PROGRESSO E PASSATO - Comune di Cremona

Archeologia preventiva e valorizzazione del territorio
4.
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Lombardia
PROGRESSO E PASSATO
Nuovi dati sul Cremonese in età antica
dagli scavi del metanodotto Snam Cremona-Sergnano
COLLANA DI STUDI
Archeologia preventiva e valorizzazione del territorio
1. Terre di confine. Una necropoli dell’età del Ferro
a Urago d’Oglio
2. La villa romana della Pieve a Nuvolento.
Restauro e valorizzazione del sito archeologico
3. Tracce del passato. L’area sepolcrale celtica
e romana di Cascina Roma (Bernate Ticino-MI)
4. Progresso e passato. Nuovi dati sul Cremonese
in età antica dagli scavi del metanodotto Snam
Cremona-Sergnano
Archeologia preventiva e valorizzazione del territorio
4.
PROGRESSO E PASSATO
Nuovi dati sul Cremonese in età antica
dagli scavi del metanodotto Snam Cremona-Sergnano
a cura di
Nicoletta Cecchini
Soprintendenza
per i Beni Archeologici
della Lombardia
PROGRESSO E PASSATO
NUOVI DATI SUL CREMONESE IN ETÀ ANTICA DAGLI SCAVI DEL METANODOTTO SNAM CREMONA-SERGNANO
Museo Civico “Ala Ponzone”, Cremona
25 gennaio-31 maggio 2014
Progetto scientifico
Nicoletta Cecchini (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia)
Scavo
Direzione: Lynn Arslan Pitcher per la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia
RA.GA. S.r.l., Como (Direttore tecnico: Paul Blockley; coordinamento: Gianluca Mete; responsabili di cantiere: Bianca Balducci,
Pablo Clemente, Gabriele Manfroni, Archidio Mariani; operatori: Elena Baiguera, Fabio Baldo, Silvia Barlassina, Ivan Bonardi, Samuele Brugnoli, Marco Capardoni, Javier Celma, Adriana Coelho, Enrica Defendenti, Henry Ekow, Antonella Frezzetti, Alessandra
Garao, Sara Galletti, Hanna Kazachenka, Gabriele Mainardi, Vera Marzullo, Diego Mosca, Fausto Occhipinti, Caterina Pelazza,
Giordana Ridolfi, Antonio Rossi, Fabio Rossi, Antonio Russo, Vittoria Sardo, Laura Scolari, Maria Rosaria Soria, Paolo Torre
Restauri
Florence Caillaud, Bologna
Annalisa Gasparetto (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia)
Fotografie dei reperti
Luciano Caldera, Luigi Monopoli (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia)
Paolo Andreatta (fotografie macro e al microscopio digitale con telecamera dei palchi di cervo)
Fotografie di scavo
Paul Blockley (RA.GA. S.r.l.)
Testi
Paolo Andreatta, Lynn Arslan Pitcher, Marco Baioni, Paul Blockley, Ivan Bonardi, Florence Caillaud, Nicoletta Cecchini, Silvia Di
Martino, Annalisa Gasparetto, Fiorenza Gulino, Cristina Longhi, Claudia Mangani, Anny Mattucci, Gianluca Mete, Flavio Redolfi Riva, Giordana Ridolfi, Marina Volonté, Diego Voltolini
Planimetrie e disegni ricostruttivi
Paul Blockley, Ivan Bonardi
Disegni dei reperti
Marco Baioni, Claudia Mangani, Flavio Redolfi Riva, Giordana Ridolfi, Diego Voltolini
Allestimento e catalogo a cura di Edizioni Et, Milano
Si ringraziano:
Ivana Iotta (Direttore del Sistema Museale della Città di Cremona), Marina Volonté (Conservatore del Museo Archeologico), per
l’ospitalità offerta alla mostra
Rosanina Invernizzi, responsabile Ufficio Mostre (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia)
Snam Rete Gas, per la preziosa collaborazione e il supporto offerto alla realizzazione della mostra e di questo libro
In copertina: lo scavo della pista del metandotto nel sito di Pozzaglio, con l’affioramento delle murature di una villa di età romana
e i vasi deposti come rito di fondazione presso la villa romana di Sergnano
ISBN 978-88-86752-59-6
Realizzazione editoriale
Edizioni Et, Milano, 2014
Con questo volume si arricchisce ulteriormente la collana
dedicata all’archeologia preventiva voluta da Raffaella Poggiani Keller per illustrare l’impegno della Soprintendenza
per i Beni Archeologici della Lombardia nella salvaguardia
del patrimonio archeologico in relazione alle grandi opere
di rete.
In questo caso, seguendo il territorio bresciano e il milanese, il protagonista è il territorio cremonese zona tradizionalmente a vocazione rurale, oggi in corso di profonda
trasformazione per il passaggio di reti stradali, ferroviarie
e gasdotti.
La parola chiave per interpretare l’esperienza presentata in
questo volume, uno scavo collegato alla costruzione di un
tratto di metanodotto tra Cremona e Sergnano, comune
ubicato nella zona settentrionale della provincia, è stata
collaborazione.
La proficua collaborazione tra la società realizzatrice dell’opera (Snam Rete Gas), le Istituzioni (il Museo Civico “Ala
Ponzone” di Cremona, che ospita la mostra) e la Soprintendenza, ha infatti permesso non solo di portare a compimento in modo ottimale le indagini archeologiche, ma
anche di presentare all’attenzione del pubblico in tempi brevi
i risultati delle ricerche, così come la collaborazione tra
specialisti di diverse professionalità ha consentito di comprendere compiutamente e preservare quanto restituito
dal terreno.
È stato così possibile aggiungere nuovi elementi alla conoscenza del Cremonese nelle diverse epoche, mantenendo
vivo il contatto con il passato per interpretare con maggiore
consapevolezza i passi compiuti e programmare i percorsi
futuri legati all’avanzare del progresso.
Caterina Bon Valsassina
Direttore Regionale
per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia
La mostra “Progresso e Passato” costituisce un nuovo significativo momento della collaborazione del Museo Archeologico con la Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Lombardia.
La sinergia tra l’ente di tutela e il museo civico del territorio si conferma per quest’ultimo di vitale importanza,
consentendo il continuo aggiornamento degli allestimenti
e delle proposte di fruizione, alla luce di quanto via via
emerge dall’attività di ricerca sul campo.
Il migliore esempio è lo stesso allestimento del museo
nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo, che ha potuto
giovarsi dei reperti rinvenuti nei recenti scavi di piazza
Marconi.
Il tema della mostra, ospitata negli spazi del Museo Civico
Ala Ponzone, è particolarmente rilevante per la valorizzazione del territorio: gli scavi “preventivi” alla realizzazione
del tratto di metanodotto Cremona-Sergnano, al di là
della necessaria azione di tutela, hanno costituito infatti
un’importante occasione di conoscenza storica, per un
arco cronologico che dalla preistoria giunge fino all’alto medioevo.
A pochi mesi dalla conclusione delle ricerche, tale patrimonio, grazie anche alla sensibilità di Snam Rete Gas,
viene ora reso disponibile al pubblico attraverso l’esposizione museale dei reperti corredata da questo catalogo,
che ne costituisce l’efficace strumento di divulgazione.
Irene Nicoletta De Bona
Assessore alle Politiche culturali e al Turismo
del Comune di Cremona
Negli oltre 70 anni di storia della nostra azienda, abbiamo sempre coniugato gli obiettivi d’impresa con
un profondo senso di responsabilità verso le comunità
e i territori in cui operiamo, nella consapevolezza dell’importanza di aver sempre presenti i riflessi sociali, economici e ambientali delle nostre attività.
Una convinzione che discende da un modello di business
fortemente integrato con le esigenze del territorio. Interpretare responsabilmente l’approccio con il territorio e i suoi stakeholder rappresenta anche una chiave
per migliorare l’efficienza dei processi di business e per
il raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Nello sviluppo delle infrastrutture il nostro approccio
ha sempre conciliato crescita economica e tutela dell’ambiente. Principi che Snam Rete Gas ha saputo
rendere concreti sviluppando best practice riconosciute
anche a livello internazionale per ognuna delle fasi di
lavoro: dalla progettazione ai monitoraggi ambientali,
geomorfologici e vegetazionali ante e post operam, dalla
realizzazione dell’infrastruttura all’attività di ripristino
degli ecosistemi conseguente alla posa dei metanodotti
e alla costruzione degli impianti di compressione.
La realizzazione di oltre 32.000 km di rete su un’orografia complessa ed un territorio così ricco di storia
come quello italiano, ci ha impegnato a sviluppare
un’attenzione profonda a tutela dei patrimoni della
nostra penisola; ovunque la nostra attività ci ha portato
naturalmente ad incontrare “le antiche vestigia” ed il
nostro impegno è stato quello di conservare la memoria.
Da sempre un’attenzione speciale viene rivolta alla salvaguardia del patrimonio archeologico cui sempre più
intensamente vengono indirizzati l’impegno e le competenze di Snam Rete Gas. Il nostro obiettivo è quello
di non disperdere le tracce di una memoria tangibile
della storia del nostro Paese che affiora nel corso dei
nostri lavori e di cui questo volume è un’accurata testimonianza. Anche nel caso dei lavori di realizzazione
del metanodotto Cremona-Sergnano, la scelta di affidarsi a team formati dai migliori specialisti, ha rappresentato il valore aggiunto che ha consentito di salvaguardare i ritrovamenti e di impedirne la dispersione.
Siamo pertanto molto lieti di aver contribuito alla realizzazione di questo libro, che dimostra l’efficace e proficua cooperazione con la Soprintendenza per i Beni Archelogici della Lombardia e con il territorio, che ha
consentito di ricostruire momenti e testimonianze della
storia dell’antica comunità cremonese.
Luca Schieppati
Direttore Generale Operations Snam Rete Gas
Il tracciato del metanodotto e il posizionamento dei siti archeologici
individuati.
Panoramica della villa di Sergnano in corso di scavo.
SOMMARIO
Nicoletta Cecchini
La tutela archeologica e le grandi opere di rete: metodologia e risultati di una proficua
collaborazione
p. 9
Lynn Arslan Pitcher, Paul Blockley
Lo scavo archeologico lungo il metanodotto Cremona-Sergnano
p. 10
Marco Baioni, Fiorenza Gulino, Cristina Longhi, Claudia Mangani, Flavio Redolfi Riva
I siti del Neolitico, dell’età del Bronzo e della prima età del Ferro
p. 14
Anny Mattucci
Studio antropologico delle cremazioni
p. 21
Paolo Andreatta, Silvia Di Martino
I palchi di cervo di Ricengo
p. 25
Gianluca Mete, Diego Voltolini
La seconda età del Ferro: la tomba celtica di Romanengo
p. 27
Florence Caillaud, Annalisa Gasparetto
Note sugli interventi di restauro: due contesti di particolare fragilità
p. 33
Ivan Bonardi
L’assetto territoriale in età romana e le evidenze centuriali
p. 37
Gianluca Mete, Giordana Ridolfi
Gli insediamenti rurali di età romana
p. 39
Marina Volonté
La frequentazione in età tardoantica
p. 55
Gianluca Mete
Impianti produttivi di epoca post-medioevale (XVI-XIX secolo)
p. 58
Lynn Arslan Pitcher
Il popolamento del territorio cremonese in età antica
p. 61
Lo scavo della pista del metandotto nel sito di Pozzaglio, con l’affioramento delle murature relative ad una villa di età romana.
8
Nicoletta Cecchini
La tutela archeologica e le grandi opere di rete:
metodologia e risultati di una proficua collaborazione
Il progetto della mostra “Progresso e Passato” è nato principalmente alla luce delle istanze degli abitanti di una provincia sempre più interessata dal passaggio di grandi opere
di rete, preoccupati dalle modificazioni irreversibili subite
dal territorio e dalla possibile perdita di porzioni della
propria storia.
È sembrato pertanto utile anche per il Cremonese, come
già mostrato per altri casi lombardi precedentemente trattati
all’interno della medesima collana, far comprendere come
le esperienze e i dibattiti che hanno interessato il mondo
dell’archeologia negli ultimi anni siano riusciti a produrre
un sistema di tutela, quello dell’archeologia preventiva,
che ha permesso di salvaguardare le tracce del passato, pur
rispettando le esigenze di velocità e programmazione di
questi immensi cantieri di costruzione, simboli del “progresso”.
Infatti è ormai disposto dalla legge che all’interno della
progettazione di opere pubbliche sia previsto il finanziamento di ricerche preliminari aventi per oggetto il rischio
archeologico degli appezzamenti attraversati dalla costruzione, comprendenti censimenti bibliografici dei rinvenimenti del passato, prospezioni nel terreno con georadar e
magnetometro e saggi di scavo. In questo modo è possibile
iniziare a individuare i punti che hanno maggiore possibilità
di restituire tracce di frequentazione antica e procedere a
uno scavo stratigrafico in estensione mirato o programmare
modifiche del progetto per la salvaguardia dei resti.
Oltre alle indagini esaustive delle zone a rischio è assicurato il controllo dell’intero tracciato, lungo il quale tutte
le operazioni di scavo vengono effettuate alla presenza di
archeologi, pronti a cogliere i segni della presenza di resti
antichi e a documentarli.
Questa minuziosa assistenza è realizzata in collaborazione
con gli Enti e le ditte che procedono alla costruzione e
permette di registrare anche gli indizi più labili lasciati
dagli antichi abitanti di queste regioni.
Quanto detto finora diventa tangibile nell’esposizione che
viene presentata presso il Museo Civico “Ala Ponzone” di
Cremona, con la quale si intende mostrare al pubblico un
piccolo gruppo di reperti provenienti dagli scavi effettuati
tra il 2010 e il 2011 in occasione della realizzazione di un
tratto di metanodotto Snam compreso tra Cremona e Sergnano.
Gli scavi sono stati diretti per la Soprintendenza dei Beni
Archeologici della Lombardia da Lynn Arslan Pitcher, funzionario che per più di trent’anni si è dedicata con passione
alla tutela del Cremonese, che è autrice del contributo con-
clusivo di sintesi e di quello iniziale insieme a Paul Blockley
della ditta RA.GA. srl. che ha eseguito le indagini.
Il caso del metanodotto in questione appare emblematico
per i risultati forniti, che offrono uno spaccato diacronico
del popolamento del territorio, estendendosi, come è tipico
di questo genere di indagini, nello spazio e nel tempo: infatti lungo un tracciato di poco più di 70 km sono stati
portati alla luce ben 66 siti, con una cronologia compresa
tra l’età neolitica e i giorni nostri.
Nell’allestimento si è cercato di rendere percepibile il progredire del tempo, esponendo materiali da alcuni contesti
significativi pertinenti alle diverse epoche: si parte dagli
oggetti in pietra lavorata e dai frammenti ceramici recuperati
da un pozzetto neolitico ritrovato nel comune di Romanengo per arrivare agli impianti destinati alla produzione
di laterizi, diffusi massicciamente a partire dall’epoca rinascimentale e collegabili alla costruzione di chiese e cascine
che costellano la campagna cremonese.
Inoltre si è inteso sottolineare come le attività di tutela e
conservazione non si esauriscano con la fine dello scavo archeologico: una complessa serie di operazioni che coinvolgono le professionalità più diverse sono necessarie per
comprendere e salvaguardare i risultati delle indagini archeologiche.
Infatti il lavoro degli archeologi che hanno raccolto i reperti
e i dati sul campo è stato approfondito da un gruppo di
studio, formato da specialisti delle diverse epoche e discipline, che spinti esclusivamente dalla passione, hanno reso
possibile la piena comprensione dei diversi contesti, elaborando i testi che compongono il catalogo.
La fragilità delle testimonianze del passato richiede inoltre
che si continui a curarle anche una volta prelevate dal
terreno, con l’opera di restauratori, in grado di assicurarne
la migliore conservazione: sono stati oggetto di interventi
di consolidamento e ricostruzione particolarmente delicati
i palchi di cervo ritrovati in una fossa della seconda età
del Ferro e il corredo metallico che accompagnava la sepoltura di un guerriero celtico del III secolo a.C.
La mostra, promossa dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, è realizzata in collaborazione
con il Museo Civico “Ala Ponzone” di Cremona, grazie al
contributo della Snam Rete Gas, che ha finanziato, oltre agli
scavi, l’allestimento della mostra, il restauro di alcuni reperti e il catalogo.
A tutti quelli che hanno reso possibili questi risultati va il
mio più vivo ringraziamento.
9
Tav. 1. Il tracciato del metanodotto e l’ubicazione dei siti individuati.
Fig. 1. La bonifica bellica profonda.
10
Fig. 2. L’ampliamento delle indagini presso una delle anomalie riscontrate.
Lynn Arslan Pitcher, Paul Blockley
Lo scavo archeologico
lungo il metanodotto Cremona-Sergnano
L’archeologia italiana, con l'introduzione delle tecniche di
scavo stratigrafico e il nuovo approccio politico-culturale,
definito archeologia preventiva, è cambiata radicalmente
negli ultimi trent’anni e di questo è testimone la grande
opera del metanodotto Cremona-Sergnano.
La lunghezza complessiva dell’opera era di circa 70 km, per
una larghezza media della pista di 30 m sul tronco principale
e di 20 m sugli allacciamenti laterali, per un’area complessiva di scotico, comprese le piazzole, di oltre 2.000.000
mq. La costante e attenta sorveglianza archeologica ha permesso di individuare complessivamente 66 siti archeologici (in media un sito per ogni km del tracciato) di cui
6 con resti di età preistorica/protostorica (dal 5000 al 200
a.C.), 42 siti di età romana (II secolo a.C.-V secolo d.C.),
18 con resti post-medioevali. I siti archeologici, di tutte le
epoche, erano mediamente a 40 cm sotto il piano attuale.
Solo in un caso è stato ritrovato un sito preistorico (Sito 51,
San Felice) a una profondità di 3,50 m sotto una stratigrafia
alluvionale.
Per seguire i vari lavori di sminamento, scotico, scavo archeologico, scavo per la posa del tubo, prospezione geofisica,
ove necessaria, e tutti i processi di post-scavo, è stata impiegata una squadra di 35 archeologi. I lavori di assistenza
archeologica hanno avuto inizio il 16 febbraio 2010 e si sono
conclusi nell’arco di 18 mesi, il 31 luglio 2011, per un
totale di 43.530 ore lavorative.
Come si evince dai dati sopra esposti, questa grande opera
pubblica era molto complessa per le dimensioni considerevoli, per la quantità e diversità delle professionalità coinvolte, per la logistica, per la situazione climatica e dell’ambiente di lavoro. Il successo finale può essere imputato
ad un modo di condividere tutti i problemi, trovando in
tempi brevi soluzioni ottimali. L’esito positivo è il risultato
di una filosofia dell’agire che ritiene di importanza fondamentale un rapporto interpersonale basato sulla fiducia, la
stima e la tolleranza reciproca... e così è stato1.
Lynn Arslan Pitcher
(1) Vorrei ringraziare personalmente gli attori principali di questa
operazione che vede la sua conclusione nella mostra e nella pubblicazione presentate: Snam Rete Gas (M. Montecchiari, M. Bartolucci,
E. Serafini), Technip Direzione di cantiere (A. Florio, G. Esposito),
Max Streicher Spa. (A. Farina, F. Bonici, M. Cavalli, O. Pastorello),
RA.GA Srl (P. Blockley).
Il tracciato e la metodologia archeologica
Il metanodotto Cremona-Sergnano DN 1200 (48”), ha
attraversato in senso N-W/S-E la zona settentrionale della
Pianura Padana delimitata a N dal fiume Oglio e a S dal
Po e dall’Adda (tav. 1): partendo a E di Cremona, dalla zona
dell’antica Via Postumia, questo tratto di condotta devia
verso O in prossimità di Olmeneta, corre a S del fiume
Oglio, si dirige a N-O, incrocia il fiume Serio per terminare a Sergnano. Così ha attraversato 17 comuni, tutti
nella provincia di Cremona: Cremona, Persico d’Osimo,
Pozzaglio ed Uniti, Olmeneta, Corte de’ Cortesi con Cignone, Casalbuttano ed Uniti, Robecco d’Oglio, Casalmorano, Azzanello, Genivolta, Cumignano sul Naviglio,
Trigolo, Salvirola, Romanengo, Offanengo, Ricengo, Pianengo e Sergnano.
Il lavoro di scavo sul campo, successivo alle indagini di archeologia preventiva2, ha visto come primo passo l’assistenza archeologica alle attività di sminamento, essenziale
per l’individuazione di alcuni siti archeologici: infatti molte
delle “anomalie” riscontrate durante questo intervento si
sono rivelate di natura archeologica.
Lo sminamento ha avuto inizio con la ricerca di anomalie
in superficie, seguito dalla bonifica in profondità: con la trivella montata su un escavatore, la squadra di sminatori ha
praticato una serie di fori a maglia regolare, fino a raggiungere la profondità di 3,50 m (fig. 1). Il terreno fuoruscito dai fori è stato esaminato dall’archeologo per identificare materiale d’interesse archeologico. Dopo questa
fase, gli sminatori hanno ispezionato i fori con il magnetometro. Ogni anomalia profonda localizzata è stata indagata mediante saggi di 3 x 3 m (fig. 2).
Durante queste operazioni sono stati individuati circa il 20%
dei siti archeologici (13 siti): nei punti in cui sono state riscontrate anomalie d’interesse archeologico, si è potuto
salvaguardare i resti mettendoli in planimetria e nelle schede
in modo da poter programmare i successivi lavori di scavo
e documentazione archeologica.
Ricevuto il collaudo del Genio Civile per lo sminamento
delle prime aree, gli addetti ai lavori hanno dato inizio all’apertura della pista con lo “scotico”, cioè la rimozione
dello strato di humus più superficiale, tramite escavatori
muniti di benna liscia, che rende più facile visualizzare durante lo scavo le presenze archeologiche.
(2) Il lavoro di archeologia preventiva è stato svolto dalla dott.ssa
Ilenia Malavasi della ditta GEA di Parma.
11
Fig. 3. Resti di una fornace individuati e recintati
in fase di scotico nel Sito 2 (Trigolo).
Fig. 4. Un archeologo scopre alcuni muri romani con l’ausilio del mezzo meccanico.
Gli archeologi in questa fase avevano il compito di analizzare
attentamente ogni metro quadrato di terreno e, attraverso
la presenza di reperti, le differenze di colorazione del suolo
e le variazioni della compattezza del terreno, di individuare
e circoscrivere i diversi siti archeologici (fig. 3).
Man mano che le evidenze venivano identificate, per tutelarle, venivano recintate, posizionate in planimetria col
sistema GPS e segnalate alla direzione dei lavori per la programmazione dello scavo sistematico.
In questo modo, mentre le operazioni di sminamento e
scotico erano ancora in corso, è stato possibile dare inizio
allo scavo sistematico dei primi siti archeologici scoperti.
Le indagini archeologiche in estensione sono state effettuate
in modo celere per non bloccare o rallentare i lavori sul metanodotto; per fare ciò, sono state utilizzate alcune tecniche e tecnologie avanzate che hanno permesso di velocizzare le ricerche senza danno per il rigore scientifico, secondo quanto richiesto dal Direttore Scientifico della Soprintendenza, Lynn Arslan Pitcher.
Dove possibile allo scavo archeologico manuale, con
piccone, badile, cazzuola e spazzolino, è stato affiancato
l’uso, sotto stretta sorveglianza archeologica, di mezzi meccanici forniti dal committente (fig. 4).
Per il lavoro di documentazione grafica sul campo è stato
utilizzato un sistema di rilievo completamente computerizzato, con GPS, stazione totale, fotogrammetria digitale
ad alta risoluzione per la documentazione di aree complesse/dettagliate. I disegni sono stati realizzati in collegamento con le numerose basi stabilite dai topografi incaricati
dalla Snam Rete Gas, in relazione con i mappali regionali.
