pdf ico - Processo Penale e Giustizia

PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
2-2015
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Le dichiarazioni del testimone irreperibile:
l’eterno ritorno dei riscontri tra Roma e Strasburgo
Absent witness’ statements: european and italian principles
about corroborative evidence
Le nuove garanzie informative nel procedimento cautelare
Precautionary measures and informative guarantees
Le regole deontologiche dell’avvocato penalista
Defence attorney’s professional and ethical rules
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
2-2015
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2015 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto processuale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’unione europea,
Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura
penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università
di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio
Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato –
Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester
Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato –
Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
V
Sommario
Editoriale | Editorial
CARLOTTA CONTI
Le dichiarazioni del testimone irreperibile: l’eterno ritorno dei riscontri tra Roma
e Strasburgo / Absent witness’ statements: european and italian principles about
corroborative evidence
1
Scenari | Overviews
Novità sovranazionali / Supranational news (ELENA ZANETTI)
12
De jure condendo (GIOIA SAMBUCO)
17
Corti europee / European Courts (FEDERICO BARDELLE)
22
Corte costituzionale (ANGELA PROCACCINO)
29
Sezioni Unite (VALERIA MARCHESE)
32
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
34
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
L’omesso interrogatorio dell’arrestato alloglotta in sede di convalida
Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 23 settembre 2014, n. 38791 – Pres. Agrò; Rel. Di
Stefano
39
Le garanzie linguistiche nel “giusto processo europeo”: l’omesso interrogatorio dell’arrestato per irreperibilità dell’interprete / Language guarantees in “due European process”:
the interrogation of the arrested failed to unavailability of the interpreter (FRANCESCA DELVECCHIO)
42
Patteggiamento e confisca per equivalente
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 5 settembre 2014, n. 37186 – Pres. Squassoni; Rel.
Orilia
51
Negoziato sulla pena e confisca per i reati tributari / Plea bargaining and confiscation for tax
offence (SIMONA ARASI)
53
In caso di revoca dell’affidamento ai servizi sociali il giudice non può ignorare il periodo
di prova svolto dal condannato
Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 8 settembre 2014, n. 37292 – Pres. Chieffi; Rel. casa
64
Lo scomputo del servizio prestato in caso di revoca dell’affidamento in prova / The deduction of the service performed if the probation fails (FRANCESCO TRAPELLA)
66
“Carcere duro” e recupero del colloquio mensile perso
Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 17 settembre 2014, n. 38073 – Pres. Vecchio; Rel.
Cavallo
75
Prime aperture nel regime di rigore: il prolungamento del colloquio mensile per il detenuto ex 41 bis ord. penit. / First opening in the penalty regime: the extension of the interview
monthly for held art. 41 bis ord. penit. (CLAUDIO LARA)
78
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
VI
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Le nuove garanzie informative nel procedimento cautelare / Precautionary measures and
informative guarantees (ROBERTO PUGLISI)
84
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
Le regole deontologiche dell’avvocato penalista / Defence attorney’s professional and
ethical rules (ALESSANDRO DIDDI)
94
Indici | Index
Autori / Authors
116
Provvedimenti / Measures
117
Materie / Topics
117
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
1
Editoriale | Editorial
CARLOTTA CONTI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università di Firenze
Le dichiarazioni del testimone irreperibile:
l’eterno ritorno dei riscontri tra Roma e Strasburgo
Absent witness’statements:
european and italian principles about corroborative evidence
Le dichiarazioni del testimone irreperibile sono state oggetto di un mutamento giurisprudenziale sia all’interno del
nostro ordinamento, sull’onda del necessario adeguamento ai dettami di Strasburgo, sia nel sistema convenzionale, in ragione di un profondo ripensamento dell’esegesi ormai classica. Alla luce di tale evoluzione, i relata unilaterali risultano utilizzabili in presenza di riscontri. Si tratta di una regola che oggi colloca su di un terreno comune
Cassazione e Corte europea e che richiede un apprezzamento in concreto del sindacato condotto dal giudice
nella valutazione delle prove.
Nowadays the case law about the statemens of absent witness is changing according to the principles established by the Court of Strasbourg. The European Court of Human Rights too is innovating the traditional interpretation. Due to this evolution these statements are now usable when there is corroborating evidence. The Supreme Court and European Court are agree on this rules that claims an effective check on the evaluation of the
evidences by the Judge.
L’ORIGINARIO CONTRASTO CON LA CONVENZIONE EUROPEA
La questione dell’utilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese da persone irreperibili, oggetto di
acceso dibattito sin dalla revisione dell’art. 111 Cost., ha trovato rinnovata centralità negli ultimi anni in
ragione di una rilevante divaricazione tra la disciplina costituzionale – così come attuata nel sistema
codicistico – e l’assetto delineato dalla Convenzione europea, nell’interpretazione prospettata dalla Corte di Strasburgo.
La necessità di comporre un tale contrasto si è resa sempre più stringente in ragione di due movimenti diversi e convergenti. Da un lato, continuava a profilarsi il rischio concreto di reiterate condanne europee a carico del nostro Paese, come era accaduto, da ultimo, nel caso Ogaristi c. Italia del
2010 1. Da un altro lato, alla stregua di quanto è avvenuto anche con riferimento ad altre materie, le
pronunce con le quali la Consulta, a partire dalle sentenze “gemelle” del 2007, ha affermato il peculiare rango sub-costituzionale delle norme convenzionali – colte nell’esegesi della relativa Corte –
hanno imposto di valutare fattivamente la percorribilità della strada costituita dall’interpretazione
conforme alle predette fonti.
Sulla complessa problematica si sono espresse nel luglio 2011 le Sezioni unite della Cassazione con
1
Corte e.d.u., 18 maggio 2010, Ogaristi c. Italia, ricorso n. 231/07.
EDITORIALE | LE DICHIARAZIONI DEL TESTIMONE IRREPERIBILE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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un’ampia ed articolata pronuncia che ha ricostruito funditus la materia in esame 2. Merita precisare sin
d’ora, peraltro, che la sentenza De Francesco non ha costituito l’epilogo della vicenda. Difatti, non molto tempo dopo, è intervenuta una decisione della Grande Camera della Corte europea (Al-Khawaja e
Tahery c. Regno Unito del 15 dicembre 2011) che ha in parte rivisitato l’interpretazione sino ad allora
accolta a Strasburgo.
LA DISCIPLINA CONVENZIONALE ANTERIORE ALLA SENTENZA AL-KHAWAJA E TAHERY C. REGNO UNITO:
LA SOLE OR DECISIVE RULE
Come si è accennato, nel momento in cui sono intervenute le Sezioni unite, la disciplina tracciata dal sistema probatorio doveva essere posta a confronto con le direttrici ricavabili dalla Convenzione europea.
All’epoca della sentenza De Francesco, il sistema convenzionale poteva essere ricostruito come segue.
L’art. 6, par. 3 lett. d), della Convenzione riconosce ad ogni accusato il diritto di interrogare (o far interrogare) i testimoni a carico. Da tale statuizione di principio – considerata un aspetto del canone del
giusto processo sancito dall’art. 6, par. 1 – i Giudici di Strasburgo avevano desunto in via interpretativa
due regole relative alle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio 3.
Anzitutto, le deposizioni raccolte unilateralmente potevano essere utilizzate soltanto se all’imputato
fosse stata concessa «un’occasione adeguata e sufficiente di contestare la testimonianza a carico» e cioè di interrogare l’autore della dichiarazione al momento della deposizione o anche successivamente 4. In tal
caso, l’utilizzo delle precedenti dichiarazioni non era considerato di per sé contrario all’art. 6, parr. 1 e
3, lett. d), CEDU.
Qualora una simile possibilità non fosse stata riconosciuta – e purché vi fosse stato un buon motivo
per non aver svolto l’esame orale del dichiarante – la dichiarazione raccolta in segreto non poteva valere a fondare in modo esclusivo o determinante la sentenza di condanna (c.d. sole or decisive rule) 5. In
ipotesi del genere, la giurisprudenza di Strasburgo richiedeva la presenza di altri elementi di prova di
valore decisivo idonei a compensare la mancata assicurazione del diritto a confrontarsi con l’accusatore
fugando i sospetti che desta una dichiarazione non sottoposta al contraddittorio 6. In caso contrario, si
sarebbe verificata una violazione del giusto processo ex art. 6, par. 1, CEDU, di cui il diritto a confrontarsi era considerato, come si è accennato, una componente 7. Ad avviso della Corte europea la sole or
decisive rule aveva valore generale ed operava anche qualora il contraddittorio fosse divenuto impossi-
2
Cass., sez. un., 14 luglio 2011, n. 27918, in Cass. pen., 2012, p. 858, con nota di P. Silvestri, Le Sezioni unite impongono rigore per
l’acquisizione e l’utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali rese senza contraddittorio da persona residente all’estero.
3
La collocazione del diritto a confrontarsi (art. 6, par. 3, lett. d) nell’alveo dei princìpi del giusto processo ha costituito un
elemento chiave anche per la decisione Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, con la quale, come si è accennato e come si chiarirà
meglio infra, la Grande Camera ha in parte rivisto il precedente orientamento in materia di utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni.
4
Corte e.d.u., 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, ricorso n. 33354/96; Corte e.d.u., 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, ricorso n.
36822/02; Corte e.d.u., 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia, ricorso n. 62094/00. In senso critico sulla tenuità della garanzia, per
tutti, C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 1451.
5
Il fondamento della regola pare da rinvenirsi in Unterpertinger c. Austria, 24 novembre 1986, ricorso n. 9120/80, par. 33. In
quel caso, pur esistendo anche altre prove dinanzi ai giudici nazionali, la condanna venne basata principalmente sulle dichiarazioni unilaterali rese di fronte alla polizia, con rilevante sacrificio del diritto di difesa in violazione dei princìpi del giusto processo desumibili dal combinato disposto degli artt. 6, parr. 1 e 3, lett. d), CEDU. In dottrina, C. Cesari, Dichiarazioni irripetibili e
metodo dialettico: i problemi di una coesistenza difficile, in G. Di Chiara (a cura di), Eccezioni al contraddittorio e giusto processo. Un itinerario attraverso la giurisprudenza, Torino, 2009, p. 256; M. Montagna, Dichiarazioni irripetibili ed irreperibilità del teste, in Arch. pen.,
2011, n. 2, p. 2.
6
Corte e.d.u., 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia, ricorso n. 37019/97; Corte e.d.u., 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, cit.; Corte
e.d.u., 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia, cit.; Corte e.d.u., 20 novembre 1989, Kostovski c. Olanda, ricorso n. 11454/85.
7
Merita precisare che la Corte ha ritenuto violato l’art. 6, parr. 1 e 3, lett. d) anche quando la regola del sole or decisive è stata
rispettata ma non c’era un buon motivo per non disporre l’esame del teste. Si veda Corte e.d.u., 15 giugno 1992, Lüdi c. Svizzera, ricorso n. 12433/86; Corte e.d.u., 26 luglio 2005, Mild e Virtanen c. Finlandia, ricorsi nn. 39481/98 e 40227/98; Corte e.d.u., 8
giugno 2006, Bonev c. Bulgaria, ricorso n. 60018/00; Corte e.d.u., 12 aprile 2007, Pello c. Estonia, ricorso n. 11423/03.
EDITORIALE | LE DICHIARAZIONI DEL TESTIMONE IRREPERIBILE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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bile per irreperibilità, morte o grave infermità del dichiarante 8.
Prima di proseguire nella trattazione, ed a scanso di equivoci, occorre intendersi sul valore degli “altri elementi” necessari per ritenere rispettata la predetta regola. Proprio questa ambigua nozione, infatti, è il tema centrale nel “dialogo” tra corti interne e giudici di Strasburgo.
Come evidenziato in dottrina, a livello europeo già in passato la regola del sole or decisive era stata interpretata con varietà di modulazioni che andavano dal criterio della «prova di resistenza» a quello della
«lettura congiunta». Il primo approccio imponeva di espungere dal panorama conoscitivo l’elemento viziato per verificare, attraverso un procedimento di eliminazione mentale, se la decisione restava ugualmente in piedi. Il secondo approccio implicava una «concezione della decisività più sfumata, complessa e
malleabile». Non si ragionava eliminando la prova, bensì considerandola unitamente alle altre risultanze
disponibili. La regola del giusto processo ed il corollario del diritto a confrontarsi potevano dirsi rispettati se esistevano «elementi di riscontro dotati di preponderante valore dimostrativo nell’economia globale della
causa» 9.
Proprio questa seconda concezione sta alla base di un filone esegetico meno rigoroso in cui la Corte
si è spesso accontentata della semplice presenza di ulteriori risultanze, senza prestare particolare attenzione all’incidenza delle stesse nell’economia della decisione 10. Del resto, all’evidenza, in presenza di
più elementi tutti convergenti verso il medesimo risultato è assai facile – nell’ambito di una valutazione
come sul dirsi “olistica” – far perno sull’uno piuttosto che sull’altro nella valutazione di decisività 11.
DISCIPLINA INTERNA E CONVENZIONALE: UN RAPPORTO DI SPECIALITÀ RECIPROCA
Ebbene, ove confrontato con un siffatto quadro convenzionale, il sistema probatorio italiano si poneva
ictu oculi in un rapporto di “specialità reciproca” sul piano delle garanzie 12.
Per un verso, la regola generale del contraddittorio nella formazione della prova, stabilita dall’art.
111, comma 4, primo periodo Cost., non poteva dirsi tutelata in presenza di un’occasione dialettica assicurata in una sede diversa rispetto a quella in cui le dichiarazioni fossero state rese. Il nostro ordinamento, anche a livello di attuazione codicistica, richiede la pienezza e la contestualità del contraddittorio
e considera di regola inutilizzabili le precedenti dichiarazioni.
Per altro verso, le eccezioni previste dall’art. 111, comma 5, Cost. e normate dal legislatore ordinario
consentivano – nelle ipotesi tassativamente previste – di utilizzare le precedenti dichiarazioni anche
come prova unica o principale per la condanna senza che fossero richiesti ulteriori requisiti come, ad
esempio, la presenza di riscontri. Così, per la questione che qui interessa, la disciplina dell’art. 512,
8
Corte e.d.u., 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santangelo c. Italia, ricorso n. 48/1995/554/640; Corte e.d.u., 5 dicembre 2002,
Craxi c. Italia, ricorso n. 34896/97.
9
Così M. Biral, L’overall examination: nuove frontiere sul diritto a confrontarsi con i testimoni, in Arch. pen., 2013, n. 1, pp. 8-9.
10
V. ancora M. Biral, L’overall examination, cit., pp. 8-9, che ricorda in via esemplificativa le sentenze Corte e.d.u., 28 agosto
1992, Artner c. Austria, ricorso n. 13161/87 (par. 23) e Bracci c. Italia, cit., (par. 57). Con riferimento alla “lettura congiunta” operata nel caso Bracci c. Italia, cit., e anche nei casi Jerinò c. Italia del 7 giugno 2005 (ric. n. 27549/02) e Corte e.d.u., 13 ottobre 2005,
Carta c. Italia (ricorso n. 4548/02), si veda anche A. Balsamo, “Processo equo” e utilizzazione probatoria delle dichiarazioni dei testimoni assenti: le divergenti tendenze interpretative della Corte di Cassazione italiana e della Corte Suprema del Regno Unito, in Cass. pen.,
2011, p. 4506, che ricorda, peraltro, come nel caso Majadallah c. Italia, cit., pur accogliendo il criterio della lettura congiunta, la
Corte europea avesse precisato che gli ulteriori elementi di prova dovessero comunque essere autonomi rispetto alle dichiarazioni rese dalla persona non sottoposta ad esame. Con riferimento a tali delicatissime (e non sempre controllabili) valutazioni, S.
Trechsel, Human Rights in Criminal Proceedings, Oxford, 2005, p. 297. Si veda A. Balsamo-A. Lo Piparo, Principio del contraddittorio, utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali e nozione di testimone tra giurisprudenza europea e criticità del sistema italiano, in A.
Balsamo-R.E. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, p. 333 e E. Selvaggi, Il valore probatorio delle dichiarazioni irripetibili, ibidem, p. 373.
11
Il criterio decisorio ricorda assai quello della c.d. “convergenza del molteplice” per la cui critica sia consentito rinviare a P.
Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, II ed., Milano, 2014, pp. 84 ss.
12
Sul punto, v. anche P. Silvestri, Teste irreperibile e valutazione delle dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512
c.p.p., in Cass. pen., 2011, p. 284. Sulla necessità di porre rimedio alla sfasatura tra l’art. 512 c.p.p. e i dettami della Convenzione,
G. Ubertis, La Corte di Strasburgo quale garante del giusto processo, in Dir. pen. proc., 2010, p. 375, ora in Id., Argomenti di procedura
penale, III, Milano, 2011, p. 212. V., inoltre, F. Cassibba, Il contaddittorio nella formazione della prova tra Costituzione e Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, in Giur. di Merito, suppl. XII, 2008, p. 138; F. Zacché, Lettura di atti assunti senza contraddittorio e giusto
processo, in Indice pen., 2006, p. 438.
EDITORIALE | LE DICHIARAZIONI DEL TESTIMONE IRREPERIBILE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
4
c.p.p. – sopravvissuta immutata alla revisione costituzionale – era considerata compatibile con il nuovo
assetto della Carta fondamentale malgrado consentisse che, in caso di impossibilità di ripetizione non
dovuta a volontaria sottrazione al contraddittorio, le dichiarazioni unilaterali fossero utilizzate come
prova esclusiva, o comunque determinante, ai fini della condanna 13.
LE SEZIONI UNITE E L‘IMPLEMENTAZIONE DELLA TUTELA EX ART. 111, COMMA 5, COST.
Su siffatto sfondo, caratterizzato da una sfaccettata intersezione e sovrapposizione di piani, deve collocarsi la sentenza con la quale le Sezioni unite nel 2011 – sia pure nel quadro di una tematica più specifica, che concerneva le dichiarazioni rese da persone residenti all’estero – avevano tracciato una soluzione ermeneutica di portata generale volta a conformare la disciplina interna ai più garantisti dettami
convenzionali 14.
Ad avviso del Collegio esteso, il contrasto tra l’art. 111, comma 5, Cost. e la disciplina della Convenzione europea poteva essere agevolmente superato. Anzitutto, gli Ermellini avevano fatto leva sulla natura della predetta norma costituzionale, affermando che tale disposizione concerneva la formazione e
acquisizione della prova mentre la disciplina ricavabile dalla Convenzione, così come interpretata dalla
Corte di Strasburgo, stabiliva soltanto un criterio di valutazione della prova dichiarativa regolarmente
acquisita. Pertanto, venivano superati i problemi di sovrapposizione, giacché la disciplina convenzionale operava successivamente e non risultava incompatibile con le regole di acquisizione.
Per la Cassazione, peraltro, anche il nostro ordinamento stabiliva un criterio di valutazione laddove
prevedeva che la colpevolezza non poteva essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi si fosse
sempre volontariamente sottratto al contraddittorio (artt. 111, comma 4, secondo periodo Cost. e 526,
comma 1 bis, c.p.p.). Tale disciplina — apparentemente diversa da quella convenzionale — era, tuttavia,
cronologicamente successiva a quest’ultima e dichiaratamente finalizzata a darne attuazione nel nostro
ordinamento. Pertanto, secondo le Sezioni unite, la differenza di formulazione non poteva essere intesa
nel senso di una volontà del legislatore di impedire l’applicazione della regola convenzionale. Per il
Supremo Collegio, la diversità di articolazione delle norme interne rispetto alla Convenzione non
escludeva che esse costituissero comunque applicazione di un identico o analogo principio generale inteso a porre un rigoroso criterio di valutazione delle dichiarazioni dei soggetti che la difesa non aveva
mai avuto la possibilità di esaminare.
D’altronde, ad avviso della Corte, gli artt. 111, comma 4, secondo periodo Cost. e 526, comma 1 bis,
c.p.p. recavano una norma regolare, che attuava il principio del contraddittorio; pertanto, non imponevano l’interpretazione a contrario. Dunque, non dovevano essere letti come se stabilissero che, quando
la sottrazione al confronto fosse non volontaria ed attribuibile a motivi oggettivi, le dichiarazioni divenissero utilizzabili tout-court.
13
Proprio una siffatta lettura, ancorata al tenore letterale delle norme costituzionali (art. 111, commi 4 e 5) e codicistiche (artt.
512 e 526, comma 1 bis) aveva comportato la condanna a carico del nostro Paese nel ricordato caso Ogaristi c. Italia. In tale occasione
la Corte europea si era pronunciata in relazione a dichiarazioni rese da persone irreperibili rilevando come, nel caso di specie, il rigetto della richiesta di incidente probatorio — formulata dalla difesa — avesse comportato la mancanza di un confronto diretto con
l’accusato. Sulla disciplina convenzionale, M. Daniele, Regole di esclusione della prova e giurisprudenza della Corte europea: profili di potenziale conflitto, in AA.VV., Giurisprudenza europea e processo penale italiano, cit., pp. 392 ss.; P. Ferrua, Il contraddittorio nella formazione
della prova a dieci anni dalla sua costituzionalizzazione: il progressivo assestamento della regola e le insidie della giurisprudenza della Corte europea, in Arch. pen., 2008, n. 3, pp. 28 ss.; G. Ubertis, La Corte di Strasburgo quale garante del giusto processo, cit., p. 205.
14
Invero, un siffatto percorso interpretativo era già stato intrapreso dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici che, con varietà di modulazioni, avevano prospettato una pluralità di ricostruzioni tutte finalizzate ad imporre l’applicazione della disciplina dei riscontri in presenza di dichiarazioni rese da persona irreperibile per motivi oggettivi, onde pervenire ad una lettura
convenzionalmente conforme della disciplina relativa all’impossibilità di ripetizione. Tra le più risalenti, Cass., sez. II, 18 ottobre
2007, n. 43331, in Dir. pen. proc., 2008, p. 878, con nota di P. Tonini, Il testimone irreperibile: la Cassazione si adegua a Strasburgo ed
estende l’ammissibilità dell’incidente probatorio. Successivamente, Cass., sez. I, 23 settembre 2009, n. 44158, in CED Cass. n. 245556;
Cass., sez. V, 26 marzo 2010, n. 21877, in CED Cass. n. 247446; Cass., sez. I, 6 maggio 2010, n. 20254, in CED Cass. n. 247618;
Cass., sez. III, 15 giugno 2010, n. 27582, in CED Cass. n. 248052. Tuttavia, vi erano state alcune occasioni nelle quali la Cassazione aveva affermato che la strada dell’interpretazione adeguatrice non era percorribile in quanto la disciplina tracciata dal codice
costituiva diretta attuazione dell’art. 111, comma 5 Cost. a sua volta contrastante con la normativa convenzionale e su questa
prevalente sul piano della gerarchia delle fonti secondo quanto desumibile dalle sentenze gemelle del 2007. Si veda Cass., sez.
VI, 25 febbraio 2011, n. 9665, in CED Cass. n. 249594; Cass., sez. V, 16 marzo 2010, n. 16269, in CED Cass. n. 247258.
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In sostanza, per il Supremo Collegio, la norma nazionale si limitava a porre una determinata tutela
per l’imputato, ma non escludeva che una protezione più estesa potesse essere stabilita o ricavata da
norme diverse, in attuazione del principio del contraddittorio che ha, comunque, carattere generale. In
definitiva, era ben configurabile un’interpretazione convenzionalmente orientata che richiedesse i riscontri per le dichiarazioni acquisite ex art. 512, c.p.p.
A chiusura di una siffatta trama ermeneutica, le Sezioni unite avevano ricavato dal sistema probatorio un canone di “prudente valutazione”, generalizzabile lungo le direttrici convenzionali e sull’onda
del criterio del ragionevole dubbio. Proprio quest’ultima regola impediva che dichiarazioni unilaterali
potessero costituire prova unica o determinante ai fini di una sentenza di condanna, giacché l’assenza
di controesame abbassava fortemente il grado di attendibilità della prova 15. In questo quadro – per il
Collegio esteso – diventava pienamente condivisibile quell’indirizzo giurisprudenziale che richiedeva
la corroboration al fine di valutare le dichiarazioni rese dalla persona offesa o danneggiata dal reato ed
appariva senz’altro configurabile un’applicazione analogica dell’art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni rese da persone irreperibili per motivi oggettivi, giustificata non dalla qualifica del dichiarante,
bensì dalla modalità unilaterale di assunzione della prova.
PROFILI PROBLEMATICI
La sentenza De Francesco si era segnalata per la sensibilità al problema della necessaria composizione tra le regole ricavabili dalla Convenzione europea e quelle stabilite nel nostro sistema probatorio 16.
Se il risultato perseguito era stato quello di un ampliamento delle garanzie previste dall’ordinamento
nazionale attraverso l’integrazione con i princìpi stabiliti dalla Corte di Strasburgo in relazione all’art. 6,
par. 3, lett. d) della Convenzione, il percorso ermeneutico è apparso sin troppo articolato.
In particolare, sul presupposto di un contrasto – sia pure apparente – tra l’art. 111, comma 5, Cost.
ed i dettami convenzionali, la composizione era stata attuata lavorando sulla natura di tale norma, da
considerarsi una regola di acquisizione, distinta dall’art. 111, comma 4 secondo periodo Cost., volto a
sancire un criterio di valutazione.
Al tempo stesso, quest’ultima disposizione era stata integrata in via interpretativa presumendo che –
alla stregua di una aberratio ictus del legislatore costituzionale – essa volesse dare attuazione alla Convenzione europea e, dunque, non potesse aver intenzionalmente omesso di riferirsi anche alla regola in
base alla quale le dichiarazioni acquisite unilateralmente non possono essere comunque utilizzate come
prova unica o determinante.
Invero, pare lecito affermare che, anche senza prospettare siffatti articolati rapporti tra le discipline,
la strada percorribile – e ben più lineare – in materie del genere era stata già tracciata dalla Corte costituzionale con le c.d. “seconde sentenze gemelle” del 2009 17. Con tali note pronunce, la Corte aveva individuato la relazione che intercorre tra i diritti tutelati in Costituzione e quelli riconosciuti dalla Convenzione europea affermando un “principio di massima espansione” delle garanzie. Per la Consulta, le
norme convenzionali hanno la funzione di ampliare l’area di protezione che la Costituzione riconosce ai
diritti fondamentali. Pertanto, il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti
fondamentali può e deve sfociare in un ampliamento delle garanzie, «anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti». Naturalmente, richiamando quanto già affermato nelle “prime sentenze gemelle” del 2007, la Corte costituzionale aveva rammentato che l’interpretazione “convenzionale” delle norme della Carta fondamentale non potesse andare a discapito di altri diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti. Pertanto, in presenza di un
conflitto tra differenti garanzie costituzionali, si imponeva la necessità di effettuare un bilanciamento
ragionevole.
Collocato su di un simile sfondo sistematico, il tenore letterale dell’art. 111, comma 5, Cost. («la leg15
Sul punto P. Ferrua, La prova nel processo penale: profili generali, in P. Ferrua-E. Marzaduri-G. Sangher (a cura di), La prova
nel processo penale, Torino, 2013, pp. 40-41; Id., Le dichiarazioni dei testi “assenti”: criteri di valutazione e giurisprudenza di Strasburgo,
in Dir. pen. proc., 2013, pp. 396 ss.
16
Si veda G. Lattanzi, La Cassazione penale tra lacune legislative ed esigenze sovranazionali, in Cass. pen., 2012, p. 3243.
17
Il riferimento è alle sentenze 26 novembre 2009, n. 311, in Riv. dir. internaz., 2010, p. 163 e 4 dicembre 2009, n. 317, Guida
dir., 2010, n. 2, p. 73.
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ge regola i casi in cui la prova non si forma in contraddittorio») non esclude affatto una modulazione
normativa del valore probatorio da attribuire alle dichiarazioni, giacché si limita a precisare che, in presenza delle ipotesi eccezionali tassativamente previste, il legislatore deve disciplinare una deroga al
contraddittorio. Pertanto, un’interpretazione convenzionalmente conforme degli artt. 512 e 526, comma
1 bis, c.p.p. poteva essere prospettata anche senza passare attraverso impegnative ricognizioni sulla natura delle norme costituzionali.
Per altro verso, e sotto un differente profilo, occorre tenere presente che la sentenza De Francesco
aveva affrontato il problema della possibilità di utilizzare le dichiarazioni del testimone irreperibile,
senza prospettare ex ante strumenti idonei a ridurre proprio siffatto rischio di non rintracciabilità. Non è
stata in alcun modo presa in considerazione la possibilità di un’estensione in via interpretativa delle
ipotesi di ricorso all’incidente probatorio. Eppure, una simile via avrebbe consentito di realizzare da
subito il contraddittorio riducendo al massimo il rischio di dover utilizzare ex post dichiarazioni che –
sia pure circondate dalla garanzia dei riscontri – avrebbero mantenuto comunque il loro carattere “unilaterale” 18.
L’IDONEITÀ SALVIFICA DEI RISCONTRI TRA LETTURA CONGIUNTA E PROVA DI RESISTENZA
All’evidenza, la soluzione delle Sezioni unite risultava assai vicina a quell’indirizzo meno rigoroso accolto dalla giurisprudenza europea – anteriore alla sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito del
2011 – che accoglieva il criterio della “lettura congiunta”. Come si è ricordato, nell’ambito di tale orientamento si puntava su di una valutazione assai simile ad una vera e propria convergenza del molteplice
giungendo a sfumare fortemente la valutazione circa la decisività delle dichiarazioni unilaterali.
Peraltro, ove confrontato con l’indirizzo più rigoroso, fondato sulla prova di resistenza, il criterio accolto dalle Sezioni unite della Cassazione lasciava persistere un evidente disallineamento tra le due
Corti. Difatti, già a livello teorico, l’esistenza di altri elementi di prova non valeva di per sé ad impedire
che la dichiarazione unilaterale costituisse, comunque, la prova determinante per la condanna 19.
L’assunto trova conferma proprio nella ricordata sentenza Ogaristi c. Italia del 2010 (par. 63) ove, accogliendo l’orientamento più rigoroso fondato sulla prova di resistenza, la Corte aveva precisato che le
dichiarazioni potevano considerarsi prova determinante anche allorché vi fossero altri elementi che
fungessero da semplici riscontri.
LA SENTENZA AL-KHAWAJA E TAHERY C. REGNO UNITO: IL TEMPERAMENTO DELLA SOLE OR DECISIVE RULE E LE GARANZIE COMPENSATIVE
Come si è accennato, tuttavia, la Corte di Strasburgo è tornata di recente a pronunciarsi sulla delicata questione 20. Dopo aver ribadito che, in mancanza di un’occasione adeguata e sufficiente di confron-
18
In tal senso, si veda per tutti, P. Tonini, Il testimone irreperibile, cit., p. 890. In giurisprudenza, il collegamento tra la lettura
per impossibilità di ripetizione e il ricorso all’incidente probatorio era stato prospettato da Cass., sez. II, 18 ottobre 2007, n.
43331, cit., p. 878.
19
Si veda quanto era accaduto nel ricordato caso Unterpertinger c. Austria, cit., par. 33. A ben guardare, anzi, una rigorosa
applicazione del procedimento di eliminazione mentale avrebbe portato a condannare lo Stato anche nel caso in cui, eliminata la
dichiarazione unilaterale, che pure costituisse mero riscontro, la sentenza di condanna fosse venuta comunque meno. Una simile riflessione si coglie in P. Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 45. Sul punto, C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1461; P. Silvestri, Teste irreperibile, cit., p. 283; A. Tamietti, Il diritto ad esaminare i
testimoni a carico: permangono contrasti tra l’ordinamento italiano e l’art. 6 § 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Cass.
pen., 2006, p. 2991. Nel senso che le Sezioni unite avessero invertito i termini della questione, confondendo i due significati di
prova determinante e di riscontro, F. Zacché, Testimonianza indiretta e contraddittorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 145. Per il
rilievo che, ad avviso della Corte europea, la dichiarazione unilaterale potesse al massimo essere utilizzata per la valutazione di
un altro dato di per sé pienamente fruibile, G. Ubertis, La Corte di Strasburgo quale garante del giusto processo, cit., p. 212. Rileva un
vero e proprio malinteso nella giurisprudenza italiana, R. Casiraghi, Testimoni assenti: la Grande Camera ridefinisce la regola della
“prova unica o determinante”, in Cass. pen., 2012, p. 3118.
20
Corte e.d.u., Grande Camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, ricorsi n. 26766/05 e 22228/06, in
www.penalecontemporaneo.it, con nota di F. Zacché, Rimodulazione della giurisprudenza europea sui testimoni assenti. La pronuncia fa
seguito da un contrasto tra l’originaria impostazione accolta dalla Corte di Strasburgo e la Corte Suprema del Regno Unito che,
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tarsi con l’accusatore, l’utilizzo delle precedenti dichiarazioni degli “assenti” è consentito se vi è un
buon motivo per non aver proceduto all’esame orale e se si rispetta la sole or decisive rule, la Grande
Camera ha introdotto un vero e proprio temperamento al divieto di utilizzare come prova unica o determinante le dichiarazioni rese dalla persona non sottoposta al contraddittorio 21.
Anzitutto, la Corte di Strasburgo, nella sua composizione più autorevole, ha affermato che la parola
«decisive» deve essere intesa in senso stretto come indicativa di una prova di tale rilievo da determinare
l’esito del processo. Con schietta presa di posizione, la sentenza rileva che, quando le dichiarazioni unilaterali hanno riscontri, la valutazione circa la decisività delle stesse dipende dalla forza persuasiva di
questi ultimi. Più la corroborating evidence sarà pesante, meno probabile sarà che la prova unilaterale
debba considerarsi decisiva.
In secondo luogo, la Grande Camera ha precisato che la sole or decisive rule non deve essere interpretata in maniera assoluta. Quando una dichiarazione unilaterale è l’unica prova o la prova decisiva a carico dell’accusato, l’ammissione della stessa non si traduce automaticamente in una violazione dell’art.
6, par. 1, CEDU. Semplicemente, quando una condanna è basata unicamente o in modo determinante
sulla dichiarazione di un testimone assente, la Corte deve sottoporre il procedimento ad un attento
scrutinio delle garanzie complessivamente riconosciute, che devono compensare l’avvenuta compressione del contraddittorio. In ragione dei pericoli insiti nell’ammissione di una simile prova, essa pesa
assai nel bilanciamento e richiede adeguati fattori di compensazione, identificabili nell’esistenza di
«strong procedural safeguards» 22.
Per la Corte europea, dunque, in ogni vicenda processuale la questione è se ci siano sufficienti fattori
compensativi, tra i quali spicca l’adozione di misure idonee a permettere che abbia luogo una corretta
valutazione dell’affidabilità della prova come, ad esempio, la presenza di elementi idonei a corroborare
già nel caso Horncastle, aveva affermato che il giudice nazionale può rifiutarsi motivatamente di applicare nel caso concreto la
sole or decisive rule (così Corte Suprema del Regno Unito, 9 dicembre 2009, Pres. Phillis, R. c. Horncastle e altri, in Cass. pen., 2011,
p. 4493). La questione origina dalla disciplina introdotta dal Criminal Justice Act del 2003 che, sotto alcuni profili, consente in
maniera più ampia l’utilizzazione di dichiarazioni unilaterali. Successivamente, tale posizione era stata ribadita dalla IV sezione
della Corte europea, nel caso Al-Khawaja e Tahery, 20 gennaio 2009, in Cass. pen., 2009, p. 4034, prima che la questione fosse rimessa alla Grande Camera. Per una accurata disamina, A. Balsamo, “Processo equo”, cit., pp. 4494 ss. La vicenda appena ricordata ha costituito un esempio del dialogo giudiziario tra Corte di Strasburgo e tribunali nazionali auspicato nell’opinione preliminare della Corte in preperazione della Conferenza di Brighton (20 febbraio 2012). Si veda amplius A. Balsamo, La Corte di
Stasburgo e i testimoni assenti, cit., p. 2838, nota 8. V., altresì, M. Auriemma, Sulla “prova unica o determinante”. Il caso Al-Khawaja e
Tahery c. Regno Unito, in Arch. pen., 2012, n. 2, p. 597 ss. Secondo A. Balsamo, La Corte di Strasburgo e i testimoni assenti: gli sviluppi
del “nuovo corso” avviato dalla sentenza Al-Khawaja, in Cass. pen., 2013, p. 2837, il revirement della Corte di Strasburgo è dovuto alla
volontà di adeguarsi ai dettami della direttiva 2011/36/UE (art. 9) e della direttiva 2011/92/UE (art. 15) rispettivamente in tema di prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e protezione delle vittime ed in materia di lotta contro l’abuso e lo
sfruttamento sessuale dei minori e pornografia minorile. Le predette norme mirano infatti ad assicurare che il procedimento
penale possa continuare anche se la vittima ritratta le proprie dichiarazioni. V., ancora, A. Balsamo, Il contenuto dei diritti fondamentali, in R.E. Kostoris (a cura di), Manuale di procedura penale europea, ristampa integrata, Milano, 2014, p. 112.
21
In proposito, la Grande Camera ha menzionato l’ipotesi della morte o dell’intimidazione del dichiarante. In particolare,
con riferimento all’assenza dovuta ad intimidazione, la Corte ha precisato che occorre distinguere tra due ipotesi. Quelle in cui
l’intimidazione deriva da minacce o altre azioni dell’imputato o persone che agiscano nel suo interesse e quelle in cui
l’intimidazione è dovuta ad una generica paura di quello che può accadere se il teste depone. Nel primo caso, se il teste non depone, le precedenti dichiarazioni sono utilizzabili anche come prova unica o decisiva contro l’imputato. Infatti, permettere a
quest’ultimo di trarre beneficio dall’intimidazione da lui stesso provocata sarebbe incompatibile con i diritti delle vittime e dei
testimoni. Chi ha agito in questo modo, direttamente o tramite altre persone, è come se avesse rinunciato al diritto a confrontarsi. A detta dei Giudici di Strasburgo, se è vero che è notoriamente difficile accertare condotte del genere, se si investiga adeguatamente simili difficoltà non sono insuperabili. La casistica della Corte dimostra che è molto comune per i testimoni avere una
generica paura di deporre non direttamente attribuibile all’intimidazione dell’imputato. Ad esempio, in molti casi il timore deriva dalla notorietà di tale soggetto o del suo entourage. Per ritenere scusabile la mancata deposizione del teste non è necessaria
una condotta diretta dell’imputato. La paura di morire, di subire conseguenze negative o perdite finanziarie sono motivi rilevanti per esonerare dal deporre. Questo non significa tuttavia che ogni timore soggettivo basti. I giudici devono condurre adeguate inchieste per determinare prima se ci sono fondamenti oggettivi e in secondo luogo se essi sono dimostrati da prove (v. ad
esempio, Corte e.d.u., 28 febbraio 2006, Krasniki c. Repubblica Ceca, ricorso n. 51277/99). Infine, data la gravità del vulnus che
l’assenza del testimone arreca al diritto di difesa, la Corte ha ritenuto che l’utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni debba
essere l’extrema ratio. Prima di arrivare a tanto, le corti interne devono esperire tutte le possibili alternative come la deposizione
anonima e altre speciali misure. Solo se esse risultano impossibili si può utilizzare la precedente dichiarazione.
22
La non violazione della Convenzione nei confronti di Al-Khawaja non è stata ritenuta all’unanimità. Si vedano le considerazioni svolte nell’opinione in parte dissenziente dei giudici Sajó e Karakaş. Sul punto, M. Biral, L’overall examination: nuove
frontiere sul diritto a confrontarsi con i testimoni, cit., p. 1 ss.
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le dichiarazioni unilaterali 23. Questo assicura che una condanna sia basata su tali prove soltanto se esse
appaiono affidabili data la loro importanza nel processo.
IL DIRITTO A CONFRONTARSI COME COMPONENTE DEL PROCÈS ÉQUITABLE
Una simile conclusione è stata considerata dalla Grande Camera come il naturale corollario del tipo
di valutazione che i giudici di Strasburgo effettuano nell’esaminare il rispetto dell’art. 6, par. 3, lett. d)
Poiché tale norma, come si è accennato, è da sempre considerata un aspetto del giusto processo ex art. 6,
par. 1, la violazione della stessa si apprezza nel contesto di un esame complessivo della giustizia del
procedimento e dunque alla luce di eventuali altre garanzie idonee a controbilanciarne la lesione 24. Per
la Corte, anche la sole or decisive rule deve essere applicata nello stesso modo. Non sarebbe corretto,
nell’occuparsi di questioni di equità, applicare questa regola in modo inflessibile. Né sarebbe giusto per
la Corte ignorare in toto le specificità del particolare sistema giuridico interessato e, in particolare, le sue
regole probatorie. In tal modo, infatti, si trasformerebbe la regola in esame in un meccanismo indiscriminato, avulso dall’approccio con il quale tradizionalmente la Corte si cimenta con la questione della
complessiva correttezza dei procedimenti bilanciando i diritti della difesa, della vittima, dei testimoni e
l’interesse pubblico all’efficienza nell’amministrazione della giustizia.
LE CORTI SI ALLINEANO: L’ESISTENZA DEI RISCONTRI QUALE TIPICA GARANZIA COMPENSATIVA
È evidente la vaghezza del concetto di “compensazione” mediante il quale, in definitiva, la Corte europea si riserva di valutare le peculiarità della specifica vicenda. Ove si abbia riguardo alle pronunce successive, peraltro, non sfugge che i giudici di Strasburgo hanno sostanzialmente valutato il novero delle
prove disponibili ed il vaglio sull’attendibilità delle dichiarazioni unilaterali condotto nella motivazione 25. Dunque, sia pure nell’ambito del consueto approccio “casistico” proprio dell’organo della Convenzione, tra le garanzie compensative quasi sempre un peso rilevante ha avuto il riscontro intrinseco
ed estrinseco delle dichiarazioni 26. Di modo che, da più parti si è posto l’interrogativo se la sentenza segni effettivamente una svolta, oppure si ponga in linea di sostanziale continuità con il passato, limitandosi, in definitiva, ad attenuare il peso degli “altri elementi” che da sempre dovevano essere presi in
23
Si veda I. Dennis, Al-Khawaja and Tahery v. United Kingdom, Commentary, in Crim. Law Rev., 2012, p. 377: «the court does not
go as far as sayng that corroborative evidence is necessary where a hearsay statement is sole or decisive, and the judgment should not be read
as laying down requirement for it. But it was plainly trated as a very important facor to put in the balance of fairness in admitting or excluding the hearsay statements».
24
In tali casi si ha riguardo a fattori come il modo in cui le garanzie sono state applicate, l’ampiezza con cui le opportunità
procedurali sono state riconosciute alla difesa per controbilanciare i limiti che ha patito ed il modo in cui il procedimento nel
suo complesso è stato condotto dal giudice.
25
Nello stesso caso deciso dalla Grande Camera il criterio dei riscontri ha condotto ad esiti diversi. Mentre in relazione ad
Al-Khawaja è stata esclusa la violazione dell’art. 6 della Convenzione, nel caso Tahery è stata ravvisata una violazione della Convenzione (art. 6, parr. 1 e 3, lett. d) per l’assenza di idonee garanzie compensative.
26
Così, nella sentenza, Corte e.d.u., 19 febbraio 2013, Gani c. Spagna, ric. n. 61800/08, la Corte europea ha ritenuto corretta
l’utilizzazione di dichiarazioni predibattimentali di una vittima impedita a testimoniare a causa di uno stress post-traumatico
perché adeguatamente bilanciata dall’esistenza di seri riscontri. In tale occasione, i giudici di Strasburgo non hanno mancato di
ribadire che la regola della prova esclusiva o determinante non deve essere applicata in maniera inflessibile nella risoluzione di
questioni attinenti all’equità del procedimento, in quanto altrimenti si trasformerebbe la regola in uno strumento grezzo e indiscriminato che si porrebbe in contrasto con l’approccio tradizionalmente adottato dalla Corte nel giudizio sulla complessiva
equità processuale mediante la ponderazione dei concorrenti interessi della difesa, della vittima, dei testimoni, nonché
dell’interesse pubblico all’effettività dell’amministrazione della giustizia. In base ad analogo approccio, nel caso Corte e.d.u., 22
novembre 2012, Tseber c. Repubblica Ceca, ricorso n. 46203/08 i giudici di Strasburgo hanno condannato lo Stato sul rilievo
dell’inadeguatezza delle garanzie compensative in relazione ad un’ipotesi in cui la condanna era stata basata sulle dichiarazioni
rese da una persona successivamente resasi irreperibile. Per una analitica disamina di entrambe le decisioni A. Balsamo, La Corte di Strasburgo e i testimoni assenti, cit., p. 2840 ss.
Ancora, nella vicenda Corte e.d.u., 3 dicembre 2013, Văraru c. Roumanie, ricorso n. 35842/05 la Corte europea ha affermato
che, in assenza di elementi atti a corroborare la versione dei fatti fornita dalla vittima, l’acquisizione di dichiarazioni decisive
rese nel corso delle indagini non ha consentito un equo e corretto accertamento da parte dei giudici. In termini, Corte e.d.u., 27
febbraio 2014, Lučić c. Croazia, ricorso n. 5699/11.
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considerazione nella valutazione della “decisività” delle dichiarazioni unilaterali 27.
Ad uno sguardo disincantato, emerge ictu oculi che nell’orientamento inaugurato dalla sentenza della Grande Camera in definitiva il ruolo dei riscontri viene ad essere, più che mutato, precisato: in primo
luogo, se si tratta di elementi dotati di alta valenza dimostrativa, essi possono alleggerire fino ad annullarlo il valore “determinante” della dichiarazione unilaterale. In seconda battuta, ed in denegata ipotesi,
essi vengono collocati nell’alveo di quelle “garanzie compensative” che valgono a rendere convenzionalmente accettabile l’utilizzo della dichiarazione unilaterale come prova determinante 28.
Non sfugge come un simile approccio abbia comportato un notevole avvicinamento alle conclusioni
raggiunte dalla sentenza De Francesco eliminando, dunque, ogni profilo di divaricazione tra il nostro
ordinamento ed il sistema convenzionale.
UN ETERNO REFRAIN
Dal canto suo, la giurisprudenza interna successiva in alcuni casi – pur citando la sentenza Al-Khawaja
e Tahery – continua a riproporre ex professo la “sole or decisive rule” effettuando una vera e propria “prova di resistenza” dell’affermazione di responsabilità penale alla luce di tutti gli elementi desumibili dal
complesso delle ulteriori risultanze processuali 29; in altre occasioni richiama più semplicemente la necessaria esistenza di altri elementi di prova, escludendo l’ammissibilità dei c.d. riscontri incrociati 30.
L’impressione è che, in subjecta materia, l’approccio della Corte interna si stia assestando sull’analisi del
“peso” che le dichiarazioni unilaterali hanno avuto sulla decisione, con un apprezzabile avvicinamento
al tipo di giudizio condotto dalla Corte europea sia all’epoca della valutazione congiunta, sia dopo la
sentenza Al-Khawaja e Tahery.
In particolare, anche la Cassazione pare condurre oggi un sindacato bifasico. In prima battuta, effettuata la prova di resistenza, si valuta se le dichiarazioni unilaterali hanno avuto un peso esclusivo o determinante. Qualora si verifichi quest’ultima eventualità, in seconda battuta, si esamina l’esistenza di
idonee garanzie procedurali, quali come si è detto più volte, la presenza di riscontri 31.
In proposito, tuttavia, è appena il caso di rilevare che la valutazione in due fasi ha un senso qualora
si vadano a cercare garanzie compensative “eterogenee” e cioè non attinenti alla valutazione delle pro27
Così I. Dennis, Al-Khawaja, cit., p. 377, che rileva come ci si trovi dinanzi ad un “ritorno dei riscontri”; M. Biral, L’overall
examination, cit., pp. 14-15.
28
Cfr. M. Biral, L’overall examination, cit., p. 15. L’Autrice, peraltro, segnala il rischio che l’approccio globale e multicriteriale alle garanzie compensative intrapreso dalla sentenza Al-Khawaja, al di là del problema dei riscontri – sostanzialmente sovrapponibile al passato – possa dare la stura ad orientamenti che attribuiscano valore compensativo ad elementi del caso concreto
del tutto estranei ed eterogenei al tema della valutazione della prova. Per il rilievo che, rispetto al passato, ciò che muta non sono i criteri di valutazione, ma il contesto processuale al quale si rapportano, P. Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 44; Id.,
Quattro fallacie in tema di prova, in questa Rivista, 2014, 1, p. 10.
29
Cass., sez. VI, 13 novembre 2013, n. 2296, in CED Cass., n. 257771, che ha rigettato il ricorso della difesa sottolineando come quest’ultima non si fosse confrontata criticamente con la sentenza d’appello sotto il profilo della valutazione di decisività,
giacché l’accusa era basata anche su ulteriori emergenze processuali. In termini, Cass., sez. I, 4 aprile 2012, n. 14807, in CED
Cass., n. 252269, che ha disposto l’annullamento con rinvio sul rilievo che la prova di resistenza, volta a verificare se la responsabilità dell’imputato si basi in misura significativa o determinante sulle dichiarazioni, ovvero se esse costituiscano esclusivamente elementi di riscontro, deve per prima cosa essere compiuta dal giudice di merito e poi essere sottoposta al vaglio di legittimità. V. anche Cass., sez. fer., 1° agosto 2013, n. 35729, in Foro it., 2013, 11, II, p. 601 che ha ritenuto non decisive le dichiarazioni unilaterali.
30
Sul divieto di riscontri incrociati: Cass., sez. III, 20 giugno 2012, n. 28988, in Cass. pen., 2013, p. 4079 secondo cui dichiarazioni del medesimo tipo sono affette dalla stessa “debolezza intrinseca” e nella giurisprudenza di merito Tribunale Monza, 12
dicembre 2012, n. 3094, in Arch. n. proc. pen., 2013, p. 681. Nella sentenza Al-Khawaja e Tahery non vi è alcun cenno alla necessaria
reciproca autonomia e diversa natura degli elementi che fungono da riscontro alla dichiarazione unilaterale. In tal senso, v. anche R. Casiraghi, Testimoni assenti: la Grande Camera ridefinisce la regola della “prova unica o determinante”, cit., p. 319. Sulla necessità di svolgere accertamenti rigorosi e personalizzati, circa la effettiva irreperibilità dovuta a ragioni oggettive, Cass., sez. II, 2
febbraio 2012, n. 4702, in www.dirittoegiustizia.it, con nota di L. Della Casa, Lettura delle precedenti dichiarazioni? solo dopo accurati
accertamenti; Cass., sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 12374, in CED Cass., n. 255390; Cass., sez. I, 19 aprile 2013, n. 34603, Guida dir.,
2013, 40, p. 92; Cass., sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 16445. Sulla problematica, M.L. Busetto, Il contraddittorio inquinato, Padova, 2009,
pp. 107 ss.; C. Fanuele, L’irripetibilità sopravvenuta delle dichiarazioni in precedenza acquisite: l’“accertata impossibilità di natura oggettiva” giustifica una deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova, in Cass. pen., 2001, p. 1517.
31
Si veda, nitidamente, Cass., sez. VI, 13 novembre 2013, n. 2296, cit.
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ve. Qualora, per contro – come fino ad oggi sembra essere accaduto – si faccia questione di corroboration,
a ben vedere già nell’affermazione che le dichiarazioni unilaterali costituiscono prova determinante,
pur in presenza di altri elementi, è sostanzialmente ipotecato – se non addirittura implicito – l’esito positivo del sindacato sull’esistenza della garanzia compensativa dei riscontri.
In ogni caso, pare lecito constatare che quel “giardino proibito”, dai cui pericoli da tempo si cerca di
mettere in guardia, continua ad esercitare un intramontabile fascino 32. Nel diritto vivente, in tema di
prova dichiarativa, i riscontri ondeggiano tra l’atteggiarsi alla stregua di un deus ex machina, che consente di recuperare dichiarazioni non passate al vaglio del contraddittorio, e l’incarnare un idolo polemico
da abbattere: si pensi alle vicende dei testimoni assistiti che in molti casi la giurisprudenza ha tentato di
emancipare dalle pastoie della corroboration 33.
Si è dinanzi ad un eterno ritorno ancorato ad un approccio “quantitativo” forse non ancora pienamente consapevole delle implicazioni “qualitative” del criterio dell’al di là del ragionevole dubbio 34.
32
Il riferimento è, ovviamente, a P. Ferrua, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Questioni giustizia,
1998, p. 587.
33
Volendo, sulla “fuga giurisprudenziale dai riscontri” che si coglie nelle pronunce della Cassazione e della Corte costituzionale in materia di testimoni assistiti, P. Tonini e C. Conti, Il diritto delle prove penali, cit., p. 292 ss.
34
P. Ferrua, La prova nel processo penale: profili generali, cit.
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Scenari
Overviews
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Elena Zanetti
TRE ACCORDI BILATERALI CON SAN MARINO,
ZATA E TERRORISMO INTERNAZIONALE
ESTONIA E TURCHIA IN TEMA DI CRIMINALITÀ ORGANIZ-
Il Parlamento ha adottato le leggi di esecuzione e ratifica di tre recenti intese bilaterali dedicate alla lotta
alla criminalità organizzata internazionale nelle sue diverse forme.
Con l. 17 ottobre 2014, n. 167 si è disposto in tal senso quanto all’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Congresso di Stato della Repubblica di San Marino sulla cooperazione per la prevenzione e la repressione della criminalità, fatto a Roma il 29 febbraio 2012 (in G.U., 14 novembre 2014,
n. 265). Grazie alla l. 21 novembre 2014, n. 179 si è provveduto alla ratifica e all’esecuzione dell’Accordo
di cooperazione fra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica di Estonia sulla
lotta contro la criminalità organizzata, il terrorismo ed il traffico illecito di droga, fatto a Tallin l’8 settembre 2009 (in G.U., 11 dicembre 2014, n. 287). Si deve, infine, alla l. 12 gennaio 2015, n. 5 la ratifica e
l’esecuzione dell’Accordo di cooperazione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della
Repubblica di Turchia sulla lotta ai reati gravi, in particolare contro il terrorismo e la criminalità organizzata, fatto a Roma l’8 maggio 2012 (in G.U., 29 gennaio 2015, n. 23). L’entrata in vigore di ciascuna
delle tre leggi – ai sensi del rispettivo art. 4 – è fissata per il giorno successivo a quello della data di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
I tre Accordi in esame s’inseriscono nella cornice normativa costituita dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (C.T.O.C., Palermo, 2000), con i suoi Protocolli addizionali, e dalla l. 16 marzo 2006, n. 146 (specie per ciò che attiene alla disciplina delle “operazioni sotto copertura”), con cui, da parte italiana, ne è stata autorizzata la ratifica. La Convenzione di
Palermo – adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15 novembre 2000 con risoluzione
A/RES/55/25 – è entrata in vigore, ai sensi dell’art. 38, par. 1, il 29 settembre 2003, ovvero il novantesimo giorno successivo al deposito del quarantesimo strumento di ratifica, accettazione, approvazione
o adesione. Ad oggi essa è stata ratificata da 185 Stati, tra i quali vanno annoverati anche l’Italia e gli
Stati partners interessati (in particolare, il nostro Paese ha operato la ratifica il 2 agosto 2006; San Marino
il 20 luglio 2010; l’Estonia il 10 febbraio 2003 e la Turchia il 25 marzo 2003; il testo della Convenzione,
unitamente allo stato delle firme e delle ratifiche, è consultabile nel sito delle Nazioni Unite, all’indirizzo www.unodc.org/unodc/en/treaties/CTOC/index.html).
In primo luogo, l’art. 19 della Convenzione ONU rimette agli Stati Parte la valutazione dell’opportunità di stringere accordi o intese bilaterali o multilaterali per mezzo dei quali «le autorità competenti interessate possono creare organi investigativi comuni», o – in mancanza di simili intese – di «intraprendere indagini comuni sulla base di accordi caso per caso». Ai sensi dell’art. 20, par. 2, inoltre, allo scopo
di indagare sui reati che rientrano nell’ambito di applicazione della Convenzione, gli Stati Parte sono
incoraggiati «a stringere, laddove necessario, gli opportuni accordi o intese bilaterali o multilaterali»
per l’impiego di «tecniche speciali di investigazione nel contesto della cooperazione internazionale»,
precisandosi che «tali accordi o intese vengono conclusi e attuati in piena ottemperanza del principio
della sovrana eguaglianza degli Stati e vengono attuati in stretta conformità ai termini di tali accordi o
intese». In prospettiva analoga, in forza dell’art. 27, par. 2, per favorire l’attuazione della Convenzione,
è fatto carico agli Stati Parte di valutare «l’opportunità di concludere intese o accordi bilaterali o multilaterali per la diretta collaborazione tra le proprie istituzioni preposte alla lotta al crimine e, laddove tali
intese o accordi siano già esistenti, l’opportunità di emendarli».
Diversamente da quanto suggerirebbe la loro differente intitolazione, si tratta a tutti gli effetti – salve
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talune differenze di dettaglio – di intese “gemelle”, che sanciscono l’impegno del nostro Paese a rafforzare con gli Stati partners – entro i limiti posti dalle rispettive normative nazionali – la collaborazione e
la reciproca assistenza per potenziare l’azione di contrasto alla criminalità organizzata internazionale in
tutte le sue manifestazioni, la lotta al terrorismo internazionale, al traffico di migranti, al riciclaggio di
denaro e al traffico illecito di armi e di sostanze stupefacenti. L’ambito di riferimento degli Accordi in
esame concerne la sola cooperazione nelle attività di carattere investigativo, preventivo e di contrasto.
Come si legge nei lavori preparatori delle rispettive leggi di ratifica e di esecuzione, il principale obiettivo perseguito dalle intese è, infatti, quello di incrementare la cooperazione bilaterale tra le forze di polizia, rendendola nel contempo più aderente alle attuali esigenze di sicurezza e favorendo lo sviluppo
di nuove prospettive di collaborazione. Un ulteriore obiettivo specifico è quello di fornire uno scambio
formativo – professionale tra gli Stati partners, «valorizzando le esperienze specifiche a vantaggio della
qualità investigativa delle Parti».
Esula dunque, di conseguenza, dal perimetro applicativo degli Accordi de quibus l’intero settore della cooperazione giudiziaria in senso proprio. In tal senso, sia nell’art. 1, par. 2, dell’Accordo con San
Marino, sia nell’art. 1, par. 2 di quello con la Turchia si precisa espressamente come essi non abbiano
«effetto sulle procedure internazionali di assistenza giudiziaria ed estradizione».
Venendo ad un esame più approfondito del contenuto di ciascun Accordo, quello con San Marino si
compone di 14 articoli. Tra i settori della reciproca cooperazione l’art. 2 ricomprende, per altro in modo
non tassativo: il crimine organizzato transnazionale, inclusa la criminalità informatica e il traffico illecito di beni culturali; la produzione e il traffico illecito di sostanze stupefacenti; l’immigrazione irregolare
e la tratta di persone; la frode, falsificazione o contraffazione di documenti; il traffico illecito di armi ed
esplosivi, sostanze tossiche e radioattive; il riciclaggio, reati economici e finanziari; nonché il terrorismo
internazionale, in conformità con le legislazioni nazionali vigenti e gli obblighi internazionali. In tali
ambiti è, inoltre, previsto l’impegno alla reciproca assistenza «nelle operazioni speciali delle consegne
sorvegliate e delle attività sotto copertura» (par. 3). Nell’art. 3 sono, inoltre, elencate le modalità di attuazione della collaborazione, che prevedono quali forme applicative, tra le altre, lo scambio di informazioni di varia natura, l’assistenza in materia di formazione, il possibile invio di esperti per periodi
determinati di tempo, in vista dello svolgimento di operazioni congiunte e di servizi misti. In proposito
le Parti concordano, in particolare, «sulla necessità di rendere più rapido lo scambio e l’utilizzo delle
informazioni delle rispettive forze di polizia, concernenti oltre alla criminalità organizzata, anche la
prevenzione e la repressione della criminalità in genere, nonché dei dati in materia di tutela dell’ordine
e della sicurezza pubblica». A tal fine, per migliorare le metodologie di comunicazione, è stata prevista
la possibilità di adottare un collegamento tra “punti di contatto”, identificati, per l’Italia nel Ministero
dell’interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione Centrale della Polizia criminale – Servizio per la cooperazione internazionale di Polizia, e per San Marino nella Segreteria di Stato per gli Affari esteri e politici – Dipartimento di Polizia allargato all’Ufficio Centrale nazionale Interpol in collaborazione con la Gendarmeria. Si precisa altresì che le modalità di comunicazione tra i punti di contatto
saranno regolate «attraverso specifiche intese tecniche». A successive intese viene del pari rinviata anche l’eventuale pianificazione di “servizi misti” mirati e l’individuazione degli Uffici di polizia autorizzati alla cooperazione (par. 2).
In ordine ai limiti imposti al trattamento dei dati personali e delle informazioni di carattere sensibile,
l’art. 4 dispone che essi siano utilizzati unicamente per il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Accordo stesso, nel pieno rispetto della vigente normativa interna ed internazionale. Inoltre, riconosciuta l’importanza cruciale per la completa attuazione dell’Accordo della gestione dei dati personali
rispettivamente acquisiti, la Parti si impegnano in modo reciproco a «garantire un analogo livello di
protezione» del materiale acquisito, e ad adottare le necessarie misure tecniche ed organizzative, anche
al fine di assicurare che a tali dati accedano soltanto le persone autorizzate (par. 3).
Le procedure di presentazione e di esecuzione di una richiesta di assistenza sono regolate rispettivamente dagli artt. 5 e 6. In proposito, l’art. 6, par. 5, vincola la Parte richiesta a comunicare alla Parte
richiedente gli esiti di una domanda di assistenza, salvo che la legislazione nazionale stabilisca limiti
temporali diversi, entro il termine di trenta giorni dalla sua ricezione. La facoltà di diniego – totale o
parziale – dell’assistenza richiesta è circoscritta alle quattro ipotesi espressamente menzionate dall’art.
7, par. 1, tra cui si segnala, in particolare, il pregiudizio per la sovranità, la sicurezza o gli interessi nazionali della Parte richiesta.
Le Autorità responsabili per l’esecuzione dell’Accordo sono individuate – dall’art. 8 – nel Ministero
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dell’interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, per l’Italia e nel Dipartimento di Polizia allargato
all’Ufficio Centrale nazionale Interpol, per il Congresso di Stato di San Marino. L’Accordo prevede,
inoltre, la possibilità per i rappresentanti degli Stati Parte di tenere riunioni e condurre consultazioni
per discutere e migliorare la cooperazione (art. 9), indicando quale modalità per la risoluzione di eventuali controversie la composizione amichevole, mediante consultazioni tra le Parti (art. 10). L’art. 12 dispone poi circa l’imputazione delle spese, mentre si deve all’art. 13 la designazione dell’italiano quale
lingua ufficiale della reciproca cooperazione.
Ai sensi dell’art. 14, l’entrata in vigore dell’Accordo è fissata alla data dell’ultima notifica con cui le
Parti si comunicano reciprocamente per iscritto, attraverso i canali diplomatici, l’avvenuto adempimento delle rispettive procedure interne.
I negoziati per la definizione di un accordo in materia di cooperazione di polizia tra il Governo italiano e il Governo estone hanno preso avvio nel 2002, nell’imminenza dell’adesione all’Unione Europea
della Repubblica baltica. Il contesto internazionale ha, infatti, richiesto il rafforzamento della collaborazione con un’area di forte sviluppo economico, quale appunto quella baltica, al fine di prevenire i reati
collegati alla criminalità organizzata, al terrorismo internazionale e al traffico illecito di stupefacenti.
Come si precisa in più punti dell’Accordo, la cooperazione tra i due Stati partners è comunque ricondotta alle rispettive normative nazionali, con la conseguenza che le materie e gli istituti in esso previsti
«sono da riferirsi alle normali attribuzioni degli organi nazionali competenti alla sua esecuzione».
L’Intesa si basa, essenzialmente – come attesta la Relazione illustrativa al d.d.l. n. S 1219 – «sulla previsione di un costante scambio informativo, finalizzato alla cooperazione bilaterale nelle materie
d’interesse comune ai due Paesi, anche con riferimento all’immigrazione clandestina, al traffico di esseri umani, al traffico illecito di armi, munizioni, esplosivi, materiale strategico e nucleare, al riciclaggio di
denaro nonché alla falsificazione di documenti, denaro e valori» (art. 7). Per realizzare al meglio tale
scambio informativo viene previsto, in primo luogo lo scambio di ufficiali di collegamento e l’utilizzo
dei collegamenti telematici (art. 2).
Al fine di potenziare l’attività di contrasto alla criminalità organizzata, al terrorismo internazionale e
al narcotraffico, le Parti si impegnano, inoltre, ad avviare una regolare attività di consultazione tra i
rappresentanti dei Ministeri dell’Interno dei due Stati (art. 1, par. 2), anche in vista dell’adozione di
«posizioni comuni ed azioni concertate» in tutti i fori internazionali in cui vengono discusse o adottate
decisioni sulle strategie per la lotta alla criminalità organizzate in tutti i suoi aspetti (art. 4). Da segnalare che le Autorità responsabili per l’attuazione dell’Accordo rispettivamente designate dalle Parti contraenti (art. 1, par. 3) cooperano direttamente e possono individuare, mediante appositi protocolli, i settori di cooperazione specifici (art. 1, par. 4).
Sul piano operativo, l’Accordo differenzia le modalità di cooperazione, prevedendo disposizioni
specifiche in tema di lotta al terrorismo (art. 5), alla criminalità organizzata (artt. 6 e 7) e al traffico di
sostanze stupefacenti, psicotrope e precursori (art. 8). Ai sensi dell’art. 5, in particolare, le attività di
contrasto al terrorismo riguarderanno i seguenti settori: scambio sistematico e dettagliato di dati e di
informazioni relativi a gruppi terroristici; aggiornamento costante e reciproco sulle minacce terroristiche attuali, nonché sulle tecniche e strutture organizzative atte a contrastarle; scambio periodico di
esperienze e conoscenze sulla sicurezza dei trasporti, anche al fine di elevare costantemente gli standard
di sicurezza in uso; scambio a fini investigativi di informazioni utili su coloro che utilizzano i servizi di
telecomunicazione per attività terroristiche. Sul fronte della criminalità organizzata, si precisa poi che la
relativa cooperazione si estende – oltre alle diverse ipotesi menzionate dall’art. 7 – alla «ricerca delle
persone che sono perseguite per un reato o ricercate per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza» (art. 6), nel quadro delle normative nazionali di riferimento. Comune ai diversi ambiti d’intervento è, invece, la previsione della programmazione di corsi di formazione congiunti in tecniche investigative specifiche, nonché di scambi di esperienze e di conoscenze riguardanti normative, mezzi tecnici e metodologie utilizzate nell’azione di contrasto.
