderazione degli interessi in gioco, determinando la regola (nel
caso di specie, la regola della intangibilità della caparra) che all’esito di tale ponderazione è apparsa
la più congrua in relazione alla natura, alla finalità
e al meccanismo di funzionamento della caparra
confirmatoria.
Introdurre la possibilità di uno scrutinio - da effettuarsi, addirittura, ai fini di un giudizio di validità
della clausola - circa la “congruità” dell’ammontare
della caparra, significa sostituire alla valutazione
compiuta dal legislatore (nel senso - si ripete - di
una intangibilità assoluta della caparra), una regola
diversa (che potrebbe definirsi di intangibilità relativa); ma, soprattutto, significa rimettere alla variabile valutazione del giudice la decisione circa la validità o meno (nei singoli casi concreti) della caparra convenuta tra le parti.
Valutazione che, oltre tutto - lo si è già rilevato
-, in quanto effettuata sulla base di “parametri”
quanto mai vaghi e indeterminati (“solidarietà sociale”, “buona fede”) porterebbe inevitabilmente
ad esiti diversissimi, senza neanche la possibilità di
trovare un criterio (almeno) orientativo in una
qualche direttiva fornita dal legislatore (come avviene - a proposito della penale - con l’indicazione
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secondo la quale la “riducibilità” è subordinata all’esistenza di una “manifesta eccessività”) (32).
Al di là dell’esito paradossale già segnalato (la riducibilità della penale - espressamente prevista -
(32) Si tocca qui uno dei profili problematici più rilevanti tra
quelli che sono sollevati dal tema della “applicazione diretta”
delle norme (rectius: dei principi) costituzionali.
Com’è noto, una delle caratteristiche (della maggior parte)
dei testi costituzionali è costituita dalla elevata “indeterminatezza” che connota l’enunciato normativo, come si conviene
del resto a formule che hanno la funzione di esplicitare valori e
principi di grande generalità e di notevole (potenziale) estensione applicativa. Ulteriore espressione di questa natura dei
precetti costituzionali è l’assolutezza della enunciazione di ciascuno di essi, rimanendo affidato ad una successiva opera di
bilanciamento (da parte del legislatore, o anche del giudice) il
contemperamento tra opposti valori e principi che siano (in
ipotesi) contemporaneamente coinvolti nella concreta situazione oggetto di considerazione.
Viceversa, le “ordinarie” norme legislative sono disposizioni
che hanno come scopo (di regola) proprio quello di risolvere
un conflitto di interessi, soluzione che presuppone il “bilanciamento” tra gli opposti interessi e valori, che vengono in rilievo
nel conflitto in questione (cfr., di recente, Mannella, Giudice
comune e Costituzione: il problema dell’applicazione diretta del
testo costituzionale, in Studi in onore di Franco Modugno, III,
Napoli, 2011, ove si legge che «la funzione di un codice dovrebbe essere quella di fornire una risposta univoca, uno stabile punto di equilibrio degli interessi divergenti che vengono a
trovarsi in conflitto; una costituzione moderna, invece, si trova
a contenere valori, interessi, programmi, principi indicati come
assoluti, spesso contrapposti tra loro e non bilanciati. Un codice dovrebbe guidare verso risposte univoche e stabili, dovendo
ogni suo articolo fissare il punto di equilibrio, la sintesi tra gli interessi sociali che si trovano in conflitto: proprietario e locatore,
venditore e compratore, socio e amministratore, trovano tutti,
negli articoli del codice, la composizione dei loro interessi divergenti e del loro potenziale conflitto. In una costituzione moderna sarebbe vano cercare “istituti che conciliassero opposte
esigenze”. I valori, interessi, programmi in essa riposti sono dichiarati in termini assoluti e spesso generici, contrapposti gli uni
agli altri, senza la possibilità di fissare preventivamente il punto
della loro mediazione. Non è perciò la quantità e forse neppure
la generalità dei principi ricavabili dal testo quello che distingue la costituzione dalle leggi, quanto piuttosto il fatto che tali
principi vengono enunciati come assoluti e non bilanciati …»;
corsivi aggiunti).
Le considerazioni appena svolte dovrebbero, allora, rendere
evidente tutta la problematicità dell’idea che sia possibile ricavare dai principi costituzionali “regole” direttamente (e immediatamente) idonee a disciplinare i conflitti interprivati (e ciò si badi - è tanto più vero quanto più “specifica” sia la “regola”
che si pretenda di desumere dal principio).
Si consideri ad es. il principio (costituzionale) di “solidarietà
sociale”. Già è problematico ritenere che tale principio - in sé
considerato - si riferisca anche a quella particolare “relazione”
che è costituita dal rapporto obbligatorio tra un creditore e un
debitore (rapporto che vede contrapporsi - per lo più - gli interessi “individuali” di due soggetti). Ma, ammesso pure che si
immagini di ricomprendere nell’ampia formula (costituzionale)
della “solidarietà sociale” anche la relazione tra un creditore e
un debitore, è evidente che da quel principio non potrà trarsi
se non un generico orientamento circa la disciplina da applicare a questo o quel profilo di detta relazione (nella quale, fra l’altro, non è affatto detto che la “parte debole” - e, dunque, bisognosa di “solidarietà” - sia, in tutte le situazioni, il debitore
piuttosto che il creditore), non potendosi certo pretendere di
desumere da esso regole di dettaglio, tanto più quando dette
regole sono già poste dal legislatore.
In quest’ultimo caso, infatti, facultare il giudice (ordinario) a
disciplinare diversamente il concreto rapporto in applicazione
diretta di un principio costituzionale implicherebbe che si rico-
nosca al giudice un generale potere di deroga alla legge, ossia
il potere di far prevalere (su quello del legislatore) un diverso
bilanciamento degli interessi in gioco, sulla base di una propria
interpretazione della Costituzione. Orbene, che tutto ciò non
sia possibile al di fuori di una specifica autorizzazione (legislativa) non sembra affermazione che richieda soverchie giustificazioni.
Il che non significa - come già osservato - che non siano
configurabili discipline (dettate dal legislatore ordinario) da riconoscere come contrarie a principi costituzionali: solo che
detta “contrarietà” dovrà essere accertata e dichiarata nelle
forme previste (ossia, in particolare, attraverso un giudizio di legittimità costituzionale e una pronuncia della Corte costituzionale, atteso che il nostro ordinamento non contempla il c.d.
“controllo diffuso di costituzionalità”).
Del resto non può considerarsi in contrasto con quanto appena detto né il dovere (del giudice ordinario) di “interpretazione conforme alla Costituzione” (dovere che comporta bensì
l’obbligo di prescegliere - tra più interpretazioni possibili della
legge ordinaria - quella che si ritiene maggiormente conforme
ai principi costituzionali, ma che presuppone altresì che la norma applicabile sia pur sempre una norma di fonte legislativa),
né i casi - in verità alquanto rari - in cui può ritenersi che la disposizione costituzionale successiva incompatibile con una
normativa di legge ordinaria sia immediatamente e direttamente abrogativa di tale normativa (che potrà dunque essere
senz’altro disapplicata dal giudice ordinario, senza che si renda
necessaria una previa pronuncia della Corte costituzionale).
Proprio quest’ultima ipotesi rafforza (anziché indebolire) il discorso qui svolto: i casi di “applicazione diretta” cui si fa riferimento (v., da ultimo, Mannella, op. cit., la quale richiama l’esempio dell’applicazione “diretta” delle disposizioni della legge
cost. n.3/2011, di riforma del titolo V della Cost., quale emerge
dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha ritenuto
senz’altro “abrogate” le precedenti norme di legge “incompatibili”, ad es. quelle che attribuivano il potere regolamentare al
Governo in materie non più incluse nella competenza legislativa statale) riguardano infatti disposizioni costituzionali che sono sufficientemente “dettagliate” e “specifiche” sì da consentire di identificare in maniera evidente ed indiscutibile il contrasto con le stesse delle preesistenti norme di legge ordinarie. Il
che conferma che, quando invece detto contrasto non sia evidente ed indiscutibile (nel senso che la norma costituzionale, in
quanto norma di principio, non consenta di desumere immediatamente una specifica regula iuris chiaramente incompatibile con quella dettata dal legislatore ordinario) spetterà al Giudice costituzionale accertare e dichiarare la “incompatibilità” (e
le ragioni della stessa).
Un’ultima considerazione induce infine ad evidenziare come
la plausibilità dell’ordine di idee appena esposto sia confermata da quanto viene da tempo affermato in materia di “diretta
applicabilità” delle disposizioni della Cedu, problema riguardo
al quale si è osservato che una “antinomia”, astrattamente risolvibile con la tecnica della disapplicazione della norma interna e della diretta applicazione della norma della Convenzione,
può prospettarsi solo quando «le disposizioni della Cedu possono essere qualificate come immediatamente precettive, nel
senso che esprimono un comando sufficientemente dettagliato da ritenersi direttamente attributivo alla persona di un diritto
direttamente esigibile ed azionabile …» (così Deodato, L’efficacia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali nell’ordinamento italiano. La questione
della disapplicazione: un problema sopravvalutato?, in www.giustizia-amministrativa.it.
Per una riflessione teorica sulle implicazioni derivanti dalla
generalità ed in determinatezza dei principi costituzionali, e
dallo “scarto” tra detti principi e le norme ordinarie, si veda il
fondamentale contributo di Farias, Idealità e indeterminatezza
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Giurisprudenza
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sarebbe soggetta a limiti, che invece non vi sarebbero per la caparra, rispetto alla quale quella “riducibilità” non è esplicitamente contemplata (33))
non può non evidenziarsi come si dia qui la conferma più evidente di quanto si affermava poco sopra:
e cioè che un modo siffatto di ragionare finisce per
rendere inutili/superflue previsioni normative specifiche (in questo caso, la previsione della “riducibilità” contenuta nell’art. 1384 c.c.), nella misura
in cui queste delineano “soluzioni” comunque attingibili sulla base di principi e clausole generali
(facendo a meno, pertanto, di una previsione esplicita e specifica).
Del resto le aporie non si fermano qui, e - da un
punto di vista sistematico - esse si palesano, se possibile, ancora più gravi di quanto sino ad ora segnalato.
È noto, ad es., che - nei contratti dei consumatori - in base all’art. 33 comma 2 lett. f) del Codice
del consumo si presume vessatoria la clausola che
ha per oggetto o per effetto di «imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro
titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo».
Secondo l’opinione prevalente (34) - se pur non
incontrastata (35) - la disposizione in esame, vista
l’ampiezza della sua formulazione letterale, è considerata riferibile anche alla caparra confirmatoria.
Ne consegue che la clausola che prevede la corresponsione (da parte del consumatore) di una caparra “manifestamente eccessiva” può essere dichiarata nulla, in particolare ove non venga vinta la
presunzione di vessatorietà (cosa che può accadere,
ad es., se il professionista fornisce la prova che la
clausola ha formato oggetto di trattativa individuale).
Dunque, un regime che differenzia - così sembrerebbe - la disciplina della caparra confirmatoria nei contratti del consumatore rispetto a quella
che trova applicazione nei contratti che potremmo chiamare “di diritto comune”, ammettendo
nei primi (e sia pure solo a favore del consumatore) quella tutela contro la manifesta eccessività
della caparra, sconosciuta ai contratti “tra eguali”.
Orbene, non sarebbe più così, se si dovesse seguire
il ragionamento delle due ordinanze della Corte
costituzionale, oggetto del presente commento.
Anzi - e, ancora una volta, paradossalmente - la tutela del contraente sarebbe minore (anziché maggiore) quando questo contraente sia un “consumatore”, perché in tal caso la “vessatorietà” (e dunque
la nullità) della clausola potrebbe risultare esclusa,
se si prova che vi sia stata una specifica “negoziazione” al riguardo, prova che invece sarebbe ininfluente in un contratto che risulti stipulato “tra
eguali” (36).
L’assurdità dell’esito esonera da qualsiasi ulteriore commento sul punto, e consente di avviare a
conclusione il discorso, non senza però accennare
ad un’ultima considerazione.
Il ruolo (inedito) che ordinanze come quelle in
esame (che si allineano, peraltro, ad un modo di
ragionare sempre più diffuso, che esse contribuiscono al tempo stesso ad alimentare) attribuiscono ai
“principi” (costituzionali) e alle clausole generali, è
un ruolo sul quale occorre portare una grande attenzione, evitando adesioni semplicistiche che rischiano di smarrire (sull’altare della c.d. “giustizia
del caso concreto”) regole e principi fondamentali
del diritto contrattuale.
Il rischio è quello di trasformare un ordinamento
“di diritto scritto”, quale formalmente continua ad
essere il nostro, in qualcosa di diverso. Detto altrimenti, il rischio è quello di affiancare - senza che
ciò trovi supporto in una modificazione formale
del sistema delle fonti - al diritto “scritto” (basato
sulla legge) un diritto di fonte “giurisprudenziale”
(fondato sull’equità), considerato idoneo a derogare al primo ogni qualvolta le caratteristiche del ca-
dei principi costituzionali, Milano, 1981, spec. 161 ss.
(33) Il che potrebbe persino far sorgere qualche dubbio di
legittimità costituzionale, questa volta sotto il profilo della irragionevolezza della diversità di trattamento (art. 3 Cost.).
(34) Cfr., ad es., Navarretta, in Bianca, Busnelli,(a cura di),
Commentario al Capo XIV bis del codice civile: dei contratti del
consumatore, in NLCC, 1997, 261 ss.; Lener, in Trattato dei
contratti dir. da P. Rescigno e E. Gabrielli, I contratti dei consumatori (a cura di E. Gabrielli e E. Minervini), Torino, 2005, 236
s.
(35) Vedi, infatti, l’opinione contraria di Tullio, Il contratto
per adesione. Tra il diritto comune dei contratti e la novella sui
contratti dei consumatori, Milano, 1997, 126.
Alcuni autori ritengono che, poiché l’art. 33, comma 2, lett.
f) si riferisce soltanto al consumatore, la norma non dovrebbe
trovare applicazione qualora le clausole in essa previste riguardino (come dovrebbe accadere per la “caparra confirmatoria”)
entrambe le parti: cfr., ad es., Atelli, Chi troppo vuole ottiene
(appena) il dovuto più faticosamente: per un’ipotesi di coordinamento degli artt. 1384 e 1469-bis co. 3 n. 6 c.c., in Danno e responsabilità, 1998, 207.
(36) È un risultato non diverso da quello che abbiamo, in altra occasione, avuto modo di segnalare, con riferimento alla
materia del credito al consumo: cfr. D’Amico, Credito al consumo e principio di relatività degli effetti contrattuali (considerazioni “inattuali” su collegamento negoziale e buona fede), in Contratti, 2013, 712 ss., spec. 718-719.
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Giurisprudenza
Contratti in generale
so concreto segnalino come “ingiusto” l’esito che
in base ad esso dovrebbe essere sancito (37).
Una trasformazione di questo genere - indipendentemente dal fatto che la si consideri o meno
auspicabile - richiede però una discussione, e pre-
suppone un percorso assai più complesso e ampio
di quello che poche righe di motivazione di una
ordinanza di inammissibilità sono suscettibili di
(fare) compiere.
(37) Per più ampie considerazioni al riguardo, sia consentito
il rinvio a D’Amico, Principi clausole generali e norme specifiche, ined.
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Sintesi
Osservatorio di legittimità
a cura di Francesco Macario con la collaborazione di Giulia Orefice e Francesco Paolo Patti
LOCAZIONE
SCADENZA DEL CONTRATTO E TUTELA POSSESSORIA
Cassazione civile, Sez. II, 1° settembre 2014, n. 18486 Pres. Piccialli - Est. Picaroni - T.A. c. CONSAP S.p.a.
(già INA S.p.a.)
Dopo la scadenza del contratto di locazione, il ricorso del
locatore alla tutela giurisdizionale esecutiva costituisce
l'unico modo per ottenere la disponibilità dell'immobile,
con la conseguenza che l'intervento finalizzato ad interrompere il rapporto tra il conduttore e la res, con azioni
violente o clandestine, integra attività di spoglio.
La questione
La parte conduttrice lamenta che, nonostante il regolare
pagamento del canone, il proprietario dell’immobile non
aveva provveduto ad eliminare le infiltrazioni dal tetto e,
pertanto, il bene risultava attualmente inutilizzabile. Nelle
more è convalidata l’intimazione per il rilascio dell’immobile, a cui non fa seguito il regolare sviluppo della procedura,
quanto invece l’atto di forza del proprietario di sostituzione
delle chiavi al terrazzo ed alla cantina e la chiusura dell’erogazione dell’acqua calda.
Il conduttore chiede, dunque, la reintegra nel possesso dei
locali dai quali era stato illegittimamente allontanato. Il Tribunale, e poi la Corte di appello, rigettano la domanda, evidenziando come l’attore fosse qualificabile quale mero detentore senza titolo dell’immobile, in quanto alla data del
deposito del ricorso il contratto di locazione risultava scaduto e non altrimenti rinnovato.
La Corte di Cassazione, invece, accoglie il ricorso, disponendo la compensazione delle spese del giudizio, posta la
questione controversa decisa. Infatti, argomenta la Corte,
l’azione di reintegra di cui all’art. 1168, comma 2 c.c. non è
proponibile dai soli detentori per ragioni di servizio o di
ospitalità, a cui non è riconducibile la situazione del conduttore di immobile alla scadenza del contratto.
Non è tantomeno argomentabile, si dice, che suddetta scadenza abbia l’effetto di mutare la condizione giuridica del
conduttore a mero occupante senza titolo della res. L’unica
conseguenza rilevante, a seguito della scadenza contrattuale o del trascorrere del termine previsto nella convalida
senza il rilascio del bene, sarà quella di determinare una situazione di inadempimento contrattuale, come dispone
esplicitamente l’art. 1591 c.c. La norma in questione, infatti, prevede che il conduttore in mora è tenuto alla sola corresponsione al locatore del corrispettivo fino alla riconsegna, salvo il maggior danno, con ciò implicitamente riconoscendo la qualifica di conduttore, seppur inadempiente.
La Suprema Corte, inoltre, riporta a sostegno della sua tesi
la giurisprudenza precedente, costante nel ritenere che alla
scadenza del contratto di locazione permangono degli obblighi in capo al conduttore, quale quello di corresponsione del
canone fino al rilascio, ex art. 1591 c.c. In tal modo il conduttore resta detentore qualificato dell’immobile e, pertanto,
potrà legittimamente ricorrere alla tutela possessoria di cui
938
all’art. 1168, comma 2 c.c. Nella specie, infatti, il proprietario, agendo di propria iniziativa ed impedendo l’accesso alla
res a controparte, ha di fatto esercitato un potenziale diritto
motu proprio, senza rispettare in alcun modo le disposizioni
legislative in merito. L’azione possessoria, quindi, fin dalle
origini pensata come reazione all’esercizio arbitrario delle
proprie ragioni, è esperibile nel caso in esame, in quanto il
locatore che abbia ottenuto in sede giurisdizionale il titolo
esecutivo per il rilascio dell’immobile non potrà agire autonomamente in via violenta o clandestina al fine di affermare
il proprio diritto sul bene. Come osserva la Suprema Corte
con un’enfasi quasi filosofica: “il titolo esecutivo riconosce il
diritto di una parte contro l'altra e consente di realizzare il
passaggio dal dover essere (diritto contenuto nel titolo) all'essere (realtà materiale corrispondente al diritto consacrato
nel titolo), all'interno delle regole della convivenza civile”.
Pertanto alla scadenza contrattuale il ricorso alla tutela giurisdizionale costituisce l’unico modo che ha il titolare della res
per incidere legittimamente sulla situazione di inadempienza
di controparte, altrimenti scadendo nell’azione violenta e
clandestina e, quindi, in un’attività giuridica di spoglio, tutelabile ex art. 1168, comma 2 c.c.
