«LA CARITÀ TUTTO SPERA»

Crema, anno accademico 2011-2012
«LA CARITÀ TUTTO SPERA»
(1Cor 13,7)
GRAMMATICA DEL VIVERE IN CRISTO
Corso di Teologia morale fondamentale
«La morale è un caos
che non finisce mai.
Io all’incontro sempre leggo
e sempre trovo cose nuove…».
(s. ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, Lettere)
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1. INTRODUZIONE
«Maestro, che cosa devo fare
di buono
per ottenere la vita eterna?»
(Mt 19,16)
1.1 L’atteggiamento
PLENILUNIO
Portava bene il suo nome battagliero, don Marignan. Era un sacerdote alto e
magro, fanatico, di animo retto ma in continua esaltazione. La sua fede era
salda, senza oscillazioni. Era sinceramente convinto di conoscere il suo Dio, di
capirne i disegni, le volontà, le intenzioni.
Talvolta, mentre passeggiava a gran passi lungo il vialetto del suo piccolo
presbiterio di campagna, gli nasceva nella mente una domanda:«Perché Dio ha
fatto questo?». Cercava, con ostinazione, mettendosi nei panni di Dio, e finiva
quasi sempre col trovare la risposta. Non era lui la persona da mormorare, in uno
slancio di pia umiltà:«Signore, i vostri disegni sono impenetrabili...». Diceva tra
sé:«Sono il servo di Dio, quindi devo sapere i motivi delle sue azioni, e prevenirli
se non li so».
In natura tutto gli appariva creato secondo una logica assoluta ed ammirevole.
Domande e risposte si equilibravano sempre: l'alba esisteva perché il risveglio
fosse allegro, le giornate perché le biade maturassero, le serate per preparare al
sonno e le notti buie per dormire.
Le quattro stagioni coincidevano con tutte le necessità dell'agricoltura; mai lo
avrebbe sfiorato il sospetto che la natura non abbia intenzioni, che tutto ciò che
vive si sia dovuto piegare alle dure necessità delle epoche, dei climi, della
materia.
Odiava la donna, inconsciamente, la disprezzava per istinto. Spesso ripeteva le
parole di Gesù Cristo:«Donna, che v'è tra me e te?», aggiungendo:«Si direbbe
che anche Dio sia scontento di questa sua opera». Per lui la donna era proprio la
fanciulla dodici volte impura di cui parla il poeta.
Era il tentatore che aveva trascinato al peccato il primo uomo e seguitava nella
sua opera di dannazione; l'essere debole, pericoloso, che misteriosamente turba.
E più ancora del loro corpo, abisso di perdizione, odiava il loro animo amoroso.
Aveva sentito spesso il loro amore riversarglisi addosso, e benché fosse sicuro
d'essere inattaccabile, lo faceva andare in bestia quel bisogno di amare che
sentiva fremere continuamente in esse.
Secondo lui Dio aveva creato la donna soltanto per tentare l'uomo e metterlo alla
prova. Ci si doveva accostare a lei con cautele difensive, temendola come una
trappola. E difatti ella era come una trappola, con le sue braccia tese e le labbra
dischiuse verso l'uomo.
Era indulgente con le suore, perché i voti le avevano rese innocue; ma
nonostante questo le trattava con durezza, perché sentiva sempre vivo, in fondo
a quei loro cuori incatenati ed umiliati, l'eterno amore che giungeva fino a lui,
benché fosse prete. Lo sentiva nei loro sguardi, più intrisi di pietà degli sguardi
dei monaci, nelle loro estasi in cui si mischiava il sesso nei loro slanci verso
Cristo, che lo indignavano perché si accorgeva che quello era amor di donna,
amor carnale; sentiva quel maledetto amore anche nella loro docilità, nella
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dolcezza della voce quando gli parlavano, nei loro occhi bassi, nelle loro lacrime
rassegnate quando le rimproverava con durezza.
Quando usciva dal convento scrollava la sottana e se ne andava svelto svelto,
come se fuggisse un pericolo.
Aveva una nipote che viveva con la madre in una casetta vicino a lui. S'era
ficcato in capo di farla diventare suora di carità. Era graziosa, spensierata,
allegra. Quando lo zio le faceva la predica, rideva: quand'egli si offendeva con lei,
lo abbracciava di slancio, stringendoselo al cuore, mentre lui senza volere
cercava di svincolarsi da quell'abbraccio che gli faceva godere una dolce gioia,
risvegliando in lui quel senso della paternità che dorme in tutti gli uomini.
