Neura#72 - Nèura Magazine

Numero 72
Nèura Magazine
Settembre 2014
Non È Una Rivista d’Arte
Oltre i confini
Critico, ergo sum
#Roberto Floreani:
Futurismo antineutrale
Visioni su carta
#Sergio Toppi:
Leggende senza tempo
Foto ©Anna Castellari
“Fiato d’artista”
#Tullo Golfarelli per il
Cimitero di Fermo
#Sebastiano Salgado:
Genesi
Eunomia
#La Cappadocia e le
sue chiese
#L’Islanda e il cemento
Nèurastenie
Settembre 2014:
#cemento
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Immagine del logo:
Cristiano Baricelli, Ictus (2005)
Indice
Editoriale | OltrE I CONFINI
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Critico, ergo sum | ANTINEUTRALE di Riccardo Zelatore
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“Fiato d’artista”sI La Scienza medica cura gli ammalati. Un
lavoro di Tullo Golfarelli per il Cimitero di Fermo
di Carlo Cipolletti
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Eunomia | Le mille e una chiese di Cappadocia:
se l’UNESCO c’è, ma non si vede di Anna Castellari
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Visioni su carta | Le leggende senza tempo di Sergio Toppi
di Sonia Cosco
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“Fiato d’artista” | Canto d’amore per la Terra. Genesi, di
Sebastião Salgado di Lucia Valcepina
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Nessuna parte o contenuto di questa pubblicazione può essere duplicata, riprodotta, trasmessa, alterata o archiviata in alcun modo senza preventiva autorizzazione degli autori.
Eunomia | Oh, del cemento in terra d’Islanda!
di Silvia Colombo
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Impaginazione a cura di Anna Castellari.
Nèurastenie | #CEMENTO di Silvia Colombo
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Copyright © Nèura 2014
In redazione
Anna Castellari, Silvia Colombo, Sonia Cosco, Roberto Rizzente.
Hanno collaborato a questo numero: Carlo Cipolletti, Lucia Valcepina,
Riccardo Zelatore.
Iscrizione al Registro delle pubblicazioni periodiche del Tribunale di
Milano n. 277 del 9/9/2013 | ISSN 2283-7027
Direttore responsabile: Roberto Rizzente | Editore: Associazione Nèura
Logo di copertina: ©Cristiano Baricelli, Ictus, 2005.
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Editoriale
Oltre i confini
S
iamo tornati. Con tanta polvere sulle scarpe e
più ricchi di ieri, perché abbiamo viaggiato. In
lungo e in largo per l'Europa. Vi restituiamo immagini oltre i confini, che non dovrebbero esserci in
questo 2014, ma invece ci sono e appena li superi, capisci che è la diversità, la complessità, quello che ci piace, che ci intriga, ci emoziona.
Anna e Silvia hanno superato superato i confini del nostro paese, percorso latitudini diverse e raccolto frammenti di arte preziosa e lontana. Nordica come l’installazione dell’artista tedesco Lukas Kuhne è un site
specific legato all’armonia musicale locale in Islanda.
Orientale come le chiese di Cappadocia, bellissime e
dimenticate dall’UNESCO. Anche voi rimarrete incantati di fronte a questi angoli di mondo e anche voi, siamo
certi, condividerete alcune perplessità su come l’arte si
avvizzisca quando non c’è una politica culturale intelligente e sensibile a sostenerla e promuoverla.
Oltre i confini del futurismo, c’è il futurismo antineutrale di Roberto Floreani il cui pensiero ci viene regalato da Riccardo Zelatore nella rubrica Critico, ergo
sum. Continuando a sfogliare questo Nèura settembrino, il suo cuore si fa un po’ più duro, anzi proprio di
pietra, ma solo per dargli nuova forma con la scultura funeraria poco conosciuta di Tullo Golfarelli nel
Cimitero di Fermo e le nèurastenie dedicate al #cemento, materiale così poco avvezzo a manipolazioni
artistiche, così funzionale, pragmatico, urbano, eppure
così potenzialmente creativo.
La materia e lo spirito si fanno più leggeri quando incontriamo un grande autore di letteratura disegnata quale fu
Sergio Toppi, indimenticabile firma di tante illustrazioni e fumetti, scomparso recentemente. Ci siamo ritrovati tra le mani un portfolio magico, edito da Crapapelada,
dal titolo Leggende senza tempo e ci siamo lasciati incantare da acquerelli e parole eteree.
Un grande fotografo, una grande personalità, quella di
Sebastião Salgado che con Genesi propone non solo
un reportage sulle meraviglie del Pianeta, ma un progetto umano, un canto d’amore per la Terra e i suoi
abitanti.
Buona lettura!
La Nèuraredazione
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Critico, ergo sum
Antineutrale
di Riccardo Zelatore
Atto secondo. Questo mese è Roberto Floreani che generosamente mi ha
concesso il suo punto di vista sul senso della pittura oggi. A lui dobbiamo
il saggio che segue. A noi il piacere della curiosità.
Lo introduco prendendo a prestito un passo tratto dal suo libro Futurismo
antineutrale (Silvana Editoriale, 2010).
Museo MAGA, Gallarate, 2011
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«C
on ogni probabilità (oggi) Marinetti
si
comporterebbe esattamente agli
antipodi di ciò che ci sommerge
quotidianamente, liberandosi (e liberandoci) dall’odierno, dominante,
soffocante, mediocre, insopportabile, borghese (nel senso dispregiativo impiegato dai movimenti rivoluzionari), banale, ripetitivo, untuoso,
ipocrita, omologato, inutile, scadente atteggiamento politicamente corretto. Autentica rovina. […].»
Giusto per scaldare i motori.