Una delle novità tecnologiche utilizzate è stata la prospezione geofisica mediante gradiometro ad altissima risoluzione (fig. 5), utilizzato per poter individuare l’estensione
della grande villa romana, localizzata sul tracciato del metanodotto a Sergnano (Sito 22). La ricerca è stata effet12
Fig. 5. Le prospezioni con magnetometro presso il Sito 22.
tuata su una superficie di circa 15 ettari nell’area destinata
alla costruzione delle centrali di stoccaggio gas.
Per le prospezioni sono stati utilizzati due magnetometri:
un fluxgate gradiometro Geoscan FM36, per le aree interessate dalla villa romana ed un gradiometro Bartington
601-2, per le aree più estese. Entrambi gli strumenti sono
stati sviluppati specificamente per indagini di tipo archeologico, come pure i software utilizzati in fase di post
ricerca.
È stato cosi identificato il limite E della villa che è stato sottoposto a vincolo archeologico, permettendo così una pianificazione in grande anticipo dei lavori successivi (tav. 2).
Infine è interessante notare che la sorveglianza archeologica è stata svolta anche nel corso dell’ultima fase di esecuzione dei lavori, lo scavo della trincea per la posa del
Tav. 2. Risultati e interpretazione delle prospezioni geofisiche alla villa romana di Sergnano.
metanodotto (fig. 6), durante la quale il mezzo meccanico
ha scavato solo lungo l’asse centrale del tracciato, per una
profondità di 2,60 m e una larghezza massima di 6 m. In
questa fase non sono emerse tracce di resti archeologici, confermando la validità dei sistemi di individuazione impiegati
nelle fasi di assistenza allo sminamento e allo scotico.
Contemporaneamente alle indagini di scavo sul campo i materiali archeologici mobili sono stati lavati, siglati e catalogati
in un magazzino messo a disposizione dalla Direzione dei
Lavori: è stato inoltre condotto lo studio preliminare delle
associazioni e dei reperti ceramici ancora durante le operazione in campagna in modo da definire in breve tempo
la cronologia dei depositi archeologici rinvenuti. Durante
questa fase del lavoro sono anche stati enucleati quegli oggetti che necessitavano un pronto intervento conservativo
e, in un secondo momento, sono stati scelti quei materiali
frammentari che potevano essere ricomposti per una più
facile comprensione da parte dei visitatori di una mostra
o nella prospettiva di un’esposizione museale.
Inoltre la documentazione cartacea è stata immediatamente
inserita nel database on line di gestione dei dati di scavo
“Tacito”, sviluppato sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia per il territorio cremonese.
Come risultato, sono stati scavati e documentati complessivamente 66 siti archeologici (tav. 1), per comprendere i
quali sono state consegnate relazioni di sintesi, studi sui materiali, 2900 schede di U.S. (la documentazione base dello
scavo che descrive e analizza ogni evidenza archeologica,
Unità Stratigrafica), 10.880 foto digitali, 12 rilievi topografici generali e 140 rilievi di dettaglio.
Paul Blockley
Fig. 6. L’ultima fase: lavori di posa del condotto del metanodotto.
13
Marco Baioni, Fiorenza Gulino, Cristina Longhi, Claudia Mangani, Flavio Redolfi Riva
I siti del Neolitico, dell’età del Bronzo
e della prima età del Ferro
Lungo il percorso dei lavori del metanodotto sono stati
intercettati quattro siti che hanno rivelato consistenti fasi
di età pre-protostorica. Si tratta di aree con strutture archeologiche di differente cronologia e diversa natura, spesso
disomogenee sia per dimensioni che per caratteristiche
strutturali. In questa sede non ci è stato possibile fornire per
ogni sito un’analisi accurata di tutte le fasi di frequentazione
evidenziate dagli scavi. Si è dunque scelto di presentare un
campione esemplificativo delle fasi cronologiche e delle tipologie strutturali rinvenute in modo da tratteggiare un
quadro d’insieme che mostri la ricchezza di un territorio che
ha ancora molto da offrire per la ricerca archeologica1.
Area a Nord del cimitero di Salvirola - Comune di Romanengo (Sito 60)
Questo sito, posto in comune di Romanengo, in un campo
a N del cimitero del vicino centro di Salvirola, presenta due
fasi di frequentazione di età pre-protostorica ben distinte
anche dal punto di vista areale. A S dell’area d’intervento,
a circa 80 m a N dal cimitero, sono state rinvenute varie
sottostrutture, costituite da buche e fosse di differente
forma e profondità mentre nella zona più a N del sito è stata
individuata una sepoltura di età protostorica che sarà
trattata in un apposito capitolo a cui si rimanda2.
Tra le varie sottostrutture della zona meridionale è stata ritrovata, al di sotto del terreno agrario, una grande fossa, dal
profilo ellittico: grazie ai materiali archeologici, raccolti
nei livelli più profondi del terreno che la colmava, può
essere datata tra la fine del Neolitico Antico e l’inizio del
Neolitico Medio cioè agli inizi del V millennio a.C.
Poco si può dire sulla funzione originaria di questa struttura
poiché i lavori agricoli, che nel corso dei secoli hanno trasformato profondamente l’aspetto della Pianura Padana,
hanno completamente asportato il suolo in cui essa era
stata scavata e, dunque, ora appare isolata, privata dalle
altre tracce lasciate dall’attività umana che le si svolgeva attorno. Sono state rilevate alcune buche ad O, è difficile però
definire se esse le siano contemporanee, giacché i reperti ar(1) I siti in questione sono stati denominati nel modo seguente e verranno trattati in questo ordine per un motivo esclusivamente cronologico: area a nord del cimitero di Salvirola - Comune di Romanengo (Sito 60); area ad est della località San Felice - Comune di
Cremona (Sito 51); area presso la Cascina Colombarazza - Comune
di Cremona (Sito 54); area ad Ovest dello stabilimento Villa-Bonaldi
- Comune di Ricengo (Sito 27). Altri due siti (16 e 30) sono ancora
in corso di studio.
(2) Cfr. METE, VOLTOLINI infra.
14
cheologici contenuti sono molto scarsi e poco significativi
per una precisa definizione cronologica.
Il fatto che non vi siano attorno o al suo interno tracce di
buche nelle quali potevano alloggiare i pali di sostegno del
tetto o delle pareti, induce a scartare l’ipotesi che si tratti
della porzione semi interrata del fondo di una capanna; piuttosto, per le sue dimensioni ampie, poteva trattarsi di una
struttura accessoria, dedicata allo stoccaggio di riserve alimentari o allo svolgimento di attività connesse. Una prova
a favore di questa interpretazione è l’accumulo nella sua
parte più meridionale di frustoli di carbone, frammenti
ceramici e schegge e lame di selce.
Queste strutture infossate sono state ritrovate numerose
negli abitati neolitici di tutta Penisola e, di volta in volta,
sono state riconosciute come tracce di differenti attività:
silos, cave per ottenere l’argilla per la realizzazione dei recipienti ceramici, veri e propri pozzi per l’approvvigionamento idrico3. La fossa in esame dovrebbe fare parte del
primo gruppo sia in virtù della forma piuttosto regolare del
fondo, che la esclude dalle fosse-cava, sia per la scarsa profondità che non la rende idonea per avere la funzione di un
pozzo.
Come già accennato, i materiali raccolti nel terreno di
riempimento hanno consentito di datare la struttura: la
presenza di un orlo con tacche, di porzioni di decorazioni
incise a chevrons e a reticolo e a triangoli excisi, di frammenti
di fondi a tacco (fig. 1) rimandano all’ambito culturale di
una fase arcaica dei Vasi a Bocca Quadrata4. Anche l’industria litica, testimoniata da 25 manufatti in selce, di cui
17 lame e lamelle (fig. 2), contribuisce a confortare questa
collocazione cronologica. L’elevata qualità della selce utilizzata testimonia l’esistenza di scambi e commerci con gli
ambiti prealpini, in cui questo tipo di selce può essere reperita.
Si ricorda che nel territorio attorno a Salvirola le ricerche di
superficie hanno già restituito materiali risalenti al Neolitico
Antico: ad Offanengo (località Cà Nova, Dosso di Luna e
Bosco Vecchio) e a Romanengo (località Pratizagni di Sotto).
(3) Un’approfondita analisi delle differenti funzioni delle strutture
“a fossa”, note in letteratura col nome generico di “fondi di capanna”, fu elaborata da L.H. Barfield e da B. Bagolini (1976), per
una panoramica sull’Italia settentrionale e la relativa bibliografia si
veda PESSINA, TINÈ 2008.
(4) BAGOLINI 1980 e PESSINA, TINÉ 2008. La cultura dei Vasi a
Bocca Quadrata deve il suo nome alla peculiare forma dell’imboccatura dei recipienti ceramici, è caratteristica del Neolitico dell’Italia
settentrionale dalla Liguria al Friuli e fino alla Toscana e cronologicamente occupa a grandi linee tutto il V millennio.
Fig. 1. Frammenti ceramici con decorazioni trovati nel riempimento della fossa di Romanengo.
Fig. 2. Lame in selce dalla fossa del Sito 60.
Questo ritrovamento consente quindi di confermare l’intensa frequentazione dell’area durante le fasi iniziali del
Neolitico, momento in cui, come ci suggeriscono i dati
archeologici, i gruppi umani insediatisi nella Pianura erano
alla conquista di terreni idonei alle attività agricole.
Cristina Longhi
Area ad Est della località San Felice - Comune di Cremona
(Sito 51)
In un campo ad E della località San Felice in Comune di
Cremona è stata individuata una particolare struttura a
poco meno di tre metri dal piano di campagna. Essa presenta una notevole complessità strutturale, tanto che è
ancora in corso di studio (tav. 1). In via preliminare possiamo dire che si tratta di una fossa di forma subcircolare
(US 1784) con un diametro di 3,40 m e una profondità di
0,90 m, riempita con un terreno sabbioso (US 1783) e
successivamente riscavata nella sua parte centrale per realizzare un ampio pozzetto, sulle cui pareti è steso uno spesso
rivestimento di argilla di colore marrone rossiccio (US
1782). Questa fossa presenta una forma vagamente troncoconica, larga circa 1,60 m alla base e 1,40 m all’imboccatura, ed è riempita da uno strato (US 1785), distinto al
momento dello scavo in tre diversi elementi. Le prime due
unità (US 1785 A e B) sono interpretabili come parti del
terreno esterno collassato dentro la struttura, mentre la
terza (US 1785 C), sabbiosa a granulometria fine, molto
friabile, di un grigio molto chiaro, era deposta sul fondo
ed è probabilmente ciò che resta del riempimento progressivo determinatosi durante l’uso della struttura. Quest’ultimo livello conteneva la maggior parte dei materiali
ceramici meglio conservati.
Dopo che la struttura più antica si era completamente
riempita, venne eseguito un successivo taglio (US 1781) di
forma subrettangolare in pianta e con pareti arrotondate in
sezione. Questa seconda fossa venne colmata da un riempimento sabbioso ricco di carboni e ceramica (US 1780 A),
probabilmente legato alla presenza di un focolare.
Durante lo scavo la struttura venne intesa come un silos per
la conservazione delle derrate agricole, del tipo soprattutto
frequente negli abitati neolitici5. La forma “a campana” e
la presenza della foderatura in argilla sembrerebbero deporre
a favore di questa interpretazione, ma altre caratteristiche
(la fossa esterna riempita di sabbia, la tipologia di riempimento, la presenza di aperture nella spessa foderatura)
(5) Per i pozzetti silos neolitici si veda il già citato lavoro di PESSINA,
TINÈ 2008, pag. 144 e segg.
15
US 1784
US 1781
US 1780 A
US 1783
US 1782
US 1781
US 1782 US 1783
US 1780 A
US 1785
US 1784
Tav. 1. Pianta e sezione della complessa sottostruttura di San
Felice.
fanno maggiormente pensare a un sistema di captazione o
conservazione delle acque (cisterna)6, forse con una connotazione sacrale.
Materiali archeologici
Dalla struttura proviene un discreto numero di materiali,
tutti ceramici, databili all’antica età del Bronzo. Dallo
strato che riempie la struttura foderata d’argilla7 proviene
un numeroso gruppo di vasi, spesso costituiti da grandi
frammenti, in alcuni casi ricongiungibili tra loro. Tra le
forme testimoniate vi è una netta predominanza di boccali
sia di tipo globoso, sia con bassa carena, sia troncoconici
(tav. 2). In alcuni casi conservano l’ansa a gomito, a volte
con breve appendice apicale. Per queste forme si possono
citare numerosi confronti con contesti di Bronzo Antico,
soprattutto per le sue fasi avanzate, ma non finali8.
(6) Strutture interpretate come cisterne sono presenti in contesti neolitici, come il caso di Sammardenchia (PESSINA, TINÈ 2008, p. 148).
(7) US 1785
(8) Boccali simili sono presenti nel sito trentino di Fiavè- Carera, nell’orizzonte Fiavè 3 (PERINI 1994, p. 268, tavv. 8-9), ma non mancano
in livelli, databili a una fase più antica, nei livelli dell’orizzonte 2 e
3 del Lavagnone di Desenzano (PERINI 1988, tavv. I, 3-5;III, 1-3),
al Lucone D di Polpenazze (BOCCHIO 1988, tavv. I, 1-3; V, 3, 5, 7).
16
Tav. 2. Boccali rinvenuti nel riempimento US 1785 (Sito 51).
Fig. 3. Vasi troncoconici con fori passanti, forse derivati da prototipi di legno, e brocca ritrovati sul fondo della struttura.
Particolarmente interessanti sono due vasi troncoconici,
uno con quattro, l’altro con due fori circolari passanti, diametralmente opposti, ricavati appena sotto l’orlo (fig. 3).
Al momento non si sono individuati confronti stringenti
in contesti di Bronzo Antico, anche se è forte il sospetto che
questa tipologia ceramica derivi da prototipi in legno, come
il mastello rinvenuto al Lucone di Polpenazze (BS) (inedito).
Questi vasi richiamano le situle tipiche del Bronzo Medio
dell’Italia peninsulare, che presentano un foro ricavato in
linguette rettangolari o triangolari9. Una piccola situla è stata
rinvenuta alla Panighina di Bertinoro10. Un frammento
con foro circolare proviene dal sito di Bronzo Medio iniziale di Calvatone - Fondo Cassio (scavi Patroni 1912).
Interessanti sono anche i frammenti di una brocca con
alto collo distinto da una leggera risega (tav. 3), piuttosto
simile ad esemplari dell’età del Rame come quella della
Panighina di Bertinoro11. Brocche di forma più schiacciata
sono presenti in contesti del Bronzo Antico avanzato12.
L’uso della struttura e la sua defunzionalizzazione sembrano dunque databili a un orizzonte avanzato del Bronzo
Antico (circa XVII secolo a.C.).
Si sottolinea che la grande maggioranza delle forme ceramiche sicuramente pertinenti al riempimento della struttura
Confronti possono essere istituiti con Campo Fitti (inedito), Milzanello di Leno (CATTANEO CASSANO 1996, tav. VIII, 3-11), Ostiano
San Salvatore (PIA 1987, figg.7, 1-2; 8, 17) e i vicini siti di Sospiro
e di Cella Dati (inediti).
(9) POGGIANI KELLER 1995, fig. 124, n. 401 A; fig. 125, 402, 403.
(10) MORICO 1997, tav. 3, 8; pag. 71, n. 8
(11) MORICO 1997, tav. 2, 1.
(12) Una brocca con orlo estroflesso e ansa con ponticello proviene
dal livello E dello scavo del 1969 al Lucone A di Polpenazze del Garda
(BAIONI et alii 2007, tav. II, 5). Un altro esemplare proviene dalla
stratificazione D1 della Zona 2 di Fiavé Carera (TN), attribuito da
Renato Perini al suo Fiavè 3b (PERINI 1994, tav. 75, c1062).
Tav. 3. Disegno ricostruttivo della brocca globosa con alto collo
da US 1785.
sembra legato all’approvvigionamento (vasi con fori), alla
mescita (brocca) e al consumo (boccali e tazze chiuse) di
liquidi. Questo fatto sembra avvalorare l’interpretazione generale della struttura. Il fatto stesso della presenza di alcuni
confronti con la Panighina è a mio avviso significativo,
poiché questo contesto, seppur non pertinente dal punto
di vista cronologico, è costituito da un profondo pozzo
legato allo sfruttamento di acque termali, con probabile fine
cultuale.
Marco Baioni
17
Cascina Colombarazza - Comune di Cremona (Sito 54)
Durante le operazioni per la creazione di una pista di servizio per la posa del metanodotto in un campo a N della
via Postumia, tra San Felice e Gazzolo presso la Cascina Colombarazza, è stato riconosciuto un consistente gruppo di
sottostrutture di varia tipologia suddivisibile grossomodo
in tre sottogruppi, uno settentrionale composto da solo
tre strutture, uno centrale di circa 8 fosse e uno meridionale, molto più consistente, con almeno 16 strutture.
Le sottostrutture presentano differenti forme: pozzetti subcircolari, lenti di forma irregolare, fosse di forma allungata
e una buca ad andamento a L. Tra le sottostrutture si
notano a volte degli allineamenti, ma non si riconosce
nessuna possibile struttura abitativa.
Si è deciso di prendere in considerazione in particolare
cinque strutture, attribuibili per i materiali in esse rinvenuti al Bronzo Medio - Recente e interpretate come pozzetti13. Si tratta infatti di contesti con materiale più o meno
abbondante e cronologicamente non uniforme: si è verificata, ad esempio, in un caso la compresenza di materiali
del Bronzo Medio con materiali del Bronzo Recente (US
2165).
L’ultima struttura analizzata è una buca/pozzetto con interessante materiale, sia dal punto di vista stilistico che
cronologico, che permette di datare il contesto alle fasi iniziali del Bronzo Medio.
I materiali
I materiali presenti nei primi quattro contesti sono piuttosto disomogenei e non particolarmente significativi; vi
sono comunque dei pezzi piuttosto interessanti, come, ad
esempio, una ciotola su alto piede cavo con presa a perforazione orizzontale (tav. 4a)14. Una seconda buca, US 2165,
ha restituito abbondante ceramica, tra cui un orlo fortemente estroflesso di probabile olla biconica (tav. 4b) e una
fusaiola, mentre una terza fossa (US 2169) è in assoluto la
struttura col materiale più difforme, sia tipologicamente che
cronologicamente, con materiali attribuibili al Bronzo
Medio, ad esempio un piatto con ansa canaliculata (tav. 4c)
e frammenti ascrivibili al Bronzo Recente, tra i quali un
frammento di tazza con carena accentuata15.
Nella fossa US 2174 infine, si riscontrano prevalentemente
frammenti attribuibili a piccole ciotole con carena genericamente attribuibili al Bronzo Medio (tav. 4d).
(13) È meno probabile che le fosse siano da ricondurre a sepolture:
infatti non è ascrivibile a ciascuna un singolo ossuario né un coperchio
fittile, ma sono compresi diversi vasi, nei quali non si riscontrano
le caratteristiche note per tombe ad incinerazione del Bronzo Medio.
Confronti con necropoli coeve dell’area emiliana (Casinalbo,
Montata, BM2- BM3) dimostrano come le sepolture ad incinerazione fossero costituite solo da un’urna cineraria, a volte da un coperchio fittile e prive di ulteriore corredo ceramico (CALDARELLI, TIRABASSI, 1997).
(14) US 2182. Questa tipologia di presa, benché su tipologie di
ciotole con morfologia della vasca differente, è testimoniata al Lavagnone, settore B, durante il Bronzo Medio I (DE MARINIS 2000,
figg. 61, 12-13.)
(15) In ambito terramaricolo si veda, ad esempio, la terramara di Rastellino (cfr. CATTANI 2010, figg. 6, 7)
18
a
b
c
d
e
f
g
Tav. 4. Recipienti ceramici rinvenuti nelle fosse del Sito 54 .
Di maggiore interesse la buca/pozzetto US 2176, che ha restituito abbondante materiale tra cui alcuni elementi significativi per una datazione, come un’ansa verticale con
sopraelevazione ad ascia (tav. 4e) e un’ansa a nastro con sopraelevazioni a piccole e brevi corna coniche (tav. 4f ) che
trovano ampi confronti con siti come il Lavagnone16, FiavèCarrera17, Casino Prebenda Parrocchiale di Spineda18, e
permettono di datare la struttura alle fasi iniziali del Bronzo
Medio I. Una teglia a disco con motivo cruciforme impresso
sul fondo interno (tav. 4g), trova confronti sia nelle fasi finali
del Bronzo Antico, al Lavagnone19 come a Fiavè, sia, per
quanto concerne quest’ultimo sito, in quelle ascrivibili al
Bronzo Medio I20.
Lo studio preliminare di alcune strutture del Sito 54 porta
ad ipotizzare un’occupazione del sito dalle fasi iniziali del
Bronzo Medio (BM1) al Bronzo Medio Avanzato-Bronzo
Recente, per quanto non siamo ancora in grado di stabilire se si possa parlare di un insediamento senza soluzione di continuità.
Si nota la presenza di alcuni pozzetti il cui utilizzo, come
testimoniato dai materiali ivi rinvenuti, risulta riconducibile anche a fasi diverse, come nel caso di US 2169.
Non si esclude comunque la presenza nell’area di tombe ad
incinerazione relative all’insediamento, come il caso di US
2198, ancora in corso di studio, nella quale è stato possibile
individuare e ricostruire parzialmente una probabile urna
biconica.
Fiorenza Gulino, Flavio Redolfi Riva
Area ad Ovest dello stabilimento Villa-Bonaldi - Comune
di Ricengo (Sito 27)
Il sito, in comune di Ricengo, si trova a N dell’abitato, in
un campo lungo la strada per Bottaiano. Si tratta del sito
pre-protostorico più complesso tra quelli rinvenuti lungo
i lavori del metanodotto, suddivisibile dal punto di vista cronologico in varie fasi e dal punto di vista topografico in differenti nuclei. Durante lo scavo sono state distinte tre fasi
insediative di età pre-protostorica (Ia, Ib, Ic) e due di epoca
romana (II e III).
Nella parte più occidentale del sito sono state riconosciute
numerose sottostrutture appartenenti presumibilmente a
un abitato. Sono stati individuati un fossato e almeno
quattro strutture abitative evidenziate solamente da fosse
e buche di palo. Purtroppo infatti i piani di calpestio, come
spesso accade nei siti della Pianura Padana, sono stati
asportati da una serie di fattori che vanno dalla pedogenesi
ai lavori agricoli. Le quattro strutture abitative sembrano
appartenere a una prima fase insediativa, seguita da una se(16) Cfr. DE MARINIS 2000, fig. 61, 3-5.
(17) Cfr. PERINI 1994, parte III, vol.1, tavv. 87-14.
(18) Cfr. POGGIANI KELLER 1997, fig. 172, 5
(19) Cfr. DE MARINIS 2000, fig. 58, 5-6.
(20) Il sito palafitticolo di Fiavè-Carera, più precisamente dalla
“Zona 2”, ha restituito esempi di questa tipologia di teglia, provenienti della fase dell’insediamento denominata “Fiavè 3°”, datata al
Bz. A III (cfr. PERINI 1994, parte III, vol. 1, tav. 17, c. 275, c. 277;
tav. 18, c. 285.), nonché dalla fase successiva, denominata “Fiavé 4°”,
cronologicamente collocabile al Bz. M I (cfr. PERINI 1994, parte III,
vol. 1, tav. 95, c.1372, c. 1373).
conda rappresentata dal fossato, che infatti taglia la struttura
II, e da una probabile struttura evidenziata da alcune canaline di fondazione. Purtroppo queste fasi hanno restituito
pochissimo materiale e dunque la loro datazione è al momento piuttosto incerta.