Le parlava spesso di Dio, del suo Dio, quando camminavano insieme nei sentieri
in mezzo ai campi. Lei non lo ascoltava e guardava il cielo, le erbe, i fiori, con
una tale felicità di vivere che le sprizzava dallo sguardo. Ogni tanto si slanciava
ad acchiappare un insetto e quando l'aveva preso gridava: - Ma guarda, zio,
com'è carino, mi viene voglia di baciarlo... - Quel bisogno di baciare le mosche o
dei fiori irritava e sconvolgeva il sacerdote, che vi ritrovava una volta di più
l'insopprimibile amore che germina sempre nel cuore femminile.
Un giorno la moglie del sagrestano, che gli sbrigava le faccende di casa, gli venne
a dire con una certa cautela che la sua nipote aveva l'innamorato. Provò un
turbamento terribile, restò col fiato sospeso, col viso tutto insaponato, perché si
stava facendo la barba. Quando si riprese e poté riflettere e parlare esclamò:
- Non è vero, Mélanie; questa è una bugia!
La contadina si posò una mano sul cuore:
- Che il Signore mi fulmini se dico una bugia, signor curato. Vi dico che si vedono
tutte le sere, dopo che la vostra sorella è andata a letto. Si trovano al fiume. Se
volete vederli andateci, dalle dieci a mezzanotte.
L'abate smise di grattarsi il mento e cominciò a passeggiare furiosamente, come
faceva quand'era oppresso da gravi pensieri. Quando volle ricominciare a radersi
si tagliò tre volte, dal naso fino all'orecchio. Restò taciturno per tutta la giornata,
pieno d'indignazione e di collera. Al suo furore di sacerdote davanti all'invincibile
amore si aggiungeva l'esasperazione del padre morale, del tutore, del reggitore
d'anima, ingannato, derubato, preso in giro da una ragazzina; l'egoistica
sensazione dei genitori ai quali una fanciulla annuncia che senza di loro e
malgrado loro, ha scelto il suo sposo. Dopo cena si sforzò di leggere un po', ma
non ci riuscì; e la sua furia cresceva. Quando suonarono le dieci prese il bastone,
un enorme bastone di quercia che usava sempre nelle sue uscite notturne,
quando andava da qualche malato. Sorridendo guardò il grosso randello, col suo
solido pugno di campagnolo gli fece fare dei minacciosi mulinelli. Ad un tratto lo
alzò, e digrignando i denti lo fece piombare su una seggiola la cui spalliera,
spezzata, cadde sul pavimento.
Aprì la porta e si fermò sulla soglia, sorpreso dallo splendore del plenilunio, tale
che di rado capitava di vederlo. E poiché la sua mente era eccitabile, come
dovevano averla quei poeti sognatori dei padri della Chiesa, egli fu subito
distratto e commosso dalla grandiosa e serena bellezza della pallida notte. Nel
suo giardinetto immerso in quella dolce luce, gli alberi da frutta allineati
disegnavano sul viale, con l'ombra, le loro gracili membra di legno appena
rivestito di foglie; e il caprifoglio gigante arrampicato sul muro della casa esalava
un olezzo delizioso, come zuccherino, facendo ondeggiare nell'aria tiepida e
limpida della sera una sorta di anima profumata.
Respirò profondamente, bevendo l'aria come gli ubriachi bevono il vino, e
cominciò a camminare a passi lenti, meravigliato, estasiato, quasi dimentico della
nipote. Appena fu in aperta campagna, si fermò per contemplare la pianura
inondata da quella luce carezzevole, immersa nell'incantesimo languido e dolce
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delle notti serene. I rospi, senza interruzione, lanciavano nell'aria il loro verso
corto e metallico, e gli usignoli lontani mischiavano la loro musica che fa sognare
senza pensare, musica lieve e vibrante fatta per i baci, alla seduzione del
plenilunio.
