Carlos Fuentes - Il Saggiatore

Carlos Fuentes
Vlad
Traduzione di Ximena Rodriguez Bradford
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© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
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Per la traduzione di Ximena Rodriguez © 2011 Gruppo Editoriale
L’Espresso S.p.A., Roma
Titolo originale: Vlad
VLAD
L’OPERA – Nell’anno del 1448 Vlad Tepes sale al trono della
Valacchia. Il suo regno resiste immutato allo scorrere
del tempo. Nel corso dei secoli dà alle fiamme castelli e
villaggi, prende in ostaggio popoli interi e fa impalare
donne e bambini. Interra uomini, li fa decapitare, li
arrostisce come maiali o li sgozza come agnelli. Quando
una delle sue amanti si dichiara gravida per trattenerlo a
sé, Vlad le squarcia il ventre.
Il suo regno è eterno. Il suo regno è oggi.
Nella babelica Città del Messico la vita di Yves Navarro scorre placida: è un uomo felice, con un buon lavoro
e una splendida famiglia. Un giorno, di colpo, il destino
lo trascina su lidi mai immaginati: di fronte all’uomo che
regna non solo sul tempo, ma sull’eternità tutta.
Opera poliedrica, Vlad gioca con i tòpoi del romanzo
gotico e intesse una fitta rete di richiami ai classici del genere, da Bram Stoker a Sheridan Le Fanu, e a film come
Nosferatu di Murnau e Dracula di Tod Browning.
Affresco di Città del Messico e delle sue contraddizioni, scavo nella vita sentimentale di una coppia borghese, meditazione sulla perdita, il romanzo stupisce
per le invenzioni stilistiche di Fuentes, capace di eccessi granguignoleschi come di slanci lirici, e arricchisce il
mito del vampiro con un Dracula personalissimo, simbolo della paura della morte e dell’aspirazione dell’uomo all’eternità.
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L’AUTORE – Carlos Fuentes è uno dei grandi maestri della letteratura messicana e uno dei più importanti autori
contemporanei. Ha ricevuto tutti i riconoscimenti più significativi per un autore di lingua spagnola, fra cui il Premio Miguel de Cervantes, il Premio Príncipe de Asturias
de las Letras, il Premio Internacional don Quijote de La
Mancha e la Gran Cruz de la Orden de Isabel la Católica,
oltre al Grinzane Cavour e il Premio letterario Giuseppe
Acerbi in Italia.
Romanziere, critico letterario, sceneggiato re cinematografico, giornalista, membro del Colegio Nacional, è stato
ambasciatore del Messico in Francia; per il Saggiatore sono usciti i romanzi La morte di Artemio Cruz, Aura, L’ombelico della luna, Gli anni con Laura Díaz, L’istinto di Inez, Le
relazioni lontane, Il trono dell’aquila; le raccolte di racconti
Storie per vergini, L’albero delle arance e Tutte le famiglie felici; i saggi Tutti i soli del Messico, Geografia del romanzo e Contro Bush, oltre all’autobiografia letteraria In questo io credo.
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A Cecilia, Rodrigo e Gonzalo,
piccoli mostrologi di Sarriá.
Dormi mia bambina
che arriva il coyote
con un gran bastone
e le fauci vuote…
Canzone infantile messicana
Uno
«Non la disturberei, Navarro, se Dávila e Uriarte fossero
a portata di mano. Non li definirei suoi inferiori – o meglio, suoi subalterni – ma affermerei senz’altro che lei è
il primus inter pares o, per dirla in termini anglofoni, senior partner, socio anziano o principale di questo studio,
e se le affido questo incarico è, soprattutto, per l’importanza che attribuisco alla questione…»
Settimane dopo, quando l’orribile avventura finì, ricordai che sul momento avevo letto come una pura fatalità che Dávila fosse in Europa in luna di miele e Uriarte
alle prese con una grana giudiziaria qualunque. Quanto a me, era certo che non sarei andato in viaggio di nozze, né avrei accettato i lavori degni di un praticante che
il nostro capo assegnava all’operoso Uriarte.
