Ricordo di Bruno Gentili - Consulta Universitaria del Greco

Ricordo di Bruno Gentili Giovanni Cerri Anche per chi è stato tra i suoi allievi diretti e più stretti collaboratori, è molto difficile sintetizzare la figura di Bruno Gentili in poche parole, tale è stata la rilevanza e l’efficacia effettiva del suo apporto alla scienza dell’antichità greca e romana. Volendo ricorrere ad una formula unitaria, potrei dire che il significato di fondo ne sia stato l’applicazione alla filologia testuale dell’antropologia culturale. Non tanto il ricorso ai testi per ricostruire la cultura antica, quale è stato praticato da varî altri esponenti della stessa generazione, quanto la spiegazione dei testi, della loro struttura e dei loro singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali. Lo ritenne un nuovo corso, una nuova prospettiva metodologica, assunta verso la metà degli anni Sessanta, rispetto alla sua precedente impostazione di filologia pura, di tipo tradizionale, secondo quanto pensava egli stesso, e pensavamo noi allievi, influenzati dal suo giudizio. Una nuova prospettiva emersa nella sua mente soprattutto grazie alla lettura del libro di Eric A. Havelock, Preface to Plato, uscito nel 1963 e da lui conosciuto qualche anno dopo. Rimase colpito dall’insistenza sul concetto di ‘cultura orale’, riferito alla temperie nella quale erano stati elaborati i poemi omerici ed esiodei, ma più ancora dall’uso che Havelock faceva di tale chiave ermeneutica, andando ben al di là della precedente lezione oralistica di Milman Parry e Albert Lord: nel suo discorso critico, l’oralità non serviva solo a spiegare la dizione formulare; serviva piuttosto a ricostruire e mettere in luce la sintassi narrativa e l’orizzonte mentale messi in opera dai poemi, nonché, più importante ancora, il rapporto con il pubblico delle rapsodie, cioè con il popolo greco di allora, e la conseguente plasmazione della mentalità collettiva, attraverso la comunicazione aurale-­‐
gestuale, la ripetizione perenne delle occasioni di spettacolo, la memorizzazione e l’introiezione mnemonica dei testi. La nascita della prosa storica e filosofica erano ripensate come funzioni della cultura nuova imperniata sulla scrittura e sulla lettura. Gentili comprese fino in fondo l’importanza oggettiva della proposta e cominciò a sostenerla a voce e per iscritto. Grazie alla sua influenza nazionale e internazionale, la teoria dell’oralità, che nei decenni precedenti era rimasta tutto sommato una dottrina di nicchia, cominciò a divenire dottrina comune, declinazione obbligata dell’omeristica, come lo è tuttora, anche per quella minoranza di studiosi che tende a ridimensionarne l’incidenza critica, ma non può non tenerne conto in qualche modo. Momento rilevantissimo di questa sorta di evangelizzazione teorica fu la traduzione del libro di Havelock in lingua italiana, voluta appunto da Gentili e pubblicata nel 1973 dalla casa editrice Laterza. Il titolo originario era sostituito da uno più lungo, molto più adatto a suggerire l’ampio spettro di potenzialità critica aperto dall’opera: Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone. In un celebre saggio del 19791, Gentili formulò il concetto di 'variante di tradizione orale', cioè di quel determinato tipo di varianti testuali attestate dalla tradizione manoscritta che riguardano testi la cui prima fase di diffusione ebbe luogo in un contesto di cultura orale. Si tratta per lo più di varianti equipollenti dal punto di vista sia semantico sia stilistico, che traggono la loro origine dalle continue variazioni cui il testo era sottoposto nelle recitazioni rapsodiche o simposiali, anche grazie alla tecnica formulare. Gli apparati critici delle edizioni omeriche ne sono pieni. Il fenomeno è stato successivamente ripreso in esame e ulteriormente approfondito da Gregory Nagy nel pregevole volume Poetry as Performance. Homer and Beyond, Cambridge 1996. Osservava acutamente Gentili: “Questo orientamento ecdotico [cioè l'astensione da una scelta univoca tra le diverse varianti e la loro presentazione su un piano di pari legittimità, in sede di edizione critica] si giustifica in rapporto alla concreta dinamica della tradizione rapsodica, nel cui ambito tradizione mnemonico-­‐orale e tradizione