Il predatore - Edizioni Piemme

Cody McFadyen
Il predatore
Traduzione di
Alfredo Colitto
Titolo originale:Abandoned
© 2009 by Cody McFadyen
All rights reserved
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi
utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive
o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
ISBN 978-88-566-1920-1
I Edizione 2012
© 2012 - Edizioni Piemme Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Stampa: Mondadori Printing Spa - Stabilimento NSM - Cles (TN)
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Oggi
Tutti sono soli. Questo è ciò che ho imparato nel tempo.
Non fraintendetemi. Io amo un uomo, e apprezzo il
fatto di trovarlo accanto a me quando mi sveglio di notte, poterlo toccare, magari svegliarlo, annusarlo, scoparlo, sentirlo dentro di me sudato, con le sue mani che mi
esplorano come una terra desolata. Conosco, come altre
donne (non nessuna, ma poche) la sensazione della sua
pelle contro la mia: acciaio vellutato. Conosco i suoni che
emettiamo, il nostro desiderio e le nostre grida (sempre
e solo mie, in realtà) e tutto questo mi provoca un moto
di egoistico orgoglio. In quei momenti, possiedo una conoscenza segreta, una conoscenza di cose nascoste che è
solo mia.
Ma alla fine, nulla può cambiare la verità: lui non sa,
nel buio, cosa penso nel profondo del cuore. E anch’io
non so cosa pensa lui. Questa è la verità. Siamo tutti isole
separate.
È una cosa che adesso ho accettato. C’è stato un tempo in cui la combattevo, come forse fanno tutti. Vogliamo sapere ogni cosa del nostro partner, condividere ogni
minimo particolare. Vogliamo cancellare la distanza tra
noi, diventare una persona sola.
Ma non siamo una persona sola. Per quanto possiamo
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avvicinarci, resterà sempre una distanza. Ormai l’ho capito: l’amore è condivisione reciproca, ma è anche essere
in pace con ciò che non potrà mai essere condiviso.
Mi giro su un fianco, la guancia sulla mano, e guardo
il mio uomo. È bello, penso. Non in modo femminile,
ma proprio nel suo essere “uomo”, nella sua tranquilla rudezza. Dorme profondamente, con la bocca chiusa.
Ho paura di guardarlo troppo, potrebbe avvertire il mio
sguardo e svegliarsi. È molto sensibile a questo, perché,
come me, sa che la morte è una cosa reale. Che può arrivare in qualsiasi momento. Quando fai ciò che abbiamo
fatto noi, quando vedi ciò che noi abbiamo visto, il tuo
sonno diventa leggero.
Mi volto sulla schiena e guardo il cielo notturno fuori
dalla portafinestra che abbiamo lasciato aperta per poter
sentire l’oceano. La temperatura qui lo permette. Siamo
alle Hawaii per una vacanza di cinque giorni: per me, la
prima in più di dieci anni.
Siamo sull’isola grande, terra di fuoco e ghiaccio.
Uscendo dall’aeroporto di Hilo, Tommy e io ci siamo
guardati, chiedendoci se non avessimo commesso un terribile errore nella scelta dell’isola. Si vedeva solo roccia
vulcanica nera, a perdita d’occhio. Era come essere atterrati su una luna ostile.
Avvicinandoci al resort ci siamo sentiti un po’ rincuorati. In lontananza si vedeva il Mauna Kea, alto più di
quattromila metri e coperto di neve. Era strano vedere la
neve alle Hawaii, guardando fuori dal finestrino. Alberi
ed erba avevano cominciato a spuntare da tutta quella
roccia, lottando per vivere e anticipando ciò che accadrà
in futuro. Un giorno l’erba vincerà la roccia, la trasformerà in terra e le cose cambieranno di nuovo. Succederà
quando Tommy e io, e anche i nostri discendenti, saremo
morti da tempo, ma succederà. La vita lotta costantemente, è il suo scopo.
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La reception del resort ci ha lasciati senza fiato. Si affacciava sull’oceano infinito e sulle spiagge perfette, con
una brezza gentile che ci baciava sulle guance, come per
darci il benvenuto. «Aloha» ha detto il giovane dietro il
banco, denti bianchi e pelle abbronzata.
Siamo qui da quattro giorni, in dolce far niente. Le
Hawaii ci hanno accolti con gentilezza, ignorando le nostre mani sporche di sangue, invitandoci con la loro bellezza a riposare un po’. La nostra stanza è al terzo piano
e il balcone è a non più di cinquanta metri dall’oceano.
Passiamo i giorni stesi sulla spiaggia e a fare l’amore, e le
notti passeggiando sulla spiaggia e a fare l’amore, contemplando il trionfo di stelle in questo cielo antico. Restiamo a guardare i tramonti finché la luna richiama sul
mare il cielo notturno.
È una pace temporanea. Presto torneremo a Los Angeles, dove io sono coordinatore del ncavc, il National
Center for the Analysis of Violent Crime. Il quartier generale è a Quantico, in Virginia, ma gli uffici dell’fbi in
ogni città hanno un coordinatore del ncavc. In molti posti questo lavoro è un cappello che si indossa di rado, ma
a Los Angeles è un impegno a tempo pieno, e io ormai
sono a capo dell’ufficio da più di dodici anni. Coordino
una squadra di quattro persone, compresa me. Veniamo
chiamati per il peggio. Uomini e donne che uccidono altri uomini e donne e (troppo spesso) bambini, stupratori
seriali. Le persone a cui diamo la caccia noi quasi mai
fanno ciò che fanno nel raptus di un momento. Le loro
azioni non sono un’anomalia temporanea, ma rappresentano la soddisfazione di un bisogno. Lo fanno per la gioia
di farlo, perché svuotare gli altri li fa sentire pieni come
nessun’altra cosa al mondo.
