Edward Said e il diritto al ritorno relazione di Mariella Cataldo

Giornata della terra palestinese
Fortino di Bari, 30 marzo 2014
Edward Said e il diritto al ritorno
di Mariella Cataldo
Il grande intellettuale palestinese Edward Said1 nell’intervista rilasciata nel 2000 ad Ari Shavit sul
quotidiano Haaretz, alla domanda se il conflitto israelo-palestinese possa essere risolto, esprime
dubbi sul fatto che si possa arrivare alla cessazione del conflitto (siamo all’indomani del fallimento
di Camp David, nel 2000).
Finché Israele non si assumerà la responsabilità morale per quello che ha commesso contro il popolo palestinese, non ci potrà essere soluzione al conflitto […] Ci sarebbe bisogno di un vero “capitolato” che
contenga tutte le nostre rivendicazioni nei confronti di Israele per l’iniziale esproprio e per l’occupazione
che ha avuto inizio nel 1967. Ci sarebbe bisogno, quanto meno, di un riconoscimento della distruzione
della società palestinese, degli espropri a danno della società palestinese e della confisca della loro terra.
E, infine, delle privazioni e della sofferenza nell’arco degli ultimi 52 anni, comprendendo azioni come il
massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila.
Said definisce ebrei e palestinesi come “parte di una stessa sinfonia”: una storia di estremi, di
“opposti in senso hegeliano […]. Sinfonia che richiederebbe la mente di un Bach per riuscire a ricomporla”.
Ed esclude che ci sia simmetria in questo conflitto perché “c’è un colpevole e ci sono delle vittime”. Tutto è cominciato con la dichiarazione Balfour ed il sionismo. Le leggi dello stato israeliano
“perpetuano l’ingiustizia”. Quello israelo-palestinese
è un conflitto dialettico […]. di cui non vi è sintesi possibile. […] Non penso che in questo caso si possano
superare le contraddizioni dialettiche: né che ci sia un modo di conciliare la spinta dei sionisti pervasa di
messianismo e di memoria dell’olocausto con la spinta palestinese a restare nel paese. Sono spinte fondamentalmente divergenti. Questo è il motivo per cui penso che l’essenza del conflitto sia la sua stessa
inconciliabilità.
Alla domanda se gli ebrei non avrebbero dovuto venire in Palestina e se essi devono andarsene,
Said risponde che è contrario all’allontanamento, ma che, una volta venuti in Palestina, essi avrebbero dovuto prendere atto che quella era terra abitata: “la guerra del ’48 è stata una guerra
di espropriazione” ed ha comportato la distruzione della società palestinese e la sostituzione di un
popolo con un altro e l’esodo di tanti palestinesi: gli ebrei ne portano la totale responsabilità. Rabin ha cacciato 50.000 abitanti da Ramla e Lydda per fare un esempio.
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Edward W. Said 1935-2003) nasce a Gerusalemme. Nel 1948 la sua famiglia viene espropriata di tutti i suoi beni e il
giovane Edward vive esule in Egitto e poi negli USA, dove diviene professore di Inglese e di Letteratura Comparata alla
Columbia University di New York. Ha insegnato in più di centocinquanta Università e scuole negli Stati Uniti, in Canada
ed in Europa.
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Esprime rabbia e non odio (la rabbia è un sentimento produttivo) verso Israele per aver eretto
questi muri di negazione, quella negazione che permea fino al midollo la società israeliana. Il sentimento che cova nei cuori e nelle menti dei palestinesi è non solo quello del “voglio che finisca”,
ma anche quello del tipo “voglio che sia il mio turno”, oppure “un giorno la pagherete”. “Credo
che la persona che i calci li sta dando debba domandarsi fino a quando potrà continuare a tirarli.
Ad un certo punto la gamba si stancherà. Un giorno si sveglierà e si chiederà: cosa cavolo sto facendo?”.
Oggi tra i palestinesi c’è un desiderio ancora più grande di non mollare, perché ogni generazione
prova fortissimo il senso di ingiustizia e la giustizia negata li obbliga a continuare la lotta.
Per questo Said critica Camp David, perché senza giustizia non ci può essere pace.
