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domenica, 16 novembre 2014
primo piano
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e comunicazione
direttore di civiltà cattolica – internet, per la vita di tutti noi e per la chiesa, non è un’opzione ma un fatto
Le sfide all’evangelizzazione
dell’ambiente digitale
Il mondo della rete costringe la proposta pastorale a pensare alcune transizioni per continuare ad annunciare il Vangelo
Segue dalla 1a pagina
abitare il mondo e di organizzarlo, guidando e ispirando i comportamenti individuali, familiari, sociali. Per cui «l’ambiente
digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è
parte della realtà quotidiana di
molte persone, specialmente dei
più giovani» (Benedetto XVI).
L’evangelizzazione non può non
considerare questa realtà.
Vorrei, dunque, qui esporre tre
sfide importanti che la comunicazione digitale pone alla nostra
pastorale, considerando, come
aveva scritto Benedetto XVI, che
«le reti sociali sono alimentate
da aspirazioni radicate nel cuore
dell’uomo».
1. Dalla pastorale della risposta
alla pastorale della domanda.
Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload. Il problema
oggi non è reperire il messaggio
di senso ma decodificarlo, cioè
riconoscerlo per me importante, significativo sulla base delle
molteplici risposte che io ricevo.
Al tempo dei motori di ricerca, le risposte sono a portata
di mano, sono dovunque. Per
questo è importante oggi non
tanto dare risposte. Tutti danno
risposte! «The teacher doesn’t
need to give any answers because answers are everywhere» –
«l’insegnante non ha bisogno di
dare alcuna risposta perché le risposte sono ovunque» – (Sugata
Mitra, professore di Educational Technology alla Newcastle
University). Oggi è importante
riconoscere le domande importanti, quelle fondamentali. E
così fare in modo che la nostra
vita resti aperta, che Dio ci possa
ancora parlare.
L’annuncio cristiano oggi corre
il rischio di presentare un messaggio accanto agli altri, una
risposta tra le tante. Più che presentare il Vangelo come il libro
che contiene tutte le risposte, bisognerebbe imparare a presentarlo come il libro che contiene
tutte le domande giuste.
La grande parola da riscoprire,
allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano: il
discernimento spirituale che significa riconoscere tra le tante risposte che oggi riceviamo quali sono le domande
importanti, quelle vere e
fondamentali. È un lavoro
complesso, che richiede
una grande sensibilità spirituale.
«Non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone» (Evangelii
Gaudium, 155).
La Chiesa sa coinvolgersi
con le domande e i dubbi
degli uomini? Sa risvegliare i quesiti insopprimibili
del cuore, sul senso dell’esistenza? «Occorre sapersi
inserire nel dialogo con gli
uomini e le donne di oggi,
per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze»,
dunque, come scrive papa
Francesco nel messaggio per la
48 giornata mondiale delle comunicazioni sociali.
Mi ha colpito il fatto che Papa
Francesco, rispondendo a una
domanda posta da un giornalista sul volo che da Tel Aviv lo
riportava a Roma abbia detto:
«Non so se mi sono avvicinato
un po’ alla sua inquietudine…»
2. Dalla pastorale centrata sui
contenuti alla pastorale centrata sulle persone.
Oggi sta cambiando anche la
modalità di fruizione dei contenuti. Stiamo assistendo al
crollo delle programmazioni.
Fino a qualche tempo fa MTV
(Music Television) tra i giovani
era considerata una emittente
di «culto». Adesso sta subendo
una crisi o, se vogliamo, una
sua trasformazione da quel che
era – cioè emittente di una notevole quantità di video musicali introdotti da VJ – in emittente
di reality show e serie televisive
indirizzate soprattutto al target adolescenziale e ai giovani
adulti. I giovani, infatti, ormai
fruiscono la musica da internet
e non ci sono più ragioni perché
la fruiscano dalla Tv. La Tv è un
rumore di fondo, il brusio del
mondo. La si lascia parlare. Raramente oggi trova posto nelle
camere dei ragazzi. Oggi, inoltre, il vedere implica la selezione,
e la possibilità del commento e
dell’interazione. E questa possibilità è data da un social network come YouTube.
La fede sembra partecipare di
questa logica. Le programmazioni sono sostituite dalle ricerche personali e dai contenuti
accessibili sempre in rete.