Sono passati più di cento anni da
quando, con una serie di Manifesti,
il Futurismo dava un senso nuovo al
contemporaneo. Gli artisti, da quel
momento in avanti, si sono autorizzati tutto ciò che passava loro per la
testa: han deciso che un orinatoio
capovolto sarebbe stato una fontana, incollato sacchi sulla tela, l’hanno poi tagliata, forata con punteruoli, bruciata con la fiamma ossidrica,
coperta con stesure uniformi di colore, hanno inscatolato escrementi, creato degli igloo coperti di frasche e neon, allagato gallerie, deciso che l’opera non aveva più alcun significato e che era bastante
la loro presenza davanti al pubblico,
anche se si coprivano di bende e si
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laceravano il corpo. Il mondo dell’arte ha applaudito, ha ripetutamente
gridato al capolavoro, ha condiviso
ribellioni e situazioni estreme, pagandole poi, paradossalmente, milioni di euro. Oggi, la libertà espressiva totale ha portato ad appendere
cadaveri di animali tassidermizzati
al soffitto, a creare teche con bardotti in decomposizione, accettate
dal variegato mondo dell’arte senza
obiezioni, come già aveva fatto cinquant’anni prima, accontentandosi anche delle riedizioni, pur senza
il supporto della contestazione sociale, addirittura senza rivoluzione.
Basta la parola, come nella pubblicità dei purganti di quando andavo
alle Elementari. Liberi tutti, ma non
di dipingere, non si può fare, quasi
fosse il capriccio del bambino difficile che non vuole studiare. Il divieto, inesistente non solo in natura,
ma anche nella storia del pensiero,
è pure datato, trito e ritrito, fin dal
Poverismo dei tardi anni sessanta, ma oggi, si sa, nemmeno i libri
vengono più letti. Da un lato quindi lo sviluppo del contemporaneo si
basa sull’assoluta libertà espressiva, dall’altro si pensa di togliere attendibilità alla pratica della pittura,
che coinvolge la maggior parte degli
artisti (e non) che si barcamenano
Palazzo TE, 2013
sul pianeta. L’importante, credo,
sia far finta di nulla, lasciar perdere, non sempre si può rispondere al
nevrotico che t’importuna in metropolitana. Individualmente ogni artista, poi, risponde a se stesso e
all’azzardo del proprio lavoro.
Credo fermamente alla continuità
dello sviluppo del pensiero, quindi niente “Morte dell’Arte” o amenità similari, per il semplice fatto
che penso sia assolutamente privo di senso sostenere il contrario, e
quindi rivendico anche la continuità
della pittura. Da quanto ho visto
poi, leggendo qui e là, nel corso
della mia vita, che ha superato ormai abbondantemente il mezzo secolo, l’artista può rivendicare anche
delle differenze dal pensiero diffuso che lo circonda, una sorta d’inattualità distintiva, visto che, a guardar sempre quel che fanno gli altri, si rischia uno strabismo definitivo. Paradossalmente, il teorico divieto culturale, dà all’artista una ragione in più per cimentarcisi: l’arte,
il costume, la società stessa, sono
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stati cambiati dal pensiero dei grandi inattuali. Per quanto riguarda il
mio lavoro da vicino, ha un senso
chiedersi se esista la possibilità di
dare continuità alla ricerca astratta iniziata da Kandinskij e Balla oltre un secolo fa e se la ragione dello Spirituale nell’Arte di quegli anni
ha ancora la vitalità interna necessaria. Nel caso specifico, l’idea di
dare un senso al non riconoscibile,
alla dimensione interna e silenziosa delle cose, di concedere al fruitore la grande libertà di accettarlo
o meno, di lasciargli eventualmente
decidere se privilegiare nella lettura il segno, la superficie o il colore,
oggi ha più ragioni di allora, in un
contesto generale che ne è troppo
spesso privo; così come attualizzare il significato di Bellezza, Misura
e Proporzione, nel superamento degli stili. Tutto questo interrogarsi e
darsi risposte, per quanto faticose
e silenziose siano, è semplicemente la mia vita, quel che ho deciso
di fare, quello che mi motiva o demotiva ogni giorno, la mia condanna e la mia redenzione, accettando le difficoltà crescenti e quotidiane di un’analisi che sembra diventata patrimonio di pochi sognatori,
distanti dai riflettori di un’attualità
tanto sfavillante quanto superficiale
e soprattutto visto che c’è qualcuno Roberto Floreani
che punta ancora il ditino dicendo- 2 settembre 2014
mi che non va bene e che devo imparare a scrivere con la destra.
The grey fractal
Ritratto di Roberto Floreani
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“Fiato d’artista”
La Scienza medica cura gli
ammalati. Un lavoro di Tullo
Golfarelli per il Cimitero di Fermo
di Carlo Cipolletti
In questo breve articolo presento una scultura funeraria poco conosciuta
di Tullo Golfarelli (Cesena, 1852 – Bologna, 1928) nel Cimitero di Fermo.
Quello che andremo a vedere è come quest’ultimo riuscì, a mantenere, in
un contesto dove erano preminenti i canoni estetici di quella che era allora
l’arte contemporanea (il liberty), una forma espressiva passata di moda (il
verismo).
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I
l Cimitero comunale di
Fermo, benedetto nel 1813,
un anno dopo la sua costruzione a
“un miglio quasi lontano dalla città”,
nei pressi di un tempietto ottagonale (detto di Santa Croce), fatto edificare nel 1575 da monsignor Ottavio
Santacroce, governatore di Fermo
negli anni 1573-’75, ma demolito
nel 1855, era, stando alla descrizione data dal cronista Giovan Battista
Campanelli, di cinquanta passi per
lato. Nella chiesa di Santa Croce, riadattata a ossario, venne realizzato un sotterraneo per lo “spurgo dei
morti ogni dieci anni”.