Immediatamente a O dell’area abitativa è presente un strato
(US 375) ricco di materiale archeologico probabilmente prodottosi per la progressiva distruzione e livellamento della
parte più alta della stratigrafia dell’area. In questo strato sono
presenti materiali che sembrano denunciare una loro pertinenza alle strutture sepolcrali che seguono, disposte a
gruppi nella fascia più a E.
La necropoli
Il piccolo nucleo di sepolture è stato fortemente compromesso da lavori agricoli che hanno troncato gli strati archeologici frammentando i manufatti e disperdendoli parzialmente. Si tratta di almeno sette tombe a cremazione di
cui solo cinque ben identificabili, per quanto per lo più distrutte nella parte superiore. Si tratta di semplici fosse in
nuda terra nelle quali era originariamente deposta l’urna,
solitamente chiusa da un secondo vaso usato in funzione
di coperchio; a Ricengo si è conservata probabilmente in
un unico caso (tomba 28). Nell’urna venivano deposte le
ceneri del defunto, raccolte al termine del rituale della cremazione dalla pira ormai spenta21. Nella tomba 31 era presente anche della “terra di rogo”, terreno scuro ricco di
carboni, residuo anch’esso della pira funebre e deposto ritualmente nella sepoltura.
Le tombe 28 e 29 (fig. 4) sono le uniche per le quali si può
proporre una datazione precisa, in quanto è stato possibile
ricostruire, almeno in parte, la forma dell’urna.
Si tratta di due vasi di forma biconica, decorati nella parte
superiore con incisioni più o meno profonde che formano
dei motivi geometrici angolari (tav. 5), caratteristici dei
cinerari rinvenuti all’interno di tombe databili alla fine
dell’età del Bronzo dell’Italia settentrionale (X secolo a.C.)22.
Avevano la stessa forma probabilmente anche le urne rinvenute nelle tombe 25 e 31, delle quali si conserva solo la
metà inferiore; in considerazione dell’impasto ceramico
molto simile alle precedenti, possono essere attribuiti alla
medesima epoca.
È da sottolineare la totale assenza di oggetti personali del
defunto a corredo della sepoltura, spesso presenti all’interno delle urne in altre necropoli dello stesso periodo.
L’età del Bronzo Finale, nel nord Italia, rappresenta un
momento di ripresa dalla pesante crisi che colpì tutta l’area
padana nel XII secolo a.C.: iniziarono a formarsi popolosi
villaggi in corrispondenza di importanti vie di traffico,
spesso connesse ai sistemi fluviali, che raggiungevano le
vicine popolazioni della pianura Padana, ma anche i territori
dell’Europa Centrale. Nel Cremonese Vidolasco23 è un
(21) Alle analisi antropologiche condotte sui resti ossei rinvenuti nelle
tombe di seguito prese in esame è dedicato un apposito capitolo.
(22) Ad esempio Narde di Fratta Polesine (RO), tomba 223 (SALZANI
1990a, p. 143, fig. 55,1) e 20 (SALZANI, COLONNA 2010, tav. 2,1)
per la decorazione dell’urna della tomba 29 e tomba 25 (SALZANI,
COLONNA 2010, tav. 13, B1) per quella della tomba 28.
(23) FUSCO 1963, 1983.
19
Fig. 4. La tomba 29
disturbata dai lavori
agricoli, in corso di scavo.
Tav. 5. Ipotesi ricostruttiva dell’urna della tomba 29.
esempio di questo tipo di abitato, collocandosi in una zona
centrale della pianura, in prossimità dell’importante via
di comunicazione rappresentata dal fiume Serio che agevolava i rapporti culturali con le popolazioni protogolasecchiane, che occupavano i territori occidentali, con quelle
protovenete a E e con il mondo protovillanoviano a S. Nel
X secolo a.C., infatti, iniziano a prendere forma i gruppi
regionali che caratterizzeranno in seguito il panorama culturale della prima età del Ferro: accanto a usi e costumi
comuni, come il rito funebre della cremazione pressoché
esclusivo, si affermarono specificità territoriali ben distinte.
Sembrano pertinenti a sepolture anche i frammenti di una
ciotola-coperchio rinvenuti nell’area ad E dell’abitato (US
375): è possibile che le pesanti compromissioni agricole abbiano comportato l’intacco di alcune sepolture e il trasci20
Fig. 5. La ciotola-coperchio decorata, ricomposta grazie al restauro.
namento dei relativi frammenti fino all’abitato (fig. 5).
La ciotola coperchio, che doveva originariamente poggiare
su di un basso piede ad anello, mal conservato, presenta all’esterno una decorazione con motivo a croce riempita a reticolo, ottenuta a incisione. La forma, il tipo di superficie
e la tecnica con cui è stata realizzata la decorazione rimandano ancora al Bronzo Finale.
STUDIO ANTROPOLOGICO DELLE CREMAZIONI
Al fine di permettere un’accurata analisi antropologica delle
tombe a cremazione recuperate a Ricengo, il materiale osseo
è stato sottoposto ad una fase di pulitura tramite un delicato
lavaggio con acqua su di un setaccio a maglia di 0,5 mm.
Dopo un’asciugatura in luogo areato e secco, i campioni
sono stati sottoposti a setacciatura utilizzando maglie decrescenti (da 4-2-1-0,5 mm)1.
I resti ossei sono stati raggruppati per distretti scheletrici di
appartenenza, quantificati e sottoposti ad analisi metrica,
rilevando peso, volume e dimensioni del frammento più
piccolo e di quello più grande per individuare un range di rappresentatività all’interno del campione e avere una valutazione
oggettiva del grado di frammentarietà2. Infine sono state
utilizzate una scala cromatica3 e una del grado di deformazione per descrivere rispettivamente la colorazione delle superfici e l’alterazione delle forme in seguito all’azione del
fuoco e delle tensioni esercitate da muscoli e tendini a carico
dei segmenti ossei4.
Complessivamente le quantità di materiale per singolo campione sono risultate piuttosto varie, da minime (fig. 1), cioè
inferiori ai 10 g di frustoli d’osso (tb. 27 e tb. 30) a più consistenti come nel caso dei 703 g di tb. 28. Tale situazione rispecchia un recupero insufficiente e parziale del materiale
combusto rispetto agli standard di cremazioni di soggetti
adulti di entrambi i sessi, in cui il peso medio della parte minerale dell’osso dopo la combustione va da circa 1,5 kg a 2,5
kg per donne e uomini adulti. L’analisi metrica dei frammenti
studiati ha messo in evidenza un elevato grado di frammentarietà che è tuttavia imputabile non solo all’azione del
fuoco, ma verosimilmente anche alle sollecitazioni di natura
meccanica subite dalle ossa nel corso della raccolta e manipolazione dei reperti, durante e dopo il rito della cremazione e dalle azioni degli agenti diagenetici intercorse tra la
deposizione e il ritrovamento.
Tutti i campioni hanno restituito frammenti di colorazione
prevalentemente bianco-giallastra, cromatismi che suggeriscono che durante la cremazione si siano sviluppate temperature particolarmente elevate, ragionevolmente in media
attestate intorno ai 645°-1200°5, senza apparenti variazioni
di intensità nei diversi distretti scheletrici.
L’aspetto dei frammenti, in riferimento al disegno delle linee
di frattura e alla torsione osservabili sulla superficie ossea, è
caratterizzato da una deformazione che va da fratture concoidi, di forma ellittica (twisting), riscontrabili sulle diafisi delle
ossa lunghe degli arti, a fratture poligonali come sui frammenti di teca cranica e sulle superfici sferiche delle diafisi.
In nessun caso sono stati individuati frammenti ossei riconducibili ad elementi in esubero, inoltre l’esiguità della
maggior parte dei campioni già tende di per sè ad escludere
la presenza di più soggetti. Si può pertanto ragionevolmente
sostenere che ogni tomba contenesse i resti di un solo soggetto. L’esiguità e la frammentarietà dei campioni non hanno
permesso di procedere alla determinazione del sesso in quanto
(1) CANCI, MINOZZI 2006, pp. 218-224; MCKINLEY, ROBERTS
1993; MAYS 1998, pp. 207-224.
(2) MCKINLEY 1994, pp. 339-342
(3) MAYS 1998, p. 217
(4) UBELAKER 1989.
(5) MAYS 1998, p. 217
Fig 1.
Fig 2.
non sono state recuperate porzioni di ossa potenzialmente diagnostiche. Grazie al recupero di radici dentarie è però stato
possibile stabilire in 5 casi (tb. 26, 28, 29, 30, 31) il raggiungimento dell’età adulta del soggetto.
Per quanto riguarda l’aspetto patologico, nella tb. 28, è stato
individuato un frammento di orbita che mostra un’evidenza
di tipo patologico-alimentare (fig. 2). Si tratta di una porosità
detta cribra orbitalia che testimonia anemie ferro-prive, croniche, di tipo alimentare primario (diete povere in ferro) o
secondario (malassorbimento o utilizzo solo parziale del
ferro), o anemie di origine emorragica a base ereditaria (come
nel caso delle talassemie) o parassitaria (come la malaria) 6.
Sulle ossa del post cranio sono state registrate solamente
lievi infiammazioni (periostiti) localizzate su frammenti di
diafisi omerali e ulnari provenienti dalla tb. 26. Infine nella
tb. 31 US 359a sulla radice di un incisivo laterale mandibolare
destro è stata registrata una carie penetrante sul lato buccale,
in prossimità del colletto.
Anny Mattucci
Bibliografia
CANCI, MINOZZI 2006
CANCI A., MINOZZI S., 2006, Archeologia dei resti umani, Roma.
MAYS 1998
MAYS S., 1998, The Archaeology of Human Bones, London.
MCKINLEY 1994
MCKINLEY J.I., 1994, Bone Fragment size in British Cremation
Burials and its Implications for Pyre Technology and Ritual in
Journal of Archaeology Science 21, pp. 339-342.
MCKINLEY, ROBERTS 1993
MCKINLEY J., ROBERTS C., 1993, Excavation and Post-Excavation Treatment of Cremated and Inhumed Human Remains,
“IFA Technical Paper n. 13”.
ORTNER, PUTSCHAR 1981.
ORTNER D.J., PUTSCHAR W.G.J., 1985, Identification of Pathological Conditions in Human Skeletal Remains,Washington.
UBELAKER 1989
UBELAKER D.H., 1989, Human Skeletal Remains: Excavation,
Analysis, Interpretation, Washington.
Si ringrazia la dr.ssa Emanuela Sguazza e gli studenti del Labanof
di Milano per aver contribuito alla fase di pulitura e preparazione
del materiale.
(6) ORTNER , PUTSCHAR 1981.
21
Fig. 6. La fossa 34 in corso di scavo
La struttura 34
A circa 20 m in direzione N-E dell’area in cui sono state
rinvenute le tombe 28 e 29 gli scavi archeologici hanno
posto in luce una fossa (fig. 6) sul cui fondo si trova un
primo livello archeologico (US 388), al cui interno sono
state rinvenute due porzioni segate pertinenti a due palchi
di cervi, frammenti di ossi, talora bruciati, e alcuni frammenti di ceramica. Tra questi si conservano i resti di una
ciotola, probabile ciotola coperchio (tav. 6).
Il livello soprastante (US 363) è ricco di frustoli di carbone
frammisti a frammenti ossei combusti, ceramica e argilla
induritasi per la vicinanza con una fonte di calore (concotto):
in sede di scavo è stato interpretato come uno scarico dei
resti di una combustione.
Tra i frammenti ceramici è stato possibile ricostruire la
forma di almeno tre recipienti24. Si tratta di due olle (tav.
7) con orlo ingrossato e corpo ovoide (di cui, in un caso,
si conserva anche un frammento di fondo, riconosciuto
in base al tipo di impasto) e del becco di una brocca (tav.
8).
Le brocche di questo tipo, definite in letteratura Schnabelkanne (ossia brocche a becco) in ceramica, sono imitazioni degli esemplari in bronzo di provenienza etrusca e sono
diffuse in area golasecchiana tra il primo quarto del V
secolo e il primo quarto del IV secolo a.C. nei territori nei
(24) Vi sono poi un altro frammento di fondo e alcuni frammenti
non particolarmente significativi.
22
Tav. 6. I frammenti della ciotola da US 388.
Tav. 7. Ricostruzione di una delle olle ritrovata nel riempimento superiore della fossa (US 363).
Tav. 8. Ricostruzione della brocca a becco. In alto a sinistra
immagine del frammento conservato.
dintorni di Como25 e nel Canton Ticino26.
Il complesso dei materiali qui rinvenuti può essere genericamente attribuito a una fase finale della prima età del
Ferro, in un momento compreso tra la fine del V e la fine
del IV secolo a.C.
Complessa rimane l’interpretazione di questa fossa: l’aspetto
che maggiormente colpisce è la presenza degli elementi
dei palchi di due cervi deliberatamente tagliati.
L’alto valore simbolico attribuito al cervo nell’ambito delle
culture preistoriche non solo dell’Italia settentrionale, ma
di tutta Europa, è ormai ampiamente riconosciuto. Nelle
foreste delle zone temperate dell’Europa i cervi erano sicuramente numerosi e dovevano rappresentare una delle
prede più ambite nelle battute di caccia; a questi animali
dovevano essere attribuiti diversi tipi di culto. Sicuramente
il rinnovamento annuale del palco, che cade spontaneamente in primavera, colpiva l’immaginazione: con schegge
di palco si creavano, ad esempio, amuleti, spesso riccamente decorati. Le fonti antiche confermano questo potere
“apotropaico” oltre a una valenza omeopatica27: Plinio ne
suggerisce l’uso ad esempio come rimedio contro il mal di
testa28.
(25) In questa zona la produzione è comune tra il GIII A1 e il GIII
A2 (DE MARINIS 1981, p. 196).
(26) In Canton Ticino sono presenti sino alla fine del G III A3; si
veda Solduno, tb. 20-1995 (MANGANI 2011, p. 69). L’esemplare di
Solduno è realizzato al tornio e la superficie esterna è decorata interamente a stralucido.
(27) CHERICI 1999, p. 174.
(28) Plinio, Naturalis Historia, XXVII, 166.
Grande poi doveva essere la valenza spirituale: il palco rappresentava un materiale pregiato che poteva essere offerto
ai vivi, ma anche alle divinità, in particolare a quelle delle
acque29.
Tra le raffigurazioni di cervo in area alpina occupano un
posto speciale le incisioni della Valcamonica. Nell’età del
Ferro30, numerose sono le rappresentazioni di cervidi: scene
di caccia31, cervi attaccati da canidi32, lotte tra cervi33 o
ancora cervi cavalcati da guerrieri34. Legata alla figura del
cervo è poi la raffigurazione di una divinità, Cernunnus, presente sulla roccia 70 di Naquane (Capo di Ponte)35. Il dio
è raffigurato in piedi e indossa sul capo due palchi di cervo;
davanti a lui si trova una figura umana più piccola che, in
virtù della posizione delle braccia sollevate verso l’alto, rappresenta un orante36.
Si può quindi ipotizzare che la struttura 34, per la presenza degli elementi di palco di due cervi, rivestisse una valenza sacrale37 connessa probabilmente a un rito svolto
nelle vicinanze e che implicava, almeno in una fase38, l’utilizzo del fuoco suggerito dal rinvenimento, all’interno della
fossa, di numerosi frustoli di carbone e ossi bruciati.
La presenza di questa struttura, oltre alle indicazioni fornite
relativamente ai culti praticati nel territorio tra la fine del
V e la fine del IV secolo a.C., riveste un ruolo importante
dal punto di vista delle testimonianze culturali attribuibili
a questo periodo in area cremonese. Fino a oggi infatti
erano noti solo rinvenimenti sporadici effettuati a Calvatone39 e a Bosco Streppo di Dovera40.
Claudia Mangani
(29) In Bretagna ad esempio nelle acque dei torrenti di Trieux sono
state rinvenute spade dell’età del Bronzo, deposte con valore di offerta; con le spade, probabilmente ad esse associate, sono stati posti
in luce numerosi palchi (BRIARD 1991, p. 55).
(30) Numerosi sono gli studi sull’arte rupestre della Valcamonica,
per la quale sono stati riconosciuti diversi stili dei quali il IV è attribuito all’età del Ferro. Proprio al IV stile è stata dedicata alla fine
degli anni ’90 del secolo scorso una mostra svoltasi a Milano “Immagini di una aristocrazia dell’età del ferro nell’arte rupestre camuna”
(AA.VV. 1991).
(31) Ad esempio a Capo di Ponte, Seradina, roccia 12.
(32) Come a Capo di Ponte, Naquane, roccia 1.
(33) Ad esempio a Paspardo, In Valle, roccia 4.
(34) Si veda Capo di Ponte, Naquane, roccia 57.
(35) AA.VV. 1991, p. 24.
(36) La scena è attribuita a un periodo compreso tra la seconda
metà del VI e gli inizi del V secolo a.C. Si tratterebbe pertanto
della più antica rappresentazione di questa divinità in ambito europeo
(AAVV 1991, p. 24). Cernunnus, divinità celtica, compare in molte
figurazioni dell’arte celtica, tra il IV secolo a.C. e l’Altomedioevo.
(37) Da escludersi un uso funerario, in base alla struttura stessa
della fossa e alla rara documentazione di palchi in contesti tombali:
pochi casi sono noti ad esempio per il mondo paleoveneto (si veda
TAGLIACOZZO 1998, p. 50).
(38) Né i palchi né la ceramica presentano infatti tracce di un contatto col fuoco.
(39) Una fibula a sanguisuga, conservata presso il museo di Piadena
(CR), databile al V secolo a.C. (CASINI, DE MARINIS, FRONTINI1988,
p. 130, n. 27).
(40) Una fibula ad arco serpeggiante, datata genericamente al G
III (fine del V e la fine del IV secolo a.C.) rinvenuta in un’area in
cui nel 1910 erano state poste in luce due sepolture a cremazione
(TIZZONI 1982, p. 190).
23
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I PALCHI DI CERVO DI RICENGO
Nel Sito 27, presso il Comune di Ricengo, è stata rinvenuta una fossa con valenza sacrale contenente due palchi
di cervo (Cervus elaphus) (fig. 1.a, 1.b).
Si segnala, inoltre, la presenza di un frammento di molare
di bovide e tre frammenti di ossa di mammifero di grande
taglia parzialmente combuste.
I palchi, non completi di tutte le porzioni, si presentano in
discreto stato di conservazione: essi consistono in due aste
a sezione cilindrica, con ogni probabilità appartenenti a due
individui differenti. La struttura ramificata testimonia l’appartenenza a due maschi adulti di più di tre anni di età1.
Entrambi i reperti non presentano tracce di combustione
e di rosicatura di carnivori e di roditori; numerose sono,
invece, le tracce di taglio evidenti sulla superficie di entrambi. Interessante è notare la similitudine delle modalità
di lavorazione applicate a ciascuna asta.
L’assenza della rosetta non permette di stabilire se i palchi
siano stati il prodotto di un’attività di raccolta da parte
(1) MUSTONI et alii 2002.
Fig. 1.a-b. I due palchi di cervo dopo l’intervento di restauro.
dell’uomo o di un’attività venatoria.
Com’è noto, nella protostoria italiana i cervi venivano cacciati per l’importanza economica non solo della carne e
delle pelli, ma anche dei palchi, ottenuti, inoltre, tramite
un’attività di raccolta per l’uso manifatturiero2.
Sebbene sia riconosciuta l’importanza economica di questo
animale e si abbiano informazioni relative ad un suo uso
simbolico ritualistico3, mancano, invece, testimonianze archeozoologiche compatibili con la presente nell’area geografica interessata e nel periodo storico proprio del sito in
esame4.
Da un punto di vista archeozoologico l’assenza di un
numero consistente di altri reperti ossei porta a credere
che non si tratti di contesti di macellazione, di uso alimentare o di scarti di lavorazione manifatturiera. Sembra,
quindi, plausibile che la deposizione dei due palchi nella
buca sia intrisa di simbolismi a noi ignoti ma greve di un
ruolo evocativo.
Nelle culture antiche il cervo era un importante animale simbolico. A causa dei suoi palchi simili ad alberi, che si rinnovano periodicamente, il cervo era considerato simbolo
della vita che ringiovanisce di continuo, della rinascita e del
corso del tempo5.
Il palco alla fig. 1.b è costituito dalla sola porzione dell’asta.
Non presenta la rosetta essendo stata rimossa tramite 7
colpi inferti su tutti i lati (anteriore, posteriore, laterale e
mediale) con un coltello da colpo a lama liscia. Il distacco
dalla rosetta è stato realizzato mantenendo il palco in posizione anatomica.
Un’indagine al microscopio elettronico a scansione ha permesso di ottenere maggiori informazioni relative alla tipologia dello strumento utilizzato per realizzare i tagli sopradescritti6.
Nella figura 2 si può osservare come il filo della lama abbia
inciso il palco in modo lineare e definito, determinando un
angolo acuto nel punto di fine corsa: tutto questo sugge(2) DE GROSSI MAZZORIN et alii 2006.
(3) Cfr. MANGANI supra.
(4) Contesti archeologici a valenza sacrale, risalenti all’età del Bronzo
e del Ferro, contenenti resti di cervo sono stati rinvenuti in altre regioni italiane (WILKENS 2012, p. 75).
(5) BIEDERMANN 1991.
(6) L’osservazione è stata effettuata utilizzando repliche positive in
resina epossidica a due componenti (araldite LY 554; indurente HY
956); cfr. MASCARO et alii 2009.
Fig. 2. Particolare di un taglio con ingrandimento al SEM.
25
Fig. 3. Particolare di un taglio ottenuto con microscopio
digitale con telecamera.
risce con ogni probabilità l’uso di una lama metallica.
Le azioni di fendente, infatti, sono comunemente riferibili
a strumenti metallici e, per quanto riguarda le attività di
macellazione, sono normalmente correlabili alla disarticolazione, alla divisione della carcassa in due mezzene e all’apertura di ossa lunghe per il recupero del midollo7.
Nella figura 38 si può osservare come in un secondo taglio
la maggior forza esercitata abbia troncato completamente
la massa ossea: sul frammento risultante, la superficie creata
dalla penetrazione con scorrimento dello strumento appare
compattata. In prossimità dell’attacco di una punta del
palco si osservano due troncature realizzate con coltello
da colpo a lama liscia, inferte mantenendo l’elemento in posizione opposta a quella anatomica. Inoltre, in prossimità
della corona, sono presenti due troncature quasi parallele
alla superficie, inferte in posizione opposta a quella anatomica.
Il secondo palco (fig. 1.a) è costituito dalla porzione dell’asta e da due punte quasi complete.
In prossimità dell’estremità prossimale si osservano, lungo
tutta la superficie trasversale, quattro troncature inferte
con pesanti coltelli da colpo a lama liscia. Non osservando
concavità o convessità sulla superficie di taglio si può ipotizzare che la lama fosse ben tagliente e poco usata.
Nella porzione mediale dell’asta si rileva, inoltre, un’incisione riconducibile sempre all’utilizzo di un coltello da
colpo a lama liscia, inferta mantenendo il palco in posizione
anatomica.
In prossimità della seconda punta, in posizione laterale e
disposta trasversalmente all’asta, si nota un’incisione dai
margini definiti (fig. 4), inferta con una lama molto sottile
e affilata. Si può ipotizzare, quindi, l’uso di due strumenti
diversi per il trattamento del reperto.
Nella porzione centrale dell’asta si osserva un’altra troncatura, inferta con coltello da colpo a lama liscia, in posizione opposta a quella anatomica.
Infine, una serie di troncature realizzate con un coltello
da colpo a lama liscia e presumibilmente finalizzate al distacco di una punta, completano il quadro delle tracce di
taglio rinvenute.
L’insieme dei tagli riscontrati corrisponde a quelli che normalmente si incontrano in palchi destinati alla lavorazione
manifatturiera; tuttavia non essendo stati rinvenuti altri
(7) Cfr. CILLI et alii 2000.
