settembre 2014 - Nuova Informazione Cardiologica

LA NUOVA INFORMAZIONE
CARDIOLOGICA
Periodico di informazione cardiologica – Anno 34° – Settembre 2014
SOMMARIO
Imaging in cardiologia
2
Dilatazione idiopatica del tronco
dell’arteria polmonare in paziente con familiarità
per aneurisma dell’aorta addominale
(Lorena Ferrarotti, Cristina Piccinino)
Editoriale
4
Le indicazioni al pacing cardiaco e alla terapia
di resincronizzazione: tra le nuove Linee Guida
europee e l’attuale crisi economica
(dott. Eraldo Occhetta)
Leading article
8
Non solum sed etiam… La ranolazina aumenta
l’efficacia dell’amiodarone nella cardioversione a
ritmo sinusale della fibrillazione atriale di recente
insorgenza (Lara Baduena)
Focus on… 14
Ranolazina, fibrillazione atriale
e interventi farmacologici (dott. Gabriele Dell'Era)
Medicina e morale
17
Il cuore sinonimo della vita (prof. Paolo Rossi)
Foglio elettronico 3 a generazione – n°57
Editor: prof. Paolo Rossi
Direttore Responsabile: dott. Eraldo Occhetta ([email protected])
Direttore Scientifico: dott. Gabriele Dell’Era ([email protected])
Progetto grafico e realizzazione: Studio27 Progetto Editoriale, Novara – www.studio27snc.it
[email protected]
www.nuovainformazionecardiologica.it
IMAGING in cardiologia
Dilatazione idiopatica
del tronco dell’arteria polmonare
in paziente con familiarità
per aneurisma dell’aorta addominale
Lorena Ferrarotti, Cristina Piccinino
SC Universitaria di Cardiologia, AOU Maggiore della Carità, Novara
[email protected]
CONTESTO
CASO CLINICO
Gli aneurismi dell’arteria polmonare (AAP), soprattutto se idiopatici, rappresentano una condizione patologica rara e possono avere diverse
eziologie, di tipo congenito oppure acquisito,
come ad esempio nel caso di malattie del tessuto
connettivo o di ipertensione polmonare. La prevalenza non ne è nota, ma dall’esperienza clinica, piuttosto limitata e basata essenzialmente su
dati autoptici, si evince 1 caso ogni 14000 autopsie. Sulla definizione di AAP non vi è un comune
accordo: alcuni studi citano come cut-off un diametro di 4 cm, altri di 2,9 cm. L’AAP solitamente
decorre asintomatico o si associa a sintomi molto
sfumati ed aspecifici, come dispnea, emottisi, dolore toracico e tosse. Tecniche di imaging come
la risonanza magnetica e la TC forniscono un ottimo supporto diagnostico nel caso di sospetto
clinico, ma il gold standard per la diagnosi rimane l’angiografia polmonare. Il riscontro di aneurisma dell’arteria polmonare richiede una sorveglianza e quindi un attento follow-up, in quanto
le possibili complicanze, come la perforazione,
portano rapidamente ad exitus del paziente se
non riconosciute e trattate tempestivamente. La
terapia è esclusivamente chirurgica, ma riservata
solo a casi selezionati.
Donna di 74 anni, senza precedenti cardiovascolari di rilievo, con anamnesi familiare positiva per
aneurisma dell’aorta addominale, nota da anni
per ipertensione arteriosa sistemica e blocco di
branca sinistra, in classe funzionale WHO I stabile, asintomatica per sincopi, pre-sincopi e dolore
toracico.
Nel corso di una TC torace, eseguita per monitoraggio di area di addensamento parenchimale
polmonare destra, veniva riscontrata una dilatazione del tronco dell’arteria polmonare di circa
50 mm; tale reperto, dal confronto con una TC
eseguita un anno prima, si era dimostrato stabile
nel tempo.
L’ecocardiogramma transtoracico bidimensionale aveva confermato un’importante dilatazione
del tronco principale dell’arteria polmonare, con
moderata dilatazione delle arterie polmonari destra e sinistra, associato alla presenza di camere
cardiache destre di dimensioni ridotte, con funzione sistolica ventricolare conservata, in assenza di ipertensione polmonare e di cardiopatia
sinistra; dall’analisi colordoppler sembravano
escludibili shunt intra ed extra-cardiaci.
La risonanza magnetica cardiaca, eseguita allo
scopo di escludere eventuale difetto congenito
2
dell’adulto responsabile del quadro, aveva escluso tale sospetto, confermando, ancora una volta,
la dilatazione aneurismatica dell’arteria polmonare e le ridotte dimensioni delle camere cardiache destre.
Giudicando il caso come una dilatazione idiopatica dell’arteria polmonare, con riduzione delle
dimensioni delle camere destre, vista anche la
nota familiarità per patologie cardiovascolari, la
paziente veniva inviata a valutazione cardiochirurgica specialistica, che poneva indicazione ad
atteggiamento conservativo.
I criteri patologici per definire “idiopatica” una
dilatazione aneurismatica dell’arteria polmonare
sono rappresentati da una dilatazione del tronco
dell’AP, con o senza coinvolgimento dell’albero
arterioso polmonare, dall’assenza di shunts extra
o intra-cardiaci, e dall’assenza di una patologia
polmonare o cardiaca cronica. In base a questi
criteri, dunque, la paziente del caso clinico in
questione, era affetta da AAP. Come si è già detto,
in letteratura il cut-off di normalità del diametro
dell’AP è molto variabile, ma nel caso della nostra
paziente le dimensioni del tronco arterioso deponevano per una dilatazione almeno moderata. Nei casi in cui i pazienti sono completamente
asintomatici, come nel caso descritto, la diagnosi
è di tipo occasionale, generalmente di tipo ecocardiografico e/o con Rx torace, e viene supportata e confermata successivamente da esami di
secondo livello come TC, RMN ed angiografia.
In letteratura sono riportate tecniche chirurgiche
varie e scuole di pensiero differenti circa l’indicazione all’intervento; sembrerebbe, tuttavia, atteggiamento comune, quello di considerare come
criterio di operabilità un diametro del tronco
dell’arteria polmonare superiore a 8 cm, oppure
una compressione meccanica sulle strutture anatomiche adiacenti da parte dell’aneurisma stesso,
pur in presenza di un diametro inferiore a 8 cm.
In conclusione, il caso clinico vuole mettere in
evidenza una condizione patologica rara e sottolineare l’importanza di un attento e mirato
follow-up, sia clinico sia strumentale, in pazienti
con AAP , soprattutto se asintomatici.
Figura 1
Immagini RMN di dilatazione del tronco dell’arteria
polmonare.
Figura 2
Immagine ecocardiografica di dilatazione del tronco
dell’arteria polmonare.
COMMENTO
BIBLIOGRAFIA
1. Extreme dilatation of pulmonary artery: a literature review. Shafig A,
et all – BMJ Case Rap. 2014 Jun 25.
2. Giant pulmonary artery aneurysm: Etiology and exceptional 17 years
natural corse. Anzouan-Kacou JB, et all – Ann Cardiol Angiolo. 2014
Apr 30.
3. Giant idiopatic pulmonary artery aneurysm: an interesting incidental
finding. Afsoon Fazlinejad et all – Case report in vascular medicine,
vol. 2014, article ID 251373, 4 pages.
4. Idiopathic pulmonary artery aneurysm. Singh U, et all – Indian J Chest
Dis Allied Sci. 2014 Jan-Mar;56(1):45-7.
3
EDITORIALE
Le indicazioni al pacing cardiaco
e alla terapia di resincronizzazione:
tra le nuove Linee Guida europee
e l’attuale crisi economica
Eraldo Occhetta
SSD Elettrofisiologia e Cardiostimolazione.
Dipartimento Cardiologico, AOU Maggiore della Carità, Novara
[email protected]
2. Le indicazioni concernenti l’impianto di Defibrillatori automatici impiantabili (ICD).
3. Le indicazioni concernenti la terapia di resincronizzazione elettrica (“cardiac resynchronization therapy”: CRT).
In un recente editoriale sul Giornale Italiano di
Cardiologia vengono sottolineate e commentate
le ultime novità in merito a tutte queste problematiche ed indicazioni (5).
Le più importanti Società scientifiche ottemperano ad una delle loro principali “mission” con
la pubblicazione periodica di linee guida, che
riguardano gli inquadramenti diagnostici e terapeutici delle varie patologie. Visto il concomitante progresso tecnologico, che permette approfondimenti diagnostici sempre più accurati e
proposte terapeutiche sempre più nuove, il ritmo con cui vengono proposti gli aggiornamenti
a queste linee guida diventa sempre più serrato.
Per quanto riguarda il settore cardiologico dell’elettrostimolazione cardiaca, sul numero di agosto
2013 di Europace, giornale ufficiale dell’European
Heart Rhythm Association (EHRA) della Società
Europea di Cardiologia (ESC), sono state pubblicate le più recenti “2013 ESC Guidelines on cardiac
pacing and cardiac resynchronization therapy” (1).
Questo recente “update” propone le ultime novità rispetto alle linee guida percedenti statunitensi, europee ed italiane (2, 3, 4).
Ci si riferisce, in modo abbastanza ben distinto, a
tre gruppi distinti di indicazioni:
1. Le indicazioni concernenti l’elettrostimolazione cardiaca permanente convenzionale: pacemaker (PM).
1. Le indicazioni all’applicazione di un Pacemaker (PM) sono differenti come evidenza di beneficio a seconda della patologia elettrica sottostante:
a) Nella malattia del nodo del seno il pacing cardiaco non migliora la sopravvivenza generale,
ma ha grande influenza sulla qualità di vita;
questa patologia è più frequente in pazienti
anziani e con cardiopatie organiche associate.