I precedenti
Sul tema, Cass., 11 maggio 2010, n. 11373, in Giust. civ.,
2011, I, 2667; Cass., 25 febbraio 2009, n. 4484, in Rep. Foro
it., 2009, voce Locazione, n. 198; Cass., 7 febbraio 2006, n.
2525, id., 2006, voce cit., n. 156; Cass., 29 settembre 2005,
n. 19139, in Arch. loc, 2006, 29; Cass., 10 febbraio 1999, n.
1133, in Foro it., 1999, I, 791; Cass., 2 maggio 1981, n.
2672, in Rep. Foro it., 1981, voce cit., n. 162: “il conduttore
in mora nella restituzione della cosa locata non è un occupante abusivo, ma, ancorché moroso, continua ad essere
conduttore, e quindi a godere dei frutti della cosa e a farli
propri, salvo il suo obbligo, in base all’art. 1591 c.c., di corrispondere il corrispettivo della locazione, oltre il risarcimento
del maggior danno eventualmente subito dal locatore”.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (CONTRATTI CON LA)
ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA - LIQUIDAZIONE
DELL’INDENNITÀ
Cassazione civile, Sez. III, 28 luglio 2014, n. 17085 Pres. Russo - Est. Stalla - P.m. Corasaniti (concl. conf.)
– Comune Tricase c. S.G. e altri
In tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti
della P.A., conseguente all’assenza di un contratto d'opera professionale, l’indennità prevista dall'art. 2041
c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito se il rapporto
negoziale si fosse perfezionato. Pertanto, ai fini della
determinazione dell’indennizzo dovuto al professionista, la parcella, ancorché vistata dall’ordine professionale, non può essere assunta come parametro di riferi-
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Sintesi
mento, non trattandosi in questo caso di corrispettivo
per prestazioni professionali, ma della individuazione di
una somma che va liquidata, in forza delle risultanze
processuali, se ed in quanto si sia verificato un vantaggio patrimoniale a favore della P.A., con correlativa perdita patrimoniale della controparte.
La questione
Un ingegnere, un architetto e un geometra convenivano in
giudizio il Comune di Tricase, chiedendone la condanna al
pagamento di una somma a titolo di indebito arricchimento
ex art. 2041 c.c. Ciò in quanto l’amministrazione comunale
convenuta si era avvalsa, in forza di formale delibera di incarico ma senza stipulazione di apposita convenzione, della
loro attività professionale avente ad oggetto la predisposizione di progetti di massima ed esecutivi - rientranti in un
piano di finanziamento regionale - per la creazione di strutture polifunzionali di sostegno alle imprese minori artigianali e turistiche. Il Tribunale condanna il Comune al pagamento di una determinata somma, il cui ammontare viene
successivamente ridotto dalla Corte d’appello.
Il giudizio di fronte alla Corte di Cassazione, in seguito al ricorso promosso dal Comune, ha per oggetto i criteri di
quantificazione dell'indennità di arricchimento.
La lunga motivazione della Suprema Corte ravvisa un’erronea applicazione pratica, nel momento in cui la Corte di appello ha riconosciuto agli attori, nella minor somma tra
l’entità dell’arricchimento dell’ente e quella dell’impoverimento di questi ultimi, non soltanto la diminuzione patrimoniale commisurata ai costi di esecuzione dell’opera, ma
anche “il mancato guadagno, da determinarsi eventualmente anche ex art. 1226 c.c., che lo stesso avrebbe ricavato dal normale svolgimento della sua attività professionale nel periodo di tempo dedicato invece all’esecuzione
dell’opera utilizzata dall'ente pubblico”.
Tale affermazione, ad avviso della Corte, disattende, un
principio affermatosi nella più recente giurisprudenza di legittimità (così come attestato da una fondamentale sentenza resa in materia dalle Sezioni Unite) la quale, decidendo
in una fattispecie antecedente alla l. 24 aprile 1989, n. 144,
implicante la responsabilità diretta e personale del funzionario dell’ente pubblico, ha stabilito che “in tema di azione
d’indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto di opere, tra la P.A. ed un privato, l’indennità prevista dall’art.
2041 c.c., va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù
del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso
avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto
negoziale fosse stato valido ed efficace; pertanto, ai fini
della determinazione dell'indennizzo dovuto, non può farsi
ricorso alla revisione prezzi, tendente ad assicurare al richiedente quanto si riprometteva di ricavare dall'esecuzione del contratto, la quale, non può costituire neppure un
mero parametro di riferimento, trattandosi di meccanismo
sottoposto dalla legge a precisi limiti e condizioni, pur sempre a fronte di un valido contratto di appalto”.
Sullo stesso solco si muovono, come detto, le Sezioni Unite,
secondo cui “in tema di azione d'indebito arricchimento nei
confronti della P.A., conseguente all'assenza di un valido
contratto di appalto d'opera tra la P.A. ed un professionista,
l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c., va liquidata nei limiti
della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di
quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante
se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Pertan-
i Contratti 10/2014
to, ai fini della determinazione dell'indennizzo dovuto al professionista che partecipi, in assenza di valido contratto, ad
una commissione comunale per l'affidamento di determinati
lavori, non possono essere assunte come parametro le tariffe
professionali (ancorché richiamate da parcelle vistate dall'ordine competente), alle quali può ricorrersi solo quando le prestazioni siano effettuate dal professionista in base un valido
contratto d'opera con il cliente, mentre è congruo il riferimento alle somme previste per i gettoni di presenza spettanti ai
componenti di commissione (nella specie ai sensi del D.P.R.
11 gennaio 1956, n. 5)”.
Ebbene, le statuizioni riportate, secondo la Suprema Corte,
confliggono con quanto ritenuto dalla Corte d’appello.
Le suddette conclusioni poggiano sulla considerazione che
l’istituto ex art. 2041 c.c. non ha, a differenza della fattispecie aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. natura risarcitoria ma indennitaria; e che, su tale presupposto, esso mira a tutelare
l'impoverito sulla base della diminuzione patrimoniale subita
e nei limiti dell’arricchimento dell’altra parte, ma senza con
ciò costituire strumento di restitutio in integrum patrimoniale,
con la conseguenza che in detta azione la centralità del danno viene necessariamente meno, e non mirando la norma
ad operare la ricomposizione del patrimonio dell’impoverito,
manca in radice il titolo idoneo a compensare il suo mancato incremento attraverso i profitti non realizzati.
Questa considerazione, secondo i giudici di legittimità, è valida, a fortiori, allorquando lo spostamento patrimoniale senza causa suscettibile di riequilibrio indennitario riguardi il
rapporto con la P.A.; settore nel quale l’azione di cui all'art.
2041 c.c., da rimedio residuale è divenuto sempre più l’obbiettivo principale di quanti hanno volontariamente eseguito
una prestazione, pretermettendo del tutto l’osservanza dei
normali canoni che presiedono alla conclusione dei contratti
con la P.A., o non avendo convenienza ad utilizzarli; e mostrando, invece, interesse a far valere essi la nullità o l’inesistenza del contratto. Con la conseguenza che proprio in
questo settore si manifestano effetti distorti dell’istituto dell'arricchimento, con esiti addirittura premiali per l’impoverito.
Ne deriva che anche nei confronti della P.A. - la cui azione è
del resto vincolata a regole formali imperative di contabilità e
buon andamento - il depauperamento ex art. 2041 c.c., deve
comprendere tutto quanto il patrimonio ha perduto (in elementi ed in valore) rispetto alla propria precedente consistenza; ma non anche i benefici e le aspettative connessi con la
controprestazione pattuita quale corrispettivo dell'opera, della
fornitura, o della prestazione professionale, non percepito.
E tra gli elementi ed i benefici non indennizzabili vengono fatti rientrare, in via esemplificativa, il profitto di impresa; le spese generali; la retribuzione dell'opera che non sia consistita
nella progettazione o direzione dei lavori con i relativi accessori; ogni altra posta rivolta ad assicurare egualmente al richiedente - direttamente o indirettamente, tramite il ricorso a
parametri di corrispettività contrattuale o di tariffa professionale - quanto questi si riprometteva di ricavare dall’esecuzione del contratto o, che è lo stesso, dall'esecuzione di analoghe attività remunerative nello stesso periodo di tempo.
Pertanto, l’esclusione del mancato guadagno non concerne soltanto (diversamente da quanto vorrebbero i privati
controricorrenti) la mancata remunerazione dello specifico
rapporto invalidamente intercorso tra il professionista e
l’ente pubblico, ma anche di quegli altri rapporti (“virtuali”)
che il primo avrebbe avuto l’opportunità di assumere in assenza ed alternativa alla commessa pubblica (sì che non è
difficile, in tale affermazione, intravvedere il richiamo alla
categoria della perdita di chances contrattuali, a sua volta
tipica del diverso contesto risarcitorio).
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La Corte d’appello, ha disatteso specificamente le affermazioni delle Sezioni Unite, riconoscendo agli attori - sebbene
decurtata equitativamente - un’indennità per i compensi
che essi avrebbero presuntivamente potuto conseguire
qualora, nello stesso periodo di tempo nel quale si dedicarono alla progettazione per conto dell'amministrazione comunale di Tricase, avessero eseguito incarichi professionali
di diversa committenza. E tale riconoscimento è avvenuto,
contrariamente ai principi che, pure, la corte territoriale ha
dichiarato di voler applicare nel caso di specie, a titolo di
lucro cessante per mancato guadagno; e dunque, in definitiva, per una tipica causale risarcitoria.
Conseguenziale a questo, è poi l'errore costituito dall'aver
utilizzato, nella quantificazione dell'indennità (ancorché decurtata), il parametro delle tariffe professionali dell'ordine
di appartenenza; evocative della corrispettività contrattuale, ma estranee alla riconoscibilità delle voci di depauperamento individuate, come visto, dalla giurisprudenza di legittimità. Altresì erroneo, infine, risulta il ricorso da parte
della Corte di appello allo strumento della liquidazione del
danno ex art. 1226 c.c.; non perché aprioristicamente avulso dalla determinazione dell'indennità di arricchimento, ma
perché nella specie applicato senza reale esplicitazione: a)
delle ragioni che rendevano impossibile, ovvero soverchiamente difficile, per gli attori la prova in questione (ora da limitarsi alle poste passive indennizzabili, come su individuate), così da giustificare l'esercizio in funzione suppletiva del
potere di liquidazione giudiziale equitativa; b) dei parametri
di concreto esercizio della determinazione equitativa dell'indennità, la cui individuazione è indispensabile al fine di fondare razionalmente, e di rendere controllabile, tale esercizio.
940
I precedenti
In senso conforme, v. Cass., 7 ottobre 2011, n. 20648, in
Rep. Foro it., 2011, voce Arricchimento senza causa, n. 10;
Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2009, n. 1875, ivi, 2009, voce
cit., n. 20; Cass., Sez. Un., 11 settembre 2008, n. 23385, in
Corr. giur., 2009, 59.
L’utilizzabilità delle tariffe professionali è stata affermata da
Cass., 29 settembre 2011, n. 19942, in Rep. Foro it., 2011,
voce Arricchimento senza causa, n. 8, come parametro di riferimento nell’accertamento del risparmio (limite dell'arricchimento) conseguito dall'ente pubblico committente rispetto alla spesa cui sarebbe andato incontro nel caso di incarico professionale contrattualmente valido. È stata invece
esclusa da Cass., 18 febbraio 2010, n. 3905, ivi, 2010, voce
cit., n. 15, allorquando si tratti, come nella specie è stato invece fatto dalla corte territoriale, di quantificare l'indennità
ex art. 2041 c.c. luogo del corrispettivo contrattuale.
Secondo costanti principi giurisprudenziali, il giudizio equitativo ex art. 1226 c.c. - comunque valevole solo per stabilire l'entità del pregiudizio (quantum), non anche quest'ultimo in quanto tale (an), necessitante di prova ad opera della
parte che vi sia, per regola generale, tenuta - presuppone
l'impossibilità, o quantomeno la grande difficoltà, di darne
dimostrazione (Cass., 19 dicembre 2011, n. 27447, in Rep.
Foro it., 2011, voce 2011, voce Danni civili, n. 364); e che,
in tanto la decisione del giudice può definirsi equitativa, e
non arbitraria, in quanto vengano indicati, secondo criteri
logici di effettività e non di apparenza, i parametri adottati
nella determinazione in concreto del ristoro. In assenza di
che, il potere discrezionale del giudice di merito trova sindacato anche in sede di legittimità (Cass., 4 aprile 2013, n.
8213, in Rep. Foro it., 2013, voce Danni civili, n. 207).
i Contratti 10/2014
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Sintesi
Osservatorio di merito
a cura di Vito Amendolagine
APPALTO
LA RESPONSABILITÀ SOLIDALE PER INADEMPIMENTO
DELL’IMPRESA APPALTATRICE, DIRETTORE DEI LAVORI,
PROGETTISTA E FORNITORE DI MATERIALI PER VIZI
DELL’OPERA
Tribunale di Reggio Emilia, 27 giugno 2014 - Giud. Morlini - R.T.e G.F. c. Studio tecnico P. di G., M., S. e cugini
ed altri
Alla stregua dei principi generali codificati dall'art. 2055
c.c., qualora il danno sia provocato da più soggetti, cioè
progettista, appaltatore, direttore dei lavori e fornitore
dei materiali, per inadempimenti rispetto a diversi contratti intercorsi tra ciascuno di essi ed il danneggiato,
cioè il committente, in base alla responsabilità solidale
dei debitori, il creditore può rivolgersi a ciascuno dei
danneggianti per ottenere il risarcimento di tutto il danno, ed il debitore escusso ha poi regresso verso ciascuno degli altri responsabili per la ripetizione della parte
da ciascuno di essi dovuta, da presumersi uguale in
mancanza di un accertamento contrario. Infatti, al fine
di ritenere la solidarietà di tutte le parti all'obbligo risarcitorio, è sufficiente che le azioni od omissioni di ciascuna di esse abbiano concorso in modo efficiente a produrre l'evento, a nulla rilavando che costituiscano autonomi fatti illeciti o violazioni di norme giuridiche diverse.
La questione
La controversia trae origine da lavori di progettazione ed
installazione di un impianto termico, eseguiti presso un edificio in costruzione. Ciò posto, i committenti deducono il
non corretto funzionamento dell'impianto, e, sul presupposto dell'erroneità del progetto, evocano in giudizio lo Studio
Tecnico P., al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Costituendosi in giudizio,
resiste lo Studio Tecnico P., che comunque chiede ed ottiene la chiamata in garanzia sia della propria assicurazione
Reale Mutua, per essere manlevato in denegata ipotesi di
condanna, sia dell'appaltatore, del direttore dei lavori e del
fornitore dei materiali, indicati come diretti responsabili dei
danni lamentati da parte attrice, perché rispondano nei
confronti di parte attrice stessa. Tutti i terzi chiamati, così
come la convenuta, per un verso escludono la propria responsabilità in relazione ai vizi ed ai malfunzionamenti denunciati dall'attore, indicando come responsabili le altre
parti processuali, e per altro verso formulano comunque
eccezione di prescrizione e di decadenza in relazione alla
tardiva denuncia dei vizi stessi.
Il Tribunale ritiene di accogliere la domanda attorea, a tal fine rilevando che con il progettista risponde in solido l'appaltatore sia nel caso in cui egli si sia accorto degli errori e
non li abbia tempestivamente denunciati al committente,
sia nel caso in cui, pur non essendosi accorto degli stessi,
lo avrebbe potuto fare con l'uso della normale diligenza e
delle normali cognizioni tecniche.
i Contratti 10/2014
Invero, anche in presenza di un progetto, residua pur sempre un margine di autonomia per l'appaltatore, che gli impone di attenersi alle regole dell'arte e di assicurare alla
controparte un risultato tecnico conforme alle esigenze, eliminando le cause oggettivamente suscettibili di inficiare la
riuscita della realizzazione dell'opera.
Rientra infatti tra gli obblighi di diligenza dell'appaltatore,
senza necessità di una specifica pattuizione, esercitare il
controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, posto che dalla corretta progettazione, oltre che
dall'esecuzione dell'opera, dipende il risultato promesso, e
che l'obbligazione dell'appaltatore è qualificata, con terminologia forse ora superata ma certamente idonea a lumeggiare il concetto, come di risultato.
Conseguentemente, l'appaltatore è esentato da responsabilità solo ove dimostri che gli errori non potevano essere
riconosciuti con l'ordinaria diligenza richiesta all'appaltatore stesso, ovvero nel caso in cui, pur essendo gli errori stati
chiaramente prospettati e denunciati al committente, questi ha però imposto, direttamente o tramite il direttore dei
lavori, l'esecuzione del progetto ribadendo le istruzioni, posto che in tale eccezionale caso l'appaltatore ha agito come nudus minister, a rischio del committente e con degradazione del rapporto di appalto a mero lavoro subordinato.
Pertanto, poiché nel caso che qui occupa la stessa difesa
della convenuta ha parlato di evidenti errori nel progetto e
poiché l'istruttoria esperita non ha comprovato una situazione assimilabile a quella del nudus minister per tali motivi,
deriva che degli errori progettuali risponde anche l'appaltatore.
Il Tribunale rileva altresì che dei danni cagionati alla committenza deve rispondere anche l’impresa Eca Technology,
la quale non si è limitata a vendere il materiale, ma ha proceduto ad un sopralluogo senza segnalare le evidenti carenze funzionali e l'impossibilità del corretto funzionamento
dei macchinari.
Infine, in solido con progettista ed appaltatore deve rispondere anche il direttore dei lavori, sul punto, osservando che
il direttore risponde nei confronti del committente non solo
nel caso in cui i vizi derivino dal mancato rispetto del progetto, posto che tra gli obblighi del direttore stesso vi è
quello di riscontrare la progressiva conformità dell'opera al
progetto, ma anche nel caso i vizi derivino da carenze progettuali, ferma ovviamente la responsabilità del progettista
e dell'appaltatore in base a quanto sopra argomentato, posto che è suo obbligo quello di controllare che le modalità
dell'esecuzione dell'opera siano in linea non solo con il progetto, ma anche con le regole della tecnica, fino al punto
di provvedere alla correzione di eventuali carenze progettuali.
Né a parere del Tribunale sono fondate le eccezioni di prescrizione e decadenza sollevate dalle difese di convenuti e
terzi chiamati.
Sul punto, deve replicarsi che, per un verso, l'impegno dell'appaltatore di provvedere all'eliminazione dei vizi dell'opera, implica il riconoscimento unilaterale dell'esistenza dei
vizi stessi, e costituisce un'obbligazione nuova rispetto a
quella ordinaria, svincolata dai termini di decadenza e di
941
Giurisprudenza
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Sintesi
prescrizione di cui all'art. 1667 c.c. e soggetta invece all'originaria prescrizione decennale, e tale impegno, in aderenza
ai principi generali, può anche essere assunto tramite comportamenti concludenti.
I precedenti
Sulle varie problematiche esposte nella sentenza, cfr.
Cass., 18 giugno 2014, n. 13882, in www.iusexplorer.it;
Cass., 21 maggio 2012, n. 8016, in Giust. civ. Mass., 2012,
648; Cass., 27 settembre 2011, n. 19757, in Guida al diritto,
2011, 49-50, 45; Cass., 10 settembre 2009, n. 19560, in
Giust. civ. Mass., 2009, 1297; Cass., 24 aprile 2008, n.
10728, in Giust. civ. Mass., 2008, 633; Cass., 20 luglio
2005, n. 15255, in DeG - Dir. e giust., 2005, 39, 36; Cass., 2
luglio 1997, n. 5944, in Giust. civ., 1997, I, 3049.
