Ricorrenze della settimana - Parrocchia di San Marco Ev

San Fabiano, papa e martire
20 Gennaio
L’hanno fatto Pontefice sebbene al momento fosse
un semplice laico, di origine probabilmente non
romana, anche se residente nell’Urbe. Succede a
papa Antero, che ha governato la Chiesa per meno
di due mesi; e ha la fortuna di vivere tempi tranquilli sotto gli imperatori Gordiano III (morto sui
vent’anni) e Filippo, detto l’Arabo per le sue origini.
Una parentesi pacifica, che vede anche feste solennissime per i mille anni della città di Roma, nel 248.
Papa Fabiano tiene rapporti con i cristiani
dell’Africa
e
dell’Oriente,
e
si
dedica
all’organizzazione ecclesiale nell’Urbe, dividendone
il territorio in sette ripartizioni territoriali. Provvede
inoltre a sistemare i cimiteri cristiani, e dà sepoltura
a papa Ponziano, deportato in Sardegna ad metalla, cioè nelle miniere, e morto nel 235. Tutte opere
da tempi di pace.
Nel 249, però, Filippo l’Arabo viene ucciso presso
Verona dalle truppe del suo rivale Decio, che prende il potere con un programma di rafforzamento interno dell’Impero, contro i pericoli d’invasione ad
opera dei barbari, che lo minacciano da tante parti.
Per lui, rafforzamento vuol dire anche ritorno
all’antica religione romana, per pure ragioni politiche. Si decreta perciò che tutti i sudditi dell’Impero
romano dovranno proclamare solennemente e
pubblicamente la loro adesione al paganesimo tradizionale, compiendo pubblicamente un atto di culto, che consiste essenzialmente nell’immolazione
di qualche animale. Fatto questo, ognuno riceverà
il libello, una sorta di certificato attestante la sua
qualità di buon seguace degli antichi culti.
Chi non sacrifica in questa forma pubblica, diventa
un fuorilegge, un nemico dello Stato. In Roma, tre
commissioni chiamano via via tutti i cittadini alla
scelta, che per i pagani costituisce un gesto semplice e naturale, mentre per i cristiani immolare un animale agli dèi di Roma significa rinnegare l’unico
Dio di Gesù Cristo, respingere la sua legge. Come
sempre, c’è una variet{ di comportamenti: alcuni
cedono in pieno, per paura o per interesse, compiendo l’atto di culto. Altri cercano scappatoie di
ogni genere per avere il libello senza prestare il culto richiesto. E ci sono i cristiani convinti, che dicono
un risoluto no, respingendo a viso aperto
l’imposizione e affrontando la morte.
Tra i primi a rifiutarsi di sacrificare agli dèi c’è papa
Fabiano, che si spegne nel carcere Tullianum, ma
non per morte violenta. Si ritiene, infatti, che
l’abbiano lasciato morire di fame e di sfinimento in
quella prigione. I cristiani lo hanno poi sepolto nel
cimitero di San Callisto, lungo la Via Appia, onorandolo come martire, e l’iscrizione posta allora sul
suo sepolcro è giunta fino a noi.
Nella diocesi di Milano la sua memoria si celebra il
18 gennaio.
San Sebastiano, martire
20 Gennaio
Le notizie storiche su s. Sebastiano sono davvero
poche, ma la diffusione del suo culto ha resistito ai
millenni, ed è tuttora molto vivo, ben tre Comuni in
Italia portano il suo nome, e tanti altri lo venerano
come santo patrono.
Le fonti storiche certe sono: il più antico calendario
della Chiesa di Roma, la ‘Depositio martyrum’ risalente al 354, che lo ricorda al 20 gennaio e il “Commento al salmo 118” di s. Ambrogio (340-397), dove
dice che Sebastiano era di origine milanese e si era
trasferito a Roma, ma non dà spiegazioni circa il
motivo.
Le poche notizie storiche sono state poi ampliate e
diciamo abbellite, dalla successiva ‘Passio’, scritta
probabilmente nel V secolo dal monaco Arnobio il
Giovane.
Ne facciamo qui il riassunto integrando le due fonti,
dando prima una introduzione storica.
Nel 260 l’imperatore Galliano aveva abrogato gli
editti persecutori contro i cristiani, ne seguì un lungo periodo di pace, in cui i cristiani pur non essendo
riconosciuti ufficialmente, erano però stimati, occupando alcuni di loro, importanti posizioni
nell’amministrazione dell’impero.