Quanto al contenuto delle richieste di informazioni, l’art. 9 si limita a stabilire che esse debbano contenere «una sintetica descrizione degli elementi che le giustificano». Il rifiuto – totale o parziale – di una
domanda di collaborazione o di assistenza è consentito in caso di pericolo per «la sovranità e la sicurezza dello Stato della Parte contraente richiesta o altri interessi statuali di primaria importanza», ovvero
qualora l’esecuzione risulti in contrasto con le rispettive legislazioni nazionali (art. 11).
L’utilizzo e la protezione dei dati personali comunicati in esecuzione dell’Accordo sono regolati – ai
sensi dell’art. 10 – in conformità al diritto interno di ciascuno Stato Parte. Gli unici soggetti legittimati al
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trattamento dei dati sensibili sono individuati nelle Autorità responsabili dell’esecuzione dell’Accordo.
La trasmissione ad Autorità diverse da quelle espressamente indicate dall’art. 1 è consentita soltanto
previa autorizzazione scritta da parte dell’Autorità competente che li abbia inviati per prima.
Si dispone poi che, entro trenta giorni dall’entrata in vigore dell’Accordo, le Parti contraenti comunichino reciprocamente – secondo le procedure previste dalle rispettive normative interne – «i nominativi
dei rispettivi Punti di Contatto nazionali» (art. 12). La risoluzione delle possibili controversie che insorgano sull’interpretazione, esecuzione o inapplicabilità dell’Accordo è affidata ai canali diplomatici (art.
3). Sono, infine, definite le modalità di entrata in vigore dell’Accordo (art. 16, par. 1) – di durata illimitata, con possibilità di recesso che avrà effetto entro sei mesi dalla sua ricezione – e disciplinate le procedure con cui apportare al testo eventuali emendamenti (art. 16, par. 2).
Anche la recente Intesa con la Turchia ricalca – nell’impianto e nei contenuti – il modello-standard
già seguito dai due Accordi appena esaminati. A differenza di questi ultimi essa non ha, però, colmato
un vuoto normativo. La cooperazione bilaterale di polizia è, infatti, avviata da tempo tra i due Paesi e si
è tradotta, sin dal 1998, nell’Accordo di cooperazione sulla lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al
riciclaggio dei proventi illeciti, al traffico illegale di stupefacenti, sostanze psicotrope e di esseri umani, entrato in
vigore il 9 febbraio 2001. Si è provveduto ora a definire – a seguito di una Nota Verbale con cui l’Ambasciata di Turchia trasmetteva, nel 2009, una prima bozza di Intesa – un quadro giuridico più puntuale
ed adeguato, quale cornice entro cui svolgere la cooperazione bilaterale nel settore della sicurezza. Alla
luce del mutato scenario internazionale, il nuovo atto pattizio mira, infatti, a superare il testo precedente, predisponendo uno strumento aggiornato, idoneo a regolare la cooperazione operativa e ad intensificare i rapporti tra gli omologhi organismi impegnati nella lotta alla criminalità e al terrorismo nelle loro varie manifestazioni, in un teatro di particolare interesse strategico, quale quello mediorientale.
Nell’ottica di un rafforzamento della collaborazione esistente – anche attraverso lo sviluppo di opportune sinergie nel settore della formazione del personale – le Parti contraenti si impegnano dunque a
cooperare attraverso «lo scambio di informazioni e tecniche investigative, l’esecuzione di operazioni di
polizia congiunte, lo studio, la ricerca e l’analisi congiunta sulle organizzazioni criminali per pianificare
mirate strategie di intervento». L’Accordo considera, in primo luogo, l’obbligo della cooperazione in
ossequio alle rispettive legislazioni nazionali e ai trattati internazionali vigenti (art. 1). Sotto il profilo
tecnico-operativo, sono quindi individuati i settori della reciproca cooperazione, ossia la prevenzione e
la lotta a: criminalità organizzata transnazionale (compreso il riciclaggio di denaro, il cybercrime ed il
traffico di opere d’arte); produzione illecita e traffico di stupefacenti, di sostanze psicotrope e di precursori chimici; tratta di esseri umani e traffico di migranti; traffico illecito di armi ed esplosivi; terrorismo
e relative forme di finanziamento (art. 2). Come si precisa nella Relazione illustrativa al d.d.l. n. S 1241,
tale elencazione non ha per altro carattere esaustivo, «ma costituisce solo una mera indicazione dei fenomeni attraverso i quali si manifesta generalmente l’agire della criminalità organizzata».
All’art. 3 è rimessa la definizione delle forme di cooperazione, la cui attuazione avverrà in conformità agli ordinamenti interni e, per quanto riguarda l’Italia, anche agli obblighi derivanti dalla sua appartenenza all’Unione Europea. Tra le informazioni oggetto di scambio tra le Parti contraenti l’Accordo
menziona anche quelle relative «alle tecniche e ai metodi attuati e sviluppati per il contrasto dei reati e
della criminalità nell’ambito dei servizi di polizia minorile, delinquenza minorile e reati contro i minori», nonché quelle di carattere operativo, ai fini dell’identificazione e della localizzazione di persone,
oggetti o denaro riferibili ai reati previsti.
L’attivazione della cooperazione nel quadro dell’Accordo ha luogo – ai sensi dell’art. 4, par. 1 – sulla
base delle richieste di assistenza da parte dell’Autorità competente interessata o su iniziativa dell’autorità competente che reputi tale assistenza «di interesse per l’altra Autorità competente». Di norma, le
richieste vanno presentate per iscritto. In caso di emergenza possono essere formulate in forma orale,
ma in tal caso dovranno essere confermate per iscritto entro sette giorni. Salvo che la legislazione interna della Parte richiesta non stabilisca termini diversi, l’Autorità competente di tale Parte deve notificare
alla Parte richiedente i risultati relativi all’esecuzione nel termine di trenta giorni dalla sua ricezione
(art. 4, par. 10). L’utilizzo delle informazioni e dei documenti scambiati tra le Parti è, in ogni caso, soggetto ai limiti posti dall’art. 5, sempre nel rispetto delle disposizioni contenute nelle Convenzioni internazionali sui diritti umani.
Le Autorità preposte all’applicazione dell’Accordo sono individuate, per l’Italia, nel Dipartimento
della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, e, per la Turchia, nella Direzione Generale della Sicurezza del Ministero dell’Interno. Entro trenta giorni dalla firma dell’Accordo, le Parti procedono allo
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scambio dell’elenco degli Uffici nazionali autorizzati a tenere contatti diretti al fine di adempiere alle
disposizioni dell’Accordo stesso e a stabilire i canali di comunicazione reciproca. Le Parti cooperano,
inoltre, attraverso i canali Interpol, i rispettivi ufficiali di collegamento ed altri esperti per i reati considerati (art. 6).
Al fine di agevolare l’esecuzione dell’Accordo sono, infine, previste riunioni e consultazioni tra i
rappresentanti delle Autorità competenti, da svolgere alternativamente in Italia e in Turchia (art. 7). La
risoluzione delle eventuali controversie sull’interpretazione o sull’applicazione dell’Accordo è rimessa
alla composizione amichevole mediante apposite consultazioni tra le Autorità competenti (art. 8).
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DE JURE CONDENDO
di Gioia Sambuco
RAFFORZAMENTO DELLE GARANZIE DIFENSIVE, DURATA RAGIONEVOLE DEL PROCESSO E CONTRASTO ALLA CORRUZIONE
È all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il corposo d.d.l. C. 2798 – «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la
durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltreché
all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena», d’iniziativa del Ministro della
Giustizia Orlando, di concerto con il Ministro dell’Interno Alfano e con il Ministro dell’Economia Padoan.
Come emerge dalla Relazione di accompagnamento, l’articolato d.d.l. – presentato alla Camera il 23
dicembre 2014 – ha un duplice obiettivo: da un lato, migliorare l’efficienza del processo penale e dell’ordinamento penitenziario in generale, attraverso una maggiore attenzione al tema della tutela di tutti
i diritti coinvolti nell’accertamento del reato; dall’altro, perfezionare la normativa di repressione del delitto di corruzione, fenomeno criminale dilagante.
In estrema sintesi, oltre alla disciplina processuale, oggetto di puntuale disamina in questa sede, si
apportano notevoli modifiche alla normativa sostanziale (Titolo I), inasprendo le pene del delitto di
corruzione (art. 3), anche al fine di aumentare i relativi tempi di prescrizione; inoltre, si migliora (art. 4)
il già efficace strumento della c.d. “confisca estesa”, prevedendo che il provvedimento ablativo conservi
efficacia pur quando nei successivi gradi di impugnazione sopravvenga una causa estintiva del reato
oggetto di accertamento. Al fine di assicurare che il prezzo o il profitto di questo grave delitto sia sempre oggetto di recupero a fini di confisca, si stabilisce poi che l’imputato, ove intenda chiedere il patteggiamento o l’emissione di una condanna a pena predeterminata, debba restituire l’integrale ammontare
del prezzo o del profitto del reato contestatogli, pena l’inammissibilità della richiesta di definizione anticipata del giudizio.
Rilevanti gli aspetti processuali che il d.d.l. intende modificare. In primis, l’art. 1, interpolando il codice penale con l’inserimento dell’art. 162 ter, conia una nuova causa di estinzione del reato: in riferimento ai soli reati procedibili a querela, si prevede che l’imputato abbia l’opportunità di uscire dal processo realizzando condotte riparatorie del danno derivante dal reato, al più tardi prima che abbia inizio
il dibattimento. Apprezzabile l’estensione dell’operatività di questo istituto anche per alcuni specifici
reati che, pur procedibili d’ufficio, si caratterizzano parimenti per la loro natura spiccatamente individuale.
Completa la disciplina la previsione secondo la quale l’imputato, per poter adempiere a restituzioni
e risarcimenti ovvero per eliminare le conseguenze dannose o pericolose prodotte dal reato commesso,
può richiedere un termine nel corso del quale il processo a suo carico ed il corso della prescrizione sarà
sospeso.
L’art. 2, rubricato «Disposizioni transitorie», sancisce l’immediata applicazione della suddetta causa di
estinzione per i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge; nello specifico, si prevede che l’imputato possa chiedere la sospensione del processo in modo da disporre del tempo necessario
a provvedere agli adempimenti riparatori.
Gli artt. 5, 6, 7 e 8 contengono modifiche alla disciplina della prescrizione e una delega al Governo
per la riforma del regime di procedibilità di taluni reati, evidenziando precipui criteri per una controllata estensione della procedibilità a querela e una riforma per la revisione del sistema del casellario giudiziale.
Degne di nota sono le disposizioni modificative della prescrizione: il nucleo della riforma del d.d.l.
in commento fa leva essenzialmente sulla sentenza di condanna di primo grado che, affermando la responsabilità dell’imputato, viene considerata assolutamente incompatibile con l’ulteriore decorso del
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termine utile all’“oblio collettivo” rispetto al fatto criminoso commesso. In ragione di ciò, sono introdotte specifiche parentesi di sospensione per consentire ai giudizi di impugnazione di disporre di un periodo congruo per il relativo svolgimento, senza la scure del decorso del tempo. Analogo meccanismo
di sospensione è sancito sub art. 5, n. 3, d.d.l., nel caso di rogatoria internazionale per poter acquisire le
prove richieste all’estero senza che l’attesa, non governabile da parte dell’autorità giudiziaria italiana,
consumi il tempo necessario al processo.
Si detta poi una disciplina transitoria all’art. 5, comma 2, d.d.l., prevedendo che le disposizioni trovino applicazione per i fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge, in ossequio a
quanto previsto all’art. 2 c.p.
L’art. 9 d.d.l. – che apre il Titolo II, rubricato “Modifiche al codice di procedura penale” – delinea i casi di
sospensione del processo per incapacità dell’imputato di parteciparvi coscientemente; in particolare, il
comma 2 introduce una nuova definizione del processo per il tramite dell’inserimento dell’art. 72 bis nel
codice di rito: se, a seguito degli accertamenti previsti dall’art. 70 c.p.p., risulta che lo stato mentale
dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile, il giudice, revocata l’eventuale ordinanza di sospensione del procedimento, pronuncia sentenza di
non doversi procedere, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza
diversa dalla confisca».
Si pone poi mano alla disciplina delle indagini preliminari e del procedimento di archiviazione: l’art.
10 modifica l’attuale art. 104 c.p.p., restringendo il potere di differire il colloquio del soggetto arrestato
con il proprio difensore – che implica un’evidente limitazione del diritto di difesa – ai casi particolarmente gravi, individuati nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata o con finalità di terrorismo; il disposto de quo, inoltre, interviene sull’art. 360 c.p.p. per impedire che l’esercizio del diritto di
fare riserva di incidente probatorio – diritto che spetta al sottoposto ad indagine nel caso in cui il p.m.
procede ad accertamento tecnico non ripetibile – non si presti a forme abusive, volte esclusivamente ad
ostacolare il compimento dell’atto di indagine. In tal senso, l’art. 10 d.d.l. propone l’inserimento del
comma 4 bis nell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.p., secondo cui la riserva perde efficacia e non
può essere formulata nuovamente se la richiesta di incidente probatorio non è proposta entro il termine
di cinque giorni dalla riserva stessa. Si manipola anche l’art. 409 c.p.p. in materia di archiviazione,
abrogando il comma 6 e, per effetto dell’art. 10, comma 5, d.d.l., si aggiunge un ulteriore art. 410 bis in
materia di nullità del provvedimento di archiviazione: viene, in particolare, prevista la nullità del decreto di archiviazione se emesso in mancanza dell’avviso di cui all’art. 408, comma 2, c.p.p. ovvero prima della scadenza del termine di cui al comma 3 del medesimo articolo e prima della presentazione
dell’atto di opposizione. Si precisa inoltre che il decreto di archiviazione è nullo se, essendo stata presentata opposizione, il giudice omette di pronunciarsi sulla sua ammissibilità (e, in tali ipotesi, si applica il procedimento di cui all’art. 130 c.p.p.); il comma 2 del nuovo disposto conia altresì una ipotesi di
nullità dell’ordinanza di archiviazione nei casi previsti dall’art. 127, comma 5, c.p.p.
All’interessato, inoltre, il nuovo art. 410 bis, comma 3, c.p.p. offre il rimedio della impugnazione
dinnanzi la Corte d’appello che provvede (annullando o confermando il provvedimento) con ordinanza
non impugnabile, senza intervento delle parti interessate, previo avviso, almeno dieci giorni prima,
dell’udienza fissata per la decisione alle parti medesime, che possono presentare memorie non oltre il
quinto giorno precedente l’udienza.
L’art. 11 d.d.l. – che apre il capo II del Titolo II, relativo alle “Modifiche in materia di riti speciali, udienza preliminare, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito” – apporta numerose modifiche
alla disciplina dell’udienza preliminare: tutte connotate dall’obiettivo di ridimensionare i poteri giudiziali cognitivi per evitare che siano talmente estesi da anticipare un vero e proprio giudizio, nel merito,
della vicenda processuale. In quest’ottica, l’art. 11 abroga interamente l’art. 421 bis c.p.p. mentre,
all’articolo 422, comma 1, c.p.p., sostituisce le parole: «anche d’ufficio» con quelle «a richiesta di parte».
L’art. 12 d.d.l. interviene sull’art. 428 c.p.p. in materia di impugnazione della sentenza di non luogo
a procedere. La novella attribuisce al giudice di appello e non più a quello di legittimità il gravame avverso la sentenza di non luogo a procedere; al riguardo nella Relazione di accompagnamento al d.d.l. in
questione si dà atto che tale scelta è giustificata dal fatto che la verifica della sussistenza delle condizioni per il rinvio a giudizio dell’imputato appare estranea all’ambito del sindacato proprio della Suprema
Corte, attenendo piuttosto, essenzialmente, alla ricostruzione del fatto ed al merito dell’accusa.
Il d.d.l. mette altresì mano all’istituto del rito abbreviato: in particolare, l’art. 13 statuisce che nel caso
in cui il giudizio abbreviato sia richiesto immediatamente dopo il deposito dei risultati delle indagini
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difensive – a cui così è conferito il rango di materiale direttamente utilizzabile per la decisione di merito
– senza che il p.m. abbia potuto esercitare il diritto alla controprova, il giudice possa non provvedere
immediatamente all’emissione dell’ordinanza dispositiva del giudizio, attendendo il decorso del termine eventualmente richiesto dal p.m. per lo svolgimento di indagini suppletive. Si sancisce, ancora, che
l’imputato possa revocare la richiesta di giudizio abbreviato alla luce del materiale delle indagini suppletive raccolto dal pubblico ministero e ovviamente non conosciuto al momento in cui la richiesta di
giudizio abbreviato era stata formulata.
Inoltre, nel solco della giurisprudenza di legittimità – secondo la quale la richiesta di giudizio abbreviato opera un effetto sanante della nullità, sulla falsariga di quanto disposto dall’art. 183 c.p.p. (Cass.,
sez. un., 26 settembre 2006, n. 39298, CED Cass., n. 234835) e l’eccezione di incompetenza territoriale è
proponibile negli atti iniziali del giudizio abbreviato richiesto in udienza preliminare, solo se sia stata
già proposta e rigettata nella stessa udienza (Id., sent. 29 marzo 2012, F., ivi, n. 252612) – il d.d.l. prevede, sub art. 14, che la richiesta di giudizio abbreviato proposta in udienza preliminare (quindi, non anche quella che segua alla notifica di un decreto di giudizio immediato) comporti la sanatoria delle eventuali nullità non assolute e la non rilevabilità delle inutilizzabilità non derivanti da violazioni di divieti
probatori, oltre che la non proponibilità dell’eccezione di incompetenza per territorio del giudice.
Significative modifiche sono altresì apportate all’applicazione della pena su richiesta delle parti: degna di nota, quella prevista dall’art. 14 d.d.l. che snellisce l’iter per la rettificazione della sola specie e
quantità della pena per errore di denominazione o di computo, sancendo che possa essere disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento. Se questo è impugnato, alla rettificazione
provvede la Corte di cassazione a norma dell’art. 619, comma 2, c.p.p.
L’art. 14, comma 9, d.d.l., inoltre, introduce nel codice di rito l’art. 448 bis che delinea un nuovo istituto, la c.d. “condanna emessa su richiesta dell’imputato”, che prescinde dall’accordo tra le parti ed è
appunto conseguenza della sola richiesta dell’imputato: quest’ultimo, se ammette il fatto rendendo confessione, può richiedere l’emissione immediata – in udienza preliminare o, se questa manca, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento – della sentenza di condanna a una pena fissata nel suo
preciso ammontare e comunque non superiore ad anni otto di reclusione, con la previsione di una riduzione premiale da un terzo alla metà. L’applicazione di questo nuovo istituto si estenderebbe alle ipotesi per le quali oggi è ammesso il c.d. “patteggiamento allargato”, con l’unica eccezione dei recidivi di
cui all’art. 99, comma 4, c.p. (art. 448 bis, comma 2, c.p.p.).
La sentenza è una sentenza di condanna in senso proprio, che decide, ove vi sia stata già costituzione di parte civile, anche sulla domanda civile e che produce effetti vincolanti extrapenali senza alcuna
limitazione rispetto alla sentenza di condanna emessa in dibattimento. All’accoglimento della richiesta
di pena con ammissione di responsabilità seguono l’inappellabilità per l’imputato della sentenza e una
limitazione dell’appellabilità da parte del p.m. modellata sulla disciplina attuale per la sentenza di condanna emessa nel giudizio abbreviato. Si applica anche a tale soluzione processuale la disposizione
prevista per il patteggiamento nei procedimenti per i più gravi delitti dei pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione, condizionandosi la richiesta di condanna alla restituzione integrale del
prezzo e del profitto del reato.
Per completezza, occorre altresì precisare che l’art. 15 d.d.l. reca modifiche – non particolarmente significative – all’art. 493 c.p.p., e cioè all’esposizione introduttiva ai fini della valutazione delle richieste
di prova.
Il d.d.l., inoltre, si spinge sub art. 16 a profilare la necessità di mettere mano all’art. 546 c.p.p. Nella
Relazione di accompagnamento, si legge espressamente che l’intervento normativo de quo si giustificherebbe per costruire, nel contesto del libero convincimento del giudice, il modello legale della motivazione «in fatto» della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello
inferenziale indicato per la valutazione delle prove.
Significative modifiche sono poi apportate all’art. 571 c.p.p.: l’art. 17 d.d.l. esclude che l’imputato
possa personalmente presentare ricorso per cassazione. La norma – che apre il capo III del Titolo II, intitolato “Semplificazione delle Impugnazioni” – pare apprezzabile considerato che, essendo uno strumento
di gravame ad elevato tasso di tecnicità, è d’uopo che il relativo potere debba essere conferito unicamente al difensore. L’art. 17, comma 2, d.d.l., modifica altresì l’art. 591 c.p.p., coniando una disciplina
“semplificata” per la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, senza ritardo né formalità di
procedura, da parte del giudice a quo, in tutti i casi nei quali l’invalidità dell’atto emerga senza che siaSCENARI | DE JURE CONDENDO
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no necessarie valutazioni che, come per la mancanza di interesse o il difetto di specificità dei motivi,
superino l’oggettività delle situazioni per le quali è prevista.
L’attuale disciplina del giudizio di appello è poi significativamente rielaborata per effetto degli artt.
18, 24 e 25, comma 1, lett. da e) a l), che, delineando una serie di direttive di delega, mirano – come si
legge nella Relazione di accompagnamento al d.d.l. – a «trasformarlo in uno strumento di impugnazione a critica vincolata ai motivi tassativamente indicati dalla legge».
Precisamente, l’art. 18 d.d.l., introducendo l’art. 599 bis c.p.p., recupera l’istituto del c.d. “patteggiamento in appello”, abrogato nel 2008, in considerazione dell’indubbia efficacia deflativa che esso può
comportare. Sono però stabilite al comma 2 precipue esclusioni che essenzialmente coincidono con
quelle oggi previste per il c.d. “patteggiamento allargato”, con l’unica eccezione dei recidivi di cui
all’art. 99, comma 4, c.p.
Merita di essere altresì segnalato il combinato disposto di cui agli artt. 19, 24 e 25 d.d.l., che apporta
puntuali e significative modifiche anche al ricorso per cassazione. Si fissa, evidentemente in ossequio
alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato, il principio di delega in forza del quale, in caso di
c.d. «doppia decisione conforme» assolutoria, il ricorso per cassazione può essere proposto soltanto per
i motivi che afferiscono alle violazioni di legge (quindi non anche ai difetti di motivazione). Si richiede,
poi, espressamente al legislatore delegato di individuare le condizioni per poter affermare la conformità delle decisioni di merito e di individuare pari limitazioni per la ricorribilità delle sentenze di appello.
Si modifica altresì l’attuale formulazione dell’art. 610 c.p.p. (art. 19, comma 5, d.d.l.), nella misura in
cui si consente al ricorrente di essere informato della ragione del rilievo d’inammissibilità del ricorso,
potendo egli eventualmente replicare con una memoria. A fini deflativi, si sancisce una nuova disciplina semplificata di dichiarazione di alcuni casi di inammissibilità, quando emerge senza necessità di valutazioni che superino l’oggettività delle situazioni già indicate nella precedente analisi dell’art. 591,
comma 1 bis, c.p.p.; si prevede, poi, un’analoga disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi anche contro le sentenze di patteggiamento o di concordato sui motivi e che il ricorso per
cassazione debba essere predisposto solo da parte di un avvocato iscritto all’albo speciale (così scoraggiandosi la presentazione di ricorsi meramente defatigatori ed accelerando la formazione del giudicato); si modifica, inoltre, l’art. 616, comma 1, c.p.p., con la previsione della possibilità di aumentare sino
al triplo l’attuale importo previsto, a titolo di sanzione, per il caso di inammissibilità del ricorso, sempre
al fine di scoraggiare la presentazione di ricorsi meramente dilatori; si introduce una specifica disposizione che consente di adeguare, come già previsto per altre ipotesi, l’importo della sanzione pecuniaria
alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo; si modifica l’art. 48, comma 6 c.p.p., in materia di rimessione del processo, che prevede la possibilità di aumentare sino al doppio l’attuale importo previsto, a titolo di sanzione, per il caso di inammissibilità della richiesta; si modifica l’art. 618 c.p.p. al fine
di rafforzare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei princìpi di diritto espressi dal giudice di legittimità (prevedendo che tanto l’enunciazione del principio di diritto «nell’interesse della legge» da parte
delle sezioni unite, quanto il raccordo fra sezioni semplici e sezioni unite vengano disciplinati in conformità alle analoghe previsioni per il giudizio civile di cassazione); si amplia l’ipotesi di annullamento
senza rinvio, disciplinata dalla lett. l) dell’art. 620, comma 1, al fine di deflazionare i casi di giudizio di
rinvio dopo l’annullamento. Infine, il d.d.l. procede anche alla semplificazione del procedimento correttivo, di cui all’art. 625 bis, comma 3, c.p.p.
L’art. 20 d.d.l. interviene sull’istituto della rescissione del giudicato, di recente introduzione, con cui si
rimedia all’errore consistito nell’aver svolto il processo in assenza dell’imputato pur quando non v’erano
le ragioni per procedere oltre, secondo quanto previsto dalla recente novella normativa di cui alla l. 28
aprile 2014, n. 67, relativamente alla sospensione del processo nei confronti di imputati irreperibili.
Ulteriori modifiche sono poi apportate per effetto dell’art. 23 d.d.l. alle disposizioni del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, sull’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, nella prospettiva di rafforzare
i controlli, preventivi e successivi, in ordine alla corretta osservanza delle disposizioni che regolano il
delicato momento dell’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro.
Gli artt. 24 e 25, comma 1, lett. da a) a c), d.d.l. contengono, poi, specifici criteri di delega per la revisione della disciplina processuale in materia di intercettazioni di comunicazioni o conversazioni
nell’ottica del rafforzamento della tutela dei diritti di riservatezza, specialmente dei soggetti estranei
all’accertamento penale, dei difensori e dei soggetti che svolgono compiti di ausilio difensivo, che siano
stati casualmente intercettati, e di coloro che, pur interessati dal procedimento, siano stati controllati
anche con riguardo a settori della loro vita di relazione del tutto estranei al tema di prova. Per quel che
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attiene ai colloqui col difensore, fermo restando il divieto di utilizzazione, sono posti precisi limiti anche alle annotazioni nel verbale delle operazioni.
Si dettano, poi, direttive per attribuire la garanzia giurisdizionale all’acquisizione dei cosiddetti tabulati telefonici, ossia delle notizie circa i dati esterni relativi alle conversazioni e comunicazioni telefoniche o anche telematiche o informatiche, prevedendo l’intervento soltanto d’urgenza del p.m.
Si prescrive inoltre che il legislatore delegato individui limiti e modalità per potenziare l’azione di
contrasto ai più gravi reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in specie
al fenomeno corruttivo, semplificando le condizioni per l’impiego in quegli ambiti procedimentali dello
strumento dell’intercettazione.
Gli artt. 24 e 26 d.d.l. fissano l’obiettivo di modificare organicamente l’ordinamento penitenziario; le
linee direttrici sono costituite essenzialmente dalla semplificazione delle procedure, dalla revisione dei
presupposti di accesso alle misure alternative al fine di facilitare il ricorso alle stesse, dall’eliminazione
di automatismi e preclusioni, impeditivi di una piena individualizzazione del trattamento rieducativo,
e dalla valorizzazione del lavoro quale strumento essenziale per un effettivo reinserimento sociale.
L’art. 26, inoltre, auspica la previsione di “momenti di giustizia riparativa” come tasselli qualificanti del
percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario che in misura alternativa, nonché la previsione
di una disciplina di adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative
dei detenuti minori di età.
Gli artt. 27 e 28 contengono le previsioni di delega per la predisposizione delle norme di attuazione,
di coordinamento e transitorie e delle eventuali norme di integrazione e correzione di quelle attuative
delle direttive in materia di riforma del codice di procedura penale.
Chiudono il d.d.l., l’art. 29 – contenente la clausola di invarianza finanziaria – e l’art. 30 che, a fronte
della corposità e della eterogeneità delle modifiche, fissa un termine di vacatio legis più ampio dell’ordinario, pari a trenta giorni.
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Federico Bardelle
EQUO PROCESSO – DIRITTO AL CONTROESAME
(Corte e.d.u., 16 dicembre 2014, Horncastle e altri c. Gran Bretagna; Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Efendiyev c.
Azerbaijan; Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Scholer c. Germania)
Le tre pronunce in commento possono essere analizzate congiuntamente, dato che riguardano la medesima tematica – il diritto dell’imputato ad interrogare o far interrogare i testimoni a carico – e ribadiscono alcuni principi fondamentali sull’argomento mediante un richiamo alla sentenza Al-Khawaja e Tahery (Corte e.d.u., 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito).
Quello al controesame non è un diritto inderogabile, ma ammette delle eccezioni, purché rispettose
del diritto di difesa (Corte e.d.u., 24 settembre 2013, De Luca c. Italia). Più in particolare, il diritto alla
cross examination può venir meno in presenza di alcune condizioni: un valido motivo per derogare alla
mancata audizione del testimone nel contraddittorio tra le parti; e, se le dichiarazioni del teste sono decisive, la presenza dei c.d. fattori di controbilanciamento (Corte e.d.u., 12 aprile 2007, Pello c. Estonia;
Corte e.d.u., 8 giugno 2006, Bonev c. Bulgaria; Corte e.d.u., 26 luglio 2005, Mild e Virtanen c. Finlandia;
Corte e.d.u., 15 giugno 1992, Lüdi c. Svizzera).
Quanto alla valida ragione, è opportuno distinguere tra morte, malattia o timore del teste.
In caso di morte, non sorgono problematiche particolari, dal momento che emerge chiaramente la
validità della ragione che impedisce di assumere la testimonianza in contraddittorio.
In ipotesi di malattia, questa deve essere talmente grave da rendere impossibile al testimone di sottoporsi al controesame.
Se il teste ha paura che la deposizione esponga lui o la sua famiglia a ripercussioni, la valutazione è
più complessa. Sotto questo profilo, è necessario distinguere la situazione in cui il timore derivi da violenza o minaccia posta in essere dall’imputato o da persone che hanno agito per suo conto, nel qual caso si può prescindere dal controesame in considerazione del fatto che l’imputato, ponendo in essere tali
azioni subornanti, ha implicitamente rinunciato alla cross examination; se, invece, la paura deriva da una
convinzione del testimone – e, quindi, non da una condotta diretta dell’imputato – il diritto al controesame può essere bypassato solo laddove il giudice accerti che tale timore è fondato su motivi oggettivi
dotati di sostegno probatorio e che l’audizione non può essere esperita con strumenti alternativi.
In presenza di una valida ragione per limitare il diritto alla cross examination, il giudice deve verificare se le dichiarazioni non assunte in contraddittorio siano decisive e, in caso di risposta affermativa, se
siano accompagnate dai cd. Fattori di controbilanciamento (strong counterbalancing factors).
Nel dettaglio, una testimonianza – e, più in generale, una prova – è decisiva quando è unica o determinante. Nonostante gli ostacoli che si incontrano nel tracciare la linea di confine tra prova decisiva e
prova determinante – come riconosciuto dalla stessa Corte di Strasburgo (Corte e.d.u., 15 dicembre
2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito) – dottrina e giurisprudenza si sono sforzate di rinvenire un
discrimine. In particolare, nelle pronunce in esame si afferma che: una prova è unica quando costituisce
il fondamento esclusivo della pronuncia; una prova si dice determinante se ricopre un ruolo importante
per la decisione, la quale però, si basa anche su altri elementi.
Come detto, in presenza di un valido motivo per derogare alla mancata audizione del testimone nel
contraddittorio tra le parti, se le dichiarazioni del teste sono decisive, è necessario verificare la sussistenza dei c.d. Fattori di controbilanciamento, definibili come garanzie procedurali ed elementi esterni
tali da garantire l’affidabilità delle dichiarazioni.
SCENARI | CORTI EUROPEE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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La Corte, facendo applicazione dei principi di diritto enunciati, cerca di risolvere le controversie sottoposte al suo vaglio.
I fatti di cui al caso Horncastle e altri possono essere riassunti nei termini seguenti. Tre persone si accorgevano che il loro appartamento era stato svaligiato. Appreso che l’autore del furto era un inquilino
dello stabile in cui abitavano, si recavano nella sua casa e, dopo averlo aggredito fisicamente, rientravano in possesso della refurtiva. La vittima dell’aggressione denunciava l’accaduto alle forze dell’ordine,
rilasciando dichiarazioni accusatorie nei confronti dei tre uomini ma, prima dell’inizio del processo a
loro carico, decedeva. I giudici inglesi condannavano i tre aggressori sulla base delle dichiarazioni della
vittima, ritenute utilizzabili e decisive. I tre condannati ricorrevano alla Corte e.d.u., lamentando di non
essere stati in grado di controesaminare il testimone a carico.
La Corte liquida in pochi passi la questione relativa alla presenza di una valida ragione, costituita
dalla morte della vittima, e della decisività delle sue dichiarazioni, riconosciuta dai giudici nazionali
nella motivazione della sentenza di condanna.
In seguito, i giudici di Strasburgo si interrogano circa la sussistenza dei cd. Fattori di bilanciamento.
In proposito, la difesa adduceva come le dichiarazioni della vittima non fossero affidabili, dal momento
che – come emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale – la stessa si trovava sotto gli effetti di sostanze alcoliche al momento dell’aggressione e, una volta trasportata in ospedale, era stata dichiarata in
stato confusionale. La Corte, disattendendo le doglianze difensive ed affermando che quanto riferito
dalla vittima era da ritenersi affidabile sulla base di altri indizi, rigetta la domanda.
Nel caso Efendiyev, il ricorrente, che era stato condannato per possesso di armi ed esplosivi, si rivolgeva alla Corte e.d.u. per denunciare come la condanna si fosse fondata sulle dichiarazioni di un soggetto mai sentito in dibattimento. Il Governo giustificava la mancata audizione del teste sulla base del
fatto che questi, citato regolarmente, aveva opposto motivi di salute.
La Corte rileva come tale affermazione non sia documentata in alcun modo; pertanto, in assenza di
prove, la malattia non deve ritenersi talmente grave da impedire al soggetto di prestare l’ufficio di testimone. Ne consegue una violazione dell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu, perché l’imputato non è stato
messo in grado di controesaminare il teste a carico senza una valida ragione.
Il caso Scholer riguarda un cittadino tedesco condannato per traffico di stupefacenti sulla base della
testimonianza di un agente di polizia sotto copertura, che aveva riferito sulle dichiarazioni rese da un
informatore, entrambi rimasti anonimi e mai sentiti in contraddittorio.
La pronuncia in questione si sofferma ad analizzare il valore delle dichiarazioni rilasciate da un informatore anonimo ed instaura un parallelismo tra teste anonimo e teste assente, con conseguente applicazione dei principi sopra richiamati.
In questo senso, la Corte riconosce come, nel caso concreto, la mancata escussione dei testimoni in
contraddittorio tra le parti si fosse basata su una giustificazione ragionevole, ossia la tutela dell’incolumità degli agenti sotto copertura e degli informatori di polizia, i quali, se avessero deposto in un’udienza pubblica, sarebbero stati identificati ed esposti al rischio di vendetta; sotto questo profilo, non era
possibile procedere nemmeno a porte chiuse o tramite videoconferenza, eventualmente con l’adozione
di particolari cautele (quali l’alterazione dell’acustica e la schermatura visiva), dal momento che, comunque, i testimoni sarebbero dovuti entrare in contatto con l’imputato ed il suo difensore e con altre
persone addette al tribunale in grado di identificarli. Per questi motivi, la Corte conclude per l’assenza
di qualsivoglia violazione dell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu.
Le tre pronunce in commento inducono a riflettere sulla compatibilità del sistema processual-penalistico nostrano con i canoni dell’equo processo.
Sulla carta – in particolare su quella costituzionale – le garanzie ci sono: l’art. 111 Cost. descrive con
dovizia di particolari i meccanismi istituiti a presidio del giusto processo. Tuttavia, come spesso accade,
la teoria viene distorta in favore di prassi noncuranti dei diritti fondamentali dell’individuo.
Si pensi all’abuso delle letture, “stratagemma” adoperato dai tribunali nazionali per giustificare
pronunce di condanna fondate esclusivamente o in misura determinante su prove raccolte in assenza
dell’imputato e finito più volte sotto l’obiettivo dei giudici di Strasburgo Corte e.d.u., 18 maggio 2010,
Ogaristi c. Italia; Corte e.d.u., 8 febbraio 2007, Kollcaku c. Italia; Corte e.d.u., 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia; Corte e.d.u., 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia).
All’orizzonte si profilano scenari tetri. Sotto questo profilo, certamente censurabile è quella prassi
che rintraccia i fattori di controbilanciamento in testimonianze de relato che, a rigor di codice, necessiteSCENARI | CORTI EUROPEE
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rebbero di elementi esterni di corroboramento, non individuabili in quelle stesse dichiarazioni non passate per il contraddittorio.
EQUO PROCESSO – AGENTE SOTTO COPERTURA
(Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Scholer c. Germania)
La sentenza Scholer merita menzione anche perché si sofferma sulla figura dell’agente sotto copertura.
Come detto, nel caso concreto, un cittadino tedesco era stato condannato per traffico di stupefacenti
sulla base della testimonianza di un agente di polizia sotto copertura, che aveva riferito sulle dichiarazioni rese da un informatore, entrambi rimasti anonimi e mai sentiti in contraddittorio. Il ricorrente lamentava un uso illegittimo dell’agente infiltrato e, perciò, una violazione dell’equo processo.
Nel dare risposta a tale doglianza, la Corte si sofferma ad analizzare la figura dell’agente sotto copertura, che, da un lato, costituisce uno strumento molto utile nella repressione di alcuni tipi di reato
(come il traffico di stupefacenti) ma, dall’altro, deve essere accompagnato da una serie di garanzie sostanziali e procedurali (Corte e.d.u., 21 febbraio 2008, Pyrgiotakis c. Grecia, par. 21; Corte e.d.u., 15 dicembre 2005, Vanyan c. Russia, par. 46; Corte e.d.u., 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c. Portogallo,
par. 38); in particolare, l’agente sotto copertura può essere utilizzato solo in presenza di due condizioni.
Vi deve essere il sospetto obiettivo che l’indagato abbia posto in essere un’attività criminale o, comunque, si stia accingendo a commettere un reato; questo dato può essere dedotto, ad esempio, dalla
circostanza che l’indagato abbia dei precedenti penali per reati della stessa indole (Corte e.d.u., 4 novembre 2010, Bannikova c. Russia, par. 37).
L’agente sotto copertura, inoltre, deve essere impiegato solo per studiare l’attività criminale in modo
passivo (entrapment), e non per incitare la commissione di reati che altrimenti non sarebbero stati commessi (incitment) (Corte e.d.u., 21 febbraio 2008, Pyrgiotakis c. Grecia, par. 20; Corte e.d.u., 5 febbraio
2008, Ramanauskas c. Lituana, par. 55).
La Corte, in applicazione di questi principi, rileva come, nel caso di specie, l’utilizzo dell’agente sotto copertura fosse legittimo.
La prima condizione – cioè la ragione oggettiva per ritenere che l’indagato avesse commesso un reato o, comunque, si stesse preparando a realizzarlo – era desunta da una serie di circostanze: Scholer era
stato condannato per traffico di droga (seppure tale pronuncia risalisse al 1989), aveva dimostrato di
avere una certa familiarità con il valore di mercato delle sostanze stupefacenti, aveva dichiarato di poterne fornire grosse quantità in tempi brevissimi ed aveva consegnato un campione omaggio all’agente
sotto copertura; inoltre, un informatore anonimo aveva confermato alle forze dell’ordine del collegamento dell’indagato con il traffico di stupefacenti.
Circa la seconda condizione – il divieto di incitment – l’attività dell’agente sotto copertura non si era
spinta fino ad un incitamento alla commissione del reato.
Per questi motivi, la Corte non rileva alcuna violazione dell’art. 6, par. 1, Cedu.
Anche in questo caso appaiono doverose alcune riflessioni sulla compatibilità del diritto positivo e
giurisprudenziale nostrano con il sistema europeo e sovranazionale. Sotto questo profilo, vale la pena
di soffermarsi brevemente su due orientamenti dei giudici nazionali.
Il primo ammette l’attività dell’agente sotto copertura che «si limiti a disvelare un’intenzione criminale già esistente, ma allo stato latente, fornendo l’occasione per concretizzare la stessa» (Cass., sez. III,
3 luglio 2008, n. 26763, in CED Cass., n. 240270). Non può tacersi come una simile condotta – a dispetto
della qualifica formale attribuita dalla Suprema corte – costituisca un vero e proprio incitment e, come
tale, contraria all’art. 6 Cedu.
Il secondo indirizzo si spinge fino ad affermare che «risulta pur sempre legittimo, e utilizzabile come
prova, il sequestro probatorio del corpo di reato, o delle cose pertinenti al reato, rinvenute a seguito di
un’attività di polizia dalla quale pur venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti dalla legge per
le attività di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti» (Cass., sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1258, in CED
Cass., n. 254174) o alla pedopornografia (Cass., sez. III, 8 giugno 2004, n. 25464, in Dir. e giustizia, 2004, 31).
Una simile interpretazione, che mette in luce come la giustizia italiana si permei di tratti autoritari soprattutto in taluni settori della criminalità, cozza con i dettami della giurisprudenza di Strasburgo e deve essere rivista nel senso che operazioni sotto copertura condotte in modo difforme dalla legge non possono che
comportare l’inutilizzabilità degli atti probatori – in primis il sequestro – strettamente connessi.
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LIBERTÀ PERSONALE – ILLEGITTIMITÀ DELLA CARCERAZIONE PREVENTIVA – INDAGINE EFFETTIVA
(Corte e.d.u., 13 gennaio 2015, Ugur c. Turchia)
La pronuncia in commento prende le mosse dal caso di due minorenni di origine turca che, condotti al
comando di polizia, venivano trattenuti per oltre due giorni e sottoposti a maltrattamenti ad opera degli agenti. I due turchi denunciavano tali fatti alle autorità competenti ma, dopo un’indagine lunga e
lacunosa, il procedimento penale si concludeva con un proscioglimento per prescrizione del reato.
Ugur e il suo compagno, pertanto, decidono di rivolgersi alla Corte e.d.u. per lamentare una serie di
circostanze lesive dei loro diritti: alcuni agenti della polizia li avevano privati della libertà personale per
oltre due giorni senza un valido motivo; durante questo periodo, essi avevano subito maltrattamenti;
per tali fatti non era stata svolta un’indagine effettiva; il procedimento penale si era concluso con
l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Nell’affrontare la prima di tali doglianze, la Corte ricorda come la libertà personale sia un diritto
fondamentale dell’individuo, pertanto ogni sua privazione deve rispettare la normativa sostanziale e
processuale nazionale ed essere conforme a quanto previsto dall’art. 5 Cedu (Corte e.d.u., 18 dicembre
2012, Baisuev e Anzorov c. Georgia). Ogni compressione della libertà personale posta in essere dagli
agenti di polizia deve essere documentata in un apposito registro (Corte e.d.u., 18 giugno 2002, Orhan
c. Turchia).
Nel caso concreto, le attività eseguite nei confronti dei due ricorrenti non erano state documentate in
alcun modo; sotto questo profilo, la Corte rigetta le eccezioni del Governo – secondo cui il difetto di tenuta dei registri derivava dal fatto che i due turchi non erano stati condotti come arrestati ma in quanto
persone informate sui fatti – e precisa che ogni privazione della libertà personale, a prescindere dalla
qualifica attribuita al soggetto ristretto, deve essere oggetto di apposita e puntuale documentazione
(Corte e.d.u., 27 febbraio 2001, Çiçek c. Turchia). Per questo motivo, la Corte ravvisa una violazione
dell’art. 5 Cedu.
I giudici di Strasburgo affrontano anche le questioni relative all’effettività delle indagini svolte per
tali fatti ed all’estinzione del reato.
La Corte ricorda che i procedimenti penali aventi ad oggetto maltrattamenti perpetrati da forze
dell’ordine devono essere trattati con priorità e speditezza, onde scongiurare il rischio prescrizione
(Corte e.d.u., 2 novembre 2004, Abdülsamet Yaman c. Turchia).
Ciò premesso, i giudici di Strasburgo procedono ad analizzare se le autorità turche fossero state diligenti nel garantire una conclusione rapida del giudizio e forniscono una risposta negativa: in tal senso,
ad esempio, gli agenti di polizia avevano ignorato gli inviti a comparire e le citazioni inviati dal pubblico ministero e dal giudice, i quali, dal canto loro, non avevano utilizzato gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento per sanzionare questi comportamenti dilatori. Ne è risultato un procedimento
durato cinque anni – con ben ventuno udienze e per una media di sole tre udienze all’anno –, con conseguente prescrizione del reato. Per questi motivi, la Corte riconosce una violazione dell’art. 3 Cedu sia
nel suo aspetto sostanziale che in quello procedurale.
La pronuncia in commento induce a riflettere sull’incompatibilità della prassi giudiziaria nostrana
con il quadro convenzionale così delineato. Sotto questo profilo, appare inevitabile una condanna nei
confronti dell’Italia, dove le aule di giustizia pullulano di processi penali che vengono rinviati di mese
in mese – se non di anno in anno – per la mancata presentazione di testimoni, spesso dovuta ad ordini
di accompagnamento coattivo eseguiti superficialmente da parte delle forze dell’ordine.
EQUO PROCESSO – PRESUNZIONE DI INNOCENZA
(Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, N.A. c. Norvegia)
N.A., cittadina norvegese, era imputata perché, in concorso con il marito, aveva provocato delle lesioni
pluriaggravate nei confronti dei loro figli. Il processo penale culminava con l’assoluzione e, al contempo, con la condanna al risarcimento del danno.
La ricorrente si rivolge alla Corte e.d.u., lamentando come ciò si traducesse in una violazione della
presunzione di innocenza. N.A. sostiene che la parte di sentenza contenente la statuizione di condanna
– seppure ai soli fini civilistici – riportava termini e ragionamenti propri del settore penale, tali da insinuare dei dubbi circa la correttezza della pronuncia assolutoria.
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Il Governo si difende argomentando che diritto penale e diritto civile condividono molti termini, dai
quali non è possibile prescindere, ma si differenziano tra loro perché la sanzione penale e quella civile
si fondando su presupposti diversi, soprattutto per quel che riguarda l’onere della prova.
La Corte riconosce che il settore penale e quello civile possono sovrapporsi dal punto di vista lessicale. Ad esempio, nel caso concreto, l’uso del termine “violenza” si era reso necessario per l’assenza di valide alternative idonee ad esprimere lo stesso concetto ed era pienamente compatibile con la presunzione di innocenza.
Secondo i giudici di Strasburgo, inoltre, il capo di condanna relativo al risarcimento del danno non
era in grado di corrompere la pronuncia assolutoria, anche in considerazione del fatto che la responsabilità civile, a differenza di quella penale, si accontenta di un peso probatorio meno rigoroso (Corte
e.d.u., 6 ottobre 1982, X c. Austria; Corte e.d.u., 7 ottobre 1987, C. c. Regno Unito).
Per questi motivi, la Corte conclude che la decisione del giudice nazionale norvegese non suggerisce, né esplicitamente né implicitamente, la presenza di una responsabilità penale e, pertanto, non viola
la presunzione di innocenza.
EQUO PROCESSO – RAGIONEVOLE DURATA
(Corte e.d.u., 13 gennaio 2015, Kurowski c. Polonia)
Un cittadino polacco si rivolge alla Corte di Strasburgo denunciando la durata irragionevole del procedimento penale a suo carico. Il Governo eccepisce che le lungaggini erano dovute alla complessità del
caso, riguardante un reato di criminalità organizzata con più imputati, ed afferma che le autorità coinvolte avevano adottato tutte le misure possibili per assicurare una rapida conclusione.
La Corte ricorda che la valutazione circa la ragionevole durata di un procedimento va eseguita considerando tutte le circostanze del caso concreto alla luce della complessità del caso, del comportamento
del ricorrente e delle autorità coinvolte e degli interessi in gioco (Corte e.d.u., 27 giugno 2000, Frydlender c. Francia).
In particolare, i giudici di Strasburgo affermano che la complessità del caso può derivare dal tipo di
reato per cui si procede, soprattutto se questo riguarda la criminalità organizzata (Corte e.d.u, 17 aprile
2012, Horych c. Polonia); tale circostanza, tuttavia, può costituire solo un indizio, da valutare congiuntamente agli altri elementi.
Nel caso concreto, il ricorrente non aveva in alcun modo intralciato il corso della giustizia, mentre
invece il giudice non era riuscito ad organizzare razionalmente le udienze, tenendone soltanto una al
mese. Ciò basta per ravvisare una violazione dell’art. 6 Cedu.
ESECUZIONE/TRATTAMENTO CARCERARIO – TRATTAMENTI INUMANI E DEGRADANTI – USO DELLA FORZA
– INDAGINE EFFETTIVA
(Corte e.d.u., 16 dicembre 2014, Dimcho Dimov c. Bulgaria)
Il divieto di trattamenti inumani e degradanti, che costituisce uno dei diritti fondamentali in una società
democratica, punisce quei comportamenti che raggiungano un livello minimo di gravità, da valutare
secondo le circostanze del caso concreto (Corte e.d.u., 6 aprile 2000, Labita c. Italia). La prova dei trattamenti inumani e degradanti deve essere fornita secondo il canone dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” (Corte e.d.u., 18 gennaio 1978, Irlanda c. Gran Bretagna, par. 161), pur potendo essere fondata su
indizi gravi, precisi e concordanti (Corte e.d.u., 27 giugno 2000, Salman c. Turchia, par. 100).
In ambito carcerario, le forze dell’ordine sono legittimate a ricorrere all’uso della forza per far fronte
a situazioni particolari (come il pericolo di disordini o l’autolesionismo), ma l’impiego dello strumento
coercitivo deve essere limitato al tempo strettamente necessario a fronteggiare la situazione emergenziale (Corte e.d.u., 29 maggio 2012, Julin c. Estonia, par. 121; Corte e.d.u., 12 aprile 2007, Ivan Vassilev,
par. 63).
Nel caso di specie, il ricorrente era stato legato al letto della sua cella, onde evitare che lo stesso ponesse in essere pratiche di autolesionismo, cui era abituale; tale misura si era protratta per ben nove
giorni, nonostante il ricorrente avesse firmato una dichiarazione nella quale affermava di non avere intenzione di ferirsi.
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Secondo la Corte, tale pratica assurge a trattamento inumano e degradante, dal momento che ha
provocato sofferenza fisica e psichica al ricorrente, e costituisce una violazione dell’art. 3 nel suo aspetto sostanziale.
Il divieto di trattamenti inumani e degradanti resterebbe un guscio vuoto se non fosse previsto un
obbligo di indagare su fatti costituenti violazioni dell’art. 3 Cedu (Corte e.d.u., 28 ottobre 1998, Assenov
c. Bulgaria, par. 102). Le autorità nazionali, pertanto, di fronte ad una denuncia di trattamenti inumani
e degradanti, hanno l’obbligo di svolgere un’indagine effettiva; qualora l’accusa chiami in causa forze
dell’ordine, l’indagine deve essere particolarmente rigorosa (Corte e.d.u., 24 luglio 2007, Zelilof c. Grecia) e celere (Corte e.d.u., 6 aprile 2000, Labita c. Italia, parr. 133-134) e coinvolgere la vittima (Corte
e.d.u., 17 dicembre 2009, Denis Vassiliev c. Russia, par. 157; Corte e.d.u., 15 luglio 2008, Dedovskiyne e
altri c. Russia, par. 92). Nel caso concreto, l’indagine non era stata approfondita, in quanto aveva omesso di raccogliere prove importanti, come l’audizione della guardia penitenziaria che aveva provveduto
all’ammanettamento degli altri detenuti e, soprattutto, del ricorrente. Sotto questo profilo, la Corte ravvisa una violazione dell’art. 3 Cedu anche nel suo aspetto procedurale.
EQUO PROCESSO – DIRITTO ALL’ASSISTENZA AD UN DIFENSORE
MENTE ALL’UDIENZA
– DIRITTO DI PARTECIPARE PERSONAL-
(Corte e.d.u., 15 gennaio 2015, Chopenko c. Ucraina)
Un cittadino ucraino ricorre alla Corte e.d.u. perché era stato condannato per omicidio volontario sulla
base di una sua confessione che egli asserisce aver rilasciato in assenza del suo difensore e sotto la minaccia di violenza.
La Corte fa presente che i canoni dell’equo processo di cui all’art. 6 Cedu, seppure riferiti esplicitamente alla sola fase processuale in senso stretto, risultano applicabili anche al procedimento tout court;
solamente in questo modo si può evitare che l’equità processuale sia compromessa da violazioni verificatesi nel corso delle indagini preliminari (Corte e.d.u., 30 maggio 2013, Martin c. Estonia). Alla stregua
di ciò, uno dei corollari fondamentali del diritto di difesa, cioè il diritto ad essere assistiti da un difensore, deve essere assicurato anche quando l’indagato viene chiamato per rendere interrogatorio (Corte
e.d.u., 27 novembre 2008, Salduz c. Turchia).
I giudici di Strasburgo rilevano come, nel caso concreto, il ricorrente avesse confessato il delitto senza che gli fosse nominato un difensore, in violazione dell’art. 6, parr. 1 e 3, Cedu.
Il cittadino ucraino si rivolge alla Corte anche per denunciare una violazione del diritto di difesa:
egli non aveva avuto la possibilità di partecipare personalmente all’udienza relativa al giudizio di impugnazione, nonostante avesse avanzato un’apposita istanza in tal senso.
La Corte ripercorre i principi che governano il diritto dell’imputato di presenziare di persona al processo. Tale diritto – pur non essendo menzionato espressamente nell’art. 6 Cedu – è implicito nella nozione più generale di equo processo (Corte e.d.u., 12 febbraio 1985, Colozza c. Italia), perciò ogni sua
compressione deve essere supportata da una valida ragione ed interpretata restrittivamente (Corte
e.d.u., 10 aprile 2012, Popa e Tănăsescu c. Romania; Corte e.d.u., 29 settembre 2009, Sándor Lajos Bacio
c. Ungheria).
Secondo la giurisprudenza di Strasburgo, il diritto dell’imputato a partecipare personalmente al
processo ha un elevato grado di tutela nelle udienze di assunzione delle prove, mentre può essere limitato nei giudizi di impugnazione (Corte e.d.u., 19 dicembre 1989, Kamasinski c. Austria).
La portata dell’assunto, tuttavia, non deve fuorviare, in quanto sussiste una serie non trascurabile di
ipotesi in cui, pur procedendosi in gradi successivi al primo, all’imputato deve comunque essere garantita la possibilità di una partecipazione effettiva all’udienza. La casistica è eterogenea: se si deve valutare la sua personalità (Corte e.d.u., 21 settembre 1993, Kremzow c. Austria), se l’imputato afferma di non
aver commesso il fatto, se l’eventuale condanna potrebbe arrecargli uno stigma sociale (Corte e.d.u., 12
gennaio 2010, Suuripää v Finlandia; Corte e.d.u., 25 marzo 1998, Belziuk c. Poland).
La pronuncia in esame va segnalata perché aggiunge (recte: consolida) un punto di questa casistica.
Il diritto dell’imputato a presenziare personalmente all’udienza nel giudizio di impugnazione deve essere garantito anche qualora in gioco vi sia la sua libertà personale.
Facendo applicazione di questo e degli altri principi citati, la Corte osserva come, nel caso concreto,
il diritto in questione dovesse essere assicurato non solo perché l’imputato affermava di non aver comSCENARI | CORTI EUROPEE
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messo il fatto, ma anche e soprattutto in quanto in primo grado era stata pronunciata una sentenza di
condanna all’ergastolo.
Tutto ciò si traduce in una violazione del diritto di difesa, dal momento che l’imputato non era stato
messo in condizione di partecipare di persona all’udienza e, di conseguenza, ne era risultato menomato
anche il principio della parità delle armi tra accusa e difesa.
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CORTE COSTITUZIONALE
di Angela Procaccino
L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA COLLEGIALITÀ NEL “GIUDIZIO ABBREVIATO MINORILE”
(C. cost., sent. 12 gennaio 2015, n. 1)
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 458 c.p.p. e dell’art. 1, comma
1, d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 («Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati
minorenni»), nella parte in cui prevedono che, nel processo minorile, nel caso di giudizio abbreviato richiesto dall’imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato, la composizione dell’organo giudicante sia quella monocratica del giudice per le indagini preliminari e non quella collegiale prevista
dall’art. 50 bis, comma 2, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario).
Nei tre casi oggetto delle ordinanze di rimessione, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Bologna, su richiesta del pubblico ministero, aveva disposto il giudizio immediato, e gli imputati avevano di seguito richiesto il rito abbreviato. Il giudizio si era svolto davanti al giudice collegiale minorile per l’udienza preliminare e si era concluso con la condanna dei minori. La Corte
d’appello di Bologna aveva annullato le sentenze «per difetto di competenza funzionale del giudice» e
la Corte di cassazione aveva rigettato il ricorso della Procura generale contro tale decisione, affermando, in conformità con un orientamento giurisprudenziale costante, che, rispetto al giudizio abbreviato
richiesto dopo il decreto di giudizio immediato, la competenza appartiene al giudice monocratico per le
indagini preliminari e non a quello collegiale per l’udienza preliminare.
In realtà è assai importante considerare che l’orientamento giurisprudenziale suddetto è stato di recente superato da una decisione delle sezioni unite della Corte di cassazione, che ha ritenuto come «nel
processo penale a carico di imputati minorenni la competenza per il giudizio abbreviato, sia esso instaurato nell’ambito dell’udienza preliminare o a seguito di decreto di giudizio immediato, spetti al
giudice nella composizione collegiale prevista dall’art. 50 bis, comma 2, dell’ordinamento giudiziario»
(Cass., sez. un., 27 febbraio 2014, n. 18292).
Tuttavia, tale principio risultava inapplicabile al giudizio a quo, posto che i giudici rimettenti, ai
sensi dell’art. 25 c.p.p., sarebbero comunque rimasti vincolati dalla decisione con cui la Corte di cassazione a norma dell’art. 25 c.p.p. (cfr. C. cost., sent. n. 408 del 2005), aveva incardinato la competenza sul
giudice monocratico nel giudizio a quo. Ed era tale circostanza a rendere ancora rilevante la questione
di costituzionalità sollevata. Proprio l’art. 25 c.p.p. in realtà avrebbe potuto costituire l’ostacolo all’ammissibilita della q.l.c., perché, secondo la giurisprudenza della corte delle leggi, dall’effetto vincolante
delle decisioni della Corte di cassazione in materia di competenza, stabilito dall’art. 25 c.p.p., «discende
la irrilevanza di questioni che tendano a rimettere in discussione la competenza attribuita nel caso concreto dalla Cassazione medesima, in quanto ogni ulteriore indagine sul punto deve ritenersi definitivamente preclusa e quindi nessuna influenza potrebbe avere una qualsiasi pronuncia di questa Corte
nel giudizio a quo» (ex plurimis, cfr., C. cost., sentt. n. 294/1995 e n. 25/1989; ordd. n. 306/2013 e n.
222/1997).
In realtà, il fulcro della questione non è rappresentato dalla competenza del giudice, bensì dalla
“composizione” e dalla idoneità dell’organo che dipendono non solo dalla sua strutturazione in forma
collegiale o monocratica, ma anche, e soprattutto, dall’apporto degli esperti che compongono, invece, il
collegio del giudice minorile dell’udienza preliminare e svolgono il giudizio abbreviato quando questo,
come avviene normalmente, è richiesto nell’udienza preliminare.
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LE “RELAZIONI PERICOLOSE” TRA MOTIVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO CAUTELARE, POTERI DEL GIUDICE
DEL RIESAME E GIUDIZIO DI RINVIO
(C. cost., sent. 3 dicembre 2014, n. 270)
Il Tribunale ordinario di Brescia, sezione del riesame, con due distinte ordinanze, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 309, comma 9,
c.p.p., nella parte in cui esclude che il Tribunale del riesame possa annullare l’ordinanza cautelare nelle
ipotesi di nullità per difetto di motivazione sui gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 292, commi 1 e
2, lett. c), c.p.p.
Diciamo subito che la Corte ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi per irrilevanza delle questioni.
Nondimeno, la decisione merita attenzione per le sue interessanti motivazioni.
Questa la vicenda: il tribunale rimettente aveva annullato, per difetto di motivazione tre ordinanze
di custodia in carcere, emesse dal Giudice per le indagini preliminari perché, nel motivare sugli indizi
di colpevolezza, quest’ultimo si era limitato a riportare il contenuto della comunicazione della notizia
di reato ricevuta dalla polizia giudiziaria, e la Corte di cassazione, a sua volta, aveva annullato tale decisione. Nella sentenza di annullamento, la Corte di cassazione aveva chiarito che il tribunale del riesame può dichiarare la nullità del provvedimento applicativo della misura coercitiva “solo nei casi di
carenza grafica dell’ordinanza del g.i.p. o di giustificazione della misura mediante l’impiego di clausole
di stile ed un generico rinvio ai risultati delle indagini”.
Le sentenze di annullamento, pronunciate dalla Corte di cassazione, avevano preso specificamente
in esame le motivazioni delle ordinanze cautelari annullate dal tribunale del riesame e ne avevano
escluso la nullità, sicché in sede di rinvio il giudice era vincolato da tali decisioni e gli era preclusa la
possibilità di giungere sul punto a una conclusione diversa. E sarebbe proprio questa preclusione a rendere, ad avviso della Corte, prive di rilevanza le questioni sollevate dal Tribunale del riesame di Brescia: infatti, gli stessi giudici rimettenti hanno riconosciuto che la sentenza della Corte di cassazione
impediva loro di rivalutare la motivazione delle ordinanze cautelari, per pronunciarne un nuovo annullamento. Questo impedimento, dunque, precisa la Corte, non sarebbe venuto meno se fosse stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate. Difatti, sempre nelle argomentazioni
della Corte, se è pur vero che “in sede di rinvio ex art. 627, comma 3, c.p.p.,” il giudice “è certamente legittimato a proporre questione di legittimità costituzionale della norma da applicare, e nell’interpretazione stabilita e vincolante nel giudizio a quo», è altrettanto chiaro come, nel caso di specie, non dovesse
farsi alcuna applicazione delle disposizioni censurate. Queste, infatti, erano state applicate dalla Corte
di cassazione e non formavano, dunque, oggetto della cognizione devoluta al giudice del rinvio.
La giurisprudenza della Corte delle leggi, alla quale il Tribunale rimettente fa riferimento, riguarda
il caso in cui nella sentenza di annullamento è affermato un principio di diritto relativo a una norma
che deve trovare ulteriore applicazione nel giudizio di rinvio, perché in questo caso, da un lato, «non si
è al cospetto di un rapporto “esaurito”; dall’altro la proposizione di una simile questione di legittimità
costituzionale rappresenta l’unico mezzo a disposizione del giudice del rinvio per contestare la regula
iuris che sarebbe costretto altrimenti ad applicare, proprio in forza dell’art. 627, comma 3, c.p.p.” (C.
cost., sentt. n. 293/2013, n. 204/2012 e n. 197/2010).
La situazione in esame è risultata, nell’opinione della Corte, diversa: il tribunale del riesame, lo ripetiamo, non avrebbe dovuto applicare le disposizioni censurate, poiché queste erano state applicate direttamente dalla Corte di cassazione. Quest’ultima, infatti, aveva preso in esame la motivazione delle
due ordinanze cautelari, sia negli aspetti formali, sia in quelli contenutistici, e ne aveva escluso appunto
la nullità, aggiungendo che nel giudizio di rinvio il tribunale del riesame avrebbe avuto l’obbligo di
«valutare autonomamente il materiale indiziario esposto nell’ordinanza al fine di trarne il proprio autonomo ed eventualmente divergente convincimento» (Cass., sez. III, 20 giugno 2013, n. 29772) e «ben
avrebbe potuto esercitare il suo potere dovere di integrazione […] e se, del caso, sopperire, con la propria motivazione, alla motivazione del provvedimento genetico» (Cass., sez. II, 27 settembre 2013, n.
41829).
A questo punto, però, è naturale interrogarsi su cosa sarebbe stato se le questioni di legittimità costituzionale fossero approdate alla Corte prima di arrivare nella intricata “selva” del giudizio di rinvio.
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
ACCESSO AL GIUDIZIO ABBREVIATO ANCHE IN CASO DI
FATTO EX ART. 516 C.P.P.
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“NUOVA CONTESTAZIONE” PER DIVERSITÀ DEL
(C. cost., sent. 1° dicembre 2014, n. 273)
La storia giurisprudenziale dei rapporti tra accesso ai riti speciali e modifica dell’accusa è assai complessa. Questa volta la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo l’art. 516 c.p.p., per contrasto con gli
artt. 3 e 24 cost., ove non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il
giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che
forma oggetto della nuova contestazione.
Le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 c.p.p. sono già state oggetto delle declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche”, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale
(C. cost., sentt. n. 333/2009 e n. 265/1994, concernenti, rispettivamente, il giudizio abbreviato e il “patteggiamento”). Altrettanto è avvenuto (a prescindere da ogni distinzione fra contestazioni “fisiologiche” e “patologiche”) con riguardo alla mancata previsione della facoltà dell’imputato di presentare domanda di oblazione in rapporto al reato oggetto della nuova contestazione (sent. n. 530/1995).
Così, pure, con la sent. n. 237/2012, superando il diverso indirizzo espresso in precedenti pronunce
emesse in seguito alla promulgazione del codice Vassalli, la Corte aveva dichiarato costituzionalmente
illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, comma 2,
Cost.), l’art. 517 c.p.p., nella parte in cui non consentiva all’imputato di chiedere il giudizio abbreviato
al giudice del dibattimento in relazione al reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva cosiddetta “fisiologica”.