Il catechismo era una forma per
presentare in maniera ordinata,
coerente e scandita i contenuti
della fede. In un tempo in cui i
palinsesti sono in crisi, questa
modalità di presentare la fede è
in crisi. Quali sfide tutto questo
pone alla fede e alla sua comu-
nicazione? Come far sì che la
Chiesa non diventi un container
da tenere acceso come un televisore che «parla» senza comunicare? Una direzione di risposta a
questa domanda la troviamo in
un passaggio di mons. Claudio
Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, nel suo intervento al Sinodo dei vescovi sulla
Nuova Evangelizzazione: «la
gerarchia ecclesiastica, come anche quella politica e sociale, deve
trovare nuove forme per elaborare la propria comunicazione,
affinché il suo contributo a questo forum riceva un’attenzione
adeguata. Stiamo imparando a
superare il modello del pulpito
e dell’assemblea che ascolta per
il rispetto della nostra posizione.
Siamo obbligati a esprimere noi
stessi in modo da coinvolgere
e convincere gli altri che a loro
volta condividono le nostre idee
con i loro amici, ‘followers’ e
partners di dialogo».
La vita della Chiesa è chiamata
ad assumere una forma sempre
più comunicativa e partecipativa.
3. Dalla pastorale della trasmissione alla pastorale della
testimonianza.
La vera novità dell’ambiente
digitale è la sua natura di social network, cioè il fatto che
il giornalista – entusiasmi e delusioni di un testimone che ha narrato il concilio vaticano II e gli anni del postconcilio
Informatori religiosi
Enrico Morresi, tra i giornalisti Svizzeri più autorevoli, oggi in pensione, è
nato a Lugano nel 1936. Ha iniziato la carriera giornalistica al Corriere
del Ticino per cui seguì i lavori del Concilio Vaticano II. Diventato inviato
speciale della Televisione Svizzera Italiana, dal 1993 ha diretto i servizi
giornalistici della Rete culturale della Radio Svizzera. Ha pubblicato due
saggi sul giornalismo: «Etica della notizia» (Casagrande, 2003), e «L’onore della cronaca» (Casagrande, 2008). Dal 1999 presiede la Fondazione
del Consiglio svizzero della stampa, dopo essere stato attivo per 12 anni
nell’organismo di deontologia dei giornalisti svizzeri. Apprezzato liturgista
– ha contribuito anche alla divulgazione della Riforma liturgica in lingua
italiana – attento osservatore dell’evoluzione della Comunicazione della
Chiesa, a lui abbiamo chiesto un contributo a partire dalla sua esperienza
di «cronista» del Concilio Vaticano II.
È passato quasi sotto silenzio l’anniversario tondo (cinquant’anni) del Decreto sugli
strumenti della comunicazione
sociale («Inter mirifica») che il
Concilio ecumenico Vaticano
II approvò alla fine della sua
seconda sessione, il 4 dicembre
1963. La discussione, svoltasi
un anno prima, durante la sessione inaugurale «fu pressoché
pro forma» - nota John O’Malley, uno storico del Concilio,
nel suo «Che cosa è successo
nel Vaticano II (Vita & Pensiero,
Milano 210, p. 154) - «con interventi quasi tutti a favore, e durò
solo tre giorni; l’assemblea approvò lo schema con una maggioranza schiacciante». L’autore
fa seguire una descrizione delle
condizioni penose in cui intanto, paradossalmente, si svolgeva
il lavoro dei giornalisti al Concilio. Io ero tra i mille accreditati che l’11 ottobre 1962 era-
no stati ammessi in San Pietro
alla solenne messa d’apertura:
l’ho ancora vivissima nella memoria. Ma se la Chiesa voleva
con quel decreto dimostrare
considerazione per la stampa,
la radio, la televisione, esempio
peggiore non avrebbe potuto
darlo in quelle prime settimane
di lavori. Il bollettino che veniva
pubblicato alla fine delle sessioni generali «riusciva a non dare
informazioni (ricorda sempre p.
O’Malley) e, nello stesso tempo,
a risultare sfacciatamente favorevole ai ‘conservatori’: tutti si
lamentarono, dai giornalisti ai
vescovi (…). Il Sant’Uffizio minacciò addirittura di chiudere
l’Ufficio stampa per violazione
del segreto conciliare». La situazione migliorò sensibilmente a
partire dalla seconda sessione,
nel 1963, con ogni probabilità
per influsso di Paolo VI, figlio
di un giornalista. Nel frattempo i cronisti si erano arrangia-
ti, come sempre capita. Io, per
esempio, lasciai le conferenze
stampa in italiano per seguire
quelle in francese: meno avare
di informazioni, dove soprattutto potei fare la conoscenza
dei colleghi di «Le Monde» e di
«Le Figaro», i quali avevano in
tasca il numero di telefono dei
loro vescovi e nel pomeriggio
si facevano raccontare che cosa
era davvero successo nell’aula
conciliare.
