8/4/2015 - Studio Ducoli

QUADERN
/ MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
ILCASODELGIORNO
PRIMOPIANO
Deducibili i costi per
una “vendor due
diligence”
Scorporo di interessi impliciti
con regole ad hoc per debiti e
crediti commerciali
/ Marco MARANI
Nel campo dell’M&A ogni processo di acquisizione societaria è
caratterizzato, tanto dal lato del
venditore che da quello dell’acquirente, dal sostenimento di costi per consulenze propedeutiche alla transazione. È prassi che
l’acquirente demandi a consulenti di propria fiducia l’indagine degli aspetti significativi del target
(cosiddetta “acquisition due diligence”). Ed è altrettanto usuale
che la medesima attività sia svolta anche dal venditore, interessato a far emergere i punti di forza
della controllata oggetto di trattativa (c.d. “vendor due diligence”).
In quest’ottica, un tema particolare riguarda la deducibilità fiscale
dei costi sostenuti per la vendor
due diligence richiesta dalla controllante su una propria partecipata la cui cessione soggiace al
regime della participation
exemption.
Il tema è delicato e di non pronta
soluzione, [...]
Gli OIC 19 e 15 stabiliscono le regole e le condizioni al ricorrere delle
quali devono essere scorporati gli interessi passivi e attivi impliciti
/ Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE
L’OIC 19 prevede, quale regola generale, che la
componente di costo relativa all’acquisizione
di beni o servizi sia scorporata rispetto alla
componente di natura finanziaria. I debiti commerciali che originano dall’acquisizione di beni
e servizi rappresentano “obbligazioni di pagamento a termine a fronte dell’acquisizione di
beni e servizi”. Il pagamento a termine comporta una dilazione nell’esborso finanziario da parte dell’acquirente e, abitualmente, le parti tengono conto di un’adeguata remunerazione, rappresentata dall’interesse o dal corrispettivo finanziario per la disponibilità di denaro a scadenza (§
39).
Pertanto, l’OIC 19 stabilisce che, per il principio della competenza e il principio della prudenza, al momento della rilevazione iniziale del
debito, si effettui lo scorporo degli interessi
passivi impliciti inclusi nel costo di acquisizione di beni o della prestazione di servizi, qualora
siano soddisfatte entrambe le seguenti condizioni (§ 41):
- il valore nominale dei debiti eccede significativamente il prezzo di mercato del bene con pa-
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INEVIDENZA
IMPRESA
Controlli dei sindaci sui
contratti pubblici con il
concordato in continuità
Arrivano le Scuole di alta formazione per
commercialisti
Tassa di vidimazione annuale alla prova del
ravvedimento operoso
/ Michele BANA
La qualificazione del procedimento non è l’unico
criterio per il “ne bis in idem”
Bonus investimenti con problemi ancora aperti
Agenzie territoriali per la casa esenti IMU
ALTRENOTIZIE
gamento a breve termine; tale circostanza si
realizza nel caso in cui il debito non preveda
esplicitamente un interesse passivo oppure nel
caso in cui sia corrisposto un interesse irragionevolmente basso;
- la dilazione concessa è superiore ai 12 mesi.
Lo scorporo degli interessi passivi inclusi nel
costo d’acquisto di beni o servizi non si applica, invece, nei seguenti casi (§ 49):
- acconti e, in generale, ammontari che non richiedono restituzione in futuro;
- debiti che hanno un tasso d’interesse basso
quando vi sono garanzie o cauzioni ricevute
da terzi o specifiche norme di legge.
Il tema dello scorporo degli interessi impliciti
è anche disciplinato dall’OIC 15 per quanto
riguarda i crediti.
Se le condizioni di pagamento sono molto
lunghe, è necessario scorporare dal valore
nominale del credito la componente relativa
alla vendita del bene e quella relativa
all’aspetto finanziario (l’interesse). Si pensi,
ad esempio, ai casi in cui, nelle [...]
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La bozza dei “Principi di comportamento del
collegio sindacale di società non quotate”,
emanata dal Consiglio nazionale dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili e in
consultazione fino al prossimo 21 aprile, prevede, tra l’altro, l’introduzione di una nuova
norma, la 11.7, dedicata appositamente
all’attività di controllo da esercitare qualora
la società depositi un piano di concordato
preventivo con continuità aziendale, per la
prosecuzione dell’attività d’ [...]
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ancora
IL CASO DEL GIORNO
Deducibili i costi per una “vendor due
diligence”
Tali costi sono estranei rispetto alla “ricchezza” passata o futura della partecipata
/ Marco MARANI
Nel campo dell’M&A ogni processo di acquisizione societaria è caratterizzato, tanto dal lato del venditore che da
quello dell’acquirente, dal sostenimento di costi per consulenze propedeutiche alla transazione. È prassi che l’acquirente demandi a consulenti di propria fiducia l’indagine degli aspetti significativi del target (cosiddetta “acquisition
due diligence”). Ed è altrettanto usuale che la medesima attività sia svolta anche dal venditore, interessato a far emergere i punti di forza della controllata oggetto di trattativa
(c.d. “vendor due diligence”).
In quest’ottica, un tema particolare riguarda la deducibilità
fiscale dei costi sostenuti per la vendor due diligence richiesta dalla controllante su una propria partecipata la cui cessione soggiace al regime della participation exemption.
Il tema è delicato e di non pronta soluzione, considerato un
contesto normativo non proprio immediato.
Da un lato, l’art. 86 comma 2 del TUIR, applicabile anche in
ipotesi di pex, dispone che la plusvalenza è “costituita dalla
differenza tra il corrispettivo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, ed il costo non ammortizzato”. Detti oneri sono quindi deducibili nella stessa misura
in cui è imponibile la plusvalenza, e ciò a prescindere dal
trattamento contabile adottato.
Dall’altro, l’art. 109 comma 5 del TUIR ammette la deducibilità dei costi se e nella misura in cui si riferiscono “ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in
quanto esclusi”. Si tratta di una norma che mira al tema della deduzione dei costi relativi a elementi positivi di reddito
esenti da imposizione, in particolare mira a evitare arbitraggi in cui la deduzione di costi correlati a ricavi esenti azzeri i ricavi imponibili. In quest’ottica, la qualificazione dei
proventi derivanti dalla cessione di partecipazioni pex come
esenti anziché esclusi (come previsto per i dividendi) comporta l’indeducibilità dei costi ad essi riferiti.
Nel silenzio di una definizione da parte del TUIR, ci si chiede se i costi per una vendor due diligence debbano essere
considerati quali oneri accessori di diretta imputazione,
scontando così un regime di deducibilità limitata. La risposta (negativa) all’interrogativo può trovare fondamento in
due strade.
