Novità fiscali

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Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Dipartimento scienze aziendali e sociali
Centro competenze tributarie
Novità fiscali
L’attualità del diritto tributario svizzero
e internazionale
N° 5 – Maggio 2014
Politica fiscale
Ristorni fiscali dei frontalieri: un terreno di caccia elettorale
3
La denuncia dell’Accordo sull’imposizione fiscale dei frontalieri
5
Diritto tributario svizzero
Coniugi: disparità di trattamento in base alla residenza
dei frontalieri
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Diritto tributario italiano
Il regime tributario italiano dei redditi derivanti da attività
di lavoro dipendente prestate all’estero
14
Diritto tributario internazionale e dell'UE
Il blocco dei ristorni da parte del Canton Ticino è veramente
incompatibile con il diritto internazionale?
17
L’Accordo italo-svizzero sui frontalieri del 1974 e la sua
possibile denuncia
31
Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero
Il termine del 31 marzo è determinante per richiedere
all’autorità fiscale delle deduzioni supplementari in ambito
di imposizione alla fonte?
35
Pubblicazioni
Nuovo redditometro e difesa del contribuente
39
Offerta formativa
Seminari e corsi di diritto tributario
40
Introduzione
Novità fiscali
05/2014
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SUPSI
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tributarie
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Sabina Rigozzi
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Samuele Vorpe
Impaginazione e layout
Laboratorio cultura visiva
Ecco a voi una monografica! Questo numero di NF
è interamente dedicato agli aspetti tributari del
frontalierato, fenomeno estremamente importante
sotto il profilo economico e sociale. E fenomeno
che è stato, negli ultimi mesi, al centro di un intenso
dibattito politico nel Cantone Ticino. Dunque,
con l’intento di fare chiarezza, il presente numero
della rivista offre spunti di riflessione sul tema.
A partire dall’analisi di natura politica: l’incipit è rappresentato da due articoli che esaminano le recenti proposte di denuncia dell’Accordo tra Svizzera
ed Italia sulla doppia imposizione e di quello sulla
tassazione dei frontalieri, con due tagli e due tesi
diametralmente opposte: l’uno vergato da Matteo Pronzini e l’altro da Christian Vitta. Sharon Guggiari Salari analizza poi la questione se la disciplina sul trattamento fiscale dei frontalieri coniugati,
oggetto di uno specifico accordo stipulato dalle
autorità competenti svizzera e italiana nel 1985,
sia compatibile con i principi fondanti dell'ordinamento giuridico svizzero. A seguire Roberto Franzè
esamina le speciali discipline fiscali di diritto italiano che regolano la tassazione del reddito dei lavoratori frontalieri. Si passa quindi ad un’analisi della
legittimità giuridica del blocco dei ristorni operato
nel corso dell’anno passato dal Cantone Ticino,
nel quale Partick Schubiger ricostruisce il sistema
normativo di diritto internazionale nel quale la
vicenda del blocco deve essere inquadrata. Stefano
Dorigo si cimenta poi con un giudizio, in punto
di diritto internazionale, sulla denunciabilità del (solo)
Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri.
Infine, Sabina Rigozzi commenta una sentenza pronunciata dal Tribunale federale nel 2013, nella quale
l’Alta Corte si è espressa con riferimento ai termini
per richiedere all’autorità fiscale di operare una
correzione dell’imposta alla fonte gravante sul reddito di un frontaliere.
Paolo Arginelli
Politica fiscale
Ristorni fiscali dei frontalieri: un terreno
di caccia elettorale
Matteo Pronzini
Deputato MPS al Gran Consiglio
Sindacalista, membro della direzione nazionale
del settore industria del sindacato Unia
Breve analisi, sul metodo e nel merito, delle recenti proposte di denuncia dell’Accordo tra Svizzera ed Italia sulla doppia imposizione
1.
Sul metodo
Sono stato l’unico deputato del Gran Consiglio che ha votato
contro l'iniziativa cantonale che chiede al governo federale di
disdire l'accordo con l'Italia sulla doppia imposizione, accordo
all'interno del quale vi è anche l'accordo relativo ai frontalieri che
lavorano in Ticino e la questione dei ristorni fiscali ai Comuni nei
quali abitano i frontalieri (quelli perlomeno oggetto dell'accordo).
La mia posizione non contesta certo la legittimità del governo
federale di disdire un accordo internazionale: suscitano in me
invece perplessità e opposizione modi e tempi con i quali questo dibattito viene affrontato.
Non vi sono infatti dubbi che questa discussione sulla imposizione dei lavoratori frontalieri in Ticino assume un senso solo
se inserita nell'ambito della campagna dai contorni xenofobi
che buona parte delle forze politiche sta ormai conducendo da
tempo attorno ai salariati frontalieri.
Obiettivo evidente è quello di spostare il centro dell'attenzione dai problemi essenziali che l'utilizzazione padronale della
manodopera frontaliera, favorita dagli accordi bilaterali e dalla
liberalizzazione del mercato del lavoro, sta creando in Ticino.
In particolare la questione del dumping salariale e sociale che
si manifesta attraverso una tendenza generale alla diminuzione dei salari e ad un'utilizzazione della manodopera frontaliera
come elemento di riorganizzazione e di divisione dei salariati.
Rispondere a questi problemi significherebbe riconoscere la dinamica messa in atto dagli accordi bilaterali e rimettere in discussione il diritto assoluto del padronato in materia salariale e
di condizioni di lavoro. Si preferisce invece alimentare sentimenti
xenofobi attraverso la discussione sul tema del ristorno delle imposte dei frontalieri: l'idea che viene alimentata è che i lavoratori
frontalieri non solo "rubino" posti di lavoro e accettino condizioni
di salario più basse, ma "rubino" anche una parte delle imposte
che vengono prelevate e ristornate ai loro Comuni di residenza.
2.
Nel merito
Di per sé, come detto, non vi è nulla di censurabile nella richiesta di rinegoziare l'accordo sulla fiscalità dei frontalieri, in
particolare per il fatto che si tratta di un vecchio accordo e,
come tutti gli accordi, sicuramente necessita di essere adeguato all'evoluzione dei tempi.
Le ragioni che vengono portate a sostegno della tesi della rinegoziazione dell’Accordo sull'imposizione dei frontalieri sono
negli ultimi tempi assai cambiate. Accanto a questioni di principio, quali la reciprocità, vi erano ragioni più, diciamo così,
"venali”, in particolare l'idea di poter "fare cassa" a favore delle
finanze del Cantone. Questo obiettivo è stato per lungo tempo legato alla proposta di "ristornare meno" ai Comuni italiani
di residenza dei frontalieri. Poi, più di recente, pare prevalere
l'idea dell'abbandono di un accordo sulla doppia imposizione
e di "abbandonare" i frontalieri al loro destino fiscale, sottoponendoli così ad una doppia imposizione, nel luogo di lavoro (in
Ticino) e nel luogo di residenza (il loro Comune).
A onor del vero solo la richiesta relativa all'introduzione del
principio di reciprocità appare pertinente. È vero, infatti, che
un certo numero di persone residenti in Ticino lavora quotidianamente al di là della frontiera. Appare quindi giusto che il
loro trattamento fiscale sia uguale a quello riservato ai residenti italiani della zona di frontiera che ogni giorno vengono a
lavorare in Ticino.
Sono invece discutibili (e frutto del clima politico) le altre due
strade percorse, come detto, in tempi diversi.
Cominciamo con la questione dell'ammontare del ristorno.
Come noto, l'accordo tra Svizzera e Italia del 1974 (poi modificato nel 1985) prevede che il 38.8% del totale delle imposte
pagate dai frontalieri in Svizzera venga ristornato ogni anno ai
Comuni di frontiera (nel raggio di 20 km) nei quali i frontalieri
sono domiciliati. Di conseguenza poco meno del 62% di queste
imposte resta al Ticino. La somma versata ai Comuni italiani
supera di poco i 50 milioni di franchi annui, al Ticino restano
circa 75 milioni.
3
4
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
È noto a tutti, e su questo non pensiamo che vi siano possibili
discussioni, che le imposte prelevate sul reddito di chi lavora debbano servire a finanziare le attività dello Stato. Strade,
ospedali, amministrazione pubblica, scuole, sicurezza, socialità. Sono gli aspetti fondamentali finanziati attraverso i proventi fiscali. Se prendiamo come esempio il classico frontaliere,
residente nella provincia di Varese, che ogni mattina entra dal
valico del Gaggiolo per andare a lavorare in una delle numerose fabbriche della zona industriale di Stabio, di quali servizi
offerti dallo Stato svizzero questi può beneficiare?
Non certo delle scuole (i figli studiano in Italia), non certo
dell'amministrazione pubblica (un certificato, un documento
d’identità, deve recuperarli in Italia), nemmeno del servizio
sanitario cantonale (ospedali), e neanche della sicurezza sociale (viene finanziata attraverso prelievi ad hoc - come per
AVS, INSAI, eccetera), né tantomeno dei sussidi ad essa legati
(pensiamo a quelli relativi ai premi dell'assicurazione malattia).
Infine, il frontaliere non fa nemmeno un grande uso di strade e
infrastrutture pubbliche visto che, nel caso in questione, utilizza poche centinaia di metri per recarsi al lavoro.
Per l'utilizzazione di tutto questo (cioè poco o nulla) lascia al
Ticino il 62% delle imposte prelevate sul proprio salario. Non ci
pare che finora qualcuno abbia portato un solo argomento (e
diciamo uno) che dimostri che il Ticino, per le prestazioni che
offre ai frontalieri attraverso le attività finanziate dagli introiti
fiscali, debba prelevare una quota maggiore dell'attuale 62%.
Ora, come detto, la maggioranza sembra orientata verso una
soluzione di doppia imposizione, partendo dall'idea di fondo
che questo modo di procedere porterebbe più entrate sia al
Ticino che ai Comuni di residenza dei frontalieri.
A questa argomentazione se ne è aggiunta una più recente e
viziosa: e cioè che questo maggiore onere fiscale "scoraggerebbe" i lavoratori frontalieri dall’accettare salari eccessivamente
bassi e quindi, si aggiunge, sarebbe un'arma contro il dumping
salariale.
Lasciamo da parte quest’ultima ingenuità (al massimo aiuterebbe l’ulteriore sviluppo del pagamento in nero dei salari).
Quello che ci pare di poter contestare è l'idea di fondo che, aggravando l'onere fiscale di una cospicua categoria di salariati
attivi in Ticino (che non sono certo i meglio pagati) si farebbe
un lavoro di "redistribuzione", qualcosa di "socialmente equo".
A me pare che questo ragionamento, e lo dico come uomo di
sinistra e sindacalista, debba assolutamente essere rifiutato: è
un altro pericoloso seme di divisione e di odio che serve solo a
favorire l'immobilismo dei salariati e la perennità degli interessi
del padronato.
La guerra "italo-svizzera", ne siamo sicuri, continuerà, alimentata da chi pensa che possa rendere elettoralmente. La verità,
come detto, è che in questo periodo, di fronte alla crisi sociale
accelerata da fenomeni come il dumping salariale e in vista delle elezioni cantonali, fa comodo diffondere sentimenti xenofobi che individuano nei lavoratori frontalieri il classico capro
espiatorio.
Su questo terreno né io, né il Movimento per il Socialismo possiamo esserci!
Elenco delle fonti fotografiche:
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images/1327857-frontalieri.jpg [26.05.2014]
Politica fiscale
La denuncia dell’Accordo sull’imposizione
fiscale dei frontalieri
Christian Vitta
Deputato al Gran Consiglio,
capogruppo del PLRT
Le ragioni politiche per sostenere l’iniziativa cantonale
di denuncia dell’Accordo
1.
Introduzione
Per il ruolo svolto dall’autore sottoscritto nella politica cantonale le considerazioni che seguono dovrebbero essere di
natura prevalentemente politica. Altri specialisti, come il Prof.
Marco Bernasconi e il Prof. Samuele Vorpe, attivi peraltro a
vario titolo nell’insegnamento e nella ricerca proprio nella SUPSI, si sono già pronunciati con chiarezza sugli aspetti
economico-fiscali della questione dell’imposizione fiscale dei
frontalieri attivi nel Cantone Ticino, conferendo una solida legittimità all’iniziativa promossa dal Gruppo liberale radicale in
Gran Consiglio per chiedere al Consiglio federale di denunciare
l’Accordo che regola questa imposizione fiscale.
Per essere precisi, gli accordi sono (materialmente) due, uno
considerato parte integrante dell’altro. Il primo accordo in
ordine di tempo è proprio l’Accordo tra la Svizzera e l’Italia
relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine (di seguito Accordo), concluso il 3 ottobre 1974, approvato
dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978, entrato in vigore il
27 marzo 1979 ma con effetto retroattivo a decorrere dal 1.
gennaio 1974. In questo Accordo di 6 articoli si rinviava a una
“Convenzione da stipularsi tra l’ Italia e la Svizzera per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte del reddito e sul patrimonio” di
cui esso sarebbe stato parte integrante. Questa Convenzione
tra la Confederazione Svizzera e la Repubblica Italiana per evitare le doppie imposizioni e per regolare talune altre questioni
in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio (di seguito
Convenzione), di 31 articoli e un Protocollo aggiuntivo, è stata conclusa solo il 9 marzo 1976, è stata approvata dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978 ed è entrata in vigore alla
stessa data dell’Accordo sopramenzionato, il 27 marzo 1979.
Di questa Convenzione, la norma rilevante, ai fini dell’imposizione fiscale dei frontalieri, è quella recata dall’articolo 15
capoverso 4[1] , che rinvia appunto all’Accordo già citato, i cui
articoli sono considerati parte integrante anche della Convenzione per evitare le doppie imposizioni. Questo aspetto non è
secondario, poiché secondo taluni commentatori sarebbe da
escludere la possibilità di denunciare l’Accordo senza denunciare la Convenzione, certamente più complessa da (ri)elaborare, anche perché va ben oltre la semplice regolamentazione
dell’imposizione del reddito da lavoro dipendente. Tale giudizio
è però messo in dubbio da altri.
2.
L’iniziativa cantonale di denuncia dell’Accordo
indirizzata all’Assemblea federale
La proposta approvata dal Parlamento e indirizzata in forma di
iniziativa cantonale all’Assemblea federale chiede di denunciare l’Accordo. Le ragioni sono quelle ben messe in evidenza dai
due studiosi sopra citati, riprese nelle argomentazioni portate
nel dibattito parlamentare e qui brevemente riassunte. Prima di tutto, la disciplina pubblicistica del lavoro in Svizzera dei
frontalieri è stata modificata con l’entrata in vigore degli accordi di libera circolazione con l’Unione europea (anche se l’esito della votazione federale del 9 febbraio scorso potrebbe avere un effetto su tale disciplina, in particolare qualora dovessero
cadere tali accordi di libera circolazione). Inoltre, l’Accordo aveva un senso nel 1974, allorché l’allora vigente legge tributaria
italiana esentava da tassazione il reddito di lavoro conseguito
all’estero da persone fisiche residenti in Italia, mentre a partire
dal 1. gennaio 2003 tale norma è stata abrogata e l’Italia ha da
allora le basi legali per imporre fiscalmente i frontalieri. Per di
più, e questo è un elemento di particolare rilevanza socio-economica e politica, l’imposizione in Svizzera sul reddito conseguito dai frontalieri italiani è molto più favorevole di quella che
avverrebbe a parità di reddito in Italia, elemento questo che
costituisce un fattore di irresistibile attrazione per la massa
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Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
di manodopera della vicina Lombardia e del Piemonte, soprattutto in un momento in cui l’economia italiana ha evidenti
problemi: per un frontaliere poter lavorare in Ticino significa,
pur scontando i disagi e le maggiori spese di trasferta, poter
godere di un maggior reddito rispetto a quello mediamente
ritraibile in Italia e, per di più, minori imposte da pagare. Ciò
crea una forte pressione sul mercato del lavoro in Ticino, con la
disponibilità di manodopera sovra-qualificata che si accontenta, nei settori economici in cui non vigono contratti collettivi
d’obbligatorietà generale, anche di salari assolutamente non
competitivi per i residenti ticinesi, obbligando poi lo Stato a intervenire con l’introduzione, sempre discutibile sul piano strettamente economico, di stipendi normali. Non da ultimo, anche
se questo potrebbe costituire più un problema per l’Italia che
per il Ticino, si crea anche una disparità di trattamento con i
lavoratori italiani che esercitano la loro attività in Svizzera e
che risiedono oltre la fascia di frontiera dei 20 km (fascia a cui
si applica la disciplina recata dall’Accordo), i quali sono assoggettati ad imposta (anche) in Italia.
seguito Cost.)[3]. Essa è stata trattata dal Parlamento cantonale sulla scorta dell’articolo 102 della Legge sul Gran Consiglio e sui rapporti con il Consiglio di Stato[4] e, malgrado qualche riserva espressa soprattutto da parte del gruppo socialista
a tutela dei frontalieri, che rischiano in tal modo di ricevere un
aggravio dell’imposizione fiscale complessiva, è stata approvata all’unanimità.
Resta da vedere come l’iniziativa cantonale sarà valutata a livello federale. La richiesta del Cantone ha carattere urgente,
in quanto i termini per la disdetta scadono 6 mesi prima della
fine di ogni anno solare, dunque a fine giugno. La procedura
formale, secondo l’articolo 116 della Legge federale sull’Assemblea federale del 13 dicembre 2002[5] , prevede un esame
preliminare e il passaggio attraverso le commissioni delle Camere. Un iter pertanto abbastanza laborioso al quale si deve
aggiungere l’ostruzionismo del Consiglio federale, o perlomeno del Dipartimento federale delle finanze che, per bocca
della sua direttrice, la Consigliera federale Eveline WidmerSchlumpf, ha ripetutamente rifiutato di entrare nel merito di
una denuncia dell’Accordo, argomentando che la denuncia di
questo comporterebbe anche la denuncia della Convenzione,
in relazione alla quale le questioni in gioco sono molteplici e
più complesse.
Resistenze indirette vengono naturalmente anche dai Comuni
di frontiera in Italia, che finora hanno approfittato dei riversamenti e ne sarebbero in futuro privati. Senza gli stessi riversamenti, essi avrebbero comunque margini nell’imposizione
fiscale complessiva e, in ultima analisi, potrebbero comunque
profittare indirettamente della residenza di persone che hanno un’occupazione e redditi ben superiori a quelli che mediamente si guadagnano in Italia.
Obiettivo della denuncia dell’Accordo è l’imposizione del reddito da attività lucrativa dipendente del frontaliere dove tale
reddito viene conseguito, ossia in Svizzera, in particolare in
Ticino, come avviene ora, senza però il riversamento previsto dall’articolo 2 dell’Accordo[2] , secondo le usuali regole
per evitare la doppia imposizione. Nel caso di una eventuale
tassazione in Italia del reddito complessivo, il frontaliere potrà evidentemente far valere il credito per le imposte versate
in Svizzera. Per il Cantone Ticino si tratterebbe ovviamente di
incamerare un importo attualmente attorno ai 60 milioni di
franchi all’anno. D’altra parte si può ben dire che, a fronte delle
spese sostenute dai Comuni italiani a causa dei frontalieri che
risiedono sul loro territorio (spese di urbanizzazione, eccetera),
debbano anche essere prese in considerazione le spese che il
Cantone Ticino e i suoi Comuni devono sostenere per assicurare l’accesso giornaliero di 60'000 frontalieri, soprattutto
nel Mendrisiotto e nel Sottoceneri (strade, parcheggi, trasporti
pubblici, eccetera).
Sul piano della politica cantonale, occorre dire subito che la
proposta presentata dal Gruppo liberale radicale al Gran Consiglio nella sessione di fine gennaio raccoglieva pure, come è
stato riconosciuto anche nell’intervento alla tribuna del Gran
Consiglio, una serie di atti sull’oggetto presentati negli anni
passati nell’aula parlamentare anche da altri gruppi politici o
da singoli deputati. L’iniziativa cantonale proposta è regolata dall’articolo 160 capoverso 1 della Costituzione federale (di
Malgrado le predette resistenze, il Gruppo liberale radicale e,
ormai, anche il Parlamento cantonale non intendono mollare
la presa. Gli aspetti finanziari in gioco non sono indifferenti
per il nostro Cantone. In particolare, il Gruppo liberale radicale continua ad esercitare pressione, attraverso i deputati del
partito (a livello svizzero) al Parlamento federale. Allo stesso
modo sono impegnati anche i deputati ticinesi degli altri partiti. La questione trascende infatti i confini partitici e persino
anche cantonali, poiché anche Vallese e Grigioni avrebbero
da trarre vantaggio da una forma d’imposizione fiscale aggiornata. Si spera solo che finalmente il Consiglio federale e
l’Assemblea federale prendano coscienza dell’esistenza di un
problema non indifferente per i Cantoni confinanti con l’Italia
e diano finalmente un segnale convincente di attenzione per
le loro problematiche.
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.liberatv.ch/sites/default/files/styles/grande_628/public/topimage/TiPress_198778.jpg?itok=ibUhMrOp [26.05.2014]
http://www.vais.ch/sites/default/files/imagecache/colorbox-zoom/notizie/Stemma-Italia-Svizzera.jpg [26.05.2014]
[1] Detto capoverso 4 recita: “Il regime fiscale applicabile ai redditi ricevuti in corrispettivo di un’attività
dipendente dei lavoratori frontalieri è regolato dall’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo alla imposizione
dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine, del 3 ottobre 1974, i cui articoli da 1 a 5 costituiscono parte
integrante della presente Convenzione”.
[2] Secondo l’articolo 2 dell’Accordo, “Ognuno dei
Cantoni dei Grigioni, del Ticino e del Vallese verserà
ogni anno a beneficio dei Comuni italiani di confine una
parte del gettito fiscale proveniente dalla imposizione
– a livello federale, cantonale e comunale – delle rimunerazioni dei frontalieri italiani, come compensazione
finanziaria delle spese sostenute dai Comuni italiani a
causa dei frontalieri che risiedono sul loro territorio ed
esercitano un’attività dipendente sul territorio di uno
dei detti Cantoni”.
[3] Secondo l’articolo 160 capoverso 1 Cost., “Ciascun membro del Parlamento, ciascun gruppo, ciascuna commissione parlamentare e ciascun Cantone ha il
diritto di sottoporre iniziative all'Assemblea federale”.
[4] Tale articolo prevede quanto segue: “1. I deputati al Gran Consiglio e il Consiglio di Stato possono proporre, nella forma della risoluzione, l’esercizio
dei diritti di convocazione straordinaria del Consiglio
nazionale e del Consiglio degli Stati, di iniziativa e referendum che la Costituzione federale attribuisce al
Cantone. 2. La proposta di risoluzione è presentata per
iscritto; il firmatario può motivarla oralmente. 3. Dopo
discussione, il Gran Consiglio delibera entro breve termine sulla proposta, salvo che decida di sentire l’avviso
preliminare di una sua Commissione o del Consiglio di
Stato”.
[5] Il testo di detto articolo è il seguente: “1. Le iniziative cantonali sottostanno a un esame preliminare.
2. All'esame preliminare si applicano per analogia le
disposizioni dell'articolo 110. 3. La decisione di dare seguito all'iniziativa richiede il consenso delle commissioni
competenti di ambo le Camere. Se una commissione non
dà il proprio consenso, la decisione spetta alla Camera.
Se anche la Camera non dà il proprio consenso, l'iniziativa è trasmessa all'altra Camera. La seconda decisione
di rifiuto da parte di una Camera è definitiva. 3bis. Per
le commissioni si applicano i termini di cui all'articolo
109 capoversi 2 e 3bis. 4. Nell'ambito dell'esame preliminare, la commissione della Camera prioritaria sente
una rappresentanza del Cantone”.
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Diritto tributario svizzero
Coniugi: disparità di trattamento in base
alla residenza dei frontalieri
Sharon Guggiari Salari
Master of Advanced Studies SUPSI in Tax Law
Avvocato e notaio in Lugano, SGSLEX
Analisi dell’accordo sottoscritto nel 1985 dalla delegazione svizzera e quella italiana nell’ambito dell’applicazione della Convenzione internazionale per evitare le
doppie imposizioni tra Italia e Svizzera
stesso ovunque prodotto. Ciò al fine di rispettare la progressività
dell’imposizione sui redditi. Inoltre poiché in Svizzera vige il criterio
del cumulo familiare, il reddito della moglie deve essere aggiunto ai
fini dell’imposizione a quello del marito.
1.
Introduzione
L’8 e 9 luglio 1985 si svolse a Lugano una riunione delle delegazioni svizzera e italiana al fine di trovare una soluzione
per alcune problematiche sorte nell’ambito dell’applicazione
della Convenzione per evitare le doppie imposizioni tra l’Italia e la Svizzera (di seguito CDI-I). Nel corso di tale riunione
si raggiunse un accordo su vari temi che venne formalizzato
nel verbale del 1985 (di seguito Verbale 1985). Esso regolava
essenzialmente 5 punti:
La delegazione italiana, pur condividendo l’esigenza della progressività dell’imposizione, ha espresso l’avviso che le disposizioni contenute nella Convenzione non consentono d’imputare ad un soggetto
percettore di redditi di fonte svizzera, seppure soltanto ai fini della
determinazione dell’aliquota, il reddito di un altro soggetto non residente di cui, tra l’altro, egli non ha piena ed assoluta disponibilità e il
cui diritto d’imposizione viene attribuito dalla Convenzione esclusivamente all’Italia.
