I disturbi del linguaggio - Edizioni Centro Studi Erickson

Logopedia in età evolutiva
Direzione Luigi Marotta
in collaborazione con FLI – Federazione Logopedisti Italiani
Luigi Marotta e Maria Cristina Caselli
(a cura di)
I dIsturbI
del lInguaggIo
Caratteristiche, valutazione, trattamento
Introduzione di Laurence B. Leonard
Indice
7
Presentazione della collana «Logopedia in età evolutiva»
(Luigi Marotta e Tiziana Rossetto)
11
Prefazione
13
Introduzione: Il Disturbo Specifico del Linguaggio nelle diverse lingue
e nei vari ambiti di elaborazione cognitiva (Laurence B. Leonard)
PRIMA PARTE Lo stato dell’arte
41CAP. 1 Differenze individuali e indici di rischio nel primo sviluppo
del linguaggio di bambini monolingui e bilingui (Maria Cristina
Caselli, Arianna Bello, Daniela Onofrio, Patrizio Pasqualetti e Paola
Pettenati)
65CAP. 2 Caratteristiche della elaborazione linguistica in bambini bilingui
con disturbi dello sviluppo linguistico (Andrea Marini)
87CAP. 3 Lo sviluppo fonetico-fonologico nell’acquisizione di L1 e di L2
(Claudio Zmarich, Loretta Lena e Alessandra Pinton)
125 CAP. 4 I disordini fonetico-fonologici (Alessandra Pinton, Loretta Lena e
Claudio Zmarich)
145 CAP. 5 Disprassia Verbale Evolutiva: inquadramento clinico e
diagnosi differenziale con il disturbo fonologico (Anna Maria
Chilosi, Irene Lorenzini, Barbara Cerri e Paola Cipriani)
163 CAP. 6 Abilità cognitive nel Disturbo Specifico del Linguaggio:
verso una ridescrizione generale del deficit (Marco Dispaldro)
SECONDA PARTE Dalla valutazione al trattamento
193 CAP. 7 La valutazione del linguaggio: proposte per orientare
l’osservazione (Enrica Mariani e Manuela Pieretti)
209 CAP. 8 La valutazione del linguaggio: gli strumenti utilizzabili per la
lingua italiana (Luigi Marotta, Sara Bulgheroni e Andrea Marini)
235 CAP. 9 Efficacia dei trattamenti riabilitativi in bambini
con Disturbo Specifico di Linguaggio (Beatrice Bertelli,
Silvia Moniga e Paola Pettenati)
271 CAP. 10 L’intervento clinico INTERACT2tm per il bambino
parlatore tardivo (Serena Bonifacio)
289 CAP. 11 Fonologia, gioco e linguaggio (Maria Luisa Vaquer
e Anna Giulia De Cagno)
311 CAP. 12 La Disprassia Verbale Evolutiva: dalla valutazione
al trattamento (Irina Podda)
337 CAP. 13 Il trattamento dei disturbi morfosintattici
di produzione (Renata Salvadorini)
terza PARTE Esperienze cliniche
355 CAP. 14 Disordini fonologici (Maria Luisa Vaquer)
371 CAP. 15 L’intervento nei disturbi di linguaggio complessi
(Valentina Fazio, Ilaria Fontana e Chiara Petagna)
393 CAP. 16 La Disprassia Verbale Evolutiva: casi clinici
(Irina Podda)
407 CAP. 17 Disturbi di Linguaggio e Funzioni Esecutive
(Claudia Ronchetti e Serena Rossi)
425 CAP. 18 L’intervento nei disturbi di linguaggio aspecifici
(Fabio Quarin e Erika Massaccesi)
435 CAP. 19 Disturbo di linguaggio in bambini in situazione
di multiculturalità (Graziella Tarter)
451 CAP. 20 Disturbi di linguaggio morfosintattici:
esperienze riabilitative
(Anna Giulia De Cagno e Maria Luisa Vaquer)
Presentazione della collana
«Logopedia in età evolutiva»
Negli ultimi anni le aree d’interesse del logopedista all’interno dei disturbi dello sviluppo si sono moltiplicate e modificate, richiedendo sempre più
competenze specializzate. D’altronde i bambini che nascono in condizione
di svantaggio sono ancora molto numerosi e presentano patologie capaci di
alterare lo sviluppo cognitivo e neuropsicologico non più semplicemente
inquadrabili in quello che era una volta comunemente definito «deficit cognitivo» (se non ritardo mentale) o «deficit di linguaggio» o «disturbo di
letto-scrittura» e così via.
Questi bambini presentano infatti patologie complesse e differenziate,
anche se in molti casi in comorbilità tra loro: patologie che vanno dai disturbi
specifici del linguaggio o dell’apprendimento ai disturbi della memoria o
dell’attenzione, dagli effetti di lesioni cerebrali, connatali o acquisite, a quelli
di altre patologie, quali ad esempio l’epilessia o le infezioni da HIV o da trattamento con particolari farmaci. Ma quali sono le migliori prassi di intervento,
quali i criteri di valutazione di appropriatezza, di efficienza, di efficacia, quali le
misure di outcome da utilizzare? Ma proprio i termini di appropriatezza, good
practice, indicatori di efficacia, équipe multiprofessionale e via dicendo, tutti
termini usati nell’agire quotidiano dai riabilitatori, sono spesso utilizzati più
che altro per tranquillizzarci e dimostrare la nostra competenza nel recepire
le trasformazioni avvenute negli ultimi dieci anni nello scenario del sistema
sanitario italiano.
8
I disturbi del linguaggio
La Medicina Basata sulle Evidenze (Evidence Based Medicine, EBM) ha
rivoluzionato il mondo scientifico, tanto nella pratica quanto nella teoria. Da
una medicina autoreferenziale, orientata dall’esperienza e dalle tendenze del
luminare, siamo passati a una scienza in cui contano le prove e le evidenze
scientifiche.
Una rivoluzione avvenuta sicuramente anche per motivazioni di tipo economico, ma che ha profondamente modificato sia i principi sia gli orientamenti
nel complesso scenario della riabilitazione. L’EBM, infatti, è un movimento
culturale che si è diffuso velocemente a livello internazionale, grazie a molti
fenomeni che hanno segnato l’evoluzione della metodologia della ricerca clinica
e dell’informazione scientifica. Uno dei principali obiettivi è stato quello di
mettere in discussione i dogmi dettati dai modelli tradizionali della medicina,
liberando gli operatori sanitari dal peso autoritario dell’opinion leader così
come era nella consuetudine, e di offrire la possibilità di valutare in maniera
autonoma e critica la qualità e la validità delle proprie scelte cliniche usando,
per le decisioni, dati sperimentali e bibliografici.
La collana «Logopedia in età evolutiva» nasce alla luce di questo cambiamento culturale e si propone di raccogliere i contributi di coloro che, per
formazione ed esperienza, sono quotidianamente coinvolti nell’intervento
logopedico nei disturbi dello sviluppo, all’interno dell’équipe interdisciplinare che si occupa della presa in carico di questi bambini. L’intento è offrire un
panorama di proposte riabilitative nei differenti profili di sviluppo, unitamente
a un inquadramento più generale delle diverse problematiche, presentando
nuovi spunti di riflessione o ridefinizioni concettuali, approcci consolidati o
iniziative più originali, sostenute da modelli teorici di riferimento riconosciuti
e plausibili.
Tutti i volumi sono caratterizzati dal tentativo di coniugare ponderatezza
ed entusiasmo, dando spazio sia ai contributi di clinici di primo piano che da
anni si occupano di disturbi dello sviluppo, sia a quelli di giovani professionisti che con grande impegno e passione stanno costruendosi una propria
esperienza.
Il taglio è essenzialmente operativo, con presentazione dei criteri di inquadramento diagnostico, di protocolli condivisi di valutazione, di tecniche
di intervento e di casi clinici.
L’approccio è basato sul modello «bio-psico-sociale», con grande attenzione al bambino in quanto persona, all’ambiente in cui vive, così come ai
correlati neuropsicologici.
La collana «Logopedia in età evolutiva» è e sarà sempre aperta ai contributi di tutti coloro che operano in età evolutiva, come dimostra anche la
Presentazione della collana «Logopedia in età evolutiva»
9
composizione del Comitato Scientifico, che annovera, oltre a logopedisti
di provata esperienza, giovani emergenti ed esperti provenienti da altre
discipline, quali psicologi, neuropsichiatri infantili, otorinolaringoiatri e
pedagogisti.
Luigi Marotta e Tiziana Rossetto
Le prime pubblicazioni della Collana, sull’onda della Legge 170/2010, della
Consensus Conference promossa dall’Istituto Superiore di Sanità sui Disturbi
Specifici di Apprendimento (DSA) e delle Raccomandazioni del MIUR, hanno affrontato il tema dei DSA. Pur non considerando esaurito questo importantissimo
tema, abbiamo deciso, prendendo spunto dal nuovo manuale di classificazione
dei disturbi del neurosviluppo DSM-5 e dalla spinta della comunità scientifica e dei
clinici verso una Consensus sui disturbi di linguaggio, di affrontare nelle prossime
pubblicazioni il tema dei disturbi del linguaggio e della comunicazione. Questo
volume sui disturbi di linguaggio, infatti, sarà a breve seguito da una nuova pubblicazione che avrà per titolo I disturbi della comunicazione e, speriamo in tempi
brevi, da una serie di quaderni operativi sugli argomenti affrontati dalla Collana.
Prefazione
Quando abbiamo cominciato a parlare di questo volume, non ci siamo
molto interrogati sul titolo: avevamo in mente di curare un libro sul Disturbo
Specifico di Linguaggio (DSL), e così si sarebbe intitolato, che dubbi potevano
esserci?
Ma dovevamo già sapere, dallo studio della letteratura, dalle nostre stesse
ricerche e dalla lunga esperienza clinica, nostra e delle persone con le quali
abbiamo collaborato in questi anni, che l’etichetta diagnostica generalmente
usata per definire quei bambini con una persistente difficoltà nell’acquisizione e
nell’uso di diverse modalità di linguaggio [...] non attribuibili a una compromissione dell’udito o ad altri deficit sensoriali, a disfunzioni motorie o altre condizioni
mediche o neurologiche non rende giustizia della complessità del loro profilo
neuropsicologico.
Parlare di DSL, come ben sottolinea Leonard nella sua Introduzione al
libro, lascia pensare che si tratti di un profilo «puro» e, sul piano teorico, che
cognizione e linguaggio possano svilupparsi e funzionare (o non funzionare)
in modo indipendente.
L’Introduzione magistrale di Leonard offre la chiave di lettura al libro, in
cui molti capitoli focalizzano sull’evidenza che il disturbo di linguaggio in questi
bambini è spesso associato a sottili deficit in diverse aree, quali ad esempio
nella coordinazione motoria, nell’attenzione, nella memoria e, più in generale,
nell’elaborazione delle informazioni. D’altra parte queste difficoltà non sono
12
I disturbi del linguaggio
così marcate da suggerire che siamo in presenza di un disturbo «primario»
nell’area del linguaggio e di disturbi «secondari» in altre aree.
Considerando dunque che la discussione su quale sia la terminologia
migliore per descrivere questa popolazione di bambini è ancora aperta, noi
abbiamo scelto di adottare quella proposta oggi dal DSM-V (pubblicato nella
traduzione italiana nel 2014) e di intitolare il libro I Disturbi di Linguaggio
(Language Disorder), lasciando tuttavia liberi gli autori di utilizzare la più
tradizionale terminologia Disturbo Specifico del Linguaggio, o anche la ancor
meno recente etichetta di Disturbo Primario del Linguaggio.
Il volume è suddiviso in tre sezioni, fra loro strettamente collegate. La prima ci informa sulle più recenti prospettive teoriche e sui risultati delle ricerche
in questo ambito; la seconda affronta il tema della valutazione di questi bambini,
di come questa sia indispensabile per progettare il trattamento e di come sia
necessario ottenere delle evidenze documentate sull’efficacia dei programmi
di intervento. L’ultima sezione riporta prevalentemente esperienze cliniche.
A uno sguardo superficiale dell’Indice si potrebbe immaginare una rigida
divisione fra teoria e pratica, fra lavoro di ricerca e lavoro clinico. Così non è.