(8) L’immagine è stata ottenuta con un microscopio digitale con telecamera (Dino-Lite Digital Microscope) a diversi ingrandimenti.
26
Fig. 4. Particolare di un’incisione dai margini definiti prodotta
con uno strumento diverso, dotato di lama sottile.
reperti che possano confermare la realtà di uno scarico di
una bottega di lavorazione dell’osso e del palco, si ritiene
che questa sequenza di tagli possa sottintendere significati
simbolici che oggi sfuggono alla nostra comprensione.
Questa ipotesi sembrerebbe, inoltre, avvalorata dal particolare contesto di rinvenimento.
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La seconda età del Ferro:
la tomba celtica di Romanengo
La seconda età del Ferro nella provincia cremonese è caratterizzata dal ritrovamento, quasi esclusivo, di contesti funerari1, collocabili cronologicamente dalla fine del IV secolo
sino al I secolo a.C.
Un discreto numero di ritrovamenti, in parte anche lacunosamente documentati, contribuisce a delineare la presenza
celtica in un territorio di non facile comprensione. Si rivela
infatti piuttosto arduo e rischioso il tentativo di restituire
un quadro nitido dei gruppi celtici che erano attivi sul territorio, anche se abbiamo motivo di credere che l’area, definita più volte “cuscinetto”, fosse caratterizzata dalla presenza di gruppi insubri, nella porzione più settentrionale
e cenomani, in quella sud-orientale. L’identificazione in
termini di cultura materiale dei diversi gruppi celtici risulta
qui difficoltosa per il carattere puntiforme dei ritrovamenti: a poco valgono infatti i dati circa la modalità di sepoltura (incinerazione, inumazione o biritualismo) e i
corredi isolati2. In ogni caso prima dell’arrivo dei Romani
il territorio, definito da Livio agrum Gallicum, era caratterizzato dalla presenza di questi gruppi celtici, secondo
eventi che videro prevalere ora gli Insubri, signori di Milano,
ora i Cenomani, che avevano in Brescia una propria capitale.
Con l’affermazione romana sul territorio cambiarono i
rapporti di forza, anche grazie ad alleanze tra i Romani e
i Cenomani; la “romanizzazione” dei gruppi celtici è ben
visibile dai corredi funerari più recenti, nei quali compaiono sempre più numerosi prodotti tipicamente romani,
con un progressivo allineamento culturale al mondo
romano.
Gli scarsi dati numerici sulle attestazioni della seconda età
del Ferro nel territorio cremonese sono confermati dai risultati emersi dal lavoro di posa del metanodotto. Durante
i lavori infatti è stato solo uno, sebbene significativo, il ritrovamento riferibile al mondo celtico. Si tratta di una sepoltura ad incinerazione con un corredo costituito da elementi tipici della panoplia di un guerriero, individuata
nell’area rurale del comune di Romanengo, lungo il confine
(1) Due sono i ritrovamenti a carattere non funerario: il primo è inerente una serie di elmi dal letto del fiume Adda nei pressi di Pizzighettone, secondo una pratica di deposizione cultuale di ex-voto piuttosto diffusa. Il secondo ritrovamento è quello del tesoretto di
dracme padane da Rivolta D’Adda, per cui cfr. ARSLAN 2003, pp.
62-83.
(2) Per un’analisi dettagliata: ARSLAN 2003, pp. 62-83; per una
sintesi sulla provincia: METE, MUSCOLINO in c.d.s.; per un quadro
sintetico più ampio: MORDEGLIA 2012, pp. 176-178.
(3) La sepoltura è stata già presentata in maniera sommaria durante
i colloqui dell’Afeaf a Verona, nel Maggio 2012. Tuttavia, la freschezza
Fig. 1. La sepoltura in corso di scavo.
meridionale con Salvirola3. Questo settore è geomorfologicamente caratterizzato da unità4 che, sin dalle età più
antiche, hanno reso proficuo l’insediamento umano come
già noto per altri rinvenimenti nei comuni limitrofi5.
Per quanto attiene alla fascia di intervento, la sepoltura di
Romanengo (Sito 60) sembra essere isolata, ma non si può
escludere, data l’esiguità dell’area indagata, un contesto cimiteriale. La sepoltura, secondo il rito dell’incinerazione,
dei dati e le non ancora concluse operazioni di restauro non avevano
permesso una presentazione analitica del contesto. In questa sede si
integrano e correggono i dati precedenti, pur demandando a prossima
pubblicazione l’analisi tipologica dettagliata. La sepoltura inoltre è
risultata essere in comune di Romanengo e non di Salvirola, come
erroneamente segnalato in altre sedi, per cui ce ne scusiamo. Si ringraziano il Prof. Daniele Vitali e il Prof. Thierry Lejiars per i consigli in fase di studio. Bibliografia: METE 2012, pp.180-181; METE
in c.d.s.
(4) PELLEGRINI 2003, pp. 19-34.
(5) PEARCE 2003, pp. 38-61.
27
Fig. 2. Il corredo deposto nella tomba, dopo il restauro.
si presentava entro una fossa in nuda terra di forma rettangolare delle dimensioni di 2 x 0,80 m circa (fig. 1).
Una fossa così ampia potrebbe indiziare l’esito del particolare
rito del bustum, durante quale il corpo era cremato direttamente nella fossa destinata alla sua sepoltura. L’assenza di
arrossamento per calore del suolo circostante e la presenza
di carboni e minuti frammenti ossei combusti anche sopra
il corredo, non esposto a fuoco diretto, lasciano tuttavia
pensare ad una incinerazione indiretta, ovvero con deposizione delle ceneri in un luogo diverso da quello della cremazione (ustrinum). La deposizione delle ceneri era concentrata in due fasce lungo le pareti N e S; circa al centro
era deposto il corredo, costituito dalle armi da guerriero,
da una coppa in ceramica e da alcuni elementi per l’abbigliamento.
Gli oggetti legati all’armamento compongono una panoplia costituita da una lancia completa di tallone, da una
spada e dagli elementi della relativa catena di sospensione,
deposti in un unico gruppo compatto, probabilmente legati
o avvolti a formare un pacchetto (tav. 2b) La spada in
ferro, che non era stata piegata o spezzata secondo un rito
(6) La mancata defunzionalizzazione della spada è uno dei caratteri
comuni nei ritrovamenti lateniani del cremonese. La spada in questione, sorprendentemente lunga, presenta caratteristiche miste fra
le tipologie più antiche e quelle tardo lateniane. Lungh. totale fodero:
94 cm; lungh. codolo: 14 cm.
28
spesso attestato nelle tombe celtiche, era inserita nel suo
fodero6. Della lama è visibile il codolo a sezione quadrangolare che originariamente era ricoperto dall’impugnatura
realizzata in materiali deperibili come legno e cuoio; una
guarnizione metallica funge da raccordo fra la lama e l’impugnatura. Le radiografie, effettuate in fase di restauro,
hanno permesso di vedere la lama nascosta dal fodero, evidenziandone la lunghezza, ben inferiore rispetto al fodero,
e la forma non appuntita, finita a “U”, come una spatola.
Il fodero è realizzato con due lamine di ferro: quella anteriore, decorata, è stata fissata a quella posteriore, liscia, ribattendone i margini; l’imboccatura campanulata presenta
un raffinato rinforzo centrale, con due borchie decorate a
triscele (tav. 2c). Il rinforzo del puntale7, lavorato a parte,
si innesta sulle due lamine fissato da due borchie decorate
anch’esse dal triscele. Sulla lamina anteriore, vicino all’imboccatura, si conserva parzialmente la decorazione
sbalzata e incisa a bulino: si tratta di motivi curvilinei simmetrici d’astratta ispirazione vegetale, nei quali si riconosce
più volte il triscele, tipico motivo decorativo celtico (e
dello stile svizzero), sia sulle borchie che nelle incisioni del
fodero. Lungo tutto il fodero è poi presente una nervatura
battuta a rilievo, in corrispondenza della quale la lamina si
è spezzata per l’aumento di volume della spada contenuta,
(7) Lunghezza: 27 cm.
(8) Lunghezza: 6 cm.
Fig. 3. La spada di Romanengo. Dettaglio dell’imboccatura del
fodero.
a causa della corrosione. Sul retro è presente il ponticello
a nastro con attacchi a placchette circolari8, probabilmente
con semplice decorazione lineare, per assicurare con legacci il fodero alla cintura.
La catena (tav. 2a), parte della cintura dove era appesa la
spada, si compone di due parti9 rispettivamente di 12 e
36 elementi ad anello, decorata con una punzonatura continua a punti sulla parte anteriore. Gli anelli non furono
prodotti singolarmente per poi essere chiusi e montati a
catena, ma furono direttamente forgiati l’uno infilato nell’altro. Il gancio a uncino per la chiusura è stato ricavato
da un elemento in ferro ripiegato o ritorto e poi forgiato
fino ad ottenere la forma desiderata. La terminazione a
bottone del gancio probabilmente si inseriva nell’asola di
una linguetta di cuoio sporgendo verso l’esterno, così da assicurare una salda chiusura della cintura, parecchio appesantita dalla catena e dalla spada. La lavorazione del manufatto non è limitata solo alla forgiatura concatenata degli
anelli: una volta completata questa operazione, infatti, la
catena è stata martellata in modo uniforme per tutta la
lunghezza, così da appiattirne gli anelli e da dar loro una
particolare conformazione nella quale ogni anello, se visto
singolarmente, ha l’impronta di quello precedente e di
quello successivo. Questo tipo di operazione ha compattato
molto la catena, serrandola e riducendone la mobilità, e ha
(9) Rispettivamente con lunghezza di circa 13 cm e 53 cm.
prodotto una superficie piana a nastro dove poter eseguire
la decorazione a punti punzonati. La faccia non a vista del
manufatto, non decorata, presenta le superfici degli anelli
più tondeggianti e bombate: la martellatura quindi è stata
eseguita direttamente solo sul lato a vista da decorare, con
la cura di non usare un’incudine molto dura che avrebbe
determinato l’appiattimento anche del retro. Questa particolare attenzione aveva probabilmente un risvolto pratico:
se gli anelli fossero stati appiattiti del tutto anche sul retro,
la loro mobilità reciproca si sarebbe ridotta al minimo,
non permettendo più la flessibilità che la cintura doveva
avere per poter essere indossata.
La cintura era stata deposta probabilmente completa dei legacci in cuoio, come lasciano intuire i due anelli in ferro
a sezione circolare10 ritrovati in posizione sulle estremità della
catena nel punto dove andava a connettersi la spada quando
indossata. L’armamento era completato da altri due elementi
adagiati accanto alla spada: una cuspide e un puntale di
lancia. La loro vicinanza indica l’assenza o la rottura dell’asta della lancia, evidentemente troppo lunga per una sua
deposizione intatta. La cuspide in ferro (tav. 1c) era a foglia
allungata e nervatura centrale, con innesto a cannone11,
mentre il massiccio puntale era di forma troncoconica con
sfaccettature e innesto a spina12. Quest’ultimo elemento (tav.
1d), non frequente nei corredi lateniani della Cisalpina,
aveva probabilmente duplice funzione: bilanciamento dell’asta e arma di offesa durante lo scontro. La sua solidità e
la sua forma lo rendevano meno penetrante della cuspide
ma certamente meno fragile e più contundente in certe
situazioni.
Sono relative all’abbigliamento le tre fibule in ferro, ascrivibili allo schema Medio La Tène. Due sono ad arco asimmetrico, molla bilaterale a due spire e appendice con elemento circolare raccordata all’arco tramite un globetto a botticella (tav. 1e). La terza fibula, di dimensioni inferiori e lacunosamente conservata, presenta anch’essa molla bilaterale a due spire ma l’arco è a verga ritorta a torciglione,
su cui si raccorda l’appendice a globetti (tav. 1f ).
Di difficile attribuzione funzionale è l’anello tubolare in ferro
associato al corredo (tav. 1g). Il suo diametro, circa 9 cm,
rende poco probabile un suo utilizzo come bracciale o armilla, mentre pare plausibile l’ipotesi che si possa trattare
di un ulteriore elemento riconducibile alla cintura. Altrettanto difficili da interpretare sono anche altri elementi:
una tozza verghetta in ferro con sezione quadrangolare e
alcuni sottili frammenti dello stesso materiale (tav. 1b). Si
trattava forse di oggetti funzionali alla manutenzione del
corredo o di destinazione artigianale, come un bulino piano
o un punteruolo, di cui la mancata conservazione delle
componenti deperibili rende impossibile un’interpretazione funzionale chiara13. Proprio tali frammenti, recuperati in fase di microscavo, sono stati individuati all’interno
di un contenitore ceramico (tav. 1a), una coppa in ceramica depurata con piede ad anello e labbro leggermente
(10) Diametro pari a 3 cm.
(11) Lunghezza 32 cm.
(12) Lunghezza punta 8 cm; immanicatura 3 cm.
(13) Per avere un idea degli oggetti in ferro non identificabili, anche
se da contesto abitativo: FIORI 2005, pp. 149-213.
29
a (1:2)
b (1:2)
e (1:2)
f (1:2)
c (1:2)
g (1:2)
Tav. 1. Gli elementi del corredo.
30
d (1:2)
b (1:4)
a (1:4)
c (1:2)
Tav. 2. Gli elementi del corredo. La catena e la spada.
31
introflesso14, assegnabile a una tarda produzione derivata
da quelle etrusco-padane propriamente dette.
Nel complesso gli oggetti in ferro della tomba di Romanengo, appartenuti ad un celta armato di spada, richiamano
alcuni manufatti forgiati dai fabbri taurisci, un gruppo
celtico stanziato dal IV al I secolo a.C. fra le odierne Slovenia e Croazia. La catena, per la lavorazione e la decorazione degli anelli, trova confronti in diverse località della
Slovenia in sepolture datate fra il III secolo a.C. e gli inizi
del II secolo a.C. come a Mokronog, Dobova e Formin15.
Anche altri elementi del corredo, come la fibula mediolateniana con arco ritorto a torciglione16 e l’impostazione
della decorazione del fodero della spada17, sembrerebbero
richiamare la medesima area geografica. Prima di attribuire questi prodotti artigianali a una zona piuttosto che
un’altra è comunque necessario considerare l’ampia diffusione di motivi decorativi e tecniche nel mondo celtico, la
decorazione punzonata della catena troverebbe infatti confronti anche in Svizzera18.
In conclusione, è possibile sottolineare l’importanza della
sepoltura di Romanengo, la cui datazione è riconducibile
alla seconda metà del III secolo a.C., sia per l’attestazione
di presenze celtiche diffuse nel territorio, sia per le connessioni che gli elementi del corredo parrebbero avere
anche a ampio raggio. Tale ritrovamento permette infatti
di ampliare le conoscenze circa la presenza celtica nel territorio cremonese e sottolinea al contempo la possibilità di
raffinare la cronologia circa i primi rapporti con il mondo
romano. Dal punto di vista della connotazione di appartenenza a un gruppo bisogna senza dubbio rifuggire da
demarcazioni nette, soprattutto legate all’area geografica e
agli spostamenti umani19, anche se i caratteri della sepoltura
e del corredo porterebbero a credere che si tratti di un individuo Insubre (senza dimenticare la problematica ma
ineludibile presenza dei Bergomates20). La sepoltura di Romanengo quindi si pone nell’ottica di aggiungere nuovi
dati nella comprensione delle dinamiche territoriali e culturali del cremonese nell’ambito della seconda età del Ferro.
(14) Diametro 17,5 cm; h 7 cm.
(15) GABROVEC 1966, tav. 5, 1-2.
(16) LUBŠINA, TUŠEK, KAVUR 2009, fig. 4, 3; disegno non molto
chiaro, la decorazione potrebbe essere solo incisa.
(17) BOŽIC 1991, p. 472.
(18) La tipologia della decorazione puntiforme è molto diffusa e non
facilmente circoscrivibile. Dalle necropoli di Gumefens: SCHWAB
1995, p. 251; JUD 2009, p. 59.
(19) Si pensi ai caratteri “non cenomani” della sepoltura di Flero:
ARSLAN et alii 2008, pp. 251, 274.
(20) ARSLAN 2003, p. 62.
32
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Florence Caillaud, Annalisa Gasparetto
Note sugli interventi di restauro:
due contesti di particolare fragilità
Il restauro del corredo della tomba celtica di Romanengo:
problemi e metodi
Non è mai eccessiva l’attenzione verso le modalità del prelievo sullo scavo e del successivo condizionamento dei reperti che determinano la sopravvivenza dei manufatti e
delle informazioni contenute, che il successivo restauro
può solo portare in luce.
Il recupero del corredo della tomba celtica ritrovata a Romanengo è stato curato dagli archeologi, con l’accorgimento di prelevare in blocco i reperti più complessi e delicati (panoplia d’armi, fibule, coppa) con il pane di terra
che fungeva da supporto: anche se il peso del blocco delle
armi ha provocato alcune frantumazioni durante le successive manipolazioni, l’interconnessione tra reperti è stata
salvaguardata (fig. 1).
Il microscavo in laboratorio della coppa in ceramica ha
consentito il ritrovamento di frammenti di uno strumento
in ferro e di carboncini, mentre il restauro stesso è consistito in una semplice pulitura delle superfici con spugnette
inumidite, un’essiccazione e un consolidamento della superficie localmente pulverulente con resina acrilica.
Ben più problematico lo stato degli oggetti in ferro, rinvenuti in grande numero nella tomba: spada lunga con
fodero a decorazione plastica, catena di sospensione a
maglie ribattute in due parti con relativi anelli, punta e
tallone di lancia, grande anello cavo, fibule e frammenti vari.
In effetti la conservazione dei reperti metallici sepolti pone
problemi specifici, legati alla tendenza del metallo a ritornare ad una forma minerale più stabile ossidandosi,
cosa che avviene sia in atmosfera che, a maggiore ragione,
nel suolo, ambiente caratterizzato dalla presenza di numerosi fattori favorevoli alla corrosione elettrochimica
(acqua, acidi organici, sali solubili, ecc.).
Questo fenomeno, particolarmente deleterio nel caso del
ferro, i cui prodotti di corrosione porosi e voluminosi non
assumono un ruolo protettivo nei confronti del metallo
sottostante (contrariamente alla “patina” di altri metalli e
leghe più “nobili”), porta alla scomparsa di molti oggetti
sepolti e rende difficile l’identificazione di quelli conservati:
la loro forma è alterata a causa del rigonfiamento e della deformazione avvenuti nei secoli, la loro superficie, spesso modificata, è occultata da spessi strati eterogenei di ossidazione
e sedimento.
Premessa indispensabile all’intervento è l’indagine radiografica che fornisce informazioni, in primis sulla forma
dell’oggetto nascosta dalle incrostazioni, ma anche sulla
struttura interna e sui dettagli di superficie: finitura, decorazioni, riparazioni, tracce d’usura, ecc. L’immagine radiografica è uno strumento fondamentale per guidare la pulitura, la quale si configura come una vera e propria rimozione selettiva dei depositi alla ricerca della superficie più
significativa, ossia quella contenente più informazioni.
Per quanto riguarda l’anello cavo e le fibule prelevate con
il pane di terra, molto fragili e frammentati, la radiografia
ha evidenziato la posizione dei frammenti nel sedimento,
consentendo il loro recupero in connessione e il parziale rimontaggio delle fibule lacunose e consunte (fig. 2).
I manufatti componenti la panoplia d’armi (spada con
fodero, catena di sospensione con anelli, cuspide e tallone
di lancia) erano molto vicini tra loro (in particolare la cuspide era così aderente alla catena da non essere identificata sullo scavo) e parzialmente saldati dalla ganga risultante dalla diffusione degli ossidi ferro nella terra (fig. 3).
Questa diffusione è una manifestazione della corrosione
molto utile in ambito archeologico, perché non di rado
permette la conservazione di reperti organici mineralizzati
dagli ossidi metallici, in questo caso abbondanti tracce vegetali sul lato inferiore del fodero1.
Il fodero in lamina sottile, deformato durante la giacitura
a causa del rigonfiamento provocato dalla corrosione della
spada, risulta aperto in modo perfettamente regolare lungo
la nervatura centrale e sui lati per tutta la lunghezza della
lama. La sua forma e quella della spada al suo interno sono
ben visibili in radiografia (fig. 4), mentre la decorazione
sbalzata e cesellata, presente sull’ingresso del fodero e sulle
borchiette laterali, non vi appare, trattandosi di un piccolo
spostamento di materia senza variazione di spessore, peraltro
occultato dalla spada stessa.
La radiografia ha anche evidenziato la struttura e la tecnica
di fabbricazione della catena di sospensione in spesse maglie
incatenate e martellate2, oltre alla presenza di un ingente
quanto eterogeneo nucleo metallico e di una densa rete di
microfessurazioni superficiali, legata ad una particolare
morfologia di corrosione, mentre la decorazione puntinata
sul lato a vista è emersa in fase di pulitura (fig. 5).
Il restauro, finalizzato alla leggibilità dell’oggetto nelle sue
diverse valenze e alla conservazione della sua materia, deve
seguire il principio dell’intervento minimo, data la pressoché
(1) Sembra trattarsi di elementi vegetali collegabili a fattori post-deposizionali (ad esempio radici cresciute nella fossa). Si ringrazia
Mauro Rottoli per l’amichevole consulenza.
(2) Cfr. METE, VOLTOLINI supra.
33
Fig. 1. Panoplia nel pane di terra prima del restauro.
Fig. 2. Gruppo di fibule in corso di restauro.
Fig. 3. Spada, catena e cuspide di lancia saldate dalla corrosione
del ferro.
Fig. 4. Radiografia della spada e delle parti della catena.
Fig. 5. Catena e cuspide di lancia nel corso dell’intervento di
restauro.
irreversibilità di ogni trattamento, in particolare della pulitura: il problema del suo limite è particolarmente sensibile
nel caso di decorazioni, e l’operatore deve valutare attentamente la soglia di rischio, pena la perdita di elementi
molto labili.
La pulitura è svolta a secco con tecniche di precisione che
consentono un controllo visivo costante (con proiezione di
microsfere di vetro a bassa pressione, abrasione tramite
frese diamantate e spazzole d’acciaio su micromotore dentistico, ago e bisturi), e con l’ausilio del microscopio binoculare stereoscopico.
Gli incollaggi e le infiltrazioni sono realizzati in resina
34
acrilica o epossidica, come le opportune integrazioni delle
lacune, finalizzate al consolidamento e alla continuità visiva.
Durante le varie fasi dell’intervento, le superfici ferrose
sono trattate con un passivante chimico, per evitare successive riprese di corrosione. A fine pulitura l’oggetto è
consolidato e protetto con un doppio strato di resina acrilica
e cera microcristallina.
La fragilità di manufatti mineralizzati lunghi sottili e pesanti, come la spada, la catena, e la cuspide di lancia, rende
necessaria la realizzazione di supporti espositivi che ne consentano la conservazione, la presentazione e la manipolazione in sicurezza.
Vari oggetti della tomba presentano tuttora un nucleo metallico e rimangono sensibili alla corrosione. Va in effetti
ricordato che il diseppellimento degli oggetti metallici non
pone fine al loro deterioramento, ma che l’esposizione ad
un ambiente diverso, più ricco di ossigeno, può innescare
nuovi processi di degrado, che non sempre l’intervento di
restauro riesce ad inibire in modo durevole.
La conservazione nel tempo di materiali archeologici instabili richiede un ambiente controllato, specie per quanto
riguarda l’umidità relativa, e un monitoraggio attento per
scongiurare il ripresentarsi di fenomeni corrosivi.
Florence Caillaud
La conservazione dei reperti archeologici in palco di cervo:
l’esempio della fossa di Ricengo.
