UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici TESI DI LAUREA IL BIZANTINISMO ARTISTICO DEL DUECENTO VENEZIANO Relatore: Ch. ma Prof. ssa Giordana Trovabene Correlatore: Ch. mo Prof. Giorgio Ravegnani Laureanda Linda Santin Matricola: 824295 Anno accademico 2011-2012 INDICE PREMESSA CAPITOLO I VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO VENEZIA E BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA 1a – I rapporti politico-militari fra l’XI e il XII secolo 1b – L’integrazione della comunità veneziana nel quartiere di Costantinopoli 1c – L’influsso bizantino sulle istituzioni veneziane e il legame con la corte 1d – La IV crociata e il bottino veneziano CATALOGO ICONOGRAFICO CAPITOLO II ESPRESSIONI ARTISTICO-CULTURALI DUECENTESCHE NELLA PLATEA MARCIANA 2a – Il progetto di riqualificazione della piazza sotto il dogado di Sebastiano Ziani 2b – La chiesa di San Marco: architettura simbolo 2c – Gli interventi duecenteschi nella platea marciana 2d – Il bizantinismo artistico nel programma iconografico dei mosaici della basilica marciana e la fase duecentesca 2d 1 – L’Orazione nell’Orto 2d 2 – L’Apparitio Sancti Marci 2d 3 – Il mosaico del portale di Sant’Alipio 2d 4 – I Pinakes 2d 5 – I mosaici dell’atrio 2e - Ipotesi interpretative sui mosaici dell’atrio CATALOGO ICONOGRAFICO 2 CAPITOLO III BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA 3a – La scultura duecentesca in San Marco 3b - Sculture della facies marciana di probabile derivazione costantinopolitana giunte a Venezia all’indomani della IV crociata 3b 1 – La Quadriga 3b 2 – I Tetrarchi 3b 3 – Il Carmagnola 3b 4 – Ercole col cinghiale di Erimanto 3b 5 – San Demetrio 3b 6 – L’arcangelo Gabriele 3b 7 – La Vergine Orante 3b 8 – I rilievi duecenteschi della facciata nord: San Giovanni, San Marco, San Luca, San Matteo, Cristo in trono e i due cervi sotto gli alberi 3b 9 – I cosiddetti “Pilastri Acritani” 3b 10 -Tondo con imperatore bizantino 3c - Ipotesi interpretative sulla plastica marciana del Duecento CATALOGO ICONOGRAFICO CAPITOLO IV LE PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO CATALOGO ICONOGRAFICO CAPITOLO V LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E VENEZIA 5a – Gli smalti superiori della Pala D’Oro 5b – Venezia e l’Icona da devozione CATALOGO ICONOGRAFICO 3 CAPITOLO VI LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL DUECENTO VENEZIANO 6a – Breve introduzione sulle origini dell’arco rialzato e sua evoluzione nell’edilizia veneziana del Duecento 6b – La formazione della Piazza e lo sviluppo dell’edilizia di alto livello 6c – Origini delle Domus Magnae 6d – Lo sviluppo dell’arco rialzato in alcune delle più significative Domus Magnae a Venezia 6e – Interpretazioni conclusive sull’arco rialzato CATALOGO ICONOGRAFICO CAPITOLO VII LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO 7a - Il contesto marciano 7b - La pittura a fresco e su tavola a Venezia nel XIII secolo 7c - Gli affreschi della chiesa di San Giovanni Decollato 7c 1 -Descrizione e analisi degli affreschi di San Giovanni Decollato 7c 2 - Il San Michele Arcangelo ritrovato 7c 3 - Lettura e analisi degli affreschi di San Giovanni Decollato 7d - Interpretazioni conclusive sugli affreschi di San Giovanni Decollato CATALOGO ICONOGRAFICO 4 CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA Fonti Studi ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI REFERENZE FOTOGRAFICHE 5 PREMESSA Il processo che condusse Venezia all’autonomia da Bisanzio non comportò il venir meno dei legami fra le due città, le cui relazioni furono intense ancora per secoli. Dopo la caduta del partito filofranco e gli accordi di Aquisgrana dell’812, la sovranità bizantina non fu più messa in discussione a Venezia; tuttavia, la dipendenza del ducato lagunare dalla capitale nel corso del tempo registrò di fatto una progressiva attenuazione, in concomitanza col processo di acquisizione, da parte di questo, di sempre maggiori spazi di autonomia. Non è possibile indicare con precisione quando Venezia divenne indipendente; innanzitutto, perché l’acquisizione di questo nuovo status avvenne senza scosse violente tali da segnare una svolta epocale; in secondo luogo, perché Venezia continuò ad orbitare ancora per secoli intorno ad un sistema di valori tipicamente bizantino, tanto che si può parlare di un “bizantinismo veneziano”1, fenomeno articolato che investe non soltanto la dimensione politica, ma soprattutto quella culturale. L’impero di Bisanzio continuò a mantenere un rapporto politico e commerciale privilegiato con la città lagunare e a rappresentare per essa un modello di vita. Infatti, Costantinopoli non smise di essere considerata, vuoi per convinzione vuoi per convenienza, un importante referente politico. Gli aspetti del fenomeno indicato poco sopra come “bizantinismo veneziano” furono avvertiti con una relativa continuità fino al XII secolo. A partire da questo periodo, il legame politico con Bisanzio cominciò ad allentarsi fino a giungere all’aperta ostilità che culminò con la capitolazione dell’impero bizantino di fronte all’espansionismo occidentale. Da questo momento in poi, se Bisanzio smetterà di costituire il punto di riferimento politico per Venezia, non si esaurirà invece il suo forte e inconfondibile influsso culturale sulla città, che si farà sentire per tutto il corso del Duecento, manifestandosi in un vivacissimo movimento di idee, persone, opere d’arte. 1 G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia bizantina, II modulo, Venezia, 2007-2008, p. 22. 6 Ho iniziato il mio lavoro di ricerca con una breve introduzione storica che prende in considerazione i rapporti politico-militari fra Venezia e Bisanzio nel periodo antecedente la IV crociata e il processo di integrazione della comunità veneziana nel tessuto urbano di Costantinopoli, attestato fin dal 992, ma che si rafforzerà soprattutto grazie alle concessioni accordate con la crisobolla di Alessio I Comneno del 1082. Tale legame è ravvisabile nell’influsso che la capitale bizantina e in particolare la sua corte hanno esercitato sulle istituzioni veneziane delle origini. Il sistema della coreggenza, così come le cerimonie di investitura dei dogi veneziani e il conferimento agli stessi di dignità imperiali bizantine costituiscono una significativa testimonianza del fascino esercitato dalla capitale orientale sui governanti della città. In particolare, il bizantinismo artistico del Duecento veneziano è un fenomeno complesso e articolato che investe la città di Venezia in molteplici ambiti. Fra le diverse manifestazioni artistiche che hanno caratterizzato questo periodo, mi sono soffermata in particolare sul nuovo cantiere pubblico costituito dalla riapertura della fabbrica marciana. A tale proposito, significativo è il progetto di riqualificazione e gli interventi che si sono svolti in essa a partire dal dogado di Sebastiano Ziani. San Marco diventa l’architettura simbolo di tale processo di rinnovamento; il ricorso stesso, al prototipo dell’Apostoleion, esempio di grande architettura reliquiario e luogo delle sepolture imperiali, inserisce la cappella ducis in quell’articolato simbolismo delle forme, i cui spazi solenni e chiaramente delineati evocano i concetti fondamentali dell’architettura imperiale protobizantina interpretata in forme dispiegatamente auliche. Nel frattempo, oltre agli interventi che interessano l’apparato edificatorio, continua la realizzazione della decorazione musiva. Ho, quindi, preso in esame i mosaici duecenteschi, tra cui il grandioso pannello dell’Orazione nell’Orto, composizione ritenuta innovativa e “veneziana”, i due pannelli con l’Inventio e l’Apparitio, che lasciano intravvedere alcuni stilemi ravvisabili pure nei pannelli dell’Orazione dell’Orto. In particolare, l’aulicità dell’ambiente, la resa della scenografia e dei costumi dei personaggi, così come una certa monumentalità e il gusto per il colore, sono tutti aspetti che 7 contraddistinguono la decorazione musiva in San Marco nel XIII secolo e che vedranno la loro massima espressione nella pittura di Mileševa e di Sopočani. Anche i pannelli raffiguranti i Pinakes rappresentano una delle più significative testimonianze del rinnovamento artistico avvenuto a Venezia nel corso del Duecento. Allo stesso modo, il mosaico del portale di Sant’Alipio che descrive il trasporto del corpo di San Marco dentro la basilica diviene, per il suo importante valore storico e politico, uno straordinario medium di comunicazione di precise idee e ideologie. Contribuiscono al completamento della decorazione musiva della basilica i mosaici dell’atrio, che illustrano le storie dell’Antico Testamento. Realizzati nel corso del XIII secolo, essi presentano chiari riferimenti a un manoscritto costantinopolitano del V-VI secolo, la cosiddetta Bibbia Cotton, così come ad altri manoscritti illustrati di età paleologa. Se inequivocabile appare, dunque, l’influsso bizantino nella decorazione musiva duecentesca, tale matrice viene, tuttavia, assimilata e rielaborata da maestranze locali in grado di creare uno stile originale e innovativo, autentica espressione della volontà artistica veneziana del XIII secolo. Assai significativa, inoltre, è la serie di interventi plastici e di decorazione parietale lapidea che interessano la fabbrica marciana a partire dal primo Duecento. A tale proposito, ho analizzato l’intero apparato scultoreo che ha contribuito al completamento della facies della chiesa, grazie soprattutto alle spolia giunte a Venezia all’indomani della IV crociata che, reintegrate in San Marco, si sono caricate di nuovi valori simbolici e politico-culturali. Tra i trofei più importanti per il loro carattere trionfale vanno ricordati: la famosa Quadriga proveniente dall’ippodromo di Costantinopoli, il gruppo in porfido dei Tetrarchi, le porte di bronzo clatrate e altre spolia che, ricollocate nel cantiere marciano e soprattutto nella sua facciata principale, il frontespizio deputato alla rappresentazione della magnificenza, trasmettono inequivocabili messaggi di potere. Venezia, dunque, assurge al ruolo di porto di devozione che accoglie testimonianze e memorie sacre, atte spesso a rafforzare il prestigio e 8 l’immagine internazionale della città ducale, già sito apostolico per la presenza delle spoglie dell’evangelista Marco. Tra gli oggetti giunti a Venezia con il bottino costantinopolitano, i più preziosi sono andati a costituire parte del Tesoro di San Marco come la Pala d’Oro, opera di origine composita e di straordinario valore che, nel 1209, sotto il dogado di Pietro Ziani (1205-1229), fu ingrandita e arricchita con pietre preziose e smalti giunti a Venezia anch’essi da Costantinopoli. Di particolare interesse ai fini della nostra ricerca sono gli smalti, le sei grandi formelle che rappresentano le scene del Dodekaorton e uno smalto quadrilobo con l’Arcangelo Michele, sicuramente provenienti dal monastero del Pantokrator. Infine, fra le varie icone giunte a Venezia, l’immagine della Nicopeia, custodita e venerata in San Marco, rappresenta il principale riferimento pubblico di questa componente devozionale, interpretata come simbolo del trasferimento da Costantinopoli a Venezia della protezione e del sostegno della Gran Madre di Dio. Il bizantinismo artistico del Duecento veneziano fin qui analizzato non si limita al contesto marciano, ma si estende al di fuori di esso, dando luogo a ulteriori espressioni architettoniche e artistiche che presenteranno, comunque, alcune interessanti peculiarità. Fra queste, dal punto di vista architettonico, ricordiamo lo sviluppo dell’arco rialzato, che rappresenta una delle tante penetrazioni di gusto coscientemente accettate a Venezia; presente dapprima all’interno della basilica contariniana e nelle Procuratie Vecchie, esso diverrà elemento distintivo dell’edilizia veneziana duecentesca di alto livello e in particolare di alcune fra le più celebri Domus Magnae. Connotato essenziale dell’arco rialzato di I ordine è la presenza del piedritto, il rialzo della ghiera, che gli conferisce slancio, favorendo così l’elevazione dell’edificio. Il tratto estetico caratteristico di questo impianto è il ripetersi di arcate ad alto piedritto con prevalenza del vuoto sul pieno, che danno vita così ad una architettura “a giorno” con ampi e ariosi portici e logge. Esempi significativi di tale architettura comparvero a Venezia nel corso del Duecento in svariate case veneziane che presentano il piano nobile più o meno loggiato, come ca’ Farsetti, ca’ Loredan, o come il Fondaco dei Turchi – che 9 costituisce un caso particolarmente interessante – e altre costruzioni palaziali sul Canal Grande. Il processo di evoluzione dell’arco rialzato porterà alla nascita del II ordine (presenza della cuspide nell’estradosso) e del III ordine (presenza della cuspide sia nell’estradosso che nell’intradosso). Uno dei più significativi e rari esempi di casa-fondaco del XIII secolo dove è possibile notare tale evoluzione è ca’ da Mosto. È proprio nella facciata di questo palazzo sul Canal Grande che sta la novità nel trattamento dell’estradosso: per la prima volta, infatti, compare una cuspide nell’arco tondo (ordine II). Altri esempi di arco rialzato con estradosso cuspidato (II ordine) si intravvedono nella pentafora di primo piano e nella quadrifora di ca’ Falier o ancora, nella quadrifora di ca’ Soranzo. Esempi, invece, di arco rialzato più elaborato che presentano la cuspide sia nell’estradosso che nell’intradosso (III ordine) sono ravvisabili nella trifora della Domus Maior Querini, nel campo delle Beccarie, o nella quadrifora del secondo piano della proprietà Vitturi. Questi e altri esempi minori sparsi nella città evolveranno gradualmente verso gli archi inflessi, correttamente definiti dall’Arslam proto-gotici. Infine, per quanto concerne la produzione pittorica del XIII secolo, non emergono molte testimonianze relative all’attività di botteghe veneziane. Ciò nonostante, possediamo un esempio di pittura monumentale duecentesca di altissimo valore artistico: il ciclo di affreschi di San Giovanni Decollato. Fin dalla sua scoperta, esso ha suscitato l’interesse degli studiosi, che lo hanno interpretato in modi diversi. È interessante notare, in base all’analisi condotta finora, come tale ciclo di affreschi, seppur iconograficamente legato alla tradizione bizantina, introduca elementi innovativi che ricorrono nella pittura veneta del XII e XIII secolo. Tale ciclo è espressione del talento di un artista capace di attingere a un repertorio di fonti straordinariamente ricco e non solo legato alla cultura figurativa locale, bensì sensibile alle diverse tendenze elaborate in altri contesti culturali e figurativi. Venezia, infatti, all’indomani della IV crociata, è diventata un centro di grande ricettività sotto tutti i punti di vista, un soffondo di 10 commistioni stilistiche diverse, della cui originalità gli affreschi di San Giovanni Decollato rappresentano senza dubbio una delle più preziose testimonianze. 11 CAPITOLO I – VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO VENEZIA E BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA 1a – I RAPPORTI POLITICO-MILITARI FRA L’XI E IL XIII SECOLO La collaborazione politico-militare tra Venezia e Bisanzio fu da sempre essenzialmente dettata dalla coincidenza di obbiettivi fra il dominio territoriale di Costantinopoli e l’interesse veneziano a impedire il controllo della rotta adriatica da parte di una potenza ostile. Nel corso dei secoli tale collaborazione fu rivolta a contenere soprattutto l’espansionismo arabo, la pirateria slava che aveva le proprie basi nella costa dalmata e, da ultimo, l’aggressione normanna nei confronti dell’impero, condotta in seguito alla caduta dell’Italia meridionale bizantina. Quest’ultimo evento rappresenta uno degli avvenimenti più importanti per la storia di Venezia nella seconda metà dell’XI secolo e per la sua affermazione politica, poiché la porterà ad assumere un ruolo preminente nel commercio con l’Oriente. L’occasione arrivò in seguito ai fatti del 10812. Quando l’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) salì al trono bizantino la situazione dell’impero era disperata; il pericolo più immediato per il nuovo sovrano era rappresentato dalle mire del normanno Roberto il Guiscardo che, dopo la conquista dell’Italia meridionale, attaccò Bisanzio nel 1081 occupando Corfù e mettendo sotto assedio Durazzo. La minaccia normanna costituiva un pericolo mortale per la sopravvivenza stessa dell’impero e l’imperatore Alessio ricorse a misure straordinarie per cercare di risolvere il problema, facendo tra l’altro confiscare le proprietà della chiesa per procurarsi denaro e intraprendendo una serie di iniziative politiche e diplomatiche. Di fronte all’aggravarsi del pericolo egli non potè fare altro che ricorrere all’aiuto degli alleati (e quindi di Venezia) che, dopo alterne vicende, riuscirono a risolvere il conflitto, che si concluse nel 1085 con la morte del normanno Guiscardo e con la conseguente ritirata delle sue truppe. 2 , Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo, estratto da Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, II, L’età del Comune, Istituto della enciclopedia italiana fondata da G. Treccani, 1995, p. 33. G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo, cit., www.treccani.it/.../l-età-del-comune-l-avviotra-i-due-imperi-l-affermazione-politica-nel-XII-secolo (Storia di Venezia, dalle origini alla caduta della Serenissima, II, L’età del Comune, 1995). 12 La vittoria bizantina fu resa possibile soprattutto grazie all’aiuto militare di Venezia, che fu pronta ad intervenire in difesa del tradizionale alleato, ma lo fece a caro prezzo. Nel maggio3 del 1082 Alessio Comneno emise infatti una crisobolla4 a favore della città alleata, con la quale concedeva ampi privilegi in cambio dell’aiuto prestato e dell’impegno a fornirlo in futuro5. Il Comneno accordò pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale. Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti perché le esenzioni concesse permisero ai veneziani di raggiungere una posizione di preminenza nel commercio orientale, con vantaggi di gran lunga superiori rispetto a quelli acquisiti nel 992 con il sovrano bizantino Basilio II e che interessavano soltanto una riduzione di dazi. Ora, infatti, i privilegi economici riguardavano la facoltà, per i veneziani, di commerciare in gran parte dell’impero senza pagare tasse né essere soggetti al controllo dei funzionari marittimi; un vero e proprio salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia nel Levante. Altre concessioni riguardavano i titoli nobiliari conferiti al doge e al patriarca di Grado6. I dogi ottennero a titolo perpetuo la dignità aulica di “protosevasto” con il relativo stipendio, mentre ai patriarchi di Grado veniva concesso alle stesse condizioni il titolo di “ypertimos”. Il conferimento di titoli nobiliari non era una novità per i reggenti dello Stato veneziano, che già da qualche secolo erano soliti riceverli. L’usanza rientrava nella tradizione diplomatica bizantina e mirava a creare legami tra la corte imperiale e i sudditi o gli alleati. Nelle concessioni del 1082 vi erano tuttavia forti elementi di novità rispetto al passato: il titolo era superiore a quelli ottenuti dai veneziani fino a quel momento perché aveva carattere ereditario e poneva il doge sullo stesso piano 3 Secondo il Prof. Giorgio Ravegnani le considerazioni di S. Borsari (Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp.135-138) non lasciano dubbi sulla data di emanazione della crisobolla. G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo, cit., p. 34, www.treccani.it/.../l-età -del-comune-l-avvio-tra-i dueimperi-l-affermazione-politica-nel-XII-secolo. 4 Ivi, pp. 38-39. 5 G. Ravegnani, Dall’alleanza allo scontro in Bisanzio e Venezia, 2006 Bologna, p. 65. 6 G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, cit., p. 35, www.treccani.it/.../l-età -del-comune-l-avvio-tra-i due-imperi-l-affermazione-politica-nelXII-secolo. 13 della famiglia imperiale, dato che la dignità di protosevasto era stata conferita anche al cognato e al fratello di Alessio I Comneno. Le elargizioni in denaro comprendevano, invece, un versamento annuale di venti libbre d’oro che i veneziani potevano distribuire a piacimento nelle loro chiese. Ad ogni amalfitano, proprietario di una bottega a Costantinopoli o in altri territori dell’impero, era stato inoltre imposto di versare annualmente tre monete d’oro alla chiesa di San Marco a Venezia. Questo atto di sovrana munificenza rientra nel ben noto quadro di Eusebia Imperiale7 e ci fa capire come della chiesa ducale veneziana si fosse parlato presso la corte di Costantinopoli e come la stessa camera Sancti Marci8 fruisse di finanziamenti bizantini proprio al tempo del completamento dei lavori. Per quanto riguarda le concessioni immobiliari, a Durazzo i veneziani ottennero la chiesa di Sant’ Andrea e a Costantinopoli un intero quartiere lungo il Corno d’Oro (il porto naturale della capitale) comprensivo di tre scali marittimi e un forno adiacente alla chiesa di Sant’Achindino. Il quartiere veneziano si estendeva tra due porte della cinta marittima e comprendeva una serie di magazzini con locali sovrastanti. Le concessioni esorbitanti di Alessio I trovano una spiegazione nella situazione disperata in cui versava l’impero bizantino di fronte all’invasione normanna e nella modesta dimensione dei traffici veneziani che, al momento, non rappresentavano un pericolo per Bisanzio. L’importanza dell’avvenimento non sfuggì tuttavia a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa dell’imperatore Alessio I Comneno, la quale nell’Alessiade, raccontando la vita del padre Alessio I, così si esprime: “La maggior concessione fu l’aver reso il loro commercio esente da imposte in tutte le regioni soggette all’impero dei Romani, così che essi poterono liberamente esercitarlo a loro piacimento senza dare neppure un soldo per la 7 E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della Storia, Milano 2007, p. 28. 8 Il termine compare nel doc. del settembre 1074, in L. Lanfranchi (a c. di), Fonti per la storia di Venezia. Sez II. Archivi Ecclesiastici. Diocesi Castellana. S. Giorgio Maggiore, II, Venezia 1969, pp. 92-95. 14 dogana o per qualsiasi altra tassa imposta dal tesoro, in modo da essere al di fuori da ogni autorità romana” 9. Questi privilegi a favore dei veneziani furono messi in discussione dal figlio e successore di Alessio I, Giovanni II Comneno (1118-1143), che nel 1119 rifiutò agli ambasciatori di Venezia la conferma del trattato concluso con il padre. I motivi del rifiuto non sono del tutto chiari; secondo Giovanni Cinnamo, storico bizantino di una generazione posteriore, l’antipatia per i veneziani dipendeva dalla loro arroganza. Come conseguenza del mancato rinnovo vi fu un’incursione veneziana che portò al saccheggio di alcune isole imperiali, fra le quali Chio, da cui furono asportate le reliquie di Sant’Isidoro10 così che, nel 1126, il trattato alla fine venne rinnovato a favore dei veneziani. Anche il sovrano bizantino Manuele Comneno (1143-1180) ricorse di nuovo alla cooperazione militare di Venezia per contrastare i Normanni, che nel 1147 si erano impadroniti di Corfù, e rinnovò ancora una volta il trattato del 1082 concedendo nel 1148 un ampliamento del quartiere di Costantinopoli. Sotto questo sovrano, tuttavia, i rapporti veneto-bizantini iniziarono a guastarsi fino a quando, nel 1171, il Comneno fece arrestare tutti i veneziani presenti nell’impero e confiscare i loro beni. Questo avvenimento è ben noto e viene presentato in maniera opposta dalle fonti storiche bizantine e da quelle veneziane11. Si avviò così un lungo contenzioso con l’impero, che verteva essenzialmente sulla restituzione dei beni sottratti e il pagamento dei danni subiti. Manuele Comneno nel 1179 liberò parte dei prigionieri veneziani, ma ad un accordo si giunse soltanto con Andronico Comneno (1182-1185) che, nel 1183, rimise in libertà gli ultimi prigionieri ed emise a favore della città 9 Anne Comnène, Alexiade, I-II, a cura di Bernard Leib, Paris 1937-1943: II, p. 55. A distanza di trecento anni dalla translatio marciana, quella del corpo di Sant’Isidoro ripete nella sostanza della sua narrazione e nell’iconografia proposta dagli artisti attivi nella basilica le tappe dell’illustre modello fondativo dello stato veneziano, che più avanti ci occuperemo di approfondire. 10 11 Secondo Niceta Coniata, autore di una Storia che narra in ventuno libri i fatti avvenuti fra il 1180 e il 1206, Manuele I Comneno arrivò alla decisione dopo aver subito una serie di offese da parte dei veneziani e, in particolare, il rifiuto di risarcire i danni causati dall’assalto al quartiere genovese di Costantinopoli nel 1170. Secondo l’Historia Ducum Venetorum, opera anonima redatta in ambiente lagunare nel XIII secolo, l’imperatore agì con l’inganno e la premeditazione per impossessarsi delle ricchezze dei veneziani. G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia bizantina, II modulo, Venezia, 2007-2008, p. 22. G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, cit., p. 52. (www.treccani.it/.../l- , Storia di Venezia, 1995). 15 lagunare una lunga crisobolla, andata poi perduta, con cui ripristinava i vecchi privilegi e si impegnava a versare un risarcimento (cosa che fece soltanto in minima parte prima di perdere il trono). Le trattative continuarono quindi con Isacco II Angelo (1185-1195)12 con l’emanazione di altre tre crisobolle del 1187, destinate rispettivamente a riconfermare i privilegi di Alessio I, a garantire il possesso del quartiere e a stabilire un’alleanza politico-militare. A queste seguì poi una quarta crisobolla del 1189, relativa alla restituzione delle proprietà confiscate nel 1171, in cambio delle quali i Veneziani ottennero un ampliamento del quartiere e un risarcimento dei danni che ancora non era stato completato. Un altro trattato fu infine concluso con il nuovo imperatore Alessio III Angelo13 nel 1198, ma anche questo si limitò alla riconferma dei precedenti e all’aggiunta di altre clausole minori senza risolvere la questione pendente del risarcimento. La precarietà del rapporto con Venezia e il cambiamento della situazione politica in Occidente14 indussero papa Innocenzo III a riprendere con decisione il progetto di crociata e le sue aspirazioni spirituali vennero a coincidere con quelle puramente politiche del doge Enrico Dandolo, intenzionato a riaffermare la supremazia veneziana su Bisanzio. Fu probabilmente anche questa una delle motivazioni che spinsero i Veneziani a dirottare a Costantinopoli la IV crociata (1202-1204), che culminò con la conquista e il saccheggio occidentale della città15. 12 G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo in estratto da Storia di Venezia dalle Origini alla caduta della Serenissima, cit., p. 66. (www.treccani.it/.../l- , Storia di Venezia, 1995). 13 Ivi, p. 67. 14 Dopo la morte di Enrico VI, l’impero occidentale si era di fatto disgregato nella lotta civile che contrapponeva Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick, senza più condurre una propria politica in Italia. Di questa situazione approfittò la forte personalità di papa Innocenzo III. G. Ravegnani, L’aristocrazia militare al potere (1081-1204) in Introduzione alla storia bizantina, Venezia, 2004-2005, p. 107. 15 G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia bizantina, II modulo, Venezia, 2007-2008, p. 13. 16 1b - L’INTEGRAZIONE DELLA COMUNITÀ VENEZIANA NEL QUARTIERE DI COSTANTINOPOLI L’attestazione di una presenza venetica nella capitale d’Oriente è antica. Già la crisobolla degli imperatori Basilio II e Costantino VIII del 992 accenna all’inserimento nello spazio urbano di Costantinopoli della comunità veneziana, anche se è soltanto dal 1082, data delle concessioni accordate con la crisobolla di Alessio I Comneno, che si hanno notizie più certe. Come è noto, infatti, fra gli ampi privilegi accordati ai veneziani in quell’occasione vi era anche la concessione di un quartiere a Costantinopoli, sul tratto della riva sud-occidentale del Corno d’Oro, in un sito portuale di grande importanza, in prossimità del Neorion.16 Il quartiere era collegato direttamente con la zona centrale della città (Eski Bedesten, primo nucleo del Gran Bazar) attraverso un’ antica via commerciale, il Makros Embolos17. Si trattava dunque di un quartiere densamente abitato e ben articolato nella sua struttura economica, una vera e propria zona di tramite funzionale fra approdo e rete di commercializzazione. Se il primo nucleo di formazione di età comnena non si estendeva fino alle acque del Corno d’Oro, sullo scorcio del XII secolo, a seguito di nuove concessioni da parte di Isacco II Angelo (1189), tale nucleo venne attrezzato in rapporto alle funzioni marittime mediante un sistema di ben tre scali (necessari per la partecipazione venetica) a difesa del potere militare marittimo bizantino. La crisobolla del 1189 prevedeva, inoltre, che la costruzione e l’armamento della flotta avvenissero a Venezia, in base a precise garanzie circa la qualità degli scafi, la cui costruzione sarebbe dovuta avvenire sotto la sorveglianza di un sopraintendente, a cui venivano affidati i lavori da eseguire su cinque galere messe in cantiere. Dall’insieme delle fonti risulta che si trattava di un quartiere abitato da greci, oltre che da veneziani, seppure sottoposto al controllo di questi ultimi. 16 Neorion o Portus Neorii: Constantinople Byzantine. Développement urbain et répertoire topographique, Paris 1964, pp. 245-236; W. Mullerwiener, Bildlexikon zur topographie Istambuls, Tübingen, 1977, pp. 57-59. 17 E. Concina, Il quartiere veneziano di Costantinopoli, in AUTORI VARI, L’eredità greca e l’ellenismo veneziano, Firenze 2002, p. 158. 17 Nella fase più antica dell’insediamento veneziano a Costantinopoli appare stretta la connessione tra l’organizzazione civile della comunità e del quartiere e gli edifici religiosi che vi sorgono, in particolare per quanto riguarda la chiesa di Sant’Achindino: “Posita in regali urbe Costantinopoli”, definita nel 1107 dal doge Ordelaffo Falier, di diritto e di pertinenza del proprio palazzo come già anticamente, per quanto di concessione imperiale; nella stessa data viene concessa in beneficio al patriarca di Grado, insieme con il tesoro, i palii e i libri sacri che le appartengono, e assomma in sé diverse funzioni oltre a quelle di culto18. Sant’ Achindino era una chiesa molto importante perché proprietaria del forno di contrada, il nodo primario dell’autonomo sistema alimentare della zona. Era chiesa parrocchiale, accoglieva le misure di peso della mercatura e in questo va osservata un’affinità con la chiesa di San Giacomo del mercato di Rialto a Venezia, dove l’importante iscrizione cruciforme, invocando il nome del Signore, raccomanda l’onestà ai mercanti, la precisione dei pesi, la lealtà delle contrattazioni19. Il suo prete, inoltre, era un notaio pubblico, una figura culturale di spicco. I preti-notai sono presenti a Costantinopoli già dal 1022 e molti appartengono a famiglie aristocratiche. Solo più tardi, come emerge da documenti del 1136, il punto di riferimento collettivo della comunità veneziana nell’Oriente bizantino diverrà la chiesa di San Marco de Costantinopoli o nostri Emboli de Costantinopoli o de Embolo Veneticorum, dipendente dal monastero benedettino di San Giorgio Maggiore. Prima della metà dello stesso secolo, nel quartiere saranno attestati ancora due edifici religiosi, la chiesa di San Nicolò de Venetorum e la chiesa di Santa Maria de Embolo20. Tutto ciò prova non soltanto il progressivo radicamento della comunità veneziana nel tessuto urbano costantinopolitano prima della IV crociata, ma testimonia anche la forte organizzazione del quartiere e la tendenza di questo ad assimilarsi al confinium, alla contrada della città lagunare. E, mediante 18 G.L.F. Tafel-G. M. Thomas; Urkunden zur alteren Handels- und Staatgeschichte der Republik Venedig, Wien 185657, I, pp.67-74; ASV, Codice Diplomatico Lanfranchi, 1100-1115, n. 441, p. 98. 19 R. Cessi-A. Alberti, Rialto. L’isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, pp. 20-21. 20 S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 38-39. 18 l’intitolazione, poco diffusa in area bizantina, e i toponimi che si richiamano a San Marco, documenta l’emergere di una netta volontà di affermazione della propria autonoma identità21. Del resto, nonostante gli avvenimenti relativi agli scontri e alle violenze del 1171 (quando Manuele I ordina l’arresto di tutti i veneziani presenti nell’impero e confisca i loro beni) e del 1182 (l’episodio del massacro dei Latini, soprattutto Genovesi e Pisani, da parte della folla aizzata dagli agenti imperiali sotto il governo di Andronico I Comneno), nell’ultimo quindicennio del XII secolo l’insediamento venetico sul Corno d’Oro non solo riprende pienamente la sua funzionalità, ma anche si espande verso la riva, aggregandosi quelli che erano stati gli spazi dei francesi e degli alemanni. In questo modo, tramite una presenza molto attiva e via via sempre più strutturata, forme e modelli della civiltà bizantina poterono essere conosciuti, comparati ed eventualmente assunti dalla comunità mercantile veneziana in Costantinopoli. Lo scambio veneziano e l’integrazione dei venetici insediati più o meno a lungo in Costantinopoli risulta siano stati intensi e tutt’altro che superficiali. Niceta Coniata (1155 ca-1217) delineerà un quadro eloquente della situazione: “a sciami e tribù cambiarono la loro città con Costantinopoli; da qui sono disseminati ovunque nei domini dei romani e anzi appaiono integrati e Romani in tutto e per tutto, prosperando confusi in mezzo a loro”22. Non si tratta soltanto dei mercanti e dei loro comportamenti, bensì di un aspetto non sempre preso in considerazione e che riguarda le tracce di vita intellettuale nel quartiere venetico del Perama: la presenza di personalità in grado di dialogare e interloquire con il mondo degli eruditi e dei teologi di Bisanzio23. Fra l’XI e il XII secolo nel quartiere veneziano vivono Jacopo Veneticus, filosofo e primo traduttore in latino di Aristotele, e Moisè da Brolo, possessore di una grande biblioteca di manoscritti greci e autore di scritti teologici e grammaticali. Di lui si hanno interessanti notizie grazie ad una lettera scritta al 21 E. Concina, Il quartiere veneziano di Costantinopoli, in AUTORI VARI, L’eredità greca e l’ellenismo veneziano, cit., p. 162. 22 N. Coniata, Grandezza e catastrofe di Bisanzio, I, trad. di A. Pontani, Verona 1994, p. 391. 23 E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura- Le cornici della storia, cit., p. 32. 19 fratello, con il quale si lamenta per la perdita di alcuni importanti manoscritti greci, raccolti con fatica, in seguito ai danni causati alla sua casa dall’incendio di Costantinopoli del 1130. Entrambi, Jacopo e Moisè, da quanto risulta, furono coinvolti nelle dispute teologiche costantinopolitane e vengono ricordati come uomini colti e dotati di una profonda cultura letteraria24. Figure erudite come quella di Jacopo Veneziano e Moisè da Brolo sono dunque significative di una forte vitalità culturale e ci mettono a disposizione indizi interessanti sul fermento e sulla compenetrazione artistica e letteraria che era in atto nel quartiere veneziano di Costantinopoli tra l’ XI e il XII secolo. 24 Anselmo di Avelberg, 1136, in P. Schreiber, L’importance culturelle des colonies occidentales en territoire byzantin, pp. 288-293, in M. Balard, A. Ducellier (a c. di), Coloniser au Moyen Age, Paris 1995. 20 1c - L’INFLUSSO BIZANTINO SULLE ISTITUZIONI VENEZIANE E IL LEGAME CON LA CORTE Nei primi secoli della Repubblica di Venezia, quando il potere del doge somigliava sempre più a quello di un monarca assoluto, le grandi famiglie patrizie, nel tentativo di rendere ereditaria la successione al trono ducale, fecero ricorso a un meccanismo già adottato dagli imperatori bizantini: il sistema della coreggenza, che consentiva al doge in carica di associare al suo potere un collega di pari grado che potesse succedergli sul trono ducale. A introdurre a Venezia la coreggenza fu Maurizio Galbaio25 (764-787), che si associò al potere il figlio, ma essa fu abolita nel 1032, quando venne emanata la prima legge costituzionale dello Stato veneziano, che proibiva al doge tale tipo di associazione, in quanto essa tendeva a conferire all’istituto ducale un carattere dinastico. L’influsso esercitato da Bisanzio sulle istituzioni veneziane delle origini attenne alla forma, oltre che alla sostanza, poiché per la cerimonia dell’investitura i dogi presero a modello il rituale della corte bizantina, nel quale l’imperatore rivestiva l’associato delle insegne primarie della regalità, il manto di porpora e la corona. Pur non disponendo di notizie certe sul rito dell’investitura a Venezia, dove pare comunque che esso fosse molto semplificato rispetto a quello bizantino, nelle notizie che Giovanni Diacono ci fornisce riguardo al passaggio di poteri fra Giovanni II Partecipazio e Pietro I Candiano26, avvenuto nell’887, troviamo un preciso riferimento alle insegne di origine bizantina: spada, bastone e seggio27. Tali cerimonie di investitura si andarono via via modificando nel corso del tempo, di pari passo con l’evoluzione politica del ducato veneziano e il suo 25 G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../Porphira11.pdf, giugno 2008, rivista online a cura dell’Associazione culturale Bisanzio, p. 13, G. Ravegnani, Investitura e insegne ducali in Insegne del potere e titoli ducali, estratto dal vol. I, Storia di Venezia, (1992), http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianzeinsegne-de l-potere-e-titoli-ducali_. 26 G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../ cit., p. 14. 27 Giovanni Diacono racconta: “Quindi, poiché sua signoria il duca Giovanni era ancora affetto da infermità e suo fratello Orso aveva rinunciato al ducato, il diciassettesimo giorno del mese di aprile (887), i venetici elessero duca Pietro, di cognome Candiano, di fronte a casa sua. Sua signoria il duca Giovanni lo convocò con clemenza a Palazzo, gli consegnò la spada, lo scettro e il seggio, lo nominò suo successore e si ritirò nella sua casa”. G. Diacono, III, 32, http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegne-del-potere-e-titoli-ducali_. 21 processo autonomistico. Il rito di proclamazione di Domenico Selvo, nel 1071, appare infatti molto più solenne. La cerimonia inizia a San Nicolò del Lido e termina in San Marco, dove il doge si prostra sul pavimento eseguendo una tipica proskynesis28 di derivazione costantinopolitana, così come di derivazione orientale è la formula con cui viene acclamato. Il rituale della Proskinesis era una rappresentazione dell’adorazione che ogni suddito era tenuto a manifestare nei confronti del proprio sovrano e che lo stesso imperatore riservava al suo sovrano celeste, per ribadire il rapporto tra il divino e l’autocrator, tra la divinità e l’imperatore isapostolos, in un luogo architettonico altamente qualificato, spazio cerimoniale e simbolico, teofanico ed epifanico, quale appunto la chiesa di Santa Sofia29. Una volta eseguita la proskynesis, il Selvo riceveva simbolicamente l’investitura del Santo assumendo il baculus dall’altare. Il baculus era la più importante delle insegne ducali, emblema di potenza e di autorità, e ad esso si attribuiva un valore quasi carismatico, come prova chiaramente il fatto che la parte più solenne della proclamazione di Domenico Selvo consistesse nell’assunzione di questo sull’altare di S. Marco30. Tale insegna, tuttavia, va soggetta ad una significativa evoluzione che è stata correlata all’evolversi del potere ducale; nel corso del XII secolo, con il processo di esautorazione dei poteri regalistici del doge, nella nuova procedura di investitura il baculus era infatti scomparso per essere sostituito con il vessillo del ducato31. Comparvero nel corso del tempo altre insegne, in misura inversamente proporzionale alla diminuzione dei poteri del duca32. Il baculus, tuttavia, non 28 G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia Bizantina, parte II, cit., p.14. G.Ravegnani, Investitura e insegne ducali, cit, http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegnede l-potere-e-titoli-ducali_. 29 E. Concina, Le arti di Bisanzio, Milano 2002. 30 G.Ravegnani, Investitura e insegne ducali, cit., http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianzeinsegne-de l-potere-e-titoli-ducali_. 31 Il vessillo ducale si lega simbolicamente alla comunità e non più, come il baculus, all’autorità personale del doge. Non sappiamo con certezza quando il cambiamento sia avvenuto, ma vi è ragione di credere che abbia avuto luogo con l’elezione di Pietro Polani nel 1130, in occasione dei nuovi assetti interni assunti dal ducato. G. Ravegnani, Insegne del potere e titoli ducali, Capitolo I, in Estratto dal Vol. I, Storia di Venezia,1992, p. 836, G. Ravegnani, Investitura e insegne ducali, cit., http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegne-de l-potere-e-titoli-ducali_. 32 “Quanto più diminuiranno gli originari poteri regalistici del doge - scrive ancora il Pertusi - , a beneficio della comunità e dello stato, tanto più aumenteranno le insegne dello stesso doge,cioè di colui che impersonava il simbolo dello stato veneziano”. Ivi, p. 837. G. Ravegnani, Investitura e insegne ducali, cit., http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegne-de l-potere-e-titoli-ducali_. 22 scomparve del tutto,33 ma venne associato al giudice supremo del ducato come insegna della sua facoltà di giudicare34. La cerimonia proseguiva, infine, con la ricezione dello scettro e si concludeva, come a Bisanzio, con altri atti rituali che portavano il doge a Palazzo per il giuramento e la distribuzione del denaro al popolo. Nello stesso periodo, inoltre, fu introdotta un’importante novità nel conferimento di titoli nobiliari bizantini ai dogi di Venezia. Nel 1082, Domenico Selvo ricevette da Alessio I il titolo di protosevastos, conferitogli nel quadro di un nuovo trattato con l’impero. Da occasionale, come era stata fino a quel momento, la dignità divenne ereditaria, trasmissibile cioè da un doge all’altro, e ad essa si aggiunse uno stipendio, o roga, che sostituì le donazioni, esse pure occasionali fino ad allora. Anche quando nel 1084 Domenico Selvo venne deposto e il titolo passò al suo successore Vitale Falier, egli continuò comunque a fregiarsi della dignità imperiale, seguendo l’usanza bizantina, in virtù della quale i titoli non erano revocabili se non dall’imperatore e si estinguevano solo con la morte del titolare. L’attribuzione di titoli imperiali, in Italia, fu un privilegio condiviso dai duchi di Venezia, Napoli, Amalfi e Gaeta. La dignità palatina veniva concessa dagli imperatori di Bisanzio ai governanti stranieri per gratificarli e garantire un Vediamo così comparire dapprima il circulus aureus intorno al berretto, poi “la corona preziosa attorno al corno ducale di broccato d’oro, poi il camauro, poi l’ombrello in tessuto d’oro, poi il vestito anch’esso tutto d’oro, le calze rosse, le scarpe nere punteggiate d’oro e di porpora, le trombe d’argento, gli stendardi, il bucintoro e via dicendo”. A. Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, “Studi Veneziani”, 7, 1965, p. 121. 33 Lo ritroviamo in mano al duca veneziano nel 1204, allorché Enrico Dandolo e il neo-eletto imperatore latino di Oriente, Baldovino di Fiandra, entrarono nel palazzo imperiale. “Tutti do [si legge in una tarda cronaca] portava la bacheta in man con le sue spade avanti chadauno de loro”. Ivi, p. 82. 34 Seggio e spada, al contrario, vennero conservati, ma non ebbero più lo stesso valore simbolico. L’iconografia non ci è di grande aiuto per le più antiche insegne ducali. Alcuni dei mosaici marciani duecenteschi costituiscono invece, come vedremo in seguito, una testimonianza significativa per l’analisi delle insegne del potere e dei titoli ducali - basti pensare ai mosaici dell’Inventio (fig. 1) e dell’Apparitio (fig. 2), così come al mosaico (fig. 3) della lunetta di Sant’Alipio - le insegne che, comunque, in essi compaiono sono probabilmente identiche a quelle precedentemente in uso. Nell’arco superiore della cappella di S. Clemente, in S. Marco, si vede il doge Giovanni Particiaco che con clero e popolo riceve a Venezia il corpo del Santo (fig. 4). A fianco del doge si nota un personaggio riccamente vestito, con in mano una spada ricoperta da fodero, secondo la consuetudine che poco più sopra si è visto esser propria del secolo XIII. Ma non solo, anche nei mosaici trecenteschi della cappella di S. Isidoro emergono particolari interessanti relativi all’utilizzo della spada e dello scettro (Figg. 5-6). Un caso a parte, in rapporto alle insegne, è rappresentato infine da uno smalto della Pala d’Oro, che ritrarrebbe, secondo l’iscrizione, Ordelaffo Falier (1102-1118); se così fosse, si tratterebbe della più antica raffigurazione di un doge veneziano (fig. 7), Insegne del potere e titoli ducali, Capitolo I, in Estratto dal Vol. I della Storia di Venezia, cit., p. 838, http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianzeinsegne-de l-potere-e-titoli-ducali_. 