Io trascorro la vita scrutando nelle tenebre che si irradiano da queste persone. È un buio freddo, pieno di
miagolii, di movimenti furtivi, di risate acute, di gemiti
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irripetibili. Ho ucciso uomini malvagi e alcuni di loro mi
hanno dato la caccia. È una mia scelta, è la mia vita. È la
vita a cui torno quando mi sveglio, quando vado al lavoro, quando rientro a casa e dormo con il mio uomo e mi
risveglio al mattino.
Perciò è raro che alzi la testa e veda davvero le stelle.
Tutti viviamo e moriamo sotto di loro, ma io tendo a
preoccuparmi più della morte. Ho sognato vittime stese sulla schiena, che esalano l’ultimo respiro guardando
quei punti di luce eterni e spietati.
Qui alle Hawaii mi sono presa il tempo per guardare le
stelle. Ho alzato gli occhi al cielo tutte le notti e le stelle
mi hanno ricordato che qualcosa di bello è già bruciato,
molto lontano da qualsiasi bruttura umana.
Chiudo gli occhi per un attimo e ascolto. L’oceano
batte sulla riva come il respiro infinito di qualcuno più
grande di noi; se fossi certa che Dio esiste, direi che è il
suo. Ma Dio e io siamo su un terreno malfermo, e anche
se ora siamo più vicini di quanto lo fossimo alcuni anni
fa, ci parliamo di rado.
Tuttavia là fuori c’è qualcosa. Qualcosa di innegabile
e infinito cavalca quelle onde fino alla spiaggia, ancora,
e ancora, secondo il ritmo scandito dal metronomo del
mondo. In questo posto l’oceano è vasto, c’è una purezza di suono e colore e dolcezza troppo meravigliosa per
essere casuale. Non sono sicura che a ciò che c’è là fuori,
qualsiasi cosa sia, importi davvero di noi. Ma forse continua a far girare il mondo mentre noi facciamo le nostre
scelte, e forse è il massimo che possiamo chiedere.
Apro di nuovo gli occhi e mi allontano da Tommy, cercando di fare meno rumore possibile. Voglio uscire sul
balcone, ma non voglio svegliarlo. Il lenzuolo mi scivola
come seta sulla pelle e poso i piedi sulla moquette. La
luna illumina la stanza, perciò è facile trovare l’accappatoio (che penso di rubare quando ce ne andremo). Me lo
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infilo senza allacciare la cintura, do un’ultima occhiata a
Tommy ed esco sul balcone.
La luna, testimone sempre disinteressato, splende su
ogni cosa stanotte, coprendo il mondo di morbida luce
color argento e ambra. Pende sopra l’oceano come una
perla irregolare, e io la studio con muta meraviglia. È solo una palla di roccia che riflette una luce fredda, ma ha
un tale potere quando il cielo si oscura. Sollevo una mano
e fingo di sfiorare i suoi raggi con le dita. Riesco quasi a
sentirli, per un attimo. Fiumi densi di luce vellutata.
La luna ha illuminato la mia strada, sul lavoro, quasi
quanto il sole, ma illumina anche la strada dei mostri.
Loro amano la luna, amano il modo in cui non riesce a
bandire davvero le tenebre. Anch’io la amo, ma come avversaria, oltre che come amica.
La temperatura esterna è perfetta e lascio vagare lo
sguardo nel cielo. A Los Angeles, le stelle sono piccoli
grumi di luce dispersi in un oceano nero. Qui, la luce
dà filo da torcere al buio. Riesco a vedere la cintura di
Orione proprio sopra di me, e seguo piste nel cielo fino a
trovare l’Orsa Maggiore e da lì la stella polare.
«Polaris» bisbiglio, e sorrido, ricordando mio padre.
Papà era uno di quegli uomini che si entusiasmano per
troppe cose e quindi non diventano esperti in nessuna.
Suonava benino la chitarra. Scriveva racconti che a me
piacevano tanto ma che non furono mai pubblicati. E
amava il cielo notturno e le storie delle stelle.
«La stella polare» mi disse una notte, indicandola. «Si
chiama Polaris, o a volte Stella Guida. Non è la più luminosa, come credono in molti. Sirio è la stella più splendente. Ma Polaris è una delle più importanti.»
Erano le nove di sera e a me non importava molto delle
stelle, ma amavo mio padre, perciò ascoltai e spalancai
gli occhi dalla meraviglia, come lui si aspettava. Ora sono
felice di averlo fatto, perché lui ne fu contento. È morto
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prima che io compissi ventun anni, e adoro ogni ricordo
che ho di lui.
«A cosa pensi?» Il mormorio alle mie spalle è assonnato.
«A mio padre. Era appassionato di astronomia.»
Tommy si avvicina e mi circonda con le braccia. È nudo e caldo. Poso la nuca sul suo petto. Io sono alta solo
un metro e quarantasette, perciò lui torreggia sopra di
me in un modo che mi piace.
«Non riuscivi a dormire?» mi chiede.
«No» mormoro. «Non è che non riuscivo, è che sto
bene sveglia.»
