Jean-Pierre Sarrazac, Théâtres Intimes, Paris, Actes Sud, 1989, p.170.

JEAN-PIERRE SARRAZAC, Théâtres Intimes, Paris, Actes Sud, 1989, p.170.
Jean- Pierre Sarrazac è drammaturgo e professore emerito in Studi teatrali presso l’università Paris 3
Sorbonne Nouvelle, professeur invité presso l’università di Louvain-la-neuve e fondatore nel 1995, del
“Groupe de recherche sur la Poétique du drame moderne et contemporain”. Al centro della sua ricerca è lo
studio delle nuove forme del dramma, a cui egli applica concetti originali come quelli di rapsodie e di
drame-de-la-vie. Tra le molte pubblicazioni ricordiamo Poétique du drame moderne (2012), Théâtre du moi,
théâtre du monde (1995) e Lexique du drame moderne et contemporain (2005) testi che affrontano la
drammaturgia europea e americana a partire dal modello ibseniano.
La prima parte del saggio è dedicata alla nozione di “intimité de l’amour” in Ibsen, Strinberg, O’Neill.
L’analisi più ampia riguarda il dramma ibseniano, del quale Sarrazac illumina un aspetto nuovo. Tutti i
drammi intimi, o domestici, di Ibsen si presentano, a giudizio del critico, come l’epilogo di un romanzo non
scritto, la cui trama costituisce però il precedente del dramma. Fin dal loro ingresso sulla scena, i personaggi
di Hedda Gabler, di Romershholm o dell’Anatra Selvatica avrebbero già incubato, come una vera e propria
malattia, il “romanzo familiare” di cui consiste la loro esistenza comune, spesso anteriore anche alla loro
nascita. L’azione teatrale non sarebbe dunque che la rappresentazione del climax dell’intreccio, il suo
scioglimento, la sua catastrofe: “tout est là est il n’est que porté au jour”.
Il personaggio ibseniano è, dal suo primo ingresso in scena, oppresso da un senso di colpa, una colpa che
però non ha sempre commesso. Nel teatro ibseniano, a differenza di quanto accade nella tragedia antica, i
personaggi non sono colpevoli di delitti paragonabili al parricidio o al matricidio, ma la loro angoscia è
ugualmente insopportabile. Il tragico, qui, non è legato ad un evento o ad una fatalità esteriore, ma
determinato da uno stato e da una condizione psichica interiori, investono la soggettività del personaggio e la
sua coscienza, al contrario di quanto accade all’Edipo Sofocleo, ignaro del proprio errore.
Ibsen dota i suoi protagonisti di una psiche che oltrepassa la loro coscienza e non smette di turbarli. Pur
preservando l’impianto tradizionale del dramma borghese ottocentesco, egli trasforma la scena in uno
schermo sul quale proiettare le visioni fantasmatiche e le pulsioni incoscienti dei suoi personaggi. Con Ibsen,
afferma Sarrazac, per la prima volta a teatro il dramma domestico diventa dramma intimo. Una prima
conseguenza è data dalla mutazione delle relazioni fra i personaggi: l’intrasoggettività (relazione del
personaggio con la parte sconosciuta di se stesso) schiaccia l’intersoggettività (relazione dei vari personaggi
tra loro). La parola intima, quindi, prevale sulla parola condivisa. Su questo punto Sarrazac di distacca da
Szondi, il quale avrebbe, a suo avviso, sottostimato il ruolo di queste due modalità di relazione nella grande
drammaturgia nordica tra Otto e Novecento dedicando il suo capitale studio sul dramma moderno piuttosto al
modello brechtiano.
Una seconda conseguenza è visibile nella trasformazione subita proprio dal luogo simbolo prediletto dalla
scena borghese, quel salon che il teatro del Settecento aveva consacrato come il luogo ideale per la
rappresentazione della vita domestica e delle relazioni familiari. Nel modello illuminista quella dimensione
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era vissuta come protetta, sicura, al riparo da forze ostili che la minacciavano dall’esterno. In Ibsen, al
contrario, malesseri e maledizioni sono ora all’interno della casa, nel cuore del suo spazio più intimo. Il
luogo esterno non è meno cupo di quello interno: la natura, il cosmo non fanno che riflettere l’angoscia
interiore. Come direbbe Freud, l’io dei personaggi ibseniani non comanda nella sua stessa casa: la parte
oscura della psiche annichilisce in essi l’istinto della vita, fissandoli nel rimpianto di una vita persa, sprecata.