23 vincolo di alleanza o di subordinazione. I beneficiati, da parte loro, potevano così rafforzare il loro peso politico e il prestigio personale inserendosi nei più alti gradi della gerarchia nobiliare dell’impero35. I dogi veneziani, allo stesso modo, ricevendo tali titoli vedevano consolidarsi la loro popolarità e il peso della loro famiglia. Tutto ciò dimostra, ancora una volta, come i governanti veneziani non fossero insensibili al fascino esercitato da Bisanzio e al prestigio che significavano per loro i titoli imperiali, tanto più elevati quanto più cresceva il peso politico di Venezia agli occhi degli imperatori. Ad ogni modo, i legami tra Venezia e Bisanzio non venivano rafforzati soltanto attraverso il conferimento di dignità imperiali ai reggitori del governo veneziano, ma anche, seppure non di frequente, da vincoli matrimoniali. Conosciamo, infatti, alcuni casi di dogaresse bizantine: Orso I Partecipatio, doge dall’864 all’881, sembra aver preso in moglie una nipote di Basilio I (867886) e, più di un secolo dopo, Giovanni, figlio di Pietro II Orseolo, sposò a Costantinopoli una nobile bizantina di nome Maria, nipote di Basilo II36. Nell’XI secolo si celebrò un altro matrimonio tra il doge Domenico Selvo (10701084) e la bizantina Teodora Ducas, figlia probabilmente dell’imperatore Costantino X (1059-1067). Questa donna, conosciuta come Teodora secondo alcune fonti, o forse come Maria, secondo altre, diede scandalo a Venezia per il suo amore per il lusso. A tale proposito è significativa la descrizione che ne fa San Pier Damiani37. Lo storico, infatti, nel mettere in luce la personalità 35 G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../Porphira 11. pdf, , p. 15. Di questo episodio abbiamo notizie grazie a Paolo Diacono, che così descrive l’evento: “In questo tempo il famoso duca Pietro (II Orseolo), convinto dalle insistenti preghiere degli imperatori Basilio e Costantino, inviò il suo diletto figlio e duca Giovanni nella città regia per prendere moglie. Gli imperatori lo accolsero benevolmente e decisero di dargli in sposa la figlia di un nobilissimo patrizio di nome Argiro, nata da stirpe imperiale. Per anticipare il giorno del matrimonio di una tale donna, cioè la nipote degli imperatori, fu permesso per decreto imperiale al suddetto duca e alla ragazza di riunirsi in una cappella, dove ricevettero dallo stesso pastore della città il dono della sacra benedizione e dagli imperatori corone d’oro sulle loro teste”, G. Diacono, Istoria Veneticorum, IV, 71. 37 “Un duca di Venezia aveva in moglie una donna di Costantinopoli. Costei amava vivere una vita molle e delicata e si compiaceva a tal punto di cose morbide e piacevoli, in modo non solo superstizioso, ma direi, artificioso, che disdegnava pure di lavarsi con l’acqua comune. I suoi servi avevano un gran da fare a raccogliere dappertutto la rugiada dal cielo, con cui le preparavano a grandissima fatica un bagno. Faceva poi attenzione a non toccare mai il cibo con le mani. Gli eunuchi, addetti al suo servizio, avevano il compito di ridurre i suoi cibi in tante parti minutissime, che poi lei con certe forchettine d’oro a due e a tre denti portava alla bocca ed assaggiava. La sua stanza da letto inoltre profumava a tal punto di ogni genere di incensi e di profumi che anche solo a raccontarlo mi pare di sentire il puzzo e forse chi mi ascolta è capace di non crederci. Ma quanto la vanagloria di questa donna sia stata presa in uggia da Dio onnipotente, lo manifesta chiaramente il castigo con cui fu punita…Tutto il suo corpo cominciò a corrompersi, così che le sue membra si disfacevano in ogni parte riempendo la sua stanza di un fetore intollerabile. Nessuno riusciva a sopportarlo, né chi era 36 24 effimera di questa dogaressa bizantina finisce per darci una descrizione delle usanze e dei costumi ancora rustici che contraddistinguevano la Venezia di quel tempo, così lontani dalla raffinatezza della civiltà bizantina38. addetto al suo abbigliamento, né il suo valletto personale; soltanto un’ancella, aiutandosi con un profumo speciale, poté rimanere al suo servizio assiduamente, ma anch’essa entrava nella camera della sua signora solo per pochi istanti, e poi fuggiva via di corsa. Disfatta ormai dalla lunga malattia e dopo aver sofferto duramente, finì i suoi giorni con grande sollievo degli stessi suoi amici”. S. Pier Damiani, Institutio monialis, in Patrologia Latina, c. 744. 38 G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia Bizantina, parte II, cit., p.14. G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../Porphira 11. pdf, , p. 14. 25 1d - LA IV CROCIATA E IL BOTTINO VENEZIANO La grande occasione per risolvere la precarietà dei rapporti tra Venezia e Bisanzio, da tempo sempre più fragili, si presentò con la IV crociata. Le crociate, guerre cristiane contro gli infedeli per la riconquista di Gerusalemme e dei luoghi santi della cristianità, sono per definizione imprese ispirate e organizzate dal papato39. Nel 1198 veniva eletto papa Innocenzo III, convinto assertore della teoria delle due spade, ossia della distinzione fra potere spirituale e potere temporale; egli riprese con decisione il progetto di crociata, abbandonato dopo la fine ingloriosa della terza spedizione, e le sue aspirazioni spirituali vennero a coincidere con quelle, puramente politiche, di un’altra forte personalità, quella del doge veneziano Enrico Dandolo, intenzionato a riaffermare il predominio di Venezia sull’ impero di Bisanzio. Nel 1198 papa Innocenzo III decise di bandire la IV crociata, o “crociata dei Veneziani” ma, se all’inizio essa sembrò essere mossa da un intento prettamente mistico-religioso, in realtà le cose andarono diversamente. Esistevano altri motivi, meno spirituali e ideali, primi fra tutti gli interessi economici e commerciali che fin dall’XI secolo si muovevano sempre più fortemente verso la parte orientale d’Europa40. Come afferma Roberto di Clari, “con il suo ambiguo procedere e con la sua conclusione a Costantinopoli, sembra quasi chiarire quale scopo e dove esattamente volessero andare i cavalieri europei sin dalla prima epica spedizione in Terra Santa. Con ogni probabilità la meta ambita era davvero sempre stata Bisanzio, la cui conquista avrebbe significato per l’Occidente la riconquista di tutto il mondo orientale, e non soltanto sotto l’aspetto religioso”.41 La conquista di Costantinopoli si rivelò un grande affare per i veneziani. Essa, infatti, non soltanto aveva fatto di Venezia la dominatrice di vasti territori del 39 E. Callegari, Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, Tesi di laurea, Venezia, Anno Accademico, 1999-2000, Relatore Prof. Giorgio Ravegnani, pubblicata in PORPHIRA 2005. http://it.scribd.com/doc/104875858/%CE%A0%CE%9F%CE%A1%CE%A6%CE%A5%CE%A1%CE%91 Supplemento-n-III-2005. 40 Ibidem. 41 R. di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216), a cura di A. M. Nada Patrone, Genova 1972. 26 distrutto impero bizantino42, ma aveva anche assicurato alla Repubblica un influsso predominante, politico ed ecclesiastico, sulla capitale stessa. Il bottino veneziano fu enorme e i veneziani si assicurarono una quantità considerevole di preziosi, opere d’arte e reliquie che in buona parte costituiscono il tesoro di San Marco; dalle case ai palazzi, nessun luogo sacro o profano venne risparmiato. I Latini profanarono e devastarono un gran numero di edifici religiosi: dalla chiesa di Santa Sofia, la più importante a Bisanzio, a quelle dei SS. Apostoli, di S. Maria presso la Blacherne, di San Michele e molte altre. Come affermava il cronista e testimone oculare Roberto di Clari “dacché il mondo fu creato, non erano mai stati visti né conquistati tesori così grandi, né così magnifici né così ricchi né ai tempi di Alessandro, né ai tempi di Carlo Magno, né prima, né dopo. Neppure io credo, per quanto è a mia conoscenza, che nelle quaranta città più ricche del mondo vi siano tante ricchezze quante se ne trovano a Costantinopoli”.43 Lo stesso storico Niceta Coniata, prezioso testimone oculare degli eventi di quei giorni a Costantinopoli, autore di una grande opera, il De signis Costantinopolitanis44, parla della spoliazione compiuta dai crociati e, in particolare, delle ricchezze contenute in quelle chiese. A tale proposito, egli si sofferma sulla descrizione dell’altare maggiore di Santa Sofia, che “era interamente ricoperto di metalli preziosi di una bellezza e di una policromia straordinaria e di un tesoro altamente ricco ed infinitamente prezioso che fu fatto a pezzi e spartito tra i crociati”. Non fu difficile per i prelati cattolici, partiti al seguito dei crociati, sottrarre a tanti luoghi sacri di Costantinopoli le testimonianze più significative e famose di una così imponente eredità cristiana, giustificando l’operazione come necessaria opera di protezione dalle mani profanatrici del clero scismatico ortodosso45. L’opera di spoliazione rientrava nella concezione medievale del “bottino di guerra”, e quindi era ritenuta legittima; inoltre, il trafugamento di reliquie e di 42 E. Callegari, La quarta crociata in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, cit., http://it.scribd.com/doc/104875858/%CE%A0%CE%9F%CE%A1%CE%A6%CE%A5%CE%A1%CE%91 Supplemento-n-III-2005. 43 R. di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216), cit., p. 215. 44 N. Choniate, De signis Constantinopolitanis, a cura di O. Morisani, F. Gagliuolo, A. Francesis, Napoli 1960. 45 V. Galliazzo, I cavalli di San Marco, Milano 1981, p. 63. 27 oggetti di carattere religioso presentava anche un aspetto devozionale che non può essere sottovalutato46. I crociati distrussero, per lo più senza alcun criterio, per impossessarsi delle ricchezze, mentre da parte veneziana si ebbe maggior cura e le principali opere d’arte furono salvate per essere trasferite a Venezia, dove in gran parte sono ancor oggi visibili. Come scrive il Pertusi, i veneziani spoliarono, ma non distrussero: “asportando con cura, metodicamente salvando un’ingente quantità di cose preziose, sia pure per impadronirsene”47. Questa appropriazione di materiali e il loro reimpiego simbolico, compiuto in un intento di emulazione all’indomani della presa di Costantinopoli, hanno notevoli ripercussioni sul principale cantiere pubblico veneziano costituito dalla riapertura della fabbrica della basilica di San Marco e dall’ulteriore definizione dell’assetto della stessa. L’utilizzo di tali spolia va inteso come la deliberata e programmatica “vestizione” di regalia insignia da parte della città-stato adriatica, “dominatrice della quarta parte e mezzo dell’impero di Romania”, come un processo costruttivo volto a dar prova visiva e testimonianza simbolica di identità e, al contempo, di superamento nei confronti di quella Costantinopoli della cui magnificenza Venezia indossa trionfalmente i segni.48 È proprio dall’analisi di queste regalia insignia e dal valore simbolico che le spolia constantinopolitane hanno acquisito per la città di Venezia che dobbiamo partire per capire il significato e la nutrita serie di interventi di riqualificazione che, all’indomani della IV crociata, caratterizzano la platea marciana. 46 E. Callegari, Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, cit., http://it.scribd.com/doc/104875858/%CE%A0%CE%9F%CE%A1%CE%A6%CE%A5%CE%A1%CE%91 Supplemento-n-III-2005. 47 A. Pertusi, Exuviae sacrae constantinopolitanae. A proposito degli oggetti bizantini esistenti oggi nel tesoro di San Marco, in “Studi Veneziani”, II, 1978, p. 251. 48 E. Concina, Bisanzio e l’Italia in Le arti di Bisanzio, cit., p. 299. 28 CAPITOLO II – ESPRESSIONI ARTISTICO-CULTURALI DUECENTESCHE NELLA PLATEA MARCIANA 2a - IL PROGETTO DI RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA SOTTO IL DOGADO DI SEBASTIANO ZIANI A partire dalla metà del XII secolo, Venezia inizia una fase di trasformazione e di rinnovamento che determina una riorganizzazione radicale della sua configurazione urbana. Tra i vari interventi architettonici e urbanistici di riqualificazione dell’area marciana vanno ricordati quelli intrapresi a partire dal dogato di Sebastiano Ziani49(1172-1178). Al di là, comunque, delle incertezze poste da alcuni studiosi riguardo la veridicità o meno delle fonti cronachistiche veneziane che attribuiscono al solo Ziani la definizione della Piazza, durante la seconda metà del XII secolo il brolo antistante la chiesa di San Marco veniva ampliato e allungato inglobando del terreno posto al di là di un Rio (Batario) il quale a sua volta veniva interrato. Su questo terreno sorgeva la chiesa di S. Geminiano che con la sua presenza ostacolava l’operazione e per questo motivo venne spostata all’estremità del nuovo spazio ottenuto. Dunque, l’allargamento del brolo antistante la basilica di San Marco mediante la colmata del rivus Batarius che vi scorreva fu il punto di partenza di una serie di interventi che resero possibile l’utilizzazione di spazi sempre più ampi. Inoltre, la stessa chiesa, dedicata ai Santi del mondo ortodosso Mena e Geminiano venne fatta spostare dallo stesso doge Ziani in un momento collocabile tra il 1172 e il 1178 e fatta poi ricostruire nelle dimensioni originarie: una tipologia centralizzata, monocupolata, a croce inscritta con absidi laterali sempre inscritte50. 49 La studiosa Michela Agazzi pone l’interrogativo circa l’effettiva portata e qualità dell’intervento del doge Sebastiano Ziani sulla piazza, intervento sempre citato dalla letteratura senza che venissero sollevati dubbi sulla sua datazione, sulla qualità e sul tipo degli edifici e sulla loro durata nel tempo. A tale scopo sono state rivedute le notizie cronachistiche per valutarne l’effettiva attendibilità e collocare le scarse informazioni relative all’impresa urbanistica attribuita al doge Ziani nel quadro della situazione urbana veneziana del tempo, soprattutto delle zone adiacenti alla piazza, che non poterono non essere condizionate a loro volta dalla piazza stessa. M. Agazzi, “Premessa” in Platea Sancti Marci, I luoghi marciani dall’XI al XIII secolo e la formazione della piazza, Venezia 1991. 50 M. Agazzi, op. cit., p. 133. 29 Anche la lunga fabbrica delle Procuratie fu iniziata lungo il lato settentrionale del brolo, con ogni probabilità contestualmente alla ricostruzione della chiesa verso la fine del dogado di Sebastiano Ziani. Riedificate poi nel ‘500, sono ben note nel loro aspetto medioevale d’insieme grazie alla celebre Processione in Piazza San Marco di Gentile Bellini (1496). Tale iconografia rappresenta una fonte unica e straordinaria per la descrizione della piazza San Marco e di buona parte dei suoi lati, che ci vengono mostrati con una ricchezza di particolari e con una fedeltà ineguagliabili (fig. 1). Altra iniziativa documentata con ampiezza dalle cronache sempre sotto il dogado dello Ziani è il rifacimento del Palazzo Ducale. Il castrum, che fino ad allora aveva mantenuto un carattere difensivo per la presenza di fossati, mura, torri, subì la prima radicale trasformazione aprendosi verso l’esterno; l’adeguamento del sito dell’antico castrum avvenne secondo le nuove esigenze istituzionali del Communis Veneciarum che prevedevano l’edificazione, da un lato, di un Palazzo di Giustizia rivolto verso quella che sarebbe stata la Piazzetta e, dall’altro, di un Palatium Communis rivolto verso le acque del bacino, entrambi aperti verso l’esterno grazie alla presenza di porticati e logge51. Agli anni del dogado di Sebastiano Ziani è legato un altro evento significativo: la realizzazione di un molo, un litus marmoreum, in approssimativa corrispondenza della fronte d’acqua dell’attuale Piazzetta, e l’innalzamento delle due colonne monolitiche di granito, di sicura provenienza costantinopolitana, con evidente allusione alle colonne onorarie della metropoli d’Oriente52. Risulta chiarissimo, quindi, che all’età dello Ziani, alla prima Venezia comunale, risalgono tanto la prima configurazione in “piazza” di quelli che erano stati il brolium e l’area marciana, quanto la prima attenta, esplicita cura della definizione della fronte marittima della città. È indubbio, come afferma lo studioso Ennio Concina, che nelle due colonne, sulle quali saranno collocati il leone marciano e la statua di San Teodoro, va identificato un forte segno di natura architettonica e urbanistica nel quale coesistono complesse simbologie. 51 52 M. Agazzi, op. cit., p. 84. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 298. 30 La loro presenza, infatti, evocava non solo le colonne onorarie imperiali costantinopolitane, ben visibili a tutt’oggi dalle acque portuali circostanti, ma anche le due colonne che annunciano e marcano l’arrivo della via Appia a Brindisi; simbolo, questo, che ha valore di varco sacrale, di porta marittima della città e di estremo trionfale dell’iter maritimum veneticorum.53 La posizione di tali colonne andava così a rafforzare la magnificenza dell’apparato d’accesso a Venezia, del portale cerimoniale da dove partivano e dove si concludevano le più importanti celebrazioni e i rituali della città: la piazza, dunque, come teatro di ritualità, di andata imperiale che collegava il palatium con la basilica, uno spazio altamente simbolico che rievocava lo stesso spazio dell’Ippodromo costantinopolitano, un luogo altrettanto qualificato dove si svolgevano le epifanie imperiali. Ed è così che a Venezia la famosa Festa della Sensa assume, a partire dal dogato di Sebastiano Ziani, un significato del tutto particolare. È l’anno 1177 quando le due massime autorità europee, papa Alessandro III e Federico Barbarossa, firmano a Venezia la pace che pone fine alla secolare lotta tra Papato ed Impero. Un risultato a cui concorre in misura determinante la mediazione del doge Sebastiano Ziani, al quale il Papa, in segno di riconoscenza, porrà il suo anello (Fig. 2). Con questo gesto veniva sancito l’indissolubile connubio tra la città stato e il mare, quello sposalizio che conferiva al doge tutti quei privilegi simbolici del cero benedetto, della spada, del seggio, dell’ombrello, delle trombe, degli otto gonfaloni che egli (fig. 3), per secoli e secoli, porterà seco nelle cerimonie solenni54, come segno della sua riconosciuta auctoritas. Il rito politico della desponsatio maris, che prevedeva l’annuale andata ducale alla bocca del porto di San Nicolò del Lido per il simbolico cerimoniale delle nozze tra Venezia e le acque del golfo Adriatico, può aver suggerito allo stesso Ziani l’idea dell’edificazione del molo colonnato. 53 E. Concina, Venezia bizantina, ducale e comunale in Storia dell’Architettura di Venezia dal VII al XX secolo, Milano 2003, p. 56. 54 G. Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Milano 1926, p. 33. 31 2b - LA CHIESA DI SAN MARCO: ARCHITETTURA SIMBOLO Pochi anni dopo il trasferimento della sede dei duchi venetici da Malamocco, la traslazione del corpo dell’evangelista Marco da Alessandria d’Egitto alla Civitas Rivoaltina (828) dava origine al culto primario del ducato venetico e alla fondazione della chiesa di San Marco, disposta dal doge Giustiniano Particiaco, nel suo testamento dell’828-829. Per la costruzione della nuova chiesa, che avrebbe dovuto essere edificata fra la sua residenza fortificata e una architettura religiosa preesistente intitolata a San Teodoro,55 il Doge dispose che venisse utilizzato del “materiale proveniente dai suoi terreni in Equilo e Torcello”56. Materiali quasi sicuramente di reimpiego, il cui recupero non doveva essere motivato da ragioni esclusivamente economiche, ma piuttosto di natura simbolica: nella elegantissimae formae basilica l’uso di spolia avrebbe testimoniato visivamente il legame ideale del nuovo centro della devozione venetica con la pia memoria delle proprie origini. È significativo, a questo punto, soffermarci brevemente sul sito nel quale sorse la nuova chiesa di San Marco attraverso un’analisi degli edifici che la attorniavano. A poca distanza da essa sorgevano, infatti, la chiesa consacrata al Santo Teodoro e, di fronte a questa, quella dedicata ai Santi Mena e Geminiano. I titoli di queste chiese, che appartengono alla devotio militare orientale,57 evidenziano la specificità arcaica dell’area “premarciana”, le cui architetture appaiono, quindi, strettamente legate alla memoria dell’aurea Bisanzio. Riguardo ai caratteri architettonici e artistici delle due chiese non disponiamo di molte informazioni; in particolare, incerta rimane la ricostruzione della struttura architettonica di San Teodoro (fig. 4). Diverse sono state le ipotesi interpretative sulla sua ricostruzione, a partire da quella del Dorigo, che la descrive come un edificio a pianta greca a croce inscritta, monocupolata, con navata centrale separata da quelle laterali e con arcate sostenute da pilastri58. 55 E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, Milano 2007, p. 13. “De petra que habemus in Equilo compleatur hedifficia monasteri Sancti Illari. Quicquid exinde rermanserit de lapidus et quicquid circa hanc (…lacuna…) iacet et de casa Theophilacto de Torcello hedifficetur baxilicha Beati Marci Evangeliste”, in L. Lanfranchi, B. Strina (a c. di ), Fonti per la storia di Venezia. Sez. II. Archivi Ecclesiastici. Diocesi Castellana. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, Venezia 1965, p.23. 57 E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., p. 14. 58 W. Dorigo, Venezia romanica, La formazione della città medievale fino all’età gotica, Venezia 2003. 56 32 Le recenti ricerche condotte da M. Schuller e K. Uetz, invece, pur confermando l’identificazione del sito di San Teodoro, hanno portato a una diversa ipotesi ricostruttiva, che vede la chiesa come un edificio con pianta a croce libera dai bracci molto contratti e di dimensioni minori rispetto a quelle descritte dal Dorigo59. Dunque, nonostante lo stato attuale degli studi non ci permetta di trarre delle considerazioni definitive riguardo al tipo architettonico di San Teodoro (malgrado la proposta del Dorigo, che propende per una datazione prossima ai primi decenni del IX secolo), l’unica fonte sicura citata è significativa per il nostro contesto perché ci permette di definirla come una struttura altamente qualificata, caratterizzata da un apparato decorativo prezioso, come attestano la presenza di materiali lapidei, di pittura o mosaico60. Ma pur essendo sorta accanto a quella di San Teodoro, cupolata e arricchita di decorazioni e collegata alla memoria dell’autorità imperiale d’Oriente cui la provincia venetica era sottoposta, la fabbrica di San Marco non ne riprende il modello. In effetti, la prima San Marco61 non riprendeva neppure la struttura basilicale delle maggiori chiese episcopali venetiche o della sede patriarcale di Grado, la Nova Aquileia, essa pure collegata alla memoria di San Marco; come notano implicitamente le fonti, essa assumeva forma propria, forma allusiva, adeguata alla presenza delle spoglie del santo62 (fig. 5). 59 V. Ruggieri, L’architettura religiosa nell’impero bizantino (fine VI-IX secolo), Messina 1995; M. Schuller, K. Uetz, San Marco alla luce dell’archeologia dell’architettura. Primi risultati di “Bauforschung” alla facciata settentrionale, in Quaderni della Procuratoria. Arte storia, restauri della basilica di San Marco a Venezia, I, facciata nord, Venezia 2006, pp. 54-60. 60 Quello che sarà lo spazio di Piazza San Marco è così segnato, già secondo fonti risalenti almeno al Mille, da architetture collegate alla memoria dell’aurea Bisanzio. In San Teodoro, infatti, risiede Narsete, si afferma. Accanto, aggiungono le fonti, sorge il palazzo del duca venetico e si svolgono gli splendidi cerimoniali apprestati per l’arrivo di Longino, patrizio e prefetto di Ravenna. San Teodoro è descritta e celebrata per le sontuose colonne e i marmi ornamentali, per la cupola, la cuba depicta, preziosissimamente conformata e adorna di un’iscrizione commemoriale che la sovrasta. E. Concina, Le Nettunie mura: i miti delle origini in Storia dell’Architettura di Venezia dal VII al XX secolo, Milano 2003, p.15. 61 In definitiva, i più attendibili studi ricostruttivi sulla San Marco particiaca restano attualmente quelli dello studioso W. Dorigo. Egli è giunto alla conclusione che la chiesa altomedievale di San Marco sia sopravvissuta parzialmente nell’odierna cripta della chiesa e che fosse stata impostata su pianta a croce greca libera, con una cupola all’incrocio dei due bracci. E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura in Arte e architettura. Le cornici della storia, Milano 2007, p 20. In questo modo, mediante l’ipotesi di fabbrica monocupolata, secondo il Dorigo si darebbe pure adeguata interpretazione anche a un breve, allusivo passo delle cronache dell’Origo Venetiarum che afferma la dipendenza della forma di questa dall’exemplum quod ad Domini tumulum Hierosolimis […] (esempio che si vede al sepolcro del Signore di Gerusalemme), di particolare aulica sacralità. R. Cessi, Origo Civitatum Italie seu Venetiarum, Roma 1933, pp. 72-73. 62 E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., p. 20. 33 Nell’estate del 976 i tumulti che portarono all’uccisione di Pietro Candiano IV causarono l’incendio del palazzo, della chiesa di San Marco, della vicina San Teodoro e di una vasta area urbana. Il successore Pietro Orseolo I si impegnò nel restauro (“ecclesiam et palatium recreare”)63, honorifice e a proprie spese. Anche se la portata di tale rinnovamento ci resta quasi del tutto oscura, è assai significativo a tale proposito che il diacono Giovanni, cappellano del Doge Pietro Orseolo II (991-1009), parlando del dedalicum instrumentum, ossia dei mezzi artistici con i quali la cappella ducis viene allora riqualificata, segnali una svolta, una novità data dal ricorso a un’inusitata magnificenza: i tempi dell’Orseolo, secondo il cronachista, sono anche quelli dello straordinario ornamento dell’oro. Ed è, infatti, a Pietro Orseolo I che il diacono Giovanni attribuisce esplicitamente la richiesta di far eseguire a Costantinopoli un’opera d’arte, una pala d’argento e d’oro di mirabile fattura per l’arredo liturgico di San Marco da lui recreata: “in Sancti Marci altare tabulam oro opere ex argento et auro Costantinopolim peragere iussit”64. Tutto ciò non ci stupisce se pensiamo all’intensità dei rapporti politicocommerciali che, tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, legavano Venezia alla città di Costantinopoli; allo stesso modo forti erano i legami con la corte di Bisanzio dovuti ai vincoli matrimoniali. Giovanni, figlio di Pietro II Orseolo sposò infatti, a Costantinopoli, una nobile bizantina. Di tale episodio siamo ben informati non solo da Giovanni Diacono, che si dilunga sulla cerimonia nuziale ufficiata dal patriarca di Costantinopoli alla presenza dei due sovrani,65 ma anche dalla Synopsiss Historiarum di Giovanni Skylitzes, alto funzionario di corte all’epoca di Alessio I Comneno (1081-1118), che conferma l’identificazione della sposa di Giovanni in Maria Argyropoulina, sorella del patrizio Romano Argiro, che in seguito fu imperatore dal 1028 al 103466. In altri termini, con gli esponenti della grande dinastia orseoliana si andava preparando il contesto in cui maturerà la decisione che poco oltre la metà 63 G. Monticaolo (a c. di ) Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, Roma 1890, pp. 57-171 (la nostra citazione da p. 140). 64 Ivi, p.143. 65 G. Diacono, IV, 71. 66 J. Skylitzès, Empereurs de Costantinople, traduzione di B. Flusin, commento di J.-C. Cheynet, Paris 2003, p. 287. 34 dell’XI secolo, e precisamente nel 1063, avrebbe portato all’avvio del cantiere della ricostruzione della chiesa ducale veneziana, la San Marco “contariniana”. Essa venne condotta a termine nell’arco di tempo che corre tra i dogadi di Domenico Contarini (1042-1071), protosebastos, sepolto a san Nicolò del Lido nell’altro edificio religioso che aveva egli stesso promosso, dove ancora nel XVI secolo era visibile il suo “sepolcro di marmi di porfidi et serpentini67”, Domenico Selvo (1071-1084), che promosse la realizzazione delle principali opere strutturali, e Vitale Falier (1086-1096), a cui si deve la conclusione dei lavori, anche se i tempi della decorazione, com’è ben noto, si protrarranno ancora a lungo. Sul piano delle scelte formali relative alla nuova chiesa contariniana, svolse certamente un ruolo rilevante il prestigio internazionale della cultura architettonico-artistica bizantina. Tale influsso si era già fatto sentire a Kiev, circa vent’anni prima dell’apertura del cantiere veneziano, con l’edificazione da parte di Jaroslav il Saggio della cattedrale di Santa Sofia, progettata da architetti greci su pianta a croce greca inscritta a cinque navate, vale a dire su di un nucleo a “quinconce”, e dotata di un apparato decorativo che mostra una stretta aderenza con il sistema iconografico medio-bizantino, pur con delle varianti (figg. 6-7). Questa chiesa, consacrata nel 1046, è un esempio significativo della forte diffusione geografica e della penetrazione di modelli bizantini nel periodo in questione. La più importante fonte cronachistica circa la fondazione della chiesa contariniana risale al XII secolo e riguarda la cronaca di un Abate del monastero di San Nicolò del Lido,68 il quale afferma che San Marco risulta perfettamente simile all’Apostoleion della capitale imperiale d’Oriente. La nuova San Marco dell’XI secolo è impostata su pianta a croce greca leggermente allungata, ed è sormontata da cinque cupole (una per ciascun braccio più una centrale). In questo tipo di soluzione permane il ricordo della 67 F. Sansovino, Venetia città nobilissima […], Venezia 1581. p. 84 a. La fonte (oltre che nella Translatio Sancti Nicolai, già edita nel 1749 da F. Corner, Ecclesiae Venetae, Venezia 1749), è ripresa negli Annales Mundi di Stefano Magno, erudito cronachista e collezionista del Cinquecento veneziano: “ In tempo de questo doxe [Domenico Contarini] fo fondado la giesa nuova de san Marcho, Capela duchal…Questo scrive Bortolomio Veronese Abbate de san Nicolò esser stà in tempo de questo doxe al tempo che quello etiam edificò el monestier de San Nicolò”. R. Cessi, Venezia ducale. II, 1. Commune Venetiarum, Venezia 1965, pp. 51-53. 68 35 precedente cappella ducale a croce libera del IX secolo, che in parte condiziona la ricostruzione; tale modello, tuttavia, viene reinterpretato e ridefinito in forme dispiegatamente auliche, tanto che la cronachistica veneta definisce senza esitazioni ˝a simele constructione artificiosa come quella che in onor dei XII apostoli ìn Costantinopoli è constructa“, precisando inoltre che essa fu affidata a “primarii” architetti della capitale imperiale69 (fig. 8). La chiesa marciana riprende pertanto il prototipo dell’Apostoleion (fig. 9) dell’età di Giustiniano, chiesa-reliquario apostolica e luogo delle sepolture imperiali, strettamente affine ad un’altra chiesa fondata da Giustiniano, quella di San Giovanni d’Efeso70 (fig. 10). Da un lato, dunque, la sede delle spoglie dell’evangelista Marco viene ricondotta alla stessa forma architettonica di quelle dell’evangelista Luca, venerate appunto nell’ Apostoleion, e dell’evangelista Giovanni, sepolto in Efeso. Tutto questo avveniva in quel vasto contesto di assimilazione ed emulazione di forme artistiche imperiali bizantine che si è andato fin qui descrivendo71. Il ricorso all’esempio della grande architettura-reliquiario costantinopolitana appare tanto più consapevole in quanto quattro dogi - fra il 1071 e il 1117 furono deposti entro l’atrio di San Marco, che all’interno si stava coprendo di cicli musivi72. Insomma, nel simbolismo delle forme in cui viene ricostruita la cappella ducis della Venezia in ascesa va vista una deliberata appropriazione di “regalia insignia”, di un segno architettonico imperiale. Non va neppure dimenticato inoltre che, nell’accogliere i sepolcri ducali, la chiesa di San Marco assolveva uno dei compiti propri della chiesa degli Apostoli, che accoglieva le sepolture imperiali. Per concludere, va sottolineato ancora una volta come l’ Inventio del corpo di San Marco, che segue alla ricostruzione della basilica, appaia un parallelo letterale dell’inventio dei corpi dei Santi Andrea, Luca e Timoteo che, prima sconosciuti, inaspettatamente si mostrano a tutti, come scrive Procopio di Cesarea, allo scopo preciso di dimostrare quanto fosse loro gradito il 69 E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 269. E. Concina, San Marco di Venezia e San Giovanni di Efeso. Le cupole degli Evangelisti in Scienza e tecnica del restauro della Basilica di San Marco, Vol. I, Venezia 1999, pp. 173-188. 71 E. Concina, Le Arti di Bisanzio, cit., p. 270. 72 Ibidem. 70 36 santuario loro dedicato, cioè l’ Apostoleion giustinianeo73. Allo stesso modo, a Venezia, con l’edificazione della cappella ducis, la memoria di Luca, Giovanni e Marco veniva ricondotta al medesimo segno e al medesimo linguaggio architettonico, nell’ambito, appunto, della grande cultura imperiale74. Se gli spazi solenni, delineati con nitida chiarezza, evocano i concetti architettonici fondamentali del VI secolo e si richiamano a un modello architettonico protobizantino, prototipo di un’architettura imperiale e di dispiegata magnificenza aulica, nello stesso tempo nella fabbrica di San Marco sono identificabili tratti di reinterpretazione e di mediazione; in essa non mancano, infatti, certi compromessi con la tradizione romanica e le tecniche di cantiere risultano senz’altro di ambito occidentale. 73 Procopius, De aedificiis libri VI, a cura di J. Hamy, Lipsiae 1964, pp. 23-26. Viene fatto inoltre ricorso alla traduzione italiana di Benedetto Egio da Spoleto edita a Venezia nel 1547 (Apostoleion, p. 7 r.; S. Giovanni di Efeso p. 42). 74 E. Concina, San Marco di Venezia e San Giovanni di Efeso. Le cupole degli Evangelisti in scienza e tecnica del restauro della Basilica di San Marco, cit., pp. 186-187. 37 2c - GLI INTERVENTI DUECENTESCHI NELLA PLATEA MARCIANA Dopo la fase “contariniana” assai significativa è la serie di interventi architettonici, plastici e di decorazione parietale lapidea e musiva attuati nell’ambito della fabbrica marciana a partire dal primo Duecento, nell’età dell’impero latino d’Oriente (1204-1261), quando Venezia è riconosciuta dominatrice della quarta parte e mezzo di quella che era stata la Románia bizantina. Alcune trasformazioni portano al radicale rifacimento dell’aspetto esterno della chiesa ducale. Sul piano edificatorio gli interventi riguardano, da un lato, l’allungamento della volta del braccio ovest fino alla facciata, che rese così possibile la costruzione del grande arco del piano superiore del prospetto, davanti al quale sarebbe stata collocata la Quadriga bronzea trasferita da Costantinopoli; dall’altro, un’ articolazione del prospetto mediante i profondi nicchioni del portale, atti così a sostenere l’inconsueta terrazza. I lavori interessarono, inoltre, l’allargamento di due campate, a nord e a sud della “facciata contariniana” (che originariamente presentava solo tre assi), e l’estensione del nartece, che avvolge i due lati del braccio occidentale dell’edificio cruciforme (in altre parole, l’edificazione del braccio settentrionale del nartece). A questi interventi seguirà poi, nel Trecento, un prolungamento in direzione est-ovest che coinciderà con l’ampliamento del prospetto verso sud mediante la costruzione del battistero75. Osserviamo dunque che la facciata originale della basilica si differenziava notevolmente dall’attuale, ancora esistente, ma nascosta dal rivestimento marmoreo: essa aveva una larghezza di solo tre assi e mancavano i profondi nicchioni dei portali76 (figg. 11-12). È interessante, a tale proposito, chiarire meglio la questione su quando e perché l’originaria facciata contariniana sia stata così profondamente modificata. I profondi pilastri in muratura che lo studioso ungherese Gombosi erroneamente considerava come dei contrafforti, pensando che la loro costruzione si fosse resa necessaria per ragioni di statica, 75 E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., pp. 36-37. Volker Herzner, Le modifiche della facciata di San Marco dopo la Conquista di Costantinopoli, in Storia dell’arte marciana: l’architettura a cura di Renato Polacco, Venezia 1997, p. 71. 76 38 in realtà avevano l’unica funzione di sostenere la terrazza sopra il piano dei portali. Solo questi pilastri danno origine ai profondi nicchioni dei portali e solo questi ultimi hanno reso possibile la costruzione dell’inconsueta terrazza77. Stando al mosaico di Sant’ Alipio, i quattro cavalli di bronzo provenienti da Costantinopoli furono collocati sulla terrazza al più tardi nel 1265, un fatto molto interessante che suggerisce come essa sia stata costruita appositamente per sostenere i quattro cavalli. Sul significato e sul valore simbolico che la famosa Quadriga doveva assumere per la città di Venezia ritorneremo in maniera più approfondita in un secondo momento. Per quanto riguarda gli interventi duecenteschi sopra citati, va sottolineato come essi abbiano mutato profondamente il rapporto tra la chiesa, la piazza e il paesaggio urbano. E a questo si rispondeva con la rielaborazione del profilo delle cinque cupole rialzate - probabilmente dopo il 1260 - con calotte lignee sopraelevate, rivestite all’esterno di lastre di piombo e coronate da pseudo-lanterne e croci dorate sommitali78. In questo modo si conferiva nuova enfasi alle cinque strutture di copertura, così da far emergere nel profilo urbano, con accentuata forza visiva, il sito sacrale della città-stato79 (fig. 13). Entro il 1265, poi, le murature esterne ed interne vengono rivestite di lastre di marmi preziosi, di mosaici, di bassorilievi e di formelle. Il portale centrale esterno e la porta da mar, che si apriva verso meridione in direzione delle acque del Canal di San Marco, vengono decorati con battenti bronzei di età giustinianea e sopra il portale viene issata la famosa quadriga proveniente dall’Ippodromo di Costantinopoli. Non va dimenticata la sistemazione del gruppo scultoreo in porfido dei Tetrarchi, proveniente dalla piazza del Philadelphion e posto in opera all’angolo tra il Palazzo Ducale e la chiesa, e il ricollocamento dei Pilastri Acritani, “secondo la tradizione trasferiti da San Giovanni d’Acri o da Alessandria d’Egitto, ma appartenuti probabilmente al ciborio della chiesa costantinopolitana di San Polieuktos”80. Tali interventi avevano lo scopo di 77 Ivi, pp. 67-75. E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., p. 37. 79 Ibidem. 80 E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit. pp. 298-299. 78 39 rafforzare la magnificenza di apparato dell’accesso sud della basilica, che aveva funzione di entrata principale, di portale cerimoniale per i visitatori e gli ospiti ufficiali della Repubblica che sbarcavano al molo in corrispondenza visiva con le due colonne del litus marmoreum, già collocate dal doge Sebastiano Ziani con evidente allusione alle colonne onorarie della metropoli d’Oriente81. Gli stessi marmi rari e policromi, secondo la tradizione raccolta da Stefano Magno, provengono da Aquileia e da Ravenna, oltre che da Costantinopoli, ossia dalle tre metropoli nelle quali si compendiavano la storia e la grandezza dell’idea imperiale, ma anche quella delle origini veneziane82. Scrive, inoltre, Flaminio Corner nel 1748 (ma, pur con delle varianti83, la tradizione è assai più antica) che in un gruppo di colonne del nartece - “le otto colonne di marmo antico nero e bianco orientale… disposte a solo ornamento della porta maggiore interna dell’atrio” - verranno identificate le reliquie antiche del tempio di Salomone, trasferite da Gerusalemme a Costantinopoli e da a qui a Venezia, come Nova Hierusalem. Nel frattempo continua l’impegno nella monumentale impresa della decorazione musiva. Alcuni dei maestri dell’arcone della Passione sono impegnati, tra il 1215 e il 1220, nella realizzazione del grande pannello dell’ Orazione nell’Orto. “Nella strada di una completa affermazione di autonomia di linguaggio, che peraltro attinge alla tradizione bizantino-marciana e insieme ad elementi paleocristiani e gotici, dal gruppo di artisti costituitosi attorno alla Preghiera nell’Orto84 dipenderanno, fra il terzo e il quarto decennio del Duecento, i due cicli dei profeti con la Vergine e L’Emmanuele, insieme con gran parte delle icone parietali musive isolate dai sottarchi della basilica e infine, più avanti nel tempo, le grandi scene dell’Apparitio marciana”85 nonché le lunette esterne della facciata, delle quali rimane quella di Sant’Alipio, che descrive il trasporto del corpo di San Marco entro la basilica. Nel frattempo, nel nartece si lavora 81 Durante questo periodo, intorno al 1264, viene terminata pure la pavimentazione a mattoni, disposti a spina di pesce, di Piazza San Marco. S. Bettini, Venezia. Nascita di una città, Vicenza 2006. 82 Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia, mss. It. cl. VII, codd. 516-517 (7812-3). 83 F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, p. 191. 84 E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 302. 85 Ivi, pp. 301-302. 40 alla decorazione musiva relativa alle scene veterotestamentarie della Genesi e dell’Esodo, che presentano chiari riferimenti alle illustrazioni di un manoscritto costantinopolitano del V-VI secolo, del tipo della Genesi Cotton, e forse anche di un codice miniato protopaleologo86. È quanto mai significativo, inoltre, che dopo gli interventi duecenteschi, sebbene San Marco mantenga istituzionalmente il suo ruolo di Cappella Ducis, essa venga percepita anche come cantiere collettivo della civitas e del comune, metafora artistica della sua concordia. Tutto ciò ci viene suggerito dai bassorilievi dell’arcone dei Mestieri del portale centrale, che ben evidenziano la partecipazione della comunità alla formazione della fabbrica; i grandi, si afferma, vi contribuiscono con marmi preziosi e con denari, il popolo con il proprio lavoro (Stefano Magno). Per vari aspetti sarà questa la linea destinata a prevalere. La basilica marciana, dunque, non avrebbe più dovuto in alcun modo accogliere la memoria del potere politico dei singoli, ma divenire luogo emblematico di una pubblica pietà da identificarsi come virtù collegiale della Repubblica87. 86 87 Ibidem. E. Concina, L’arte marciana in La Basilica di San Marco a Venezia, a cura di Ettore Vio, Firenze 1999, p. 40. 41 2d - IL BIZANTINISMO ARTISTICO NEL PROGRAMMA ICONOGRAFICO DEI MOSAICI DELLA BASILICA MARCIANA E LA FASE DUECENTESCA Si ritiene che, fino allo schiudersi del XIII, il rivestimento musivo in San Marco fosse limitato alle parti “celesti”, cioè a quelle al di sopra della seconda cornice, anche perché la presenza delle tribune, che non consentiva dal pianterreno la visione dei mosaici collocati al di sotto di tale fregio, ne rendeva superflua la presenza. Nella sua più recente opera su San Marco88, Otto Demus afferma che la demolizione delle tribune nel XIII secolo ha creato nuovi spazi da mosaicare nelle pareti più basse, tra la prima e la seconda cornice, anche con materiale musivo importato dalla IV Crociata, il tutto con esclusivo scopo trionfalistico, proprio per evidenziare ancora una volta, grazie all’abbellimento del martyrium dell’Evangelista, il nuovo ruolo assunto da Venezia a seguito di quella clamorosa impresa89. Tali mosaici si configurano come vere e proprie “aggiunte decorative”, poiché o ripetono fatti già narrati in mosaici precedenti o introducono digressioni non proprio coerenti con l’iconografia generale musiva, che fino al XII secolo sembrava osservare un programma prestabilito, che teneva conto sia della tradizione bizantina che delle istanze politiche proposte dall’entità semantica di San Marco, in quanto chiesa di Stato, oltre che martyrium.90 A tale proposito è opportuno, prima di soffermarci in maniera più approfondita sulle caratteristiche dei mosaici marciani del Duecento, fare alcune riflessioni sul tema complesso e discusso delle relazioni fra apparato decorativo della basilica marciana e iconografia bizantina. Abbiamo già confermato, nonostante qualche posizione recente contraria,91 la riconfigurazione architettonica di San Marco nell’XI secolo, come pure la dipendenza della fabbrica dalla chiesa dei Dodici Apostoli di Costantinopoli, sottolineando in particolare il ricorso a un modello arcaico protobizantino, apostolico e imperiale, riletto facendo uso 88 O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, II, Chicago-London 1984, p. 5. R. Polacco, Mosaici del Duecento all’interno della Basilica in San Marco, la Basilica d’Oro, Milano 1991, p. 237. 90 Ibidem. 91 R. Cecchi, La costruzione bizantina del IX secolo. Permanenze e trasformazioni, Venezia 2003. 89 42 dell’iterazione di un modello a “quinconce” di matrice medio bizantina92. Tra le motivazioni principali che spinsero i dogi veneziani ad una siffatta scelta si ritiene vi sia il grande ruolo assunto dall’ Apostoleion come sede della memoria imperiale, di heroon di Costantino e dei suoi successori (fig. 14). Ciò appare evidente non solo dalla lettura della cronaca venetica dell’Origo, ma soprattutto osservando che sia la chiesa costantinopolitana, sia quella efesina erano luoghi di memoria evangelica, in quanto custodi, rispettivamente, delle reliquie di Luca, e di Giovanni. In questo modo, con la scelta di rendere la chiesa ducale consimilis a quello specifico modello cruciforme cupolato bizantino, la memoria di Marco avrebbe assunto la stessa forma delle altre due chiese testimoni del messaggio di Cristo93. Detto questo, va sottolineato come la forma architettonica di San Marco non consentisse l’applicazione di un apparato decorativo di modello mediobizantino. La San Marco contariniana è, infatti, una struttura molto grande ottenuta iterando cinque volte, sullo stesso disegno cruciforme, uno schema a quinconce. Il programma medio bizantino è funzionale solo a piccole strutture come quelle monastiche, di cui abbiamo già parlato. Di qui l’adattamento in San Marco, di un preciso e rigoroso programma iconografico adeguato a uno schema protobizantino. Nonostante il lungo dibattito e le diverse posizioni sulla secolare impresa dei cicli musivi marciani, possiamo affermare che l’insieme sia stato fondamentalmente impostato secondo un preciso schema programmatico, in buona parte riconoscibile nonostante le variazioni introdotte nel corso della serie di interventi. Tale schema è impostato su una duplice articolazione: da un lato il percorso cristologico coerente con la gloriosa forma crucis della grande chiesa ducale, dall’altro il percorso narrativo imperniato sulle storie del protettore Marco, connotato da una forte valenza politica, in quanto evocatore 92 E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni in “Quaderni della Procuratoria”, 2007, pp. 24-41. 93 Per ulteriori approfondimenti relativi a questa tematica si rimanda ai saggi: E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., pp. 13-40 , E. Concina, San Marco di Venezia e San Giovanni di Efeso. Le cupole degli Evangelisti in Scienza e tecnica del restauro della Basilica di San Marco, cit., pp. 174-188. 43 delle sante origini della civitas rivoaltina, della pietas ducale e del popolo venetico94. A San Marco, dunque, la “sezione narrativa” del programma iconografico “standard” bizantino appare flessibile, adattabile, modificabile in relazione alle funzioni dell’edificio religioso stesso, alla devozione personale e alle intenzioni dei committenti. L’eccessiva complessità e ricchezza di contenuti che caratterizza il programma iconografico marciano potrebbe derivare dalla dimensione della fabbrica stessa, che permette alla narrazione figurata di dilungarsi e di appropriarsi di numerosi spazi disponibili, non trovandosi vincolata a quelli assai più ridotti, distintivi di una chiesa monastica a croce inscritta (basti pensare ai casi di Chios, Osios Lukas e di Daphnì)95. La serie di episodi si può così estendere facendo ricorso ai corrispondenti modelli iconografici bizantini, pur talora riadattati e rielaborati. Ed è proprio sulle caratteristiche stilistiche e iconografiche inerenti alle fasi decorative duecentesche che concentreremo la nostra attenzione, evidenziando il processo evolutivo che, all’indomani della IV crociata, aveva caratterizzato la pittura musiva nel più importante cantiere pubblico costituito dalla riapertura della fabbrica della basilica marciana. 