Dal punto di vista normativo, occorre rifarsi a uno dei principi direttivi contenuti nella legge delega n. 80 del 2003 per la
riforma del sistema fiscale, ossia a quello dell’“indeducibilità dei costi direttamente connessi con la cessione di partecipazioni che si qualificano per l’esenzione”.
/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
Nell’ottica del legislatore delegante, devono soffrire dell’indeducibilità i soli costi che si vengono a sostenere “in occasione” della cessione, nel momento materiale della cessione,
dunque i costi direttamente dipendenti dall’atto di cessione
(e non anche le spese sostenute per le attività propedeutiche,
che possono o non possono esser svolte).
Cosa diversa sono i costi per la vendor due diligence, solo
eventuali e non indispensabili, che possono esser sostenuti
in una fase preparatoria dell’operazione di cessione. Questa,
peraltro, la lettura alla questione data dalla sentenza della
C.T. Reg. di Roma n. 225 del 27 settembre 2011, unico
precedente pubblico sulla materia, rilevatosi a favore del
contribuente essendo passata in giudicato.
Una seconda chiave di lettura può aversi considerando la valenza sistematica della pex, che rappresenta un criterio di
coordinamento tra la tassazione delle società che produce il
reddito e quella del socio.
La tendenziale irrilevanza fiscale dei capital gain realizzati
dal socio è infatti lo strumento che consente di evitare doppie imposizioni rispetto ai flussi reddituali connessi alla partecipazione. Il capital gain realizzato dal socio trova infatti
origine nelle riserve di utili già tassate dalla controllata ovvero in prospettive di utili futuri, che saranno tassati a tempo debito. La pex, insomma, non è un’esenzione bensì una
tecnica tributaria per evitare doppie tassazioni (o doppie
deduzioni) tra società e soci.
In quest’ottica, è facile convenire sul fatto che i costi per una
vendor due diligence non hanno alcun rapporto di causaeffetto con il valore del capital gain, non essendoci così alcuna giustificazione logica per assoggettarli al medesimo
trattamento fiscale applicabile alla plusvalenza.
Posto che la plusvalenza pex non viene tassata in capo al socio venditore poiché questa altro non è che il riflesso di un
reddito già tassato o che lo sarà in futuro, i costi di una vendor due diligence sono invece del tutto estranei rispetto alla
“ricchezza” passata o futura della partecipata, essendo peraltro imponibili in capo allo studio professionale o alla società
di revisione che svolge la consulenza.
Rendere tali costi indeducibili, peraltro, vorrebbe dire creare una frattura rispetto a quanto era previsto prima della riforma del 2003, ove il coordinamento tra tassazione della società e quella dei soci avveniva attraverso il sistema del credito d’imposta. Spese come quelle per una vendor due diligence erano considerate pacificamente deducibili; al di là
della diversa tecnica tributaria di coordinamento tra società e
soci, nulla è cambiato.
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CONTABILITÀ
Scorporo di interessi impliciti con regole ad
hoc per debiti e crediti commerciali
Gli OIC 19 e 15 stabiliscono le regole e le condizioni al ricorrere delle quali devono
essere scorporati gli interessi passivi e attivi impliciti
/ Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE
L’OIC 19 prevede, quale regola generale, che la componente di costo relativa all’acquisizione di beni o servizi sia
scorporata rispetto alla componente di natura finanziaria. I
debiti commerciali che originano dall’acquisizione di beni e
servizi rappresentano “obbligazioni di pagamento a termine a fronte dell’acquisizione di beni e servizi”. Il pagamento
a termine comporta una dilazione nell’esborso finanziario da
parte dell’acquirente e, abitualmente, le parti tengono conto
di un’adeguata remunerazione, rappresentata dall’interesse o
dal corrispettivo finanziario per la disponibilità di denaro a
scadenza (§ 39).
Pertanto, l’OIC 19 stabilisce che, per il principio della competenza e il principio della prudenza, al momento della rilevazione iniziale del debito, si effettui lo scorporo degli interessi passivi impliciti inclusi nel costo di acquisizione di beni o della prestazione di servizi, qualora siano soddisfatte entrambe le seguenti condizioni (§ 41):
- il valore nominale dei debiti eccede significativamente il
prezzo di mercato del bene con pagamento a breve termine;
tale circostanza si realizza nel caso in cui il debito non preveda esplicitamente un interesse passivo oppure nel caso in
cui sia corrisposto un interesse irragionevolmente basso;
- la dilazione concessa è superiore ai 12 mesi.
Lo scorporo degli interessi passivi inclusi nel costo d’acquisto di beni o servizi non si applica, invece, nei seguenti casi
(§ 49):
- acconti e, in generale, ammontari che non richiedono restituzione in futuro;
- debiti che hanno un tasso d’interesse basso quando vi
sono garanzie o cauzioni ricevute da terzi o specifiche norme
di legge.
Il tema dello scorporo degli interessi impliciti è anche disciplinato dall’OIC 15 per quanto riguarda i crediti.
Se le condizioni di pagamento sono molto lunghe, è necessario scorporare dal valore nominale del credito la componente relativa alla vendita del bene e quella relativa
all’aspetto finanziario (l’interesse). Si pensi, ad esempio, ai
casi in cui, nelle vendite nei confronti della Pubblica
Amministrazione, il prezzo viene definito prevedendo una
maggiorazione in considerazione dei lunghi termini di
incasso.
Lo scorporo degli interessi attivi dal ricavo di vendita non
si applica:
- agli acconti e, in generale, agli ammontari che non richiedono restituzione in futuro, ad esempio i depositi o i paga/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
menti parziali a fronte di costruzioni in corso, gli anticipi per
l’acquisto di beni e servizi, ecc.;
- ai crediti che hanno un tasso d’interesse basso per effetto
di specifiche norme di legge;
- agli ammontari che intendono rappresentare garanzie o
cauzioni date all’altra parte di un contratto, quali i depositi,
la parte di un credito che verrà incassata alla scadenza del
periodo di garanzia, ecc.
Nel caso di crediti commerciali con scadenza superiore ai
12 mesi senza la corresponsione di interessi (o con interessi
molto bassi), è necessario rilevare distintamente:
- il ricavo relativo alla vendita del bene a pronti o alla prestazione di servizi, in base all’ammortare che si otterrebbe
per una vendita a breve termine;
- gli interessi attivi impliciti relativi alla dilazione di
pagamento, per differenza rispetto al valore sopra
determinato.
