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Massimo La Torre ha insegnato all’Università di Bologna e all’Istituto Universitario di Firenze, oltre ad aver tenuto corsi in altre
università europee. La sua attività si svolge oggi tra l’Università di
Catanzaro, dove è Ordinario di Filosofia del Diritto, e la Law School
dell’Università di Hull in Inghilterra, dove trascorre periodicamente
alcuni soggiorni di ricerca. Ha studiato a fondo il pensiero giuridico
tedesco del Novecento e lavora a una teoria del diritto in cui la tradizionale centralità della sanzione e del comando sia rimpiazzata
dall’esigenza normativa dell’argomentazione e del discorso.
ISBN 88-220-5356-7
in copertina:
particolare di una litografia di Umberto Mastroianni,
collezione privata.
i 16,00 (i.i.)
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LA TORRE
NelIo Stato liberale della Germania degli anni ’20 si fronteggiano concetti di diritto che esprimono il canto del cigno della
modernità. Ma il dibattito sulle forme della politica in una
situazione d’eccezione elabora modelli che, l’un contro l’altro
armati, come superando il proprio tempo, proiettano la loro
ombra sul presente declino imperiale della democrazia. La
Repubblica di Weimar rappresenta, per la sua interna dinamicità e per il suo esito terribile, uno dei momenti più interessanti e drammatici della storia dell’Europa moderna. Questo
vale non solo per quello che concerne la storia degli «uomini», ma anche per ciò che investe la storia delle «idee». Il
conflitto fomentato dall’ormai ineludibile pluralismo dei valori,
lo scontro di «titani» che segnala Max Weber e la «gabbia
d’acciaio», vale a dire la prevalente fredda razionalità burocratica che governa tanto l’impresa capitalistica quanto lo
Stato moderno: sono questi i poli che marcano i confini dell’esperienza e della riflessione di quell’epoca, i cui veleni
minacciano oggi di ritornare in circolo nella mutazione imperiale delle relazioni internazionali che si preannuncia.
MASSIMO LA TORRE
LA CRISI
DEL NOVECENTO
GIURISTI E FILOSOFI NEL CREPUSCOLO DI WEIMAR
LA CRISI DEL NOVECENTO
contemporaneo per tentare di decifrare la trama dei processi in atto e fornire stimoli a chi si interroga sul senso
del nostro presente. Il carattere «globale» delle trasformazioni impone una
visione ampia dell’analisi, che non si
limiti ai saperi specialistici e che, a
partire dalle specificità locali, faccia
emergere tutto ciò che resiste all’omologazione universale. Per questa ragione, sebbene si rivolga ad un pubblico italiano, la collana intende avere
una dimensione internazionale, essenzialmente europea, ma con un’attenzione anche alla società statunitense,
le cui trasformazioni anticipano sempre più quelle del Vecchio Continente.
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Strumenti/Scenari
Collana diretta da
Pietro Barcellona, Raffaele De Giorgi,
Gianluigi Palombella
Comitato scientifico
B. Amoroso, T. Blanke, A. Caillé, J.R.
Capella, S. Latouche, M. Maresca, G.
Teubner
L’89 è certamente uno spartiacque
epocale. All’euforia di una unificazione
planetaria della Storia umana è, tuttavia, lentamente subentrata una sensazione di impotenza e di ansia. Ogni
voce dissonante sembra sommersa
da un rumore di fondo pervasivo e
insistente, che impedisce di distinguere. Anche la produzione di libri si inserisce in questa atmosfera irreale. Il
mondo sembra omologarsi ad un’immensa borsa finanziaria, concentrata
su tabelle che segnalano quotazioni,
sigle, cifre.
L’epilogo della pretesa «moderna» di
controllare l’esperienza, la vita e la
natura è la trasformazione dell’accadere quotidiano in una specie di allucinazione dove si è perso il senso del
limite e il confine fra immaginario e
reale. Bisogna allora guardare se ci
sono crepe, lacerazioni che lasciano
intravedere un ulteriore spazio mentale. È necessario sostenere la ricerca
di nuovi percorsi, e l’ambizione a pensare il futuro.
La collana si propone di promuovere
diverse «letture critiche» del mondo
Strumenti/Scenari 56
MASSIMO LA TORRE
LA CRISI
DEL NOVECENTO
GIURISTI E FILOSOFI NEL CREPUSCOLO DI WEIMAR
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La pubblicazione del libro si è avvalsa di un contributo del Dipartimento di
Scienza e Storia del Diritto dell’Università «Magna Grecia» di Catanzaro.
© 2006 Edizioni Dedalo srl, Bari
www.edizionidedalo.it
Tutti i diritti sono riservati.
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
Prologo
Fu il migliore dei tempi, fu il peggiore dei tempi, fu l’età della saggezza, fu l’età della stupidità, fu l’epoca della fede, fu l’epoca dell’incredulità, fu la stagione della luce, fu la stagione dell’oscurità, fu
la primavera della speranza, fu l’inverno della disperazione, avevamo
ogni cosa dinanzi a noi, non avevamo niente davanti, eravamo diretti
tutti al cielo, eravamo tutti in viaggio nella direzione opposta
così, si ricorderà, Charles Dickens inizia il romanzo A Tale of
Two Cities e ci dà con una pennellata il quadro del tempo che
precedette la Rivoluzione Francese. Ma quelle sue parole sono
ugualmente e forse maggiormente appropriate a darci il senso
degli anni del primo Stato democratico tedesco tra il 1919 e il
1933, gli anni di Weimar, la cittadina in cui si deliberò ed emanò
la costituzione di quella disgraziata repubblica. La nuova legge
fondamentale sanciva la fine dell’egemonia giuridicamente formalizzata degli Junker prussiani sul resto della società, il tramonto definitivo del feudalesimo che ancora si rifletteva in un
arcaico sistema elettorale a tre classi recepito nell’ordinamento
guglielmino1. Il parlamento si emancipava finalmente dalla tu-
Sul timidissimo parlamentarismo del Reich guglielmino e della sua dottrina giuridica può con profitto consultarsi il libro di CH. SCHÖNBERGER, Das
Parlament im Anstaltsstaat. Zur Theorie parlamentarischer Repräsentation in
der Staatrechtslehre des Kaiserreichs (1871-1918), Klostermann, Frankfurt am
1
5
tela dell’esecutivo e dell’onnipotente Imperatore. Ma si tramandava l’idea di Reich, e permanevano intatte la macchina autoritaria e l’ideologia militarista dello Stato burocratico.
La società tedesca era liberata dalla cappa soffocante dell’ipocrita morale guglielmina – cosi bene denunciata nel Suddito,
il romanzo di Heinrich Mann – e ci si lanciava vorticosamente
nell’esperimento di una modernità di cui però non si riusciva
ancora a fornire un fondamento giustificativo e a cui non si offrivano istituzioni stabili e legittime. L’economia traballante e
l’inflazione gigantesca generavano miseria, ricchezza svergognata, degradazione, e soprattutto ansia e voglia di sicurezza.
Dell’atmosfera di quel periodo un quadro efficace ci è dato da
una pagina di Herman Hesse, nell’avvio del Giuoco delle perle
di vetro, allorché si accenna allo
sbigottimento che colpì lo spirito quando, al termine di un periodo di
apparenti vittorie e prosperità, si trovò all’improvviso davanti al nulla,
a una grande miseria materiale, a un periodo di burrasche politiche e
guerresche e ad una repentina diffidenza verso sé stesso, verso la propria forza e dignità, persino verso la propria esistenza.
«Eppure – aggiunge subito Hesse –, in quel periodo in cui
pareva che il mondo dovesse finire, si videro ancora creazioni
intellettuali elevatissime»2.
La Repubblica di Weimar rappresenta dunque, per la sua interna dinamicità e per il suo esito terribile, uno dei momenti più
interessanti e drammatici della storia dell’Europa moderna. Ciò
vale non solo per ciò che concerne la storia degli «uomini» ma
anche per ciò che investe la storia delle «idee». Il conflitto fomentato dall’ormai ineludibile pluralismo dei valori, lo scontro
Main 1997. In merito è utile anche F. LANCHESTER, Alle origini di Weimar. Il
dibattito costituzionalistico tedesco tra il 1900 e 1918, Giuffrè, Milano 1985.
Né in tale contesto può dimenticarsi l’enciclopedica fatica di M. STOLLEIS,
Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, vol. 2, Staatsrechtslehre
und Verwaltungswissenschaft, Beck, München 1992.
2
H. HESSE, Il giuoco delle perle di vetro; trad. it. di E. Pocar, Mondadori,
Milano 1979, p. 19.
6
di «titani» che segnala Max Weber, ovvero il «fatto del pluralismo» di cui parlerà molti anni dopo e in termini più pacati
Jürgen Habermas, e la «gabbia d’acciaio», vale a dire la prevalente fredda razionalità burocratica che governa tanto l’impresa come lo Stato moderno, sono questi i poli che marcano i
confini dell’esperienza e della riflessione di quell’epoca3.
Si comprende dunque la ragione per cui «Weimar» risulta
essere un laboratorio vibrante di proposte filosofiche e politiche (si pensi ad esempio per un lato alla Scuola di Francoforte,
a Walter Benjamin, o al neo-kantismo di Ernst Cassirer o di
Leonard Nelson, per non parlare dell’esistenzialismo di Martin
Heidegger, e per altro lato allo Stato sociale adombrato da Walter Rathenau e poi teorizzato in maniera compiuta da Hermann
Heller). A chi studia la «teoria pura» di Hans Kelsen non sfugge
che il meglio di quella ambiziosa impresa giusfilosofica, le sue
idee più provocatorie e radicali, il nucleo «serio» e impegnato
d’essa, si rinvengono proprio nella produzione di quegli anni
tempestosi e nel suo tentativo di dare un futuro alla democrazia in Austria e in Germania. Quelle proposte però saranno tutte
travolte nella catastrofe e si troveranno inghiottite dal mostro,
dal Behemoth nazionalsocialista. Questo a sua volta non rappresenta una mera patologia dello spirito tedesco, bensì è il risultato di dottrine, ideologie e utopie proposte in maniera articolata, e si prepara (sebbene senza alcuna necessità fatale) e può
intravvedersi (alla maniera dell’«uovo di serpente» di Ingmar
Bergman) a partire forse dalla reazione romantica alla Rivoluzione francese4. La «congiura dei falegnami» di cui racconta
3
Per una riflessione recente su questa tematica cfr. i saggi contenuti in
Confronting Mass Democracy and Industrial Technology. Political and Social
Theory from Nietzsche to Habermas, a cura di John McCormick, Durham,
London 2002.
4
«Nel romanticismo va individuato il germe originario di quel processo
culturale, che nel corso del secolo diciannovesimo provocò il progressivo isolamento della dottrina del diritto e dello Stato elaborata dal pensiero filosofico-politico tedesco nel contesto dell’Occidente europeo; ma si può dire che,
ancora nella prima metà del secolo ventesimo, la riflessione sulla natura e l’o-
7
Hermann Borchardt5, descrivendo la crisi politica e morale della
Germania degli anni Venti, non è tanto un complotto, una cospirazione di geni malvagi, quanto il processo tragico e in gran
parte libero, anche se non casuale, in cui si mescolano, fermentano e si ricompongono fattori e forze materiali di diversa,
più o meno dubbia, più o meno nobile provenienza. Con l’avvento di Hitler al potere Buchenwald, il bosco di Weimar che
offriva diletto a Goethe, diviene il sito d’un campo di concentramento. «Die Gewahr ist ungeheur!» – il pericolo è enorme –
tuonava profeticamente Oswald Spengler; ma il pericolo risiedeva purtroppo in ciò ch’egli indicava come soluzione: il «socialismo prussiano»... L’apologia di Federico Secondo, ravvivata durante la Grande Guerra (si pensi allo scritto di Thomas
Mann del 1915)6, veicola potentemente un’ideologia autoritaria
e decisionista: il colpo di Stato, lo stato d’eccezione, è celebrato
e praticato – invero già nelle legislazioni d’emergenza connesse
al conflitto militare – come il nucleo più autentico dell’azione
politica. Come dice Federico, i colpi di Stato non sono delitti,
«Staatsstreichen sind keine Verbrechen»7.
Il secolo che ci sta ormai alle spalle è stato probabilmente,
nonostante la sua pretesa «brevità», quello più carico d’orrori
dell’intera storia umana. Due guerre totali, i totalitarismi che ne
sono seguiti o vi si sono accompagnati e la tragedia immane
dell’olocausto ebreo lo hanno marchiato a fuoco. A paragone di
tanta infamia e violenza il secolo precedente è apparso a molti
un’epoca dorata e innocente, «die Welt von gestern», l’idillico
rigine del diritto e dello Stato in Germania risulta in gran parte dominata [...]
dall’interpretazione romantica del fenomeno giuridico» (G. VOLPE, Il costituzionalismo del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 52).
5
Si tratta del romanzo The Conspiracy of Carpenters. Historical Accounting of a Ruling Class, Simon and Schuster, New York 1943, con introduzione di Franz Werfel.
6
Si legga TH. MANN, Friedrich und die große Koalition, Fischer, Berlin
1915.
7
H. BALL, Zur Kritik der deutschen Intelligenz, Suhrkamp, Franfurt am
Main 1980, p. 11. La prima edizione di quest’opera, fondamentale per capire
la crisi della cultura tedesca a cavallo tra Ottocento e Novecento, è del 1919.
8
«mondo d’ieri» di cui scriveva accoratamente Stefan Zweig.
Ben diverso è stato l’atteggiamento di certa cultura che all’affacciarsi del secolo ventesimo aveva cominciato a celebrarne il
«mito», a contrapporlo al vecchio e barboso Ottocento. I vecchi e i giovani di Pirandello svolge questo tema: la vecchiezza
del decrepito, materialista e individualista Ottocento di contro
alla giovinezza, all’idealismo e all’attivismo dell’antiliberale
Novecento. Come che sia, una cosa è certa: si è spesso contrapposto il nuovo secolo al vecchio mettendo in sordina la continuità fortissima tra di loro: molta della «giovinezza» del secolo ventesimo affonda invero le sue radici nel romantico diciannovesimo. È quest’ultimo che forgia le armi culturali e ideologiche che si faranno macchine d’acciaio e ordigni di fuoco
nel secolo successivo. Hofmannstahl parla del «furchtbare Erlebnis des neunzehnten Jahrhunderts», dell’esperienza terribile
del secolo diciannovesimo8. L’Ottocento è tutt’altro che un’epoca serena. In essa invece si gonfia una zona tumefatta, un
bubbone che scoppierà nel Novecento, spargendovi liquami velenosi. Vi è nell’Ottocento un «cuore di tenebra» che è assai più
profondo e forte del mito liberale del progresso. Questa fu –come dice Simone Weil – «l’epoca nella quale s’ignorava la nozione di limite»9. Qui e là ciò affiora in superficie. Accade ad
esempio nei romanzi di Conrad e di Dostoievskij, oppure negli
scritti di Gobineau, de Lagarde e Donoso Cortés, o ancora in
quello splendido lucidissimo volumetto che è Dall’altra sponda
di Herzen. Nietzsche è ottocentesco; così pure lo sono Leopold
von Ranke o Heinrich von Treitschke. Ed ottocentesca è la dottrina dello Stato che ancora oggi, a molti decenni di distanza,
impregna il diritto costituzionale contemporaneo.
Non v’è forse àmbito disciplinare in cui più si manifestino
«le forze sotterranee» di quel secolo: è la dottrina del diritto
H. VON HOFMANNSTAHL, Das Schriftum als geistiger Raum der Nation
(1927), in H. VON HOFMANNSTAHL, Gesammelte Werke, Prosa, vol. 4, Fischer,
Frankfurt am Main 1949, p. 410.
9
S. WEIL, Fragments de Londres, in S. WEIL, Oppression et liberté, Gallimard, Paris 1955, p. 208; trad. it., Oppressione e libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1956.
8
9
pubblico che nella sua ansia di costruirsi come «scienza» si fa
rivelatrice di quella volontà di potenza e della contraddizione
insanabile tra liberalismo e nazionalismo, tra Machtstaat e
Grundrechte, che minano la fibra gentile della Belle époque. Si
tratta di questo: per un verso procedere all’affermazione della
primazia assoluta della sovranità statale e d’altro lato tentare un
addomesticamento di questa, tale da permettere una formalizzazione e una certa normalizzazione dei suoi rapporti con entità con uguali pretese di completa autonomia normativa, siano
esse di natura collettiva o meramente individuale. Dietro l’individuo liberale si staglia abbastanza minaccioso il pluralismo
dei gruppi sociali, e alla normatività degli uni si contrappone
con ostinazione la fatticità degli altri. Ciò nel quadro di una metodologia che non si affida più a un discorso normativo forte
ed esplicito (com’è quello del giusnaturalismo), bensì tenta di
soddisfare con vari escamotages i più esigenti requisiti della
scienza moderna. Il diritto pubblico si costituisce così rinnegando le sue origini e nel disprezzo della tradizione dello jus
gentium e del contratto sociale come parte integrante della sfera
giuridica, in nome di un’ontologia e di un’idea positivista di
scienza più o meno avalutativa. Si deve rigettare allo stesso
tempo il principio dell’incorporazione del diritto razionale nel
diritto positivo, in nome della superiorità di quest’ultimo e di
qualcosa simile a ciò che lo storicista Puchta in àmbito privatistico chiamava il «dogma della volontà». Qui l’«autonomia»
della persona, pietra di paragone del giusnaturalismo contrattualistico ma pure della dottrina del diritto privato, viene tradotta nel «dominio» dell’ente statale. «Come la teoria del dominio permea la scienza del diritto pubblico della scuola di Laband – nota Erich Kaufmann – così la «teoria della volontà»
gioca un ruolo analogo nella scienza del diritto privato»10.
E. KAUFMANN, Critica della filosofia neokantiana del diritto, in E.
KAUFMANN, W. SAUER e G. HOHENAUER, Neokantismo e diritto nella lotta
per Weimar, a cura di R. Miccù, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992,
p. 61.
10
10
Wilhelm Hennis, in un bel saggio di ormai molti anni fa, individuava il carattere specifico della «concezione tedesca dello
Stato» nello svuotamento di contenuti di questa figura politica11.
La cultura tedesca pertanto costituirebbe un veicolo di radicale
«modernità». Col suo sviluppo il potere politico si libera dei
vincoli morali espressi nell’idea e nella trattazione dei fini della
res publica. La politica si avvolge su se stessa e si ritrova sull’orlo dell’abisso rappresentato dal nichilismo. Questo sarebbe
così il suo destino «moderno»: il decisionismo e la visione strumentale o «demoniaca» del potere sono tappe di questo viaggio verso il «nulla». Ed è nella repubblica di Weimar, là dove
il «nulla» diviene visibile a occhio nudo, che il viaggio si complica e accelera. Max Weber e Carl Schmitt – dice Hennis –
spingono, sia pure al di là dell’intenzione, verso il precipizio.
Più cauto è il giudizio su Hermann Heller, mentre l’opera di
Rudolf Smend sembra profilarsi nel senso di una riscossa della
politica come dominio della virtù e della buona vita. Al predominio della tecnica si contrappone la riabilitazione della filosofia pratica. Si può tuttavia dubitare che la questione della strumentalità del potere politico sia risolta mediante una rinnovata
teoria dei «limiti» (dei «fini») dello Stato nelle vesti della «dottrina dell’integrazione». Questa forse è troppo dinamica per
poter essere vincolata teleologicamente. E la sovranità legislativa di Heller attenua la sua elevata autoreferenzialità solo una
volta che il crepuscolo di Weimar si è fatto notte, e allora il
giurista tedesco ripensa il suo percorso teorico aprendo verso
un concetto del diritto come ordine di princìpi normativi forti.
Leonard Nelson invece soddisferebbe l’esigenza posta da Hennis di una teoria del diritto perfettamente integrata in un sistema
generale di filosofia pratica e d’educazione civica.
Lo spazio del dibattito sulla modernità giuridica che si sviluppa negli anni di Weimar è comunque ben delimitato dalle
tesi di questi tre autori, ed è perciò su essi che si concentrerà
Vedi W. HENNIS, Zum Problem der deutschen Staatsanschauung, in
«Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», vol. 7, 1959, pp. 1 sgg.
11
11
la mia attenzione nelle pagine che seguono, avendo però avuto
cura di illustrare in precedenza lo sfondo teorico contro il quale
le loro idee assumono significato e si propongono come alternativa. Qui nessun autore meglio di Georg Jellinek può servire
allo scopo.
Lo studio che ora si introduce intende dunque prendere
«Weimar» come pretesto e come luogo privilegiato per affrontare il tema dei modelli politici della modernità e della reazione
a questa12. Il terreno ove identificare più chiaramente questi modelli, le loro tracce, il loro impatto, le sedimentazioni che producono e da cui sono prodotte, è offerto dai filosofi del diritto
e dai loro dibattiti: le filosofie del diritto servono qui come paradigmi esasperati e un po’ paradossali delle teorie politiche e
dello Stato. Il mio lavoro pertanto si propone sia come una sorta
di introduzione storica al pensiero politico della repubblica di
Weimar sia come un’approssimazione filosofica al tema di ciò
che può e deve essere la modernità giuridica. La sua ambizione
è comunque d’essere un testo eminentemente teorico, e di descrivere e discutere soluzioni che pure legate a una disperata
contingenza si sono proposte e ancora si ripropongono in varia
guisa a chi si pone la questione della sfera pubblica.
Come scriveva Heine? «Avevo visto seminare i denti di
drago dai quali oggi sorgono gli uomini in corazza che vanno
riempiendo il mondo con il loro tumulto armato». La dottrina
giuridica pubblicistica tra Ottocento e Novecento, e la teoria costituzionale e giusfilosofica degli anni di Weimar soprattutto, di
quei denti sono state generose seminatrici. Questo libro vuole
contribuire a ricordarlo ed intenderlo.
Sulla crisi della Repubblica di Weimar sono ora disponibili due interessanti volumi in lingua inglese: From Liberal Democracy to Fascism.
Legal and Political Thought in the Weimar Republic, a cura di P.C. Caldwell
e W. E. Scheuerman, Brill, Boston 2000, e Weimar: A Jurisprudence of Crisis, a cura di A.J. Jacobsen e B. Schlink, University of California Press,
Berkeley 2000.
12
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Nel libro in parte rielaboro materiali già pubblicati. Il capitolo primo si basa su un saggio apparso nei «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico» del 2000. Il capitolo secondo riproduce in buona misura idee presentate in un
altro saggio pubblicato nei «Quaderni fiorentini» del 2001. Una
prima versione del capitolo terzo si ritrova in Política y literatura en la República de Weimar, a cura di C. Flórez Miguel
e M. Hernández Marcos, Madrid 1998; mentre il capitolo
quarto ha origine in un articolo apparso nei «Materiali per una
storia della cultura giuridica» del 1999.
13
Capitolo primo
La modernità giuridica: Georg Jellinek
1. La storia come ordalia del mondo
Georg Jellinek è preso in una profonda contraddizione in ragione della filosofia o, direi meglio, delle filosofie della storia
che fanno come da sfondo alla sua concezione generale del diritto1. Per un verso è lo storicismo culturalista, l’insegnamento
di Savigny, quello che si riflette nelle sue pagine. È la storia interna d’un popolo quella che determina il suo sistema giuridico,
al pari di ciò che succede per la lingua. È una lenta intima evoluzione che ha luogo nei recessi più profondi dell’anima del popolo, delle sue condotte e dei suoi costumi, ciò che ha poi
espressione nel diritto sistematizzato della scienza giuridica.
Non arbitrio, ma crescita spontanea.
1
Georg Jellinek è di certo il più «filosofo» tra i «classici» della scienza
giuspubblicistica germanica, sia per l’educazione ricevuta (è dottore prima in
filosofia e poi in giurisprudenza) sia per il corso della sua carriera accademica (la sua prima «Habilitation» è in filosofia del diritto) sia per gli interessi di ricerca e il generale atteggiamento metodologico (in merito, si legga
W. WINDELBAND, Zum Geleit, in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften und
Reden, a cura di W. Jellinek, vol. 1, Häring, Berlin 1911, pp. VII-VIII). Per
notizie biografiche su questo autore tanto rilevante per la dottrina pubblicistica dell’Europa continentale e tuttavia ancora troppo poco studiato, vedi C.
JELLINEK, Georg Jellinek. Sein Leben, in «Neue Österreichische Biographie»,
vol. 7, 1931, pp. 136 sgg.; M.J. SATTLER, Georg Jellinek (1851-1911). Ein
15
Dalla condizione complessiva di un popolo hanno origine e si sviluppano il suo diritto, la sua lingua, i suoi costumi, la sua costituzione.
Non l’arbitrio umano determina i costrutti che mostrano questi prodotti dell’intera vita d’un popolo. Essi si sviluppano secondo leggi a
loro interne; sono necessari e liberi a un tempo, liberi nel senso che
non provengono dall’esterno, ma che invece sorgono dalla natura più
elevata del popolo2.
D’altro lato Jellinek ha della storia una visione ben più tragica e tempestosa. La storia è anche scontro di poteri statali,
guerra, vittoria e sconfitta, ed è qui che la storia propriamente
si manifesta, come «tribunale del mondo»3 e la causalità si rivela la giustizia della storia universale: «Die Kausalität ist die
Gerechtigkeit der Weltgeschichte»4.
In questo scontro di forze spesso titaniche – cui solo le anime
belle possono credere di sfuggire, e rispetto a cui non v’è peccato maggiore dell’indifferenza e della neutralità – il diritto è
sancito dalla violenza e questa ha qui il sigillo del verdetto finale, è anche giustizia. Il diritto in tali vicende può dunque sembrare opera d’arbitrio umano, ma è invece nuovamente prodotto
di un destino sovraumano.
Ma non sono solo le espressioni vitali che originano da quella comunità culturale, che chiamiamo popolo, a determinarne la storia giuriLeben für das öffentliche Recht, in Deutsche Juristen jüdischer Herkunft, a
cura di H. Heinrichs et al., Beck, München 1993; da ultimo K. KEMPTER, Die
Jellineks 1820-1955. Eine familien-biographische Studie zum deutschjudischen Bildungsbürgertum, Droste, Düsseldorf 1998. Per una ricostruzione
complessiva della sua opera teorica disponiamo ora dell’utile ricerca di J. KERSTEN, Georg Jellinek und die klassische Staatslehre, Mohr, Tübingen 2000.
La più completa bibliografia di questo studioso rimane ancora quella del figlio W. JELLINEK, Georg Jellineks Werke. Verzeichnis, in «Archiv für öffentliches Recht», vol. 27, 1911, pp. 606 sgg.
2
G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, prolusione prorettorale tenuta il 22 novembre 1907, in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften
und Reden, vol. 1, cit., p. 392.
3
Si legga anche G. JELLINEK, Die Zukunft des Krieges, in G. JELLINEK,
Ausgewählte Schriften und Reden, vol. 2, cit., p. 534.
4
G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften und Reden, vol. 1, cit. p. 175.
16
dica. Fatti storici che provengono dall’esterno possono modificare e
sviluppare gli ordini giuridici in maniera assai potente. In tal caso
spesso non può darsi adito ad aggiustamenti o adeguamenti alle concezioni e tradizioni dei consociati. Prima ancora che si dia la lenta assuefazione alle condizioni subitamente modificate, quanti sono coinvolti dal nuovo ordine spesso percepiscono quest’ultimo come una
dura imposizione del destino, come amara ingiustizia, che si rivolge
loro con la maschera ingannatrice del diritto5.
È questa seconda lettura della storia, influenzata da Comte
e con echi del darwinismo imperante nella seconda metà dell’Ottocento6, quella che predomina nel pensiero del professore
di Heidelberg. Il conflitto è il motore della vita sociale, non solo
nei rapporti tra comunità ma anche, e forse soprattutto, all’interno di queste. Vi è inoltre in quest’atteggiamento teorico una
reminiscenza romantica, un ché di fatalista, l’idea che vi sono
forze nel mondo che possono irrompere improvvisamente e travolgere individui e società. Qui si avverte potente l’eco del pessimismo di Schopenhauer7. La tragedia è sempre imminente, e
tragico è il destino di chi non si avvede del pericolo insito nell’esistenza e nella condizione umana.
Una tragedia profonda soprintende alla vita di coloro che non riescono
a comprendere che le leggi non si modificano solo secondo l’ordine
5
«Es sind eben nicht nur die einer Kulturgemeinschaft, welche wir Volk
nennen, entstammenden Lebensäußerungen, die dessen Rechtsgeschichte bestimmen. Von außen kommende historische Tatsachen können die Rechtsordnungen in gewaltigster Weise ändern und fortbilden. Von Anschmiegen und
Anpassen an die Anschauungen und Überlieferungen der Rechtsgenossen ist
da häufig nicht die Rede. Bevor allmähliches Gewöhnen an den plötzlich geänderten Zustand eintritt, empfinden die von ihm Betroffenen die neue Ordnung
oft als schwere Schicksalsfügung, als bitteres Unrecht, das ihnen mit der täuschenden Maske des Rechtes entgegentritt» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten
mit dem neuen Recht, cit., p. 394).
6
Sul darwinismo assunto come supporto delle scienze sociali, vedi G. JELLINEK, Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, ristampa
anastatica della I ed. (Wien 1878), Georg Olms, Hildesheim 1967, p. 39.
7
Il pensiero di Schopenahuer e di Leibniz è l’oggetto della sua dissertazione per l’addottoramento in filosofia. Si legga G. JELLINEK, Die Weltan-
17
esistente, ma che anche flutti che irrompono da lontananze insospettate possono spazzarle vie come se esse non fossero mai esistite8.
Dunque, la lotta si riproduce a tutti i livelli dell’esistenza; le
società umane non ne sono esenti. Esse sono tutt’altro che silenziose idilliche comunità. Il conflitto, il trambusto, il salto, la
rottura, la rivoluzione fanno parte della loro natura, al pari della
crescita spontanea e costante, dell’armonia, della ricerca dell’unità e della concordia.
Potremmo anche dire che i due concetti di storia impiegati
da Jellinek nel corso di tutta la sua ricerca siano rispettivamente
quello di Hegel9 e di Kant: il primo rivolto contro la ragione
degli individui (superata sempre da quella tragica degli eventi),
il secondo tale da arricchire le capacità di apprendimento dei
singoli soggetti e essenzialmente moralista. Tra kantismo e hegelismo ondeggia il Nostro10 quando, dinanzi al compito di giustificare e proporre un concetto di Stato, da un lato ne fa una
specie di unità normativa di carattere gnoseologico e d’altro
verso oggettivizza, proietta nella realtà materiale, un tale costrutto gnoseologico, facendone un ente empirico nel mondo
sensibile. E tanto forte è quest’operazione di oggettivizzazione
schauungen Leibniz’ und Schopenhauers. Ihre Gründe und ihre Berechtigung.
Eine Studie über Optimismus und Pessimismus, in G. JELLINEK, Ausgewählte
Schriften und Reden, vol. 1, cit.
8
«Tiefe Tragik waltet im Leben derer, die es nicht fassen können, das Gesetze nicht nur nach der bestehenden Ordnung sich ändern, sondern daß auch
aus ungeahnter Ferne hereinbrechende Fluten sie hinwegspülen können, als
wären sie nie gewesen» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen
Recht, cit., p. 394). Altrove si fa cenno alla «tiefe Ironie, welche das Walten
der unerforschlichen, die Menschenschicksale lenkenden Mächte begleitet»
(G. JELLINEK, Die Politik des Absolutismus und die des Radikalismus (Hobbes und Rousseau), in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften, vol. 2, cit., p. 20.
9
Ma Jellinek è in generale critico severo (non senza toni caustici) della
filosofia hegeliana: si legga G. JELLINEK, Die sozialethische Bedeutung von
Recht, Unrecht und Strafe, cit., pp. 5-6.
10
Vedi G. JELLINEK, Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und
Strafe, cit., p. 46, nota 2, dove si afferma anche la mancanza di collegamento, se
non proprio l’incompatibilità, della filosofia della storia di Kant con la sua teoria morale, l’una sorprendentemente finalistica, l’altra rigidamente deontologica.
18
che la stessa storicità dell’oggetto risulta come impallidita. Lo
Stato, associazione di scopo, corporazione, assurge a categoria
astorica del politico. La presenza del dominio incondizionato
basta per darci una forma di Stato.
Aver potere significa [...] avere la capacità di imporre la propria volontà agli altri in maniera incondizionata. Un tale potere di imposizione incondizionata della propria volontà contro quella altrui è posseduto soltanto dallo Stato11.
Suggestivamente – nonostante i ripetuti riferimenti alla tesi
del «riconoscimento» come fonte di validità del diritto – per Jellinek è Herrschaft ciò che per Max Weber – l’amico – sarà
Macht12, in uno sforzo ancora maggiore di empiricizzazione e
anche per certi versi di razionalizzazione del potere politico. Nella
sua definizione Jellinek espunge dalla nozione di potere politico
ogni riferimento alla legittimità13. È come se egli, negando ogni
necessità di giustificazione valorativa per lo Stato, volesse separare una volta per tutte la spada temporale da quella spirituale.
Anche nella prolusione del 1907 il conflitto è visto essenzialmente come il confronto decisivo, una «lotta a morte» invero, tra «potere senza diritto» e «diritto senza potere». «Anche
11
«Herrschen heißt [...] die Fähigkeit haben, seinen Willen gegen anderen Willen unbedingt durchsetzen zu können. Diese Macht unbedingter Durchsetzung des eigenen Willens gegen anderen Willen hat aber nur der Staat»
(G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, III ed., VII ristampa, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt 1960, p. 180).
12
«Macht bedeutet jede Chance, innerhalb einer sozialen Beziehung den
eigenen Willen auch gegen Widerstreben durchzusetzen, gleichviel worauf
diese Chance beruht» (M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der
verstehenden Soziologie, V ed. a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen
1985, p. 28).
13
Cfr. G. HÜBINGER, Staatstheorie und Politik als Wissenschaft im Kaiserreich: Georg Jellinek, Otto Hintze, Max Weber, in Politik, Philosophie,
Praxis. Festschrift für Wilhelm Hennis zum 65. Geburtstag, a cura di H.
Maier et al., Klett-Cotta, Stuttgart 1988, p. 149: «Jellinek macht also nicht
die für Webers Legitimationstheorie zentrale Unterscheidung zwischen Macht
und Herrschaft, seine Staatstheorie ist Machttheorie und Anerkennungstheorie zugleich».
19
nelle radicali modificazioni politiche dei tempi moderni non si
contrappose diritto a diritto, bensì potere senza diritto a diritto
senza potere»14. E questo si risolve inevitabilmente con la vittoria del primo sul secondo, e così facendo il potere acquisisce
quel diritto che fino ad allora non aveva. Non si tratta di diritto
contro diritto, perché ciò in parte presupporrebbe già superato
il conflitto, bensì di un diritto declinante perché progressivamente privo di potere e di un potere ascendente perché sempre
più forte e dunque come tale desideroso di attribuirsi piena legittimità (che solo può ricevere dalla sanzione del diritto). Nondimeno le due parti del conflitto si fronteggiano ciascuna portatrice di una specifica «idea del diritto», un conflitto questo tra
l’altro che diviene particolarmente tragico allorché si svolge
dentro la coscienza di un singolo soggetto15.
In ogni caso, sia per ciò che riguarda il diritto declinante o
per ciò che concerne il potere ascendente, è il potere, la forza
materiale, in ultima istanza la spada – potremmo dire con un’immagine plastica – ciò che decide. Il diritto si piegherà al vincitore e gli tributerà le sue insegne. Così – si può ricordare – Jellinek nella Allgemeine Staatslehre ritorna significativamente
sulla figura dell’«usurpatore»16: è questo un po’ il caso estremo
dell’esperienza giuridica e di tutta la teoria del diritto, lo stato
eccezionale contro il quale si misura la forza normativa delle regole e la capacità esplicativa della scienza giuridica. Ebbene, l’usurpatore, se gli arride il successo, si fa legislatore legittimo. Per
Jellinek non può esservi alcun dubbio in merito. È la cosiddetta
forza normativa del fattuale, da lui ripetutamente messa in gioco.
È possibile nondimeno – continua Jellinek – che si diano
conflitti giuridici all’interno di una medesima comunità, come
14
«Auch in den gewaltigen Staatsumwälzungen der neueren Zeit stand
nicht Recht gegen Recht, sondern rechtlose Macht gegen machtlose Recht»
(G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 395).
15
Si legga G. JELLINEK, Die Idee des Rechts im Drama in ihrer historischen Entwicklung, in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften und Reden, vol. 1,
cit., pp. 208 sgg.
16
Vedi G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 340.
20
una lotta cioè tra due diritti entrambi parimenti validi e supportati da un potere fattuale. Dentro uno stesso ordinamento
possono dunque darsi istituti, valori e princìpi tra loro confliggenti. Questi però sono condannati nuovamente a una specie di
lotta a morte. Ciò perché tra i princìpi ultimi – secondo il Nostro – non può darsi un contemperamento normativo. I princìpi
sono qui intesi come degli «assoluti», pretese generali e pervasive che non possono conciliarsi semanticamente ed argomentativamente con altre pretese generali e pervasive. Tutt’al più si
potrà trovare tra loro un «modus vivendi», un compromesso,
frutto per così dire di negoziazioni, mai un vero e proprio accordo fondato su ragioni comuni. Jellinek è di certo uno degli
ispiratori delle tesi weberiane del «politeismo dei valori» e della
loro impossibilità d’intendersi. La concezione metatetica del
giurista viennese è un misto di emotivismo e di prescrittivismo,
là dove le posizioni morali sfuggono a ogni giustificazione oggettiva o intersoggettiva. Sui valori non si può argomentare, ci
si deve limitare – come dirà poi Alf Ross – a battere i pugni
sul tavolo.
Nella lotta degli spiriti non si tratta nemmeno di un reciproco convincersi. La letteratura di quelle battaglie sembra essere destinata solo
ai propri partigiani. Non si convincono mai i nemici, ma si rafforza
solo la fede dei propri sostenitori; un fenomeno che invero ha luogo
anche in altri àmbiti in cui si dànno contrasti insanabili. Così ciascuna
delle parti in lotta crede di difendere o d’imporre contro l’altra il suo
buon diritto, senza che vi sia un giudice umano il cui giudizio entrambe le parti in conflitto siano disposte ad ottemperare17.
17
«Im Kampfe der Geister gibt es auch kein gegenseitiges Überzeugen.
Die Literatur jener Kämpfe scheint nur für die eigenen Parteigenossen bestimmt zu sein. Die Gegner werden niemals überzeugt, nur die eigenen
Anhänger in ihrem Glauben bestärkt, eine Erscheinung, die ja auch auf anderen Gebieten auftritt, in denen unversöhnliche Gegensätze walten. So glaubt
jede der kämpfenden Parteien ihr gutes Recht gegenüber der anderen zu verteidigen oder durchzusetzen, ohne daß ein menschlicher Richter vorhanden
wäre, dessen Urteil sich beide Streitteile freiwillig unterwerfen würden» (ivi,
p. 396).
21
Così Jellinek si trova ancora una volta obbligato a prendere
le distanze dallo storicismo evoluzionistico che fa dipendere la
giustizia di un principio dalla sequela temporale in cui questo
si manifesta. Ciò che viene dopo non è più giusto ed ha la meglio necessariamente su ciò che è venuto prima. «Nel terreno
delle idee e dei princìpi non è però la sequela temporale bensì
il valore intimo a decidere la vittoria finale»18. Un argomento
simile il Nostro usa contro la concezione marxiana del materialismo storico. Si nota innanzitutto l’incoerenza di una prospettiva per cui uno stesso evento o stato di cose, lo Stato ad
esempio, va giustificato e riconosciuto come legittimo rispetto
al passato e invece condannato e rigettato in una prospettiva futura. In realtà – si afferma – lo storicismo non fa altro che rendere impossibile una genuina presa di posizione etica.
Giacché, se la storia è retta da una necessità ferrea al di là del bene
e del male, e indipendente da ogni risoluzione individuale, allora ciò
ch’è necessario s’imporrà da se stesso e non avrà bisogno d’alcun riconoscimento da parte dell’individuo19.
Senza dire poi che per Jellinek, dato che «nessun fenomeno
sociale è semplicemente il rappresentante di un genere»20, nella
storia è impossibile tracciare o rinvenire delle leggi generali.
Nella sfera dell’azione umana le predizioni sono soggette a continue smentite.
18
«Auf dem Gebiet der Ideen und Prinzipien aber entscheidet nicht die
zeitliche Aufeinanderfolge, sondern der innere Werte den endlichen Sieg» (ivi,
pp. 396-397).
19
«Denn wenn die Geschichte von einer von allen individuellen Entschlüssen unabhängigen, jenseits von Gut und Böse stehenden ehernen
Notwendigkeit durchwaltet ist, dann setzt sich das Notwendige von selbst
durch und bedarf keiner Anerkennung von seiten des Individuums» (ivi,
p. 229).
20
Ivi, p. 30.
22
2. Conflitti della modernità
2.1. Nella prolusione prorettorale del 1907, il suo scritto più
programmatico, Jellinek segnala tre principali ragioni di conflitto all’interno stesso dell’ordinamento giuridico. Ovviamente
egli sta parlando del Reich guglielmino e si riferisce a temi ben
concreti della politica di quello Stato. Tuttavia, il suo elenco
non è privo di ambizioni più generali. Si tratta – sembra di intuire – di conflitti che vanno oltre persino il contesto della Costituzione del Reich e hanno un valore epocale, investendo il
destino dell’intera cultura giuridica moderna.
Il primo conflitto menzionato è quello tra l’ordine secolare
del legislatore laico e quello teologico-spirituale della Chiesa
– e quando qui si dice chiesa è a quella cattolica che si fa principale e quasi esclusivo riferimento. Jellinek ripercorre il processo che ha dato origine allo Stato moderno: questo infatti
nasce dalla lotta contro la Chiesa e dall’emancipazione del diritto dalle pretese universali di questa. All’inizio vige la dottrina delle due spade, fondata su un passaggio dell’evangelista Luca21 e formulata esplicitamente in una famosa epistola
di papa Gelasio all’imperatore Anastasio. «Zwei swert – leggiamo ad esempio nel Sachsenspiegel (I, 1) – liz got in ertriche zu beschermene die kristenheit. Dem pabiste daz geistliche, deme koninge daz wertliche». Per lungo tempo l’equilibrio tra le due spade, quella temporale dello Stato e quella spirituale della Chiesa, è stato instabile, in ragione del fatto che
la Chiesa pretendeva, se non di detenere essa anche il potere
temporale, di subordinare questo alla sua autorità spirituale. E
– ricorda Jellinek – nemmeno il più altezzoso e superbo dei
monarchi osò mai affermare durante tutto il Medioevo che lo
Stato potesse sottomettere alla propria giurisdizione il potere
spirituale. Con l’emergenza dello Stato moderno la situazione
cambia in maniera radicale. Ciò perché lo Stato si configura
Vedi Luca, 22, 38, e cfr. G. JELLINEK, Adam in der Staatslehre, in G.
JELLINEK, Ausgewählte Schriften und Reden, vol. 2, cit., p. 27.
21
23
ora come il detentore di una plenitudo potestatis che non tollera concorrenti.
Lo Stato dei tempi moderni si attribuisce il diritto esclusivo di regolare le relazioni esteriori della vita degli essere umani e di assegnare
a ciascun individuo, così come ad ogni associazione, la sua propria
condizione giuridica, senza dover condividire un tale diritto con nessun altro potere22.
Alla dottrina delle due spade succede una dottrina della spada
unica, una Einschwertertheorie. Ovviamente la Chiesa (quella
cattolica) non può accettare questa unicità della spada. E non
lo può non solo per ragioni proprie alla dinamica dell’istituzione, ma anche in quanto questa (la Chiesa) rappresenta una
concezione del diritto diametralmente opposta a quella di cui è
portatore lo Stato moderno. È la contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo, tra un diritto proveniente dalla divinità
e un diritto «umano troppo umano», il primo immodificabile,
eterno ed universale, il secondo cangievole, provvisorio, relativo a certi agglomerati sociali storicamente dati. Non si pensi
tuttavia che il diritto naturale sia più «comprensivo» come dottrina di un atteggiamento laico e giuspositivista. Alla fine dei
conti, il diritto naturale provvede gli uomini con regole di determinazione elevata solo in certe materie (quelle in particolare
che toccano i campi dogmatizzati dalla religione rilevata), ma
lascia amplissimo spazio al «braccio secolare» di comportarsi
come meglio crede in àmbiti che invece per una sensibilità moderna richiedono una accurata definizione e comunque rimandano a un problema di legittimità e giustificazione. Così per
esempio molto giusnaturalismo di estrazione religiosa (antico,
moderno e contemporaneo) è abbastanza indifferente alla forma
22
«Der Staat der neuen Zeit mißt sich das ausschließliche Recht zu, die
äußeren menschlichen Lebensverhältnisse zu regeln, jedem Einzelne, wie
jedem Verbande seine rechtliche Stellung in der Gemeinschaft anzuweisen,
ohne dieses Recht mit irgendeiner Macht zu teilen» (G. JELLINEK, Der Kampf
des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 400).
24
di governo; fa lo stesso che questa sia il potere dell’uno, dei
pochi, o dei molti, anche se talvolta non nasconde la sua preferenza per il governo dell’Uno. Gli è indifferente dunque la
questione su cui si appunta spasmodicamente l’attenzione della
teoria politica moderna: quella della necessità e della struttura
del potere politico. Paradossalmente il riferimento alla fissità
dell’ordine naturale tende a eliminare l’urgenza della legittimità
dell’istituzione politica come tale.
Il conflitto deriva – scrive Jellinek – dal fatto che il diritto
della Chiesa è assunto come d’origine divina, dunque come intangibile da parte del legislatore umano e accessibile semmai a
interventi decisi dagli organi della Chiesa medesima, istituzione
essa stessa divina. La Chiesa cioè
poggia sull’idea che il suo diritto sia d’origine divina, che il diritto
divino non possa essere modificato mediante un decreto umano, e dunque che essa sola sia chiamata a cambiare le parti umane e mutevoli
del suo ordinamento giuridico23.
Così per esempio – continua Jellinek – Pio IX, nell’allocuzione del 22 maggio 1868 doveva dichiarare leges abominabiles e dunque invalide e nulle le misure del governo austriaco
prese in deroga delle disposizioni del concordato e, nell’enciclica del 5 febbraio 1875, lo stesso papa si pronunciava contro
le leggi del Kulturkampf come emanate in violazione della costituzione divina. Una soluzione teorica e pacifica del conflitto
non è però in vista. A questo punto Jellinek fa un’osservazione
che è di grande interesse.
Per risolvere il conflitto tra autorità spirituale e autorità temporale non è neppure sufficiente rifarsi alle teorie che tendono
a fare del diritto vigente il diritto giusto, in primo luogo tra queste lo storicismo col suo appello al Volksgeist. Ciò perché per
un verso anche il diritto della Chiesa può rifarsi a una tale fonte;
non v’è dubbio che almeno entro certi àmbiti il diritto canonico
23
Ibidem.
25
sia diritto vigente. Per altro verso tuttavia il fatto che il diritto
canonico sia vigente e l’edificio della Chiesa possa rivendicare
una storicità incomparabile con quella di nessuno Stato, tale vigenza nondimeno non ci dice ancora nulla né della giustezza o
legittimità o giustizia del diritto canonico né dello statuto normativo della dottrina religiosa e morale di cui la Chiesa è la
rappresentante e portatrice. Perché la Chiesa possa soddisfare
veramente le pretese normative ch’essa stessa solleva, dovrebbe
poter essere in grado di dimostrare che è essa la portavoce della
vera religio. Ma di ciò – dice Jellinek – può convincerci solo
la congiunzione di dogma e fede, e non v’è prova razionale. La
Chiesa non è dunque in grado di giustificare la sua pretesa legislatrice universale24.
Nel conflitto tra diritto umano e diritto divino, tra Stato e
Chiesa, non ci resta dunque che prendere posizione. Chi si pone
dalla parte della Chiesa deve però provarci d’essere in possesso
della vera religione, della qualità di unto del Signore. Per chi
abbraccia la prospettiva dello Stato la prova invece è assai meno
onerosa, e può limitarsi a dimostrazioni meno ambiziose ma di
certo assai meno controfattuali e dunque dotate di maggiore evidenza. Ci si può rimettere alla forza normativa dei fatti, giacché
non si avanzano pretese di correttezza atemporale e universale.
Dunque, se si assume la prospettiva dello Stato, com’è più plausibile e più prudente, allora quella della Chiesa rimane esclusa
e va rigettata. Lo Stato può certo accettare che le sue leggi siano
ragionevoli e giustificate da argomenti morali; l’umanità del diritto non implica necessariamente la sua arbitrarietà. Ciò che invece non può accettare è che qualche altro ente gli disputi la
competenza della Grundnorm cui devono farsi risalire le regole
vigenti. Il monopolio della produzione normativa non può essergli sottratto senza abdicare alla stessa forma Stato.
24
Vedi ivi, p. 403: «Doch verhält es sich genau so mit allen anderen Theorien bis zu der neuesten herunter, die uns den Weg weisen will, im geltenden
Rechte das richtige zu finden. Um die hier aufgeworfene Frage zu lösen, müßte
sie zunächst den widerspruchslos überzeugenden Beweis liefern, welches denn
die richtige Religion und die richtige Kirche sei».
26
La modifica di una situazione giuridica esistente non può certo aver
origine da un arbitrio senza regola, ma può essere intrapresa solo per
ragioni pertinenti; tuttavia per la concezione delle competenze statali
non si dà un qualche potere che si trovi al di fuori o al di sopra dello
Stato che sia capace di porre dei limiti invalicabili all’ordinamento interno dei suoi rapporti25.
Dietro l’affermazione della centralità dello Stato non vibra
però solo un motivo statolatrico; vi è qualcosa di più forte: si
rivendicano anche i meriti della ragione contro le pretese del
dogma, si distinguono le prerogative della divinità e i diritti
della cittadinanza. Non si è troppo distanti da quanto Voltaire
dice nel suo Éloge historique de la raison:
Nous ne citerons plus jamais les deux puissances, parce qu’il ne peut
en exister qu’une: celle du roi ou de la loi dans une monarchie; celle
de la nation dans une république. La puissance divine est d’une nature si différente et si superieure qu’elle ne doit pas être compromise
par un mélange profane avec les lois humaines26.
2.2. Analogo per certi versi al conflitto tra Stato e Chiesa è
quello tra Stato moderno e Stato feudale. Anche qui si confrontano due concezioni radicalmente opposte del diritto e della
società umana. Per l’uno, per la visione feudale, la tradizione
ha la meglio sulla riflessività e l’accordo delle volontà; per l’altro accade proprio l’opposto. In particolare per lo Stato feudale
la struttura sociale e la composizione dei diritti è indipendente
e precedente all’ordine convenzionale dello Stato, ancorata
25
«Die Änderung eines bestehenden Rechtszustandes soll sicherlich nicht
regelloser Willkür entspringen, sondern nur aus triftigen Gründen vorgenommen werden, aber irgendeine außer- oder gar überhalb des Staates stehende
Macht, die ihm unübersteigliche Schranken für die innere Ordnung seiner
Verhältnisse setzen könnte, ist für die Auffassung des Staates von seiner Zuständigkeit nicht vorhanden» (ivi, p. 404).
26
VOLTAIRE, Éloge historique de la raison prononcé dans une académie
de province par M..., in VOLTAIRE, Candide et autres contes, a cura di F. Deloffre, Gallimard, Paris 1992, p. 285.
27
com’è ai costumi ed agli usi. «Lo Stato feudale poggia sull’idea che l’ordinamento proprietario sia sovra- ed extrastatale»27.
D’altra parte il diritto e lo Stato feudale sono il risultato di una
serie composita di rapporti e relazioni particolari di tipo quasicontrattuale, nelle quali non vige tanto l’obbedienza (che come
principio si afferma invece all’interno dell’ordinamento canonico) quanto la «fedeltà». «In relazione ad un potere sovraordinato lo Stato feudale conosce solo l’idea veterogermanica
della fedeltà, non quella dell’obbedienza»28. Si delineano dunque tre caratteri principali dell’ordinamento feudale: è tradizionale, e dunque non convenzionale, «oggettivo» per così dire,
non «intersoggettivo», perché radica nell’antichità dei suoi ordini che gli conferiscono legittimità. È un ordine proprietario
nel senso che il diritto pubblico è quasi del tutto schiacciato su
quello privato e i rapporti politici sono concepiti alla stregua di
rapporti di proprietà, di relazioni patrimoniali. «Die Ordnung
des Lehnsstaat ist Sachherrschaft» – dice Jellinek29. Infine è un
ordine limitato, in quanto le sue competenze sono il risultato di
accordi, contratti, privilegi e controprivilegi, i quali impediscono
l’emergere di un organo dotato di pieni poteri di produzione
normativa. «La relazione tra monarca e feudatario va pensata
[...] come conforme ad un contratto e dunque come limitata»30.
Accanto all’ordine feudale sopravvive tuttavia il ricordo e
l’idea di un potere temporale, quello dell’Imperatore romano,
al quale i sudditi devono incondizionata obbedienza a prescindere da ogni tradizione, privilegio, uso o accordo previo. È la
maiestas che timidamente viene riproposta grazie anche al recupero tardomedievale del diritto romano. Il detentore della
maiestas se ne riconosce titolare originario, mentre i suoi vassalli la concepiscono come l’esercizio di un diritto che è fon-
«Der Lehnsstaat beruht auf dem Gedanken, das die Eigentumsordnung
vor- und überstaatlich sei» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen
Recht, cit., p. 404).
28
Ivi, p. 405.
29
Ibidem.
30
Ibidem.
27
28
damentalmente il loro e che dunque essi gli possono revocare,
e che il sovrano esercita in loro vece, per loro mandato e nel
loro interesse. Si hanno qui tutti gli elementi di un nuovo conflitto epocale. Ed è la lenta ma inarrestabile espropriazione dei
diritti feudali in favore di un centro unico di sovranità ciò che
permette ed accompagna la nascita dello Stato moderno. Questo processo può anche essere concepito come la lotta di due
opposti sistemi giuridici.
In questo processo si affrontano non soltanto due centri di potere, ma
anche due sistemi giuridici contrapposti e inconciliabili. Allorché i
prìncipi considerano loro buon diritto limitare o annullare i privilegi
e le franchigie dei ceti, coloro che ne sono coinvolti percepiscono ciò
non come un fatto giuridico poco conveniente bensì come una amara
ingiustizia, giacché ogni espropriazione in quanto sottrazione di diritti
intrapresa contro la volontà degli attuali titolari contraddice profondamente l’intera concezione del mondo nel quadro della quale si è
formato il loro attuale diritto31.
(Sia qui notato en passant come Jellinek connetta l’esistenza
di un sistema giuridico al sentimento d’essere «nel proprio diritto» e dunque a una rivendicazione di giustezza o correttezza,
se non proprio di giustizia).
31
«In diesem Prozeß stehen sich aber nicht nur zwei Machtfaktoren, sondern zwei entgegengesetzte, miteinander unvereinbare Rechtssysteme gegenüber. Wenn die Fürsten es als ihr gutes Recht betrachten, die Vorrechte
und Privilegien der Stände zu beschränken und aufzuheben, so empfinden es
die hiervon Betroffenen nicht als eine unbequeme rechtliche Tatsache, sondern als bitteres Unrecht, denn jede Enteignung als gegen den Willen des bisher Berechtigten vorgenommene Rechtsentziehung widerspricht durchaus
dem ganzen Vorstellungskreise, in dem ihr bisheriges Recht groß geworden
war» (ivi, p. 406).
32
Cfr. M. WEBER, Politik als Beruf, in M. WEBER, Gesammelte Politische
Schriften, a cura di J. Winckelmann, V ed., Mohr, Tübingen 1988, p. 510:
«Überall kommt die Entwicklung des modernen Staates dadurch in Fluß, daß
von seiten der Fürsten die Enteignung der neben ihm stehenden selbständigen «privaten» Träger von Verwaltungsmacht [...] in die Wege geleitet wird»
(corsivo mio).
29
Ma un tale processo di espropriazione32 è lento e lungo e rimane in parte ancora incompiuto. In Francia è solo con l’evento
traumatico della rivoluzione dell’89 che si porta a compimento
l’opera avviata dal monarca assoluto. E in Germania – scrive
Jellinek – resti dell’ordinamento feudale sono ancora ben presenti. A questo proposito egli menziona l’organizzazione dell’esercito tedesco in cui gli ufficiali giurano fedeltà all’Imperatore con formule che risalgono al passato dei rapporti di vassallaggio, mentre – com’è noto – una norma costituzionale impediva loro di sottoporsi a un giuramento di fedeltà alla costituzione medesima. Accenna anche alla struttura costituzionale
del Reich, in cui il potere dell’aristocrazia terriera prussiana, gli
Junker, permaneva ancora rilevante33. Ora, una tale situazione
confligge con la nozione stessa di Stato moderno. Questo non
tollera limiti sia pure tradizionali alla sua sovranità. Ovvero, se
limiti vi sono, questi sono sempre contingenti e frutto di autolimitazione. «Limitazioni fattuali del potere statale sovrano sono
di certo possibili; tuttavia esse posson farsi giuridiche solo mediante la sua propria volontà»34. Ciò che conta è che tali limiti
possano essere, siano suscettibili d’essere travolti. La sovranità
ha così un ché di controfattuale. «La sovranità non significa invero necessariamente la modifica concreta del diritto tramandato, bensì solo la possibilità di modificare tale diritto in qualunque momento»35. Va comunque sottolineato che nella definizione appena menzionata la sovranità ci appare come il potere di mutare il diritto posto, di riformularlo in senso anche
Vedi G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p.
409: «Von der auch heute noch in deutlichster Sichtbarkeit hervortretenden
Fortdauer der alten sozialen Schichtung in den östlichen Teilen des Reiches
und ihrer politischen Bedeutung haben wir an dieser Stelle nicht zu reden».
34
«Faktische Beschränkungen der souveränen Staatsmacht sind zwar möglich, zu rechtlichen können sie aber nur durch deren eigenen Willen erhoben werden» (G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., pp. 481-482).
35
«Souveränetät bedeutet ja nicht notwendig tatsächliche Änderung des
überkommenen Rechtes, sondern nur rechtliche Möglichkeit, es jederzeit su
ändern» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 410).
33
30
opposto a quello vigente al momento della modifica, non però
di violare il diritto, non l’attribuzione della decisione contra
legem – così come invece è detto in maniera esplicita qualche
decennio dopo da Hermann Heller36 ed è invero sottinteso qui
e là nella dottrina dello Stato dello stesso Jellinek.
Si farebbe però torto allo studioso austriaco se gli si attribuisse un concetto vuoto di sovranità. «L’autonomia [Selbstherrlichkeit] dello Stato è il potere – scrive in Die rechtliche
Natur der Staatenverträge che è del 1880 – di dare precetti alla
propria volontà, la capacità di produrre diritto per sé»37. Il suo
è un tentativo coraggioso e concettualmente raffinato: si tratta
di trasporre la nozione kantiana di autonomia individuale a dei
soggetti collettivi, a delle «corporazioni». Così come nella prospettiva kantiana il soggetto è libero in quanto si dà quelle leggi
che gli sono dettate dalla ragione, del pari lo Stato è sovrano
in quanto per agire si sottopone a delle leggi di carattere procedurale. Il torto di Jellinek è quello piuttosto di non aver sviluppato il lato per l’appunto procedurale ed intersoggettivo
della nozione di autolimitazione e di averne fatto un concetto
quasi organicistico, ontologizzante. Non è ben chiaro allora
quali siano i criteri – oltre la presenza dei famosi «organi» –
perché si dia limitazione e dunque anche «auto-limitazione» dei
poteri statali. Jellinek incorre insomma nel medesimo errore di
Kant: quello di offrire al suo concetto di autonomia solo una
fondazione monologica, di maniera che l’autolimitazione (sia
questa della libertà dell’individuo nel caso di Kant o della sovranità «corporativa» nel caso di Jellinek) è affare puramente
soggettivo.
Nella prospettiva del Nostro, difatti, la sovranità risulta limitata soprattutto perché il suo titolare si pensa o si vuole (e
Si legga per esempio H. HELLER, Die Souveränität. Ein Beitrag zur
Theorie des Staats- und Völkerrechts, in H. HELLER, Gesammelte Schriften, a
cura di Ch. Müller, vol. 2, II ed., Mohr, Tübingen 1992, p. 132. Su ciò, vedi
infra, capitolo secondo.
37
G. JELLINEK, Die rechtliche Natur der Staatenverträge, Hölder, Wien
1880, p. 18.
36
31
non tanto perché si costruisce) limitato, cioè in virtù d’un fatto
meramente soggettivo che non ha alcuna rilevanza concettuale
né proiezione normativa. (E ciò avviene fondamentalmente perché il soggetto Stato è da lui concepito come un ente dotato di
una pregnante e densa dignità ontologica). Di modo che il sovrano può bene cambiare attitudine rispetto ai limiti da lui prima
accettati e dunque travolgerli. Né può vincolare coloro che gli
succederanno nella carica a continuare ad osservare quei limiti
che lui solo di fatto rispetta.
Se fosse altrimenti, se la sovranità fosse materialmente limitata, allora – egli teme – dovrebbe reintrodursi l’antico principio di legittimità per ciò che concerne i rapporti politici. Ma
poiché questi ultimi nello Stato moderno sono il risultato dell’espropriazione di antichi privilegi, in tal caso il sovrano non
potrebbe evitare l’accusa d’essere nient’altro che un usurpatore.
Una volta che l’antico Reich, il sacro Romano Impero, è travolto dalle armate napoleoniche, non vi sono più soggetti subordinati solo a questo e indipendenti dai rispettivi Stati; non
vi sono più famiglie, né ceti, né dinastie, il cui diritto sia autonomo o speciale rispetto a quello generale dello Stato. «Die Mitglieder der Dynastien sind daher der Staatsgewalt unterworfen»38. Il rigetto delle pretese giuridico-politiche dell’aristocrazia feudale e degli ambienti monarchici legittimistici ancora
forti in Germania all’inizio del Novecento non potrebbe essere
più netto. Ora, l’argomento che è alla base di tale rigetto è lo
stesso che lo spinge alla difesa di una concezione formale (ma
insufficientemente procedurale) della sovranità.
Il diritto pubblico generale ha la meglio sulle regole dinastiche delle varie case reali, sì che una modifica sostanziale di
queste ultime può darsi solo attraverso un processo di revisione
costituzionale. Jellinek qui aveva presente in particolare alcuni
problemi giuridici sorti per la successione dinastica interna a
qualche staterello del secondo Reich, allorché si era negato al
38
32
G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 411.
diritto costituzionale la competenza di regolare e risolvere il
conflitto senza l’assenso della famiglia reale coinvolta. Tutto
ciò però contraddice il diritto «nuovo» di cui significativamente
uno degli antesignani in territorio tedesco – dice Jellinek – è
stato il cancelliere Bismarck. Questi infatti aveva riconosciuto
che il principio legittimistico non poteva fornire una base giustificativa al nuovo Reich. Lo Stato moderno, e il secondo
Reich vuole essere tale, non può sfuggire allo spirito del tempo
che offre agli ordini politici eminentemente una legittimità rivoluzionaria.
Ciò che noi chiamiamo Stato moderno è – per il Bismarck del tempo
del Bundestag – d’origine illegittima, vale a dire, [...] è nato in contrasto con lo Stato feudale limitato mediante diritto extrastatuale e nondimeno è da lui affatto riconosciuto39.
(Suggestivamente quest’argomento sarà ripetuto da Hermann Heller nel primo dopoguerra per dare legittimazione storica a un’interpretazione democratica radicale della Repubblica
di Weimar). Lo Stato prussiano si è annesso i territori di Hannover, Kurhessen e Nassau in aperta violazione dei diritti dinastici dei prìncipi che vi avevano regnato per secoli. Per non
parlare della guerra con la monarchia danese e la sottrazione
fattale subire dello Schleswig-Holstein. Sono allora i partigiani
del legittimismo, che improvvisamente si riaffacciano sulla
scena politica, disposti a portare alle estreme conseguenze la
loro posizione? Sono pronti ad accettare «che l’intera istituzione della sovranità sulla quale poggia lo Stato moderno sia
usurpazione e illecito dal punto di vista del vecchio ordine feudale»40? La modernità insomma – è questo il succo del discorso
– è risoluzione della questione della legittimità in quella della
39
«Das, was wir modernen Staat nennen, ist für den Bismarck der Bundestagzeit illegitimen Ursprungs, das heißt, [...] im Gegensatz zu dem durch
außerstaatliches Recht beschränkten Feudalstaat entstanden, wird aber deshalb
von ihm nicht minder anerkannt» (ivi, p. 412).
40
Ivi, p. 413.
33
legalità e trova la sua manifestazione più tipica nell’istituzione
dello Stato41.
Ora, però, questa rivendicazione della centralità dello Stato
nell’opera di Jellinek ha – non può dimenticarsi – un carattere
ambiguo. Non è tanto o non solo la proposta di uno spazio «politico, non metafisico», neutrale dunque e tollerante rispetto alle
varie dottrine morali «comprensive», vale a dire una rivendicazione della «laicità» della vita pubblica. Non è nemmeno solo
l’affermazione della certezza del diritto che si risolve in un principio d’uguaglianza formale per cui tutti sono ugualmente soggetti alla legge e i rapporti tra i soggetti sono pertanto prevedibili, e di conseguenza sono esclusi i privilegi e le aree d’immunità feudali e corporative. Non è nemmeno tanto una comprensione della politica come sfera convenzionale di «pubblicità», rispetto alla «naturalità» e opacità di àmbiti pretesamente
naturali ma «privati» come la famiglia, la dinastia o il feudo. A
tutto ciò deve aggiungersi la percezione prevalente e – mi si
consenta – prepotente della sfera pubblica come àmbito di sottomissione o subordinazione a un’autorità tendenzialmente onnipotente, come risulta tra l’altro dalla sua dottrina dei diritti
pubblici soggettivi imperniata non su una originaria e fondamentale pretesa di autonomia bensi su uno status di inferiorità
È anche vero che, già al tempo in cui Jellinek scrive, una simile configurazione della modernità non è più una novità. Al lettore italiano per esempio poteva tra l’altro ricordare l’interpretazione che del pensiero di Machiavelli dava Francesco De Sanctis, il critico letterario più influente dell’Italia
post-risorgimentale. Sono tre – per De Sanctis – i motivi conduttori della riflessione politica del segretario fiorentino: la secolarizzazione della vita civile
(e la corrispondente critica delle pretese imperialistiche della Chiesa), la civilizzazione dei rapporti sociali (cui sono ritenuti ostili ed estranei i cosiddetti «gentiluomini», baroni, feudatari e altri potenti che si sottraggono al diritto comune), la centralizzazione della sfera politica (con la conseguente sfiducia nelle antiche istituzioni comunali cui invece si contrappone l’astro nascente dello Stato): vedi F. DE SANCTIS, Machiavelli, in F. DE SANCTIS, Saggi
critici, a cura di L. Russo, vol. 2, Laterza, Bari 1965, pp. 349 sgg. Tutto ciò
si sarebbe trovato – diceva De Sanctis – in Machiavelli; ed è certo che costituisce la lettura della storia moderna fatta dal critico letterario. Tutto ciò si
trova del pari – e significativamente – nell’opera di Jellinek.
41
34
e dipendenza ripetto allo Stato, lo status subjectionis42. Vi è in
Jellinek un elemento quasi statolatrico; vi è una sorta di idolatria della legge, unica vera «sostanza» del fenomeno giuridico,
della quale i diritti soggettivi pubblici e privati continuano ad
essere riflessi, appendici, «accidenti». Come è stato notato, non
vi sono diritti fondamentali nella dottrina costituzionale di Jellinek; qui i diritti di libertà possono essere plasmati dal legislatore a piacimento43.
L’ideale politico dello studioso viennese è ben lontano da
quello del Professor Unrat, riuscita raffigurazione letteraria dell’ideologia borghese dominante nella Germania guglielmina.
Unrat – ci racconta Heinrich Mann – mettendo in guardia «contro il vizio maledetto dello spirito moderno», entusiasticamente
acclamava «una chiesa influente, una sciabola ben salda, assoluta, obbedienza e rigidi costumi»44. L’ideale di Unrat sembra
anzi essere proprio quello che per Jellinek rappresenta lo spirito del «vecchio diritto». E tuttavia, nonostante le tante differenze, l’atteggiamento di Jellinek ha qualche punto in comune
con quello dell’anziano Unrat: la centralità dello Stato, la concezione gerarchica delle relazioni politiche, il sospetto per l’individuo (che nel caso di Jellinek viene reso compatibile col liberalismo grazie alla reinterpretazione di questo in termini comunitaristici e all’introduzione di un nuovo referente legittimante, la nazione).
Va ricordato a questo proposito che nella sua prima opera
presentata (ma invano) all’Università di Vienna per ottenere l’abilitazione alla docenza della filosofia del diritto (Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, I ed., Vienna
1878) il giovane Jellinek difendeva una metatetica vagamente
comunitaristica, sostenendo che là si ha dover essere ed obbli-
42
Mi permetto di rinviare in merito al mio Disavventure del diritto soggettivo, Giuffrè, Milano 1996, capitolo terzo.
43
Cfr. M.J. SATTLER, Georg Jellinek (1851-1911). Ein Leben für das öffentliche Recht, cit., p. 357.
44
H. MANN, Professor Unrat, Rowohlt, Hamburg 1994, p. 33.
35
gazione etica dove sono in gioco le condizioni d’esistenza e di
sviluppo della collettività. In quest’opera prima si criticavano
le distinzioni troppo nette di diritto e morale, attribuite alla
concezione atomistica della società così come questa è stata prodotta
dall’epoca lluministica in Francia ed Inghilterra. In questa concezione
la società non è qualcosa di necessario per natura, bensì poggia sulla
libera volontà dei singoli45.
L’ethos individuale – si afferma – va derivato da quello collettivo46. E la giustizia è pensata platonicamente come ciò che
mantiene l’equilibrio delle parti che compongono un organismo47.
Il comunitarismo, la visione dell’individuo come membro integrato di un «tutto», è anche all’origine dell’ottimismo jellinekiano:
Chi si sente sempre come parte del tutto, e non fa dell’io il centro e
il portatore del mondo, comprende il male solo come condizione, come
momento del bene, e vede questo giungere a manifestarsi nell’universo in maniera compiuta48.
Il comunitarismo in Jellinek è infine anche epistemologico,
in quanto si afferma che per giungere a una conoscenza del fenomeno sociale questo non può essere concepito come il risultato contingente e instabile dell’arbitrio individuale49 e l’individuo dev’essere considerato «non più come io, bensì solo ancora
come atomo»50, come un particella elementare di un corpo da
cui riceve vita e senso. La società per esser oggetto di studio
G. JELLINEK, Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und
Strafe, cit., pp. 44-45.
46
Vedi ivi, p. 49.
47
Vedi, ivi p. 130.
48
G. JELLINEK, Die Weltanschauungen Leibniz’ und Schopenhauers. Ihre
Gründe und ihre Berechtigung. Eine Studie über Optimismus und Pessimismus, cit., p. 37
49
Vedi G. JELLINEK, Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und
Strafe, cit., pp. 27-28.
50
Ivi, pp. 11-12.
45
36
deve costituire una «sostanza» in sé, uno specifico àmbito della
realtà; strategia metodologica questa del tutto analoga a quella
adottata dalla linea Gerber-Laband per affermare l’autonomia
della scienza giuridica pubblicistica. La quale assume dunque
uno spiccato carattere ideologico-giustificatorio, in quanto per
darsi deve presupporre un àmbito «giuridico» e uno «statale»
come dati oggettivi, dunque sottratti alla condiderazioni dei loro
fondamenti normativi.
2.3. Riflesso in parte del conflitto tra ordinamento feudale e
ordinamento statale è il terzo punto attorno al quale, secondo
Jellinek, si sviluppa con forza la lotta del diritto «nuovo» contro il «vecchio»: la contesa o meglio la tensione, «ein anderer
hartnäckiger Kampf»51, tra principio monarchico e costituzionalismo, anche questo di grande attualità nella Germania guglielmina in cui egli si trova a operare con orgoglio non scevro
di disprezzo per la marmaglia di Vienna, il «Gesindel in Wien».
Ciò ch’egli sembra voler superare è la struttura dualistica52 del
II Reich, la cui costituzione è attraversata dal conflitto tra i poteri del parlamento e quelli di un esecutivo responsabile solo
verso il monarca cui spettano ancora una somma di poteri rilevantissimi. Qui – lo si può già intuire – giungiamo al cuore
della teoria del diritto e dello Stato del giurista austriaco e della
sua concezione della modernità.
Laddove il costituzionalismo si è introdotto non in contrapposizione ma in armonia con una signoria monarchica niente
affatto contestata nei suoi princìpi, c’è la tendenza – osserva
Jellinek – a considerare il monarca ancora come la fonte ultima
del diritto costituzionale, che così si costituisce mediante un atto
di rinuncia, di modestia e di riserbo – per così dire – del re rispetto alle sue originarie assolute prerogative. Se è così però,
non si vede – scrive il Nostro – perché il monarca dovrebbe
G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 416.
Per la caratterizzazione del Reich guglielmino come sistema dualistico,
cfr. J. ESTEVEZ ARAUJO, La crisis del Estado de derecho liberal. Schmitt en
Weimar, Ariel, Barcelona 1988, capitolo primo.
51
52
37
considerarsi vincolato alle costituzioni concepite come una concessione graziosa ch’egli fa ai sudditi. «Se il monarca effettivamente possiede la sostanza dell’intero potere statale, allora
non si vede perché egli dovrebbe essere eternamente vincolato
a condividere il suo esercizio con altri»53. La natura dello Stato
costituzionale si può dunque difficilmente spiegare attraverso
una teoria che mantenga al monarca una posizione di preminenza nel sistema delle attribuzioni di competenza. La stessa
dottrina del diritto costituzionale e lo statuto epistemologico
della scienza giuridica ne risultano pregiudicati.
Con la formula del monarca come fonte e titolare d’ogni potere statale, recepita in molte costituzioni tedesche, e che è stata dichiarata
dalla Federazione tedesca norma inviolabile per la posizione del monarca rispetto alle camere, ogni spiegazione veramente scientifica dello
Stato costituzionale è resa impossibile54.
Il principio monarchico potrà fondare e spiegare lo Stato assoluto; lo Stato costituzionale, come ordinamento durevole e
stabile, mutevole soltanto secondo le sue proprie regole, ha bisogno di qualcosa di ben diverso. È il principio «corporativo»,
l’idea di persona giuridica, quella che si presta piuttosto a fornire il fondamento necessario allo Stato costituzionale. È un’ulteriore processo di «espropriazione» ciò che qui ha luogo: l’espropriatore viene a sua volta espropriato. Il monarca assoluto,
impossessatosi con la forza delle potestà feudali, deve ora cedere i suoi privilegi alla «volontà generale», ovvero alla «corporazione» statale55.
G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., pp.
416-417.
54
«Mit der Formel vom König als Quell und Inhaber aller Staatsgewalt,
die in viele deutsche Verfassungen übergegangen ist und vom Deutschen Bund
als unverrückbare Norm für die Stellung der deutschen Monarche zu den Kammern erklärt wurde, ist eine wirklich wissenschaftliche Erklärung des Verfassungsstaates unmöglich» (ivi, p. 416).
55
Vedi G. JELLINEK, Die Politik des Absolutismus und die des Radikalismus (Hobbes und Rousseau), in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften und
Reden, vol. 2, cit., pp. 20-21.
53
38
È la tradizione inaugurata con Gerber e poi seguita da Laband che qui viene rivendicata. Ciò con una ulteriore specificazione, che è all’origine della dottrina dello Stato di Jellinek:
che «persona giuridica» è concetto diverso da quello di «organismo». «Chi non afferra in maniera chiara il concetto di personalità e lo avvolge in quello di organismo non può giungere
a nessuna chiarezza nel campo del diritto pubblico» – aveva
detto vent’anni prima56. Dunque Jellinek è ben lontano dal «germanismo» romantico e organicista alla Gierke. In verità il concetto di «organismo» è quello che permette inizialmente di fare
il salto dalla teoria personalistica a una concezione oggettivistica dello Stato e a prefigurare questo come «persona». Gerber è un organicista, e anche in Jellinek, quando deve spiegarci
la realtà storico-sociale dello Stato, affiora prepotente questo
passato. Tuttavia la sua mossa teorica è distinta dall’organicismo, ché in quest’ultimo egli individua tracce del diritto «vecchio» e del Lehnsstaat. Che lo Stato sia persona giuridica non
significa nient’altro ch’esso è un punto di ascrizione di competenze. La sua specificità è che tale punto è il recettore di tutti
i rapporti di subordinazione, e come tale quello al quale si deve
guardare per determinare il momento iniziale della catena di
competenze normative. La materialità del contesto in cui lo
Stato pure deve operare è così evaporata consentendo a quest’ultimo piena libertà di movimento ed estrema riflessività.
Vi è addirittura un ché di nichilista in questa mossa teorica:
lo Stato moderno, che è il frutto dell’espropriazione monarchica
dei poteri «proprietari» feudali, viene a sua volta espropriato e
convertito in qualcosa che è talmente astratto da risultare una
specie di «nulla giuridico» che si riempie di contenuti solo attraverso i suoi organi57. Lo Stato dunque è una zona di realtà
«Wer den Begriff der Persönlichkeit nicht klar erfasst und ihn mit dem
des Organismus verhüllt, kann auch zu keiner Klarheit im öffentlichen Rechte kommen» (G. JELLINEK, Gesetz und Verordnung. Staatsrechtliche Untersuchungen auf rechtsgeschichtlicher und rechtsvergleichender Grundlage,
Mohr, Freiburg i.B. 1887, p. 195).
57
Vedi G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 560.
56
39
riempita da nient’altro che da norme, istituti giuridici e delegazioni di competenze. Ciò ha importanti conseguenze pratiche.
Nello Stato inteso come persona giuridica qualsiasi autorità, sia
pure la più elevata, non è null’altro che un «organo», un’emanazione normativa dell’ordinamento giuridico, e dunque da questo riceve le sue funzioni, le sue attribuzioni, e la sua legittimità58. D’altra parte senza gli «organi» lo Stato come persona
che possa esercitare un potere di volontà cessa di esistere. L’«organo» non è un «rappresentante»: dietro il rappresentante v’è
un rappresentato, una comunità, dietro l’organo non v’è nulla,
poiché l’ordinamento ha vita solo in questo. «Hinter dem Vertreter steht daher ein anderer, hinter dem Organ nichts»59. Qui
dunque il monarca non è che il primo servitore dello Stato. E
non si può essere allo stesso tempo padrone e servitore. «Entweder Herr oder Diener, entweder über oder im Staate stehend,
beides zugleich ist nicht möglich»60.