Le indicazioni sono:
-di classe I (fortemente raccomandata)
quando vi è la dimostrazione di correlazione tra sintomi e bradicardia;
- di classe II (possibile) quando la correlazione è solo probabile;
4
- di classe III (non indicazione) quando la
bradicardia è correlata a farmaci che possono essere sospesi, o quando il paziente è
relativamente giovane e/o asintomatico.
Per quanto riguarda la modalità di stimolazione, il pacemaker bicamerale con risposta
in frequenza (DDD/R) è superiore a quello
monocamerale (VVI/R): permette infatti un
miglioramento della qualità di vita e una riduzione dell’incidenza di fibrillazione atriale
e di stroke, anche se non riduce la mortalità
e le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco.
Inoltre bisogna cercare di stimolare l’atrio e
minimizzare la stimolazione ventricolare, utilizzando algoritmi dedicati.
b)Nei blocchi atrio-ventricolari permanenti o
parossistici, il pacing cardiaco è invece “salvavita”, influendo in modo significativo sulla
riduzione di mortalità. In questo contesto la
prognosi e l’indicazione è correlata più al tipo
di blocco che ai sintomi:
- indicazione al pacing nei blocchi di 3° grado e nei blocchi di 2° grado tipo 2 (2:1 con
blocco di branca), anche se asintomatici;
- indicazione al pacing nei blocchi di 2° grado tipo 1 (con periodismo di Luciani-Wenckebach) solo in pazienti sintomatici.
La stimolazione bicamerale DDD, rispetto a
quella monocamerale VVI, migliora i sintomi,
ma non la mortalità e la morbilità (ospedalizzazioni e scompenso cardiaco); quando la
funzione ventricolare sinistra non è normale,
andrebbe considerata la stimolazione biventricolare. Nella fibrillazione atriale permanente bradi-aritmica la stimolazione ottimale è
quella supportata dalla funzione rate-responsive.
c)Nelle bradiaritmie neuromediate il pacing
cardiaco ha finalità essenzialmente preventive nei confronti di sincopi ricorrenti e/o
traumatiche. In questi casi il pacing cardiaco
dovrebbe comunque essere l’ultima scelta, in
pazienti ben selezionati, relativamente anziani, con sincopi ricorrenti e/o a rischio di traumatismi; dovrebbe comunque essere sempre
perseguito l’obiettivo della dimostrazione di
correlazione bradicardia/sintomo, con sistemi
di monitoraggio dedicato (compresi i loop recorder impiantabili).
a)Prevenzione secondaria della morte improvvisa: pazienti che hanno superato episodi di
arresto cardiaco da fibrillazione o tachicardia
ventricolare; pazienti che hanno già avuto
episodi di tachicardia ventricolare sostenuta
nell’ambito di cardiopatie organiche e/o funzione ventricolare sinistra depressa; pazienti
con episoli sincopali e indicibilità di tachiaritmie ventricolari sostenute allo studio elettrofisiologico.
b)Prevenzione primaria della morte improvvisa:
pazienti con cardiomiopatia ischemica postinfartuale o cardiomiopatia dilatativa idiopatica
e ridotta funzione ventricolare sinistra (frazione di eiezione < 35%), indipendentemente
dalla asintomaticità del paziente e dalla presenza o meno di aritmie ventricolari non sostenute.
c) Cardiopatie aritmogene ad alto rischio di arresto cardiaco: particolari situazioni cliniche
considerate ad alto rischio di morte improvvisa (displasia aritmogena del ventricolo destro,
sindrome di Brugada, cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva).
3. Le indicazioni all’applicazione di un resincronizzatore elettrico cardiaco (Cardiac Resynchronization Therapy – CRT) riguardano pazienti
con: cardiomiopatia dilatativa su base ischemica
o idiopatica; Frazione di Eiezione (FE) ventricolare sinistra < 35%; Blocco di Branca Sinistra (BBS)
con QRS > 130 msec; scompenso cardiaco con
classe funzionale NYHA III o IV nonostante la ottimale terapia farmacologica (betabloccante, aceinibitore o sartanico, diuretico, antialdosteronico,
statine).
Vengono individuati sostanzialmente 4 gruppi di
pazienti che possono giovarsi della CRT:
a)Nei pazienti in ritmo sinusale, con le caratteristiche sopra descritte: questa è la situazione
dove la CRT ha dimostrato avere i maggiori
benefici, soprattutto in presenza di BBS e di
cardiomiopatia idiomatica. Sono invece meno
evidenti i benefici in caso di cardiomiopatia
con pregresso infarto miocardio (dove la cicatrice ischemica può vanificare la resincronizzazione) e in caso di QRS “largo” ma senza la
morfologia BBS; è invece inutile la CRT in caso
di QRS “stretto” (<130 msec), anche in caso di
parametri ecocardiografici di dissincronia.
b)Nei pazienti in Fibrillazione Atriale (FA); in
questo caso i benefici della CRT sono meno
evidenti: nei pazienti con QRS ≥130 msec (in-
2. Le indicazioni all’applicazione di un Cardiovertitore-Defibrillatore (ICD) sono sostanzialmente definibili in tre gruppi:
5
dipendentemente dal tipo di difetto di conduzione), in classe NYHA III-IV e ridotta funzione
sistolica la CRT può essere applicata e dovrà
anche essere valutata l’abazione del nodo AV
per ottimizzare la percentuale di stimolazione
biventricolare.
c)Nei pazienti con indicazione convenzionale
all’elettrostimolazione; in questo caso la CRT
può essere applicata in prima istanza se la
funzione ventricolare comincia ad essere depressa ed è prevista una elevata percentuale
di stimolazione, oppure come upgrading di
un sistema già impiantato che ha determinato
una depressione della funzione sistolica del
ventricolo sinistro.
d) Infine la CRT può essere associata al defibrillatore (ICD) quando le indicazioni ai due presidi
terapeutici coincidono, soprattutto nell’ambito della prevenzione primaria alla morte improvvisa.
• come classe I (evidenza unanimemente accettata);
• come classe II (evidenza non unanimemente
accettata, con prevalenza nelle opinioni favorevoli per le IIa e prevalenza per le opinioni
critiche per le IIb);
• come classe III (unanimemente accettata la
“non indicazione”).
Sono anche indicate, per ogni indicazione, le
classi di raccomandazione:
• livello di evidenza A (generata da multipli
trials randomizzati o meta-analisi);
• livello di evidenza B (generata da un singolo
trial randomizzato o da multipli studi non-randomizzati);
• livello di evidenza C (posta da piccoli studi, registri, valutazioni retrospettive o da opinione
di esperti).
Allora, può avere una differente “forza” un’indicazione di classe I con evidenza A (indicazione
unanimemente accettata per l’evidenza espressa
da multipli trias randomizzati), rispetto ad una
indicazione “meno forte” di tipo IIb con classe di
evidenza C (indicazione raccomandata solo da
alcuni Autori sulla base di piccoli studi o di opinioni espresse da “esperti” del settore).
Inoltre nelle ultime linee guida è inserita la novità che siano espressi con più chiarezza gli elementi di guida per una corretta diagnosi e classificazione delle bradiaritmie che possono avere
indicazione al pacing cardiaco, e soprattutto le
indicazioni in merito al più corretto “tipo di pacing” da applicare. Anche il modo di proporre i
messaggi è preciso, proponendo quelli che sono
i “razionali” con l’analisi della principale letteratura che porta alle linee guida, intervallati da
“recommendations” e “clinical perspectives” che
ben esprimono sintetici “take home messages”
per il lettore.
Le ultime Linee Guida introducono quindi importanti elementi di novità.
L’approccio “per quadri di presentazione” alle
classi di indicazione aumenta la chiarezza e risponde pienamente allo scopo primario di fornire un supporto decisionale facilmente utilizzabile.
Per quanto riguarda il pacing tradizionale si sottolinea come buona parte delle indicazioni “antibradicardiche “ siano volte ad alleviare i sintomi
e siano quindi sostenute quasi esclusivamente
dalla presenza di sintomi.
Per quanto riguarda i defibrillatori invece l’importanza “salvavita” dei presidi è indubbia; resta
però ancora non risolto il problema della bassa specificità delle attuali indicazioni: necessità
quindi di applicare molti ICD (con costi molto
elevati per la società) per “salvare” un numero limitato di vite.
Le maggiori innovazioni riguardano invece la stimolazione biventricolare, ove si sono registrati i
maggiori progressi scientifici.
In ogni caso è molto evidente l’attenzione a
escludere le indicazioni a supporto delle quali
non vi siano chiare evidenze scientifiche.
Per una maggiore completezza riguardo alla
specifiche indicazioni si rimanda alle Linee Guida
(sopra indicate) dove vengono pubblicate chiare
Tabelle analitiche per ogni indicazione.
Come anche in altri settori della Medicina, anche
nel campo della elettrostimolazine cardiaca le indicazioni vengono sempre espresse:
Un problema comunque non risolto resta il fatto
che le linee guida vengono proposte su una base
puramente clinica e scientifica, come peraltro è
giusto che sia, ma prescindono completamente dagli aspetti di fattibilità e applicabilità delle
stesse nelle differenti situazioni economiche delle varie comunità nazionali.