94 95 E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni, cit., pp. 25-26. Ivi, p. 33. 44 2d, 1 - L’Orazione nell’Orto Il grandioso pannello (figg. 15-16) che rappresenta la preghiera del Cristo sul Monte degli Olivi, oltre a completare il ciclo cristologico, consentì di decorare i nuovi spazi parietali, divenuti visibili a seguito della rimozione delle tribune. Il fatto che la rappresentazione non sia stata suddivisa in singole immagini, bensì trattata come un campo pittorico unitario, è senza dubbio dovuto all’imporsi di un nuovo modo di narrare diffusosi proprio nell’ambiente bizantino del tardo XII secolo. Esempi precedenti di tale nuovo formato si trovano nelle pitture a fresco, come per esempio quella di Nerezi (1164, fig. 17), oppure nella scena di soggetto analogo trattata in tre episodi a San Clemente (Vergine Peribleptos) di Ohrid da Michail Astrapas nel 1294-129596. Tanto unitaria appare la composizione d’insieme del Monte degli Olivi, quanto poco omogeneo si presenta, invece, il carattere stilistico nei particolari. Tale capolavoro si può suddividere in tre sequenze tratte dal vangelo di Matteo (26, 36-40) che rappresentano, in un continuum narrativo che si svolge in uno scenario di montagna aspra e fiorita, i tre momenti di preghiera del Cristo e i tre intervalli del suo desolato colloquio con Pietro e gli altri Apostoli, incapaci di partecipazione e di veglia. Nell’angolo più lontano si scorge il gruppo degli Apostoli addormentati (fig. 18), composto in atteggiamenti di inedita e audace iconografia. La loro caratterizzazione segna un punto di svolta nella decorazione musiva di San Marco che, come analizzeremo successivamente, tiene conto delle più recenti ricerche artistiche in ambito bizantino. In particolare il Demus, presuppone, per l’esecuzione del grandioso quadro musivo, l’intervento di tre Maestri. Al primo spetterebbe il gruppo di Apostoli addormentati di sinistra: le figure mostrano uno stile completamente caratterizzato, dettagliato, mosso, con una interessante differenziazione tipologica; i drappeggi delle vesti degli Apostoli, con le innumerevoli pieghe che 96 O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra Tardomedioevo e Rinascimento, a cura di A. Pertusi, Firenze 1966, pp. 125-139. Anche per il Prof. Ennio Concina nel pannello della Preghiera del Cristo nell’Orto degli Ulivi è evidente la stretta parentela iconografica con la scena di soggetto analogo trattata nella Theotokos Peribletos di Ohrid da Michail Astrapas e, dal momento che appare piuttosto improbabile la conoscenza del mosaico marciano da parte del pittore bizantino, va quantomeno riconsiderata la dipendenza iconografica di entrambe le opere da un modello affine. E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni, cit., p. 34. 45 disegnano le forme alternate da parti lisce, sembrano corrispondere allo stile tardo comneno di cui l’Ascensione marciana (fig. 19) rappresenta forse l’esempio più alto97. Questa nuova monumentalità, l’equilibrio classico e gli effetti tonali del colore ci inducono a definire costantinopolitana la formazione del Maestro esecutore di questo gruppo. In modo apparentemente inspiegabile la partecipazione di questo maestro si spezza improvvisamente nel mezzo della composizione e proprio nel mezzo del gruppo dei dormienti. In ogni caso, con le tre figure di destra del gruppo degli Apostoli (Pietro, Andrea e un giovane apostolo giacente identificato come Giovanni), inizia l’intervento di un secondo Maestro. Per Demus98, dalla stessa mano derivano anche la figura di Cristo in piedi e quella in ginocchio e una parte dello sfondo panoramico con il motivo “moderno” delle mura (escluso il picco e il muro merlato, attribuiti al primo Maestro). Rispetto alla rappresentazione degli altri Apostoli qui le forme sono diverse: il trattamento dei panneggi è più rigido, i colori più freddi, le linee curve sono meno naturali, ma piuttosto indurite e spezzettate. Questa sorta di “cubismo” che si pone immediatamente accanto alla fluida, mossa differenziazione delle figure del primo Maestro è il risultato di uno stile sorto a Bisanzio, dove lo incontriamo in due fasi distinte, all’inizio e alla fine del XIII secolo. È chiaro il riferimento al cubismo costantinopolitano esemplificato nei tardi affreschi della chiesa di Peribletos di Ohrid del 129599 (fig. 20) e in quelli di Santa Trinità di Sopočani (1265), che costituiscono l’esempio più evoluto di pittura monumentale del XIII secolo100 (fig. 21), riscontrabile anche nella chiesa di Mileševa in Serbia. Per Demus, il secondo Maestro dell’Orto degli Olivi di San Marco si è certamente formato a Bisanzio; in ogni caso, gli è nota la corrente stilistica bizantina più moderna del primo XIII secolo. Anche il suo lavoro si interrompe improvvisamente; infatti, immediatamente vicino al Cristo in piedi, rispettivamente nella seconda e nella terza parte del grande quadro, si coglie un nuovo stile del tutto diverso, quello del terzo 97 Ancor più accentuato appare questo movimento negli affreschi macedoni del tardo XII secolo, come a Kurbinovo (1191), dove il linearismo manierista è accentuato fino all’assurdo. Ivi, p. 128. 98 Ivi, p.129. 99 Ivi, p. 130. 100 V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967, p. 245. 46 Maestro il quale, pur rifacendosi maggiormente al primo, presenta interessanti tratti innovativi. Viene mantenuta la monumentalità, quello stile classico, il movimento delle pieghe e delle figure che ricorda il primo Maestro, anche se le forme complessive sono però più grandi e i dettagli dei visi, delle mani, delle rocce fino agli orli frastagliati mostrano le caratteristiche del primo stile gotico veneziano che iniziava ad affermarsi in quel periodo ed è ravvisabile in particolare nelle splendide immagini di fiori e di alberi. Benché in questa parte si possano intravvedere due o tre mani, lo stile è molto unitario, si tratta di una composizione nuova e libera con peculiarità veneziane. Alla realizzazione di questo grandioso pannello avrebbero lavorato dunque almeno tre grandi maestri dal 1215 al 1230. Per la datazione precisa si fa riferimento, in particolare, ad una lettera scritta nel 1218 da papa Onorio III al doge di Venezia Pietro Ziani - e conservata in copia negli Archivi Vaticani - con la quale il Pontefice ringrazia il Doge per avergli inviato un mosaicista per la decorazione dell’ abside di San Paolo Fuori le Mura a Roma (fig. 22) e gliene chiede altri due, vista la vastità del lavoro101. Secondo il Demus, i pochi resti raffiguranti le teste che si sono conservati nell’originale di quest’opera presentano notevoli affinità con lo stile del mosaico del Monte degli Olivi, tanto che egli avanza l’ipotesi che il primo e il secondo Maestro siano stati tra i mosaicisti chiamati a Roma102. Il Polacco,103 invece, colloca l’esecuzione del grandioso pannello intorno al 1220 o agli anni immediatamente successivi. La cesura stilistica avvenuta in San Marco tra lo scorcio del secolo XII e la fine del secondo decennio del Duecento sarebbe conseguenza del soggiorno romano dei maestri grecoveneziani, chiamati alla composizione dei mosaici dell’abside di San Pietro prima, e di quella di San Paolo poi, intorno al 1216. È proprio da questo soggiorno che, secondo lo studioso, gli artisti veneziani avrebbero attinto non 101 P. Saccardo, Les mosaïques de Saint-Marc, Venezia 1896, p. 30. O. Demus, Bisanzio e il mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra Tardomedioevo e Rinascimento, cit., p. 130. 103 R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., pp. 238-239. 102 47 poche suggestioni per la creazione di quel linguaggio neo-paleocristiano che connota il ciclo della Genesi dell’atrio marciano. Tale composizione, assolutamente innovativa e “veneziana”, per la sua raffinatezza, l’equilibrio compositivo, gli effetti cromatici e i dettagli decorativi rilevabili soprattutto nei particolari della vegetazione, è considerata uno degli esiti più alti dell’arte italiana del Duecento. 48 2d, 2 - L’Inventio e l’ Apparitio Sancti Marci Il registro inferiore della parete occidentale del transetto sud è occupato da due grandi quadri (figg. 23-24) il cui soggetto è assai complesso e ha lo scopo di rappresentare il mito dell’autorivelazione104 delle reliquie di San Marco. La collocazione di queste ultime era stata dimenticata negli anni intercorsi tra la fondazione della basilica contariniana, nel 1063, e la sua consacrazione nel 1094 e, secondo la leggenda raccontata dai veneziani, dopo giorni di digiuni e di preghiere un pilastro della chiesa di San Marco si sarebbe aperto mostrando le reliquie dell’Evangelista Marco. Nel primo pannello lo sfondo è costituito dalla raffigurazione della basilica di San Marco in sezione longitudinale. Essa viene rappresentata con interessanti dettagli architettonici: il pulpito e il ciborio che appaiono sovrapposti, d’importazione costantinopolitana, e il presbiterio che presenta una recinzione a plutei intervallati da pilastrini della stessa altezza. L’evento che viene descritto è il momento della messa a cui presero parte il Doge e il Clero davanti al popolo di Venezia supplicante. Si tratta delle preghiere e dei digiuni rivolti al Signore nel 1094 per volontà del doge Vitale Falier, al fine di conoscere il luogo dove giaceva il corpo del Santo, ignoto oramai a tutti, dopo la costruzione dell’attuale basilica, allora appena terminata105. Nel secondo pannello, invece, verso nord, l’Apparitio ha già avuto luogo e il Doge e il suo seguito ringraziano per il miracolo avvenuto. Il Doge rappresentato nei due pannelli è sì Vitale Falier (1084-1096), che assistette all’Apparitio, ma nel contempo anche Ranieri Zen (1253-1268), che dedicò il mosaico all’evangelista Marco come dono per aver protetto la città e i veneziani stessi nelle lotte contro i genovesi106. Incerta è l’identificazione 104 O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, cit., p. 47. La leggenda narra che San Marco si degnò di manifestarlo sporgendo il suo braccio dal pilastro, quello attualmente a sinistra, presso la cappella di San Clemente. Durante le feste di nobili e di popolo, il vescovo locale e il doge collocavano definitivamente il corpo del santo sotto l’altare maggiore, dove tuttora si conserva. A. Niero, I cicli iconografici marciani in I mosaici di San Marco, Milano 1986. (http://www.basilicasanmarco.it/ita/basilica_mos/patrimonio_marco2.bsm). 106 Il fatto è citato negli Annales Venetici Breves e nella Cronique des Venitiens di Martino da Canal. Ranieri Zen (1253-1268) rinnovò la festa dell’Apparitio (25 giugno). Essa, infatti, esisteva nel 1258, quando i Genovesi furono sconfitti ad Acri e di nuovo se ne parlò nel 1266, al tempo della battaglia navale di Trapani, sempre contro i Genovesi, R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 241. 105 49 dell’ultimo gruppo di personaggi, prevalentemente femminile. Degna di rilievo, a tale proposito, è invece l’attenzione che viene posta alla scenografia, importante per capire il rapporto fra i costumi dei personaggi marciani e i costumi della corte di Bisanzio107. Non è questa la sede più adatta per dilungarci su questo tema, anche se è interessante comunque notare come l’immagine, il fascino e lo splendore della corte di Bisanzio rappresentassero il punto più alto nell’immaginario collettivo e quindi anche nelle menti degli artisti di quel tempo. Non solo l’Apparitio, ma anche molti altri mosaici marciani offrono un ricco campionario di immagini, ufficiali e non, di sovrani, dignitari civili ed ecclesiastici, colti nei loro abiti cerimoniali che variano di foggia e di colore a seconda delle circostanze e spesso mostrano le insegne del grado, che senza dubbio risentono nelle loro modalità espressive dell’influsso bizantino. Infine, non è possibile non cogliere talune affinità tra le rappresentazioni musive della basilica marciana del pannello dell’Inventio e quelle architettoniche del manoscritto madrileno della Synopsis historiarum di Giovanni Skylitzes (soprattutto la miniatura del foglio 33 con la rappresentazione della chiesa della Blacherne) riferibile al 1150-1180. Da notare anche che nell’Inventio e nell’Apparitio emergono alcuni stilemi ravvisabili pure nei pannelli dell’Orazione nell’Orto: l’aulicità dell’ambiente e dei personaggi in esso inseriti, la monumentalità e un certo gusto per il colore fanno parte di quel “classicismo bizantino” che, a partire dal XII secolo, registriamo in San Marco e che vedrà la sua massima espressione nella pittura serba di Mileševa e Sopočani. 107 G. Ravegnani, Rapporto tra i costumi dei personaggi veneziani, in Storia dell’arte marciana: i mosaici, a cura di R. Polacco, Venezia 1997, pp.176-184. 50 2d, 3 - IL mosaico del portale di Sant’Alipio Il mosaico posto nel primo arcone di sinistra (Sant’Alipio) della facciata esterna della basilica di San Marco, in stile ormai protopaleologo108, raffigura il trasporto delle reliquie dell’evangelista nella chiesa a lui intitolata (fig. 25). Si tratta dell’unico mosaico duecentesco che si è conservato in facciata. La grande capacità di riprodurre un’architettura così complessa in modo tanto fedele denota la notevole abilità ritrattistica del mosaicista. La rappresentazione frontale della chiesa veneziana sormontata dalle sue cinque cupole è interessante, da un punto di vista iconografico, perché mostra analogie non soltanto con illustrazioni librarie bizantine del tipo di frontespizi delle Omelie di Giacomo di Kokkinobaphos (fig.14), ma anche con le raffigurazioni di architetture quali quelle presenti nel ms. 707, rotolo liturgico del monastero di San Giovanni a Patmos, o nel ms. 2759 della Biblioteca Nazionale di Atene109. La cerimonia di Stato della collocazione delle reliquie ha luogo in presenza del Doge, del Patriarca di Grado, che indossa il palium orientale come nei pannelli dell’Apparitio, e del Vescovo di Olivolo, seguiti da un corteo di dignitari ed ecclesiastici sontuosamente vestiti. Il testo dell’iscrizione, nella redazione originale “COLLOCANT HVNC DIGNIS ET COLIT HYMNIS VT VENETOS SERVET TERRAQVE MARIQVE GVBERNET”110, ben chiarisce la funzione politica che ancora nel Duecento aveva la collocazione e la custodia delle reliquie dell’Evangelista Marco. È interessante, a tale proposito, sottolineare il messaggio politico, volto alla glorificazione encomiastica della Repubblica, del Doge, della basilica stessa, che da queste immagini di potere si rileva. Sulla scia del cerimoniale di corte e dei repertori iconografici pagani, ideologicamente interpretati nel segno della cristianizzazione, le insegne del potere quali corone, scettri, fibule, abiti sontuosi, architetture palaziali concorrono a creare il mito della figura imperiale concepita come emanazione 108 R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 242. E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni in “Quaderni della Procuratoria”, cit., p.34. 110 F. Sansovino e G. Stringa, Venetia città nobilissima […], Venezia 1604, c. 10b. 109 51 divina, espressione della perfetta unità fra Stato e Chiesa. Così a San Marco, nel mosaico di Sant’Alipio, Doge e Patriarca insieme, circondati da alti dignitari ed ecclesiastici, sfilano in un solenne corteo, nelle grandiose scene dell’attesa e dell’accoglimento delle reliquie di San Marco. Questo mosaico, inoltre, è importante dal punto di vista storico in quanto documenta l’esistenza del rivestimento esterno delle cupole marciane. Il fatto che sia stato eseguito sotto il ducato di Lorenzo Tiepolo (1268-1275) ci porta a concludere che la sopraelevazione delle cupole esterne sia avvenuta nel decennio compreso tra il 1265 e il 1275. Così, ancora una volta, l’esempio del mosaico di Sant’ Alipio è significativo in quanto, attraverso una lettura interdisciplinare, diviene uno straordinario medium di comunicazione di precise idee e ideologie111. Il mosaico è stato definito dallo studioso Michelangelo Muraro un esempio di rinnovamento e nobiltà artistica della metà del Duecento. Il vertice dell’arte musiva di questo momento viene raggiunto dal Maestro dei Pinakes. 111 Attraverso le decorazioni musive degli edifici di culto di alcuni centri significativi, quali Ravenna, Costantinopoli e Venezia, inseribili in un arco cronologico compreso fra V e XIII secolo, si può felicemente delineare un percorso politico-religioso. C. Rizzardi, Fra Ravenna e Venezia: Immagini di potere nei mosaici parietali (V-XIII secolo), Atti del XII Colloquio internazionale per lo studio del mosaico antico, Venezia 11-15 settembre 2012. 52 2d, 4 - I Pinakes Alcuni Pinakes, quelli raffiguranti la Vergine Orante (fig. 26), il Cristo Emanuele (Fig. 27) e i profeti Isaia (fig. 28), Geremia (fig. 29), Davide (fig. 30) e Salomone (fig. 31), costituiscono una delle più alte testimonianze del rinnovamento artistico avvenuto a Venezia nel corso del Duecento. In questo periodo, infatti, gli eventi che seguirono la IV crociata consentirono ai Veneziani di importare a Venezia anche artisti della capitale conquistata, i quali contribuirono in misura determinante alla diffusione della cultura tardocomnena di Bisanzio, influenzando così lo stile dei mosaici veneziani, che da greco divenne costantinopolitano112. Il Cristo Emanuele è ritratto in piedi su un magnifico sfondo blu punteggiato di stelle d’oro. Egli è eretto su suppedion con bordo gemmato e cuscino dorato entro una preziosa cornice a palmette. Il volto giovane e l’incarnato perlaceo del viso sono ben resi dalla magnifica disposizione delle tessere che creano un effetto cromatico di alta qualità. Il corpo è avvolto da una tunica preziosa che presenta riflessi color argento e che valorizza il plasticismo e le forme fluide ed eleganti della sinuosa figura. La Vergine orante si erge su un fondo d’oro che ricorda l’opus clatratum dei battenti bronzei del portale centrale della basilica, importati da Bisanzio proprio nel Duecento; forse l’intento è appunto quello di richiamare il simbolo di “porta del paradiso” attribuito alla Vergine113. Ella indossa Kampaghià purpurei, una tunica azzurra lumeggiata d’argento e un manto verde decorato con frange d’oro e rosso nella parte interna. La complessa composizione delle tessere appositamente disposte, che creano su tutto il pannello un particolare effetto cromatico, conferisce plasticità al suo volto. La monumentalità, l’equilibrio, la compostezza e l’eleganza dei morbidi panneggi della Vergine evidenziano l’uso di un linguaggio rinnovato dal punto di vista plastico-tonale, legato al classicismo tardocomneno trapiantato nei cicli pittorici serbi di Mileševa e Sopočani e introdotto poi a Venezia da artisti della metropoli, importati durante il periodo della dominazione latina. 112 113 R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 243. Ivi, pp. 244-245. 53 Nella rappresentazione degli altri profeti (Salomone, Isaia) troviamo gli stessi stilemi. È interessante comunque notare che il classicismo tardocomneno, se negli affreschi serbi assume desinenze plastiche e naturalistiche soprattutto grazie allo studio psicologico dei personaggi, qui nei pinakes marciani acquisisce un valore nuovo: quella luce particolare che si irradia negli incarnati, creando un effetto cromatico prezioso, mai raggiunto negli altri cicli della basilica114. Altri mosaici, come “La coppia d’Angeli con reliquiario della Croce” sopra la Porta del Tesoro, o “Il Cristo in trono tra la Vergine e San Marco” sopra la porta occidentale, sono attribuiti per le caratteristiche che presentano alla stessa mano del maestro dei Pinakes. 114 Ivi, pp. 245-246. 54 2d, 5 - I MOSAICI DELL’ATRIO Realizzati nel corso del XIII secolo, in seguito al successo riportato nel 1204 con la IV crociata, essi costituiscono uno straordinario completamento della basilica, già abbellita al suo interno dalla decorazione musiva115 (fig. 32). Con un’ampiezza unica al mondo nelle cupole dell’atrio vengono illustrate le storie dell’Antico Testamento: dalla creazione del cielo e della terra e dal progetto di Dio sugli uomini al dramma del peccato, dalla promessa ad Abramo alle appassionanti vicende di Giuseppe e degli altri figli di Giacobbe, alla vita di Mosè chiamato a liberare il popolo ebreo dalla servitù dell’Egitto. E proprio l’ingresso nel deserto e l’inizio del cammino verso la terra promessa concludevano la decorazione dell’atrio marciano, che diveniva così la strada simbolica per entrare nel compimento della storia realizzatasi in Cristo116. I fatti narrati nel Pentateuco racchiudono un importante messaggio spirituale: “segnano” il tempo della venuta di Gesù la cui vita e i cui misteri sono celebrati nei mosaici dell’interno della Basilica, ispirati al Nuovo Testamento. La scelta degli episodi narrati nell’atrio non è, dunque, casuale, ma risponde a un’intenzione didattica e glorificante: non a caso le storie di Adamo, di Noè (fig. 33) e della Torre di Babele (fig. 34) seguono la narrazione fatta da Santo Stefano Protomartire117 e riportata negli Atti degli Apostoli118. Questo riassunto della preistoria cristiana attuato in fedele rispetto dei testi biblici aveva il vantaggio di essere un’ abbreviazione canonica e quindi lecita; nei mosaici vengono mantenute od omesse le stesse vicende del testo degli Atti e la scelta delle raffigurazioni è conformata dunque ad un modello già accreditato. R. Polacco ritiene che ogni manifestazione artistica apparsa a Venezia nel XIII secolo sia ispirata da un’esigenza di rinnovamento cristiano. I presunti modelli, e tra questi anche il racconto di Santo Stefano, sono tutti legati alla Roma cristiana e l’idea stessa di un nartece è, secondo lo studioso, indiscutibilmente paleocristiana. Il portico in San Marco non aveva, dunque, la funzione di un 115 G. Trovabene, Corso monografico sui mosaici della basilica di San Marco,Venezia, Anno Accademico 2004-2005. B. Bertoli, L’Antico Testamento nei mosaici di San Marco in I mosaici di San Marco, Milano 1991, p. 55. 117 Nel tesoro si conserva un reliquiario cinquecentesco che contiene una delle pietre con cui Santo Stefano è stato lapidato. R. Polacco, I mosaici dell’atrio in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 251. 118 Atti degli Apostoli, cap. VII. 116 55 tribunale (sebbene i canonici di San Marco fossero spesso notai), ma piuttosto quella di un confessionale, in analogia con quanto accadeva in epoca paleocristiana119. Per questo i mosaici marciani dell’atrio accolgono sin dall’inizio e senza incertezze la novità paleocristiana, il che vuol dire, in altri termini, che in essi domina il naturalismo120. Non dimentichiamo, tuttavia, che il favoloso bottino della IV crociata aveva assicurato alla chiesa di San Marco una gran quantità di materiale prezioso; lo stesso Enrico Dandolo mandò da Costantinopoli molte “taole de marmo et colone de porfido et marmoro con molto musaico per adornar la Chiexia de San Marco”121. È molto probabile che l’espressione “molto musaico” sia da intendere come materiale musivo, cioè smalti, oro dorato e tasselli di pietra, ed è ancora più probabile che proprio questo prezioso bottino abbia dato impulso all’arricchimento e al completamento della decorazione musiva della chiesa di San Marco, che presentava diverse lacune tanto dal punto di vista formale quanto da quello iconografico. A tale proposito, è bene ricordare che in San Marco mancava del tutto un ciclo di rappresentazioni del Vecchio Testamento, un tema che nel XII secolo era divenuto moderno nell’area d’influenza bizantina e non solo in Sicilia122. A partire dalla cupola della Genesi (fig. 35) si snodano i fatti narrati nel Pentateuco. In particolare, in questo meraviglioso manto musivo è raffigurata la Creazione del mondo. Il racconto è suddiviso in ventisei scene distribuite all’interno di tre zone concentriche. In successione seguono le giornate della Creazione: nel cerchio più interno della cupola sono raffigurate le prime tre 119 “L’aver fatto dell’atrio di San Marco un ambiente con una funzione legata ancora a quella che aveva nei primi secoli del cristianesimo è una scelta legata alla volontà di sottolineare l’apostolicità storica della sede che nel Duecento era ormai nominalmente gradense”. R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 251. 120 Ivi, p. 256. 121 O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., p. 125. 122 Ci si riferisce alla rappresentazione della Genesi nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo e di Monreale e alla loro relazione con i mosaici marciani. Per O. Demus, i mosaici siciliani segnano l’affermarsi di uno stile fluido, agitato, il cui ritmo conosce un progressivo crescendo. Nella Cappella Palatina, per lo studioso, le figure presentano già nella prima metà del XII secolo un panneggio complicato, che si può paragonare a quello dell’Apostolo barbuto, disteso sul monte degli Olivi di San Marco. Una generazione più tardi, il fascio delle linee nel drappeggio a Monreale è così pieno di slancio che l’impressione d’insieme è molto più mossa e manieristica che non in San Marco. Tali forme in movimento e tali gesti agitati saranno ancora più evidenti negli affreschi macedoni del tardo XII secolo, come a Kurbinovo, dove il linearismo manieristico è accentuato fino all’assurdo. Ivi, p. 128. 56 opere create da Dio: la luce e le tenebre; lo spazio delle acque e lo spazio dell’aria e l’emersione della terra (fig. 36). A queste corrispondono simmetricamente, nel cerchio successivo, le tre opere di “ornato”: il sole, la lune e le stelle; i pesci e gli uccelli; gli animali e l’uomo. Singolare è, innanzitutto, la figura del Creatore, che si scosta dalle rappresentazioni tradizionali che lo ritraevano anziano e con barba, mentre qui, al contrario, è il Cristo secondo l’iconografia orientale, che porta il segno della croce nel nimbo e che tiene una croce astile con la sinistra123. Secondo il Demus, lo schema compositivo che raggruppa nella cupola della Genesi ventisei scene in tre zone concentriche si rifà a rappresentazioni cosmologiche tardoantiche e alle loro raffigurazioni medievali in cupole, pavimenti, miniature. In particolare, il modello al quale gli artisti marciani si rifanno per la realizzazione dei mosaici della cupola della Genesi risale al primo periodo del Cristianesimo: si tratta della Bibbia Cotton, un codice miniato del V-VI secolo, giunto a Venezia in originale o in copia, probabilmente in seguito alla IV crociata, e andato quasi interamente distrutto in un incendio nel 1731 (fig. 37). L’esser venuti in possesso di tale manoscritto potrebbe aver indotto i veneziani ad ampliare, con l’aggiunta di un’ala settentrionale, l’atrio destinato ad ospitare il ciclo del Vecchio Testamento in modo di poter accogliere tutte le scene del modello124. La l’attenzione posta scelta alle delle scene, proporzioni, la composizione alle figure e dei al singoli quadri, contorno, alcune rappresentazioni animali ancora piene della illusionistica vivacità della tarda antichità e certe espressioni del colore, specialmente nelle storie della Creazione, sono tutti elementi che provengono non dall’arte contemporanea bizantina, ma dalla pittura illusionistica protobizantina del VI secolo e per essere più precisi, in parte dal prototipo molto più antico di questa concezione125. 123 Secondo la tradizione iconografica orientale (cfr. Origene, Omelie sulla Genesi 1, 13, PG 12, 156-157) che si rifà in primo luogo al IV Vangelo, nessuno può vedere Dio se non nel Cristo che ne costituisce l’unica, perfetta immagine (Giovanni 1,18; 14,8-11; cfr. Colossesi 1, 15) e per mezzo del quale Dio “creò i mondi” (Lettera agli Ebrei 1,2) come confermerà solennemente il concilio di Nicea nel 325. B. Bertoli, I mosaici di san Marco, cit.,1991, p. 56. 124 O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., p. 126. 125 Ivi., p.134. 57 Ad ogni modo, nonostante la stretta dipendenza dalla Genesi Cotton, gli studiosi considerano i mosaici della Genesi come prodotti esclusivamente dell’arte veneziana, in stretta relazione con le opere della più tarda bottega del Monte degli Olivi e con le rappresentazioni dei Profeti126. Il carattere prettamente innovativo e “veneziano” di questi mosaici ben emerge in molteplici aspetti: nel trattamento dei corpi e nel realismo delle figure ignude, nell’inedito naturalismo, nella resa degli elementi paesistici e architettonici opportunatamente collocati, nell’organizzazione delle scene e dello spazio che ben definiscono la sequenza narrativa, nella resa dei dettagli del disegno dei volti e dei drappeggi, così come nello straordinario colorismo pittorico che pervade le raffigurazioni delle diverse specie di animali, in particolare, degli uccelli e dei pesci. La seconda cupola del nartece rappresenta le vicende di Abramo (fig. 38), capostipite del popolo ebraico e iniziatore di una nuova storia dell’umanità. A differenza di Adamo e degli uomini di Babele egli non presume di diventare simile a Dio, ma ne ascolta docilmente la parola. Egli è rappresentato come prefigurazione di Gesù Cristo e tale interpretazione cristologica è ben espressa nel sottostante arcone in una scritta di intonazione polemica contro il popolo eletto: “Signat Abram Christum qui gentis spretor hebree transit ad gentes et sibi junxit eas”, Abramo prefigura Cristo che, ripudiando il popolo ebraico, passò alle genti e le unì a sé127. La decorazione musiva della cupola e della lunetta risale alle fine degli anni Venti del XIII secolo e, seppure di poco posteriore rispetto alla cupola 126 O. Demus osserva come nel terzo stile del maestro del Monte degli Olivi e nelle raffigurazioni dei Profeti la combinazione di stimoli bizantini e occidentali si attui in uno spirito veneziano, altamente innovativo. O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., p. 131. Per lo studioso R. Polacco, notevoli sono le differenze tra i mosaici duecenteschi dell’interno della basilica (che egli definisce esemplari purissimi del gusto aulico costantinopolitano) e quelli dell’atrio. Lo studioso ribadisce, infatti, che lo stile di questi ultimi è il risultato dell’influsso che i mosaicisti marciani hanno subito durante il loro soggiorno a Roma per lavorare alla decorazione monumentale di una chiesa come quella di San Paolo Fuori le Mura. In questo senso il più tardo contatto nel 1277 con i mosaici di Parenzo, ancora in seguito ad una commissione, non fa altro che ravvivare le fonti paleocristiane. Sempre secondo lo studioso R. Polacco è interessante notare, a tale proposito, come i veneziani portino con sé il recupero della romanità, chiaramente naturalista, molto lontana dal gusto locale improntato a quella maniera greca “cubista” che rappresenta l’estrema evoluzione del linguaggio macedone. R. Polacco, I mosaici dell’atrio in San Marco in La Basilica d’Oro, cit., p. 258. 127 La frase sembra sintetizzare, filtrati dalla letteratura patristica, i temi evangelici e paolini della rottura tra Cristo e i responsabili di Israele, considerati figli, non più di Abramo, ma di Satana (cfr . Giovanni, 8,31-59) e del passaggio della promessa ai popoli pagani (cfr. Matteo 21,43-44). B. Bertoli, I mosaici di San Marco, cit., p. 98. 58 precedente, introduce nuovi elementi: il racconto non si sviluppa più nella tripartizione in zone, bensì in un unico fregio nel quale le varie scene si succedono in una continuità narrativa che a volte permette lo sconfinamento dell’una sull’altra. Nel modellato delle teste e dei drappeggi lo stile rivela la stessa mano degli artisti che lavorarono nell’arcone di Noè e di Babele, anche se la tavolozza risulta leggermente più sbiadita e presenta meno effetti cromatici rispetto alla precedente, ad eccezione della lunetta con la raffigurazione dell’ospitalità di Abramo che, secondo il Demus, appare molto più curata, forse per l’importanza del tema e anche per la sua posizione di maggior visibilità dinanzi alla porta d’ingresso nell’atrio. Dopo il lungo indugio su Abramo e l’essenziale accenno ad Isacco, il racconto marciano della Genesi omette gli episodi della vita del terzo patriarca, Giacobbe128, per passare alle storie del prediletto Giuseppe. Tale ciclo occupa le tre successive cupole dell’atrio nel lato settentrionale. Giuseppe, figlio del terzo patriarca, Giacobbe, è l’ebreo buono, l’interprete dei sogni, il giusto sofferente. Dalle sue storie emerge il tema della giustizia che riconosce, salva e premia l’innocente: dopo essere stato venduto dai fratelli e ingiustamente condannato dagli egiziani entra nelle grazie del faraone e diviene il Salvatore del popolo d’Egitto e dei suoi stessi fratelli che lo hanno tradito. D’immediata percezione è l’insegnamento morale e religioso che tali vicende sottendono: il giusto perseguitato non deve disperare, ma perseverare nell’onestà, perché sarà salvato e misteriosamente trasformato guida gli a sua eventi volta umani. in Per salvatore spiegare da Dio, che ulteriormente l’eccezionale svolgimento dato a questo racconto, sviluppato addirittura in tre cupole, gli studiosi sottolineano il posto centrale che nella narrazione occupa l’Egitto, la terra del ministero e del martirio di San Marco. Anche Giuseppe viene visto come una sorta di prefiguratore di Cristo: umiliato e glorificato, venduto dai fratelli agli stranieri e salvatore degli uni e degli altri129. La prima 128 Non è del tutto chiaro il motivo di tale omissione; forse le storie di Giacobbe erano ritenute prive di esemplarità morale e non si conciliavano con la finalità religiosa e la razionalità politica che presiedevano al progetto figurativo della cappella ducale, anche se, nell’ala nord del nartece, la figura di Giacobbe appare quattro volte all’interno delle vicende che riguardano i suoi figli e sono incentrate sul prediletto Giuseppe. B. Bertoli, I mosaici di San Marco, cit., p. 112. 129 Ivi, pp. 112-113. 59 cupola (fig. 39), che gli studiosi datano all’inizio del terzo decennio del XIII secolo, riflette le caratteristiche generali della cupola di Abramo, ma con un ulteriore affinamento, evidente dalla netta distinzione delle scene, così come da una maggiore consapevolezza nell’uso del disegno e da certe espressioni liriche nei volti delle figure, che lo studioso Demus intravvede e ritiene parte di quella evoluzione stilistica che andrà a caratterizzare le cupole successive. La seconda cupola di Giuseppe (fig. 40) e la lunetta, composte tra il 1125 e il 1260, infatti, presentano marcate differenze stilistiche rispetto alle precedenti, tanto da far pensare di essere opera di mani diverse: i colori sono più accesi e le figure più solide e movimentate. Alcune novità, che denotano l’influsso dell’arte paleologa, riguardano lo sviluppo di certe strutture architettoniche da cui sono inquadrate quasi tutte le scene e la creazione di spazi tridimensionali, come si può ben vedere dalla rappresentazione del tavolo del Faraone nel pennacchio a sud-est. Le iscrizioni, inoltre, presentano nuovi caratteri paleografici che si dispongono su due righe in modo molto più arioso e più chiaramente riferito alle singole scene. Alcune raffigurazioni, come quelle della lunetta, rappresentano il massimo del colorismo e della finezza tecnica130 e ben anticipano il capolavoro dell’ultimo cupolino (fig. 41). Secondo lo studioso Demus, il rivestimento musivo di questa cupola fu compiuto negli anni Settanta del Duecento e segna il punto più alto dello stile classico del secolo, così come esso si manifestò a Venezia. I corpi delle figure assumono quel plasticismo, quella robustezza, quell’armonia nella forma e nelle proporzioni che mai si era vista nelle altre cupole; anche i movimenti e l’atteggiarsi dei volti accentuano l’espressività dei personaggi. Non manca il gusto per la tridimensionalità, che si rileva anche nelle composizioni architettoniche; le stesse tende e le pareti determinano spesso la scansione degli spazi e pure le piramidi, che sostituiscono i granai nella Bibbia Cotton, sono disposte in due file in modo da indicare la profondità. Anche il motivo dei cerchi nel rosone centrale è ripreso da quello della prima cupola di Giuseppe, benché lo schema sia più complesso e impreziosito da un lussureggiante intrecciarsi di foglie e viticci. 130 Ivi, p. 124. 60 La decorazione dell’atrio trova la sua splendida conclusione nella cupola di Mosè (fig. 42), che completa il racconto veterotestamentario, ora ispirato al secondo libro della Bibbia, l’Esodo. Prevale anche qui l’interesse narrativo incentrato soprattutto sugli episodi biografici dell’infanzia e della giovinezza del protagonista Mosè che, salvato dalle acque del Nilo, diviene il Salvatore, colui che guiderà il suo popolo dall’Egitto verso la terra promessa. E non è casuale che nella scena finale della rivelazione di Dio e della missione di Mosè appaia uno dei temi più importanti, spesso recuperato dall’iconografia cristiana: quello del roveto ardente, che ben si associa alla figura della Vergine. La scena del roveto ardente che non si consuma è paragonata, infatti, alla verginità di Maria131. Alla fine dell’atrio è dunque nel nome della Vergine che si stabilisce il nesso tra Antico e Nuovo Testamento e il passaggio è ulteriormente confermato dalla Deesis (fig. 43), l’intercessione della Vergine rappresentata nella lunetta al di sopra della porta d’ingresso della basilica. La datazione più probabile per questa decorazione musiva è compresa fra i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta del XIII secolo. Di poco precedente a tale periodo sarebbe il manoscritto miniato bizantino che fu scelto come modello, la cosiddetta Bibbia di Carlo V conservata nella biblioteca di Gerona132 (fig. 44). Nella rappresentazione della storia di Mosè il Demus rileva lo scontrarsi di due stili diversi, dovuto all’irrompere dell’arte paleologa a Venezia. All’influsso della nuova corrente egli attribuisce l’integrazione delle figure nell’ambiente paesaggistico o architettonico (basti vedere le prime due scene, quella dell’abbeveramento del gregge e, nella lunetta, i miracoli nel deserto), le montagne scoscese, quasi cubiste, e le architetture complicate del palazzo del Faraone, nonché certi atteggiamenti delle figure ritratte di spalle con effetti espressionistici. 131 La storia di Mosè è in qualche modo associata alla Vergine nella letteratura patristica e nella liturgia mariana conservata dall’antichità fino ad oggi. “Rubum quem viderat Moises incombustum, conservatam agnovimus tuam laudabilem virginitatem”, [Nel roveto che Mosè aveva visto non consumarsi riconosciamo l’intatta tua ammirabile verginità], G. Nisseno, La vita di Mosè, in PG 44, 332; 46, 1136. La diatriba relativa al concepimento di Gesù e alla verginità di Maria sarà chiarita con il Concilio di Efeso. B. Bertoli, op. cit., p. 144. 132 Ibidem. Anche lo studioso W. Dorigo non esclude che l’innovazione possa essersi giovata delle miniature di un nuovo gusto protopaleologo di un libro dell’Esodo proveniente da Costantinopoli, anche se lo studioso ritiene che le storie di Mosè siano opera delle stesse mani che hanno eseguito la quinta cupola. W. Dorigo, La Basilica di San Marco in Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 200. 61 In contrapposizione, gli elementi paesaggistici non sono tra loro isolati, come nelle storie di Giuseppe, ma si susseguono, sono continui (proprio come lo stile storico narrativo continuo romano del II secolo) e costituiscono un unico ambiente. Le figure sono riprese in primo piano sullo sfondo di colline arrotondate come nella scena del roveto, i volti rasserenati delle figure mal si compongono con la violenza dei gesti, alberi e piante impreziosiscono il paesaggio come nel pannello dell’Orazione nell’Orto all’interno della Basilica. Infine, il cromatismo riprende le tonalità calde della cupola precedente. 62 2e - IPOTESI INTERPRETATIVE SUI MOSAICI DELL’ATRIO Dopo la breve lettura iconografica dei mosaici dell’atrio della basilica di San Marco, nasce il dibattito su quali siano stati i modelli a cui i mosaicisti marciani si sono ispirati per la creazione di questa imponente opera. Nella decorazione musiva duecentesca è ben nota l’analogia, rilevata da lungo tempo e convincentemente, tra alcune delle scene della cupola del nartece e il manoscritto bizantino della Bibbia Cotton; così come per altri episodi del nartece è stata supposta la dipendenza da altri manoscritti illustrati di età paleologa. I mosaici della Creazione e della protostoria umana rivelano, tuttavia, la capacità di innovazione, il prestigio e la piena consapevolezza dei mezzi espressivi da parte di una bottega locale in San Marco che, sebbene abbia attinto da modelli protobizantini e tardoantichi, è riuscita a dar prova della propria modernità realizzando un autentico capolavoro, massima espressione dell’evoluzione artistica del Duecento veneziano. Anche il successivo sviluppo musivo negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta del XIII secolo si evolve nel senso dell’affermazione di un linguaggio autonomo. La forte presenza di maestranze veneziane nella fase di ampliamento e di decorazione dell’atrio è confermata a mio avviso anche dal noto editto dei procuratori di San Marco del 1258, in base al quale nessun mosaicista poteva accettare incarichi all’infuori del cantiere marciano senza una particolare autorizzazione e, per di più, ogni maestro doveva tenere due apprendisti perché imparassero il mestiere133. Infatti, secondo O. Demus, le immagini che costituiscono la fine del ciclo di Giuseppe costituiscono la più elevata espressione del protorinascimento veneziano e sono il frutto di uno sviluppo locale. Tuttavia, nel ciclo di Mosè egli ravvisa un possibile sviluppo della pittura per miniature134 degli anni Ottanta a 133 O. Demus, Bisanzio e la pittura a Mosaico del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., p. 134. 134 Per alcuni episodi del nartece è stata supposta la dipendenza da altri manoscritti illustrati di età paleologa, E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni in “Quaderni della Procuratoria”, cit., p. 34. 63 Bisanzio, arte nella quale avevano trovato la loro piena espressione le premesse dello stile della dinastia dei Paleologi135. Demus stesso giunge ad affermare che si assiste ad una svolta stilistica inattesa tra l’ultima immagine del ciclo di Giuseppe e quello di Mosè e ciò lo porta a concludere che l’evoluzione organica del protorinascimento veneziano è stata brevemente interrotta dalla penetrazione dello stile paleologo136. La presenza di rocce turrite costituite da acuti cubi e prismi e da mura - mura che sono una costante degli sfondi paesaggistici -, le architetture palaziali articolate e composite con terrazze aggettanti, ringhiere e scanalature, la ripresa di motivi ornamentali nei particolari dei costumi, come le corazze dei soldati e l’addobbo imperiale bizantino del faraone, sono tutti elementi che trovano riscontro in opere del primo periodo dei Paleologi. Anche la composizione complessiva della cupola è nuova e specificamente paleologa. Essa non è più caratterizzata, come nelle cupole precedenti, da un fregio di figure isocefale che si susseguono in un continuum narrativo senza inizio né fine, bensì da una serie di singoli complessi rappresentativi, separati gli uni dagli altri da una netta cesura verticale e da una riga di inscrizione radiale137. Inequivocabile, dunque, appare l’influsso del mondo bizantino sulla decorazione musiva duecentesca, influsso che investe il cantiere marciano in due momenti distinti: all’inizio del secolo - come testimoniano soprattutto i mosaici duecenteschi dell’interno, definiti dal Polacco “esemplari purissimi del gusto aulico constantinopolitano”138 - e dal 1258 fino alla fine del secolo, quando, in seguito alla ripresa dei rapporti politico-commerciali tra Venezia e Bisanzio al tempo degli imperatori Paleologi, assistiamo ad un rifiorire delle relazioni culturali e artistiche fra le due città. Ed è proprio nell’intervallo fra questi due periodi, nella parte centrale del secolo, che gli stimoli iniziali vengono assimilati e rielaborati in uno stile originale, di grande potenza espressiva, che rappresenta la prima, autentica manifestazione della volontà 135 V. Djurić, I mosaici della chiesa di San Marco e la pittura serba del XIII secolo in Storia dell’arte marciana: i mosaici, a cura di Renato Polacco, Venezia 1994, p. 191. 136 Ibidem. 137 O. Demus, Bisanzio e la pittura a Mosaico del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., p. 136. 138 R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 258. 64 artistica veneziana nella pittura a mosaico. E di tale temperie culturale i mosaici dell’atrio costituiscono sicuramente una preziosissima testimonianza. 65 CAPITOLO III - BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA 3a – LA SCULTURA DUECENTESCA IN SAN MARCO Fra l’XI e il XIII secolo un sontuoso apparato scultoreo ha contribuito al completamento della facies della basilica marciana139. Tale decorazione plastica venne realizzata in tre distinti periodi: durante il dogado di Vitale Falier, nei rifacimenti immediatamente successivi imposti da eventi catastrofici e conclusi sotto il ducato di Sebastiano Ziani e, infine, nella fase di arricchimento delle strutture già esistenti, in accordo con la temperie trionfalistica inauguratasi a Venezia all’indomani della IV crociata. Ed è proprio quest’ultimo periodo, il Duecento, che rappresenta per la storia di Venezia un momento importante e di intenso sviluppo per le arti plastiche, così come testimonia la ricca e interessante produzione che ci è rimasta. Come si sia giunti a questo processo, quale ruolo abbiano avuto gli stimoli e i modelli bizantini e come i veneziani abbiano reagito a questi stimoli è il tema del nostro approfondimento. Per O. Demus è importante notare come lo sviluppo dell’arte plastica duecentesca veneziana si differenzi sostanzialmente da quella a mosaico. Innanzitutto, la conquista di Costantinopoli non provocò alcuna immigrazione di scultori bizantini a Venezia. Nella capitale bizantina, infatti, non c’erano artisti plastici monumentali particolarmente prestigiosi e, secondo lo studioso, l’influsso bizantino fu avvertito a Venezia solo attraverso la presenza di modelli. Fu così che cammei, monete, icone di pietra con figure a grandezza naturale, modelli pittorici e, soprattutto, illustrazioni di manoscritti ebbero probabilmente un’influenza determinante sulla produzione plastica veneziana140. Gran parte di questo materiale giunse a Venezia in seguito al bottino costantinopolitano della IV crociata e comprendeva in primo luogo materiale 139 Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, atti del convegno internazionale di studi, Venezia 11-14 ottobre 1994, a cura di Renato Polacco, Venezia 1997. 