Gli interessi attivi devono essere contabilizzati in applicazione del principio di competenza con riferimento al periodo
della durata del credito.
Gli interessi attivi scorporati e il relativo tasso devono essere determinati al momento dell’iscrizione iniziale e non
devono più essere rideterminati successivamente.
Il tasso di interesse da utilizzare per determinare il corrispettivo a pronti deve essere individuato attraverso un’appropriata valutazione. In particolare, tale tasso dovrebbe
approssimare il tasso che sarebbe stato individuato tra due
parti indipendenti nella negoziazione di “un’operazione similare con termini e condizioni comparabili con l’opzione
di pagare un prezzo a pronti o un prezzo a termine e tale ultimo prezzo avesse tenuto conto di un appropriato tasso d’interesse di mercato per il tempo della dilazione”. Tale tasso
può “corrispondere al saggio d’interesse di mercato prevalente per il finanziamento di crediti con dilazione ed altri termini e caratteristiche similari”.
Qualora l’ottenimento di tale tasso sia significativamente
oneroso, “è possibile fare riferimento al tasso per l’approvvigionamento di fondi esterni per il finanziamento della gestione tipica o caratteristica dell’impresa (esclusi quindi i
prestiti per il finanziamento di immobilizzazioni tecniche),
come ad esempio scoperti bancari, anticipazioni finanziarie,
ecc.”. Il tasso di attualizzazione può, pertanto, rappresentare
il costo medio dei finanziamenti utilizzati per finanziare la
produzione.
Il tasso utilizzato è relativo alla data dell’operazione e,
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quindi, non subirà modifiche durante la “durata del credito”.
Qualora l’impresa sia a conoscenza, già al momento della
stipula del contratto, che, nonostante la scadenza inferiore
all’anno (specificatamente indicata nel contratto), il credito
sarà incassato in un tempo significativamente superiore
all’anno, tale credito deve essere attualizzato.
I crediti finanziari a media/lunga scadenza che non prevedono la corresponsione di interessi (o con interessi irragionevolmente bassi) devono essere rilevati al loro valore nomi-
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nale e, considerato che non derivano da operazioni di scambio di beni e servizi, l’OIC 15 precisa che “non richiedono
al momento della rilevazione iniziale la scissione tra il valore del bene/servizio e la componente finanziaria”.
Nel caso in cui, però, la componente finanziaria – data dalla differenza tra il valore nominale del credito e il valore attuale dei flussi finanziari derivanti dal credito – sia rilevante, deve essere riportata l’informativa nella Nota integrativa.
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IMPRESA
Controlli dei sindaci sui contratti pubblici
con il concordato in continuità
La verifica di legalità riguarda anche le specifiche attestazioni prescritte dalla
normativa
/ Michele BANA
La bozza dei “Principi di comportamento del collegio sindacale di società non quotate”, emanata dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e in
consultazione fino al prossimo 21 aprile, prevede, tra l’altro,
l’introduzione di una nuova norma, la 11.7, dedicata appositamente all’attività di controllo da esercitare qualora la
società depositi un piano di concordato preventivo con
continuità aziendale, per la prosecuzione dell’attività
d’impresa, da parte del medesimo imprenditore, oppure la
cessione o il conferimento dell’azienda in esercizio.
In primo luogo, i sindaci, tempestivamente informati della
delibera della società di depositare in tribunale tale proposta,
devono vigilare sull’adeguatezza degli assetti in relazione
all’esigenza di continuare l’attività d’impresa, ovvero
dell’opportunità di porre in essere altre operazioni che assicurino comunque la continuità. I sindaci devono, inoltre,
svolgere un controllo di legalità sull’osservanza della normativa di riferimento, in particolare dell’art. 186-bis del RD
267/1942, introdotto dal DL 83/2012, che consente al debitore di continuare ad operare, pur potendo cedere i beni non
funzionali all’esercizio dell’impresa: a questo proposito, la
norma CNDCEC 11.7 raccomanda ai sindaci di verificare
che, durante la liquidazione, vengano rispettati i tempi e i
contenuti prospettati nel piano.
La prosecuzione dell’attività comporta, inoltre, l’assolvimento di un duplice onere, il cui adempimento deve essere
monitorato dall’organo di controllo:
- il piano depositato dalla società deve contenere un’analitica descrizione dei costi e ricavi attesi in virtù della predetta continuazione, delle risorse finanziarie necessarie e delle
relative modalità di copertura;
- la relazione del professionista di cui all’art. 161, comma 3
della L. fall. deve attestare che la prosecuzione dell’attività
d’impresa, prevista dal piano di concordato, è funzionale al
miglior soddisfacimento dei creditori.
Conseguentemente, i sindaci – oltre a verificare che l’attestatore sia in possesso dei requisiti previsti dall’art. 67, comma
3, lett. d) della L. fall. – devono riscontrare che tale professionista abbia asseverato, non solo la veridicità dei dati
aziendali e la fattibilità del piano, ma pure che la prosecuzione dell’attività rappresenti la soluzione più conveniente per
i creditori, rispetto alle alternative concretamente praticabili,
ovvero quelle di natura meramente liquidatoria
(concordato con cessione dei beni o fallimento).
La società può, inoltre, beneficiare – salvo che si sia avvalsa
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della facoltà di deposito dell’istanza di sospensione o scioglimento di cui all’art. 169-bis della L. fall. – della prosecuzione dei contratti in corso di esecuzione alla data di presentazione del ricorso per concordato preventivo, anche se
stipulati con pubbliche amministrazioni. L’ammissione alla
procedura concorsuale non impedisce, infatti, la continuazione dei contratti pubblici, purché il predetto professionista
ne attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di
adempimento (art. 186-bis, comma 3 della L. fall.): i sindaci sono, pertanto, tenuti a verificare che tale asseverazione
sia stata rilasciata e risulti allegata al piano.
Continuazione dei contratti pubblici se è attestata la
conformità al piano
Analoga attività di controllo deve essere svolta qualora ricorra l’ipotesi di cui al successivo comma 5, ovvero la società
deliberi di partecipare a nuove procedure di affidamento
dei contratti pubblici: in tale eventualità, è altresì indispensabile che, al momento della partecipazione in parola, i sindaci verifichino che la società presenti in gara – oltre all’attestazione di cui al precedente comma 3 – la dichiarazione di
un altro operatore, munito delle necessarie credenziali di
carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica economica e di certificazione, pretese per l’affidamento dell’appalto.