Avverto il suo sorriso, dietro di me, e questo, come
tante altre cose, mi dice che stiamo diventando più intimi. Afferriamo gli impulsi lanciati dall’altro, leggiamo
i segni sotto la superficie. Tommy e io stiamo insieme
da quasi tre anni, un amore bello e cauto. In molti modi
questo amore inaspettato mi ha salvata.
Poco più di tre anni e mezzo fa, un uomo a cui davo la
caccia, un serial killer di nome Joseph Sands, si è introdotto in casa mia. Ha torturato davanti a me mio marito
Matt e poi lo ha ucciso. Mi ha violentata, sfregiata e ha
causato anche la morte di mia figlia Alexa, che aveva dieci anni.
Dopo quell’episodio passai sei mesi in un’agonia che
ora non riesco a ricordare davvero. Riesco a riconoscerla
razionalmente, ma credo che un meccanismo protettivo
impedisca agli esseri umani di serbare una memoria precisa di un dolore così forte. Ricordo che desideravo morire e che arrivai quasi a farlo succedere.
Tommy e io ci siamo messi insieme dopo. Lui è un
ex agente dei servizi segreti e mi doveva un favore. Io
gli chiesi la restituzione del favore mentre lavoravo a un
caso, e in qualche modo finimmo a letto insieme. Era l’ultima cosa che mi aspettavo. Non solo perché piangevo
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ancora la perdita di Matt, non solo perché Tommy era
bello da togliere il fiato, con il suo fisico latino, ma per
quello che mi era stato fatto.
Joseph Sands mi ha sfregiato il viso con un coltello,
un lavoro fatto con rabbia, gioia e concentrazione. Mi
ha lasciato un ricordo permanente di sé, un marchio di
sangue e acciaio.
La cicatrice è un segno continuo che inizia in mezzo
alla mia fronte, proprio all’attaccatura dei capelli. Scende
dritta, si ferma tra le sopracciglia e poi taglia a sinistra
con un angolo retto quasi perfetto. Non ho più il sopracciglio sinistro, Sands me l’ha tagliato via. La cicatrice gira
intorno alla tempia e poi scende in un pigro ghirigoro
lungo la guancia. Sale sul naso ma non lo attraversa del
tutto, scende in diagonale sulla narice sinistra e precipita
in una linea trionfante oltre la mascella, sul collo, fino alla
clavicola.
Ricordo quando si fermò, dopo aver finito di tagliare.
Io gridavo e lui mi fissava con il viso a pochi centimetri
dal mio. Annuì. «Sì» disse. «Così va bene. L’ho fatta nel
modo giusto da subito.»
Non mi ero mai considerata bella, ma ero contenta
del mio aspetto. Dopo quella notte, temevo lo specchio
come il fantasma dell’opera. Non mi sono suicidata, ma
immaginavo una vita nascosta agli occhi del mondo.
Perciò quando Tommy mi ha baciata e poi mi ha portata a letto e ha baciato le mie cicatrici... Non sono stati
i baci, ma il calore spontaneo di quel bisogno che mi ha
fatto sciogliere. Lui era un uomo, un bell’uomo, e voleva
me. Non per consolarmi del mio dolore, ma perché aveva
delle fantasie su di me e ora poteva soddisfarle.
Ora è passato del tempo, e quei primi momenti si sono trasformati in qualcosa di molto più grande. Viviamo
insieme. Ci amiamo e ce lo siamo detti. Bonnie, la figlia
che ho adottato, gli vuole bene e anche Tommy la ama.
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La cosa migliore di tutte è che si tratta di una relazione
senza sensi di colpa, benedetta dai fantasmi del mio passato.
«Gesù, che bello» sussurra Tommy. «Non è bellissimo,
Smoky?»
«È irreale.»
«Ho avuto una buona idea, eh? Un’idea geniale.»
Rido. «Calma il tuo ego, genio. È stata una buona
idea, ma non aspettarti un trattamento di favore per
questo.»
Le sue mani scivolano su di me, sotto l’accappatoio.
«Immagino che dovrò contare sul sesso, allora.»
«Questo... potrebbe funzionare» mormoro, chiudendo gli occhi.
Lui mi bacia sul collo e mi provoca un brivido. «Allora?» chiede.
In risposta mi volto verso di lui e alzo la testa. Le sue
labbra trovano le mie e ci baciamo sotto la luna. Sento qualcosa muoversi dentro di me, mentre lui si muove
contro di me.
«Voglio farlo qui» gemo, con le mani tra i suoi capelli.
Lui riemerge per respirare, con un sopracciglio alzato.
«Qui... qui? Intendi sul balcone?»
Indico il lettino a sdraio. «Lì, esattamente.»
Lo vedo che scruta l’erba in basso, gli afferro la testa e
la tiro di nuovo verso di me. «Non pensare troppo. Sono
le tre del mattino. Siamo solo noi e la luna.»
Non ci vuole molto a convincerlo. Io finisco sopra, con
la luna e la stella polare alle spalle. L’oceano parla con il
suo rombo sommesso e Tommy mi guarda più con passione che con fame. Verso la fine, mi chino su di lui e gli
mormoro le due parole che prima era così difficile dire,
a un uomo che non fosse Matt. Gli leggo la risposta negli
occhi e ci addormentiamo insieme sul terrazzo, coperti
dall’accappatoio.
