11 marzo 2014 - Diritto Civile Contemporaneo

Sent. n. 1349/2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI PALERMO
Terza Sezione Civile
Nella persona del Dott.ssa Sebastiana Ciardo, in funzione di Giudice monocratico,
ha pronunciato – ad esito della discussione orale svolta dalle parti, ai sensi dell’art.
281 sexies c.p.c., sulle conclusioni precisate all’odierna udienza – la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n° 6429 del Ruolo Generale degli affari contenziosi civili
dell’anno 2010
TRA
S. N., B. M., in proprio e n.q. di genitori esercenti la potestà su S. I. e S. G., e S. A.
e S. V. (rappresentati e difesi dall’avv.to Giuseppe Greco)
ATTORI
CONTRO
Azienda Ospedaliera “Ospedali Riuniti Villa Sofia – Cervello, in persona del legale
rappresentante pro tempore (rappresentato e difeso dall’avv.to Ilenia M. Valeria Corrado)
CONVENUTA
E
Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. 61, in persona legale rappresentante pro
tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura dello Stato
TERZA CHIAMATA
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P.Q.M.
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Il Tribunale,
ogni contraria istanza ed eccezione respinta e definitivamente pronunciando, in
parziale accoglimento delle domande proposte dagli attori, con atto di citazione in
riassunzione, notificato in data 29 novembre 2010,
dichiara il difetto di legittimazione passiva dell’Azienda Ospedaliera “Ospedali
riuniti Villa Sofia – Cervello, in persona del legale rappresentante pro tempore
condanna la Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. 61, in persona legale
rappresentante pro tempore presso la Regione Siciliana, a pagare a S. N. la complessiva
somma di euro 55.413,94, oltre gli interessi legali dalla data della presente decisione fino
al soddisfo;
condanna la Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. 61, in persona legale
rappresentante pro tempore presso la Regione Siciliana, a pagare a B. M. la complessiva
somma di euro 10.000,00, oltre gli interessi legali dalla data della presente decisione fino
al soddisfo;
rigetta le domande proposte da S. N. e B. M., nella qualità di genitori esercente la
potestà sui figli minori S. I. e S. G., S. A. e S. V. nei confronti della terza chiamata;
condanna Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. 61, in persona legale
rappresentante pro tempore a rimborsare a S. N. le spese del giudizio che si liquidano in
complessivi euro 9.100,00, di cui euro 1.118,00 per spese, oltre IVA e CPA come per
legge, ed oltre le spese di c.t.u. da porsi definitivamente a carico della parte soccombente.
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MOTIVI DELLA DECISIONE
Gli attori, in proprio e nella qualità, con atto di citazione ritualmente notificato,
convenivano in giudizio l’Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti Villa Sofia – Cervello, in
persona del legale rappresentante pro tempore, al fine di ottenere il risarcimento di tutti i
danni alla salute patiti in conseguenza delle emotrasfusioni cui S. N. venne sottoposto, in
occasione di un ricovero effettuato nell’anno 1989, presso l’Ospedale cervello, che aveva
al medesimo cagionato la contrazione del virus dell’HCV.
Si costituiva nel giudizio l’Azienda Ospedaliera convenuta, in persona de legale
rappresentante pro tempore che, preliminarmente eccepiva il difetto di legittimazione
passiva, e, nel merito, contestava il titolo di responsabilità e chiedeva il rigetto delle
domande.
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A seguito di autorizzazione formulata alla prima udienza di comparizione quale
conseguenza dell’eccepito difetto di legittimazione passiva, gli attori evocavano in giudizio
la Gestione liquidatoria ex UU.SS.LL, che si costituiva eccependo il proprio difetto di
legittimazione passiva e nel merito contestava, in particolare, la prova del nesso di
causalità tra la trasfusione e la contrazione del virus.
!
In via preliminare, deve essere dichiarato il difetto di legittimazione passiva
dell’Azienda ospedaliera, per illecito commesso nell’anno 1989.
Difatti, l’allegato fatto illecito, vale a dire le emotrasfusioni infette, all’origine della
dedotta contrazione del virus, è stata eseguita quando ancora l’Azienda ospedaliera non era
stata costituita e neppure l’AUSL n° 6, e per i debiti pregressi gravanti sulle ex USL ne
risponde direttamente la Regione attraverso le gestioni stralcio a ciò specificamente create
(legge 724/1994).
Sicché, dovrà essere dichiarato il difetto di legittimazione passiva della convenuta
azienda, alla cui eccezione ha, peraltro, aderito parte attrice chiedendone l’autorizzazione a
chiamare in causa la Gestione stralcio, presso l’Avvocatura dello Stato.