Le considerazioni poste a base di tale ultima decisione, sono state richiamate proprio dalla decisione
che qui si sintetizza, poiché la Corte le ha ritenute estensibili, con gli opportuni adattamenti, anche alla
contestazione “fisiologica” del fatto diverso, operata ai sensi dell’art. 516 c.p.p. Difatti, il ragionamento
secondo cui, in tale ipotesi, il fatto, pur variando nei suoi «elementi descrittivi», resta comunque il medesimo (circostanza che renderebbe, in assunto, ragionevole il mancato riconoscimento all’imputato del
diritto di chiedere il giudizio abbreviato in relazione all’imputazione modificata), ad avviso del giudice
delle leggi, risulterebbe troppo «semplicistico», e riconoscerebbe residui spazi di operatività al criterio
della «prevedibilità», da parte dell’imputato, dell’evoluzione (“fisiologica”) dell’accusa in dibattimento;
criterio che, invece, è stato del tutto disatteso dalla citata pronuncia del 2012.
Anche in caso di contestazione “fisiologica” del fatto diverso è, d’altro canto, ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe (rilevata sempre dalla sentenza n. 237 del 2012)
conseguente al possibile recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al giudizio abbreviato
per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento, circostanze
che potrebbero, ad esempio verificarsi qualora, a seguito delle nuove contestazioni, il reato rientri tra
quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non sia stata tenuta. In tale ipotesi, infatti, il
giudice – ove la relativa eccezione sia sollevata nei prescritti termini di decadenza – deve disporre la
trasmissione degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1 ter, e 521 bis c.p.p.), con la conseguenza
che l’imputato si vede, di fatto, rimesso in termini per proporre la richiesta di rito alternativo.
Una ingiustificata disparità di trattamento, poi, sussisterebbe, sempre riguardo all’ipotesi in questione, tra giudizio abbreviato e oblazione, parimenti riscontrata nella sentenza n. 237 del 2012: in forza
dell’art. 141, comma 4 bis, disp. att. c.p.p. – che si conforma alla citata C. cost., sent. 530/1995 – nel caso
di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, l’imputato è,
infatti, rimesso in termini per proporre la relativa richiesta.
Assolutamente indispensabile un accenno al passaggio della pronuncia che, sul significato da attribuire alla locuzione “fatto diverso”, richiama la giurisprudenza di legittimità: non qualsiasi variazione
o puntualizzazione, anche meramente marginale, dell’accusa originaria comporta il suddetto obbligo,
ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto
di difesa dell’imputato. In altre parole, la nozione strutturale di «fatto», contenuta nell’art. 516 c.p.p., va
coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà
difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza
di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito.
SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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SEZIONI UNITE
di Valeria Marchese
DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE DELLA PENA IN CASO DI REVOCA DELL’INDULTO
(Cass., sez. un., 2 gennaio 2015, n. 2)
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità, hanno statuito che nel caso in cui l’esecuzione della pena sia subordinata alla
revoca dell’indulto, il termine di prescrizione della pena decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, quale presupposto della revoca del beneficio.
Prima di giungere a tale conclusione, la Corte ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale, prendendo
in esame i due contrapposti orientamenti interpretativi affermatisi sulla questione.
Secondo un primo e più risalente orientamento, il termine per l’estinzione della pena, ai sensi
dell’art. 172, comma 5, c.p.p., decorre dal momento in cui sia stata giudizialmente accertata la condizione risolutiva, pertanto, nel caso di indulto condizionato, solo con il passaggio in giudicato della sentenza di revoca del beneficio. Infatti, pur avendo tale pronuncia natura dichiarativa, in mancanza di essa,
la pena non è suscettibile di esecuzione, essendo ancora efficace il provvedimento di concessione
dell’indulto (ex multis, Cass., sez. I, 28 febbraio 2000, n. 1441; Cass., sez. I, 05 dicembre 2012, n. 22707).
In linea con un opposto orientamento esegetico, il termine di prescrizione della pena, in caso di indulto successivamente revocato, decorre dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la revoca del beneficio precedentemente concesso, ovvero è divenuta definitiva la sentenza di condanna che ha
determinato la revoca dell’indulto (Cass., sez. I, 17 novembre 1995, n. 5897).
Più nello specifico, tale indirizzo interpretativo, ad avviso della giurisprudenza di legittimità, risulta
conforme ad una lettura testuale dell’art. 172, comma 5, c.p.p., che si riferisce esplicitamente al “giorno
in cui la condizione si è verificata”, ovvero al momento in cui il presupposto si è realizzato. Per tale motivo, si ritiene che la decadenza dal beneficio operi di diritto, nel momento in cui la condanna che la
comporta passa in giudicato, avendo il provvedimento di revoca mera funzione ricognitiva con effetti
retroattivi (Cass., sez. I, 12 dicembre 2006, n. 41574).
L’indicata soluzione appare in linea anche con i principi di ragionevolezza e di tempestività
nell’esecuzione della pena, di cui agli art. 3 e 27 Cost., evitando di porre a carico dell’imputato il ritardo
con cui il p.m. richiede la revoca del beneficio e il giudice decide (Cass., sez. I, 5 marzo 2009, n. 18552).
Le Sezioni Unite aderiscono al secondo, sopra riportato, più recente indirizzo ermeneutico, con
un’ampia motivazione basata su presupposti di natura testuale, logica ed ermeneutici.
Per quanto riguarda il dato testuale, si osserva che in un tema che riveste carattere sostanziale, come
l’estinzione della pena, è doveroso per l’interprete attenersi strettamente alla formulazione normativa.
Per cui, assume rilievo dirimente la formulazione dell’art. 172, comma 5, c.p.p. che fa esplicito riferimento all’avveramento della condizione che rende possibile la revoca dell’indulto, ovvero la sentenza
di condanna per il reato commesso successivamente.
Da un punto di vista logico, la diversa conclusione, che fa dipendere l’eseguibilità della pena dal
provvedimento giudiziale di revoca dell’indulto, risulta incompatibile con i principi di effettività e ragionevole durata del processo, ex art. 111 Cost., con i valori afferenti alla funzione rieducativa della pena, ex art. 27 Cost. Al contrario, la soluzione interpretativa adottata dalla Corte appare coerente con i
principi di ragionevole durata, di sollecita definizione e di minore sacrificio sanciti dagli art. 5 e 6 Cedu.
Sul piano sistematico, le Sezioni Unite osservano che il rinvio del decorso del termine per la prescrizione fino al momento della revoca dell’indulto introdurrebbe una anomala causa di sospensione della
prescrizione, priva di basi normative. Inoltre, poiché l’eseguibilità della pena dipende ope legis
dall’avveramento della condizione risolutiva del beneficio, il pubblico ministero ha il preciso dovere, ex
art. 655 c.p.p. di portare ad esecuzione la pena, rilevando egli stesso la sussistenza dei presupposti e
SCENARI | SEZIONI UNITE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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chiedendo contemporaneamente al giudice una pronuncia formale di revoca. D’altro canto, il giudice,
nel momento in cui accerta la commissione del reato successivo, quale presupposto della perdita del
beneficio, può pronunciare immediatamente la revoca dell’indulto, contestualmente alla sentenza di
condanna.
Ad avviso della Corte, il sistema così delineato appare in linea con il parallelo istituto della prescrizione del reato, il cui dies a quo consegue al verificarsi di un elemento sostanziale, quale la commissione
del fatto, e non ad un presupposto formale.
L’INSUFFICIENZA PATRIMONIALE DEL DEBITORE COSTITUISCE PRESUPPOSTO PER IL SEQUESTRO CONSERVATIVO
(Cass., sez. un., 11 dicembre 2014, n. 51660)
Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla risoluzione del contrasto giurisprudenziale inerente la nozione di periculum in mora, quale presupposto per disporre il sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p.
La Suprema corte, dopo aver affermato l’intento di rifuggire da scelte ermeneutiche avulse dalla
specifica situazione di fatto, si sofferma in maniera ampia ed esaustiva sui diversi orientamenti formatisi sulla questione.
Secondo una prima tesi “restrittiva”, il presupposto del sequestro conservativo consiste in una situazione, anche potenziale, di depauperamento del patrimonio del debitore, e tale rischio deve risultare
da concreti elementi che riguardano l’entità del credito ed il bene oggetto di sequestro, in relazione con
la capacità reddituale e l’atteggiamento del debitore (Cass., sez. I, 2 aprile 1996, n. 2128).
Secondo una diversa linea interpretativa, pur essendo necessario il pericolo di dispersione, si assegna natura esponenziale alla oggettiva condizione di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore valutata in relazione all’entità del credito (Cass, sez. II, 14 febbraio 2007, n. 12907).
In altre pronunce, si afferma che anche l’iniziale insufficienza o mancanza delle garanzie per le obbligazioni civili, indipendentemente dal rischio di un futuro depauperamento, comporti la sussistenza
del periculum in mora (ex multis, Cass., sez. V, 27 gennaio 2012, n. 7481).
Ad avviso delle Sezioni Unite, il contrasto ermeneutico delineato è più apparente che reale e
dall’analisi delle fattispecie concrete, prese in esame dai precedenti citati, emerge che la giurisprudenza
di legittimità aderisce conformemente alla linea interpretativa secondo cui il periculum in mora è presente non solo quando si disperdano le garanzie, ma anche quando manchino ab initio. Tali conclusioni risultano giustificate sia dall’univoco significato dell’art. 316 c.p.p., sia dalla stessa finalità di garanzia del
credito, che non può prescindere da una situazione statica presente già al momento della cautela.
Inoltre, tale orientamento è del tutto conforme a quello seguito dalla giurisprudenza civile
nell’interpretazione dell’art. 671 c.p.c., secondo cui nel disporre il sequestro conservativo il giudice del
merito può far riferimento alternativamente o a criteri oggettivi, quali la capacità patrimoniale del debitore in relazione all’entità del credito, o a comportamenti soggettivi del debitore che lascino prevedere
il rischio di depauperamento, non essendo necessaria la simultanea presenza di tali elementi (ex multis,
Cass., sez. III civ., 26 febbraio 1998, n. 2139).
Pertanto le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: «Al fine di disporre il sequestro
conservativo, è necessario e sufficiente che vi sia il fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie
del credito; vale a dire che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l’adempimento
delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, c.p.p.».
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
L’INOSSERVANZA DELLE DISPOSIZIONI RELATIVE ALL’ASSUNZIONE IN SEDE DIBATTIMENTALE DELLE DICHIARAZIONI DELL’IMPUTATO DI REATO CONNESSO O COLLEGATO A QUELLO PER CUI SI PROCEDE: INUTILIZZABILITÀ, NULLITÀ O IRREGOLARITÀ?
(Cass., sez. II, 2 dicembre 2014, n. 52023)
Il tema della valutazione e dell’utilizzo delle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento in modo irregolare da chi riveste la qualifica di imputato di reato connesso o collegato è stato frequentemente affrontato dalla giurisprudenza con esiti discordanti. Il contrasto interpretativo ha indotto la Seconda sezione della Corte di cassazione a rimettere la questione alle Sezioni Unite in questi termini: “se la mancata applicazione – in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede – delle disposizioni di cui all’art. 210 c.p.p., relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in procedimento
connesso o di un reato collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale”.
Nell’ordinanza i giudici, chiamati a decidere dell’utilizzabilità delle dichiarazioni di un imputato di
reato collegato rese in assenza di difensore e previo avvertimento della possibilità di avvalersi del diritto al silenzio, delineano in via preliminare il quadro normativo di riferimento, dopo aver precisato che
la qualità di testimone assistito non dipende dalla iscrizione del dichiarante nel registro delle notizie di
reato, ma dalla sua condizione sostanziale di persona indiziata per un reato connesso o collegato a quello per cui si procede.
Il regime giuridico delle dichiarazioni del soggetto “coinvolto nel fatto” si articola diversamente in
ragione del tipo di connessione che intercorre tra i procedimenti: in caso di connessione forte – quando
il vincolo tra il fatto imputato al dichiarante e il fatto per cui si procede è inquadrabile tra quelli indicati
nell’art. 12, comma 1, lett. a) c.p.p. – al dichiarante è riconosciuto il diritto al silenzio fino al passaggio in
giudicato della sentenza emessa nei suoi confronti, oltre al diritto di essere assistito da difensore, e le
sue dichiarazioni sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità; in caso di connessione debole – quando il vincolo tra il fatto di cui il dichiarante è accusato e il fatto
da giudicare è inquadrabile tra quelli indicati nell’art. 12, comma 1, lett. c) c.p.p. o nell’art. 371, comma
2, lett. b) c.p.p. – il dichiarante perde il diritto al silenzio non solo al passaggio in giudicato della sentenza emessa nei suoi confronti, ma anche qualora abbia precedentemente reso dichiarazioni concernenti
la responsabilità dell’imputato o scelga di rispondere a seguito dell’avvertimento di cui all’art. 63, comma 1, lett. c) c.p.p. Più precisamente l’imputato di reato connesso o collegato non ancora definitivamente giudicato, qualora non abbia reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità
dell’imputato, deve essere sentito ai sensi dell’art. 210, comma 6, c.p.p. con l’assistenza del difensore e
con gli avvertimenti previsti dall’art. 64, comma 3, lett. c) c.p.p.; qualora, invece, abbia reso dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assume, in base all’art. 197 bis c.p.p., la veste di testimone assistito.
In ordine alle conseguenze dell’inosservanza di tali disposizioni si sono registrate soluzioni divergenti nella giurisprudenza di legittimità che ha prospettato ora l’inutilizzabilità, ora la mera irregolarità, ora la nullità delle dichiarazioni rese dall’imputato di reato connesso o collegato escusso nella veste
di testimone comune anziché in quella di testimone assistito o comunque sentito in assenza di difensore
e senza il previo avvertimento indicato alle lett. c) dell’art. 64 c.p.p.
Secondo un primo indirizzo, l’inosservanza delle regole dettate dall’art. 197 bis c.p.p. nell’assunzione
della testimonianza assistita determina l’inutilizzabilità delle dichiarazioni. Questo orientamento giuri-
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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sprudenziale, formatosi con riferimento a casi in cui l’imputato di reato reciproco, non ancora definitivamente giudicato, viene escusso come teste e non, come avrebbe dovuto, in qualità di testimone assistito ai sensi e con le garanzie previste dall’art. 197 bis c.p.p., fa perno sul richiamo contenuto nell’art.
197 bis c.p.p. all’art. 64, lett. c) c.p.p. la cui inosservanza è sanzionata con l’inutilizzabilità dal successivo
comma 3 bis (Cass., sez. V, 27 maggio 2014, n. 29227; Cass., sez. V, 21 gennaio 2011, n. 1898; Cass., sez.
V, 17 dicembre 2008 n. 599; Cass., sez. V, 25 settembre 2007, n. 39050; Cass., sez. I, 24 marzo 2009, n.
29770 e, in relazione all’ipotesi in cui al dichiarante, pur esaminato ai sensi dell’art. 210 c.p.p., alla presenza del difensore, non è stato dato l’avviso di cui all’art. 64 comma 3, lett. c) c.p.p., Cass., sez., V, 10
ottobre 2013, n.3524).
Al contrario, una parte della giurisprudenza esclude che le dichiarazioni rese in dibattimento
dall’indagato o imputato di un fatto collegato a quello per cui si procede siano affette da patologia, se
assunte in modo irregolare. Le sentenze che seguono tale orientamento – prevalentemente riferite a casi
in cui la dichiarazione è stata assunta ai sensi dell’art. 210 c.p.p. o dell’art. 197 bis c.p.p. in presenza del
difensore, ma senza l’avviso previsto dall’art. 64 c.p.p. – negano in particolare l’applicabilità della sanzione dell’inutilizzabilità stabilita dal comma 3 bis dell’art. 64 c.p.p. posto che tale disposizione non è
richiamata né dall’art. 197, comma 2, c.p.p., né dall’art. 210 comma 6 c.p.p.: queste norme infatti si riferiscono a esami destinati a svolgersi nel contraddittorio delle parti, mentre l’art. 64 c.p.p. si riferisce al
solo interrogatorio, cioè ad un atto che per sua natura si svolge fuori dal contraddittorio in un contesto
che richiede una tutela più rigorosa dei terzi coinvolti nelle dichiarazioni e dello stesso dichiarante
(Cass., sez. V, 29 settembre 2013, n. 7595, Cass., sez. V, 24 settembre 2013, n. 41886; Cass., sez. V, 31
gennaio 2012, n. 12976). Anche a fronte di dichiarazioni assunte in assenza del difensore, la Corte di
cassazione ha escluso tanto la nullità quanto la inutilizzabilità delle dichiarazioni irritualmente rese, sul
rilievo che le cause di invalidità sono tassative (Cass., sez. VI, 10 febbraio 2007, n. 10235).
Soprattutto con riguardo all’ipotesi in cui nell’esame della persona indagata o imputata in un procedimento connesso non siano osservate le disposizioni previste dall’art. 210 c.p.p., si è formato un ulteriore filone giurisprudenziale che configura in tal caso non una inutilizzabilità della dichiarazione ex
art. 191 c.p.p., ma una nullità a regime intermedio ai sensi dell’art. 178, lett. c), c.p.p.. Secondo questa
impostazione, l’inutilizzabilità è sanzione estrema riservata ai casi in cui la prova è illegittima in radice
e consegue soltanto nei casi in cui quella prova sia stata assunta "in violazione dei divieti stabiliti dalla
legge"; quando invece si determina la violazione del diritto di difesa perché l’assunzione della prova,
pur consentita, è avvenuta senza l’osservanza delle formalità prescritte, violando le regole che governano le modalità di assunzione della prova, può trovare applicazione solo il diverso istituto della nullità, atteso che la legge non vieta l’esame dell’imputato di reato connesso o collegato, ma semplicemente
prescrive che sia assunto secondo determinate formalità. In ogni caso, secondo questa corrente giurisprudenziale, la nullità che deriva dalla irregolarità nell’assunzione della dichiarazione può essere fatta
valere dal dichiarante a tutela dei suoi interessi, ma non può essere eccepita dall’imputato nel processo
principale che non ha interesse all’osservanza della disposizione posta a tutela del solo dichiarante contro il rischio di autoincriminazione (Cass., sez. VI, 22 gennaio 2014, n. 10282; Cass., sez. VI, 23 maggio
2014, n. 41004; Cass. sez., I, 16 ottobre 2012, n. 43187; Cass., sez. I, 11 febbraio 2010, n. 8082; Cass., sez.
III, 11 giugno 2004, n. 38748 e Cass., sez. V, 27 marzo 2013, n. 26026 secondo cui tale tesi è confortata dal
fatto che l’art. 197 bis c.p.p. richiama l’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p. e non anche il comma 3 bis del
medesimo articolo che prevede l’inutilizzabilità).
Su questo complesso e a tratti confuso quadro è attesa la pronuncia delle Sezioni Unite, che oltre dirimere il contrasto potrà portare un decisivo contributo diretto a chiarire lo statuto del dichiarante
“coinvolto nel fatto” e a individuare con maggiore precisione i diritti che gli devono essere riconosciuti
e le conseguenze, sul piano della valutazione della prova, delle eventuali violazioni delle regole fissate
per la sua assunzione.
LA DISCUSSA APPLICABILITÀ DEL DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS ALLE STATUIZIONI CIVILI
(Cass., sez. I, 3 dicembre 2014, n. 43394)
La Corte di cassazione torna a pronunciarsi sulla discussa questione della applicabilità del divieto di
reformatio in peius alle statuizioni civili della sentenza: la pronuncia riguarda specificamente la controversa legittimità della decisione con cui il giudice di appello proceda a una diversa quantificazione del
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danno in pregiudizio dell’imputato, unico appellante, e, indirettamente la questione altrettanto contrastata della legittimità dell’assegnazione di una provvisionale in appello, in assenza di richiesta della
parte civile.
L’art. 597 c.p.p. vieta al giudice di secondo grado, qualora l’appello sia proposto dal solo imputato,
di irrogare, una pena più grave per specie o quantità, di applicare una misura di sicurezza nuova o più
grave, di prosciogliere l’imputato con una formula di minor favore e di revocare benefici accordati nel
precedente grado di giudizio. In assenza di previsioni normative puntuali in ordine alle statuizioni relative alla domanda risarcitoria della parte civile, la giurisprudenza di legittimità si è attestata su posizioni contrapposte.
Si è così affermato che il principio del divieto di reformatio in peius concerne esclusivamente i profili
inerenti le conseguenze penali dell’illecito, poiché la norma circoscrive la sua operatività alla pena, alle
misure di sicurezza, alle formule di proscioglimento e alla revoca dei benefici accordati. Il dato testuale
esclude la violazione del divieto di reformatio in peius qualora in sede di appello si stabilisca una maggiore entità del danno liquidato a favore della parte civile (Cass., sez. V, 18 ottobre 2012, n. 8339; Cass.,
sez. V, 4 ottobre 2001, n. 42453; Cass., sez. IV, 11 gennaio 1990, n. 3171). Pur partendo da tale assunto
peraltro la Suprema corte è giunta a conclusioni differenti escludendo la possibilità di un incremento
del “quantum” liquidato in favore della parte civile da parte del giudice di appello, in presenza della sola impugnazione dell’imputato in ragione dell’assenza di domanda della parte interessata (Cass., sez.
V, 4 ottobre 2001, n.42453) o, al contrario, negando che il limite devolutivo della domanda, di cui all’art.
112 c.p.p., possa considerarsi regola automaticamente applicabile nel processo penale, come si desume
dalla giurisprudenza che ha ammesso il dovere del giudice di pronunciarsi sugli effetti civili quando
riformi la sentenza assolutoria di primo grado su appello del p.m. e non anche della stessa parte civile
(Cass., sez. V, 18 ottobre 2012, n. 8339). Anche in materia di provvisionale la giurisprudenza ha ripetutamente escluso l’operatività del divieto di reformatio in peius nel caso in cui il giudice dell’appello conceda per la prima volta alla parte civile la provvisionale in assenza dell’appello della parte civile, essendo tale provvedimento meramente delibativo, discrezionale, provvisorio e non suscettibile di acquisire autorità di cosa giudicata, ma destinato a essere superato dal provvedimento di liquidazione in sede civile (Cass., VI, 23 settembre 2009, n. 38976; Cass., sez. V, 8 maggio 1998, n. 7967; Cass., sez. I, 25 settembre 1992, n. 10212; in alcune pronunce l’ammissibilità della provvisionale è condizionata al fatto che
la questione non sia stata prospettata al giudice di primo grado e poi decisa, perché diversamente la valutazione della questione sarebbe impedita dal principio devolutivo: Cass., sez. I, 4 febbraio 2009,
n.13545; Cass., sez. I, 2 febbraio 2011, n. 17240).
Di contro, la giurisprudenza ha affermato che il divieto di reformatio in peius opera anche per le statuizioni civili adottate nel precedente grado e nel giudizio di rinvio e costituisce un ostacolo insuperabile alla rideterminazione della liquidazione del danno alla parte civile (Cass., sez. I, 17 novembre 2010, n.
2658): la decisione con cui il giudice di appello liquida in favore della parte civile non impugnante una
somma di denaro maggiore rispetto a quella indicata nella sentenza annullata, su ricorso del solo imputato, è in contrasto non solo con il divieto di reformatio in peius, ma anche con il principio devolutivo
previsto dall’art. 597, comma 1, c.p.p. e con le regole basilari del processo civile che disciplinano
l’azione del danneggiato anche in sede penale (Cass., sez. IV, 1° ottobre 2008, n. 42134; in materia di
provvisionale Cass., sez. V, 19 giugno 2007, n. 36062).
La pronuncia in esame aderisce a quest’ultimo orientamento e, riprendendo tali argomentazioni, afferma che il divieto di adottare soluzioni eccedenti i limiti di quanto richiesto dalla parte stessa e di determinare effetti di aggravamento della precedente decisione in assenza di domanda delle controparti
discende dal principio devolutivo – in forza del quale lo spazio di intervento del giudice
dell’impugnazione e i limiti delle sue attribuzioni sono circoscritti dalla richiesta della parte e dalla specificazione dei punti della decisione impugnati e dai relativi motivi –, nonché dai principi generali della
domanda, della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del contraddittorio, ai quali l’esercizio
dell’azione civile da parte del danneggiato resta assoggettato in sede penale. La Corte peraltro non
ignora e anzi considera espressamente l’indirizzo giurisprudenziale che ammette la possibilità di disporre la provvisionale per la prima volta in secondo grado in assenza di appello della parte civile, ma
non lo ritiene un ostacolo in ragione della diversa natura del provvedimento di liquidazione del danno
a favore della parte civile, che postula un accertamento fattuale definitivo sulla specie e l’entità dei pregiudizi derivanti dal reato, senza altra forma di tutela alla parte danneggiata ad eccezione dei mezzi di
impugnazione.
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
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Il divieto di reformatio in peius, pur non sancito da una norma positiva nell’ordinamento processuale
civile, viene dunque affermato anche con riguardo alle statuizioni civili della sentenza in quanto conseguenza dell’operatività complementare del principio devolutivo e di acquiescenza.
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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L’omesso interrogatorio dell’arrestato alloglotta
in sede di convalida
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 23 SETTEMBRE 2014, N. 38791 – PRES. AGRÒ; REL. DI STEFANO
L’assoluta impossibilità di procedere entro il termine di legge (le 48 ore previste dagli artt. 390, comma 1, e 449
comma 1, c.p.p.) all’interrogatorio dell’arrestato alloglotta per irreperibilità di un interprete in grado di comprenderne la particolare o non comune lingua è evenienza che non costituisce una causa ostativa all’adozione del provvedimento di convalida dell’arresto. L’ordinamento processuale richiede, infatti, che il giudice decida sulla legittimità
dell’arresto in via pregiudiziale e assorbente anche nel caso in cui l’arrestato sia stato già posto in libertà dallo
stesso p.m. (come si evince dall’art. 121 norme att. c.p.p.) ovvero non possa essere interrogato per forza maggiore o per altro motivo (come deve implicitamente desumersi dal disposto dell’art. 391, comma 3, c.p.p.). Ne discende che il mancato interrogatorio dell’arrestato dovuto alla sua ignoranza della lingua italiana e alla rilevata impossibilità di reperire un interprete nel breve termine di legge deve essere assimilato a un caso di forza maggiore
che non ostacola la decisione sulla legittimità o meno della precautela. Peraltro, in tema di convalida dell’arresto, il
termine di 48 ore imposto dalla legge per gli incombenti decisori del giudice deve essere riferito all’orario di inizio
dell’udienza, non assumendo rilevanza il momento in cui siano emessi i provvedimenti decisori (ex art. 391, comma 7, c.p.p.), purché intervengano senza soluzione di continuità nel corso dello svolgimento della stessa udienza.
Funzione primaria e indefettibile del procedimento incidentale di convalida dell’arresto è verificare la legalità
dell’operato della polizia giudiziaria, anche quando la misura precautelare sia venuta meno. Funzione che, alla luce
della sentenza n. 109 del 1999 della Corte Costituzionale (sulla estensione applicativa dell’art. 314 c.p.p.), incide
anche sul diritto dell’arrestato ad un’equa riparazione per il tempo durante il quale è rimasto detenuto, nel caso in
cui sia accertata l’insussistenza (per ragioni attinenti alla “accusa” di reato mossagli) delle condizioni per la convalida del suo arresto.
[omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
[omissis]
1. Arrestato dalla p.g. alle ore 13:00 del (Omissis) in flagranza del reato di resistenza, il cittadino africano (nato in (Omissis)) F.A. è stato presentato in vinculis dal pubblico ministero davanti al Tribunale di
Palmi all’udienza del 7.10.2013 per la convalida dell’arresto e il connesso giudizio direttissimo ai sensi
dell’art. 449, comma 1, c.p.p.
2. Il Tribunale con l’indicata ordinanza emessa in udienza non ha convalidato l’arresto del F., di cui
ha ordinato la liberazione, sul presupposto della inosservanza del termine previsto dall’art. 390 c.p.p.,
comma 1, (richiesta di convalida del p.m. entro 48 ore dall’arresto). Inosservanza che il Tribunale ha
motivato, rilevando che: a) chiamato il relativo processo alle ore 12:10, l’arrestato F. non è apparso in
grado di capire la lingua italiana, né quella francese, come confermato da altro cittadino africano convocato dalla p.g. in eventuale veste di interprete; b) non è stato possibile reperire alcun interprete di
“lingua africana” entro le 48 ore dall’arresto del F.
3. L’ordinanza è stata impugnata per cassazione (art. 391 c.p.p., comma 4) dal Procuratore della Repubblica di Palmi, che ha dedotto i vizi di violazione degli artt. 390, 391 e 449 c.p.p., e di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
La lingua francese, osserva innanzitutto il ricorrente p.m., è l’unica lingua ufficiale del Mali e non
compete all’autorità giudiziaria italiana, se un soggetto asserisca di non comprendere l’idioma ufficiale
del suo Paese di origine, reperire un interprete in grado di parlare una diversa lingua o un dialetto di
sua migliore conoscenza. In simile situazione il Tribunale avrebbe dovuto in ogni caso decidere sulla
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convalida dell’arresto anche senza procedere al previo interrogatorio dell’arrestato, stante l’impossibilità, ascrivibile a forza maggiore, di reperire tempestivamente un idoneo interprete.
In secondo e congiunto luogo il ricorrente deduce l’erroneità della ritenuta elusione del termine di
48 ore per la convalida dell’arresto. Termine che va apprezzato con esclusivo riguardo al momento in
cui l’arrestato è posto a disposizione del giudice della convalida mediante la traduzione e la sua presentazione in udienza, che nel caso del F. è avvenuta per tempo (udienza iniziata alle ore 9:30), come con
palese discrasia – del resto – riconosce la stessa ordinanza impugnata (giudizio di convalida iniziato alle ore 12:10 con l’arrestato presente fin dall’apertura dell’udienza alle ore 9:30).
4. Il ricorso del Procuratore della Repubblica di Palmi è fondato.
4.1. Giova premettere che, come stabilito da questa Corte regolatrice (ex plurimis: Sez. 1, 17.12.1998 n.
6481, Gessetto, rv. 212455; Sez. 1, 7.6.2001 n. 28937, P.M. in proc. Mandala, rv. 219548; Sez. 1, 1.2.2008 n.
7981, P.M. in proc. Shalabi, rv. 239234), l’interesse del pubblico ministero per la cassazione dell’ordinanza di mancata convalida dell’arresto sussiste sotto più aspetti con riguardo: al fine, conforme al ruolo
istituzionale del p.m. (art. 70 O.G.: “il p.m. veglia alla osservanza delle leggi...”), di far emergere
l’illegittimità della stasi processuale prodotta dall’ordinanza di non convalida; al fine di evitare che – in
sede di fungibilità della detenzione (art. 657 c.p.p.) – l’indagato possa costituirsi, per eventuali reati in
precedenza commessi, un’impropria “riserva” di pena derivante da presunta privazione della libertà
personale senza titolo; al fine di rimuovere le condizioni per una potenziale domanda di riparazione
per ingiusta detenzione dell’indagato; al fine di vedere riconosciute correttezza e legittimità dell’intervento della polizia giudiziaria che ha eseguito l’arresto non convalidato, intervento che l’ufficio del
p.m. ha condiviso e fatto proprio (la richiesta di convalida dell’arresto è riservata alla titolarità del p.m.
che, nel delibare l’azione di p.g., può anche disporre l’immediata liberazione dell’arrestato ex art. 389
c.p.p.).
4.2. Come rilevato dal concludente P.G. in sede, palesi appaiono gli errori e le incongruenze della
decisione denunciati dal ricorrente pubblico ministero.
4.2.1. Per un verso l’assoluta impossibilità di procedere entro il termine di legge (le 48 ore previste
dagli art. 390, comma 1, e/o art. 449 c.p.p., comma 1) all’interrogatorio dell’arrestato alloglotta per irreperibilità di un interprete in grado di comprenderne la particolare o non comune lingua (nel caso di
specie una delle cinque lingue-dialetti non ufficiali parlate nello Stato africano del Mali), impossibilità
che ha indotto il Tribunale a non convalidare l’arresto del F., supponendo “non rispettati i termini di
cui all’art. 390 c.p.p.”, è evenienza che non costituisce una causa ostativa all’adozione del provvedimento di convalida dell’arresto. L’ordinamento processuale richiede, infatti, che il giudice decida sulla legittimità dell’arresto in via pregiudiziale e assorbente anche nel caso in cui l’arrestato sia stato già posto in
libertà dallo stesso p.m. (come si evince dall’art. 121 disp. att. c.p.p.). ovvero non possa essere interrogato per forza maggiore o per altro motivo (come deve implicitamente desumersi dal disposto dell’art.
391 c.p.p., comma 3). Ne discende che il mancato interrogatorio dell’arrestato per la sua ignoranza della
lingua italiana e la rilevata impossibilità di reperire un interprete nel breve termine di legge deve essere
assimilato, come chiarisce questa S.C., a un caso di forza maggiore che non ostacola la decisione sulla
legittimità o meno dell’arresto compiuto dalla p.g. (ex plurimis: Sez. 4, 17.5.2007 n. 26468, Beben, rv.
236995; Sez. 1, 14.10.2009 n. 41934, Elessi, rv. 245063; Sez. 6, 11.6.2013 n. 28988, Garizzo, rv. 255860).
4.2.2. Per altro verso è agevole osservare, ancora con il supporto della stabile giurisprudenza di questa stessa S.C., che in tema di convalida dell’arresto in flagranza di reato, il termine di 48 ore imposto
dalla legge per gli incombenti decisori del giudice deve essere riferito all’orario di inizio dell’udienza
tenuta dal giudice, non assumendo rilevanza il momento in cui siano emessi i provvedimenti decisori
(art. ex art. 391 c.p.p., comma 7, u.p.), purché intervengano senza soluzione di continuità nel corso dello
svolgimento della stessa udienza (cfr. ex plurimis: Sez. 6, 25.11.2008 n. 46063, Torcasio, rv. 242044; Sez. 6,
7.6.2012 n. 23784, Scarlat, rv. 253011; Sez. 6, 26.11.2013 n. 21/14, P.M. in proc. Demma, rv. 258555; e, per
un caso in tutto analogo a quello delineato dall’odierno ricorso del p.m.: Sez. 1, 8.3.2007 n. 23455, P.M.
in proc. Hassan, rv. 236786).
4.2.3. Funzione primaria e indefettibile del procedimento incidentale di convalida dell’arresto è,
d’altro canto, quella di verificare la legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ha effettuato
l’arresto dell’indagato, anche quando – come detto – la misura precautelare sia venuta meno. Funzione
che, alla luce della sentenza 29.3.1999 n. 109 della Corte Costituzionale (sulla estensione applicativa
dell’art. 314 c.p.p.), incide anche sul diritto dell’arrestato ad un’equa riparazione per il tempo durante il
quale è rimasto detenuto, nel caso in cui sia accertata l’insussistenza (per ragioni attinenti alla “accusa”
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di reato mossagli) delle condizioni per la convalida del suo arresto.
Per l’effetto l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio degli atti al Tribunale di Palmi
per la decisione sul merito della richiesta di convalida dell’arresto di F.A. avanzata dal locale pubblico
ministero.
Per sgombrare il campo da possibili equivoci interpretativi sugli effetti della delineata esigenza che
ad ogni arresto segua un rituale controllo del giudice anche nel caso in cui l’arrestato abbia riacquistato
la libertà (art. 391 c.p.p., comma 6, art. 121 disp. att. c.p.p., comma 2), è opportuno osservare che la descritta dinamica processuale non confligge con i principi generali fissati dall’art. 13 della Costituzione
in tema di libertà personale e della sua peculiare espressione definita come “libertà dagli arresti”, nella
parte in cui (art. 13 Cost., comma 3) si statuisce che le privazioni di libertà di un individuo compiute
dalle autorità di polizia per ragioni di necessità e urgenza nei tassativi casi previsti dalla legge (come
l’arresto di p.g. in flagranza di reato), ove non siano convalidate dall’autorità giudiziaria nei termini di
legge, “si intendono revocate e restano prive di ogni effetto”.
La sequenza procedurale dinanzi delineata si inscrive, anzi, proprio nel solco degli indicati principi
costituzionali. È evidente, infatti, che la già intervenuta rimessione in libertà dell’arrestato, disposta dal
giudice della convalida per qualsiasi ragione (procedurale o relativa al merito del fatto contestato), ha
consumato il connesso potere statuale coercitivo provvisorio, esaurendone ogni effetto sullo status libertatis dell’arrestato. In nessun caso il postumo (“nuovo” o non) giudizio di convalida potrebbe dar luogo
alla riattivazione dello stato detentivo del soggetto a seguito di eventuale posteriore convalida di un arresto ormai perento. In vero il giudizio incidentale svolgentesi nei confronti di un arrestato restituito
alla libertà è logicamente circoscritto al puro controllo di legalità dell’avvenuto arresto, in ordine al
quale – in questi casi – il giudice deve limitarsi ad accertare il rispetto, ora per allora, delle condizioni
giustificanti l’arresto (estremi della flagranza; attinenza a un reato che consenta o renda obbligatorio
l’arresto in flagranza; osservanza dei termini di legge).
[Omissis]
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FRANCESCA DELVECCHIO
Dottoranda di ricerca in Dottrine generali del diritto – Università degli Studi di Foggia
Le garanzie linguistiche nel “giusto processo europeo”:
l’omesso interrogatorio dell’arrestato per irreperibilità
dell’interprete
Language guarantees in "due European process":
the interrogation of the arrested failed to unavailability
of the interpreter
La Corte di cassazione ritorna sul tema dell’assistenza linguistica all’arrestato alloglotta, adeguandosi all’orientamento
maggioritario e ammettendo l’omissione dell’interrogatorio per irreperibilità dell’interprete, con conseguente convalida della misura precautelare.
Si tratta, tuttavia, di capire se un simile orientamento sia ancora ammissibile nella “primavera europea” delle garanzie difensive.
The Court of Cassation returns to the topic of language assistance for an alloglot arrestee, accepting the majority
orientation in case law and allowing for the omission of interrogation on the grounds of the unavailability of the
interpreter, thus validating the precautionary measure.
It is, however, to be seen whether such an approach is still permissible in the "European spring" of guarantees for
the defence.
LE RAGIONI DELLA CORTE
Con la decisione in commento la Corte di cassazione torna a pronunciarsi in materia di assistenza linguistica all’imputato non italofono, inserendosi in quell’ormai nutrito “pacchetto di sentenze” che ha
contribuito a delineare i contorni del diritto all’interprete nel processo penale italiano.
Questa tematica negli ultimi anni ha assunto un ruolo centrale nelle riflessioni giurisprudenziali e
dottrinarie nazionali e sovranazionali 1, tradizionalmente impegnate nel processo di adeguamento delle
norme alle nuove esigenze sociali. La diversificazione linguistica e culturale è ormai una realtà frequente nella prassi giudiziaria della “Grande Europa”, sicché si impone una tutela linguistica adeguata, essenziale all’interno di un processo che possa dirsi equo 2.
1
In verità l’assistenza linguistica all’imputato straniero non è di nuovo conio: la figura dell’interprete conquista la propria
posizione sin dai codici pre-unitari, e nel tempo assume diverse configurazioni processuali, ma è il «capovolgimento dell’impostazione ultranazionalistica» operata dal codice Vassalli a segnare la sua vera mutazione genetica. Così, M. Chiavario, La tutela
linguistica dello straniero nel nuovo processo penale italiano, in Riv. dir. proc., 1991, p. 336.
In linea con i principi costituzionali e la tutela dei diritti fondamentali sanciti a livello convenzionale, il codice del 1988 offre
all’alloglotta una duplice garanzia: da un lato, attraverso l’art. 109, comma 2, c.p.p. rendendo obbligatoria la garanzia linguistica
per un cittadino italiano appartenente ad una minoranza, dall’altro ai sensi dell’art. 143 c.p.p. “sdoppiando” l’assistente linguistico e introducendo due figure distinte, l’interprete e il traduttore. Per una ricostruzione storica esaustiva si rimanda a D. Curtotti Nappi, Il problema delle lingue nel processo penale, Milano, 2002, p. 19 ss.; S. Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto all’interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Padova, 2010, p. 42 ss.
2
«Il diritto non si serve della lingua, ma è fatto di lingua», così M. A. Cortellazzo, Lingua e Diritto in Italia. Il punto di vista dei
linguisti, in L. Schena (a cura di), La lingua del diritto: difficoltà traduttive, applicazioni didattiche, Roma, 1997, p. 36. L’espressione,
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Su questo sfondo va proiettata la specifica quaestio affrontata dalla pronuncia in esame.
In particolare, la Corte si è occupata della tutela del diritto di difesa dell’imputato alloglotta che,
tratto in arresto e condotto dinanzi al giudice per il rito direttissimo, non venga sottoposto ad interrogatorio per irreperibilità dell’interprete nel termine di 48 ore, come imposto dall’art. 390, comma 1, c.p.p.
La questione tocca punti salienti del “giusto processo”. La garanzia riconosciuta all’imputato di farsi
assistere da un interprete costituisce estrinsecazione del diritto inviolabile di difesa; è questa un’asserzione pacificamente condivisa 3, costituzionalmente recepita 4, oltre che convenzionalmente imposta 5.
La stessa giurisprudenza, se pur con qualche tentennamento iniziale 6, è giunta a ritenere l’assistenza
dell’interprete come un irrinunciabile “strumento di difesa”, che assicura una reale partecipazione dell’imputato al processo attraverso l’effettiva comprensione dei distinti atti e dei singoli momenti di svolgimento dello stesso 7. È pensata dal legislatore come una garanzia attivabile in ogni “situazione a rischio
linguistico”; l’attività d’udienza, sede naturale di un contraddittorio effettivo, rientra ictu oculi fra queste.
sintetica ma illuminante, racchiude in sé tutta l’importanza del problema dell’assistenza linguistica nel processo penale ed è riportata da M. Gialuz, Il diritto all’assistenza linguistica nel processo penale. Direttive europee e ritardi italiani, in Riv. dir. proc., 2012, p.
1193.
3
L’importanza dell’assistenza linguistica quale strumento di difesa è stata evidenziata già all’indomani dell’entrata in vigore del codice Vassalli (sul punto si veda G. Ubertis, sub art. 143 c.p.p., in E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario del
nuovo codice di procedura penale, II, Milano, 1989, p. 148) per poi ricevere definitiva consacrazione grazie a C. cost., sent. 19 gennaio 1993, n. 10, in Giur. cost., 1993, p. 52, con nota di E. Lupo, Il diritto dell’imputato straniero all’assistenza dell’interprete tra codice e
convenzioni internazionali, ivi, p. 66. Con questa pronuncia il Giudice delle leggi ha ritenuto che «il diritto dell’imputato ad essere
immediatamente e dettagliatamente informato nella lingua da lui conosciuta della natura e dei motivi dell’imputazione contestatagli (debba) esser considerato un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile. E, poiché si tratta di un diritto la cui
garanzia, ancorché esplicitata da atti aventi il rango della legge ordinaria, esprime un contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di ogni uomo (cittadino o straniero), del diritto inviolabile alla difesa (art. 24, secondo comma,
della Costituzione), ne consegue che, in ragione della natura di quest’ultimo quale principio fondamentale, ai sensi dell’art. 2
della Costituzione, il giudice è sottoposto al vincolo interpretativo di conferire alle norme, che contengono le garanzie dei diritti
di difesa in ordine alla esatta comprensione dell’accusa, un significato espansivo, diretto a render concreto ed effettivo, nei limiti
del possibile, il sopra indicato diritto dell’imputato». Questa ricostruzione non è stata più smentita: in senso conforme, ex plurimis, C. cost., sent. 22 luglio 1999, n. 342, in Dir. pen. proc., 2000, p. 76, con nota di C. Conti, Partecipazione e presenza dell’imputato al
processo penale: questione terminologica o interessi contrapposti da bilanciare?, ivi, p. 79; C. cost., sent. 22 luglio 1999, n. 341, in Giur.
cost., 1999, p. 2680, con nota di G. Di Chiara, Il «diritto all’interprete» dell’imputato sordomuto in caso di analfabetismo, in Dir. pen.
proc., 2000, p. 223. Per ampie considerazioni sul diritto all’interprete quale presupposto di effettività delle garanzie difensive si
veda, per tutti, D. Curtotti Nappi, Il problema delle lingue nel processo penale, cit., p. 233, che sottolinea come «dove esiste un processo, esiste uno scontro verbale in cu le parti affermano, negano, deducono, dissertano, formulano domande ed eccezioni: tendono cioè, a persuadere il giudice con argomenti in fatto e in diritto. Il processo, allora, ha bisogno di un mezzo di comunicazione comune a tutti i contraddittori» così da tutelare al meglio il diritto di difesa di ciascuno; nonché P.P. Rivello, La struttura,
la documentazione e la traduzione degli atti, Milano, 1999, p. 228 ss.
4
Il diritto all’assistenza di un interprete è stato elevato a principio fondamentale dell’ordinamento in occasione della riforma sul giusto processo (l. cost. 23 novembre 1999, n. 2). A dire di alcuni, una grande innovazione per la carta costituzionale, sino
ad allora avara di riferimenti alla condizione dello straniero nel processo penale. Così, M. Chiavario, Processo e garanzie della persona, III ed., II, Milano, 1984, p. 188. Altri, tuttavia, hanno ritenuto l’inserimento di questo diritto nel novero delle garanzie previste dall’art. 111 Cost. sovrabbondante rispetto alle prescrizioni convenzionali che già disponevano in tal senso. Per queste osservazioni si rinvia a G. Spangher, Il «giusto processo» penale, in Studium iuris, 2000, p. 255. Sul punto anche P. Ferrua, Garanzie del
giusto processo e riforma costituzionale, in Crit. dir., 1998, p. 165, che parla di forte effetto simbolico, ma scarsa incidenza tecnicogiuridica.
5
Inquadrato nella prospettiva del diritto di difesa, l’assistenza linguistica ha due anime: innanzitutto è parte integrante delle
garanzie del giusto processo ex art. 6 § 3, lett. a) ed e) Cedu, ma altresì rileva sotto il profilo della protezione della libertà personale ai sensi dell’art. 5 § 2, lett. a) Cedu. Uguali disposizioni si rintracciano nel Patto internazionale sui diritti civile e politici,
rispettivamente agli artt. 14, comma 3, lett. a) e 9, comma 3. Sul punto A. Tamietti, sub art. 6 C.e.d.u., in S. Bartole-P. De Sena-V.
Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, p. 244 ss.; K. La Regina,
L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo. Dal genus alla species, Padova, 2011, p. 352 ss.
6
S. Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto all’interprete e tutela delle minoranze riconosciute, cit., p. 180 ss., tenta
una «periodizzazione della storia dell’esegesi» del diritto all’assistenza linguistica nella giurisprudenza della Corte di cassazione. Una prima fase, inaugurata con l’entrata in vigore del nuovo codice, è caratterizzata da un atteggiamento restrittivo, volto a
limitare il ricorso all’interprete; la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 1993 compie, però, una vera e propria rivoluzione copernicana, imponendo la massima espansione della tutela dell’imputato alloglotta. Progressivamente, e non senza fatica, la
giurisprudenza di legittimità corregge il tiro, adeguandosi ai dicta del Giudice delle leggi.
7
Alla sentenza della C. cost. n. 10 del 1993 hanno fatto seguito adesivamente Cass., sez. un., 31 maggio 2000, n. 12, in Cass. pen.,
2000, p. 3255 ss.; Cass., sez. un., 24 settembre 2003, n. 5052, in CED Cass., n. 226717, con nota di G. Fumo, L’attuazione del "giusto pro-
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Così si spiega la necessaria presenza dell’interprete in sede di convalida dell’arresto ex art. 391 c.p.p.:
il suo intervento ad adiuvandum è finalizzato a permettere all’imputato di rendere interrogatorio dinanzi
ad un giudice che deciderà sulla legittimità della misura in vinculis cui è stato sottoposto 8. La connotazione marcatamente auto difensiva di questa audizione emerge chiaramente, rappresentando «l’occasione per offrire un contributo utilizzabile per verificare che la misura precautelare sia stata legittimamente eseguita» 9.
Tale finalità dialettica, nell’ipotesi specifica dello straniero, non sarebbe perseguibile ove non fosse
attivata la tutela linguistica. È la stessa Corte, nel caso di specie, ad evidenziare la necessità di una nullità a regime intermedio dell’interrogatorio 10, nonché del successivo provvedimento di convalida “avvelenato”, ove non venga nominato l’interprete.
Nondimeno la pronuncia, aderendo all’orientamento pressoché uniforme nella giurisprudenza di legittimità 11, perviene a conclusioni differenti (dal respiro meno garantista) nel caso in cui l’impossibilità
della nomina dipenda dall’irreperibilità dell’interprete, ritenendo che in simili evenienze si possa decidere sulla legittimità dell’arresto «in via pregiudiziale e assorbente», omettendo l’audizione, senza tuttavia ledere il diritto di difesa dell’imputato straniero.
Due le giustificazioni alla base della decisione.
Innanzitutto, i giudici legittimano l’omissione richiamando l’intima natura dell’udienza di convalida, teleologicamente orientata alla verifica formale dei presupposti della misura precautelare 12. Si precisa, infatti, che «funzione primaria e indefettibile del procedimento incidentale di convalida dell’arresto è quella di verificare la legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ha effettuato l’arresto dell’indagato», sicché la cognizione del giudice sarà limitata ad una verifica ex ante dell’attività della p.g.,
nella sola prospettiva degli operatori 13.
Ai giudici questa interpretazione appare sistematicamente coerente: l’art. 121, norme att. c.p.p. dispone, infatti, doversi procedere all’udienza di convalida anche nei casi in cui il pubblico ministero abbia già liberato il soggetto in vinculis. Se la convalida è necessaria anche nel caso in cui la restrizione non
sia più in corso, inequivocabilmente il legislatore intende quella stessa udienza come finalizzata a qualcos’altro: all’imputato è “comunque” garantita una valutazione sulla legittimità dell’arresto subito perché detta verifica incide sul suo diritto ad ottenere un’equa riparazione ove dovesse emergere un’effettiva violazione 14.
cesso" è sempre retroattiva, in Dir. e giustizia, 2004, 10, p. 30 ss.; R. Bricchetti, L’interessato deve essere subito informato sui motivi
dell’imputazione contestata, in Guida dir., 2004, 11, p. 83 ss.; Cass., sez. un., 26 settembre 2006, n. 39286, in Dir. pen. proc., 2007, p. 468
ss., con nota di S. Morisco, Imputato alloglotta e avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p., ivi, p. 473 ss. Ebbene, prescindendo dall’analisi puntuale delle singole pronunce per ragioni di economia espositiva, ciò che preme mettere in evidenza è la progressiva dilatazione del diritto all’assistenza linguistica dell’imputato in ordine a tutti gli atti scritti e orali a lui indirizzati.
8
Sulla ratio dell’istituto, G. Varraso, Interrogatorio in vinculis dell’imputato: tra istanze di difesa, esigenze di garanzia, ragioni di accertamento, in Riv. it. dir. proc. pen, 1999, p. 1408 ss. In senso conforme si veda anche A. Cuva, L’interrogatorio del giudice per le indagini preliminari nell’udienza di convalida, in Giust. pen., 1990, III, p. 488.
9
Così, K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo. Dal genus alla species, cit., p. 252 ss.
10
Cass., sez. I, 11 marzo 2009, n. 21669, in CED Cass., n. 243794; Cass., sez. IV, 4 dicembre 2006, n. 2635, ivi, n. 235893; Cass.,
sez. I, 19 settembre 2003, n. 48797, ivi, n. 226464; Cass., sez. I, 21 febbraio 2001, n. 18922, ivi, n. 218918, che precisa come la garanzia dell’assistenza dell’interprete a soggetto che ignori la lingua italiana si estenda alle attività procedimentali anteriori al giudizio di merito e, conseguentemente, va assicurata, a pena di nullità, anche nel procedimento di convalida dell’arresto. In senso
conforme anche Cass., sez. III, 4 febbraio 2000, n. 580, ivi, n. 216526. Concorde la dottrina, ex multis, L. Filippi, L’arresto in flagranza nell’evoluzione normativa, Milano, 1990, p. 318; D. Vigoni, Minoranze, stranieri e processo penale, in M. Chiavario-E. Marzaduri (a
cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, I, Torino, 1995, p. 390. Più di recente, S. Sau, Le garanzie linguistiche
nel processo penale. Diritto all’interprete e tutela delle minoranze riconosciute, cit., p. 219.
11
Ex plurimis, Cass., sez. VI, 11 giugno 2013, n. 28988, in CED Cass., n. 255860; Cass., sez. I, 14 ottobre 2009, n. 41934, ivi,
n. 245063; Cass., sez. IV, 17 maggio 2007, n. 26468, ivi, n. 236995.
12
La giurisprudenza prevalente ritiene che il giudice sia tenuto a valutare solo la legittimità formale del provvedimento
provvisorio. Così, Cass., sez. I, 14 ottobre 2009, n. 41934, cit.; Cass., sez. I, 8 maggio 2008, n. 20297, ivi, n. 239997; Cass., sez. IV, 17
maggio 2007, n. 26468, cit.
13
Come precisa K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo. Dal genus alla species, cit., p. 356, questo indirizzo risolve l’accertamento in sede di convalida in una valutazione sulla situazione di osservazione e di intervento della
polizia giudiziaria, senza tener conto della versione del fatto successivamente fornita dall’imputato o le altre circostanze eventualmente emerse dopo l’arresto.
14
I giudici della VI sezione a sostegno delle proprie conclusioni richiamano C. cost, sent. 2 aprile 1999, n. 109, in Giur cost.,
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45
Il secondo profilo motivazionale attiene alle ipotesi in cui all’omesso interrogatorio non segua alcuna conseguenza sanzionatoria. L’art. 391, comma 3, c.p.p., infatti, pare che implicitamente esoneri l’autorità dal procedere all’audizione nei casi in cui volontariamente il soggetto si sia sottratto all’interrogatorio, non presenziando in udienza o non rispondendo alle domande, ovvero in tutte quelle ipotesi in
cui non abbia potuto farsi ascoltare per legittimo impedimento 15.
La Corte, così argomentando, giunge a configurare l’irreperibilità dell’interprete nei ristretti termini
di legge come una causa di forza maggiore, che non ostacola la decisione sulla legittimità dell’arresto 16.
Sebbene sia dovere dell’interprete rimanere ancorato al testo delle norme e alla littera iudicii, sarebbe
incompleta una ricostruzione che non tenesse conto delle prassi e delle difficoltà che i giudici incontrano nell’applicazione concreta del diritto. Ed infatti, al di là delle argomentazioni esplicite adottate dalla
VI sezione per giustificare l’omissione dell’interrogatorio, forse si potrebbe intravedere qualcos’altro tra
le maglie dell’apparato motivazionale: i tempi assai ristretti del procedimento di convalida con contestuale rito direttissimo, nonché l’aumento esponenziale di stranieri sul territorio nazionale, determinano un «problema di forte rilievo pratico, e di importanza sistematica non certo minore» 17 che la Corte
non ha potuto ignorare.
È fatto notorio che il legislatore abbia conferito al giudizio di convalida un ritmo serrato, e ciò tanto
a tutela del soggetto in vinculis, che si vede privato della sua libertà personale per atto ad iniziativa della polizia giudiziaria, tanto della collettività, la cui sicurezza è potenzialmente pregiudicata da quelle
esigenze cautelari che avevano giustificato l’adozione della misura, poi perenta per motivi esclusivamente formali 18.
A ciò si aggiungano alcune oggettive difficoltà pratiche come l’incapacità di comprendere la lingua
italiana. È, questa, una verifica affidata al giudice 19, ma è soprattutto un atto suscettibile di simulazione, sicché nella prassi giudiziaria ben potrebbe accadere che l’alloglotta finga la sua ignoranza con il so1999, p. 953 ss., che, nel pronunciarsi sull’estensione applicativa dell’art. 314 c.p.p., ha precisato come l’illegittimità di una misura precautelare accertata in sede di convalida rilevi sul piano della richiesta per la riparazione per ingiusta detenzione. L’ esecuzione del provvedimento provvisorio, infatti, «sostanzialmente realizza una forma tipica di custodia, che non può non postulare, rispetto alle altre misure restrittive, identità di regime riparatorio».
Per un commento alla pronuncia si vedano E. Aprile, Il diritto alla riparazione spetta anche a colui che è stato ingiustamente detenuto in quanto arrestato in flagranza o fermato perché indiziato di delitto, in Nuovo dir., 1999, p. 331 ss.; B. Giors, Misure precautelari e
riparazione per detenzione ingiusta o illegittima: una sentenza ‘additiva’ ... riparatrice di una grave lacuna legislativa, in Leg. pen., 1999, p.
677 ss.; C. Santoriello, Un’opportuna precisazione in tema di ingiusta detenzione, ivi, 1999, p. 961 ss.
15
Che l’udienza di convalida non presupponga la necessaria partecipazione dell’arrestato è fatto pacificamente riconosciuto
(per tutti si veda G. Ascione-D. de Biase, La libertà personale nel nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 148), sicché, ove l’imputato
decida per sua libera scelta di non presenziare, sarà possibile omettere l’interrogatorio. Allo stesso modo il giudice potrà procedere oltre nel caso in cui il soggetto in vinculis non possa presenziare per causa di forza maggiore. È inoltre previsto che
l’arrestato presente possa rifiutarsi di rispondere alle domande, in quanto, ancorché in assenza di un’espressa previsione sul
punto, si ritiene che all’interrogatorio de quo si applichino le regole generali di cui agli artt. 64 e 65 c.p.p. Sullo svolgimento
dell’udienza di convalida e l’interrogatorio dell’imputato, K. La Regina, sub art. 391 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di),
Codice di procedura penale commentato, II, Milano, 2010, p. 4737 ss.
16
Cass., sez. I, 14 ottobre 2009, n. 41934, cit.; Cass., sez. I, 8 maggio 2008, n. 20297, cit.; Cass., sez. IV, 17 maggio 2007, n.
26468, cit.; Cass., sez. I, 23 febbraio 2006, n. 12575, in CED Cass., n. 233860; Cass., sez. V, 12 ottobre 2000, n. 4253, ivi, n. 217912;
Cass., sez. IV, 15 dicembre 1998, n. 3633, ivi, n. 212477 secondo cui «l’assoluta impossibilità di procedere all’interrogatorio
dell’arrestato, che non comprende la lingua italiana, per irreperibilità di un interprete non costituisce motivo ostativo
all’adozione del provvedimento di convalida. L’ordinamento richiede, infatti, che il giudice decida sulla legittimità dell’arresto
in via primaria anche nel caso in cui l’indagato sia stato posto in libertà (art. 121 norme att. c.p.p.) o non possa essere interrogato
per forza maggiore, quale può ritenersi costituire la detta irreperibilità».
17
Sottolinea questi aspetti G. Leo, Sulla convalida dell’arresto dello straniero alloglotta in caso di irreperibilità dell’interprete, in Dir.
pen. proc., 2007, p. 1013.
18
Sul punto, per tutti, M. Monaco, Convalida, in Dig. pen., IV Agg., I, Milano, 2005, p. 252.
19
Secondo D. Curtotti Nappi, Il problema delle lingue nel processo penale, cit., p. 360, «l’art. 143, comma 1, c.p.p. fissa una presunzione di conoscenza contraria, vale a dire di non conoscenza della lingua ufficiale del processo: il che ci fa giungere alla conclusione per cui l’obbligo di nominare l’interprete in favore dell’imputato alloglotta incombe sull’autorità procedente immediatamente all’istaurarsi del procedimento». Analogamente, M. Chiavario, La tutela linguistica dello straniero nel nuovo processo penale
italiano, cit., p. 126. Questa dottrina, con le suddette argomentazioni, critica aspramente un risalente orientamento giurisprudenziale che tendeva ad attribuire allo straniero l’onere di dimostrazione; così, Cass., sez. VI, 14 giugno 2001, n. 33203, in CED Cass.
n. 219330; Cass., sez. III, 17 dicembre 1998, n. 882, ivi, n. 213068; Cass., sez. III, 6 maggio 1998, n. 7143, ivi, n. 211215; Cass., sez. I,
4 maggio 1994, n. 6254, ivi, n. 198879.
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lo scopo di paralizzare il procedimento e ottenere la scarcerazione “automatica” 20.
Si potrebbe arrivare a pensare, dunque, che le ragioni sottese alla decisione in commento rispondano
ad esigenze di speditezza processuale, garanzia di efficienza in un processo che è troppo spesso affaticato e che l’incontrollato flusso migratorio rischia di appesantire ulteriormente.
VERSO LA VALORIZZAZIONE DEL DIRITTO DI DIFESA DELL’ALLOGLOTTA
Le argomentazioni della Corte destano perplessità.
Il problema, a monte, riguarda l’esatta funzione da attribuire alla convalida dell’arresto. Nel configurare questa udienza come orientata ad una mera verifica di legittimità del provvedimento restrittivo
provvisorio, la Corte, invero, travolge l’attività difensiva 21, assumendo come unica prospettiva quella
degli operatori di polizia giudiziaria e ritenendo ininfluente qualunque altro elemento aliunde desumibile.
Una simile esegesi tradisce l’intima ratio dell’istituto: pensato dal legislatore come un procedimento
a contraddittorio anticipato, presuppone che la conoscenza del giudice venga raggiunta solo all’esito di
un confronto effettivo fra le parti 22; di qui la previsione dell’interrogatorio ex art. 391, comma 3, c.p.p.,
quale strumento difensivo finalizzato ad offrire all’organo giudicante materiale cognitivo “integrativo”.
Così declinati i termini della quaestio, ben si comprende come l’assenza di un interprete incida sul diritto dell’alloglotta ad essere consapevolmente presente al processo 23. Impensabile ritenere che un vulnus
tanto grave alle sue garanzie difensive non comporti alcuna conseguenza sul piano sanzionatorio 24.
Una simile conclusione, peraltro, pare presupporre un’ingiustificata oltre che significativa compressione dei poteri cognitivi del giudice della convalida, cui sarebbe demandato un controllo solo formale
dei presupposti dell’arresto; ciò in spregio a quella consolidata tradizione 25 che vede nell’autorità giudiziaria procedente molto di più di un semplice “notaio” che “ratifica” l’attività di p.g.
Non siamo di fronte a giudici miopi; la Corte è ben consapevole dell’alto rischio linguistico, cionondimeno lo “tollera” a talune condizioni: in linea con le disposizioni codicistiche enuclea correttamente
una serie di ipotesi eccezionali tali da giustificare l’omissione dell’interrogatorio; fra queste la causa di
20
Evidenzia G. Leo, Sulla convalida dell’arresto dello straniero alloglotta in caso di irreperibilità dell’interprete, cit., p. 1013, come il
rischio di simili manovre dilatorie sia ormai una realtà nelle aule di giustizia.
21
Cfr., K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo. Dal genus alla species, cit., p. 356, secondo cui «il
riferimento ad una valutazione del provvedimento provvisorio effettuata solo avendo riguardo alla sua legittimità formale non
può avere altro significato se non quello di escludere ogni incidenza dell’attività difensiva sulla decisione del giudice».
22
Sui criteri di valutazione del giudice e sull’ampiezza del materiale cognitivo, v. per tutti, L. Filippi, L’arresto in flagranza
nell’evoluzione normativa, cit., p. 319.
23
Non appare ridondante ricordare il netto discrimen fra “mera presenza fisica” del soggetto e “partecipazione consapevole”
agli atti processuali «mediante esercizio delle sue facoltà e dei suoi diritti e non come passiva presenza da spettatore». Così, G.
Foschini, La giustizia sotto l’albero e i diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, p. 304. Analogamente l’unanime dottrina, ex
pluris, M. Chiavario, Processo e garanzie della persona, cit., p. 172.
24
Sulle conseguenze sanzionatorie nel caso de quo, G. Marando, Il diritto all’interprete nell’evoluzione giurisprudenziale, in Dir.
pen. proc., 2007, p. 1509. L’Autrice, muovendo dall’equiparazione fra omessa nomina dell’interprete e mancata comparsa
dell’accusato, giunge a configurare una nullità generale di tipo assoluto ex art. 179 c.p.p. Questo orientamento appare, invero,
minoritario: la dottrina pressoché uniforme ritiene configurabile una nullità generale, che concernente «l’intervento» e
«l’assistenza» dell’imputato, a norma dell’art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. In questa prospettiva, potrebbe trovare ulteriore applicazione quel filone interpretativo che qualifica la nullità in questione come nullità di ordine generale, ma non assoluta, e,
quindi, deducibile entro i termini previsti dall’art. 182 c.p.p., nonché suscettibile di sanatoria a norma degli artt. 183 e 184 c.p.p.
In tema, S. Lorusso, Tutela linguistica dell’arrestato e approdo al giudizio direttissimo, in Corr. mer., 2007, p. 1037 ss.
25
Il controllo cui è chiamato il giudice in sede di convalida non è limitato ad una verifica in ordine ai presupposti formali
della misure, ma involge anche le condizioni che ne hanno legittimato l’adozione, sicché dovrà necessariamente investire i presupposti dell’arresto, la configurabilità del reato e l’attribuibilità dello stesso al soggetto in vinculis, nonché i termini cui risulta
condizionata l’efficacia della misura. In questo senso la dottrina prevalente: G. Ascione-D. de Biase, La libertà personale nel nuovo
processo penale, cit., p. 148; L. Filippi, L’arresto in flagranza nell’evoluzione normativa, cit., p. 319; F. Vergine, Arresto in flagranza e
fermo di indiziato, in G. Garuti (a cura di), Indagini preliminari e Udienza preliminare, III (Trattato di procedura penale diretto da G.
Spangher), Torino, 2009, p. 470. Altrettanto consolidata la posizione della giurisprudenza: Cass., sez. VI, 28 novembre 2013, n.
48471, in CED Cass., n. 258230; Cass., sez. VI, 12 aprile 2012, n. 25625, ivi, n. 253022; Cass., sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 45883, ivi, n.
245444; Cass., sez. VI, 5 febbraio 2009, n. 6878, ivi, n. 243072; Cass., sez. IV, 10 novembre 2004, n. 4592, ivi, n. 230866.
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forza maggiore cui l’irreperibilità dell’interprete può essere ricondotta.
Ed è proprio qui l’errore: un equivoco terminologico persistente 26, che attiene alla corretta interpretazione dell’espressione «salvo che questi non abbia potuto».
La littera legis, ad una valutazione più attenta, ha un preciso significato eziologico, ricomprendendo
tutte quelle situazioni in cui l’impedimento sia riferibile alla parte privata, non anche quelle ipotesi in
cui l’imputato non possa partecipare al processo per impedimento derivante da omissione dell’autorità
procedente, su cui grava l’onere di reperire un interprete, “nonostante” i brevi termini. Non può confondersi, dunque, l’evenienza che l’arrestato “non abbia potuto comparire” per personale e incolpevole
causa inevitabile, con l’ipotesi che l’ufficio giudiziario competente non si sia attivato per tempo nella
ricerca di un interprete 27.