Si tratta di un impegno, nei confronti del committente e della stazione appaltante, a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all’esecuzione dello
stesso ed a subentrare all’impresa ausiliata, qualora venga
dichiarata fallita nel corso della gara o dopo la stipulazione
del contratto, ovvero non sia più in grado, per qualsiasi motivo, di dare regolare esecuzione al contratto (c.d. “avvalimento” di cui all’art. 49 del DLgs. 163/2006): i sindaci devono,
inoltre, valutare il contenuto formale della predetta
dichiarazione.
La norma CNDCEC 11.7 precisa, infine, che – nel caso in
cui la società in concordato in continuità concorra a procedure ad evidenza pubblica, riunita in raggruppamento temporaneo di imprese – l’organo di controllo deve verificare
l’osservanza dell’art. 186-bis, comma 6 della L. fall.: in altri
termini, i sindaci, previamente informati della costituzione
dell’ATI, sono tenuti a vigilare che la società abbia assunto
obblighi esclusivamente in qualità di mandante e che le altre imprese aderenti all’associazione non risultino assoggettate a procedura concorsuale.
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PROFESSIONI
Arrivano le Scuole di alta formazione per
commercialisti
Saranno 14 in tutta Italia e rilasceranno degli attestati valevoli per il futuro
riconoscimento ai professionisti di una specifica specializzazione
/ Savino GALLO
Preannunciato nel corso dell’Assemblea dei Segretari di fine
marzo (si veda “Cambia la formazione professionale dei
commercialisti” del 27 marzo), il Consiglio nazionale dei
dottori commercialisti ed esperti contabili vara il progetto relativo alle scuole di specializzazione.
Si chiameranno SAF (Scuola di Alta Formazione) e saranno
in tutto 14: tre nelle grandi Città metropolitane (Milano, Roma e Napoli) ed altre 11 su tutto il territorio nazionale, suddiviso per macro-aree in base al numero di iscritti. In ognuna di esse, gli iscritti alle sezioni A e B dell’Albo (ma non è
escluso che in futuro potranno essere accessibili anche ai tirocinanti), potranno seguire dei corsi di formazione altamente qualificati, propedeutici al riconoscimento di una
specializzazione nell’ambito che si è deciso di approfondire.
Tali scuole, spiega il Presidente del CNDCEC, Gerardo
Longobardi, “puntano sia a creare nuove opportunità di lavoro per i commercialisti, sia a migliorare la qualità delle
prestazioni professionali offerte dagli iscritti nei nostri Albi.
Questo progetto arriva subito dopo l’approvazione, da parte
del Consiglio nazionale, del nuovo regolamento della
formazione professionale continua della categoria, con la
quale abbiamo previsto una separazione tra aggiornamento e
formazione, in un’ottica già tutta votata alle specializzazioni.
Le SAF completeranno il quadro dell’offerta formativa,
puntando a definire i caratteri tecnico-culturali della
professione del futuro”.
“Nella nostra visione – aggiunge Massimo Miani, Consigliere del CNDCEC delegato alla materia –, nei prossimi anni ci
saranno sempre più società tra professionisti e studi associati, ed è difficile immaginare che in tali studi si possa entrare
avendo delle competenze generiche, facendo anche fatica a
trovare una propria dimensione all’interno. Noi immaginiamo che l’inserimento dovrà avvenire per competenza specifica, ovvero con dei giovani che sono già specializzati in un
determinato ambito e in grado, sin da subito, di apportare
valore”.
In questo contesto, vengono introdotti i corsi di alta formazione, più assimilabili a master universitari che a corsi di
formazione come oggi comunemente intesi, pur valendo a
tutti gli effetti ai fini del raggiungimento del monte crediti
previsto per il triennio: “Ma in questo caso – sottolinea Miani – lo stimolo non saranno i crediti formativi. Si tratterà di
corsi strutturati su almeno 100 ore di lezione, quindi lo stimolo vero sarà quello di cercare delle nuove aree di
/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
specializzazione per poi vedersele riconosciute in futuro”.
Un riconoscimento che, al momento, non è ancora possibile,
perché servirebbe una modifica al DLgs. 139/2005 e, dunque, il necessario assenso del Ministero della Giustizia, con
cui, nei prossimi mesi, inizierà il dialogo sul tema: “Lavoreremo affinché – fa sapere Miani –, nell’ambito del lavoro organico di revisione del nostro ordinamento professionale
cui ci dedicheremo nei prossimi mesi, venga contemplata la
possibilità che le attestazioni rilasciate al professionista possano essere equiparate ai titoli di specializzazione. Ma
andremo a chiedere tale riconoscimento solo dopo aver
dimostrato di aver tracciato un percorso specifico sull’alta
formazione e che tale percorso funziona, perché i colleghi si
stanno specializzando”.
Nell’attesa, il Consiglio nazionale rilascerà degli attestati di
partecipazione (in base ad un regolamento che sarà emanato
nei prossimi mesi) e pubblicherà sul proprio portale l’elenco
degli iscritti che lo hanno conseguito, suddivisi per area
geografica e di specializzazione.
A livello organizzativo, invece, il progetto verrà interamente
curato dal nascituro “Coordinamento permanente SAF”,
del quale faranno parte un rappresentante per ogni macroarea territoriale, il Presidente e due Consiglieri del
CNDCEC, e due rappresentanti della Fondazione nazionale
di categoria, espressi dal CdA in carica.
In fase di start up, il Coordinamento si occuperà di promuovere la nascita delle scuole (per le quali il Consiglio nazionale ha stanziato poco meno di un milione di euro l’anno per
i primi due anni di attività) in sinergia con gli Ordini locali,
di valutare gli stati di avanzamento dei singoli progetti e,
infine, di sviluppare i rapporti di collaborazione con le
Università per la stipula delle convenzioni con le SAF.
Dopo la loro costituzione, ci sarà da redigere il regolamento
di funzionamento interno e il progetto formativo dettagliato suddiviso per materie. Un progetto che sarà, per grandi linee, simile per tutte le scuole, ma ognuna potrà avere dei
corsi di specializzazione “particolari”, anche in virtù delle
peculiari attività che si svolgono su quel determinato territorio. Poi, non resterà che iniziare. I primi corsi, presumibilmente, partiranno ad ottobre e, per parteciparvi, sarà necessario corrispondere un contributo di iscrizione, destinato
“esclusivamente” alla copertura delle spese organizzative,
dato il carattere non lucrativo delle scuole di alta
formazione.