!
Sempre in via preliminare, deve essere affermata la legittimazione passiva
della Gestione liquidatoria delle ex USL 61 di Palermo, in persona del legale
rappresentante pro tempore, per debiti gravanti sulle ex UU.SS.LL, difesa ex lege
dall’Avvocatura dello Stato.
A riguardo, così come già rilevato con ordinanza del 15 marzo 2011, seppur la
chiamata in causa del terzo, ad opera degli attori sia stata fatta erroneamente direttamente
alla Gestione liquidatoria, non più operante a decorrere dal 1 gennaio 2007, tuttavia la
lettura del combinato disposto dell’art. 1 e dell’art. 9 del D.A. 8 maggio 2007, attuativo
della legge 2/2007, induce a ritenere che, nella specie, a seguito della sopravvenuta
inoperatività delle predette gestioni liquidatorie le Regioni siano subentrate ex lege in tutti i
debiti pregressi e nei giudizi sia “pendenti che attivati” a far data dal 1 gennaio 2007.
Sicché, la successione nel processo consegue ad un effetto automatico previsto
direttamente dalla legge, che infatti, così testualmente dispone: “..atteso che la
legittimazione passiva rimane intestata alla Regione”, avvalorando siffatta interpretazione.
!
Sempre in via preliminare, deve essere rigettata l’eccezione di prescrizione
sollevata dalle parti convenute.
Sul punto e in tema di decorrenza del termine della prescrizione è utile riportare
testualmente quanto affermato dalle SS.UU. quanto all’epoca di decorrenza, fatta
coincidere con il momento in cui l’interessato ha avuto piena consapevolezza di avere
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contratto il virus e del nesso causale con la trasfusione eseguita, che può rinvenirsi in via
generale, nel momento in cui viene inoltrata domanda al Ministero per ottenere
l’indennizzo.
Ora, escludendo che il dies a quo possa farsi coincidere con il momento in cui il
danneggiato si sia sottoposto alla trasfusione poi risultata infetta, si ritiene che, essendo
determinante l’epoca in cui la condotta illecita spiega i suoi effetti in maniera virulenta con
carattere di riconoscibilità, assume rilievo il momento in cui l’attore abbia acquisito piena
conoscenza dell’esistenza e della gravità del danno e della sua riconducibilità eziologica
alla trasfusione.
Sebbene sia possibile che il danneggiato abbia scoperto di essere affetto da
patologia virale dagli esiti di accertamenti diagnostici, tuttavia si ritiene che la piena
consapevolezza dell’esistenza dell’affezione nonché della connessione con l’avvenuta
trasfusione sorga quando egli inoltri domanda al Ministero della salute al fine di ottenere
l’indennizzo di cui alla legge 210/1992.
Sicchè, il momento di presentazione della domanda di liquidazione dell’indennizzo
assume rilievo determinante ai fini della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione
risarcitoria. E ciò deve reputarsi coerente con lo spirito dell’istituto della prescrizione dei
diritti e delle relative azioni, giacché è consentito ai titolari di poter azionare la tutela
giudiziale allorquando ne abbiano percepito la lesione perché questa è penetrata con
carattere di riconoscibilità nella propria sfera giuridica.
Difatti, disattendo l’orientamento che sposta la decorrenza del termine
prescrizionale al momento in cui l’interessato ha ricevuto idonea certificazione dalle
Commissioni mediche attestante la connessione eziologica del contagio con le trasfusioni o
la somministrazione di emoderivati, pur condiviso da altra parte della giurisprudenza di
merito (Trib. Roma 08.01.2003), si ritiene che il fine solidaristico ed assistenziale, che
informa la scelta legislativa di cui alla legge 210/92 non possa spingersi fino a far divenire
siffatto accertamento – in presenza di altri elementi dai quali desumere la conoscibilità del
fatto lesivo e del nesso eziologico esistente tra questo e la trasfusione - quale a dies a quo
della prescrizione del diritto al risarcimento, inserendosi tale accertamento in una
fattispecie compiuta finalizzata, appunto, al riconoscimento di un indennizzo, differente
per caratteri ai meccanismi che sovrintendono la responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale, della quale ultima, invece in questa sede si discute.