Le due prospettive sono continuamente intrecciate e questo è ben testimoniato dal fatto che molti capitoli sono firmati da più autori che spesso hanno
storie professionali diverse e complementari, ma che sanno parlare insieme,
nel rispetto reciproco e nella certezza che conoscenze teoriche ed esperienze
cliniche devono essere costantemente in comunicazione.
Maria Cristina Caselli e Luigi Marotta
Introduzione
Il Disturbo Specifico del Linguaggio nelle diverse
lingue e nei vari ambiti di elaborazione cognitiva1
Laurence B. Leonard2
È almeno dal 1822 che l’interesse di scienziati e professionisti è incentrato sullo studio di bambini con difficoltà di apprendimento del linguaggio
importanti e tuttavia prive di una causa evidente. Questi bambini hanno un
udito normale, non presentano segni evidenti di danno neurologico, ai test
di intelligenza non verbale ottengono punteggi nei limiti della norma e non
hanno comportamenti che suggeriscano la presenza di un disturbo dello
spettro autistico. Per queste caratteristiche, essi si collocano al di fuori dei
confini tradizionali dei problemi uditivi, neurologici o di capacità intellettiva.
Tuttavia è vero anche che alcuni bambini con difficoltà di apprendimento del
linguaggio presentano dei sottili deficit in aree come la coordinazione motoria e l’elaborazione cognitiva non linguistica, la cui presenza ha suscitato vari
dibattiti circa la diagnosi più appropriata. Al momento attuale, la denominazione prevalente nella letteratura scientifica per questa tipologia di disturbo
è «Disturbo Specifico del Linguaggio» (Specific Language Impairment). Essa
ha lo svantaggio di implicare un profilo puro, il che può valere solo per una
parte di questi bambini; d’altra parte, questa etichetta diagnostica permette
di identificare correttamente questi bambini che non rientrano nelle categorie
Articolo originale scritto da L.B. Leonard e pubblicato nel 2014 con il titolo Specific language impairment across languages in «Child Development Perspectives», vol. 8, pp. 1-5, doi: 10.1111/cdep.12053.
Traduzione italiana di Gabriele Lo Iacono.
2
Laurence B. Leonard, Purdue University, West Lafayette, IN, USA.
1
14
I disturbi del linguaggio
cliniche tradizionali sopra citate. Sono state suggerite anche altre etichette, tra
cui «disturbo primario del linguaggio» (primary language impairment): tale
denominazione evita la connotazione del profilo puro ma suggerisce l’esistenza
di un disturbo (impairment) secondario. I sottili deficit che talvolta si associano
al disturbo del linguaggio, invece, non sono di solito sufficientemente gravi da
giustificare la denominazione «disturbo» (impairment). Inoltre, se questi altri
problemi fossero tali da arrivare allo status di disturbo (impairment), verrebbero a mancare delle ragioni chiare per considerare «primario» il disturbo
del linguaggio.
Nella popolazione generale dei bambini di 5 anni, quelli con Disturbo
Specifico del Linguaggio sono circa il 7% (Tomblin et al., 1997). Sebbene i
sintomi siano particolarmente evidenti nei primi anni di vita, spesso le difficoltà
linguistiche proseguono in età scolare, e anche oltre. Molti studi longitudinali
prospettici hanno rilevato la presenza di deficit a lungo termine, che talvolta
continuano a essere evidenti anche quando queste persone diventano adulte
(Beitchman et al., 1996; Conti-Ramdsen et al., 2001; Stothard et al., 1998;
Tomblin et al., 2003).
Leggendo i capitoli proposti nel presente volume, il lettore apprenderà
molte cose su bambini con disturbo di linguaggio e su bambini le cui caratteristiche richiedono denominazioni cliniche diverse, come quella di Disprassia Verbale Evolutiva. La maggior parte dei lavori presentati in questo libro
riguardano bambini impegnati nell’apprendimento dell’italiano. In questa
sezione introduttiva, invece, io intendo concentrarmi sui bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio impegnati nell’apprendimento di altre lingue,
specialmente lingue romanze, nella speranza che le somiglianze e le differenze
rispetto all’italiano possano aiutare a cogliere meglio la natura del disturbo che
stiamo trattando. Poiché una comprensione più piena del Disturbo Specifico
del Linguaggio richiede anche una conoscenza di altre, più sottili, debolezze
che possono associarsi ad esso, alla fine della sezione presenterò sinteticamente
i dati in nostro possesso a proposito delle difficoltà di elaborazione cognitiva
che vengono riscontrate in questi bambini.
Il Disturbo Specifico del Linguaggio nelle varie lingue
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento delle ricerche crosslinguistiche sui bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio, cosa molto
importante principalmente per due motivi. Il primo è, naturalmente, che queste
ricerche forniranno ai clinici di tutto il mondo maggiori informazioni riguardo
Introduzione
15
ai bambini con cui essi lavorano. Man mano che aumentano i dati su ciascuna
lingua, i clinici disporranno di una base sempre migliore per la valutazione e il
trattamento. Il secondo motivo è che, raccogliendo informazioni su una gamma
di lingue più ampia, saremo in grado di formulare teorie più complete e soddisfacenti in merito alla natura e alle cause del Disturbo Specifico del Linguaggio.
La maggior parte delle ricerche sui bambini con Disturbo Specifico del
Linguaggio si è occupata dell’apprendimento dell’inglese e di altre lingue germaniche come il tedesco (ad esempio, Eisenbeiss, Bartke e Clahsen, 2005; Ott
e Höhle, 2013; Rice, Noll e Grimm, 1997), l’olandese (ad esempio, Blom et al.,
2013; de Jong, 1999; Rispens e De Bree, 2014) e lo svedese (ad esempio, Hansson et al., 2004; Leonard, Hansson, Nettelbladt e Deevy, 2004; Samuelsson e
Nettelbladt, 2004). Tuttavia sono in aumento anche le ricerche sui bambini
con Disturbo Specifico del Linguaggio che imparano altre lingue europee
come il finlandese (ad esempio, Kunnari et al., 2011), l’ungherese (ad esempio,
Lukács, Leonard, Kas e Pléh, 2009) e il greco (ad esempio, Stavrakaki e van
der Lely, 2010). Attualmente anche lingue asiatiche come il cantonese stanno
ricevendo particolare attenzione (ad esempio, Fletcher et al., 2005; Wong et
al., 2004). Gli studi sui bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio non si
limitano ad analizzare le lingue vocali: ad esempio, cominciano a esserci lavori
sull’apprendimento di una lingua dei segni (si vedano Marshall et al. 2011;
Mason et al., 2010). Qui io mi concentrerò sui bambini con Disturbo Specifico
del Linguaggio che acquisiscono lingue romanze (spagnolo e francese), ed
evidenzierò le somiglianze e le differenze tra i loro profili linguistici e quelli dei
bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio di lingua italiana. In seguito,
descriverò le caratteristiche dei bambini bilingui con Disturbo Specifico del
Linguaggio, ponendo particolare attenzione agli studi in cui una delle lingue
apprese è una lingua romanza.
Naturalmente i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio incontrano una serie di difficoltà universali a prescindere dalla lingua (per una rassegna
recente, si veda Leonard, 2014). In particolare, cominciano a parlare tardi e il
loro sviluppo grammaticale procede piuttosto lentamente. In età scolare sono a
rischio di difficoltà di lettura (ad esempio, Catts, Fey, Tomblin e Zhang, 2002). Il
loro disturbo ha inoltre conseguenze sociali (ad esempio, St. Clair et al., 2011),
emotive (ad esempio, Fujiki et al., 2004) e forse anche economiche a un’età
più avanzata (ad esempio, Law, Rush, Schoon e Parsons, 2009). Nonostante le
enormi differenze fonologiche, lessicali e grammaticali fra le varie lingue, se si
guarda oltre la superficie, cominciano a profilarsi alcuni «endofenotipi» del
Disturbo Specifico del Linguaggio. Bishop, Adams e Norbury (2006) hanno
identificato due di queste caratteristiche grazie a un studio su un ampio numero
16
I disturbi del linguaggio
di gemelli: la prima è un deficit di elaborazione grammaticale, che si manifesta con un uso incoerente delle caratteristiche grammaticali e una difficoltà
nella comprensione di frasi complesse; la seconda è un deficit nella memoria
fonologica a breve termine, rilevato mediante compiti di ripetizione di non
parole. I deficit in entrambi gli ambiti cognitivi sono risultati ereditari e tuttavia
geneticamente separabili: infatti i bambini che presentavano un tipo di deficit
non presentavano necessariamente un deficit anche nell’altro ambito. In questa
sezione verrà esaminato in particolare come l’elaborazione grammaticale e la
capacità di memoria fonologica a breve termine si evidenziano nelle difficoltà
di linguaggio nelle lingue romanze.
Il Disturbo Specifico del Linguaggio nelle lingue romanze
La lingua italiana è stata un banco di prova eccellente per le teorie del
Disturbo Specifico del Linguaggio, specialmente perché i bambini con questo
disturbo che imparano l’italiano non corrispondono al profilo grammaticale
su cui si basano tali teorie. Ad esempio, i bambini di lingua italiana non omettono le desinenze grammaticali e, quando commettono delle sostituzioni di
desinenza verbale, queste assumono di rado la forma dell’infinito. Dal canto
opposto, lo studio del Disturbo Specifico del Linguaggio nella lingua italiana ha rivelato delle aree salienti di particolare debolezza grammaticale. Ad
esempio, sia Cipriani e colleghi (1991) sia Leonard e colleghi (1987) hanno
riscontrato che gli articoli e i clitici venivano omessi più frequentemente
dai bambini in età prescolare con Disturbo Specifico del Linguaggio che da
bambini più piccoli che avevano approssimativamente la stessa lunghezza
media dell’enunciato. Questi risultati sono stati replicati varie volte dopo
quei primi studi; a questo proposito, basti citare i lavori di Bortolini, Caselli
e Leonard (1997), Bottari, Cipriani, Chilosi e Pfanner (1998; 2001) e Leonard et al. (1992) per quanto riguarda gli articoli, e quelli di Bortolini et
al. (2002; 2006), Dispaldro, Leonard e Deevy (in corso di pubblicazione)
e Leonard e Dispaldro (2013) per quanto riguarda i clitici. In realtà, questi
due tipi di omissioni raggiungono uno standard perfino superiore, in quanto
manifestano una buona sensibilità e specificità (Bortolini et al., 2002; 2006).
In altre parole, oltre a rivelare delle differenze a livello di gruppo, queste
misure consentono di assegnare correttamente un punteggio di «insufficienza» ad almeno l’80% dei bambini con diagnosi indipendente di Disturbo
Specifico del Linguaggio e un punteggio di «sufficienza» ad almeno l’80%
dei bambini che, secondo una valutazione indipendente, stanno imparando
Introduzione
17
l’italiano in modo normale. Le misure capaci di tale accuratezza diagnostica
sono pochissime. Sebbene predominino le omissioni di tali parole funzionali,
possono verificarsi anche delle sostituzioni. È più probabile che clitici in forma singolare (la, lo) sostituiscano clitici in forma plurale che non viceversa.
Prevedibilmente, gli articoli che ricorrono soltanto in particolari contesti
fonetici (lo, gli) sono spesso sostituiti dai loro omologhi più comuni dello
stesso numero e dello stesso genere (il, i).
Sicuramente vengono commessi anche altri errori grammaticali. Spesso
vengono omesse le forme copulative, così come vengono omesse le forme
ausiliari in contesti in cui è richiesto l’uso del passato prossimo (ad esempio, Gemma mangiato anziché Gemma ha mangiato). Anche se in genere le
desinenze verbali non costituiscono un problema particolare, la desinenza
della terza persona plurale del tempo presente sembra la più soggetta a errori e spesso viene sostituita dalla terza persona singolare (Leonard et al.,
1992; Bortolini et al., 2006; Bortolini et al., 1997; Dispaldro et al., in corso
di pubblicazione). Nei bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio di
lingua italiana si rilevano anche problemi connessi all’uso di periodi più
complessi, come le proposizioni relative (si veda ad esempio Contemori
e Garraffa, 2010). I problemi di natura grammaticale sembrano interferire
altresì con la capacità di questi bambini di produrre narrazioni (Marini,
Tavano e Fabbro, 2008).
