RASSEGNA STAMPA

RASSEGNA STAMPA
giovedì 30 ottobre 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 29/10/14
Corteo degli operai delle acciaierie di Terni,
scontri in piazza Indipendenza: 4 feriti
I lavoratori dell'Ast erano diretti al ministero dello Sviluppo Economico,
ma sono stati bloccati dalla polizia. Quattro manifestanti trasportati in
ospedale. Il segretario della Fiom, Landini: "Li hanno caricati". La
questura: "Solo azione di contenimento, volevano occupare la stazione
Termini. Tre agenti e un funzionario feriti". La procura valuta indagine.
Camusso (Cgil): "Il governo dia risposte, non picchi gli operai". Il
Senato: "Alfano riferisca su scontri". I sindacati dopo l'incontro al Mise:
"Impegno Guidi su piano industriale"
di VIOLA GIANNOLI e LUCA MONACO
Scontri in centro durante il corteo degli operai delle Acciaierie Terni-Ast. I manifestanti
erano diretti al ministero dello Sviluppo Economico, quando all'altezza di piazza
Indipendenza sono stati bloccati dagli agenti della polizia in tenuta antisommossa. I
manifestanti, che si stavano muovendo dal presidio sotto all'ambasciata tedesca, hanno
cercato di forzare il cordone, ma sono stati respinti delle forze dell'ordine. Nei tafferugli
quattro manifestanti sono rimasti feriti e trasportati in codice verde al policlinico Umberto I.
Contuso anche Gianni Venturi, coordinatore nazionale Fiom e Alessandro Unia del Rsu
Fim Cis. "Hanno caricato gli operai - ha detto il segretario della Fiom, Maurizio Landini Chiediamo un incontro con il ministro e il capo della polizia, devono spiegare quello che è
successo".
"Non c'è stata nessuna carica, ma un'azione di contenimento quando i manifestanti hanno
tentato di forzare il cordone di poliziotti per andare verso la stazione Termini ed occuparla
- replica la Questura di Roma - Sono stati i manifestanti ad andare verso il cordone degli
agenti lanciando oggetti e ferendo un funzionario e tre poliziotti che li hanno dovuti
contenere". Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo attende una informativa della Digos
sui fatti per poi avviare, eventualmente, un fascicolo di indagine. Mentre tutti i gruppi
parlamentari del Senato, in apertura dei lavori d'Aula, hanno chiesto al ministro degli
Interni Angelino Alfano di riferire domani al question time sulle "cariche della polizia contro
gli operai dell'Ast di Terni che manifestavano davanti all' ambasciata tedesca".
"Ci sono persone che rischiano il posto di lavoro - ha detto il leader della Cgil Susanna
Camusso - che oggi sono state picchiate dalla polizia. Si parli di questo e non delle
sciocchezze". ll numero uno del sindacato si è poi recato in ospedale a visitare i lavoratori
condannando "con forza e sdegno" le cariche, esprimendo "piena vicinanza e solidarietà"
alla piazza e chiedendo al ministro dell'Interno Angelino Alfano di fare chiarezza
sull'accaduto. Il sottosegretario Graziano Delrio ha telefonato al leader Fiom Maurizio
Landini e ha precisato: "Il Governo continua a essere impegnato nell'affrontare la crisi di
Ast Terni ed effettuerà una puntuale verifica per quanto accaduto oggi con il ferimento di
alcuni operai".
Gli operai in corteo sono stati bloccati da un cordone di agenti in tenuta antisommossa
all'altezza di piazza Indipendenza. "Ci hanno manganellato perchè non volevano farci
2
arrivare al ministero dell'Economia", raccontano alcuni operai dell'Ast di Terni. Dopo gli
scontri, i manifestanti sono stati scortati dalla polizia verso il ministero, dove la tensione è
salita di nuovo. Gli operai hanno infatti iniziato a lanciare palline di gomma contro poliziotti.
Una delegazione dell'acciaieria di Terni, guidata da Landini, ha poi ottenuto un incontro al
ministero dello Sviluppo Economico. I dirigenti hanno fatto il loro ingresso nello stabile di
via Veneto presidiato da numerosi blindati delle forze dell'ordine mentre diverse centinaia
di manifestanti sono rimaste in presidio attorno al ministero. Usciti dall'incontro al Mise i
sindacati hanno riferito che "il ministro Guidi sta facendo incontri con l'azienda per
cambiare il piano industriale e che il Governo si è impegnato affinché l'azienda ricominci a
pagare gli stipendi a condizione che i lavoratori lascino entrare le tre persone
dell'amministrazione". I sindacati si sono detti disponibili e hanno aggiunto che la
settimana prossima saranno riconvocati per capire se ci sono stati passi avanti.
Le reazioni. "Quanto successo al corteo è un fatto grave e inaccettabile - sottolinea Luigi
Angeletti, leader della Uil - sono le cariche la cifra della politica di attacco ai sindacati? In
piazza c'erano solo lavoratori e non sindacalisti. Le forze dell'ordine non devono
alimentare il disordine. Il governo deve intervenire e risponderne, perchè episodi del
genere non possono passare sotto silenzi".
"Noi abbiamo sempre il massimo rispetto nei confronti delle forze dell'ordine che fanno il
loro dovere - ha aggiunto il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan - Ma è
davvero incomprensibile e grave quello che è accaduto oggi al corteo dei lavoratori della
Ast di Terni. Caricare e picchiare i lavoratori e i dirigenti sindacali, a cui va la solidarietà e
la vicinanza della Cisl, non è certamente un bel segnale per il clima generale del paese.
Speriamo che il Governo faccia subito chiarezza su quanto è accaduto ".
Sel ha annnunciato che presenterà oggi stesso un'interrogazione urgente al ministro
Alfano per chiedere conto della gestione della piazza da parte dei rappresentanti delle
forze dell'ordine. "Visto che non è la prima volta che succede forse è il caso che il ministro
dell'Interno si dimetta" affermano il responsabile nazionale lavoro Giorgio Airaudo e il
deputato Ciccio Ferrara.
Dal Pd, il presidente del partito Matteo Orfini ha scritto su Twitter: ''In casi così drammatici
ci può essere tensione, ma i lavoratori dell'Ast vanno ascoltati non caricati''. Stefano
Fassina al videoforum di Repubblica ha dichiarato: "In piazza c'erano dei lavoratori ed è
gravissimo quello che è successo. Dobbiamo rispondere
con la politica industriale non con la polizia".
Solidarietà ai lavoratori Ast è arrivata anche dall'Arci nazionale e dall'Arci di Terni: "Il
governo - scrivono - deve chiarire in Parlamento e al Paese come intende garantire il
diritto a manifestare evitando che simili fatti si ripetano, soprattutto in una stagione in cui,
per contrastare tagli e provvedimenti che ledono il diritto al lavoro, scioperi e
manifestazioni andranno intensificandosi".
http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/10/29/news/piazza_indipendenza-99266899/
Da Avvenire del 30/10/14, pag. 9
Sbarchi e arrivi, è caos sulle regole
Nello Scavo - Ilaria Sesana
Non interrompere l’operazione Mare Nostrum che ha permesso di salvare 153mila
persone. È la richiesta presentata da diverse organizzazioni che si occupano di migranti, e
che chiedono all’Italia di non sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane. Il
3
documento, che verrà presentato ufficialmente domani a Roma, è stato firmato da diverse
realtà tra cui Acli, Arci, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cnca, Comunità di Sant’Egidio,
Emmaus Italia, Fondazione Migrantes, Libera, Rete G2, Save the children.
Il timore delle associazioni è che, a fronte di una difficile situazione in Libia e del continuo
esodo di profughi dalla Siria e dall’Eritrea, si ripetano nuove stragi in mare: i pattugliamenti
coordinati da Frontex nell’ambito dell’operazione Triton si limiteranno alle acque territoriali
italiane. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, però è categorico: «Ho sempre detto che
Mare Nostrum non avrebbe fatto il secondo compleanno e non lo farà. Mare Nostrum
chiuderà perché era un’operazione di emergenza».
Mare Nostrum chiuderà. Ma nessuno sa dire quando. Un’incertezza che irrita non poco i
vertici della Marina e della Guardia Costiera, che più volte hanno ribadito il desiderio di
poter continuare nelle operazioni di ricerca e salvataggio ma che non hanno ancora
ricevuto indicazioni chiare sul "dopo" Mare Nostrum. Triton, la missione di protezione delle
frontiere voluta dall’Unione europea attraverso l’agenzia Frontex, partirà l’1 novembre. Ma
tra gli specialisti vi è la certezza che l’arretramento dell’Europa dalle acque del
Mediterraneo aggraverà i pericoli per le migliaia di migranti pronti a salpare dalle coste
libiche e da alcuni porti egiziani.
Solo quest’anno, malgrado l’opera delle navi della Marina Militare, nel Mediterraneo sono
morte più di 3mila persone. Facile prevedere che, a fronte di una minore attività di
soccorso, il numero delle vittime in futuro sarà molto più alto.
Ieri, intanto, si è svolto a Pratica di Mare un vertice operativo tra uomini del ministero
dell’Interno, della Difesa, e delle diverse forze armate impegnate nelle acque del Canale di
Sicilia. L’esito, a quanto trapela, è stato sconfortante. Nessuna chiarezza sui tempi della
"dismissione" di Mare Nostrum, con il rischio che alcuni mezzi di Marina e Guardia
Costiera si trovino al largo delle coste italiane senza sapere con precisione a quali regole
attenersi: quelle di Frontex, che limitano il pattugliamento, oppure quelle della missione
italiana.
Quel che è certo è che il flusso dei profughi in fuga dalla Libia non si arresterà.
Probabilmente ci sarà un calo degli sbarchi, dovuto all’arrivo dell’inverno. Ma non si
bloccherà. «Fino a quando la situazione nel Paese non si stabilizzerà, le partenze
continueranno – sottolinea don Mosé Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia –. E quando
verrò contattato da un’imbarcazione di profughi eritrei in difficoltà chiamerò, come faccio
sempre, la guardia costiera italiana o maltese». Anche la blogger siriana Tytty Cherasien
continuerà a tenere i contatti con i profughi siriani che fuggono dalla guerra civile «ma le
difficoltà per me e per Nawal Soufi, un’altra volontaria con cui gestisco le telefonate,
aumenteranno molto – spiega –. Certo, possiamo continuare a chiamare la guardia
costiera, ma non sappiamo quali saranno le procedure con cui viene passato l’allerta a
Frontex».
La situazione Libia resta molto complessa. Molti centri di detenzione siano stati chiusi o
abbandonati e le persone che erano detenute lì siano oramai sull costa. «Altro elemento
preoccuapante, il fatto che in Libia quasi non si trovano più barche adatte per prendere il
mare – aggiunge Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati –.
L’eventuale chiusura di Mare Nostrum ci preoccupa molto: il rischio è di far cessare
un’operazione di salvataggio in alto mare, dove è più elevato il rischio di naufragi, senza
avere un sostituto».
4
Da Avvenire.it del 30/10/14
L'appello
Migranti, «continuare Mare nostrum»
Un appello al governo perché non venga interrotta l'operazione Mare nostrum, e "l'Italia
non si sottragga alla responsabilità di salvare vite umane". È questa la richiesta firmata da
diverse organizzazioni che si occupano di migranti. Il testo dell'appello e le iniziative che
verranno messe in campo per sostenerlo saranno presentate in una conferenza stampa
che si terrà venerdì alle 11, a Roma.
Saranno presenti esponenti delle organizzazioni promotrici: Acli, Arci, Asgi, Casa dei diritti
sociali-focus, Caritas italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca, Comunità di s.Egidio, Emmaus
Italia, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Fondazione migrantes, Giù le
frontiere, Libera, Razzismo brutta storia, Rete G2, Rete primo marzo, Save the children
Italia, Sei Ugl, Terra del fuoco, Uil.
"Ho sempre detto che Mare nostrum non avrebbe fatto il secondo compleanno e non lo
farà. Mare nostrum chiuderà perché era un'operazione di emergenza": così il ministro
dell'Interno Angelino Alfano,oggi a Palermo per la consegna di 530 beni confiscati alla
mafia. "Dobbiamo adesso puntare su altre strategie che sono in primo luogo rappresentate
dalla collaborazione con i paesi delle rive del Nord africa e da un aiuto lì - ha detto Alfano . Nel frattempo l'Europa deve scendere in mare non con le stesse modalità di Mare
nostrum, che sono ritenute troppe avanzate dal punto di vista della linea di intervento della
Marina militare, ma con un'operazione di Frontex che presidierà la frontiera di Schengen
che è a trenta miglia dalle coste italiane".
"Non c'è alcuna polemica con la Marina militare, come affermato in una nota dalla stessa
Marina, e si va avanti di comune accordo. L'operazione Mare nostrum ha consentito di
salvare decine e decine di migliaia di vite umane, non tutte perché dalle dichiarazioni dei
superstiti e i cadaveri contati in mare, oltre 3.000 persone sono morte. È stata
un'operazione concepita dopo i 366 morti di Lampedusa ed è stata concepita a termine",
ha concluso Alfano.
http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/migranti-appello-per-mare-nostrum.aspx
Da Vita.it del 30/10/14
Mare Nostrum non venga interrotta
di Redazione
Un appello al Governo da parte di un gran numero di organizzazioni
sociali italiane che si occupano di migranti. «L’Italia non può sottrarsi
alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo»
Diverse organizzazioni sociali italiane, che si occupano di diritti dei migranti, lanciano un
appello al Governo perché non venga interrotta l’operazione Mare Nostrum.
«L’Italia non può sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo». A
firmare sono in tanti: ACLI, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali-Focus, Caritas Italiana,
Centro Astalli, CGIL, CNCA, Comunità di S.Egidio, Emmaus Italia, Federazione delle
Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes, Giu le frontiere, Libera, Razzismo
Brutta Storia, Rete G2 – Seconde Generazioni, Rete Primo Marzo, Save The Children
Italia, SEI UGL, Terra del Fuoco, UIL.
5
Il testo dell’appello e le iniziative che verranno messe in campo per sostenerlo saranno
presentate in una conferenza stampa che si terrà venerdì, 31 ottobre, alle 11, presso la
Libreria Fandango in via dei Prefetti 22 a Roma.
All'evento saranno presenti anche Andrea Camilleri, Carlo Feltrinelli e Andrea Diroma
insieme a Asmira, Associazione Babele Grottaglie e CESTIM
http://www.vita.it/politica/governo/mare-nostrum-non-venga-interrotta.html
Da Redattore Sociale del 29/10/14
Le associazioni contro lo stop a Mare
nostrum: "Un dovere salvare vite umane"
Un appello e una serie di iniziative di protesta contro l’annunciata fine
dell’operazione della marina militare. “E’ un dovere salvare vite umane”.
A promuovere l’iniziativa Caritas, centro Astalli, Arci, Asgi e molte altre.
Tra i primi firmatari Andrea Camilleri e Carlo Feltrinelli
ROMA - Un appello al Governo perché l’operazione Mare Nostrum non venga interrotta. A
lanciarlo sono le principali organizzazioni che in Italia lavorano al fianco dei migranti, dal
Centro Astalli alla comunità di Sant’Egidio, passando per Caritas, Acli, Arci, Asgi, Cnca,
Fondazione Migrantes, Rete G2 e molte altre (Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus, Giu
le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, , Rete Primo Marzo, Save The Children Italia,
SEI UGL, Terra del Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus).
“L’Italia non può sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo –
scrivono le associazioni in una nota per annunciare una serie di iniziative di mobilitazione
per evitare la cessazione dell’operazione di salvataggio in mare della Marina militare. Il
testo integrale dell’appello verrà reso noto venerdì nel corso di una conferenza stampa
che si terrà presso la libreria Fandango di Roma. Nella stessa occasione verranno
annunciate le iniziative che saranno messe in campo per sostenere Mare nostrum.
Saranno presenti esponenti delle organizzazioni promotrici: Acli, Arci, Asgi, Caritas
italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca, Comunità di S.Egidio, Emmaus Italia, Federazione
delle. Mentre all’appello hanno già aderito tra gli altri Andrea Camilleri e Carlo Feltrinelli.
Da Adn Kronos del 29/10/14
Immigrati: associazioni, appello al governo
per continuare Mare nostrum
Roma, 29 ott. (Adnkronos) - Un appello al Governo perché non venga interrotta
l'operazione Mare nostrum, e l'Italia non si sottragga alla responsabilità di salvare vite
umane. E' questa la richiesta firmata da diverse organizzazioni che si occupano di
migranti. Il testo dell'appello e le iniziative che verranno messe in campo per sostenerlo
saranno presentate in una conferenza stampa che si terrà venerdì, 31 ottobre, alle ore 11,
presso la Libreria Fandango in via dei Prefetti 22, a Roma.
Saranno presenti esponenti delle organizzazioni promotrici: Acli, Arci, Asgi, Casa dei diritti
sociali-focus, Caritas italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca, Comunità di s.Egidio, Emmaus
Italia, Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Fondazione migrantes, Giù le
frontiere, Libera, Razzismo brutta storia, Rete G2, Rete primo marzo, Save the children
Italia, Sei Ugl, Terra del fuoco, Uil.
6
Da Agenzia Sir del 30/10/14
MARE NOSTRUM: ORGANIZZAZIONI
SOCIALI, APPELLO A GOVERNO PER NON
FERMARE OPERAZIONE
Diverse organizzazioni sociali italiane, che si occupano di diritti dei migranti, lanciano un
appello al Governo perché non venga interrotta l’operazione Mare Nostrum. “L’Italia non
può sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo”, dicono le
organizzazioni. Il testo dell’appello e le iniziative che verranno messe in campo per
sostenerlo saranno presentate in una conferenza stampa che si terrà venerdì, 31 ottobre,
alle 11, presso la Libreria Fandango in via dei Prefetti 22 a Roma. Le organizzazioni sono:
Acli, Arci, Asgi, Casa dei diritti sociali-Focus, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca,
Comunità di Sant’Egidio, Emmaus Italia, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia,
Fondazione Migrantes, Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete G2 Seconde Generazioni, Rete Primo Marzo, Save the Children Italia, Sei Ugl, Terra del
Fuoco, Uil.
Da Radio Articolo 1 del 29/10/14
Mare Nostrum deve continuare
- L’Italia non può sottrarsi al dovere di salvare chi oggi cerca di
raggiungere l’Europa. Tocca al governo concordare con l’Europa un
programma di protezione ed accoglienza per donne, uomini e bambini
che scappano da violenza, povertà e persecuzioni
E’ di queste ore la conferma dell’intenzione del governo di porre fine all’operazione Mare
Nostrum.
Una decisione irresponsabile, con cui l’Italia si sottrarrebbe al dovere che grava sulle
istituzioni, come su ogni singola persona, di trarre in salvo persone che si trovino in
pericolo di vita.
Né può valere come giustificazione il costo dell’operazione, rispetto al quale andava
semmai richiesta con più determinazione una collaborazione degli altri paesi europei.
L’Europa ha messo invece in campo il programma Triton, che ha obiettivi e strumenti
molto diversi. Opererà solo nelle vicinanze delle acque territoriali italiane e svolgerà
un’azione di controllo delle frontiere. Sostenere, come il ministro Alfano ha fatto, che in
questo modo non ci sarà più bisogno di Mare Nostrum è una mistificazione della realtà,
come del resto confermano le parole dello stesso direttore di Frontex plus che ha tenuto a
sottolineare che si tratta di missioni che non hanno nulla in comune.
Il risultato sarà che nel Mediterraneo continueranno le stragi, perché l’unica cosa certa è
che il flusso di profughi continuerà, almeno finchè i tanti focolai di guerra che oggi
incendiano gran parte dell’Africa e del Medio Oriente non verranno spenti.
La maggior parte di chi oggi cerca di raggiungere l’Europa sono infatti donne, uomini e
bambini che scappano da violenza, povertà e persecuzioni.
Da tempo chiediamo che si aprano canali di accesso umanitari, che il tema dell’asilo e
della protezione internazionale diventi una questione centrale, ma finora nessuna
decisione è stata presa che vada in questa direzione.
7
Fermare Mare Nostrum, l’unica operazione oggi finalizzata al salvataggio, significa
condannare migliaia di persone a una morte sicura. E’ questa la responsabilità che si
vuole caricare sulle spalle il nostro governo?
di Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci
- See more at: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2014/10/29/7365/mare-nostrum-devecontinuare#sthash.e4Q8G6fH.dpuf
Da Rassegna.it del 29/10/14
Aziende confiscate alle mafie, parte il
Progetto Icaro
Sei associazioni, tra cui la Cgil Lombardia, lanciano un nuovo progetto
per il recupero delle aziende confiscate. "Bisogna ricordare sempre che
un'azienda confiscata che chiude è una vittoria per le mafie"
Aziende confiscate alle mafie, parte il Progetto Icaro (immagini di
Davide Orecchio)
Presentazione stamattina presso la Facolta' di Scienze politiche
dell'Università di Milano del Progetto Icaro.
Le aziende confiscate alle mafie in Italia sono 1707, di cui 223 in Lombardia, che e' la
terza regione dopo Sicilia e Campania. Le aziende sequestrate sono circa dieci volte
tanto. Dall’inizio della crisi sono aumentate del 65%, un dato che dimostra che un sistema
economico indebolito è più soggetto alle infiltrazioni delle mafie e alla loro pervasività nel
nostro sistema economico. Secondo alcune stime si può dedurre che i lavoratori coinvolti
sono circa 80.000 e che la gran parte di queste aziende siano destinate al fallimento.
Mediamente infatti tra un sequestro e una confisca passano circa 8 anni, un lasso di
tempo che spesso compromette, insieme ad altri fattori, il futuro produttivo e
occupazionale dell’azienda.
Nonostante questo fosco quadro un dato positivo e che fa ben sperare: sono centinaia le
cooperative sociali o di produzione che sorte grazie alla legge sui beni confiscati, danno
lavoro a migliaia di persone. Luigi Lusenti, di Arci Milano, aprendo al conferenza stampa
ha detto: “e' molto importante l'impegno della società civile a fianco alle istituzioni; il senso
del progetto e' proprio quello della costruzione di una rete che cercheremo di allargare
oltre ai soggetti che gestiscono il progetto, con l'obiettivo di rimuovere gli ostacoli che ci
sono per il riutilizzo dei beni confiscati e costruire un sistema di governance positivo”.
Nando Dalla Chiesa ha definito Icaro “un progetto di frontiera che si occupa di una realtà
che va analizzata per i suoi effetti negativi, ma anche per le ricadute positive anche qui al
Nord. Correttezza, competenza e coraggio, questi sono i tre principi ai quali occorre
ispirarsi. Il punto critico e' come riconvertire aziende che da un regime di favore devono
passare rapidamente all'economia di mercato salvando produzione e occupazione. E' un
progetto europeo, e questo costituisce la seconda ragione del fatto che sia da considerarsi
un progetto di frontiera. L'Europa accetta con molta fatica l'idea che la mafia non sia solo
una questione che riguarda l'Italia. Ci sono resistenze culturali, e questa doppia veste di
frontiera del progetto determina il suo interesse”.