Ora, il danneggiato nel momento in cui ha avuto conoscenza dell’evento lesivo e ne
ha percepito i relativi caratteri, sussumibili in quelli indicati dalla legge ed integranti i
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presupposti per ottenere la liquidazione dell’indennizzo ad opera della Pubblica
amministrazione, avrebbe contestualmente potuto esercitare l’azione risarcitoria davanti
agli organi giurisdizionali, sussistendone tutti i presupposti quanto ai profili della
responsabilità da far valere in giudizio, e l’inutile decorso del tempo determina il
compimento del termine prescrizionale estintivo, consumando il diritto ad ottenere il
risarcimento del danno.
Tale orientamento ha oggi ricevuto l’avallo delle sezioni unite che, premettendo il
principio generale che “…il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di
chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un
terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947 c.I c.c., non dal giorno in cui il terzo
determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si
manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale
danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando
l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze
scientifiche”, ha dapprima escluso che solo dalla comunicazione del responso delle
commissioni mediche istituite presso gli ospedali militari possa farsi decorrere il termine di
prescrizione, e poi ha manifestato un’opinione possibilista rispetto alla tesi, sposata da
questo Tribunale, di far coincidere il dies a quo con il momento della proposizione della
domanda amministrativa per ottenere l’indennizzo giacché da questo momento “la vittima
del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia
del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza
viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche”.
E ciò deve reputarsi coerente con lo spirito dell’istituto della prescrizione dei diritti
e delle relative azioni, giacché è consentito ai titolari di poter azionare la tutela giudiziale
allorquando ne abbiano percepito la lesione perché questa è penetrata con carattere di
riconoscibilità nella propria sfera giuridica.
Sennonché, nella specie, prima dell’inoltro della domanda al Ministero della salute
per la liquidazione dell’indennizzo, nell’anno 2002 non emergono elementi di prova tali da
ritenere che in epoca antecedente l’attore avesse assunto la piena consapevolezza di tutti
gli elementi dell’illecito, nei termini che di seguito verranno delineati.
Sicché , solo dal momento dell’inoltro della domanda l’attore ha assunto la piena
consapevolezza del nesso eziologico tra il virus di cui era affetto e l’illecito, imputabile
alle parti convenute e, dunque, al momento della notifica dell’atto di citazione (6.5.2010),
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il termine decennale di prescrizione non era ancora decorso, ipotizzando una responsabilità
contrattuale in capo alla Gestione liquidatoria.
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In ordine al secondo contrastato profilo, relativo all’imputabilità dell’illecito,
a riguardo la Suprema Corte ha mutato l’originario indirizzo e, mostrando di aderire agli
approdi più recenti della comunità scientifica, ha affermato che, rispetto alla necessità di
delimitare temporalmente la responsabilità omissiva colposa del Ministero: “…non
sussistono tre eventi lesivi – riferendosi alle patologie dell’HBC (epatite B), HIV e HCV
(epatite C) – come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un
unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui
unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione
dell’integrità. Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B (la cui
individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competenza
del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli
altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di
manifestazioni patogene delle stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati
dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per
legge” (SS.UU. 11 gennaio 2008 n° 581).
Ne consegue che, essendo stato conosciuto il virus dell’HBC nell’anno 1978, come
ormai risulta acclarato anche dalla comunità scientifica, da quella data certamente potrà
imputarsi la responsabilità al Ministero per non aver adottato tutte le misure imposte dalla
legge idonee ad evitarne la diffusione, e ciò perché, qualora lo stesso Ministero si fosse
correttamente attivato tale comportamento doveroso avrebbe evitato pure la diffusione
degli altri virus, ancorché non ancora conosciuti. Ed è, dunque, questo l’obbligo per il
quale si poteva pretendere l’adempimento e la relativa omissione integra una condotta
omissiva colposa ascrivibile all’ente.
Muovendo da tale scenario, l’accertamento giudiziale deve verificare in primo
luogo in quale epoca si è verificato il contagio allegato da parte attrice.
La Suprema Corte, già con sentenza n° 11609/2005 e ribadita nella sentenza in
ultimo citata, aveva affermato la responsabilità del Ministero per contagi verificatisi in
epoche successive a quelli individuati in corrispondenza di ciascun tipo di virus, e ciò
attraverso un’attenta opera ricognitiva della normativa vigente che demanda all’ente
compiti
specifici
di
controllo
e
prevenzione,
nell’attività
di
importazione
e
movimentazione di plasma e di emoderivati, compiti che certamente lo stesso ha omesso di
esercitare se si ha riguardo al numero dei soggetti danneggiati e alla gravità del fenomeno
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di diffusione delle patologie derivate dai contagi e, in proposito, a nulla valgono le
asserzioni di parte convenuta sulla corretta predisposizione di strutture organizzative
operanti sul territorio, giacché le medesime strutture svolgevano attività di natura
esecutiva, somministrando plasma già importato e acquisito senza alcuna forma evidente di
controllo.