140 O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 141-155. 66 amorfo e decorativo, lastre di marmo, colonne, capitelli, piastre per cancellate. Pur non trattandosi di un repertorio particolarmente rilevante sotto il profilo artistico, esso esercitava, comunque, un profondo influsso sulle arti plastiche141; inoltre, la preziosità e il colore della materia prima divennero elementi determinanti. Tale processo è particolarmente avvertibile nelle trasformazioni che hanno caratterizzato il più importante cantiere pubblico della città: la platea marciana. L’architettura in mattoni originariamente spoglia di San Marco fu, infatti, rivestita con parte del materiale importato e molti di questi elementi propriamente plastici, tra cui diversi rilievi decorativi e figurativi, furono utilizzati per accentuare e arricchire tale rivestimento. L’aspetto che le facciate della basilica marciana presentano ancor oggi, a prescindere da aggiunte posteriori, risale infatti al XIII secolo. La chiesa di fine XI secolo si presentava, in sostanza, un’architettura in mattoni a vista ben articolata, ma priva di ornamentazioni figurative e solo nel corso del Duecento vennero sovrapposte delle facciate ornamentali scandite plasticamente da colonne, decorazioni scultoree, mosaici, integrati in una simbiosi decorativa molto affascinante che determina ancor oggi l’effetto generale dell’edificio142. Interessante è, inoltre, sottolineare le differenze che contraddistinguono le tre facciate di San Marco - quella a Nord, quella a Ovest e quella a Sud – che furono concepite in modo assai diverso dal punto di vista delle loro funzioni e pertanto anche da quello della decorazione. La facciata settentrionale (fig. 1) che dà sulla piazzetta dei Leoncini è principalmente caratterizzata da una serie di icone e di elementi ornamentali, per lo più trofei di varia provenienza, che trovarono una collocazione diversa da quella per la quale erano stati ideati. Essa presenta un carattere intimo e privato, in contrapposizione con il ruolo ufficiale e di rappresentanza svolto dalla facciata principale rivolta verso la piazza e il mare. Anche l’ornamentazione scultorea della facciata Sud (fig. 2) costituisce un insieme 141 Ivi, p. 143. O. Demus, La decorazione scultorea duecentesca delle facciate in Le sculture esterne di San Marco, Milano 1995, p. 12. 142 67 formalmente ordinato e di effetto decorativo, ma poco significativo dal punto di vista iconografico143. In maniera completamente diversa è invece stata concepita la facciata occidentale (fig. 3), un frontespizio dove dominano i più svariati contenuti politico-sociali ed etico-religiosi, che celebrano il trionfo, il potere, la ricchezza della città. L’apparato scultoreo di questa facciata è straordinariamente ricco. Esso comprende una gran parte di pezzi di reimpiego, opere riutilizzate in una sede diversa da quella originariamente loro destinata, che sono state reinserite, per quanto fu possibile, nel sistema logico della facciata e, quando non lo fu, vennero collocate rispettando il contesto ottico decorativo. A tale proposito, per citare un esempio, significativo è il nuovo valore iconografico assunto dal gruppo scultoreo del Sogno di San Marco, che in principio raffigurava il Sogno di San Giuseppe (fig. 4). Non conosciamo con precisione la data della sua collocazione nella nicchia del timpano del portale maggiore della basilica marciana, ma è certa la nuova valenza simbolica che esso venne ad assumere quale, appunto, rappresentazione della praedestinatio, cioè del sogno nel quale San Marco avrebbe appreso dall’angelo l’annuncio che un giorno il suo corpo avrebbe trovato pace e riposo nelle acque della laguna. Tale scultura è un esempio interessante della potente creatività che il mito fondatore dello Stato veneziano era in grado di mobilitare144. Oltre a questa tipologia di elementi scultorei ereditati dalla facciata precedente, aggiunti o trasformati, vi era altro materiale di spoglio, molto del quale proveniente dal bottino costantinopolitano della IV crociata145. Tra i trofei più imponenti e più importanti dato il loro carattere trionfale, per non dire imperiale, va sicuramente citata la famosa Quadriga proveniente dall’ippodromo di Costantinopoli, così come il gruppo in porfido dei Tetrarchi, la 143 Ivi, p.14. Ivi, p.15. 145 Non è questa la sede per poter dare uno sguardo d’insieme al complesso della produzione, il nostro obbiettivo è piuttosto quello di analizzare l’influsso bizantino sulla decorazione scultorea della basilica marciana duecentesca, in particolare soffermandoci sul carattere e il valore che tali pezzi di spoglio hanno assunto in San Marco all’indomani della IV crociata. 144 68 testa in porfido di un imperatore bizantino, forse Giustiniano, ribattezzata, in seguito “del Carmagnola”, e altre sculture usate a puro scopo ornamentale146. Al di là di queste “prede” dal forte carattere trionfale, vale la pena sottolineare come, fra i vari materiali di spoglio, vi fossero anche pezzi di importazione paleocristiani e paleobizantini che vennero ad assumere un ruolo nuovo e fondamentale nella fisionomia artistica e culturale della Venezia del XIII secolo. Lo studio, poi, su come adattarli e collocarli in un dato posto con una precisa funzione, la ricerca volta a migliorare e rielaborare i pezzi danneggiati, così come la riesecuzione di quelli mancanti, portarono – secondo lo studioso O. Demus – allo sviluppo di una sorta di protorinascimento147, che culminerà con la produzione di imitazioni plastiche protocristiane e con la ricreazione di rilievi in stile protobizantino. A tale proposito, la più interessante rielaborazione di un modello protobizantino è sicuramente il rilievo di Ercole con la cerva e l’idra, che si trova ubicato nella facciata occidentale; in questo caso, l’artista veneziano che reinterpretò l’originale protobizantino del V secolo148 sembra essere stato uno degli scultori più importanti del secondo quarto del XIII secolo. Con il bottino di Costantinopoli era giunto a Venezia anche un gran numero di rilievi mediobizantini, databili fra il X e il XIII secolo, che furono fondamentali per la creazione, nel rilievo, di uno stile veneziano innovativo, soprattutto quando l’oggetto della rappresentazione era particolarmente interessante da suscitarne l’imitazione. Non è tanto il caso di rilievi come il Volo di Alessandro149 (fig. 5), che fu incluso nel programma iconografico della facciata marciana quale immagine della 146 I. Favaretto, Presenze e rimembranze di arte classica in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi,cit., pp. 74-88. 147 Ibidem. 148 O. Demus considera l’originale protobizantino un’opera del V secolo, i cui più vicini esemplari sono costituiti da avori e dal rilievo marmoreo di Ercole con la cerva del Museo di Ravenna. O. Demus, Le sculture esterne di San Marco, cit., p. 86. 149 Si ritiene che tale opera sia parte del bottino costantinopolitano giunto a Venezia con la IV crociata. C. Frugoni, La lastra marmorea dell’ascensione di Alessandro Magno, in La basilica di San Marco, arte e simbologia, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1993, p. 169. La studiosa individua, inoltre, nel rilievo di Alessandro l’episodio tratto dal romanzo greco del V-VI secolo dello Pseudo Callistene dove si racconta “come il grande Macedone, giunto ai limiti della terra di cui aveva esaurito le conquiste, avesse pensato di dare la scalata al cielo su un carro trascinato da grifoni, animali ferocissimi, metà aquila e metà leone, ponendo loro davanti due leoni con della carne infilzata a mo’ di esca. Le bestie, nel tentativo di afferrarli, cominciarono allora a salire; per ritornare a terra Alessandro abbassò i suoi piedi facendo mutare la rotta ai temibili destrieri, costretto, in alcune varianti della leggenda, dall’ira divina insofferente di tanta 69 superbia, o il tondo del Campiello Angaran presso San Pantalon, che rappresenta un imperatore bizantino nella sua uniforme d’ordinanza. Certamente più significativo fu il Trimorphon150(fig. 6) murato nella navata meridionale, presso l’entrata al Battistero, il cui stile, ben espresso nella realizzazione dei drappeggi e dei volti dei personaggi, pur non avendo trovato un’imitazione diretta, sembra aver contaminato il Maestro di Ercole e i suoi collaboratori. Molto più importanti sono tre gruppi di opere che rappresentano il vero e proprio programma decorativo della facciata occidentale: le sei “icone” inserite nei pennacchi fra i nicchioni dei portali. Tre di queste - Ercole col cinghiale di Erimanto, l’Arcangelo Gabriele e San Demetrio - sono pezzi d’importazione bizantina provenienti dal bottino costantinopolitano, mentre gli altri rilievi – Ercole con la cerva e l’idra, San Giorgio e Maria Orans – sono opere veneziane del XIII secolo, significativa testimonianza dell’adattabilità e della tendenza all’imitazione dell’arte veneziana in generale e, in particolare, di uno dei principali maestri in San Marco: il Maestro di Ercole, di cui ci occuperemo in maniera più approfondita in seguito. A fungere da modelli ispiratori per la produzione plastica veneziana del XIII secolo non furono unicamente i rilievi di importazione bizantina, ma anche le miniature bizantine e i mosaici, sia quelli antichi, che quelli contemporanei dell’atrio. Ad esempio, i rilievi dei “Mestieri” che decorano la parte interna del terzo arco, quello esterno del portale principale costituiscono una testimonianza interessante della suggestione esercitata dai mosaici della Genesi, che riproducono a loro volta un protototipo bizantino. In particolare, il rilievo raffigurante il gruppo dei “segatori” (fig. 7) deriverebbe, secondo il audacia”. La leggenda è significativa per il suo messaggio politico nel mondo bizantino e assume sempre una valenza positiva in quanto compare spesso su oggetti di uso principesco come anelli, cofanetti d’avorio, smalti. Al contrario, in occidente, tale immagine assume un valore diverso, comparendo per lo più in edifici sacri quale exemplum negativo di superbia. C. Frugoni, Historia Alexandri elevati per griphos ad aerem. Origine iconografica e fortuna di un tema, Roma, 1966, pp. 166-167. Secondo lo studioso G. Tigler, la collocazione in San Marco di tale rilievo accanto a quella di Ercole e di altri guerrieri si rifà ad una tradizione bizantina che sceglieva “tra i soggetti di decorazione delle chiese, quelli che potevano essere usati in funzione apotropaica”. G. Tigler, Catalogo in Le sculture esterne di San Marco, cit. p. 69. 150 Deesis che rappresenta la figura di Cristo fiancheggiata dalla Vergine e San Giovanni. Secondo O. Demus si tratta di un’opera bizantina che sicuramente è giunta a Venezia col bottino della IV crociata. L’influsso bizantino emerge da numerosi elementi tecnici, come le raffinate pieghe delle vesti, dai caratteri delle figure, ma soprattutto dai motivi ornamentali che mostrano l’influenza del tardo stile greco di X-XI secolo. Il rilievo potrebbe aver adornato una delle chiese che furono saccheggiate dai crociati. O. Demus, La chiesa di San Marco a Venezia, Washington 1960, p. 101. 70 Demus, dalla scena del mosaico dell’atrio che rappresenta la costruzione dell’arca di Noè (fig. 8), e il rilievo del gruppo dei “muratori” (fig. 9) riprenderebbe la scena a mosaico raffigurante la Torre di Babele151 (fig. 10). Da quanto detto emerge, dunque, come il modello bizantino abbia offerto lo spunto per la creazione di numerose opere indipendenti. Tale influsso agì in modo decisivo e persistente non solo sul contenuto della funzione plastica, ma anche dal punto di vista formale con l’importazione del rilievo appiattito o bassorilievo che venne assimilato a Venezia, nonostante le varie tendenze emiliane e lombarde che trattavano in primo luogo il rilievo pesante e plastico152. Attraverso la delicata tecnica del rilievo e il suo impreziosimento, ottenuto molto spesso attraverso l’uso del colore e della doratura, veniva accentuata la magnificenza dell’apparato scultoreo dell’intera facciata della basilica marciana. Mirabili esempi di tale grazia e finezza decorativa sono la Porta di Sant’Alipio e la Porta dei Fiori. I veneziani poterono ammirare certamente queste opere negli edifici di Bisanzio153 e ne trassero senza dubbio ispirazione per progettare quello che doveva divenire il centro focale dell’urbanistica della Piazza. Qui vennero pertanto a concentrarsi “le prede” più prestigiose riportate dai veneziani nella nuova capitale dell’impero. Tra queste, le porte di bronzo clatrate154, la famosa quadriga proveniente dall’ippodromo155 di Costantinopoli, il gruppo in porfido dei Tetrarchi, costituiscono senza dubbio, all’indomani della IV crociata, alcuni tra gli esempi più significativi di recupero di spolia, di “trofei” che, adeguatamente collocati all’interno del cantiere marciano, si caricano di pregnanti contenuti simbolici atti a trasmettere inequivocabili messaggi di potere. 151 O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, cit., p. 150. 152 Ivi, p. 154. 153 W. Dorigo, Una nuova lettura delle sculture del portale centrale di San Marco , in “Venezia Arti”, 1988, p.6 154 R. Polacco, Porte ageminate e clatrate in San Marco a Venezia, in Le porte di bronzo dall’antichità al secolo XIII, Roma 1990, pp. 279-292. 155 R. Polacco, San Marco e le sue sculture nel Duecento, in “Interpretazioni veneziane”, Venezia 1984, p. 59. 71 3b - SCULTURE DERIVAZIONE DELLA FACIES MARCIANA COSTANTINOPOLITANA GIUNTE DI PROBABILE A VENEZIA ALL’INDOMANI DELLA IV CROCIATA 3b, 1 - La Quadriga Ammirati e celebrati per secoli, i quattro cavalli in bronzo dorato (fig. 11) rappresentano sul piano storico e artistico un monumento di eccezionale importanza e bellezza, un’opera affascinante e complessa di cui ancora oggi non sono stati svelati tutti i segreti, malgrado il succedersi di approfondite ricerche scientifiche, condotte anche con l’ausilio di sofisticate indagini metallografiche e analisi archeometriche. Tutta la tradizione veneziana è concorde nell’affermare che i Cavalli di San Marco siano stati portati a Venezia da Costantinopoli nell’anno 1204156 o, secondo altri, nel 1205, o ancora nel 1206, cioè subito dopo la conquista della città da parte delle forze venete e franco-lombarde157, insieme ad altre opere di valore inestimabile, molte delle quali sono conservate ancor oggi nel Tesoro della basilica. La presenza della Quadriga veneziana è documentata per la prima volta nel mosaico che decora la lunetta del portale di Sant’Alipio sulla facciata della basilica, databile intorno al 1265-1270. È interessante capire perché tra tanti famosi manufatti antichi di bronzo si sia salvata soltanto la Quadriga: significa comprendere l’importanza che essa doveva senz’altro avere nel contesto culturale di Costantinopoli e non solo per i suoi pregi artistici, ma soprattutto per la sua carica ideologica e il suo valore simbolico158. Non è pertanto casuale che essa sia giunta a Venezia con il ricco bottino di guerra raccolto dai veneziani, guidati dal doge Enrico Dandolo, autore di imprese che avevano rovesciato l’impero più potente d’Oriente e avevano 156 L. V. Borrelli, Ipotesi di datazione per i cavalli di San Marco, in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, cit., p.34. 157 E. Callegari, I cavalli di san Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea, cit., http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf 158 V. Galliazzo, I cavalli di San Marco, Milano 1981, p. 67. 72 portato la potenza veneziana a impadronirsi di un simbolo che doveva essere in intimo rapporto con il potere e l’autorità bizantina159. Per quanto riguarda il problema della datazione e della provenienza dell’opera, gli studiosi per lungo tempo hanno oscillato tra il IV secolo a. C. e il IV secolo d.C.160, tra la Grecia e Roma, con una indeterminatezza piuttosto rara nell’ambito della scultura antica, motivata non solo dall’assenza di argomenti incontrovertibili, ma anche dalla stessa unicità dell’opera, per cui non è dato istituire confronti significativi con esemplari analoghi. Si tratta infatti dell’unico esempio di quadriga a tutto tondo che ci sia pervenuto dal mondo antico161. Nonostante siano alquanto incerte le proposte per una identificazione specifica del gruppo in questione e sia difficile una ricostruzione delle sue precedenti vicende, la maggior parte degli studiosi di fonti bizantine ritiene generalmente di poter individuare il contesto monumentale di provenienza nell’edificio dell’ippodromo di Costantinopoli: essi dovevano trovarsi precisamente sulla torre posta sopra i carceres o postazioni di partenza delle corse. Ed era stato proprio il significato che la presenza della Quadriga all’interno dell’ippodromo assumeva per questa città e per il suo imperatore a suscitare l’interesse del doge Enrico Dandolo per questi cavalli ricoperti d’oro esposti sopra la torre dei carceres. L’ippodromo aveva infatti a Costantinopoli la stessa fondamentale importanza che aveva l’agorà nella città greca e il foro in quella romana162, era cioè il fulcro, il vero cuore civile e politico della città e dell’impero163. Il valore simbolico dell’ippodromo era evidente sia a Roma che a Costantinopoli, come attestano gli autori classici e quelli bizantini: “si presentava come una riduzione in scala dell’universo, in cui l’arena era la Terra, i canaletti d’acqua o Euripi che correvano attorno alle scalinate 159 E. Callegari, I cavalli di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea, cit., http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf 160 L. V. Borrelli, Ipotesi di datazione per i cavalli di San Marco, in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, cit., 35. 161 G. Bodon, I cavalli di San Marco in Il Museo di San Marco a cura di I. Favaretto e Maria Da Villa Urbani, Venezia 2003, cfr. scheda n. 19, p. 188. 162 V. Galliazzo, I cavalli di San Marco, cit., p. 74. 73 raffiguravano il mare, l’oceano e l’immancabile obelisco”164. In questo contesto simbolico i quattro cavalli collocati al centro della facciata, in posizione ben visibile da tutti, assumevano il significato di cavalli del sole e perciò dorati, divenendo l’immagine più chiara e immediata dell’astro stesso, e quindi di quella auctoritas imperiale tanto ambita dal doge Enrico Dandolo da avergli suggerito di trasferirli a Venezia come ambito trofeo, rappresentativo di quell’emblema passato ormai sotto il dominio delle forze crociate venetofranche per diritto e premio di conquista. È interessante notare come questo trasferimento di poteri e di territori da Costantinopoli a Venezia non sia stato privo di conseguenze sotto il profilo architettonico-urbanistico per la città lagunare, tanto che la basilica di San Marco e la piazzetta antistante finirono per essere coinvolte nel nuovo assetto politico-istituzionale165. Nella serie dei molteplici interventi architettonici di riqualificazione della platea marciana attuati nel primo Duecento va ricordata, infatti, l’articolazione del prospetto grazie alla creazione dei nicchioni del portale, il cui scopo era quello di sorreggere la terrazza, progettata per la rimessa in opera dei quattro cavalli bronzei. Diversi sono i valori simbolici che si possono attribuire all’ostentazione della preda bellica sulla facciata della basilica. Una prima chiave di lettura ne pone in luce il carattere “trionfale”, nel senso di celebrazione di vittoria e potenza; alcuni studiosi hanno inoltre ravvisato nella collocazione della Quadriga una più sottile valenza ideologica e politica che, tramite l’assimilazione di Venezia a Bisanzio, per analogia con i luoghi e le cerimonie del potere imperiale, proclamava l’esistenza di un rapporto diretto con il mondo antico, nel quale la sovranità della Signoria veneta trovava la sua legittimazione. Secondo un’altra ipotesi interpretatativa, connessa alla ricostruzione del sistema decorativo dell’arcone sovrastante i cavalli con le raffigurazioni di Cristo e dei quattro evangelisti, la gamma semantica assunta dal gruppo bronzeo si estenderebbe alla sfera religiosa, che vede nei cavalli marciani la metafora della quadriga 164 E. Callegari, I cavalli di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea, cit., http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf. 165 Ibidem. 74 domini, immagine della diffusione della parola divina e del trionfo della cristianità, desunta dagli scritti dei Padri della Chiesa166. È assai probabile che in origine questi significati fossero compresenti, l’uno non escludendo l’altro, anche se, a partire dal periodo rinascimentale, prevarrà la componente del simbolismo politico. Numerosi intellettuali ed eruditi, tra i quali Marin Sanudo e Francesco Sansovino, associarono il tema dell’origine greca della Quadriga all’idea di un suo ”reimpiego” in Roma, prima della traslazione a Bisanzio, codificando così la percezione del monumento come emblema di un potere di cui la Serenissima Repubblica si proponeva allora quale ultima erede. A tale proposito, vorrei concludere citando la particolare versione, data da Stefano Magno, della traslazione dei quattro cavalli bronzei della basilica: le statue sono antiche opere d’arte prodotte in Asia, trasferite come preda a Roma e lì innalzate, esattamente come sul prospetto di San Marco, sopra quattro colonne “per gran trionfo”. Ed è sempre Costantino imperatore a condurle da Roma a Costantinopoli e a innalzarle su quattro colonne. Su questo punto, il testo raccolto nel primo Cinquecento differisce alquanto dalla versione riferita più tardi da Francesco Sansovino: pone in particolare risalto il carattere trionfale delle translationes dei cavalli marciani, ma ancora di più il legame con il mito di Costantino il Grande. I quattro cavalli bronzei, infatti non proverrebbero direttamente dall’ippodromo, ma da “un luogo dito Santa Croce, dal qual luogo lo doxe i tolse”, circostanza, questa, di notevole rilievo, “et fo mesi sul pinaculo de la giesa de San Marco, sula porta granda come si vede”. Tale luogo di Santa Croce risulta riconoscibile nella topografia costantinopolitana e coincide con la piazza dello Stravion, un sito collegato alle funzioni dell’ippodromo e racchiuso da portici come la duecentesca piazza San Marco. La piazza dello Stravion, così come il Foro costantiniano e la piazza del Philadelphion (dalla quale proviene il gruppo dei Tetrarchi) sono i luoghi che 166 G. Bodon, I cavalli di San Marco in Il Museo di San Marco, cit., p. 189. 75 accolgono i segni di altrettante visioni di Costantino il Grande nello spazio urbano della capitale167. La platea marciana, dunque, per mano ducale aveva assunto gli antichi emblemi trionfali, innalzati sulla sua chiesa cupolata cruciforme; nello stesso tempo, la Quadriga marciana era stata associata alla Santa Croce dello Stravion: perché, delle tre grandi croci di Costantinopoli, quest’ultima era quella cui era stato imposto il nome di Nika e che componeva così, insieme con le altre due, la Iesous del Foro e la Christos del Philadelphion, la frase celebrativa del trionfo di Cristo “inscritta” dal primo imperatore cristiano nel corpo stesso della sua capitale168. 167 Per la piazza di Stravrion, cfr. G. Dragon, Constantinople imaginaire. Études sur le recueil des “Patria”, Parigi 1984, pp. 81, 165, 183, E. Concina, S. Marco, Costantinopoli e il primo rinascimento veneziano: “Traditio magnificentiae” in Storia dell’arte marciana: l’architettura, cit., p. 29. 168 Ivi, pp. 29-30. 76 3b, 2 - I Tetrarchi Il gruppo consiste in quattro figure in altorilievo collocate nell’angolo sud-ovest della facciata sud della basilica marciana (fig. 12). Il rilievo in porfido rosso egiziano169 si compone di due parti distinte e precisamente di due coppie di figure maschili: l’una barbata e l’altra imberbe, unite fra loro in un gesto formale di abbraccio ben espresso dall’atteggiamento della mano destra di un personaggio posata sulla spalla sinistra dell’altro. Il gruppo è caratterizzato da un equipaggiamento militare con lorica con superficie liscia, balteo gemmato e ampio paludamentum, calzari e copricapo piatto, predisposto per l’applicazione di diademi; le mani sinistre impugnano spade riccamente decorate, dall’elsa configurata a testa d’aquila. Infine, sulla mensola di base sono visibili i resti delle parti sommitali di due colonne. A lungo l’ingegno degli studiosi e la fantasia popolare si sono dibattuti sulle origini dei Tetrarchi in porfido. Ora che è stata accertata la loro provenienza dal Philadelphion di Costantinopoli e stabilita la loro datazione all’incirca tra il 330 e il 337, cadono molte ipotesi suggestive, tra le quali quella della provenienza da Acri. Fu proprio il rinvenimento del piede mancante, scoperto nel 1965 nel corso di una campagna di scavi archeologici a Istambul, presso la chiesa di Myrealion ove anticamente sorgeva il complesso monumentale del Philadelphion, una piazza dove sappiamo si trovavano statue in porfido di personaggi che si abbracciavano - a determinare con certezza la provenienza del rilievo da Costantinopoli170. I Tetrarchi dovevano quindi far parte del bottino e di quelle spolia frutto della presa di Costantinopoli del 1204, che in parte vennero destinate alla decorazione e all’arricchimento della facciata di quella che era la cappella dogale. Lo stesso impiego del pregiato porfido rosso per loro realizzazione, 169 I. Favaretto, Presenze e rimembranze di arte classica in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, cit., p. 76. 170 G. Bodon, I cavalli di San Marco in Il Museo di San Marco, cit., p. 193. 77 oltre a suggerire un’attribuzione a maestranze orientali, richiama palesemente il colore della porpora che attesta la dignità imperiale delle figure171. Diversi sono i significati e i valori che sono stati attribuiti a quest’opera nel corso dei secoli. Al di là del complesso intreccio di leggende e di racconti tramandatici da numerosi autori a partire dall’età rinascimentale in relazione all’origine del Tesoro di San Marco, ci sembra chiaro il forte significato celebrativo, ideologico e politico che la raffigurazione del gruppo in porfido doveva aver assunto dopo la sua collocazione sulla facciata della basilica all’indomani della IV crociata: la palese affinità fisionomica e il gesto del duplice abbraccio dei due Augusti e dei due Cesari esprimerebbero efficacemente i concetti di fraternitas e di concordia dominorum, motivi centrali del programma tetrarchico, metafora di un intenso legame tra Venezia e l’Oriente, memoria dello splendore di una civiltà antica nella quale la Serenissima riconosceva le sue più profonde radici172. 171 Il nome “Porfirogenito”, con cui è ricordato l’Imperatore bizantino Costantino VII , significa “nato nella porpora” o, più precisamente, nella Porphyra, un edificio del complesso palatino dalle pareti rivestite di porfido (in greco porphyra), in cui erano tradizionalmente messi al mondo i figli degli imperatori, che assumevano quindi questo nome come appartenenti di diritto alla dinastia regnante. G. Ravegnani, Introduzione alla storia bizantina, Venezia 2004/2005, p. 71. 172 G. Bodon, I Tetrarchi in Il Museo di San Marco, cit., p. 193. 78 3 b, 3 - Il Carmagnola Anche la testa del “Carmagnola” è stata eseguita, come il gruppo scultoreo dei Tetrarchi, con il porfido rosso egiziano ed è posta sopra il pilastrino angolare di sud-ovest del loggiato sud della basilica (fig. 13). Piuttosto ben conservata, la testa presenta un alto diadema gemmato che la cinge, ad indicare, come tra l’altro suggerisce anche lo stesso materiale impiegato, la dignità imperiale del personaggio raffigurato. Problematica appare però l’identificazione dell’imperatore ritratto, dalla quale dipende del resto la questione della cronologia. In linea generale, quasi tutti gli studiosi ritengono possa trattarsi di Giustiniano I, l’ultimo imperatore romano d’Oriente, che regnò dal 527 al 565, identificato mediante il confronto con esemplari numismatici e con il celebre mosaico di San Vitale a Ravenna173. Quindi, l’identificazione del ritratto antico, che doveva trovarsi sul loggiato fin dal Duecento, con il capitano di ventura Francesco Bussone detto il “Carmagnola”, decapitato in Piazza San Marco nella primavera del 1432, dipende probabilmente dal ruolo determinante che dovette avere nella fantasia popolare il colore del marmo che ricordava quello del sangue174. Secondo un’ipotesi recente, tale testa proveniva da Costantinopoli, dalla piazza del Philadelphion, e apparteneva a una di quelle statue in porfido sedute che rappresentavano i cosiddetti giudici giusti, mutilati poi nel 1204175. La testa mozza posizionata sull’alto del loggiato della facciata della basilica marciana, bene in vista, non avrebbe avuto soltanto il valore di un trofeo, ma molto probabilmente avrebbe assunto anche un significato apotropaico176, poiché, come ricordo tangibile della cruenta usanza di esporre le teste dei decapitati, essa fungeva da monito e nel contempo da esortazione a servire fedelmente la causa della Repubblica177. 173 G. Bodon, Testa detta “del Carmagnola” in Il Museo di San Marco, cit., p. 194. I. Favretto, Presenze e rimembranze di arte classica nell’area della basilica marciana in Storia dell’arte marciana sculture, tesoro, arazzi, a cura di R. Polacco, Venezia 1997, p. 76. 175 Ivi, pp. 76-77. 176 G. Tigler, Catalogo in O. Demus, Le sculure esterne di San Marco, Milano 1995, p. 226. 177 G. Bodon, Testa detta “del Carmagnola” in Il museo di San Marco, cit., p. 194. 174 79 3b, 4 - Ercole col cinghiale di Erimanto Tale rilievo in marmo greco a granuli molto grossi fa parte delle sei lastre poste fra le arcate dei portali nella parte bassa della facciata ovest della basilica marciana (fig. 14). Non è questa la sede per citare le interpretazioni che sono state date da diversi studiosi e storici dell’arte sull’origine, sulle caratteristiche e sulla datazione di tale rilievo. Lo stesso Demus, rilevando l’insoddisfacente livello degli studi critici sull’opera, a suo avviso ignorata da archeologi e da storici dell’arte medioevale, la considera la più interessante rielaborazione di un modello protobizantino. Egli, infatti, individua le analogie esistenti fra questa e l’Ercole di Ravenna, datato comunemente al principio del VI secolo, ma ne rileva anche le differenze, che escluderebbero la possibilità di considerare i due rilievi parti di una stessa serie delle dodici fatiche, ma indurrebbero anche a datare il pezzo di Venezia al principio del V secolo o addirittura al X secolo178. Per Demus, che lascia aperte le due possibilità, la cornice è da considerarsi a parte, ossia un manufatto veneziano risalente al Duecento, mentre la superficie della lastra fu certamente rielaborata e soprattutto appiattita nel XIII secolo, così che la sporgenza del rilievo venne diminuita. Concordo col Demus, che ritiene probabile si tratti di un rilievo che, insieme ad altri posti sempre sulla facciata ovest e rappresentanti San Demetrio e l’Arcangelo, farebbe parte del materiale di spoglio di origine costantinopolitana, proveniente dal bottino della IV crociata179. In questo contesto l’Ercole, eroe della mitologia classica, si carica di un forte valore simbolico: cristianamente equiparato a Sansone, è visto come una sorta di semidio, espressione della forza e delle virtù necessarie allo Stato. La messa in opera a San Marco di marmi e sculture predati a Costantinopoli, peraltro, non si riduce soltanto a un’operazione ornamentale e ideologicamente allusiva. Come dimostra bene il caso dei sei celebri rilievi della facciata principale, il confronto con le spolia costantinopolitane e la necessità, manifestata dalla committenza pubblica, di 178 179 O. Demus, Le sculture esterne di San Marco, Milano 1995, p. 86. Ivi, p. 84. 80 reinterpretarne il significato in coerenza con un programma d’insieme comportano la realizzazione in loco di rilievi complementari, stimolando perciò l’attività delle botteghe dei maestri lapicidi veneziani. Così, alla formella protobizantina dell’ Ercole con il cinghiale di Erimanto, all’Arcangelo Gabriele, all’icona marmorea di San Demetrio, provenienti da Bisanzio, sono accostati altrettanti nuovi rilievi di altissimo livello - un Ercole con la cerva e l’idra (fig. 15), una Vergine Orante e un San Giorgio - che caratterizzano la prima fase duecentesca della scultura marciana in un dialogo aperto fra arte bizantina e arte veneziana, in particolare nel caso dell’attività del “Maestro di Ercole”180. L’Ercole col cinghiale di Erimanto andava, dunque, ad unirsi all’altro gruppo di rilievi assemblato nel XIII secolo sulla facciata principale antistante la piazza, sul frontespizio ufficiale, sommario di forti valori autocelebrativi e simbolici. 180 E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 300. 81 3b, 5 - San Demetrio Tale bassorilievo in marmo greco è collocato sul prospetto principale della chiesa di San Marco. Esso presenta un’iscrizione su due tavolette: “s (an)/c(tu)/s DI/MI/TRI/VS” (fig. 16). Un vigoroso senso dello spazio, una studiata “impronta antica”, palese anche nella resa in forte rilievo, alquanto eccezionale, caratterizza questa splendida rappresentazione del San Demetrio in vesti militari, assiso su di una sella plicatilis e raffigurato nell’atto di riporre la spada181. Per il Demus l’opera è quasi certamente arrivata a Venezia come parte del bottino della IV crociata. Lo studioso infatti, pur lasciando aperto il dubbio sull’originalità o meno dell’iscrizione, esclude che l’opera sia stata realizzata a Venezia da uno scultore bizantino182, perché altrimenti questi avrebbe potuto scolpire anche il pendant, che invece è di epoca e di mano diversa. Anche il Toesca nel descrivere il rilievo, quasi classico nella forma e nella composizione, mette in luce la sua appartenenza alla cultura aulica bizantina datandolo così al XIII secolo183. La funzione di “difesa” attribuita alla coppia San Demetrio e San Giorgio (fig. 17), posizionati ai lati dell’arcone della porta centrale della facciata, viene condivisa anche dal Polacco184. Lo studioso, tuttavia, considera il San Demetrio più legato a modelli bizantini per l’equilibrio perfetto rilievo-fondo, mentre ritiene il San Giorgio un’interpretazione più libera, eseguita sul modello del primo, pur nella fedeltà generica ad un ipotetico prototipo della stessa provenienza185. Anche il San Demetrio fa parte, dunque, del gruppo di bassorilievii riassemblati all’esterno della principale facciata della basilica di San Marco, il cui significato, dalla forte valenza simbolica e politica, inciderà notevolmente sulla scultura bizantina del Duecento veneziano. 181 Ivi, p. 227. O. Demus, Die Riliefikonen der Westfassade von San Marco, in Jahrbuch der Össterreichischen Byzantinischen Gesellschaft III, 1954, pp. 95, 100. 183 P. Toesca, Storia dell’arte italiana, il Medioevo, Torino 1927, vol II, p. 790. 184 R. Polacco, La scultura nel XIII secolo in San Marco in La basilica d’Oro, cit., p.113. 185 Ivi, p. 112. 182 82 3b, 6 - L’Arcangelo Gabriele Anche il rilievo dell’Arcangelo Gabriele in marmo greco è ubicato sul prospetto principale della chiesa ducale di San Marco (fig. 18). Il processo di degrado (il volto è del tutto perduto) ha reso difficile agli studiosi l’analisi di tale opera. Il Demus, confermando le affinità con il San Demetrio, da lui definito di matrice bizantina, attribuisce anche l’Arcangelo Gabriele ad un artista bizantino, sostenendo che l’iscrizione collocata sul margine superiore venne aggiunta a Venezia186. Si tratterebbe di una manifestazione tardissima dello stile “comneno”, collocabile tra XII e XIII secolo, antecedente comunque alla IV crociata. Nel 1960, tuttavia, lo studioso muta parere e, soffermandosi sulla presenza di alcuni elementi gotici che egli ravvisa nelle scarpe a punta e nelle ondulazioni del panneggio, assegna l’opera ad uno scultore veneziano del Duecento. L’arcangelo sarebbe espressione del consueto linguaggio plastico veneziano d’estrazione bizantina con suggestioni gotiche, individuabili nella resa della figura, in alcuni dettagli esecutivi e in certi effetti prospettici. Il Dorigo invece, pur riconoscendo che la lastra “riadattata e sprovvista di cornice propria, potrebbe essere stata resecata”187, non accoglie l’ipotesi che essa sia opera di uno scultore bizantino stabilitosi a Venezia, ma sembra invece ritenere che la lastra sia stata importata da Bisanzio188. Secondo il Polacco, infine, l’angelo è sicuramente di matrice bizantina, tardo comnena, come dimostra il complesso e fluido linearismo del mantello in cui s’inserisce l’elegante silhouette delle ali e il suppedion in prospettiva. Alla stessa opera risalirebbe pure l’Arcangelo Gabriele della porta ageminata centrale dell’atrio, datata al terzo decennio del secolo XII189. 186 O. Demus, Die Riliefikonen der Westfassade von San Marco, in Jahrbuch der Össterreichischen Byzantinischen Gesellschaft III, 1954, p. 100. 187 W. Dorigo, Sul problema di copie veneziane da originali bizantini in Venezia e l’archeologia, Un importante capitolo nel gusto della storia dell’antico nella cultura artistica veneziana, Atti del convegno (Venezia 1988), Supplementi alla rivista di archeologia, 7, Roma 1990, p.139. 188 G. Tigler, Catalogo in O. Demus, Le sculture esterne di San Marco, Milano 1995, p. 91. 189 R. Polacco, La scultura nel XIII secolo in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p.114. 83 3b, 7 - La Vergine Orante Un vigoroso senso dello spazio, una studiata impronta “antica” che ben emerge nella resa del rilievo, alquanto eccezionale, caratterizza la splendida lastra marmorea raffigurante la Vergine Orante ricollocata sul prospetto della facciata principale della chiesa ducale in San Marco (fig. 19). Il Demus, che per primo studia in maniera approfondita il rilievo nel 1954, lo ritiene veneziano, ma derivante da un prototipo bizantino del XII secolo, come la Madonna della Mangana190, forse giunto col bottino del 1204, prototipo che tuttavia non sarebbe identificabile con nessuna delle oranti bizantine presenti in Italia. Quest’opera apparterrebbe alla maturità del “Maestro di Ercole”, che avrebbe iniziato la sua attività verso la metà del secolo eseguendo il pannello con l’Ercole e la cerva, e che, dopo aver compiuto il San Giorgio e l’Orante, sarebbe passato alla decorazione dei portali occidentali191. Secondo la Cocchetti Pratesi il rilievo fu realizzato sulla base di un’ altra opera: la Vergine della Deesis, che si trova nella navata meridionale del braccio occidentale della basilica marciana. Da tale rilievo, secondo la studiosa, sarebbe stato tratto il modulo complessivo dell’immagine, il disegno della veste, la tipologia del volto e delle piccole mani. L’opera sarebbe quindi espressione di uno dei migliori sforzi di assimilazione del linguaggio bizantino che sia dato di trovare nell’ambito di tutta la scultura duecentesca veneziana. 190 La grande lastra con la Vergine orante ritrovata negli scavi di San Giorgio dei Mangani a Costantinopoli, nelle proporzioni e nel panneggio delle vesti, che non celano del tutto le forme del corpo, mostra una relazione evidente con le tendenze classicheggianti che percorrono la cultura artistica costantinopolitana di XI e XII secolo. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 226. 191 L. Cocchetti Pratesi, Contributi alla scultura veneziana del Duecento III, La corrente bizantineggiante, in “Commentari”, XII, 1961, p.16. 84 3b, 8 - I rilievi duecenteschi della facciata nord: San Giovanni, San Marco, San Luca, San Matteo, Cristo in trono e i due cervi sotto gli alberi. Le lastre raffiguranti i quattro evangelisti, Cristo in trono e i due cervi sotto gli alberi (figg. 20-21), che oggi si trovano ubicate sulla facciata settentrionale della basilica di San Marco, sono state oggetto di studio per molto tempo. Un problema aperto rimane l’identificazione della loro ubicazione originaria, in quanto la collocazione nella facciata nord è evidentemente successiva, sia per gli adattamenti subiti dai pannelli, sia per la loro disposizione, che non rispetta l’andamento delle figure192. La critica li considera un gruppo unitario nonostante le differenze, ed è concorde nel ritenerli dei capolavori della scultura veneziana del XIII secolo. Per Demus, i rilievi degli evangelisti, che inizialmente ornavano i cancelli del coro del XIII secolo, sono delle trasposizioni dirette di miniature bizantine dello stesso secolo. “La posizione in avanti, la posizione dei piedi, i gesti, anche la disposizione del drappeggio, la forma del seggio con archetti, tutti questi particolari trovano un modello nelle immagini di Evangelisti dei manoscritti bizantini del tardo XII e del primo XIII secolo”193. Secondo la studiosa Cocchetti Pratesi, i rilievi di Cristo e degli evangelisti costituiscono “la più solenne realizzazione della corrente bizantineggiante”; posizionati dal 1400 sulla facciata nord assieme agli altri rilievi, rappresentano la decorazione della seconda iconostasi di San Marco, che nel XIII secolo prese il posto del primo Templon194 semplicemente decorativo. È dunque significativo il fatto che, per decorare le iconostasi erette nel secondo quarto del XIII secolo, si siano scelte delle icone a rilievo. In conclusione, la studiosa considera queste lastre l’espressione di una vera e propria corrente veneziana con caratteri ben definiti, che sono però il risultato di una consapevole assimilazione del 192 S. Minguzzi, Marmi e Capitelli in Il Museo di San Marco, Venezia 2003, p. 197. O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra Tardomedioevo e Rinascimento, cit., pp. 141-155. 194 Nell’architettura religiosa, divisione tra il bema (la zona presbiteriale, rialzata della chiesa bizantina, che accoglie l’altare) e la navata formata da un colonnato trabeato, che evolverà poi nell’iconostasi. E.Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 401. 193 85 linguaggio bizantino195. Anche Demus individua, dall’analisi di queste e altre sculture, l’esistenza a Venezia di una corrente bizantineggiante caratterizzata da elementi stilistici originali e personali. In particolare, ritiene che esse siano opera della medesima bottega del “Maestro di Ercole”, così definito per aver inaugurato la sua attività di scultore con l’esecuzione del bassorilievo di Ercole con la cerva e l’idra, murato all’estremità inferiore sud della facciata della basilica di San Marco. Dopo l’esecuzione delle altre icone che raffigurano San Giorgio e la Vergine, anch’esse ubicate sulla facciata, si sarebbe dedicato alla realizzazione delle lastre del Cristo e dei quattro Evangelisti196. Secondo il Polacco, i pannelli degli Evangelisti e quello del Cristo in trono sono in sintonia con il clima culturale che caratterizza questo periodo e nel quale si inseriscono anche i già citati bassorilievi di Ercole col Cinghiale di Erimanto, di San Giorgio, di San Demetrio, dell’Arcangelo Gabriele e dell’Ercole con la Cerva e l’idra. 195 L. Cocchetti Pratesi, Contributi alla scultura veneziana del Duecento I, La corrente bizantineggiante in “Commentari”, XI, 1960, pp. 13-30. 196 R. Polacco, La scultura nel XIII secolo in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 115. 86 3b, 9 - I cosiddetti “pilastri acritani” Andando da piazza San Marco verso il portale di Palazzo Ducale si possono ammirare due pilastri quadrangolari riccamente adornati (fig. 22) che la tradizione comune ha per molti anni ritenuto provenienti da San Giovanni d’Acri, dopo la conquista della stessa città nel 1258. La leggenda acritana è sicuramente una elaborazione veneziana di poco posteriore all’arrivo delle opere stesse, una specie di rivincita ideale sul nemico genovese che aveva consegnato Bisanzio e la fiorente colonia veneziana nelle mani di Michele VIII197. Nel 1964 gli scavi intrapresi a Istambul dagli studiosi N. Firatli e M. Harrison hanno risolto il mistero della provenienza dei pilastri in modo definitivo. Tali studi, infatti, portarono alla luce un grande capitello di pilastro, la cui forma, le dimensioni e gran parte della decorazione corrispondevano a quella dei pilastri “acritani” di Venezia. Un’ulteriore conferma della provenienza costantinopolitana la fornirono i monogrammi incisi su di essi che si trovavano con le stesse variazioni su sculture architettoniche rinvenute nel quartiere di Sarachane a Istambul198. Le dimensioni dei pilastri ci indicano che probabilmente dovevano servire come sostegni indispensabili per un’architettura monumentale, sicuramente ecclesiastica. Secondo la maggior parte degli studiosi i pilastri arrivarono a Venezia con molta probabilità dalla chiesa di San Polieucto di Costantinopoli. Tale chiesa fu costruita con i finanziamenti di una straordinaria committente: Anicia Giuliana (461/463-527/529), figlia di Anicio Olibrio, imperatore per pochi mesi nel 472, e di Placidia, figlia a sua volta di Valentiniano III (425455), dunque erede di una delle più influenti famiglie dell’aristocrazia senatoria romana e al tempo stesso discendente della dinastia teodosiana. Si tratta di un edificio religioso, sorto nel quartiere di konstantiana, nei pressi dell’acquedotto di Valente e della via che dal Philadelphion conduceva ai Santi Apostoli: un 197 R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, op. cit., p. 60. E. Callegari, I cosidetti “Pilastri Acritani” in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, cit., http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf 198 87 edificio la cui origine è documentata da un’iscrizione celebrativa e spogliato in seguito alla conquista di Costantinopoli. Le caratteristiche delle fondazioni hanno indotto a formulare l’ipotesi che l’edificio fosse coperto da volte a cupola, mentre le ricognizioni di scavo hanno portato al rinvenimento di una notevole quantità di frammenti e materiali di eccezionale interesse: un apparato decorativo di esuberante ricchezza, opera di un cantiere teso all’innovazione che faceva largo uso di materiali prestigiosi: marmi policromi, fusti di colonne lavorati con un prezioso disegno a intarsio di ametiste e vetri colorati, decorazioni lapidee in gran parte “a giorno” con motivi geometrici fitomorfi e figurati199. Un’ingente quantità di tale repertorio decorativo - pilastri, capitelli e forse plutei - giunse a Venezia tra la fine del XII secolo e lo schiudersi del XIII e fu probabilmente destinata a decorare la parte meridionale e la facciata occidentale della basilica marciana. Si presume che i cosiddetti “pilastri acritani” ora a Venezia provenissero forse dal ciborio di questa chiesa200. La loro reintegrazione nel contesto marciano nell’ambito degli interventi di riqualificazione duecenteschi va ad esaltare la magnificenza dell’apparato dell’uscita meridionale della basilica verso il molo, il litus marmoreum, portale cerimoniale della piazzetta, da poco ornato dalle due colonne anch’esse trasportate dall’Oriente e ivi collocate dal doge Sebastiano Ziani. Circa la provenienza dei cosiddetti “pilastri acritani” vi è infine un’altra fonte raccolta da Stefano Magno e ancora in corso di studio, secondo la quale anziché essere connessi a San Giovanni d’Acri e al ruolo veneziano nel regno crociato di Gerusalemme, essi sarebbero originari di Alessandria d’Egitto: “ le colone quadre è apreso la porta del palazo”, infatti, “fo de una porta de Alexandria201”, la città ricostruita da Adriano, la prima sede patriarcale marciana. 