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FISCO
Tassa di vidimazione annuale alla prova del
ravvedimento operoso
Non è affatto scontato il regime sanzionatorio scaturente dal mancato pagamento della
tassa annuale
/ Alfio CISSELLO
L’obbligo di versamento annuale della tassa di concessione
governativa sulla vidimazione dei libri sociali, che va eseguito dalle società di capitali, scadeva il 16 marzo (si veda
“Libri sociali, tassa forfetaria annuale entro il 16 marzo” del
20 febbraio 2015).
L’obbligo di pagamento deriva dall’art. 23 della Tariffa allegata al DPR 641/72, e l’importo è individuato in 309,87 euro se il capitale sociale o fondo di dotazione è inferiore o
uguale a 516.456,90 euro, o in 516,46 euro se i menzionati
parametri sono superiori.
Scaduto il termine per il versamento, per coloro i quali non
vi hanno provveduto tempestivamente si aprono le porte del
ravvedimento operoso.
Adesso, i problemi cominciano dal modo in cui si devono
pagare le imposte. Come avevamo evidenziato nel 2000 (si
veda l’apposita scheda di commento su diverse risposte a
quesiti fornite dall’allora vigente Direzione centrale riscossione del Ministero delle Finanze), occorre, per ravvedersi,
utilizzare sia il modello F24 sia il modello F23:
- tramite il modello F24, si paga la tassa cumulativamente
con gli interessi, indicando il codice tributo “7085”, istituito con la circolare n. 4 del 1996;
- tramite il modello F23, si paga la sanzione, con codice tributo “678T”, con causale “SZ” indicando il codice della
Direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate
competente.
La “duplicazione” del pagamento deriva dal fatto che, nella riforma della riscossione del 1997, forse per una svista, il
codice “7085”, istituito come visto in precedenza, è confluito nel sistema del modello F24, mentre per la sanzione è rimasto il codice “678T”, utilizzabile come intuibile solo con
il modello F23.
Ardua è, poi, la delineazione della sanzione.
L’art. 9 del DPR 641/72 stabilisce: “chi esercita un’attività
per la quale è necessario un atto soggetto a tassa sulle concessioni governative senza aver ottenuto l’atto stesso o assolta la relativa tassa, è punito con la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della tassa medesima e,
in ogni caso, non inferiore a lire duecentomila”.
Nessun problema per le tasse che si pagano una volta sola, o
per la tassa che si paga per la prima volta (pensiamo alla
tassa da pagare quando si istituiscono i libri contabili).
Quid iuris per la tassa che va pagata annualmente, in forza
del combinato disposto dell’art. 2 e delle norme contenute
nella Tariffa allegata al DPR 641/72?
/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
Da quanto riportato sul sito dell’Agenzia delle Entrate la
sanzione è sempre quella dell’art. 9, non rientrando la fattispecie nell’art. 13 del DLgs. 471/97, che punisce ogni mancato pagamento di un tributo nella misura del 30%.
Non è però così scontato, tant’è vero che, prima della riforma del DLgs. 473/97, la situazione del tardivo pagamento
della tassa annuale era disciplinata dal richiamato art. 9, ed
era punita con una soprattassa di entità più lieve.
Alcuni commentatori, con un’interpretazione che pare più
corretta, hanno sostenuto che l’omesso pagamento della tassa annuale rientra non nell’art. 9 del DPR 641/72 bensì
nell’art. 13 del DLgs. 471/97, norma che, dopo il 1997, disciplina tale violazione per tutti i tributi, a prescindere dal
fatto che sia contemplata dalla legge istitutiva dei medesimi.
Ora, se si rientra nell’omesso pagamento ex art. 13 del
DLgs. 471/97, non solo la sanzione sarebbe parametrata al
30% del tributo non versato, ma opererebbe la riduzione a
1/15 per giorno di ritardo e (ma su questo si potrebbe discutere) sarebbe inibita la definizione agevolata.
Per contro, se si opta per l’art. 9 del DPR 641/72, tecnicamente la violazione è un omesso assolvimento della tassa e
non un omesso pagamento, quindi, da un lato, il ravvedimento non potrebbe avvenire ai sensi della lettera a) dell’art. 13
del DLgs. 472/97 (circoscritta al caso delle violazioni sui
versamenti), dall’altro, nessun dubbio dovrebbe sussistere
per la definizione agevolata.
Il ravvedimento, se posto in essere ad esempio entro dieci
giorni dalla scadenza, dovrebbe a questo punto avvenire con
riduzione della sanzione del 100% a 1/9 e non a 1/10 del
minimo.
La situazione sembra simile al registro sulle locazioni, ove
il tributo può essere corrisposto all’atto della registrazione e
annualmente (il mancato versamento dell’imposta annuale
non dà luogo all’omessa registrazione ma al tardivo versamento).
Premesso ciò, non si hanno notizie su disconoscimenti del
ravvedimento con riduzione a 1/10 ai sensi della lettera a).
A prescindere da come si intenda inquadrare la violazione, si
tratta, per la tassa sulla vidimazione dei libri sociali, di tributo amministrato dall’Agenzia delle Entrate, per cui non
dovrebbero esservi dubbi sull’applicabilità “intera” dell’art.
13 del DLgs. 472/97, come riformato dalla L. 190/2014.
Quindi, il ravvedimento operoso, in sostanza, può avvenire
sino alla notifica dell’atto di recupero dell’imposta.
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ancora
IMPRESA
La qualificazione del procedimento non è
l’unico criterio per il “ne bis in idem”
L’orientamento della CEDU inizia far breccia nella giurisprudenza italiana
/ Maria Francesca ARTUSI
La corretta applicazione del principio del ne bis in idem (di
cui all’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU) ripropone un mai
sopito dibattito sia a livello internazionale che a livello nazionale ogniqualvolta vi sia la possibilità di esperire
procedimenti paralleli al processo penale in relazione ai
medesimi fatti materiali (si pensi, in Italia, alle sanzioni
comminabili dalla Consob o dalle Commissioni tributarie).
La Corte europea dei diritti dell’uomo, nella causa Kiiveri v.
Finlandia del 10 febbraio 2015, torna ad occuparsi della violazione del ne bis in idem proprio in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto in materia tributaria.
Il fatto portato all’attenzione della Corte riguarda il socio e
amministratore di una società a responsabilità limitata, accusato, in sede tributaria, per aver falsamente dichiarato i
propri redditi e per aver pagato “in nero” i dipendenti, nonché, in sede penale, per i reati di frode fiscale e di accounting offence (irregolare tenuta della contabilità). Il caso concreto offre l’occasione per ribadire che la qualificazione legale del procedimento non può essere l’unico criterio per la
valutazione del ne bis in idem; altrimenti l’ambito di operatività di tale principio sarebbe nella totale discrezione dei singoli Stati. Vi sono invece altri due criteri (alternativi e non
necessariamente cumulativi) che si uniscono a questo (i c.d.