Facendo un paragone tra Israele e Sudafrica, trova che gran parte dei palestinesi sente che è negato ad essi l’accesso a risorse, diritti, proprietà della terra e libertà di movimento. Per questo auspica una Commissione di verità e Riconciliazione, così come fecero Desmond Tutu e i neri. Anche
gli afrikaner in Sudafrica avevano una ideologia proto-sionista. si consideravano prescelti da Dio”, ma, ogni israeliano dovrebbe assumersi le sue responsabilità e ammettere che Israele ha cancellato gli arabi che erano in Palestina prima del ’48, che ha disperso famiglie palestinesi, ha demolito case, distrutto villaggi.
Said ribadisce la sua contrarietà all’esodo degli ebrei (“perché non voglio più vedere gente costretta ad andarsene”) ed è disposto ad accettare la libertà per l’ebreo di affermare il sionismo, il
suo legame con la terra, a patto però che questo non comporti la estromissione degli altri. Certo,
così come successe in Sudafrica, dove i meccanismi furono riformati, auspica una profonda trasformazione di Israele all’indomani di un vero processo di pace.
La forma che dovrà assumere il nuovo stato sarà quella di uno stato bi-nazionale (Said era partito
negli anni ’70 dalla teorizzazione di un unico stato laico-democratico, passando negli anni ’80
all’idea di due stati).
Voglio mantenere per i palestinesi e israeliani un meccanismo o una struttura che permetta loro di esprimere la loro identità nazionale […] la soluzione dei due stati non è più percorribile. E date le realtà
geografiche, demografiche, storiche e politiche, ritengo che ci sia molto da guadagnare da uno stato bi –
nazionale […] La sovranità ebraica fine a se stessa non mi sembra che valga tutto il dolore, la devastazione e la sofferenza che ha prodotto.
Riguardo al Diritto al ritorno dei rifugiati (che implica le questioni morali dell’espulsione) Said ritiene che Israele dovrebbe riconoscere il dramma dei rifugiati e il loro diritto al ritorno. Questo è
fattibile e si deve cercare il modo come farlo col minor danno possibile. Si potrebbero già sistemare un milione di persone senza traumi. Il ritorno deve però essere regolato. Said si oppone ad un
ritorno che porti ad una corsa all’esproprio. Così come in Zimbabwe, dove i bianchi che coltivano la
terra hanno diritto a rimanere, fermo restando però il riconoscimento dell’esproprio e furto di diritti che hanno compiuto nei confronti dei neri. La minoranza ebraica potrebbe vivere pacificamente in un contesto arabo, così come succedeva nell’Impero Ottomano col sistema del “millet”. Gli
ebrei godrebbero di una autonomia culturale all’interno di una struttura pan-araba o mediterranea. La scelta nazionalistica ebraica, continuamente preoccupata di essere sopraffatta, ha creato
ansia, paranoia, militarizzazione e una mentalità rigida, mentre, l’alternativa dello stato binazionale concederebbe agli ebrei una vita più libera e più mobile.
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Said rifiuta di definirsi un “rifugiato” (termine forte che significa cattiva salute, miseria sociale, privazione e dislocazione), ma, “sento di non avere luogo. Sono tagliato fuori dalle mie origini, vivo
in esilio. Sono un esule”.
La sua autobiografia intitolata Sempre nel posto sbagliato significa per lui non poter tornare:
Potrei descrivere la mia vita come una serie di partenze e ritorni. Ma la partenza è sempre piena di angoscia. Il ritorno è sempre incerto. Precario. Hai sempre la sensazione di non appartenere. E di fatto non
appartieni perché non sei veramente di qui e qualcun altro dice che il luogo da cui provieni non è tuo ma
suo […] Prima, sotto l’influenza di Vico, ho capito che i popoli fanno la loro storia. Che la storia non è come la natura. È un prodotto umano. Ho capito inoltre che noi possiamo creare le nostre stesse origini.
Non sono date, sono atti di volontà […] attraversiamo la vita disfacendoci del passato, il dimenticato, il
perduto. Ho compreso che il mio compito era quello di raccontare e riraccontare una storia di perdite in
cui la nozione di rimpatrio, di un ritorno a casa è praticamente impossibile […] la mia condizione è quella
del viaggiatore, non interessato al possesso del territorio e senza alcun regno da proteggere. Adorno sostiene che nel XX secolo l’idea di casa sia passata di moda. Credo che parte della mia critica al sionismo
sia rivolta proprio a quel suo attribuire troppa importanza alla casa […] Penso che i maggiori disastri politici e intellettuali siano stati provocati da movimenti riduttivi che tentavano di semplificare e purificare,
che dicevano: dobbiamo piantare tende o kibbutz o eserciti o cominciare da zero.