Resta comunque il fatto – e ciò rende sommamente ambigua la teoria dello Stato come personalità giuridica – che in
questa perspettiva il monarca è il primo servitore di un padrone... che non esiste. Mentre in alcuni scritti precedenti l’ente
di cui re (e popolo) sono organi è identificato nello Stato come
oggetto dotato di intensa esistenza extranormativa e di una specifica funzione metafisica, quella di servire la storia («Auch das
Volk ist der Diener der geschichtlichen ideen, die der Staat zu
verwirklichen bestimmt ist»)61, nella prolusione prorettorale lo
Vedi G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p.
418: «Ihrem Grundgedanken zufolge kann die dem staatlichen Gemeinwesen
eignende Macht immer nur diesem selbst zukommen, jeder Einzelne, mag er
noch so hoch gestellt sein, ist in seinem öffentlich-rechtlichen Funktionen nur
für das staatliche Ganze da und hat nur die Macht, die ihm gemäß der staatlichen Ordnung zukommt».
59
G. JELLINEK, System der öffentlichen subjektiven Rechte, II ed. rivista
ed ampliata, Mohr, Tübingen 1919, p. 30.
60
G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 418.
61
G. JELLINEK, Die Politik des Absolutismus und die des Radikalismus
(Hobbes und Rousseau), cit., p. 22. Si legga anche G. JELLINEK, Staat und
Gemeinde, in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften und Reden, vol. 2, cit., p.
58
40
statalismo si attenua e il liberalismo sembra avere la meglio
sulla celebrazione della nazione. Mentre fino a qualche anno
prima si diceva con compiacimento: «al monarca sovrano succede la nazione sovrana»62, ora la sovranità sembra essere concepita nient’altro che come un attributo specifico dell’ordinamento giuridico. È dubbio però se questa prospettiva costituisca un superamento solo ideologico del «dualismo» del Reich
guglielmino, giustificandone comunque la vigenza istituzionale,
o non sia piuttosto il tentativo d’una vera e propria – per quanto
timida – giuridicizzazione (come parlamentarizzazione) dell’intero àmbito dei poteri statali. È probabile che il modello di Jellinek sia qui quello stesso lodato da Voltaire: «un gouvernement
unique, dans lequel on a conservé tout ce que la monarchie a
d’utile, et tout ce qu’une république a de nécessaire»63.
A questo punto l’attitudine di Jellinek assume un esplicito
tono polemico. È contro la cosiddetta Herrschertheorie, la «teoria assolutista», rappresentata da studiosi come Conrad Bornhak
e Max von Seydel, che si appunta la sua argomentazione. Non
altrimenti aveva fatto nell’opera in cui più si riconosceva, il System der öffentlichen subjektiven Rechte64. La Herrschertheorie
– non va dimenticato – aveva ripreso vigore nel primo decennio del Novecento, compiacente com’era verso le fisime autoritarie e le arie da re assoluto impennacchiato del giovane Kaiser, Guglielmo II. Ora, la Herrschertheorie cozza frontalmente
con i princìpi del costituzionalismo e dello Stato liberale. Se il
potere dello Stato è il potere di un signore, di un sovrano in
360: «Date Caesari quod Caesaris! Dieses gewaltige Wort tönt heute überall
allen entgegen. Und wer es nicht vernehmen will, der sündigt gegen den heiligen Geist der Geschichte, der der Menschheit vorgezeichnet hat, im Staate
ihre große Lebensaufgabe zu erfüllen».
62
G. JELLINEK, Die Politik des Absolutismus und die des Radikalismus
(Hobbes und Rousseau), cit., p. 20.
63
VOLTAIRE, Éloge historique de la raison prononcé dans une académie
de province par M..., cit., p. 283.
64
Vedi G. JELLINEK, System der öffentlichen subjektiven Rechte, cit., pp.
26 sgg.
41
carne ed ossa, di un re dal quale promana ogni diritto, quali garanzie abbiamo per quella autolimitazione che è alla base oltreché dello Stato liberale della stessa nozione di Stato moderno? L’autolimitazione può darsi solo da parte di una creatura che è per natura limitata perché fatta di regole. Solo se il
potere è un potere di regole può tale potere dirsi regolato e dunque autolimitato.
Se il monarca sta sopra lo Stato o se è lo Stato stesso, allora non si
vede quale diritto egli possa violare allorché annulla unilateralmente
una costituzione, e così l’intera questione della violazione della costituzione viene spostata dall’àmbito della scienza giuridica a quello
dell’etica65.
L’argomento ricorda quello meno astratto ma simile di
Locke. Lo Stato essendo quella organizzazione sociale in cui
nessuno può essere allo stesso tempo giudice e parte di necessità non può ammettere un princeps legibus solutus66.
Solo se il sovrano è fatto di istituzioni e di regole, può trasformarsi la violazione di norme costituzionali da evento solo
moralmente rilevante in fatto giuridico. La costituzionalizzazione dello Stato passa attraverso la sua ricostruzione concettuale come macchina eminentemente giuridica. Ciò invero è il
compito precipuo della scienza giuridica, la quale dalla Herrschertheorie verrebbe resa impossibile, perché le sarebbe sottratto il suo oggetto. Tra scienza giuridica e Stato moderno (autolimitato) vi è dunque un rapporto strettissimo: solo un tale
tipo di Stato può studiarsi come fatto giuridico, come serie di
relazioni giuridiche. Altrimenti si ricade o negli specula principis o nella pura ratio regni.
«Steht der Monarch über dem Staate oder ist er gar der Staat selbst,
dann ist nicht abzusehen, wessen Recht der Monarch überhaupt verletzen
kann, wenn er eine Verfassung einseitig aufhebt, und die ganze Frage des Verfassungsbruches wird damit von der Rechtswissenschaft in die Ethik verwiesen» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 420).
66
Si legga J. Locke, Two Treatises of Government, II, 7, XC.
65
42
Nello sfondo della Herrschertheorie Jellinek vede profilarsi
minacciosa una dottrina del colpo di stato. «Di certo anche oggi
non v’è penuria di istigatori che si facciano portavoce di colpi
di Stato per rimediare a mali reali o supposti della vita politica»67. (V’è qualcosa di chiaroveggente nelle parole del giurista austriaco). E conclude con una nota malinconica, che si farà
purtroppo un ventennio più tardi di stridente tragicità. In ogni
caso, a giustificare l’ingiustizia e i colpi di mano d’un signore
che si crede superiore a tutto e tutti, e si arroga ogni diritto, non
mancheranno i giuristi disposti a dare un manto di legalità alla
sua opera.
Poniamo teoricamente il caso che ancora una volta il signore e monarca volesse sollevarsi al di sopra dello status di primo servitore dello
Stato in via duratura: di certo non mancherebbero costituzionalisti
pronti a legittimare un simile sviluppo68.
Il tono del discorso di Jellinek è ottimistico. L’ottimismo è
già tutto nel riferimento al «nuovo» come positivo, come risolutivo, come il meglio, se non proprio come l’ottimo. Tuttavia,
come si è visto, non mancano presagi inquietanti, la percezione
di un non troppo lontano rumore di sciabole, l’indicazione di
certe tentazioni autoritarie sempre più forti. Va ricordato a questo proposito che in una conferenza pronunciata a Vienna e pubblicata solo un anno prima, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung, uno scritto che fa degnamente il paio con la
prolusione del 1907, Jellinek concludeva con la segnalazione
delle crescenti difficoltà del sistema parlamentare69. Nella con-
67
«An Heißspornen, die Staatsstreichen das Wort reden, um wirkliche oder
vermeintliche Übel im Staatsleben zu heilen, fehlt zwar auch heute nicht» (G.
JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 421).
68
«Setzen wir aber theoretisch den Fall, daß sich wieder einmal der Herr
und König über den ersten Diener des Staates dauernd erheben wollte: an
Staatsrechtslehrern, die derartiges zu rechtfertigen bereit wären, wurde es sicherlich nicht fehlen!» (ibidem).
69
Cfr. H. SINZHEIMER, Jüdische Klassiker der deutschen Rechtswissenschaft, Menno Hertzberger, Amsterdam 1938, p. 209: «Jellinek konstatierte
43
ferenza viennese – che è probabilmente l’espressione più matura della dottrina costituzionalistica dell’autore – Jellinek tematizzava già la crisi dei parlamenti e più in generale dello Stato
liberale e vedeva ergersi di fronte questi due forze potenti, forze
in un certo senso «naturali» se non «elementari»: da un lato le
masse (e le loro organizzazioni, in special modo i partiti) e dall’altro gli esecutivi e figure portatrici d’autorità carismatica. E
l’alleanza e la congiunzione di queste due forze appuntava verso
il declino generalizzato dello Stato liberale.
La storia contemporanea, che tanto poderosamente ci trascina in avanti,
ci insegna un fatto capitale e innegabile che, al di là dei parlamenti, al
di là di queste formazioni create artificialmente in tanti Stati moderni,
i due soli poteri naturali e indistruttibili dello Stato, governo e popolo,
cominciano a contrapporsi direttamente, e che qui giace nascosto il più
radicale cambiamento costituzionale dei tempi moderni70.
Né può dimenticarsi che in un altro scritto, una precedente
conferenza viennese pubblicata nel 1898, Das Recht der Minoritäten, l’autore aveva ammonito sui rischi crescenti della democrazia plebiscitaria. «Le dighe, che oggi ancora arginano la
predominante volontà della maggioranza – scriveva in quell’occasione – verranno forse demolite. Ma allora sarà giunta una
grossa crisi dell’umanità civile»71. Può ritenersi allora che Jelschon früh die fortschreitende Erhebung der Exekutive über die Parlamente,
trotzdem die letzteren doch gerade dazu geschaffen waren, diese Erhebung zu
verhindern».
70
«In der großen und unleugbaren Tatsache, welche uns die so gewaltig
vorwärtsstürmende Geschichte der Gegenwart lehrt, daß über die Parlamente,
über diese in so vielen Staaten künstlichen Schöpfungen der neuesten Zeit
hinweg, die beiden einzigen unzörsterbaren natürlichen Mächte des Staates:
Regierung und Volk, einander unmittelbar gegenüberzustehen beginnen, liegt
der gewaltigste Verfassungswechsel der neueren Geschichte verborgen» (G.
JELLINEK, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung. Eine staatsrechtlich-politische Abhandlung, Häring, Berlin 1906, p. 80).
71
«Die Dämme, welche heute einem übermächtigen Majoritätswillen noch
entgegenstehen,werden vielleicht niedergerissen werden. Dann wird aber eine
grosse Krise für die civilisirte Menschheit gekommen sein» (G. JELLINEK, Das
Recht der Minoritäten, Hölder, Wien 1898, p. 43).
44
linek non sia solo un pensatore della modernità intesa come movimento che accompagna le vicende dello Stato liberale e della
democrazia; egli è anche un pensatore della crisi della modernità. O meglio e più esattamente vi è in lui la consapevolezza
che la modernità sta assumendo forme politiche di cui la fiducia illuministica nelle virtù della ragione individuale (e individualistica) e nelle sorti progressive della storia non potrà più
rendere conto.
3. La lotta del diritto «nuovo» contro il «vecchio»
Vi è ancora un ultimo punto in cui si gioca per Jellinek la
lotta tra i due diritti, il «vecchio» e il «nuovo». La lotta tra questi – ammette il Nostro – si fa politica. Invano si è sforzata la
dogmatica giuspubblicistica di costruire un àmbito concettuale
neutrale e sottratto al mutamento sociale e politico. Anche in
quella disciplina possono riconoscersi i partiti, le fazioni, le posizioni ideologiche: qui per esempio i federalisti, lì i centralisti; da questa parte i difensori del sistema parlamentare, dall’altra i sostenitori della forma di governo monarchica. E soprattutto i tempi della dogmatica sono quegli stessi della fondazione dello Stato unitario, nei quali ancora si fa sentire l’influenza del generoso liberalismo cosmopolita della prima metà
del secolo. Ora però – l’intervento di Jellinek, come si è detto,
è del 1907 – tira tutta un’altra aria. «Wir stehen heute mitten
in der Neu-Romantik», ci troviamo nel bel mezzo di un nuovo
romanticismo – avrebbe scritto un anno dopo Leonard Nelson72.
Lo Zeitgeist è girato in una direzione – sottolinea Jellinek – che
non promette nulla di buono per la generosità liberale. La descrizione ch’egli ci dà di questo «spirito del tempo», nuovo perché temporalmente recente ma avverso al diritto «nuovo», è
L. NELSON, Was ist liberal?(1908), in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. Bernays et al., vol. 9, Felix Meiner, Hamburg 1972, p. 16. Di questo pensatore si tratta estesamente infra, capitolo
quarto.
72
45
quasi visionaria e certo premonitrice: alcuni dei fantasmi di Weimar sono evocati con chiaroveggente precisione. Sembra addirittura che Jellinek si riferisca a dottrine come il decisionismo
di Schmitt che sono ancora tutte lì da venire (nel 1907 Carl
Schmitt non ha ancora terminato gli studi giuridici).
Innanzitutto si assiste a una ventata irrazionalistica. È Schopenhauer non Leibniz il filosofo del tempo. E di certo Jellinek
è più vicino a Leibniz, a una visione consolatoria delle vicende
umane, che a Schopenhauer73, per cui i fatti storici rappresentano un sogno confuso dell’umanità o – a volerli spiegare –
come degli ammassi di nuvole in cui ci si affatica invano a scorgere figure e immagini. La storia così è sempre e comunque
prodotto di un punto di vista esterno ai fatti, ordine posto da un
osservatore secondo criteri del tutto convenzionali e riconducibili interamente alle sue credenze e decisioni. «La storia dunque non è scienza, ma un accozzamento di fatti arbitrari, dove
ci può essere coordinazione, non subordinazione»74.
Ora, l’irrazionalismo spinge verso la crisi del modello neutrale, wertfrei, di scienza giuridica inaugurato dalla linea Gerber-Laband e di cui Jellinek è stato il più raffinato teorizzatore:
la Rechtswissenschaft ohne Recht poi smontata da Leonard Nelson o anche – se si vuole – la neokantische Rechtsphilosophie
attaccata con furore teutonico da Erich Kaufmann. Si riaffaccia
alla ribalta un’idea materiale di diritto e soprattutto la politica:
è il concetto di «politico» che vuole la rivincita sul «giuridico»,
la nozione di potere che vuole riaffermare la sua precedenza su
quella di Stato. Sono la razionalità carismatica e quella tradizionale congiunte che si scagliano contro la razionalità giuridica formale.
73
Si legga G. JELLINEK, Die Weltanschauungen Leibniz’ und Schopenhauers. Ihre Gründe und ihre Berechtigung. Eine Studie über Optimismus und Pessimismus, cit., pp. 3 sgg., e cfr. H. SINZHEIMER, Jüdische Klassiker der deutschen Rechtswissenschaft, cit., p. 222: «Jellinek bekennt sich
zu Leibniz».
74
F. DE SANCTIS, Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A e D, in F. DE
SANCTIS, Saggi critici, vol. 2, cit., p. 176.
46
Ci si vanta di convinzioni commendevoli e capaci di salvare lo Stato,
e si sostituisce la fatica della dimostrazione con l’entusiasmo oppure
col dispregio acritico delle posizioni discordanti, o ancora ci si sbarazza d’ogni discussione per mezzo di pressioni e vincoli che non tollerano replica di sorta. Ritorna oggi la vecchia trattazione politica del
diritto, miseramente ricoperta da una mantellina giuridica75.
Insomma, la crisi del giuspositivismo e del formalismo giuridico così tante volte e tanto spregiudicatamente e stridentemente evocata nel decennio di Weimar è già preannunciata da
chi sarà poi uno degli obiettivi polemici della dottrina antipositivista: lo stesso Jellinek.
Ma la crisi del giuspositivismo – dice il Nostro – è più un
ritorno al «vecchio» che un’ulteriore apertura al «nuovo». Vengono evocati i numi tutelari di antiche tradizioni, e accade così
«che riemerge di nuovo lo spirito di sistemi giuridici scomparsi»76. È una sorta di «preraffaellismo» politico – dice – ciò
che così si delinea all’orizzonte. Su un punto però Jellinek non
è ostile alla critica dei «preraffaelliti», ed è sulla questione della
Wertfreiheit, sulla impossibilità dunque di accostarsi a un oggetto
di studio senza una serie di presupposti normativi e ideologici.
Ciò era stato in parte già detto in precedenza, nella sua summa,
la Allgemeine Staatslehre, quando affermava – prendendo esplicitamente le distanze da Paul Laband – che la determinazione
della forma Stato è fattibile «solo prendendo in debito conto le
concrete forze politiche [nur unter Würdigung der konkreten politischen Kräfte]»77 e che i princìpi del diritto pubblico si pren75
«Es wird mit löblicher, staatserhaltener Gesinnung geradezu geprunkt,
die Mühe des Beweises durch Begeisterung oder kritiklose Geringschätzung
der abweichenden Ansicht ersetzt oder auch jede Diskussion durch gesperrten Druck, der keine Widerrede duldet, niedergeschlagen. Die alte politische
Behandlung des Staatsrechts ist heute, mit juristischen Mäntelchen notdürftig
bekleidet, wiedergekehrt» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen
Recht, cit., p. 423).
76
Ibidem.
77
G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 16; vedi anche G. JELLINEK, Die Lehre von den Staatenverbindungen, ristampa anastatica della I ed.
(Wien 1882), Scientia Verlag, Aalen 1969, pp. 9-10.
47
dono gioco («spotten») del trattamento puramento logico raccomandato da Laband. L’idea della chiusura del sistema giuridico
era bollata come un dogma decisamente «falso»78.
Ciò significava che accanto alla scienza specificamente giuridica risultava necessaria una scienza sociale dello Stato, la
quale però non doveva invadere il campo dello studio giuridico.
«Per il diritto statale vale solo il metodo giuridico»79. Nello
scritto del 1907 sembra invece che la stessa scienza giuridica
abbia bisogno di riferimenti extragiuridici interni al proprio metodo. «Chi potrebbe rivolgersi alla comprensione delle istituzioni umane in qualsivoglia direzione, se non fosse in grado di
ascrivere loro un qualche valore!»80. Ciò vale per qualunque
specie di conoscenza: una scienza senza presupposti, una «voraussetzungslose Wissenschaft» – diceva Jellinek già nel 1882,
nella sua prima monografia «dogmatica» Die Lehre von den
Staatenverbindungen – è un’impresa senza senso. Per la ricerca
scientifica (di qualunque tipo) sono necessari dei princìpi primi,
i quali hanno un ineliminabile carattere morale e politico. E questi non si possono giustificare: ad essi si può solo aderire, per
essi si può soltanto parteggiare. «Per i fondamenti ultimi delle
nostre ricerche qui come dappertutto è possibile solo una dichiarazione di principio [ein Bekenntnis], e mai un sapere privo
di dubbio»81. Ogni fede è legittima, purché sia sincera e intima.
E tuttavia la scelta dei princìpi metodologici non può essere del
tutto consegnata alla decisione soggettiva ed alla irrazionalità
(per quanto «autentica») del Bekenntnis.
Vi è un principio fondamentale di coerenza che va rispettato
e che fa sì che il singolo campo di ricerca deve poter provare
G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 353.
Ivi, p. 51.
80
«Wer vermöchte sich der Erfassung menschlicher Institutionen nach irgendeiner Richtung hin zuzuwenden, wenn er ihnen nicht irgendwelche Werte
zuzuschreiben vermag!» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen
Recht, cit., p. 425).
81
«Für die letzten Grundlagen unseres Forschens ist hier wie überall kein
zweifelfreies Wissen, sondern nur ein Bekenntnis möglich» (ibidem).
78
79
48
i suoi criteri metodologici in accordo con il livello della conoscenza scientifica raggiunto negli altri campi di studio. Chi vagheggia il Medioevo in politica, ovvero il ritorno al sovrano per
grazia divina, oppure lo Stato cetuale, o ancora il signore onnipotente e responsabile solo dinanzi a se stesso e alla Storia,
deve essere in grado di porre in accordo simili tesi con il complesso delle scienze, con l’empirismo moderno, con la sperimentazione fisica, con una visione non più geocentrica dell’universo, con ciò che in quegli stessi anni anni qualcuno definisce la «morte di Dio». «Chi vuole risvegliare gli spiriti del Medioevo nel terreno politico, deve anche dimostrare ch’essi risorgono dappertutto»82. Jellinek enuncia qui un’idea che ha a
che fare con la nozione di paradigma enunciata e resa famosa
molti anni dopo da Thomas Kuhn. Il valore epistemologico di
una teoria si giudica dalla funzione che questa gioca all’interno
del quadro più generale delle conoscenze assunte come giustificate in una certa fase storica.
Pertanto solo dall’insieme del sapere di un tempo può trovarsi il criterio mediante il quale misurare il valore o il disvalore dei princìpi
politici sui quali va fondata la decisione della lotta tra vecchio e
nuovo diritto83.
Ora, il punto ulteriore nel quale si confrontano il «vecchio»
e il «nuovo», e specialmente quello in cui si confronteranno
nel futuro, è identificato – nuovamente con chiaroveggenza –
nella questione del diritto internazionale. Ci sono troppi «Superklugen» – come li chiama – dei «super-astuti», un’autoincoronatasi élite di geni della politica, che guardano storto al-
82
«Wer die Geister des Mittelalters auf staatlichem Gebiete wieder
erwecken will, der muß nachweisen können, daß sie überall auferstehen»
(ibidem).
83
«So kann nur aus dem ganzen Wissen einer Zeit heraus der Maßstab
gefunden werden, an dem Wert und Unwert politischer Prinzipien zu messen
ist, die der Entscheidung des Kampfes zwischen altem und neuem Recht zugrunde zu legen ist» (ivi, p. 426).
49
l’emergenza di questo nuovo diritto sovranazionale e sovrastatale. Per chi identifica la politica tout court con la «ragione di
Stato», e questa poi con una razionalità meramente strategica
per cui l’altro è come un oggetto da strumentalizzare per i propri fini, le relazioni internazionali sono azioni di guerra più o
meno dichiarate e il diritto che volesse regolarle pacificamente
e civilizzarle è o esso stesso strumento di guerra d’una parte,
oppure «wishful thinking», parto di utopisti privi di senso della
realtà, o anche e peggio attentato sovversivo agli interessi nazionali.
Certo, Jellinek non aveva mai condiviso lo scetticismo sul
diritto internazionale (quando non era semplice avversione verso
questo) di tanti suoi colleghi, nonostante una sua non celata romantica ammirazione della guerra come «fenomeno terribile e
tuttavia provvidenziale [furchtbare und doch segenvolle Erscheinung]»84. Tra l’altro in questo atteggiamento di seria e favorevole considerazione del diritto internazionale egli era anche
aiutato dalla sua concezione non sanzionistica delle norme giuridiche presentata in Die sozialethische Bedutung von Recht,
Unrecht und Strafe85. In Die Lehre von den Staatenverbindungen aveva già denunciato il vicolo cieco in cui vanno ad infilarsi tutte quelle teorie che affermano una concezione non giuridica (non autolimitantesi) della sovranità. Per queste teorie
ogni rapporto tra Stati non poteva essere giuridicizzato e il diritto internazionale diveniva una specie di chimera.
L’autarchia e la sovranità dello Stato – quest’ultima concepita nel
senso di un potere senza obblighi – non consentono tra Stati associazioni che abbiano carattere giuridico; queste anzi contraddicono all’essenza dello Stato86.
G. JELLINEK, Die Zukunft des Krieges, cit., p. 541.
Vedi G. JELLINEK, Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und
Strafe, cit., p. 51.
86
«Autarkie und Souveränetät des Staates – die letztere in dem Sinne einer
unverpflichtbaren Gewalt aufgefasst – lassen zwischen Staaten Verbindungen,
die rechtlichen Charakter tragen, nicht zu, ja sie widersprechen dem Wesen des
Staates» (G. JELLINEK, Die Lehre von den Staatenverbindungen, cit., p. 92).
84
85
50
Ciò nonostante, nonostante le teorie «realistiche» o «assolutistiche» della sovranità, resta il fatto che limitazioni giuridiche
tra Stati si dànno e che il singolo Stato come tale, ente autarchico, sufficiente a se stesso, ed isolato in quanto compiutamente autonomo, non è che un’astrazione.
Innanzitutto lo è perché l’ente sovrano di cui parla la dottrina giuridica è solo un costrutto ipotetico, che vale per altro
solo rispetto ai rapporti volontari e consapevoli tra soggetti.
Sfugge ad esso l’immenso territorio dell’incoscio e involontario:
La dottrina giuridica afferma che lo Stato sovrano è superiore a qualsiasi altro potere organizzato, e che non è soggetto a nessuno. Rispetto
tuttavia alle forze poderose della vita sociale, che non agiscono nella
forma di un potere cosciente di volontà, anche lo stesso sovrano diviene suddito87.
Nella sfera giuridica poi – e nel contesto in cui Jellinek
scrive, intriso di nazionalismo, è questa un’affermazione quasi
rivoluzionaria – gli Stati sono membri di una comunità di Stati
e questa giustifica pienamente la giuridicità del diritto internazionale. «Va riconosciuto che lo Stato autosufficiente e non vincolato da nessun’altra volontà è un’astrazione, e che lo Stato
concreto è sempre membro di una comunità di Stati»88.
Non dev’essere dimenticato a questo proposito che nella Allgemeine Staatslehre si assume l’operatività di un’opinione pubblica internazionale, la quale offrirebbe una giustificazione aggiuntiva al diritto internazionale. Dopo aver sottolineato che l’o-
«Die Rechtslehre behauptet, dass der souveräne Staat jeder anderen organisierten Gewalt überlegen, keiner untertan sei. Aber den gewaltigen Mächten des sozialen Lebens, die nicht in der Form bewusster Willensmacht
wirken, ist der Herrscher selbst untertan» (G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 125).
88
«Man muss zugeben, dass jener selbstgenügsame und durch keinen Willen verpflichtbare Staat ein Abstractum ist, dass der concrete Staat stets als
Mitglied der Staatengemeinschaft ist» (ivi, p. 93; sottolineatura nel testo).
87
51
pinione pubblica è rilevante per la vita dello Stato nazionale
non solo da un punto di vista politico ma anche da una prospettiva squisitamente giuridica – poiché è tale opinione spesso
la garanzia fondamentale dell’osservanza delle norme costituzionali – Jellinek aggiunge ch’essa non è meno rilevante per il
diritto internazionale giacché travalica già i confini dello Stato
nazionale89: un’affermazione di sapore kantiano, quasi una ripetizione della tesi secondo cui ormai – come scrive Kant –
«die Rechtsverletzung an einem Platz der Erde an allen gefühlt
wird»90, una violazione commessa in un angolo del pianeta viene
sentita come tale in ogni altra parte di questo.
Nella prolusione del 1907, il documento che più ci dice
della fase matura del suo pensiero, l’atteggiamento di Jellinek
si fa ancora più deciso, in quanto tematizza le resistenze verso
il diritto internazionale come «vecchie» e le omologa a quelle
contro il costituzionalismo e la laicità e universalità dello Stato
di diritto. Lo sviluppo di sempre maggiori relazioni tra Stati
è descritto come un fatto che porta con sé la necessità di sempre più intensi collegamenti giuridici tra Stati. Il quarto conflitto tra «vecchio» e «nuovo» è dunque quello della tensione
tra diritto statale e diritto internazionale. E quanto più progressi fa il diritto internazionale tanto meno latente ed esplosivo si fa il conflitto. «Tra diritto statale e diritto internazionale già oggi sono possibili, e si dànno concretamente, dei conflitti. Col progresso del diritto della comunità degli Stati è da
supporre che tali conflitti si faranno sempre più acuti»91.
Vedi ivi, p. 103.
I. KANT, Zum Ewigen Frieden, in I. KANT, Kleinere Schriften zur Geschichtsphilosophie, Ethik und Politik, a cura di K. Vorländer, Meiner, Hamburg 1959, p. 139 (sottolineatura nel testo).
91
«Zwischen Staats- und Völkerrecht sind schon in der Gegenwart Konflikte möglich und tatsächlich vorhanden. Mit dem Fortschritte des Rechts
der Staatengemeinschaft werden sich diese Konflikte vermutlich immer
mehr steigern» (G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht,
cit., p. 486).
89
90
52
C’è tuttavia una speranza che questo conflitto non si faccia
distruttivo e sfoci in guerra aperta? Per questo vi è solo una
strada, dice Jellinek: che uno dei due contendenti rinunci alla
propria supremazia, che uno dei due diritti cioè venga conglobato nell’altro. I conflitti tra i due sistemi non sono necessari
né inevitabilmente perpetui: «Essi saranno risolvibili solo se il
diritto di un ordinamento si assoggetta al diritto dell’altro. Porre
rimedio ad un tale conflitto non è nostro compito, ma resta assegnato alla posterità»92.
Vi è in queste parole conclusive quasi una premonizione
della fine prossima (che arriverà quattro anni dopo, nel gennaio
1911). Ed invero tutto il tono della prolusione è quello di un
testamento politico-giuridico. In esso si lasciano – come si è
visto – quattro legati, tutti fondamentalmente connessi al progetto riformatore dell’illuminismo giuridico. Il primo è la soluzione del conflitto tra diritto naturale e diritto positivo: la neutralizzazione assiologica dello Stato, la sua «astinenza» ideologica. In questa prospettiva lo Stato si deve mantenere estraneo
e impermeabile ad ogni influenza ideologica e religiosa esterna,
laico. Il secondo legato è quello della liberalizzazione del diritto, ricostruito vieppiù come norma formale e universalizzabile, legge uguale per tutti, l’annuncio che – come diceva ancora Voltaire – «les lois vont être uniformes»93. È questa la soluzione del contrasto tra diritti patrimoniali e diritti politici, o
– come può dirsi anche – tra diritto privato e diritto pubblico.
Il terzo legato è la giuridicizzazione dello Stato come ente puramente normativo, persona giuridica: la definitiva soluzione del
«contrasto tra rex e regnum»94, in altri termini della contrapposizione tra diritto soggettivo e diritto oggettivo. Infine l’ultimo
legato è solo accennato; è quello della integrazione del diritto
92
«Sie werden nur dadurch lösbar, daß sich das Recht der einen Ordnung
dem anderen fügt. Solchen Widerstreit auszugleichen ist nicht unsere Aufgabe, sondern bleibt der Nachwelt überlassen» (ivi, pp. 426-427).
93
VOLTAIRE, Candide et autres contes, cit., p. 284.
94
G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 790.
53
nazionale in un diritto sovranazionale di rango superiore: la soluzione del conflitto tra diritto nazionale e diritto internazionale.
Anche se non ne aveva consapevolezza, né mai ne avrebbe
avuta, allorché scriveva quelle pagine il professore di Heidelberg era in procinto di trovare un esecutore testamentario d’eccellenza. Questi riceverà ciascuno dei quattro legati e li amministrerà con acutezza (anche se forse non sempre con prudenza), e li arricchirà rendendoli più robusti e – mi si consenta
– più radicali. Per questo i quattro dualismi segnalati e parzialmente risolti da Jellinek costituiranno la ragione di un’ulteriore spinta verso la purificazione, la omogeneizzazione, e la
unificazione del diritto. Ebbene, l’esecutore testamentario di
Georg Jellinek ha un solo nome: si chiama Hans Kelsen95. E la
modernità giuridica annunciata e difesa da Jellinek sembrerà
per un momento avere la meglio con la proclamazione della
Repubblica di Weimar.
95
Cfr. G. LEIBHOLZ, Les tendances actuelles de la doctrine du droit public en Allemagne, in «Archives de Philosophie du Droit et de Sociologie Juridique», 1931, pp. 207 sgg.
54
Capitolo secondo
La sovranità radicale: Hermann Heller
1. Un cittadino di Weimar
La figura di Hermann Heller1 è intimamente legata alla storia della Germania tra le due guerre mondiali; eppure egli di
nascita non è tedesco, cittadino del Reich guglielmino, ma suddito di Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe, sovrano dell’Impero Asburgico. Nasce infatti a Teschen an der Olsa, una
cittadina posta tra quella che è oggi la Repubblica Cèca e i territori dell’allora vasto e possente Reich germanico. La sua è una
famiglia d’estrazione borghese e di religione ebraica. Nel 1915
Heller conclude gli studi di diritto a Graz, seconda città dell’Austria e sede d’una rinomata Università (vi aveva insegnato
fino a qualche tempo prima Ludwig Gumplowicz, e vi insegnerà qualche anno dopo Joseph Schumpeter). Nel 1914 si era
arruolato volontario come tanti suoi coetanei. Combatte sul
fronte russo; immerso nel fango della trincea vi riporta un seria
malattia cardiaca, ed è testimone della fine della monarchia e
dello smembramento dell’Impero. Nell’Austria ridotta a una
specie di moncherino, rosicata da ogni lato dalle rivendicazioni
Per un profilo biografico generale di Heller, si legga K. MEYER, Eine
biografische Skizze, in Der soziale Rechtsstaat. Gedächtnisschrift für Hermann
Heller, a cura di Ch. Müller e I. Staff, Nomos, Baden-Baden 1984, pp. 65
sgg., e CH. MÜLLER, Hermann Heller (1891-1933). Vom liberalen zum sozia1
55
territoriali dei paesi confinanti, in questo Stato ridotto a una Alpenrepublik (come lo definisce Joseph Roth) Heller non può più
riconoscersi. Ciò è comune a una generazione di reduci della
Grande Guerra, e comunque a molti dei sudditi dell’Impero
asburgico che si sentono d’improvviso privati della loro identità politica e persino, in casi estremi, esistenziale.
L’«uomo senza qualità» di Robert Musil è innanzitutto un
uomo con un passaporto austroungarico ora divenuto solo un
pezzo di carta. La «qualità» che gli manca è in primo luogo
quella dell’antica appartenenza sopranazionale offerta dall’Impero. A differenza però di numerosi suoi concittadini d’un regno
perduto, di Roth e Musil per esempio, ma anche di Lernet-Holenia, che rimarrano per sempre degli Heimatlosen, dei «senza
patria», Heller non sembra avere troppi rimpianti per la monarchia degli Asburgo. Si trova anzi subito un’altra comunità
della quale valga essere membro: questa è la Germania di Weilistischen Rechtsstaat, in Streitbare Juristen. Eine andere Tradition, a cura di
«Kritische Justiz», Nomos, Baden-Baden 1988, pp. 268 sgg., e ancora CH.
MÜLLER, Hermann Heller: Leben, Werk, Wirkung, in H. HELLER, Gesammelte
Schriften, II ed., a cura di Ch. Müller, vol. 3, Mohr, Tübingen 1992, pp. 429
sgg. Una eccellente bibliografia delle sue opere è quella di H. RÄDLE, Bibliographie der Veröffentlichungen Hermann Hellers, in H. HELLER, Gesammelte
Schriften, vol. 3, cit., pp. 414-428. Per una valutazione complessiva dell’opera
di Heller, sono utili W. SCHLUCHTER, Entscheidung für den sozialen Rechtsstaat. Hermann Heller und die staatstheoretische Diskussion in der Weimarer
Republik, II ed., Nomos, Baden-Baden 1983; G. ROBBERS, Hermann Heller:
Staat und Kultur, Nomos, Baden-Baden 1984; ST. ALBRECHT, Hermann Hellers Staats- und Demokratieauffassung, Campus, Frankfurt am Main 1983; U.
POMARICI, Oltre il positivismo giuridico. Hermann Heller e il dibattito sulla
Costituzione Weimariana, Prismi, Napoli 1989, e E.-J. LEE, Der soziale Rechtsstaat als Alternative zur autoritären Herrschaft. Zur Aktualisierung der
Staats- und Demokratietheorie Hermann Hellers, Berlin 1994. Ancora valida
rimane l’analisi di Renato Treves che a Heller ha dedicato uno dei suo saggi
più belli (vedi R. TREVES, La dottrina dello Stato di Hermann Heller, ora in
R. TREVES, Il diritto come relazione. Saggi di filosofia della cultura, a cura di
A. Carrino, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1993, pp. 153 sgg.). Per una
interpretazione alquanto sopra le righe del pensiero di Heller visto come la
migliore teoria del diritto possibile per difendere e rifondare la democrazia
contemporanea cfr. D. DYZENHAUS, Legality and Legitimacy. Carl Schmitt,
Hans Kelsen and Hermann Heller in Weimar, Clarendon, Oxford 1997.
56
mar. La cittadinanza è per lui ora una decisione esistenziale, e
l’Anschluss una questione individuale. Si comprenderà dunque
quanto forte sia il vincolo che lega l’identità stessa di Heller
alla prima repubblica tedesca.
2. Il pensiero politico: socialismo e nazione
Heller è socialista2. Un giorno prima della sua Habilitation
alla Facoltà di Giurisprudenza di Kiel, mentore Gustav Radbruch che lì insegna diritto pubblico, diritto penale e filosofia
del diritto, Heller chiede la tessera della S.P.D., il partito di August Bebel e Karl Kautsky. È il 9 marzo 1920; quattro giorni
dopo il generale Kapp tenta di rovesciare la repubblica con un
putsch militare3. A Kiel Heller e Radbruch, quest’ultimo socialista già prima della guerra, provano, insieme a un gruppo di
operai dei cantieri navali, ad opporsi alle truppe del contrammiraglio Magnus von Levetzow. Le armi però scarseggiano e i
due decidono di venire a patti con i militari golpisti. Si tenta di
definire i termini di un accordo per la resa degli operai. Ma i
militari tagliano corto e arrestano i due. Li sottopongono ad un
giudizio sommario, e sono solo le esitazioni d’uno dei componenti dell’improvvisata corte marziale – per cui la decisione è
rinviata di qualche giorno – a salvare Radbruch e Heller dal
plotone d’esecuzione. La corte marziale emette una condanna a
morte, ma quando il putsch è ormai fallito; sono trascorsi appena cinque giorni dal loro arresto.
Ma il 9 marzo 1920 è importante per ragioni che oltrepassano l’àmbito della biografia di Heller e attengono al suo pensiero politico. Nel giorno del suo ingresso nel partito socialde-
Sul socialismo di Heller, cfr. R. WASER, Die sozialistische Idee im
Denken Hermann Hellers. Zur politischen Theorie und Praxis eines demokratischen Sozialismus, Helbing und Lichtenhahn, Basel 1985.
3
Una vivace testimonianza di questo tentativo golpista si trova in E.
TROELTSCH, Die Fehlgeburt einer Republik. Spektator in Berlin 1918 bis 1922,
a cura di J.H. Claussen, Eichborn, Frankfurt am Main 1994, pp. 125 sgg.
2
57
mocratico egli fa mettere a verbale che non condivide due punti
del programma del partito: il materialismo storico e l’internazionalismo. È da qui dunque – credo – che deve iniziarsi il discorso sulla teoria politica e giuridica di Heller.
Come si è detto, Heller è un socialista, più esattamente un
socialdemocratico alla maniera di Bebel e Kautsky. Ma gli sono
ancora più vicine le ide «revisioniste» di Bernstein e la prospettiva del «freier Volkstaat» di Lassalle4. Ciò diverrà esplicito, oltre che nelle sue riserve rispetto al programma ufficiale
del partito, nella sua attivissima partecipazione al cosiddetto Circolo di Hofgeismar contrapposto, all’interno della S.P.D., ai
marxisti ortodossi del gruppo di Hannover5. La partita tra i due
gruppi diviene scontro aperto alla terza Reichskonferenz dei giovani socialisti che ha per tema «Stato, nazione e socialdemocrazia» e ha luogo a Jena il 12 e 13 aprile 1925. I relatori sono,
per quelli di Hofgeismar, Heller e, per gli «hannoveriani», l’austromarxista Max Adler. Nel congresso Heller ripropone le tesi
del suo libro, pubblicato qualche mese prima, Sozialismus und
Nation. La lotta di classe – sostiene – non dev’essere solo lotta
economica, scontro di interessi, ma soprattutto battaglia culturale tesa all’affermazione della nazione come suprema forma di
vita. In questo Kulturkampf deve riconoscersi allo Stato il valore d’unità decisionale imprescindibile dotata d’un certo carattere di universalità rispetto agli interessi presenti nella società
che la esprime. In questo intervento riappaiono dunque, questa
volta sotto forma di tesi propositive, le due riserve avanzate da
Heller al suo ingresso nel partito socialdemocratico.
Egli innanzitutto non condivide le posizioni del materialismo storico. Ciò significa che egli non crede nella supremazia
del fattore economico sul politico. La storia è il risultato di più
cose di quanto ammetta il materialismo storico, e soprattutto
4
Si legga H. HELLER, Die politischen Ideenkreise der Gegenwart (1926),
in H. HELLER, Gesammelte Schriften, a cura di Ch. Müller, II ed., vol. 1, Mohr,
Tübingen 1992, pp. 389-391.
5
Cfr. F. OSTERROTH, Der Hofgeismar-Kreis der Jungsozialisten, in «Archiv für Sozialgeschichte», 1964, pp. 525 sgg.
58
della lotta politica e ideologica. Questa tesi potrebbe però essere condivisa anche da un anarchico o da un socialista libertario o liberale, ed è infatti uno dei punti su cui ad esempio
tanto l’anarchico Mikhail Bakunin quanto i socialisti liberali
Francesco Saverio Merlino e Carlo Rosselli fanno leva nella
loro critica del marxismo.
Una volta riconosciuta la rilevanza del fattore politico nella
storia non è però ancora detto quale valenza debba attribuirsi a
un tale riconoscimento. Accertato che il potere politico è uno
dei motori principali del movimento storico, si può ad esempio,
senza incorrere in nessuna contraddizione, ritenere che allora,
assunto il fine della società senza classi, quel potere vada direttamente aggredito, controllato, ridotto, o addirittura abolito.
Si può ritenere che il potere politico sia una costante della società umana, e che tuttavia proprio per ciò si debbano sviluppare delle strategie di addomesticamento di quel potere – come
è il caso del socialismo libertario dell’appena menzionato Saverio Merlino o di Andrea Caffi. Heller invece percorre un’altra strada. Qui il riconoscimento dell’influenza del potere politico nel prodursi degli eventi storici è già l’espressione di un
giudizio di valore, giudizio positivo. Contro Marx, nel nome di
Lassalle, Heller lancia l’accusa di anarchismo. È un po’ la medesima accusa mossa al marxismo, e negli stessi anni, da Hans
Kelsen, anch’egli, non a caso, rivendicando la superiorità dell’impostazione lassalliana6. Il marxismo non riesce ad accettare
lo Stato; esso rappresenta così in fin dei conti una teoria anarchica, con tutti i difetti (in particolare l’estremismo e l’utopismo) delle dottrine anarchiche, senza però il vantaggio che queste offrono d’essere esplicite nel loro rifiuto del potere politico.
Egli non rifiuta comunque le filosofie della storia come tali,
ovvero le concezioni che attribuiscono alla storia un fine intrinseco. Rifiuta solo quelle filosofie della storia che mettono
in sordina il ruolo (e il valore) del potere politico. Il potere politico svolge un ruolo fondamentale nell’evolversi delle vicende
Si veda per esempio H. KELSEN, Marx oder Lassalle. Wandlungen in der
politischen Theorie des Marxismus, Hirschfeld, Leipzig 1924.
6
59
umane, ed è un bene che sia così – è questo, in buona sostanza,
il pensiero di Heller. L’«estinzione» dello Stato, preconizzata
dalla teoria politica marxista, è per lui una vera e propria sciocchezza. Lo Stato svolge un ruolo fondamentale, quello della difesa della comunità; è «garanzia dell’operare comune degli uomini»7. È il comunitarismo, la rivendicazione della priorità assiologica della comunità al di sopra degli individui, ciò che separa dunque il socialismo dall’anarchismo: la socialdemocrazia
non può fare nessun passo in avanti verso i suoi obiettivi senza attribuire in ogni caso concreto alla comunità un valore superiore a quello
dell’individuo. Per ciò non v’è contrapposizione maggiore di quella
tra l’anarchismo – che si sforza di considerare ogni istituzione sociale
dal punto di vista dell’individuo – e il socialismo8.
Heller prima d’ogni cosa segnala l’impoliticità della dottrina
marxista. La sua concezione economicistica della storia non è
in grado di offrire alcun corpo di princìpi politici operativi. Vi
è un’insufficienza di fondo nel pensiero di Marx, ed è l’estrema
disattenzione per la politica.
Del resto non v’è nessun cammino che conduca a una massima politica a partire dal tentativo certo assai fruttuoso per la scienza di concepire la totalità sociale unitariamente nella prospettiva del fatto fondamentale della produzione sociale9.
Il marxismo condivide – dice Heller – la concezione provvidenziale della storia di cui si nutre il liberalismo. La fede del
H. HELLER, Sozialismus und Nation (II ed., 1931), in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 1, cit., p. 487.
8
H. HELLER, Staat, Nation und Sozialdemokratie (1925), in H. HELLER,
Gesammelte Schriften, vol. 1, cit., pp. 531-532. «Anarchismus und Sozialismus verhalten sich praktisch zueinander wie Feuer und Wasser» (ivi, p. 532).
9
«Im übrigen aber führt von dem für die Wissenschaft sicherlich höchst
fruchtbaren Versuch, die Gesellschaftstotalität einheitlich aus der Grundtatsache der gesellschaftlichen “Produktion” zu begreifen, kein Weg zu einer politischen Maxime» (H. HELLER, Die politische Ideenkreise der Gegenwart, cit.,
p. 382).
7
60
progresso di questo si fa in quello scienza del progresso. La differenza tra i due è piuttosto in ciò che è concepito essere il soggetto del progresso. Mentre per il liberalismo l’armonia sociale
risulta dalla concorrenza degli individui, il medesimo risultato
si dà per il marxista dalla concorrenza delle classi. In entrambi
i casi da una visione parziale della realtà sociale e da una considerazione egoistica degli interessi risulta, come per un colpo
di bacchetta magica, l’affermazione dell’interesse generale.
È chiaro che qui la fede del progresso del liberalismo si fa scienza
del progresso, e che in Hegel si sovrappongono infine interesse soggettivo e ragione oggettiva. Mentre però in Hegel il laissez faire dell’egoismo senza limiti delle aggruppazioni statali produce l’ordre naturel e realizza il Weltgeist, nel marxismo è ancora lo sfrenato egoismo economico di classe ciò cui spetta il còmpito di realizzare l’armonia sociale10.
L’interesse generale così non è questione di regole politiche
convenzionali né per il liberalismo né, e a maggior ragione, per
il marxismo, giacché per entrambi la società è retta non da accordi e sforzi volontari dei consociati, bensì eminentemente da
automatismi che sfuggono alla disposizione dei cittadini.
Il rifiuto del materialismo storico è inoltre giustificato da un
argomento apparentemente meno politico e più filosofico: l’accusa rivolta a Marx di riproporre una visione naturalistica, causalistica, infine «adialettica», della realtà sociale. Heller è troppo
influenzato dall’idealismo hegeliano e dalla recezione di questo
da parte delle cosiddette scienze dello spirito per poter digerire
e apprezzare la parte d’empirismo che a Marx proviene dalle
sue frequentazioni del positivismo francese e dell’empirismo anglosassone. Il paragone di Marx con Darwin compiuto da Engels11 a fini apologetici contiene tuttavia un grano di verità, e
Ivi, p. 384.
In merito cfr. le osservazioni di H. ARENDT, Religion und Politik, in H.
ARENDT, Zwischen Vergangenheit und Zukunft, a cura di U. Ludz, Piper, München 1994, pp. 315 sgg.
10
11
61
segnala la vicinanza del marxismo col positivismo naturalistico
e ultradeterministico di fine Ottocento. Ciò però non può che
urtare la sensibilità del Nostro. La società non è governata – a
suo parere, – eslusivamente o principalmente da relazioni causali, ma anche e soprattutto da rapporti «ideali» o «di senso»
che possono essere intesi solo da una prospettiva culturalistica
e dialettica. L’accento sull’elemento «ideale» o «culturale»,
sulla Kultur, ha qui inoltre una immediata implicazione polemica. La filosofia della cultura, nella prospettiva di Heller come
di altri suoi rappresentanti, non ha soltanto il senso di un’impostazione metodologica contrapposta al positivismo «ottocentesco», ma vuole anche rivendicare la necessità, il valore o l’eccellenza di una certa forma di vincolo sociale, quella della Kultur per l’appunto, caratterizzata da un estremo grado di omogeneità di concezioni etiche, e da un’elevata coesione sociale,
di fronte alla Zivilisation, a una società cioè individualista, pluralista, dunque disomogenea, e di conseguenza tristemente decadente. Dietro una tale «filosofia della cultura» fa capolino la
tesi del «tramonto dell’Occidente» di Oswald Spengler.
L’altro punto di dissenso con la «vulgata» socialista e socialdemocratica è – come si è detto – l’internazionalismo. Per
Heller l’unità fondamentale della vita sociale non è l’individuo
ma nemmeno la classe. È la nazione la «forma di vita» elementare entro la quale, o a partire dalla quale, si sviluppa ogni
relazione sociale. Uno dei riferimenti immediati di tale modo di
pensare è il libro di Otto Bauer Die Nationalitätenfrage und die
Sozialdemokratie (1907) più volte citato nei suoi scritti. Così gli
piace ripetere una frase un po’ ad effetto di Gustav Radbruch:
«L’Internazionale è una costruzione in massi di nazioni, non un
edificio in mattoni di individui [Die Internationale ist ein Quaderbau aus Nationen, nicht ein Ziegelbau aus Einzelnen]»12.
Nella prospettiva di Heller la nazione è la portatrice o la
sede della Kultur, è lo spazio della imprescindibile omogeneità
G. RADBRUCH, Kulturlehre des Sozialismus. Ideologische Betrachtungen, Dietz, Berlin 1922, p. 33.
12
62
di valori, la «comunità» par excellence. L’«uomo» come tale è
una povera astrazione («Der Mensch ist eine tote gedankliche Abstraktion»)13; ha esistenza invece come espressione d’una
certa formazione sociale. E la formazione sociale primigenia e
decisiva è la comunità nazionale. Questa è la risultante di due
forze parallele, una spirituale (essenzialmente culturale: linguaggio, morale, diritto, arte, religione, economia), l’altra materiale: «eminentemente terra e sangue [vornehmlich Boden und
Blut]»14. Si noti qui la distanza dalla concezione marxista dei
fattori determinanti dell’essere sociale. Se la distinzione tra «spirituale» e «materiale» adoperata da Heller può ricordare la dialettica di «sovrastruttura» e «struttura» tipica delle dottrine
marxiste, là dove lo «spirituale» di Heller corrisponderebbe alla
«sovrastruttura» dei marxisti, e il suo elemento «materiale» alla
loro «struttura», va notato innanzitutto che l’economia fa parte
per Heller dell’àmbito «spirituale», mentre egli menziona come
componenti della determinante «materiale» il territorio geografico (Boden) e la razza (Blut), fattori del tutto irrilevanti nel
pensiero marxista. D’altra parte, in questa proposta teorica, lo
«spirituale» non è, come accade invece alla «sovrastruttura»,
del tutto subordinato all’elemento «materiale»: tra i due v’è una
relazione di dipendenza reciproca.
Heller è dunque un nazionalista, e nemmeno dei più blandi
– almeno su un piano meramente teorico –, giacché riconosce
il ruolo determinante del territorio e persino della razza15. Il suo
nazionalismo «teorico» si fa però quasi subito anche «politico».
Il socialismo – afferma – può essere solo «nazionale», giacché
13
H. HELLER, Sozialismus und Nation (II ed., 1931), in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 1, II ed., cit., p. 464.
14
Ibidem.
15
Heller prende però in maniera netta le distanze dalle teorie razziste:
«Will man das Wort “Rasse” hier gebrauchen, so muß man sich klar sein, daß
damit lediglich eine durch geschichtliche Schicksale aus verschiedenen Bestandteilen durch Wechselheiraten erwachsene Blutverfestigung gemeint sein
kann, die in jeder Generation von neuen gelockert, von neuem gemischt und
von neuem gefestigt wird» (H. HELLER, Sozialismus..., cit., p. 453).
63
è solo la nazione ad offrire un àmbito praticabile d’azione e di
senso all’azione umana. La lotta di classe è così lotta «nazionale». «Klasse muß Nation werden! Nicht aus der Nation heraus, sondern in die Nation hinein wollen wir uns kämpfen!»16.
Dimodoché Heller non si sente di condannare il pathos nazionalista dell’agosto 1914 allorché il coltissimo popolo tedesco si
era gettato entusiasticamente nella guerra mondiale ebbro di
sentimenti patriottici. E vede sempre il trattato di Versailles
come uno stato di fatto degradante per la nazione germanica, e
quindi da combattere e superare. Da combattere – sembra a un
certo punto – anche con la forza delle armi. «Non desideriamo
la guerra» – scrive17. Ma subito dopo cita il discorso di August
Bebel del 7 marzo 1904, in cui questi dichiarava la disponibilità della classe operaia a imbracciare le armi «là dove sia in
gioco l’esistenza della Germania»18. Il popolo tedesco ha diritto
all’autodeterminazione e all’unità nazionale negatagli dal Trattato di Versailles. Ora – continua Heller– tale autodeterminazione dipende in ultima istanza dalla forza militare e dal possesso di armi pesanti19. Perciò il disarmo imposto alla Germania dai «Francesi» (contro cui soprattutto si rivolge l’attacco di
Heller) è illegittimo e – è sottinteso – non va rispettato. A questo proposito Heller giunge a definire i gruppi clandestini della
destra militare che accumulano e nascondono armi «un paio di
ragazzi stupidi», innocui in confronto alla «corona di spine» di
Stati vassalli della Francia che circondano il territorio martoriato
della Germania. «Frankeich hat uns mit einem Dornenkranz von
Staaten umgeben, die unter französischer Botmäßigkeit folgende
Truppen in Millionen Kriegsstärke aufweisen»20; e segue una
lista accurata delle forze in campo.
La polemica non si dirige solo contro Versailles (il trattato di
Versailles) ma anche contro Ginevra (vale a dire contro la So16
17
18
19
20
64
Ivi, p. 474.
Ivi, p. 523.
Vedi ivi, p. 524.
Vedi ibidem.
Ivi, p. 521.
cietà delle Nazioni che lì aveva sede). La Società delle Nazioni
– per il Nostro – si è rivelata il «trust dei vincitori», «che considera suo compito principale la santificazione degli attuali rapporti di forza, dunque la repressione violenta della Germania»21.
Heller attacca l’idea pacifista – nella Germania di Weimar
simboleggiata da personaggi come Kurt Tucholsky e Carl von
Ossietsky, il cui destino, dopo il 30 gennaio 1933, non sarà certo
meno tragico.
L’eroismo a comando della guerra di macchine e di gas dei nostri
giorni è di certo qualcosa di giustamente assai sospetto. Ma ancora
più sospetto dal punto di vista etico e pratico mi sembra essere il pacifismo tuo e di molti altri, che avversa la guerra perché questa fa soffrire22
dice K. uno dei due protagonisti d’un dialogo sulla pace, che è
un po’ l’alter ego dell’autore. Il sacrificio della guerra non è
per Heller necessariamente un male, di certo non lo è solo perché «fa soffrire» gli individui; il coraggio militare è una virtù
repubblicana che bisogna coltivare e saper dimostrare allorquando sono in gioco i supremi interessi della collettività: «una
guerra giusta può essere “qualcosa di sublime”»23. E del resto
non oppone egli all’ideale della Sekurität rinfacciato a Hans
Kelsen – permanente obiettivo d’una polemica tanto aggressiva
quanto instancabile e, almeno agli occhi dei posteri, ingiustificata – l’ineliminabile realtà del «vivere pericolosamente»24?
Ivi, p. 522.
H. HELLER, Gespräch zweier Friedensfreunde (1924), in H. HELLER,
Gesammelte Schriften, vol. 1, cit., p. 423, corsivo mio. L’ostilità di Heller per
il pacifismo ricorda da vicino un’analoga avversione nutrita da Max Weber,
il cui pensiero è anch’esso impregnato di «Machtstaatsgedanke». Si legga per
esempio M. WEBER, Zwischen zwei Gesetzen, in M. WEBER, Gesammelte Politische Schriften, a cura di J. Winckelmann, V ed., Tübingen 1988, in particolare p. 144.
23
H. HELLER, Sozialismus und Nation, cit., p. 525.
24
H. HELLER, intervento sulla relazione di Hans Kelsen Wesen und
Entwicklung der Staatsgerichsbarkeit tenuta a Vienna il 23 aprile 1928, in
21
22
65
«Chi dice sì alla vita, dice sì allo stesso tempo a una demoniaca
unione di opposti»25.
Pertanto la tradizione internazionalista del movimento operaio non riscontra la sua approvazione. «La politica socialista –
scrive nel breve articolo Der Sinn der Politik – non vuole nemmeno un ordine internazionale mediante l’annientamento delle
differenze nazionali». E aggiunge che non bisogna «puntare su
una politica estera di riconciliazione dei popoli che ancora non
esiste, né aspirare a un futuro senza Stato che non è possibile»26.
La conclusione è allora che «l’idea di Stato nazionale tedesco»
e quella di «socialismo tedesco» devono «trovare una via comune per la realizzazione dell’idea approfondita da Marx e Lassalle di un popolo generale tedesco organizzato in un nuovo potere nazionale»27.
In maniera alquanto suggestiva, e secondo un modello impiegato anch’esso dal pensiero reazionario, Heller contrappone
il nazionalismo all’imperialismo. La prospettiva internazionalista – dice quest’argomento – è quella occupata non tanto dal
movimento operaio quanto dal capitalismo che si è fatto mondiale e che, mosso unicamente da fini economici (di profitto
economico), ha perso (seppure lo ha mai avuto) qualsiasi ancoraggio in una forma comunitaria di vita sociale, in una patria
insomma. È il capitalista il «senza patria»; il proletario invece
è inserito in una collettività originaria che dà senso alle sue sofferenze e alla sua lotta. Si tratta allora di contrapporre all’Internazionale del capitale la nazione operaia. In particolare il
còmpito del movimento socialista tedesco «consiste nel realizzare l’idea della vera comunità di popolo socialista [den Gedanken der wahren sozialistischen Volksgemeinschaft] di contro
«Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer», Heft
5, 1929, pp. 111 sgg.
25
H. HELLER, Sozialismus und Nation, cit., p. 525.
26
H. HELLER, Der Sinn der Politik (1924), in H. HELLER, Gesammelte
Schriften, vol. 1, cit., p. 434.
27
H. HELLER, Hegel und die deutsche Politik (1924), in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 1, cit., p. 255.
66
all’Oriente bolscevico e all’Occidente capitalista»28. Il tramonto
dell’Occidente non investe dunque il socialismo e la nazione che
ha la missione storica di realizzarlo: la Germania. Questa pertanto è concepita come estranea alla tradizione politica occidentale, al decadente liberalismo. Essa è soprattutto – in linea
con la tradizione inaugurata dal Fichte dei Discorsi alla nazione
tedesca – né Oriente né Occidente, bensì: Mitteleuropa29.
In questa prospettiva nazionalismo e socialismo non rappresentano concezioni del mondo tra loro contraddittorie e irreconciliabili, devono piuttosto cercare una sintesi dei rispettivi
princìpi e riformarsi l’uno mediante il riconoscimento e la recezione dei tratti essenziali dell’altro. In un certo senso essi sono
concetti affini, giacché l’idea di nazione implica l’idea d’una
collettività legata da vincoli ingiustificabili mediante considerazioni meramente individuali e dunque una specifica solidarietà tra i suoi membri, e quest’ultima solidarietà può essere
considerata come il principio ultimo dell’idea di socialismo. Sozialismus und Nation, oltreché il titolo del suo scritto programmatico del 1923 (ripubblicato senza modifiche nel 1931), potrebbe ben essere il motto riassuntivo del pensiero politico di
Heller – almeno fino al 30 gennaio 1933, il giorno della nomina di Hitler a cancelliere del Reich.
H. HELLER, Sozialismus und Nation, cit., pp. 525-526.
Heller si interroga successivamente sulla effettiva possibilità offerta
dallo Stato nazionale alla risoluzione dei problemi sociali delle società europee, i quali già all’epoca presentavano una rilevante dimensione sopranazionale. La prospettiva nazionalistica non gli impedisce così di preconizzare una
più ampia unità culturale e politica che ricoprenda le varie nazionalità europee. Egli così supera l’angusto orizzonte del nazionalismo tedesco e si fa portavoce dell’esigenza di una nazione europea. Si legga H. HELLER, Die politischen Ideenkreise der Gegenwart (1926), ora in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 1, cit., p. 374: «Schließlich erscheint es nach dem Weltkrieg allgemein als höchst fragwürdig, ob bei der überaus engen gesellschaftlichen
Verflechtung der europäischen Staaten der Nationalgedanke allein noch fähig
ist, die Besonderung und den Kampf dieser Staaten zu legitimieren, ob nicht
vielmehr die Nationalidee ergänzt werden muß durch ein umfassenderes Substrat Europa, in dessen Namen allein noch die gegenwärtige Staatskrise
überwunden werden könnte» (corsivo nel testo).
28
29
67
Nondimeno, nel libro Die politische Ideenkreise der Gegenwart, pubblicato qualche anno dopo Sozialismus und Nation,
vale a dire nel 1926, i toni nazionalisti si attenuano. Qui si afferma in maniera esplicita che – in considerazione della crescente internazionalizzazione del capitale e delle sempre più
strette connessioni delle economie dei vari Stati, sì che si profila un vero e proprio spazio economico mondiale – il socialismo, per realizzarsi, non può fare a meno di un’associazione
internazionale dei lavoratori.
Naturalmente – scrive – viviamo ancora in un ordine sociale capitalistico, nel quale a una velocità impressionantemente rapida si sviluppano istituzioni socialistiche. Ovviamente non può tracciarsi un limite preciso oltre il quale lo Stato capitalista cessa di esistere e ha
inizio quello socialista. Questo limite però non verrà di certo oltrepassato fino a quando non saranno superate le frontiere degli Stati nazionali e non si sarà costruita una solida organizzazione politica internazionale30.
E il libro si conclude con l’augurio che ci si possa presto incamminare verso gli Stati Uniti d’Europa, necessari ormai per
ringiovanire il vecchio e stanco continente31.
3. L’analisi del fascismo
Non ci sarebbe forse bisogno di ricordare che l’altro punto
qualificante del pensiero politico di Heller è l’antifascismo. Del
nazismo egli, socialista ed ebreo, è una delle prime vittime. Gli
viene tolta la cattedra di diritto pubblico a Francoforte sul Meno
(che è data al nazista Ernst Forsthoff), ed è costretto ad emigrare, prima a Londra, e poi a Madrid ospite dell’Instituto de
estudios políticos, su proposta e intervento di Fernando de Los
30
31
68
H. HELLER, Die politische Ideenkreise der Gegenwart, cit., p. 407.
Vedi ivi, p. 409.
Rios, il quale è spesso citato come il socialista liberale spagnolo.
Heller però non è affatto un socialista liberale. Il suo sospetto,
la sua ostilità anzi, verso il liberalismo, da lui accusato d’essere
addirittura l’anticamera dell’anarchismo32, è uno dei motivi conduttori tanto della sua opera teorica quanto della sua battaglia
politica. Ed è proprio questa sua ostilità verso il liberalismo che
rende la sua opzione antifascista teoricamente debole, tanto che
all’indomani del suo ritorno dall’Italia, dove si era recato nel
1928 per studiare di prima mano il regime fascista, l’amico Gustav Radbruch gli domanda se non sia per caso nel frattempo
diventato «filofascista». Si tratta ovviamente di una domanda
scherzosa e ironica, che pure qualche fondamento sia pure labile doveva avere, se Heller si affretta a rispondergli per tranquillizzarlo, e riaffermare la sua fede democratica: «Lei vuol sapere se son tornato dall’Italia filofascista. Al contrario: Mussolini mi ha reso un appassionato democratico»33.
Frutto del suo soggiorno in Italia è il libro Europa und der
Faschismus, una delle prime serie analisi del regime mussoliniano. Il libro è attento, informato, accurato. La prospettiva
Accusa questa che si ritrova in Bismarck che ai liberali giudicati sovversivi preferiva la disciplinata socialdemocrazia. In merito, si legga una pagina di Thomas Mann: «Trotzdem, die bürgerliche Kultur mochte noch lachen damals; sie schien aere perennius, und die Sozialdemokraten waren die
letzten, sie ernstlich zu bedrohen. Bismarck verabscheute ihren theoretischen
Internationalismus, wie er den der Parteikatholiken, der “Ultramontanen” verabscheute und als reichsfeindlich brandmarkte. Im Grunde aber erkannte und
anerkannte er in der Sozialdemokratie eine Partei des Etatismus und der Staatsdisziplin, und was er wirklich haßte, war der Liberalismus, der Freisinn, von
dem er sagte, daß er dem Anarchismus viel näher stehe als die Sozialdemokratie» (TH. MANN, Meine Zeit, in TH. MANN, Über mich selbst. Autobiographische Schriften, Fischer, Frankfurt am Main 1994, p. 11).
33
«Sie wollen wissen, ob ich Philofascist von Italien zurückgekehrt bin.
Im gegenteil: Mussolini hat mich zum begeisterten Demokraten gemacht» (lettera di Heller a Radbruch del 23 novembre 1928, citata in H.P. SCHNEIDER,
Positivismus, Nation und Souveränität. Über die Beziehungen zwischen Heller und Radbruch, in Staatslehre in der Weimarer Republik. Hermann Heller
zu ehren, a cura di Ch. Müller e I. Staff, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985,
p. 181, nota 26). In merito cfr. anche G. ROBBERS, Hermann Heller: Staat
und Kultur, cit., p. 36
32
69
adottata è quella, più che d’un giurista, d’uno scienziato politico, anche se le questioni giuridiche sollevate dallo Stato fascista non vengono trascurate o messe in sordina. Si tratta d’un
vero e proprio studio di scienza politica, non d’uno scritto polemico o di propaganda antifascista. La ricerca è fredda e dettagliata; anzi qui e là traspare una certa eccessiva comprensione
del punto di vista fascista. L’analisi rischia talvolta di farsi da
«comprendente» «comprensiva». Durante il viaggio in Italia
Heller rimane positivamente sorpreso da un certo ordine che
regna nel paese:
Ciò che oggi chiunque viaggi in Italia attribuisce, a ragione, al pugno
di ferro del governo fascista è certamente l’organizzazione e la tecnica dei trasporti, in precedenza molto mediocri, i mezzi di trasporto
puntuali e puliti, il buon funzionamento della posta e dei telefoni34.
Ma non è questo a rendere il libro discutibile e a segnalare
una certa debolezza teorico-politica della posizione di Heller;
sono le ragioni da lui addotte per rigettare il fascismo come proposta politica. Il punto chiave è che a suo avviso il fascismo non
è un regime politico moralmente ingiusto per il fatto d’essere
una dittatura o per il fatto di conculcare diritti fondamentali.
La dittatura – scrive nel capitolo conclusivo del libro – come ogni
altra forma di organizzazione politica, non è né buona né cattiva. Solo
il contenuto concreto di una particolare dittatura in una situazione storica determinata è decisivo per attribuire o meno valore ad essa35.
Non è tanto la limitazione delle libertà e dei diritti individuali a costituire un problema per il Nostro. Del resto non era
pronto egli stesso a limitare certi «eccessi» di libertà ritenuti
dannosi per la moralità e l’integrità della collettività nazionale?
Non scrive forse nell’articolo Ziele und Grenzen einer deutschen
34
H. HELLER, L’Europa e il fascismo, trad. it. a cura di C. Amirante, Giuffreè, Milano 1987, p. 179.
35
H. HELLER, ivi, p. 200.
70
Verfassungsreform del 1931, che: «vogliamo vedere soppresse
legalmente tutte le altre sfrenatezze, come la libertà di diffamare della stampa, la libertà sudicia del cinema, la libertà dozzinale del commercio editoriale e altre simili libertà»36, dopo
aver precisato che: «approviamo lo Stato autoritario per ragioni
sia socialiste sia politico-nazionali»37.
Heller è contro il fascismo non perché questo sia uno Stato
autoritario o una dittatura, ma perché è privo – a suo avviso –
d’un vero programma e non riesce a dare espressione alle esigenze vitali della collettività nazionale né a soddisfare i bisogni urgenti delle sue forze produttive.
Ciò che dà al fascismo il marchio della pura reazione non è tanto che
esso sia una dittatura ma che la legittimazione della sua pretesa di dominio dittatoriale consiste in fondo in nient’altro che in un «artificio
religioso», in una mitologia del come-se, e in un’intelligente tecnica
propagandistica38.
Il problema dunque per Heller è innanzitutto che il fascismo
non riesce a esprimere un’autentica mitologia politica, un vero
e proprio corpo di idee e princìpi, una Weltanschauung epocale.
Se fosse però capace di ciò, la protesta della maggioranza che
rifiuta di sottomettersi alla decisione della minoranza sarebbe
ingiustificata.
Se la minoranza dittatoriale possedesse i nuovi contenuti della necessità vitale, nel cui nome ha potuto rifiutarsi di sottomettersi alla maggioranza democratica, allora essa potrebbe effettivamente rappresentare una élite, che sarebbe capace di produrre gerarchia, disciplina, e
un’autorità appropriata alla nuova vita39.
H. HELLER, Ziele und Grenzen einer deuschen Verfassungsreform (1931),
in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 2, cit., p. 417.
37
Ivi, p. 413.
38
H. HELLER, L’Europa e il fascismo, cit., p. 197.
39
«Besäße die diktierende Minorität die neuen lebensnotwendigen Gehalte,
in deren Namen sie die Unterwerfung unter die demokratische Majorität ab36
71
D’altra parte, un’ulteriore fonte di legittimità il fascismo potrebbe trarre dalla soluzione del conflitto di classe. Se esso riuscisse a fare del «corporativismo» qualcosa di più di una trovata
propagandistica, allora non lo si potrebbe contrastare col ricorso
all’argomento della soppressione delle libertà individuali.
Se la dittatura fascista implicasse una decisione politica di fondo su
cui le forze produttive della nazione potessero fare affidamento, se
cioè essa fosse effettivamente una soluzione «corporativa» della questione di classe, l’obiezione che la maggioranza democratica fa al regime, di non avere cioè un programma ben formulato, cadrebbe40.
Heller ha davanti solo l’esperienza italiana. La sua valutazione del «corporativismo» tende così a minimizzarne la portata teorica, visto che il movimento di Mussolini era stato fortemente voluto da industriali e latifondisti e reso regime dall’appoggio determinante della monarchia e delle alte gerarchie
ecclesiastiche. Troppo evidenti erano le simpatie degli ambienti
del grande capitale e della piccola borghesia impiegatizia e commerciale verso il regime fascista per poter credere che esso fosse
seriamente il portatore di una dottrina sociale rivoluzionaria e
di una nuova Weltanschauung epocale. Il «corporativismo» italiano è quasi una macchietta, una mascherata a uso e consumo
del capitale industriale. Heller così è scettico sulla capacità del
fascismo di risolvere il conflitto di classe, di rimodellare dal
profondo la società italiana; dunque non lo prende sul serio. Ed
è nel giusto, come dimostrerà il 25 luglio 1943, quando dal
giorno alla notte non si troverà più un fascista in Italia alla notizia dell’arresto del «Duce» da parte dei carabinieri del Re. Ma
il fascismo italiano è solo una forma temperata d’un «qualcosa»
che proprio nel Reich germanico sta emergendo in forme più
zulehnen vermochte, dann könnte sie allerdings eine Elite sein, die fähig wäre,
eine konkrete, dem neuen Leben adäquate Autorität, Hierarchie und Disziplin
zu schaffen» (H. HELLER, Europa und der Faschismus (II ed., 1931), in H.
HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 2, cit., p. 607).
40
H. HELLER, L’Europa e il fascismo, trad. it. cit., pp. 197-198.
72
«pure» ed estreme. Di fronte a questa emergenza Heller è abbastanza cieco. Le critiche ch’egli dirige contro il fascismo rispetto alla montante marea nazista sono armi spuntate. Il nazismo non è privo d’un programma ben formulato che esprima
«die neuen lebensnotwendigen Gehalte, in deren Namen sie die
Unterwerfung unter die demokratische Majorität abzulehnen
vermochte». Ma quand’anche lo fosse, non gli manca una mitologia potente, tale da mobilitare la nazione tdesca; il suo intento è genuinamente rivoluzionario, ed è in grado – come dimostrerà ben presto – d’una «decisione politicamente fondamentale accettabile per le forze produttive della nazione».
Heller, almeno fino al 30 gennaio 1933, non si rende conto
che l’auspicata sintesi di nazionalismo e socialismo si è già realizzata, non nel nome di Lassalle ma in quello più plebeo e ancora abbastanza innocente di Hitler. Il suo atteggiamento ricorda, sotto questo profilo, quello di Hans Kelsen, pure da lui
tanto criticato. Kelsen – come è noto – difende la democrazia
con l’argomento del relativismo o noncognitivismo etico: poiché non è possibile raggiungere una verità in etica, allora tutte
le posizioni morali sono lecite. Dal relativismo etico si deduce
l’affermazione del pluralismo politico e della democrazia. Solo
un nuovo Cristo – aggiunge Kelsen – che fondi la sua verità su
una presunta origine divina può sfidare la democrazia, giacché
per lui, ma solo per lui, non varrebbe la relatività dei valori41.
Con ciò Kelsen crede di aver detto una parola definitiva contro
il fascismo. Purtroppo non è così, perché questo, ma assai più
il nazionalsocialismo, è il messaggio di un Anticristo, anch’esso
assolutamente certo della propria verità, perché espressione d’un
ente dai tratti divini, lo «spirito del popolo», «terra e sangue».
Contro questo l’argomento relativista non ha alcuna forza, è un
ferrovecchio, come lo è d’altra parte il principio formale di universalizzabilità. Il nazista non arretrerà d’un millimetro nella
sua volontà di sterminio dinanzi alla considerazione che, se per
Vedi ad esempo H. KELSEN, Vom Wesen und Wert der Demokratie, II
ed., Mohr, Tübingen 1929.
41
73
caso egli stesso fosse razzialmente «impuro», dovrebbe anch’egli essere eliminato42. Del pari Heller crede di poter sfidare
il fascismo negandogli la dignità di rappresentare un’ideologia
autentica, fornita di princìpi e di valori, capace di muovere le
masse e di motivare fortemente una élite. Al fascismo, e al nazismo, mancherebbe «questa decisione politica di fondo circa i
valori, la pretesa coerente di un nuovo fondamentale senso della
vita»43.
Nell’ultimo articolo pubblicato in Germania prima dell’avvento di Hitler al potere, Autoritärer Liberalismus?, in cui si
mettono allo scoperto i veleni delle dottrine politiche autoritarie ormai vincenti, in particolare quelli sparsi a piene mani da
Carl Schmitt, e si fiuta l’imminenza della catastrofe che incombe, Heller taglia corto con lo Stato totale. Questo è reclamato da varie parti, da settori autoproclamatisi «idealisti», e reso
popolare da uno Ernst Jünger, «il quale – scrive Heller – ha diffuso da noi lo slogan dello Stato totale originariamente coniato
dal fascismo»44. «Lo Stato totale – dice ancora Heller – è un’impossibilità pratico-politica»45. Ciò perché non vi sarebbe nella
società attuale nessuna forza o ideologia politica che possa ambire ad essere talmente pervasiva da non arrestarsi dinanzi a una
qualche sfera di intimità dei consociati. Tantomeno di ciò è capace il fascismo italiano o quello tedesco degli Jünger, degli
Schmitt e del meno raffinato Adolf Hitler.
Tutte le volte che nella storia moderna si è mirato a una totalità sia
pur relativa dello Stato, si è sempre presentata al contempo la necessità di una religione civile unitaria dettata dallo Stato. Un’autorità,
che voglia motivare più che la nostra condotta esteriore e determi-
In merito cfr. R.M. HARE, Freedom and Reason, Oxford University
Press, Oxford 1963.
43
H. HELLER, L’Europa e il fascismo, trad. it. cit., p. 201.
44
«...der das ursprünglich dem italienischen Faschismus entstammende
Schlagwort vom totalen Staat bei uns verbreitet hat» (H. HELLER, Autoritärer Liberalismus? (1932), in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 2, cit.,
p. 648).
45
Ivi, p. 649.
42
74
nare anche la nosta interiore umanità, e vincolare la nostra coscienza
e le nostre opinioni, deve potersi richiamare a qualcosa di più della
mera superiorità di forze o di considerazioni utilitarie [...] Ora in Germania senza dubbio manca allo Stato, sia esso «autoritario» o «totalitario», ogni tipo di fondamento metafisico-religioso, per cui esso non
può presentarsi come autorità ultima nemmeno nel terreno generale
della cultura spirituale né può determinare immediatamente la comunità culturale46.
Al fascismo dunque – in questa prospettiva – non ci si oppone con una dottrina morale sostanziale, ma mediante argomenti formali, metaetici o metapolitici. Ciò rivela innanzitutto
un’incomprensione del fenomeno fascista, banalizzato o ricondotto alla «normalità» dei regimi dispotici o autoritari precedenti, senza riconoscere la terribile novità che esso preannunzia e produce. Il giurista socialista – razionalista e illuminista
malgré tout – non riesce a intendere che le «religioni civili»
possono anche essere idolatriche e demoniache, e che la forza
del nazionalsocialismo è proprio quella di rappresentare una
sorta di culto satanico di massa47. Anche in Italia dinanzi all’irruzione d’un movimento politico che non aveva precedenti
– il fascismo – a molti era parso che Mussolini fosse un nuovo
Crispi, e che il suo regime non fosse altro che uno Stato autoritario paternalista dai tratti comunque ancora liberali.
L’incomprensione tuttavia è più profonda, ed è duplice. In
primo luogo si tratta d’una grave incomprensione della logica
del discorso morale: contro un argomento etico poco o nulla
vale un argomento metaetico ovvero considerazioni sociologiche o politologiche. Contro chi pretende il potere assoluto sulla
vita dei suoi simili e afferma il Führerprinzip ben misera e vana
cosa è ricordargli che non v’è una giustificazione assoluta dei
giudizi di dover essere oppure dimostrargli l’«impossibilità pratico-politica» dello Stato totale. Per opporsi, tanto argomentatiIbidem (sottolineatura nel testo).
Ciò invece, e quasi allucinatamente, vede Joseph Roth, certo tutt’altro
che un giurista o uno scienziato politico. Si legga J. ROTH, Der Antichrist,
Allert de Lange, Amsterdam 1934.