Era, dunque, lo Stato nella sua articolazione ministeriale che avrebbe dovuto
adeguatamente sorvegliare, attraverso un preventivo controllo sull’immunità del sangue dai
virus o da altri agenti patogeni, prima che lo stesso sangue potesse essere diffuso.
La sussistenza del contagio, il suo accertamento in sede giudiziale, unitamente
all’accertamento degli altri elementi dell’illecito sia contrattuale che aquiliano, importa
l’affermazione della responsabilità del Ministero per avere omesso di esercitare siffatto
controllo con comportamento che si pone all’origine della patologia riscontrata sul
danneggiato.
Nel caso di specie trattandosi di virus dell’HCV, contratto a seguito nell’anno 1989,
già a quell’epoca deve ritenersi, in ossequio a quanto affermato dalla Suprema Corte,
sussistente la responsabilità colposa per non avere adottato le misure idonee a prevenire il
contagio, anche per l’epatite B (il cui virus è stato isolato nel 1978) e C, misure che
potevano essere idonee ad evitare a S. la contrazione del virus.
In ogni caso, era esigibile un comportamento di prevenzione e controllo e se questo
fosse stato posto in essere, in conformità alle leges artis previste dalla normativa di settore
richiamata, ciò avrebbe evitato il propagarsi delle infezioni.
Ne consegue che, perlomeno dal momento in cui la legge individuò nel Ministero il
soggetto al quale conferire le competenze nella materia del controllo, programmazione e
sorveglianza dell’attività di produzione, diffusione e commercializzazione di plasma, è
imputabile all’ente l’omissione colposa, all’origine del contagio (anno 1967 con obbligo di
adozione del piano plasma).
In particolare, il d.p.r. n. 1256/1971 contiene norme di dettaglio che confermano nel
Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112).
La legge n. 519/1973 attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela
della salute pubblica. La legge 23.12.1978 n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario
Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione
del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività
amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di
produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati
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(art. 6 lett. b, c), mentre l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la
distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale. Il d.l.n. 443
del 1987 stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla c.d. "farmacosorveglianza" da parte
del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui
farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio. Ne
consegue che, anche prima dell'entrata in vigore della legge 4.5.1990, n. 107, contenente la
disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che
sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo,
direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità", ivi
compresi quelli relativi all'attuazione del Piano sangue, previsto dalla L, n. 592 del 1967 e
realizzato solo nel 1994.
Difatti, l'art. 44, prescriveva di controllare se il donatore di sangue era stato affetto da
epatite virale vietandone in tal caso la trasfusione ad altri; L. n. 519 dei 1973; L. n. 833 del
1973) di controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto ed infatti, già a decorrere dalla metà degli anni '60 erano esclusi dalla possibilita' di donare
il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT - indicatori della funzionalità
epatica - erano alterati rispetto ai ranges prescritti - già a partire dalla data di rilevazione
diagnostica dell'epatite B - 1973 - era obbligatoria la ricerca della presenza dell'antigene 3
in ogni singolo campione di sangue o plasma.
Sul punto, infatti, anche il consulente così ha rilevato: “..Se, infatti, in epoca
precedente al 1989 (ovvero grossomodo nelle fasi della trasfusione) non esisteva test in
grado di rilevare la presenza di virus HCV nelle unità di sangue, già comunque noto (non
A non B), in tali fasi era comunque possibile adottare misure precauzionali in grado di
ridurre (in misura non astrattamente stimabile) il rischio del contagio, attraverso una
rigorosa selezione dei donatori: sarebbe stato, in particolare, consigliabile escludere dalla
donazione tutti quei soggetti con indici bioumorali di funzionalità epatica (transaminasi,
bilirubina, gamma-GT) alterati o quei soggetti appartenenti a categorie a rischio infettivo
(selezionati attraverso questionario) o positivi per altri agenti virali” .
Era, dunque, lo Stato nella sua articolazione ministeriale che avrebbe dovuto
adeguatamente sorvegliare, attraverso un preventivo controllo sull’immunità del sangue dai
virus o da altri agenti patogeni, prima che lo stesso sangue potesse essere diffuso.
!
A questo punto della disamina, dovrà essere esaminata la responsabilità
imputabile alla struttura sanitaria ove venne eseguito l’intervento e si praticarono le
emotrasfusioni con plasma, risultato infetto.