Nel 1838, durante la Visita pastorale
dell’arcivescovo di Fermo Gabriele
Ferretti, la chiesa non era più officiata da tempo, dal momento che
il Cimitero comunale non era più
in uso da qualche anno. Nel 1852
quest’ultimo venne in parte ricostruito. La cappella funeraria in forme neorinascimentali, terminata nel
1869, è a croce greca. I quattro pronai sono decorati da antefisse a palmette stilizzate.
La scultura funeraria nel Cimitero
di Fermo
Nei Cimiteri costruiti dopo l’Unità d’Italia, i più ricchi cittadini italiani, per ricordare i propri morti, affidarono i lavori di decorazione
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delle tombe soprattutto a scultori puristi. Nel 1885 lo scultore senese Tito Sarrocchi, allievo del più
noto Giovanni Duprè, realizzò il profilo dello storico fermano Giuseppe
Fracassetti (†1883), in semplici forme, dai tratti puristi, collocato entro un monumento di forme
neogotiche.
Dagli inizi del secolo scorso, col mutamento del gusto, la maggior parte
delle commissioni vennero affidate
ad artisti aggiornati sulle nuovo linguaggio alla moda allora in Europa:
il liberty. Tanti monumenti, vennero
decorati da eleganti figure angeliche
dai tratti sinuosi.
Nella tomba Crocenzi, a forma di
tempietto neogotico, è collocato un
bell’angelo, datato 1912 da Romeo
Pazzini (Verrucchio, 1852 - Firenze,
1924), appartenente a una famiglia che dopo l’Unità d’Italia lavorava ai tanti monumenti patriottici per
le piazze italiane, ma che non disdegnava commissioni da parte di
privati, soprattutto nel campo della
scultura funeraria.
Dalla seconda decade del secolo scorso, a forme liberty, vennero preferite forme più classiciste
(nella maniera, però, della scultura di Auguste Rodin). Tante statue di piangenti, se non proprie
rappresentazioni del Dolore fanno la
loro comparsa nell’iconografia della
scultura funeraria.
Nel Cimitero di Fermo potremo ricollegare a questa corrente la tomba Ciccarelli, decorata da un bronzo
datato 1921 da Luigi Contratti, nato
a Portogruaro (Venezia) nel 1868,
ma attivo a Torino, dove realizzò
nel 1903 il ben noto Monumento
a Galileo Ferraris. In quello fermano è rappresentato, un uomo in mesto raccoglimento, collocato entro
due colonne doriche, di cui quella a
destra spezzata. Dietro la scultura,
nel paramento marmoreo, è incisa
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In queste pagine: alcune dettagli del
cimitero. A sinistra, il Monumento
Fracassetti
l’iscrizione: haec domus / aeterna
est (“Questa è la dimora eterna”).
La Scienza medica cura gli
ammalati
Presso la tomba Montanari-Mancini,
dov’è sepolto il medico Francesco
Montanari († 1906), è collocato il
gruppo allegorico rappresentante La Scienza medica cura gli ammalati, firmato da Tullo Golfarelli,
nato a Cesena nel 1853, da Enrico e
da Vittoria Bassoli. Lo scultore iniziò la sua formazione artistica presso la bottega orafa del padre. Passò
poi a Roma, dov’è documentato
nel 1878, presso lo scultore-orefice Pietro Gagliardi. Studiò anche a
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Parigi, Bologna, Venezia, Firenze e
Napoli, abbandonando presto l’oreficeria per dedicare il suo lavoro alla
scultura.
Nel 1881 tentò di entrare all’Accademia di belle arti partenopea, non
ottenendo però l’accesso. Nella
città conobbe lo scultore verista
Vincenzo Gemito, dal quale apprese quel realismo che caratterizzerà
parte della sua produzione.
Nel 1893, trasferitosi a Bologna,
frequentò l’Accademia di belle arti,
seguendo le lezioni dello scultore
Salvino Salvini. In città aprì quello
stesso anno il suo studio di scultura. Nel Cimitero alla Certosa di
Bologna realizzò la scultura Labor
per il sepolcro Simoni, rappresentante un fabbro a grandezza naturale, tanto ammirata da Giovanni
Pascoli, che in un discorso pubblicato nel 1906 nel giornale cesenate
Il Cittadino per l’inaugurazione del
busto di Giosuè Carducci realizzato
dallo stesso scultore per l’aula magna dell’Università di Bologna, definì, a ragione, la produzione di Tullo
Golfarelli improntata a “un realismo
di stampo sociale”.
Nel 1912 ottenne la cattedra dell’Accademia di belle arti bolognese.
Morì a Bologna nel 1928.
Nella scultura funeraria del Cimitero
di Fermo troviamo in primo piano
l’allegoria della Scienza medica, in
piedi, vestita con un semplice abito all’antica. Il capo è coperto da un
velo cinto da alloro, mentre sta medicando un’ammalata nuda, seduta,
con la faccia contorta in una smorfia
di dolore, in un tono realistico, che
contrasta con la figura impassibile
della Scienza medica, scolpita nei
modi del liberty, che Tullo Golfarelli
aveva accolto nella sua produzione
fin dagli inizi dai primi anni del secolo scorso.
Tuttavia, lo scultore, non rinunciò
a quello che Giovanni Pascoli aveva definito “realismo di stampo sociale”, appreso da Vincenzo Gemito,
ben presente nella figura di donna,
subito a destra dell’ammalata che
guarda preoccupata il medicamento. La popolana, regge tra le braccia
una bambina, per niente intimorita
da quanto sta accadendo.
Quello di Fermo è probabilmente uno dei migliori lavori della produzione funeraria di Tullo Golfarelli
che, pur avendo abbracciato da
tempo i canoni stilistici dell’arte liberty, riutilizzò, una forma espressiva allora passata di moda: quel verismo appreso da Vincenzo Gemito,
che rende la scultura un pezzo unico nel suo genere.