scritta, quando essa esisteva, erano in continuo rapporto di interscambio ed interdipendenza”. Per parte sua, Gentili applicò il nuovo paradigma ermeneutico ben oltre Omero ed Esiodo, facendo del rapporto poeta-­‐pubblico il punto nodale di qualsiasi esegesi letteraria: nessun testo può essere compreso nella sua intima essenza, né ricostrutito correttamente in sede ecdotica, se non inquadrato preventivamente nei meccanismi reali e vivi di comunicazione, propri della società 1 'L'arte della filologia', in AA.VV., La critica testuale greco-­latina, oggi. Metodi e problemi, Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 29-­‐31 ottobre 1979, a cura di E. Flores, Roma 1981, pp. 9-­‐25 = B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Appendice I, Roma-­‐Bari 19841, pp. 297-­‐312; 19892, pp. 297-­‐312; 19953, pp. 297-­‐310. 1
e del momento storico ai quali furono destinati e per i quali nacquero. A cominciare dalla lirica arcaica, connotata anch’essa da un’oralità persistente, che non investiva più il momento della composizione, ma continuava ad investire in pieno i momenti della recitazione e della trasmissione-­‐
diffusione nel tempo e nello spazio. In tale contesto la tecnica filologica, quella tradizionale perfezionatasi a poco a poco dall’età umanistica alla riflessione e alla prassi congetturale ed ecdotica tedesca dell’Ottocento, fino alla più recente filologia romanza, vertente anch’essa su testi che hanno a che fare con una tradizione in certa misura orale, mantiene, anzi acquista una funzione primaria e portante, per l’accertamento rigoroso di dati linguistici e ideologici e per una rilettura davvero penetrante dei testi costruiti su quella trama di parole e di idee. Una filologia che è antropologia e un’antropologia che è filologia. Gentili fissava in una data precisa, l’atto di nascita di questo metodo nuovo nella sua mente. Lo sanciva nella prefazione che premise alla raccolta di saggi Poesia e pubblico nella Grecia antica, uscita in prima edizione nel 1984, sempre per i tipi di Laterza, che è ormai per consenso universale tra i classici della grecistica contemporanea. Scriveva: L’itinerario delle mie ricerche sulle tematiche qui prese in esame ebbe inizio nel lontano 1969, in occasione del V Congresso internazionale della F.I.E.C., che segnò una svolta decisiva nella direzione dei miei studi (Si veda L’interpretazione dei lirici arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale, <<Quad. Urb.>> 8, 1969, pp. 7-­‐21). Di seguito additava la fonte principale di questa sua svolta nel libro di Havelock e, in linea subordinata, in quelli di Fränkel, Snell e Dodds, anch’essi incentrati sulla ricostruzione della mentalità arcaica, sia pure con linee metodiche differenti fra loro. Il quadro delle influenze positive che agirono su di lui in quel periodo fu in realtà più ampio. Aggiungerei almeno il contributo di H.R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Konstanz 1967, con il suo concetto chiave di ‘orizzonte d’attesa del pubblico’; i rapporti di intenso scambio culturale che già allora aveva stabilito tra la scuola da lui creata ad Urbino e quella parigina di J.-­‐P. Vernant, rapporti che sarebbero poi durati a lungo nel tempo successivo; le suggestioni provenienti dal pensiero marxista, che proprio in quegli anni conosceva una nuova fioritura in tutta Europa e nella stessa Italia: è proprio di qui che derivò l’attenzione viva ai condizionamenti sociali ed economici dell’intellettuale, che fu parte integrante della sua prassi critica, a cominciare dalla centralità che in essa ebbe il problema del rapporto del poeta con la “committenza”, oltre che con il pubblico. Non tralascerei nemmeno il clima del “Sessantotto” e della “contestazione studentesca”, molto vivace anche all’Università di Urbino: tra i suoi aspetti positivi ci fu uno stimolo forte a rinnovare l’insegnamento in direzione di una maggiore aderenza della materia di studio alla realtà della vita sociale. Gentili era portato naturalmente a dare alle sue lezioni un taglio piuttosto seminariale che non cattedratico, sollecitando di continuo domande e obiezioni da parte degli studenti: appariva chiaro che il dialogo con loro acuiva e potenziava la ricerca teorica e metodologica, nella