L’OMESSA DENUNCIA DEI VIZI NEL TERMINE STABILITO
EX ART. 1667 C.C. ESCLUDE L’INADEMPIMENTO
DELL’APPALTATORE ANCHE IN ASSENZA DI COLLAUDO
Tribunale di Monza, 19 maggio 2014 - Giud. Mariconda
- Termoacustica di V.G. c. Elettrolarm di G.R.S.
L’azione di garanzia per l’eliminazione dei vizi riscontrati nell’opera ultimata dall’appaltatore va proposta
nel rispetto del termine di decadenza enunciato dall’art. 1667 c.c., anche se non vi sia stata consegna formale dell’opera commissionata, preceduta dal collaudo di quest’ultima, giacché in difetto, successivamente non è più possibile imputare alcuna responsabilità
all’appaltatore, anche in presenza di un’esecuzione incompleta.
La questione
Con atto di opposizione a decreto ingiuntivo la Termoacustica chiede accertarsi l’inadempimento dell’opposta
alle obbligazioni derivanti dall’appalto riguardante i lavori
per l’installazione dell’impianto elettrico con ogni conseguenza anche in tema di risarcimento del danno stante la
mancata consegna di idonea certificazione e la mancata
effettuazione del collaudo dell’opera. La opposta resiste
alla domanda attorea chiedendone il rigetto. Il Tribunale
giudica infondata l’opposizione, a tal fine rilevando l’infondatezza delle ragioni introdotte dall’opponente, dovendosi ritenere fondata la decadenza della medesima
dalla garanzia per i vizi sollevata dalla opposta. Infatti,
sebbene non vi sia stata consegna formale e collaudo
delle opere eseguite dall’appaltatore, comunque quest’ultimo ha ritenuto concluso il proprio intervento ed ultimato i lavori nel momento in cui ha emesso fattura a
carico dell’opponente, senza che quest’ultima sollevasse
tempestivamente una formale contestazione delle opere.
A tal riguardo, il Tribunale rileva come tra il momento
dell’ultimazione dell’impianto elettrico commissionato e
quello in cui la committente ha allegato di avere sollevato
la prima contestazione di vizi a carico delle opere eseguite dalla opposta è trascorso un termine di gran lunga superiore ai sessanta giorni stabiliti dall’art. 1667 c.c. Tale
norma - chiosa il Tribunale - al secondo comma dispone
che il committente deve a pena di decadenza, denunciare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denuncia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha
occultati. Pertanto, osserva il Tribunale, l’opponente deve
ritenersi decaduta dalla garanzia per i vizi dei lavori appaltati all’opposta non avendo ella fornito alcuna prova
942
atta a dimostrare che i medesimi vizi erano stati scoperti
dopo l’ultimazione delle opere da parte dell’opposta ed in
ogni caso, dopo il pagamento degli acconti da parte della
medesima opponente. Sotto tale aspetto, il Tribunale
brianzolo rileva che a ben considerare, essendo uno dei
difetti lamentati dall’opponente relativo all’asserita incompletezza dell’impianto elettrico eseguito presso la villa dell’appaltante, ed integrando detta incompletezza un
vizio palese, la relativa contestazione per essere efficace
sarebbe dovuta avvenire al più tardi entro sessanta giorni
dalla data della fattura emessa dall’opposta, emissione
quest’ultima, integrante la fine dei lavori eseguiti dall’opposta e quindi, il dies a quo per denunciare l’eventuale
omessa ultimazione, che nella fattispecie non vi è stata a
fronte del pagamento degli acconti richiesti.
I precedenti
Trib. Roma, 27 settembre 2013, in www.iusexplorer.it.
Cass., 9 agosto 2013, n. 19146, in www.iusexplorer.it;
Cass., 30 maggio 2013, n. 13631, in www.iusexplorer.it;
Cass., 27 marzo 2013, n. 7756, in www.iusexplorer.it;
Cass., 5 febbraio 2013, n. 2732, in Guida al diritto, 2013,
15, 41.
FACTORING
FACTORING E CESSIONE DI CREDITI FUTURI
Tribunale di Venezia, 25 maggio 2014, Giud. Fidanzia C. Edil 3 scarl c. Banca Ifis S.p.a.
Nella cessione di crediti futuri, mentre le eccezioni attinenti alla fonte negoziale del credito (inesistenza, nullità, annullabilità del negozio) sono sempre opponibili al
factor cessionario, le eccezioni attinenti a fatti estintivi
posteriori al rapporto obbligatorio sono opponibili solo
se tali fatti si siano verificati prima della conseguita conoscenza della cessione.
La questione
La C. Edil 3 scarl si oppone al decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale di Venezia, su richiesta di Banca Ifis S.p.a., le
ha ingiunto il pagamento della somma di euro 22.405,12,
oltre interessi e spese, a titolo di mancato pagamento di
crediti d’impresa ceduti dalla Hera E & D S.r.l. allo stesso
istituto bancario in virtù di un contratto di factoring.
La società opponente eccepisce l’estinzione del credito
vantato da Banca Ifis per compensazione a seguito dell’emissione da parte della società cedente Hera E & D delle
note di credito prodotte.
L’istituto di credito si costituisce contestando la fondatezza
dell’opposizione.
Il Tribunale giudica infondata l’opposizione rigettandola.
Infatti il debitore ceduto può opporre al cessionario tutte le
eccezioni relative ai fatti estintivi o modificativi del credito
ceduto solo se anteriori alla notizia della cessione comunicata al debitore ceduto e non se successivi.
Con riferimento alla compensazione opposta dall’opponente per i crediti alle note di credito prodotte in giudizio, se è
vero che trattasi di fatti estintivi incontestabilmente anteriori alla cessione notificata, tuttavia, come emerge dalla
scheda contabile prodotta in giudizio da C. Edil, tali crediti
erano stati già oggetto di compensazione.
L’eccezione di parte opponente è quindi priva di fondamento.
i Contratti 10/2014
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Giurisprudenza
Sintesi
Con riferimento ai controcrediti sorti successivamente al
notifica della cessione di crediti futuri, l’opposizione della
C. Edil 3 è parimenti infondata.
Il Tribunale a tal fine rileva che se è vero che nella cessione
di credito futuro l’effetto traslativo si verifica soltanto nel
momento in cui il credito viene ad esistenza, tuttavia, data
la natura consensuale del contratto di cessione di credito,
lo stesso si perfeziona per effetto del solo consenso dei
contraenti, cedente e cessionario ed è opponibile al ceduto
nel momento in cui la cessione gli viene notificata, o è da
questi accettata.
Chiosa il Tribunale, l’interpretazione di parte opponente
svilisce l’istituto della cessione di crediti futuri privandolo
totalmente di ogni effetto giuridicamente rilevante. Infatti, ove si ritenesse che soltanto la notifica delle singole
cessioni sia rilevante ai fini della loro opponibilità al debitore ceduto, la prima notifica - che riguarda la cessione
dei crediti futuri - dovrebbe considerarsi tamquam non
esset.
L’interpretazione di parte opponente rende così privo di
giuridica rilevanza l’istituto del factoring che il legislatore,
pur non disciplinandolo in maniera compiuta, ha espressamente previsto con la l. n. 52/91.
In particolare, nella legge citata, il legislatore ha regolato
espressamente l’istituto della cessione di crediti futuri, preoccupandosi anche di prevenire possibili censure di nullità
sotto il profilo della determinatezza dell’oggetto, con la previsione all’art. 3 comma 4 che la cessione dei crediti in
massa si considera con oggetto determinato, anche con riferimento a crediti futuri, se è indicato il debitore ceduto,
salvo quanto prescritto nel comma 3.
D’altra parte, se è vero che in caso di cessione di credito
futuro il cessionario ne diventa titolare solo quando il credito viene ad esistenza, tuttavia, in tale momento il credito
che viene ad esistenza entra direttamente nella sfera giuridica del cessionario senza mai transitare per la sfera giuridica del cedente, con la conseguenza che nei confronti di
quest’ultimo il ceduto non può mai sollevare l’eccezione di
compensazione, non verificandosi mai il presupposto della
coesistenza dei due crediti-debiti.
Dunque, anche per la cessione dei crediti futuri mentre le
eccezioni attinenti alla fonte negoziale del credito (inesistenza, nullità, annullabilità del negozio) sono sempre opponibili al factor cessionario, le eccezioni attinenti a fatti
estintivi posteriori al rapporto obbligatorio sono opponibili
solo se tali fatti si siano verificati prima della conseguita conoscenza della cessione.
Infatti, anche per la cessione dei crediti futuri si pone l’esigenza di evitare che eventuali accordi tra cedente e ceduto
in danno del cessionario, dopo la notifica della cessione ed
idonei ad estinguere o modificare il credito, rendano il negozio di factoring di pura alea.
In ogni caso, considerazione assorbente è che deve applicarsi il disposto dell’art. 1248, comma 2, c.c. secondo cui
la cessione notificata al debitore impedisce la compensazione dei crediti sorti posteriormente alla notificazione.
I precedenti
Cass., 7 aprile 2009, n. 8373, in Giust. civ. Mass., 2009,
591; Cass., 25 marzo 1999, n. 2821, in Banca borsa tit.
cred., 2001, II, 147.
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MEDIAZIONE
IL PERFEZIONAMENTO DEL PRELIMINARE
DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE LEGITTIMA LA RICHIESTA
DI PAGAMENTO DEL COMPENSO AL MEDIATORE
Tribunale di Roma, 18 luglio 2014 - Giud. Gagliardi A.V.D. c. BDB Real Estate S.p.a.
La conclusione del contratto di mediazione con la relativa maturazione del diritto al compenso in favore del
mediatore si determina per effetto della messa in relazione delle parti ad opera dello stesso mediatore, attraverso la costituzione di un vincolo giuridico che abiliti
ciascuna delle parti ad agire verso l’altra per l’esecuzione specifica del negozio od il risarcimento del danno da
inadempimento, senza che in contrario spieghi influenza la circostanza che al preliminare non sia poi seguita
la stipula del contratto definitivo.
La questione
Con atto di citazione A.V.D. premesso di avere sottoscritto
una proposta irrevocabile d’acquisto con BDB Real Estate
S.p.a. relativa ad un cespite immobiliare sito in Roma chiede dichiararsi la sopravvenuta inefficacia della proposta
suddetta a causa della tardiva comunicazione dell’accettazione dei promissari venditori e la non debenza di alcun
compenso provvigione in favore della mediatrice a causa
della mancata conclusione dell’affare, oltre al risarcimento
del danno ed alla restituzione dell’acconto versato ai venditori. Si costituisce la BDB Real Estate S.p.a. contestando la
domanda attorea e spiegando domanda riconvenzionale
per il pagamento del compenso provvigionale. Si costituivano altresì i promissari venditori chiedendo il rigetto della
domanda attorea ed il diritto a trattenere l’acconto ricevuto
a titolo di caparra confirmatoria per l’inadempimento del
promittente compratore. Il Tribunale perviene al rigetto della domanda attorea rilevando che il punto nodale della controversia è di stabilire l’esatta individuazione del momento
di effettiva conoscenza da parte attorea dell’avvenuta accettazione della sua proposta di acquisto da parte dei promissari venditori.
A tal riguardo il Tribunale osserva che l‘elezione di domicilio effettuata dalla parte in sede di stipula del contratto non
riveste alcun carattere di esclusività in difetto di un’espressa e chiara volontà contraria, e pertanto non sussiste alcune preclusione a che gli atti inerenti al rapporto contrattuale possano essere trasmessi al diverso indirizzo riferibile alla parte medesima. È infatti noto - chiosa il Tribunale - che
il regime di conclusione del contratto mediante scambio inter absentes di proposta ed accettazione si articola in due
varianti, quella della conoscenza e quella dell’accettazione,
atteso che il legislatore anche nei contratti formali ha stabilito che l’accettazione della proposta non deve necessariamente pervenire direttamente nelle mani del proponente
attraverso la consegna di un documento che la contenga.
Ciò in quanto il medesimo legislatore ex art. 1335 c.c. ha
stabilito il principio che esiste una presunzione di conoscenza che si aggiunge ma non esclude altri modi di conoscenza della proposta.
Da ciò consegue che la comunicazione dell’accettazione
non richiede in sé e per sé l’adozione di forma scritta, essendo sufficiente la prova della effettiva conoscenza, da
parte del proponente, dell’accettazione scritta dell’oblato,
conoscenza che può essere garantita anche da una comu-
943
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Sintesi
nicazione telefonica, ed a maggior ragione, come avvenuto
nel caso di specie, dalla comunicazione a mezzo fax presso
il recapito telefonico espressamente indicato sul biglietto
da visita dell’attore e da quest’ultimo consegnato all’agenzia immobiliare. Pertanto, sulla scorta di quanto innanzi,
consegue che l’incontro della volontà delle parti si è perfettamente realizzato e concluso al momento della effettiva
conoscenza da parte del proponente dell’avvenuta accettazione dei promissari venditori in tal modo determinando la
nascita del vincolo contrattuale ed il perfezionamento del
contratto preliminare. Al rigetto della domanda attorea,
consegue il rigetto di quella riconvenzionale dei promissari
venditori, attesa nelle more del giudizio, l’intervenuta restituzione dell’acconto versato a quest’ultimi, circostanza che
legittima la risoluzione del preliminare per mutuo consenso, per tale ragione non potendosi configurare alcun sostanziale inadempimento a carico del solo attore principale.
Affermata la natura preliminare dell’obbligazione inizialmente insorta tra le medesime parti del rapporto, e poi caducatasi per effetto del comportamento posto in essere
consensualmente dalle medesime, discende l’avvenuta
maturazione del diritto della società mediatrice ad esigere
dall’attore il pagamento della provvigione relativa alla conclusione dell’affare.
Ciò in quanto per effetto della conclusione del preliminare
di compravendita immobiliare il contratto di mediazione intercorso tra le parti ha completamente esaurito tutti i suoi
effetti, con la conseguente maturazione del diritto al pagamento del compenso provvigionale in capo al mediatore,
senza che abbi alcuna influenza la futura ed eventuale conclusione del contratto definitivo tra le medesime parti, o la
consensuale risoluzione del preliminare già perfezionatosi.
I precedenti
Cass., 12 luglio 2011, n. 15293, in www.iusexplorer.it;
Cass., 21 maggio 2010, n. 12527, in Il civilista, 2012, 2, 32;
Cass., 2 aprile 2009, n. 7994, in Giust. civ. Mass., 2009, 4,
564; Cass., 30 giugno 2005, n. 14011, in DeG - Dir. e giust.,
2005, 37, 30; Cass., 6 agosto 2004, n. 15161, in Foro it.,
2005, I, 2106; Cass., 1° settembre 1997, n. 8328 in Giust.
civ. Mass., 1997, 1595.
SOCIETÀ
L’ECCESSIVA ONEROSITÀ SOPRAVVENUTA NEL CONTRATTO
DI CESSIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIALI
Tribunale di Milano, 3 luglio 2014 - Giud. Perozziello Stet Holding S.p.a. c. Amm. straord. Eutelia S.p.a.
Nel giudizio di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta va compiutamente allegato sia il fatto sopravvenuto della sostanziale modifica delle condizioni
pattizie riferite allo scambio negoziale inizialmente convenuto tra le medesime parti, sia l’addebitabilità del
suddetto “scarto” a fatti e circostanze non previste ed
imprevedibili al momento in cui ebbe luogo la relativa
contrattazione e stipula.
La questione
Con l’atto introduttivo del presente giudizio l’attrice ha proposto opposizione avverso decreto ingiuntivo emesso nei
suoi confronti su ricorso della odierna convenuta opposta
in ragione del mancato pagamento del prezzo di cessione
di n. 2200 azioni della società Netcom Liberia ltd, come da
944
contratto stipulato tra le parti in data 29 giugno 2007, con
previsione di pagamento entro la data del 31 dicembre
2009.
Nella specie Stet ha innanzitutto chiesto ed ottenuto autorizzazione alla chiamata di terzo nei confronti della distinta
società Finanziaria Italiana S.p.a. in virtù di invocato obbligo di garanzia che sarebbe stato assunto da quest’ultima
con scrittura privata 10 novembre 2009 intercorsa tra Finanziaria Italiana e tale Patel. Nel merito ha chiesto in via
riconvenzionale di accertare e dichiarare la risoluzione del
contratto 29 giugno 2007 per eccessiva onerosità sopravvenuta. In occasione della prima udienza di trattazione della causa, sulla scorta di documentazione ricevuta da Finanziaria Italiana a seguito della notifica della chiamata di terzo, l’attrice ha altresì invocato, in via preliminare, una asserita estinzione delle obbligazioni per cui è causa a seguito
di articolata transazione intercorsa tra Finanziaria Italiana e
l’odierna convenuta opposta, in tesi comprensiva anche
dei rapporti relativi al presente giudizio; su tale presupposto, la parte ha quindi rinunciato alla chiamata di terzo e il
giudice ha dichiarato l'intervenuta estinzione del relativo
rapporto processuale per rinuncia da parte dell'attore.
La convenuta opposta, ritualmente costituita in giudizio, ha
puntualmente replicato a tutte le deduzioni di controparte,
contestandone il fondamento; ha altresì chiesto dichiararsi
l'inammissibilità della eccezione di estinzione dell'obbligazione azionata in sede monitoria quale domanda nuova,
proposta per la prima volta in udienza e invece non ricompresa nell'atto di opposizione. A parere del Tribunale, l’eccezione di inammissibilità così formulata da parte opposta
deve reputarsi infondata, atteso che l'opponente ha dedotto senza contestazione alcuna di avere appreso della intercorsa trattazione solo a seguito della notifica di chiamata
di terzo nei confronti di Finanziaria.
Nel merito il Tribunale ritiene infondate sia l'eccezione di
estinzione che la domanda di risoluzione proposte dall'opponente.
L’attrice ha puntualmente prodotto l’atto transattivo invocato, ma da una piana lettura del documento emerge chiaramente che l’accordo sottoscritto risulta espressamente
rivolto a definire solo una parte, e non tutte, le controversie
tra le parti.
Inoltre la premessa dell’accordo fa espresso ed esclusivo
riferimento a contestazioni proposte da Eutelia in tema di
danni asseritamente subiti a titolo contrattuale ed extracontrattuale, in ragione dei rapporti tra le due società e ad
altri comportamenti asseritamente tenuti da Finanziaria Italiana; in linea con tale premessa l’art. 5 della scrittura fa
espresso riferimento a pretese dedotte e deducibili (anche)
nei confronti di “… amministratori, sindaci, collaboratori e
dipendenti di Finanziaria ….”; l’art. 2.1 offre ai capi (I) e (II)
una puntuale specificazione dei rapporti cui si intende fare
riferimento e tra questi certamente non compare l'invocata
garanzia Stet; d'altro canto la più ampia formulazione di
cui al successivo capo (III) fa comunque rinvio a “ogni fatto, atto o omissione di Finanziaria Italiana e/o dei Garanti
quali amministratori, sindaci, collaboratori e dipendenti di
Finanziaria Italiana” (dunque con formulazione che espressamente rinvia a condotte proprie di Finanziaria ovvero di
propri amministratori e dipendenti, esattamente in linea
con le premesse e l'art. 5 sopra richiamati).