199 E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 53. E. Concina, Il secolo di Giustiniano in Le arti di Bisanzio, cit., pp. 52-53. 201 Tutt’ora in corso di studio da parte del Prof. Ennio Concina. Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia, mss. It. Cl. VII, cod. 518 (=7884), c. 36v. 200 88 3b, 10 - Tondo con Imperatore bizantino Di particolare interesse per il contesto culturale duecentesco è il bassorilievo in marmo greco murato sopra due porte nel campiello di Ca’ Angaran presso la chiesa di San Pantalon a Venezia (fig. 23). Esso è strettamente affine a un altro tondo con figura di imperatore che si trova nella Recentemente collezione entrambi bizantina i rilievi di sono Dumbarton stati Oaks riconsiderati a Washington. dagli studiosi, soprattutto sulla base di alcuni dettagli iconografici, e ritenuti originali prodotti di bottega costantinopolitana, quasi certamente portati a Venezia dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204202. Entrambi databili al tardo XII secolo, ritraggono una figura colonnare di un imperatore vestito di dibetesion, loros e clamide203(anche se nel rilievo veneziano il panneggio appare più ricco e morbido) che si erge nella sua maestà sovrana su un suppedaneum ovale, levando nella destra e nella sinistra i simboli del potere autocratico, labaro e globo crucigero: figure ieraticamente statiche, sullo sfondo di una minuta decorazione a rosette radianti che, in perfetta coerenza con le formule celebrative più immediate e diffuse, traduce in termini scultorei l’emanazione di fulgore che appartiene al trono d’Oriente, alla “ stirpe del sole che tutto illumina” (Niceforo Blemmida, 1197-1271)204. 202 S. Bettini, La scultura bizantina, Firenze 1944, Vol. II, p.7. p. 35. Il Dibetesion è la veste bianca o violetta ad ampie maniche, indossata sotto la clamide, il lungo mantello di porpora (Chlamys). Il loros è una larga banda di stoffa preziosa, riccamente ornata, distintiva della dignità imperiale. E. Concina, Glossario in Le arti di Bisanzio, cit., pp. 393-401. 204 Ivi, p. 228. 203 89 3c - IPOTESI INTERPRETATIVE SULLA PLASTICA MARCIANA DEL DUECENTO Il XIII secolo rappresenta un periodo d’intenso sviluppo per la produzione plastica veneziana, che caratterizzerà in maniera determinante l’aspetto esterno del più importante cantiere pubblico della città costituito dalla riapertura della fabbrica di San Marco. L’aspetto che la facies della basilica marciana presenta ancor oggi, a prescindere da aggiunte posteriori, risale infatti al XIII secolo. Un terminus post quem è costituito dalla conquista di Costantinopoli, durante la IV crociata del 1204, poiché la maggior parte delle colonne, dei capitelli, del materiale marmoreo usato per il rivestimento e anche numerosi rilievi provengono dal bottino costantinopolitano205. Molte di tali spolia hanno assunto il valore di trofei che, sapientemente collocati sul prospetto del frontespizio ufficiale della chiesa di San Marco, hanno contribuito alla magnificenza e all’autocelebrazione della città di Venezia206. Dopo aver considerato, quindi, le più significative testimonianze della decorazione scultorea che ha contraddistinto la fase duecentesca della platea marciana, abbiamo tentato di trarre alcune conclusioni su quanto l’arte plastica veneziana sia stata condizionata dall’influsso bizantino. Innanzitutto, possiamo affermare che il fattore determinante di tale processo è costituito dalla funzione che la produzione scultorea ha assunto nel contesto veneziano del XIII secolo. Infatti, se da un lato l’inserimento degli elementi plastici nel rivestimento viene puramente considerato un mezzo di arricchimento coloristico e strutturale della superficie, dall’altro tali rilievi assumono un valore talmente elevato da assurgere al ruolo di icone da devozione207. 205 O. Demus, La decorazione scultorea duecentesca delle facciate in Le sculture esterne di San Marco, cit., p.12. S. Minguzzi, Plutei mediobizantini conservati in San Marco in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, cit. p. 120. 207 La produzione delle icone trovò a Venezia il suo più ricco sviluppo. Lo testimoniano non solo quelle della facies marciana, ma anche quelle icone a rilievo che nelle chiese veneziane del XIII secolo ebbero un’altra funzione e cioè quella di immagini da altare; funzione che non era stata ispirata da Bisanzio, dove non esisteva nessun rapporto tra l’altare e un’immagine determinata, bensì da una concezione occidentale, nella quale spesso affreschi e mosaici simili a tavole venivano usati per altari soprattutto laterali. In particolare, a Venezia vennero utilizzate nel primo Duecento delle icone a rilievo portate da Costantinopoli o create in città secondo prototipi bizantini, che vennero inserite nella parete 206 90 È importante, a tale proposito, ribadire come a Venezia l’importazione e l’imitazione di manufatti scultorei non risponda solo a una questione di gusto, ma sia frutto di una precisa volontà celebrativa e politica che è il risultato di componenti diverse. Gli scultori non si limitano ad accogliere ed elaborare messaggi di chiara estrazione bizantina, ma li interpretano per riproporli carichi di nuovi messaggi provenienti da culture diverse che a Venezia hanno facile confluenza, considerata la sua posizione politica e geografica, che favorisce la circolazione di ogni tipo di prodotti, non ultimi quelli artistici. Proprio dall’elaborazione e dalla sempre inedita interpretazione di messaggi di diversa estrazione nasce quel linguaggio artistico, improntato sì alla raffinatezza bizantina, ma continuamente rinnovato da ulteriori apporti e quasi sempre fecondo di esiti inattesi. Ci troviamo di fronte ad artisti tipicamente veneziani che arricchiscono la loro tendenza tardo-romanica o post-antelamica con lasciti paleocristiani o bizantini, i quali hanno il compito di filtrarla da ogni eccesso espressionistico padano, per elevarla con l’apporto dell’equilibrio classico alla dignità marciana. La produzione plastica veneziana del Duecento è dunque un’arte complessa che è il risultato dell’influsso di diverse componenti: non solo di quella bizantina, ma anche di quella antelamica e protorinascimentale. È interessante notare, ancora una volta, come partendo da un substrato bizantino, consapevolmente assimilato e rielaborato, Venezia sia giunta, anche nell’ambito della decorazione scultorea, alla costruzione di un linguaggio artistico autonomo. sopra gli altari. Paolo Veneziano ci ha lasciato, in una delle pitture del retro della pala feriale (oggi al Museo marciano), la rappresentazione di una di queste icone d’altare: il rilievo di San Leonardo, originariamente posto sopra l’altare di San Leonardo e ora murato nella facciata nord di San Marco. Si tratta di una preziosa testimonianza di immagine di altare (il cui linguaggio risente sicuramente dello stile del Maestro di Ercole) che appartiene all’epoca delle figure dell’iconostasi. Tale esempio è significativo per comprendere, ancora una volta, come con mezzi bizantini sia stato creato nel XIII secolo qualcosa di completamente nuovo, anche nel caso del rilievo di altare veneziano. O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente fra Tardomedioevo e Rinascimento, cit., pp.152153. 91 CAPITOLO IV – LE PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO La basilica di San Marco è forse la chiesa che possiede il maggior numero di porte di bronzo. A tale proposito, significativa è la testimonianza del Chronicon di Leone Ostiense (1046 ca-1115) che illustra con vivacità il contesto dell’importazione in Italia di un gruppo artisticamente notevole di porte bronzee con decorazione figurata ad agemina, concentrate soprattutto nel sud della penisola, ma giunte anche a Venezia. Secondo la narrazione dello stesso cronachista, nella chiesa di San Marco sarebbero giunte due di queste porte: la prima, quella di San Clemente, negli anni Ottanta dell’XI secolo e la seconda, quella centrale interna dell’atrio, verso il 1112. Esse fanno parte di un gruppo omogeneo, proveniente da Costantinopoli, che costituisce un esempio significativo di porte di grande valore artistico. In Italia, secondo un ordine cronologico, sono così distribuite: Amalfi, cattedrale (ante 1065); Montecassino, chiesa abbaziale (1066); Roma, basilica di San Paolo (1070); Monte Sant’Angelo, santuario di San Michele (1076); Atrani, duomo (1087); Venezia, basilica di San Marco (porta di San Clemente, anni Ottanta dell’XI secolo, fig. 1); Salerno, cattedrale (circa 1099); Venezia, San Marco (porta centrale, 1112, fig. 2). Tali porte presentano dei caratteri innovativi che le contraddistinguono rispetto alle porte monumentali più antiche, che dipendevano in gran parte da prototipi greco-romani.208 Dal punto di vista della loro struttura, esse presentano una superficie bronzea suddivisa da una serie di formelle di dimensioni uguali, disposte in file con andamento verticale. Tali formelle sono delimitate da cornici piatte, che non hanno nulla in comune con la struttura funzionale effettiva. In esse, si manifesta, quindi, una costante dell’architettura bizantina: la tendenza ad attenuare, se non annullare, i valori formali della struttura, per mezzo dei rivestimenti della superficie. Il principale elemento uniformante è la loro decorazione artistica, che consiste in una serie di immagini sacre realizzate ad agemina: una particolare tecnica di 208 S. Angelucci, Il rapporto tra materia, tecnica, forma nelle porte bizantine d’Italia in Storia dell’arte marciana: Sculture, tesoro, arazzi, a cura di Renato Polacco, Venezia 1994, pp. 247-248. 92 lavorazione dei metalli che consiste nell’inserire a freddo sottili lamine di metallo, solitamente prezioso, come rame, argento, niello e leghe di altri colori, in un supporto di metallo, secondo un ornato scolpito a cesello e a scalpello. Le figure realizzate con questa tecnica risaltavano, luminose e astratte, sul fondo in lega dal colore dell’oro delle porte lucide et clare209. Queste porte ribadiscono il ruolo significativo della cultura figurativa bizantina a Venezia e nello stesso tempo assumono un significato simbolico–religioso che si pone come elemento di diversità rispetto alla religiosità occidentale. La porta ha una forte valenza simbolica in tutte le culture, ma ancor di più in quella cristiana, in cui rappresenta il diaframma fra il fedele e la salvezza210: lo stesso Cristo, infatti, nel vangelo di Giovanni si definisce Porta. Nel Cristianesimo orientale il rapporto con la divinità è più astratto e mediato. Dinanzi a queste porte bizantine il fedele pregherà chiedendo l’intercessione della Madonna, degli angeli, degli apostoli, dei santi, nell’ordine indicato dalla chiesa e nel quale gli appaiono decorati sulla porta, nell’attesa che si manifesti la volontà divina, di cui egli non può cogliere alcun indizio, in quanto le porte sono chiuse. Esse infatti costituiscono, per la loro struttura, una barriera compatta e uniforme, una superficie caratterizzata da una serie di coprigiunti tutti uguali che nascondono il punto di apertura delle due ante. Il risultato è che alla fine la porta non appare più come tale, ma come un’ulteriore iconostasi che separa una volta di più lo spazio sacrale, nel quale il fedele non sa come penetrare211. Le decorazioni ad agemina, poi, determinano un disegno che agli occhi del fedele si presentava come un’apparizione. Tale effetto era favorito dal colore ottenuto grazie all’uso sapiente dei metalli, di una vera e propria lega che conteneva, oltre al rame, allo stagno, al piombo, anche lo zinco, che rendeva il colore meno rossiccio e più simile a quello dell’oro. Così, nelle porte di San Clemente e in quella centrale, in San Marco, l’effetto cromatico che si viene a creare è quello di una pittura su fondo oro realizzata a campiture e linee, il cui 209 E. Concina, Le Arti di Bisanzio, cit., p. 262. S. Angelucci, Il rapporto tra materia, tecnica, forma nelle porte bizantine d’Italia in Storia dell’arte marciana: Sculture, tesoro, arazzi, cit., p. 249. 211 Ivi, p. 250. 210 93 risultato è di grande suggestione e non è lontano da quello prodotto dagli smalti sull’oro, come nella Pala d’Oro della basilica marciana. Di particolare rilievo per l’apparato decorativo della fabbrica marciana e in sintonia con il programma culturale di interventi di riqualificazione che si sviluppano nel corso del Duecento sono pure le famose porte di bronzo clatrate - quella del portale centrale esterno (fig. 3) e quella che a sud del nartece immette nella cappella Zen (fig. 4) – che sono tra le prede più prestigiose portate a Venezia in seguito alla conquista di Costantinopoli nel 1204212. Il portale maggiore esterno presenta una struttura a valve che sono costituite da una transenna di bronzo, databile al VI secolo, formata a sua volta da 34 file sovrapposte di 4 archetti ciascuna e fissata su una tavola lignea rivestita da pelte in alto e da robuste lamine bronzee in basso, di lega più scadente rispetto alle griglie inchiodate dalle borchie con testa a rosetta che stanno al centro di ogni archetto213. È noto che fino al Duecento l’atrio ebbe la forma di un porticato e che la sua ristrutturazione con l’inserimento di sculture che rimpicciolirono le arcate occidentali, trasformandole in porte, previde la presenza di cancelli esterni. È dunque ovvio che le intelaiature delle valve bronzee in questione si trovarono inevitabilmente coinvolte e subordinate alle esigenze dettate dalle strutture architettoniche rinnovate allo schiudersi del XIII secolo. La griglia di questa porta è realizzata con un tipo di decorazione, chiamata con termine vitruviano ad opus clatratum, che compare non solo in valve bronzee dell’antichità classica e della romanità augustea, ma anche in quelle di età paleocristiana214. Questo tema decorativo lo possiamo trovare anche nei mosaici paleobizantini, se si considera la posizione a ventaglio o a coda di pavone delle tessere bianche che fanno da sfondo alle scene di caccia del pavimento del mega palation di Costantinopoli e che ricompare nella decorazione dei suppedia del Cristo e dell’Etimasia a Torcello nell’ XI secolo e 212 A. Niero, Simbologia dotta e popolare nelle sculture esterne in La basilica di San Marco, a cura di B. Bertoli, Venezia 1993, p.127. 213 R. Polacco, Porte e cancelli di bronzo, in San Marco, La Basilica d’Oro, cit., p. 144. 214 E. Callegari, Porte clatrate in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano a cura di E. Callegari, tesi di Laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf. 94 nello sfondo del mosaico sopra la porta del Tesoro di San Marco, nel XIII secolo215. La porta che immette nella Cappella Zen dall’atrio occidentale si presenta identica nelle dimensioni e nel disegno; la griglia è a giorno e, non essendo fissata su tavola rivestita di lamine, manca di tutte le borchie a rosetta. La sua sistemazione può essere ascritta alla metà del XIII secolo, quando cioè l’atrio venne rinnovato e si rese necessaria la chiusura delle arcate con opere scultoree e la presenza di porte e di cancelli bronzei. Non è da escludere dunque che la griglia della Cappella Zen e quella fissata sulle valve del portale centrale facciano parte del bottino della IV Crociata. Date le loro grandiose dimensioni questi battenti clatrati potrebbero provenire anch’essi, come i cavalli, dall’ippodromo di Costantinopoli. L’orafo venetus Magister Bertucius riprodusse la griglia clatrata e, con la stessa eleganza e perfetta coerenza, riprese il tema delle archeggiature anche nei battenti delle altre porte esterne di San Marco, come testimonia la sua firma lasciata nel 1300 nel cancello a sinistra rispetto a quello centrale della facciata della basilica216. 215 R. Polacco, Porte e cancelli di bronzo, in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p.146. E. Callegari, Porte clatrate in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano a cura di E. Callegari, tesi di Laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf. 216 95 CAPITOLO V – LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E VENEZIA Il tesoro di San Marco è una favolosa collezione di oggetti sacri e profani, di diversa origine e provenienza, che si è venuta a formare nell’arco di molti secoli, a partire dal XIII, e che costituisce non soltanto uno straordinario insieme di materiali preziosi e di prodotti artistici di raffinatissima fattura, ma anche una testimonianza storica e devozionale di potente forza evocativa e indubbia valenza simbolica. Non a caso, la visita al tesoro rappresentava, all’epoca del ducato veneziano, il momento culminante di un percorso rituale217 pregno di quei messaggi spirituali e morali, ideologici e politici estremamente incisivi su cui si fondava l’auctoritas della Repubblica. Si pensi inoltre agli accessori - che figuravano già nel primo inventario degli oggetti del tesoro compilato nel 1283 – utilizzati dal doge come segni del comando, a cominciare dalla “zogia”, la gioia per eccellenza, cioè il corno dogale indossato nel giorno dell’investitura, o ai pettorali e alle corone delle “Marie”, che alludevano a tradizioni arcaiche, rievocate di anno in anno in una delle feste più famose della storia veneziana primitiva218. La raccolta comprendeva ori, argenterie, gemme, cristalli di rocca, marmi romani, vetri lavorati e dipinti, smalti, arredi liturgici, reliquiari e reliquie, in una mescolanza di forme e materiali, funzioni e significati che fanno di essa e delle vicende che le ruotano intorno uno dei capitoli più interessanti della storia e della cultura di Venezia. La sua storia plurisecolare, com’è noto, ebbe inizio nel 1204 quando, con l’abbattimento dell’Impero Romano d’Oriente e la presa e il saccheggio della sua capitale, giunse a Venezia il primo nucleo della collezione che includeva, oltre a una grande quantità di oggetti preziosi e di arte sacra, alcune reliquie di immenso valore: fra le altre, quella della Vera Croce, quella del Preziosissimo Sangue di Cristo e quella della testa di Giovanni Battista. 217 G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1999, pp.171- 184. 218 Ivi, p. 174. 96 Ciò che accadde poi a questa prima raccolta di reperti costantinopolitani fu un evento disastroso in sé, ma che ispirò allo stato veneziano un’operazione politica di grandissima efficacia, volta a rafforzare il mito fondativo della città e quindi, qualora ce ne fosse bisogno, a legittimarne ulteriormente l’autorità. Nel 1231, narrano le cronache, un incendio scoppiò improvvisamente nella stanza in cui erano custoditi gli oggetti e quando fu scoperto era troppo tardi per intervenire. L’indomani mattina, benché l’ambiente fosse andato quasi completamente distrutto, si constatò che era rimasto indenne un piccolo numero di reliquie, ma si trattava delle più significative, tanto che, una trentina d’anni più tardi, il Doge formulò al Papa, attraverso l’ambasciatore veneziano a Roma, la richiesta di riconoscimento della miracolosità dell’evento219: l’apostolo Marco aveva prodigiosamente assistito la città che in lui identificava la sua origine e il suo ruolo. Il fatto miracoloso venne ricordato, scolpito nella forma di ex voto, in un bassorilievo marmoreo, risalente probabilmente alla metà del Duecento e murato nell’andito Foscari, sulla parete retrostante l’altare del Santuario220. Il pannello, ritenuto di grande valore artistico, permette di identificare con una certa sicurezza le reliquie che formarono il nucleo del tesoro ricostituito dopo l’incendio del 1231221. L’evento indusse, ovviamente, i veneziani a restaurare l’ambiente del tesoro, superando la grave perdita e incrementando nel tempo la raccolta con nuovi preziosi. E infatti qualche anno dopo, nel 1261, nel momento della capitolazione dell’Impero Latino d’Oriente, che aveva comportato la fuga dei veneziani da Costantinopoli riconquistata dai bizantini, venne effettuata una seconda grande raccolta di reliquie e oggetti sacri. La maggior parte di queste opere proveniva dal tesoro del convento e del complesso delle chiese del PantoKrator oltre che da Santa Sofia, cioè da quei 219 Ivi, p. 179. E. Merkel, Bagliori d’icone, di reliquie e di altri oggetti artistici venuti da Bisanzio a Venezia per il Tesoro di San Marco, Venezia, Conferenza Ateneo Veneto, 26 Novembre 2012. 221 Le fonti riferiscono che quattro oggetti rimasero indenni: il Reliquiario ad ampolla del Preziosissimo Sangue di Cristo, la Stauroteca della Vera Croce, donata da Enrico re di Fiandra, la Stauroteca della Vera Croce, donata dall’Imperatrice Irene Dukas e il Reliquiario della Testa del Battista. (Basilica di San Marco, Tesoro, inv. N. 62; Idem, Santuario, inv. nn. 55, 57, 105). Oreficeria sacra a Venezia e nel Veneto. Un dialogo tra le arti decorative, a cura di Letizia Caselli ed Ettore Merkel, Treviso 2007. 220 97 luoghi che erano diventati di pertinenza veneziana dopo la caduta di Costantinopoli. La colonia veneziana, dopo il trionfo, aveva infatti eletto il primo podestà che prese sede nel monastero del Pantokrator, uno dei più celebri della città, mentre la basilica di Santa Sofia divenne la residenza del primo dei patriarchi dell’Impero Latino d’Oriente: il veneziano Tommaso Morosini. Nel 1261 il patriarca di Costantinopoli era ancora un veneziano, Pantaleone Giustinian, che fuggì insieme all’ultimo Imperatore Latino d’Oriente e al podestà veneziano Marco Gradenigo222. La fuga fu dunque l’occasione per mettere insieme una nuova ingente quantità di preziosi e trasportarli a Venezia. In un momento politicamente poco felice per la città di Venezia, la necessità di una nuova imponente operazione di raccolta e classificazione di tali reperti venne ad assumere così un forte valore ideologico223, legittimato, come si è detto, dal riconoscimento da parte del Papa del miracolo della salvezza delle reliquie. L’ambiente che ospitava tale raccolta venne ampliato, attraverso la creazione di due stanze collegate fra loro da un piccolo atrio, e reso quindi più consono all’accoglienza del tesoro marciano, il tesoro dello Stato di Venezia, di quella che era la città dell’Apostolo Marco224. Significativa è la decorazione musiva che possiamo notare nella lunetta della porta che dà al museo del Tesoro, testimonianza dello stile aulico e raffinato che contraddistingue i mosaici marciani del XIII secolo. Essa raffigura due Arcangeli che sostengono la Stauroteca della reliquia della Vera Croce. Si pensa che il particolare musivo rappresenti la Stauroteca della Vera Croce donata dalla regina Irene Dukas. L’identificazione dell’oggetto prezioso di matrice bizantina che spicca dal fondo dorato tempestato di perle è avvalorata dal fatto che la sua forma è unica e si contraddistingue dagli altri oggetti analoghi del Santuario, come pure dalla Stauroteca della Vera Croce donata dal re Enrico di Fiandra, scampata anch’essa all’incendio e raffigurata nel 222 G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, cit., p. 179. 223 Operazione di legittimazione che sappiamo essersi ripetuta in diverse circostanze e in varie fasi della storia della Repubblica di Venezia. 224 G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, cit., p. 180. 98 bassorilievo duecentesco225. Così, nel corso dei secoli, il tesoro di San Marco si arricchiva costantemente di nuovi oggetti sacri e reliquie, non soltanto attraverso il flusso di cose giunte da Costantinopoli tra il 1204 e il 1261, ma anche grazie ad acquisti, lasciti, doni di autorità religiose e civili di tutta Europa, oggetti dati in pegno o in garanzia nel corso di grosse operazioni finanziarie, oltre a continue riscoperte e ritrovamenti di cose dimenticate. Né mancavano, d’altro canto, tentativi di furto e manomissioni. L’incessante variare della consistenza del tesoro rese dunque necessaria la compilazione di inventari, il primo dei quali, stilato da Giovanni Corner, risale al 1283226. Se il nucleo più prezioso e ricco del tesoro è quello di origine bizantina, non mancano oggetti di altra matrice culturale e di diversa provenienza, tanto che gli studiosi propongono una suddivisione della raccolta in quattro aree: opere appartenenti all’antichità e all’alto medioevo, opere bizantine, islamiche e occidentali. Interessante è notare come molti di questi oggetti siano stati rielaborati e reinterpretati, nelle diverse epoche, in base alla sensibilità, al gusto e alle esigenze del momento. Il contatto con tale patrimonio artistico e culturale certamente contribuì al rinnovamento dell’arte veneziana in tutte le sue espressioni, in una sorta di “Rinascimento” prima del Rinascimento, che investirà non soltanto il contesto veneziano duecentesco, ma si perpetuerà anche dopo la capitolazione dell’Impero Latino d’Oriente e il ritorno della dinastia dei Paleologi nell’ultima fase della storia di Bisanzio227. 225 E. Merkel, Bagliori d’icone, di reliquie e di altri oggetti artistici venuti da Bisanzio a Venezia per il Tesoro di San Marco, Venezia, Conferenza Ateneo Veneto, 26 Novembre 2012. 226 Altro inventario importantissimo è quello del 1325, che fornisce la prima rassegna dettagliata dei singoli pezzi. Dopo le vicende poco felici che seguono la Caduta della Repubblica nel 1797 e lo smantellamento di parte del tesoro, il presidente dell’Accademia delle Belle Arti, Leopoldo Cicognara, viene incaricato nel 1820 di compilare il primo grande lavoro di capitolazione scientifica delle parti superstiti che costituiscono il tesoro. Essa costituisce la base di partenza per i successivi studi sul tesoro, da quello effettuato dal Pasini a fine Ottocento a quello più recente del Gallo, per poi giungere all’opera monumentale coordinata dall’Hahnloser. G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, cit., pp. 181-182. 227 E. Callegari, Venezia e il Tesoro di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf. 99 5a – GLI SMALTI SUPERIORI DELLA PALA D’ORO Tra gli oggetti sacri che costituiscono il Tesoro, la Pala d’Oro è considerata uno dei più preziosi e raffinati, alta espressione del genio metafisico di Bisanzio e del culto della luce intesa come elemento di elevazione dell’uomo verso Dio. Lo stesso studioso R. Polacco afferma che: “il fascino esercitato dalla Pala d’Oro nasce dalla singolarità dei suoi bagliori di luce e dei suoi effetti di colore tali da sottrarla dalla temporale dimensione terrena, per proiettarla nella sfera dell’eternità della Celeste Gerusalemme”228 (fig. 1). Si tratta di un capolavoro eccezionale per le sue dimensioni, di un’opera ricchissima, di origine composita, che nella sua ultima versione, acquisita nel 1345 per commissione del doge Andrea Dandolo a Giovanni Paolo Bonesegna, accoglie un numero assai elevato di lavori a smalto, per la maggior parte bizantini. Non vi è dubbio che, all’origine, dovesse essere stata una “fronte” d’altare, di dimensioni assai minori delle presenti. Dai documenti in nostro possesso emerge che un primo antependium d’argento fu ordinato a Costantinopoli, a proprie spese, dal doge Pietro Orseolo (976-978). Da esso proverrebbero, secondo la maggior parte degli studiosi, molti piccoli smalti della Pala attuale229. Una seconda pala fu commissionata dal doge Ordelaffo Falier (1102-1108) e fu terminata nel 1105, come precisa l’iscrizione “nova facta fuit” su due lamine d’oro della parte inferiore ai lati del trittico. A questo primo nucleo eseguito da artisti costantinopolitani nel 1105 per il doge Ordelaffo Falier (fig. 2) vanno ascritti, assai probabilmente, gli smalti della sezione inferiore della Pala, dove il Cristo con evangelisti e apostoli, l’Hetoimasia e le schiere angeliche sono accompagnati dalla Vergine, da ritratti di regnanti e profeti, da soggetti marciani e cristologici230. Nel 1209, sotto il dogado di Pietro Ziani231 (1205-1229), la pala fu ingrandita e arricchita con pietre preziose e smalti provenienti probabilmente dal bottino 228 R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 151. Il Polacco non condivide tale proposta, in quanto si attiene all’antica descrizione fornita dalla cronaca di Giovanni Diacono, dalla quale emerge che il manufatto di età orseoliana era composto da lamina d’argento dorato sbalzato del tipo delle più tarde pale di Torcello e di Caorle. Ivi, p. 154. 230 E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 249. 231 W. F. Volbach, Gli smalti della pala d’oro, in Il tesoro di San Marco, a cura di H. R. Hanloser, Firenze 1965. 229 100 della conquista di Costantinopoli. L’iscrizione, infatti, precisa che la Pala “renovata fuit” nel 1209 ad opera del doge Pietro Ziani e la cronaca del Dandolo aggiunge che il procuratore Angelo Falier “tabulam altaris Sancti Marci, additis gemi set perlis, Duci iussu, reparavit”232. In particolare, si è supposto che questi smalti con sei scene del Dodekaorton e uno smalto quadrilobo con l’arcangelo Michele (figg. 3-4-5), montato ora sul fregio superiore, provenissero dal monastero del Pantokrator di Costantinopoli. Circa la provenienza delle sei grandi formelle e del San Michele aggiunti in questa seconda edizione della Pala, la testimonianza ci giunge dalle parole del patriarca di Costantinopoli in visita a Venezia nel 1438, che al tempo dell’imperatore Giovanni Paleologo, vedendo quegli smalti sulla Pala, notò con rincrescimento che un tempo essi si trovavano nella chiesa del Pantokrator nella capitale, occupata dai veneziani nel 1204. Questa ipotesi è accolta con riserva dal Polacco, che ritiene improbabile che il patriarca potesse ricordare con tanta precisione la provenienza di quegli smalti 234 anni dopo la loro asportazione dal luogo originario. La loro ipotetica appartenenza a un luogo sacro legato in qualche modo ai Comneni, e forse proprio al santuario del PantoKrator, si giustifica eventualmente con la presenza nella Pala di uno stile aulico e comneno che caratterizza gli smalti in esame e soprattutto col fatto che la residenza del podestà della colonia veneziana si trovava accanto alla chiesa del Pantokrator. Gli smalti trasferiti sulla Pala d’Oro nel 1209 potrebbero essere stai asportati dopo la presa di Costantinopoli, dalla chiesa dedicata all’arcangelo Michele, che aveva funzione di mausoleo degli imperatori Comneni ed era situata tra la chiesa del Pantokrator commissionata dall’imperatrice Irene, morta nel 1124, e quella della Vergine Eleussa, fatta costruire dal marito, l’imperatore Giovanni II Comneno. Come sottolinea il Polacco “ la singolarità della forma quadrilobata e la tecnica à fond repoussé del grande smalto centrale raffigurante l’arcangelo, assai più raffinata e diversificata della tecnica cloisonné che connota le altre sei feste, ci inducono a credere che esso costituisse un’importante icona, forse la più prestigiosa del templon, perché raffigurante il titolare di questo mausoleo 232 R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 154. 101 dedicato appunto a San Michele e destinato ad essere il monumento sepolcrale dei componenti della dinastia regnante a Bisanzio”233. Grande è la preziosità tecnica, stilistica e compositiva del fregio superiore con le sei placche delle Grandi Feste e l’Arcangelo Michele, che appartengono all’ingrandimento primo-duecentesco della pala e sono espressione di un linguaggio altamente raffinato. Nonostante lievi diversità tecniche riscontrabili nella formella con l’Ingresso in Gerusalemme (figg. 6-7-8) e qualche divario nelle dimensioni, il gruppo appare stilisticamente unitario e dominato da un evidentissimo equilibrio tra fondo d’oro e area figurata. Esso costituisce il culmine dell’arte comnena nella sua fase più matura, della quale troviamo testimonianza non solo in miniature, ma anche nel ciclo musivo di Dafnì, negli affreschi di Nerezi ed infine nei mosaici della cupola dell’Ascensione in San Marco234. Il virtuosismo tecnico si fa ornamento, scrivendo innaturali geometrie rabescate sul corpo dell’asina bianca del Cristo. Tensioni ed emozioni contraddittorie agitano la folla dei discepoli ai due lati della Vergine orante nella placchetta dell’Ascensione, il dramma del silenzio della morte e della sofferta pietà ricorrono nel volto del Cristo morto e nelle figure astanti della crocifissione. Molteplici tecniche esecutive si associano invece, per concorrere a comporre effetti diversi (testa e mani a cloisonné, le altre parti à fond repoussé; linee di contorno incavate profondamente; impiego di smalto translucido oppure opaco) nella placchetta quadriloba con l’arcangelo Michele tra due serafini, che porta le stesse vesti solenni di Giovanni II Comneno e del figlio Alessio nei ritratti della miniatura del tetraevangelo di Città del Vaticano235 (fig. 9). Infine, a riprova del fatto che il fregio superiore con il San Michele e le sei feste liturgiche proviene dal bottino di Costantinopoli, tutte le iscrizioni di queste formelle sono in greco. Le iscrizioni latine con caratteri irregolari devono 233 R. Polacco, La Pala d’Oro di San Marco dalla sua edizione bizantina a quella gotica in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, a cura di R. Polacco, Venezia 1997, p. 371. 234 Renato Polacco, La Pala d’Oro in San Marco, la Basilica D’Oro, Milano 1991, p. 159. 235 Nel gran numero di codici illustrati di età comnena che ci sono rimasti di grande interesse è il tetraevangelo (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Ub. Gr. 2), che ritrae l’imperatore Giovanni II Comneno (1128 circa) e il figlio Alessio incoronati dal Cristo accompagnato dalle allegorie della carità e della giustizia; un’opera di grande ricchezza d’oro e di colore, a cui la placchetta quadriloba con l’Arcangelo Michele tra due serafini della Pala d’Oro di San Marco sembra rifarsi soprattutto per il trattamento delle veste solenni dei due sovrani. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 249. 102 considerarsi esecuzione bizantina su ordine della committenza e quelle greche vanno interpretate come “necessità” imposte dal rigido cerimoniale di corte anche in ambito linguistico. 103 5b – VENEZIA E L’ICONA DA DEVOZIONE Il ruolo e il significato che Venezia attribuisce al culto dell’icona bizantina e post-bizantina è legato alla pietà pubblica e ai grandi miti politici veneziani. Come sottolinea Flaminio Corner a metà del ’700, una componente devozionale alla maniera di Levante è appartenuta al suo spazio culturale, inevitabilmente definito e conformato anche in rapporto al suo spazio mercantile e marittimo: “daché i veneziani per dilatare il loro commercio intrapresero d’approdar con frequenza a’ porti della Grecia - scrive il senatore della Serenissima - e massimamente di Costantinopoli, contrassero pure una venerazione particolare verso que’ santi, che erano più celebri nella chiesa orientale”236. Venezia medievale e rinascimentale è porto di devozione, porto di reliquie, di testimonianze, di memorie sacre, atte spesso a rafforzare il prestigio e l’immagine internazionale della città ducale, già sito apostolico per la presenza delle spoglie dell’evangelista Marco. Nell’immaginario narrativo e nelle tradizioni della devozione venetica, corpi santi e reliquie raggiungono le acque della laguna di San Marco come doni di imperatori romani d’Oriente (da Leone V a Michele II e a Basilio il Macedone) o, ancora, come bottino di furti devoti od oggetto di pie compravendite, oppure infine quali prede della conquista latina di Costantinopoli condotte trionfalmente nella nuova sede. In questo modo la città marciana accoglie in sé e ripara nelle sue chiese i sacri cimeli di devozione, mostrando ancora una volta di volersi appropriare, con deliberata consapevolezza, del ruolo della grande Costantinopoli, centro universale di raccolta sistematica di pie memorie237. Esiste uno specifico gruppo di reliquie che avvicinano in modo particolare la pietà veneziana a quella orientale. La chiesa di San Marco custodisce infatti, si scrive, la croce portata da Costantino in battaglia, il suo elmo, il reliquiario cruciforme che racchiude il suo dito pollice. E ancora, una croce fatta del Legno 236 F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, p. 424. Sul tema v., inoltre, S. Tramontin- A. Niero - G. Musolino - C. Candiani, Culto dei santi a Venezia, Venezia 1969; S. Tramontin, Influsso orientale nel culto dei santi a Venezia fino al secolo XV, in Venezia e il Levante fino al XV secolo, Firenze 1973, pp. 801-820. 237 E. Concina, Venezia e l’Icona in Venezia e Creta, Atti del Convegno internazionale di Studi a cura di Gherardo Ortalli, Venezia 1998, p. 527. 104 della vera Croce, appartenuta all’imperatrice Elena, madre di Costantino e santa; il suo stendardo, i suoi pettorali d’oro e le corone delle giovinette del suo seguito. Anche in questo, dunque, nella figura di custode di tali spoglie, sacre ai cristiani, la natura imperiale di Venezia veniva confermata, e non certo dalla sorte, dalla pura casualità degli eventi, ma piuttosto dal benevolo disegno della volontà divina238. L’immagine della Nicopeia (fig. 10) rappresenta il principale riferimento pubblico di tale componente di devozione, interpretato come simbolo del trasferimento da Costantinopoli a Venezia della protezione e del sostegno della Gran Madre di Dio239. Definita “Madonna de Gratia” per eccellenza, esauditrice di suppliche o preghiere, custodita e venerata in San Marco e precisamente nella soprasagrestia della basilica, sarebbe giunta a Venezia dopo la IV crociata. Questa tradizione venne accolta nei vari trattati che sull’icona marciana pubblicarono Giovanni Tiepolo, Carlo Querini, Flaminio Corner. Quest’ultimo, nel 1761, utilizzando un vocabolo greco la chiamò Nicopeia, vincitrice, e la definì “aiutatrice invittissima, compagna insuperabile nelle battaglie”240. Il suo culto si sviluppò con grande intensità verso la metà del XVI secolo e con il tempo riuscì a guadagnarsi la partecipazione collettiva della popolazione. Assai significativamente, il Tiepolo aveva affermato, appunto, come attraverso il possesso pubblico di tale icona “havesse Vinegia a promettersi con l’intercessione di Maria Vergine tutto ciò che può venire dalla divina misericordia et onnipotenza, sendo stata ella, non meno che la città di Bisanzio… in honore della Vergine non pure edificata, ma consecrata in honore di essa Madre di Dio”. Dunque l’icona bizantina custodita e venerata nella chiesa ducale, considerata esplicitamente come una delle testimonianze provvidenziali della translatio imperii, “secondo l’uso de gl’imperatori antichi 238 M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venetia, a cura di A. Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 160-162; G. Tiepolo, Trattato delle santissime reliquie ultimamente ritrovate nel Santuario della Chiesa di San Marco, Venezia 1617; Sansovino-Martinioni, Venetia cit., pp.102-103. 239 G. Tiepolo, Trattato dell’immagine della Gloriosa Vergine dipinta da San Luca conservata già da molti secoli nella ducal chiesa di San Marco, Venezia 1618. 240 E. Callegari, Venezia e il Tesoro di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf. 105 porta (ta) inanzi, sperandone favore, aiuto241”, costituisce l’immagine visibile di quella divina protezione che assicura la rinascita della città-repubblica242. Nell’inventario del 1606 si trova per la prima volta “fornida d’argento e d’oro con zoglie, et alcune panizuole vode. In capela fata de novo 243 “; le zoglie, ossia i gioielli, erano con tutta probabilità i primi di una lunga serie di preziosi doni votivi ricevuti in seguito alla venerazione dei fedeli nei suoi confronti e che arrivò al punto di occultare quasi per intero la superficie pittorica, già in parte nascosta dalla camicia di argento dorato244. Per la sua divina bellezza era creduta “achiropita”, cioè non creata da mano umana, bensì da San Luca che, per divina ispirazione, avrebbe tracciato la prima immagine della Madre di Dio245. 241 G. Tiepolo, Trattato dell’immagine della Gloriosa Vergine dipinta da San Luca conservata già da molti secoli nella ducal chiesa di San Marco, cit., p. 20. 242 E. Concina, Venezia e l’Icona in Venezia e Creta, cit., pp. 524-525. 243 R. Gallo, Reliquie e reliquiari veneziani, in “Rivista di Venezia”, XIII, Venezia 1934, p. 307. 244 E. Callegari, op. cit., tesi di laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf. 245 L’Evangelista Luca oltre ad essere l’autore, come sappiamo, del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, è considerato il primo ritrattista della Theotokos (Madre di Dio), secondo una tradizione nata nel V secolo sulla base di antiche icone a lui attribuite, provenienti da Antiochia o da Tebe e trasferite poi a Costantinopoli e in Russia, che diventeranno il prototipo per la realizzazione di molte icone mariane. A. Tradigo, Icone e Santi d’Oriente, Milano 2004, p. 104. 106 CAPITOLO VI - LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL DUECENTO VENEZIANO 6a - Breve introduzione sulle origini dell’arco rialzato e sua evoluzione nell’edilizia veneziana del Duecento246 Lo studioso che maggiormente ha trattato la tematica relativa alle origini dell’arco rialzato è Wladimiro Dorigo247. Egli, prendendo spunto dalle teorie di Ruskin248 sugli ordini degli archi veneziani, svolge un’analisi sullo sviluppo degli archi a Venezia tra l’XI e il XIV secolo. Li suddivide in tre ordini (fig. 1): al primo appartiene l’arco a tutto sesto rialzato su piedritti; al secondo, l’arco rialzato su piedritti, cuspidato nell’estradosso; al terzo, infine, l’arco rialzato su piedritti, cuspidato sia nell’estradosso che nell’intradosso. Lo studioso italiano, tuttavia, inizia la sua analisi descrivendo il tipo dell’arco a tutto sesto (seconda metà del sec. XII e inizio del sec. XIII) che Ruskin non cita, ma che per il Dorigo riveste un’importanza del tutto particolare. Tale arco, entro muro o su colonne, con le sue certezze statiche e figurative costituì un solido punto di partenza per la storia muraria dell’architettura domestica veneziana, tanto da essere usato in situazioni statiche relativamente impegnative, come i portici terreni, e mantenne la costanza geometrica e la continuità costruttiva della ghiera semicircolare in mattoni e dell’unificazione delle ghiere contigue in esatta corrispondenza alla loro imposta sul capitello della colonna. Esso è presente a Venezia fin dall’XI secolo; i primi esempi sono rintracciabili nelle fabbriche ecclesiastiche di San Nicolò di Lido e di San Marco. Questo tipo d’arco è attestato soprattutto in portici esterni (sull’acqua) o interni (su corte), presenta una struttura sia in mattoni che in pietra ed è associato quasi sempre a capitelli a cubo scantonato249. Gli esempi di portici 246 Il presente approfondimento sullo sviluppo dell’arco rialzato nell’architettura civile veneziana è stato tratto da un mio precedente lavoro di ricerca. L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, tesi di laurea in Conservazione dei Beni Culturali, Relatore Prof. Ennio Concina, Università Ca’ Foscari di Venezia, Anno Accademico 2006-2007, pp. 4-81. 247 W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica,Verona 2003, pp. 266-283. 248 J. Ruskin, The stones of Venice, London 1874. 249 W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 277. 107 curtensi “romanici” interni meglio conservati con arcate a tutto sesto, appartenenti certamente alla fase edilizia più antica dell’architettura civile veneziana, sono quelli delle corti del Fontego vicino al campo S. Margherita e del Teatro Vecchio presso S. Polo; di corte Bottera e di quella presso calle del Rimedio a Castello 4418. Esempi di portici esterni sul canale sono quelli di ca’ Barzizza, ca’ Falier, ca’ da Mosto (fase originaria), casa S. Giovanni decollato, ca’ Molin-Balbi-Valier250. I portici dei palazzi sono in genere più tardivi o rimaneggiati, come rivelano i particolari decorativi. Passando poi all’analisi del I ordine, a cui viene ascritto l’arco a tutto sesto rialzato su piedritti, lo studioso italiano formula alcuni seri rilievi critici sulla ricostruzione fatta da Ruskin, che sostiene l’origine bizantina di tale arco. All’interpretazione di Ruskin, del resto, si era allineata la letteratura successiva, che ha sempre sostenuto la tesi di una importazione di tale tipologia dall’Oriente, intorno all’ XI - XII secolo. Secondo il Dorigo, invece, archi del genere sono visibili non soltanto nel territorio bizantino da S. Irene di Costantinopoli in poi, ma anche in Occidente: a Roma e precisamente nei mercati traianei, a Ostia (casa degli Aurighi), a Parenzo (quadriportico della Basilica). Altri archi di questo tipo, anche se più tardivi, ossia altomedievali, li troviamo poi a Cividale (nel tempietto sono presenti come estradossi di volte a botte laterizie), a Milano (S. Satiro e torre dei monaci di S. Ambrogio), a Ravenna, nelle bifore del palazzo S. Salvatore detto degli Esarchi, così come in bifore e trifore di campanili preromanici quali quelli di S. Apollinare nuovo, di S. Apollinare in Classe e altri. L’origine di tale arco risalirebbe dunque, secondo il Dorigo, all’età imperiale e la riproposizione del tipo sarebbe dovuta probabilmente a costruzioni di età carolingia dell’entroterra italico251. A Venezia, sempre secondo il Dorigo, l’arco rialzato compare per la prima volta nell’esterno dell’abside della basilica di San Marco, ma è bene ricordare che l’Arslam252 cita la sua presenza addirittura all’interno della basilica contariniana (fig. 2). Esso appare, comunque, in maniera più decisiva solo verso la metà del 250 L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, cit., tesi di laurea, Anno Accademico 2006-2007, p. 6. 