quale la sua mente era già impegnata. Ne fui testimone diretto, perché nel 1968-­‐69 avevo già iniziato a collaborare con lui, mi ero trasferito da Roma ad Urbino e assistevo regolarmente alle sue lezioni. Dunque negli anni Sessanta una svolta culturale in Gentili ci fu effettivamente; ma mi permetto ora di rettificarne la cronologia esatta e la natura profonda, discostandomi dalla sua autocoscienza e da quanto io stesso pensai per tanti anni, influenzato da lui. Abbiamo visto che ne fissava l’inizio al 1969, con la sua relazione al Congresso F.I.E.C., che si tenne quell’anno a Bonn, nel mese di settembre. In realtà, è una data di nascita per così dire simbolica. La svolta era già avvenuta qualche anno prima; basti pensare a certi suoi saggi precedenti di portata fondativa, che non per nulla furono poi recepiti in gran parte nel volume Poesia e pubblico, ad es.: Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca, <<Studi Urb.>> 39, 1965, pp. 70-­‐88; La veneranda Saffo, <<Quad. Urb.>> 2, 1966, pp. 37-­‐62, saggio nel quale è già pienamente operativa la dimensione antropologica ed etnologica. Ma di che “svolta” si trattò? Non fu in realtà un passaggio da una prospettiva ad una diversa o addirittura opposta. Si trattò piuttosto di una chiarificazione a se stesso di qualcosa che aveva dentro in maniera inconscia, e che, venendo alla coscienza, acquistava una strumentazione concettuale più vigile e metodica. Mi sia consentito un flash back. Gentili si formò alla scuola romana di Gennaro Perrotta, tra le altre cose specialista di metrica. Appunto alla metrica cominciò col dedicarsi anima e corpo il giovane studioso, e ne uscirono due libri di grande dottrina e di grande valore anche teorico, entrambi per i tipi della casa editrice D’Anna: Metrica greca arcaica, Messina-­‐Firenze 1950; La metrica dei greci, 1952. Il secondo 2
dei due ebbe poi uno straordinario successo in ambito scolastico e universitario, configurandosi come il manuale per eccellenza. Lo è ancora oggi, nella nuova forma che ha assunto nel volume della Mondadori Università, scritto da Gentili in collaborazione con la sua allieva Liana Lomiento: Metrica e ritmica. Storia delle forme poetiche nella grecia antica, uscito in prima edizione nel 2003 e poi più volte ristampato. Perrotta era dedito soprattutto alla critica estetica, quale si praticò specialmente in Italia per tutti i primi sessant’anni del Novecento, influenzata in maniera decisiva dalla teoria di Benedetto Croce. Una teoria e un tipo di critica, si noti bene, che ostentava la pretesa di rappresentare il nuovo, la modernità, l’apertura mentale, laddove ai suoi occhi gli studiosi tedeschi perseveravano nell’erudizione tradizionale, retrivamente insensibili alla sostanza vera della poesia (Basti ricordare il famoso libello Minerva e lo scimmione di Ettore Romagnoli). Come mostra il suo notissimo manuale di letteratura greca, Perrotta realizzava però la critica estetica in una maniera molto fine e penetrante, che appassionava lettori, professori e studenti. Era dispiaciuto, forse irritato dal fatto che Gentili, il suo allievo più brillante, non vi si cimentasse mai, restando sempre nell’ambito della filologia pura, e più in particolare della metricologia. Non era un carattere facile Gennaro Perrota: i suoi collaboratori più giovani hanno trasmesso nell’ambiente accademico una nutrita messe di aneddoti, che hanno come comune denominatore il suo sarcasmo caustico, spesso non scevro di punte maligne. Gentili mi raccontò più volte che spesso gli diceva: ‘Tu però non sapresti mai scrivere un saggio crociano, non sei in grado di confrontarti con la poesia in quanto poesia’. Gentili rispondeva: ‘Professore, non è che non lo saprei scrivere, ma non lo voglio scrivere, perché non credo a quel tipo di discorso’. La diatriba finì con una sfida, lanciata non ricordo più da quale dei due: se Gentili fosse riuscito a scrivere un “saggio crociano” ritenuto degno di pubblicazione dal maestro, quest’ultimo gli sarebbe stato debitore di un invito a pranzo; in caso contrario, sarebbe stato l’allievo ad invitare il maestro, accollandosi il conto in trattoria. Gentili, per così dire “turandosi il naso”, scrisse una ventina di pagine sulla poesia di Anacreonte, Perrotta