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Il lungo conflitto tra la scienza e l’appartenenza
Le guerre
dei crani
di MARTA PETRUSEWICZ*
NEL 1996, uno scheletro umano,
vecchio di oltre 9000 anni, emerse
dai fondi del Columbia River, nell’Ovest degli Stati Uniti. Soprannominato “Kennewick Man”, lo scheletro divenne subito una cause célèbre. Ben cinque tribù indiane del
Nord-Ovest rivendicarono le spoglie per dar loro una degna sepoltura. Dall’altra parte, otto noti antropologi hanno fatto causa al governo federale per bloccare la consegna delle ossa ai nativi e per consegnarle, invece, agli scienziati, in
quanto fonte imprescindibile per
gli studi sulla storia degli antichi
insediamenti umani in America.
La battaglia politica e legale che ne
scaturì fu denominata Skull Wars
da David Hurst Thomas, curatore
della sezione antropologica all’American Museum of Natural History a New York, il più importante museo del genere nel mondo.
La posta in gioco nelle “Guerre
del Cranio”è più alta e più intricata
che la sola questione delle fonti per
la storia degli insediamenti. Si
tratta di un conflitto tanto simbolico che politico
e legale tra la
comunità accademica e le
comunità dei
Nativi americani (che noi
ancora, cinque secoli dopo Colombo,
continuiamo
a chiamare
“indiani”).
I nativi sostengono che gli archeologi e gli antropologi li hanno
derubati della loro storia e della loro dignità. E’ innegabile che le
scienze archeologiche e antropologiche americane si sono sviluppate, nel XIX secolo, di pari passo con
la crescente oppressione dei nativi,
contribuendovi in vari modi. Per
esempio, gli studi sulla correlazione tra la grandezza del cranio e la
razza e l’intelligenza, promossi dal
medico e antropologo Samuel
George Morton, hanno scatenato
le razzie delle tombe indiane e contribuito alla costruzione della tesi
del “destino manifesto” che giustificava l’espansionismo statunitense. L’antropologo ed etnologo Lewis Henry Morgan, ammirato da
Friedrich Engels, costruì una scala dell’evoluzione sociale che piazzò i nativi americani in un qualche
punto tra i selvaggi intraprendenti e i barbari. Fu il grande contributo del geografo tedesco, Franz
Boas, quello di promuovere un’antropologia basata su biologia, cultura e linguaggio, spiazzando così
lo schema razzista di Morgan. Significativamente, Boas, direttore
del museo sopra lodato, è considerato fondatore dell’antropologia
americana.
Tuttavia, la prospettive delle culture distinte non placò il conflitto.
Lo studio delle ossa umane divenne parte del contenzioso su chi era-
La storia
degli studi
sui resti
dei nativi
americani
no i primi abitanti dell’America, e
quindi su chi deteneva diritti su
quali territori e a chi spettava l’autorità di decidere chi e con quali
metodi poteva studiare alcuni
aspetti del loro passato. Le implicazioni del controllo sulle tombe e sui
crani continuavano a moltiplicarsi.
Il punto di svolta in questa lotta
per il potere venne nel 1990, quando il Congresso americano approvò la legge di protezione delle tombe nativo-americane. Il Native
American Graves Protection and
Repatriation Act (NAGPRA) ha voluto rimediare alle ingiustizie del
passato imponendo ai musei di inventariare le collezioni ossee umane e di assistere quei diretti discendenti che desiderassero reclamarle. L’impatto della legge sembrò
confermare le previsioni più nere
degli scienziati: la rivendicazione
dell’appartenenza potrebbe per
sempre impedire lo studio dei resti
umani. Nel 1999, sette decenni dal
loro ritrovamento, quasi 2.000
scheletri e artefatti sacri sono stati
restituiti al Pecos Pueblo in New
Mexico, per esservi tumulati. Teschi e scheletri antichi sono stati
anche restituiti alle tribù in Idaho e
Minnesota.
Per le spoglie di Kennewick Man
la Corte aveva trovato una soluzione salomonica: restano depositate
al Burke Museum dell’Università
di Washington, lo stato occidentale nel quale furono ritrovate, ed
escluse da qualunque esibizione.
Legalmente, restano proprietà del
Corpo di genio civile della U.S. Army, in quanto custode legale del
terreno dello scavo.