L’intervento sui due palchi di cervo di Ricengo permette
di esemplificare le azioni conservative da mettere in atto su
questo tipo di reperti in materia dura animale. Queste
azioni devono necessariamente avvenire già in fase di messa
in luce e prelievo sullo scavo e devono mirare a mantenere
i palchi, fino al momento dell’intervento di restauro, in un
microclima simile il più possibile a quello in cui si sono conservati nei secoli di giacitura3.
In certi casi, come questo di Ricengo, avremo palchi spezzati
in vari frammenti che potremo prelevare ancora in connessione anatomica. Il grado di umidità e quello di frammentazione presenti nella materia animale sono quindi i
fattori principali da valutare per poter applicare semplici procedure che ci permetteranno di asportare in sicurezza i reperti da portare nel più breve tempo possibile al laboratorio
di restauro. Durante il periodo dello stoccaggio temporaneo (magazzino dello scavo, della soprintendenza o museo,
del laboratorio di restauro, ecc.) i reperti saranno mantenuti in ambiente freddo, meglio se in cella frigorifera
avvolti in sacchetti neri o scatole ermetiche non trasparenti. Realizzando queste procedure avremo già posto le basi
per condurre a buon fine tutto il rimanente lavoro di conservazione.
Nella fossa di Ricengo i due palchi messi in luce si presentavano spezzati in grandi segmenti ricomponibili mentre
i pugnali4 apparivano fortemente frammentati, si potrebbe
dire sbriciolati (fig. 6) . Il grado di umidità che questo tipo
di materiale conserva, determinato anche dalla sua struttura
interna porosa ed esposta a causa della frammentazione, è
passibile di variazioni repentine indotte dalle azioni di
scavo archeologico. È consigliabile quindi non esporre all’aria per tempi prolungati i palchi, ma mantenerli coperti,
per il tempo che intercorre tra la messa in luce e il prelievo,
con un telo umido in tessuto-non-tessuto e a seguire uno
strato di terra di scavo.
Al momento del prelievo ci si deve dotare di un supporto
rigido e leggero come una lastra di polistirene o polietilene
espanso. Per mantenere le varie porzioni di palco in connessione, occorre prelevare, assieme ad esso, la zolla di terra
che lo circonda e lo sostiene secondo la procedura del “prelievo in blocco”5.
La prima operazione in laboratorio consiste in un rilievo
fotografico della posizione dei vari frammenti per mezzo
di riprese fotografiche e il delineo sommario con un pennarello indelebile della posizione dei frammenti su un
(3) Si vedano le raccomandazioni di S. Di Martino e P. Andreatta
in “Trattamento del materiale archeozoologico”, scheda 1 “Modalità di consegna dei reperti da scavo” scaricabile dal sito della Soprintendenza per i Beni archeologici della Lombardia.
(4) Si definiscono pugnali le ramificazioni dell’asta dei palchi.
(5) Il prelievo in blocco si realizza esponendo la porzione da prelevare,
fasciandola con bende gessate o con pellicola in materiale plastico
o inglobandola in controforme di poliuretano espanso. I blocchi di
grandi dimensioni sono circondati da paratìe lignee fissate con viti
e cerniere metalliche così da formare i quattro lati di una cassa per
il distacco della quale si utilizzano lame o piastre metalliche spinte
nel terreno per tagliare la base del blocco stesso.
Fig. 6. I frammenti di uno dei palchi dopo il recupero.
Fig. 7. Il reperto nella fase di pre-assemblaggio.
foglio di plastica. Questo schema sarà una mappa ideale per
avere a disposizione, in fase di assemblaggio, la posizione
originale dei frammenti.
La pulitura delle superfici, ancora umide, è praticata con
tamponi di gommapiuma inumiditi di acqua. Per liberare
dalla terra le parti più scabre si utilizzano bastoncini di
legno o di plastica. Durante lo svolgersi delle operazioni di
pulitura si ha cura di ricoprire le parti non interessate dall’intervento per non indurre una rapida asciugatura del
palco che deve avvenire solo in maniera lenta e progressiva
sorvegliando la superficie del reperto per controllare l’insorgere e/o l’espandersi di fenditure e distorsioni e la crescita di organismi biodeteriogeni.
Se necessario, il consolidamento dei segmenti di palco si
attua percolando nella struttura interna dell’osso una soluzione di resina acrilica6. Prima di procedere all’incollaggio dei vari frammenti si esegue un pre-assemblaggio degli
stessi utilizzando pezzetti di nastro adesivo in tessuto-nontessuto disposti perpendicolarmente alle linee di frattura.
Il pre-assemblaggio aiuterà la collocazione dei frammenti
più minuti e detterà la sequenza dell’incollaggio definitivo
(fig. 7). In base al peso da sostenere e alla geometria della
porzione di palco si sceglie un adesivo con un’adeguata
forza di legame, in questo caso la stessa resina acrilica utilizzata per il consolidamento7.
(6) Resina acrilica al 3% in acetone.
(7) Resina acrilica al 40-50% in etilacetato.
35
Fig. 8. Il palco di cervo ricomposto alla fine dell’intervento di restauro.
La congiunzione definitiva tra i frammenti è garantita da
strisce di nastro adesivo in tessuto-non-tessuto e tutto il
palco è mantenuto in asse affondando la base dell’asta in
una cassetta di sabbia e aiutandosi con morsetti flessibili.
Le integrazioni formali sono da evitare, sia per la difficoltà
di reperire un materiale con modulo elastico simile al palco,
sia perché esteticamente invasive (fig. 8).
La conservazione dei reperti in materia dura animale ne
prevede il mantenimento in un ambiente stabile in cui le
fluttuazioni termoigrometriche siano ridotte al minimo e
l’umidità relativa si ponga tra il 50-60%.
36
Nelle fasi più impegnative dell’intervento di restauro la
collaborazione e il confronto con i colleghi archeozoologi
ci ha facilitato notevolmente consentendoci di operare
nella maniera più consona e metodologicamente appropriata. Grazie al loro apporto è stato possibile arricchire
questa esperienza con osservazioni utili al riconoscimento
delle tracce di lavorazione su un materiale che, nonostante
la relativa rarità, si sta sempre più affacciando all’orizzonte
degli interventi condotti secondo la moderna metodologia
dello scavo archeologico.
Annalisa Gasparetto
Ivan Bonardi
L’assetto territoriale in età romana
e le evidenze centuriali
La fondazione della città di Cremona nel 218 a.C., con la
progressiva romanizzazione del territorio celtico a nord del
Po, portò all’organizzazione dell’ager secondo una maglia
regolare, denominata maglia centuriale.
Nel territorio indagato sono presenti due aree centuriali distinte ed è possibile individuare, se pur in modo impreciso,
il confine delle aree amministrative dall’orientamento della
giacitura dei campi (tav. 1).
Le due aree presenti, a nord l’ager bergomensis e a sud l’ager
cremonensis, sono oggetto di studio da numerosi decenni
e le operazioni di controllo archeologico lungo la linea del
metanodotto hanno consentito una parziale verifica delle
teorie sin ora enunciate da Tozzi1 e successivamente da
Durando2 e dalla Poggiani Keller3.
La documentazione storica e gli studi di topografia antica
permettono di individuare quattro differenti centuriazioni
nel territorio indagato: due in area cremonese e due in
area bergamasca (tav. 2).
La prima centuriazione fu realizzata nel territorio cremonese tra il 216 a.C. e il 180 a.C., con una maglia di 20
x 20 actus, ma con una presenza labile ed incerta dei tratti
individuati dagli studi storici. Nel 41 a.C. vi fu una nuova
assegnazione delle terre dell’ager cremonensis e di conseguenza un rifacimento della centuriazione, forse anche con
un ampliamento. Le nuove centurie passarono da 20 x 20
a 20 x 21 actus mantenendo l’orientamento originario tra
14° e 15° e cancellando gran parte della centuriazione precedente o inglobando gli assi in limiti intercisivi interni al
nuovo assetto.
I tratti della seconda centuriazione, analizzati in un re-
Tav. 1. Carta riassuntiva dei ritrovamenti collegabili a tracce di centuriazione lungo il tacciato del metanodotto. In verde le indicazioni relative all’ager cremonensis, in violetto quelle dell’ager bergomensis.
(1) TOZZI 1972.
(2) DURANDO 1997.
(3) POGGIANI KELLER 1992.
37
cente studio4, sono stati confermati nel corso dei nuovi
scavi dai ritrovamenti di canalizzazioni coincidenti con i tracciati centuriali; in particolare sono stati individuati due
assi viari secondari nei siti di Solarolo del Persico e nei
pressi di San Felice, asse viario collegato probabilmente
alla via Postumia. Non è stato possibile invece trovare riscontri sugli assi della prima centuriazione, la cui definizione
risulta ancor oggi problematica.
L’assetto territoriale del Bergamasco in periodo romano
risulta più complesso.
Il Tozzi individua due centuriazioni: una prima, con inclinazione tra i 7° e gli 8°, di 20 x 20 actus, fu probabilmente
realizzata intorno all’89 a.C., quando importanti centri
celtici furono costituiti in colonie latine. La seconda, in sostituzione e ampliamento della prima, è di 20 x 20 actus,
con un’ inclinazione tra gli 11° e 12° e fu probabilmente
realizzata in periodo augusteo (tav. 3).
Della prima non si hanno riscontri rilevanti, mentre della
seconda vi sono numerosi elementi che mantengono ancor
oggi l’orientamento della maglia. Gli scavi recenti hanno
permesso di identificare tracce che mettono in discussione
la giacitura degli studi centuriali storici, con la possibilità
di variazioni nei territori meridionali e orientali dell’ager,
non tanto dell’ orientamento o della dimensione della
maglia, quanto della sua posizione.
Esempi concreti di una non perfetta aderenza delle evidenze con le ipotesi degli studi sono presenti ad esempio
nel sito di Romanengo ove i decumani coincidono con i
tratti studiati da Tozzi, strutturati in assi viari, ma sembra
apparire una mancanza dei cardini nelle zone indicate dagli
stessi studi. Nel sito a nord della Cascina Ronca, nei pressi
di Salvirola, gli assi individuati dagli studi precedenti sono
totalmente assenti, pur in presenza di una vasta area di
frequentazione romana, dove sono stati rilevati canali, ma
in posizioni distanti da quanto ipotizzato.
L’interpretazione delle evidenze attuali collegabili agli allineamenti originati dalla centuriazione risulta tuttavia resa
maggiormente complessa in queste zone per il progressivo
abbandono, nelle epoche successive a quella romana, di
Tav. 2. Sviluppo ipotetico delle maglie centuriali nell’area dei
lavori del metanodotto.
alcune parti del territorio: vaste aree acquitrinose cancellarono infatti in svariati punti larghe porzioni agricole centuriate. Ad esempio, nell’ager bergomensis lungo il tratto di
metanodotto tra Sergnano e Trigolo, l’area che meglio
s’identifica con questo degrado si registra nelle zone identificate con il nome di Lago Gerundo.
Bibliografia
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Tav. 3. Particolare della zona tra Ricengo e Trigolo dove è presente il passaggio tra le centuriazioni del cremonese e del bergamasco.
(4) BONARDI 2004.
38
Gianluca Mete, Giordana Ridolfi
Gli insediamenti rurali di età romana
La frequentazione del territorio in epoca romana
Nel corso degli scavi del metandotto sono state individuate diverse evidenze ascrivibili all’età romana. Anche se,
come vedremo, si tratta di ritrovamenti di natura e funzione
diversa, la totalità dei dati è relativa direttamente o indirettamente ad aspetti insediativi, che ampliano un quadro
sino ad oggi ancora eccessivamente ridotto per la provincia
cremonese e contribuiscono alla comprensione del contesto
rurale in Cisalpina1.
Il popolamento romano della pianura rientrava in un
grande quadro insediativo, un progetto di ampio respiro che
prevedeva la costruzione di infrastrutture stradali, il potenziamento dei percorsi preesistenti e la grande opera di
assetto e bonifica agraria nota come centuriazione2. La
fondazione delle colonie di Cremona e Placentia, oltre che
legata a dinamiche politico-militari, rappresentava la volontà
di creare un avamposto settentrionale, in un territorio che
aveva grandi risorse economiche e agricole per finanziare
l’apparato statale e, come nel caso di Cremona dopo la
battaglia di Filippi, liquidare la richiesta di terre da parte
dei veterani3. In un contesto così complesso si andavano a
inserire gli insediamenti rurali, non solo nella naturale
ottica dello sfruttamento agricolo, ma anche, del controllo
territoriale, in un quadro ancora complesso e precario agli
inizi del II secolo a.C., soprattutto dal punto di vista dei
rapporti politici e sociali tra Roma e le popolazioni indigene. Soltanto a partire dal I secolo a.C., con il definitivo e stabile controllo romano sul territorio, possiamo
pertanto immaginare una diffusione ampia e capillare degli
insediamenti rurali. In maniera preliminare va sottolineato
come gli attuali confini della provincia cremonese non corrispondano esclusivamente a quelli dell’antico ager cremonensis, diviso e assegnato a partire dalla fine del III secolo
a.C., ma comprendano anche parte del territorio riconducibile all’ager bergomensis, centuriato verosimilmente
molto più tardi, come per la vicina Laus Pompeia4, a partire
dal 89 a.C., in seguito all’azione della lex Pompeia de Transpadanis5. Tale premessa è indispensabile nella comprensione
(1) PASSI PITCHER 2003, pp. 211-219; BENEDETTI 2012, pp. 242247.
(2) In generale: Misurare la terra 1983. Sulla centuriazione cremonese: TOZZI 1972, pp. 7-51; TOZZI 2003a, pp. 110-122.
(3) TOZZI 2003b, p. 240
(4) Per l’ager bergomensis: TOZZI 1972, pp. 73-95; CANTARELLI
1992, pp. 188-189. Per l’ager laudensis: TOZZI, HARARI 1987, pp.
41-48; METE 2011, pp. 9-23.
(5) LURASCHI 1979; cfr. BONARDI supra.
di un contesto rurale complesso, non solo nelle sue definizioni cronologiche, ma anche spaziali. I lavori hanno
così permesso di leggere in maniera più ampia i caratteri
del popolamento in età romana, dal momento che sono stati
diversi i siti individuati e attribuibili distintamente ai territori dei due centri antichi. Nella fascia settentrionale,
quella di pertinenza bergomensis, si registra il rinvenimento
della villa di Sergnano, di resti di insediamenti e strade
nell’area compresa tra Romanengo e a N di Genivolta e Soresina. Nel settore centro-meridionale, quello dell’ager cremonensis, oltre ad alcuni resti insediativi tra Casalbuttano
e Soresina, di notevole interesse sono l’area di Olmeneta,
con quattro siti, e la villa di Pozzaglio.
La documentazione archeologica
Nella fase più antica, nel II e agli inizi del I secolo a.C., le
testimonianze sono piuttosto rarefatte e limitate. A Pozzaglio
loc. Solarolo del Persico, sul futuro sito di una villa, si
hanno le prime tracce, non a carattere edilizio, a partire dalla
fine del II secolo a.C., come emerge dai dati relativi al materiale ceramico presente negli strati più antichi. Al medesimo periodo sono riconducibili le notizie di frequentazioni, anche in questo caso desunte esclusivamente dal materiale ceramico senza contesti edilizi, di Olmeneta (Sito 32),
Corte de’ Cortesi (Sito 41), Casalbuttano (Sito 38). È
quindi possibile che in questa fase, non essendo il territorio
ancora pienamente sotto controllo, l’insediamento fosse
non solo rarefatto, ma concentrato in aree più sicure,
magari gravitanti attorno alla città e, come nel nostro caso,
lungo il settore orientale, comunque in area con presenza
cenomane e quindi fedele a Roma, a partire dalla vittoria
romana di Gaio Cornelio Cetego.
Nella maggior parte degli impianti individuati tuttavia
sembra intensificarsi la frequentazione nel I secolo a.C., forse
successivamente al nuovo riassetto della centuriazione di età
triumvirale, che dovette provocare significativi cambiamenti dal punto di vista della densità distributiva e delle
sorti delle proprietà preesistenti. I dati si fanno più cospicui a partire dal I sec. d.C. e, nel nostro caso, emergono
tre grandi impianti: Pozzaglio (Sito 50), Olmeneta (sito 33)
e Sergnano (Sito 22)6. I tre siti pur non essendo, come vedremo, gli unici portati alla luce, si rivelano di maggior interesse in primis per la superficie individuata e, poi, per la
tipologia delle evidenze che permette di cogliere una più
articolata distribuzione planimetrica.
A Pozzaglio (Sito 50), pochi metri a E dalla via Brescia, che
(6) Pozzaglio località Solarolo del Persico; Olmeneta area fienile
Zucchelli; Sergnano area cascina Valdroghe.
39
Tav. 1. Pianta del sito di Pozzaglio, località Solarolo del Persico,
zona sud.
ricalca in parte l’antico percorso romano, cardine della
centuriazione cremonese, è stato individuato un complesso
piuttosto articolato (tav. 1). Il sito si sviluppava in due
nuclei contigui, uno a N, con la presenza di un’area destinata
ad attività di servizio e uno a S, nel quale è stato individuato
un edificio. Il limite N delle strutture è rappresentato da
un canale di scolo che doveva servire allo smaltimento
degli scarichi dell’edificio. Immediatamente a S del canale
si sviluppa un ambiente le cui caratteristiche fanno pensare
a un lungo corridoio di collegamento tra i vani, con un probabile accesso a S e l’andamento di alcune fondazioni suggerisce la prosecuzione dell’edificio verso O. Lungo il fronte
meridionale sono stati individuati un pozzo e alcuni pilastri.
Si delinea così un’area centrale aperta e porticata.
Nel corso degli anni il primigenio impianto venne implementato con la costruzione di nuove strutture che si aggiunsero alla porzione meridionale dell’edificio, rimodulando l’area porticata e i vani collegati al corridoio. Il nucleo
a N della villa costituiva parte del lotto appartenente alla
proprietà, destinato all’ambito agricolo e produttivo. Alcuni
canali regolavano il flusso delle acque per le esigenze agricole,
mentre una serie di buche di palo costituiva probabilmente
l’anima di strutture in legno, utilizzate come ambienti produttivi, rimesse o ricovero per gli animali. Erano poi presenti un pozzo e i resti di una strada interpoderale. Nel corso
degli anni l’area subì alcune modifiche inerenti il sistema
di canalizzazione e comparvero alcune buche, forse per
40
cavare argilla per le costruzioni e ricavarne al contempo spazi
per scarico dei rifiuti.
Il sito di Olmeneta (Sito 33) (tav. 2) è stato individuato a
NE dell’attuale abitato. Venne edificato su un dosso fluviale
dell’Oglio, quindi in una porzione relativamente vicina al
fiume e ai vantaggi che ne derivavano, ma comunque al
riparo dal rischio idrico degli allagamenti. Inoltre, la scelta,
come per la villa di Pozzaglio, venne dettata probabilmente
dalla vicinanza dell’antica via Brescia7, poco distante. Il
primo sfruttamento dell’area, databile al I secolo a.C. è relativo alla presenza di strutture in legno, come si evince da
numerose buche di palo. Non è possibile stabilire una planimetria o una destinazione funzionale precise, in quanto
tale tipo di strutture poteva avere sia carattere residenziale,
seppure modesto8, sia produttivo o funzionale alle attività
agricole (magazzini, stalle et cetera)9. Sono state inoltre ritrovate due tracce riconducibili ad aratura, ma la loro posizione ed esiguità lascia alcuni dubbi circa la reale funzione.
Agli inizi del I secolo d.C. si assistette a una rimodulazione generale: furono rimosse le costruzioni di legno dell’area centrale per far spazio a un nucleo in muratura e
l’area edificata, sebbene labile, si distribuì notevolmente in
maniera eterogenea. Una serie di strutture murarie definiva, nell’area centrale, due vani di modesta grandezza.
Questi facevano parte di un edificio più articolato, ma
non è chiaro se residenziale o di servizio. All’esterno, a N,
erano inoltre presenti due fosse di fusione del ferro, per attività artigianali (fig. 1). Nel settore meridionale e occidentale invece, erano presenti lacerti murari, pilastri e
buche di palo, tra cui alcune che delineavano una struttura
rettangolare per contenere attrezzi o derrate. Dal punto di
vista distributivo di un certo rilievo appare la fondazione
individuata a N, da mettere in relazione con un edificio più
imponente, di cui non si hanno però ulteriori tracce, perché
oltre il limite occidentale dello scavo. Va sottolineato tuttavia come la presenza di canalizzazioni di scolo in nuda terra
poco distanti potesse rappresentare un limite di proprietà
o di destinazione d’uso con le costruzioni individuate a S.
È probabile infatti, che le strutture meridionali fossero di
servizio alla pars rustica di un complesso ampio e plurinucleato, la cui separazione era sovente prescritta anche per
scongiurare rischi di incendio dell’intero complesso10.
L’edificio di Sergnano (Sito 22) (tav. 3) sorgeva, nella prima
metà del I secolo d.C., poco a O del Serio, al riparo dalla
valle del fiume, che, come ancora oggi visibile dai numerosi resti di meandri antichi, aveva un percorso tortuoso e instabile. Le evidenze ritrovate, nonostante l’esigua
area di scavo11, suggeriscono un impianto di grandi dimensioni che usufruiva di una superficie estesa. Il limes
(7) TOZZI 2003b, p. 248.
(8) Varrone, De Re Rustica II, 10.
(9) Columella, De Re Rustica, 12, 15.
(10) Vitruvio, De architectura, VI, 6, 5: Horrea, fenilia, farraria,
pistrina extra villam facienda videntur, ut ab ignis periculo sint villae
tutiores (è opportuno situare i granai, i fienili, i magazzini per il
farro, i forni, all’esterno della villa per evitare il pericolo d’incendi).
(11) Va sottolineato come il sito, indagato parzialmente nel 2010,
sia attualmente oggetto di indagini che potranno integrare i dati e
chiarire in futuro uno sviluppo pressoché completo dell’edificio.
Fig. 1. La fossa per la fusione dei metalli in
corso di scavo.
Tav. 2. Pianta del sito di Olmeneta.
settentrionale dell’edificio era costituito da un canale, che
creava un divario netto tra la superficie edificata, quella a
S, e quella destinata probabilmente alla coltivazione. Dell’edificio è stata individuata una serie di vani, con una
certa articolazione spaziale (figg. 2-3). Definiscono una
distribuzione ad L e tale perimetro è assecondato dall’andamento di un piccolo canale, da mettere in relazione con
il punto di caduta della copertura, come scolo pluviale. Il
fronte meridionale si affacciava su un portico scandito da
una serie di pilastri. Dei tre pilastri individuati, quello cen-
trale aveva dimensioni più modeste e appariva leggermente
disassato, forse in conseguenza di un suo inserimento posticcio per rinforzare il sostegno del portico. In aderenza a
uno dei pilastri è stata rinvenuta parte di un’anfora infissa
nel suolo, al cui interno era presente un’olla con coperchio,
con funzione attribuibile a un rito di fondazione. Poco a
S del portico una serie di strutture murarie, frutto di un’aggiunta posteriore, sono riconducibili alla presenza di elementi per le attività di servizio. A S dell’edificio era presente
uno sviluppato sistema idraulico di servizio per il com41
Fig. 2. Particolare delle fondazioni di un ambiente dell’edificio di Sergnano.
Tav. 3. Pianta del sito di Sergnano, località Cascina Valdroghe.
plesso. Oltre alla posa di due pozzi venne costruita una
vasca rettangolare. Dalla vasca, che tagliava un canale E-O
preesistente, ma forse in parte ancora in uso, si dipartiva
ad O un altro canale che proseguiva in direzione dell’edificio e il rinvenimento di elementi di fistula plumbea si ricollega alla presenza di una tubatura. La vasca costituiva
quindi una cisterna di raccolta dell’acqua piovana, tra cui
quella proveniente dalla copertura dell’edificio, convogliata
nei canali. Ad un certo momento, tra l’edificio e l’impianto
di smistamento delle acque, si inserì una strada interpoderale, disorientata rispetto al complesso, che doveva servire
per gli spostamenti interni dei mezzi.