Il medesimo punto (III) dell'art. 2.1 espressamente esclude
d'altro canto dall'ambito della transazione stipulata (tra l'altro) le pretese di Eutelia oggetto dell'accordo allegato
sub All 2, ma la parte deducente non ha prodotto il menzio-
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Sintesi
nato allegato; infine l'art. 2.2 prevede n. 3 ipotesi di ulteriori
esclusione di garanzia; al riguardo l'opponente insiste nel
sottolineare come la vicenda in esame non sia ricompresa
tra le esclusioni di cui al punto (I), secondo rilievo certamente condivisibile atteso che delle asserite obbligazioni
Stet non fa menzione la missiva 24 agosto 2009 cui il testo
fa riferimento, ma non tiene in alcun conto l'ampia esclusione di cui al successivo punto (II) che in realtà appare
esattamente speculare all’ampia formulazione di cui al precedente punto (III) dell'art. 2.1 (come detto, unica possibile
fonte di una transazione che avrebbe potuto avere riguardo
alla presente controversia). Alla luce di tali rilievi si deve allora innanzitutto prendere atto che: l'accordo non si riferisce affatto a tutte le pretese proposte o proponibili da parte
di Eutelia ma solo a quelle espressamente indicate; la parte
onerata della prova della asserita estinzione ha prodotto
nel caso di specie un documento incompleto (mancante
cioè di un allegato indicativo di espresse esclusioni dall'ambito della transazione conclusa); l'unico titolo sufficientemente ampio da potere eventualmente ricomprendere la
presente vicenda è quello di cui al punto (III) dell'art. 2.1
che tuttavia, per i motivi sopra indicati, pare piuttosto da
interpretare come riferibile a pretese di Eutelia riferibili a
danni asseritamente subiti in conseguenza di condotte proprie della stessa Finanziaria Italiana ovvero di propri dipendenti, con esclusione invece di condotte proprie di terzi.
Manifestamente privo di qualsiasi fondamento risulta d'altro canto l'assunto proposto da Finanziaria nella missiva di
trasmissione dell'atto transattivo all'opponente, secondo
cui la presente controversia dovrebbe reputarsi ricompresa
nell'ambito dell'accordo sottoscritto per il semplice fatto
che, all'epoca, Stet era controllata da Finanziaria Italiana:
invero dal testo della scrittura sottoscritta non emerge alcuna indicazione in tal senso. Muovendo da tali rilievi il giudice milanese ritiene allora di dovere senz’altro escludere
che la transazione prodotta possa ricomprendere la presente controversia, tenendo conto che nel caso di specie
non è ravvisabile una condotta fattiva od omissiva propria
di Finanziaria Italiana cagionativa di danno per Eutelia, che
possa come tale reputarsi ricompresa nella transazione stipulata quale interpretata nel suo complesso; in particolare,
l'opponente pare voler fare riferimento ad una asserita obbligazione di garanzia nascente dall’accordo FinanziariaPatel ma l'ipotesi è da escludere in relazione sia al contenuto effettivo del documento sia alla identità dei sottoscrittori,
fermo restando che a tale accordo Eutelia parrebbe essere
rimasta sempre estranea, per cui nessuna pretesa avrebbe
potuto fondare su di esso.
La convenuta opposta ha d'altro canto prodotto in sede
monitoria una lettera di patronage in cui tuttavia Finanziaria non prestava affatto garanzia per l'adempimento delle
obbligazioni assunte da Stet, ma si limitava ad assicurare
alla venditrice Eutelia l’adeguatezza dei mezzi patrimoniali
di Stet, all'epoca, a far fronte alle obbligazioni assunte. Sulla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta le parti
si soffermano ampiamente sui limiti astratti di ammissibilità della domanda di risoluzione proposta sotto il profilo soprattutto della più corretta interpretazione della categoria
di contratti ad esecuzione differita, quale riferibile alla sola
ipotesi di differimento di entrambe le prestazioni oggetto
dello scambio contrattuale ovvero al differimento anche di
una sola delle prestazioni in parola.
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Nella specie ogni questione di astratta ammissibilità appare necessariamente superata in ragione della deduzione in
realtà meramente ipotetica dei fatti costitutivi della domanda proposta dall'opponente e del conseguente carattere
chiaramente esplorativo delle richieste di prova formulate
al riguardo. In fatto si discute di una operazione interamente realizzata nei primi mesi dell'anno 2007. Eutelia acquista
il 70% delle quote di Netcom Liberia ltd (società dichiaratamente in fase di start up, costituita per la ricostruzione della
rete nazionale di telecomunicazioni del paese africano) attraverso l’apporto di software operativo per un valore di
USD 12.000.000 e subito dopo cede il 20% delle quote a
Stet per un prezzo di USD 4.400.000 da pagarsi entro il 31
dicembre 2009 oltre interessi. Rileva quindi l'opponente
che il bilancio di esercizio 2007 di Netcom registra una voce di immobilizzazione immateriali per USD 7.800.000 riferibile alla licenza amministrativa ad operare nel mercato
delle telecomunicazioni, un valore di avviamento pari a
USD 1.500.000 e infine piattaforma software per USD
12.000.000; il successivo bilancio 2008 vede la registrazione di una minore stima di USD 409.505,95 della licenza e
di USD 1.400 quale valore di avviamento (fermo invece il
valore della piattaforma software a USD 12.000.000); in tale contesto il bilancio Eutelia 2008 registra nella voce "accantonamenti e svalutazioni" una posta di euro 4.350.000
in relazione a "evidenziazione di perdite di valore considerate permanenti" in ordine alla partecipazione in Netcom Liberia. A fronte di tali dati l'opponente precisa che "la società non avviò mai la propria attività di impresa in quanto
non ottenne mai dal Governo Liberiano la licenza ad operare; in realtà, vista l'impossibilità ad ottenere informazioni
sull'andamento della società, non è dato sapere se effettivamente la licenza era stata ottenuta e revocata ovvero se,
addirittura, non era mai stata concessa ... Eutelia non conferì mai a Netcom Liberia il software gestionale. Sia la licenza che il software pertanto, pur presenti nei dati di bilancio, non hanno mai effettivamente costituito immobilizzazioni immateriali della Società Liberiana ...". Alla stregua
di tale impostazione di parte per il Tribunale, si deve dunque rilevare che l'opponente, indiscutibilmente gravato dell'onere di dedurre specificamente e quindi di provare i fatti
costitutivi della pretesa di risoluzione, in via generale riconosce di non avere alcuna notizia in ordine ai fatti sociali lamentati; in tal senso si limita a dare atto di una perdita di
valore di una propria partecipazione azionaria, peraltro acquisita in una società dichiaratamente in fase di start up e
indiscutibilmente in un contesto prevedibilmente difficile,
senza quindi offrire alcuna indicazione circa la lamentata
"imprevedibilità" della perdita sopravvenuta rispetto allo
stato di fatto esistente e noto al momento dell'acquisto della partecipazione; in particolare per quanto attiene la vicenda prospetta apertamente una carenza originaria e non invece sopravvenuta del patrimonio sociale di Netcom; per
quanto attiene la vicenda piattaforma, prospetta infine un
mero inadempimento contrattuale da parte di Eutelia nei
confronti di Netcom, come tale una circostanza semplicemente irrilevante ai presenti fini.
I precedenti
Cass., 8 agosto 2003, n. 11947, in Giust. civ. Mass., 2003,
7-8; Cass., 23 novembre 1999, n. 12989, in Giust. civ.
Mass., 1999, 2331.
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I singoli contratti
Vendita
Considerazioni in tema di
vendita obbligatoria
di Francesco Camilletti
L’Autore analizza le differenti ipotesi di vendita obbligatoria: la vendita di cosa futura e la vendita di cosa
altrui, la vendita di genere, la vendita alternativa e la vendita a rate con riserva di proprietà. Ipotesi nelle
quali gli effetti obbligatori si producono immediatamente, a differenza dell’effetto reale, che si produce in
un momento successivo a quello in cui si perfeziona la fattispecie negoziale.
Introduzione
La vendita è un contratto tipico per la cui genesi è
sufficiente il solo consenso delle parti, essendo vigente, nel nostro ordinamento, il principio del cosiddetto “consenso traslativo”, di cui all’art. 1376
c.c. (1), e che, una volta concluso, produce, di regola, l’immediato effetto reale del trasferimento
della proprietà, nonché effetti obbligatori sia sul
venditore che sul compratore, costituiti dall’adempimento di una serie di prestazioni (quali l’obbligo
di consegna del bene oggetto del contratto, per il
venditore, o l’obbligo di pagare il prezzo, per l’acquirente) e dall’assunzione di determinate garanzie
(quale l’evizione, totale o parziale del bene e quella
per vizi o mancanza di qualità).
L’effetto reale (2) è immediato ed automatico anche nell’ipotesi in cui la res dovesse venir consegnata in un momento successivo rispetto alla conclusione del contratto, atteso che il diritto passa
istantaneamente in capo all’acquirente, il quale ne
diviene titolare, e si assume il rischio del perimen-
to del bene, a prescindere dall’avvenuta consegna
(art. 1465 c.c.) (3).
Nella sua struttura più ricorrente la vendita si configura come un contratto commutativo, ove le parti conoscono sin dalla genesi del contratto gli effetti patrimoniali conseguenti alla funzione di scambio. La sua causa risiede, quindi, nel nesso di interdipendenza, tipico dei contratti sinallagmatici (4),
ed è costituita nella sua essenza dal trasferimento
della proprietà di un bene verso il pagamento di
un corrispettivo.
Non mancano però particolari tipologie di vendita
in cui, in relazione al loro requisito funzionale, la
causa è integrata da un ulteriore elemento, l’alea,
che trasforma così il contratto in aleatorio; con la
conseguenza che i suoi effetti non saranno più certi, ma connessi a fattori ad esso esterni, e le parti
non potranno prevedere, sin dal momento della
stipulazione del contratto, quali saranno gli effetti
in termini di arricchimento o depauperamento che
il contratto stesso produrrà nel loro patrimonio.
(1) Rappresentano infatti un genere del tutto residuale, una
vera e propria vestigia storica, quei contratti che, nel meccanismo di perfezione, prevedono non solo il consenso ma anche
la traditio, ossia la consegna materiale della cosa; questi ultimi
prendono distanza dai contratti consensuali proprio a causa
della loro natura cosiddetta “reale”.
(2) Rubino, La compravendita, in Tratt. Dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1962, 310; Mirabelli, La vendita. Il riporto. La permuta. Il contratto estimatorio. La somministrazione, in Comm. cod. civ., Torino, 1988, 13 ss.
(3) Questo meccanismo traslativo immediato segna una
netta differenza con l’istituto compravendita tipico del diritto di
epoca romana.
Infatti, in origine, la vendita (come molti altri tipi contrattuali, oggi di natura consensuale) si limitava a produrre solo obbligazioni, necessitandosi poi, successivamente, di un atto unilaterale, strettamente giuridico ma non negoziale (che si colloca-
va, pertanto, al di fuori del contratto) traslativo non solo del
bene, ma anche del diritto; diritto e bene erano inscindibilmente collegati, rappresentando così la categoria dei negozi reali
la regola, e non, come nel nostro ordinamento odierno, l’eccezione.
(4) Sul concetto di sinallagmaticità si veda, Camilletti, Profili
del problema dell’equilibrio contrattuale, Milano, 2004, 20 ss.
“Il principio di sinallgamaticità impone la reciprocità delle prestazioni, e si sostanzia nel rapporto di corrispettività che intercorre tra le prestazioni stesse, trovando ciascuna la propria
funzione nell’altra e ripetendo la propria validità dall’altra; e
questo collegamento tra le prestazioni, per cui l’una si giustifica soltanto se esiste e viene adempiuta l’altra, è stato definito
dalla dottrina … nesso di interdipendenza”; si veda altresì Osti,
voce Contratto in Nuoviss. Digesto it., 491 ss.; Distasio, Causa
e simultaneità del sinallagma funzionale nell’esecuzione dei contratti con prestazioni corrispettive, in Giur. cass. civ., 1949, 124.
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Il riferimento è alla cosiddetta emptio spei (art.
1472, comma 2 c.c.), che, per la sua natura di contratto aleatorio, non subisce la nullità (o la risoluzione) del contratto in caso di mancata venuta ad
esistenza della cosa futura; nonché alla vendita “a
rischio e pericolo” dell’acquirente ove questi, essendo esclusa la garanzia per vizi ed evizione, art.
1488, comma 2 c.c., si assume il rischio del vizio o
dell’altruità della cosa.
All’interno dell’ampio genus vendita, tuttavia, si
rinviene una particolare species, che, pur facendo
riferimento alla normativa generale in tema di
compravendita, si distingue da questa per l’eccezionale costituzione, al momento della sua stipula, dei
soli effetti obbligatori, non realizzando immediatamente il cosiddetto effetto reale, ma la sola nascita
di un’obbligazione in capo al venditore di far acquistare il diritto (5) al compratore, con la conseguenza che solo successivamente (quando il venditore avrà adempiuto alla sua obbligazione permettendo l’acquisto del bene al compratore) sorgerà
l’effetto reale, con conseguente trasferimento del
diritto sempre in un momento successivo al momento perfezionativo della fattispecie negoziale.
Lo stesso codice civile individua, al suo interno, le
ipotesi tipiche in cui si verifica questo fenomeno
di acquisto differito:
- vendita di cosa futura, artt. 1476 ss. c.c.;
- vendita di cosa altrui, artt. 1478 ss. c.c.;
- vendita di genere, art. 1378 c.c.;
- vendita alternativa, art. 1286 c.c.;
- vendita a rate con riserva di proprietà, artt. 1553
ss. c.c.
Prima di analizzare le singole ipotesi di vendita obbligatoria, occorre tuttavia sottolineare che sarebbe
errato ritenere questa forma di vendita come un
contratto distinto da quello di vendita con acquisto immediato del diritto, per essere lo schema negoziale di entrambe le tipologie contrattuali il medesimo.
Ed invero, anche la vendita obbligatoria ha natura
di contratto consensuale, mai reale, e la cui funzione rimane, pur sempre, quella di trasferire il diritto
di proprietà di un bene verso il pagamento di un
corrispettivo, con la già evidenziata fondamentale
differenza per cui l’effetto traslativo ha luogo in un
momento successivo; di talché la fonte degli effetti
rimane, in ogni caso, il contratto di compravendita, dal quale, in relazione alla sua natura immediatamente traslativa o semplicemente obbligatoria
derivano effetti sia obbligatori, sia reali, diversi, e
posti su due piani cronologicamente separati (6).
La riconduzione di entrambe le sopra descritte tipologie alla matrice unitaria del contratto compravendita pone il problema per l’interprete dell’applicabilità o meno alla fattispecie “vendita obbligatoria” delle azioni tipiche della vendita traslativa, ossia la garanzia per l’evizione e la garanzia per vizi e
mancanza di qualità; in particolare il problema si è
posto per quel che riguarda la fase obbligatoria della seconda tipologia di vendita.
Ed in relazione all’applicabilità della garanzia per
evizione, sia totale che parziale, in tale fase, la dottrina ha dato risposta negativa, sottolineando in
proposito che presupposto della predetta azione di
garanzia è la sottrazione della cosa ad opera di un
terzo, e ciò, durante la fase obbligatoria non è possibile per il semplice fatto che il diritto sulla cosa
non è ancora stato trasferito, con la conseguenza
che l’inadempimento del venditore a far acquistare
il diritto all’acquirente viene sanzionato con i normali rimedi previsti dagli artt. 1453 ss. c.c.; inoltre,
può darsi il caso che, se pur vi è pericolo di evizione nel periodo che precede l’acquisto, ben potrebbe accadere che tale rischio venga meno al momento del trasferimento del bene, oggetto del contratto (7).
Con riferimento, invece, all’ammissibilità delle
azioni per vizi della cosa e mancanza di qualità promessa, bisogna distinguere due ipotesi; quella in
cui la cosa, anche se non ancora trasferita, sia almeno già sorta in parte (vendita di cosa futura) o
individuata anche solo genericamente (vendita di
cosa di genere o alternativa, ove tutti i beni tra i
quali cadrà la scelta siano viziati o manchino delle
qualità promesse), ove l’azione per vizi è esperibile,
da quella contraria, in cui la cosa non è venuta ad
esistenza o non è stata ancora individuata, ove l’azione è preclusa per l’intuitiva ragione che non essendo ancora nota la res oggetto del trasferimento
(perché non ancora venuta ad esistenza o non determinata) non è nemmeno possibile, in astratto,
accertare l’esistenza di eventuali vizi.
(5) Rubino, La compravendita, op. cit., 309; Greco, Cottino,
Della vendita, Art. 1470 - 1547, in Comm. Ccd. civ., a cura di
Scialoja - Branca, Bologna-Roma, 1981, 134; Mirabelli, Dei singoli contratti, op. cit., 43.
(6) Di Majo - Giaquinto, L’esecuzione del contratto, Milano,
1967, 323; Lipari, Note in tema di compravendita di cosa futura, in Riv. trim. dir. civ., 1960, 857.
(7) Degni, La compravendita, Padova, 1939, 82; Salis, La
compravendita di cosa futura, Padova, 1935, 192; Rubino, La
compravendita, op. cit., 782.
La vendita obbligatoria
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Va da sé, per converso, che una volta realizzatosi
l’effetto traslativo al compratore spetteranno tutte
le azioni di garanzie tipiche della vendita.
Sulla natura giuridica della vendita
obbligatoria
In merito alla natura giuridica della vendita obbligatoria la dottrina non è concorde.
Per alcuni (8) la natura di tale fattispecie contrattuale va sussunta all’interno della cosiddetta teoria
del doppio negozio; la fattispecie pertanto non sarebbe unica ma costituita da due negozi distinti e
collegati fra loro; il primo negozio avrebbe natura
eminentemente obbligatoria, con l’assunzione in
capo alle parti, rispettivamente dell’obbligo a trasferire e dell’obbligo ad acquistare; il secondo negozio sarebbe invece un atto traslativo con trasferimento del diritto di proprietà sulla cosa.
Tale opinione non è andata esente da critiche sul
presupposto che, anche nella vendita obbligatoria
il trasferimento della proprietà, benché demandato
ad un momento successivo rispetto alla conclusione del contratto, è pur sempre una sua conseguenza, e non si realizza per effetto di un successivo ulteriore e distinto atto giuridico.
Altra dottrina (9) ha ritenuto, invece la vendita
obbligatoria un diverso tipo contrattuale rispetto
alla vendita con effetto traslativo immediato, in
funzione della discrasia temporale che connota i
due contratti tra la fase genetica e quella funzionale.
Tale assunto è stato criticato (10) in quanto non si
può affermare l’esistenza di due forme contrattuali
distinte quando la loro conclusione avviene nello
stesso modo, la causa è la medesima, ed è solo il
profilo dell’efficacia a subire un mutamento temporale.
Del resto si è ulteriormente argomentato che se
fosse ammissibile la teoria sopra citata, la logica
conseguenza che ne deriverebbe sarebbe quella per
cui apponendo una condizione o un termine (elementi accidentali e non essenziali del contratto)
(8) Gorla, La compravendita e la permuta, in Tratt. Dir. civ.
it., diretto da Vassalli, Torino, vol. VII, I, 1937, 3 ss.; Ferrara, La
vendita per acconti ed il “factum reservati domini”, in Foro it.,
1911, I, 500; Arangio Ruiz, voce Evizione, in Diz. prat. dir. priv.,
Milano, s.d., 292.
(9) Salis, La compravendita, op. cit., 194 ss.
(10) Gazzara, La vendita obbligatoria, Milano, 1957, 93.
(11) Cariota - Ferrara, I negozi sul patrimonio altrui, Padova,
1936, 246; De Martini, Profili della vendita commerciale e del
contratto estimativo, Milano, 1950, 220.
(12) Rubino, La compravendita, op. cit., 300; Bianca, La vendita e la permuta, op. cit., 82.