Appunti essenziali su questione palestinese e giornata della terra
La mia patria non è una valigia ed io non sono un viaggiatore
Mahmoud Darwish.
Lo sai cos’è la patria, Safiya? la patria è che tutto questo non succeda
Kanafani, Ritorno ad Haifa.
Il 30 marzo 1976 lo stato di Israele soffocava nel sangue una protesta pacifica di palestinesi di Nazaret in Galilea contro l’esproprio e la confisca della loro terra, uccidendo sette palestinesi e ferendone decine. Da allora, il 30 marzo ogni anno il popolo palestinese celebra la giornata della
terra contro la confisca e ruberia della sua terra da cui la maggior parte della popolazione è stata
espulsa (sono circa 5 milioni i profughi palestinesi nel mondo) oppure vive in condizioni disumane
e di apartheid.
La terra, quindi, è il punto di partenza e di ritorno nella vita di ogni palestinese, sia per quello che
vive sotto stato di occupazione, sia per quello che vive esule nel mondo.
Dopo le numerose e continue guerre che “hanno espulso il popolo palestinese dalla storia”, come
ha detto Elias Sambar, ci sono state numerose dichiarazioni Onu che auspicavano il diritto al ritorno dei palestinesi. In particolare, la 194 (11-12-1948) che parlava di diritto dei profughi a tornare e indennizzo di chi ha perso i beni e non vuol tornare. La 242 (1967) riguarda il ritiro degli israeliani e il riconoscimento della integrale sovranità territoriale e indipendenza politica di ogni stato
nella regione e diritto a vivere in frontiere sicure e una giusta soluzione per i profughi. La 3236
(1974) che ribadisce il diritto al ritorno palestinese oltre che l’autodeterminazione, indipendenza,
sovranità.
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Si è tentato di affrontare la questione palestinese nelle conferenze (tutte fallite per i palestinesi)
che si sono tenute nel corso degli anni:
Nel 1988, ad Algeri veniva proclamata l’indipendenza della Palestina sulla base delle risoluzioni
242 e 338 del consiglio di sicurezza e 181. Arafat annunciava al mondo: “signori e signori, nel M. O.
non c’è un popolo superfluo, fuori del tempo e dello spazio, ma invece uno stato gravemente privato del tempo e dello spazio, lo stato di Palestina”.
Conferenza di Madrid (1991)
Conferenza di Oslo (1993).
Conferenza di Washington (settembre 1993). Questa conferenza imponeva ai palestinesi di rinunciare alla carta dell’Olp, alla violenza, al terrorismo, e a tutte le risoluzioni Onu (esclusa la 242 e
338) e nulla si diceva sui palestinesi, sui loro diritti ed aspirazioni al ritorno; l’unica preoccupazione
ricorrente era “la sicurezza di Israele”.
Le ultime due conferenze venivano criticate da E. Said che definiva Oslo come “una resa dei palestinesi, una sorta di trattato di Versailles”.
Camp David (2000). Fallimento negoziati)
La NAKBA
È il trauma fondante della identità palestinese come la Shoa per gli ebrei israeliani.
Siamo tutti figli di questo mondo, ma il fatto di essere venuti alla luce dopo la guerra del ‘48 ci ha trasformati in una prova vivente, in un documento storico in brutta copia (Salman Natur, Memoria)
Il 1948 è una data cruciale sia per gli ebrei che per i palestinesi. Per gli israeliani è una data eroica
e trionfale (la creazione di uno stato ebraico), per i palestinesi è la Nakba (catastrofe, espulsione di
massa dalle proprie terre e l’inizio di un tormento senza fine, trauma collettivo). La radice NKB significa “essere colpiti da sventura” e “cambiamento di vento”.
Con il ’48, 750.000 palestinesi (l’80% della popolazione) furono espulsi. Per una crudele dialettica
Morte/ Resurrezione, la resurrezione degli ebrei avveniva grazie alla morte dei palestinesi, per nulla colpevoli di quanto era avvenuto in Europa. Da allora, i palestinesi diventavano “vittime delle
vittime” (Said).