Il committente (che molto probabilmente scelse il soggetto: un’allegoria che doveva ricordare la professione del defunto), lasciò all’artista
ampia libertà espressiva per realizzare il monumento funerario (dobbiamo tenere conto anche della
fama che lo scultore in quegli anni
aveva raggiunto, che in pratica poteva garantirgli ampia autonomia
espressiva), uno dei più interessanti del Cimitero di Fermo.
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Eunomia
Le mille e una chiese di
Cappadocia: se l’UNESCO
c’è, ma non si vede
di Anna Castellari
Stavolta non si parla di contemporaneo, ma di antico e di gestione dei beni culturali in Turchia. Lo stupendo paese medio orientale cela meraviglie neanche
troppo nascoste, anzi, piuttosto turistiche. Ma il trekking e l’assenza di un ente che tutela i beni culturali
stanno mandando in rovina quei luoghi…
Tutte le foto di questo servizio sono di Anna Castellari.
In questa pagina e nella prossima: interno di una delle chiese rupestri
S
iamo arrivati a Çavusin,
nel bel mezzo della Cappadocia, nel bel mezzo della Turchia, a fine agosto. Se l’Italia ci aveva regalato fino a poco prima ben poco calore estivo, qui in
Turchia si respira invece un’aria di
vacanza. Dopo il delirio della prima
settimana istanbulota, abbiamo percorso dieci ore di strade dissestate
in autobus – c’è da dire, comodissimo – di notte, e siamo arrivati alla
nostra pensione nella poco turistica
cittadina di domenica mattina alle 9.
Il padrone di casa, Ahmet, si è prodigato nel venirci a prendere all’autostazione (che in turco si chiama
otogar, con pronuncia francese e
scrittura come la pronuncia).
Appena arrivati nella corte interna
della pensione, Ahmet ci ha consigliati sui percorsi da compiere a
piedi nel giorno e mezzo di permanenza lì, a suo dire troppo poco –
e infatti una compagnia di francesi
conosciuta sul posto è rimasta da
lui una settimana e si è davvero goduta le bellezze del luogo.
Pensi Cappadocia e ti viene in mente, alternativamente, una Matera
più in grande o un grand canyon
più in piccolo, a seconda di quanto ti sei spinto in là nelle vacanze
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precedenti. Di certo la ricchezza di
questo posto, che abbiamo visitato quanto più possibile, con una
camminata di tre ore il pomeriggio
dell’arrivo e due camminate rispettivamente di tre e quattro ore il giorno dopo, non è soltanto quella paesaggistica. È certamente un insieme di componenti. I sassi, le rocce, il loro colore, l’acqua che abbiamo scovato in altezza sotto una pelliccia di muschio, inaspettata, il tramonto sulle pietre e intanto il muezzin che canta per radunare i propri fedeli: sono tutti elementi che lo
rendono un luogo suggestivo e pieno di fascino, non fosse altro perché difficilmente tutte queste componenti si ritrovano assieme. Se la
bellezza di un luogo è data dall’atmosfera, di sicuro la Cappadocia ne
ha da vendere, di bellezza.
Il meraviglioso caos umano e culturale che è questo paese emerge anche qui: a fianco alle moschee di costruzione più recente – la Storia insegna che Istanbul fu conquistata da
Mehmet II nel 1453, e da lì cominciò a espandere il proprio dominio
in tutto l’Impero Romano d’Oriente
trasformandolo in Impero Ottomano
– si trovano antichissime chiese rupestri, costruite letteralmente nelle
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lui stesso era proprietario, con la
sua famiglia, di una di quelle grotte, ma non può più mettere mano
e intervenire per salvarne la struttura perché dovrebbe occuparsene
lo Stato (che non ha soldi a disposizione, però). Mi chiedo che senso abbiano tutti questi visitatori, se
non si riesce a gestirli in maniera
corretta – il turco medio, ho notato, non ha molto senso dell’ecologia, e le cartacce buttate a terra o
in mare dal vaporetto sono all’ordine del giorno. Eppure, qui stiamo
I Camini delle Fate
Çavusin: moschea e antico insediamento
grotte. Quando penso ai presepi della mia infanzia, e al fatto che si diceva che Gesù fosse nato in una grotta, ecco, mi viene in mente un paesaggio molto simile. Mille buchi nella pietra, con abitazioni e chiese sulla montagna incantata di Çavusin.
Basta provare a immaginarselo la
sera, illuminato dalle luci di candele e di fuochi per scaldare la propria
casa, e il gioco è fatto: Çavusin diventa ancora più magica e il tempo
si ferma a un paio di millenni fa o
su di lì.
Ma non tutto è oro quel che luccica. Le chiese si trovano in uno stato
di semi abbandono. C’è da dire che
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parlando di un patrimonio mondiale e della mancanza di rispetto verso
di esso, non solo da parte dei turchi
ma anche dei turisti in visita qui.
Il mio modesto articolo è un atto
d’accusa ma anche una richiesta
verso chi amministra questi luoghi. Quel Cristo Pantocratore che
spesso campeggia sugli altari delle chiese cristiane dovrebbe fungere da monito a queste persone.
Affinché un patrimonio come quello
di Cappadocia non vada, irrimediabilmente, perduto.
sono oltre mille, e dunque non deve
essere affatto semplice mantenere
tutto in ordine. Però il degrado e la
mancanza di controlli – anche banalmente verso i turisti che scambiano le ex abitazioni nelle grotte per orinatoi – sono sconfortanti.
Tanto più se si pensa che questo è
un sito tutelato dall’UNESCO, come
indica la scritta che campeggia vicino a molte chiese e ai nomi delle cittadine (penso anche a Göreme,
preda del turismo tanto da sembrare una Riccione con vocazione un
po’ più culturale).