Le Guerre dei Crani misero utilmente in luce i limiti delle due posizioni contrapposte, “gli scienziati
contro i nativi”. Gli studi di storia
delle discipline accademiche, fioriti nei decenni recenti anche sotto
l’impatto di studi postcoloniali,
hanno mostrato senza l’ombra di
dubbio quanto fosse diffusa l’impostazione razziale delle nascenti
discipline “professionalizzate” di
antropologia fisica e sociale, psichiatria, statistica, sessuologia e
archeologia, e quanto avesse influenzato le posizioni di magistrati, medici, politici e l'opinione pubblica in generale.
Gli offensivi musei di antropologia, che esibivano antichi resti
umani dei “nativi”oi“primitivi”alla pari con altre curiosità esotiche,
si trasformarono man mano in
musei “di storia dell’antropologia”, che trattano la scienza come
un costrutto culturale e, come tale,
la collocano nel suo contesto storico. Dall’altra parte, anche la posizione dei nativi è in parte mutata.
Le voci più “stridule” diventano
più rare - come quella dello studioso nativo-americano Vine Deloria
Jr. che, basandosi sulla storia orale, conclude perentoriamente che,
in America, i nativi americani ci sono da sempre. Molte tribù manifestano l’interesse per la storia genetica della propria gente, resa possi-
Il museo Lombroso di Torino. In alto il cranio di Giuseppe Villella. A destra gli studi di Lombroso su alcune persone
bile dagli esami del Dna, - storia di
viaggi, spostamenti, incontri, conquiste, fughe - ricavabile dagli
scheletri, purché la ricerca si svolga con rispetto e in modi concordati con le autorità tribali. E così, ossa
e artefatti antichi ritrovati in una
caverna in Alaska sono studiati
dall’archeologo Terry Fifield con
l’accordo degli anziani dei Tlingit e
Haida e in collaborazione con i
membri di queste tribù
locali. O l’antropologo
fisico Phillip Walker, il
quale, in collaborazione con il popolo dei
Chumash, progettò un
ossuario sotterraneo
all’Università della California di Santa Barbara, dove la ricerca
sui resti umani tribali
si svolge in un contesto
rispettoso. Tali cooperazioni permettono di integrare
gli strumenti degli archeologi, antropologi e genetisti con il sapere
tribale e la storia orale, e di far dialogare le divergenti prospettive
culturali per arricchire la nostra
conoscenza del passato.
Ho raccontato questa storia,
perché le “Guerre dei crani” non
sono un’eccezione americana. Anche noi, oggi e qui, siamo testimoni
di una. Il cranio in questione appartiene a un certo Giuseppe Vil-
lella, pregiudicato e “brigante” di
Motta Santa Lucia nel Catanzarese, morto nel 1864 all’ospedale di
Pavia. Il suo cranio – estratto dopo
la morte e conservato dagli scienziati craniologi di Pavia - fu studiato, all’inizio degli anni Settanta, da
Cesare Lombroso, all’epoca giovane accademico in carriera. Il cranio di Villella fu poi conservato, come pièce de résistance insieme a
numerosi altri crani
e organi, compresi
quelli di Lombroso
stesso, nel Museo di
Antropologia Criminale di Torino.
La fortuna di Cesare Lombroso in Italia
e all’estero fu alterna.
Stimato dai suoi contemporanei, fu una
grandissima
influenza tanto sui socialisti che sui fascisti, medici e
magistrati, poliziotti e assistenti
sociali. Il suo fondamentale Uomo
criminale, pubblicato nel 1876, si
riferisce a Darwin per postulare
che la maggior parte di criminali
sono rimasugli di un livello più
primitivo dell’evoluzione umana.
Questi uomini (e donne in un volume successivo) sono identificabili
da loro tratti fisici: teste piccole,
nasi schiacciati, orecchie grandi e
simili. Uomini nati criminali non
Le teorie
di Lombroso
sul “brigante”
calabrese
Villella
possono sfuggire al loro biologico
destino.
La tesi sulle radici biologiche del
crimine portò Lombroso alla fama,
scatenò accesi dibattiti ed ebbe importanti implicazioni sugli studi
futuri. Ebbe anche la grave responsabilità per aver alimentato,
in Italia, la teoria razziale dell'inferiorità del Mezzogiorno, che sfociò
poi nella teoria della "razza maledetta".