Il singolare repertorio di difficoltà grammaticali che si osserva nei bambini
di lingua italiana con difficoltà specifica del linguaggio mette in discussione
le teorie di questo disturbo. Wexler (2003) ha proposto una spiegazione, conosciuta con il nome di extended unique checking constraint, che permette di
rendere ragione del fatto che i clitici, le forme copulative e le forme ausiliari sono
soggetti a errori. Tuttavia essa non spiega l’omissione degli articoli e in realtà
non predirebbe la presenza di difficoltà con le desinenze della terza persona
plurale. Leonard e colleghi (Leonard, 2014, pp. 325-327; Leonard e Bortolini,
1998) hanno osservato che questo repertorio di morfemi grammaticali ha in
comune la caratteristica di richiedere al bambino la produzione di sillabe deboli
che non sono in posizione finale all’interno di una parola. I ricercatori hanno
inoltre notato che le forme copulative e le forme ausiliari studiate (è, ha) sono
monosillabiche, come gli articoli e i clitici. Vedendo una correlazione tra la
tendenza dei bambini a omettere queste forme e la loro tendenza a omettere
le sillabe deboli iniziali in parole come banana e matita, questi ricercatori
hanno ipotizzato che in questi errori possano avere un ruolo importante delle
difficoltà prosodiche. I fattori prosodici potrebbero analogamente essere alla
base delle difficoltà osservate nell’uso della desinenza per la terza persona
18
I disturbi del linguaggio
plurale, poiché, per la maggior parte dei verbi, il bambino deve produrre due
sillabe deboli consecutive dopo la radice, dato che di solito l’accento viene
messo sulla prima sillaba, come in dormono e portano. Se il bambino riuscisse
a padroneggiare soltanto le sillabe deboli che compaiono in posizione finale,
per lui sarebbe naturale sostituire la forma corretta con la forma con desinenza
in terza persona singolare, come in dorme e porta. Benché tali osservazioni
sembrino corrette, non è chiaro se una spiegazione prosodica abbia una portata
sufficiente a rendere ragione di tutte le difficoltà grammaticali incontrate da
questi bambini.
Vi sono prove del fatto che l’altro sospetto endofenotipo del Disturbo
Specifico del Linguaggio — un deficit nella memoria fonologica a breve termine
— si manifesta anche in italiano. Come nelle altre lingue, solitamente anche
in italiano questo tipo di abilità viene valutato mediante compiti di ripetizione
di non parole. Nella ripetizione di non parole, i bambini di lingua italiana con
Disturbo Specifico del Linguaggio sono meno precisi dei bambini di controllo
di età inferiore pareggiati per lunghezza media dell’enunciato (Bortolini et al.,
2006; Dispaldro et al., in corso di pubblicazione). La correttezza diminuisce
con l’aumentare del numero di sillabe che compongono le non parole. Curiosamente, se alle non parole viene data una vera morfologia italiana, la correttezza
migliora (Casalini et al., 2007).
I compiti di ripetizione di non parole risultano avere alti livelli di sensibilità e specificità in italiano, specialmente se si utilizzano non parole di
quattro sillabe (Bortolini et al., 2006; Dispaldro, Leonard e Deevy, 2013).
Sembra altresì che la ripetizione di parole reali sufficientemente lunghe (ad
esempio, melanzana, campanile) possa avere livelli accettabili di accuratezza
diagnostica (Dispaldro et al., 2013). Naturalmente, se i bambini con Disturbo Specifico del Linguaggio non conoscono queste parole e i loro pari con
sviluppo linguistico normale le conoscono, l’accuratezza diagnostica elevata
riscontrata può essere dovuta sia a differenze nella capacità di memoria fonologica a breve termine dei due gruppi, sia a differenze nel loro livello di
sviluppo semantico.
Lo spagnolo
Esistono molte somiglianze tra lo spagnolo e l’italiano; tra di esse figurano
i paradigmi flessivi di nomi, aggettivi e verbi, l’uso dei clitici e l’uso dei soggetti
nulli. Come in italiano, normalmente l’ordine delle parole è soggetto-verbocomplemento oggetto, ma esso può variare a seconda del contesto pragmatico.
In alcune regioni del mondo di lingua spagnola (ad esempio, in Messico), gli
2
Caratteristiche della elaborazione linguistica
in bambini bilingui con disturbi
dello sviluppo linguistico
Andrea Marini1
La categoria diagnostica dei Disturbi Specifici del Linguaggio (DSL) si
applica a bambini con normale livello intellettivo e senza evidenti problemi
neurologici o psichiatrici che però presentano disturbi nello sviluppo linguistico pur non costituendo una condizione omogenea (Laws e Bishop, 2003;
Leonard, 1998; Bishop, 1997). In effetti, i disturbi osservabili possono in
alcuni casi limitarsi alla produzione, in altri estendersi anche ad aspetti legati
alla comprensione oltre a interessare aspetti diversi della elaborazione del
linguaggio (ad esempio, aspetti fonetico-articolatori, fonologici, morfologici,
morfosintattici, sintattici, semantici e, talvolta, anche pragmatici e discorsivi)
(Marini, 2008; Marini et al., 2008). Queste considerazioni hanno portato
alla formulazione di classificazioni di natura funzionale e/o linguistica dei
disturbi specifici del linguaggio. Ad esempio, stando alla decima edizione
dell’International Classification of Diseases, è possibile distinguere tra disturbi
dell’articolazione del linguaggio (disturbi fonetico-articolatori, classificati con
Andrea Marini è ricercatore confermato di Psicologia Generale (M-PSI/01) presso il Dipartimento
di Scienze Umane dell’Università di Udine. Dal 2005 è responsabile scientifico (Senior Researcher)
di ricerche concernenti le modalità di elaborazione del linguaggio in pazienti adulti e in età evolutiva
presso gli IRCCS «Santa Lucia» di Roma e «E. Medea», polo del Friuli Venezia Giulia. È membro
del Consiglio di Dottorato in Neuroscienze Cognitive dell’Università di Trieste e del Consiglio della
Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Udine. Svolge una intensa attività didattica
tra gli Atenei di Udine, Trieste, Roma «Tor Vergata» e Bolzano.
1
66
I disturbi del linguaggio
la sigla F80.0), disturbi della produzione senza problemi di comprensione
(classificati con la sigla F80.1, nella quale rientrano difficoltà nella capacità di
selezionare parole, accedere alle loro caratteristiche semantiche, morfosintattiche, morfologiche e/o fonologico-articolatorie) e disturbi misti in cui a problemi di comprensione del linguaggio possono essere associati anche problemi
di produzione (classificati con la sigla F80.2). A classificazioni funzionali di
questo tipo, tuttavia, sono state affiancate anche altre classificazioni di natura
linguistica. Queste ultime si basano in genere su considerazioni relative al
livello di elaborazione linguistica maggiormente interessato dal disturbo. Ad
esempio, Conti-Ramsden e Botting (1999) hanno suggerito di distinguere tra
bambini con disturbi lessicali e sintattici, bambini con aprassia verbale, bambini con disturbi nella pianificazione fonologica, bambini con disturbi di tipo
fonologico e sintattico e, infine, bambini con disturbi semantici e pragmatici.
Altri autori hanno suggerito di aggiungere una categoria costituita da bambini
di età uguale o superiore ai 9 anni con disturbi prevalentemente morfosintattici
e grammaticali (bambini con Grammatical-Specific Language Impairment; van
der Lely e Stollwerck, 1996).
Già da queste prime considerazioni emerge chiaramente la vivacità del
dibattito relativo alla natura funzionale e strutturale dei DSL. In effetti, una
ricerca condotta sul database bibliografico scientifico PubMed (http://www.
ncbi.nlm.nih.gov/pubmed) al momento della stesura del presente capitolo
ha restituito ben 1.823 risultati relativi ad articoli che, a vario titolo, indagano
aspetti linguistici, neurologici, cognitivi e genetici dei DSL. Di fronte a questo
proliferare di studi, colpisce l’assoluta esiguità delle ricerche condotte allo scopo
di esplorare le caratteristiche linguistiche di bambini bilingui o plurilingui con
disturbi specifici del linguaggio (si consideri che una ricerca con le parole chiave
«Specific Language Impairment biligualism» restituisce appena 38 risultati
e un attento esame di questi risultati mostra che in molti casi si tratta di studi
cross-linguistici). Questo dato lascia perplessi nel momento in cui si consideri
la rilevanza clinica, oltre che educativa, della condizione di plurilinguismo. Alla
luce di queste considerazioni, questo capitolo intende fornire al lettore una
disamina delle conoscenze disponibili circa le abilità linguistiche in bambini
bilingui con disturbi di linguaggio. Nello specifico, dopo una prima parte in cui
verrà introdotta una definizione operativa del concetto di competenza bilingue, verranno sviluppate alcune considerazioni sulle principali caratteristiche
linguistiche e cognitive di questa competenza. Sarà a questo punto possibile
affrontare il tema della organizzazione della competenza bilingue in bambini
con DSL. Nello specifico, l’attenzione verrà concentrata su alcuni problemi di
rilevanza clinica. Innanzitutto, la possibilità che l’esposizione a un ambiente
Caratteristiche della elaborazione linguistica in bambini bilingui
67
bilingue possa indurre difficoltà nello sviluppo linguistico di bambini con
diagnosi di DSL. In secondo luogo l’eventualità che il DSL possa colpire in
modo particolarmente marcato bambini esposti a più di una lingua rispetto
a bambini esposti a una sola lingua. Infine, l’opportunità di esporre bambini
con DSL a una seconda lingua o a una lingua straniera.
Una definizione operativa del concetto di competenza bilingue
Il bilinguismo, e ancor più il plurilinguismo, è un fenomeno estremamente
diffuso. Basti pensare che in appena 160 Paesi vengono utilizzate circa 7.000
lingue (Tucker, 1998). Ne consegue che la maggioranza della popolazione
mondiale può essere a pieno titolo considerata quanto meno bilingue se non
addirittura poliglotta, trovandosi a usare due o più lingue nelle quotidiane
interazioni comunicative (Grosjean, 1994). Se poi si tiene presente che in
numerosi Paesi il numero delle lingue utilizzate dalle varie comunità sta progressivamente aumentando a causa dei massicci fenomeni migratori, il problema
connesso alla rappresentazione del linguaggio in condizioni di plurilinguismo
emerge in tutta la sua importanza. Ad esempio, recenti statistiche mostrano
che negli Stati Uniti2 e in Canada3 almeno il 20% della popolazione parla in
casa una lingua diversa dall’Inglese con picchi particolarmente elevati nelle
aree urbane (ad esempio il 60% a Los Angeles e il 50% a Toronto). In Europa
la situazione è, se possibile, ancora più complessa, con il 56% della popolazione
europea complessiva che usa almeno due lingue nella vita quotidiana e alcuni
Stati dell’Unione in cui si arriva a picchi vicini al 100% (come ad esempio in
Lussemburgo dove si registra il 98.5% della popolazione che usa almeno due
lingue nella vita quotidiana).4 Per questi motivi l’attenzione della comunità
scientifica si sta gradualmente spostando verso il tentativo di spiegare come si
sviluppa, funziona, possa essere valutata e riabilitata una competenza bilingue.
Sorprende, tuttavia, l’assenza di una definizione universalmente condivisa di
competenza bilingue (per una discussione a questo riguardo si veda Marini e
Fabbro, 2007). In effetti, trattandosi di un complesso fenomeno psicologico
U.S. Census Bureau (2010), The 2011 statistical abstract: Languages spoken at home by language, 2009,
Table 53, http://www.census.gov/compendia/statab/2012/tables/12s0053.pdf.
3
Statistics Canada (2007), 2006 Census of Canada highlight tables: Population by language spoken most
often at home and age groups, 2006 counts, for Canada, provinces and territories -20% sample data, Catalogue number 97-555-XWE2006002, http://www12.statcan.ca/census-recensement/2006/dp-pd/
hlt/97-555/T402-eng.cfm?Lang=E&T=402&GH=4&SC=1&S=99&O=A.
4
European Commission (2006), Special Eurobarometer 243: Europeans and their languages (Executive
Summary), p. 3, http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_243_sum_en.pdf.