(13) Rubino, La compravendita, op. cit., 309; Greco, Cottino,
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ad un contratto, lo stesso assumerebbe una natura
giuridica diversa da quella sua propria, divenendo
addirittura un nuovo tipo contrattuale, in funzione
degli elementi che ne diversificano l’efficacia rispetto al tipo.
Una ulteriore interpretazione dottrinaria (11) ha
invece ricondotto la disciplina della vendita obbligatoria nell’ambito del negozio condizionato.
Si è osservato (12), tuttavia, che conseguenza della
condizione è quella di sospendere ogni effetto del
contratto cui è apposta, in attesa che si verifichi
l’evento dedotto (in ipotesi di condizione sospensiva); nel caso della vendita obbligatoria, al contrario, gli effetti sorgono immediatamente e divengono definitivi con la stipula del contratto, mancando soltanto l’effetto traslativo riferito ad un momento successivo.
In proposito si sottolinea come nella vendita di cosa altrui, per esempio, il venditore assuma, fin dall’inizio, l’obbligazione, non sottoposta ad alcuna
condizione, di far sì che il compratore acquisti il
diritto (art. 1476, n. 2 c.c.), ed è anche possibile
pattuire che il prezzo sia corrisposto immediatamente.
Da ultimo la dottrina (13) e la giurisprudenza (14)
prevalente hanno sostenuto che la vendita obbligatoria altro non è che una normale vendita, con l’unica differente caratteristica (non sufficiente tuttavia a snaturare il tipo contrattuale) degli effetti
reali differiti.
Secondo questa impostazione l’immediatezza del
trasferimento nella compravendita è un carattere
normale ma non essenziale, ben potendo i contraenti derogarvi, rinviando l’effetto traslativo ad
un momento successivo.
La vendita di cosa futura
Tra i requisiti dell’oggetto del contratto, l’art. 1346
c.c. non prevede l’esistenza dell’oggetto al momento della conclusione del contratto, tanto che questo può essere determinato in un momento succesDella vendita, op. cit., 9; Mirabelli, Dei singoli contratti, op. cit.,
11; Cavallo Borgia, Profili giuridici della vendita di cose altrui,
Milano, 1972, 77 ss., il quale Autore distingue tra effetti negoziali ed effetti finali del contratto (per la distinzione si veda anche Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico,
Napoli, 1969, 304); mentre i primi sono caratterizzati dal vincolo assunto dalle parti a mantenere l’impegno assunto, i secondi si risolvono nella genesi, modifica o estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale, realizzando così la causa del negozio.
(14) Per tutte, Cass., 25 settembre 1972, n. 2780, in Ius explorer.
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sivo; l’oggetto del contratto non è quindi il bene
in concreto, bensì la rappresentazione astratta e
formale del bene voluto dalle parti; per questo motivo è sufficiente la sua sola potenziale esistenza
per la validità del contratto.
Coerentemente, pertanto, l’ordinamento ammette
che un contratto di compravendita (15) possa essere validamente stipulato pur avendo, quale oggetto,
un bene futuro, sia che esso si identifichi in una
cosa non ancora esistente in natura (16).
La vendita di cosa futura può assumere due diverse
configurazioni giuridiche: quella della emptio spei
(art. 1472, comma 1, c.c.), o quella della emptio rei
speratae (art. 1472, comma 2, c.c.).
La emptio spei si presenta come un contratto aleatorio, in cui il suo oggetto è costituito dalla speranza
che il bene venga ad esistenza.
Conseguentemente se la speranza dedotta in contratto non dovesse concretizzarsi, il contratto rimarrebbe pur sempre valido, ed il compratore, benché frustrato nel suo interesse economico (non ricevendo una controprestazione), dovrà pur sempre
pagare il corrispettivo (o se già pagato non potrà
ripeterlo); ed è del tutto evidente che l’alea contrattuale ricade interamente sull’acquirente (17).
La emptio rei speratae si configura invece come un
contratto commutativo, il cui oggetto è costituito
dal bene futuro che deve venire ad esistenza.
L’assenza di alea fa sì che, ai sensi dell’art. 1472
c.c., comma 2, nel caso in cui tale evenienza non
si verifichi, il contratto sia sanzionato con la nullità; tuttavia la dottrina (18) e la giurisprudenza (19)
rileggono la disposizione sanzionatoria, di cui all’art. 1472 comma 2 c.c., non come vizio genetico
bensì come termine di nullità in senso atecnico,
che indica, invece, una vera e propria risoluzione
del contratto.
È a tal fine è necessario distinguere il caso in cui la
mancata venuta ad esistenza del bene sia imputabile al venditore, potendo in siffatta ipotesi, l’acquirente agire con l’azione di risoluzione per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.); dal caso in cui tale
evento non sia riconducibile al venditore stesso
ma ad un avvenimento esterno e ad esso non imputabile, potendosi invece in tale ipotesi essere il
contratto risolto per impossibilità sopravvenuta
(artt. 1463 ss. c.c.).
Sulla natura giuridica della vendita di cosa futura
residuano pochi dubbi; essa è una vendita obbligatoria, con effetti obbligatori immediati ed effetti
reali differiti.
Tuttavia non è mancato chi ha ricondotto la fattispecie in esame ad un negozio a consenso anticipato; ossia, ad un negozio ancora incompleto per la
mancanza dell’oggetto, ma valido in virtù di una
eccezionale inversione nell’ordine cronologico degli elementi tipici che comportano la formazione
degli atti giuridici, per cui la manifestazione del
consenso precede la venuta ad esistenza dell’oggetto (20).
Dottrina (21) e giurisprudenza (22) sono ormai
consolidate nel ritenere che il contratto si perfeziona nel momento in cui le parti prestano il proprio
consenso; ed è a tale momento che ci si deve riferire per la irrevocabilità dell’accordo ed il sorgere
del vincolo obbligatorio, che realizzerà il proprio
effetto reale automaticamente nel momento in cui
la cosa sarà venuta ad esistenza (23).
(15) Si sottolinea che il legislatore ha tuttavia posto un limite invalicabile per quanto riguarda la donazione di beni futuri,
ritenendola nulla ex art. 771 c.c. Il motivo è tuttavia da ricercarsi non nell’impossibilità giuridica di un simile contratto, ma
nel rispetto di un principio fondamentale, evitare che un soggetto disponga con eccessiva liberalità di beni, senza rendersi
conto del reale valore degli stessi, non avendone ancora avuto
il possesso. È la liberalità immoderata quello che la norma
vuole colpire; non si può infatti certo negare sia più lieve, come coercizione psicologica, donare un bene che non si è mai
avuto, piuttosto che una res, anche di valore potenzialmente
inferiore, ma di cui si ha avuto la disponibilità.
Un contrasto è sorto in dottrina e giurisprudenza in merito
alla donazione di cosa altrui, stante l’espresso divieto di cui al
771 c.c. per i beni futuri; se la dottrina più moderna tende a
scagionare una simile donazione, poiché in tal caso il donante
può aver preso coscienza della qualità e del valore del bene,
che infatti esiste, la giurisprudenza mantiene una posizione più
consolidata, definendo i beni altrui, beni soggettivamente futuri, facendoli in questo modo rientrare nell’alveo del divieto ex
art. 771 c.c., sanzionando la disposizione con la nullità.
(16) Non è considerata res futura, ma presente, il credito
derivante da un contratto aleatorio, Rubino, La compravendita,
op. cit., 175.
(17) Cass., 5 aprile 1974, n. 966: “Nell’emptio spei il compratore si impegna incondizionatamente a pagare un prezzo
determinato anche se la cosa o il diritto venduto non vengono
mai ad esistenza o siano comunque quantitativamente diversi
da quelli sperati o supposti dal compratore al momento dell’acquisto”.
(18) Rubino, La compravendita, op. cit., 185; Bianca, La vendita e la permuta, op. cit., 343 ss.
(19) Cass., 1° marzo 1967 n. 459.
(20) Rubino, La compravendita, op. cit., 178 ss.
(21) Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir.
civ. it., a cura di Vassalli,Torino, 1952, 241; Mirabelli, Dei singoli contratti, op. cit., 22; Scognamiglio, Contributo alla teoria del
negozio giuridico, op. cit., 281.
(22) Cass., 7 giugno 1976 n. 2082; Cass., 7 settembre
1978, n. 4047.
(23) La giurisprudenza ritiene, per esempio, che, in tema di
costruzione di fabbricati, essi possano esser considerati esistenti nel momento in cui possano venir utilizzati, non rilevando la mancanza di rifiniture o accessori non essenziali (Cass.,
17 febbraio 1983, n. 1219; Cass., 18 maggio 2001, n. 6851) .
Sempre in tema di fabbricati, si ricorda che in forza della vigente disciplina urbanistica, il trasferimento di un immobile
privo delle menzioni urbanistiche è nullo; pertanto, poiché la
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Infine è bene evidenziare che, in relazione alla possibile trascrizione di un contratto avente ad oggetto un bene di cosa futura (per esempio un immobile da costruire), la giurisprudenza (24) ne ammette
la trascrivibilità, ex artt. 2645 ss. c.c., in quanto
perché sia trascrivibile l’atto deve essere idoneo a
produrre effetti traslativi, anche se non immediati,
tanto che viene pacificamente ammessa la trascrivibilità di atti traslativi sottoposti a condizione sospensiva.
Rapporto tra vendita di cosa futura e appalto
A differenza della vendita di cosa futura, contratto
con prestazione di dare, l’appalto si caratterizza per
avere ad oggetto un facere; di talché la distinzione
appare netta dal punto di vista della natura giuridica e della tipologia delle obbligazioni che derivano
dalla stipula dell’uno o piuttosto dell’altro contratto.
Ma se ciò è in astratto, può tuttavia accadere in
concreto che le due figure contrattuali si avvicinino a tal punto da rendere complessa la qualificazione giuridica del tipo contrattuale che le parti hanno voluto (si pensi semplicemente ad un contratto
col quale una parte si obbliga a trasferire la proprietà di un certo materiale all’altra, obbligandosi
anche a realizzare l’opera per cui il materiale è stato acquistato, nonché al caso dell’appalto con efficacia anche traslativa e non solo obbligatoria (25)).
Occorre quindi individuare un criterio che permetta una qualificazione certa del contratto, soprattutto in ragione della diversa disciplina giuridica applicabile ai due diversi contratti (26).
vendita di cosa futura si perfeziona al momento della prestazione del consenso, ma dato che in tale momento ancora non
sussistono i permessi a costruire o le denunce di nuova attività
(documenti da indicare nell’atto di trasferimento, come si è anticipato, a pena di nullità), vi sarebbe la perversa conclusione
per cui, al momento della venuta ad esistenza del bene l’effetto traslativo operi istantaneamente, con ciò comportando la
nullità dell’atto.
Al fine di evitare tale accadimento le parti sono solite condizionare sospensivamente l’atto di vendita di cosa futura ad un
successivo verbale notarile di accertamento e identificazione
catastale, all’interno del quale verranno indicate le menzioni
urbanistiche occorrenti; da ciò si sottolinea, in ogni caso, la
possibilità per le parti, di posticipare il termine giuridico di venuta ad esistenza, al fine di derogare al momento tipico di efficacia traslativa proprio dei contratti aventi ad oggetto beni futuri.
(24) Cass., 10 marzo 1997, n. 2126, secondo la quale: “la
trascrizione - legittima, ai sensi dell’art. 2643 c.c. - di una vendita di cosa futura è idonea a rendere opponibile il relativo diritto, allorché verrà ad esistenza, agli acquirenti dello stesso
bene che non hanno trascritto o hanno trascritto posteriormente il loro titolo”; si veda anche, Cass., 10 luglio 1986, n.
4497.
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Infatti, nell’ipotesi in cui sia stata stipulata tra le
parti una vendita di cosa futura, non sussisterà la
facoltà del recesso unilaterale, né quella della revisione dei prezzi, tipiche invece della disciplina dell’appalto; inoltre il passaggio del rischio del perimento del bene passerà all’acquirente al momento
della venuta ad esistenza del bene stesso, e non invece, come nell’appalto, al momento dell’accettazione dell’opera.
Per poter effettuare tale operazione esegetica dottrina e giurisprudenza hanno elaborato alcuni criteri, primo tra i quali, quello della cosiddetta “accessorietà”, per cui si qualifica vendita di cosa futura
il contratto in cui la funzione principale è quella
del trasferimento del diritto, assumendo in posizione gradata rispetto a tale effetto l’attività di creazione (27).
Al contrario, si qualifica come appalto quel negozio nel quale il “facere” dell’uomo risulti preponderante rispetto al mero trasferimento (28).
Altra giurisprudenza, invece, ha posto l’accento sul
sinallagma causale che deve essere analizzato, al fine di individuare la tipologia del negozio sottostante; se il rapporto sinallagmatico sarà tra cosa e
prezzo, allora sarà una vendita di cosa futura; se invece intercorrerà tra la realizzazione dell’opera ed
il prezzo, in tal caso si tratterrà di appalto.
Un ulteriore criterio distintivo prende come parametro di riferimento la normale attività del fornitore (la cosiddetta “normale produzione”), cosicché
se il ruolo tipico della parte è quello di “vendere”,
si tratterà di vendita di cosa futura, in caso contrario di appalto (29).
(25) In dottrina, Rubino, L’appalto, in Tratt. Dir. civ., diretto
da Vassalli, Torino, 1980, 31; Giannattasio, L’appalto, in Tratt.
Dir. civ. e comm., diretto da Cicu - Messineo, Milano, 1977,
30; Mangini, Rudan, Bricola, Il contratto di appalto. Il contratto
di somministrazione, in Giur. sist. civ. e comm., diretta da Bigiavi, Torino, 1972, 30; Morozzo della Rocca, L’appalto nella giurisprudenza, Padova, 1972, 30; Cagnasso, voce Appalto nel diritto privato, in Digesto disc. priv., sezione commerciale, Torino,
1987, vol. I, 166.
In giurisprudenza, Cass., 1° giugno 1974, n. 1509; Cass., 21
giugno 1974, n. 1823.
(26) Moscarini, L’appalto, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, 1984, vol. 11, 706.
(27) Rubino, l’appalto, op. cit., 49; Cass., 23 luglio 1983, n.
5075; Cass., 6 agosto 1983, n. 5220; Cass., 28 febbraio 1987,
n. 2161.
(28) Cass., 30 giugno 1982, n. 3944, nella quale è stato indicato come esempio per l’appalto, l’ipotesi in cui un artigiano
abbia, su commissione, realizzato uno stampo su disegno del
committente stesso.
(29) Stolfi, voce Appalto, in Enc. dir., Milano, 1958, vol. II,
633; Cass., 17 febbraio 1983, n. 1196; Cass., 11 giugno 1983,
n. 4020.
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Infine, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato
lo strumento interpretativo della cosiddetta “interferenza”, ovvero del coinvolgimento nell’attività di
controllo e direzione dei lavori da parte del cliente;
se l’interesse nel procedimento di realizzazione del
bene è elevato, tanto che l’acquirente vi partecipa,
si tratta di appalto; se, al contrario, l’attività di interferenza della parte sul bene che deve venire ad
esistenza non sussiste o è minima, si tratta di vendita di cosa futura (30).
Vendita di cosa altrui
A differenza di quanto stabiliva il codice del 1865
in tema di vendita di cosa altrui, sanzionandola
con la nullità (ai sensi dell’art. 1459 c.c. del 1865),
il codice vigente prevede espressamente tale tipologia di vendita, regolandone gli effetti agli artt.
1478 ss. c.c.
Con la vendita obbligatoria il compratore diviene
proprietario della cosa non appena il venditore
l’acquista dal titolare di essa; sul venditore incombe quindi l’obbligazione di far acquistare al compratore il bene altrui e, qualora tale obbligazione
rimanga inadempiuta, il contratto può essere risolto.
In proposito, appare opportuno sottolineare che la
predetta obbligazione può essere adempiuta dal
venditore sia mediante l’acquisto della proprietà
della cosa da parte sua, con l’automatico ed immediato trasferimento della proprietà al compratore,
sia mediante la vendita diretta della stessa effettuata dal terzo proprietario a vantaggio dell’acquirente, purché l’effetto traslativo sia un effetto dell’attività svolta dal venditore presso il proprietario, e
purché questi manifesti inequivocabilmente il proprio intendimento di vendere il bene al compratore; solo così infatti si realizza l’effetto traslativo che
il compratore intendeva conseguire e che il venditore si era obbligato a realizzare (31).
La dichiarazione di volontà inequivoca del proprietario di vendere il bene al compratore del contratto di vendita obbligatoria, fa sì che indipendentemente dall’alienazione diretta il contratto di compravendita intercorra pur sempre tra gli originali
promittenti e il venditore rimane sempre il promittente stesso, cosicché su di lui ricadono tutte le obbligazioni connesse a tale sua qualità (32), a nulla
rilevando che il bene sia stato trasferito al compratore direttamente dal terzo proprietario.
(30) Giorgianni, Gli obblighi di fare del venditore, in Riv. dir.
comm., 1964, I, 1 ss.
(31) Cass. n. 14751/2006 e n. 984/98.
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Sotto un profilo interpretativo è opportuno tenere
ben distinte la figura della vendita di cosa altrui da
quella della promessa del fatto del terzo, evidenziandosi come la giurisprudenza abbia ben specificato che, nella prima, il venditore assume in proprio l’obbligo del trasferimento del bene, mentre,
nella seconda, tale trasferimento è demandato al
facere del terzo, venendo dedotto in obbligazione
solo per questa via, secondaria ed eventuale; sicché, mentre nella vendita di cosa altrui l’obbligazione del venditore di procurare l’acquisto della cosa altrui nasce come obbligazione primaria sin dal
momento della conclusione del contratto, nella
promessa del fatto del terzo contenuto del negozio
è l’obbligo assunto dal promittente verso il promissario di adoperarsi affinché il terzo si obblighi a fare o faccia ciò che il promittente medesimo ha promesso (33).
Una netta differenza contraddistingue poi l’ipotesi
del legato di cosa altrui dalla vendita di cosa altrui.
Nell’ipotesi, infatti, di una disposizione testamentaria a titolo particolare, avente ad oggetto un bene su cui il testatore non vanta alcun diritto reale
(tale fattispecie è espressamente ammessa all’art.
651 c.c., purché il testatore sia a conoscenza dell’alienità della res, e ne abbia fatta espressa menzione
all’interno del testamento), sorge un obbligo in capo all’onerato di procurare il bene all’onorato. Tuttavia, anche qualora l’onerato ne acquistasse la
proprietà, in tal caso sarebbe necessario un nuovo
atto di trasferimento, che formerebbe il titolo di
acquisto per il legatario; l’effetto traslativo, quindi,
a differenza che nella vendita obbligatorio, non è
automatico.
È necessario poi evidenziare un’altra particolarità
in tema di confronto tra la disciplina della vendita
di cosa altrui e quella che regola la materia successoria, e più in particolare il divieto ex art. 458 c.c.
dei patti successori dispositivi, sanzionati con la
nullità.
Si ha l’ipotesi di un patto successorio dispositivo
nel caso in cui un soggetto stipuli un contratto con
il quale si obblighi a trasferire uno o più beni facenti parte di una cosiddetta eredità non ancora
aperta; la ragione che sottostà al divieto è che i
privati non possono disporre di un bene ereditario
quando ancora non si può parlare di eredità (l’eredità, infatti, diviene tale al solo momento dell’apertura della successione).
(32) Cass. n. 84/3963.
(33) Così testualmente Cass. n. 2363/81 e n. 12410/2010.
951
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Tuttavia, un simile contratto, nullo, si avvicina
molto allo schema negoziale della vendita di cosa
altrui, al contrario ammessa.