L’“errore di Lombroso”, denunciato per tempo da molti meridionalisti come Colajanni, Salvemini
e Fortunato, è stato rigettato dalla
scienza, in Italia e nel mondo. Lo
stesso Lombroso fu per decenni
quasi completamente dimenticato. Il Museo di Antropologia Criminale, di cui si è parlato, ha riaperto
solo cinque anni fa, con il nuovo
nome che prende in considerazione la contestualizzazione delle discipline di cui si è parlato prima:
Museo Storico di Antropologia
Criminale “Cesare Lombroso”.
Lombroso rimane il padre della criminologia moderna e colui che per
primo la trasformò in una disciplina autonoma.
Dall’altra parte, il pregiudizio
antimeridionale in Italia non solo
non è scomparso ma, anzi, finì per
diventare un sentire comune e diffuso, che alimenta peraltro istanze
separatiste, e che si intensifica al
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Oggi presentazione del controverso libro della Milicia su Villella
Appeso da 142 anni
all’albero della scienza
di ROMANO PITARO
tempo della crisi. Il Sud, se mi si
permette questa personificazione,
ha reagito, da una parte, con una
profonda afflizione; dall’altra, con
uno scatto d’orgoglio. Sono una
storia nota le variazioni del meridionalismo presenti fin dall’Ottocento: autonomiste, anticolonialiste, sociali, industriali, agrarie. La
sua ultima ondata, che va spesso
sotto il nome-ombrello di “neo-borbonismo”, comprende un arco vasto di posizioni intellettuali e politiche, a cominciare dalle tesi terzomondiste di Zitara, Carlo e Capecelatro, al discorso identitario e comunitario di Alcaro e Cassano,
quello del tempo locale di Piperno,
quello post-coloniale dell’UniNomade, il revisionismo storico di
Placanica e Bevilacqua e di tutta la
“scuola” dell’Imes e della rivista
“Meridiana”, e tante altre ancora.
La necessità di rendere giustizia
alla storia del Mezzogiorno accomuna tutti i meridionalisti, sebbene non ci sia per niente l’accordo in
che cosa debba consistere la revisione della storia, unitaria e preunitaria. Le componenti più “stridule”, per richiamare il termine
usato all’inizio di queste considerazioni, di questa ondata sono due:
una ribelle brigantesca; l’altra
marcatamente filo-borbonica. Nella prima, prevalgono riferimenti
leggendari ed emotivi: la cinema-
tografia sui briganti-eroi della resistenza; le storie cantate di Eugenio Bennato; il viaggio del rapper
calabrese Kento nelle proprie Radici, fatte di “vita, appartenenza,
sangue, amore e cicatrici”. La seconda, che conta centinaia di siti
web, si occupa principalmente di
storia: i primati meridionali preunitari; le statistiche vincenti; il
buon governo da Carlo III a Ferdinando; l’intervento straniero nella
conquista del Regno e così via. Le
loro organizzazioni, come l’Associazione Culturale Neo Borbonica
di Gennaro De Crescenzo o il Comitato “NoLombroso”, hanno vaste
reti di contatti e una certa influenza sugli amministratori locali.
E’in questo contesto che va collocata la corrente recrudescenza nella guerra attorno al cranio del povero Villella.
L’antropologa Maria Teresa Milicia, docente all’Università di Padova, si era incuriosita – visitando
il Museo torinese – della massiccia
mobilitazione dei movimenti neomeridionalisti contro il museo, accusato di apologia del razzismo antimeridionale del suo patrono. Calabrese d’origine, Milicia ha deciso
di indagare per verificare la consistenza delle ragioni della protesta
“meridionalista” contro il Museo
“Lombroso”; il frutto di questa sua
ricerca è un vivace libro, Lombroso
e il brigante: storia di un cranio
conteso, che l’ultima corrente neomeridionalista non ha apprezzato.
Come si vede, in questa storia tutto
è ancora da discutere e comprendere. Il dibattito su Lombroso e il brigante che si terrà oggi all’Università della Calabria (organizzato dai
programmi dottorali in Scienze
Politiche e in Studi Umanistici) vedrà, accanto alla Milicia, la storica
Mary Gibson, una delle maggiori
autorità su storia della criminologia e su Lombroso; l’antropologo
Vito Teti e lo storico Silvano Montaldo, responsabile del Museo
Lombroso. Modereranno gli storici Brunello Mantelli e la sottoscritta.