2
68
I disturbi del linguaggio
e culturale che coinvolge dimensioni individuali e sociali, la condizione di
bilinguismo costituisce una fonte di interesse non solo per modelli sociolinguistici dell’uso e della stratificazione del linguaggio nella società, ma anche
per le teorie psicolinguistiche sullo sviluppo e il funzionamento del linguaggio,
come pure per i modelli della rappresentazione neurocognitiva del linguaggio
nel cervello (Fabbro e Marini, 2010; Marini, Urgesi e Fabbro, 2012).
Nel complesso, sono stati proposti numerosi modi per classificare i differenti tipi di bilinguismo in base al punto di vista adottato di volta in volta
(Butler e Hakuta, 2004; Edwards, 2004). Dal punto di vista della organizzazione delle lingue conosciute da un bilingue, se le due o più lingue utilizzate in
famiglia sono state apprese contemporaneamente da un dato parlante, si parla
di bilinguismo (o plurilinguismo) compatto. Si parla di bilinguismo coordinato se
una o più lingue sono state apprese in modo adeguato prima della pubertà
ma non nella cerchia familiare (ad esempio nei casi in cui un bambino si sia
trasferito con la propria famiglia in un Paese in cui viene usata una lingua diversa rispetto a quella/e usata/e dai genitori). Se una delle lingue conosciute
dall’individuo rimane come lingua di base e le rimanenti vengono adoperate
utilizzando sempre come intermediaria la prima lingua, si parla di bilinguismo
subordinato. In questo tipo di bilinguismo, l’individuo pensa prima quello che
vuole esprimere nella prima lingua (d’ora in poi semplicemente L1), quindi lo
traduce nella sua seconda o terza lingua (d’ora in poi L2, L3, Ln). In relazione
alla coordinata temporale dell’acquisizione delle lingue, è stata proposta un’ulteriore distinzione tra forme di bilinguismo precoci e tardive. Nello specifico,
se un bambino è stato esposto in modo adeguato fin dai primi giorni di vita a
due lingue, si parla di bilinguismo simultaneo. Se invece il bambino in questione è stato esposto a una sola lingua fin dalla nascita e poi viene esposto in un
momento successivo a un’altra lingua entro i primi otto anni di vita, si parla
di bilinguismo sequenziale precoce. Se, infine, il bambino viene esposto a una
seconda lingua dopo questa finestra temporale, si parla di bilinguismo sequenziale tardivo. È importante sottolineare che una esposizione adeguata a una
lingua implica che quest’ultima venga utilizzata costantemente nell’ambiente
comunicativo in cui il bambino è inserito.
Una situazione molto diversa è costituita dai casi in cui il bambino sia
esposto a una seconda lingua in un ambiente scolare. In questi casi in cui
l’esposizione alla lingua è scarsa e, soprattutto, limitata a contesti comunicativi codificati e fortemente artificiali, si parla di apprendimento di una lingua
straniera.
Il concetto di lingua straniera introduce all’ulteriore distinzione tra
i concetti di acquisizione e apprendimento di una lingua. La L1 viene
Caratteristiche della elaborazione linguistica in bambini bilingui
69
conseguita con modalità naturali, in un ambiente informale, con il coinvolgimento soprattutto dei meccanismi della memoria a lungo termine
implicita/non-dichiarativa (ad esempio, sistemi di memoria procedurale;
cfr. Ullman, 2004). Similmente, è possibile acquisire, anche da adulti, una
L2 in tale modo. L’apprendimento di una lingua, invece, si realizza prevalentemente con modalità formali, cioè attraverso lo studio di un lessico e di
regole morfologiche e grammaticali, spesso in un ambiente istituzionale e
facendo largo uso dei meccanismi della memoria a lungo termine esplicita/
dichiarativa (Fabbro, 2004). Dal punto di vista dell’effetto sociale esercitato da una lingua sull’altra, Lambert (1974) ha proposto di distinguere
tra forme di bilinguismo additivo e sottrattivo. Il bilinguismo viene definito
additivo se l’acquisizione di una seconda lingua o lingua straniera non esercita effetti negativi sull’uso della L1 o comunque nelle lingue apprese in
precedenza. Si parla invece di bilinguismo sottrattivo se l’acquisizione di una
lingua considerata utile in quanto in grado di conferire uno status sociale
superiore indebolisce le lingue acquisite in precedenza. In questo caso, si
potrebbe osservare addirittura l’abbandono di una lingua sentita come meno
«elevante» a livello sociale. Altre definizioni hanno cercato di descrivere il
livello di bravura (proficiency) 5 raggiunto nelle lingue conosciute da un dato
individuo (Peal e Lambert, 1962): viene così considerato bilingue bilanciato
un individuo che conosca allo stesso livello due o più lingue, mentre se un
individuo è più bravo in una lingua rispetto a un’altra viene definito bilingue
dominante. Si noti che forme di bilinguismo bilanciato sono rare ma non
impossibili da trovare soprattutto in società in cui due o più lingue vengano
costantemente utilizzate dai parlanti. Si consideri ad esempio il caso del
Quebec in Canada, dove vengono costantemente utilizzati sia l’inglese che
il quebecois (una variante di francese).
A fronte di così tanti approcci e definizioni, in questo capitolo verrà utilizzata una definizione operativa del concetto di competenza bilingue. Nello
specifico, verrà considerato bilingue un individuo che conosca, comprenda e
parli almeno due lingue, oppure due dialetti, o anche una lingua e un dialetto,
indipendentemente da fattori peraltro importanti come l’età di acquisizione,
il livello di proficiency e di esposizione ad esse.
Per indicare il livello di bravura raggiunto da un parlante in una data lingua si usa in genere il termine
inglese proficiency: alti livelli di proficiency indicano un’ottima conoscenza della lingua in questione
con buone abilità di elaborazione lessicale e frasale; al contrario, bassi livelli di proficiency indicano
che si usa la lingua con scarsa efficacia e competenza.
5
5
Disprassia Verbale Evolutiva:
inquadramento clinico e diagnosi differenziale
con il disturbo fonologico
Anna Maria Chilosi, Irene Lorenzini, Barbara Cerri e Paola Cipriani1
Nel panorama attuale della diagnosi e della cura dei disturbi evolutivi
del linguaggio, la Disprassia Verbale Evolutiva (DVE) costituisce un quadro
clinico di particolare complessità.
1
Anna Maria Chilosi è responsabile del laboratorio di Neurolinguistica e Neuropsicologia dello Sviluppo dell’Istituto Scientifico IRCCS Fondazione Stella Maris. La sua attività clinica e di ricerca si
è incentrata soprattutto sullo studio della patologia del linguaggio nei diversi disturbi neuropsichici
dell’età evolutiva, ed è documentata dalla pubblicazione di più di cento lavori scientifici, dai frequenti
inviti in qualità di relatrice ai principali meeting, nazionali ed internazionali, sull’acquisizione normale
e patologica del linguaggio, dalla collaborazione in ambito nazionale e internazionale in progetti di
ricerca sull’acquisizione normale e patologica del linguaggio e dall’attività didattica in qualità di Professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione di Neuropsichiatria Infantile dell’Università
di Pisa. Irene Lorenzini è laureata in Linguistica Teorica ed Applicata presso l’Università degli Studi
di Pisa e specializzata in Neurolinguistica, Psicolinguistica e Linguistica clinica. Attualmente sta
elaborando vari contributi scientifici basati sulla sua tesi di laurea «Dis-embodied Language: L’Acqui­
sizione Linguistica in Assenza di Riferimenti Oro-articolatori. L’eloquio del Bambino Disprassico
Italiano». Barbara Cerri è laureata in Logopedia e professore a contratto presso il Corso di Laurea
di Logopedia dell’Università di Pisa, lavora da molti anni presso l’IRCCS Fondazione Stella Maris –
Dipartimento Clinico di Neuroscienze dell’Età Evolutiva dell’Università degli Studi di Pisa. La sua
esperienza diagnostica e riabilitativa, ormai ventennale, con i bambini che presentano disturbo del
linguaggio è svolta con creatività e competenza nella sua pratica clinica quotidiana. Paola Cipriani
ha pluriennale esperienza nel campo dello sviluppo normale e patologico del linguaggio. Sulla base
della lunga esperienza clinica e di ricerca in questo settore ha contribuito alla comprensione delle
basi fisiopatologiche dei disturbi del linguaggio come documentato dalle sue numerose pubblicazioni
e dalla intensa attività didattica.
146 I disturbi del linguaggio
Condizione patologica di incidenza non ancora accertata (con stime che
spaziano, ampiamente, da 1 caso su 1000 a 4 su 100; si veda ASHA, 2007, p.
4), il disturbo permane, a distanza di diversi decenni dalle prime descrizioni
ufficiali, vastamente sotto-determinato nelle sue componenti eziologiche, nei
suoi correlati neuropsicologici e nelle sue manifestazioni linguistico-comportamentali: non esiste, al momento attuale, una singola caratteristica biologica
e/o sintomatologica in grado di differenziare con certezza la disprassia verbale
dagli altri disturbi della parola e del linguaggio. La diagnosi differenziale può,
di conseguenza, risultare complessa, soprattutto per quanto riguarda la differenziazione dal Disturbo Specifico del Linguaggio (DSL) di tipo fonologico.
I due disturbi, benché di diversa natura, condividono alcune caratteristiche
cliniche e anamnestiche, nonché conseguenze sul percorso di acquisizione
linguistica per alcuni versi comparabili.
In considerazione di ciò, il presente contributo cercherà di fornire un
quadro di riferimento aggiornato sui criteri in uso per la diagnosi di Disprassia
Verbale Evolutiva, con particolare riferimento agli aspetti di parallelismo e
differenziazione tra sindrome disprassica e DSL fonologico.
La Disprassia Verbale Evolutiva
La DVE è un disturbo centrale della programmazione dei movimenti
necessari alla produzione di suoni, sillabe e parole e della loro organizzazione
sequenziale. Come il termine stesso immediatamente ci informa (dis-prassia),
il disturbo interessa la prassi, intesa come l’insieme dei processi neuropsicologici che dirigono e controllano l’azione. Precisamente, colpisce la capacità
di apprendere e produrre prassie, ovvero azioni e sistemi coordinati di azioni
prodotti in seguito a un’intenzione e in funzione di un risultato. Il soggetto
disprassico soffre, dunque, di una disabilità più o meno severa nel pianificare
ed eseguire sequenze motorie volontarie (ad esempio, eseguire su richiesta il
movimento di leccarsi le labbra), mantenendo invece la possibilità di produrre
risposte di tipo automatico, se inserite in un contesto adeguato (ad esempio,
leccarsi le labbra se ne avverte la necessità durante un pasto). Tale difficoltà, che
può manifestarsi sin dalle fasi precoci dello sviluppo o, più raramente, insorgere
in seguito a danno cerebrale acquisito (si parla in tal caso, in lingua italiana, di
a-prassia), può interessare la capacità motoria nella sua interezza (disprassia
generalizzata) o limitatamente ad alcuni aspetti (disprassia degli arti, orale,
verbale, oculare, ecc.). è questo il caso della Disprassia Verbale Evolutiva, che
compromette specificamente l’accuratezza e la stabilità dei movimenti volontari
oro-linguo-facciali deputati alla produzione del linguaggio.
Disprassia Verbale Evolutiva: inquadramento clinico e diagnosi differenziale
147
Lo studio di tale disturbo ha presentato aspetti di particolare controversia.
Si consideri, ad esempio, che fino al 2007, data di pubblicazione del Technical
Report on Childhood Apraxia of Speech, documento a cura dell’American Speech
Language and Hearing Association (ASHA), sono state proposte circa cinquanta
definizioni differenti di DVE. Il disturbo è attualmente descritto dall’ASHA
come disordine congenito dell’articolazione dei suoni in cui precisione e coerenza dei movimenti preposti alla produzione linguistica risultano compromesse in assenza di deficit neurologici, sensoriali, di gravi anomalie strutturali
a carico dell’apparato bucco-fonatorio e di disturbi relazionali primari. Questa
definizione attiene alla forma idiopatica o primaria di DVE. Tuttavia il disturbo può verificarsi anche in associazione a disordini neuroevolutivi complessi
di origine metabolica (quali, ad esempio, galattosemia o deficit di creatina),
epilettica (epilessia rolandica), genetica (mutazione del gene FOX P2, anomalie cromosomiche, sindrome velo-cardio-facciale, sindrome di Joubert) e
nell’autismo (ASHA, 2007; Liégeois e Morgan, 2011).