E, pur a voler interpretare estensivamente l’espressione equivoca, può davvero l’irreperibilità integrare un evento «irresistibile», «un fatto umano inevitabile, cui non può opporsi una diversa determinazione volitiva» 28? I dubbi appaiono fondati.
Invero, i presupposti per la nomina dell’interprete potrebbero (rectius: dovrebbero) emergere anche
in un momento precedente all’udienza di convalida 29, sicché sul pubblico ministero graverebbe l’onere
di attivarsi preventivamente, segnalando all’autorità giudiziaria questa necessità e avviando la procedura di citazione informale ex art. 52, norme att. c.p.p. prevista in situazioni d’urgenza.
Peraltro, se pure l’esigenza di un ausilio linguistico emergesse solo al cospetto del giudice, il termine
di 48 ore sarebbe comunque superabile, stante quella costante giurisprudenza che ritiene possibile decidere anche oltre la scadenza, nei casi di particolare complessità dell’interrogatorio, purché la decisione intervenga a chiusura dell’udienza, senza soluzione di continuità 30.
Il dato letterale, sorretto da una puntuale interpretazione sistematica, sembra convergere verso
un’unica soluzione: non è possibile decidere sulla legittimità della convalida, sarà necessario restituire
gli atti al p.m. e procedere nelle forme ordinarie. Ove il giudice si pronunciasse, quel provvedimento
sarebbe affetto da una nullità di ordine generale a regime intermedio, concernente «l’intervento» e
«l’assistenza» dell’imputato ex art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p.
Inoltre, pur ammettendo la legittimità del provvedimento di convalida “comunque” emesso, «una
soluzione analoga sarebbe improponibile nel contesto del rito direttissimo, dove non solo l’ordinanza
di convalida dell’arresto ma anche il contestuale giudizio sarebbe deliberato non tanto nella violazione
dell’art. 143 c.p.p., quanto nella completa obliterazione di esso» 31. La presentazione dell’imputato in
26
L’orientamento maggioritario ha costantemente ritenuto che l’ipotesi de qua potesse essere inquadrata come una causa di
forza maggiore. La sequela pressoché unanime di sentenze è stata interrotta da un’isolata pronuncia, che però non è sfuggita ad
avveduta dottrina, che ne ha valorizzato il contenuto garantista. Il riferimento va a Cass., sez. V, 12 marzo 2007, n. 10517, in
CED Cass., n. 235990 con nota di S. Lorusso, Tutela linguistica dell’arrestato e approdo al giudizio direttissimo, cit., p. 1037 ss. Commentano la pronuncia anche G. Leo, Sulla convalida dell’arresto dello straniero alloglotta in caso di irreperibilità dell’interprete, cit., p.
1013 ss., e G. Marando, Il diritto all’interprete nell’evoluzione giurisprudenziale, cit., p. 1505 ss.
27
«Occorre tenere distinte le ipotesi di impedimento riferibili, nella loro eziologia, alla parte privata, dalle situazioni in cui il
medesimo impedimento ad una cosciente partecipazione al procedimento derivi da un’omissione dell’autorità procedente», così
Cass., sez. V, 12 marzo 2007, n. 10517, cit.
28
Pur costituendo da sempre una «categoria incertamente definita sul piano teorico e nell’analisi casistica» (Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 312), la dottrina maggioritaria, seguita da buona parte della giurisprudenza di legittimità, ritiene di
identificare la forza maggiore in quell’energia causale cui la parte non può in alcun modo resistere; dunque, è l’irresistibilità a
connotare questa espressione. Così, Cass., sez. un., 11 aprile 2006, n. 14991, in CED Cass., n. 233419.
29
Benché l’arresto non presupponga l’effettiva comprensione dei singoli atti, né l’immediata formulazione dell’imputazione
(Cass., sez. VI, 18 ottobre 1996, n. 6, in CED Cass., n. 206505), residuano delle ipotesi in cui vi è la necessità di interloquire con
l’arrestato non ancora condotto in udienza: è il caso dell’avviso della facoltà di nominare un difensore ex art. 386 c.p.p. o
dell’interrogatorio del pubblico ministero finalizzato al riconoscimento di cui all’art. 388 c.p.p. Sul punto K. La Regina, L’udienza
di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo. Dal genus alla species, cit., p. 358 (v. nota 153).
30
Ex plurimis, Cass., sez. VI, 26 novembre 2013, n. 21, in CED Cass., n. 258555; Cass., sez. IV, 26 novembre 2013, n. 3741, ivi,
n. 258770; Cass., sez. VI, 7 giugno 2012, n. 23784, ivi, n. 253011, secondo cui «in materia di convalida dell’arresto in flagranza, il
termine di quarantotto ore imposto dalla legge per gli adempimenti del giudice si riferisce all’inizio dell’udienza di convalida,
non rilevando il momento in cui sono emessi i provvedimenti del giudice, purché gli stessi intervengano, senza alcuna soluzione di continuità, nello svolgimento dell’udienza camerale».
31
Argomenta per assurdo S. Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto all’interprete e tutela delle minoranze riconosciute, cit., p. 188.
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udienza, infatti, si ritiene condicio sine qua non per l’introduzione al rito speciale 32: nell’escludere che
possa procedersi in absentia, il legislatore ha parimenti escluso che possa celebrarsi un processo nei confronti di un imputato fisicamente presente, ma non consapevolmente partecipe.
Evidenti le ripercussioni sul caso di specie: l’alloglotta non assistito dall’interprete tratto a direttissimo, in realtà, “non è mai comparso”; di qui l’impossibilità di procedere nei suoi confronti.
Ecco allora che le richiamate esigenze di speditezza e di efficienza processuale, che di certo ispirano
la disciplina della convalida, non valgono però a giustificare la compressione delle garanzie difensive
dell’imputato straniero, i cui diritti, invece, devono godere di «massima espansione» 33.
L’ASSISTENZA LINGUISTICA “CONCRETA” E “IMMEDIATA”: LA DECISIONE DELLA CORTE E LA NUOVA FISIONOMIA EUROPEISTA DEL DIRITTO ALL’INTERPRETE
Per oltre un decennio i giudici di legittimità hanno ostinatamente ignorato le criticità sopraesposte, del
tutto indifferenti alle istanze garantiste della dottrina. Oggi, nell’Europa multilingue, non può ritenersi
ancora accettabile una simile posizione 34.
La costruzione di uno spazio giuridico europeo di libertà e sicurezza, la libera circolazione delle persone, la frantumazione delle barriere spaziali, ma soprattutto il massiccio processo migratorio e i risvolti
emergenziali che troppo spesso assume 35, sono fenomeni con cui l’Unione si confronta ormai da tempo.
Di qui, l’esigenza di affrancare il diritto all’interprete dalla sua posizione secondaria, elevandolo a «superdiritto» 36, sino a imporlo agli Stati membri come “tappa” fondamentale nella Roadmap di Stoccolma 37.
Uno sforzo incessante, culminato con la Direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla
traduzione nei procedimenti penali, definita, non a torto, la «first EU fair trial law» 38.
Con questo provvedimento l’Unione aspira ad assicurare in concreto il diritto ad un equo processo,
delineando norme minime sostanziali e procedurali in materia di assistenza linguistica 39 e lasciando al32
Ad oggi questa opinione è sostenuta dalla dottrina maggioritaria, v. per tutti, P. Gaeta, Il giudizio direttissimo, in Enc. dir., IV
Agg., Milano, 2000, p. 636; A. Macchia, Giudizio direttissimo, in Dig. pen., V, Torino, 1991, p. 542 ss. Benché minoritario, per esigenze
di completezza, va riportato quell’orientamento che, invece, rimane pressoché indifferente rispetto alla presenza dell’imputato nel
rito de quo. Si ritiene, infatti, che la clausola di rinvio dell’art. 449, comma 1, c.p.p., che consente l’applicazione dell’art. 391 c.p.p. «in
quanto compatibile», imponga che possa procedersi a direttissimo anche in absentia rei (proprio come l’udienza di convalida non
presuppone la necessaria presenza dell’imputato). Così, G. Ascione-D. de Biase, La libertà personale nel nuovo processo penale, cit., p.
170; F. Cordero, Procedura penale, cit., 1065. Per un’esaustiva ricostruzione del dibattito si rinvia a A. Marandola, sub art. 449 c.p.p., in
A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Milano, 2010, p. 5979 ss.
33
Si ricorda, ancora, l’insegnamento di C. cost., sent. 19 gennaio 1993, n. 10, cit., p. 52 ss.
34
Scettico, si pone questo interrogativo G. Spangher, Interpretazione e traduzione nel quadro delle garanzie primarie, Relazione al
Convegno fra gli Studiosi del Processo Penale, I nuovi orizzonti della giustizia penale europea, Milano, 24/26 ottobre 2014 (Atti ancora inediti).
35
Cfr., E. Ballardi, L’interprete traduttore nel procedimento penale italiano: quale formazione alla luce delle recenti direttive europee?,
in C. Falbo-M. Viezzi (a cura di), Traduzione e interpretazione per la società e le istituzioni, Trieste, 2014, p. 59 s. L’Autore ritiene utile riportare una serie di dati statistici che dimostrano inequivocabilmente come la “lingua dei processi” sia cambiata: «al 31 dicembre 2013 erano presenti nei 250 istituti penitenziari italiani ben 21.854 stranieri, pari al 34,95% della popolazione carceraria,
mentre nel 1991 gli stranieri erano 5.365, pari al 15,13%».
36
Con il Libro verde della Commissione. Garanzie procedurali a favore di indagati e imputati in procedimenti penali nel territorio
dell’Unione europea, COM (2003) 75 def., in S. Buzzelli – O. Mazza (a cura di), Codice di procedura penale europea, Milano, p. 1395 il
diritto all’interprete viene inserito tra i valori prioritari dell’ordinamento. Sul punto, M. Gialuz, Il diritto all’assistenza linguistica
nel processo penale. Direttive europee e ritardi italiani, cit., p. 1195.
37
Risoluzione del Consiglio del 30 novembre 2009 relativa a una tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti procedurali
di indagati e imputati in procedimenti penali, in G.U.U.E., 4 dicembre 2009, C. 295. Suggerendo un approccio per tappe, la
Roadmap invita ad adottare misure concernenti: il diritto alla traduzione e all’interpretazione; il diritto all’informazione; il diritto
alla consulenza legale gratuita; il diritto alla comunicazione con familiari, datori di lavoro e autorità consolari; nonché i diritti
per gli indagati o imputati vulnerabili. In argomento, A. Iermano, Verso comuni regole processuali europee: il diritto alla traduzione e
all’interpretazione nei procedimenti penali, in Dir. comun. scambi internaz., 2011, 2, p. 339 ss.
38
Così l’on. Sarah Ludford, nella seduta del Parlamento europeo del 14 giugno 2010 (http:// www.europarl.europa.eu/sides/get
Doc.do?pubRef=-//EP//TEXT+CRE+20100614+ITEM– 022+DOC+XML+V0//EN) nell’accogliere con entusiasmo e soddisfazione la
DIR. 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, in G.U.U.E., 26 ottobre 2010, L 280/1.
39
In estrema sintesi l’intervento eurounitario si muove rendendo pressoché universale l’ambito d’applicazione oggettivo e
soggettivo, prevedendo un’assistenza linguistica adeguata e gratuita (cons. n. 17), tempestiva o comunque fornita in tempi ra-
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le importazioni domestiche il compito di ampliare i suoi contenuti e rendere effettiva la partecipazione
dell’alloglotta al procedimento, in una logica espansiva propria dei diritti fondamentali 40.
Gli inputs normativi sovranazionali si sono tradotti, tuttavia, in outputs “nostrani” 41 ritardati e di
dubbia incisività.
Senza indugiare sull’esegesi puntuale della recente riforma in materia 42, e soffermandosi sulle innovazioni rilevanti in ordine alla specifica questio affrontata dalla pronuncia in commento, rileva il novellato art. 143, comma 1, c.p.p., ove si riconosce il diritto all’assistenza durante le fasi “orali” del processo,
non più circoscritto alla mera garanzia di conoscenza dell’imputazione, bensì esteso al «compimento
degli atti e (al)lo svolgimento delle udienze». La valorizzazione della partecipazione consapevole riceve, dunque, almeno in astratto, la massima dilatazione 43.
Altresì rilevante il nuovo comma 4-bis dell’art. 104 c.p.p., che estende il diritto de quo ai colloqui con
il difensore dell’imputato alloglotta arrestato o fermato. Il legislatore, pur nell’urgenza che tipicamente
caratterizza queste situazioni procedurali, ha ritenuto ineludibile l’intervento ad adiuvandum dell’assistente linguistico 44; all’autorità giudiziaria procedente ex art. 143, comma 4, c.p.p. il compito di accertarsi della mancata conoscenza della lingua del soggetto in vinculis e procedere senza indugio alla nomina di un interprete 45.
Il diritto all’assistenza in udienza, nella sua nuova configurazione, appare, però, un semilavorato: il
legislatore, pur proclamando idealmente la necessità di un interprete per l’alloglotta anche (e soprattutto) nelle situazioni d’urgenza, non appresta poi, in concreto, un sistema di impugnazione idoneo a “restituire” immediatamente all’accusato la pienezza delle facoltà di partecipazione 46.
gionevoli (cons. n. 18 e art. 3, par. 1, DIR. 2010/64/UE), nella lingua madre o in altra ben conosciuta dall’interessato (cons. 22), e
dovrebbe riguardare anche le comunicazioni tra l’imputato e il difensore (cons. nn. 19-20 e art. 2, par. 2). Essa dovrebbe essere
verificabile e contestabile sia nell’adeguatezza (cons. n. 24) che nella completezza (cons. 30 e art. 3, par. 5). Per una ricostruzione
esaustiva si rinvia a C. Amalfitano, Unione europea e garanzie processuali: il diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti
penali, in Studi sull’integrazione europea, 2011, p. 83 ss.; G. Biondi, La tutela processuale dell’imputato alloglotta alla luce della direttiva
2010/64/UE, in Cass. pen., 2011, p. 2422 ss.; M. Gialuz, L’assistenza linguistica nella prassi giudiziaria e la difficile attuazione della Direttiva 2010/64/UE, in C. Falbo-M. Viezzi (a cura di), Traduzione e interpretazione per la società e le istituzioni, Trieste, 2014, p. 83 ss.;
Id., Il diritto all’assistenza linguistica nel processo penale. Direttive europee e ritardi italiani, cit., p. 1193 ss.; I. Izzo, Spazio europeo di
giustizia e cooperazione giudiziaria, in L. Kalb (a cura di), “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano, Torino, 2012, p.
313 ss.; P. Troisi, L’obbligo di traduzione degli atti processuali tra garanzie sovranazionali e resistenze interne, in questa Rivista, 2014, 1,
p. 109 ss.
40
Sin dalle prime letture alla direttiva la dottrina ha evidenziato le difficoltà di recepimento, dovendosi operare su versanti
diversi: quello strettamente processuale, quello relativo alle spese del servizio di assistenza linguistica e, infine, quello ordinamentale, circa l’assetto della professione dell’interprete e traduttore giudiziario. Invita il legislatore ad un’attuazione «meditata»
M. Gialuz, È scaduta la direttiva sull’assistenza linguistica. Spunti per una trasposizione ritardata, ma (almeno) meditata, in www.penale
contemporaneo.it, 4 novembre 2013, p. 7 ss.
41
Il riferimento va al recente d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32, Attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla
traduzione nei procedimenti penali, in G.U., 18 marzo 2014, n. 64.
42
Per un’analisi a tutto tondo si rinvia a M. Bargis, L’assistenza linguistica per l’imputato: dalla Direttiva europea 64/2010 nuovi inputs alla tutela fra teoria e prassi, in M. Bargis (a cura di), Studi in ricordo di Maria Gabriella Aimonetto, Milano, 2013, p. 104 ss.;
A. Cocomello-A. Corbo, Sulla lingua del processo. A proposito dell’attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e
alla traduzione nei procedimenti penali, in Arch. pen. online, 2014, 2, p. 1 ss; M. Antinucci, L’attuazione della direttiva europea sul diritto
alla traduzione: verso la tutela sostanziale del diritto alla difesa effettiva, in Arch. pen. online, 2014, 1, p. 1 ss.; M. Gialuz, Il decreto legislativo di attuazione della direttiva sull’assistenza linguistica (n. 32 del 2014): un’occasione sprecata per modernizzare l’ordinamento italiano, in www.penalecontemporaneo.it, 10 aprile 2014, p. 1 ss.
43
Sulla dilatazione del perimetro della tutela del diritto alla partecipazione consapevole nelle fasi orali, S. Recchione,
L’impatto della Direttiva 2010/64/UE sulla giurisdizione penale: problemi, percorsi interpretativi, prospettive, in www.penalecontempora
neo.it, 15 luglio 2014, p. 13.
44
Sul punto A. Cocomello-A. Corbo, Sulla lingua del processo. A proposito dell’attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto
all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, cit., p. 9.
45
Una delle poche luci del decreto attuativo de quo è proprio l’esplicito conferimento dell’onere dimostrativo al giudice. Così, M. Gialuz, È scaduta la direttiva sull’assistenza linguistica. Spunti per una trasposizione ritardata, ma (almeno) meditata, cit., p. 7 s.
46
In tale area si registra una carenza rispetto alle indicazioni della direttiva (contenute nell’art. 2, par. 4), ove si invitava gli
Stati a predisporre mezzi di impugnazione idonei a “restituire” immediatamente all’accusato la pienezza delle facoltà di partecipazione. Nulla è previsto, infatti, circa la possibilità di impugnare i provvedimenti di rigetto delle istanze relative alla assistenza durante le fasi orali del procedimento, né in relazione alle omissioni concernenti gli atti a traduzione obbligatoria. In entrambi i casi sarà possibile sollevare un’eccezione di nullità dell’atto su cui incide la carente assistenza linguistica. Il diritto
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LE GARANZIE LINGUISTICHE NEL “GIUSTO PROCESSO EUROPEO”
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
50
La tutela del diritto all’interpretazione resta, così, affidata al sistema delle invalidità, producendo un
difetto di partecipazione e generando una causa di nullità dell’atto conseguente e all’azione difensiva
non assistita.
In tal senso, il d.lgs. n. 32/2014 ha “mancato un’occasione” per modernizzare l’ordinamento: la novella appare ancora legata «ad un tradizionale approccio idealistico in base al quale contano più le proposizioni di principio e le forme piuttosto che l’effettività dei diritti» 47.
L’ “inadempimento” del legislatore andrebbe “risolto” dalla giurisprudenza di legittimità, cui si chiede di accogliere un approccio pragmatico, un’interpretazione conforme allo spirito della direttiva orientata alla massima espansione dei diritti dello straniero, onde garantire effettività di tutela 48.
La Corte, invece, affronta la questione in maniera sbrigativa, ignorando il forte richiamo del legislatore europeo e giungendo a conclusioni di dubbia legittimità. Se l’assistenza linguistica va garantita «in
concreto» 49 e «senza indugio» 50, si dubita che l’irreperibilità dell’interprete in sede di convalida possa
essere inquadrata come “legittimo impedimento”. La celerità dell’udienza non appare idonea a sacrificare la partecipazione consapevole dello straniero, nuovo “super-diritto”dell’imputato.
Ove tutto ciò non bastasse, è sufficiente ricordare come la garanzia di una presenza “reale” costituisca leit motiv dei recenti interventi eurounitari 51, che, se pur sotto diversi profili, assumono il medesimo
approccio sostanzialistico, ponendosi come obiettivo comune la creazione di uno “statuto europeo” 52
delle guarentigie difensive.
Bisogna, quindi, assumere una prospettiva funzionale alla tutela effettiva dei diritti dell’alloglotta sì
da scongiurare il rischio che la sua partecipazione consapevole si riduca a mera enunciazione di principio. Un imputato che “c’è”, ma nulla comprende di quanto gli accade intorno, non può dirsi realmente
presente.
all’impugnazione è stato tutelato in modo esplicito solo con riferimento alla contestazione delle decisioni di rigetto della traduzione di atti ritenuti “essenziali per la conoscenza delle accuse” (art. 143, comma 3, c.p.p.). «La scelta di non prevedere un rimedio idoneo a reintegrare immediatamente il diritto di partecipazione eventualmente leso, per quanto conforme alle indicazioni
europee (il considerando n. 25 consente di evitare meccanismi “autonomi” di ricorso) aumenta le potenzialità invalidanti delle
violazioni, laddove (forse) sarebbe stato opportuno prevedere sistemi diretti a consentire la restituzione immediata nei diritti
lesi». In argomento, si mostra critica S. Recchione, L’impatto della Direttiva 2010/64/UE sulla giurisdizione penale: problemi, percorsi
interpretativi, prospettive, cit., p. 17 ss.
47
Così, M. Gialuz, Il decreto legislativo di attuazione della direttiva sull’assistenza linguistica (n. 32 del 2014): un’occasione sprecata
per modernizzare l’ordinamento italiano, cit., p. 2. Medesimi dubbi sono condivisi da S. Recchione, L’impatto della Direttiva 2010/64/
UE sulla giurisdizione penale: problemi, percorsi interpretativi, prospettive, cit., p. 24. L’Autrice teme che la novella abbassi il livello di
effettività della tutela del diritto alla partecipazione, anziché aumentarlo, inserendo nuovi ed inutili formalismi.
48
Cfr., M. Gialuz, L’assistenza linguistica nella prassi giudiziaria e la difficile attuazione della Direttiva 2010/64/UE, cit., p. 89 ss.
49
Al Considerando n. 14 della DIR. 2010/64/UE a chiare lettere si precisa che lo scopo dell’intervento è facilitare «l’applicazione di questo diritto nella pratica».
50
Considerando n. 18 della DIR. 2010/64/UE secondo cui «L’interpretazione a beneficio degli indagati o degli imputati dovrebbe essere fornita senza indugio».
51
Non solo la Direttiva in materia di assistenza linguistica, ma anche la Direttiva 2012/13/UE in ordine alla comunicazione
scritta sui diritti dell’accusato nei procedimenti penali, in G.U.U.E., 1° giugno 2012, l. 142/7 (di recente attuata con d.lgs. 1° luglio 2014, n. 101, in G.U., 17 luglio 2014, n. 164) e la Direttiva 2013/48/UE sul diritto al difensore e a comunicare con terzi e autorità consolari in caso di privazione della libertà personale, in G.U.U.E., 6 novembre 2013, l. 294.
Tutti questi interventi hanno un minimo comune denominatore: la presenza consapevole del soggetto al proprio processo è
condizione imprescindibile in un giudizio equo. Sul punto, M. Bontempelli, Le garanzie processuali e il diritto dell’Unione europea,
fra legge e giudice, in questa Rivista, 2014, 3, p. 80 ss. Sul giusto processo europeo si veda anche T. Rafaraci, Diritti fondamentali,
giusto processo e primato del diritto UE, in questa Rivista, 2014, 3, p. 1 ss. In questa prospettiva appare, altresì, rilevante la l. 28 aprile 2014, n. 67, in G.U., 2 maggio 2014, n. 100 che ha riscritto il processo in absentia nel nostro ordinamento. Parimenti orientate
alla tutela dell’imputato le recenti proposte di direttiva presentate dalla Commissione in materia di presunzione di innocenza
(n. COM (2013) 821 definitivo) e garanzie per il minore, imputato in un procedimento penale (n. COM (2013) 822 definitivo).
52
Così, F. Siracusano, Una lenta progressione verso la costruzione di uno statuto europeo delle garanzie difensive, in F. Ruggieri-T.
Rafaraci-G. Di Paolo-S. Marcolini-R. Belfiore (a cura di), Processo penale, lingua e Unione Europea, Padova, 2013, p. 77.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LE GARANZIE LINGUISTICHE NEL “GIUSTO PROCESSO EUROPEO”
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
51
Patteggiamento e confisca per equivalente
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI III, SENTENZA 5 SETTEMBRE 2014, N. 37186 – PRES. SQUASSONI; REL.
ORILIA
La confisca per equivalente opera oltre che in caso di condanna, anche nell’ipotesi di sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., anche quando non abbia costituito oggetto dell’accordo delle parti. La sentenza di patteggiamento è vincolata relativamente al solo profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo
alla confisca, per il quale la discrezionalità del giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Ancona ha proposto ricorso avverso la sentenza
di patteggiamento 25.3.2013 emessa dal GUP presso il locale Tribunale nei confronti di M.G., in relazione alla omessa applicazione della confisca per l’ipotesi di reato di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000
(emissione di fatture per operazioni inesistenti) contestata, tra l’altro all’imputato. Con un unico motivo
lamenta la violazione di legge discendente dal fatto che, nonostante l’art. 322 ter c.p., come richiamato
dall’art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, preveda la confisca dei beni che costituiscono il profitto del reato ovvero, quando essa non sia possibile, la confisca di beni per un valore corrispondente a
quello di detto profitto, il Giudice abbia omesso di disporre in tal senso
Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, rileva il contrasto di giurisprudenza sulla questione
e chiede che della stessa vengano investite le sezioni Unite.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, con riguardo ai reati tributari considerati dall’art.
1, comma 143, della L. n. 244 del 2007, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca “per equivalente”, può essere disposto, anche con la sentenza di applicazione della pena, non soltanto per il prezzo,
ma anche per il profitto del reato posto che, si è detto, l’integrale rinvio alle “disposizioni di cui all’articolo 322 ter del codice penale”, contenuto nell’art. 1, comma 143, della legge n. 244 predetta, consente
di affermare che, con riferimento appunto a detti reati, trova applicazione non solo il primo ma anche il
secondo comma della norma codicistica (tra le altre, Sez. 3, Sentenza n. 44445 del 09/10/2013 Ud. dep.
04/11/2013 Rv. 257616; Sez. 3, n. 35807 del 07/07/2010, Rv. 248618; Sez.3, n. 25890 del 26/05/2010, Rv.
248058). A diverse conclusioni non può condurre neppure – proprio perché, come appena detto, il rinvio dell’art:. 1, comma 143, è effettuato all’art. 322 ter nella sua integralità, e, dunque, anche al secondo
comma – la modifica dell’art. 322 ter, comma 1, attuata dall’art. 1, comma 75, lett. o) della legge 6 novembre 2012, n. 190, per effetto della quale la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità è consentita, per i delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 c.p., per un valore corrispondente non più solo al
prezzo del reato ma anche al profitto di esso. Del resto, una tale modifica è stata introdotta proprio per
consentire l’operatività del sequestro per equivalente del profitto in relazione a quelle ipotesi per le
quali l’esclusivo riferimento al prezzo non consentiva di estendere al di là di esso l’oggetto della misura
reale, in tal modo essendosi adeguato il sistema interno alle indicazioni in tema di confisca di valore
desumibili da una serie di fonti internazionali ed Europee tra cui la decisione quadro 2005/212/GAI
del 24 febbraio 2005 del Consiglio dell’Unione Europea, che, all’art. 2, impone agli Stati Membri di
adottare “le misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi
di reati punibili con una pena della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO E CONFISCA PER EQUIVALENTE
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
52
proventi”; anche tale modifica, dunque, si inserisce, completandolo, nel solco percorso dalla interpretazione di questa Corte al fine di sanzionare compiutamente, attraverso lo strumento della confisca per
equivalente, le condotte illecite volte a procurare all’agente illeciti profitti, senza irragionevoli distinzioni di sorta (cfr. Sez. 3, n. 23108 del 23/04/2013, Rv. 255446).
Va ulteriormente precisato, poi, come la confisca per equivalente disciplinata dall’art.322 ter c.p.
operi in via obbligatoria, discendendo tale conclusione, da un lato, dal dato testuale della norma, ove si
prevede infatti, sia nel primo che nel secondo comma, che la confisca sia “sempre ordinata”, sia dalla
natura sanzionatoria ad essa incontestabilmente riconosciuta dalla giurisprudenza; attraverso di essa,
infatti, si è inteso privare l’autore del reato di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività
criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume, così, i tratti distintivi di una vera e
propria sanzione, non commisurata né alla colpevolezza dell’autore del reato, né alla gravità della condotta. Già le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U. n. 41936 del 25/10/2005, Rv. 232164) ebbero, del resto, ad individuare nella confisca per equivalente, e sia pure con riguardo ai reati di truffa aggravata,
“una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti” con conseguente “carattere eminentemente sanzionatorio” della stessa, che verrebbe così a costituire una pena secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
La confisca per equivalente, operante, come già detto, oltre che in caso di condanna, anche, in virtù
del testuale contenuto della norma, in ipotesi di sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., va
poi applicata, tanto più in quanto, come precisato, obbligatoria, pur laddove la stessa non abbia costituito oggetto dell’accordo delle parti (cfr. Sez. 2, n. 20046 del 04/02/2011), conclusione, questa, ulteriormente discendente dal fatto che la sentenza di patteggiamento è sentenza vincolata relativamente al
solo profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo alla confisca, per il quale la discrezionalità del giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna, sì che, ove accordo
tra le parti su tale punto vi sia comunque stato, il giudice non è obbligato a recepirlo o a recepirlo per
intero (cfr. Sez. 2, n. 19945 del 19/04/2012, Toseroni, Rv. 252825). Né è necessario, per l’assenza di norme che dispongano in senso contrario, che la confisca per equivalente sia preceduta dal sequestro preventivo dei beni oggetto della stessa (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Rv. 255113).
Il Collegio non ignora l’esistenza di un precedente (richiamato dal Procuratore Generale nelle sue
conclusioni scritte) che potrebbe indurre a ritenere l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale: trattasi
della sentenza sez. VI, 11 marzo 2010 n.12508 secondo cui il giudice non può accogliere la richiesta di
applicazione della pena se l’accordo intervenuto tra le parti non comprende anche l’oggetto della confisca prevista per il reato cui il patteggiamento si riferisce ovvero non consente la determinazione certa
dei beni destinati all’ablazione: la prevalente giurisprudenza appare più convincente proprio perché fa
leva sul principio della natura obbligatoria della confisca e della discrezionalità vincolata della sentenza
di patteggiamento quanto alla confisca obbligatoria.
Tornando al caso di specie, il giudice, pur avendo pronunciato sentenza di applicazione della pena
per il reato, commesso in data successiva all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 143, della legge n. 244
del 2007, di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, ha omesso di provvedere sulla confisca per equivalente
relativamente al profitto dello stesso, da individuarsi, senza necessità di alcun accertamento nel contraddittorio delle parti, nell’ammontare dell’imposta evasa, nella misura riportata nel capo di imputazione.
La sentenza va pertanto annullata con rinvio al Tribunale di Ancona affinché lo stesso provveda in
applicazione dei citati principi di diritto.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata limitatamente alla applicabilità della confisca con rinvio al Tribunale
di Ancona.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PATTEGGIAMENTO E CONFISCA PER EQUIVALENTE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
53
SIMONA ARASI
Cultore di procedura penale – Università degli Studi di Messina
Negoziato sulla pena e confisca per i reati tributari
Plea bargaining and confiscation for tax offence
La Suprema Corte si pronuncia, ancora una volta, sulla vexata quaestio del rapporto tra patteggiamento e confisca
nei reati tributari, soffermandosi sul potere-dovere del giudice di disporre tale misura ablativa anche nell’ipotesi in
cui non costituisca oggetto di accordo delle parti. Attraverso un iter argomentativo in linea con la giurisprudenza
prevalente vengono sopiti alcuni dubbi circa l’applicazione, se integrale o parziale, dell’art. 322 ter c.p. nel caso di
reati tributari, anche mediante il richiamo ai principi internazionali ed europei in tema di confisca. Infine, chiarita la
natura giuridica di tale misura, la Corte di Cassazione individua i vincoli ai quali soggiace la sentenza di patteggiamento, risolvendo, sebbene solo in parte, molte delle problematiche concernenti la materia de qua.
The Supreme Court rules, once again, on the vexed questions of the relationship between settlement and confiscation in tax crimes, focusing on the power – duty of the judge to impose such a measure ablative even where
not the subject of agreement between the parties. Through a process of argumentation in line with the prevailing
case law some doubts about the application, whether full or partial, of the art. 322 ter c.p. in the case of tax offenses are soothed, also by reference to international and European principles on the confiscation. Finally, clarified
the legal nature of this measure, the Supreme Court identified the constraints which underlies the plea bargain,
solving, though only in part, many of the issues concerning the matter in question.
IL CASO
La Corte di cassazione si pronuncia, ancora una volta, sul potere del giudice di disporre, con sentenza
emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter c.p. nel caso di reati
tributari, anche quando non abbia costituito oggetto di accordo tra le parti. Nel dettaglio, il Procuratore
generale presso la corte d’appello ha proposto ricorso, per violazione dell’art. 322 ter c.p., avverso la
sentenza di patteggiamento, pronunciata in relazione al reato di cui all’art. 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n.
74 (emissione di fatture per operazioni inesistenti).
Nonostante l’art. 322 ter c.p., come richiamato dall’art. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, disponga la confisca dei beni che costituiscono il profitto dei reati o, qualora ciò non sia possibile, dei beni
per un valore corrispondente a quello del profitto, il g.u.p. non aveva disposto in tal senso.
Prospettando alla Corte la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sul tema del potere delle
parti in merito alla confisca, e pertanto del relativo “potere discrezionale e/o vincolato” del giudice nel
caso di sentenza di patteggiamento, il Procuratore generale chiedeva che la soluzione venisse devoluta
alle Sezioni Unite.
La Suprema Corte, ritenuto fondato il ricorso, richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali 1,
ha ribadito l’integrale applicazione dell’art. 322 ter c.p. ai reati tributari. A suffragio di tale statuizione si
collocherebbe anche la modifica del comma 1 della norma da ultimo menzionata, apportata dalla l. 6
novembre 2012, n. 190, art. 1, comma 75 lett. o), con la quale l’ordinamento interno si è adeguato alla
1
Tra i richiami a precedenti orientamenti conformi si annovera Cass., sez. III, 4 novembre 2013, n. 44445, in www.giurispru
denzapenale.com.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEGOZIATO SULLA PENA E CONFISCA PER I REATI TRIBUTARI
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
54
normativa europea ed internazionale, in primis alla Decisione Quadro 2005/212/GAI del 24 febbraio
2005 del Consiglio dell’Unione Europea 2.
Il giudice di legittimità ha altresì precisato la natura obbligatoria della confisca per equivalente: la ratio di tale istituto è “privare l’autore del reato di un qualunque beneficio economico derivante
dall’attività criminosa”, pure a fini dissuasivi e disincentivanti.
Il carattere eminentemente sanzionatorio, riconosciuto addirittura dalle Sezioni Unite quale «forma
di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti» 3, si ricaverebbe altresì dalle interpretazioni
fornite dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte ha riconosciuto, pertanto, la sussistenza di un vincolo
per il giudice nel caso di patteggiamento limitatamente al profilo del trattamento sanzionatorio, non
anche alla confisca 4, ed un obbligo di applicazione della stessa confisca in caso di sentenza ex art. 444
c.p.p. ove essa non abbia formato oggetto dell’accordo delle parti 5.
Ha evidenziato altresì la non obbligatorietà, ai fini della confisca, del previo sequestro preventivo
dei beni oggetto della stessa. 6
La pronuncia in oggetto, dunque, si discosta da un isolato orientamento che statuiva l’impossibilità
in capo al giudice di accogliere la richiesta di applicazione della pena nel caso in cui l’oggetto della confisca non fosse stato individuato dalle parti o non fosse ben determinato 7.
Per l’effetto, la Corte ha accolto il ricorso del Procuratore generale ed annullato la sentenza limitatamente all’applicabilità della confisca con rinvio al Tribunale.
LA CONFISCA PER EQUIVALENTE NEI REATI TRIBUTARI
Al fine di comprendere pienamente i termini della questione, non si può prescindere da alcune specificazioni concernenti l’istituto della confisca per equivalente e della sua applicabilità ai reati tributari.
Tale istituto sorge come risposta sanzionatoria a reati di particolare allarme sociale e nocività economica 8, collocandosi pertanto nel trend normativo internazionale diretto ad un incremento della tutela
reale.
Alla confisca ordinaria, disciplinata e prevista dall’art. 240 c.p., si affianca dunque la confisca ex art.
322 ter c.p., diretta a sopperire l’inefficacia della forma tradizionale di confisca per determinati reati,
primi tra tutti i reati tributari. 9
Se la confisca ex art. 240 c.p. presuppone un rapporto di pertinenzialità tra “prodotto, profitto e
prezzo”, da un lato, e “reato”, dall’altro, nonché la pericolosità dei beni, tali requisiti non sono richiesti
ai fini dell’applicazione della confisca ex art. 322 ter c.p.
Pertanto, in quest’ultimo caso la misura ablativa non ricade direttamente sui beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, ma ha ad oggetto, come si vedrà più approfonditamente nel proseguo, il controvalore di essi.
2
Cfr. Cass., sez. III, 23 aprile 2013, n. 23108, in www.diritto24.ilsole24ore.com.
3
Cfr. Cass., sez. un., 25 ottobre 2005, n. 41936, in www.cortedicassazione.it.
4
La Suprema Corte richiama sul punto un precedente orientamento conforme. Cfr. Cass., sez. II, 19 aprile 2012, n. 19945, in
www.cortedicassazione.it.
5
La Corte di Cassazione si uniforma ad un precedente orientamento. Cfr. Cass., sez. II, 4 febbraio 2011, n. 20046, in
www.cortedicassazione.it.
6
Sul tema viene richiamata una sentenza del 2013. Cfr. Cass., sez. III, 4 febbraio 2013, n. 17066, in www.magistratura democra
tica.it.
7
Cfr. Cass., sez. VI, 11 marzo 2010, n. 12508, in www.archiviopenale.it.
8
In altri termini si fa riferimento al fenomeno dell’evasione fiscale.
9
Per i reati tributari, infatti, l’applicabilità della confisca incontrava un limite nella irriducibilità della prova del rapporto di
pertinenzialità intercorrente tra profitto e reato. Al riguardo le Sezioni Unite hanno evidenziato che la necessità di individuare
in concreto il denaro risparmiato per effetto del reato darebbe inevitabilmente spazio a ‘‘collegamenti esclusivamente congetturali, che potrebbero condurre all’aberrante conclusione di ritenere, in ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di qualsiasi soggetto venga indiziato di illeciti tributari (...) dovendo al contrario essere tenuta ferma l’esigenza di una diretta derivazione causale dell’attività del reo intesa quale stretta correlazione con la condotta illecita’’. Cfr. Cass., sez. un., 9 luglio
2004, n. 29951, in Il Fisco, 2004, 43, p. 7355 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | NEGOZIATO SULLA PENA E CONFISCA PER I REATI TRIBUTARI
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
55
Occorre sottolineare che la confisca per equivalente è prevista non soltanto dalla disciplina codicistica ma anche in altri settori disciplinati da leggi speciali 10, tra le quali si annovera la Finanziaria 2008 11.
LA NATURA GIURIDICA DELLA CONFISCA NEI REATI TRIBUTARI: DA FUNZIONE SPECIAL-PREVENTIVA A OBBIETTIVI GENERAL-PREVENTIVI
Chiunque intraprenda lo studio della confisca si trova ad affrontare una pluralità di problemi interpretativo/applicativi, quale conseguenza dell’“infelice” tecnica legislativa utilizzata, tra i quali emerge
immediatamente lo scoglio della natura giuridica di tale istituto.
Esclusa la statica classificazione di “misura di sicurezza” 12, è stata evidenziata una connotazione tipicamente sanzionatoria 13. Definita quale «forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti» 14, la confisca per equivalente realizza una funzione afflittiva e general-preventiva diversa dal perseguimento di finalità special-preventive legate alla pericolosità oggettiva del bene confiscato che rappresentano, invece, l’obiettivo di tutela della confisca disciplinata dall’art. 240 c.p. 15.
Sul punto è stato evidenziato che la natura sanzionatoria di tale ablazione imporrebbe di estendere
le guarentigie sostanziali e processuali, che “indefettibilmente” si accompagnano alla sanzione penale, 16 invece non si applica il principio di retroattività previsto dall’art. 200 c.p. 17 In tal modo il sistema è
più conforme all’art. 7 della Cedu e alla Giurisprudenza della Corte e.d.u. 18
LA CONFISCA PER EQUIVALENTE DEL PROFITTO DEL REATO TRIBUTARIO
Alla chiarezza delle finalità politico-criminali non è corrisposta un’agevole tecnica legislativa: ingenti
perplessità sono sorte dal generico richiamo, contenuto nella Legge Finanziaria, all’art. 322 ter c.p., disposizione definita “a strati” 19.
10
Tra le tante si pensi al d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, relativo alle società commerciali; alla l. 11 agosto 2003, n. 228, che ha
previsto la possibilità di confisca per equivalente per i reati contro la personalità individuale; all’art. 19, d.lgs. 8 giugno 2001, n.
231, relativo alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.
11
Cfr. in particolare art. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, che ha esteso la misura ablativa per equivalente anche ai reati
tributari di cui agli artt. 2, 3,4,5,8,10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, attraverso un mero rinvio all’art. 322 ter c.p.
La disposizione contenuta nella l. 24 dicembre 2004 n. 244 rinvia a tutti i reati tributari previsti dal decreto legislativo citato, ad eccezione di quello di occultamento o distruzione di documenti contabili disciplinato dall’art. 10. Per una disamina del tema in dottrina si veda F. Vergine, Il contrasto all’illegalità economica. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012; C. Santoriello, Confisca per
equivalente e reati tributari. Le prime indicazioni della giurisprudenza, in Il Fisco, 2009, p. 234; si veda anche G. Rispoli, La confisca per
equivalente nella legge finanziaria, 2008, in AA.VV., Confisca per equivalente e frode fiscale, Milano, 2011, p. 191 ss.
12
In una prima fase la giurisprudenza ha classificato tale istituto come misura di sicurezza. Cfr. ex multis Cass., sez. II, 5 aprile
2002, n. 18157, in Riv. pen., 2002, p. 912 ss., ove, con riferimento alla confisca di valore prevista per il reato di usura, di cui all’art.
644, ultimo comma, c.p., come modificato dall’art. 1, l. 7 marzo 1996, n. 108, il provvedimento ablativo è stao qualificato quale mera
ipotesi speciale di misura di sicurezza, con conseguente applicabilità dell’art. 200 c.p. Emblematica risulta altresì una pronuncia del
2002, in cui la Suprema Corte, in tema di corruzione ha addirittura ‘‘svuotato’’ la previsione dell’art. 15, l. 29 settembre 2000, n. 300,
secondo cui «le disposizioni di cui all’articolo 322 ter c.p. (..) non si applicano ai reati ivi previsti (..) commessi anteriormente alla
data di entrata in vigore della presente legge, ritenendo che essa dovesse trovare applicazione solo per la ‘‘corruzione internazionale» (prevista dal comma 1 dell’art. 3) e per le truffe aggravate. Cfr. Cass., sez. VI, in Cass. pen., 2002, p. 581.
13
Cfr. ex multis Cass., sez. III, 24 settembre 2008, n. 39173, in CED Cass., n. 241034. Unanime l’orientamento della Suprema
Corte, che a fondamento del riconoscimento della natura eminentemente sanzionatoria ha individuato la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso
come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni.
14
Cass., sez. un., 25 ottobre 2005, n. 41936, in Cass. pen., 2006, p. 1382.
15
L’evoluzione giurisprudenziale accredita il riconoscimento della natura di sanzione penale. Per un’accurata ricostruzione
della questione, Cfr. Cass., sez. un., 25 ottobre 2005, n. 41936, cit., p. 1382, ma anche Cass., sez. II, 8 maggio 2008, n. 21566 in CED
Cass. n. 240910;
16
Cfr. S. Furfaro, La compatibilità delle varie forme di confisca con i principi garantistici di rango costituzionale e con lo statuto delle
garanzie europee, in A. Bargi-A. Cisterna (a cura di), La giustizia patrimoniale penale, Torino, II, 2011, p. 259 ss.
17
Cfr. C. cost., ord. 2 aprile 2009, n. 97, con commento di Corso, La confisca per equivalente non è retroattiva, in Corr. trib., 2009, p. 97.
18
Cfr. Corte E.D.U., 9 febbraio 1998, Welch c. Regno Unito, in www.echr.coe.int.
19
V. Maiello, La confisca per equivalente non si applica al profitto del peculato, in Dir. pen. proc., 2010, p. 440 ss.
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Nel dettaglio, è sorto il dubbio se il rinvio dovesse considerarsi effettuato in riferimento esclusivamente al primo comma o all’intera disposizione. 20
Si rammenti che il comma 1, nel riferirsi ad uno dei reati contemplati dalle disposizioni comprese tra
gli articoli 314-320 c.p., riguarda i beni che ne costituiscono il prezzo o il profitto 21, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, i beni di cui il reo ha la disponibilità,
per un valore corrispondente a tale prezzo. Il comma 2, concernente solo il reato di corruzione relativamente alla posizione del corruttore, prevede invece la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto ovvero, quando essa non è possibile, «la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti ...».
Le categorie di “prodotto, profitto e prezzo”, confluenti in quella di “provento” di derivazione comunitaria 22, non risultano idonee ad inglobare gli illeciti vantaggi che scaturiscono dai reati tributari 23.
Appare doveroso rammentare che al fine dell’applicazione della confisca per equivalente il presupposto è l’impossibilità di rinvenire i beni costituenti il prezzo o il profitto del reato nella sfera giuridica
patrimoniale del soggetto condannato.
L’oggetto della misura ablatoria è stato esattamente individuato dalla giurisprudenza con un articolato percorso interpretativo 24, all’esito del quale la stessa è pervenuta alla conclusione che, nei reati tributari, il profitto del reato generalmente coincide con il vantaggio economico ricavato in via immediata
e diretta dal reato. Il profitto su cui può essere disposta la confisca comprende non solo il risparmio di
spesa derivante dall’evasione di imposta, ma anche ulteriori vantaggi riflessi riconducibili alle sanzioni
e alle altre somme eventualmente dovute 25.
Allo scopo di evitare una inoperatività dell’istituto della confisca in relazione ai reati tributari, derivante dalla non configurabilità agli stessi della categoria del prezzo del reato, si è consolidato un orientamento giurisprudenziale, al quale si conforma la giurisprudenza in commento, che consente l’applicazione dell’art. 322 ter c.p. nella sua interezza 26.
20
O. Mazza, Il caso Unicredit al vaglio della Cassazione: il patrimonio dell’ente non è confiscabile per equivalente in caso di reati tributari commessi dagli amministratori a vantaggio delle società, in www.penalecontemporaneo.it.
21
Si rammenti che l’art. 1, comma 75, lett. o) della l. 6 novembre 2012, n. 190 ha modificato l’art. 322 ter, comma 1, prevedendo che la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità è consentita, per i delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 c.p., per un
valore corrispondente non più solo al prezzo del reato ma anche al profitto di esso.
22
Sulla nozione di provento di reato in ambito europeo si veda l’art. 31 della decisione quadro 2005/212/GAI, 24 febbraio
2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi del reato nei confronti degli enti, nonché la decisione quadro 6 ottobre
2006 (2006/783/GAI), relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca.
23
Cass., sez. un., 6 ottobre 2009, n. 38691, in Dir. pen. proc., 2010, p. 440 ss.
24
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale il “profitto” comprendeva l’ammontare complessivo delle sanzioni
amministrative (evase) e gli interessi dovuti. Cfr. Cass., sez. un., 31 gennaio 2013, in Cass. pen., 2013, p. 2913 ss.; prima
dell’intervento delle sezioni unite, Cass., sez. V, 17 gennaio 2012, in Cass. pen., 2012, p. 4251 ss. Numerose le critiche a tale tesi,
per un approfondimento delle quali si rinvia a T. Alesci, La confisca per i reati tributari e il patteggiamento: un difficile equilibrio, in
Arch. pen., 2014, 2, p. 6. Alcune tesi, di segno opposto, mostrano i rischi e le incertezze di una dilatazione a dismisura della nozione di profitto, che risulterebbe contrastante con il principio di stretta legalità e con il principio di colpevolezza. È stato altresì
evidenziato che, in virtù del rapporto di specialità intercorrente tra sanzione penale e sanzione amministrativa medesima,si dovrebbe ritenere che le sanzioni amministrative e gli interessi siano estranei al concetto di profitto del reato tributario. Cfr. A.
Vannini, L’omesso versamento delle sanzioni quale profitto del reato tributario?, in Corr. trib., 2013, 9, p. 737, nonché E. Amodio, I reati
economici nel prisma dell’accertamento processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 1505.
25
Cass., sez. III, 13 marzo 2013, n. 11836, in CED Cass. n. 254737. Tale nozione di profitto è stata ribadita anche dalle Sezioni
unite, che hanno affermato il principio secondo il quale «il profitto confiscabile può essere costituito da qualsivoglia vantaggio
patrimoniale direttamente conseguente alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa,
come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario» (Cass., sez. un., 23 aprile 2013, n. 18374, in CED. Cass. n. 255036). Nel caso di omesso versamento delle somme dovute a
titolo di Iva, il profitto del reato, suscettibile di confisca per equivalente, coincide perfettamente con l’ammontare dell’IVA non
versata, sicché non sussiste la necessità di alcun accertamento, nel contraddittorio delle parti, in ordine alla quantificazione del
profitto conseguito dall’imputato. L’art. 322 ter, comma 3, c.p. stabilisce che il giudice, con la sentenza di condanna, norma applicabile anche alla sentenza di patteggiamento, determina le somme di danaro o individua i beni assoggettati a confisca in
quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato. Cfr.
Cass., 13 settembre 2013 n. 37580, in www.cortedicassazione.it. Sul tema, in dottrina, E. Amodio, I reati economici nel prisma
dell’accertamento processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 1505 ss.
26
Cfr. ex plurimis Cass., sez. III, 4 novembre 2013, n. 44445, in Mass. Uff. n. 257616; Cass., sez. III, 6 ottobre 2010, n. 35807, in
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A suffragio di tale asserzione si collocherebbe la stessa modifica apportata dalla l. n. 190/2012, il cui
obiettivo è quello di consentire l’operatività del sequestro per equivalente del profitto in relazione a
quelle ipotesi per le quali l’esclusivo riferimento al prezzo non permetteva di estendere al di là di esso
l’oggetto della misura reale. In tal modo, spiegano i giudici di legittimità, l’Italia si sarebbe adeguata alle indicazioni in tema di confisca di valore desumibili da fonti internazionali ed europee 27.
IL SEQUESTRO PREVENTIVO FINALIZZATO ALLA CONFISCA “PER EQUIVALENTE”
Il sequestro preventivo rappresenta una misura cautelare che desta ingenti preoccupazioni circa i presupposti e le modalità applicative: labili risultano infatti i requisiti individuati dal legislatore 28.
Soffermandocisi, brevemente, sul sequestro preventivo come “anticipazione della confisca” 29, disciplinato dall’art. 321, comma 2, c.p.p., e tralasciando pertanto quello previsto dal comma 1 della medesima norma richiamata, occorre sottolineare che tale misura riveste la funzione di «impedire in modo
indiretto l’attività dell’imputato perché è la cosa ad essere pericolosa» 30.
Tale sequestro è costantemente disposto nelle ipotesi in cui è consentita la confisca di valore, a prescindere dalla pertinenzialità dei beni al reato contestato, pertanto consente di apprendere beni non solo direttamente collegati al reato ma anche assolutamente sganciati da quest’ultimo 31.
Inoltre, nella disciplina di tale misura, provvisoria e strumentale, risulta carente il riferimento al periculum, conseguentemente, l’approvvigionamento della res avviene anche a prescindere dalla possibilità
attuale e concreta che la sua circolazione aggravi l’illecito o ne consenta di nuovi, senza distinzione tra
confisca di beni la cui circolazione è illecita 32, ove il periculum può considerarsi in re ipsa, e le altre ipotesi. Non è nemmeno previsto che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca operi in presenza del
rischio di dispersione delle cose da aggredire con la misura ablativa finale 33.
Se di regola, come verrà più ampiamente specificato nel proseguo, il presupposto dell’ablazione è
l’appartenenza dei beni all’imputato, la prevalenza di concezioni di indivisibilità del profitto con indifferenza di approvvigionamento di beni “equivalenti” nel patrimonio di ciascun correo, conduce all’idea
dell’indifferenza dell’appartenenza dei beni da parte dell’imputato o a terzi.
Per quanto concerne il presupposto del fumus, poi, l’apparenza giuridica dovrebbe essere ritagliata
su fattispecie processuali che, se dimostrate, conducano ad una sentenza di condanna o di proscioglimento (non luogo a procedere o archiviazione) nei casi in cui è consentita la confisca. Sarebbe necessario, pertanto, la sussistenza di indizi del fumus boni juris, 34 evitando che la misura sia disposta in carenwww.leggiditalia.it. Alla stessa conclusione era giunto anche il Tribunale di Pisa, con ordinanza del 4 dicembre 2010, in Guida dir.,
2010, p. 97. A favore di tale tesi milita anzitutto la lettera della norma in esame, che opera un rinvio indifferenziato (in quanto
applicabili) alle disposizioni contenute nell’art. 322 ter c.p. Parte della dottrina a sostegno di un’applicazione totale della norma
da ultimo richiamata asserisce la necessità di un’interpretazione comunitariamente orientata – fondata sull’incondizionato rispetto dell’obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario di terzo pilastro, istituzionalizzato dalla celebre sentenza
Pupino, che spinge ad includere i concetti di prezzo e profitto nel più ampio genus del provento. Cfr. L. Della Ragione, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in www.penalecontemporaneo.it.
27
La Suprema Corte in via esemplificativa menziona, tra le fonti europee, la decisione quadro 2005/212/GAI del 24 febbraio
2005 del Consiglio dell’Unione Europea, che, all’art. 2, impone agli Stati Membri di adottare «le misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena della libertà superiore ad un anno o
di beni il cui valore corrisponda a tali proventi».
28
A. Scalfati, Il sequestro preventivo: temperamento autoritario con aspirazioni al “tipo” cautelare, in Dir. pen. proc., 2012, p. 533 ss.
29
Il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 2, c.p.p. viene definito dalla dottrina quale antecedente logico della confisca, ponendosi in rapporto di strumentalità qualificata. Cfr. ex multis, L. Pulito, Profili problematici del sequestro preventivo per
equivalente finalizzato alla confisca del profitto del reato, in Arch. n. proc. pen., 2013, 2, p. 227.
30
P. Tonini, Il caso ILVA induce a ripensare le finalità e gli effetti del sequestro preventivo, in Dir. pen. proc., 2014, 10, p. 1153 ss.
31
A. Scalfati, Sequestro preventivo: profilo autoritario e aspirazione al modello cautelare, in http://www.cortedicassazione.it/cassazioneresources/resources/cms/documents/20120301_RelazioneScalfati.pdf.
32
Art. 240, comma 2, n. 2, c.p.
33
Un’eccezione, a tal riguardo, è costituita dal caso in cui è la circolazione del bene in sé ad essere vietata dalla legge penale.
34
Cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del ruolo della Cassazione, Servizio Penale, Relazione n. 30/2013, in
www.cortedicassazione.it. Sul punto si è pronunciata anche la giurisprudenza, attribuendo al Tribunale del riesame il compito di
esaminare la sussistenza degli elementi indiziari indicativi della concreta sussistenza del fumus del reato ipotizzato. Si veda
Cass., sez. III, 25 gennaio 2012, in Riv. pen., 2013, p. 537.
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za di elementi idonei ad ipotizzare un provvedimento che disponga la confisca 35.
Alla luce delle considerazioni svolte emerge un accentuato deficit di garanzie, sia relativamente alla
superfluità delle indagini speculative circa la pericolosità del bene e l’assenza del nesso di pertinenzialità 36, sia per le defaillances sulla procedura di controllo. 37
Palese risulta, allora, la vicinanza tra questa forma di sequestro e le misure di prevenzione, distanziandola dal modello cautelare, accentuata proprio dalle lacune normative e giurisprudenziali.
CONFISCA PER EQUIVALENTE E PAGAMENTO DELLE IMPOSTE.
Un ulteriore elemento di rilevante problematicità nell’ambito dei reati tributari riguarda la concreta applicabilità della confisca, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., di quanto sequestrato “per equivalente” nel caso
in cui l’imputato, successivamente all’esecuzione del sequestro, versi quanto dovuto all’Erario, spesso
addirittura unitamente agli interessi ed alle sanzioni.
Maggiore incentivo al pagamento delle somme dovute all’Erario, in una prospettiva di riconciliazione avente valenza anche amministrativa 38, si avrà se tale versamento sarà accompagnato dalla revoca
del sequestro per equivalente sui beni di proprietà dell’imputato 39.
Tuttavia, con riferimento alle fattispecie commesse dopo il 14 settembre 2011 40, poiché il versamento
dell’imposta evasa costituisce presupposto per l’ammissibilità del rito del patteggiamento 41, la scelta
del rito speciale potrà essere poco “appetibile”, costringendo potenzialmente l’imputato ad un duplice
35
Con specifico riguardo alla materia tributaria, nella quale sussistono una serie di presunzioni legali, la giurisprudenza ritiene, univocamente, che tali presunzioni siano idonee a giustificare l’applicazione della misura cautelare reale per un importo
corrispondete all’imposta evasa, nonostante assumano esclusivamente il valore di dati di fatto e non fonti di prova. Cfr. Cass.,
Sez. III, 23 gennaio 2013, in Guida dir., 2013, 12, p. 38.
36
A. Bargi, La rarefazione delle garanzie costituzionali nella disciplina della confisca per equivalente, in Giur. it., 2009, p. 2072.
L’Autore evidenzia la conseguente lesione del diritto di difesa, la riduzione del diritto alla prova ed al contraddittorio
sull’adozione della sanzione.
37
A. Scalfati, Il sequestro preventivo: temperamento autoritario con aspirazioni al “tipo” cautelare, cit., p. 535.
38
Appare opportuno rammentare che inizialmente era prevista la c.d. pregiudiziale tributaria, formalizzata nell’art. 21, l. 14
gennaio 1929, n. 4, che prevedeva che «per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti l’azione penale ha corso dopo che
l’accertamento dell’imposta e della relativa sovrimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia». Il giudice penale, dunque, era assolutamente vincolato alla decisione già effettuata sull’accertamento e quest’ultima faceva stato nel
procedimento penale. Solo con la sentenza della Corte costituzionale (C. cost. 12 gennaio 1982, n. 88, in www.giurcost.org/deci
sioni/1982) che ha dichiarato illegittima la norma da ultimo menzionata, poi formalmente abrogata dall’art. 13, comma 1, d.l. n.
10 luglio 1982 n. 429, convertito nella l. 7 agosto 1982 n. 516, è venuta meno la pregiudiziale tributaria ed è sorto il c.d. “doppio
binario”.
Occorre sottolineare, però, che la l. n. 516/1982 sanzionava esclusivamente comportamenti che a monte potevano essere potenzialmente lesivi di un interesse generale, enunciando una serie cospicua di condotte così formali che la semplice “dimenticanza” di un atto produceva effetti penali abnormi. Solo nel 2000, con il d.lgs. n. 74/2000, sono state sanzionate condotte illecite
effettive, tutte caratterizzate dal dolo specifico e dall’esclusione del tentativo. Sul punto la giurisprudenza ha sottolineato che
«nell’accertamento del debito di imposta, che costituisce l’oggetto del sequestro preventivo a fini di confisca, il giudice resta autonomo e non è vincolato dall’esito del processo tributario o dell’accertamento fiscale, essendo evidente come la debenza verso
l’amministrazione finanziaria spesso si riveli divergente dalla pretesa originaria per la operatività di una serie di istituti che
hanno sempre più accentuato la determinazione concordata del tributo, come nel caso dell’accertamento per adesione e della
conciliazione giudiziale». Cfr. ex plurimis Cass., sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1256, in www.cortedicassazione.it.
39
Tale soluzione appare preferibile in quanto, come evidenziato in dottrina, non sembra opportuno mantenere per il tempo
necessario per celebrare il processo un sequestro preventivo coincidente con l’intera imposta originariamente evasa ignorando il
fatto che il contribuente abbia nel frattempo già provveduto al pagamento di quanto richiestogli dall’Erario.
40
La l. 14 settembre 2011, n. 148, di conversione del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, ha introdotto importanti modifiche della disciplina penale tributaria contenuta nel d.lgs. n. 74 del 2000, anche sul piano processuale, con conseguente inasprimento dello
statuto penale tributario. Si noti che con la l. 11 marzo 2014, n. 23, contenente una delega al Governo recante disposizioni per un
sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, il legislatore ha varato la revisione del sistema sanatorio penale in
materia tributaria da attuarsi entro il 26 marzo 2015.
41
L’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. m), d.l. 13 agosto 2011, n. 138 ha inserito all’art. 13, d.lgs. n. 74/2000, rubricato “Circostanza attenuante. Pagamento del debito tributario”, il comma 2 bis, il quale prevede che «per i delitti di cui al presente decreto
l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo qualora ricorra
la circostanza attenuante di cui ai commi 1 e 2».
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esborso di denaro 42. Infatti, l’imputato verserà una somma sotto forma di sequestro per equivalente e
sottoposta a confisca, ed un’altra per ottenere l’accesso al patteggiamento 43.
Si noti che se il profitto del reato tributario corrisponde all’entità dell’imposta evasa, una volta eliminata l’evasione mediante il pagamento del debito tributario risulta difficile ipotizzare un non meglio
definito profitto ulteriore che giustificherebbe il permanere del sequestro preventivo e la successiva
confisca.
Nell’ipotesi in cui l’ordinamento tributario consenta una riduzione del debito a fronte di accordi fra
fisco e contribuente, tale modalità di rideterminazione della pretesa erariale e della sua soddisfazione
non potrebbe che riflettersi anche sul profitto del reato 44.
Ultronea situazione che desta perplessità riguarda l’ipotesi in cui il sequestro, eseguito prima del
pagamento del debito tributario, abbia ad oggetto gli unici beni in possesso del contribuente. In questo
caso, il contribuente si vedrà privato della possibilità di accedere al rito alternativo al dibattimento, in
quanto non è possibile un dissequestro sulla base di una mera promessa di pagamento delle imposte.
Paradossalmente, dunque, l’estinzione del debito tributario, necessario al fine di accedere al patteggiamento, dovrebbe avvenire prima sia della confisca che dell’eventuale sequestro preventivo 45.
La mancanza di coordinamento tra le misure introdotte dal Legislatore, pertanto, determina un graduale disinteresse per l’imputato a patteggiare, con conseguente appesantimento del rito ordinario ed
incremento del rischio di prescrizione 46.
42
In tal senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, precisando che la restituzione all’Erario del profitto derivante
da reato elimina in radice lo stesso oggetto sul quale dovrebbe incidere la confisca, posto che al contrario si avrebbe un’inammissibile duplicazione sanzionatoria in contrasto con il principio secondo il quale l’espropriazione definitiva di un bene non
può essere mai essere superiore al profitto derivato dal reato. Cfr. Sul punto Cass., sez. III, 8 novembre 2013, in Giur. it., 2014, 3,
p. 694 con nota di V. Maiello, Confisca per equivalente e pagamento del debito tributario, p. 695 ss. Emblematica è una pronuncia del
2011, in merito alla possibile illegittimità costituzionale dell’art. 322 ter c.p. e l. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 143, comma 1, sotto
il profilo della violazione del principio di legalità e della duplicità della sanzione. La confisca obbligatoria per equivalente, infatti, costituisce una sanzione penale, e qualora il danno erariale venisse meno a seguito del pagamento delle imposte evase, si determinerebbe il contestuale operare di due sanzioni per il medesimo illecito. Cfr. Cass., sez. III, 11 marzo 2011, in Mass. Uff., n.
249752.
43
Parte della dottrina ha ritenuto superabile tale problema valorizzando in sede interpretativa l’inciso «in quanto compatibili» contenuto nell’art. 1, comma 143, l. n. 244/2007, giungendo alla conclusione che, verificandosi il preventivo pagamento di
quanto dovuto all’Erario, il Giudice può decidere di non applicare la confisca nei casi in cui sia accertato l’intervenuto pagamento delle imposte. Cfr. E. Musco-F. Ardito, Diritto penale tributario con appendice di diritto processuale, Bologna, 2013, p. 59.
In una prospettiva oggettiva, l’applicazione della sanzione della confisca risulta priva di ratio, in quanto il credito erariale
sarebbe soddisfatto tramite il versamento spontaneo dell’evasore ravveduto, con conseguente eliminazione dell’offesa precedentemente arrecata agli interessi economici dello Stato.
44
Parte della dottrina ha evidenziato che «… l’autonomia degli accertamenti nelle diverse sedi non è di ostacolo a ritenere
che, una volta “cancellata” l’evasione fiscale sul piano tributario con le specifiche modalità di tale ordinamento, non possa sopravvivere un profitto penalmente rilevante corrispondente all’imposta evasa. L’autonomia, infatti, riguarda solo l’accertamento della responsabilità penale per il reato tributario rispetto all’accertamento dell’obbligazione tributaria. Quando, invece, è
l’ordinamento penale a definire il concetto di profitto del reato con rinvio, per relationem, alla nozione schiettamente tributaria
dell’entità dell’imposta evasa, è necessario fare riferimento alle regole proprie dell’ordinamento tributario sia per definire la
permanenza dell’obbligo di corrispondere l’imposta sia per la sua eventuale quantificazione». Conseguentemente è stata ritenuta irrilevante la circostanza che l’art. 13, d.lgs. n. 74/2000 attribuisce al pagamento delle imposte natura di circostanza attenuante e non di causa di estinzione del reato, in quanto il problema non riguarda «… la responsabilità penale-tributaria, sulla cui
sussistenza non incide l’esito del contenzioso fra contribuente e fisco, bensì la possibilità di adottare in sede penale un provvedimento ablativo del patrimonio, anche per equivalente, direttamente parametrato alla imposta evasa, concetto tipicamente tributario definibile e quantificabile solo facendo applicazione delle regole proprie di tale ordinamento». Cfr. O. Mazza, Il caso
Unicredit al vaglio della Cassazione: il patrimonio dell’ente non è confiscabileper equialente nel caso di reati tributari commessi dagli amministratori a vantaggio della società, in www.penalecontemporaneo.it.
45
Sul punto, conforme risulta l’orientamento della Suprema Corte già nella Relazione del 2011, ove era stato precisato che «il
problema è peraltro ancora una volta collegato all’illustrata connessione tra attenuante e patteggiamento, atteso che la minore
appetibilità della scelta collaborativi potrebbe tradursi in un minore accesso al rito alternativo, ripercuotendosi sui tempi
dell’accertamento del reato in uno scenario in cui l’abbattimento delle soglie di punibilità previste per le singole fattispecie dovrebbero in prospettiva determinare l’aumento del numero dei processi penali tributari». Cfr. Rel. n. III/13/2011 alla l. 14 settembre 2011, n. 148, in www.penalecontemporaneo.it.