L’Inter mirifica non ebbe praticamente nessuna eco. Il grande
sviluppo dell’informazione religiosa che si constatò dopo il
Concilio era dovuto al Concilio
stesso, in cui i vescovi dimostravano coraggio e apertura del tutto inaspettati. Il Concilio prima,
e poi la Chiesa nel suo insieme
e non solo il Vaticano, facevano
notizia. Una nuova generazione
di «informatori religiosi» sostituì progressivamente i cronisti,
usi a mettersi in ginocchio quan-
do scrivevano di papi e di vescovi.
«Informatori religiosi», ormai,
non più solo «vaticanisti»! Il secondo termine pareva attagliarsi
meglio, nel post-Concilio, a un
giornalismo interessato a tutte
le esperienze della Chiesa: nazionali, regionali e locali. Purtroppo, anche questa fase conobbe
un rapido declino, nella misura
in cui, per influsso degli ultimi
papi, le Chiese locali furono di
nuovo ridotte a province senza
ruolo e quasi senza voce.
Il brusco risveglio alla realtà si
ebbe, per me, durante il Sinodo
delle diocesi svizzere, svoltosi tra
il 1972 e il 1975 (ma è molto probabile che simile fu l’esperienza
durante altri sinodi, nazionali o
diocesani, del post-Concilio). La
discussione era stata ampia, di
qualità, perciò meritatamente
ripresa anche dalla stampa «laica». Purtroppo le risoluzioni votate, che avevano ottenuto l’assenso dei vescovi, dal Vaticano
permette di far emergere non
solo le relazioni tra me e te, ma
le mie relazioni e le tue relazioni. Cioè in rete emergono non
solo le persone e i contenuti, ma
emergono le relazioni. Comunicare dunque non significa più
trasmettere ma condividere. La
società digitale non è più pensabile e comprensibile solamente
attraverso i contenuti. Non ci
sono innanzitutto le cose, ma le
«persone». Ci sono soprattutto
le relazioni: lo scambio dei contenuti che avviene all’interno
delle relazioni tra persone. La
base relazionale della conoscenza in Rete è radicale.
Si capisce bene dunque quanto
sia importante la testimonianza. È questo un aspetto determinante. Oggi l’uomo della Rete si
fida delle opinioni in forma di
testimonianza. Pensiamo alle
librerie digitali o agli store musicali. Ma gli esempi si possono
moltiplicare: si tratta sempre e
comunque di quegli «user generated contents» che hanno fatto
la «fortuna» e il significato dei
social network.
La logica delle reti sociali ci fa
comprendere meglio di prima
che il contenuto condiviso è
sempre strettamente legato alla
persona che lo offre. Non c’è,
infatti, in queste reti nessuna informazione «neutra»: l’uomo è
sempre coinvolto direttamente
in ciò che comunica.
In questo senso il cristiano che
vive immerso nelle reti sociali
è chiamato a un’autenticità di
vita molto impegnativa: essa
tocca direttamente il valore della sua capacità di comunicazione. Infatti, ha scritto Benedetto
XVI nel suo Messaggio per la
Giornata delle Comunicazioni
del 2011, «quando le persone si
scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la
loro visione del mondo, le loro
speranze, i loro ideali».
Padre Antonio SPADARO sj
cui erano rivolte furono destinate, se non proprio al macero,
a qualche scaffale remoto di cui
forse non si trova più la chiave.
Lo stesso Giovanni Paolo II, in
visita alle diocesi svizzere nel
1984, diede tali strigliate ai vescovi da spegnere ogni residuo
loro tentativo di osare qualcosa. A poco a poco, perciò, visto
che di nuovo tutto si decideva
al centro («chiedete a Roma»,
rispondevano i vescovi ai giornalisti) si è tornati a parlare di
«vaticanisti» e la locuzione oggi
purtroppo prevale.
La lezione da trarre da questa
esperienza, per me, è una sola:
alle parole devono seguire i fatti. La diffidenza verso l’informazione indipendente rimane
tenace, anche se qualche episcopato tenta almeno di rispettare le regole del gioco (se fai un
sondaggio devi anche dare i
risultati: in Svizzera le risposte
al questionario su matrimonio
e famiglia sono state pubblicate). In molti media «cattolici» è
tornata una pubblicistica insipida o sterilmente devozionale,
mentre nei giornali cosiddetti
«laici» si diffondono l’incultura
religiosa e il culto del pressappoco, purché appetibile e con
apparenza di novità.
Enrico MORRESI