1) la nozione di lavoratore frontaliere e la riduzione della percentuale del ristorno;
2) la non applicazione del principio del cumulo dei redditi ai
coniugi residenti nella fascia di confine di cui uno lavora in
Svizzera e l’altro in Italia;
3) le pensioni di fonte italiana di natura privatistica;
4) la non applicazione della normativa procedurale italiana sul
silenzio/rifiuto in materia delle richieste di rimborso delle
imposte alla fonte ai cittadini svizzeri;
5) i termini di rimborso delle imposte alla fonte prelevate
dall’Italia.
Tale accordo venne firmato dal Ministro delle Finanze della
Repubblica Italiana e dal Capo del Dipartimento delle Finanze
della Confederazione Elvetica[1].
Il presente articolo verterà esclusivamente sull’esame della seconda trattanda (concernente la non applicazione del cumulo
dei redditi). A tal proposito il Verbale 1985 recita quanto segue:
“In ordine ai criteri di tassazione in vigore in Svizzera nei confronti dei
lavoratori frontalieri il cui coniuge sia percettore di redditi in Italia, la
delegazione svizzera ha precisato che la propria legislazione locale
stabilisce in pratica che nella tassazione dei «fattori» di rendita imponibili in Svizzera di un soggetto non residente, l’imposta deve essere
calcolata con l’aliquota applicabile al reddito complessivo del soggetto
Tenuto conto delle argomentazioni addotte dalle due delegazioni ed
in considerazione del fatto che il «cumulo familiare» dei redditi è attualmente oggetto di un vasto dibattito in Svizzera, si è giunti alla
conclusione che i criteri cumulativi di tassazione di cui sopra non saranno applicati nei confronti della coppia di lavoratori di cui uno sia
percettore di reddito in Italia qualora tale reddito sia quivi tassabile in
modo esclusivo e ciò a decorrere dal 1.1.1986.
La delegazione italiana ha fatto rilevare che la soluzione adottata per
i lavoratori frontalieri non risolve i problemi analoghi che si pongono
per l’applicazione dei criteri di cumulo familiare agli altri lavoratori
italiani in Svizzera il cui coniuge residente in Italia sia ivi percettore di
reddito da lavoro dipendente. La delegazione svizzera non può condividere questa constatazione”.
In sostanza, a seguito della sottoscrizione del precitato Verbale
1985, a partire dal 1. gennaio 1986, la Svizzera smise di applicare il principio del cumulo dei redditi ai coniugi residenti nella
fascia di confine di cui uno lavori in Svizzera e l’altro in Italia.
È bene sottolineare che né la CDI-I né l’Accordo tra la Svizzera e l'Italia relativo all'imposizione dei lavoratori frontalieri ed
alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di
confine (di seguito Accordo), del 3 ottobre 1974, prevedono
delle disposizioni particolari in materia di cumulo dei redditi dei
coniugi. È legittimo che nell’ambito della procedura amichevole prevista dalla CDI-I le autorità competenti raggiungano un
accordo che disciplini un aspetto non regolato dalla CDI-I ed in
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
contrasto con il diritto interno svizzero che prevede il cumulo
dei redditi per i coniugi?
Prima di rispondere a tale domanda verrà velocemente illustrato il sistema d’imposizione del cumulo dei redditi per capirne la portata e la rilevanza del gettito fiscale che ne deriva.
2.
Il cumulo dei redditi per le coppie coniugate
2.1.
Il principio del cumulo dei redditi
Secondo il diritto fiscale svizzero, il reddito dei coniugi, non
separati legalmente o di fatto, è cumulato qualunque sia il regime dei beni (ex articolo 9 capoverso 1 della Legge federale
sull'imposta federale diretta [di seguito LIFD], articolo 3 capoverso 3 della Legge federale sull'armonizzazione delle imposte
dirette dei Cantoni e dei Comuni [di seguito LAID] e articolo 8
capoverso 1 della Legge Tributaria del Cantone Ticino [di seguito LT]). Ciò significa che, sotto il profilo giuridico, i coniugi
formano un’unità fiscale. Per determinare l’onere fiscale i redditi e la sostanza dei coniugi vengono cumulati e a tale somma
si applica un’unica aliquota.
A causa della forte progressione delle aliquote nelle imposte dirette, il cumulo dei redditi spesso comporta un aumento
dell’imposizione della coppia dopo il matrimonio. Per attenuare
questo effetto, la legislazione prevede delle aliquote più favorevoli per i coniugi (ex articolo 36 capoverso 2 LIFD, articolo 11
capoverso 1 LAID e articolo 35 capoverso 2 LT) e l’applicazione
di deduzioni sociali e/o di deduzioni speciali per i coniugi che
conseguono un doppio reddito (ex articolo 33 capoverso 2 LIFD,
articolo 9 capoverso 2 lettera k LAID, articolo 32 lettera h LT).
Tuttavia, in determinate circostanze, tali provvedimenti non
sono stati sufficienti per attenuare la maggiore imposizione
dovuta al cumulo dei redditi. La tabella sotto mostra le differenze d’imposizione per una coppia prima e dopo il matrimonio nel caso in cui il salario lordo per ciascun membro della
coppia ammonti a 100'000 franchi annui. Le imposte dovute prima del matrimonio da ogni membro della coppia ammontano a 14'428 franchi, per un totale (a livello di coppia)
di 28'856 franchi. Dopo il matrimonio le imposte dovute dai
coniugi ammontano a 32'975 franchi, un aumento del 13.65%
dell’imposizione, che a livello dell’imposta federale diretta supera il 70% (vedi Tabella 1).
A livello cantonale l’aumento è minimo, in quanto nel lontano
1984, il Tribunale federale (di seguito TF) aveva pronunciato la
famosa sentenza Hegetschweiler[2] , nella quale aveva ritenuto che la legge tributaria zurighese violasse il principio di parità
di trattamento sancito nella Costituzione federale (di seguito
Cost.), nella misura in cui – per i redditi elevati – pregiudicava senza un motivo sostenibile i coniugi rispetto ai concubini.
Questa è stata una delle sentenze più importanti che la nostra
Alta Corte abbia mai emesso in ambito fiscale. Infatti, a seguito di questa sentenza, tutti i Cantoni hanno dovuto adeguare
le proprie aliquote affinché i coniugi non fossero discriminati
rispetto alle coppie che vivevano in concubinato. Per contro a
livello federale nulla è cambiato. Questo è dovuto al fatto che il
TF non può verificare la costituzionalità delle leggi federali (ex
articolo 190 Cost.) e dunque, a livello d’imposta federale diretta, sussiste a tutt’oggi una notevole disparità di trattamento
tra le coppie che vivono in concubinato e le coppie coniugate.
Fintanto che il Parlamento non deciderà di modificare la LIFD,
i nostri tribunali saranno costretti ad applicare tale normativa
anticostituzionale e anacronistica che rappresenta un unicum
in Europa e che garantisce alla Confederazione una fonte di
entrata non indifferente. Basti pensare che quando il Consiglio
federale, nel pacchetto fiscale 2001, propose il sistema dello
splitting per evitare la maggiore imposizione delle coppie coniugate[3] , nel messaggio venne stimato che la riduzione del
gettito fiscale sarebbe ammontata a 1.3 miliardi di franchi
e che tale importo equivaleva ad oltre un quinto del gettito
dell’imposta federale diretta delle persone fisiche per gli anni
2000 e 2001[4]. Il solo pacchetto fiscale per le misure immediate nell’ambito dell’imposizione dei coniugi, entrato in vigore
il 1. gennaio 2008, ha comportato minori entrate per 650 milioni di franchi[5] e, nonostante ciò, il problema della maggiore
imposizione dei coniugi continua a sussistere per circa 80'000
coppie[6]. Queste cifre evidenziano che gli interessi in gioco
non sono indifferenti e che purtroppo manca il consenso politico per modificare una situazione del tutto insoddisfacente
sotto il profilo legale ed etico.
Tabella 1
Persona sola
Coppia
Coniugi
Diff.
%
LIFD
2’108
4’216
7’453
3’237
76.78%
LT
7’247
14’494
14’907
413
2.85 %
Comune
5’073
10’146
10’435
289
2.85 %
Totale
14’428
28’856
32’975
3’939
13.65%
9
10
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
2.2.
Il cumulo dei redditi nell’imposta alla fonte
Le disposizioni relative all’imposta alla fonte prevedono
espressamente che le aliquote riguardanti i coniugi che vivono
in comunione domestica ed esercitanti entrambi un’attività
lucrativa, debbano essere calcolate secondo tariffe che tengono conto del cumulo dei redditi (ex articolo 86 capoverso 2
LIFD, articolo 33 capoverso 2 LAID e articolo 107 capoverso 2
LT). Il principio del cumulo dei redditi va dunque applicato indipendentemente da dove un coniuge svolge la propria attività
lavorativa[7].
Nell’ambito dell’imposta alla fonte (imposta che per sua natura
deve essere semplice e di facile applicazione) il cumulo dei redditi è determinato in maniera forfettaria. Nella lettera-circolare emessa dalla l’Amministrazione federale delle contribuzioni
(di seguito AFC), viene spiegato come applicare il principio del
cumulo del reddito. Fondamentalmente si parte dal presupposto che i coniugi contribuiscano in ugual misura all’economia
domestica e viene attribuito un tetto massimo del reddito da
cumulare di 5'425 franchi[8].
A partire dal 1. gennaio 2014 è entrata in vigore la modifica
dell’Ordinanza dell’imposta alla fonte. Lo scopo principale di
tale modifica è stato quello di armonizzare i vari tipi di tabelle
da applicare in tutta la Svizzera. Per i coniugati possono applicarsi 3 tariffe[9]:
◆ la tabella B si applica solo se un coniuge lavora (oppure l’altro svolge unicamente un’attività accessoria);
◆ la tabella C si applica se entrambi i coniugi lavorano;
◆ la tabella F si applica ai frontalieri residenti nella fascia di
confine di cui un coniuge lavora in Svizzera e l’altro in Italia.
Lo schema riportato sotto, mostra le differenze nella determinazione del calcolo delle aliquote. Si evince che nella tabella F
non si applica il principio del cumulo dei redditi nonostante si
utilizzi in ogni caso l’aliquota privilegiata (che ricordo era stata introdotta all’epoca proprio per attenuare il problema della
maggiore imposizione dei coniugi dovuta al cumulo dei redditi
e alla forte progressione delle aliquote). Il fatto che la tabella
F non tenga conto del cumulo dei redditi è una conseguenza
dovuta all’accordo raggiunto nel Verbale 1985 (vedi Tabella 2).
2.3.
L’applicazione del cumulo dei redditi nelle fattispecie
internazionali
Nel lontano 1949 il TF aveva stabilito che nel caso di due coniugi domiciliati all’estero, ove la moglie era proprietaria di un
immobile in Svizzera, il reddito derivante da tale immobile di
proprietà della moglie andava imposto all’aliquota dei redditi
complessivi realizzati dai coniugi (in Svizzera e all’estero)[10]. Il
TF spiegava che il computo dell’aliquota sulla base del reddito e
della sostanza complessiva del marito e della moglie trovava la
sua giustificazione nell’incremento della capacità contributiva
risultante dal fatto che, in costanza di matrimonio, sostanza e
reddito di ambedue i coniugi concorrono alle spese dell’economia domestica.
In generale, nelle fattispecie internazionali in cui si applicano
le convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni (di seguito CDI), i tribunali svizzeri hanno sempre e ripetutamente sostenuto che anche se solo un coniuge è assoggettato alle imposte in Svizzera (ad esempio nel caso in cui
un coniuge lavori in Svizzera e l’altro all’estero), per determinare l’aliquota applicabile, bisogna sempre tenere in considerazione l’insieme dei redditi dei coniugi (in virtù dell’articolo
7 capoverso 1 LIFD, articolo 3 capoverso 3 LAID e articolo 6
capoverso 1 LT)[11].
Si ricorda che la Svizzera, nelle proprie CDI, come metodo per
l’eliminazione della doppia imposizione per i redditi da attività
lucrativa dipendente, propone sempre la clausola dell’esenzione con riserva di aliquota ossia esenta i redditi per i quali si
potrebbe verificare una doppia imposizione ma ne tiene conto
per definire l’aliquota. La CDI-I non fa eccezione (articolo 24
capoverso 3 CDI-I).
Pertanto, in tutte le fattispecie con una componente di internazionalità e dove i coniugi siano assoggettati alle imposte in
Svizzera in maniera parziale, per consolidata giurisprudenza,
la Svizzera impone solo il reddito per il quale ha la potestà impositiva secondo la CDI applicabile ma all’aliquota complessiva
dell’insieme dei redditi conseguiti dai coniugi[12].
3.
La trattanda 2 del Verbale 1985 viola il principio
della legalità sancito nella Costituzione?
3.1.
Natura giuridica del Verbale 1985
Il Verbale 1985 è il risultato di un accordo raggiunto nell’ambito di una procedura amichevole prevista dall’articolo 26 capoverso 3 CDI-I. In generale, le CDI prevedono due tipi di procedura amichevole:
◆ la procedura amichevole su richiesta del contribuente, denominata anche procedura amichevole in senso stretto (ex
articolo 25 capoverso 1 del Modello di Convenzione OCSE
e articolo 26 capoverso 1 CDI-I), e
Tabella 2
Aliquota Privilegiata
Cumulo
Deduzioni per doppio reddito
Tabella B
Sì
No
No
Tabella C
Sì
Sì
Sì
Tabella F
Sì
No
No
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
◆ la procedura amichevole d’ufficio, denominata anche procedura di consultazione o procedura amichevole in senso
lato (ex articolo 25 capoverso 3 del Modello di Convenzione OCSE e articolo 26 capoverso 3 CDI-I).
Quest’ultima viene avviata dai due Stati contraenti allorquando sussistano difficoltà inerenti a dubbi di interpretazione o
relativi all’applicazione della convenzione medesima.
Il Verbale 1985 è stato redatto nell’ambito di una procedura
amichevole in senso lato.
Secondo la dottrina, un accordo raggiunto nell’ambito di una
procedura amichevole in senso stretto, rappresenta un accordo internazionale di carattere amministrativo definito anche
accordo di diritto pubblico secondario (sekundäres Völkerrecht).
Fondamentalmente trattasi di documento nel quale le amministrazioni di due Stati concordano l’esecuzione di accordi già
esistenti[13].
Per contro, la dottrina svizzera non specifica la qualifica giuridica relativa agli accordi raggiunti nell’ambito di una procedura amichevole in senso lato. In diritto italiano si tende ad
equiparare tale accordo ad una risoluzione o circolare, atto di
natura amministrativa emanato dagli organi amministrativi
supremi[14].
Personalmente ritengo che un accordo, raggiunto nell’ambito di una procedura amichevole in senso lato, rappresenti una
specie di direttiva emanata dalle autorità amministrative dei
due Stati contraenti riguardante l’applicazione di una CDI.
3.2.
Oggetto della procedura amichevole in senso lato
L’articolo 26 capoverso 3 CDI-I prevede che le autorità competenti degli Stati contraenti possano risolvere due tipi di questioni nell’ambito della procedura amichevole in senso lato:
◆ risoluzione di aspetti interpretativi e/o di applicazione della
convenzione medesima; oppure
◆ risoluzione di aspetti non regolati nella CDI-I allo scopo di
eliminare la doppia imposizione.
Per quanto riguarda questa seconda funzione, la dottrina è
unanime nel ritenere che la procedura amichevole non possa
essere utilizzata per modificare o completare disposizioni di
diritto materiale che comportino ulteriori diritti o obblighi per
gli Stati contraenti. Pertanto, nel regolare aspetti non trattati
dalle CDI, le autorità devono tener conto delle intenzioni contrattuali originarie degli Stati contraenti nonché del senso e
dello scopo della convenzione medesima. Infatti non sarebbe
in nessun modo ammissibile che le autorità utilizzino lo strumento della procedura amichevole per cercare di bypassare
l’ordinario iter legislativo[15].
La CDI-I e l’Accordo non regolano l’aspetto relativo al cumulo
dei redditi previsto dalla legislazione svizzera. Tali convenzioni non prevedono alcuna disposizione che vieti la possibilità di
considerare ai fini dell’aliquota anche elementi di reddito conseguiti all’estero. In mancanza di disposizioni sancite dal diritto
internazionale è applicabile il diritto interno[16]. Il diritto interno svizzero prevede il cumulo dei redditi il quale è un principio
ancorato nel nostro sistema giuridico da sempre, sia a livello
di legge in senso formale sia in tutta la giurisprudenza del TF
nonché dei tribunali cantonali.
L’accordo raggiunto dalle due delegazioni non rappresenta
dunque una semplice risoluzione di un problema d’interpretazione o di applicazione della CDI-I; al contrario, le due delegazioni, su questo punto specifico, hanno concluso un accordo in
deroga al diritto fiscale svizzero.
3.3.
Il principio della legalità ed in particolare il principio
della base legale
Il principio della legalità è un principio di valore costituzionale
sancito all’articolo 5 capoverso 1 Cost. Esso esige che l’insieme dell’attività svolta dallo Stato si fondi sulla legge e riponga
su una base legale. Gli atti statali devono trovare il loro fondamento in una legge in senso materiale che sia sufficientemente precisa e determinata e che sia emanata da un’autorità
costituzionale competente[17].
L’Assemblea federale è competente per emanare le norme di
diritto sotto forma di legge federale (ex articolo 163 capoverso
1 Cost). L’articolo 164 capoverso 1 Cost. prevede che tutte le
disposizioni importanti che contengono norme di diritto siano
emanate sotto forma di legge federale. Vi rientrano, in particolare, le disposizioni fondamentali in materia di cerchia dei
contribuenti, oggetto e calcolo dei tributi (ex articolo 164 lettera d Cost.). Non vi sono dubbi che il principio del cumulo dei
redditi dei coniugi rappresenti un sistema di calcolo del tributo
che deve essere previsto in una legge in senso formale.
L’articolo 164 capoverso 2 Cost. prevede che le competenze
normative possano essere delegate mediante legge federale,
sempreché la Cost. non lo escluda. In relazione al cumulo dei
redditi non esiste una legge federale che abbia delegato tali
competenze ad altre autorità quali il Consiglio federale o i suoi
dipartimenti. Inoltre è importante ricordare che, secondo la
Cost., il regime fiscale, la cerchia dei contribuenti, l’imponibile
e il suo calcolo devono, nelle linee essenziali, essere disciplinati
nella legge (ex articolo 127 capoverso 1 Cost.). Pertanto solo
l’Assemblea federale è competente per emanare una legge in
materia d’imposizione dei coniugi.
11
12
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
Nel contesto internazionale, l’articolo 166 Cost. prevede che
l’Assemblea federale partecipi all’elaborazione della politica
estera e vigili sulla cura delle relazioni con l’estero. Inoltre essa
è competente per approvare i trattati internazionali fatti salvi
quelli la cui conclusione è di competenza del Consiglio federale
in virtù della legge o di un trattato internazionale.
La Cost., in materia internazionale, conferisce delle competenze
anche al Consiglio federale, stabilendo che esso curi gli affari
esteri salvaguardando i diritti di partecipazione dell’Assemblea
federale, rappresentando la Svizzera nei confronti dell’estero,
firmando e ratificando i trattati internazionali e sottoponendoli
per approvazione all’Assemblea federale. Inoltre, se la tutela degli interessi del Paese lo richiede, può emanare ordinanze (limitate nel tempo) e decisioni (ex articolo 184 Cost.).
Dall’esame di queste disposizioni costituzionali appare subito
evidente che la Cost. non prevede una disposizione costituzionale che conferisca al Consiglio federale un ampio margine
di manovra o una competenza implicita in materia di politica
estera. La dottrina e la prassi riconoscono che l’esecutivo e il
parlamento hanno delle competenze che in diversi campi concorrono e che essi sono obbligati a cooperare e a coordinarsi
fra loro[18].
La legge sull’organizzazione del Governo e dell’Amministrazione (di seguito LOGA) stabilisce in quali casi il Consiglio federale possa concludere trattati in autonomia (ex articoli 7a e 7b
LOGA). Ad esempio, nel caso di:
◆ trattati di portata limitata che non istituiscono nuovi obblighi per la Svizzera né comportino la rinuncia a diritti esistenti;
◆ trattati che servono all’esecuzione di accordi già approvati
dall’Assembla federale;
◆ trattati che disciplinino aspetti tecnici amministrativi;
◆ trattati di competenza dell’Assemblea che, per salvaguardare importanti interessi della Svizzera, vengono adottati
dal Consiglio federale per questioni di urgenza.
Inoltre l’articolo 48a LOGA prevede che il Consiglio federale
possa delegare ad un dipartimento la competenza a concludere trattati internazionali. Lo stesso articolo specifica che il
Consiglio federale debba riferire annualmente all’Assemblea
federale sui trattati conclusi da esso stesso, dal dipartimento o
da altri uffici. Lo scopo di tale norma è evidentemente quello di
permettere all’Assemblea di controllare l’attività del Consiglio
federale e di verificare che non concluda trattati che necessitino dell’approvazione dell’Assemblea stessa.
Il Verbale 1985 è stato siglato dalle due delegazioni svizzera ed
italiana ed è poi stato firmato dal Ministro delle Finanze della
Repubblica Italiana e dal Capo del Dipartimento delle Finanze
della Confederazione. Tale verbale non è mai stato ratificato
dal Consiglio federale o dall’Assemblea federale.
All’epoca in cui venne sottoscritto il Verbale 1985 vigeva ancora il vecchio testo costituzionale, pertanto non si applicavano
i nuovi articoli e la LOGA. Tuttavia, i concetti giuridici esposti
sopra sono esattamente gli stessi che si applicavano all’epoca dell’adozione del Verbale 1985. La nuova Costituzione non
ha fatto altro che riprendere gli articoli della precedente Cost.
conferendo loro una migliore struttura e codificando la giurisprudenza in materia di diritto costituzionale (articoli 4a, 85a
e 102a Cost.).
Alla luce di quanto sopra il Consiglio federale non aveva il potere di legiferare in materia di cumulo dei redditi e nemmeno
quello di concludere un accordo internazionale. Infatti nessuno
di questi aspetti rientrava nelle sue competenze. Constatato
che il Consiglio federale non era competente, esso non poteva
nemmeno conferire un potere (che non aveva) ad una delegazione prevista in una CDI.
Il principio della legalità ha come corollario il principio del parallelismo delle forme, il quale prevede che una legge possa
essere modificata unicamente rispettando la stessa procedura
e la stessa forma utilizzata al momento della sua adozione[19].
Il fatto che per più di 20 anni si sia applicato un sistema in deroga alla forma richiesta, non permette di sanare questa situazione. Il principio del parallelismo delle forme serve appunto a
garantire che una legge non possa essere modificata per una
prassi o usanza instaurata dall’autorità. L’usanza viene considerata molto di rado quale base legale per giustificare l’attività
statale. Solo nei casi di lacuna effettiva della legge potrebbe
eventualmente entrare in considerazione[20]. Questa eventualità non sussiste nel contesto dell’imposizione dei coniugi in
quanto si tratta di un tema ampliamente regolamentato.
Infine, un altro corollario importante del principio della legalità
è che ogni atto normativo deve essere pubblicato in una raccolta ufficiale accessibile a tutti. Il Verbale 1985 non è mai stato
pubblicato in nessuna raccolta. L’unica volta che è stato citato
in un documento ufficiale dell’AFC è nell’ambito delle spiegazioni relative alla nuova ordinanza dell’imposta alla fonte[21].
Secondo la giurisprudenza, un atto normativo non pubblicato
non può esplicare effetti giuridici[22]. La pubblicazione di una
norma ha due effetti pratici molto importanti: innanzitutto i
cittadini devono poter esaminare le normative a loro applicabili e, secondariamente, i cittadini devono poter valutare se tali
norme non creino una disparità di trattamento[23].
4.
Violazione del principio della parità di trattamento
L’articolo 8 Cost., così come l’articolo 2 dell’Accordo sulla libera
circolazione delle persone (di seguito ALCP), sanciscono il divieto di discriminazione. Esso vieta alle autorità amministrative e/o giudiziarie di trattare in maniera diversa due situazioni
simili. Il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 8 Cost. ha
precisamente come scopo quello di garantire un trattamento
uguale a situazioni comparabili[24].
La non applicazione del principio del cumulo dei redditi ai soggetti che risiedono nella fascia di confine (di cui un coniuge
lavora in Svizzera e l’altro in Italia) pone inesorabilmente una
disparità di trattamento rispetto:
◆ ai soggetti che sono imposti in via ordinaria;
◆ ai soggetti imposti alla fonte che non risiedono nella fascia
di confine;
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
◆ ai soggetti imposti alla fonte che risiedono nella fascia di
confine di cui un coniuge lavora in Svizzera e l’altro all’estero ma non in Italia.