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Mi sveglio nel letto, languida e riposata. Ho un vago
ricordo di Tommy che mi porta dentro in braccio, a un
certo punto della notte. Adesso è l’alba, sta sorgendo il
sole. Per chissà quale motivo, da quando siamo alle Hawaii ci svegliamo ogni mattina prima delle sei. Non mi lamento. Il nostro balcone affaccia a ovest, perciò vediamo
i tramonti, che sono più spettacolari. Ma anche la prima
luce dell’alba che colpisce l’acqua non è uno spettacolo
da disprezzare.
Mi getto addosso il fidato accappatoio ed esco sul
balcone. Tommy ha già preparato il caffè e ha messo
la caffettiera sul tavolo. Indossa solo un paio di jeans e
nient’altro, e vederlo non mi lascia indifferente. Tommy
è molto virile, alto circa un metro e ottantacinque, con i
tipici occhi e capelli neri dei latini. Il suo sguardo è allo
stesso tempo aperto e circospetto: è il risultato del fatto
di essere un uomo onesto che ha ucciso delle persone. Il
suo viso è una via di mezzo tra rude e grazioso, con una
piccola cicatrice sulla tempia sinistra.
«Sei una delizia per gli occhi» gli dico.
«Grazie. Caffè?»
Tommy è laconico. Non è che non sia comunicativo,
è solo convinto che sia meglio dire ogni cosa usando il
minor numero possibile di parole.
«Sì, grazie.»
Me ne versa una tazza mentre mi accomodo su una
sedia e sollevo le ginocchia contro il mento. Prendo la
tazza quando me la offre, bevo un sorso e alzo gli occhi
in un gesto di apprezzamento.
«Dio, che buono. Ancora non vogliono dirti dove possiamo procurarcene un po’?»
«No. Dicono solo che è una miscela della casa.»
«Forse possiamo portarne un po’ a Los Angeles e farlo
analizzare in laboratorio.»
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Lui sorride, scivoliamo in un confortevole silenzio. Io
osservo l’oceano e il tempo passa senza il bisogno di controllarlo. Qui gli orologi sembrano quasi brutti.
«A cosa pensi?»
Lo guardo e mi rendo conto che mi stava osservando.
«La verità?»
«Ovvio.»
«Pensavo a Matt e Alexa.»
«Dimmi.»
Allunga una mano attraverso il tavolo, tocca la mia,
poi torna a prendere la sua tazza. Un breve gesto per dimostrarmi che la cosa non lo disturba.
Io lo fisso da sopra la mia tazza. «Sul serio non ti importa?»
Scuote la testa una volta sola. «Non sarò mai quel tipo
d’uomo, Smoky. Geloso della famiglia che avevi prima di
me.»
Quelle parole mi fanno salire un nodo in gola. Niente
lacrime, ormai le ho superate. «Grazie.»
«Allora? Che stavi pensando?»
Bevo un sorso di caffè e guardo l’oceano. Sospiro.
«Pensavo che Matt e io avevamo parlato di un viaggio
alle Hawaii, ma non l’abbiamo mai fatto. Avevamo persino immaginato di passare la luna di miele a Maui, ma...»
scrollo le spalle. «Eravamo giovani, stavamo appena cominciando.»
«E Alexa?»
Sorrido debolmente. «Lei amava l’oceano. Questo
l’avrebbe “sbolardita”, come diceva lei.»
Tommy è silenzioso, pensa a ciò che ho detto. «Allora ricordali» dice alla fine. «È un po’ come portarli qui,
no?»
Di nuovo il nodo in gola. Allungo la mano e lui me la
prende. «Sì, più o meno.»
Guardiamo l’oceano, ignoriamo l’orologio.
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Scuoto la testa. «Siamo piuttosto sdolcinati in questo
periodo, vero?»
Lui si porta la mia mano alle labbra, ancora calde di
caffè. «Era ora.»
Dopo colazione, Tommy riparla dell’unica cosa che ha
minacciato la beatitudine del nostro soggiorno qui.
«Hai pensato all’idea di dirglielo?» chiede.
«Non è cambiato nulla, Tommy» rispondo. «So che la
cosa non ti piace, ma per adesso non deve saperlo nessuno. Devi rispettare la mia volontà in questo. È un segreto che ti ho chiesto di mantenere e confido che resterà tale.»
Alle ultime parole si rannuvola. Io sono irritata e impaurita allo stesso tempo. La nostra felicità mi insospettisce ancora, temo che possa volare via. Lo guardo dritto
negli occhi e cerco di leggervi la verità. Chiunque abbia
detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima non era
un poliziotto, questo è certo. I poliziotti sanno che non
è così. Finché non cade la maschera, gli assassini hanno
occhi come quelli di tutti noi.
«Non lo capisco» dice.
«Lo so. Mi dispiace.»
Tommy distoglie lo sguardo e avverto l’irritazione che
gli scivola via di dosso. Poi sospira. «Va bene» dice. «Se
mi prometti che non sarà per sempre.»
«Lo prometto.»
Sembra soddisfatto. La tensione si scioglie e riappare il
suo sorriso sghembo, quello che mi dà i tremori. Inclina
la testa e il mio cuore salta un battito. Dio, com’è sexy.
«Allora, cosa ne pensi?» chiede.
Io alzo gli occhi al cielo. «Gesù, Tommy, mi piacerebbe
vedere qualcos’altro oltre al soffitto, mentre sono qui.»
«Che ne dici dell’interno della doccia?»
«Già visto. Già fatto.» Due volte, per la precisione.
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Lui scrolla le spalle, come per dire “cosa posso farci?”.
«È una stanza piccola, Smoky.»