46
47
75
vamente quanto concretamente (nei fatti, per motivare una condotta), al Führerprinzip, bisogna ricorrere a princìpi in contraddizione con quello, per esempio al principio dell’autonomia
della persona umana; si ha bisogno cioè non di metaetica o di
scienza politica, bensì di teoria morale e politica normativa.
L’altra incomprensione, connessa a quest’ultima, riguarda i fondamenti giustificativi della democrazia e il valore assiologico
di questi. La democrazia ha valore e dunque può difendersi non
perché non vi sia nulla che abbia valore e che possa giustificatamente difendersi, ma perché essa è una specifica «forma di
vita», dotata d’una propria «concezione del mondo», d’un modello normativo ideale, d’un «mito fondante» – se si vuole –:
il governo del popolo da parte del popolo. Ma a Heller, affascinato dal Machtstaatsgedanke (l’ideale dello «Stato di potenza» ch’egli deriva, pur con qualche cautela, dalla filosofia
politica di Hegel)48 non era dato di servirsi senza riserve del
modello normativo democratico.
Heller infatti adotta una teoria della democrazia come «forma
di dominio», Herrschaftsform, e non come superazione di questo, la quale si caratterizza per il fatto d’essere inevitabilmente
rappresentativa, nel senso che una democrazia diretta vista
anche quale modello ideale estremo è ritenuta un’assurdità. La
teoria della democrazia di Heller presuppone invece un centro
di potere che sfugga al controllo democratico ovvero al giudizio dei cittadini:
Vedi H. HELLER, Hegel und der nationale Machtstaatsgedanke in Deutschland. Ein Beitrag zur politischen Geistesgeschichte (1921), in H. HELLER,
Gesammelte Schriften, vol. 1, cit., per esempio, pp. 24-25, e 238-240. Può essere interessante segnalare che Julius Binder, convertitosi al hegelismo negli
anni Venti e acceso nazionalista (è lui il maestro di un buon numero di giuristi nazisti che si raccoglieranno nella famigerata «Scuola di Kiel», di Karl
Larenz tra gli altri), rimprovera a Heller di fornire del pensiero politico di
Hegel un’immagine esageratamente decisionistica: «Naturalmente è un’esagerazione mostruosa e un misconoscimento del pensiero hegeliano affermare,
come fa Heller, che il potere nazionale (die nationale Macht) sia per Hegel
lo scopo supremo» (J. BINDER, Staatsraison und Sittlichkeit, Junker und
Dünnhaupt, Berlin 1929, p. 59).
48
76
Anche nella democrazia con uguali chances sociali il popolo può dominare [herrschen] solo mediante un’organizzazione del dominio
[Herrschaftsorganisation]. Ogni organizzazione necessita d’una autorità, e ogni esercizio di potere soggiace alla legge dei piccoli numeri;
coloro che rendono attuali le prestazioni organizzatrici unitarie di potere devono sempre disporre di un certo grado di libertà decisionale
e dunque d’un potere non democraticamente vincolato49.
Anche in democrazia rimane valida la «legge dei piccoli numeri», «das Gesetz der kleinen Zahl»50. Dietro una tale affermazione può intravvedersi facilmente l’influsso della scienza
politica elitistica di un Pareto o di un Michels.
Heller è in parte prigioniero della teorizzazione (ed esaltazione) del «capo», della Persönlichkeit tanto comune nella cultura tedesca dei primi decenni del secolo e così ben rappresentata (ed irrisa) da Thomas Mann nella figura di Mijnheer Peeperkorn, un personaggio del Zauberberg. Così – per il Nostro
– «una moltitudine senza capo sarebbe un grido inarticolato oppure una rissa confusa [Führerlose Menge wäre unartikulierter
Schrei oder ungeordnete Schlägerei]»51. E il rapporto tra massa
e capo è visto come quello tra materia informe e un principio
che dà forma: «Affinché una massa priva di vincoli divenga
creatrice, essa abbisogna del capo. Il rapporto tra massa e capo
49
H. HELLER, Staatslehre (1934), III ed., Nijhoff, Leyden 1971, p. 247.
Ernst-Wolfgang Böckenförde utilizza questa tesi di Heller nella sua critica
della nozione di democrazia come centrata normativamente sull’ideale d’una
partecipazione diretta dei cittadini alla decisione della cosa pubblica: cfr. E.W.
BÖCKENFÖRDE, Demokratie und Repräsentation. Zur Kritik der heutigen Demokratiediskussion, in E.W. BÖCKENFÖRDE, Staat, Verfassung, Demokratie.
Studien zur Verfassungstheorie und zum Verfassungsrecht, II ed., Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1992, pp. 379 sgg.
50
H. HELLER, Politische Demokratie und soziale Homogenität (1928), in
H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 2, cit., p. 426. Cfr. W. LUTHARDT, Staat,
Demokratie, Arbeiterbewegung. Hermann Hellers Analysen im Kontext der
zeitgenössischen sozialdemokratischen Diskussion, in Staatslehre in der Weimarer Republik, cit., p. 96.
51
H. HELLER, Gesellschaft und Staat (1924), in H. HELLER, Gesammelte
Schriften, vol. 1, cit., p. 265.
77
è quello stesso che intercorre tra contenuto e forma ordinatrice»52. È per questa ragione che Heller non può intendere che
qualcuno concepisca la democrazia come regime politico senza
capi. Per questo critica una volta di più Hans Kelsen:
Con questi presupposti il logicista può comprendere la democrazia
solo come nomocrazia spersonalizzata. Per questa ragione alla sua idea
«idea di democrazia» corrisponde «l’assenza di capi». La sua idea
astratta della legge ammette soltanto individui astratti e nessuna concreta individualità. «Nella democrazia ideale non v’è posto per chi
possiede temperamento di capo» (Kelsen, Vom Wert und Wesen der
Demokratie, 1929, p. 79). L’esistenza di capi e di capi per temperamento nella realtà politica non solo è incomprensibile dal punto di
vista del nomocrate, ma rappresenta per il valore e l’essenza della sua
democrazia un male assai deplorevole di tale realtà, che va il più possibile eliminato53.
Ma se per giustificare una dittatura basta che vi sia un Führer (termine, vale ancora la pena di ricordare, diffusissimo nella
letteratura politica tedesca del primo dopoguerra tanto a destra
quanto a sinistra, e amato anche da Max Weber, oltreché da personaggi peraltro «scientificamente» solidi della fatta d’un Julius Binder convinto Deutschnationaler)54, se, perché una élite
possa sottrarsi al principio maggioritario della democrazia e alla
discusione pubblica che tale principio presuppone, basta che la
élite sia autentica, vale a dire sia capace di farsi obbedire e seguire, la Führertum per giustificarsi deve solo essere in grado
Ibidem.
H. HELLER, Europa und der Faschismus, in ID., Gesammelte Schriften,
vol. 2, cit., p. 477.
54
Né al fascino del Führer si sottrae il liberale e kantiano Leonard Nelson, che ne fa anzi uno dei motivi della sua riflessione teorico-politica. Di lui
si legga per esempio Erziehung zum Führer (1920), e Führererziehung als
Weg zur Vernuntpolitik (1921), ora entrambi in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. Bernays et al., vol. 8, Sittlichkeit und Bildung, Felix Meiner, Hamburg 1971, rispettivamente pp. 497 sgg. e 523 sgg.
Su Nelson si dirà dettagliatamente nel capitolo quarto.
52
53
78
di costituire una Gefolgschaft, ovvero produrre sentimenti di
identificazione e di lealtà rispetto alla figura del «capo». In tal
caso però anche il fascismo e il nazionalsocialismo possono presentarsi come regimi politici pienamente legittimi, giacché i loro
«duci», i Mussolini e gli Hitler, non mancano della forza di magnetizzare individui e gruppi, di motivarli fino all’estremo sacrificio della vita, di rappresentare per loro un modello ideale,
un esempio di «buona vita». Non sono certo i «duci» o Führer
a mancare in Europa tra le due guerre mondiali – come constata con una certa dose di sarcasmo lo stesso Heller55.
4. La dottrina giuridica: decisionismo e rivolta
contro il formalismo
Hermann Heller ha grandi meriti per ciò che concerne il
rinnovamento metodologico della dottrina giuridica dell’Europa continentale, in particolare per ciò che concerne il diritto
pubblico. La sua influenza sulla giuspubblicistica della Repubblica federale tedesca è importante tanto sotto l’aspetto per
l’appunto metodologico quanto per ciò che riguarda l’adozione
– determinante per la configurazione istituzionale del nuovo
Stato tedesco – della formula dello «Stato sociale di diritto».
Questa formula – come è noto – è riproposta nell’articolo 1
della Costituzione spagnola del 1978 ed è dunque alla base
del rinnovamento democratico della Spagna contemporanea.
Qui può intravvedersi un legame ulteriore di Heller con la Spagna oltre a quello suggellato dalla morte dell’«ebreo errante»
in terra iberica56.
Vedi H. HELLER, Genie und Funktionär in der Politik (1930), in H. HELGesammelte Schriften, vol. 2, cit., p. 620.
56
Non posso qui soffermarmi sulla fortuna dell’opera di Heller, largamente tradotta in castigliano, sulla cultura giuridica spagnola e ibero-americana. In merito cfr. l’introduzione di Antonio Lopez Piña in H. HELLER, Escritos políticos, Alianza, Madrid 1985.
55
LER,
79
Heller è un grande critico dei «classici» del pensiero giuridico pubblicistico germanico, in particolare di quella che è stata
chiamata la linea «Gerber-Laband-Jellinek-Kelsen». Ora, questa tradizione di pensiero giuridico, in particolare quella rappresentata dall’opera di Gerber e di Laband, costituisce il nucleo della dottrina che ha «fondato» concettualmente il diritto
pubblico moderno dell’Europa continentale, e dunque di ciò che
oggi intendiamo, in Germania come in Spagna o in Italia, come
lo Stato. Tale impresa teorica, dai grandiosi riflessi istituzionali,
si caratterizza per una qualità per certi versi singolare, la pretesa mancanza di qualità materiali, ovvero la separatezza. La
separatezza qui è duplice: è tanto della scienza (il diritto) quanto
del suo oggetto, lo Stato.
Ciò va di pari passo con un processo di progressiva «autonomizzazione» del politico, sia dalla dimensione normativa
«forte», dalla morale, sia da una fisicità o materialità connessa
a quella dei soggetti umani. Qui l’«autonomia del politico» si
dà grazie alla ricostruzione giuridica della nozione di Stato
(come «persona giuridica») operata dal positivismo giuridico ottocentesco, in particolare da quello tedesco a partire dall’opera
di Friedrich Carl von Gerber passando per Paul Laband e Georg
Jellinek57 fino a giungere all’opera di Hans Kelsen, che qualcuno ha definito il più grande giurista del ventesimo secolo. Invero Kelsen rappresenta sia ideologicamente (è un convinto democratico) sia metodologicamente (è un normativista estremo)
una novità rispetto ai suoi predecessori. Particolarmente significativi sono la sua critica al concetto di Stato come «persona
giuridica» e il suo rifiuto della nozione di «sovranità» in dirzione di una ulteriore de-essenzializzazione della nozione di
Stato. Nondimeno Kelsen, per sua stessa ammissione, sviluppa
una concezione del diritto, ampiamente statalista e coercitivistica, e decisamente avversa a qualunque commistione della
Su questa vicenda interessanti annotazioni si trovano in C. SCHMITT,
Hugo Preuss, Junker und Dünnhaupt, Berlin 1930.
57
80
sfera giuridica con elementi provenienti dalla morale e dalla politica, che può plausibilmente considerarsi una filiazione della
«rivoluzione metodologica» compiuta da Gerber e da Laband e
continuata da Georg Jellinek.
L’operazione compiuta da questo giuspositivismo è apparentemente semplice. Si afferma innanzituto la specificità della
«scienza» giuridica in quanto indipendente per un verso dalla
filosofia morale e politica, e per altro verso dalla sociologia e
dalla scienza politica. La avalutatività e la «purezza» sembrano
costituire l’ideale metodologico di questa scuola. La sua mossa
teorica decisiva non è però tanto questa della separatezza della
conoscenza giuridica quanto quella della proiezione di tale specificità della «scienza» sull’oggetto della scienza medesima. In
questa prospettiva la scienza si giustifica non per esigenze metodologiche, ma in quanto essa corrisponde a un certo oggetto
che è originariamente autonomo e «puro», una versione particolare del Sollen, di istituzioni e concetti giuridici di cui lo Stato
è quello fondamentale; l’esistenza di una scienza autonoma
dello Stato finisce per sancire l’esistenza autonoma (a-morale,
a-politica, a-sociale) dello Stato.
Mentre il diritto pubblico pre-gerberiano, di estrazione essenzialmente francese, connette fortemente l’analisi giuridica a
considerazioni filosofico-politiche, in particolare in virtù della
nozione di costituzione, di modo che si afferma che il diritto
costituzionale è solo quello che soddisfa determinati requisiti di
legittimità procedurale (una deliberazione pubblica e discorsiva,
la separazione dei poteri) e sostanziale (i diritti dell’uomo e del
cittadino), la «scienza» del diritto pubblico germanico a partire
da Gerber ricostruisce lo Stato come organismo, ovvero come
persona o ente giuridico a sé stante, indipendente rispetto agli
individui che ne sono membri e indifferente rispetto a princìpi
normativi forti. Se princìpi vi sono in una prospettiva siffatta,
questi agiscono nell’àmbito del contingente contesto politico e
non intaccano il nocciolo duro della «giuridicità» delle istituzioni e dei concetti. Dietro Gerber, Laband e Jellinek v’è una
concezione storicistica e organicistica dei fenomeni sociali. Così
Jellinek, in uno dei suoi ultimi scritti, può ancora affermare che
81
«lo Stato è in primo luogo un fenomeno storico e sociale, che
il diritto può ordinare ma non produrre»58.
La concezione di uno Stato come realtà a sé stante, come
portato storico o come organismo, che trae la propria giustificazione esistenziale da una pretesa specifica natura della istituzione (che si sottrae perfino alla forza costitutiva del diritto)
raggiunge due obiettivi ambiziosi. Innanzitutto si oscura la dinamica interna (tanto istituzionale quanto soprattutto giustificativa) dell’organizzazione statale. Se lo Stato non è un intreccio
di relazioni tra soggetti, o il risultato di norme e convenzioni
poste da soggetti ma ha una sua originaria realtà – sicché non
è lo Stato a presupporre regole e convenzioni bensì queste ultime lo Stato –, allora esso può presentarsi come una entità già
di per sé, per il suo intrinseco movimento, «razionale» e legittima. La razionalità e la legittimità gli derivano dalla sua realtà
come entità organica ovvero collettiva originaria. Saranno così
le attività individuali, dei singoli, e non quelle dello Stato, a doversi giustificare dinanzi a quella primigenia realtà. Se la realtà
primigenia è lo Stato e non le regole (il diritto), non si tratterà
più di misurare o giudicare lo Stato con riferimento alle regole
(al diritto), ma viceversa saranno le regole (il diritto) a dover
essere sottoposte a un giudizio di conformità con la natura intrinseca e irriducibile dello Stato.
L’altro ambizioso obiettivo del giuspositivismo germanico è
l’affermazione della sovranità dello Stato. In ciò invero non v’è
troppa differenza tra Gerber, Laband e Jellinek, i loro colleghi
francesi, e la «analytical jurisprudence» di Jeremy Bentham e
John Austin. Se la «persona» Stato è di tal natura «che non riceve da un potere esterno ad essa ma ritrova esclusivamente in
se stessa i motivi del proprio agire»59, allora la sovranità è una
qualità intrinseca all’organismo statale e non abbisogna di ul-
G. JELLINEK, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung. Eine
staatsrechtliche-politische Abhandlung, Häring, Berlin 1906, p. 43.
59
C.F. GERBER, Grundzüge eines Systems des deutschen Staatsrechts,
Bernhard Tauchnitz, Leipzig 1865, p. 22.
58
82
teriori giustificazioni. Qualsiasi teoria politica normativa diviene
superflua. L’ipotesi contrattualista, sia pure solo come riferimento ideale, può tranquillamente essere dimenticata se non rudemente accantonata. Il giuspositivismo organicista germanico
è insomma una teoria del diritto come «sistema autopoietico»
avant la lettre.
D’altra parte la proposta dello Stato come «organismo» o
«persona giuridica» avanzata da Gerber e sistematizzata da Laband e soprattutto da Georg Jellinek può essere intesa come una
risposta – liberale, se si vuole – alle teorie ancora influenti nella
Germania della seconda metà dell’Ottocento secondo le quali
lo Stato viene identificato senza residui nella signoria del monarca ovvero di un sovrano soggetto umano. Sono le cosiddette
Herrschertheorien, per le quali la sovranità è attributo non di
enti impersonali bensì di individui materiali concreti60. Ora,
tanto il droit politique francese, radicato in una visione normativa della politica, quanto qualsiasi Herrschertheorie non permettevano nessun decisivo progresso all’«autonomia del politico». Il «nostro» Stato, quello che oggi ci è – per così dire –
familiare, rinchiuso proceduralmente in se stesso, autoreferenziale, è dunque un figlio legittimo dell’elaborazione teorica del
giuspositivissmo germanico della seconda metà dell’Ottocento.
L’eco della tradizione democratica della Rivoluzione francese
ci giunge attenuato e filtrato dalla dottrina dello Stato come
«persona giuridica».
Orbene, Hermann Heller si scaglia con forza contro questa
scuola giuspositivistica, e ne fa il ricorrente obiettivo polemico
dei suoi scritti giuridici. Le critiche maggiori sono però rivolte
a Hans Kelsen. Ciò si giustifica innanzitutto per il fatto che dei
grandi rappresentanti della dottrina giuspositivistica di diritto
pubblico Kelsen è l’unico vivente al tempo in cui Heller scrive.
Dei teorici del positivismo giuridico Kelsen non è però il più
In merito, vedi G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht,
in G. JELLINEK, Ausgewählte Schriften und Reden, a cura di W. Jellinek, vol.
1, Häring, Berlin 1911, in particolare pp. 416 sgg, e cfr. quanto si è detto nel
capitolo precedente.
60
83
influente, almeno in Germania, dove tra gli anni Venti e Trenta
è ancora forte l’influsso di Georg Jellinek (da non confondere
col figlio Walter anch’egli eminente giuspublicista). Jellinek è
però, rispetto a Gerber e a Laband, assai più consapevole e raffinato circa le implicazioni filosofiche delle dottrine dello Stato
ed è aperto al pluralismo metodologico per ciò che concerne lo
studio del fenomeno giuridico e statale. A questo proposito basti
ricordare la sua famosa Zwei-Seiten-Theorie dello Stato per cui
quest’ultimo va studiato da due punti di vista alternativi e tuttavia complementari: quello strettamente giuridico e quello sociologico-politico61. Una tale teoria anticipa o contiene in nuce
molto dell’impostazione critica di Heller. Nondimeno il concetto di Stato proposto da Jellinek non differisce in nulla da
quello di Gerber e Laband. Lo Stato è il potere supremo dotato
di forza capace d’imporre le proprie decisioni:
Caratteristica essenziale è l’esistenza di un potere statale. Potere statale però non è altro che potere di dominio non ulteriormente derivabile, potere di dominio per forza propria e dunque per proprio diritto.
L’estensione di tale potere di dominio è del tutto indifferente ai fini
della sua esistenza. Là dove una comunità mediante forza originaria
e originari mezzi di coazione è in grado d’esercitare dominio sopra i
suoi membri e il suo territorio, lì esiste uno Stato62.
Questo modo di pensare di Jellinek – e della tradizione giuspubblicistica dominante nella Germania guglielmina – riecheggerà costantemente nell’opera di Heller.
Vedi G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, III ed., VII rist., Wissenschaftliche Buchgesellshaft, Darmstadt 1960, p. 63, e cfr. J. KERSTEN, G. Jellinek und die klassische Staatslehre, Mohr, Tübingen 2000, pp. 145 sgg.
62
«Wesentliches Merkmal ist Dasein einer Staatsgewalt. Staatsgewalt ist
aber nicht weiter ableitbare Herrschergewalt, Herrschergewalt aus eigener Macht
und daher zu eigenem Recht. Der Umfang dieser Herrschergewalt ist für ihr
Dasein ganz gleichgültig. Wo ein Gemeinwesen aus ursprünglicher Macht und
mit ursprünglichen Zwangsmitteln Herrschaft über seine Glieder und sein Gebiet gemäß einer ihm eigentümlichen Ordnung zu üben vermag, da ist ein Staat
vorhanden» (G. JELLINEK, Allgemeine Slaatslehre, cit., pp. 489-490).
61
84
Heller si è formato nell’atmosfera culturale della Monarchia
asburgica. Quale fosse la cultura politica egemonica tra Vienna,
Praga e Budapest a cavallo tra Ottocento e Novecento è descritto efficacemente da una pagina di Franz Werfel, uno tra i
più sensibili scrittori austriaci del primo dopoguerra. Anche nell’Impero multinazionale degli Asburgo così come nel Reich bismarckiano – ci dice Werfel – è lo Stato il mito fondante della
società civile.
Lo Stato era sacro, un valore superiore, simile al paradiso, che si era
stabilito in incognito sulla terra per salvare i peccatori. L’impiegato
più alto in grado era Dio. Dio però era un organo invisibile, al quale
si poteva ricorrere direttamente solo per via gerarchica con l’assistenza
del funzionario di basso e alto grado. Dio non indossava nessuna
uniforme né militare né civile. Sua Maestà Apostolica Imperiale e
Reale, l’Imperatore a Vienna, portava come prossimo in grado un’uniforme di generale con le foglie di quercia nel colletto, grazie a cui
si distingueva dagli altri generali. A partire dall’Imperatore la scala
gerarchica proseguiva senza interruzione verso il basso fino all’ultimo
piolo, dove stavano gli allievi della prima d’un ginnasio statale imperiale e reale63.
Con una certa approssimazione questa pagina di Werfel è la
traduzione letteraria della dottrina dello Stato di Georg Jellinek,
austriaco anche lui – vale ricordare. Ora, Heller pure niente affatto monarchico, pure socialista, pure cittadino leale della
nuova repubblica tedesca, perpetua questa idea della centralità
assoluta dello Stato, centralità non solo tecnico-organizzativa
ma anche e soprattutto etica e ideologica. Lo Stato di Heller
non è quello del liberalismo, ente strumentale ai bisogni e subordinato ai diritti degli individui, bensì è proprio quello dello
statalismo prussiano e asburgico, quello del nazionalismo germanico, della comunità organica di valori, dell’ethos compatto
d’una collettività superiore ontologicamente e moralmente a
F. WERFEL, Der Abituriententag. Die Geschichte einer Jugendschuld,
Fischer, Frankfurt am Main 1994, pp. 41-42.
63
85
qualunque individuo. Lo Stato di Heller da questo punto di vista
risulta essere il medesimo di Jellinek, il quale ironico e condiscendente con le «utopie» dei liberali tedeschi del Quarantotto
è ammirato e servizievole rispetto alla ragione di Stato incarnata da Bismack64: è lo Stato dotato dei caratteri dell’assoluta
sovranità (l’Obrigkeitsstaat) e dell’intrinseca eticità (lo «Stato
etico» di hegeliana memoria)65.
Georg Jellinek è inoltre il teorico della cosiddetta «normative Kraft des Faktischen»66, un’idea che non è lontana da analoghe formulazioni di Heller: i fatti esprimono o segnano una
pretesa alla validità dell’accaduto. Faktizität und Geltung, ora il
titolo del libro giusfilosofico di Habermas67, è una coppia di concetti ricorrenti nell’opera di Heller. E in quest’opera essi si accompagnano in una sorta di rapporto dialettico: non v’è validità
senza una loro efficacia o una «positività» o «fatticità» retrostante e viceversa, non v’è «fatticità» senza che questa costituisca già una condizione, e getti un ponte – per così dire – verso
la «validità», la «forza normativa», il diritto insomma. La «fatticità» di cui qui è parola non è solo e tanto l’efficacia di norme
già statuite, quanto e soprattutto la positività di condotte che per
il loro concreto ripetersi e affermarsi conterrebbero in nuce un
elemento di normatività, d’obbligatorietà, a prescindere dal fatto
d’essere oggetto di una normazione esplicita e deliberata. Per
Jellinek non solo lo status quo ma anche un fait accompli
esprime una situazione giuridica. Anche l’usurpatore quindi, in
tanto in quanto esso sia in grado d’esercitare un’autorità effettiva, è nel suo diritto, agisce giuridicamente, giacché in tale siSi legga G. JELLINEK, Die Enstehung der modernen Staatsidee, in G.
JELLINEK, Ausgewählte Schriften und Reden, vol. 2, cit., pp. 52-53.
65
Vale a questo proposito ricordare che è lo stesso Heller a ricollegare in
modo esplicito Jellinek a Hegel, per quanto il primo avese manifestato più
volte una certa distanza rispetto al grande filosofo tedesco. Si legga H. HELLER, Hegel und der nationale Machtstaatsgdanke in Deutschland, cit., p. 192.
66
Vedi G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., pp. 337 sgg.
67
J. HABERMAS, Faktizität und Geltung Suhrkamp, Frankfurt am Main
1992; trad. it., Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e
della democrazia, Guerini, Milano 1996.
64
86
tuazione non v’è più un’istanza esterna all’usurpatore medesimo
la quale sia in grado di dire cos’è il diritto (e d’imporlo).
L’esercizio del potere statale da parte dell’usurpatore produce immediatamente una nuova situazione giuridica, giacché qui non è presente
nessuna istanza che potrebbe rendere il fatto dell’usurpazione giuridicamente incompiuto68.
Contro la formula terribile di Carl Schmitt «Der Führer
schützt das Recht», il leader supremo protegge il diritto, che
giustifica il massacro di vari veri o presunti oppositori compiuto
da Hitler per mano delle sue SS nel giugno 1934, Jellinek potrebbe (dal punto di vista giuridico) obiettare assai poco.
Né può sostenersi che Kelsen sul punto della «forza normativa del fattuale» sia del tutto distante da Jellinek. Per il primo
– serve ricordare – il diritto internazionale pubblico è sovraordinato a quello nazionale, rappresentando una serie di norme
dalle quali le disposizioni degli ordinamenti nazionali derivano
la loro validità giuridica. E a sua volta il diritto internazionale
pubblico si basa per Kelsen – che segue in ciò la dottrina dominante – sul principio di effettività. Questo dice: è giuridico
qualunque ordine che sia in grado di imporsi, vale a dire di farsi
obbedire effettivamente, nell’àmbito di un certo territorio come
ordine normativo supremo. Si potrebbe così sostenere che la
Grundnorm dello Stufenbau kelseniano sia proprio tale principio. Il che ci condurrebbe alla conclusione che è proprio la
«forza normativa del fatto» (che invero non è nient’altro che il
«principio di effettività» della dottrina internazionalistica) il
punto archimedico della costruzione kelseniana. La differenza
rispetto a Jellinek risiederebbe allora soltanto nel fatto che quest’ultimo concepisce la normative Kraft des Faktischen come
«Die Ausübung der Staatsgewalt durch den Usurpator schafft sofort
einen neuen Rechtszustand, weil hier keine Instanz vorhanden ist, die die Tatsache der Usurpation rechtlich ungeschehen machen könnte» (G. JELLINEK,
Allgemeine Staatslehre, cit., pp. 340-341).
68
87
un principio psicologico69, mentre Kelsen farebbe assumere al
principio di effettività la qualità d’una categoria epistemologica
trascendentale. Il principio di effettività sarebbe non una disposizione propria della costituzione psichica degli individui,
com’è per Jellinek, bensì un presupposto gnoseologico che ogni
giurista deve assumere se vuole attribuire normatività alle norme
che è chiamato a descrivere e spiegare. Anche per Kelsen comunque l’usurpatore, se fortunato, costituisce diritto:
Anche il governo giunto al potere per via d’una rivoluzione o d’un
colpo di Stato va considerato governo legittimo nel senso del diritto
internazionale allorché questo è capace di assicurare duratura obbedienza alle norme da esso emanate70.
Dietro il diritto – dice Kelsen – non v’è qualche metafisica
o qualche giustizia, ma – per chi ha la forza di fissarla – la testa
di Gorgone del potere:
La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di cosa
si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova – temo
– non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia d’un
diritto naturale. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà
lo sguardo fisso della testa di Gorgone del potere71.
Per Georg Jellinek lo Stato è potere assoluto e originario.
69
Vedi ivi, p. 337: «Der Mensch sieht das ihn stets Umgebende, das von
ihm fortwährend Wahrgenommene, das ununterbrochen von ihm Geübte nicht
nur als Tatsache, sondern auch als Beurteilungsnorm an, an der er Abweichendes prüft, mit der er Fremdes richtet».
70
«Auch im Wege von Revolution oder Staatstreich zur Macht gelangte
Regierung ist als legitime Regierung im Sinne des Völkerrechts anzusehen,
wenn sie den von ihr erlassenen Normen dauernd Gehorsam zu verschaffen
imstande ist» (H. KELSEN, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Deuticke, Wien 1934, p. 71).
71
H. KELSEN, Intervento sulle relazioni di Erich Kaufmann e Hans Nawiasky, entrambe su «Die Gleichheit vor dem Gesetz im Sinne des Artikels 109
der Reichsverfassung» tenute a Berlino nel 1926, in «Veröffentlichungen der
Vereinigung der Deutschen Staasrechtslehrer», Heft 3, 1927, pp. 54-55.
88
Il dominio è il criterio che distingue il potere dello Stato da tutti gli
altri poteri. Là dove si riscontri potere di dominio in un’associazione
integrata nello Stato oppure in un individuo, allora quello ha origine
dal potere statale, cioè è, anche se è divenuto una prerogativa propria
dell’associazione, potere non originario, bensì derivato72.
Lo Stato di diritto si distingue rispetto a questo Stato assoluto non per una sua diversa natura, bensì solo per una sua contingente decisione, quella di autolimitarsi, la Selbstbindung des
Staates. Lo Stato di diritto – in questa prospettiva – è uno Stato
assoluto che proprio in virtù e nell’esercizio dell’assolutezza del
suo potere decide unilateralmente di limitarsi, secondo forme,
termini e condizioni tutte revocabili ad libitum dallo Stato medesimo. Se così non fosse il Rechtsstaat non potrebbe dirsi vero
e proprio Stato, Stato «normale»73.
Hermann Heller non è affatto lontano da questa idea di Jellinek; non lo contraria o infastidisce la visione autoritaria dello
Stato come Herrschergewalt e gli è congeniale la Zwei-SeitenTheorie. Contro ogni riduzionismo, e in particolare contro l’adozione d’un metodo «puro», Heller difende la dignità epistemologica del sincretismo metodologico:
Poiché l’oggetto di tutte le scienze dello spirito è insieme qualcosa
che viene dato e che è posto, può essere compreso solo grazie a un
sincretismo metodologico. L’imperialismo di un unico metodo si rivela sterile in tutte le scienze dello spirito74.
72
«Herrschen ist das Kriterium, das die Staatsgewalt von allen anderen
Gewalten unterscheidet. Wo daher Herrschergewalt bei einem dem Staate eingegliederten Verbande oder einem Individuum zu finden ist, da stammt sie
aus der Staatsgewalt, ist, selbst wenn sie zum eignen Rechte des Verbandes
geworden ist, nicht ursprüngliche, sondern abgeleitete Gewalt» (G. JELLINEK,
Allgemeine Staatslehre, cit., p. 430).
73
Si legga ivi, p. 613.
74
H. HELLER, Osservazioni sulla problematica attuale della teoria dello
Stato e del diritto (1929), in H. HELLER, La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato; trad. it. a cura di P. Pasquino, Giuffrè, Milano
1987, p. 395.
89
La scienza giuridica non può fare a meno della sociologia
per un versante e della teoria politica e morale per l’altro versante:
Ogni problema giuridico, nessuno escluso, si radica in basso nella sociologia e in alto nella sfera etico-politica, e non soltanto è accessibile sia ad un’analisi causale che ad una normativa, ma anzi le richiede entrambe75.
Il vero avversario di Heller non è dunque Jellinek76, ma Kelsen. È questi, per lui, il rappresentante più tipico del positivismo giuridico formalista.
Kelsen – come si è detto – si muove certamente nella cosiddetta linea Gerber-Laband- Jellinek, vale a dire dentro d’una
scuola di pensiero giuridico che concepisce lo Stato eminentemente (i) come forza coattiva e (ii) entità impersonale. Nella
sua prima monumentale opera di studioso di diritto pubblico (in
parte composta a Heidelberg mentre frequentava come borsista
i seminari di Jellinek), Hauptprobleme der Staatsrechtslehre
entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatz, apparsa a Vienna nel
1911, Kelsen riconosce il debito contratto nei confronti di Jellinek; debito che sarà riaffermato ancora nel 1925 nella Allgemeine Staatslehre. Ma Kelsen va oltre Laband e Jellinek. Innanzitutto Kelsen affina il metodo giusformalistico, grazie tra
l’altro a una migliore ricostruzione della struttura formale delle
norme. Kelsen in un secondo momento, fondamentalmente a
partire da Das Problem der Souveränität del 1920, introduce
anche la nozione di un ordinamento a gradini, più tardi denominato esplicitamente Stufenbau, per cui il diritto si caratterizza
per il fatto che in esso le norme hanno diversi gradi gerarchici
H. HELLER, La sovranità (1927), in H. HELLER, La sovranità ed altri
scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato, trad. it. cit., p. 95.
76
Heller riconosce a Jellinek il merito di aver tentato la combinazione di
sociologia e scienza giuridica. Si legga H. HELLER, Georg Jellinek, in Encyclopaedia of Social Sciences, a cura di A.R.A. Seligman et al., vol. 8, The
MacMillan Company, New York 1932, p. 379.
75
90
e sono in relazione tra loro ai diversi livelli in ragione di attribuzioni di competenza, di autorizzazioni o Ermächtigungen77.
Come è noto, in seguito tale caratteristica sarà giocata per isolare il diritto dagli altri sistemi normativi, dalla morale in particolare: mentre in un ordinamento morale la norma individuale
(io non devo rubare) si deduce logicamente da una norma generale («non rubare», ovvero «nessuno deve rubare»), in un ordinamento giuridico – dice Kelsen – la norma individuale, poniamo la sentenza di un giudice («Tizio dev’essere condannato
a tre anni di reclusione, perché si è reso colpevole del reato di
furto»), è il risultato di una norma generale («chiunque commette un furto sarà punito con la reclusione da tre a sette anni»)
emanata da un organo istituzionalmente superiore al giudice (il
parlamento) e intesa come autorizzazione o prescrizione diretta
al giudice. Lo Stufenbau tipico del diritto si conclude poi alla
sua sommità con una norma fondamentale (presupposta) che è
la norma suprema che i giuristi devono per l’appunto «presupporre» per conferire validità alle norme giuridiche poste ai vari
gradini dello Stufenbau, giacché la validità d’una norma (che
per Kelsen equivale alla sua esistenza) richiede qui che vi sia
una norma di livello superiore che ne autorizzi o prescriva l’emanazione, la Grundnorm78.
Kelsen si pronuncia inoltre contro ogni sincretismo metodologico alla maniera di Jellinek. La Zwei-Seiten-Theorie gli sembra epistemologicamente incoerente. I fenomeni giuridici – per
Kelsen – vanno studiati in quanto fenomeni giuridici (e non sociali o empirici) solo con strumenti giuridici. Alla scienza giuVedi H. KELSEN, Das Problem der Souveränität und die Theorie des
Völkerrechts. Beitrag zu einer reinen Rechtslehre, II ed., Mohr, Tübingen
1928, pp. 111 sgg.
78
Mentre la tesi dell’ordinamento «dinamico» o «a gradini» gli giunge
dagli studi dell’allievo Adolf Merkl (cfr. H. KELSEN, Das problem..., pp. 119119, nota 2), l’idea della Grundnorm è sviluppata a partire da alcune proposte di un altro suo allievo, Fritz Sander. Di questo si legga in proposito Das
Faktum der Revolution und die Kontinuität der Rechtsordnung, in «Zeitschrift für öffentliches Recht», vol. 1, 119, pp. 132 sgg. (e si cfr. H. KELSEN, Das
problem..., p. 117, nota 1).
77
91
ridica «pura», purificata cioè da ogni influsso morale, sociologico o politico, corrisponde un oggetto, il «dover essere oggettivo» della norma giuridica, che è anch’esso «puro», separato
nettamente dalla soggettività della morale e dalla fattualità degli
eventi sociali. In questa prospettiva il diritto finisce per essere
il solo dover essere genuino, giacché esso è quello «oggettivo»,
di contro al dover essere «soggettivo» rappresentato dai giudizi
morali. D’altra parte i fenomeni sociali, storici, politici, sono
pezzi d’«essere», non di «dover essere», e dunque non hanno
niente a che fare col diritto il cui àmbito è invece quello del
«dover essere»79.
Kelsen porta alle sue estreme conseguenze la teoria dello
Stato come «persona giuridica» di Gerber, Laband e Jellinek.
Per questi ultimi lo Stato è sì qualcosa di astratto e collettivo,
distinto dai soggetti materiali (umani), che tutt’al più rivestono
la qualità di «organi»; tuttavia la «persona giuridica» statale non
coincide ancora pienamente con l’ordinamento giuridico come
sistema di norme, preesiste anzi a questo, non è riducibile a un
agglomerato di proposizioni e posizioni normative, giacché è
pensato come organismo. È così che la dottrina giuspositivistica
di Gerber, Laband e Jellinek necessita un concetto organicistico
di società, e lo deriva in genere dallo storicismo tedesco, soprattutto da quello giuridico di Savigny e della «scuola storica,
ma anche dallo stesso Hegel80.
Lo Stato – scrive Gerber, fortemente influenzato alla filosofia reazionaria di Stahl e accanito avversario lui stesso del costituzionalismo liberale – è un organismo etico, il quale è mosso non come un meccanismo da una forza ad esso estranea, bensì mediante il proprio interno
principio di vita81.
Si legga H. KELSEN, Der soziologische und juristische Staatsbegriff, II
ed., Mohr, Tübingen 1928, pp. 114 sgg.
80
Cfr. H. HELLER, Hegel und der nationale Machtstaatsgdanke in Deutschland, cit.,
81
C.F. GERBER, Über öffentliche Rechte (1852), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968, p. 16. Rendo col corsivo lo spaziato del testo.
79
92
La conseguenza è che lo Stato come «organismo» diviene
giuridico solo «autolimitandosi» – come afferma Jellinek. In
questa prospettiva il diritto quindi non nasce insieme allo Stato,
come vuole Kelsen, ma è un prodotto dello Stato, è strumentale rispetto a questo. Lo Stato come organismo vive di vita propria, né abbisogna del diritto per legittimarsi o per presentarsi
come entità dotata di moralità. Il diritto gli serve solo come tecnica, per razionalizzare i propri movimenti «organici». Ciò è
detto molto bene da Gerber, il quale – non dimentichiamolo –
è il capostipite della dogmatica continentale del diritto pubblico,
e come tale maestro di Laband e di Jellinek:
Anche lo Stato come organismo è un concetto che si dà nell’àmbito
dell’etico; non è il diritto che lo ha chiamato a esistenza dandogli innanzitutto forma giuridica, bensì lo presuppone come già esistente offrendo al movimento dei suoi membri una via adeguata secondo il criterio dell’idea di organismo82.
Nella cosiddetta linea Gerber-Laband-Jellinek la giuridicità,
o il diritto, sono attributi accidentali d’una essenza: lo Stato.
I diritti di libertà, anzi i diritti soggettivi in genere, hanno –
in questa prospettiva – un che di paradossale: sono (paradossalmente) fondati su uno stato di completa assenza di diritti,
una condizione di assoluta subordinazione al potere statale (lo
status subjectionis della teoria dei diritti pubblici soggettivi di
Jellinek)83.
Ora, Kelsen ritiene metafisica e poco giuridica (perché metodologicamente spuria) la teoria organicistica, e afferma che lo
Stato è originariamente (concettualmente) sempre già un ordi«Auch der Staat als Organismus ist ein im Reiche des Sittlichen gegebener Begriff; das Recht hat ihn nicht erst durch eine juristische Form ins Dasein gerufen, es setzt ihn als vorhanden voraus und tritt nur bestimmend hinzu,
indem es der Bewegung seiner Glieder nach dem Maßstabe der Idee des Organismus eine angemessene Bahn bereitet» (ivi, p. 18).
83
Vedi G. JELLINEK, System der subjektiven öffentlichen Rechte, II ed.,
Mohr, Tübingen 1905, pp. 86 sgg. In merito cfr. M. LA TORRE, Disavventure
del diritto soggettivo, Giuffrè, Milano 1996, capitolo terzo.
82
93
namento giuridico, una struttura di norme. Egli dissolve così il
concetto di «persona giuridica» denunciandone il carattere di
finzione antropomorfica. E fa ciò non perché ritiene che non potrebbe esservi altra «persona» all’infuori del soggetto umano,
non perché è mosso da una visione umanistica del diritto, ma
al contrario in quanto è convinto che la nozione di «persona
giuridica» sia ancora troppo legata a una concezione umanistica
del «soggetto» per poter rendere giustizia alla complessità e all’astrattezza del fenomeno giuridico. Quella di Kelsen è dunque
una posizione avversa a qualunque Subjektphilosophie applicata
al diritto. È questo anche il motivo del suo attacco contro la nozione di sovranità, asse teorico centrale delle dottrine giuspositivistiche. Kelsen dissolve il concetto di sovranità in quello di
ordinamento normativo. Non v’è più – in questa prospettiva –
un’essenza (lo Stato sovrano) e certe qualità accidentali (la giuridicità variamente concepita), bensì è la qualità (una certa relazione normativa, tra norme) o la somma delle qualità (delle
relazioni normative) a costituire – per così dire – una certa «essenza» (lo Stato ovvero l’ordinamento normativo). Non v’è più
un «sovrano», ma solo un «ordinamento», chiuso o meglio coronato alla sua sommità, al vertice della sua struttura gerarchica,
da una Grundnorm, una norma fondamentale che giustifica la
validità delle norme di grado inferiore (tanto di quelle generali
quanto di quelle individuali), e garantito alla sua base dal principio di effettività. Questo esige che condizione sine qua non
della validità delle singole norme sia l’efficacia dell’intero ordinamento, vale a dire il suo essere effettivo, operativo im Grossen und Ganzen.
Hermann Heller attacca dunque vigorosamente la reine Rechtslehre di Hans Kelsen. Nel far ciò, tra l’altro, si trova in una
compagnia che immagino gli risultasse imbarazzante. Nella dottrina dello Stato della Repubblica di Weimar l’attacco contro
Kelsen è il segno distintivo, e quasi il cemento teorico, di una
serie di giuristi di varia estrazione filosofica e politica, tutti però
abbastanza conservatori, a cominciare da Erich Kaufmann, passando poi per Schmitt, Leibholz e Smend, fino ad arrivare ai
più radicali Binder, Forsthoff e Larenz. C’è da dire invero che
94
contro Kelsen si era scagliato anche il marxista Paƒukanis, e che
un tenace avversario del giurista viennese era stato Leonard Nelson, anch’egli neokantiano come Kelsen, ma al contrario di questo affatto cognitivista in etica e quindi assertore d’un concetto
materiale (valutativo) di diritto. Tuttavia Heller fa in qualche
modo parte del primo gruppo di teorici, del gruppo dei Kaufmann, Schmitt, Leibholz, Smend; ed è da questi «vissuto» –
come è rivelato ad esempio dai frequenti riferimenti all’opera
di Heller presenti nell’opera principale di Smend, Verfassung
und Verfassungslehre del 1928 – un po’ come uno di loro, almeno per ciò che concerne il terreno della riforma della metodologia giuridica, nonostante li separassero notevoli, per non
dire drammatiche, diversità di orientamento politico. Il pensiero
giuridico di Heller veniva talvolta addirittura accomunato a
quello di Schmitt sotto la comune etichetta di «decisionismo».
Così Heinrich Triepel, importante professore berlinese vicino
alla teoria dell’«integrazione» di Smend, nella sua relazione presentata all’incontro dell’Associazione dei docenti tedeschi di diritto pubblico (la prestigiosa Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer), tenuto a Vienna il 23 e 24 aprile 1928, parla «del
punto di vista decisionistico dal quale muovono Carl Schmitt e
Hermann Heller»84.
La prima critica che Heller rivolge a Kelsen è quella di «logicismo»: il maestro viennese concepirebbe il diritto meramente
come un insieme di relazioni logiche nelle quali non vi sarebbe
spazio per la concreta condotta umana, in particolare per l’attività decisionale.
Come nella matematica – scrive Heller – il membro della progressione viene costruito in modo puramente razionale a partire dal principio della progressione, la costruzione logico-giuridica di Kelsen produce, al di sopra del mondo storico-sociale privo di senso e senza
84
H. TRIEPEL, Wesen und Entwicklung der Staatsgerichtsbarkeit, in «Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer», Heft 5,
1929, p. 7.
95
alcun legame con esso, il suo regno di forme giuridiche pure, sospese
nel vuoto, come una sorta di gioco del domino fatto con i concetti ad
opera di un logico sovrano delle norme85.
Kelsen – così suona il rimprovero di Heller – allontana il diritto dalla realtà materiale, collocandolo invece in una specie di
iperuranio concettuale retto da mere leggi logiche. D’altra parte
Kelsen in tal modo sospingerebbe la nozione di società verso
l’àmbito dei fatti retti da leggi naturali-causali, consegnandola
in modo definitivo alla competenza delle «scienze causali-esplicative». È questa anche la critica metodologica principale mossa
alla «dottrina pura» dal gruppo dei Kaufmann e degli Smend
che rivendicano la prevalenza delle «scienze dello spirito», delle
Geisteswissenschaften nello studio della società e del diritto.
Anche Heller, almeno fino alla Staatslehre ed alla voce di enciclopedia Political Science, vale a dire fin quasi alla vigilia
della sua morte prematura, pensa le scienze sociali e la stessa
dottrina dello Stato come «scienze dello spirito». Gli è però
sempre estraneo il pathos irrazionalista che accompagna, in
Smend ad esempio, l’esaltazione del metodo spiritualista, ermeneutico o «comprendente», contrapposto in maniera radicale
al «meccanicismo» delle scienze naturali. Kaufmann e Smend
attaccano le scienze naturali per colpire il pensiero illuminista;
Heller scorge invece dietro queste l’ombra minacciosa del macchinismo, del modo di produzione capitalistico.
Nella Staatslehre però viene riabilitato il ruolo che un metodo empirico può giocare dentro le scienze sociali e vi leggiamo una condanna delle ambizioni monopolistiche del metodo ermeneutico:
L’opinione divenuta dominante grazie a Dilthey, per cui solo nelle
scienze naturali si darebbe un metodo causale-esplicativo, mentre le
scienze dell’uomo permetterebbero soltanto la categoria del compren-
85
H. HELLER, La crisi della dottrina dello Stato (1926), in H. HELLER, La
sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato, trad. it. cit.,
p. 48.
96
dere, è un errore assai significativo per lo sviluppo della realtà sociale
e per la confusione delle costruzioni di senso86.
In precedenza Heller aveva attaccato anche la Zwei-SeitenTheorie di Jellinek, con argomenti abbastanza simili a quelli
usati contro Kelsen. Jellinek spiegherebbe il diritto solo con il
vecchio instrumentario della Begriffsjurisprudenz, con una logica formale dei concetti, e d’altra parte riserverebbe la sociologia dello Stato esclusivamente a discipline «esplicative-causali» metodologicamente affini alle scienze che studiano i fenomeni naturali. Jellinek, come Kelsen, sarebbe colpevole per
un verso del peccato di «logicismo» e per altro verso del peccato di «naturalismo».
A Georg Jellinek – scrive – spetta l’importante merito di essere stato
il primo a separare nettamente la giurisprudenza dalla sociologia del
diritto. Ma dopo questa separazione egli non riuscì più a trovare un
fondamento sistematico per la sua Dottrina generale dello Stato. Dal
momento che quest’ultima era impossibile senza sociologia, egli affiancò alla dottrina giuridica generale una dottrina sociale generale
dello Stato. Ma in tal modo quest’opera, che oggi è considerata un
testo classico della nostra scienza, si spaccò in due parti non connesse
fra di loro, alla cui mancanza di unitarietà non sono in grado di porre
rimedio le aride astrazioni della sezione sociologica87.
Ma nella Staatslehre e nella voce Political Science, entrambe
apparse postume, la prospettiva cambia, e Heller assume un
punto di vista abbastanza vicino a quello di Jellinek, optando
per un sincretismo metodologico che combini «scienze dello
spirito» e «scienze causali-esplicative». La differenza fonda-
86
«Die durch Dilthey herrschend gewordene Meinung, es gäbe nur in den
Naturwissenschaften eine kausal-explikative Methode, die Wissenschaften
vom Menschen aber gestatten nur die Kategorie des Verstehens, ist ein für die
Entwicklung der gesellschaftlichen Wirklichkeit und für die Verwechslung von
Sinngebilde höchst bezeichnenden Irrtum» (H. HELLER, Staatslehre, III ed.
cit., p. 59).
87
H. HELLER, La crisi della dottrina dello Stato, cit., p. 39.
97
mentale che rimane rispetto alla Zwei-Seiten-Theorie di Jellinek
è piuttosto la tesi per cui non sarebbe possibile separare pratica
e teoria, e quell’altra tesi per cui non si darebbe scienza, attività conoscitiva, senza «teoria», senza qualche tipo di precomprensione dell’oggetto di analisi. «Senza un organon filosofico
– scrive nella voce Political Science – che sia capace, almeno
implicitamente, di porre in relazione lo Stato col contesto più
amplio dell’universo non può darsi una scienza politica reale»88.
Nella disputa gnoseologica tra Settembrini e Naphta, i due
personaggi dello Zauberberg, La montagna incantata di Thomas Mann, che si contendono l’egemonia pedagogica sul protagonista del romanzo, Hans Castorp, là dove il primo (Settembrini) ritiene che sia possibile una scienza a-filosofica e l’altro (Naphta) aggancia la conoscenza a presupposti comunque
normativi89, Heller prenderebbe partito per Naphta. Ciò si può
arguire, tra l’altro, dall’affermazione seguente:
Quelle stesse versioni di scienza politica che con la massima serietà
cercano di liberarsi delle pastoie della filosofia sono ricondotte inevitabilmente al regno della metafisica, allorché pongono la questione di
ciò che è realmente determinante nei processi politici e vi rispondono
in termini naturalistici e materialistici90.
Ma ritorniamo alle critiche mosse da Heller alla «dottrina
pura» di Hans Kelsen. Un’altra obiezione a questo è centrata
sul principio della avalutatività delle scienze giuridiche raccomandato da Kelsen. Tale avalutatività invero – obietta Heller
– promuove un atteggiamento conformista e di rispetto dello
status quo, che è tutt’altro che wertfrei. «A Kelsen [...] non interessa, ad esempio, formare le capacità critiche del giurista e
renderlo consapevole di come e quando egli debba riflettere su
dati di fatto storici e quando debba emettere giudizi di va88
H. HELLER, Political Science (1934), in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 3, cit., p. 53.
89
Si legga TH. MANN, Der Zauberberg, Fischer, Frankfurt am Main 1989,
p. 419.
90
H. HELLER, Political Science, cit., p. 53.
98
lore»91. Ma la critica fondamentale per Heller è un’altra: è
quella per cui la «dottrina pura», la reine Rechtslehre, sarebbe
«una dottrina dello Stato senza Stato»92, secondo una formula
impiegata già da Otto von Gierke, sostenitore d’una visione sostanzialistica e organicistica del diritto, contro il formalismo di
Paul Laband, e ripresa, con diversi contenuti, e contro Jellinek
questa volta, da Leonard Nelson in un un libro del 1917, Die
Rechtswissenschaft ohne Recht93. Ciò che qui viene criticato
dell’opera di Kelsen è la teorizzazione della superiorità della
norma sulla decisione, o la precedenza logica della prima rispetto alla seconda, o ancora – secondo un’interpretazione un
po’ tendenziosa che non rende giustizia al pensiero del giurista viennese – la dissoluzione della decisione nell’elemento formale della norma. Kelsen però, al contrario di quello che crede
Heller, non nega affatto l’elemento decisionale nell’àmbito giuridico. Anzi, ricostruendo l’ordinamento giuridico come ordinamento «dinamico» (a differenza di quello «statico» della morale, nel quale i rapporti tra norme sono solo di carattere logico), vale a dire come strutture di relazioni di competenze
(cioè di poteri), lascia uno spazio amplissimo alla decisione
dell’organo investito della competenza: nell’àmbito di questa
l’organo – per Kelsen – ha un potere discrezionale assoluto.
Così, ad esempio, egli attribuisce ai giudici un potere creativo
di diritto, e non distingue tra potere giudiziario e potere amministrativo nel sistema della divisione dei poteri. In questa
prospettiva gli atti degli organi statali possono distinguersi concretamente in relazione alla loro discrezionalità, «non in via di
principio ma solo per il grado, non qualitativamente ma solo
quantitativamente»94.
H. HELLER, La crisi della dottrina dello Stato, cit., p. 43a.
Ivi, p. 46.
93
L’opera di Nelson è però anch’essa criticata da Heller, in quanto diretta
contro quella comprensione del Machtstaat che risulta da «una ragione più
profonda inaccessibile all’intelletto formale» (H. HELLER, Hegel und der Machtstaatsgedanke, cit., p. 202, nota 802).
94
H. KELSEN, Hauptprobleme der Staatsrechtswissenschaft, entwickelt aus
der Lehre vom Rechtssatze, II ed., Mohr, Tübingen 1923, p. 507.
91
92
99
Ciò che della teoria kelseniana disturba Heller è l’affermazione del predominio (logico) del diritto sul potere, poi la ricostruzione dello Stato come mero ordinamento normativo, infine la dissoluzione della nozione di sovranità (e di Stato). Heller, malgrado il diverso linguaggio usato e l’aperta professata
politicizzazione della scienza giuridica, condivide la concezione
dello Stato e del diritto della linea Gerber-Laband-Jellinek, nella
quale lo Stato precede il diritto ed è un ente materiale, sostanziale, «organico», rispetto al quale le norme del diritto rappresentano solo una specie di tecnica organizzativa e un bagaglio
di arcana imperii. La «dottrina pura» kelseniana rompe in maniera radicale con questa concezione, desostanzializzando lo
Stato e facendo del diritto una conditio per quam dello Stato
medesimo95. Heller intravvede chissà quali tranelli e pericoli in
questa proposta teorica.
Allo Stato desostanzializzato, all’imperio delle leggi di Kelsen Heller contrappone dunque il dominio degli uomini, e la sostanza della «decisione» sovrana. Sembra quasi di sentire le parole di Carl Schmitt, con il quale – va ripetuto – il Nostro intrattiene più d’un punto di contatto, e che cita spesso nei suoi
scritti giuridici, negli anni Venti talvolta con accenti di ammirazione e approvazione. Alla legge, che gli pare un fantasma o
una copertura ideologica, Heller contrappone il legislatore materiale (sia pure democratico) e l’indiscutibile supremazia dell’organo che fa la legge (qui il Parlamento). Il dettato del legislatore assume così la dignità d’una sorta di norma fondamentale, con l’ulteriore differenza rispetto a Kelsen che per Heller
la legge del parlamento non rimanda ad alcuna «norma individuale» né abbisogna di poteri – sia pure ausiliari o sussidiari –
di produzione del diritto. Il giudice – in questa prospettiva – è
un mero esecutore della legge parlamentare. Ai giudici non rimane così nessun rilevante àmbito discrezionale; là dove il legislatore tace, non può parlare il giudice.
95
100
Cfr. H. KELSEN, Hauptprobleme, cit., ad esempio p. 498.
Là dove dinanzi alla specificità del caso singolo, tace del tutto la voce
del legislatore, intesa pure in senso lato, comprendendo il diritto consuetudinario, lì essa [la voce della legge] nell’àmbito dell’ordinamento
giuridico dev’essere in via di principio espressa esplicitamente dal legislatore medesimo e non dal giudice96.
In tale prospettiva dunque la decisione fondamentale rispetto
al significato e alla portata della legge spetta al legislatore.
Questi – secondo Heller – non può essere sottoposto a un sindacato di costituzionalità, giacché è egli (organo materiale capace di decisione) il latore della sovranità statale, non già la
costituzione scritta (testo formale incapace di tradursi da sé in
atti materiali). Ovviamente tale preferenza per l’organo legislativo, e la diffidenza verso il potere giudiziario, può spiegarsi
con riferimento alla contingente situazione politica che il Nostro si trova ad affrontare. Heller non può non preferire ai giudici di Weimar, ancora quasi tutti formatisi nell’epoca guglielmina e imbevuti d’una ideologia conservatrice se non reazionaria, il Parlamento repubblicano, prodotto della rivoluzione
del 1918, nei cui scranni la socialdemocrazia è largamente rappresentata.
In linea con la sua concezione dello Stato, e in genere della
politica come fatto intrinsecamente profondamente autoritario
(dimodoché «ogni politica è in fin dei conti politica statale»)97,
e con la sua fobia per l’«anarchia» e il liberalismo, «la fallacia riproposta di frequente secondo cui il fine, la funzione sociale dello Stato e delle altre istituzioni politiche dovrebbe essere in accordo con la volontà e i propositi del singolo citta-
«Wo der Mund der Gesetzgeber im weitesten, auch das Gewohnheitsrecht umfassenden Sinne, der Singularität des Falls wegen völlig schweigt, da
muß er vom Gesetzgeber selbst und kann er innerhalb der staatlichen Herrschaftsordnung grundsätzlich nicht vom Richter zum Reden gebracht werden»
(H. HELLER, Der Begriff des Gesetzes in der Reichsverfassung, in «Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer», vol. 4, 1928,
p. 117).
97
H. HELLER, Sozialismus und Nation, cit., p. 497.
96
101
dino»98, per Heller è il potere, come decisione e forza coattiva,
il fatto fondante e primigenio del diritto. È «l’equazione illecita fra Stato e diritto»99 e dunque il tentativo di «spersonalizzare radicalmente l’intero ordinamento giuridico»100, ciò che il
Nostro non può accettare della ingegnosa costruzione kelseniana. Quell’equazione e quella spersonalizzazione gli sembrano stratagemmi per occultare il conflitto di classe e dunque
tranquillizzare la coscienza del giurista pratico, del giudice per
esempio, il quale certo non gradirebbe d’essere segnato a dito
come uno strumento del dominio di classe borghese, oppure per
celare agli sfruttati la loro reale condizione di oppressi, di individui soggetti alla violenza dello sfruttamento capitalista. Per
Heller il diritto è innanzitutto potere, comando d’un soggetto
materiale, fisico, ben preciso, il quale esige obbedienza incondizionata.
Ciò – si badi – non implica la tesi della subordinazione della
dimensione politica a quella economica, che difatti Heller rifiuta. Implica piuttosto una concezione imperativistica del diritto, la quale del resto non era mai stata rinnegata dal giuspositivismo tedesco, per non parlare di quello anglosassone, di
John Austin per esempio continuatore d’una linea di pensiero
che rimonta almeno fino a Hobbes. D’altronde una Weltanschauung imperativistica percorre anche i meandri più remoti
della «dottrina pura», sì che l’«ultimo» Kelsen – quello per intenderci della postuma Allgemeine Theorie der Normen101 – si
rivelerà un volontarista radicale, giungendo al punto di negare
che la logica formale possa applicarsi alle norme giuridiche; posizione questa che sarebbe piaciuta a Heller, e che dimostra ancora una volta come fosse errata l’accusa di «logicismo» da lui
rivolta al giurista viennese.
H. HELLER, Political Science, cit., p. 64.
H. HELLER, La crisi della dottrina dello Stato, cit., p. 51.
100
Ivi, p. 49.
101
H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, a cura di K. Ringhogfer
e R. Walter, Manz, Wien 1979.
98
99
102
Per Heller il diritto è il risultato del «monopolio della violenza»102, vale a dire di un potere sovrano; è quindi intimamente
collegato alla figura dello Stato. Quella di Heller è senza veli
una concezione statalistica del diritto. Sono ingiustificate, a suo
avviso, le definizioni sostanziali di norma giuridica offerte dalla
dottrina pubblicistica del suo paese. Né l’idea d’una regola generale né la nozione d’una prescrizione, che ha come scopo immediato la posizione di limiti alla volontà dei soggetti, né la
nozione d’un provvedimento, che incida sulle libertà e sulle proprietà dei consociati, può esaurire – a suo avviso – il concetto
di norma giuridica. Questa va definita invece come «ogni norma
che associa una fattispecie ipotizzata a una conseguenza giuridica e connette diritti soggettivi e doveri a una fattispecie»103.
È questa – nonostante l’antiformalismo proclamato ai quattro
venti – una definizione formale di norma, che non fa riferimento ad alcun criterio o requisito sostanziale, se non a quello
della provenienza da un ente sovrano: lo Stato. La formalità
della struttura della norma consente che questa possa assumere
qualsivoglia contenuto. Anche qui Heller è vicinissimo agli
odiati giusformalisti, a Kelsen che pronuncia parole quasi identiche104, a Laband che scrive che non v’è nessuna idea che non
possa essere trasformata nel contenuto di una legge105. Ogni prescrizione dello Stato può – in tale prospettiva – farsi norma giu-
Sulle origini teoriche di questa nozione, cara a Max Weber e a Georg
Jellinek, e che accomuna tanto Heller come Kelsen, o Smend e lo stesso Schmitt, si legga il bel saggio di J.Q. WHITMAN, Aux origines du monopole de la
violence, in De la société à la sociologie, a cura di C. Colliot-Thélène e J.F. Kervégan, ENS Editions, Lyon 2002, pp. 71 sgg.
103
H. HELLER, Il concetto di legge nella Costituzione di Weimar, in H.
HELLER, La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato,
cit., p. 330.
104
Vedi H. KELSEN, Reine Rechtslehre, I ed., cit., p. 63: «Jeder beliebige
Inhalt kann Recht sein».
105
Vedi P. LABAND, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, vol.1, Mohr,
Tübingen 1911, p. 63: «Es gibt mit einem Worte keinen Gegenstand des gesamten staatlichen Lebens, ja man kann sagen, keinen Gedanken, welcher
nicht zum Inhalte eines Gesetzes gemacht werden könnte».
102
103
ridica, non solo la deliberazione d’un parlamento ma anche la
sentenza o l’ordinanza di un giudice, e persino il comando d’un
militare.
Ogni comando dello Stato – scrive Heller – significa quindi statuizione di diritto. Legge, decreto, provvedimento e sentenza rappresentano dunque semplicemente forme diverse nel diritto statale di statuizione del diritto; esse contengono tutte norme giuridiche. Se contro
ciò viene sollevata come d’abitudine l’obiezione che in base a questa
concezione ogni ordine di un sottufficiale deve necessariamente apparire come statuizione di diritto, per parte mia trovo questa conseguenza senz’altro accettabile106.
5. La teoria della sovranità
L’imperativismo di Heller si ispira al decisionismo di Carl
Schmitt e si giustifica mediante una concezione hobbesiana del
potere politico. Niente affatto hobbesiana è però la sua concezione della comunità politica e della morale. La comunità non
è per lui il risultato di valutazioni egoistiche dei singoli individui, che in questa trovano infine il loro massimo profitto; né
crede che la morale abbia una irriducibile radice individualistica
e utilitaristica. Il modello di comunità e di morale politica di
Heller non gli proviene nemmeno dalla tradizione kantiana, dal
principio di universalizzabilità e da quello di autonomia applicato a un soggetto fornito della sola qualità della «ragione» e
privo d’altre determinazioni materiali (come ad esempio, la
classe o la nazionalità). La comunità e la morale assumono nell’ottica teorica del nostro autore caratteristiche squisitamente
aristoteliche: è una certa «città» a dare senso alla vita degli individui, ed è ancora essa a predeterminare le loro scelte politiche e morali. Questa immagine della comunità politica e della
sua morale gli giunge ovviamente dal pensiero di Hegel. Ma la
H. HELLER, Il concetto di legge nella Costituzione di Weimar, cit.,
p. 330.
106
104
comunità politica così intesa, come «alfa e omega» della vita
morale e politica dell’individuo, non esclude né un comportamento egoistico nelle relazioni tra comunità distinte, che possono comportarsi esattamente come l’individuo dello stato di
natura descritto da Hobbes (a ciò si riduce infine il Machtstaatsgedanke), né impedisce che il potere politico espresso
della comunità possa condursi vero i suoi subordinati in termini
strategici, là dove l’utilità perseguita sia rappresentata come
quella collettiva e sovrapersonale della comunità medesima.
Ma se il potere politico è concepito come la capacità strategica di imporre agli altri, anche contro il loro assenso, una certa
forma di condotta, il diritto risulterà inevitabilmente subordinato a questa forza suprema, primordiale e primigenia. «Esercitare autorità – scrive Heller – significa: essere in grado con
mezzi adeguati di trovare disposizione a obbedire e in certi casi
di costringere all’obbedienza con mezzi adeguati»107. Non v’è
norma che possa vincolare il potere sovrano, giacché, se per
ventura ve ne fosse qualcuna, quello non sarebbe più un potere
sovrano. Il diritto o la norma giuridica non possono pertanto limitare l’autorità, la Herrschaft del sovrano. La conclusione è
che «il diritto è uno strumento al servizio del potere» e che «il
potere è costituito per mezzo del diritto»108 – come il Nostro
dice nella voce Political Power. In entrambe le formulazioni
appena menzionate – che pur possono giocarsi l’una contro l’altra – il diritto è, riprendendo una terminologia habermasiana,
un «medium» più che una «istituzione». È retto esclusivamente
a una razionalità strumentale o strategica, e non è attraversato
da forme di razionalità comunicativa109.
107
H. HELLER, La sovranità, in H. HELLER, La sovranità ed altri scritti
sulla dottrina del diritto e dello Stato, cit., pp. 94-95.
108
H. HELLER, Political Power (1934), in H. HELLER, Gesammelte Schriften, vol. 3, cit., pp. 42-43.
109
A Habermas non sfugge il nocciolo strumentalistico della teoria del
diritto di Heller. Per interessanti spunti al riguardo, vedi J. HABERMAS, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaates, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992, p. 518 e pp.
593-594.
105
La musa ispiratrice o, se si preferisce, la sirena incantatrice
dell’imperativismo di Heller è Carl Schmitt. Ciò è in qualche
modo riconosciuto espressamente in un passaggio del suo libro
più inquietante, Die Souveränität:
La critica di Schmitt alla dottrina dominante [della nozione di sovranità] ha senza dubbio messo a nudo le radici profonde dei suoi limiti
come teoria giuridica, contrapponendo il decisionismo alla fiducia razionalistica nella legge. Da questo punto di vista le critiche di Schmitt hanno indubbiamente un carattere definitivo, e per molti versi
hanno guidato il presente lavoro110.
Ma nella determinazione della nozione di sovranità Heller
va perfino al di là della concezione già estrema di Schmitt, in
termini che faranno accapponare la pelle al vecchio amico e
compagno socialista Gustav Radbruch, il quale prenderà le distanze da Heller, riducendo al minimo i rapporti con questo111.
Si ricordi che entrambi militano nella S.P.D., sono rappresentanti
di rilievo della socialdemorazia tedesca. L’allontanarsi di Radbruch è già un segnale delle ambiguità teoriche dell’appassionata adesione di Heller alla Repubblica di Weimar. Non è che
Heller sia un marxista-leninista, per esempio, alla maniera di
Otto Kirchheimer, cresciuto alla scuola di Schmitt e sospettoso
– in nome della società senza classi – del compromesso raggiunto con la carta costituzionale dell’11 novembre 1919. Heller non è un bolscevico, la sua adesione alla Repubblica è senza
riserve112; eppure questa è minata teoricamente dal decisionismo
e da una certa propensione al Machtstaatsgedanke.
H. HELLER, La sovranità, cit., p. 130 (corsivo mio).
Cfr. H.P. SCHNEIDER, Positivismus, Nation und Souveränität. Über die
Beziehungen zwischen Heller und Radbruch, in Staatslehre in der Weimarer
Republik. Hermann Heller zu ehren, a cura di Ch. Müller e I. Staff, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1985, pp. 176 sgg.
112
Non è però senza riserve la sua adesione al parlamentarismo, che sembra assumere il carattere di un’opzione meramente tattica: «Se si dispone di
fatto di forza sufficiente per imporre, senza negoziazioni e compromessi con
altri partiti, la propria volontà nell’ordine statale, allora considero la dittatura
110
111
106
La figura del «sottufficiale» impiegata da Heller per spiegare la sua concezione imperativistica del diritto ricorda un’altra figura adoperata da Georg Jellinek, l’«usurpatore». «Sottufficiale» e «usurpatore» sono entrambi, per i due studiosi rispettivamente, organi ovvero soggetti che esercitano un potere
giuridico. Ciò perché per loro il diritto è eminentemente forza,
e chi ha la forza produce dunque anche diritto, amministra giustizia. Una tale visione è ovviamente disarmata (argomentativamente e idealmente) contro il decisionismo che con von Papen
e poi con Hitler avrà la meglio nella storia tedesca tra l’estate
del 1932 e l’inverno del 1933113. È un’ironia del destino quella
che vuole nell’ottobre 1932 Schmitt e Heller l’uno contro l’altro, Schmitt come difensore del Preußenschlag di von Papen,
vale a dire del golpe bianco con il quale il governo del Reich
aveva sciolto (grazie a una interpretazione estensiva dei poteri
sullo «stato d’eccezione» conferiti al Presidente del Reich, cioè
a una dottrina decisionistica della sovranità, preparata negli anni
Venti da Schmitt) il governo del Land Prussia presieduto dal
socialdemocratico Otto Braun, e Heller come avvocato del partito socialdemocratico esautorato dal potere114. Quest’ultimo –
al contrario di Schmitt che espone la tesi della legittimità costituzionale del Preußenschlag – sostiene dinanzi alla Corte suprema di Lipsia il principio della incompetenza del governo e
del Presidente del Reich a sciogliere il governo d’un Land, in
parziale contraddizione – va detto – con la sua precedente ricostruzione del concetto di sovranità.
come una via del tutto rispettabile [...] Se però, in ragione dei rapporti di forza
esistenti, ci si decide per il parlamentarismo, ci siamo decisi anche per il compromesso e la negoziazione» (H. HELLER, Staat, Nation und Sozialdemokratie, cit., pp. 539-540).
113
Per una veduta d’insieme su questa vicenda, cfr. Die Deutsche Staatskrise 1930-33: Handlungsspielräume und Alternativen, a cura di H.A. Winkler, Oldenbourg, Münhen 1992.
114
Sul ruolo di Schmitt nella crisi costituzionale tedesca dei primissimi
anni Trenta, e sulla crisi medesima, assai perspicace e utile è l’analisi di O.
BEAUD, Le dernier jours de Weimar – Carl Schmitt face à l’avènement du nazisme, Descartes, Paris 1997.
107
«Sovrano – dice Schmitt – è chi decide sullo stato d’eccezione»115. Schmitt distingue così implicitamente tra stati di normalità e situazioni di eccezionalità. Nel contesto dei primi è sufficiente la legge ordinaria: qui è la norma formale a reggere il
corso degli eventi. È solo in casi eccezionali che interviene il
potere normativamente incontrollato d’una istanza superiore, il
«custode della costituzione», che è a sua volta per certi versi
anche la forza creatrice della costituzione. Heller va al di là
della definizione di Schmitt, pur non condividendo molti dei
suoi argomenti sui poteri del Presidente del Reich e soprattutto
la tesi secondo cui sarebbe il Presidente il soggetto sovrano del
Reich. (Si noti – per inciso – l’ambivalenza perdurante nella
dottrina pubblicistica tedesca dell’epoca nel denominare uno
stesso corpo politico a un tempo repubblica, nozione eminentemente costituzionalistica, e Reich, concetto carico di connotazioni mitologiche). Il soggetto sovrano per Heller è il popolo:
«Nel Reich tedesco [...] la formula di Schmitt: sovrano è chi
decide in definitiva se esiste effettivamente lo stato normale,
varrebbe non per il Presidente ma per il popolo»116.
Per certi versi però – come si è già anticipato – Heller va
oltre la formulazione di Schmitt; egli infatti ritiene che sovrano
è solo quell’ente che detiene il diritto – scusate il bisticcio di
parole – di violare il diritto. «L’esistenza o positività di un ordinamento giuridico ha come precondizione l’esistenza o fattualità di un’unità di decisione che in certi casi può infrangere
quell’ordinamento»117. Il diritto si erge così – afferma Heller citando Bodin – su una legibus soluta potestas: «cum lex ab eius
voluntate pendeat, qui summam in Republica potestatem adeptus est, et qui sua lege, subditos omnes tenere, ipse vero teneri
non potest»118. La sovranità – in questa prospettiva – implica la
115
C. SCHMITT, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Souveränität, VI
ed., Duncker & Humblot, Berlin 1993, p. 13.
116
H. HELLER, La sovranità, cit., p. 177.
117
Ivi, p. 194.
118
Vedi ivi, p. 102.
108
legittimità della violazione del diritto; è tale possibilità legittima di infrangere la legge che denota la sovranità. E ciò – la
possibilità legittima della violazione del diritto – non segna o
presuppone uno «stato d’eccezione», una situazione di eccezionalità, di guerra o di pericolo, bensì rappresenta la normalità
del fenomeno giuridico. La normalità del diritto è la normalità
della legittimità della sua violazione, almeno da parte di una
«unità universale di decisione». Il significato della persona sovrana dello Stato è quello di una «istanza territoriale che decide
in modo universale eventualmente anche contra legem»119.
Heller, quello stesso che poi difenderà il Land Prussia contro l’usurpazione di poteri messa in atto dal governo del Reich,
giunge a denunciare come un’illusione lo Stato federale e l’autonomia dei Länder. Heller utilizza qui argomenti che certo non
gli avrebbero giovato dinanzi allo Staatsgerichtshof di Lipsia,
quando tenterà disperatamente di salvare il governo socialdemocratico della Prussia dal commissariamento ordinato dal governo di centro-destra di Franz von Papen120.
Si può sempre tentare di costruire lo Stato membro – scrive a proposito dello Stato federale – come se fosse coordinato allo Stato superiore. Ma questo tentativo si rivela sempre fallimentare non appena si
comprende che la costituzione complessiva che è al di sopra di entrambi è in sé compiuta solo perché viene realizzata da unità viventi
di volontà. I limiti di queste unità di volontà in caso concreto di conflitto possono però essere decisi solo da un’unità universale di decisione e non certo stabiliti una volta per tutte dalla costituzione, nonostante la precisione con cui essa può essere stata preparata. Lo Stato
federale è perciò uno Stato soltanto perché in caso di conflitto è in
grado di decidere autoritativamente121.
Ivi, p. 181.
Von Papen sarà più tardi ambasciatore della Germania hitleriana in Austria negli anni cruciali che precedono l’Anschluss. Un sarcastico ritratto di
quest’uomo politico si trova in J. ROTH, Öffentliche Warnung vor einem Diplomaten, in J. ROTH, Unter dem Bülowbogen. Prosa zur Zeit, a cura di R.J. Siegel, Kiepenheur & Witsch, Köln 1994, pp. 292-294.
121
H. HELLER, La sovranità, cit., pp. 185-186 (corsivo mio).
119
120
109
In un’animata discussione con Kelsen in materia di giustizia costituzionale Heller sostiene che non è possibile giuridicizzare appieno i rapporti tra federazione e stati, ovvero tra
Reich e Länder, ciò a riprova anche dell’impossibilità di formalizzare mediante regole di diritto il potere statale. Vi sono
manifestazioni di questo – è l’argomento – che non si addicono a costituire oggetto di regolamentazione giuridica. Si
confermerebbe dunque la tesi secondo cui la giustizia costituzionale è impraticabile come controllo efficace sugli atti di imperio del potere politico. «Anche il teorico deve ammettere
che i conflitti tra federazione [Bund] e stati [Länder] non sono
sempre passibili di risoluzione giudiziale, e deve pure in questo caso riconoscere i limiti della giustizia costituzionale»122.
Quando pronunciava queste parole Heller ovviamente non poteva prevedere che di là a qualche anno si sarebbe visto costretto ad affermare una tesi opposta, vale a dire che il Tribunale supremo di Lipsia aveva piena competenza a dichiarare
incostituzionale il commissariamento del Land Prussia da parte
del Reich (il Preußenschlag) e a reinsediare nelle sue legittime funzioni il governo regionale estromesso da von Papen e
Hindenburg.
D’altra parte anche i diritti degli individui sono, nel decisionismo helleriano così come nella teoria degli status di Georg
Jellinek123, graziose concessioni del potere sovrano:
Finché non si giunge all’unità universale di decisione tutti i soggetti
giuridici hanno senz’altro i loro diritti «propri» ed i loro diritti di autorità, ma giuridicamente, anche se certo non storicamente, essi li derivano tutti da quell’unità universale di decisione124.
H. HELLER, intervento sulla relazione di Hans Kelsen, Wesen und
Entwicklung der Staatsgerichsbarkeit, tenuta a Vienna il 23 aprile 1928, in
«Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer», Heft
5, p. 114.
123
Vedi G. JELLINEK, System der subjektiven öffentlichen Rechte, cit.
124
H. HELLER, La sovranità, cit., p. 189.
122
110
Anche su questo punto, così sensibile per il diritto pubblico,
non sembra esservi una differenza decisiva tra le posizioni di
Heller e quelle del giuspositivismo più «classico».
Giungiamo dunque alla definizione di sovranità offerta da
Heller: «sovranità è la proprietà di un’unità di azione e di decisione universale sul territorio, in forza della quale per garantire il diritto essa si afferma in modo assoluto eventualmente
anche contro il diritto»125. Anche qui riecheggia l’influenza del
tanto criticato Georg Jellinek, e il pensiero giuridico di Heller
si dimostra tutto immerso nella tradizione statalista del giuspositivismo germanico.
La sovranità – aveva scritto vent’anni prima Jellinek – invero non implica necessariamente l’effettiva modificazione del diritto tramandato,
ma solo la possibilità giuridica di modificarlo in ogni momento. Di
tale possibilità si fa naturalmente uso solo quando se ne dia l’occasione. Ma per colui che si è stabilito come sovrano non vi sono limiti
giuridici insuperabili126.