Don Marignan riprese a camminare, sentendosi quasi mancare senza motivo. Era
come improvvisamente indebolito, stremato; aveva voglia di mettersi seduto e di
star fermo a contemplare, ad ammirare Dio attraverso la sua opera. In fondo,
seguendo le ondulazioni del fiumicello, serpeggiava una lunga fila di pioppi. Un
vapore fine e bianco, solcato, tinto d'argento e reso lucente dai raggi della luna,
era sospeso intorno e sulle sponde avviluppando il corso tortuoso dell'acqua con
una specie di ovatta leggera e trasparente. Il sacerdote si fermò un'altra volta,
pervaso da una commozione crescente ed irresistibile. Lo prese un dubbio, una
vaga inquietudine; sorgeva in lui una di quelle domande che talvolta si poneva.
Perché Dio aveva fatto tutto ciò? Se la notte è destinata al sonno, all'incoscienza,
al riposo, all'oblio di tutto, perché farla più bella del giorno, più dolce dell'alba e
della sera; e perché quell'astro lento e incantevole, più poetico del sole, che pare
destinato, per la sua discrezione, a illuminare cose troppo delicate e misteriose
per la luce del sole, perché rendeva le tenebre così trasparenti? Perché il più
bravo degli uccelli cantori non si riposava come gli altri e gorgheggiava
nell'ombra inquietante? Perché quel mezzo velo gettato sul mondo? Perché quei
brividi nel cuore, quella commozione nell'anima, quel languore della carne?
Perché un tale sfoggio di seduzioni, che gli uomini non potevano vedere, se
dormivano nei loro letti? A chi era destinato un così sublime spettacolo, una
simile abbondanza di poesia gettata dal cielo sulla terra?
Don Marignan non capiva.
Ed ecco che in fondo alla prateria, sotto la volta di alberi bagnati di nebbia
lucente, apparvero due esseri che camminavano stretti. L'uomo era più alto,
teneva per la spalla la sua compagna e ogni tanto la baciava sulla fronte. Essi
animarono d'un tratto l'immobile paesaggio che li circondava come una divina
cornice fatta apposta per loro. Parevano un essere solo, a cui quella notte calma
e silenziosa fosse destinata; e camminavano in direzione del sacerdote come una
vivente risposta, la risposta che il suo Signore dava alle sue domande.
Il sacerdote restò immobile, col cuore che gli batteva forte sconvolto; gli pareva
di assistere ad una scena biblica, come gli amori di Ruth e Booz, al compiersi
della volontà divina in mezzo a uno di quegli scenari grandiosi di cui parlano i
sacri libri. Cominciarono a ronzargli per il capo i versetti del Cantico dei Cantici, le
grida ardenti, i richiami dei corpi, tutta la calda poesia del poema ardente
d'amore. «Forse Dio ha creato queste notti per velare con l'ideale gli amori degli
uomini», disse tra sé. E indietreggiò davanti alla coppia allacciata che seguitava a
camminare. Eppure era la sua nipote; ma si chiedeva se non avrebbe disubbidito
a Dio. Dio non permette l'amore, se lo circonda d'un simile splendore?
Fuggì smarrito, quasi vergognandosi, come se fosse penetrato in un tempio nel
quale non aveva diritto d'entrare.
(GUY DE MAUPASSANT, «Il Plenilunio»)
Scriveva I. Kant: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e
venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la
riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in
me»1. Accostarsi all’esperienza morale è entrare nel cuore del mistero
1
I. KANT, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1974, 197.
5
dell’uomo. Occorre uno stato d’animo adeguato, di ammirazione o venerazione
(Kant) o di sorpresa (G. de Maupassant) per abbandonare le proprie certezze e
mettersi in ricerca. Un invito ad attraversare le domande dell’animo umano, a
stupirsi di fronte alla vita, a percorrere le strade della storia. Ci sarà anche per
noi un plenilunio, una luce che deriva dalla fede in grado di illuminare le
decisioni. Valga, in questo avvio, l’esortazione di Dio a Mosè: «togliti i sandali
dai piedi» (Es 3,5). E’ incoraggiamento ad andare all’essenziale. E a sporcarsi i
piedi dentro questa storia.
Fare teologia in punta di piedi, a piedi scalzi e in preda allo stupore è dono
dello Spirito. Dono di cui rendere grazie.
1.2 Il percorso
«Che cosa devo fare?» La domanda sull’agire è una domanda più complessa
di quanto possa sembrare. Spesso si ritiene che il fare, rimandando al pratico,
abbia una dignità inferiore rispetto al teorico. Oppure ci si accontenta di una
soluzione per l’appunto «pratica» che è offerta da qualcuno per smettere di
porsi la domanda sul che cosa è giusto fare.