Si ricorda infatti che le tariffe previste nelle tabelle F sono sostanzialmente inferiori rispetto alle tariffe previste nelle tabelle C.
Secondo l’attuale sistema, il lavoratore coniugato (senza figli)
che risiede a Milano e che lavora in Svizzera (salario lordo pari
a 50'000 franchi) e la cui moglie lavora a Milano, è imposto con
l’aliquota della Tabella C (aliquota del 6% imposta alla fonte
pari a 3'000 franchi).
Per contro, il lavoratore coniugato (senza figli) che risiede a
Como e che lavora in Svizzera (salario lordo di 50'000 franchi) e
la cui moglie lavora a Milano, è imposto con l’aliquota della Tabella F (aliquota del 2.5% imposta alla fonte pari a 1'250 franchi).
ll lavoratore residente a Como, beneficia di uno sconto sull’imposta di ben 1'750 franchi (più del doppio del dovuto) per il solo
fatto di risiedere nella fascia di confine. Questo è ancora meno
comprensibile se si pensa che il lavoratore residente a Milano
sopporta più spese professionali (spese di trasporto) rispetto al
lavoratore residente a Como.
◆ sia in contrasto con il diritto federale interno e con la costante giurisprudenza del TF e che la CDI-I e l’Accordo non contengano nessuna disposizione in materia di cumulo di redditi
dei coniugi che possa prevalere sul diritto interno;
◆ sia stata emanata da un autorità non competente in materia;
◆ non soddisfi i requisiti della base legale (non è una legge in
senso formale);
◆ violi il principio del parallelismo delle forme e della pubblicità;
◆ crei una disparità di trattamento ingiustificata rispetto a
tutte le altre fattispecie in cui si applica il principio del cumulo dei redditi.
Per maggiori informazioni:
Bernasconi Marco, L’accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione
dei frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani di
confine del 3 ottobre 1974, in: RTT, 1990/2
Bernasconi Marco/Ferrari Donatella, L’accordo sui frontalieri tra Italia e Svizzera. Violazione del diritto di reciprocità, in: RtiD, 2008-I
Vorpe Samuele, Una tassa sul matrimonio in Svizzera?, in: NF 2/2011
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.cugiacuomo.it/site/wp-content/uploads/2013/11/rapporti-patrimoniali-tra-coniugi_a51dc87f08b8b9f9e0628a3ed5083fc4.jpg
[26.05.2014]
http://www.sestodailynews.net/archivi/immagini/2014/F/famiglia.gif
[26.05.2014]
Personalmente ritengo che non sussista alcuna ragione obiettiva che giustifichi la non applicazione del principio del cumulo
dei redditi solo ai frontalieri che risiedono nella fascia di confine
nel caso in cui un coniuge lavori in Svizzera e l’altro in Italia.
5.
Conclusioni
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritengo che la
trattanda 2 del Verbale 1985, che prevede la non applicazione
del cumulo dei redditi ai coniugi residenti nella fascia di confine
di cui uno lavori in Svizzera e l’altro in Italia:
[1] Bernasconi Marco, La Convenzione Italo-Svizzera contro le doppie imposizioni e l’accordo dei
frontalieri, tesi di laurea 1988/89, pagina 345.
[2] DTF 110 Ia 7.
[3] Proposta che venne parzialmente adottata dal
Parlamento contro la quale venne indetto un referendum che venne accolto dal Popolo.
[4] Foglio federale 2001 2655, pagina 2678 e rapporto 5416 R1 del 19 settembre 2003 della Commissione speciale tributaria ticinese sul messaggio
29 agosto 2003 concernente la richiesta di un referendum facoltativo (articolo 141 Cost.) sul pacchetto fiscale 2001 della Confederazione.
[5] Foglio federale 2006 4087, pagina 4105.
[6] Foglio federale 2009 4087, pagina 4089.
[7] Il Consiglio federale, nel messaggio sulla LAID,
in merito agli articoli 91 e 92 LAID specifica che
la tariffa deve tener conto del cumulo dei redditi
quando i coniugi viventi in comunione domestica
esercitano entrambi un’attività lucrativa. Si veda
Foglio federale 1983 III 1, pagina 126.
[8] Per ulteriori informazioni in merito si rinvia alla
lettera-circolare dell'11 settembre 2013 emessa
dall’AFC sull’imposta alla fonte, pagina 5.
[9] Si ricorda che dal 1. gennaio 2014 la tabella E è
stata eliminata e alle fattispecie alle quali prima si
applicava la tabella E, ossia ai casi in cui i coniugi
erano domiciliati al di fuori della fascia di confine
e uno lavorava in Svizzera e l’altro all’estero, ora si
applica la tabella C.
[10] Cfr. sentenza del 19 dicembre 1949, in: ASA
19, 24.
[11] Str. 2014 B.13.1, Verwaltungsgericht, Zurigo
30 ottobre 2013; RB 1993 Nr. 15, Verwaltungsgericht, Zurigo 14 settembre 1993.
[12] Per ulteriori dettagli si rinvia al lavoro di diploma di Sharon Guggiari Salari, Imposizione dei
coniugi nelle fattispecie secondo il diritto svizzero,
il diritto italiano e problematiche transfrontaliere,
SUPSI 2008.
[13] Locher Peter, Einführung in das internationale Steuerrecht des Schweiz, Berna 2000, pagina
568; Höhn Ernst, Handbuch des internationalen
Steuerrechts der Schweiz, Berna 1998.
[14] Per il diritto italiano, si veda Marseu Tommaso, La procedura amichevole nelle Convenzioni
internazionali contro la doppia imposizione, tesi
di laurea Università Ca Foscari, anno accademico
2011/2012, pagina 65.
[15] Höhn Ernst, op. cit., pagina 435; Locher Peter, op. cit., pagine 569-570; Ludwig Max Beat,
Das Verständigungsverfahren im internationalen
Doppelbesteuerrecht der Schweiz, in: ASA 35, 59,
pagina 75.
[16] Str. 2014 B.13.1, considerando 2.5.
[17] Auer Andreas/Malinverni Giorgio/Hottelier
Michel, Droit constitutionnel suisse - Vol. 1 L’Etat,
Berna 2013, nota 1822.
[18] Ehrenzeller Bernhard/Mastronardi Philippe
Schweizer Rainer/Vallender Klaus, Die Schweizerische Bundesverfassung Kommentar, Zurigo/San
Gallo 2008, articolo 166, nota 8.
[19] Auer Andreas/Malinverni Giorgio/Hottelier
Michel, op. cit., nota 1818.
[20] Ehrenzeller Bernhard/Mastronardi Philippe/
Schweizer Rainer/Vallender Klaus, op. cit., articolo
5, nota 18.
[21] Modifica dell’ordinanza del Dipartimento federale delle finanze sull’imposta alla fonte nel quadro dell’imposta federale diretta, Spiegazione del
19 febbraio 2013, pagina 5.
[22] DTF 120 Ia 1, considerando 4b.
[23] Ehrenzeller Bernhard/Mastronardi Philippe/
Schweizer Rainer/Vallender Klaus, op. cit., articolo
5, nota 12.
[24] Auer Andreas/Malinverni Giorgio/Hottelier
Michel, op. cit., nota 1829.
13
14
Diritto tributario italiano
Il regime tributario italiano dei redditi
derivanti da attività di lavoro dipendente
prestate all’estero
Roberto Franzè
Professore aggregato di diritto tributario
nell’Università della Valle d’Aosta
Analisi delle diverse discipline tributarie volte a regolamentare il concorso alla formazione del reddito complessivo dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestate all’estero
1.
Le ragioni sottese all’adozione di regimi tributari
di favore per i redditi di lavoro dipendente prestato
all’estero in via continuativa
La realizzazione di redditi a fronte di un’attività di lavoro dipendente prestata all’estero è stata sempre una fattispecie oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore tributario
italiano. Se, infatti, il principio di tassazione su base mondiale
dei redditi realizzati da un soggetto fiscalmente residente in
Italia (cosiddetto “world-wide taxation”) imporrebbe che anche
questa tipologia di redditi sia assoggettata a tassazione in Italia, non di meno il legislatore è ben conscio che i redditi in parola sono, in ossequio alle normative tributarie interne dei Paesi
nei quali l’attività di lavoro è concretamente svolta, suscettibili
di essere assoggettati a tassazione anche in quei Paesi. Ne discende che, di regola, sul reddito di lavoro dipendente prestato
all’estero concorrono pretese impositive sia dello Stato della
residenza del soggetto lavoratore, sia dello Stato nel quale l’attività lavorativa è concretamente prestata[1].
Se è vero che il fenomeno di doppia imposizione giuridica, che
scaturisce dal descritto concorso di pretese impositive statuali
sul reddito di lavoro realizzato all’estero, non differisce, quanto
ai suoi effetti, da una qualsiasi altra fattispecie che dà origine
ad una doppia imposizione giuridica, è pur vero che quelle rigidità dello strumento disciplinato dall’ordinamento tributario
italiano – il credito d’imposta (rectius, la detrazione) per le imposte assolte all’estero – per eliminare (attenuare) gli effetti
distorsivi che un concorso di pretese impositive causa si appalesano in maniera più evidente proprio nella fattispecie del
reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero.
Più precisamente, l’istituto del credito d’imposta per le imposte
assolte all’estero – per come esso è disciplinato dalla normativa
tributaria italiana – è, tra le altre limitazioni, subordinato al requisito della definitività del prelievo estero e può essere vantato
dal contribuente solo in sede di dichiarazione dei redditi (e cioè
successivamente alla fine del periodo d’imposta): cioè espone
il lavoratore dipendente che presti la propria attività di lavoro all’estero – più di ogni altro contribuente che realizzi redditi
all’estero – al concreto rischio di dover anticipare, per effetto del particolare meccanismo di riscossione delle imposte sul
reddito di lavoro (molto spesso riscosse per il tramite di meccanismi di ritenute a titolo d’acconto direttamente applicate
in busta paga), un doppio prelievo su una fonte reddituale che
potrebbe anche essere l’unica a disposizione del contribuente
stesso. Scritto in altri termini, per la tipologia di redditi in parola
è concreto il rischio che, stante le particolari – rispetto ad altre categorie reddituali – modalità di applicazione del prelievo
tributario, lo sgravio da doppia imposizione benefici il contribuente anche mesi dopo aver subìto il doppio prelievo.
Per questo motivo, tradizionalmente, il legislatore tributario
ha accordato regimi tributari di favore per i redditi realizzati
all’estero.
Fino a tutto l’anno solare 2000, l’articolo 3, comma 3, lettera c
del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n.
917/1986 (di seguito TUIR) disciplinava un’esenzione dalle imposte sui redditi dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto.
La norma di esenzione, pur essendo astrattamente indirizzata ad ogni contribuente, si rivolgeva, concretamente, alle sole
persone fisiche fiscalmente residenti nel territorio dello Stato
italiano, giacché nei confronti delle persone fisiche colà non residenti non operava (e tuttora non opera), per i redditi derivanti
da attività di lavoro dipendente prestato all’estero, il presuppo-
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
sto territoriale di applicazione dell’imposta. Fino a tutto l’anno
solare 2000, quindi, l’ordinamento tributario italiano accordava
al reddito di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto una particolare attenzione[2], esentando da ogni imposizione il reddito così
realizzato.
L’esenzione, tuttavia, non si applicava all’attività di lavoro dipendente prestato all’estero in maniera isolata o non continuativa: con riferimento a queste ultime situazioni, l’ordinamento
aveva ritenuto che il fenomeno della (temporanea) doppia imposizione giuridica non fosse così penalizzante tale da imporre
un intervento legislativo.
Non poteva pertanto sostenersi che il regime di esenzione
fosse animato dalla volontà, da parte del legislatore, di creare
un’ingiustificata agevolazione ad una particolare categoria
di soggetti – i lavoratori dipendenti con attività lavorativa
estera – rispetto alla categoria più generale dei lavoratori dipendenti. Come si è descritto più sopra, infatti, l’agevolazione
rispondeva ad una situazione di oggettiva difficoltà finanziaria nella quale si sarebbe trovato il lavoratore nel caso in cui
avesse dovuto pagare imposte sui redditi anche nel suo Stato
di residenza. Pur tuttavia il regime di esenzione finiva con il
consentire una doppia esenzione (nello Stato della residenza e
nello Stato di svolgimento dell’attività lavorativa) tutte quelle
volte in cui la normativa interna dello Stato nel quale l’attività
era svolta non assoggettava ad imposta il reddito scaturente
dall’attività colà svolta. Per questa ragione, a partire dall’anno
solare 2001, l’esenzione di cui all’articolo 3, comma 3, lettera
c TUIR è stata abrogata e, pertanto, di regola il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero concorre alla formazione
del reddito complessivo ed è soggetto ad imposizione (anche) in Italia, salva l’applicazione del credito d’imposta per le
imposte assolte all’estero, finalizzato all’eliminazione (rectius,
attenuazione) del fenomeno di doppia imposizione giuridica
internazionale che dovesse sorgere allorquando all’esercizio
di potestà impositiva da parte dello Stato di residenza (l’Italia)
si accompagni anche quello dello Stato nel quale l’attività è
concretamente esercitata.
2.
Il regime speciale impositivo per i redditi di lavoro
dipendente prestato all’estero in via continuativa
e con una presenza nello Stato estero per un periodo
superiore a 183 giorni nel corso di dodici mesi
L’abrogazione dell’esenzione da imposizione dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestate all’estero è
stata sostituita dalla disciplina introdotta, nel comma 8-bis
dell'articolo 51 TUIR, dall’articolo 36 della Legge (di seguito L.)
n. 342/2000.
La nuova disciplina prevede che il reddito di lavoro dipendente
prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183
giorni sono determinati non già sulla base del reddito effettivamente percepito ma sulla base di un reddito convenzionalmente determinato annualmente mediante un decreto del
Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Più precisamen-
te, ai fini della determinazione forfetaria della base imponibile,
il decreto ministeriale fissa retribuzioni convenzionali distinte
per fasce di reddito effettivo e per settore di attività: per il periodo d’imposta 2014 le retribuzioni convenzionali sono state
fissate con decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche
sociali del 23 dicembre 2013 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 2014).
Le retribuzioni convenzionali così determinate concorrono alla
formazione del reddito complessivo italiano della persona fisica e scontano, quindi, l’Imposta sul reddito delle persone fisiche (di seguito IRPEF) italiana, con possibilità di detrarre dalle
imposte dovute in Italia quelle effettivamente pagate nello
Stato estero nel quale l’attività lavorativa è stata svolta.
Particolari problematiche genera l’applicazione del credito d’imposta in caso di concorso alla formazione del reddito
complessivo di retribuzioni convenzionali (non effettive). Occorre, infatti, tener presente che l’articolo 165 TUIR – disciplinante l’istituto del credito d’imposta per le imposte assolte
all’estero – al comma 10 prevede che “nel caso in cui il reddito
prodotto all’estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l’imposta estera va ridotta in misura corrispondente”.
Nell’interpretare il citato comma, l’Agenzia delle Entrate, nella
risoluzione n. 48/E del 2013 ha discutibilmente precisato che,
ai fini del rapporto fra retribuzione convenzionale e reddito
estero a cui va ragguagliato l’imposta estera (sempre se divenuta definitiva alla data di presentazione della dichiarazione),
al denominatore rilevi il reddito estero “riqualificato” in base alla
normativa fiscale italiana e non, invece, il reddito estero come
quantificato e documentato nella dichiarazione dei redditi e/o
nella certificazione delle retribuzioni estere. L’interpretazione
proposta dall’Agenzia si presta a numerose critiche. In effetti,
la rideterminazione del reddito estero sulla base delle regole
italiane implica la conoscenza approfondita di tutte quelle voci
di cui si compone la retribuzione estera del lavoratore (compresi eventuali indennità e benefit), dal momento che l’esatta
determinazione di ogni elemento della retribuzione deve avvenire, ai fini dello scomputo delle imposte estere, sulla base
delle regole di determinazione dettate dal TUIR.
3.
Il regime speciale impositivo per i redditi di lavoro
dipendente prestato all’estero dai lavoratori frontalieri
Al descritto regime impositivo applicabile ai redditi realizzati
all’estero a fronte di un’attività di lavoro svolta in via continuativa e con una presenza nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni nel corso di dodici mesi, si affianca,
poi, il regime speciale per i redditi di lavoro dipendente svolto
all’estero in zone di frontiera da persone fisiche residenti in
Italia. Si tratta, in sostanza, del regime speciale applicabile
ai cosiddetti “frontalieri” e, cioè, a tutti quei soggetti i quali si
recano quotidianamente dalle loro abitazioni in Italia verso
il luogo estero dove viene svolta l’attività lavorativa per far
rientro in Italia a conclusione dell’attività prestata. Questi
soggetti non possono, a stretto rigore, essere destinatari del
regime tributario di cui al precedente paragrafo dal momento
che non pernottano nello Stato estero per più di 183 giorni in
15
16
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
un orizzonte temporale di dodici mesi.
A questi soggetti l’ordinamento, in alternativa al regime ordinario di cui al paragrafo che segue, offre la possibilità di determinare la base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in
Italia applicando un’esenzione sui primi 6'200 euro di reddito
corrisposto. In sostanza, l’esenzione sui primi 6'200 euro di
reddito servirebbe al lavoratore per far fronte ai costi di trasporto che, altrimenti, sarebbero indeducibili dalla base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia.
Anche per il regime tributario dei redditi realizzati dai cosiddetti “frontalieri”, dal momento che il reddito prodotto all’estero
concorre parzialmente alla formazione del reddito complessivo, il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero comporta che l’imposta estera detraibile debba essere ridotta
proporzionalmente al limitato concorso del reddito estero alla
formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia.
un importo complessivo annuo non superiore a 4'648.11 euro.
Infine, in base all’articolo 51, comma 8 TUIR, l’assegno di sede
per i servizi prestati all’estero è imponibile nella misura del 50%.
Anche nel regime ordinario d’imposizione dei redditi di lavoro realizzati all’estero, in caso di concorso parziale del reddito
estero alla formazione del reddito complessivo, il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero comporta che l’imposta
estera detraibile debba essere ridotta proporzionalmente al
limitato concorso del reddito estero alla formazione della base
imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia.
5.
Conclusioni
Si è più sopra esposto come l’ordinamento italiano disponga
di numerosi regimi. Essi perseguono finalità diverse, avendo
ambiti soggettivi di applicazione differenziati. Tuttavia la pluralità delle disposizioni menzionate è ascrivibile alla volontà
del legislatore tributario di non voler più esentare il reddito di
lavoro dipendente prestato all’estero, perseguendo l’obiettivo
di evitare trattamenti discriminatori tra lavoratori dipendenti
che prestano l’attività lavorativa nel territorio dello Stato italiano e lavoratori dipendenti che svolgono la proposta attività
in un altro Stato.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.eunews.it/wp-content/uploads/2014/04/lavoratori-distaccati.jpeg [26.05.2014]
4.
Il regime ordinario d’imposizione per i redditi di lavoro
dipendente prestato all’estero
In alternativa ai regimi impositivi sopra descritti, possono, a
discrezione del contribuente, trovare applicazione le regole di
determinazione della base imponibile dettate dall’articolo 51
TUIR, il quale, dopo aver statuito il criterio generale in base
al quale il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le
somme ed i valori in genere percepiti in relazione all’attività lavorativa, precisa per gli elementi reddituali realizzati all’estero
quanto segue.
http://www.eurca.com/wp-content/uploads/2013/06/distacco-dei-lavoratori.jpg [26.05.2014]
Le indennità percepite per le trasferte o le missioni all’estero
concorrono a formare il reddito per la parte eccedente i 77.47
euro giornalieri. In caso di rimborso analitico delle spese per
trasferte o missioni all’estero, non concorrono a formare il
reddito gli ammontari corrisposti a tale titolo nel limite massimo di 25.82 euro. Inoltre, le indennità di trasferimento, quelle
di prima sistemazione e quelle equipollenti non concorrono
alla formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito
dovuta in Italia nella misura del 50% del loro ammontare per
[1] Entrambe le pretese impositive degli Stati
coinvolti – quello di residenza del soggetto lavoratore e quello nel quale l’attività è concretamente svolta – sarebbero coerenti con le tax policies
adottate dalla generalità degli Stati, i quali – non
senza qualche eccezione – chiamano al concorso
del riparto delle spese pubbliche i soggetti che appartengono alle rispettive comunità economiche
e sociali in ragione, rispettivamente, sia dell’avervi stabilito il centro degli interessi personali e sia
dell’essere partecipe del processo economico e
produttivo.
[2] Peraltro, l’esenzione da imposizione non riguardava solamente il reddito realizzato all’estero
ma anche ogni altra indennità a qualsiasi titolo corrisposta successivamente alla cessazione
di quel rapporto di lavoro, la quale avesse avuto
origine esattamente in quel rapporto di lavoro:
erano così esenti anche i trattamenti di fine rapporto relativi a quelle attività lavorative prestate
all’estero. In questo senso si è espressa anche la
Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n.
26438 del 4 novembre 2008.
Diritto tributario internazionale e dell'UE
Il blocco dei ristorni da parte del Canton
Ticino è veramente incompatibile con il diritto
internazionale?
Patrick Schubiger
Direttore Interfida SA, Lic.rer.pol.
MAS International Corporate Taxation FH, LL.M.
Esperto in Finanza ed Investimenti dipl. (AZEK),
già perito fiscale presso la DDC TI
Contromisure in presenza di treaty override convenzionale
1.
Introduzione
La questione è nota ormai anche a un largo pubblico e costituisce un tema caldissimo nel nostro panorama politico cantonale
e federale. Infatti, il blocco attuato dal Consiglio di Stato ticinese
il 30 giugno 2011 della metà del ristorno delle imposte prelevate alla fonte sui frontalieri, relative all’anno 2010, ha provocato
tutta una serie di forti reazioni politiche, sia a livello cantonale,
federale che internazionale. Tali reazioni sono state per lo più
di condanna, fondate su di una presunta violazione del diritto
internazionale, rispettivamente di plauso, perché anche qualora il diritto internazionale fosse stato violato, la decisione del
Consiglio di Stato presentava secondo alcuni il grosso merito
di sbloccare la situazione negoziale con l’Italia. Inoltre, siccome
il blocco è una misura ripercorribile annualmente, la questione
può ripresentarsi con frequenza anche in un prossimo futuro.
La domanda che vale allora la pena di porsi, senza entrare in
ambito politico, ma rimanendo in un’area tecnico-tributaria, è
relativamente semplice: il blocco attuato dal Consiglio di Stato
è veramente illegale sotto il profilo del diritto internazionale?
La domanda è semplice, ma per contro la risposta è complicata,
non fosse altro per la necessità di muoversi all’interno del diritto
tributario internazionale e del diritto pubblico internazionale,
materie molto complicate già solo prese singolarmente. Inoltre,
l’analisi esplora zone vergini e inesplorate, perché non esistono
casi paragonabili a livello internazionale e dunque analisi dottrinali che abbiano già affrontato la questione, anche se esiste
un'ampia letteratura internazionale sul tema della violazione di
Convenzioni di doppia imposizione (di seguito CDI) attraverso
normative introdotte a posteriori nel diritto tributario nazionale di Paesi contraenti. In Svizzera, per contro, tale rapporto è
stato oggetto di analisi molto limitate[1].
Pertanto, oggetto del presente contributo è la ricerca di un filo
rosso conduttore che possa portare a una risposta concreta alla
domanda di fondo attraverso una sussunzione giuridica che si
basa su tre pilastri di base. Il primo concerne l’analisi teorica della
compatibilità di normative domestiche in contrasto con pattuizioni di diritto pubblico internazionale, le CDI. Il secondo concerne la responsabilità internazionale degli Stati in caso di violazioni
di CDI. Il terzo concerne l’applicazione degli elementi teorici sviluppati alla Convenzione di doppia imposizione fra la Svizzera e
l’Italia, ciò che permette di prendere posizione sulla legalità del
blocco del ristorno delle imposte prelevate ai frontalieri.
2.
Riassunto dei fatti
Con decisione del 30 giugno 2011 il Consiglio di Stato ticinese
ha deciso di congelare su di un conto vincolato presso Banca
Stato la metà del ristorno delle imposte prelevate alla fonte sui
frontalieri relativi all’anno 2010 per un importo di 28.4 milioni
di franchi. La decisione è stata presa con una maggioranza di
tre voti contro due. I due Consiglieri di Stato che hanno votato
contro la decisione di congelamento hanno ritenuto la misura,
fra le altre cose, contraria al diritto internazionale.
L’8 luglio 2011 un privato cittadino ha denunciato per abuso di autorità al Ministero pubblico della Confederazione i tre
membri del Governo ticinese che si erano pronunciati in favore del blocco. La procura ticinese, cui era stata attribuita
la competenza, ha archiviato con un decreto di non luogo a
procedere la denuncia. Lo stesso esito si avrà per altre cause
analoghe. Il 7 marzo 2012, il Consiglio regionale della Lombardia ha impegnato il Presidente della Giunta Regionale a
intervenire nella competente sede giudiziaria per ottenere il
rispetto da parte dell’autorità elvetica dell’Accordo italo-svizzero sui frontalieri e per chiedere il risarcimento pecuniario a
titolo di riparazione dei danni subiti.
