Rassegna stampa 5 dicembre 2014

RASSEGNA STAMPA di venerdì 5 dicembre 2014
SOMMARIO
“E’ confortante vedere – scrive don Maurizio Patriciello su Avvenire di oggi - tanti
credenti preoccupati per le sorti della loro Chiesa. Vuol dire che la sentono propria, la
amano, la vogliono servire. Chi ama non sbaglia mai, ma anche l’amore ha bisogno di
essere illuminato: dalla ragione sempre e, per chi crede, dalla fede che si nutre della
Parola di Dio. Chi ama desidera il meglio per la persona amata. Sente il bisogno di
custodirla, rimanerle accanto, godere della sua presenza. Se la persona amata, poi, è
nientemeno che la sposa del figlio di Dio, allora tutto si moltiplica a dismisura.
Diciamo subito che il nostro amore altro non è che un debole tentativo di rispondere
al folle, sviscerato amore dello Sposo. È lui che ama per primo. Che senza dare mai
segni di stanchezza ci fa la corte, ci attende, ci rincorre per le strade di questo
mondo. È lui che ci ammalia, ci incanta, ci seduce. È lui che gode nel vederci felici,
sereni, santi. A differenza dello Sposo che non vediamo, la sposa invece è sotto gli
occhi di tutti. A volte appare giovane e bella, a volte vecchia e con le rughe. Dipende
da chi e da come la guarda. I suoi figli – che sono soprattutto figli dello Sposo – non
sono tutti uguali, non tutti vogliono rimanere accanto al Signore della vita. Ma c’è
anche chi gli ha donato il cuore, e senza di Lui non si sognerebbe di muovere
nemmeno un passo. Tra Cristo e l’uomo, insomma, si stabilisce una storia d’amore,
che, come tutte le storie, può crescere, ingigantirsi, ma anche sbiadirsi e, addirittura,
spegnersi. Dipende da noi. Solamente da noi. Una cosa è certa: la santa madre Chiesa
ha ricevuto dallo Sposo il divieto assoluto di abbandonare i suoi figli in balìa del lupo.
Suo compito è guidarli, amarli, servirli. Sempre, anche quando fanno i disertori.
Anche quando passano al nemico. Certo, amare chi ci ama è facile, appagante. Ci
vuole invece tenacia, testa dura e forza d’animo per amare chi ci odia, ci invidia, ci
mette il bastone tra le ruote. I cristiani, però, sanno di poter contare su una forza
straordinaria che non è di questo mondo. Il mio grande amore a Cristo e alla Chiesa
deve rendermi felice e umile. Riconoscente e grato per la grazia ricevuta in dono. È
consolante sapere che milioni di credenti sparsi per il mondo, lottano, soffrono e
pregano perché Cristo regni nei cuori, nelle istituzioni, negli uomini di governo. Guai
a me, però, se aprendo la porta a qualche spiffero di vento gelido che non viene dallo
Spirito Santo cado nella trappola della vanagloria, del giudizio, del pessimismo,
finendo col credermi indispensabile, migliore, ispirato, al punto da dubitare
dell’onestà degli altri. Guai a me se inizio a credere che la Chiesa non sta a cuore ai
miei fratelli come sta a cuore a me. Imboccato questo pericoloso vicolo cieco, andrò
di certo a sbattere contro un muro. La Chiesa offre a tutti l’inestimabile patrimonio
che ha ricevuto in dono. Cristo è morto per tutti. Nostro compito, perciò, è donarlo a
tutti. Ci sarà chi lo ignora, chi lo rifiuta, chi lo rinnega. E chi lo accoglie fidandosi di
Lui. La Chiesa che va alla ricerca, dialoga, dona l’acqua della vita a un assassino, un
abortista, un commerciante d’armi o di bambini, non sta a significare che giustifica
l’omicidio, la guerra, l’aborto. Al contrario. Essa sa che da quell’incontro potrebbe
accadere qualcosa di bello. Potrebbe nascere un uomo nuovo. È ritornato l’Avvento,
da domenica scorsa anche per il rito romano dopo quello ambrosiano. Tempo di
conversione e di speranza. Cristo viene: andiamo incontro al Figlio di Dio senza
distogliere lo sguardo dall’uomo creato a Sua immagine. Chiunque sia. Ovunque si
trovi. Noi siamo gli annunciatori, i discepoli, non i padroni della Parola che salva.
Rendiamoci degni del nome che ci è stato dato: servi. Servi, dunque, non padroni. E
ricordiamo sempre che tutti – ma proprio tutti – sono importanti agli occhi di Dio.
Unici e preziosi. Rafforziamo perciò la fiducia e la speranza. «Chi ci separerà
dall’amore di Cristo?», si chiedeva san Paolo. Già, chi potrà mai farlo? E continuava:
«Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?». Mettiamoci in cammino. Betlemme non è
poi così lontana” (a.p.)
1 – IL PATRIARCA
LA NUOVA
Pag 22 Lido: pellegrinaggio mariano con il Patriarca
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 21 Universitari e docenti insieme sulla scia di Sant’Agostino di a.v.
3 – VITA DELLA CHIESA
AVVENIRE
Pag 3 Nei frammenti del quotidiano c’è già un nuovo umanesimo di Angelo Scola
Dal travaglio di Milano un’anima per ricominciare
Pag 3 Tutti invitati, nessuno escluso di Maurizio Patriciello
La porta aperta dell’Avvento
Pag 5 “Chiesa che si cinge il grembiule”
Il discorso di Papa Francesco; risposte concrete agli scandali della guerra e della fame
Pag 12 Non più preti di strada, preti e basta. Da ieri laureati di Paolo Lambruschi
CORRIERE DELLA SERA
Pag 23 “Vaticano, molti milioni fuori dai bilanci” di M. Antonietta Calabrò
Il cardinale Pell sulle finanze della Santa Sede: ci sono più soldi del previsto
IL FOGLIO
Pag 4 Sorpresa, la “relatio” bocciata al Sinodo torna in pista nelle diocesi di
mat.maz.
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 1 Un’attesa tardiva di Leonardo Becchetti
IL GAZZETTINO
Pag 3 Il Nordest riaccende i motori
Il Pil torna positivo ma la media nazionale è ancora negativa: – 0,4%
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO
Pag 11 I commissari: qui fino al collaudo del Mose di Giorgia Pradolin e Paolo
Navarro Dina
“Ecco perché il Cvn è stato commissariato”
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VI E’ morto a 94 anni Alberto Cosulich: fu primo procuratore di San Marco.
Funerali domani in Basilica di Titta Bianchini
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Venezia e il capro espiatorio di Antonio Alberto Semi
Il caso Orsoni
Pag 10 Morto Cosulich, l’uomo che portò i cavalli di S. Marco in giro per il
mondo di E. Lor.
LA NUOVA
Pag 21 E’ scomparso l’armatore Cosulich, primo procuratore di San Marco di
Davide Vatrella
Aveva 94 anni. Protagonista della storia della città, portò i cavalli marciani in giro per il
mondo. Aveva lasciato Venezia per rifugiarsi nella sua tenuta di campagna. Domani i
funerali in Basilica
Pag 27 Immacolata, ponte povero. In vacanza solo uno su tre
Veneziani e mestrini restano a casa o scelgono viaggi di pochi giorni in Italia
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 17 Profughi, il Veneto dice basta
Zaia attacca il governo: “Ora è emergenza grave, tra poco diventerà invasione. Stato
debole e incapace”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Cuttaia: “Profughi ben divisi, se Bitonci vuole glielo spiego. Pronto a
venire a Padova” di Alessio Antonini
Il sindaco era insorto per i troppi stranieri, ma 4000 sono già partiti
Pag 9 E’ l’ora dei Forconi: “Tutti in strada” di Andrea Priante
Da oggi tornano i presidi del Movimento 9 Dicembre: “Blocchiamo il Veneto”. Centinaia
di attivista ma senza l’appoggio della gente comune sarà un flop
10 – GENTE VENETA
Tutti gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 46 di Gente Veneta in uscita
sabato 6 dicembre 2014:
Pagg 1, 5 «Vinco il Parkinson con la fede» di Giulia Busetto e Serena Spinazzi
Lucchesi
Giampietro Manfreda, mestrino, racconta dieci anni con la malattia. E un viaggio a
Lourdes rivelatore. “Il morbo mi ha tolto tutto. Ma posso pregare”. L’Angelo è centro di
eccellenza nelle cure per contrastare i sintomi
Pag 1 Ritrovare l’ottimismo: servisse anche l’ergastolo di Paolo Fusco
Pag 4 Don Ciotti: «Le tangenti e il Mose, perché stupirsi?» di Chiara Semenzato
Il sacerdote ha parlato di legalità e corruzione inaugurando l’anno accademico Iusve
Pag 7 Ambiente e cultura: facciamo di Venezia la prima città integralmente
sostenibile al mondo di Roberto D’Agostino
Pag 11 Cinque anni di Ordo Virginum a Venezia: Katia, Nella e Silvia e il loro
unico Sposo di Paolo Fusco
«La consacrazione? Mi ha compiuto e mi ha donato una nuova libertà»
Pag 17 Ai tossici cronici? Servirebbe un Don Vecchi 5... di Paolo Fusco
Nel senso di strutture intermedie tra la casa (o la strada) e la comunità: appartamenti
protetti, in cui piccoli gruppi di tossicodipendenti potrebbero vivere sotto la supervisione
di un operatore. Sarebbe economico, ma la Regione non lo prevede
Pag 27 Dietro alle canzoni di Riccardo Roiter Rigoni
Invitato dai Carmelitani Scalzi di Venezia, il cantautore Massimo Bubola parla ai giovani:
«La qualità è soffocata»
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Un Putin colpito (dal petrolio) risfodera le armi del Novecento di Paolo
Valentino
Le sanzioni? Inutili
Pag 29 Il Pd deve ripulirsi. L’ora delle scuse è arrivata per tutti di Pierluigi Battista
Lo scandalo romano
LA STAMPA
Mafiosi anche senza le lupare di Francesco La Licata
LA NUOVA
Pag 1 I migranti al tempo di Tritone di Piero Innocenti
Pag 1 Corruzione, non c’è lo Stato di Ferdinando Camon
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1 – IL PATRIARCA
LA NUOVA
Pag 22 Lido: pellegrinaggio mariano con il Patriarca
Si svolgerà al Lido di Venezia il prossimo pellegrinaggio mariano diocesano, guidato dal
Patriarca Francesco Moraglia. L’appuntamento è fissato per domani, 6 dicembre, alle
7.30 al Tempio votivo intitolato a S. Maria Immacolata (la cui festa ricorre l’8 dicembre);
da lì, recitando il rosario, la processione passera per la riviera S. Nicolò fino alla chiesa
omonima che proprio il 6 dicembre festeggia il titolare san Nicola. Lì il Patriarca
presiederà la messa alle 8.15; nella chiesa di S. Nicolò ci sarà anche la possibilità - per
chi lo desidera - di accostarsi al sacramento della riconciliazione. Al termine, a tutti i
partecipanti sarà offerta la colazione.
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 21 Universitari e docenti insieme sulla scia di Sant’Agostino di a.v.
La vita di Sant’Agostino da Ippona. Figura quanto mai attuale. «Attratto dai sensi e dalla
vita mondana, eppure destinato a diventare un pilastro fondativo della cultura cattolica».
Si chiude martedì sera nella chiesa di Santo Stefano la prima fase di incontri artistici e
spirituali organizzati dalla comunità Ciliota e riservati agli studenti universitari. Alle
20.45 la chiesa sarà illuminata a giorno e gli studenti saranno i protagonisti di una
serata speciale. Iniziative già avviate con successo lo scorso anno e coordinate dalla
direttrice del Ciliota Raffaella Gonella. Interventi filosofici e letterari del professor Marco
Da Ponte, spiegazioni artistiche di Silvia Gramigna, brani di flauto traverso a cura di
Cecilia Cristofori. Ma soprattutto contributi degli studenti, che suddivisi in gruppi di
lavoro hanno condiviso esperienze e studi. Attività che continuano, incoraggiate dal
nuovo parroco di Santo Stefano, don Luciano Barbaro. Nuova vitalità per il mondo
universitario cattolico, alla ricerca di spazi e iniziative di livello. Si ricomincia dunque
dall’arte e dalla filosofia, con il percorso multidisciplinare legato alla vita di
Sant’Agostino. «Un’occasione per i giovani di studio e di fede», dicono gli organizzatori
del Ciliota.