Maria Morena Luca, Assessore del Comune di San Giuliano e rappresentante di Avviso
Pubblico per la provincia di Milano, ha sottolineato l'interesse dei comuni verso i beni
sottratti alle mafie, “che in gran parte vengono affidati agli Enti Locali e destinati a servizi
sociali e a dare risposte sul versante del diritto al lavoro, alla casa, all'istruzione. La
8
criminalità organizzata non e' imbattibile. Questo progetto può ridare credibilità' allo stato
per la grande valenza simbolica che assume. Bisogna battere lo stereotipo negativo che
dove c'e' la mafia c'e' lavoro. Per questo va cambiata la legislazione vigente, questo e' il
senso anche della campagna "Io riattivo il lavoro" che AP insieme alla CGiL sta portando
in tutta Italia, sfociata in una proposta di legge di ioziativa popolare Presentata in
Parlamento”.
Graziella Carneri della Segreteria della CGIL Lombardia ha sottolineato la convinzione
totale della CGIL nel prendere parte a questo progetto. “Ormai – ha detto - e' chiaro a tutti
il fatto che ricostruire la legalita' nel sistema economico e' fondamentale per la ripresa,
perché una delle ragioni della mancanza di investimenti in Italia e della scarsa attrattiva'
del nostro Paese, e questo dovrebbe essere tra le priorità del Governo”. “Ci si muove in un
ambito difficile nel quale, sottolinea Carneri, la Lombardia e' la terza o la regione con
quantità piu' alta di aziende confiscate; dal 2008 ad oggi sono addirittura aumentate del
65%, il che vuol dire che nella crisi ci hanno sguazzato rapinando le risorse che venivano
a mancare all'economia sana del paese. Sono coinvolti 80.000 lavoratori, che dopo
l'entrata in vigore della legge Fornero non hanno neanche diritto agli ammortizzatori
sociali, come se fossero loro i colpevoli e non le vittime”. Prosegue Carneri: “Lavorare per
avere un data base e' fondamentale, e partendo dalle esperienze positive fatte in altri
ambiti certamente diversi ma di gestione di beni confiscati, bisogna aiutare queste aziende
a rilanciarsi. Certo, con i tempi lunghi dell'attuale legislazione non e' facile, ma si può fare
molto per combattere l'illegalità creando anche lavoro buono. La CGiL e' impegnata su
molti fronti, all'inizio della settimana abbiamo lanciato anche una campagna, "Una svolta
per tutte", che toccherà le maggiori città italiane proprio per la legalita'. Assieme alle altre
associazioni si andrà avanti per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati con il progetto
Icaro”.
Laura Miani del Centro d'Iniziativa Europea ha illustrato cosa sta facendo l'Europa sul
terreno della confisca dei beni: in aprile ha emanato la direttiva 2014 proprio in tema di
congelamento e confisca dei beni sequestrati alla mafia che e' molto importante, e' il frutto
anche del lavoro delle associazioni che in Italia si sono battute su questo terreno, e
rappresenta un passo in avanti che consente di mettere in campo strumenti efficaci. Entro
ottobre del 2016 la direttiva dovrà essere applicata. “Affermare il concetto di colpire i
proventi da reato, anche mafioso – ha detto -, ha un'enorme importanza per noi, e stabilire
la collaborazione tra gli stati e' una condizione senza la quale e' impossibile combattere
l'illegalità che supera i confini dei paesi europei.
Jole Garuti, a nome dell'associazione Saveria Antiochia Omicron ha presentato il Comitato
scientifico del progetto Icaro, che e' ancora provvisorio e verra' integrato con altri nomi di
prestigio, che sara' composto dal Presidente, Nando Dalla Chiesa, da Paola Pastorino, da
Marco Pardo e da Luciano Silvestri. “Lo stato ha vinto molte battaglie ma non ha vinto la
guerra contro le mafie, ha detto Jole Garuti. Infatti l'arresto di molti mafiosi non ha impedito
che le cosche si ricostituissero. Occorre costruire la società' civile, che vuol dire
conoscere, informare e formare tutti i cittadini perché si convincano che la presenza delle
mafie danneggia la loro vita. Bisogna partire dai piu' giovani, dai piu' piccoli:
dall'educazione alla legalita' ora occorre passare all'educazione all'antimafia. La
condizione delle aziende sequestrate e' che non possono riprendere l'attività e
salvaguardare l'occupazione, e dunque un primo passo e' accelerare i tempi, attraverso
l'operato della magistratura, della ripresa produttiva. Bisogna ricordare sempre che
un'azienda confiscata che chiude e' una vittoria per le mafie”, ha concluso Jole Garuti.
http://www.rassegna.it/articoli/2014/10/29/115852/aziende-confiscate-alle-mafie-parte-ilprogetto-icaro
9
ESTERI
del 30/10/14, pag. 8
«Netanyahu cacca di gallina»
Michele Giorgio
Israele/Palestina. L’accusa di un funzionario Usa. Colonie a
Gerusalemme est, esplode la rabbia
Le strade di Silwan, Wadi al Joz e di A-Tur sul Monte degli Olivi, ricordano quelle dell’inizio
della prima Intifada 27 anni fa. Pneumatici consumati dalle fiamme, cassonetti dei rifiuti
usati come barricate, sassi che ricoprono l’asfalto. Sono i resti delle battaglie urbane a
Gerusalemme Est tra palestinesi e polizia, ormai quotidiane e quasi sempre notturne.
Luoghi che al mattino sono presidiati dalle jeep dei «berretti verdi», la guardia di frontiera.
La presenza degli uomini dei reparti antisommossa è cresciuta ovunque nella zona araba
della città. Così come quella dei mistaaravim, i «mascherati da arabi», gli agenti di polizia
che agiscono sotto copertura con il compito di catturare chi guida le proteste in strada.
Posti di controllo sono stati eretti dalla polizia in tutte nelle aree di contatto tra la
popolazione israeliana e quella palestinese, in particolare tra Abu Tur e Silwan, ai piedi
delle mura della città vecchia e lungo la strada che costeggia la valle del Kidron.
Al Consiglio di sicurezza Onu
Più Israele cerca di mettere, defintivamente, le mani su Gerusalemme Est, con la
colonizzazione e con i blitz della destra ultranazionalista sulla Spianata delle moschea di
al Aqsa, è più i palestinesi si ribellano e reclamano Gerusalemme come capitale del loro
futuro Stato. E più i palestinesi alzano il livello della loro protesta contro l’occupazione e
più le autorità israeliane pianificano punizioni collettive per fermarla. Il giornale online
Times of Israel ieri riferiva che il sindaco Barkat — due giorni fa era alla Spianata di al
Aqsa per affermare la sovranità israeliana sul sito religioso – ha dato disposizione di
aumentare la frequenza delle demolizioni degli edifici abusivi, quelli costruiti dai palestinesi
naturalmente. Una misura che colpirà duramente la popolazione araba. Le stesse
associazioni israeliane per i diritti umani, riferiscono che i palestinesi il più delle volte sono
costretti a costruire illegamente, perchè le autorità comunali rilasciano con il contagocce i
permessi edilizi a Gerusalemme Est. La parte araba della città perciò scoppia, non ci sono
case nuove per coprire il fabbisogno. Così le famiglie alzano un piano o due sulla propria
abitazione per dare una casa ai figli adulti. Le demolizioni degli alloggi abusivi potrebbero
innescare una ulteriore escalation di scontri invece di placare la protesta palestinese come
vorrebbe il sindaco Barkat.
Il governo israeliano e l’amministrazione comunale sono convinti di vincere la partita di
Gerusalemme, anche con l’uso della forza. Eppure il via libera del premier Netanyahu
all’ulteriore espansione delle colonie ebraiche dentro e intorno alla zona araba sta
mettendo Israele sotto una forte pressione diplomatica, almeno in apparenza. Ieri il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni si è riunito, su richiesta urgente della Giordania, per
valutare l’ennesima espansione degli insediamenti ebraici nelle aree occupate nel 1967. I
palestinesi non si illudono. Il veto americano a una, ancora lontana, risoluzione di
condanna di Israele è scontato.
Allo stesso tempo aumenta la tensione tra Washington e Tel Aviv. E se nulla può spezzare
l’alleanza strategica e militare esistente tra Usa e Israele, la colonizzazione incessante
portata avanti dal governo Netanyahu – l’ultimo annuncio parla della costruzione di altre
1000 case per coloni a Har Homa e Ramat Shlomo – sta mettendo alle corde le relazioni
tra la Casa Bianca e il primo ministro israeliano. La rivista Atlantic ha riferito che
10
collaboratori di Barack Obama hanno definito «pavido» il premier israeliano, «miope» la
sua linea verso il negoziato con i palestinesi e «vigliacca» nei confronti del nucleare
iraniano. Uno degli uomini del presidente statunitense, coperto dall’anonimato, ha
utilizzato una parola offensiva «chickenshit» («cacca di gallina») verso Israele e il suo
primo ministro. «Sono stato sul campo di battaglia numerose volte. Ho rischiato la mia vita
per il Paese», ha reagito Netanyahu alle accuse nei suoi confronti raccolte da Atlantic. «I
nostri interessi supremi – ha aggiunto il premier israeliano — in primo luogo la sicurezza e
la unificazione di Gerusalemme, non interessano quelle fonti anonime che ci attaccano e
che attaccano me in particolare». Sul web in Israele poco dopo hanno fatto la loro
apparizione due foto polemiche. Nella prima Netanyahu appare nella divisa di una unità
scelta israeliana, nella seconda Barack Obama sta seduto trasognato su un divano, con
una sigaretta in mano. In serata l’amministrazione Usa ha preso le distanze dalle
dichiarazioni rilasciate dal funzionario americano. Quelle parole sul premier Netanyahu, ha
detto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Alistair Baskey, «non riflettono
certamente la posizione dell’Amministrazione… sono controproducenti». Il presidente Usa
e il premier israeliano, ha detto ancora Baskey, «hanno costruito un partenariato efficace e
si sentono in maniera regolare».
del 30/10/14, pag. 8
Egitto, con le demolizioni di case a Rafah si
estende il potere dei militari
Giuseppe Acconcia
Egitto. Al-Sisi approfitta della «lotta al terrorismo». L'esercito negli
atenei, pronti a processare gli studenti
Laddove Hosni Mubarak non era mai arrivato e Mohammed Morsi non pensava neppure di
poter giungere, Abdel Fattah al-Sisi è stato capace di condurre il paese: alla completa
militarizzazione.
L’esercito ha iniziato a demolire le case a Rafah nel Nord del Sinai dopo l’evacuazione
dello scorso martedì come parte di un piano più generale per creare una zona cuscinetto
al confine con la Striscia di Gaza. Con l’intento ufficiale di fermare gli attacchi jihadisti,
1156 famiglie sono state cacciate dalle loro case con l’esproprio di 910 acri di terra.
L’operazione avrà solo l’effetto di umiliare ulteriormente le tribù locali senza toccare i
meccanismi di attivazione delle azioni terroristiche, direttamente connessi ai servizi di
Intelligence.
Ma con la scusa degli attentati, costati la vita a 31 soldati lo scorso venerdì, Sisi ha preso
una serie di provvedimenti senza precedenti che vanno ben oltre lo stato di emergenza
sulla regione in nome della lotta al terrorismo. L’ex generale ha autorizzato i militari a
proteggere ogni infrastruttura pubblica. Questo dà il diritto all’esercito di presidiare
permanentemente strade, ponti e centrali elettriche.
Dallo scorso venerdì, tutte le infrastrutture pubbliche in Egitto sono considerate come sotto
controllo militare per i prossimi due anni, mentre la polizia dovrà occuparsi della messa in
sicurezza dei luoghi insieme ai soldati. La legge si estende alle università dove ha fatto
ritorno la polizia militare a protezione degli atenei.
Sono tornati poi i processi militari contro i civili contro i quali avevano puntato le più dure
campagne anti-regime, perpetrate da attivisti come Alaa Abdel Fattah, che è tornato in
prigione, mentre sua madre e sua moglie hanno iniziato lo sciopero della fame per
11
chiedere il suo rilascio. Insieme ad Alaa è in carcere anche la sorella Sanaa, condannata a
tre anni per proteste contro la legge anti-manifestazioni. Hassiba Hadj Sahraoui, vice
direttore per il Medio Oriente di Amnesty International, ha definito le leggi come l’avvio di
processi di militari di massa contro i civili, inclusi studenti e contestatori pacifici.
Sono decine di migliaia gli attivisti in prigione in Egitto dopo il golpe del 3 luglio 2013. E la
repressione dei movimenti universitari non è mai stata tanto dura.
All’annuncio dell’introduzione della nuova norma, che prevede anche l’impossibilità per
uno studente espulso da un’università pubblica di essere riammesso in un ateneo privato,
sono scoppiate proteste in tutte le università. Sono 230 gli studenti arrestati dall’inizio
dell’anno accademico, 76 nell’Università di Al Azhar: anche tre studentesse sono state
arrestate da poliziotti in borghese dentro l’ateneo. Le giovani sono state rilasciate ma non
si hanno notizie di una quarta studentessa, Aliaa Tarek, scomparsa da nove giorni. Trenta
accademici hanno criticato la presenza delle forze di sicurezza nei campus.
Ormai è direttamente Sisi a nominare i capi Dipartimento negli atenei, interferendo
sull’indipendenza dell’insegnamento universitario.
Proteste contro i processi militari ai civili sono scoppiate anche all’Università di Mansoura,
l’esercito è intervenuto lanciando lacrimogeni per disperdere la folla e arrestando decine di
studenti. Intanto, in un’intervista alla stampa saudita, Sisi ha assicurato che il tentativo
internazionale di stabilire un nuovo ordine in Medio oriente è fallito. Tuttavia, anche il
Dipartimento di Stato Usa ha criticato le recenti condanne e la legge anti-proteste, in
vigore in Egitto.
del 30/10/14, pag. 16
Caccia russi in Europa, allarme Nato
Jet di Mosca in volo dal Baltico al Mare del Nord, vengono “intercettati”
dai bombardieri dell’Alleanza Bruxelles alza il livello di allerta:
“Minaccia per il traffico aereo civile”. Sale la tensione per la crisi
ucraina
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
Quattro gruppi di bombardieri russi nelle ultime 24 ore hanno di fatto circondato, senza
violarlo, lo spazio aereo europeo costringendo i caccia di cinque Paesi Nato a levarsi in
volo per intercettare e controllare le formazioni aeree non identificate. La Nato ha alzato il
proprio stato di allerta in seguito a quella che definisce «una rilevante e insolita attività di
volo » da parte dell’aeronautica russa in un momento in cui le elezioni nelle regioni
separatiste ucraine e l’ennesimo tentativo di trovare un’intesa sul gas tra Kiev e Mosca
stanno monopolizzando l’attenzione della diplomazia europea.
Secondo quanto ha rivelato un portavoce dell’Alleanza atlantica, le formazioni militari
russe hanno sorvolato quasi simultaneamente il Baltico, il Mare del Nord, le coste
atlantiche e il Mar nero. I bombardieri di Mosca hanno mantenuto il silenzio radio, non
hanno risposto alle ingiunzioni di identificazione degli intercettori Nato e non hanno
segnalato la loro presenza ai controllori del traffico aereo, costituendo così, «una
potenziale minaccia per il traffico aereo civile».
Il primo episodio si è registrato nel mare del Nord. Un gruppo di otto aerei, quattro
bombardieri TU-95 Bear H, e quattro aerei cisterna Il-78, hanno lasciato lo spazio aereo
russo della penisola di Kola e sono scesi parallelamente alla costa norvegese. Intercettati
12
dai caccia di Oslo, alcuni caccia russi hanno invertito la rotta, mentre due bombardieri
hanno proseguito passando dal mare del Nord all’Atlantico, sempre in acque
internazionali. Presi in consegna dalla Raf britannica, gli apparecchi hanno continuato fino
al largo delle coste del Portogallo, dove sono stati seguiti dai caccia portoghesi. Quindi
hanno ripercorso la stessa rotta fino a tornare verso Murmansk.
Simultaneamente quattro aerei militari russi, di cui due bombardieri Tu-95 e due caccia
Su-27, hanno lungamente sorvolato il Mar Nero, scortati dagli intercettori turchi. Mentre in
due diverse sortite, ieri e l’altro ieri, nutrite formazioni di aerei militari con la stella rossa
hanno sorvolato le acque del Baltico. Una prima incursione è stata compiuta da sette jet
militari, che sono stati intercettati dai caccia tedeschi. Una seconda formazione, composta
da sei caccia-bombardieri, è stata seguita e identificata dalle squadriglie che la Nato ha
dislocato nei Paesi baltici per proteggerne lo spazio aereo.
Contrariamente a quanto accaduto di recente, le formazioni russe non hanno violato le
frontiere dei Paesi dell’Alleanza. Ma l’insolita attività militare si inserisce nel quadro di
sempre più frequenti violazioni dello spazio aereo europeo, evidentemente legate al
crescere della tensione per la crisi in Ucraina. Ancora la settimana scorsa un aereo spia
russo aveva brevemente sorvolato il territorio estone.
La Nato segnala che, dall’inizio dell’anno, i caccia dell’Alleanza hanno dovuto intercettare
oltre cento apparecchi militari russi che volavano in prossimità dello spazio aereo
occidentale. Una cifra tre volte superiore a quella registrata l’anno scorso. Interrogato su
questa insolita attività il nuovo segretario generale della Nato, il norvegese Jens
Stoltenberg, in visita in Polonia, ha confermato: «I russi stanno semplicemente mettendo
alla prova le nostre difese».
Ieri intanto la Ue ha formalmente «deplorato» la decisione di Mosca di riconoscere il
risultato delle elezioni che si stanno tenendo nelle regioni controllate dai separatisti ucraini.
In serata, a Bruxelles, è invece ricominciato il negoziato trilaterale tra Russia, Ucraina ed
Unione europea per cercare di arrivare ad un accordo sulle forniture di gas russo a Kiev.
del 30/10/14, pag. 17
Altri tre Stati votano sulla marijuana
Fine del proibizionismo in America?
Altri due Stati americani — Oregon e Alaska — più Washington D.C. si preparano a
votare, il 4 novembre, in tre nuovi referendum sulla legalizzazione della marijuana per
«uso ricreativo». Dopo i pionieri del Colorado e dello Stato di Washington, che hanno detto
«sì» già nel 2012, questo secondo «giro» è osservato con grande attenzione.
L’allargarsi dell’uso ricreativo in America, accanto a quello medico — già legale in 23 Stati
—, potrebbe orientare infatti le future decisioni a livello nazionale (per la legge federale la
marijuana resta ancora illegale). Di certo, è la conferma della crescita esponenziale di una
nuova industria con un volume d’affari che nel 2020 potrebbe superare quello della
National Football League, secondo una stima di Greenwave Advisors pubblicata dal
Washington Post . Che cosa farà il governo federale — si chiedono in molti —: sceglierà di
ostacolare un business milionario oppure di contribuire a regolamentarlo?
Aziende e investitori legati a questa nuova industria stanno appoggiando anche
finanziariamente le campagne pro-legalizzazione in Oregon e in Alaska, scrive il New York
Times , mentre il fronte anti-marijuana si è trovato con le tasche vuote e (relativamente)
ridotto al silenzio sui media. Organizzazioni nazionali come il «Marijuana Policy Project»
13
appoggiato da attori, musicisti e politici, e come la «Drug Policy Alliance», finanziata dal
miliardario George Soros, hanno anch’esse contribuito con centinaia di migliaia di dollari.
Per il fronte del sì, ogni nuovo stato è un test importante e si pensa già a referendum in
nuovi Stati per il 2016. Solo in Florida, dove si voterà sempre martedì per la legalizzazione
a «scopi medici» della marijuana (sarebbe il primo Stato del Sud) l’opposizione ha ricevuto
5 milioni di dollari dal magnate dei casinò Sheldon Adelson.
Per i politici, l’appoggio alla legalizzazione non è più un tema «tossico»: anche nel partito
repubblicano, dove il movimento libertario ha assunto peso crescente, il senatore del
Kentucky Rand Paul afferma che il consumo dovrebbe essere depenalizzato. I sostenitori
hanno dalla loro parte argomentazioni come la necessità di sottrarre gli incassi ai cartelli
della droga e di incanalarli in business legali con un profitto per gli Stati grazie alle tasse, e
l’urgenza di evitare il sovraffollamento delle prigioni.
Il test del Colorado, dove dall’inizio di quest’anno è possibile comprare la marijuana nei
negozi autorizzati o riceverla a domicilio come una pizza, è stato importante: ha mostrato
che i timori di un aumento del crimine (o degli incidenti d’auto) non si sono materializzati,
secondo studi appena pubblicati da due diversi think tank, il Brookings e il Cato Institute;
mentre lo Stato ha incassato 45 milioni in tasse sulla vendita dell’erba (una parte è
destinata a nuove scuole e a programmi per insegnare ai bambini a star lontani dalle
droghe).
Nell’opinione pubblica, poi, i sondaggisti del Pew Center notano che oggi è favorevole alla
legalizzazione il 52% degli americani (lo era solo il 12% nel 1969), un cambiamento
avvenuto soprattutto tra il 2011 e il 2013 e trainato dai «millennials». È significativo che il
69% degli americani creda che l’alcol sia più dannoso dell’erba: lo sanno perché molti (il
47%) l’hanno provata.
Il grande ostacolo alla corsa all’«oro verde» è il fatto che la marijuana resta illegale a
livello federale, il che scoraggia gli investimenti e costringe spesso i negozianti a chiedere
pagamenti in contanti anziché usare carte di credito e banche. Il dipartimento della
Giustizia ha segnalato che non intende intervenire. Ma come la penserà il prossimo
inquilino della Casa Bianca? E il prossimo ministro della Giustizia? Inoltre i negozianti
patiscono ancora i raid, seppure occasionali, della Dea, l’agenzia federale antidroga.
In quest’anno «non presidenziale» (martedì si vota per il Congresso e i governatori, non
per la Casa Bianca), la questione della marijuana è una delle poche ad attirare i più
giovani. «Conosco un sacco di gente che se è interessata a questo — racconta un attivista
dell’Oregon —. A questo e poco altro».
del 30/10/14, pag. 9
“Vivi li hanno presi e vivi li vogliamo”
Geraldina Colotti
Mobilitazione. Protestavano contro la privatizzazione della scuola.
Anche Barack Obama si dice «proccupato»
Martin Sanchez Garcia, Jorge Antonio Tizapa… I nomi dei 43 studenti «normalistas»
scomparsi in Messico il 26 settembre fanno il giro del paese e quello della rete,
accompagnati dalla solidarietà e dall’indignazione per il massacro di Iguala. Quel giorno,
una protesta degli studenti contro la privatizzazione della scuola pubblica è stata
ferocemente repressa dall’azione congiunta di polizia e bande criminali appartenenti ai
Guerreros Unidos.
14
A due diverse riprese sono stati attaccati sia i pullman che trasportavano gli studenti che
quelli che riportavano a casa dei calciatori dopo la partita. Risultato, 6 ragazzi morti (uno
dei quali con segni evidenti di tortura) oltre una ventina di feriti, e 58 studenti scomparsi.
Alcuni di loro sono poi tornati a casa, si erano nascosti per sfuggire alla morte, ma per gli
altri 43 si cerca ancora. A seguito delle confessioni di alcuni paramilitari e delle telecamere
della zona, si è appurato che la polizia ha consegnato un gruppo di 17 studenti ai
Guerreros unidos, che li hanno uccisi e bruciati. I loro resti, però, non sono fra quelli
ritrovati in diverse fosse comuni. Ma sull’ultima si indaga ancora. Nel frattempo, è ricercato
il sindaco di Iguala ed è stato nominato un nuovo governatore a interim del Guerrero e le
speranze di ritrovare in vita gli studenti scomparsi si affievoliscono.