46
Si concorda pertanto con Autorevole dottrina che auspica, sul punto, un intervento legislativo che elevi l’avvenuto pagamento del tributo evaso a causa di estinzione del reato e non più a mera circostanza attenuante. Cfr. F. Vergine, Il “contrasto”
all’illegalità economica. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012, p. 121.
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
60
PATTEGGIAMENTO, CONFISCA E POTERE DEL GIUDICE
Individuato l’oggetto e la finalità della confisca ex art. 322 ter c.p., nonché i presupposti al fine di poter
accedere al rito alternativo del patteggiamento, occorre analizzare il nodo cruciale del rapporto tra patteggiamento e confisca 47, ossia se sussiste un potere, o addirittura un dovere, del giudice di disporre la
misura ablativa anche nell’ipotesi in cui essa non costituisca oggetto dell’accordo delle parti.
Nella pronuncia in analisi la Suprema Corte, soffermandosi sul tema, ha confermato l’orientamento
giurisprudenziale prevalente, disconstandosi da una inedita pronuncia 48, secondo la quale la confisca
dovrebbe essere oggetto del pactum. In realtà, la massima della sentenza da ultimo richiamata lascia alquanto perplessi, se si pensa che, da un lato, richiede che il provvedimento ablatorio rientri tra le statuizioni pattizie e, dall’altro, stabilisce che la domanda congiunta vada respinta «quando comunque
non consenta la determinazione certa dell’oggetto della confisca da parte del giudice». 49
Tale pronuncia, non supportata da idonee argomentazioni, risulta soppiantata dalla giurisprudenza
più recente, che ha totalmente escluso la necessità di inserire la determinazione della confisca nel patto
di rito, dovendo essere disposta obbligatoriamente dal giudice 50.
Nel provvedimento in commento si sottolinea la sussistenza di un vincolo della sentenza di patteggiamento limitatamente al profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo
all’ablazione del profitto, riguardo al quale la discrezionalità del giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna.
Conseguentemente, in caso di accordo tra le parti su tale punto, il giudice non è obbligato a recepirlo
o a recepirlo per intero 51.
In altri termini, tale accordo potrà avere solo la funzione di orientare la decisione del giudice, il quale rimarrà libero di tenerne o meno conto, incombendo sullo stesso solo l’onere di motivare la decisione
adottata.
Con specifico riferimento alla materia tributaria, il fondamento dell’obbligatorietà della confisca per
equivalente ex art. 322 ter c.p. risiede, ad avviso della Suprema Corte, sia nel dato testuale della norma
(i commi 1 e 2 prevedono che sia “sempre ordinata”), sia nella natura sanzionatoria riconosciutale.
Si rammenti che se inizialmente in giurisprudenza sussistevano alcuni dubbi circa l’applicabilità della confisca per equivalente del profitto nel patteggiamento, basandosi su un’interpretazione meramente
letterale dell’art. 322 ter, comma 3 c.p. 52, successivamente, tale limite linguistico è stato superato attraverso l’equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna 53.
Il provvedimento giudiziale che si annota si conforma ai precedenti in maniera apodittica, sottolineando il principio della natura obbligatoria della confisca e della discrezionalità vincolata della sen-
47
Occorre premettere che originariamente l’art. 445 c.p.p. consentiva l’applicazione esclusivamente della misura di sicurezza
disciplinata dall’art. 240, comma 2, c.p. Si distingueva, pertanto, tra le ipotesi di confisca facoltativa, previste al primo comma, e
quelle relative alla confisca obbligatoria, disciplinate al secondo comma. Relativamente alle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato» ovvero a ciò che ne costituisce il “prodotto o il profitto”, il giudice ha la facoltà di ordinarne la distrazione in favore dello Stato; diversamente nei casi previsti dal comma 2, tra cui rientrano le cose che costituiscono il prezzo
del reato, ove egli è tenuto ad imporre la misura ablativa. Successivamente alla modifica dell’art. 445 c.p.p., ad opera della l. 12
giugno 2003, n. 134, che ha previsto un rinvio all’intera disposizione normativa contenuta nell’art. 240 c.p., la distinzione tra
confisca obbligatoria e facoltativa è venuta meno. È stato evidenziato che la scelta dell’imputato di accedere al patteggiamento
non può precludere l’assolvimento della funzione social preventiva che caratterizza la misura di sicurezza patrimoniale de qua.
Sul tema si veda M. Montagna, Efficacia del patteggiamento e possibilità di confisca, in Giur. cost., 2000, p. 1874 ss.; D. Carcano, Alcune questioni in tema di confisca nel patteggiamento, in Cass. pen., 1995, p. 2995 ss.
48
Si fa riferimento a Cass., sez. VI, 11 marzo 2010, in Cass. Pen., 2011, p. 2661.
49
Secondo un orientamento dottrinale, al quale non si ritiene di dover aderire per le ragioni specificate nel proseguo,
l’eventuale riconoscimento in capo al giudice di disporre autonomamente la misura comporterebbe lo svuotamento del principio innovativo della sentenza, frutto di formulazione di una proposta congiunta anche sull’oggetto della confisca. S. Fabretti,
Patteggiamento e confisca: la Corte estende l’oggetto dell’accordo tra le parti, in Cass. pen. 2011, p. 2663 ss.
50
Sulla sussistenza di un obbligo in capo al giudice di disporre la confisca si veda ex multis, sez. II, 4 febbraio 2011, n. 20046,
in Dir. e giustizia, 2011. In dottrina, L. Cuomo, Problemi di giustizia penale tributaria: la confisca per equivalente del profitto, in Arch.
pen., 2014, 1, p. 20.
51
Cfr. Cass., sez. II, 19 aprile 2012, n. 19945, in Mass. Uff., n. 252825.
52
Al riguardo si noti che il comma 3 dell’art. 322 ter c.p. fa riferimento esclusivamente alla sentenza di condanna.
53
Cass., sez. un., 23 maggio 2006, in Cass. pen., 2006, p. 2769 ss.
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61
tenza di patteggiamento quanto alla confisca obbligatoria.
Sulla base di tale assunto, il giudice di legittimità, riconoscendo che la sentenza di applicazione della
pena era stata pronunciata per un reato, di cui all’art. 8, d.lgs. n. 74/2000, commesso in data successiva
all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 143, l. n. 244/2007, senza che si fosse provveduto sulla confisca
per equivalente relativamente al profitto dello stesso, cassa con rinvio alla Corte d’Appello.
Condivisibilmente, individua la somma di denaro da sottoporre a confisca nel valore dell’imposta
evasa 54, nella misura riportata nel capo di imputazione, senza necessità di alcun accertamento nel contraddittorio delle parti, rispettando sia il canone di pertinenzialità, consistendo il profitto in una somma
di denaro nella disponibilità del reo, sia quello relativo all’entità.
Dunque, nonostante il Procuratore Generale avesse rilevato il contrasto di giurisprudenza sulla questione e chiesto che venissero investite le Sezioni unite, la Suprema Corte ritiene che non sussista un’ermeneutica incertezza giurisprudenziale.
NODI IRRISOLTI DEL BINOMIO “PATTEGGIAMENTO-CONFISCA PER EQUIVALENTE”
La sentenza in commento, emblematica e risolutiva di molti “enigmi”, non affronta tematiche, tutt’oggi
dibattute, attinenti alla materia de qua, in primis l’appartenenza dei beni a persona estranea al reato o,
ancora, l’ipotesi di concorso di persone nel reato tributario, e conseguentemente i limiti al patteggiamento in tali casi.
Per comprendere pienamente la prima problematica menzionata, si pensi in via esemplificativa al
trust ed alle persone giuridiche, occorre premettere che la confisca per equivalente presuppone la non
appartenenza dei beni ai terzi estranei al reato.
Dubbi sussistono circa la nozione di “appartenenza” 55. Seguendo un’interpretazione stricto sensu,
con tale termine si dovrebbe fare riferimento esclusivamente a quella connessa al diritto di proprietà,
conseguentemente sarebbe suscettibile di confisca soltanto il diritto di proprietà. Secondo un’altra tesi,
invece, sarebbe sinonimo di “titolarità” di un diritto avente per oggetto un bene. Peraltro, secondo tale
indirizzo dottrinale, una rigida applicazione della nozione di appartenenza escluderebbe la confisca nei
casi in cui qualsiasi persona estranea al reato vantasse sulla cosa un qualsiasi diritto.
Dottrina 56 e giurisprudenza 57 maggioritaria ritengono che non sussista una inconciliabilità tra la
confisca di beni di proprietà del condannato, oggetto anche di diritti dei terzi, ed i diritti di questi ultimi 58.
Non unanime risulta, altresì, la giurisprudenza e, ancor prima, le disposizioni normative, in relazio54
Occorre specificare che l’art. 322 ter c.p. non impone al giudice di individuare i beni assoggettati a confica quando siano
determinate le somme di denaro che costituiscono il profitto, il prezzo del reato o il controvalore di essi. Il disposto codicistico,
infatti, pone un’alternativa («determina le somme di denaro o individua i beni»), conseguenza della fungibilità del denaro, che
consente di imporre la confisca di somme di danaro, nel caso di specie fino alla concorrenza dell’ammontare complessivo
dell’Iva non versata. Cfr. Cass., sez. III, 5 maggio 2014, n. 18309, in www.iusexplorer.it/Giurisprudenza/Sentenze. Tuttavia, deve segnalarsi, anche in questo caso, una pronuncia di segno opposto, secondo cui il giudice deve specificatamente individuare le
somme di denaro ed i beni da sottoporre a vincolo, poiché l’individuazione specifica dell’oggetto della confisca costituisce «presupposto strutturale di ogni provvedimento ablativo». Cfr. Cass., sez. III, 23 luglio 2013, n. 31742, in www.dirittoegiustizia.it.
55
F. Chiarotti, La nozione di appartenenza nel diritto penale, Milano, 1950, p. 56.
56
A. Alessandri, Criminalità economica e confisca del profitto, in E. Dolcini-C.E. Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006. p. 54, il quale acutamente osserva che l’intangibilità del bene su cui insistono diritti reali altrui finirebbe irrazionalmente per consentire un’indisturbata detenzione di cose pericolose a favore del reo.
57
Cass., sez. I, 12 maggio 1987, in CED Cass. n. 175971.
58
I terzi titolari di diritti oggetto di confisca, dunque, potrebbero continuare ad esercitare i diritti stessi anche dopo il provvedimento impositivo della misura ablativa. La Suprema Corte ha sottolineato che «ai fini dell’operatività della confisca per
equivalente, prevista dall’art. 322 ter del codice penale, e, di riflesso, della possibilità di adozione di un provvedimento di sequestro preventivo dei beni che possono formarne oggetto, il requisito costituito dalla disponibilità di tali beni da parte del reo
non viene meno, neppure nel caso di intervenuta cessione dei medesimi ad un terzo con patto fiduciario di retrovendita». Cass.,
sez. II, 14 marzo 2007, n. 10838, in CED Cass. n. 235829, in banca dati fisconline. Pertanto, nel rispetto dei diritti dei terzi, le norme
penali in materia di sequestro preventivo prevalgono sempre sui vincoli civilistici che regolano i rapporti tra creditori e debitori
solidali. Inoltre, non si può sottacere l’irrilevanza, ai fini dell’adozione del provvedimento ablativo e dell’apprensione della res,
del ricorso ad intestazioni fittizie o di comodo, nel caso in cui i beni siano nella disponibilità effettiva del reo. Per un approfondimento sul punto si rinvia a A. Alessandri, Criminalità economica e confisca del profitto, cit.
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ne al binomio confisca per equivalente sui beni sociali nel caso della responsabilità penale tributaria attribuita ai vertici di un ente economico 59. Il deficit di legalità previsto in tali ipotesi non può neppure essere compensato dal sistema sanzionatorio amministrativo delineato dal combinato disposto di cui agli
artt. 11, comma 1, d.lgs. n. 472/1997 e 19, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 60.
Occorre precisare che sul punto si sono pronunciate, recentemente, le Sezioni Unite, statuendo che
nei confronti della persona giuridica è possibile la confisca diretta di denaro o altri beni fungibili riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica; tuttavia, quando il
profitto del reato tributario non sia rimasto nella disponibilità dell’ente, non è consentita la confisca per
equivalente di altri beni della persona giuridica. La confisca per equivalente, ad avviso della Suprema
Corte, non è consentita nei confronti della persona giuridica per i reati tributari, non essendo questi
contemplati nel novero dei reati-presupposto di cui al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. È possibile, invece, la
confisca diretta del profitto reperibile presso la persona giuridica, sebbene l’attuale quadro normativo
non legittimi per i reati tributari alcuna forma di confisca nei confronti dell’ente 61. Il contrasto sembra,
dunque, solo in parte sopito.
Ingenti perplessità permangono, poi, in relazione all’ipotesi di concorso di persone nel reato tributario: le pronunce giurisprudenziali sul punto sono numerose ma non stabiliscono principi in toto univoci 62. Secondo un orientamento, in virtù del carattere afflittivo e sanzionatorio della confisca obbligatoria
di cui all’art. 322 ter c.p. e del principio solidaristico che informa la disciplina del concorso di persone
nel reato, ciascun concorrente può essere chiamato a rispondere dell’intera entità del profitto accertato,
sul presupposto della corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, salvo l’eventuale riparto
tra i medesimi (irrilevante ai fini penalistici) del relativo onere. Secondo un più recente orientamento,
invece, in caso di reato commesso da più soggetti, la confisca per equivalente di beni può essere disposta per un importo che non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura della quota di prezzo
o profitto a lui attribuibile 63.
Dubbi sussistono, poi, relativamente alla confisca nei confronti dei terzi. Cosa succede, infatti,
nell’ipotesi in cui i profitti del reato o di beni di valore equivalente siano stati trasferiti o alienati a terzi
per eludere la confisca, soprattutto se i terzi erano a conoscenza o avrebbero dovuto sapere che il fine
del trasferimento o dell’acquisto era di impedire la confisca 64?
59
G. Salcuni, I reati tributari. Parte generale, in A. Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, p. 493; A.
Perini, voce Reati tributari, in Dig. pen.,Torino, 2008, p. 943 ss.; A. Martini, Reati in materia di finanza e tributi. Parte speciale, Milano,
2010, p. 206 ss.
In giurisprudenza, Corte e.d.u., 20 febbraio 2009, Sud Fondi srl ed altri c. Italia, nonché Cass., sez. III, 5 maggio 2014, n.
18311, in www.giurisprudenzapenale.com.
60
Il sistema sanzionatorio amministrativo era idoneo ad evitare forme di impunità in un sistema penale, quale quello del
2000, al quale era ignota la responsabilità ex delicto della persona giuridica, riconosciuta solo successivamente dal d.lgs. n. 231
del 2001. In dottrina cfr. P. Aldrovandi, I profili evolutivi dell’illecito tributario, Padova, 2005, p. 230, nonché P. Ielo, Commissione
Greco: dall’usura alla frode verso una più ampia responsabilità degli enti, in Guida dir. 2010, 1, p. 22 ss. Si noti che i lavori della commissione Greco si sono conclusi proponendo l’inserimento nel decreto n. 231 di una serie di illeciti penali, caratterizzati dalla
logica di profitto conformemente alla ratio della disciplina in tema di responsabilità delle società, quali i reati di cui agli artt.: 161
e 173 T. U. F.; 2635 c.c.; 353, 354, 355, 629, 644 c.p.; 131, 131 bis e 132 t.u.b.; nonché i reati tributari disciplinati nel d.lgs. n. 74 del
2000 ed in particolare agli artt. 2, comma 1, 5, 8 e 10.
61
Per i reati commessi dai vertici sociali si veda Cass., sez. un, 5 marzo 2014, n. 10561, con nota di L. Puccetti, La confisca sui
beni della persona giuridica per reati tributari commessi dai vertici sociali: diretta o per equivalente?, in Proc. pen. giust., 2014, 5, p. 60 ss.
62
Cass., sez. V, 16 gennaio2004, in Arch. n. proc. pen., 2004, p. 562 ss.
63
Cass., sez. VI, 9 luglio 2007, in Mass. Uff., 237290; Cass., sez. VI, 14 giugno2007, in Mass. Uff., 240572; Cass., sez. VI, 23 giugno 2006, in Mass. uff., 234850. A base di tale assunto si porrebbero i principi espressi dagli artt. 3 e 27 Cost., i quali impongono
che la responsabilità penale sia personale e che la pena sia proporzionata alla gravità del fatto commesso.
64
Sul punto si è pronunciata anche recentemente l’Unione europea con la Direttiva 3 aprile 2014 n. 42, in particolare all’art. 6
(considerando n. 24). Nel dettaglio, il legislatore europeo introduce una norma che si pone in linea con principio di colpevolezza
e, pertanto, con la tutela della buona fede del terzo, aprendo una breccia per più drastiche scelte di politica criminale volte a fare
prevalere l’efficienza sulle garanzie. Per una disamina approfondita della Direttiva si veda A.M. Maugeri, La Direttiva
2014/42/UE relativa alla confisca degli strumenti e dei proventi da reato nell’Unione europea tra garanzie ed efficienza: un “work in progress”, in www.penalecontemporaneo.it. Nella stessa direzione si muove, nell’ordinamento italiano, il concetto di estraneità al reato
(ai fini della confisca del profitto ex artt. 240 c.p., 322 ter c.p., 19 d.lgs. n. 231/2001), il quale, non limitandosi all’assenza di concorso nella commissione del reato, si estende anche all’assenza di benefici derivanti dallo stesso. Conseguentemente, non può
ritenersi estraneo il soggetto che ne abbia comunque tratto vantaggio. Anche nel progetto Grosso e nel progetto Palazzo è previ-
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O ancora, nel caso di terzo proprietario coimputato non patteggiante, l’accordo di patteggiamento
può decidere sulla confisca per equivalente o il processo continua 65?
In conclusione, appare poco felice la tecnica impiegata dal legislatore per estendere l’applicabilità
della confisca di valore all’ambito dei reati tributari 66.
È auspicabile un intervento legislativo, organico, che sia calibrato ex professo sulla materia penale/tributaria per garantire l’effettività della tutela ed una maggiore corrispondenza alle garanzie derivanti dal principio di legalità penale.
sta la possibilità di applicare la confisca del profitto alla persona estranea al reato che ne abbia beneficiato (art. 114, n. 5) (nei limiti del disponibile), salva la tutela dei diritti del terzo acquisiti in buona fede.
65
Cass., sez. I, 23 ottobre 2014, n. 44238, in www.dirittoegiustizia.it.
66
Si concorda con parte della dottrina che ritiene opportuno includere nei reati presupposto ex d.lgs. n. 231 del 2001 anche
quelli di natura tributaria e disciplinare espressamente, ma secondo moduli rispettosi della eguaglianza/ragionevolezza e della
personalità della responsabilità penale, la confisca di valore nell’ambito del concorso criminoso. L. Della Ragione, La confisca per
equivalente nel diritto penale tributario, in www.penalecontemporaneo.it.
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64
In caso di revoca dell’affidamento ai servizi sociali il giudice
non può ignorare il periodo di prova svolto dal condannato
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI I, SENTENZA 8 SETTEMBRE 2014, N. 37292 – PRES. CHIEFFI; REL. CASA
A fronte di una causa di revoca dell’affidamento ai servizi sociali, il giudice non può ignorare la parte di prova svolta
dal condannato, salvo che la sua infrazione sia così grave da rivelare l’inadeguatezza dell’intero processo rieducativo; dei criteri così seguiti – tra cui, ma non solo, la durata della permanenza dell’affidato presso i servizi ospitanti e
la gravità della violazione – il giudice deve rendere conto nella parte motiva del provvedimento che, revocato il beneficio, rideterminerà la pena detentiva da scontare.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza resa in data 19 novembre 2013, il Tribunale di Sorveglianza di Milano revocava la
misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale concessa a [omissis] con provvedimento
emesso dallo stesso Tribunale in data 18 aprile 2012, in relazione alla sentenza di condanna pronunciata
dal Tribunale di Monza il 1 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 3 febbraio 2011.
La revoca era giustificata dalla condanna riportata in primo grado dal [omissis] alla pena di due anni
di reclusione, inflittagli dal Tribunale di Monza con sentenza del 7 novembre 2013 per il reato di detenzione illegale di 26 grammi circa di cocaina (d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73).
Con la stessa ordinanza il Tribunale milanese dichiarava non computabile al fine dell’espiazione della pena il tempo trascorso in affidamento in prova.
2. Ha proposto ricorso per cassazione [omissis], per il ministero del suo difensore di fiducia.
2.1. Con il primo motivo, deduce la mancata notifica dell’avviso di udienza al detenuto, in violazione dell’art. 127 c.p.p., comma 1, (art. 606 c.p.p., lett. c), la cui inosservanza, a mente dello stesso art. 127,
comma 5, determinava la nullità dell’udienza e di tutti gli atti successivi.
2.2. Con il secondo motivo, denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per mancanza di motivazione sulla ritenuta non computabilità del periodo trascorso in affidamento in prova ai fini dell’espiazione della pena.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per l’annullamento dell’ordinanza impugnata limitatamente alla parte in cui dichiara non computabile ai fini dell’espiazione della pena il tempo trascorso in affidamento in prova, con rinvio al Giudice a quo; nel resto, il ricorso andava rigettato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Sono fondati entrambi i motivi di ricorso.
1.1. Sebbene il provvedimento di sospensione delle misure alternative ai sensi dell’art. 51ter ord. penit., per la sua natura formale di decreto e per il suo carattere transitorio, non richieda la preventiva
convocazione delle parti, è indubbio che l’omissione della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza
camerale per la deliberazione sulla revoca della misura comporti la nullità del provvedimento all’esito
adottato (Sez. I, sentenza n. 16654 dell’11 febbraio 2013, [omissis], Rv. 255688).
Nel caso in questione, dall’esame degli atti inseriti nel fascicolo – cui questa Corte ha accesso diretto
in quanto giudice del “fatto” processuale (Sez. I, sentenza n. 8521 del 9 gennaio 2013, [omissis], Rv.
255304) – risulta che, per una evidente svista, il decreto di fissazione dell’udienza camerale del 19 novembe 2013 emesso dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano in data 23 ottobre 2013 è
stato notificato a mezzo fax, nella medesima giornata del (omissis) (h 17:27 e 17:28), due volte al difensoAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IN CASO DI REVOCA DELL’AFFIDAMENTO AI SERVIZI SOCIALI
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re di fiducia del detenuto Avv. [omissis] (essendo diretto allo stesso numero di telefono indicato dal legale “(OMISSIS)”), senza essere mai stato notificato al diretto interessato.
Tale omissione determina la nullità del provvedimento impugnato ai sensi dell’art. 127, commi 1 e 5,
c.p.p. e art. 178, lett. c), c.p.p.
1.2. Pur avendo carattere assorbente la rilevata violazione di norme processuali, questo Collegio ritiene di doversi pronunciare, ai fini di una corretta impostazione del giudizio di rinvio, anche sul secondo motivo di ricorso, volto a censurare la carenza motivazionale dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, laddove ha dichiarato non computabile ai fini dell’espiazione della pena il
tempo trascorso in affidamento in prova.
Il motivo è fondato.
Come è noto, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 343 del 1987, il periodo trascorso
in affidamento in prova non può essere considerato privo di rilevanza, per il solo fatto che la misura alternativa venga revocata.
L’affidamento in prova implica pur sempre una forte limitazione della libertà personale, e di regola,
se trascorso positivamente, equivale a pena espiata.
Il Tribunale di sorveglianza, in presenza di comportamenti particolarmente gravi e che riverberino i
loro effetti anche sulla valutazione del periodo già trascorso, può ritenere che, almeno in parte, il periodo di affidamento possa non essere considerato come pena espiata.
Ma, sul punto, occorrono una valutazione prima, ed una motivazione poi, molto approfondite e
puntuali.
Bisogna, cioè, prendere in considerazione la durata del periodo di affidamento già trascorso, verificando l’impegno dimostrato dal condannato durante tale periodo e gli eventuali progressi compiuti alla
stregua delle informazioni fornite dal servizio sociale con le relazioni periodiche previste dall’art. 47
ord. penit., nonché sulla base di ogni altro elemento o circostanza utile.
Quanto verificato va, poi, paragonato allo specifico comportamento negativo che importi la revoca
del beneficio, al fine di stabilire il quantum di durata dell’affidamento in prova da considerarsi come pena espiata ed il quantum invece da considerarsi come privo di rilievo ai fini dell’espiazione della pena.
In sostanza, la Magistratura di sorveglianza è chiamata a effettuare un giudizio che non è limitato alla
sola esistenza di formali e conclamate violazioni alle prescrizioni imposte nel corso dello svolgimento
della prova sino alla data della specifico comportamento che ha dato causa alla decisione di revoca, ma è
volto a stabilire se il mancato recepimento delle prescrizioni imposte sia stato tale, per gravita ovvero per
modalità e reiterazione, da rendere evidente l’inesistenza, ab initio, di un effettivo processo di recupero
educativo tale da giustificare la revoca ex tunc (tra le più recenti, Sez. I, sentenza n. 18247 dell’11 aprile
2014, [omissis], non mass.; Sez. I, sentenza n. 9314 del 19 febbraio 2014, [omissis], n.m.; conformi, Sez. I,
sentenza n. 2667 del 18 ottobre 2011, dep. 23 gennaio 2012, [omissis], Rv. 251844; Sez. I, sentenza n. 5466
del 3 ottobre 2000, dep. 9 gennaio 2001, [omissis], Rv. 217617; Sez. I, sentenza n. 320 del 13/1/1999, [omissis], Rv. 212712; Sez. I, sentenza n. 2943 del 13 giugno 2001, [omissis], Rv. 219477).
Nella motivazione dell’ordinanza impugnata manca una compiuta spiegazione della gravita oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca, e il motivo per cui le evenienze negative, verificatesi al termine dell’esperimento esterno, sono state ritenute di tale gravita, da rivelare
l’inadeguatezza del processo di rieducazione e necessaria la revoca ex tunc, con la conseguenza di mettere nel nulla il periodo di prova trascorso.
Anche sotto questo profilo, l’ordinanza impugnata deve essere annullata.
Il Giudice di rinvio dovrà attenersi ai principi sopra enunciati.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IN CASO DI REVOCA DELL’AFFIDAMENTO AI SERVIZI SOCIALI
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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FRANCESCO TRAPELLA
Assegnista di ricerca in Diritto processuale penale – Università di Ferrara
Lo scomputo del servizio prestato
in caso di revoca dell’affidamento in prova
The deduction of the service performed if the probation fails
In caso di revoca dell’affidamento ai servizi sociali, il giudice deve determinare la residua pena detentiva, considerando la parte di prova svolta dal condannato quando questa non riveli l’inadeguatezza del processo rieducativo: il
principio trova conferme nelle normative di diritto straniero sul sursis probatoire francese o sul probation angloamericano, e riflette principi applicati, mutatis mutandis, nel nostro ordinamento in punto di lavori di pubblica utilità
ex art. 54, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 74.
If the probation fails, the Court determines the residual term of imprisonment, considering the service performed
when it doesn’t reveal the inadequacy of the re-education process: the decision is confirmed in the French law on
suris probatoire or in the English or American law on probation, and reflects the principles applied in Italy on
Works of public utility (art. 54, d.lgs. 28th august 2000, n. 74).
LA VICENDA IN SINTESI
La sentenza in commento affronta la questione se sia computabile, ai fini dell’espiazione della pena, il
periodo trascorso dal condannato in affidamento in prova, allorché la misura alternativa sia stata poi
revocata 1.
Se è pacifico che «per effetto della revoca … l’esecuzione in regime di affidamento in prova si interrompe e
l’espiazione della pena prosegue in regime carcerario» 2, appare dubbio se la parte di prova già scontata debba essere automaticamente «messa nel nulla» 3 dalla causa di revoca 4 o se, invece, possa tenersene conto
laddove il giudice ritenga la condotta che ha determinato il venir meno della misura non così grave da
«rivelare l’inadeguatezza del processo di rieducazione e necessaria la revoca “ex tunc”» 5.
1
Si tratta di una tematica di grande interesse per la dottrina: ante l. 26 luglio 1975, n. 354, v. E. Fassone, Emendamenti da apportare alla riforma dell’ordinamento penitenziario, in Riv. it. dir. proc. pen., 1974, p. 897 ss. In giurisprudenza, recente, Cass., sez. I, 26
febbraio 2014, n. 9314, in www.osservatoriopenale.it.
2
L. Degl’Innocenti-F. Faldi, Recidiva ed estinzione della pena pregressa per esito positivo dell’affidamento in prova, in Cass. pen.,
2013, p. 2013.
3
Con quest’espressione, la sentenza che si annota. Di tale avviso, sulla scorta dell’ultimo comma dell’art. 47 ord. penit., già
M.L. Balzarotti, Orientamenti e sbandamenti intorno alla revoca dell’affidamento in prova, in Cass. pen., 1986, p. 1007 ss.
4
All’uopo potendo bastare anche semplici denunce o querele rivolte all’affidato o elementi emersi in un processo penale ancora in corso: la casistica dei motivi di revoca, dunque, è quanto mai variegata: v. ex plurimis, Cass., sez. I, 10 maggio 2011, n.
33089, in CED Cass. n. 250824, Cass., sez. I, 6 dicembre 2001, n. 5283, in Cass. pen., 2003, p. 1637.
5
Si veda sempre la pronuncia in commento, che riprende l’orientamento per cui è ordinata la revoca in presenza di una «ragionevole presunzione» dell’idoneità della condotta a «determinare il fallimento della prospettiva di recupero sociale sottesa alla misura»:
così, Cass., sez. I, 15 giugno 2010, n. 30508, inedita. La misura in parola, infatti, è «un atto di fiducia per un [...] impegno futuro [del
condannato] verso la risocializzazione»: v. S. Ciampi, L’affidamento in prova, la recidiva e le tessere mancanti nel mosaico delle sezioni
unite, in questa Rivista, 2012, n. 4, p. 69 che richiama l’efficace espressione di A. Presutti, Profili premiali dell’ordinamento penitenziario, Milano, 1986, p. 52.
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Il tribunale di sorveglianza che dimetteva il ricorrente dal beneficio optava per la prima soluzione,
senza motivare sulla ritenuta irrilevanza del periodo già trascorso in prova ai fini della pena, e considerandola evidentemente un’automatica conseguenza della revoca.
Forte dell’orientamento della Consulta – per cui, «alla luce della sentenza … n. 343 del 1987, il periodo
trascorso in affidamento in prova non può essere considerato privo di rilevanza per il solo fatto che la misura alternativa venga revocata» –, la Suprema Corte smentisce le conclusioni del tribunale, annullando
l’ordinanza impugnata ed imponendo al giudice del rinvio una «compiuta spiegazione della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca» 6 e delle ragioni per cui esso impedisce di
tenere conto della prova già svolta nel computo complessivo della pena 7.
PRECEDENTI
La sentenza che si annota richiama la decisione della Corte costituzionale che ha ritenuto illegittimo
l’art. 47, comma 10 – oggi, comma 11 –, ord. penit. nella parte in cui, in caso di revoca dell’affidamento
in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della stessa, non consentiva al tribunale
di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto delle limitazioni già
patite dal condannato e del suo comportamento durante il segmento di prova svolto 8.
In quell’occasione i giudici della Consulta tornavano su un tema affrontato pochi anni prima dalle
Sezioni unite, quando rifiutarono di includere nella pena espiata il periodo di prova risoltosi negativamente 9: tale opzione rifletteva l’idea dell’affidamento al servizio sociale come «misura sospensiva, condizionata al buon esito della prova», così da «negarsi la detraibilità del periodo di affidamento vanificato dal mancato raggiungimento del fine rieducativo» 10. Ad opposta conclusione giungeva chi, già all’indomani dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, equiparava la misura de qua alla detenzione 11 come «modalità ambulante di esecuzione della pena» 12.
L’orientamento del giudice di legittimità 13 è stato velocemente smentito dalla Consulta 14 per i casi di
pronuncia di ammissione al beneficio annullata per cause di inammissibilità originaria o sopravvenuta:
essendo l’affidamento in prova «pena o modalità di esecuzione della pena» 15, giammai è possibile ignorare
il periodo impiegato nei servizi sociali ante annullamento.
Di seguito, la Corte costituzionale giungeva ad attribuire rilevanza al periodo di prova positivo sotto
il profilo della rieducazione nel caso di successiva revoca; e se «è evidente come profondamente diversa dall’annullamento si presenti l’ipotesi della revoca», poiché «nel primo caso la prova deve essere interrotta per cause
del tutto indipendenti da un giudizio negativo sul comportamento dell’affidato, nel secondo, viceversa, è la condotta dell’affidato, negativamente valutata, che porta all’interruzione della stessa» 16, ugualmente è conforme
alle finalità specialpreventiva e di rieducazione dell’istituto il fatto di valutare quanto di positivo vi sia
6
Sono ancora parole della pronuncia in nota.
7
Un’adeguata ricostruzione del problema impone di ricordare che il giudice di sorveglianza è chiamato ad una valutazione
globale del condannato: «ai fini della valutazione dell’esito della prova, è possibile prendere in considerazione anche comportamenti posti
in essere dal condannato dopo che sia cessata l’esecuzione della misura alternativa, ma prima che sia formulato il giudizio sul relativo esito»:
così, Cass., sez. un., 27 febbraio 2002, n. 5, in Dir. pen. proc., 2002, p. 1225.
8
C. cost., sent. 15 ottobre 1987, n. 343, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 1155 ss.
9
Cass., sez. un., 7 febbraio 1981, n. 1, in Cass. pen., 1981, p. 1760.
10
D. Verrina, Corte costituzionale e revoca dell’affidamento in prova: la rieducazione dal mito al realismo, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1988, p. 1156.
11
AA.VV., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1987, p. 363 ss.
12
C.E. Paliero, Revoca “postuma” dell’affidamento in prova e scomputo della pena dal periodo “utilmente” trascorso, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1978, p. 1487.
13
Sostenuto peraltro da F. Mantovani, Pene e misure alternative nell’attuale momento storico, in AA.VV., Atti del Convegno di Studio
“Enrico de Nicola”, Milano, p. 15 ss., con l’auspicio, de iure condendo, di una modifica idonea a prevedere, in caso di revoca, una proporzionale riduzione della pena residua da scontarsi magari in semilibertà.
14
C. cost., sent. 13 giugno 1985, n. 185, in Cass. pen., 1985, p. 1958 ss.
15
Sempre C. cost., sent. 13 giugno 1985, cit.
16
P. Zagnoni Bonilini, La revoca dell’affidamento in prova di nuovo al vaglio della Corte Costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1989, p. 374.
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stato nell’attività socialmente utile svolta dall’affidato 17.
Occorre – tenendo fede a tale orientamento – considerare due fattori: da un lato, il periodo trascorso
in affidamento, dall’altro, il fatto che ha motivato la revoca. Sotto il primo profilo, il tribunale di sorveglianza guarda anche alla tipologia di prescrizioni imposte, vigente la misura 18, oltre ovviamente al fattore cronologico; per il secondo aspetto viene in rilievo la gravità, oggettiva e soggettiva, dell’infrazione, da considerarsi quale «indic[e] sintomatic[o], per qualità e gravità, del mancato conseguimento di quell’obiettivo di recupero sociale del condannato, cui la misura stessa è preordinata» 19.
Si intravede nell’endiadi “oggettiva e soggettiva” un chiaro riferimento ai criteri dell’art. 133 c.p.: siccome «poco importa che la legge determini ciò che il giudice deve prendere in considerazione, se non precisa come
(in vista di quali finalità) dovranno essere valutati quei dati di fatto» 20, la locuzione in parola va letta guardando all’art. 1 ord. penit. e al principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio-penitenziario, a sua volta riconducibile all’art. 27, commi 1 e 3, Cost. e, quindi, al principio di personalità e al
fine rieducativo della pena 21.
Coordinando quanto ora detto con il connotato tipicamente punitivo 22 dell’affidamento in prova,
emerge l’aspetto di responsabilizzazione dell’interessato 23, insito nel meccanismo di scomputo tratteggiato dalla Consulta e ripreso dalla Corte di cassazione nella sentenza che si annota 24. L’affidato, infatti,
è consapevole che tanto maggiore sarà l’ottemperanza ai doveri derivanti dalla misura, tanto ampi saranno i vantaggi in termini di riduzione del carico sanzionatorio, poiché una prova compiuta positivamente azzererà la pena detentiva che sarà, invece, ridotta in proporzione alla quantità di prestazione
svolta in modo adeguato, in caso di revoca 25.
Riassumendo, il condannato rimane il solo artefice del proprio destino e in ciò si compendia
l’aspetto rieducativo della misura: la prova completata in maniera corretta indica l’assoluta riappacificazione con i valori sottesi al reato, occorrendo negli altri casi un’integrazione penitenziaria del trattamento sanzionatorio.
17
Per una ricognizione sul volto dell’istituto all’indomani della l. 10 ottobre 1986, n. 663, N. Galantini, La nuova disciplina
dell’affidamento in prova al servizio sociale (L. 10 ottobre 1986, n. 663), in Indice pen., 1987, p. 461 ss. o P. Comucci, La riforma penitenziaria: una risposta al alcuni problemi irrisolti, in Indice pen., 1987, p. 472 ss.
18
Che rappresentano l’in se della misura: così, F. Bricola, L’affidamento in prova al servizio sociale, “fiore all’occhiello” della riforma penitenziaria, in Questione criminale, 1976, p. 390.
19
Sempre Cass., sez. un., 27 febbraio 2002, n. 5, cit.
20
Cfr. E. Dolcini, Discrezionalità del giudice e diritto penale, in G. Marinucci-E. Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 270.
21
In tema, C. cost., sent., 4 luglio 1974, n. 204, in Giur. cost., 1974, p. 1707 ss.
22
E di fatto, «le prescrizioni elencate dall’art. 47, comma 2, ord. pen. costituiscono il contenuto di una pena, sia pure alternativa alla detenzione, per cui va rispettato il principio di legalità che ha la sua fonte primaria nell’art. 25 co. 2 Cost.»: così, F. Della Casa, Affidamento
in prova al servizio sociale o (pura e semplice) “pay back sanction”? Equivoci sul significato dell’art. 47 co. 7 OP, in Legislazione pen.,
2004, p. 380.
23
Che costituisce l’in se della misura: così, F. Fiorentin, Il risarcimento della vittima del reato può realizzarsi con prestazioni surrogatorie?, in Giust. pen., 2005, II, p. 656 o M. Tirelli, Affidamento in prova al servizio sociale ed iniziative del magistrato di sorveglianza
sulle prescrizioni, in Foro ambrosiano, 2003, p. 100.
24
Sempre in tema di responsabilizzazione, un problema ulteriore si pone considerando che il tribunale di sorveglianza deve
ovviamente «valut[are] tutte le emergenze fattuali, pro reo aut contra reum, disponibili al momento del proprio giudizio, senza formalisticamente filtrare qualsivoglia comportamento, magari gravido di significati, solo perché esterno alla parentesi temporale di cui all’art. 47,
comma 1, ord. penit.»: da qui, la revoca può motivarsi anche sulla scorta di fatti successivi al termine individuato per la fine della
prova ma antecedenti all’udienza davanti al tribunale di sorveglianza. Sono intuitive le ricadute derivanti dal sovraffollamento
dei ruoli: tanto maggiore sarà il carico del giudice, tanto più tardivamente potrà essere fissata l’udienza. In tema, S. Ciampi,
L’affidamento in prova, cit., p. 70 e R. Bartoli, L’affidamento in prova al servizio sociale tra istanze risocializzative e scopi di garanzia, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1233.
25
Sull’applicabilità di tale soluzione anche per una prova svolta, sì, completamente ma in modo inadeguato, sul presupposto, cioè, di considerare anche in quel contesto quanto di positivo ci sia stato, A. Presutti, Profili premiali dell’ordinamento penitenziario, Milano, 1986, p. 48 ss.
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INELUDIBILITÀ DELL’OBBLIGO MOTIVAZIONALE
Si è osservato che «l’amministrazione – certamente controllabile quando agisce interpretando la norma – lo è
molto meno quando agisce concretando una fattispecie discrezionale, se ai limiti esterni del potere discrezionale
(quelli ricavabili ancora una volta dalla norma) non si aggiungono i limiti interni configurati dai fatti e dalla loro
valutazione, ergo dalla motivazione» 26.
Le decisioni del tribunale di sorveglianza in punto di misure alternative sono improntate ad una discrezionalità dell’organo giudicante 27, chiamato a giustificare l’eventuale revoca sulla scorta di precisi
fatti comportamentali; s’inserisce un elemento nuovo – inizialmente non considerato – che induce i magistrati a non accordare fiducia circa il recupero del condannato 28.
L’indagine si compie caso per caso e non è necessariamente vincolata alla violazione di norme o degli obblighi connessi alla misura 29: ciò che rileva, infatti, è se la «condotta del condannato … sia meritevole
dei benefici penitenziari» 30, tenuto conto del percorso rieducativo che l’affidato va compiendo e rimanendo «evidente che l’incapacità di comprendere il senso e la funzione [del beneficio] si pone in insanabile contrasto
con le finalità perseguite dalla misura e rende il soggetto inidoneo a fruirne» 31.
È stato poi sostenuto che «la revoca può essere giustificata soltanto da condotte poste in essere “successivamente alla concessione del beneficio”» 32: tale asserto, tuttavia, si scontra con il richiamo ai connotati di
gravità “oggettiva e soggettiva” della condotta attribuita all’affidato e, quindi, ai criteri dell’art. 133
c.p. 33.
La norma evoca parametri anche esterni al reato – quali comportamento processuale, precedenti
penali e vita anteatta dell’accusato 34 – che consentono di modulare la pena in concreto all’interno del
compasso edittale, guardando alla personalità e alla storia individuale del reo. Esemplare è il caso di
chi, cresciuto in una famiglia di soggetti dediti al crimine, viene sorpreso a rubare e sottoposto a giudizio: starà al tribunale decidere se il contesto criminogeno in cui egli è stato inserito probabilmente
fin dalla nascita costituisca un’attenuante – non avendo l’imputato colpe per il tipo di educazione subìta – o un segnale della maggiore tendenza a delinquere e dell’esigenza di applicare una pena più
severa 35.
La digressione non è inutile, bene riassumendo il giudizio sulla concessione o sulla revoca di benefici al26
C. Valentini, Motivazione della pronuncia e controlli sul giudizio per le misure di prevenzione, Padova, 2008, pp. 94-95. Dello
stesso Autore e con interessanti richiami al procedimento preventivo e al controllo sugli errores in procedendo sull’acquisizione di
una prova, Chi ha paura dei custodi?, in Arch. pen., 2014, 3, passim.
27
Concetto, quello di discrezionalità, ben lontano dall’idea di arbitrio: tale è il potere conferito dal legislatore – chiamato a
dettare una regola generale e astratta – al giudice, di regolamentare il caso concreto, alla luce degli obiettivi fissati dalla norma:
in questo senso, V. Rispoli, L’affidamento in prova al servizio sociale, Milano, 2006, p. 202. In tema, con specifica attenzione alla discrezionalità nell’applicare misure alternative alla detenzione, N. Mazzacuva, A proposito della “interpretazione” creativa in materia
penale: nuova “garanzia” o rinnovata violazione dei principi fondamentali?, in E. Dolcini-C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, vol. II, p. 439.
28
Esemplare in tal senso, Cass., sez. I, 9 settembre 2014, n. 37271, inedita che, esprimendo la finalità rieducativa della misura,
ha rimarcato che la valutazione dell’opportunità di proseguire la prova deve tenere conto «della complessiva condotta del condannato e della adeguatezza della misura alternativa alle finalità rieducative».
29
Cfr. trib. sorv. Firenze, ord. 26 ottobre 2004, n. 4878, inedita che non revocava l’affidamento in prova nei confronti del
condannato che si era allontanato dalla propria abitazione nelle ore notturne, nonostante contraria prescrizione imposta con
l’ordinanza applicativa della misura.
30
Cass., sez. I, 3 marzo 1995, n. 1333, in Cass. pen., 1996, p. 1287.
31
Cass., sez. I, 9 giugno 2004, n. 37526, in Cass. pen., 2006, p. 516.
32
L. Degl’Innocenti-F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Milano, 2005, p. 61, in riferimento
a Cass., sez. I, 24 settembre 1996, n. 4717, in CED Cass., n. 206000, che prosegue: «non può pertanto dar luogo alla revoca l’emissione
di un provvedimento applicativo di misura cautelare relativo a fatti antecedenti a detta concessione».
33
Produce interessanti ricadute anche in punto di motivazione il già richiamato orientamento – maggioritario in giurisprudenza – per cui il giudice può considerare anche comportamenti posti in essere dopo che sia cessata la misura alternativa, ma
prima che sia formulato il giudizio sul relativo esito: v. R. Tucci, Riflessioni sulla natura dell’affidamento in prova ai servizi sociali a
seguito di una recente sentenza delle Sezioni Unite, in Rass. penitenziaria e criminol., 2003, p. 101.
34
Si veda l’analisi di C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005, p. 242, nota 68.
35
Non possono che richiamarsi le pagine di F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2007, p. XXIII ss. e p. 567 ss.
che individuano l’autore tra le tre componenti del diritto penale moderno, assieme a fatto e sanzione.
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ternativi al carcere, che può contemplare anche l’osservazione di episodi precedenti l’inizio della misura 36.
L’«assenza di ogni meccanicismo nel giudizio sulla revoca» 37 produce interessanti ripercussioni anche in
ambito di prove, di talché «il provvedimento [de quo] può fondarsi su qualsiasi elemento probatorio» 38: sarà,
poi, il giudice in motivazione a ricollegare puntualmente le risultanze istruttorie alla condotta addebitata all’affidato e al giudizio sull’opportunità di mantenere o meno la misura 39.
Richiamate queste premesse, e sulla scorta degli artt. 96 ss., d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 40, la sentenza che si annota indica un ulteriore profilo nell’adempimento all’obbligo motivazionale 41: dopo avere
optato per la revoca, il tribunale di sorveglianza deve esaminare il percorso svolto dall’affidato e rapportarlo al fatto che ha generato il venir meno della misura alternativa per valutare se e in che termini
la parte di prova compiuta possa essere scomputata dalla pena complessiva. Si tratta ancora di una fattispecie discrezionale, e la soluzione segue sempre l’ispirazione specialpreventiva e di rieducazione
dell’istituto: difatti, se la causa di revoca è capace di dimostrare un insanabile contrasto tra l’affidato e i
valori sottesi al reato, rivelandosi la misura inidonea al suo recupero, il periodo trascorso in affidamento viene congelato (c.d. “revoca ex tunc”); diversamente, in presenza di indici positivi durante l’esecuzione della misura, di essi il giudice dovrà rendere conto in motivazione, così da scomputare il periodo
svolto presso i servizi sociali, o parte di esso, dalla pena complessiva (c.d. “revoca ex nunc”) 42. Quest’ultima è, dunque, una strada intermedia tra il mantenimento del beneficio e la paralisi tout court dello
stesso con immediato ritorno in carcere del condannato: il tribunale di sorveglianza sceglierà di percorrerla allorquando ritenga indispensabile solo un’integrazione carceraria, convinto – sulla scorta di specifici elementi esplicitati nella parte motiva – di un parziale recupero del reo e di possibili suoi ulteriori
miglioramenti futuri 43.
UNO SGUARDO ALL’ESTERO
Appare senz’altro opportuno un richiamo alla tradizione di diritto straniero che, prima dell’Italia,
aveva ideato strumenti di deflazione carceraria per la piccola criminalità atti a sostituire la pena detentiva con quella del lavoro socialmente utile. Gli spunti in tema di finalità rieducativa dell’affidamento
36
Vedasi però Cass., sez. I, 1 ottobre 2004, n. 41304, inedita, che afferma essere illegittima la revoca dell’affidamento in prova
in ragione di condotte antecedenti alla sottoscrizione del verbale di accettazione delle prescrizioni.
37
Bella l’espressione di S. Pietralunga, L’affidamento in prova al servizio sociale, Padova, 1990, p. 160.
38
Come ricordano M. D’Onofrio-M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Milano, 2004, p. 551.
39
In tema di motivazione, che dev’essere molto puntuale e approfondita, già Cass., sez. I, 13 gennaio 1999, n. 320, in CED Cass.,
n. 212712.
40
Per un excursus sul mutamento di fisionomia dell’istituto dalle origini agli albori del nuovo millennio, M. Tirelli, Colletti
bianchi e affidamento in prova: verso una nuova concezione?, in Questioni giustizia, 2000, p. 188.
41
Contra F. Giunta, Attenuazione del custodialismo carcerario e tutela della collettività: note sulla recente riforma penitenziaria, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1988, p. 600 per cui il meccanismo di scomputo ripreso dalla sentenza che si annota rischia «di svalutare l’efficacia
dissuasiva della revoca e con essa sia l’idoneità specialpreventiva, sia la tenuta generalpreventiva … dell’istituto».
42
Di particolare pregnanza sarà l’obbligo motivazionale allorquando i giudici decidano che una prova, giunta al suo termine, non ha dato esito positivo: in tale circostanza, essi dovranno motivare la revoca, individuando il periodo trascorso “utilmente” presso i servizi sociali e calcolare il quantum residuo di pena detentiva: ciò accadrà, ad esempio, per comportamenti del condannato, cessata la misura alternativa ma prima che sia formulato in giudizio sul relativo esito, come specificato da Cass., sez.
un., 13 marzo 2002, in Dir. pen. proc., 2002, p. 1225 ss.
43
Già M.G. Pellerino, Revoca dell’affidamento in prova e deducibilità della pena del periodo trascorso in affidamento, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1983, p. 334 rilevava, in caso di revoca ex nunc, l’impossibilità di un’equiparazione tra affidamento in prova e detenzione, sperando, de iure condendo, nella creazione di meccanismi di conversione predeterminati. La formulazione dell’art. 98,
comma 7, d.p.r. n. 230 del 2000 esclude rigide operazioni matematiche, e ciò nella più che condivisibile idea di «un sistema duttile
di sanzioni positive e negative» (F. Della Casa, La crisi di identità delle misure alternative, tra sbandamenti legislativi, esperimenti di diritto pretorio e irrisolte carenze organizzative, in Cass. pen., 2002, p. 3283) che seguono i progressi e regressi del condannato in senso
rieducativo: così, F. Fiorentin, Misure alternative alla detenzione, Torino, 2012, p. 224.
Sull’idea, tutt’altro che unanime in dottrina, che l’affidamento in prova debba comunque avere durata maggiore della pena
detentiva, giacché misura meno afflittiva e nell’ottica di garantirne la funzione generalpreventiva, v. R. Bartoli, L’affidamento in
prova al servizio sociale, cit., p. 1238: la tesi appare contestabile sotto il profilo della finalità rieducativa dell’affidamento in prova,
e smentita dall’art. 3, l. 19 dicembre 2002, n. 277 che ammetteva la liberazione anticipata anche per l’affidato ai servizi sociali, in
presenza di «un concreto recupero sociale desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità».
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in prova, inducono a soffermarsi, per linee di sintesi, al sursis avec mise à l’épreuve francese 44 e al probation anglo-americano.
Introdotto nel 1958 e previsto dall’art. 132-40 del code pénal, il sursis avec mise à l’épreuve (o sursis probatoire) è «prononcé par une jurisdiction lorsqu’elle veut imposer des conditions particulières à la personne condamnée» 45 ad una pena non superiore a cinque anni di carcere o, a partire dalla loi 12 dicembre 2005, n. 1549, a dieci in caso di récidive légale 46; una particolare versione è il sursis avec travail d’intérêt
général, che impone «l’obligation d’accomplir un travail d’intérêt général» (art. 132-54, code pénal), oltre
agli obblighi e ai controlli tipici della mise à l’épreuve. Non è mancato chi, nella dottrina nostrana, ha descritto il sursis probatoire come «possibilità di azioni di sostegno e di controllo nella sospensione condizionale» 47,
riservando, invece, il lavoro di pubblica utilità alle sole ipotesi di travail d’intérêt général specificamente
previste dal juge de l’application des peines.
La revoca è disciplinata in parte dal codice penale, in parte da quello di rito: gli artt. 132-47 ss. del
code pénal la permettono in caso di infrazione commessa «au cours du délai d’épreuve», ma mai «avant
que la condamnation du sursis ait acquis un caractère définitif» (art. 132-48, par. 1, code pénal). La dimissione dal beneficio, prevista con ordinanza motivata, può essere totale o parziale, disponendo in
quest’ultimo caso il ritorno del condannato in carcere per un periodo deciso dal giudice. Si tratta comunque di un’extrema ratio: in caso di violazione degli obblighi e di infrazione delle misure di controllo
applicate all’affidato, il giudice può stabilire se prolungare la prova – ma «ce délai ne peut au total être
supérieur à trois années» (art. 743, code de procédure pénale) – o revocare il beneficio (art. 742, par. 1, code
de procédure pénale). Salta, quindi, agli occhi la puntualità delle regole su obblighi e controlli derivanti
dalla misura (artt. 132-44 e 132-45, code pénal) a fronte dell’amplissima discrezionalità offerta al giudicante, libero di decidere le sorti del condannato in caso di sua infrazione 48.
Passando al diritto anglo-americano, «l’introduzione, nel nostro come in molti altri ordinamenti, europei
ed extraeuropei, di misure – alternative alla detenzione – genericamente definibili di “prova controllata” (o probation) trae origine, com’è noto, dalle congiunte crisi della pena e delle misure clemenziali, rivelatesi inadeguate,
la prima a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde a promuovere
manifestazioni di emenda» 49. Introdotto negli Stati Uniti dapprima per i minori con il Massachusetts Probation Act (1878) ed esteso, entro gli anni Cinquanta in tutta la federazione, anche per gli adulti, si rammentano alcune pronunce della Corte Suprema per ciò che riguarda la revoca: in Mempa vs. Rhay (1967)
i giudici richiamavano la due process clause, stabilendo che «the Sixth Amendment … requires that
counsel be afforded to a felony defendant in a post-trial proceeding for revocation of his probation and
imposition of deferred sentencing» 50; in Gagnon vs. Scarpelli (1973) era definita necessaria la presenza
del difensore nel giudizio di revoca 51. Espressione della discrezionalità del giudice, nel sistema ormai
consolidato in tutta la federazione statunitense, la revoca è pronunciata in un’udienza successiva ad al44
Si tratta della prima «des peines alternatives» in Francia, oggi, come già dieci anni fa: v. Rapport d’enquête du juillet 2000, La
France face à ses prison, a cura dell’Assemblée Nationale, ma più recentemente la relazione Sursis avec mise à l’épreuve: la peine
méconnue a cura di S. Dido, Direction de l’administration pénitentiaire/bureau PMJ1, maggio 2011. In entrambi gli studi si quantifica
attorno al 75% il dato degli affidamenti in prova sul totale delle misure sostitutive (o, secondo la corretta accezione, di mesures
suivies en milieu ouvert).
45
Altrimenti definito come «suspension de l’exécution d’une peine d’emprisonnement sous condition de respecter un certain nombre
d’obligations»: v. M. Herzog-Evans, Droit de l’exécution des peines, Paris, 2011, p. 402. Per un quadro più risalente, ma successivo
alle riforme degli anni Settanta (loi 17 luglio 1970, n. 643 e loi 11 luglio 1975), che hanno gettato le basi per l’odierna fisionomia
dell’istituto, J. Pradel, Droit Pénal. Introduction général, t. 1, Parigi, 1981, p. 633 ss.
46
A. Beziz-Ayache-D. Boesel, Droit de l’exécution de la sanction pénale, Rueil-Malmaison, 2010, p. 82.
47
M. Canepa-S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali, Milano, 2010, p. 247.
48
All’indomani delle novelle del 1970 e del 1975, in ragione della finalità del sursis di misura sostitutiva della detenzione, ritengono che, disposta la revoca, il ritorno in carcere sia non una sanzione, ma il ripristino della pena originaria A.L. VergineC.E. Paliero, La revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale: profili di diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, p. 225 ss.
49
Sempre C. cost., sent., 15 ottobre 1987, n. 343, cit., richiamata dalla pronuncia che si annota.
50
U.S. Supreme Court, 13 novembre 1967, Mempa c. Rhay.
51
U.S. Supreme Court, 14 maggio 1973, Gagnon c. Scarpelli: «both the probationer or parolee and the State have interests in
the accurate finding of fact and the informed use of discretion: the probationer or parolee to insure that his liberty is not unjustifiably taken away and the State to make certain that it is neither unnecessarily interrupting a successful effort at rehabilitation
nor imprudently prejudicing the safety of the community».
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tra nella quale si discute, alla presenza del difensore, la condotta dell’affidato, idonea, secondo l’accusa,
a dimetterlo dal beneficio e a farlo, quindi, rientrare in carcere 52.
Esperienza similare è quella inglese, inaugurata con il Probation of Offenders Act del 1907, e approdata oggi ad una concezione riassumibile nel quadrinomio «control, monitoring, surveillance and discipline» 53. Anche in Gran Bretagna l’esecuzione e la revoca della misura sono rimessi alla discrezionalità del giudice, vincolato a criteri di gravità del fatto e di personalità del reo, puntualmente descritti nel Criminal Justice Act del 1991: a seconda delle circostanze può imporsi al condannato il risarcimento del danno, la prestazione di attività lavorativa non retribuita, il controllo dei servizi sociali o
altre misure comunque idonee ad evitare il ripetersi del reato, come il divieto di guidare. La revoca
del beneficio e la sostituzione della misura con altre più severe segue all’infrazione degli ordini connaturati al probation 54.
La veloce ricognizione su sistemi vicini al nostro permette di sottolineare l’assenza di rigidi meccanismi nell’applicazione e nella revoca della misura alternativa, salvo rimettere, poi, al giudice, in
quest’ultimo caso, la decisione sul destino del condannato, se, come nel caso francese, prolungare il periodo di affidamento o, sul modello inglese, sostituire le prescrizioni iniziali con altre più severe, oppure farlo tornare in carcere, magari – ipotesi non esclusa in alcuno dei tre sistemi qui accennati – per tutta
l’originaria durata della pena.
UNIVERSI CONTIGUI
Considerando di nuovo il sistema interno, è utile un richiamo alla nuova messa alla prova per adulti e
al lavoro di pubblica utilità ex art. 54, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
La prima è un’«alternativa al processo» 55 e non alla pena, l’altra è una sanzione in origine tipica del
giudice di pace 56, estesa, poi, al tribunale nei casi previsti dal codice della strada e dalla normativa sugli
stupefacenti. La natura degli istituti è ovviamente diversa, e differenti sono le problematiche ad essi
connesse; punto in comune è la prestazione di pubblica utilità: si tratta ora di affrontare i nodi della revoca della misura e delle successive ricadute sanzionatorie.
L’art. 168 quater c.p. prevede la revoca della messa alla prova, oltre che per rifiuto della prestazione
socialmente utile 57 e per delitti non colposi o per reati della stessa indole di quello per cui si procede 58,
per trasgressione grave o reiterata del programma di trattamento 59; la disgiuntiva indica che basta una
sola violazione, se grave, occorrendone più di una, se lievi. Il giudizio sull’entità dell’inadempienza è
rimesso alla discrezionalità del giudice 60.
In punto di detrazione del presofferto, la l. 28 aprile 2014, n. 67 lascia dei dubbi interpretativi: in caso
52
S. Ciappi-A. Coluccia, Giustizia criminale: retribuzione, riabilitazione e riparazione. Modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, 1997, p. 82, nota 24. In tema, pure F. Fiorentin, Misure alternative alla detenzione, cit., p. 75.
53
D. Ronco, Le evoluzioni del sistema di probation inglese tra controllo e assistenza: il ruolo della formazione dei probation officers,
in M. Verga (a cura di), Quinto seminario nazionale di sociologia del diritto, Messina, 2009, p. 55.
54
A.M. van Kalmthout-J. Derks, Probation and Probation Services – A European Perspecitve, Netherlands, 2000.
55
Secondo la definizione in N. Triggiani, Dal probation minorile alla messa alla prova per gli imputati adulti, in N. Triggiani (a
cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla prova per adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Torino, 2014, p. 14. Sul punto, R.
De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Questioni giustizia, 2013, n. 6, p. 11 parla di «rivoluzione culturale [che]
libera la giustizia penale per adulti dalla “logica binaria reato-pena”».
56
Per cui si rimanda a I. Leoncini, L’obbligo di permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità, in A. Scalfati (a cura di), Il
giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001, p. 401 ss.
57
Trattandosi di «opposizione tout court al lavoro» o anche di un’«opposizione reiterata e ingiustificata alle legittime richieste del datore di lavoro»: amplius, G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati, in Arch. pen., 2015, 1, p. 30.
58
R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen.
proc., 2014, p. 671 sostiene che, per integrare la causa di revoca, occorra almeno il rinvio a giudizio per il nuovo reato. Contra, F.
Fiorentin, Revoca discrezionale per chi viola il programma, in Guida dir., 2014, n. 21, p. 85 per cui basta la notitia criminis.
59
Nel procedimento minorile la regola è diversa, occorrendo «ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte» (art. 28,
comma 5, d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448), «che devono avere quindi una certa consistenza e significatività nel percorso evolutivo della
prova»; altrimenti detto, la prova dell’infradiciottenne è revocata al verificarsi di ambo i requisiti delle trasgressioni: la reiterazione e la gravità. In tema, M. Colamussi-A. Mestitz, in Dig. pen., Torino, 2010, p. 578.
60
F. Fiorentin, Revoca discrezionale per chi viola il programma, cit., p. 83.
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di revoca, il nuovo art. 657 bis c.p.p. 61 impone al magistrato lo scomputo del periodo di prova svolto
dalla pena complessiva, considerando tre giorni di lavori equivalenti ad uno di detenzione o a 250 euro
di multa o ammenda.
Il problema va affrontato da un’angolazione necessariamente diversa da quella dell’affidamento ai
servizi sociali; l’imputato al quale è revocata la messa alla prova può essere prosciolto, mentre l’art. 657
bis c.p.p. non chiarisce che cosa accade nell’ipotesi, pure possibile, in cui, essendo fallita la prova,
l’imputato non viene condannato: alcuni ipotizzano che la prestazione resa debba essere assoggettata
alle conseguenze civilistiche prescritte dagli artt. 2033, ss. cc., essendo, appunto, indebita 62.
Già durante le indagini conoscitive sui disegni tradotti nella l. n. 67 del 2014 non è mancato chi 63 ha
espresso perplessità circa il rigido meccanismo di scomputo trasfuso nell’art. 657 bis c.p.p.: offrire al
giudice una discrezionalità non dissimile, nelle sue linee di fondo, a quella prevista in tema di affidamento ai servizi sociali, e sui cui si esprime la sentenza in nota, sarebbe stata una soluzione accettabile.
Il timore, infatti, è che l’attuale normativa offra al trasgressore la possibilità di lucrare su un periodo di
prova più o meno lungo – e sulle conseguenti positive ricadute sulla pena – anche in caso di condotte
difformi dal programma di trattamento 64.
Passando ai lavori ex art. 54, d.lgs. n. 274 del 2000, una recente sentenza è esemplare: «il giudice dell’esecuzione non può limitarsi a prendere atto dell’intervenuta inadempienza da parte di colui che sia stato ammesso
ai lavori di pubblica utilità, ma deve valutare il grado di collaborazione prestato dal condannato per soddisfare
l’obbligo inerente alla prestazione sostitutiva» 65, così da scomputare il presofferto, anche avvalendosi dei
criteri di ragguaglio dell’art. 58, d.lgs. n. 274 del 2000 66.
La conclusione è da ultimo confermata dall’art. 56, d.lgs. n. 274 del 2000 che, rappresentando una
fattispecie delittuosa di inottemperanza agli obblighi derivanti dalla misura, fa comunque salvo il computo dei lavori già svolti dal condannato: diversamente – sostiene la Corte – «si verrebbero a configurare
due livelli di sanzione, per una sola violazione» 67.
La somiglianza con l’affidamento ai servizi sociali, poi, non consente equivoci cui può dar luogo la
messa alla prova 68: la misura ex art. 54, d.lgs. n. 274/2000 interviene a condanna già pronunciata, non
potendosi verificare il caso di taluno che, svolta la prestazione socialmente utile, venga prosciolto. Il solo punctum dolens concerne, ad ammetterli 69, i lavori di pubblica utilità ex artt. 186, comma 9 bis, e 187,
comma 8 bis, c. str. ante iudicatum: «quid iuris del lavoro prestato (a quel punto) sine titulo?» 70. Senza andare troppo lontano dal richiamo agli artt. 2033 ss. cc. evocato per la messa alla prova, de iure condendo
la soluzione potrebbe risiedere nel calcolo dell’ingiustizia secondo la logica del presofferto, riconoscendo una sorta di riparazione ex art. 314 c.p.p. anche a colui che, condannato in via non definitiva, abbia
61
Amplius, F. Nevoli, in La sospensione del procedimento e la decisione “sulla prova”, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., p. 163 ss.
62
Così, F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2013, p. 1302.
63
A. Busacca, Indagine conoscitiva nell’ambito del disegno di legge C5019 Governo recante la delega al Governo in materia di depenalizzazione, pene detentive non carcerarie, sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili del 21 giugno
2012, disponibile sul sito www.senato.it.
64
Sul punto, R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, nella Relazione
dell’Ufficio del Massimario della Cassazione sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei
confronti degli irreperibili introdotte dalla legge n. 67/2014, p. 29: «per prevenire il rischio di scomputi irragionevoli, conviene che le distanze tra violazioni rilevanti e provvedimenti di revoca siano accorciate, attraverso una scansione ravvicinata delle relazioni rimesse all’ufficio
dell’esecuzione penale dal nuovo art. 141-ter disp. att. cod. proc. pen. (la norma prevede una frequenza minima trimestrale, incrementabile
per disposizione del giudice) e la rapida fissazione dell’udienza diretta alla revoca anticipata dopo l’acquisizione dell’informazione negativa».
65
Cass., sez. I, 10 ottobre 2014, n. 42522, inedita.
66
Sul punto, anche D. Vigoni, Relatività del giudicato ed esecuzione della pena detentiva, Milano, 2009, p. 144 ss.
67
Sempre Cass., sez. I, 10 ottobre 2014, cit.; ancora in punto di obbligo motivazionale per la revoca dei lavori ex art. 54, d.lgs.
274 del 2000, Cass., sez. I, 29 gennaio 2014, n. 19964, inedita.
68
Rimanendo essa una sorta di «affidamento al servizio sociale antecedente all’attribuzione di responsabilità effettuata dalla sentenza»N. Triggiani, Dal probation minorile, cit., p. 14.