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3 – VITA DELLA CHIESA
AVVENIRE
Pag 3 Nei frammenti del quotidiano c’è già un nuovo umanesimo di Angelo Scola
Dal travaglio di Milano un’anima per ricominciare
I cristiani non possono disertare il compito di offrire un contributo all’edificazione della
vita buona nella società plurale centrato su un nuovo umanesimo, anzitutto perché
membri, a tutti gli effetti, della famiglia umana. Ma ancora di più perché sono seguaci di
un Dio incarnato che ha assunto la condizione umana non solo per indicarci il destino di
amore definitivo che ci attende dopo la morte ma, e proprio in vista di questo destino,
per accompagnarci nel nostro quotidiano cammino su questa terra. Non si deve però
parlare in astratto di un umanesimo buono per tutte le stagioni. Solo se sorge dal di
dentro dei ritmi e dei processi dell’attuale travaglio storico si può parlare di nuovo
umanesimo. Va inteso bene il senso dell’aggettivo nuovo. Il nuovo non è l’inedito ad
ogni costo. Piuttosto nuovo è camminare non perdendo l’origine, è un ri-cominciare. Così
fecero i romani dopo i greci e dopo gli ebrei. Trapiantarono l’antico in un suolo nuovo. Il
cristianesimo partecipa di questo atteggiamento che può ben definire l’anima
dell’Europa. Basti pensare al rimando imprescindibile dell’annuncio di Cristo al popolo
dell’elezione. In questo contesto non è necessario soffermarsi a descrivere il percorso
dell’umanesimo e neppure sulla riflessione critica intorno ad esso sviluppatasi lungo
tutto il secolo XX e in questi primi lustri del nuovo millennio. Un percorso che è giunto a
parlare addirittura di 'postumanesimo' (lasciare alle spalle l’umanesimo) o
'transumanesimo' (attraversare l’umanesimo per giungere ad una nuova cosmovisione,
quella della civiltà tecnica e delle reti). Venendo a Milano e alle terre ambrosiane vale la
pena ricordare invece una caratteristica propria del cattolicesimo lombardo fin dalla
prima età moderna: il suo forte legame con l’umanesimo delle origini, che è nella sua
quasi totalità un umanesimo cristiano, un umanesimo teocentrico. Un orientamento
positivo fondato sulla consapevolezza che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio.
Atteggiamento che non solo favorì un impegno religioso, umano, sociale nella vita
ordinaria, ma si espresse in diverse opere educative ed imprenditoriali. Basti pensare
alla promozione da parte di san Carlo dell’insegnamento della lettura ai ragazzi che
frequentavano la dottrina cristiana o all’opera delle Orsoline. Non si può evitare un
cenno al cosiddetto 'illuminismo lombardo' – pensiamo al Verri, al Beccaria e, per certi
aspetti, allo stesso Manzoni –, con la sua peculiare attitudine a coniugare le istanze
innovatrici d’Oltralpe con la tradizione culturale milanese. In un certo senso ne fu erede
anche Carlo Cattaneo. Guardando la nostra storia possiamo parlare di un autentico
umanesimo della responsabilità: piedi per terra e sguardo volto al cielo. Questa
tradizione ha continuato ad alimentare, anche se in variegati modi e con diversa
intensità, le terre ambrosiane nel corso degli ultimi sessant’anni. Sono ancora presenti i
benefici frutti di una stagione storica caratterizzata da uno sviluppo accelerato reso
possibile nel dopoguerra dalle energie costruttive delle nostre genti e degli immigrati
italiani che cominciavano a trovare tra di noi la loro nuova dimora. A questa stagione
seguì la deindustrializzazione degli anni ’70, accompagnata dalla contestazione
studentesca (con l’occupazione delle cinque università milanesi) e, assai dolorosamente,
dalla violenza terroristica (gli 'anni di piombo'). L’inizio degli anni ’80 vede avanzare la
terziarizzazione dell’economia cittadina e, allo stesso tempo, una decrescita
occupazionale e di popolazione, con la conseguente riorganizzazione dell’apparato
produttivo e le relative rivendicazioni salariali e normative. La centralità economica di
Milano viene favorita dall’attività finanziaria. Si apre poi la fase della cosiddetta 'Milano
da bere' che è diventata il brodo di coltura entro il quale ha preso avvio un processo
distorsivo dei meccanismi di riproduzione del capitale sociale e culturale della città che,
al di là di ogni giudizio storico o politico, ha trovato drammatica espressione nella
vicenda di Tangentopoli. I decenni trascorsi ci lasciano in eredità una oggettiva
situazione di grave frammentazione. Milano e le sue terre sono alla ricerca di una nuova
anima, capace di fondere in unità i tanti significativi frammenti di vita buona che
nell’area metropolitana si accompagnano a pesanti contraddizioni. Un nuovo umanesimo
inizia dall’esistenza di tutti i giorni. I cristiani intendono condividere l’esperienza a loro
familiare che l’incontro con Gesù e la vita con Lui nella comunità cristiana rende possibile
un modo 'conveniente' di amare e generare, di lavorare e di riposare, di educare, di
condividere gioie e dolori, di assumere la storia, di accompagnare e prendersi cura della
fragilità, di promuovere la libertà e la giustizia... Papa Francesco ha identificato la
dimensione sociale di questa testimonianza, parlando del compito di diventare un
popolo: «È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo
fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia» (Evangelii
gaudium, n. 220).
Pag 3 Tutti invitati, nessuno escluso di Maurizio Patriciello
La porta aperta dell’Avvento
E’ confortante vedere tanti credenti preoccupati per le sorti della loro Chiesa. Vuol dire
che la sentono propria, la amano, la vogliono servire. Chi ama non sbaglia mai, ma
anche l’amore ha bisogno di essere illuminato: dalla ragione sempre e, per chi crede,
dalla fede che si nutre della Parola di Dio. Chi ama desidera il meglio per la persona
amata. Sente il bisogno di custodirla, rimanerle accanto, godere della sua presenza. Se
la persona amata, poi, è nientemeno che la sposa del figlio di Dio, allora tutto si
moltiplica a dismisura. Diciamo subito che il nostro amore altro non è che un debole
tentativo di rispondere al folle, sviscerato amore dello Sposo. È lui che ama per primo.
Che senza dare mai segni di stanchezza ci fa la corte, ci attende, ci rincorre per le strade
di questo mondo. È lui che ci ammalia, ci incanta, ci seduce. È lui che gode nel vederci
felici, sereni, santi. A differenza dello Sposo che non vediamo, la sposa invece è sotto gli
occhi di tutti. A volte appare giovane e bella, a volte vecchia e con le rughe. Dipende da
chi e da come la guarda. I suoi figli – che sono soprattutto figli dello Sposo – non sono
tutti uguali, non tutti vogliono rimanere accanto al Signore della vita. Ma c’è anche chi
gli ha donato il cuore, e senza di Lui non si sognerebbe di muovere nemmeno un passo.
Tra Cristo e l’uomo, insomma, si stabilisce una storia d’amore, che, come tutte le storie,
può crescere, ingigantirsi, ma anche sbiadirsi e, addirittura, spegnersi. Dipende da noi.
Solamente da noi. Una cosa è certa: la santa madre Chiesa ha ricevuto dallo Sposo il
divieto assoluto di abbandonare i suoi figli in balìa del lupo. Suo compito è guidarli,
amarli, servirli. Sempre, anche quando fanno i disertori. Anche quando passano al
nemico. Certo, amare chi ci ama è facile, appagante. Ci vuole invece tenacia, testa dura
e forza d’animo per amare chi ci odia, ci invidia, ci mette il bastone tra le ruote. I
cristiani, però, sanno di poter contare su una forza straordinaria che non è di questo
mondo. Il mio grande amore a Cristo e alla Chiesa deve rendermi felice e umile.
Riconoscente e grato per la grazia ricevuta in dono. È consolante sapere che milioni di
credenti sparsi per il mondo, lottano, soffrono e pregano perché Cristo regni nei cuori,
nelle istituzioni, negli uomini di governo. Guai a me, però, se aprendo la porta a qualche
spiffero di vento gelido che non viene dallo Spirito Santo cado nella trappola della
vanagloria, del giudizio, del pessimismo, finendo col credermi indispensabile, migliore,
ispirato, al punto da dubitare dell’onestà degli altri. Guai a me se inizio a credere che la
Chiesa non sta a cuore ai miei fratelli come sta a cuore a me. Imboccato questo
pericoloso vicolo cieco, andrò di certo a sbattere contro un muro. La Chiesa offre a tutti
l’inestimabile patrimonio che ha ricevuto in dono. Cristo è morto per tutti. Nostro
compito, perciò, è donarlo a tutti. Ci sarà chi lo ignora, chi lo rifiuta, chi lo rinnega. E chi
lo accoglie fidandosi di Lui. La Chiesa che va alla ricerca, dialoga, dona l’acqua della vita
a un assassino, un abortista, un commerciante d’armi o di bambini, non sta a significare
che giustifica l’omicidio, la guerra, l’aborto. Al contrario. Essa sa che da quell’incontro
potrebbe accadere qualcosa di bello. Potrebbe nascere un uomo nuovo. È ritornato
l’Avvento, da domenica scorsa anche per il rito romano dopo quello ambrosiano. Tempo
di conversione e di speranza. Cristo viene: andiamo incontro al Figlio di Dio senza
distogliere lo sguardo dall’uomo creato a Sua immagine. Chiunque sia. Ovunque si trovi.
Noi siamo gli annunciatori, i discepoli, non i padroni della Parola che salva. Rendiamoci
degni del nome che ci è stato dato: servi. Servi, dunque, non padroni. E ricordiamo
sempre che tutti – ma proprio tutti – sono importanti agli occhi di Dio. Unici e preziosi.
Rafforziamo perciò la fiducia e la speranza. «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?», si
chiedeva san Paolo. Già, chi potrà mai farlo? E continuava: «Se Dio è con noi, chi sarà
contro di noi?». Mettiamoci in cammino. Betlemme non è poi così lontana.
Pag 5 “Chiesa che si cinge il grembiule”
Il discorso di Papa Francesco; risposte concrete agli scandali della guerra e della fame
Pubblichiamo il discorso pronunciato dal Papa durante l’udienza ai membri della
Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario (Focsiv).
Cari fratelli e sorelle, vi incontro con piacere in occasione della Giornata internazionale
del volontariato. Vi rivolgo il mio cordiale saluto e ringrazio il presidente, che ha
presentato la vostra missione, nel contesto attuale. La vostra Federazione, che raccoglie
gli organismi di volontariato di ispirazione cristiana, svolge una preziosa azione nel
mondo. È immagine di una Chiesa che si cinge il grembiule e si china a servire i fratelli
in difficoltà. Infatti, le diverse realtà che compongono la Focsiv cercano di coniugare il
bagaglio esperienziale dei propri membri con la dimensione del servizio volontario ai
poveri sullo stile del buon Samaritano e in coerenza con i valori evangelici. A partire
dalla vostra identità cristiana, voi vi presentate come “volontari nel mondo” con
numerosi progetti di sviluppo, per dare risposte concrete agli scandali della fame e delle
guerre. Vi ringrazio per quello che fate e per come lo fate! I vostri interventi accanto agli
uomini e alle donne in difficoltà sono un annuncio vivo della tenerezza di Cristo, che
cammina con l’umanità di ogni tempo. Proseguite su questa strada dell’impegno
volontario e disinteressato. C’è tanto bisogno di testimoniare il valore della gratuità: i
poveri non possono diventare un’occasione di guadagno! Le povertà oggi cambiano volto
ed anche alcuni tra i poveri maturano aspettative diverse: aspirano ad essere
protagonisti, si organizzano, e soprattutto praticano quella solidarietà che esiste tra
quanti soffrono, tra gli ultimi. Voi siete chiamati a cogliere questi segni dei tempi e a
diventare uno strumento al servizio del protagonismo dei poveri. Solidarietà con i poveri
è pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione
dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà: la
disuguaglianza, la mancanza di un lavoro e di una casa, la negazione dei diritti sociali e
lavorativi. La solidarietà è un modo di fare la storia con i poveri, rifuggendo da presunte
opere altruistiche che riducono l’altro alla passività. Tra le cause principali della povertà
c’è un sistema economico che saccheggia la natura – penso in particolare alla
deforestazione, ma anche alle catastrofi ambientali e alla perdita della biodiversità.