Il 1. maggio 2012, l’allora Presidente del Consiglio Monti, ha
ventilato la possibilità di riaprire i negoziati fra la Svizzera e
l’Italia in ambito fiscale a condizione che la prima rispetti gli
accordi vigenti. In particolare, Monti ha richiesto di ripristinare
l’applicazione dell’Accordo sui frontalieri sospeso unilateralmente dal Cantone Ticino. Il 9 maggio 2012, dopo intense discussioni fra Bellinzona e Berna, che tende anch’essa a considerare il mancato riversamento della quota spettante all’Italia
illegale sotto il profilo del diritto internazionale, il Consiglio di
Stato ha sbloccato la quota congelata.
17
18
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
3.
Elementi base dell’Accordo sulla fiscalità dei frontalieri
Il 3 ottobre 1974, la Svizzera ha concluso con l’Italia un Accordo relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla
compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine (di seguito Accordo sui frontalieri)[2]. Tale Accordo è stato approvato dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978 ed è
entrato in vigore con uno scambio di note il 27 marzo 1979.
Ai sensi dell’articolo 15 capoverso 4 della Convenzione fra la
Confederazione Svizzera e la Repubblica Italiana per evitare
le doppie imposizioni e per regolare talune altre questioni in
materia di imposte sul reddito e sul patrimonio conclusa il 9
marzo 1976, approvata dall’Assemblea federale il 24 ottobre
1978 e entrata in vigore il 27 marzo 1979 (di seguito CDI-I)[3] ,
l’Accordo sui frontalieri è parte integrante della CDI-I, nonostante i suoi effetti si esplicassero già a partire dal 1. gennaio
1974, dunque anteriormente alla conclusione e all’entrata in
vigore della CDI-I[4].
Nei suoi elementi essenziali, l’Accordo sui frontalieri prevede
l’imposizione nel luogo di lavoro di tutti i corrispettivi versati
ad un lavoratore frontaliere per lo svolgimento di un’attività
lucrativa dipendente[5] e una compensazione finanziaria di
una parte dell’ammontare lordo delle imposte percepite sulle remunerazioni pagate durante l’anno solare dai frontalieri
italiani da parte del Cantone Ticino, del Cantone Grigioni e del
Cantone Vallese in favore dei Comuni italiani di confine[6]. La
compensazione finanziaria ammonta attualmente al 38.8%[7]
e va trasferita tramite un versamento unico, da effettuarsi
nel corso del primo semestre dell’anno successivo a quello cui
la compensazione finanziaria si riferisce su un conto aperto
presso la Tesoreria Centrale italiana intestato al Ministero del
Tesoro[8]. Le autorità italiane provvedono in seguito a trasferire le somme versate ai Comuni nei quali risiedono i frontalieri[9] , Comuni che annualmente devono informare i rappresentanti svizzeri sull’utilizzo delle somme messe a disposizione dai
suddetti Cantoni[10].
porti fiscali internazionali. Il regolamento di questi rapporti fiscali internazionali implica finalmente un compromesso,
che può essere influenzato da diversi elementi, non sempre di
natura prettamente fiscale, ma che comportano sempre una
limitazione della propria sovranità fiscale nazionale. Ad ogni
modo, il consenso reciproco costituisce il nocciolo di questi
contratti fra Stati che vengono parimenti fortemente influenzati dal principio di autonomia della volontà, dal principio di
confidenza-fiducia, dal principio della libertà contrattuale e
dal principio del pacta sunt servanda[12].
Inoltre, in quanto appunto convenzioni di diritto pubblico internazionale, la loro conclusione, la loro validità, i loro effetti,
la loro modifica, la loro sospensione, la loro interpretazione e
la loro denuncia sono regolati da una meta-convenzione, generalmente denominata Convenzione di Vienna (di seguito
CV)[13]. La CV ha in larga misura codificato il diritto internazionale consuetudinario (anche a carattere imperativo, ius
cogens), di per sé direttamente applicabile anche in mancanza
di una formale ratifica nazionale della Convenzione. Pertanto,
ai fini della presente analisi, visto e considerato che gli articoli di riferimento della CV necessari per la presente disamina
costituiscono certamente diritto internazionale consuetudinario, anche se la CV è stata ratificata in Svizzera e in Italia
dopo l’entrata in vigore della CDI-I, essa risulta pienamente
applicabile alla fattispecie oggetto di analisi. Di conseguenza,
sulla base di questo quadro concettuale di riferimento, si può
affermare che il limite della libertà negoziale sfociante in una
CDI è ravvisabile nei principi di diritto consuetudinario internazionale e nella responsabilità internazionale degli Stati per
eventuali violazioni di trattati internazionali.
L’impatto finanziario dei ristorni è tutt’altro che da sottovalutare. Complessivamente dal 1974 al 1988 compresi, il Cantone
Ticino, Vallese e Grigioni hanno versato all’Italia un importo di
circa 230 milioni di franchi[11]. Attualmente il rimborso annuale a carico unicamente del Cantone Ticino è pari a circa 60
milioni di franchi.
4.
Analisi teorica
4.1.
Natura ed effetti delle CDI
Considerato come l’Accordo sui frontalieri sia parte integrante della CDI-I, occorre in prima analisi comprendere la natura e gli effetti di una CDI. Ora, una CDI non è qualcosa di
astratto e artificiale, ma piuttosto un semplice accordo di diritto pubblico internazionale sottoscritto fra Stati sovrani. In
modo del tutto analogo al diritto contrattuale privato, questi
accordi si caratterizzano per una manifestazione concorde
e reciproca di volontà finalizzata a produrre effetti giuridici
liberamente concordati, che nel caso specifico esprimono la
volontà da parte di due Stati sovrani di regolare i propri rap-
4.2.
Applicazione del diritto convenzionale nel diritto interno
La CV, per quanto concerne l’applicazione del diritto convenzionale nel diritto interno di qualsiasi Stato, è inequivocabile.
All’articolo 26 CV, viene, infatti, sviluppata l’idea secondo cui
ogni trattato vincola le parti e che queste devono eseguirlo in
buona fede. Inoltre, con l’articolo 27 CV, ogni possibile malinteso viene a cadere, una parte non può in ogni caso invocare
le disposizioni della propria legislazione interna per giustificare
la mancata esecuzione di un trattato. Questo principio, noto
come pacta sunt servanda, non costituisce né una possibilità di
scelta né un'opzione. Gli Stati sovrani hanno un obbligo di risultato. Una volta vincolati da un trattato, in ogni caso liberamente sottoscritto secondo le proprie libere volontà, non è
possibile evitarne le conseguenze giuridiche attraverso la propria legislazione interna.
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
Il risultato è significativo. In una relazione fra Stato e Stato, i
metodi di trasformazione del diritto internazionale nel diritto
interno (monistico o dualistico) non hanno alcuna rilevanza.
Anche i principi susseguenti sviluppati dalla dottrina e che regolano i rapporti fra diritto internazionale e diritto domestico
nell’ambito dell’applicazione del diritto nazionale, riferiti concettualmente con le locuzioni lex specialis derogat legi generali
e lex poterior derogat legi priori, si svuotano completamente di
contenuto. A livello elvetico, di conseguenza, la dottrina “Schubert” sviluppata dal Tribunale federale e l’obbligo di applicazione
del diritto (interno) anche contrario alla costituzione secondo l’articolo 190 della Costituzione federale (di seguito Cost.),
non hanno influenza. A livello italiano, la riforma dell’articolo
117 della Costituzione, intervenuto nel 2001, la quale ha definitivamente sancito la prevalenza del diritto internazionale,
è anch’essa irrilevante[14]. Siamo di fronte dunque a una fondamentale dicotomia di applicazione del diritto convenzionale. Se da una parte, nelle relazioni fra Stato e Stato, il diritto
interno è del tutto irrilevante per l’applicazione delle CDI, nei
confronti dei contribuenti vale esattamente l’opposto: diventa
determinante il metodo di recepimento nel diritto domestico
dei trattati internazionali. Questa dicotomia provoca, per altro,
situazioni frustranti di doppia imposizione anche in presenza di
una chiara violazione del diritto convenzionale da parte di uno
degli Stati contraenti[15].
4.3.
L’interpretazione delle CDI
L'interpretazione delle CDI, un’arte e un problema che ha fatto
scorrere fiumi d’inchiostro, è anch’essa riconducibile alla CV.
L’articolo 31 capoverso 1 CV risulta fondamentale e prevede
un’interpretazione secondo la buona fede, seguendo il senso
ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto
e alla luce del suo oggetto e scopo. Occorre allora sottolineare
alcuni principi guida. Al contrario di quanto avviene per esempio a livello svizzero, dove non esiste una gerarchia dei metodi di interpretazione delle norme, una CDI va primariamente
interpretata utilizzando i termini stessi del trattato. Si presume, infatti, che i termini utilizzati riflettano le vere intenzioni
delle parti. Il principio di buona fede rinforza, ma limita anche,
quest’ottica di base.
Non è sempre agevole definire in modo chiaro cosa sia la buona fede, ma l’idea di fondo che si vuole sviluppare con tale riferimento è quella di un'interpretazione onesta, equa e ragionevole dell’intenzione delle parti così come espressa appunto
nei termini del trattato[16]. Ne consegue, comunque, una
limitazione dell’interpretazione puramente grammaticale:
qualora infatti il risultato di un'interpretazione sia chiara, ma
manifestamente assurda o irragionevole, è permesso scostarsi
dai termini utilizzati nel trattato[17]. Questo test dell’assurdità
ha in Svizzera ottenuto notevole successo e viene seguito da
molti commentatori. Altri principi importanti sviluppati dalla
dottrina in riferimento alla buona fede e alla ricerca della vera
intenzione delle parti vengono identificati nel principio di contemporaneità[18] , nel principio di integrazione[19] e nel principio di attualità[20]. Per contro, l’interpretazione teleologica
non dovrebbe assumere a livello internazionale particolare rilevanza[21]. Come si vede dunque, l’interpretazione dei trattati consiste nel cogliere principalmente la vera intenzione delle
parti, in piena consistenza con il principio della buona fede e
con lo spirito delle CDI, che consistono in una manifestazione
concorde e reciproca di volontà. Per questo motivo l’OCSE, per
esempio nel rapporto sul treaty override, parla della necessità
di coordinamento interpretativo degli Stati contraenti e di una
interpretazione caso per caso[22].
4.4.
Il ruolo del commentario al Modello di Convenzione OCSE
Il commentario al Modello di Convenzione dell’OCSE (di seguito commentario OCSE) è indubbiamente un ausilio importante per l’interpretazione dei trattati. Il Tribunale federale, per
esempio, ne fa immancabilmente riferimento nelle sue decisioni, arrivando comunque in diverse situazioni a stravolgerne
completamente il senso e il significato[23].
Ciò nonostante, il ruolo preciso da attribuire a questo commentario OCSE è oggetto di diverse diatribe e non esiste una
unità di dottrina al riguardo. Alcuni autori ritengono che il
commentario OCSE sia da utilizzare in relazione all'articolo 31
capoverso 1 CV, per cui il suo utilizzo è da ricercare in via prioritaria nel senso ordinario dei vocaboli utilizzati in una CDI.
Altri ritengono sia da utilizzare in relazione all'articolo 31 capoverso 4 CV, per cui il suo utilizzo è da ricercare in via secondaria nel senso particolare da attribuire ai vocaboli in caso di
un risultato interpretativo non univoco ai sensi dell’articolo 31
capoverso 1 CV. Altri ancora, ritengono la sua presa in considerazione solo in relazione all'articolo 32 CV, pertanto solo ed
unicamente come mezzo complementare d'interpretazione.
Infine, esiste una corrente di pensiero che giustifica l'utilizzo
del commentario OCSE come pratica ulteriormente seguita ai
sensi dell'articolo 31 capoverso 3 lettera b CV o come regola
pertinente di diritto internazionale applicabile nelle relazioni
tra le parti ai sensi dell'articolo 31 capoverso 3 lettera c CV.
Rimane la certezza comunque che il ruolo sistematico del
commentario OCSE è tutt’altro che chiaro. In questa situazione vale altresì la pena di ricordare come qualsiasi ruolo venga attribuito al commentario OCSE, anche il suo utilizzo è in
qualsiasi caso sottomesso alla CV. In quest’ottica risulta pertanto difficile comprendere come un suo uso dinamico venga
difeso da una parte importante degli Stati europei e dall’OCSE
a partire dal 1992[24]. Infatti, utilizzare elementi introdotti a
posteriori nel commentario OCSE, a meno che siano condivisi
dagli Stati contraenti ab initio nell’interpretazione di una CDI
particolare, pone diversi quesiti in relazione al principio della
buona fede e al principio del venire contra factum proprium. D’altronde, esiste al riguardo una certa confusione tra l’impiego
19
20
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
dinamico del commentario OCSE e l’interpretazione dinamica
di cui all’articolo 3 del Modello di Convenzione OCSE, in cui il
riferimento alla lex fori per termini non definiti nella convenzione permette senza dubbi una chiara interpretazione dinamica.
La questione dell’uso dinamico del commentario OCSE è di
natura invece completamente diversa, perché nel commentario OCSE si esprimono idee più generali su principi base afferenti al Modello di Convenzione OCSE. In linea con lo spirito
della CV, appare dunque molto più sensato pensare come solo
il commentario OCSE esistente al momento delle negoziazioni
e della conclusione di una CDI particolare sia in grado di dare
delle indicazioni sull’intenzione che avevano le parti in quel
periodo e quale senso effettivo accordare alle differenti regole
del Modello di Convenzione in uso nello stesso momento[25].
Una versione successiva non può dare ragionevolmente indicazioni pertinenti su CDI già concluse e in essere. Né l’articolo
31 capoversi 1, 2 o 4 CV, né l’articolo 32 CV offrono una base
legale sufficiente per un utilizzo dinamico del commentario
OCSE[26] , nonostante quanto affermato dall’OCSE.
4.5.
Una politica convenzionale; diverse CDI
Il Modello di Convenzione OCSE e il suo commentario sono,
come detto, fonti importanti per la definizione di principi base
convenzionali e la loro interpretazione. Non di meno va ricordato come in ultima analisi non sia l'OCSE a determinare la
politica dei singoli Stati, ma gli Stati stessi. Una CDI è il risultato di contrattazioni che possono venire influenzate da diversi
fattori, non sempre necessariamente di ordine semplicemente
fiscale e il risultato finale può divergere in modo anche eclatante rispetto alla politica convenzionale di uno Stato.
La CDI fra l’India e le isole Mauritius è emblematica al riguardo.
L’India ha volontariamente sottoscritto questa CDI, sapendo
(o dovendo sapere) che sarebbe stata utilizzata per interporre
società estere senza sostanza con lo scopo di praticare classiche strutture di treaty shopping, ma lo ha fatto con l’obiettivo
di attrarre investimenti esteri e tecnologia[27]. Solo dopo quarant’anni di elusione, dopo la sentenza nella causa Vodafone,
l’India si è mossa per emendare la propria legislazione interna.
La CDI fra il Belgio e Hong Kong prevede, per esempio, un tasso zero per i dividendi infra gruppo, deviando in modo sostanziale dai principi convenzionali del Belgio, il tutto per espressa
volontà di facilitare l'accesso ai propri contribuenti al mercato
asiatico[28].
La Svizzera, per esempio, ha sempre optato in linea generale, sino al 13 marzo 2009, per la piccola clausola di scambio
di informazioni, mentre prima di questa data in due sole CDI,
quella con gli USA e quella con la Germania, si è scostata volontariamente da questa politica generale.
Appare dunque chiaro, ancora una volta, come ogni CDI deve
venire interpretata singolarmente sulla base della propria formulazione nell'ambito dei principi della CV. Ogni altra interpretazione rischia semplicemente di re-nazionalizzare, a posteriori, la volontà precedentemente espressa di regolare le
proprie relazioni fiscali internazionali.
4.6.
La politica convenzionale svizzera
Nel diritto pubblico internazionale, una riserva è l'espressione della volontà di una delle parti di non essere legata da un
trattato nella sua integralità[29]. La Svizzera, chiarificando la
propria posizione convenzionale, ha emesso diverse osservazioni nel commentario OCSE. La prima è riconducibile allo
scopo delle CDI: "Switzerland does not share the view expressed
in paragraph 7 according to which the purpose of double taxation
conventions is to prevent tax avoidance and evasion"[30].
La seconda chiarifica la relazione fra misure antiabuso interne e misure antiabuso convenzionali: "With respect to paragraph
22.1, Switzerland believes that domestic tax rules on abuse of tax
conventions must conform to the general provisions of tax convention, especially where the convention itself includes provisions intended to prevent its abuse"[31].
La terza concerne la compatibilità fra norme antiabuso interne e CDI: "With respect to paragraph 23, Switzerland considers that
controlled foreign corporation legislation may, depending on the relevant concept, be contrary to the spirit of Article 7"[32].
È indubbio, dunque, essendo queste riserve risalenti al commentario OCSE 1977 ed essendo le stesse ancora incluse nel
commentario OCSE attuale, che questa politica convenzionale elvetica è nota alle controparti nel momento di concludere una CDI e se ne deve pertanto tenere debitamente conto
nell’interpretazione delle CDI svizzere, a meno di espresse riserve formulate nel testo della CDI da utilizzare.
4.7.
Compatibilità fra norme antiabuso interne e CDI
L'Italia, a partire dalla fine degli anni '90, ha introdotto tutta
una serie di misure antiabuso interne. Occorre, dunque, approfondire la relazione fra CDI e misure antiabuso interne introdotte a posteriori che potrebbero confliggere con norme convenzionali anteriori. Siccome questa tipologia di norma è stato
oggetto di un lungo dibattito in seno all’OCSE e che ha visto
assumere posizioni talvolta contrastanti, è necessario delineare brevemente le linee guida espresse nei vari commentari
OCSE e nei rapporti OCSE che sono stati emessi nel tempo.
4.7.1.
Commentario OCSE 1977
Il commentario OCSE 1977[33] è molto esplicito su diversi punti di particolare interesse. Dapprima esprime chiaramente l'idea
secondo cui l'oggetto e lo scopo delle CDI sia quello di promuovere la circolazione di beni, servizi, persone e capitali attraverso l'eliminazione della doppia imposizione. Inoltre, viene
affermato come accordi di diritto pubblico internazionale non
dovrebbero sostenere l'elusione e l'evasione fiscale. Che cosa si
debba però intendere per "non sostenere" non è chiaro. In questo
ambito viene però riconosciuta al contribuente la possibilità di
organizzare i propri affari minimizzando il carico fiscale. È compito poi dei singoli Paesi membri prendere disposizioni nel loro
diritto nazionale atti a contrastare transazioni o misure abusive e di includere nelle proprie CDI clausole di salvaguardia per
l’applicazione delle proprie regole nazionali. In questo modo si
rende pertanto chiaro come non c'è spazio per l'applicazione di
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
disposizioni nazionali contro l'abuso sino a quando non esista
un indizio nel testo della CDI che ne esprima chiaramente la
volontà, accettata da entrambe le parti.
Su questa base prevale nella dottrina svizzera e internazionale il parere secondo cui il commentario OCSE 1977 ammette l'applicazione di disposizioni antiabuso unilaterali solo in
presenza di rimandi concreti nelle CDI[34]. Solo gli Stati Uniti
hanno espressamente riservato il diritto di tassare i propri
cittadini e residenti senza prendere in considerazione le regole pattizie internazionali. Di conseguenza, le parti contraenti, sulla base del principio di reciprocità, possono applicare le
loro norme antiabuso interne, a meno che la CDI applicabile
non ne escluda esplicitamente l'applicazione, solo in relazione
con gli Stati Uniti.
4.7.2.
Rapporto OCSE sulla Thin Capitalization del 1986
Nel 1986, l'OCSE ha adottato un rapporto sulla sottocapitalizzazione[35] , dove viene sottolineata la conformità di regole
unilaterali contro la capitalizzazione sottile con l'articolo 9 del
Modello di Convenzione OCSE. Una ripresa della disposizione
particolare in una CDI non sarebbe in tale ambito necessaria.
4.7.3.
Rapporto OCSE sulle conduit e base companies del 1986
Nel 1986, l'OCSE ha adottato i rapporti sulle società “base” e
“conduit” [36]. Nel rapporto sulle società “base”, la maggior parte dei Paesi OCSE hanno ritenuto che le disposizioni antiabuso
unilaterali fossero da considerare come parte fondamentale del diritto di determinare, da un punto di vista nazionale,
fattispecie tributarie. Tali norme, in particolare le norme CFC,
sarebbero estranee al perimetro delle CDI e, pertanto, non ci
sarebbe conflitto fra norme CFC e diritto internazionale pattizio[37]. Visto che, comunque, la relazione fra il diritto convenzionale e il diritto nazionale antiabuso risulterebbe ciò nonostante poco chiaro, il rapporto consiglia di apportare una
riserva esplicita per l'applicazione di norme nazionali CFC nel
testo della Convenzione[38]. A parere comunque di una minoranza di Paesi, tali disposizioni sarebbero inapplicabili, in particolare quando una CDI contenga essa stessa disposizioni per
prevenire gli abusi. Tra questi Stati si trova anche la Svizzera,
che come è stato evidenziato in precedenza, ha inserito a riguardo un’osservazione nel commentario OCSE. Secondo la
Svizzera, oggi come allora, le disposizioni CFC violano lo spirito
delle CDI, considerando come l'applicazione di queste norme
porti in ultima analisi ad un'applicazione unilaterale extraterritoriale del diritto tributario dell'altro Stato contraente.
Vale la pena inoltre di sottolineare come nel rapporto sulle società “conduit”, in contrasto con il rapporto sulle società “base”,
manca qualsiasi riferimento al rapporto fra regole antiabuso
nazionali e CDI. Per le conduit companies, varrebbe allora, secondo il principio di buona fede, la possibilità di usufruire dei
vantaggi convenzionali anche in presenza di un uso improprio
del trattato bilaterale[39]. Tenendo in considerazione quanto
sia in realtà difficile distinguere società “base” da società “conduit”, la differenza risulterebbe in un caos totale, a meno che
la stessa differenza sia riconducibile ad una svista redazionale,
caso comunque non dimostrato.
4.7.4.
Rapporto OCSE sul Treaty Override del 1989
Il cosiddetto "Gruppo dei sei" (tutti Paesi europei) ha scritto una
lettera il 16 luglio 1987 al Segretario del Tesoro americano lamentandosi delle continue deroghe a posteriori della legislazione americana alle CDI concluse dagli Stati Uniti. Gli autori
di questo memorandum lamentano infatti continue violazioni
unilaterali delle CDI che, a loro avviso, mettono in pericolo la
fiducia dei partner contrattuali degli USA e la sicurezza convenzionale, così come la ridotta prevedibilità giuridica. Poco
dopo, il 18 febbraio 1988, dieci dei dodici Paesi della Comunità
europea hanno scritto agli USA mettendo in guardia il Paese
sul possibile danno recato alle CDI in essere dall’eventuale applicazione del "TAMRA" (Technical and Miscellaneous Revenue
Act). Per tutta risposta, il Senatore Sarbanes, nel 1990, durante una audizione al Congresso, ha espresso la seguente opinione, "the parties entering into these treaties know, and full well,
that Congress has been prepared to override these tax treaties, and
therefore they go into them with that knowledge".
Sulla base di queste rimostranze, che dimostrano la serietà
della questione, l'OCSE adotta nel 1989 il rapporto sullo "scavalcamento" dei trattati[40] , messo poi nel dimenticatoio per
motivi non noti, ma che esprime non di meno fondamentali
principi di applicazione. Il rapporto presenta, infatti, non solo
una definizione e una descrizione del treaty override, ma anche
un'analisi giuridica che conferma pienamente la prospettiva
della CV. In particolare, vengono confermati i seguenti concetti di base.
Primo, i trattati internazionali, nelle relazioni fra Stato e Stato,
sono immuni rispetto ai modi e mezzi della loro applicazione
nel diritto nazionale ("pacta sunt servanda"). Secondo, l'interpretazione di una CDI deve essere effettuata caso per caso
in base alle norme generali della CV. Terzo, la procedura amichevole è stata proprio istituita per trovare soluzioni in singoli
casi e per risolvere qualsiasi altra difficoltà o dubbio che possa
sorgere nell'applicazione e interpretazione di un trattato.
In questo modo, riconoscendo l’importanza sempre crescente del fenomeno della promulgazione a posteriori di norme
antiabuso nazionali in contrasto con trattati bilaterali, norme
che portano appunto a quello che tecnicamente viene definito come treaty override, e valutando tutti i pro e contro presentati dalla dottrina, l'OCSE esprime un forte dissenso verso
queste pratiche e ritiene che in caso di dissenso fra Stati contraenti, l'unica via corretta da seguire sia la rinegoziazione o
la denuncia. Gli argomenti posti a difesa del treaty ovverride, in
particolare l'argomento secondo cui nuovi negoziati sono costosi in termini di tempo o addirittura impossibili a causa della
mancanza di volontà di negoziare dell'altro Stato contraente,
vengono respinti in toto dall’OCSE. Di conseguenza, pena la
violazione del principio del venire contra factum proprium, uno
Stato non può a posteriori introdurre norme nazionali in contrasto con quanto sottoscritto in un trattato internazionale.