Per poter evitare la nullità del contratto e non ricadere nel divieto ex art. 458 c.c., qualificandolo
come vendita di cosa altrui, è necessario che sussista ab origine la possibilità per il venditore di poter
acquistare quei beni anche senza dover attendere
l’eventuale apertura della successione; la provenienza successoria non deve essere l’unico mezzo in
forza del quale la res ceduta venga appresa.
Consegue che in tutte quelle ipotesi in cui l’acquisto del bene è possibile anche non mortis causa,
mediante successione del titolare del diritto, il
contratto di cessione sarà valido e riconducibile allo schema della vendita di cosa altrui.
Vendita di cosa parzialmente altrui
Nel caso di vendita di cosa parzialmente altrui,
qualora la parte acquirente sia a conoscenza della
parziale altruità del bene, il contratto dispiegherà
effetti traslativi immediati per la parte della cosa di
proprietà del venditore, e meri effetti obbligatori
per la quota di altrui titolarità; si realizza così un
contratto misto tra vendita immediatamente traslativa e vendita obbligatoria.
Qualora il compratore ignori, viceversa, che la cosa
non sia interamente del venditore, ai sensi dell’art.
1480 c.c., può chiedere la risoluzione del contratto
ed il risarcimento del danno solo qualora risulti
che egli non avrebbe acquistato la cosa se non
comprensiva anche di quella parte di proprietà altrui; in tal caso, qualora si dimostrasse che l’acquirente avrebbe stipulato il contratto anche con un
oggetto ridotto, non avrà più diritto alla risoluzione, bensì ad una riduzione del prezzo, in aggiunta
al risarcimento del danno, azione sempre esperibile.
Inoltre, nel caso in cui sussista una comproprietà
pro indiviso su di un bene oggetto della cessione,
anche in tal caso sarà necessario verificare se, nell’ipotesi di cessione da parte di uno solo dei titolari, la parte acquirente fosse a conoscenza dell’esistenza di una pluralità di soggetti aventi diritto, e
se, in ogni caso, avrebbe acquistato la quota astratta del bene oppure no.
La giurisprudenza, in tema di comunione pro indiviso, tuttavia, ritiene che tale fattispecie sia accomu(34) Biondi, voce Cosa fungibile e non fungibile (diritto civile), in Nuoviss. Digesto it., 1019 ss.
(35) L'identificabilità costituisce il requisito necessario per
connotare il bene che sarà oggetto di successiva individuazio-
952
nabile non tanto a quella dell’art. 1480 c.c., che
regola il trasferimento della cosa parzialmente altrui, piuttosto a quella regolata all’art. 1478 c.c.,
sulla vendita della cosa totalmente altrui, sul presupposto che, in caso di proprietà indivisa, si presume la volontà dell’acquirente ad acquistare l’unicum, e non a succedere in una quota puramente
astratta.
Vendita di cosa generica e vendita
alternativa
Secondo il disposto di cui all’art. 1378 c.c., nel caso in cui, nei contratti di vendita che hanno ad oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel
genere, gli effetti traslativi si dispiegheranno al
momento non della loro conclusione, bensì con
l’atto di individuazione, ossia con un atto di scelta
compiuto dall’acquirente, il quale, nell’insieme dei
beni generici di titolarità del venditore, individua
quell’insieme specifico di beni che divengono l’oggetto del contratto.
Spesso il concetto di genus coincide con quello di
fungibilità, ma i due termini devono esser tenuti
distinti, in quanto descrivono fattispecie diverse;
con il concetto di genus ci si riferisce al complesso
dei caratteri essenziali e distintivi di una categoria
astratta; mentre invece il concetto di fungibilità
coincide con la interscambiabilità dello stesso bene
con un altro avente la medesima natura (34); tale
caratteristica può esser tale, corrispondendo ad un
criterio sia oggettivo come anche soggettivo.
Ed infatti, normalmente, la fungibilità attiene alla
natura intrinseca della cosa, la quale può esser sostituita indifferentemente con un’altra; classico
esempio è il denaro, o il grano, res che mantengono il loro valore e le loro caratteristiche indipendentemente dalla loro specificità, mentre il concetto di genus identifica, dall’esterno, in maniera sempre oggettiva, il complesso delle qualità tipiche di
quella categoria astratta di beni (35).
La fungibilità, poi, può rispondere anche ad un criterio soggettivo, ossia per volontà delle parti; una
cosa per sua natura fungibile, può non esserlo in
virtù della considerazione particolare che hanno le
parti in relazione a quel dato bene. Un esempio
può esser dato da un bene che susciti particolari ricordi o affezione.
ne, per effetto della quale si produrrà l'effetto traslativo: Bianca, La vendita e la permuta, in Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1972, 288.
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I singoli contratti
La dottrina si è interrogata sulla possibilità contraria, ossia se un bene, tipicamente non fungibile,
possa divenirlo per volontà delle parti (36).
Se la dottrina, coniando il concetto di fungibilità
meramente soggettiva, lo ritiene possibile, la giurisprudenza in alcune sentenze sul trasferimento degli immobili, ammette la vendita alternativa, ma
ritiene nulla l’alienazione generica di beni immobili, in quanto la volontà delle parti può spingersi fino a trasformare beni fungibili in non fungibili, ma
non spingersi oltre, tanto da incidere sul carattere
strutturale e intrinseco di beni non fungibili, rendendoli fungibili (37).
Non mancano tuttavia altre pronunce della Suprema Corte (38), nonché alcuni autori (39) che, in
relazione alla cosiddetta vendita di beni di genere
limitato, ammettono, in tal caso, anche l’alienazione di immobili; nella specie, si ritiene ammissibile
la vendita di una porzione di terreno, non ancora
identificata, facente parte di un più ampio fondo
determinato; in questa ipotesi il venditore, ai sensi
dell’art. 1178 c.c., dovrà garantire che il bene im-
mobile che verrà trasferito non sarà inferiore alla
qualità media (40).
La vendita di beni di genere rientra quindi tra le
fattispecie tipiche di vendita obbligatoria, in quanto, con la stipula del relativo negozio sorgono immediatamente effetti obbligatori per le parti, mentre l’efficacia traslativa sarà postergata al momento
dell’atto di specificazione (o mediante la consegna
al vettore o allo spedizioniere se si tratta di cose
che devono esser trasportate) con la vera e propria
individuazione dei beni specifici e determinati che
devono far parte di quella categoria astratta individuata nel genere pattuito nel contratto; solo con
l’atto di specificazione avverrà il trasferimento del
relativo diritto reale, momento cronologicamente
separato dalla genesi del contratto voluto dalle parti.
Anche la vendita alternativa rientra, come meccanismo negoziale, in ordine al momento di efficacia traslativa del diritto, all’interno dell’alveo
della vendita obbligatoria; ed infatti con la vendita alternativa il venditore stipula un negozio
nel quale l’oggetto del contratto è rappresentato
(36) Bigliazzi Geri - Breccia - Busnelli - Natoli, Istituzioni di
diritto civile, Genova, 1980, 37; Rubino, La compravendita, op.
cit., 386; Gazzara, La vendita obbligatoria, Milano, 1957, 180.
(37) Cass. civ., Sez. III, 24 novembre 1977, n. 5113, “È ammissibile la compravendita immobiliare alternativa, e cioè la
vendita di un immobile da scegliersi tra più immobili indicati in
contratto, la quale da luogo ad una fattispecie complessa a
formazione progressiva: primo elemento essenziale di tale fattispecie è il contratto di compravendita, produttivo esso solo
dell’effetto traslativo del diritto di proprietà, sia pure in via mediata; la fattispecie si perfeziona poi con la dichiarazione di
scelta da parte del compratore (o del venditore o del terzo)
che, comunicata al venditore (o al compratore o a entrambe le
parti), rende attuale, in quel momento, l'effetto traslativo prodotto dal contratto. Anche in tal caso, peraltro, trattandosi pur
sempre di vendita di species, i possibili oggetti del contratto
previsti in via alternativa, debbono essere determinati o determinabili, a pena di nullità, e gli elementi di individuazione dei
vari lotti determinati, ovvero i dati oggettivi che consentano di
individuare i lotti genericamente indicati, debbono essere contenuti nell'atto scritto di compravendita alternativa. Sono fungibili, per loro natura, le cose che, nella valutazione sociale,
vengono considerate sostanzialmente identiche, per la identità
dei loro essenziali elementi strutturali e della loro funzione, anche se ciascuna di esse è provvista di ulteriori caratteristiche
individualizzanti, le quali sono però considerate non essenziali,
sì da essere sostituibili e surrogabili tra loro; sono infungibili le
cose individualizzate e diversificate, nella valutazione sociale,
dai loro elementi strutturali e dalla loro funzione, sì da essere
esclusa ogni sostituibilità e surrogabilità. La volontà delle parti,
determinata e manifestata in sede di autonomia negoziale,
può bensì incidere su questa qualificazione in base alla loro
natura, ma soltanto nell'ambito delle cose che sono fungibili,
nel senso che esse possono considerare e valutare come infungibile una cosa fungibile per sua natura, attribuendo rilevanza e preminenza a determinate sue caratteristiche individualizzanti che, nella valutazione sociale, non costituiscono
elementi strutturali essenziali, mentre non possono trasforma-
re in fungibile una cosa infungibile, come i beni immobili, rispetto ai quali la localizzazione e la confinazione costituiscono
elementi strutturali essenziali, con caratteri individualizzanti e
diversificanti; non è pertanto ammissibile la vendita generica
di beni immobili”.
(38) Cass. civ., Sez. III, 29 settembre 1983, n. 5225, “Il contratto, con cui le parti convengono di trasferire una determinata estensione immobiliare (nella specie, un posto macchina
aperto), considerata come fungibile, da staccarsi ad opera del
venditore da una entità di maggiori dimensioni, non è affetto
da nullità per indeterminatezza dell'oggetto bensì costituisce
vendita di genere limitato, configurabile anche per gli immobili, avente natura obbligatoria, ove risulti a carico del venditore
l'obbligo di individuare successivamente e consegnare il bene
compravenduto, e che acquista effetti reali con la concreta individuazione del bene sulla base della scelta che deve operare
il soggetto indicato. In tal caso la domanda giudiziale deve essere diretta ad ottenere la condanna dell'obbligato ad effettuare la scelta, secondo lo schema previsto dall'art. 1287 c.c., essendo immanente, nell'ipotesi di vendita di genere, l'alternativa
tra prestazioni di più oggetti concreti”.
(39) Luminoso, I contratti tipici ed atipici, in Tratt. dir. priv., a
cura di Iudica - Zatti, Milano, 1995, 55, il quale ritiene nulla
una vendita assolutamente generica, mentre, qualora il genus
sia limitato, l'individuazione può operare anche in relazione alle
determinazioni qualitative dell'immobile promesse dal venditore.
(40) Cass. civ., Sez. II, 4 febbraio 1992, n. 1194, «Anche rispetto ai beni immobili, per loro natura infungibili e quindi insuscettibili di essere considerati senza specificazione, è configurabile la vendita di "genus" con riferimento al "genus limitatum", come nel caso di vendita di una porzione solo quantitativamente indicata compresa nella maggiore estensione di un
fondo. In tale caso il venditore altro non deve fare che prestare
il "genus limitatum" attenendosi al disposto dell'art. 1178 c.c.,
secondo cui, quando l'obbligazione ha per oggetto cose determinate solo nel "genus", il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media».
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da due o più cose, mobili o immobili, poste in via
alternativa e fungibile (in senso soggettivo) tra
loro (41); l’acquirente (ma le parti potrebbero
pattuire che la cosiddetta electio, o scelta, sia effettuata dal venditore o da un terzo) potrà scegliere una delle due res; similmente alla vendita
di genere, e sino a quando non verrà effettuato
l’atto di determinazione, l’effetto traslativo non si
verifica.
Ai sensi degli artt. 1523 c.c. ss., in tema di vendita
a rate (42), il legislatore ha espressamente fatto salva la possibilità, per i contraenti, di stipulare contratti di vendita nei quali l’effetto traslativo si abbia, automaticamente, con il pagamento dell’ultima rata di prezzo e non al momento di conclusione
del contratto.
La vendita a rate con riserva di proprietà è connotata da una clausola definita “patto di riservato dominio”, in virtù della quale, pur a seguito della
conclusione del negozio, il venditore rimane proprietario del bene compravenduto, mentre l’acquirente, assuntasi l’obbligazione a pagare il prezzo,
pur potendo disporre della cosa immediatamente
ne diverrà proprietario solamente nel momento in
cui avrà adempiuto integralmente alla propria obbligazione di pagamento.
A differenza del principio generale in tema di compravendita, secondo cui il rischio del perimento
del bene passa al compratore al momento del trasferimento del diritto, in tema di patto di riservato
dominio l’acquirente si fa immediatamente carico
del rischio sin dal momento della consegna (art.
1523 c.c.), con inversione del noto principio “res
perit domino”.
Questo particolare tipo di vendita è collocato nella
sezione II titolo III libro IV del codice civile, sulla
vendita di cose mobili, ma, come l’unanime dottrina (43) e giurisprudenza (44) hanno ormai ammesso, la collocazione nella sezione del codice sui beni
mobili è semplicemente dovuto a ragioni di comune esperienza (45), ben potendo, le parti, stabilire
il differimento dell’efficacia traslativa del diritto al
pagamento dell’ultima rata anche nelle ipotesi di
vendita di beni immobili.
Per quanto attiene, invece, al regime della opponibilità del patto nei confronti dei terzi creditori del
compratore e terzi acquirenti del medesimo, soccorre l’art. 1524 c.c., secondo cui per l’opponibilità
del patto di riservato dominio ai creditori (del
compratore) è necessario ma anche sufficiente che
il patto stesso risulti da atto scritto di data certa
anteriore al pignoramento della cosa, incombendo
sul terzo l’onere della prova dell’anteriorità del patto (46), rispetto al titolo del creditore dell’acquirente.
Nei confronti dei terzi acquirenti, invece, la norma
in esame prevede che, nell’ipotesi di macchine che
abbiano valore superiore ad euro 15,49, perché sorga l’effetto dell’opponibilità è necessario che l’atto
sia trascritto nell’apposito registro tenuto presso la
cancelleria del Tribunale dove si trova il bene, e
questo, acquistato dal terzo, si trovi nel luogo dove
la trascrizione è stata eseguita (47), istituendo così
una forma di pubblicità dichiarativa.
(41) Poiché la vendita alternativa non è espressamente indicata nel codice civile, ma viene ricondotta, come disciplina, alle obbligazioni alternative, si farà applicazione diretta delle disposizioni ex artt. 1285 ss. (Bianca, La vendita e la permuta, in
Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1972, 242 e Gazzara, La vendita obbligatoria, Milano, 1957, 197) e non, invece,
applicazione analogica delle stesse (Mirabelli, Dei singoli contratti, in Comm. Cod. civ., libro IV, Torino, 1991, 14).
(42) Pur essendo stata ammessa la riserva di proprietà per
le vendite cosiddette a rate, si registra una giurisprudenza che
ne permetterebbe l’applicabilità anche nelle ipotesi in cui la
vendita stipulata preveda il pagamento interamente o parzialmente differito; si veda Cass., 22 marzo 2006, n. 6322, secondo la quale: “Il patto di riservato dominio può essere incluso
anche in una vendita che preveda il pagamento del prezzo non
rateale, ma interamente o parzialmente differito. In entrambi i
casi l’elemento caratteristico della vendita è costituito dalla immediata eseguibilità della prestazione di consegna della cosa e
dal differimento dell’effetto traslativo, che ha luogo soltanto all’atto della completa esecuzione della prestazione riguardante
il pagamento del prezzo”.
(43) Per tutti, Rubino, La vendita, op. cit., 432; Greco, Cottino La vendita, op. cit., 431.
(44) Cass., 3 aprile 1980, n. 2167: “La vendita con riserva di
proprietà, normalmente attuata nelle compravendite mobiliari
può essere applicata anche alle vendite di immobili, ed è tipica
delle vendite a rate o a credito, in cui l’effetto traslativo della
proprietà viene differito al momento del pagamento dell’ultima
rata di prezzo”.
(45) Bianca, La vendita e la permuta, op. cit., 354: “La collocazione del riservato dominio nella sezione della vendita mobiliare risponde semplicemente ai termini della comune esperienza di un fenomeno che si è affermato appunto nella vendita di prodotti industriali, ma la cui natura giuridica è indifferente alla natura del bene che è oggetto del diritto alienato”.
(46) Cass., 20 marzo 1980, n. 1857. In tema di opponibilità
al fallimento si veda Cass., 12 giugno 2009, n. 13759: ”Quando il curatore fallimentare agisce in revocatoria ai sensi dell’art. 67 l. fall., impugnando l’atto con cui il fallito ha disposto
dei beni in favore del creditore contestualmente spogliandosi
del possesso, il terzo che invoca in proprio favore il patto di riservato dominio sui beni oggetto della predetta azione deve
provare che tale patto ha data certa anteriore al fallimento, ai
sensi dell’art. 1524 c.c., anche nel caso in cui ne sia venuto
meno il possesso, da parte del fallito, anteriormente alla dichiarazione di fallimento”.
(47) Cass., 31 gennaio 2006, n. 2161: “In caso di vendita
con riserva di proprietà, per l’opponibilità del relativo patto al
Vendita a rate con riserva di proprietà
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Relativamente, infine, ai beni immobili, essendo
stato ritenuto valido (48) il patto inserito nei relativi contratti di vendita, si è coerentemente anche
ritenuto che il negozio possa esser trascritto, ai fini
dell’opponibilità, fin dalla sua conclusione, e prima
ancora che la proprietà sia passata in capo al compratore.
In ordine alla disciplina sull’inadempimento del
compratore sono state dettate due specifiche norme, artt. 1525 e 1526 c.c., non derogabili, non suscettibili di applicazione analogica ad altre fattispecie diverse dalla vendita con riserva di proprietà e
finalizzate a limitare l’autonomia delle parti in modo tale da escludere l’applicabilità di una clausola
risolutiva espressa per l’ipotesi di un lieve inadempimento del compratore, che sia tale da non eccedere il mancato pagamento di una rata non superiore all’ottava parte del prezzo complessivo, ed impedire la risoluzione oltre i limiti della rilevanza
dell’inadempimento (49).
Con la prima norma si afferma, infatti, expressis
verbis, l’invalidità di ogni patto (art. 1525, comma
1, c.c., “nonostante patto contrario …”) volto a
dar luogo alla risoluzione del negozio in caso di
mancato pagamento di una sola rata che non superi l’ottava parte del prezzo; con la seconda, invece,
si stabilisce, in caso di risoluzione per inadempi-
mento del compratore, la restituzione da parte del
venditore delle rate riscosse, salvo un equo compenso per l’utilizzo della cosa ed il risarcimento del
danno.
È ammesso altresì il patto volto ad attribuire in capo al venditore il diritto a trattenere le rate pagate
a titolo di indennità; in tal caso, secondo le circostanze, il giudice potrà ridurre l’indennità convenuta (50).
Da ultimo, in ordine alla natura giuridica, la dottrina prevalente (51) e la giurisprudenza della Cassazione (52) collocano la vendita con riserva di proprietà nell’ambito della vendita obbligatoria, in
virtù del differimento dell’effetto traslativo, proprio
del patto di riservato dominio; al compratore si ritiene venga attribuito, medio tempore, un diritto
reale sui generis.
Non sono tuttavia mancati Autori (53) che hanno
diversamente collocato la natura giuridica di tale
patto all’interno del negozio condizionato sospensivamente; è stato tuttavia osservato (54) che le obbligazioni di consegna del bene e di pagamento del
prezzo hanno immediata efficacia, ed inoltre, l’acquisto del diritto si ha al momento del pagamento
dell’ultima rata, pertanto ex nunc e non con l’efficacia retroattiva, connessa all’avveramento della
condizione.
terzo acquirente è necessaria, ai sensi dell’art. 1524 c.c., la ricorrenza dei requisiti della trascrizione del medesimo nell’apposito registro tenuto presso la cancelleria del Tribunale ove il
bene si trova, e della permanenza in tale luogo del detto bene
al momento dell’acquisto da parte del terzo”.