L’interrogativo ha comunque una sua serietà. Chiama in causa la libertà
umana da gestire, la persona che si costruisce attraverso le scelte e le azioni
(buona o cattiva), il progetto di vita che ognuno ha in mente… Soprattutto la
domanda sull’agire è segno di speranza. Nulla è scontato e c’è speranza in un
domani che si intende costruire con le scelte di oggi. Non a caso il giovane
ricco del vangelo si rivolge a Gesù consapevole che vi è un legame tra le sue
decisioni e la vita eterna, tra l’oggi e «l’eterno» di Dio. Paradossalmente
attraverso azioni storiche e concretamente configurabili in una stagione della
vita, la persona costruisce se stessa e il proprio destino.
Qui sta tutta la serietà della morale.
Il percorso che intendiamo affrontare vuole essere l’occasione per riflettere
sulla bontà della morale. La cattiva fama in cui versa la parola «morale» oggi è
frutto di una storia che ha rischiato di separare la persona dai suoi atti. Anche
la libertà è vissuta in contrapposizione alla scelta di un orizzonte etico cui far
riferimento per dare luce al proprio vivere. Così la morale nei discorsi dei talkshow è sinonimo di moralismo, ossia qualcosa di invadente che non rispetta la
libertà individuale.
Il tentativo che vorremmo fare durante questo corso è quello di trasformare
la morale da incomodo a risorsa. Per far questo, però, la morale cristiana ha
bisogno di presentarsi. E’ il senso della teologia morale fondamentale.
Confrontarsi sui fondamenti significa andare alla radice. Si tratta di mettere
in luce le fonti dell’esperienza morale umana, ma anche che cosa la Scrittura ci
dice in merito. La morale cristiana si sviluppa dentro l’imprescindibile relazione
con Cristo. Andremo anche a scavare nella storia per renderci conto che i secoli
passati hanno molto da dirci non tanto sulle soluzioni concrete (in alcuni casi
risultano sorpassate) quanto sul metodo con cui si sono affrontati i vari
problemi. Indagheremo infine le strutture fondamentali dell’esperienza morale
cristiana: la centralità della coscienza morale, il legame tra la persona e i suoi
atti, il senso delle norme morali, la drammaticità esperienziale del peccato e
l’offerta di conversione in Cristo…
6
Siamo in cammino. L’immagine evangelica che più di altre potrebbe aiutarci
a capire la teologia morale è la casa costruita sulla roccia. La casa della
teologia è in perenne costruzione: ciò può creare ansia nel cuore di chi è a
caccia di certezze, ma è fonte di ricerca e di affidamento alla volontà di Dio per
chi accetta di stare nel solco della storia percorrendolo con tutte le domande
che possono nascere in itinere. La certezza è che l’intera vicenda umana,
dall’opera della creazione in poi, è nelle mani benevole e provvidenti di Dio.
All’uomo sono offerte la Parola, la ragione, l’esperienza, la cultura: tutti
elementi che entrano a costituire la morale cristiana. E’ la roccia su cui la casa
si costruisce gradatamente. Tutti quelli che alimentano la propria fede con la
Parola incarnata del Cristo scoprono una libertà che si acquista giorno per
giorno e la bellezza di una risposta di vita al Dio dell’amore.
Il corso intende riflettere i fondamenti della teologia morale. Si offrirà un
percorso che aiuti a pensare la morale facendo riferimento alla rivelazione
cristiana. Le questioni etiche oggi sono molto dibattute nella società
postmoderna. La fede cristiana cosa può offrire in termini di contributo? Solo
contrapposizioni o anche un clima maggiormente costruttivo? Quali sono i punti
cardine di un eventuale dialogo?
Cercheremo di inserirci nell’esplicita richiesta del concilio Vaticano II di
fondare maggiormente sulla Scrittura la morale cristiana (OT 16) e non
rinuncereremo al dialogo con le correnti filosofiche più recenti.
1.2 Programma:
1. Introduzione
2. Fenomenologia dell’esperienza morale
3. Il percorso storico della teologia morale
4. L’esperienza morale umana nella Bibbia
5. I valori e la moralità personale
6. La coscienza morale
7. La persona e i suoi atti
8. Le norme morali
9. Il carattere specifico della morale cristiana
10.
Il peccato e la conversione
11.
Il magistero della Chiesa in campo morale
12.
Per una Chiesa eticamente abitabile
1.3 Bibliografia
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