Occorre ribadire che il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro
piacere, e ancor meno è una proprietà solo di pochi. Il creato è un dono meraviglioso
che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, con
rispetto. Vi incoraggio pertanto a continuare nel vostro impegno perché il creato rimanga
un patrimonio di tutti, da consegnare in tutta la sua bellezza alle generazioni future.
Molti dei Paesi nei quali operate conoscono lo scandalo della guerra. Lavorando per lo
sviluppo dei popoli, voi cooperate anche a costruire la pace, cercando con perseverante
tenacia di disarmare le menti, di avvicinare le persone, di costruire ponti fra le culture e
le religioni. La fede vi aiuterà a farlo anche nei Paesi più difficili, dove la spirale della
violenza sembra non lasciare spazio alla ragionevolezza. Un segno di pace e di speranza
è la vostra attività nei campi profughi, dove incontrate gente disperata, volti segnati
dalla sopraffazione, bambini che hanno fame di cibo, di libertà e di futuro. Quanta gente
nel mondo fugge dagli orrori della guerra! Quante persone sono perseguitate a motivo
della loro fede, costrette ad abbandonare le loro case, i loro luoghi di culto, le loro terre,
i loro affetti! Quante vite spezzate! Quanta sofferenza, quanta distruzione! Di fronte a
tutto ciò, il discepolo di Cristo non si tira indietro, non volta la faccia dall’altra parte, ma
cerca di farsi carico di questa umanità dolorante, con prossimità e accoglienza
evangelica. Penso ai migranti e ai rifugiati, i quali cercano di lasciarsi alle spalle dure
condizioni di vita e pericoli di ogni sorta. È necessaria la collaborazione di tutti,
istituzioni, Ong e comunità ecclesiali, per promuovere percorsi di convivenza armonica
tra persone e culture diverse. I movimenti migratori sollecitano adeguate modalità di
accoglienza che non lascino i migranti in balia del mare e di bande di trafficanti senza
scrupoli. Al tempo stesso, è necessaria una fattiva collaborazione fra gli Stati, per
regolare e gestire efficacemente tali fenomeni. Cari fratelli e sorelle, in oltre quarant’anni
di vita, nella vostra Federazione hanno operato volontari che sono stati veri testimoni di
carità, operatori di pace, artefici di giustizia e di solidarietà. Vi incoraggio a proseguire
con gioia su questa strada di fedeltà all’uomo e a Dio, ponendo sempre più al centro la
persona di Gesù. Vi aiuterà molto trovare ogni giorno il tempo per l’incontro personale
con Dio nella preghiera: questa sarà la vostra forza nei momenti più difficili, di
delusione, di solitudine, di incomprensione. Affido ciascuno di voi e gli organismi della
vostra Federazione alla protezione di Maria Santissima. Vi accompagni anche la mia
Benedizione. E voi ricordatevi di pregare per me! Grazie.
Pag 12 Non più preti di strada, preti e basta. Da ieri laureati di Paolo Lambruschi
Per favore non chiamiamoli più preti di strada, semplicemente preti perché - dicono - il
Vangelo e la strada sono inseparabili e ogni aggettivo è di troppo. Lo chiedono
esplicitamente don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi, tre sacerdoti
che in una giornata davvero speciale hanno ricevuto la laurea honoris causa in
comunicazione d’impresa dalla laicissima Statale della laica Milano - che compie 90 anni
– alla presenza del presidente del Senato Piero Grasso che ricorda il valore di questi tre
«testimoni del tempo» e del sindaco Pisapia che li ringrazia a nome della metropoli. Per
il Rettore Gianluca Vago, è una decisione con la quale si è «voluto riconoscere e
premiare il prolungato e straordinario impegno in favore dei diritti dei più deboli, della
costruzione di relazioni sociali più eque e dell’educazione alla legalità costituzionale».
Con queste lauree, sottolinea Nando Dalla Chiesa, cui è affidata la Laudatio, «l’Università
degli Studi intende riportare alla sua funzione più nobile l’arte della comunicazione,
restituire alla parola la sua forza generatrice di crescita civile, in una società che vede la
comunicazione addirittura strumento di manipolazione». Tre preti che hanno incontrato
Gesù sulla strada a fianco di prostitute, drogati, baby gang e lì hanno imparato e
continuano a imparare tantissimo perché non l’hanno più lasciata. Preti ormai sui 70, di
quella generazione che ha conosciuto Dio negli anni del Concilio e si è innamorata del
Vangelo della carità, senza sottrarsi ai conflitti. «Più che in scienze della comunicazione
sono laureato in scienze della confusione» è l’esordio di don Ciotti, che a Senato
accademico schierato consiglia vivamente agli studenti di cambiare strada quando
incontrano qualcuno che ha capito tutto. E don Colmegna, presidente della Casa della
Carità voluta dal cardinale Martini come lascito alla 'sua' città per stare in mezzo ai
conflitti sociali, richiama i giornalisti al proprio dovere. «Comunicare è impegnativo.
Posso capire i tempi brevi nei quali un cronista deve imbastire un articolo, ma la fretta
non può mai giustificare il racconto di una parte sola di verità. Proprio perché non hanno
diritti e non hanno voce, gli sprovveduti, gli ultimi, i più poveri tra i poveri, hanno
bisogno di non essere considerati unicamente un problema, un problema di costi, di
ordine pubblico o, peggio ancora, essere indicati come un pericolo. Non hanno bisogno di
falso pietismo e di atteggiamenti elemosinieri. Hanno bisogno di giustizia e giusta
comunicazione ». E don Gino Rigoldi, da 41 anni cappellano del carcere minorile
milanese «Beccaria» aggiunge: «È importante saper comunicare per chi come me deve
stabilire una relazione anche con ragazzi e ragazze che nella vita hanno già commesso
errori gravi. Devi avere chiaro cosa devi dire e che hai davanti delle persone. Non tocca
a me giudicare qualcuno, devo invece aiutare anche i minori carcerati a capire i loro
sbagli e a chiedere perdono per ricominciare ». Tre testimoni credibili con la loro vita che
hanno fondato imprese sociali dove lavorano disoccupati, rom, immigrati, senza casa,
persone con problemi di dipendenza, carcerati, ragazzi che coltivano le terre sequestrate
ai mafiosi. Gli scarti, per dirla con papa Francesco, con i quali i tre dichiarano assoluta
sintonia. «Non cambieremo il mondo – conclude don Ciotti, che chiama a ogni
anniversario dell’omicidio i parenti delle vittime di mafia, parlando di Libera – ma i
mafiosi diventano matti perché togliamo loro il controllo sui giovani, ridiamo la libertà.
La corruzione si combatte riformando le coscienze. Non ci spaventano le minacce e,
state tranquilli, non molleremo mai». Sono la fede e il gusto di stare insieme agli altri,
oltre gli steccati, a dare forza a questi «pretacci». Da ieri laureati e già in servizio sulla
strada.
CORRIERE DELLA SERA
Pag 23 “Vaticano, molti milioni fuori dai bilanci” di M. Antonietta Calabrò
Il cardinale Pell sulle finanze della Santa Sede: ci sono più soldi del previsto
Roma. «Il lavoro di riforma delle finanze vaticane ha fatto scoprire centinaia di milioni di
euro che non comparivano nei bilanci ufficiali della Santa Sede». Il cardinale australiano
George Pell, Prefetto della segreteria per l’Economia, lo ha scritto nero su bianco in un
articolo esclusivo per il Catholic Herald, periodico cattolico inglese fondato nel 1888, in
occasione del lancio del nuovo formato del settimanale. La notizia, clamorosa, svela
anche che, paradossalmente, a motivo di questi fondi extrabilancio, le casse della Santa
Sede sono più in salute di quanto si potesse pensare. Per rendersi conto della portata
delle affermazioni di Pell, uno dei membri del C9, il «Consiglio della corona» di
Francesco, bisogna considerare che il consuntivo consolidato della Santa Sede per l’anno
2013, approvato nel luglio 2014, ha chiuso con un deficit di oltre 24 milioni. Pell
evidenzia che «a parte il fondo pensione, che ha bisogno di essere rafforzato per le
richieste su di esso nei prossimi 15 o 20 anni, la Santa Sede sta facendo la sua strada,
essendo in possesso di un patrimonio e di investimenti consistenti». E che quindi «è
importante sottolineare che il Vaticano non è in fallimento». D’altra parte la scoperta di
centinaia di milioni di euro extrabilancio dimostra che singole «isole» all’interno del
Vaticano erano molto più floride della Santa Sede in quanto tale. Secondo Pell, finora,
nelle finanze vaticane «Congregazioni, Consigli e, specialmente, la Segreteria di Stato,
hanno goduto e difeso una sana indipendenza (il termine «suona lievemente sarcastico»,
ha commentato il magazine inglese Spectator, ndr)». «I problemi erano tenuti “in casa”
(come si usava nella maggior parte delle istituzioni, laiche e religiose)», afferma ancora
Pell. «Pochissimi erano tentati di dire al mondo esterno che cosa stava accadendo,
tranne quando avevano bisogno di aiuti supplementari». A motivo di questo, la struttura
del potere vaticano ha visto perpetuarsi, nel settore finanziario, un assetto quasi
medioevale. Un fenomeno che il Prefetto dell’Economia descrive così: «Proprio come i re
avevano permesso ai loro governanti regionali, principi o governatori di avere quasi
mano libera, purché i libri fossero in equilibrio, così hanno fatto i Papi con i cardinali di
Curia (come fanno ancora con i vescovi diocesani)». Naturalmente, queste riserve di
fondi al riparo da una gestione centrale condivisa, è stato humus favorevole per possibili
abusi. Il porporato sostiene infatti che «per secoli personaggi senza scrupoli» hanno
approfittato della ingenuità finanziaria e delle procedure segrete del Vaticano. Le finanze
della Santa Sede erano poco regolate e autorizzate a «sbandare, ignorando i principi
contabili moderni». Ma ora non è più così: i cambiamenti in atto porteranno le finanze
vaticane nel ventunesimo secolo.
IL FOGLIO
Pag 4 Sorpresa, la “relatio” bocciata al Sinodo torna in pista nelle diocesi di
mat.maz.