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La prova della sottoposizione di S. a più trasfusioni di sangue, eseguite presso
l’Ospedale Cervello è data dalla documentazione sanitaria prodotta (si veda, in particolare,
cartella clinica ed allegati).
Risulta dalla documentazione prodotta che l’attore venne sottoposto, una prima
volta a cinque trasfusioni nel mese di dicembre del 1984, tutte documentate in atti con
prove di compatibilità certificate, e altra volta, in occasione del ricovero avvenuto il
5.3.1989 presso l’Ospedale Villa Sofia, ove gli venivano praticate altre due emotrasfusioni.
In quest’ultimo caso, però la documentazione è del tutto carente e nessuna
informazione viene trasfusa in cartella clinica e lo stesso consulente, al quale era stato
demandato il relativo accertamento, ha rilevato che, sulla base della documentazione in atti
prodotta, non è stato possibile dedurre la provenienza delle sacche trasfuse, poiché “nella
relativa cartella clinica non sono presenti, infatti, né le richiese di unità di sangue né le
prove di compatibilità”, con l’effetto che nessuna storia clinica sui donatori è stata
possibile acquisire nel giudizio.
In assenza di altri fattori di rischio, non allegati né provati, quelle uniche
trasfusioni, quelle del 1984 e quelle del 1989 si pongono all’origine del contagio, come
attestato dal ctu dott. Tona nel proprio elaborato peritale.
Deve, inoltre, osservarsi che, al momento del ricovero nell’anno 1989 l’attore non
presentava ancora valori sospetti e la patologia virale non si era ancora manifestata.
Ora, la fattispecie risarcitoria muta il titolo della responsabilità nel caso di condotta
imputabile agli Ospedali o alla Struttura Sanitaria presso cui il paziente aveva eseguito la
trasfusione di sangue infetto, diventando responsabilità contrattuale discendente dal
contratto di “spedalità”.
Difatti, deve essere affermata la responsabilità anche del personale dell’ente
ospedaliero che, all’epoca dell’eseguita trasfusione, era tenuto ad osservare la perizia e
diligenza necessari sottoponendo a controlli i donatori, anche in forza della legge 592/67 e
della circolare del Ministero della Sanità emanata nel 1978, n° 68, che aveva prescritto la
necessità di eseguire i debiti controlli, al fine di evitare i rischi di contagi, invitando poi,
nel 1982, le UU.SS.LL ad individuare centri per effettuare i test di attività del sistema
linfocitario.
I principi espressi dalla giurisprudenza della Cassazione devono essere qui
integralmente riportati: “La trasfusione è una terapia notoriamente a rischio ed
erroneamente perciò la Corte di merito, pur riconoscendo che non vi era l'urgenza della
trasfusione, ha escluso la responsabilità del medico in tale scelta ritenendola rimessa alla
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sua discrezionalità senza tener conto che, per la diligenza qualificata dallo steso esigibile,
poichè a partire dagli anni '60 - ed infatti era stata approvata la L. n. 592 del 1967, con
cui erano dettate le cautele per eseguire trasfusioni di sangue ed il Ministero della Sanità
nel 1978, con la circolare n. 68, aveva prescritto i debiti controlli - era notorio il rischio di
contrarre malattie infettive mediante trasfusioni di sangue, a tale terapia doveva ricorrersi
soltanto se i danni potenziali, anche diversi dal contagio per HIV - che pur si era
manifestato nel 1982 anche in Italia ed infatti con circolare del 19 83 n. 64 il predetto
Ministero invitò le USSLL ad individuare centri per effettuare i test di attività del sistema
linfocitario - fossero inferiori ai benefici conseguibili. Pertanto, spettava alla USL
(OMISSIS) dimostrare, anche in base al principio della vicinanza della prova, che le
trasfusioni erano necessarie, anche in relazione all'obbligo di conservare la
documentazione medica sulle condizioni della paziente mentre dalla cartella clinica, priva
di qualsiasi indicazione al riguardo, emergeva che la trasfusione non era urgente, e i dati
emergenti dalle analisi della B. evidenziavano che non era necessaria. Pertanto non vi era
nessuna scelta discrezionale del sanitario, la cui condotta era stata colpevole, non
potendosi effettuare trasfusioni ritenute opportune, se non sono necessarie, e sul punto la
Corte di merito ha violato gli artt. 3176, 1218, 2697 c.c. e sussiste vizio di motivazione” ed
ancora, in tema di responsabilità contrattuale del medico e della struttura ospedaliera, in
forza degli obblighi professionali discendenti dal contratto di spedalità concluso dal
paziente, sempre la Corte in parte motiva precisa: “L'esecuzione della trasfusione senza
neppure testare il test per accertare la presenza di infezioni del sangue è gravemente
colpevole ed in violazione del D.M. 18 giugno 1971, artt. 65 e segg. e D.P.R. n. 1256 del
1971, art. 44, perchè all'epoca era conosciuta l'epatite B, il cui test era disponibile dal
1975, ed erano conosciuti fin dal 1981 test surrogati per accertare la presenza di valori
ematochimici sospetti nel sangue dei donatori con deplezione linfocitaria e che perciò
doveva esser esclusi dal circuito e tale accertamento avrebbe impedito anche il contagio di
altri virus ancora sconosciuti, e dunque l'evento era prevedibile e prevenibile…. Infatti in
materia di colpa professionale e di nesso di causalità per il contagio derivato dalla
trasfusione di sangue infetto, è ius receptum (S.U. un. 576, 581, 582 e 584/2008) che già a
decorrere dagli anni '60/'70 sussistevano obblighi normativi (L. n. 592 del 1967; D.P.R. n.