E in questo clima favorevole, la Chiesa si sviluppò
enormemente anche nell’organizzazione; Diocleziano che fu imperatore dal 284 al 305, desiderava
portare avanti questa situazione pacifica, ma poi 18
anni dopo, su istigazione del suo cesare Galerio,
scatenò una delle persecuzioni più crudeli in tutto
l’impero.
Sebastiano, che secondo s. Ambrogio era nato e
cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia
meridionale) e da madre milanese, era stato educato nella fede cristiana, si trasferì a Roma nel 270 e
intraprese la carriera militare intorno al 283, fino a
diventare tribuno della prima coorte della guardia
imperiale a Roma, stimato per la sua lealtà e intel-
ligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano,
che non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei
martiri e riuscire a convertire militari e nobili della
corte, dove era stato introdotto da Castulo, domestico (cubicolario) della famiglia imperiale, che poi
morì martire.
La leggendaria ‘Passio’, racconta che un giorno furono arrestati due giovani cristiani Marco e Marcelliano, figli di un certo Tranquillino; il padre ottenne
un periodo di trenta giorni di riflessione prima del
processo, affinché potessero salvarsi dalla certa
condanna sacrificando agli dei.
Nel tetro carcere i due fratelli stavano per cedere alla paura, quando intervenne il tribuno Sebastiano
riuscendo a convincerli a perseverare nella fede;
mentre nel buio della cella egli parlava ai giovani, i
presenti lo videro circondato di luce e tra loro c’era
anche Zoe, moglie del capo della cancelleria imperiale, diventata muta da sei anni. La donna si inginocchiò davanti a Sebastiano, il quale dopo aver
implorato la grazia divina fece un segno di croce
sulle sue labbra, restituendole la voce.
A ciò seguì una collana di conversioni importanti, il
prefetto di Roma Cromazio e suo figlio Tiburzio,
Zoe col marito Nicostrato e il cognato Castorio; tutti in seguito subirono il martirio, come pure i due
fratelli Marco e Marcelliano e il loro padre Tranquillino.
Sebastiano per la sua opera di assistenza ai cristiani, fu proclamato da papa s. Caio “difensore della
Chiesa” e proprio quando, secondo la tradizione,
aveva seppellito i santi martiri Claudio, Castorio,
Sinforiano, Nicostrato, detti Quattro Coronati, sulla via Labicana, fu arrestato e portato da Massimiano e Diocleziano, il quale già infuriato per la voce
che si diffondeva in giro, che nel palazzo imperiale
si annidavano i cristiani persino tra i pretoriani, a-
postrofò il tribuno: “Io ti ho sempre tenuto fra i
maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato
nell’ombra contro di me, ingiuriando gli dei”.
Sebastiano fu condannato ad essere trafitto dalle
frecce; legato ad un palo in una zona del colle Palatino chiamato ‘campus’, fu colpito seminudo da
tante frecce da sembrare un riccio; creduto morto
dai soldati fu lasciato lì in pasto agli animali selvatici.
Ma la nobile Irene, vedova del già citato s. Castulo,
andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, secondo la pia usanza dei cristiani, i quali sfidavano il
pericolo per fare ciò e spesso venivano sorpresi e arrestati anche loro.
Ma Irene si accorse che il tribuno non era morto e
trasportatolo nella sua casa sul Palatino, prese a
curarlo dalle numerose lesioni. Miracolosamente
Sebastiano riuscì a guarire e poi nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli che cercava il martirio, decise di proclamare la sua fede
davanti a Diocleziano e al suo associato Massimiano, mentre gli imperatori si recavano per le funzioni
al tempio eretto da Elagabolo, in onore del Sole Invitto, poi dedicato ad Ercole.
Superata la sorpresa, dopo aver ascoltato i rimproveri di Sebastiano per la persecuzione contro i cristiani, innocenti delle accuse fatte loro, Diocleziano
ordinò che questa volta fosse flagellato a morte;
l’esecuzione avvenne nel 304 ca. nell’ippodromo del
Palatino, il corpo fu gettato nella Cloaca Massima,
affinché i cristiani non potessero recuperarlo.
L’abbandono dei corpi dei martiri senza sepoltura,
era inteso dai pagani come un castigo supremo,
credendo così di poter trionfare su Dio e privare loro
della possibilità di una resurrezione.
La tradizione dice che il martire apparve in sogno
alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era
approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo
nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia.