Muovendo da una siffatta nozione di sovranità, il diritto internazionale, come il diritto umanitario, si rivela pertanto una pia
illusione. La stessa Società delle Nazioni – secondo questa prospettiva – nulla può giuridicamente di fronte alla potestà assoluta goduta dal singolo Stato sovrano. Su questo punto sì che
emerge una netta divergenza con la dottrina di Kelsen. Questi,
mediante lo Stufenbau, pone le norme di diritto internazionale
pubblico al di sopra di quelle del diritto interno. Dinanzi all’alternativa tra una concezione monista e una concezione dualista
del diritto internazionale, là dove la prima riconduce diritto nazionale e diritto internazionale a un unico ordinamento, e la seconda afferma l’incommensurabilità dei due tipi di diritto, Kelsen – come è noto – sceglie l’opzione monista; la quale è anche
Ivi, p. 244 (corsivo mio).
G. JELLINEK, Der Kampf des alten mit dem neuen Recht, cit., p. 410,
e cfr. supra, capitolo primo.
125
126
111
quella di Heller. Kelsen però, a differenza di Heller, vede il diritto nazionale subordinato a quello internazionale127. Tutto il diritto, secondo il giurista di Vienna, può ricondursi per via gerarchica a norme superiori di diritto internazionale. Per Heller
vale l’opposto, secondo un’idea comune nelle dottrine imperativistiche: tutto il diritto può ricondursi al diritto nazionale, al diritto dello Stato sovrano, anche quello internazionale128.
L’esito estremo dell’imperativismo è poi quello di negare carattere di vera giuridicità alle norme di diritto internazionale,
configurandole come regole morali (com’è il caso dell’inglese
John Austin discepolo di Bentham), oppure come stratagemmi
ideologici o meccanismi consolatori per mascherare una situazione in cui l’unica regola valida è il diritto del più forte. Addirittura il diritto internazionale può essere visto, à la Nietzsche,
come un viluppo di lacciuoli che impediscono all’unico vero diritto di affermarsi: che qui è anche e soprattutto quello del più
forte. E Heller, da quel hegeliano che non ha mai cessato d’essere, riproduce una visione scettica se non addirittura cinica dei
rapporti tra Stati sovrani. Il diritto internazionale in questa prospettiva è dunque – per così dire – condannato a morte.
Fino a quando – egli scrive – la pretesa assoluta dello Stato all’autoconservazione verrà limitata solo dal diritto internazionale e nessuno
Stato mondiale porrà fine a tale diritto e impedirà, in quanto unità territoriale universale di decisione e di azione, che la storia sia il tribunale terreno che dà ragione al violatore del diritto per il fatto di essersi
imposto, fino a quel momento anche la sovranità di ogni Stato nel
«caso estremo» dovrà continuare ad esser una legibus soluta potestas
nei confronti del diritto internazionale e della Società delle Nazioni129.
127
Vedi per esempio H. KELSEN, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, I ed., cit., pp. 147 sgg.
128
È abbastanza significativo, e un po’ triste, che la Corte Costituzionale
tedesca nella sua discussa sentenza sulla costituzionalità dell’adesione della
Bundesrepublik al Trattato dell’Unione Europea sottoscritto a Maastricht il 7
febbraio 1992 utilizzi (con una certa spregiudicatezza) alcune tesi di Heller
per difendere la sovranità statale e l’omogeneità nazionale come idee-forza
della forma politica democratica (vedi BVerfGE, 89, 155 [186] ).
129
H. HELLER, La sovranità, cit., p. 257.
112
Heller non si rende conto d’evocare col suo decisionismo
forze – che egli non è in grado di controllare – tutt’altro che
benigne verso i più deboli e la democrazia.
Ma che fare – può ripetersi qui con Ernst Jünger, «il bardo pieno di
talento della barbarie»130 – quando i deboli non riconoscono la legge
e accecati aprono con le proprie mani il chiavistello che è tenuto chiuso
a loro protezione131?
Il decisionismo è la teoria del più forte, privo di dubbi e di
scrupoli, ed è per ciò stesso adatta a favorirlo. Di esso non profitterà il debole incapace d’imporre la propria decisione, né il
dubbioso incerto sulla decisione da prendere, interessati così entrambi a regole del gioco imparziali, eque, e aperte a considerazioni riflessive di giustizia. Il decisionismo sprigiona piuttosto
energie, e dà origine a mentalità, avverse alla democrazia.
6. La difesa della Repubblica di Weimar:
rivalutazione della costituzione formale
Il libro sulla sovranità, Die Souveränität. Ein Beitrag zur
Theorie des Staats- und Völkerrechts, è del 1927. Negli anni
successivi Heller attenua pian piano il suo decisionismo. È
poi la svolta drammatica del 30 gennaio 1933, l’avvento al
potere di Hitler, che accelera il suo ripensamento della teoria
decisionistica condivisa bene o male, ed a vari livelli, fino a
quel momento. Il ripensamento si produce in particolare riguardo a tre grandi temi: 1) il rapporto tra diritto e potere, 2)
il concetto di costituzione, 3) la nozione di verità nelle scienze
sociali.
J. ROTH, Die Literatur im Dritten Reich, in J. ROTH, Unter dem Bülowbogen. Prosa zur Zeit, cit., p. 298.
131
E. JÜNGER, Auf den Marmorklippen (1939), in E. JÜNGER, Ausgewählte
Erzählungen, Klett, Stuttgart 1975, p. 182.
130
113
Nella postuma e incompleta Staatslehre troviamo un più critico atteggiamento rispetto al decisionismo di Carl Schmitt, e
maggiore tolleranza, comprensione e approvazione rispetto alle
tesi di Hans Kelsen. Il passaggio seguente, ad esempio, è abbastanza indicativo di questo mutato atteggiamento:
Il diritto può essere però concepito come volontà solo se lo si intende
al contempo come dover essere. Pertanto il potere statale di volontà
che positivizza il diritto dev’essere presupposto sin da principio come
relativo a norme. È un gran merito critico di Hans Kelsen l’aver costantemente sottolineato che la validità giuridica non può fondarsi sulla
statuizione da parte d’un potere di volontà privo di norme [auf die
Setzung durch eine normlose Willensmacht]132.
Qui, dunque, l’istanza produttrice di diritto non può più essere normlos, priva di norme, oppure precedente, o non vincolata da, meccanismi normativi. Ora si afferma, pertanto, che la
decisione presuppone delle norme: si ritiene che essa non possa
darsi come atto produttivo di diritto se non è investita di questo potere, e non vi è legittimata da norme.
Questa volta per Heller non è solo il potere che crea il diritto ma il diritto a sua volta ha un «carattere creativo di potere». Si afferma pertanto che il decisionismo di Schmitt soffre
d’una prospettiva unilaterale e riduttiva:
Il carattere costitutivo del potere posseduto dal diritto è disconosciuto
anche da Carl Schmitt. Oltracciò si confonde la normatività con la positività allorché si afferma che l’unità e l’ordine risiedono «nell’esistenza politica dello Stato, non nelle leggi, nelle regole e in qualche
altra entità normativa». Proprio rispetto allo Stato normatività ed esistenzialità non rappresetano degli opposti, bensì condizioni l’una dell’altra. Invero il diritto formula «addirittura le leggi esistenziali essenziali della vita comunitaria degli esseri umani»133.
H. HELLER, Staatslehre, cit., p. 216.
Ivi, p. 220, corsivo nel testo; la prima citazione fatta da Heller è dalla
Verfassungslehre di Carl Schmitt, la seconda da Probleme der internationalen Gerichtsbarkeit di Erich Kaufmann.
132
133
114
Non è più uno Stato indipendente da regole e concepito come
mera potenza la fonte primigenia del diritto. Quest’ultimo anzi
è ora considerato costitutivo dello Stato. Non v’è Stato – dice
l’«ultimo» Heller – senza diritto; la politica richiede o presuppone l’esistenza di un diritto.
All’interno della dinamica dei rapporti storico-sociali di dominio una
situazione di potere diviene status politico sempre solo mediante il diritto. Senza il diritto con le sue qualità normative e tecniche lo Stato
nella continua trasformazione di innumerevoli e incalcolabili processi
integrativi non possiede né durata né struttura, dunque propriamente
nessun tipo di esistenza134.
Qui tra l’altro può leggersi una critica alla teoria dell’«integrazione» di Rudolf Smend135, che subordinava potentemente il
fenomeno giuridico ai meccanismi dell’integrazione sociale diffusa. Vi sono molteplici processi integrativi – replica Heller –
e questi non costituiscono ancora una unità politica, uno Stato,
senza l’apporto determinante dello specifico meccanismo dell’integrazione giuridica.
Il concetto di costituzione è un buon esempio dell’evoluzione e delle perduranti ambiguità teoriche della dottrina dello
Stato di Heller. Il capitolo sulla «costituzione dello Stato» è
quello finale della Staatslehre. Questo si apre significativamente
con la riproposizione dell’idea lassalliana di costituzione. Lassalle, nel suo scritto Über Verfassungswesen, afferma – come è
noto – che la costituzione di uno Stato consiste non nella carta
del documento costituzionale, bensì «nei concreti rapporti di potere esistenti in un paese»136. Questa definizione raccoglie e
riformula il pregiudizio marxista secondo cui il diritto sarebbe
Ibidem. Corsivo nel testo.
Vedi R. SMEND, Verfassung und Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin 1928, e cfr. infra, capitolo terzo.
136
F. LASSALLE, Über Verfassungswesen (1862), in F. LASSALLE, Gesammelte Reden und Schriften, a cura di E. Bernstein, vol. 2, Cassirer, Berlin
1919, p. 38.
134
135
115
solo una «sovrastruttura», riflesso di relazioni più profonde ed
essenziali, e la conseguente strumentalizzazione del diritto. Il
diritto qui è ridotto a Machtverhältnis. Nella Staatslehre Heller
accetta in un primo tempo la nozione di costituzione proposta
da Lassalle. Si rende però conto, abbastanza presto, della somiglianza di questa col concetto «assoluto» di costituzione adoperato da Carl Schmitt137 e con lo svuotamento di significato
della costituzione e del costituzionalismo che ne consegue. Se
la costituzione è solo e semplicemente il riflesso di relazioni di
potere o addirittura equivale a queste relazioni, come potrà aspirare a determinare normativamente e ad ispirare idealmente i
rapporti di potere medesimi, le dinamiche delle forze politiche,
che costituiscono il suo principale oggetto di regolazione? Così
Heller corregge la formula di Jellinek della «forza normativa
del fattuale» attaccandole il pendant della «forza normalizzante
del normativo». «Giacché accanto a tale forza normativa di ciò
ch’è fattualmente normale la forza normalizzatrice del normativo assume un significato del tutto proprio e assai rilevante»138.
D’altra parte Heller riconosce la rilevanza dei princìpi accanto a quella delle regole nell’àmbito del diritto, in particolare
del diritto costituzionale. Adoperando una terminologia di Robert Alexy, potremmo dire che quello dell’ultimo Heller è un
modello del diritto a due livelli, un Regel/Prinzipien Modell139,
il quale lo allontana da una concezione angustamente giuspositivistica o decisionistica. Secondo questa nuova prospettiva il
sistema giuridico non consiste più solo di leggi o provvedimenti,
di comandi del sovrano, ma è pieno d’altre cose, di princìpi soprattutto. Questi per loro natura non possono essere ricondotti
a elementi d’una realtà solo empirica, fattuale, ma giocano un
ruolo di regolazione ideale di condotte; la quale rimanda a un’at137
Vedi C. SCHMITT, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin 1928,
§ 1. Anche tale concetto come altri della dottrina di Schmitt proviene dalla
filosofia politica di Hegel da lui saccheggiata alla ricerca di efficaci metafore.
138
H. HELLER, Staatslehre, cit., p. 285.
139
Vedi R. ALEXY, Rechtssystem und praktische Vernunft, ora in R. ALEXY,
Recht, Vernunft, Diskurs. Studien zur Rechtsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1995, pp. 23 sgg.
116
tività di ponderazione tra alternative contrapposte (ma non in
contraddizione tra loro) e dunque ad argomenti di razionalità
pratica (primo tra tutti il principio di proporzionalità tanto amato
dalle odierne corti costituzionali) per stabilire una gerarchia
delle varie alternative (dei princìpi) applicabili al caso concreto.
In particolare – per quest’ultimo Heller – non è possibile comprendere e interpretare le norme costituzionali senza fare riferimento a princìpi del diritto.
La maggior parte delle norme costituzionali positive non può né comprendersi né interpretarsi né applicarsi senza il ricorso ai princìpi del
diritto, nemmeno là dove il legislatore non fa esplicito riferimento a
questi. Giacché il diritto non è mai nella sua interezza ricompreso
entro la lettera delle disposizioni giuridiche positive140.
Che differenza con l’imperativismo ultravolontaristico di
qualche anno prima!
Nella Staatslehre Heller distingue cinque concetti di costituzione: due sociologici, e tre giuridici. Il più ampio di questi
è il primo concetto sociologico per il quale vale la definizione
di Lassalle: costituzione è la concreta struttura di potere di qualsivoglia gruppo sociale. Il secondo concetto, un po’ più ristretto,
è ancora di carattere sociologico, e denota la struttura di potere
storicamente determinata di un certo paese. A questi due concetti sociologici corrispondono altrettanti concetti giuridici. Il
primo è quello di ordinamento giuridico. La costituzione – in
questo primo concetto giuridico – denoterebbe qualunque ordinamento giuridico. Più specifico è invece il secondo concetto
giuridico di costituzione. Questo sarebbe quello di un ordinamento giuridico con certi contenuti: un ordinamento, per esempio, che assicurasse certe libertà individuali e la divisione dei
poteri dello Stato. Ma né il primo né il secondo concetto giuridico di costituzione abbisognano di un testo scritto, di una
carta costituzionale, per avere esistenza. Il secondo dei concetti
140
H. HELLER, Staatslehre, cit., p. 290.
117
giuridici appena menzionati può anche definirsi come quello di
«costituzione materiale in senso stretto», il quale – aggiunge
Heller – è di certo più utile del primo concetto giuridico, considerata la estrema genericità di quest’ultimo.
Il quinto concetto di costituzione – nella lista di Heller – è
quello «formale» rappresentato da una costituzione scritta nella
quale sono contenuti i princìpi fondamentali dell’ordinamento
giuridico in questione. Ora è questo, quello «formale», il concetto fondamentale nella nuova prospettiva adottata da Heller
nonostante l’ambiguità derivante dalla reiterazione della formula di Lassalle: «Si conferma sempre in ultima istanza la tesi
per cui la costituzione risiede nei concreti rapporti di potere»141.
Se si adotta il concetto di costituzione materiale in senso stretto,
ogni Stato diventa uno Stato costituzionale. Ciò da un lato rende
pleonastico o ridondante l’attribuzione della qualifica di «costituzionale» a un certo ordine politico, e dall’altro modifica
profondamente la valenza della «costituzionalità» di una istituzione o di un atto. La «costituzione materiale» (sia pure in senso
stretto), essendo fondata sulla concreta dinamica dei rapporti
politici, difficilmente può servire da modello ideale e dispositivo regolativo di questi.
D’altra parte per «costituzione» il pensiero giuridico moderno intende principalmente un modello regolativo dotato di
certi contenuti e caratteristiche: principalmente la protezione di
certi diritti degli individui e la divisione dei poteri dello Stato.
La nozione di «costituzione materiale» infrange quest’uso moderno del termine. Uno Stato assoluto o dispotico – se si adottasse il concetto di «costituzione materiale» – sarebbe anch’esso
uno Stato costituzionale. Ciò va però contro due secoli di storia «costituzionale». Non è un caso che uno dei difensori della
nozione di costituzione materiale sia il solito Carl Schmitt, che
si serve di tale nozione (detta da lui semplicemente Verfassung)
per svuotare di significato la costituzione assai formale (una
141
118
Ivi, p. 292.
Verfassungsgesetz nella sua terminologia) di Weimar, contrapponendole una «materialità» (una «decisione») riempita di contenuti ideologici antidemocratici e comunque potendo giustificare in tal maniera qualunque infrazione o inadempimento della
costituzione scritta.
In ogni caso – argomenta Heller –, se si vuole mantenere il
concetto di «costituzione materiale» come insieme di pratiche
o criteri utili all’interpretazione e alla dottrina costituzionale,
ciò deve farsi prendendo in considerazione anche e soprattutto
le norme e i princìpi formalmente sanciti nella costituzione
scritta142. La «costituzione materiale» sarebbe allora non più un
concetto contrapposto a quello di «costituzione formale», ma
qualcosa di più ampio di questa (che questa ricomprende), a cui
rifarsi nell’eventualità dei «casi difficili», nell’eventualità cioè
in cui l’interpretazione della costituzionalità di un atto giuridicamente rilevante presenti particolari difficoltà. La «costituzione
materiale» sarebbe qui una costituzione lato sensu, per certi
versi una sorta di teoria politica retrostante o di «integrity» alla
Dworkin, mentre la costituzione stricto sensu sarebbe rappresentata esclusivamente dalla costituzione formale.
Heller difende la rilevanza e – si può dire anche – la «dignità» della Costituzione di Weimar tanto poco amata nella Germania del primo dopoguerra. (Basti ricordare a questo proposito il cosiddetto Fahnenstreit, il conflitto sulla bandiera del
Reich che la Costituzione di Weimar voleva rossa nera e oro,
mentre la destra si ostinava a sventolare pubblicamente, e negli
edifici pubblici, il vessillo guglielmino rosso bianco e nero, i
cui colori sono poi significativamente ripresi dalla bandiera nazista). Heller difende la Costituzione di Weimar rivendicando
innanzitutto la specificità e lo speciale valore normativo del
concetto formale di costituzione, ché quello di Weimar è un
Vedi ivi, p. 312. È questo il punto su cui si regge tutta l’interpretazione (in chiave antipositivistica e «repubblicana») del pensiero di Heller
avanzata da David Dyzenhaus. Si veda D. DYZENHAUS, Legality and Legitimacy, cit., in particolare pp. 164 sgg.
142
119
testo scritto, una «costituzione formale» per l’appunto. La difende inoltre affermando che il «custode della costituzione» non
è – come vuole Schmitt – il Presidente del Reich, una Persönlichkeit alla maniera di Mjineheer Peepekorn, il personaggio carismatico dello Zauberberg di Thomas Mann, bensì l’elettorato
e l’insieme dei suoi rappresentanti, il Parlamento. Nell’importante studio Der Begriff des Gesetzes in der Reichsverfassung
presentato come relazione alla severa assemblea dei pubblicisti
di lingua tedesca nell’anno 1927 la sua tesi principale è che
«nella Costituzione di Weimar bisogna essenzialmente intendere come legge la norma giuridica suprema posta dal potere
legislativo del popolo»143.
Contro ogni tentazione presidenzialistica e plebiscitaria, fortemente alimentata negli anni Venti dal pensiero di Schmitt, Heller, che pure – come si è visto – condivide in parte, almeno fino
alle soglie degli anni Trenta, una impostazione decisionistica,
difende con forza le prerogative del Parlamento repubblicano.
Il parlamentarismo di Heller è addirittura tanto forte che sfocia
in una sorta di «assemblearismo», vale a dire in una teoria che
concentra tutti i poteri dello Stato nell’assemblea dei rappresentanti del popolo. Il decisionismo qui serve a giustificare non
le tentazioni autoritarie d’una dottrina restia a rigettare il «principio monarchico», imbellettato appena da «principio presidenziale», e pronta all’occasione a trasformarlo ancora in Führerprinzip, bensì l’onnipotenza del potere legislativo. Il soggetto
della decisione sovrana, eventualmente contro la legge medesima, è – nella concezione di Heller – esclusivamente il parlamento. Ciò si presta – come si è già accennato – oltre che ad
una interpretazione squisitamente teorica, a una spiegazione in
termini prettamente politici. Nella Germania di Weimar dei tre
poteri dello Stato l’unico nel quale siano presenti in maniera
massiccia forze democratiche e repubblicane è proprio quello
legislativo. Il potere giudiziario e quello esecutivo sono ancora
H. HELLER, Il concetto di legge nella Costituzione di Weimar, cit., pp.
333-334 (corsivo mio).
143
120
saldamente in mano a un ceto di funzionari il cui ethos rimane
quello del Beamtentum guglielmino.
La giustizia non fu mai repubblicana – scriveva nel dicembre 1932
Heinrich Mann in un saggio che dà quasi per scontata la catastrofe
imminente – ciascuno lo vedeva; né lo fu l’esercito e l’università.
Nessun settore dell’amministrazione fu penetrato da sentimenti repubblicani144.
Non è certo per un caso che la dottrina giuridica più conservatrice (quella di Erich Kaufmann145, tanto per intenderci, o
quella del giovanissimo Karl Larenz)146 si adoperi per allargare
l’àmbito dei poteri interpretativi e creativi del giudice né che
essa abbia come riferimento istituzionale supremo non il potere
democratico del Parlamento ma quello tendenzialmente autoritario del Presidente del Reich, e tenti di configurare quest’ultimo come potere in ultima istanza dittatoriale147.
Vi è poi un’ulteriore mossa teorica di Heller in difesa della
costituzione repubblicana: la rivendicazione del carattere normativo di questa. Nella Staatslehre la costituzione non è vista
più come una decisione d’una unità politica che preesiste alla
costituzione medesima e che non è soggetta ad alcuna norma.
H. MANN, Das Bekenntnis zum Übernationalen, in H. MANN, Der Haß.
Deutsche Zeitgeschichte (1933), a cura di H.P. Schneider, Fischer, Frankfurt
am Main 1987, p. 25. Si legga, tra l’altro, anche K. TUCHOLSKY, Die Unpolitische (1925), ora in K. TUCHOLSKY, Zwischen Gestern und Morgen, antologia di scritti e poesie, a cura di Mary Gerold-Tucholsky, Rowohlt, Reinbek
bei Hamburg 1995, p. 133: «Ja, sehen Sie, Frau Zinschmann, es ist ja vieles
faul in dieser – ehimm – Republik. Aber, Gott sei Dank, unser altes preußisches Richtertum, das hält doch noch stand. Das hält stand».
145
Su cui cfr. E. CASTRUCCI, Tra organicismo e «Rechtsidee». Il pensiero
giuridico di Erich Kaufmann, Giuffrè, Milano 1984.
146
Si veda ad esempio K. LARENZ, Das Problem der Rechtsgeltung, Junker
und Dünnhaupt, Berlin 1929, p. 40: «Il giudice secondo il suo concetto non
è organo del legislatore, bensì è organo del diritto» (rendo col corsivo lo spaziato del testo).
147
Su questa vicenda, cfr. K. SONNTHEIMER, Antidemokratisches Denken
in der Weimarer Republik, III ed., DTV, München 1987.
144
121
Per l’«ultimo» Heller l’unità politica prende forma invece grazie alla costituzione che ha rispetto ad essa efficacia costitutiva.
«Il carattere costitutivo del potere posseduto dal diritto ci vieta
di concepire la costituzione come «decisione» di un potere privo
di norme»148. La teoria del pouvoir constituant, ripresa significativamente da Carl Schmitt, ha – denuncia Heller – una storia
poco edificante: essa sarebbe un artificio dottrinale per giustificare la restaurazione del potere monarchico dopo le convulsioni della rivoluzione francese149. Il pouvoir constituant, il soggetto che produce la costituzione, è anche – è questa l’opinione
di Heller – pouvoir constitué: si tratta di un potere cioè che si
costituisce anche grazie al patto costituzionale e che non può
darsi indipendentemente da questo.
Si può contrassegnare come potere costituente quella volontà politica
che è in grado di determinare l’esistenza dell’unità politica nel suo
complesso. Una moltitudine d’esseri umani senza normazione non ha
né volontà capace di decisione né potere capace di azioni, né tantomeno possiede autorità150.
Su questo punto centrale per una dottrina costituzionalistica
Heller prende così le distanze dalla sua precedente esaltazione
della potestas legibus soluta del parlamento. Ora questo non è
più giuridicamente onnipotente, e deve inchinarsi ai princìpi
iscritti nel patto costituzionale. Il baricentro della dottrina del
giurista austro-tedesco comincia a oscillare tra la «fatticità» dei
rapporti di potere e la «validità» dei princìpi costituzionali, fin
quasi a fermarsi su quest’ultima.
H. HELLER, Staatslehre, cit., p. 313.
Vedi ivi, p. 314. Per un’informazione generale dei problemi connessi
a questa nozione controversa del diritto costituzionale moderno, cfr. M. FIORAVANTI, Potere costituente e diritto pubblico, ora in M. FIORAVANTI, Stato e
costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino 1993, pp. 215 sgg.
150
H. HELLER, Staatslehre, cit., p. 314.
148
149
122
7. Verità e politica
Uno dei punti sui quali più accentuato è il ripensamento di
Heller all’indomani del Preußenschlag e dell’avvento al potere
di Hitler è – come si è accennato – la concezione della verità
nelle scienze politiche e sociali. Tale ripensamento è netto nella
voce Political Science, che rappresenta una sorta di suo testamento spirituale. In precedenza aveva adottato una posizione vicina alla cosiddetta «sociologia della conoscenza» che riporta le
tesi cognitive ad atteggiamenti volitivi, a preferenze, o a interessi,
anche non percepiti riflessivamente dal soggetto conoscente, e
dunque mette in dubbio l’indipendenza della conoscenza rispetto
alla volontà o all’interesse. Nella Staatslehre e, in modo più succinto e perciò più pregnante, nell’articolo Political Science, Heller si sbarazza dello scetticismo e del sociologismo difesi fino ad
allora. L’insistente affermazione – dice – della dipendenza delle
forme di conoscenza da fattori storici e sociologici mette in pericolo non solo la teoria ma anche la pratica politica151.
Se ogni pensiero politico-giuridico è soltanto espressione di una situazione specificamente storico-sociale ed individuale – così Heller
scrive già nel 1929 nelle sue Bemerkungen zur staats- und rechtstheoretischen Problematik der Gegenwart152 – se generazioni e classi,
partiti e nazioni, non appartengono ad alcun contesto comune di senso,
fra questi non può sussistere alcuna base comune di discussione nella
teoria e nella pratica politica, e neppure è possibile un comportamento
razionale, bensì soltanto un agire che mira a prevaricare l’avversario
con la violenza153.
Il guaio è però non solo che Heller aveva assunto negli anni
precedenti quelle stesse posizioni che ora sottoponeva a critica,
ma soprattutto che egli non sapeva liberarsene, pur riconoscendone e segnalandone l’inesattezza e addirittura la pericolosità.
Vedi H. HELLER, Political Science, cit., p. 71.
In «Archiv des öffentlichen Rechts», vol. 16, 1929.
153
H. HELLER, Osservazioni sulla teoria contemporanea del diritto e dello
Stato, cit., p. 377.
151
152
123
La separazione della dottrina dello Stato dalla politica – aveva scritto
in die Krisis der Staatslehre appena tre anni prima154 – conseguenza
del miraggio di una scienza della cultura avalutativa e completamente
priva di presupposti, va abbandonata, perché è impossibile e dannosa.
L’insieme delle idee relative allo Stato restano legate alle contrapposizioni e agli interessi presenti nei conflitti sociali155.
Ora, nell’articolo del 1929 questa posizione, la contestualizzazione radicale della conoscenza, viene rinnegata. Tuttavia
quest’ultimo scritto si conclude nella maniera seguente:
Non vi è dunque nessuna scienza dello Stato e del diritto che sia indipendente dalle decisioni perché non può essere indipendente dalla
storia, e i nostri atti conoscitivi nella teoria politica e giuridica sono
sempre al tempo stesso atti di decisione156.
Anche qui dunque – come si vede – l’atteggiamento teorico
di Heller rimane incerto e ambiguo.
Dinanzi a Hitler padrone della Germania, alla testa di Gorgone del potere che ora si mostra sollevando il velo del diritto
positivo, lo scetticismo di Heller, vale a dire la sua prospettiva
gnoseologica imperniata su una sorta di Wissensoziologie, si dirada. Si attenua del pari il «relativismo» dell’amico e compagno Gustav Radbruch, il quale – come è noto – all’indomani
della caduta del regime nazionalsocialista si impegnerà in una
vivace revisione del giuspositivismo da lui prima professato in
direzione di un moderato giusnaturalismo dai toni vagamente
religiosi157. Non possiamo sapere purtroppo quale sarebbe stata
In «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. 55, 1926,
pp. 289-316.
155
H. HELLER, La crisi della dottrina dello Stato, cit., p. 58.
156
H. HELLER, Osservazioni sulla teoria contemporanea del diritto e dello
Stato, trad. it. cit., p. 394.
157
Si legga ad esempio G. RADBRUCH, Fünf Minuten Rechtsphilosophie,
in G. RADBRUCH, Rechtsphilosophie, VI ed., a cura di E. Wolf, Koehler, Stuttgart 1963, pp. 335-337.
154
124
la posizione di Heller nel 1945; è certo comunque che nel 1933
la sua fede in una verità con pretese di oggettività e universalità è piena e ormai priva di qualsiasi tentennamento. Tra conoscenza e interesse – ammette – v’è ovviamente una forte relazione; ma alla conoscenza è riconosciuto ora uno statuto suo
proprio, e le sono ascritti criteri di accertamento e giustificazione separati dall’interesse. Heller si avvicina a Settembrini e
prende le distanze da Naphta, seguendo un percorso che è per
certi versi simile a quello compiuto, dieci anni prima, da Thomas Mann. Anche Mann muoveva dal Machtstaatsgedanke,
nella sua versione conservatrice però158, mentre Heller interpreta
lo «Stato di potenza» da una prospettiva progressista e socialista. In entrambi – in Mann fino alla metà degli anni Venti, in
Heller fino e oltre le soglie degli anni Trenta – è stato forte il
richiamo del nazionalismo tedesco à la Fichte, e ha vibrato la
corda della Kultur, della Gemeinschaft, d’una società dai tratti
antiliberali, di contro alla Zivilisation, alla Gesellschaft, di contro insomma alla modernità.
Con la fine della Repubblica di Weimar – che coincide tragicamente con la fine dell’esistenza terrena di Hermann Heller
– non è più plausibile una tesi relativista forte. Il «nuovo» che
avanza – il regime hitleriano – è chiaramente, evidentemente,
oggettivamente, un male. Dinanzi a una tale enorme quantità di
ingiustizia insistere sulla relatività della verità morale e politica
non può che condurre o alla complicità col male o all’indebolimento della resistenza contro questo. Il relativismo finisce per
delegittimare qualunque idea e valore per consegnarli al dominio della forza, alla relazione «amico/nemico» celebrata da Carl
Schmitt. Ciò è colto con acutezza da Heller che riproduce quasi
alla lettera un passaggio delle sue Bemerkungen zur staats- und
rechtstheoretischen Problematik der Gegenwart del 1929:
Il maggior documento di questa fase del pensiero di Mann (un prolisso catalogo dei luoghi comuni del più reazionario nazionalismo tedesco)
è costituito – come è noto – dalle sue Betrachtungen eines Unpolitischen
(1918).
158
125
Se però ogni coscienza politica è solo l’espressione d’una situazione
del tutto individuale, se tra generazioni e classi, tra partiti e nazioni,
non c’è un’unità significativa, allora nella politica teorica e pratica
non si dà nessuno status vivendi che possa mediare tra quelli in termini intellettuali, nessuna base di discussione, nessuna relazione razionale e morale, ma soltanto un’attività che mediante il potere sopprime o annienta l’oppositore159.
Il ritornello dell’«È tutto solo relativo», dell’«Es ist alles halt
relativ»160, è tutt’altro che un’efficace difesa della tolleranza.
Heller dà scacco al relativismo in tre mosse.
1) La prima di queste è la riaffermazione dell’invalidità logica dell’argomento ad personam. Il fatto che il sostenitore di
una certa teoria sia affetto da determinati vizi, abbia una certa
costituzione, sia nato in un certo gruppo, assuma un certo comportamento, ovvero il fatto che una certa teoria possa o abbia
potuto servire certi interessi o sia sorta in un certo contesto storico, tutto ciò non è ancora un argomento sufficiente a illustrare
nel merito la teoria in questione, ed è dunque incapace di dirci
qualcosa di definitivo sulla correttezza di questa. Bisogna esaminare il contenuto «ideale» o semantico proprio della teoria
invece di fissarsi sulle caratteristiche particolari del soggetto che
la difende, ovvero sulla sua genesi storica o sociologica161. Queste possono e devono certo essere tenute in conto, ad esempio
per accertare la coerenza di quella certa teoria con altri princìpi
accolti dal soggetto che ne è il portatore o con le condotte che
si assumono come risultato dell’adozione della teoria, tuttavia
H. HELLER, Political Science, cit., p. 72.
Su cui si esercita feroce il sarcasmo di Ödon von Horvàth che lo vede
come un’arma in mano ai nemici della democrazia. Si legga Ö. VON HORVÀTH,
Gesammelte Werke, a cura di T. Krischke, vol. 3, Italienische Nacht,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1995, pp. 11, 13, 34, 51.
161
Si tratta dunque di un procedimento opposto a quello raccomandato da
tanta filosofia storicista e in Italia, com’è noto, da Benedetto Croce. Del quale
per esempio si legga La storia come pensiero e come azione, Laterza, BariRoma 1970, p. 136.
159
160
126
mai prima facie per impedire un discorso di merito sul contenuto semantico della teoria.
2) La seconda mossa è quella della rivendicazione della trascendenza della conoscenza rispetto al contesto in cui è stata
ottenuta. La conoscenza esprime, per sua intrinseca costituzione,
la pretesa a una validità univerale, che va ben al di là del tempo
e del luogo in cui è stata espressa. Nel mondo vi sono costanti
che sfuggono all’influenza della storia e della tradizione. Ciò
vale anche per il mondo tipicamente umano, e persino per la
politica, l’àmbito che sembrerebbe maggiormente consegnato al
contingente e al conflitto degli interessi degli esseri umani storici. «Nel processo politico vi sono, in effetti, certe costanti immutabili che sfuggono alla ragion pratica del relativista storicista e sociologista»162, là dove la più importante di queste «costanti» risulta essere «la natura dell’uomo»163.
3) Con una terza mossa Heller sospinge i relativisti contro
la loro stessa tradizione, che sia quella della Kultur mitteleuropea oppure quella liberale dell’Occidente.
L’insensata osservazione di Spengler secondo cui Archimede con tutte
le sue scoperte scientifiche probabilmente ha avuto minore influenza
sulla storia «reale» di quel soldato che lo uccise nell’assalto di Siracusa è particolarmente adatta ad accelerare la dissoluzione della cultura occidentale. Tuttavia anche se un tale crollo della nostra civiltà
avesse effettivamente luogo, Archimede avrebbe ancora un posto nel
patrimonio dell’Occidente incomparabilmente più importante di quello
del suo assassino164.
Il relativismo non è difendibile né dal punto di vista universalistico proprio del pensiero moderno ma nemmeno da
quello particolaristico interno a una determinata tradizione, giacché la tradizione dentro la quale si sviluppa il relativismo è an-
162
163
164
H. HELLER, Political Science, cit., p. 74.
Ibidem.
Ivi, p. 75
127
cora quella della modernità e dell’universalismo. In una comunità fornita di un ethos cognitivo e morale compatto la comunità si proietta non come particolare bensì come universale; o
meglio una tale comunità non problematizza i suoi atti cognitivi e morali e attribuisce loro la certezza assoluta del senso comune. Soltanto una comunità nella quale conoscenza ed etica
siano divenute riflessive – dunque una comunità il cui ethos non
è più fornito dal comune sentire e non può che ritenersi plurale
o pluralista – rende possibile la percezione della relatività (sia
essa anche meramente storica) dei dati cognitivi e morali. La
Kultur – questa la conclusione di Heller – è un prodotto della
Zivilisation, e non può – per quanti sforzi faccia – tirarsi fuori
da questa165.
Heller, al contrario di Kelsen166, va oltre Pilato immobilizzato dalla domanda «cos’è la verità?»; entrambi, Pilato e Kelsen, assai simili ai giuristi o legisti contro cui si dirige il sarcasmo del Nuovo Testamento. Il relativista radicale è come quei
giuristi di cui Gesù dice che, pur avendo la chiave per l’accesso
alla verità, la negano a sé e agli altri167. Ma – è stato detto autorevolmente – «chi non crede alla verità sarà tentato di rimettere ogni decisione, ogni scelta, alla forza, secondo il principio
che, siccome non si può comandare ciò che è giusto, è giusto
ciò che è comandato»168. Heller oppone al relativismo innanzi-
165
Da Heller però il concetto di «Kultur» era stato in precedenza giocato
contro quello di «Zivilisation», d’una sfera pubblica riflessiva e discorsiva.
Cfr. in merito le considerazioni di M. HERNANDEZ MARCOS, Hermann Heller:
hacia una definición sociocultural de lo político, in Literatura y política en
la República de Weimar, a cura di C. Flórez Miguel e M. Hernández Marcos,
cit., pp. 63 sgg.
166
Vedi H. KELSEN, Staatsform und Weltanschauung (1933), ora in Die
Wiener rechtstheoretische Schule, scritti scelti di H. Kelsen, A.J. Merkl e A.
Verdross, a cura di Klecatsky, R. Marcic e H. Schambek, vol. 2, Europa Verlag, Wien 1968, pp. 1941-1942.
167
Vedi Luca, 11, 52.
168
N. BOBBIO, Verità e libertà, ora in N. BOBBIO, Elogio della mitezza e
altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, p. 65.
128
tutto la riaffermazione della possibilità della verità: vi è una verità169. E poi ripone questa, nell’àmbito della politica, nella natura dell’uomo, nei suoi bisogni, e nella sua capacità di soffrire
e gioire, e di riflettere sulla propria esperienza: la verità è
l’uomo. Così, ben prima di Radbruch, egli approda a una teoria del diritto naturale.
169
Cfr. D. DYZENHAUS, Legality and Legitimacy, cit., p. 256: «Heller differs from political liberals [...] in that he is committed to the truth of the democratic account of the legitimacy of law».
129
130
Capitolo terzo
La comunità «integrata»: Rudolf Smend
1. Liberalismo e comunitarismo:
un dibattito nel crepuscolo di Weimar
Nell’àmbito culturale angloamericano da due decenni almeno è in corso la polemica tra «liberals» e «communitarians»,
tra liberalismo e comunitarismo, una polemica che verte innanzitutto intorno ai fondamenti e ai contenuti della morale normativa ma che ha riverberi immediati sulla concezione dell’ordine politico e delle sue istituzioni. In realtà, più che di una polemica, si è trattato all’inizio di una sorta di assalto critico alla
filosofia politica di John Rawls1 che, inaspettatamente, aggiornava e riproponeva con forza una tradizione di pensiero politico, quella contrattualistica, la quale sembrava ormai estinta.
Rawls con la sua teoria della giustizia si riallaccia, senza passare per alcun intermediario, ai grandi sistemi giusnaturalistici
e giusrazionalistici del Seicento e Settecento, a Locke, a Rousseau, a Kant, ignorando olimpicamente tutto lo storicismo e lo
scetticismo sociologizzante dell’Ottocento e il noncognitivismo
e il decisionismo del Novecento. Rawls rinnova in realtà l’intera filosofia politica contemporanea ridandole fiducia in se
Vedi J. RAWLS, A Theory of Justice, Oxford University Press, Oxford
1971; trad. it., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1983.
1
131
stessa e la capacità di pensare in modo controfattuale l’ordine
politico, liberandola così dalle limitazioni impostele dal ruolo
di fenomenologia del potere quando non dall’identificazione con
la storia del pensiero politico in cui l’avevano cacciata il paradigma positivistico e l’idealismo più o meno storicistico. La
«riabilitazione» della filosofia politica e di quella pratica in generale ottiene qui il suo definitivo suggello. È Rawls dunque e
la sua potente teoria, che per raffinatezza, complessità e estensione non ha pari nel secolo ventesimo, la «causa», il «casus
belli», della critica comunitaristica.
Il comunitarismo – è stato detto2 – può classificarsi e suddividersi in tre grandi aree: 1) a seconda che affermi la disparità assiologica tra giustizia e comunità, 2) a seconda che concepisca la comunità come un principio concorrente e superiore
rispetto a quello di giustizia ma non escludente rispetto a quest’ultimo, o 3) che infine si aspetti dalla «comunità» un principio correttivo e integrativo della giustizia. D’altra parte, c’è chi
ha riassunto il comunitarismo come la somma di tre postulati:
a) le regole della morale possono concepirsi e percepirsi solo
nella forma che assumono entro una certa comunità; b) la morale può a sua volta giustificarsi solo rispetto a beni che possono essere goduti solo in comunità (sì che la «buona vita» è
sempre vita in comunità); c) la motivazione concreta all’agire
morale, l’«implementazione» o realizzazione delle regole morali in condotte effettive, può essere offerta solo da una certa
comunità. Si noti che dietro il primo postulato fa capolino una
posizione radicalmente antinormativistica per cui essendo la
morale in buona sostanza quella dominante o positiva (a ciò si
riduce in soldoni tutto il parlare dei princìpi di giustizia come
criteri epistemicamente percepibili solo entro un contesto dato),
la morale non potrà argomentarsi o giustificarsi ma tutt’al più
descriversi (sociologicamente, nei termini di un reportage etnografico circa le pratiche di un determinato gruppo umano).
Vedi W. KYMLICKA, Community, in Blackwell Companion to Political
Philosophy, a cura di R. Goodin, Blackwell, Oxford 1993, pp. 366 sgg.
2
132
Invero, l’attacco comunitarista alla teoria liberale della giustizia e le repliche dei «liberals» e dunque la discussione che
ne è seguita hanno un sapore fortemente accademico. La discussione si è svolta quasi tutta in riviste specializzate e in pubblicazioni dirette al mondo degli universitari. Gli argomenti in
essa utilizzati sono raffinati, talvolta troppo raffinati per un pubblico che non sia di filosofi professionisti. È vero che il risorgere dei nazionalismi con le loro tragiche conseguenze, specie
nell’Europa balcanica, ha dato alla discussione un certo retroterra concreto. Lo stesso può dirsi dei problemi connessi all’immigrazione di individui di culture differenti e di paesi poveri nei paesi ricchi e più o meno liberali dell’America del Nord
e dell’Europa occidentale e alla diffusione prepotente di società
multiculturali. Si è anche parlato – come è noto – di «scontro
di civiltà» con riferimento al recente fenomeno del terrorismo
islamico. Nondimeno, la polemica tra liberalismo e comunitarismo, tra rawlsiani da un lato e la pattuglia non sempre omogenea dei «communitarians», conserva un certo sapore di irreale, meglio di artificiale, lontana com’è stata spesso dai travagli della lotta politica quotidiana. Benché recenti tentazioni
imperialistiche e fondamentalistiche venute a galla negli Stati
Uniti d’America possano contribuire a gettare nuova luce su
quel dibattito e a farlo percepire a distanza come l’anticipazione
di una crisi tutt’altro che superficiale e anzi dalle proporzioni
forse epocali.
Ora, nel secolo scorso vi è stata una discussione e uno scontro di contenuti simili ma di ben altra portata e di conseguenze
immediate assai più drammatiche e, oso dire, anche di contenuto teorico più ricco e articolato, almeno per ciò che concerne
la teoria dello Stato e il diritto pubblico. Parlo della controversia tra liberali e democratici da un lato e teorici della comunità,
della Gemeinschaft, dall’altro, che ebbe luogo in Germania durante la repubblica di Weimar, e che aveva per oggetto non solo
problemi di carattere squisitamente teorico ma anche e soprattutto la questione della forma statale da dare alla Germania repubblicana e dunque l’interpretazione corretta, giusta o legittima della Costituzione del Reich del 1919. Anche qui si trat133
tava piuttosto della critica, e spietata, di parte comunitarista contro il pensiero e la «tradizione» liberale, e delle repliche, allora
deboli, di questa.
Era una polemica quella dei teorici della comunità che datava nella cultura europea, e in particolare in quella germanica, da ormai molti anni e di certo dal secolo precedente. Ma
è solo negli anni Venti che trova espressione piena nella teoria giuridica dello Stato e della costituzione. Il giuspositivismo
di Laband era stato vivacemente contestato da Otto von Gierke
con accenti comunitaristici evidenti3; ma in fin dei conti il
Reich guglielmino e il suo Obrigkeitsstaat (tutt’altro che uno
Stato liberale) rappresentavano per entrambi il migliore dei
mondi possibili. La loro in buona sostanza è una disputa metodologica, non politica. È solo con la fine dell’Impero guglielmino, col tramonto di ciò che Croce e altri hanno chiamato l’«èra liberale», col crollo del «mondo di ieri» (celebrato
con rimpianto da Stephan Zweig) che il giurista si interroga
sui capisaldi normativi (anche politici, pertanto) della dottrina
ereditata dallo Stato cosiddetto liberale. E più che di dubbi e
interrogativi, di assalti e di furori si tratta secondo schemi fino
ad allora inusuali.
Il secolo diciannovesimo – checché se ne dica – non era
certo stato favorevole all’Illuminismo e all’originaria ispirazione liberale e democratica dei nuovi Stati costituzionali. Questi sono ora edificati eminentemente come Stati nazionali, derivando la loro legittimità dunque non più dalla universalizzazione e implementazione del principio di autonomia individuale
bensì dal risultare emanazione di una realtà, la nazione, già di
per sé giustificata, perché alveo e madre d’ogni azione individuale. Il liberale dell’Ottocento è in genere tutt’altro che portatore d’un ideale cosmopolita. Non lo sono né Constant né Tocqueville né Mill. Né lo è Settembrini, il personaggio che raffi-
3
Qui è d’obbligo il rinvio al celeberrimo saggio di OTTO VON GIERKE,
Labands Staatsrecht und die deutsche Rechtswissenschaft, in «Schmollers
Jahrbuch», 1883, pp. 1097 sgg.
134
gura nel Zauberberg di Thomas Mann la quintessenza del liberalismo, e che si contrappone perciò al comunitarista Naphta.
Per Settembrini, come per Mazzini, le nazioni sono un’entità
spirituale e politica emergente («progressiva» e «progressista»),
un portato dell’inarrestabile progresso umano, che rompe col
mondo decadente e corrotto delle monarchie per grazia divina.
In questa prospettiva le nazioni rappresentano un principio liberale che estende agli aggregati collettivi valori incontrovertibilmente validi per i soggetti individuali come quello di autodeterminazione. Per il liberale ottocentesco – di cui un’altra azzeccata raffigurazione letteraria c’è data dall’avvocato Bellotti,
il protagonista di Die kleine Stadt di Heinrich Mann, personaggio che anticipa molti tratti di Settembrini – libertà, nazione,
progresso sono i tre lati di una medesima figura ideale.
Lo Stato liberale del diciannovesimo secolo riceve una fondazione storicistica. È il Volksgeist di Savigny e Hegel, non la
volontà generale universalizzabile di Kant, il suo nume protettore. Le dottrine giuridiche dello Stato, quelle vincenti – e sono
tutte prodotto della Germania guglielmina –, si accingono così
a coniugare tale impianto storicistico, quando non è organicistico (secondo concetti romantici derivati in buona parte dall’influentissimo Fichte), con i princìpi costituzionali dello Stato
liberale (separazione dei poteri, rappresentanza elettiva, diritti
dell’uomo e del cittadino, certezza del diritto). Lo Stato che si
delinea in quest’operazione è però assai distante dal modello
proposto dalla Rivoluzione francese o anche da quella americana. Il monarca ad esempio gioca ancora un ruolo preponderante nella dinamica dei poteri costituzionali, specialmente in
Germania. La costituzione non ha meccanismi protettivi rispetto
al potere legislativo; non è prevista nessuna forma di giustizia
costituzionale. I diritti dell’uomo e del cittadino da diritti fondamentali vengono degradati a diritti pubblici soggettivi4, e queSu questa nozione tutta tedesca, ma poi adottata con entusiasmo dalla
dottrina pubblicistica italiana della prima metà del Novecento, cfr. A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi, ora in A. BALDASSARRE, Diritti della persona e valori costituzionali, Giappichelli, Torino 1997, pp. 313 sgg.
4
135
sti a diritti riflessi, Reflexrechte, «riflesso» del potere statale in
un doppio senso: perché concessi graziosamente da questo
(dunque in ragione del loro titolo); perché diretti eminentemente
a mettere in moto attività statali (dunque in ragione del loro
esercizio). Amministrazione, scuola, esercito, magistratura,
forze di polizia, sono sottratti alla vigenza del principio democratico, e al contrario plasmati secondo un ferreo principio di
gerarchia.
Principale, centrale, importantissima concessione al liberalismo, o meglio a certo liberalismo, è la politica di non-intervento
rispetto all’allora già bruciante «questione sociale». Vi è certo
una gran dose di protezionismo: l’economia nazionale cresce all’ombra della politica estera e dell’imperialismo dei rispettivi
Stati. Nondimeno, ciò che oggi chiameremmo le «relazioni industriali», i rapporti tra datori di lavoro e operai, i contratti di
lavoro, tutto ciò è consegnato all’arbitrio delle parti, il che significa in buona sostanza al libero arbitrio del più forte che è
sempre – come si può ben immaginare – il capitalista. Le relazioni sociali che non concernono lo Stato sono così concepite
come eminentemente contrattuali.
Questo quadro sollecita alla critica. Vi è quella di chi si sofferma sulle condizioni di lavoro delle classi meno abbienti costrette (liberamente...) a condizioni di lavoro umilianti ed esposte al perpetuo ricatto del datore di lavoro, all’alea delle fluttuazioni del mercato e delle necessità dell’impresa, ai rischi di
un lavoro duro e faticoso e alle malattie e alla vecchiaia, senza
protezioni di sorta. (Com’è noto, non è contemplata – fino alle
leggi di Bismarck – alcuna forma di assistenza sociale). È il
movimento socialista che prepotentemente si affaccia all’arena
politica della fine dell’Ottocento.
Alla critica dello Stato liberale concorrono altri motivi. Vi
è tutto il movimento romantico che ha trovato una voce non
compromessa nell’opera di due giganti del pensiero, Schopenhauer e Nietzsche, che tanta influenza esercitano sull’ardente gioventù tedesca. Si critica la filosofia «astratta», «meccanica», il pensare per leggi generali e per princìpi. Si disprezza
il gretto economicismo di chi vuole ridurre la comunità poli136
tica a un contratto. Si attacca l’angusto razionalismo di chi concepisce la realtà sociale solo in termini di decisioni strumentali o teleologiche. Si ripudia l’individualismo egoistico di chi
non vede nelle relazioni sociali nient’altro che il proprio interesse o la propria volontà. Si rinuncia di buon grado al cosmopolitismo, giudicato imbelle e inadeguato a soppiantare
l’organismo naturale e la missione culturale della Nazione. Si
giunge all’esaltazione del misticismo generoso ed entusiasta di
contro al prudente e scettico materialismo. Si ripete la formula
per la quale molte più cose vi sono in terra di quanto non si
sia capaci di conoscere. La conoscenza viene così sacrificata
alla «vita», alla passione e alla volontà di «assoluto» (una volontà non individualistica perché essenzialmente voglia di perdersi: ut omnes unum sint).
In questo clima, quello anche delle incendiarie Considérations sur la violence di Sorel, così bene captato in alcuni romanzi di G.K. Chesterton dei primi del Novecento, si colloca e
si sviluppa la critica comunitaristica al giuspositivismo di una
parte ragguardevole e importante della dottrina giuridica germanica. La critica, latente fino alla Grande Guerra, si fa virulenta all’indomani della proclamazione della Repubblica di Weimar. Nell’àmbito soprattutto dei cultori del diritto pubblico si
forma un «partito» teorico o metodologico, una «opposizione»,
una «comunità di lotta», Kampfgemeinschaft – come dirà lo
stesso Smend cinquant’anni dopo5 –, la quale si fa portatrice articolata di un tale atteggiamento al di là anche degli schieramenti politici. Di questo «partito», cui possono ascriversi studiosi come Hermann Heller e Erich Kaufmann, Gerhard
Leibholz e Carl Schmitt, Rudolf Smend diviene uno degli esponenti di primo piano.
5
Vedi R. SMEND, Die Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer und
der Richtungstreit, in Festschrift für Ulrich Scheuner zum 70. Geburtstag, a
cura di H. Hemke et al., Duncker & Humblot, Berlin 1973, p. 579.
137
2. Teoria sociale dello Stato.
Selbstgestaltung e «integrazione»
Può ben dirsi che Rudolf Smend6 sia l’uomo di un solo libro.
Non che non abbia prodotto più di un libro. Tra le sue pubblicazioni spicca, ben prima di quest’«unico» libro di cui si parlerà subito, un’opera di ben più di quattrocento pagine, Das Reichskammergericht, un saggio di storia del diritto, erudito, dotto,
scientificamente solido, apparso a Weimar nel 1911. E nel secondo dopoguerra egli pubblicherà varie cose nell’àmbito della
teologia e del diritto ecclesiastico protestante, di cui è un rappresentante assai influente, specie dopo il 1945. Ma il libro di
Smend, il suo unico libro di teoria del diritto – può ben dirsi –
ché non ne seguiranno altri ed è quello a cui è legata la sua
fama e il suo posto rilevante nella dottrina costituzionalistica
contemporanea, è Verfassung und Verfassungsrecht, pubblicato
a Lipsia da Duncker & Humblot nel 1928. Anno questo che può
dirsi fatale per la dottrina costituzionalistica tedesca: è l’anno
infatti della pubblicazione non soltanto del libro di Smend ma
anche dell’opera maggiore di diritto costituzionale di Carl Schmitt, la Verfassungslehre.
Di questo libro, di Verfassung und Verfassungsrecht, si tratterà ora principalmente. Non v’è altro, o v’è poco d’altro, comunque non v’è miglior documento che ci consenta di ripercorrere e comprendere le articolazioni della teoria del giurista
tedesco. E ciò a dispetto del carattere programmatico e non sistematico del libro in questione, che spesso accenna a nodi teorici lasciati poi irrisolti, che abbozza solo disegni che non saranno più completati. Tale carattere meramente programmatico
6
Per un profilo complessivo del percorso culturale e esistenziale di Smend,
cfr. G. LEIBHOLZ, Gedenkrede auf Rudolf Smend, in In memoriam Rudolf
Smend, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1976, pp. 15 sgg., e M. FRIEDRICH, Rudolf Smend 112-1975, in «Archiv des öffentliche Rechts», vol. 112,
1987, pp. 1 sgg.
138
– o «aforismatico» (come dice Kelsen)7 – dell’opera di Smend
non può ovviamente che accrescere l’ambiguità di certe sue formule e invero della sua idea generale.
Com’era da attendersi, Smend ha una visione della società
niente affatto contrattualistica. All’individuo come tale è negata
primigenitura logica: lo si rende successivo all’evento sociale.
L’io – scrive – non è pensabile prima in sé e per sé, e poi come un
elemento di questa vita [la spirituale, cioè la culturale], ma solo in
quanto vive spiritualmente, si esprime, comprende, partecipa al mondo
dello spirito, vale a dire, anche in un senso molto generale, solo in
quanto membro della comunità riferito intenzionalmente agli altri. Il
compimento e la formazione della sua essenza si hanno soltanto nella
vita spirituale, che è sociale per la sua stessa struttura8.
D’altra parte, rifugge dalla tentazione organicistica di presupporre un soggetto collettivo preesistente e totalmente indipendente rispetto alla soggettività individuale.
Ancora meno – dice – può essere ammessa l’esistenza di un io collettivo che riposa su se stesso. Le collettività sono soltanto la configurazione unitaria delle esperienze vissute di senso (Sinnerlebnisse)
degli individui; tuttavia, invece di esserne il prodotto, ne sono l’essenza necessaria: lo sviluppo dell’essenza e la formazione del senso
sono di necessità socialmente intrecciati (sozialverschränkt), sono cioè
essenzialmente un intreccio reciproco di vita individuale e superindividuale9.
È quello di Smend, dunque, un comunitarismo moderato, almeno rispetto alla questione ontologica del rapporto tra io e società. Il suo referente filosofico principale è l’opera di Theodor
Vedi H. KELSEN, Der Staat als Integration - Eine prinzipielle Auseinandersetzung, Julius Springer, Wien 1930, p. 9.
8
R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale; trad. it. di F. Fiore e J.
Luther, Giuffrè, Milano 1988, p. 65. D’ora innanzi quest’opera sarà citata con
l’abbreviazione CDC.
9
Ibidem.
7
139
Litt, in particolare Individuum und Gemeinschaft10, ispirata più
che dal romanticismo organicista dalla fenomenologia husserliana mescolata a elementi di hegelismo. È Litt l’autore più citato in Verfassung und Verfassungsrecht.
Litt – come si è appena detto – è un fenomenologo. Utilizza
pertanto, per la comprensione della realtà, non tanto il procedimento induttivo, cercando di ricavare da certe osservazioni empiriche leggi probabilistiche di carattere generale. Egli confida
piuttosto – seguendo Husserl – nella Wesensanalyse, nell’analisi della «struttura» o «essenza» dei fenomeni. Ciò egli applica
in particolare allo studio dei fenomeni sociali, che, per il fatto
di sfuggire in gran parte a una comprensione meramente empirica, si prestano in special modo, a suo avviso, a essere trattati
fenomenologicamente. Dapprima Litt appunta la sua attenzione
sulla costituzione della soggettività: a suo avviso l’io si costruisce in una serie di rapporti dialettici, iniziando da quello
tra corpo e mente, passando a quello tra diverse soggettività, e
dunque giungendo alla relazione tra soggetto e ambiente sociale,
dimodoché un trattamento della soggettività si rivela inadeguato
solo da un punto di vista psicologico. Ci vuole ben altro; a questo fine si presta bene la Wesensanalyse, che consente di superare i limiti di uno studio meramente «spaziale» o «oggettivante». Vi è così un chiaro motivo antiindividualista nell’opera
di questo filosofo.
Tuttavia, Litt è abbastanza lontano dall’«universalismo» o
dal «transpersonalismo», vale a dire dal comunitarismo ontologico di personaggi come Othmar Spann o Julius Binder. Poiché
nell’esperienza morale (di cui quella politica è parte) ciò che
conta è il bios, non il logos11, e il bios, la vita, significa il primato del concreto, dell’«individuale», sull’«astratto», sull’«universale», l’«individuale» non può annullarsi nell’«univer-
TH. LITT, Individuum und Gemeinschaft. Grundlegung der Kulturphilosophie, II ed., Teubner, Leipzig 1924.
11
Vedi TH. LITT, Ethik der Neuzeit, Oldenbourg, München 1927, capitolo
nono.
10
140
sale». Per quanto Litt adotti nella teoria sociale una tenace posizione antiindividualistica, e concepisca la comunità come un
dato e non come una decisione, tale dato ha – a suo avviso –
le caratteristiche di un còmpito (sia pure oggettivo), di una funzione del soggetto umano. Non vi sono, a suo avviso, soggetti
superindividuali. Al posto di questi, residui – crede – di una
concezione ancora «meccanica» e «spaziale» della realtà, pone
il «circolo chiuso», geschlossener Kreis, e l’«intreccio sociale»,
soziale Verschränkung. Un «circolo chiuso» si dà allorché vari
individui entrano tra loro in contatto e sviluppano uno scambio
di esperienze, sì che si giunge ad un’esperienza comune di vita.
È il prodotto di un’intensa interazione. I «circoli chiusi» possono a loro volta espandersi, incrociando e intrecciando le loro
rispettive forme di esperienza e interagendo tra loro: è la soziale Verschränkung. Una forma di esperienza può così influenzarne un’altra senza entrare direttamente in contatto con
essa ma passando per la mediazione di una terza forma d’esperienza: è la soziale Vermittlung.
Smend segue a ruota l’argomentazione di Litt. Afferma così
per un verso che «la vita del gruppo non è causalmente deducibile dalla vita dei singoli»12, e dunque che «l’individuo sociale è tale non in sé, in virtù del suo «equipaggiamento» (Ausstattung) naturale, ma solo in quanto partecipa alla vita del
gruppo»13. Del pari la società non può essere concepita come il
risultato delle decisioni razionali (secondo lo scopo) dei singoli.
D’altro lato però il sociale «non deve essere compreso come
sostanza semplicemente strutturata del superindividuale, bensì
come sorretto dai singoli e soltanto in essi vivente»14. La realtà
spirituale-sociale è così concepita come «un sistema di interazioni»15, allo stesso modo di Theodor Litt, cioè come una sorta
di relazione dialettica nella quale all’individuo è comunque concessa «una possibilità di azione spirituale e, quindi, nel con12
13
14
15
CDC, p. 67.
CDC, p. 68.
Ibidem.
CDC, p. 69.
141
tempo, di autoformazione personale»16. Si tratta di quella Selbstgestaltung che sarà poi ripresa in un contesto certo diverso
dalla dottrina nazionalsocialista di Karl Larenz17: «L’essenza
della vita spirituale consiste proprio nell’autoformazione, tramite la partecipazione a questa stessa vita, delle monadi spirituali, che non devono essere pensate come sostanza rigida»18.
Ma vediamo come questa analisi fenomenologica della vita
sociale si applica alla teoria dello Stato. Innanzitutto, a questo
viene concessa una sua sfera d’esistenza propria, ovvero pieno
statuto ontologico. Invero, questa mossa non si accorda appieno
con la teoria di Litt che esclude soggettività ulteriori rispetto a
quella individuale, e per il quale lo Stato potrebbe tutt’al più
costituire una soziale Verschränkung. Smend invece postula
un’area della realtà occupata dallo Stato in piena indipendenza,
di modo che per spiegare lo Stato (e anche per giustificarlo o
conferirgli legittimità) non si può che muovere dallo Stato medesimo.
La considerazione del sociale – scrive –, e in particolare del politico
e dello statale, non può cercare di ricavare da ambiti di senso, che
come tali trascendono l’ambito del politico e dello statale, la spiegazione fondamentale di quest’ultimo19.
L’obiettivo polemico di una tale posizione è innanzitutto la
dottrina di Kelsen, secondo la quale – come dice Smend – «lo
Stato non può essere considerato come elemento della realtà»20.
Rispetto alla scuola di Vienna nell’opera di Smend – come nota
Michael Stolleis – l’avversione si fa idiosincrasia21. Del pari criCDC, p. 70.
Vedi K. LARENZ, Rechts- und Staatsphilosophie der Gegenwart, II ed.,
Junker und Dünnhaupt, Berlin 1935, pp. 121 sgg.
18
CDC, p. 71. Corsivo mio.
19
CDC, p. 68.
20
CDC, p. 60.
21
Vedi M. STOLLEIS, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland,
vol. 3, Weimarer Republik und Nationalsozialismus, Beck, München 2002,
p. 174.
16
17
142
tica è questa impostazione con la visione weberiana dello Stato
come «impresa», «la cui immanente teleologia astringe eteronomamente il singolo a sé, lo costringe sotto la demonia dei
suoi mezzi, nell’ineluttabile colpevolezza etica»22. La concezione dialettica proposta da Smend non ha simpatia nemmeno
per la teoria, vicina a quella di Weber, e avanzata da personaggi
del calibro di Troeltsch o di Meinecke, «dello Stato come forza
naturale e come destino, dell’idea vitale della sua “ragion di
Stato”, che conduce all’insolubile antinomia tra kratos ed
ethos»23. E a questo proposito non è fuori luogo ricordare la
stretta relazione umana e intellettuale tra Weber e Georg Jellinek, e come l’uno abbia influenzato l’altro, di maniera che si
può sostenere plausibilmente che se Weber sviluppa la nozione
di «tipo ideale» a partire dal «tipo medio» di Jellinek24 allora
del pari Jellinek sviluppa un’idea di Stato che per certi versi riceve da Weber: lo Stato per l’appunto come «impresa» e forza
del destino. Smend dunque appuntando i suoi strali contro la
concezione weberiana pronuncia allo stesso tempo un verdetto
di condanna contro la nozione di Stato della dottrina giuridica
dominante.
In questa diversa prospettiva lo Stato non è né unione contrattuale di volontà né impresa strumentale né fenomeno naturale (un evento fisico) né evento fatale e nemmeno organismo.
Su questo punto Smend sembra prendere nettamente le distanze
dal pensiero organicista, ad esempio, di Otto von Gierke25. Ma
lo Stato soprattutto non è mero concetto giuridico, come in-
Ibidem.
CDC, p. 61. Traduzione da me leggermente modificata.
24
Cfr. J. KERSTEN, Georg Jellinek und die klassische Staatslehre, Mohr,
Tübingen 2000, pp. 123 sgg.
25
È su questo punto assai significativamente che Gunther Holstein, altro
protagonista della geisteswissenschaftliche Richtung, prende le distanze dalla
dottrina dell’integrazione di Smend. Cfr. G. Holstein, Recensione di R.
SMEND, Verfassung und Verfassungsrecht, in «Deutsche Literaturzeitung»,
1928, col. 1373.
22
23
143
vece sostiene Kelsen, pensato per dare unità a eventi tra loro
empiricamente non collegati né collegabili. Lo Stato è piuttosto una realtà sociale propria, ed è questa l’oggetto del diritto
pubblico e del diritto costituzionale. Lo Stato è qui una «comunità politica di vita e di destino»26; una comunità però non
statica ma in continuo divenire e la cui esistenza è un permanente problema.
Essa non è un fatto naturale che si deve accettare, ma una conquista
culturale che come ogni realtà della vita spirituale è la vita stessa nel
suo fluire, bisognosa di costante rinnovamento e perfezionamento, ma
proprio perciò è anche posta di continuo in questione27.
Ora, poiché lo Stato non è un ché di immobile, ma ha piuttosto esistenza in un permanente processo di autoformazione e
rigenerazione del vissuto, esso vive di ciò che Renan ha chiamato «un plébiscite de tous les jours», ossia – nelle parole di
Smend – di una dinamica di integrazione28. «Lo Stato esiste solo
perché e in quanto si integra continuamente, si costrusce nei e
a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la
sua essenza di realtà sociale spirituale»29.
Ma cos’è questa «integrazione»? L’accenno esplicito alla formula di Renan, «un plebiscito d’ogni giorno», potrebbe far pensare a una concezione «repubblicana» e procedurale della partecipazione politica, a una teoria nella quale alla fin fine ciò che
conta è la deliberazione, la discussione, il discorso, per quanto
poco razionale e retorico questo possa essere, e nel quale ogni
CDC, p. 72.
CDC, p. 74.
28
SMEND propone questo concetto per la prima volta nello scritto Die politische Gewalt im Verfassungstaat und das Problem der Staatsform (1923),
ora in R. SMEND, Staatsrechtliche Abhandlungen und andere Aufsätze, II ed.,
Duncker & Humblot, Berlin 1968, pp. 68 sgg. Si legga anche R. SMEND, Les
actes de gouvernement en Allemagne, in «Annuaire de l’Institut International
de Droit Public», vol. 2, 1931, pp. 192 sgg.
29
CDC, p. 76.
26
27
144
cittadino è chiamato a svolgere in autonomia un ruolo attivo
nella gestione della cosa pubblica. Se così fosse, l’ideale politico, la città ideale di Smend sarebbe quella kleine Stadt evocata da Heinrich Mann, nella quale la piazza e il teatro – come
nell’antica polis greca – svolgono il ruolo di dispositivi catartici collettivi e di grandi coinvolgenti eventi democratici30. Il
Führer, il leader, il capopopolo, il politico di cui, in omaggio
alla terminologia dominate nella Germania dell’epoca, è parola
nel libro di Smend (come, del resto, negli scritti di Max Weber
e di molti altri suoi contemporanei), sarebbe allora assai simile
all’avvocato Bellotti, il repubblicano garibaldino protagonista
del romanzo di Mann. Ma non è così. Dietro il concetto di «integrazione» non fa capolino l’avvocato Bellotti, né Garibaldi,
ma un’altra figura italiana, menzionata espressamente da
Smend: è Mussolini, è il fascismo31.
Invero, quando Smend parla di «integrazione», egli intende,
più che il «plebiscito» di Renan, il mito di Sorel, un fatto collettivo sì, ma collettivo perché irrazionale e non ascrivibile a
forme di deliberazione o discussione riflessiva o di aggregazione strumentale di interessi. Per capire il concetto e la problematica dell’integrazione – ci dice lo stesso Smend – bisogna
rivolgersi alla «letteratura del fascismo»: «un movimento sorretto da una riflessione incessante, di costruzione pianificata di
una nuova comunità del popolo e dello Stato»32.
Tanto meno questa [la letteratura del fascismo] vuole offrire una dottrina compiuta dello Stato, tanto più il suo oggetto consiste nelle vie
e nelle possibilità di un nuovo divenire, di una nuova creazione dello
Stato, della vita statale e, cioè, precisamente di ciò che viene qui definito come integrazione33.
Vedi H. MANN, Die kleine Stadt, Fischer, Frankfurt am Main 1994.
Si legga in proposito il giudizio del giovane NORBERTO BOBBIO, L’indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica, in «Memorie dell’Istituto giuridico dell’Università di Torino», 1934, p. 62, nota 2.
32
CDC, p. 80.
33
Ibidem; traduzione italiana leggermente modificata. Cfr. l’originale tedesco: «Die große Fundgrube für Untersuchungen in dieser Richtung ist aber
30
31
145
Smend concepisce due tipi fondamentali di integrazione,
quella formale (formell) e quella materiale (sachlich). Nei processi di integrazione formale «tratto essenziale e comune [...] è
il fatto di essere in quanto tali senza scopo»34. Nel caso dell’integrazione materiale entrano invece in gioco valori che esistono solo in quanto vi è una comunità entro la quale essi sono
sperimentati. «I valori conducono una vita reale soltanto grazie
alla comunità che ne fa esperienza e li realizza»35. È una sorta
di comunitarismo metaetico quello che qui si afferma. A sua
volta poi l’integrazione formale è suddivisa in «personale» e
«funzionale», sì che i tipi di integrazione divengono tre: 1) personale, 2) funzionale, e 3) materiale. Iniziamo dunque, secondo
l’ordine seguito da Smend, con l’integrazione personale.
Questa è innanzitutto quella resa possibile e garantita da personalità particolarmente dotate, da leaders, o Führer. Smend,
all’inizio della sua trattazione di questo tipo di «integrazione»
si pronuncia scetticamente sulla proliferazione di scritti sul Führer e sull’ideologia della «leadership» (Führertum) tanto popolare in Germania nel primo dopoguerra. Ciò – egli crede – in
parte riflette la vecchia concezione statalistica meccanicistica.
È tipico del pensiero liberale o, come direbbe Preuß, statalista-autoritario (obrigkeitsstaatliches Denken), individuare il problema dell’attività di direzione dello Stato soltanto nei dirigenti e non almeno altrettanto in coloro che sono da dirigere36.
La ricerca del Führer, della personalità eccezionale, è – a
suo avviso – segno d’una situazione di debolezza spirituale di-
heute die Literatur des Faschismus. Sowenig sie eine geschlossene Staatslehre
geben will, sosehr sind Wege und Möglichkeiten neuer Staatswerdung, Staatschöpfung, staatlichen Lebens, d. h. genau dessen, was hier als Integration
bezeichnet wird» (Verfassung und Verfassungsrecht, in R. SMEND, Staatrechliche Abhandlungen und andere Aufsätze, II ed., cit., p. 141).
34
CDC, p. 99.
35
CDC, p. 100.
36
CDC, p. 82.
146
nanzi alla sconfitta subita nella guerra e alla conseguente perdita di certezze: «L’urlo rivolto al “capo”, specialmente tra gli
sconfitti della guerra mondiale, era un’espressione della propria
impotenza, dell’abbandono e del disorientamento»37. D’altro
lato, l’ideologia della Führertum è paralizzante, in quanto, attendendosi tutto dal «capo», dall’alto, favorisce la passività dei
Volksgenossen, del basso.
Nondimeno, i «capi» sono necessari. La dialettica di dirigenti e diretti si ripropone a ogni livello dell’organizzazione sociale. Non v’è rapporto sociale che non si configuri come situazione di comando e di obbedienza. Quello di gerarchia è un
principio informatore di tutta la vita sociale.
Non vi è vita spirituale senza «leadership» (Führung) – per lo meno
nell’àmbito della formazione e normazione di una comune volontà culturale. Una funzione apparentemente tanto consociativa (genossenschaftlich), come quella che si esprime nel formarsi e nel sopravvivere
di una persuasione giuridica generale, si rivela alla luce di una indagine più approfondita, come un permanente dirigere e essere diretto38.
Quella del «capo», l’integrazione mediante personalità o
«personale», non ha niente o ben poco a che fare con funzioni
tecniche. Ciò – argomenta Smend – è evidente nella figura del
monarca, il cui còmpito indispensabile non è padroneggiare le
leve del comando amministrativo dello Stato quanto quello di
«incarnare» e dunque di «integrare» il proprio popolo. A questo proposito Smend critica il dilettantismo dell’Imperatore Guglielmo II e la sua incapacità di presentarsi per l’appunto come
figura integratrice della nazione. Il sovrano non è nient’altro che
«l’autocoscienza di un popolo politicamente unito», secondo
un’immagine – aggiunge Smend – che è stata colta letterariamente da Thomas Mann nel romanzo Königliche Hoheit.
37
38
Ibidem.
CDC, p. 83.
147
Il senso della posizione di ogni capo di Stato consiste più o meno nel
«rappresentare» o «incarnare» l’unità del popolo dello Stato, cioè essere un suo simbolo, come lo sono le bandiere, gli stemmi, gli inni
nazionali in un tipo più materiale e funzionale di integrazione39.
Ora, poiché il còmpito del capo non è tecnico ma «rappresentativo» in senso simbolico, non tutti sono adatti a svolgere
una tale funzione. Mentre se si trattasse di una mera funzione
tecnica l’accesso a questa sarebbe condizionato al possesso del
«know-how» corrispondente e ciò è questione di apprendimento,
di istruzione, alla quale tutti possono di regola essere sottoposti; tutto questo non vale se si assume che il capo svolge una
funzione eminentemente simbolica. Dunque – dice Smend – «vi
sono persone che, per la loro stessa natura, sono inadatte a svolgere una funzione di integrazione»40. Nel caso della Germania
l’esempio addotto dal nostro autore è quello degli «Ebrei dell’Est» – sulla scorta anche di analoghe considerazioni di Max
Weber e del Thomas Mann di prima della svolta liberale41. Non
si potrà certo dire così che Smend sia stato esente dall’antisemitismo tanto diffuso tra i professori universitari, i «mandarini»,
tedeschi della sua epoca.
Ma non sono solo i «capi», le personalità eccezionali, la Persönlichkeit irrisa da Thomas Mann nel Zauberberg42, a svolgere
una funzione di integrazione personale. Va considerata anche la
burocrazia (all’interno della quale Smend significativamente ricomprende la figura del giudice).
Il giudice e il funzionario amministrativo non solo non sono êtres inanimés, ma come esseri spirituali sono altresì sociali: la loro attività è
CDC, p. 84.
CDC, p. 85
41
Vedi CDC, pp. 131-132, nota 81. Sull’ostilità del nazionalismo tedesco
verso gli Ostjuden memorabili sono le pagine di JOSEPH ROTH, Juden auf Wanderschaften, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1985, pp. 61-62.
42
Vedi TH. MANN, Der Zauberberg, Fischer, Frankfurt am Main 1989, pp.
615 sgg.
39
40
148
una funzione che si svolge all’interno di un intero spirituale, viene determinata a partire da esso, e su esso si orienta e retroagisce in un
modo che ne determina l’essenza43.
Tra gli «organi» dello Stato vanno dunque distinti quelli supremi, carichi di valenza mitica, per i quali si addicono personalità forti e carismatiche, e quelli ordinari o inferiori, la cui
portata simbolica è ridotta, e che tuttavia conservano qualcosa
di questa, ne traggono legittimità.
Il secondo tipo di «integrazione» individuato da Smend è
quello funzionale. Qui l’effetto integrativo, la formazione di un
sentimento e di un senso di identità collettiva e di comune appartenenza è il risultato non più dell’identificazione con certe
figure, con certi «capi», come accade nell’integrazione «personale». In quella «funzionale» sono all’opera forme e procedure.
Forme e procedure – sia chiaro – niente affatto del tipo che appella alla riflessività dei soggetti, bensì del tipo che strumentalizza certe pulsioni del soggetto alla cooperazione e all’unione
con i suoi simili e alla sincronizzazione dei suoi movimenti con
quelli degli altri. Smend così, per illustrare il concetto di integrazione «funzionale», fa menzione dei ritmi e dei canti usati
nell’espletazione di certi lavori manuali44, delle forme liturgiche e dei riti delle diverse religioni, delle sfilate militari e degli
esercizi ginnici.
Per ciò che concerne l’ordine politico Smend individua due
forme principali di integrazione funzionale: quella contrattualistica, ovvero «la lotta costituzionalmente prevista di tipo parlamentare o plebiscitario», e quella del «dominio» (Herrschaft)45.
Va sottolineato che il giurista tedesco predilige la forma con-
CDC, p. 86.
Elemento questo che per Hannah Arendt segnala il «labour», la fatica
connessa con la mera riproduzione dei cicli vitali, ma non «l’opera» e tantomeno l’«azione». Cfr. H. ARENDT, The Human Condition, University of Chigago Press, Chicago 1958; trad. it., Vita activa: la condizione umana, Bompiani, Milano 1994.
45
CDC, p. 97.
43
44
149
trattualistica rispetto a quella del «dominio». Quest’ultima ha
innanzitutto necessità di un retrostante sfondo di valori su cui
possa giustificarsi. «Infatti il dominio, in quanto fenomeno sociale, non è mai qualcosa di ultimo, ma necessita costantemente
di legittimazione»46. «Dietro il dominio vi sono sempre altri valori e ordini da cui è dedotto»47. D’altro lato, una comunità politica fondata sul dominio deve presupporre uno sfondo di valori stabili, «un universo di ordini e valori politici prevalentemente statico»48. Rispetto a una situazione di conflitto e pluralità dei valori, ma anche rispetto all’esigenza della Selbstgestaltung dell’ordine sociale, il sistema del «dominio» si rivela
ampiamente insoddisfacente.
Altra cosa è il modello contrattualistico, istituzionalizzato
nei regimi democratico-parlamentari: qui i valori possono dinamizzarsi. Tuttavia Smend reinterpreta le regole della democrazia parlamentare in accordo alla sua concezione del senso
sociale come «mito» e della discussione come trasmissione,
emissione o addirittura scarica di sentimenti. Il principio di
maggioranza diviene dunque – in questa prospettiva – un meccanismo che ha la funzione di rendere possibile l’esperienza catartica del raggiungimento di una volontà comune o, meglio,
unitaria. La rilevanza del parlamentarismo non risiede nel fatto
che esso permette una discussione più o meno razionale (perché più o meno ponderata e plurale) degli interessati rispetto
all’emanazione di un provvedimento di legge e pertanto l’accoglimento di quella legge che maggiormente aderisca alle esigenze esplicite (perché manifestate come tali dai loro portatori)
della generalità dei consociati. No, il senso del parlamentarismo
sarebbe quello di costruire un gruppo, una collettività, una certa
omogeneità sociale, una unità di volontà (non necessariamente
cosciente di se stessa).
46
47
48
150
CDC, p. 90.