Oltre ai tre grandi nuclei sopra descritti, è stato indivi42
duato un buon numero di siti coevi, riconducibili a resti
insediativi. La loro descrizione risulta limitata in quanto
spesso si tratta di siti appena intercettati dai lavori di posa
del metanodotto e quindi non indagati su una superficie
estesa. Si tratta comunque di strutture assimilabili ad aree
di servizio o ambiti residenziali di fattorie e ville12.
Seppur limitati e di non facile lettura essi contribuiscono
comunque a completare il quadro generale al riguardo.
L’analisi integrata di tutte le evidenze insediative infatti, permette di presentare diverse osservazioni.
Il primo elemento che emerge è legato all’adattamento di
questi siti al territorio naturale. Dal punto di vista geomorfologico la rete dei lavori ha coinvolto numerose unità,
come il livello fondamentale della pianura, dossi e paleomeandri, in una porzione di territorio solcata da importanti
corsi d’acqua, come l’Oglio e il Serio13. Un assetto quindi
abbastanza eterogeneo e complesso, che ha influenzato le
scelte insediative sin dall’antichità, soprattutto da parte
dei Romani, i quali ben sapevano cogliere le potenzialità
e i caratteri di un territorio14. La totalità dei siti individuati occupa infatti, aree geomorfologicamente felici per
l’insediamento. Un caso degno di nota è rappresentato dai
numerosi insediamenti rinvenuti tra Olmeneta e Corte de’
Cortesi. Oltre al Sito 33 infatti, sono stati individuati
nuclei molto vicini, tutti impostati sul medesimo dosso
fluviale prospiciente l’Oglio15, indice di un’attenta lettura,
ai fini insediativi, del paesaggio naturale. Le scelte insediative, adattandosi necessariamente al territorio naturale,
sottintendono inoltre esigenze di comodità ai collegamenti
con le infrastrutture, come dimostra la vicinanza di molti
siti alla via Brescia.
Dal punto di vista costruttivo per i tre nuclei di Pozzaglio,
Olmeneta e Sergnano la maggior parte delle evidenze è relativa a resti murari, con utilizzo di materiale laterizio e, ma
solo nel caso della vicinanza ai bacini di approvvigionamento
come a Sergnano, lapideo. Per gli altri siti vi è predominanza
di strutture lignee, mentre più limitata, non solo per la
(12) Romanengo (18), Olmeneta (32, 45, 63), Casalbuttano (38),
Azzanello (4), Corte de’Cortesi (41), Bordolano (65), Robecco
D’Oglio (55), Cremona (58).
(13) PELLEGRINI 2003, pp. 19-34.
(14) DALL’AGLIO 1996, pp. 59-68.
(15) MARCHETTI 1992.
Fig. 3. Panoramica di alcuni ambienti della villa di Sergnano in corso di scavo.
destinazione funzionale probabile, ma anche perché in
alcuni casi non individuata, appare la presenza di strutture
in laterizio. In questi ultimi casi si trattava probabilmente
di resti di fattorie o di aree di servizio collegate ad impianti
di grande dimensione. Va infatti tenuto conto che per ragioni evidenti spesso le proprietà erano plurinucleate, con
la conseguenza che, alla luce della lacunosità dei resti e
dell’esiguità delle superfici indagate, l’attribuzione funzionale certa diventa rischiosa e fuorviante nell’ambito
della lettura distributiva del popolamento16. Inoltre, non
possiamo escludere la possibilità che alcuni insediamenti potessero appartenere ad agglomerati di edifici, alla stregua di
villaggio, come i vici17.
Per quanto concerne considerazioni di carattere planimetrico sono ancora i tre siti principali a fornire maggiori
spunti. L’impianto di Sergnano, si presenta con una di(16) Diverse sono le problematiche legate al popolamento di età
romana, soprattutto per la Pianura Padana. Alle difficoltà di attribuzione funzionale delle evidenze (ville, fattorie, aree plurinucleate, ecc.) si aggiunge la mancata corrispondenza dal punto di
vista distributivo tra i lotti agricoli e le strutture individuate o individuabili (missing sites). Per un quadro generale sulla problematica,
anche se preannibalica e su altra area geografica: PELGROM 2008, pp.
333-372. Per Cremona un calcolo generale viene fornito da TOZZI
2003a, pp. 122-123.
(17) Per un’analisi completa dal punto di vista terminologico e
giuridico: CAPOGROSSI COLOGNESI 2002, pp. 5-47.
stribuzione tale per cui la presenza di aree cortilizie e del
portico lasciano ipotizzare una struttura a sviluppo lineare,
o, tenendo conto che le due tipologie non hanno una differenziazione così netta18, più probabilmente ad “U”, organizzata intorno ad un’area scoperta. Questa articolazione
prevede quindi uno sviluppo su tre lati, aperti su un’area
di cortile, generalmente verso S, secondo uno schema
classico molto diffuso per l’edilizia rurale, che trova confronto in un buon numero di edifici censiti nella Venetia
e in Aemilia19. I medesimi caratteri sembra presentare la villa
di Pozzaglio: un’area porticata su due fronti ed esposizione
a mezzogiorno. In entrambi i casi l’esposizione a S, rientra
appieno nelle raccomandazioni degli antichi agronomi20.
(18) Fa notare giustamente Gros: ”Il va de soi d’ailleurs que la coupure
entre les deux grands types s’avere dans bien des cas moins nette qu’on
ne le croit: nombreuses sont les villas à développement linéare qui, par
l’adjionction d’ailes laterale délimitant une coeur intérieure”; GROS
2006, pp. 265-349, in particolare p. 325, con numerosi esempi
dalle provincie occidentali.
(19) Per la Venetia et Histria si vedano i numerosi edifici proposti
in: BUSANA 2001, pp 507-538; DE FRANCESCHINI 1999, pp. 189191; DE FRANCESCHINI 1999, pp. 175-177; BUSANA 1999, pp.
223-239; BUSANA 2002. Aemilia: ORTALLI 1994, pp. 169-222;
SCAGLIARINI CORLAITA 1989, pp. 11-36. Lazio: MUSCO, ZACCAGNI
1985, pp. 90-106.
(20) Columella, De Re Rustica 1, 5.; Catone, De Agricultura, 1, 3:
Si poteris […] in meridiem spectet (Quando possibile… che guardi
a sud).
43
In generale però, per tutti i siti individuati, si rivela ardua,
se non impossibile, una definizione spaziale e funzionale
completa tale da permettere di individuare con assoluta
certezza una pars dominica e una pars rustica. Ciò è dovuto
non solo alla esiguità delle aree indagate, ma anche allo stato
di conservazione delle strutture, tutte in fondazione, tale
per cui non sono più presenti i piani pavimentali e le suddivisioni interne dei vani. Tuttavia, per quanto riguarda gli
impianti con distribuzione a “U”, nello specifico Pozzaglio
e Sergnano, alcuni confronti e alcune considerazioni legate
all’esposizione ottimale, permettono di ipotizzare una dislocazione tra pars dominica nel settore occidentale e nord
occidentale e pars rustica nella restante parte dei complessi21. Il sito di Olmeneta invece, con la presenza di nuclei
distinti, non è di facile interpretazione planimetrica. Le
strutture infatti, non sembrano avere carattere residenziale,
ma funzionali alle attività agricole, quindi appare rischioso
definirne i caratteri secondo categorie precise, anche se è
possibile assimilarle alla definizione di “schema centrifugo”22,
cioè in cui diversi nuclei della medesima proprietà non si
concentrano attorno ad un’area chiusa. Per quanto concerne
i sistemi idraulici, se si esclude il caso di Sergnano, i dati
sono pressoché nulli o limitati ad aspetti più generali di gestione delle acque. La labilità dei resti infatti non ha permesso di rinvenire condutture di scolo o di approvvigionamento, che pur in alcuni casi dovevano esserci, ma una
serie di pozzi e di canali in nuda terra che talvolta fungono
anche da perimetrazione o limes dei complessi, come per
i già citati siti di Sergnano, Olmeneta e Pozzaglio; mentre
altre volte i canali si rivelano funzionali alle attività agricole
e irrigue, interagendo nella sintassi degli insediamenti ma
facendo parte del più ampio sistema di bonifica e assetto
agrario centuriale. A tal proposito si rivela come l’assetto
centuriale abbia chiaramente influenzato l’orientamento
della maggior parte dei siti, che risultano coerenti ai due
assetti presenti sul territorio. Per Sergnano è evidente come
l’orientamento del complesso corrisponda a quello dell’ager bergomensis e come l’edificio andasse a inserirsi probabilmente sul lato meridionale della centuria. Ugualmente, per l’ager cremonensis, gli edifici, tra cui Pozzaglio,
risultano coerenti all’assetto centuriale. Diversamente si
delinea l’insediamento di Olmeneta, il cui orientamento generale non corrisponde a quello dei campi centuriati forse,
proprio per la sua vocazione artigianale, non soggetto a
uno schema di orientazione rigido, o per altri fattori. Si può
pensare infatti, che l’area fosse attraversata da una strada o
da un canale preesistente con un andamento obliquo e che
la fattoria si sia organizzata su questo asse, orientata quindi
non con la centuriazione ma con un’infrastruttura interna
alla centuria che non conosciamo. Improbabile, per la presenza di alcuni allineamenti ancora visibili, si rivela invece
la possibilità di essere in un’area non centuriata, anche se
sappiamo che la vicinanza al fiume (in questo caso l’Oglio)
come ad altri elementi naturali di impedimento, in fase di
limitatio, dissuadeva dal prolungamento degli assi di divisione agraria23. Per quanto riguarda la cronologia, tutti
(21) BUSANA 2001, p. 524.
(22) ORTALLI 1994, pp. 176-184.
(23) REGOLI 1983, pp. 98-100; DALL’AGLIO 2009, pp. 279-297.
44
questi siti non sembrano proseguire oltre il IV-V secolo d.C.,
in cui si registrano gli abbandoni definitivi, eccetto il sito
di Pozzaglio.
Degna di nota infine, oltre che ad alcune necropoli24 e ai
numerosi canali e opere di assetto agrario riconducibili
alla centuriazione, è la presenza di tratti stradali antichi
individuati25. Costituiti da laterizi frammentari pressati
nel suolo, similmente alle strade che oggi i contadini utilizzano tra i campi per gli spostamenti dei mezzi, coincidono in massima parte con gli assi della centuriazione e
testimoniano, oltre all’attività agricola intensa, l’esigenza di
collegamenti interpoderali e con gli assi stradali più importanti.
Gianluca Mete
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(24) Le stesse sepolture spesso possono essere di tipo prediale (cioè
relative ad una proprietà vicina) e quindi indicative, ex silentio, della
presenza di insediamenti.
(25) Romanengo (20), Sergnano (22), Casalbuttano (37), Pozzaglio
(50), Cremona (54).
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I reperti ceramici di epoca romana provenienti dal territorio:
spunti di riflessione 26
Il rinvenimento di un gruppo di reperti ceramici databili
entro il II secolo a.C., scoperto nelle aree di Olmeneta,
Casalbuttano e Pozzaglio27, supporta l’ipotesi che le prime
testimonianze di una presenza romana stabile nel territorio possano essere ascritte a questo orizzonte cronologico
(tav. 4). Si tratta nella quasi totalità di classi e forme ceramiche che rimandano alla tradizione alimentare romana,
in cui predomina il vasellame a vernice nera28, a cui si affiancano numerose olle da fuoco che trovano riferimento
in esemplari diffusi in centro Italia29.
L’approvvigionamento di vino era garantito tramite i traffici
con l’area adriatica30 e una distribuzione interna che sfruttava
le reti fluviali e la mediazione di centri di smistamento. Qui
giungevano anche merci più rare, acquistate come prodotti di prestigio, come l’apprezzato vino di Rodi, un vino
liquoroso ottenuto da uve mature a cui veniva aggiunta dell’acqua di mare31.
Su questi contenitori venivano apposti due bolli, uno riferito
al fabbricante, l’altro al magistrato eponimo (cioè che dava
il nome all’anno) che era in carica. Si pensa che questa indicazione servisse a precisare il momento dell’imbottigliamento, dato che il vino rodio non era in grado di sopportare tempi lunghi. Sull’ansa dell’unico esemplare scoperto negli scavi rimane parte del bollo […]AMVNOS/[…]
(tav. 5. a), in cui si fa riferimento all’eponimo Dãmvn
(Damon)32, in carica nel 110 a.C.33
In epoca tardorepubblicana legami con la tradizione locale
sono testimoniati da forme e produzioni che rimandano al
mondo celtico, come le ciotole tardo-celtiche e forme
acrome imitanti il vasellame a vernice nera34 per i recipienti
da tavola, e le olle di tradizione celtica, con decorazioni
tipiche del repertorio35, impiegate nella cottura dei cibi.
Contatti con l’area veneta sono testimoniati da coppe e
(26) In questa sede vengono presentati preliminarmente i dati emersi
dallo studio dei reperti ceramici di epoca romana; per un approfondimento delle tematiche e delle classi vascolari si rimanda ad un
volume di prossima pubblicazione.
(27) Si tratta dei Siti 32 e 33 a Olmeneta, 38 a Casalbuttano e 50
a Pozzaglio, in località Solarolo del Persico.
(28) In particolare si segnalano i piatti a tesa ricurva Morel 1315,
una patera affine al tipo Morel 1624, le coppe ad orlo indistinto e
a labbro ingrossato Morel 2538 (BRECCIAROLI TABORELLI 2000, p.
26; CARINI 2008, pp. 137-138, 140 e 143-144).
(29) OLCESE 2003, pp. 79-81, tipi 2 e 3.
(30) Si datano entro la fine del II a.C. le anfore greco-italiche tarde,
per le quali si rimanda a STOPPIONI 2008, pp. 302-306.
(31) Sebbene sia un prodotto di importazione a diffusione limitata, molti studiosi concordano sul fatto che si trattasse di un vino di
modesta qualità. In merito GIOVAGNETTI 2009, pp. 19-20 e note 3031.
(32) L’iscrizione è integrabile come [Ep‹ D]ãmonow/[...]; non è leggibile la riga sottostante in cui viene riportato il nome del mese di
produzione. Per le attestazioni si veda CRISCUOLO 1982, pp. 52-53
e nota 133.
(33) L’attribuzione del periodo di carica dell’eponimo è stato oggetto
di una revisione da parte di G. Finkielsztejn (FINKIELSZTEJN 2001,
pp. 128 e 156, tab. 21: periodo Vc).
(34) DELLA PORTA, SFREDDA 1996, pp. 135-136.
(35) GUGLIELMETTI, LECCA BISHOP, RAGAZZI 1991, pp. 169-171.
45
II secolo a.C.
I secolo a.C.
I-II secolo d.C.
Tav. 4. Tavola tipologica delle principali forme ceramiche attestate nei siti di Sergnano, Olmeneta e Pozzaglio.
46
a
b
c
d
e
Fig. 4. Fondo di patera in vernice nera con impressione di
gemma con leone balzante.
f
Tav. 5. Tavola dei bolli rinvenuti nel corso degli scavi del metandotto.
coppe-mortaio in ceramica grigia36 e da rari recipienti con
impasto molto grossolano, che trovano corrispondenze in
Italia nord-orientale37.
Nel I a.C. perdurano i flussi commerciali con l’area adriatica legati al commercio di vino38. Sull’ansa di un’anfora
Lamb. 2 compare il monogramma LTAR (tav. 5, b), che fa
riferimento ad un personaggio forse omonimo del console
di età augustea Lucio Tario Rufo, o comunque legato alla
gens Taria, noti produttori di anfore39.
Nel corso del secolo la produzione a vernice nera, documentata da forme ampiamente note nell’area mediopadana40, mostra un progressivo scadimento. Tipici di
questa fase sono i piatti decorati da impressioni di gemme
o paste vitree intagliate, con soggetti che attingono al repertorio figurativo in uso41; alcuni sono di discreta qualità42
(36) CASSANI et alii 2007, pp. 258-260, fig. 2, 1 e fig. 3, 1-2.
(37) Sull’olla tipo Sevegliano 4, CASSANI, FAILLA, SANTORO 1997,
p. 95.
(38) In questa fase sono documentate esclusivamente anfore di tipo
Lamboglia 2 e ovoidali adriatiche.
(39) BRUNO 1995, pp. 224-227, n. 67-68; NICODEMO, RAVASI,
VOLONTÉ 2008, p. 292, tav. 5, n. 1.
(40) Il repertorio è composto soprattutto da patere Morel serie
2280 e da ciotole Morel 2653/2654; minori sono le presenze di
piatti Morel 1443, piattelli Lamb. 4 e pissidi Morel 7544; per i
riferimenti si rimanda a GRASSI 2008.
(41) SENA CHIESA 2002, p. 29.
(42) È il caso della patera decorata da impressioni di gemme con
leone balzante, iconografia assai diffusa nella glittica romana (SENA
CHIESA 1966, pp. 362-367). Lo stesso motivo si trova impresso
anche su due Acobecher scoperti a Sirmione e a Cremona (ROFFIA
2005, figg. 34 e 92; VOLONTÉ 2007, p. 228, fig. 1). Ben leggibile,
seppur parziale, è l’impronta su una patera con figura maschile,
curva e in movimento, che regge due aste (?); il motivo sembra appartenere alle raffigurazioni di vita campestre di derivazione ellenistica. Per intagli simili si vedano FURTWÄNGLER 1900, p. 140,
Fig. 5. Frammento di impressione di gemma con figura maschile
con aste (?).
Fig. 6. Patera in vernice nera decorata da impressioni di gemma
con animale.
(figg. 4-5) mentre su altri43 (fig. 6) l’intaglio è così superficiale da rendere dubbia l’identificazione del motivo.
Proprio la scarsità di lettura dei soggetti ha fatto dubitare
su una loro funzione esclusivamente ornamentale44.
tav. XXVIII, n. 31; MANDRIOLI BIZZARRI 1987, p. 47, n. 18.
(43) Il soggetto ritrae un quadrupede di profilo verso destra, con
corpo e muso allungati; l’incertezza dei dettagli impedisce di determinare con precisione l’animale (forse un bovide?). Sul repertorio
con animali, SENA CHIESA 1966, pp. 344-345.
(44) M.T. Grassi ha ipotizzato che la comparsa di questi elementi
47
Verso la fine del I secolo a.C., a seguito di un cambiamento di gusto, questa produzione viene progressivamente
sostituita da vasellame in vernice rossa, la terra sigillata; il
legame e la continuità produttiva tra le due classi sono
stati più volte ribaditi e trovano una conferma nei reperti.
Su un frammento in terra sigillata compare il marchio di
fabbrica TERTI (tav. 5, c) entro cartiglio in planta pedis,
attribuibile al vasaio padano Tertivs45, attivo nel I d.C. Un
bollo analogo, anch’esso in planta pedis, è attestato su un
altro fondo pertinente ad una ceramica a vernice nera (tav.
5, d)46, a riprova dell’attenzione dell’artigiano nei confronti di entrambe le classi47. Inoltre, alla luce di questa
seconda attestazione, è possibile anticipare di alcuni anni,
intorno al 15 d.C. circa, l’attività del fabbricante, generalmente collocata a partire dal 30 d.C.48
Nella prima metà del I secolo d.C., con la nascita dei complessi rustici di Sergnano, Olmeneta e Pozzaglio, si assiste
nel panorama vascolare alla predominanza di vasellame di
fabbricazione padana, composto soprattutto da piatti e
coppe in terra sigillata49, a cui si affiancano rari esemplari
importati dal centro Italia, di qualità decisamente superiore.
Tra le forme potorie diffusissime sono le coppe in pareti
sottili a corpo ceramico grigio, decorate da motivi geometrici e vegetali alla barbottina50, con richiami evidenti alle
ben più costose argenterie.
Il tenore di vita degli abitanti non doveva risultare particolarmente elevato, come conferma anche l’assenza di
vasellame in vetro, prodotto particolarmente pregiato.
Si discosta da questo quadro la villa di Olmeneta, che ha
restituito testimonianze, seppur scarse, di terra sigillata importata dalle Gallie, tra cui forme lisce, presenti già nel I
secolo d.C.51 Si tratta di una produzione piuttosto raffinata rispetto a quella norditalica, e assai più costosa anche
a causa delle difficoltà di trasporto attraverso i passi alpini.
È un dato in controtendenza con quanto finora emerso nel
Cremonese, sempre poco ricettivo nei confronti di questo
potesse essere in qualche modo legata a una delle fasi del processo
produttivo (GRASSI 2002, pp. 45 e 51; GRASSI 2008, p. 66).
(45) Per confronti DELLA PORTA 1998, p. 114; OCK, 2074.1; Vasa
rubra 2007, p. 235, scheda n. 178.
(46) Non si tratterebbe del solo caso: questo marchio compare
anche sul fondo di una patera a vernice nera in associazione a
stampiglie di diverso genere, scoperto a Solferino, nel mantovano
(PICCOLI 1993, pp. 162-165, tav. 4, b; DELLA PORTA 1998, p. 114,
nota 102).
(47) In merito, VOLONTÉ 1992-93, pp. 224-225 e note 38-42;
SFREDDA 1998, p. 22 e nota 10.
(48) Si data a questo periodo l’ultima produzione di vernice nera,
in coincidenza con l’inizio dei bolli in planta pedis, che convenzionalmente viene posto intorno al 15 d.C.
(49) Sono attestate soprattutto le patere Consp. 20, Drag. 37/32 e
Drag. 31 e le coppe Consp. 34 e Drag. 40; alcune hanno una
cronologia più avanzata e possono pertanto essere messe in relazione
con le fasi di frequentazione degli edifici.
(50) MASSEROLI 2010, pp. 297-298.
(51) Per la produzione liscia sono attestate due patere Drag. 17A e
Drag. 17B e una coppa Drag. 46, a cui si aggiunge un frammento
di coppa a matrice Dragendorff 37. In ambito lombardo le forme
lisce in terra sigillata gallica sono note a Milano (JORIO 1991, pp.
73-74) e a Cividate Camuno (FABBRI, GUALTIERI, MASSA 2004, p.
244).
48
Fig. 7. Mortaio in opus doliare con bollo C TAP. SVC.
mercato a vantaggio dell’acquisto di altri prodotti52.
Attesta l’uso in cucina di mortai per la preparazione di cibi
e ingredienti l’esemplare in opus doliare con bollo C
TAP.SVC (tav. 5, f ), che rimanda a Caius Tappius Successus, la cui produzione viene ricondotta generalmente ad
una officina centro-italica non meglio identificabile, attiva
nel I d.C.53. Secondo gli studi di S. Pallecchi, in base ad
alcuni dettagli morfologici l’esemplare rientrerebbe nel
tipo “padano”54 (fig. 7); questo aspetto, unito anche ad
una diffusione del marchio finora limitata all’ambito padano
e alpino55, potrebbe suggerirne una possibile fabbricazione
in nord Italia.
Perdurano anche in epoca imperiale i rapporti commerciali
in tutto il bacino dell’Adriatico, documentati dai numerosi
contenitori adibiti al trasporto di vino e olio56. Tra i reperti
bollati, si segnala un’anfora olearia, che reca sul labbro
l’indicazione epigrafica AM[P], generalmente intesa come
Amp(hio) Vibi (servus)57; su un contenitore usato per il
commercio di vino compare il bollo a lettere incavate
TI.IVLP, in cui si fa riferimento ad un personaggio, Ti(…)
(52) Sulla generale scarsità di importazioni di terra sigillata gallica
nell’entroterra padano, specialmente per le produzioni di I secolo d.C.,
si veda PISANO BRIANI 2006, pp. 16-17.