Le catacombe, oggi dette di San Sebastiano, erano
dette allora ‘Memoria Apostolorum’, perché dopo
la proibizione dell’imperatore Valeriano del 257 di
radunarsi e celebrare nei cosiddetti “cimiteri cristiani”, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli
Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e
dell’Ostiense, trasferendoli sulla via Appia, in un
cimitero considerato pagano.
Costantino nel secolo successivo, fece riportare nei
luoghi del martirio i loro corpi e dove si costruirono
poi le celebri basiliche.
Sulla Via Appia si costruì un’altra basilica costantiniana la “Basilica Apostolorum”, in memoria dei
due apostoli.
Fino a tutto il VI secolo, i pellegrini che vi si recavano attirati dalla ‘memoria’ di s. Pietro e s. Paolo, visitavano in quel cimitero anche la tomba del
martire, la cui figura era per questo diventata molto popolare e quando nel 680 si attribuì alla sua intercessione, la fine di una grave pestilenza a Roma,
il martire s. Sebastiano venne eletto taumaturgo
contro le epidemie e la chiesa cominciò ad essere
chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”.
Il santo venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e
Paolo.
Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla
chiesa di S. Medardo di Soissons il 13 ottobre 826;
mentre il suo successore Gregorio IV (827-844) fece
traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano e inserendo il capo in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV (847-855)
trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato.
Gli altri resti di s. Sebastiano rimasero nella Basilica
Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di
S. Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate
nell’antica cripta; nel XVII secolo l’urna venne posta
in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa
dell’altare, dove si trovano tuttora.
S. Sebastiano è considerato patrono degli arcieri e
archibugieri, tappezzieri, fabbricanti di aghi e di
quanti altri abbiano a che fare con oggetti a punta
simili alle frecce.
Patrono di Pest a Budapest e dei Giovani
dell’Azione Cattolica, è invocato nelle epidemie,
specie di peste, così diffusa in Europa nei secoli addietro.
Nell’arte antica s. Sebastiano fu variamente raffigurato come anziano, uomo maturo con barba e senza barba, vestito da soldato romano o con lunghe
vesti proprie di un uomo del Medioevo.
Dal Rinascimento in poi diventò nell’arte,
l’equivalente degli dei ed eroi greci, celebrati per la
loro bellezza come Adone o Apollo, poi ispirandosi
ad una leggenda dell’VIII secolo, secondo la quale il
martire sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon, nelle sembianze di un efebo, pittori e scultori
cominciarono a raffigurarlo come un bellissimo giovane nudo, legato ad un albero o colonna e trafitto
dalle frecce.
Il soggetto si presentava ad una libera interpretazione del primo martirio delle frecce, (non si teneva
conto che fosse poi morto con il flagello) e secondo
l’estro dell’artista per un compiaciuto virtuosismo
anatomico, applicato ad un soggetto religioso.
Anche Michelangelo nel “Giudizio Universale”, lo
immaginò nudo e possente come un Ercole, mentre
stringe in pugno un fascio di frecce, interpretazione
guerriera del mite santo, beato nella comunione del
Signore.
Innumerevoli sono le opere d’arte che lo raffigurano
e quasi tutti gli artisti, pittori e scultori, si cimentarono nell’opera, anzi la semplicit{ del soggetto,
uomo nudo legato ad una colonna, fu congeniale
specie agli scultori.
Ancora vivente, il papa lo denominò “difensore della Chiesa”, e celeste patrono e difensore fu denominato da intere città, capolavoro di questo tema è
l’affresco di Benozzo Gozzoli nella chiesa di S. Agostino, della turrita San Gimignano (1465), dove s.
Sebastiano come le iconografie della Madonna della Misericordia, accoglie gli abitanti della città sotto
il suo mantello, sorretto da angeli e contro il quale
si spezzano le frecce scagliate dal cielo da Dio.
Infine è da ricordare che insieme a s. Giovanni Battista, è molto raffigurato nei gruppi di santi che circondano il trono della Madonna o che sono posti ai
lati della Vergine.
Sant’Agnese, vergine e martire
21 Gennaio
In data odierna, 21 gennaio, il Calendario liturgico
romano fa memoria della santa vergine Agnese, la
cui antichità del culto presso la Chiesa latina è attestata dalla presenza del suo nome nel Canone Romano (odierna Preghiere Eucaristica I), accanto a
quelli di altre celebri martiri: Lucia, Cecilia, Agata,
Anastasia, Perpetua e Felicita.