1256 del 1971, che all'art. 44, prescriveva di controllare se il donatore di sangue era stato
affetto da epatite virale vietandone in tal caso la trasfusione ad altri; L. n. 519 dei 1973; L.
n. 833 del 1973) di controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il
sangue infetto - ed infatti, già a decorrere dalla metà degli anni '60 erano esclusi dalla
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possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT indicatori della funzionalità epatica - erano alterati rispetto ai ranges prescritti - già a
partire dalla data di rilevazione diagnostica dell'epatite B - 1973 - era obbligatoria la
ricerca della presenza dell'antigene 3 in ogni singolo campione di sangue o plasma. Era
dunque obbligatorio, secondo le leges artis, anche all'epoca della trasfusione praticata
alla B., per il medico e la struttura sanitaria ove egli operava, essendo indubbio il
connotato di pericolosità insito nella trasfusione del sangue - S.U. 576 e 582/2008 assumere la relativa decisione con attenzione e prudenza, scegliendo tra il fare ed il non
fare in base all'esistenza o meno della necessità per le condizioni della paziente e non
della mera opportunità discrezionale” (Cass. 20 aprile 2010 n° 9315).
Indi, trattandosi di attività “pericolosa”, si imponeva per il medico e la struttura
sanitaria di:
a) sottoporre il donatore ai test per accertare la presenza di valori ematochimici
sospetti, sussistendone l’obbligo fin dagli anni 60/70;
b) scegliere di sottoporre il paziente alla trasfusione quale terapia necessitata;
c) informarlo adeguatamente su tale scelta;
d) trascrivere ogni informazione riguardante il donatore e la necessità di procedere
ad emotrasfusione in cartella clinica.
Nella specie, i superiori obblighi risultano violati.
Difatti, dalla predetta documentazione prodotta, nessuna informazione a riguardo
viene fornita, né si dà atto della necessità di sottoporre la paziente alla trasfusione o quali
controlli siano stati eseguiti in capo al donatore (nominativamente indicati), nel caso di
ricovero nell’anno 1989.
L’esperto ha affermato la necessità, in entrambi i casi, delle trasfusioni che
risultano giustificate le prime dal sanguinamento attivo e le seconde dalla marcata
anemizzazione.
Indi, l’assenza di ogni informazione e la mancata adozione delle predette
precauzioni, nel caso di trasfusioni eseguite nel 1989, configura un illecito colposo
imputabile al Centro trasfusionale che fornì la sacca di sangue all’attore, e, dunque,
all’Azienda Ospedaliera, e per essa alla Gestione liquidatoria delle ex UU.SS.LL. deve
essere ritenuta responsabile dei danni alla salute patiti dall’attore.
Infine, deve essere affermato il nesso di causalità tra le trasfusioni eseguite
nell’anno 1989 e la contrazione dell’infezione, accertata dalla CMO ed affermata dal
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consulente il quale, tuttavia, ha riscontrato, quale ulteriore fattore di rischio le trasfusioni
eseguite nell’anno 1984, pur compatibili con i tempi di insorgenza della patologia.
!
Passando, a questo punto al risarcimento del danno, a S. N. spetta, in primo
luogo, il risarcimento del danno biologico subito.
A riguardo, devono essere del tutto condivise le conclusioni cui è giunto il c.t.u., il
quale ha riscontrato l’esistenza di postumi permanenti, consistenti nella: “epatopatia HCV
correlata genotipo 1°, con pregresso riscontro di replicazione HCV-RNA positivo e fibrosi
epatica compatibile epatite cronica persistente, ma in assenza di alterazione degli indici di
citolisi epatica”, quantificando il danno biologico nella percentuale che si reputa congrua
del 20%.