(53) Su questi manufatti si vedano ARSLAN 2002, pp. 311-313;
CORTESE 2003, p. 72 e note 46-47. La provenienza del manufatto
da una buca di scarico tardoromana, contenente materiale residuo,
non consente di stabilire una datazione per la sua fabbricazione e per
il periodo di attività del personaggio indicato nel bollo, sia esso produttore o più semplicemente un operaio dell’officina.
(54) Si tratta di una variante inalterata nella forma rispetto al tipo
centro-italico, ma differente nel labbro, più espanso e fortemente ricurvo, e nel tipo di solcatura attorno al versatoio (PALLECCHI 2002,
pp. 45-46, fig. 8).
(55) Al momento non sembrerebbero esserci attestazioni in ambito
centro-italico. Il bollo è attestato a Milano, Concordia (VE) e La
Phenche (Losanna) (PALLECCHI 2002, pp. 240-241, n. 35). Nel
nostro caso si tratta di un nuovo punzone rispetto a quelli noti. Gli
esemplari analizzati dalla Pallecchi erano privi di elementi per stabilire il tipo di variante.
(56) Sono attestate specialmente anfore Dr. 6A, destinate principalmente al trasporto vinario, prodotte tra la fine del I a.C. e nel I
d.C., e Dr. 6B, contenitori oleari fabbricati lungo l’Adriatico e nell’Istria.
(57) CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003a, p. 274; CARRE, PESAVENTO MATTIOLI 2003b, c. 462; PESAVENTO MATTIOLI 2000, p.
109 e nota 38.
Iulp(…), finora non identificato58 (tav. 5, e)
Alcuni contenitori da trasporto dal caratteristico corpo
troncoconico, prodotti in Istria e in nord-Italia, venivano
impiegati per il commercio delle olive59.
L’apprezzamento della cucina romana per le salse da pesce
trova conferma nelle anforette adriatiche destinate al
trasporto di liquamen, una salsa ottenuta dalla macerazione
con sale delle interiora e di piccoli pesci60, e di anfore di
origine ispanica, usate per il trasporto di altre qualità di salse
da pesce (garum, muria e hallec). Nei primi due secoli dell’Impero si intensificano i contatti commerciali con Rodi
e Creta per l’importazione di pregiato vino greco.
Tutti gli impianti delle ville sembrano aver subito modifiche,
che tuttavia non sono definibili cronologicamente per
mancanza di contesti stratigrafici puntuali. Una continuità
di vita degli edifici nella media età imperiale è testimoniata indirettamente dal recupero di forme ceramiche in uso
in questo periodo, soprattutto terre sigillate e recipienti
da cucina61. In questa fase i commerci con l’Egeo per l’approvvigionamento di vino mostrano una forte contrazione62
e, nel contempo, si affermano nuove direttrici di importazioni legate all’aumento dell’importanza economica di
nuove regioni dell’Impero. Con la crisi dei mercati italici,
ormai surclassati nelle grandi esportazioni, subentrano le
produzioni africane63.
Il definitivo declino dei complessi rustici avviene tra IV e
V d.C.64 Mentre per le ville di Sergnano e Olmeneta il
(58) Questo bollo, conservato su un piccolo frammento di parete,
è generalmente attestato su Dr. 6A e su 2/4 italiche (PESAVENTO MATTIOLI 1992, pp. 168-169, n. 5; PESAVENTO MATTIOLI 2000, pp. 109110).
(59) I tituli picti sulle anfore di tipo Schörgendorfer 558 fanno
riferimento a olive nere e verdi. Sull’area di fabbricazione vengono
proposte la regione istriana o il nord Italia; quest’ultima è stata recentemente confermata da analisi minero-petrografiche condotte
su esemplari da Vindobona, che hanno indicato argille forse provenienti dal Lago di Garda (BEZECZKY 2009, pp. 342-343).
(60) Per il tipo si veda CARRE, PESAVENTO MATTIOLI, BELOTTI
2009, pp. 228-230. L’ipotesi sul contenuto viene sostenuta sulla
base della frequente impeciatura e su alcuni tituli picti presenti su
questi contenitori; in merito si vedano le osservazioni formulate
dalle studiose alle pp. 221-224 e 232.
(61) Per un panorama della terra sigillata di media e tarda età imperiale si veda JORIO 2002, pp. 324-327; per il repertorio da cucina,
CORTESE 2003, pp. 70-74.
(62) Si segnalano due anfore San Lorenzo 7, contenitore diffuso tra
il II e il IV d.C. (CORRADO 2003, p. 107 e note 45-54; BRUNO 2003,
p. 88 e nota 28). Un frammento di parete con lievi costolature e corpo
ceramico contraddistinto da un’elevata percentuale di mica, potrebbe
appartenere ad un contenitore monoansato tipo Agorà 65-66; questi
piccoli recipienti, prodotti in area egea e microasiatica tra il I e il IV
d.C. (BRUNO 2002, pp. 280-281), finora sembrano attestati in
ambito lombardo a Brescia (BRUNO, BOCCHIO 1999, p. 235; BRUNO
2002, pp. 280-281), a Cremona (NICODEMO, RAVASI, VOLONTÉ
2008, p. 300) e forse a Chiavenna (MARIOTTI et alii 2009, pp. 574575).
(63) In questa fase sono documentate le prime importazioni dall’Africa; proviene dalla Tunisia un’anfora cilindrica di grandi dimensioni affine al tipo Africano I, contenitore destinato al trasporto
di olio, diffuso a partire dalla seconda metà del II secolo fino agli inizi
del IV d.C. (BRUNO 2002, p. 284).
(64) Per ulteriori considerazioni sui reperti di epoca tardoantica, cfr.
VOLONTÉ infra.
ciclo vitale non sembra prolungarsi oltre questo periodo,
diverso è il caso di Pozzaglio, con indizi di una frequentazione che si protrasse per altri due secoli.
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Un esempio di ritualità domestica: il rito di fondazione
della villa di Sergnano
Durante lo scavo del complesso rustico di Sergnano è stato
compiuto un singolare rinvenimento che merita alcuni approfondimenti e riflessioni.
Accanto alla fondazione di uno dei pilastri posti lungo il
lato meridionale del cortile, è stata scoperta una piccola fossa
a pianta ovale65 che conteneva i resti frammentari di un’olla
ad impasto depurato e di un coperchio in ceramica grezza,
mescolati a un terreno in parte carbonioso; sul fondo era
stata collocata come rivestimento per la buca la parte inferiore di un’anfora, volutamente segata all’altezza del ventre
(fig. 8).
È presumibile che in origine l’olla e il coperchio siano stati
deposti all’interno della fossa in condizioni di integrità e che
l’olla, chiusa dal coperchio, fosse adagiata verticalmente
sul fondo dell’anfora (tav. 6). È probabile che, in seguito
all’abbandono del complesso, il crollo della copertura possa
avere provocato la rottura dei recipienti: l’ipotesi è avvalorata dal recupero nella terra di riempimento di frammenti
laterizi che potrebbero essere appartenuti alle strutture dell’edificio.
Un altro singolare aspetto è emerso dopo il restauro dei manufatti (fig. 9): l’olla era totalmente priva della parte inferiore66 e questo ha fatto presumere che l’anfora dovesse
svolgere una duplice funzione di fodero interno per la buca
e di fondo per il contenitore, mentre il coperchio doveva
servire a coprire l’imboccatura del vaso, preservando l’integrità del contenuto.
La buca era stata realizzata contestualmente all’edificazione
della casa e doveva essere verosimilmente occultata dalla
pavimentazione del cortile.
In base alla tipologia dei manufatti collocati all’interno, il
deposito può essere ascritto alla prima metà del I secolo d.C.,
concordemente alla cronologia delle fasi iniziali di vita dell’edificio.
Diversi aspetti portano a ritenere che questa deposizione,
chiaramente intenzionale, rientri nelle cosiddette “stipi
votive domestiche”, contenitori chiusi entro fosse sigillate
e collocati a scopo propiziatorio in posizioni significative
di un edificio, generalmente a ridosso di strutture. Si tratterebbe pertanto di una deposizione a carattere rituale
legata ad un possibile rito di fondazione avvenuto al momento della costruzione del complesso.
In quest’ottica appare estremamente significativa l’ubicazione del deposito a ridosso della fondazione di uno dei
pilastri dell’edificio, quasi a voler sottintendere un legame
intrinseco con la struttura muraria e, di conseguenza, con
l’intero edificio; il valore sacrale sembra essere sancito anche
dalla sua collocazione in prossimità del focolare, lo spazio
destinato alla celebrazione dei rituali domestici.
È stato escluso che la fossa potesse rivestire altre funzioni
(65) Le misure della fossa sono di 0,46 x 0,43 m; la profondità è
di circa 0,35 m.
(66) Sembra che per il deposito sia stato impiegato un contenitore
di riutilizzo, mancante della parte inferiore perché rotta; a mio
giudizio appare meno credibile l’ipotesi che la privazione del fondo
sia legata a un qualche fattore intenzionale.
51
Fig. 8. Rito di fondazione identificato presso uno dei pilastri della villa di Sergnano.
Fig. 9. I vasi del deposito votivo di Sergnano dopo il restauro.
Tav. 6. Ricostruzione del deposito votivo di fondazione della villa
di Sergnano
quali, ad esempio, modalità di conservazione o di decantazione di alcuni prodotti alimentari (una sorta di
“silos”)67, soprattutto per lo stato di parzialità del con(67) È il caso, ad esempio, dell’olla inserita nel terreno e leggermente
affiorante rispetto al piano di calpestio, documentata in uno degli
edifici di età romana scoperti nei cortili dell’Università Cattolica di
Milano (CORTESE 2011, pp. 7-8; PERASSI 2011, pp. 14-16). Presso
52
tenitore presente all’interno, che mal si appresterebbe al deposito e alla custodia di derrate alimentari68.
Benché gli aspetti cultuali che si nascondono dietro a questi
depositi votivi rimangano al momento poco chiari (anche
l’edificio rustico delle cave Nord a Calderara di Reno, in due ambienti del complesso sono stati rinvenuti ollette, anfore e dolia infissi nel terreno, appartenenti alle dotazioni della cucina/dispensa e
del magazzino/cantina; alcuni di essi conservavano all’interno ancora
resti di vegetali carbonizzati (ORTALLI 1994, p. 180).
(68) L’anfora e l’olla non garantivano infatti una sufficiente tenuta
e protezione verso eventuali contaminazioni dal terreno circostante.
Nel riempimento, frammiste al materiale ceramico, sono state rinvenute tracce di un terreno carbonioso, che potrebbero forse appartenere ai resti di un’offerta: ulteriori elementi chiarificatori potranno forse venire dallo studio paleobotanico condotto sul sedimento.
Fig. 11. Pendente in bronzo con membro
maschile di profilo dalla villa di Pozzaglio.
Fig. 10. Rito di fondazione della domus di piazza Marconi a Cremona.
le fonti letterarie raramente ne fanno menzione69), si tratta
di particolari forme di religiosità domestica, che spesso
esulano dal mondo romano e che spaziano ad ambiti culturali e cronologici piuttosto ampi.
Per una più attenta valutazione del contesto l’analisi è stata
necessariamente rivolta alla ricerca di casi analoghi e alla
comparazione con situazioni affini dal punto di vista cronologico e geografico.
Limitandosi all’ambito strettamente romano e a contesti
prettamente domestici, sono riportati casi simili nel territorio circostante, nel cremonese e a Milano, ma le attestazioni sembrano interessare anche le aree d’Oltralpe.
Il confronto più stringente può essere stabilito con un deposito a scopo rituale scoperto presso una delle domus di
età augustea rinvenute in piazza Marconi a Cremona: accanto a una delle fondazioni murarie venne rinvenuta una
piccola buca quadrata contenente un’olla in ceramica
depurata, chiusa da un coperchio ritagliato e sigillata tramite
malta cementizia, al fine di garantire una chiusura ermetica70 (fig. 10).
Non lontano, nel vicus di Calvatone-Bedriacum (CR), sotto
il pavimento del cortile della Domus del Focolare, una fossa
situata in prossimità del focolare, contenente reperti ce(69) Ad esempio, Ovidio racconta che Romolo, completate le azioni
augurali per la fondazione della città, scavò nei pressi della sua casa
una fossa per deporvi primizie e terra provenienti dall’ager Romanus
e dal Lazio e vi edificò un’ara, presso cui accese un fuoco puro
(Ovidio, Fasti, IV, 813-823). Il ritrovamento sul Cermalo, vicino alla
capanna regia, di una fossa nel tufo contenente un vaso di epoca tardoarcaica affiancata da un’ara, supporta archeologicamente i testi della
tradizione (CARANDINI 2006, pp. 159-160).
(70) Il ritrovamento e i reperti sono stati presentati in occasione della
mostra “Piazza Marconi: un libro aperto. La storia, l’arte, il futuro”,
tenutasi a Cremona nel 2008.
Fig. 12. Tintinnabula in bronzo dalle ville
di Olmeneta e Pozzaglio.
ramici, in gran parte ricostruibili, inquadrabili non oltre
l’epoca cesariana, fu ritenuta ragionevolmente esito di una
deposizione legata ad un rito di fondazione della domus 71.
A Milano, nel vano di uno degli edifici romani scoperti nei
cortili dell’Università Cattolica, venne scoperta un’olla in
ceramica comune contenente tre monete in argento, tutti
denarii di età repubblicana, inserita in una buca vicino alla
fondazione di un muro, sotto il piano di calpestio. In base
alle modalità della deposizione e alle evidenze stratigrafiche, venne proposta un’interpretazione del deposito quale
rito connesso alla fondazione dell’edificio72.
In Francia, fino al III secolo a.C. sono documentati casi di
stipi votive entro abitazioni con deposizioni di vasi forati,
utilizzati presumibilmente a scopo libatorio; frequenti sono
anche le attestazioni, sempre in ambito abitativo, di fosse
con resti di offerte animali, ben documentate anche nel
corso del I secolo a.C.73
Allo stato delle ricerche non è possibile riconoscere dietro
a queste pratiche liturgie codificate; si tratta generalmente
di riti sacrificali che possono essere cruenti o incruenti (nel
caso in esame non sembra siano avvenuti sacrifici animali)
connessi alla costruzione o alla riqualificazione di strutture,
edifici o aree. L’unica discriminante sembra essere al momento la collocazione di queste fosse a ridosso di un elemento strutturale dell’edificio, quasi a sancire la stretta relazione con esso.
(71) RAVASI 2013, pp. 61-62.
(72) CORTESE 2011, pp. 13-14; PERASSI 2011, pp. 14-16.
(73) Tra questi è da citare una piccola fossa scavata nella trincea di
fondazione di una casa di III secolo a.C., nei pressi di Lattes, che conteneva, integro e in posizione verticale, un vaso a fondo bucato,
ritenuto una deposizione intenzionale; vasi analoghi sono spesso
attestati nella regione in associazione a focolari. (PY 1990, pp. 784785).
53
Questi depositi dovevano costituire una sorta di piccoli
donarii necessari ad ottenere una protezione della
costruzione da parte della divinità, o forse dovevano servire
a ricompensare entità soprannaturali per il turbamento
provocato nello status naturale del luogo, avvenuto al momento dell’edificazione74.
Anche in epoca romana questi riti propiziatori trovarono
comunque terreno fertile: si diffusero in ambito rurale (è
il caso, ad esempio, della villa rustica di Sergnano), ma
furono appannaggio anche dagli strati più abbienti della
popolazione, come dimostra il rinvenimento della stipe
votiva nella ricca domus di Cremona.
È peraltro risaputo il diffuso timore degli antichi Romani
nei confronti di influssi maligni, che venivano contrastati
tramite il ricorso, oltre a riti scaramantici, anche ad amuleti
che offrissero protezione all’individuo da forze sovraumane
negative. Non a caso alcuni degli oggetti rinvenuti nelle ville
romane rievocano proprio queste credenze magico-superstiziose legate alla sfera privata ed estranee alla religiosità
ufficiale. Possedeva una chiara valenza scaramantica il
fallo, considerato un potente mezzo per attirare il fascinum
(il malocchio), che veniva lanciato tramite lo sguardo,
distogliendolo così dalla persona a cui era diretto; per
questo motivo erano frequenti i pendagli raffiguranti
membri, che potevano essere usati come amuleti indossati
al collo o alla cintura oppure appesi nelle abitazioni (fig.
11)75.
Anche i tintinnabula (fig. 12), piccoli campanelli in bronzo
diffusi tra il I e il III secolo d.C., erano oggetti di forte
valenza simbolica e apotropaica, in quanto si credeva
avessero il potere di scacciare gli spiriti maligni grazie al
tintinnio che emettevano76. Per questo motivo venivano
spesso sospesi a catenelle sulle porte di accesso alle case o
all’interno degli edifici o potevano essere deposti all’interno di sepolture, in particolar modo di fanciulli.
Si attesta così il perdurare di forme di ritualità privata e domestica, frutto di tradizioni ancestrali, anche in un’epoca
come quella dei primi anni dell’Impero e di cui al momento possiamo solo cogliere un’eco.
Giordana Ridolfi
(74) È quanto avviene, ad esempio, per il mondo etrusco. In merito
CHIESA 2005, pp. 103-109.
(75) Un pendente conformato a fallo è stato rinvenuto nella villa
di Pozzaglio. Alcuni di questi amuleti rappresentavano il solo organo
maschile di profilo (i cosiddetti Limensphalli, diffusi dal I al III
secolo d.C.), mentre altri contrapponevano al fallo una mano chiusa
a pugno con pollice fuoriuscente tra le dita, atteggiata nel gesto
della fica (Ovidio, Fasti, V 433). Per confronti ZAMPIERI 1997, pp.
81-82, nn. 144-146; Antiqua frustula 2007, p. 46, nn. 50-51; GIACOBELLO 2008, p. 77, fig. 36.
(76) I due tintinnabula in bronzo provengono dalle ville di Olmeneta
e Pozzaglio. Il primo, a corpo piramidale a base rettangolare, è
dotato di anello da sospensione e di piccoli peduncoli alla base dei
quattro angoli; all’interno rimangono tracce del battaglio in ferro (Antiqua frustula 2007, p. 58, n. 89; GIACOBELLO 2008, pp. 78-79, fig.
39; MARIOTTI et alii 2011, p. 386, tav. II, fig. 8, con ampia bibliografia). Il secondo esemplare ha corpo a calotta ed è provvisto di anello
apicale per la sospensione (Antiqua frustula 2007, p. 58, n. 90).
54
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Marina Volonté
La frequentazione in età tardoantica
Per l’età tardoromana, tra IV e V secolo d.C., il territorio
interessato dalle indagini ha restituito testimonianze sia a
livello insediativo, sia di necropoli.
La presenza di una villa rustica ascrivibile a questo periodo
è stata documentata dallo scavo nel sito di Cascina Canova
(Sito 24), in Comune di Offanengo: dell’edificio sono
state riconosciute due fasi, la prima relativa alla costruzione
con murature in frammenti laterizi, la seconda caratterizzata dalla parziale dismissione e dall’edificazione di
strutture lignee, presumibilmente legate all’attività agricola.
Alla fase più antica si collega un piccolo gruppo di tre sepolture a inumazione, due in cassa laterizia e copertura a
doppio spiovente (alla cappuccina) e una, di infante, in
anfora. Solo una delle tombe alla cappuccina ha restituito
un corredo, costituito unicamente da un’olpe in ceramica
comune di foggia tipica dell’età tardoromana.
Materiali dello stesso periodo provengono anche da alcune
buche scavate dopo l’abbandono della villa in località Solarolo del Persico, in Comune di Pozzaglio (Sito 50).
Tra questi, particolare interesse rivestono tre piatti della
stessa forma, ma appartenenti a produzioni di diverso livello. Sono presenti, infatti, sia un esemplare di produzione africana (terra sigillata africana D), riferibile alla
forma 61 della classificazione Hayes, di fattura accurata, con
corpo ceramico ben depurato e rivestimento della superficie interna ed esterna del medesimo colore arancio, sia
l’imitazione in ceramica invetriata con impasto ricco di
inclusi e vetrina giallo-verdastra sulla superficie interna e
sull’orlo, sia, infine, una “versione” in ceramica comune con
impasto poco depurato e annerimenti superficiali.
Tali attestazioni rientrano in un quadro di diffusione e
produzione ben noto per l’Italia settentrionale tardoantica,
caratterizzato dalla presenza di poche e semplici forme ceramiche di importazione, che vengono poi abbondante-
Fig. 1. Il corredo della tomba di Azzanello dopo gli interventi di pulitura e ricomposizione degli oggetti.
55
Fig. 2. La tomba di Azzanello in corso di scavo, i recipienti presso il capo.
mente imitate dalle officine locali1.
Alla medesima fase di frequentazione della villa sembra
appartenere una sepoltura in anfora, del tutto analoga a
quella rinvenuta a Offanengo.
In comune di Azzanello si situa invece il rinvenimento più
significativo, costituito da due tombe, di cui una ben conservata, con alcuni oggetti di corredo (fig. 1).
Quest’ultima, a inumazione in cassa laterizia, aveva fondo
e spalle costruiti in mattoni sesquipedali segati a metà,
mentre la copertura alla cappuccina era in bipedali. La
tomba aveva orientamento N-S; lo scheletro, non ben conservato a causa dell’acidità del suolo, era disteso in posizione
supina, col capo a N e le braccia lungo i fianchi. Dell’abbigliamento resta una fibbia di cintura in bronzo, trovata
all’altezza del bacino. La fibbia è formata da una placca
mobile rettangolare, in lamina fissata da chiodini; l’anello
presenta una rientranza in corrispondenza dell’alloggio
dell’ardiglione. Si tratta di una tipologia molto frequente,
appartenente al tipo di cintura militare più diffusa nel IV
secolo nelle necropoli transalpine nord-orientali e anche in
quelle del territorio orientale dell’Italia settentrionale2.
Il corredo, invece, era posizionato intorno al capo (fig. 2).
Esso era costituito da quattro oggetti, rinvenuti integri o
comunque completamente ricomponibili: un tegame in
ceramica grezza, un’olpe in ceramica comune depurata,
deposta adagiata sul fondo della tomba, un’anforetta in
ceramica invetriata e una coppa in vetro soffiato verde trasparente, con orlo estroflesso e corpo ovoidale con gocce ap-
(1) Si veda per esempio MASSA 1999.
(2) Si veda MASSA 1997, p. 128, tav. XLVII, nn. 64 e 68.
56
plicate, che era stata collocata a fianco del tegame, appoggiata ad esso. Inoltre, un piccolo gruzzolo di minuscole
monete (minime), circa una quarantina.
La coppa in vetro (fig. 3) è sicuramente il reperto più interessante: si tratta di un esemplare appartenente al tipo dei
“Nuppengläser”, appartenenti alla forma 96 della classificazione Isings, caratterizzati dalla decorazione a gocce in
vetro blu applicate sulla superficie esterna, nel nostro caso
in file contrapposte di quattro gocce allineate, alternate a
elementi singoli. In particolare, la coppa dalla tomba di Azzanello rientra nel gruppo attestato con maggiore frequenza
e prodotto non solo nella seconda metà del IV secolo, ma
fino nella prima metà del V; tale produzione è documentata
anche in territorio aquileiese3.
Passando agli oggetti in ceramica, il tegame appartiene a un
tipo assai comune, caratterizzato da orlo introflesso, vasca
troncoconica e fondo piatto; in particolare, la variante con
orlo ingrossato, documentata anche a Milano, Brescia,
Calvatone4, nonché in una delle tombe della necropoli di
Villachiara nel Bresciano5, viene datata tra III e VI secolo
d.C. L’impasto, molto grossolano e di colore scuro, è caratteristico dei recipienti per la cottura.
L’olpe, o bottiglia, in ceramica comune depurata, con corpo
piriforme e ansa a nastro impostata sotto l’orlo e sul punto
di massima espansione del corpo, con “collarino” in ri(3) MANDRUZZATO, MARCANTE 2005, p. 29, con discussione sulla
forma e bibliografia precedente.