Rispettai – e fui grato per quell’implicita attestazione di fiducia – la decisione del mio anziano titolare. Era
sempre stato un uomo dalle decisioni inappellabili. Non
era abituato a chiedere consigli. Lui ordinava, sebbene
avesse la delicatezza di ascoltare educatamente le ragioni dei suoi collaboratori. Eppure, malgrado tutto ciò, non
potevo certo ignorare che la sua fortuna – così recente in
termini relativi, ma lunga come i suoi ottantanove anni e
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così legata alla storia di un secolo ormai sepolto – si doveva all’ossequiosità politica (o alla flessibilità morale)
con cui aveva servito – ascendendo di grado – i governi della sua lunga stagione messicana. Era, in altre parole, uno «influente».
Ammetto di non averlo mai visto in atteggiamenti servili di fronte a nessuno, sebbene riuscissi a indovinare le inevitabili concessioni che il suo sguardo altero
e le sue spalle ormai curve dovevano aver fatto a funzionari la cui esistenza non si spingeva oltre i consueti sessenni presidenziali. Lui sapeva perfettamente che
il potere politico è perituro; loro no. Si pavoneggiavano
ogni sei anni, quando venivano nominati ministri, prima di essere dimenticati per il resto delle loro vite. La cosa ammirevole del signor avvocato don Eloy Zurinaga è
che per sessant’anni riuscì a destreggiarsi da un periodo
presidenziale all’altro restando sempre in piedi. La sua
strategia era molto semplice. Non fu mai costretto a rompere con qualcuno del passato perché a nessuno lasciò
mai intravedere un avvenire insignificante dietro quella
passeggera grandezza politica. Il sorriso ironico di Eloy
Zurinaga non fu mai adeguatamente inteso al di là di una
superficiale cortesia e di un plauso in realtà inesistente.
Da parte mia, capii presto che se non era tenuto a dar
prova di nuove fedeltà era perché non aveva mai manifestato affetti duraturi. Le sue relazioni ufficiali, in altre
parole, erano quelle di un professionista probo e capace.
Se la probità fosse solo apparente e la capacità sostanziale – ed entrambe una facciata per sopravvivere nel pantano della corruzione politica e giudiziaria – è materia di
congettura. Credo che l’avvocato Zurinaga non si scontrò mai con un funzionario pubblico perché non ne ebbe
mai a cuore nessuno. Ma lui questo non aveva bisogno
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di dirlo. La sua vita, la sua carriera, perfino il suo contegno non facevano che confermarlo…
L’avvocato Zurinaga, il mio capo, aveva smesso di
uscire di casa da un anno. Nessuno in studio si azzardò
a pensare che l’assenza fisica del personaggio potesse autorizzare mollezze, baldorie o ritardi. Tutt’altro. Assente,
Zurinaga sembrava più presente che mai.
Era come se avesse minacciato: «Attenti. Potrei piombare qui da un momento all’altro e cogliervi in fallo. State in guardia».
Più di una volta annunciò per telefono che sarebbe
tornato in ufficio, e anche se non lo fece mai, un sacrosanto terrore mise l’intero personale in riga e in stato di allerta permanente. Una mattina capitò perfino che entrasse
e mezz’ora dopo uscisse dall’ufficio una figura identica al capo. Venimmo a sapere che non era lui perché in
quella mezz’ora il capo telefonò un paio di volte per darci istruzioni. Parlò in modo risoluto, quasi dittatoriale,
senza ammettere risposte o commenti, poi riattaccò velocemente. La voce si sparse, ma vista di spalle la figura
che uscì era identica a quella dell’assente avvocato: alto,
curvo, con un vecchio cappotto dai baveri alzati fino alle
orecchie e un cappello di feltro marrone dall’ampio nastro nero decisamente passato di moda, dal quale erompevano, come ali d’uccello, due bianchi ciuffi svolazzanti.