In particolare l’attuale crisi economica, che anche
in Italia impone la necessità di “tagli di spesa” che
spesso vengono invocati nel settore sanitario,
accentua questo aspetto: da una parte la necessità clinica, e anche se si vuole medico-legale, di
non negare terapie appropriate a tutti i cittadini;
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dall’altra parte i costi spesso elevati che queste
terapie implicano, soprattutto se sono richieste
protesi di prezzo elevato (pacemaker, resincronizzatori e defibrillatori).
La scelta terapeutica dovrebbe essere quindi
anche condizionata dalla disponibilità di risorse
economiche? E quando questo diventa una necessità imprescindibile come può essere graduata la scelta?
Certamente potrebbero essere adottate strategie decisionali drastiche:
• per esempio limitare l’applicazione delle indicazioni alle classi I, dove sussiste la chiara ed
unanime indicazione;
• o estenderla anche alle classi IIa (dove le indicazioni sono raccomandate dalla maggior
parte della comunità scientifica);
• e non applicarle nelle classi IIb (dove le evi-
denze sono meno condivise).
Ma questa strategia dovrebbe essere ben chiarita a priori a livello Aziendale e Dipartimentale, in
modo da rendere uniformi e chiare le indicazioni,
che dovrebbero di conseguenza essere sempre
frutto di scelte condivise collegialmente dall’equipe cardiologica di ogni Centro.
Inoltre la tipologia di protesi da applicare dovrebbe essere personalizzata alla specifica condizione clinica, privilegiando le varianti meno
costose e limitando quelle più sofisticate e più
costose a particolari e definite situazioni cliniche.
Infine, la continua ricerca scientifica dovrebbe
essere indirizzata a migliorare la specificità delle
indicazioni, così da limitare la loro applicazioni a
pazienti che ne abbiano veramente bisogno.
BIBLIOGRAFIA
1. Brignole M, et al. 2013 ESC guidelines on cardiac pacing and cardiac
resynchronization therapy. The Task Force on cardiac pacing and resynchronization therapy of the European Society of Cardiology (ESC). Developed in collaboration with the European Heart Rhythm Association
(EHRA). Europace 2013; 15:1070-1118.
2. Vardas PE, et al. Guidelines for cardiac pacing and cardiac resynchronization therapy. The Task Force for Cardiac Pacing and Cardiac Resynchronization Therapy of the European Society of Cardiology. Developed
in collaboration with the European Heart Rhythm Association. European Heart Journal 2007; 28:2256-2295.
3. Dickstein K, et al. 2010 focused update of ESC guidelines on device
therapy in heart failure. An update of the 2008 ESC guidelines for the
diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure and the
2007 ESC guidelines for cardiac resynchronization therapy. European
Heart Journal 2010; 31:2677-2687.
4. Lunati M, et al. Linee guida AIAC all’impianto di pacemaker, dispositivi per la resincronizzazione cardiaca, defibrillatori automatici e loop
recorder. Update 2011. Giornale Italiano di Aritmologia e Cardiostimolazione, vol.14, n.1, Gennaio-Marzo 2011.
5. Occhetta E, Perego GB. Le nuove linee guida europee 2013 su pacing
cardiaco e terapia di resincronizzazione cardiaca: tra conferme e novità. Giornale Italiano di Cardiologia 2014; 15(4):215-220.
7
LEADING ARTICLE
Non solum sed etiam…
La ranolazina aumenta l’efficacia dell’amiodarone
nella cardioversione a ritmo sinusale
della fibrillazione atriale di recente insorgenza
Lara Baduena
SC di Cardiologia, Ospedale SS. Trinità, Borgomanero
[email protected]
INTRODUZIONE
Il ripristino del ritmo sinusale è il punto focale
della gestione dei pazienti che si presentano con
fibrillazione atriale, soprattutto se di recente insorgenza. L’amiodarone è attualmente raccomandato per la cardioversione farmacologica della
fibrillazione atriale di recente insorgenza, in particolare nei pazienti che presentino una depressione della funzione sistolica ventricolare sinistra, o
nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica. L’amiodarone, rispetto ad altri farmaci antiaritmici
efficaci nel ripristino del ritmo sinusale (es. classe
IC), presenta una minore potenzialità proaritmica
ed è utilizzabile con buon margine di sicurezza
anche in caso di cardiopatia strutturale; tuttavia
presenta un certo ritardo di azione che ne limita
l’efficacia in acuto, e degli importanti effetti collaterali (a livello polmonare e tiroideo in primis),
che ne possono invece limitare l’utilizzo a lungo
termine.
Prime indagini sperimentali su preparato animale,
hanno mostrato come la ranolazina, farmaco nato
come antischemico, possa avere effetti sulla stabilizzazione di membrana e quindi sull’interruzione della fibrillazione atriale attraverso l’inibizione,
selettiva a livello atriale, della corrente tardiva del
sodio (1).
Recenti studi hanno tradotto queste prime osservazioni sperimentali nella pratica clinica, dimostrando il ruolo potenziale della ranolazina nella
prevenzione della fibrillazione atriale in diversi
contesti (es. post intervento cardiochirurgico) e
nell’interruzione dell’aritmia refrattaria alla terapia antiaritmica tradizionale (2).
In modelli sperimentali, l’aggiunta della ranolazina all’amiodarone si è dimostrata efficace nalla
prevenzione della fibrillazione atriale e ne ha facilitato l’interruzione.
Dopo un iniziale studio pilota con una piccola
popolazione, che ha indicato i potenziali benefici
dell’azione sinergica dei due farmaci, se pur con
risultati non statisticamente significativi anche
a causa dell’eseguità del campione (3), gli Autori hanno disegnato questo studio per dimostrare
l’azione della ranolazina combinata all’amiodarone nell’interruzione della fibrillazione atriale di recente insorgenza, con una particolare attenzione
rivolta ai pazienti con riscontro ecocardiografico
di dilazione atriale sinistra.
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METODI
Si tratta di uno studio di un singolo centro, a singolo cieco, prospettico, randomizzato.
(dose carico di 5 mg/Kg in 60 min, seguita dall’infusione di 50 mg/h fino al ripristino del ritmo sinusale o per un massimo di 24 ore) o alla somministrazione di amiodarone alle dosi sopraindicate
e ranolazina 1500 mg in singola somministrazione al momento della randomizzazione. I pazienti
inoltre sono stati sottoposti ad ecocardiogramma da parte di un operatore esperto, in cieco, per
la valutazione delle dimensioni atriali (espresse
in termini di diametro ed area ricavate dalla proiezione 4 camere apicale).
Criteri di inclusione
Sono stati arruolati pazienti adulti, con fibrillazione atriale sintomatica per cardiopalmo, irregolarità del polso, disconfort toracico, dispnea,
astenia, insorta da meno di 48 ore e adeguatamente trattati con anticoagulante.
Criteri di esclusione
-controindicazioni alla ranolazina (utilizzo di
inibitori CYP3A, insufficienza epatica clinicamente rilevante)
-shock cardiogeno
-sindrome coronarica acuta
-embolia polmonare
-flutter atriale
-bradicardia sintomatica
-storia di malattia del nodo del seno o blocchi
atrio ventricolari
-severa valvulopatia
-QTc> 440 msec
-Portatori di pacemake
-Distiroidismo
-insufficienza renale end stage
-disionie non corrette
-precedente assunzione di ranolazina e/o assunzione di antiaritmici nelle precedenti 24
ore.
Endopoint di efficacia ed endopoint di sicurezza
Per quanto riguarda l’effiacia della combinazione
sono stati posti due endopoint.
•L’endpoint primario era costituito dal ripristino del ritmo sinusale entro le 24 ore (in caso
di persistenza dell’aritmia i pazienti venivano
successivamente sottoposti a cardioversione
elettrica al temine delle 24 ore di terapia farmacologica).
• L’endopoint secondario era costituito dal ripristino del ritmo sinusale a 12 ore, dalla velocità
di cardioverisone e dal mantenimento del ritmo sinusale senza recidiva di fibrillazione atriale nelle prime 24 ore.
Inoltre sono stati suddivisi i pazienti in due sottogruppi in relazione alle dimensioni dell’atrio
sinistro (diametro cut off 46 mm).
Per quanto riguarda invece la sicurezza sono stati
valutati paramenti clinici, pressione arteriosa, ecg
a 12 derivazioni, possibili reazioni avverse ed effetti proaritmici (tachicardie ventricolari sostenute, fibrillazione ventricolare e torsione di punta).
Disegno dello studio
I pazienti sono stati randomizzati (rapporto 1:1)
a ricevere una somministrazione di amiodarone
RISULTATI
Popolazione
Sono stati arruolati 121 pazienti, di cui 60 randomizzati ad amiodarone e 61 randomizzati alla
combinazione amiodarone + ranolazina. I due
gruppi erano sostanzialmente omogenei e sovrapponibli in termini di caratteristiche demografiche, cliniche (compresa cardiopatia strutturale alla base e terapia farmacologiche), ed
ecocardiografiche (dimensioni dell’atrio, funzione sistolica del ventricolo sinistro).
Efficacia
• La percentuale di pazienti a cui è stato ripristinato il ritmo sinusale è stata dell’87% nel gruppo amiodarone + ranolazina, versus un 70%
nel gruppo trattato con solo amiodarone (p=
0,024; figura 1).