le giudicò effettivamente valide, gli offrì il pranzo promesso, e pubblicò il saggio sul primo numero della rivista da lui appena fondata: <<Maia>> 1, 1948. Dieci anni dopo Gentili pubblicava il suo Anacreonte, Introduzione, testo critico, traduzione, studio sui frammenti papiracei, per le Edizioni dell’Ateneo di Roma, nella collana “Lyricorum Graecorum quae exstant”, che aveva ideato qualche anno prima. Per il rigore filologico e l’esaustività dell’apparato, è ancora l’edizione di riferimento per chi vuole citare versi di questo poeta o approfondirne l’interpretazione. Ma ciò che mi preme sottolineare è l’efficacia della ricostruzione storica e l’acume critico, profusi nell’introduzione e nella stessa traduzione, asciutta, aderente alla concretezza figurativa del dettato greco, elegantissima, nonostante, anzi proprio grazie all’uso di un linguaggio quotidiano moderno e spigliato. Storicizzazione e critica ben diverse da quella crociana e dalla versione migliorativa che ne aveva offerto Perrotta e che Gentili aveva “mimato” senza crederci nell’esperimento del 1948: ambienti di corte e strade cittadine, simposi e bassifondi, sapienza disincantata e volgarità icastica, sottili interventi ideologici e politici, sono colti nella realtà sociale delle varie città di riferimento e nella dinamica culturale che investì il mondo greco tra VI e V secolo a.C. Allora la sua notorietà fuori dell’ambiente accademico era ancora legata soprattutto alla splendida antologia della lirica greca arcaica intitolata Polinnia, della quale era stato coautore insieme a Gennaro Perrota, uscita nel 1948 in prima edizione e ormai adottata come libro di testo nelle seconde classi della grande maggioranza dei licei italiani. Nel 1965, Gentili ne fece una seconda edizione: mentre le parti redatte da Perrotta, morto intanto nel 1962, restavano sostanzialmente immutate, salvo gli indispensabili aggiornamenti bibliografici, del tutto nuove erano le introduzioni e i commentari agli autori che già nella prima edizione erano stati curati da Gentili stesso: Callino, Tirteo, Solone, Mimnermo, Alceo, Anacreonte, Ibico, Simonide e Bacchilide. Faceva così la sua prima comparsa a livello di grande diffusione editoriale il taglio critico proprio di Gentili e la sua ricostruzione organica della grecità arcaica. Ho ricordato l’episodio della sfida conviviale, perché implicava che, secondo Perrotta, la filologia del giovane Gentili fosse assimilabile all’erudizione tradizionale, tanto più che si incentrava allora sulla rilevazione metrica. Implicava pure che questo giudizio fosse nella sostanza condiviso da Gentili stesso, scettico e insofferente verso il preteso “metodo nuovo” di ispirazione crociana. Convinzione che continuò a mantenere a lungo nella sua riflessione autobiografica, dal momento che fissava agli anni Sessanta la sua conversione dalla filologia tradizionale alla filologia antropologica. A me sembra invece che la sua metrica fu sin dall’inizio improntata a quest’ultima, senza dirlo, senza nemmeno pensarlo, ma indiscutibilmente. E ciò per due ragioni di fondo, tra loro interrelate: 3
1) Ogni metro e ogni movimento strofico erano puntualmente messi in rapporto con una psicologia ritmica propria del popolo greco antico, legata a concrete consuetudini musicali e orchestiche, a precise occasioni festive, a norme rituali, all’espressività paraverbale dell’elemento sonoro. 2) Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trattazione, riponendosi nel solco delle analisi metriche di Wilamowitz e Schroeder; ed è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-­‐musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-­‐gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentale, che sarebbe per noi perduto e irrecuperabile, se ci rifiutassimo di ascoltare la voce di chi ne era personalmente partecipe per appartenenza etnica, come lo erano i metricisti greci antichi: il che mi sembra la quintessenza di un’angolazione antropologica, di un’antropologia metrico-­‐