Nulla sappiamo della famiglia di origine di
Sant’Agnese, popolare martire romana. La parola
“Agnese”, traduzione dell’aggettivo greco “pura” o
“casta”, fu usato forse simbolicamente come soprannome per esplicare le sue qualità. Visse in un
periodo in cui era illecito professare pubblicamente
la fede cristiana. Secondo il parere di alcuni storici
Agnese avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di
un anno imprecisato, durante la persecuzione di
Valeriano (258-260), ma secondo altri, con ogni
probabilità ciò sarebbe avvenuto durante la persecuzione dioclezianea nel 304. Durante la persecuzione perpetrata dall’imperatore Diocleziano,
infatti, i cristiani furono uccisi così in gran numero
tanto da meritare a tale periodo l’appellativo di “era dei martiri” e subirono ogni sorta di tortura.
Anche alla piccola Agnese toccò subire subire una
delle tante atroci pene escogitate dai persecutori.
La sua leggendaria Passio, falsamente attribuita al
milanese Sant’Ambrogio, essendo posteriore al secolo V ha perciò scarsa autorità storica. Della santa
vergine si trovano notizie, seppure vaghe e discordanti, nella “Depositio Martyrum” del 336, più antico calendario della Chiesa romana, nel martirologio
cartaginese del VI secolo, in “De Virginibus” di
Sant’Ambrogio del 377, nell’ode 14 del “Peristefhanòn” del poeta spagnolo Prudenzio ed infine in un
carme del papa San Damaso, ancora oggi conservato nella lapide originale murata nella basilica romana di Sant’Agnese fuori le mura. Dall’insieme di
tutti questi numerosi dati si può ricavare che Agnese fu messa a morte per la sua forte fede ed il suo
innato pudore all’et{ di tredici anni, forse per decapitazione come asseriscono Ambrogio e Prudenzio,
oppure mediante fuoco, secondo San Damaso.
L’inno ambrosiano “Agnes beatae virginia” pone in
rilievo la cura prestata dalla santa nel coprire il suo
verginale corpo con le vesti ed il candido viso con la
mano mentre si accasciava al suolo, mentre invece
la tradizione riportata da Damaso vuole che ella si
sia coperta con le sue abbondanti chiome. Il martirio di Sant’Agnese è inoltre correlato al suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio
soggiungono l’episodio dell’esposizione della ragazza per ordine del giudice in un postribolo, da cui
uscì miracolosamente incontaminata.
Assai articolata è anche la storia delle reliquie della
piccola martire: il suo corpo venne inumato nella
galleria di un cimitero cristiano sulla sinistra della
via Nomentana. In seguito sulla sua tomba Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece edificare
una piccola basilica in ringraziamento per la sua
guarigione ed alla sua morte volle essere sepolta
nei pressi della tomba. Accanto alla basilica sorse
uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate e fu ripetutamente rinnovata ed ampliata.
L’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente a partire dal 1865. Il cranio della santa
martire fu posto dal secolo IX nel “Sancta Sanctorum”, la cappella papale del Laterano, per essere
poi traslato da papa Leone XIII nella chiesa di
Sant’Agnese in Agone, che sorge sul luogo presunto del postribolo ove fu esposta. Tutto il resto del
suo corpo riposa invece nella basilica di
Sant’Agnese fuori le mura in un’urna d’argento
commissionata da Paolo V.
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nella suddetta
opera “De Virginibus” scrisse al riguardo della festa
della santa: “Quest'oggi è il natale di una vergine,
imitiamone la purezza. E’ il natale di una martire,
immoliamo delle vittime. E’ il natale di
Sant’Agnese, ammirino gli uomini, non disperino i
piccoli, stupiscano le maritate, l'imitino le nubili...
La sua consacrazione è superiore all’et{, la sua virtù
superiore alla natura: così che il suo nome mi sembra non esserle venuto da scelta umana, ma essere
predizione del martirio, un annunzio di ciò ch'ella
doveva essere. Il nome stesso di questa vergine indica purezza. La chiamerò martire: ho detto abbastanza... Si narra che avesse tredici anni allorché
soffrì il martirio. La crudeltà fu tanto più detestabile in quanto che non si risparmiò neppure sì tenera
età; o piuttosto fu grande la potenza della fede, che
trova testimonianza anche in siffatta et{. C’era forse posto a ferita in quel corpicciolo? Ma ella che non
aveva dove ricevere il ferro, ebbe di che vincere il
ferro. […] Eccola intrepida fra le mani sanguinarie
dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti
di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo
alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di
ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro
voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme,
le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno che è il trofeo del vittorioso Signore...
Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine lieta della sua sorte, affrettò il passo al
luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con
tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse
morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla
divinità lei che per l'età non poteva ancora disporre
di sé... Quante domande la sollecitarono per sposa!
Ma ella diceva: "È fare ingiuria allo sposo desiderare
di piacere ad altri. Mi avrà chi per primo mi ha scelta: perché tardi, o carnefice? Perisca questo corpo
che può essere bramato da occhi che non voglio". Si
presentò, pregò, piegò la testa... Ecco pertanto in
una sola vittima un doppio martirio, di purezza e di
religione. Ed ella rimase vergine e ottenne il martirio”. (tratto da De Virginibus, 1. 1)
San Vincenzo di Saragozza,
diacono e martire
22 Gennaio
Un diacono così, ora che il diaconato è tornato “di
moda” nella Chiesa, ogni vescovo se lo sognerebbe.
Perché, si sa, non tutti i vescovi sono degli oratori
nati e quello di Saragozza, Valerio, è per giunta
balbuziente. Trovare in Vincenzo un diacono ben
equipaggiato culturalmente, dotato nella parola,
generoso e coraggioso è per lui un vero colpo di fortuna. Oggi San Vincenzo è il martire più popolare
della Spagna, ma doveva già esserlo 1700 anni fa se
ben tre città, Valencia, Saragozza e Huesca, si contendono l’onore di avergli dato i natali. In questa
disputa noi non vogliamo entrare, limitandoci ai
dati essenziali che ci vengono forniti dagli Atti del
suo martirio, che avviene durante la persecuzione
di Diocleziano. Nel clima di terrore che si instaura e
che vede la distruzione degli edifici e degli arredi
sacri, la destituzione dei cristiani che ricoprono cariche pubbliche, l’obbligo per tutti di sacrificare agli
dei, il vescovo Valerio e il diacono Vincenzo continuano imperterriti nell’annuncio del Vangelo: formano un connubio indissolubile, nel quale il primo
con la sua presenza e con l’autorit{ che gli deriva
dal ministero episcopale si fa garante di quello che
il secondo annuncia con forza, convinzione e facilità
di parola. Così il governatore di Valencia, Daciano,
li fa arrestare entrambi, ma quando se li trova davanti capisce che il vero nemico da combattere è il
diacono Vincenzo. Manda così il vescovo in esilio e
concentra tutte le sue arti persecutorie su Vincenzo, che oltre ad essere un gran oratore è anche un
uomo che non si piega facilmente. Lo dice in faccia
al governatore: “Vi stancherete prima voi a tormentarci che noi a soffrire”, e questo manda in bestia il persecutore, che vede così anche messa in
crisi la sua autorità e il suo prestigio. Perché Vincenzo è una di quelle persone che si piegano ma
non si spezzano: prima lo fa fustigare e torturare;
poi lo condanna alla pena del cavalletto, da cui esce
con le ossa slogate; infine lo fa arpionare con uncini
di ferro. Così tumefatto e slogato lo fa gettare in
una cella buia, interamente cosparsa di cocci taglienti, ma la testimonianza di Vincenzo continua
ad essere limpida e ferma: “Tu mi fai proprio un
servizio da amico, perché ho sempre desiderato
suggellare con il sangue la mia fede in Cristo. Vi è
un altro in me che soffre, ma che tu non potrai mai
piegare. Questo che ti affatichi a distruggere con le
torture è un debole vaso di argilla che deve ad ogni
modo spezzarsi. Non riuscirai mai a lacerare quello
che resta dentro e che domani sar{ il tuo giudice”.
Lo sentono addirittura, anche così piagato, cantare
dalla cella e Daciano si rende conto che quella è una
voce da far zittire in fretta, visto che qualcuno si è
già convertito vedendolo così forte nella fede. Muore il 22 gennaio dell’anno 304 ed anche per sbarazzarsi del cadavere Daciano deve sudare: gettato in
pasto alle bestie selvatiche, il suo corpo viene alacramente difeso da un corvo; gettato nel fiume, legato in un sacco insieme ad un grosso macigno, il
suo corpo galleggia e torna a riva, dove finalmente i
cristiani lo raccolgono per dargli onorata sepoltura.