Restano ovviamente riservate le CDI in cui uno Stato contraente abbia esplicitamente iscritto nella convenzione ratificata
da entrambi gli Stati una riserva legata all’applicazione delle
norme nazionali (di regola antiabuso), che assumono in questo
21
22
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caso una piena applicabilità convenzionale. Emblematico in
generale è il caso 2 presentato nel rapporto. Qualora lo Stato
A e lo Stato B abbiano ratificato una convenzione in cui i plusvalori immobiliari vengano tassati in conformità all’articolo
13 Modello OCSE, ossia secondo il principio della tassazione
nel luogo di situazione, e qualora lo Stato B si accorgesse che
i contribuenti evadono la norma attraverso la costituzione di
società immobiliari, non sarebbe comunque e in ogni caso
permesso allo Stato B di emanare una legislazione interna atta
alla lotta contro questo tipo di potenziale abuso convenzionale. Solo una rinegoziazione, agli occhi dell’OCSE, fra lo Stato A
e lo Stato B, che includa nella convenzione una norma antiabuso con la parificazione per esempio delle società immobiliari ai beni immobili, costituisce una corretta via per evitare il
succedersi del crescente e preoccupante fenomeno del treaty
override. Senza una nuova Convenzione, lo Stato B dovrebbe
accordare i privilegi convenzionali sottoscritti[41].
4.7.5.
Commentario OCSE 1992
Il commentario OCSE nel 1992 è stato modificato in alcune
parti a seguito del rapporto sulle società “base” e “conduit” [42].
Viene di nuovo sostenuta la tesi della validità dell'approccio
"substance over form" e la compatibilità delle norme CFC con
le CDI. Per quanto riguarda la necessità di iscrivere esplicitamente norme antiabuso unilaterali nel testo delle CDI, è ripetuta l'opinione della maggioranza e della minoranza degli Stati
come già evidenziato nel rapporto del 1986.
4.7.6.
Commentario OCSE 1995
Nel 1995, il commentario OCSE chiarisce la definizione di interessi ex articolo 11 Modello OCSE, senza apportare modifiche
significative sul problema della relazione fra norme convenzionali e norme unilaterali antiabuso[43].
4.7.7.
Rapporto OCSE sulla concorrenza fiscale dannosa del 1998
Nel 1998, l'OCSE adotta il rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa[44]. Nel rapporto sono stati identificati soggetti
e tipologie di reddito tassati preferenzialmente che possono potenzialmente interagire con un uso abusivo delle CDI.
Un rapporto supplementare avrebbe poi, in seguito, dovuto
confermare o meno i sospetti. Il rapporto ancora una volta ha
portato avanti l'idea che le disposizioni antiabuso unilaterali
sono compatibili con le CDI.
4.7.8.
Rapporto sulla limitazione dei benefici convenzionali
del 2002
A seguito dell’elaborazione del rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa del 1998, l'OCSE ha adottato nel 2002 il rapporto sulla limitazione dei benefici convenzionali[45]. Il rapporto
ha fornito la base per una revisione del punto 7 all'articolo 1
del commentario OCSE e ha raccomandato una modifica del
concetto di abuso di trattato e chiarimenti del concetto di sede
di direzione effettiva, del concetto di stabile organizzazione e
del concetto di beneficiario effettivo. Il rapporto non include
alcuna formulazione per un chiarimento della compatibilità
delle normative unilaterali con le CDI.
4.7.9.
Commentario OCSE 2003
Nel 2003, il commentario OCSE è stato profondamente modificato in alcune parti essenziali[46]. In seguito, infatti, al
rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa ed a quello sulla
restrizione sui benefici convenzionali, è stato esplicitamente introdotto un secondo obiettivo e scopo delle CDI, ossia
la lotta all’elusione e all’evasione fiscale. Siamo di fronte a un
cambiamento epocale. Le CDI non hanno più come obiettivo primario l’eliminazione della doppia imposizione, ma anche
quello di combattere l’elusione e l’evasione fiscale[47].
Unico Paese membro dell’OCSE a non condividere questa
nuova impostazione è la Svizzera, che ha esplicitamente formulato un’osservazione al riguardo[48]. Di fatto, comunque,
sulla base di questo nuovo compito assegnato alle CDI, cambia
radicalmente anche l’impostazione per quel che concerne la
relazione fra misure antiabuso domestiche e le CDI. Dimenticandosi completamente del rapporto sul treaty override e le
gravi nonché imbarazzanti situazioni venutesi a creare con
gli Stati Uniti, l’OCSE stralcia di colpo il parere di minoranza
espresso da alcuni Stati membri nel rapporto sulle società
“base” e “conduit”. Di colpo, vale solo il principio espresso dalla maggioranza secondo cui le misure antiabuso domestiche
sono compatibili con le norme convenzionali[49]. Inoltre, sarebbe possibile dedurre, ai sensi dell’OCSE, una clausola antiabuso generale inerente a ogni CDI, anche in assenza di qualsiasi tipo di iscrizione esplicita nel testo convenzionale[50].
Questa nuova impostazione rimane comunque incompiuta e
insoddisfacente. Da un lato, l’inserimento di un nuovo obiettivo primario assegnato alle CDI pone diverse domande sulla
reale possibilità di raggiungimento di entrambi gli obiettivi.
Esiste, infatti, una lunga e consolidata tradizione di teoria economica che mette in risalto l’antagonismo di base fra efficienza (eliminare le doppie imposizioni) e equità (evitare abusi)
delle imposte. Entrambi gli obiettivi non sono mutualmente
raggiungibili. Inoltre, la questione fondamentale posta dalla
Svizzera relativa ad una re-nazionalizzazione di convenzioni
bilaterali nate e sviluppate con lo scopo di promuovere il commercio internazionale rimane totalmente irrisolta.
Dall’altro, rimane il fatto che un numero consistente di Paesi
non condivida questa nuova impostazione. Il Belgio, l’Irlanda,
il Lussemburgo, i Paesi Bassi, il Portogallo e la Svizzera respingono con fermezza la compatibilità fra le misure antiabuso
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
unilaterali con le CDI[51]. Secondo questi Paesi, queste normative devono rientrare in una CDI oppure possono collidere
con la disciplina convenzionale. Inoltre, diversi commentatori
rilevano una mancanza di logica interna e una circolarità di
queste innovazioni nei confronti di altri elementi rimasti intatti, di modo che il potere persuasivo del commentario OCSE
ne viene notevolmente diminuito[52] , oltre che a creare nuovi
spazi di difficoltà interpretativa ed eventualmente di violazione del principio di proporzionalità fra obiettivi e mezzi.
4.8.
Compatibilità fra norme antiabuso interne e norme
antiabuso convenzionali
Un ulteriore elemento di confusione viene ad aggiungersi nel
momento in cui il testo di una CDI presenta una o più clausole
antiabuso specifiche. Prevale, se si segue l’approccio seguito
dall’OCSE a partire dal 2003, la clausola antiabuso generale
inerente a ogni Convenzione, anche se non scritta, oppure la
clausola antiabuso specifica inserita nel testo di una CDI?
Anche la deduzione relativa a una clausola antiabuso immanente in ogni CDI, lascia alquanto perplessi con riferimento
alla sua compatibilità con i principi generali della CV [53]. Certamente, una maggiore riflessione sulla reale portata economica e sulla reale possibilità di raggiungimento degli obiettivi
posti a carico delle CDI, nonché una formulazione che tenga
conto delle diverse sensibilità di tutti gli attori in gioco, sarebbe
stata auspicabile.
Esistono al riguardo due approcci. Secondo una prima concezione, detta cumulativa, la riserva generale antiabuso può
essere applicata in concorrenza con il dispositivo antiabuso
specifico, principalmente in caso di clausole sul beneficiario
effettivo. La seconda concezione, detta sussidiaria, prevede il
primato della norma antiabuso specifica.
Inoltre, l’evoluzione storica permette di distinguere importanti incongruenze e cambiamenti di posizione per quel che
concerne le relazioni fra misure antiabuso domestiche e CDI.
L'esistenza di una riserva implicita contro gli abusi del diritto
nelle CDI, che permetterebbe di utilizzare misure antiabuso
interne anche senza un'esplicita e condivisa espressione nel
testo concreto di un trattato, non è suffragata da sufficienti argomentazioni giuridiche. Solo con il commentario OCSE
2003 è stato esplicitamente dichiarato che le CDI debbano
contrastare l'evasione e l'elusione fiscale. Sino al 2003, si parla
solo di non promuovere la frode e l'evasione fiscale. Ogni altra
conclusione, incluso un uso dinamico di queste innovazioni,
contrastano radicalmente con la CV e i principi consuetudinari del diritto internazionale pubblico.
4.7.10.
Conclusione
Il Modello di Convenzione e il relativo commentario OCSE
costituiscono un aiuto importante per l'interpretazione, in
particolare quando le disposizioni della CDI in oggetto corrispondono alla formulazione del Modello di Convenzione OCSE
pubblicato al momento delle negoziazioni fra gli Stati contraenti. Un'analisi più dettagliata dell'ottica OCSE in relazione alla
lotta contro gli abusi del diritto mostra tuttavia una struttura
incoerente. Anche il Modello di Convenzione e il commentario
OCSE non possono venir considerati isolatamente e il loro uso
è sotto il dominio della CV. È difficile comprendere a causa del
principio pacta sunt servanda come disposizioni unilaterali introdotte a posteriori possano essere compatibili con un trattato
precedentemente concordato senza una esplicita ratifica delle
misure in oggetto. Accettare queste misure equivale a re-nazionalizzare le CDI con grave danno per il commercio estero,
la cui promozione, è di sicuro ciò che ha portato alla nascita
delle CDI[54]. Il principio della fiducia implica il riconoscimento
e l’accettazione di costruzioni abusive in assenza di disposizioni
esplicite nelle CDI. Gli Stati possono tollerare una certa massa di abusi con l’intento di perseguire altri obiettivi, che da un
punto di vista politico possono anche essere superiori alla generazione di gettito fiscale. Ogni CDI è il risultato di differenti
sensibilità e necessità. La prevenzione di abusi non può essere
dichiarata come un obiettivo intrinseco (non scritto) delle CDI.
L’OCSE, sempre con il commentario 2003 e senza spiegazioni
particolari a giustificazione della scelta, propugna l’applicazione della concezione cumulativa[55]. La dottrina al riguardo è
divisa, ma esiste una buona e solida corrente che, basandosi sui concetti fondamentali della CV, respinge con fermezza
l’applicazione della concezione cumulativa[56]. In effetti, l’applicazione concorrente della riserva generale antiabuso priva
la clausola specifica di ogni contenuto reale, rivelandosi incompatibile con l’articolo 31 capoverso 1 CV [57].
Ad ogni modo, l’applicazione della dottrina dell’OCSE a una
CDI risalente al 1979, come quella sottoscritta fra la Svizzera e
l’Italia, è certamente priva di ogni fondamento giuridico valido.
5.
Applicazione alla CDI-I: l’Italia ha commesso un treaty
override?
5.1.
Scopo e senso della CDI-I
Il preambolo alla CDI-I contiene oltre al rimando alla volontà
di evitare le doppie imposizioni[58] anche l’esplicita scrittura
della volontà di combattere nel modo più rigoroso possibile
l’evasione e la frode fiscale attraverso l’applicazione di misure previste dalla legislazione interna[59]. Anche la necessità di
impedire l’uso senza causa legittima della CDI-I è stata espres-
23
24
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
samente iscritta nel preambolo della stessa[60]. Sembrerebbe
allora a prima vista, secondo una lettura grammaticale del
testo della CDI-I, che le condizioni poste nella parte teorica
per l’applicazione di misure antiabuso domestiche, anche posteriori alla conclusione di una CDI, siano adempiute. In realtà
le cose non stanno proprio così. Diversi elementi lasciano supporre con un elevato grado di certezza che la reale intenzione
delle parti fosse diversa.
Nel messaggio del Consiglio federale all’Assemblea federale
concernente la ratifica della CDI-I, viene infatti inequivocabilmente dato un contenuto a questi rimandi alla legislazione
interna antiabuso e alla riserva antiabuso generale[61]. Nel
messaggio viene inizialmente fatto un rimando diretto al Modello di Convenzione OCSE del 1977, riconoscendo comunque
uno scollamento rispetto a tale Modello nel titolo, nel preambolo e nel rimando alle norme antiabuso domestiche. Viene,
però, espressamente negata un'eccezionalità per la riserva antiabuso generale, da riferirsi chiaramente al Decreto del Consiglio federale (di seguito DCF) del 1962, in vigore a quei tempi
anche con la Francia, la Germania e il Belgio.
Ancora più determinante e chiaro, invece, si presenta il commentario alla CDI-I di Menétrey, aggiunto scientifico dell’Amministrazione federale delle contribuzioni e inserito nel più
diffuso commentario sull’Imposta federale diretta dell’epoca,
dunque ad una data, il 1985, non troppo distante dall’entrata
in vigore della CDI-I. In questo commentario, come nel messaggio al Consiglio federale, viene riconosciuta la formulazione particolare del testo rispetto al Modello di Convenzione
OCSE, ma con l’attribuzione di un carattere puramente dichiaratorio senza implicare un impegno particolare da parte
degli Stati contraenti rispetto al rimando alle norme antiabuso domestiche[62].
Inoltre, un’interpretazione secondo la buona fede seguendo
il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro
contesto, non può esimersi dal ricordare come il commentario
OCSE del 1977 pone la lotta all’evasione e alla frode fiscale nei
semplici termini di una generica astensione al loro sostegno.
Scopo e obiettivo delle CDI rimane, nel 1977, l’eliminazione
delle doppie imposizioni. Si ricordi anche che la Svizzera, ieri
come oggi in totale continuità, ha validamente espresso la
propria opinione con riserva esplicita, in cui ritiene non corretto ritenere la lotta all’evasione e alla frode fiscale come un
obiettivo perseguibile dalle CDI.
Infine, se l'interpretazione ai sensi della CV da dare al preambolo della CDI-I fosse quella di una Convenzione in cui uno degli obiettivi primari è la lotta all'evasione fiscale e in cui viene
espressamente riservato il diritto antiabuso interno, allora l’Italia sarebbe stato l’unico Paese al mondo, e questo almeno per
circa i due decenni successivi, a potersi privilegiare di questi elementi convenzionali. Non esistono però veri elementi indicativi,
oltre alla menzione grammaticale, che supportano tale tesi.
Sulla base di tutti gli elementi presentati, è molto più plausibile pensare che i rimandi contenuti nel preambolo della CDI-I
siano stati fatti in riferimento al DCF del 1962, una norma
comunque importante utilizzata dalla Svizzera in favore dei
propri partner convenzionali al fine di combattere fenomeni di
treaty shopping e di rule shopping. Si noti, inoltre, come il risultato
di questa interpretazione è in perfetta conformità con quanto
risulta dall’analisi dell’articolo 23 CDI-I.
5.2.
Rapporto fra misure antiabuso interne e convenzionali.
L’articolo 23 CDI-I costituisce in tutta
evidenza una clausola antiabuso convenzionale
Secondo il paragrafo 1 dell'articolo 23 CDI-I, una persona giuridica residente in uno Stato contraente, nella quale persone
non residenti di detto Stato hanno un interesse preponderante, sia direttamente sia indirettamente, in forma di partecipazione o in altro modo, non possono per questa ragione
usufruire di uno sgravio delle imposte dell'altro Stato riscosse
sui dividendi, gli interessi e i canoni provenienti da detto altro
Stato. Anche in questo caso vengono riservati i provvedimenti
più ampi che sono stati o saranno presi da uno Stato contraente per impedire che venga preteso abusivamente lo sgravio
di un'imposta riscossa alla fonte dell'altro Stato.
Inoltre, sussidiariamente, ai sensi del paragrafo 2, una persona giuridica residente della Svizzera, nella quale persone non
residenti della Svizzera hanno un interesse preponderante, sia
direttamente sia indirettamente, in forma di partecipazione o
in altro modo, può pretendere, anche se soddisfa le condizioni di
cui al paragrafo 1, uno sgravio delle imposte riscosse dall'Italia
sugli interessi o canoni che le sono pagati in provenienza dall'Italia, solo se, nel Cantone dove la persona giuridica ha la sede, gli
interessi o i canoni sono assoggettati all'imposta cantonale sul
reddito a condizioni identiche o analoghe a quelle previste dalle
disposizioni concernenti l'imposta federale diretta.
Anche in questo caso, anche se limitatamente alla riscossione
di un’imposta alla fonte su dividendi, interessi e canoni di licenza, rispettivamente per canoni e interessi in presenza di tassazioni privilegiate elvetiche, siamo di fronte a un rimando a
misure antiabuso domestiche supplementari. Questo rimando
implica di conseguenza un’adozione dinamica successiva alla
conclusione della CDI-I di qualsiasi normativa domestica supplementare? La risposta è ancora una volta negativa. Il messaggio del Consiglio federale concernente la CDI-I è lapidario.
La disposizione antiabuso convenzionale è identica a quella
che figura nella CDI dell’epoca sottoscritta con la Francia[63].
Ora, nell’articolo 14 della CDI con la Francia del 1967, prima
della sua rinegoziazione nel novembre 2010, il riferimento è
chiarissimo al DCF del 1962, in quanto ne riprende sostanzialmente la formulazione domestica. Non può essere un caso. Si
noti, ad abundantiam, come nel 2001, la Corte di Appello di Parigi ha giudicato le norme CFC francesi incompatibili con l’articolo 14 della CDI conclusa tra Svizzera e francia nel 1967[64].
Rammentando allora le riserve svizzere al commentario OCSE
del 1977, la costante prassi elvetica in materia di rapporto
fra norme antiabuso domestiche e convenzionali, l’obiettivo
e scopo delle CDI ai sensi del commentario OCSE del 1977, i
principi di interpretazione della CV, è molto plausibile pensare
che il rimando contenuto nell’articolo 23 CDI-I a norme antiabuso interne sia stato fatto con esclusivo riferimento al DCF
del 1962 e che, in ogni caso, viste le condizioni vigenti all’epo-
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
ca, è impossibile che con tale testo la Svizzera abbia firmato
una sostanziale cambiale in bianco per l’introduzione e l’applicazione di misure antiabuso domestiche future in campi che
vadano al di là di quanto già normato nell’articolo 23 CDI-I.
5.3.
Il treaty override italiano realizzato attraverso misure
antiabuso interne inserite a posteriori
Come già enunciato, l'Italia, a partire dalla fine degli anni '90,
ha introdotto nel proprio ordinamento domestico una serie di
misure antiabuso contro i cosiddetti "paradisi fiscali". Ai fini di
tali norme, la Svizzera è stata equiparata, o come intero Paese
o con riferimento solo ad alcuni tipi di società a tassazione
privilegiata, a paradisi fiscali classici come le Bahamas, le Bermuda e le Isole Cayman, con tutte le conseguenze connesse a
tale qualifica. La presenza di un Paese estero in una delle blacklist italiane non comporta solo delle forti penalizzazioni fiscali
per i soggetti residenti in Italia che effettuano investimenti nei
Paesi black-list, ma anche la negazione, ai residenti di detti Paesi, di certi benefici fiscali previsti in Italia.
Il sistema italiano prevede delle white-list e delle black-list[65].
Nelle white-list figurano Stati con tassazione ordinaria e con
un adeguato scambio di informazioni. Ai sensi del Decreto
ministeriale (di seguito D.M.) del 4 settembre 1996, aggiornato con il D.M. del 27 luglio 2010 con l'inserimento di Cipro
e Lettonia, i residenti di tali Paesi possono beneficiare in Italia
dell'esenzione dalla ritenuta alla fonte sugli interessi delle obbligazioni pubbliche, delle obbligazioni emesse da banche o
da società quotate in borsa. Esistono poi tre black-list. Nella
prima, introdotta con D.M. del 4 maggio 1999, la Svizzera figura come Stato nella sua intera dimensione territoriale. Nella
seconda, introdotta con D.M. del 21 novembre 2001, la Svizzera vi figura limitatamente a certe società con determinate
caratteristiche fiscali. Nella terza, introdotta con D.M. del 23
gennaio 2002, la Svizzera vi figura limitatamente a certe società con determinate caratteristiche. Inoltre, alcune misure
restrittive fanno riferimento ad un solo tipo di black-list, mentre altre misure più recenti si riferiscono contemporaneamente sia alla black-list del 1999, sia a quella del 2001.
Analizziamo allora queste norme antiabuso tentando di capire
se l’Italia abbia commesso, o meno, un treaty override in relazione alla CDI-I.
5.3.1.
La black-list di cui al D.M. del 4 maggio 1999
La Svizzera figura in questa black-list come intero Stato, accanto a classici paradisi fiscali. Lo scopo originario di questa
lista concerne il trasferimento di residenza. Se una persona
fisica residente in Italia (e cittadino italiano) trasferisce la sua
residenza in uno di tali Paesi, essa continua ad essere considerata fiscalmente residente in Italia (salvo prova contraria).
La presunzione relativa può essere vinta dal contribuente se
dimostra che ha effettivamente trasferito la residenza all'estero. Di conseguenza, il trasferimento della residenza di un
residente in Italia in qualsiasi Cantone della Svizzera, a prescindere dal sistema di tassazione adottato, ordinario o sul
dispendio, non fa venire meno automaticamente la residenza
fiscale in Italia.
Ora, considerato come questo aspetto sia oggetto dell’articolo 4 CDI-I, in cui la questione è gia stata regolata con la negazione del trasferimento in caso di tassazione sul dispendio, un
aggravamento delle condizioni materiali necessarie per il trasferimento della residenza in Svizzera, ossia l’inclusione anche
del regime di tassazione ordinario con l’inversione dell’onere
della prova, è in chiaro contrasto con la norma convenzionale.
5.3.2.
La black-list di cui al D.M. del 21 novembre 2001
La Svizzera figura in questa black-list con riferimento alle società a tassazione privilegiata. Nella norma, secondo la Risoluzione n. 18/E del 2002 dell'Agenzia delle Entrate, sono incluse
anche società o stabili organizzazioni localizzate in Svizzera
che, pur astrattamente soggette ad imposta municipale e/o
cantonale, di fatto beneficiano, per effetto di accordi amministrativi, di trattamenti fiscali particolari sostanzialmente analoghi all'esenzione dalle predette imposte.
Lo scopo originario di questa lista concerne il regime CFC. Per
partecipazioni di controllo o anche solo di collegamento, sia
diretto che indiretto, si applica l'imputazione del reddito della
società estera in capo al socio residente in Italia, indipendentemente dalla distribuzione del dividendo.
Quale esimente per la non applicazione della norma vale, in
caso di interpello preventivo, la dimostrazione di svolgere
un'effettiva attività industriale o commerciale nello Stato della sede societaria, rispettivamente la dimostrazione che dalla
partecipazione non consegue l'effetto di localizzare i redditi
in Stati o territori a fiscalità privilegiata. L'esimente dell'attività industriale o commerciale è stata recentemente inasprita
dal Decreto Legge (di seguito D.L.) n. 78/2009 in vigore ai fini
delle norme CFC dal 2010. Per effetto delle modifiche apportate da detto D.L., l’esercizio dell’attività di impresa deve radicarsi nel mercato dello Stato in cui ha sede la società e non
più semplicemente nello Stato di insediamento. In particolare,
il requisito dell'attività nel mercato per le attività bancarie e
finanziarie è soddisfatto solo se la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento. Per ben intenderci, una banca svizzera
con clientela prevalente estera, seppur sia chiaro che svolga
un’attività commerciale con personale e struttura propria,
non potrebbe prevalersi dell’esimente sulle CFC. Per le altre
società, inoltre, l'esimente non vale se la società estera ha
conseguito proventi per più del 50% qualificabili come passive
income. Per società svizzere indicate nella black-list del 21 novembre 2001 che svolgono attività di prestazioni di servizi a
società del gruppo, il reddito di tale società viene comunque
imputato al socio controllante italiano.
Inoltre, il D.L. n. 78/2009 ha esteso l’applicabilità delle norme
CFC anche alle società non residenti o localizzate in Stati o
territori black-list, qualora la società estera sia soggetta ad una
tassazione inferiore al 50% di quella che sconterebbe in Italia
e la società estera abbia conseguito proventi per più del 50%
qualificabili come passive income. In questo caso, tuttavia, non
si applica il regime CFC se il soggetto partecipante dimostra
che l'insediamento estero non rappresenta una costruzione
artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.
25
26
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
Nei confronti della Svizzera si applicano entrambi i regimi CFC.