«Vivi li hanno presi e vivi li vogliamo» ha gridato tuttavia all’unisono la Conferenza
mondiale dell’Associazione internazionale Lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali
che si è aperta a Città del Messico e alla quale partecipano rappresentanti dei cinque
continenti. Nella capitale e a Coahuila è consentito il matrimonio ugualitario, mentre in
altre parti del paese occorre un pronunciamento giuridico. Un funzionario del governo,
presente alla 27ma conferenza ha fatto un po’ di retorica sui diritti umani, ma senza citare
la scuola rurale di Ayotzinapa e i suoi 43 studenti sequestrati.
Ma la mobilitazione contro «il crimine di stato» cresce e crea parecchio imbarazzo al
governo neoliberista di Enrique Pena Nieto. I «normalistas» del Chiapas hanno occupato il
municipio di San Cristobal.
I sindacati dell’Union Nacional de Trabajadores (Unt) e quelli di altre categorie (pescatori,
lavoratori universitari, elettricisti e quelli delle telecomunicazioni) hanno sfilato con gli
studenti e con i familiari degli scomparsi, che chiedono conti al governo.
Con loro, anche l’Organizzazione dei lavoratori agricoli frontalieri, il cui delegato, Carlos
Marentes, ha denunciato «il terrorismo di stato» durante l’Incontro mondiale dei movimenti
popolari, che si è svolto a Roma.
«La situazione in Messico continua a deteriorarsi fino al grado estremo della violenza – ha
detto al manifesto – i 43 studenti sono stati sequestrati dalla polizia, non dai criminali e le
fosse comuni che vengono scoperte in tutto lo stato del Guerrero indicano le modalità di
uno stato criminale al servizio dei capitali stranieri». Violenza e impunità particolarmente
alta alla frontiera con gli Usa, dove transitano migliaia di lavoratori «costretti a fuggire da
un paese di abusi e miseria.
Negli Usa – ha spiegato ancora Marentes vi sono 4,2 milioni di lavoratori agricoli
provenienti dalle nostre regioni che producono 90 mila milioni di dollari di guadagno con il
loro supersfruttamento, perché siccome provengono da un paese in rovina accettano
qualunque paga e condizioni di lavoro.
La tanto decantata democrazia Usa non concede loro il diritto democratico a organizzarsi
in sindacato e per questo noi lottiamo anche per sensibilizzare la società con la campagna
Cibo libero da oppressione, perché dietro quello che si mangia, c’è l’oppressione
quotidiana dei lavoratori e lo sfruttamento selvaggio della natura». Alla frontiera con gli
Usa, oltre alla violenza della polizia, «agisce quella dei fanatici di estrema destra che
pattugliano i confini». Per cercare di proteggersi dalla violenza dello stato e delle bande
criminali, «nello stato del Guerrero e in altre parti del Messico sono sorte polizie
comunitarie organizzate dai cittadini. Brigate di autodifesa che vengono criminalizzate, ma
se lo stato non ti difende, bisogna prendere in mano la propria difesa».
In una clinica di Reynosa, vicino alla frontiera col Texas, lavorava anche la dottoressa
Maria del Rosario Fuentes Rubio, la blogger assassinata undici giorni fa per aver diffuso
casi di violenza nello stato di Tamaulipas. Ieri, Irina Bokova, direttrice generale
dell’Unesco, ha chiesto spiegazioni «urgenti» al governo messicano sulla sua uccisione. E
domani la Corte interamericana per i diritti umani ha chiamato a deporre le autorità
15
messicane sul massacro di Iguala. Anche la Casa Bianca ha definito «preoccupante» il
caso degli studenti scomparsi.
16
INTERNI
del 30/10/14, pag. 2
Ast, scontri tra polizia e operai quattro feriti
tra i manifestanti Landini: il governo deve
scusarsi
Renzi convoca i sindacati: accertare le responsabilità e evitare
lacerazioni Il giallo della telefonata con il leader Fiom, Palazzo Chigi
pubblica gli orari
LUISA GRION
ROMA .
Scontri in piazza e manganellate, cinque feriti fra gli operai e i sindacalisti, una decina di
contusi fra i quali tre agenti: sulla vertenza Ast — gli acciai speciali di Terni dove 550
dipendenti rischiano il licenziamento entro dicembre — nuovo scambio di accuse tra
sindacati e governo. La polizia carica i manifestanti, la bufera arriva al Parlamento e nasce
pure un giallo su una telefonata fra il capo della Fiom Landini e il premier Renzi. Ieri
mentre allo Sviluppo economico il ministro Federica Guidi incontrava Lucia Morselli —
amministratore delegato dell’azienda — poco lontano, una delegazione di dipendenti Ast
organizzava un presidio sotto le finestre dell’ambasciata tedesca a Roma (lo stabilimento
di Terni è proprietà della Thyssenkrupp). L’obiettivo era quello di ottenere l’attenzione della
diplomazia sulla lunga e complessa vertenza (Ast produce il 40 per cento dell’acciaio
speciale utilizzato in Italia e copre il 12 per cento del mercato europeo). Con loro, in prima
fila in piazza, anche Landini.
Tutto sembra tranquillo fino a quando — letto il laconico documento prodotto
dall’ambasciata — i lavoratori decidono di portare la protesta al ministero. Parte il corteo,
le manganellate delle forze dell’ordine lo bloccano, qualche colpo arriva anche a Landini,
cinque manifestanti finiscono in ospedale con tagli alla testa. Scoppia la polemica. «Ci
hanno trattato come delinquenti» dice il leader della Fiom. Le forze dell’ordine respingono
l’accusa di aver caricato la piazza e parlano di «operazione di contenimento» messa in
atto per evitare che il corteo si dirigesse verso stazione Termini, paralizzandola. «E’ una
menzogna — replica Rosario Rappa, segretario nazionale Fiom, uno dei feriti — la
manifestazione era pacifica, avevamo chiesto di farci passare per andare al ministero, le
manganellate sono arrivate a tradimento». Protesta la Camusso: «il governo deve dare
risposte, non picchiare gli operai». Le immagini della giornata provocano reazioni a
catena, ma è lo stesso Renzi a chiedere al ministro degli Interni Alfano di fare chiarezza,
«accertare le responsabilità e abbassare i toni per evitare che la crisi industriale possa
provocare lacerazioni». Il Viminale fa sapere che aprirà un’inchiesta sul caso: «Oggi è
stato un brutto giorno per tutti» dirà Alfano in serata alla delegazione di manifestanti
ricevuta assieme al capo della Polizia Alessandro Pansa. Sulla questione si apre anche il
giallo di una telefonata fra Renzi e Landini: il leader della Fiom nega di aver avuto contatti
in giornata con il premier e chiede al governo di porgere le scuse a chi stava in piazza,
Palazzo Chigi invece conferma la chiamata e rende nota anche l’ora. La vertenza va
avanti: oggi il ministro Guidi convoca gli operai.
17
del 30/10/14, pag. 1/29
I ROTTAMATORI E I CIPPUTIANI
MICHELE SERRA
I MANGANELLI della polizia sugli operai di Terni gettano una ulteriore manciata di sale su
una ferita non facilmente rimarginabile — ammesso che alle parti interessi rimarginarla.
Quella aperta dal duro contenzioso, verbale e dunque politico, tra il Pd di governo e i
sindacati, ovvero tra la nuova configurazione (almeno in senso cronologico) della sinistra
italiana e le sue radici profonde.
APARTIRE dal colpo d’occhio, la distanza tra Leopolda e piazza romana è sembrata
infinita, perfino più di quanto sia interesse della giovane classe dirigente renziana, che
sulla rottura con tutti i passati, specie il proprio, punta molte delle sue carte, ma sulla
sostanziale unità della sinistra, o di ciò che ne ha preso il posto, poggia molto del suo
potere elettorale e parlamentare. Non poteva esserci, quello storico sabato,
rappresentazione più efficace delle due antropologie politiche che, pur con cento
sfumature intermedie, nei giorni successivi e in modo molto acceso ieri è come se
avessero accelerato il reciproco allontanamento, prendendosi a male parole, accusandosi
reciprocamente di ogni male e di ogni dolo.
Come potrebbero sopportarsi, del resto, una classe dirigente “democrat” e postideologica,
che crede nella forza demiurgica del “fare” e nel dinamismo dell’impresa come sola grande
leva per ribaltare la crisi (essendo lei stessa l’emblema di un’impresa politica di successo),
tanto da far pensare che Jobs Act derivi da Steve Jobs; e una piazza cipputiana,
orgogliosa e scontenta, tenuta insieme, va detto, soprattutto dalle conquiste passate, ma
animata dall’idea che la centralità del lavoro, il suo valore, la sua dignità siano la sola vera
chiave del futuro, e convinta, a ragione o a torto, che il governo Renzi quella chiave non
intenda usarla?
È facile dire, nei convegni e di fronte alle telecamere, che Leopolda e piazza San Giovanni
sono complementari, che non ha più senso contrapporre impresa e lavoro (piuttosto
complicato spiegarlo agli operai di Terni), che la differenza, in politica, è ricchezza. Sta di
fatto che la crisi, drammatizzando i conflitti, mette inevitabilmente in scena molte delle
“cose vecchie” delle quali Renzi non vorrebbe più sentire parlare, e che spesso liquida
come assurda zavorra: se una piazza operaia è “vecchia”, se “vecchio” è il riflesso
condizionato di scioperare e magari occupare una stazione ferroviaria, è perché la vecchia
abitudine di considerare il lavoro, e la vita di chi lavora, come il punching ball sul quale
scaricare tutti i colpi della crisi, è pienamente in atto. È oggi che succede. Proprio oggi.
Diventa dunque complicato, perfino nella lettura renziana, retrodatare questo pezzo di
sinistra al punto da consegnarlo agli archivi. Quella sinistra ce l’ha di fronte qui e ora, ce
l’ha in casa qui e ora, il segretario del Pd, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue forme
di rappresentanza con la loro vocazione sociale («l’interesse generale» rivendicato da
Camusso) e le loro pigrizie consociative e corporative. Quando Renzi dice, con la sua
sbrigativa franchezza, che il governo non deve trattare le sue riforme con i sindacati, a
ogni italiano di buon senso viene alla mente l’estenuante palude della “concertazione” che
per decenni ha imbozzolato la vita socio-economica del Paese fino a renderlo quasi
comatoso, tarpando le ali a ogni cambiamento. Ma subito dopo, ogni italiano di buon
senso si domanda come mai dei tre protagonisti della (non rimpianta) concertazione,
tocchi soprattutto ai sindacati finire in rotta di collisione con la dinamica navigazione
renziana, non certo a Confindustria, mai come in questo periodo in buoni rapporti con il
governo. Per evitare il sospetto di considerare “vecchio” il sindacato e “meno vecchio” un
mondo imprenditoriale che dalla produzione ha progressivamente levato risorse e quattrini
18
per destinarli al capitalismo finanziario; e per smentire l’accusa camussiana, per la verità
un poco complottarda, di essere uomo dei “poteri forti”, eterna oscura e mitizzata presenza
in un Paese dove tutto, alla prova dei fatti, è comunque debole; a Renzi non basterà
tassare qualche rendita finanziaria e detassare qualche busta-paga.
Dovrà inventare, per dirla con parole sue, il gettone da mettere nello smartphone, e cioè
trovare una forma decente di sopportazione, e magari di collaborazione, tra il suo esercito
in camicia bianca e il mondo del lavoro salariato così com’è. Una società di soli
imprenditori e di sole partite Iva non è nelle cose, il lavoro dipendente, a tempo
determinato o indeterminato che sia, è ancora la forma prevalente di sussistenza (dunque
di vita) della stragrande maggioranza degli italiani che lo votano, e il vero limite della
Leopolda non sono i bollori thatcheriani (molto vetero) del finanziere Serra, è il sogno
ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una
specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza
del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere.
Se questo sindacato non valesse più come interlocutore politico degno, Renzi e i suoi
collaboratori hanno calcolato e/o immaginato chi e che cosa, nell’ambito dell’agognato
“nuovo”, possa farne le veci? Un ribellismo frantumato e casuale? Corporazioni tignose ed
egoiste? Ognuno per sé, Dio per tutti? Sindacati aziendali alla tedesca, pienamente
coinvolti nella gestione, ma poi chi glielo dice a Marchionne e a Squinzi? Come capo del
governo e ancora di più come segretario del maggiore partito della sinistra europea, Renzi
sicuramente sa che la spaccatura astiosa di questi giorni non è liquidabile con le battute, e
merita una riflessione. Fa rima con concertazione, ma non è la stessa cosa.
del 30/10/14, pag. 1/15
L’illusione di chi aspetta obbedendo
Michele Prospero
Ormai di tempo per prendere le misure del fenomeno Renzi, la sinistra Pd ne ha avuto
abbastanza. E, a meno di una consapevole volontà di rassicurazione che poggia però sul
niente, dovrebbe aver percepito che uno spazio per la mediazione è impossibile. Renzi
peraltro non lo cerca, si vanta di aver “spianato” i reduci, schiaffeggiato le loro bandiere,
umiliato la loro piazza. L’offerta di una tregua è una sterile invocazione, quella di non
infierire troppo, rivolta dagli sconfitti allo spietato castigatore.
Renzi non è interessato alla costruzione di un partito strutturato, retto cioè da una logica
unitaria e da una leadership rispettosa delle differenze interne. Rivendica solo una fedeltà
personale, con scene ordinarie di una obbedienza conformistica al capo. Egli non mostra
alcuna preoccupazione per i compiti di coesione propri di una direzione politica autorevole.
Renzi vuole solo comandare con collaboratori dalla schiena curva, non dirigere una
organizzazione complessa. Chi non si adegua alla sua inesorabile strategia di edificare
una variante del partito personale, non più a matrice aziendale ma non per questo
sprovvisto di fonti ingenti di approvvigionamento mediatico-finanziario che lo rinsaldano al
potere, è destinato ad essere schiacciato, senza pietà.
E’ per lui inutile ogni visibile segno di autonomia, qualsiasi voce critica farebbe solo ombra
alla sacralità del capo che in solitudine interpreta gli umori profondi del popolo ostile
all’élite. La pretesa di dominio è così assoluta che non esita a spezzare ogni stabile
radicamento del Pd nella componente, quella del lavoro, peraltro maggioritaria della sua
antica coalizione sociale. Identità, radici sociali, forma partito, cultura delle istituzioni:
davvero tutto separa la sinistra del Pd da Renzi e proprio nulla la unisce a un capo che
19
persegue un disegno, sempre più esplicito, di edificare un potere personale a forte traino
populista e ben protetto dal quasi totale conformismo dei media.
Questo esplicito piano di semplificazione a sfondo cesaristico-mediatico è fortemente
regressivo, incompatibile con la cultura della sinistra e andrebbe perciò ostacolato, in ogni
modo efficace. La vittoria di Renzi non coincide con il successo della sinistra. Certo, la
situazione è per la minoranza assai paradossale, perché la obbliga a districarsi tra un
male maggiore e un male minore. Se vince Renzi, finisce la politica e viene sancita
l’eutanasia di ogni aspirazione alla rinascita di una qualche democrazia dei partiti. Se
perde, non dopo una battaglia trasparente ma perché tramortito dalla forza delle cose,
dalle sue macerie verrà travolta anche la sinistra interna, rovinata dal suo vano
attendismo. E’ infatti un’illusione aspettare obbedienti, e solo con qualche riserva, dalle
retrovie che il folle piano vada a sbattere e immaginare di riprendere a camminare a testa
alta subito dopo il fragore rovinoso da tutti avvertito.
E’ preferibile perciò un lavoro politico consapevole, un disegno esplicito di rottura che
accompagni Renzi alla resa. Nello svuotamento delle residuali divisioni politiche tutte
ospitate in un indistinto partito della nazione (in effetti Renzi potrebbe essere, con pari
credibilità, leader di uno qualsiasi dei tre non-partiti oggi esistenti), si consoliderebbe
altrimenti un sistema informe e retto da un profilo pseudo carismatico difficile da scalfire
una volta consolidato al potere.
Machiavelli notava che in politica «si cava una regola generale, la quale mai o raro falla,
che chi è cagione che uno diventi potente, ruina». E nella rapida, quanto sinora
incontrastata, ascesa di Renzi alla condizione di «potente», anche i suoi avversari interni
sono la «cagione» del tanto dominio in fretta accumulato. Prima sollecitando in direzione
un cambio di passo rispetto a Letta, e poi votando in aula una fiducia “critica” alla delega
all’esecutivo per la soppressione dell’articolo 18, la minoranza del Pd ha consentito al
renzismo di incassare dei grandi attestati di potenza e con tali incaute mosse rischia forse
di aver sancito la propria «ruina».
Il timore di una crisi di governo ha paralizzato qualsiasi disponibilità alla prova di forza su
una grande questione identitaria (diritto di licenziare come arma della modernizzazione e
della riduzione di ogni dignità al lavoro). Sinora la minoranza del Pd ha evitato di portare lo
scontro nella sola zona di criticità esistente per Renzi, cioè nei gruppi parlamentari, non
ancora del tutto omologati ma anch’essi prossimi alla resa nel miraggio di una
ricandidatura. E così ha spianato la strada al disegno di un potere a conduzione personale
senza mai lanciare dei sassi, colpire di sorpresa, tendere agguati. Machiavelli avvertiva
che in politica «è meglio fare et pentirsi che non fare et pentirsi».
La scissione allora? Non è detto che essa accada. La tattica prevale sulla strategia in
queste scelte. Escluderla in linea di principio è però di sicuro una castrazione preventiva
della possibilità di ostacolare un tragitto regressivo che conduce verso il dominio di una
persona priva di opposizioni, limiti, controlli e alla sicura archiviazione a tappe successive
della forma di governo parlamentare. Ogni pratica scissionista deve valutare, con distacco,
la presenza di una condizione indispensabile. Machiavelli chiarisce bene la questione, che
vale per ogni costruttore di una cosa nuova: «esaminare se questi innovatori stanno per
loro medesimi, o se dipendano da altri: ciò è se per condurre l’opera loro bisogna che
preghino, o vero possono forzare».
Insomma, su cosa, su quali forze reali, potrebbe poggiare l’iniziativa per imporre, nella
lotta aperta contro la degenerazione del politico, una autonoma forza della sinistra? La
frattura sociale sui temi del lavoro, il possibile sciopero generale come radicalizzazione
della contesa, offrono una occasione propizia ovvero aprono la giuntura critica per
rompere. Il rapporto organico del nuovo soggetto politico con il sindacato evoca uno
scenario quasi rovesciato rispetto al rapporto tra soggetto politico e organizzazione sociale
20
dominate nella storia repubblicana. E però anche una tale formazione ad ibridismo
politico-sindacale (sulla scorta più della vicenda inglese che di quella continentale) non
farà strada senza una grande cultura politica, non minoritaria e di mera protesta.
Nella assai frantumata minoranza Pd forse prevarrà una linea più attendista (la guerriglia
sulle riforme elettorali e istituzionali è però meno dirompente e mobilitante come reazione
allo sfregio simbolico perpetrato da Renzi sull’esplosivo tema identitario del lavoro). Se
comunque questa via della imboscata parlamentare prevarrà, almeno con essa si punti a
bloccare l’unica condizione per il successo dello statista di Rignano, cioè l’Italicum
comunque ritoccato (con il rialzo delle soglie e il voto di preferenza). Senza il premio di
maggioranza in mano, Renzi ha le ali spuntate e la sua pistola del ricatto diventa scarica.
Guerriglia aperta sulle riforme, dunque, e in più un ristretto ma coeso gruppo di contatto al
senato (che mostri che senza di esso il governo non ha i numeri a Palazzo Madama),
possono creare degli ostacoli, scavare trappole affinché “pié veloce” inciampi. Le tattiche
possono variare. Quello che non muta è però l’obiettivo. Renzi va sconfitto. E da sinistra.
del 30/10/14, pag. 13
«Mi ricorda Silvio e Craxi»
Il renzismo dei pensatori di destra
ROMA «C’è qualcosa in Renzi che mi ricorda Berlusconi e Craxi. E quindi sì, alla
Leopolda sarei andato anch’io. Magari camuffato con barba e baffi finti», scandisce
Marcello Veneziani. «Io», dice invece Giuliano Urbani, «non sarei andato alla Leopolda
solo perché ne ho abbastanza di tutti. Però tifo per Renzi. Siamo talmente disperati che
non ci resta altro». Mentre Domenico Fisichella sussurra «aspetti un attimo», lascia che un
fruscio di fogli di carta arrivi dall’altro capo del telefono e, trionfante, annuncia: «Eccolo,
l’ho trovato. Intervista al Tempo del 26 gennaio ’95 rilasciata da me. Titolo: “Faremo noi il
Partito della Nazione”. Ci hanno provato in tanti, dopo, a dar seguito alla mia idea.
Speriamo che ce la faccia Renzi».
Anche nel cielo dell’intellighenzia della destra italiana — che per anni ha foraggiato
intellettualmente Berlusconi (e anche Fini) salvo poi dividersi, vent’anni dopo, tra «partito
dei delusi» e «fazione dei traditi» — brilla la stella di Matteo Renzi. Marcello Pera, filosofo
ed ex presidente (forzista) del Senato, l’ha scritto martedì su Libero , al termine di
un’analogia azzardata ma benevola tra il premier e Mussolini. «Voto Forza Matteo ma lo
invito non a finire come noi. Avrei voluto essere alla Leopolda a incoraggiarlo».
Insieme a Pera, che tra l’altro ha dato tardivamente e involontariamente corpo a una
vecchia e maligna analisi su di lui firmata da Massimo D’Alema («Quando sono indeciso
su una cosa, vedo che fa Pera e faccio il contrario»), si schiera tutto quel che rimane della
destra culturale italiana. Dice Urbani, ex ministro e componente del cda Rai, sherpa del
primo berlusconismo: «Non sarei andato alla Leopolda solo perché, nel renzismo, per un
politologo non c’è posto. Però, ripeto, tifo per Renzi. Per quanto con una giusta dose di
critica, non vedo perché non sostenerlo. Un altro come lui non c’è. Neanche in Europa,
dove bisogna tenere testa alla Merkel anche per fare un favore ai tedeschi stessi».
Fisichella, professore universitario ed ex ministro della Cultura con Berlusconi, che
proveniva dalla destra cattolica e monarchica, adesso spera che «la mia vecchia idea di
Partito della Nazione, il Country party, trovi realizzazione». Quell’idea di partito, sottolinea,
«non era di ispirazione egemonica, ma doveva essere servita all’interesse generale».
Renzi la realizzerà come si deve? «Per adesso, senza dubbio, la sua azione di governo si
21
sta muovendo nella logica di una destra economica, che è diversa da quella della destra
politica. Aspettiamo, vediamo…».
Aspetta e vede anche Veneziani, scrittore e giornalista, un altro che il vecchio centrodestra
aveva spedito nel cda della Rai. «Il mio giudizio su Renzi è sospeso, anche perché ha una
squadra di governo mediocre, un partito inadeguato, degli interlocutori deboli. Di certo, in
molte cose mi ricorda Berlusconi e Craxi, il che è positivo». Si smarca dal coro, invece,
Pietrangelo Buttafuoco, che ieri ha consegnato al Foglio un corsivo ironico in cui accosta il
renzismo al fascismo («Lo smartphone è il manganello, Twitter è l’olio di ricino, la camicia
bianca va in luogo della camicia nera»). Il giornalista e scrittore catanese la vede così: «Di
Renzi diffido. Soprattutto perché il suo vero problema è l’essere adagiato sul conformismo.