* Ordinario di storia moderna
Unical
RENDE - Oggi all’Università di Cosenza alle ore
17.30 presso il Laboratorio Multimediale Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (il 12 a Motta
Santa Lucia ed il 16 aprile a Torino a cura del Museo
Lombroso) storici ed antropologi discutono di un libro che ha scatenato una polemica (pretestuosa,a
loro dire) divampata nel Mezzogiorno (e in Calabria
soprattutto) ai danni del Museo “Cesare Lombroso”
gestito dall’Università e sostenendo, più che implicitamente, le ragioni del Museo e l’inamovibilità del
cranio di una persona umana, rivendicato - per darne sepoltura - dal Comitato “No Lombroso” e da
un’infinità di comuni (Lecco per esempio) la maggior parte dei quali sono ubicati nel Nord del Paese.
Polemica che avrebbe fatto del “brigante” Villella
“il totem della lotta contro il razzismo antimeridionale”, quando - sintetizzo - il cranio esposto nel Museo degli orrori altro non sarebbe che “un reperto
scientifico”, il che dovrebbe indurre a lasciate perdere le richieste di sepoltura e ad archiviare le fregnacce sulla chiusura del Museo intitolato al medico veronese di cui il libro in
questione (“Lombroso e il
brigante” di Maria Teresa
Milicia, Salerno editrice)
offre una lettura “inedita”.
Se poi s’aggiunge che l’autrice è sì un’antropologa
dell’Università di Padova,
ma è nata in Calabria, abbiamo fatto strike!
Se persino una calabrese
assolve il Museo e giustifica il sequestro del cranio di
una persona umana, cari
terroni (nella specie tutti
tacciati tutti di neoborbonismo) finitela con le storielle sul brigantaggio poLa copertina del libro
stunitario e fatevene una
ragione. Ovviamente, sulla versione “politically correct” delle sconsiderate affabulazioni di Lombroso
che hanno acuito i pregiudizi sui meridionali si misureranno studiosi di
chiara fama come Vito Teti, che di questione meridionale e di “razze maledette” un tantino s’è occupato.
Altra faccenda il “brigante” calabrese (invero
mai stato un brigante, come giù documentato dal
Comitato “No Lombroso” di Milano) Giuseppe Villella nato a Motta Santa Lucia, morto in carcere a 69
anni e sul cui cranio Lombroso agì all’alba del 4 gennaio 1871 nel suo laboratorio di Pavia con il compasso scorsoio per scoperchiarlo e dissezionarlo,
asserendo di aver rintracciato proprio in quella cucuzza la “fossetta occipitale mediana” che avrebbe
dovuto dimostrare la teoria del delinquente per nascita e corbellerie simili cestinate dalla comunità
scientifica mondiale.
Sul punto, benché il libro s’intrattenga appena,
non ci siamo proprio. Altro che “reperto scientifico!
Qualcuno deve spiegare perché mai, a maggior ragione se Villella non è stato neanche brigante (in vita fu condannato “tre volte per furto e per l’incendio
di un mulino”), il suo cranio resti sequestrato in
La scrittrice
(calabrese)
assolve il Museo
di Torino
una teca. Violando ogni norma etica, giuridica, religiosa e civica quel “tristissimo uomo - così lo descrive Lombroso - contadino, ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di cute
oscura, tutto stortillato, che cammina a sghembo e
aveva torcicollo non so bene se a destra o a sinistra”,
non ha avuto ancora il piacere di una sepoltura nel
suo cimitero. Un poveraccio di calabrese senz’arte
né parte, colpevole d’inedia, quando l’Italia per assimilare il Sud passò per le armi senza molte cerimonie migliaia di rivoltosi sociali che non sapevano neppure cosa stesse accadendo, morto di tisi,
scorbuto e tifo nel carcere di Vigevano, è trattenuto,
suo malgrado, in un carcere atipico e nessuno riesce a liberarlo. Nel silenzio ostinato del Museo, che
rifiuta un gesto d’umanità e, insieme, di pacificazione storica che non guasterebbe, fortuna che c’è,
come disse Bertold Breckt a proposito del famoso
mugnaio, un giudice a Berlino. Esattamente a Lamezia Terme. Dove il 5 ottobre 2012 è stata emessa
una sentenza (tecnicamente ordinanza) della Repubblica che, espressamente, “condanna l’Università degli Studi di Torino alla restituzione al Comune di Motta S. Lucia del cranio di Giuseppe Villella”.
Il giudice che ha emesso la “storica” sentenza, Gustavo Danise, per venire incontro alle esigenze
scientifico-didattiche del Museo ha persino proposto di sostituire il cranio di Villella con un calco in
gesso.