In Jean Gabriel Borkman Ibsen porta questi temi al loro punto massimo: non è in gioco tanto l’espiazione
del crimine finanziario quanto quella di una colpa più segreta, quella del crimine contro l’amore. La casa di
Borkman è una “maison hantée” e la vita dei suoi abitanti una vita fantasma.
Dopo aver analizzato il modello ibseniano Sarrazac si rivolge al drammaturgo che si considerava suo allievo,
Strindberg, sottolineandone però le differenze. Se il primo si volge al passato, risolvendo in una sorta di
apoteosi funebre -l’epilogo drammatico –il finale compromissorio della tragédie bourgeoise che Diderot
aveva teorizzato, il secondo si rivolge piuttosto al futuro, tentando di fare tabula rasa delle drammaturgie
precedenti e sperimentando strade nuove. In Strindberg lo spazio della dimora si restringe alla camera da
letto, alla relazione fra uomo e donna, simbolo di una condizione più generale, nella quale pulsioni e istinti
sono prigionieri di regole e abitudini quotidiane, triviali e repressive, che censurano la piena espressione del
desiderio. Sarrazac riprende e declina l’immagine dell’ ermafrodito già utilizzata da Roland Barthes.
Secondo la logica delle pulsioni, gli amanti strindberghiani non sono riconciliabili: il loro è un costante
movimento di avvicinamento e allontanamento. I due sessi sono al contempo uniti e separati: la possibilità di
una fusione che smentisca il trauma di un’alterità. Alterità falsa, in cui la donna – vista dalla prospettiva
maschile- non appare più come “un giovane ragazzo dotato di seni sul petto” e l’uomo, a sua volta, finisce
col confessare di essere “nato per essere donna”.
La scena si anima in virtù di questo sentimento di “inquietante estraneità”: ciascun coniuge non riconosce
più l’altro, non riconosce più se stesso che a metà nello specchio dell’esistenza dell’altro. In Fragments d’un
discours amoureux, Barthes descrive l’amore come un’aporia, a partire dalla quale la relazione amorosa
diventa una mise en scène, il dialogo della coppia uno spreco perverso del linguaggio e le parole
provocazione. Questa è la hybris della coppia strindberghiana, in cui ciascuno pretende di avere l’ultima
parola e prova a soggiogare l’altro sotto il peso delle proprie parole. La logorrea sostituisce il vuoto che mina
la relazione amorosa. La tragedia dell’impossibile unione caratterizza la drammaturgia soggettiva di August
Strindberg. Soggettiva, ma non autobiografica, aggiunge Sarrazac. Il drammaturgo dà voce agli scontri
furiosi dei suoi attori, ne condivide le convulsioni, entra in scena con loro, partecipe di questa fatalità che li
spinge l’uno contro l’altro in una stretta catastrofica. Solidamente ancorate come quelle di Ibsen nella vita
quotidiana, quelle di Strindberg rielaborano il quotidiano facendone emergere il disegno tragico.
Sintomaticamente, l’azione smette di essere continua, scandita in atti e scene, poiché, come il moto
dell’inconscio non obbedisce alle leggi della logica e del tempo lineare, così l’intreccio stravolge le regole e
gli usi della scrittura drammatica.
L’alternativa alla dimensione coniugale, nella quale si viene a creare una funesta relazione di empatia e di
identificazione con la sposa, è convivere tutta la vita con la malattia dell’amore preferendo la solitudine:
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“l’esperienza mi ha insegnato che più si è vicini all’altro più si è lontani, più si è lontani, più si è vicini”.