Piace ai ricchi, alle mamme, ai ragazzi, a Barbara d’Urso… Il presepe è colorato,
illuminato, bellissimo. Ma, come al Tommasino di “Natale in casa Cupiello”, o’ presepe nun
me piace». Li supera a destra, gli altri, Buttafuoco. E, forse, arriva quasi a sinistra.
Tommaso Labate
del 30/10/14, pag. 4
L’imbarazzante eurorenziana
Domenico Cirillo
Partito e sindacato. Camusso ha vinto il congresso Cgil con tessere
false e pagato i pullman dei manifestanti: l’ultras Picierno, quella che
con 80 euro si campa la famiglia due settimane, è un problema per
Renzi
Il conduttore — diretta Raitre, ultimi secondi della trasmissione Agorà — le stava facendo
la grazia di provare a fermarla. Ma niente. Pina Picierno eurodeputata del Pd e ultras
renziana, ha voluto dirlo, «potrei dire ma non vorrei dire», insomma l’ha detto: «Camusso
ha vinto il congresso della Cgil con tessere, diciamo, false e la piazza (intendeva
naturalmente quella del sindacato, sabato scorso) è stata riempita con pullman pagati».
Titoli di coda, e inizio di una giornata complicata per il Pd.
Camusso non ha praticamente replicato. Era finita sotto attacco per aver detto in
un’intervista a Repubblica - titolo: «Renzi è a palazzo Chigi per volere dei poteri forti» —
che «il governo copia le proposte delle grandi imprese». Quando ha sentito le parole di
Picierno aveva già saputo dei manganelli della polizia sugli operai. «Si parli di questo e
non delle sciocchezze», ha detto. A replicare ci ha pensato l’ufficio stampa della Cgil,
facendo il verso alle preterizione dell’eurorenziana: «Potremmo dire che non ha argomenti
di merito e poco rispetto per le centinaia di migliaia di persone che hanno dato vita alla
straordinaria manifestazione. Potremmo, ad esempio, parlare delle primarie in Campania.
Potremmo dire tutto questo e altro ancora ma, come si usa adesso, non lo faremo».
Al vertice del Pd il problema di rimediare allo scivolone dell’ex giovane demitiana. Un po’ il
bis dell’uscita anti sciopero del finanziere David Serra, elemosiniere della Leopolda, non
dei pullman Cgil. Il vice segretario Guerini interviene lesto: «Picierno non voleva offendere,
può capitare nel corso di dibattiti accesi di dire parole eccessive». E a Picierno capita di
eccedere in tv, malgrado si presentasse un tempo come «autrice di testi televisivi». È
famosa per aver detto una volta che con 80 euro si può fare la spesa per due settimane.
Poi spiegò, corresse. Anche ieri ha dovuto farlo.
Nel frattempo Guerini assicurava: «Noi abbiamo grande rispetto per un importante realtà
sindacale come la Cgil e per le persone che manifestano in piazza le loro opinioni.
22
Chiediamo uguale rispetto per il percorso democratico degli organismi del nostro partito».
E il presidente del partito Matteo Orfini si destreggiava nel più classico dei «ma anche»:
«Susanna Camusso ha detto cose sbagliate, ma anche Pina Picierno ha dato una risposta
sbagliata e rozza, la piazza va ascoltata e rispettata». Discorso dal quale in serata non si
discostava troppo Pier Luigi Bersani, pure critico con il governo che «ha acceso una
miccia al giorno» e «considera il sindacato un ferro vecchio». Ma, aggiunge l’ex segretario,
anche lui in tv: «Non sono d’accordo con Camusso sui poteri forti, Renzi è lì perché lo ha
voluto il parlamento». Assai più duro Pippo Civati, secondo il quale «era più facile quando
le cose che ha detto Piecierno le diceva la destra». E anche Gianni Cuperlo resta sul
lapidario: «Il sindacato si rispetta». Giuditta Pini, deputata dell’area dei giovani turchi di
Orfini, sostiene che «Camusso ha detto una cavolata che si poteva tranquillamente
evitare» ma aggiunge che «per sua fortuna le è arrivata in soccorso Picierno che l’ha fatta
sembrare una fine politologa». Alla fine Bersani si rivela quasi il più prudente: «Qualcosa
si sta incrinando, ma alla scissione neanche a pensarci. A noi tocca tirarlo fuori dai guai,
Renzi. Matteo con me può stare tranquillo».
Ma nel frattempo ecco Picierno tentare di salvare il salvabile. «Non era mia intenzione
lanciare accuse», dice. E assicura di «rispettare il sindacato e il popolo della piazza»,
aggiungendo però che «altrettanto rispetto chiedo nei confronti di chi pensa che la sinistra
sia cambiamento e riforme». Tra questi si colloca lei, è chiaro. Lei subito battezzata su
twitter come «la Santanchè del Pd» e che il Mattino raccontava ieri deputata niente affatto
modello, ma morosa: dovrebbe al partito campano quasi l’intera somma che si era
impegnata a versare al momento della candidatura, e per questo avrebbe chiesto una
rateizzazione. La Campania, del resto, non è esattamente la regione dalla quale si
possano dare grandi lezioni di tesseramento trasparente, per chi ricorda che delle
iscrizioni sospette al Pd si era interessata persino l’antimafia.
Sempre a proposito di soldi, è stata proprio Picierno a portare recentemente in dote al Pd
campano l’ex consigliere regionale socialista Gennaro Oliviero, espulso dal Psi per non
aver saldato le quote. Rivolta tra i compagni di Caserta.
del 30/10/14, pag. 5
I tagli? L’Italia sta acquistando 90 caccia F-35
Manlio Dinucci
I caccia F-35 non sono gli unici ad essere stealth (furtivi), ossia capaci di sfuggire
all’avvistamento. Tale capacità l’ha acquisita anche il governo Renzi. Si è impegnato lo
scorso settembre, in base a una mozione Pd, a «riesaminare l’intero programma F-35 per
chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget» da 13 a 6,5 miliardi,
cifra con cui — si stima — si potrebbe acquistare, oltre ai 6 già comprati, una ventina di F35. Contemporaneamente la ministra della difesa Pinotti si è esibita in una serie di
manovre diversive: in marzo ha dichiarato che sugli F-35 «si può ridurre, si può rivedere»,
in luglio ha giurato che di fronte alle disfunzioni tecniche degli F-35 «l’Italia non acquisterà
niente che non sia più che sicuro per i piloti», in ottobre ha annunciato «l’impegno per
l’acquisto di altri due F-35».
A prenotarli per conto dell’Italia è stato il Pentagono: il 27 ottobre ha concluso un accordo
con la Lockheed Martin (principale contractor) per l’acquisto di altri 43 F-35, di cui 29 per
gli Usa, 4 rispettivamente per Gb e Giappone, 2 rispettivamente per Norvegia, Israele e
Italia. L’accordo stabilisce che «i dettagli sul costo saranno comunicati una volta stipulato il
contratto».
23
Una stima di massima si può ricavare dal bilancio del Pentagono, che prevede per l’anno
fiscale 2015 (iniziato il 1° ottobre 2014) uno stanziamento di 4,6 miliardi di dollari per
l’acquisto di 26 F-35, ossia 177 milioni di dollari — equivalenti a circa 140 milioni di euro —
per ogni caccia. La Lockheed assicura che, grazie all’economia di scala, il costo unitario
diminuirà. Tace però sul fatto che l’F-35 subirà continui ammodernamenti che faranno
lievitare la spesa.
La stessa Lockheed conferma ufficialmente, mentre scriviamo, che «l’Italia riceverà 90 F35, una combinazione di F-35A a decollo e atterraggio convenzionale e di F-35B a decollo
corto e atterraggio verticale». Questi ultimi, adatti alla portaerei Cavour e alle operazioni di
assalto anfibio, sono notevolmente più costosi. Dato che il comunicato della Lockheed non
viene smentito da Roma, è evidente che il governo italiano si muove su due piani: da un
lato mantiene sottobanco l’impegno con Washington ad acquistare 90 F-35 a un costo da
quantificare, dall’altro si impegna in parlamento a dimezzare il budget finale per gli F-35,
fidando sul fatto che l’acquisto avviene a lotti nell’arco degli anni e che le promesse di oggi
possono essere cancellate domani, invocando la necessità di garantire la «sicurezza» del
paese.
Sempre la Lockheed Martin sottolinea che l’Italia è non solo acquirente ma, con oltre venti
aziende, produttrice dei caccia tanto che «in ogni F-35 prodotto ci sono parti e componenti
made in Italy».
La partecipazione dell’Italia al programma F-35 viene presentata come un grande affare,
ma non si dice che, mentre i miliardi dei contratti per l’F-35 entrano nelle casse di aziende
private, quelli per l’acquisto dei caccia escono dalle casse pubbliche. Né si dice quanto
vengono a costare i pochi posti di lavoro creati in questa industria bellica.
L’impianto Faco di Cameri, costato all’Italia quasi un miliardo, dà lavoro a meno di mille
addetti che, secondo Finmeccanica, potrebbero arrivare a 2500 a pieno regime. Ma la
Lockheed è ottimista: «L’impianto può fornire un significativo appoggio operativo alla flotta
F-35 nell’area europea, mediterranea e mediorientale». In altre parole, lo sviluppo di
Cameri è legato allo sviluppo delle guerre Usa/Nato in quest’area.
del 30/10/14, pag. 12
Berlusconi frena sull’Italicum: prendiamo
tempo
Timori per un asse Pd-M5S. Giachetti rilancia il Mattarellum: avanti
anche senza FI
ROMA «Sulla legge elettorale dobbiamo prendere tempo. Ed evitare rischi». Silvio
Berlusconi è chiuso da un giorno a palazzo Grazioli. Ha preparato l’incontro con i
coordinatori regionali del partito in programma oggi, in cui si parlerà anche della marcia di
avvicinamento alle Regionali. E, soprattutto, ha iniziato a discutere con i suoi di quegli
strani segnali che arrivano dal Pd.
Uno di questi è stata la conferenza stampa con cui Roberto Giachetti ha «rottamato»
l’Italicum ripresentando il Mattarellum senza scorporo. Una legge che, come lo stesso
vicepresidente della Camera ha sostenuto, potrebbe essere avallata «sia dai Cinquestelle
che da Sel». Un patto senza FI, insomma, visto che «il dibattito di queste settimane mi fa
pensare che stiano venendo meno sia i tempi che l’accordo con Berlusconi».
Le parole di Giachetti hanno fatto scattare il panico presso i forzisti. Eppure, nei colloqui
privati, Berlusconi ostenta sicurezza. E non crede al fatto che Renzi possa cercare
24
l’accordo con Grillo perché, dice uno della sua cerchia ristretta, «a quel punto il premier
dovrebbe eleggersi col M5S anche il nuovo capo dello Stato, e ovviamente non ce la
farebbe».
Dietro la forzatura dei renziani, paradossalmente, potrebbe anche nascondersi un assist a
Berlusconi. Un modo per consentirgli di andare dai suoi parlamentari — che osteggiano
l’Italicum col premio alla lista — e metterli con le spalle al muro. Della serie, «non dipende
da me: o accettiamo o Renzi si accorda con Grillo e siamo finiti». La partita durerà ancora
a lungo, almeno lo spera l’ex Cavaliere. «Torniamo a proporre noi il sistema spagnolo,
no?», ha provato a dirgli Verdini. Niente da fare. L’ex Cavaliere ha come unico obiettivo
quello di temporeggiare. Infatti s’è messo a lavoro sul «Casa day», una manifestazione
contro le tasse da realizzare prima di Natale. «La casa è un pilastro su cui si fonda la
famiglia. Non può essere portata via per eccesso di tasse», ripete mentre lavora alla
piattaforma. Sarebbe la sua prima manifestazione contro Renzi. Sempre che il patto del
Nazareno non riservi qualche nuova sorpresa prima che vada in scena.
T. Lab.
del 30/10/14, pag. 5
Forza Italia tira il freno, il Pd rispolvera il
Mattarellum
Andrea Colombo
Legge elettorale. La coppia del Nazareno in crisi
Basta una frasetta lasciata cadere a metà di una lunga intervista al Corrierone, e di botto
tutti capiscono che la legge elettorale non sta messa bene e il Nazareno neppure.
Modifiche alla legge scritta a suggello del famigerato Patto e già votata dalla Camera?
«Valuteremo nei prossimi mesi». Mesi? Ma se Renzi parla di settimane! No, no: «Ci sono
cose più urgenti da votare», senza contare che «la riforma elettorale deve procedere
contestualmente a quella del Senato».
Non parla un bellicoso dissidente, bensì Paolo Romani, presidente dei senatori, autonomia
dal gran capo un po’ sotto lo zero. A tirare il freno è stato direttamente Silvio Berlusconi.
Oddio, cosa è successo per portare così di colpo la coppia più bella del mondo, se non
proprio sull’orlo del divorzio, almeno in area limitrofa ai piatti frantumati? In realtà
parecchie cose, nessuna delle quali determinante in sé ma che sommate portano il
nervosismo di Arcore alle stelle. Il riavvicinamento tra Renzi e l’Ncd, per esempio, in
particolare in Campania e Puglia. Ma l’elemento decisivo è la paura, anzi la psicosi, delle
elezioni anticipate. In Parlamento ne parlano tutti, le temono tutti e inevitabilmente ha finito
per prestare ascolto anche il cogenitore azzurro della nuova patria. Verdini ha assicurato
che così non è, che Renzi abbaia ma a mordere, almeno in quella parte molle, non ci
pensa per niente. Sarà, ma allora perché tanta fretta?
La stella di Verdini, del resto, nel firmamento silviesco è appannata. Un po’ per lo spettro
di guai giudiziari, molto perché era stato lui il mallevadore della sterzata verso il premio di
lista, prima accettata da Berlusconi ma poi, dopo un diluvio di pareri contrari, per metà
rinnegata. Dicono che Denis il Fumantino mediti di mollare il testimone ad altri mediatori.
In realtà non è affatto detto che alla fine Silvio l’Indeciso non si acconci ad accettare il
premio di lista, ma è storia di domani, anzi di dopodomani. «Mesi», dice Romani, però tra i
senatori forzisti c’è chi punta sugli anni: «La legge elettorale la si deve fare certo. Ma a fine
legislatura».
25
Si sa che per Renzi niente vale un po’ di movimento. Dunque ha già iniziato a sondare le
acque in vista di un possibile ribaltamento di alleanze. Su fronti diversi e con proposte
diverse. Cinguetta con i grillini, facendo balenare un Italicum con premio di lista che
lascerebbe in lizza solo loro oltre a quel Renzi-partito che per abitudine e pigrizia
continuiamo a chiamare Pd.
Allo stesso tempo fa mettere in campo da Giachetti, con tanto di proposta formale, quel
Mattarellum che riporterebbe all’ovile la minoranza Pd, piacerebbe a Sel e potrebbe
essere gradito anche al Beppe furioso. «Se la legge resta arenata, in Parlamento è già
pronta una maggioranza sulla mia proposta», assicura Giachetti: cioè su un Mattarellum
depurato dal micidiale scorporo. Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme, invece vuole
approvare l’Italicum di corsa. Però anche lui senza più Silvio: «Se Forza Italia ha bisogno
di mesi saremo costretti ad approvare la legge senza Forza Italia». Molto più facile a dirsi
e che a farsi. Perché in Parlamento sono moltissimi a concordare con il leader azzurro su
un punto chiave: bisogna impedire che Renzi possa correre al voto, e se proprio volesse
farlo a tutti i costi, allora meglio il Consultellum.
del 30/10/14, pag. 4
Coppie gay, maggioranza divisa al Senato
E. Ma.
Unioni civili. Ostruzionismo Ncd in commissione contro il ddl Cirinnà
Come fosse un nuovo Family day, Maurizio Sacconi guida i senatori dell’Ncd all’attacco
del ddl sulle unioni civili, anche omosessuali, alle ultime battute in commissione Giustizia.
Un giorno di ostruzionismo che manda in tilt la maggioranza, mentre aleggia il fantasma di
quel testo governativo annunciato da Renzi di cui si sono perse le tracce ma che rimane
un utile appiglio per rallentare l’iter parlamentare.
Si sono iscritti tutti a parlare, i senatori del Ncd, perché non considerano «utile per la
prosecuzione dei lavori» il testo base della relatrice Pd, Monica Cirinnà. «Ho invocato un
ddl del governo – rivela Sacconi – e ho ribadito la nostra assoluta contrarietà ad
un’impostazione ideologica che mette in discussione un modello antropologico (le adozioni
aprono la strada all’utero in affitto) e sociale (l’estensione delle pensioni di reversibilità, già
ora le più generose al mondo, pregiudicherebbe la tenuta del sistema). Noi pensiamo che
serva una legge in grado di unificare la nazione, perché solo così si possono aiutare le
minoranze omosessuali nel contrasto di comportamenti omofobici. Chiediamo che il testo
base sia il testo del governo». Il partito della nazione passa anche di qui.
Cirinnà denuncia l’ostruzionismo del Ncd e fa notare che il ddl del governo atteso «non
arriverà», stando alla risposta del ministro dell’Interno all’ interrogazione parlamentare da
lei stessa presentata. «La questione trascende la competenza dei ministeri e investe le
prerogative del Parlamento», ha risposto infatti Alfano, e «questo ministero non intende
proporre alcuna iniziativa». Nel gioco delle tre carte entra poi anche Forza Italia:
snobbando il contrordine di Berlusconi, pure i senatori azzurri s’impuntano. Sperano che la
patata bollente passi nelle mani di Renzi e Alfano, e intanto vedrebbero bene «un rinvio
dopo Natale».
Ma il ministro dell’Interno è troppo impegnato a contrastare un grave pericolo per l’ordine
pubblico quali sono le trascrizioni da parte dei sindaci dei matrimoni gay contratti
all’estero. E a forza di insistere, ieri per la prima volta un prefetto, a Udine, ha applicato il
diktat di cancellazione delle trascrizioni contenuto nella circolare ministeriale. Un atto,
quello del commissario ad acta incaricato dalla prefettura del capoluogo friulano, che il
26
sindaco Furio Honsell ritiene «non abbia nessun valore giuridico, in quanto, sulla base
della legge che disciplina lo stato civile, l’annullamento può essere disposto unicamente
per decreto di un tribunale». Come avvenuto a Grosseto.
Anche il sindaco di Roma, Ignazio Marino, attaccato durante una trasmissione televisiva
da Carlo Giovanardi –allora bisognerebbe «riconoscere anche la poligamia», o i matrimoni
con spose bambine, è il sottile ragionamento del senatore Ndc –ha assicurato:
«Assolutamente non cancellerò le trascrizioni. Il prefetto ha mandato due viceprefetti
perché l’unico motivo per cancellarli è il pericolo per l’ordine pubblico». E pericolo non c’è.
del 30/10/14, pag. 12
Responsabilità civile, il Csm non ci sta I 5
Stelle: per la Consulta trattiamo
Dopo la rinuncia di Violante crescono i nomi di Luciani, Groppi e
Cerrina Feroni
ROMA Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato un parere critico sulla legge
sulla responsabilità civile delle toghe che si porta dentro un pezzo importante della riforma
Renzi-Orlando. Il parere votato dal plenum — contrari i tre «laici» di centrodestra mentre il
vicepresidente Giovanni Legnini non ha partecipato al voto — azzoppa il testo appena
licenziato dal Senato e ora incardinato alla Camera: le nuove norme sulla responsabilità
civile «mettono a repentaglio l’autonomia e l’indipendenza della funzione giurisdizionale» e
«potrebbero determinare un inesauribile contenzioso». E dunque, prosegue il parere,
anche al di là delle intenzioni del Parlamento, «le nuove norme possono essere fonte di
ulteriori rallentamenti della macchina giudiziaria».
Quello che sta a cuore all’organo di autogoverno della magistratura — ma anche dell’Anm
che parla di norme «inaccettabili» — è il ripristino del «filtro» che fino a oggi ha consentito
alla legge Vassalli di arginare i ricorsi civili contro i magistrati. Il consigliere laico Giuseppe
Fanfani (Pd) ha tentato una mediazione, proponendo che il filtro venisse sì ripristinato ma
in un’apposita sezione della Cassazione, lontano cioè dalle Corti d’appello chiamate a
decidere le cause. L’emendamento Fanfani è stato respinto sul filo di lana dopo
l’intervento contrario del primo presidente e del Pg della Cassazione, Santacroce e Ciani.
Ora la palla passa alla commissione Giustizia della Camera dove governo e maggioranza
non escludono di correggere il testo perché anche nel Pd sta maturando l’idea che «senza
un filtro adeguato si rischia il caos di cause seriali» (avvocati, associazioni, gruppi) contro i
magistrati. Una modifica gradita ai magistrati spiazzerebbe l’Ncd: «Il testo non è blindato
ma noi andiamo nella direzione opposta al Csm», osserva il viceministro Enrico Costa.
Così, per compensare, il Pd potrebbe coinvolgere i grillini.
Insomma, per la responsabilità civile si ripeterebbe lo schema in via di sperimentazione
per l’elezione dei due giudici della Consulta (il 21° scrutino previsto per oggi è stato
comunque rinviato a data da stabilire) e del membro laico mancante del Csm.
Dopo la rinuncia alla candidatura per la Consulta di Luciano Violante, infatti, i grillini
esultano per il risultato centrato. Nel Pd gli amici e i nemici dell’ex presidente della
Camera, sfiduciato da Matteo Renzi in diretta tv, parlano all’unisono di «alto senso delle
istituzioni» e di «spirito di servizio». Ora però ci sarà da gestire il «dopo Violante», fanno
notare tutti i parlamentari democratici eletti in Piemonte: «Il ritiro da parte di Luciano
Violante della propria disponibilità alla candidatura a giudice costituzionale, che il Pd gli
27
aveva chiesto, è un gesto che amareggia perché non sarà facile trovare un altro candidato
di analoga levatura e soprattutto perché segna una sconfitta per il Parlamento e per il Pd».
Sostiene il grillino Riccardo Fraccaro: «Il M5S ha sconfitto il partito unico Pd-FI che
tentava di piazzare l’uomo dell’inciucio alla Consulta». Per questo ora il M5S ha spedito
una lettera a tutti i «gentili colleghi» per individuare insieme studiosi e professionisti lontani
dai partiti. I tecnici proposti dal M5S sono Antonio D’Andrea, Silvia Niccolai e Franco
Modugno. Poi c’è anche l’avvocato Felice Besostri.
«Ma la rosa dei nomi la facciamo noi», replicano in casa del Pd dove si parla dei
professori Massimo Luciani, Tania Groppi (che però ha nel suo curriculum una consulenza
per l’Idv) e della fiorentina Ginevra Cerrina Feroni che raccoglie consensi bipartisan.
Dino Martirano
del 30/10/14, pag. 4
Elezioni Campania, Pd e Ncd serrano le file:
insieme alle regionali
Adriana Pollice
L’accordo tra Pd e Ncd per le regionali in Campania e Puglia sarebbe stato chiuso. Questa
la voce che gira a Roma tra i gruppi parlamentari della maggioranza. Lunedì scorso il
vicesegretario democrat Lorenzo Guerini era arrivato a Napoli per la direzione regionale
del partito, all’ordine del giorno l’approvazione del bilancio e le primarie per le elezioni
campane della prossima primavera. Il vice di Renzi aveva discusso a lungo con il gruppo
degli ex popolari: l’alleanza con i centristi è uno dei temi che sta più a cuore alla segreteria
romana ma anche a quella parte di Pd proveniente dalla Margherita, maggioritario in
Campania.