Se ancora il cranio giace a Torino e la “controinformazione” del Museo può agevolmente tentare il
depistaggio, come sta accadendo in questi ultimi
giorni, è solo perché, su richiesta dell’Università torinese, l’efficacia della sentenza è stata sospesa dalla Corte d’appello di Catanzaro (18 dicembre 2012)
ed ora si è in attesa del secondo round (probabilmente dicembre). Ma può un’Istituzione come il
Museo Lombroso puntare tutte le sue fiches sul tecnicismo giuridico, piuttosto che argomentare culturalmente i propri interessi?
Chi esige la testa di Villella per seppellirla, ha dalla sua un più che dignitoso ventaglio di ragioni che
vanno dai testi biblici alla stessa cultura greca che
ha animato l’Occidente.
Antigone, nella tragedia di Sofocle, si fa murare
viva perché viola la tremenda legge di Tebe che condanna i corpi dei traditori a putrefarsi senza sepoltura al di fuori delle mura. E per seppellire il fratello
Polinice, e contro il volere di Creonte, lo zio tiranno,
dà con le sue mani sepoltura a quel corpo e muore.
La Bibbia: sia che la si consideri il libro dello spirito
della letteratura mondiale, o, da chi crede, la parole
di Dio, espressamente chiarisce - nel secondo libro
Samuele, quando Davide recupera i corpi di Saul e
dei suoi figli morti nella battaglia contro i Filistei
per seppellirli – che essere privati della sepoltura è
una maledizione di Dio e che, quindi, la sepoltura si
concede anche ai criminali dopo l’esecuzione della
pena capitale. Ma c’è una norma vincolante, e vigente, per ebrei e cristiani. Esattamente i versetti
22/23 del Deuteronomio. Si tratta del libro che contiene alcuni discorsi di Mosè ed al cui interno vi sono le leggi che debbono reggere Israele e che nella
parte indicata asserisce: “Quando un uomo ha commesso un peccato che merita la morte e tu l’ha appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere
appeso tutta la notte all’albero. Lo devi seppellire in
quello stesso giorno, perché appeso è una maledizione di Dio e tu non devi contaminare la terra che il
Signore tuo Dio ti ha dato in eredità”. Ma con Villella come la mettiamo. Non da un giorno è appeso a
quell’albero, seppure l’albero della “scienza”, ma da
142 anni. Quanti giorni sono?
Anche il teschio di Petru Curia potrebbe essere al museo di Torino
di ROSANNA BERGAMO
Petru Curia
ALBI - Il teschio del brigante albese
Pietro Corea, conosciuto ai più come Petru Curia, potrebbe essere
custodito, insieme a quello di Giuseppe Villella, nelle sale del famigerato museo intitolato a Cesare
Lombroso a Torino, recentemente
riaperto al pubblico. E’ questa la
convinzione di Antonio Filippo Corea, albese, appassionato meridionalista e membro del Comitato No
Lombroso. La storia di Petru Curia
è simile a quella di molti altri briganti, solo Albi ne contava all’epoca non meno di venti; ufficialmen-
te risultavano essere predatori ed
assassini ma, nella realtà, sembra
fossero strenui difensori dell’autonomia di quel meridione ricco di
averi e potenzialità, depredato, in
nome di un’unità che di fatto non è
mai avvenuta, di tutte le sue ricchezze. Antonio Filippo Corea ha,
da tempo sposato la causa; ha aderito al Comitato costituitosi per
chiedere la chiusura di un museo
all’interno del quale, il suo ideatore, Cesare Lombroso era giunto alla conclusione che un delinquente
fosse riconoscibile dalla misurazione antropometrica del suo cranio. Petru Curia, sul quale pende-
va una pesante taglia, venne catturato, torturato e decapitato, il suo
cranio venne inviato a Firenze, allora capitale e poi, probabilmente,
trasportato a Torino per essere sottoposto alle attenzioni di Lombroso. Antonio Corea, da membro del
Comitato, ha chiesto, ormai quattro mesi fa, all’amministrazione
comunale guidata da Giovanni
Piccoli di aderire al Comitato. Ha
chiesto di farlo in ossequio a Petru
Curia ed ai tanti “briganti ” albesi
che si immolarono per salvare i
compaesani. «La richiesta - afferma Corea - è stata inoltrata il 2 dicembre scorso. Da allora nulla».