Roma. Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e primate d'Austria, non
nega affatto che al Sinodo straordinario sulla famiglia dello scorso ottobre i padri se le
siano metaforicamente date di santa ragione. Tutt'altro: il clima è stato effervescente, le
diversità di vedute e d'opinione sono emerse in tutta la loro chiarezza - come s'è visto
dal tabulato delle votazioni sui singoli capitoli della Relatio finalis - e questo è un bene,
ha detto Schönborn in un'intervista alla rivista Herder Korrespondenz. Fino allo scorso
ottobre, infatti, in quei consessi tutti tacevano, annuivano e magari applaudivano
controvoglia, osserva il porporato: "Troppo spesso ho visto riunioni di vescovi in cui ci si
comportava da ruffiani, nascondendo i propri lati deboli, ripetendo cose già sentite
innumerevoli volte, non osando dire apertamente quali sono i problemi e quali sono i
bisogni". Schönborn aveva già chiarito questa sua posizione un anno fa, dialogando con
il clero ambrosiano nel Duomo di Milano. Il riferimento era al Sinodo del 2012 sulla
nuova evangelizzazione: "Sono rimasto abbastanza deluso. Il primo giorno mi sono
permesso di chiedere ai miei confratelli vescovi e cardinali: 'Parliamo delle nostre
esperienze, ma non delle esperienze della gestione della curia, ma delle esperienze di
missione'. I vescovi dovrebbero essere i primi evangelizzatori. Invece, cosa abbiamo
fatto? Ognuno nel suo bel discorso, ben preparato, ha messo l'etichetta
'evangelizzazione' su tutto ciò che già facciamo come vescovi". Non ha dubbi,
l'arcivescovo viennese, che alla fine, tra un anno, si arriverà a un risultato condiviso,
forse unanime. Non si cruccia troppo neanche delle contestazioni alla relazione
intermedia rielaborata dai circoli minori, quella letta dal cardinale Péter Erdo e scritta in
gran parte dal segretario speciale Bruno Forte: "Anche molti testi del Concilio erano stati
accolti allo stesso modo", cioè male. E alla fine sono stati adottati con pochissimi
distinguo e voti contrari. L'importante, ha chiosato Schönborn, è che "le divergenze
emergano". Intanto, nei prossimi giorni sarà inviato alle diocesi il nuovo questionario,
che si baserà sulla Relazione finale dell' assemblea dello scorso ottobre. Lo schema
scelto è quello di presentare i lineamenta conclusivi del Sinodo straordinario - anche
quelli sulla comunione ai divorziati risposati e sulle unioni omosessuali che non hanno
ottenuto i due terzi dei voti favorevoli - sotto forma di do mande, in modo da rendere
più semplice la partecipazione dei fedeli al cammino biennale voluto dal Papa. Non era
mai accaduto prima. Il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei
vescovi, ha spiegato che tutte le questioni discusse qualche settimana fa saranno
sottoposte all'attenzione delle diocesi del mondo, in modo che il dibattito possa
proseguire a livello locale, anche di singola parrocchia. In particolare, ha aggiunto il
porporato italiano, si chiederà di approfondire soprattutto quelle questioni che gli stessi
padri hanno ritenuto meritevoli di ulteriori riflessioni. Saranno le conferenze episcopali,
ora, a stabilire le modalità per rendere efficace il contributo delle famiglie ai lavori del
Sinodo. L'elaborazione dei risultati, in Vaticano, è attesa per Pasqua.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 1 Un’attesa tardiva di Leonardo Becchetti
«Siamo chi siamo, siamo arrivati qui dov’eravamo», il verso 'esistenzialista' della nota
canzone di Ligabue ben si adatta sia alla velocità letargica della Bce (che anche ieri ha
deciso di temporeggiare) che alla situazione di decrescita infelice del nostro Paese dove
il Pil è tornato indietro ai livelli del 2000. La situazione continua dunque a non migliorare
per responsabilità in parte nostre in parte altrui. Usando le stime più ragionevoli su saldo
primario (1,7% per il 2014), costo medio del debito (3,83%) e crescita (-0,3% sempre
per il 2014), con un’inflazione del 2% (obiettivo statutario della Bce), il rapporto
debito/Pil non si ridurrebbe affatto e crescerebbe tra 2013 e 2014 dell’1,1%. La
sostanziale caduta in deflazione, dovuta alla timidezza della politica monetaria della Bce
(e ora anche al crollo dei prezzi petroliferi), provocherà una situazione ben peggiore con
una crescita di tale rapporto del 3,9%. Ben 3 punti del deterioramento dipenderanno,
dunque, dalla distanza del tasso d’inflazione da quello che la Bce dovrebbe garantire. Per
uscire dalle secche avremmo bisogno, invece di due motori ingolfati, della migliore Italia
(lavorare sodo sulle dimensioni del sistema Paese che ci allontanano dai migliori esempi
europei per corruzione, efficienza giustizia, investimenti in istruzione e banda larga,
semplificazioni della burocrazia) e della migliore Europa. Sul secondo tema, con il
supporto di Avvenire, chi scrive assieme ad altri ha promosso un appello sottoscritto da
350 economisti italiani e stranieri. Nell’appello sottolineavamo che per evitare l’iceberg
della crisi dell’euro il progetto europeo fermo in mezzo al guado deve necessariamente
fare uno scatto in avanti. E indicavamo quattro direzioni economiche principali quali
l’acquisto da parte della Bce di titoli di stato dei Paesi membri secondo il modello avviato
tempisticamente e con successo dagli Stati Uniti (sei anni fa!), una politica fiscale
europea espansiva per colmare il buco di domanda di investimenti, un processo di
armonizzazione fiscale perché è impossibile avere un’Unione Europea con paradisi fiscali
al proprio interno e, infine, un progetto di ristrutturazione del debito con un robusto
intervento della Bce per liberare gli Stati membri dalla spesa per interessi. Su tre di
questi quattro obiettivi si comincia, anche se troppo lentamente, a procedere. Il piano di
rilancio degli investimenti è stato presentato dal presidente Juncker e l’Italia, assieme a
Francia e Germania, ha preso l’iniziativa di scrivere alla Commissione per chiedere un
giro di vite contro le pratiche elusive con cui gli Stati membri si rubano l’un l’altro il
gettito fiscale spingendo le imprese a spostare fittiziamente la propria produzione nei
'paradisi'. Sul fronte monetario gli spread in forte calo dimostrano che i mercati scontano
che la Bce comprerà presto titoli di stato dei Paesi membri nonostante l’opposizione
tedesca. E per questo i mercati sono rimasti delusi dall’attendismo di ieri. Il governatore
Draghi ripete ossessivamente da un po’ di tempo a questa parte che la Bce può farlo
(sottolineando ieri che non è necessaria l’unanimità), ma non è ancora intervenuto non
ritenendo ancora adeguato il consenso del board in materia. Meno significativa da parte
del governatore l’affermazione giustificativa che «non tollereremo prolungate deviazioni
dalle aspettative di inflazione». La Bce deviazioni significative le ha già tollerate, con le
conseguenze assai nefaste sulla dinamica del debito sottolineate all’inizio dell’articolo.
Per un Europa e un’Italia vecchie e stanche come sottolineato da papa Francesco nel suo
discorso al Parlamento europeo la riscossa, al di là di grafici e numeri, nasce dalla
rigenerazione di alcune fondamentali virtù morali e sociali. Il progetto europeo (come
ogni progetto collettivo: dal matrimonio alla vita di un’associazione) cresce solo se
aumenta la fiducia dei membri. E avere fiducia vuol dire accettare il rischio di mettere
assieme risorse con altri senza avere garanzie legali perfette che ci immunizzano dai
rischi in caso di situazione avversa. Quello che i cittadini dello Stato di New York trovano
naturale fare con i cittadini dello Stato dell’Arkansas mentre lo stesso non accade tra
tedeschi, italiani, spagnoli e greci. Certo, notizie come quelle di questi giorni sulle
commistioni tra mafia e politica a Roma non aiutano. È per questo che dobbiamo
combattere 'sfascismo' e passioni tristi e non dobbiamo perdere l’aggancio e lo stimolo
al miglioramento che il vincolo europeo ci impone lavorando sodo al nostro interno su
tutte le dimensioni del ritardo e rilanciando la speranza e la voglia di investire nel futuro.
Aspettando che al nostro fianco di italiani e di europei arrivi la Bce e con essa l’Europa
delle istituzioni.
IL GAZZETTINO
Pag 3 Il Nordest riaccende i motori
Il Pil torna positivo ma la media nazionale è ancora negativa: – 0,4%
Venezia - Il Nordest dà segni di ripresa e il Veneto, in particolare, sembra aver superato
la fase più critica di questa crisi economica. A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia che ha
analizzato la dinamica di alcuni indicatori economici in questa prima parte dell’anno. Nel
primo semestre di quest’anno l’export del Nordest ha registrato un significativo +2,2 per
cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso; in Veneto la dinamica dell’export ha
toccato il +2,7 per cento e in provincia di Bolzano addirittura il +2,9 per cento. Nei primi
10 mesi di quest’anno, invece, la cassa integrazione totale ha subito una contrazione del
16 per cento. Se si esclude il Friuli Venezia Giulia, dove è aumentata dell’8,4 per cento,
e la provincia di Trento, che registra un incremento del 7 per cento, nel Veneto è
diminuita del 21,3 per cento e a Bolzano addirittura del 37,8 per cento. Nei primi 9 mesi
del 2014 l’occupazione manifesta una crescita dello 0,7 per cento, con una punta
massima del 2,1 per cento a Trento. Scende, seppur di poco, anche la disoccupazione: 0,3 per cento. Se nel Friuli Venezia Giulia la percentuale di coloro che sono alla ricerca di
un posto di lavoro è aumentata dello 0,9 per cento, portando il livello medio regionale a
toccare il 7,7 per cento, nel Veneto si è contratta dello 0,8 per cento, stabilizzando il
dato medio regionale al 7,4 per cento. Dal Veneto, che costituisce oltre i 2/3 della
popolazione residente nel Nordest, arrivano dei segnali importanti verso la tanto
agognata ripresa economica. Nei primi 6 mesi del 2014 la produzione industriale è
cresciuta del 2,3 per cento, gli ordinativi del mercato interno del 2,5 per cento e quelli
del mercato estero del 3,7 per cento. Rispetto al 2013, quest’anno il Pil nel 2014 è
destinato ad aumentare del +0,2 per cento, mentre in Friuli Venezia Giulia dovrebbe
crescere dello 0,1 per cento. Solo in Trentino Alto Adige, invece, la ricchezza prodotta
dovrebbe essere negativa (-0,1 per cento), mentre quella prevista a livello medio
nazionale sembra destinata a stabilizzarsi su un preoccupante -0,4 per cento. Il
segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, ne è convinto: «Se ripartono il Nordest e la
Lombardia, riparte anche il resto del Paese. Se il manifatturiero dà degli incoraggianti
segnali di ripresa, la situazione delle costruzioni, dei servizi e del commercio rimane
ancora molto critica. Visto che anche nel Nordest la quasi totalità delle merci viaggia su
gomma, l’auspicio è che il ritorno dei Tir lungo le nostre autostrade preluda ad una
inversione di tendenza che coinvolga anche quei comparti che fino adesso sono rimasti
al palo». I Tir tornano a “solcare” le nostre autostrade. Una sorpresa molto positiva
arriva dalla lettura dei risultati relativi agli indicatori di traffico. Rispetto allo stesso
periodo dell’anno scorso, nei primi 9 mesi di quest’anno il traffico dei veicoli pesanti nelle
principali tratte autostradali del Nordest è in deciso aumento. Se nella “Brescia-Padova”
l’incremento è stato dell’1,7 per cento, nell’autostrada del Brennero la variazione è stata
del +2,4 per cento, mentre sulle Autovie Venete il volume di traffico è salito del 3 per
cento. Si pensi che il dato medio di tutte le società autostradali presenti in Italia è stato
pari ad uno striminzito +0,7 per cento.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO
Pag 11 I commissari: qui fino al collaudo del Mose di Giorgia Pradolin e Paolo
Navarro Dina
“Ecco perché il Cvn è stato commissariato”
Alle redini del Consorzio Venezia Nuova fino al collaudo del Mose. «È quanto si prevede
per l'organismo, speriamo di avere anche la salute». Scherza Luigi Magistro, neo
commissario del Cvn assieme a Francesco Ossola, i due nomi scelti dal prefetto di Roma
Giuseppe Pecoraro per il riassetto del consorzio su mandato dell'Autorità nazionale
anticorruzione di Raffaele Cantone. Non hanno perso tempo i due nuovi commissari: ieri
mattina un incontro in Prefettura a Ca’ Corner con il prefetto Domenico Cuttaia e poi di
volata nella sede operativa di Cvn per il passaggio di consegne con il presidente Mauro
Fabris e il direttore generale Hermes Redi. «Questo è il primo contatto con il consorzio ha messo le mani avanti Luigi Magistro - con il presidente Fabris e l'ingegner Redi
stiamo entrando nell'operatività della struttura, catapultati in questa realtà con
determinate responsabilità. Chiaro che il primo approccio sia di tipo informativo, stiamo
ragionando assieme e possiamo definirla una piena ed esaustiva collaborazione». Quella
del Mose è una realtà nuova e sconosciuta per entrambi i commissari, anche se Ossola
nel '98 aveva già avuto un incarico con il Cvn. «Ma non era certo sul Mose - risponde
l'interessato - non si trattava di un incarico di progettazione, né di supervisione, né di
direzione ed è terminato nell'arco di brevissimo tempo». Da oggi in poi, per i due
commissari, Mose a tempo pieno. «Il tema è molto complesso - riprende Magistro garantiamo un impegno "a tutto tondo" per le esigenze di questa amministrazione
straordinaria. Conoscevamo l'importanza dell'opera e ci siamo resi conto che è una
struttura all'avanguardia sotto molto punti di vista, già i primi contatti ci hanno dato
un'impressione di merito, al di là delle vicende trascorse. Quindi massimo impegno, non
abbiamo altri grilli per la testa, ci caleremo pienamente nell'attività». I due commissari
non saranno soli in questa nuova avventura, a breve sarà costituito un consiglio
consultivo all'interno del Cvn. «Un organo - spiega Magistro - che entrerà operativo il
prima possibile, ma è un tema che va affrontato con la realtà consortile: la sua funzione
è rendere possibile l'interlocuzione con le imprese». E per quest'ultime che hanno
espresso «mal di pancia» davanti al commissariamento del Cvn, ancora nessun ricorso al
Tar. «Ad oggi nessuna azienda - precisano Fabris e Magistro - ha fatto ricorso al Tar».
«Ma in quello spirito – aggiunge il commissario - non abbiamo ancora stabilito niente di
preciso. Stiamo prendendo "prontezza" di tutta la situazione". Con il commissariamento
sparisce il ruolo del presidente? «In questo momento no - riprende Magistro - subentra
l'amministrazione straordinaria e stiamo riflettendo sul da farsi. Il provvedimento è
fresco e noi siamo già operativi».