Nell’assenza si crea un’altra intimità, un’altra prossimità che Strindberg chiama “relazione amorosa
telepatica”. A partire da Verso Damasco la scena coniugale si inserisce in un sistema metaforico che lascia
grande spazio all’onirismo, declinato nella forma del “rêve dirigé” in cui “una coscienza domina tutti i
personaggi, quella del rêveur”. Quest’ultimo talvolta è lo stesso Strindberg, il quale condivide questo
privilegio con i protagonisti di ciascuna delle sue opere. I personaggi sono allo stesso tempo osservatori e
attori mediante il dispositivo drammaturgico del punto di vista interiore che conferisce l’ubiquità all’autore e
al suo personaggio autobiografico e che permette loro di essere simultaneamente dentro e fuori. Il
drammaturgo si dimostra incapace di decifrare i destini umani senza compromettere il proprio. In questo
risiede, per Sarrazac, l’innovazione drammaturgica strindberghiana: nel mettere a punto un dispositivoquello del “teatro intimo” – che permetta l’autoscopia e l’autoritratto.
Il terzo drammaturgo studiato da Sarrazac nell’ottica di una definizione di teatro intimo è Eugene O’Neill.
L’autore americano riprende il modello strindberghiano privilegiando soprattutto l’elemento della
confessione. Attraverso di essa l’autore può proiettare nei personaggi e negli avvenimenti delle sue opere il
suo essere intimo, la sua psiche, la propria vita tormentata. Rispetto a Strindberg, però, O’Neill sviluppa la
componente dell’autobiografismo. Nella sua drammaturgia, la focalizzazione, che in Strindberg si limitava ai
due componenti della coppia, si riduce ulteriormente fino a coincidere con un unico personaggio. Sarrazac
accusa la generale tendenza della critica su O’Neill di essersi limitata a considerare la corrispondenza fra gli
aspetti autobiografici riflessi nella sua drammaturgia. La questione essenziale, però, riguarda il processo
esistenziale ed estetico attraverso il quale tali aspetti assumono forma drammatica. Si rende così necessario
definire cosa sia una drammaturgia di questo tipo, che viene definita come drammaturgia “in prima persona”.
Sarrazac indica l’anomalia presentata dai drammi oneilliani:” les pièces d’ Eugene O’Neill ressemblent à des
romans”, nei quali ogni atto meriterebbe la definizione di capitolo. La struttura temporale non si limita a
prendere in analisi un solo momento della vita del personaggio (come in Ibsen) ma il corso intero di una vita.
Le indicazioni sceniche rinviano direttamente ai passaggi descrittivi tipici di un romanzo del XIX secolo. I
caratteri romanzeschi non riguardano soltanto le didascalie, ma influenzano anche il modo di presentarsi dei
personaggi, i quali spesso ricorrono a una sorta di monologo interiore. È evidente che tali componenti
romanzesche nutrono anche la relazione intersoggettiva dialogata. Nella drammaturgia di O’Neill le
componenti romanzesche sono utilizzate e strutturate in modo da consentire la formazione di quello che
Freud definisce “romanzo familiare delle nevrosi”. Se però nella definizione freudiana l’elaborazione del
romanzo familiare si confina nell’infanzia, nel dramma di 0’Neill il gioco fantasmatico produce il suo
particolare teatro autobiografico, nel quale il giovane 0’ Neill (riflesso in un personaggio) dialoga con
l’O’Neill adulto. Tale personaggio è l’unico a beneficiare di uno statuto intrasoggettivo privilegiato grazie al
quale osserva gli altri personaggi diventare loquaci e trasparenti. L’obiettivo del drammaturgo è di estrarre
l’intimo dall’interiorità delle sue creature e di portarlo in superficie attraverso il dialogo.
L’epilogo oneilliano è però inverso rispetto a quello dei drammi di Ibsen e di Strindberg. Solo
eccezionalmente porta alla solitudine, al silenzio, al sacrificio o alla morte. Non si chiude sulla catastrofe ma
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sul trionfo della famiglia, della coppia e in definitiva della società. Dietro il fallimento della tragedia
moderna si delinea, dunque, la riuscita di un romanzo drammatico familiare.