(48) In dottrina si ritiene che l'opponibilità del patto di riservato dominio sia subordinata alla trascrizione della riserva nei
registri immobiliari: cfr. Luminoso, I contratti tipici ed atipici, in
Tratt. dir. priv., a cura di Iudica - Zatti, Milano, 1995, 143; Rubino, La vendita, op. cit., 438; Greco - Cottino, Della vendita, op.
cit., 437.
(49) Cass., Sez. Un., 26 novembre 1993, n. 11718: “In tema
di vendita con riserva di proprietà, le disposizioni degli artt.
1525 e 1526 c.c., concernenti l’inadempimento del compratore e la risoluzione del contratto, hanno la funzione di limitare
l’autonomia privata in guisa da escludere la legittimità di una
clausola risolutiva espressa, per i casi in cui il compratore non
sia inadempiente per il mancato pagamento di una sola rata
che non superi l’ottava parte del prezzo, e da impedire al venditore o al suo cessionario di potere chiedere la risoluzione oltre i limiti della rilevanza legale, a tal fine, dell’inadempimento,
senza esclusione, nel medesimo caso, dell’esperibilità dell’azione contrattuale di adempimento e della spettanza al creditore dell’opzione per l’azione esecutiva sui beni del compratore
o sulla stessa cosa oggetto del riservato dominio”.
(50) Parte della dottrina ha accostato tale patto alla disciplina della clausola penale; in tal senso si veda Gorla, La compravendita, op. cit., 322; Rubino, La compravendita, op. cit., 443;
Bianca, La vendita e la permuta, op. cit., 550.
Si veda altresì, in giurisprudenza Cass., 23 marzo 2001, n.
4208, secondo la quale: “Nell’ipotesi di inadempimento del
compratore, qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo di indennità, e sia stata altresì
pattuita una penale di entità corrispondente all’ammontare dei
canoni ancora da pagare, gli artt. 1526, comma 2 e 1384 c.c.,
che attribuiscono al giudice il potere di ridurre l’indennità convenuta e di diminuire la penale, non impongono una rigida correlazione all’entità del danno subito dal creditore, posto che in
entrambi i casi non si tratta di risarcire un danno, ma all’opposto di diminuirne l’entità convenzionalmente stabilita. Pertanto
la valutazione del giudice va condotta sul piano dell’equilibrio
delle prestazioni con riferimento al margine di guadagno che il
concedente si riprometteva di trarre dall’esecuzione del contratto”.
(51) Rubino, La compravendita, op. cit., 428; Greco, Cottino,
Della vendita, op. cit., 432.
(52) Cass., 3 aprile 1980, n. 2167; Cass., 14 giugno 1982,
n. 3630.
(53) Giordano, Obbligazione delle parti nella vendita con riserva di proprietà, in Giur. compl. cass. civ., 1945, I, 198; De
Martini, Vendita reale, vendita obbligatoria e promessa di vendita, in Giur. compl. cass. civ., 1947, III, 452; Rescigno, voce Condizione (dir. vig.), in Enc. dir., Milano, 1961, vol. VIII, 784.
(54) In particolare, Mirabelli, Dei singoli contratti, op. cit.,
165 ss.
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Sintesi
Osservatorio comunitario
a cura di Pietro Michea De Berti Jacchia Franchini Forlani - Bruxelles
Concorrenza
LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SUI REQUISITI PER IL RISARCIMENTO DEI DANNI CAUSATI DA
UN’INTESA RESTRITTIVA DELLA CONCORRENZA
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 giugno 2014, causa C-557/12, Kone AG e altri/ÖBB Infrastruktur AG
- Articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea
In data 5 giugno 2014, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, nella causa C-557/12, Kone
AG e altri/ÖBB Infrastruktur AG, sull’interpretazione dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (d’ora in poi “TFUE”). La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata nell’ambito di una
controversia tra, da un lato, la Kone AG, la Otis GmbH, la Schindler Aufzüge und Fahrtreppen GmbH, la Schindler Liegenschaftsverwaltung GmbH e la ThyssenKrupp Aufzüge GmbH (congiuntamente le “società parti delle
intese”), imprese aderenti ad intese relative all’installazione e alla manutenzione di ascensori e scale mobili in
vari Stati membri (1), e, dall’altro, la ÖBB-Infrastruktur AG, filiale della società delle ferrovie federali austriache
(in seguito la “ÖBB-Infrastruktur”), in merito alla possibilità che quest’ultima potesse richiedere il risarcimento
del danno subito per effetto dei prezzi elevati applicati nei contratti conclusi con imprese non aderenti a tali intese (2). A seguito del rigetto in primo grado della domanda di risarcimento proposta dalla ÖBB-Infrastruktur, vi
è stato l’accoglimento della stessa da parte del giudice d’appello, avverso la cui decisione le società parti delle
intese hanno adito il giudice del rinvio che si è interrogato sulla sussistenza nel caso di specie dei requisiti del
sufficiente nesso di causalità (3) e del nesso di illiceità (4) in presenza dei quali, ai sensi della giurisprudenza dei
giudici austriaci, sorge la responsabilità civile dei partecipanti ad un’intesa. In tale contesto, il giudice del rinvio
ha deciso di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte di giustizia se l’articolo 101 TFUE osti all’interpretazione e applicazione del diritto di uno Stato membro, consistente nell’escludere categoricamente, per motivi di ordine giuridico, la responsabilità civile di imprese aderenti ad un’intesa per i danni risultanti dai prezzi
che un’impresa terza abbia fissato, in considerazione dell’operato dell’intesa, ad un livello più elevato di quanto
avrebbe fatto in assenza della medesima. Dopo aver ricordato gli effetti diretti prodotti dall’articolo 101
TFUE (5), la Corte di giustizia ha affermato che, siccome la piena efficacia di tale disposizione sarebbe messa
(1) Con decisione del 21 febbraio 2007, la Commissione europea ha inflitto alle società parti delle intese - esclusa la ThyssenKrupp Aufzüge GmbH che aveva beneficiato del trattamento di clemenza - un’ammenda dell’importo complessivo di 992 milioni di
euro per aver partecipato ad intese relative all’installazione e alla manutenzione di ascensori e di scale mobili in Belgio, in Germania, in Lussemburgo e nei Paesi Bassi. Con sentenza dell’8 ottobre 2008, la Suprema Corte austriaca, in qualità di giudice di appello in materia di diritto antitrust, confermava l’ordinanza del 14 dicembre 2007, con cui il tribunale in materia di concorrenza aveva inflitto ammende alle società parti delle intese (si vedano i punti 6 e 7 della sentenza).
(2) Richiamando l’“effetto di prezzo di protezione” (il c.d. umbrella effect), la ÖBB-Infrastruktur fondava la propria richiesta di risarcimento sul fatto di aver acquistato da imprese terze, non facenti parte delle intese, ascensori e scale mobili ad un prezzo più
elevato di quello che sarebbe stato fissato in assenza delle intese medesime, in quanto dette imprese terze avrebbero beneficiato
della sua esistenza per fissare il proprio prezzo ad un livello più elevato.
(3) Al punto 14 della sentenza il giudice del rinvio ha richiamato la giurisprudenza dei giudici austriaci secondo cui “... in applicazione della nozione di sufficiente nesso di causalità, l’autore di un danno deve garantire il risarcimento di tutte le conseguenze,
ivi comprese quelle fortuite, di cui potesse considerare in abstracto il verificarsi, ma non il risarcimento delle conseguenze atipiche.
Secondo tale giurisprudenza, qualora un’impresa estranea ad un’intesa benefici dell’effetto del prezzo di protezione, non sussisterebbe sufficiente nesso di causalità tra l’intesa stessa e l’eventuale danno subito dall’acquirente, in quanto si tratterebbe di un
danno indiretto, di un effetto collaterale di una decisione autonoma che un soggetto terzo all’intesa avrebbe assunto sulla base di
proprie considerazioni gestionali. L’effetto prodotto su un concorrente dalla situazione del mercato, quale determinata dagli aderenti di un’intesa, le conclusioni economiche da questi tratte per la propria impresa nonché per i propri prodotti e le decisioni gestionali conseguentemente assunte, in particolare con riguardo alla fissazione dei prezzi, sarebbero considerati determinati, in larga misura, da un ampio numero di fattori, privi di alcun rapporto con l’intesa ...”.
(4) In merito al nesso di illiceità il giudice del rinvio ha affermato quanto segue: “... alla luce della dottrina relativa alla finalità di
tutela dell’intesa, il fatto di causare il danno patrimoniale implicherebbe l’obbligo di risarcimento solamente nel caso in cui l’illiceità del danno risulti dalla violazione di obblighi contrattuali, di diritti assoluti o di norme di tutela. Il punto determinante consisterebbe, quindi, nell’accertare se la norma violata dall’autore del danno fosse volta alla tutela degli interessi del soggetto leso. Ciò non
avverrebbe nel caso del sistema dei prezzi di protezione (umbrella pricing), che non implicherebbe alcuna relazione di illiceità. I
comportamenti illeciti degli aderenti ad un’intesa sarebbero volti a ledere i soggetti acquirenti dei loro prodotti ai prezzi artificialmente elevati da essi praticati. Il pregiudizio causato dal prezzo di protezione non sarebbe altro che un effetto collaterale di una
decisione indipendente che un soggetto terzo all’intesa ha assunto sulla base di proprie considerazioni gestionali ...” (punto 15
della sentenza).
(5) Si veda CGUE 13 luglio 2006, cause riunite da C-295/04 a C-298/04, Manfredi e altri, punto 39. La Corte di giustizia ha rimarcato che “... gli artt. 81, n. 1, CE e 82 CE [ora articoli 101 e 102 TFUE] producono effetti diretti nei rapporti tra i singoli ed attribuiscono direttamente a questi ultimi diritti che i giudici nazionali devono tutelare (v. sentenze 30 gennaio 1974, causa 127/73, BRT e
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in discussione se fosse limitata la possibilità di chiedere il risarcimento del danno causato da un comportamento idoneo a restringere o falsare il gioco della concorrenza (6), il diritto al risarcimento dovrebbe essere riconosciuto a tutti i soggetti interessati quando sussiste un nesso di causalità tra il paventato danno e un’intesa
vietata (7). Non avendo l’Unione europea (a seguire “UE”) legiferato sulle modalità di esercizio del diritto di agire per il risarcimento del danno risultante da un’intesa o da una pratica vietati dall’articolo 101 TFUE, spetta ad
ogni singolo Stato membro il compito di stabilire tali modalità, ivi compresi i principi relativi all’applicazione
della nozione di “nesso di causalità” (8), nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività (9). Nel regolamentare tale settore, gli Stati membri devono garantire la piena effettività del diritto UE in materia di diritto della
concorrenza, tenendo specificamente conto dell’obiettivo perseguito di assicurare il mantenimento di una concorrenza effettiva e non falsata del mercato e, quindi, di prezzi fissati in base al meccanismo della libera concorrenza (10). Alla luce di ciò, considerato che le imprese determinano i prezzi dei propri prodotti o servizi basandosi in via principale sul prezzo di mercato, la Corte di giustizia ha riconosciuto che, qualora sussistano determinate condizioni attinenti, per esempio, alla natura del prodotto o alla dimensione del mercato interessato,
l’esistenza di un’intesa può indurre società che non ne facciano parte ad aumentare i loro prezzi per adattarli a
quelli di mercato risultanti dalla stessa. Contrariamente da quanto affermato da alcune delle società parti delle
intese, l’effetto collaterale determinato dal danno arrecato al cliente dell’impresa non aderente per effetto del
prezzo offerto superiore a quello che sarebbe stato determinato in assenza dell’intesa medesima non può essere ignorato dai suoi partecipanti. Se ne deduce che, diversamente da quanto previsto dalla normativa nazionale oggetto del procedimento principale (11) - la cui applicazione rimetterebbe in discussione la piena effettività
dell’articolo 101 TFUE (12) - la vittima di un prezzo di protezione ha il diritto di chiedere il risarcimento del danno subito ad opera degli aderenti ad un’intesa, ancorché non abbia intrattenuto con gli stessi vincoli contrattuali. Affinché il risarcimento in oggetto possa essere richiesto sarà necessario accertare che, alla luce delle
circostanze di specie e segnatamente, delle peculiarità del mercato interessato, detta intesa abbia inciso sull’applicazione del prezzo di protezione da parte di imprese non aderenti che abbiano determinato tale prezzo
con decisioni autonome e che tali circostanze e peculiarità non potessero essere ignorate dai membri dell’intesa medesima. Per concludere, la Corte di giustizia ha rigettato le deduzioni presentate dalle società parti delle
intese secondo cui azioni di risarcimento danno di tal genere, da un lato, costituiscono azioni risarcitorie punitive, in quanto al pregiudizio subito dalla ÖBB-Infrastruktur non corrisponderebbe un arricchimento delle ricorrenti nel procedimento principale, dall’altro, sono tali da dissuadere le imprese interessate a cooperare con le
autorità nazionali di tutela della concorrenza. Per quanto concerne la prima deduzione, la Corte di giustizia ha
affermato che le norme in materia di responsabilità extracontrattuale non subordinano l’entità del danno risarcibile al vantaggio economico realizzato dall’autore dell’illecito da cui il danno è derivato. In merito alla seconda deduzione, la Corte di giustizia ha dichiarato che, poiché il programma di clemenza viene attuato dalla
SABAM, detta BRT/I, Racc. pag. 51, punto 16; 18 marzo 1997, causa C-285/95 Guérin automobiles/Commissione, Racc. pag. I1503, punto 39, e 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage e Crehan, Racc. pag. I-6297, punto 23), e che il principio del primato del diritto comunitario esige che sia disapplicata qualsiasi disposizione della legislazione nazionale in contrasto con una norma comunitaria, indipendentemente dal fatto che sia anteriore o posteriore a quest’ultima (v., in particolare, sentenza 9 settembre
2003, causa C-198/01, CIF, Racc. pag. I-8055, punto 48) ...”.
(6) Si veda ex multis CGUE 6 giugno 2013, causa C-536/11, Donau Chemie e altri, punto 21.
(7) Sul punto CGUE 6 novembre 2012, causa C-199/11, Otis e altri, punto 43; CGUE, Manfredi e altri, cit., punto 61. In CGUE
14 giugno 2011, causa C-360/09, Pfleiderer, punto 29, la Corte di giustizia ha aggiunto che “... [u]n siffatto diritto rafforza, infatti, il
carattere operativo delle regole di concorrenza dell’Unione ed è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulati,
idonei a restringere o a falsare il gioco della concorrenza. In quest’ottica, le azioni di risarcimento danni dinanzi ai giudici nazionali
possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nell’Unione europea ...”.
(8) In merito CGUE, Manfredi e altri, cit., punto 64.
(9) CGUE, Donau Chemie e altri, cit., punto 27. La Corte di giustizia ha ricordato che “... le norme applicabili ai ricorsi destinati
a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza dell’effetto diretto del diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle riguardanti ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) (v. sentenze Courage e Crehan, cit., punto 29; Manfredi e a., cit., punto 62, nonché del 30 maggio 2013, Jõrös, C-397/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 29) ...”.
(10) In CGUE 7 dicembre 2010, causa C-439/08, VEBIC, punto 57, la Corte di giustizia ha affermato che “... [a]nche se l’art. 35,
n. 1, del regolamento lascia all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro il compito di disciplinare le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali proposti contro le decisioni delle autorità garanti della concorrenza così designate, tali modalità
non devono pregiudicare la finalità di detto regolamento che è quella di garantire l’efficace applicazione degli artt. 101 TFUE e
102 TFUE da parte delle autorità di cui trattasi ...”.
(11) Al punto 31 della sentenza è riportato quanto segue: “... dalla decisione di rinvio emerge che la normativa austriaca esclude, in termini categorici, il diritto al risarcimento del danno in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, in
quanto si ritiene che il nesso di causalità tra il pregiudizio subito e l’intesa de qua sia interrotto, in assenza di un vincolo convenzionale con un’aderente all’intesa stessa, dalla decisione dell’impresa, autonomamente adottata, di non partecipare all’intesa, pur
essendo stato fissato, per effetto dell’esistenza di quest’ultima, un prezzo di protezione (umbrella pricing) ...”.
(12) In particolare, secondo la Corte di giustizia, “... la piena effettività dell’articolo 101 TFUE sarebbe rimessa in discussione se
il diritto di chiunque di chiedere il risarcimento del pregiudizio subito fosse subordinato dalla normativa nazionale, in termini categorici e a prescindere dalle specifiche circostanze della specie, alla sussistenza di un nesso di causalità diretta, escludendo tale diritto nel caso in cui il soggetto interessato abbia intrattenuto rapporti contrattuali non con un membro dell’intesa, bensì con un’impresa ad essa non aderente, la cui politica in materia di prezzi sia tuttavia conseguenza dell’intesa che ha contribuito a falsare i
meccanismi di formazione dei prezzi operanti in mercati retti da regime di concorrenza ...” (punto 33 della sentenza).
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Commissione con la propria comunicazione del 2006 (13) senza avere effetti vincolanti nei confronti degli Stati
membri, tale programma non può privare i singoli del diritto di ottenere, dinanzi ai giudici nazionali, il risarcimento del danno subito a seguito di una violazione dell’articolo 101 TFUE. Sulla base di tali motivi, la Corte di
giustizia ha dichiarato che:
“L’articolo 101 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta ad un’interpretazione e ad un’applicazione del diritto nazionale di uno Stato membro consistente nell’escludere, in termini categorici, per motivi giuridici, che imprese
partecipanti ad un’intesa rispondano civilmente dei danni risultanti dai prezzi che un’impresa terza abbia fissato, in
considerazione dell’operato dell’intesa, ad un livello più elevato rispetto a quello che sarebbe stato applicato in assenza dell’intesa medesima”.
Appalto
LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SUL REQUISITO DEL “CONTROLLO ANALOGO” NEGLI AFFIDAMENTI IN
HOUSE
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 8 maggio 2014, causa C-15/13, Technische Universität Hamburg-Harburg e Hochschul-Informations-System GmbH/Datenlotsen Informationssysteme GmbH - Direttiva
2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi
In data 8 maggio 2014, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, nella causa C-15/13, Technische
Universität Hamburg-Harburg e Hochschul-Informations-System GmbH/Datenlotsen Informationssysteme GmbH,
sull’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici
di lavori, di forniture e di servizi (14) (d’ora in poi la “direttiva 2004/18/CE” oppure la “direttiva”). La domanda di
pronuncia pregiudiziale è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la Technische Universität
Hamburg–Harburg (15) (il Politecnico di Amburgo; in prosieguo l’“università”), istituto pubblico d’istruzione superiore del Bundesland Freie und Hansestadt Hamburg (Stato federale della libera città anseatica di Amburgo; la
“Città di Amburgo”), la Hochschul–Informations–System GmbH (16) (in seguito la “HIS”) e, dall’altro, la Datenlotsen Informationssysteme GmbH (a seguire la “ricorrente”), in merito alla regolarità dell’aggiudicazione di un appalto pubblico attribuito direttamente dall’università alla HIS, dopo aver effettuato un esercizio di valutazione nell’ambito di cui i sistemi informatici di quest’ultima e della ricorrente erano stati messi a confronto (17). Avverso la
decisione del giudice adito in primo grado che ha accolto il ricorso presentato dalla ricorrente contro l’affidamento diretto di detto appalto (18), la HIS e l’università hanno proposto impugnazione dinanzi al giudice del rinvio
(13) Comunicazione della Commissione relativa all'immunità dalle ammende o alla riduzione del loro importo nei casi di cartelli
tra imprese, GU C 298 dell’08 dicembre 2006.