Ora, da un punto di vista convenzionale, la materia è già coperta dall'articolo 23 CDI-I in qualità di norma antiabuso. Appare inoltre chiara anche la violazione del divieto di discriminazione ai sensi dell’articolo 25 CDI-I.
ciale, oppure che le operazioni poste in essere rispondono ad
un effettivo interesse economico. Anche se le operazioni sono
state poste in essere con soggetti del tutto terzi e alle condizioni di mercato, detti importi devono comunque essere evidenziati separatamente nella dichiarazione dei redditi.
Ancora in questo caso, la materia è già coperta dall'articolo
23 CDI-I in qualità di norma antiabuso convenzionale. Si ravvisa inoltre la violazione del divieto di discriminazione ai sensi
dell'articolo 25 CDI-I.
5.3.5.
La black-list del D.M. del 4 maggio 1999 e del D.M.
del 21 novembre 2001
Originariamente ognuna delle due black-list aveva un proprio
scopo. Con il D.L. n. 78/2009 e il D.L. n. 40/2010 si fa riferimento a entrambe le liste nere. Ciò significa che le novità introdotte riguardano la Svizzera nella sua interezza territoriale.
5.3.3.
Regime impositivo dei dividendi in Italia post 2003
Dopo la riforma fiscale del 2003, i dividendi e le plusvalenze
su partecipazioni estere hanno in Italia lo stesso trattamento fiscale dei dividendi e delle plusvalenze interne. Esenzione
del 95% in capo a società di capitali residenti, esenzione del
50,28% in capo a società di persone, a persone fisiche imprenditori e a persone fisiche con partecipazioni qualificate (partecipazione superiore al 25% del capitale sociale o al 20% dei
diritti di voto); tassazione del 20% in capo a persone fisiche
non imprenditori con partecipazioni non qualificate.
Per contro, per i dividendi e le plusvalenze su partecipazioni in
società residenti in Stati black-list valgono le seguenti condizioni. In caso di applicazione del regime CFC, il reddito è escluso dalla tassazione fino a concorrenza del reddito imputato.
Se per contro il regime CFC non è applicabile, perché la partecipazione non raggiunge il 20% oppure quando l'imputazione
viene esclusa dall'esimente dell'attività industriale o commerciale, il reddito è integralmente tassabile in Italia, sia in capo
a persone fisiche che in capo a società di capitali. Tale misura
potrebbe essere in contrasto con il divieto di discriminazione
ai sensi dell'articolo 25 CDI-I.
5.3.4.
La black-list di cui al D.M. del 23 gennaio 2002
La Svizzera figura in questa black-list unicamente con riferimento alle società a tassazione privilegiata.
Lo scopo originario di questa lista, la prima volta introdotta già
con un D.M. del 1992, poi aggiornata con il D.M. del 23 gennaio
2002, era quello di individuare i Paesi nei confronti dei quali vale
una disciplina sulla indeducibilità dei costi derivanti da operazioni realizzate tra imprese residenti in Italia e imprese domiciliate fiscalmente in Paesi a fiscalità privilegiata non appartenenti all'Unione europea. In questo senso, qualsiasi tipo di costo
che un'impresa italiana sostiene per l'acquisto di beni e servizi
da società svizzere a tassazione privilegiata viene considerato
indeducibile dalla legge fiscale italiana, salvo dimostrazione che
la società svizzera svolga in via prevalente un'attività commer-
Il D.L. n. 78/2009 ha introdotto una presunzione relativa,
secondo cui gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati, di cui alle due liste, da persone fisiche
residenti in Italia, in violazione degli obblighi di monitoraggio
fiscale, sono stati costituiti mediante redditi sottratti a tassazione. In pratica, se l'Amministrazione accerta che il contribuente non ha indicato nel modulo RW dei redditi da attività
detenute in Svizzera, si presume che l'intero capitale non dichiarato sia costituito da redditi sottratti a tassazione in Italia.
Con il D.L. n. 40/2010 è stato inoltre introdotto l'obbligo per
tutti i soggetti IVA italiani di comunicare in via telematica
all'Agenzia delle Entrate le cessioni di beni e le prestazioni di
servizi, effettuati o ricevuti, con operatori economici residenti
in Paesi con regime fiscale privilegiato di cui alle due liste predette, per le operazioni effettuate dal 1. luglio 2010.
La prima misura, potrebbe essere in violazione con l'articolo 24
CDI-I (per assenza del credito per le imposte pagate all'estero).
5.4.
Conclusione sulle misure antiabuso interne italiane
In conclusione, appare chiaro, sulla base dell’applicazione dei
principi teorici sviluppati alle norme antiabuso che l'Italia ha
introdotto nella propria legislazione interna dopo la conclusione della CDI-I, come sia stato commesso in diverse occasioni
un treaty override in palese violazione della CDI-I.
Occorre allora porsi un’ulteriore domanda: una volta determinata una violazione convenzionale, quali sono le conseguenze
a livello di diritto internazionale pubblico?
6.
La responsabilità internazionale degli Stati
e contromisure
La responsabilità internazionale è l'istituto secondo il quale
un soggetto di diritto internazionale è chiamato a rispondere
della violazione di un obbligo di diritto internazionale verso un
altro soggetto di diritto internazionale. Il diritto sulla responsabilità internazionale degli Stati è di origine largamente consuetudinaria, anche a carattere imperativo (ius cogens). A tal
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
riguardo risultano fondamentali sia la CV, sia i lavori della International Law Commission (di seguito ILC) che ha portato, dopo
40 anni di lavori, a un progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati per fatti internazionali illeciti che
sono stati adottati dalle Nazioni Unite nel 2001 sotto forma
di risoluzione[66]. Anche se non vincolante, questa risoluzione serve oggi da filo conduttore per l'applicazione del diritto
nell'ambito della responsabilità internazionale.
6.1.
La responsabilità internazionale degli Stati
secondo la CV
La CV è esplicita nella sua terza sezione sull'estinzione dei
trattati e sulla sospensione della loro applicazione. All’articolo
60 capoverso 1 CV, una sostanziale violazione di un trattato
bilaterale da parte di una delle parti autorizza l'altra parte a invocare la violazione come motivo per porre termine al trattato
o sospenderne completamente o parzialmente l'applicazione.
Per violazione sostanziale si intende, ai sensi del capoverso 2
lettera a, o un rifiuto del trattato che non sia autorizzato dalla
CV stessa, o, ai sensi del capoverso 2 lettera b, la violazione di
una disposizione essenziale per la realizzazione dell'oggetto o
dello scopo del trattato.
Circostanze esimenti vengono identificate nella sopravvenienza di una situazione che renda impossibile l'esecuzione ai
sensi dell’articolo 61 CV, nel mutamento fondamentale delle
circostanze ex articolo 62 CV e nella sopravvenienza di una
nuova norma imperativa di diritto internazionale generale (ius
cogens) conformemente all’articolo 64 CV.
La CV definisce inoltre anche la procedura da seguire in caso di
violazione del diritto internazionale. Secondo l’articolo 65 CV,
la procedura da seguire per la nullità di un trattato, la sua estinzione, il ritiro di una parte o la sospensione dell'applicazione
di una convenzione, comporta la notifica della propria pretesa
alle altre parti. La notifica deve indicare il provvedimento previsto nei confronti del trattato e le ragioni che l'hanno determinato. Se dopo un periodo di tempo che, salvo casi di particolare
urgenza, non deve essere inferiore a tre mesi dal ricevimento
della notifica, la controparte non solleva obiezioni, la parte che
ha fatto la notifica può adottare nelle forme previste dall'articolo 67 CV il provvedimento che ha deciso di adottare. Qualora tuttavia l'altra parte avesse sollevato un’obiezione, le parti
dovranno cercare una soluzione facendo uso dei mezzi indicati
nell'articolo 33 della Carta delle Nazioni Unite.
Se, ai sensi dell’articolo 66 CV, nei dodici mesi successivi alla
data in cui è stata sollevata l'obiezione, non sarà stato possibile
giungere ad una soluzione in base al paragrafo 3 dell'articolo 65
CV, verranno applicate le seguenti procedure. Ogni parte di una
controversia che riguardi l'applicazione o l'interpretazione degli
articoli 53 o 64 CV può, qualora ne faccia richiesta, sottoporre
la controversia alla decisione della Corte internazionale di giustizia, a meno che le parti non decidano di comune accordo di
sottoporre la controversia ad arbitrato. Ogni parte di una controversia relativa all'applicazione o all'interpretazione di uno
qualsiasi degli altri articoli della parte V della CV può porre in
atto la procedura indicata nell'allegato della CV inviando, a tale
scopo, una richiesta al Segretario generale delle Nazioni Unite.
Secondo l’articolo 67 CV, gli strumenti aventi lo scopo di dichiarare la nullità di un trattato, di porvi termine, di effettuarne il ritiro o di sospenderne l'applicazione sono relativamente
semplici. La notifica prevista al paragrafo 1 dell'articolo 65 CV
deve essere fatta per iscritto, mentre qualsiasi atto che dichiari
la nullità di un trattato, vi ponga termine o attui il ritiro o la
sospensione dell'applicazione di un trattato in base alle disposizioni dei paragrafi 2 e 3 dell'articolo 65 CV, deve essere redatto
in uno strumento comunicato alle altre parti. Se lo strumento
non è firmato dal Capo dello Stato, dal Capo del Governo o dal
Ministro degli affari esteri, il rappresentante dello Stato che fa la
comunicazione può essere invitato ad esibire i suoi pieni poteri.
6.2.
Acquiescence ed Estoppel
Un ulteriore aspetto di rilievo, evidenziato e studiato dalla dottrina, riguarda i concetti di acquiescence ed estoppel. Secondo il
principio di buona fede e del principio di fiducia, non può esistere una responsabilità se uno Stato contraente ha tollerato
per lungo tempo una situazione di fatto, anche se di per sé
illegale. Una tolleranza prolungata viene a tutti gli effetti parificata ad un’accettazione implicita dello stato di fatto oggetto
di discussione e che potrebbe altrimenti condurre alla responsabilità internazionale dello Stato che tale comportamento ha
posto in essere.
6.3.
La responsabilità internazionale degli Stati secondo la ILC
Il progetto di articolato sulla responsabilità internazionale
degli Stati, preparato dalla Commissione del diritto internazionale e oggetto di formale risoluzione nel 2001 da parte
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, conferma e fortifica
quanto già espresso nella CV, apportando alcune specifiche di
dettaglio all’idea generale di responsabilità dello Stato.
In linea generale, ogni atto internazionalmente illecito da parte di uno Stato comporta la sua responsabilità internazionale[67]. Un atto internazionalmente illecito consiste in un’azione o in un’omissione che può essere attribuito a uno Stato[68] ,
in aperta violazione di un obbligo internazionale, qualunque
ne sia la fonte o la natura[69]. Conformemente al principio del
pacta sunt servanda, il diritto interno di un Paese non ha alcuna influenza sulla qualifica di illiceità internazionale[70]. Anche
per la ILC esistono circostanze che escludono l’illiceità internazionale, riconducibili al consenso, alla legittima difesa, alla
presa di contromisure, alla forza maggiore, all’estremo pericolo, allo stato di necessità e al rispetto di norme imperative[71].
Si noti come la presa di contromisure, ovviamente nel rispetto
del diritto internazionale, esclude la responsabilità internazionale dello Stato che ha adottato tali contromisure. Gli altri elementi esimenti risultano dall’applicazione a fatti internazionali
di principi di buon senso comune. Appare abbastanza ovvio
evitare la responsabilità internazionale nel caso in cui due Stati
siano in realtà d’accordo, oppure nel caso in cui uno dei due
Stati contraenti abbia firmato un obbligo sotto minaccia.
Per quel che concerne il contenuto della responsabilità internazionale, l’ILC è più precisa rispetto alla CV. Stabilita una responsabilità internazionale, si prevede come prima misura la
cessazione e la non ripetizione dell’azione o l’omissione che ha
27
28
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
portato alla responsabilità internazionale[72]. Inoltre, lo Stato
responsabile ha l’obbligo di riparare integralmente il pregiudizio causato dall’atto o l’omissione internazionalmente illecito[73]. Il pregiudizio comprende ogni danno, sia materiale che
morale, causato all’altro Stato.
Per quanto attiene agli aspetti procedimentali, la disciplina elaborata dall’ILC non diverge di molto rispetto a quanto indicato
dalla CV. Difatti, uno Stato leso che invoca la responsabilità
internazionale di un altro Stato deve dare comunicazione della
sua domanda a tale Stato[74]. Lo Stato leso può in particolare
precisare il comportamento che lo Stato responsabile dovrebbe tenere per porre fine all’illecito, e se tale comportamento
non viene messo in atto, la forma che la riparazione dovrebbe
assumere. Nella maggioranza dei casi, la comunicazione avviene per via consolare.
Al fine di indurre lo Stato internazionalmente responsabile di
un atto illecito a conformarsi ai propri obblighi, lo Stato leso
può adottare delle contromisure[75]. Queste contromisure
adottate dovrebbero permettere la ripresa degli adempimenti
degli obblighi internazionali e dovrebbero essere commisurate
al pregiudizio subìto, tenendo conto della gravità dell’atto illecito e dei diritti in gioco[76]. Considerando come sia la responsabilità internazionale, sia l’adozione di contromisure, siano
atti gravi, si prevede la necessità, prima di prendere contromisure, di comunicare allo Stato responsabile ogni decisione
di ricorrere a contromisure e offrirsi di negoziare con tale Stato[77]. In casi urgenti, lo Stato offeso può prendere le contromisure immediate necessarie a preservare i propri diritti.
efficacia giuridica pratica[80]. Per questo motivo, la controversia dottrinale sul fatto che un treaty override costituisca o
meno una sostanziale violazione di un trattato bilaterale[81]
va certamente risolta in favore della prima ipotesi. D’altronde,
un numero sempre maggiore di contributi dottrinali afferma
con estrema chiarezza la violazione del diritto pubblico internazionale da parte di pratiche di treaty overriding[82].
Nell’ambito delle relazioni fiscali bilaterali fra la Svizzera e l’Italia, è stato appurato come quest’ultima abbia violato volontariamente e costantemente a partire dalla fine degli anni ’90,
in numerosissime occasioni, la CDI-I. Non vi è ombra di dubbio alcuno, anche se ci si riferisce unicamente alla dottrina
dell’OCSE sulle conseguenze di un treaty override consistente
in un giudizio caso per caso, che l’Italia abbia violato in modo
sostanziale la CDI-I.
Appare altrettanto evidente, che le normative esimenti sulla
responsabilità internazionale degli Stati non siano applicabili.
Non esiste alcuna forza maggiore che possa giustificare l’adozione di tali e tante misure antiabuso domestiche nei confronti
della Svizzera[83]. Anche in relazione all’estoppel, la Svizzera ha
sin dall’adozione delle prime misure antiabuso italiane tempestivamente comunicato alla controparte, in ambito di relazioni
tecniche, la possibile violazione della CDI-I. Infine, in relazione alla proporzionalità del blocco dei ristorni dell'imposta alla
fonte sui redditi dei frontalieri, considerato il valore complessivo (nel 2013) delle importazioni in Svizzera dall'Italia, pari a
circa 18.8 miliardi di franchi, e delle esportazioni dalla Svizzera
in Italia, pari a circa 15 miliardi di franchi, è plausibile pensare
che una contromisura che blocca un importo di circa 28.4 milioni di franchi rispetti il criterio di proporzionalità.
7.
Il Cantone Ticino come soggetto di diritto pubblico
internazionale
L’ultima domanda da porsi, prima di dare una risposta definitiva al quesito iniziale, concerne la soggettività giuridica del
Canton Ticino ai sensi del diritto pubblico internazionale. Più in
particolare, occorre chiedersi se il Canton Ticino può autonomamente bloccare il ristorno dell'imposta alla fonte sui redditi
dei frontalieri di fronte a una CDI sottoscritta da Berna.
6.4.
Applicazione alla CDI-I
Ad oggi, non sono conosciuti casi di applicazione concreta
della responsabilità internazionale susseguenti ad un tax treaty override[78]. Tale situazione è certamente da ricondurre agli
enormi interessi economici in gioco[79]. Ciò nonostante, da
un punto di vista giuridico, le conseguenze di un treaty override non possono essere alterate da logiche economiche e dalla
mancanza di adeguati mezzi giuridici atti a contrastare, parole dell’OCSE stessa, pratiche che mettono in serio pericolo la
credibilità internazionale delle CDI. Infatti, la semplice notifica
ai sensi dell’articolo 60 CV dell’avvenuto treaty override, senza susseguente adozione di contromisure, risulta un semplice
esercizio dichiaratorio, un appello alla buona volontà dell’altro
Stato contraente, senza alcuna reale forza di penetrazione e
A livello di diritto pubblico internazionale, esiste una lunga
tradizione di Stati federativi o confederativi. L'autonomia più
o meno grande data a regioni facenti parte di detti Stati è un
problema di principio costituzionale interno, a cui il diritto internazionale pubblico non si oppone. Anzi, in alcuni casi esso fa
addirittura esplicito riferimento a costruzioni federative o confederative. La nuova Costituzione Svizzera del 1999 conferma
e rinforza la secolare tradizione elvetica di attribuire ai Cantoni
una sovranità originaria e di attribuirne la facoltà di non solo
collaborare alle decisioni di politica estera, ma addirittura di
partecipare ai negoziati internazionali ai sensi dell'articolo 55
Cost. Questo è già successo in passato, difatti il Canton Ticino ha partecipato ai negoziati per la conclusione della CDI-I e
in questo ambito è stato espressamente attribuito al Canton
Ticino il ruolo di agente pagatore. Pertanto, il suo ruolo come
soggetto giuridico internazionale è riconosciuto sin dal momento delle contrattazioni che hanno portato alla stesura e
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
alla ratifica della CDI-I nel 1979. Di conseguenza, attraverso la
mediazione di Berna, il Canton Ticino può venir ritenuto come
un soggetto giuridico di diritto internazionale pubblico e in
qualità di agente pagatore esplicito, il Canton Ticino può autonomamente decidere le sorti del ristorno, o meno, dell’imposta alla fonte prelevata ai frontalieri ai sensi dell’Accordo sulla
fiscalità dei frontalieri inerente alla CDI-I.
8.
Il blocco dei ristorni dell'imposta alla fonte sui redditi
dei frontalieri è veramente illegale?
La Svizzera non ha mai comunicato per via consolare ufficiale
all’Italia la propria opposizione all’adozione da parte italiana di
misure antiabuso domestiche posteriori alla ratifica della CDI-I,
né ha mai comunicato la violazione convenzionale di tali misure e neppure la volontà di prendere contromisure adeguate
conformemente alla responsabilità internazionale degli Stati.
Elenco delle fonti fotografiche:
http://banche-svizzere.com/wp-content/uploads/2013/02/Banche-Svizzere-in-Italia.jpg [26.05.2014]
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cf/UN_meeting_
on_environment_at_General_Assembly.jpg [26.05.2014]
http://www.lastampa.it/rf/image_lowres/Pub/p3/2014/01/31/Verbania/Foto/RitagliWeb/2014-01-30T135918Z_1593161442_BM2EA 1U156Y01_ RTRM ADP_3_ ITALY-SWIT ZERL AND -TA X-459 -k8 [email protected] [26.05.2014]
http://3.bp.blogspot.com/-KTYXyki7d_Y/UD2sABNTlaI/AAAAAAAAARs/
PzkPFCFdvVo/s1600/acordo.jpg [26.05.2014]
http://ak5.picdn.net/shutterstock/videos/135685/preview/stock-footage-un-flag-with-real-structure-of-a-fabric.jpg [26.05.2014]
http://1.bp.blogspot.com/-3jTTlNdQTFo/UAVEckgdziI/AAAAAAAACLI/
sVve-lceSnE/s1600/Palazzo-della-Pace.jpg [26.05.2014]
Pertanto, da un punto di vista formale, non sono adempiute
le condizioni richieste sia dalla CV che dalla ILC per procedere
all’adozione di contromisure e, in questo senso, il blocco del
ristorno dell’imposta alla fonte attuato dal Canton Ticino nel
2011 è illegale.
Ciò non di meno, da un punto di vista materiale, il blocco, come
possibile contromisura da adottare contro il treaty override italiano, appare perfettamente in linea con le condizioni e i parametri dettati dal diritto pubblico internazionale.
[1] Si veda il lavoro pionieristico di Metzger Dieter, “Pacta sunt servanda” - A level playing field for
international fiscal law, ASA 61, pagine 215 e seguenti.
[2] Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine, RS 0.642.045.43.
[3] Convenzione fra la Confederazione Svizzera
e la Repubblica Italiana per evitare le doppie imposizioni e per regolare talune altre questioni in
materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, RS
0.672.945.41.
[4] Articolo 6 Accordo sui frontalieri.
[5] Articolo 1 Accordo sui frontalieri.
[6] Articolo 2 Accordo sui frontalieri.
[7] Accordo di Roma e Lugano del luglio 1985. Si
veda Bernasconi Marco, L’Accordo tra la Svizzera
e l’Italia relativo all’imposizione dei frontalieri e
alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani di confine del 3 ottobre 1974, RDAT
II/1990, pagine 24 e seguenti.
[8] Articoli 3 e 4 Accordo sui frontalieri.
[9] Articolo 4 Accordo sui frontalieri.
[10] Articolo 5 Accordo sui frontalieri.
[11] Bernasconi Marco, op. cit., pagina 16.
[12] Schubiger Patrick, Treaty Override und Gegenmassnahmen im Rahmen von Doppelbesteuerungsabkommen, Masterarbeit SIST MAS
Taxation 2010-2012, pagina 5.
[13] Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati,
RS 0.111.
[14] Bracco Pietro, Chapter 10: Italy, in: Maisto
Guglielmo (a cura di), Tax Treaties and Domestic
Law, Amsterdam 2006, pagina 5.
[15] Per un'interessante disamina dei rapporti fra
principio democratico e principio di legalità, nonché del principio di concordanza, in caso di treaty
override da un punto di vista tedesco, si veda Rust
Alexander, Die Hinzurechnunsbesteuerung, Monaco 2007, pagine 108 e seguenti.
[16] Engelen Frank, Interpretation of Tax Treaties
under International Law, Amsterdam 2004, pagina 131.
[17] Ibidem, pagina 132.
[18] Ibidem, pagina 135, “which requires that terms of
a treaty must be interpreted according to the meaning
which they possessed, or which would have been attributed to them, in the light of current linguistic usage,
at the time when the treaty was originally concluded, is
based of the principle of good faith, as well.”
[19] Ibidem, pagina 139, “which requires that treaties
are to be interpreted as a whole, and particular parts
and chapters also as a whole.”
[20] Ibidem, pagina 141, “treaties are to be interpreted
primarily as they stand, and on the basis of their actual
texts”.
[21] Ibidem, pagina 173, “It should be noted that the
ILC clearly rejected the teleological method of interpretation under which the object and purpose of a treaty
should always be given effect, even if this would mean
going beyond what is expressed or necessarily to be implied in the actual terms of the treaty”.
[22] OCSE, Tax Treaty Override, Parigi 1989, nota
19, lettera a, e nota 20.
[23] Il Tribunale federale, nella sentenza Danimarca (BGer 28.11.2005, A. Holding ApS,
2A.239/2005), ha utilizzato il commentario OCSE
in modo dinamico, riprendendo elementi introdotti nello stesso dopo la conclusione della CDI
in discussione. In maniera piuttosto isolata, il Tribunale federale ritiene di conseguenza esistente
una clausola antiabuso non scritta in ogni CDI
ratificata dalla Svizzera. Questa prassi interpretativa ha provocato una veemente reazione della
dottrina svizzera, che ritiene (quasi all'unanimità) inammissibile un'interpretazione dinamica
del commentario OCSE. Si veda Matteotti René,
Die Verweigerung der Entlastung von der Verrechnungssteuer wegen Treaty Shoppings, in:
ASA 75 (2006/07), pagina 792; De Broe Luc, International Tax Planning and Prevention of Abuse,
Amsterdam 2008, pagine 332 e seguenti; Reich
Markus/Waldburger Robert, Rechtsprechung im
Jahr 2005 (1. Teil), FStR 2005, pagina 222.
[24] Melis Giuseppe, Lezioni di diritto tributario,
Torino 2013, pagina 198.
[25] Lang Michael, Art. 3: Définitions générales,
pagina 135, nota 55, in: Danon Robert/Gutmann
Daniel/Oberson Xavier/Pistone Pasquale (a cura di),
29
30
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
Modèle de Convention fiscale OCDE concernant le
revenu et la fortune, Commentaire, Basilea 2014;
Oesterhelt Stefan, Bedeutung des OECD-Kommentars für die Auslegung von Doppelbesteuerungsabkommen, in: ASA 80 (2011/12), pagina 373.
[26] Lang Michael, op. cit., pagina 135, nota 56.
[27] Vern Krishna/Borden Ladner Gervais, Treaty
Shopping and the Concept of Beneficial Ownership in Double Tax Treaties, Canadian Current Tax,
volume 19, numero 11, pagina 137.
[28] De Broe Luc, op. cit., pagina 349, nota 123.
[29] Ziegler Andreas, Introduction au droit international public, Berne 2006, pagina 89, nota 215.
[30] Commentario OCSE 2008, articolo 1, cifra 27.9.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] Commentario OCSE 1977.