69
Sull’attualità del tema, D. Potetti, Il lavoro di pubblica utilità nei commi 9-bis e 8-bis degli artt. 186 e 187 c. str., in Cass. pen.,
2012, p. 1084.
70
M. D’Agnolo, I lavori di pubblica utilità: un fenomeno non (sempre) di chiara adozione, in questa rivista, 2013, 2, p. 98, nota 61.
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intrapreso la prestazione, subendo poi l’annullamento della pronuncia irrogativa dei lavori di pubblica
utilità nel giudizio di appello o di cassazione.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Non può ritenersi che «il vizio di motivazione dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza non possa essere denunciato in Cassazione» 71, e ciò perché quello conferito al giudice è un potere discrezionale, e non un mero arbitrio. Il legislatore ha individuato nel recupero del condannato il parametro al quale il tribunale di
sorveglianza assicura ogni decisione sulla probation penitenziaria 72. Riflesso ineludibile di una simile
potestà è la parte motiva del provvedimento del giudicante, laddove questi vaglia la fisionomia del
condannato, la collaborazione con le strutture che lo hanno ospitato e il grado di inadempienza determinante la revoca del beneficio.
L’esame dell’affidato deve essere generale, involgendo «qualsiasi elemento fattuale seriamente sintomatico del mancato raggiungimento delle finalità cui è destinata la misura: anche fatti storicamente successivi al perimetro temporale della prova che si palesano tuttavia in grado di illuminare retrospettivamente il percorso rieducativo del condannato ai fini del reinserimento sociale e dell’auspicata prognosi di non recidivanza» 73. Imporre al
giudice di non considerare ciò che è seguito al termine finale della prova significherebbe vanificare il
senso stesso della misura: il mantenimento di condotte negative in quel frangente ben potrebbe essere
un indice del mancato recupero del condannato.
Sotto altro profilo, è cosa nota che «la legge demanda al magistrato di sorveglianza un permanente controllo
sulla perdurante sussistenza delle condizioni che legittimano l’esecuzione della misura disposta» 74: all’uopo, egli
acquisisce ogni elemento utile a «vigilare, attraverso reiterate verifiche, sull’an, il quantum, il quomodo ed il
quando dell’esecuzione della pena e delle altre misure afflittive, nonché sulla concessione, sulla revoca o la cessazione
delle misure alternative alla detenzione», in un’istruttoria «pressoché difforme rispetto al modello processuale ordinario» che sfugge al principio della domanda e a quello dispositivo tipici del sistema accusatorio 75.
Fa da contraltare ad una potestà così delineata l’obbligo di motivazione, dovendo il tribunale esplicitare
l’iter logico che lo ha portato a concludere, nel caso di specie, per la revoca della misura, a partire dagli elementi acquisiti sull’incompiuto recupero del condannato. In tal modo, la decisione risulta individualizzata,
e la dimissione dal beneficio appare come una risposta calibrata alla specifica situazione dell’affidato.
Si tratta di un approdo ormai consolidato negli ordinamenti stranieri più vicini, laddove il giudice è
libero di decidere sulla prosecuzione della misura alternativa o sul rientro del condannato in carcere e,
in quest’ultimo caso, il calcolo del residuo di pena detentiva da scontare.
Lo schema, in sé semplice, si ripete per quegli istituti che offrono un’alternativa al carcere, permettendo il reinserimento attraverso una prestazione socialmente utile; unica pecca, per la messa alla prova, sta nell’art. 657 bis c.p.p. che attribuisce al tribunale il potere di verifica aritmetica sul lavoro svolto;
de iure condendo, si auspica un intervento legislativo che cancelli gli inflessibili criteri di equivalenza imposti dalla norma, consegnando, anche in quest’ambito, al giudice la valutazione su quanto di realmente positivo vi sia stato nella prova poi fallita 76.
71
A. Pulvirenti, Il controllo giurisdizionale sul trattamento penitenziario del detenuto, in L. Kalb (a cura di), Esecuzione e rapporti
con autorità giurisdizionali straniere, VI (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 334.
72
L’espressione, ormai di uso comune, è bene spiegata da M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova e attivazione
del rito, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, p. 370, che distingue tra probation processuale e probation penitenziaria, riconducendo al primo l’affidamento ai servizi sociali e al secondo la messa alla prova.
73
Ancora, Cass., sez. un., 27 febbraio 2002, n. 5, cit.
74
Cass., sez. I, 6 luglio 1995, 1877, in Cass. pen., 1996, p. 1877.
75
B. Bocchini, L’accertamento della pericolosità, in A. Gaito (a cura di), La prova penale, Torino, 2006, p. 586, che prosegue: «il
giudice della sorveglianza può procedere ex officio alla richiesta di tutti gli elementi utili ai fini della decisione nonché attraverso l’ausilio
delle autorità competenti, acquisire documenti, informazioni, o procedere all’assunzione di prove (artt. 678, 1° co., 665, 5° co., c.p.p.)».
76
Anche perché, sotto tutt’altro profilo, «il generico riferimento alla “prova eseguita”» nell’art. 657 c.p.p. «fa sì che possa considerarsi l’intero intervallo temporale compreso tra la sottoscrizione del verbale di messa alla prova da parte dell’imputato e la data in cui diviene
definitiva l’ordinanza di revoca, poiché è da quest’ultimo momento che cessa l’esecuzione di obblighi e prescrizioni. È prevedibile che nella
prassi si assisterà alla proposizione in forma massiccia di impugnazioni avverso le ordinanza di revoca al fine esclusivo di “lucrare presofferto”»: così, F. Nevoli, La sospensione del procedimento, cit., p. 169.
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“Carcere duro” e recupero del colloquio mensile perso
CORTE DI
VALLO
CASSAZIONE, SEZIONE I, SENTENZA 17 SETTEMBRE 2014, N. 38073 – PRES. VECCHIO; REL. CA-
In assenza di specifiche disposizioni ministeriali, anche per i detenuti sottoposti al regime speciale ex art. 41-bis
Ord. penit. valgono le regole generali previste dall’ordinamento penitenziario non oggetto di sospensione. Conseguentemente, ove non espletato il colloquio mensile di un’ora con i familiari, qualora questi siano residenti in un
comune diverso da quello in cui ha sede l’istituto, deve essere riconosciuta a tali detenuti, ai sensi dell’art. 37,
comma 10, D.P.R. n. 230 del 2000, la possibilità di fruire, in sostituzione, di un colloquio prolungato sino a due ore.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. G.G., detenuto nella Casa circondariale di Cuneo e sottoposto al regime speciale di cui all’art. 41bis Ord. Penit., proponeva reclamo al Magistrato di sorveglianza di Cuneo avverso la disposizione impartita dalla direzione di quell’istituto che escludeva per i detenuti nei cui confronti era stata disposta
la sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, la possibilità di fruire, in sostituzione
del colloquio mensile di un’ora con i familiari, ove non espletato, di un colloquio prolungato sino a due
ore, D.P.R. n. 230 del 2000, ex art. 37, comma 10, qualora i familiari siano residenti in un comune diverso
da quello in cui ha sede l’istituto.
2. Il Magistrato di sorveglianza adito, rigettava il reclamo con ordinanza deliberata il 18 novembre
2013, ritenendo, in estrema sintesi, che nella specie non sussistevano quelle “eccezionali circostanze”
che sole consentivano la possibilità per un detenuto sottoposto a regime differenziato di poter fruire,
D.P.R. n. 230 del 2000, ex art. 37, comma 10, di un colloquio “compensativo” di maggior durata (due
ore).
3. Avverso l’indicata ordinanza ha proposto impugnazione il V. chiedendone, anche attraverso memorie integrative, l’annullamento, evidenziando: per un verso, che già altro Magistrato di sorveglianza
ha riconosciuto anche per i detenuti sottoposti a regime differenziato la possibilità di fruire, in sostituzione del colloquio mensile di un ora con i familiari, ove non espletato, di un colloquio prolungato sino
a due ore, D.P.R. n. 230 del 2000, ex art. 37 comma 10, qualora i familiari siano residenti in un comune
diverso da quello in cui ha sede l’istituto, sicché negare tale possibilità realizzerebbe una illegittima disparità di trattamento; per altro verso, che la tesi dell’applicabilità del D.P.R. n. 230 del 2000, art. 37
comma 10, solo in caso di “eccezionali circostanze” doveva ritenersi illogica e contraddittoria.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria ha chiesto l’annullamento
dell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dal G. è fondato per le ragioni e nei limiti di seguito precisati.
1.1. Al riguardo va anzitutto precisato che sulla specifica questione oggetto del presente giudizio
(assoluta e generale impossibilità per un detenuto nei cui confronti risultano sospese le normali regole
di trattamento dei detenuti ed internati di fruire ex art. 35 Ord. Penit. – in alternativa al colloquio mensile di un’ora coi familiari, non svolto – di un colloquio prolungato sino a due ore, D.P.R. n. 230 del 2000,
ex art. 37 comma 10, qualora i familiari siano residenti in un comune diverso da quello in cui ha sede
l’istituto) questa Corte, di recente, ha già avuto occasione di pronunciarsi, riconoscendo l’applicabilità
del disposto normativo di cui al D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 37 comma 10, anche ai detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis Ord. Penit. (in tal senso, Sez. 1, 24 giugno 2013, ProAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | “CARCERE DURO” E COLLOQUIO MENSILE PERSO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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curatore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia in proc. Mandala; Sez. 1, n. 49726 del
26/11/2013 – dep. 10/12/2013, Ministero Della Giustizia in proc. Catello, Rv. 258421).
Orbene da tale decisione questo Collegio, condividendola pienamente, ritiene di non doversi discostare.
1.3. Ed invero il principale se non esclusivo argomento addotto dal giudice di merito per rigettare la
richiesta del detenuto, si risolve sostanzialmente nell’assunto che la definizione dei contenuti dello speciale regime carcerario ex art. 41 bis Ord. Penit. risulterebbe demandata in toto alla competenza ministeriale da una regolamentazione di rango primario, che si sovrapporrebbe a quella ordinaria vigente in
materia di colloqui, derogandovi espressamente, con la conseguenza che il prolungamento a due ore
della durata del colloquio, previsto dal D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 37 comma 10, sarebbe sì applicabile ai detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis Ord. Penit. ma solo in presenza di “eccezionali circostanze” e non anche in caso di mancato svolgimento del colloquio con i familiari.
1.4. Tale tesi, però, non può trovare accoglimento, basandosi su delle argomentazioni astratte che
non trovano effettiva e logica giustificazione nell’esegesi del novellato art. 41 bis Ord. Penit.
1.4.1. Al riguardo va infatti osservato, in primo luogo, che se è pur vero che l’art. 41 bis Ord. Penit.
attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di sospendere – si badi “in tutto o in parte” –
l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti ed internati, in correlazione con una
“pericolosità qualificata” degli stessi, sta di fatto, però, che tale norma – che già la Corte Costituzionale,
nella sentenza 28 luglio 1993 n. 349, ebbe a definire di “non felice formulazione” – non risulta affatto
“demandare in toto alla competenza ministeriale” i contenuti del trattamento applicabile ai detenuti
portatori di una “pericolosità qualificata”, ne’ ha dettato una regolamentazione “speciale” dell’istituto,
che si sovrapponga totalmente a quella ordinaria.
1.4.2. Al contrario, come correttamente osservato in dottrina, “la novella legislativa sull’art. 41– bis
reca il merito di avere posto chiarezza in ordine alla stabilità nel sistema di un istituto considerato figlio
dell’emergenza, ma sempre più diffuso nell’applicazione”, provvedendo, nel contempo, “a dare certezza regolando i contenuti del regime, la cui definizione, per troppo tempo, era stata rimessa interamente,
ed “in bianco”, all’autorità amministrativa”.
1.4.3. Il contenuto del “regime detentivo speciale”, pertanto, come a ragione osservato in dottrina, risulta regolato dalla legge con previsioni operanti su un doppio livello.
Un primo livello, per così dire “generale”, caratterizzato dalla regola della proporzionalità, in virtù
della quale sono ammesse solo restrizioni al regime ordinario che siano necessarie agli scopi di prevenzione cui la misura è finalizzata. Il secondo livello di regole, invece, indica i contenuti del regime, e per
quanto attiene la materia dei colloqui, che in questa sede specificamente interessa: ne stabilisce il numero (uno al mese); le modalità, da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati, in modo
da impedire il passaggio di oggetti, vietando, nel contempo, i colloqui con persone diverse dai familiari
e conviventi, salvo casi eccezionali determinati volta per volta dal direttore dell’istituto ovvero, per gli
imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente.
La norma, prevede altresì, che i colloqui vengono sottoposti a controllo auditivo ed a registrazione,
previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente; solo per coloro che non effettuano
colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto ovvero, per gli
imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente, e solo
dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della
durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione. I colloqui sono comunque videoregistrati. Queste limitazioni, per altro, non si applicano ai colloqui con i difensori, per i quali la
norma prevedeva invece specifiche limitazioni, ritenute per altro costituzionalmente illegittime dalla
Consulta, con sentenza 20 giugno 2013 n 143.
1.5. Ciò posto, evidenziato che l’art. 41 bis Ord. Penit., nulla stabilisce sulla durata massima del colloquio e che il parametro di riferimento della norma è comunque rappresentato dalle “normali regole
di trattamento dei detenuti”, deve allora senz’altro condividersi il principio di diritto che è a base della
precedente decisione di questa Corte in argomento, secondo cui l’ampiezza della previsione normativa
in materia di colloqui è tale da indurre a ritenere “che ulteriori limitazioni, al di là di quelle previste,
non siano possibili, salvo che derivino da un’assoluta incompatibilità della norma ordinamentale – di
volta in volta considerata – con i contenuti normativi tipici del regime differenziato”.
Meglio definendo tale principio, questo Collegio ritiene allora possa affermarsi, in buona sostanza,
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | “CARCERE DURO” E RECUPERO DEL COLLOQUIO MENSILE PERSO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
77
che in assenza di specifiche previsioni contenute nel decreto ministeriale, anche per il detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis Ord. Penit., possono trovare applicazione le norme dell’ordinamento
penitenziario non oggetto di sospensione.
1.6. Il provvedimento impugnato, per altro, va annullato, per la decisiva considerazione che la richiesta del detenuto, per quanto si ricava dalla motivazione del provvedimento impugnato, non risulta
rigettata per contingenti ragioni di sicurezza interna ed esterna, ma sul presupposto di una pretesa incompatibilità tra le disposizioni dell’ordinamento penitenziario che prevedono, in determinati casi, una
possibilità di proroga della durata massima del colloquio con le disposizioni “speciali” previste dall’art.
41 bis Ord. Penit., in tema di colloqui.
1.7. Sul punto, premesso che il D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 37 comma 10 prevede – in via generale e per tutti i detenuti – due ipotesi di “ampliamento” della durata del colloquio, la prima correlata a
“eccezionali circostanze” da valutarsi, dunque, caso per caso, la seconda correlata a due condizioni
obiettive rappresentate dalla extraterritorialità del luogo di detenzione rispetto a quello di residenza dei
congiunti, unita alla circostanza della mancata fruizione del colloquio nella “settimana precedente” e
sempre che le esigenze e l’organizzazione dell’istituto lo consentano, va infatti qui ribadita la validità di
quanto affermato da questa Corte nelle sue precedenti decisioni in argomento, nel senso che, “è evidente che mentre la prima previsione (circostanze eccezionali) non può dirsi in alcun modo in contrasto
con le previsioni normative caratterizzanti il regime differenziato (e risulta dunque sempre applicabile,
ferma restando la valutazione della eccezionalità del caso) la seconda previsione va “adattata” alle caratteristiche ontologiche della detenzione “conformata” ai sensi dell’art. 41 bis ord. penit. In particolare,
ricorrendo tendenzialmente in modo stabile il presupposto della extraterritorialità (data l’allocazione
dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis), è evidente che l’interpretazione dei secondo presupposto
(mancanza di colloquio nella settimana precedente) non può essere riferita a tale particolare “categoria”
di detenuti, essendo per definizione assente il colloquio settimanale, sostituito da quello mensile. Detta
parte della norma potrà dunque – secondo un criterio interpretativo logico – sistematico – trovare applicazione lì dove il detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. penit. non abbia
effettuato il previsto colloquio nel “mese” antecedente. 2. In conclusione, esclusa l’esistenza di un divieto assoluto, per i detenuti nei cui confronti sia stata disposta che la sospensione delle normali regole di
trattamento, di fruire in alternativa al colloquio mensile di un’ora coi familiari, si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Magistrato di sorveglianza di Cuneo che procederà al nuovo
esame dell’istanza di prolungamento del colloquio, uniformandosi ai principi sin qui esposti e verificando l’esistenza in concreto dei due presupposti indicati (extraterritorialità del luogo di detenzione rispetto a quello di residenza dei congiunti; mancata effettuazione del colloquio nel “mese” antecedente
la richiesta).
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | “CARCERE DURO” E RECUPERO DEL COLLOQUIO MENSILE PERSO
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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CLAUDIO LARA
Avvocato – Foro di Viterbo
Prime aperture nel regime di rigore: il prolungamento del colloquio mensile per il detenuto ex art. 41 bis ord. penit.
First openings in the penalty regime: the extension of the interview
monthly for held art. 41 bis ord. penit.
Dando seguito all’orientamento esegetico recentemente emerso nella giurisprudenza di legittimità, la Corte di
cassazione, con la pronuncia in commento, prosegue nell’opera di “ammorbidimento” del regime detentivo speciale previsto dall’art. 41 bis Ord. penit. Si statuisce, così, che in mancanza di diversa disciplina ministeriale, non
possono che valere anche per il sottoposto al regime detentivo differenziato le ordinarie regole trattamentali, non
fatte oggetto di puntuale sospensione. Fra le stesse quella che permette il recupero dell’ora di colloquio familiare
persa nella mensilità successiva, in continuità col disposto dell’art. 37, comma 10, del d.p.r. 30 giugno 2000, n.
230. Si cerca, così, di preservare, nei limiti delle condizioni di afflizione, le relazioni familiari ed il legame col mondo
degli affetti.
Following the exegetical orientation recently emerged, the Supreme Court continues the work of “softening” of
the special prison regime ex art. 41 bis Ord. penit. So, it states that in the absence of a different ministerial discipline, the ordinary rules of imprisonment can be applied. Among these, the one that allows the recovery of the
interview with family members lost in the next month, according to art. 37, paragraph 10 d.p.r. 30 june 2000, n.
230. It is thus preserved, within the limits of imprisonment, the link with family and affections.
IL CASO
Torna all’attenzione della magistratura di sorveglianza la vexata quaestio circa la sospendibilità o meno
di alcune previsioni trattamentali nei riguardi del ristretto al regime speciale di cui all’art. 41 bis ord.
penit 1. Si discorreva, nell’occasione, della possibilità di cumulare ore di colloquio rimaste inutilizzate,
così come generalmente previsto per l’ipotesi in cui i familiari del richiedente risiedano in luogo diverso da quello di espiazione.
Se trattasi di una possibilità nell’ordinario ammessa, molto discussa è sempre stata l’estendibilità di
una disciplina di tal fatta nei riguardi di chi è ulteriormente limitato nella libertà ai sensi della l. 23 dicembre 2002, n. 279.
In continuità con l’orientamento del merito 2, il giudicante cuneese è addivenuto ad una declaratoria
di rigetto dell’istanza, nel convincimento che difettassero quelle ‹‹eccezionali circostanze›› che, sole,
1
Sulla sospensione delle ordinarie regole che governano il trattamento penitenziario, v., in prospettiva generale e di fondo,
S. Ardita, Il regime detentivo speciale 41 bis, Milano, 2007, p. 6 ss.; A. Bernasconi, L’emergenza diviene norma: un ambito e discutibile
traguardo per il regime dell’art. 41 bis, co. 2, ord. penit., in G. Di Chiara (a cura di), Il processo penale tra politiche della sicurezza e nuovi
garantismi, Torino, 2003, p. 285 ss.; G. Campese, I procedimenti penali in camera di consiglio, Padova, 2010, p. 340 ss.; M. F. Cortesi,
Il nuovo regime di detenzione differenziato ai sensi dell’art. 41 bis l. n. 354/1975, in F. Ramacci-G. Spangher (a cura di), Il sistema della
sicurezza pubblica, Milano, 2010, p. 883 ss.
2
Cfr., di recente, Mag. Sorv. Novara, 4 aprile 2013, Esposito, inedita.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRIME APERTURE NEL REGIME DI RIGORE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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giustificano il recupero dell’ora di colloquio non svolta. Non possono ad ogni modo sottacersi talune
significative aperture recentemente emerse nella giurisprudenza dell’organo di sorveglianza, già confermate dalla Cassazione 3, e che in altre circostanze hanno autorizzato la compensazione.
Ed è proprio facendo leva su questo diverso indirizzo, nonché sulla contraddittorietà ed illogicità
del diniego, superabile soltanto nella ricorrenza delle straordinarie circostanze di cui sopra, che il ricorrente ha proposto impugnazione innanzi il collegio di legittimità. Il quale, non senza sorprese e nella
persistenza del contrasto ermeneutico, ha perfezionato il più classico dei revirement, sostenendo un’innovativa ricostruzione degli istituti in discorso 4.
LE COORDINATE NORMATIVE
La l. 10 ottobre 1986, n. 663 ha considerato imprescindibile il mantenimento di un legame con il mondo
degli affetti, tanto da qualificare la disciplina dei colloqui come aspetto centrale del trattamento, affiancandola alla triade lavoro-istruzione-religione 5. Diversa è stata la soluzione percorsa per il ristretto in
regime differenziato. La necessità di preservare, nel limite della condizione di afflizione, le relazioni
familiari si scontra, nell’occasione, col tentativo di limitare un uso distorsivo dei colloqui, che troppo
spesso diventavano l’occasione per conservare quell’appartenenza con il mondo criminale dell’esterno.
Come conferma il dato esperenziale, il detenuto troppo spesso strumentalizza il confronto vis-à-vis per
trasmettere le proprie determinazioni e per continuare a manifestare la perdurante affiliazione.
La stabilizzazione del clima emergenziale non poteva che spingere il legislatore ad una valorizzazione di questo secondo profilo. Per quanto di interesse, questa scelta ha occasionato una significativa
compressione del diritto al colloquio, tanto nel numero dei dialoghi fruibili quanto nelle modalità di
svolgimento. Circa il primo aspetto, la disciplina dell’art. 41 bis, comma 2 quater ord. penit., come ridisegnata dalla l. 15 luglio 2009, n. 94 6, ha limitato ad uno il numero dei confronti mensili. In secundis, si è
resa obbligatoria la videoregistrazione e la predisposizione di vetri o altre separazioni a tutta altezza
che inibiscano il passaggio di ogni tipologia di oggetto. Il colloquio telefonico è esigibile soltanto qualora non si sia svolto il confronto diretto e nel limite di dieci minuti di conversazione, ad ogni modo sottoposta ad ascolto e registrazione 7.
La stagione securitaria ha così comportato un ulteriore giro di vite rispetto al passato. Se dapprima
erano praticabili fino a due incontri mensili, a rilevazione discrezionale e con possibile cumulo del contatto telefonico, le ultime novità hanno, di fatto, paralizzato il diritto a coltivare relazioni domestiche 8.
La realtà conferma come si tratti di persone recluse in aree ben distanti dai luoghi di provenienza, con
evidenti difficoltà logistiche ed economiche per i familiari nel raggiungere il penitenziario ai fini dell’incontro. Si fatica, oltre tutto, a comprendere la ragione della riduzione quantitativa alla quale si accennava, se il confronto avviene con divisioni che rendono impossibile il contatto materiale ed è sottoposto
comunque a controllo.
Come riferito nelle premesse, l’art. 37, comma 10, d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 acconsente al confronto prolungato se quello programmato nella settimana antecedente non si è svolto, sempre che il preteso
3
Cfr., Cass., sez. I, 26 novembre 2013, nn. 49732-49733-49734, inedite.
4
Per un primo commento, F. Machina Grifeo, Detenuti al 41 bis, sì al recupero del colloquio mensile perso, in www.quotidianodirit
to.ilsole24ore.com.
5
Per tutti, V. Grevi-G. Giostra-F. Della Casa, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2011, p. 204 ss.
6
Con specifico riferimento alle novità introdotte dalla decretazione securitaria del 2009, v. P. Corvi, Trattamento penitenziario
e criminalità organizzata, Padova, 2010, p. 109 ss., nonché, già, C. Fiorio, La stabilizzazione delle “carceri-fortezza”: modifiche in tema di
ordinamento penitenziario, in O. Mazza-F.Viganò (a cura di), Il “pacchetto sicurezza” 2009, Torino, 2009, p. 395 ss.
7
Oltre la disciplina dei colloqui, la novella ha segnato delle ulteriori limitazioni nei riguardi del ristretto in regime differenziato. L’intervento normativo, che è apparso da subito per alcuni profili costituzionalmente censurabile, è stato attenzionato in
numerose occasioni dalla Suprema Corte. La quale, ad esempio, ha precisato come la costante video sorveglianza della cella,
financo quando il detenuto fa uso della toilette, è lesiva dei principi cristallizzati negli artt. 8 Cedu e 27 Cost., nella misura in cui
i soli controlli visivi, mediante feritoie ed oblò, possono dirsi comunque sufficienti a garantirne la sicurezza. In tal senso, Cass.,
sez. V, 15 marzo 2011, Lo Piccolo, inedita, con nota di B. Bocchini, Diritto alla privacy e detenuti in regime 41 bis ord. penit.: un duetto consacrato dalla Cassazione, in Arch. pen., 2011, n. 2, p. 613 ss.
8
Per un interessante approfondimento sui riflessi che l’afflizione intramuraria determina nella vita di relazione, L. Boccadoro-S. Carulli, Il posto dell’amore negato, 2008, p. 79 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRIME APERTURE NEL REGIME DI RIGORE
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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ampliamento non determini un pregiudizio per la sicurezza dell’istituto. Si tratta, all’apparenza, di un
diritto declinato per il detenuto verso il quale non sono operative le limitazioni di cui sopra. In difetto
di puntuale previsione, è necessario chiedersi se ne possa beneficiare, con gli opportuni adattamenti di
disciplina, anche il ristretto in regime speciale, financo in mancanza delle impreviste circostanze che,
sole, sembrerebbero autorizzare una deroga al trattamento di rigore.
IL RAGIONARE DEL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ
Ancora non si è spento il clamore dello storico pronunciamento con il quale la Consulta ha inciso, per la
prima volta, sul meccanismo dell’art. 41 bis ord. penit. 9, che l’organo di nomofiliachia insiste nell’operazione di “ammorbidimento” del regime speciale. Per quanto non conosca sosta il percorso legislativo di
progressivo inasprimento trattamentale, il canale dell’esegesi ambisce a ritagliare spazi di normalità per
questa categoria di ristretti. L’esperienza conferma, del resto, come la stretta impressa dalla perdurante
emergenza normativa dell’ultimo decennio non abbia occasionato alcun contenimento del fenomeno
criminale, soprattutto associativo, né orientato alla resipiscenza la condotta di quanti sono limitati nella
libertà in queste particolari condizioni. Il fallimento del modello è un dato inconfutabile 10.
Entrando nello specifico del ragionamento svolto, si carpisce la volontà del collegio di dar seguito
all’orientamento di recente affiorato nella medesima sezione di legittimità 11. Il plenum ribadisce la non
condivisibilità dell’arresto del togato cuneese nella misura in cui questi intenderebbe autorizzare il prolungamento del colloquio soltanto in presenza di «eccezionali circostanze», non necessariamente originanti dal mancato svolgimento del confronto familiare.
Il provvedimento ministeriale, attestante la spiccata pericolosità del detenuto od internato, che sospende in tutto o in parte il percorso trattamentale ordinario non comporta, infatti, un’integrale deroga
alla disciplina comune. Diversamente da quanto prospettato dal magistrato di prime cure, si ha riguardo
di una fonte subordinata dal contenuto settoriale, alla quale non può attribuirsi quel carattere omnicomprensivo.
Il particolare regime detentivo, pertanto, si assesta su di un duplice livello. Il primo, dal carattere
generale, autorizza quelle limitazioni che sono funzionali agli scopi di prevenzione. Il secondo, dalla
dimensione più puntuale, formalizza le specifiche prescrizioni, anche in tema di colloqui.
Acclarato come nell’occasione non siano state adombrate ragioni di sicurezza, non si vede come possa prospettarsi l’inapplicabilità di una previsione, quella autorizzante il prolungamento, non oggetto di
sospensione. Ora, è proprio scorrendo il disposto dell’art. 37, comma 10, d.p.r. n. 230/2000 che la Corte
ne sostiene la piena compatibilità con il regime differenziato dell’art. 41 bis ord. penit. L’ampliamento
del confronto è ancorato a due diverse ipotesi. La prima legata a condizioni del tutto straordinarie, già
ammessa dal giudice della sorveglianza e, per questo, certamente fruibile dal detenuto in regime speciale; l’altra correlata alla diversità del luogo di detenzione rispetto a quello di residenza dei congiunti,
nonché al mancato svolgimento del colloquio da celebrarsi nella settimana antecedente.
9
C. cost., 20 giugno 2013, n. 143, a margine della quale v. C. Fiorio, Regime carcerario differenziato e tutela del diritto di difesa, in
questa rivista, 2014, n. 1, p. 42 ss.; F. Fiorentin, Regime speciale del "41 bis" e diritto di difesa: il difficile bilanciamento tra diritti fondamentali, in Giur. cost., 2013, n. 3, p. 2180 ss.; V. Manes-V. Napoleoni, Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in
regime di “carcere duro”: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in www.penalecontemporaneo.it, 3
luglio 2013. L’autorevole decisione ha investito il disposto dell’art. 41 bis, comma 2 quater, lett. b), ultimo periodo ord. penit., nella parte in cui limitava quantitativamente le telefonate ed i colloqui che il detenuto in regime speciale poteva tenere con i propri
difensori. Il diritto alla difesa tecnica non può soffrire alcuna compressione che sia giustificata dalla pericolosità qualificata del
ristretto, soprattutto se lo stesso è nel contempo sottoposto a diversi procedimenti. Per converso, è proprio la necessità di organizzare una congrua strategia ad autorizzare la predisposizione di plurimi incontri, fin dall’inizio della restrizione. Pur confermando l’esigenza di evitare che la rappresentanza tecnica diventi uno strumento per veicolare determinazioni al mondo criminale dell’esterno, la Consulta sostiene la non bilanciabilità del diritto cristallizzato nell’art. 24, comma 2 Cost., stante la perdurante condizione di debolezza che affligge chiunque sia limitato nella libertà personale. Ogni tentativo di mediazione non può
mai frustrare l’effettività della garanzia defensionale: il confronto deve essere riservato e mai limitato nel numero.
10
In tal senso, S. Ardita, Il regime detentivo 41 bis, Milano, 2007, p. 14 ss., nonché A. Bernasconi, L’emergenza diviene norma: un
ambito e discutibile traguardo per il regime dell’art. 41 bis, co. 2, ord. penit., cit., p. 285 ss.
11
Cfr., specialmente, Cass., sez. I, 24 giugno 2013, n. 39537, in CED Cass., n. 304681; nonché, in pari sensi, Cass., sez. I, 26 novembre 2013, nn. 49732-49733-49734, cit.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRIME APERTURE NEL REGIME DI RIGORE
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Percorrendo il sentiero dell’interpretazione sistematica ed in difetto, si ripete, di diversa formulazione del provvedimento ministeriale, l’estensione, pur con gli opportuni adattamenti del caso, può riconoscersi anche in questa subordinata ipotesi. Ragioni di sicurezza suggeriscono l’extraterritorialità della
reclusione, così come difficoltà logistiche troppo spesso inibiscono il confronto a cadenza mensile (e
non già settimanale). Nella convergenza dei suddetti profili, da confermarsi all’esito di un accertamento
necessariamente casistico, l’organo della sorveglianza non potrebbe che accogliere il preteso raddoppio
della durata del dialogo, senza che ciò determini un’attenuazione del regime di rigore 12.
La formulazione del comma 2 quater, nella parte in cui declina le modalità con le quali svolgere gli
incontri visivi, è tanto dettagliata che non è possibile immaginare ulteriori limitazioni, oltre quelle già
previste. L’art. 41 bis ord. penit., del resto, non prevede la durata dell’unico colloquio mensile, cosicché
la norma regolatrice, anche per questo subordinato profilo, va individuata nell’art. 37, comma 10 d.p.r.
n. 230/2000, che indica in un’ora il limite massimo 13.
CONSIDERAZIONI DI SINTESI
Una classe dirigente incapace di programmare degli interventi strutturali nella gestione della popolazione detenuta, ha trasformato in ordinario ciò che viene pubblicizzato per emergenza 14. L’ispirazione
preventiva e di cautela che anima la stagione securitaria disegna una vita intramuraria ancor più tormentata per quanti appartengono al circuito della criminalità organizzata, dimentica di ogni aspetto relazionale. Più che alla limitazione nella libertà si ambisce all’annientamento della persona: la logica del
trattamento in un contesto figlio dell’insicurezza, perde ogni residuo significato.
Gli ulteriori vincoli declinati per il recluso in regime differenziato sono stati sottoposti all’attenzione
dell’elaborazione pretoria, tanto costituzionale quanto di legittimità. La quale, come si è detto, non ha
mancato di sollevare le proprie perplessità attorno a delle novità che sono apparse immediatamente
esorbitanti rispetto alle finalità da perseguirsi. La produzione normativa, che sempre impone un’opera
di bilanciamento tra contrapposte esigenze, non può obliterare un diritto riconosciuto come fondamentale dalla Carta ed attivabile anche dal ristretto, financo se sottoposto ai condizionamenti dell’art. 41 bis
ord. penit.
La materia dei colloqui è stata certamente il fronte privilegiato di ogni disquisizione sul punto. Parlare di colloqui significa trattare del mondo degli affetti e di quei legami che l’esperienza detentiva non
deve recidere. Per quanto la prassi abbia esplicitato quegli espedienti, fatti di cripto messaggi o linguaggi concordati, attraverso i quali i vertici dell’organizzazione di turno continuano a comunicare all’esterno le proprie direttive, ogni restringimento nel numero o nella durata del colloquio non può arrivare a pretermettere quell’aspettativa alla perdurante unità del sodalizio familiare, già cristallizzata
nell’art. 29 Cost. 15
E se ancora si discute sulla possibilità di assicurare la presenza dei congiunti, allorquando il minore
di anni 12 entra in contatto diretto col recluso nella parte finale dell’incontro 16, la disciplina si è assesta12
Nell’istanza per il prolungamento il ristretto deve puntualmente allegare i motivi autorizzanti il raddoppio dell’orario di
colloquio. Il Direttore dell’istituto di pena comunica, nel più breve tempo possibile, i provvedimenti adottati e le ragioni
dell’eventuale rigetto. Avverso detta decisione e nel termine di dieci giorni, il detenuto, personalmente o per il tramite del difensore di fiducia, potrà anteporre reclamo al Magistrato di Sorveglianza, ex artt. 35 bis e 69, comma 6, lett. b), ord. penit.
13
In tal senso, Cass., sez. I, 18 dicembre 2014, n. 52545, inedita e, ancor più recentemente, Cass., sez. I, 22 gennaio 2015, n.
3115, inedita.
14
Attorno alla «non felice formulazione» della normativa sul regime di rigore rifletteva, per prima, C. cost., 28 luglio 1993, n.
349, in Cass. pen., 1994, p. 2861 ss., con nota di S. F. Vitello, Brevi riflessioni sull’art 41 bis ord. penit. nel più vasto contesto del sistema
penitenziario. Le ulteriori manipolazioni, quali riflesso di una legislazione caotica che si è stratificata nel tempo, hanno aggravato
il deficit di chiarezza ed occasionato difficoltà interpretative e di coordinamento. In tal senso e per tutti, A.P. Della Bella, Il regime
detentivo speciale ex art. 41 bis, comma 2 o.p.: alla ricerca di un compromesso tra le esigenze di prevenzione speciale e la tutela dei diritti
fondamentali della persona, in A. Gaboardi-A. Gargani-G. Morgante-A. Presotto-M. Serraino (a cura di), Libertà da carcere, libertà nel
carcere. Affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Torino, 2013, p. 117 ss.
15
Nella stessa direzione, F. Fiorentin, Regime penitenziario speciale dell’art. “41 bis” e tutela dei diritti fondamentali, in
www.rassegnapenitenziaria.it, secondo il quale ogni limitazione andrebbe somministrata nella misura strettamente necessaria ad
assolvere alle esigenze preventive, nell’osservanza degli indici di proporzionalità e del minor sacrificio necessario.
16
Circa la necessità di allontanare il resto del nucleo familiare nella porzione residua di confronto, quando il minore entra in
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ta con riguardo ai colloqui difensivi. Perché parlare di colloqui significa anche organizzare la strategia
difensiva da spendersi nei procedimenti penali d’interesse.
Se prima dell’ultima novella il diritto alla difesa tecnica era pienamente tutelato, la l. n. 94 del 2009
ha introdotto una soglia massima nel numero e nella durata dei confronti. La novità, che non poteva
che sollevare dubbi di tenuta costituzionale, è stata espunta dall’intervento regolatore della Consulta 17.
Nello specifico, le pur fondate istanze preventive non possono tanto condizionare la garanzia defensionale. Con ciò il Giudice delle Leggi ha superato alcuni suoi storici arresti nei quali, per converso, ne sosteneva la comprimibilità, a fronte del bilanciamento con altri diritti, egualmente meritevoli di tutela 18.
La disciplina dei colloqui appare, nella sostanza, il terreno più fertile nel quale sondare il grado di
resistenza della complessa e mal coordinata normativa riservata al ristretto in regime differenziato.
Scorrendo i repertori giurisprudenziali dell’ultimo biennio, la tendenza, in evidente contrasto con le soluzioni emergenziali, è quella di offrire uno spazio residuo nel godimento dei diritti fondamentali, affinché nemmeno il più duro fra gli stati afflittivi possa restringerne, in estrema misura, l’utilizzo.
contatto con il ristretto, Cass., sez. I. 1 luglio 2014, n. 28250, in CED Cass., n. 275476, nonché Cass., sez. I, 18 dicembre 2014, n.
52544, inedita. Contra e più convincentemente, Mag. Sorv. Spoleto, 10 luglio 2013, n. 3117, inedita, per il quale «nel momento del
passaggio del minore dalla parte del padre, cui non può non attribuirsi un valore simbolico che corre il rischio di tramutarsi in
gravemente traumatico in difetto della presenza, seppur separata della madre, o dell’altro familiare disponibile, a giustificarlo
ed anzi a promuoverlo, si realizza infatti un momento di unità familiare condivisa, che include il genitore detenuto e che allevia
l’esclusione derivata dal regime detentivo, in particolare quello peculiarmente restrittivo del 41 bis».
17
C. cost., 20 giugno 2013, n. 143, cit. Parte minoritaria della dottrina aveva sostenuto la piena conformità dell’intervento di
riforma, nel convincimento che la blanda riduzione del numero dei confronti con la rappresentanza tecnica non intaccasse il diritto alla difesa del ristretto. Nello specifico, A. Della Bella, Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. penit., in S. CorbettaA. Della Bella-G.L. Gatta (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, p. 457 ss.
18
Cfr., ex multis e per la profondità dell’argomentare, C. cost., 3 luglio 1997, n. 212,in Cass. pen., 1997, p. 3281 ss. A margine,
F. Della Casa, Il colloquio del difensore in sede esecutiva: da “graziosa concessione” a “diritto”, in Dir. pen. proc., 1998, p. 210 ss.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LE NUOVE GARANZIE INFORMATIVE NEL PROCEDIMENTO CAUTELARE
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ROBERTO PUGLISI
Dottore di ricerca in Procedura penale – Università di Roma Tor Vergata
Le nuove garanzie informative nel procedimento cautelare
Precautionary measures and informative guarantees
La direttiva n. 2012/13/UE incide sul “diritto all’informazione, delle persone indagate o imputate, sui diritti di cui
godono nel procedimento penale e sull’accusa elevata a loro carico”, inserendosi in un progetto più ampio relativo
alla “tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti procedurali degli indagati o imputati in procedimenti penali”. Il
processo comunitario di salvaguardia dei diritti fondamentali passa per la comunicazione dei diritti e la sollecita informazione sul carattere e la causa dell’accusa. Il d.lgs. n. 101/2014 si interessa di alcune norme del processo penale modificandole alla luce delle indicazioni comunitarie.
Directive n. 2012/13/EU affects the "the right to information in criminal proceedings ", joining a larger project on
the "Roadmap for strengthening procedural rights of suspected or accused persons in criminal proceedings”. The
Community process of safeguarding fundamental rights is based on letter of rights. D.lgs . n. 101/2014 has modified some of the rules of criminal procedure according to Community indications.
DIRITTO ALL’INFORMAZIONE ED EFFETTIVITÀ DELLE GARANZIE PROCESSUALI
Il diritto di difesa presuppone una consapevolezza, da parte del suo titolare, circa le sue modalità di
esercizio e i contenuti dell’accertamento 1; peraltro – com’è stato illo tempore sottolineato – «il processo
penale attiene all’essere e non all’avere... perciò, pretende la più diretta ed incisiva applicazione del principio costituzionale della partecipazione» 2, la quale, non può appunto realizzarsi senza un’informazione garantita compiutamente. Nondimeno, prima della direttiva 2012/13/UE del 22 maggio 2012 – da
cui è scaturito il d.lgs. 1° luglio 2014, n. 101 – l’evoluzione normativa in materia è stata contrassegnata
da un difficile bilanciamento tra segretezza investigativa e conoscenza difensiva 3; dietro la costante
tensione tra riserbo d’indagine e contrapposto interesse alla trasparenza, si celano il bisogno di non vanificare l’azione investigativa e il diritto dell’indagato di essere effettivamente informato.
Ciò premesso in breve, si noti che l’esigenza di informare il soggetto sottoposto a un procedimento
penale assume, nel suo ambito più esteso, una triplice prospettiva, riferendosi sia agli elementi essenziali della notizia di reato, sia al contenuto dei suoi diritti difensivi, sia agli elementi di prova a carico. Fino ad oggi, tale obiettivo poteva essere conseguito attraverso l’applicazione congiunta degli
artt. 369, 369 bis c.p.p., unitamente all’impiego di altre singole previsioni riguardanti specifiche ipotesi di accesso agli atti (art. 293, 366, 409, 415 bis c.p.p.). In caso di una misura cautelare, invero, i tre
volti del diritto ad essere informati potevano ricomporsi solo quando, precedentemente all’esecuzione, fosse stato compiuto un atto garantito 4 nei confronti di un soggetto ancora privo di difensore di
1
V. G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 1997, p. 298, per il quale ridurre la possibilità di indagini segrete risponde a
“un elementare principio di civiltà”.
2
Così, G. Sabatini, Processo penale e partecipazione, in Giust. pen., 1972, III, p. 643.
3
Nel codice di procedura penale del 1930, l’“avviso di procedimento” (art. 8, l. 5 dicembre 1969, n. 932), poi diventato “comunicazione giudiziaria” (art. 3, l. 15 dicembre 1972, n. 773), scattava con il “primo atto di istruzione”: «garantismo fino al suicidio
istruttorio» secondo F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, p. 892. Nella pratica, si criticavano gli effetti pregiudizievoli per
la reputazione anche di soggetti nei cui confronti ancora non erano emersi significativi elementi a carico.
4
La direttiva n. 38 dell’art. 2, l. n. 81/1987 si occupa solamente del diritto di essere informato nel merito attraverso
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fiducia 5. Diversamente, le comunicazioni al soggetto in vinculis inerenti all’ampiezza degli strumenti
difensivi si esaurivano nell’avviso della facoltà di nominare un difensore di fiducia 6 mancando, nella
disciplina dell’interrogatorio di garanzia, un’indicazione legislativa analoga a quella contemplata
dall’art. 369 bis c.p.p. riferita all’obbligo del pubblico ministero 7.
Solo per il compimento di un atto investigativo garantito, invece, il legislatore già assicurava all’interessato il diritto di conoscere le sue facoltà di difesa (art. 369 bis c.p.p.), oltre che una superficiale conoscenza della notitia criminis – mediante l’obbligo di informazione di garanzia – concernente le norme di
legge violate, la data e il luogo del fatto e l’invito a nominare un difensore di fiducia (art. 369 c.p.p.) 8.
In entrambi i casi, tuttavia, l’impulso deriva da una scelta del pubblico ministero 9.
Analogamente, l’accesso agli atti di indagine è ponderato sull’esigenza di mantenere il segreto sul
fascicolo del pubblico ministero 10.
Risulta evidente, perciò, come il diritto all’informazione dell’indagato fosse calibrato, fino ad oggi,
l’obbligo del p.m. di comunicare «gli estremi dei reati per cui sono in corso le indagini, a partire dal primo atto al quale il difensore ha
diritto di assistere».
5
Infatti, l’art. 369 bis c.p.p. è costruito sul presupposto dell’assenza di un difensore di fiducia e l’esigenza, quindi, di procedere alla comunicazione del difensore nominato dall’ufficio (cui si accompagnano gli avvisi sulle facoltà connesse all’esercizio
del diritto di difesa).
6
Al riguardo, non si potrebbe accedere al concetto di equipollenza utilizzato, in giurisprudenza, per affermare l’inutilità
dell’informazione ex art. 369 c.p.p. in caso di compimento di atti a sorpresa: il p.m. non «ha l’obbligo, ove l’indagato sia presente, di provvedere all’informazione contestualmente all’esecuzione degli atti medesimi [a sorpresa], contemplando la legge in tali
ipotesi una serie di adempimenti di questa [informazione di garanzia] totalmente assorbenti e, nel concreto sostitutivi» (Cass.,
sez. un., 23 febbraio 2000, n. 7, in CED Cass. n. 215839). Gli stessi effetti surrogatori (laddove condivisi), infatti, non potrebbero
affermarsi per l’avviso di cui all’art. 369 bis c.p.p. in relazione all’esecuzione di una cautela personale (v., S. Ciampi, Presupposti e
limiti cronologici della nuova «informazione sul diritto di difesa, in Cass. pen., 2003, p. 1602). Per i profili di legittimità costituzionale
connessi alla garanzia in esame, si rinvia ad A. Scalfati, Decreto di citazione pretoriale e mancato avviso circa le scelte alternative al dibattimento, in Giur. cost., 1995, p. 4237 ss.
7
V. Cass., sez. I, 13 maggio 2004, n. 2328, in Giur. it., 1919: «sia per ragioni di ordine letterale (riferibilità sintattica della proposizione normativa alla attività di un solo soggetto, il p.m.), sia per motivi di ordine sistematico (collocazione della disposizione)»; nello stesso senso, Cass., sez. III, 7 dicembre 2001, n. 44022, in Cass. pen., 2003, p. 1597. La giurisprudenza si è spinta oltre,
affermando che «le formalità previste dall’art. 369 bis c.p.p. concernano l’interrogatorio dell’indagato in stato di libertà, e non
quello dell’arrestato o del fermato, effettuato ai senso dell’art. 388 c.p.p.» dal p.m. (Cass., sez. I, 28 febbraio 2003, n. 9492, in Cass.
pen., 2004, p. 4132).
8
L’art. 369 bis c.p.p. è stato introdotto successivamente all’impianto codicistico originario. In tale contesto, fu criticata la “disattenzione legislativa” a causa della quale «la norma... non tiene conto della intervenuta riforma sul giudice unico... soprattutto, del nuovo art. 415 bis c.p.p.» (così, F. Ruggieri, La difesa d’ufficio, in L. Filippi (a cura di), Processo penale: il nuovo ruolo del difensore, Padova, 2001, p. 576 ss.). Con la riforma attuata dal d.lgs. n. 101/2014, gli artt. 369 e 369 bis c.p.p. sono stati aggiornati (senza sconvolgimenti rispetto al passato).
Sulla questione “informativa”, per M. Chiavario (La riforma del processo penale, Torino, 1988, p. 147), con il codice del 1988, si segna una “svolta sensibilmente riduttiva”; nello stesso senso, G. Lozzi, op. cit., 1997, p. 298. Secondo F. Cordero, op. cit., p. 892,
l’ispirazione del sistema precedente nasceva da «due idee incompatibili: che... il pregiudicabile avesse diritto a stare sul chi vive fin dalla
prima; quanto a rendimento difensivo, l’effetto era prossimo allo zero». Invece, per G. Giostra, Problemi irrisolti e nuove prospettive per il diritto di difesa: dalla registrazione delle notizie di reato alle indagini difensive, in V. Grevi (a cura di), Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8
agosto 1995, n.332, Milano, 1996, p. 186, il peggioramento sotto il profilo del diritto di difesa era aggravato dagli interventi della Corte costituzionale del 1992. Sulla stessa linea, risultava “inadeguata” la nuova disciplina per M. Nobili, La nuova procedura, Bologna,
1989, p. 354, critico per la posticipazione della comunicazione – con il codice del 1988 – al termine della fase preliminare con conseguente indebolimento della difesa che “resta al buio”. Cfr., inoltre, C. Taormina, Diritto processuale penale, I, Torino, 1995, p. 232, per
il quale l’art. 369, comma 1, c.p.p. è viziato di incostituzionalità «nella parte in cui non prevede che la spedizione dell’informazione di garanzia debba avvenire sin dal compimento del primo atto di indagine preliminare». Le ragioni del mutato assetto sono state individuate, da
parte di alcuni, nella degenerazione pratica dell’“avviso di procedimento” da strumento di garanzia a causa di pregiudizio per la
reputazione dei soggetti interessati (G. Conti-A. Macchia, Il nuovo processo penale (lineamenti della riforma), Roma,1989, p. 73).
9
Per questi motivi, l’attivazione difensiva durante la fase preliminare è aleatoria dipendendo dalle esigenze investigative
determinate dal pubblico ministero (che potrebbe indirizzarle proprio in funzione di un ritardo nell’informazione). Cfr. C. Riviezzo, Custodia cautelare e diritto di difesa. Commento alla legge 8 agosto 1995, n° 332, Milano, 1995, p. 151.
L’operatività o meno dello strumento informativo de quo con l’invio dell’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. è stata, fino ad
oggi, fonte di dibattito. Cfr. F. Ruggieri, La difesa d’ufficio, cit., p.578, favorevole al necessario invio della comunicazione e
dell’informazione «al più tardi prima dell’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari». Invece, era contro la
sussistenza, in questa fase processuale, di un obbligo di informazione sui diritti difensivi la costante giurisprudenza (cfr. ex multis, Cass., sez. V, 18 ottobre 2005, n., 44706, in CED Cass. n. 233065). Adesso, per espressa previsione di legge, l’informazione sul
diritto di difesa inclusa nella nomina del difensore d’ufficio deve essere notificata al più tardi con l’avviso ex art. 415 bis c.p.p.
10
Per l’evoluzione della trasparenza in ambito cautelare, v., infra, par. 2.
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esclusivamente sulle esigenze investigative, dipendendo da una scelta del titolare delle indagini (effettuare o meno un atto garantito prima della cautela restrittiva).
Alle rilevate tenui garanzie informative fa da sponda, poi, la possibilità per l’interessato di attivarsi
accedendo al registro delle notizie di reato. Va rammentato, invero, come la versione originaria dell’art.
335 c.p.p. vietasse la comunicazione delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato; attualmente, invece, la norma consente (salvo eccezioni per i reati più gravi) all’indagato di conoscere (su richiesta) eventuali iscrizioni a proprio carico 11. L’informazione ricevuta per tali vie è molto scarna, permettendo di
apprendere solamente l’an dell’iscrizione e – tramite il richiamo alle norme violate – la provvisoria qualificazione giuridica del fatto; quindi, solo una limitata trasparenza sui contenuti del procedimento 12. A
prescindere dalla segretezza ex lege per i reati più gravi o da quella eventualmente opposta dal pubblico
ministero, va rilevato come il sistema informativo previsto dall’art. 335 c.p.p. in favore dell’indagato
non includa le sue facoltà difensive 13.
Tracciato il quadro generale, occorre fare il punto sul sistema dei diritti informativi dell’indagato in
ambito cautelare, in modo da valutare, poi, la straordinaria portata degli impulsi sovranazionali sulla la
recente modifica.
ITER CAUTELARE E PARTECIPAZIONE DIFENSIVA CONSAPEVOLE
La disciplina delle misure cautelari tiene in gran conto la necessità di posticipare il contraddittorio con
la difesa dell’imputato al fine di «evitare l’assoluta compromissione di esigenze prioritarie nella economia del processo, che per loro natura potrebbero essere del tutto vanificate dal contraddittorio anticipato» 14. Il divieto di accesso agli elementi di indagine può giustificarsi fintantoché la misura non venga eseguita. Pertanto, inizialmente ispirato alla segretezza, l’impianto della procedura cautelare prevede un’espansione dei diritti difensivi a partire dall’esecuzione della misura. In tale schema, la prima
preoccupazione del legislatore è, dunque, soddisfare l’esigenza di fare conoscere al soggetto le ragioni
alla base della cautela, consegnando al medesimo una copia del provvedimento 15; trattasi di prerogativa fondamentale per un sistema liberale e, allo stesso tempo, di condizione necessaria per il successivo
contraddittorio sugli elementi fondanti la misura cautelare 16. Infatti, il procedimento de libertate si sviluppa, poi, con l’interrogatorio di garanzia entro tempi serrati e con le eventuali impugnative; pertanto,
si deve consentire alla difesa di “intervenire conoscendo”.
Ecco, dunque, che il tema del diritto all’informazione si fonde con le garanzie minime da riconoscere
a un soggetto privato della libertà personale. Nella prassi, l’importanza della garanzia si misura con le
conseguenze della mancata o erronea notificazione dell’ordinanza; sul presupposto dell’assenza di una
specifica ipotesi di nullità, si è affermato che l’omissione della notifica travolge il provvedimento ma
non inciderebbe sulla sua validità originaria, cosicché «dovrà essere rinnovata senza che la dichiarazione di nullità comporti la caducazione del provvedimento e la scarcerazione dell’indagato» 17. Il perento-
11
La possibilità di accesso al registro di cui all’art 335 c.p.p. è stata introdotta con la l. n. 332/1995, nata dall’esigenza di calibrare meglio misure cautelari e diritto di difesa. Sul punto, G. Giostra, I novellati artt. 335 e 369 c.p.p.: due rimedi inaccettabili, in Cass. pen.,
1995, p. 3597; A. Marandola, I registri del pubblico ministero tra notizia di reato ed effetti procedimentali, Padova, 2001, p. 318; R. Orlandi,
Commento all’art. 18, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 251ss.; G. Pecorella, Il difensore e la sua posizione nel procedimento penale di fronte alla nuova legge, in V. Grevi (a cura di), Misure cautelari e diritto di difesa, cit., p. 328.
12
Cfr. R. Orlandi, Commento all’art. 18, cit., p. 253, in cui si rileva come la riforma dell’art. 335 c.p.p. «concede molto poco alla
difesa... attuata in maniera che rischia di deludere le aspettative anche più modeste».
13
La disposizione è rimasta indenne alla riforma compiuta dal d.lgs. n. 101/2014.
14
Corte cost., 8 giugno 1994, n. 219. Sul punto, G. Giostra, Commento all’art. 10, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, p. 141 ss.
15
V. A. Confalonieri, Requisiti essenziali della motivazione nelle decisioni del tribunale delle libertà, in Giur. it., 1994, II, p. 92: «il
soggetto coinvolto nella vicenda processuale non può avere la sensazione di misurarsi con un antagonista dalla forma evanescente: è l’imputato l’interlocutore al quale si rivolge il giudice nel dar conto delle ragioni di fatto e di diritto che lo hanno indotto al suo determinato convincimento».
16
Per la differenza tra contraddittorio sulla prova e contraddittorio per la prova, si rinvia a D. Siracusano, Introduzione allo studio del nuovo processo penale, Milano, 1989, p. XII. Cfr., O. Mazza, Il garantismo al tempo del giusto processo, Milano, 2011, p. 7 ss.
17
V. Cass., sez. VI, 18 giugno 1997, n. 1176, in CED Cass. n. 208120, che limita i profili di invalidità alla comunicazione
dell’ordinanza. Cfr., altresì, Cass., sez. IV, 24 febbraio 2000, in CED Cass. n. 215958.
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rio disposto normativo non ha arginato, così, lesioni difensive scaturenti dalla notifica di una copia incompleta dell’ordinanza (es., mancante della motivazione); la minimale lettura attribuisce rilievo esclusivamente all’originale del titolo cautelare «ben potendo l’imputato e il suo difensore avere conoscenza
del provvedimento nella sua integralità stante l’obbligo del deposito dello stesso nella cancelleria del
giudice» 18. Sul punto, tuttavia, non c’è unanimità di orientamento, rinvenendosi pronunce che affermano la necessaria completezza della copia notificata, di modo che eventuali suoi vizi si riverberano
sull’atto 19.
Contestualmente all’esecuzione, il soggetto colpito dalla cautela viene avvertito della facoltà di nominare un difensore di fiducia. Come si vedrà, tale previsione è risultata evidentemente inadeguata per
allinearsi ai canoni dell’Unione Europea ed è stata, conseguentemente, modificata 20.
L’originario assetto delle garanzie informative si esauriva con i citati adempimenti. Successivamente, il panorama si è allargato con l’art. 10, l. n. 332/1995, che ha inserito l’obbligo di deposito della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa 21 (è, così, scomparsa l’utilità di escamotages difensivi diretti a stimolare una discovery mediante la proposizione di impugnazioni cautelari immotivate); solo in tal modo, dunque, si è consentito alla difesa di partecipare con effettività al procedimento cautelare 22. Del resto, l’anticipazione del diritto di accesso rispetto a una richiesta di riesame (art.
309, comma 8, c.p.p.) o di appello (art. 310, comma 2, c.p.p.) determina un miglioramento dell’economia
processuale e, al tempo stesso, potenzia gli strumenti a disposizione dell’interessato.
Mancando un’espressa individuazione delle conseguenze riconducibili alla violazione dell’obbligo
informativo in esame, l’interprete è stato chiamato a verificarne, in tali casi, l’incidenza o meno sul contenuto minimo del diritto di difesa. Invero, all’omesso deposito degli atti posti a fondamento della misura consegue una menomazione della prerogativa sancita dall’art. 24 Cost. soprattutto pensando all’interrogatorio di garanzia; si configura, così, ex artt. 178, comma 1, lett. c), 180 e 182 c.p.p., una nullità a
regime intermedio la quale, se tempestivamente eccepita dalla parte prima del compimento dell’atto,
comporta la perdita di efficacia della cautela per omesso (rectius: sterilmente effettuato) interrogatorio
di garanzia (art. 302 c.p.p.) 23. Lo stesso epilogo segue all’impossibilità di accesso agli atti per il difensore in caso di richiesta di misura cautelare in sede di convalida dell’arresto o del fermo. Qui, la nullità è a
regime intermedio e colpisce l’interrogatorio oltre che il provvedimento di convalida; è sanata laddove
non eccepita nel corso dell’udienza di convalida 24. Nell’ipotesi in cui, invece, il pubblico ministero abbia allegato atti al parere richiestogli ai sensi dell’art. 299 c.p.p. e il giudice, aderendovi, rigetti la richiesta di revoca, all’indagato deve essere assicurato l’accesso agli atti al fine di valutare l’opportunità di
impugnare il provvedimento di rigetto 25.
La possibilità, per la difesa, di raggiungere una piena consapevolezza circa il materiale probatorio
cautelare può essere messa in discussione nell’eventualità di interrogatorio di garanzia effettuato per
rogatoria fuori distretto; qui, la legittimazione di un contraddittorio non preceduto dalla conoscenza
degli atti provoca una sostanziale regressione alla situazione antecedente (trasparenza limitata all’ordinanza cautelare) la riforma operata dalla l. n. 332/1995 26.
18
Cass., sez. I, 10 maggio 1991, in Cass. pen., 1992, p. 696.
19
Così, Cass., sez. V, 31 gennaio 1997, in Cass. pen., 1993, p. 603.
20
V., infra, par. 3.
21
V. G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 2006, p. 312: ciò «impediva alla difesa di venire tempestivamente a conoscenza degli elementi su cui si fondava il provvedimento restrittivo della libertà personale».
22
V. G. Giostra, Commento all’art. 10, cit., p. 142, in cui si rileva, tra l’altro, una “discrasia terminologica” tra l’oggetto della
trasmissione da parte del p.m. ai sensi dell’art. 291 c.p.p. (“elementi” e “deduzioni e memorie”) e l’oggetto del deposito da parte
del giudice ai sensi dell’art. 293 c.p.p. (“atti presentati” con la richiesta cautelare); in altre parole, il concetto più restrittivo di
atto potrebbe indurre a ritenere meno ampio l’obbligo di deposito rispetto a quello di trasmissione. Tuttavia, più di una ragione
non consente di accogliere simili differenziazioni.
23
Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 26798, in CED Cass. n. 231349: «il diritto di difesa va tutelato e riconosciuto incondizionatamente, prescindendo da ogni valutazione in ordine alla certezza o anche alla mera probabilità di esiti positivi; a ciò aggiungasi che il difensore quando formula l’eccezione non sarebbe in grado, proprio perché non ha avuto modo di esaminare gli atti,
di indicare e dedurre la effettiva rilevanza della limitazione subita». In nome della funzionalità del deposito rispetto al successivo interrogatorio, è stata negata l’operatività dell’art. 293 c.p.p. in caso di latitanza e finché questa permane.
24
Cass., sez. un., 30 settembre 2011, n. 36212, in CED Cass. n. 247939.
25
Cass., sez. VI, 10 marzo 1997, n. 976, in Arch. n. proc. pen., 1997, p. 322.
26
Cfr. Cass., sez. I, 26 giugno 2013, n. 27833, in CED Cass. n. 255818, secondo cui «non dà luogo a nullità dell’interrogatorio …
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Un ulteriore fondamentale tassello è stato posto con l’affermazione della facoltà del difensore di
estrarre copia, insieme all’ordinanza cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati dalla stessa 27. L’incidente di costituzionalità è significativo del difficile componimento di un effettivo diritto di difesa. All’indomani della riforma compiuta dalla l. n. 332/1995, invero, ancora non risultava pacifica la possibilità, per la difesa della persona sottoposta a misura cautelare, non solo di visionare gli atti, ma anche di farne una copia necessaria per uno studio idoneo 28. La questione era stata già
oggetto di un dibattito con riferimento al deposito degli atti presso il tribunale del riesame 29 e si era
chiusa, limitatamente all’art. 309, comma 8, c.p.p. con l’introduzione di un espresso diritto di copia 30.
Rilevato che la ratio della modifica dell’art. 293, comma 3, c.p.p. nel 1995 è il pieno accesso agli atti da
parte della difesa «sul presupposto che, dopo l’esecuzione della misura cautelare, non sussistono ragioni di riservatezza tali da giustificare limitazioni al diritto di difesa», la Corte costituzionale dichiara
l’illegittimità costituzionale della stessa disposizione laddove non prevede la facoltà per il difensore di
estrarre copia degli atti ivi menzionati e visionabili dalla difesa.
Ricostruito lo stato dell’arte, si possono conoscere le importanti novità recentemente introdotte, che
interessano il diritto all’informazione nei procedimenti penali.
INFLUENZE SOVRANAZIONALI: LA “COMUNICAZIONE DEI DIRITTI” AL SOGGETTO
Venendo, ora, al tema specifico dell’informativa sui diritti, si può dire che la sua importanza travalica i
confini nazionali per approdare al Parlamento europeo e al Consiglio dell’Unione Europea che, il 22
maggio 2012, tramite la direttiva 2012/13/UE, hanno innovato sul “diritto all’informazione, delle persone indagate o imputate, sui diritti di cui godono nel procedimento penale e sull’accusa elevata a loro
carico” 31. La disciplina, che recepisce la proposta della Commissione europea del 20 luglio 2010 (COM/
2010/392), si inserisce in un progetto più ampio fissato dalla Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 30 novembre 2009 (2009/C 295/1) relativa alla “tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti procedurali degli indagati o imputati in procedimenti penali”. Il processo comunitario di cooperazione giudiziaria all’insegna della salvaguardia dei diritti fondamentali – che, dunque, è più vasto 32 –
l’insufficienza del tempo concesso alla difesa per la consultazione degli atti previamente depositati a norma dell’art. 293, comma 3,
c.p.p. poiché, in tale evenienza, la difesa può chiedere una dilazione dell’interrogatorio entro il termine inderogabile dei cinque
giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia». Tale lettura non considera l’eventuale impraticabilità della soluzione proposta
laddove l’interrogatorio venga disposto già per l’ultimo giorno utile. Nello stesso senso, Cass., sez. VI, 30 ottobre 2012, n. 45623, in
CED Cass. n. 253777, in cui si ribadisce come, in caso di assunzione dell’interrogatorio fuori circoscrizione, «l’omessa trasmissione al
giudice delegato di tutti gli atti non determina di per sé alcuna nullità quando l’espletamento dell’interrogatorio sia stato preceduto
dal deposito degli stessi presso la cancelleria del giudice che ha emesso la misura». Tale lettura non considera l’eventuale impraticabilità della soluzione proposta laddove l’interrogatorio venga disposto già per l’ultimo giorno utile.
27
Cfr. Corte cost., 24 giugno 1997, n. 192, in Giur. cost., 1997, p. 1876, con nota di G. Di Chiara, Deposito degli atti e “diritto alla
copia”: prodromi del contraddittorio e garanzie difensive in una recente declaratoria di incostituzionalità.
28
Emblematica la replica del p.m., nel giudizio a quo, alla richiesta del giudice di indicazione degli atti visionabili da parte
della difesa con estrazione copia: si ritiene «non dovere indicare alcun atto, né tanto meno mostrarlo al difensore per copie o per altro»,
poiché l’indagato «nella fase precedente all’interrogatorio... non può prendere visione delle accuse se non in sede di contestazione di gravi
indizi... essendo ovvio il pericolo di precostituirsi difese di comodo».
29
Cass., sez. un., 3 febbraio 1995, n. 4, in Foro it., 1995, II, 337, secondo cui non sussisteva «un diritto della parte interessata di
ottenere de plano copia degli atti di indagine... in difetto di un’espressa previsione, il rilascio di tali copie è disciplinato dall’art.
116 c.p.p. e, quindi, è subordinato ad apposita autorizzazione».
30
Cfr. C. Riviezzo, Custodia cautelare e diritto di difesa, cit., p. 137, in cui si segnala, all’indomani della legge n. 332/1995, il pericolo di una riproposizione di analoga questione anche per l’art. 293 c.p.p. V. G. Spangher, Commento all’art. 16, in AA. VV.,
Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, p. 235.