“Engel criteria”): la natura dell’illecito e il grado di
afflittività delle sanzioni applicabili.
Si tratta, effettivamente, di un orientamento che può definirsi consolidato in ambito comunitario (Nikänen c. Finlandia;
Lucky Dev c. Svezia) in particolare con riferimento al concetto di “medesimo fatto”. A partire dal 2009, infatti, con un
importante révirement rispetto alla giurisprudenza precedente, la Corte ha abbandonato ogni riferimento alla fattispecie incriminatrice astratta, concentrandosi piuttosto sull’effettiva duplicazione delle sanzioni a fronte del medesimo
fatto concreto (cfr. Zolotukhin c. Russia). Ciò tocca con particolare attenzione proprio la materia degli illeciti tributari,
laddove in molti Paesi è previsto il c.d. “doppio binario” e
dunque è possibile che un soggetto sia sottoposto sia alla
sanzione penale che alla sanzione c.d. amministrativa. Interessante è che nel caso in esame non si ponga alcun dubbio –
né da parte della Corte, né da parte dei ricorrenti – sulla natura “criminale” (§ 33 della sentenza Kiiveri) di entrambi i
procedimenti (tributario e penale), e dunque la questione si
riduce nel valutare se il fatto sanzionato sia effettivamente lo
stesso (“idem”).
/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
Citando il precedente del caso Zolotukhin, la Corte ribadisce
a tal proposito che anche qui non può valere la sola qualificazione formale dell’illecito, bensì bisogna aver riguardo alla concretezza del fatto, dei soggetti coinvolti e delle circostanze che lo compongono. Per tali ragioni, la CEDU può
precisare che vi sia una differenza fattuale tra le condotte di
falsa dichiarazione e di irregolare tenuta delle scritture contabili, per cui non potrà porsi un problema di doppia incriminazione: infatti, l’obbligo di tenere correttamente i registri contabili è indipendente dall’uso che se ne fa con riferimento al calcolo delle imposte dovute (§ 35 Kiiveri).
Possibile che siano pendenti due procedimenti paralleli
per lo stesso fatto
Si ricorda, inoltre, che il principio del ne bis in idem impedisce solo la ripetizione di procedimenti che si sono conclusi
con una sentenza definitiva (la norma parla di “punizione” e
non di “giudizio”): dunque è possibile che siano pendenti
due procedimenti paralleli per il medesimo fatto, ma una
volta che intervenga il giudicato in uno dei due, l’altro deve
essere necessariamente interrotto. Va notato che la giurisprudenza sovranazionale in materia tributaria comincia a
farsi strada anche nelle pronunce della Corte di Cassazione
italiana. Recentemente, sia pure attraverso un semplice obiter dictum, la Suprema Corte – in un caso di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis del DLgs. 74/2000)
– ha affermato che emergono “non irrilevanti dubbi di
compatibilità con la normativa comunitaria (si veda a tale
proposito quanto stabilito con la nota sentenza della CEDU
del 4.3.2014 sul caso Grande Stevens contro Italia), che l’illecito amministrativo e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto, rendendo ingiustificata la duplicità di sanzioni in caso di ritenute che superino
la soglia” (Cass. 12 marzo 2015 n. 10475).
Tra l’altro, proprio questa posizione ermeneutica della CEDU viene addotta come argomento per negare l’opportunità di un inserimento dei reati tributari tra i c.d. reati-presupposto per la responsabilità parapenale delle persone
giuridiche: da un lato per queste ultime le sanzioni si
moltiplicherebbero ulteriormente; dall’altro la Corte europea
sembra negare ogni valore alla “etichetta” italiana di
“responsabilità amministrativa” per gli enti prevista dal
DLgs. 231/2001.
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ancora
FISCO
Bonus investimenti con problemi ancora
aperti
Assonime analizza i profili critici dell’agevolazione
/ Pamela ALBERTI
Assonime, nella circolare n. 9 del 2 aprile 2015, analizza gli
aspetti di maggior rilievo del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nuovi di cui all’art. 18 del DL
91/2014, focalizzando l’attenzione sui problemi ancora
aperti nonostante i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle
Entrate con la circolare n. 5/2015. L’Associazione segnala
anzitutto che il mondo industriale sta promuovendo varie iniziative per l’ampliamento temporale dell’agevolazione, auspicando che la stessa possa riguardare gli investimenti effettuati fino alla chiusura dell’esercizio 2015 (e non solo quelli
effettuati sino al 30 giugno 2015, come attualmente
previsto).
Rispetto alla precedente Tremonti-ter, la neointrodotta agevolazione presenta rilevanti caratteri di novità, sia sotto il
profilo sostanziale che procedurale. La nuova agevolazione
si caratterizza, in particolare, per il fatto che è previsto un limite minimo di 10.000 euro dell’investimento agevolabile e
sono agevolabili i soli beni strumentali nuovi compresi nella
divisione 28 della Tabella ATECO, destinati a strutture
produttive ubicate nel territorio dello Stato.
Con riferimento al limite di 10.000 euro, l’Agenzia delle
Entrate ha chiarito che tale limite deve essere verificato in
relazione a ciascun progetto di investimento effettuato
dall’imprenditore e non in riferimento ai singoli beni che lo
compongono; in caso l’impresa realizzi più progetti di investimento nel medesimo periodo agevolabile, tale verifica dovrà essere effettuata in relazione a ciascun progetto di
investimento unitariamente considerato.
Secondo l’Associazione, tale ultima affermazione desta alcune perplessità, posto che la ripartizione degli investimenti
richiesta all’impresa che abbia posto in essere più progetti
nel corso dei periodi d’imposta interessati dall’agevolazione non sempre è di facile realizzazione e potrebbe dar luogo
a problemi applicativi. Inoltre, sempre secondo l’Associazione, non si comprende il motivo per cui un’impresa che realizzi nel periodo d’imposta un progetto unitario superiore a
10.000 euro possa beneficiare dell’agevolazione, mentre
l’impresa che realizzi investimenti di pari importo ma suddivisi in più progetti di valore inferiore a tale soglia resti totalmente esclusa dal beneficio.
Al riguardo, l’Associazione osserva che “vero è che lo scopo del legislatore è quello di agevolare gli investimenti significativi, ma sarebbe stato, forse, più opportuno che la significatività di questi investimenti fosse stata accertata sul
/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
periodo d’imposta, più che sul singolo progetto”.