L’andatura, la tosse, i vestiti erano i suoi, ma quel visitatore che con tanta naturalezza, senza che nessuno si
opponesse, entrò nel sancta sanctorum dello studio non
era Eloy Zurinaga. Lo scherzo – se di scherzo si trattava – non fu preso sul ridere. Tutt’altro. L’apparizione di
quel doppio, sosia o spettro che fosse, ispirò solo terrore e inquietudine…
Per le ragioni che ho detto, i miei incontri di lavo17
ro con l’avvocato Eloy Zurinaga avvengono nella sua
residenza. È una delle ultime magioni porfiriane, vaga
memoria dei trent’anni di dittatura del generale Porfirio Díaz tra il 1884 e il 1910 – la nostra fantasiosa belle
époque –, che siano rimaste in piedi nella Colonia Roma di Città del Messico. A nessuno è ancora venuto in
mente di raderla al suolo, come hanno fatto con l’intero
quartiere, per costruirvi uffici, negozi o condomini. Basta
entrare in quella vecchia dimora a due piani coronata da
una fila di mansarde francesi e da uno scantinato di natura indecifrabile per capire che l’attaccamento dell’avvocato alla sua casa non è una questione di volontà, ma
di gravità. Zurinaga vi ha accumulato una tale quantità
di carte, libri, pratiche, mobili, ninnoli, porcellane, quadri, tappeti, arazzi e paraventi, ma soprattutto di ricordi,
che cambiare luogo vorrebbe dire, per lui, cambiare vita
e rassegnarsi a una morte a stento rinviata.
Abbattere la casa sarebbe come abbattere la sua intera esistenza…
Le sue oscure origini (o la sua algida ragione poco disposta a concessioni sentimentali) avevano escluso dalla
casona di pietra grigia, separata dalla strada da un brevissimo, sgraziato giardino culminante in una scalinata
altrettanto breve, qualsiasi riferimento familiare. Invano
si sarebbero cercate fotografie di donne, genitori, figli o
amici. In compenso, la casa traboccava di oggetti d’arredamento fuori moda che le conferivano un’aria da negozio di antiquario. Vasi di Sèvres, statuine di Meissen, nudi
in bronzo e busti di marmo, sedie rachitiche dalle spalliere dorate, tavolini in stile Biedermeier, un’intrusione qua
e là di lampade art nouveau, pesanti poltrone di cuoio lucidato… Una casa, in altre parole, senza un solo accenno
di gusto femminile.
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Sulle pareti foderate di velluto rosso si trovavano invece tesori artistici che, visti da vicino, lasciavano apprezzare una comune impronta macabra. Angosciose
incisioni del messicano Julio Ruelas: teste trapanate da
insetti mostruosi. Quadri fantasmagorici dello svizzero
Henry Füssli, specialista in distorsioni, descrizioni di incubi e nell’inquietante connubio fra il sesso e l’orrore, la
donna e la paura…
«Pensi» mi sorrise l’avvocato Zurinaga. «Füssli era
un chierico che si inimicò un giudice che a sua volta finì per espellerlo dal sacerdozio e consacrarlo all’arte…»
Zurinaga incrociò le dita sotto il mento.
«A me a volte sarebbe piaciuto essere un giudice che
si espelle dalla giudicatura e viene condannato all’arte…»
Sospirò. «Troppo tardi. La vita per me è diventata un
lungo corteo di cadaveri… L’unica cosa che mi consola è
contare quelli che ancora non se ne vanno, quelli che invecchiano insieme a me…»
Sprofondato nella poltrona di cuoio logorata dagli
anni e dall’uso, Zurinaga accarezzò i braccioli del mobile come altri carezzerebbero le braccia di una donna. In
quelle dita bianche e affusolate vi era un piacere più duraturo, quasi l’avvocato dicesse: «La carne è peritura, il
mobile perdura. Scelga lei fra una pelle e l’altra…».