Mi chiedo dove sia l’UNESCO, anche quando Ahmet mi racconta che
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Visioni su carta
Le leggende senza tempo di
Sergio Toppi
di Sonia Cosco
Sono senza tempo, le leggende di Sergio Toppi. Oniriche, evocative,
dodici tavole a colori ispirate ad altrettante leggende che un maestro della
“letteratura disegnata” ha realizzato diversi anni fa. Lui ci lasciato da pochi
anni e forse guidata dalla dolcezza di questo inizio autunno, vado a cercarlo
nelle mensole della libreria e mi ritrovo a sfogliare un portfolio magico.
Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003)
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e dissolverlo in queste brevi righe,
per poi riaccenderlo nei caldi colori
delle tavole. Che hanno il suo inconfondibile stile geometrico e pungente, enormità di visi e minuscoli dettagli. Le dodici leggende sono nate
dall’immaginazione di Toppi, ma
non fu un’elaborazione immediata.
Come si legge in una nota della casa
editrice:
“L’idea era quella di pubblicare un
lavoro di Sergio Toppi. «Lasciamola
un po’ lì quell’idea...» ci diceva
garbatamente tutte le volte che lo
incontravamo”.
Toppi nasce a Milano nel lontano
1932. Esordisce nella UTET e negli
anni sessanta inizia la sua carriera
nel mondo dei fumetti, disegna per
il Corriere dei piccoli poi Corriere
dei Ragazzi. Numerose le collaborazioni (Sgt. Kirk, Linus, Alter Alter, Il
Giornalino, Il Mago, Corto Maltese,
L’Eternauta, Comic Art, Ken Parker,
Sergio Bonelli Editore) e tanti i riconoscimenti. È mancato nel 2012
e per quanto in questo bel paese si
tenda a essere coccodrilli del rimpianto e quindi solo a posteriori vengono riconosciuti i meriti dei nostri
Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003)
Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003)
“E
ra alta, di pietra dura e pesante. S’era persa la memoria di chi
l’avesse innalzata e forse anche della prigioniera”. Ecco la Torre dove il
tempo fluisce lento, mentre la prigioniera sogna una “libertà lontana”. E poi, ancora il bambino destinato a grandi cose salvato dagli
Aironi Azzurri, la Pietra sulla quale
un custode scrive i sogni di tutti i
dormienti e il Ghepardo fedele che
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custodisce l’oro del re. Sono alcuni
dei protagonisti di queste lievi, dolcissime leggende senza tempo di
Sergio Toppi che nel portfolio edito
da Crapapelada nel 2003, tesse disegni e parole, per realizzare un arazzo
mitico. Come le narrazioni primordiali, archetipi di tutte le storie che
saranno scritte poi, sono essenziali e cadenzate, emotive ed eziologiche. Toppi sembra distillare ciò che
osserva nella natura e nell’uomo
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grandi artisti, ancora se ne parla
troppo poco. Hugo Pratt usava queste parole per descriverlo: “Toppi è
una persona squisita, un grandissimo artista del pennino, un cesellatore. Lo si può considerare un discendente di una scuola che annovera Frank Godwin, Dana Gibson e
prima ancora di loro Remington e
Doré”.
La sua è una produzione eclettica, un linguaggio rivoluzionario per
quei tempi. Modifica i canoni grafici del racconto per immagini e stravolge la struttura delle tavole, con
i disegni che trasbordano dai contorni e i visi viola sul Messaggero
dei Ragazzi che, negli anni settanta, fecero grande scalpore. Lui stesso ammette, in diverse interviste,
quanto lavorare nel fumetto e soprattutto nei giornali per ragazzi, fosse allora un’esperienza straordinaria, formativa, stimolante, di
un grande spessore culturale (basta pensare alle firme che circolavano su quelle pagine: Dino Battaglia,
Paz, Tacconi, Uggeri). Lo ispirano
l’Oriente, i samurai, i popoli antichi
del sud America, la sua tecnica preferita è il bianco e nero a china, ma
io lo amo soprattutto per le tavole
a colori, come quelle del portfolio
che vi ho presentato e dal quale, per
concludere questo piccolo omaggio a Toppi, estrapolerei la leggenda
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senza tempo che più mi ha suggestionato. Il titolo è Forse. Un invito al
viaggio e alla ricerca, perché la bellezza dell’imprevedibile e dell’ignoto
non è una meta da raggiungere, ma
un percorso da fare a piedi, a mani
nude e cuore aperto.
“Forse ad Oriente, forse a Occidente.
Forse a qualcuno sarà data la fortuna di scoprire un valico tra grandi dirupi e scendere dalle muraglie
bagnate da piogge scarlatte. Forse.
Ma se ci riuscirà, forse, potrà seguire una traccia sottile come un velo
di seta e alla fine della traccia, la
sorpresa di un canto mai udito e di
un volto che sorride, forse per una
penna dimenticata o per un presagio di piccole gioie, forse. Ma forse il gioco che vale la pena di giocare è cercare senza raggiungimento quel valico da leggenda, tra i dirupi e le muraglie da piogge scarlatte... forse”.
Leggende senza tempo di Sergio
Toppi
Edizioni Crapapelada, 2003.
Portfolio realizzato con 12 illustrazioni ispirate a 12 leggende scritte
dall’artista.
Tiratura 250 esemplari numerati da
1 a 250. Ogni illustrazione è firmata dall’artista. Stampato su carta
Fedrigoni Tintoretto.
Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003)
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“Fiato d’artista”
Canto d’amore per la Terra.
Genesi, di Sebastião Salgado
di Lucia Valcepina
Frutto di una profonda passione, Genesi non è un semplice reportage sulle
meraviglie del Pianeta, bensì la sintesi e summa di un progetto decennale:
canto d’amore per la Terra e i suoi abitanti.