Per la liquidazione equitativa del danno come sopra riconosciuto - e cioè del danno
“biologico” inteso quale danno all’integrità psico-fisica del soggetto ed appunto
comprensivo sia del danno da invalidità permanente sia di quello da inabilità temporanea questo Giudice si uniforma agli orientamenti espressi dalla sent. n° 12408/2001 che ha
individuato nelle tabelle milanesi, in uso nella gran parte dei Tribunale d’Italia, un valido
criterio per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, riconoscendone una
vocazione nazionale (si veda anche Cass. n° 14402/2011).
Inoltre, anche il recente orientamento dello stesso legislatore (si veda anche ordine
del giorno della Camera dei Deputati del 24 ottobre 2011 che ha impegnato il Governo a
ritirare lo schema del D.P.R. già dal medesimo approvato, relativo alla tabella unica del
danno), che indica nelle tabelle milanesi un valido criterio di liquidazione del danno alla
persona, induce a ritenere che, in particolare, rispetto a siffatta tipologia di danni, patiti
dalla vittima di emotrasfusioni infette, siffatti parametri soddisfino meglio le istanze
risarcitorie, rispetto alla tabella in uso presso questo Tribunale che, adottando, quale
parametro di sviluppo il punto individuato dal legislatore per le tabelle ministeriali di
liquidazione del danno biologico micropermanente nella materia dei sinistri stradali, ai
sensi dell’art. 138 Codice Assicurazioni, utilizza inevitabilmente valori più bassi rispetto a
quelli comunemente in uso in altri tribunali.
Indi, questo Tribunale, mutando l’indirizzo consolidato che ha sempre ritenuto
applicabile le tabelle palermitane, prende atto dello sviluppo giurisprudenziale degli ultimi
mesi in materia di risarcimento del danno e dell’indicazione delle tabelle milanesi, quale
valido criterio di liquidazione del danno, diverso da quello riportato in occasione di un
incidente stradale.
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Pertanto, tenendo conto dei parametri ivi previsti, all’attore, il quale all’epoca della
scoperta del contagio, riconducibile alla trasfusione (anno 2002) aveva 38 anni, spetterà il
seguente risarcimento pari ad euro 70.425,00 in valori attuali a titolo di danno biologico,
già aumentato del 36% ai fini della necessaria personalizzazione, che tenga conto dei
profili di patimento e di sofferenza morale, ascrivibili alla sfera dinamico-relazionale dei
danneggiati, trattandosi di patologia i cui effetti evolutivi non sono prevedibili (come
anche evidenziato dal c.t.u.), che importano la necessità di sottoporsi a continui controlli,
esami diagnostici ed ematochimici; tenendo conto che la danneggiata patisce disagi e
sofferenza per l’incertezza dell’evoluzione peggiorativa della propria salute e subisce,
anche in conseguenza della patologia di cui risulta affetta, una compromissione della vita
quotidiana presente e futura.
Nessuna ulteriore somma dovrà, poi, essere riconosciuta ritenendo congrua l’entità
del risarcimento per il complessivo danno non patrimoniale, anche adeguatamene
personalizzato.
Inoltre, dovrà essere rigettata la domanda per la liquidazione del danno
patrimoniale, non specificamente riconosciuto ed in totale carenza di prova.
Sulle somme così individuate dovranno poi essere liquidati gli interessi da
“ritardato pagamento” o interessi compensativi. A riguardo va osservato che le somme
finora liquidate sono espresse in valori attuali, e, se da un lato costituiscono l’adeguato
equivalente pecuniario della compromissione di beni giuridicamente protetti, tuttavia non
comprendono l’ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità della
somma dovuta, provocata dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato
l’equivalente in denaro del bene leso. Nei debiti di valore, come in quelli di risarcimento
da fatto illecito, vanno pertanto corrisposti interessi per il cui calcolo non si deve utilizzare
necessariamente il tasso legale, ma un valore tale da rimpiazzare il mancato godimento
delle utilità che avrebbe potuto dare il bene perduto.
Tale “interesse” va, tuttavia, applicato non già alla somma rivalutata in un'unica
soluzione alla data della sentenza, bensì, conformemente al noto principio enunciato dalle
S.U. della Suprema Corte con sentenza 17/2/1995 n° 1712, sulla "somma capitale"
rivalutata di anno in anno.