• Il ripristino del ritmo sinusale a 12 ore è risultato significativamente più frequente in corso
di terapia combinata rispetto alla monoterapia
con amiodarone (52% vs 32% rispettivamente,
p= 0,021; figura 1).
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Figura 1. Percentuale di cardioversione farmacologica efficace con Amiodarone e Ranolazina versus
amiodarone a 24 ore (A) e a 12 ore (B).
•Una volta ripristinato il ritmo, il 100% dei pazienti trattati con terapia combinata rispetto
al 93% dei pazienti trattati con amiodarone ha
mantenuto il ritmo sinusale a 24 ore (p= 0,05).
•Il ripristino del ritmo sinusale è stato ottenuto
più rapidamente con la terapia di combinazione
(10,2 ±3,3 vs 13,3 ± 4,1 ore, p=0,001; figura 2).
Figura 2. Tempo necessario per ottenere il ripristino del
ritmo sinusale nei pazienti trattati con amiodarone e ranolazina versus pazienti tratatti con amiodarone.
• L’efficacia dell’aggiunta della ranolazina si è manifestata prevalentemente nei pazienti che presentavano dilatazione atriale sinistra (nei pazienti con diametro atriale sinistro > 46 mm la
percentuale di pazienti in cui è stato ottenuto il
ripristino del ritmo sinusale è stata dell’ 81% con
la duplice terapia vs 54% con amiodarone, p=
0,02, mentre non vi erano sostanziali differenze fra i due gruppi nel sottogruppo dei pazienti
con diametro atriale < 46 mm; figura 3).
Figura 3. Percentuale di pazienti in cui è stato ottenuto il ripristino del ritmo sinusale a 24 ore, in relazione al diametro dell’atrio sinistro ricavato dall’ecocardiografia transtoracica (< 46 mm a sinistra vs >
46 mm a destra) e in relazione alla terapia ricevuta
(amiodone + ranolazina versus amiodarone). B: andamento progressivo del ripristino del ritmo sinusale in relazione del diametro dell’atriu sinistro e del
trattamento ricevuto. Da notare come l’aggiunta della ranolazina induca una più rapida cardioversione e
come questo si manifesti in particolare nei pazinenti
con dilatazione atriale sinistra (LA= left atrium, atrio
sinistro).
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DISCUSSIONE
Sicurezza
•Due pazienti (uno in ciascun gruppo) hanno
manifestato una sospetta reazione allergica
immediatamente dopo l’avvio dell’infusione
dell’amiodarone,
•Sono state riscontrate ipotensioni transitorie,
rapidamente regredite con infusione di liquidi
in entrambi i gruppi, senza differenze significative (25% nella duplice terapie e 19% con solo
amidoarone)
• Tre pazienti nel gruppo di combinazione hanno manifestato dispnea e vertigini, verosimilmente imputabili alla ranolazina, gradualmente regredite
• Un paziente trattato con amidarone ha sviluppato flutter atriale prima del ripristino del ritmo
• Non ci sono stati casi di aritmie ventricolari in
nessuno dei due gruppi
•L’intervallo QTc si è allungato significativamente in entrambi i gruppi con un incremento
più accentuato nel gruppo in duplice terapia
(p=0,001). In nessun caso sono stati raggiunti
valori di QTc > 550 msec e in nessun gruppo si
sono verificate aritmie ventricolari.
Il trattamento della fibrillazione atriale è complesso e si articola attraverso molteplici punti di
snodo, primo tra tutti la decisione fra la strategia di controllo del ritmo o di controllo della frequenza, passando per la scelta fra i farmaci antiarimici classici, le terapie più invasive di ablazione,
fino alle terapie “upstream”. Trattare la fibrillazione atriale significa trattare l’aritmia o la frequenza cardiaca, trattare i sintomi, il substrato anatomico, funzionale, elettrico dell’atrio, combattere
con il rimodellamento strutturale ed elettrico,
trattare il rischio cardioembolico.
Gli sforzi della ricerca in questi ultimi anni sono
stati indirizzati, per quanto riguarda le aritmie
atriali, verso l’individuazione di agenti specifici per i canali ionici atriali, con l’obiettivo di ottimizzare l’efficacia clinica e di minimizzare gli
effetti collaterali. Inoltre, l’importanza attribuita
al rimodellamento atriale strutturale ed elettrico nell’insorgenza e nel mantenimento della fibrillazione atriale ha gettato le basi della terapia
upstream, che agisca anche a monte del fenomeno puramente aritmico. Da qui le analisi sull’efficacia degli ACE inibitori, dei sartanici, dei PUFA e
della ranolazina (4).
Come l’amiodarone, nato con l’idea di farne un
“farmaco antischemico”, così nuovi farmaci nati
come antischemici, stanno manifestando “attitudini antiaritmiche”. A cavallo fra le terapie antiaritmiche “tradizionali”, che comprendono i noti
farmaci antiaritmici secondo la classificazione
di Vaughan Williams, e le terapie “upstream” non
propriamente antiaritmiche ma che intervengono sulla patologia sottostante, sul substrato
atriale, sulla fibrosi, sull’ipertrofia, l’infiammazione e lo stress ossidativo, si trovano farmaci come
la ranolazina, la cui azione si esplica a livello dei
canali ionici.
LIMITI
Come dichiarato dagli stessi Autori, questo è uno
studio a singolo cieco e in un singolo centro.
L’epoca di insorgenza dei sintomi è stata stimata
dall’anamnesi del paziente (come peraltro avviene nella pratica clinica quotidiana) e non è stato
previsto un gruppo di pazienti trattato unicamente con ranolazina.
CONCLUSIONI
Gli Autori di questo studio hanno mostrato come
l’aggiunta della ranolazina a dosi elevate (1500
mg in singola somministrazione) all’amiodarone
a dosi standard, abbia favorito il ripristino del ritmo sinusale nei pazienti con fibrillazione atriale
di recente insorgenza ed in tempi più brevi, e abbia garantito il mantenimento del ritmo sinusale
senza recidive aritmiche nelle 24 ore successive.
L’effiacia nel ripristino del ritmo sinusale è stata
più evidente nel sottogruppo di pazienti con dilatazione atriale sinistra.
La combinazione farmacologica si è inoltre manifestata sicura, con nessun effetto proaritmico,
nonostante il verificarsi dell’atteso allungamento
dell’intervallo QTc.
Breve ripasso: la ranolazina e le correnti
ioniche (5)
La ranolazina è un derivato piperazinico approvato dal 2006 negli USA come terapia aggiuntiva
nel trattamento sintomatico dei pazienti con angina pectoris stabile, non adeguatamente controllata dalla terapia antischemica di prima linea.
La ranolazina riduce l’ischemia miocardica attraverso l’effetto inibitorio sulla corrente tardiva del
sodio , corrente la cui attività risulta aumentata
durante l’ischemia miocardica e lo scompenso
cardiaco. L’aumentata attività della corrente si
traduce in un aumento del sodio intracellulare
11
cui segue, mediante lo scambio sodio-calcio, un
aumento del calcio intracellulare con l’effetto di
aumento della tensione diastolica del ventricolo sinistro, del consumo di ossigeno miocardico,
perdita delle riserve di ADP e potenziale compressione dello spazio vascolare con ulteriore riduzione del flusso di sangue (6). A livello di membrana, inoltre, tale corrente induce instabilizzazione
elettrica attraverso le alterazioni della durata del
potenziale di azione e un’ aumentata suscettibilità
alle correnti post depolarizzanti precoci.
Gli effetti sulle correnti ioniche sono inoltre “sede-specifiche” con evidenti differenze tra tessuto
miocardico atriale e ventricolare (7).
Questo effetto di stabilizzazione della membrana ha portato all’idea di utilizzare la ranolazina
anche come antiaritmico. Studi sperimentali in
vitro hanno infatti mostrato che nei miociti atriali
isolati da atri in fibrillazione atriale, l’attività della
corrente tardiva del sodio era significativamente
aumentata e veniva allo stesso modo significativamente ridotta dopo terapia con ranolazina.
Tale effetto era nettamente ridotto nei miociti di
atri in rimo sinusale (8).
L’effetto di prolungamento del periodo refrattario post depolarizzazione, alla base dei fenomeni
antiarmitici, è più marcato a livello atriale che a
livello ventricolare.
La ranolazina agisce su numerosi correnti ioniche
fra cui: corrente rettificante tardiva I-Kr, corrente
tardiva del sodio (Ina late), corrente di picco del
calcio, scambiatore Na-Ca (9).
A concentrazioni terapeutiche le correnti ioniche
interessate dall’azione della ranolazina a livello
ventricolare sono la corrente tardiva del sodio
Ina e la corrente rettificante tardiva IKr. Gli effetti
sulla durata del potenziale di azione sono conseguenza del bilancio di queste azioni, del relativo
contributo alla ripolarizzazione delle correnti e
del tipo cellulare. L’inibizione della corrente IKr
prolunga la durata del potenziale di azione ventricolare e prolunga l’intervallo QT , mentre l’inibizione della corrente tardiva del sodio ha effetti
opposti con riduzione della durata del potenziale di azione. L’effetto netto dipende dal bilancio
di queste due azioni. Nelle normali cellule ventricolari endocardiche ed epicardiche prevale la
riduzione di IKr, mentre a livello delle cellule M
del miocardio e delle fibrie di purkinje prevale l’inibizione della corrente Ina. Questa diversa azione si traduce in una riduzione della dispersione
transmurale del potenziale d’azione e in un solo
modesto incremento dell’intervallo QT.