Venezia - «È stato un incontro costruttivo e fin dalla prossima settimana entreremo nel
merito delle questioni come ad esempio la costituzione dell’organismo consultivo con i
quali affronteremo gli altri nodi di gestione del Consorzio Venezia Nuova». Il presidente
Mauro Fabris è soddisfatto: il primo approccio con i due nuovi commissari è stato
positivo. «Ci siamo dati tempi stretti - dice - Avevo mandato dalle imprese per discutere
proprio sulle questioni legate al prosieguo dell’attività del Consorzio. Mi pare che ci siano
stati tutti i presupposti per ragionare con chiarezza». Fabris ha consegnato a Ossola e
Magistro tutta la documentazione del Cvn (bilanci, situazioni del cantiere e personale).
«Si è trattato di un atto formale nel segno della nostra politica di discontinuità e di
collaborazione». Intanto, al momento non pare all’orizzonte, la nomina di un terzo
commissario.
Il documento è composto da 22 paginette. C’è la storia di questi mesi a partire
dall’inchiesta giudiziaria legata al "sistema Mose", con la rappresentazione di ciò che è
stato (ed è) il Consorzio Venezia Nuova. C’è il racconto di questi mesi dall’azione della
magistratura dal cambio di vertice dell’era di Giovanni Mazzacurati (chiamato
erroneamente Giuseppe) fino alla gestione dell’attuale presidente Mauro Fabris. È questo
il dossier reso pubblico (sul sito della prefettura di Roma) che ufficialmente annuncia
l’incarico ai due commissari, il napoletano Luigi Magistro e il torinese Francesco Ossola,
per la gestione e completamento fino al collaudo delle dighe mobili. Un documento che
sottolinea la filosofia dell’intervento di Ossola e Magistro, ma che allo stesso tempo offre
una radiografia del "sistema Mazzacurati" con considerazioni pesanti del prefetto della
capitale, Giuseppe Pecoraro. «L’attivazione - scrive - delle misure di straordinaria e
temporanea gestione nei confronti del Cvn è stata proposta dal presidente dell’Anac
(Raffaele Cantone ndr) in ragione dell’accertamento di un diffuso sistema corruttivo che
ha visto come protagonisti l’allora Presidente (Mazzacurati ndr); i vertici di allora del Cvn
e i vertici delle principali imprese consorziate (...)». Nel dossier si citano interi passaggi
dell’ordinanza cautelare sul "sistema Mose" facendo poi riferimento alle numerose
pendenze in seno al Consorzio (il contenzioso fiscale con l’Erario e all’Iva non pagata),
ma si fanno proprie anche affermazioni che sottolineano il clima che era in atto nel Cvn.
Pecoraro si sofferma sul "rapporto anomalo" con il Magistrato alle Acque: «Ne è risultata
una vera e propria "gestione di fatto" di funzioni pubbliche da parte di un soggetto
privato, il Cvn che ha elaborato importanti documenti solo formalmente riferibili al
Magistrato alle acque, che spaziano dagli atti interni allo stesso Magistrato, ai verbali
delle adunanze del comitato tecnico, alle convenzioni con il Cvn ai documenti del
Magistrato diretti a soggetti terzi». E poi aggiunge: «In definitiva, l’assetto dei rapporti
tra l’Amministrazione concedente e il privato concessionario (...) è risultato
costantemente condizionato dagli accordi corruttivi, il venir meno dell’esercizio delle
funzioni pubbliche è stato seguito da una totale sostituzione del privato al soggetto
pubblico
deputato
ad
esercitarle
e
dalla
lesione
dell’interesse,
definito
convenzionalmente a livello comunitario, ad un’esecuzione dell’opera pubblica aperta al
mercato». E in questo senso, avviandosi alla scelta di due commissari per il Cvn, il
prefetto di Roma non approva nemmeno il quadro delle relazioni tra Mazzacurati e
Fabris, sottolineando come l’organigramma del "dopo Mazzacurati" non abbia risolto alla
radice, situazioni di contiguità, collegamento e di possibile continuità rispetto ai soggetti
e alle vicende del Cvn. In pratica il modo migliore per annunciare, e o giustificare, il
commissariamento dell’ente.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VI E’ morto a 94 anni Alberto Cosulich: fu primo procuratore di San Marco.
Funerali domani in Basilica di Titta Bianchini
È mancato all'età di 94 anni Alberto Cosulich, nato a Venezia e discendente di una
storica famiglia di armatori e impegnato anche in altri settori imprenditoriali, tra cui
l'industria dell’acciaio e l'agricoltura. In campo culturale è stato l'ideatore e fondatore del
Centro di Cultura, che ne porta il nome e che oggi è seguito dal figlio Paolo. Il Centro di
cultura Cosulich si trova ai Gesuati e nel tempo si è distinto proponendo cicli di
conferenze a tema etico-religioso e istituendo il premio "Angelo d'Oro", destinato a
personalità affermatesi per contributi tangibili alla società veneziana. Per due mandati,
dal 1980 al 1989, fu anche primo Procuratore di San Marco riuscendo, in tale periodo, a
finanziare i lavori di restauro ai mosaici della Basilica, oltre a promuovere mostre
itineranti dei cavalli e del Tesoro marciano a Londra, Parigi, Francoforte, New York,
Tokyo, Los Angeles e Sidney. Autore di numerose pubblicazioni, tra cui alcune dedicate a
Venezia ed a San Marco, Alberto Cosulich aveva aperto a Susegana uno dei più grandi
musei etnografici privati d'Italia, rendendosi pure sul fronte sociale propulsore di
programmi di assistenza a favore delle persone anziane, con l'apertura di due case di
riposo a Quarto D'Altino e Casale sul Sile. La prematura scomparsa, avvenuta nel 1995,
del figlio Marco,lo portò a ritirarsi a vita privata, nella tenuta di Collalbrigo di Conegliano,
dove poi è morto. I funerali saranno celebrati nella basilica di San Marco domani alle 12.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Venezia e il capro espiatorio di Antonio Alberto Semi
Il caso Orsoni
Si sta sviluppando un «caso Orsoni» che tutti (semplici cittadini, mezzi di
comunicazione, gruppi politici) avremmo interesse ad osservare e criticare. Stando ai
fatti, l’ex-sindaco è accusato dalla Procura della Repubblica di aver ricevuto un
finanziamento illegittimo per sostenere le spese della campagna elettorale al termine
della quale fu eletto Sindaco di Venezia. Stando al diritto, poi, «L’imputato non è
considerato colpevole sino alla condanna definitiva» (Art.27 della Costituzione). E il
processo non è neppure iniziato. Tornando ai fatti, Orsoni non è accusato in alcun modo
di aver favorito il Consorzio Venezia Nuova, anzi alcuni atti della sua Giunta erano
manifestamente poco graditi dal CVN. Insomma con lo scandalo Mose, quello che
riguarda tangenti a politici per gare di appalti truccate, corruzione e concussione ecc.,
Orsoni non c’entra. Eppure… Eppure si è creata questa situazione - che sarebbe perfino
buffa se non fosse tragica - per cui l’uomo-simbolo del disastro corruttivo-affaristico
della nostra regione è lui. Per cui perfino degli studenti - che dovrebbero avere qualche
nozione di diritto - si godono un po’ di notorietà reclamando, per motivi etici (o cinici?),
che il professore non insegni, cioè non faccia quello che è il suo dovere, non un suo
diritto. Per cui Le Monde, irridendo in prima pagina la faccenda delle rotelle di
Zappalorto, notava che questi sostituiva Orsoni «implicato nello scandalo politicofinanziario legato alla costruzione delle dighe giganti». I partiti (anche quelli che lo
hanno fatto eleggere) sono poi salvi, resta Orsoni col cerino in mano… Però il problema
nostro - di noi cittadini, voglio dire - è quello di poterci permettere di distinguere quella
che è l’immagine da quella che è la realtà dei fatti. Sarà la magistratura, alla fine, a
stabilire se ci sono stati reati addebitabili a Orsoni. Ma, dobbiamo chiederci, l’immagine
del Sindaco-Colpevole, del Capo-beccato-sul-fatto, serve a soddisfare un desiderio
popolare di sfogare su qualcuno un sentimento di rabbia diffusissimo o serve anche a
deviarlo su qualcuno tutto sommato irrilevante? Perché intanto, tra patteggiamenti
tombali e collaborazioni più o meno interessate con la giustizia, i grandi protagonisti
della vicenda Mose sono usciti e, quel che è peggio, le grandi decisioni sul futuro della
città (compresa la futura gestione del sistema Mose) sono prese altrove, mentre la città
è del tutto commissariata e forse qualcuno ne gode.
Pag 10 Morto Cosulich, l’uomo che portò i cavalli di S. Marco in giro per il mondo
di E. Lor.
Venezia. Un imprenditore e un veneziano che ha lasciato il segno nel mondo sociale e
culturale. Si è spento ieri nella sua tenuta di Collalbrigo (Treviso) all’età di quasi 95 anni,
Alberto Cosulich, discendente della storica famiglia di armatori. Fu nominato da Sandro
Pertini e dal cardinale Marco Cè Primo procuratore di San Marco dal 1980 al 1989, anni
di grandi iniziative. Ricorda il proto di San Marco Ettore Vio: «Ha dato un taglio molto
operativo al suo mandato, con lui nacque il nostro centro culturale interno a San Marco,
fondamentale fonte di documenti per fare i lavori nella basilica. Si iniziarono i rilievi della
Basilica, terminati solo lo scorso anno. E anche il restauro delle facciate». A coordinare i
lavori della facciata principale e del rosone fu proprio Vio. Ma per finanziare i lavori
Cosulich portò in trasferta da Parigi a Londra, e fino negli Stati Uniti i Cavalli di San
Marco e il Tesoro con l’aiuto di De Benedetti e della Olivetti. In quegli anni fece gli onori
di casa in Basilica alla regina Elisabetta, a Carlo e Diana, ai coniugi Reagan e a papa
Giovanni Paolo II. Cosulich si era laureato in Economia e Commercio a Ca’ Foscari
durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli anni del boom economico lo videro impegnato
in campo immobiliare, tra il restauro di palazzi sul Canal Grande e la costruzione di
intere zone a Mestre. Con il fratello Carlo arrivò a gestire una flotta di 250mila
tonnellate. Lo sguardo imprenditoriale si rivolse all’industria dell’acciaio, e all’agricoltura
con la produzione di vini. Fu consigliere del Banco San Marco. Fu molto attivo anche in
campo culturale: avviò il Centro di Cultura A. Cosulich e istituì il premio Angelo d’Oro. Fu
autore di sette libri, di cui tre su Venezia e San Marco e aprì nel 1972 a Susegana il
Museo dell’Uomo. Grande amante e conoscitore della marineria, ricevette le chiavi della
città di Lussino dal Comune e ne fu nominato cittadino onorario e ambasciatore della
cultura. Infine si impegnò nella solidarietà, aprendo negli anni Settanta le case di riposo
di Quarto d’Altino e Casale sul Sile. I funerali saranno sabato alle 12 in Basilica (ma la
data è da confermare).
LA NUOVA
Pag 21 E’ scomparso l’armatore Cosulich, primo procuratore di San Marco di
Davide Vatrella
Aveva 94 anni. Protagonista della storia della città, portò i cavalli marciani in giro per il
mondo. Aveva lasciato Venezia per rifugiarsi nella sua tenuta di campagna. Domani i
funerali in Basilica
Un altro grande “leone” di Venezia si è addormentato per sempre. Ieri si è spento a
quasi 95 anni Alberto Cosulich, padre di figlio di sette figli e uno degli ultimi grandi
veneziani del secolo scorso. La sua attività ha lasciato un segno indelebile nel mondo
dell’impresa, della cultura e del sociale in Veneto e nel mondo. Discendente della storica
famiglia di armatori, era nato a Venezia nel 1920 e si era laureato in Economia e
Commercio verso la fine della seconda guerra mondiale, distinguendosi
contemporaneamente come ufficiale di Aeronautica. Sfruttando gli anni del boom
economico, si era impegnato ancora giovanissimo in attività di restauro e sviluppo
immobiliare a Venezia, riportando all’antico splendore diversi palazzi sul Canal Grande e
costruendo intere nuove zone abitative e residenziali a Mestre e dintorni.