251 252 Ivi, p. 7. E. Arslam, Venezia gotica. L’architettura civile gotica veneziana, Venezia 1970. 108 XIII secolo alle due estremità nord e sud della facciata occidentale, dove ben si distinguono i due portichetti con archi a sesto rialzato253 (fig. 3), impostati su colonne sovrapposte in due ordini. Infine, dopo la sua comparsa in San Marco e nelle Procuratie Vecchie, diventa distintivo di logge e/o portici di alcune delle più celebrate domus magnae che più avanti analizzeremo254. Il “passaggio” dall’arco rialzato del primo ordine agli archi cuspidati rappresenta, insieme con la successiva transizione agli archi gotici, uno dei problemi più complessi di tutta l’architettura medievale veneziana255. Per lo studioso O. Demus, l’origine dell’arco cuspidato è certamente islamica256, e gli esempi presenti in San Marco - porta del Tesoro, porta dei Fiori, porta di San Giovanni e la stessa porta Nord della facciata, detta di Sant’Alipio (figg. 4-5) - accertano nella loro singolarità l’accettazione culturale e politica, nel più significativo monumento religioso e civile della città, di quelle forme mistilinee di cui era sicuramente nota la provenienza. Tuttavia, mentre in San Marco gli archi citati sembrano configurare soprattutto ricercate sperimentazioni, quasi sempre diverse tra loro, che si svolgono nell’ambito di qualche decennio, gli archi cuspidati che appaiono in città probabilmente prima della metà del secolo risultano rigorosamente formalizzati, quasi definiti da un canone di proporzioni e di ductus tale da consentire poche limitate variazioni esecutive257. La durata di committenza di tali archi cuspidati sia nell’intradosso che nell’estradosso fu notevole: si protrasse infatti per circa due terzi del Duecento, fino ai decenni iniziali del Trecento. Essi furono trattati di norma con 253 R. Polacco, L’architettura nei secoli IX –XIII in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 35. L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, cit., tesi di laurea, Anno Accademico 2006-2007, p.7. 255 Secondo il Dorigo, l’apparizione dell’arco a tutto sesto rialzato su piedritti e cuspidato all’esterno non implica, di per sé, una fase di transizione verso gli ordini gotici, come proposto dallo studioso britannico Ruskin: fra i due gruppi di ordini non esiste rapporto necessario di successione, né formale, né strutturale. L’arco su piedritti cuspidato non può confondersi con l’arco gotico inflesso. Quest’ultimo è un arco a quattro centri, mentre il primo è un arco a un solo centro, cui può essere aggiunta una cuspide di varia forma, triangolare o arcuata, che nel secondo caso tenderebbe a farlo divenire a tre centri.W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 278. 256 Ossia, come ha opportunatamente precisato Demus, fatimida e specialmente ayyubbide. The church of San Marco in Venice, cit., pp. 104-105. 257 O. Demus, The church of San Marco in Venice, cit., p. 104. “In Sicily, the Islamic element was a strong allpervading current, fostered by royal patronage and disseminated, in part by Muhammedan craftsmen, both native of Sicily and immigrants from Fatimid Egypt. In Venice, on the other hand, Venetian Artists employed a few isolated forms of Islamic origin and amalgamated them in decorative ensembles of a thoroughly Venetian cast”. 254 109 l’originario toro esterno e investirono bifore, trifore, quadrifore, integrandole anche con frequenti aggiunte di monofore laterali su pilastri. L’arco cuspidato nell’estradosso si trova in associazione tipica, assolutamente prevalente, con il capitello a cubo scantonato profilato, pur ammettendo qualche presenza di capitelli a foglie angolari rovesciate o a foglie angolari ascendenti, che si ritrovano anche, talvolta, nell’arco rialzato del III ordine con il quale invece si accompagna di solito il capitello a foglie grasse. “La presenza di tali archi cuspidati sia nell’estradosso che nell’intradosso annuncia peraltro un’altra epoca dell’architettura di facciata veneziana che durerà molti secoli. Le strutture architettoniche dell’ordine I (arco a tutto sesto rialzato su piedritti) che, insieme con le precedenti di arco a tutto sesto avevano caratterizzato mediante l’organismo unitario a portico e loggia la prima grande edilizia di pietra, cedono il passo abbastanza rapidamente a una dissoluzione del blocco portante dei due piani sovrapposti, con la scomparsa del portico, sostituito da portale, e con la scomparsa della loggia, sostitituita da monofore e polifore. Al primo piano non si costituisce più, dunque, il secondo ordine colonnare distintivo dell’architettura romana a più ordini, ma finisce per incastonarsi all’interno una contratta transenna258. È questo il punto d’arrivo dell’evoluzione romanico-bizantina dell’arco veneziano che, con l’avvento della cuspide nella continuità semicircolare dell’intradosso, va ad interrompere quella continuità, così che il concio centrale superiore perde il valore unificante che aveva nel tipo precedente, acquisendone uno diverso, non più plastico, ma linearistico, il quale trasforma l’assetto spaziale-strutturale dell’edificio e contribuisce alla lenta evoluzione tipologica della casa veneziana”259. 258 Il venir meno della funzione portante dei precedenti nessi trilitici potrà esentare la polifora del primo solaio dallo svolgere funzioni di sostegno nei confronti della polifora del secondo solaio – che nel frattempo comincia ad apparire in questa età - , autorizzando così un indebolimento strutturale peraltro implicito nella forma cuspidata dei nuovi archi, rilassamento che potrà accentuarsi con l’avvento dell’arco a sesto acuto inflesso. W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 279. 259 L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, cit., tesi di laurea, Anno Accademico 2006-2007, pp. 11-12. 110 6b - La formazione della Piazza e lo sviluppo dell’edilizia di alto livello Come abbiamo già accennato in precedenza, a partire dalla seconda metà del XII secolo, Venezia intraprende una fase di trasformazione e rinnovamento che determina una riorganizzazione radicale della sua configurazione urbana. Tra i vari interventi di riqualificazione che interessano l’area marciana, particolarmente significativa è la costruzione della lunga fabbrica delle Procuratie (figg. 6-7). Le prime informazioni su di esse risalgono al XIII secolo e provengono da alcuni documenti relativi alle case dei Procuratori che, come sappiamo, si trovavano sul lato meridionale della Piazza. In occasione, infatti, della nomina di nuovi procuratori venne deliberato dal Maggior Consiglio, nel 1231, 1239 e 1261, ”quod fieri debeatuna domus pro sua habitatione”260. Dunque è possibile che tutta l’ala meridionale della Piazza fosse già costruita nel 1231, ma è certo che nel suo sviluppo planimetrico doveva occupare in profondità solo una parte dell’area ora occupata dalle Procuratie Nuove. La parte restante venne gradatamente occupata tra il XIII e il XIV secolo fino ad essere completamente satura nel 1319261. La Piazza, quindi, sorta in collegamento con quell’espansione urbanistica che abbiamo già osservato, si pose rispetto a questa non solo come un ulteriore elemento di stimolo per la zona strettamente circostante, ma anche come un modello architettonico per l’edilizia di alto livello. Nel XIII secolo, dunque, questo genere di edilizia residenziale dovette probabilmente ispirarsi alle Procuratie. Ciò non significa che con le Procuratie si sia introdotto qualcosa di completamente nuovo a Venezia, in quanto una tradizione costruttiva esisteva già e le forme del portico a tutto sesto trovano numerose attestazioni anteriori a questo momento (abbiamo già citato la corte del Fondaco e la corte del Teatro Vecchio a San Cassiano), ma che piuttosto con esse si è raggiunto un livello formale più alto e, in particolare, una 260 F. Corner, Ecclesiae Venetae, X, cit., pp. 384-385. La citazione è relativa alla nomina del 1239. M. Agazzi, La formazione della Piazza in Platea Sancti Marci, I luoghi marciani dall’XI al XIII secolo e la formazione della Piazza, cit., p.134. 261 111 definizione delle strutture di facciata più aulica ed imponente rispetto agli esempi allora disponibili262. 262 Ivi, p.137. 112 6c - Origini delle Domus Magnae Prima di passare all’analisi delle Domus Magnae meglio conservate e, quindi, maggiormente esemplificative delle caratteristiche che abbiamo descritto, volevo soffermarmi brevemente sulle origini di tali manufatti. La domus magna, che rappresenta la matrice urbanistica della Venezia bizantina, è la casa padronale con quell’insieme di abitazioni minori, di edifici e attrezzature di servizio che vivevano alle sue dipendenze e con essa costituivano un unico complesso edilizio, espressivo di una compagine sociale unitaria e qualificata per fondamentali interrelazioni e gerarchie dei suoi componenti. La domus magna non era solo abitazione, ma anche azienda commerciale: la cosiddetta casa-fondaco veneziana (o meglio, “casa da statio con magazeni”). Al pian terreno, generalmente, si trovava un grande androne con il portico verso il canale per lo scarico delle merci, ai lati i magazzini; verso terra una piccola corte cinta da mura, spesso con scala esterna. Al piano ammezzato vi era l’amministrazione (“mezà”); il piano nobile (spesso ve ne arano due) presentava salone centrale (“portego”) e stanze ai lati; sopra, vi era un altro piano di altezza più bassa per l’alloggio dei servitori e dei dipendenti. Anche le facciate, come le piante, sono divise in tre parti: al centro il finestrato, ai lati zone più piene (le “torreselle”). Talvolta pianta e facciata sono asimmetriche, in ogni caso si può notare una costante corrispondenza funzionale tra la distribuzione interna degli ambienti e le aperture in facciata. Ciò ci permette di comprendere come la validità delle architetture civili veneziane non si basi solo su un fatto di gusto decorativo, come troppo spesso si afferma, ma anche su una chiara coerenza costruttiva. L’indagine dell’arco rialzato nella domus magna veneziana del Duecento e del Trecento263 può essere condotta ed esemplificata attraverso lo studio di alcune eminenti individualità architettoniche. Gli esemplari pervenutici non sono molti e solo pochi fra essi suggeriscono un’immagine integrale. Siamo, inoltre, consapevoli del fatto che gli interventi 263 P. Maretto, La casa veneziana nella storia della città lagunare dalle origini all’Ottocento, Venezia 1986. 113 distributivi e funzionali anche gravi che si sono succeduti in molte delle domus magnae già nel Duecento e nel Trecento possono aver indotto modificazioni non indifferenti anche in facciata. È interessante notare come il delinearsi di nuove penetrazioni di gusto, quali l’impiego dell’arco rialzato, abbia influito sullo sviluppo architettonico dell’edilizia civile veneziana, tanto che è accertata l’esistenza, già nel Duecento e nel primo Trecento, di specificazioni funzionali e tipologiche di vario livello. La strutturazione della casa già nel Duecento si costituisce in termini che, con varianti determinate, rimarranno validi per secoli. Nello studio di tali costruzioni noteremo un dato significativo: mentre in epoca romanico-bizantina l’edificio fruisce di aree rettangolari molto profonde e di moderata altezza, a partire dalla seconda metà del Duecento le strutture divengono più duttili e articolate in altezza. L’analisi dell’arco rialzato, che parte dallo studio del primitivo arco a tutto sesto “romanico” (seconda metà sec. XII - inizi sec. XIII) e della sua progressiva evoluzione, che porterà alla presenza degli archi rialzati su piedritti e cuspidati prima nell’estradosso e poi anche nell’intradosso, deve dunque tener conto dell’impostazione edilizio-architettonica complessiva di tali strutture, che condiziona ovviamente il loro processo evolutivo. 114 6d - Lo sviluppo dell’arco rialzato in alcune delle più significative Domus Magnae a Venezia La Proprietas maior Palmieri da Pesaro, poi Fondaco dei Turchi, è sicuramente uno dei più antichi e rappresentativi manufatti architettonici duecenteschi esistenti nella città di Venezia. Tale esemplare fu costruito secondo le cronache intorno al 1230 da Giacomo Palmieri, originario di Pesaro ed era in origine una tipica casa fondaco venetobizantina (fig. 8). Da fonti successive è emerso che il complesso fabbricativo verso la corte e la sua qualificazione monumentale sono il risultato di trasformazioni progressive rispetto alla fondazione del Duecento, poi assoggettate a trasformazioni utilitarie e ad altri impieghi che investirono diversi locali nei due bracci laterali e nel blocco compreso fra le due sale, oltre alla facciata, come dimostrano le degradanti immagini ottocentesche. Nella parte antica si distingue, comunque, molto bene l’originaria presenza dell’arco rialzato. La facciata è infatti tutta giocata sul rincorrersi incalzante delle archeggiature ad arco rialzato di ordine I, e di pilastri, colonne e capitelli romanici delle torri laterali. Le arcate sono associate a colonne marmoree antiche di spoglio e a capitelli di tipo contariniano spesso rifatti e che variano nella foggia. Secondo il Dorigo264, tali caratteristiche sono proprie di un assetto culturale e stilistico quasi certamente databile al secondo quarto del Duecento. Un tratto tipico che contraddistingue la facciata di tale edificio “romanicobizantino” è la presenza di porticati e amplissimi finestrati che traforano tutta la parete. In Palazzo Pesaro, così come nei palazzi veneziani Loredan e Farsetti, queste aperture così numerose necessitano l’imposizione di un ritmo. Ciò ha portato l’architetto a modificare il sottostante portico di accesso estendendolo a tal punto da farlo diventare il più ampio esistente nell’architettura medievale veneziana dopo quello, più tardo, di Palazzo Ducale. 264 W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, Venezia 2003; cit., p. 368. 115 Molto si è discusso sull’origine di tale finestrato che prende, da un capo all’altro, tutta la facciata del Fondaco dei Turchi. Un contributo significativo sulla provenienza delle forme architettoniche relative agli schemi di facciata palaziale veneziana ci viene dallo studioso Sergio Bettini. In particolare, lo studioso fa risalire il modello della facciata di alcuni palazzi veneziani, tra i quali anche il Palazzo Pesaro, alla struttura della villa romana265 anzichè ad una ispirazione di matrice bizantina. Il Bettini, che tiene conto nella sua analisi dell’interpretazione data dallo Swoboda266, afferma che il tipo della casa veneziana più diffuso e persistente probabilmente deriva per lo schema della sua facciata - dominata da grandi polifore al centro, cui ai lati fanno da cornice larghe cortine più piene, quasi torriccelle appiattite (di qui il nome di casa con torreselle) - da un certo tipo di villa romana, in particolare da quello a portico centrale e torrette a risalti laterali (definita Portikusvilla mit Ekrisaliten, secondo la precisa affermazione dello Swoboda). A tale proposito, viene preso in considerazione come esempio di riferimento il palazzo di Diocleziano a Spalato (fig. 9). Tale edificio, composto da un portico con corpi laterali aggettanti (Ekrisaliten), costituisce un precedente prezioso dei palazzi veneti, in quanto la basis villae, (il basamento massiccio già sporgente in altri esempi) appare sullo stesso piano della facciata. In conclusione, secondo il Bettini, quelle strutture a portici, loggiati ritmici, grandi polifore che furono proprie della tarda romanità e che si caratterizzano per la presenza di porticati e amplissimi finestrati che traforano tutta la parete (fig. 10), visibili tra l’altro anche in altri edifici che più tardi tratteremo (ca’ da Mosto, Loredan, Farsetti), creano un nuovo ritmo strutturale che a partire dal II secolo condizionerà l’architettura palaziale di facciata veneziana. Quello che oggi rimane del Fondaco dei Turchi è frutto del radicale restauro compiuto da Federico Berchet nel XIX secolo, che ne ha raggelato l’originaria, austera bellezza (fig. 11). 265 266 S. Bettini, Venezia, nascita di una città, Milano 1918. K. M. Swoboda, Römische und romanische Paläste, Vienna 1919. 116 Altra celebre domus magna è costituita dal Palazzo Dandolo, ca’ Farsetti267 (figg. 12-13). La costruzione di ca’ Farsetti, cioè del palacium San Luca, fu avviata da Raynero Dandolo, figlio del doge Enrico, trionfatore di Costantinopoli, nel primo decennio del Duecento268. Proprio da qui, da un atto di committenza ducale, la cronachistica veneziana fa derivare il prototipo, il caso esemplare delle architetture palaziali del Duecento: ca’ Dandolo sul Canal Grande269. I connotati stilistici, a cominciare dagli archi a tutto sesto rialzato, e più fondamentalmente l’impianto planimetrico e compositivo della facciata sul Canal Grande, fanno di ca’ Farsetti e del vicino palazzo ca’ Loredan due tra i più antichi esempi di casa-fondaco oggi esistenti a Venezia, la cui tipologia di impianto distributivo-strutturale perdurerà per diversi secoli270. Si tratta di uno schema a sala centrale “passante” acqua-terra e smistante i vani laterali sia al piano terra che al piano nobile, costituito da quattro murature parallele in profondità e tre solai. Il disegno della facciata di tali edifici è caratterizzato dalla sovrapposizione di lunghi porticati e corrispondenti finestrati superiori che ne percorrono ritmicamente l’intera estensione. Di solito, la sezione mediana è composta da un numero maggiore di archi rispetto alle due esterne e il ritmo dello stesso portico terreno è talora interrotto e, allargandosi, modificato celebrativamente dalla maggior ampiezza del fornice centrale (come al Fontego dei Foscolo sul rio di ca’ Foscari o a ca’ da Mosto). In particolare, la facciata di ca’ Farsetti presenta una loggia continua composta da un unico finestrato ad archi rialzati che poggiano su colonnine binate e capitelli a cubo scantonato profilato ai lati e a foglie grasse nella zona centrale. Il gioco illusionistico si ripete al pian terreno, con la sequenza di archi rialzati del porticus in apparenza assai più larga dell’anditus, con un sistema di fornici (2+1+2) ai lati dei quali stanno due bifore. I capitelli del portico sono di tipo 267 W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., pp. 370-371. Ancora una volta, la fonte sul caso emblematico del palazzo sul Canal Grande del doge Enrico Dandolo proviene da Stefano Magno. Essa afferma che il doge da Costantinopoli “scrise a suo fiolo et fese edificar un palazo et mandoli de degne piere e così fo edificado molto degno”. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 302. 269 E. Concina, Storia dell’architettura di Venezia dal VII al XX secolo, cit., p. 71. 270 W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 371. 268 117 contariniano e le colonne stesse posavano, prima del restauro del 1874, su altri capitelli corinzi rovesciati “tolti da edifizi romani de’ bassi tempi”271. Anche il palazzo ca’ Loredan, come il precedente ca’ Farsetti, rappresenta un significativo esempio di casa-fondaco databile, secondo il Dorigo, alla seconda metà del Duecento272 (figg. 14-15). Qui la loggia riprende esattamete il portico (accentrato come in ca’ Farsetti) e si presenta dilatata su tutto il prospetto canalizio. Anche se resta evidente per tanti aspetti di facciata la somiglianza di questo palazzo con l’adiacente ca’ Farsetti, ca’ Loredan se ne distingue per la diversa plasticità architettonica dovuta all’utilizzo di materiali più pregevoli, e per il gusto classico più arcaicizzante presente nella loggia. Dalla loggia, preziosi fusti di marmo orientale si alzano a sostenere gli archi rialzati di ordine I rifiniti a dentello, che poggiano su capitelli corinzieschi di fattura tardoantica o bizantini a cesto traforato. Anche il portico sottostante è caratterizzato da archi rialzati del medesimo ordine associati a capitelli di tipo contariniano con alto abaco profilato. Infine, ai lati del portico emerge la presenza di colonnine binate e capitellini romanici a cubo scantonato. Della domus magna dei Barozzi o Palazzo Treves De Bonfili273 (figg. 16-17) nulla è apparentemente rimasto a causa della ricostruzione attuata nel XVI secolo, che ha dato origine al Palazzo Treves de’ Bonfili. Possiamo tuttavia leggere in un documento del 1279, riguardante la divisione dei beni di Giovanni Barozzi, la descrizione di questo straordinario edificio compreso fra il Canale e la curia retrostante. La distribuzione interna dell’edificio presentava un assetto a I, con uso di porticus in ambedue i livelli, ai lati del quale erano gli hospicia (fig. 18). Sopra il primo piano si estendeva una sopita con oculi aperti sul canale e altri fori. La facciata vista dal De’ Barbari (fig. 19) si componeva di un porticato terreno, di una loggia continua, di una parete superiore forata dagli oculi citati e di una serie di grandi merlature simili a quelle della ca’ Palmieri. Per quanto concerne la balconata il De’ Barbari mostra che la casella nel 1500 era invece divenuta un casone 271 Ivi, p. 358. Ivi, p. 372. 273 Ivi, p. 374. 272 118 gotico e di balconi liberi ne erano rimasti solo 10: essi erano dunque in origine 15 o 16, forse 3+9+3. È probabile che gli archi appartenessero all’ordine I, e si potrebbe così far risalire l’intera costruzione agli anni intorno alla metà del Duecento274. L’esistenza della domus maior Querini (ca’ Mazor) è attestata, secondo alcune deliberazioni duecentesche del Maggior Consiglio, a partire dal 1265, quando la “ca’ Mazor“ di Giacomo Querini era divenuta proprietà del comune, che l’aveva acquistata per quattromila lire e per altrettante la cedette nuovamente alla famiglia nel 1288. Della domus (fig. 20) sussiste in parte la fronte privata sul campo delle becarie (l’antica curia). Essa conserva ancora una trifora e una monofora originali che presentano la tipologia dell’arco rialzato a toro, cuspidato sia nell’estradosso che nell’intradosso (ordine III, fig. 21) e poggiante su capitelli a foglie grasse con nervature rovesciate e caulicoli. Sulla struttura architettonica della domus maior, e sulla facies complessiva della sua fronte sul Canale, nulla è possibile dire se non che i pochi elementi residui sul campo possono datarsi al periodo compreso fra il 1288 e il 1310, quando forse si eseguirono lavori di allungamento di un edificio. La costruzione della ca’ Mazor deve essere invece fatta risalire alla prima metà del Duecento. A quel tempo rappresentò un edificio di grande rilevanza architettonica per la sua classe, paragonabile alla struttura dei palazzi ca’ Farsetti e Loredan275. Altro celebre manufatto architettonico è costituito dalla proprietas da Mosto (figg. 22-23). Costruita sulla parte che dava sul Canale di una vasta proprietà di Ca’ Falier (1209 e 1235) situata lungo il rivo dei SS. Apostoli, viene attestata nel 1242 come proprietà di Marino e Giovanni Barozzi. Si tratta di uno dei più notevoli e rari esempi di costruzione del XIII secolo, conservata nel suo originale pianterreno, col tipico portico sull’acqua della casa-fondaco di cui rimangono tre arcate e, al primo piano, col suo loggiato illuminato da un susseguirsi di archi rialzati con l’estradosso appuntito. È proprio la novità nel trattamento dell’estradosso l’elemento che più fa spicco su questa facciata; per la prima volta, infatti, nell’arco tondo compare una 274 275 Ivi, p. 374. Ivi, p. 376. 119 cuspide, elemento, questo, che segnerà un passo verso quell’arco particolare che impererà nell’arte gotica276. Dall’esame dell’ordinamento di facciata, in particolare, si osserva un pesante rimaneggiamento del portico (che doveva essere continuo su cinque arcate: 2, 1, 2), caratterizzato da una riutilizzazione di elementi decorativi. In esso emerge la presenza di archi rialzati su piedritti di blocchi lisci di pietra d’Istria poggianti su capitelli di diversa forma: uno trecentesco (di tipo 6°) e gli altri a cubo scantonato277. Anche il piano di loggia risente dei lavori di restauro di fine XIV secolo, come testimoniano i tardi capitelli a foglie rovesciate con caulicoli che non sono certo contemporanee agli archi rialzati (1, 7, 1) cuspidati nell’estradosso (ordine II). Infine, è interessante notare le sei formelle con centina che presentano la cuspide sia nell’estradosso che nell’intradosso (ordine III) e che, con le cornici esterne, suggeriscono una dimensione più tarda (fig. 24). Questo edificio è stato purtroppo sopraelevato di due piani nel XVII secolo. Una lapide ricorda che questa fu la dimora di celebri navigatori e qui nacque il più famoso tra essi: Alvise da Mosto (1432-1488). Il palazzo fu poi trasformato nell’ Albergo del Leon Bianco, il più lussuoso e rinomato della città fra il Cinquecento e il Settecento. L’edificio noto con la denominazione moderna di ca’ Barzizza (figg. 25-26) appartenne agli eredi di Marco Contarini nel 1324 e si può identificare con il fonticus sclavorum del 1366278. I gravi interventi subiti nel corso del tempo rendono assai problematico ogni esercizio di restituzione della facciata originale, mentre la prima esistenza di una loggia continua con archi a tutto sesto a toro autorizza l’ipotesi di una sala, perpendicolare alla facciata, collegata con schema a T a una porticus che è del tutto scomparsa. Sembra, comunque, proponibile una porticus a crozole a tre fornici separate introdotta da un anditus al pianterreno e formata da archi a tutto sesto rialzato di ordine I non molto accentuato a toro in rosso veronese. 276 E. Arslam, Venezia gotica. L’architettura civile gotica veneziana, Venezia 1970. W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., pp. 378-379. 278 Ivi, pp. 382-383. 277 120 La foratura estesa ai locali laterali potrebbe essere stata imposta da due bifore a tutto sesto o di ordine I, delle quali costituirebbe un avanzo quella incorporata al primo piano, con archi decorati a toro su colonnine e capitelli a cubo scantonato profilato, come in ca’ Farsetti e ca’ Loredan. Secondo il Dorigo la decorazione architettonica documenta comunque la compresenza, come nei due palazzi citati, di elementi di gusto classico (i capitelli del portico estremamente consunti sono forse del VI secolo o contariniani; quelli della loggia sono lavorati a paniere di acanto spinoso di imitazione marciana) di modelli di terraferma (la bifora citata) e di un frammento di pregevole scultura risalente alla renovatio della prima metà del Duecento (intradosso ed estradosso del portico). Al secondo piano la polifora (che originariamente, secondo la veduta del De’ Barbari, era una esafora) incorniciata e decorata a dentelli presenta archi a tutto sesto rialzato di ordine I associati a capitelli bizantini o di imitazione. Notevoli sono anche le patere a traforo con motivi di leoni addossati e di grifoni con l’albero della vita che adornano la facciata e richiamano quelli precedenti dell’atrio di Santa Maria di Pomposa. Prossimo a ca’ Barzizza, il palazzo detto ca’ Businello (figg. 27-28) apparteneva nel 1313 alla famiglia Morosini. La colonna angolare con capitello a cubo scantonato fra il Canale e il rio dei Meloni è confermata dalla veduta del De’ Barbari come sostegno di un portico di riva, che risulta attestato fin dal 1313: i resti murati del portico sono ancora evidenti lungo il rivo, sui pilastri e capitelli mutilati, con archi in laterizio a tutto sesto. Dalla planimetria si distingue ancora una porticus leggermente allargata a T con locali separati ai lati, che ricomprende i tre archi a tutto sesto rialzato di ordine I. Al primo piano la suddivisione distributiva osserva il medesimo impianto a porticus e sala con hospicia laterali; corrispondentemente, le esafore del primo e secondo piano risultano di poco più larghe del portico terreno: esse presentano archi rialzati dentellati dell’ordine I con il medesimo breve rialzo osservabile negli archi del portico e associati a capitelli corinzieschi di tipo contariniano e di altra ispirazione279. 279 Ivi, pp. 384-385. 121 Complessivamente, ca’ Businello, con le sue sale a loggia contratta in polifora, gli spessori murari modesti, il basso livello d’impianto del terreno, la scelta di archi a tutto sesto di breve rialzo associati a capitelli di diversa natura presenta, secondo il Dorigo, una datazione riconducibile alla seconda metà del Duecento. La domus maior ca’ Donà appare descritta nel testamento di Michele Zancani. Le realtà distributive (fig. 29) fornite configurano per l’edificio sul canale una tipologia a T (anditus con voltae laterali e porticus in fronte a nove arcate, 4, 1, 4) al piano terreno, all’ammezzato soprastante una porticus priva di sala (dove il De’ Barbari registra un’esafora con due monofore ai lati, del tutto scomparsa sotto un rifacimento moderno), e al “piano nobile” un portico passante caratterizzato da una pentafora che presenta archi rialzati di ordine I e che appare sostanzialmente conservata, mentre le due monofore laterali sono state ridisegnate dopo il XVI secolo (figg. 30-31). La conformazione degli archi, con doppia dentellatura, è pressoché identica a quella di ca’ Businello, mentre i capitelli associano ad imitazioni bizantine a cesto traforato esemplari corinzieschi di fattura quattrocentesca, simili a quelli della vicina ca’ Donà della Madoneta. Ritoccate sono anche le cimase dei due pilastri laterali e attestazione ulteriore di un rimaneggiamento quattrocentesco è l’inserzione forzata delle quattro formelle, due ad arco ribassato e due caratterizzate dalla presenza di archi rialzati, cuspidati sia nell’estradosso che nell’intradossso (ordine III), che si alternavano con patere (una sola conservata) sopra la polifora, con forme che ricordano la risistemazione della ca’ da Mosto. Della proprietà Signolo o ca’ Donà della Madoneta (figg. 32-33) abbiamo scarse notizie documentali. Tale casa-fondaco risulta essere stata di proprietà degli eredi di Angelo Signolo dal 1290 fino al 1327, quando ne viene attestata l’appartenenza alla vedova di Jacobello Bonino, Elena, erede del marito. Nella sua conformazione interna, fortemente modificata nei secoli, essa comprendeva probabilmente una sala e una balconata su tutta la fronte, ove sussiste una loggia continua ad otto archi rialzati di ordine I dentellati sopra colonne antiche e nuovi capitelli corinzieschi inseriti durante un 122 rimaneggiamento; in quell’occasione fu creata anche una loggetta architravata su colonnine binate. La modesta larghezza di facciata accentua l’effetto di verticalità dell’immobile e la sua adattazione non si allontana molto dalla metà del Duecento. Caso del tutto particolare è quello che si trova sull’antichissimo rivo Businiaco (rio de ca’ Foscari) dove sussiste la facciata di un edificio (figg. 34-35) detto ca’ Foscolo (proprietas Flabanico). Di esso sappiamo che fu di proprietà della famiglia Magno, poi di Giovanni Magno, vescovo di Equino dal 1306 al 1321, mentre in precedenza era appartenuto a Pancrazio Flabanico. La facciata, recentemente restaurata (fig. 36), consente qualche deduzione sulla corrispondente distribuzione interna. L’articolazione architettonica si esprime in un pianterreno e un probabile ammezzato, con un grande arcone centrale, entro le cui dimensioni di alzato si collocavano su ogni lato due quadrifore con archi rialzati di ordine I montate su colonnine binate. L’arcone introduceva a un anditus di cui restano gli spessi muri laterali; i fori laterali erano allungatissime finestre centinate la cui parte superiore illuminava gli ammezzati, imitanti con accentuata dimensione gli archi su piedritti delle aperture laterali di ca’ Farsetti e ca’ Loredan. Tutti gli elementi considerati fanno pensare a una datazione vicina alla metà del Duecento280. Altro interessante manufatto architettonico è la proprietas Falier281 (figg. 3738); un edificio situato nelle vicinanze del campo dei SS. Apostoli che era parte di un vasto complesso della famiglia Falier fin dall’inizio del Duecento, come è attestato da fonti notarili. Nonostante l’irregolarità geometrica del fondo, ca’ Falier mostra una completa corrispondenza fra l’organizzazione di facciata e la distribuzione interna. La tipologia è mista, e associa uno schema a T al pianterreno (la porticus comune congiunta all’anditus passante, con orditura delle trabaturae di solaio perpendicolari alla facciata) a uno schema a portico passante (senza sala) al primo e secondo piano. La composizione architettonica della facciata è sostanzialmente conservata; gli archi del portico, rifatti in età moderna, nascondono la presenza di archi rialzati 280 281 Ivi, pp. 390-391. Ivi, p. 380. 123 di ordine I che poggiano su capitelli a cubo scantonato (tipo 1C); le polifore cinte a toro presentano, invece, archi rialzati cuspidati nell’estradosso (ordine II) e sono costituite da colonne in pregevole marmo orientale con capitelli a foglie angolari. Sono decorate, infine, da patere e formelle. Tali caratteristiche ci permettono di ricondurre la datazione dell’edificio alla seconda metà del Duecento. Anche la proprietas Vitturi (figg. 39-40-41) in campo S. Maria Formosa si è sostanzialmente conservata, pur ammettendo in facciata notevoli interventi. La distribuzione interna, che è riconoscibile al pianterreno e sui due solai soprastanti, si articola su uno schema basilicale con una porticus passante assai stretta; un solaio ulteriore ad ammezzati, presente nella veduta del De’ Barbari, fu aggiunto nel XIV o XV secolo. La trifora del primo piano, che sembra coordinata con la porticus, presenta archi rialzati a toro, cuspidati nell’estradosso (ordine II), attualmente su pilastri; la quadrifora del secondo piano, invece, presenta archi rialzati dentellati, cuspidati sia nell’estradosso che nell’intradosso (ordine III), poggianti su capitelli a paniere traforato bizantino (anche se quello centrale è di restauro tardivo). Particolare cura è stata dedicata al corredo decorativo plastico, con patere sopra le cuspidi degli archi, croci e formelle (queste ultime scomparse). Nel complesso la parte di facciata ancora studiabile permette di stabilire una datazione compresa nella seconda metà del Duecento282. Per quanto concerne ca’ Soranzo (detta pure dell’Angelo), non esistono fonti dirette dei secoli XIII e XIV su questo importante edificio, se non una citazione del 1389 che lo riconosce come proprietà dei Soranzo. L’edificio osserva complessivamente uno schema a L sull’angolo fra due rivi, con l’ampia corte cintata e merlata lungo la calle del Rimedio (figg. 42-43). Se le facciate sui rivi (fig. 44) sono state profondamente modificate in età gotica e nel Cinquecento, è proprio la lunga fronte meridionale sulla corte il lascito conservativo di maggiore interesse. Al pianterreno si conserva un lungo porticato ad architrave ligneo su colonne e capitelli a cubo scantonato in rosso 282 Ivi, p. 377. 124 veronese. Il primo solaio presenta, invece, una quadrifora (fig. 45) caratterizzata da archi rialzati a toro cuspidati nell’estradosso (ordine II), con eguali capitelli e cinque patere; un’altra quadrifora simile con balconi laterali è situata in secondo solaio con una bifora anch’essa a toro che presenta archi a tutto sesto rialzato di ordine I. I caratteri plastico-architettonici di questi e di altri elementi presenti, insieme alla simmetria generale, fanno propendere per una datazione vicina alla fine del XIII secolo283. Particolare attenzione merita infine ca’ del Papa, il grande palazzo veneziano del patriarcato di Grado, operativo per secoli a San Silvestro, che rappresenta la più antica costruzione civile nota a Venezia, poiché la sua fondazione risale all’inizio della seconda metà del XII secolo. Costruito a partire dal 1156 accanto alla chiesa di San Silvestro dal patriarca Enrico Dandolo, è ricordato soprattutto come teatro dello straordinario incontro avvenuto nel 1177 fra l’imperatore Federico I e il pontefice Alessandro III, grazie al quale fu sancita “la pace veneta”284. Un notevole contributo alla conoscenza della facies del palazzo (fig. 46) verso il Canale ci è offerta da un noto telero del Carpaccio (relativo a un miracolo della reliquia della Croce), pur fortemente idealizzato nel monumentale scalone antistante (fig. 47). Questo e altri documenti posteriori ci consentono deduzioni abbastanza puntuali sulla conformazione del palazzo e mettono in luce il carattere innovativo che dovette avere prima del Duecento tale architettura, che aveva accolto materiali e forme proprie del romanico veronese. La facies complessiva dell’edificio, tramandata dal De’ Barbari (fig. 48), comporta due torri laterali, delimitanti una merlatura simile a quelle di ca’ Palmieri, ca’ Barozzi e ca’ Querini a S. Polo e, davanti al portico e alle stationes, uno scalone monumentale speciale che è divenuto in parte una bottega moderna. Se lo scalone dipinto da Carpaccio è certamente idealizzato, la finestratura dell’aula e dell’intero piano del solaio è ben rappresentata nel 283 Ivi, pp.392-393. L’evento che ebbe luogo nel 1177 grazie alla mediazione del doge Sebastiano Ziani nel 1177, e che ebbe come protagonisti il Papa Alessandro III e Federico Barbarossa, va inserito nel già più volte citato contesto di interventi di riqualificazione duecenteschi che avevano caratterizzato la platea marciana ed in particolare l’apparato decorativo interno ed esterno della cappella ducis, probabilmente anche in vista di tale storico evento. 284 125 telero con archi in pietra bianca in apparenza a tutto sesto su colonne rosse e capitelli rossi a cubo scantonato. Tali elementi, uniti a quelli riscontrabili nel portico (figg. 49-50), definiscono un’arte compiuta della facciata palaziale romanica, precocemente datata alla metà del XII secolo, e forse precedente l’ingresso in città (esclusa San Marco) dell’ordine I285. 285 W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., pp. 394-395. 126 6e - INTERPRETAZIONI CONCLUSIVE SULL’ARCO RIALZATO Lo studio dell’arco rialzato che ho condotto in questo lavoro di ricerca mi ha portato alle considerazioni che formulerò qui di seguito. Innanzitutto, è importante sottolineare come l’analisi dell’arco rialzato su piedritti, nei tre ordini in cui è stato classificato, rivesta per noi un interesse non soltanto di carattere estetico, ma anche storico-architettonico, in quanto ci aiuta a definire la lenta e complessa evoluzione della casa nell’edilizia veneziana. Siamo partiti dall’analisi dell’arco primitivo a tutto sesto che, come si è visto, rappresenta il punto di partenza per la formazione della tipologia muraria propria dell’edilizia veneziana, adatta soprattutto a situazioni statiche abbastanza impegnative. In questa prima fase, infatti, tale arco sembra negare alle strutture murarie la possibilità di elevarsi, constatato che la sua presenza a Venezia compare piuttosto in edifici poco sviluppati in altezza o in portici lungo percorsi acquei. Si procede quindi all’impiego dell’arco rialzato, che si avvale pur sempre della stessa certezza costruttiva della ghiera continua a curvatura costante, ma che al posto dei mattoni utilizza i conci di pietra. Compare, inoltre, il piedritto, il rialzo della ghiera, connotato essenziale di tutti gli archi del I ordine, che conferisce a questi uno slancio favorendo così l’elevazione dell’edificio. Il tratto estetico caratteristico di tale impianto è il ripetersi di arcate ad alto piedritto con prevalenza del vuoto sul pieno. Si tratta dunque di un’architettura a giorno, con ampie e ariose logge e portici. Esempi significativi di tale architettura li abbiamo visti comparire a Venezia dapprima nelle Procuratie Vecchie di Sebastiano Ziani del XII secolo e poi in altre case veneziane che presentano piano nobile più o meno integralmente loggiato, come ca’ Farsetti e ca’ Loredan, o nel caso speciale del Fondaco dei Turchi e in altre costruzioni palaziali sul Canal Grande, come ca’ Businello, ca’ Barzizza, ca’ Donà, ca’ Donà della Madoneta, o nei resti del portico canalizio di ca’ del Papa, tutti casi in cui l’arco rialzato compare con una certa frequenza per la prima volta sul finire del XII secolo e per tutto il Duecento. 127 È chiaro che tale processo di evoluzione dell’arco a tutto sesto rialzato era ormai avviato e inarrestabile, e infatti più tardi, con un intervento decisivo per la futura tipologia morfologica veneziana, si cominciò ad intaccarlo laddove la forma era meno costruttiva, cioè cuspidandone l’estradosso fino alla rottura della continuità semicircolare dell’intradosso; il che comportò la nascita del III ordine: l’arco rialzato cuspidato sia nell’intradosso che nell’estradosso. In questo modo l’arco a tutto sesto perse il valore plastico unificante che aveva avuto precedentemente e acquisì un valore nuovo di tipo linearistico. Esempi di arco rialzato con estradosso cuspidato li troviamo nel loggiato esteso, ma già contenuto, della celebre ca’ da Mosto e in diversi esemplari sparsi in tutta la città, come nella pentafora del primo piano e nella quadrifora soprastante dell’oramai evoluta ca’ Falier o, ancora, nella quadrifora in primo solaio della fronte meridionale di ca’ Soranzo. Analoga diffusione hanno, poi, gli archi cuspidati sia nell’estradosso che nell’intradosso, come attesta la trifora della domus maior Querini nel campo delle Beccarie o la quadrifora del secondo piano di Proprietà Vitturi. Questi e altri esempi minori sparsi nella città evolveranno gradualmente verso gli archi inflessi correttamente definiti protogotici. Sono passata poi a considerare le interpretazioni dei diversi storici dell’arte che, in base all’analisi di questi archi e delle loro trasformazioni, ne hanno definito la provenienza e la matrice. Lo studioso Sergio Bettini286 aveva ribadito la loro matrice tardoantica, facendo risalire il modello di alcuni palazzi veneziani, tra i quali il Fondaco dei Turchi, allo schema della villa romana antica. Il Dorigo, che rappresenta la nostra fonte più esaustiva, ha ampiamente illustrato una “Venezia romanica” che ha certamente attinto da una cultura del retroterra padano; anche se non dobbiamo dimenticare che il gusto romanico di provenienza veronese non è esente da componenti veneto-bizantine e viene comunque rielaborato da maestranze veneziane locali. Fra i contributi forniti dagli studiosi all’analisi dei palazzi veneziani medievali, quello di Juergen Schulz è senz’altro di primaria importanza. In particolare, nel 286 S. Bettini, L’architettura di San Marco, Padova 1946; Venezia, Nascita di una città, Vicenza 2006. 128 suo libro “The new palaces of medieval Venice”287, egli prende in esame essenzialmente i palazzi pregotici presenti a Venezia. Schulz vede nel modello del palazzo veneziano pregotico un prototipo “a sé stante”, derivante piuttosto da modelli continentali. In particolare, l’impiego dell’arco rialzato che appare in primis nella nuova Chiesa di San Marco, così come poi in altri edifici civili, secondo lo studioso non è da ricondursi ad un’ispirazione di gusto orientale, quanto piuttosto ad esigenze dettate da ragioni di altro tipo, cioè di carattere pratico ed estetico. Anche la decorazione scultorea degli archivolti si sviluppa verso qualcosa di originale ed esclusivamente veneziano. Schulz ritiene, dunque, che anche la scultura architettonica associata al palazzo pregotico veneziano si sia sviluppata al di fuori di motivi e spolia prettamente mediterranei. Secondo il suo punto di vista, l’influenza bizantina, così come quella islamica e romanica, hanno certamente lasciato la loro impronta, ma con il tempo queste diverse tendenze sono state omologate e rielaborate da maestranze veneziane che hanno saputo plasmare soluzioni espressive innovative e tipicamente locali adattandole poi ulteriormente in risposta ad imperativi locali sia ambientali che sociali. La posizione di Schulz si scosta anche dall’interpretazione della storica d’arte americana Deborah Howard288, che fa risalire la forma dei palazzi venetobizantini a modelli arabi, e precisamente di origine fatimida, ripresi dai veneziani che avevano visitato le città di Fustat (il primo insediamento arabo vicino al Cairo) e, più tardi, Damietta e Rosetta, situate lungo il delta del Nilo. Tali influssi, secondo la Howard, vennero assorbiti ed esibiti poi nell’architettura civile veneziana289 del XII e XIII secolo. A tale proposito, se consideriamo lo sviluppo dell’architettura bizantina in area orientale, osserviamo una presenza rilevante dell’arco rialzato. Lo troviamo infatti, a partire dall’ VIII secolo, nella chiesa di S. Irene di Costantinopoli (fig. 51), negli esterni della chiesa settentrionale e all’interno dell’abside del Monastero di Costantino Lips del X secolo (fig. 52) sempre a Costantinopoli, 287 J. Schulz, The New Palaces of Medieval Venice, University Park, Pennsylvania 2004. D. Howard, Venice and the East, Singapore 2000. 289 D. Howard, Venice and the East, Singapore 2000, cit., p.138-140. 288 129 nella facciata esterna della chiesa degli Apostoli dell’Agorà di Atene dell’XI secolo (fig. 53), nei resti dell’esonartece di Fatih Cami di Enez (Ainos) in Turchia del XII secolo (fig. 54), nella facciata esterna nord-occidentale della chiesa della Parigoritissa di Arta di fine XII secolo in Epiro (fig. 55), così come nell’esonartece della chiesa di Santa Sofia a Ochrida del XIV secolo (fig. 56) e in molte altre testimonianze (vedi repertorio immagini di archi rialzati nell’architettura bizantina in Grecia, figg. 57-68). Non così, invece, in Occidente, dove la presenza dell’arco rialzato risulta associata alla fabbrica marciana a partire dall’edificio contariniano, e si rivela nelle celle di campanili cilindrici romanici, come quello di Caorle, sempre dell’XI secolo, o ancora di quello di San Nicolò dei Mendicoli, dove archetti rialzati compaiono anche nella minuscola bifora sulla parte più alta della fronte verso il canale. Esso ricompare, tuttavia, a Venezia sul finire del XII secolo e vi rimane per tutto il XIII con una sistematicità che non è fortuita. Determinanti, a mio avviso, sono gli stretti rapporti di carattere politico e commerciale che legano la laguna veneta a Bisanzio in questo periodo; rapporti che vanno ben al di là del semplice dato economico e che investono l’intera sfera sociale e culturale. Venezia intraprende infatti, a partire dalla metà del secolo XII, una fase di trasformazione e rinnovamento che determina una riorganizzazione radicale della sua configurazione urbana. L’attenzione si concentra in particolare sull’area marciana con la costruzione della lunga fabbrica delle Procuratie, riedificate poi nel ′500 e ben note nel loro aspetto medievale d’insieme grazie alla celebre Processione in Piazza di Gentile Bellini (1496). In particolare, la Piazza, diventa un ulteriore elemento di stimolo per la zona circostante influenzando l’architettura residenziale veneziana di alto livello. La sistematicità e lo sviluppo dell’arco rialzato ne ha dato, infatti, piena dimostrazione e lo vede, dopo la sua comparsa in primis in San Marco e nelle Procuratie Vecchie, divenire elemento architettonico distintivo di alcune fra le più celebri Domus Magnae duecentesche. 