31
Per un commento, v. L. Camaldo, Novità sovranazionali, in Proc. pen. giust., 2012, n. 5, p. 16 ss.; S. Ciampi, Letter of rights e
full disclosure nella direttiva europea sul diritto all’informazione, in Dir. pen. proc., 2013, p. 15.
32
Nella Risoluzione del Consiglio n. 2009/C 295/1, sono indicati sei campi di intervento; “misura A: traduzione e interpretazione” (per cui è già intervenuta la Direttiva n. 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 cui è seguito il d.lgs. n. 32/2014 di attuazione,
per il quale si rinvia a D. Curtotti, La normativa in tema di assistenza linguistica tra direttiva europea e nuove prassi applicative, in Proc.
pen. giust., 2014, n. 5, p. 115); “misura B: informazioni relative ai diritti e all’accusa” (Direttiva 2012/13/UE); “misura C: consulenza legale e assistenza legale gratuita”; “misura D: comunicazioni con familiari, datori di lavoro e autorità consolari”; “misura
E: garanzie speciali per indagati e imputati vulnerabili” (per ragioni ad esempio di età o condizioni mentali o fisiche); “misura
F: Libro verde sulla detenzione preventiva”.
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deve passare per la comunicazione dei diritti (letter of rights) e la sollecita informazione sul carattere e la
causa dell’accusa.
Preso atto degli scarsi risultati raggiunti, le istituzioni comunitarie affermano al fondo la necessità di
“potenziare le garanzie procedurali e il rispetto dello stato di diritto nei procedimenti penali”. Lo scopo
è quello di rafforzare quel necessario rapporto di fiducia tra gli Stati dell’Unione ai fini del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale per la cui realizzazione la sola Cedu non è stata sufficiente. A tal fine, la direttiva n. 2012/13/UE (v. Considerando n. 40) «stabilisce norme minime» che gli
Stati membri «possono ampliare… al fine di assicurare un livello di tutela più elevato… Il livello di tutela non dovrebbe mai essere inferiore alle disposizioni della Cedu, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
Significativa appare la preoccupazione per le possibili discrasie tra normativa e prassi, espressa
dall’art. 9 della direttiva; qui si richiama, infatti, la necessità di una formazione dei giudici, procuratori,
personale di polizia e giudiziario coinvolti in procedimenti penali “adeguata sul rispetto degli obiettivi
della presente direttiva”; ciò manifesta la consapevolezza, ormai, anche del legislatore europeo che una
disciplina ricca di buoni contenuti può valere poco senza una corrispondente cultura 33.
La direttiva si occupa di tutt’e tre gli aspetti relativi ai diritti informativi 34.
Per ciò che concerne la comunicazione sul diritto di difesa, si seguono le indicazioni del Consiglio,
prevedendo innanzitutto l’obbligo, per gli Stati membri, di fornire alle persone indagate o imputate
tempestive informazioni “almeno” su: il diritto all’avvocato; il gratuito patrocinio; il diritto a essere informato dell’accusa; il diritto all’interprete e alla traduzione; il diritto al silenzio. L’adempimento può
avvenire in forma orale o scritta, purché in un linguaggio semplice e accessibile e tenendo conto delle
particolari esigenze legate alla eventuale condizione di vulnerabilità dell’interessato (art. 3, direttiva
2012/13/UE) 35. In sostanza, non pare opportuno lasciare solo alle capacità e alla correttezza deontologica del difensore il compito di informare l’assistito su cosa può fare nel procedimento che lo riguarda 36.
La prerogativa va riconosciuta “tempestivamente” e, secondo quanto precisato dal Considerando n.
19 della direttiva, «al più tardi anteriormente al primo interrogatorio degli indagati o imputati da parte
della polizia o di un’altra autorità competente» 37.
Per lo specifico ambito delle misure cautelari e precautelari 38, è prevista la “comunicazione dei diritti” (art. 4, direttiva 2012/13/UE), che deve avere la forma scritta 39 e menzionare: il diritto di accesso alla documentazione di indagine, il diritto di informare le autorità consolari e un’altra persona, il diritto
di accesso all’assistenza medica di urgenza, il numero massimo di ore o giorni in cui l’indagato o
l’imputato può essere privato della libertà prima di essere condotto dinanzi a un’autorità giudiziaria. A
ciò si aggiunga l’indicazione dei mezzi di impugnazione eventualmente a disposizione della persona in
vinculis 40. Emerge, così, la necessità non solo di riconoscere la titolarità di determinate prerogative, ma
33
In contrasto con tale spirito risulterebbero, ad esempio, affermazioni secondo cui «l’inosservanza dell’obbligo, imposto
dall’art. 293, comma 1, all’ufficiale o all’agente incaricato dell’esecuzione dell’ordinanza impositiva della custodia cautelare, di
avvertire l’indagato della facoltà di nominare un difensore di fiducia, importa una mera irregolarità dell’atto, non suscettibile di
produrre conseguenze giuridicamente rilevanti (Cass., sez. I, 4 ottobre 1995, n. 4467, in CED Cass. n. 202386).
34
V., supra, par. 1.
35
Tale condizione di vulnerabilità rilevante ai fini della comprensione del contenuto o del significato delle informazioni può
derivare, ad esempio, dalla giovane età o dalle condizioni mentali o fisiche del destinatario (Considerando n. 26).
36
Cfr. Cass., sez. III, 19 settembre 2008, n. 40505, in CED Cass. n. 241421, secondo cui l’obbligo di informazione alla persona
sottoposta alle indagini di cui all’art. 369 bis c.p.p. è escluso ove esista già agli atti la nomina del difensore di fiducia.
37
La rilevata limitazione applicativa (v., supra, § 1) dell’art. 369 bis c.p.p. all’ipotesi di indagato senza difensore appare in
contrasto con la scelta operata dalla direttiva 2012/13/UE di riconoscere a tutti il diritto all’informazione (art. 3 e 4).
38
Nonostante l’art. 4 della direttiva 2012/13/UE riferisca la comunicazione dei diritti al “momento dell’arresto”, non v’è
dubbio che le relative norme vanno certamente riferite a qualsiasi restrizione della libertà personale.
39
L’Allegato I alla Direttiva contiene un modello indicativo di comunicazione modificabile a seguito della relazione della
Commissione sull’attuazione della direttiva e una volta che tutte le misure della “tabella di marcia” sono entrate in vigore (Considerando n. 22).
40
Dalla lettura del Considerando n. 22 della Direttiva 2012/13/UE, emerge ancora più chiaramente che la prescrizione non
riguarda l’obbligo di prevedere i mezzi di impugnazione, ma solo di informarne il soggetto «laddove e nella misura in cui tale
diritto esista nel diritto nazionale».
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anche di renderne consapevole l’interessato al fine di poterle esercitare 41; pertanto, il soggetto arrestato
deve essere informato circa tutte le possibilità di contestare la legittimità dell’arresto, ottenere un riesame della detenzione o presentare una domanda di liberazione provvisoria.
Alla luce di quanto precedentemente osservato sui diritti di informazione dell’arrestato/detenuto
prima del d.lgs. n. 101/2014, la novità innalza il livello di garanzie minime. L’obbligo di comunicare i
diritti di difesa all’interessato non dipende più dall’eventuale svolgimento di un atto garantito del pubblico ministero; in caso di esecuzione di una misura cautelare, il meccanismo informativo si attiva autonomamente.
Sul punto, il d.lgs. n. 101/2014 modifica, innanzitutto, dall’art. 293, comma 1, c.p.p., ricalcando le
previsioni della direttiva – di cui si è già detto – quanto ai contenuti informativi specifici.
Al riguardo, si segnalano due tratti degni di autonoma considerazione, in tema di lingua degli atti 42
e ambito applicativo della norma.
Nella declinazione nazionale della letter of rights, l’oggetto del diritto all’interprete e alla traduzione
passa dai “documenti essenziali” agli “atti fondamentali”. Al di là delle esigenze di traduzione (non si
poteva mantenere il concetto di documenti, categoria bene individuata nell’ambito delle prove), la delimitazione europea della prerogativa in questione (operata, in realtà, con l’Allegato I alla direttiva) pone un argine mobile – definito ope iudicis – alla quantità di materiale che deve essere tradotto in una lingua comprensibile all’indagato/imputato. Purtroppo, la disomogeneità degli ordinamenti destinatari
della direttiva non permetteva, evidentemente, una maggiore determinatezza.
Sempre sullo stesso tema, l’art. 293, comma 1 bis, c.p.p. tiene conto dell’evenienza dell’indisponibilità di una comunicazione scritta in una lingua comprensibile all’imputato. Qui, si prescrive che le informazioni siano date oralmente, salvo integrare “senza ritardo” la formalità scritta; dunque, chi esegue
la misura non può lasciare irrisolto il problema di non fare comprendere la comunicazione al destinatario della misura.
Anche la definizione della platea dei destinatari della comunicazione dei diritti in sede di esecuzione
cautelare potrebbe comportare contrasti interpretativi. Già si è detto che lo strumento informativo predisposto dall’art. 369 bis c.p.p. opera in occasione del compimento di un atto garantito o (come ora innovato) al più tardi al momento della conclusione delle indagini, ma solo nei confronti di chi non abbia
nominato un proprio difensore 43. La formulazione dell’art. 293, comma 1, c.p.p. e la direttiva stessa, invece, non riportano la stessa limitazione; cosicché viene da pensare che la comunicazione dei diritti sia
effettuata all’arrestato anche se dotato di difensore di fiducia. L’unica fonte da cui potrebbero emergere
opinioni contrarie è l’avviso relativo alla facoltà di nominare un difensore di fiducia (contemplato
dall’art. 293, comma 1, lett. a), c.p.p.; da qui, l’eventuale corollario che la norma riguarderebbe solo chi
sia assistito da un difensore d’ufficio. Una simile lettura incontrerebbe, tuttavia, ostacoli di diversa portata. Innanzitutto, non esiste alcun accenno in tal senso nella direttiva che, anzi, nel precisare oggetto e
ambito di applicazione (artt. 1 e 2), è perentoria nel rivolgersi tout court alle “persone indagate o imputate”; per sostenere l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 293, comma 1, c.p.p. nei confronti di chi sia
già assistito da un difensore di fiducia, dunque, si dovrebbe postulare un possibile contrasto tra la
normativa interna e la fonte sovraordinata. In secondo luogo, le perplessità si addensano sull’interpretazione restrittiva pensando alla possibilità che la nomina dell’avvocato per l’arrestato avvenga da parte di un prossimo congiunto (art. 96, comma 3, c.p.p.): escludere il diritto informativo in simili ipotesi
implicherebbe che la sua sussistenza dipende dalla scelta di un terzo. Si potrebbe ammettere, invece,
che solo i contenuti dell’art. 293, comma 1, lett. a), c.p.p. (l’avviso all’interessato del diritto a scegliersi
un avvocato) attengono esclusivamente al soggetto sfornito di difensore di fiducia; mentre mancano ragioni giustificative per non comunicare a tutti gli altri avvisi che seguono nell’elenco. Qui è in gioco
l’autodifesa consapevole dell’arrestato nel momento in cui i rapporti con il patrocinatore diventano più
difficili rispetto a quelli di cui gode il soggetto il stato di libertà.
La norma di chiusura è contenuta nell’art. 294, comma 1 bis, c.p.p. in cui si prescrive che il giudice, in
41
«Per esercitare pienamente i diritti della difesa, bisogna conoscerli», queste le parole del Vicepresidente della Commissione UE, Viviane Reding, nella presentazione della proposto di direttiva sul diritto all’informazione (in C. Camaldo, op. cit., p. 17).
42
In materia, D. Curtotti, La normativa in tema di assistenza linguistica, cit., p. 115 ss.; M. Gialuz, La lingua come diritto: il diritto
all’interpretazione e alla traduzione nel processo penale, in AA. VV., Processo penale, lingua e Unione Europea, Padova, 2013, p. 227 ss.
43
V., supra, nota 5.
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sede di interrogatorio di garanzia, verifichi il rispetto della comunicazione dei diritti e, se del caso,
provveda a completarla; non è prevista, quindi, una ipotesi espressa di invalidità degli atti successivi. Si
potrebbe argomentare che, invero, nel caso in esame non si sta compiendo alcuna attività idonea ad incidere sul futuro giudizio 44; dal punto di vista investigativo-probatorio, in altre parole, si gioca a bocce
ferme. Tuttavia, è sufficiente richiamare le premesse dell’intervento riformatore sovranazionale per sostenere un’innegabile violazione del diritto di difesa laddove la lacuna informativa permanga o alle
proposizioni correttive dell’informazione il giudice non affianchi un tempo ragionevole durante il quale consentire un nuovo consulto con il difensore.
Il d.lgs. n. 101/2014 novella, altresì, gli artt. 386 e 391 c.p.p. riproponendo, in virtù del parallelismo
con il procedimento applicativo di una misura coercitiva, lo schema appena conosciuto 45.
La direttiva rileva, poi, come il diritto all’informazione «dovrebbe applicarsi anche, mutatis mutandis,
alle persone arrestate in esecuzione di un mandato di arresto europeo» (Considerando n. 39) e predispone un modello per assistere gli Stati membri nell’elaborazione della comunicazione dei diritti per
tali soggetti. L’art. 5 della direttiva 2012/13/UE ribadisce, dunque, che la comunicazione deve essere
fornita tempestivamente e includere i diritti di cui alla normativa di attuazione interna della decisione
quadro 2002/584/GAI così come attuata nell’ordinamento interno. Così, l’art. 2, d.lgs. n. 101, modifica
l’art. 12, comma 1, l. 22 aprile 2005, n. 69, prevedendo «la consegna [alla persona arrestata] di una comunicazione scritta, redatta in forma chiara e precisa, che la informa» della possibilità di acconsentire
alla propria consegna, della facoltà di nominare un difensore di fiducia e del diritto all’interprete.
L’adeguamento è limitato all’aggiunta della forma scritta della comunicazione, come del resto stabilito
dalla fonte comunitaria che, come visto, ricostruisce il contenuto della comunicazione avendo come riferimento l’attuazione interna della decisione quadro 2002/584/GAI. Da un raffronto con il modello di
comunicazione allegato alla direttiva 2012/13/UE, emerge la mancata previsione, nell’art. 12, l. n.
69/2005, dell’informazione circa il prosieguo del procedimento (udienza di convalida).
(SEGUE): DIRITTO ALL’INFORMAZIONE SULL’ACCUSA
Il profilo concernente il merito dell’accusa viene approfondito dall’art. 6, direttiva n. 2012/13/UE che, al
riguardo, si riferisce alle “informazioni sul reato”; la portata della formula – potenziale fonte di ambiguità
essendo riconducibile sia alla fattispecie astratta, sia al “fatto” – è chiarita nel periodo successivo laddove
si puntualizza l’obbligo di fornire «tutti i dettagli necessari al fine di garantire l’equità del processo e
l’esercizio effettivo dei diritti di difesa» 46. È da escludere, anche in considerazione della ratio normativa
protesa a rendere effettivo il diritto di difesa, la possibilità di ridurre l’adempimento alla mera indicazione
delle norme violate con gli estremi della data e del luogo 47. Del resto, il Considerando n. 28 della direttiva
fa riferimento a «una descrizione dei fatti, compresi, se noti, l’ora e il luogo, relativi al reato che le persone
sono sospettate o accusate di aver commesso e la possibile qualificazione giuridica del fatto».
Sul piano del diritto interno, ricadute indirette sulla conoscenza dell’accusa e di “tutti i dettagli necessari” possono concentrarsi sulla possibilità, allo stato, concessa al p.m. di mantenere il segreto su
elementi estranei a quelli che supportano la domanda cautelare; alla parziale trasmissione del materiale
investigativo raccolto può conseguire, infatti, una zona d’ombra su alcuni “dettagli” dell’accusa 48. A
44
Cfr. S. Ciampi, op. cit., p. 26.
45
Si rammenta che, in precedenza, la Corte di cassazione aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 369 bis c.p.p. relativamente alla mancata previsione dell’obbligo anche in casi di arresto operato dalla p.g., «in riferimento al quale, gli agenti di polizia giudiziaria sono comunque tenuti agli adempimenti disciplinati dall’art. 386 c.p.p.» (Cass.
sez. IV, 29 gennaio 2003, n. 35935, in CED Cass. n. 226194).
46
A tale proposito, il Considerando n. 14 della direttiva fa espresso riferimento al «termine “accusa” utilizzato nell’articolo
6, paragrafo 1, della CEDU». Il giudice di Strasburgo ha affrontato il tema, giungendo alla conclusione che il concetto di “accusa” ha autonoma portata e prescinde dalle varie declinazioni operate dagli ordinamenti giuridici interni (Corte e.d.u., 26 marzo
1982, Adolf c. Austria, § 30). Alla luce di ciò, l’accusa può definirsi come la notifica ufficiale, a un individuo da parte
dell’autorità competente, di una contestazione della commissione di un fatto di reato ovvero la possibilità di ravvisare “ripercussioni importanti sulla situazione” del soggetto interessato (Corte e.d.u., 15 luglio 1982, Eckle c. Germania, § 73).
47
A prescindere dalle concrete difficoltà che potrebbe incontrare il soggetto in vinculis nel decifrare la contestazione della
semplice fattispecie astratta, rimarrebbe, comunque, compromessa la possibilità di predisporre efficacemente le proprie difese.
48
V. Cass., sez. VI, 24 ottobre 2008, n. 39923, in CED Cass. n. 241874 (che afferma la legittimità della trasmissione del verbale
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parte ciò, la struttura dell’ordinanza cautelare (conoscibile da parte dell’interessato al momento dell’esecuzione della misura cautelare) sembra soddisfare l’esigenza informativa, a meno di ridimensionamenti eclatanti (ipotizzabili in sede operativa) della sommaria descrizione del fatto stabilita dall’art. 292
c.p.p. 49.
Problemi più delicati raggiungono invece quelle posizioni interpretative le quali, fino ad oggi, hanno
ritenuto sufficiente «che tali elementi siano ricavabili dalla richiesta del p.m., cui nell’ordinanza sia stato fatto espresso richiamo» 50; ciò per il semplice fatto che tale forma di surroga (attuata solo con l’accesso alla richiesta del pubblico ministero depositata insieme agli atti) non pare soddisfare l’esigenza di
informare “tempestivamente” l’interessato (art. 5, direttiva n. 2012/13/UE).
(SEGUE) : DIRITTO DI ACCESSO AL MATERIALE DI INDAGINE
L’informazione attinente al “diritto di accesso alla documentazione di indagine” (art. 4 direttiva 2012/
13/UE) è trattato (art. 7) specificando che il diritto riguarda «i documenti relativi al caso specifico, che
sono essenziali per impugnare la legittimità dell’arresto o della detenzione»; la stessa disposizione continua precisando che occorre garantire «l’accesso almeno a tutto il materiale probatorio in possesso delle autorità competenti, sia esso a favore o contro l’imputato o l’indagato». A corredo della norma sta
quanto precisato dal combinato dei Considerando nn. 30 e 31 in virtù dei quali la disponibilità degli atti
dovrebbe riguardare (al più tardi prima della verifica giurisdizionale di legittimità della restrizione)
«qualsiasi documento e, se del caso, fotografia e registrazione audio e video» utile a difendersi.
Tuttavia, è, poi, prevista una deroga (art. 7, par. 4, direttiva 2012/13/UE) in favore della segretezza
«purché ciò non pregiudichi il diritto a un processo equo» in casi particolari dettati da «una grave minaccia per la vita o per i diritti fondamentali di un’altra persona o se… è strettamente necessario per la
salvaguardia di interessi pubblici importanti, come in casi in cui l’accesso possa mettere a repentaglio le
indagini in corso, o qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato». Appaiono
solo in parte riproposte le logiche di rimettere completamente nelle mani dell’autorità giudiziaria la
modulazione della trasparenza investigativa 51. In effetti, la direttiva introduce dei parametri in base ai
quali effettuare tale scelta, lasciando emergere il canone della “proporzionalità” della segretazione (“se
… è strettamente necessario”), evidentemente misurata sul tipo d’indagine, e limitando l’intervento ai
casi in cui la desegretazione pregiudichi radicalmente l’opera investigativa (“mette a repentaglio le indagini in corso”) 52.
Nondimeno, il d.lgs. n. 101/2014 sembra essersi completamente disinteressato del bilanciamento
suggerito dalla direttiva, lasciando intatta la libertà del pubblico ministero di modulare l’accesso al materiale investigativo secondo (solo) le proprie esigenze senza, pertanto, introdurre un dovere motivare
in ordine alla sussistenza di quei requisiti che la direttiva pone a salvaguardia della segretazione.
Sul punto, il d.lgs. n. 101/2014 lascia, così, impregiudicata l’esigenza di mantenere fermi gli spazi attuali nell’ambito dei quali all’interessato è garantito «il diritto di accedere agli atti sui quali si fonda il
provvedimento». La disciplina italiana, in ordine al potere di scelta riservato al pubblico ministero di
allegare alla domanda cautelare gli atti che egli ritiene opportuni non pare in sintonia con la logica comunitaria che propende verso il principio di trasparenza in nome del diritto di difesa.
di arresto in luogo delle riprese filmate dell’avvenimento); Cass., sez. V, 16 giugno 2004, n. 39950, in CED Cass. n. 229896. Sul
punto, G. Spangher, sub art. 291 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher, Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, p. 3067.
49
V., a tale proposito, Cass., sez. un., 3 settembre 1999, n. 16, in Cass. pen., 2000, p. 858, secondo cui il requisito in questione «può
dirsi soddisfatto quando i fatti addebitati siano indicati in modo tale che l’interessato ne abbia immediata e compiuta conoscenza, a
nulla rilevando che risultino richiamati esclusivamente gli articoli di legge relativi all’oggetto della contestazione». In materia, v. G.
Ciani, sub art. 292, in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, III, Torino, 1990, p. 167.
50
Così, Cass., sez. I, 17 giugno 2003, in Cass. pen., 2005, p. 524. In senso contrario, Cass., sez. V, 7 marzo 2007, in CED Cass. n.
236148, per cui la descrizione «deve risultare in modo inequivocabile, e sin dal momento dell’emissione, dal contesto del provvedimento».
51
È un orientamento costante. Per tutte, Cass., sez. un., 30 settembre 2012, n. 36212, in www.processopenaleegiustizia.it, in cui si
rileva che «il diritto di difesa subisce necessarie limitazioni finalizzate alla tutela di altri interessi che, in particolare frangenti,
risultano preminenti (si pensi, a puro titolo esemplificativo, all’eventuale necessità di proteggere i testimoni da ritorsioni)».
52
Per altro verso, l’indicazione – sempre ad opera della direttiva in esame – dell’“autorità giudiziaria” come organo di garanzia per il rifiuto dell’accesso, non offre ulteriori spunti per allargare le prerogative già esistenti nell’ordinamento nazionale.
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | LE REGOLE DEONTOLOGICHE DELL’AVVOCATO PENALISTA
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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ALESSANDRO DIDDI
Ricercatore di Procedura penale – Università di Roma Tor Vergata
Le regole deontologiche dell’avvocato penalista
Defence attorney’s professional and ethical rules
Il 15 dicembre 2014 sono entrate in vigore le nuove norme deontologiche del difensore le quali prevedono un minuzioso catalogo di regole di condotta cui egli deve attenersi nello svolgimento dell’attività professionale. Esse,
però, oltre ad esaltare la «funzione sociale» che svolge il difensore ed a definire «i fini della giustizia» che costui
persegue con il suo ministero, costituiscono canoni di comportamento da osservare nel corso del processo che
esplicano anche una funzione di profilassi processuale.
From december 15th 2014 we have a systematic and detailed list of new ethical rules to be observed by defence
attorneys. The reform emphasizes, in addition to the relevant social role related to the accused person’s defence,
also the fundamental function of the latter to prevent the failure of the whole judicial system.
RILIEVI INTRODUTTIVI
Il 15 dicembre 2014 è entrato in vigore il nuovo il Nuovo Codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31 gennaio 2014 1.
Come noto, in base al combinato disposto degli artt. art. 35, comma 1, lett. d) e 65, comma 5, l. 31 dicembre 2012, n. 247 2, al Consiglio Nazionale Forense spetta, tra l’altro, di emanare, aggiornare periodicamente il codice deontologico, curarne la pubblicazione e la diffusione in modo da favorirne la più
ampia conoscenza, sentiti i consigli dell’ordine circondariali. Secondo la disposizione citata, a tali compiti il Consiglio adempie a tali compiti avvalendosi anche di una propria commissione consultiva presieduta dal suo presidente o da altro consigliere da lui delegato e formata, oltre che da componenti del
Consiglio nazionale stesso, anche da consiglieri designati dagli ordini in base ad un proprio regolamento interno. Con qualche mese di anticipo rispetto alla tabella di marcia – il Consiglio, infatti, doveva
emanare il codice entro il termine massimo di un anno dalla data di entrata in vigore della legge – il
nuovo testo ha visto la luce.
Va messo in evidenza come la circostanza che l’organo istituzionalmente preposto alla funzione di
rappresentanza dell’avvocatura 3 sia chiamato per legge a fissare i principi ai quali l’avvocato deve uniformarsi nello svolgimento della professione – pena l’integrazione di violazioni di carattere disciplinare
– rappresenta un’assoluta novità sul piano delle fonti del diritto in quanto, per effetto di tale rinvio, per
la prima volta le regole deontologiche emanate dal Consiglio Nazionale Forense sono espressamene
elevate a rango di disposizioni riconosciute a livello normativo 4.
1
Il Codice è stato pubblicato in Gazz. uff., Serie generale, 16 ottobre 2014, n. 241. Per un primo commento alle nuove norme,
cfr. E. Randazzo (a cura di), Il penalista e il nuovo codice deontologico, Milano, 2014.
2
Sull’argomento, sia permesso rinviare a A. Diddi, Profili processuali della nuova disciplina dell’ordinamento forense, in questa
Rivista, 2013, n. 6, p. 91 e ss.
3
Per tale definizione, cfr. G. Scarcelli, Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 2004, p. 280.
4
Rileva la indubbia portata innovativa della previsione contenuta nell’art. 3 della legge n. 247 del 2012, S. Borsacchi, Presentazione. Com’è nato il nuovo codice, in Randazzo (a cura di), Il penalista e il nuovo codice deontologico, cit., p. X.
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Si rammenta, a tale riguardo, che la precedente legge sull’ordinamento professionale contenuta nel
r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 non prevedeva le norme deontologiche ed i canoni ai quali l’avvocato
doveva conformare il proprio comportamento erano affidati unicamente a quanto disponeva l’art. 12
che statuiva che «gli avvocati debbono adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, come si conviene
all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia». Nessuna ulteriore specificazione era enucleabile dalla citata legge di ordinamento professionale per dotare di maggiore
peculiarità il contenuto dei doveri comportamentali del difensore, né vi era alcun richiamo ad eventuali
fonti di rango inferiore che avrebbero dovuto puntualizzarli. Anche l’art. 38, a proposito della responsabilità professionale, prevedeva in maniera del tutto generica che l’avvocato potesse essere sottoposto
a procedimento disciplinare nel caso di abusi o mancanze nell’esercizio della professione o, comunque,
di commissione di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale.
Solamente talune disposizioni extra vagantes consentivano di poter meglio definire la portata dei doveri
del difensore, ma si trattava di previsioni isolate e di settore. Per quanto riguarda l’avvocato penalista,
l’art. 105 c.p.p., ad esempio, nel prevedere che l’autorità giudiziaria riferisce al consiglio dell’ordine i casi
di abbandono della difesa, di rifiuto della difesa di ufficio nonché i casi di violazione, da parte del difensore, dei doveri di lealtà e probità, poteva (e può) a tutti gli effetti essere considerata una disposizione di carattere deontologico. Ma al di fuori di tali casi (e pochi altri sui quali ci si soffermerà), tuttavia, balzava
evidente il deficit di tassatività delle previsioni contenenti le regole di comportamento degli avvocati e
proprio per definire le incertezze dei confini tra il lecito e l’illecito, nel 1997, su iniziativa del Consiglio
Nazionale Forense, aveva visto la luce il primo codice deontologico forense 5 che, secondo la dottrina, non
era un vero atto avente forza di legge bensì «di regolamento interno alla categoria» 6.
Va notato, a tale riguardo, come, anche da un punto di vista storico, la disciplina delle professioni si
sia sempre «basata sull’organizzazione dei relativi gruppi professionali» dando vita ad «ordinamenti
giuridici particolari, per ogni professione, ciascuno dei quali ha una propria normazione che si pone,
secondo i casi, in situazioni di indifferenza, di autonomia o di soggezione rispetto all’ordinamento giuridico generale» 7. Soprattutto, ha rappresentato una costante dei vari ordinamenti giuridici che l’azione
reciproca dei componenti del gruppo e la loro omogeneità di occupazione determina «la formazione di
regole di condotta che prendono origine dalla morale comune, ma che poi ulteriormente si qualificano
per la sensibilità etica e culturale dei professionisti e per la molteplicità delle istanze umane che l’esercizio della professione pone continuamente innanzi a ciascuno di loro» 8.
Non può passare inosservato, d’altro canto, che sebbene le prestazioni dell’avvocato si caratterizzino
essenzialmente per l’esecuzione di un servizio che trova la propria regolamentazione giuridica nel contratto d’opera disciplinato dall’art. 2222 c.c. e che sia essenziale alla sua funzione potersi avvalere di
un’organizzazione scevra da particolari vincoli, egli partecipa indefettibilmente alla formazione del
giudizio. È, pertanto, fatale che accanto all’interesse particolare e privato se ne insinui uno generale
«che condiziona l’interesse particolare, e si manifesta con una varia normativa, che nel suo complesso
costituisce l’ordinamento della professione» 9.
Accanto a funzioni di opera meramente privatistiche, infatti, l’avvocato esercita il proprio ministero
nel processo penale, civile e amministrativo ed in considerazione del fatto che con il suo ruolo egli contribuisce alla decisione finale, la sua attività tocca evidentemente interessi che fuoriescono dall’ambito
strettamente privatistico del rapporto con il proprio assistito.
Si deve rammentare, a tale riguardo, non solo che in base all’art. 359, comma 1, n. 1, c.p. i privati che
esercitano professioni forensi sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità 10 ma la giu-
5
Il codice è poi stato modificato ed aggiornato con le delibere adottate il 16 ottobre 1999, il 26 ottobre 2002, il 27 gennaio
2006, il 14 dicembre 2006 (in attuazione della legge 4 agosto 2006, n. 248), il 18 gennaio 2007, il 12 giugno 2008, il 15 luglio 2011
ed il 16 dicembre 2011.
6
Così, G. Scarcelli, Ordinamento giudiziario, cit., p. 286.
7
P. Piscione, Professioni (disciplina), in Enc. dir., Vol.XXXVI, Milano, 1987, p. 1040.
8
P. Piscione, Professioni (disciplina), cit., p. 1049.
9
S. Satta, Avvocato (ordinamento), in Enc. dir., Vol. IV, Milano, 1959, p. 653.
10
E, pertanto, nel caso in cui l’avvocato attesti falsamente l’autenticità della sottoscrizione della procura “ad litem” commette
il reato di falso ideologico in certificati commesso da persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi dell’art. 481 c.p.
(cfr. Cass.sez.V, 9 marzo 2011, n. 15556; conf. Cass., Sez.V, 14 giugno 2005, n. 22496).
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risprudenza, proprio con riferimento a talune funzioni svolte dall’avvocato, come si vedrà, riconosce
anche la qualifica di pubblico ufficiale.
Sebbene non si fosse mai dubitato che le norme deontologiche, pur costituenti un complesso di regole di condotte che si ispirano all’etica ed alla prassi forense 11, fossero anche norme giuridiche dalla violazione delle quali dovesse conseguire l’applicazione di una sanzione giuridica 12, la nuova legge sull’ordinamento professionale ha, dunque, definitivamente chiarito che il potere di autoregolamentazione
dell’associazione per definire l’ampiezza di quelle formule (lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e
competenza), adottate dal legislatore per indicare le azioni o le omissioni disciplinarmente rilevanti,
svolge una funzione integrativa del precetto legislativo 13. Ed infatti, in base all’art. 3, comma 3, l. n.
247/2012, tali norme, per quanto possibile, non solo devono essere caratterizzate dall’osservanza del
principio della tipizzazione della condotta, ma devono contenere l’espressa indicazione della sanzione
applicabile.
Ancorché le disposizioni contenute nel codice deontologico non riguardano una particolare funzione o
attività dell’avvocato, cionondimeno alcune regole concernono esclusivamente la professione del difensore penalista e, comunque, si attagliano precipuamente alla sua funzione.
LE REGOLE DI COMPORTAMENTO DELL’AVVOCATO PENALISTA
In forza dell’art. 3, l. n. 247/2012, il codice deontologico non solo deve stabilire le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare, oltre che in via generale anche, specificamente, nei suoi
rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti, ma deve espressamente individuare fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico
interesse, hanno rilevanza disciplinare.
Va precisato, peraltro, come accennato, che le fonti dei doveri dell’avvocato non sono deducibili solo
dal codice di deontologia forense.
Molti doveri dell’avvocato, infatti, sono scritti anche nel codice di procedura penale. Ai sensi
dell’art. 97, comma 5, c.p.p. il difensore di ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio; l’art. 105 c.p.p.,
come pure ricordato, demanda al consiglio dell’ordine forense la competenza esclusiva per le sanzioni
disciplinari relative all’abbandono della difesa o al rifiuto della difesa di ufficio ed alla violazione dei
doveri di lealtà e probità; l’art. 106, comma 4 bis, c.p.p., fa divieto al difensore di assumere la difesa di
più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 o collegato ai sensi dell’art. 371,
comma 2, lett. b); l’art. 391 bis, ancora, prevede che il difensore che conferisca o riceva informazioni da
persone che possono riferire circostanze o fatti, deve osservare alcune prescrizioni dalla violazione delle quali scaturisce responsabilità disciplinare. Altre regole comportamentali, come si dirà, sono poi sicuramente deducibili dalle disposizioni previste per il dibattimento.
Per tentare di tracciare le linee portanti dell’insieme delle norme di comportamento che devono essere osservate dall’avvocato penalista nell’esercizio della sua funzione, sembra opportuno selezionare i
differenti ambiti in cui esse possono trovare applicazioni distinguendo le disposizioni che regolano i
11
Cfr., sul punto, R. Danovi, Corso di ordinamento forense e deontologia, II ed., Milano, 1990, 231.
12
Così, ancora, R. Danovi, Corso di ordinamento professionale, cit., p. 235. In giurisprudenza, Cass., sez. un., 6 giugno 2002, n.
8225, in Foro it., 2003, I, 245, secondo la quale «In questa prospettiva le norme del codice deontologico approvato dal Consiglio
nazionale forense il 14 aprile 1997 si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria,
che trovano fondamento nel principi dettati dalla legge professionale forense di cui al r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, ed in particolare nell’art. 12, comma 1, che impone agli avvocati di “adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia”, e nell’art. 38 comma 1, ai
sensi del quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o mancanze
nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”».
13
Cfr., in giurisprudenza, Cass., sez. un., 6 giugno 2002, n. 8225, cit., secondo la quale «le norme del codice deontologico forense elencanti i comportamenti che il professionista deve tenere con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, con i
magistrati ed i terzi, costituiscono mere esplicitazioni esemplificative dei principi generali, contenuti nella legge professionale
forense e nello stesso codice deontologico, di dignità, di lealtà, di probità e di decoro professionale, e, in quanto prive di ogni
efficacia limitativa della portata di detti principi, sono inidonee ad esaurire la tipologia delle violazioni disciplinarmente rilevanti».
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rapporti con i magistrati e con il cliente da quelle che devono essere osservate nello svolgimento delle
attività difensive nel corso del dibattimento e, infine, nel rapporto con gli organi di informazione.
I RAPPORTI CON I MAGISTRATI
La professione dell’avvocato penalista, molto più di quella dell’avvocato specializzato in altri settori, ha
una maggiore esigenza di avere contatti con i magistrati. La funzione dell’avvocato penalista, infatti, è
fatalmente destinata a rapportarsi quasi quotidianamente con l’autorità giudiziaria anche al di fuori
delle aule di udienza.
Una posizione particolare viene anzitutto svolta dal difensore della persona offesa il quale, nel corso
delle indagini preliminari, per la tutela degli interessi della parte che assiste, ha fisiologicamente necessità di cooperare con il pubblico ministero 14.
Anche al di fuori di tali ipotesi, il difensore molto spesso ha necessità di richiedere una collaborazione agli organi giudiziari per poter compiere talune attività come, ad esempio, per il reperimento del
domicilio delle persone offese nel caso in cui, ai sensi dell’art. 299, comma 3, c.p.p., occorra notificare ad
esse le istanze di modificazione e/o di revoca delle misure cautelari disposte nell’ambito di procedimenti per reati commessi con violenza sulle persone.
Va ancora ricordato che proprio nell’ambito del procedimento penale, il difensore può dover svolgere autentiche attività negoziali con il pubblico ministero come nel caso della richiesta di applicazione
della pena ovvero nell’ipotesi di richiesta di messa alla prova.
Oltre all’art. 52, in base al quale l’avvocato deve evitare espressioni offensive o sconvenienti negli
scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività professionale, nei confronti di colleghi, di controparti, di
terzi ed ovviamente di magistrati, il codice deontologico, all’art. 53, elenca una serie di doveri che devono essere osservati, a pena della sanzione disciplinare della censura, nei rapporti con gli organi giudiziari. In particolare, in tali ipotesi, i rapporti devono essere improntati a dignità e a reciproco rispetto
senza approfittare di eventuali rapporti di amicizia, familiarità o confidenza per ottenere o richiedere
favori e preferenze.
La cura di tali doveri è particolarmente delicata non soltanto perché essa impone all’avvocato penalista di mantenere un comportamento di estrema onestà intellettuale e distacco, ma lo vincola ad una
condotta corretta anche con il proprio cliente al quale, in base all’art. 53, non deve ostentare l’esistenza
di eventuali rapporti privilegiati con i magistrati.
Si rammenta, a tale riguardo, non solo che, in base all’art. 391 c.p., commette reato il patrocinatore
che, millantando credito presso il giudice o il pubblico ministero che deve concludere, riceve, fa dare o
promettere dal suo cliente, a sé o ad un terzo, denaro o altra utilità, col pretesto di doversi procurare il
favore del giudice o del pubblico ministero ovvero di doverli remunerare ma che, in base all’art. 346 bis
c.p., introdotto dall’art. 1, comma 75, l. 6 novembre 2012, n. 190, commette il reato di traffico di influenze aggravato dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di
cui agli artt. 319 e 319 ter c.p., sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo
di un atto del suo ufficio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad atri, denaro o altro vantaggio
patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale.
Sebbene nelle ipotesi di cui ai citati artt. 391 e 346 bis c.p. il comportamento dell’avvocato sia connotato da elementi che lo avvicinano alla truffa ed alla corruzione, è evidente come, anche senza immaginare comportamenti trasmodanti nel campo dell’illecito, l’avvocato non debba in ogni caso mai far pesare con il proprio cliente i suoi rapporti personali con il magistrato onde evitare anche il sospetto che il
corso dell’attività giudiziaria possa dipendere dalle relazione personali piuttosto che dalla astratta volontà della legge.
14
Secondo la Rel. al progetto prel. c.p.p., in Gazz. Uff., 24 ottobre 1988, supp. ord., n. 250, la sfera di azione processuale della
persona offesa e degli enti e le associazioni portatori di interessi esponenziali tende a realizzare «forme di “adesione” all’attività
del pubblico ministero ovvero di “controllo” su essa».
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I RAPPORTI CON IL CLIENTE
È soprattutto nei confronti del cliente che l’avvocato penalista ha doveri deontologici particolarmente
delicati. È innegabile che «l’ufficio di difensore riveste particolare importanza nell’ambito del procedimento penale, in quanto è il mezzo predisposto dalla legge per assicurare all’imputato – e, quando è
previsto, alla persona sottoposta alle indagini – e alle altre parti private l’effettività del diritto di difesa»
e sebbene il sistema penale preveda anche la difesa personale, esercitabile dall’interessato, è altresì incontestabile «che il tecnicismo della procedura penale esige quella competenza professionale che solo il
difensore può assicurare» 15.
Merita di essere ricordato che, in applicazione dell’art. 24 Cost., non solo è previsto che il difensore,
oltre che in base all’incarico ricevuto della parte assistita, può essere nominato ai sensi dell’art. 97, c.p.p.
di ufficio e che, ai sensi dell’art. 98, la legge deve assicurare ai non abbienti il patrocinio a spese dello
Stato ma che, sempre in base all’art. 97, comma 5, c.p.p., è espressamente stabilito che il difensore nominato d’ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio. La disposizione si salda perfettamente con quanto
prescrive l’art. 3, comma 1, l. n. 247/2012 in forza del quale «l’avvocato ha obbligo, se chiamato, di prestare la difesa d’ufficio, in quanto iscritto nell’apposito elenco, e di assicurare il patrocinio in favore dei
non abbienti» 16.
È per questa ragione che costituisce un comportamento astrattamente configurabile come violazione
disciplinare quello dell’abbandono della difesa in quanto esso – al pari del rifiuto della difesa di ufficio
– determina un’obiettiva diminuzione o privazione del diritto di difesa della parte assistita.
A tale proposito va rammentato che, in passato, era stata configurata come un’ipotesi di abbandono
di difesa l’adesione degli avvocati all’astensione dalle udienze proclamate dai diversi organi rappresentativi dell’avvocatura. L’intera materia trova oggi una sua precisa regolamentazione.
Come noto, la legge 12 giugno 1990, n. 146 che disciplinò per la prima volta l’esercizio del diritto di
sciopero nei servizi pubblici essenziali fu dichiarata parzialmente incostituzionale nella parte in cui non
solo non prevedeva che, nel caso di astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati, vi fosse
l’obbligo del congruo preavviso, ma che essa fosse contenuta entro una ragionevole durata e garantisse,
comunque, l’assistenza in relazione ad alcune prestazioni essenziali 17.
In data 6 giugno 1997, fu adottato il Codice di autoregolamentazione dell’astensione collettiva degli avvocati dall’attività giudiziaria che, tuttavia, rimaneva privo di una propria legittimazione giuridica.
Solo con legge 11 aprile 2000, n. 83, infatti, è stato introdotto l’art. 2 bis nella l. n. 146 del 1990 con il
quale è stato esteso anche ai lavoratori autonomi ed ai professionisti (oltre che ai piccoli imprenditori),
l’obbligo di adottare, entro sei mesi, un codice di autoregolamentazione che doveva essere approvato
dalla Commissione di garanzia di cui all’art. 12 della citata legge sull’esercizio del diritto di sciopero.
In data 30 marzo 2000 le diverse associazioni degli avvocati hanno adottato il Codice di autoregolamentazione che, approvato dalla Commissione di garanzia con deliberazione 13 dicembre 2007 n. 7/749, è
stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale 18.
Orbene, anche l’art. 60 del nuovo Codice forense ha ribadito che l’avvocato ha diritto di astenersi dal
partecipare alle udienze ed alle altre attività giudiziarie a condizione, ovviamente, a pena della sanzione disciplinare dell’avvertimento, che ciò sia proclamato dagli Organi forensi e che egli si attenga alle
disposizioni del Codice di autoregolamentazione e alle norme vigenti 19.
A tale riguardo va sottolineato come la giurisprudenza, nell’affermare che il diritto del difensore
all’astensione collettiva di categoria configuri non una mera libertà, bensì un vero e proprio diritto
15
A.A. Dalia-M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, V ed., Padova, 2003, p. 202.
16
In base all’art. 49, comma 1, pena l’applicazione della sanzione della censura, l’avvocato nominato difensore di ufficio deve comunicare alla parte assistita che ha facoltà di scegliersi un difensore di fiducia e informarla che anche il difensore di ufficio
ha diritto ad essere retribuito.
17
Cfr. C. cost., sent. 27 maggio 1996, n. 171, in Giust. pen., 1996, I, 326. La sentenza è pubblicata anche in Giust. civ., con nota
di G. Pera, Sullo sciopero degli avvocati.
18
V. Gazz. uff., 4 gennaio 2008, serie gen., n. 3, p. 51. Recentemente, Cass., sez. un. 29 settembre 2014, n. 40187, in Diritto &
Giustizia, 2014, 30 settembre con nota di G.F. Capitani, L’astensione dell’avvocato: un diritto senza se e senza ma, al giudice residua la
sola verifica sulle condizioni procedimentali del codice di autodisciplina, ha ritenuto che «il codice di autoregolamentazione relativo
alle astensioni dalle udienze da parte degli avvocati ha valore vincolante anche per il giudice».
19
Sul tema, cfr. G. Pacchi, in E. Randazzo (a cura di), Il penalista, cit., p. 159 e ss.
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avente fondamento costituzionale, ha altresì ritenuto che esso possa essere legittimamente esercitato solo a condizione che sia rispettato il Codice di autoregolamentazione che costituisce fonte di diritto oggettivo, contenente norme aventi forza di legge e valore normativo secondario e regolamentare, vincolante
erga omnes alle quali il giudice è soggetto ex art. 107, comma 2 Cost. 20.
È importante osservare, ancora, che, in base ai commi 3 e 4 del citato art. 60 (dalla violazione dei
quali può scattare la sanzione disciplinare della censura), l’avvocato non solo non può aderire o dissociarsi dalla proclamata astensione a seconda delle proprie contingenti convenienze ma, qualora abbia
deciso di aderirvi, non può dissociarsene con riferimento a singole giornate o a proprie specifiche attività né può aderirvi parzialmente, in certi giorni o per particolari proprie attività professionali. In ogni
caso, l’avvocato che eserciti il proprio diritto di non aderire alla astensione deve informare – pena la
sanzione disciplinare dell’avvertimento – con congruo anticipo gli altri difensori costituiti.
In tema di abbandono, va sottolineata l’importanza che assume la disposizione di cui all’art. 105
c.p.p. che non solo – innovando a quanto previsto dal codice 1930 21 – stabilisce, per tutti i casi di abbandono o rifiuto della difesa, la competenza esclusiva del consiglio dell’ordine per l’irrogazione delle
sanzioni disciplinari, ma prevede l’autonomia dell’iter disciplinare stesso rispetto alle vicende del procedimento nel quale i comportamenti censurabili sono stati rilevati statuendo espressamente che il consiglio dell’ordine possa comunque non irrogare alcuna sanzione quando ritenga che l’abbandono ed il
rifiuto di difesa siano giustificati da una violazione dei diritti della difesa. Ed a tale riguardo, poi, è importante notare come a tale conclusione l’organo competente alla irrogazione delle sanzioni disciplinari
possa pervenire ancorché le violazioni siano state escluse dal giudice.
Piuttosto, non passa inosservato come proprio con riferimento a tale profilo il codice – che in base
all’art. 3, comma 3, l. n. 247/2012 avrebbe dovuto contenere norme caratterizzate, per quanto possibile,
dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e dall’espressa indicazione della sanzione applicabile – non delinea una fattispecie ad hoc contenente il relativo trattamento sanzionatorio che,
in questo caso, potrà essere dedotto, per analogia, dalla disciplina della rinunzia al mandato contenuta
nell’art. 32 e di cui si dirà.
In linea generale, nell’ambito dei rapporti con la parte assistita, si sviluppa un fascio di doveri che si
fonda «totalmente sulla fiducia, il che esige lealtà di comportamenti e chiarezza da entrambe le parti» 22.
Il titolo II del codice contiene un lungo elenco di doveri che caratterizzano genericamente l’attività
del difensore. Molte di queste regole di comportamento sembrano non essere applicabili alla professione del penalista (come, ad esempio, il divieto di consigliare azioni inutilmente gravose o di suggerire
comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o fraudolenti [art. 23]). Altre, pur non riguardando specificamente l’avvocato che assume incarichi di assistenza e difesa nel processo penale (come, ad esempio,
l’obbligo di informazione chiara delle caratteristiche e dell’importanza dell’incarico, delle attività da
espletare anche attraverso la precisazione delle iniziative e delle ipotesi di soluzione, della presumibile
durata del processo e dei conseguenti oneri economici nonché della facoltà di avvalersi del patrocinio a
spese dello Stato [art. 27]; il dovere di riserbo e segretezza [art. 28]), non gli sono completamente estranee.
In questo ambito, deve essere ricordato che diverse disposizioni sono finalizzate, da un lato, ad evitare che il difensore operi in conflitto di interessi e, dall’altro, a prevenire il rischio che egli possa agire
senza la necessaria indipendenza ed estraneità.
In base all’art. 23, l’avvocato non deve intrattenere con il cliente rapporti economici, patrimoniali,
commerciali o di qualsiasi altra natura. La disposizione si salda con quanto dispone l’art. 13, l. n.
247/2012 alla stregua del quale «sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in
tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa» 23.
20
Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187, cit. Sull’argomento, anche Cass., sez. un., 30 maggio 2013, n. 267111, in Cass. pen.,
2014, p.32. Nel vigore del codice 1930, l’astensione costituiva un’ipotesi di abbandono della difesa rilevante ai sensi dell’art. 131
c.p.p., abr. riconducibile alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 333 c.p. (abrogato dalla legge 12 giugno 1990, n. 146).
21
Ai sensi dell’art. 131 c.p.p. 1930 il difensore che avesse abbandonato la difesa o si fosse allontanato dall’udienza in modo
che l’imputato fosse rimasto privo di assistenza, ancorché adducendo la violazione del diritto di difesa, poteva essere sospeso
dall’esercizio della professione per un tempo non inferiore a due mese e non superiore a sei mesi e la relativa sanzione veniva
adottata dalla sezione istruttoria presso la corte di appello.
22
Così, R. Danovi, Corso di ordinamento forense, cit., p. 256.
23
Si rammenta, a tale riguardo, che l’art. 45 del Codice deontologico del 1997 prevedeva che «è vietata la pattuizione diretta
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Soprattutto, ai sensi dell’art. 24, l’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando
questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con
lo svolgimento di altro incarico anche non professionale 24. A parte i casi di patrocinio infedele, che ai
sensi dell’art. 380 c.p. ricorre allorquando il patrocinatore arreca nocumento agli interessi della parte da
lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’autorità giudiziaria, rendendosi infedele ai suoi doveri
professionali, nel settore penale situazioni di conflitto sorgono frequentemente nella difesa di più posizioni allorquando il difensore, per sostenere le ragioni di una di esse, si trovi a nuocere le altre affidate
alla sua opera.
Ai sensi dell’art. 24 del codice, ancora, poiché l’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà, deve astenersi dall’assumere la difesa allorquando reputi di non potersi sottrarre da pressioni o condizionamenti di ogni genere anche
correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale e proprio per tale ragione, ai sensi dell’art. 49,
comma 3, l’avvocato indagato o imputato, pena la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale
dai sei mesi ad un anno, non può assumere o mantenere la difesa di altra parte nell’ambito dello stesso
procedimento penale.
Sul punto, occorre ricordare, anche, che, ai sensi dell’art. 106 c.p.p., la difesa di più imputati può essere assunta da un difensore comune, purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili. In
base alla stessa disposizione, qualora l’autorità giudiziaria rilevi una situazione del genere, essa la deve
indicare fissando un termine per rimuoverla e, qualora a ciò non abbiano provveduto le parti, dovrà
provvedere il giudice alle opportune sostituzioni ai sensi dell’art. 97 c.p.p.
Si deve, poi, ricordare, soprattutto con riferimento ai processi che vedono l’intervento di collaboratori di giustizia, che una particolare attenzione deve essere posta nell’assistenza di più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o
in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 o collegato ai sensi dell’art 371, comma 2, lett. b) perché,
anche in questo caso, ai sensi dell’art. 106, comma 4 bis, c.p.p. il difensore non può assumere contemporaneamente la difesa di più dichiaranti 25.
Sebbene dalla violazione di tale disposizione non consegna alcuna invalidità, anche sul punto l’art.
49 del Codice deontologico statuisce, sempre a pena della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale dai sei mesi ad un anno, che l’avvocato non debba assumere la difesa di più indagati o imputati
che abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altro indagato o imputato nel medesimo
procedimento o in un procedimento connesso o collegato.
È utile ricordare che, sempre ai sensi dell’art. 24, poiché l’avvocato deve mantenere il segreto sulle
informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, nel caso in cui per lo svolgimento di un nuovo
mandato egli debba svelare la conoscenza delle informazioni ricevute nell’ambito di un precedente
rapporto professionale con altra parte, deve astenersi dall’assumere l’incarico.
Sempre a proposito del rapporto tra avvocato e cliente vanno ricordate le modalità attraverso le quali esso si può interrompere. Considerata la natura del legame che intercorre tra avvocato e cliente fondato, come detto, sulla fiducia è innegabile che, come il cliente possa in ogni tempo revocare il mandato
conferito al difensore, così questi possa rinunciare al mandato.
A tale riguardo, il Codice deontologico, oltre a prevedere che con l’interruzione del rapporto non cessa
l’obbligo di segreto professionale (art. 28), prescrive che l’avvocato debba comportarsi con le cautele
necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita comunicando alla stessa con un congruo preavviso
ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite. I. È consentita la pattuizione scritta di un supplemento di compenso, in aggiunta a quello
previsto, in caso di esito favorevole della lite, purché sia contenuto in limiti ragionevoli e sia giustificato dal risultato conseguito». L’articolo è stato radicalmente modificato con l’abrogazione della disposizione precedente, in attuazione della legge 4 agosto 2006 n. 248, dapprima nella seduta del 14 dicembre 2006 e, poi, in quella del 12 giugno 2008. Nell’ultima versione esso prevedeva che «È consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti,
fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto
dall’art. 2233 del Codice civile.».
24
Sull’argomento, T. Madia, sub art. 24, in E. Randazzo (a cura di), Il penalista, cit., p. 72 e ss.
25
Cfr. Cass., sez.VI, 11 ottobre 2012, n. 10887, in Cass. pen. 2014, p. 241 secondo la quale l’inosservanza del disposto di cui
all’art. 106 comma 4 bis c.p.p., secondo cui non può essere assunta da uno stesso difensore la difesa di più imputati che abbiano
reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento ovvero in procedimento connesso
o probatoriamente collegato, può comportare la eventuale responsabilità disciplinare del difensore.
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la propria decisione ed informandola di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa. Ancora,
poiché nel processo penale la nomina del difensore e la elezione di domicilio sono due dichiarazioni autonome e distinte e poiché con il recesso del mandato non viene meno la seconda, l’avvocato deve sempre informare la parte assistita delle eventuali comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli
(art. 32).
Particolari cautele sono, poi, da osservare allorquando l’assistenza concerna un imputato irreperibile.
Sebbene in seguito all’abolizione del giudizio contumaciale ad opera della l. 28 aprile 2014, n. 67, le
ipotesi di processi a carico di imputati irreperibili dovrebbero costituire eventualità piuttosto remote,
l’art. 159 c.p.p., contenente le regole per le notificazioni all’imputato in caso di sua irreperibilità, non è
stato intaccato dalla riforma. Tenuto conto che le nuove disposizioni risultano applicabili dopo l’esercizio dell’azione penale, il regime della irreperibilità potrà trovare ancora applicazione nel corso delle indagini preliminari. È, dunque, possibile che prima del giudizio l’avvocato possa essere chiamato ad assistere un soggetto non rintracciato dall’autorità giudiziaria durante il compimento di atti compiuti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero.
In ogni caso, anche al di fuori dei casi di irreperibilità in senso tecnico, il difensore officiato della difesa potrebbe non riuscire più a rintracciare il proprio assistito nel corso del processo 26.
In tutti questi casi, ai sensi dell’art. 32, l’avvocato che intenda rinunciare al mandato deve comunicarlo alla parte mediante lettera raccomandata all’indirizzo anagrafico o all’ultimo domicilio conosciuto
o a mezzo p.e.c. perché solo con l’adempimento di tale formalità, fermi restando gli obblighi di legge,
l’avvocato è esonerato da ogni altra attività, indipendentemente dall’effettiva ricezione della rinuncia.
(SEGUE): NEL COMPIMENTO DI ATTI CHE MAGGIORMENTE PREGIUDICANO LA SFERA GIURIDICA DELL’IMPUTATO
Un profilo particolare del rapporto tra avvocato penalista e parte assistita concerne gli obblighi di informazione rispetto ad alcune attività e scelte che possono essere compiute dal primo.
Il nuovo codice di procedura penale, a differenza di quello 1930, ha sicuramente trasformato il ruolo
del difensore. Questi, infatti, non è solo un protagonista passivo della scena processuale. Egli, come si
vedrà, sin dal momento del conferimento del mandato ha il dovere di svolgere indagini difensive
nell’interesse del suo assistito; soprattutto, lungo l’intero corso del processo può trovarsi a compiere atti
che incidono su diritti del proprio cliente. Sebbene, in molti casi, il legislatore richieda che determinati
atti possano essere posti dal difensore solo qualora questi sia munito di una procura speciale ad hoc rilasciata ai sensi dell’art. 122 c.p.p. (si pensi, ad esempio, alle procure per proporre dichiarazione di ricusazione del giudice [art. 38, comma, 4], per presentare richiesta di rimessione [art. 46, comma 2], per richiedere il giudizio abbreviato [art. 438, comma 3], l’applicazione della pena [art.446, comma 3], la rinunzia all’udienza preliminare con richiesta del giudizio immediato [art. 419, comma 5]), cionondimeno molte iniziative appartengono esclusivamente alla discrezionalità tecnica del difensore e, dunque, il
più delle volte, la opportunità e la validità delle stesse dipendono dalle sue competenze e dalle sue capacità professionali (si pensi, ad esempio, alle attività dibattimentali rispetto alle quali la posizione del
difensore è assolutamente preminente).
Appare evidente, come, in questi casi, sia essenziale che il difensore si coordini ed informi il proprio
assistito in quanto quasi ogni attività defensionale ha ricadute sulla sfera personale dello stesso.
La rinunzia ad eccepire una nullità diversa da quelle previsti dall’art. 179 c.p.p., ad esempio, costituisce una causa di sanatoria che rende immodificabili gli effetti di un atto nato imperfetto. Ma è soprattutto in relazione al momento di formazione della prova che il comportamento del difensore può assumere una particolare rilevanza anche in considerazione delle ricadute sul piano dell’attuazione delle
garanzie costituzionali del giusto processo.
26
In base all’art. 420 bis c.p.p., infatti, qualora nel corso del procedimento l’imputato abbia nominato un difensore di fiducia
e non compaia all’udienza è considerato assente ed è rappresentato dal difensore (con riferimento a tale disciplina, cfr. S. Marcolin, I presupposti del giudizio in assenza, in D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, Torino, 2014, pp. 144-145). Cionondimeno, se in tale ipotesi la non presenza fisica dell’imputato non impedisce la prosecuzione del processo, essa non implica
che l’imputato sia effettivamente cosciente della pendenza dello stesso. Da qui l’importanza delle norme deontologiche che, in
caso di irreperibilità dell’assistito, consentono al difensore di liberarsi dal mandato ricevuto.
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È innegabile come il processo accusatorio abbia una spiccata tendenza ad adottare il principio dispositivo. Basti pensare al consenso che il difensore può prestare all’acquisizione di prove formate nel corso delle indagini preliminari (art. 431, comma 2, 493, comma 3, c.p.p.) 27, ovvero all’utilizzo processuale
delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone che rifiuta di sottoporsi all’esame o al controesame (art. 500, comma 3), a quelle utilizzate per la contestazione (art. 500, comma 7), alla lettura delle
dichiarazioni rese dal coimputato o dalle persone indicate nell’art. 210, comma 1, c.p.p. che, rispettivamente, siano rimasti assenti, si siano avvalsi della facoltà di non rispondere ovvero si siano resi irreperibili (art. 513, commi 1 e 2, c.p.p.). Si pensi, ancora, alla rinunzia che il difensore può manifestare, in caso di mutamento del collegio, alla rinnovazione dell’attività istruttoria (art. 525, comma 2, c.p.p.). Più in
generale, in tali ipotesi, sebbene il difensore non eserciti solo una propria discrezionalità tecnica in
quanto, in base all’art. 99 c.p.p., allo stesso, salvo che non siano riservati personalmente all’imputato,
competono le stesse facoltà e gli stessi diritti che la legge riconosce a quest’ultimo, egli dispone di diritti
del proprio assistito.
Ancorché, poi, sia previsto che, in base all’art. 99, comma 2, c.p.p., l’imputato possa togliere effetto
all’atto compiuto dal difensore con espressa dichiarazione contraria, poiché tale facoltà non può essere
esercitata in ogni tempo ma solo prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice, si comprende l’importanza per l’assistito di essere informato di ciò che accade nel
processo.
Doveri di informazione nei confronti della parte assistita sono poi connessi alla disciplina delle notificazioni.
Recentemente, la giurisprudenza ha rimarcato che il rapporto fiduciario esistente tra l’imputato ed il
difensore al quale siano stati notificati atti (nella specie la citazione) per conto del suo assistito, rende
tale notificazione comunque idonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario. Il profilo del rapporto fiduciario che lega l’imputato al suo difensore, infatti, secondo tale orientamento, è tale da implicare il sorgere di un rapporto di continua e doverosa informazione da parte di
quest’ultimo nei confronti del suo cliente, che riguarda ovviamente, in primo luogo, la comunicazione
degli atti 28.
Appare evidente, dunque, come il difensore abbia un dovere di informazione nei confronti della
parte assistita particolarmente pregnante nonostante esso non risulti espressamente enunciato nel codice deontologico.
Il titolo II del nuovo testo, infatti, è orientato a definire una serie di obblighi nel momento genetico
del rapporto e dell’incarico professionale, con particolare riferimento agli obblighi informativi ed alla
pattuizione del compenso (artt. 23, 25, 27).
Cionondimeno, è innegabile come nel dovere di diligenza genericamente proclamato dall’art. 9 (unitamente ai doveri di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro e competenza) ed autonomamente disciplinato dall’art. 12, rientri il costante obbligo per l’avvocato penalista non solo di un
costante aggiornamento del proprio assistito sull’andamento della causa, ma la preventiva condivisione
con lo stesso di tutte quelle scelte che implichino comunque disponibilità di diritti di rilievo costituzionale e la puntuale informazione di tutte quegli atti che, pure incidendo su prerogative del cliente, potrebbero dallo stesso essere privati di efficacia, in base all’art. 99, comma 2, c.p.p., qualora tempestivamente conosciuti 29.
27
A tale proposito, va sottolineato che Corte cost., ord. 8 giugno 2001, n. 182, in Cass. pen., 2001, 2972 ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli art. 493 comma 3 e 495 c.p.p., nella parte in cui non prevedono che
l’imputato esprima il consenso, personalmente o a mezzo di procura speciale, in vista dell’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del p.m. I due istituti processuali posti a raffronto, infatti – e cioè rito abbreviato ed accordo
sulla prova –, sono disomogenei e non assimilabili, onde non sussiste la lamentata disparità di trattamento tra le due fattispecie.
28
Cass., sez. IV, 10 giugno 2014, n. 27453, con nota di D. Galasso, La notifica del decreto di citazione in appello può essere eseguita
presso il difensore di fiducia, se…, in Dir. e Giustizia, fasc. 1, 2014, p. 50 secondo la quale «l’impossibilità di procedere alla notifica
nelle mani della persona designata quale domiciliatario, per il rifiuto di ricevere l’atto ovvero per il mancato reperimento del
domiciliatario o dell’imputato stesso nel luogo di dichiarazione o elezione di domicilio o di altre persone idonee, integra
l’ipotesi dell’impossibilità della notificazione ai sensi dell’art. 161, comma quarto, c.p.p., sicché non è consentito, in tali casi, procedere con le forme previste dall’art. 157, comma 8, c.p.p».
29
Nell’obbligo di diligenza, secondo F. D’Angelo, sub art. 12, in E. Randazzo, Il penalista, cit., pp. 43-44 rientrerebbe precipuamente l’obbligo di cura del continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale che, però, risulta autonomamente disciplinato dall’art. 15 del codice.
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Peraltro, anche nel caso in cui il difensore per agire deve esibire una procura speciale, non per ciò
stesso può ritenersi esonerato da obblighi di informazione.
Non di rado, infatti, avviene che le procure speciali per il compimento di quegli atti che sono riservati all’imputato siano rilasciate al momento del conferimento dell’incarico, magari utilizzando moduli
contenenti un’elencazione pressoché totalizzante delle varie previsioni del codice che abilitano il difensore al compimento di atti solo ove munito da preventivo rilascio di procura speciale. In forza dell’art.
37, disp. att. c.p.p., la procura speciale di cui all’art. 122, infatti, può essere rilasciata anche preventivamente per l’eventualità in cui si verifichino i presupposti per il compimento dell’atto al quale la procura
si riferisce.
Può accadere, dunque, che il momento in cui il difensore spende i poteri che gli vengono attribuiti
come procuratore speciale può risultare posticipato, anche di molto, rispetto a quello in cui è avvenuta
l’investitura ed anche in questo caso, sebbene eventuali carenze informative non sembrino ricadere sulla validità dell’atto, egli dovrà prestare particolare attenzione ad osservare il dovere di informazione
che discende dall’obbligo di diligenza per assicurare alla parte assistita la necessaria consapevolezza
dell’atto da compiere 30.
LE INDAGINI DIFENSIVE
Il difensore penalista, nel nuovo codice di procedura penale, come accennato, non solo esercita funzioni
statiche e passive, ma, soprattutto nel corso delle indagini preliminari, svolge anche un ruolo dinamico
consistente nelle attività di ricerca ed acquisizione di elementi di prova a favore del proprio assistito:
«non più meramente critico dell’operato del pubblico ministero, bensì contributivo all’accertamento dei
fatti specifici oggetto della denuncia» 31.
Sebbene, infatti, in base all’art. 358 c.p.p. il pubblico ministero, oltre a compiere ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, svolge altresì accertamenti su fatti e
circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, la funzione del difensore nella ricerca, ed
individuazione delle fonti di prova è insostituibile non solo per assicurare la condizione di parità delle
parti dinanzi al giudice terzo ed imparziale, proclamata dall’art. 111, comma 2, Cost., ma anche per attuare i diritti di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sostegno della propria difesa
nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore, sanciti
dall’art. 111, comma 3, Cost. 32.
L’attività del difensore, lungo tutto il corso delle indagini preliminari, dunque, non si limita più ad
una mera assistenza al compimento di atti della polizia giudiziaria (art. 350, 352, 353, 354 c.p.p.) o del
pubblico ministero (art. 360, 364, 365 c.p.p.) con mera funzione di garanzia della legalità delle attività
espletate, ma anche di attiva ricerca di tutto quanto può essere indispensabile per la difesa della parte
rappresentata. In base all’art. 327 bis c.p.p. fin dal momento dell’incarico professionale, risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni difensive per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito sia in vista di provvedimenti che dovessero essere adottati
dal giudice o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (art. 391 octies c.p.p.), sia ai fini
delle proprie richieste al giudice del dibattimento (art. 430, comma, 1, c.p.p.).