L’azione antiaritmica a livello atriale si esplica invece principalmente attraverso la riduzione della
corrente di picco del sodio (nell’ambito dei range terapeutici tale corrente a livello ventricolare
non è interessata).
Gli effetti della ranolazina sulla refrattarietà a livello atriale, in tutte le sue parti, avvengono in
maniera non-frequenza-dipendente, a differenza
di quanto avviene per altri farmaci (es dofetilide
e D-sotalolo) che agiscono sulla corrente IKr e a
dispetto dei risultati attesi dal blocco della corrente di picco INa.
Quasi esclusivamente a livello atriale inoltre la
ranolazina prolunga il periodo refrattario effettivo, aumenta la soglia di eccitazione diastolica e
rallenta la velocità di conduzione (10).
In sintesi, quindi, il meccanismo antiaritmico
che spiega l’effetto della ranolazina nella interruzione della fibrillazione atriale include
principalmente la corrente di picco del sodio
che riduce l’eccitabilità e questo porta ad un
prolungamento del potenziale di azione per
aumento della refrattarietà post ripolarizzaione. Il risultato è l’impossibiltà di una rapida
stimolazione atriale. La ranolazina inoltre riduce la frequenza dominante dell’FA , un indice
dell’organizzazione dell’FA e del successo della
cardioversione (10).
Dati sperimentali e clinici
Nello studio MERLIN-TIMI 36 (Metabolic Effeciency with Ranolazine for Less Ischemia in Non-ST-elevation Acute Coronary Syndrome- Thrombolysis in Myocardial Infarction 36), il trattamento
con ranolazina è stato associate ad un riduzione statisticamente significativa nell’incidenza
di aritmie sopraventricolari e ventricolari, non
spiegabile esclusivamente con la riduzione degli
eventi aritmici secondari alla ischemia. Sono state registrate anche meno bradiaritmie (bradicardie con fc < 45 bpm, blocchi totali, pause > 2,5
secondi) (11).
Successivi piccoli studi hanno mostrato efficacia
della ranolaziona in termini di interruzione di FA
parossistiche e di prevenzione di FA post intervento cardiochirurgico (12, 13).
Data la relativa sicurezza del farmaco, è stata
inoltre suggerita una terapia pill in the pocket
che prevede la somministrazione per os di 2000
mg di ranolazina e che ha mostrato una interruzione del 77% degli episodi di FA anche nei pazienti con cardiopatia strutturale. I risultati sono
incoraggianti, ma mancano studi.
12
Sicurezza
Dal punto di vista della sicurezza in termini di potenziale pro-arimtico, la ranolazina si è dimostrata sicura. Nonostante il blocco della corrente iKr
e l’atteso prolungamento dell’intervallo QT, non
sono state indotte torsioni di punta, neanche nei
pazienti affetti da LQTS 1-2 e 3 per via della azione relativamente più marcata sulla corrente Ina.
Il trattamento in acuto e in cronico hanno dimostrato un buon profilo di sicurezza, anche nei
pazienti con cardiopatia strutturale sottostante,
come cardiopatia ischemica acuta e cronica o
scompenso cardiaco. La sicurezza, anche in questi casi, è legata al blocco della corrente Ina più
selettivo a livello atriale, con riduzione, rispetto
ad altri antiaritmici (es classe IC) dell’effetto proaritmico ventricolare (14).
lo studio controllato in doppio cieco di fase 2
HARMONY che ha confermato l’azione sinergica anche con basse dosi di dronedarone nella riduzione del carico di fibrillazione atriale
espresso in termini di AFB= atrial fibrillation
burden.
Ranolazina ed amiodarone
Per quanto riguarda l’amiodarone, l’effetto sinergico delle due molecole è stata già dimostrata su
preparati animali (16) e su pazienti (3). La ranolazina infatti inibisce i canali del sodio prevalentemente in stato di attivazione e apertura, mentre l’amiodarone va a bloccare prevalentemente
quelli in stato di in attivazione.
Take home message: la combinazione
ranolazina+amiodarone
• È più efficace ai fini del ripristino del ritmo sinusale nei pazienti con fibrillazione atriale di
recente insorgenza rispetto al solo amiodarone
•Permette una cardioversione farmacologica
più veloce rispetto alla monoterapia
• Favorisce il mantenimento a distanza del ritmo
sinusale rispetto alla monoterapia
• Agisce prevalemente in pazienti che presentino già una dilatazione atriale sinistra
• Si è dimostrata sicura, senza potenziale proaritmico.
Ranolazina e dronedarone (15)
Studi su modelli sperimentali e preparati animali hanno mostrato un’importante sinergia di
azione di una relativamente bassa concentrazione di ranolazina in associazione alla terapia
cronica con amiodarone, o acuta con dronedarone. In un preparato canino l’associazione
di ranolazina e dronedarone ha interrotto la
fibrillazione atriale nel 90% dei preparati, vs
17% con solo dronedarone e 29% con la sola
ranolazina. A queste osservazioni è seguito
BIBLIOGRAFIA
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the management of atrial fibrillaition, J Electrocardiol 2009; 42: 543-8.
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setting of heart failure. Circ Heart Fail. 2014 Jul;7(4):627-33..
13
FOCUS ON...
Ranolazina,
fibrillazione atriale
e interventi farmacologici
A cura di Gabriele Dell'Era
SSC Universitaria di Cardiologia, AOU Maggiore della Carità, Novara
[email protected]
RANOLAZINA PER IL TRATTAMENTO DELLO SCOMPENSO CARDIACO DIASTOLICO
IN PAZIENTI CON FRAZIONE DI EIEZIONE PRESERVATA:
LO STUDIO PILOTA RALI-DHF
Contesto: Qual è l'impatto dell'inibizione della corrente tardiva del sodio mediante ranolazina sulla
funzione diastolica in pazienti con scompenso cardiaco a frazione d'eiezione preservata (HFPEF)?
monare (p=0,04) sono diminuiti nel gruppo
ranolazina, ma non in quello placebo. La pressione arteriosa polmonare media ha mostrato
un trend di decremento nel gruppo ranolazina,
significativo solo durante elettrostimoalzione
cardiaca alla frequenza di 120/min (p=0,02), ma
non in quello placebo. Questi cambiamenti si
sono verificati senza modificazioni della pressione telesistolica ventricolare sinistra o delle
resistenze sistemiche o polmonari, ma in presenza di un piccolo ma significativo decremento della portata cardiaca (p=0,04). I parametri di
rilasciamento (cioè tau e il tasso di decremento
della pressione ventricolare sinistra per minuto)
rimanevano inalterati. Dal punto di vista ecocardiografico, il rapporto E/E' non si modificava
significativamente dopo 22 ore. Dopo 14 ore di
trattamento, non si osservavano differenze significative nella valutazione mediante ecocardiogramma e test cardiopolmonare da sforzo.
Non si osservavano effetti significativi sui livelli
di NT-proBNP.
Metodi: Il RALI-DHF è stato un piccolo studio
pilota prospettico, randomizzato, doppio cieco,
controllato con placebo. I criteri di inclusione
erano FE >= 45%, un rapporto E/E' mitralico >15
o una concentrazione di NT-proBNP >220 pg/ml,
una pressione telediastolica ventricolare sinistra
(LVEDP) >= 18 mmHg ed una costante di tempo
di rilasciamento (tau) >= 50 ms. I pazienti venivano randomizzati a ranolazina (n = 12) o placebo
(n = 8). Il trattamento consisteva nell'infusione
endovenosa per 24 ore, seguita da un trattamento orale per 13 giorni. Il confronto di tutti gli endpoint di efficacia tra i due trattamenti è stato
effettuato con il test Wilcoxon Rank Sum.
Risultati: Dopo 30 minuti di infusione, LVEDP
(p=0,04) e la pressione di incuneamento pol-
14
Conclusioni: Gli autori concludevano che la ranolazina migliora i parametri emodinamici, ma
non gli indici di rilasciamento.
cardiaca. Tuttavia, dopo 14 giorni di trattamento
orale non si osservavano differenze significative
nelle misure noninvasive di funzione diastolica.
Dato il piccolo numero di pazienti arruolati e le
ipotesi multiple verificate, sono indicati più ampi
studi prospettici per validare l'effetto benefico di
ranolazina sugli indici emodinamici e per valutare i risultati clinici.
Prospettive: Questo studio pilota ha mostrato
che la somministrazione endovenosa di ranolazina per 24 ore in pazienti con HFPEF è sicura e migliora lievemente alcuni importanti indici di funzione diastolica, con un decremento della LVEDP
e della pressione di incuneamento polmonare a
riposo e un decremento della pressione arteriosa
polmonare media durante elettrostimolazione
Maier LS, Layug B, Karwatowska-Prokopczuk E, et al, RAnoLazIne for the Treatment of Diastolic Heart Failure in Patients With Preserved Ejection Fraction:
The RALI-DHF Proof-of-Concept Study, JCHF 2013;1:115-122.
RIVAROXABAN VS ANTAGONISTI DELLA VITAMINA K
PER LA CARDIOVERSIONE DELLA FIBRILLAZIONE ATRIALE
Contesto: L'X-VeRT è stato il primo studio prospettico randomizzato su un nuovo agente anticoagulante in pazienti con fibrillazione atriale da
sottoporre a cardioversione elettiva.