Io faccio una risatina. «E va bene, signor Arrapato,
ma nel pomeriggio voglio andare a Kona a fare un po’ di
shopping.»
Lui alza una mano e si mette l’altra sul cuore. «Promesso.»
Stiamo andando verso il letto quando un cinguettio
del cellulare mi avvisa che ho ricevuto un sms.
«Non se ne parla» si lamenta Tommy.
«Trattieni i tuoi cavalli» gli dico. «Torno subito.»
Vado a prendere il telefono e apro il messaggio. Quello
che vedo all’inizio mi fa sorridere.
Qui piove, e tu sei lì in paradiso. Dovrei odiarti, ma ti
perdono, a condizione che scopi come una scimmia.
Il sorriso scompare quando leggo il resto.
Tornando alle cose serie, abbiamo appena preso quel
grosso uomo cattivo che infilava i bambini morti nei bagni
chimici. Non è né grosso né cattivo, e non mi sorprende.
Si chiama Timothy Jakes, Tim Tim per gli amici. (Così
dice lui, dubito che abbia degli amici. È troppo viscido.)
Quando gli abbiamo messo le manette ha pianto come un
bambino e si è fatto la pipì addosso. Questo mi ha dato
soddisfazione.
Goditi il sole, amore mio. Fai la svergognata e non dimenticare di fare un brindisi per Tim Tim, che sarà presto
introdotto a esperienze nuove ed eccitanti dal comitato carcerario di benvenuto.
Chiudo gli occhi e mi lascio invadere dal sollievo. Questo caso era ancora aperto quando sono partita e me l’ero
portato dietro come una valigia con dentro un cadavere.
Per quanto bello sia questo posto, quei bambini morti mi
stavano intorno, mi osservavano mentre fissavo le stelle e
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comunicavo con la luna. Adesso ho l’impressione che si
siano voltati, incamminandosi in fila verso un mare sbiadito.
«Cosa c’è?» chiede Tommy, dietro di me.
Io chiudo il telefono, respiro a fondo e preparo un
sorriso appena un po’ lascivo, mentre mi volto e faccio
scivolare l’accappatoio sul pavimento.
«Callie. Ci raccomanda di scopare come scimmie.»
Poi gli dirò i particolari, ma non c’è bisogno di farlo
adesso. Sono brava in questo tipo di divisioni a compartimenti stagni. È una capacità da sviluppare in fretta, se
vuoi avere una vita. Io posso guardare il cadavere di una
ragazzina di dodici anni violentata e mutilata e un’ora
dopo baciare sulla guancia mia figlia.
Tommy sogghigna. «Direi che abbiamo rispettato la
raccomandazione, ma giusto per essere sicuri...»
«Sarei felice se non dovessimo partire domani» mormoro, stendendomi sopra di lui.
«Perché non restiamo qualche giorno in più, allora?»
«Sono damigella d’onore al matrimonio di Callie. Se
non vado ci fa fuori entrambi.»
«Vero.»
Mi chino su di lui e gli mormoro all’orecchio: «Ora
basta parlare. Fammi quella cosa che mi piace tanto».
E lui la fa e il sole continua a salire e l’oceano batte
contro la sabbia e io amo le minuzie di ogni momento,
ma anche mentre ci esploriamo a vicenda, so che questa pace è sfuggente. Non apparteniamo a questo posto
con troppa luce. Nella mia mente vedo altri bambini che
aspettano il mio ritorno.
Tommy mi bacia, e io grido, e l’isola ci dà il suo saluto.
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1974
«Io sarò la vita.»
L’uomo disse queste parole al Ragazzo. Il Ragazzo notò
il timbro della voce e si preparò.
«Sì, papà.»
«Tu sarai tu e io sarò la vita.»
«Capisco.»
Era un gioco di ruolo.
Il padre tese la mano, palmo in alto. Era una mano grossa.
E anche dura. Il Ragazzo lo sapeva per esperienza. Si era
abbattuta molte volte su di lui.
«Dammi un dollaro.»
Il padre lo guardò, il Ragazzo guardò il padre, in attesa
di ciò che sarebbe arrivato. Era la testa di un bruto, pensò
il ragazzo, non senza amore. La testa e il viso si abbinavano
alle mani: il cranio sembrava tagliato da un blocco di cemento o di minerale grezzo. Gli occhi erano azzurri e freddi
come il ghiaccio ed erano insieme gli occhi di un filosofo e
di un assassino.
Il Ragazzo stava sviluppando gli stessi occhi, sotto le cure di suo padre.
«Non ce l’ho, un dollaro.»
«Ah» disse suo padre. Fissò il piano del tavolo, vi batté
sopra un grosso dito, come soprappensiero. «Va bene, te lo
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chiedo un’altra volta.» Tornò a guardare in faccia il figlio.
«Dammi un dollaro.» Tese di nuovo la mano, aprendola e
chiudendola in un gesto di richiesta.
«Le ho già detto che non ce l’ho. Chiedere due volte non
lo farà apparire.»
Fu ricompensato con un lampo di approvazione. Quello
che aveva appena detto era pericoloso, ma anche coraggioso.
E il coraggio era buono.
«Ti ho detto che io sono la vita» intonò suo padre, con
voce bassa e paziente. «Quando la vita ti chiede un dollaro, o glielo dai, oppure la vita ti punisce finché non lo
fai.»
Il tavolo era piccolo e suo padre aveva le braccia lunghe.