Contemporaneamente, assieme al fratello Carlo, rilanciò l’attività marittima ed
armatoriale che lo avrebbe portato, all’apice dell’ attività, a gestire una flotta navale di
oltre 250.000 tonnellate. Negli anni successivi sviluppò attività d’impresa anche in altri
settori, dall’industria dell’acciaio all’agricoltura, producendo vini di elevata qualità e
creando migliaia di posti di lavoro. È nell’ambito della cultura che Cosulich, consigliere
del Banco San Marco, ha lasciato una grande eredità ai veneziani e al mondo. Prima con
l’avvio del centro di cultura Cosulich, oggi seguito e coordinato dal figlio Paolo, che
propone cicli di conferenze a tema etico e religioso, poi con l’istituzione del premio
“Angelo d’oro” e, infine, con la nomina nel 1980 da parte del Presidente della
Repubblica, su proposta del cardinale di Venezia a primo procuratore di San Marco,
incarico che svolse per due mandati consecutivi fino al 1989. In questo periodo, per
finanziare i costosissimi lavori di restauro della Basilica e dei mosaici di San Marco,
Cosulich si “inventò” assieme all’ingegner Carlo De Benedetti, in qualità di sponsor con
l’Olivetti, di portare in giro per il mondo i gioielli di famiglia. Negli anni a seguire furono
organizzate le mostre itineranti dei cavalli di San Marco, prima, e del tesoro di San
Marco poi, a Londra, Parigi, Francoforte, New York, Tokyo, Los Angeles e Sydney,
facendo scoprire e apprezzare a milioni di persone nel mondo gli incredibili ed
inestimabili oggetti marciani. A lui si devono il restauro della facciata principale e del
rosone d’ingresso, con i lavori coordinati dal proto Ettore Vio. In tale periodo fece gli
“onori di casa” a San Marco, aprendo le porte della basilica, assieme al cardinale Marco
Cé ai grandi del mondo, dalla regina Elisabetta, Carlo e Diana, dai coniugi Reagan fino a
Papa Giovanni Paolo II per citarne alcuni. La sua inesauribile sete di cultura lo portò
anche a scrivere sette libri di cui tre su Venezia e San Marco, ad aprire a Susegana uno
dei più grandi musei etnografici privati d’Italia e a raccogliere diverse collezioni di
strumenti musicali di antiquariato, oggi esposte in vari conservatori in Italia e all’estero.
Sul fronte sociale Cosulich si è sempre impegnato in progetti si solidarietà e sostegno dei
più deboli. A partire dagli anni ’70 ha aperto due case di riposo a Quarto D’Altino e a
Casale sul Sile, un esempio di eccellenza nella gestione privata dell’assistenza sanitaria.
La prematura scomparsa del figlio Marco, nel 1995, lo indusse a ritirarsi a vita privata
nella sua tenuta a Collalbrigo (Treviso), dove ieri se ne è andato, in silenzio, tra i suoi
vigneti. Sarà proprio lì ad essere tumulato nella cappella di famiglia. I funerali si
svolgeranno domani a mezzogiorno nella basilica di San Marco, privilegio riservato fin
dai tempi della Repubblica solo al doge, al patriarca e al primo Procuratore.
Pag 27 Immacolata, ponte povero. In vacanza solo uno su tre
Veneziani e mestrini restano a casa o scelgono viaggi di pochi giorni in Italia
Il ponte dell’Immacolata 2014 sarà per i veneziani il più povero degli ultimi anni. Un
trend in linea con le indicazioni di consumi in calo anche a Natale. L’incertezza sul
futuro, scadenze fiscali e tasse da pagare, impongono anche ai veneziani di risparmiare
sulle vacanze di fine anno. Un calo del 8 per cento nelle partenze per il ponte
dell’Immacolata del 8 dicembre è stimato dall’associazione dei consumatori Adico che ha
svolto un sondaggio tra 312 propri associati e confrontato i risultati con i dati
dell’analoga indagine del 2012. Solo un terzo del campione dichiara che se ne andrà via
per qualche giorno, contro il 42% del 2012. Anche il budget a disposizione delle famiglie
scende , passando da 170 a 150 euro al giorno (-13,3 per cento). Altro dato
emblematico riguarda le prenotazioni last minute che, anche a causa dell’incertezza
meteorologica, conoscono nel 2014 un vero e proprio boom. Il 44% dei veneziani che
hanno programmato il ponte, deciderà all’ultimo momento dove andare e prenotare. Nel
2012 questa percentuale era inferiore di 5 punti. E si preferiscono agli hotel i meno
costosi bed&breakfast, gli agriturismi, gli appartamenti (scelti dal 45% degli intervistati).
Altri dati: nel 2012 quasi un veneziano su 10 dichiarava di stare via una settimana. Ora
lo faranno solo il 3 per cento. Crolla anche il numero di chi passerà fuori casa quattro
giorni e tre notti, la cui percentuale è scesa dal 51 al 38%. Cresce in modo
preponderante la percentuale di chi starà via tre giorni e due notti (dal 40% del 2012 al
52%). Per chi può permettersi di partire, le mete scelte sono vicino a casa. Il 64% non
rinuncia al ponte ma punterà su Lazio, Veneto, Toscana, Sicilia e Liguria o i centri
benessere. Crescono anche le famiglie che andranno in giro per l’Europa: Croazia,
Spagna, Francia e Regno Unito. Crollano le mete extraeuropee, che scendono dal 16 al 5
per cento. «Questo ponte è probabilmente il più povero da inizio millennio», dice Carlo
Garofolini, presidente dell’Adico. «La fiducia della famiglie è ai minimi storici, e tra l’altro
dicembre sarà un mese di pagamenti, come Tasi (che scade il 16 dicembre) e Tari. Le
tredicesime aiuteranno i dipendenti a coprire le spese per la casa e tanti resteranno a
Mestre e Venezia, passando l’Immacolata a casa da amici. Dall’Adico, per chi parte,
anche un invito: «Se si prenota su grandi portali o si acquistano pacchetti sui siti di
acquisti di gruppo, è bene privilegiare quelli più conosciuti e confrontare il prezzo al
netto dello sconto sul sito della struttura che interessa, per verificare che l’offerta sia
davvero vantaggiosa. E verificare sempre tutte le condizioni».
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8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 17 Profughi, il Veneto dice basta
Zaia attacca il governo: “Ora è emergenza grave, tra poco diventerà invasione. Stato
debole e incapace”
Il Veneto si ribella. E non si tratta più solo di una questione di numeri. Pochi o tanti che
siano, la misura è colma. Posti dove metterli non ce ne sono più, la maggior parte torna
alla strada. Quanto basta al presidente Luca Zaia per alzare il tiro e attaccare il governo.
«Adesso è emergenza grave, tra poco diventerà vera e propria invasione, scientemente
disorganizzata da uno Stato, debole, confusionario e assolutamente incapace di farsi
valere in un'Europa burosaura e priva del benché minimo senso della solidarietà commenta il governatore - In una botta sola al Veneto ne sono stati assegnati altri 913,
il che porta il numero totale dei trasferimenti effettuati da inizio 2014 a circa 7.000.
1.753 sono quelli oggi presenti nelle strutture temporanee e a questi si aggiungeranno i
nuovi in arrivo». E snocciola i numeri, quelli di un Veneto che già ospita oltre 500 mila
immigrati regolari (il 40% dei quali disoccupato), quasi una città di medie dimensioni
che parla un’altra lingua e ha una geometria variabile: oggi gli immigrati ci sono domani
spariscono nel nulla. «E non è finita - osserva Zaia - perché la quota totale assegnata al
Veneto è di 3.742 pressoché in pianta stabile. Tolti i 1753 già presenti, vuol dire che
dobbiamo aspettarci ancora più o meno 2.000 persone, oltre a quelle che soggiornano in
Veneto prima di sparire verso altri lidi misteriosi. Un concetto che viene rilanciato anche
dal sindaco leghista di Padova, Massimo Bitonci che torna a scagliarsi contro il prefetto
di Venezia Cuttaia. «Dovrebbe rendersi conto che ormai il Veneto è saturo - sottolinea In questi mesi abbiamo fatto degli sforzi enormi per mettere in sicurezza la città - ha
detto ieri Bitonci - una città dove la presenza degli stranieri supera quota 15%. Sforzi
che rischiano di essere vanificati dalle politiche sull'immigrazione del governo». E non
manca un attacco diretto alla sfidante di Zaia alle regionali del 2015, Alessandra Moretti.
«Se fossi in lei sarei più cauto nel fare campagna elettorale. Se in Veneto siamo in
questa situazione, la responsabilità è solamente del governo Renzi. Governo di cui lei è
espressione e questo i nostri cittadini lo sanno benissimo», sottolinea Bitonci. Dalla parte
dei primi cittadini si schiera anche il governatore Zaia. «I nostri sindaci sono eroi ma non
sanno più cosa fare - aggiunge Zaia - ed io sostengo senza remore i loro no che
diventano sempre più frequenti; gli organismi statali territoriali a stento si trattengono
dal manifestare preoccupazioni e difficoltà, che ogni tanto fanno trapelare sui media:
invece farebbero bene a dichiarare forte e chiaro ai loro referenti romani; la gente non
capisce cosa, come e perché, e quando la gente non riesce a capire, l'allarme sociale è
cosa fatta. Gli Italiani e i veneti, già in ginocchio per la crisi, non meritano di essere
trattati così». Non ci stiamo più - conclude Zaia - e a questo punto non ci sentiamo
nemmeno di escludere decisioni clamorose, pur nell'alveo della legalità».
CORRIERE DEL VENETO
Pag 5 Cuttaia: “Profughi ben divisi, se Bitonci vuole glielo spiego. Pronto a
venire a Padova” di Alessio Antonini
Il sindaco era insorto per i troppi stranieri, ma 4000 sono già partiti
Venezia. Dall’inizio di quest’anno sono arrivati in Veneto oltre seimila profughi. La
maggior parte di loro è rimasta sul territorio meno di due settimane e a tutt’oggi sono
circa 1700 quelli che hanno deciso di restare negli alloggi individuati dalle prefetture. Di
conseguenza, visto che il Veneto è sotto la quota prevista, il ministero dell’Interno ha
assegnato al Veneto altri 913 profughi. La notizia ha scatenato l’ira dei leghisti e in
particolar modo del sindaco di Padova Massimo Bitonci che ha promesso barricate e ha
chiesto pubblicamente le dimissioni e la rimozione del prefetto di Venezia Domenico
Cuttaia, incaricato del coordinamento delle operazioni di accoglienza in tutto il territorio
regionale.
Dottor Cuttaia, è intenzionato a dare le dimissioni?
«E perché? Comunque non mi offendo per quello che ho letto. I sindaci sono liberissimi
di chiedere la mia rimozione al ministero degli Interni in ogni momento se sembra loro
che io non stia attuando per il meglio le direttive del governo. Ma in questo caso ricordo
a chi chiede la mia rimozione che i prefetti hanno l’onere di predisporre l’accoglienza in
virtù di un accordo tra il governo e le Regioni. E tra queste regioni c’è anche il Veneto».
Sta suggerendo che Bitonci se la dovrebbe prendere con il governatore Luca Zaia?
«Non suggerisco nulla e non voglio entrare in queste polemiche. Dico però che purtroppo
al tavolo di coordinamento dei sindaci dei capoluoghi indetto mercoledì il primo cittadino
di Padova non era presente, anche se era stato invitato».
Può spiegare meglio?
«Certo. Facciamo una premessa: attualmente siamo in una situazione di difficoltà perché
stiamo facendo molta fatica a reperire nuove strutture per ospitare i profughi in arrivo.
Per questo motivo mercoledì ho deciso di convocare i prefetti, i questori, la Regione i
rappresentanti dell’Anci e i sindaci dei capoluoghi per illustrare la situazione e trovare
una soluzione comune. Purtroppo il rappresentate del Comune di Padova non si è
presentato. Non vorrei che Bitonci avesse fatto certe dichiarazioni alla stampa perché
magari non ha la cognizione precisa della situazione. Ma sia chiaro che io sono a sua
disposizione per spiegare quello che stiamo facendo e per illustrare la situazione. Non
serve che venga lui da me, se vuole vado io da lui».
Dice che di fronte alla sua illustrazione il sindaco Bitonci si convincerebbe che è bene
ospitare i profughi a Padova?
«In qualità di prefetto non devo convincere nessuno, tantomeno il sindaco di Padova. Il
mio dovere è eseguire al meglio le direttive ministeriali e le disposizioni governative.