Il ’48 segna una svolta epocale, dopo quell’evento nulla sarà come prima, anche se lo storico George Habib Antonius sposta la Nakba al 1920, anno della prima sollevazione armata araba contro
francesi e britannici e massiccia emigrazione ebraica seguita alla dichiarazione Balfour. Certo è che
lo choc del ’48 ingenera nella coscienza araba una necessità di autodefinizione, di ricerca di identità da determinare, ma l’identità dei palestinesi, come avverte Elias Sambar, è in divenire e le origini sono da rintracciare nel futuro, non nel passato, riscattandoli dallo status di “assenti” a cui erano condannati e a cui il diritto al ritorno può giovare.
Nel 1950 Israele promulgava la legge del ritorno (Aliyah: ascendere o salire) con cui si creava
l’esclusivo diritto alla nazionalità per gli ebrei che tornano in Israele per garantire a loro, in quanto
cittadini uno stato legale superiore e pieni diritti rispetto ai palestinesi.
Una legge del 2011 della Knesset vieta la commemorazione della Nakba in Israele nel giorno della
indipendenza, considera ciò un crimine punibile fino a tre anni di reclusione e vieta ogni discussio4
ne pubblica, (un po’ come nella costituzione turca è vietato e considerato reato nominare il genocidio degli armeni).
Da quella data è proseguita la deriva etnocratica di Israele e l’ebraicità dello stato con cancellazione della storia dell’altro.
Lo storico ebreo Ilan Pappè2 parla di “memoricidio della Nakba”. Parlare di Nakba per Israele è riconoscere il diritto al ritorno dei palestinesi, così come per loro è il diritto al ritorno il requisito per
diventare cittadini israeliani.
Un esempio di memoricidio della Nakba è la costruzione a Deir Yassin (villaggio palestinese dove
avvenne un eccidio nell’aprile ’48 ad opera di membri dell'Irgun guidati dal futuro Primo ministro
israeliano Menachem Begin) del museo ebraico della memoria. Gli ebrei hanno distrutto gli archivi
della memoria palestinese ed hanno operato senza tregua pratiche di giudeizzazione del territorio
arabo e ripristino della toponomastica biblica. Ai palestinesi è rimasta solo la memoria, se vogliono
fare storia, attraverso la storia orale, creando quella che Foucault ha definito una sorta di “contromemoria”.
La storiografia sionista ha rappresentato la creazione dello stato di Israele in senso politico, come
una guerra di indipendenza dalla potenza mandataria britannica e, in senso religioso, come la rinascita del popolo ebraico con il ritorno nella terra promessa da Dio ad Abramo, terra disabitata oppure abitata da arabi provenienti da paesi confinanti che l’avrebbero abbandonata spontaneamente dopo il ’48.
I palestinesi sono esclusi da questa narrazione e le popolazioni autoctone seppellite nell’oblio. La
narrazione palestinese perciò è diventata “contro-narrazione” per dar voce ed identità a un popolo presente su quel territorio da secoli e riportare gli assenti nella storia.
Dopo il ’48 seguì la giudeizzazione del territorio e la sua rimappatura sulla base di indicazioni toponomastiche dell’antica Israele. Il Fondo nazionale ebraico finanziò gli insediamenti ebraici, la rinominazione dei siti, villaggi, strade e la cancellazione di qualsiasi prova di presenza palestinese e
fu fatta una vasta opera di riforestazione (metafora simbolica del radicamento e attaccamento ebraico alla terra secondo la grande narrazione sionista di “far rifiorire il deserto”). Il fondo ha piantato 240 milioni di alberi (anche di origine europea) creando giardini, foreste, luoghi di svago e ricreazione su luoghi di sofferenza palestinese, polmoni verdi per gli ebrei che, secondo la leggenda,
“trovarono una terra desolata senza la minima ombra”.
L’arabo rimasto viveva e vive da “straniero in casa”.
Israele, già nel ’48, promulgava la legge della proprietà dell’assente con cui definiva “assente” chi
ha perduto la propria terra in favore di Israele che confiscava terre, case, negozi, conti in banca,
macchine di palestinesi che erano fuggiti dopo il ’48 e che erano chiamati “assenti –presenti”.