Come noto, nel codice 1930, ispirato al sistema inquisitorio, la ricerca della prova da parte del difensore era un potere praticamente sconosciuto: «uno degli aspetti per i quali il codice processuale vigente
[ndr: 1930] – così sottolineava un’autorevole dottrina – si caratterizza come codice autoritario, sia pur
30
Sull’argomento, S. Marcolin, A quali condizioni i negoziati sulla pena sono conformi alla CEDU?, in Cass. pen., 2014, p. 3488 il
quale, prendendo spunto da una recente decisione della Corte di Strasburgo (Corte e.d.u., 29 aprile 2014, Natsvlishvili e Togonidze c. Georgia), mette in evidenza non solo che in base all’art. 6, § 1 della C.E.D.U., uno degli aspetti cruciali dell’attuazione
del giusto processo è che ciascun Stato membro assicuri che l’imputato possa dirsi consapevole del contenuto dell’accordo, degli
effetti che esso comporta e che egli lo stipuli libero da costrizioni e minacce, ma che nel processo italiano, proprio con riferimento al patteggiamento, v’è il rischio di un vulnus di tale esigenza se si considera che le procure che vengono rilasciate al difensore
sono per lo più prive di qualunque riferimento alla pena e sono non di rado rilasciate all’inizio delle indagini preliminari e, cioè,
anche a distanza di molto tempo dalla loro conclusione, con possibilità che medio tempore l’accusa subisca modificazioni.
31
In questi termini, V. Perchinunno, Il nuovo ruolo del difensore nella ricerca delle fonti di prova, in AA.VV., Studi in onore di Giuliano Vassalli, Vol. II, Milano, 1991, p. 223.
32
Così, N. Triggiani, Le investigazioni difensive, Milano, 2002, p. 66.
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nel senso più rispettabile di tale espressione, è dato proprio dal regime delle prove. Esso si occupa in
prima linea dei poteri del giudice, e solo secondariamente degli eventuali diritti delle parti. Al giudice
compete, sin dalla più delicata fase dell’istruzione, ogni scelta di quelli che sono gli atti da ritenersi necessari per l’accertamento della verità; e di null’altro sembra preoccupato se non di evitare il compimento di atti non strettamente necessari (art. 299)» 33.
Va rammentato, a tale riguardo, come la giurisprudenza disciplinare forense formatasi nel vigore
del codice di procedura penale 1930, sulla base dell’obbligo di lealtà e diligenza censurava i difensori
che avessero interpellato o avuto contatti con i testimoni 34.
Oggi, l’attuazione degli artt. 24, comma 2, e 111, commi 2 e 3, Cost., dunque, per utilizzare una felice
espressione coniata, in una prospettiva de iure condendo, nel vigore del codice 1930, hanno certamente
postulato il “diritto di difendersi provando” vale a dire «il diritto di non vedersi menomata la propria possibilità di difesa» 35.
Solo con l. 7 dicembre 2000, n. 397, dopo un lungo periodo di gestazione 36, come noto, il legislatore
ha dato completa attuazione al diritto del difensore di poter effettivamente ricercare ed acquisire il materiale probatorio destinato ad essere posto a fondamento delle decisioni del giudice prevedendo espressamente, non solo la facoltà di assumere informazioni da persone in grado di riferire circostanze
utili ai fini dell’attività investigativa (art. 391 bis e 391 ter c.p.p), ma anche di acquisire documentazione
dalla pubblica amministrazione (art. 391 quater), di eseguire accessi per prendere visione dello stato dei
luoghi (art. 391 sexies) e, a determinate condizioni, di svolgere accessi in luoghi privati o non aperti al
pubblico ovvero in private abitazioni (art. 391 septies), nonché di svolgere accertamenti anche non ripetibili e di esaminare le cose sequestrate.
Era inevitabile, dunque, che, al cospetto di tali e così preganti attività che connotano certamente in
maniera esclusiva l’attività dell’avvocato penalista, venissero non solo disciplinate – al pari di quanto
previsto, ai sensi degli artt. 357 e 373 c.p.p., rispettivamente per la polizia giudiziaria ed il pubblico ministero – le forme di documentazione dei singoli atti, ma anche i comportamenti che deve osservare il
difensore, soprattutto al fine di allontanare ogni sospetto di atteggiamenti che possano essere interpretati alla stregua di condotte integranti subornazione di testimoni (art. 377 c.p.), induzione a non rendere
dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377 bis c.p.), favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) ovvero ancora forme di concorso in reati associativi 37.
Il canone I dell’art. 8 del codice deontologico abrogato, nella sua originaria formulazione 38, prevedeva, tra l’altro, proprio nell’ambito del dovere di diligenza – quasi che, appunto, ne costituisse una necessaria implicazione –, la facoltà per il difensore di svolgere indagini difensive. L’art. 52, a sua volta,
prevedeva due canoni che, oltre a ribadire la facoltà di investigazioni prevista dal codice di procedura
penale, richiamava l’osservanza dei modi e dei termini fissati dagli organi forensi.
Il citato articolo, poi, soggiungeva, da un lato, che il difensore che avesse inteso ascoltare la persona
a conoscenza di fatti doveva convocarla per mezzo di invito scritto, salvi i casi di urgenza, ed informarla dell’importanza civile e morale delle sue dichiarazioni e, dall’altro, che egli era comunque obbligato a
raccogliere tutte le dichiarazioni rese, utilizzando anche la registrazione fonografica o audiovisiva, con
il consenso espresso dall’interessato.
I principi contenuti negli artt. 8 e 52 del codice deontologico, dovevano essere poi coordinati con le
Norme deontologiche relative alle investigazioni difensive, approvate dal Consiglio direttivo dell’Unione e
dalla Consulta dei presidenti delle singole Camere penali, riuniti in seduta comune a Catania il 30 marzo 1996 e costituenti un Corpus di 17 articoli 39.
33
Così, G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo penale, in Studi in onore di Antonio Segni, Milano, 1967, p. 705-766; in Riv. it.
dir. proc. pen., 1968, p. 3-59 e, infine, in Scritti giuridici, Vol. III, Milano, 1997, p.445-506 (volume dal quale, a p. 503, è tratta la citazione riportata nel testo).
34
Cfr., sul punto, P. Ventura, Le indagini difensive, Milano, 2005, p. 8 (ed i richiami, contenuti nelle note, 33-35, alle decisioni
del Consiglio Nazionale Forense) e N. Triggiani, Le investigazioni difensive, cit., 10 e ss.
35
Così, ancora, G. Vassalli, Il diritto alla prova, cit., p. 455 (corsivi dell’A.).
36
Sull’evoluzione della disciplina dell’attività investigativa del difensore dalla entrata in vigore del codice 1988 sino alla svolta
impressa con la legge 397 del 2000, v. P. Ventura, Le indagini difensive, cit., p. 8-19; N. Triggiani, Le investigazioni difensive, cit., p. 20-67.
37
Cfr., sul punto, N. Triggiani, Le investigazioni difensive, cit., 55 nonché V. Perchinunno, Il nuovo ruolo, cit., p. 221.
38
Il canone in questione era stato soppresso con delibera 26 ottobre 2002.
39
V. il testo pubblicato su Cass. pen., 1996, 1357 ss., con nota di G. Frigo, Primi passi del «Codice deontologico del difensore penale».
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Sul punto, va anche ricordato che in data 14 luglio 2001 entravano in vigore anche le Regole di comportamento del penalista nelle indagini difensive deliberate dall’Unione delle Camere penali che sostituivano le
norme deontologiche relative alle indagini difensive approvate a Catania il 30 marzo 1996. Esse, in particolare, costituiscono una serie di norme di comportamento che devono essere osservate nello svolgimento
delle investigazioni dal difensore e che, accanto a canoni generali e, tutto sommato ridondanti, (nell’art. 1,
si afferma che il difensore «osserva le norme del Codice deontologico forense, con particolare riferimento ai
doveri di probità, fedeltà, competenza e verità, nonché le ulteriori norme degli articoli che seguono, nel
rispetto del principio di lealtà processuale e a garanzia della reale dialettica nel procedimento»), contengono regole specifiche concernenti le indagini da fonti dichiarative (artt.8-13) nonché disposizioni relative
agli accessi ai luoghi, alle ispezioni di cose ed agli accertamenti irripetibili (artt. 14-15).
Avuto riguardo alla raccolta ed assicurazione delle fonti di prova, il nuovo Codice deontologico si occupa prevalentemente di due profili: l’uno strettamente attinente alla materia de qua e, l’altro, ai rapporti con i colleghi.
In particolare, con riferimento a questi ultimi, l’art. 38 statuisce che l’avvocato non possa registrare –
pena la sanzione disciplinare della censura – una conversazione telefonica con un collega potendo, eventualmente, procedere alla registrazione nel corso di una riunione soltanto con il consenso di tutti i
presenti.
Con specifico riferimento all’attività difensiva, invece, l’art. 55, comma 2, stabilisce che il difensore,
nell’ambito del procedimento penale, ha facoltà di procedere ad investigazioni difensive nei modi e
termini previsti dalla legge e nel rispetto di una serie di disposizioni elencate nei commi successivi e di
quelle emanate dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
Il riferimento, a tale riguardo, è alla delibera del 6 ottobre 2008, n. 60, del Garante per la protezione
dei dati personali che contiene alcune regole specifiche concernenti il trattamento, anche non automatizzato, dei dati personali raccolti nell’ambito dell’attività difensiva 40.
Si rammenta, in proposito, che ai fini di quanto statuisce l’art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. 30 giugno
2003, n. 196, recante Codice in materia di protezione dei dati personali, costituisce trattamento qualunque operazione o complesso di operazioni effettuati anche senza l’ausilio di strumenti tecnici, concernenti la
raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione,
la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati anche se non registrati in un una banca dati.
Ora, è evidente, che il difensore nella raccolta, conservazione ed utilizzazione dei dati concernenti la
parte da lui assistita, esegua una pluralità di operazione che rientrano nella definizione di trattamento.
L’art. 13, comma 5, d.lgs. 196/2003, esclude che il difensore sia tenuto all’informativa in base al comma
1 del medesimo art. 13 allorquando i dati sono trattati ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla l. 7 dicembre 2000, n. 397.
In base agli artt. 12 e 154, comma 1, lett. e) del Codice in materia di protezione dei dati personali, poi, il
Garante ha il compito di promuovere, nell’ambito delle categorie interessate, nell’osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio
d’Europa sul trattamento dei dati personali, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori.
Va rammentato che proprio in tale ambito normativo è sorto il Codice di deontologia e di buona condotta
per i trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive che, appunto, viene richiamato dal Codice deontologico.
Tornando all’art. 55, si deve rilevare come esso contenga un lungo elenco di doveri, variamente sanzionati, dalla censura fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale fino ad un anno, che
integrano quelli previsti dall’art. 391 bis c.p.p.
In particolare, ai sensi del comma 3 della disposizione da ultimo citata, infatti, il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici, prima di conferire con le persone in grado
di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa, devono formulare alcuni avvertimenti che,
in parte, devono essere oggi integrati con quanto prescrivono gli artt. 9 e 10 delle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive.
In forza del comma 4, poi, alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero
40
Pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 2008, n. 275 ed entrata in vigore il 1° gennaio 2009.
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non possono essere richieste notizie sulle domande formulate e sulle risposte date. In base al comma 5,
infine, qualora il difensore intenda ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da una persona sottoposta ad indagini o imputata nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato
collegato deve assicurare la necessaria assistenza tecnica.
È importante sottolineare che l’art. 391 bis, comma 5, c.p.p. prevede non solo che la violazione di una
delle citate prescrizioni rende inutilizzabili le dichiarazioni assunte, ma che essa costituisce illecito disciplinare che deve essere comunicato dal giudice che procede all’organo titolare del potere disciplinare.
Sempre a proposito dei doveri che il difensore deve osservare nello svolgimento delle attività di ricerca delle fonti di prova, si deve ricordare, anche, che, secondo l’art. 8 delle Regole emanate dall’Unione
delle Camere, il difensore, il sostituto e gli ausiliari incaricati possono procedere senza formalità alla individuazione delle persone che possono riferire circostanze utili alle investigazioni difensive ed alla individuazione delle altre fonti di prova e, in genere, delle altre fonti di notizie utili alle indagini. In tali
evenienze, viene raccomandato alle persone abilitate a svolgere le investigazioni di informare le persone interpellate della propria qualità indicando la vicenda in ordine alla quale svolgono investigazioni,
senza necessità, però, di rivelare il nome dell’assistito.
L’art. 55 del codice, poi, oltre a stabilire che il difensore, nell’ambito del procedimento penale, ha facoltà di procedere ad investigazioni difensive nei modi e termini previsti dalla legge e nel rispetto delle
disposizioni del codice e di quelle emanate dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali
(comma 2); che il difensore deve mantenere il segreto sugli atti delle investigazioni difensive e sul loro
contenuto, finché non ne faccia uso nel procedimento, salva la rivelazione per giusta causa nell’interesse della parte assistita (comma 3); che, nel caso in cui egli si avvalga di sostituti, collaboratori, investigatori privati autorizzati e consulenti tecnici, può fornire agli stessi tutte le informazioni e i documenti necessari per l’espletamento dell’incarico, anche nella ipotesi di segretazione degli atti, imponendo il vincolo del segreto e l’obbligo di comunicare esclusivamente a lui i risultati dell’attività (comma 4); che il
difensore deve conservare scrupolosamente e riservatamente la documentazione delle investigazioni
difensive per tutto il tempo necessario o utile all’esercizio della difesa (comma 5), fissa anche alcune regole alle quali egli deve improntare la propria condotta durante il contatto con le persone informate 41.
In particolare, è prescritto (art. 55, comma 1) che l’avvocato non deve intrattenersi con testimoni o
persone informate sui fatti oggetto della causa o del procedimento con forzature o suggestioni dirette a
conseguire deposizioni compiacenti a pena dell’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi. Inoltre, viene statuito (art. 55, comma 7)
che il difensore e gli altri soggetti da lui eventualmente delegati non devono corrispondere alle persone
interpellate ai fini delle investigazioni, pena l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno, compensi o indennità sotto qualsiasi
forma al fine di indurle a rendere dichiarazione, salva la facoltà di provvedere al rimborso delle sole
spese documentate.
Tale previsione va certamente coordinata con quanto previsto dall’art. 12 delle Regole emanate dalle
Camere penali il quale, a tale riguardo, stabilisce che «il difensore o il suo sostituto danno tutte le disposizioni necessarie per realizzare condizioni idonee ad assicurare la genuinità delle dichiarazioni».
Particolari cautele, poi, sono prescritte allorquando il difensore intenda conferire con la persona offesa dal reato, assumere informazioni dalla stessa o richiederle dichiarazioni scritte. In tali ipotesi, infatti, l’art. 55, comma 8, prescrive, a pena della sanzione disciplinare della censura, che non solo il difensore debba procedere con invito scritto, previo avviso all’eventuale difensore della stessa persona offesa
se conosciuto, ma che, in ogni caso, nell’invito sia indicata l’opportunità che la persona provveda a consultare un difensore perché intervenga all’atto.
Cautele ancor più rafforzate – la violazione delle quali sono sanzionate con la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi ad un anno – sono previste per l’ascolto del minore. In linea
generale, ai sensi dell’art. 56, salvo che non sussista conflitto di interessi, l’avvocato non può procedere
all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale. In
tali evenienze, in particolare, l’avvocato difensore, per conferire con persona minore, assumere informazioni dalla stessa o richiederle dichiarazioni scritte, deve invitare formalmente gli esercenti la responsabilità genitoriale specificando loro la facoltà di intervenire all’atto. In ogni caso, viene espressa-
41
Sulla disposizione in esame, cfr. E. Randazzo, in E. Randazzo (a cura di), Il penalista e il nuovo codice deontologico, cit., p. 149.
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mente fatto salvo l’obbligo della presenza dell’esperto nei casi previsti dalla legge e in ogni caso in cui il
minore sia persona offesa dal reato.
La disposizione contiene un preciso richiamo alla disposizione processuale. Si deve rammentare, infatti, che l’art. 5, comma 1, lett. f), l. 1° ottobre 2012, n. 172 ha introdotto il comma 5 bis nell’art. 391 bis
c.p.p. che stabilisce che nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 351, comma 1 ter, c.p.p. (vale a dire i
reati di cui agli artt. 572, 600, 600 bis, 600 quater, 600 quater.1, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 quater,
609 quinquies, 609 octies, 609 undecies, e 612 bis c.p.) il difensore, quando deve assumere informazioni da
persone minori, si avvale dell’ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria infantile 42.
Sempre con riferimento ai possibili limiti che incontra il difensore nello svolgimento delle indagini
difensive, si deve ricordare che l’art. 55 comma 9, integra il catalogo degli avvertimenti prescritti
dall’art. 391 bis c.p.p statuendo in particolare che il difensore – in analogia a quanto prevede l’art. 199
c.p.p. – deve informare i prossimi congiunti della persona imputata o sottoposta ad indagini della facoltà di astenersi dal rispondere, specificando che, qualora non intendano avvalersene, sono obbligati a riferire la verità.
Una disposizione del tutto particolare, che integra la mappa delle attività che possono essere compiute dal difensore, è, infine, deducibile dall’art. 11 delle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive che fa divieto ai soggetti della difesa di applicare le disposizioni degli articoli 391 bis e
391 ter c.p.p. nei confronti della persona assistita.
Sebbene non sia del tutto chiara la ratio di tale divieto, sul quale non sono mancate alcune opinioni
contrastanti da parte della dottrina 43, non sembra che dalla sua violazione possano derivare conseguenze sanzionatorie a carico del difensore. A parte l’assenza di una previsione ad hoc, infatti, si deve
rammentare che, sul piano probatorio, ai sensi dell’art. 237 c.p.p., qualsiasi scritto proveniente dall’imputato è non solo considerato come un documento ma può essere sempre acquisito anche d’ufficio.
Particolare rilievo deve, invece, essere attribuito a quanto prescrivono, a pena della sanzione della censura, i commi 6 e 10 dell’art. 55, a proposito della documentazione delle attività compiute dal difensore.
Gli artt. 391 bis e 391 ter c.p.p. contengono una dettagliata indicazione delle forme che devono essere
osservate nella raccolta delle dichiarazioni provenienti dalla fonti dichiarative 44.
Il tema, come anticipato, è particolarmente delicato perché attorno ad esso ruota la questione della natura dell’attività svolta dal difensore durante la raccolta dei risultati delle indagini difensive. Va ricordato,
a tale riguardo, come, investite della questione relativa alla qualifica soggettiva dell’avvocato durante la
verbalizzazione delle dichiarazioni provenienti delle persone informate, le Sezioni unite hanno ritenuto
che egli, nello svolgimento dell’attività di documentazione delle indagini da lui stesso svolte, assume la
veste di pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 357 c.p., con la conseguente applicabilità dell’art. 479 c.p. qualora il verbale non riproduca fedelmente quanto dichiarato dalla fonte informativa 45.
In aggiunta a tali previsioni, va anche osservato come il comma 6 statuisca che gli avvisi che il difensore e gli altri soggetti eventualmente da lui delegati sono tenuti a dare per legge alle persone interpellate ai fini delle investigazioni, devono essere sempre documentati per iscritto ed il comma 10 (sul punto reiterativo di quanto prescrive l’art. 13 delle Regole adottate dall’Unione delle Camere penali), che il
difensore deve documentare in forma integrale le informazioni assunte potendo ricorrere alla documentazione in forma riassuntiva solo quando è disposta la riproduzione anche fonografica delle informazioni ricevute.
42
Sulle modifiche di carattere processuale introdotte dalla l. n. 172 del 2012, cfr. C. Cesari, Il “minore informato sui fatti” nella
legge n. 172/2012, in Riv. It. dir. proc. pen., 2013, p. 157.
43
Cfr. E. Stefani, Per le camere penali vietare le dichiarazioni del cliente, in I focus del Sole 24 ore, n. 56, 5 novembre 2014, p. 5 secondo il quale «l’interrogatorio dell’assistito è un atto che permette allo stesso di spiegare ed esporre al difensore la propria versione, indicando altresì eventuali persone informate sui fatti, che il difensore si accingerà poi a sentire».
44
Sulle modalità di documentazione degli atti delle investigazioni difensive, cfr. N. Triggiani, Le investigazioni difensive, cit.,
p. 412 e ss.; P. Ventura, Le indagini difensive, cit., p. 133 e ss.
45
Cass., sez.un. 27 giugno 2006, n. 32009, in Cass.pen., 2006, p. 3985 con nota di M. Vessichelli, Investigazioni difensive e reato di
falso secondo la quale al professionista non è consentito di manipolare le informazioni ricevute ovvero di selezionarle verbalizzando solo quelle favorevoli. La sentenza aveva concluso la vicenda aperta da Tribunale di Torino – Ufficio GIP, 19 maggio
2003, n. 510, in Diritto e giust. online, 2003, secondo il quale «Il verbale di una dichiarazione resa nell’ambito di indagini difensive
è un atto pubblico. E l’avvocato che non la riporta in modo “completo e fedele” è colpevole di falso ideologico, in quanto, limitatamente all’atto compiuto, è pubblico ufficiale.».
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Dal combinato di tali disposizioni e dal loro coordinamento con quanto prescrive l’art. 391 bis, comma 2, c.p.p. che impone al difensore di chiedere alle persone informate se intendano rilasciare una dichiarazione scritta ovvero rendere una dichiarazione da documentare nelle forme di cui all’art. 391 ter
c.p.p., si deduce un’importante conseguenza e cioè che egli, anche al di fuori dell’ipotesi delle conversazioni con i colleghi ed anche quanto si avvale di investigatori o ausiliari, non può mai disporre una
registrazione clandestina del colloquio con le persone informate.
Sebbene, come noto, sia ormai pacifico in giurisprudenza che «la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia
partecipe, è prova documentale pienamente utilizzabile» 46, non solo una tale condotta violerebbe i doveri di lealtà e probità previsti dall’art. 3 della legge sull’ordinamento professionale, ma costituirebbe
un’elusione delle rigide prescrizioni che il difensore deve osservare.
Una previsione particolare che, ancora oggi, sembra essere priva di specifica sanzione è, invece,
quella contenuta nell’art 391 bis, comma 8, alla stregua della quale «all’assunzione di informazioni non
possono assistere la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa e le altre parti private».
Cionondimeno, sia in base all’art. 12 delle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive (che, come detto, statuisce che il difensore o il suo sostituto osservano tutte le disposizioni necessarie per realizzare condizioni idonee ad assicurare la genuinità delle dichiarazioni), sia in base all’art.
55 comma 1 del codice (che, come pure ricordato, prescrive che l’avvocato non debba intrattenersi con
testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti), sembra comunque possibile ritenere come dalla
violazione di quella regola di comportamento, possa conseguire una sanzione disciplinare.
È indubbio, infatti, che la previsione risponde ad un’evidente esigenza di tutela della libertà morale
del dichiarante il quale, ai sensi dell’art. 371 ter c.p., allorquando rende dichiarazioni al difensore, assume un impegno di verità onde è indispensabile che gli sia assicurato un contesto il più possibile scevro da ogni forma di condizionamento.
Va ricordato, ancora, come ulteriori prescrizioni sono, poi, contenute nelle Regole di comportamento
che prescrivono anche che il difensore, oltre a dover specificare nel verbale i mezzi impiegati, debba
farlo sottoscrivere a tutte le persone presenti e, sotto tale profilo, è agevole considerare a quali conseguenze egli andrebbe incontro qualora, nel fare assistere all’atto il suo assistito, non lo facesse ad esso
sottoscrivere per non documentare la violazione del divieto contenuto nell’art 391 bis, comma 8. La qualità di pubblico ufficiale che, in relazione alla verbalizzazione, egli assume, infatti, lo esporrebbe ad una
possibile responsabilità per falso ideologico.
Sia l’art. 55 del Codice che l’art. 13 delle Regole, poi, impongono che il difensore sia tenuto a conservare riservatamente la documentazione delle indagini e debba mantenere su di essa il segreto fino a
quando non ne debba fare uso nel procedimento.
A tale riguardo, è pacifico che il difensore, a differenza del pubblico ministero, non abbia alcun
obbligo di depositare i risultati delle investigazioni difensive che ha svolto né, tantomeno, di rendere
ostensibili i risultati delle eventuali attività che si rivelassero contrarie agli interessi del suo assistito 47.
Piuttosto, deve essere ricordato come, in base all’art. 55, comma 11, del Codice, con un’espressione
più categorica rispetto a quella contenuta nell’art. 13 delle Regole (che sembrava esprimersi in termini di
mera opportunità), il difensore non deve consegnare – pena la sanzione della censura – copia o estratto
del verbale alla persona che ha reso informazioni, né al suo difensore 48.
Opportunamente, poi, l’art. 46, comma 5, statuisce che l’avvocato, nell’interesse della parte assistita
e nel rispetto della legge, collabora con i difensore delle altre parti, anche scambiando informazioni, atti
e documenti e tale previsione vale a dissolvere i dubbi circa la possibilità da parte degli avvocati di
condividere con i colleghi le risultanze degli atti di indagine compiuti o la documentazione inerente attività di indagine difensiva.
46
Così, di recente e tra le tante, Cass. Sez. III, 3 ottobre 2012, n. 43898 in Diritto e Giustizia online 2012, 14 novembre.
47
Sul tema, cfr. P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, III ed, Bologna, 2012, p. 106 e ss.
48
Rileva la innovazione, E. Randazzo, Il penalista e il nuovo codice deontologico, cit., p. 154-155.
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IL COMPORTAMENTO DEL DIFENSORE NEL DIBATTIMENTO
Il dibattimento è sicuramente la sede nella quale maggiormente spicca la figura dell’avvocato penalista
e dove certamente si esaltano le sue doti personali. Oltre alla preparazione giuridica ed allo studio degli
atti, all’avvocato penalista sono richieste capacità dialettiche, doti mnemoniche oltre che prontezza di
riflessi 49. Le attività di udienza, infatti, sono caratterizzate spesso da lunghi ed estenuanti esami e controesami per la conduzione dei quali sono necessarie non solo preventive e meticolose attività di preparazione, ma anche doti di resistenza fisica. L’esercizio con prudenza e prontezza della facoltà di formulare le opposizioni nel corso degli esami di testimoni, periti consulenti tecnici e parti private condotti
dalle altre parti ai sensi dell’art. 504 c.p.p. è una delle funzioni più delicate, ma al contempo determinanti, del difensore il quale deve prontamente evitare che, attraverso una non corretta applicazione delle regole per l’acquisizione delle prove dichiarative, possano formarsi materiali spuri.
Si deve osservare, a tale riguardo, che il processo penale è stato efficacemente rappresentato come
una sorta di gara e di competizione agonistica 50 e tale figura, rievocata per far risaltare la contesa dialettica delle parti che si celebra dinanzi al giudice situato in una posizione di terzietà, rende bene l’idea del
ruolo che accusa e difesa giocano nel dibattimento.
È stato notato dalla dottrina che, soprattutto in sistemi nei quali il potere probatorio non è prerogativa del giudice, «il problema della verità non riguarda solo la conoscenza del fatto controverso, ma anche la condotta delle parti» 51. Ed in effetti, la netta contrapposizione dei ruoli che caratterizza il nuovo
sistema penale, se non vuole trascendere in un vuoto sistema di regole, presuppone non solo
l’uguaglianza formale delle parti conseguita attraverso un’equa distribuzione dei poteri probatori, in
particolare tra accusatore e difensore, ma soprattutto «la giusta condotta del dialogo» 52.
Se si considerano gli artt. 496, 498 e 499 c.p.p., ci si avvede che il processo penale, con la rigorosa ripartizione dei ruoli nell’ordine di assunzione delle prove, dell’ordine di intervento delle parti nell’esame e nel controesame, attua un fascio di dialoghi estremamente formalizzati che in tanto può svolgere
la funzione euristica che ci si attende, in quanto siano rispettare le regole sulle quali esso si fonda: «la
struttura del nuovo processo probatorio» – è stato autorevolmente osservato – tende «ad esasperare
l’aspetto ludico, rituale e cerimoniale della partita verbale che si combatte tra le parti che si manifesta
nell’interrogatorio e controinterrogatorio» 53.
Orbene, come ogni competizione, anche quella che si celebra nel corso del processo non solo ha, come visto, proprie regole, ma richiede che esse siano osservate, con il dovuto fair play, da chi vi partecipa. È indubbio, infatti, che «invano si spera che i codici di procedura, anche i meglio studiati in teoria,
servano davvero alla giustizia se non sono sostenuti nella loro applicazione pratica da quella lealtà e
correttezza del giuoco, da quel fair play, le cui regole non scritte sono affidate soprattutto alla coscienza
e alla sensibilità degli ordini forensi» 54.
Il nuovo Codice deontologico, per la verità, sembrerebbe non aver contemplato canoni specifici per le
attività di udienza del difensore, in generale, e per quelle dell’avvocato penalista in particolare.
A ben vedere, però, raccordando varie disposizioni contenute nel codice di procedura penale e nel
nuovo testo delle norme deontologiche, si ricostruisce un modello ideale di comportamento.
Va anzitutto evidenziato che l’art. 50 del Codice deontologico raccomanda che nel procedimento l’av-
49
Sul punto, si v. le raccomandazioni, riguardanti addirittura la preparazione fisica e le abitudini alimentari alle quali
l’avvocato, secondo E. Ferri, Difese penali, vol. I, II, ed., Torino, 1923, p. 19 e ss., si sarebbe dovuto sottoporre prima di una arringa.
50
Sull’argomento, si v. i contributi di P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc., 1950, p. 23 e ss., il quale, significativamente, definiva «il dibattimento giudiziario» come «una specie di rappresentazione allusiva e simbolica di certamen primitivo, in cui il giudice altro non era che un arbitro di campo» ed il processo come «una serie di atti che s’incrociano e si corrispondono come le mosse d’un giuoco» e di F. Carnelutti, Gioco e processo, in Riv. dit. proc., 1951, p. 101 ss., il quale, sebbene non
condividesse che il processo potesse essere identificato con un giuoco, lo equiparava ad una gara sottoposta a precise regole di
comportamento.
51
A. Giuliani, Prova (filosofia), in Enc. dir., Vol. XXXVII, Milano, 1988, p. 524.
52
G. De Luca, La cultura della prova e il nuovo processo penale, in AA.VV., Studi in onore di Giuliano Vassalli, cit., p. 185.
53
G. De Luca, La cultura della prova, cit., p. 191.
54
Ancora, P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 30 e F. Carnelutti, Giuoco e processo, cit. p. 105, secondo il quale, dopo
aver definito il processo come una gara, ha osservato come essa oltre a postulare una regola del suo svolgimento, esige «la lealtà, che gli inglesi esprimono con la formula del fair play».
ANALISI E PROSPETTIVE | LE REGOLE DEONTOLOGICHE DELL’AVVOCATO PENALISTA
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vocato non deve introdurre elementi di prova o documenti che sappia essere falsi, non deve utilizzare
prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda
essere falsi e qualora apprenda, anche successivamente dell’introduzione nel procedimento di prove,
elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli o deve rinunciare al mandato 55.
Va osservato, poi, come un certo numero di principi siano enucleabili anche dall’art. 3, l. n. 247/2012
che, come accennato, tra l’altro, prescrive che la professione forense debba essere esercitata con “lealtà”
termine che, come visto, rievoca certamente quella componente essenziale di ogni competizione sportiva.
Per tentare di concretizzare tali concetti, si deve ammettere che il difensore, in omaggio a criteri di
fair play, dovrebbe astenersi dal porre in essere strategie meramente dilatorie come quelle che non rispondono ad alcuna reale esigenza difensiva 56, anche se – va soggiunto – sottoporre l’attività del difensore a simili valutazioni – ancorché affidate al foro interno dell’avvocatura – non può non destare talune perplessità essendo estremamente pericoloso un sindacato ed una censura sull’uso di talune garanzie previste dalla legge che, in nome dell’efficienza del processo, potrebbero compromettere la libertà
della professione 57.
Sempre in base al citato art. 50 del Codice, poi, non solo l’avvocato non deve impegnare di fronte al
giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio, trasformando il suo ruolo da tecnico
dell’argomentazione in quella di testimonio dei fatti, ma deve astenersi dal rendere false dichiarazioni
sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come
presupposto di un provvedimento del magistrato.
Inoltre, al fine di evitare di far cadere in errore il giudice, l’avvocato, nella presentazione di istanze o
richieste riguardanti lo stesso fatto, in base all’art. 50, comma 6, deve indicare i provvedimenti già ottenuti compresi quelli di rigetto.
Va evidenziato, come tra le diverse regole deducibili dal codice di procedura penale particolare importanza rivestono quelle concernenti la disciplina dell’esame e del controesame che, a pieno titolo,
rappresentando regole di comportamento, possono essere annoverate tra le norme deontologiche.
Se, infatti, nel codice 1930 l’attività del difensore, privato del diritto di ricercare le prove ed estraneo
al meccanismo di assunzione della prova, era tutta concentrata nella fase della discussione, sede nella
quale venivano esaltate le sue doti oratorie e di eloquenza 58, nel codice vigente il momento sicuramente
più significativo del dibattimento è costituto dalla fase istruttoria e l’art. 499 c.p.p., sul punto, contiene
alcune regole – il cui rispetto è richiesto a tutte le parti che esercitano il diritto alla prova – che caratterizzano questo particolare segmento del processo. Nella conduzione dell’esame, in particolare, le parti
55
Si ricorda, a tale riguardo, il monito di F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, III ed., Lucca, 1867,
p. 600 «il dovere della lealtà non impone al difensore una obbligazione positiva; ma puramente negativa. Esso lo astringe a non
fare: cioè a non affermare cosa contraria alla verità processuale, e a non operare con arti o prove mendaci per il trionfo del falso»
(corsivi dell’A).
56
Sul punto, si v. la vicenda sottesa a Cass., sez. un, 29 settembre 2011, n 155 in Cass. pen., 2012, p. 2410, con nota di F. Caprioli, Abuso del diritto di difesa e nullità inoffensive che in una fattispecie relativa ad un reiterato avvicendamento di difensori –
posto in essere in chiusura del dibattimento, secondo una strategia non giustificata da alcuna reale esigenza difensiva, ma con la
sola funzione di ottenere una dilatazione dei tempi processuali con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione, la Corte nel ravvisare un abuso delle facoltà processuali, inidoneo a legittimare ex post la proposizione di eccezioni di nullità ha affermato il principio che «Il diniego di termini a difesa, ovvero la concessione di termini ridotti rispetto a
quelli previsti dall’art. 108, comma 1, c.p.p., non possono dar luogo ad alcuna nullità quando la relativa richiesta non risponda
ad alcuna reale esigenza difensiva e l’effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell’imputato non abbia subito alcuna lesione o menomazione».
57
Cfr. P. Ferrua, ‘Il giusto processo’, Bologna, 2012, p. 117 secondo il quale non solo non può essere censurabile il difensore
che persegua con strategie e tattiche dilatorie la prescrizione del reato, ma che tocca in ogni caso alla legge evitare che dall’uso
strumentale delle garanzie possano derivare effetti distorti e rovinosi sul processo.
58
Così, F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, p. 107-108: «In pratica è diffusa l’idea di un rapporto tra il processo e
l’eloquenza; ma coloro che fanno della scienza, almeno moderna, non vi hanno mai posto attenzione. Una volta sì, quando primeggiava l’intuizione, qualcuno aveva dato una mirabile definizione del giureconsulto: vir bonus dicendi peritus». L’A. (ivi p.
109) raccomandava i giovani che aspiravano all’ufficio di difensore di impadronirsi dell’ars dicendi «la quale purtroppo, invece,
se nella teoria del processo è del tutto ignorata, nella pratica è sempre più mortificata. La ragione dello scadimento sta, per buona parte, in quella sua degenerazione, che si chiama più o meno esattamente retorica, la quale è oscurità invece di chiarezza,
artificio invece di sincerità, complicazione invece di semplicità, opulenza invece di povertà». Sulla potenza che l’A. attribuiva
alla ‘parola’ si v. la raccolta di discorsi di F. Carnelutti, Il canto del grillo, (a cura) di G.P. Calabrò, Padova, 2014.
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devono evitare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte; nell’esame condotto dalla
parte che ha chiesto l’esame del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte; l’esame del testimone, ancora, deve essere condotto senza
ledere il rispetto della persona.
Dai poteri del giudici previsti dall’art 499, comma 6, c.p.p., infine, si ricava che durante l’esame devono essere assicurate la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte e, ancora, “la lealtà
dell’esame”.
Si tratta di regole che, come detto, non solo rendono particolarmente formalizzato il dialogo processuale ma che, integrandosi con le norme deontologiche contenute nel Codice, contribuiscono a contenere
il rischio che «la palma della vittoria arrida non al più giusto, ma al più abile» 59. Esse, poi, si saldano
perfettamente con lo scopo delle norme deontologiche che – come si esprime l’art. 1 – si ispirano all’esigenza di assicurare nel processo la regolarità del giudizio e del contraddittorio.
Tra l’altro, poiché secondo la giurisprudenza la violazione delle regole per l’esame dibattimentale
del testimone non dà luogo né alla sanzione di inutilizzabilità (poiché non si tratta di prova assunta in
violazione di divieti posti dalla legge, ma assunta con modalità diverse da quelle prescritte), né ad una
ipotesi di nullità (atteso che l’inosservanza delle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle
previsioni delineate dall’art. 178 c.p.p.) 60, è innegabile come la loro violazione rilevi proprio sul piano
deontologico e come, dalla loro sistematica e deliberata inosservanza, possa derivare una responsabilità
disciplinare.
IL RAPPORTO CON GLI ORGANI DI INFORMAZIONE
Un ultimo aspetto che caratterizza sicuramente la professione dell’avvocato penalista è quello del rapporto con gli organi di informazione.
L’art. 57 del nuovo Codice deontologico, sul punto, contiene due canoni – la cui violazione comporta la
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi – che sembrano spingere l’avvocato ad un’estrema prudenza nel rapportarsi con gli organi di informazione. In particolare, l’avvocato
in ogni attività di comunicazione, da un lato, non deve fornire notizie coperte dal segreto di indagine e,
dall’altro, non deve spendere il nome dei propri clienti e assistiti, enfatizzare le proprie capacità professionali, sollecitare articoli o interviste e convocare conferenze stampa.
Il giusto atteggiamento degli avvocati, anche di fronte alle lusinghe di promesse di citazioni dei loro
nomi sulle cronache, dovrebbe essere quello di evitare, per quanto possibile, che i giornalisti infieriscano con le cronache giudiziaria sulle disgrazie dei loro assistiti ed è, dunque, in tal senso che deve essere
interpretato il divieto di spendita del nome dei propri clienti, di sollecitazione di articoli o interviste e
di convocazione di conferenze stampa. Certamente, poi, «in linea con una corretta interpretazione dello
spirito della norma, comunque, deve considerarsi quanto meno inopportuna la partecipazione dell’avvocato alle trasmissione televisive ed ai c.d. talk show, soprattutto se questi si tengono quando le indagini sono ancora in corso» 61.
Se certamente sembra difficile dissentire dall’idea che il difensore debba sempre mantenere un comportamento ispirato alla sobrietà ed alla riservatezza, è innegabile, tuttavia, che nella società moderna
«l’avvocato, il giudice ed il giornalista giocano il proprio ruolo sulla scena mediatico-giudiziaria, fino a
trasformarlo in qualcosa che si può definire ‘circo-giudiziario’» 62.
Le ragioni di tale fenomeno sono probabilmente varie e sfuggono ad ogni tentativo di razionalizzazione. Tuttavia, è un dato di fatto difficilmente refutabile in dubbio che non solo i giornalisti della cronaca giudiziaria sono sempre al corrente dei calendari delle udienze, trascorrono gran parte delle loro
giornate a caccia di informazioni negli ambienti giudiziari e non di rado sono in condizione di battere
sul tempo perfino gli organi delle notificazioni nella comunicazione degli atti, ma come sia diventato
un genere televisivo di moda il processo mediatico.
59
G. De Luca, La cultura della prova, cit., p. 193.
60
Così, Cass., sez. II, 3 dicembre 2013, n. 51740.
61
M.M. Monaco, sub art. 57, in E. Randazzo (a cura di), Il penalista e il nuovo codice deontologico, cit., p. 158.
62
Sull’argomento, si v. lo stimolante, ed a tratti autobiografico, saggio dell’avvocato francese D. Soulez Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, Macerata, 1994, p. 5 e ss.
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Se, infatti, un tempo, il profilo di maggiore rilievo nei rapporti tra giustizia penale ed informazione
era quello della rappresentazione, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, del modo di amministrare la giustizia (la c.d. informazione sul processo), oggi l’aspetto di prevalente interesse è costituito dai
processi celebrati sui mezzi di informazione 63.
Sebbene si sia sottolineato come il nostro sistema processuale, contando su giudici professionali e
non onorari, avrebbe «in sé – se non tutti – almeno alcuni anticorpi per una azione di rigetto delle più
gravi patologie» che tali forme di spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie potrebbe generare 64,
secondo talune opinioni la pressione esercitata sulla stampa avrebbe addirittura giuocato un ruolo
nell’assoluzione pronunciata dalla Corte di Assise di Appello di Perugia di Amanda Knox e Raffaele
Sollecito, imputati dell’omicidio volontario di Meredith Kercher 65. Più in generale, parte della dottrina
ha sottolineato come le interazioni tra mezzi di informazione e processo sarebbero perfino causa
dell’errore giudiziario 66 dando vita a pericolose forme di giustizia emozionale 67.
Bisogna prendere atto che i canoni della riservatezza e le raccomandazione ad un atteggiamento
schivo valgono in un mondo ideale nel quale i rapporti tra media e giudici fossero improntati ad imparzialità, prudenza, correttezza espositiva e, soprattutto, rispetto per la presunzione di innocenza
dell’imputato e per la delicata opera cui sono chiamati ad adempiere i protagonisti del processo. Purtroppo, siccome, da un lato, l’art. 329 c.p.p. fa cadere ogni segreto sugli atti di indagine dal momento in
cui la persona indagata ne sia venuta a conoscenza e, dall’altro, l’art. 114 c.p.p. vieta solo la pubblicazione, anche parziale, degli atti – ma non anche del contenuto – non più coperti da segreto fino a che
non siano concluse le indagine, è inevitabile che lo strumento mediatico, insinuando verità alternative e
dubbi interpretativi e svelando scenari nascosti «celi insidie per un giudizio non scevro da pregiudizi di
chi è chiamato – in modo meno tecnico – ad esprimere un giudizio di colpevolezza o innocenza» soprattutto quanto si tratti di reati di competenza della Corte d’assise 68.
Non è un caso che del tema si siano occupati anche organismi internazionali. A tale riguardo, deve
essere sottolineata la portata della Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, 10 luglio 2003 n. (2003) 13, sulla Diffusione di informazioni da parte dei media in relazione ai processi penali 69 la
quale, dopo aver premesso che «il rispetto del principio della presunzione di innocenza fa parte integrante del diritto ad un equo processo», ha significativamente postulato che «le opinioni e le informa63
Sul tema, ci si permette rinviare a A. Diddi, ‘Processi mediatici’ e misure di protezione della imparzialità del giudice, in E.R. Zaffaroni-M. Caterini (a cura di), La sovranità mediatica. Una riflessione tra etica, diritto ed economia, Padova, 2014, p. 265 e ss.
64
G. Spangher, “Processo mediatico” e giudici popolari nei giudizi delle corti d’assise, in La corte di assise, 2012, pp. 119-120.
65
Così, G. Albertario, G.M. Castellini, La ricostruzione di cronaca giudiziaria nei media, in M. Montagna (a cura di), L’assassinio
di Meredith Kerker. Anatomia del processo di Perugia, Roma, 2012, p. 52.
66
P. Troisi, L’errore giudiziario tra garanzie costituzionali e sistema processuale, Padova, 2011, pp. 8-9 secondo il quale è «inevitabile il condizionamento degli organi giudiziari e altrettanto inevitabili sono i riflessi negativi in tema di esercizio del diritto di
difesa» e «l’uso mediatico del processo …nuoce all’imputato e alla giustizia, e a pieno titolo può porsi tra le cause dell’errore
giudiziario». Sul punto, si v. anche lo studio condotto su un noto caso di cronaca giudiziaria, di Cabras, Un mostro di carta, in
Cabras (a cura di), Psicologia della prova, Milano, 1996, 233 ss.
67
Così, A. Garapon, La justice emotionelle, atti dell’incontro di studi Magistrati e massmedia organizzato dal C.S.M., Roma, 9
dicembre 2004. Sui condizionamenti esercitati dai processi mediatici sulle decisioni giudiziarie, cfr. la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2007 e nell’anno 2008, del primo presidente della Corte di Cassazione, dott. V. Carbone (ricordata
da F. Abruzzo, La deontologia del giornalista, in G. Resta (a cura di), Il rapporto tra giustizia e mass media. Quali regole per quali soggetti. Atti del convegno di Bari, 4 luglio 2008, Napoli, 2010, 242-243) nonché Autorità per le Garanzie delle Telecomunicazioni, Deliberazione 31 gennaio 2008, n. 13/08/CSP in Dir. inform., 2008, 283. Sul tema, si v. le considerazioni di G. Resta, Il problema dei processi mediatici nella prospettiva del diritto comparato, in G. Resta (a cura di), op.cit., p. 25 in ordine al numero crescente di ricorsi alla
Corte europea dei diritti dell’uomo fondati sull’assunto che il clima di intimidazione creato dai media avrebbe intaccato le garanzie di imparzialità del giudice e del giusto processo; in argomento, poi, le considerazioni di L. Marafioti, Processi penali by
media, un circolo vizioso, in G. Resta (a cura di), op.cit., p. 113; sull’argomento, in riferimento alle distorsioni provocate su alcuni
istituti processuali dalle pressioni dei media, G. Giostra, Le patologie dell’informazione giudiziaria; cause, effetti e falsi rimedi, in L.
Garlati-G. E. Vigevani (a cura di), Processo e informazione, Milano, 2012, p. 91 ss.
68
G. Spangher, Processo mediatico, cit., p. 122.
69
Pubblicata in Dir. pen. processo, 2003, 1445. Sul punto, estremamente significative le considerazioni di C. cost., 3 marzo
1966, n. 18, Giur. cost., 1966, p. 173., secondo la quale «nei confronti dell’imputato la divulgazione a mezzo della stampa di notizie frammentarie, ancora incerte perché non controllate, e per lo più lesive dell’onore, può essere considerata in contrasto col
principio, garantito dall’art. 27, secondo comma, Cost., della non colpevolezza fino a quando non sia intervenuta sentenza di
condanna».
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zioni concernenti i procedimenti penali in corso non dovranno essere comunicate o diffuse attraverso i
media se arrecano pregiudizio alla presunzione di innocenza del sospettato o dell’accusato» 70.
La Carta dei doveri del giornalista 71 – altra raccolta di norme deontologiche – a sua volta, statuisce che
in tutti i casi di indagini o processi, il giornalista, da un lato, deve sempre ricordare che ogni persona
accusata di un reato è innocente fino alla condanna definitiva e non deve costruire le notizie in modo da
presentare come colpevoli le persone che non siano state giudicate tali in un processo e, dall’altro, che il
giornalista non deve pubblicare immagini che presentino intenzionalmente o artificiosamente come
colpevoli persone che non siano state giudicate tali in un processo.
Precise regole di carattere deontologico sono previste anche per i magistrati nell’art. 2, d.lgs. 23 febbraio 109, n. 109 recante La disciplina degli illeciti disciplinare dei magistrati, che considera condotta censurabile quella del magistrato che rilasci pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo,
riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e
non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria; che solleciti la pubblicità di
notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero rilasci dichiarazioni ed interviste in violazione dei
criteri di equilibrio e di misura.
In base all’art. 5, d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, recante disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, poi, non solo viene fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria
dell’ufficio, demandando al solo capo dello stesso ovvero ad altro magistrato appositamente designato,
di mantenere i rapporti con gli organi di informazione, ma prescrive che ogni informazione sia attribuita in modo impersonale all’ufficio.
Inoltre, con riferimento a tale aspetto, deve essere sottolineato che anche per i magistrati, accanto a
norme legislative e regolamentari, esistono norme deontologiche contenute nel Codice etico adottato il 13
novembre 2010 dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. In base all’art. 6
del citato Codice, in particolare, «fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il
magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai
giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione
destinati alla diffusione».
Nonostante tale apparato di norme deontologiche che operano a molteplici livelli, è sotto gli occhi di
tutti la fragilità delle barriere poste per garantire la correttezza dell’informazione e come, purtroppo,
anche l’avvocato, quando il suo assistito resti intrappolato nel meccanismo mediatico, non possa sottrarsi al gioco e come, dunque, quelle regole di prudenza e quei canoni di riservatezza enucleabili
dall’art. 57 possano essere messi in discussione 72.
Non sfugge, a tale riguardo, l’inciso contenuto nel primo comma dell’art. 57 del Codice il quale, accanto a divieti e limitazioni in ordine alle diffusioni delle notizie ed alle conferenze stampa, fa comunque salve «le esigenze di difesa della parte assistita» quasi a voler comunque sottolineare che la difesa, oltre che nel giudizio ove costituisce un diritto inviolabile, in taluni casi può dover essere esercitata anche
fuori dal processo.
Anche quando però le necessità di difesa richiedano l’esposizione mediatica del difensore, tuttavia,
egli non può dimenticare la particolare funzione che svolge e l’art. 18 del Codice, a tale riguardo, prescrive che egli debba comunque ispirarsi a criteri di equilibrio e misura, nel rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza potendo solo con il consenso della parte assistita, e nell’esclusivo interesse di
quest’ultima, fornire agli organi di informazione notizie purché non coperte dal segreto di indagine 73.
CONCLUSIONI
Le norme deontologiche alle quali deve ispirarsi l’avvocato penalista, come visto, delineano un complesso reticolo di prescrizioni estremamente variegato ed articolato.
70
Sulla Raccomandazione cit., si v. le note di commento di V. Zeno-Zencovich, Il codice di autodisciplina sui “processi in TV”, in
G. Resta (a cura di), Il rapporto tra giustizia e mass media, cit., p. 166-167.
71
Firmata a Roma l’8 luglio 1993 dalla Fnsi e dall’Ordine nazionale dei Giornalisti.
72
Sul punto, ancora, l’esperienza narrata da D. Soulez Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, cit., p.8.
73
In relazione all’art. 18 del Codice, cfr. F. D’Angelo, sub art. 18, in E. Randazzo (a cura di), Il penalista, cit., p. 59 ss.
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Si tratta di regole che, da un lato, servono a rafforzare l’idea che il difensore, per quanto legato al
suo cliente da un vincolo di mandato e sia portatore degli interessi di quest’ultimo, non può farsi strumento di una qualunque iniziativa che gli sia da questi sollecitata.
Sebbene la parte assistita, nell’esercizio del suo diritto di difesa, abbia il pieno diritto di non collaborare con la giustizia e, dunque, in definitiva, non gli sia richiesto alcun dovere di lealtà, il difensore, ancorché obbligato dal contratto d’opera ad assistere la parte che rappresenta ed a tutelarne gli interessi,
non può evidentemente mai operare travalicando quei valori il cui rispetto rappresenta l’unica garanzia
per impedire che costui, anche quando assista l’imputato al quale siano contestati i più efferati crimini,
possa essere considerato un ‘complice’ del suo cliente.
Certamente, il ruolo del difensore è differente da quello del pubblico ministero. Costui, dovendosi
comportare con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo, non solo deve indirizzare la sua indagine
alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato, ma non potrebbe
tacere al giudice – senza incorrere in responsabilità quantomeno disciplinare – l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato 74. Per contro, il difensore non solo non violerebbe il dovere di lealtà ove non ponesse a disposizione dell’accusa gli elementi di prova che dovessero essere a questa utili,
ma qualora lo facesse tradirebbe gravemente il mandato ricevuto 75.
Come ha osservato la corte di cassazione è innegabile la differenza funzionale tra pubblico ministero
e difesa in quanto solo il primo è tenuto a raccogliere tutte le emergenze riguardanti l’indiziato mentre
al secondo non solo la legge riconosce poteri ampiamente dispositivi, ma non lo obbliga neppure a
cooperare alla ricerca della verità 76.
Per quanto, però, il difensore rappresenti una parte e non abbia alcun dovere di mettere a disposizione delle altre parti atti o circostanze che potrebbero pregiudicare la posizione del suo cliente, non
deve dimenticare – come solennemente recita la formula di impegno che egli deve rendere prima di
svolgere le sue funzioni – non solo che la professione forense svolge una «funzione sociale», ma che i doveri, di lealtà, onore e diligenza che egli si impegna ad osservare, sono strumentali «ai fini della giustizia». Come osservato dalla dottrina che, nelle varie epoche si è interessata del problema 77, il difensore,
ancorché patrono dell’imputato, svolge una funzione di «alto interesse sociale» 78; il ruolo del difensore
risponde «ad un interesse essenzialmente pubblico altrettanto importante quanto quello a cui risponde
la magistratura: giudici ed avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente
fedeli dello Stato che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione» 79; la dignità del difensore, la cui indefettibile presenza nel giudizio affonda le radici nelle inesplorabili profondità del congegno della conoscenza, esige «il distacco del difensore dall’imputato e la sua netta inclusione nell’ufficio
giudiziario, anzi in quel nucleo di questo, che io chiamo la triade dei giudicanti» 80.
Sebbene, in un certo senso, possa apparire un’aporia che l’avvocato, in quanto portatore di interessi
individualistici, possa contribuire al perseguimento di fini sociali e di giustizia, in realtà «è la stessa
funzione cognitiva del processo ad esigere che il difensore possa sistematicamente confutare a qualsiasi
livello la tesi dell’accusa» ed anzi, poiché «la ricostruzione dei fatti non può essere oggetto né di dimostrazione matematica né di verifica diretta, occorre che la tesi dell’accusa sia sottoposta ai più severi
tentativi di falsificazione; e la falsificazione dell’accusa non può che competere al controinteressato» 81.
74
Così l’art. 13 del codice deontologico magistrati adottato dal Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale
Magistrati, il 13 novembre 2010.
75
Cfr. Secondo P. Ferrua, ‘Il giusto processo’, cit., pp. 106-107 secondo il quale «mentre il pubblico ministero indirizza la sua
azione verso fini di giustizia (condanna del colpevole e assoluzione dell’innocente), quella del difensore si svolge ad esclusiva
tutela degli interessi del proprio assistito, i quali non coincidono necessariamente con quelli di giustizia».
76
Cass., sez. un., 27 giugno 2006, n. 32009, cit. Sull’argomento, si veda il saggio di M. La Torre, Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, Soveria Mannelli, 2001, p. 117 ss.
77
Per una indagine storico-filosofica condotta sulle differenti concezioni che ha assunto la figura dell’avvocato nelle diverse
epoche e nei differenti sistemi processuali, cfr. M. La Torre, Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, Soveria Mannelli, 2001, p. 55 ss.
78
L. Lucchini, Elementi di procedura penale, IV ed., Firenze, 1920, p. 254.
79
P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritti da un avvocato, IV ed., Firenze, 1959, p. XXIX.
80
F. Carnelutti Il problema del difensore penale, in Massimario penale, 1947, p. 1 ed in Questione sul processo penale, II ed., Bologna,
1950, p. 83 (corsivi dell’A).
81
Così, ancora, P. Ferrua, ‘Il giusto processo’, cit., p. 107.
ANALISI E PROSPETTIVE | LE REGOLE DEONTOLOGICHE DELL’AVVOCATO PENALISTA
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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Il difensore è, in effetti chiamato a vivere in una dimensione di continuo conflitto di valori: «l’avvocato è una parte ma lo è prendendo le distanze dal soggetto che assiste in esercizio di indipendenza e
imparzialità. […]. L’avvocato non approva i desideri né difende la volontà dell’assistito, ma assiste solo
il suon buon diritto. La sua parzialità (che non può mai cancellarsi) è e deve rimanere – con tutti gli
sforzi, i rischi, ed i crucci che ciò può comportare – fondatamente imparziale» 82.
Tutto ciò non vuol dire, ovviamente, che il difensore debba essere considerato come una sorta di
giudice cui spetti il ruolo di sottoporre la causa ad un preventivo controllo di correttezza e di accettare
l’incarico solo delle cause giuste 83.
L’insostituibilità del ruolo del difensore, infatti, va intesa nel senso che è indispensabile la funzione
di una parte che, con il sostenere le ragioni del proprio assistito e con la pervicace opera di insinuazione
del dubbio, indirettamente agevola il lavoro del giudice nella scoperta della verità.
Sono, allora, proprio le regole deontologiche che, con il loro carico di responsabilità, connotano l’attività dell’avvocato il quale se nell’agone giudiziario è chiamato a ‘combattere’ agendo con tutte le
astuzie del caso 84, cionondimeno, in ossequio ai doveri di correttezza, deve rispettare alcuni canoni di
condotta.
È evidente, una volta delineata la funzione ed il ruolo del difensore, come le norme deontologiche,
nella misura in cui gli impongono – a pena dell’applicazione di sanzioni che, in taluni casi, possono essere anche particolarmente afflittive – determinati comportamenti che egli deve osservare nel processo,
svolgano una precisa funzione di profilassi processuale.
82
M. La Torre, Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, cit., p. 155
83
In senso contrario, ma certamente in un contesto sistematico diverso e non applicabile alla scala di valori contemporanei,
S. Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Vol. XVII, La giustizia, traduzione a cura di T. S. Centi, Bologna, 1984, p. 288, secondo
il quale «è sempre illecito per chiunque cooperare al male, sia con l’opera, sia col consiglio, sia con l’aiuto, sia con ogni altro consenso: poiché chi consiglia e coopera in qualche modo compie l’azione. […]. Ora, è evidente che l’avvocato presta aiuto e consiglio alla persona di cui difende la causa. Perciò se egli difende scientemente una causa ingiusta, senza dubbio fa peccato mortale; ed è tenuto a riparare il danno incorso ingiustamente dalla parte contraria per il suo intervento. Se invece difende una causa
ingiusta per ignoranza, cioè pensando che sia giusta, allora è scusato nella misura in cui può scusare l’ignoranza».
84
F. Carnelutti, Diritto e processo, cit., p. 187.
ANALISI E PROSPETTIVE | LE REGOLE DEONTOLOGICHE DELL’AVVOCATO PENALISTA
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Simona Arasi
Negoziato sulla pena e confisca per i reati tributari/Plea bargaining and confiscation for tax offence
53
Federico Bardelle
Corti europee/European Courts
22
Carlotta Conti
Le dichiarazioni del testimone irreperibile: l’eterno ritorno dei riscontri tra Roma e Strasburgo/Absent witness’statements: european and italian principles about corroborative evidence
01
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
34
Francesca Delvecchio
Le garanzie linguistiche nel “giusto processo europeo”: l’omesso interrogatorio dell’arrestato
per irreperibilità dell’interprete/Language guarantees in “due European process”: the interrogation
of the arrested failed to unavailability of the interpreter
42
Alessandro Diddi
Le regole deontologiche dell’avvocato penalista/Defence attorney’s professional and ethical rules
94
Claudio Lara
Prime aperture nel regime di rigore: il prolungamento del colloquio mensile per il detenuto ex
41 bis ord. penit./First opening in the penalty regime: the extension of the interview monthly for the
held art. 41 bis ord. penit
78
Valeria Marchese
Sezioni Unite
32
Angela Procaccino
Corte Costituzionale
29
Roberto Puglisi
Le nuove garanzie informative nel procedimento cautelare/Precautionary measures and
informative guarantees
84
Gioia Sambuco
De Jure condendo
17
Francesco Trapella
Lo scomputo del servizio prestato in caso di revoca dell’affidamento in prova/The deduction of the service performed if the probation fails
66
Elena Zanetti
Novità sovranazionali / Supranational news
12
INDICI
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
117
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., sent. 1° dicembre 2014, n. 273
C. cost., sent. 3 dicembre 2014, n. 270
C. cost., sent. 12 gennaio 2015, n. 1
31
30
29
Corte di cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 11 dicembre 2014, n. 51660
sentenza 2 gennaio 2015, n. 2
33
32
Sezioni semplici
Sezione III, 5 settembre 2014, n. 37186
Sezione I, 8 settembre 2014, n. 37292
Sezione I, 17 settembre 2014, n. 38073
Sezione VI, 23 settembre 2014, n. 38791
51
64
75
39
Decisioni in contrasto
Sezione II, 2 dicembre 2014, n. 52023
Sezione I, 3 dicembre 2014, n. 43394
34
35
Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
Corte e.d.u., 16 dicembre 2014, Dimcho Dimov c. Bulgaria
Corte e.d.u., 16 dicembre 2014, Horncastle e altri c. Gran Bretagna
Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Efendiyev c. Azerbaijan
Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, N.A. c. Norvegia
Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Scholer c. Germania
Corte e.d.u., 13 gennaio 2015, Kurowski c. Polonia
Corte e.d.u., 13 gennaio 2015, Ugur c. Turchia
Corte e.d.u., 15 gennaio 2015, Chopenko c. Ucraina
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Atti sovranazionali
Tre accordi bilaterali con San Marino, Estonia e Turchia in tema di criminalità organizzata e
di terrorismo internazionale
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De jure condendo
Disegno di legge C. 2798 «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del
fenomeno corruttivo, oltreché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena»
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MATERIE / TOPICS
Appello
– divieto di reformatio in pejus
 La discussa applicabilità del divieto di reformatio in pejus alle statuizioni civili (Cass., sez. I, 3
dicembre 2014, n. 43394), di Paola Corvi
Dibattimento
 Equo processo – Diritto al controesame (Corte e.d.u., 16 dicembre 2014, Horncastle e altri c.
Gran Bretagna; Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Efendijev c. Azerbaijan; Corte e.d.u., 18 dicembre
2014, Scholer c. Germania)
 L’inosservanza delle disposizioni relative all’assunzione in sede dibattimentale delle dichiaINDICI
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Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
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razioni dell’imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede: inutilizzabilità,
nullità o irregolarità? (Cass., sez. II, 2 dicembre 2014, n. 52023)
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Difesa e difensori
 Equo processo – Diritto all’assistenza ad un difensore – Diritto di partecipare personalmente all’udienza (Corte e.d.u., 15 gennaio 2015, Chopenko c. Ucraina)
 Le regole deontologiche dell’avvocato penalista/Defence attorney’s professional and ethical rules,di Alessandro Diddi
 Rafforzamento delle garanzie difensive, durata ragionevole del processo e ordinamento penitenziario (Disegno di legge C. 2798 «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale
per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore
contrasto del fenomeno corruttivo, oltreché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa
della pena»)
Diritti fondamentali
 Equo processo – Presunzione di innocenza (Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, N.A. c. Norvegia)
 Libertà personale – Illegittimità della carcerazione preventiva – Indagine effettiva (Corte
e.d.u., 13 gennaio 2015, Ugur c. Turchia)
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Giudizio abbreviato
 Accesso al giudizio abbreviato anche in caso di “nuova contestazione” per diversità del fatto ex art. 516 c.p.p. (C. cost., sent. 1° dicembre 2014, n. 273)
– Minorile
 L’imprescindibilità della collegialità nel “giudizio abbreviato minorile” (C. cost., sent. 12
gennaio 2015, n. 1)
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Indagini preliminari
 Equo processo – Agente sotto copertura (Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Scholer c. Germania)
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Misure cautelari personali
– impugnazioni de libertate
 Le “relazioni pericolose” tra motivazione del provvedimento cautelare, poteri del giudice
del riesame e giudizio di rinvio (C. cost., sent. 3 dicembre 2014, n. 270)
 Le nuove garanzie informative nel procedimento cautelare/ Precautionary measures and
informative guarantees, di Roberto Puglisi
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Misure cautelari reali
– sequestro
– conservativo
 L’insufficienza patrimoniale del debitore costituisce presupposto per il sequestro conservativo (Cass., sez. un., 11 dicembre 2014, n. 51660)
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Misure pre-cautelari
– arresto
 L’omesso interrogatorio dell’arrestato alloglotta in sede di convalida (Cass., sez. VI, 23 settembre 2014, n. 38791), con nota di Francesca del Vecchio
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Testimonianza
 Le dichiarazioni del testimone irreperibile: l’eterno ritorno dei riscontri tra Roma e Strasburgo/Absent witness’statements: europan and italian principles about corroborative evidence, di
Carlotta Conti
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INDICI
Processo penale e giustizia n. 2 | 2015
Indagini preliminari
 Equo processo – Agente sotto copertura (Corte e.d.u., 18 dicembre 2014, Scholer c. Germania)
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Ordinamento penitenziario
 “Carcere duro” e recupero del colloquio mensile perso (Cass., sez. I, 17 settembre 2014, n.
38073), con nota di Claudio Lara
 Esecuzione/Trattamento carcerario – Trattamenti inumani e degradanti – Uso della forza –
Indagine effettiva (Corte e.d.u., 16 dicembre 2014, Dimcho Dimov c. Bulgaria)
 In caso di revoca dell’affidamento ai servizi sociali il giudice non può ignorare il periodo di
prova svolto dal condannato (Cass., sez. I, 8 settembre 2014, n. 37292), con nota di Francesco
Trapella
 Rafforzamento delle garanzie difensive, durata ragionevole del processo e ordinamento
penitenziario (Disegno di legge C. 2798 «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale
per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore
contrasto del fenomeno corruttivo, oltreché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa
della pena»)
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Patteggiamento
 Patteggiamento e confisca per equivalente (Cass., sez. III, 5 settembre 2014 n. 37186), con nota
di Simona Arasi
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Prescrizione
 Decorrenza del termine di prescrizione della pena in caso di revoca dell’indulto (Cass., sez.
un., 2 gennaio 2015, n. 2)
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Processo penale
– durata
 quo processo – Ragionevole durata (Corte e.d.u., 13 gennaio 2015, Kurowski c. Polonia)
 Rafforzamento delle garanzie difensive, durata ragionevole del processo e ordinamento
penitenziario (Disegno di legge C. 2798 «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale
per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore
contrasto del fenomeno corruttivo, oltreché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa
della pena»)
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Sicurezza pubblica
 Tre accordi bilaterali con San Marino, Estonia e Turchia in tema di criminalità organizzata e
di terrorismo internazionale
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INDICI
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