CDC, p. 91.
Ibidem.
Per quanto riguarda il senso ultimo dello Stato parlamentare – scrive
–, non conta che in generale il parlamento deliberi e in particolare deliberi bene, ma piuttosto è importante che la dialettica parlamentare
conduca alla formazione di gruppi, all’associazione, alla formazione
di un determinato atteggiamento politico complessivo all’interno del
parlamento e del popolo dello Stato che condivide quella esperienza
vissuta49.
Ma l’efficacia integratrice del parlamento non è reputata tale
da poter fare a meno di una compiuta integrazione nel tessuto
della società di cui quel parlamento è l’espressione politica. Qui
Smend si caccia in un dilemma dal quale non riesce a uscire.
Per un verso, infatti, sostiene che il Volksstaat non è precedente
all’azione del parlamento e alle regole della democrazia; difende
una tesi democratica forte, secondo cui non è la democrazia il
risultato del popolo bensì è il popolo il prodotto della democrazia. Per una concezione radicale della democrazia a questa
non si sottrae nessuna realtà con validità politica. Il popolo o è
una nozione pre-politica e dunque irrilevante per l’ordine politico oppure è un concetto politico in senso stretto e allora non
può pensarsi esso stesso – in un’ottica democratica coerente –
sottratto ed esterno alle regole della «città». «Populus dicit a
polis» – come già diceva nel Trecento Baldo degli Ubaldi. Dinanzi alle esigenti pretese della democrazia non v’è alcuna realtà
politica opaca. La democrazia è così il governo del popolo in
quanto questo si costituisca proceduralmente come universalizzazione e istituzionalizzazione dell’autonomia dei singoli individui. Ora, Smend sembra assumere in merito una posizione
analoga.
Nello Stato parlamentare – scrive – il popolo non è già in sé politicamente presente e viene poi ulteriormente qualificato, di elezione in
elezione, in una particolare direzione politica: e da una formazione di
gabinetto all’altra, esso ha invece una sua esistenza come popolo po-
49
CDC, p. 94.
151
litico, come unione sovrana di volontà, principalmente in virtù di una
sintesi politica specifica in cui soltanto giunge sempre di nuovo ad
esistere in generale come realtà statale50.
D’altro verso però si riallaccia alle tesi di Carl Schmitt e di
Hermann Heller secondo cui il parlamentarismo e la democrazia possono operare solo in presenza di un’elevata omogeneità
sociale, che devono dunque presupporre. L’integrazione democratica in questa prospettiva si erge e si fonda su un’integrazione ben più efficace, e già realizzatasi al livello profondo dei
rapporti sociali. La possibilità che la democrazia abbia un effetto integratore
presuppone una comunità di valori non messa in questione dalla lotta
politica, la quale peraltro non è condotta contro quella, una comunità
che dà regole a questa stessa lotta e le conferisce il senso di una funzione integrativa della vita di gruppo51.
Nella polemica tra Schmitt e Richard Thoma sul destino del
parlamentarismo52, là dove il primo verga quasi una dichiarazione di morte del regime democratico-parlamentare – perché i
princìpi della discussione, della pubblicità e della verità su cui
quel regime si basa non troverebbero il supporto dell’evoluzione
dei sistemi e dei credi politici (che si orientano invece verso lo
«Stato totale») – e l’altro gli rimprovera un certo affrettato pregiudizio ideologico rispetto a una tale autocompiacente conclusione, Smend si schiera alla fine dei conti a fianco di Schmitt.
Ibidem.
Ibidem.
52
Vedi R. THOMA, Zur Ideologie der demokratie und des Parlamentarismus, in «Archiv für Staatswissenschaft», 1925, pp. 212 sgg., C. SCHMITT,
Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, II ed.,
Duncker & Humblot, Berlin 1926, e R. THOMA, Demokratie und Parlamentarismus, in «Schmollers Jahrbuch», vol. 51, 1927, pp. 173 sgg. Sulla teoria
della democrazia di Thoma cfr. O. JOUANJAN, Un positiviste dans la crise, in
Crise et pensée de la crise en droit. Weimar, sa république et ses juristes, a
cura di J.F. Kervégan, ENS Editions, Lyon 2002, pp. 13 sgg.
50
51
152
L’èra che egli vede sorgere è quella della massa, questo fenomeno nuovo della politica moderna, che egli giudica con occhi
positivi come il modello più riuscito e comunque più promettente di integrazione sociale. E una volta che sono in movimento
le masse, questi aggregati entro cui i singoli abdicano alla loro
autonomia e si lasciano trascinare da emozioni, ritmi, miti, simboli, insomma non da contenuti proposizionali (cui è inerente
una certa dose di intenzionalità), le procedure delle democrazie
liberali sembrano irrimediabilmente compromesse, anzi condannate e superate.
Se Smend pensasse solo che «la rivolta delle masse» compromette o condanna la democrazia parlamentare, si tratterebbe
ancora solo di un’analisi sociologica, di un’ipotesi empiricamente verificabile, non necessariamente colma di valenza normativa. Ma la tesi di Smend – come quella di Schmitt – è più
forte: si afferma che l’epoca delle masse supera assiologicamente la democrazia, fornisce cioè un modello (moralmente,
normativamente) superiore di integrazione. Così tra l’altro si
spiega l’attenzione, e sì anche la simpatia, verso il regime fascista, cui si fa riferimento costante in Verfassung und Verfassungsrecht per indicare un caso eccellente di riuscita integrazione. L’operazione di Smend al riguardo non è lontana da
quella di cui si fa carico Schmitt: si scinde la democrazia dal
regime parlamentare e in genere dalla deliberazione rappresentativa, e si reinterpreta la prima (la democrazia) come mero regime di massa e situazione par excellence carismatica. In tal
modo tanto per Schmitt come per Smend il regime democratico
risulta compatibile con lo «Stato totale» e con la dittatura cesaristica53.
L’altra forma di integrazione funzionale è il «dominio», la
Herrschaft, presente in ogni tipo di Stato. La Herrschaft è anche
l’obiettivo cui deve tendere (in parte) l’integrazione mediante il
parlamento. Questo è infatti diretto alla produzione di una vo-
Si legga per esempio C. SCHMITT, Die geistesgeschichtliche Lage des
heutigen Parlamentarismus, II ed., cit., pp. 16-17.
53
153
lontà politica obbligatoria, vale a dire alla formazione di una
Herrschaft. Il «dominio» è comunque espressione di una forma
di vita, fatto – dice il Nostro – che sfugge alla pubblicistica tradizionale della linea Gerber-Laband-Jellinek, ma specialmente
alla cosiddetta «dottrina pura del diritto», alla Reine Rechtslehre
di Hans Kelsen. La concezione del «dominio» come la forma
più generale di interpretazione funzionale e al contempo come
forma di vita «è preclusa a chi lo comprende normologicamente
come validità di norme giuridiche»54. Essa è del pari preclusa
tanto a chi concepisce il potere come mera subordinazione
quanto a chi lo definisce – alla maniera di Max Weber – come
probabilità, chance, di obbedienza. Il dominio insomma non può
essere compreso e spiegato né in termini formalistici o normativistici (alla maniera di Kelsen) né in termini causalistici o probabilistici (alla maniera di Weber).
Tale critica ha anche a che fare con l’atteggiamento polemico di Smend rispetto a ogni applicazione di metodologie normativistiche o empiristiche allo studio dei fenomeni sociali e
dei fenomeni vitali in generale. All’empirismo e al normativismo il giurista tedesco, in linea con l’irrazionalismo montante
di buona parte della cultura germanica del tempo, oppone una
esoterica dialettica dello spirito.
I processi spirituali della vita [...] – scrive –, che ineriscono tanto ai
singoli che all’intero, scorrono in genere senza che questi siano consapevoli del loro senso. Perciò non sono spiegabili con la loro riconduzione ad una legislatività di tipo causale, ma possono essere compresi soltanto attraverso l’inserimento nella loro connessione di senso,
in quanto realizzazione della legislatività dello spirito rispetto al valore. Lo spirito che diviene non sa quale senso abbiano gli impulsi del
suo sviluppo, non necessariamente quello cresciuto grazie all’«astuzia
della ragione», non sa in quali connessioni culturali si trovi ad operare. Con tutto ciò, non diventano comprensibili a partire dalla loro
coscienza, ma a partire dalle loro connessioni spirituali oggettive – si
54
154
CDC, p. 98.
tratta di un grado successivo dello spirito, in cui, grazie, alla penetrazione nell’insieme delle sue leggi (una legislatività rispetto a norme
e valori), egli giunge a se stesso55.
Dopo aver trattato dell’integrazione formale nelle sue due
varianti di integrazione «personale» e di integrazione «funzionale», Smend si concentra sull’integrazione materiale. Integrazione materiale significa qui integrazione rispetto a certi fini, o,
meglio, integrazione a certi valori. Essa, in buona parte, è presupposta dall’integrazione formale, la quale da sola si regge con
difficoltà, come un esercito che per mantenersi compatto, oltre
al rispetto e all’ammirazione verso i suoi comandanti e alle esercitazioni, all’addestramento, a inni e bandiere, necessita di miti
e valori fondanti, di fede. Capi, simboli, procedure, forme, devono rinviare a un qualche contenuto valorativo per poter essere pienamente efficaci. Questo tipo di integrazione si dimostrerebbe particolarmente rilevante per ciò che concerne lo
Stato, giacché essa si dà essenzialmente come unità di valori.
Lo Stato – ripete il Nostro – non è in sé una essenza reale, che verrebbe poi utilizzato come mezzo per la realizzazione di scopi esterni
ad esso, ma in generale è una realtà soltanto in quanto realizzazione
di senso; è identico a questa realizzazione di senso56.
I valori in questione sono però irrazionali e irriflessivi, sì
che, una volta che siano esplicitati e ammessi alla riflessione e
a una deliberazione, cessano d’essere tali. Hanno il carattere di
postulati religiosi.
Si è detto perciò a ragione – aggiunge Smend – che la razionalizzazione del pensiero politico, che esclude la possibilità di concepire il
contenuto politico come un contenuto di fede, mette con ciò contemporaneamente in questione ogni struttura politica effettiva57.
55
56
57
CDC, pp. 80-81.
CDC, p. 100.
CDC, p. 104.
155
I valori in questione sono esprimibili essenzialmente in via
simbolica attraverso un territorio, un vessillo, un emblema.
Così – continua – le costituzioni definiscono il contenuto non formulabile della vita dello Stato da esse regolato, ponendo all’inizio le simbolizzazioni di questo contenuto: territorio, bandiere e stemmi, forma
e carattere dello Stato58.
È così che per il giurista tedesco la principale funzione di
integrazione materiale rispetto all’ordine statale è svolta dal territorio inteso sia in termini geopolitici come «spazio vitale»,
Lebensraum, che decide già di gran parte delle problematiche
che lo Stato deve affrontare per la propria sopravvivenza, sia in
termini ideologici come Vaterland o Heimat, come «comunità
politica di valori e di vita». Accade allora che è soprattuttto il
contrasto con gli altri Stati che «dà improvvisamente luogo all’esperienza del valore e della dignità del proprio Stato o dell’essere personalmente incluso in esso»59.
L’integrazione politica, quella rispetto allo Stato, oscilla dunque tra i due poli dell’integrazione formale e dell’integrazione
materiale. Ed è tale oscillazione che spiega la storia delle istituzioni politiche della modernità. Questa può interpretarsi come
il passaggio da sistemi a integrazione materiale ad altri a prevalente integrazione funzionale.
La dissoluzione del sistema di valori medioevale significa nel contempo la dissoluzione della comunità di valori organica, naturale, non
problematica, della «comunità» anche nel senso di Tönnies, cioè la
fine dell’epoca in cui l’integrazione è prevalentemente materiale60.
Tuttavia il passato di un ordine fondato solo sull’integrazione
materiale sarebbe oggi improponibile, in una situazione di plu-
58
59
60
156
CDC, p. 109 (corsivo mio).
CDC, p. 103.
CDC, p. 112.
ralismo di valori e di dinamicità della struttura sociale. Potrebbe
assumere solo i caratteri di un progetto utopico quale si profila
nella teoria socialista dello Stato61. Né è proponibile il parlamentarismo, giacché questo non riesce a farsi forma di Stato:
La forma liberale di Stato, cioè il parlamentarismo, non è una forma
di Stato, poiché uno Stato non può essere fondato né sulla sola integrazione funzionale, né, parimenti, solo su quella materiale, come pretenderebbe una corretta teoria socialista della costituzione62.
Ciò che è adeguato all’èra delle masse e all’epoca industriale
è piuttosto una combinazione di integrazione funzionale e di integrazione materiale. Il che significa prendere sul serio le forme
partecipative superindividuali e impersonali offerte dallo Stato
di massa, le quali si contrappongono ai meccanismi preconizzati e prodotti dal liberalismo ottocentesco centrati invece su relazioni di carattere personale, interindividuale.
Mentre l’uomo dell’ordine statico veniva integrato attraverso l’inserimento nella gerarchia stabile dello Stato e dei ceti, l’uomo del XIX
sec. viene integrato grazie al gioco formale dello Stato parlamentare,
quello dell’epoca democratica tramite le forme di vita plebiscitaria
dello Stato di massa63.
La democrazia, concepita come regime politico nel quale
sono coinvolte le masse, come situazione di mobilitazione delle
masse, al di qua di, ovvero a prescindere anche da, meccanismi
istituzionali di controllo sulle decisioni del potere politico sovrano e sull’attuazione degli organi esecutivi, viene contrappo-
61
Vedi CDC, p. 114. Qui Smend sembra riecheggiare tra l’altro motivi
presenti in un’opera giovanile di HELMUTH PLESSNER, Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus, pubblicata nel 1924, nella quale
v’è anche un richiamo esplicito al pensiero di Theodor Litt. Su Plessner, cfr.
infra, l’epilogo.
62
CDC, p. 182.
63
CDC, p. 112.
157
sta al liberalismo, visto quest’ultimo come un altro nome del
parlamentarismo e retto da procedure razionali e formali di deliberazione pubblica. Il liberalismo come regime deliberativo e
riflessivo è pertanto situazione interindividuale, personale; la democrazia come regime irriflessivo e tendenzialmente carismatico è situazione sovraindividuale, impersonale.
In questa dissociazione di democrazia e liberalismo Smend
si ritrova in compagnia di buona parte dei nemici della Repubblica di Weimar, cominciando – come si è detto – da Carl Schmitt, per finire con autori filonazisti come Karl Larenz e Ernst
Forsthoff. Non stupisce dunque che Smend concluda la sua trattazione dei tipi di integrazione, e in particolare dell’integrazione
materiale, con un nuovo riferimento al fascismo italiano. In questo egli crede di rinvenire un’esperienza politica che è stata capace di combinare felicemente tutt’e tre le forme di integrazione. «È uno dei punti di forza del fascismo, che per il resto
può essere giudicato come si vuole, aver individuato con grande
chiarezza questa necessità di integrazione multilaterale»64.
Vediamo dunque di riassumere la concezione dell’ordine politico di Smend. Questa, nonostante la nostalgia per forme pure
e incontaminate di integrazione materiale, ha poco a che vedere con l’aristotelismo politico, con una concezione ordinamentale o «antica» del diritto naturale come ordine sopraindividuale nel quale ciascun individuo e ciascuna comunità trova
già predeterminati il proprio posto e il proprio ruolo. Tra l’altro la distanza da una tale visione ordinamentale del «politico»
è vista come il momento discriminante rispetto a un autore
come Carl Schmitt che dietro tutto il suo decisionismo lascia
nondimeno profilarsi una dottrina «ontica» del diritto d’estrazione cattolica.
La staticità categoriale dei concetti dell’ordine sociale che si fonda
sulla rigidità ontica dell’ordine del mondo e specialmente sul primato
64
158
CDC, pp. 115-116.
della struttura sociale in quanto emanazione suprema di questo stesso
ordine, tanto dominante nel pensiero antico e aristotelico-scolastico
ed ancora oggi rappresentato brillantemente nella dottrina dello Stato
di C. Schmitt, è l’opposto della concezione dei fenomeni politici qui
proposta65.
Più attraente agli occhi di Smend è il giusnaturalismo moderno nella sua versione contrattualistica. Qui non v’è più alcun
ordine prestabilito. L’ordine è piuttosto il risultato della volontà
dei soggetti, della loro Selbstgestaltung. Il giurista tedesco dà
un’interpretazione sociologica e vitalistica del contratto sociale,
che si trasforma così in una specie di mito soreliano. Il contratto sociale assume qui quasi i contorni dello sciopero generale evocato dal pensatore francese.
La dottrina del contratto sociale – scrive Smend – non è da interpretare e da valutare semplicemente come costruzione mitica della storia, come rappresentazione ausiliare per la critica dello Stato e come
fondazione giuridica, ma anche come tentativo di comprensione sociologica o meglio fenomenologica66.
Ciò che consente il giusnaturalismo moderno è «la dinamizzazione del concetto di Stato»67. Esso ha infatti compreso
che l’ordine politico è un procedimento, un qualcosa che non è
dato una volta per tutte ma che ha bisogno di ripetersi costantemente nella volontà e nella coscienza dei soggetti. «I giusnaturalisti – dice Smend – sapevano di più dello Stato che non
Laband o Max Weber»68. Questi ultimi non hanno fatto altro
che ridurre le questioni dello Stato a un fatto tecnico, quando
invece si tratta di una decisione vitale ed esistenziale di prima
grandezza. Ciò è dovuto, secondo il nostro autore, alla «com-
65
66
67
68
CDC, p. 120.
CDC, p. 121.
CDC, p. 122.
Ibidem.
159
pleta estraneità rispetto allo Stato del liberalismo»69, «che non
vede affatto il problema dell’essenza dello Stato e che perciò
non riesce ad andare al di là di una teoria dello Stato come tecnica o come male minore»70. Sfugge ad esso il problema della
comunitarizzazione delle volontà individuali nell’unità di azione
di una volontà collettiva.
Ciò significa anche che il diritto come tale svolge un ruolo
del tutto subordinato nella vita dello Stato. Il diritto non può
che risultare una variante di integrazione funzionale. Ma, come
si è visto, questa da sola è ampiamente insufficiente ad animare
e a dar senso a un ordine politico. Questa sottovalutazione del
diritto è abbastanza paradossale, proveniendo da un giurista raffinato come Smend. Ma è comune alla schiera di avversari dichiarati del giuspositivismo e del formalismo coagulatisi durante gli anni della repubblica di Weimar in una Germania ferita in profondità nel proprio orgoglio patriottico e pronta a riarmare contro la democratizzazione delle proprie relazioni sociali
percepita solo come Überfremdung, perdita della specificità nazionale. Una eguale reazione di rigetto produce la «civilizzazione» (giuridicizzazione) delle relazioni internazionali timidamente avviata mediante l’esperienza della Società delle Nazioni.
Smend in ciò non è diverso da Schmitt, il quale pure assegna
al diritto un ruolo del tutto ancillare nella sua teoria della politica. Invero la battaglia contro Versailles, Weimar e Ginevra
(per richiamare il titolo di una raccolta di saggi di Schmitt),
vale a dire contro il Trattato di Versailles, la Costituzione repubblicana di Weimar e la Società delle Nazioni di Ginevra, li
accomuna. Nell’un caso è la «decisione», nell’altro l’«autoformazione»; le norme, le regole, le procedure istituzionali impallidiscono dinanzi a cotanta vitalità. E Smend è consapevole, più
di Schmitt, dell’intrinseca antigiuridicità della sua dottrina, un
po’ come in tempi più recenti John Mackie che ha come una
CDC, p. 124.
Ibidem.
71
J.L. MACKIE, Ethics: inventing Right and Wrong, Penguin, Harmondsworth 1990, p. 10.
69
70
160
folgorazione del carattere amorale del suo estremo noncognitivismo metaetico quando avverte che «forse i più veri docenti
di filosofia morale sono i fuorilegge ed i ladri»71. Del pari così
scrive Smend:
La teoria dell’integrazione offre una teoria dello Stato che, almeno in
prima istanza, può prescindere dalla determinazione dell’essenza e
dalla legittimazione dello Stato tramite altri valori, specialmente tramite il valore del diritto72.
3. Teoria dello Stato.
La costituzione come Konstituierung e «legge vitale»
Passiamo ora a esaminare gli aspetti più propriamente costituzionalisti della «dottrina dell’integrazione». Il primo problema nel quale Smend s’imbatte è quello della determinazione
del concetto di costituzione. A questo proposito la dottrina giuridica dell’epoca era divisa in due campi più o meno contrapposti: da un lato coloro che per costituzione intendevano le
norme giuridiche relative agli organi supremi dello Stato, alla
loro formazione e al loro rapporto reciproco, alle loro attribuzioni e alla posizione fondamentale del singolo rispetto al potere statale (tesi ben esemplificata nel pensiero di Georg Jellinek)73; dall’altro coloro che considerano costituzione i rapporti
reali di potere vigenti in un paese al di là d’ogni documento
formale e d’ogni statuizione esplicita (una posizione che trova
una formulazione paradigmatica nello scritto Über Verfassungswesen di Lassalle, e che riecheggia temi dell’analisi marxiana
delle forme giuridiche in generale). Per i primi insomma la costituzione è il documento costitutivo o il principio regolativo di
una persona giuridica, per quanto speciale questa possa essere
CDC, p. 125.
Vedi G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, III ed., Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1960, p. 505.
72
73
161
trattandosi dello Stato; per i secondi costituzione e potere di
fatto si identificano fino a quasi non potersi distinguere l’una
dall’altro.
Smend cerca di mantenere una rotta intermedia. A suo avviso ogni sistema sociale di vita si compone e si costituisce mediante la dialettica di validità e di fatticità (per usare termini di
Herman Heller, ripresi di recente da Jürgen Habermas), ovvero
di «realtà vitale» e di «ordine di senso».
I due momenti di ogni realtà spirituale, infatti, sono, da un lato, la sua
vitalità concreta, la sua realtà psicofisica, temporale e, dall’altro, la
sua significatività atemporale, la sua struttura di senso oggettiva, immanente, ideale74.
Le determinazioni sopra menzionate del concetto di costituzione non colgono tale dialetticità, e puntano tutto ora sulla validità (com’è il caso del giuridicismo di Jellinek) ora sulla «fatticità» (com’è evidenziato nel caso di Lassalle). È pur vero che
Jellinek – come si è visto – è consapevole della tensione tra i
due elementi e tende a risolverla mediante la duplicazione della
teoria dello Stato in «sociale» e «giuridica». Ed è sempre Jellinek – nota Smend – che ricorda nel suo ultimo importante
scritto sulle modificazioni e revisioni delle costituzioni, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung, del 1906, che «le
norme giuridiche non sono in grado di dominare realmente la
distribuzione del potere», ovvero «le forze politiche reali si
muovono in base a loro proprie leggi, le quali operano indipendentemente da ogni forma giuridica»75. Ciò è però una dichiarazione d’impotenza della teoria giuridica dinanzi alla legalità indipendente del potere sociale, e apre le porte della dottrina costituzionale – dice Smend – o a una assai vaga e generalissima «forza normativa del fattuale» oppure a una ancora
più vaga e oscura compresenza e contrapposizione di forze giuCDC, p. 148.
G. JELLINEK, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung, Häring,
Berlin 1906, p. 72.
74
75
162
ridiche (la costituzione scritta) e forze sociologiche (il potere
«reale»).
Rispetto alla prospettiva sociologica o «realista» Smend ricorda che numerose costituzioni si presentano come limiti per
l’appunto alla manifestazione piena dei poteri reali e dei mutamenti sociologici.
Le costituzioni contengono in buona parte anche norme che vengono
esplicitamente ritenute rigide e inelastiche rispetto a quelle forze sociologiche dinamiche, soprattutto (ma non esclusivamente) nei diritti
fondamentali, nella positivizzazione di princìpi giuridici sovrastataligenerali o di diritti delle minoranze, che devono valere anche in opposizione alla specifica individualità dello Stato e alla formazione della
maggioranza76.
La soluzione adottata da Smend intende sfuggire alla Scilla
del «realismo» e al Cariddi del «normativismo». Ciò egli crede
d’ottenere dinamicizzando il concetto stesso di costituzione,
vale a dire facendo di questa non un mero atto istitutivo dato
una volta per tutte (sebbene eventualmente revidibile), bensì un
procedimento di permanente istituzione e creazione. Vediamo
dunque la sua definizione:
La costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè del suo processo d’integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuova
produzione della totalità di vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi (gesetzliche Normierung) di singoli aspetti di
questo processo77.
La costituzione soffre però due limitazioni. In primo luogo
non copre tutta l’area dei fenomeni di integrazione politica, ma
soltanto alcuni suoi aspetti: «non può [...] abbracciare per intero le funzioni vitali da essa regolate»78. D’altro lato, per la
76
77
78
CDC, p. 149.
CDC, p. 150.
Ibidem.
163
sua implementazione non basta a se stessa, neppure negli àmbiti da essa regolati: «la costituzione stessa, in vista del suo
completamento e in generale per poter essere tradotta in vita
politica, deve fare i conti con i fondamenti istitutivi di questa
vita e su tutta l’ulteriore ricchezza nelle motivazioni sociali»79.
Per conseguire che si realizzi la costituzione ci si può talvolta
affidare a forze non solo non previste dalla costituzione medesima ma anche formalmente incompatibili con essa: «La corrente di vita politica spesso può giungere a questa riuscita per
vie diverse e non propriamente costituzionali»80. La costituzione, dunque, in quanto istituzione di un processo dinamico di
«autoformazione», deve poter accettare d’essere per così dire
«superata» per essere mantenuta nel suo «ordine di senso». L’interpretazione della costituzione è pertanto un’opera aperta, un
procedimento di autointegrazione e d’automodificazione.
Dunque il senso stesso della costituzione, la sua intenzione tendente
non al particolare, ma alla totalità dello Stato e alla totalità del suo
processo di integrazione, non soltanto consente, ma addirittura esige
quell’interpretazione elastica, suppletiva della costituzione, che è di
gran lunga lontana da ogni altra interpretazione del diritto81.
Né – aggiunge Smend – è necessario che la costituzione includa una norma espressa affinché sia autorizzata tale pratica
interpretativa.
La costituzione si fa dunque Konstituierung, «costituirsi»
della comunità politica in continuo rinnovamento. La norma
costituzionale «non è la regola di un’entità in sé data e permanente, del suo esplicarsi all’esterno, ma è la forma della fondazione, della produzione e del costante rinnovamento di questa stessa entità»82. Un tale fenomeno si dà però anche nelle
79
80
81
82
164
Ibidem.
Ibidem.
CDC, pp. 150-151 (corsivo mio).
CDC, p. 154.
associazioni private, o anche nella costituzione di assemblee;
anche qui l’atto del costituirsi dev’essere in certo qual modo
rinnovato in ogni istante. La differenza tra Stato e associazioni
private risiede allora nei fini a cui la rispettiva integrazione è
diretta. Smend riprende così la vecchia dottrina degli scopi
dello Stato. Questa ne individua tre principali: lo scopo di potere, quello di diritto, e lo scopo di benessere83. Smend mantiene i due ultimi, e sostituisce allo scopo di potere lo scopo
di Stato:
è lo Stato come valore dominante, la «conservazione e rafforzamento»
di esso nei termini di Jellinek, nei nostri termini invece la sua integrazione, che si aggiunge, come terzo ed equivalente valore, ai valori
di diritto e di benessere (o di amministrazione)84.
Ma vi sono differenze anche nel tipo stesso di organizzazione
che distinguono lo Stato da ogni altra associazione. Nello Stato
la sua stabilità è assicurata da un potere interno ad esso e non
– come avviene nelle altre associalzioni – da garanzie e istituzioni poste al di fuori dell’associazione in questione. Ogni altra
associazione oltre lo Stato è eteronoma, rinvia implicitamente o
esplicitamente a norme di cui non ha la disposizione. D’altra
parte le associazioni che non siano Stati hanno sempre un ché
di strumentale, sono facoltative rispetto a certi fini. Questi stessi
fini potrebbero essere perseguiti mediante un’altra associazione,
mediante un’associazione dotata di uno statuto distinto. Lo Stato
invece è un fine in sé, dimodoché i suoi còmpiti di integrazione
sono necessari. Tale necessarietà dello Stato si manifesta in una
«unità di decisione universale relativa a un territorio» – come
dice Hermann Heller85. Lo Stato dunque, detto in altri termini,
si distingue dalle altre associazioni perché è sovrano; sovrano
Cfr. G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, III ed., cit., pp. 230 sgg.
CDC, p. 153.
85
Cfr. CDC, p. 156, e vedi H. HELLER, Die Souveränität. Ein Beitrag zur
Theorie des Staats- und Völkerrechts, in H. HELLER, Gesammelte Schriften, a
cura di Ch. Müller, II ed., Mohr, Tübingen 1999, p. 102.
83
84
165
doppiamente, innanzitutto perché non ha sopra di sé nessun altro
potere capace di dettargli delle norme e di proteggerne l’esistenza, e poi perché «universale», nei fini entro un certo territorio, padrone di questi, responsabile ultimo d’ogni forma di vita
sociale che si sviluppa entro i suoi confini.
Tutto ciò consente al nostro autore di prendere una volta di
più le distanze da una serie di teorie della costituzione. Da
quella di Max Weber in primo luogo, che a suo avviso «vede
nella costituzione un apparato tecnico, oggettivato in modo
meccanicistico»86, per cui la costituzione avrebbe il senso precipuo della selezione di personalità atte a ricoprire le funzioni
dirigenti. Le distanze sono prese anche rispetto all’aristotelismo
politico che equipara costituzione e ordinamento politico senza
nessuna ulteriore mediazione, e rispetto alla Herrschertheorie,
la teoria assolutistica del potere, in genere concentrata sulla figura del monarca che vede la costituzione «come ordinamento
statico e immobile in opposizione alle funzioni statali»87. La
costituzione – secondo Smend – non si contrappone come una
sorta di ostacolo all’esercizio del potere, non è un limite di questo, né ne è uno strumento, bensì è il suo permanente, reiterato
atto istitutivo. Il potere politico è in certo qual senso il còmpito della costituzione. «L’esistenza formale e la vita dello
Stato, come la loro garanzia, sono innanzitutto fini a se stessi
e con ciò costituiscono l’unico còmpito fondamentale della costituzione»88. Ciò però comporta una svalutazione rilevante
della nozione di cittadinanza e del suo ruolo nell’ordinamento
costituzionale.
Mentre nella tradizione democratica costituzione e cittadinanza sono i due poli dalla cui dialettica sorge l’ordine politico, nel senso che la costituzione come corpo di princìpi è il
criterio di individuazione (mediante identificazione per l’appunto con i princìpi costituzionali) del «popolo», dei membri
86
87
88
166
CDC, p. 157.
Ibidem.
CDC, p. 158.
d’una certa comunità, e questi sono a loro volta (in una sorta
di circolo virtuoso) gli autori della costituzione medesima e
dunque i produttori (mediante deliberazione pubblica) dell’ordine politico; nella teoria di Smend l’ordine politico e la sua
costituzione sono fini a se stessi, al di qua d’ogni deliberazione
civica e d’ogni individuazione riflessiva dei soggetti portatori
della costituzione. Per Smend è fondamentalmente il territorio
il criterio che ci dà l’appartenenza (posizione invero già assai
«liberale» rispetto ai suoi colleghi fautori d’un rigido jus sanguinis). «In sostanza – dice – col territorio è dato praticamente
chi appartiene allo Stato»89. Non è necessario pertanto che la
costituzione si occupi della cittadinanza, che contenga articoli
al riguardo; giacché la cittadinanza non ha speciale rilevanza
costituzionale, potranno essere le leggi ordinarie ad occuparsi
della questione.
I dettagli dell’acquisto e della perdita della cittadinanza sono un problema che non riguarda la natura dello Stato, ma essenzialmente la
tecnica della legislazione speciale. Altrettanto poco importa alla costituzione la posizione di membro del cittadino, poiché lo Stato esiste non grazie a questa posizione, e ancor meno grazie a questi diritti,
ma in quanto è fine a se stesso90.
Gli elementi essenziali della costituzione risultano essere –
in questa prospettiva – gli organi, le funzioni formali e i còmpiti materiali, vale a dire gli elementi istituzionali dello Stato
che corrispondono alle tre forme di integrazione sopra discusse:
quella personale, quella funzionale, e la materiale. È impossibile allora – per il nostro autore – contrapporre, come faceva
parte della dottrina, la prima parte della Costituzione di Weimar, come parte organizzativa-formale, alla seconda, come parte
di diritto materiale. Facendo ciò non si farebbe altro che disconoscere l’essenza stessa della costituzione.
89
90
CDC, p. 159.
Ibidem.
167
Vediamo dunque come Smend concepisce organi, funzioni e
còmpiti materiali dello Stato. Gli «organi» non sono concepiti
né alla maniera di Kelsen, contro cui Smend scaglia continui
strali critici, come procuratori giuridico-negoziali di una persona giuridica fittizia, né alla maniera di Max Weber, meccanismi razionali rispetto allo scopo, cioè funzioni sociologiche di
una certa sostanza già data. Né Smend condivide la tesi di Triepel e di Haenel secondo cui lo Stato esisterebbe solo nei suoi
organi: «con ciò si fa torto alla realtà spirituale, che vive di continuo e si rinnova nei processi di integrazione e negli organi, e
di fronte alla quale questi processi e questi organi si pongono
soltanto come forme e portatori (Träger)»91. Si tratta allora di
elementi subordinati all’integrazione della totalità politica statale, «rappresentanti» dell’unità politica; organi sono dunque
tanto i membri elettivi di una camera legislativa così come i re,
sia le autorità amministrative, die Behörden. La rappresentanza
parlamentare non si distingue qui dagli altri organi politici dello
Stato, dal monarca ad esempio, in ragione della sua configurazione istituzionale, quanto semmai per i valori che trasmette e
per la differente fonte di legittimità. Si potrà parlare senza troppe
esitazioni di «rappresentanza monarchica»92. Smend sembra così
aderire alla riformulazione della rappresentanza politica da Vertretung in Repräsentation proposta da Leibholz e poi da Schmitt93, e tendente a svuotare di contenuti la rappresentanza parlamentare equiparata a forme meramente simboliche, non elettive o plebiscitarie di rappresentatività, quali appunto quelle di
un monarca, di un burocrate, di un capo plebiscitario e addirittura di un vero e proprio dittatore.
Per ciò che concerne le funzioni dello Stato va sottolineato
in primo luogo che Smend contrappone in maniera abbastanza
brusca Stato e diritto. «Stato e diritto vengono intesi come due
91
92
93
168
CDC, p. 166.
CDC, p. 165.
Vedi CDC, pp. 93-94.
province della vita spirituale, certo inscindibilmente unite, ma
tuttavia in sé compiute e funzionali alla realizzazione di una
particolare idea di valore»94. Ciò significa che per Smend la tradizionale divisione dei poteri che ruota intorno a un concetto
giuridico, la legge, e si articola in emanazione, applicazione ed
accertamento di questa (addirittura in analogia a un sillogismo
pratico – secondo Kant e Condorcet), è incapace di dar conto
della reale dinamica dei poteri dello Stato. Smend guarda con
simpatia al Hegel maturo, non troppo amico della divisione liberale dei poteri e che finisce per subordinare tutti i poteri a
quello supremo della funzione di governo. La divisione dei poteri è poi concepita come l’ulteriore espressione di una visione
meccanicistica dello Stato che si illude di costruire lo Stato
«come un sistema artificiale di forze che si mantengono reciprocamente in un equilibrio oscillante (in freischwebendem
Gleichgewicht)»95. La realtà è un’altra.
Amministrazione e giustizia servono rispettivamente gli scopi
del benessere e del diritto, ma non quello dell’integrazione dello
Stato come fine in sé. Manca pertanto nella tradizionale partizione dei poteri dello Stato un potere che rappresenti l’unità dello
Stato e sia portatore dell’indirizzo politico di questo. Questa insufficienza – sottolinea Smend – è alla radice della distinzione
tra governo e amministrazione abbozzata dal Conseil d’Etat francese e in varie dottrine costituzionalistiche. Infatti,
non si può semplicemente rimettere all’azione congiunta dei tre poteri che derivi o meno da essa, come sua risultante, la determinazione
e l’affermazione auspicate del modo d’essere dello Stato, ma si forma
una specifica attività dello Stato, che all’interno come all’esterno serve
espressamente a questo scopo, cioè il governo96.
CDC, p. 169.
CDC, p. 168.
96
CDC, p. 173. Sono tesi queste che – come è noto – hanno origine in
riflessioni di Maurice Hauriou e che Smend aveva anticipato nel saggio già
citato Die politische Gewalt im Verfassungsstaat und das Problem der Staatsform del 1923.
94
95
169
Questa funzione di governo che sovrasta i tre tradizionali poteri dello Stato non è però il potere dittatoriale, la decisione
sullo stato d’eccezione di Schmitt. Rispetto a questo la critica
di Smend è sincera e priva d’ambiguità. Il potere dittatoriale –
di cui l’articolo 48 della Costituzione di Weimar sembra introdurre la vigenza in una democrazia moderna – come potere puro
e paradigmatico dello Stato, com’è per Schmitt, ha senso soltanto se si concepisce il normale funzionamento in termini tradizionali, giuridico-formali, cioè come limitazione e controllo
di una forza primigenia e quasi naturale, per l’appunto il potere
politico. Dal punto di vista di una considerazione fenomenologica dello Stato come forma spirituale globale una tale concezione dello Stato non ha ragione d’essere: il senso dello Stato
è la sua normalità, la sua permanente autoformazione, e non lo
stato d’eccezione. Per una teoria dell’integrazione lo stato d’eccezione non può darci l’essenza del fenomeno sociale; ne è piuttosto una grave patologia e ne segnala solo la crisi. Inoltre,
dal punto di vista della scienza dello spirito questo tipo di considerazione [il decisionismo di Schmitt] è giustificato laddove questa istanza
ultima e «sovrana» è anche la rappresentazione ultima dei valori che
integrano materialmente l’intero97.
Ora, ciò poteva valere per il monarca dello Stato assoluto o
può ancora essere valido per il papa della Chiesa cattolica; è
inadeguato invece negli Stati costituzionali moderni, dove
manca un universo statico e monolitico di valori cui il decisionista potrebbe appellarsi. D’altra parte è questa stessa la ragione
per cui Smend si distacca dalla, ai suoi tempi e in Germania
tanto diffusa, celebrazione del «governo dei migliori». Non sarebbe stato pertanto disposto ad accedere alla richiesta di Leonard Nelson per cui la gestione della cosa pubblica sarebbe da
affidare ai Gebildeten, agli «istruiti». L’elitismo non si addice
alla modernità di cui Smend assume la piena vigenza. Il go-
97
170
CDC, p. 173.
verno dei migliori – scrive – «presuppone l’ordine statico dell’antichità»98.
Nel mondo secolarizzato, «un mondo non più ordinato gerarchicamente»99, e in uno Stato come quello fondato «su un indissolubile legame con la legge»100, il decisionismo, lo stato
d’eccezione non avrà più una funzione integrativa, ma svolgerà
eventualmente solo una funzione di «soccorso tecnico d’emergenza»101. Smend, di profonde convinzioni religiose protestanti,
vede nella dottrina di Schmitt – e non a torto – una riproposizione del cesaropapismo. La comunità cui anela Smend non è
quella gerarchicamente dimidiata ab initio della Chiesa romana
con l’introduzione del sacerdozio, ma quella della comunità immediata di credenti della tradizione luterana. La conclusione di
Smend rispetto alla teologia politica di Schmitt è così di netto
rifiuto.
Ciò che qui C. Schmitt brillantemente ripristina [...] non è altro che
l’immagine antica dello Stato e un modo di pensare antichizzante. Una
teoria dello Stato odierno deve tuttavia individuare altrove il centro
essenziale dello Stato102.
Nondimeno anche la divisione liberale dei poteri è rifiutata
da Smend, che vede in questa solo l’incapacità di concepire lo
Stato come una forma politica unitaria. Smend così anche su
questo punto si intrattiene – come è suo costume – nella critica
non sempre equanime della teoria di Kelsen e della scuola di
Vienna, bollata senza pietà, e con un radicalismo verbale insolito per la retorica in genere equilibrata del professore dell’ate-
CDC, p. 200. Ed è questo – significativamente – uno dei pochi punti
in cui Smend si dichiara in sintonia con le vedute di Hans Kelsen, di cui cita
con approvazione un saggio che è la risposta a Leonard Nelson al Quinto
Deutscher Soziologentag tenutosi nel settembre del 1926 a Vienna.
99
CDC, p. 142.
100
CDC, p. 172.
101
CDC, p. 175.
102
Ibidem.
98
171
neo berlinese, come «capitolo poco glorioso della storia tedesca del non-spirito»103, Ungeist. La replica, vigorosa, anzi distruttiva di Kelsen non si farà attendere: nel 1930 appare il libro
Der Staat als Integration del giurista austriaco che si conclude
con una frase durissima che richiama Smend alle sue reponsabilità politiche:
Questa dottrina della «realtà» dello Stato – lo voglia o meno – è in
fin dei conti funzionale alla lotta contro la costituzione della Repubblica tedesca [Es ist der Kampf gegen die Verfassung der deutschen
Republik, dem diese Lehre von der «Wirklichkeit» des Staates – ob
sie es nun beabsichtigt oder nicht – schließlich dient]104.
Smend sul tema spinoso della divisione dei poteri aderisce
in buona sostanza alle tesi dei critici del giuspositivismo e degli
avversari dell’ordinamento costituzionale di Weimar. Ai poteri
legislativo, giudiziario ed esecutivo si sostituiscono tre sistemi
di funzioni:
il gioco politico d’insieme (politisches Zusammenspiel) di legislativo
ed esecutivo, cui si aggiungono governo e dittatura come funzioni
d’integrazione immediatamente politiche; quindi legislazione e giurisdizione come portatrici della vita del diritto; infine l’amministrazione
come promozione tecnica del benessere da parte dello Stato105.
Va però detto a questo proposito che lo stesso Kelsen è
tutt’altro che generoso con la tradizionale concezione della divisione dei poteri. Alla quale attribuisce piuttosto un valore ideologico. Da un punto di vista scientifico invece – secondo il giurista viennese – la divisione dei poteri va ricondotta alla dinamicità dell’ordinamento giuridico, che per lui – come sappiamo
– è un sistema «a gradini», dove il gradino inferiore trae i suoi
103
104
testo).
105
172
CDC, p. 109.
H. KELSEN, Der Staat als Integration, cit., p. 97 (sottolineatura nel
CDC, p. 176.
poteri dal gradino superiore. Essa va dunque riformulata come
l’articolazione di due livelli di produzione di norme, quello della
produzione delle norme generali e l’altro subordinato e più ristretto della produzione delle norme individuali. Pertanto, Kelsen accetta fondamentalmente due funzioni del potere statale:
quella legislativa e quella esecutiva o amministrativa, la quale
ultima, intesa come «individualizzazione o concretizzazione
delle leggi», ricomprende in buona misura l’insieme delle competenze giudiziarie106.
Uno Stato ha bisogno di legittimità, vale a dire per Smend
di contenuti materiali. Questi sono forniti allo Stato moderno in
una prima fase dall’aggancio giusnaturalistico del concetto di
«legge» all’ordre naturel. La «legge» della teoria settecentesca
dello Stato moderno è ancora tutta «materiale», espressione di
valori di razionalità e di giustizia.
Ma la positivizzazione e quindi la formalizzazione della legge, ottenuta con la sua introduzione nelle costituzioni positive come potere
legislativo, conducono inevitabilmente al suo svuotamento e con la dichiarazione della sua immanenza mettono in questione la sua forza di
legittimazione107.
A tale crisi (che è la decadenza della nozione di legge e della
pratica della legislazione ordinaria) le costituzioni moderne rispondono elevando certe sue norme a un rango particolarmente
elevato e con un riferimento pregnante alla nozione dei diritti
dell’uomo. Questi – sottolina Smend – non sono dunque tanto
limiti al potere dello Stato quanto fattori di legittimità di questo stesso potere. Non ne costituiscono un freno, ma gli offrono
invece un motore.
106
Si legga al riguardo H. KELSEN, Die Lehre der drei Gewalten oder
Funktionen des Staates, in «Archiv für Rechts- und Wirtschaftsphilosophie»,
vol. 17, 1923-1924, pp. 374 sgg., e H. KELSEN, Justiz und Verwaltung, in
«Zeitschrift für soziales Recht», vol. 1, 1929, pp. 1 sgg.
107
CDC, p. 178.
173
Non è un caso allora che le costituzioni comprendano dichiarazioni dei diritti insieme a riferimenti concreti al territorio
nazionale, alla descrizione della bandiera e alla determinazione
della forma di Stato. Essi rappresentano tutti valori di integrazione materiale, atti come tali a fornire quote di legittimità al
potere statale. Tuttavia non basta che vi siano articoli della costituzione su diritti, sulla bandiera, ecc., perché lo Stato in questione riceva legittimità. Le norme costituzionali devono essere
in grado di esprimere e arricchire il contenuto ideale normativo
che rende unito il popolo. «Vi sono bandiere nazionali che non
sono il simbolo di una comunità di valori dominanti e la cui
funzione di integrazione al senso viene perciò a mancare»108.
Considerazione questa abbastanza sospetta in una situazione
come quella di Weimar segnata tra l’altro dal cosiddetto Fahnenstreit, la controversia sulla nuova bandiera del Reich, in
realtà il rifiuto della destra nazionalista e militarista di accettare il vessillo repubblicano nero-rosso-dorato, accompagnato
dallo sforzo di mantenere i colori dell’Impero guglielmino nerobianco-rosso (colori tra l’altro astutamente e funestamente riproposti nello stendardo nazista). Come che sia, Smend qui ribadisce la dipendenza della costituzione dai «valori dominanti»
e presenta in buona sostanza una concezione della costituzione
schiacciata sulla prassi effettiva d’una società. Non saranno
forse i rapporti concreti di potere di cui parla Lassalle, ma di
certo anche in questa prospettiva la «fatticità» avrà la meglio
sulla «validità».
Una costituzione ideale secondo Smend dev’essere come un
abito «in cui il popolo vive come nella propria pelle»109. Una
tale costituzione però – si potrebbe obiettare – è superflua, come
una carta geografica che riproduca perfettamente e in scala originale tutte le pieghe di un territorio. Se un popolo vive bene
nella propria pelle, perché dovrebbe coprirsi? Senza accennare
a un altro interrogativo fondamentale per la dottrina costituzio-
108
109
174
CDC, p. 180 (corsivo mio).
CDC, p. 182.
nalistica: se per caso la pelle di un popolo non sia proprio il
suo vestito o – fuor di metafora –- non sia proprio la sua costituzione.
Per Smend la costituzione è fondamentalente la «legge vitale di un essere concreto»110. La costituzione è dunque eminentemente «costituzione in senso materiale», e in quest’ultima
risiede il senso di ogni «costituzione in senso formale»111. La
costituzione, essendo legge di vita, principio vitale di un organismo concreto, si differenzia allora dalla legge come regola
astratta e generale.
Le regole degli altri rapporti giuridici sono una regolamentazione
astratta di un infinito numero di casi, la quale mira tutt’al più ad una
conformità media, mentre qui si tratta di una legge individuale di
un’unica e concreta realtà di vita112.
Secondo Smend la costituzione inoltre, come si è già detto,
non fissa una volta per tutte la forma di vita della comunità politica, ma ne afferma solo il meccanismo permanente di «autoformazione». Infatti, lo Stato è un essere concreto e dunque
singolare, e «tale essere concreto non è una statua ma un processo di vita unitario che riproduce di continuo questa realtà»113.
La costituzione è la «legge della sua integrazione»114. Una tale
impostazione ha importantissime conseguenze in materia di interpretazione della costituzione e del diritto in generale. Di ciò
in parte si è già detto. Vale tuttavia soffermarsi ancora su questo punto.
Considerato che per il nostro autore l’ordinamento giuridico
e in particolare la comunità politica costituiscono una totalità di
senso, ovvero nella terminologia di Theodor Litt che è – come
CDC, p. 217.
Vedi CDC, pp. 215-216.
112
CDC, p. 217 (corsivo mio).
113
Ibidem.
114
Ibidem.
110
111
175
si è visto – il filosofo che più influenza la teoria smendiana, un
«circolo chiuso», geschlossener Kreis, l’interpretazione del diritto e della costituzione deve sempre avere di vista il complesso
dell’ordinamento. L’interpretazione di una singola disposizione
o di una serie di disposizioni è possibile dunque solo sullo
sfondo di una comprensione dell’intero sistema. Si potrebbe dire
in modo un po’ arrischiato che qui Smend anticipa la concezione della «integrity» proposta dal filosofo americano Ronald
Dworkin115. L’interpretazione della parte è sempre interpretazione del tutto, e l’interpretazione di una norma è sempre interpretazione del senso di quella certa forma politica in cui
quella norma ha vigenza e legittimità. Detto con parole di
Smend, «ogni singolo aspetto del diritto dello Stato è comprensibile non in se stesso e isolatamente, ma come momento
della connessione di senso da realizzare, cioè della totalità funzionale dell’integrazione»116.
Un secondo criterio interpretativo della costituzione e del diritto che si evince dalla teoria dell’integrazione è la possibile
gerarchizzazione di parti e disposizioni tanto della costituzione
quanto degli altri testi di legge. Se l’ordinamento costituzionale
e giuridico è un tutto, vivificato da certe leggi vitali intrinseche, vi saranno in esso parti ed elementi in cui queste leggi si
manifestano con più forza e altre parti ed elementi meno rilevanti e anche meramente accessori.
Un’ulteriore conseguenza, derivante dall’inqudramento delle singole
norme di diritto dello Stato nel sistema di senso del contesto di integrazione statale, è quella del diverso valore, della differenza di rango
di tali norme in relazione a questo sistema117.
Questo consente al nostro autore di stabilire una gerarchia
interna alle disposizioni della costituzione repubblicana di Wei-
Su questo punto mi permetto di rinviare al mio Cittadinanza e ordine
politico, Giappichelli, Torino 2004, capitolo ottavo.
116
CDC, p. 217.
117
CDC, p. 219.
115
176
mar. In particolare egli pone la questione del valore centrale o
meno dell’istituzione parlamentare per il nuovo Stato, questione
– come si può ben intuire – quanto mai assai poco innocente:
«È una questione giuridica se il sistema parlamentare sia da valutare secondo la costituzione del Reich come un principio costituzionale di rango primario o secondario»118. Dalla concezione «integrale» e «integrativa» dell’ordinamento giuridico,
Smend deriva infine il criterio della modificabilità in via di principio di ogni norma giuridica e anche a maggior ragione d’ogni norma costituzionale.
Per Smend la costituzione non è di certo il provvedimento,
il decreto del principe o del sommo magistrato, nel suo originario senso romano vigente fino all’era delle rivoluzioni democratiche. (Si ricorderà che nell’isola di Barataria si conservarono le «costituzioni» del gran governatore Sancho Panza)119.
No, per Smend costituzione è qualcosa di più «profondo».
«L’essenza di uno Stato e della sua costituzione – scrive – è
quella vita in cui esso diviene di continuo realtà e nel contempo
individualità»120. La costituzione insomma è la legge che regola
la riproduzione e la «autoformazione» permanente di uno Stato.
Essa pertanto, come corpo di norme giuridiche, è permanentemente mobile, giacché il suo principio costitutivo è per l’appunto il cambiamento, la modificazione, lo sviluppo. Pensare
dunque a una costituzione immodificabile, sia pure solo in alcuni suoi punti è una sorta di contradictio in adiecto. Pertanto,
«la modificabilità della costituzione, cioè la possibilità del «mutamento della costituzione» è un carattere specifico di tale materia giuridica che è dato con la totalità del diritto costituzionale»121. Su questo punto tra l’altro si misura a suo avviso l’abisso apertosi tra democrazia e liberalismo. «È divenuta evi-
CDC, p. 22O.
Si legga M. DE CERVANTES, Don Quijote de la Mancha, a cura di M.
De Riquer, XIII ed., Editorial Juventud, Barcelona 1995, p. 915.
120
CDC, p. 181.
121
CDC, p. 220.
118
119
177
dente – scrive – l’intrinseca e irriducibile contrapposizione di
democrazia e liberalismo»122. La differenza tra i due si fa netta
– ad avviso di Smend – proprio riguardo alla questione della
modificabilità della costituzione. Mentre per il liberale la costituzione deve comunque salvagurdare la divisione dei poteri e
la centralità del parlamento, questo non è il caso del democratico. Per quest’ultimo ciò che va mantenuto è il principio per
l’appunto della Selbstgestaltung, dell’autoproduzione delle leggi
costituzionali, il quale ovviamente esclude qualsivoglia limite a
tale attività di autoistituzione della società.
Se dal punto di vista del diritto costituzionale, sovranità popolare significa che «la decisione ultima su tutte le questioni politiche» deve
risiedere in «un organo direttamente derivato dalla volontà del popolo», con ciò è innanzitutto enunciato il principio del parlamentarismo. Il punto di rottura o di saldatura tra questo e il più profondo nucleo democratico viene alla luce laddove la libertà di determinare l’essenza politica dello Stato, ad es. ostacolando ogni riforma della costituzione, sia limitata per il parlamento; o, ancora più chiaramente,
laddove il centro materiale ultimo sia in generale sottratto ad una tale
riforma123.
Mentre un parlamento «liberale» è soggetto a una costituzione «rigida», un vincolo siffatto non può darsi a un parlamento «democratico». La democrazia insomma esigerebbe che
il sovrano (chiunque esso sia) risulti signore assoluto in materia di riforme costituzionali e comunque che non vi siano pregiudiziali di sorta in specie sulla forma di Stato né limiti materiali alla revisione costituzionale. D’altra parte, per il nostro
autore «il mutamento costituzionale può compiersi al di fuori
del diritto costituzionale»124, grazie all’opera dei fattori sociali
che producono e sorreggono la fatticità della costituzione. La
122
123
124
178
CDC, p. 182.
CDC, p. 183.
CDC, p. 220.
revisione costituzionale è così consegnata alla spontaneità delle
forze sociali, in particolare dei partiti politici.
Come si vede, questa teoria preannuncia la dottrina assai
italiana della «costituzione materiale» di Costantino Mortati,
che da giustificazione del corporativismo e dello Stato autoritario fascista si trasformerà poi nella legittimazione teorica di
quel «regime dei partiti» che ha governato l’Italia per cinquant’anni a partire dal secondo dopoguerra125. Nonostante ciò
che Smend scrive a guerra finita – allorché come altri giuristi
di non specchiatissima fede democratica durante gli anni di
Weimar scaricherà le colpe teoriche della crisi della repubblica
sul formalismo legalista delle dottrine giuspositivistiche, accusa quanto mai ingiusta al solo pensare che furono i rappresentanti di quella scuola, i Kelsen, i Radbruch, gli Anschütz, a
dover tacere o fuggire dinanzi alla barbarie montante –, nonostante il suo scaricabarile, non può esservi dubbio che la sua
fosse una dottrina non solo estranea ma anche ostile al regime
parlamentare repubblicano e che come tale fosse percepita dai
contemporanei. Né valgono ad attenuare questo giudizio i suoi
richiami alla «democrazia», giacché qui come in Schmitt, o in
Forsthoff, «democrazia» significa poco più che regime di
massa, Stato mobilizzatore, o regime carismatico, ed è un termine brandito come arma polemica contro le istituzioni dello
Stato liberale.
È significativo a questo proposito che come esempio di possibili revisioni costituzionali Smend dia quello di una progressiva limitazione delle competenze del parlamento in favore dei
poteri dell’esecutivo.
Sulla dottrina della «costituzione materiale» di Mortati, cfr. M. LA
TORRE, The German Impact on Fascist Public Law Doctrine – Costantino
Mortati’s «Material Constitution», in Darker Legacies of Law in Europe –
The Shadow of National Socialism and Fascism over Europe and its Legal
Tradition, a cura di Ch. Joerges e N. Singh Galeigh, Hart, Oxford 2003, pp.
305 sgg.
125
179
Tale mutamento può coinvolgere la costituzione stessa spostando a
mano a mano i rapporti di rango e di importanza tra fattori, istituti e
norme costituzionali. Esso può addirittura introdurre un fattore nuovo
nella vita costituzionale – ad es. nel caso [...] che si giunga a limitare
il parlamentarismo mediante una prassi vieppiù creativa di decretazione da parte dei ministri126.
Smend – come Schmitt – spinge per un rafforzamento dei
poteri del Presidente del Reich. A ciò è diretta la sua teoria degli
organi. Questi – come si è già visto – a suo avviso non si definiscono per le competenze loro assegnate. In questa prospettiva la costituzione degli organi, in quanto fatto integrativo, precede la determinazione delle loro funzioni. «Nella formazione,
nell’esistenza e nella funzione degli organi lo Stato diviene vivo,
reale, cioè si integra del tutto indipendentemente dal contenuto
giuridico dei singoli atti dell’organo»127. Le competenze degli
organi dello Stato non possono dunque trarsi solo dalla lista a
tal fine compilata nei testi costituzionali, ma devono derivarsi
dal loro senso entro la struttura integrativa della forma di vita
statale.
Se la specificità giuridica di una costituzione consiste soprattutto nel
suo sistema particolare di combinazione degli organi supremi, cioè
degli organi politici dello Stato, allora tale specificità non è colta dalla
compilazione dei cataloghi di competenze e dall’analisi giuridico-formale dei rapporti reciproci degli organi128.
Ciò ha per conseguenza che l’indicazione costituzionale delle
competenze di un organo non è mai esaustiva, o tassativa; essa
non esaurisce tutte le possibili competenze dell’organo medesimo. Seguendo questa linea argomentativa potrebbe inoltre addirittura affermarsi, in merito ai poteri costituzionali, che la lista
degli organi titolari di questi poteri sia aperta. Ora, tale teoria,
126
127
128
180
CDC, p. 221.
CDC, p. 222.
CDC, p. 232.
applicata alla figura del Presidente del Reich ha per effetto di
non vincolare i poteri di questo al dettato costituzionale ovvero
alle regole formali che regolano i suoi poteri.
La costituzione intesa come «ordinamento dell’integrazione»129 assume un netto carattere teleologico che travolge ogni
barriera deontologica. Una costituzione siffatta può esigere dunque che il Presidente del Reich, in quanto incarnazione della
«volontà unitaria della nazione», sia dotato di tutti quegli strumenti e poteri che corrispondono a tale natura dell’organo e alle
sue funzioni. Il presidente del Reich così ad esempio non sarebbe vincolato alla formazione di un gabinetto di governo corrispondente alla maggioranza e alle scelte del parlamento.
Smend in questo modo offre un potente argomento a favore di
ciò che attende la Repubblica e che la precipiterà nella crisi: la
formazione di un gabinetto di minoranza e la legislazione per
decreto, a partire dallo scioglimento delle camere e della cancelleria di Heinrich Brüning nel 1930. Mentre Carl Schmitt, per
giungere allo stesso risultato, evoca il fantasma dello «stato
d’eccezione» e si appella all’articolo 48 del testo costituzionale,
Smend più gentilmente (almeno all’apparenza) si limita a sottolineare che la «costituzione» (l’ordinamento materiale governato dal fine dell’«integrazione») ha la prevalenza sul «diritto
costituzionale» (la lettera e le regole del testo costituzionale).
Un’idea però che ritroviamo articolata e per certi versi drammatizzata nella Verfassungslehre di Schmitt del 1928, dove si
distingue tra «costituzione» (Verfassung) e «legge costituzionale» (Verfassungsgesetz)130, là dove la seconda è subordinata
alla prima che ne costituisce la condizione131.
CDC, p. 222
Vedi C. SCHMITT, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, München und
Leipzig 1928, p. 20: «Ein Begriff von Verfassung ist nur möglich, wenn Verfassung und Verfassungsgesetz unterschieden werden».
131
Vedi ivi, p. 22: «Die Verfassungsgesetze gelten [...] erst auf Grund der
Verfassung und setzen eine Verfassung voraus» (rendo col corsivo lo spaziato
del testo).
129
130
181
4. La teoria «oggettiva» dei diritti fondamentali
Prima di passare alle conclusioni e a una valutazione complessiva della Integrationslehre, vale la pena soffermarsi ancora
su un problema di teoria del diritto che è in genere una buona
cartina tornasole per rivelare i motivi ideologici di un autore.
La questione è quella importantissima della configurazione dei
diritti fondamentali.
La dottrina giuridica formalistica della Germania di Weimar
è erede in buona sostanza del giuspositivismo di fine Ottocento
e della linea Gerber-Laband-Jellinek132, ma è priva della capacità intellettuale di questi, per quanto sia rappresentata da studiosi di sicuro prestigio e valore come Gerhard Anschütz ad
esempio, autore del più autorevole commentario alla Costituzione del 1919. A questa dottrina, che del giuspositivismo è l’espressione più pallida e tecnicizzata, sono precluse le disquisizioni teoriche d’ampio respiro e l’aggancio a una forte fondazione filosofica e morale, a differenza dell’altra scuola giuspositivistica del tempo, la Scuola di Vienna, capitanata – com’è
noto – da Hans Kelsen. Il giuspositivismo più specificatamente
tedesco rappresenta invece una scuola di buoni tecnici del diritto, ma di assai modesti teorici, che molti problemi ha tra l’altro con la concettualizzazione dei diritti fondamentali introdotti
dalla Costituzione di Weimar e raccolti nella sua seconda parte.
Lo statalismo del giuspositivismo tradizionale tedesco (che non
è quello kelseniano, si badi) aveva ammesso come giuridica solo
la nozione dei «diritti pubblici soggettivi», una sorta di addomesticamento dei diritti dell’uomo e del cittadino delle costituzioni rivoluzionarie133. Anschütz così non trova di meglio che
vedere nei diritti fondamentali una legislazione tecnica speciale,
132
Su questa linea che segna profondamente tutto il diritto publico europeo continentale, cfr. W. PAULY, Der Methodenwandel im deutschen Spätkonstitutionalismus. Ein Beitrag zu Entwicklung und Gestalt der Wissenschaft vom
Öffentlichen Recht im 19. Jahrhundert, Mohr, Tübingen 1997.
133
Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti pubblici soggettivi, cit.
182
diritto amministrativo speciale, ovvero delle specificazioni del
principio di legalità dell’amministrazione134. I diritti fondamentali in questa prospettiva rigidamente giuspositivistica non rappresentano in alcun modo limiti o vincoli posti al legislatore;
essi segnalano soltanto il principio per cui l’esecuzione della
legge, la sua amministrazione, è soggetta alla legge medesima.
Si tratta dunque di una vera e propria degradazione di tali diritti – come scriveva, non senza un pizzico di Schadenfreude,
Ernst Rudolf Huber pochi mesi prima del fatidico 30 gennaio
1933: «I diritti fondamentali sono stati svalutati in quanto sono
stati concepiti come limiti posti non alla legislazione, ma meramente all’amministrazione»135.
Contro un tale angusto riduzionismo ha buon gioco e certo
anche buone ragioni la critica di Smend. Questi infatti ribadisce il valore fondativo rispetto alla comunità politica assolto
dai diritti fondamentali, il loro pieno rango costituzionale, ovvero la loro forza costitutiva rispetto alla concezione e all’interpretazione della costituzione e alla conformazione dell’ordinamento normativo di cui questa si propone come il fatto istitutivo. «I diritti fondamentali proclamano un determinato sistema di valori, un sistema culturale, destinato a essere il senso
della vita statale costituita dalla costituzione»136. Com’è noto,
Carl Schmitt propone una tripartizione dei diritti fondamentali;
questa si articola in 1) diritti «liberali» di libertà (concepiti
come Abwehrrechte, diritti di difesa contro l’apparato statale);
2) «garanzie di istituti» (Institutsgarantien), concessione di determinati istituti giuridici (in genere di diritto privato); 3) infine le «garanzie istituzionali» (institutionellen Garantien), che
segnano invece la concessione o meglio la costituzione di isti-
134
Cfr. G. ANSCHÜTZ, Kommentar zur preußischen Verfassungsurkunde,
Stilke, Berlin 1912, pp. 100 sgg.
135
E.R. HUBER, Bedeutungswandel der Grundrechte, in «Archiv des öffentlichen Rechts», vol. 23, 1933, p. 8.
136
CDC, p. 246.
183
tuzioni in senso proprio (in genere di diritto pubblico)137. Ora,
i diritti fondamentali per Smend coprono fondamentalmente
quest’ultima area, quella delle «garanzie istituzionali» di Schmitt. E queste vengono qui concepite, se si adottasse la bipartizione di Richard Thoma a seconda del grado di efficacia, in
«diritti validi costituzionalmente di primo grado», cioè, niente
affatto diritti «vuoti», «leerlaufende», che finiscono per essere
quelli concettualizzati da Anschütz, bensì «rechtsstaatsbetonende Grundrechte»138.
Il guaio è però che Smend associa in maniera strettissima i
diritti fondamentali ai simboli e ai miti integrativi dello Stato.
«Ciò che forma dello Stato e colori – scrive – cercano di produrre per mezzo di simbolizzazioni, i diritti fondamentali cercano di produrlo per mezzo di formulazioni»139. Il loro fine è
l’integrazione di una certa comunità statale, non l’autonomia o
la protezione o la promozione di àmbiti individuali di condotta.
Ciò significa che i diritti fondamentali mirano alla costituzione
o al mantenimento di una comunità nazionale. Non servono
tanto a difendere gli individui dalla possibile invadenza o sopraffazione dei poteri pubblici, quanto a fornire il senso dell’appartenenza a una comunità nazionale, dunque a istituire e
proteggere quest’ultima. I diritti fondamentali non sono – come
crede Anschütz – in buona sostanza equivalenti ai diritti dell’uomo. Per Anschütz, il giuspositivista, essi vengono pensati
non nazionalisticamente, bensì individualisticamente, «nicht nationalistisch, sondern individualistisch gedacht»140. Mentre nella
visione formalistica di Anschütz i diritti fondamentali sono connessi eminentemente allo status della «personalità», qualità
Vedi C. SCHMITT, Verfassungslehre, cit., p. 170. Vedi anche dello stesso,
Freiheitsrechte und institutionelle Garantien, del 1931, ora in C. SCHMITT,
Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den Jahren 1924-1954, III ed., Duncker &
Humblot, Berlin 1985, pp. 140 sgg.
138
Cfr. E.R. HUBER, Bedeutungswandel der Grundrechte, cit., p. 13.
139
CDC, p. 243.
140
G. ANSCHÜTZ, Die Verfassung des Deutschen Reiches, XI ed., George
Stilke, Berlin 1929, p. 452.
137
184
ascritta ad ogni essere umano, per Smend invece essi discendono dallo status della «cittadinanza», cioè dalla condizione di
membro del popolo tedesco. Secondo Smend, in particolare, i
diritti fondamentali della seconda parte della Costituzione di
Weimar hanno come compito quello di esaltare il sentimento
dell’identità comune dei tedeschi.
Un catalogo di diritti fondamentali [...] vuole regolare normativamente una serie di contenuti dotata di una certa compiutezza, cioè un
sistema di valori o beni, un sistema culturale regolato come sistema
nazionale proprio dei tedeschi, e positivizza valori più generali in
forma nazionale141.
In questa prospettiva i diritti fondamentali sono essenzialmente diritti di cittadinanza; ma qui la cittadinanza vuol dire
omogeneità etnica e/o culturale, uno status col quale ci si differenzia dagli altri, meccanismo esclusivo e non inclusivo. Il
catalogo dei diritti «in tal modo conferisce agli appartenenti di
questa nazione dello Stato qualcosa come uno status materiale
che li rende materialmente un popolo, tra loro e nei confronti
degli altri»142. I diritti, anche se privi di un’efficacia immediata,
o se carenti di protezione giudiziale, servono comunque «come
regola per interpretare il diritto speciale a partire dal sistema
culturale che è alla base del catalogo dei diritti fondamentali»143,
o anche come norme e prescrizioni dirette al legislatore e all’amministrazione con efficacia diretta, e non dunque in quanto
mere norme programmatiche. È questa l’ormai famosa «teoria
oggettiva» dei diritti fondamentali.
Questa nuova teoria, che ha trovato un’eco poderosa nella
dottrina e nella giurisprudenza costituzionale della Repubblica
federale tedesca, muove dal rigetto della teoria dei diritti come
libertà negative, Abwehrrechte, dottrina – come si è detto – difesa da Carl Schmitt (almeno per una parte dei diritti fonda-
141
142
143
CDC, p. 245.
Ibidem.
CDC, p. 246.
185
mentali) in particolare a salvaguardia del diritto proprietà da
possibili interventi espropriatori e «socialistici» del potere legislativo. Con la crisi degli Stati liberali e l’avvento delle democrazie nelle quali il potere pubblico è emanazione più o meno
diretta di tutti i cittadini e dell’insieme della società civile ora
divenuta società di massa, si fa sempre meno urgente e plausibile – in questa prospettiva – la concezione dei diritti in termini negativi. Non v’è più bisogno – così suona l’argomento
qui utilizzato da Smend e compagni – di proteggersi contro l’ordinamento politico, ché questo è espressione diretta della cittadinanza. È questa, come si vede, la ripetizione di un motivo
rousseauviano. I diritti ora – si dice – sono piuttosto fondamenti, e non limiti, di legittimità e di operatività dell’ordinamento giuridico.
Si imprime così una virata all’interpretazione dei diritti, tendente ad evitare gli errori del passato formalismo. La nuova metodologia ermeneutica proposta si articola fondamentalmente in
tre tecniche interpretative. 1) Bisogna innanzitutto partire da una
prospettiva antiformalistica, cioè prescindere dalla lettera dei
precetti sui diritti «in favore di una considerazione del loro contenuto materiale»144. 2) Si tratta in secondo luogo di applicare
una tecnica olistica, vale a dire di andare oltre la ricerca dei
soggetti attivi e passivi dei diritti, ricercando invece «il senso
essenziale del diritto fondamentale in questione»145. A questo
proposito Smend cita l’articolo 126 della Costituzione di Weimar che configura il diritto di petizione alle autorità amministrative, sottolinenando che l’attenzione al «senso essenziale»
impone che dapprima tale diritto sia riservato ai Tedeschi e che
poi ad esso non corrisponda necessariamente un obbligo dell’organo investito dalla petizione. 3) Inoltre, va coltivata l’interpretazione evolutiva e dunque contestuale dei diritti, mediante
l’attenta considerazione delle trasformazioni storiche e dei cambiamenti di circostanze in cui essi vanno a valere. Ciò comporta
144
145
186
CDC, p. 265.
Ibidem.
una decisa posizione anti-originalistica, ovvero la raccomandazione di non prendere troppo sul serio l’intenzione originaria
dei costituenti:
è formalismo interpretare un diritto fondamentale solo in base al suo
significato originario, mentre non lo è affatto interpretarlo in relazione
all’intero dell’ordine di vita del presente e della costellazione costituzionale dei valori146.
I diritti fondamentali sono dunque trasformati in princìpi, e
in princìpi interpreti o espressione dei valori di una comunità.
Essi potranno farsi valere anche in assenza di specifiche rivendicazioni dei soggetti titolari dei diritti, e in un certo senso
anche contro questi. Da posizioni soggettive di libertà (di licere) o anche di potere (di posse), i diritti si trasformano pertanto in «istituzioni» di una certa comunità. Si badi che qui
non si postula tanto un complemento oggettivo ai diritti concepiti come poteri dei soggetti, quanto in buona sostanza la
cancellazione di tali poteri in nome dei superiori valori di integrazione dello Stato. Il valore dell’integrazione primeggia su
tutto, di maniera che per esempio la titolarità dei diritti deve
rivolgersi innanzitutto ai membri della comunità nazionale, ai
Tedeschi, trascurando la soggettività universale concessa dai
diritti dell’uomo. I diritti dell’uomo vengono così svincolati
dai diritti fondamentali, e anzi a questi drammaticamente contrapposti.
La teoria «oggettiva» dei diritti non si presenta tanto come
un correttivo della teoria «soggettiva», quanto un sostituto di
questa, un’alternativa. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, «la
comprensione teorica dei diritti fondamentali da parte della dottrina dell’integrazione non è così anti-liberale (come sarà poi
con le dottrine totalitarie) ma è piuttosto estranea al liberalismo»147. Non si potrebbe dire meglio: Smend è a mezza strada,
146
147
CDC, p. 266.
G. ZAGREBELSKY, Introduzione, in CDC, p. 29 (corsivo nel testo).
187
diciamo pure in bilico, tra l’originaria ispirazione libertaria e
antiautoritaria dei diritti e il loro completo stravolgimento, per
esempio, nelle volksgenossische Rechtstellungen di Karl Larenz,
probabilmente il massimo teorico nazionalsocialista del diritto148. Il suo problema è però di non rendersi conto del pericolo, che egli individua solo nel liberalismo, nell’individualismo, al quale rimprovera un concetto di diritto «unilaterale»,
quello di «vedere norme giuridiche solo nell’immediata delimitazione di sfere di volontà tra i titolari di diritti e soggetti obbligati di ogni tipo»149. All’individualismo Smend oppone un
«universalismo», che tanto nella terminologia quanto nei contenuti è troppo vicino ad autori di netto orientamento autoritario come Othmar Spann o Julius Binder, del quale ultimo egli
assume tra l’altro la nozione di «fedeltà» a proposito del rapporto dei membri dello Stato federale150, per non menzionare
che alcuni di quanti a quel tempo preconizzano e premono verso
la cosiddetta «rivoluzione conservatrice», un progetto di certo
non estraneo all’orizzonte ideologico dello Smend degli anni
Venti151.
5. Mito, rito, e volontà di potenza
Comincio quest’ultimo paragrafo dando ragione a Smend: lo
Stato è certo una «forma di vita». Ma si tratta di una forma di
vita sociale, e questa non può essere fine a se stessa, già per il
Su cui mi permetto di rimandare al mio La «lotta contro il diritto soggettivo». Karl Larenz e la dottrina giuridica nazionalsocialista, Giuffrè, Milano 1988.
149
CDC, p. 242.
150
Vedi CDC, p. 253.
151
Smend, insieme a Triepel, fu membro influente della Deutschnationale
Volkspartei, il partito della destra ultranazionalista, revanscista e «prussiana»,
fino al 1930, anno in cui, ancora con Triepel, ne uscì in segno di protesta per
la svolta populistica e filonazista operarata dal nuovo presidente, Hugenberg.
Cfr. G. LEIBHOLZ, Gedenkrede auf Rudolf Smend, cit., p. 18.
148
188
semplice fatto che in quest’àmbito (il «sociale») sono possibili
varie, talvolta addirittura contrapposte, forme di vita. Detto altrimenti, le «forme di vita» per affermarsi e mantenersi non rinviano solo a «leggi» più o meno naturali, e perciò uniformi, ma
a «idee» più o meno argomentate, e dunque molteplici e non
sempre tra loro coerenti. Smend sembra credere invece che
l’«autoformazione», la Selbstgestaltung, così come l’«integrazione», avvengano in maniera automatica, mi piace dire meccanica: «essa si compie inconsapevolmente come ogni sano processo vitale»152. A questo punto sfuma però la differenza tra Integrationslehre e l’organicismo, o una concezione ipostatizzante
della società come «macroanthropos», pure da Smend vivamente criticato. Smend è vicino all’«universalismo» di Spann e
Binder, che si riferisce alla dimensione collettiva e antindividuale della collettività. L’«universalità» di Spann, Binder, e
Smend non ha tuttavia niente a che vedere con l’universalità
della classe logica, o con l’universalizzabilità connessa all’imperativo categorico kantiano; è più prosaicamente coincidente
con lo spazio comunitario di una data «eticità», cioè di una data
formazione sociale, o, se si vuole, di una certa «forma di vita».
«Universalismo» insomma sta qui per comunitarismo.
D’altra parte lo Stato democratico è quella forma di vita politica e sociale che «si autoistituisce»153 – intuizione presente
nell’opera di Smend –, ma che fa ciò però mediante la parteci-
R. SMEND, Integrazione, in CDC, p. 287.
Uso qui una terminologia di CORNELIUS CASTORIADIS (del quale cfr.
L’institution imaginaire de la société, Seuil, Paris 1975), prossima nondimeno
alla formula smendiana della Selbstgestaltung. Nell’elaborazione della sua teoria della società democratica è probabile che Castoriadis non abbia avuto notizia degli scritti di Smend. Il filosofo greco-francese comunque ha prodotto
una concezione della politica e del «sociale» in generale che può leggersi
come la radicalizzazione dell’aspetto dinamico e soggettivo della Integrationslehre, l’«autoformazione», a spese della sua parte funzionalistica, oggettiva e – diciamo pure – conservatrice. Per un’esplicitazione di tali motivi dell’opera di Castoriadis, cfr. M. LALATTA COSTERBOSA, Diritto e potere, in Una
introduzione alla filosofia del diritto, a cura di M. La Torre e A. Scerbo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 163 sgg.
152
153
189
pazione autonoma dei cittadini e l’esercizio di certi diritti. L’altro errore di Smend è dunque di scambiare l’attivismo o il civismo riflessivo della democrazia con la mobilitazione irriflessiva delle masse, un esempio della quale si era dato, in Germania specialmente, nell’agosto del 1914: i giorni che Karl
Kraus avrebbe definito gli ultimi del genere umano durante i
quali folle acclamanti si erano sentite unite da un vincolo mistico di comunità di vita e di morte e si erano con giubilo avviate alla guerra154; un tipo di mobilitazione questo che sarebbe
stato poi l’oggetto delle tecniche di manipolazione dei movimenti e degli Stati totalitari. Una «forma di vita» democratica
insomma dev’essere investita di senso dall’autonomia individuale che si proclama principio universale e così facendo si fa
autonomia collettiva; senza superarsi però, senza cancellare nell’entità collettiva la soggettività individuale.
Le critiche di Smend alla concezione liberale dello Stato
come impresa neutrale e apparato meramente tecnico sono centrate. Uno Stato in particolare come quello democratico, fondato sulla partecipazione attiva e consapevole dei soggetti, non
può fare a meno di un certo pathos tale da motivare gli individui all’azione al di là dell’àmbito privato e familiare. Una ra-
154
Cfr. quanto dice Marianne Weber, la sposa di Max: «L’ora è arrivata
ed è d’una insospettata solennità [...] E tuttavia è un’ora d’estrema festività –
l’ora della rinuncia al sé [Entselbstung], del comune essere assorbiti nella totalità. L’amore bollente per la comunità rompe gli argini dell’io» (MARIANNE
WEBER, Max Weber – Ein Lebensbild, III ed., Mohr, Tübingen 1984, p. 526).