Sulla base di numerosi studi diretti a individuare le caratteristiche principali dello speech nei soggetti affetti da DVE, in epoca relativamente recente
è stato raggiunto un sostanziale accordo su tre sintomi cardine.
1. Produzione di errori incoerenti, a carico sia dei fonemi vocalici che dei fonemi
consonantici
Il fenomeno, più precisamente denominabile «incoerenza fonologica»
(phonological inconsistency), consiste nella produzione, per un medesimo target fonologico, di realizzazioni tra loro differenti che occorrono in assenza di
variazioni del contesto fono-articolatorio e di una ratio apparente (quale, ad
esempio, preferenza per i fonemi ad articolazione anteriore rispetto ai fonemi
ad articolazione posteriore e simili) e che non risultano funzionali a un’approssimazione progressivamente migliore del bersaglio. In questo quadro, anche gli
errori fono-articolatori sono asistematici (anche detti, in letteratura, erratici).
Ad esempio, lo stesso soggetto può produrre, nell’arco di una stessa seduta,
il termine cane come cànne, tàn e tàne. Tali errori, inoltre, incidono anche
sui fonemi vocalici (ad esempio, còne per cane) e ciò è indice di un impatto
particolarmente severo del disturbo sul processo di acquisizione linguistica:
le vocali, infatti, sono di norma stabilizzate dall’infante in età precoce (Ball e
Gibbon, 2013).
2. Difficoltà nella messa in sequenza dei suoni linguistici e nella transizione articolatoria tra segmento e segmento e tra sillaba e sillaba
I gesti articolatori che il bambino riesce a produrre sono estesi con difficoltà a un contesto articolatorio più lungo e più complesso. Nelle prime fasi dello
148 I disturbi del linguaggio
sviluppo, tale aspetto può determinare l’uso preferenziale di un unico suono
prolungato o di un ristretto insieme di vocalizzazioni ricorrenti (ad esempio:
jé, ajé, ejé, ghjé e simili). Tali fenomeni evidenziano la specifica difficoltà che
il bambino disprassico sperimenta nel combinare i foni posseduti in sillabe e
le sillabe in parole, difficoltà che può persistere in stadi successivi dello sviluppo anche in soggetti opportunamente stimolati dalla terapia logopedica,
emergendo con particolare intensità nei casi in cui il bambino deve gestire in
sequenza timing2 articolatori diversi (ad esempio: ba vs pa) e nel linguaggio
connesso nel passaggio tra i diversi piani articolatori (ad esempio mamma, che
coinvolge il solo piano articolatorio verticale vs parole come cane o balena in
cui sono coinvolti piani articolatori diversi).
3. Alterazione della prosodia in velocità, intonazione e ritmo
Il deficit di programmazione e messa in sequenza dei movimenti articolatori conferisce all’eloquio caratteristiche specifiche (ad esempio, la presenza
di vocali oscurate e la difficoltà di garantire alle stesse durate differenti) che
incidono negativamente sui tratti soprasegmentali delle produzioni, determinando disprosodia. L’eloquio del bambino disprassico risulta, infatti, caratterizzato da alterazioni diffuse su diversi livelli. Si osservano, in particolare:
alterazioni nel ritmo, quali, ad esempio, anomalie nel rapporto tra sillabe forti
(accentate) e deboli (atone, si veda Shriberg et al., 2003); nell’assegnazione
dell’accento sia al livello della singola parola (ad esempio zaìno) sia a quello
dell’enunciato e una tendenza protratta all’omissione delle sillabe deboli. Ne
risulta un eloquio disprosodico, generalmente caratterizzato da riduzione di
velocità, ritmo e fluenza.
Assieme a questi elementi di probabile significato patognomico, inoltre,
la letteratura evidenzia anche un più ampio insieme di caratteristiche ricorrenti
nei pazienti affetti da DVE, riportato in tabella 5.1.
TABELLA 5.1
Principali manifestazioni del disturbo disprassico
Lallazione anomala (tardiva e/o scarsa e/o poco variata, talvolta addirittura assente prima
dell’avvio del trattamento logopedico)
Inventario fonetico (consonantico e vocalico) incompleto o atipico (per ordine di acquisizione e/o per la presenza di fonemi non appartenenti alla lingua target)
Sviluppo lessicale estremamente lento e povero
Il concetto di timing definisce, nell’eloquio, la durata temporale e la rapidità di movimento degli organi
articolatori necessarie per portare a termine un certo gesto articolatorio.
2
Disprassia Verbale Evolutiva: inquadramento clinico e diagnosi differenziale
149
Divario tra comprensione e produzione (deficit maggiore in produzione)
Abilità oro-motorie non verbali nella maggior parte dei casi deficitarie (valutate tramite
test di produzione di prassie oro-motorie, isolate e in sequenza, quali soffiare, gonfiare le
guance, operare movimenti fini con l’apice della lingua e simili)
Dissociazione automatico-volontaria, consistente nella capacità di produrre schemi prassici
verbali e non verbali in modo automatico, ma non volontario. Questo sintomo è particolarmente evidente nei casi in cui alla disprassia verbale si associa disprassia orale (ad esempio: il bambino si lecca involontariamente le labbra durante l’alimentazione, ma non è in
grado di farlo fuori contesto) e si traduce, sul piano verbale, nel fatto che espressioni di pari
complessità articolatoria sono prodotte in modo corretto quando emesse spontaneamente
come espressioni routinarie (ad esempio: ciao, pipì e simili), ma tale capacità sembra venir
meno quando devono essere realizzate in maniera intenzionale, ad esempio su richiesta
Groping (lett. andare a tentoni), ovvero il procedimento per tentativo ed errore consistente
nella produzione di movimenti oro-articolatori «a vuoto» finalizzati a una ricerca (faticosa
e dall’esito non scontato) delle combinazioni (co-)articolatorie necessarie per produrre
un determinato target linguistico
Errori fonologici del tipo «cancellazione» incidenti su consonanti, vocali e sillabe, con
tendenza, in quest’ultimo caso, a omogeneizzare il target articolatorio sulla struttura
bisillabica (ad esempio: màna per banana, bìno per bambino)
Errori fonologici del tipo «sostituzione» incidenti su sillabe, consonanti e vocali, con
possibile tendenza all’uso di un suono preferenziale, non necessariamente appartenente
all’inventario fonetico della lingua target (ad esempio: fricativa sorda interdentale)
Correlazione positiva tra incidenza degli errori e lunghezza/complessità strutturale del
target linguistico. Ciò rende difficile la messa in sequenza di stringhe fonemiche lunghe
o caratterizzate da contrasti fonetici che implichino velocità e precisione di spostamento
degli organi articolatori (primi fra tutti, i nessi consonantici)
Difficoltà nell’apprendimento delle abilità di letto-scrittura
Le caratteristiche descritte rendono l’eloquio del bambino disprassico
verbale poco o molto poco intelligibile, al punto che, come ben riassume
Velleman (2011, p. 82): «l’impressione che si ricava ascoltando un soggetto
colpito da disprassia da moderata a severa è quella di uno sforzo, una lotta».
Lo sviluppo del linguaggio nel bambino disprassico verbale
Il deficit centrale della patologia, si è detto, consiste nell’inabilità a imitare,
apprendere e ripetere gli schemi motori deputati al linguaggio verbale. Dal
punto di vista dello sviluppo, ciò significa che il bambino disprassico affronta,
sin dall’epoca neonatale, un’estrema difficoltà nel riprodurre, esercitare e automatizzare i programmi motori che sottostanno alla produzione dei fonemi
e delle sequenze fonemiche della lingua target. Ciò lo rende decisamente
150 I disturbi del linguaggio
taciturno rispetto alla media dei coetanei: la sua lallazione è molto scarsa e
poco variata, in alcuni casi addirittura assente, con il risultato di un inventario
fonetico padroneggiato in modo incompleto e per lo più imprevedibile.
Queste iniziali difficoltà nel costruire e mantenere gli schemi prassicoarticolatori determinano, con un meccanismo a cascata, concomitanti difficoltà nell’acquisizione degli aspetti lessicali e morfosintattici. Si osserva, infatti,
sistematicamente, un importante ritardo nella produzione delle prime parole e
un’estrema lentezza e povertà nell’incremento del repertorio lessicale (Velleman,
2011), sintomi che, nei casi più gravi, rendono il bambino non verbale. Anche
l’acquisizione morfosintattica appare significativamente ritardata e permane a
lungo deficitaria, arrivando talvolta ad attestarsi sul livello dell’olofrase anche in
età prescolare avanzata; in letteratura è inoltre documentata la presenza di un
deficit piuttosto generalizzato, caratterizzato da errori di accordo, di omissione
e di selezione dei pronomi, del verbo e delle marche morfologiche di numero e
persona, nonché dal netto prevalere di costruzioni paratattiche a discapito delle
strutture sintattiche più complesse (Ekelman e Aram, 1983; Gopnik e Crago,
1991; Sabbadini et al., 1978). Tali studi, tuttavia, non sono recenti e, generalmente, non sono stati replicati. Di conseguenza, non disponiamo, al momento,
di elementi sufficienti per caratterizzare lo sviluppo morfosintattico della popolazione clinica in oggetto. A tale elemento di criticità, già di per sé significativo, si
aggiunge il problema più generale che, tra gli studi condotti in materia di DVE,
quelli svolti in lingua italiana sono scarsissimi (praticamente assenti).
Come conseguenza del grave deficit fonetico-fonologico ad esordio precoce,
infine, il soggetto disprassico presenta una ridotta consapevolezza fonologica e deficit nell’apprendimento della letto-scrittura (Lewis et al., 2004). In conclusione,
la Disprassia Verbale Evolutiva determina una devianza significativa dal percorso
tipico di acquisizione del linguaggio, che conduce il bambino a sviluppare gravi
ed evidenti deficit a ogni livello linguistico e in particolar modo sul versante
espressivo. La produzione linguistica del soggetto affetto risulta ipofluente e
interessata da un’ampia gamma di processi d’errore (si veda la tabella 5.1), tra cui
figurano fenomeni rari e fortemente atipici quali, in particolare, l’incidenza dei
processi non solo sui fonemi consonantici ma anche su quelli vocalici e l’elevatissimo tasso di variabilità fonologica (40-50%; si veda Marquardt et al., 2004).
Il Disturbo Specifico del Linguaggio di tipo fonologico
Rispetto alla DVE, i disturbi specifici del linguaggio (DSL) hanno ricevuto un’attenzione assai maggiore negli ultimi decenni. Ne consegue che, in
7
La valutazione del linguaggio:
proposte per orientare l’osservazione
Enrica Mariani e Manuela Pieretti1
Nei capitoli precedenti sono stati ampiamente discussi i molteplici elementi che concorrono all’acquisizione della competenza linguistica e, di fronte
all’apparente naturalezza con cui le diverse componenti maturano, ancora
una volta stupisce che per alcuni bambini le tappe evolutive abbandonino il
percorso previsto, prendendo strade atipiche o devianti.
La ragione di questi «deragliamenti» non sempre è facilmente individuabile, né è univoco il criterio di classificazione del disturbo. Spesso il disturbo del
linguaggio è solo la punta dell’iceberg di un problema più profondo e rappresenta il più delle volte il primo campanello di allarme riconoscibile dal genitore.
Per questo motivo le richieste di consulenza per problemi nello sviluppo del
linguaggio sono frequenti e numerose e possono assumere caratteristiche
molto varie: un bambino che parla poco, o in modo poco comprensibile, o
che a sua volta non comprende il linguaggio parlato, che si chiude in se stesso
o è a disagio con altri bambini. Talvolta la difficoltà è transitoria, altre volte è
invece persistente. Come riconoscere i diversi profili? Una diagnosi accurata
Enrica Mariani è logopedista e pedagogista, lavora presso la ASL Roma C. All’attività clinica affianca
quella di formazione e ricerca. È docente presso il corso di laurea in Logopedia delle Università di
Roma «La Sapienza» e «Tor Vergata» e presso il Master di Specializzazione sui disturbi dello sviluppo. Manuela Pieretti è logopedista e pedagogista, svolge attività clinica, di ricerca e di formazione.
È docente presso il corso di laurea in Logopedia delle Università di Roma «La Sapienza» e «Tor
Vergata» e presso il Master di Specializzazione sui disturbi della comunicazione.