La direzione di inizio settimana potrebbe aver accelerato un processo di avvicinamento
che era già in corso, ma procedeva a rilento. Infatti a lunedì a tarda sera gli ottanta
delegati hanno approvato il regolamento e la data delle primarie (14 dicembre),
rimandando però i partecipanti a un nuovo incontro per definire la questione delle alleanze
e delle eventuali primarie di colazione. La definizione della data, evidentemente, è servita
a un doppio scopo: indurre un’accelerazione nei partiti a destra e sinistra del Pd verso la
conclusione di un accordo elettorale e mostrare i muscoli ai due contendenti attualmente
in campo per le primarie, Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino, entrambi poco graditi al
partito campano e romano.
Una conferma del processo di convergenza con i centristi è arrivata anche dai gruppi
presenti nel consiglio comunale: martedì si sono riuniti a via Verdi gli eletti del Pd, di
Centro democratico, de La Città-Campania domani e Ncd per discutere delle regionali e
dell’amministrazione cittadina. L’accordo dei moderati con il Pd, del resto, difficilmente
provocherebbe una fuga a sinistra poiché la legge elettorale per le regionali campane non
lascia molti margini: in un turno unico, entra in consiglio la lista che prende almeno il 3%
ed è collegata a un candidato che ha totalizzato almeno il 10% dei voti. Una soglia di
sbarramento, quella del 10%, proibitiva per i partiti minori voluta dal governatore Stefano
Caldoro, che l’ha innalzata (era al 5%) a luglio attraverso il maxiemendamento collegato
alla finanziaria regionale.
La direzione di lunedì è stata soprattutto un avvertimento al sindaco di Salerno (tra l’altro
alle prese con i guai giudiziari legati al maxicondominio Crescent): senza mai nominarlo,
molti interventi sono suonati come una diffida a proseguire la sua campagna per le
28
primarie. Più prudente Cozzolino, pupillo dell’ex governatore Bassolino, che potrebbe
anche decidere di ripiegare sul comune, se l’amministrazione de Magistris non dovesse
reggere agli effetti della sospensione. A Lorenzo Guerini il compito di trovare un candidato
che possa tenere insieme il quadro delle alleanze, magari superando le primarie o
passando per primarie confermative.
L’esito del puzzle potrebbe produrre anche una ricomposizione della segreteria: un
accordo con Ncd che dovesse portare alla vittoria delle regionali rafforzerebbe gli ex
popolari e l’area Dem campana, ma aprirebbe la strada anche a un rafforzamento dei
renziani, che hanno invocato l’intervento di Roma fin dall’estate.
29
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 30/10/14, pag. 1/14
Stato-mafia, i pm aprono il caso Violante
“Su Ciancimino non ci ha raccontato tutto”
La mossa della procura dopo la rivelazione di Napolitano “Mi spiegò
che l’ex sindaco voleva parlare con l’antimafia”
ATTILIO BOLZONI
ROMA .
Nelle pieghe del processo sulla trattativa Stato-mafia scivola un’altra volta il nome di
Luciano Violante. A spingerlo dentro uno dei capitoli più intricati dell’inchiesta, con grande
sorpresa è stato il presidente della Repubblica con la sua deposizione al Quirinale.
Adesso i magistrati di Palermo vogliono chiedere a Violante perché ha avuto — ancora
una volta — una “dimenticanza”, perché non ha ricordato sotto testimonianza tutto ciò che
sapeva sulla voglia di parlare dell’ex sindaco Vito Ciancimino subito dopo le stragi Falcone
e Borsellino.
La vicenda è molto delicata, complicata. Anche perché Violante aveva avuto un’altra
“amnesia”, lunga 17 anni. Era a conoscenza di certe manovre del Ros dei carabinieri
intorno a don Vito, ma non aveva mai sentito il bisogno di riferire a nessuno di suoi tre
incontri con il generale del Ros Mario Mori. Vicenda delicata e complicata riaperta
all’improvviso in una sala del Quirinale da Giorgio Napolitano che ha raccontato — lui era
al tempo presidente della Camera — di essere stato informato da Violante che Ciancimino
avrebbe voluto comparire davanti alla commissione parlamentare antimafia allora guidata
dallo stesso Violante. Perché — si chiedono oggi i pm siciliani — dopo un quel primo
silenzio di 17 anni Violante quando ha ritrovato la memoria (e solo nel 2009, e solo dopo
che l’episodio era stato svelato da Massimo Ciancimino con ampi resoconti sulla stampa)
non ha ricordato anche quell’informazione, e cioè che ne aveva fatto cenno a Napolitano?
Nessuno era mai venuto a conoscenza di questa circostanza prima della deposizione del
Capo dello Stato, una “rivelazione” che ha colpito molto i magistrati della pubblica accusa
e lo stesso presidente della Corte Alfredo Montalto che sul punto — durante l’udienza al
Quirinale — ha posto la sua unica domanda a Napolitano. Così ora Luciano Violante, che
proprio ieri ha rinunciato alla candidatura alla Corte Costituzionale dopo venti fumate nere
del Parlamento, sarà chiamato a testimoniare nel processo trattativa su quest’altro ricordo
mancato e sui suoi faccia a faccia con il generale Mori avvenuti subito dopo le stragi di
Capaci e di via D’Amelio. Che cosa aveva detto il generale al presidente della
Commissione parlamentare antimafia nel settembre del 1992? Gli aveva proposto di
incontrare «in modo riservato, a quattr’occhi» Vito Ciancimino. Violante rifiutò con
fermezza e chiese all’alto ufficiale: «L’autorità giudiziaria è stata informata di questa
disponibilità del Ciancimino a parlare?». Risposta di Mori: «Si tratta di una cosa politica...
di una questione politica ».
Prima di quell’incontro i due si erano incrociati altre due volte, ma Violante non parlò mai di
quei suoi dialoghi. Per la prima volta, come abbiamo detto, l’ha fatto solo dopo avere
appreso delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ai magistrati di Palermo. La «cosa
politica» alla quale aveva fatto cenno Mori secondo Violante, è uno degli snodi del
processo che è in corso e soprattutto delle nuove investigazioni che continuano per
scoprire chi è stato il vero “mandante” del patto.
30
Chi aveva autorizzato quegli ufficiali a cercare un negoziato con Cosa Nostra? Chi aveva
dato il nulla osta per avviare “consultazioni” con Totò Riina ancora latitante? Quale era la
«questione politica» alla quale faceva riferimento Mori? E perché Luciano Violante si è
ricordato solo 17 anni dopo di un episodio così importante, nonostante che di “trattativa”
fra Stato e mafia se ne parlava pubblicamente almeno dalla fine del 1998? Nei processi,
sui giornali. È quello che chiederanno all’ex presidente della commissione antimafia in
aula. E gli chiederanno, citandolo presto, anche di quel dialogo con il capo dello Stato.
Come finirà, vedremo. E non sappiamo neanche se il procuratore reggente di Palermo
Leonardo Agueci abbia fatto riferimento a questa vicenda di memoria un po’ malandata
nella sua intervista a Radio24, nel passo in cui dichiara che per avvicinarsi alla verità
«tantissimo può essere ancora fatto da parte di tante articolazioni dello Stato». A chi si
riferiva? Ai tanti smemorati che sono sfilati prima nelle aule della procura o poi in Corte di
Assise?
Commento dello stesso Agueci sulla deposizione eccellente del Quirinale a proposito degli
«indicibili accordi» citati nella lettera del consigliere giuridico del presidente: «Si poteva
sperare di avere qualche chiarimento in più, prendiamo atto che su questo non aveva altro
da aggiungere». E sulle bombe del 1993 e sul quell’aut aut della mafia allo Stato del quale
ha parlato Giorgio Napolitano: «È una tessera che contribuisce al mosaico trattativa e al
quadro d’insieme che riteniamo di poter dimostrare».
Se a Palermo si fa il bilancio di quella che è stata l’udienza più solenne (e che sembra si
sia portato via un po’ di ruggine accumulata nell’estate delle telefonate intercettate fra
Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Mancino), sul suo blog Beppe Grillo sferra un attacco
violentissimo al Capo dello Stato: «Un presidente che fa distruggere nastri di
conversazione con un indagato e poi si rifiuta di rispondere pubblicamente ai giudici non si
è mai visto. Cosa teme Napolitano? La sua reazione è già di per sé un’ammissione di
colpevolezza ». Al di là del rumore esterno, della polemica incandescente, l’impressione è
che i veri colpi di scena prima o poi si ci saranno non fuori ma dentro l’aula di Corte di
Assise di Palermo.
del 30/10/14, pag. 12
“Dietro i boss poteri occulti” Il rapporto
segreto degli 007 sulla notte delle bombe
SALVO PALAZZOLO
PALERMO .
La notte delle bombe fra Milano e Roma, la notte del black out al centralino di Palazzo
Chigi, il ministero dell’Interno mise subito in allerta i servizi segreti. C’era aria di golpe
all’alba del 28 luglio 1993. Il presidente Napolitano ha ricordato nella sua deposizione di
martedì che «fu subito chiaro che quelle bombe erano un ulteriore sussulto della strategia
stragista portata avanti dalla fazione più violenta di Cosa nostra, per porre i poteri dello
Stato di fronte a un aut aut». In quelle ore, il segretario generale del Cesis, il generale
Giuseppe Tavormina, creò un’unità speciale formata da appartenenti al servizio segreto
civile e militare per venire a capo del mistero che stringeva in una morsa la repubblica.
Lavorarono senza sosta quegli agenti segreti, per nove giorni. E poi consegnarono un
rapporto di dodici pagine, che è sempre rimasto nell’archivio riservato del gabinetto del
ministro dell’Interno. Oggi, “Repubblica” lo mostra per la prima volta. In quelle pagine —
contrassegnate dal protocollo 2119.18.3/ 6 agosto 1993/ riservato — c’è l’allarme per il
31
ricatto che veniva mosso al cuore dello Stato, di cui ha parlato il presidente Napolitano.
Ricatto non solo di mafia, lo scrivevano chiaramente i servizi segreti italiani. Ma anche
ricatto di «poteri occulti».
È a pagina 6 il passaggio più significativo: «Si individua quale possibile più diretto
responsabile il gruppo di Cosa nostra (verosimilmente quello facente capo ai “corleonesi”),
non sono da escludere eventuali apporti di altre organizzazioni criminose, come
l’Ndrangheta e la Camorra, o di ambienti affaristici di varia natura legati al mondo
dell’illecito o anche di centrali di potere occulto ». Non ci sono riferimenti al black out
telefonico della notte delle bombe, che al presidente Ciampi aveva fatto temere un colpo di
Stato, ma l’analisi dei Servizi è lucida, sembra uscita dalle indagini di questi ultimi anni.
Parla di una mafia che «potrebbe non avere convenienza ad alzare il livello di scontro» e
dunque in questo caso «si troverebbe a sua volta a dover agire sotto la pressione di un più
ampio arco di forze preoccupate della perdita di potere».
A chi si riferiscono i servizi segreti? Nelle mani di chi era finita Cosa nostra? Oggi, questo
documento — ormai declassificato — è diventato un altro tassello importante della
ricostruzione che si sta sviluppando al processo per la trattativa Stato- mafia. I Servizi
ribadiscono infatti che una delle poste in gioco, almeno per i padrini, resta il carcere duro.
A loro questo interessa. «Evidenti — scri- vono gli 007 — sono gli effetti demolitori del
prestigio dei vertici criminali derivanti dall’applicazione del regime detentivo differenziato».
Dunque, i servizi segreti avvertivano che in quel momento di caos nel Paese, una salutare
certezza per le istituzioni era il carcere duro ai mafiosi. «Il 41 bis, nella sua applicazione,
mentre determina l’impossibilità di gestire dall’interno le organizzazioni criminali, starebbe
inducendo molti detenuti a rivedere il proprio comportamento, sviluppando forme di
collaborazione con l’autorità giudiziaria».
E cosa fece un pezzo dello Stato? Allentò quello che secondo i servizi segreti era lo
strumento più efficace per fiaccare l’organizzazione mafiosa. Forse, anche per questa
ragione, il rapporto dei Servizi è sempre rimasto chiuso in una cassaforte. Perché non si
doveva sapere la verità su quei mesi.
E, invece, quel rapporto doveva essere un punto di partenza per avviare delle vere
indagini sugli attentati di Roma, Milano e Firenze. Non sappiamo chi furono gli uomini che
componevano quell’unità speciale, non c’è alcuna firma nel documento. Però scorrendo
quei fogli si comprende quale lavoro certosino fecero in quei nove giorni. Raccolsero tutte
le risultanze d’indagine fino ad allora emerse. E saltò fuori la presenza di una donna — di
circa 25 anni, bionda — notata da alcuni testimoni poco prima delle esplosioni di via
Fauro, a Roma, e di via Palestro, a Milano. Nei commandi di mafia condannati per le stragi
del 1993 non è mai spuntata fuori una donna. Chi era dunque quella giovane che secondo
i testimoni si muoveva sempre accanto a un uomo sulla trentina?
del 30/10/14, pag. 6
“SCALFARO NELLE CARCERI
AVEVA CANALI RELIGIOSI”
NELLA TESTIMONIANZA DEL CAPO DELLO STATO IL RACCONTO
DELL’AZIONE
32
DEL SUO PREDECESSORE, CHE AVREBBE COSÌ RACCOLTO LE
ISTANZE DEI MAFIOSI
Scalfaro? Aveva rapporti non solo con Parisi, con cui era molto stretto, ma aveva suoi
canali attraverso associazioni religiose che operavano nelle carceri”. La risposta del
presidente Napolitano alle domande dei pm di Palermo arriva a metà mattina nel contesto
della “fibrillazione istituzionale” seguita alle bombe del maggio ’93 a via dei Georgofili, a
Firenze e gestita, come ha detto, dalla triade: lui, Spadolini e Scalfaro. E apre uno
scenario finora esplorato sottotraccia dai pm di Palermo che conferma come in quella fase
in cui lo Stato era under attack di Cosa Nostra il predecessore di Napolitano e Ciampi
coltivava il percorso delle carceri per “sondare” discretamente l’universo criminale ed
eventualmente raccogliere le istanze dei mafiosi. Anche per questo oggi, infatti, le parole
di Napolitano suonano come una importante conferma alle tesi dell’accusa nel processo
della trattativa Stato-mafia, visto che, se non fosse morto, anche Oscar Luigi Scalfaro
sarebbe imputato nello stesso processo. Il riferimento alle “associazioni religiose che
operavano nelle carceri” introduce, infatti, la “diplomazia della Chiesa”nella stagione
stragista, tema indagato a lungo e a fondo dal pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel
corso della sua indagine improvvisamente interrotta dalla sua morte per infarto nel 2003
aveva ascoltato come testimoni alcuni cappellani e persino un vescovo per comprendere
cosa stesse accadendo dentro le celle.
UNA PISTA investigativa lo aveva condotto, infatti, a esplorare il mondo sommerso delle
carceri, e per questo aveva interrogato come testimone nel 2003 l’allora capo del Sisde
Mario Mori: un interrogatorio condotto con fermezza e garbo dal pm della Direzione
Nazionale Antimafia applicato a Firenze nel quale si rintracciano (nelle domande di
Chelazzi) tutti i temi investigativi che sarebbero saltati fuori sette anni dopo e che
costituiscono oggi uno degli assi portanti dell’accusa in questo processo. Quelle carte
(verbali di interrogatorio e relazioni del Dap) adesso sono state recuperate dai pm di
Palermo che le stanno esaminando in funzioni di ulteriori sviluppi investigativi e
probabilmente le depositeranno a breve nel processo. Perché sono così importanti?
Perché è proprio Scalfaro, agli inizi di giugno, a decidere di cambiare il capo del Dap,
Nicolò Amato, per sostituirlo con Adalberto Capriotti, all’epoca procuratore di Trento, che il
26 giugno del ’93 in una nota al guardasigilli Giovanni Conso propose di non prorogare i
41 bis in scadenza per “non inasprire ulteriormente il clima all’interno degli istituti” e dare
“un segnale positivo di distensione.” È il primo cedimento a Cosa Nostra messo nero su
bianco dal successore di Amato, nominato, come aveva scoperto Gabriele Chelazzi, da
Scalfaro su indicazione di due prelati: monsignor Cesare Curioni e del suo assistente,
monsignor Fabio Fabbri.
È QUEST’ULTIMO a raccontare ai giudici del processo Mori come entrambi vennero
convocati da Scalfaro che voleva da loro un nome per sostituire Amato e come quel nome
cercasse freneticamente in un librone posto in un angolo del suo studio. Alla fine il nome
fu quello di Capriotti, il quale, però, quando fu interrogato dai magistrati, disse di avere
firmato la nota del 26 giugno senza averla letta. E quando il pm gli fece notare che sulla
nota c’era un appunto firmato dal capo di gabinetto di Conso, Livia Pomodoro, si ricordò:
“Ci sono, Di Maggio (Francesco, ex vice capo del Dap), non lo conoscevo, è stata una
nomina politica”. Magistrato senza i titoli necessari per ricoprire il ruolo di vice di Capriotti,
Di Maggio fu nominato consigliere di Stato per accedere a quel ruolo. E tre mesi dopo, a
novembre, Conso revocò “in assoluta solitudine” oltre 350 provvedimenti di 41-bis.
Napolitano ne fu informato? Non lo sapremo mai, il presidente della Corte ha impedito,
perché “fuori dal capitolato di prova”, che il pm Nino Di Matteo porgesse quest’ultima
domanda all’illustre testimone.
glb
33
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 30/10/14, pag. 19
Tav, quasi triplicati i costi si spacca il fronte
del sì “Allora fermiamo i lavori”
La previsione di spesa dell’opera passa da 2,9 a 7 miliardi di euro
Esposito (Pd): “Lupi spieghi, nelle cifre opache si annida la corruzione”
MARIACHIARA GIACOSA DIEGO LONGHIN
TORINO .
Costi impazziti per il tunnel della Torino- Lione. In una manciata di anni la spesa prevista
per l’Italia è passata da 2,9 miliardi a 7,7 miliardi. A spanne è il 165 per cento in più. Fino a
ieri nei documenti del governo la cifra è sempre stata sotto i 3 miliardi, come è indicato nel
progetto definitivo della Tav all’esame del Cipe. A scoprire l’impennata dei costi è stato il
vicepresidente della Commissione Trasporti di Palazzo Madama, Stefano Esposito (Pd),
che ha chiesto un’audizione urgente dei vertici di Ferrovie e del ministro alle Infrastrutture,
Maurizio Lupi. «Se le cifre sono queste io chiedo al governo di sospendere i lavori,
rinunciare all’opera e pagare le penali alla Francia», dice Esposito, da sempre in prima
linea a favore della Torino-Lione, posizione che gli è costata minacce di morte. L’11
novembre i dirigenti di Rfi verranno ascoltati dalla commissione e dovranno spiegare
perché nel contratto di programma firmato ad agosto con il ministero e inserito nel decreto
«Sblocca-Italia » il costo della Tav è cresciuto in questo modo. Alla base dell’aumento ci
sarebbe un “tasso di inflazione”, composto anche da oneri finanziari e imprevisti, del 3,5
per cento che l’Italia ha deciso di applicare all’opera. In Francia è dello 0,07, cinquanta
volte meno. Non solo. Nella stima non sarebbe conteggiato il contributo dell’Unione
Europea che è già fissato al 30 per cento e che potrebbe salire al 40. Una decisione che
Italia e Francia danno per scontate e che più volte è stata ventilata da Bruxelles, ma che
sarà presa a fine febbraio. «Siamo all’assurdo — aggiunge Esposito — il 3,5 per cento è
un tasso da usura. La Bei presta i soldi agli Stati allo 0,5 per cento. Vorrei capire cosa si
nasconde dietro queste cifre. Le Ferrovie lavorano a favore o contro l’alta velocità?».
L’Italia ha scelto di conteggiare il prezzo della costruzione della galleria di 52 chilometri a
opera terminata con un tasso fissato nel 2010 quando «il contesto macroeconomico
prevedeva una forte crescita dei prezzi di petrolio, elettricità e macchinari, che invece non
si è verificata e quindi i costi non aumenteranno», sostiene Ltf, la società italo-francese
responsabile della realizzazione del tunnel. Insomma, non si è tenuto conto della crisi e
dei prezzi di mercato in calo. In Francia, ad esempio, la gara per l’ultima discenderia,
quella di Saint Martin la Porte, è stata assegnata con un ribasso del 30 per cento. «Quelle
italiane sono cifre opache. È in range così ampli che può annidarsi la corruzione»,
aggiunge ancora Esposito. Il ministro Lupi, impegnato negli Emirati Arabi, per ora tace,
così come Rfi. Il commissario di governo, Mario Virano, cerca di buttare acqua sul fuoco:
«Non so darmi una spiegazione razionale, si tratta di una sommatoria di negatività che mi
auguro siano frutto del caso. Mi sembra una roba tutta fatta da contabili che non tiene
conto del contesto economico generale e nemmeno della delicatezza della questione
specifica ».
Il balletto di cifre e il polverone che si è scatenato hanno dato il là agli oppositori
dell’opera. Il dissidente Pippo Civati (Pd) e il coordinatore di Sel Nicola Frantoianni
rilanciano l’idea di una commissione parlamentare d’inchiesta: «Un’idea che
evidentemente non è poi così peregrina — dicono — si abbia il coraggio di sospendere i
34
lavori fino a quando tutti gli aspetti oscuri della Tav non saranno chiariti». Per il senatore
Marco Scibona del Movimento 5 Stelle «quanto accade è la conferma di ciò che i No Tav
dicono da anni, la Francia ha sempre confermato la cifra e le tempistiche iniziali, in Italia
invece triplicano i costi senza nessun motivo logico». E il movimento No Tav si compiace
della scoperta di Esposito: «Prepara i braccioli in vista della nave che affonda», si legge
sul sito No Tav.info.
Il nuovo quadro economico, poi, ha fatto saltare sulla sedia anche l’ex ministro alle
Infrastrutture Altero Matteoli (Fi), oggi presidente della commissione Trasporti del Sanato.
«È incredibile», dice. E aggiunge: «La costruzione della Torino-Lione non si può affrontare
con superficialità ».
del 30/10/14, pag. 10
GENOVA È GIÀ DIMENTICATA
SPICCIOLI E CHISSÀ QUANDO
FORSE OGGI LO STATO DI CALAMITÀ NATURALE. MA VALE
SOLTANTO 12,5 MILIONI
di Giampiero Calapà
Venti giorni dopo l’alluvione, per Genova c’è ancora soltanto un annuncio, una promessa.
E neppure delle migliori: “In uno dei prossimi Consigli dei ministri sarà deliberato lo stato di
calamità naturale”, dice il capo della Protezione civile Franco Gabrielli.
Forse già oggi. Ma la sorpresa più brutta è relativa alla cifra che verrà stanziata: raschia
raschia il governo recupererà appena 12,5 milioni di euro. Nulla rispetto ai 70 indicati dalla
Regione Liguria come necessari per mettere soltanto le prime pezze alla voragine del
disastro. Lontanissimi dai 250/300 milioni di danni totali stimati. Tanto che lo stesso
Gabrielli ammette: “Si tratta di fondi limitati, che non serviranno per ristorare chi ha subito
danni nell’alluvione”, ma appena per le spese sostenute per coprire la prima assistenza
alla popolazione, il soccorso e le somme urgenze.