La mano scese sulla sua guancia sinistra con la forza di un
tuono. Vide tutto nero. Si risvegliò steso sulla pancia, la
sedia rovesciata, le mani sul pavimento. Gli fischiavano le
orecchie e aveva in bocca un sapore di sangue. Un ronzio
gli riempiva la testa.
«Alzati, figliolo.»
Gli girava la testa. Lottò per trovare la voce.
«Sì, padre.»
Gli era grato.
Il Ragazzo aveva solo dieci anni, ma aveva già un’idea
di come funzionava il mondo e sapeva che suo padre aveva
ragione. La vita andava avanti, con te o senza di te. Probabilmente senza, se tu eri un debole. Suo padre voleva farlo
diventare forte. Che altro tipo di amore poteva mostrare un
padre a suo figlio?
Lottò per rimettersi in piedi. Barcollò ma non perse
l’equilibrio. La debolezza era il primo peccato, la codardia
il secondo.
«Non limitarti a prenderle, ragazzo» disse il padre.
«Combatti. Anche se perdi, fagli pagare ogni pugno che ti
danno.»
«Sì, signore» rispose lui. Alzò i pugni, meravigliandosi
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di quanto fossero piccoli, paragonati a quelli massicci che
suo padre aveva alzato a sua volta.
«La vita vuole un dollaro, ragazzo» disse suo padre.
Il Ragazzo non riuscì a colpirlo neppure una volta, ma
tenne la bocca chiusa mentre suo padre lo picchiava fino a
farlo svenire, e non pianse.
Il Ragazzo si svegliò nel suo letto, dolorante e con i brividi. Voleva piagnucolare, ma si morse le labbra. Suo padre
era seduto sul bordo del letto, accanto a lui. Una massa nel
buio, illuminata dalla luce argentata della luna che filtrava
attraverso le tende.
«Io sono la vita e la vita vuole un dollaro, figlio mio. Te
lo chiederò ogni settimana finché non me lo darai. Capito?»
«Sì, signore» disse lui, attraverso le labbra spaccate, sforzandosi di fare in modo che la voce uscisse forte e chiara.
Il padre guardò la luna fuori dalla finestra, come se entrambi avessero qualcosa da commiserare. E forse era così.
«Sai cos’è la gioia, figliolo?»
«No, signore.»
«La gioia è tutto ciò che segue la sopravvivenza.»
Il ragazzo mise quella frase nel posto profondo dove
conservava le grandi verità e attese, perché sapeva che suo
padre non aveva finito.
«Abbiamo un solo scopo in questa vita, figliolo: quello
di fare ancora un altro respiro. Tutto il resto sono menzogne mascherate. Hai bisogno di cibo, di un posto per dormire e di un buco per cacare.» Quell’uomo enorme si voltò
di nuovo verso il letto, per guardarlo in faccia.
Il Ragazzo non aveva mai avuto davvero paura del padre. In tutte le lezioni, tutte le volte, attraverso il dolore
e la brutalità non aveva mai dubitato che l’uomo che gli
aveva dato la vita l’avrebbe preservata. Fino a ora. Adesso
era diverso, e trattenne il fiato e la lingua e attese, sotto lo
sguardo di due occhi accesi come stelle morenti.
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«Perché ho scelto un dollaro? Perché il denaro è alla
base di tutto. La vita vuole un dollaro, figliolo, lo vuole
ogni giorno, da ora fino a quando sarai sottoterra. Se non
puoi pagare, non puoi mangiare. Se non puoi mangiare,
non puoi vivere. Non c’è altro. Mi segui?»
«Sì, signore.»
«Non ne sono sicuro, ragazzo, ma lo scopriremo. Questo
è un test. Ti lascerò fare qualche tentativo, ma se alla fine
quel dollaro non viene fuori, dovrò buttarti giù e ricominciare da capo.»
Dopo un lungo minuto suo padre si voltò e riprese la sua
comunione con la luna.
«Non esiste nessun dio, ragazzo. Non esiste l’anima. C’è
solo sangue, carne e ossa. Non sei stato portato qui da un
potere superiore. Sei qui perché io ho infilato una cosa dentro tua madre e la tua carne è cresciuta. Questa carne deve
essere nutrita, e per farlo ti servono soldi. E questa è la
somma di ciò che siamo e che saremo sempre.»
Il padre si alzò e uscì senza un’altra parola. Il Ragazzo
restò a letto a guardare la luna, e a pensare a ciò che gli
era stato detto. Non metteva in dubbio le lezioni e non
gli dispiaceva il dolore. Quella nave era già affondata molto tempo prima. C’era stata un’epoca in cui era pieno di
rabbia e di tristezza, ma ora sembrava più un sogno che
un ricordo. I pugni di suo padre gli avevano tolto quella
debolezza, come un martello toglie i bozzi da una lastra di
metallo. Suo padre era il suo dio e il suo dio gli stava insegnando a sopravvivere.
Gli serviva un dollaro. Se non lo avesse trovato, sarebbe
morto. Quella era l’unica cosa che importava, perciò mise
al lavoro la sua mente. Quando si addormentò aveva già
un piano.
Il Ragazzo aveva appena iniziato la quinta elementare.
Suo padre considerava la scuola una necessità.
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«Hai bisogno di conoscenza per nutrire la carne, figliolo,
e la scuola è gratis. Solo un idiota rifiuterebbe un affare del
genere.»
Lui sedeva in classe, in attesa della campanella. Non
aveva amici e non desiderava averne. Gli altri erano avversari. Meglio starsene da soli, come faceva lui.