0,15-1,73). Nel gruppo rivaroxaban, 4 pazienti
hanno avuto l'evento primario di efficacia dopo
cardioversione precoce (0,71%) e due dopo cardioversione ritardata (0,24%). Nel gruppo VKA,
tre pazienti hanno avuto l'evento primario di
efficacia dopo cardioversione precoce (1,08%) e
due dopo cardioversione ritardata (0,93%). Rivaroxaban era associato con un tempo alla cardioversione significativamente più breve rispetto ai
VKA (p<0,001). Si sono verificati sanguinamenti
maggiori in 6 pazienti (0,6%) nel gruppo rivaroxaban ed in 4 pazienti (0,8%) nel gruppo VKA
(rapporto di rischio 0,76; intervallo di confidenza
al 95% 0,21-2,67).
Metodi e risultati: Sono stati assegnati 1504 pazienti a rivaroxaban (20 mg una volta al giorno,
15 mg in caso di clearance della creatinina 30-49
ml/min) o a antagonisti della vitamina K (VKAs)
in rapporto 2:1. Gli sperimentatori hanno selezionato una strategia di cardioversione precoce
(periodo target 1-5 giorni dopo la randomizzazione) o ritardata (3-8 settimane). L'outcome
primario di efficacia era un composito di ictus,
attacco ischemico transitorio, embolia periferica, infarto miocardico e morte cardiovascolare.
L'endpoint primario di sicurezza era il sanguinamento maggiore. L'endpoint primario di efficacia si è verificato in 5 (2 ictus) di 978 pazienti
(0,51%) nel gruppo rivaroxaban ed in 5 (2 ictus)
di 492 pazienti (1,02%) nel gruppo VKA (rapporto di rischio 0,50; intervallo di confidenza al 95%
Conclusioni: Il rivaroxaban orale appare un'alternativa efficace e sicura ai VKA e può consentire una cardioversione più rapida.
Cappato R, Ezekowitz MD, Klein AL, et al, Rivaroxaban vs. vitamin K antagonists
for cardioversion in atrial fibrillation, Eur Heart J. 2014 Sep 2. pii: ehu367.
[Epub ahead of print].
COSTO-EFFICACIA DI APIXABAN VS ALTRI NUOVI ANTICOAGULANTI
PER LA PREVENZIONE DELL'ICTUS IN FIBRILLAZIONE ATRIALE
Contesto: Quanto è costo-efficace apixaban rispetto a dabigatran e rivaroxaban in pazienti con
fibrillazione atriale (FA) non valvolare?
to dei dati di trattamento nei tre studi rilevanti
(ARISTOTLE: apixaban 5 md x2/die vs warfarin;
RELY: dabigatran 110 o 150 mg x2/die vs warfarin; ROCKET-AF: rivaroxaban 20 mg/die vs warfarin). I costi di salute diretti sono stati espressi
in sterline inglesi del 2011. È stato determinato
il rapporto incrementale di costo-efficacia (ICER),
espresso in rapporto agli anni di vita aggiustati
per qualità (QUALY) guadagnati.
Metodi: È stato impiegato un modello di Markov
per determinare l'impatto farmacoeconomico di
apixaban a confronto con gli altri due nuovi anticoagulanti (NOAC) in una ipotetica popolazione
di pazienti. È stato effettuato il confronto indiret-
15
Risultati: L'avvio di trattamento con apixaban
rispetto agli altri NOAC è risultato in proiezione
nell'occorrenza di meno ictus, meno episodi di
embolia periferica e meno morti cardiovascolari.
Il modello ha inoltre predetto meno sanguinamenti maggiori in pazienti trattati con apixaban
rispetto a rivaroxaban e dabigatran 150 mg, ma
non dabigatran 110 mg. Questi benefici dell'apixaban portavano a 0,18, 0,12 e 0,08 anni di vita
aggiuntivi e a 0,10, 0,07 e 0,05 QUALY aggiuntivi per pazienti a confronto rispettivamente con
dabigatran 110 mg, dabigatran 150 mg e rivaroxaban. L'ICER era di 4497£, 9611£ e 5305£ per
QUALY guadagnato, rispettivamente.
ti) hanno dimostrato la costo-efficacia di ciascun
NOAC rispetto al warfarin. Questi modelli sono
limitati da popolazioni e disegni degli studi in
qualche modo differenti nei tre studi principali
e dall'assunzione che possano non essere applicabili all'impiego quotidiano. Uno studio precedente aveva suggerito che apixaban possa essere il NOAC più efficace. In assenza di uno studio
definitivo che compari questi farmaci in un confronto testa-a-testa diretto, non è chiaro quale
sia superiore agli altri. Per ora, i clinici continueranno a utilizzare i criteri convenzionali nello scegliere un NOAC rispetto agli altri: profilo di effetti
collaterali, interazioni con antri farmaci, posologia, potenziale reversibilità, possibili benefici di
mortalità (apixaban) e rimborsabilità.
Conclusioni: gli autori hanno concluso che, in
una prospettiva inglese, l'apixaban può essere
una alternativa costo-efficace agli altri NOAC.
Lip GY, Kongnakorn T, Phatak H, et al, Cost-Effectiveness of Apixaban Versus
Other New Oral Anticoagulants for Stroke Prevention in Atrial Fibrillation, Clin
Ther 2014;36:192-210..
Prospettive: molti studi (tutti confronti indiret-
PREDITTORI DI EFFICACIA DELLA CARDIOVERSIONE CON VERNAKALANT
IN PAZIENTI CON FIBRILLAZIONE ATRIALE DI RECENTE INSORGENZA
Contesto: Vernakalant è un farmaco antiaritmico
atrio-selettivo capace di cardiovertire la fibrillazione atriale (FA) di recente insorgenza con un
effetto proaritmico riportato basso. I predittori
di efficacia della cardioversione sono largamente
sconosciuti. Abbiamo cercato di valutare i predittori clinici ed elettrocardiografici di cardioversione efficace con vernakalant di FA.
più elevato nelle donne che negli uomini (80%
vs 58%, p=0,02), mentre nessuna delle altre caratteristiche cliniche, compresa la durata dell'episodio indice di FA, poteva predire il ripristino
di RS. Il sesso femminile era predittore di efficacia del vernakalant nell'analisi di regressione
logistica (OR=2,82; CI 95% 1,18-6,76, p=0,020).
Non si osservavano differenze in AFR (350 +- 60
vs 348 +-62 fibrillazioni/minuto, p=0,893), ampiezza media delle onde fibrillatorie (86+-33 vs
88+-67 uV, p=0,852) o decadimento esponenziale (1,30+-0,42 vs 1,35+-0,42, p=0,376) tra i due
gruppi di cardioversione efficace/inefficace.
Metodi: Sono stati inclusi pazienti consecutivi
con FA <= 48h ammessi per cardioversione con
vernakalant (n=113, età mediana 62 anni, 69 maschi). E' stata considerata cardioversione efficace
la comparsa di ritmo sinusale (RS) entro 90 minuti dall'inizio dell'infusione. Sono stati valutati
i valori predittivi degli aspetti demografici, di terapia concomitante e comorbidità e di parametri
elettrocardiografici. Sono stati misurati dall'ECG
di superficie, utilizzando l'analisi di cancellazione
di QRST e di tempo-frequenza, la frequenza fibrillatoria atriale (AFR), il decadimento esponenziale
e l'ampiezza media delle onde fibrillatorie.
Conclusioni: Il sesso femminile è associato ad
un più alto tasso di ripristino del RS utilizzando
vernakalant endovenoso per FA di recente insorgenza. Gli indici ECG di organizzazione della FA,
che studi precedenti avevano associato all'effetto di interventi per il controllo del ritmo, non predicevano l'effetto di vernakalant.
Mochalina N1, Juhlin T, Ohlin B et al, Predictors of Successful Cardioversion
with Vernakalant in Patients with Recent-Onset Atrial Fibrillation, Ann Noninvasive Electrocardiol. 2014 Jul 9. doi: 10.1111/anec.12178. [Epub ahead
of print].
Risultati: La cardioversione è stata ottenuta nel
66% dei pazienti. Il tasso di cardioversione era
16
MEDICINA e MORALE
Il cuore sinonimo della vita
Prof. Paolo Rossi
INTRODUZIONE
Per millenni l'affascinante enigma dell'incessante pulsare del cuore è stato fonte inesauribile di
stupore, meraviglia e venerazione. L'uomo si è
spesso chiesto quale fosse la forza misteriosa del
principio vitale che mantiene il cuore in continuo
movimento e fa sì che il suo battere non si arresti
mai per tutta la durata dell'esistenza di un individuo. Fu subito chiaro che doveva sicuramente
trattarsi di una forza legata alla dinamica della
conservazione della vita, perché questa dura finché il cuore batte, mentre l'arresto cardiaco determina subito la fine di tutti gli altri movimenti dell'organismo, la morte fisica dell'individuo.
Non a caso, fin dalle epoche più antiche, la questione più affascinante della biologia, cioè l'enigmatica e stupefacente capacità di un organismo
di preservarsi dalla morte e di mantenersi in vita
per periodi di tempo relativamente lunghi, aveva trovato nell'incessante pulsare del cuore il suo
centro focale di riferimento.