Sebastião Salgado, Brasile
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Sebastião Salgado, Kafue National Park
L
a macchina fotografica è sempre stata per
Sebastião Salgado uno strumento
di presa di coscienza. Per realizzare un buon servizio bisogna crederci fino in fondo, sembra dirci con
le sue scelte il fotografo brasiliano, da sempre propenso a indagare ciò che è ignoto, sotteso o lontano dai riflettori. Aveva 29 anni e
la sua vita pareva indirizzata verso
una promettente carriera economica quando cominciò a fotografare
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e, in breve, riconobbe che la sua vocazione non era rincorrere il fatto,
svolazzare da un argomento all’altro, ma documentare la realtà con
progetti di ampio respiro. Realizzare
inchieste là dove nessuna attualità
immediata le sollecitava, interpretando e trasformando così la tradizione del saggio fotografico.
Tutta l’opera di Salgado è volta a
conciliare l’estetica con l’informazione, la militanza, l’impegno civile ed etico. Molti di noi hanno
negli occhi le sue fotografie dedicate agli Indios, ai contadini dell’America Latina, alla carestia in Africa o
la rassegna, realizzata tra il 1986 e
il 2001, sulla fine della manodopera
industriale su larga scala (La mano
dell’uomo, Contrasto, 1994). Saghe
planetarie che esplorano ciò che va
scomparendo delle forme secolari dell’attività umana, interrogandosi sul significato di tale visione. Dai
campi di canna da zucchero cubani fino alle acciaierie dell’ex Unione
Sovietica, passando per le zone petrolifere del Kuwait, Salgado ci ha
mostrato l’uomo nell’atto di trasformare il mondo. In altra sede, ci
ha proposto le immagini e gli scorci di un’umanità in movimento, fatta non solo di profughi e rifugiati,
ma anche di migranti colti nel loro
viaggio verso l’ignoto, verso le immense megalopoli del Terzo mondo
(In cammino; Ritratti di bambini in
cammino, Contrasto, 2000).
E oggi parliamo di Genesi con le
sue 245 immagini in bianco e nero,
organizzate in 5 sezioni: il Pianeta
Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e
il Pantanàl. Nessun significato religioso nel titolo, ma tutto il senso di quell’armonia delle origini che
ha permesso la diversificazione della specie: il prodigio di cui tutti facciamo parte. Come quella zampa di
iguana che ha ormai fatto il giro del
mondo e tanto ricorda la mano di
un guerriero medievale. Un percorso espositivo che testimonia di un mondo “vivo” a ogni livello, illuminato dalla convinzione che
minerali, vegetali e animali vadano
avvicinati con lo stesso scrupoloso rispetto con il quale ci si approccia, o ci si dovrebbe avvicinare, agli
esseri umani. Otto anni a percorrere il mondo a piedi, su piccoli aerei,
barche, canoe e persino in mongolfiera. Vulcani, dune, canyon, ghiacci, foreste, santuari naturali, isole…
alla ricerca di spazi incontaminati,
dai più torridi ai più glaciali, dai più
aridi ai più lussureggianti.
L’idea si affianca all’importante
progetto ambientale che Salgado
sta realizzando da un decennio in
Brasile, in collaborazione con la moglie, Lélia Deluiz Wanick Salgado:
Instituto Terra, volto a ripristinare una parte della foresta atlantica la cui distruzione cominciò con
l’arrivo dei Portoghesi nel XVI secolo e proseguì con la deforestazione dovuta all’agricoltura, all’urbanizzazione e all’industrializzazione. Come racconta lo stesso ideatore, tale progetto mira a realizzare “un restauro ecosistemico” della terra (S. Salgado, Dalla mia Terra
alla Terra, Contrasto 2014). E non
di una terra qualsiasi si parla, ma
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di quella che Salgado conosce intimamente e racconta con affetto,
il mondo dell’infanzia, luogo di ricordi e vissuti meravigliosi: le corse a cavallo fino al tramonto; le immense distese da attraversare spesso a piedi, seguendo le transumanze e indugiando con lo sguardo, imparando ad amare i cieli carichi trafitti di luci; le nuotate nei corsi d’acqua insieme ai caimani che, a differenza di quanto si dice, “non attaccano l’uomo”.
L’avvicinamento del fotografo alla
natura non può che essere graduale, empatico, lontano dall’ipotesi “che gli animali siano bestie senza cervello e senza logica”. Nel progetto Genesi, Salgado non realizza
un reportage come farebbe un entomologo o un giornalista, ma con
lo sguardo pronto ad accogliere lo
stupore per le meraviglie e bizzarrie
del Pianeta, con l’attitudine a stabilire un rapporto con i suoi abitanti, superando la diffidenza di tartarughe giganti, iguane e leoni marini nella Galápagos, oppure seguendo la migrazione di zebre e animali
selvatici in Kenya e Tanzania.
Lo sguardo si sofferma spesso su
scorci di un presente che richiama un tempo remoto, primordiale, come quando il fotografo coglie
la quotidianità di popolazioni indigene ancora vergini: gli Yanomami
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e i Cayapó dell’Amazzonia brasiliana, i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo settentrionale, i
Boscimani del deserto del Kalahari
in Sudafrica, le tribù Himba del deserto namibico e quelle delle foreste
della Nuova Guinea. Anche in questo caso, Salgado si è avvicinato ai
soggetti con gradualità, discrezione, lasciando che fossero le popolazioni stesse a offrirgli la possibilità e
l’occasione di fotografare. Tutto ciò
è avvenuto condividendo l’essenziale, le condizioni climatiche estreme
e, spesso, la nostalgia di casa.