130 CAPITOLO VII - LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO 7a - IL CONTESTO MARCIANO La realizzazione dei mosaici marciani coinvolge certamente le personalità più qualificate della Venezia duecentesca ed esaurisce in sostanza il discorso sulla pittura veneziana di questo secolo. Infatti, ben poco resta di una produzione che doveva essere molto vivace ed attiva (e non solo nel campo del mosaico) che possa documentare l’attività delle botteghe veneziane290. Lo studio condotto da Ettore Merkel su alcuni episodi di decorazione ad affresco “poco noti” della basilica marciana è stato a mio avviso particolarmente significativo poiché ha evidenziato l’assenza nella pittura del Duecento veneziano di un repertorio codificato e magnificente per la cappella ducis come invece lo era stato per la decorazione musiva. Lo studioso ha, infatti, portato alla luce il carattere di provvisorietà e la funzione temporanea di tali affreschi, che sarebbero sorti con il solo scopo di utilità devozionale o liturgica. Gli affreschi marciani costituiscono, dunque, un tipo di decorazione alternativa, nettamente separata e subordinata rispetto a quella in mosaico291. Mi voglio limitare brevemente all’analisi dell’affresco scoperto nel 1963 da Ferdinando Forlati (figg. 1-2) nel settore dell’ambiente relativo alla campata dell’altare della chiesa di San Marco, area che non è interessata dal fonte battesimale, ma che al tempo del doge Andrea Dandolo era compresa fra l’antico battistero e la torre angolare del Palazzo Ducale. Le pitture ritrovate dal Forlati sulla parete nord, sotto le lastre del rivestimento marmoreo raffigurano La Vergine Orante (che è stata interpretata da molti studiosi come un’ascensione292) fra due angeli e otto santi. Per lo studioso Ettore Merkel, gli 290 F. Zuliani, Il Duecento a Venezia in La pittura in Italia, il Duecento e il Trecento, Milano 1986, p. 175. Questi pochi affreschi marciani sono giunti fino a noi in stato frammentario e devono la loro salvezza a qualche caso sporadico di fortunato ritrovamento avvenuto nel corso dei restauri edili della basilica condotti dalla Procuratoria di San Marco. E. Merkel, Affreschi poco noti a San Marco in Storia dell’arte marciana: i mosaici, a cura di Renato Polacco, Venezia 1997, p.136. 292 W. Dorigo, Venezia in La pittura nel Veneto, Le Origini, Milano 2004, p. 50. Anche il Forlati parla di “un’Assunta fra due angeli di cui rimangono le sole teste”. F. Forlati, Ritrovamenti in San Marco. Un affresco del Duecento, in “Arte Veneta”, XVII, Venezia 1963, pp. 223-224. 291 131 affreschi ritrovati dal Forlati non appartenevano certo agli anni del Dandolo né, in origine, al suo battistero, ma erano più antichi di almeno duecento anni293. Il Forlati, facendo riferimento agli affreschi della cripta di Aquileia ( figg. 3-4) e a quelli di Santa Maria in Castello di Udine, data gli affreschi di San Marco intorno alla metà del Duecento perché li ritiene opera di artisti che, abbandonata la città di Costantinopoli in seguito agli episodi bellici, erano giunti a Venezia attraverso i Balcani appunto verso la metà del XIII secolo294. Secondo il Dorigo, gli elementi di contorno e i caratteri linguistici di quanto resta delle figure si richiamano nettamente alla cultura occidentale e stabiliscono vistosi rapporti con gli affreschi della cripta di Aquileia295, anche se il Bettini ha potuto estendere il filo delle connessioni da qui fino alla pittura macedone dell’avanzato XII secolo (intorno al 1170), e in particolare alla “maniera di Nérezi” (fig. 5). Il Lorenzoni anticipa questa datazione alla prima metà del XII secolo osservando i legami stilistici con i maestri della cripta di Aquileia, mentre il Muraro anticipa ulteriormente la datazione al 1159, data che coincide con l’iscrizione della cappella di San Clemente, e in cui il maestro Pietro avrebbe incominciato il rivestimento marmoreo sotto il quale essi erano stati rinvenuti. Lo stesso studioso Ettore Merkel non esclude una datazione prossima al 1125, tesi che egli avvalora basandosi su una successiva recente scoperta. Si tratta di un altro affresco rinvenuto nel 1977 e riguardante gli avanzi di un’altra serie di santi molto frammentari di cui restano visibili solo le tracce dei piedi di alcune figure e le estremità delle vesti (figg. 6-7). Nonostante l’esiguità dei lacerti abbia impedito una chiara lettura, la tecnica e lo stile sembrano indicare la loro appartenenza alla prima metà del XII secolo, in base anche ad alcuni generici riferimenti agli affreschi della cripta di Aquileia. Al di là delle difficoltà di attribuzione di tali opere, dovute alle lacune che presentano e ai dubbi che inevitabilmente sorgono qualora se ne voglia definire lo stile e la tecnica, è opportuno a mio avviso considerare che il rinvenimento di tali affreschi in due diverse riprese e la loro dislocazione ravvicinata è un dato interessante che 293 E. Merkel, Affreschi poco noti a San Marco in Storia dell’arte marciana: i mosaici, cit., p.136. F. Forlati, Ritrovamenti in San Marco. Un affresco del Duecento, cit., pp. 223-224. 295 W. Dorigo, Venezia in La pittura nel Veneto, Le Origini, cit., p. 50. 294 132 mette in relazione nei due frammenti - nonostante le lacune - lo stile, la tecnica esecutiva e l’affinità del repertorio coloristico dal quale emergono le tonalità dell’ocra e del rosso mattone. 133 7b - LA PITTURA A FRESCO E SU TAVOLA A VENEZIA NEL XIII SECOLO Se nel corso del Duecento significativa è la presenza della pittura a mosaico soprattutto nel cantiere marciano, pochissime sono, invece, le testimonianze sui pittori che esercitarono largamente e in molti ambiti produttivi la tecnica pittorica dell’affresco in questo stesso periodo. Le poche opere duecentesche sussistenti sono per lo più su legno e si iscrivono quasi tutte nella seconda metà del secolo, a parte qualcuna risalente all’inizio del Trecento296. La Madonna allattante (una Galaktotrofoúsa, cm. 168x127) che si trova nel museo della basilica di San Marco è una delle rare e preziose testimonianze di tempera veneziana su tavola che gli studiosi datano in un arco di tempo compreso tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo (fig. 8). Al centro della tavola emerge l’iconografia della bella Vergine allattante: Gesù Bambino è seduto sulle sue ginocchia ed afferra il seno della madre con la mano sinistra. Lungo il bordo inferiore della tavola sono dipinti otto dentelli quadrangolari sagomati a sostegno di una mensola: gli studi condotti da L.V. Geymonat sulla resa tridimensionale di alcuni elementi architettonici lo portano a dedurre che anche qui l’intento è quello di suggerire che l’icona della Vergine sia posta sopra un davanzale sporgente297. Nella cornice intorno sono rappresentate, su fondo rosso, tre coppie di santi poste di tre quarti su una base a modiglioni. Dall’alto si riconoscono Pietro, con le chiavi in mano, e Paolo, con il libro e la spada; al centro Marco, identificabile oltre che per la consueta iconografia del volto incorniciato da capelli scuri e 296 Tra le testimonianze sicure che ci sono rimaste, si può citare la Cassa della Beata Giuliana di Collalto che si trova al museo Correr, le cui pitture sono opera di un pittore veneziano della fine del Duecento. In questi ultimi anni sono stati dedicati alcuni studi importanti anche alla miniatura; tra le testimonianze che ci sono giunte, possiamo ricordare: la Bibbia gigante di provenienza marciana (Bibl. Marciana, Lat. I, 1-4= 2108-11, circa 1220-1330), e l’Antifonario, pure miniato, che appartiene agli stessi anni della Bibbia gigante. Particolarmente degno di valore per l’invenzione cromatica e l’incisività di segno è, inoltre, il famoso Epistolario di Giovanni da Gaibana, scritto da lui stesso nel 1259 per la cattedrale di Padova e il cui stile avrà in seguito un riscontro molto ampio sia nella miniatura che nella pittura monumentale. Fulvio Zuliani, Il Duecento a Venezia in La pittura in Italia, Il Duecento e il Trecento, Tomo I-II, Milano, 1986, pp. 172-188. 297 Secondo lo studioso L.V. Geymonat, numerose opere di ambito veneziano testimoniano un vivo interesse per la resa tridimensionale di elementi architettonici; ad esempio lo stesso espediente dei dentelli che sostengono la mensola su cui è poggiata l’icona della Madonna Allattante si osserva anche nella Madonna Stoclet di Duccio, cfr. Bellosi 1985, pp. 132, 178-179; F. Zuliani, Madonna Allattante, in Venezia e Bisanzio 1974, nr. 66 (che segnalano la corrispondenza del cornicione con quello in San Zan Degolà). L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, in Venezia e Bisanzio, aspetti della cultura artistica bizantina da Ravenna a Bisanzio a cura di Clementina Rizzardi, Venezia 2005, cit., p. 535. 134 corta barba anche per la scritta del nome accanto alla testa [M] AR [CU] S, e infine San Nicola, identificabile anch’egli grazie all’iscrizione [NICO] L [AU] S. I lunghi capelli permettono di riconoscere la Maddalena e il nome posto vicino, Santa Margherita. Sulla parte superiore, benché rovinata, si scorgono due arcangeli che reggono il globo crociato adoranti il Cristo Pantocratore, sul cui libro si leggono le parole del Vangelo di Giovanni:”Io sono la luce del mondo” (8,12). Il gruppo della Vergine col bambino richiama la tradizione delle Madonne bizantine, soprattutto nella gestualità delle mani delle due figure che mostra in modo esplicito e codificato la loro solenne missione divina: la destra benedicente del Bambino e la sinistra della Madre che indica in lui, come nelle Madonne Hodigitrie, la via per la redenzione dell’umanità298. Anche le sei figure di santi ai lati, la cui presenza è canonica in molte icone orientali, è di scuola veneto-bizantina. La critica ha ravvisato, comunque, nell’opera una certa monumentalità di possibile derivazione toscana; pure l’immagine realistica dell’allattamento è di gusto occidentale e presenta caratteri di forte autonomia299, anche se l’esecuzione della tavola resta complessivamente legata all’ambito artistico di matrice veneto-bizantina. 298 M. Da Villa Urbani, Il museo di San Marco, Venezia 2003, p. 102. “ La grande tavola marciana, assai compromessa, presenta caratteri di forte autonomia rispetto al tipo originario, fatta eccezione per le figurette di santi del contorno, che si devono in parte ad altra mano, di usuale conservatività linguistica veneto-bizantina: il disegno forte e sottile, che accompagna i modi romanici-pisani con sicure desinenze di gusto gotico (la mano, il mafórion), e allinea alla base una serie di modiglioni prospettici che sostengono l’icona, definisce con diversi dominanti timbri di rosso la gran parte delle superfici dell’opera, con singolare effetto di rimando all’antico”. W. Dorigo, Venezia-La pittura a fresco e su tavola a Venezia nel XIII secolo in La pittura nel Veneto, Le Origini, cit., p. 58. 299 135 7c - GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI SAN GIOVANNI DECOLLATO Oltre ai mosaici marciani, l’esempio di pittura monumentale più importante del Duecento veneziano è senza dubbio rappresentato dagli affreschi della chiesa di San Giovanni Decollato300. Tale ciclo pittorico costituisce una preziosa e rara testimonianza per la pittura veneziana delle origini, collocabile dagli studiosi in un arco di tempo compreso tra la seconda metà del Duecento e i primi decenni del Trecento. Fin dalla loro scoperta all’interno della chiesa, nella cappella del Crocifisso, durante la campagna di restauri iniziata nel 1939 e conclusasi nel 1945, gli affreschi di San Giovanni Decollato hanno suscitato l’ interesse degli studiosi. Nei due frammenti staccati posti su pannelli sono raffigurati l’ Annunciazione e il busto di Sant’Elena con un fondale architettonico alle spalle e quattro teste di santi sotto un lungo cornicione. Sul muro di fondo si osservano la parte inferiore di due figure separate da una nicchia e, nella volta a crociera del soffitto, il busto di Cristo e i simboli dei quattro evangelisti301. L’accurato sistema compositivo, i volti attentamente caratterizzati, gli eleganti panneggi, gli elaborati sfondi architettonici e la sofisticata incorniciatura indicano che si tratta di un’opera di notevole impegno e di alto livello qualitativo302. Tali affreschi sono stati ritrovati allo stato di frammenti e le loro lacune hanno reso arduo risalire alla loro condizione originaria, così come al programma iconografico della decorazione murale della cappella. La loro datazione presenta particolari difficoltà a causa anche della totale assenza di documenti, che non ci aiuta a stabilire una precisa collocazione sia stilistica che cronologica. Gli affreschi di San Giovanni Decollato sono stati dunque interpretati in vario modo, sia attraverso la lente della tradizione bizantina 300 Fino ad oggi, diversi sono gli studi che sono stati condotti su questo ciclo di affreschi. Lo studioso che, a mio avviso, li ha trattati ed analizzati in maniera più approfondita è L. V. Geymonat ed è prettamente sul suo significativo saggio Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, in Venezia e Bisanzio, aspetti della cultura artistica bizantina da Ravenna a Bisanzio a cura di Clementina Rizzardi, Venezia 2005 – che si basano le mie considerazioni su questo tema. 301 A. Colombo, Interno della cappella absidale sinistra di San Giovanni Decollato, disegno ricostruttivo, 2003. 302 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 514. 136 (Giuseppe Fiocco303), in particolare della pittura serbo-macedone (Michelangelo Muraro304) e della prima arte d’età paleologa, sia alla luce di un loro eventuale rapporto con la terraferma che, via Padova, sarebbe stata a contatto con gli sviluppi centro italiani e in specie giotteschi (L.V. Geymonat305). 303 G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, in “Arte Veneta”, 1951, p. 8. M. Muraro, in Varie Fasi di influenza bizantina a Venezia nel Trecento, in “ Thesaurismata” 9, Venezia 1972, pp. 180-202. 305 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., pp. 513-579. 304 137 7c, 1 - DESCRIZIONE E ANALISI DEGLI AFFRESCHI DI SAN GIOVANNI DECOLLATO Sopra l’arcone che immette nella cappella absidale sinistra o del Crocifisso all’interno della chiesa di San Giovanni Decollato (figg. 9-10) è possibile ammirare l’affresco raffigurante l’ Annunciazione (fig. 11). Si tratta di una pittura murale che presenta, secondo l’analisi condotta dal Muraro306, le seguenti dimensioni: cm. 200 X 260. Nonostante l’affresco evidenzi notevoli escoriazioni dovute a rimaneggiamenti settecenteschi, la magia dell’evento religioso pervaso da una mistica dolcezza non è andata perduta. L’arcangelo Gabriele è raffigurato col braccio destro teso e il corpo proteso in avanti mentre si rivolge alla Vergine invitandola ad accogliere il messaggio divino. Il panneggio della tunica e della veste dell’angelo è reso attraverso ombre e lumeggiature chiare che definiscono i solchi delle pieghe trasversali lungo il braccio, intorno al busto e sotto la vita. Dall’angolo opposto dell’opera, la Vergine Maria sembra elevarsi quasi ad esprimere l’evento di cui sarà investita e al quale pare dare il suo assenso: “Ecco la Serva del Signore, avvenga di me secondo la Tua parola” (Lc. 1,38). Nonostante le gravi lacune, è ancora leggibile il panneggio dell’ampio mantello che avvolge la Vergine, in una fitta rete di pieghe e risvolti, da cui spuntano il braccio e la mano che rispondono al saluto dell’angelo. Alle spalle della Vergine, emerge un articolato edificio reso in varie tonalità di ocra di cui manca la parte superiore. Una grande bifora si apre nella parete laterale e altre più piccole dietro il balcone della facciata, sostenuta da una ricca mensola modanata; poco più sotto si scorgono gli stipiti e il battente sinistro della porta. Nello spigolo sopra la mensola che separa il primo dal secondo piano si distingue la base di una colonna, che probabilmente sosteneva lo spiovente del tetto completando con una loggia la parte superiore della facciata. 306 M. Muraro, in Venezia e Bisanzio, catalogo della mostra (Venezia 1974), a cura di Italo Furlan, G. Mariacher, Milano 1974, scheda n. 61. 138 Per avere un’idea di questo edificio307 si può far riferimento alla scena della Morte di Santa Chiara del pannello centrale del Trittico di Trieste308 (fig. 12). Un altro elemento interessante, secondo lo studioso L. V. Geymonat, è la disposizione dei laterizi che ci mostra come l’odierno arco a tutto sesto corrisponda a un rimaneggiamento tardo. Sopra la ghiera, la disposizione dei mattoni indica che l’arco originario era a sesto acuto; il vertice, infatti, leggermente a sinistra rispetto a quello del tutto sesto è in asse con la volta a crociera della cappella di cui sostiene la vela ovest309 (fig. 13). Geymonat parla, inoltre, della presenza di una cornice a doppia fascia che si congiunge ad un’altra e che delimita l’affresco310. Il rapporto del cornicione orizzontale con la cornice dipinta è tale da suggerire che essa continuasse anche lungo le altre pareti della cappella: se così fosse stato, è plausibile pensare che anche il punto di vista mutasse a seconda della collocazione del cornicione rispetto all’ingresso della cappella, le cui ridotte dimensioni implicano un punto di vista obbligato per lo spettatore creando così un effetto ottico. Un esempio simile di cornice a dentelli dipinta lungo l’intero perimetro di un vano è costituito dalla cornice che corre lungo lo zoccolo della Cappella degli Scrovegni a Padova (fig. 14) e da quella lungo le pareti dell’andito Foscari in San Marco311. Un altro capolavoro di pittura murale è stato rinvenuto nella lunetta sulla parete destra312 della cappella absidale o del Crocifisso e rappresenta una figura femminile identificata, poi, con Sant’Elena che si affaccia dal balcone del suo “palatium” (fig. 15). La facciata dell’affresco si presenta perfettamente simmetrica. In primo piano emerge la figura a mezzo busto (la figura senza l’aureola misura cm. 60) di 307 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 518. Morte di Santa Chiara, pannello centrale del Trittico di Santa Chiara. Civico Museo Sartorio, Trieste. Ivi, p. 553. 309 Annunciazione sull’arco di ingresso della cappella absidale sinistra di San Zan Degolà (disegno ricostruttivo di Aida Colombo, 2003). Fig. 7. Ibidem. 310 Secondo G. Fiocco (Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, 1951), l’incorniciatura “indica col suo andamento saliente quello dell’antico tetto spiovente della navatella”. La doppia cornice è ora in gran parte di restauro, ma se ne osservano tracce significative anche nelle fotografie che precedono il primo intervento. 311 Nell’Andito Foscari, la cornice che separa gli episodi dalla volta, costituita da una serie di fasce a chiaroscuro, termina in alto con una fila ininterrotta di prismi a sfaccettature bianche e nere alternate, che prosegue anche sopra la lunetta. Secondo lo studioso E. Merkel, si tratta evidentemente di un motivo geometrico-prospettico tipico del primo Trecento di cui abbiamo i primissimi esempi nelle incorniciature degli affreschi di Giotto ad Assisi. La concomitanza di questi elementi conferma la precoce penetrazione della lezione giottesca a Venezia, divulgata dagli affreschi degli Scrovegni e del Palazzo della Ragione. E. Merkel, Gli affreschi “dell’andito Foscari” a San Marco, in “Quaderni della Soprintendenza ai beni artistici e storici di Venezia”, 7, 1978, pp. 63-71. 312 M. Muraro, in Venezia e Bisanzio, cit., scheda n. 60. 308 139 una Santa che regge con la mano destra la croce del Golgota, affacciata alla balconata di un palazzo di non facile interpretazione. La maggior profondità del muro dell’arcata centrale sembra suggerire che la navata centrale sia più profonda di quelle laterali, e il tutto è colto in una prospettiva semilaterale. La Santa, rivolta verso l’altare, è concepita in modo da essere vista dal basso ed è illuminata dalla luce che proviene dall’antistante finestra. La figura femminile è identificabile con Sant’ Elena, come conferma un dipinto su tavola313 esposto all’Ermitage (fig. 16) in cui la Santa presenta gli stessi attributi iconografici. Secondo G. Fiocco314, che per primo ha riconosciuto nella Santa l’imperatrice Elena, madre di Costantino il Grande, comproverebbero tale identificazione la corona, la veste regale, la mano sinistra alzata in un gesto di supplica e soprattutto la croce a doppia traversa, simbolo della croce della passione ritrovata dalla Santa sul Golgota. Lo studioso M. Muraro fa notare che nella Basilica Eufrasiana di Parenzo, in un mosaico del Ciborio, Sant’Accolito appare con le mani nella stessa posizione di quelle di Sant’Elena e tiene nella destra la doppia croce, e anche Sant’Agnese (fig. 17), in un mosaico dell’atrio di San Marco, tiene nella mano sinistra una croce di questo tipo. Nell’affresco di San Giovanni Decollato si distinguono con chiarezza i lineamenti e l’incarnato del viso e delle mani, di cui le ombre evidenziano i volumi. Intorno al collo e lungo il busto spicca una larga fascia riccamente ricamata, tempestata di gemme e percorsa da filari di perle negli orli. Il panneggio della veste è definito da ombre profonde e lumeggiature chiare. La grande aureola circolare conserva tracce di colore ocra intorno ai capelli. Come dicevamo, di non facile interpretazione è l’edificio a tre arcate alle spalle di Sant’Elena. La Santa è incorniciata da uno sfondo architettonico che, nella struttura, nelle proporzioni, così come nelle mensole continue e negli archivolti delle absidi, presenta dei caratteri architettonici di matrice tardoantica315. 313 Sant’Elena e San Filippo, San Pietroburgo, Ermitage. L.V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà, cit., p. 557. 314 G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, cit., pp. 7-14. 315 Nel corso del Duecento l’uso di modelli paleocristiani è attestato a Venezia sia nella produzione plastica, che nella pittura a mosaico. L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 524. 140 Tale struttura potrebbe rappresentare una facciata a loggia aperta da tre arcate, come i pilastri esterni, le ghiere degli archi e i medaglioni marmorei inducono a pensare, ma potrebbe anche trattarsi della sezione verticale del presbiterio di una basilica a tre navate316. Si è, inoltre, voluto vedere in questa architettura di sfondo un edificio che richiama i tribunalia o balconi delle apparizioni dei complessi glorificanti dei palatia tardoromani317, realmente esistito e legato storicamente a Sant’Elena o alla reliquia della croce da Lei trovata sul Golgota. Lo studioso M. Muraro318 avanza l’ipotesi di una struttura a loggia da cui l’imperatore si presentava nel corso delle cerimonie e, a suo avviso, la scena raffigurante Sant’Elena che mostra la reliquia della Vera Croce riprende questa proposta: Sant’Elena affacciandosi al “balcone glorificante del triclinio” del grande secreton di Santa Sofia mostrerebbe al popolo la reliquia da Lei scoperta nel gesto abituale che il patriarca compiva dall’ambone della chiesa costantinopolitana durante la festa dell’Esaltazione della Vera Croce319. Secondo L. V. Geymonat, i caratteri architettonici di gusto tardoantico che presenta l’edificio farebbero pensare al riutilizzo di modelli anche paleocristiani. L’effetto illusionistico di cornici e quinte scenografiche, prodotto dall’incorniciatura degli affreschi e dall’edificio alle spalle della Vergine dell’Annunciazione nel cornicione orizzontale della lunetta, si ritrova con altrettanto zelo nella rappresentazione tridimensionale di questo fondale architettonico. Quattro splendidi volti a mezzo profilo sono raffigurati nella parte inferiore della lunetta. Le teste leggermente voltate l’una verso l’altra sono disposte in modo simmetrico rispetto all’asse verticale della lunetta. Lineamenti precisi caratterizzano la fisionomia di ciascun ritratto. La forte espressività dei loro volti attesta l’altissimo valore artistico dell’affresco. L’individuazione dei quattro santi è possibile grazie al nome inciso sull’intonaco che appare visibile sopra la testa di ognuno di essi: Giovanni Battista, Pietro, Tommaso e Marcio. I primi due volti, Giovanni Battista e Pietro, incorniciati da 316 W. Dorigo, Venezia romanica. La formazione della città altomedievale fino all’età gotiga, cit., p. 562. C. Lenarda, Precisazioni cronologiche e stilistiche sull’affresco di San Giovanni Decollato in Venezia, in “Rivista archeologica”, IV, Venezia 1980, pag. 49. 318 M.Muraro, in Venezia e Bisanzio, cit., schede nn. 60, 61, 62. 319 C. Lenarda, Precisazioni cronologiche e stilistiche sull’affresco di San Giovanni Decollato in Venezia, cit., p. 49. 317 141 lunghi capelli e folte barbe e caratterizzati da un’espressione tormentata, sono iconograficamente simili alle rappresentazioni tradizionali; anche la raffigurazione di Tommaso apostolo giovane e senza barba trova riscontri nella tradizione iconografica di questo Santo. Più problematica è invece l’identificazione del volto dall’aspetto giovane e privo di barba all’estremità destra accompagnato dalla scritta “S. Marcius”. Tale nome, secondo una fonte citata dal Geymonat, è attestato a Padova tra il 1254 e il 1275 accanto a Marius e ai più frequenti Marcus e Martinus. Forse si tratta dell’iconografia antica di Martino di Monte Cassino320, eremita campano morto intorno al 580, conosciuto con il nome di Marcius, il cui culto è documentato a Venezia fin dal XIII secolo. La grafia con cui sono stati redatti i nomi dei santi è gotica. Quindi, a seconda delle datazioni proposte, queste scritte vengono considerate dai vari studiosi o coeve o posteriori agli affreschi. Secondo il Muraro321, esse presentano i medesimi caratteri di un mosaico del 1277, sito nella Basilica Eufrasiana a Parenzo322 (fig. 18); esse sarebbero dunque coeve ai dipinti e non vi è ragione per cui siano state eseguite in epoca gotica, come asserisce il Fiocco323. Sempre nella cappella absidale di sinistra, sulla volta a crociera (fig. 19) emerge un’altra decorazione a fresco: un cielo di colore azzurro tempestato di stelle è attraversato da una decorazione fitomorfa che si svolge lungo gli archi trasversali. Al centro della volta è raffigurato il busto di Cristo e nelle vele spiccano i simboli dei quattro evangelisti sul fondo azzurro entro tondi inscritti in cornici a profilo mistilineo324. La modanatura delle cornici è resa con effetti illusionistici di luce e ombra. Tra una cornice e l’altra il fondo è dipinto a finti marmi policromi. Per concludere l’analisi di questo ciclo, oltre agli affreschi staccati ora su pannelli, la cappella absidale sinistra (parete di fondo) conserva alcuni frammenti ancora a parete (fig. 20). Nel muro di fondo si apre una nicchia con 320 L.V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 523. M. Muraro, Antichi affreschi veneziani, Milano 1974, pag. 665. 322 Le quattro teste di Santi sono state messe in relazione con un mosaico dell’Annunciazione, eseguito nel 1277 circa, situato nel ciborio della Basilica Eufrasiana di Parenzo (fig. 18). 323 G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 10. 324 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 526. 321 142 stipiti fortemente strombati. Ne è stata murata la parte superiore, ma ai lati e in una sezione dello stipite destro sono visibili due ampi frammenti di affresco. Nel frammento a sinistra è dipinta parte di una veste femminile di colore azzurro scuro con lumeggiature chiare che ne evidenziano il panneggio, e il lembo di un drappo rosso. Nel frammento a destra della nicchia sono raffigurati un calzare nero, probabilmente maschile, leggermente inclinato in avanti e una rigida veste rossa. Lo studioso M. Muraro fa notare come la dimensione delle parti rimaste dei corpi, la loro distanza dal soffitto e il confronto con la posizione delle teste nella lunetta sulla parete sud forniscano un’indicazione di massima sull’altezza originaria325 (cm. 160). La nicchia è delimitata a destra da una cornice corrispondente a quella che corre lungo il margine sinistro. All’interno dello stipite è dipinto su uno sfondo scuro un giglio bianco con petali dorati. 325 M. Muraro, Antichi affreschi veneziani, cit., p. 664. 143 7c, 2 - IL SAN MICHELE ARCANGELO RITROVATO Infine, sulla parete di fondo della cappella absidale a destra del presbiterio è stata scoperta recentemente una stretta finestra a sesto acuto murata e affrescata con l’immagine dell’arcangelo Michele, affresco datato su basi stilistiche agli ultimi decenni del XIV secolo326. L’arcangelo (fig. 21) è campito nel tamponamento della finestra absidale duecentesca e deborda con alcuni particolari sugli stipi marmorei dell’apertura. Eseguito con la tecnica ad affresco, si presentava in condizioni conservative discrete. I lavori di restauro, grazie a una leggera pulitura della superficie affrescata e soprattutto a un risarcimento delle lacune, hanno restituito piena leggibilità del San Michele Arcangelo, il cui ritrovamento costituisce un’importante scoperta per la pittura murale veneziana della seconda metà del Trecento. La mancanza di fonti storiche e documentarie relative all’opera hanno reso difficile una possibile attribuzione della stessa. Tuttavia, l’arcangelo Michele qui ben appare nella sua qualità di “tutore e giudice”; egli, infatti, è rappresentato con i consueti attributi della spada impugnata nella mano destra, con cui colpisce il drago ai suoi piedi, e della bilancia per pesare le anime nella sinistra, quasi a suggerire una possibile connessione dell’immagine del Santo con il culto dei morti e con il giudizio finale. Ciò ci porta a considerare l’ipotesi di una possibile destinazione funeraria della cappella o di una sua precisa funzione di difesa e protezione di qualche reliquia, come per il San Michele nel Pilastro del Miracolo della basilica marciana327. In ogni caso, il San Michele Arcangelo ritrovato nella finestra absidale duecentesca328 della chiesa di San Giovanni Decollato resta uno tra gli esempi più significativi per la conoscenza della pittura veneziana delle origini. 326 E. Zucchetta 1993, pp.156-157. E. Zucchetta, La chiesa di San Zan Degolà a Venezia, in Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Venezia, Ritrovare restaurando. Rinvenimenti e scoperte a Venezia e in laguna, Venezia, 2000, pp.168-173. 328 L’apertura, certamente duecentesca, potrebbe risalire alla ristrutturazione della chiesa operata dai Pesaro, come documenta il Corner. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, tratte dalle chiese veneziane e torcellane illustrate da F. Corner, Padova 1758, p. 388. 327 144 7c, 3 - LETTURA ED ANALISI DEGLI AFFRESCHI DI SAN GIOVANNI DECOLLATO Secondo Michelangelo Muraro, gli affreschi della cappella del Crocifisso di San Zan Degolà appartengono alla stessa corrente monumentale di alcuni fra i più classici cicli pittorici di Serbia329. Fra questi, il ciclo più ammirevole e grandioso è quello del convento di Sopočani, dipinto intorno alla metà del XIII secolo, e precisamente tra il 1264 e il 1268 . Il convento era stato fondato nel 1260 dal re Uroš I330, figlio di Anna Dandolo331. Questa circostanza rappresenta un significativo indizio degli stretti rapporti che legavano Venezia al regno di Serbia. Nonostante i due paesi avessero raggiunto la loro autonomia, essi conservavano ancora intensi legami, non soltanto politici, ma anche culturali. Essi erano altresì accomunati da una forte ambizione di dominio nei confronti di Bisanzio, oramai in fase di decadenza. A livello artistico, tale sentimento si traduceva nell’aura solenne e nell’afflatto glorioso che ben caratterizzava le arti monumentali della seconda metà del Duecento. In questo clima culturale e artistico sarebbero inquadrabili anche gli affreschi di San Giovanni Decollato. Secondo M. Muraro, gli affreschi sono opera di un maestro occidentale che si rifà ai modelli di quella prima rinascenza macedone che aveva rimesso in valore l’arte e la cultura del mondo antico e che i veneziani, in costante rapporto con l’Oriente, erano in grado di conoscere e di apprezzare meglio di altri. Secondo lo studioso, però, la tradizione bizantina non è sufficiente a giustificare la nobiltà, la solennità, il plasticismo di questi 329 M. Muraro, Varie fasi di influenza bizantina a Venezia nel Trecento, cit., pp.182-185. Al re di Serbia, Stefano Uroš I si deve, attorno al 1256, la fondazione a Sopočani della monumentale chiesa della Trinità. Tale edificio, decorato negli anni tra il 1263 e il 1268 assunse il ruolo di mausoleo e monumento celebrativo della casa dei discendenti di Stefano Nemanja, evento, questo, che motiva assai probabilmente l’esecuzione della decorazione alla presenza di maestri greci di eccezionale preparazione. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 347. 331 La morte di Anna Dandolo è rappresentata sul muro settentrionale del nartece della chiesa della Santa Trinità a Sopočani. La celebrazione artistica si accompagna deliberatamente all’emulazione del fasto della committenza imperiale bizantina. (Ivi, p.347). Nipote del doge Enrico Dandolo, Anna nel 1216 andò sposa, probabilmente per ragioni di convenienza politica, a Stefano Nemanja, Gran Zupano (duca) della Rascia, l’attuale Serbia. La successiva conversione al Cattolicesimo di Stefano, avvenuta secondo le cronache per esortazione della stessa Anna, e il conseguente ristabilimento del culto cattolico e dell’autorità pontificia in Serbia, indussero papa Onorio III a concedergli la corona reale nel 1217 e Anna divenne la prima Regina di Serbia. Quando morì pochi anni dopo, nel 1220, la sua figura subì una sorta di sacralizzazione e la sua morte venne rappresentata in un affresco sul muro settentrionale del nartece della chiesa della Santa Trinità a Sopočani, secondo lo schema iconografico della Dormizione della Vergine. 330 145 affreschi. Ecco dunque che, da un attento esame e da un confronto con i pittori di origine greca e costantinopolitana operanti a Mileševa e a Sopočani, l’origine occidentale dell’autore di San Zan Degolà emerge dall’espressività di alcuni particolari, dal carattere plastico e illusionistico delle decorazioni, dal modo di concepire la prospettiva che non è astratta e stilizzata come a Bisanzio, ma solenne e organica come a Roma. I veneziani che avevano creato in Oriente l’impero coloniale di San Marco, seppero ritrovare anche nell’arte forme corrispondenti al prestigio politico raggiunto, ricorrendo alle sempre vivide suggestioni dell’arte classica e, come propone il Demus, giungendo ad una “Renovatio christiana” del mondo antico332. Partendo da queste basi, M. Muraro333 colloca gli affreschi intorno al 1265, momento in cui la chiesa di San Zan Degolà è affidata alle cure di un venerabile parroco chiamato Giovanni, il “Beato Giovanni” che con la sua santità e i suoi miracoli accrebbe l’importanza e il prestigio di quella chiesa. Questo periodo, inoltre, coincide con la massima espressione artistica del regno serbo. Un altro contributo significativo sulla lettura e interpretazione di tali affreschi è dato da L. V. Geymonat. Da un esame dei vari frammenti che tiene conto delle alterazioni e delle perdite, lo studioso ritiene che questi affreschi facessero parte di un unico ciclo decorativo ad affresco che copriva l’intero spazio disponibile: dall’arco di ingresso alla volta e alle pareti. Espediente figurativo comune è la doppia cornice che corre sia lungo i bordi della lunetta, sia lungo quelli dell’Annunciazione, delimitando la superficie pittorica delle scene e definendone il rapporto con lo spazio architettonico. Le affinità nella tecnica esecutiva e nello stile sono tali da non giustificare una interpretazione che isoli ciascun frammento dell’affresco dal contesto architettonico in cui era collocato o presupponga il succedersi nello stesso luogo di campagne decorative diverse. Le affinità si riscontrano nel trattamento del panneggio e nel tipo di lumeggiature delle vesti di Sant’Elena e dell’arcangelo Gabriele, dello stesso tenue colore rosato; simile è anche il trattamento delle capigliature dei Santi 332 333 O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia, cit., pp. 141-155. M. Muraro, in Venezia e Bisanzio, cit., scheda n. 61. 146 nella lunetta, della criniera del leone e del piumaggio dell’aquila nella volta; inoltre le ampie campiture di cielo nell’Annunciazione, intorno all’edificio alle spalle di Sant’Elena e nelle vele della volta sembrano corrispondere allo stesso disegno compositivo334. Ulteriori analogie e affinità si sono riscontrate tra il fregio fitomorfo che corre lungo gli assi trasversali della volta della cappella absidale sinistra di San Zan Degolà, costituito da una composizione simmetrica a foglie bicrome intervallate da tralci a spirale e piccoli fiori, e la decorazione fitomorfa che corre lungo i margini superiori dell’ancona con San Donato a Murano, (fig. 22) datata 1310: sono simili il tipo, la forma, la disposizione delle foglie, il gioco delle simmetrie e il sistema di contrasti cromatici. Le stesse corrispondenze si riscontrano tra le fronde di San Zan Degolà e quelle affrescate lungo i rami del Lignum Vitae in San Francesco a Udine (fig. 23), databile anch’esso intorno al 1310335. Secondo lo studioso L. V. Geymonat, inoltre, molte opere di ambito bizantino sono state avvicinate agli affreschi di San Zan Degolà in base a corrispondenze di resa fisionomica. Il busto di Sant’ Elena è stato confrontato con l’angelo (fig. 24) nella scena delle pie donne al Sepolcro di Mileševa: sono simili i grandi occhi spalancati, il naso diritto e pronunziato, il disegno arrotondato delle labbra e delle guance. Anche il volto di San Tommaso nella scena dell’incredulità (fig. 25), quelli degli apostoli Pietro e Giovanni nel transetto nord e gli astanti nella Dormizione della Vergine (fig. 26) sulla controfacciata della Chiesa della Trinità a Sopočani sono state più volte confrontate con le figure di San Zan Degolà. Le corrispondenze sono notevoli, ma anche in questo caso limitate a singoli particolari fisionomici e iconografici; numerosi altri aspetti, in primo luogo la resa degli sfondi architettonici, che nella Dormizione della Vergine sono vivacemente abitati, si differenziano profondamente nella concezione dello spazio scenico rispetto a quelli di San Zan Degolà. Non è facile stabilire quale valore attribuire a tali confronti oltre a una generica conferma di parentela stilistica con opere d’aria bizantina. Secondo L. V. Geymonat, la razionalizzazione ottica nella resa tridimensionale dello spazio distingue 334 335 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 527. Ivi, pp. 531-532. 147 radicalmente questi affreschi dagli esempi di ambito bizantino. Partiamo dagli affreschi di San Zan Degolà: la resa tridimensionale degli spazi architettonici alle spalle di Sant’Elena, nelle mensole del cornicione, così come nella complessa articolazione di rientranze ed aggetti nell’edificio dietro la Vergine nell’Annunciazione, avvalorano l’ipotesi che l’autore degli affreschi fosse a conoscenza del nuovo modo di concepire la raffigurazione degli sfondi architettonici adottato nelle opere di Giotto (figg. 27-28). Il confronto che si può stabilire con la cappella degli Scrovegni, secondo il Geymonat, non riguarda soltanto la decorazione fitomorfa, il fondo azzurro cosparso di stelle e le superfici a finto marmo, ma anche le cornici a rilievo che caratterizzano la volta a crociera in San Zan Degolà. Infatti, nelle fascie divisorie degli affreschi di Giotto (fig. 29) sono raffigurate cornici inserite le une nelle altre in modo simile a quanto accade a Venezia. Tale dipendenza dagli affreschi della cappella degli Scrovegni, relativamente alle cornici a compasso mistilineo e alla concezione tridimensionale dello spazio non trova, però, riscontro nello stile: le fisionomie dei volti, infatti, non presentano analogie con i lineamenti marcati e con la resa plastica dei corpi così caratteristici della pittura di Giotto, così come le stesse architetture non mostrano riferimenti diretti, né sono assimilabili a quelle riscontrabili negli affreschi di Padova. Infine, per Geymonat, le stesse affinità con la cultura artistica sviluppatasi in area bizantina non portano che ad esiti parziali e poco convincenti. A tale proposito, egli si sofferma sulla produzione figurativa a Venezia fra il XIII e il XIV secolo che, secondo il suo punto di vista, offre qualche interessante conferma a questa ipotesi. In diverse opere di ambito veneziano si intuisce un vivo interesse per la resa tridimensionale di elementi architettonici. Una loro analisi permette di cogliere un’ampia gamma di sperimentazioni. In questo senso, gli affreschi della parete sud della cappella Orlandini nella chiesa dei Santi Apostoli a Venezia (fig. 30) ci offrono uno spunto interessante. Secondo L. V. Geymonat, “gli edifici ai lati della Deposizione dalla Croce e il suppedaneo, così come il catafalco nel Compianto di Cristo, non sono rappresentati secondo un punto di vista unitario, ma la doppia cornice (che 148 richiama l’incorniciatura lungo i margini della lunetta e dell’Annunciazione in San Zan Degolà) e soprattutto la sequenza di mensole sotto cui si vedono le tracce di un velario sono ispirate a sottili principi di illusionismo prospettico. L’articolata modanatura (prossima a quella della mensola che regge il balcone dietro la Vergine in San Zan Degolà) e le rientranze ombreggiate tra una mensola e l’altra, sono una dimostrazione della ricercatezza compositiva di questa incorniciatura architettonica”336. Tornando all’edificio alle spalle di Sant’Elena, sempre secondo il Geymonat, esso presenta caratteri e un gusto che ricordano l’architettura tardoantica, il che potrebbe esser dovuto al modello utilizzato per l’iconografia di Sant’Elena. Nel corso del Duecento, l’uso a Venezia di “fonti” paleocristiane è attestato sia nella produzione plastica che nella pittura a mosaico. Anche i mosaici dell’atrio di San Marco, la cui iconografia riprende le miniature della Bibbia Cotton, offrono numerosi esempi di utilizzo di quinte architettoniche in funzione narrativa di ambientazione e separazione degli episodi, anche se tutto ciò è concepito in maniera radicalmente diversa da quanto si osserva negli affreschi in San Zan Degolà. Concludendo possiamo, dunque, affermare che questa serie di casi, pur così diversi tra loro, confermano che la resa tridimensionale delle cornici e degli sfondi architettonici rappresentava un terreno di facili sperimentazioni. Gli straordinari risultati ottenuti in questo ambito da Giotto a Padova erano conosciuti e presi a modello come testimoniano le tavole di Pesaro337 (fig. 31) e il Paliotto338 del beato Leone Bembo339 del 1321 (fig. 32)340. 336 Ivi, p.135. R. Palucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, pp. 20-21, M. Muraro 1969, p.132. Di quest’opera non si conoscono la provenienza, la data e il contesto originale. Secondo L. V. Geymonat queste cinque tavole con storie della Vergine attribuite a Paolo Veneziano riproducono nelle loro scene il prototipo giottesco, da cui riprendono gli sfondi architettonici e buona parte dei personaggi. 338 Un’architettura vicina a quella del Palatium di Sant’Elena si riscontra in una delle scene del paliotto del Beato Leone Bembo già in San Sebastiano e oggi a Dignano d’Istria. Mauro Lucco, Pittura del Trecento a Venezia in La pittura in Italia, il Duecento e il Trecento, Milano 1986, p. 178. 339 R. Palucchini, La pittura veneziana del Trecento, cit., pp. 22-24. 340 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 537. Il Beato rende visita a Caterina di Roncanelli. La sua stanza presenta un’articolata architettura di sfondo: porte, mensole, bifore, soffitto a cassettoni. Questa complessa quinta architettonica ha il proprio modello nella stanza della Vergine annunciata nella cappella degli Scrovegni. 337 149 Questo non impediva che a Venezia altre esperienze in questo campo fossero condotte parallelamente con esiti diversi e non sempre assimilabili a quelli giotteschi341. 341 Ivi, p. 539. 150 7d - INTERPRETAZIONI CONCLUSIVE SUGLI AFFRESCHI DI SAN GIOVANNI DECOLLATO Il primo tentativo di una collocazione cronologica, è stato compiuto nel 1951 da Giuseppe Fiocco342, poco dopo la scoperta degli affreschi. Lo studioso li aveva datati all’XI secolo, poiché riteneva di “non dover inserire opere tanto vigorose in quel periodo raffinato e puramente cromatico, che è quello paleologo”, e per questo motivo li attribuiva al periodo macedone. Tale datazione è stata proposta, tuttavia, quando la scoperta degli affreschi era troppo recente e non era stato ancora effettuato alcuno studio di carattere scientifico, ma era stata considerata soltanto la componente bizantina343. Lo studioso Michelangelo Muraro è il primo a proporre una collocazione cronologica degli affreschi intorno al 1265, ricorrendo a motivazioni sia di carattere stilistico che storico, anche se non pare aver tenuto conto dell’evidente tentativo di ricerca prospettica rilevabile nell’architettura di sfondo, né del modo di usare il colore nei volti, che prelude alle sfumature trecentesche. Siamo quindi indotti a prendere in considerazione anche una terza ipotesi di collocazione cronologica, che data gli affreschi di San Zan Degolà ai primi decenni del Trecento (1305-1320). In particolare Viktor Lazarev344 li fa risalire al 1310-1315, poiché li ritiene della stessa mano di una Madonna col Bambino del museo di Puškin di Mosca (fig. 33). Stringenti sono le corrispondenze tra le due tavole per quanto riguarda la morfologia dei volti, delle mani e il modo di rendere i panneggi. Il volto della Madonna e del Bambino e quelli di S. Elena, San Marcio e San Tommaso sono modellati allo stesso modo. Anche le profonde arcate sostenute da pilastri nella parte inferiore del trono sono simili nella struttura e nel disegno a quelle dell’edificio alle spalle di Sant’Elena. Analogamente, la sottile decorazione lineare lungo i bordi corrisponde a quella che decora l’edificio dietro la Vergine dell’Annunciazione e gli angeli che 342 G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, in Arte Veneta, 1951, p. 21. C. Lenarda, Precisazioni cronologiche e stilistiche sull’affresco di San Giovanni Decollato in Venezia, in “Rivista archeologica”, IV, Venezia 1980, p. 57. 