Si legga anche quanto scrive JULIUS BINDER (Fichte und die Nation, in
«Logos», vol. 10, 1922, pp. 313-314), il quale, dopo aver dipinto l’epoca guglielmina come un tempo di decadenza del vero spirito tedesco evocato da
FICHTE nelle sue Reden an die Deutsche Nation, dunque «eine Zeit der vollendeten Sündhaftigkeit» (ivi, p. 314), nota però che i «giorni di agosto» del
1914 sembravano aver risvegliato le idee sul destino unico e sulla missione
della nazione tedesca espresse con tanta efficacia da Fichte nei suoi Discorsi:
«Freilich, in jenen Augusttagen des Jahres 1914 schien es, als ob diese Gedanken wieder in uns lebendig geworden wären» (ibid.). Sulla celebrazione
dell’agosto 1914 nella filosofia tedesca, cfr. H. LÜBBE, Politische Philosophie
in Deutschland. Studien zu ihrer Geschichte, Benno Schwabe, Basel 1963, pp.
173 sgg.
190
zionalità solo strumentale non basta a costituire una sfera pubblica d’azione; deve entrare in gioco una versione meno formale e individualistica di razionalità: quella comunicativa, tesa
all’intendimento o alla comprensione reciproca. E questa è
tutt’altro che neutrale, per quanto possa dirsi imparziale ed equanime. Non può essere per esempio neutrale rispetto a tentativi
di introdurre nel «cuore» della comunità la razionalità strategica, che tratta gli altri esseri umani come meri strumenti; la razionalità strumentale in tale contesto può solo essere tollerata
ai margini dello spazio comunitario (pubblico). La razionalità
comunicativa presuppone pertanto una certa idea dell’essere
umano che giustifichi il suo primo requisito: l’obbligo di giustificare pubblicamente qualunque affermazione e in special
luogo ogni affermazione sulla condotta rilevante per gli interessi di un altro. Ed implica anche una certa idea della «buona
vita», della quale elemento centrale risulta la cittadinanza, il decidere collettivamente degli affari pubblici. Oltreché un correlativo sentimento. È dubbio tuttavia che questo pathos debba e
possa provenire da pennacchi, fanfare, sfilate, bandiere al vento
(integrazione «funzionale»), oppure da personalità forti, presidenti, capi di di stato, condottieri, cavalieri o duci vari (integrazione «personale»), o ancora da idee cristallizzate in simboli
o miti e dunque non accessibili a un atteggiamento riflessivo e
critico (integrazione «materiale»). A questo proposito va ricordato che Smend – come si è visto sopra – opera una radicale
separazione tra àmbito dello Stato e àmbito del diritto, ciascuno
retto da un valore distinto. Il principio di «integrazione» si applica solo allo Stato, mentre il diritto è estraneo a tale criterio
assiologico. Il diritto, inteso eminentemente come sistema giudiziario, d’altra parte non svolge nessuna funzione integrativa.
«Come componente del sistema dei poteri dello Stato – scrive
–, la giustizia è “en quelque façon nulle”, cioè non serve al valore di integrazione, ma al valore del diritto»155.
CDC, p. 170. Su questo punto cfr. M. La TORRE, Cittadinanza e ordine politico, cit., capitolo ottavo.
155
191
Certo, non si può negare che la caratterizzazione «dinamica»
o «dialettica» dello Stato proposta da Smend non abbia un qualche valore euristico. È la teoria smendiana che ispira ad esempio Otto Hintze nella sua ricostruzione storica dello Stato moderno ad un tempo come Anstalt, «istituzione», e come Betrieb,
«impresa», là dove questa seconda connotazione è espressa con
un riferimento esplicito a Verfassung und Verfassungsrecht156. E
tuttavia è proprio l’esagerazione dell’elemento dinamico che
preclude all’opera di Smend la simpatia di una schiera di giuristi, tra cui possono ricordarsi il tedesco Schwinge e il nostro
Costantino Mortati157, preoccupati che tanto «dinamismo» non
riesca a dar conto dell’elemento statico dello Stato, che è poi
quello che dà il suo nome proprio a questa figura storica. Del
resto, logicamente, perché vi sia autoaffermazione e soprattutto
integrazione deve presupporsi un centro più o meno permanente,
soggetto dell’autoformazione e fine dell’integrazione. Altrimenti
è il moto perpetuo, la mobilitazione per la mobilitazione, e infine la disintegrazione dell’ordine politico. Non basta dunque
l’elemento «dinamico» a costituire e garantire l’emergenza e la
persistenza della forma Stato.
La debolezza della Integrationslehre, come di ogni altra teoria che si concentra sulle condizioni di praticabilità e sul contesto di realizzazione dei modelli politici, è quello di risucchiare il discorso giustificativo in quello di applicazione158 negandogli rilevanza e autonomia. Il problema dell’ordine politico diviene così esclusivamente quello della sua implementazione, un problema in gran parte tecnico dunque, con l’aggravante però di attribuire a tale livello di discorso, in buona mi-
Vedi O. HINTZE, Wesen und wandlungen des modernen Staates, Walter de Gruyter, Berlin 1931, pp. 4-5.
157
Per la relazione di Mortati col dibattito costituzionalistico e giusfilosofico di Weimar, mi permetto di rinviare al mio The German Impact on Fascist Public Law Doctrine – Costantino Mortati’s «Material Constitution», in
Darker Legacies of Law in Europe, cit., pp. 305 sgg.
158
Per la distinzione di questi due tipi di discorso, vedi K. GÜNTHER, Der
Sinn für Angemessenheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1988.
156
192
sura strumentale, la dignità di àmbito fondazionale. Si tratta insomma della tentazione non repressa di buona parte delle teorie giuridiche istituzionalistiche, per le quali il problema giustificativo o non si pone o non può farsi risalire oltre l’uso, il
costume, l’istituzione per l’appunto – secondo un atteggiamento nobilitato, ma con ben altre intenzioni, dalla filosofia
dell’«ultimo» Wittgenstein. In questa prospettiva la catena giustificativa (la giustificazione «esterna» – direbbero Jerzy Wróblewski e Robert Alexy)159 si interrompe proprio là dove dovrebbe avere inizio, nelle pratiche effettive, nei meccanismi che
fanno sì che certi princìpi e certe concezioni ideali si facciano
«forme di vita». E di queste possono ben far parte elementi irriflessi, irrazionali addirittura, coazioni di vario tipo atte a superare il perenne problema delle regole e dei princìpi: ch’essi
non solo non regolano appieno ma nemmeno motivano la loro
applicazione.
È certo che per realizzare su questa terra, in un mondo di
necessità moralmente imperfetto, per esempio gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza può essere utile, efficace, averli
iscritti a lettere d’oro in un rutilante vessillo tricolore. E un inno
come «La Marsigliese» può ben servire a riscaldare e infiammare cuori e menti d’esseri chiamati a giocarsi la vita in difesa
di quegli ideali. Ma mentre i vessilli si equivalgono, e la preferenza dell’uno e dell’altro è materia di gusto estetico oppure
rimanda agli ideali che essi «rappresentano» o «inscenano», l’adozione dei princìpi così «rappresentati» o «messi in scena» non
si fonda su un criterio estetico ed è dunque difficilmente interscambiabile. La conseguenza di un bel vessillo è sempre la
stessa, quella di soddisfare un piacere visivo, oppure – se considerato come strumento di motivazione di condotta – quella di
contribuire all’implementazione di un certo codice normativo,
a prescindere dai meriti di questo. Non è così per i codici in
Vedi R. ALEXY, Teoria dell’argomentazione giuridica, a cura di M. La
Torre, Giuffrè, Milano 1998, pp. 182 sgg.
159
193
questione, le cui conseguenze potranno essere sulle vite degli
uomini, sulle «forme di vita», radicalmente e anche tragicamente differenti. Dietro le bandiere, gli inni, le cerimonie, vi
sono princìpi e ideali, e i primi vanno giudicati sempre, in
quanto fattori d’ordine politico, rispetto ai secondi. Dimenticarsi
di quest’ultimi, o porre diritti e princìpi allo stesso livello di
inni e bandiere, come fa Smend160, equivale ad assolutizzare
quelli che sono solo strumenti di realizzazione e – se si vuole
– «trucchi» di motivazione.
Significa insomma: primo, irrigidire i riti di integrazione in
forme necessariamente autoritarie e inaccettabili per la dignità
dell’essere umano, la cui sostanza viene fatta coincidere in oggetti resi feticci (bandiere per l’appunto, saluti, medaglie, ecc.),
e la cui «vita» (tanto celebrata da Smend e dal suo mentore
Litt) viene sacrificata sugli altari della «forma» (una certa musica, certi colori, certi gesti); secondo, annacquarne la reale funzione, che rimane strumentale a qualcos’altro che viene perduto
di vista; terzo, sottrarre loro efficacia, giacché un «rito» di cui
non si conosce più il senso rischia di divenire «insensato», e
come tale fa fatica ad agire come fattore motivazionale dell’adozione di criteri dotati di un contenuto proposizionale. Camicie nere, fez, orbaci, sabati fascisti, tanto per fare un esempio
che ci è più familiare e che Smend osservava compiaciuto, non
servirono solo – come credeva lo studioso tedesco – a «integrare» le masse, ma anche, e più di quanto si sospetti, a provocare il rigetto di individualità intelligenti dotate di senso del
ridicolo, o del «contegno» (come direbbe Plessner)161. La Integrationslehre finisce qui, a dispetto della seriosità del suo massimo esponente, per farsi, se non farsa essa stessa, celebrazione
di questa.
Per una pagina chiarissima in questo senso vedi CDC, p. 180.
Si legga H. PLESSNER, I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale; trad. it. di B. Accarino, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 82:
«Non è che la forma protegga solo; essa restringe e inibisce».
160
161
194
Smend fa sua la lezione di Rousseau che nel suo scritto sulla
costituzione polacca raccomanda, per rinvigorire lo spirito civico, di promuovere e praticare «jeux d’enfants», giochi infantili. Ma dimentica subito che per l’appunto d’un gioco si tratta.
Dietro questa radicale esagerazione delle virtù integratrici del
mito e del rito si cela una visione in buona sostanza superficiale della nozione e del significato dell’«integrazione». Questa, se ha importanza nella sfera sociale, lo assume proprio perche combina e lega questa al mondo della sfera vitale dell’individuo. Ciò implica un movimento di adesione intima della coscienza del soggetto, che non può darsi solo nella ripetizione di
gesti che gli si impongono dall’esterno. L’«integrazione» di cui
infine ci parla Smend è un fatto «superficiale», giacché rimane
essenzialmente estetico, e non riesce a farsi morale o esistenziale. È un po’ una sorta di collettivizzazione del «beau geste»,
un rinvio a un «onore» di massa che si produrrebbe per la suggestione del rito. E poi egli trascura che l’«integrazione» è lungi
dal costituire un processo armonico, compiuto, senza residui e
conflitti, mediante il quale l’individuo si fonde nella comunità.
Questa non riesce mai a chiudersi completamente su su stessa,
e l’integrazione rimane un cómpito, piuttosto che un dato sia
pure organico, dinamico o dialettico. Come ha notato Michael
Walzer, un comunitarista contemporaneo, «un’integrazione pienamente compiuta, un’integrazione nel dettaglio, è una fantasia
sociologica. Ciò che proviamo invece è complessità e instabilità, anomalia e contraddizione»162.
Smend ricorda per certi versi Auberon Quin, protagonista di
The Napoleon of Notting Hill, un romanzo di Chesterton, scrittore britannico interprete di motivi che si ritrovano suggestivamente nell’opera del giurista teutonico, come del resto in buona
parte dell’irrazionalismo estetizzante e tardo-romantico début de
M. WALZER, The Company of Critics, II ed., Basic Books, New York
2002, p. 105.
162
195
siècle163. Stanco della pace borghese e della «civilization» cosmopolita di una Londra immaginaria (ma non tanto) nella quale
la forma di governo è concepita come una sorta di dispotismo
elettivo del tutto tecnico ed è così vieppiù svuotata di significato164, Quin vuole risuscitare antichi e sanguigni costumi ormai
travolti dai «poteri bruti della modernità»165: giuramenti, vessilli, rutilanti uniformi, e soprattutto la divisione della città non
in distretti meramente amministrativi bensì in vere e proprie comunità con un fortissimo senso della propria identità collettiva.
Quin, divenuto presidente/re d’Inghilterra, rimette in voga dunque miti, simbologie e pratiche rituali, e spinge per la costituzione di vere e proprie piccole patrie dentro la metropoli con
proprie bandiere e milizie, altrettante nazioni in miniatura. Nel
far ciò è mosso più che altro da una sorta di spleen decadente,
da un estetismo esasperato alla ricerca di sensazioni forti, e da
un umorismo prossimo al nichilismo; Auberon Quin insomma
non fa troppo sul serio. Ciò però non impedisce che ci sia chi
lo prenda in parola e si adoperi perché si materializzino i fantasmi medievalizzanti da quello evocati: si tratta di Adam Wayn,
che in nome dei diritti storici e del sacro suolo di Notting Hill,
del mito di una patria, fatta sia pure di un paio di strade, presto spargerà sangue umano.
La modernità è vissuta da Quin (che è una sorta di alter ego
di Chesterton) come negazione dello «spirito», e la salvezza è
affidata al sangue166, alla spada167, a «quel sentimento d’un
conforto e d’una compattezza formidabile che [...] fu il cuore
Per l’Italia, cfr. N. BOBBIO, Profilo ideologico del Novecento italiano,
Einaudi, Torino 1986, capitolo terzo. Per la ricaduta di questa idiosincratica
forma di Zeitgeist sulle dottrine costituzionalistiche e in genere sul pensiero
giuridico, cfr. G. VOLPE, Il costituzionalismo del Novecento, Laterza, RomaBari 2000, pp. 34 sgg.
164
Vedi G.K. CHESTERTON, The Napoleon of Notting Hill, Wordsworth
Classics, Hertfordshire 1996, p. 7.
165
«Brute powers of modernity» (ivi, p. 14).
166
Vedi ivi, pp. 13-14.
167
Vedi ivi, p. 48.
163
196
[...] d’ogni patriottismo»168. Ogni aspirazione al benessere, la ricerca della felicità e della pace, è bollata come «materialismo»,
principio proprio della «città dei porci» menzionata con ribrezzo
da Platone. Al «materialismo» si contrappone allora l’«idealismo», lo spirito di sacrificio, la capacità di far tacere i propri
bisogni, la rinuncia alle considerazioni utilitaristiche ed eudamonistiche, il senso del dovere, cose tutte che si crede di rinvenire in forma pura nell’esperienza della guerra169. Al soddisfatto e grasso borghese, «porco» perché teso alla soddisfazione
dei piaceri, e pauroso del combattimento e del sangue, si contrappone il soldato, il guerriero, pronto a sacrificarsi, a dare la
vita, per l’ideale della patria. Ciò che qui si odia, come dice
non senza simpatia Leo Strauss
è precisamente la prospettiva d’un mondo nel quale ciascuno sarebbe
felice e soddisfatto, in cui tutti avrebbero il loro piccolo piacere diurno
e il loro piccolo piacere notturno, un mondo nel quale nessun gran
cuore potrebbe battere né nessuna grande anima respirare, un mondo
senza sacrificio reale, al di là della metafora, vale a dire un mondo
che non conosce il sangue, il sudore, e le lacrime170.
In un mondo disincantato, privo di fedi assolute, si crede che
con le fedi sia venuto a mancare ogni valore, ogni criterio d’orientamento della vita individuale e collettiva. In un universo
secolarizzato (e, ciò che fa lo stesso per Chesterton, dominato
dal denaro), un universo non più abitato da Dio, e nel quale il
cielo non ospita più angeli e santi, l’unica fonte di salvezza sembra il mito, l’istinto primordiale rivelatore dell’essenza più in-
«That feeling for a formidable comfort and compactness which [...]
was the heart [...] of all patriotism» (ivi, p. 56).
169
Anche Naphta – l’antagonista mistico e comunitarista del razionalista
e liberale Settembrini – disprezza la placida sicurezza offerta dallo Stato borghese e si augura l’avvento della guerra (vedi TH. MANN, Der Zauberberg,
Fischer, Frankfurt am Main 1989, p. 730).
170
L. STRAUSS, Sur le nihilisme allemand, in L. STRAUSS, Nihilisme et politique, a cura di O. Sedeyn, Payot & Rivière, Paris 2004, p. 42.
168
197
tima dell’uomo, l’impulso generoso, disinteressato, e – per essere tale – irriflesso (ché la riflessione è segnata irrimediabilmente dal vizio dell’egocentrismo), la forza barbara ma rinnovatrice della gioventù non ancora corrotta dalle convenzioni e
dalla routine della società borghese. E mito, istinto, impulso,
gioventù, o «vita» – come direbbe Smend – si fondono tutti
nella nazione, una comunità di sangue e terra, in cui si è nati e
da cui si è generati, di cui si è discendenti, di cui si può essere
soldati, entro cui l’io può, annullandosi, ritrovare il contatto con
l’altro e col tutto.
Se, come dicono i vostri ricchi amici, non vi sono Iddii, ed i cieli sono
bui sopra di noi, per cosa dovrebbe lottare un uomo se non per il luogo
in cui ebbe l’Eden dell’infanzia e il breve paradiso del primo amore?
Se nessun tempio e nessuna scrittura è sacra, cos’è sacro se la stessa
giovinezza dell’uomo non è sacra?171.
Auberon Quin è un esteta; Smend no. Il giurista tedesco è
animato da un genuino sentimento religioso: è un luterano militante. Alcune sue critiche all’individualismo sono plausibili,
così com’è comprensibile l’atteggiamento di rifiuto di Chesterton (che s’identifica invero più con Wayne che con Quin) per
la mancanza di senso di una vita sociale condotta come un’impresa commerciale e per l’equiparazione della politica al mercato. Nondimeno, nonostante la loro differente motivazione filosofica ed esistenziale («noia» nell’uno, «horror vacui» nell’altro) entrambi commettono lo stesso imperdonabile errore. È
l’errore di riconnettere la «serietà» dell’esistenza, e dunque il
contenuto di valori di questa, alla decisione172 che – per dirla
«If, as you rich friends say, there are no gods, and the skies are dark
above us, what should a man fight for, but the place where he had the Eden
of childhood and the short heaven of first love? If no temples and no scriptures are sacred, what is sacred if a man’s own youth is not sacred?» (G.K.
CHESTERTON, The Napoleon of Notting Hill, cit., p. 497).
172
Sulla tematica della «decisione» sempre utili rimangono le belle pagine di CH. GRAF VON KROCKOW, Die Entscheidung. Eine Untersuchung über
Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Ferdinand Enke, Stuttgart 1958.
171
198
con Heidegger – non ha altra base che se stessa, al conflitto
agonistico e in ultima istanza all’imminenza della morte violenta, dunque alla guerra. Per Smend – come nota Hans Kelsen173 – l’espressione più appropriata dell’essenza dello Stato è
costituita da simboli militari, anzi da «Siegessymbole», simboli
di vittoria174. La «comunità» si proietta così, al pari dell’esercito che ne è una privilegiata «forma di vita», come «das erste
der Welt»175, ciò che prevale su ogni altro ordine. La «serietà»,
sganciata dalla pratica del discorso tra uguali, e dalla tolleranza
che questa implica, si trasforma in celebrazione della «fede». Il
giurista tedesco a questo proposito sottolinea «die Verwandtschaft zwischen der Integrationsbindung an den Staat und der
religiösen an die Gottheit»176, la parentela tra il vincolo d’obbedienza allo Stato e la sottomissione ai voleri divini.
L’errore principale di Smend è forse quello di seguire la raccomandazione che chiude Kritik der neokantischen Rechtsphilosophie, il fortunato pamphlet di Erich Kaufmann: concettualizzare ed elaborare «ein Bios ohne Logos»177, una «vita senza
logos», vitalità senza razionalità. Raccomandazione che contiene già una contraddizione di non poco conto. Il che costringe
Smend a una serie infinita di salti mortali – come Kelsen dimostra nel dettaglio in Der Staat als Integration – tra la sfera
della cultura o dello «spirito» e quella della realtà biologica o
psicologica, empirica. In questo senso gli esiti della sua filosofia del diritto – nonostante l’esplicita presa di distanza dalla nozione di «organismo» – non sono lontani dall’organicismo di
Gierke, che ricostruisce la «comunità» e lo Stato come istanze
di «vita» sopraindividuale, vero e proprio Übermensch. Solo che
Vedi H. KELSEN, Der Staat als Integration, cit., p. 28.
Vedi R. SMEND, Verfassung und Verfassungsrecht, in R. SMEND, Staatrechtliche Abhandlungen und andere Aufsätze, II ed., cit., p. 161.
175
Ibidem.
176
Ivi, p. 164.
177
E. KAUFMANN, Kritik der neukantischen Rechtsphilosophie. Eine Betrachtung über die Beziehung zwischen Philosophie und Rechtswissenschaft,
Mohr, Tübingen 1921, p. 101.
173
174
199
Gierke – come ancora dice bene Kelsen – è più schietto e diretto. Smend gioca in due tavoli, tra la sfera dell’«ideale Reale»
e del «reale Ideale», per finire in una posizione radicalmente
vitalistica, che per l’appunto oppone la vita alla ragione. Dunque, il suo errore finale è di non aver capito che la volontà dell’uomo, sottratta alla ragione e alle regole (sì, anche formali),
trattata come «vita», diviene Wille zur Macht, volontà di potenza e si rivolge contro l’uomo stesso.
La comunità, asserita pure come superiore all’individuo perché unica sfera giustificatrice del sacrificio, diventa comunque
affare di alcuni (sì, sempre individui). Questi, in assenza di àmbiti pubblici di deliberazione, potranno vantare per sé una completa identificazione con la comunità178, e in nome di questa
(resa tabù, perche sottratta alla riflessione) avranno allora buon
gioco nell’escludere, discriminare, stigmatizzare, all’occorrenza
eliminare, altri individui. Non vi è «spirito» né «autoformazione» senza riflessività e princìpi, ma solo violenza e incontinenza; non vi è comunità né «integrazione» senza autonomia
individuale e senza regole, ma solo massa e obbedienza.
Su questo punto, sul legame tra una concettualizzazione forte della comunità, e il rinvio al «grand’uomo», cfr. le pagine assai suggestive di H. PLESSNER, I limiti della comunità, cit., p. 41: «Senza questo centro figurale (gestalthaft) non si conserva nessuna comunità».
178
200
Capitolo quarto
Platonismo normativo: Leonard Nelson
1. Una vita «pubblica»
Non è facile trattare di uno studioso così complesso come
Leonard Nelson, tanto più che la sua figura e la sua opera sono
sfortunatamente ignote ai più. Nel parlare di Nelson non si può
presupporre uno sfondo comune di conoscenze. Ciò è dovuto
invero non all’oscurità o all’irrilevanza del suo pensiero, ma
alla sua profondità che fa sì che la sua prosa per quanto nitida
richieda un elevato sforzo di concentrazione, alla sua radicalità
che gli conferisce una certa aura di «stranezza», infine all’ostilità dell’ambiente e dell’epoca in cui si trovò ad operare e che
lo hanno sospinto forse per sempre nel limbo degli autori mai
letti. Quest’ultimo elemento, la posizione di estraneità di Nelson rispetto alla cultura tedesca del suo tempo, lo rende – io
credo – particolarmente interessante. Il suo percorso teorico si
trova in rotta di collisione con la gran parte delle verità ricevute dalla dogmatica post-savignyana. La sua idea di «Stato di
diritto» è qualcosa di alternativo, fors’anche di troppo alternativo, rispetto al Rechtsstaat così come questo viene celebrato a
partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
È opportuno allora, prima di entrare in medias res, rievocare
per rapidi cenni le vicende personali di questo filosofo «irregolare». Nelson nasce a Berlino l’11 luglio 18821 da una famiPer una ricostruzione della vicenda umana e teorica di Nelson, rimando
a H. FRANKE, Leonard Nelson. Ein biographischer Beitrag unter besonderer
1
201
glia di estrazione altoborghese. Educato nel liceo francese è da
subito partecipe di un’intensa vita culturale: nel salotto di casa
sua si riunivano con frequenza settimanale alcuni degli intellettuali più significativi e irrequieti della Germania guglielmina:
tra loro Simmel e Rathenau. Gli studi universitari li svolge tra
Berlino e Gottinga, la quale ultima diventerà la sua città d’adozione. Qui si addottora in filosofia, vi prende l’abilitazione
alla docenza universitaria, ma non riuscirà mai a diventare professore ordinario per le fortissime resistenze dell’establishment
accademico.
La sua totale indipendenza di giudizio, l’originalità di pensiero, l’estrema onestà e il rigore morale (diretto innanzitutto
contro se stesso), non potevano non suscitare il sospetto del
mandarinato universitario tedesco. Egli non si credette mai dispensato dallo sforzo ininterrotto e penoso da esercitare sulla
propria intenzione morale. A ciò si aggiunga la sua netta impostazione liberale e un cosmopolitismo a tutta prova, per non
parlare di un’attitudine filosofica razionalistica niente affatto incline al compromesso. Queste caratteristiche, con in più l’appartenenza a una famiglia di origine ebrea, fanno di lui un personaggio scomodo, imbarazzante persino per i tanti professori
deutschnationalen che dominano la scena accademica. Sarà così
che Karl Larenz – anch’egli formatosi a Gottinga, ma nel circolo di Julius Binder, un nazionalista antidemocratico e neohegeliano – nella seconda edizione (nazificata) della sua Rechtsund Staatsphilosophie del Gegenwart2 dirà che Nelson «appartiene a coloro il cui pensiero e azione sono nel modo più assoluto [zutiefst] contrapposti all’essere tedesco»3.
Berücksichtigung seiner rechts- und staatsphilosophischen Arbeiten, II ed.,
Verlag an der Lottbek, Ammersbek bei Hamburg 1997. Cfr. anche il commosso contributo di W. EICHLER e M. HART, Leonard Nelson. Ein Bild seines
Lebens und Wirkens, Editions Nouvelles Internationales, Paris 1938, pp. XIXXXI. Per una primissima informazione è ancora utilmente consultabile G.
CALOGERO, Nelson, Leonard, in Enciclopedia italiana, vol. 24, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 1934, pp. 537-538.
2
KARL LORENZ, Rechts- und Staatsphilosophie der Gegenwart, II ed.,
Junker und Dünnhaupt, Berlin 1935.
202
Invero, se per appartenenza al «deutsches Wesen» si intende per esempio l’entusiasmo orgiastico per la guerra (come
quello che traspare nei ricordi dell’agosto 1914 di Marianne
Weber, la moglie di Max)4, è certo che il trasporto di Nelson
per la conflagrazione mondiale bellica sia stato limitato. Per
quanto – e questo la dice lunga sull’intensità e la portata dei
sentimenti nazionalistici e addirittura imperialistici nella Germania guglielmina – egli si attendesse lo Staatenbund, una
sorta di Stato mondiale capace di assicurare la «pace eterna»
e la giustizia internazionale, proprio dalla vittoria degli Imperi centrali. Questi – da una testa razionalista pure poco incline agli entusiasmi guerreschi – erano visti come una sorta
di longa manus del Rechtsgesetz, l’ideale kantiano del diritto,
che aspettava, dopo essersi imposto agli individui mediante lo
Stato, di sottomettere anche quest’ultimo per mezzo di una
confederazione mondiale. Nondimeno, nell’ultima lezione
prima della guerra tenuta da Nelson nel luglio 1914 quando
l’entusiasmo guerrafondaio era già alle stelle, in questa lezione dal titolo Vom Staatenbund di cui la censura proibisce
la pubblicazione fino alla conclusione del conflitto armato, il
nazionalismo è bollato senza esitazione come dottrina immorale giacché urta irrimediabilmente col principio di universalizzabilità5.
Nel dopoguerra, a partire dalla fondazione della Repubblica
di Weimar le energie di Nelson si concentrano sempre meno
sulla ricerca teorica e sempre più invece sul lavoro politico. Egli
era stato prima della guerra vicino al settore liberale dei Wandervögel. Con i gruppi giovanili il filosofo durante la guerra
entra in sempre maggiore conflitto. La sua influenza tra gli studenti rimane però rilevante. Nel 1917 fonda così una propria
Ivi, p. 80.
Si legga MARIANNE WEBER, Max Weber. Ein Lebensbild, III ed. Mohr,
Tübingen 1984, pp. 526-527.
5
Vedi L. NELSON, Vam Staatenbund, in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. BERNAYS et al., vol. 9, Recht und Staat, Meiner, Hamburg 1972, p. 48.
3
4
203
organizzazione, l’Internationaler Jugend-Bund (IJB)6 che pian
piano si avvicina agli ambienti socialisti7, all’USPD in principio
e poi alla SPD. Il socialismo di Nelson tuttavia – e non sorprende
– non è d’estrazione marxista; anzi proprio a lui dobbiamo una
delle confutazioni più efficaci del cosiddetto materialismo storico8. Dalla SPD i militanti dell’IJB saranno espulsi nel 1925, soprattutto a causa del loro atteggiamento d’ostilità verso la nozione di democrazia. È a questo punto che Nelson e i suoi seguaci fondano un vero e proprio partito, l’ISK (Internationaler
Sozialistischer Kampf-Bund)9. Nelson è dunque un protagonista
nel panorama politico e filosofico della Repubblica di Weimar
nella temperie di quegli anni.
A questo proposito va ricordato anche l’esperimento pedagogico della «Walkemühle»10, una scuola destinata a mettere
alla prova i princìpi educativi che Nelson traeva dalla sua filosofia neoilluministica e che trovano un’espressione sistematica
nell’opera postuma System der philosophischen Ethik und Pe-
Sulle vicende delle organizzazioni politiche fondate da Nelson, rimando
a W. LINK, Die Geschichte des Internationalen Jugend-Bundes (IJB) und des
Internationalen Sozialistischen Kampf-Bundes (ISK). Ein Beitrag zur Geschichte der Arbeiterbewegung in der Weimarer Republik und im Dritten Reich,
Anton Hain, Meisenheim am Glan 1964. Cfr. anche K.H. KLAR, Zwei Nelson-Bünde: Internationaler Jugend-Bund (IJB) und Internationaler Sozialistischer Kampf-Bund (ISK) im Licht neuer Quelle, in «Internationale wissenschaftliche Korrespondenz zur Geschichte der deutschen Arbeiterbewegung»,
vol. 18, 1982, pp. 310 sgg.
7
Cfr. Leonard Nelson und die sozialistische Arbeiterbewegung, in Juden
in der Weimarer Republik, a cura di W. Grabs e J. Schoeps, Burg, StuttgartBonn 1986, pp. 263 sgg.
8
Vedi L. NELSON, Die bessere Sicherheit. Ketzereien eines revolutionären
Revisionisten, in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di
P. Bernays et al., vol. 9, cit., pp. 573 sgg.
9
Cfr. anche S. MILLER, Der Internationale Sozialistische Kampfbund
(ISK), in H. RAAS-RIETSCHE e S. HERING, Nora Platiel: Sozialistin, Emigrantin, Politikerin. Eine Biographie. Mit einem Beitrag von S. Miller, Bund-Verlag, Köln 1990, pp. 195 sgg.
10
Cfr. A. DEHMS, Leonard Nelson und die «Walkemühle», in Leonard Nelson zum Gedächtnis, a cura di M. Specht e W. Eichler, Verlag «Öffentliches
Leben», Franfurt am Main-Göttingen 1953, pp. 265 sgg.
6
204
dagogik (1932)11. Iniziato nel maggio 1924 questo esperimento
pedagogico proseguirà anche dopo il gennaio 1933 nell’esilio
danese. Ma Nelson, morto nel 1927, non arriverà nemmeno a
sospettare che sulla sua Germania – quella di Kant, di Fries e
Schiller – dovesse cadere «notte e nebbia».
2. Revisione della filosofia kantiana
Il punto di partenza dell’impresa teorica di Nelson è la revisione del legato filosofico kantiano, alla luce delle considerazioni di colui del quale si considera il discepolo e il continuatore, Friedrich Jacob Fries. La revisione o il ripensamento fondamentale delle tesi di Kant si centra innanzitutto sul carattere
dell’argomentazione trascendentale così come questa si trova
esposta e sistematizzata nella Critica della ragion pura. «Trascendentale» per Kant – com’è noto – è quella conoscenza che
non è rivolta tanto agli oggetti nel mondo quanto alla nostra
stessa conoscenza di tali oggetti, o, per essere più precisi, alla
possibilità della conoscenza degli oggetti nel mondo e dunque
a quella conoscenza che esprime ed esplicita tale possibilità.
Detto altrimenti, la conoscenza «trascendentale», è la conoscenza della conoscenza a priori, ovvero della conoscenza della
possibilità della conoscenza degli oggetti nel mondo. La questione fondamentale da cui dipende il metodo «trascendentale»
è da subito dunque la seguente: che tipo di conoscenza è la conoscenza «trascendentale»?
Di quale tipo di conoscenza consiste la «critica della ragione
pura»? Di che sorta di giudizi o enunciati essa si compone?
Nella trattazione kantiana di questo problema centrale non sembra distinguersi in maniera adeguata – afferma Nelson – tra conoscenza a priori e critica (conoscenza) di quest’ultima, di modo
che appare che l’attività critica sia conoscenza a priori essa
Ora quinto volume dei Gesammelte Schriften in neun Bänden pubblicati da Meiner di Amburgo.
11
205
stessa. La «critica della ragion pura» e l’argomentazione trascendentale assumono così in Kant il carattere di operazioni esse
stesse a priori. Ciò è quanto Nelson chiama il «pregiudizio trascendentale», per il quale la conoscenza trascendentale avrebbe
a un tempo come oggetto la conoscenza a priori e sarebbe essa
stessa conoscenza a priori. Kant dunque, secondo Nelson,
avrebbe confuso l’oggetto dell’argomentazione trascendentale
con il contenuto di questa, e concluso che, poiché il suo oggetto è conoscenza a priori, anche il suo contenuto dev’esserlo.
Kant è vittima qui – crede Nelson – dell’errore che affligge
tutte le cosiddette teorie della conoscenza, quello cioè di credere che una conoscenza possa (e debba) essere provata mediante il rinvio a una fondazione ultima, che in genere è pensata come qualcosa che è di natura diversa da un giudizio o da
una conoscenza. Per Nelson invece è posta male sin dall’inizio
la questione del come sia possibile la relazione di una conoscenza con un oggetto nel mondo.
Giacché una comparazione della conoscenza col suo oggetto è impossibile. Per poter provare la validità oggettiva della nostra conoscenza,
vale a dire la sua concordanza con l’oggetto, dovremmo già conoscere
l’oggetto indipendentemente dalla nostra conoscenza. Noi però lo conosciamo soltanto mediante la conoscenza che abbiamo di esso. Dovremmo dunque presupporre tale conoscenza già come valida, per poterla comparare con l’oggetto e ci muoveremmo allora in circolo12.
Seguendo da presso Fries e la sua Neue oder anthropologische Kritik der Vernunft13, Nelson dunque critica due momenti
fondamentali della filosofia kantiana. Da un lato sottolinea il
carattere a posteriori, dunque empirico o psicologico – noi oggi
potremmo dire «pragmatico» –, dell’argomentazione trascen-
12
L. NELSON, Fortschritte und Rückschritte der Philosophie. Von Hume
und Kant bis Hegel und Fries, volume settimo delle Gesammelte Schriften in
neun Bänden, Meiner, Hamburg 1973, p. 272. Quest’opera sarà d’ora innazi
citata con la sigla FRP.
13
Tre volumi, II ed., Winter, Berlin 1828-1831.
206
dentale ovvero della «critica». E d’altro lato nega il carattere
costitutivo innanzitutto dell’estetica trascendentale. Lo spazio e
il tempo non sono tanto mie rappresentazioni quanto l’oggetto
di mie rappresentazioni.
Solo la rappresentazione dello spazio è in me come intuizione pura.
Questa intuizione pura dunque non è di per sé, come sostiene Kant,
la forma degli oggetti dell’esperienza. Bensì spazio e tempo sono le
forme oggettive di questi oggetti e come tali essi stessi sono oggetti
della nostra intuizione pura14.
Ciò che Nelson insomma rimprovera a Kant è che questo
oscilli nella concettualizzazione della conoscenza a priori tra la
tesi di una conoscenza che rende possibile l’esperienza cognitiva dell’oggetto nel mondo e la tesi d’una conoscenza che rende
possibile l’oggetto nel mondo, propendendo infine – secondo
Nelson – per questa seconda idea. Di tal maniera l’idealismo
formale di Kant preparerebbe il cammino per l’idealismo soggettivo di Fichte e infine per l’idealismo assoluto di Hegel, che
finiscono entrambi per annullare l’ipotesi della «cosa in sé» indipendente dalla conoscenza e rendono l’intero mondo sensibile
prodotto di operazioni intellettuali.
D’altra parte per Nelson non c’è bisogno della «deduzione trascendentale» come prova ultima della conoscenza a priori e dei
princìpi della metafisica. Questi si possono più convenientemente
dedurre dal «fatto» della conoscenza – nel senso che rispetto a
questa non si dà quaestio juris, ma soltanto quaestio facti. I
princìpi a priori della conoscenza possono dedursi dal fatto dell’esistenza della conoscenza – senza doversi imbarcare in imbarazzanti e impossibili deduzioni logiche o fondazioni ultime.
È indubbio che noi abbiamo realmente esperienza. Ciò è un fatto che
noi, mi pare, possiamo solo limitarci a constatare come tale, al fine
anche di inferire la validità delle condizioni di possibilità della possibilità di questo fatto. Ciò che è reale dev’essere prima solo possibile.
14
FRP, p. 275.
207
L’esperienza è reale; essa allora è anche possibile: dunque valgono
anche le condizioni dalle quali la loro possibilità dipende15.
Il carattere eminentemente fattuale, di Faktum dell’esperienza cognitiva, dell’esperienza degli oggetti nel mondo, ci deve
pertanto indurre a modificare lo statuto epistemologico della conoscenza trascendentale, vale a dire della conoscenza della conoscenza a priori (della possiblità dell’esperienza degli oggetti
nel mondo). Se questa esperienza è un fatto, allora la metodologia cognitiva più appropriata ad essa non potrà essere quella
analitica o meramente a priori, bensì dovrà assumere i contorni
di una conoscenza di carattere empirico-psicologico. Non si tratterà però di esaminare la genesi della conoscenza, dunque non
di psicologia in senso soggettivo. Si tratterà piuttosto di esaminare le strutture concettuali che stanno alla base del factum della
conoscenza, mediante un’opera innanzitutto di astrazione e di
scoperta delle sue condizioni pragmatiche. Nelson insomma, seguendo Fries, anticipa per certi versi la pragmatica universale
di Jürgen Habermas, con la differenza che egli non si centra
sulla conoscenza come linguaggio, bensì sulla conoscenza come
attività intellettuale e psicologica. Per Nelson, come per Kant
del resto, il linguaggio come pratica e struttura simbolica non è
ancora il sito privilegiato dell’attività cognitiva16.
Ricapitolando, per Nelson tre sono gli errori fondamentali
commessi da Kant nel suo ciclopico tentativo di riscattare e
rifondare il pensiero metafisico. Il primo errore ha a che fare
col metodo dell’analisi intrapresa da Kant; il secondo con ciò
che il filosofo di Königsberg chiama «deduzione soggettiva»; il
terzo infine con la «deduzione oggettiva». Rispetto al primo
punto Kant rimane nel vago riguardo allo statuto epistemologico della sua «critica», inclinandosi infine per il carattere «me-
FRP, p. 281.
Si legga per esempio L. NELSON, System der philosophischen Ethik und
Pädagogik, volume quinto delle Gesammelte Schriften in neun Bänden, § 66.
Quest’opera sarà d’ora innanzi citata con la sigla PEP.
15
16
208
tafisico», cioè «a priori», della critica filosofica. Facendo così
Kant ricade però nel dogmatismo scolastico ch’egli aveva prima
confutato. Egli così criticherebbe la «ragione pura» mediante
un’esercizio di «ragione pura», avvolgendosi necessariamente
nella petitio principii per uscire dal circolo vizioso nel quale
imprudentemente si è avvolto.
Ma il punctum dolens della grande architettura teorica kantiana è per Nelson quello della «deduzione soggettiva». Il grande
merito di Kant, e la sua mossa vincente rispetto a Hume, è l’essere riuscito a sfuggire all’alternativa di giudizi a priori (analitici) e giudizi a posteriori (sintetici). Se avessimo solo a disposizione questi due tipi di giudizi, non potremmo che sostenere
che i giudizi metafisici o sono analitici (vuoti, allora) oppure
sintetici (e cioè a posteriori e dunque non metafisici, bensì tratti
dall’esperienza). Kant con un vero colpo di genio introduce e
giustifica un terzo tipo di enunciato, il giudizio sintetico a priori.
Questo fa Kant innanzitutto per ciò che concerne l’estetica trascendentale rispetto ai giudizi geometrici, riconducendoli a una
forma di intuizione che non è sensibile o empirica, bensì «pura»:
la reine Anschauung. Tempo e spazio sono prodotti di una tale
intuizione pura. Ma i giudizi geometrici non sono ancora quelli
metafisici; e per questi ultimi non basta un’intuizione «pura»,
giacché abbiamo a che fare con nozioni discorsive (da rendersi
mediante proposizioni o «concetti»). Kant allora mette in campo
dei giudizi sintetici a priori, che derivano da, o consistono in,
una intuizione «secondo meri concetti»: la Anschauung aus reinen Begriffen. Ora, sottolinea Nelson,
la nozione di un giudizio sintetico che tuttavia deve darsi secondo
meri concetti [aus bloßen Begriffen] comporta, come pare, un paradosso irrisolvibile. Infatti, in quanto giudizio sintetico la nostra conoscenza dell’oggetto deve andare oltre il concetto di questo. Ad essa
però è interdetto un tale risultato mediante un giudizio secondo il mero
concetto. Rimane dunque nella possibilità di giudizi sintetici a priori
un mistero irrisolto17.
17
FRP, pp. 359-360.
209
Qui si rivela finalmente l’errore centrale della filoosofia kantiana, quello di credere che si diano due e solo due fonti di conoscenza: l’intuizione (Anschauung) e l’intelletto o riflessione
(Reflexion). È vero che la nozione kantiana di intuizione viene
ampliata e liberalizzata mediante l’introduzione della «mera intuizione». Nondimeno, sulla natura dell’intuizione «secondo il
mero concetto» Kant si mantiene assai parco di argomenti e infine sospinge quella nel campo dell’intelletto – in ragione del
suo carattere eminentemente discorsivo.
La ragione più profonda di tutti questi errori poggia fondamentalmente
nel pregiudizio psicologico di Kant, nel pregiudizio della completezza
della disgiunzione tra intuizione sensibile [Anschauung] e riflessione
[Reflexion] come fonti di conoscenza, un pregiudizio il cui disvelamento Kant rende impossibile escludendo la ricerca empirico-psicologica dai còmpiti della sua critica della ragione. Ed è proprio quel
pregiudizio psicologico che viceversa comporta inevitabilmente un
tale errore metodologico. Giacché, se si muove dall’assunzione che al
di là dell’intuizione sensibile e della riflessione non possa darsi una
terza fonte di conoscenza, allora si rende inevitabile la conseguenza
che la fonte di conoscenza dei giudizi metafisici, una volta che non
poggi nell’intuizione sensibile, debba basarsi sulla riflessione18.
A Kant sfugge – aggiunge Nelson – che si potrebbe dare una
terza fonte di conoscenza, quella della conoscenza immediata
(unmittelbare Erkenntnis) – che è discorsiva, ma non è analitica.
Il terzo errore di Kant individuato da Nelson ha a che vedere con la sua nozione di «idea». Nel sistema kantiano l’«idea»
– come è noto – è un concetto necessario della ragione e concerne oggetti che oltrepassano ogni possibile esperienza. La
«cosa in sé» è un’«idea» in questo senso, e sappiamo quanto
una siffatta nozione sia rilevante nella costruzione filosofica proposta dal filosofo di Königsberg. Infatti per Kant l’esperienza
si limita a conscere i «fenomeni», ciò che si presenta all’«in-
18
210
FRP, p. 362.
tuizione sensibile» mediante categorie fornite dall’«intelletto»,
le quali ultime hanno efficacia costitutiva rispetto al «fenomeno» medesimo. La nostra conoscenza, essendo mediata dalle
categorie e dall’intuizione sensibile, ha cognizione solo di ciò
che è dato da categorie e intuizione. Come e cosa sia la «cosa
in sé», come oggetto non mediato, ci è precluso sapere. Ma se
è così, poiché l’«idea» presuppone l’operatività delle «categorie» – continua Nelson –, ci sarebbe anche precluso di avere la
stessa «idea» di «cosa in sé». La soluzione kantiana allora sembra andare nella direzione di un rovesciamento della normale
relazione tra nozione e oggetto, di modo che parrebbe infine
che la «cosa in sé» possa essere un prodotto dell’«idea».
Secondo Nelson il «pregiudizio psicologico» di Kant (che
non ammette altra fonte di conoscenza all’infuori dell’intuizione
e della riflessione) da un lato e il formalismo idealista dall’altro hanno una ricaduta niente affatto positiva sull’articolazione
della filosofia morale proposta dallo stesso Kant. In particolare,
Nelson ritiene di cogliere due debolezze nella teoria della ragion pratica all’interno del sistema kantiano. Il primo limite sarebbe la «vuotezza», l’assenza di contenuti, e dunque l’insignificanza della nozione di «imperativo categorico». Kant secondo
Nelson coglie bene il carattere del dovere morale collegandolo
indissolubilmente alla Gesinnung, alla convinzione, alla coscienza, e svincolandolo dalle conseguenze utilitaristiche o eudamonistiche.
Buono moralmente può dirsi soltanto un volere il quale, senza aver
riguardo agli scopi soggettivi, sia determinato dalla coscienza del dovere [Sittlich gut kann allein ein Wille heißen, der sich unter Hintansetzung aller subjektiven Zwecke durch das Bewußtsein der Pflicht bestimmen läßt]19.
Il dovere morale cioè ha carattere categorico, non ipotetico,
non è valido solo come mezzo per un fine, e dunque operativo
19
FRP, p. 245.
211
solo allorché si dia quel certo fine. Esso invece è valido come
fine; è dunque sempre operativo. L’imperativo categorico –
com’è noto – si esprime per Kant nella formula per cui bisogna agire secondo quella massima che si può volere come legge
generale. Ciò significa che è moralmente buona quella volontà
che si fa determinare esclusivamente dalla mera idea della universalità della legge.
Ora, in questa formula Nelson coglie una confusione tra il
«criterio» o il «contenuto» dell’obbligo morale e il motivo che
determina la condotta morale. Se il «motivo» è la forma della
legge, quest’ultima non può essere il contenuto o il «criterio»
dell’obbligo – perché altrimenti esso risulterebbe «vuoto». «Poiché mediante la mera esclusione d’una contraddizione della volontà con se stessa non si determina ancora qual è quella tra le
massime in conflitto per la quale dovremmo deciderci»20. Tra
la massima che mi prescrive un divieto universale della menzogna, e quella che m’impone di non essere mai scortese, anche
quest’ultima formulabile in termini universali, come farò a stabilire qual è quella a cui mi devo attenere nel caso in cui esse
entrino in conflitto tra loro? D’altra parte, vi sono una quantità
infinita di criteri di condotta che possono universalizzarsi nella
forma della legge e che tuttavia non hanno necessariamente in
quanto tali carattere di prescrizioni morali. La prima critica
avanzata da Nelson rispetto alla filosofia morale kantiana è dunque che il criterio del dovere è «vuoto», è incapace cioè di guidare l’azione.
La seconda critica ha a che vedere con quello che per Nelson costituisce il pregiudizio fondazionista del pensiero kantiano.
Kant crede di giustificare il dovere mediante il mero riferimento
alla legge e alla coerenza interna della volontà. Ma – attacca
Nelson – «perché la nostra volontà non dovrebbe contraddirsi?
Si può solo dire: perché lo proibisce l’imperativo categorico, la
legge morale. Pertanto, l’obbligatorietà di tale legge dovrebbe
20
212
FRP, p. 311.
ogni volta essere già presupposta»21. Kant dunque fallisce nel
tentativo di «fondare» l’imperativo categorico in quanto la sua
formulazione si riduce a una petitio principii, nel senso che la
giustificazione della legge viene ravvisata nella legge medesima.
Ciò, come si è detto, ha a che fare col pregiudizio fondazionista che è già uno dei difetti della parte «teorica» della costruzione filosofica kantiana. L’impossibilità della Erkenntnistheorie
– verso cui tanto appunta Nelson22 – si fa qui l’impossibilità del
teorema della giustificazione morale oggettiva.
Invece di chiedere quali siano le fonti di conoscenza alle quali i nostri giudizi di dovere si lasciano ricondurre, egli [Kant] si domanda
quale sia il fondamento oggettivo dell’obbligatorietà del dovere medesimo – una questione la quale è insuscettibile di soluzione tanto
quanto quella della validità oggettiva della nostra conoscenza23.
Nella filosofia morale di Kant – dice Nelson – ci imbattiamo
in una singolare tensione. Per un verso la morale kantiana è una
Gesinnungsethik, un’etica dell’intima convinzione, non una
Erfolgsethik, un’etica del successo o della conseguenza – ci troviamo dunque dinanzi a una esaltazione del valore morale della
coscienza. Al conseguenzialismo si contrappone una prospettiva
deontologica, che equivale ad una ulteriore contrapposizione:
quella tra la prevalenza del punto di vista esterno (di fatti che
risultano dall’azione) e la primazia del punto di vista interno
(di princìpi cui si attiene la volontà). Per altro verso tuttavia
FRP, p. 315. Si veda anche PEP, § 18.
Il suo contributo più efficace su questo punto è la relazione presentata
al IV Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi a Bologna nell’aprile del
1911, Die Unmöglichkeit der Erkenntnistheorie, ora in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, vol. 2, Geschichte und Kritik der Erkenntnistheorie, Felix Meiner, Hamburg 1973, pp. 459 sgg.
23
«Statt zu fragen, auf welchen Erkenntnisgrund sich unsere Urteile über
die Pflicht zurückführen lassen, fragt er nach dem objektiven Grund der Verbindlichkeit der Pflicht selbst – eine Frage, die ebenso unlösbar ist wie die
Frage nach dem Grund der objektiven Gültigkeit unserer Erkenntnis» (FRP,
p. 314).
21
22
213
l’intima convinzione viene radicata nell’idea di legge. È la convinzione d’agire secondo una legge ciò che qualifica la coscienza come morale nella prospettiva kantiana. La «convinzione» così rinvia alla «legge». L’etica della convinzione si fa
pertanto un’etica legalistica, in cui ciò che vale è la legge come
tale. E la legge non può non essere un criterio di condotta
esterna. Difatti, la possibilità della legge è il risultato della noncontraddittorietà delle condotte prescritte. La coscienza è invece
eminentemente un fatto interiore che può tradursi nella bontà
dell’intenzione. Ci troviamo così da un lato dinanzi a un rinvio
netto alla forma della legge, criterio e fondazione dell’obbligo
morale, e dall’altro lato dinanzi a una celebrazione della bontà
dell’intenzione (che rimane ovviamente tale, anche a prescindere dal criterio generale di comportamento, la legge, adottato).
Le due fonti dell’esperienza morale non sono congruenti, anzi
si configurano come idealtipicamente in conflitto. A tale incongruenza e a tale conflitto però Kant non presta attenzione né
tantomeno offre una via d’uscita.
Nel pensiero morale di Kant – dice Nelson – la deficienza
che spiega tutte le altre è il «pregiudizio psicologico» per cui
si dànno solo due molle o ragioni dell’azione umana: la Neigung, l’inclinazione, nella quale rientrano l’utile o il piacevole,
e la Pflicht, il dovere. Tertium non datur. Nelson trova una siffatta posizione assai unilaterale. Non tutte le condotte che non
sono prescritte come doveri morali risultano moralmente indifferenti24. Di ciò in parte è cosciente lo stesso Kant, allorché introduce la sua nota bipartizione dei doveri in «perfetti» e «imperfetti». Là dove doveri «perfetti» sono quelli che sono sempre e comunque esigibili, cui corrispondono dunque diritti correlativi, mentre gli «imperfetti» sarebbero obblighi in un certo
senso condizionati e privi di diritti correlativi.
I doveri kantiani, e in modo paradigmatico quelli «perfetti»,
hanno per oggetto divieti, prescrizioni negative di condotta, un
«non devi» insomma. Tuttavia, le prescrizioni negative, i divieti,
24
214
Vedi FRP, p. 334.
i «non devi», non sono in grado di orientare positivamente le
nostre condotte. Per agire nella vita il divieto non basta; è necessario che ci sia prospettato qualche fine che sia degno d’essere perseguito. Ciò – dice Nelson – manca nell’etica kantiana,
che dunque non è in grado d’offrire un orientamento generale
alla condotta umana. A tal fine abbiamo bisogno – continua Nelson – di qualcosa di più rispetto all’«inclinazione» o al «dovere», così come nella conoscenza abbiamo la necessità di non
riferirci solo all’«intuizione sensibile» o alla «riflessione». Di
maniera che, così come nell’àmbito cognitivo ci è stato necessario introdurre una terza forma di conoscenza, la unmittelbare
Erkenntnis, la «conoscenza immediata», del pari nell’àmbito dell’esperienza morale dobbiamo riferirci a una terza possibile motivazione della condotta umana. Questa è l’impulso estetico. La
«bellezza» d’una condotta è una ragione ulteriore perché questa
venga messa in atto: «Parliamo della bellezza d’una azione siffatta e la lodiamo senza esigerla come dovere [Wir sprechen von
der Schönheit einer solchen Handlung und loben sie ohne sie
als Pflicht zu fordern]»25. Non è difficile intravvedere in questa
riforma della dottrina kantiana l’influenza determinante delle
Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller.
La maniera in cui agiamo dipende – dice Nelson – da quali
sono le nostre preferenze: ci si indirizza secondo il valore che
si attribuisce a un oggetto. Tale valore viene definito dal filosofo tedesco come «interesse», e la facoltà di attribuire valore,
«das Vermögen des Interesses», la «capacità dell’interesse». E
gli esseri che sono in possesso di una tale capacità sono detti
«persone»26. Ora, il Sittengesetz, la legge morale, riceve il suo
contenuto proprio dalla considerazione che le condotte sono
mosse da valori e mettono in gioco interessi. In ogni condotta
nella quale siano in gioco gli interessi di più persone la legge
morale tende a restringere l’operatività piena degli interessi dell’attore in virtù del suo carattere formale di dovere. Il dovere
25
26
FRP, p. 334.
PEP, § 44.
215
infatti è tale se può darsi come criterio generale o universalizzabile di comportamento27. Ricondotta tale universalizzabilità
all’àmbito degl’interessi plurali, essa esige un criterio di coordinamento tra i vari interessi, tale soprattutto che gli interessi
dell’attore non siano pregiudizialmente privilegiati. La legge
morale prescrive all’attore che, là dove la sua condotta investa
interessi altrui, questi vengano attentamente e seriamente considerati. E la considerazione dell’interesse altrui comporta la limitazione dell’arbitrio del soggetto agente. «Die Rucksicht auf
die Interessen anderer ist es was dem Sittengesetz zufolge unser
Belieben einschränkt»28. La «dignità della persona» – aggiunge
il filosofo tedesco – consiste proprio in ciò: essa è la condizione
per cui la condotta dell’attore è limitata dalla legge morale. Tale
condizione è data dagli interessi dell’altro. Infatti, un oggetto
che è sottratto al nostro arbitrio mediante la legge riceve per
ciò stesso dignità. La legge morale allora si può riformulare nell’imperativo seguente: «Achte die persönliche Würden», rispetta
la dignità personale!
La legge morale, che prescrive il rispetto della dignità personale, definita in termini più precisi, si fa il precetto della giustizia, ovvero la legge del rispetto dell’uguaglianza personale.
Il principio di giustizia assume dunque la forma seguente: «Ogni
persona ha come tale la stessa dignità di ogni altra»29. Tale uguaglianza non è però un’uguaglianza di fatto ma piuttosto un principio di «astrazione dalla determinatezza delle persone». Il principio di giustizia così definito prescrive che nel conflitto degli
interessi in gioco non si favorisca in via pregiudiziale l’interesse dell’attore, e che dunque si prendano in considerazione gli
interessi che confliggono con quelli dell’attore. Ciò conduce a
quello che Nelson chiama l’Abwägungsgesetz, la legge di bilanciamento. Questa è in buona sostanza il criterio che permette
l’operazionalizzazione del principio di giustizia. Tale operazio-
27
28
29
216
Vedi PEP, § 16.
PEP, § 44.
PEP, § 52.
nalizzazione qui si dà in via del tutto monologica. Il criterio
della giusta ponderazione o del giusto bilanciamento degli interessi risiede nella riunificazione controfattuale degli interessi
in capo ad un’unica persona.
Si prescrive insomma che il soggetto agisca come se gli interessi che confliggono con i suoi fossero suoi propri. Il criterio è pertanto che bisogna condursi come se valesse una legge
naturale per cui inevitabilmente la nostra condotta si rivolgerebbe contro noi stessi nel caso in cui ci trovassimo nella stessa
condizione di colui i cui interessi sono ora investiti dalla nostra
azione. Il principio di giustizia allora, operazionalizzato secondo
la legge di bilanciamento, è il seguente: «Non agire mai in modo
da non poter approvare il tuo corso d’azione nel caso in cui gli
interessi di quanti sono coinvolti da questo fossero anche i tuoi
propri»30. La legge di bilanciamento e il principio di giustizia
di cui essa è una forma di operazionalizzazione sono validi solo
a condizione che non si dia nessun «errore pratico», «unter Abstraktion vom praktischem Irrtum»31. Il che comporta, nell’economia del sistema nelsoniano, l’introduzione di un’importantissima e per certi versi fatale distinzione: quella tra «meri interessi» e «interessi veri». Solo questi ultimi vanno operazionalizzati mediante la legge di bilanciamento. In questa pertanto
non si muove dagli interessi soggettivi delle persone coinvolte,
bensì dai loro veri interessi – i quali però potrebbero non essere noti ai loro titolari.
La critica alla vuotezza del criterio kantiano della «legge» di
cui si è detto sopra viene poi trasportata nel piano della dottrina
del diritto. Qui – come è noto – Kant individua come suo principio la formula della libertà di ciascuno compatibile con un’eguale libertà di tutti gli altri. Il diritto – come si legge nella Metafisica dei costumi (Introduzione, § B) – «è dunque l’insieme
30
«Handle nie so, daß Du nicht auch in deine Handlungsweise einwilligen könntest, wenn die Interessen der von ihr Betroffenen auch deine eigenen wären» (L. NELSON, Kritik der praktischen Vernunft, in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, cit., vol. 4, p. 133).
31
PEP, § 55.
217
delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può
accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale
della libertà»32. Ma – nota Nelson – anche qui, come nella legge
morale, manca il criterio sostanziale di una siffatta limitazione:
Ma qui ancora manca anche la legge stessa, che dovrebbe fornire la
regola della limitazione reciproca della libertà [Aber das Gesetz selbst,
das die Regel für die gegenseitige Beschränkung der Freiheit abgeben soll, fehlt auch hier noch]33.
La soggezione a tale forma di legge è compatibile anche con
un ordinamento tirannico o dispotico. Anche il criterio per cui
tutti i sudditi sono soggetti alla volontà del principe senza possibilità d’appello soddisferebbe il criterio proposto da Kant.
Alla dottrina kantiana del diritto manca dunque proprio l’essenziale:
la regola per la limitazione della libertà, e di conseguenza il criterio
secondo cui può giudicarsi la giuridicità della legislazione. Giacché la
mera coerenza logica non può essere soddisfacente come un criterio
siffatto34.
Non è possibile – aggiunge Nelson con mossa per certi versi
sorprendente – contraddistinguere in termini giusfilosofici una
determinata forma o costituzione dello Stato.
Ora, quest’ultima affermazione segna il momento di trapasso
del pensiero di Nelson da una prospettiva normativa kantiana, ricostruibile in termini formalistici o discorsivi, e dunque congruente con posizioni liberali o democratiche, anche radicali, a
una prospettiva che mi pare si possa etichettare come «platonista». Essa va oltre l’indicazione d’una sostanzializzazione dell’etica normativa; in realtà sgancia l’àmbito politico o statale dalla
tematizzazione dei princìpi morali che lo sottintendono. L’affer-
I. KANT, La metafisica dei costumi; trad. it. di G. Vidari riveduta da
N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 34-35.
33
FRP, p. 337.
34
FRP, p. 337.
32
218
mazione dunque secondo cui la questione della forma dello Stato
non è propriamente di pertinenza del punto di vista giusfilosofico, cioè normativo «forte», è particolarmente significativa.
Quell’affermazione invero è ambigua, e può significare soprattutto due cose. Può voler dire che una costituzione politica
non può dedursi sic et simpliciter da un corpo di princìpi morali e che deve pertanto prevedere un momento deliberativo intermedio, un relais tra stadio morale e stadio giuridico, che è
lo spazio proprio della politica, soggetto alla situazione storica
data e ai diversi interessi e punti di vista in gioco. In questo
caso si starebbe rimproverando a Kant di non essere sufficientemente democratico, giacché crede di poter derivare una legge
giuridica dalla legge morale mediante operazioni intellettuali a
priori e senza alcuna concessione alle procedure deliberative.
Quell’affermazione potrebbe però voler dire un’altra cosa (ed
è questo il senso che le attribuisce Nelson). Dire che la forma
statale o politica non è una questione «filosofica» può significare ch’essa è meramente «tecnica», e non ha valenza normativa. Ciò può voler dire ancora che le forme di Stato tra loro
sono valorativamente neutre o interscambiabili, e che l’insorgenza o l’adozione dell’una o dell’altra è materia di razionalità
strumentale ovvero di saggezza politica («tecnica») dell’uomo
di Stato e di contingenza della situazione di fatto. Cioè, una
volta rinvenuti i princìpi morali, e con contenuti sostanziali, tali
che non necessitino di essere riempiti mediante «forme» o deliberazioni ulteriori, le istituzioni politiche saranno un problema
di calcolo prudenziale, un problema per così dire ingegneristico
di adeguatezza delle «forme» e «istituzioni» ai princìpi sostanziali rinvenuti anteriormente mediante un esercizio intellettuale.
La deliberazione collettiva non entra in gioco in un tale processo, né allorché si tratta di rinvenire i princìpi sostanziali (ché
questi sono materia di conoscenza razionale), né allorché si
tratta di implementare e far «precipitare» in istituzioni quei
princìpi (ché allora si tratta nuovamente di conoscenza, per
quanto di grado subordinato, meramente tecnica). Ora, là dove
è questione di conoscenza, e tanto più nell’àmbito della razionalità strumentale che presiede alla soluzione dei problemi tec219
nici, non si dà adito a deliberazione di sorta, ma solo a operazioni rigorosamente cognitive. Nelle quali i più dotti, i più intelligenti, i più esperti, hanno, e devono avere, e giustificatamente hanno la pretesa di avere, il sopravvento.
Tuttavia l’atteggiamento di Nelson non si lascia ridurre del
tutto nemmeno a questa seconda interpretazione. In verità, egli,
contrariamente a quanto ha detto nell’affermazione menzionata
rispetto alla valenza non giusfilosofica delle forme politiche,
crede nondimeno di poter contraddistinguere giusfilosoficamente una specifica forma di Stato. E questa è quella in cui prevale il potere esecutivo. Nelson infatti ritiene che la divisione
dei poteri sia una menzogna, e che il potere politico sia eminentemente quello del governo, dell’esecutivo.
Della necessità di una separazione dei tre poteri non può dunque essere parola, poiché il potere esecutivo in verità è l’unico potere nello
Stato. Infatti, se lo separiamo dalla competenza della legislazione e
della giurisdizione, dipende allora dalla buona volontà del titolare del
potere esecutivo se egli vuole porre il suo potere al servizio del giudizio di chi legisla e giudica, oppure se intende arrogarsi lui stesso
l’ufficio della legislazione e della giurisdizione35.
L’argomento qui è crudamente realistico. Nelson lo trae da
Fries, anch’egli scettico e contrario rispetto al principio della
divisione dei poteri36. Il potere è concepito crudamente solo in
termini di forza effettiva, di capacità di imporre le proprie decisioni agli altri, di monopolio della violenza.
Ora, non c’è dubbio che la violenza sia in mano al potere
esecutivo, che controlla e gestisce la forma militare e il potere
per così dire fisico dello Stato, e che invece di forza fisica e
militare tanto il potere legislativo quanto quello giudiziario sono
privi. Giacché entrambi questi ultimi, per dare esecuzione alle
FRP, p. 338.
Si legga J.F. FRIES, Philosophische Rechtslehre (1803), ora in J.F. FRIES,
Sämtliche Schriften, a cura di G. König e L. Geldsetzer, vol. 9, Scientia, Aalen
1971, pp. 96 sgg. (§ 16).
35
36
220
proprie decisioni, devono rinviare all’attività (e alle decisioni in
merito) del potere esecutivo. Il quale ben potrebbe non seguire
la volontà di quei due poteri, e anzi addirittura surrogarsi ad
essi, senza incontrare una significativa resistenza. Dimodoché,
per Nelson come prima per Fries, l’unico vero potere è quello
esecutivo e questo ovviamente non è divisibile, perché in tal
caso si riproporrebbe la questione del soggetto che detiene il
potere in ultima istanza. Così come non si può essere servi di
due padroni, il monopolio della violenza che è il potere non può
essere disarticolato o condiviso, giacché non sarebbe più ciò che
deve essere, possesso esclusivo, monopolio per l’appunto.
Se Nelson non è un partigiano della separazione dei poteri,
nemmeno può dirsi un sostenitore della democrazia. Montesquieu e Rousseau sono ugualmente rigettati. Contro il pensiero democratico Nelson dirige in particolare due obiezioni
che gli appaiono decisive e insormontabili. Il filosofo tedesco
nonostante tutto il suo razionalismo opera una radicale dissociazione tra volontà (e legge) e ragione. Così è in grado di contrapporre in maniera abbastanza drammatica la volontà o sovranità popolare e il diritto della ragione. Se si pensa alla democrazia come volontà di tutti, ciò – si dice – è solo un sogno.
L’unica concreta possibilità è la riduzione di questo ideale alla
volontà dei più, del maggior numero. Ma allora la minoranza
è soggetta alla maggioranza nella stessa maniera in cui potrebbe
esserlo il suddito di un monarca assoluto o dispotico. La pretesa fondazione della democrazia nella coincidenza tra legislatore e suddito risulta puramente illusoria. D’altra parte, è l’idea stessa della legge positiva come prodotto della volontà generale ovvero del consenso di tutti o della sua possibilità che
è fallace. Se si interpreta la volontà generale come consenso
generale, ciò – come si è visto – è ritenuto una pia illusione.
La controversia e il conflitto sono situazioni empiriche permanenti delle società umane: l’unanimità è uno stato ideale irraggiungibile. Se si interpreta la nozione di «volontà generale»,
come finisce per fare Kant, come possibilità del consenso generale, ciò non può risiedere che nella manifestazione di una
ragione pratica efficace. Il che ha per conseguenza – conclude
221
Nelson – che ciò che conta allora non è chi ha prodotto la
legge, bensì che cosa dice la legge, il contenuto di questa e la
sua corrispondenza ai dettami della ragion pratica. La quale
però purtroppo nel mondo si manifesta non nella sua purezza
ideale, ma solo come la concreta volontà più o meno razionale
di singoli esseri umani. «Questa ragione però – obietta Nelson
– non può manifestarsi esteriormente nella società come legislatrice. Ciò che qui si manifesta esteriormente è solo la volontà più o meno razionale dei singoli nel popolo»37. Non c’è
nessuna legge naturale per la quale la ragione dovrebbe determinare la volontà dei singoli. Ciò, se per un verso rende possibile l’autonomia morale, per altro verso giustifica l’esigenza
del diritto positivo e dello Stato.
L’errore principale da cui derivano le fallacie connesse all’idea di sovranità popolare è – sottolinea ancora Nelson – la
mancata determinazione sostanziale del criterio della ragion
pratica. Per supplire alla «vuotezza» del criterio della legge
morale, Kant deve adottare la prospettiva di Rousseau, e dunque trasformare la «legge» in «volontà generale». Ciò perché
egli non è in grado di fornire un contenuto della legge positiva che sia indipendente dal processo di elaborazione della
legge medesima. È il principio di autonomia in senso kantiano ciò che sembra d’ostacolo a una corretta impostazione
del problema.
Nelson così restringe la questione della democrazia a un’alternativa secca: o si dà la sovranità del popolo, ma allora tale
volontà non può tollerare vincoli materiali; oppure vige la legge
della ragione, e allora la forza vincolante del diritto non dipende
dall’approvazione generale o dal consenso da parte della cittadinanza. Tertium non datur. E in una tale situazione la preferenza non può che andare al secondo corno del dilemma: alla
legge della ragione. La quale può essere individuata e implementatata solo da chi è più dotato di ragione e di istruzione: i
Gebildeten, una élite di legislatori filosofi insomma.
37
222
FRP, p. 338.
3. Jellinek e la scienza giuspositivistica
Nel contesto di questa ricerca, del pensiero di Nelson non
può trascurarsi la sua connessione con la dottrina dello Stato
dominante in Germania all’inizio del secolo ventesimo e la sua
«ricaduta» poi nel contesto del dibattito su costituzione e democrazia a Weimar. È dalla critica del giuspositivismo che Nelson ricava gli elementi della sua personale teoria del diritto. Il
suo obiettivo polemico principale è tra i giuristi Georg Jellinek,
scelto probabilmente perché ritenuto il più rappresentativo e influente della dottrina giuspubblicistica dell’epoca. Non è inutile
allora ancora una volta concentrare la nostra attenzione su quest’ultimo autore. È l’intreccio tra le nozioni di scienza giuridica,
diritto e Stato di diritto così come questo è sviluppato da Jellinek e poi dissezionato criticamente da Nelson che intendo di
seguito affrontare.
Per Georg Jellinek – come è noto – vi sono tre tipi fondamentali di scienza: 1) quella meramente osservativa, che raccoglie dati empirici, 2) quella teorica, alla ricerca di leggi che
connettano tra loro i dati ricavati dall’osservazione empirica, e
3) la scienza applicativa dei princìpi ottenuti dal momento teorico, vale a dire l’utilizzo della scienza teorica a fini pratici, i
quali però rimangono fuori dal campo di considerazione della
scienza pratica. Questa si preoccupa – date certe conoscenze –
di trovare i mezzi più adeguati a certi fini senza occuparsi in
alcun modo della qualità o del carattere di questi ultimi.
Per il giurista di Heidelberg una scienza politica, vale a dire
una scienza dello Stato «applicata» o «pratica», può dunque
avere soltanto carattere ipotetico: non vi sono infatti fini politici validi universalmente. «Non possono porsi leggi politiche
valide universalmente, innanzitutto perché ogni fine politico
concreto è o relativo oppure metafisico, invero in entrambi i
casi oggetto d’opinioni e di credenze individuali e di partito»38.
38
G. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, III ed., VII rist., Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1960, p. 21. Quest’opera sarà d’ora innanzi
citata con l’abbreviazione ASL.
223
Di scienza normativa in senso stretto non può invece parlarsi. Le regole pratiche o sono relative al contesto ovvero sono
prodotto di qualche metafisica, dunque sempre e comunque contestuali, ché non vi è metafisica imparziale o neutrale rispetto
ai valori. Ciò vale anche in generale per l’intera scienza giuridica. Ora, se ciò vale per la scienza politica e la scienza giuridica, questa professione di agnosticismo varrà a maggior ragione per la morale come corpo di princìpi normativi forti. Il
dover essere è così condannato a costituire un punto di vista
inevitabilmente parziale e soggettivo (di individui, di gruppi, di
fasi storiche). Scrive Jellinek: «Allorché l’accettazione della società, che costituisce la premessa di un precetto etico, giace al
di sotto della soglia della coscienza, allora [...] la coscienza ci
parla in forma di un dover essere incondizionato»39. Per Jellinek – per il quale «alles Sollen ein bedingtes Müssen ist»40,
ogni dovere è un dover essere condizionato – l’imperativo categorico dunque funziona solo se è irriflessivo. Poiché ogni
dover essere è ipotetico, il dover essere può farsi categorico solo
in un contesto in cui non si sia consapevoli di avere a che fare
con un dover essere. Solo se l’attitudine normativa è vissuta
come un istinto, una inclinazione naturale, un impulso, solo se
essa non è tematizzata, può parlarsi – ovviamente in termini
meramente ideologici e illusori e pur tuttavia non senza efficacia pragmatica – di un obbligo incondizionato.
Lo sbocco di Jellinek è qui – pur nell’apparente nichilismo
metaetico – un rinvio alla, ed una certa nostalgia della, moralità tradizionale, talmente interiorizzata dagli individui da risultare loro persino ignota: solo a questo prezzo essa può risultare
efficace. Commenta Leonard Nelson, che di Jellinek smonta
l’impianto teorico-epistemologico in un’opera del 1917, Die Rechtswissenschaft ohne Recht: «Dunque, soltanto dimenticando
lo scopo del mantenimento della società, il dover essere [Müs-
39
40
224
ASL, pp. 20-21.
ASL, p. 22.
sen] condizionato da tale scopo assume l’apparenza del dover
essere [Sollen]»41.
Nonostante i riferimenti alla storia e alla società come ultimo fondamento del diritto, questo per Jellinek si compone –
come si è visto – di comandi, di imperativi emanati dallo Stato
(unica entità dotata di potestà somma, di imperium). Quei comandi sono diritto per i soggetti sottoposti ad essi. Questa teoria ovviamente può riconoscere solo dei «sudditi», dei soggetti
subordinati a un potere loro esterno (lo Stato). La figura del cittadino, del soggetto che dirige lui comandi a se stesso, le risulta imbarazzante.
Il carattere giuridico dell’imperium consiste in ciò che mediante un
atto unilaterale dello stesso i sudditi risultano obbligati. Ci sono due
possibilità di obbligo giuridico: obbligo mediante la propria e obbligo
mediante l’altrui volontà. L’ultimo ha luogo nel caso del suddito, nel
caso cioè di colui che è sottomesso giuridicamente ad un imperium42.
Solo lo Stato, non anche l’individuo membro di una comunità giuridica, è capace di auto-obbligazione. L’ordine giuridico
così, qualunque ordine giuridico, ammette in questa prospettiva
solo dei «sudditi», ed è intrinsecamente autoritario e antidemocratico.
Ma se si ritiene che i comandi dello Stato siano diretti ai
sudditi, potrà dirsi che tali comandi costituiscano diritto oggettivo, regola di azione anche per lo Stato? Come sarà possibile
ciò, se si ritiene – come fa Jellinek – che lo Stato non possa
dirigere a se stesso dei comandi? D’altra parte – come nota Nelson – se il diritto è l’insieme dei comandi di un potere di signoria, Herrschermacht, non si potrà mai dire che tale potere
commetta un illecito giuridico. Ciò infatti presupporrebbe un
criterio normativo esterno ai comandi medesimi. In assenza di
In Gesammelte Schriften, vol. 9, cit., p. 150. Quest’opera sarà d’ora innanzi citata con l’abbreviazione RoR.
42
G. JELLINEK, Die Lehre von den Staatenverbindungen, ristampa della I
ed. (Vienna 1882), Scientia, Aalen 1969, p. 31.
41
225
questo dovrà dirsi che ogni comando dello Stato è permesso, o
comunque che lo Stato non può essere giuridicamente limitato.
Jellinek crede di superare questa impasse con la duplicazione
(differenziazione) di «Stato» e «organi dello Stato», in modo
che sia possibile che lo Stato comandi ai suoi organi e che questi siano vincolati (allo Stato). Alla duplicazione si fa seguire –
negando quanto si era detto prima – l’identificazione, cosicché
il vincolo dell’«organo» possa essere tematizzato anche come
vincolo dello «Stato» medesimo. Poiché per Jellinek lo Stato
agisce solo in virtù dei suoi organi, sicché «non esiste altra
azione dello Stato che quella mediata attraverso gli organi [andere Staatstätigkeit als die durch die Organe vermittelt
überhaupt nicht existiert]»43, se gli organi possono essere vincolati del pari vincolato, limitato, potrà essere lo Stato.
Allorché lo Stato emana una legge – scrive Jellinek – esso vincola
giuridicamente alle proprie norme non solo i singoli ma anche la sua
propria attività. Esso nella legge comanda anche le persone che lo servono come organi, affinché queste conformino la propria volontà alla
legge. Ma poiché la volontà dell’organo è la volontà dello Stato, lo
Stato dunque, vincolando gli organi, vincola se stesso44.
L’argomento è intuitivamentre contraddittorio. Innanzitutto,
Jellinek afferma che lo Stato non può autocomandarsi, continua
dicendo che l’attività dello Stato è solo quella dei suoi organi,
aggiunge che questi sì possono essere vincolati in quanto destinatari di prescrizioni emanate dallo Stato che ora però risulta
capace di azione propria, autonomia rispetto all’attività dei suoi
organi. Si tratta qui di decidersi – cosa che Jellinek non fa –:
o lo Stato agisce solo mediante i suoi organi, e allora questi in
quanto titolari di comandi non possono vincolare se stessi, oppure lo Stato non agisce solo mediante i suoi organi (ma allora
si dovrà chiarire mediante quali altri meccanismi lo faccia) e in
43
44
226
ASL, p. 152.
ASL, p. 478.
tal caso sì che lo Stato potrà vincolare i suoi organi in quanto
destinatari di comandi dello Stato, ma non potrà fare lo stesso
con lo Stato. In entrambi i casi non si vede – mantenendo una
teoria imperativistica – come lo Stato possa limitare giuridicamente la propria azione.
D’altra parte, anche se si concepisse il potere giuridico come
sottoposto a regole di diritto, una eventuale disconformità degli
atti di quel potere rispetto a queste regole non potrebbe essere
accertata in alcun modo. Tutt’al più si potrebbe avere un giudizio di contraddittorietà o incompatibilità logica, ma questo
non potrebbe mai avere rilevanza giuridica. «In tal caso si potrebbe certo emettere un giudizio logico intorno alla loro non
conformità rispetto alla norma, non però un giudizio giuridico,
giacché qui manca (e deve mancare) un giudice comunque costituitosi»45. Il giudizio di costituzionalità delle leggi sembra
dato dunque per giuridicamente inammissibile.