La conoscenza dei meccanismi d'azione dell'energia che determina l'incessante e ritmico pulsare del cuore era ritenuta indispensabile per
comprendere la vita in generale, e i suoi tratti
distintivi in particolare. Già alla mentalità antica
era apparso chiaro che la soglia differenziale che
distingue il regno vivente da quello non vivente
risiedeva nel fatto che la materia vivente - come
ribadito da Erwin Schrödinger1 «si muove, scambia materiali con l'ambiente e così via, e ciò per
un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da
un pezzo di materia inanimata». Ed era proprio
in questa peculiare capacità di un organismo di
conservarsi a lungo in forze che maghi, astrologi,
sacerdoti e medici antichi scorgevano il vero lato
misterioso della vita. L'intero pensiero biologico
antico, ancor prima ed ancor più intensamente
dei toni enfatici di Schrödinger, partiva dall'originario riconoscimento che «è proprio in questo
suo evitare il rapido decadimento in uno stato di
inerte "equilibrio" che un organismo appare così
misterioso». E fin dalle epoche arcaiche l'incessante pulsare del cuore appariva la manifestazione più tangibile dell'abissale profondità di questo mistero della vita.
In quanto sede ed espressione di un'intrinseca
energia conservatrice, il cuore divenne presto sinonimo di vita e il suo spettro di significati si arricchì di tante accezioni e connotazioni quanti
furono gli spiriti, i tipi di anime e i princìpi vitali
con cui, di volta in volta, si tentò di spiegare il suo
1. Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger (Vienna 1887 –1961) è stato un fisico e matematico austriaco, noto per i suoi contributi alla meccanica quantistica, in
particolare per l'equazione d'onda, poi chiamata equazione di Schrödinger in suo onore, per la quale vinse il Premio Nobel per la fisica nel 1933.
17
incessante movimento. Nel corso della storia la
parola cuore subì via via tanti slittamenti semantici quanti furono i circoli astrali, i modelli fisici e
le celestiali entità a cui venne comparato, correlato e assimilato. Grazie alla complessità del suo
reticolo semantico, il cuore manifestò sempre una
potente carica metaforica convogliante simboli per lo più salvifici connessi all'immagine della
continua rigenerazione della vita. Intorno ad esso
ruotarono concezioni (cultuali ancor prima che
scientifico-culturali) soteriologiche2, antropologiche e psicologiche3, credenze religiose, precetti
etici, dottrine mediche e teorie dinamico-cosmologiche. La questione se il cuore sia il centro o il
principio primo ed egemone dell'organismo, e se
ad esso spetti la signoria suprema nell'organismo
stesso, si è sempre intrecciata - in una densa rete
di analogie, derivazioni, intersezioni ed influenze
reciproche - con la riflessione psicologica ed antropologica, contribuendo così a definire le concezioni complessive dell'uomo. Non è quindi affatto
sorprendente che dietro l'affascinante storia della
cardiologia antica si intravedano sempre i volti di
un uomo che vede nel suo cuore l'incarnazione
del suo naturale desiderio di rigenerazione continua e del suo incontenibile anelito all'immortalità.
principale e la fonte primaria della vita. Sangue,
fegato e cervello gli hanno spesso conteso con
successo il primato, nel senso che a queste parti
dell'organismo gli uomini hanno attribuito talvolta un valore superiore. Per esempio, presso
i Sumeri, gli Assiri e i Babilonesi, le popolazioni
delle più evolute civiltà dei grandi bacini fluviali,
prevalevano credenze di tipo ematocentrico.
La mitologia mesopotamica, infatti, oltre a
fornire una versione della creazione secondo
cui l'uomo discenderebbe dal sangue di un dio
impastato con l'argilla, assegnava al sangue la
funzione assolutamente primaria di depositario
delle forze magiche e delle energie cosmiche dotate del potere di mantenere l'organismo in vita
mediante l'incessante riattivazione dei processi
ciclici di rigenerazione. Senza sangue la vita non
solo non sarebbe mai sorta, ma non avrebbe avuto nemmeno alcuna possibilità di conservarsi nel
tempo. In questo orizzonte magico-mitologico la
parola sangue designava direttamente l'energia
misteriosa che possiede la capacità di far durare
a lungo nel tempo. Non si poteva perciò fare a
meno di ricorrere al sangue in tutti quei casi in
cui garantire lunga stabilità e durata si doveva4.
DALLE ANTICHE CREDENZE
CARDIOLOGICHE ALLA "PESATURA"
DEL CUORE
In quanto sinonimo di vita e di virtù rigeneratrice,
il cuore è stato uno dei soggetti principali dell'iconografia rituale e religiosa presso le popolazioni di
tutte le epoche. Con tutta probabilità la prima raffigurazione del cuore di cui siamo a conoscenza
risale ad un periodo compreso tra i quindicimila e
i diecimila anni fa. Si tratta del graffito di El Pidal,
nelle Asturie (Spagna), che rappresenta il cuore di
un proboscidato (elefante o mammut), la cui specie si estinse nell'era glaciale.
Per quanto frequentemente raffigurato a partire dai graffiti rupestri delle epoche arcaiche, il
cuore non è stato sempre considerato l'organo
2. Dottrina religiosa basata sulla fede nella salvezza spirituale dell'uomo.
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3. l termine antropologia deriva dal greco ανθρωπος,
uomo, e da λóγος, discorso. Il termine etnologia deriva da εθνος,
popolo o razza. Alla lettera,
antropologia significa dunque 'studio dell'uomo', etnologia significa 'studio dei popoli e delle razze'.
4. Rappresentazione di libagione al dio Šamaš (sumerico Utu; dio del Sole). La stele, proveniente da Susa e risalente al XXI secolo a.C. è oggi conservata al Museo
del Louvre a Parigi. Šamaš è raffigurato con una tiara ricca di corna e con un vestito a balze di lana; impugna gli strumenti della giustizia: il listello e la corda.
La figura a sinistra, probabilmente reale per il lungo abito cerimoniale, versa libagioni al dio in un vaso da dove spunta un palma. In alto il Sole, simbolo astrale
del dio. La stele probabilmente deve essere un monumento eretto in occasione della promanazione di raccolte di leggi.
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I patti, ad esempio, acquistavano perenne validità e immutabilità solo se venivano siglati con il
sangue. Analogamente si riteneva che lo spargimento del sangue di una vittima sacrificale nelle
fondazioni fosse l'unico modo per assicurare lunga durata agli edifici costruiti dall'uomo.
La completa equivalenza fra sangue ed energia
conservatrice della vita costituiva per le popolazioni mesopotamiche il fondamento assiomatico
della loro concezione fisiologica epatocentrica
e della loro salda fiducia nell'epatoscopia divinatoria. Il fegato, considerato l'organo emopoietico
per eccellenza, veniva assimilato a sangue coagulato e quindi a riserva di vita rappresa. Pertanto ad esso, e non al cuore, visto semplicemente
come la sede dell'intelligenza, veniva attribuita
la funzione di motore centrale dell'organismo, di
sorgente del sangue e di punto di origine delle
vene. Era quindi fin troppo ovvio che da simili
premesse discendesse l'incrollabile convinzione che salute, destino e durata della vita fossero
scritti fin dalla nascita nella configurazione, nel
colore e nella funzionalità del fegato. Questo,
in quanto privo di impurità, che si depositavano esclusivamente nella milza, risultava altresì
la parte del corpo più pura e quindi più adatta
a ricevere la rivelazione divina. Ed era quindi naturale ritenere che con un meticoloso esame del
fegato, l'operazione più delicata di tutta l'arte
aruspicina, si potessero direttamente conoscere
la volontà degli dèi, il futuro di ogni uomo e, in
definitiva, il tempo che ancora restava da vivere.
L'epatoscopia divinatoria, una pratica diffusa
tanto tra le popolazioni orientali quanto tra gli
Etruschi, sebbene sia considerabile come il primo passo dell'anatomia, si fondava su presupposti che dal punto di vista strettamente fisiologico
assegnavano al cuore un ruolo abbastanza secondario.
L'antica medicina indiana faceva del cuore la
sede dell'attività psichica e sviluppava un'interessante dottrina dei polsi, volta a delineare una
sorta di tipologia psicologica a sfondo cosmico
interessata all'individuazione delle predisposizioni lunari o solari dell'individuo in esame.
La medicina cinese, a sua volta, annoverava il
cuore nella classe degli elementi maschili yang e
ricorreva ad un meticoloso e minuzioso cerimoniale nella diagnostica dei vari polsi al fine di conoscere il grado di armonia fra i suoni emessi dai
dodici sistemi di vasi.
È però nella medicina egizia che si trova quello
che può essere considerato il primo trattato di
cardiologia di cui si abbia notizia storica. Nel più
antico documento cardiologico della storia, databile all'incirca intorno al 1500- 1400 a .C., cioè
nel papiro di Ebers , dal nome dello studioso tedesco che lo rinvenne alla fine dell'Ottocento, si legge: «L'inizio del segreto del medico: conoscenza
dei movimenti del cuore e conoscenza del cuore: in ogni membro vi sono vasi che partono da
esso. Così quando un medico, un chirurgo o un
esorcista mette la mano o le sue dita sulla testa,
sul dietro della testa, sulle mani, sul posto dello
stomaco, sulle braccia o sui piedi. Egli esamina il
cuore, perché tutte le membra posseggono i suoi
vasi: così esso [il cuore] parla attraverso i vasi di
ogni membro».