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Pappé, storico comunista anti-sionista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta "nuova storiografia israeliana", che
ha come fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame la documentazione orale che è prevalsa
per decenni nel tracciare le linee ricostruttive storiche relative alla nascita dello Stato d'Israele e del sionismo in Israele. In questi ultimi anni, Ilan Pappé è stato soggetto e oggetto di numerose polemiche, particolarmente dopo il dibattito sul Massacro di Tantura e il suo appello per il boicottaggio delle università israeliane. È entrato in conflitto coi suoi
colleghi Benny Morris e Yoav Gelber.
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La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (par. 2-13) recita: “Ogni persona ha il diritto di lasciare il proprio paese, compreso il proprio e di ritornarvi”. Nonostante ciò, Gaza e Cisgiordania
sono dichiarate zone vietate da Israele e gli abitanti hanno bisogno di visto per uscire ed entrare
da una prigione a cielo aperto resa ancora più crudele dal muro della vergogna con cui Israele sta
contornando tutte le sue colonie in Cisgiordania (quasi l’80 % del territorio occupato).
La IV convenzione di Ginevra (1949), art 49, par. 6 recita così: “la potenza occupante non potrà
deportare o trasferire parte della sua popolazione civile nei territori che occupa”.
In seguito a questi avvenimenti si è sviluppata una vera e propria tendenza alla contro memoria
ed una letteratura della resistenza di cui E. Said sentiva l’urgenza al fine di opporsi al pericolo di
essere dimenticati dalla storia ufficiale (E. Said, Cultura e imperialismo).
La memoria traumatica della Nakba del ’48 diventa nostalgia dell’esule destinato a ricordare la terra perduta ed a riviverla sotto forma di immaginazione, così come per chi è rimasto estraneo in casa propria o sotto uno stato di occupazione permanente, oppure, per i rifugiati dei campi. È una
memoria individuale e collettiva finalizzata alla costruzione di un orizzonte di speranza di ritorno.
Lo scrittore Ghassan parla di “assedio culturale” imposto da Israele per obliterare il patrimonio
culturale palestinese. Egli usa il termine Naksa (ricaduta, incubo che si ripete) per definire la disfatta araba del 1967 che ravvivava il trauma del ’48 e spingeva una famiglia di esuli palestinesi. a
ritornare (come turisti) sulle tracce del loro traumatico passato ad Haifa (Ritorno ad Haifa) per cercare un senso nel presente e un figlio perduto nell’esodo. L’incontro tra palestinesi vittime della
Nakba e la nuova inquilina della casa (Mirjam, una ebrea polacca sfuggita ad Auschwitz) rende il
romanzo epico luogo di confronto tra le due grandi tragedie umane. Said e Safiya trovano il figlio
Kaldum, (adottato dalla famiglia ebrea) che ora si chiama Dov (anche il figlio viene giudaizzato insieme al territorio…) e fa il servizio militare nell’esercito israeliano. Egli rifiuta i genitori naturali, i
quali sono costretti a lasciare per la seconda volta la casa, il figlio, la memoria.
La memoria per Kanafani è come una sorta di”pietre di un muro crollato ammassate l’una
sull’altra”, essa è una memoria sopita, sedata, che un gesto sia pur involontario può risvegliare.
Il fatto traumatico è indicibile, ma la scrittura diventa un atto terapeutico e liberatorio per sbarazzarsi dei fantasmi del trauma. La letteratura recente riconsolida la memoria collettiva degli eventi
del ’48 per reintrodurre i palestinesi nella storia:
Il delitto più grave che possa commettere un uomo, chiunque sia, è quello di credere anche per un solo
istante che la debolezza e gli errori degli altri diano il diritto ad esistere a spese loro e di giustificare i
propri errori e delitti (Gassan Kanafani, p. 53).
In letteratura è presente il tema del ritorno inteso come sogno di recuperare la condizione di vita
nella propria patria antecedente al ’48, come recupero di un ordine naturale. È una forma di resistenza a ciò che in termini psichiatrici Franz Fanon definiva, per gli algerini sotto occupazione francese, il perenne stato di estraneità vissuto nel proprio paese e assoluta depersonalizzazione.