PATRIZIA DE LUISE, presidente di Confesercenti Liguria, è esasperata: “Ci hanno
spiegato che per lo stato di calamità naturale servivano tempi tecnici. E va bene. Ma qui le
aziende non potranno pagare i tributi, ad esempio i contributi all’Inps, sui quali c’è anche
una mora molto alta. Tecnicamente vedano loro come fare, ma il territorio va messo in
sicurezza e i danni alle imprese vanno risarciti. Ma lo sa che per l’alluvione del 2011 i soldi
si vedranno soltanto nel 2015? Quelle stesse imprese hanno contratto dei mutui per
ripartire tre anni fa... e adesso?”. I danni riguardano almeno duemila imprese, che significa
sette mila posti di lavoro. Nella sola Genova, perché l’entroterra ligure, devastato e con i
collegamenti saltati tra frane e strade dissestate, fa storia a sè e pare non interessare a
nessuno. “Una stima approssimativa dei soldi che servirebbero subito alle imprese –
spiega la De Luise – se - condo i nostri calcoli ammonta a 200 mila euro”. Il governatore
della Liguria Claudio Burlando, anche lui ieri come Gabrielli impegnato in un’audizione al
Senato, chiede: “L’ho detto anche a Renzi e a Delrio: noi avremo bisogno che, un po’
come si è fatto per gli eventi più gravi, L’Aquila ed Emilia, anche su Genova che ha subito
tre alluvioni in quattro anni ci fosse una attenzione particolare, perché non credo che
questa realtà si possa riprendere se non c’è una attenzione particolare. Bisogna subito
trovare i 75 milioni che mancano per mettere in sicurezza il Bisagno”. Ovvero il fiume che,
35
esondando, ha sommerso Borgo Incrociati, portandosi via la vita dell’infer - miere Antonio
Campanella, 57 anni. L’unico che prova a dare delle risposte da Palazzo Chigi è Erasmo
D’Angelis , capo dell’unità di missione Italia Sicura: “Entro un mese firmeremo un accordo
di programma con la Regione Liguria quantificando un elenco di opere con accanto le
risorse per mettere in sicurezza idraulica il Bisagno, il Fereggiano e il Chiaravagna. I
finanziamenti per il Bisagno sono garantiti dallo Sblocca Italia e dall’accordo di programma
che firmeremo entro un mese con la Regione. Faremo tutto il possibile dal punto di vista
finanziario. La parte consistente degli aiuti post alluvione –ha concluso D’Angelis –è alla
valutazione del Consiglio dei ministri”, che si riunirà oggi, sperando trovi il tempo almeno
per l’annunciato stato di calamità naturale da 12,5 milioni di euro. Briciole nel mare, non
proprio la parte consistente. E il sindaco Marco Doria implora: “Genova deve essere
priorità nazionale”.
del 30/10/14, pag. 19
“Via la gente dalle aree a rischio
idrogeologico”
D’Angelis, capo della task force del governo: costa meno che pagare i
danni I geologi riuniti a Genova: cambiare mentalità, basta rincorrere
l’emergenza
Alessandra Pieracci
La parola è delocalizzare, il significato va oltre il concetto di spostamento, vuol dire in
generale una svolta culturale rivoluzionaria e nel particolare far cambiare vita, abitudini,
riferimenti a centinaia, se non migliaia, di persone. «Non è possibile ad esempio che a
Volterra esista una via della Frana dove 3-4 volte l’anno si deve intervenire per danni, e la
gente continui a vivere lì». «Bisogna affrontare il problema: oggi può apparire come una
spesa superiore, ma se pensiamo a tutte le emergenze e ai danni evitati, allora ci
rendiamo conto del risparmio». Lo ha detto Erasmo D’Angelis, il capo dell’unità di
missione di Palazzo Chigi «Italia sicura», partecipando ieri agli stati generali dei geologi
italiani sui rischi idrogeologici, in un luogo simbolo dell’alluvione genovese, il Teatro della
Gioventù con il piano di uffici e magazzini ancora inagibile ma la sala riaperta all’evento.
«E’ previsto un fondo per la delocalizzazione, ci saranno incentivi» ha detto ancora
D’Angelis, riferendosi al piano d’intervento nazionale di prevenzione che sarà presentato
l’11 novembre a Roma. Un tema difficile, considerando che a Genova ci sono voluti anni
per sgomberare il condominio di via Giotto, di fatto una barriera costruita alla foce del
torrente Chiaravagna. «Dobbiamo smettere di essere un Paese che rincorre l’emergenza
e fa il conto delle vittime». D’accordo i geologi, riuniti ieri con delegazioni da tutta Italia,
presenti anche Enti Parco e Università.
«Occorre cambiare mentalità» sottolinea Gian Vito Graziano, Presidente del Consiglio
Nazionale. «La delocalizzazione porterà lavoro» evidenzia Carlo Malgarotto, presidente
ligure. E aggiunge: «Basta con l’eterna rincorsa dietro l’emergenza come il criceto nella
ruota». Perché siamo il Paese che per primo nel 1500 ricostruì una città distrutta dal
terremoto, Ferrara, con criteri antisismici, ma poi abbiamo perso la memoria. «In una
graduatoria tra il Giappone e l’Afghanistan siamo più vicini all’Afghanistan» dicono gli
esperti. «Siamo il Paese - aggiunge D’Angelis - che ha varato un evento mondiale da un
miliardo e 700 milioni come l’Expo dimenticandosi del Seveso che potrebbe allagare
l’area».
36
Allora, se dopo il Vajont non è stato fatto nulla, se i 2 miliardi e 300 milioni assegnati nel
‘98 a Comuni, Province e Regioni sono rimasti quasi tutti lì, bloccati per un terzo dal patto
di stabilità e per la maggior parte perso nel groviglio di iter burocratici, il disastro di Genova
deve diventare una ripartenza. Anche considerando che su 15 aree metropolitane italiane,
in fatto di rischi, «non se ne salva una» dice D’Angelis. Gli interventi urgenti previsti sono
4000 in tutta Italia, da finanziare con i fondi del settennato europeo, un miliardo l’anno
(l’Anci calcola 150-200 mila lavoratori coinvolti).
Come si riparte? «Da una legge di difesa del suolo che non esiste, relegata al codice
ambientale - dice Graziano -. Non esiste nemmeno un tavolo di lavoro. Poi prevedere
progettazioni compatibili, ovvero che per ogni intervento venga quantificata e calcolata
l’interazione con il territorio, le risposte in caso di eventi meteorologici. Come la facoltà di
Ingegneria a Reggio Calabria che rimane isolata in caso di pioggia perché si allaga la
strada di accesso. O la strada costruita a Nuoro che ha cambiato il deflusso dell’acqua. Ci
vuole un cambio di mentalità, occorre che i cittadini diano una forte spinta alla classe
politica. Se scendono in piazza contro inceneritori e discariche, devono capire che anche il
dissesto minaccia la salute».
del 30/10/14, pag. 19
Quirra, parte il processo
Ma potrebbe fermarsi subito
Nicola Pinna
Otto generali a processo, di fronte allo stesso tribunale e con la stessa accusa, fanno
parte di una pagina inedita della storia giudiziaria italiana. Per essere difesi dall’accusa di
omissione aggravata di cautele contro infortuni e disastri, tutti insieme, si sono rivolti
direttamente all’avvocato dello Stato.
Di fronte al giudice monocratico di Lanusei, ieri mattina, si sono presentati tutti: Fabio
Molteni, Alessio Cecchetti, Roberto Quattrociocchi, Valter Mauloni, Carlo Landi e Paolo
Ricci che dal 2004 al 2010 hanno comandato il poligono militare del Salto di Quirra. Con
loro, sul banco degli imputati, c’erano anche Gianfranco Fois e Francesco Fulvio
Ragazzon che nello stesso periodo hanno diretto le operazioni nel distaccamento
dell’Aeronautica militare di Capo San Lorenzo.
La storia è quella del disastro ambientale nella base militare più grande d’Europa. A Quirra
e dintorni, secondo le indagini della procura di Lanusei, il terreno, l’aria, gli animali e la
vegetazione sono stati contaminati dalle sostanze utilizzate nel corso di decenni di
esercitazioni e sperimentazioni.
Le conseguenze dell’inquinamento, secondo la tesi dell’accusa, l’avrebbero subita anche
gli abitanti dei paesi vicini e l’incidenza di tumori e linfomi potrebbe essere la diretta
conseguenza. Proprio per questo, prima di arrivare al processo, l’ex procuratore Domenico
Fiordalisi aveva ordinato perizie in ampie zone del territorio e fatto riesumare i corpi di
persone stroncate da malattie sospette. Gli indagati inizialmente erano venti, ma undici
sono stati prosciolti dal Gup. E per gli otto generali chiamati a giudizio è caduta l’accusa
iniziale di omicidio colposo plurimo.
Ieri l’udienza si è aperta e conclusa nel giro di poco tempo. Al giudice Nicola Caschili sono
state presentate 33 richieste di costituzione di parte civile, tra cui quella della Regione
Sardegna che nello stesso momento ha anche avanzato un’eccezione costituzionale. E
37
questo, secondo l’avvocato delle altri parti civili, rischia di paralizzare il processo: in attesa
della pronuncia della Suprema Corte i reati potrebbero cadere in prescrizione.
La strada davanti al tribunale di Lanusei, ieri mattina, era blindata. Un cordone di poliziotti
in assetto antisommossa era schierato dall’alba per evitare l’assalto alle aule giudiziarie da
parte dei comitati «no-basi». Ma i manifestanti, nonostante il forte baccano, erano molti
meno del previsto.
Il processo ripartirà il 13 novembre e il giudice dovrà decidere se ammettere tutti i
testimoni indicati dall’avvocato di parte civile Gianfranco Sollai. Nella lista ci sono tanti
ufficiali, ministri e sottosegretari ma ci sono anche il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano e il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi.
38
INFORMAZIONE
del 30/10/14, pag. 1/15
Brutto colpo al diritto di cronaca
Vincenzo Vita
Ddl diffamazione. La rettifica è cosa seria, ma potrebbe diventare un
boomerang
Stop and go. Il testo sulla diffamazione, approvato alla Camera nell’ottobre dell’anno
scorso e rimasto nella Commissione giustizia del Senato a lungo, è stato prontamente
varato ieri dall’assemblea. Con qualche modifica, tanto che richiederà una terza lettura.
Evviva il bicameralismo, bistrattato in questa stagione amara. Almeno rimane la speranza
di qualche cambiamento. E già, perché l’articolato attuale non va. È vero che è stato
accettato l’emendamento Casson sulle querele temerarie, ancorché assai edulcorato
rispetto alla stesura originaria.
Ma almeno è qualcosa, un piccolo deterrente rispetto alla terribile moda di utilizzare lo
strumento della querela come forma di intimidazione. Andrebbe più puntualmente definito
il modo di vincolare i querelanti di professione, che dovrebbero versare una cauzione
significativa.
Naturalmente non si sta parlando del cittadino offeso e senza potere, bensì di coloro che
sono usi adoperare il bullismo mediatico. Tanto i noti tempi lunghi della giustizia italiana
qualche danno lo provocano, anche se il cronista risulta innocente: spese legali, viaggi,
trasferte, numerose rotture di scatole. E a questo si aggancia il nodo dell’entità delle multe
— comminate in luogo del carcere — che possono arrivare a 50.000 euro. Forse gran
parte del ceto politico non conosce la realtà acre e dura del precariato, dei free lance, dei
nuovi schiavi del lavoro intellettuale. Il testo ha il merito indubbio di abolire la barbarica
detenzione, in verità non applicata così spesso. Tuttavia, il prezzo dell’abolizione del
carcere non deve diventare una censura di fatto. La verità dell’informazione italiana non è
quella agiata degli anni andati, con tutele e malleve. Oggi, nell’era della crisi, chi scrive
spesso è solo con la sua coscienza. La diffamazione, è bene chiarire, nella routine
quotidiana non indossa le vesti brutte e insopportabili di uno sgradevole reato. Il racconto
indigesto per lobby e potentati si colloca di sovente sulla linea di confine, dove un avverbio
o un aggettivo sono sussunti dalla notizia scomoda. Ecco, la spada di damocle della multa
e della richiesta parallela di risarcimento dei danni rischia di diventare una botta alla
libertà. Un altro carcere. Eppoi. La bizantina vicenda della rettifica, che diventa una sorta
di zona franca, senza replica. Facile oggetto del desiderio per inedite tipologie di scrittori.
La rettifica è cosa seria, ma potrebbe diventare un boomerang, costringendo — tra l’altro
— a impiegare forze numerose per temer dietro ad un probabile genere letterario. E qui si
aggancia l’altro punto dolente: siti e rete. È possibile che la Camera dei deputati abbia
istituito un bel gruppo di lavoro, presieduto da Stefano Ridotà, sul tema di Internet (che ha
prodotto una seria Carta dei diritti e dei doveri, ora in consultazione on line) e che il Senato
chiuda il caso: parificando vecchi e nuovi media? Insomma, la rete ci interpella su tre
culture giuridiche, pena l’irrilevanza delle grida manzoniane. Che c’entra il diritto all’oblio
con la diffamazione?
Come mai il gruppo di 5 Stelle ha voluto l’omologazione tra off e on line? Chissà, la nebbia
si infittisce e il retrogusto è amaro. Serve una riflessione attenta, prima di impasticciare
una normativa vecchia e inadeguata, che rischia di peggiorare.
39
del 30/10/14, pag. 1/30
Sono loro l’avanguardia, i più seguiti sul web, i più innovativi, in grado
di influenzare i gusti, di creare mode, di attirare milioni di giovanissimi
inarrivabili per tv e vecchi media. Sono gli You Tubers. Ecco i talenti
che dominano la Rete
I social guru padroni del web
ROBERTO SAVIANO
IL CRITICO più ascoltato d’Italia fa solo video sul web, i nuovi comici più seguiti fanno
game play da milioni di visualizzazioni, le prove artistiche di web series migliori sono su
Youtube. L’Italia più seguita e più innovativa genera sul web. Esistono ragazze e ragazzi
giovani, anzi giovanissimi, in grado di influenzare i gusti, creare seguito, fare
intrattenimento, informazione, persino critica cinematografica in maniera del tutto diversa
attirando centinaia di migliaia di spettatori.
Gli YouTubers sono creatori e fruitori di contenuti che influenzano assai più di editorialisti e
trasmissioni televisive che noi crediamo consolidate e inarrivabili. Parlano a un pubblico
giovane (ma non solo) e diventano spesso vasi comunicanti con ciò che accade all’estero.
Eppure in Italia siamo ancora legati alla diffusione tradizionale di qualsiasi tipo di
informazione e di inserzione pubblicitaria. Ci stupiamo poi della scarsa viralità di messaggi
che ci appaiono invece fondamentali, ma non ci rendiamo conto che stiamo sbagliando il
mezzo attraverso cui comunicare, che stiamo facendo arrivare il nostro messaggio a un
numero esiguo di persone, perché tutto il resto, gli utenti più attivi, guardano e agiscono
altrove. Guardare e agire sono in questo contesto due aspetti inscindibili. Non è possibile
fruire senza essere a propria volta creatore di contenuti, non è contemplata l’osservazione
passiva, senza interazione. Questa è la vera rivoluzione, questo rende inaccettabile, per
chi è abituato ad avere spazio, a contare qualcosa, l’utilizzo di media tradizionali per
informarsi o intrattenersi.
Paola Marinone, 35 anni, fondatrice di BuzzMyVideos, tra i principali network internazionali
che riunisce molti creatori di video su YouTube, dice: «I giovani tra i 13 e i 20 anni non
leggono i giornali e guardano la tv quasi esclusivamente per commentarla sui social
network. Questi giovani sono sul web e la maggior parte di loro si informa usando
YouTube, che offre un’informazione veloce, a più voci, immediatamente condivisibile e
commentabile. Non solo utenti, i giovani sono soprattutto produttori di contenuto, veri e
propri editori online».
Le nuove generazioni non guardano la tv e non leggono quotidiani, non perché si
disinteressino a ciò che accade, ma perché hanno dei canali per reperire informazioni più
immediati e sui quali posso avere un ruolo attivo e non solo passivo. Sono questi gli utenti
più stimolanti per chi produce contenuti. E la cosa incredibile è che nonostante le
visualizzazioni che gli YouTubers fanno, non ci sono gruppi editoriali che si contendono
questi talenti che hanno cambiato la comunicazione in Italia.
Solo in Italia YouTube ha circa 20 milioni di utenti unici al mese, un miliardo nel mondo.
Oltre 100 ore di video caricate ogni minuto nel mondo, le iscrizioni giornaliere ai canali
sono quadruplicate anno su anno e il 40% delle visualizzazioni arriva ormai da dispositivi
mobili (fonte Audiweb). È evidente come il web non sia il futuro, ma già il presente, e
alcune storie lo dimostrano. Yotobi, al secolo Karim Musa, classe 1988, sul suo canale
YouTube si presenta così: “Se credete che io sia un vero critico cinematografico, vuol dire
che il vostro senso dell’umorismo non funziona”. Yotobi oggi ha un successo che nessun
40
critico in Italia ha mai raggiunto, cioè centinaia di migliaia di persone che vanno a cercare
le sue recensioni prima ancora di leggere quelle sui canali tradizionali. Yotobi registra
video di recensioni su film, fa l’analisi dei cartoni animati del passato, suggerisce altri
YouTubers da seguire. Se si guarda uno solo dei suoi video e ci si sofferma sul numero di
visualizzazioni, si capisce immediatamente cosa fanno i ragazzi sul web e si comprende la
diaspora dalla televisione, mezzo ormai troppo vecchio per una generazione che chiede
altro. L’unica speranza vera che i media tradizionali hanno è accogliere questo nuovo
linguaggio, sforzarsi di trovare una mediazione reale per interessare quella massa di utenti
che ora sfuggono e che non avranno nessun motivo per tornare.
Breaking Italy è un trentenne che fa informazione su tutto, dal lunedì al giovedì, non
considerando l’interlocutore già preparato sui dettagli. Non dando nulla per scontato,
perché non tutti riescono a seguire il filo di ogni discorso e chi riesce a dare
un’informazione completa in genere è premiato dai numeri, qualunque sia la sua opinione.
Un’informazione che è democratica non solo perché espressione di tutti i punti di vista, ma
anche perché mette tutti in condizione di essere informati. Se il tuo interlocutore non lo fai
sentire ignorante o idiota, se non sa dove si trova la Siria o cosa sia lo spread, se spieghi
tutto in maniera veloce e chiara, non stai abbassando l’informazione al piano infimo, stai
conquistando nuovi spettatori.
Questo vale per le news ma anche per il make up, per la cucina, per il game play, per
l’entertainment, per lo sport. Si può avere imbarazzo a chiedere come truccarsi a un’amica
o alla propria madre, ed ecco che i canali su You-Tube di make up diventano dei veri e
propri catalizzatori di spettatori: Clio Make UP, Mikeligna (art nail), La Cindina, Pepper
Chocolate. CutepieMarzia, Marta Bisognin, italiana, è una fashion blogger, vive a Brighton
e pubblica i suoi video in inglese: ha una community di fan di circa 4 milioni di iscritti. Il
mondo dei game play è un universo immenso che raccoglie appassionati di ogni età,
estrazione sociale, etnia. Il canale con il maggior numero di iscritti in assoluto al mondo
(quasi 29 milioni) è www. youtube. com/PewDiePie e appartiene a un ragazzo svedese
(fidanzato di CutiePieMarzia) che si occupa di gaming.
Il game play è interessante perché il mondo dei videogiochi non è un mondo marginale da
nerd, ma occasione quotidiana per scaricare stanchezza e tensione, luogo virtuale in cui il
senso di partecipazione è agevolato dall’alta definizione e dalle sceneggiature
iperrealistiche. I videogiochi contribuiscono a modellare la coscienza politica. Glenn
Greenwald, a proposito di Edward Snowden, scrive: “Spesso i videogiochi presentano
complessi dilemmi etici da affrontare e stimolano il ragionamento autonomo, specie nei
ragazzi che sono quella fascia d’età in cui si cominciano a mettere in dubbio gli
insegnamenti ricevuti”. Snowden stesso dichiara di aver preso il coraggio per denunciare
la più grande violazione di diritto della storia contemporanea apprendendo proprio dai
videogiochi: “Il protagonista è spesso uno come tanti che si trova faccia a faccia con un
grave torto compiuto da una forza possente e può scegliere di fuggire impaurito o di
combattere per ciò in cui crede. Anche la storia poi mostra che persone dall’apparenza
comuni ma decise a perseguire la giustizia possono trionfare sugli avversari più
formidabili”.
Riuscire a tracciare un panorama esemplificativo del mondo degli YouTubers italiani è
impresa impossibile, proverò a raccontarvi chi sono i creatori di contenuti video che
considero più significativi per genialità e visualizzazioni.
The Jackal è un collettivo di creativi napoletani autori di cortometraggi surreali e di web
series di grandissimo successo (Lost in Google, Gay Ingenui, Vrenzole) che hanno
totalizzato milioni di visualizzazioni. Sono tra le esperienze creative europee più originali e
hanno un seguito che sarebbe difficile immaginare nella tv di oggi. Ho partecipato agli
Effetti di Gomorra La Serie sulla gente #3 e insieme a loro ho riscoperti cosa significhi
41
condividere il divertimento di un’idea. Canesecco — per via di un “pizzettaro” che un
giorno indicandolo ha chiesto: «E a ‘sto cane secco cosa gli diamo?» — inizia a usare la
telecamera a 8 anni e su You-Tube è una celebrità. Il suo primo successo è “Complicità”
parodia di “Sincerità” di Arisa. Frank Matano è un vero e proprio mito. I suo scherzi
telefonici, i suo peti sulla gente, i suoi video da game player hanno raggiunto oltre 60
milioni di visualizzazioni. Ha fatto film e lavora in tv, ma il web è la sua dimensione
ottimale. Willwoosh in Italia è stato tra i primi a creare parodie di film. Protagonista di “10
regole per farla innamorare”, ha scritto un libro e conduce su Radio DeeJay “A tu per Gu”.
Daniele Doesn’t Matter ha iniziato con video comico-satirici ed è tra i 5 YouTuber più
famosi in Italia. Ha superato i 459.000 iscritti, ha più di 35 milioni di contatti e una media di
250mila visualizzazioni per video.
Cliomakeup è un fenomeno incredibile. Originaria di Belluno, Clio si trasferisce a New
York dove frequenta un corso professionale per make-up artist. Timidamente inizia a
caricare su YouTube dei video in cui spiega le lezioni cui ha assistito. Il successo è
immediato e cresce di giorno in giorno. Pupa realizza una sua linea cosmetica, pubblica
due libri con Rizzoli e mobilita centinaia di persone ogni volta che prende parte a eventi
pubblici. Dany Brogna, originario di Lecce ma vive a Milano, fa parodie di canzoni rivisitate
in chiave ironica e ha oltre 20 milioni di visualizzazioni. Giallo Zafferano non ha bisogno di
presentazioni, eppure la sua storia vale la pena raccontarla. Francesco è un
commercialista che decide di aprire un proprio sito per fornire informazioni di natura
finanziaria. Il progetto ha un discreto successo e gli fa capire le opportunità del web.