La lentezza appartiene alla fotografia
e, anche se il mondo va velocemente, secondo Salgado “la vita segue
un altro ordine di grandezza. E la
vita va rispettata quando la si vuole
fotografare”. Il bianco e nero esprime la volontà di operare nell’ambito del simbolico. Il mondo è per
Salgado un serbatoio di immagini
significanti, attraversato da un alito epico, che chiede a chi guarda
di cogliere l’incanto, persino dove
sembra essere occultato, come nelle passate rassegne (tutti noi abbiamo in mente certe sue immagini del
Sahel o dei centri di assistenza per
bambini in Etiopia dove la miseria
non riesce tuttavia a distruggere la
bellezza e il tragico sembra svelare
il sublime). Situazioni colte nel loro
valore metastorico, soggetti accolti
Sebastião Salgado, Genesi
da raggi di luce e da una natura maestosa, a parlarci dell’umano che attraversa le epoche.
E anche noi, come Salgado, di fronte alle immagini di Genesi, torniamo
alle origini della nostra Storia, scopriamo la nostra memoria ancestrale. Ci sentiamo molto vecchi, anzi,
antichi, trasportati indietro di migliaia di anni. Con lo stesso bisogno
di amare, piacere e vivere… ma con
quella conoscenza della natura che,
incautamente, negli ultimi millenni,
abbiamo dimenticato. Genesi, Sebastião Salgado
Palazzo della Ragione
Piazza dei Mercanti, Milano
fino al 2 novembre
Orari. Tutti i giorni (tranne il lunedì)
dalle 9.30 alle 20.30 | giovedì e sabato: dalle 9.30 alle 22.30.
Ingresso. 10 € (intero), 8,50 €
(ridotto)
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Eunomia
Oh, del cemento
in terra d’Islanda!
di Silvia Colombo
L’isola nordica dell’Islanda, proprio vicino al circolo polare artico, è una sorpresa per chi la visita. Dominata dalla natura, che regna incontrastata, nasconde nella sua anima più profonda anche
qualche sorpresa dedicata all’arte contemporanea: oggi andiamo
alla scoperta dell’installazione in cemento di Lukas Kühne.
Lukas Kühne, Tvísöngur (2012). Foto di Silvia Colombo
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Lukas Kühne, Tvísöngur (2012). Foto di Silvia Colombo
N
on sono abituata alla natura, né tantomeno all’idea di
una leopardiana natura matrigna capace di dominare incontrastata, facendo letteralmente il bello e il cattivo tempo. Forse per questo, per
anni, ho serbato il grande desiderio
di andare in Islanda, ma allo stesso
modo ho temuto di rimanerne sovrastata, e delusa – “Natura. Ben
potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove
non ignori che si dimostra più che
altrove la mia potenza. Ma che era
che ti moveva a fuggirmi?”.
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Invece no: il giro dell’isola in (purtroppo soli) dieci giorni è stato una
delle esperienze di viaggio più incredibili a cui mi sia affidata, completamente libera. Nondimeno, tra un
fiordo e una cascata, non ho potuto
fare a meno di sentire, e rispondere, al richiamo dell’arte, almeno per
una volta, una volta sola.
Così, a Seydisfjördur, piccolo centro artistico situato sulla costa orientale islandese, dove anche il locale
Skaftfell è ritrovo turistico e piccola galleria d’arte – alle pareti si trovano, tanto per dirne una, stampe
Lukas Kühne, Tvísöngur (interno,
2012). Foto di Silvia Colombo
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Lavori in corso per Tvísöngur di Lukas Kühne (2012).
Foto dal sito www.lukaskuehne.com
di Dieter Roth – insieme, ho notato
una locandina. E ho deciso, trascinando tutti quelli che erano con me,
che quella sarebbe stata la nostra
(seppur breve) tappa successiva.
Dal paese occorre seguire un breve sentiero in salita che conduce,
dopo una ventina di minuti circa, a
una installazione del tedesco Lukas
Kühne, Tvísöngur (2012). Si tratta, in altre parole, di una struttura
site specific in cemento, accessibile
ed esperibile all’interno, coperta da
cinque cupole di diversa altezza (più
precisamente, sul sito dell’artista si
legge che “l’altezza delle cupole si
aggira tra i 2 e i 4 metri e [la struttura] copre un’area di circa 30 metri quadrati”).
Nonostante l’accostamento stridente tra natura e artificio, verde
e cemento, l’intervento di Kühne
si sviluppa in maniera simbiotica
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rispetto all’ambiente che lo circonda sia in virtù della forma sinuosa, che in qualche modo richiama le
curve delle alture, sia per il colore,
non lontano da quello della pietra.
Inoltre, l’affaccio panoramico sul
fiordo crea una cornice suggestiva
per l’esperienza artistica che si sta
per compiere.
Il significato dell’opera, in qualche modo intuibile – anche se forse varrebbe la pena specificarlo con
un’apposita segnaletica o un sintetico pannello esplicativo –, si ricollega alla tradizione musicale locale, basata su un’armonia a cinque
toni. Lo spazio sottostante a ciascuna cupola, infatti, genera effetti acustici e suoni diversi, che vanno liberamente sperimentati dai visitatori, fino a comporre un’ideale sinfonia da dedicare alla silenziosa natura circostante.
Tvísöngur non è una sperimentazione Lukas Kühne, Tvísöngur (2012)
isolata sul tema, da parte dell’artista, Seydisfjördur, Iceland
ma rientra in un progetto più ampio, sito web. www.lukaskuehne.com
che comprende una serie di installazioni inaugurata con Cromatico, eseguita a Tallin nel 2011 e basata questa volta sull’ordine matematico che,
anticamente, veniva visto alle base
delle note, così come del movimento dei pianeti.
In ogni caso, è sufficiente entrare e
lasciarsi trasportare dai giochi acustici che variano tra uno spazio e
l’altro. Nonostante il risultato da noi
raggiunto non sia stato vocalmente
dei migliori e certamente non all’altezza delle composizioni islandesi,
fuori dalla struttura, a distanza di
qualche metro, abbiamo trovato dei
‘pellegrini dell’arte’, come noi, che
ci hanno accolto con un applauso.