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In Mahamud Darwish abbiamo un’autentica ricerca di senso nel presente attraverso l’indagine del
passato (“un passato che non passa, ma neppure torna”) a partire dalla sua esperienza di esule,
testimone dello sradicamento con cui visse l’assedio di Beirut (1982). “Le case periscono se chi le
abita le abbandona”.
Said si interroga sul termine “luogo”, mettendo in risalto il senso di estraneità ad ogni luogo visitato dall’esule, ma anche, come intellettuale controcorrente esule negli Usa, la ricchezza
dell’ibridismo etno-culturale nel nostro tempo. Said ricorda la sua infanzia fornendoci un prezioso
spaccato della società palestinese prima del 48, con lo sguardo di un bambino cresciuto vicino Gerusalemme, prima che la sua famiglia migrasse al Cairo e poi negli Usa. Said nella sua opera di critico aveva dato tanto valore all’umanesimo come orizzonte di riferimento vitale per interpretare
ogni disciplina e fenomeno della vita, anticipando Vittorio Arrigoni che terminava i suoi reportage
sotto le bombe invitando a “restare umani”.
Il tema del ritorno è presente nel racconto Le bien des absents di E. Sambar, nelle raccomandazioni che il padre fa al figlio quando tornerà a Giaffa, se anche non troverà più i nomi dei villaggi rasi
al suolo, essi sono ancora lì e lo vedranno: “la terra è ostinata”.
Murid al Barghuti torna con un permesso speciale a Ramallah dopo il 1967 (guerra dei sei giorni) e
parla della violenza subita dal fiume Giordano che è un fiume “completamente prosciugato. La natura ed Israele hanno partecipato al saccheggio della sua acqua: una volta questo fiume aveva una
voce, ora tace, come un’automobile parcheggiata in un’officina”.
L’ulivo è un forte tropo dell’identità palestinese, indica la volontà di permanenza che combatte la
lotta contro l’oblio. È una traccia di memoria contro l’assenza da cui le nuove generazioni partiranno. Altri marcatori di presenza palestinesi e “atti di memoria” sono i fichi d’India, il timo,
l’arancio, il melograno, l’olio, il grano, il sale, il mare, il cactus (segno di continuità col passato o
simbolo di memoria spinosa), l’albero dei rosari, la chiave, il caffè: “mi chiedo, come possa scrivere
una mano che non prepara il caffè” (Darwish).
La chiave è il simbolo della custodia della casa abbandonata dopo la Nakba, ma anche la speranza
del ritorno:
L’odore del caffè è un ritorno, un essere ricondotto alle origini, restituzione alle origini ai primordi attraverso un viaggio ancestrale […] il caffè è un luogo […] il caffè è il contrario dello svezzamento. È una
mammella che allatta gli uomini da lontano. È un mattino generato da un sapore amaro, lotta di virilità.
Il caffè è geografia […] il profumo del caffè è voce e minareto (un giorno tornerà). Il profumo del caffè è
flauto in cui suonano le acque della grondaia (Darwish)
Salma Khadna Jajjsi dice: “i palestinesi sanno piuttosto bene che se essi non annunciano la loro
esperienza al mondo, il mondo li dimenticherà e, promette Salman Natur, “ritorneremo. Per
quanto il viaggio sia lungo, ritorneremo”.
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Bibliografia
AA.VV. La terra più amata - Voci della letteratura palestinese. Ed. Il Manifesto, 1988.
Coordinamento donne C.G.I.L. Campania, Il sole e la luna. Canti sparsi di donne su sogno dolore speranza
guerre libertà pace, Cooperativa Sintesi, Salerno, 1982.
Ghassan Kanafani, Ritorno ad Haifa, Ed. Lavoro, Roma, 1991
Ghassan Kanafani, La terra degli aranci tristi ed altri racconti, Associazione di amicizia Sardegna Palestina,
2012.
Ibrahim Nasrallah, Dentro la notte, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2004.
Salman Natur, Memoria, edizioni Q, Roma, 2008.
Edward Said, Il mio diritto al ritorno, Intervista con Ari Shavit, Ha’aretz Magazine, Tel Aviv 2000, edizione i
sassi nottetempo, Roma, 2007.
Simone Sibilio, “Nakba” la memoria letteraria della catastrofe palestinese (edizioni Q, Roma, 2013)
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