Pertanto, all’attore sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno,
devalutate, sono dovuti gli interessi al tasso legale dalla data dell’illecito, coincidente con
il momento della conoscenza del contagio riconducibile alla trasfusione, pari ad euro
18.716,81.
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Il risarcimento complessivo sarà allora pari ad euro 89.141,81.
Dalla superiore somma dovrà essere scomputato l’indennizzo percepito dall’attore
ex legge 210/2002, nei limiti di ciò che risulta documentato, come richiesto dalla
convenuta Gestione liquidatoria, che ha a riguardo sollevata eccezione di compensazione,
la quale, però non ha provato l’effettiva entità della somma percepita da S..
Sul punto, deve essere richiamato il seguente principio, cui il Tribunale aderisce
solo qualora il convenuto, sul quale grava il relativo onere della prova, dimostri
documentalmente l’entità dell’indennizzo corrisposto oggetto di scomputo e la relativa
percezione: “Quanto allo scomputo operato dal giudice di appello va osservato che la
diversa natura giuridica dell'attribuzione indennitaria ex L. n. 210 del 1992, e delle somme
liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da Hiv
ed Hcv a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal soggetto contagiato nei
confronti del Ministero della sanità, per aver omesso di adottare adeguate misure di
emovigilanza, non osta a che l'indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente
scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la
vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al
fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute
dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto
(trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la
responsabilità del soggetto tenuto al pagamento (Cass. 584/2008, conf. 14 marzo 2013 n°
6573).
Nella specie, dalla documentazione prodotta dallo stesso attore risulta che a S.
venne liquidata una somma una tantum, fino all’anno 2002, pari ad euro 21.061,03, e
successivamente una rendita mensile.
Indi, avendo certezza dell’effettiva entità della somma percepita, corrisposta
nell’anno 2002, la stessa dovrà essere scomputata, rivalutata e con interessi legali fin
dall’anno 2002, quando è entrata a far parte del patrimonio del soggetto indennizzato, e si
determina in euro 33.727,87 (di cui euro 7.080,67 a titolo di interessi legali).
Pertanto, la convenuta dovrà essere condannata a pagare a S. N. la complessiva
somma di euro 55.413,94 oltre gli interessi legali dalla data della decisione fino al
soddisfo.
Dovrà, a questo punto, essere esaminata la domanda proposta dal coniuge e dai
figli, di risarcimento del danno proprio, discendente, però, dal contagio virale subito da S.
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N., che ha compromesso la loro vita quotidiana familiare, imponendo loro limitazioni ed
accorgimenti che minano la sfera esistenziale.
Deve, a riguardo, ritenersi, che è notorio che, rispetto alla convivenza, in genere,
con persone affette da epatite C, la condivisione di oggetti che generalmente si usano in
casa, non espone a rischio di trasmissione della infezione, seppur sia necessario non
condividere gli oggetti taglienti o pungenti, che si usano a contatto con la cute e le mucose,
come rasoi e i spazzolini da denti; quanto ai rapporti sessuali, seppur la trasmissione del
virus per via sessuale è poco frequente diventa indispensabile avere rapporti sessuali
coperti quale misura di prevenzione raccomandabile, come rilevato dallo stesso ctu.
Alla luce del quadro esposto, si ritiene che il grado di compromissione della vita
quotidiana sia comunque di tipo modesto, e deve pure tenersi conto della necessità di
assistenza ad opera del coniuge a vantaggio del danneggiato, il quale, anche alla luce dei
postumi, deve sottoporsi a continui esami e controlli, oltre a patire astenia e disturbi
ricorrenti che impongono al coniuge convivente di prestare al medesimo aiuto nello
svolgimento delle attività quotidiane.
In ogni caso, tale tipo di pregiudizio può essere riconosciuto solo alla moglie, la
quale patisce pure una limitazione anche della vita sessuale e ciò integra una forma di
danno non patrimoniale, nella specie del danno esistenziale, perché incidente in senso
peggiorativo sulla sfera sessuale di relazione con il coniuge, che merita un risarcimento e
che, in assenza di ulteriori elementi di prova, può presumersi in capo a B. M. e si reputa
congruo quantificare nella misura di euro 10.000,00, all’attualità e comprensiva di interessi
legali, al cui pagamento deve essere condannata la Gestione liquidatoria.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, ponendo
quelle di ctu definitivamente a carico della parte soccombente, con compensazione nei
confronti dell’azienda, stante la difficoltà di individuare il soggetto responsabile
dell’illecito.
Il Giudice
Dott.ssa Sebastiana Ciardo
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