Osservava Martin O’Brien, il prepotente della scuola,
valutandolo con occhio critico. Martin era grosso e brutale.
Aveva occhi castani, e capelli castani sottili che sembravano tagliati in casa, e male. Portava scarpe da ginnastica di
qualche anno troppo vecchie e alcuni dei suoi blue jeans
avevano dei buchi alle ginocchia. A volte, Martin arrivava
a scuola con un occhio pesto, o camminava facendo smorfie
di dolore. Quelli erano giorni terribili per i deboli. In quei
giorni, Martin era una tempesta.
Tutti lo temevano, anche i ragazzi più grandi. Martin
dispensava prepotenze e sofferenze con una luce selvaggia
negli occhi, come se in quei momenti si trovasse da un’altra
parte. Non potevi sapere per certo fin dove si sarebbe spinto e questo era il segreto principale del suo potere. Tutti
possono essere grossi. Non tutti possono essere terrificanti.
Martin ti torceva un braccio dietro la schiena e ti ordinava di dire che tua madre era una troia. Se rifiutavi,
aggrottava le sopracciglia e una parte di lui se ne andava.
Quando ciò accadeva, poteva succedere di tutto. Aveva anche spezzato un braccio a un bambino, una volta.
La sua era quella brutalità a cui è difficile credere, in un
ragazzino di dieci anni (o è più facile scegliere di ignorarla,
sospettandone le origini). Perciò Martin veniva rimproverato, a volte anche sospeso, ma questo era tutto. Restava
libero di sfogarsi, un elefante rabbioso tra i pigmei. Gli
adulti vedevano bruciare il villaggio, ma si rifiutavano di
sentire l’odore del fumo.
Il Ragazzo lo sentiva. Aveva visto quel bagliore apparire
negli occhi di Martin, una volta, quando il tiranno era al
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lavoro su un altro bambino. Erano occhi da pazzo, accompagnati da un sorriso febbrile che sembrava più l’inizio di
un pianto che di una risata.
Martin era quello che era, e per questo era la soluzione
al problema del Ragazzo.
La campanella suonò e il Ragazzo si diresse verso il suo
armadietto. Vi mise dentro tutti i libri: in classe aveva fatto
i compiti per casa, in modo da avere le mani libere. Prese
l’altro oggetto che aveva messo nell’armadietto quel mattino e uscì dalla scuola senza voltarsi indietro.
Andò a sedersi sul gradino del marciapiede, in strada, e
attese. Era una bella giornata. Il sole gli scaldava le spalle.
Una brezza impaziente scompigliava le foglie degli alberi
e baciava leggera le sue guance, prima di proseguire la sua
corsa.
Circa dieci minuti dopo arrivò Martin. Fischiettava,
sorridendo per qualcosa che stava pensando. Stringeva e
riapriva i pugni, in una rabbia continua e inconscia. Il Ragazzo lo guardò passare, poi si alzò e lo seguì a distanza.
Martin proseguì dritto per altri cinque minuti, poi svoltò
in una strada laterale. Altre due svolte e sarebbe arrivato
a casa.
Adesso o mai più, e mai più non era un’opzione.
Il Ragazzo corse avanti, stringendo il manico di scopa
tagliato a metà che quella mattina aveva nascosto nell’armadietto. Il suo cuore batteva calmo e costante. Raggiunse
Martin in dieci passi e lo colpì sul rene sinistro, con un
botto sordo. Il tiranno restò un attimo immobile, poi urlò
di dolore. Allungò una mano dietro la schiena e il Ragazzo
colpì anche quella.
Martin si voltò per affrontarlo, e andò a sbattere contro
un pugno al plesso solare che lo mise in ginocchio. Mentre cercava di riprendere fiato, un altro colpo gli ruppe il
naso. Il Ragazzo lo colpiva con metodo e pazienza, senza
ricavarne gioia. Non era un sadico. Quello era il mezzo per
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un fine, nient’altro. Aveva bisogno di spezzare Martin e si
sarebbe fermato una volta raggiunto lo scopo.
Martin cadde e si rannicchiò in posizione fetale sull’asfalto, coprendosi la faccia e la testa con le mani, nel tentativo
di esporre ai colpi la minor superficie possibile. Il manico di scopa continuò ad abbattersi su di lui. Di nuovo,
di nuovo, di nuovo. Braccia, gambe, schiena, sedere. Non
tanto forte da rompere ossa ma abbastanza forte da provocare dolore e ondate di rosso mescolate con macchie nere
e punti di luce.
Il Ragazzo si fermò quando Martin cominciò a piagnucolare come un gattino.
«Martin, guardami.»
Il tiranno non rispose, ancora in posizione fetale, tremante, gemente. Per il terrore continuava a scoreggiare.
«Martin, se non mi guardi e non ascolti ciò che ti dico,
ricomincio.»
Quel messaggio arrivò a destinazione. Il tiranno si scoprì il viso con piccoli movimenti a scatti. Gli occhi erano
spalancati e fuori fuoco. Dal naso gli colava un fiume di
muco, sangue e lacrime. Un bozzo si stava già gonfiando
su una guancia. Le labbra avrebbero avuto bisogno di punti di sutura. Respirava a fatica, cercando di controllare la
propria isteria.
«Martin.» La voce del Ragazzo era paziente, i suoi occhi
erano vuoti. Non ansimava. «Devi cominciare a fare una
cosa per me. Se la fai, sarai al sicuro. Se non la fai, sarai
punito. Mi hai capito?»