Nell’ultima parte del saggio, allusivamente intitolata La cérémonie des adieux, Sarrazac si volge all’analisi,
sempre nella prospettiva del teatro intimo, all’osservazione di un gruppo di autori europei, fra i maggiori
della generazione successiva a quella analizzata precedentemente, nei quali è possibile leggere l’eredità della
tematica dell’intimità e, soprattutto, le conseguenze prodotte dalla radicalizzazione del processo di
svuotamento delle forme e di interiorizzazione della scena iniziato con Ibsen. Sarrazac parte dall’analisi
dell’opera del bavarese Herbert Achternbusch, nel quale identifica la creazione di un nuovo modello di
personaggio, quello che nei suoi studi successivi chiamerà rapsode, e cioè un personnage souvenant che
racconta la propria vita come se ne fosse l’ultimo testimone. Lo spazio scenico è come deterritorializzato:
stanze vuote (che non sono né interni né esterni ma luoghi vuoti dell’anima), pollai, tombe, un palco spoglio.
In questi spazi l’io epico si erge come esecutore finale della “parola testamento” dell’io drammatico.
Analogamente, “Tout ce qu’on dit est toujours sur la mort” dichiara Thomas Bernard, per il quale, nel teatro
intimo, la morte non sarà semplicemente detta, ma dovrà essere presente e “ al lavoro”, prendere la parola in
scena
attraverso i personaggi. Nella catastrofe teatrale, la morte pur essendo intima – poiché parla
dall’interno del personaggio- non è però individuale. È, al contrario, una morte comune, universale. Dal
momento che tutto nel dramma tende all’immobilità, aggiunge Sarrazac, l’abolizione dell’azione produce
l’azione della morte. Beckett diventa il catalizzatore del discorso di Sarrazac: nel suo teatro la morte e la vita
sono reversibili : “ Inizio il mio ultimo soliloquio”annuncia Hamm in Finale di partita ma potrebbero dire lo
stesso tutti i personaggi di Bernard. L’intimità è in entrambi un “circuito che si chiude in loro stessi”: toute la
vie intimité/avec moi même/ jusqu’à la mégalomanie”. La creatura bernardiana scava nella sua intimità sino
a proclamarsi “artiste en soliloque”. La sua “fin de partie” è però più socializzata, a giudizio di Sarrazac,
poiché il teatro storico di Thomas Bernard (la sua seconda produzione) trova nel teatro intimo una vera e
propria mise en abyme: rendendo intimi i drammi del nazismo e della guerra egli riesce a universalizzarli.
Attraverso questa cerimonia interiore il personaggio bernardiano porta avanti insieme il lutto del mondo e
quello della propria anima: così si chiude, in un movimento circolare, cerimoniale, l’azione della morte in
scena.
Una drammaturgia della morte è anche quella di Marguerite Duras, nella quale i dialoghi amorosi compaiono
in extremis nel momento in cui i personaggi stanno per sparire per sempre. La morte così esercita una sorta
di ipnosi, di fascinazione
che cancella ogni inibizione della vita ordinaria e libera la “parola
testamentaria”.L’intimo dell’incontro testamentario si compie nella separazione: “avvicinamento che annulla
subito un allontanamento”; un movimento contraddittorio non troppo diverso da quello strindberghiano. Il
luogo è sempre ambivalente (reale-irreale, vita-morte), i personaggi sempre altrove, a fare bilanci del
proprio passato in una sorta di ricerca del tempo perduto che, all’opposto di quella proustiana, non è l’esito
di una lunga reminiscenza solitaria ma un gioco teatrale polifonico a cui sono invitate tutte le voci, comprese
quelle del lettore e dello spettatore.
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In una forma definitiva Beckett, nel 1975, in That time, annulla radicalmente la presenza dell’altro. Il
personaggio è completamente solo e l’unica parola che gli resta è quella che può passivamente ascoltare.
Non si racconta più, si lascia raccontare.
Ultima o postuma, ricordo o reviviscenza: la drammaturgia
di Beckett e di Bernard , di Duras e di
Achternbush scava, in questo luogo ambivalente di morte e rinascita che è la scena teatrale, la sepoltura dell’
“io contemporaneo” di cui Ibsen e Strindberg un secolo prima avevano diagnosticatole malattie mortali.
Panza Nicoletta
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