Non sono io a decidere se i profughi possono o non possono venire in Veneto. E non lo
decidono nemmeno i sindaci. Credo però che maggiore è la collaborazione tra le
amministrazioni e le prefetture, migliori siano i risultati. Grazie alla disponibilità dei
sindaci siamo riusciti a suddividere i profughi in piccoli gruppi che non si vedono ma che
sono più facilmente controllabili dalle forze dell’ordine. Grazie a questo finora non ci
sono stati incidenti».
Sta dicendo che se i sindaci collaborano meglio per tutti, sennò si procede lo stesso?
«Non la metterei così, anche perché i sindaci conoscono il loro territorio e spesso sono
dotati di personale altamente qualificato. E Padova non fa eccezione. Anzi. Da questo
punto di vista è una delle città più attive del Veneto tanto che ospiterà la
sottocommissione prefettizia che valuta le richieste di asilo internazionale»
Le convenzioni di accoglienza però sono accordi tra le prefetture e i privati. I sindaci
possono essere esclusi?
«Sì. Anche se è sempre meglio coinvolgere e informare i sindaci della presenza di
profughi sui loro territori, le convenzioni di ospitalità sono firmate con albergatori e con
associazioni private che ricevono 35 euro al giorno per singolo profugo e che danno da
lavorare a personale italiano che si prende cura di loro».
A proposito di cure. Ci sono controlli da parte delle prefetture sulla corretta gestione dei
fondi destinati ai profughi?
«Certo. E se troviamo irregolarità viene immediatamente sospesa la convenzione e
bloccati i finanziamenti»
Pag 9 E’ l’ora dei Forconi: “Tutti in strada” di Andrea Priante
Da oggi tornano i presidi del Movimento 9 Dicembre: “Blocchiamo il Veneto”. Centinaia
di attivista ma senza l’appoggio della gente comune sarà un flop
Venezia. I pasdaran del Movimento 9 Dicembre scaldano i motori. Loro, da questa
mattina, saranno per le strade del Veneto a volantinare e a «incitare la gente alla
rivoluzione pacifica». Resta da capire se ci saranno anche tutti gli altri, e cioè l’esercito
di casalinghe, studenti e i piccoli imprenditori che lo scorso anno era confluito nella
protesta dei Forconi trasformandola in una grande rivolta di popolo che aveva bloccato il
Veneto e mezza Italia. Ma nel dicembre del 2013 tutto si era trascinato fino a
tramontare in un nulla di fatto. Colpa della disorganizzazione, della mancanza di un
traguardo preciso e di chi ha cercato di trasformare le contestazioni in un trampolino di
lancio politico. «Quest’anno sarà diverso», promette Vito Collins Babila, trevigiano di 22
anni, il portavoce regionale dei Forconi veneti. «Abbiamo obiettivi chiari, riassunti in
pochi punti che compongono l’ultimatum allo Stato italiano. Chiediamo le dimissioni di
governo e presidente della Repubblica, il disconoscimento dei trattati internazionali
firmati dopo il 2006 e l’istituzione di un tribunale speciale che giudichi coloro, politici in
testa, che hanno trascinato l’Italia in questa situazione». Gli attivisti che in questi dodici
mesi hanno continuato a riunirsi per preparare il ritorno dei blocchi, sono centinaia. Ma
sanno bene che, senza l’appoggio della gente comune, la loro battaglia è destinata a
fallire. E così, dopo il tam-tam sui social network, ieri Vito Collins ha lanciato l’ultimo
appello: «Invitiamo i veneti a scendere per strada al nostro fianco. È la loro unica
possibilità per ribellarsi a questo sistema che ci sta schiavizzando: riprendiamoci i nostri
diritti». Il Movimento ha organizzato blocchi in tutta Italia. Una dozzina quelli previsti da
questa mattina in Veneto, dal Bellunese al Polesine. Il presidio al casello autostradale di
Montecchio Maggiore e quello nella zona industriale di Padova potrebbero rivelarsi i punti
più caldi della protesta. Anche se la partenza sarà soft. Oggi è previsto solo un fitto
volantinaggio, che potrebbe provocare rallentamenti al traffico senza paralizzare la
viabilità. «Per ora vogliamo informare i cittadini di quanto stiamo facendo e dei motivi
che ci spingono a scendere in strada - spiega Collins - ma con il passare dei giorni le
iniziative si faranno più intense ed eclatanti, per lanciare un messaggio inequivocabile a
chi ci governa». Cinque giorni di Passione: da oggi a martedì, quando scadrà l’ultimatum
lanciato alle istituzioni. «Poi scateneremo l’inferno», è stato il monito lanciato da
Francesco Puttilli, uno dei leader nazionali del Movimento. «Fino al 9 dicembre possiamo
garantire una protesta dura ma pacifica, poi ciascuno risponderà delle proprie azioni»,
rincara Collins, che lunedì era arrivato in volo all’aeroporto di Thiene per la conferenza
stampa di presentazione delle iniziative. «Da oggi gli elicotteri resteranno fermi, al
massimo possiamo contare su trattori e mietitrebbie: la rivoluzione sarà sulla terra
ferma».
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Un Putin colpito (dal petrolio) risfodera le armi del Novecento di Paolo
Valentino
Le sanzioni? Inutili
Ci sono tutti i toni, le suggestioni, i colori e perfino gli stilemi della Guerra fredda, nel
discorso di Vladimir Putin sullo stato della Federazione Russa. Parte per il tutto, la
riscoperta del concetto di containment, il contenimento che l’Occidente avrebbe
«perseguito per decenni, se non per secoli, ogni qual volta ha sentito che la Russia
stesse diventando troppo forte». Nella narrazione del leader del Cremlino, l’annessione
della Crimea, da lui definita «storico ricongiungimento», e gli eventi in Ucraina, il colpo
di Stato ipse dixit, sono stati soltanto una scusa per gli Stati Uniti e i loro alleati: «Se
non fossero successi, avrebbero tirato fuori un altro pretesto». Ci sono pochi dubbi che a
una prima lettura, la requisitoria antioccidentale e grande russa di Putin racconti una
scelta di contrapposizione con l’Occidente, in nome di un orgoglio nazionale che, con le
sue parole, «per alcuni Paesi europei è visto come un lusso, ma per la Russia è una
necessità». E che oggi le speranze di riprendere il filo di un dialogo, men che meno
immaginare una ripartenza, siano impalpabili. Ma se è questo lo stato delle cose, forse
noi occidentali dovremmo riflettere sulle concrete conseguenze delle sanzioni, efficaci sul
piano economico ma all’evidenza non in grado almeno fino a ora di ridurre a più miti
consigli il leader del Cremlino, anzi. Qui non si tratta di toglierle o allentarle senza
contropartite tangibili nell’atteggiamento di Mosca in Ucraina, ma di ragionare
strategicamente sul fatto che l’embargo stia producendo un effetto politico esattamente
opposto a quello sperato. Fa bene l’Occidente a mantenere una linea di fermezza, sul
fronte del rispetto della piena sovranità dei popoli e dell’integrità delle nazioni. Ma la
durezza dei toni del discorso di Putin forse suggerisce che lo strumento debba essere
ripensato e affinato. Anche perché, perfino tra le linee della retorica e della chiusura di
Vladimir Vladimirovich è possibile intravedere qualche spiraglio. Come ha notato il New
York Times, il leader moscovita ha anche detto che la Russia non vuole restaurare la
cortina di ferro, che il Paese è aperto al mondo e che «non sarà mai preda della paranoia
e del sospetto, cercando nemici dappertutto». Non c’è alcun regalo da fare all’uomo del
Cremlino. Si tratta piuttosto di metterlo alla prova, senza cedimenti, ma in maniera più
articolata di un embargo che sicuramente sta facendo danni enormi all’economia (e al
popolo) della Russia, ma ha prezzi altissimi anche per le imprese europee. Nella seconda
e più ampia parte del discorso, tutta dedicata all’economia, Putin non ha nascosto
l’impatto gravissimo che le sanzioni, combinate con il crollo dei prezzi dell’energia,
stanno avendo sul suo sistema Paese. Ma evocando un concetto ben noto in Occidente,
quello secondo cui una crisi è un’opportunità troppo buona per essere sprecata, ha detto
che la Russia dovrebbe approfittare delle sanzioni per rinnovare la propria economia,
diminuendo la sua dipendenza dalle importazioni. E ha proposto una sanatoria per il
rientro dei capitali dall’estero, minore interferenza statale nelle attività di piccole e
medie imprese, un blocco delle aliquote fiscali per 4 anni. Non è detto che la scommessa
gli riesca, ma l’approccio di Putin conferma che anche nel lungo periodo l’effetto politico,
in questo caso politico-economico delle sanzioni, non sia così scontato. In ogni caso, lo
ricordava Tony Blair nell’intervista al nostro giornale, nelle relazioni internazionali
dev’essere possibile conciliare la fermezza sui valori, e sull’Ucraina non sono ammessi
sconti, con la necessità di continuare la collaborazione ovunque nel mondo questa possa
contribuire a raffreddare i troppi focolai di crisi: abbiamo visto la scorsa settimana a
Vienna, nei negoziati nucleari con l’Iran, quanto la Russia sia parte indispensabile di ogni
soluzione positiva.
Pag 29 Il Pd deve ripulirsi. L’ora delle scuse è arrivata per tutti di Pierluigi Battista
Lo scandalo romano
Se fosse la mafia ad essersi messa in tasca la città, non si capirebbe davvero per quali
contorcimenti logici, o per quale ambiguo senso delle opportunità, Roma non debba
seguire la sorte dei tanti piccoli e grandi Comuni sciolti a causa delle infiltrazioni
mafiose. Si dice sempre che le inchieste giudiziarie non devono dettare i tempi della
politica (e viceversa). Ma i magistrati di Roma, invocando quel termine terribile e
mostruoso - «mafia» - come connotazione dell’intreccio malavitoso in cui Roma rischia di
soffocare, si sono consapevolmente presi una grossa responsabilità. Se quel groviglio di
malaffare comunque maleodorante non fosse «mafia», la magistratura avrebbe giocato
troppo pesantemente. Se fosse «mafia», se le parole hanno un senso, se la giustizia
vuole essere diversa dai modi di dire e dalla narrazione noir in salsa capitolina, allora il
destino di Roma, la capitale d’Italia, diventa un problema politico che richiede tagli
drastici. Si invocano rotture e «discontinuità» in continuazione, cosa deve aspettare
ancora la politica romana? Non è sufficientemente squassante la mafia in Campidoglio a
far da padrona? I cittadini italiani da tempo contribuiscono a pagare la montagna di
debiti di Roma, evitandone il default. Non è giusto che un cittadino italiano non debba
sapere come viene dilapidato il suo contributo. Ed è sconvolgente il sospetto che il
denaro pubblico vada a puntellare un’istituzione inquinata dalla mafia nei suoi gangli
vitali. Con un’associazione a delinquere che nella passata sindacatura di Alemanno si è
installata nel centro magico del governo cittadino e in questa di Marino piazzando i suoi
referenti politici nella giunta Marino, ai vertici del consiglio comunale e finanche, con un
paradosso lessicale che sembra mutuato di peso da un romanzo di Orwell,
nell’organismo preposto alla «trasparenza» della cosa pubblica. Matteo Orfini, che ha
assunto il compito ingrato di commissariare il Pd romano immerso fino al collo nella
melma, sostiene che non ci sono gli estremi per il commissariamento del Comune di
Roma. Ma perché la sacrosanta esigenza di azzerare il Pd romano non deve valere anche
per il governo del Comune? Se c’è l’urgenza di ripartire da zero per un partito, non c’è
forse la stessa urgenza per le istituzioni? Non percepiscono forse l’abisso di sfiducia in
cui è piombata tutt’intera la politica romana e che oggi contagia l’intera cittadinanza
italiana, stanca del privilegio che sinora Roma ha goduto come debitrice super-assistita
con le risorse pubbliche gettate in una fornace di sprechi senza fondo? Il sindaco Marino
può rivendicare la sua estraneità alle indagini, e anche l’orgoglio di essersi sottratto
all’abbraccio di una lobby malavitosa. Il prefetto si dice addirittura preoccupato per
l’incolumità del primo cittadino di Roma, che va tutelato e non indebolito. Ma la sua
giunta è accusata di essersi fatta infilare dalla mafia e la sua maggioranza nella sala
intitolata a Giulio Cesare si è rivelata inaffidabile, permeabile, come è stata descritta su
queste pagine da Fiorenza Sarzanini, alle sollecitazioni criminali, parte integrante di un
sistema che ha gestito con concordia bipartisan affari, appalti, rifiuti, persino
«immigrati», trattati come un business più vantaggioso del traffico di droga. Quel
«tariffario» a base del libro paga dell’associazione non si può dimenticare. E azzerare
tutto, con un gesto di responsabilità e di buona volontà se il prefetto non dovesse
provvedere a uno scioglimento d’autorità, può diventare un segnale di rigenerazione,
una pagina totalmente nuova, l’ultimo tentativo di riconquistare la fiducia perduta dei
cittadini, romani e non. E tutti dovranno chiedere scusa. La destra romana in primis, che
deve espiare la colpa di aver messo il Comune nelle mani di una banda. E che dovrebbe
avere la decenza di non sfilare più in nome della «sicurezza» dopo aver partecipato al
banchetto sugli appalti per i campi nomadi. Le Coop che si sono appoggiate così a lungo
a figure di corruttori senza pudore: di questo devono rispondere i suoi dirigenti, e non
delle foto di cene a cui ha partecipato l’attuale ministro Poletti. I governi, che
dovrebbero metter mano subito alla palude infetta delle partecipate. Il Pd, che dovrà
fare piazza pulita di comportamenti che lo hanno reso un partito impresentabile. E le
forze economiche che aspettano eventi piccoli e grandi (le Olimpiadi anche?) per
abbandonarsi nuovamente all’andazzo delle gare d’appalto truccate, alle cordate, alle
cricche. Forse addirittura, ma solo se venisse confermato l’impianto accusatorio della
magistratura, alle cosche.