Quanto al requisito della strumentalità, l’Associazione evidenzia che tale caratteristica distingue nettamente l’agevolazione in esame dalla precedente Tremonti-ter, la quale aveva un ambito applicativo più ampio, comprendendo tutti i
beni diversi da quelli autonomamente destinati alla vendita;
in passato, infatti, l’agevolazione riguardava anche i beni di
consumo nonché i materiali di ricambio.
Con riferimento all’attuale bonus investimenti, l’Agenzia
delle Entrate ha invece precisato che non rientrano nell’ambito applicativo dell’agevolazione i materiali di consumo,
ancorché inclusi nella divisione 28.
Dubbi sui “materiali di ricambio”
Assonime evidenzia, tuttavia, che non è chiaro se siano
esclusi dall’agevolazione anche i c.d. materiali di ricambio.
Secondo l’Associazione, nulla quaestio se i beni di ricambio sono qualificabili come “dotazioni” o “componenti indispensabili” di beni complessi agevolabili, posto che in tal caso rilevano non in funzione della loro oggettiva natura,
bensì in considerazione della loro partecipazione ad un investimento unitariamente considerato.
Per quanto concerne le ipotesi diverse dalle precedenti,
l’Associazione evidenzia che, tecnicamente, anche i materiali di ricambio sono qualificabili come beni latu sensu strumentali, anche se destinati a funzionare insieme ad altri beni. Si tratta dei c.d. beni “inventariati” che, di norma, sono
utilizzati dall’impresa in modo durevole, nell’arco di più periodi d’imposta; sono beni a produttività ripetuta che, a
prescindere dalle modalità di rappresentazione contabile
adottate incidono, seppur indirettamente, sul valore dei beni
strumentali cui si riferiscono. I beni di ricambio, peraltro, sono beni che non devono entrate in funzione subito.
Considerata, però, la delicatezza della questione, Assonime
auspica un chiarimento ufficiale sul punto.
In merito alla fruizione del beneficio fiscale, secondo Assonime, posto che la norma non pone alcun criterio di prioritario utilizzo del credito in esame, nell’ipotesi in cui il credito non venga utilizzato non perché eccedente l’imposta
dovuta ma in quanto tale imposta risulti compensata da altri
crediti, la quota annuale non utilizzata potrebbe essere
sommata alla quota fruibile a partire dal successivo periodo
d’imposta.
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ancora
FISCO
Agenzie territoriali per la casa esenti IMU
La C.T. Prov. di Verbania si è pronunciata in merito ai requisiti che gli enti non
commerciali devono possedere per beneficiare dell’esenzione
/ Antonio PICCOLO
Le Agenzie territoriali per la casa (ATC) hanno diritto
all’esenzione IMU sia perché sono enti pubblici non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciali, sia perché sono enti che utilizzano gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento – con modalità non commerciali – dell’attività istituzionale riferibile a
quella di ricettività sociale, a nulla rilevando se l’utilizzo
dei medesimi immobili sia effettuato in modo diretto o indiretto. Lo si desume dalla sentenza n. 39/01/14, con la quale
la C.T. Prov. di Verbania ha accolto il ricorso di una locale
Agenzia territoriale per la casa, caratterizzato da un nucleo
argomentativo piuttosto singolare.
L’Agenzia provinciale, infatti, si è avvalsa anche della normativa (direttiva 77/388/CEE) e giurisprudenza (Corte di
Giustizia, sentenza n. 231/87 del 17 ottobre 1989) europea
in materia di IVA per sostenere l’esenzione dal pagamento
dell’IMU con riferimento ai propri immobili. Nello specifico, dopo aver effettuato il versamento dell’IMU per l’annualità 2012, l’ente ha presentato un’apposita richiesta di rimborso che il Comune competente ha rifiutato espressamente.
L’Agenzia, nell’impugnare il provvedimento di diniego dinanzi ai giudici tributari, ha insistito sull’esenzione IMU
prevista per la propria attività ricettiva sociale, mentre il Comune, avvalendosi della sentenza n. 28160/2008 pronunciata dalle Sezioni Unite della Cassazione, ha resistito sul difetto del requisito soggettivo. Secondo il ricorrente, l’attività
ricettiva sociale, come disciplinata e interpretata dalle normative IVA e ICI, rientra nel regime di esenzione IMU a
prescindere dall’utilizzo diretto o indiretto degli immobili
da parte dell’ente stesso.
La Commissione adita, nell’accogliere il ricorso perché fondato, ha ritenuto in sostanza che il concetto di “utilizzo diretto” è divenuto meno rigido rispetto al passato, in virtù
delle novità previste dall’art. 7 del DLgs. n. 504/1992 (decreto ICI) e dal DM n. 200/2012. Sicché – conclude il Collegio – la finalità tipica perseguita da questi enti pubblici economici (“pubbliche autorità”, secondo il paragrafo 5 dell’art.
4 della citata sesta Direttiva CEE) non può prescindere
dall’utilizzo mediante messa a disposizione di terzi, che per
tale ragione l’utilizzo stesso non può essere considerato indiretto, con la conseguenza che ove esso sia esercitato con
“modalità non commerciali” va ricompreso nel regime di
esenzione IMU.
La pronuncia è nettamente difforme dal consolidato orientamento della Cassazione, né è possibile interpretare le disposizioni tributarie in modo analogico o estensivo, come invece avrebbe fatto il Collegio giudicante. Le aziende territoria/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015
li per la casa, che appartengono alla più generale categoria
dell’edilizia residenza pubblica, ex Istituto autonomo case
popolari (IACP), sono enti pubblici economici dotati di personalità giuridica e di autonomia organizzativa, patrimoniale e contabile. Il comma 8 dell’art. 9 del DLgs. n. 23/2011,
nel prevedere fra l’altro le esenzioni IMU per gli immobili
posseduti da Stato e altri enti (Regioni, Province, Comuni,
comunità montane), destinati esclusivamente ai loro compiti istituzionali, ha reso applicabile alla medesima disciplina
dell’IMU il regime di esenzione ICI stabilito anche dalla
lett. i) del comma 1 dell’art. 7 del DLgs. n. 504/1992.
Al riguardo il Dipartimento delle Finanze, nell’affrontare il
tema dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo necessari per il riconoscimento dell’esenzione ICI, con circolare n.
2/DF/2009 ha precisato fra l’altro che l’ente, oltre a possedere l’immobile, deve utilizzarlo direttamente per lo svolgimento dell’attività meritevole del beneficio, come stabilito
dalla Consulta con ordinanze nn. 19/2007 e 429/2006.