(4) Ceramiche in Lombardia 1998, pp. 163-164, tav. LXXXIV, nn.
3-6 (in particolare n. 5), tegame n. 5, variante C. Ivi bibliografia precedente.
(5) Riti e sepolture 1990, pp. 46-47.
sia gli elementi del corredo rimandano ancora all’ambito
pagano. Tutto sommato, la piccola necropoli non si discosta dal quadro delle sepolture coeve del territorio10, in
particolare per quanto riguarda il rito funerario, la posizione
dello scheletro e quella del corredo accanto al capo.
La tomba 1, che, grazie alla presenza della fibbia di cintura
militare, è da attribuirsi a un individuo di sesso maschile,
si segnala tuttavia per la relativa ricchezza del corredo e, soprattutto, per la presenza del gruzzolo di monete e della
coppa in vetro con gocce applicate, elementi che denotano
un certo prestigio economico e sociale del titolare.
Bibliografia
Fig. 3. Coppa in vetro recuperata integra dallo scavo.
lievo alla base del collo, mostra analogie con esemplari dal
territorio lombardo orientale6, con cronologia tra IV e
inizio V secolo d.C. Soprattutto, ben si confronta con
un’olpe appartenente a uno dei corredi tombali della necropoli tardoantica di Madignano, località Santuario del
Marzale7.
In contesti dal IV8 al VI secolo9 è infine documentata l’anforetta in ceramica invetriata con corpo troncoconico e
anse a nastro impostate sotto l’orlo e sulla spalla, con vetrina di colore chiaro non uniformemente conservata.
La datazione della sepoltura, circoscritta in particolare dalla
presenza della coppa in vetro, va collocata tra la seconda
metà del IV e la prima metà del V secolo d.C.
A circa un metro verso O, è stata rinvenuta una seconda
tomba, col medesimo orientamento della precedente e lo
stesso tipo di struttura. La cassa laterizia era formata da tegulae integre; la copertura, distrutta forse già in antico o a
causa di arature moderne, doveva essere anch’essa in tegole
con struttura alla cappuccina, come indicano i frammenti
recuperati nei dintorni; il fondo, invece, era semplicemente
in terra. Non sono stati trovati né lo scheletro, presumibilmente consumatosi a causa dell’acidità del terreno, né
alcun elemento di corredo: in questo caso, si può ipotizzare
una sua dispersione o sottrazione, in alternativa all’assenza
originaria.
Siamo in presenza pertanto di una piccola necropoli prediale, relativa cioè a un possedimento terriero nel territorio.
Il rito funerario, a inumazione, è quello comunemente attestato in età tardoantica; sia l’orientamento delle tombe,
(6) A Roccafranca (BS): Milano capitale 1990, pp. 279-280, fig.
4e.2e.2 e a Brescia stessa: MASSA, PORTULANO 1999, p. 154, tipo
LXVI, 9.
(7) CAZZAMALLI 1995, p. 14, n. 6, tav. IV, n. 6; PASSI PITCHER
2003, pp. 227-228.
(8) BROGIOLO 1985, tipo 4.c, da Idro.
(9) PORTULANO 1999, p. 134, tipo VII d, tav. LVI, 6.
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(10) Riti e sepolture 1990, pp. 43-44; PASSI PITCHER 2003, pp. 227228.
57
Gianluca Mete
Impianti produttivi di epoca post-medioevale
(XVI-XIX secolo)
Tra le evidenze archeologiche riconducibili alle epoche più
recenti emerse durante le indagini di rete, vi sono diverse
fornaci per la produzione di laterizi e coppi1. Ne sono state
individuate e scavate una trentina e la loro distribuzione è
piuttosto uniforme e omogenea nel quadro del percorso soggetto all’indagine (tav. 1).
La loro presenza è tuttavia strettamente legata alle caratteristiche pedologiche delle aree: la disponibilità di argilla di
buona qualità era infatti una prerogativa fondamentale ai
fini della produzione.
Da questo punto di vista la provincia cremonese, e in maniera più ampia una parte della Lombardia, ben si prestavano a questo tipo di attività2. Inoltre, sin dall’età romana
l’utilizzo del cotto in queste aree era fondamentale per sopperire all’assenza di bacini di approvvigionamento di materiale lapideo per le costruzioni. Nel medioevo anche la
mancanza di materiale lapideo di pregio, spesso troppo
costoso, indirizzò verso una specializzazione per le produzioni artistiche in cotto, finalizzate ai decori di chiese ed
edifici. Tali produzioni raggiunsero una qualità tale che, a
buon diritto in campo artistico si parla del “cotto lombardo.” In ogni caso, le finalità più diffuse delle produzioni
erano chiaramente legate all’ambito edile tout court e
questa pare essere la destinazione esclusiva delle fornaci da
noi individuate. Per quanto concerne la loro conservazione
va premesso che, nonostante fossero in parte interrate per
permettere il mantenimento costante della temperatura
raggiunta, assai raramente è stato possibile individuare
strutture ben conservate. In generale le fornaci per i laterizi di tale tipologia (c.d. verticali) erano costituite da
una camera di cottura, all’interno della quale, attraverso una
serie variabile di canali di irradiazione si distribuiva il calore
proveniente dalla combustione del legname. Questo veniva
introdotto attraverso delle imboccature definite praefurnia.
I laterizi da cuocere venivano impilati perlopiù su un piano,
appositamente forato per favorire la circolazione dell’aria
calda, proveniente dai canali di irradiazione sottostanti.
La tipologia individuata è comunque in generale la medesima, ma con numerose varianti legate, alla forma, alla
dimensione, al numero di imboccature per il carico della
(1) Il tipo di produzione è desumibile anche dagli scarti di cottura
rinvenuti all’interno, tra cui appunto, esclusivamente laterizi e coppi.
(2) Per una rassegna archeologica di confronti si veda l’area milanese e lodigiana: SARONIO 2004a, pp. 101-102; SARONIO 2004b,
p. 103; SARONIO 2004c, pp. 130-132; SIMONE ZOPFI, POZZATO
2003-2004, pp. 187-192; SIMONE ZOPFI, PRIARONE 2005, pp. 175177.
58
legna combustibile e alla distribuzione interna dei canali d’irradiazione3. Nel nostro caso le fornaci si presentano con
camera rettangolare o quadrata, mentre molto eterogeneo
è il numero dei praefurnia. Quelle di dimensione modeste
ne presentano uno solo, mentre quelle di dimensioni maggiori da due a cinque, dislocate su uno o due lati opposti.
Il materiale utilizzato per la costruzione è naturalmente
costituito da laterizi, ma il piano basale è talvolta costituito dal suolo originario pressato e quindi concottato in
seguito al calore raggiunto in fase di esercizio (attorno ai
900°-1000°). I canali di irradiazione possono essere costituiti unicamente dalla prosecuzione dei corridoi dei praefurnia o diramarsi da questi in numerosi condotti, per favorire una distribuzione più uniforme del calore4. (fig. 1)
Dal punto di vista topografico, il posizionamento delle
fornaci nel territorio solo raramente sembra avere una pianificazione legata a impianti di produzione fissi. In questi
casi infatti,5 le strutture individuate, non solo si trovano nei
pressi di strade, ma sono in numero di tre o più, spesso con
evidenze di sovrapposizioni, a indicare complessi produttivi
a vocazione “industriale” e non destinati ad attività provvisorie. (tav. 2) La lunga attività infatti, spesso obbligava a
nuove costruzioni e manutenzioni delle strutture più vecchie
e usurate dalla lunga esposizione al calore. Inoltre si riscontra in questi siti la presenza di grandi buche, interpretabili come cave e aree per la decantazione. È probabile
quindi che in questi complessi venisse seguito tutto il processo produttivo, potendo contare forse, oltre che sulla vicinanza di infrastrutture stradali, anche sulla presenza nelle
vicinanze di aree boschive per ricavarne il carburante. L’attività intensa e prolungata, attestata generalmente anche in
documenti e statuti, spesso dava origine a un toponimo,
come ci dimostrano le numerose località “Fornace” presenti
nel territorio cremonese6. Nella maggioranza dei casi tuttavia, le strutture gravitano attorno agli edifici rurali piuttosto che alle infrastrutture stradali. La ragione di tale posizione è dovuta ad un loro utilizzo esclusivo e funzionale
alla costruzione di edifici, che potevano impegnare più
impianti, come le cascine7. Queste si trovano spesso a pochi
(3) CUOMO DI CAPRIO 2007,
CHEDDA 1996, pp. 172-175.
pp.508-526; MANNONI, GIANNI-
(4) A titolo di esempio la fornace US 1207 del Sito 36 e la fornace
US 34 del Sito 2b.
(5) Olmeneta Sito 34, Casalbuttano Sito 36.
(6) Per esempio, oltre a “Fornace”, talvolta di formazione più recente,
si vedano toponimi come “Camp furnas”, “Fornas dal Dos”, “Fornasotto” censiti, exempli gratia, in FERRARI RUGGERI 2003.
Tav. 1. Carta di distribuzione dei siti con fornaci lungo il tracciato del metanodotto.
metri dalle fornaci individuate, che dovevano servire alla
loro costruzione. È infatti chiaro come, in fase di cantiere,
questa attività potesse essere praticata in loco, anche per ragioni economiche e logistiche. Una testimonianza storica
in tal senso ci viene fornita da una fornace provvisoria allestita sul pianalto di Romanengo nel 1812, in “un documento di grande interesse non solo per l’entità del lavoro,
ma per certe regole previste nel contratto stesso relative
alla procedura, ai metodi, ed alle diverse fasi che comportavano l’approntamento di una fornace, compreso il trattamento economico dei lavoranti”8.
Una volta terminata la costruzione le fornaci provvisorie (ma
questo valeva anche per i complessi) venivano smantellate
e il terreno riconsegnato alla sua vocazione agricola. Quest’ultima operazione spesso era piuttosto invasiva, a tal
punto che la fornace veniva completamente spogliata della
sua struttura per recuperare ulteriore materiale da costruzione, come testimoniano la labilità dei resti e le incisive
(7) Sembrerebbe questo il caso delle fornaci rinvenute a pochi metri
dal complesso del XVII secolo di Villa Visconti di Modrone, a Corte
de’Cortesi loc. Campagnola (Sito 43) .
(8) CARAMATTI 2013, pp. 281-282. Ringrazio lo studioso per il riferimento.
asportazioni riscontrate nella maggior parte dei siti individuati. Infine, nel nostro, come in altri casi, in assenza di
materiale datante e di analisi radiometriche come la termoluminescenza non si rivela semplice una datazione
precisa, anche se è possibile ipotizzare, su più basi9, un’attività di queste strutture tra il XVI e il XIX secolo. Le
fornaci individuate appaiono tutte inquadrabili entro tale
arco cronologico, anche se va tenuto presente che la tecnica
di produzione dei laterizi e quindi la tipologia degli impianti,
non subì nel corso dei secoli mutazioni sostanziali, almeno
sino alla seconda metà del 1800. In questi anni infatti,
l’inventore tedesco Friedrich Eduard Hoffmann, progettò
una tipologia di fornace che da lui prese il nome e che, grazie
alla tecnologia del forno continuo garantiva un controllo
delle temperature e una produzione ininterrotta, soppiantando velocemente i vecchi impianti.
(9) Tra questi, la dimensione dei laterizi entro uno standard molto
omogeneo (pur con gli innumerevoli problemi di tale tipo di indagine) e la datazione dei complessi residenziali cui l’attività produttiva
pare ricollegarsi.
59
Fig. 1. Una fornace con due
praefurnia presso Casalbuttano ed Uniti, località
Palazzo (Sito 2b).
Tav. 2. Pianta del Sito 36 (Casalbuttano ed Uniti, località cascina
Roma), con zona produttiva dotata
di numerosi impianti.
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Lynn Arslan Pitcher
Il popolamento del territorio cremonese
in età antica
Cremona si trova nel cuore della Pianura Padana (fig. 1),
solcata dai fiumi che delimitano il territorio della città:
l’Adda, l’Oglio, il Po e il Serio, che lo attraversa. Queste vie
d’acqua sono sempre state fondamentali per la vita degli abitanti già dal Neolitico fino ai giorni nostri e, come si vede
dai risultati degli scavi, il fiume è sempre stato un elemento decisivo per la scelta dei luoghi dove vivere1.
Due elementi hanno nel tempo plasmato il paesaggio
rurale: il fiume con le divagazioni2 che formano dossi,
alture che ben si adattano alla frequentazione stabile e
l’uomo che interviene spesso in maniera massiccia, come
nel caso della centuriazione in età romana, riorganizzando
il territorio con la costruzione di strade che spesso ricalcano
vecchie rotte, come nel caso della via Postumia, irregimentando i corsi d’acqua e bonificando zone umide. Le trasformazioni nel corso dei millenni sono state notevoli basti
vedere le foto aeree che a prima vista ci mostrano gli innumerevoli paleoalvei che caratterizzano le deviazioni delle
acque nei secoli oppure i segni regolari nelle campagne testimoni appunto dei lotti delle centuriae.
La metamorfosi maggiore del paesaggio rurale è avvenuta
negli ultimi centocinquanta anni con la meccanizzazione,
che ha permesso interventi su larga scala sull’orografia delle
campagne; i depositi archeologici in genere evidenziati nel
suolo con dossi più o meno in risalto sono stati per lo più
spianati per permettere uno sfruttamento intensivo dei
terreni agricoli. Oltre allo spianamento, l’uso di aratri potenti che scendono in profondità, ha pressoché distrutto le
vestigia che ancora erano celate, fino all’avvento dell’archeologia sistematica e programmata, con il controllo più
capillare delle attività di scavo: le cave per lo sfruttamento
dell’argilla, ghiaia e sabbia e la costruzione negli ultimi
anni di strade e autostrade hanno aumentato di molto il
lavoro di documentazione e salvaguardia dei resti archeologici rimasti. L’assistenza alle operazioni di scavo ci ha
permesso di intravedere, sempre in traccia e con notevole
difficoltà, il vivere nel Cremonese nel corso degli ultimi 7
millenni.
Piuttosto interessante è il fatto che su 66 siti di interesse archeologico rinvenuti, nessuno presenti più fasi culturali
con l’eccezione del Sito 27 nel comune di Ricengo3 dove
si notano labili tracce di un insediamento dell’età del
Bronzo finale e, leggermente spostato, quella che doveva
(1) Oltre ai testi sui ritrovamenti del metanodotto in questo volume,
un aggiornamento recente si trova in Archeologia nella Lombardia
Orientale 2012.
(2) Cfr. BRAGA et alii 2003, pp. 2-37.
(3) Cfr. MANGANI supra.
Fig. 1. La pista del metandotto presso Persico Dosimo, località
cascina Bertana.
essere una sorta di stipe votiva della seconda età del Ferro
(fine V-fine IV secolo a.C.).
Vale la pena affrontare brevemente il fenomeno, piuttosto
raro per il Cremonese, delle compresenza di più periodi
storici, anche di cronologia distante, in un unica località.
Si tratta di cinque siti, Calvatone4 (località Coste di Sant’Andrea), Castelleone (località Régona)5 e Soncino6 (località
Bosco Vecchio); si aggiungono Camisano e Ricengo, che
non possono essere presi in esame in dettaglio poiché non
indagati in modo sistematico. Nel caso di Calvatone (fig.
2) sono stati ritrovati una tomba dell’età del Rame sotto il
mosaico con labirinto di una domus di I secolo d.C., un villaggio dell’età del Bronzo Medio-Recente ed un vicus della
fine del II secolo a.C.-VI secolo d.C.; a Castelleone (fig.
3) sono stati rinvenuti un villaggio del età del Bronzo
Medio-Recente, una tomba celtica del III secolo a.C. e
una necropoli prediale legata ad una villa rustica del I
secolo d.C. e a Soncino (tav. 1) dove la frequentazione dell’uomo risale al Neolitico con la presenza di asce in pietra
verde, fu ritrovato un agglomerato di edifici abitativi e
produttivi frequentato dall’epoca tardo celtica all’altome(4) LORENZI 1996; PASSI PITCHER 1996; PASSI PITCHER 2003, pp.
205-214.
(5)Per l’insediamento del Bronzo cfr. BAIONI, RUGGIERO 2009, pp.
48-56; per la sepoltura della seconda età del Ferro cfr. RUGGIERO
2009, pp. 65-66. Ulteriori resti di un villaggio dell’ età del Bronzo
e di una necropoli di età romana sono stati rinvenuti durante un recente scavo sistematico (2009) della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia: cfr. METE et alii 2013.
(6) PASSI PITCHER 2003, pp. 220-221.
61
Fig. 3. Veduta panoramica del dosso della Régona a Castelleone
(foto F. Risari).
Fig. 2. Calvatone-Bedriacum. La domus del Labirinto in corso
di scavo, negli anni ’50.
Fig. 4. La fornace romana rinvenuta nel 1997 a Olmeneta.
dioevo. I tre esempi si trovano su ampie terrazze fluviali in
una posizione amena, vicino al fiume ma protetti dalle
esondazioni e verosimilmente adiacenti a vie di comunicazione terrestri.
Le raccolte di superficie da parte di appassionati, come
Don Aschedamini nel Cremasco, ci indicano l’esistenza
di zone fittamente abitate dal Neolitico all’Altomedioevo
a Camisano, Ricengo e Vidolasco, che potranno essere
meglio definite in seguito a scavi sistematici.
Gli interventi del metanodotto inquadrano il periodo
storico in modo più compiuto, come nel caso del Sito 27
(Ricengo) dove i reperti da necropoli sono databili alla
fine dell’età del Bronzo.
62
I ritrovamenti preistorici confermano la concentrazione
in zone precise, per lo più nella parte alta del Cremasco, a
Camisano e nella bassa con concentrazioni notevoli lungo
l’Oglio da Ostiano a Calvatone. Con l’età del Bronzo si intravede, oltre alle zone tra Serio e Oglio, e tra Ostiano e Calvatone, la formazione di abitati estesi lungo la fascia S-O
nella zona che va da Pieve San Giacomo a Casalmaggiore.
Gli stanziamenti dell’età del Ferro7 ci sfuggono per la lacunosa documentazione archeologica, che per lo più consiste in tombe isolate come nel caso della sepoltura di Romanengo.
Il ritrovamento di venti canali, fossi e strade di età romana
testimonia, come già ribadito, che la centuriazione8 ha radicalmente segnato il territorio. Lo scavo del metanodotto
ha permesso di chiarire o ribadire alcuni aspetti interessanti:
ad esempio appare chiaro che rimane poco o nulla della
prima centuriazione dell’ager cremonensis avvenuta verosimilmente nei primi decenni del II secolo a.C. mentre è ben
evidente la seconda divisione territoriale (con centurie 20
x 21 actus) della seconda metà del I secolo a.C. che sostanzialmente non presenta alcuna novità rispetto alle
ipotesi del Tozzi. Diversa è la situazione dell’ager bergomensis che indica un certo slittamento degli allineamenti
proposti dal Tozzi.
Dieci anni fa, una disamina nella “Storia di Cremona” sui
modelli insediativi rurali lamentava la mancanza di scavi sistematici9; lo scavo per il metanodotto ha in parte colmato
questa lacuna ma rimane ancora valida l’affermazione della
Scagliarini Corlaita10: “In definitiva la tipologia della villa
agricola di pianura appare come la più diffusa di pianura
e insieme la più sfuggente.”.
Nonostante il pessimo stato di conservazione degli edifici,
che si trovano all’ ultimo livello di fondazione, sono stati
recuperati per quanto possibile la planimetria che, combinata allo studio dei reperti, ha permesso di individuare
le fasi cronologiche e il tenore di vita degli abitanti11.
Lo studio di tutti i siti ha consentito perciò una ricostruzione dell’economia e delle rotte commerciali del terri(7) Purtroppo il rinvenimento della presunta stipe votiva di Ricengo non aggiunge molto alla nostra conoscenza sugli insediamenti per la mancanza di un contesto archeologico più ampio.
(8) Si veda BONARDI, supra.
(9) PASSI PITCHER 2003, pp. 211-219.
(10) SCAGLIARINI CORLAITA 1998.
torio tra il II secolo a.C. e il VI secolo d.C.
La concentrazione di evidenze legate a ville rustiche o fattorie a Sergnano, Olmeneta e Pozzaglio fa presupporre
l’esistenza di fora12 in senso lato, mentre tracce labili di
case a Casalbuttano, Azzanello, Corte de’ Cortesi, Robecco
d’Oglio e Cremona indicano una distribuzione capillare che
tiene conto dell’orientamento centuriale già conosciuto
dalle fonti antiche e dai ritrovamenti in superficie. Olmeneta fa eccezione verosimilmente per motivi pratici
legati alle attività agricole o produttive (fig. 4). Olmeneta
e Gallignano sono centri produttivi di una certa vivacità:
in ambedue i siti sono state trovate fornaci sia per la produzione di laterizi sia di stoviglie. A Olmeneta furono prodotti mattoni, di cui non si ha marchio di fabbrica, e vasellame, di cui l'indicatore è un distanziatore. Gallignano
doveva essere ben più importante poiché i laterizi erano
bollati e fu prodotto un particolare tipo di piatto-vassoio
che ebbe ampia distribuzione, addirittura in ambiente cittadino.
Nonostante il rinvenimento di ceramiche a vernice nera riferibili ad orizzonti cronologici databili al II secolo a.C. e
frequentazione intensa nel I secolo a.C., la maggior parte
delle abitazioni viene costruita nella prima metà del I secolo
d.C. La frequentazione dei siti termina nell’arco del IV-V
secolo d.C. eccetto il caso di Pozzaglio che continua fino
al VI secolo d.C. Per la prima volta si è potuto definire un
modello abitativo per le ville rustiche dell’ager cremonensis
che tende a presentarsi a U con esposizione a S. Lo studio
dei materiali ci indica che il tenore di vita nelle campagne
era piuttosto modesto anche se, ancora una volta, fa eccezione Olmeneta che doveva essere abbastanza vivace come
si evince dalla presenza di terra sigillata gallica.
La mancanza di rinvenimenti posteriori all’età romana
indica un profondo cambiamento nel modo di vivere il
territorio, non più in maniera sparsa ma in agglomerati
come nel caso dei Longobardi ad Offanengo. Soltanto con
la costruzione delle grandi cascine che sono spesso quasi dei
piccoli borghi la campagna ritorna ad essere vissuta in
modo capillare13.
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(12) Mentre Bedriacum è sicuramente un vicus che doveva avere
una sua figura giuridica ed anche una sua fisionomia socio-economica più da cittadina e da market-town, satellite di Cremona,
con edifici più da città che da campagna, Olmeneta e Soncino (località Bosco Vecchio) sembrano verosimilmente centri produttivi e
di smercio locale con uno status sicuramente più alto degli agglomerati
di Sergnano e Pozzaglio. A tale proposito cfr. PASSI PITCHER 2003,
pp. 219-221.
(13) La presenza di numerose fornaci post-medioevali per la fabbricazioni di mattoni è sicuramente legata anche alla costruzioni
delle cascine.
Tav. 1. Interpretazione delle prospezioni condotte nel 2003 a Gallignano, presso la zona produttiva in località Bosco Vecchio.
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RUGGIERO 2009
RUGGIERO M.G., 2009, Età del ferro in BAIONI M. (a cura di)
Museo Civico di Castelleone, Castelleone, pp. 59-67.
SCAGLIARINI CORLAITA 1998
SCAGLIARINI CORLAITA D., 1998, Le tipologie delle villae lungo
il percorso della via Postumia in SENA CHIESA G., ARSLAN E.A.
(a cura di) Optima via. Atti del Convegno Internazionale di studi
“Postumia. Storia e archeologia di una grande strada romana alle
radici dell’Europa”, Cremona, pp. 239-244.
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Finito di stampare nel mese di gennaio 2014
dalla Litografia NOVALITO di Carpenedolo (BS)
per conto delle