Conosce Sonia Peronaci, appassionata di cucina, e insieme decidono di aprire il primo
blog di cucina italiano. Giallo Zafferano oggi è uno dei canali culinari di maggior successo
su YouTube. Ha uno studio di registrazione a Milano e numerose persone che collaborano
alla realizzazione dei video. I ricavi derivanti da YouTube li aiutano a portare avanti quella
che è a tutti gli effetti un’attività di business.
Claudio di Biagio (Nonaprirequestotubo) inizia invece con le parodie di film poi con
Canesecco e Willwoosh realizza “Freaks!”, la prima web series italiana completamente
indipendente che arriva al grande pubblico con più di 8 milioni di visualizzazioni e
spettatori.
Ma non c’è spazio solo per l’intrattenimento. Maha Yakoub (learnarabicwithmaha) vive a
Livorno e su YouTube insegna arabo, ebraico e inglese. Il video “Merry Christmas in
Arabic” postato nel 2009 ha fatto oltre 800.000 visualizzazioni in pochissimi giorni. Favij
(game player) è lo YouTuber italiano più seguito, nickname di Lorenzo Ostuni, 19 anni da
Borgaro Torinese, è appena stato premiato per i suoi video demenziali. Homyatol è un
pranker, ovvero creatore di candid camera. Il suo canale ha 257mila iscritti e oltre
16milioni di visualizzazioni. E poi c’è Edoardo Ferrario geniale creatore della web series
“Esami”, divertentissima critica alle università italiane, non risparmia nessuno, studenti e
professori, tutti possono riconoscersi.
Ma che impatto hanno il mondo del web e i suoi numeri giganteschi sui media tradizionali?
Sulla tv sembra nessuno. Un discorso diverso va fatto per il mondo dell’informazione a
caccia costante di click per attrarre investitori. Quindi, all’emorragia di lettori/fruitori non si
risponde con la creazione di piattaforme che possano attrarre per i loro contenuti nuovi
lettori, ma ci si affanna a cercare il click abbassando il livello dell’informazione, puntando
sulla velocità piuttosto che sull’approfondimento. Il risultato è che si perde credibilità, il
vero capitale costruito negli anni, senza acquistare lettori. Ma la differenza fondamentale
tra televisione, siti di informazione legati a media tradizionali e web è che in Italia
acquistare spazi pubblicitari spesso è un modo per condizionare e per non farsi attaccare:
o paghi il banner o ti ritrovi attaccato con qualche idiozia appena plausibile. A questo si
aggiunge la prerogativa della maggior parte del giornalismo web che, per essere veloce,
42
smette l’approfondimento, va verso l’errore con disinvoltura perché la verifica diventa un
intralcio. Ovvio che non tutta l’informazione presente sul web risponde a queste logiche.
Ma in questo panorama gli You-Tubers costituiscono l’avanguardia, saranno i vincenti di
domani perché il loro mondo non si fonda sulla diffamazione, ma sui contenuti. E i
contenuti pagano.
43
CULTURA E SCUOLA
del 30/10/14, pag. XVI (Roma)
Eliseo, il giorno della verità 114 anni di big
della scena e oggi il dramma dello sfratto
Da De Filippo alla Compagnia dei Giovani, la lunga storia della “mecca
della prosa” Ma adesso nell’incertezza anche Romaeuropa Festival
sposta i suoi appuntamenti
RODOLFO DI GIAMMARCO
LA CRONACA più immediata ci dice che il perdurare delle incertezze nella controversa
vicenda finanziaria (e, per causa/effetto, direzionale) del teatro Eliseo, causa la perdita di
limitati pezzi della programmazione. Il Romaeuropa Festival ha deciso di spostare alcuni
appuntamenti del suo Dna/Danza del 5 e del 7 alla Pelanda-Macro Testaccio, di attestare
il Gospo-din di Barberio Corsetti con Claudio Santamaria al Brancaccio dal 12 al 16, e di
proporre Operetta burlesca di Emma Dante al Quirinetta dal 18 al 30. Fin qui l’attualità di
queste ore. È per altro vero che nessuno e niente attenterà alla storia dei 114 anni del
teatro Eliseo, età ufficiale se si conteggia anche il decennio d’inizio dal 1900 al 1910
quando la struttura di via Nazioe nale era solo un’arena. Poi, ricordiamolo, questo spazio
fu rafforzato e riconcepito in cemento armato e si chiamò Apollo dal 1910, venne
ribattezzato Cines dal 1912, e finalmente diventò Eliseo dal 1918.
Ma se pure la sala vantò presenze come quelle di Petrolini, di Giovanni Grasso, di Anna
Fougez, ed ebbe a ospitare Totò, Anna Magnani e i fratelli De Rege, più tardi i De Filippo,
e dopo un restyling degli ultimi anni Trenta rese familiari Gino Cervi, Andreina Pagnani,
Rina Morelli, Paolo Stoppa e Aroldo Tieri (più tardi in ditta con Giuliana Lojodice), facendo
man mano leva sulle compagnie borghesi d’arte coi Ricci, coi De Sica e coi Tofano,
diremmo che sono principalmente due o tre i periodi d’oro, di culto, di questo teatro privato
assurto a Mecca della prosa. Un voltapagina essenziale lo impose Luchino Visconti a
partire dal 1945, con I parenti terribili di Cocteau, con una poetica nuova e coraggiosa
della messinscena, con un repertorio fondamentale, memorabile. Una seconda pietra
miliare va annessa all’avventura intellettuale, all’intraprendenza, all’affiatamento artistico
della Compagnia dei Giovani che sfodera, con Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Rossella
Falk, Anna Maria Guarnieri e Giuseppe Patroni Griffi, un acuto percorso di drammaturgie,
di progetti. Poi, certo, ci sono state le presenze carismatiche, quella registica di Franco
Zeffirelli, quelle attoriali di Albertazzi-Proclemer, e una sorta di ulteriore politica la si può
attribuire alle regie di Gabriele Lavia, alla direzione di Umberto Orsini (associato alla Falk).
Il testimone gestionale dell’Eliseo passa intanto nel 1997/98 a Vincenzo Monaci che, forte
anche del sostegno della Banca di Roma, crea la Nuova Teatro Eliseo Spa detenendo la
maggioranza delle azioni attraverso la società di riferimento Maremma Vera, riservando la
direzione artistica a Maurizio Scaparro. In seguito, nel 2002, Monaci senior affiderà il
timone del teatro a Luca Barbareschi, ma presto alcuni dissensi gestionali crearono una
frattura e un allontanamento (con cause e strascichi) dell’attore- regista che oggi è
riemerso come potenziale sostenitore e guida dell’Eliseo. Le ultime vicende, comprensive
di crisi, di sponsorizzazioni venute meno, e di affitti non pagati dalla gestione (condotta da
Massimo Monaci “figlio”) alla proprietà (tripartita fra Carlo Eleuteri e Francesco Corsi da
una parte, e Vincenzo Monaci “padre”), fanno sì che oggi sia un D-day con sfratto
esecutivo non rinviabile annunciato. E con annunci di resistenza, di occupazione. Mentre
le trattative fervono altrove. O dovrebbero.
44
del 30/10/14, pag. 10
Grandi riforme: i ricercatori precari a vita
LA LEGGE DI STABILITÀ CANCELLA CON UN COMMA L’OBBLIGO
DELLE UNIVERSITÀ DI FARE NUOVE ASSUNZIONI STABILI
di Carlo Di Foggia
Il colpo di grazia è servito: via una lettera da un comma e l’università non cambia verso, dà
la volata finale verso il precariato. Con un tratto di penna, infatti, la legge di stabilità
traduce nel mondo accademico quella “fine del posto fisso” certificata alla Leopolda dal
premier: estingue, di fatto, la figura del ricercatore precario ma con prospettive di
assunzione. Come? Semplicemente cancellando la parte delle prospettive. Breve
riassunto: con la scusa di premiare il merito, nel 2010 la contestata riforma voluta da
Mariastella Gelmini ha abolito il ruolo del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendolo
con quello a termine (Rtd). Ne esistono di due tipi, quello A (senza sbocchi) - che dura fino
a cinque anni non rinnovabili - e quello B (la vera e unica figura di ingresso prevista dalla
riforma), con contratto di tre anni dopo i quali si viene convertiti in professore associato.
Questa tipologia costa di più in termini di punti organico - cioè le risorse per le assunzioni
assegnate dal Miur a ogni ateneo - e visto che continua la carriera conserva la quota,
senza restituirla per essere poi riassegnata come capita invece con l’altra tipologia, quella
di tipo A. Per evitare che atenei e dipartimenti assumessero solo questi ultimi, nel 2012 il
ministro Alessandro Profumo stabilì che per ogni professore ordinario, l’ateneo dovesse
assumere anche un ricercatore di tipo B. Un obbligo che ora viene eliminato dalla legge di
stabilità (articolo 28) e con esso l’unica speranza di un’assunzione a tempo indeterminato.
TANTO PIÙ CHE questa tipologia è già stata decimata dal blocco del turnover: sono solo
200 a fronte dei 2000 Rtd attualmente in servizio. Tecnicismi a parte, la novità rischia di
avere un effetto gigantesco sul sistema di reclutamento, di fatto bloccandolo. Secondo la
rete dei ricercatori precari, così facendo cresceranno solo le promozioni, quelle che
aumentano la base elettorale dei rettori. Stando ai dati del rapporto Ricercarsi (Cgil), dei
65 mila ricercatori precari impegnati nell’ultimo decennio nelle università il 93 per cento
non è stato assunto. Peggio ancora va con gli assegnisti di ricerca, più precari dei precari
visto che la Gelmini gli ha imposto un limite di quattro anni: dei 15.300 in servizio, il 96 per
cento lascerà l'università. Il trend è disastroso, dal 2003 il numero di contratti a termine è
passato da poco meno di 18 mila a 31 mila. Per mascherare la misura, il ministro Stefania
Giannini ha annunciato che la ex Finanziaria permetterà agli Atenei di assumere nuovi
ricercatori sbloccando al 100 per cento il turnover (“700-800, circa duemila a regime”).
Peccato, però, che stando al testo, questo potrà avvenire solo dal 2018, quando lo sblocco
sarebbe arrivato lo stesso. Un bluff che fa il palio con quello dei tagli al fondo di
finanziamento delle Università. Secondo la rivista Roars , l’incremento delle risorse
sbandierato dal governo vale solo per il 2015, dopo di che la limatura da qui al 2023
ammonterà a quasi un miliardo e mezzo di euro. Per gli enti di ricerca è previsto invece un
taglio di 42 milioni. Ieri, i lavoratori dell’Inea, un istituto pubblico di ricerca in campo
alimentare hanno occupato la sede nazionale del Pd. La legge di stabilità accorpa infatti
l’Ente (commissariato e sotto inchiesta per la gestione dissennata dei vertici, vicini al’'ex
ministro Gianni Alemanno) lasciando a casa 210 ricercatori. Dulcis in fundo, lo Sblocca
Italia.
45
COME DENUNCIATO dalla rete Link, il testo che verrà licenziato oggi dalla Camera mette
a rischio 150 milioni di euro di fondi regionali per il diritto allo studio. Le Regioni avevano
promesso di inserirli nelle maglie del patto di stabilità, in cambio della promessa del
Governo di cancellare tagli per 560 milioni. E invece, nel decreto è finita solo la prima
parte: a rischio ci sono 46 mila borse. Solo due mesi fa, a settembre, Matteo Renzi aveva
spiegato al Sole 24 Ore: “Investirò nei settori strategici, come l'istruzione e la ricerca”.
del 30/10/14, pag. 32
NUTRIRE La scuola
Nel «cantiere» dell’istruzione un’occasione da non perdere per
incontrare altre culture
N el cantiere del sito espositivo, incorniciato fra le corsie delle autostrade e i binari dell’alta
velocità, continua la corsa contro il tempo e ogni settimana si vedono i progressi di
padiglioni, strutture di servizio e vie interne. Ma c’è un altro cantiere di Expo già al lavoro
da tempo: quello delle scuole e di centinaia e centinaia di studenti di età diverse e di
diverse regioni, che durante le ore «curricolari» parlano di alimentazione, di cibo sprecato,
di ricette della nonna, di agricoltura sostenibile e così si preparano all’evento che dal primo
maggio 2015 porterà a Milano 20 milioni di turisti da tutti i continenti e che, sul tema
«Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita», metterà a confronto culture e colture diverse. Il
lavoro degli studenti culminerà, per molti, nella visita al sito che tante scuole hanno già
prenotato o stanno prenotando: una gita intorno al mondo.
È stato il ministro all’Istruzione, Stefania Giannini, ad annunciare che proprio per favorire
queste «uscite didattiche» la società Expo ha deciso di proporre per le classi (infanzia,
primaria e secondaria) un biglietto da 10 euro a persona rispetto ai 25-30 euro di media.
Sono attesi due milioni di studenti e, di questi, 700 mila arriveranno dall’estero, con un
coinvolgimento iniziale della Svizzera. Sarà, complessivamente, la più grande community
che Expo 2015 sarà in grado di ospitare: per questo motivo, la società ha avviato da due
anni il Progetto Scuola (www.progettoscuola.expo2015.org) che spiega i contenuti e le
finalità dell’evento, ne presenta le opportunità didattiche, mette a disposizione materiale
per i docenti, propone percorsi per la visita al sito.
I concorsi
Il Miur ha annunciato 2 milioni di euro di finanziamento per premiare i migliori progetti che
verranno presentati. Sono stati fatti due bandi, accessibili dal sito: «La scuola per Expo
2015», già chiuso, è riservato solo alle scuole italiane, mentre «Together in Expo 2015»
punta a favorire i gemellaggi con scuole straniere e consentire anche a loro di fare la
visita. Sono già arrivate 1.700 proposte da tutta Italia: c’è chi ha inventato l’orto nel
giardino della scuola, chi ha preparato filmati, chi ha imparato dalle nonne le ricette della
tradizione, chi ha pensato al laboratorio sul cibo nell’arte. Il Politecnico di Milano ha invece
lanciato un concorso di digital storytelling, un racconto sul tema, in italiano o inglese: alla
prima edizione hanno partecipato 45 classi italiane e 33 straniere. Dal 27 ottobre scorso è
aperto il bando per il 2014-2015. Anche il Padiglione Italia avrà al proprio interno uno
spazio dedicato ai giovani: nel Vivaio scuole, su una piattaforma dedicata, confluiranno i
progetti delle scuole vincitrici dei concorsi ufficiali di Expo e lo spazio verrà attrezzato per
ospitare attività didattiche di vario genere, con un’attenzione particolare alle tecnologie
digitali.
La visita
46
Per organizzare la visita, ottimizzando i tempi e scegliendo i padiglioni più adatti al
programma didattico svolto in classe, il sito della società propone alcuni itinerari, divisi in
base alle età e ai temi. Come sono strutturati il milione e oltre metri quadrati del sito?
Anzitutto, ci sono 53 padiglioni realizzati dai Paesi espositori, all’interno dei quali ciascuno
interpreterà il tema mostrando prodotti e piatti tipici. Ci sono poi i cluster, gli spazi dove più
Paesi sono raggruppati intorno allo stesso alimento (riso, cacao, caffè, cereali e tuberi,
frutta e legumi, spezie) o allo stesso clima (isole, zone aride e biomediterraneo); e ancora,
gli spazi tematici: il Padiglione Zero, che racconta la storia dell’uomo sulla terra attraverso
il suo rapporto con la natura e il cibo; il Children Park, ideale soprattutto per gli ospiti più
piccoli; Future Food District, dove sarà allestito il supermercato del futuro; il Parco della
Biodiversità, che sarà un grande giardino delle biodiversità del nostro pianeta. Il quinto
padiglione tematico è invece allestito in Triennale ed è quello del cibo nell’arte. Infine, per
la prima volta nella storia delle esposizioni, all’interno del sito avranno un proprio spazio le
associazioni di volontariato e della società civile: Cascina Triulza è stata ristrutturata per
questo scopo e propone a sua volta percorsi per le scuole. Per tutti i gusti.
47
ECONOMIA E LAVORO
del 30/10/14, pag. 6
Terni, agonia annunciata migliaia di lavoratori
a rischio ma è tutta la città a tremare
Acciaieria vittima delle multinazionali, un forno verso la chiusura
Sostegno agli operai in sciopero a oltranza da una settimana
ROBERTO MANIA
TERNI così
lontana dall’Adriatico e dal Tirreno fu scelta come luogo ideale per installare la produzione
strategica dell’acciaio. Nessuno avrebbe potuto attaccarla. Era la fine dell’800. Ora nel
ventunesimo secolo Terni è rimasta senza difese. Vittima della cinica logica delle
multinazionali, dello spostamento del baricentro produttivo dell’acciaio dall’Europa
all’oriente cinese, delle regole europee, della debolezza italiana, infine. «Siamo una città
semi paralizzata», dice il sindaco Leopoldo Di Girolamo (Pd) che nel giugno del 2013 si
beccò lui una manganellata in testa mentre partecipava a una manifestazione proprio per
difendere il futuro dell’Ast, Acciai speciali Terni. Allora era in mani finlandesi, quelle
dell’Outkumpu. Che aveva comprato le produzioni inox dai tedeschi della ThyssenKrupp.
La Outkumpu aveva un piano di sviluppo per Terni, puntava a farne il centro produttivo per
tutta l’area mediterranea, lasciando alla finlandese Tornio i mercati del nord, chiudendo
una fabbrica in Germania e mettendone sotto osservazione un’altra sempre in terra
tedesca. Poi l’Antitrust europeo disse che no: i finlandesi avevano conquistato una
posizione dominante nella produzione dell’acciaio inossidabile violando i tetti europei,
mentre nel mondo c’era già una sovracapacità produttiva. Dunque avrebbero dovuto
cedere gli impianti di Terni. Così sono tornati i tedeschi. Che hanno ribaltato il piano dei
finlandesi: rafforzamento degli stabilimenti germanici, ridimensionamento di quello italiano.
L’Italia è rimasta a guardare.
E Terni ora è rimasta senza fiato. Con la chiusura di fatto di uno dei due forni, la riduzione
dell’organico, il taglio agli stipendi con la disdetta degli accordi integrativi, come prevede il
piano di ristrutturazione messo a punto dalla Thyssen, Terni entrerà in agonia. Ci sono
quasi 2.600 persone che lavorano nell’acciaieria (l’azienda ha deciso di metterne 537 in
mobilità), quasi altrettanto sono i lavoratori dell’indotto, dai fornitori ai manutentori. «Un
mondo invisibile, l’anello più debole», lo definisce Emilio Trotti, delegato di fabbrica della
Fim-Cisl. Intorno all’impianto siderurgico vive la città, i negozi, i ristoranti, i servizi tutti.
Terni è l’acciaieria. «L’Ast è il nostro simbolo», dice il primo cittadino. Tutta la città sta
sostenendo gli operai che scioperano ad oltranza da una settimana. Un presidio
permanente impedisce l’ingresso nella fabbrica, salvo per gli addetti alla manutenzione e
ai servizi di sicurezza per garantire il riavvio del ciclo produttivo in poche ore. Gli operai
presidiano anche il Comune, che ha sospeso la sua attività ordinaria, e la Prefettura della
città. «I governanti intervengano prima che sia troppo tardi», ha detto il vescovo di Terni,
padre Giuseppe Piemontese.
Dopo 130 anni, questo mese, per la prima volta, non sono stati ancora pagati gli stipendi.
L’azienda accusa gli operai di non fare entrare al lavoro il personale amministrativo.
Accusa respinta. Ieri il ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, è intervenuta perché i
lavoratori vengano retribuiti. Ma la situazione è ormai esplosiva. Due venerdì fa c’erano 30
mila persone per le vie di Terni. I leader sindacali, Susanna Camusso e Luigi Angeletti
sono stati contestati. In una infuocata riunione del Consiglio comunale aperta ai cittadini si
48
è rivisto anche l’ex esponente di Potere operaio Oreste Scalzone, ternano di nascita. Sono
stati bloccati i binari della stazione ferroviaria. Ci sono gruppuscoli di estrema destra, di
estrema sinistra, ultrà del calcio che si mischiano nella protesta operaia. «Sono aree
politiche e sociali marginali», sostiene però il sindaco Di Girolamo che vede la sua città
incattivirsi, «arrabbiata per essere stata trattata come merce di scambio dalla
Commissione e dall’Antitrust europei ».
Lo sciopero e i presidi proseguiranno. «Non possiamo che andare avanti», dichiara Trotti
dopo essere stato prima a Roma, sotto il ministero dello Sviluppo, e poi tornato a Terni.
Aggiunge Stefano Garzuglia, delegato della Fiom, che era andato alla Leopolda per
incontrare il premier, Matteo Renzi: «Non siamo in condizioni di rientrare al lavoro.
Sarebbe una sconfitta». Perché Terni non ha alcuna alternativa agli altiforni.
del 30/10/14, pag. 7
Sul tavolo della Guidi altri 160 drammi ecco la
mappa dei posti in bilico
ROSARIA AMATO
ROMA .
Centosessanta aziende, 155.000 lavoratori dei quali 28.000 già dichiarati in esubero. Non
c’è solo la ThyssenKrupp, al ministero dello Sviluppo Economico: negli ultimi 12 mesi si
sono svolte quasi 300 riunioni nei tavoli convocati dalla Unità Gestione Vertenze. Nel 2013
sono stati sottoscritti 62 accordi, ma trovare soluzioni diventa sempre più difficile. Non ci
sono settori che si salvano: le vertenze sono distribuite tra l’agroalimentare, la siderurgia,
l’informatica, l’elettronica, la chimica, il tessile. A volte la crisi aziendale è determinata da
una situazione generale legata alla produzione, come è per le acciaierie, da Terni all’Ilva di
Taranto a Piombino. Ma altre volte si tratta semplicemente di decisioni prese dall’alto, per
ragioni strategiche che non hanno nulla a che fare con le difficoltà del mercato: è il caso
della Guaber di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, destinata a chiudere entro il
giugno del 2015 perché la Henkel intende concentrare la produzione nella sede di Milano,
trasferendovi solo una parte dei lavoratori. Oppure della Natuzzi: l’accordo che prevedeva
la ripresa della produzione in Puglia, dopo la delocalizzazione in Romania, appare sempre
più difficile da mettere in atto. «I motivi della crisi si rifanno alla fine dell’industria di massa
e alla diffusione della tecnologia, che hanno ridotto il potere d’acquisto, posti di lavoro e
status sociale di milioni di famiglie, producendo un mercato del lavoro nel quale l’offerta
supera largamente la domanda», osserva il segretario generale della Uiltec, Paolo Pirani,
che ieri ha aperto il congresso nazionale del sindacato proprio rivolgendo un appello a
Renzi: «Se si vuole contrastare la crisi industriale, il governo non può limitarsi a
moltiplicare i tavoli di confronto».