[34] Storchmeijer Sansonetti Alexandra, Art. 1:
Personnes visées, pagina 24, nota 57, in: Danon
Robert/Gutmann Daniel/Oberson Xavier/Pistone
Pasquale (a cura di), Modèle de Convention fiscale
OCDE concernant le revenu et la fortune, Commentaire, Basilea 2014.
[35] OCSE, Thin capitalization, Parigi 1986.
[36] OCSE, Double Taxation Conventions and the
Use of Base Companies, Parigi 1986; OCSE, Double Taxation Conventions and the Use of Conduit
Companies, Parigi 1986.
[37] OCSE, Double Taxation Conventions and the
Use of Base Companies, Parigi 1986, nota 39.
[38] OCSE, Double Taxation Conventions and the
Use of Base Companies, Parigi 1986, note 41 e 42.
[39] OCSE, Double Taxation Conventions and the
Use of Conduit Companies, Parigi 1986, nota 43.
[40] OCSE, Tax Treaty Override, Parigi 1989.
[41] Storchmeijer Sansonetti Alexandra, op. cit.,
pagina 24, nota 57.
[42] Commentario OCSE 1992.
[43] Commentario OCSE 1995.
[44] OCSE, Harmful Tax Competition - An Emerging Global Issue, Parigi 1998.
[45] OCSE, Restricting the Entitlement to Treaty
Benefits, Parigi 2002.
[46] Commentario OCSE 2003.
[47] I paragrafi da 22 a 24 all'articolo 1 del commentario OCSE sono stati sostituiti con i paragrafi 22 e 23. Si noti comunque come la nuova
referenza non viene riflessa né nel titolo né nel
preambolo del Modello di Convenzione OCSE.
Anche la prevenzione degli abusi è visibile solo
in alcune disposizioni del commentario OCSE, in
particolare all'articolo 7, paragrafo 2, all’articolo
9, paragrafo 1, agli articoli 10-12, all'articolo 13,
paragrafo 4, all'articolo 17 e all'articolo 26.
[48] Commentario OCSE 2008, articolo 1, cifra 27.9.
[49] Commentario OCSE 2008, articolo 1, dalla cifra 21.5 alla cifra 26.
[50] Storchmeijer Sansonetti Alexandra, op. cit.,
pagine 28-29, nota 79.
[51] Commentario OCSE 2008, articolo 1, dalla cifra 27.4 alla cifra 27.9.
[52] Jung Marcel, Abkommensmissbrauch im internationalen Steuerrecht der Schweiz, Berna
2011, pagina 46; Matteotti René, Der Durchgriff
bei von Inländern beherrschten Auslandsgesellschaften im Gewinnsteuerrecht, Berna 2003,
pagina 287 (citato: Gewinnsteuerrecht); De Broe
Luc, op. cit., pagina 335.
[53] Matteotti René, Gewinnsteuerrecht, pagina
298; De Broe Luc, op. cit., pagina 313, nota 88,
pagina 315, nota 92.
[54] Schubiger Patrick, I difficili rapporti fiscali tra
Svizzera e Italia: alcuni retroscena interessanti, in:
NF 4/2014, pagine 12-13.
[55] Commentario OCSE 2008, articolo 1, cifra 9.6.
[56] De Broe Luc/von Frenckell Eric, La notion
de "bénéficiaire effectif" et la question d'abus de
convention en matière de swaps sure rendement
total (total return swaps), in: ASA 81 (2012/13),
pagina 287.
[57] Danon Robert, Art. 1: Personnes visées, pagina 56, nota 157, in: Danon Robert/Gutmann Daniel/Oberson Xavier/Pistone Pasquale (a cura di),
Modèle de Convention fiscale OCDE concernant le
revenu et la fortune, Commentaire, Basilea 2014.
[58] CDI-I, Preambolo, prima parte della prima
frase del primo paragrafo.
[59] CDI-I, Preambolo, seconda parte del terzo
paragrafo.
[60] CDI-I, Preambolo, seconda parte del quinto
paragrafo.
[61] Messaggio del Consiglio federale all'Assemblea federale concernente una convenzione di
doppia imposizione con l'Italia del 5 maggio 1976,
Foglio federale II, 1976, pagina 665.
[62] Menétrey Gérald, Commentario alla Covenzione di doppia imposizione fra l’Italia e la Svizzera, pagina 587, nota 2, in: Masshardt Heinz/
Tatti Quirino, Imposta Federale Diretta, Viganello
1985.
[63] Messaggio del Consiglio federale all'Assemblea federale concernente una convenzione di
doppia imposizione con l'Italia del 5 maggio 1976,
Foglio federale II, 1976, pagina 672.
[64] Ammon Toni/Bouzoraa Dali, Zweitinstanzliches Urteil zur Anwendbarkeit der französischen
CFC-Regelung im Verhältnis zur Schweiz, ASA 70
(2001/02).
[65] Mayr Siegfried, Die gewinnsteuerlichen Beziehungen zwischen Italien und der Schweiz, FStR
2010, pagine 132 e seguenti. Tutte le misure antiabuso descritte di seguito sono state riprese da
questo articolo specialistico.
[66] Draft Articles on Responsibility of States for
Internationally Wrongful Acts, Report of the International Law Commission, Official Records of
the General Assembly, 56th Session, Supplement
N. 10 2004 (di seguito ILC-Draft).
[67] ILC-Draft, Parte I, Capitolo I - Principi generali, articolo 1.
[68] Ibidem, articolo 2.
[69] Ibidem, articolo 12.
[70] Ibidem, articolo 3.
[71] Ibidem, articoli 20-26.
[72] ILC-Draft, Parte II, Capitolo I, articolo 30.
[73] Ibidem, articolo 31.
[74] ILC-Draft, Parte III, Capitolo I, articolo 43.
[75] Ibidem, articolo 49.
[76] Ibidem, articolo 51.
[77] Ibidem, articolo 52.
[78] Gani Raphael, La clause de limitation des
bénéfices dans la convention de double imposition entre la Suisse et les Etats-Unis, Berna 2008,
pagina 238.
[79] La minaccia di disdetta della CDI fra gli Stati
Uniti e le Antille Olandesi ha comportato un peggioramento delle condizioni creditizie sul mercato
di capitali internazionali per le aziende americane.
Il pericolo, nel 1998, di sospendere parte della CDI
fra le Isole Mauritius e l’India, ha portato la borsa
indiana a incassare notevoli perdite nel giro di quarantotto ore. La Gran Bretagna, insieme ad altre
Nazioni, ha minacciato gli Stati Uniti di prendere
contromisure verso la unitary taxation americana.
La stessa Svizzera ha introdotto il DCF del 1962
sulla base di una massiccia pressione da parte degli Stati Uniti, della Germania e della Francia, che
avevano minacciato di disdire le proprie CDI con la
Svizzera. Si veda, in merito, Schubiger Patrick, Treaty Override und Gegenmassnahmen im Rahmen
von Doppelbesteuerungsabkommen, Masterarbeit SIST MAS Taxation 2010-2012, pagina 47.
[80] Gebhardt Ronald, Deutsches Tax Treaty
Overriding, Wiesbaden 2013, pagina 17.
[81] Secondo Gani, op. cit., pagina 238, un treaty
override non costituisce di per sé una sostanziale
violazione di un trattato bilaterale, ma la dimostrazione va addebitata interamente allo Stato
apparentemente leso. Secondo l’OCSE, nel rapporto sul treaty override, nota 23, la decisione va
presa caso per caso.
[82] Gebhardt Ronald, op. cit., pagina 18; Rust
Alexander, op. cit., pagina 11; Matteotti René,
Gewinnsteuerrecht, pagina 257.
[83] Schubiger Patrick, Treaty Override und Gegenmassnahmen im Rahmen von Doppelbesteuerungsabkommen, Masterarbeit SIST MAS
Taxation 2010-2012, pagine 70 e seguenti.
Diritto tributario internazionale e dell'UE
L’Accordo italo-svizzero sui frontalieri del 1974
e la sua possibile denuncia
Stefano Dorigo
Avvocato in Firenze e Milano
Dottore di ricerca in diritto internazionale e dell’Unione
europea presso l’Università di Pisa
Docente di diritto tributario, Università di Firenze
Un’analisi alla luce del diritto internazionale
1.
L’Accordo del 1974 ed i riferimenti alla Convenzione
contro le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera
La possibilità di porre fine all’Accordo tra la Svizzera e l’Italia
relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine
(di seguito Accordo), stipulato il 3 ottobre 1974 ed entrato in
vigore, con efficacia retroattiva al 1. gennaio 1974, nel 1979,
è – secondo quanto si può leggere sulla stampa – oggetto di
particolare dibattito in Svizzera ed in particolare nei Cantoni più direttamente interessati alla disciplina ivi prevista. Nel
contesto italiano, al contrario, la questione desta molto meno
interesse. Ciò è verosimilmente il portato dell’impegno finanziario che i predetti Cantoni sono ogni anno tenuti a sostenere
a favore dei Comuni italiani prossimi alla frontiera e che, specialmente in tempi di particolare crisi economica, gravano in
modo considerevole sulle casse dei medesimi.
Sul versante politico, è stata ipotizzata da taluni la possibilità
di denunciare l’Accordo e di porre perciò fine alla sua vigenza. Una posizione peraltro, sino ad ora, rigettata dagli organi
federali preposti alla gestione dei rapporti internazionali con
l’Italia, sulla base dell’argomento secondo il quale, essendo
l’Accordo divenuto parte integrante della Convenzione contro
le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera (di seguito Convenzione), esso potrebbe venire meno solo a seguito della denuncia di quest’ultima nel suo complesso.
Al di là delle posizioni di tipo politico, la questione deve essere in
questa sede affrontata sul piano giuridico, verificando cioè se le
regole sul venir meno degli effetti di un trattato, come codificate nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969,
siano applicabili e, nel caso, a quali esiti esse possano condurre.
Conviene, al riguardo, prendere le mosse dall’analisi delle convenzioni che vengono in considerazione nel caso di specie ed
in primis dell’Accordo del 1974.
La disposizione che appare di particolare interesse ai fini della nostra indagine è quella dell’articolo 6 dell’Accordo, che si
occupa dei profili temporali di efficacia dello stesso. Di esso è
prevista una durata pari a cinque anni, con entrata in vigore
successivamente allo scambio degli strumenti di ratifica, ma
se ne realizza una efficacia retroattiva con decorrenza dal 1.
gennaio 1974. Le ragioni di tale peculiare disciplina sono molteplici e si collegano, principalmente, all’esigenza originariamente condivisa tra i due Stati di realizzare una convivenza tra
l’Accordo e la Convenzione, le cui rispettive normative erano
intese come complementari e avrebbero perciò dovuto avere
efficacia a partire dallo stesso momento qualunque fosse la
data di entrata in vigore formale dell’uno e dell’altra. Di tale
esigenza è, appunto, espressione il terzo paragrafo dell’articolo 6, il quale stabilisce che “il presente Accordo farà parte integrante della Convenzione da stipularsi tra l’Italia e la Svizzera per evitare
le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio”. La particolare collocazione di tale enunciato, nel corpo di
una disposizione (l’articolo 6 appunto) dedicata esclusivamente ai profili temporali di efficacia dell’Accordo, rende evidente
come la prospettata integrazione vada intesa con riferimento
esclusivo ai detti profili, essendo in sostanza volta a garantire
la sopravvivenza dell’Accordo, anche oltre il quinquennio originariamente previsto, a seguito della stipula della Convenzione
contro le doppie imposizioni. Sembra, insomma, possibile inferire dal testo della norma come l’intenzione non fosse quella di
una piena integrazione in punto di disciplina sostanziale, bensì
piuttosto di un collegamento finalizzato a consentire ai due
trattati di andare di pari passo.
Una simile interpretazione è avvalorata dal tenore del messaggio che il Consiglio federale ha inviato all’Assemblea federale il 2 luglio 1975 all’apertura dell’iter di approvazione parlamentare dell’Accordo. Esso ripercorre, infatti, la storia dei
rapporti tra i due Stati in merito alla soluzione del problema
della doppia imposizione e dà conto delle diverse posizioni
manifestate, da un lato l’Italia desiderosa di trattare separatamente il tema della doppia imposizione in generale rispetto a
quello del regime dei frontalieri in particolare, dall’altro la Svizzera propensa ad una trattazione ed approvazione congiunta.
Ne scaturisce un quadro nel quale i due trattati paiono essere autonomi l’uno dall’altro ed idonei a dettare una disciplina
specifica non sovrapponibile; l’unico momento di intersezione
tra essi è, appunto, individuato sul piano degli effetti temporali:
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32
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
“l’accordo è conchiuso per una durata di cinque anni (cpv. 1), ma sarà
parte integrante di una convenzione di doppia imposizione da concludersi; se dunque questa convenzione verrà conchiusa, l’accordo sui
frontalieri avrà la stessa durata della convenzione di doppia imposizione; per contro se una convenzione di doppia imposizione non verrà
conchiusa, l’accordo diverrà automaticamente caduco alla scadenza
del termine di cinque anni".
2.
La diversa integrazione contemplata dalla Convenzione
contro le doppie imposizioni del 1976
La Convenzione contro le doppie imposizioni è stata sottoscritta tra i due Stati nel 1976 ma è entrata in vigore solo il
1. gennaio 1979. Essa riprende dall’Accordo l’esigenza di integrazione, ma pare declinarla in termini parzialmente differenti.
Due sono, al riguardo, le norme che occorre analizzare: l’articolo 15, paragrafo 4, e l’articolo 31. Quest’ultima norma si
colloca in continuità rispetto a quanto aveva previsto l’articolo
6, paragrafo 3, dell’Accordo: essa, infatti, si riferisce ai profili
temporali del trattato e afferma che “la presente Convenzione,
di cui l’Accordo citato nel paragrafo 4 dell’art. 15 costituisce parte
integrante, rimarrà in vigore sino alla denuncia da parte di uno degli
Stati contraenti”. Dunque, questo primo riferimento all’Accordo
mira a confermare l’esistenza di un regime unitario di efficacia,
valevole sia per questo che per la Convenzione, svincolato dalla
durata quinquennale del primo e collegato ad una scadenza
che è lasciato alle parti, tramite il ricorso alla denuncia, definire.
Fin qui, dunque, nulla di nuovo. Sennonché, l’articolo 15, paragrafo 4, della Convenzione effettua un ulteriore richiamo
all’Accordo e realizza una sorta di inserzione di questo nel proprio tessuto normativo. Peraltro, la tecnica redazionale impiegata da tale articolo è tale da ingenerare qualche ambiguità.
L’articolo 15 si occupa del trattamento fiscale dei redditi da
lavoro dipendente che il residente in uno dei due Stati contraenti ritrae dall’attività subordinata svolta nell’altro Stato; il
paragrafo 4 si riferisce al caso specifico dei redditi dei frontalieri e così si esprime: “il regime fiscale applicabile ai redditi ricevuti
in corrispettivo di un’attività dipendente dei lavoratori frontalieri è
regolato dall’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo alla imposizione
dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore
dei Comuni italiani di confine, del 3 ottobre 1974, i cui articoli da 1 a
5 costituiscono parte integrante della presente Convenzione”.
Dunque, da un lato la norma dichiara che la disciplina fiscale
dei compensi percepiti dai lavoratori frontalieri è retta dall’Accordo; dall’altro, e con una disposizione di portata sostanziale,
incorpora nel proprio ordito direttamente la regolamentazione recata sul punto dal medesimo Accordo e cristallizzata
negli articoli da 1 a 5 dello stesso. L’effetto che ne scaturisce è
il seguente: le regole che, secondo la Convenzione, presiedono al trattamento fiscale dei compensi percepiti dai lavoratori
frontalieri nello Stato diverso da quello di residenza coincidono con quelle dell’Accordo, ma trovano – in virtù del diretto inserimento delle relative disposizioni nella Convenzione
contro le doppie imposizioni – la loro fonte non più nel primo
bensì in quest’ultima. Detto altrimenti, è come se i redattori
dell’articolo 15, paragrafo 4, si fossero resi conto che il semplice richiamo all’Accordo avrebbe finito per creare incertezza, dal momento che la disciplina della Convenzione avrebbe
in qualche modo dovuto “inseguire” le vicende che, nel tempo,
avrebbero potuto riguardare l’Accordo (cosiddetto “rinvio mobile”); di talché, ciò che rileva è la regolamentazione sostanziale di cui agli articoli 1-5 di questo che viene ad essere separata
dalla fonte che l’ha in origine prevista ed inserita nel testo della
Convenzione, facendone parte integrante e destinata così a
rimanere anche nell’ipotesi in cui il primo dovesse per qualsiasi
ragione venir meno.
L’integrazione realizzata dalla Convenzione, in sostanza, non è
più legata alla coesistenza di due testi pattizi autonomi, come
prefigurato dall’articolo 6 dell’Accordo, bensì si realizza attraverso il diretto inserimento nella prima della disciplina sostanziale prevista dal secondo.
3.
Quali ricadute della regolamentazione in esame
sulla possibilità di denunciare l’Accordo?
Sulla base della ricognizione testuale che si è compiuta nei paragrafi precedenti, anche alla luce dell’assetto degli interessi concretamente perseguito dalle parti e dell’orientamento
manifestato dal Consiglio federale, si può tentare di elaborare
qualche soluzione interpretativa relativamente al tema della
possibilità per la Svizzera di porre fine legittimamente all’Accordo del 1974.
Al riguardo, possono in linea teorica individuarsi due macroipotesi. La prima si fonda sulla considerazione che l’Accordo e la
Convenzione rappresentano due trattati internazionali distinti
ed autonomi, la cui integrazione è stata prevista solo al fine di
superare gli stretti limiti temporali originariamente previsti dai
redattori dell’Accordo. Saremmo, dunque, in presenza di due
accordi separati nella rispettiva regolamentazione sostanziale
ed uniti soltanto per la durata. La seconda, invece, si basa sulla
prospettazione secondo cui l’Accordo ha rappresentato la prima fase degli accordi tra Italia e Svizzera volti a regolamentare
reciprocamente la doppia imposizione ed ha quindi esaurito la
propria funzione a seguito dell’inserimento della sua disciplina
sostanziale nel corpo della Convenzione: di talché, si potrebbe
sostenere che, con l’entrata in vigore di quest’ultima, l’Accordo sia venuto implicitamente a cessare, trovando, la suddetta
disciplina, la propria fonte esclusiva proprio nell’articolo 15,
paragrafo 4, della Convenzione contro le doppie imposizioni.
Se si assume la prima tesi, diventa in astratto percorribile la via
della denuncia autonoma dell’Accordo, volta a porvi fine. Non
importa, al riguardo, che il testo del trattato non contempli
Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
espressamente una facoltà di denuncia per una delle parti,
atteso che la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, al
suo articolo 56, contempla proprio questo caso, affermando che non viene meno la possibilità di denunciare il trattato
purché sussista almeno una delle due condizioni ivi menzionate: che sia provato che le parti intendevano ammettere la
possibilità di denuncia o cancellazione del trattato, ovvero
che un simile diritto si possa ricavare per implicito dalla natura del trattato stesso.
Non sembrano esservi, nel caso di specie, ragioni per escludere tali circostanze. Nonostante il silenzio delle parti, infatti,
la natura dell’Accordo, riguardando una situazione specifica e
contingente come quella del trattamento fiscale dei compensi
tratti dai frontalieri nell’esercizio di una attività di lavoro subordinato, ben si presta alla possibilità di ravvisare la possibilità
di una conclusione dei suoi effetti. Non va dimenticato che il
testo poi trasfuso nell’articolo 56 della Convenzione di Vienna
era stato approvato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, la quale aveva condiviso la tesi di quei
membri secondo cui “in certain types of treaty, such as treaties
of alliance, a right of denunciation or withdrawal after reasonable
notice should be implied in the treaty unless there are indications of
a contrary intention”.
D’altra parte, la stessa Convenzione di Vienna suggerisce, al
riguardo, una soluzione in grado di rendere in qualche modo
superflua una simile interpretazione. L’articolo 59, infatti, si riferisce al caso in cui un trattato sia sospeso o terminato in via
implicita a seguito della conclusione successiva di un nuovo
trattato, laddove tra l’altro “appaia dal trattato successivo o si provi altrimenti che le parti intendevano che l’intera questione fosse governata da quel trattato” (paragrafo 1, lettera b). Di fatto, secondo tale norma, laddove si susseguano due trattati, regolanti
una medesima materia, il più recente si può ritenere abroghi il
precedente laddove appaia chiaro che l’intenzione delle parti
era quella di compendiare nel primo l’intera disciplina. Come si
vede, è questo il caso in esame, nel quale l’Accordo era inteso
come un frammento della più generale regolamentazione dei
fenomeni di doppia imposizione tra i due Stati, il cui completamento sarebbe avvenuto solo per mezzo di un’apposita convenzione generale contro le doppie imposizioni: chiarissimo,
al riguardo, il preambolo dell’Accordo, ove si legge che i due
Stati sono “desiderosi di eliminare le doppie imposizioni che possono
risultare per i lavoratori frontalieri dall’applicazione delle legislazioni
fiscali dei due paesi in materia di imposte sul reddito”; ma anche
il già citato messaggio del Consiglio federale, che sottolinea
come “lo statuto fiscale dei lavoratori frontalieri non è attualmente
regolato nelle relazioni con l’Italia per la mancanza di una convenzione generale di doppia imposizione tra i due Paesi” e conclude che “il
presente accordo intende supplire a questa lacuna prevedendo l’imposizione esclusiva dei frontalieri nel luogo di lavoro”.
Una volta entrata in vigore la Convenzione, recante una disposizione ad hoc sul punto, è ragionevole sostenere che l’Accordo
sia venuto meno, in quanto implicitamente superato dalla regolamentazione più generale recata dalla prima.
4.
La perdurante vigenza della disciplina sostanziale
dell’Accordo in seno alla Convenzione
Quale che sia la soluzione che si prescelga, è allora evidente
che un problema di cessazione degli effetti dell’Accordo non si
pone: da un lato, in quanto la denuncia può dirsi ammessa ai
sensi dell’articolo 56 della Convenzione di Vienna; dall’altro, in
alternativa, poiché si può ritenere che gli effetti di esso siano già
venuti meno a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione.
Certo è che, in entrambi i casi, i fautori dell’eliminazione dal
mondo del diritto della disciplina dell’Accordo sarebbero nella
sostanza niente affatto soddisfatti. La cessazione degli effetti
dell’Accordo – già realizzata in base all’articolo 59 della Convenzione di Vienna, ovvero possibile da perseguire in attuazione dell’articolo 56 della stessa – non risolve infatti la perdurante vigenza della regolamentazione sostanziale in esso
prevista, dal momento che questa si trova adesso incorporata
nella Convenzione all’articolo 15, paragrafo 4 più volte citato.
Si vuole dire, in altri termini, che il tema vero da affrontare e, se
possibile, risolvere non è tanto quello della sorte dell’Accordo
in sé, quanto piuttosto quello della possibilità di eliminare dalla
Convenzione contro le doppie imposizioni la disciplina sui lavoratori frontalieri, dal momento che ormai questa sussiste ed
ha efficacia a prescindere dall’Accordo medesimo.
Ebbene, sul punto – sempre che non si voglia passare da una
messa in discussione globale della Convenzione, ciò che pare
non essere nell’agenda neppure dei sostenitori della tesi della
denunciabilità dell’Accordo – può provare a trarsi qualche argomento invocando un’altra disposizione della Convenzione di
Vienna su diritto dei trattati, segnatamente l’articolo 44. Questo pone due regole distinte. La prima, che si trova al paragrafo
1, stabilisce che il diritto di una parte di porre fine al trattato
– previsto espressamente nel testo o ricavabile per implicito ai
sensi del citato articolo 56 – può essere esercitato solo in relazione all’intero trattato, salvo che questo non preveda altrimenti ovvero che le parti non consentano all’esercizio parziale
di detto diritto. La regola, allora, è quella della non separabilità
del trattato in relazione all’operatività del diritto di denuncia, recesso o sospensione, mentre l’eccezione deve essere espressamente contemplata o comunque oggetto di un accordo ulteriore tra le parti. La seconda regola, di cui al paragrafo 2, riguarda
la possibilità di invocare una delle cause di invalidità, cessazione, recesso o sospensione del trattato “riconosciute” in seno alla
Convenzione di Vienna. Anche qui la regola è per l’operatività
di queste cause solo con riguardo all’intero trattato, mentre la
possibilità di invocarle con riguardo a specifiche clausole è limitata al ricorrere cumulativo di tre condizioni:
33
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a) che dette clausole siano separabili dal resto del testo con
riguardo alla loro applicazione;
b) che appaia dal trattato ovvero sia provato altrimenti che
l’accettazione di dette clausole non ha costituito base essenziale per il consenso dell’altra parte o delle altre parti
ad essere vincolata all’intero trattato; e
c) che la perdurante vigenza della rimanente parte del trattato non sia ingiusta.
Così riassunta la norma, sembra a chi scrive quanto mai problematico invocarne l’applicazione nel caso di specie.