Ovvio, perché anche questa è
l’Islanda.
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Nèurastenie
#Cemento
di Silvia Colombo
Questo numero di Nèura vuole parlare di natura, ma anche del suo opposto: di ciò che è artificiale e artificioso, necessariamente costruito dall’intervento dell’uomo. Oggi vi suggeriamo un percorso a caccia di un materiale, il cemento, che è stato protagonista della storia costruttiva, ma non
solo, del scorso decennio.
#Gibellina
Nella seconda metà degli anni ottanta Alberto Burri interviene sul
territorio di Gibellina – colpita da
un terremoto, nel 1968 – dando
vita alla sua opera più imponente, il
Grande cretto. Con una colata di cemento gettata sopra le macerie delle case crollate, l’artista ha voluto proseguire un percorso già intrapreso, quello dei cretti, facendo coincidere i solchi dell’installazione con l’antico tracciato viario del paese. Un monumento
per ricordare la potenza devastante della natura, oggi situato nei pressi del
nuovo centro abitato, sorto a qualche chilometro di distanza.
Dove e Quando
Alberto Burri, Grande Cretto
Gibellina (Trapani)
Museo del Novecento
Orari. lunedì 14.30-19.30 | martedìdomenica 9.30 – 19.30 | giovedì e
sabato 9.30-22.30
Ingresso. intero € 5 | ridotto € 3 |
gratuito ogni giorno a partire da due
ore prima della chiusura del Museo e
ogni martedì dalle ore 14
Gallerie d’Italia
(Cantiere del Novecento)
Orari. martedì-domenica 9.30-19.30
(ultimo ingresso 18.30) | giovedì
9.30-22.30 (ultimo ingresso 21.30)
Ingresso libero
sito web. www.museodelnovecento.
org | www.gallerieditalia.com
#Como
#Milano
Uno degli artisti che, nell’età
contemporanea, ha lavorato di
più a contatto con il cemento è
Giuseppe Unicini. Le sue opere, ottenute da una gittata di calcestruzzo all’interno di casseforme – dove talvolta si trova anche
una struttura armata, poi visibile
nella versione finale –, una volta appese appese al muro diventano lacerti di cemento. Sono composizioni studiate di contemporaneità progettata,
vissuta e, infine, contemplata che potete trovare, a Milano, al Museo del
Novecento e alle Gallerie d’Italia.
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Dove e quando
Museo del Novecento – Gallerie d’Italia (Cantiere del Novecento), Milano
(collezione permanente)
Info e contatti
Eseguita negli anni trenta – più precisamente
in vista della VI Triennale (1936) di Milano –
e frutto della collaborazione tra l’architetto
Cesare Cattaneo e l’artista Mario Radice, la
Fontana monumentale di Como è uno dei più
noti esempi di arte razionalista, concepita nel
periodo il regime. Il monumento che si ammira
oggi al centro di piazza della Camerlata, in
realtà, è una ricostruzione postuma, avvenuta
negli anni sessanta, di un’opera andata distrutta
immediatamente dopo l’esposizione. Tuttavia il
progetto della fontana – una struttura composta dalla successione alternata tra
vuoti e pieni, anelli e sfere – è ancora chiaramente leggibile.
Dove e quando
Fontana monumentale
Piazza Camerlata, Como
Info e contatti
sito web.
www.lombardiabeniculturali.it/
architetture/schede/3m080-00016/
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#Ronchamp
Le Corbusier, negli anni cinquanta, ha costruito uno dei capolavori
in cemento più poetici della storia
dell’architettura, riuscendo a mettere in piedi una delle prime opere
di arte sacra contemporanea più
significative. Si tratta della cappella di Notre-Dame du Haut, a
Ronchamp – località della Francia orientale –, terminata nel 1955 ma consacrata solo di recente, cinquant’anni dopo. La struttura ad aula unica, coperta da una volta a guisa di vela, è completamente costruita in cemento, che si interrompe solo in corrispondenza di feritoie sulle pareti laterali,
fonti di luce naturale per gli spazi interni.
Dove e Quando
Colline de Bourlémont, Ronchamp
Chapelle de Notre-Dame du Haut
per gli ebrei assassinati d’Europa (o Memoriale dell’Olocausto) di Peter
Eisenman. Nonostante le polemiche, il monumento costituisce oggi un risarcimento morale che la città di Berlino si è sentita di compiere nei confronti del popolo ebraico, in seguito ai traumatici fatti della Seconda guerra. Il memoriale, sorto tra il 2003 e il 2004 su un intero isolato prima occupato dalle proprietà di Goebbels, è composto da quasi tremila stele in
calcestruzzo, della forma di piloni squadrati che, insieme, costituiscono un
percorso disorientante per il visitatore invitato a entrare al loro interno.
Dove e quando
Peter Eisenman,
Memoriale dell’Olocausto
Berlino
Info e contatti
Ingresso libero
sito web. www.eisenmanarchitects.com
Info e contatti
Orari. aperto tutti i giorni dell’anno,
tranne il primo gennaio | 1° aprile –
31 ottobre 9-19 | 1° novembre – 31
marzo 10-17 | ultimo ingresso: 15
minuti prima della chiusura
Ingresso. adulti € 8 | studenti (meno
di 26 anni con un documento) € 6 |
bambini (8-17 anni) € 4
Sito web. www.collinenotredameduhaut.com
#Berlino
Nel cuore della capitale tedesca,
vicino alla Porta di Brandeburgo,
sorge uno dei monumenti più
suggestivi (insieme al Museo
ebraico di Libeskind) della nostra
contemporaneità: il Memoriale
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Appuntamento con Nèura Magazine a ottobre.
Intanto, continuate a seguire le news flash
dal mondo dell’arte sul nostro sito.
www.neuramagazine.com