musicale. Figlia di questa stessa ottica è un’altra acquisizione teorica, maturata dalla metricologia di Gentili in epoca successiva: il recupero in sede sia teorica sia ecdotica della colometria dei canti corali, attestata dalla tradizione manoscritta, medioevale e papiracea. Nel 1997 indisse ad Urbino un convegno internazionale, il primo in asssoluto che si sia tenuto al mondo specificamente dedicato al tema. Anche in questo caso, l’atto ufficiale non corrisponde alla nascita reale dell’idea, che era germinata nella sua mente almeno dagli inizi degli anni Ottanta. Senza ancora consegnare nulla alla scrittura, ne parlava con passione ed insistenza all’interno e all’esterno della scuola urbinate: si trovano accenni alla nuova teoria in contributi metricologici dei suoi allievi; il primo in ordine di tempo di cui riesca a ricordarmi è uno di Antonietta Gostoli del 1980-­‐812; ma forse potrebbero trovarsene anche di precedenti. Durante questa lunga fase di gestazione, Gentili entrò in contatto con Thomas J. Fleming, che si era pronunciato nello stesso senso già nel 1975 in un breve saggio sulla colometria dei Sette a Tebe di Eschilo3. Lo invitò al convegno urbinate: così Fleming vi prese parte insieme a E. Christian Kopff, in collaborazione con il quale aveva pubblicato nel 1992 un secondo articolo di impostazione analoga, ma ancora più esplicito4. Nell’Introduzione ai lavori, Bruno Gentili affermava5: Riproporre all’attenzione degli studiosi il problema della colometria antica è un’operazione di avanguardia, e non di retroguardia, come alcuni potrebbero pensare, e certamente pensano per la consueta e molesta diffidenza verso le fonti metrico-­‐ritmiche... La filologia è soprattutto una disciplina storica, intendendo per storia non quella politico-­‐diplomatica o economica, ma la storia antropologico-­‐culturale e ora – potremmo dire – la storia culturale tout court... Non possiamo prescindere dalla dottrina antica che non nacque da una pura speculazione fantastica, ma da una viva prassi della composizione poetica, e fu opera di studiosi che costruirono quel sistema teorico avendo ancora vivo il senso quantitativo e ritmico della lingua e del verso... Nelle Conclusioni, Pietro Giannini osservava per parte sua (p. 317): È stato anche un seminario di giovani, quali sono stati la maggior parte dei relatori, interessati ad un tema così difficile come la colometria. In questi giorni abbiamo assistito alla costituzione di una task-­force, ben addestrata, pronta ad entrare in azione per la ‘rivoluzione colometrica’ a cui questo seminario prelude. La previsione si è avverata: a partire da allora, continuano ad uscire contributi su questo o quel pezzo di lirica corale, redatti da allievi della scuola urbinate, da allievi di allievi, ma anche da giovani studiosi di altra provenienza didattica, affascinati dall’impresa. Quello che più conta, in sede di bilancio critico sull’opera complessiva di Gentili, è che tutto ciò non rimase un suo percorso personale, consegnato soltanto alle sue pubblicazioni. Fu un vero caposcuola, che dette vita ad un discepolato folto e coeso, tecnicamente preparato a portare avanti 2 Interpretazione metrica dell’Olimpica VII di Pindaro, <<AION (filol)>> 2-­‐3, 1980-­‐81, pp. 59-­‐66, in particolare p. 64. 3 <<Gr. Rom. Byz. Stud.>> 16, 1975, pp. 141-­‐148. 4 Colometry of Greek Lyric Verses in Tragic Texts, <<Studi it. filol. class.>>, Serie III, 10 (85), 1992, pp. 758-­‐770. 5 La colometria antica dei testi poetici greci, Pisa-­‐Roma 1999, p. 9 sg. 4
il vasto programma di ricerca additato dal Maestro, nelle sue varie articolazioni tematiche. L’organo scientifico della squadra furono e restano i Quaderni Urbinati, la rivista di battaglia da lui fondata e diretta fino agli ultimi giorni di vita. In realtà, Gentili esercitò un’influenza enorme ed efficace su tutta la grecistica e in parte, di riflesso, anche sulla latinistica italiana della nostra generazione. Influenza potente anche all’estero, grazie agli intensi rapporti internazionali da lui stabiliti dalla base del glorioso Istituto di Filologia Classica di Urbino, che per vari decenni fu luogo di incontro con i centri più qualificati di antichistica, in qualsiasi parte del mondo fossero. Si può ben dire che la filologia classica, a partire dagli ultimi quattro decenni del Novecento e a livello mondiale, è cambiata in meglio grazie all’insegnamento di poche grandi personalità scientifiche, tra le quali senza ombra di dubbio è da annoverare anche la sua. 5