1
194 I disturbi del linguaggio
dovrà tener conto tanto del problema linguistico, quanto di tutte quelle altre
funzioni, cognitive e non, che possono presentarsi in associazione o come
conseguenza del disturbo. A essa concorre naturalmente l’attenta valutazione
degli aspetti formali del linguaggio (la competenza fonologica, la capacità di
articolazione, l’abilità nell’uso della sintassi), di contenuto (la conoscenza del
lessico e dei significati delle parole) e di uso (la capacità del bambino di gestirne
la valenza funzionale e comunicativa). A fronte di tante diverse classificazioni
nosografiche, clinici e ricercatori sono concordi nell’individuare nelle capacità di comprensione verbale l’elemento decisivo per orientare tempi e modi
della presa in carico. Dorothy Bishop (2002) ha ulteriormente ampliato lo
sguardo, suggerendo di adottare questo parametro come discriminante per
orientare l’intero percorso diagnostico per tutti i bambini che afferiscono
ai servizi anche in assenza di evidenti problematiche nel linguaggio verbale
perché spesso potrebbero nascondere altri problemi di comunicazione che
l’autrice definisce «latenti». A tal fine ha proposto un albero decisionale al
cui apice si colloca la valutazione della comprensione verbale, portando, man
mano che si procede, a escludere o ad accogliere le diverse ipotesi diagnostiche
(per una versione adattata per l’italiano si veda Mariani e Pieretti, 2008; Luci
et al., 2013). Appare dunque evidente che, dei tanti strumenti disponibili
e delle tante possibili aree da indagare, la valutazione della comprensione
del linguaggio orale riveste un ruolo primario e non dovrà mai essere persa
di vista, qualunque sia l’età del bambino, la problematica manifestata o i
comportamenti apparenti (che potrebbero deporre sia a favore sia contro le
effettive capacità del bambino).
Valutare la comprensione verbale è compito non facile, soprattutto in
alcune fasi evolutive, e talvolta risente della scarsa collaborazione del bambino.
Al proposito Bishop mette in guardia il clinico: è infatti lecito ipotizzare che
il bambino non collabori a causa di problemi di comportamento o emotivi,
ma è altrettanto lecito supporre che tali problematiche siano conseguenza
della frustrazione e del disagio che scaturiscono dalle sue limitate capacità di
comprensione. Per questa ragione suggerisce, in assenza di dati certi, di portare
avanti l’indagine diagnostica supponendo la presenza di una difficoltà nella
comprensione verbale, salvo escluderla poi in un secondo momento.
Seguendo il filo delle domande-guida, si vedrà che il Disturbo Specifico
del Linguaggio (DSL) viene preso in considerazione dopo aver scartato numerose altre ipotesi, dettagliandosi in disturbo espressivo, fonologico, espressivorecettivo a seconda degli esiti della valutazione logopedica. Infine, qualora le
componenti formali del linguaggio risultino integre, l’ipotesi diagnostica si
orienterà su fattori qualitativi, emotivi o pragmatici.
La valutazione del linguaggio: proposte per orientare l’osservazione
195
Cosa osservare, quando e con quali strumenti
A nostra disposizione abbiamo una vasta gamma di prove e molti test:
d’altra parte le aree da indagare sono tante, di ognuna può essere necessario
valutare le risposte in comprensione e in produzione, ogni operatore ha i suoi
strumenti preferiti e non tutti i bambini si trovano a proprio agio con gli stessi
materiali. Il rischio è che si cerchi di osservare, sondare e valutare in modo
indiscriminato, di proporre «tutto a tutti». Ciò non solo non risponde a criteri di economicità ed efficienza, oggi imprescindibili (esiguità delle risorse a
fronte delle tante richieste), ma rischia soprattutto di stressare il bambino, di
prolungare inutilmente i tempi di osservazione, di confondere le idee piuttosto
che chiarirle, ecc.
Il nostro bagaglio di strumenti è vario e ampio perché dobbiamo poter
scegliere di volta in volta quelli più adatti: al bambino, alla funzione da osservare, alla finalità per la quale stiamo conducendo l’osservazione. Non perché se
ne faccia un uso «a tappeto». Per specifiche aree e competenze gli strumenti
disponibili sono invece paradossalmente esigui o talvolta, purtroppo, manca la
possibilità di accedervi, vuoi per ragioni economiche, vuoi per politiche editoriali che ne limitano l’uso ad alcune categorie professionali. Ne è un esempio
la scala Nepsy II, che pur includendo una sezione sulle abilità linguistiche non
è accessibile, almeno in questa parte, alla figura professionale del logopedista.
«Al contrario, il primo principio di una buona valutazione resta l’approccio multiprofessionale, in cui conoscenze, saperi e materiali vengono condivisi per ottenere
una visione completa e approfondita del bambino» (Biancardi et al., 2013).
Valutare accuratamente lo sviluppo del linguaggio è importante sia nel
breve termine, per chiarire il quadro diagnostico del disturbo, sia nel lungo
periodo, data la stretta relazione tra lingua orale e lingua scritta (Bishop e
Snowling, 2004; Kintsch, 1998; Lyttinen et al., 2005; Pennington e Bishop,
2006). È perciò lecito domandarsi quali compromissioni nel linguaggio infantile abbiano ricadute significative per l’apprendimento della lettoscrittura,
quali abilità linguistiche gli siano maggiormente correlate e, soprattutto, se sia
possibile individuarne precocemente segnali di debolezza e atipie di sviluppo.
Inoltre, studi longitudinali su adolescenti e giovani adulti con pregresso
DSL confermano non solo la persistenza del disturbo, rilevabile in compiti
linguistici complessi, ma anche la ricaduta sul funzionamento emotivo e nel
rapporto con i pari (Conti-Ramsden et al., 2013; Hesketh e Conti-Ramsden,
2013).
In un’ottica di ottimizzazione del lavoro, piuttosto che dare un quadro
delle diverse prove disponibili, il cui significato è già ben noto a chi si occupa
196 I disturbi del linguaggio
di clinica, proponiamo una riflessione su un possibile criterio di selezione,
ovvero cosa non trascurare.
L’idea è che, in associazione ad altre prove a più ampio raggio, per ogni fase
evolutiva ci siano una o più funzioni specifiche da osservare in via prioritaria,
competenze emergenti di cui monitorare lo sviluppo e il cui andamento può
tempestivamente rivelare che forse non tutto sta maturando nel modo atteso.
Per quanto riguarda la valutazione in età prescolare, prenderemo in considerazione in primo luogo la fase evolutiva che segue l’emergere dei primi segnali
comunicativi (i cenni iniziali della comprensione verbale, l’attenzione condivisa,
lo sviluppo della comunicazione gestuale o l’elaborazione percettiva dei suoni): il
momento quindi in cui compaiono le prime parole ed esordisce di fatto il linguaggio verbale. Un termine utile di riferimento può essere la fascia di età compresa tra
i 16 e i 24 mesi. Difficilmente i bambini giungono alla nostra osservazione prima
di questa età, a meno che non siano presenti fin da subito quadri clinici specifici o
evidenti deficit di sviluppo. Intorno all’anno e mezzo, se le prime parole tardano a
fare la loro comparsa, il genitore comincia a stare in allerta e non è più troppo raro
che chieda una consulenza su iniziativa personale o suggerimento del pediatra.
Una seconda fase evolutiva è collocabile tra i 24 e i 36 mesi, quando le diverse componenti del linguaggio verbale cominciano a crescere e a integrarsi: il
vocabolario si arricchisce e l’espressione orale assume forme via via più articolate.
Tra i 3 e i 5 anni il linguaggio infantile raggiunge un buon livello formale,
la competenza si consolida e si stabilizza, permettendo al bambino di raffinarne
l’uso fino a rendere possibile, alle soglie dell’ingresso alla scuola primaria, il
transito dal linguaggio come strumento di comunicazione al linguaggio come
oggetto di riflessione e di manipolazione, aprendo la strada anche ai futuri
apprendimenti della lingua scritta.
In questa prospettiva, il cosa, il quando e il come osservare scaturiscono
dunque dall’incontro di due tracce:
– le capacità di elaborazione e di uso dei suoni della lingua, del vocabolario,
delle strutture sintattiche e della funzione comunicativa;
– le funzioni linguistiche emergenti nelle diverse fasi evolutive.
Accogliendo il suggerimento di Bishop, diamo per scontato che la valutazione della comprensione verbale rappresenti comunque il primo passo di ogni
percorso diagnostico e non possa essere in alcun caso tralasciata. Di seguito,
invece, selezioneremo gli indici linguistici maggiormente significativi prevalentemente sul versante espressivo, così come attesi nello sviluppo tipico del
linguaggio infantile cercando di individuare per ogni fase evolutiva l’obiettivo
prioritario della nostra osservazione.
La valutazione del linguaggio: proposte per orientare l’osservazione
197
Agli esordi del linguaggio verbale: il lessico
Tra i 16 e i 24 mesi di età, pur con una notevole variabilità individuale,
i bambini cominciano a utilizzare parole per denominare oggetti e designare
azioni e ha inizio la costruzione di un patrimonio lessicale destinato ad ampliarsi per tutta la vita. La consistenza di questo patrimonio costituisce l’indice
rilevante dello sviluppo linguistico in questa fase. Com’è noto un vocabolario
espressivo inferiore a 50 parole all’età di due anni è generalmente ritenuto
indicativo di un ritardo di sviluppo (Casadio e Capirci, 2002, Sabbadini e Leonard, 1995; Leonard, 1995); alcuni autori suggeriscono come cut-off il 10°
percentile al Questionario Child Development Inventory (CDI – Mac Arthur)
tra i 16 e i 33 mesi (Thal et al., 1994; 1997; 2004). La letteratura è concorde
nel ritenere questi degli indici di rischio affidabili e ha coniato per questi bambini la definizione di parlatori tardivi. Un indicatore prognostico importante
è rappresentato dal grado di accelerazione nell’arricchimento del lessico. È
dunque indispensabile rilevarne l’ampiezza, sia in comprensione che in produzione, compito che può essere condotto sia in modo indiretto, attraverso
la somministrazione di questionari ai genitori, sia con un’osservazione diretta
del bambino. La dimostrata affidabilità del genitore nella compilazione dei
questionari (in particolare facciamo riferimento a PVB – Il Primo Vocabolario
del Bambino di Caselli e Casadio, 1995, versione italiana del CDI) rende questo
tipo di strumento particolarmente funzionale: offre un quadro attendibile delle
capacità del bambino fotografando la competenza in uno specifico momento,
confrontabile successivamente con una rilevazione a distanza di qualche
tempo. Con questa modalità, che richiede un limitato impegno di risorse e
che soprattutto è «ecologica», è facile capire se il lessico ha subito l’attesa
accelerazione o è piuttosto in una fase di stallo, tale da richiedere una qualche
forma di presa in carico.
Per un’osservazione diretta del bambino un test di recente pubblicazione,
PING – Parole In Gioco (Bello et al., 2011), riesce a catturare l’interesse anche
dei bambini più piccoli e consente di raccogliere informazioni sul lessico compreso e utilizzato, sia di nomi sia di predicati.
Nelle prime fasi di sviluppo del linguaggio: la grammatica
Sebbene una buona metà dei bambini parlatori tardivi a 2 anni recuperi
l’iniziale ritardo di sviluppo entro i 36 mesi, altri hanno bisogno di un tempo
più lungo, arrivando a colmare il ritardo solo negli anni seguenti. Altri ancora,
254 I disturbi del linguaggio
Inventario Consonantico
In figura 9.1 è rappresentata la curva relativa all’evoluzione dell’Inventario Consonantico (IC) dei bambini DSL trattati a confronto con quella dei
bambini a ST, ottenuta da una sintesi dei lavori di Zmarich (2005) e Bortolini
(2003), che presentano dati relativi all’ampiezza del repertorio fonetico calcolato sui foni prodotti nelle parole identificate in almeno il 50% dei bambini
(18-24 mesi) e in almeno l’80% dei bambini (27-46 mesi). Avendo calcolato
l’equazione di regressione tra Tempo X e Variabile Dipendente Y, i coefficienti dell’equazione sono stati utilizzati per predire il valore atteso dell’IC
in corrispondenza di età successive rispetto ai dati di riferimento attualmente
disponibili (rispettivamente a 49 e 54 mesi, età dopo la quale l’IC può essere
considerato completo).