LA STAMPA
Mafiosi anche senza le lupare di Francesco La Licata
Certo, non si troveranno né coppole né lupare nella cupola politico-mafiosa che gestiva i
grandi affari della Capitale. Nessun giuramento con sangue e santino sarà stato imposto
ai componenti il vasto e trasversale sodalizio criminale. Ma questo non vuol dire che il
sistema scoperchiato dal procuratore Pignatone e dai suoi collaboratori non sia di tipo
mafioso. E i primi a crederci sembrano essere proprio i magistrati inquirenti che nei
provvedimenti restrittivi non si sono limitati a fare ricorso all’«aggravante mafiosa», ma
hanno addirittura ipotizzato il «416 bis», cioè l’associazione per delinquere di tipo
mafioso. E questo proprio perché, per concretizzarsi il reato, non è necessario il controllo
del territorio attraverso il ricorso alle bombe o alla violenza bruta. No, l’intimidazione
mafiosa può funzionare anche solo in presenza di un «accordo» non scritto: tu politico
sai da dove arriva la richiesta e conosci quali potrebbero essere le conseguenze di un
diniego, ma soprattutto hai interesse ad esaudire ogni richiesta perché il mittente è utile
al conseguimento e al mantenimento del potere. Il mafioso ed anche gli imprenditori del
«sistema» avranno l’unica cosa che interessa loro, cioè i soldi, naturalmente pubblici.
C’è poco, dunque, da ironizzare sulla «mafiosità» della banda romana: non si tratta di
ladruncoli né di mariuoli di antica memoria. Siamo di fronte a delinquenti che nulla
hanno da invidiare ai più pubblicizzati, questo sì, colleghi siciliani. E non mancano
somiglianze e analogie con vicende archiviate, a Palermo, col marchio definitivo della
politica mafiosa. Sarebbe lungo l’elenco delle storie che si potrebbero ricordare. Una su
tutte, anche per il tipo di atteggiamento difensivo scelto dai protagonisti («traditi dagli
amici»), potrebbe essere la vicenda che ha portato alla condanna definitiva dell’ex
governatore di Sicilia, Totò Cuffaro. All’apparenza poteva sembrare una storia di
ordinaria corruzione, se non fosse che l’imprenditore della sanità coinvolto nell’inchiesta,
l’ing. Michelangelo Aiello, era sospettato - con qualche motivo - di essere addirittura
prestanome del boss Bernardo Provenzano. Anche in quel caso la «rete» mafiosa non ha
avuto bisogno di esercitare particolare violenza: tutto andava liscio grazie alla benevola
attenzione dei burocrati della sanità e di politici non di primissimo piano, ma non per
questo poco efficaci. Certo c’è un abisso tra Carminati e Provenzano, ma i «piccioli», i
soldi, non sottilizzano sulla portata dei boss. Non è casuale, poi, che l’inchiesta siciliana
sulla corruzione abbia avuto un risvolto di mafiosità non indifferente, visto che si è
scoperto che c’erano investigatori (poliziotti, finanzieri e carabinieri) che informavano in
tempo reale Aiello, e dunque Provenzano, dello stato delle indagini. Addirittura chi
piazzava le microspie per conto della procura, provvedeva - immediatamente dopo - a
bonificare gli ambienti, vanificando il lavoro investigativo. Proprio come i poliziotti che
avvertivano Carminati delle indagini in corso. A proposito di indagini, risulta che
Alemanno avesse pensato di prevenire tentativi di infiltrazioni delinquenziali affidandosi
alla consulenza non gratuita del prefetto Mario Mori. Neppure lui si è accorto di nulla?
LA NUOVA
Pag 1 I migranti al tempo di Tritone di Piero Innocenti
Se qualcuno aveva pensato che, con la fine della operazione Mare Nostrum nel
Mediterraneo, giusto un mese fa, le partenze dei barconi di migranti dalle coste libiche
avrebbero subìto un’apprezzabile frenata, resterà deluso. Erano stati diversi i politici di
varia estrazione e i presunti esperti di immigrazione che, nei mesi passati, avevano
sostenuto che le navi della Marina Militare a ridosso della Libia per salvare vite umane
costituissero una sorta di polo di attrazione (pull factor come si legge nei documenti
Frontex) e, quindi, agevolassero la partenza delle imbarcazioni. In realtà, come si è
avuto modo di sottolineare più volte, i contrabbandieri di persone non si fanno nessuno
scrupolo e, anche in questi trenta giorni di “riduzione” di Mare Nostrum a «dispositivo
navale di sorveglianza e sicurezza marittima» (formulazione di chiaro conio burocratico
ministeriale, per non urtare l’orgoglio della nostra Marina Militare) in un’area ridotta, con
Tritone europea in azione, il totale degli sbarchi ha toccato quota 9mila (in condizioni
marine spesso pessime). Arrestati 32 scafisti arrestati e sette le imbarcazioni
sequestrate. Nella sola “area operativa” marina di Tritone (più a ridosso delle coste
italiane), i migranti soccorsi sono stati 2.717 con l’impiego di assetti navali della
Capitaneria, della Guardia di finanza, della Marina, di navi mercantili e degli altri Stati
partecipanti all’operazione. In «altre aree operative» gli interventi di «soccorso e
ricerca» (Sar), hanno riguardato 6.092 migranti (2.155 quelli effettuati dalla Marina
Militare). Il sistema di sorveglianza in mare delle frontiere sembra aver raggiunto un
rapporto di equilibrio con quello di soccorso e salvataggio, svolto egregiamente, per un
anno, dai nostri marinai. Soltanto 107 i migranti irregolari rintracciati sulle coste italiane
dopo gli sbarchi. Dalla Libia, paese come noto drammaticamente sconvolto da una
guerra in atto contro le milizie islamiche, sono partiti ben 137.989 stranieri sul totale dei
162.800 sbarcati dall’inizio del 2014 alla data del 29 novembre. I siriani (38.929) sono
la comunità più numerosa, seguiti dagli eritrei (34.084), dai maliani (9.351) e dai
nigeriani (8.798). Papa Francesco, pochi giorni fa, a Strasburgo, nel suo discorso al
Parlamento europeo, è tornato sulla questione migratoria, chiedendo all’Ue più
attenzione perché «...Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande
cimitero!». In un’intervista al “Corriere della sera” del 28 novembre, il generale Haftar,
che sta combattendo il terrorismo in Libia, chiede aiuti all’Ue e all’Italia, mettendo in
guardia sui seri pericoli che l’immigrazione illegale comporta per il possibile arrivo di
jihadisti di varie nazionalità. Garantire la sicurezza dei cittadini e, contestualmente,
l’accoglienza dei migranti è la grande sfida, la grande responsabilità dei governi dell’Ue
e, in primis di quello italiano.
Pag 1 Corruzione, non c’è lo Stato di Ferdinando Camon
Ad ascoltare telefonate che i mafiosi romani si facevano tra loro, dal superiore
all’inferiore, dal boss al servo, ci viene la pelle d’oca: «Tu devi paga’, pezzo di m…., se
no ti taglio la testa, a te e ai tuoi figli». Questi tengono in pugno Roma, l’han presa in
ostaggio, possono cavarle di tasca tutti i soldi che vogliono e quando vogliono, e se
qualcuno non paga lo possono buttare cadavere in un fosso. Non sono padroni dei nostri
soldi, son padroni della nostra vita. Si sentono queste telefonate, si vedono queste
immagini (però, complimenti alla polizia!), di questi panciuti di mezza età, bolsi e
violenti, e si capiscono tante cose che prima non sospettavamo: parlano, comandano e
minacciano con la certezza che lo Stato non c’è, Roma è un deserto o una giungla;
sentono che metà Stato non esiste e l’altra metà è d’accordo con loro; l’accordo non è
basato sull’identità ideologica o politica (sì, c’è anche questa, in questa mafia romana è
rinata tanta Destra, proprio sotto un’amministrazione comunale di destra), ma
sull’interesse economico, sul filo di queste telefonate si spartiscono milioni di euro;
qualunque affare pubblico è buono per piantarci sopra un affare privato. Se vien bandito
un appalto, l’assegnazione vien pilotata e chi la manovra ha diritto al 2,5 %; se arriva
un’ondata d’immigrati e si stanziano i fondi per sostenerli, la rete della mafia rastrella
quei fondi e se li intasca, e ad occhio e croce si tratta d’un profitto superiore (lo dicono
loro) a quello garantito dal mercato della droga; se è in corso un’elezione a sindaco,
l’astuzia sta nel finanziare sia l’uno che l’altro concorrente, con la certezza che quel che
spendi ti sarà restituito moltiplicato per cento; se nevica, e naturalmente a Roma scatta
l’emergenza neve, son centinaia di migliaia di euro che escono per pulire la città… E poi,
non occorrono ragioni particolari, per elargire soldi. Tu paga, colui che paghi ti sarà
grato. Devi spiegare al clan la spesa? E scrivi: «Per carinerie ricevute». «Carinerie»,
pare una poesia. Noi, in basso, lesiniamo le spese, lasciamo il latte e il pane più cari e
puntiamo su quelli di mezza qualità, e questi si concedono regalie mensili fisse, superiori
del doppio, del triplo, del quadruplo allo stipendio medio di un buon professionista. Si
dirà: «È impossibile scoprirli prima, è impossibile prevederli». Ma scusate: come mai ce
ne sono che han compiuto un omicidio, hanno scontato uno spizzico di pena, sono usciti,
e ora di riffe o di raffe collaborano con l’amministrazione della Capitale? Il capo dei capi
ha avuto uno scontro a fuoco con i carabinieri, una pallottola gli ha trapassato la testa e
ne è uscita portandosi via l’occhio sinistro, al posto del quale adesso tiene una benda, e
mi dite che è impossibile riconoscerli? A guardarli in fila, nei telegiornali, viene
spontaneo pensare che Lombroso non avesse poi tutti in torti (e neanche Cesare, a
leggere Shakespeare). Uno di questi adesso è pluri-indagato, ma come mai il suo nome
figura tra gli sponsor delle campagne elettorali di un paio di sindaci? A sentire la vastità
della rete malavitosa, l’enorme quantità di affari pubblici in cui s’è infiltrata
(praticamente dappertutto), e la montagna di euro che ci ha rubato, la reazione giusta è
la disperazione. Non ce la faremo mai. Non possiamo liberarcene. I politici, questi
politici, non hanno nessuna voglia di liberarsene, preferiscono di gran lunga servirsene.
Abbiamo il primato della corruzione e della mancanza di giustizia in Europa. E siamo la
nazione che non accenna ad uscire dalla crisi. Anche le altre nazioni fan fatica, ma un po’
si muovono. Ma se la nostra corruzione è di questa portata, e se la nostra capitale è
marcia fin nel midollo, perché mai dovremmo uscire dalla crisi? Per grazia divina? La
corruzione è un cancro in metastasi. Finché si asporta il meno possibile, il cancro si
riprodurrà. Qui bisogna azzerare più di un partito a Roma. E commissariare il Comune.
Non fra anni o mesi. Ma adesso.
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