L’unico limite giuridico che Jellinek pone all’azione dello
Stato è che questo non deve mettere in moto processi che conducano allo smantellamento, e provochino disfunzioni, dell’ordine giuridico. Uno Stato senza ordine giuridico è condannato
alla propria distruzione. Di conseguenza, lo Stato deve mantenere un ordine giuridico, quale che esso sia, per non rinnegare
se stesso. Se lo Stato è onnipotente – come postula la teoria di
Jellinek – questo in forza dei suoi poteri potrebbe persino introdurre l’anarchia, cioè una società senza Stato. Se però si rigetta l’ipotesi anarchica come inaccessibile alla natura «giuridica» dello Stato, ecco allora trovato il tanto desiderato fondamento dell’autolimitazione dello Stato: questo non può negare
se stesso, vale a dire la sua intrinseca «giuridicità».
Se lo Stato può giuridicamente ogni cosa, esso può allora anche dissolvere l’ordine giuridico, introdurre l’anarchia, e rendere se stesso
impossibile. Se però deve rigettarsi una tale idea, allora si dà una limitazione giuridica dello Stato rispetto all’esistenza di un ordine. Lo
45
ASL, p. 362.
227
Stato può certo scegliere la costituzione ch’egli assume, ma deve tuttavia avere una qualche costituzione. L’anarchia risiede nell’àmbito
della possibilità di fatto, non di quella giuridica46.
Si noti innanzitutto che qui per Jellinek la costituzione non
è costitutiva dello Stato: lo Stato preesiste alla costituzione,
benché debba darsene una. Egli poi, per giustificare la scelta
in favore dello Stato (della sua sopravvivenza) e il rifiuto dell’anarchia – da cui dipende il suo argomento dell’autolimitazione –, deve ricorrere a una clausola pseudokantiana. Una volta
assunto che lo Stato è l’àmbito del «giuridico», l’anarchia – in
quanto assenza di Stato anche assenza di diritto – rappresenta
un contesto solo fattuale, una situazione dominata dalla contingenza causale. Solo lo Stato allora con la sua normatività ci
eleva al di sopra del fattuale e, collocandoci sul piano del dover
essere, ci rende anche autonomi47. In questa prospettiva, per chi
muove dal dover essere, per cui adotta il punto di vista giuridico, non può giustificarsi la discesa negli inferi della fatticità.
Il problema è però che – come si è visto sopra – il dover essere normativo (Sollen) per Jellinek è solo dover essere causale
(Müssen) condizionato, ipotetico. Il Sollen, ad essere Müssen,
è cioè tutto fattuale. Anche lo Stato sarà pertanto fattuale. Ma
se così è, questo (lo Stato) non ha uno statuto particolare (deontologico) che lo possa distinguere dall’antigiuridica anarchia. E
il punto di vista giuridico (quello del dover essere condizionato) potrà ben accogliere una entità o situazione anch’essa governata da un tale dover essere fattico. In altri termini: se il
giuridico è fattuale, non vi è più incompatibilità di principio tra
diritto e anarchia.
L’ultimo appiglio della teoria dell’autolimitazione dello Stato
nel quadro di una concezione imperativistica del diritto è quello,
ASL, p. 477.
Per una discussione del concetto di «autonomia» come spazio eminentemente costituito da regole statali, cfr. D. KENNEDY, Legal Formality, in
«Journal of Legal Studies», 1973, pp. 370 sgg.
46
47
228
comodo perché taglia corto in quanto inverificabile, dell’appello
alla Storia.
La questione è in primo luogo se secondo la concezione di una certa
epoca storica lo Stato sia vincolato o no alle sue astratte manifestazioni di volontà. È questa una questione storica, che non può risolversi con nessuna formula valida universalmente48.
Cosa significhi comunque che lo Stato è autolimitato in virtù
della Storia rimane un mistero.
Invero il mistero dell’appello alla Storia può forse essere risolto mediante il rinvio alla «convinzione dominante». Ma basterà questa a rendere vincolante qualcosa che è detto di per sé
invincolabile? E se anche i sudditi si pensassero invincolabili
(invece di pensare come tale lo Stato), cosa succederebbe della
Herrschermacht dello Stato onnipotente?
Come che sia, Nelson sottolinea – nella sua critica dell’impianto dogmatico della dottrina di Jellinek – che una volta che,
al fine di giustificare la giuridicità dello Stato, si ricorra alla nozione di Rechtsüberzeugung, di convincimento giuridico (oggi
la chiameremmo dell’«immaginario giuridico»), si riconosce per
ciò stesso l’operatività di una «idea di diritto» che deve servire
come criterio oggettivo per la valutazione dell’adeguatezza dello
Stato nei confronti dell’esigenza di «giuridicità». Si riconosce
cioè surrettiziamente un diritto superiore allo Stato49.
Inoltre – continua Nelson – ammesso pure che lo Stato non
possa definirsi senza la presenza di un certo ordinamento normativo, da ciò non deriva che sia dovuto (obbligatorio) un tale
ordinamento. Tutt’al più quella connessione concettuale ci impedisce, in assenza di quel certo tipo di ordinamento normativo,
d’attribuire a una certa situazione sociale il nome o la qualità
di Stato. Ci vuole dunque ben altro che una mera connessione
concettuale per impegnare lo Stato a realizzare un certo ordine
48
49
ASL, p. 371.
Vedi RoR, p. 154.
229
giuridico. A questo fine l’unica soluzione possibile è quella di
affermare un principio normativo forte per cui lo Stato ha l’obbligo di introdurre o mantenere un ordine giuridico: quest’obbligo tuttavia non può essere incorporato nella definizione di
Stato, perché altrimenti sarebbe impossibile provare che lo Stato
ha un tale obbligo. Infatti, per identificare l’eventuale titolare
di quell’obbligo si dovrebbe già presupporre per questo la vigenza dell’obbligo in questione.
Altrove Jellinek ricorre a una giustificazione di carattere
hobbesiano. Lo Stato è necessario al fine di far cessare il bellum omnium contra omnes, per assicurare pace e sicurezza ai
consociati, per proteggere il debole dal più forte, per impedire
che vigano tra gli esseri umani solo rapporti di potere fattuale.
Nelson condivide le preoccupazioni di Jellinek; è più vicino a
Hobbes che a Shaftesbury nella sua antropologia. Tuttavia, la
strategia giustificativa del professore di Heidelberg gli sembra
condannata al fallimento, priva com’è di un’idea normativa
forte del diritto che possa qualificare come immorali e antigiuridiche le situazioni di fatto per evitare le quali Jellinek
crede doversi ricorrere allo Stato. In questa premessa, necessaria per dare forza normativa all’argomento di Jellinek, diritto
e morale – crede Nelson – si toccano e si fondano. Separare
ciò che è norma giuridica da ciò che è regola morale risulta un
esercizio scolastico.
Il giudizio con cui si stigmatizza uno stato di cose in cui domina il forte sul debole e valgono i poteri di fatto può ben dirsi
un giudizio morale, salvando pure la distinzione tanto cara al
giuspositivismo di diritto e morale. Ma si tratta piuttosto di un
escamotage per salvare la «purezza» di una scienza che tale non
è. In realtà – sottolinea Nelson – al di là della loro configurazione formale o della loro denominazione, norme morali e
norme giuridiche si incrociano e si sovrappongono per ciò che
concerne i loro contenuti.
Si può preferire – scrive Nelson – di chiamare «norme giuridiche»
solo le norme garantite mediante un’organizzazione e distinguere queste come tali dalle norme «etiche». Si dovrebbe però essere consape230
voli che tale contrapposizione ha un valore esclusivamente terminologico e non permette alcuna conclusione rispetto ad una varietà del
contenuto e della forza vincolante dei due tipi di norme. Si tratta delle
stesse norme, le quali, fintantoché mancano d’una garanzia istituzionale, si dicono «etiche», e che allorché ottengono tale garanzia vengono dette invece «giuridiche»50.
4. Il diritto come morale applicata
Ben lontana dal giuspositivismo è la visione del diritto sviluppata da Nelson. Questo non è per lui un «essere», bensì un
«dover essere», e un «dover essere» forte, non riducibile al Müssen. «Una semplice discussione del concetto di diritto avrebbe
posto in chiaro che noi per “diritto” in effetti intendiamo non
tanto un potere fondato sulla natura dell’essere quanto piuttosto un mero dover essere»51.
Il diritto non è né un fenomeno fisico (empirico) né un fenomeno psichico. «Se però il diritto non è in generale qualcosa
che è, allora risulta chiaro inoltre ch’esso non può appartenere
né a ciò che è in noi né a ciò ch’esiste fuori di noi, che ad esso
dunque non può ascriversi esistenza né psichica né fisica»52.
Nell’uso linguistico comune il termine diritto non ha comunque
una connotazione meramente soggettiva. Dire che qualcosa è
«diritto» va oltre l’affermazione di ciò che noi si crede sia diritto. «Per ciò che concerne il contrasto tra soggettivo e oggettivo è chiaro comunque che quando noi parliamo di “diritto”
intendiamo qualcosa d’altro che la nostra rappresentazione del
diritto o quella degli altri»53. Ogni giudizio su ciò che è diritto
e ogni decisione giuridica presuppongono dunque una nozione
oggettiva di diritto.
50
51
52
53
RoR, p. 158 (corsivo nel testo).
RoR, p. 139.
Ibidem.
Ibidem.
231
Può qui lasciarsi impregiudicata la questione se si sia autorizzati ad
assumere l’esistenza d’un tale diritto oggettivo; ogni giudizio giuridico da noi adottato presuppone di fatto un tale diritto oggettivo; giacché quando noi diciamo che qualcosa è diritto intendiamo dire qualcosa d’altro che noi crediamo ch’esso sia diritto. Allorché infatti diciamo che crediamo diritto qualcosa, quest’enunciato lascia aperta la
questione se esso sia anche diritto; ma questo è proprio ciò che noi
affermiamo quando diciamo ch’esso è diritto54.
Per Georg Jellinek invece il diritto – quando non è detto un
fatto storico – è definito come un fenomeno psichico individuale. Tale psicologizzazione del concetto è qui portata tanto
agli estremi che si giunge ad affermare che una più precisa definizione della nozione di diritto potrà ottenersi solo andando
ad analizzare quale funzione cerebrale o quale parte della nostra attività mentale corrisponde all’idea di diritto. Questa è detta
risiedere probabilmente in una parte specifica del nostro cervello: «Esiste nelle nostre teste, e una maggiore specificazione
di ciò ch’è diritto deve passare per la determinazione della parte
dei nostri contenuti coscienziali che va caratterizzata come diritto»55. La precisazione del concetto di diritto diviene così affare non tanto del giurista o del filosofo quanto piuttosto dello
psicologo o del fisiologo. Ma – si domanda Nelson – se il diritto è una idea o una rappresentazione, di che cosa è l’idea o
la rappresentazione? «Ogni rappresentazione è la rappresentazione di qualcosa e questo qualcosa non può essere la rappresentazione di se stessa»56.
Per Jellinek il carattere distintivo delle norme giuridiche risiede nel loro scopo. Ma sostenendo ciò – commenta Nelson –
egli le condanna a una degradazione niente affatto irrilevante;
esse da norme categoriche, che vigono per il loro intrinseco valore, si fanno ipotetiche, valide solo in quanto appropriate al
raggiungimento di certi scopi. La razionalità secondo il valore
Ibidem (corsivo nel testo).
ASL, p. 140.
56
RoR, p. 140 (corsivo nel testo).
54
55
232
propria del diritto viene ridotta a una razionalità strumentale,
secondo lo scopo. Jellinek, per isolare il diritto da altri fenomeni normativi, si dedica poi a cercare nella forma e struttura
delle norme giuridiche il loro carattere distintivo. Le norme giuridiche sono così definite mediante tre qualità formali: 1) provengono da un’autorità riconosciuta e accettata come tale, 2)
regolano il comportamento esteriore dei suoi destinatari, 3) la
loro obbligatorietà è garantita da un potere di fatto.
Ciò conduce il giurista austriaco a definire la vigenza delle
norme giuridiche come segue: «Ogni diritto ha come caratteristica necessaria quella della vigenza [Gültigkeit]. Una norma è
vigente [gilt] allorché essa è capace d’avere effetti motivanti»57.
Una norma è vigente (e valida anche) solo se essa può motivare la volontà umana. Ora – continua Jellinek – ciò è possibile solo se la norma è ritenuta categorica, non ulteriormente
giustificabile, deducibile da altre norme o testabile rispetto a
queste, se ha cioè la forza – diremmo oggi – di una ragione
escludente per l’azione, benché tale categoricità sia declinata in
termini soggettivistici ancora una volta come «convinzione giuridica». «Questa capacità ha origine nella convinzione non altrimenti derivabile che noi siamo obbligati ad osservarla [Diese
Fähigkeit entspringt aus der nicht weiter ableitbaren Überzeugung, daß wir verpflichtet sind, sie zu befolgen]»58. Tale convinzione – come si è detto – è del tutto soggettiva, essa «poggia sempre in ultima istanza sulla convinzione della propria validità. L’intero ordinamento giuridico si erge su quest’elemento
puramente soggettivo»59. Ovvero, detto in altri termini: «Il convincimento che qualcosa è diritto è la fonte ultima del diritto
medesimo»60.
Quest’argomento è però – sottolinea Nelson – viziato da circolarità. «Parlare della convinzione che qualcosa è diritto ha
ASL,
ASL,
59
ASL,
60
ASL,
57
58
p. 332.
p. 333.
pp. 334-335.
p. 355.
233
senso solo se “diritto” significa qualcosa d’altro rispetto a ciò
di cui siamo convinti che sia diritto»61. Ammesso pure che il riferimento alla Rechtsüberzeugung non sia inteso nei termini di
una definizione concettuale del diritto, bensì solo come criterio
dell’esistenza, della validità o della legittimità di questo, anche
in tal caso, se tale criterio vuole essere operativo, il convincimento del diritto deve poter fare riferimento a una nozione di
diritto diversa dal convincimento medesimo. Altrimenti, per
convincerci che qualcosa è diritto dovremmo fare riferimento
alla convinzione che quel qualcosa è diritto, convinzione però
di cui siamo alla ricerca perché convinti di non possederla. Ciò
– dice Nelson – dimostra a sufficienza l’assurdità della tesi del
convincimento giuridico per la determinazione del «giuridico»
medesimo.
L’unico modo non contraddittorio e provvisto di senso d’usare la nozione di diritto come «convinzione giuridica» è quello
– conclude Nelson – d’affermare che il diritto non è altro che
convincimento giuridico, che è dunque impossibile giungere a
una determinazione di ciò che è diritto indipendentemente dal
convincimento, e che dunque non vi sono che convincimenti
giuridici ma non diritti. Con il che si affermerebbe anche che
ogni convincimento giuridico, convincimento di ciò che è diritto, è falso, giacché non vi sarebbe nulla di cui potersi convincere. L’unica conclusione logicamente corretta della teoria
del convincimento è dunque una tesi nichilistica oppure qualcosa di simile alla dottrina marxista del diritto come «sovrastruttura» e «ideologia», laddove si sottolinei il carattere di
«falsa coscienza» di questa.
Né si può ignorare la questione, che la teoria di Jellinek immediatamente solleva, di come fare a distinguere nella enorme
pluralità dei possibili convincimenti giuridici quelli corretti da
quelli sbagliati. Jellinek, per togliersi d’impiccio, deve ricorrere
all’idea del «convincimento giuridico medio». Convincimento
giuridico vero o corretto sarà quello sostenuto dalla maggio-
61
234
RoR, p. 143.
ranza dei membri della comunità: è il convincimento dominante
ad essere la fonte dell’obbligatorietà delle norme giuridiche. Il
giuspositivismo sfocia così qui in quella che è la metaetica (e
l’etica) che più gli è congeniale: il comunitarismo62.
Nelson è consapevole della difficoltà di conciliare un’idea
«oggettiva» di diritto con l’evidente storicità e relatività dei diritti positivi delle varie comunità politiche. Dinanzi a questa
difficoltà la sua mossa teorica non è quella di irrigidirsi nella
difesa di un concetto forte e materiale di diritto oggettivo che
lo obbligherebbe a condannare come «falsi» o «errati» la gran
parte dei sistemi giuridici storicamente datisi. La sua non è la
mossa di un giusnaturalista per così dire classico che offre un
catalogo di regole e princìpi validi universalmente e allo stesso
tempo sufficientemente dettagliati da non avere necessità di una
ulteriore specificazione istituzionale. La sua argomentazione
piuttosto è di tipo kantiano: gli basta un solo generalissimo
principio – sia pure formale – che serva a offrire validità deontologica alle norme positive. Il mero fatto dell’emanazione legislativa di una norma o la sua vigenza consuetudinaria non
bastano – dice – ad attribuire forza vincolante alla norma in
questione. Che le norme legislative e consuetudinarie siano dotate di forza vincolante, ciò non può essere ovviamente una
norma di diritto positivo, vale a dire una norma legislativa o
consuetudinaria, bensì è esso il criterio che attribuisce a queste norme il loro carattere giuridico (cioè obbligatorio). Dovremmo allora definire come diritto positivo non tanto le norme
legislative o consuetudinarie concettualizzate unicamente nei
termini delle circostanze di fatto della loro emanazione o della
loro esecuzione, bensì quel principio che offre a queste forza
vincolante.
Insomma, per Nelson il diritto va ridefinito come il criterio
che rende vincolante le norme. Ora, esso può ben essere universale e valere per tutti i sistemi giuridici. Questo criterio può
Cfr. C.S. NINO, Positivism and Communitarianism, in «Ratio Juris», vol.
7, 1994.
62
235
riformularsi come segue: non è il fatto che le norme giuridiche
siano prodotto di legislazione o di consuetudine a renderle giuridiche, bensì il principio per cui le norme legislative e consuetudinarie devono essere considerate giuridiche. Questo principio
è infine individuato nell’accordo tacito o espresso dei consociati:
Dunque in un popolo tradizione e legislazione positiva conseguono significato giuridico in forza del principio dell’obbligatorietà dell’accordo espresso o tacito [So erhalten in einem Volke Herkommen und
positive Gesetzgebung rechtliche Bedeutung kraft des Prinzips der Verbindlichkeit ausdrücklicher oder stillschweigender Übereinkunft]63.
Il contenuto di questo consenso può variare nel tempo e nello
spazio; la necessità dell’accordo rimane tuttavia un criterio universale. Si badi però che nella prospettiva di Nelson non è il
fatto dell’accordo la fonte dell’obbligatorietà; questa risiede nel
principio per il quale gli accordi, una volta conclusi, vanno rispettati. Va detto anche che questa è la posizione espressa in
Die Rechtswissenschaft ohne Recht che è del 1917, un’opera
tutta critica e nella quale il pensiero di Nelson può trarsi solo
a contrario. Nella sua opera sistematica di filosofia del diritto e
della politica, System der philosophischen Rechtslehre und Politik, che è del 1924, ogni accenno alla rilevanza dell’accordo
scompare ed è il Rechtsgesetz, applicazione allo Stato della società del Sittengesetz, attraverso una serie di formule deduttive,
ad essere detto capace di conferire direttamente obbligatorietà
alle norme giuridiche positive. Poiché il contratto sociale non
può trarre forza vincolante se non attraverso la corrispondenza
materiale del suo contenuto con quello del Rechtsgesetz, il principio supremo del diritto che coincide con la legge etica fondamentale (l’imperativo categorico), col Sittengesetz cioè64, allora l’elemento contrattuale perde di valore e con questo anche
la sua necessità. Se il contenuto del contratto viola il RechtsRoR, p. 147.
Vedi L. NELSON, System der philosophischen Rechtslehre und Politik,
in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, cit., vol. 6, p. 90. Cfr.
63
64
236
gesetz, il contratto non sarà vincolante; se invece una certa
norma, anche se non è il risultato di un accordo contrattuale è
conforme al Rechtsgesetz, essa dovrà ritenersi valida e vigente.
Ne consegue che l’accordo contrattuale è del tutto superfluo.
Un accordo mediante il quale i singoli fossero vincolati a una legge
antigiuridica sarebbe da parte sua antigiuridico anche se fosse stato
concluso volontariamente da tutti i membri della società oppure, per
loro incarico, dai rappresentanti di questi. Se invece la legge non è
antigiuridica, e ha il carattere di una legge giuridica, allora essa risulta vincolante immediatamente come tale e non necessita d’alcun
accordo per ottenere forza vincolante65.
Si profila qui quello che è stato detto il paradosso della superfluità del diritto positivo66: se il diritto (qui la legge derivante dall’accordo dei soggetti) è obbligatoria solo se corrisponde alla morale (qui il Rechtsgesetz) non si vede perché
avremmo bisogno di accordi e di leggi positive quando possiamo direttamente rivolgerci ai giudizi normativi puri della morale (del Rechtsgesetz).
Nonostante la sua critica serrata della Herrschertheorie, della
teoria «assolutistica» (rappresentata nella Germania guglielmina
da figure come Conrad Bornhak e Max von Seydel), Jellinek –
dice Nelson – rimane prigioniero di una visione volontaristica
e angustamente imperativistica del diritto. Ciò fa sì che il nocciolo della critica da lui diretta contro le teorie «assolutistiche»
R. DREIER, Probleme der Rechtsquellenlehre. Zugleich Bemerkungen zur Rechtsphilosophie Leonard Nelsons, in Fortschritte des Verwaltungsrechts. Festschrift für Hans J. Wolff zum 75. Geburtstag, a cura di Ch.-F. Menger, Beck,
München 1973, p. 21.
65
L. NELSON, System der philosophischen Rechtslehre und Politik, cit, p.
234. È questa una posizione che Nelson, come del resto l’impianto stesso della
sua dottrina del diritto, ricava dall’opera di Jacob Friedrich Fries a cui egli
programmaticamente ed esplicitamente si richiama: si veda in particolare J.F.
FRIES, Philosophische Rechtslehre (1803), in J.F. FRIES, Sämtliche Schriften,
cit., pp. 96 sgg.
66
Vedi C.S. NINO, Derecho, moral y política. Una revisión de la teoría
general del derecho, Ariel, Barcelona 1994, capitolo quarto.
237
si possa facilmente ritorcere contro di lui. Jellinek – non può
dimenticarsi – ritorna quasi ossessivamente sull’idea della società politica come comunità dimidiata tra chi comanda e chi
obbedisce. La politica, il vincolo politico, si riassume per lui in
questo rapporto gerarchico di dipendenza.
Gli ultimi elementi oggettivi degli Stati si manifestano come [...] rapporti di volontà tra dominatori e dominati [Als letzte objektive Bestandteile der Staaten ergeben sich [...] Willensverhältnisse Herrschender und Beherrschter]67.
Ora, poiché – per ammissione stessa di Jellinek – i rapporti
di volontà tra soggetti divengono giuridici se vi è una norma
che li regola e permette un reciproco paritario riconoscimento
di dignità giuridica, ricondurre lo Stato a un rapporto di volontà
privo di una norma regolatrice è alquanto paradossale. Tanto
più in quanto per Jellinek lo Stato è un ente giuridico, né organismo né mera volontà di un soggetto sovrano.
L’attacco di Nelson va però ancora più a fondo. Una tale
concezione rigidamente imperativistica – nonostante la moderazione impostale dall’accoglimento della nozione dello Stato
come persona giuridica – rende impraticabile una dottrina dello
Stato di diritto. Se lo Stato è pura rete di rapporti di obbedienza
non mediata fino alla fine da norme giuridiche o da altre regole, allora lo Stato non potrà essere «di diritto» se non in un
momento successivo alla sua formazione68. Comunque, la sua
natura e le sue manifestazioni vitali rimarranno sottratte all’impero del diritto. Se si rifiuta, una volta considerato lo Stato
in tali termini radicalmente fattuali, di ricondurlo al controllo
d’un principio superiore e ci si basa solo su una sorta di automodificazione dello Stato medesimo, questo rimane affare di
potere e potenza, non di diritto.
ASL, p. 166.
Su quest’obiezione a Jellinek, cfr. M. LA TORRE, Disavventure del diritto soggettivo. Una vicenda teorica, Giuffrè, Milano 1996, capitolo terzo.
67
68
238
Se si rinuncia al rinvio a un tale ordine giuridico soprastatale, allora
non ci resta altro che negare il carattere giuridico dei rapporti di volontà che costituscono lo Stato e riconoscere il preteso rapporto giuridico come mera relazione di forza69.
Se anche si riportasse lo Stato a un principio superiore, il
diritto, e tuttavia questo fosse ancora concepito come rapporto
fattuale di obbedienza, si porrebbe allora nuovamente la questione del fondamento della giuridicità e della forza vincolante
di quest’ultima relazione. Si dovrebbe forse ancora una volta riferirsi a un superiore principio giuridico. Ma anche per questo,
dato il carattere fattuale della nozione di «giuridicità» adottata,
si riproporrebbe la questione della giuridicità come obbligatorietà e così via all’infinito. A meno che – ma nemmeno ciò è
forse sufficiente – non si adotti in maniera esplicita una concezione del diritto come forza e a questa si faccia equivalere l’obbligatorietà o si dica che è legittimo obbedire al più forte. «In
breve – conclude Nelson – un “diritto dello Stato" che poggi su
tale teoria è un concetto in sé contraddittorio; la sua conseguenza è il puro assolutismo semplicemente privo di limiti»70.
5. Legge, sfera pubblica, e Stato di diritto
5.1. Sebbene intriso di pensiero razionalista, e animato persino dall’ambizione di fare della filosofia una vera e propria
scienza, Nelson non condivide il sospetto antimetafisico che comincia a veicolare soprattutto tra i filosofi d’orientamento neopositivista. Sebbene questi e Nelson abbiano in comune l’ascenenza kantiana, una solida formazione matematica, e un deciso
logicismo di fondo, il professore di Gottinga si distingue rispetto
a quanti cominciano a raccogliersi nel cosiddetto Circolo di
Vienna, soprattutto per la sua difesa della sostanza del progetto
69
70
RoR, p. 166.
RoR, pp. 166-167.
239
kantiano. Il quale – come è ben noto – è quello di una revisione e rifondazione della metafisica tradizionale, non l’abbandono della metafisica in quanto tale. È significativo che uno
degli obiettivi polemici del neo-positivismo logico sia proprio
la nozione di giudizio sintetico a priori, che è l’idea centrale
che permette a Kant di continuare, rivoluzionandola per certi
versi, la tradizione metafisica. Mentre per Wittgenstein, Carnap,
Schlick, Ayer metaphysica delenda est, questa non è affatto la
posizione di Nelson. Il quale purtroppo non ha tempo di cogliere la sfida che si prepara tra Vienna e Praga.
Per Nelson metafisica è la dottrina delle leggi e categorie che
reggono l’essere e il dover essere delle cose nel mondo. Metafisica speculativa è quella rivolta all’«essere» (Dasein), la metafisica «pratica» invece si occupa del «dover essere» (Sollen). La
metafisica pratica non può poggiare su, o essere tratta da, quella
speculativa, nel senso di derivare le proprie leggi e categorie dalle
leggi e categorie dell’altra. Su una conoscenza teorica quale è
quella che offre la metafisica speculativa possono poggiare di
certo imperativi ipotetici, mai però imperativi categorici. E il Sollen, il dover essere, come nozione indipendente, risulta proprio
in quest’ultima forma di imperativo. Ora, anche la legislazione
del diritto (positivo) è evidentemente la statuizione di un dover
essere, di modo che anche i suoi imperativi, le disposizioni giuridiche, risultano essere categorici, non ipotetici. Si deve obbedire al diritto – afferma Nelson – non per paura della sanzione,
ma solo in quanto il diritto stabilisca ciò che in un contesto concreto all’interno di un ordine sociale dato è giusto fare.
La metafisica pratica è una dottrina dei valori delle cose, ma
del valore delle cose non in sé e per sé, bensì solo del loro valore per noi. Essa dunque equivale a una «teleologia soggettiva»71. Il valore in sé e per sé delle cose non è conoscibile
dalla ragione nel senso che il fine dell’universo (che ci potrebbe
fornire la conoscenza del valore intrinseco delle cose) «è per
71
240
Vedi PEP, § 6.
noi una mera idea»72: cioè ad esso non corrisponde nessun oggetto nel campo complessivo del nostro sapere. Soltanto il valore delle cose per noi, dunque la teleologia soggettiva, è accessibile alla riflessione razionale e all’esperienza dell’essere
umano. Così come ci è impossibile parlare della natura come
insieme degli oggetti di possibile esperienza, giacché questi
sono infiniti, a maggior ragione ci risulterà impossibile parlare
di un valore, di uno scopo o di un fine di tale natura. A prescindere poi dal fatto che la conoscenza dello scopo della natura o dell’universo – se fosse mai possibile – non ci direbbe
ancora che questo dev’essere il nostro fine, lo scopo del soggetto e della sua esistenza. L’etica, ma anche di conseguenza la
dottrina del diritto, è in questa prospettiva praktische Naturlehre, «dottrina pratica della natura»73.
La praktische Naturlehre per Nelson si distingue in «interna»
ed «esterna». Interna è quella che si riferisce alla condotta di
un singolo in quanto motivato dalla coscienza; esterna quella
che si riferisce alla condotta in quanto relazione con altri soggetti. La praktische Naturlehre interna non è altro che l’etica in
senso stretto, ovvero una Tugendlehre, una dottrina della virtù.
La praktische Naturlehre esterna è invece una Rechtslehre, una
dottrina del diritto, è cioè lo studio dell’allgemeines Sittengesetz, della «legge morale universale» in quanto questa si applichi alle relazioni tra esseri umani, dunque alla condizione della
convivenza civile e allo stato della società. «La dottrina delle
esigenze della virtù rispetto al singolo è la dottrina della virtù,
mentre la dottrina delle esigenze della situazione giuridica rispetto alla società è la dottrina del diritto»74.
La differenza tra etica o dottrina della virtù e dottrina del diritto ha dunque a che vedere col differente tipo di legge di cui
ciascuna d’esse rispettivamente tratta. Nel caso dell’etica si ha
Ivi, p. 19.
Vedi L. NELSON, System der philosophischen Rechtslehre und Politik,
cit., p. 40. Quest’opera sarà d’ora innanzi citata con l’abbreviazione PRP.
74
PRP, p. 43.
72
73
241
a che fare col Sittengesetz, che è legge puramente formale e obbliga solo l’individuo. Allorché però si considera il Sittengesetz
come questa legge, vale a dire come una legge con uno specifico contenuto, si opera il salto al Rechtsgesetz. Questo è dunque il contenuto del Sittengesetz, fatta astrazione della sua
forma. La conseguenza di ciò è il diritto a dare dei contenuti al
dovere morale (che altrimenti resterebbe vuota forma). A sua
volta il Rechtsgesetz ha una forma e un contenuto. Della prima
si occupa la «metafisica formale del diritto»; del secondo la
«metafisica materiale del diritto». La forma del Rechtsgesetz in
quanto Sittengesetz applicato allo stato della società assume la
seguente configurazione. Qui il diritto è la necessità pratica della
reciproca limitazione delle sfere di libertà nelle relazioni degli
individui tra loro. «La legge giuridica [Rechtsgesetz] è dunque
una legge della limitazione dell’arbitrio degli uni e degli altri
nella loro condotta reciproca, in breve nella società»75.
Una volta che si muova dalla «legge giuridica» come legge
morale applicata allo stato della società, si tratta di accertare
quali siano le condizioni della sua applicabilità nel mondo sensibile della natura. Questa, considerata nell’àmbito delle relazioni reciproche di esseri razionali, si caratterizza per due qualità: è esteriore, si riferisce a condotte esteriori; è determinata
da leggi naturali, diverse dalle leggi pratiche, sì che la vigenza
di questa non può dirsi necessaria ma solo contingente76. D’altra parte l’operatività delle leggi pratiche nel mondo sensibile
presuppone che gli esseri che nella loro condotta si orientano a
tali leggi siano capaci di rappresentarsi quelle leggi, siano dunque razionali ovvero capaci, di ragione pratica, ovvero ancora
d’una conoscenza delle leggi pratiche, oltreché di ragione teorica, cioè della capacità della conoscenza delle leggi naturali. I
soggetti in questione devono essere inoltre capaci di volere, poiché senza volontà non si dà azione orientata dalla rappresentazione d’una legge.
75
76
242
PRP, p. 53.
Vedi PRP, p. 68.
Da queste condizioni (esteriorità, legalità naturale, conoscenza, e volontà) Nelson deriva, in congiunzione col Rechtsgesetz, con la «legge giuridica», quattro formule di sussunzione
di questa legge. Quelle condizioni rappresentano innanzitutto altrettante premesse minori che esprimono i presupposti necessari
per l’applicazione della legge. Hanno dunque un valore meramente teorico. In congiunzione con la premessa maggiore del
Rechtsgesetz (che esprime una necessità normativa categorica)
quelle quattro condizioni, nella conclusione del sillogismo nel
quale si opera la sussunzione, si tramutano in criteri anch’essi
di valutazione normativa categorica.
Le quattro formule di sussunzione risultano: 1) nella necessità della comunicazione mediante il linguaggio; 2) nella necessità di una certa distribuzione della proprietà; 3) nella possibilità dell’assenza di ragione pratica, ovvero nella mancanza
di conoscenza giuridica (di discernimento del Rechtsgesetz); 4)
nella possibilità della mancanza di buona volontà. Da queste
quattro situazioni che si dànno in natura rispetto all’applicabilità della legge giuridica (ovvero della morale pubblica) si possono dedurre – nella conclusione normativa della deduzione –
quattro postulati della dottrina formale del diritto: a) Il primo
è il «diritto del linguaggio», «das Recht der Sprache»77. Questo consiste nell’obbligo d’essere sinceri o veridici allorché si
enuncia una proposizione linguistica ovvero ci si impegna in
una discussione. b) Il secondo postulato è il «diritto di proprietà», «das Eigentumsrecht». Tale diritto si esprime nel principio per cui gli esseri razionali nelle loro relazioni devono riconoscersi mutuamente una qualche distribuzione del possesso
delle cose. c) Il terzo postulato è quello della «pubblicità del
diritto». Questo postulato, poggiando sulla possibilità dell’assenza di ragione pratica negli individui, esprime l’esigenza di
rendere la vigenza del diritto indipendente dal giudizio meramente soggettivo. Per ovviare a ciò, «per la risoluzione d’ogni
77
PRP, p. 76.
243
controversia di diritto la società deve sottomettersi a una legge
pubblica e ad un tribunale pubblico che decida in conformità a
questa»78. d) Infine, il quarto postulato che poggia sulla possibilità dell’acrasia, ovvero dell’indeterminatezza motivazionale
o volitiva della legge pratica (qui il Rechtsgesetz), deve rinviare
all’uso della forza. È questo – nella terminologia di Nelson –
il postulato della «sicurezza giuridica»: «La società deve sottomersi a una coazione che escluda violazioni intenzionali della
legge»79.
Dal concetto (Begriff) del diritto (il Rechtsgesetz dal punto
di vista formale) bisogna passare al criterio del diritto (il Rechtsgesetz dal punto di vista materiale)80. Il contenuto materiale
del Rechtsgesetz ci offre il criterio richiesto del diritto. Esso
nondimeno rimane formale, nel senso che esso non determina
ciò che è diritto in maniera positiva o in termini sostanziali: da
esso non possono dedursi senz’altro tutte le norme giuridiche.
Esso ci offre solo un criterio per giudicare l’adeguatezza delle
norme giuridiche positive – che derivano da altre circostanze –
rispetto al Rechtsgesetz, al principio del diritto.
Il contenuto materiale del principio del diritto, del Rechtsgesetz, risponde alla domanda: «cos’è diritto?». A questa domanda si può rispondere mediante l’affermazione seguente: «il
diritto è giustizia». La giustizia esprime la regola richiesta per
la limitazione reciproca delle libertà dei singoli nelle loro relazioni mutue. Ora, la giustizia non significa nient’altro che l’uguaglianza personale ovvero l’esclusione di ogni preferenza ad
nominem delle singole persone. È ciò che Nelson, nella sua teoria morale, chiama «Principio dell’astrazione dalla determinatezza numerica delle persone» (Prinzip der Abstraktion von der
numerischen Bestimmtheit der Personen)81. Ciò non significa
PRP, p. 84.
PRP, p. 85.
80
Vedi PRP, p. 87.
81
Vedi per esempio PEP, § 53. Per intendere questi passaggi della teoria
morale di Nelson assai utile è la lettura di R. ALEXY, R.M. Hares Regeln des
78
79
244
che differenze e preferenze siano proibite, ma queste devono
giustificarsi mediante argomenti supplementari. «Le persone
come tali sono uguali: vale a dire, per ciascuna possibile preferenza giuridica deve darsi un fondamento nella differenza
qualitativa dell’uno e dell’altro»82. L’uguaglianza qui non significa uguaglianza di fatto, è uguaglianza «pratica», non «teorica»: non ci dice in che situazione si trovano le persone, bensì
prescrive o esige la situazione in cui esse devono trovarsi. Né
implica necessariamente uguale trattamento, giacché differenze
della costituzione delle persone possono giustificare un diverso
o specifico trattamento. Afferma però che ogni trattamento diverso va giustificato. Si tratta insomma di uguaglianza di dignità morale83.
Il contenuto materiale del Rechtsgesetz, l’uguaglianza della
dignità personale dei soggetti, è però cosa ben diversa dalla nozione di uguaglianza davanti alla legge che può dedursi dal concetto di diritto come norma universalmente vincolante. In quest’ultima prospettiva la norma di diritto equivale a dire che è
diritto in certe circostanze ciò che è diritto in circostanze uguali
o simili alle prime. Una tale affermazione non ci offre ancora
nessuna indicazione per identificare ciò che è diritto e ciò che
non lo è in certe circostanze. Può solo dirci cosa non è diritto,
ma non anche ciò che è diritto. Questo criterio tuttavia rimane
– come si è detto – formale, nel senso che esso non ci dà ancora la norma sostanziale di condotta per un caso specifico. Per
ottenere questa infatti dobbiamo prendere in considerazione gli
interessi contingenti delle parti in questione. Ciò significa che
il Rechtsgesetz è formale non solo perché da esso non può dedursi la «materia» del diritto (le sue specifiche norme positive),
ma anche perché opera per eliminazione o esclusione. Esso ha
moralischen Argumentierens und L. Nelsons Abwägungsgesetz, in Vernunft,
Erkenntnis, Sittlichkeit. Internationales philosophisches Symposion (Göttingen, vom 27.-29. Oktober 1977) aus Anlaß des 50. Todestages von Leonard
Nelson, a cura di P. Schroeder, Felix Meiner, Hamburg 1979, pp. 95 sgg.
82
PRP, p. 91.
83
Su tutto ciò si legga PEP, § 53.
245
un carattere limitante o delimitante. Definisce solo una classe
di norme accettabili, ma non determina una sola singola norma
concreta. La specificazione di questa rimane consegnata al legislatore84.
In maniera analoga a quanto si è fatto nel caso del concetto
formale di Rechtsgesetz, anche dal suo concetto materiale (l’uguaglianza normativa dei soggetti) possono svilupparsi alcune
formule di sussunzione. Sono queste dunque le formule di sussunzione della dottrina materiale del diritto. Anche queste sono
quattro.
1) Il primo postulato che si può dedurre come conclusione
di un sillogismo in cui la premessa maggiore è il concetto materiale di legge e la premessa minore è rappresentata da una
delle condizioni naturali di applicabilità di tale legge è il Vertragsrecht, il «diritto del contratto», per cui esseri razionali devono regolare le loro relazioni secondo la forma del contratto.
2) Il secondo postulato è quello del «diritto positivo». Questo è fatto derivare dal postulato formale del «diritto di proprietà». Al fine di assicurarsi la vigenza di quest’ultima è necessario sottoporsi a un diritto positivo85.
3) Il terzo postulato, che corrisponde nella dottrina formale
a quello della pubblicità del diritto, è l’ascrizione di diritti di
proprietà secondo un principio di uguaglianza86.
4) Infine, il quarto postulato corrisponde a quello della «sicurezza giuridica» nella dottrina formale e ci è dato dal «diritto
penale». Qui Nelson si permette di fornirci il criterio direttivo
di tale diritto. Il quarto postulato ha dunque la seguente configurazione: «La legge pubblica deve essere connessa a una legge
penale il cui principio è il diritto della retribuzione [das Recht
der Wiedervergeltung]»87.
84
85
86
87
246
Vedi PRP, p. 94.
Vedi PRP, p. 100.
Vedi PRP, p. 101.
PRP, p. 106.
A questo proposito va ricordato che nella sua teoria morale
Nelson articola l’obbligo di giustizia in due esigenze principali:
la «legge del giusto bilanciamento» (Gesetz der gerechten Abwägung), che consiste nel trattare gli interessi in conflitto o contrapposti come se si trattasse di interessi comuni al soggetto
agente, e nella «legge della giusta retribuzione» (Gesetz der gerechten Vergeltung). La quale ultima trova la seguente formulazione: «Devi approvare la medesima inosservanza dei tuoi interessi che tu hai assunto nei confronti degli interessi altrui»88. Va
tuttavia aggiunto che gli interessi che qui vanno considerati, o
che entrano in giuoco, non sono quelli meramente «percepiti»
dal soggetto. Per ciò che concerne gli interessi che si «bilanciano» e quelli che si «retribuiscono» o «compensano» non si
tratta degli interessi «soggettivi» dei singoli, bensì dei loro veri
interessi. Che sono quelli che potrebbe percepire una persona sufficientemente educata e istruita, il Gebildeter che sempre ritorna
come una sorta di convitato di pietra nella filosofia di Nelson.
5.2. Giungiamo ora al momento chiave della dottrina politico-giuridica del professore di Göttingen: il passaggio dalla dottrina filosofica del diritto alla dottrina filosofica della politica,
o più semplicemente il salto dal diritto alla politica. Nelson ha
della politica una visione strumentalistica, per certi versi weberiana. La politica è una riflessione su mezzi, non su fini. Egli
afferma che «ogni considerazione politica presuppone un certo
fine, secondo il quale essa giudica tutto ciò che riguarda la configurazione [Gestaltung] della forma esteriore della società»89.
La riflessione politica verte qui solo sulla Zweckmässigkeit, sulla
razionalità strumentale (per dirla con Weber), di certi mezzi rispetto a obiettivi presupposti già come fondamentali per la comunità. Quelle politiche sono questioni prudenziali: «Klugheitsfragen»90. Le considerazioni politiche pertanto hanno valore solo
88
89
90
In merito, vedi PEP, § 58 e § 59.
PRP, p. 123.
PRP, p. 124.
247
ipotetico, mai categorico. E gli obiettivi di queste provengono
loro dall’esterno. «“Politico” è tutto ciò che mira a una certa
configurazione della forma esterna della società»91. Tuttavia, la
politica non può darsi qualunque fine che le piaccia: i suoi fini
non sono arbitrari o relativi. È possibile invece accertare con
oggettività tali fini. Dunque, la «politica filosofica», cioè la teoria politica, è solo una dottrina filosofica della sapienza, una
dottrina della conoscenza, una Weisheitslehre.
La politica è concepita così come etica applicata, in particolare come l’applicazione della dottrina del diritto, della Rechtslehre. D’altra parte, il concetto di politica – dice Nelson –
è ambiguo: esso per un verso denota una scienza o teoria, per
altro verso un’arte o una prassi. E v’è la teoria, in quanto l’arte
si possa apprendere, giacché còmpito della prima è sistematizzare le regole secondo le quali si svolge la seconda, l’arte. Questa – dice Nelson – è l’arte di governo, Staatskunst, o ancora
meglio Regierungskunst. A questo punto Nelson introduce una
concettualizzazione della nozione di società. V’è – dice – una
società in senso lato, e una in senso stretto: la prima è la mera
comunità o convivenza – per così dire – fisica di un certo numero di esseri umani, vale a dire il fatto che si diano tra questi delle relazioni. In senso stretto la società designa una comunità pratica, vale a dire una serie di relazioni tra soggetti dirette a un fine comune. Anche per lo Stato può parlarsi, secondo
Nelson, di una nozione in senso lato e di una nozione in senso
stretto: la prima denota una società che è dotata di forza coattiva. Stato in senso stretto è uno Stato in senso lato che ha per
fine il diritto. Quest’ultimo Stato, quello in senso stretto, può
dirsi dunque Stato di diritto.
Lo Stato di diritto è allora una società che dispone di coazione e che ha per fine comune la realizzazione del Rechtsgesetz, della legge giuridica. Lo Stato qui è concepito in termini
del tutto tradizionali, in termini weberiani – potremmo dire an-
91
248
PRP, p. 126.
cora una volta – come monopolio irresistibile della violenza. Lo
Stato di Nelson è quello dei giuspositivisti. Il diritto, le leggi
giuridiche di cui parla il professore di Göttingen, invece, hanno
ben poco a che vedere – come si è visto – con la dottrina giuspositivistica. Il diritto qui è fondamentalmente legge morale
sostanziale: per un verso forma di legge universalizzabile, per
altro verso principo di uguaglianza tra gli esseri umani.
Nelson – per il quale la politica è sì etica applicata ma proprio per questa ragione ha un carattere vagamente tecnico – recepisce per intero la concettualizzazione della politica che gli
proviene dal giuspositivismo dominante negli studi giuridici del
suo tempo. La sua opera di revisione, di critica, e anche di demolizione del positivismo, non passa per la rielaborazione dei
concetti di questo, bensì – per usare una dicotomia tipicamente
nelsoniana – dei suoi criteri. Si tratta di introdurre nelle scienze
giuridiche e nella dottrina dello Stato dei valori forti, un potente
punto di vista normativo. Tutto il resto, ed è molto – gli istituti, i concetti, la definizione ontologica dei materiali di cui si
compone il diritto – rimane inalterato. Il senso dell’impresa teorica di Nelson è quello d’iniettare delle robuste dosi di normatività nel corpo massiccio della dottrina germanica dello Stato.
Ma il quadro concettuale di questa, la sua nozione di diritto positivo o quella di Stato, non vengono intaccate né specialmente
tematizzate. La sua insomma è solo una dottrina dei fini dello
Stato, a partire dalla configurazione tradizionale di questo92.
Nelson, nonostante la sua eticità liberale, si proietta dunque
teoricamente come uno statalista radicale. Egli anzi estremizza
una serie di posizioni tradizionali fino a giungere a soluzioni
quasi paradossali e certo talvolta parossistiche. Innanzitutto, costruisce un’ulteriore formula di sussunzione, una deduzione per
cui dalla premessa maggiore «c’è l’ideale del diritto», passando
per la premessa minore «l’ideale del diritto come applicazione
della legge giuridica alla società può realizzarsi solo mediante
una volontà che disponga d’un potere supremo», giunge alla
92
Si legga PRP, p. 130.
249
conclusione dello Stato come ideale. Poiché per realizzare l’ideale del diritto il solo mezzo è lo Stato, deduttivamente a suo
avviso deve giungersi all’affermazione dell’ideale dello Stato.
Il potere assoluto del sovrano e il suo monopolio della forza subiscono così una sorta di transustanziazione: da requisito di fatto
a principio normativo.
Tocchiamo ora il cuore – per così dire – della dottrina politico-giuridica di Nelson: il problema della costituzione. Per Nelson – è questo un passaggio decisivo – dalla Rechtsgesetz non
può dedursi la forma della costituzione politica al di là di ciò
che è contenuto nell’«ideale dello Stato»: la necessità di un’istituzione dotata del monopolio della violenza. La sua concezione della costituzione – per quanto sviluppata nel quadro di
una dottrina normativa – ha un tenore quasi labandiano: è di
tipo puramente organizzativo, una specie di tabella di marcia
degli uffici statali.
In ogni Stato dunque deve necessariamente darsi un legislatore, un
giudice e un governante [einen Regenten], e la costituzione deve di
conseguenza determinare la maniera in cui questi affari della legislazione, della giurisdizione e del governo devono essere distribuiti ai
singoli, mediante i quali solo possono giungere a eseguirsi. Il principio dunque secondo cui avviene questa distribuzione rappresenta ciò
che si definisce nel senso più proprio del termine la costituzione dello
Stato, ovvero, in breve, la forma di Stato93.
La costituzione è nient’altro che quella organizzazione dello
Stato come monopolio della forza che risulti più efficace – alle
condizioni date – per l’implementazione dell’ideale del diritto,
cioè dell’applicazione del Rechtsgesetz alla società.
Ciò che importa è che il Rechtsgesetz (norma materiale non
proceduralizzata, priva di riferimenti al principio di autonomia
e accertabile oggettivamente senza ricorso ad autodeterminazione da parte degli interessati), che tale regola ideale e ogget-
93
250
PRP, p. 164 (corsivo nel testo).
tiva sia accertata e resa pubblica dal legislatore. Chi questo sia
è qui del tutto irrilevante. Se Regent, «governante», debbano essere tutti, molti, pochi, o uno solo, è affare contingente, niente
affatto normativo, questione semmai tecnica, non di principio.
Mediante lo Stato deve questa legge [il Rechtsgesetz] diventare vigente nella società. A tal fine si necessita d’un potere pubblico e dunque di un governante [eines Regenten], il quale come tale è allo stesso
tempo legislatore. È legislatore in ragione del diritto solo in quanto
e fintantoché esprime pubblicamente il principio del diritto [Rechtsgesetz]. Di conseguenza è giuridicamente irrilevante chi si presenti
come legislatore nella società, se attraverso questo si fa valere pubblicamente il principio del diritto. Mediante chi ciò accada, e dunque
la forma dello Stato, è dal punto di vista del diritto indifferente94.
In una siffatta determinazione della forma di governo i
princìpi hanno poco o niente da dire. Tuttavia, poiché nella formula di sussunzione dell’«ideale dello Stato», la premessa minore empirica ci segnala l’esigenza del monopolio della violenza e di un’istituzione unica e centralizzata della forza, si può
ritenere che la divisione dei poteri, il pluralismo politico, e la
frammentazione e il controllo o l’addomesticamento della forza
siano tutte «tecniche» poco consigliabili. Il costituzionalismo
come controllo sul sovrano è dismesso come contradictio in
adiecto e mera utopia; giacché il potere sovrano è ritenuto di
fatto incontrollabile. In particolare – sostiene Nelson – la democrazia rappresenta un modello particolarmente fallace, soprattutto allorché la si vuole far discendere dal contenuto materiale del Rechtsgesetz, cioè dall’uguale dignità di tutti gli esseri umani.
A questo punto Nelson si sofferma sulla nozione di democrazia come regime politico della volontà generale. Ma cos’è –
si domanda – la «volontà generale»? Non può essere di certo
94
PRP, p. 176. Cfr. J.F. FRIES, Philosophische Rechtslehre, cit., p. 105 (§
17): «Vor Recht ist es gleich, wer der Regent sey, ob einer oder Hunderte,
genug, wenn durch ihn das Gesetz gilt».
251
l’accordo volontario dei consociati, giacché il diritto positivo
nasce proprio dalla constatazione della difficoltà e della contingenza di un tale accordo. La legge positiva si dà proprio in
anticipazione dell’assenza di una tale generale volontà. Né la
volontà generale può consistere nella mera coordinazione delle
condotte, giacché questa potrebbe darsi come nient’altro che un
effetto di una direzione che potrebbe assumere anche la forma
di una superiore volontà individuale. Dovrà dirsi allora che la
volontà «generale» si riduce alla volontà della «maggioranza».
La quale per forza e potere è di certo superiore alla volontà
della minoranza. Tuttavia è dubbio che basti al qualificare qualcosa come «diritto» – continua Nelson – la forza predominante
di un gruppo, per quanto maggioritario possa essere.
Giacché, se è vero ciò che dunque dev’essere qui affermato, e cioè
che è diritto ciò che per la maggioranza è legge, allora ciò non sarebbe meno diritto se la volontà della maggioranza non si decidesse
in tal senso. Ma se non è diritto, allora non può nemmeno divenire
diritto per il fatto solo che la maggioranza decida così95.
L’uguaglianza – argomenta Nelson – non è un principio assoluto, bensì vale fino a che non si presenta una ragione predominante per introdurre una differenziazione. Si stabilisce
dunque un divieto generale di discriminazione; questo però può
essere superato là dove si diano ragioni sufficienti per farlo96.
È possibile dunque – può intuirsi – introdurre delle differenze
in materia di diritti politici o di accesso ai meccanismi della legislazione senza violare il principio di uguaglianza. Nelson aggiunge che la clausola antidiscriminatoria vale solo per il contenuto delle leggi ma non per ciò che concerne la costituzione
statale97. Là dove trova conferma la sua concezione rigidamente
antiprocedurale della legge giuridica.
95
96
97
252
PRP, p. 196
Vedi PRP, p. 190.
Vedi PRP, p. 193.
A tutto ciò Nelson aggiunge un argomento antimaggioritario. La legge non può dipendere dagli umori cangianti di una
maggioranza. Se qualcosa è diritto, lo è già in quanto corrisponde al Rechtsgesetz, al principio normativo del diritto. La
decisione della maggioranza non può aggiungere nulla al contenuto normativo della legge positiva; può semmai seminare
confusione.
La conclusione di questa linea di pensiero è una singolare
concezione del legislatore: questo non è colui che ha ricevuto
o ottenuto la competenza normativa o l’autorizzazione di produrre delle leggi, ma solo colui che accerta e applica correttamente il criterio morale del Rechtsgesetz. Il legislatore non delibera, ma «rende pubblica» la legge: la sua è una funzione meramente dichiarativa98. La legislazione è dunque questione di
competenza e pertanto sarà scorretto parlare di un principio giuridico della costituzione dello Stato. Chi sia il legislatore risulta
dalla verità delle enunciazioni di chi si pronuncia sul contenuto
del Rechtsgesetz. Chi emette degli enunciati veri a questo riguardo e solo lui sarebbe il legislatore. Tuttavia, la verità dell’enunciazione del principio del diritto, pure essendo condizione
necessaria dell’attività legislativa, non è ancora sufficiente. È
indispensabile che chi enuncia la legge «vera» si trovi di fatto
nella condizione di poter enunciare quella norma concreta e
abbia la forza di farla rispettare. L’esigenza della «verità» si
congiunge così a quella del potere di fatto, di modo che per l’identificazione del legislatore si dovrebbe innanzitutto individuare un soggetto capace di esercitare la forza richiesta. Il potere di fatto in questa prospettiva è la situazione di partenza per
poter pretendere alla legittimità (mediante «verità») delle decisioni politiche. Curiosamente su questo punto Nelson non è poi
assai lontano dalla tesi della «forza normativa del fatto» del suo
supposto principale antagonista nell’àmbito della dottrina giuridica: Georg Jellinek.
98
Vedi PRP, pp. 177-178.
253
5.3. Riassumendo, si può sostenere che la teoria politico-giuridica di Leonard Nelson sia afflitta da quattro debolezze fondamentali. In primo luogo, la «legge giuridica», il Rechtsgesetz,
vale a dire il principio normativo (morale) del diritto, è concepito in termini del tutto sostanziali (non procedurali), non poggiando – per ciò che concerne la sua produzione o «autocertificazione» – sull’autonomia dei soggetti. Ciò permette a Nelson di ritenere di non contraddirsi nell’affermare due tesi intuitivamente incompatibili: a) che il diritto per imporsi necessita di un potere assoluto e unico, «uno», non separato o condiviso o bilanciato99, e b) che la forza non può fondare né giustificare nessun diritto100. Qui non è solo la concezione idealistica del Rechtsgesetz che abbaglia la percezione di Nelson, ma
soprattutto la mancata proceduralizzazione del principio normativo del diritto e l’assenza in questo di un criterio di autodefinizione e di «autocertificazione». Il Rechtsgesetz potrà dunque – senza contraddizione di sorta – imporsi anche manu militari. E d’altra parte la sua identificazione e certificazione potrà
darsi soltanto a partire da una situazione di fatto, contingente
pertanto, in cui risulti prevalente una certa «forza» la quale sia
riuscita (non importa in che maniera) a impiantarsi nella realtà.
Il principio normativo può leggersi dunque – così come nella
teoria di Jellinek della «forza normativa del fatto» – esclusivamente a partire dal fatto. Un po’ come succede nella formula
arcinota di Pascal: non essendo riusciti a fare il giusto forte, bisogna allora ingegnarsi a fare il forte giusto. Là dove la giustizia dunque presuppone la forza e si definisce e determina a partire da questa101.
Qui – ripeto – Nelson condivide l’ontologia comune a tutto il giuspositivismo, per cui – come ha detto Giuseppe Volpe – «lo Stato divenne l’unico ente» (G. VOLPE, Il costituzionalismo del Novecento, Laterza, Roma-Bari
2000, p. 11).
100
Vedi PRP, p. 167.
101
Si legga PASCAL, Pensées, a cura di L. Brunschwicg, Garnier, Paris
1976, § 298-103, p. 137: «Et ainsi ne pouvant faire que ce qui est juste fût
fort, on a fait que ce qui est fort fût juste».
99
254
In secondo luogo, nelle formule di sussunzione è dato un
peso sproporzionato al rapporto tra diritti e cose, e il diritto di
proprietà è visto fondamentalmente come la formalizzazione di
una tale relazione. Qui è il concetto di «cosa» a essere inoltre
sproporzionatamente centrale. Si tratta forse di un retaggio dell’economicismo manchesteriano o del liberalismo economicista
(proprietario) che Nelson si porta in sé in ragione della sua formazione. Se invece di «cose» si fosse parlato di «risorse», e
queste fossero state intese in termini generosi, e non strettamente materialistici, allora più che la formula del diritto di proprietà è quella del diritto soggettivo che si sarebbe imposta. Ciò
avrebbe permesso di introdurre nell’edificio teorico dello studioso tedesco una nozione più ampia e «liberale» di diritto in
senso soggettivo e il principio di autonomia a questo connesso,
oltreché la nozione di diritti fondamentali che significativamente
è assente, o risulta debolissima, nel poderoso e articolato sistema nelsoniano. Nelson maneggia, è certo, una nozione di «diritti inalienabili»; ma lo fa – potrebbe dirsi – alla maniera della
«teoria oggettiva» di Rudolf Smend. Il diritto inalienabile per
lui non è altro che la pretesa al soddisfacimento dell’interesse
vero, non dell’interesse «soggettivo», «der Rechtsanspruch auf
die Befriedigung des wahren Interesses»102. Il contenuto del diritto pertanto sfugge alla definizione del suo titolare e rimanda
a una certificazione «oggettiva». Ma se all’individuo sfugge il
contenuto del diritto, di conseguenza gli sfugge anche la sua titolarità, giacché solo là dove si dà un vero interesse come contenuto del diritto si darà anche il diritto medesimo.
Un ulteriore problema è l’introduzione di una forte discrasia tra la validità e l’applicabilità delle norme, discrasia che gli
permette di creare un’alternativa rigidissima tra àmbito normativo (identificato solo con quello morale categorico) e àmbito
strumentale. Il quale è ridotto interamente alla sfera del sapere
tecnico e tecnologico. È l’ultimo problema comunque a risultare fatale per la valenza democratica della costruzione nelso-
102
PEP, § 56.
255
niana. Il principio di uguaglianza degli esseri umani, distaccato
com’è da quello di autonomia, e privo di una nozione ampia di
diritto in senso soggettivo, è incapace di farsi riflessivo, non
riesce così a divenire il principio della generale dignità degli
esseri umani come titolarità di diritti soggettivi fondamentali,
tra i quali quello di definire, entro certi limiti, i termini della
propria dignità. Questo punto ha a che vedere con la separazione, centrale nella teoria della giustificazione morale di Nelson, tra interesse «soggettivo» e interesse «vero»103. Quest’ultimo per essere accertato non deve passare da nessuna proceduralizzazione degli interessi in gioco, ma è rinviato esclusivamente al superiore discernimento del «saggio», del Gebildeter
– che a tal fine procede monologicamente ricostruendo gli interessi plurali e tendenzialmente tra loro in conflitto come
espressioni coerenti, bilanciate, di un unico attore.
L’uguaglianza allora può tranquillamente escludere l’eguale
diritto ad avere accesso alla decisione politica, la quale è stata
in precedenza depoliticizzata e trasformata in mero calcolo tecnico. La deliberazione politica, poiché è tecnica, dovrà essere
affidata agli esperti. Ma se pure la si considerasse ancora come
pertinente all’àmbito specificamente etico, o materia propria
di ragionevole controversia e dunque di deliberazione ponderata e plurale, giacché non si rende quest’àmbito o tale materia soggetto a regole procedurali di articolazione e di specificazione degli interessi in gioco né a regole sostanziali di autonomia, quell’àmbito o quella materia potranno essere sottratte agli interessati e consegnate ai Regenten (che coincidono
con i Gebildeten) senza che si intravveda in ciò una violazione
di principio.
Nel pensiero di Nelson, pur così ricco e stimolante, alla fine
ci si imbatte in una strettoia. Lo Stato di diritto si fa Stato di
giustizia (Stato di diritto tutto sostanziale, privo di procedure),
103
Si legga L. NELSON, Die Theorie des wahren Interesses und ihre rechtliche und politische Bedeutung, in L. NELSON, Gesammelte Schriften, Vol.
5, Sittlichkeit und Bildung, cit., pp. 6 sgg.
256
e infine – nonostante il promettente punto di partenza – Stato
etico (paternalistico e perfezionistico in grado sommo). È pur
vero che Nelson si pronuncia più volte esplicitamente contro il
«moralismo», ovvero contro l’idea che le regole morali contengano doveri positivi e non soltanto obblighi negativi104. Nondimeno, la buona vita, come convivenza politica, per lui non è
affatto diretta da un ideale di autodeterminazione, bensì eminentemente da un ideale di conoscenza, di accertamento e di ritrovamento. Il pluralismo politico viene ridotto a mero factum,
non viene mantenuto o elevato a livello normativo. Non v’è motivo per la controversia ragionevole e la deliberazione collettiva in questa sfera. Da Kant infine torniamo indietro a Platone,
e ai suoi filosofi-re105.
Ciò accade soprattutto attraverso la riformulazione della politica come fatto cognitivo, che quindi dovrà essere trattatato da
chi dispone delle opportune conoscenze. Tali portatori di un adeguato sapere, i Gebildeten, sarannno allora deputati a governare,
i Regenten. Ma Nelson non innalza una barriera all’accesso al
sapere; anzi il diritto all’istruzione è il solo che per lui si possa
dedurre direttamente dal supremo principio della morale pubblica, il Rechtsgesetz106. Siamo ben lontani dall’idea di una società divisa in classi alla maniera di Platone: a tutti – secondo
Nelson – dev’essere data l’opportunità di educarsi. L’elitismo
politico in questa prospettiva pertanto non risulta de jure, bensì
solo de facto, giacché, là dove è questione di Gebildeten, si
avranno gli esperti più o meno capaci, più o meno bravi, ma
solo ai migliori dovrà concedersi il privilegio della sovranità,
cioè del maneggio della tecnica politica.
In merito, vedi PEP, § 39.
Segnala Nelson como filosofo «platonista» Friedrich Kessler, esule tedesco in terra americana: cfr. F. KESSLER, Natural Law, Justice and Democracy – Some Reflections on Three Types of Thinking About Law and Justice,
in «Tulane Law Review», vol. 19, 1944, p. 38.
106
Sul punto cfr. le considerazioni critiche di K. LARENZ, Rechts- und
Staatsphilosophie der Gegenwart, Junker und Dünnhaupt, Berlin 1931, pp.
73-74.
104
105
257
6. Un esito platonista
Secondo Nelson – in polemica con Jellinek – la qualifica
dello Stato come «soggetto giuridico» non è ancora sufficiente
a giuridicizzare questo, ad attenuarne cioè l’originario carattere
autocratico e assolutista, e tantomeno a offrire una base giustificatrice alla sua configurazione concettuale come Rechtsstaat.
Perché lo Stato sia soggetto giuridico, dev’esservi una norma
che lo costituisca e lo regoli. Se la soggettività giuridica deriva
allo Stato da un àmbito che equivale alla sua fattualità non si
vede cosa tale qualifica possa aggiungere in termini normativi
alla constatazione di certe relazioni di forza. Ma una tale constatazione non ha alcuna capacità di proiettarsi da sola come relazione normativamente vincolante.
Parlare di soggetto giuridico ha senso – scrive Nelson – solo là dove
si presupponga una norma giuridica che regoli il diritto. Ma come può
darsi questa nello Stato, se il diritto dev’essere dedotto innanzitutto
dalla volontà di questo ed esso dunque per parte sua dev’essere il presupposto della possibilità di tutte le norme giuridiche?107.
In quest’interrogativo ritroviamo l’aporia fondamentale della
dottrina giuspositivistica del Rechtsstaat e un appello, tutt’altro
che timido, all’adozione di una teoria sostanziale e normativa
dello Stato di diritto.
Noi a nostra volta, nondimeno, potremmo domandarci se una
riformulazione sostanzialistica dello Stato di diritto – com’è
quella raccomandata da Nelson – non sfoci in ciò che è stato
chiamato efficacemente «Stato di giustizia»108, ovvero infine in
un vero e proprio «Stato etico», nel quale la regola di condotta
risulta del tutto esterna all’autonomia degli individui e persino
alla deliberazione pubblica dei cittadini. Gli esiti perfezionistici
RoR, p. 167.
Cfr. G. FASSÒ, Società, legge, ragione, Comunità, Milano 1974, pp.
13 sgg.
107
108
258
e addirittura paternalistici, quando non assolutistici (sia pure «illuminati») della dottrina giuridica di Nelson stanno lì a giustificare la domanda e la preoccupazione di cui questa è espressione.
Se la legge dichiarata/emanata dal Regent è tale solo se corrisponde al contenuto del Rechtsgesetz, se dunque non v’è alcun
diritto di sovranità in capo a qualche soggetto109, non può essere
la parola o l’asseverazione del legislatore la ragione dell’obbligatorietà della legge ma solo la sua legalità materiale. Di questa però non può essere giudice il legislatore medesimo, ché altrimenti ricadremmo nel decisionismo aborrito da Nelson.
Dev’esserci la possibilità di un criterio esterno e superiore al legislatore, oggettivo pertanto, e generalmente accessibile. Dovrebbe quindi esservi la possibilità per i sudditi di riconoscere
o accertare quella legalità materiale (la corrispondenza della
norma positiva al Rechtsgesetz). Ma a tale fine sarebbe necessario presupporre che i sudditi siano capaci di una sapienza pratica grosso modo equivalente a quella del legislatore. Le operazioni «platoniche» di questo dovrebbero risultare ripercorribili
dalla ragione pratica dei sudditi secondo discorsi pubblici e apposite procedure. Ma se fosse così, non vi sarebbe una differenza incolmabile tra lo statuto epistemico del legislatore e quello
dei sudditi. La diversità semmai potrebbe risiedere nel fatto che,
mentre il legislatore platonico opera intuitivamente o metodicamente, il suddito si adopera discorsivamente o proceduralmente.
Nondimeno, Nelson insiste nel basare l’intero processo legislativo sulla Anschauung, l’intuizione del sapiente, degradando la
deliberazione pubblica a cagione del traviamento della retta ragione. La quale, a suo avviso, può essere solo monologica.
Proteso alla ricerca di una fondazione allo stesso tempo oggettiva e materiale della morale (così come della politica), Nelson finisce per anteporre la legge etica all’autonomia110, l’inte-
Vedi PRP, p. 178.
Sul punto cfr. il bel saggio di G. HECKMANN, Leonard Nelsons Kampf
um die Rationalität, in «Neue Sammlung», vol. 13, 1973, pp. 364 sgg., in particolare pp. 374 sgg.
109
110
259
resse «vero» a quello «soggettivo», la conoscenza alla deliberazione, il monologo al dibattito, e fa così della morale – come
si è visto – affare solo di una cerchia ristretta di «educati» o
«istruiti», di Gebildeten. Privatosi di un collegamento stretto tra
libertà e legge morale, tra deliberazione e interesse accettabile,
oltre alla legittimità contrattuale dello Stato, egli rigetta poi la
divisione dei poteri, il costituzionalismo, e la stessa idea di democrazia. Il metodo socratico da lui tanto elogiato111, il dialogo,
il discorso, la controversia, si arrestano pertanto alle soglie della
politica e del diritto.
111
Vedi L. NELSON, Die sokratische Methode, in L. NELSON, Gesammelte
Schriften in neun Bänden, a cura di P. BERNAYS et al., vol. 1, Die Schule der
kritischen Philosophie, Meiner, Hamburg 1970, pp. 269 sgg.
260
Epilogo
Tre modelli: decisionismo, comunitarismo,
platonismo
1. Nelle pagine precedenti ho provato a presentare tre protagonisti del dibattito costituzionalistico e giusfilosofico degli
anni della Repubblica di Weimar. I tre personaggi prescelti e le
loro teorie non sono – va detto – del tutto congruenti l’uno con
l’altro. Mentre Hermann Heller e Rudolf Smend sono dei giuristi e partecipano a un medesimo dibattito, e si inseriscono in
un contesto omogeneo com’è quello del campo dei critici antiformalisti della tradizione giuridica positivistica e dello Stato
liberale, questo di certo non è il caso di Leonard Nelson. Non
che questo fosse vicino al giuspositivismo o che approvasse la
linea del liberalismo ottocentesco. Ma è che egli non è giurista,
bensì filosofo, e abbastanza lontano dalle preoccupazioni che
assillano la scienza giuridica. D’altra parte Nelson, a differenza
di Smend e Heller, sì che muove dal pensiero liberale, per
quanto da quello eticistico della cultura idealistica germanica.
E in quest’àmbito di riferimento ideologico permane anche allorché si avvicina a posizioni socialistiche. Heller e Smend, oltre
a essere critici del positivismo giuridico, lo sono anche di quello
filosofico e più in generale dell’illuminismo e del razionalismo
d’estrazione kantiana. Entrambi raffinati costituzionalisti, dietro
Smend e Heller si erge la figura di Hegel. È questo il loro comune filosofo di riferimento, attraverso la mediazione marxiana
nel caso di Heller, e quella fenomenologica e spiritualistica nel
caso di Smend. Nelson viceversa è fiero avversario d’ogni forma
261
di hegelismo, imputa infatti a Hegel la responsabilità di un formidabile regresso dello sviluppo filosofico, e sostiene invece –
come si è visto – una versione particolarmente radicale e «empirica» di trascendentalismo kantiano. Non si dimentichi il rapporto stretto del programma di Nelson con gli studi matematici
ed in ispecie con l’assiomatica di Hilbert, il quale, subito dopo
Fries, è il suo riferimento teorico più sicuro.
Heller e Smend partecipano in prima fila al Methodenstreit,
alla disputa metodologica che affligge la dottrina giuridica dello
Stato e la teoria costituzionale negli anni di Weimar1. Nelson
resta in buona sostanza e in gran misura estraneo a tale scontro. O almeno non ne è un protagonista. Né va dimenticato che
il professore di Göttingen muore nel 1927, quando la prima Repubblica tedesca sembra ancora avere un futuro e non sono state
pubblicate né la Verfassungslehre di Carl Schmitt né Verfassung
und Verfassungsrecht di Smend. Gli è pure risparmiata la lettura di Sein und Zeit di Heidegger, libro quest’ultimo che rivoluziona il panorama filosofico seppellendo il rinascimento
neokantiano. E tuttavia Nelson è un attore di rilievo nelle vicende teoriche e politiche di quel periodo e di quella società per
certi versi crepuscolare. La sua articolata filosofia entra in rotta
di collisione con l’irrazionalismo del tempo, con lo Spuk, i «fantasmi», del Zeitgeist. Proprio a Spengler, che è il cantore della
decadenza crepuscolare della modernità occidentale, egli dedica
uno dei suoi scritti più virulentemente polemici e maggiormente
efficaci2. Nelson poi non è affatto un giuspositivista. Anzi a lui
si deve – come si è visto – uno degli attacchi più poderosi contro le tesi di Georg Jellinek, che in quel contesto, ben più di
Hans Kelsen, è il campione della dottrina giuspositivistica. Né
Cfr. M. FRIEDRICH, Der Methoden - und Richtungsstreit – Zur Grundlagendiskussion der Weimarer Staatsrechtslehre, in «Archiv des öffentlichen Rechts», vol. 102, 1977, pp. 161 sgg.
2
Si tratta di Spuk. Einweihung in die Wahrsagerkunst Oswald Spenglers,
ora in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. Bernays et. al., vol. 3, Felix Meiner, Hamburg 1974, pp. 349 sgg.
1
262
Nelson risparmia lo stesso Kelsen; l’ultimo dei suoi grandi scontri pubblici, un anno prima della morte improvvisa nell’autunno
del 1927, avviene a Vienna al Congresso germanico di Sociologia, dove polemizza con il giurista austriaco sulla nozione e
i meriti della democrazia.
L’avversione dunque verso il giuspositivismo è un motivo
costante nei nostri tre autori. E tuttavia una sorta di adorazione
della legge accomuna il decisionista al comunitarista, ed entrambi al platonista. La legge che è volontà e scelta ultima, decisione quindi, si proietta come un ente sopraindividuale, collettivo, e diviene tale proprio in forza della sua ultimatività. Incombendo sopra l’individuo, si rende sopraindividuale. È tale
ultimatività a offrirle una densità ontologica specifica, quella
della «forma». «La legge, che comanda, la coazione, che costringe, e le tante inesorabili prescrizioni, che ci dànno la direzione e il gusto: in ciò è la grandezza, e non in noialtri»3. Non
è escluso che le parole di Jakob von Gunten riassumano il nucleo dei modelli qui studiati. Per Nelson il mondo morale pullula di «leggi»; la «legislazione» è l’espressione più genuina del
diritto secondo Heller. E anche per Smend – il meno legalista
dei tre – lo Stato e i suoi precetti sono il territorio proprio dell’integrazione. Per tutti loro il fascino della legge risiede nella
sua qualità di principio di comando.
Vi è comunque almeno un altro punto, oltre la critica del
giuspositivismo e l’ambiguo legalismo, sul quale, anche se paradossalmente, Heller, Smend e Nelson coincidono, ed è il rifiuto della tesi della conoscenza «priva di presupposti», ovvero
metaphysikfrei. Il Richtungsstreit della dottrina giuridica di Weimar cui prendono parte attiva Heller e Smend si gioca anche su
questa tesi. Al positivismo giuridico che sembra connettere la
neutralità (e dunque il carattere liberale) dello Stato alla conoscenza senza premesse di valore dei materiali giuridici si replica con una visione eticistica tanto dell’ordine politico quanto
R. WALSER, Jakob von Gunten: ein Tagebuch, Suhrkamp, Frankfurt am
Main 1985, p. 64.
3
263
del sapere giuridico. Nelson è in buona misura estraneo a tale
vicenda; ma è un difensore accanito della necessità di una metafisica per la conoscenza sia essa quella scientifica. A questo
proposito esemplare è il suo attacco all’epistemologia di Mach
e all’evoluzionismo gnoseologico di questo. E gli strali rivolti
contro Mach valgono anche rispetto a ogni empirismo radicale,
che crede di poter ripetere la parola d’ordine di Axel Hägerström: metaphysica delenda est. L’empirista – dice Nelson – si
trova nella stessa posizione di Epimenide il Cretese, che afferma
«Tutti i Cretesi mentono», e che in ogni caso mente. Del pari,
l’empirista (Nelson pensa qui a Mach) allorché dice «ogni conoscenza ha origine nell’osservazione empirica» sostiene una
tesi che contraddice se stessa. Infatti, ammesso che la sua osservazione sia corretta, si darebbe allora un’osservazione di carattere generale che è valida e che pur tuttavia non ha origine
nell’osservazione empirica.
La mera osservazione [...] permette sempre di conoscere un numero
finito di casi. Per quanto il numero dei casi osservati d’un certo tipo
sia elevato, l’osservazione non può indurci ad applicare il risultato di
quelle osservazioni a tutti i casi di quel certo tipo4.
A tal fine, al fine di stabilire delle leggi, ci vuole un criterio ulteriore che solo la metafisica può offrire. Ma la metafisica
di Nelson è rigidamente razionale: è fondamentalmente – come
si è visto – quella fornita dal metodo trascendentale kantiano.
Per Heller e Smend le cose stanno diversamente: la loro metafisica è un misto di idealismo hegeliano e di vitalismo, variamente miscelato.
Heller e Smend sono dei relativisti in àmbito metaetico,
mossi come sono dal potente storicismo di matrice idealistica.
Più oggettivisti di Nelson è invece difficile poter essere. Egli –
come si è avuto occasione di vedere – difende una fondazione
L. NELSON, Ist metaphysikfreie Naturwissenschaft möglich?, in L. NELGesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. Bernays et al., vol.
3, Die kritische Methode in ihrer Bedeutung für die Wissenschaft, cit., p. 268.
4
SON,
264
nettamente razionale, sebbene non pienamente «intellettuale»,
della legge morale, che egli si arrischia a estendere poi alla politica e al diritto. In questo senso può ben dirsi che Heller e
Smend sono degli antioggettivisti; troppo forte è in loro l’influsso di Nietzsche. Vi è un nichilismo sotterraneo nelle loro rispettive Weltanschauungen. Per quanto che riguarda il pensiero
di Heller ciò risulta abbastanza evidente nella sua concezione
della sovranità e nell’adesione al paradigma decisionistico. Il
caso di Smend è più complesso, tenuto conto della profonda
fede religiosa che sotterraneamente lo dirige. Ma – com’è noto
– il protestantesimo germanico del primo dopoguerra del secolo
scorso si espone proprio al rischio di un radicale volontarismo,
com’è segnalato tra l’altro dal libro di Barth sull’Epistola ai Romani. Una volta rifiutata la «mediazione» istituzionale dell’istituzione ecclesiale, e puntando tutto sulla purezza del cuore,
questa non si lascia intravvedere nel mondo empirico altrimenti
che come decisione. Heidegger in Sein und Zeit dirà qualcosa
del genere, e Smend per certi versi anticipa motivi dell’esistenzialismo, per quanto si impegni a inquadrare e ingabbiare
la «decisione» nelle forme dell’«integrazione». La Selbstgestaltung, l’autoistituzione della comunità, la situazione permanentemente dinamica sottolineata con forza da Smend, sfocia
nel mito dell’«integrazione personale», e questa – per quanto
egli lo neghi – è nuovamente una sorta di «appello al capo».
Tuttavia al relativismo metaetico non corrisponde necessariamente una difesa della relatività in àmbito etico, vale a dire
l’ammissione della non assolutezza e fragilità dei valori assunti
come essenziali e dunque della loro apertura all’«altro». Ecco
perché Gunther Holstein, uno dei giuristi più coinvolti nel Richtungsstreit della dottrina giuridica di Weimar, può sottolineare
con soddisfazione che la teoria dell’integrazione di Smend propone un nuovo metodo «ohne im Relativismus stecken zu bleiben», senza rimanere attaccata al relativismo5.
G. HOLSTEIN, Recensione di R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, in «Deutsche Literaturzeitung», 1928, col. 1376.