(14) Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, GU L 134 del 30 aprile 2004.
(15) L’università costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 9, della direttiva 2004/18/CE e, di
conseguenza, un’amministrazione aggiudicatrice.
(16) Dai punti 10 e 11 della sentenza risulta che “... la HIS è una società a responsabilità limitata di diritto privato, il cui capitale
è detenuto per un terzo dalla Repubblica federale di Germania e per due terzi dai sedici Länder tedeschi, e la parte della Città di
Amburgo corrisponde al 4,16% di tale capitale. Conformemente all’articolo 2 dello statuto di detta società, l’oggetto sociale di
quest’ultima è di assistere gli istituti pubblici d’istruzione superiore e le amministrazioni competenti nell’adempimento, in modo
razionale ed efficace, della propria funzione d’istruzione superiore. I sistemi informatici della HIS sono utilizzati in oltre 220 istituti
pubblici e religiosi d’istruzione superiore in Germania. Ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, dello statuto della HIS, il consiglio di
sorveglianza di tale società è composto da dieci membri, di cui sette sono nominati su proposta della conferenza dei ministri dei
Länder, due su proposta della conferenza dei rettori degli istituti d’istruzione superiore, che è un’associazione che riunisce le università e gli istituti d’istruzione superiore tedeschi pubblici o riconosciuti dallo Stato, e uno su proposta delle autorità federali. A
norma dell’articolo 15, paragrafo 1, del proprio statuto, la HIS dispone di un comitato consultivo (Kuratorium), di cui 19 dei 37
membri provengono dalla conferenza dei ministri dei Länder. Per quanto concerne il volume delle attività della HIS, il 5,14% del
fatturato di tale società corrisponde ad attività svolte per conto di enti diversi dagli istituti pubblici d’istruzione superiore ...”.
(17) Al fine di acquisire un sistema di gestione informatica per l’insegnamento superiore, l’università ha effettuato un esercizio
di valutazione nell’ambito del quale ha confrontato i sistemi informatici della ricorrente e della HIS. In seguito a tale esame, l’università, avendo optato per l’acquisizione del sistema proveniente da quest’ultima società, ha concluso con la medesima un contratto d’appalto di forniture mediante affidamento diretto senza applicare le procedure di aggiudicazione previste dalla direttiva
2004/18/CE.
(18) La sentenza, ai punti 13 e 14, riporta le motivazioni che hanno indotto il giudice di primo grado ad accogliere il ricorso.
Nello specifico, il giudice di primo grado «... ha ritenuto che non sussistessero nel caso di specie le condizioni richieste dalla giurisprudenza della Corte per un affidamento in house. In concreto, non sarebbe soddisfatta la condizione di “controllo analogo”, dato
che l’università, in quanto amministrazione aggiudicatrice, non è in grado di esercitare sulla HIS un controllo analogo a quello che
svolge sui propri servizi. È vero che l’università è una persona giuridica di diritto pubblico facente capo alla Città di Amburgo e
che quest’ultima detiene il 4,16% del capitale della HIS. Tuttavia, l’università e la Città di Amburgo sono persone giuridiche distinte. Del pari, nemmeno la considerazione che la Città di Amburgo controlla sia l’università sia la HIS sarebbe sufficiente a soddisfare detta condizione, in quanto tale forma di “controllo indiretto” non trova alcun fondamento nella giurisprudenza della Corte. [Il
giudice di primo grado] osserva inoltre che l’università dispone di una certa autonomia e che il controllo di legittimità e di opportu-
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che, sulla scorta di una serie di considerazioni (19), ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte di giustizia due quesiti. In particolare il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di giustizia se l’articolo 1, paragrafo 2, lettera a) (20), della direttiva 2004/18/CE debba essere interpretato nel senso che un contratto avente
ad oggetto la fornitura di prodotti, concluso tra, da un lato, un’università che è un’amministrazione aggiudicatrice
ed è controllata nel settore delle sue acquisizioni di prodotti e servizi da uno Stato federale tedesco e, dall’altro,
un’impresa di diritto privato detenuta dallo Stato federale e dagli Stati federali tedeschi, compreso lo Stato federale di cui sopra, costituisce un appalto pubblico ai sensi della medesima disposizione. Nel rispondere al quesito
sottoposto alla sua attenzione, la Corte di giustizia ha prima di tutto ricordato che, in ragione dell’obiettivo principale perseguito dalle norme del diritto dell’Unione europea (in seguito “UE”) in materia di appalti pubblici (21),
qualsiasi deroga alla loro applicazione da parte di qualsiasi amministrazione aggiudicatrice deve essere interpretata restrittivamente. Sulla scorta di tale giurisprudenza, la Corte di giustizia ha statuito che la deroga dall’applicazione della direttiva 2004/18/CE ad un contratto a titolo oneroso (22), relativamente agli affidamenti di appalti cosiddetti “in house”, si giustifica solo in presenza di determinate circostanze che portino a concludere che l’amministrazione aggiudicatrice ricorra a propri strumenti per adempiere ai propri compiti di interesse pubblico oppure
faccia ricorso alle prestazioni di un’entità giuridicamente distinta sulla quale comunque la stessa eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (23). Alla luce della nozione di “controllo analogo” (24) - che tra
l’altro, in presenza di determinate condizioni, può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche
che possiedono in comune l’autorità affidataria (25) - la Corte di giustizia ha riconosciuto che, in una situazione
nità esercitato su di essa dalla Città di Amburgo, per quanto riguarda la gestione degli stanziamenti attribuiti, non equivale al potere direttivo di cui deve disporre un’amministrazione aggiudicatrice. Non si può nemmeno parlare di un controllo esercitato sulla
HIS dalla Città di Amburgo, dato che quest’ultima non dispone di alcun rappresentante permanente in seno al consiglio di sorveglianza di tale società ...».
(19) Il giudice del rinvio ha in particolar modo rilevato quanto segue: «... conformemente allo statuto degli istituti pubblici d’istruzione superiore, questi ultimi dispongono di un’ampia autonomia nei settori della ricerca e dell’istruzione e che l’esercizio di tali competenze autonome è sottoposto al semplice controllo di legittimità. Tuttavia, il contratto di cui trattasi nel procedimento principale rientrerebbe nel settore della gestione degli stanziamenti attribuiti all’università, nel cui ambito le autorità competenti dispongono di un potere di controllo che si estenderebbe fino alla possibilità di annullare o modificare le decisioni adottate in materia di acquisti. Pertanto, il giudice del rinvio ritiene soddisfatta la condizione di “controllo analogo” nel settore degli acquisti e delle
forniture degli istituti pubblici d’istruzione superiore. Esso si chiede tuttavia se tale condizione non richieda che il controllo riguardi
l’insieme dei settori di attività dell’ente subordinato, cosicché la limitazione dell’ambito di applicazione di detto controllo agli appalti di forniture non consentirebbe di ritenere soddisfatta detta condizione. In tal senso deporrebbe la giurisprudenza della Corte
secondo la quale l’amministrazione aggiudicatrice deve avere la possibilità di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti dell’ente subordinato. Per quanto concerne il controllo esercitato dalla Città di Amburgo
sulla HIS, il giudice del rinvio rileva che il fatto che la Città di Amburgo detenga solo il 4,16% del capitale di tale società e non disponga di un rappresentante permanente in seno al consiglio di sorveglianza di quest’ultima potrebbe deporre contro l’esistenza
di un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi. Riguardo alla seconda condizione, imposta dalla giurisprudenza della Corte, relativa alla “realizzazione della parte più importante” dell’attività dell’affidatario, il giudice del rinvio ritiene soddisfatta nella fattispecie tale condizione, dato che l’attività della HIS è dedicata prevalentemente agli istituti pubblici d’istruzione superiore e che le altre attività della medesima società hanno carattere accessorio ... » (punti 17, 18 e 19 della sentenza).
(20) Direttiva 2004/18/CE, cit. L’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), dispone che «... Gli “appalti pubblici” sono contratti a titolo
oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della presente direttiva ...».
(21) Si veda CGUE 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Recyclingpark Lochau GmbH, punto 44. La Corte di giustizia ha ricordato “... l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, quale evidenziato nell’ambito
della risposta alla prima questione, vale a dire la libera circolazione dei servizi e l’apertura ad una concorrenza non falsata in tutti
gli Stati membri. Ciò implica l’obbligo di qualsiasi amministrazione aggiudicatrice di applicare le norme comunitarie pertinenti
qualora sussistano i presupposti da queste contemplati ...”.
(22) In CGUE 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal, punto 50, la Corte di giustizia ha affermato che “... conformemente
all'art. 1, lett. a), della direttiva 93/36, basta, in linea di principio, che il contratto sia stato stipulato, da una parte, da un ente locale
e, dall'altra, da una persona giuridicamente distinta da quest'ultimo ...”.
(23) Sul punto CGUE, Stadt Halle e RPL Recyclingpark Lochau GmbH, cit., punti 48 e 49, laddove la Corte di giustizia ha rimarcato che “... [u]n’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse
pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso
ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici. In conformità della giurisprudenza della Corte, non è escluso che possano esistere altre
circostanze nelle quali l’appello alla concorrenza non è obbligatorio ancorché la controparte contrattuale sia un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Ciò si verifica nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione
aggiudicatrice, eserciti sull’entità distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità
realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano ...”.
(24) In merito CGUE 29 novembre 2012, cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord, punto 27. La Corta di giustizia ha affermato che «... [s]econdo una costante giurisprudenza, sussiste un “controllo analogo” quando l’entità di cui trattasi è assoggettata
a un controllo che consente all’amministrazione aggiudicatrice di influenzare le decisioni dell’entità medesima. Deve trattarsi di
una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti di tale entità (citate sentenze
Parking Brixen, punto 65; Coditel Brabant, punto 28, e Sea, punto 65). In altri termini, l’amministrazione aggiudicatrice deve essere
in grado di esercitare su tale entità un controllo strutturale e funzionale (sentenza Commissione/Italia, cit., punto 26). La Corte esige altresì che tale controllo sia effettivo (sentenza Coditel Brabant, cit., punto 46) ...».
(25) Su questo aspetto si veda CGUE, Econord, cit., punti da 28 a 31.
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come quella di cui al procedimento principale, non sussiste il motivo giustificante il riconoscimento dell’eccezione per quanto riguarda gli affidamenti cosiddetti “in house”, cioè l’esistenza di un legame interno particolare tra
l’amministrazione aggiudicatrice e l’affidataria. Nello specifico, la Corte di giustizia è giunta a tale conclusione basandosi sulla circostanza che tra l’università, amministrazione aggiudicatrice, e la HIS, entità affidataria, non esiste alcuna relazione di controllo, non detenendo la prima alcuna partecipazione nel capitale dell’altra così come
alcun rappresentante legale nei suoi organi direttivi. La Corte di giustizia non ha esaminato se l’eccezione relativa
agli affidamenti “in house” possa applicarsi alle operazioni cosiddette “in house orizzontali” (26), in quanto il controllo esercitato dalla Città di Amburgo sull’università è limitato ad una parte delle attività da quest’ultima svolte,
cioè in materia di acquisizioni, e non ai settori dell’educazione e della ricerca, nell’ambito dei quali l’università dispone di ampia autonomia. In conclusione, la Corte di giustizia ha chiarito che, in assenza delle condizioni dalla
stessa specificamente indicate, non è applicabile al caso di specie la giurisprudenza relativa alla cooperazione tra
enti locali (27), poiché la cooperazione istituita tra l’università e la HIS non è diretta all’espletamento di una funzione di servizio pubblico comune (28). Sulla base di tali motivi, la Corte di giustizia ha dichiarato che:
“L’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di
servizi, deve essere interpretato nel senso che un contratto avente ad oggetto la fornitura di prodotti, concluso tra,
da un lato, un’università che è un’amministrazione aggiudicatrice ed è controllata nel settore delle sue acquisizioni di
prodotti e servizi da uno Stato federale tedesco e, dall’altro, un’impresa di diritto privato detenuta dallo Stato federale e dagli Stati federali tedeschi, compreso detto Stato federale, costituisce un appalto pubblico ai sensi della medesima disposizione e, pertanto, deve essere assoggettato alle norme di aggiudicazione di appalti pubblici previste da
detta direttiva”.
(26) Si tratta di quelle situazioni in cui la stessa o le stesse amministrazioni aggiudicatrici esercitano un “controllo analogo” su
due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro.
(27) Si veda CGUE 19 dicembre 2012, causa C-159/11, Ordine degli Ingegneri della Provincia di Lecce e a.; CGUE 9 giugno
2009, causa C-480/06, Commissione/Germania.
(28) CGUE, Ordine degli Ingegneri della Provincia di Lecce e a., cit., punto 37. La Corte di giustizia ha statuito quanto segue:
“... Al riguardo, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio sembra risultare, in primo luogo, che tale contratto presenti un
insieme di aspetti materiali corrispondenti in misura estesa, se non preponderante, ad attività che vengono generalmente svolte
da ingegneri o architetti e che, se pur basate su un fondamento scientifico, non assomigliano ad attività di ricerca scientifica. Di
conseguenza, contrariamente a quanto la Corte ha potuto constatare al punto 37 della citata sentenza Commissione/Germania, la
funzione di servizio pubblico costituente l’oggetto della cooperazione tra enti pubblici istituita da detto contratto non sembra garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune all’ASL e all’Università ...”.
960
i Contratti 10/2014
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Indici
i Contratti
INDICE DEGLI AUTORI
Tribunale
Amendolagine Vito
19 maggio 2014, Monza, Termoacustica di V.G. c.
Elettrolarm di G.R.S. ......................................
942
941
25 maggio 2014, Venezia, C. Edil 3 scarl c. Banca
Ifis S.p.a. ....................................................
942
946
27 giugno 2014, Reggio Emilia - R.T.e G.F. c. Studio
tecnico P. di G., M., S. e cugini ed altri ................
941
3 luglio 2014 Milano, Stet Holding S.p.a. c. Amm.
straord. Eutelia S.p.a. .....................................
944
18 luglio 2014, Roma, A.V.D. c. BDB Real Estate
S.p.a. ........................................................
943
Osservatorio di merito ....................................
Camilletti Francesco
Considerazioni in tema di vendita obbligatoria ........
D’Amico Giovanni
Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullita` della caparra confirmatoria ‘‘eccessiva’’ ............
927
Gigliotti Fulvio
Locazione non registrata e regime giuridico del rapporto. A proposito di un revirement (annunciato) della Cassazione ...............................................
Arbitrato Bancario Finanziario
914
23 maggio 2014, Collegio di Roma, n. 3415 ..........
24 giugno 2014, Collegio di coordinamento, n. 3955
937
INDICE ANALITICO
956
Appalto
854
854
Macario Francesco
Osservatorio di legittimita` ................................
Michea Pietro
Osservatorio comunitario ................................
Pagliantini Stefano
L’equilibrio soggettivo dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia, Corte costituzionale ed
ABF: ‘‘il mondo di ieri’’ o un trompe l’oeil concettuale? ............................................................
854
Piraino Fabrizio
Corsi e ricorsi delle obbligazioni ‘‘di risultato’’ e delle
obbligazioni ‘‘di mezzi’’: la distinzione e la dogmatica
della sua irrilevanza ........................................
891
Rumi Tiziana
Verifica del merito creditizio ed efficacia dei rimedi a
tutela del consumatore ...................................
878
La Corte di giustizia si pronuncia sui requisiti per il risarcimento dei danni causati da un’intesa restrittiva
della concorrenza (CGUE, 5 giugno 2014, causa C557/12) ......................................................
Giurisprudenza
8 maggio 2014, causa C-15/13 ..........................
5 giugno 2014, causa C-557/12 .........................
2 aprile 2014, ord. n. 77 ..................................
958
941
956
873
853
958
956
L’equilibrio soggettivo dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia, Corte costituzionale ed
ABF: ‘‘il mondo di ieri’’ o un trompe l’oeil concettuale? (CGUE 30 aprile 2014, causa C-26/13; Corte
cost., ord. 3 aprile 2014, n. 77; ABF Collegio Roma,
ord. 23 maggio 2014, n. 3415; Collegio di coordinamento, 24 giugno 2014, n. 3955) con commento di
Stefano Pagliantini ........................................
853
926
854
Verifica del merito creditizio ed efficacia dei rimedi a
tutela del consumatore (CGUE, Sez. IV, 27 marzo
2014, causa C-565/12) con commento di Tiziana Rumi ............................................................
873
Corte costituzionale
21 ottobre 2013, ord. n. 248 .............................
942
Consumatori (Contratti dei)
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
30 aprile 2014, causa C-26/13 ...........................
888
Concorrenza
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
27 marzo 2014, Sez. IV, causa C-565/12 ..............
Corsi e ricorsi delle obbligazioni ‘‘di risultato’’ e delle
obbligazioni ‘‘di mezzi’’: la distinzione e la dogmatica
della sua irrilevanza (Cass., Sez. II, 28 febbraio 2014,
n. 4876) con commento di Fabrizio Piraino ...........
L’omessa denuncia dei vizi nel termine stabilito ex
art. 1667 c.c. esclude l’inadempimento dell’appaltatore anche in assenza di collaudo (Trib. Monza, 19
maggio 2014) ..............................................
La Corte di giustizia si pronuncia sul requisito del
‘‘controllo analogo’’ negli affidamenti in house
(CGUE 8 maggio 2014, causa C-15/13) ................
La responsabilita` solidale per inadempimento dell’impresa appaltatrice, direttore dei lavori, progettista
e fornitore di materiali per vizi dell’opera (Trib. Reggio Emilia, 27 giugno 2014) ..............................
Corte di cassazione
3 gennaio 2014, Sez. III, ord. n. 37 .....................
28 febbraio 2014, Sez. II, n. 4876 .......................
28 luglio 2014, Sez. III, n. 17085 ........................
18 settembre 2014, Sez. II, n. 18486 ...................
i Contratti 10/2014
914
888
938
938
Effetti del contratto
Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullita` della caparra confirmatoria ‘‘eccessiva’’ (Corte
cost., ord. 21 ottobre 2013, n. 248) con commento
di Giovanni D’Amico ......................................
926
961
Indici
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i Contratti
Factoring
Factoring e cessione di crediti futuri (Trib. Venezia,
25 maggio 2014) ...........................................
immobiliare legittima la richiesta di pagamento del
compenso al mediatore (Trib. Roma, 18 luglio 2014)
942
Pubblica amministrazione (Contratti con la)
Arricchimento senza causa - Liquidazione dell’indennita` (Cass., Sez. III, 28 luglio 2014, n. 17085) ........
Locazione
Locazione non registrata e regime giuridico del rapporto. A proposito di un revirement (annunciato) della Cassazione (Cass., Sez. III, ord. 3 gennaio 2014,
n. 37) con commento di Fulvio Gigliotti ................
914
Scadenza del contratto e tutela possessoria (Cass.,
Sez. II, 18 settembre 2014, n. 18486) ..................
937
943
937
Societa`
L’eccessiva onerosita` sopravvenuta nel contratto di
cessione di partecipazioni sociali (Trib. Milano, 3 luglio 2014) ...................................................
944
Vendita
Mediazione
Il perfezionamento del preliminare di compravendita
962
Considerazioni in tema di vendita obbligatoria di
Francesco Camilletti ......................................
946
i Contratti 10/2014
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V
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Nullità della caparra
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