Non va affatto sottovalutata l'importanza di questo documento per la storia delle concezioni cardiovascolari, perché, anche se la descrizione dei
vasi è tutt'altro che esatta, l'individuazione del
cuore come centro del sistema cardiovascolare e
la stretta correlazione tra cuore e pulsazione dei
vasi costituiscono delle significative scoperte,
dei notevoli passi in avanti. Secondo i medici-sacerdoti egiziani nei vasi non scorre solo il sangue,
bensì anche l'aria, lo spirito vitale e tutti gli altri
liquidi organici: pertanto, a causa dell'identica
origine di tutti i vasi, dal cuore provenivano anche lacrime, sperma e urina: «Vi sono - leggiamo
nel papiro di Ebers - quattro vasi nelle narici, due
danno muco, due danno sangue [.]. Vi sono due
vasi per i testicoli; sono essi che danno il seme
[.]. Vi sono due vasi per la vescica: sono essi che
danno l'urina».
Come emerge da questa sommaria descrizione
del sistema vascolare i sacerdoti dell'antico Egitto, che svolgevano anche una funzione di medico e di esorcista, erano interessati più al cuore che al decorso del sangue e degli altri liquidi
nell'organismo. Sebbene la medicina egizia fosse
fondamentalmente pneumatica (a fondamento
della vita era posta la respirazione), il cuore era
ritenuto la parte più importante e più nobile
dell'organismo: «il cuore dell'uomo - reca scritto
un involucro di mummia - è il suo proprio Dio».
In effetti, nella cultura religiosa degli antichi egizi
si consolida una specie di “cardiolatria” che avrà
vaste risonanze nelle tradizioni mediche di tutti i
popoli del bacino mediterraneo e che assurgerà
al ruolo di archetipo ancestrale per l'impostazione delle dottrine fisiologiche e antropologiche di tutta l'antichità.
I medici-sacerdoti egizi ritenevano che il cuore,
il cui peso, a loro avviso, aumentava fino ai cin-
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quant'anni per poi diminuire progressivamente,
fosse la sede dell'intelligenza ancor prima che
delle emozioni e delle sensazioni. «La vista degli
occhi - recita sempre il papiro di Ebers - l'udito
degli orecchi, la respirazione dell'aria attraverso
il naso dipendono dal cuore; è lui che giudica e
la lingua annuncia ciò che il cuore ha percepito». Persino il dio Path, secondo la cosmogonia
menfitica, aveva concepito il progetto della creazione del mondo con il proprio cuore. Il centro
del sistema vascolare, d'altra parte, era presso gli
antichi egizi anche la sede dell' ab , cioè dell'anima destinata ad essere pesata dagli dèi sulla
terrificante bilancia del giudizio finale. Proprio
perché inseparabile dimora dell' ab, il cuore dei
defunti era oggetto di una cura ossessiva: o veniva lasciato al suo posto nel corpo del defunto
o veniva asportato e conservato nei canopi, i
preziosi vasi mortuari con coperchio a forma di
testa. La psicostasia, cioè la pesatura dell'anima
dei defunti eseguita dal tribunale dell'altro mondo al fine di stabilire chi avesse meritato con la
sua condotta terrena l'immortalità dei beati, non
era altro che la pesatura del cuore del trapassato.
Il cuore, infatti, era ritenuto l'incarnazione dell'intima e profonda coscienza del defunto e quindi il suo
testimone più sincero e severo. Nelle raffigurazioni
della psicostasia presenti in numerosi esemplari
del Libro dei morti , il trapassato viene sottoposto
al verdetto del supremo tribunale presieduto da
Osiride, coadiuvata da ben quarantadue inflessibili giudici. Il suo cuore viene posto sul piatto
di una bilancia che reca nell'altro piatto Maat,
l'implacabile penna divina che ha il compito di
scrivere il nome del defunto. Ai piedi della bilancia digrigna i denti la Divorante , un terrificante
animale pronto a sbranare il defunto in caso di
sentenza a lui sfavorevole.
Per evitare l'incubo del definitivo annientamento nelle fauci della Divorante si ricorreva ad un
talismano funebre di sicura efficacia: si collocava
al posto del cuore della mummia o nel suo pettorale un grosso "scarabeo del cuore", scolpito
generalmente in pietra dura. Nel lato piatto di
questo scarabeo era incisa la seguente invocazione rituale: «O cuore della mia essenza più intima! non volgerti contro di me come testimonio
davanti al tribunale, perché tu sei il dio che è nel
mio corpo, il creatore che fa vivere le mie membra». Tale invocazione serviva ad impedire al vero
cuore di testimoniare contro il morto nel fatidico
momento della psicostasia. La potenza magica
e l'incontrastabile efficacia operativa vantate allora dalle formule magico-rituali erano più che
sufficienti a garantire il silenzio del cuore, condizione indispensabile per raggiungere la salvezza.
Come in tutti i tempi, anche allora il completo
tacitamento del cuore, cioè della coscienza più
intima, era considerato l'unico espediente sicuro,
a disposizione della miseria umana, per meritare
al cospetto di dèi misericordiosi la vita eterna.
Attentamente analizzato, il simbolismo dello
scarabeo rivela un reticolo di rapporti analogici,
che si ritroveranno con lievi variazioni in tutta la
storia della cardiologia antica fino al Seicento. La
peculiarità di tale simbologia consiste nella collocazione del cuore al centro di una fitta rete di
corrispondenze con il sole e al centro di costanti
rinvii ai concetti di circolo e ciclo, di eterno ritorno e di rigenerazione spontanea. In effetti, la ragione per cui lo scarabeo (kheprer) assumeva nei
riti funebri la funzione di sostituto del cuore, o
di "cuore magico", consisteva nella sua speciale
affinità con il sole. L'intera esistenza dello scarabeo veniva infatti interpretata come una perfetta
emulazione del venerabile corso del sole. Proprio
perché nel suo singolare incedere seguiva la direzione del moto solare, lo scarabeo era ritenuto
la manifestazione del dio Khepri, il sole levante
che si rigenera e risorge dopo ogni notte.
Come il disco solare riemergeva dalle abissali
tenebre della notte, così lo scarabeo rinasceva
sempre dalla sfera costruita col materiale della
propria decomposizione. In Egitto, ricorda infatti
Plutarco, «si crede che la sua specie non possieda
scarabei-femmina, che siano tutti maschi e che
depositino la loro semenza in una specie di materia che fabbricano in forma di sfera e fanno rotolare spingendola con le zampe posteriori, imitando
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in questo modo la corsa del sole, che andando da
levante a ponente, sembra seguire una direzione
contraria a quella seguita dal cielo». Il cuore-scarabeo, la più perfetta emulazione e manifestazione della potenza solare sulla terra, alimentava una
sorta di cardiolatria declinata ormai nei termini di
cosmiche energie solari, di magiche circolarità o
di sfericità perfetta entro cui si compie il mistero
della completa rigenerazione di sé.
La più tragica e nefasta correlazione tra cuore e
sole di tutta la storia delle credenze cardiologiche si rinviene ancora, a distanza di secoli, tra le
popolazioni precolombiane della Mesoamerica
e in modo particolare tra gli Aztechi e i Maya.
Per almeno due millenni, dal V secolo a.C. fino
alla scoperta e conquista dell'America agli inizi
dell'epoca moderna, questi popoli compirono sistematicamente innumerevoli sacrifici umani al
solo scopo di offrire al dio sole i cuori palpitanti
appena strappati dal petto squarciato delle vittime sacrificali. Con questa agghiacciante offerta
essi celebravano in realtà un rito ritenuto indispensabile alla conservazione della vita in generale, cioè del bene comune più prezioso. Secondo il loro sistema di credenze, la vita era dono e
frutto del calore e dei moti del sole e l'individuo
pertanto esisteva solo in virtù della sua appartenenza all'impero del sole. Per sanzionare questa
radicale appartenenza, ogni levatrice, appena
afferrato il neonato dal grembo materno, gli urlava negli orecchi che il suo dovere primario era
quello «di dissetare e nutrire il sole» allo scopo di
mantenerlo in forze lungo il suo faticoso cammino attraverso il cielo.
Le popolazioni della Mesoamerica credevano
che il sole potesse recuperare le forze necessarie
per continuare a riscaldare e a vivificare la terra solo riappropriandosi delle magiche energie
che si sprigionavano dal cuore vivo e palpitante.
Di conseguenza, come ha scritto l'antropologo
J.G. Frazer, i sacrifici umani degli Aztechi «al sole
erano più magici che religiosi, avendo lo scopo
non tanto di piacergli e di propiziarselo, quanto
di rinnovare fisicamente le sue energie di calore, luce e moto. La costante richiesta di vittime
umane per nutrire il fuoco solare si soddisfaceva
muovendo guerra ogni anno alle tribù vicine e riportandone schiere di prigionieri che dovevano
essere sacrificati sopra gli altari. Così le continue
guerre del Messico e il loro crudele sistema di sacrifici umani, i più mostruosi che la storia ricordi,
derivavano, in gran parte, da un'errata teoria del
sistema solare; non si potrebbe dare esempi più
tangibili delle disastrose conseguenze che può
avere, in pratica, un errore puramente speculativo» (Il ramo d'oro, Torino 1973, vol. I, p. 127).
Tutta questa ecatombe di estrazioni di cuori pulsanti non servì né a rinvigorire le forze del sole,
né tantomeno a migliorare le conoscenze anatomiche. Un vaso-statuetta (scoperto recentemente in Messico e risalente alla prima metà del primo millennio a.C.) raffigurante un individuo il cui
intero corpo è costituito da un cuore, rappresenta, per quanto ne sappiamo, la migliore descrizione anatomica del muscolo cardiaco prodotta
da quella civiltà. Veramente poco a confronto
dell'alto prezzo pagato in vite umane per arrivare
a questa raffigurazione sommariamente "realistica" del cuore.
[continua nel prossimo numero]
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