25
Numero Fonemi
20
15
ST
10
DSL
5
0
18 21 24 27 30 33 36 39 42 45 48 51 54 57 60 63 66 69 72
T0 T1 T2 T3 T4 T5
Mesi
Fig. 9.1 Inventario Consonantico (n. di consonanti stabili) in bambini ST e DSL trattati.
Il numero di fonemi stabili presenti nel gruppo DSL al T0 è pari a 13; i
bambini a ST presentano il medesimo IC a un’età di circa 30 mesi: i bambini
con DSL entrano quindi in trattamento con un ritardo di circa due anni rispetto a quanto atteso per l’età e raggiungono un repertorio di circa 21 fonemi al
T5 (69 mesi), ampiezza che i bambini a ST raggiungono a circa 48 mesi. Il
trattamento consente quindi ai bambini con DSL di completare l’IC in circa
15 mesi (Anova a misure ripetute: F (1, 78) = 219,235; p < .001, η2p = .916),
compensando il pregresso ritardo di circa due anni e accelerando la velocità di
Efficacia dei trattamenti riabilitativi in bambini con Disturbo Specifico di Linguaggio
255
evoluzione descritta nei bambini a ST, che impiegano circa 18 mesi. La linea
di tendenza di tipo logaritmico (y = c ln(x) + b) descrive in modo abbastanza
buono le curve di crescita di entrambi i gruppi: si osserva infatti una evoluzione
più rapida dell’IC nelle prime fasi e un successivo plateau (saturazione) (ST:
R² = 0,95351; DSL: R² = 0,93961). Quindi la curva di crescita spontanea dei
DSL, significativamente rallentata rispetto a quella osservata nei bambini a
ST (che porta i DSL ad aver accumulato un importante ritardo a inizio trattamento) viene modificata nella sua traiettoria dall’avvio del TRT, assumendo
una forma che descrive un ritmo di crescita paragonabile, anzi accelerato,
rispetto a quello dei bambini con sviluppo tipico. Questo guadagno consente
di completare l’inventario entro l’età della scuola primaria e contribuisce ad
abbassare il rischio che il persistere del disturbo del linguaggio orale interferisca
con l’apprendimento del linguaggio scritto (Brizzolara et al., 2011).
È stata inoltre analizzata l’evoluzione delle singole categorie di fonemi
(figura 9.2). L’Anova a misure ripetute mostra un effetto significativo del
tempo (F =275,854, p<.000, η2p= .932), del tipo di categoria fonemica (F =
175,653, p < .000, η2p = .732), e un’interazione tempo-fonemi (F = 46,075, p
< .000, η2p = .393).
100
90
80
70
%
60
50
40
30
20
10
0
48
51
T0
54
57
60
63
T1 T2 T3
66
69
T4 T5
Mesi
OCCLUSIVE
NASALI
FRICATIVE
AFFRICATE
LIQUIDE
GLIDES
Fig. 9.2 Evoluzione delle singole categorie di fonemi nei bambini DSL trattati.
256 I disturbi del linguaggio
Dal punto di vista qualitativo si osserva che il trattamento produce
un’accelerazione dell’evoluzione delle singole categorie di fonemi in linea con
quanto avviene nello sviluppo tipico (Bortolini, 2003): i fonemi più primitivi
nei bambini a ST (occlusive e nasali) sono quelli maggiormente rappresentati
nell’IC al momento dell’ingresso in trattamento (circa 80%) e recuperano
velocemente il ritardo, raggiungendo il plateau già al T2 (54 mesi). I fonemi
più tardivi (fricative, affricate e liquide) conoscono una significativa e simile
accelerazione nel primo ciclo di trattamento (circa 20 punti percentuali) per
poi progredire secondo profili di crescita distinti: le fricative assumono un
andamento di crescita più regolare che le porta a saturazione intorno al T4
(66 mesi), le affricate e le liquide progrediscono attraverso un andamento
caratterizzato da un’alternanza di rapidi aumenti a crescite più lente e regolari
che le porta a divergere di circa 20 punti percentuali al T5 (69 mesi), senza
ancora raggiungere il plateau. All’ultimo monitoraggio, i bambini esibiscono
un repertorio costituito da più dell’80% di affricate stabili, mentre la percentuale di liquide si ferma intorno al 60%. Questo risultato è probabilmente
coerente con la criticità del fonema /r/ che spesso rimane l’ultimo fonema a
raggiungere la stabilità.
Poiché dall’analisi della regressione lineare per blocchi successivi, l’età
di formulazione della diagnosi (inferiore o superiore ai 4 anni) e non il tipo
di diagnosi (DSL misto vs. DSL espressivo) risulta predire l’ampiezza dell’IC
al T0 (R2 = .363, Beta = .602, p < .001), essendo quest’ultima maggiore nei
bambini più grandi e minore nei più piccoli, è interessante descrivere l’andamento dell’IC nei due sottogruppi di bambini (gruppo TRT precoce vs.
gruppo TRT tardivo).
La figura 9.3 mostra che al T0 (rispettivamente 42 e 56 mesi) il numero
di fonemi stabili è pari a 10 e 16; i bambini a ST presentano il medesimo IC
a un’età di circa 27 e 35 mesi rispettivamente. I bambini piccoli a inizio TRT
hanno un ritardo di circa 15 mesi rispetto a quanto atteso per età cronologica,
mentre il ritardo nei grandi è di circa 21 mesi. A 64 mesi (T5 vs. T2) entrambi
i sottogruppi di DSL hanno un IC di circa 20-21 fonemi che come abbiamo
già osservato è raggiunto dai bambini con ST a 46-48 mesi.
Il gruppo con TRT precoce in 22 mesi raddoppia quindi il suo IC (Anova
a misure ripetute: T0 vs T5: F (1, 38) = 181,886, p < .001; η2p = .924), con
un incremento di 10 fonemi, paragonabile a quanto avviene nei bambini con
ST a età precedenti (tra i 27 e i 46 mesi) in un intervallo di tempo analogo (in
circa venti mesi). Il gruppo con TRT tardivo completa l’IC [T0 vs. T5: F (1,
36) = 36,379, p < .001, η2p = .901], con un ritmo addirittura superiore a quanto
descritto nei bambini con sviluppo tipico tra i 35 e 46 mesi: l’incremento è
Efficacia dei trattamenti riabilitativi in bambini con Disturbo Specifico di Linguaggio
257
25
Numero Fonemi
20
15
ST
10
TRT precoce
TRT tardivo
5
0
18
24
30
36
42
48
54
60
66
72
78
Mesi
Fig. 9.3 Inventario Consonantico (n. di consonanti stabili) in bambini ST, DSL con trattamento
precoce e DSL con trattamento tardivo.
infatti relativo all’intervallo che intercorre tra T0 e T3 (circa 8 mesi), in cui si
passa da circa 16 a 21 fonemi stabili [F (1, 36) = 48,820, p<.001, η2p = .765].
In questo gruppo di bambini non si evidenzia un cambiamento statisticamente
significativo nei monitoraggi successivi. Il TRT produce quindi un’accelerazione dello sviluppo spontaneo non solo nei bambini giunti più precocemente
in riabilitazione, ma anche nei bambini che avviano il trattamento più tardivamente (per lo meno nel periodo T0-T3). Tuttavia l’intervento più precoce
consente ai DSL di età inferiore di acquisire, a pari età, un numero di fonemi
superiore a quello con cui i DSL grandi si affacciano al trattamento (si veda
la distanza tra le due curve, nei punti corrispondenti al T0 tardivi rispetto al
T3 precoci, all’età di 56 mesi). Questo avvalora l’ipotesi che il TRT acceleri
il ritmo di evoluzione spontanea tipico del gruppo patologico e consente di
ipotizzare che il vantaggio che i DSL con TRT precoce mostrano rispetto ai
DSL con TRT tardivo nell’IC a 56 mesi permetta a i primi di far virare il TRT
logopedico più precocemente anche verso obiettivi fonologici e morfosintattici.
Se è poi vero che la curva di crescita del gruppo a TRT tardivo è caratterizzata
da un netto impenno ad avvio trattamento, tale andamento non si conferma
nelle fasi successive. Se osserviamo invece la linea di tendenza di tipo logaritmico che descrive in modo molto buono la curva di crescita del gruppo con
DSL diagnosticato prima dei 4 anni di età (R² = 0,9778), notiamo come l’intervento più precoce sembri produrre una accelerazione più costante rispetto
258 I disturbi del linguaggio
all’intervento più tardivo e condurre a una più rapida saturazione dell’IC. Si
noti infatti il punto il cui la curva logaritmica dei DSL a TRT precoce incontra
la linea logaritmica che descrive la curva di crescita dei bambini con sviluppo
tipico (R² = 0,9535) rispetto al punto in cui la cui la curva dei bambini con
ST incontra la curva dei DSL a TRT tardivo, curva non riconducibile a una
tendenza di crescita logaritmica (R² = 0,8075).
Struttura di parola
Abbiamo già detto che quando il numero di fonemi instabili è elevato
il ricorso a un parametro quale la struttura sillabica delle parole prodotte risulta cruciale per descrivere la qualità della struttura fonotattica del bambino
(Gherardi et al., 2007).
La lingua italiana è caratterizzata da un limitato repertorio sillabico
(lingua a isocronismo sillabico) e, quindi, presenta un’elevata percentuale di
parole bi- e trisillabiche. Analizzando la struttura sillabica delle 500 parole più
frequenti dell’italiano parlato adulto (De Mauro et al., 1993), Guasti e Gavarrò
(2003) hanno evidenziato che solo il 2% è costituito da monosillabe a fronte
del 33% e del 37% di parole bisillabiche e trisillabiche. I pochi studi effettuati
sulla struttura di parola in bambini a ST confermano che il repertorio sillabico
tipico tra i 2 e i 3 anni è già costituito prevalentemente da bisillabe (60%) e
trisillabe/multisillabe (35%) (Guasti, 2007). Al contrario, nei bambini con
difficoltà di linguaggio si osserva la persistenza di elevate quote di monosillabi
e, progressivamente, di bisillabe a struttura semplice (Gherardi et al., 2007).
L’insediamento e il successivo consolidamento di strutture trisillabiche è
quindi da considerare come segno evolutivo cruciale in contesti di valutazione
dell’efficacia di un trattamento. L’analisi dell’evoluzione di questo parametro
è stato effettuata solo su un sottogruppo di bambini (N = 35), caratterizzato
da IC inferiore ai 15 fonemi stabili, e ha preso in considerazione i monitoraggi
dei trattamenti dall’epoca della diagnosi al T3 (figura 9.4).
L’Anova a misure ripetute mostra un effetto del tipo di struttura di parola (F (1, 33) = 37,763, p < .01, η2p = .833) e un’interazione antagonista tra
tempo e tipo di struttura di parola (F (1, 33) = 15,985, p = .01, η2p = .762),
mentre non vi è un effetto della variabile Tempo, probabilmente perché le due
categorie sillabiche si modificano in direzione opposta. I bambini con DSL
presentano al T0 produzioni costituite prevalentemente da bisillabe (circa il
70%) la cui occorrenza si riduce progressivamente nel corso di tre cicli di TRT,
fino a raggiungere una percentuale simile a quella di bambini a ST di 27 mesi.
Parallelamente, si osserva un incremento significativo delle parole di lunghezza
12
La Disprassia Verbale Evolutiva:
dalla valutazione al trattamento
Irina Podda1
Nella clinica dei disturbi evolutivi del linguaggio e dello speech poche entità
nosologiche sono altrettanto controverse quanto la Disprassia Verbale Evolutiva,
disturbo che compromette la precisione e la sistematicità della produzione dei
suoni del linguaggio in bambini che stanno attraversando la fase dell’acquisizione. L’origine della controversia ha riguardato l’esistenza stessa del disturbo in
quanto entità distinta da altre patologie del sistema dei suoni e non in quanto
versione più grave di altri disturbi (Hall, 1992). In seguito, la controversia si è
spostata sulla natura della Disprassia Verbale Evolutiva. A fronte di un disturbo
caratterizzato da evidenti segni di tipo motorio, il dibattito si è focalizzato sulla
natura eminentemente motoria dello stesso (Robin, 1992), piuttosto che motoria
e linguistica al tempo stesso (Strand e McCauley, 2008). È un dato di fatto, in
realtà, che molti bambini con diagnosi di Disprassia Verbale Evolutiva mostrino
anche deficit a carico dei componenti linguistici superiori. Per questo motivo,
alcuni ricercatori propongono tassonomie dei disturbi dello speech in cui la copresenza di segni di tipo motorio e di segni di tipo linguistico rappresenta una
condizione di comorbidità (Shriberg et al., 1999; Lewis et al., 2011).