Il mio titolare sedeva accanto a un camino acceso
giorno e notte, anche quando faceva caldo, come se il
freddo derivasse da uno stato d’animo o fosse qualcosa
che si annidava nell’anima di Zurinaga come la sua temperatura spirituale.
Il volto bianco lasciava scorgere una rete di vene
blu, che gli conferiva un aspetto diafano ma salutare
nonostante la minuziosa ragnatela di rughe che si diramavano dal cranio deserto al mento ben rasato, for19
mando piccoli mulinelli di carne vecchia attorno alle
labbra e spessi sipari attorno a uno sguardo malgrado tutto vigile e profondo – o forse proprio per via di
quella pelle sconfitta che gli affondava nel cranio gli occhi nerissimi.
«Le piace la mia casa, avvocato?»
«Naturalmente, don Eloy.»
«A dreary mansion, large beyond all need…» disse con
insolita trasognatezza l’anziano avvocato. Rara avis,
pensai, un avvocato messicano che citava poesia inglese… Il vecchio tornò a sorridere.
«Vede, mio caro Yves Navarro, il vantaggio di vivere molto è che si impara più di quanto la situazione non
conceda.»
«La situazione?» chiesi in buona fede, senza capire
cosa volesse dirmi Zurinaga.
«Certo» unì le lunghe dita pallide. «Lei discende da
una grande famiglia, io ascendo da un’ignota tribù. Lei
ha dimenticato ciò che sapevano i suoi antenati. Io ho deciso di imparare ciò che ignoravano i miei.»
Allungò la mano e accarezzò il cuoio logoro e per
questo bello della comoda poltrona. Io risi.
«Non creda. Essere dei ricchi possidenti nel XIX secolo non significava per forza avere una mente coltivata.
Tutt’altro! Una hacienda di pulque a Querétaro non garantiva la raffinatezza intellettuale dei suoi padroni, ne
stia pur certo.»
Le luci dei ceppi ardenti giocavano sui nostri volti come plumbei riverberi.
«Ai miei antenati non interessava sapere» conclusi.
«Loro volevano soltanto avere.»
«Si è mai chiesto, avvocato Navarro, perché in Messico le “classi alte” durino così poco?»
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«È un segno di salute, don Eloy. Significa che c’è mobilità sociale. Ricambi, ascese, permeabilità. Noi che
abbiamo perso tutto con la Rivoluzione – e avevamo parecchio – non ci siamo solo adattati. Abbiamo plaudito
all’evento.»
Eloy Zurinaga poggiò il mento sulle mani intrecciate
e mi osservò con sagacia.
«Il fatto è che in America siamo tutti coloni. Gli unici
aristocratici sono gli indios. Gli europei, i conquistatori,
i colonizzatori, erano gente becera, plebaglia, ex galeotti… Le linee di sangue del Vecchio Mondo invece continuano a perpetuarsi, non solo perché datano da secoli,
ma perché non dipendono, come da noi, da migrazioni.
Pensi alla Germania. Non c’è un Hohenstaufen che abbia
dovuto attraversare l’Atlantico per fare fortuna. Pensi ai
Balcani, all’Europa centrale… Gli Arpad ungheresi risalgono all’886, per tutti i santi! Il gran župan Vlastimir unì
le tribù serbe nel IX secolo, e la dinastia dei Nemanja dal
1196 regnò dallo stato di Zeta alla regione della Macedonia. Nessuno di loro ebbe bisogno di fare l’America…»
Le conversazioni con don Eloy Zurinaga erano sempre interessanti. L’esperienza mi diceva pure che l’avvocato non parlava mai senza un altro intento, preciso,
filtrato da ogni genere di riferimenti. L’ho già detto: non
è brutale con nessuno, né con gli inferiori né con i superiori, sebbene, essendo lui stesso così superiore, Zurinaga non ammetta nessuno al di sopra di lui. E a quelli
al di sotto, ho già detto anche questo, presta cortese attenzione.