Da una delle omelie che Sant’Agostino ogni anno, il
22 gennaio, dedicava al martire Vincenzo ricaviamo
questo pensiero: “il diacono Vincenzo….. aveva coraggio nel parlare, aveva forza nel soffrire. Nessuno
presuma di se stesso quando parla. Nessuno confidi
nelle sue forze quando sopporta una tentazione,
perché, per parlare bene, la sapienza viene da Dio
e, per sopportare i mali, da lui viene la fortezza”.
San Vincenzo di Salese,
vescovo e dottore della Chiesa
24 Gennaio
Nel Ducato Sabaudo visse ed operò San Francesco
di Sales, fondatore e primo Preposito dell’Oratorio
di Thonon, “gemma della Savoia”, come lo ricordò
Paolo VI.
Nato a Thorens il 21 agosto 1567, concluse a Lione i
suoi giorni, consunto dalle fatiche apostoliche, il 28
dicembre del 1622, l’anno della canonizzazione di
San Filippo Neri, che Francesco conosceva attraverso la Vita scritta dal Gallonio, a lui inviata
dall’amico Giovanni Giovenale Ancina. Iscritto
nell’albo dei Beati nel 1661, fu canonizzato nel 1665
e proclamato Dottore della Chiesa nel 1887 da Leone XIII.
Francesco di Sales si formò alla cultura classica e filosofica alla scuola dei Gesuiti, ricevendo al tempo
stesso una solida base di vita spirituale. Il padre,
che sognava per lui una brillante carriera giuridica,
lo mandò all’universit{ di Padova, dove Francesco
si laureò, ma dove pure portò a maturazione la vocazione sacerdotale. Ordinato il 18 dicembre 1593,
fu inviato nella regione del Chablais, dominata dal
Calvinismo, e si dedicò soprattutto alla predicazione, scegliendo non la contrapposizione polemica,
ma il metodo del dialogo.
Per incontrare i molti che non avrebbe potuto raggiungere con la sua predicazione, escogitò il sistema di pubblicare e di far affiggere nei luoghi
pubblici dei “manifesti”, composti in agile stile di
grande efficacia. Questa intuizione, che dette frutti
notevoli tanto da determinare il crollo della “roccaforte” calvinista, meritò a S. Francesco di essere dato, nel 1923, come patrono ai giornalisti cattolici.
A Thonon fondò la locale Congregazione
dell’Oratorio, eretta da Papa Clemente VIII con la
Bolla “Redemptoris et Salvatoris nostri” nel 1598
“iuxta ritum et instituta Congregationis Oratorii de
Urbe”. Il suo contatto con il mondo oratoriano non
riguardò tanto la persona di P. Filippo, quanto quella di alcuni tra i primi discepoli del Santo, incontrati
a Roma quando Francesco vi si recò nel 1598-99: P.
Baronio, i PP. Giovanni Giovenale e Matteo Ancina,
P. Antonio Gallonio.
L’impegno che Francesco svolse al servizio di una
vastissima direzione spirituale, nella profonda convinzione che la via della santità è dono dello Spirito
per tutti i fedeli, religiosi e laici, fece di lui uno dei
più grandi direttori spirituali. La sua azione pastorale - in cui impegnò tutte le forze della mente e del
cuore - e il dono incessante del proprio tempo e delle forze fisiche, ebbe nel dialogo e nella dolcezza,
nel sereno ottimismo e nel desiderio di incontro, il
proprio fondamento, con uno spirito ed una impostazione che trovano eco profondo nella proposta
spirituale di San Filippo Neri, la quale risuona mirabilmente esposta, per innata sintonia di spirito, nelle principali opere del Sales - “Introduzione alla vita
devota, o Filotea”, “Trattato dell’amor di Dio, o
Teotimo” - come pure nelle Lettere e nei Discorsi.
Fatto vescovo di Ginevra nel 1602, contemporaneamente alla nomina dell’Ancina, continuò con la
medesima dedizione la sua opera pastorale. Frutto
della direzione spirituale e delle iniziative di carità
del Vescovo è la fondazione, in collaborazione con
S. Francesca Fremiot de Chantal, dell’Ordine della
Visitazione, che diffuse in tutta la Chiesa la spiritualità del S. Cuore di Gesù, soprattutto attraverso le
Rivelazioni di Cristo alla visitandina S. Margherita
Maria Alacocque, con il conseguente movimento
spirituale che ebbe anche in molti Oratori, soprattutto dell’Italia Settentrionale, centri di convinta
adesione.