344 V. N. Lazarev, Saggi sulla pittura veneziana dei secoli XIII –XIV, la maniera greca e il problema della scuola cretese (I) , in Arte Veneta, XIX, 1965, pp. 17-31. 343 151 assistono dall’alto la Madonna sono simili nei colori, nelle proporzioni e nelle pieghe delle vesti all’arcangelo Gabriele di San Giovanni Decollato. Secondo lo studioso L. V. Geymonat oltre a presentare analogie con la Madonna col Bambino del museo Puškin, si possono accostare anche alle sei tavole con gli Apostoli del Museo del Duomo di Caorle. Si tratta di sei ritratti a mezzo busto (figg. 34-35) riproposti con monumentalità classica. Interessanti gli elementi caratterizzanti del volto: i grandi occhi, l’attaccatura del naso, la bocca, la presenza di tratti somatici delineati con forza e precisati da rughe. La posizione delle mani varia in ciascun apostolo e i diversi modi di tenere il rotolo offrono l’occasione per una virtuosistica rappresentazione delle dita. Degni di attenzione sono anche la foggia degli abiti e il panneggio delle pieghe, così come le variazioni negli abbinamenti cromatici delle vesti e dei mantelli. Notevoli sono le affinità compositive, stilistiche e tecnico-esecutive con gli affreschi di San Zan Degolà, in particolare con il busto di Sant’ Elena e i volti di Giovanni Battista, Pietro, Tommaso e Marcio. A tale proposito, L.V. Geymonat ci fa notare che Giovanni Zane, membro di una potente famiglia del patriziato veneziano, fu vescovo di Caorle dal 1308 al 1331. Negli anni del suo episcopato risiedeva a Venezia, nel confinium tra Santa Maria Mater Domini345 e San Zan Degolà. Attivo promotore delle arti, lo Zane è un probabile committente delle tavole con gli Apostoli destinate alla sede episcopale di Caorle. In base all’analisi condotta finora, possiamo affermare che gli affreschi di San Giovanni Decollato, seppure iconograficamente legati alla tradizione bizantina, riassumono in sé anche altri elementi che ricorrono nella pittura veneta del XII e XIII secolo, mostrando una maturità di stile e un’apertura verso nuovi orizzonti che non trova riscontro soltanto nella pittura del Duecento veneziano. Abbiamo visto come, secondo il contributo significativo del Geymonat, gli affreschi di San Giovanni Decollato insieme alla Madonna col Bambino del 345 In campo Santa Maria Mater Domini è attestata la presenza di casa Zane, che potrebbe essere quella di Giovanni Zane. Si tratta di un edificio duecentesco sulla facciata del quale si apre una quadrifora di II ordine (con archi rialzati cuspidati nell’estradosso). La presenza di tale elemento architettonico, associata a quella di capitelli a cubo scantonato profilato e a rilievi quali patere e croci sulla facciata dell’edificio, è chiara espressione - come abbiamo già avuto modo di osservare - di una vera e propria penetrazione di gusto che caratterizza l’edilizia di alto livello del Duecento veneziano. 152 Museo Puškin e alle tavole con gli Apostoli di Caorle, compongano un corpus stilisticamente uniforme, plausibilmente attribuibile a un unico artista, identificato nel c. d. “Maestro di San Zan Degolà”. Sono opere di grande qualità che attestano come nei primi due decenni del Trecento venga affermandosi a Venezia una produzione figurativa di altissimo livello. Un programma decorativo di notevole impegno definiva lo spazio sacro della cappella di San Zan Degolà in tutte le sue parti e con ogni probabilità comprendeva anche una pala d’altare346. Non è inverosimile supporre che si trattasse di una cappella familiare la cui decorazione fu commissionata a un artista di prestigio, secondo un uso che si andava diffondendo proprio in quel periodo. Il confronto degli affreschi di San Zan Degolà con altre opere di origine veneziana porta a ritenere che ci troviamo in presenza di un artista che, pur legato alla cultura figurativa locale, si mostrava nondimeno sensibile alle tendenze elaborate in altri contesti culturali e figurativi. Ciò appare ben evidente da un raffronto con molte sculture presenti nella chiesa di San Marco, nonché dalla scelta del modello dei cartoni per i mosaici dell’atrio della stessa chiesa. Una lunga serie di scene veterotestamentarie, della Genesi e dell’Esodo sono, infatti, esemplate assai probabilmente sulle illustrazioni di un manoscritto del V-VI secolo di provenienza costantinopolitana, del tipo della Genesi Cotton, ma anche forse su un codice miniato protopaleologo347. “L’assimilazione di forme bizantine nei volti e nelle figure, l’appropriazione di modi giotteschi nella concezione dello spazio e nell’incorniciatura delle scene, l’utilizzo di modelli iconografici che riflettono moduli classici“348 e in particolare un certo plasticismo nel trattamento delle figure rivelano un linguaggio complesso che attinge a un repertorio di fonti straordinariamente ricco. Secondo la tesi proposta dallo studioso O. Demus, questo ciclo pittorico viene realizzato proprio nell’ambito di quel movimento anticheggiante, c.d. proto-rinascimento, che caratterizzava la cultura artistica di quel periodo ed è pertanto databile alla fine del Duecento. 346 L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., pp. 544-545. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 302. 348 Ibidem. 347 153 CONCLUSIONI Il XIII secolo si può considerare, indiscutibilmente, come uno dei periodi più fecondi e interessanti dell’arte medievale veneziana. In particolare, il bizantinismo artistico del Duecento veneziano, che in questo mio lavoro di ricerca ho preso in considerazione, si è dimostrato un fenomeno complesso, articolato e dalle molteplici sfaccettature, che ha investito la città di Venezia in svariati ambiti. Con il trionfo della IV crociata il doge si proclama Dominator quartae et dimidiae partis totius Romanie. Tale avvenimento ha senz’altro contribuito al processo di trasformazione e di rinnovamento che, a partire da questo momento, darà “lustro” al il più importante cantiere pubblico costituito dalla riapertura della chiesa di San Marco, uno spazio altamente qualificato, prototipo architettonico imperiale di dispiegata magnificenza aulica, deputato sempre più all’autocelebrazione, a quel desiderio di Renovatio Imperii Christiani che Venezia orgogliosamente a tutto il mondo vuole mostrare. La platea marciana, dunque, diviene il fulcro di questo processo di innovazione. Tra i più significativi interventi di riqualificazione vanno ricordati quelli intrapresi durante il dogado di Sebastiano Ziani (1172-1178), che hanno coinvolto l’intera area marciana e hanno contribuito all’impostazione e alla definizione dell’assetto della Piazza stessa. Fra questi emergono l’edificazione delle Procuratorie e del litus marmoreum con l’innalzamento delle due colonne monolitiche di sicura provenienza costantinopolitana, che andavano a costituire il portale cerimoniale, la porta d’accesso da dove partivano e dove si concludevano le più importanti celebrazioni e i rituali della città, un luogo simbolico che richiamava gli spazi costantinopolitani, altamente qualificati, in cui si svolgevano le epifanie imperiali. Proprio nell’ulteriore definizione della Piazza e nella riapertura della fabbrica della basilica di San Marco all’indomani della IV crociata, la città lagunare vuole ribadire ancora una volta il segno della sua potenza e del suo splendore; quello che emergerà, a partire da questo momento è, infatti, un bizantinismo artistico 154 di matrice decisamente imperiale che investe l’intero apparato decorativo della cappella ducis. Alcune trasformazioni portano al radicale rifacimento dell’aspetto esterno della chiesa ducale; le murature esterne e quelle interne vengono rivestite di lastre di marmi preziosi, di mosaici, di bassorilievi e di formelle. Il portale centrale esterno e la porta da mar vengono decorati con battenti bronzei ad opus clatratum di età giustinianea e al di sopra del primo viene collocata la famosa quadriga trasportata dall’ippodromo della capitale d’Oriente dopo la conquista. Non va dimenticata la sistemazione del gruppo in porfido dei Tetrarchi proveniente dalla piazza del Philadelphion e la ricollocazione nell’angolo tra il Palazzo Ducale e la chiesa di San Marco dei cosidetti “Pilastri Acritani”, appartenuti probabilmente alla chiesa di San Polieucto. Queste ed altre spolia provenienti dal bottino costantinopolitano della IV crociata hanno contribuito alla decorazione e all’arricchimento della facies marciana, di quello che doveva essere il frontespizio ufficiale della città, il centro focale dell’urbanistica della piazza. Nel frattempo continua l’impegno nel completamento della grandiosa impresa musiva. Sia pure per fasi e attraverso un lungo arco di tempo che dalla fine dell’XI secolo raggiunge il XIII, il rivestimento musivo della chiesa di San Marco è stato realizzato in sostanziale coerenza con il modello culturale di riferimento e, nelle sue parti duecentesche, esso costituisce certamente l’esperienza centrale e più significativa della cultura figurativa veneziana. È probabile che, con la conquista di Costantinopoli e il favoloso bottino della IV crociata, siano stati importati a Venezia da Bisanzio non soltanto una grande quantità di tesori, opere d’arte e preziosi materiali lapidei e musivi, ma anche numerosi artisti, alcuni dei quali hanno sicuramente contribuito alla realizzazione del favoloso manto della basilica marciana. La stesso Stefano Magno, erudito cronachista e collezionista del Cinquecento veneziano, nell’attribuire al doge Domenico Selvo la ricostruzione della chiesa ducale “come la se vede, in la forma xe al presente, sì nobielissima” e la fa “lavorar de musaicho a la grecha”, accenna alla presenza di maestri greci, attorno ai quali si sarebbe formata poi una scuola veneziana di mosaico 155 parietale. La chiamata, dunque, di artefici bizantini e di altre maestranze, unita all’influenza esercitata dalla circolazione di manoscritti e di taccuini, così come la presenza di eventuali personalità di tramite, ebbero a incidere significativamente tanto sulle scelte formali quanto su quelle iconografiche relative alla decorazione a mosaico della fabbrica marciana tra l’XI e il XIII secolo. Scelte che, peraltro, sono state condizionate anche dalla stessa struttura architettonica di San Marco che riprende, un modello protobizantino di età giustinianea, prototipo di architettura imperiale, reinterpretato attraverso forme medio-bizantine quali appunto l’iterazione del quinconce, un modello che si diffonde nell’ambito monastico del Monte Athos a partire dal periodo post-iconoclastico. L’alta simbolicità della forma architettonica di tale pianta a croce inscritta richiede un programma espositivo fortemente legittimato, codificato e riconoscibile in tutto l’impero. Anche il programma iconografico in San Marco, pur con delle varianti, è concepito in funzione dello spazio sacro e segue uno schema di rappresentazione secondo una disposizione gerarchica dei soggetti adeguata al tipo architettonico della chiesa ducale - la cui superficie è infatti molto più estesa rispetto a quella delle piccole strutture monastiche -, un sistema che deve essere di grande impatto e particolarmente suggestivo allo sguardo del visitatore che ne deve restare abbagliato. “Il pallore dell’oro è il colore appropriato a esprimere la virtù dei seguaci del Cristo, e al contempo, il largo uso dell’oro […] dà alle immagini quella stessa bellezza che si può vedere nelle vesti cerimoniali della corte imperiale” (Leone VI). Così anche in San Marco, l’oro non è solo impreziosimento decorativo, ma è il mezzo che dà uniformità al tutto. L’oro è allusione alla perpetuità, alla solennità, alla luce, una luce metafisica. Viene studiato allora un sistema finissimo di posa delle tessere parietali in funzione di quello che deve essere uno spazio di visione; la loro posizione inclinata permette la rifrazione della luce, una luce vibratile dal punto di vista della percezione, che crea l’effetto visivo della dynamos, dell’energia, del movimento; e infatti Dio è il Pantodynamos, colui che tutto muove. 156 Un sapere così sofisticato richiede i maestri greci più qualificati, da cui le maestranze locali attingeranno, appropriandosi della tecnica e dello stile e creando una vera e propria “arte” di mosaico parietale veneziana. Tutto ciò ci dimostra ancora una volta come la coerenza del sistema iconografico marciano sia legata profondamente al programma di tipo bizantino, nonostante la presenza di alcune varianti e gli ulteriori sviluppi che nuove esperienze porteranno nel cantiere marciano nel corso dei secoli e soprattutto nella fase duecentesca. E infatti, se nelle prime fasi della decorazione i maestri mosaicisti si attengono a un programma e a dei canoni di matrice prettamente bizantina dove prevale il fondo oro, nelle fasi successive sulla base di moderne suggestioni, essi approdano a un linguaggio particolare e autonomo, in cui nuovi elementi, tra i quali uno spiccato senso ritmico della composizione che pone in rilievo le figure e il paesaggio, creano un’espressività del tutto inedita. A tale proposito, se alcuni dei mosaici duecenteschi dell’interno della basilica evidenziano ancora la dipendenza dagli stilemi di natura bizantina - basti pensare all’eleganza e allo stile aulico dei raffinati Pinakes che raffigurano il Cristo Emanuele e la Vergine Orante su magnifici sfondi dorati (che il Demus giustamente definisce di precious style) -, altre composizioni musive del XIII secolo presentano nuovi elementi sia a livello stilistico che iconografico. Il grandioso pannello dell’Orazione nell’Orto segna un punto di svolta nella decorazione musiva di San Marco. L’emergere di figure possenti e voluminose che si stagliano sullo sfondo di un paesaggio delineato in modo dettagliato e incisivo, nel quale anche la vegetazione assume rilievo, la nuova monumentalità, che peraltro attinge dagli esempi più evoluti della pittura serba del XIII secolo (Mileševa e Sopočani), così come la raffinatezza e l’inedito equilibrio compositivo delle forme, fanno di tale opera uno degli esiti più alti dell’arte veneziana del Duecento. Allo stesso modo i mosaici dell’atrio, nonostante sia stata supposta la stretta dipendenza dalla Genesi Cotton e da modelli della pittura illusionistica protobizantina, così come da altri manoscritti che Demus attribuisce all’irrompere dello stile dell’età paleologa (vedi la cupola di Mosè), portano a 157 soluzioni autonome e innovative. Il trattamento delle figure ignude, uno spiccato naturalismo, un interesse per la resa delle quinte architettoniche e degli elementi paesistici, l’organizzazione dello spazio che scandisce la sequenza narrativa sono tutti caratteri che emergono in particolar modo nella cupola della Genesi e che ribadiscono un ulteriore aspetto della cultura artistica veneziana duecentesca: il suo ecclettismo, la sua capacità di dialogare e di accogliere culture e modelli diversi, reinterpretandoli e giungendo a soluzioni stilistiche e iconografiche moderne e di altissimo livello. Non vi è dubbio che, come ribadisce lo studioso V. Djuric, indipendentemente da tutte le specificità veneziane, tutti gli artisti che si sono succeduti tra l’XI e il XIV secolo nella realizzazione della decorazione musiva in San Marco hanno seguito, in maniera più o meno rigorosa, le tendenze nate negli atelier di pittori della capitale bizantina. Dunque, inequivocabile appare l’influsso del mondo bizantino sulla decorazione musiva in San Marco, anche se la fase duecentesca, realizzata tra la presa di Costantinopoli da parte dei Latini e la sua liberazione nel 1261, presenta dei caratteri propri. In questo periodo, infatti, la caduta della città orientale aveva portato alla dispersione dei suoi migliori artisti, alcuni dei quali avevano raggiunto altri paesi, quali ad esempio la Serbia che, come osserva Demus, ha senz’altro avuto un ruolo notevole nel suggestionare le manifestazioni artistiche veneziane, al momento dell’abbandono dello stile dei Paleologi. È in questo momento centrale infatti, tra il 1120 e il 1260 che l’arte del mosaico a Venezia registra una discontinuità in rapporto a quella che era stata fino ad allora una situazione abituale ed è probabile che proprio in questo periodo intermedio, venendo meno gli influssi bizantini venissero rielaborati gli stimoli iniziali che portarono alla creazione di una nuova arte, specificamente veneziana. Il bizantinismo artistico del Duecento veneziano è, dunque, un fenomeno eterogeneo e non circoscritto alla cultura e al gusto del solo cantiere marciano, ma diffuso anche in altri contesti della città lagunare. Alcune novità interessanti riguardano, ad esempio, l’ambito architettonico, che ho preso in esame; in particolare, il tipo dell’arco rialzato, di largo impiego nel XIII secolo, rappresenta una delle tante penetrazioni di gusto coscientemente 158 accettate a Venezia. Esso costituisce una delle forme più significative di elemento architettonico a lungo ritenuto di matrice bizantina che diverrà un carattere distintivo di logge e portici di alcune fra le più celebri architetture palaziali veneziane. Nello stesso tempo, vari altri elementi di stile e di decorazione di impronta bizantina vengono accolti e si trasmettono ad alcune fra le più importanti domus magnae della città: dal caso emblematico del palazzo sul Canal Grande del doge Enrico Dandolo, tuttora esistente e noto come palazzo Dandolo Farsetti, e a ca’ Palmieri da Pesaro (poi Fondaco dei Turchi), ca’ Loredan, Palazzo Businello, ca’ da Mosto, edifici che, come abbiamo osservato, ben documentano il diffondersi di elementi “bizantineggianti” nell’architettura civile. L’adozione diffusa di parametri marmorei, l’uso frequente di cornici marcapiano decorate da foglie d’acanto, il largo impiego decorativo di patere, formelle, croci, fregi stilisticamente dipendenti da prototipi bizantini, come pure l’impiego dell’arco rialzato, semplice o cuspidato, associato a capitelli bizantini di spoglio o a capitelli di tipo corinzio, sono tutti elementi che esemplarmente testimoniano la tendenza verso uno sfarzoso decorativismo autocelebrativo349 che investe e caratterizza la cultura artistica veneziana del XIII secolo. Interessante, a questo punto della mia ricerca, è stato analizzare il contesto pittorico veneziano in relazione alle sue massime espressioni artistiche. Se nel corso del Duecento ormai indiscutibile e significativa è la presenza della pittura a mosaico, come abbiamo avuto modo di constatare soprattutto grazie alla magnificenza e allo splendore dell’onerosa impresa musiva del cantiere marciano, lo stesso non si può dire per la pittura ad affresco di quel periodo in San Marco, della cui produzione resta ben poco. Interessanti, a tale riguardo, sono a mio avviso, gli studi condotti da Ettore Merkel su alcuni “affreschi poco noti in San Marco” che hanno messo in luce l’assenza di un programma decorativo codificato, esteso ed eloquente per la 349 Accolgo ed associo la mia posizione a quella del Prof. E. Concina, Le arti di Bisanzio, Milano 2002. 159 pittura di quel periodo. Lo studioso sottolinea, invece, il carattere di provvisorietà e di utilità devozionale e liturgica di tali frammenti: un tipo di decorazione alternativa, nettamente separata e subordinata rispetto a quella a mosaico che aveva coinvolto il grandioso cantiere marciano. Ciò nonostante, uno straordinario esempio di pittura monumentale lo troviamo nella chiesa di San Giovanni Decollato, in un ciclo di affreschi che costituisce una preziosa testimonianza della cultura artistica veneziana delle origini. Fin dalla loro scoperta, all’interno della chiesa di San Giovanni Decollato, tali frammenti hanno suscitato l’interesse degli studiosi e diverse sono state le ipotesi interpretative a cui si è giunti riguardo alla loro esecuzione. A conclusione dell’analisi di tali affreschi, desidero manifestare la mia propensione a seguire la lettura interpretativa data dal Prof. Michelangelo Muraro, il quale ritiene che l’autore degli affreschi di San Zan Degolà vada collocato nel quadro di quella corrente “classicheggiante” che ben emerge dall’espressività di alcuni particolari, dal trattamento delle forme, da quella accentuata attenzione rivolta alla struttura, dal carattere plastico e illusionistico delle decorazioni e dal modo di concepire la prospettiva, che non è astratta, ma solenne e organica. Come egli fa notare, questo ciclo di affreschi trova un quadro di riferimento significativo nella corrente monumentale dei cicli pittorici serbi di Mileševa e di Sopočani, sebbene esso vada considerato opera di un maestro occidentale, che guarda direttamente ai modelli di quella prima rinascenza macedone che aveva rimesso in valore l’arte e la cultura del mondo antico. Questo fenomeno di “rinascenza paleocristiana” si spiega con l’esigenza particolare di Venezia di dar vita ad una propria tradizione storica antica che alla città ancora mancava. A tale proposito, e a titolo esemplificativo, basti pensare a come venne creata la “traditio” della leggenda di San Marco. L’arrivo del corpo dell’Evangelista fa di Venezia sito apostolico agli occhi del mondo cristiano, la città da lui miracolosamente assistita e che in lui si riconosceva e identificava. Ecco allora che il mito fondatore dello stato veneziano deve essere rafforzato da una serie di leggende. I momenti cruciali di tale mitogenesi sono ben ribaditi anche in alcuni dei mosaici duecenteschi marciani, quali la Traslatio 160 delle reliquie di San Marco in basilica, a cui si legano gli episodi convergenti dell’Inventio e il miracolo dell’Apparitio, che giustifica la leggenda della Praedestinatio della cappella Zen. La ricerca fin qui condotta sulle diverse espressioni artistiche cui ha dato luogo la decorazione della cappella ducis, nonché su altri aspetti del bizantinismo artistico esterni alla platea marciana, mette in luce la complessità di un secolo, il Duecento veneziano, non sempre di facile e chiara lettura, come dimostrano i dibattiti e le interpretazioni che sono state formulate dai vari studiosi. Sicuramente la sintesi stilistica operata dalle maestranze veneziane duecentesche, sulla base delle esperienze tecniche e artistiche bizantine - sulle quali, fra l’altro, le botteghe veneziane si erano formate sino a raggiungere altissimi livelli di maestria -, ha contribuito alla nascita di tendenze autonome, prettamente veneziane. Ad ogni modo, vorrei concludere confermando la posizione sostenuta dal Prof. E. Concina che mi sento di condividere pienamente e che si concentra sul nuovo ruolo assunto dalla città di Venezia all’indomani della grandiosa impresa costantinopolitana. Proprio nella riapertura del più importante cantiere pubblico di piazza San Marco, Venezia, grazie agli emblemi trionfali e ad altre preziose spolia vuole dare una grandiosa prova visiva di splendore e di nuova identità. Dalla bizantina magnificenza di San Marco ha, dunque, inizio quel processo di rinnovamento e quello sviluppo di manifestazioni artistiche di matrice deliberatamente imperiale che, da quel momento, coinvolgeranno la storia e la cultura dell’arte veneziana duecentesca. Ed è sempre in questa San Marco, santuario e segno di renovatio e translatio imperii, che si concretizza il sogno e il desiderio di Venezia, come afferma il Bessarione, di diventare “altra Bisanzio”, il luogo simbolico deputato all’eredità, alla continuità e alla trasmissione di tutti quei valori della cultura imperiale costantinopolitana, di quel sapere antico, che ancor oggi la città lagunare, a distanza di secoli, nel continuo ossequio alla cultura orientale ci vuole dimostrare. 161 BIBLIOGRAFIA FONTI A. COMNÈNE, Alexiade, I-II, a cura di Bernard Leib, Paris 1937-1943. N. CHONIATE, De signis constantinopolitanis, a cura di O. Morisani, F. Gagliuolo, A. Francisis, Napoli 1960. N. CHONIATE, Niceta Choniate Historia, a cura di J. I. Van Dieten, Berlin-NewYork 1975. N. CONIATA, Grandezza e catastrofe di Bisanzio, I, trad. di A. Pontani, Verona 1994. R. CESSI, Origo civitatum italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), Roma 1933. F. 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Basilica di San Marco. Venezia. FIG. 2. Ritrovamento del corpo di San Marco, l’Apparitio. Pannello parietale del transetto destro. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 3. Trasferimento del corpo di San Marco in basilica, facciata occidentale di San Marco, portale di Sant’Alipio. Venezia. FIG. 4. Il patriarca di Grado, i vescovi lagunari e il doge Giustiniano Particiaco accolgono le reliquie di San Marco, cappella di San Clemente. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 5. Il Doge Domenico Michiel sbarca a Chio, cappella di Sant’Isidoro. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 6. Il Doge Domenico Michiel rimprovera il chierico Cerbano dopo l’ “invenzione” del corpo di Sant’ Isidoro, cappella di Sant’Isidoro. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 7. Il Doge Ordelaffo Falier, smalto della Pala d’Oro. Basilica di San Marco, Venezia. CAPITOLO II – FASE ARTISTICO CULTURALE DUECENTESCA IN SAN MARCO FIG. 1. Processione della reliquia della croce in piazza San Marco. Gentile Bellini 1496, Gallerie dell’Accademia. Venezia. FIG. 2. Doni di papa Alessandro III al Doge Sebastiano Ziani (1172-1178): l’anello. Secolo XV. Venezia. FIG. 3. Doni di papa Alessandro III al Doge Sebastiano Ziani (1172-1178): le trombe e i vessilli. Secolo XV. Venezia. FIG. 4. San Teodoro, ipotesi ricostruttiva della pianta di W. Dorigo, 2003. FIG. 5. L’area marciana con il castellum, la prima San Marco e San Teodoro, ricostruzione di W.Dorigo, 1983. 172 FIGG. 6-7. Chiesa di Santa Sofia di Kiev, ricostruzione del prospetto e pianta. FIG. 8. Pianta della Basilica di San Marco, Venezia (Ennio Concina, 1995). FIG. 9. La chiesa dei Dodici Apostoli a Costantinopoli, ipotesi ricostruttiva della pianta di N. Ghioles, 1998. FIG. 10. Chiesa di San Giovanni d’Efeso, planimetria della chiesa Giustinianea (Ephesos 1951). FIG. 11. Facciata della basilica contariniana. Ricostruzione di A. Pellanda (APSM). FIG. 12. Planimetria del nartece occidentale di San Marco con l’ipotesi ricostruttiva di V. Herzner (1997). FIG. 13. Pianta della basilica di San Marco (Ongania 1888-1893). FIG. 14. La chiesa a cinque dell’ Apostoleion a cui fa da sfondo la scena dell’ Ascensione del Cristo. Illustrazione di Giacomo di Kokkinobaphos. (Biblioteca Nazionale di Parigi). FIG. 15. L’ Orazione nell’Orto, pannello navata sud. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 16. Sequenza dell’Orazione nell’Orto, pannello navata sud. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 17. Compianto sul corpo del Cristo. San Panteleimon, Nerezi. FIG. 18. Particolare del gruppo degli Apostoli addormentati, pannello dell’ Orazione nell’Orto, navata sud. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 19. Particolare della cupola dell’Ascensione, Basilica di San Marco. Venezia. FIG. 20. L’incredulità di Tommaso, icona della chiesa della Theotokos o Panagia Peribleptos (San Kliment), Ohrid. FIG. 21. Apostoli, particolare della Dormizione della Vergine. Chiesa della Trinità. Sopočani. FIG. 22. Mosaico dell’abside. Chiesa di San Paolo Fuori le Mura, Roma. FIG. 23. Episodio dell’ Inventio. Clero, doge e popolo pregano per ritrovare il corpo di San Marco. Basilica di San Marco, pannello parietale del transetto destro. Venezia. 173 FIG. 24. Episodio dell’ Apparitio. Ritrovamento del corpo di San Marco, pannello parietale del transetto destro. Venezia. FIG. 25. Trasferimento del corpo di San Marco in basilica, Venezia, facciata occidentale di San Marco, portale di Sant’Alipio. Venezia. FIG. 26. I Pinakes: la Vergine, parete navata sud. Basilica di San Marco. Venezia. FIG. 27. I Pinakes: l’Emanuele, parete navata nord. Basilica di San Marco. Venezia. FIG. 28. I Pinakes: il profeta Isaia, parete navata sud. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 29. I Pinakes: il profeta Geremia, parete navata nord. Basilica di San Marco. Venezia. FIG. 30. I Pinakes: il profeta Davide, parete navata sud. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 31. I Pinakes: il profeta Salomone, parete navata sud. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 32. Il nartece, particolare della pianta della basilica di San Marco con i mosaici duecenteschi. Venezia. FIG. 33 Storie di Noè, mosaici dell’atrio, volta nord. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 34. La costruzione della torre di Babele, mosaici dell’ atrio, volta nord. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 35. Cupola della Genesi, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 36. Particolare della Creazione, cupola della Genesi. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 37. Abramo incontra gli angeli, particolare del frammento num. 26 della Bibbia Cotton. FIG. 38. Cupola di Abramo, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 39. Prima cupola di Giuseppe, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 40. Seconda cupola di Giuseppe, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. 174 FIG. 41. Terza cupola di Giuseppe, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 42. Cupola di Mosè, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 43. Lunetta con la Deesis, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 44. Particolare della Bibbia di Carlo V. Gerona. CAPITOLO III – BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA FIG. 1. Facciata settentrionale della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 2. Facciata meridionale della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 3. Facciata occidentale, della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 4. Sogno di San Marco, un tempo sogno di San Giuseppe, portale maggiore, nicchia del timpano, basilica di San Marco, Venezia. FIG. 5. Volo di Alessandro. Facciata settentrionale della Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 6. Trimorphon, navata meridionale, basilica di San Marco, Venezia. FIG. 7. Rilievo dei mestieri veneziani: i segatori, Venezia, facciata occidentale, arco III, intradosso. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 8. La costruzione dell’arca di Noè, mosaico dell’atrio, volta sud, basilica di San Marco, Venezia. FIG. 9. Rilievo dei mestieri veneziani: i muratori, facciata occidentale, arco III, intradosso. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 10. Costruzione della Torre di Babele, mosaici dell’atrio, volta nord. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 11. La Quadriga, museo marciano della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 12. I Tetrarchi in porfido, angolo sud-ovest. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 13. Il Carmagnola, pilastrino angolare sud-ovest del loggiato sud. Basilica di San Marco, Venezia. 175 FIG. 14. Rilievo di Ercole col cinghiale di Erimanto, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 15. Rilievo di Ercole con la cerva e l’ idra, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 16 Rilievo con San Demetrio, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 17. Rilievo con San Giorgio, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 18. Rilievo con l’Arcangelo Gabriele, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 19. Rilievo con la Vergine Orante, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 20. Cristo in trono tra gli evangelisti Giovanni e Matteo e due cervi sotto gli alberi, facciata settentrionale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 21. Rilievo con San Marco, facciata occidentale. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 22. I pilastri acritani, localizzati nei pressi dalla facciata meridionale della basilica marciana, Venezia. FIG. 23. Tondo con Imperatore bizantino, Campiello Angaran presso San Pantalon, Venezia. CAPITOLO IV – PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO FIG. 1. Porta di San Clemente (anni ottanta dell’XI secolo). Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 2. Porta centrale (1112 ca). Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 3. Portale maggiore (centrale esterno). Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 4. Porta clatrata della cappella Zen. Basilica di San Marco, Venezia. 176 CAPITOLO V – LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E VENEZIA FIG. 1. La Pala d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 2. Smalto che raffigura il doge Ordelaffo Falier, Pala d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 3. Smalto quadrilobo che raffigura l’arcangelo Michele, Venezia, Pala d’Oro, Tesoro della basilica di San Marco, Venezia. FIGG. 4-5. Sei formelle con scene del Dodekaorton (di probabile provenienza dal monastero del Pantokrator di Costantinopoli), Pala d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 6. L’Entrata in Gerusalemme, formella del fregio superiore, Pala d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 7-8. L’Annunciazione e la Crocifissione, formelle del fregio superiore, Pala d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia. FIG. 9. Giovanni II Comneno e il figlio Alessio incoronati dal Cristo accompagnato da Carità e Giustizia, miniatura del tetravangelo. Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano. FIG. 10. L’immagine della Nicopeia, Museo marciano della basilica di San Marco, Venezia. CAPITOLO VI – LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL DUECENTO VENEZIANO FIG. 1. Sviluppo dell’arco rialzato. FIG. 2. Particolari dell’arco rialzato visibili dalle sezioni longitudinali della navata di San Marco verso sud e vesso nord, Venezia. FIG. 3. Particolari dell’arco rialzato nel nartece alle due estremità nord e sud della facciata occidentale (metà XIII secolo). Basilica di San Marco, Venezia. FIGG. 4-5. Lunette del portale di S. Alipio e di quello settentrionale (porta dei Fiori). Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 6. Gentile Bellini, Processione della reliquia della croce in Piazza San Marco, 1496, Venezia. 177 FIG. 7. Gentile Bellini, le Procuratie del XII secolo, particolare di archi rialzati, Venezia. FIG. 8. Palazzo Pesaro (Fondaco dei Turchi) prima dei restauri ottocenteschi, Venezia. FIG. 9. Palazzo di Diocleziano, facciata sul mare, Spalato. FIG. 10. Planimetria facciata Fondaco dei Turchi, Venezia. FIG. 11. Fondaco dei Turchi dopo il restauro ottocentesco, Venezia. FIG. 12. Planimetria facciata ca’ Farsetti, Venezia. FIG. 13. Ca’ Farsetti, Venezia. FIG. 14. Planimetria facciata ca’ Loredan, Venezia. FIG. 15. Ca’ Loredan. Venezia. FIG. 16. Palazzo Treves De Bonfili, facciata esterna sul rio di San Luca, Venezia. FIG. 17. Palazzo Treves De Bonfili, facciata sulla corte Barozzi, Venezia. FIG. 18. Planimetria facciata Palazzo Treves De Bonfili, Venezia. FIG. 19. Veduta del De Barbari del Palazzo Treves De Bonfili, Venezia. FIG. 20. Domus Querini, Venezia. FIG. 21. Domus Querini: trifora e monofora, particolari dell’arco rialzato cuspidato sia nell’estradosso che nell’intradosso, Venezia. FIG. 22. Planimetria Ca’ da Mosto, Venezia. FIG. 23. Ca’ da Mosto, facciata principale sul Canal Grande, Venezia. FIG. 24. Ca’ da Mosto: formelle che presentano la cuspide sia nell’estradosso che nell’intradosso, Venezia. FIG. 25. Planimetria facciata ca’ Barzizza, Venezia. FIG. 26. Ca’ Barzizza, Venezia. FIG. 27. Planimetria facciata ca’ Businello, Venezia. FIG. 28. Ca’ Businello, Venezia. 178 FIG. 29. Planimetria facciata ca’ Donà, Venezia. FIG. 30. Veduta del De Barberi di ca’ Donà, Venezia. FIG. 31. Proprietà Zancani (ca’ Donà), Venezia. FIG. 32. Planimetria facciata ca’ Donà della Madoneta, Venezia. FIG. 33. Ca’ Donà della Madoneta, Venezia. FIG. 34. Planimetria facciata di ca’ Foscolo, Venezia. FIG 35. Ca’ Foscolo, facciata prima dei restauri, Venezia. FIG. 36. Ca’ Foscolo, facciata odierna, Venezia. FIG. 37. Planimetria di Proprietà Falier, Venezia. FIG. 38. Proprietà Falier, Venezia. FIG. 39. Planimetria ca’ Vitturi, Venezia. FIG. 40. Veduta del De’ Barbari di ca’ Vitturi, Venezia. FIG. 41. Proprietà Vitturi, Venezia. FIG. 42. Planimetria del portico di ca’ Soranzo, Venezia. FIG. 43. Ca’ Soranzo, quadrifora con archi rialzati nell’estradosso, Venezia. FIG. 44. Ca’ Soranzo, facciata su corte interna, Venezia. FIG. 45. Ca’ Soranzo, facciata esterna sul rio della Canonica, Venezia. FIG. 46. Planimetria del portico di ca’ del Papa, Venezia. FIG. 47. Vittore Carpaccio, Liberazione dell’indemoniato a Rialto, 1494-1495. Venezia. FIG. 48. Veduta di Ca’ del Papa del De’ Barbari, Venezia. FIGG. 49-50. Resti dell’originario portico della metà del XII secolo, Venezia. FIG. 51. Chiesa di Sant’Irene di Costantinopoli. Interno verso est. FIG. 52. Monastero di Costantino Lips, Costantinopoli, esterno della chiesa settentrionale. 179 FIG. 53. Chiesa dei Santi Apostoli dell’ Agorà, XI secolo, Atene. FIG. 54. Fatih Cami, Enez (Ainos), l’esonartece da sud-ovest. FIG. 55. Parigoritissa di Arta, esterno da nord-ovest. FIG. 56. Chiesa di Santa Sofia di Ochrida, l’esonartece da ovest. FIG. 57. Particolare del fianco sud del Katholikon del XII secolo. Nauplia, Areías. FIG. 58. Santi Pietro e Paolo Leuktra, trifora dell’abside del XII secolo. FIG. 59. Trifora dell’abside di San Demeytrio di Chánia, Avlonaríon, XII secolo. FIG. 60. S. Nicola, Kanália di Magnisia, particolari di bifore. FIG. 61. Katholicon di Osios Loukas, veduta da sud ovest (incisione del 1853). FIG. 62. Katholicon del monastero della Vergine Zoodochos Pighis, Samari di Messenia, particolare di due icone parietali ad affresco del XII secolo. FIG. 63. Chiesa del Salvatore nel Peloponneso, particolare della facciata, veduta da nord del XII secolo. FIG. 64. Kapnikarea, Atene, particolare del protiro del XII secolo. FIG. 65. Chiesa del Monastero di Nauplia, Areía, particolare del protiro, fianco nord. FIG. 66. Kapnikarea, Atene, veduta frontale e laterale del protiro del XII secolo. FIG. 67. Kapnikarea, Atene, portico occidentale del XII secolo. FIG. 68. Monastero di Areía, Nauplia, trifora dell’abside del XII secolo. CAPITOLO VII - LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO FIG. 1. Fascia affrescata scoperta nel 1963 da Ferdinando Forlati che rappresenta l’Immagine della Vergine fra due Angeli e otto santi. Parete nord, ambiente relativo alla campata dell’altare. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 2. Immagine della Vergine Orante, un’ Assunta fra due Angeli e otto santi. Affresco visibile oggi nella parete nord del Battistero di San Marco, Venezia. 180 FIG. 3. Ermagora è accolto ad Aquileia. Cripta della basilica patriarcale, Aquileia. FIG. 4. Pietro invia Marco ad evangelizzare le Venezie. Cripta della basilica patriarcale, Aquileia. FIG. 5. Deposizione, Chiesa di St. Panteilemon, Gorno (Nerezi). FIG. 6. Veduta dall’alto delle fondazioni, sacello di Sant’Isidoro, 1225 ca., battistero di San Marco, Venezia. FIG. 7. Affresco frammentario dopo lo stacco che presenta tracce di santi, rinvenuto nel 1977 dal proto Angelo Scattolin, battistero, sacello di Sant’Isidoro. Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 8. Madonna allattante, museo marciano, Venezia. FIG. 9. Facciata esterna della Chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia. FIG. 10. Interno della chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia. FIG. 11. Annunciazione, cappella absidale sinistra, San Giovanni Decollato, Venezia. FIG. 12. Morte di Santa Chiara, pannello centrale del Trittico di Santa Chiara, Museo Civico Sartorio, Trieste. FIG. 13. Interno della cappella absidale sinistra di San Giovanni Decollato, Venezia. (Disegno ricostruttivo di Aida Colombo). FIG. 14. Interno della Cappella degli Scrovegni, Giotto, Padova. FIG. 15. Lunetta con Sant’Elena che si affaccia dal balcone del suo Palatium, cappella absidale sinistra, San Giovanni Decollato, Venezia. FIG. 16. Sant’Elena e San Filippo, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo. FIG. 17. Sant’Agnese, Mosaico dell’atrio, Basilica di San Marco, Venezia. FIG. 18. Decorazione musiva dell’Abside e del Ciborio con particolare dell’Annunciazione, Basilica Eufrasiana di Parenzo. FIG. 19. Cristo e simboli degli evangelisti, cappella absidale sinistra, volta a crociera, Chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia. FIG. 20. Frammenti degli abiti di due figure, cappella absidale sinistra. Chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia. 181 FIG. 21. San Michele, affresco ritrovato nella cappella absidale destra, San Giovanni Decollato, Venezia. FIG. 22. San Donato, particolare, Chiesa di Santa Maria e Donato, Murano, Venezia. FIG. 23. Lignum vitae, particolare della cappella absidale maggiore, parete sud, Chiesa di San Francesco, Udine. FIG. 24. Particolare dell’angelo nella scena delle pie donne al sepolcro, Katholikon, Mileševa. FIG. 25. Particolare della Dormizione della Vergine, Chiesa della Trinità, Sopočani. FIG. 26. La Dormizione della Vergine, Chiesa della Trinità, Sopočani. FIG. 27. Gioachino cacciato dal Tempio, Cappella degli Scrovegni, Padova. FIG. 28. Presentazione della Vergine al Tempio, Cappella degli Scrovegni, Padova. FIG. 29. Fascia ornamentale con busti di Santi, Cappella degli Scrovegni, Padova. FIG. 30. Compianto di Cristo, Cappella Orlandini, Chiesa dei Santi Apostoli, Venezia. FIG. 31. Cinque tavole con storie della Vergine. Paolo Veneziano (attrib.), Pinacoteca civica, Pesaro. FIG. 32. Paliotto del Beato Leone Bembo, Paolo Veneziano (attrib.), Dignano d’Istria, San Biagio. FIG. 33. Madonna col bambino, Museo Puškin (già Monastero Donskoj), Museo di Storia della Religione, Mosca. FIGG. 34-35. Tavole con Sant’Andrea e San Matteo, Museo del Duomo, Caorle. 182 REFERENZE FOTOGRAFICHE CAPITOLO I: VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO VENEZIA E BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA FIGG. 1-2. 3 M-Italia FIG. 3. Archivio Santin 2011 FIG. 4. A. Niero in I mosaici di San Marco, Electa 1991 FIGG. 5-6-7. Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio CAPITOLO II: ESPRESSIONI ARTISTICO-CULTURALI DUECENTESCHE NELLA PLATEA MARCIANA FIG. 1. Archivio Santin FIG. 2. G. Ravegnani. Museo Correr, ms. Correr 363, cl. I, nr. 1497, c. 28r FIG. 3. G. Ravegnani. Museo Correr, ms. Correr 363, cl. I, nr. 1497, c. 30r FIG. 4. Pianta W. Dorigo 2003 FIG. 5. Pianta W. Dorigo 1983 FIGG. 6-7. Piante E. Concina 2002 FIG. 8. Pianta E. Concina 1995 FIG. 9. Pianta N. Ghioles 1998 FIG. 10. Pianta Ephesos 1951 FIG. 11. Pianta A. Pellanda (APSM) FIG. 12. Pianta V. Herzner 1997 FIG. 13. Pianta Ongania 1888-1893 183 FIG. 14. E. Concina 2002 FIGG. 15-16-18. Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio FIG. 17. Archivio Santin FIGG. 19-20-21. E. Concina 2002 FIG. 22. Archivio Santin FIGG. 23-24. 3 M-Italia FIG. 25. Archivio Santin FIGG. 26-27-28 Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio 29-30-31. Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio FIG. 32. Pianta E. A. Dale, 1997 FIGG. 33-34-35- Archivio Santin 36-37-38- 3940-41-42-4344. CAPITOLO III: BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA FIGG. 1-2-3. Archivio Santin FIG. 4. O. Demus e G. Tigler in Le sculture esterne di San Marco, Electa 1995 FIGG. 5-6. Archivio Santin FIG. 7. O. Demus e G. Tigler in Le sculture esterne di San Marco, Electa 1995 FIG. 8. B. Bertoli in I mosaici di San Marco, Electa 1991 FIG. 9. O. Demus e G. Tigler in Le sculture esterne di San Marco, Electa 1995 FIG. 10. Archivio Santin FIG. 11. Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio 184 FIGG. 12-13-14- Archivio Santin 15-16-17-18-1920-21-22-23. CAPITOLO IV: PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO FIGG. 1-2. S. Angelucci 1997 in Storia dell’arte marciana FIG. 3. A. Iacobini 1997 in Storia dell’arte marciana FIG. 4. Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio CAPITOLO V: LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E VENEZIA FIGG. 1-2-4-5 6-7-8 Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio FIG. 3. A. Niero in La Pala d’oro e il tesoro di San Marco, Foto Olivetti (Milano) FIG. 9. E. Concina 2002 FIG. 10. Archivio Fotografico Scala CAPITOLO VI: LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL DUECENTO VENEZIANO FIG. 1. J. Ruskin 1874 FIG. 2. Boito, Ongania 1888-1893 FIGG. 3-4-5-6. Archivio Santin FIG. 7. E. Concina in Storia dell’architettura 2003 FIGG. 13-1526-28-31-3338-41-45. Archivio Santin 185 FIGG. 8-9-10W. Dorigo in Venezia romanica 2003 11-12- 16-1718-19-20-21-22 23-24-25-27-29 30-32-34-35-36 37-39-40-42-43 44-46-47-48-49 50. FIGG. 51-5253-54-55-56. FIGG. 57-5859-60-61-6263-64-65-6667-68. E. Concina 2002 CH. BOURAS – L. BOURA, ELLADIKÉ NAODOMĺA KATÁ TǾN 12° AIǾMA, ATHINA 2002 CAPITOLO VII: LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO FIG. 1. F. Forlati in Arte Veneta (XVII) 1963 FIG. 2. Archivio Santin FIGG. 3-4. G. Valenzano in Venezia e Bisanzio 2005 FIG. 5. Archivio Santin FIGG. 6-7. E. Merkel in Storia dell’arte marciana 1997 FIG. 8. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 FIGG. 9-10. Archivio Santin FIG. 11. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 FIG. 12. Archivio Santin FIG. 13. Aida Colombo in Venezia e Bisanzio 2005 FIG. 14. Archivio Santin FIGG. 15-16. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 FIGG. 17-18. Archivio Santin FIGG. 19-20. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 186 FIG. 21. E. Zucchetta, Ritrovare restaurando 2010 FIGG. 22-23. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 FIGG. 24-25-26. E. Concina 2002 FIGG. 27-28. Archivio Santin FIGG. 29-30. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 FIGG. 31-32. Archivio Santin FIGG. 33-34-35. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005 187
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