Non mi sorprese, dunque, che dopo questo amabile
preambolo il mio capo andasse al sodo.
«Navarro, ho una richiesta speciale da farle.»
Assentii con un cenno del capo.
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«Parlavamo dell’Europa centrale, dei Balcani.»
Ripetei il cenno.
«Un mio vecchio amico, sfollato da guerre e rivoluzioni, ha perso le sue proprietà sul confine ungaro-romeno. Terre vastissime, dotate di fortezze in rovina. In
realtà» disse Zurinaga con una certa tristezza «la guerra non ha fatto che annientare ciò che era già morto…»
Adesso lo guardai con aria inquisitoria.
«Sì, anche lei sa che non è la stessa cosa essere padroni della propria morte o essere vittime di una forza aliena… diciamo che il mio caro amico era padrone della sua
decadenza nobiliare e che adesso, tra fascisti e comunisti, lo hanno spogliato delle sue terre, dei suoi castelli,
dei suoi…»
Per la prima volta nella nostra relazione sentii che
don Eloy Zurinaga titubava. Scorsi perfino un nervo d’emozione sulla sua tempia.
«Mi perdoni, Navarro. Sono i ricordi di un vecchio.
Il mio amico e io abbiamo la stessa età. Pensi, abbiamo
studiato insieme alla Sorbona, quando il diritto e le buone maniere si imparavano in francese. Prima che la lingua inglese corrompesse ogni cosa» concluse con tono
amaro.
Fissò il fuoco nel camino come per temprare il suo
sguardo, poi proseguì con la voce di sempre, una voce
di fiume e sassi strascicati.
«Si dà il caso che il mio vecchio amico abbia deciso
di trasferirsi in Messico. Vede come crollano in fretta le
generalizzazioni? La casa padronale del mio amico risale al Medioevo, eppure eccolo qui, in cerca di un tetto a
Città del Messico.»
«In cosa posso esserle utile, don Eloy?» mi affrettai
a dire.
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Il vecchio scrutò le sue mani tremule accostate al fuoco. Scoppiò in una risata.
«Guardi cos’è la vita. Normalmente di tali faccende
si occupa Dávila, che in questo momento, come sappiamo, è impegnato in doveri ben più piacevoli. Quanto a
Uriarte, francamente, ne s’y connaît pas trop… Ebbene, sta
di fatto che devo chiedere a lei di rimediare un tetto al
mio errabondo amico…»
«Volentieri, ma io…»
«Niente ma. Quello che le chiedo va al di là di un
semplice favore. Considero anche che lei è di madre
francese, parla la lingua e conosce la cultura dell’Esagono. Sembra fatto apposta per capirsi col mio amico.»
Fece una pausa e mi guardò cordialmente.
«Si rende conto, abbiamo studiato insieme alla Sorbona. Insomma, abbiamo la stessa età. Lui viene da una
vecchia famiglia mitteleuropea. Grandi proprietari terrieri nei Balcani, fra il Danubio e Bistriţa, prima che le
guerre devastassero ogni cosa…»
Per la prima volta, con uno sguardo alquanto trasognato, Zurinaga si ripeteva. Mi aveva appena detto la
stessa cosa. Decisi di sorvolare.
Un segno inequivocabile di vecchiaia. Comprensibile. Perdonabile.
«Ho sempre seguito le sue istruzioni, signor avvocato» mi affrettai a dire.
Mi accarezzò la mano. La sua, nonostante il fuoco,
era gelida.
«No, non è un ordine» sorrise. «È una felice coincidenza. Come sta Asunción?»
Ancora una volta, Zurinaga mi sconcertava. Come
stava mia moglie?
«Bene, avvocato.»
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«Che felice coincidenza» ripeté il vecchio. «Lei è un
avvocato del mio studio. Sua moglie ha un’agenzia immobiliare. Come si diceva un tempo, una vera manna.
Con voi due la questione abitativa del mio amico è risolta.»