Poco più del 50 per cento delle vertenze sono concentrate al Nord, naturalmente non
perché il Sud stia meglio, ma solo perché lo smantellamento dell’industria nel Mezzogiorno
è partito prima, da Termini Imerese e dalle raffinerie di Gela alla profonda crisi del Sulcis,
con le vertenze di Alcoa e di Euralluminia che coinvolgono centinaia di lavoratori. Persino
il Papa è intervenuto sulle crisi aziendali, chiedendo un intervento del governo per i
lavoratori di Meridiana, che erano andati all’udienza del mercoledì con bandiere e
striscioni: si parla di 1.366 esuberi, fino a qualche settimana fa l’azienda ne aveva proposti
1.634. I tavoli al ministero, ha sottolineato qualche giorno fa in un convegno il viceministro
allo Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, servono a evitare che «le imprese in crisi
49
scelgono la strada più rapida, chiudere anzichè ristrutturare, che è la via più impervia». Ma
quando la crisi è irreversibile, le trattative non possono «fare la respirazione bocca a
bocca ai cadaveri ».
del 30/10/14, pag. 3
I nuovi poveri sono gli autonomi a partita Iva
Roberto Ciccarelli
Il ritratto dei nuovi poveri a partita Iva lo ha fatto ieri l’Osservatorio dei lavori
dell’associazione 20 maggio presentando a Roma il terzo rapporto sui dati della gestione
separata dell’Inps. Anche con l’entrata in vigore delle regole della delega sul lavoro, in
discussione in parlamento, su mille euro guadagnati ad un autonomo resteranno in tasca
515 euro contro i 903 di un lavoratore dipendente. Gli iscritti a questa cassa dell’Inps
hanno un compenso lordo medio di 18.640 euro, un reddito netto da 8.670 euro annui per
723 euro mensili.
Parliamo di un proletariato a tutti gli effetti che non ha diritto alle tutele universali contro la
malattia e versa contributi per una pensione (oggi il 27% del reddito, il 33% entro il 2019),
ma rischia di non avere una pensione. I suoi contributi servono oggi a coprire i debiti delle
altre gestioni Inps, quella dei dirigenti ad esempio. Questi lavoratori non hanno diritto agli
ammortizzatori sociali ma con i loro compensi producono un Pil pari a 24 miliardi e
assicurano all’Inps un gettito di 5 miliardi e 805 milioni annui. Questi dati dimostrano che i
precari finanziano il Welfare senza avere nulla in cambio. Al danno si aggiunge dunque la
beffa. E i redditi restano molto bassi: 10.128 euro annui per i contratti a progetto, ad
esempio i call center.
Bassi anche i compensi per i dottori di ricerca all’università (13.834 euro lordi) o per i
medici specializzandi (18.746 lordi). Per i giornalisti freelance appena 9 mila all’anno. Le
donne tra i 40 e i 49 anni sono le più penalizzate: guadagnano 11.689 euro in meno
all’anno rispetto agli uomini.
La crisi ha aumentato la disoccupazione. Nell’ultimo anno sono stati persi 166.867
occupati, i collaboratori a progetto sono diminuiti di 322.101 unità dal 2007 al 2013, e nel
solo 2012 sono passati da 647.691 a 502.834, con una flessione di ben 145 mila unità. Un
contributo determinante è stato fornito dalla riforma Fornero che ha imposto l’introduzione
dei minimi tabellari dei dipendenti. Questo ha prodotto un esodo verso il lavoro nero, le
«false partite Iva» o la disoccupazione.
Accadrà qualcosa di diverso con Renzi? Per i parasubordinati iscritti alla gestione
separata no. Lo sgravio previsto dalla legge di stabilità per le assunzioni a tempo
indeterminato (con un massimale fissato a 6200 euro) non renderà «più competitivi»
questi contratti rispetto ai lavori dove i compensi minimi non sono regolati da accordi
collettivi. Per le imprese sarà sempre più conveniente assumere un precario per poi non
rinnovargli il contratto. Il problema non verrà risolto nemmeno dal salario minimo ipotizzato
nella Delega perché non può essere applicato nella pluralità dei settori del lavoro
parasubordinato e tanto meno in quello autonomo a partita Iva.
C’è anzi il rischio che, con il perdurare della crisi e con la confusione del governo dettata
da una scarsa conoscenza delle forme del lavoro, il salario minimo diventi il massimo che
le aziende pagano. La strada potrebbe essere quella di stabilire un equo compenso per le
partite Iva individuali per evitare che il Jobs Act le spinga verso il lavoro nero o
l’inoccupazione. Per l’Associazione 20 maggio la soluzione sarebbe quella di ricondurre gli
«atipici» nella contrattazione collettiva, un’opzione fin’ora trascurata dai sindacati. Resta
50
da capire la situazione di coloro che non possono, o non vogliono, diventare dipendenti.
Verranno lasciati al loro destino di esuli involontari, oppure si possono immaginare forme
di tutele universali o un reddito di base?
del 30/10/14, pag. 8
Bruxelles avverte Roma “Procedure non
escluse vediamo se fate le riforme”
Katainen: esamineremo deficit e debito. Padoan: passano le circostanze
eccezionali Accordo internazionale tra cinquantuno Paesi per eliminare
il segreto bancario
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
L’Italia resta sotto la minaccia di una procedura europea per deficit e debito eccessivo e di
una richiesta di ulteriori modifiche alla legge di bilancio. Lo ha detto ieri il commissario agli
Affari economici Jyrki Katainen, che tra due giorni lascerà il posto al socialista francese
Pierre Moscovici per assumere l’incarico di vicepresidente della Commissione
responsabile per la crescita e gli investimenti. Toccherà dunque al collegio guidato da
Jean-Claude Juncker esprimere un giudizio definitivo sulla compatibilità del bilancio
italiano con le norme del Patto di stabilità. Il fatto che il governo abbia evitato una
bocciatura preventiva della Finanziaria per «gravi scostamenti» dai parametri del Patto
accettando una correzione pari allo 0,3% del Pil, non ci garantisce che il bilancio sarà
approvato da Bruxelles.
Il mancato respingimento della bozza di Finanziaria «non pregiudica il risultato finale della
nostra analisi, che sarà fatta entro fine novembre dalla nuova Commissione: non può
essere escluso che vengano adottate procedure per deficit eccessivo per qualche stato
membro», ha spiegato ieri Katainen, specificando che le decisioni in questo senso
«saranno prese collettivamente da tutto il collegio dei commissari» su proposta del
responsabile per gli Affari economici, Moscovici, e del vicepresidente responsabile per
l’euro, il lettone Valdis Dombrovkis.
La spada di Damocle che resta appesa sul capo dell’Italia, vale naturalmente anche per la
Francia, che si trova comunque in una situazione ancora più critica essendo già sotto
procedura di infrazione per deficit eccessivo e rischia dunque una salatissima multa. E ieri
si è registrato un primo atto della polemica che monopolizzerà la futura Commissione,
quando il prossimo commissario agli Affari economici, Moscovici, parlando a Parigi, ha
indirettamente risposto a Katainen: «L’Europa non è una macchina punitiva. La
dissuasione è fatta per convincere: sanzionare è sempre una sconfitta».
Per quanto riguarda l’Italia, Katainen ha elogiato la correzione di bilancio fatta dal governo.
«Ho accolto positivamente il fatto che l’Italia si è impegnata costruttivamente in questo
processo e ha deciso nuove misure per gli sforzi di bilancio per il 2015». Però ha avvertito:
«Ma esamineremo anche i dati del deficit e del debito». Ieri il ministro Pier Carlo Padoan
ha sottolineato come la Commissione abbia accettato le «circostanze eccezionali».
I momenti di verifica, che potrebbero offrire l’occasione per l’apertura di una procedura,
saranno numerosi. C’è l’analisi del bilancio alla luce delle nuove previsioni economiche,
che verrà fatta entro novembre. Poi ci sarà l’analisi degli squilibri macroecononici, che
vede l’Italia sul banco degli imputati sia per il debito troppo elevato sia per la scarsa
51
competitività della sua economia. Infine ci sarà una analisi dettagliata sulla tabella di
marcia della riduzione del debito.
«La presidenza di turno del nostro Paese - ha detto ieri il capo dello Stato, Giorgio
Napolitano - intende contribuire a delineare risposte concrete ai problemi dei cittadini,
smentendo i profeti di sventura». Ieri intanto, a Berlino, il ministro Padoan ha firmato
insieme con cinquanta altri governi l’accordo sullo scambio automatico di informazioni
contro la frode fiscale, che di fatto abolisce il segreto bancario.
del 30/10/14, pag. 4
I 27 MILIARDI DI TASSE NASCOSTI DA RENZI
NELLA SUA MANOVRA
L’OBIETTIVO È IL PAREGGIO DI BILANCIO: DAL 2016 SALGONO IVA
E BENZINA, GIÙ LE DETRAZIONI. CERTO SI PUÒ ANCHE TAGLIARE
ANCORA, MAI COMUNI GIÀ AVVERTONO: “SIAMO AL DISSESTO”
di Marco Palombi
Ventisette miliardi di tasse nascoste, rimandate a domani per non ammetterne l’esistenza
oggi. Questa è la scommessa di Matteo Renzi, quella che innerva la sua legge di Stabilità
elettorale, il motivo per cui tutti nel palazzo si sono convinti che il voto a primavera è
inevitabile. Funziona così: il nostro deficit deve andare a zero entro il 2017, è il famoso
pareggio di bilancio inserito in Costituzione ai tempi di Mario Monti anche da quelli che
oggi lo contestano e sottoscritto dai governi italiani nei Patti stipulati in Europa. Come lo
facciamo? Ma con la spending review, ovviamente. Solo che al momento la revisione della
spesa è una bufala e i tagli quasi interamente lineari di Renzi e Padoan sul 2015 lo
dimostrano: ieri, per dire, i Comuni e le nuove province sono andati a chiarire a Palazzo
Chigi che così muoiono i servizi ai cittadini (scuola, trasporto, strade, sociale, verde e
quant’altro) e molte città rischiano comunque il dissesto.
HA SPIEGATO Piero Fassino: “La Stabilità ci taglia 1,2 miliardi, a cui si aggiungono i 2,2
miliardi del fondo per i crediti deteriorati e 300 milioni eredità di precedenti manovre”. Fa
3,7 miliardi che vengono compensati, secondo il governo, dallo sblocco del Patto di
Stabilità interno per 3,2 miliardi: soldi che pochi comuni hanno, comunque, e non possono
essere usati per la spesa corrente (cioè i servizi). La risposta di Renzi è stata: “Discutiamo
del come, ma l’entità del taglio resta quella che è”. Non è finita: a province e città
metropolitane si toglie un miliardo e mezzo; alle regioni complessivamente altri 6,2
miliardi. Persino un renziano come il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino ha
perso il lume della ragione. Pure i fondi per gli investimenti nelle aree depresse finiscono
nella spending review: tre e mezzo finiranno per pagare forme di detassazione alle
imprese, 500 milioni sono parte della “tassa Kaitanen” per ridurre il deficit al 2,6% nel
2015. Il problema è che i 10 miliardi scarsi di tagli del Renzi di quest’anno (accompagnati
da parecchie partite di giro sulle tasse) non sono che l’antipasto: dentro la manovra, che
ha un orizzonte temporale di tre anni, è infatti previsto un “consolida - mento del bilancio” –
cioè tagli di spesa o nuove tasse – per 27 miliardi di euro al 2017. Un impegno vago, si
dirà, che il nostro giovane e vigoroso premier provvederà a ricontrattare con l’Europa.
Nient’affatto. Si tratta di un fatto già assodato e inserito nella legge di Stabilità con
apposite norme di legge. Prendiamo l’Iva, che è il caso più grave: nella manovra c’è scritto
52
che l’imposta sul valore aggiunto salirà il 1 gennaio 2016 di due punti percentuali per le
prime due aliquote (dal 10 al 12%, dal 22 al 24%) e di un altro punto dal 1 gennaio 2017
(al 13 e al 25%). Poi, per chi fosse ancora vivo, a gennaio 2018 un altro mezzo punto
sull’aliquota principale, che arriverà alla stratosferica cifra del 25,5%. Il valore della
faccenda è quotato in 12,8 miliardi nel 2016 e 19,2 l’anno dopo.
AD ARRIVARE a venti, cifra tonda, ci pensano le accise: sempre nel 2018 aumenteranno
benzina e gasolio per non meno di 700 milioni l’anno. Anche con questo, comunque, le
mine piazzate da Renzi e soci nel bilancio dello Stato sono finite: un’altra norma eredità
del governo Letta, prevede a partire sempre dal 2016 un bel taglio di detrazioni, deduzioni
e agevolazioni fiscali. Tecnicamente non è un aumento di tasse, ma in pratica si
pagheranno più tasse. Il menu nel dettaglio lo si deciderà in seguito, ma nulla è escluso:
dalle spese mediche a quelle per i figli, dalle detrazioni per il lavoro a quelle sulle
donazioni dalle agevolazioni per il no profit a quelle sull’Imu, tutto potrà contribuire al
risultato finale, che sono altri 4 miliardi di risparmi nel 2016 e 7 a regime dall’anno
successivo. Impegni, si dirà, non presi da Matteo Renzi e nemmeno da Pier Carlo Padoan,
ma nemmeno spiegati agli italiani nella mitopoiesi del # cambiaverso con cui il giovane
premier racconta l’Italia al suo pubblico, un tempo uso ai diritti di cittadinanza. Il verso è
sempre lo stesso, la discesa, c’è solo stato un eccezionale rallentamento della corsa nel
2015, al termine del quale però c’è il baratro. Il governo, ad esempio, ha usato il
salvadanaio dei risparmi da minore spread, ma contemporaneamente prevede – sempre
nella legge di Stabilità –di chiedere ai mercati finanziari 900 miliardi in tre anni: dovessero
risalire i rendimenti (oggi a livelli davvero bassissimi) dei titoli di Stato, ogni maggiorazione
andrebbe pagata comprimendo ancora di più il bilancio pubblico (al netto della enorme
riserva di liquidità messa giustamente da parte dal Tesoro). Fare il Monti con partenza
ritardata al dopo-elezioni può essere una scelta legittima, ma spiegarlo agli italiani –a
proposito di ricostruire un clima di fiducia e rilanciare la domanda interna – è un dovere.
del 30/10/14, pag. 11
Il premier: local tax per i Comuni
Ma sui tagli è scontro con i sindaci
«Resta l’obiettivo di 1,2 miliardi di risparmi». L’Anci: problemi di
sostenibilità
ROMA Un’unica local tax «al posto della miriade di tasse e tributi» imposti dai Comuni. Il
premier Matteo Renzi, nell’incontro con l’Anci, l’associazione delle municipalità, ricevuta
ieri a palazzo Chigi, delinea una «prospettiva» nuova per la fiscalità locale ma non cambia
idea sul miliardo e duecento milioni di risparmi chiesti nella legge di Stabilità. «Su questo
non si discute, se avete controproposte entro questo perimetro, noi siamo pronti a
parlarne». Ma per i Comuni prima di tutto va discusso il «perimetro» dei tagli che secondo
il presidente dell’Anci, il sindaco di Torino, Piero Fassino, in realtà è di «circa 3,7 miliardi»,
tale da «creare problemi di sostenibilità». Ma per il sottosegretario Graziano Delrio, la
richiesta è «proporzionata e soppor-tabile alla riforma complessiva del bilancio dello
Stato». Renzi suggerisce di fare «chiarezza sulle partecipate». E Delrio incoraggia:
«Abbiamo garantito che i Comuni avranno autonomia fiscale e organizzativa entro la
stesura finale della legge di Stabilità».
Un riferimento alla volontà del governo di riordinare la tassazione e creare un’unica local
tax che, secondo la Cgia di Mestre, porterebbe nelle casse dei Comuni oltre 31 miliardi —
53
tra Imu, Tasi, Tari, addizionali, imposte varie. Intanto sui tagli dei Comuni Delrio ha già
fissato un confronto la prossima settimana, mentre oggi ci sarà un nuovo round con le
Regioni.
Anche le Province ieri hanno fatto sentire la propria voce: «Fare tagli del 35-40% e non
avere una relativa rispondenza sulle nostre deleghe è assurdo: sarebbe impossibile per
tutte le Province rispettare il pareggio di bilancio» ha detto Leonardo Muraro, membro
dell’Upi (Unione delle Province), ricordando che nel 2015 le risorse disponibili caleranno a
due miliardi per servizi che quest’anno costano tre.
Intanto la legge di Stabilità attende che si esplichino le procedure preliminari richieste dalla
variazione della nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza). Ieri il
governo ha comunicato ai Capigruppo della Camera la volontà di non presentare una
nuova richiesta di autorizzazione al rinvio del pareggio di bilancio, avendolo il Parlamento
già autorizzato per un importo maggiore di quello attuale. Il voto sulla nota di
aggiornamento al Def si terrà oggi, a maggioranza semplice, ma prima ci sarà l’audizione
dell’Ufficio del bilancio. «Il governo scappa: teme il voto a maggioranza qualificata»
commenta Renato Brunetta (FI).
Da Bruxelles intanto arriva l’avvertimento del commissario Jyrki Katainen: non è escluso
che possano essere indicate ulteriori modifiche e correzioni alla legge di Stabilità, entro
fine novembre, dalla nuova Commissione, sulla base delle nuove previsioni economiche.
Ma soprattutto a chi gli chiede «se i Paesi eviteranno sanzioni per quest’anno a causa
delle prospettive cambiate», Katainen risponde: «No, non cambiamo le regole per
quest’anno». Trattativa chiusa?
Antonella Baccaro
del 30/10/14, pag. 11
Bonus «baby sitter» esteso agli statali
Raddoppia a 600 euro
ROMA In attesa di veder partire il bonus bebè da 80 euro previsto dal disegno di legge di
Stabilità, il governo corregge il tiro sul voucher «dimenticato», quello per pagare la baby
sitter o l’asilo nido. Il meccanismo era stato introdotto in via sperimentale nel 2012,
collegato alla riforma del lavoro targata Fornero: 300 euro netti al mese per sei mesi
versati alle madri che, finita la maternità obbligatoria, decidevano di rientrare in azienda.
Una misura pensata per evitare che chi ha un figlio decida di abbandonare l’impiego,
perché non riesce a sostenere la doppia vita delle mamme lavoratrici. L’aiuto era
concesso solo ai dipendenti privati, lasciando fuori sia i lavoratori autonomi sia quelli della
pubblica amministrazione. E la somma poteva essere utilizzata soltanto per pagare o la
baby sitter o l’asilo nido, con versamenti «in chiaro» fatti attraverso l’Inps.
Forse i paletti erano troppo stretti, forse la norma (complice il successivo cambio di
governo) non era stata pubblicizzata abbastanza: fatto sta che i soldi sono rimasti quasi
tutti nel cassetto. Nel 2013, su 20 milioni di euro, ne sono stati utilizzati solo 5,
coinvolgendo circa 3 mila persone. Non solo. L’esclusione dei dipendenti pubblici ha
portato ad una serie di ricorsi che ha spinto a sospendere il voucher per l’anno in corso,
congelando altri 20 milioni di euro. Tutto fermo in attesa delle modifiche, annunciate ieri
dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che ha risposto ad un’interrogazione di Renate
Gebhard, deputata del Südtiroler Volkspartei.
54
Per mettersi al riparo dai ricorsi, il nuovo voucher riguarderà anche i dipendenti pubblici. E
per recuperare i vecchi fondi non spesi la somma passerà da 300 a 600 euro netti al
mese. Sarà possibile presentare domanda all’Inps fino al 31 dicembre, e lo si potrà fare in
qualsiasi momento senza aspettare il click day come l’anno scorso. Al momento non ci
sono nemmeno limiti di reddito: «L’Inps — ha spiegato Poletti — ammette al beneficio la
lavoratrice secondo l’ordine di presentazione della domanda e nei limiti della disponibilità
delle risorse. Solo in caso di necessità, con un successivo decreto, potrà essere
individuato un valore massimo dell’Isee», l’indicatore che misura la ricchezza del nucleo
familiare. Tutto pur di evitare un altro buco nell’acqua.
Lorenzo Salvia
del 30/10/14, pag. 2
Sbloccati i fondi per il risanamento dell’Ilva,
ma i tempi restano incerti
Gianmario Leone
Taranto. Il ricorso dei legali di Adriano Riva potrebbe rallentare
l'operazione
La decisione del gip di Milano Fabrizio D’Arcangelo, che ha accolto l’istanza con la quale il
commissario dell’Ilva Piero Gnudi lo scorso 11 settembre chiese lo sblocco delle risorse
sequestrate in via preventiva al gruppo Riva nel maggio 2013 dalla magistratura milanese
per trasferirle nelle casse dell’Ilva, pari ad 1,2 miliardi, apre nuovi scenari nell’intricata
vicenda del siderurgico tarantino. Il sequestro era stato disposto dallo stesso gip su
richiesta dei pm Clerici e Civardi: nell’ordinanza di sequestro si leggeva che i fondi
«costituiscono il provento dei delitti di appropriazione indebita continuata e aggravata» da
parte degli indagati «ai danni della Fire Finanziara spa (oggi Riva Fire), di truffa aggravata,
infedeltà patrimoniale e false comunicazioni sociali, oltre che di dichiarazione fraudolenta
mediante altri artifici e di trasferimento fraudolento di valori».
La richiesta di Gnudi si è resa possibile in quanto il 21 agosto è entrata in vigore la legge
«Terra dei Fuochi», con la norma che prevede la possibilità di utilizzare i fondi sequestrati
in procedimenti diversi da quello per reati ambientali, per il risanamento degli impianti
dell’Ilva. Il tutto può avvenire a fronte della richiesta del commissario: la legge impone al
giudice di trasferire all’impresa le somme sottoposte a sequestro, entro il 31 dicembre
2014. Per questo il gip di Milano ha respinto l’opposizione avanzata dai legali di Adriano
Riva di presunta incostituzionalità della legge «Terra dei Fuochi», sostenendo che
sussistono «tutti i presupposti per procedere al trasferimento previsto dalla norma»: i fondi
potranno essere utilizzati per il risanamento ambientale dell’Ilva. Il gip ha disposto che i
beni sequestrati siano convertiti in azioni «a titolo di futuro aumento di capitale» dell’Ilva,
spiegando che «le azioni di nuova emissione dovranno essere intestate al Fondo unico
giustizia e, per esso, al gestore ex legge Equitalia Giustizia spa».
La decisione del gip di Milano è stata accolta con entusiasmo sia da Gnudi che da
governo e sindacati. Fino a ieri proprio la mancanza di risorse era alla base del mancato
avvio dei lavori previsti dall’Aia del 2011 riesaminata nel 2012 e rivista nei tempi di
attuazione dal Piano ambientale approvato in aprile dal governo. E l’ingente somma
prevista per i lavori è stata sino ad oggi uno dei maggiori ostacoli nella trattativa con i
possibili nuovi proprietari dell’Ilva (con in pole i gruppi ArcelorMittal e Marcegaglia), con i
quali Gnudi è in trattativa da mesi.
55
In tanti però dimenticano una serie di circostanze che potrebbero mandare all’aria i piani di
Gnudi e del Governo. In primis, il quasi certo ricorso dei legali di Adriano Riva nei confronti
della decisione del gip, che potrebbe congelare la situazione a lungo. Entrare in possesso
dei fondi sequestrati, poi, è tutt’altro che agevole: non a caso ieri a Roma Gnudi ha
incontrato il ministro dell’Ambiente Galletti, mentre gli avvocati Ilva hanno contattato gli
uffici del gip D’Arcangelo. Il «malloppo» si trova nelle casse delle banche svizzere Ubs e
Aletti (gruppo Banco Popolare) ed è intestato ad otto trust domiciliati sull’isola di Jersey,
paradiso fiscale sotto la sovranità della corona inglese. Le risorse liquide ammonterebbero
a non più di 800 milioni. Non sarà un’operazione semplice ottenere quelle risorse per poi
farle confluire nel Fondo gestito da Equitalia. Infine, lo Stato con questa operazione
interviene nella gestione di un’azienda privata anche se commissariata, ledendo il principio
europeo della concorrenza leale. E non risarcisce Taranto e i tarantini dei danni e del
dolore protratto in decenni di inquinamento.
56