Con l’entrata in vigore del nuovo tributo (1° gennaio 2012)
lo stesso Dipartimento delle Finanze, con circolare n.
3/DF/2012, ha precisato (§ 6.3.) che la detrazione IMU,
prevista per le abitazioni principali dal comma 10 dell’art. 13
del DL n. 201/2011 (conv. L. n. 214/2011), deve intendersi
applicabile anche agli enti di edilizia residenziale pubblica, comunque denominati, aventi le stesse finalità degli IACP, istituiti in attuazione dell’art. 93 del DPR n. 616/1977.
Inoltre, ha chiarito (§ 8) che la disposizione di cui alla citata
lett. i) dell’art. 7 del DLgs. n. 504/1992, come novellata
dall’art. 91-bis del DL n. 1/2012 (conv. L. n. 27/2012) e sue
modificazioni, oltre a prevedere che l’esenzione opera esclusivamente allorché le attività siano svolte “con modalità non
commerciali”, ha stabilito anche una disciplina ad hoc per le
utilizzazioni miste delle unità immobiliari (cfr. ris. nn.
7/DF/2013 e 3/DF/2013). Per questi ultimi casi il MEF ha
emanato il decreto n. 200/2012, contenente modalità e
procedure per le utilizzazioni miste dei fabbricati.
Ancora, il Dipartimento delle Finanze, con ris. n. 4/DF/2013,
ha rimarcato fra l’altro che sia la Corte Costituzionale che la
Corte di Cassazione sono concordi nell’affermare che
l’esenzione IMU si applica solo se l’immobile sia posseduto e utilizzato direttamente dallo stesso soggetto individuato dalla norma di legge. In particolare, si ricorda che con
sentenza n. 28160/2008, le Sezioni Unite hanno stabilito che
non si può applicare il regime di esenzione ICI per gli immobili utilizzati per l’attività di locazione a terzi da parte dello
IACP (conforme, fra tante, Cass. nn. 5046/2015 e
12497/2014).
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LAVORO & PREVIDENZA
Nuova “tranche” di sgravi per i contratti di
solidarietà difensivi inclusi nella CIGS
Definita dall’INPS la procedura di fruizione che interessa i contratti stipulati tra il 31
dicembre 2005 e il 30 giugno 2008
/ Luca MAMONE
Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha recentemente autorizzato il finanziamento degli sgravi contributivi
per i contratti di solidarietà accompagnati da CIGS ex art. 6
del DL 510/96 (c.d. “difensivi”), stipulati nel periodo compreso tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno 2008.
In seguito a tale disposizione ministeriale, l’INPS è intervenuto con la circ. n. 70 di ieri, 7 aprile 2015, fornendo le
istruzioni operative riferite alle modalità di applicazione
della riduzione contributiva previdenziale e assistenziale
prevista dal comma 4 della citato art. 6 del DL 510/96.
Come accennato, possono usufruire dell’agevolazione contributiva in argomento tutti i datori di lavoro che hanno stipulato contratti di solidarietà difensivi, accompagnati da
CIGS, esclusivamente nel periodo compreso tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno 2008 e i cui benefici contributivi,
sotto il profilo della competenza, si collocano nell’ambito
del predetto periodo (decorrenza 1° gennaio 2006).
In relazione a ciò, nella circolare l’INPS precisa che possono essere ammesse al beneficio anche le imprese subentranti a seguito di operazioni straordinarie quali fusioni,
scissioni e così via.
Viceversa, lo sgravio in questione non compete con riferimento ai contratti di solidarietà “difensivi” stipulati da aziende escluse dall’intervento della CIGS, per le quali spetta il
c.d. “contributo di solidarietà” previsto dall’art. 5, comma 5
e ss. del DL 148/93.
Inoltre, sono esclusi i datori di lavoro che hanno già fruito
di altre agevolazioni contributive, come ad esempio quelle
collegate alle assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di
mobilità ex L. 223/91, oppure di lavoratori disoccupati da
più di 24 mesi così come previsto dalla L. 407/90, e così via.
Per quanto riguarda durata e misura dello sgravio contributivo, l’Istituto previdenziale ricorda innanzitutto che esso è
fruibile per la durata del contratto di solidarietà con il limite
massimo di 24 mesi e compete per ogni lavoratore interessato dalla riduzione di orario di lavoro in misura superiore al
20% con erogazione della CIGS.
Invece, la misura della riduzione contributiva applicata in
questo caso è del 25%, con aumento fino al 35% qualora il
contratto preveda una riduzione dell’orario superiore al
30%. In pratica, tali riduzioni interessano mensilmente i datori di lavoro sulla parte dei contributi a loro carico per ogni
lavoratore che, in detto periodo, abbia avuto un orario di
lavoro ridotto più del 20% oppure del 30% rispetto a quello
contrattuale.
Sempre in relazione alle percentuali di sgravio, la circolare
in esame precisa che esse salgono rispettivamente al 30 e al
40% nel caso di imprese che operano nella aree del Mezzogiorno individuate ai sensi dell’obiettivo 1 del Regolamento
CEE n. 1260/99, ovvero: Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna. Sul punto, si osserva che la misura
del beneficio è stata recentemente rivista dal DL 34/2014,
con il quale si prevede l’applicazione di un’unica aliquota
del 35%.
Sotto il profilo operativo, nella circ. n. 70/2015 si chiarisce
che la procedura deve essere attivata dal datore di lavoro interessato e, una volta esperita l’istruttoria finalizzata ad accertare la presenza dei requisiti richiesti, l’INPS attribuirà
alla posizione aziendale il codice di autorizzazione “7K”,
appositamente riferito ai contratti di solidarietà accompagnati da CIGS stipulati tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno
2008.
Tale codice, prosegue la circolare, sarà attribuito limitatamente al periodo di paga cui si riferiscono i flussi UniEmens con i quali viene operato il conguaglio delle riduzioni
contributive e, comunque, limitatamente alle denunce contributive aventi scadenza di pagamento il 16 luglio 2015.
Nel caso di imprese cessate, o laddove il periodo accennato
non sia sufficiente per operare il conguaglio, il recupero
potrà essere effettuato mediante le procedure di regolarizzazione contributiva.
Infine, per quanto riguarda l’esposizione nel flusso UniEmens dei dati riferiti allo sgravio contributivo, l’INPS precisa che i datori di lavoro ammessi al beneficio dovranno indicare l’apposito codice “L900” e l’importo delle riduzioni
contributive spettanti – “SommeACredito” – nell’elemento
“DenunciaAziendale”, “AltrePartiteACredito”,
“CausaleACredito”.
Direttore Responsabile: Michela DAMASCO
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