Da un lato, la Convenzione, pur contemplando un diritto di denuncia, ne riferisce l’efficacia all’intero trattato e non contiene
alcuno spunto nel senso di una riferibilità del medesimo diritto
solo ad alcune clausole: ciò che esclude l’invocabilità dell’articolo 44, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna. In questo senso, del resto, si era espressa la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite nel commentario all’articolo 41 del
progetto in articoli sul diritto dei trattati, poi trasfuso appunto
nell’articolo 44 della Convenzione di Vienna: si legge infatti al
paragrafo 3 del commentario che “in the case of a right provided
for in the treaty, it is for the parties to lay down the conditions for the
exercise of the right; and, if they have not specifically contemplated
a right to denounce, terminate, etc. parts only of the treaty, the presumption is that they intended the right to relate to the whole treaty”.
D’altra parte, la disciplina del paragrafo 2 della medesima disposizione si riferisce esclusivamente alle specifiche cause di
invalidità, cessazione, recesso o sospensione previste dalla
stessa Convenzione di Vienna e, dunque, in assenza di una di
queste cause essa non pare potersi applicare. Non risulta che
i sostenitori della possibilità di denuncia abbiano sinora invocato l’esistenza di una causa di invalidità o cessazione degli
effetti contemplata dalla Convenzione di Vienna (errore, minaccia, corruzione, eccetera). Di talché, la regolamentazione
del paragrafo 2 non pare idonea a costituire valido supporto
alla tesi della denunciabilità parziale della Convenzione.
Potrebbe, in astratto, attribuirsi una qualche rilevanza alla
causa di recesso del trattato prevista dall’articolo 62 della
Convenzione di Vienna, la quale riguarda il mutamento fondamentale delle circostanze che accompagnarono la conclusione dell’Accordo: si potrebbe, infatti, sostenere che dal 1974
ad oggi il fenomeno legato ai lavoratori transfrontalieri sia
notevolmente mutato e, con esso, la sostenibilità dell’onere
economico legato ai ristorni da parte dei Cantoni di frontiera.
Tuttavia, occorrerebbe in questo caso verificare le condizioni al
cui ricorrere la medesima norma subordina l’operatività della
causa di recesso, in particolare che le predette circostanze costituirono elemento essenziale al momento della prestazione
del consenso a vincolarsi al trattato e che il loro mutamento
sia tale da trasformare radicalmente l’estensione degli obblighi
derivanti da questo. Si tratta di elementi assai stringenti e la
cui dimostrazione in concreto appare tutt’altro che agevole.
V’è, infine, da dire che in ogni caso, anche cioè se si ammette
che l’articolo 44 sia in astratto invocabile nel caso di specie, la
sua operatività in concreto risulta esclusa in quanto non ricorre la condizione di cui alla lettera b del paragrafo 2 sopra
ricordato. Essa subordina la possibilità di far valere una causa di estinzione o cessazione degli effetti di singole clausole del trattato alla verifica che queste non abbiano “costituito
per l’altra parte o le altre parti del trattato una base essenziale del
loro consenso a vincolarsi al trattato nel suo complesso”. Ebbene, la
storia dei rapporti tra Italia e Svizzera relativamente alla soluzione pattizia delle questioni legate alla doppia imposizione
mostra come per l’Italia sia sempre risultato essenziale prevedere un regime di tassazione dei frontalieri tale da imporre alla
Svizzera, in cambio del riconoscimento del diritto esclusivo a
sottoporre a imposizione i redditi prodotti, il ristorno di parte del gettito a favore dei Comuni italiani di frontiera. Tanto
è vero che fu proprio l’insistenza del governo italiano a condurre alla separazione dei negoziati sulla doppia imposizione,
anticipando la soluzione del problema dei frontalieri mediante
la stipula dell’Accordo. Non sembra, quindi, corretto sostenere che le clausole inserite nella Convenzione e mutuate dagli
articoli 1-5 dell’Accordo siano indifferenti per l’altro contraente (ovvero l’Italia), anzi – come si legge nei dibattiti svoltisi in
seno all’Assemblea federale – furono proprio la concessione
della Svizzera a introdurre la regolamentazione dell’Accordo in
tema di frontalieri e la successiva resistenza a consentirne l’entrata in vigore a indurre l’Italia a siglare la Convenzione contro
le doppie imposizioni tra i due Stati.
La corretta ricostruzione del contesto nel quale sono maturati
tanto l’Accordo quanto la Convenzione induce in sostanza a
ritenere che le clausole contenute nel testo di quest’ultima e
concernenti il regime fiscale dei lavoratori frontalieri abbiano
costituito un motivo essenziale per la partecipazione dell’Italia
alla Convenzione nel suo complesso. Di talché, non pare potersi legittimamente invocare da parte della Confederazione la
disciplina della separabilità di cui all’articolo 44 della Convenzione di Vienna.
Laddove le tendenze politiche favorevoli alla soppressione della disciplina sui frontalieri prevalessero, non resterà che denunciare la Convenzione nel suo complesso ovvero, soluzione
più verosimile, inserire il tema nei negoziati da tempo in corso
tra i due Stati per la revisione della Convenzione medesima.
Per maggiori informazioni:
Per l’esame del testo della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e
dei lavori preparatori della Commissione di diritto internazionale, si rivia a:
www.un.org/law/ilc [26.05.2014]
Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.fiscooggi.it/files/immagini_articoli/stretta%20di%20mano.
jpg [26.05.2014]
http://media.tumblr.com/tumblr_lspk6rT6al1qlz3wr.jpg [26.05.2014]
Rassegna di giurisprudenza di diritto
tributario svizzero
Il termine del 31 marzo è determinante per richiedere all’autorità fiscale delle deduzioni supplementari in ambito di imposizione alla fonte?
Sabina Rigozzi
Collaboratrice scientifica SUPSI
Sentenza del Tribunale federale, del 5 marzo 2013, n. 2C_684/
2012, in: RDAF 2013, pagine 246-256
1.
La fattispecie oggetto della sentenza
Il signor X. (di seguito X.), domiciliato in Francia, nel 2008 ha
lavorato a Ginevra. Il 30 gennaio 2009, ha ricevuto l’attestazione fiscale[1] relativa al 2008, dalla quale è emerso che l’imposta alla fonte sul reddito ginevrino di 491'617 franchi ammontava a 166'980 franchi, pari ad un tasso d’imposizione del
33,95 per cento.
Per posta, con timbro postale datato 4 aprile 2009, X. ha chiesto
all’amministrazione fiscale di Ginevra (di seguito amministrazione cantonale) di correggere l’imposta alla fonte per l’anno
2008 sul suo reddito, al fine di prendere in considerazione gli alimenti versati alla sua ex moglie e alla loro figlia, così come i versamenti effettuati presso il suo istituto di previdenza individuale
vincolata, essendo deduzioni non previste dalla normativa vigente in materia di imposta alla fonte. L’11 febbraio 2010, l’amministrazione cantonale ha respinto il reclamo, poiché tardivo.
X. ha impugnato la decisione dell’amministrazione cantonale
presso la Commissione cantonale di ricorso in materia amministrativa, divenuta dal 1. gennaio 2011 Tribunale amministrativo di prima istanza del Canton Ginevra (di seguito TAPI),
che ha ammesso il ricorso del contribuente e rinviato la causa
all’amministrazione cantonale, il 9 marzo 2012. A sua volta,
l’amministrazione cantonale ha impugnato la decisione del
TAPI presso la Camera amministrativa della Corte di giustizia ginevrina (di seguito Corte). Con sentenza del 12 giugno
2012, quest’ultima ha ammesso il ricorso, annullato la sentenza del TAPI e riabilitato la decisione dell’amministrazione cantonale dell’11 febbraio 2010. Nelle sue motivazioni, la Corte
ha spiegato, in sostanza, che la ritenuta d’imposta alla fonte
eccessiva non era dovuta, nella fattispecie, all’errore di un terzo, ciò che avrebbe giustificato una protezione particolare del
contribuente. Al contrario, la ritenuta eccessiva risultava dalla
mancata presa in considerazione delle deduzioni, che il contribuente avrebbe dovuto far valere entro il termine legale stabilito dall’articolo 137 LIFD, ciò che invece ha omesso di fare.
Il 10 luglio 2012, X. ha quindi adito il Tribunale federale contro la
sentenza della Corte, chiedendone l’annullamento e chiedendo
nel contempo la riabilitazione della sentenza del TAPI. La Corte
ha rinunciato a formulare osservazioni in merito al ricorso di X.,
rinviando peraltro alle motivazioni già formulate nella sua sentenza. L’amministrazione cantonale ha chiesto il respingimento
del gravame, così come l’Amministrazione federale delle contribuzioni (di seguito AFC), che si è quindi allineata alla presa di
posizione dell’amministrazione cantonale.
2.
Considerazioni sulla ricevibilità del ricorso
del contribuente
Innanzitutto il Tribunale federale ha giudicato ricevibile il ricorso in materia di diritto pubblico di X., poiché il ricorrente ha
partecipato alla procedura nell’istanza precedente, è particolarmente condizionato dalla sentenza in quanto contribuente
ed ha un interesse degno di protezione affinché la sentenza
impugnata sia annullata o modificata. X. ha altresì i requisiti per poter ricorrere alla sentenza della Corte ginevrina e il
ricorso è depositato in tempo utile e nelle forme richieste. Il
Tribunale federale ha sottolineato in seguito che il ricorso deve
contenere delle conclusioni e che anche in questo senso lo
stesso è ricevibile[2]. Ha poi spiegato che la Corte ha emanato una sola sentenza e non ha effettuato nessuna distinzione, nel dispositivo della stessa, tra l’imposta federale diretta
35
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Novità fiscali / n.5 / maggio 2014
e le imposte cantonali e comunali; questo perché, tra le altre
cose, l’articolo 85 capoverso 2 LIFD stabilisce che il tasso per la
percezione alla fonte dell’imposta federale diretta è inglobato
nel tasso per la percezione alla fonte dell’imposta cantonale.
Di conseguenza, anche la sentenza del Tribunale federale ha
seguito il medesimo ragionamento, ma i giudici federali hanno esposto le loro considerazioni separatamente per ciascuna
categoria d’imposta, al fine di non nuocere alla chiarezza del
ragionamento. Il Tribunale federale ha emanato la sentenza
basandosi sui fatti così come emersi nella sentenza dell’istanza
precedente, dato che non sono adempiute le condizioni[3] per
le quali il Tribunale federale può discostarsene.
3.
Considerazioni sulla fattispecie
Innanzitutto i giudici dell’Alta Corte hanno osservato che la
controversia non è inerente all’assoggettamento stesso del ricorrente all’imposta alla fonte, bensì alle modalità con le quali
è avvenuto. I giudici hanno rammentato che il sistema di imposizione alla fonte, che si fonda su un sistema di “auto-tassazione”, si discosta notevolmente dal sistema di imposizione
ordinario sul reddito e la sostanza, che si fonda su un sistema
di tassazione “misto”. Di conseguenza, anche la procedura di
tassazione è molto diversa nei due sistemi di imposizione; in
particolare, nell’imposizione alla fonte avviene una sostituzione fiscale: è infatti il debitore della prestazione imponibile (il
datore di lavoro) che si vede assumere, per legge, gli obblighi
formali e materiali derivanti dal rapporto fiscale, in sostituzione al creditore della prestazione imponibile (il lavoratorecontribuente)[4]. In particolare, il datore di lavoro ha l’obbligo
di trattenere l’imposta dovuta alla scadenza della prestazione
imponibile e di rilasciare al lavoratore-contribuente un’attestazione che ne indica l’importo trattenuto[5]. L’attestato ha
lo scopo di informare il contribuente sull’importo della ritenuta effettuata e di permettergli, in caso di contestazione, di
esigere che l’autorità di tassazione gli notifichi una decisione
in merito all’esistenza e all’estensione dell’assoggettamento
(in altre parole l’ammontare dell’imposta dovuta) secondo
l’articolo 137 capoverso 1 LIFD. Secondo tale disposizione, il
lavoratore-contribuente oppure il suo datore di lavoro possono effettuare tale contestazione, esigendo una decisione della competente autorità di tassazione in merito all’esistenza e
all’ammontare dell’imposta dovuta, entro il 31 marzo dell’anno che segue quello relativo all’assoggettamento all’imposta
alla fonte. Tale termine è stato introdotto nella legge al fine
di preservare la certezza del diritto. In effetti le parti coinvolte
hanno un interesse a sapere quando l’imposta diventa definitiva e la tassazione cresce in giudicato, anche in un sistema
di auto-tassazione come quello dell’imposizione alla fonte. La
legge stabilisce poi che quando il datore di lavoro opera una
ritenuta alla fonte troppo elevata, deve restituire l’importo in
eccesso al contribuente (articolo 138 capoverso 2 LIFD[6]). Si
tratta di una forma di procedura di revisione semplificata, che
si giustifica, sempre secondo il ragionamento dei giudici, poiché nella procedura dell’imposizione alla fonte il contribuente
è rappresentato dal debitore della prestazione imponibile e
non dispone generalmente delle informazioni necessarie per
difendere i propri interessi. Per via della sostituzione fiscale tipica del sistema di imposizione alla fonte, dove l’imposta
è calcolata sul reddito lordo, dato che le principali deduzio-
ni sono prese in considerazione forfettariamente nell’aliquota d’imposta (articolo 86 capoverso 1 LIFD), il contribuente è
coinvolto solo marginalmente nella procedura di tassazione.
Le deduzioni non comprese nell’aliquota d’imposta possono
essere richieste marginalmente a titolo individuale, secondo
l’articolo 2 lettera e dell’Ordinanza sull’imposta alla fonte nel
quadro dell’imposta federale diretta (di seguito OIFo)[7].
Il Tribunale federale si è poi soffermato su una sua precedente sentenza del 2009[8] , nella quale ha esaminato il rapporto
reciproco fra gli articoli 137 e 138 LIFD. In quella fattispecie,
il datore di lavoro del ricorrente aveva applicato un tasso di
imposizione errato, ma quest’ultimo lo aveva contestato solamente dopo il 31 marzo dell’anno successivo. Il Tribunale federale, in quella sede, aveva quindi evidenziato che se il contribuente richiede una decisione dell’autorità di tassazione entro
tale data e poi tale decisione non viene contestata, la stessa
cresce in giudicato e diventa definitiva. Se il contribuente o il
debitore della prestazione imponibile non richiedono tale decisione entro il termine legale prefissato, allora le conseguenze
sono meno evidenti, dato che l’auto-tassazione non è di principio una decisione stessa, poiché né il contribuente, né il debitore della prestazione imponibile hanno l’autorità per prendere delle decisioni[9]. Il Tribunale federale aveva quindi concluso
la sua analisi ritenendo che le disposizioni degli articoli 137 e
138 LIFD dovevano essere interpretate nel senso che dopo la
scadenza del termine del 31 marzo non è più possibile sollevare contestazioni in merito all’assoggettamento fiscale, ma che
invece rimaneva salva, anche oltre tale termine, la possibilità di
contestare l’ammontare della ritenuta di imposta e ciò sia che
la contestazione fosse da parte del fisco, che del contribuente.
L’articolo 138 LIFD è stato quindi considerato dai giudici come
lex specialis rispetto all’articolo 137 LIFD, ma limitatamente ai
problemi che si pongono in caso di trattenuta alla fonte eccessiva o insufficiente e non in merito all’assoggettamento
stesso all’imposta. L’interpretazione dei giudici derivava dal
fatto che l’articolo 138 capoverso 1 LIFD permette al fisco, in
caso di trattenuta d’imposta insufficiente, di esigere il pagamento dell’importo mancante anche dopo il termine del 31
marzo. Per il principio della parità delle armi, bisognava quindi
riconoscere la medesima possibilità al contribuente, secondo il
capoverso 2 del medesimo articolo[10].
Tornando alla sentenza qui in esame, il Tribunale federale ha
segnalato che l’opinione della dottrina sulla sentenza del 2009
è discordante. Ha quindi osservato che il reclamo di X. porta il timbro postale del 4 aprile 2009, data che non rispetta il
termine legale stabilito dall’articolo 137 LIFD. I giudici si sono
quindi chiesti se la sentenza del 2009 si applica anche alle situazioni in cui il contribuente reclama il beneficio di una de-
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duzione supplementare, in applicazione dell’articolo 2 lettera e
OIFo, o se invece, in tale caso, deve imperativamente far valere
i suoi diritti entro il termine del 31 marzo. Ebbene nella sentenza in oggetto si legge anzitutto che la fattispecie in esame,
in cui il contribuente intende far valere delle deduzioni a posteriori, si discosta dal sistema dell’auto-tassazione, dato che
in questo caso il contribuente è tenuto a un comportamento
personalmente attivo nei confronti del fisco per chiedere che
le deduzioni non comprese nell’aliquota fiscale, siano prese in
considerazione. A prescindere dal fatto che il datore di lavoro
ne sia a conoscenza o meno. In effetti, nel Canton Ginevra è il
contribuente a doversi indirizzare attivamente all’amministrazione cantonale per far valere tali deduzioni supplementari,
per mezzo di una domanda di rettificazione in forma ufficiale,
nel termine ultimo del 31 marzo[11]. A detta dei giudici questa esigenza, che concretizza l’articolo 137 LIFD, è giustificata,
poiché la situazione di un contribuente, imposto alla fonte, che
si prevale di deduzioni supplementari è in effetti più vicina a
quella di un contribuente imposto ordinariamente, che fa valere le proprie deduzioni in sede di dichiarazione di imposta, che
a quella di un contribuente imposto alla fonte in applicazione
della sola aliquota applicabile, senza ulteriori deduzioni. Contrariamente al lavoratore-contribuente che è vittima di un errore di applicazione della scala di aliquote, oppure dell’aliquota
stessa da parte del suo datore di lavoro e il cui errore non può
essere scovato autonomamente dal contribuente, lo stesso
che omette di far valere delle deduzioni supplementari entro
il termine definito si rende colpevole di una violazione dei suoi
obblighi di diligenza. A detta dei giudici, tale contribuente deve
quindi “sopportarne le conseguenze”, anche perché non è giustificabile ammettere a un contribuente imposto alla fonte, che
vuol far valere delle deduzioni supplementari, un termine più
lungo, poiché ciò implicherebbe creare una disparità di trattamento rispetto al contribuente imposto ordinariamente, che
può far valere le proprie deduzioni soltanto fino alla scadenza
del termine di reclamo[12]. La situazione del contribuente che
intende far valere delle deduzioni supplementari è fondamentalmente differente da quella di un contribuente che è vittima
di un errore di applicazione di aliquota da parte del datore di
lavoro, dato che, nel primo caso, la tassazione è corretta.
Nella sua “arringa” il ricorrente ha rivendicato il fatto che la
non presa in considerazione delle deduzioni supplementari ha
avuto un’incidenza importante sull’aliquota fiscale applicabile
dato che la stessa è progressiva. Di conseguenza è stata applicata un’aliquota errata, il che giustifica il diritto del contribuente a poter beneficiare della giurisprudenza del Tribunale
federale del 2009.
Il Tribunale federale ha tuttavia cassato il ricorrente nel suo ragionamento, poiché è vero che l’aliquota applicabile nell’imposizione alla fonte è progressiva, ma lo stesso vale per l’imposizione
ordinaria. Perciò un contribuente, tassato ordinariamente, che
omette di inoltrare un reclamo nei termini previsti per far valere
delle deduzioni precedentemente tralasciate, deve sopportare
l’onere fiscale relativo al tasso corrispondente al suo reddito
senza le predette deduzioni. Permettere a un contribuente imposto alla fonte di far valere le deduzioni oltre il termine stabilito, significherebbe creare una disparità di trattamento ingiustificata rispetto alle persone tassate ordinariamente.
Il Tribunale federale ha quindi esaminato la possibilità che il ricorrente si sia trovato in una situazione tale che l’inosservanza
del termine del 31 marzo sia scusabile. A norma dell’articolo
133 capoverso 3 LIFD, un reclamo tardivo è ricevibile soltanto
se il contribuente prova che a seguito del servizio militare, del
servizio civile, di una malattia, dell’assenza dal Paese o per altri gravi motivi, non ha potuto presentare il reclamo in tempo
utile e che comunque l’ha inoltrato entro 30 giorni dopo la
fine dell’indisposizione. Data questa premessa, emerge che il
contribuente non ha notificato impedimenti di tale natura, né
in sede di procedura cantonale, né innanzi al Tribunale federale
e, hanno concluso i giudici, nemmeno esistono secondo i fatti
stabiliti dalla Corte di giustizia ginevrina. Di conseguenza le
condizioni per la concessione di un reclamo tardivo non sono
adempiute[13].
Il Tribunale federale, prendendo atto del fatto che la normativa inerente le condizioni dell’assoggettamento all’imposta
alla fonte, il calcolo dell’imposta e la procedura di reclamo a
livello federale sono le stesse di quelle a livello cantonale, in
particolare a quella ginevrina, ha quindi concluso che le considerazioni sviluppate per l’imposta federale diretta, di cui si
è detto sopra, si applicano parimenti alle imposte cantonali e
comunali relative al periodo fiscale in esame.
4.
Il dispositivo
Il Tribunale federale ha quindi risolto la questione dichiarando
che la Corte di giustizia ginevrina ha ritenuto in maniera legittima che il reclamo inoltrato dal ricorrente in data 4 aprile
2009 è irricevibile perché tardivo. Dati tali presupposti, i giudici
dell’Alta Corte hanno respinto il ricorso.
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Elenco delle fonti fotografiche:
http://www.bger.ch/img/vt-la-36-lrg.jpg [26.05.2014]
http://www.bger.ch/it/bg1.jpg [26.05.2014]
[1] Il datore di lavoro è obbligato a fornire un’attestazione al contribuente relativamente all’imposta alla fonte trattenuta, a norma degli articoli
100 capoverso 1 lettera b della Legge federale
sull'imposta federale diretta (di seguito LIFD) e 37
capoverso 1 lettera b della Legge federale sull'armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e
dei Comuni (di seguito LAID).
[2] Considerando 1.2 e 1.3 della sentenza qui in
esame.
[3] Tali condizioni sono: (i) i fatti sono stati accertati in maniera manifestamente inesatta oppure
(ii) in violazione del diritto (si veda il considerando
3 della sentenza qui in esame).
[4] Per ulteriori approfondimenti relativamente
all’imposizione alla fonte, si veda AFC, Recueil informations fiscales, E. Notions fiscales, L'imposition à la source (Edition février 2009), 11 maggio
2009, in: http://www.estv.admin.ch/dokumenta
tion/00079/00080/00736/?lang=fr [26.05.2014].
[5] Nella sentenza si fa riferimento all’articolo
88 capoverso 1 lettere a e b LIFD; a parere di chi
scrive, pur essendo i contenuti sostanzialmente
identici a quelli dell’articolo in questione, era più
appropriato citare l’articolo 100 capoverso 1 lettere a e b LIFD, poiché relativo alle persone senza
domicilio o dimora fiscale in Svizzera, come è il
caso del signor X., residente in Francia.
[6] Dalla disposizione in esame non emerge dunque chiaramente il rapporto con l’articolo 137
LIFD, in particolare, se il termine del 31 marzo di
cui all’articolo 137 capoverso 1 LIFD vale anche
per la restituzione d’imposta di cui all’articolo 138
capoverso 2 LIFD.
[7] A parere di chi scrive, dubbi sorgono relativamente alla possibilità di far valere le deduzioni
individuali non comprese forfettariamente nelle
aliquote anche da parte di un contribuente come
il signor X., che non ha domicilio o dimora fiscale
in Svizzera, dato che l’articolo 2 lettera e OIFo è
rubricato all’interno della sezione 1 “Persone fisiche con domicilio o dimora fiscale in Svizzera”. In ogni
caso, la questione principale della controversia è
la ricevibilità del reclamo e non il suo contenuto.
[8] DTF 135 II 274.
[9] DTF 135 II 274, considerando 5.3.1.
[10] DTF 135 II 274, considerando 5.4.
[11] Considerando 5.4 della sentenza qui in esame. Il formulario per la domanda di rettificazione
si può scaricare dal seguente link: http://ge.ch/
impots/iso-15 [26.05.2014].
[12] Considerando 5.4 della sentenza qui in esame.
Il contribuente imposto ordinariamente ha tempo
fino a 30 giorni dopo la notifica della decisione di
tassazione da parte dell’autorità fiscale per inoltrare un reclamo (articolo 132 capoverso 1 LIFD).
[13] Considerando 5.6 della sentenza qui in esame.
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sintetico, sia quelle applicabili fino al periodo di imposta 2008
(oggetto fra l’altro di un rilevante contenzioso ancora pendente), sia quelle successive: dall’anno di imposta 2009, infatti, entra in azione per la prima volta il “nuovo” Redditometro, con le
modalità dapprima esplicate nella Circolare del 31 luglio 2013
dell’Agenzia delle Entrate e in seguito puntualizzate nel nuovo
provvedimento già citato. La trattazione – ricca di numerosi
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25 giugno 2014, Manno
□ La Riforma III dell'imposizione delle
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25 settembre 2014, Manno
□ Aggiornamento imposta preventiva
29 ottobre 2014, Cadempino