Martin lo fissò, ma non disse nulla. Il Ragazzo sollevò il
manico di scopa.
«Sì! Sì!» gridò Martin. «Ho capito!»
Il Ragazzo abbassò il bastone. «Bene. Mi darai tre dollari alla settimana. Non credo che sia un problema, giusto?
Ti ho osservato. So che derubi altri bambini. Soldi per il
pranzo, paghette eccetera.»
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«Sì, sì...» sussurrò Martin. Aveva cominciato a tremare
in modo incontrollabile.
«Allora devi solo continuare a fare quello che fai. L’unica differenza è che ogni settimana darai a me tre dollari.
Capito?»
Martin annuì. Non riusciva a parlare, gli battevano i
denti.
«Ora, la parte che segue è molto importante, Martin,
perciò fa’ attenzione. Se dirai mai a qualcuno quello che ti
ho fatto oggi, oppure parlerai dei tre dollari, o se non mi
porterai i soldi, una notte entrerò in casa tua. Ucciderò tua
madre e tuo padre e poi ucciderò anche te. E ci metterò
molto, moltissimo tempo.»
Martin udì quelle parole e il tempo si fermò. Tutto divenne irreale e più nitido allo stesso tempo. Vide il presente e il futuro e fu invaso da una vibrazione che allontanò
da lui la paura.
Il sole splende nel cielo sereno. Il cemento del marciapiede è caldo ma non bollente, e lui è a solo cinque minuti
da casa sua. Lì prenderà una Coca-Cola e uno dei tortini al
cioccolato della mamma, andrà nella sua stanza, si toglierà
le scarpe da tennis e leggerà l’ultimo fumetto di Batman.
Poi la mamma lo chiamerà a cena (polpettone, probabilmente) e mangeranno insieme, perché papà è in giro a fare
il suo lavoro da commesso viaggiatore. Papà fuori casa significa che né lui, né sua madre, assaggeranno i pugni (era
così che Martin chiamava le mani del padre, i pugni). Forse
poi avrebbero guardato insieme Happy Days. Sua madre
forse avrebbe persino riso.
Martin pensò tutte quelle cose e per un attimo le parole
del Ragazzo gli sembrarono assurde. Omicidio? No. Avevano dieci anni! Splendeva il sole!
Gli occhi del suo avversario lo fissarono, Martin fissò
quegli occhi e in quel momento comprese qualcosa di importante, con una lucidità che non aveva quasi mai.
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Martin non era intelligente, ma lo era abbastanza da sapere di essere un ragazzo cattivo. Faceva del male agli altri
bambini, li derubava, li terrorizzava. Li faceva piangere e
supplicare e qualche volta si erano persino pisciati addosso.
Fare quelle cose non gli importava, perché gli dava sollievo.
i pugni non erano abbastanza per spiegare come mai lui rideva quando gli altri piangevano. Era cattivo. Lo accettava,
e accettava la propria incapacità di cambiare.
Gli occhi che lo stavano fissando in quel momento parlavano di un livello di cattiveria del tutto diverso. Non c’era
dispiacere o gioia in essi, non c’erano lacrime trattenute o
risate in attesa di sbocciare. Quello non era un bambino
che a casa leggeva Batman, e Martin era certo che non avesse mai guardato un solo episodio di Happy Days.
Quegli occhi lo guardavano, aspettavano, con una promessa implacabile. E lui seppe in quel momento che non
importava il sole, il marciapiede o il fatto che avessero entrambi dieci anni. L’unica cosa importante era questa: ogni
parola era stata una promessa, e ogni promessa sarebbe stata mantenuta.
«Ho capito» sussurrò.
Gli occhi lo scrutarono, in cerca della verità, e Martin
pianse nell’attesa, sperando di essere creduto. Dopo un
tempo lunghissimo, il Ragazzo annuì, si raddrizzò e gettò
via il mezzo manico di scopa.
«Primo pagamento questo venerdì» disse.
Poi si voltò e si allontanò.
Il Ragazzo arrivò a casa soddisfatto. Non fischiettava come Martin e non sorrideva. Quelle cose non erano necessarie, erano solo ornamenti umani. Ma era soddisfatto. Non
aveva solo risolto il suo problema, ne aveva risolto ogni
sfaccettatura.
Se per esempio in futuro suo padre avesse alzato la posta,
e avesse voluto più di un dollaro? Era un pensiero che gli
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era venuto di notte, mentre giaceva dolorante nel buio. E
aveva deciso che era una possibilità. Se la vita poteva chiederti un dollaro, non poteva chiederne due? O tre?
La distanza più breve tra i due punti era prendere a chi
aveva, ma ciò presentava un altro problema: come evitare
di farsi scoprire?
Tutte le strade portavano a Martin. Il prepotente della
scuola avrebbe fatto il lavoro e sarebbe stato punito se si
fosse fatto beccare. E se anche avesse deciso di raccontare
la verità, chi gli avrebbe creduto?
Il resto era stato giudizio e calcolo. Quanto dolore causare, quanta paura, quanta certezza sarebbe risultata da
questo. Il calcolo umano era la matematica più semplice,
se avevi il talento giusto, e quel giorno il Ragazzo aveva
scoperto di averlo.
Non tutto il male avviene per caso. A volte è coltivato
in una cantina buia, sotto un sole nero, da un giardiniere
oscuro con una zappa d’osso.
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