5
265
A dispetto delle loro interne complicanze le tre teorie presentate e discusse sopra rappresentano bene, e a tutto tondo, tre
modelli idealtipici d’ordine politico. È ciò che le rende particolarmente interessanti per una discussione che non si proponga
come meramente storico-ricostruttiva. La loro importanza va
ben oltre l’àmbito della storia delle dottrine giuridiche e del pensiero politico. Qui troviamo delineati in forma abbastanza
«pura» tre modelli che si perpetuano nel corso delle vicende
della teoria politica moderna. Questi sono: il decisionismo, il
comunitarismo, l’elitismo (o «platonismo») normativo. Si tratta
di tipi ideali capaci di riprodursi nelle forme più varie. È solo
un’astuzia della storia umana – se si vuole – ma anche una disgrazia per le sue conseguenze storiche, che questi tre tipi ideali
si siano materializzati e manifestati con tanta evidenza in uno
stesso e circoscritto periodo storico. Heller è un buon esempio
di «decisionista», Smend rappresenta con convinzione una prospettiva «comunitaristica», e si fa fatica a rinvenire altrove un
«platonista» più estremo ed esplicito di Nelson.
Una forma spuria di quest’ultimo modello si ritrova probabilmente nel pensiero di Leo Strauss, il quale non a caso è un
prodotto specifico e tipico della cultura germanica del periodo
a cavallo tra Ottocento e Novecento. Anche Strauss, come Nelson, polemizza con lo storicismo e col relativismo dei valori, e
crede che la politica debba essere una derivazione della verità
filosofica, una specie di sua «deduzione». Per Strauss, come per
Nelson, la «verità» è accessibile – e per il primo anche accettabile – soltanto a degli «illuminati» o «istruiti». Vi è nondimeno una differenza decisiva rispetto a Nelson; per quest’ultimo la verità è fatto di ragione, e la ragione è evento eminentemente pubblico, dunque prodotto di analisi e discussione. La
verità è pertanto insegnabile, trasmissibile in via di principio,
per quanto si necessitino a tal fine delle appropriate capacità intellettuali. Per Nelson la fiaccola della verità che è la stessa
della filosofia non può occultarsi sotto il moggio, perché altrimenti rischia di spegnersi. Non deve coprirsi, ma rifulgere in
tutta la sua luce, senza infingimenti e doppi sensi. La menzogna per Nelson è un illecito epistemologico e morale. Come per
266
Kant, anzi, anche per lui non v’è peccato più ignobile del mentire. Ciò dunque non è consentito né al filosofo, né al politico,
né al maestro, all’insegnante. La sincerità è uno dei precetti basici e inviolabili dell’articolata teoria pedagogica di Nelson e
trova una realizzazione priva d’ogni tentennamento nel suo
esperimento educativo della Walkemühle, la scuola da lui fondata e diretta negli anni Venti. Sul punto del divieto della menzogna Nelson è tanto intransigente quanto Kant, sebbene non
ammetta che il dovere di sincerità possa giungere al punto di
contribuire alla violazione del più generale obbligo di giustizia
(dal quale discende il dovere di sincerità)6. Al sapere filosofico
in questa prospettiva, per definizione, ripugna ogni conoscenza
iniziatica che si manifesti attraverso inganno e mezze verità per
molti, e ammiccamenti e gesti di complicità verso pochi. Per
Nelson invero «conoscenza esoterica» non è che una flagrante
contradictio in adjecto. D’altra parte, per Nelson la verità come
tale ha effetti morali. Conoscere e dire il vero significa migliorare la propria condizione anche morale. Di modo che la diffusione della verità promuove la dignità dei singoli e contribuisce al bene comune.
Non lo stesso può dirsi della posizione al riguardo di Leo
Strauss – che si forma negli anni di Weimar, e il cui pensiero
risuona quasi a ogni passo della costellazione storico-filosofica
della crisi tedesca. Negli scritti di Strauss qui e là s’intravvede
della «verità» una concezione in buona sostanza nichilistica. La
verità per un verso va difesa contro lo storicismo e il relativismo. Ma quale questa sia e come si giunga ad essa rimane un
mistero. La verità è poi così terribile e potenzialmente distruttiva che solo pochi forti possono sopportarne le conseguenze.
È così disturbante (anche se non necessariamente laida) che soltanto chi si è sottoposto a un duro tirocinio ed ha avuto i giusti maestri può tollerarne la vista. Di conseguenza la diffusione
6
Vedi L. NELSON, System der philosophischen Ethik und Pädagogik, in
L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. Bernays et al.,
vol. 5, Felix Meiner, Hamburg 1974, § 71.
267
della verità, lungi dall’irrobustire la tempra morale delle masse,
non farebbe altro che destabilizzarle, ne acuirebbe i vizi e l’irrazionalità latente, le spingerebbe sull’orlo dell’abisso. Si pensi
a questo proposito all’ambiguo rapporto di Strauss verso la religione rivelata: da un lato si ammira e raccomanda la sua capacità di integrazione morale; d’altro lato però si resta fondamentalmente fermi sulla primazia, rispetto alla verità di fede,
della verità di ragione (se questa si può ancora chiamare così
là dove sembra volersi dire infine che la verità della verità è
che... non c’è nessuna verità). Secondo Strauss, dunque, la verità dev’essere riservata all’eletto che sa goderne senza disperarsene, e senza farsi disonorare dalla verità medesima; che può
fissarne i tratti senza impazzire, e anzi traendone diletto e piacere. In tale prospettiva la filosofia allora è qualcosa di eminentemente riservato e privato, dunque in buona sostanza un patrimonio non trasmissibile, almeno apertamente ovvero mediante meccanismi di reciprocità o una procedura pubblica. La
si può forse insegnare alla verità del mago o dell’alchimista:
opus nigrum. Dimodoché Strauss, sia per rispetto a questo suo
dettame, sia più probabilmente per la debolezza intrinseca del
suo pensiero, non è mai in grado di darci una sia pur minima
idea di quali siano i fondamenti teorici sui quali debba poggiare
la forte pretesa oggettivistica di verità cha suo avviso accompagna la teoria filosofica tanto in àmbito metafisico quanto in
àmbito etico7.
Uno dei motivi ricorrenti dell’opera di Strauss, com’è noto,
è la critica del relativismo in teoria della conoscenza e per ciò
che concerne i giudizi morali. Suo obiettivo polemico preferito
è lo storicismo8. Eppure il suo tentativo di confutazione di que-
In merito, cfr. St. HOLMES, The Anatomy of Antiliberalism, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1993, capitolo terzo, e CH. LARMORE, The
Morals of Modernity, Cambridge University Press, Cambridge 1996, capitolo
terzo.
8
Si legga per esempio L. STRAUSS, Natural Right and History, University of Chicago Press, Chicago 1953, capitolo primo.
7
268
sto non sfocia mai in un’alternativa prospettiva cognitiva o morale. Ci si limita ad appellarsi al buon tempo antico, alla «classicità», oppure all’autorità di Platone e Aristotele e della tradizione medievale, lamentando la decadenza del pensiero moderno,
tutto intriso di tecnica e di razionalità calcolatrice. Oppure ci si
appella all’evidenza della necessità della verità, senza tuttavia
mai elaborare un’idea sostanziale di ciò in cui questa verità consiste o un metodo di come ad essa si possa pervenire. Ben diversa è la posizione al riguardo di Nelson, che dedica al problema della fondazione dei giudizi teorici e dei princìpi etici migliaia di pagine, dove i passaggi argomentativi sono dettati da
una logica rigorosissima e da un’altrettanto coerente visione d’insieme. E d’altra parte quest’ultimo non ha nessun problema con
la modernità, vede nella storia della filosofia moderna, almeno
fino a Kant e Fries, non un regresso, ma una linea fortemente
evolutiva, e intrattiene l’ambizione e la speranza di fare della filosofia una vera e propria «scienza». La «classicità» a suo avviso è macchiata da una congerie di errori filosofici. Nelson insomma ci offre un pensiero sistematico, per certi versi addirittura more geometrico demonstrato; Strauss invece ci suggerisce
a mezza voce, in un coacervo di esercizi interpretativi sul pensiero altrui, di leggerlo tra le righe, e di trovare e custodire gelosamente i preziosi segreti lì nascosti. Per Nelson al contrario
non v’è gelosia rispettabile che riguardi contenuti di sapere.
Dunque: Heller, Smend, Nelson – tre pensatori rappresentanti di altrettanti modelli d’ordine politico. La strana coincidenza e la «disgrazia» storica cui facevo prima riferimento è
che tutt’e tre questi modelli sono animati, chi più chi meno, da
un profondo intimo rigetto dell’ideale democratico e da uno spirito in ultima istanza autoritario. «Disgrazia» grave che la Repubblica di Weimar, il primo Stato democratico della storia tedesca, dovesse averli come avversari. Smend fu un compagno
di strada della «rivoluzione conservatrice» e dell’estrema destra nella sua opera di delegittimazione del regime parlamentare. Fino al 1933, l’anno della catastrofe, al riguardo vi sono
però differenze teoriche significative tra il conservatore protestante Smend, il cattolico autoritario Schmitt e, per esempio, il
269
nazionalsocialista Forsthoff, o il giovane «völkisch» Karl Larenz. Nelson a sua volta batte una strada diversa, ma non è più
tenero col regime parlamentare, sviluppando una critica radicale della democrazia in direzione di una dittatura d’avanguardia dai tratti vagamente leninisti, nonostante il suo rifiuto esplicito del marxismo teorico e l’adesione filosofica a molti postulati del revisionismo socialdemocratico. Anche per lui lo
Stato di Weimar è un regime da condannare e comunque da superare verso un governo in buona sostanza di stampo autoritario. E per Heller, che dei tre è quello che assume la posizione
più sofferta, la repubblica di Weimar è per un verso da reinterpretare e riformare nei termini d’una sorta di dittatura assembleare nella quale il potere sovrano di decisione spetti al legislatore, alla camera dei rappresentanti del popolo e non già
al Presidente del Reich – come sappiamo voleva invece Schmitt – ma nemmeno a qualche tribunale d’ultima istanza – come
sembra volere il giuspositivista Kelsen. Per altro verso per Heller l’ordine costituzionale di Weimar è un regime di «transizione», che può anche andare verso uno «Stato autoritario» –
formula che egli stesso significativamente adotta a partire dall’esperienza della legislazione per decreto che si dà negli ultimi anni dell’esperienza repubblicana, i quali preludono a una
definitiva crisi istituzionale.
Heller condivide «l’odierna presa di coscienza intesa in tutti
i sensi come reazione violenta contro la concezione razionale
della legge del secolo XIX», come anche la rivolta contro il positivismo che fa dell’uomo «solo un prodotto delle leggi della
natura, di un gigantesco, inerte contesto oggettivo», condannandolo così a soffocare nell’«assurdità di un destino spersonalizzato»9. Antirazionalismo, antiuniversalismo, e antinormativismo non gli sono affatto estranei, e anzi assumono talvolta nella
sua opera, come nel saggio sulla sovranità del 1927, accenti
quasi antinomici. La legge, sia questa quella scientifica come
quella del giusnaturalismo, per non parlare della norma giuriH. HELLER, L’Europa e il fascismo; trad. it. di C. Amirante, Giuffrè, Milano 1987, p. 64.
9
270
dica formale del giuspositivismo, gli sembra tradire l’esigenza
di concretezza, di individualità, di senso insomma, della realtà
specificamente umana. Così, fino alla revisione del suo pensiero
– compiuta nella Staatslehre uscita postuma, che però è una teoria non di Weimar, ma dopo Weimar – Heller è in buona sostanza mosso da un afflato vitalistico che lo rende sensibile al
romanticismo politico degli Schmitt e degli Smend. Non è certo
un caso che ancora nella Staatslehre uno degli autori più presenti e usati sia Hans Freyer, teorico di uno «spirito oggettivo»
dalle profonde implicazioni anti-illuministiche e autore nel 1931
di un libro molto letto, Die Revolution von rechts. È forse superfluo aggiungere che per Freyer – ma non per Heller di certo
– il 30 gennaio 1933 fu vissuto non come l’abbrivio della catastrofe, o come il tramonto definitivo delle speranze di rigenerazione politica e culturale espresse dalla Repubblica di Weimar, bensì come l’inizio del rinnovamento dello spirito germanico. Fino al 1933 la traiettoria intellettuale di Heller è in rotta
di collisione tanto col normativismo di Hans Kelsen quanto con
l’universalismo di Nelson. Ed è anzi Nelson che gli è più lontano, giacché Kelsen concede molto alle esigenze della decisione nell’àmbito del diritto. Per Kelsen poi, come dice in un
dibattito famoso dell’Associazione dei professori tedeschi di diritto pubblico, dietro il diritto si cela la Gorgone del potere, che
non si può fissare negli occhi senza rimanere pietrificati; mentre per Nelson dietro diritto e politica allo stesso modo non c’è
che il principio morale universale, il Rechtsgesetz.
Heller poi non è lontano da Smend (e da Schmitt) sotto un
altro profilo: la rivendicazione dell’omogeneità sociale e di una
compatta eticità come precondizione di un effettivo e praticabile ordine politico, e in particolare della democrazia (la «democrazia presuppone l’omogeneità» – dice Smend in Verfassung und Verfassungsrecht)10. A Heller dunque il comunitarismo non è estraneo, seppure all’interno della sua prospettiva
R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale; trad. it. di F. Fiore e J.
Luther, Giuffrè, Milano 1988, p. 184.
10
271
teorica questo assuma un tenore distinto da quello preconizzato
da Smend (e Schmitt). Omogeneità sociale è per Heller innanzitutto uniformità o, meglio, uguaglianza di condizioni economiche e sociali, omogeneità di «classe». Tuttavia, come si ricorderà, Heller non disdegna affatto l’opzione nazionalista. La
sua adesione alla S.P.D. è anzi condizionata alla distanza rispetto al radicale internazionalismo del marxismo classico. In
modo che, a ben guardare, Heller risulta ancora più vicino a
Smend (e a Schmitt) di quanto poteva credersi a prima vista.
La comunità nazionale per lui è il contesto di precomprensione
della questione sociale. Questa, a suo avviso, ha senso e può
risolversi solo all’interno di quella concreta storica forma comunitaria che è la nazione. Lo stesso concetto di uguaglianza
adoperato dal giurista socialdemocratico finisce – come accade
nell’opera di Schmitt – per coincidere con l’idea per l’appunto
di «omogeneità», laddove questa mantiene una chiara connotazione di appartenenza a una medesima comunità nazionale.
La democrazia per Heller, come per Schmitt, si differenzia nettamente dal liberalismo, proprio in quanto è regime di uniformità esistenziale11. Vale a dire, più che autogoverno, congruenza tra la situazione dell’essere soggetti a una regola e la
capacità di contribuire alla produzione della regola medesima,
democrazia in questa prospettiva significa Stato nazionale,
identità esistenziale (etnica, culturale, linguistica, o di classe)
tra governanti e governati. Anche se nella conclusione della seconda edizione di Stato di diritto o dittatura?, che è del 1930,
si segnala la necessità, per ragioni di carattere economico e sociale, di andare oltre lo Stato-nazione e si anticipa, in maniera
veramente profetica, quello che sarà poi il progetto della Comunità europea:
Il fatto che i muri doganali eretti fra Stato e Stato senza tener conto
della situazione del mercato europeo, le industrie di armi nazionali
Vedi C. SCHMITT, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, II ed., Duncker & Humblot, Berlin 1926, pp. 14 sgg.
11
272
create con lo stesso criterio, le fabbriche di automobili di ciascuno dei
dodici stati europei spesso badino soltanto all’interesse privato di alcuni gruppi capitalistici, mentre sono la rovina delle comunità nazionali, farà sentire sempre più forte l’esigenza di una produzione razionale proporzionata al fabbisogno europeo, la necessità di un’internazionale europea per la salvaguardia delle singole nazioni12.
A Nelson, invece, è estraneo ogni afflato nazionalistico. La
comunità non è un presupposto dell’«idea del diritto», ma ne
rappresenta solo il contesto di applicazione. La politica viene
dopo il diritto, e questo si deduce more geometrico dai princìpi
morali. Della comunità v’è un bisogno per così dire contingente,
per quanto duraturo e permanente. Ma qui sono i singoli, gli individui, i portatori dei valori fondamentali, o meglio le entità
cui è concesso d’accedere epistemicamente ai valori. L’individuo prevale epistemicamente sulla comunità; benché questa, se
intesa come àmbito universalizzabile, ha uno statuto normativo
di grado superiore. Ma non si tratta certo della comunità storica concreta di una nazione. Il problema dell’appartenenza è
nella teoria di Nelson del tutto evanescente.
Interessante a questo proposito è la diversa declinazione della
cittadinanza nei tre autori qui considerati. Heller e Smend –
come si è visto – grosso modo convengono su una nozione di
cittadinanza come appartenenza, ancorata a una storia e cultira
comune, là dove Smend sottolinea maggiormente l’elemento etnico-linguistico, mentre Heller si sofferma su quello culturale e
sociale. Nelson invece condivide in buona sostanza l’idea kelseniana del cittadino come mero soggetto giuridico. Per entrambi la cittadinanza in definitiva non sarebbe nient’altro che
la soggezione a uno stesso governo o ordine giuridico: insomma
non vi sarebbe differenza tra cittadino e suddito13.
12
H. HELLER, Stato di diritto o dittatura?; in H. HELLER, L’Europa e il
fascismo, cit., pp. 224-225 (corsivo mio).
13
Tale differenza è per Kelsen meramente «ideologica»: vedi H. KELSEN,
Allgemeine Staatslehre, Julius Springer, Berlin 1925, p. 325. Per la posizione
di Nelson, si legga L. NELSON, System der philosophischen Rechtslehre und
273
2. Dietro Heller, Smend, Nelson, nel libro – se si vuole – si
intravvedono le figure imponenti e ingombranti di due convitati di pietra: di loro è parola qui e là, ma non vi è a proposito
di questi una trattazione prolungata né un’attenzione specifica.
Si tratta ovviamente di Carl Schmitt e di Hans Kelsen, due
grandi, influenti giuspubblicisti e teorici del diritto, avversari
l’un contro l’altro armati, anche se v’è maggior aggressività nell’opera di Schmitt che in quella di Kelsen14. Il primo è per certi
versi addirittura violento nella critica dell’altro; il secondo gli
risponde con atteggiamento olimpico e abbastanza distaccato.
Schmitt – com’è noto – è avversario della Repubblica e fautore
della primazia del potere (la famigerata «decisione») sul diritto,
mentre Kelsen è tenace sostenitore dell’ordinamento democratico e fautore della civilizzazione del potere per mezzo del diritto. Per quanto poi la centralità da lui concessa al principio di
effettività dell’ordinamento possa avere esiti che contraddicono
quell’esigenza di civiltà.
Schmitt prova a separare liberalismo (accoppiato a «parlamentarismo», il regime della discussione) e democrazia (il regime di massa, vale a dire l’entrata in scena del «terzo stato»
o del «popolo» nel teatro della politica), dando del primo una
condanna senza appello, per salvare – così almeno lui sostiene
– la seconda. «La fede nel parlamentarismo, in un government
by discussion, appartiene al mondo ideale del liberalismo. Non
appartiene alla democrazia»15. Smend lo segue a ruota: «È divenuta evidente – dice – l’intrinseca e irriducibile contrapposi-
Politik, in L. NELSON, Gesammelte Schriften in neun Bänden, a cura di P. Bernays et al., vol. 6, Felix Meiner, Hamburg 1976, p. 151, dove si offre la definizione di «popolo» (Volk); e si cfr. R. EMERSON, State and Sovereignty in
Modern Germany, Yale University Press, New Haven, Conn. 1928, p. 181.
14
Né può dimenticarsi che nel 1933 fu Schmitt in buona misura a determinare la cacciata di Kelsen dall’Università di Colonia, dove pure era stato
chiamato da Berlino per intervento di Kelsen, allora preside della Facoltà di
Giurisprudenza. Su questa vicenda dolorosa, cfr. B. RÜTHERS, Carl Schmitt im
Dritten Reich, II ed., Beck, München 1990, pp. 62 sgg.
15
C. SCHMITT, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, II ed., cit., p. 13.
274
zioone di democrazia e liberalismo»16 La democrazia però,
senza più riferimento alle libertà e al regime di discussione rappresentato dal parlamentarismo, si trasforma in ordine comunitario plebiscitario dai tratti cesaristici decisamente autoritari, ma
informe, incapace di regole e istituzioni articolate. E infatti cosa
v’è di più informe della «decisione»? Qui Schmitt in buona sostanza evoca una volta di più il pessimismo di Spengler, nella
celebrazione ultima del cesarismo e nella caratterizzazione di
questo come «formlos», «senza forma»17.
Kelsen al contrario non intende per nulla al mondo disconnettere la democrazia dal liberalismo e dal parlamentarismo, e
tantomeno da un’esigente forma di Stato di diritto rafforzata
mediante l’introduzione di un sistema di controllo giudiziale
dell’attività legislatrice. E tuttavia il relativismo evocato da Kelsen come giustificazione e sostegno concettuale della democrazia, e il riferimento esistenziale alla convinzione e alla Weltanschauung come base ultima dei princìpi, non erano sufficienti
per irrobustire e legittimare il regime democratico contro gli assalti irruenti del pensiero totalitario. Il test decisivo di una concezione morale o di una dottrina politica è per Kelsen – come
per Heller d’altra parte – l’autenticità della convinzione su cui
poggia. È questo l’argomento da lui usato nel ripercorrere il
processo a Gesù che si conclude col plebiscito a favore di Barabba, e di conseguenza con la definitiva condanna a morte del
Cristo. A questo plebiscito, e al relativismo epistemico di Pilato
che vi sta dietro, si può obiettare – secondo Kelsen – solo dall’alto di una credenza assoluta. Il plebiscito, la democrazia, si
può contestare «ad una sola condizione»: «che coloro che hanno
una fede politica siano così sicuri della propria verità politica
[...] come lo era il figlio di Dio»18.
R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale, cit., p. 182.
Si legga O. SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer
Morphologie der Weltgeschichte, DTV, München 1986, p. 1101.
18
H. KELSEN, Forme di governo e concezioni del mondo (1933), in H.
KELSEN, Il primato del parlamento, a cura di G. Geraci, Giuffrè, Milano 1982,
p. 60.
16
17
275
L’argomento di Kelsen però è particolarmente infelice, perché fa riferimento a un caso di patente ingiustizia e anzi a ciò
che nella cultura occidentale è il paradigma dell’ingiusta condanna. Gesù – lo sappiamo bene – è innocente, e nondimeno la
volontà della maggioranza lo manda al calvario. Dinanzi a un
tale esempio di flagrante ingiustizia non c’è invero maggioranza
o democrazia che tenga. Non si fa giustizia a colpi di maggioranze, e un argomento non è vero o maggiormente convincente
e plausibile perché è sostenuto dal maggior numero. La posizione democratica su questo punto è indifendibile e destinata
alla sconfitta. Né vale dire, dinanzi al sacrificio del calvario,
che una decisione comunque va presa, e che dinanzi all’indeterminatezza dei criteri morali, alla loro volatilità ed al conflitto
potenziale che vi è implicito, meglio varrà la certezza del comando positivo. L’ingiustizia è tanto estrema che diviene intollerabile – come dirà più tardi Gustav Radbruch, che pure fino
al 1933 aveva condiviso in buona sostanza il relativismo kelseniano.
Ma anche l’altro passaggio argomentativo di Kelsen, quello
centrale del suo discorso in merito, è del tutto insoddisfacente.
Non è l’intensità con cui si crede qualcosa a poter giustificare
la credenza medesima. Heller – come si è detto – condivide il
punto di vista di Kelsen, secondo cui l’autenticità di una convinzione è la massima sua giustificazione. Tant’è che il maggior rimprovero che muove al fascismo è d’essere una filosofia del come se. «Il vero mito è simbolo di una realtà incontestabile. Il mito di un Sorel, di un Pareto e di Mussolini possiede però sempre il carattere del come-se»19; è un «artificio religioso»20. Al fascismo insomma manca «una decisione politica
di fondo»21. Una credenza però – mi pare – non si giustifica per
la forza psicologica che la sorregge. La fede, la convinzione
non può mai sostituire la ragione. E soprattutto, se la «giu-
19
20
21
276
H. HELLER, L’Europa e il fascismo, cit., p. 89.
Ivi, p. 197.
Ivi, p. 200.
stezza» di una tesi o di un criterio morale o di un atteggiamento
politico risiede in ultima analisi nella forza e nell’autenticità con
cui tale tesi, tale criterio o tale atteggiamento è difeso, il fanatico l’avrà vinta. Appellarsi al fanatico chiedendogli se è proprio convinto, come un «eletto», come può esserlo tuttavia solo
il Cristo, della sua verità equivale a chiedergli se è proprio un
fanatico e poi ad accordargli la ragione (e il sopravvento argomentativo) se dovesse confermarsi tale. L’appello alla convinzione – per quanto faccia leva su una delle pretese (quella di
sincerità) connesse all’atto performativo dell’affermazione – è
contro il fanatico un’arma spuntata, giacché egli inalbera proprio il diritto di colui che è in possesso di una certezza assoluta. «Sei proprio certo d’avere la certezza assoluta?» – questa
è la domanda suggerita da Kelsen per contrarrestare l’avversario della democrazia. Ma se questo risponde affermativamente
a quella domanda, Kelsen non ha più nulla da dire o da obiettare. Quella di Kelsen qui, più che un’apologia, è una «necrologia» della democrazia22. Il dubbio, il relativismo, si rivelano
strumenti del tutto inadeguati per affrontare lo gnostico che divide il mondo rigidamente in bene e in male, in amici e in nemici, e anzi questi mezzi sono destinati in buona misura a confermare l’intollerante nella sua assoluta e ferma decisione.
Si può controbattere a Schmitt evocando il dubbio e dunque
l’esigenza della discussione? Ma per Schmitt, intriso di gnosticismo e vitalismo, dubbio e discussione sono manifestazioni del
«male» contro il quale ha intrapreso la sua battaglia. Al «relativo» di Radbruch e di Kelsen, Smend, Schmitt, per non parlare di Larenz, si battono col richiamo all’«esistenziale» o
all’«assoluto». In realtà, contro questi ultimi (Schmitt, Smend,
Larenz), molto più efficace e pertinente è la strategia di Nelson. Il quale non cede la bandiera della verità all’avversario,
bensì la rivendica per sé, mettendo in campo una serie di raf-
Com’è stato detto da F. MERCADANTE, La democrazia plebiscitaria,
Giuffrè, Milano 1974, p. 86.
22
277
finate dimostrazioni teeoriche. Là dove gli altri si limitano alla
retorica lui pretende di procedere con rigore e fare scienza. Contro il fanatico una certa quantità di platonismo, in dosi non eccessive, può rappresentare un antidoto efficace.
Vi è però un aspetto dell’atteggiamento teorico del «comese» che non va trascurato. Heller parla intelligentemente di «relativismo intuitivo» a proposito del fascismo23 e ne coglie una
certa doppiezza quando sottolinea per esempio il suo amore per
una sorta di cattolicesimo senza cristianesimo. Ora, Carl Schmitt condivide tutti questi tratti dell’atteggiamento fascista. Si
tratta qui, più in profondità, di una teoria «doppia», strutturata
secondo un livello superficiale e un livello più profondo. Al livello superficiale si sostiene una tesi assolutista, l’esigenza della
fede, la decisione sistenziale, le esigenze della vita contro quelle
della ragione. Il livello profondo è però più complesso, meno
chiaro, o più torbido. Heller intravvede qui una sorta di ipocrisia o di «finzione», una mitologia senza «realtà». La verità è
che Schmitt, come Nietzsche, come Pareto e come Mussolini,
ma anche come Leo Strauss più tardi, ha assunto una visione
radicale della modernità come infondabilità dei valori, e addirittura come nichilismo. Da questo ci si può salvare solo mediante una strategia del «come-se», dei residui irrazionali di cui
parla Pareto – che però valgono per i non iniziati, per il volgo,
per i non illuminati. Rispunta qui una nuova versione di platonismo, che si fa forte non tanto di un concetto pubblico di verità (come accade in Nelson), bensì del crollo d’ogni criterio di
verità – riservato nondimeno a una élite di pochi, dotati della
forza di resistere a tale crollo, e addirittura di trovare in esso
motivo di diletto e di godimento estetico.
Kelsen – va ricordato inoltre – è influenzato pesantemente
dal funzionalismo sociologico e dal principio della divisione del
lavoro, ch’egli raffigura come il motore dell’evoluzione sociale.
In modo che a suo avviso a tale principio non sfugge nemmeno
23
278
Vedi H. HELLER, Europa e il fascismo, trad. it. cit., p. 92, p. 197.
la sfera politica, dove esso si manifesta nella progressiva specializzazione delle funzioni del governare. Qui, come anche
nella tesi del relativismo e dell’irrazionalismo dei valori ultimi
che reggono la vita umana, Kelsen non è lontano da Max Weber.
Credere allora che possa darsi mediante democrazia un regime
di autogoverno popolare è una mera illusione, una finzione.
«Wer Politik treibt, erstrebt Macht»24 – dice Weber nella sua famosa conferenza sulla politica come professione: Kelsen non
potrebbe non sottoscrivere una tale affermazione. Il potere per
Weber è come il diritto per Kelsen, può darsi qualsivoglia contenuto, può servire qualsiasi fine. Lo Stato – dice ancora Weber
– «non si può definire sociologicamente a partire dal contenuto
di ciò ch’esso fa [aus dem Inhalt dessen, was er tut]»25. Sul
punto Smend è in aperto contrasto, ché egli rigetta proprio la
concezione strumentale dello Stato come mezzo, come tecnica
o come macchina. «Un apparato» razionale – dice – un’«impresa», già concettualmente è l’opposto di una concepibile
forma di vita26. Per questa ragione Smend osteggia il liberalismo, «che non vede affatto il problema dell’essenza dello Stato
e che perciò non riesce ad andare al di là di una teoria dello
Stato come tecnica o come male minore»27. E anche Heller propende per un’accezione sostanzialistica dello Stato. Il semplice
monopolio della violenza – che per Weber, ma anche per Kelsen in buona sostanza, è l’elemento caratterizzante della forma
Stato – non basta. «Ché solo il contenuto produce la forma e
legittima la violenza [Denn erst der Gehalt bildet die Gestalt
und legitimiert die Gewalt]»28.
M. WEBER, Politik als Beruf (1918), in M. WEBER, Gesammelte Politische Schriften, IV ed., a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen 1980, p.
507.
25
Ivi, pp. 505-506.
26
R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale, cit., p. 205, nota 109.
27
Ivi, p. 124 (corsivo mio).
28
H. HELLER, Europa und der Fascismus, II ed., Walter de Gruyter, Berlin 1931, p. 9.
24
279
L’«autodeterminazione politica» – dice Kelsen – non è che
una «forma snaturata» dell’idea di libertà politica29. Su ciò Nelson non potrebbe essere più d’accordo. Ma una tale impostazione del problema di certo non favorisce la promozione dell’ideale democratico contro i suoi nemici comunitaristi e decisionisti. Se anche la democrazia è in fin dei conti uno Stato autoritario, vale a dire un regime in cui le funzioni di governo
sono assolte da pochi mentre i pochi non fanno che subire e
obbedire, ebbene è forse più appropriato e onesto, oltreché «autentico», rivendicarne e realizzarne la forma genuina e non la
copia contraffatta, la «finzione», il «come-se». Il principio di
legalità – dice Kelsen – è in conflitto con quello di democrazia, ché questa è valore intrinsecamente anarchico, refrattario
alla subordinazione insita nella nozione e nella pratica della
legge. «Persino quando si snatura in autodeterminazione mediante deliberazione di maggioranza, l’idea di libertà conserva
qualcosa della sua originaria tendenza anarchica»30 – che scompone la totalità sociale nei suoi singoli elementi, in atomi, individui. Su questo punto Kelsen non potrebbe essere più vicino
al lui pur ostile Smend; ma anche Heller e Nelson non lo smentirebbero in merito. E Gerhard Leibholz, altro giuspubblicista
della «geisteswissenschaftliche Richtung» non si stancherà di
sottolineare «l’estraneità allo Stato del liberalismo»31, non senza
poi riconnettere il relativismo caro a Kelsen e Radbruch all’anarchismo sotterraneo del pensiero liberale. «Questo relativismo desacralizzato [...] ha messo in pericolo le condizioni organiche dell’esistenza del popolo, ha indebolito l’autorità staVedi H. KELSEN, Demokratie, in Verhandlungen des Fünften Deutschen
Soziologentages vom 26. bis 29. September 1926 in Wien, Mohr, Tübingen
1927, pp. 37 sgg. Si tratta degli atti del convegno dei sociologi di lingua tedesca al quale prese parte anche Nelson con un intervento contro la democrazia e in aperto dissenso con le tesi di Kelsen.
30
H. KELSEN, Democrazia , in H. KELSEN, Il primato del parlamento, cit.,
p. 17.
31
G. LEIBHOLZ, La dissoluzione della democrazia liberale in Germania e
la forma di Stato autoritaria, a cura di F. Lanchester, Giuffrè, Milano 1996,
pp. 40-41.
29
280
tale»32. Ora, nel conflitto tra legalità, principio d’ordine, primazia della totalità e democrazia, ovvero principio d’anarchia,
primato dell’individiduo, dovendo scegliere, il partito di Kelsen – come anche di Smend, Heller, e Nelson – è quello della
legalità così intesa, dell’ordine, e della totalità. È qui, in breve,
in questa pervicace difesa della legalità percepita come principio di comando, tutto il dramma della Repubblica di Weimar,
e delle dottrine giuridiche e politiche che si scontrano per l’egemonia rispetto all’interpretazione di ciò che la Repubblica sia
e debba essere.
In una sua conferenza su «Stato e politica» data a ridosso
della fine del secondo conflitto mondiale Smend individua
quello che è stato a suo avviso l’errore o fraintendimento teorico più carico di ripercussioni fatali sulla vita politica tedesca
della prima metà del secolo. L’errore in questione, un vero e
proprio male, è da lui rinvenuto nella concettualizzazione dello
stato come Kunstwerk o artificio, di cui grande divulgatore fu
Burckhardt già nella sua celebrata storia della cultura rinascimentale. Se lo Stato è visto come fatto tecnico, si riduce a mera
organizzazione di potere. E rispetto a questa, ovvero dentro di
questa, non si potrà operare che con cattiva coscienza – che è
anche ciò che in buona sostanza teorizza Max Weber nella sua
conferenza monachense su «Politik als Beruf», sulla politica
come «professione». Com’è noto, per Weber, al politico non è
dato il lusso della Gesinnungsethik, dell’etica della «convinzione». Ciò perché lo strumento che maneggia ha di per sé un
elemento per così dire diabolico, una qualità demoniaca. Il codice del potere politico – della violenza in ultima istanza, che
per Weber è il quid proprio dello Stato – è quello indicato dalla
posizione machiavellica: la ragione di Stato ha la meglio su
qualsivoglia considerazione morale. Alla Gesinnungsethik va sostituita dunque un’etica della responsabilità, una morale conseguenzialistica che abbia come riferimento supremo la salute o
32
Ivi, pp. 50-51.
281
la salvaguardia dell’organismo politico: salus populi lex suprema esto. Un tale atteggiamento però – obietta Smend – non
permette al politico o al cittadino una piena identificazione con
l’azione politica: la salvezza della sua anima è comunque a rischio. L’etica della responsabilità di cui parla Weber – dice
Smend – condanna l’azione politica alla pena gravosa della cattiva coscienza, di maniera che a colui cui prema maggiormente
la salvezza dell’anima non resta che tenersi ben lontano dall’agone politico.
Chi cerca la salvezza della propria anima rimanga lontano dalla vita
politica, giacché lì si trova in imminente pericolo di perdere la sua
anima [...] Chi si avventura in questa politica è qualcuno che si offre
eroicamente in sacrificio [...], giacché in tal modo si addentra in un
regno affollato di demoni cattivi33.
La prospettiva contrapposta a quella tenuta da Max Weber
sarebbe per Smend la filosofia adottata dal tardo idealismo tedesco ed esemplificata dall’opera di Treitschke. Il nazionalismo
comunitario di questo – sulla scia di Hegel – redime lo Stato,
e da àmbito tendenzialmente immorale ne fa il luogo privilegiato dell’eticità. In modo che il politico che si conduca anche
secondo i dettami della ragione di Stato crederà di agire in buona
coscienza per la realizzazione dei princìpi morali più alti. Purtroppo – nota malinconicamente –- tale coincidenza tra l’àmbito dello Stato (e della politica) e quello della morale «non ci
è più data» 34. Tuttavia – si affretta ad aggiungere – tra
Burckhardt e Weber da un lato e Treitschke dall’altro, è quest’ultimo quello che ha visto meglio. Il «giusto» e il «politico»
devono essere riconciliati. Il destino non può restringersi nell’alternativa tra agire politicamente – ma consegnando l’anima
33
R. SMEND, Staat und Politik, in R. SMEND, Staatsrechtliche Abhandlungen und andere Aufsätze, II ed., Duncker & Humblot, Berlin 1968, p. 375.
34
Ibidem.
282
al diavolo – e la rinuncia alla politica (dovendo vagare allora
come un santo eremita nel deserto).
Queste ultime considerazioni del giurista tedesco possono
servire – io credo – a gettare luce ulteriore sui rapporti tra i tre
idealtipi che in questo libro si è voluto delucidare. Heller probabilmente è assai vicino alla prospettiva di Burckhardt e Weber.
Il decisionismo come modello idealtipico d’ordine politico e
d’azione politica è consapevole di inoltrarsi nell’àmbito del demoniaco. La responsabilità della Verantwortungsethik di Weber
del resto fa appello costante alla decisione come situazione che
produce responsabilità e che dunque come tale ha una specifica
valenza morale. Chi decide nel senso del decisionismo ha anche
in sé spesso i tratti eroici di colui che fa il sacrificio massimo
– quello della propria anima – in beneficio del bene sommo,
che è la sopravvivenza della comunità politica. A Heller, come
del resto ancor più a Carl Schmitt, non è risparmiato il sentimento di una certa propria colpa di colui che si arroga l’atto
supremo del decidere. Darsi alla politica è un po’ dannarsi tanto
per il teorico socialdemocratico che per quello fascista. In più
in quest’ultimo, in Schmitt, vi è il gusto del perdersi. Ci si diletta con l’idea della dannazione e addirittura si sviluppa una
sorta di estetica di questa. Con la soddisfazione più o meno segreta che solo esseri eccezionali ed eroici possono accettare consapevolmente di fare commercio coi demoni ed essere capaci
di ricavarne qualche beneficio. L’ineguaglianza che celebra Schmitt, prima che quella tra amico e nemico, è quella tra chi può,
è forte abbastanza, da cedere e sopravvivere all’abbraccio dei
demoni, e chi invece da tale abbraccio sarebbe subito ridotto in
larva o cenere.
Smend però non è di quest’avviso. Non ha la pretesa di giocare al superuomo, né è mosso da sotterranei motivi gnostici.
Piuttosto, com’egli stesso conferma, è la via maestra dell’idealismo hegeliano e del nazionalismo comunitario quella che preferisce. A Weber – come si è visto – contrappone Treitschke, e
di questo assume il punto di vista moralista: la strategia politica è allo stesso tempo visione morale. Lo Stato qui è inzuppato di eticità: «Lo Stato è chiamato a realizzare la missione
283
morale sulla terra [Der Staat ist berufen, die sittliche Aufgabe
auf Erden zu verwirklichen]»35. Non c’è posto per la cattiva coscienza, se si ritiene che il proprio paese abbia dinanzi a sé il
còmpito di affermare nel mondo certi valori, e che questi sono
già incarnati nelle strutture politiche della nazione. Il moralismo diviene qui quasi subito giustificazione dell’imperialismo
e trae la sua linfa vitale dalla ragione di Stato medesima. Ciò
che invoca Smend è l’idea di una comunità come unità autocentrata, il «circolo chiuso» di Litt ipostatizzato e rinchiuso in
confini netti (operazione che fa dire a Kelsen che Smend tradisce lo spirito del suo maestro Litt)36. Ma così facendo, e moralizzando inoltre quell’unità, Smend si propone ciò che per Eric
Voegelin è l’essenza della «religione politica», l’elevazione
della comunità a «persona», a soggetto dotato di movimenti propri e di un’interna giustificazione, ecclesia immanente e mondana. «Abbiamo detto – scriveva Voegelin nel 1939 – che il
presupposto più rilevante per la nascita delle religioni comunitarie immanentistiche è l’autocomprensione di una comunità
come unità centrata in sé»37.
Nel Faust, romanzo dell’esilio, Thomas Mann ricostruisce –
in un’accalorata discussione di Adrian Leverkühn, il protagonista, con alcuni colleghi d’università – quello che è il dibattito
politico in Germania tra Ottocento e Novecento. C’è Arzt, che
difende il punto di vista per cui lo Stato è un’impresa chiamata
a svolgere certe funzioni, in particolare di sostegno dell’economia. Ci sono Dungersheim, Schappeler e Hubmeyer, sospettosi
in varia misura rispetto ai miti del nazionalismo, nel quale rinvengono i tratti d’una ideologia priva d’autenticità oppure una
specie di emergente nuova religiosità pagana. C’è Teutleben, entusiasta difensore delle virtù di un Volkstum, di un’essenza et-
35
H. vON TREITSCHKE, Fichte und die nationale Idee, in VON TREITSCHKE,
Deutsche Kämpfe, a cura di H. Heffter, Alfred Kröner, Leipzig 1935, p. 364.
36
Si legga H. KELSEN, Der Staat als Integration, cit., pp. 35 sgg.
37
E. VOEGELIN, Die politische Religionen, Fischer, Stockholm 1939,
p. 44.
284
nica, che non è altro che Deutschtum, teutonicità. E c’è Deutschlin, che rivendica il valore intrinseco dello Stato e la sua autonomia rispetto all’esistenza e alle decisioni dei singoli. «La
legittimità dello Stato – dice quest’ultimo – risiede nella sua supremazia»38. Lo Stato è una «forma di vita» e questa entra in
crisi non appena ci si interroga sulla sua giustificabilità39. Sono
questi i motivi conduttori del pensiero antiliberale che decenni
di filosofia idealista e romantica hanno diffuso nella società tedesca. Ora, la Integrationslehre è tutta interna al mondo culturale rappresentato da Deutschlin.
Ben diversa è la posizione di Leonard Nelson, che di certo
non è meno moralista di Smend – nel senso che per il filosofo
di Göttingen la politica non può che essere morale applicata.
Nelson, seguendo Kant, distingue la teoria morale in Tugendlehre e Rechtslehre, in dottrina della virtù e dottrina del diritto,
là dove la prima si occupa di ciò che è il bene dell’individuo e
la seconda di ciò che fa il bene della società. Per Nelson la dottrina del diritto non è però indipendente dalla dottrina della
virtù: quest’ultima ha la meglio sull’altra, nel senso che l’obbligo morale è pretesa di azione, e solo un individuo, non anche
una società, può agire e soprattutto agire moralmente (con consapevolezza, in coscienza). Nondimeno, la dottrina del diritto
svolge un ruolo fondamentale nel chiarire le condizioni dell’obbligo morale nelle relazioni interpersonali collettive. Dottrina della virtù e dottrina del diritto sono tuttavia teorie «ideali»
o «pure»; esse dunque necessitano di essere applicate. E la loro
rispettiva applicazione sono (per la dottrina della virtù) la pedagogia, e (per la dottrina del diritto) la politica. Quest’ultima
pertanto è dottrina del diritto o, se si preferisce, morale pubblica, applicata. Non può esservi dunque spazio alcuno per la
cattiva coscienza nella costruzione teorica di Nelson. È vero che
anche per lui il diritto è essenzialmente sanzione, e lo Stato si
38
«Die Legitimierung des Staates liege in seiner Hoheit» (TH. MANN,
Faust, Fischer, Frankfurt am Main 1994, p. 164).
39
Ivi, p. 157.
285
presenta con i tratti inequivocabilmente weberiani del monopolio della violenza. Nondimeno, la politica è piegata pienamente
alla realizzazione di fini che le provengono dalla morale pubblica e in ultima analisi dalla morale tout court (che è critica,
altamente riflessiva, immediatamente individuale, anche se non
relativa al soggetto o «soggettiva»). Anche se il razionalismo
che pervade tutto il suo pensiero non lascia spazio alla «decisione» così importante per Schmitt e in qualche modo evocata
sempre dalla tradizione giuspositivistica. Significativamente è
su questa messa in sordina del ruolo della volontà sovrana che
fa leva la critica di Karl Larenz alla filosofia del diritto nelsoniana, alla quale per l’appunto si rimprovera «il misconoscimento di questa necessità della decisione»40.
Nelson allora non sa che farsene della «Dämonie der Macht»,
della diabolicità del potere. Ma nemmeno dell’eticità dello
Stato. Questo per lui rimane uno strumento, incapace come tale
di esprimere dei fini categorici; questi gli derivano solo dalla
morale pubblica e dal suo criterio fondativo, il Rechtsgesetz, il
«principio del diritto» che, come si è visto, sancisce un criterio
sostanziale di uguaglianza. I Gebildeten, gli «istruiti» di Nelson
non hanno niente a che fare con gli eroi/vittime prefigurati da
Schmitt, per non parlare del Katechon, l’uomo eccezionale e
salvifico, il Führer ripetutamente preannunciato dal giurista tedesco. E si può ben essere Gebildeter, un «educato» nel senso
di Nelson, senza soffrire in alcun modo cattiva coscienza.
3. Rilevante in questo contesto è l’opera di Helmut Plessner
Die Grenzen der Gemeinschaft, «I limiti della comunità», apparsa in Germania nel 1924. Qui si affronta con intelligenza la
questione centrale per la cultura tedesca del tempo della relazione tra «cultura» e «civiltà», Kultur e Zivilisation, o altrimenti
detto tra «comunità» e «società», Gemeinschaft e Gesellschaft.
Il libro di Plessner si presenta come una critica del comunita-
K. LARENZ, Rechts- und Staatsphilosophie der Gegenwart, Junker und
Dünnhaupt, Berlin 1931, p. 74.
40
286
rismo, delle teorie della «comunità», che egli chiama anche «radicalismo sociale». Plessner individua due nozioni fondamentali di «comunità», l’una irrazionalistica e vitalistica di una comunione personale fondata sull’amore e nel sangue, l’altra invece estremisticamente razionalistica e moralistica centrata sull’idea della comunanza di convinzioni ideali e di princìpi. Per
lui entrambe sono deficienti, perché non dànno spazio a ciò che
gli sembra l’àmbito fondamentale della convivenza umana, la
«sfera pubblica», la Öffentlichkeit. Questa si caratterizza per
dare soddisfazione a un’esigenza esistenziale permanente, quella
della «distanza» (o «ironia») e del «gioco». Mentre la comunità, in entrambe le sue versioni, è oppressa da un surplus di
serietà, e di autenticità, v’è necessità di un territorio sociale in
cui predomini l’artificio, il gioco per l’appunto, e con questo
l’inessenziale, l’a-strumentale, infine il gratuito. Per Plessner la
sfera pubblica ruota su due assi principali: la «diplomazia» e il
«tatto» – che sembrerebbero escludere ogni valenza alla forza
del potere e della violenza.
Tuttavia, allorché si tratta di definire i contorni politici di
questa terza dimensione, curiosamente Plessner propone un modello che è prossimo al decisionismo schmittiano41. Ciò è dovuto a una serie di fraintendimenti e di ipoteche teoriche che
sono tanto gravide di conseguenze quanto indicative di un clima
filosofico. Una prima discutibile equiparazione è quella tra mediazione e violenza. Se è vero che la «società» o la «sfera pubblica» implicano un elemento importante di «distanza» tra i soggetti in esse attivi, se è vero ancora che la «comunità» (sia essa
«personale» o «impersonale») non esaurisce lo spettro possibile
delle relazioni umane, la violenza tuttavia è una situazione che
avvicina e non allontana. Tra chi soggiace alla violenza e colui
che si rende responsabile di questa ogni distanza è crollata: l’uno
Per il legame teorico tra Plessner e Schmitt, cfr. R. KRAMME, Helmut
Plessner und Carl Schmitt. Eine historische Fallstudie zum Verhältnis von
Anthropologie und Politik in der deutschen Philosophie der zwanziger Jahre,
Duncker & Humblot, Berlin 1989.
41
287
è «toccato» – per così dire – dall’altro. Nella situazione violenta la mediazione non è più operativa. Si media del resto per
non dover giungere alla situazione di violenza. Ciò non è visto
da Plessner, per due ragioni probabilmente. Sottovaluta che c’è
una vicinanza che non presuppone o produce «comunità»: questo è il caso tanto della violenza quanto della negoziazione (i
contraenti sono «vicini», non «distanti»); e che c’è una distanza
che presuppone e produce invece «comunità»: questo è il caso
dei rapporti giuridici. Se la politica è – come dice Plessner –
«una sfera nella quale gli uomini entrano solo con la visiera e
con la spada»42, visiera e spada non esprimono distanza e mediazione; semmai servono a tenere a distanza un avversario che
ci è tanto vicino da mettere a rischio la nostra incolumità e la
nostra stessa esistenza. «Senza annientamento, infatti, almeno
come minaccia non c’è politica»43. Ma l’annientamento è suprema vicinanza – si può subito obiettare.
Si ritrova nella prospettiva di Plessner la reiterazione di un
punto di vista assai diffuso nella cultura filosofica e giuridica
della Germania a cavallo tra Ottocento e Novecento: che il diritto è un prodotto della violenza (sia pure «monopolizzata»):
«non c’è diritto senza annientamento della libertà»44. Tale idea
dunque è fatta propria da Plessner, che anzi la radicalizza tenendo conto della lezione vitalistica e gnostica di Carl Schmitt.
L’altra ragione dell’equiparazione di diritto e violenza è in questa fase del pensiero di Plessner dovuta per l’appunto all’influenza schmittiana; qui per ciò che riguarda il rapporto tra
norma e situazione di applicazione. Plessner acutamente sottolinea che tra norma e situazione d’applicazione non v’è mai perfetta congruenza. Nota anche che – come diranno poi Wittgenstein e H.L.A. Hart –- le regole non regolano la loro applicazione. Tra la norma e la sua applicazione c’è un salto pratico
che la norma da sola non riesce a compiere, o – se si vuole –
H. PLESSNER, I limiti della comunità, a cura di B. Accarino, Laterza,
Roma-Bari 2000, p. 114.
43
Ivi, p. 117.
44
Ivi, p. 116.
42
288
una lacuna ch’essa non può colmare. Da quest’osservazione,
plausibile, si trae però una conclusione assai meno giustificata.
E cioè che la situazione non può governarsi con la norma in
nessun senso. Ora, dalla constatazione che la norma non riesce
da sola a darci la soluzione per il caso concreto discende logicamente la conclusione (più modesta) che la norma va affiancata da un «qualcos’altro» al fine di produrre la decisione; non
però la conclusione (assai più ambiziosa e radicale) per cui la
norma è irrilevante nel caso di specie. «Una decisione dev’esserci» – dice Plessner con piglio categorico45 . E solo con difficoltà potrebbe negarsi plausibilità a una tale considerazione.
Ma dal fatto che debba esserci una decisione non discende l’esigenza che questa debba darsi sempre e comunque contra
legem, contro la norma.
Ammesso pure che A, la norma, non sia condizione sufficiente di B, la soluzione per il caso concreto, ciò non esclude
che A non possa essere condizione necessaria della soluzione in
questione. Plessner qui cade nello stesso errore di Schmitt e fa
di condizione necessaria e di condizione sufficiente una stessa
cosa. Da ciò ha origine l’esaltazione della decisione concreta e
un occasionalismo esplicito riferito alla decisione politica e giuridica. Si giunge così ancora una volta all’esaltazione del
«grand’uomo», del «duce», e alla scissione radicale della morale del «politico» da quella dell’uomo ordinario. Il terreno politico è di nuovo una sorta di antro del demonio, in cui il politico non può rifiutarsi di entrare senza peccare di «irresponsabilità». «Fare i conti con la realtà significa fare i conti con il
diavolo»46. Ha ragione il Grande Inquisitore ad ordinare l’arresto del Cristo risorto a Siviglia: «non c’è infatti pericolo maggiore, per il potere di Dio sulla terra, di un cuore che si ribella
in suo nome»47. La configurazione del politico assume così tratti
45
46
47
Ivi, p. 108.
Ivi, p. 118.
Ibidem.
289
di un radicale decisionismo; il politico ha potere di vita e di
morte, è il giudice supremo del bene e del male in società.
Una leadership – afferma Plessner – dev’esserci, e questa leadership
di un potere di iniziativa che si mette in moto da sé diventa necessariamente titolare del potere supremo: diventa sovrano, diventa signore
quando una maggioranza di uomini consapevoli della propria co-appartenenza vuole costituire un ordinamento. Essa diventa il «luogo»
che decide dello stato d’eccezione [...] Di conseguenza essa diventa
[...] il luogo fino al quale non penetra più la razionalizzazione della
vita sociale e nel quale acquistano di nuovo forza preponderante le decisioni originali e irrazionali della personalità singola in carne ed ossa48.
«Tutto fa capo – continua – all’uomo al quale va il potere
supremo, tutto fa capo alla sua individualità irrazionale, al suo
carattere, al suo temperamento, alla sua capacità di valutazione,
alla sua volontà»49.
Si noti come in questa celebrazione della leadership (ma l’originale tedesco è Führung50) sia dia una fondazione in ultima
istanza comunitaristica, e di un comunitarismo vitalistico e personalistico, giacché essa è fatta poggiare su una «maggioranza
di uomini consapevoli della propria co-appartenenza». «Come
dirigente politico l’uomo [...] incarna, agendo, la totalità»51. Nell’àmbito della società, della sfera pubblica (che, secondo Plessner, non sente le ragioni né del cuore né dell’intelletto), si dà
una specie di «coazione alla delegazione del potere esecutivo a
una persona»52, giacché – come si è visto – «una leadership
deve esserci», «Führung muss sein». E questa coazione alla «ducità» è equivalente, dalla parte di chi ne è investito, a un obbligo di potenza.
Ivi, p. 109.
Ivi, p. 112.
50
Vedi H. PLESSNER, Die Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001, p. 116.
51
H. PLESSNER, I limiti della comunità, cit., p. 110.
52
Ivi, p. 112.
48
49
290
La coazione alla leadership è l’obbligo di potenza, il più alto tra i doveri profani di una vita che sia gioiosamente dedicata al servizio del
mondo, che è di Dio. Essa fonda il diritto dello stato e della Chiesa,
il diritto all’acquisizione e all’uso del potere, alla costruzione e alla
difesa dell’ordinamento societario di vita contro l’eterna ribellione
della ragione e del cuore53.
Ma se la sfera pubblica è «il luogo delle persone che si incontrano senza avere legami»54, non si capisce come da quest’àmbito possa sorgere il Politico, il Dirigente, il Duce, che
«incarna la totalità». Tale incarnazione, infatti, sarebbe possibile soltanto mediante l’annullamento della distanza tra i soggetti plurali presenti nella sfera pubblica, sottraendo loro il potere di iniziativa politica e concentrandolo nelle mani
dell’«uomo di fiducia». Del resto Plessner tiene a sottolineare
che tale «fiducia» non è necessariamente prodotto di una procedura di conferma esplicita della fiducia medesima, ad esempio «attraverso una procedura elettorale»55. Qui ci si imbatte in
una flagrante contraddizione interna alla costruzione teorica del
filosofo tedesco. La sfera pubblica si definisce innanzitutto
come l’àmbito in cui si sublimano i bisogni «essenziali», in cui
vale la legge di ciò che è gratuito, non quella del «necessario»
o dello strumentale. La sfera pubblica è concepita anche come
lo spazio in cui i soggetti si rivestono di ruoli e di «maschere»,
e così facendo sono plurali, disuguali, perché i ruoli e le maschere si diversificano. La «distanza della «società» (che è la
sfera pubblica in quanto distinta dalla «comunità») discende
proprio da tale differenziazione e pluralità. Si «gioca» tra ruoli
differenti nella diversificazione delle funzioni, come accade in
una squadra sportiva o in un gioco di società. Improvvisamente,
però, questa prospettiva viene capovolta o, meglio, sottoposta a
un esercizio di radicale riduzionismo. Leggiamo allora che
53
54
55
Ivi, p. 113.
Ivi, p. 89.
Ivi, p. 110.
291
non potendo gli uomini non nascondersi dietro maschere, dietro le loro
funzioni o le loro valenze pubbliche – nasce un eguagliamento, una
riduzione di ciascun singolo alle esigenze indispensabili della sua esistenza, fino alle pure e semplici tendenze a trarre vantaggi, nelle quali
tutti somigliano a tutti56.
In altri termini, nonostante le sue insufficienze teoriche e
argomentative, il libro di Plessner è per noi assai utile, perché
ci aiuta a metter ordine nelle tre figure idealtipiche che si contendono il terreno della dottrina dello Stato negli anni di Weimar. Ciò che Plessner chiama «comunità personale» ricorda
molto l’idea del «circolo chiuso» di Litt, applicata da Smend
alla società politica. Così come la «comunità impersonale» di
Plessner, tenuta insieme solo da princìpi e convinzioni, richiama alla memoria il modello platonista di Nelson. Infine, il
cammino battuto da Plessner con la sua rivalutazione della «volontà di potenza» e l’equiparazione di mediazione e violenza
(«il contegno è pura violenza»)57 è in buona sostanza lo stesso
calcato da Heller, almeno fino alla fine degli anni Venti: è il
decisionismo.
La configurazione data ai tre modelli è nel libro di Plessner
abbastanza precisa e suggestiva. Così come suggestive sono le
critiche avanzate nei confronti dei due distinti modelli comunitaristi, quello detto «personale» e l’altro definito «impersonale»,
che mettono il dito nella piaga. Intelligente e centrale è l’osservazione che la comunità «personale» rinvia alla figura del
capo, per cui l’affetto o l’amore si tramutano in obbedienza, e
la vicinanza in somma distanza. E del pari acuta e centrata è la
critica che si muove al comunitarismo «impersonale» (che potrebbe essere ben rappresentato dall’ordinamento politico preconizzato da Nelson): che i princìpi e le norme non si applicano da soli, che richiedono «tatto», e dunque un livello di me-
56
57
292
Ivi, p. 11.
Ivi, p. 122.
diazione rispetto alla situazione concreta58. Il problema e il limite enorme di Plessner, ma con lui di tutta la prospettiva decisionistica, è di non volere formalizzare o istituzionalizzare
questo momento, ritenendo che basti l’intuito o la «virtù» (in
senso machiavellico) dell’«uomo di fiducia». Plessner qui segue
Schmitt; Heller non si affida invece al «grand’uomo», ma al
mito della legge, e alla figura del legislatore collettivo. Il quale
però, non essendo tematizzato nelle sue articolazioni discorsive,
interne, alla fine si staglia come un «grand’uomo» comunitario.
Gira e rigira, è proprio questo, il comunitarismo, o l’anti-individualismo, l’orizzonte che i modelli di Weimar qui discussi
non riescono mai a oltrepassare. E il comunitarismo si associa
alla nostalgia della leadership, alla ricerca dell’uomo o degli uomini decisivi, che è comune – fatte le debite differenze – sia a
Smend sia a Heller che a Nelson. «Si può fare a meno della politica» – aveva raccomandato Thomas Mann nel suo manifesto
conservatore pubblicato nel 1918, le Considerazioni di un impolitico. E una siffatta raccomandazione trova di certo un’eco
potente nelle idee di Nelson. Heller e Smend non sembrerebbero essere di quell’avviso; entrambi tuttavia nei loro scritti riducono radicalmente l’elemento deliberativo e riflessivo della
politica, e ne esaltano invece il lato emotivo, espressivo, esistenziale. La politica resa in tal guisa dominio di emozioni e
dell’espressività collettiva può rinunciare alla pluralità manifesta delle sue manifestazioni e giocarsi tutta tra la pompa del
«mito» e l’intimità della «decisione».
Decisionismo, comunitarismo, platonismo – «disgrazie» e
motivi del crepuscolo di Weimar – circolano ancora oggi nel
dibattito giusfilosofico. D’essi questo libro non poteva né vo-
58
È possibile che l’accento qui posto sulla nozione di «tatto» abbia una
valenza antinomica e antirazionalistica, simile a quella che assume in certo
pensiero tedesco del Settecento, là dove ci si serve di quella nozione in contrapposizione alla centralità dell’«intelletto», della «regola» o della «legge»
nelle filosofie illuministiche. In merito cfr. H.G. GADAMER, Wahrheit und
Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, VI ed., Mohr, Tübingen 1990, pp. 32 sgg.
293
leva sbarazzarsi; gli idealtipi hanno vita lunga e manifestano resistenza alle mode, e purtroppo anche alla confutazione sia della
ragione che della storia. E servono anche da utili segnaposti,
onde riconoscere qualità e, per così dire, personalità di discorsi
all’apparenza solo astratti. In queste pagine, grazie allo studio
d’un contesto specifico, si è tentato d’individuarne certi grumi
teorici, il loro errare labirintico e tuttavia produttivo, fino ad andare a cacciarsi in vicoli ciechi, dunque la loro storicità, e una
comune politica apoliticità.
294
Indice dei nomi
Accarino B., 194n., 288n.
Adler M., 58.
Albrecht S., 56n.
Alexy R., 116, 193, 244n.
Amirante C., 70n., 270n.
Anastasio (imperatore), 23.
Anschütz G., 183n., 184n.
Archimede, 127.
Arendt H., 61n., 149n.
Aristotele, 269.
Austin J., 82, 102, 112.
Ayer A.J., 240.
Bakunin M., 59.
Baldassarre A., 135n., 182n.
Ball H., 8n.
Barabba, 275.
Barth K., 265.
Bauer O., 62.
Beaud O., 107n.
Bebel A., 57-58, 64.
Benjamin W., 7.
Bentham J., 82, 112.
Bergman I., 7.
Bernays P., 45n., 78n., 203n., 204n.,
260n., 262n., 264n., 267n., 274n.
Binder J., 76n., 78, 94, 140, 188-189,
190n., 202.
Bismarck O. von, 33, 69n., 136.
Bobbio N., 128n., 145n.
Bodin J., 108.
Bökenförde E.W., 77n.
Borchardt H., 8.
Bornhak C., 41, 237.
Braun O., 107.
Brüning H., 181.
Brunschwieg L., 254n.
Burckhardt J., 281-283.
Caffi A., 59.
Caldwell P.C., 12n.
Carnap R., 240.
Carrino A., 56n.
Cassirer E., 7, 115n.
Castoriadis C., 189n.
Castrucci E., 121n.
Cervantes M. de, 177n.
Chesterton G.K., 137, 195-198.
Claussen J.H., 57n.
Colliot-Thélène C., 103n.
Comte A., 17.
Condorcet M.-J., 169.
Conrad J., 9, 41, 237.
Constant B., 134.
Cortés D., 9.
Crispi F., 75.
Croce B., 126n., 134.
Darwin C., 61.
De Lagarde P., 9.
Deloffre F., 27n.
De Sanctis F., 34n., 46n.
295
Dehms A., 204n.
Dickens C., 5.
Dilthey W., 96, 97n.
Dostoievskij F., 9.
Dworkin R., 119, 176.
Dyzenhaus D., 56n., 119n., 129n.
Eichler W., 202n., 204n.
Emerson R., 274n.
Engels F., 61.
Estevez Araujo J., 37n.
Fassò G., 258n.
Federico II, 8.
Fichte J.G., 67, 125, 135, 190n., 207.
Fioravanti M., 122n.
Fiore F., 271n.
Flórez Miguel C., 13, 128n.
Forsthoff E., 68, 94, 158, 179, 270.
Francesco Giuseppe (imperatore),
55.
Franke H., 201n.
Friedrich M., 138n.
Fries F.J., 205-206, 208, 220-221,
237n., 251n., 262, 269.
Gadamer H.G., 293.
Gelasio (papa), 23.
Geldsetzer L., 220n.
Geraci G., 275n.
Gerber C.F., 37, 39, 46, 80-84, 90,
92-93, 100, 154, 182.
Gerold-Tucholsky M., 121n.
Gesù, 128, 275-276.
Gierke O. von, 39, 99, 134, 143, 199200.
Gobineau J.A., 9.
Goethe J.W., 8.
Grabs W., 204n.
Guglielmo II, 41, 147.
Gumplowicz L., 55.
Gunten J. von, 263.
Günther K., 192n.
Habermas J., 7, 86, 105n., 162, 208.
Haenel A., 168.
296
Hägerström A., 264.
Hare R.M., 74n.
Hart H.L.A., 288.
Hart M., 202n.
Hauriou M., 169n.
Heckmann G., 259n.
Heffter H., 284n.
Hegel G.W.F., 18, 61, 76, 86n., 92,
104, 116n., 135, 207, 261-262,
282.
Heidegger M., 7, 199, 262, 265.
Heine H., 12.
Heinrich H., 16n.
Heller H., 7, 11, 31, 33, 55, 56-74,
76-79, 83-86, 89-90, 94-128, 137,
152, 162, 165, 261-266, 269-276,
278-281, 283, 292-293.
Hemke H., 137.
Hennis W., 11n.
Hering S., 204n.
Hernández Marcos M., 128n..
Herzen A.I., 9.
Hesse H., 6.
Hilbert D., 262.
Hintze O., 192.
Hitler A., 8, 67, 73-74, 79, 87, 107,
113, 123-124.
Hobbes T., 102, 105, 230.
Hofmannstahl H. von, 9.
Hohenauer G., 10n.
Holmes St., 268n.
Holstein G., 33, 143n., 265.
Horváth Ö. von, 126n.
Huber E.R., 183-184n.
Hübinger G., 19n.
Hume D., 209.
Husserl E., 140.
Jacobsen A.J., 12n.
Jellinek C., 15n.
Jellinek G., 12, 15-26, 28-54, 80-93,
97-100, 103, 107, 110-111, 116,
143, 154, 161-162, 165, 182, 223230, 232-234, 237-238, 253-254,
258, 262.
Jellinek W., 15-16, 18, 38, 83n.
Joerges Ch., 179n., 192n.
Jouanjan O., 152n.
Jünger E., 74, 113.
Kant I., 18, 31, 52n., 131, 135, 169,
205-222, 240, 257, 267, 269, 285.
Kapp W., 57.
Kaufmann E., 10, 46, 94-95, 114n.,
121, 137, 199.
Kautsky K., 57-58.
Kelsen H., 7, 54, 56, 59, 65, 73, 78,
89, 83, 87-88, 90-100, 102-103,
110-114, 128, 139, 142, 144, 154,
168, 171-173, 179, 182, 199-200,
262-263, 270-271, 273-281, 284.
Kempter K., 16n.
Kennedy D., 128n.
Kersten J., 16n., 84n.
Kervégan J.F., 103n.
Kessler F., 257n.
Kymlicka W., 132n.
Kirchheimer O., 106.
Klar K.H., 204n.
Klecatsky H., 128n.
König G., 220n.
Kramme M., 287n.
Kraus K., 190.
Krockow Ch. Graf von, 198n.
Kuhn T., 49.
La Torre M., 189n., 193n.
Laband P., 10, 37, 39, 46-48, 80-84,
90, 92-93, 99-100, 103, 134, 154,
159, 182.
Lalatta Costerbosa M., 189n.
Lanchester F., 6n., 280n.
Larenz K., 76, 94, 121, 142, 158,
188, 202, 270, 277, 286.
Larmore Ch., 268n.
Lassalle F., 58-59, 66, 73, 115-118,
161-162, 174.
Lee E.J., 56n.
Leibholz G., 94-95, 137-138, 168,
188n., 280.
Leibniz G.W., 17n., 46.
Levetzow M. von, 57.
Link W., 204n.
Litt Th., 140, 141-142, 157n., 175,
194, 284, 292.
Locke J., 42, 131.
Los Rios F. de, 69.
Lübbe H., 190n.
Luca (evangelista), 23, 128n.
Ludz U., 61n.
Luthardt W., 77n.
Luther J., 271n.
Mach E., 264.
Machiavelli N., 34n.
Mackie J.L., 160.
Maier H., 19n.
Mann H., 6, 35, 121, 135, 145.
Mann T., 8, 69, 77, 98, 120, 125, 134,
147-148, 197n., 284-285, 293.
Marcic R., 128n.
Marx K., 59-61, 66.
Mazzini G., 135.
McCormick J., 7n.
Meinecke F., 143.
Menger Ch. F., 237n.
Mercadante F., 277n.
Merker N., 218n.
Merkl A.J., 91n., 128n.
Merlino F.S., 59.
Meyer K., 55n.
Miccù R., 10n.
Michels R., 77.
Mill J.S., 134.
Miller S., 204n.
Mortati C., 179, 192.
Müller C., 56n.
Musil R., 56.
Mussolini B., 69, 72, 75, 79, 145,
276, 278.
Nawiasky H., 88n.
Nelson L., 7, 11, 45-46, 78n., 95, 99,
170-171, 201-225, 229-241, 243264, 266-267, 269-271, 273-274,
277-278, 280-281, 285-286, 292293.
297
Nietzsche F., 9, 112, 136, 265, 278.
Nino C.S., 235n., 237n.
Olms G., 17n.
Ossietsky C. von, 65.
Osterroth F., 58n.
Papen F. von, 107, 109-110.
Pareto V., 77, 276, 278.
Pascal B., 254.
Pasquino P., 89n.
Pasukanis E.B., 95.
Pauly W., 182n.
Piña A.L., 79n.
Pio IX, 25.
Pirandello L., 9.
Platone, 197, 257, 269.
Plessner H., 157n., 194, 200n., 286293.
Pocar E., 6n.
Pomarici V., 56n.
Ponzio Pilato, 128, 275.
Puchta G.F., 10.
Quin A., 195-196, 198.
Raas-Rietsche H., 204n.
Radbruch G., 57, 62, 69, 106, 124,
129, 179, 276-277, 280.
Rädle H., 56n.
Ranke L. von, 9.
Rathenau W., 7, 202.
Rawls J., 131-132.
Renan E., 144-145.
Ringhogfer K., 102n.
Riquer M. de, 177n.
Robbers G., 56n, 69n.
Ross A., 21.
Rosselli C., 59.
Roth J., 56, 75n., 109n., 113n., 148n.
Rousseau J.J., 131, 195, 221-222.
Russo L., 34n.
Rüthers B., 274n.
Sander F., 91n.
Sattler M.J., 15n.
298
Sauer W., 10n.
Savigny F.K. von, 15, 92, 135.
Scerbo A., 189n.
Schambek H., 128n.
Scheuerman W.E., 12n.
Schiller F., 205, 215.
Schlick M., 240.
Schlink B., 12n.
Schluchter W., 56n.
Schmitt C., 11, 46, 74, 87, 94-95,
100, 103n., 104, 106-108, 114,
116, 118, 120, 122, 125, 137-138,
152-153, 158-160, 168, 170-171,
179-181, 183-185, 262, 270-272,
274-275, 277-278, 283, 286-289,
293.
Schneider H.P., 69n., 121n.
Schoeps J., 204n.
Schönberger C., 5n.
Schopenauer A., 17, 46, 136.
Schroeder P., 245n.
Schumpeter J., 55.
Schwinge E., 192.
Seligman A.R.A., 90n.
Sedeyn O., 197n.
Seydel M. von, 41, 237.
Shaftesbury A., 230.
Siegel R.J., 109n.
Simmel G., 202.
Singh Galeigh N., 179n., 192n.
Sinzheimer H., 46n.
Smend R., 11, 94-96, 103n., 115,
131, 137-139, 141-195, 198-200,
255, 261-266, 269-274, 277, 279285, 292-293.
Sonntheimer K., 121n.
Sorel G., 137, 145, 159, 276.
Spann O., 140, 188-189.
Specht M., 204n.
Spengler O., 8, 62, 127, 262, 275.
Staff I., 55n., 69n., 106n.
Strauss L., 197, 266-269, 278.
Stolleis M., 6n., 142.
Thoma R., 152, 184.
Verdross A., 128n.
Vidari G., 218n.
Voegelin E., 284.
Volpe G., 8n., 196n., 254n.
Voltaire, 27, 41, 53.
Vorländer K., 52n.
Walzer M., 195.
Waser R., 57n.
Wayn A., 196, 198.
Weber Marianne, 190n., 203.
Weber Max, 7, 11, 19, 29n., 65n., 78,
103n., 143, 145, 148, 154, 159,
166, 168, 247-248, 279, 281-283,
286.
Weil S., 9.
Werfel F., 8n., 85.
Whitman J.Q., 103.
Winckelmann J., 19n., 29n., 65n.,
279n.
Windelband W., 15n.
Wittgenstein L., 193, 240, 288.
Wróblewsky J., 193.
Walser R., 263n.
Walter R., 102n.
Zagrebelsky G., 187.
Zweig S., 9, 134.
Tocqueville C. de, 134.
Tönnies F., 156.
Treitschke H., von, 9, 282-284.
Treves R., 56n.
Triepel H., 95, 168, 188n.
Troeltsch E., 57n., 143.
Tucholsky K., 65, 121n.
Ubaldi B., degli, 151.
299
Indice
Prologo
Capitolo primo
La modernità giuridica: Georg Jellinek
1. La storia come ordalia del mondo
2. Conflitti della modernità
3. La lotta del diritto «nuovo» contro il «vecchio»
Capitolo secondo
La sovranità radicale: Hermann Heller
1.
2.
3.
4.
Un cittadino di Weimar
Il pensiero politico: socialismo e nazione
L’analisi del fascismo
La dottrina giuridica: decisionismo e rivolta
contro il formalismo
5. La teoria della sovranità
6. La difesa della Repubblica di Weimar:
rivalutazione della costituzione formale
7. Verità e politica
5
15
15
23
45
55
55
57
68
79
104
113
123
Capitolo terzo
La comunità «integrata»: Rudolf Smend
131
1. Liberalismo e comunitarismo:
un dibattito nel crepuscolo di Weimar
131
2. Teoria sociale dello Stato.
Selbstgestaltung e «integrazione»
3. Teoria dello Stato.
La costituzione come Konstituierung e «legge vitale»
4. La teoria «oggettiva» dei diritti fondamentali
5. Mito, rito, e volontà di potenza
Capitolo quarto
Platonismo normativo: Leonard Nelson
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Una vita «pubblica»
Revisione della filosofia kantiana
Jellinek e la scienza giuspositivistica
Il diritto come morale applicata
Legge, sfera pubblica, e Stato di diritto
Un esito platonista
138
161
182
188
201
201
205
223
231
239
258
Epilogo
Tre modelli: decisionismo, comunitarismo, platonismo
261
Indice dei nomi
295
Volume di pagine 304
carta Litolux edition, gr. 85
Finito di stampare
nel febbraio 2006
dalla Dedalo litostampa srl, Bari
Massimo La Torre ha insegnato all’Università di Bologna e all’Istituto Universitario di Firenze, oltre ad aver tenuto corsi in altre
università europee. La sua attività si svolge oggi tra l’Università di
Catanzaro, dove è Ordinario di Filosofia del Diritto, e la Law School
dell’Università di Hull in Inghilterra, dove trascorre periodicamente
alcuni soggiorni di ricerca. Ha studiato a fondo il pensiero giuridico
tedesco del Novecento e lavora a una teoria del diritto in cui la tradizionale centralità della sanzione e del comando sia rimpiazzata
dall’esigenza normativa dell’argomentazione e del discorso.
ISBN 88-220-5356-7
in copertina:
particolare di una litografia di Umberto Mastroianni,
collezione privata.
i 16,00 (i.i.)
,!7II8C2-afdfgf!
LA TORRE
NelIo Stato liberale della Germania degli anni ’20 si fronteggiano concetti di diritto che esprimono il canto del cigno della
modernità. Ma il dibattito sulle forme della politica in una
situazione d’eccezione elabora modelli che, l’un contro l’altro
armati, come superando il proprio tempo, proiettano la loro
ombra sul presente declino imperiale della democrazia. La
Repubblica di Weimar rappresenta, per la sua interna dinamicità e per il suo esito terribile, uno dei momenti più interessanti e drammatici della storia dell’Europa moderna. Questo
vale non solo per quello che concerne la storia degli «uomini», ma anche per ciò che investe la storia delle «idee». Il
conflitto fomentato dall’ormai ineludibile pluralismo dei valori,
lo scontro di «titani» che segnala Max Weber e la «gabbia
d’acciaio», vale a dire la prevalente fredda razionalità burocratica che governa tanto l’impresa capitalistica quanto lo
Stato moderno: sono questi i poli che marcano i confini dell’esperienza e della riflessione di quell’epoca, i cui veleni
minacciano oggi di ritornare in circolo nella mutazione imperiale delle relazioni internazionali che si preannuncia.
MASSIMO LA TORRE
LA CRISI
DEL NOVECENTO
GIURISTI E FILOSOFI NEL CREPUSCOLO DI WEIMAR
LA CRISI DEL NOVECENTO
contemporaneo per tentare di decifrare la trama dei processi in atto e fornire stimoli a chi si interroga sul senso
del nostro presente. Il carattere «globale» delle trasformazioni impone una
visione ampia dell’analisi, che non si
limiti ai saperi specialistici e che, a
partire dalle specificità locali, faccia
emergere tutto ciò che resiste all’omologazione universale. Per questa ragione, sebbene si rivolga ad un pubblico italiano, la collana intende avere
una dimensione internazionale, essenzialmente europea, ma con un’attenzione anche alla società statunitense,
le cui trasformazioni anticipano sempre più quelle del Vecchio Continente.
e
i
on
i
diz
alo
d
De
Strumenti/Scenari
Collana diretta da
Pietro Barcellona, Raffaele De Giorgi,
Gianluigi Palombella
Comitato scientifico
B. Amoroso, T. Blanke, A. Caillé, J.R.
Capella, S. Latouche, M. Maresca, G.
Teubner
L’89 è certamente uno spartiacque
epocale. All’euforia di una unificazione
planetaria della Storia umana è, tuttavia, lentamente subentrata una sensazione di impotenza e di ansia. Ogni
voce dissonante sembra sommersa
da un rumore di fondo pervasivo e
insistente, che impedisce di distinguere. Anche la produzione di libri si inserisce in questa atmosfera irreale. Il
mondo sembra omologarsi ad un’immensa borsa finanziaria, concentrata
su tabelle che segnalano quotazioni,
sigle, cifre.
L’epilogo della pretesa «moderna» di
controllare l’esperienza, la vita e la
natura è la trasformazione dell’accadere quotidiano in una specie di allucinazione dove si è perso il senso del
limite e il confine fra immaginario e
reale. Bisogna allora guardare se ci
sono crepe, lacerazioni che lasciano
intravedere un ulteriore spazio mentale. È necessario sostenere la ricerca
di nuovi percorsi, e l’ambizione a pensare il futuro.
La collana si propone di promuovere
diverse «letture critiche» del mondo