Irina Podda è logopedista e docente presso il Corso di Laurea in Logopedia dell’Università di Genova
e in numerosi corsi di formazione in Italia e all’estero. È autrice di pubblicazioni del settore, Istruttore
Certificato PROMPT@ (PROMPTs for Restructuring Oral Muscular Phonetic Targets), lavora a
Genova presso il proprio studio «Parole Al Centro».
1
312 I disturbi del linguaggio
In questo capitolo viene adottata la definizione e la nomenclatura di
Disprassia Verbale Evolutiva condivisa a livello internazionale. L’acronimo
CAS (Childhood Apraxia of Speech, che tradotto in italiano significa appunto
Disprassia Verbale Evolutiva) viene utilizzato per uniformarsi con i lavori attualmente pubblicati a livello di letteratura internazionale peer-reviewed. Nel 2007
l’American Speech, Language and Hearing Association (ASHA) ha pubblicato
due documenti frutto del lavoro di un comitato di studio ad hoc sulla Disprassia
Verbale Evolutiva, il Technical Report e il Position Statement (ASHA, 2007).
Nel Technical Report viene effettuata una ampia revisione della letteratura
sull’argomento e viene delineato lo stato dell’arte riguardo alla definizione, alle
conoscenze generali e al trattamento della CAS. Il Position Statement, invece,
è il documento con cui la comunità professionale rappresentata dall’ASHA
definisce la propria posizione riguardo alla Disprassia Verbale Evolutiva e
stabilisce quali debbano essere le conoscenze professionali del logopedista
impegnato nel trattamento di questo gruppo di bambini.
Il Technical Report dell’ASHA definisce la Disprassia Verbale Evolutiva
come un «disordine neurologico evolutivo dell’articolazione dei suoni del
linguaggio in cui la precisione e la sistematicità nella produzione dello speech è
compromessa in assenza di deficit neuromuscolari» (ASHA, 2007b). La definizione Childhood Apraxia of Speech (CAS) a cui si è giunti anche su impulso
delle Associazioni che rappresentano i genitori dei bambini con questo tipo
di problema, si propone come termine ombrello che riassume tutte le precedenti definizioni (Developmental Apraxia of Speech, Developmental Verbal
Dyspraxia, ecc.), ma anche tutte le accezioni attuali del disturbo disprassico
verbale, dalla condizione idiopatica (in assenza di deficit neuromuscolari, alla
sintomatologia apraxia-like presente in molti disordini evolutivi complessi).
Attualmente tra i ricercatori impegnati nello studio della CAS si è raggiunto un accordo unanime che riconosce al disturbo prassico verbale un
core deficit di tipo motorio, con alterazioni a livello della pianificazione e della
programmazione motoria dei movimenti articolatori. Il sovraccarico motorio
indotto dal tentativo di tradurre suoni, sillabe, parole e frasi nei comandi motori
opportuni per la costruzione dell’output verbale, può determinare un effetto
a cascata sui componenti linguistici. Di conseguenza, il bambino con CAS
potrà mostrare difficoltà nel reperimento del lessico e nella costruzione della
frase, così come nell’integrazione dei contenuti del discorso. Ovviamente, uno
sviluppo in presenza di un disturbo così importante e tipicamente difficile da
trattare può comportare che all’ingresso nella scuola primaria l’area linguistica
sia globalmente immatura e depressa. La CAS avrà, quindi, ripercussioni più
o meno gravi sugli apprendimenti curricolari basati sul linguaggio (Raitano et
La Disprassia Verbale Evolutiva: dalla valutazione al trattamento
313
al., 2004) e, nel medio e lungo termine, sulla strutturazione della personalità
del bambino che ne è affetto, nonché sulle scelte vocazionali, accademiche e
lavorative.
Questa situazione può tipicamente presentarsi in tre contesti clinici:
1. CAS idiopatica, cioè la forma non associata ad alterazioni evidenti del Sistema Nervoso Centrale (SNC), ad alterazioni neuromuscolari e sensoriali e a
problematiche della sfera cognitiva e relazionale. Questa è la forma primaria,
a cui il Technical Report fa riferimento quando parla di un disturbo motorio
dello speech che si manifesta in assenza di deficit neuromuscolari. Questa
precisazione si rende necessaria per distinguere la CAS dalla disartria evolutiva, disturbo nel quale è presente un deficit di forza e/o di coordinazione,
nonché un’alterazione più o meno marcata del tono muscolare (ipertonia
o ipotonia).
2. CAS in soggetti in cui è documentata una condizione neurologica maggiormente
alterata. Spesso, in questi casi, il disturbo prassico verbale si accompagna
ad alterazioni più o meno evidenti del tono muscolare. Quindi frequentemente si può parlare di CAS associata a disartria evolutiva. È il caso, ad
esempio, della sintomatologia disprassica verbale che si sovrappone a quella
neuromotoria in molti bambini con Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) o in
sindromi genetiche.
3. CAS quale sintomo associato nelle sindromi neuro comportamentali complesse,
quali l’autismo. Nei disturbi dello spettro autistico è riportata una notevole
prevalenza di CAS. In molti casi, quindi, questa è responsabile dell’assenza
di linguaggio verbale in molti bambini con autismo, per i quali la condizione
di averbalità non sempre è motivata soltanto dalle problematiche cognitive
e relazionali. La presenza di una sintomatologia apraxia-like nei bambini
nello spettro dell’autismo (Page e Boucher, 1998; Rogers et al., 1996) è
tuttora oggetto di studi.
L’altro aspetto controverso è, naturalmente, quello che riguarda la diagnosi del disturbo. A fronte di alterazioni più o meno gravi del sistema dei
suoni del linguaggio, un acceso dibattito ha riguardato quali segni possano
tipicamente distinguere la CAS da altri disturbi che interessano il sistema dei
suoni. Tipicamente l’accordo tra i ricercatori è stato raggiunto a proposito di
tre sintomi principali:
1.asistematicità degli errori fonologici: posto che gli aspetti fonologici della
produzione verbale dei bambini con CAS sono marcatamente alterati, in
genere non è facile classificare gli errori secondo i criteri che normalmente
vengono tenuti presenti quando la valutazione è effettuata secondo una
314 I disturbi del linguaggio
prospettiva fonologica. Gli errori rilevabili nella produzione dei bambini
con CAS sono scarsamente sistematici e molto variabili. La medesima
parola può essere detta in molte maniere diverse a seconda dei contesti e
un determinato fonema può essere prodotto in alcuni contesti fonologici
e non controllato in altri (Shriberg et al., 1997b). Anche la classica analisi
in tratti fonologici può essere difficile da svolgere, sia a causa dell’inconsistenza degli errori, sia a causa della presenza di suoni non appartenenti al
repertorio della lingua ambiente. In particolare, in molti bambini con CAS
si rileva la presenza di errori con le vocali, che spesso risultano imprecise e
tendenzialmente neutralizzate (Pollock e Hall, 1990). Secondo alcuni autori
la cospicua presenza di errori di sostituzione e soprattutto di omissione di
consonanti è una caratteristica tipica dei bambini con CAS, così come lo è
la tendenza alla cancellazione di sillabe nelle parole più lunghe. I bambini
con altri disturbi a carico del componente fonologico, invece, mostrerebbero
principalmente sostituzioni e una maggiore accuratezza nella conservazione delle quantità sillabiche, nonché minori problematiche a carico della
sequenzializzazione (Aziz et al., 2010);
2.difficoltà nella transizione intersegmentale: la transizione tra un fonema e
l’altro è estremamente difficoltosa, se non impossibile, e prolungata. Il
bambino può essere in grado di produrre molti suoni isolatamente, ma non
nel contesto di sillabe, parole e frasi. Il fenomeno del groping solitamente
accompagna la produzione verbale dei bambini con CAS. Si tratta del tentativo di ricerca attiva delle traiettorie e dei punti di repere articolatori che
il bambino mette in atto mentre parla. Il groping fa sì che il comportamento
verbale del bambino proceda tipicamente attraverso tentativi, errori e altri
tentativi, spesso infruttuosi, di rimediare agli errori, determinando in tal
modo una produzione disfluente, laboriosa ed estremamente faticosa;
3. alterazioni della prosodia: in una percentuale elevata di bambini con CAS
si rilevano alterazioni sia a carico della prosodia di frase che può, quindi,
risultare piatta e monotona (Shriberg et al., 1997c), sia a livello di prosodia
lessicale, con conseguente neutralizzazione dell’accento e perdita di materiale sillabico (Velleman e Shriberg, 1999). La manifestazione più tipica
della neutralizzazione dell’accento è il fenomeno della parola scandita, che
conferisce alla produzione del bambino un andamento «robotico». Ciò
avviene in quanto ogni sillaba riceve un accento in conseguenza del fatto
che il bambino non è in grado di regolare la durata delle vocali contenute
nelle sillabe che compongono una parola intorno a un’economia accentuale.
Secondo Peter e Stoel-Gammon (2008), il disturbo della prosodia presentato dai bambini con CAS fa parte di una più estesa difficoltà di timing,
La Disprassia Verbale Evolutiva: dalla valutazione al trattamento
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cioè della capacità di organizzare i movimenti articolatori e di modularne
la durata nel tempo.
In letteratura sono, inoltre, descritti sintomi non verbali solitamente presenti nei quadri di CAS, soprattutto in quelli più gravi e complessi. La CAS,
infatti, in particolare nelle forme più severe, fa di norma parte di un quadro
sintomatologico di tipo disprassico più ampio. Si calcola che una percentuale
elevata di bambini con CAS manifesti anche un quadro disprassico orale (Shriberg et al., 1997; Davis et al., 1998), un disturbo prassico globale e un disturbo
della coordinazione motoria più o meno evidenti (Dewey et al., 1988). Sono
descritti, tra i sintomi non verbali della CAS, anche alterazioni sensoriali, quali
ipo- o ipersensibilità orale e nell’area periorale.
Nel nuovo millennio la ricerca sulla CAS ho spostato il focus del proprio
interesse su altri quesiti, ma soprattutto si è arricchita di contributi provenienti
da altre aree disciplinari della scienza: raramente in passato gli studi su una
patologia del linguaggio sono stati altrettanto interdisciplinari e le loro bibliografie altrettanto ricche di citazioni di lavori di bioingegneria, di cibernetica,
di scienze del movimento. Ciò è dovuto al fatto che quando a partire dalla
fine degli anni Novanta dello scorso millennio l’attenzione dei ricercatori si
è concentrata sulla dimensione motoria, gli studi a riguardo si sono ritrovati
proiettati in un universo dove l’interesse e le conoscenze sul movimento sono
condivisi in ambiti disciplinari molto diversi. Così, a partire dal nuovo millennio
la discussione su cosa la CAS sia esattamente si staglia contro un panorama
che sullo sfondo ha le teorie del controllo motorio e gli studi su come questo
viene acquisito a partire dalle prime forme di produzione orale del bambino.
Lo studio della CAS, del suo trattamento e dell’efficacia dello stesso fa sempre
più spesso riferimento ai principi dell’apprendimento motorio (ad esempio
Strand et al., 2006), a obiettivi inerenti il tipo di movimento articolatorio e a
misurazioni attraverso studi cinematici dei vari articolatori (ad esempio Grigos
e Kolenda, 2010; Grigos et al., 2010).
Il controllo motorio articolatorio
Il controllo motorio è la capacità dimostrata dal Sistema Nervoso Centrale
(SNC) di regolare il movimento in modo da renderlo adatto a quanto richiesto
dal contesto o dall’ambiente. Agli inizi dell’Ottocento i ricercatori sapevano che
le varie porzioni della corteccia motoria erano associate ai diversi movimenti
del corpo umano. Quindi si riteneva che per muoversi un sistema esecutore,
un homunculus, selezionasse dalla memoria un piano per un dato movimento